sodalizio siculo savonese
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sodalizio siculo savonese
2016 numero 5 – Giugno Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Uno dei più interessanti e intraprendenti “reporter” del Settecento è stato Jean Hoüel che visitò ed immortalò, con la sua arte, la nostra isola. Leonardo Sciascia a proposito degli artisti che hanno visitato la Sicilia, cita Jean-Pierre Louis Laurent Houël (1735 –1813) incisore, pittore e architetto francese, nonché uno dei più famosi viaggiatori. Passano pochi giorni dalla lettura sciasciana e l’amico Carmelo Spampinato, ormai ufficialmente nominato fornitore di testi Siciliani, mi presenta di Houel Viaggio a Catania. C’è stato un tempo in cui le immagini e le visioni del mondo erano “affidate” agli occhi ed alle sensazioni di viaggiatori ed esploratori che, con tanti sacrifici e peripezie, affrontavano viaggi avventurosi in giro per il mondo, per il gusto di vedere e scoprire luoghi sconosciuti. Nell’Europa del ‘700 era diventata una “moda” diffusa, per studiosi, artisti, diplomatici ed antiquari, per “curiosità culturale”, organizzare viaggi che li portava a visitare regioni poco note e terre lontane dai consueti circuiti turistici dell’epoca, per ricercare in esse le origini della natura e dell’arte. In particolare, nella seconda metà del XVIII sec., in pieno illuminismo e in contrapposizione alla sontuosità espressa dallo stile barocco, le mete preferite erano le vestigia dell’arte greco – romana. La Magna Grecia e, soprattutto, la Sicilia (Atene è prigioniera dei Turchi e, quindi, troppo pericoloso per i viaggiatori) diventarono i luoghi del mito dove era anche possibile osservare piante rare o sconosciute, quali l’albero della manna, il banano, la canna da zucchero, ma anche fenomeni naturali come i vulcani. Il settecento, quindi, è il secolo di tanti avventurieri, di uomini quasi sconosciuti in “casa propria”, ma che hanno fatto fama e fortuna nelle terre visitate e “scoperte” dai loro occhi e dai loro pennelli. Gli antesignani dei moderni foto-reporter che, come una sorta di viaggio nel tempo, ci consentono di ammirare la nostra isola così com’era nel ‘700, dal punto di vista storico – antropologico, paesaggistico e culturale. L'Etna visto dal piano di Porta Aci a Catania . Per Jean Hoüel, insieme ad un viaggio ignoto ed affascinante, l’esigenza di esplorare e documentare la Sicilia per realizzare incisioni e disegni non fu casuale. Nel 1769, Hoüel, al seguito del cavaliere d’Havrincourt, compie il suo primo viaggio in Italia, fa una breve sosta in Svizzera, a Ferney, dove conosce e dipinge Voltaire, giunge a Roma, dove viene accolto all’Accademia di Francia, e, infine, visita Napoli. Attratto dalla luce del sud, l’anno successivo, l’artista francese, ritorna, per un breve tour, in Sicilia e nell’isola di Malta. Nel 1772, a Parigi, espone con successo le vedute sulle antichità di Roma e delle isole del Mediterraneo e per la fama conseguita, nel 1774, verrà ammesso all’Accademia Reale di Pittura e Scultura. Desideroso di approfondire la conoscenza di quanto intravisto, il 16 marzo 1776, il «Peintre du Roi», ottiene una “borsa reale”, un finanziamento dal governo francese e decide, così, di compiere il Grand Tour in Sicilia, finalizzato alla pubblicazione di un’opera che illustri le antichità, i fenomeni naturali, gli usi e i costumi dell’isola. 1 Hoüel da Parigi raggiunge Marsiglia e da qui si imbarca per Napoli e dalla Capitale del Regno delle due Sicilie arriva nel porto di Palermo, il 14 maggio 1776. L’artista ha preventivato un anno di soggiorno nell’isola, ma gli sarà necessario un periodo di tre anni, dal 1776 al giugno 1779, per disegnare, dipingere e raccontare le antichità, i costumi e i diversi aspetti della natura siciliana. Ne riportò una serie impressionante di disegni, un migliaio, di cui un buon numero, circa 264 lastre di rame, lavorate, per otto anni, con la tecnica dell’acquatinta ad incisione, saranno pubblicate su «Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de Lipari, Où l’on traite des Antiquités qui s’y trouvent encore; des principaux Phénomènes que la Nature y offre; du Costume des Habitans, & de quelques Usages» (Viaggio pittoresco delle isole di Sicilia, di Malta e di Lipari, dove si tratta delle Antichità che vi si trovano ancora; dei principali fenomeni che la Natura presenta; del costume dei suoi Abitanti; e di qualche usanza), edito a Parigi, in quattro volumi, tra il 1782 e il 1787. Le splendide tavole, delle quali Hoüel ha curato anche il testo, sono state lavorate su lastre di rame, con l’uso dell’acquatinta, nei toni del seppia che consentono al pittore di ottenere un effetto chiaroscuro più consono alla sua sensibilità d’artista poliedrico. Dionisio, l’Anfiteatro, il Teatro greco, la Grotta delle acque, il Tempio di Minerva e, naturalmente, l'immancabile Fonte Aretusa. Le incisioni riguardanti Siracusa e Ragusa sono inserite nei volumi III e nel IV, editi nel 1785 e nel 1787. Si tratta di opere d’arte d’inestimabile valore artistico e dei documenti unici per l’archeologia. Ma Hoüel visitò anche la città di Catania negli anni del fervore della rinascita urbanistica ed architettonica, dopo le terribili catastrofi dell’eruzione lavica del 1669 e del terremoto del 1793, e ne dipinse molti angoli suggestivi, la Cattedrale, la Cappella Bonaiuto, l’Anfiteatro romano di P.zza Stesicoro, osservato, quest’ultimo, durante le operazioni di scavo che lo riportavano alla luce. I più curiosi potranno vedere su YouTube la ricostruzione virtuale dell'anfiteatro romano di Catania realizzato dal team di ITLab, all’indirizzo https://youtu.be/KBy-SRxzRus Il viaggiatore, inoltre, durante il Gran Tour visitò con particolare interesse la Terra di Misterbianco, immortalando alcuni tra gli angoli più caratteristici del paese, dipinti in ben sette tavole, che, tra l’altro, furono tra quelle che l’artista destinò alla collezione della zarina Caterina II di Russia. Le sette tavole sono: Ruderi sul colle (contrada Mezzocampo); la Torre Triangolare (Monte Cardillo); Ruderi presso Misterbianco (contrada Mezzocampo); le Colline basaltiche (contrada Erbe Bianche); un antico sepolcro presso Misterbianco; i ruderi della Torre Triangolare (Monte Cardillo); le Terme romane. In Sicilia Hoüel terrà anche un Journal, ovvero un diario diviso in più quaderni, al quale affidare le emozioni e nel contempo documentare gli itinerari compiuti e le persone incontrate. L’Etna Est vista da S.Leonardo in una tavola di Hoüel Del Voyage, tra il 1797-1806, in formato ridotto, sarà curata un’edizione in lingua tedesca. La raccolta di Hoüel, per il rigore scientifico con cui sono state realizzate le piante, sezioni e proiezioni ortogonali degli antichi monumenti e per le informazioni che offre sugli aspetti antropologici ed etnologici dell’isola, costituisce, tra quelle dedicate a questa regione durante il Grande Tour, una delle più importanti e preziose testimonianze della Sicilia del Settecento. In quest’opera, la città di Siracusa vi occupa un posto preminente; vi disegna il famoso Orecchio di 2 Continuiamo i viaggi con la bella pubblicazione Viaggio pittorico in Sicilia di Giuseppe QUATRIGLIO Una Parte 1 di 3 miniatura del Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli offre la prima visione grafica non dell'intera Sicilia ma della sua capitale, Palermo. Il momento rappresentato è quello del cordoglio della popolazione per la morte del re normanno Guglielmo Il avvenuta nel 1189. La miniatura fa vedere la città suddivisa in quartieri ognuno dei quali abitato da ceti diversi, con persone diversamente vestite. È rappresentato l'aristocratico Càssaro* (u cassaru in siciliano) l’attuale Corso Vittorio Emanuele: la strada più antica di Palermo, affollato di persone con ampi mantelli pieghettati ed è ritratto anche il quartiere che sarà chiamato dell'Albergheria con fanciulle dal viso coperto da un lungo velo. La Khalsa ha invece un'impronta popolare sottolineata dalla presenza di donne a capo scoperto e dai lunghi capelli corvini sciolti in segno di lutto per la scomparsa del sovrano. Nel quartiere saraceno di Serracaldio sono visibili uomini con nere e aguzze barbe e candidi turbanti. I tratti principali di Palermo sono dunque segnati sul finire del XII secolo e sono evidenziati torri, palmizi, uccelli dalle piume colorate. In alto si erge il Palazzo, simbolo e sintesi del Potere verso il quale converge l'attenzione di una popolazione multi lingue appartenente a razze e religioni diverse; in basso c'è il Castello a Mare che protegge l'abitato con le sue poderose mura e le macchine belliche poste bene in vista. Nella parte centrale della miniatura è nitidamente tracciato il semicerchio della Cala popolato di pesci guizzanti e chiuso da una grossa catena a maglie larghe su cui si infrangono le onde. Bisogna arrivare alla seconda metà del Seicento - se si eccettua la tela di Brueghel il Vecchio che nel 1561 rappresenta una Battaglia navale nello Stretto di Messina - per avere, da un pittore olandese, immagini di grande vivacità e immediatezza delle città siciliane con le loro forme urbanistiche, i monumenti, le coste, talvolta con gli abitanti fermati, con la tecnica dell'acquarello o dello schizzo a penna, in scene gustose della vita di ogni giorno. *Il nome di Càssaro deriva dall'antico nome arabo al Qasr (la fortificata), infatti questa zona, durante la dominazione araba, venne molto fortificata. Il Castagno dei cento cavalli Servirà anche per tracciare veloci schizzi delle amate antichità e per redigere il testo dell’opera che pubblicherà. Dai “quaderni” si apprende, inoltre, che l’itinerario esposto nei quattro volumi sarà virtuale perché in realtà Hoüel visiterà più volte alcuni luoghi e città isolane per osservare, durante l’anno, le festività o altri eventi. Il ritorno in Francia avverrà dal porto di Messina il 10 giugno del 1779. A Parigi l’artista per saldare il debito col re di Francia offre, in cambio dei 275 luigi d’oro ricevuti, quarantasei dipinti, conservati, oggi al museo del Louvre. Inoltre, al fine di fare quadrare il bilancio familiare e far fronte alle spese per pubblicare il suo lavoro ha bisogno di un ulteriore finanziamento ed è costretto a vendere a Caterina II di Russia oltre cinquecento disegni e dipinti, realizzati in Sicilia, che oggi sono custoditi e si possono ammirare nell’immenso museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Nel 1796 viene eletto membro della Societé Libre des Sciences, Lettres et Arts di Parigi.Jean Hoüel muore a Parigi, all’età di 78 anni, il 14 novembre 1813. I dipinti di Hoüel sono, sicuramente, un prezioso patrimonio per l’intera umanità perché ci permettono di ricostruire in maniera dettagliata alcuni scorci significativi dell’Italia e della nostra isola, così com’erano nel ‘700 e, soprattutto, come apparivano agli occhi dei visitatori stranieri. «…La Sicilia è il puntino sulla i dell’Italia…il resto d’Italia mi par soltanto un gambo posto a sorreggere un simil fiore…», scrisse Hessemer, nelle sue lettere, visitando la Sicilia, all’inizio dell’800; e Goethe, dopo un viaggio in Sicilia, nel 1817, disse: «L’Italia senza la Sicilia non suscita nello spirito immagine alcuna…E’ la Sicilia la chiave di ogni cosa». 3 Autore di questo autentico affresco siciliano Willem Schellinks, specializzato in paesaggi e vedute, che nel 1665 prende la via del Sud partendo da Napoli. L'artista è il mentore del tredicenne conterraneo Jacques Thierry, figlio di un ricco armatore di Amsterdam, che completa - con anticipo rispetto ai viaggiatori di fine Settecento _ il Grand Tour d'Europa raggiungendo quella terra sconosciuta che allora era la Sicilia. I due olandesi costeggiano parte dell'isola, visitando Patti, Cefalù, Palermo, Messina, Catania e Siracusa e raggiungono Malta, ultima tappa nel Sud prima del ritorno. Il pittore a Napoli è colpito dalla visione di un uomo che ha rubato, portato in galera in groppa a un asino. Schellinks nota che ha in testa un cappello di carta con la scritta" Ladro" e che i ragazzi attorno a lui lo deridono. E non dimentica nel disegno ogni particolare. Altra immagine in un imprecisato paese del Sud lo impressiona: la danza scomposta di una donna tarantolata. Egli ritrae la scena non omettendo di rappresentare anche i musici incaricati di suonare ininterrottamente la tarantella, rimedio ritenuto sicuro perché la "tarantolata" sudi e si liberi così dal veleno che ha in corpo. Anche Messina impressiona molto l'olandese se egli dedica numerose tavole alla Città dello Stretto vista dal mare. Già il vulcano dell'isola di Stromboli, con la sua mole fumante sullo sfondo delle barche a vela, aveva suscitato ii suo interesse. Ma è a Messina che egli ritrae minutamente la costa con il gusto per i particolari dei più bravi vedutisti. In una tavola è ben visibile l'enorme Palazzata che si affaccia sul mare. E guardando il nitido disegno non si può fare a meno di riflettere che questo autentico monumento architettonico di cui i messinesi sono stati sempre fieri è stato travolto dai terremoti e ricostruito più volte nel corso dei secoli. Ci sono tra i disegni messinesi di Schellinks sorprendenti immagini di vita cittadina: una carrozza di posta trainata da due muli nel piano di Porta Reale e una portantina sullo sfondo della Chiesa della Candelora. Tutto attorno pulsa la vita: gente dell'abbeveratoio, coppie in cammino, un carro stracarico di mercanzie che si allontana, perfino cani, tanti cani. Da lì a pochi anni, con il traumatico allontanamento degli Spagnoli dalla città e con il sopraggiungere delle truppe francesi di Luigi XIV, Messina avrebbe conosciuto per quattro lunghi anni, fame, distruzioni, lutti e umiliazioni. La cattura del pescespada è rappresentata in modo realistico con l'osservatore attento sull'alto pennone e il lanciatore dell'arpione che infilza la preda a fior d'acqua. A Catania l'olandese dipinge l'Etna dopo avere osservato il vulcano da diverse angolazioni, a Siracusa si sofferma nell'Orecchio di Dionisio e offre una accurata rappresentazione del Castello Maniace trasformato in fortezza. Arrivato a Palermo sale sul Monte Pellegrino e ritrae compiutamente la città ai suoi piedi divisa dalle due lunghe strade saldate dai Quattro Canti. Nitide sono le insenature della rada e del porto che fanno di Palermo una città che guarda il mare. Ritrae anche la Grotta di Santa Rosalia con la statua eretta della patrona di Palermo a guardia del cancello di ferro e non dimentica l'altare sotto un baldacchino sorretto da due colonne. L'olandese non vede però la figura giacente di Santa Rosalia che, gareggiando con il Bernini, il fiorentino Gregorio Tedeschi rappresenta nel 1625 in estasi con il capo appoggiato alla mano destra e una croce sul grembo; la statua che affascina Goethe nel 1787. A sinistra del disegno, l'uomo con il cappello piatto che segue con attenzione la scena è lo stesso pittore. Ed è l'unico ritratto conosciuto dell'artista. 4 Schellinks vede Cefalù dal mare con il minuscolo abitato ai piedi della montagna, da cui emerge l'alta sagoma del duomo ruggeriano, osserva Capo Calavà in tempesta, ammira sempre dal mare il Castello di Spadafora e le acque in fermento tra Scilla e Cariddi. Barche da pesca e velieri, vascelli e galere, popolano il carnet del vedutista olandese. Ai centoventi disegni, di cui sessantuno riguardano l'Italia meridionale e la Sicilia e Malta, l'olandese accompagna un diario di viaggio in lingua danese che è ancora inedito in una biblioteca di Copenaghen. E, globalmente, quella dell'artista nordico che giunge fino a noi dal fondo del Seicento è una straordinaria testimonianza iconografica e scritta del Meridione e della Sicilia, compresa Malta che allora faceva parte dell'isola maggiore. Schellinks redige il suo corposo album per un ricco committente, Laurens Van Der Hem, awocato ma anche mercante sedotto dalle arti, il quale intende includerlo in un vasto repertorio illustrato del mondo. Ora questi disegni sono custoditi nella Biblioteca nazionale di Vienna. Ma non sono mute immagini del passato perché ci portano l'odore di salsedine e i volti della città, usi e costumi che pur lontani nel tempo fanno parte delle nostre tradizioni culturali. Il viaggio pittorico in Sicilia si esprime al meglio sul finire del secolo dei Lumi in un clima di amore per la classicità alimentato da quanto aveva scritto Winckelmann sul fascino sempre vivo dell'eredità di un passato illustre. Immagini eccezionali della Sicilia di fine Settecento vengono offerte nell'ultimo ventennio del secolo da artisti innamorati dell'Italia, e soprattutto del Sud, tra i quali bisogna annoverare Hoùel, Denon, Ducros, Goethe e Kniep (il pittore che qualche volta viaggia con lui). E nel conto bisogna mettere anche l'aulico Hackert che viaggiatore in senso stretto non è. Egli infatti è un pittore di corte che visita la Sicilia e la ritrae con bravura. Bisogna pur dire tuttavia che questi spiriti eletti sono preceduti da altri viandanti di prestigio che pubblicano i resoconti dei loro viaggi nell'isola illustrandoli con schizzi propri o di pittori amici. È il caso del barone Joseph Hermann di Riedesel che nel 1767 - ha ventisette anni _ sbarca a Palermo e visita gran parte della Sicilia in poco più di un mese. E' un rigido diplomatico prussiano e tuttavia è anche un Idealista, con un "anima idillica". Egli studia accuratamente gli antichi templi e pubblica il suo Reise durch Sizilien nel 1771 con numerosi disegni di monumenti classici, risultato delle sue attente osservazioni sul campo Anche lo scozzese Patrick Brydone raggiunge la Sicilia tre anni dopo, nel 1770, in compagnia del giovane lord inglese William Fullarton di cui è il "precettore viaggiante" e quindi con interessi diversi da quelli del barone di Riedesel. Il libro di Brydone, che ha edizioni e traduzioni in grande numero viene pubblicato con Illustrazioni suggerite dallo stesso viaggiatore. Si tratta di immagini che danno soltanto un'idea di una terra ancora misteriosa, caricata di tutti i simboli arcaici, nella quale la stessa testimonianza classica è costituita da monumenti e reperti che giacciono in molte località come abbondanti relitti di una civiltà lontana anche se non estranea. Sicilia 5 di Walter Morando L'antimafia e i camuffamenti, la profezia di Leonardo Sciascia Un nulla sapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che «è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache». Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni «fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»; la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera», l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: «Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo; «Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; «Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano «travestite» con una pronta adesione ad associazioni antiracket. Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla mafia» (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per la legalità» di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese. Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che — salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia «non servono più», lo ha detto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un convegno si presenta il tale magistrato che fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. 6 Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina ( rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia». Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse. FINE DEL CARABINIERE A CAVALLO L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei "saggi sparsi" rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro. Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo». Paolo Mieli - Il Corriere della Sera E’ di questi giorni l’indagine su Pino Maniaci direttore di Telejato, accusato di ammorbidire i servizi sulla mafia Secondo le accuse della Procura, Maniaci avrebbe cercato un accordo con i sindaci di Partinico di Borgetto: assunzioni di parenti e fondi a Telejato per ottenere dalla televisione antimafia un trattamento meno ostile. Per il quotidiano, i due amministratori avrebbero ammesso l'episodio e ci sarebbero intercettazioni che incastrano lo stesso Maniaci, volto pulito e battagliero del giornalismo di provincia, l'unico reporter italiano insieme a Lirio Abbate inserito nella classifica dei 100 migliori giornalisti del mondo. Come da noi più volte ricordato bisogna combattere non solo la mafia, ma anche la mentalità mafiosa, che può albergare anche pure in molti “paladini”. E’ un problema soprattutto educativo. 7 Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) ha pubblicato Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo». Ribaltare luoghi comuni, spazzare via pregiudizi: questo, per lo scrittore siciliano, significa pubblicare l’opera omnia di un «irregolare». Per credere, sfogliate questo ultimo Sciascia adelphiano. In apparenza parla di letteratura, in realtà riscrive la storia. La prima immagine (i carabinieri a cavallo che caricano le folle) è per lui la metafora dell’italianissimo «richiamo all’ordine». Verrà poi Vittorini e il suo Conversazioni in Sicilia a spazzare via quel simbolo e riavvicinare le nostre lettere alla realtà. Nel saggio La sesta giornata Sciascia fotografa le radici dell’eterno fascismo italiano. La guerra civile in Spagna, dice, ci dette una sveglia. García Lorca ci ricordò la nostra smemoratezza: cosa furono per noi Dante, Alfieri, Foscolo, Carducci. E non fu per caso neppure la fucilazione del poeta spagnolo: «Ogni forma di fascismo si realizza attraverso la collera degli imbecilli». Ma, nonostante le nostre tradizioni letterarie, solo Spagna e Francia avranno «una poetica della Resistenza». L’Italia no. Gli italiani confusero Fascismo e Patria (Croce compreso), scelsero come figura da emulare Don Abbondio e cantarono «la poesia della sesta giornata»: a Milano chiamavano «eroi della sesta giornata» coloro che, passata la tempesta delle Cinque Giornate, solo alla sesta uscirono da casa armati e incoccardati. È il nostro eterno trasformismo. Infine la provocazione: sono più vicini allo spirito della Resistenza molti giovani dell’esercito di Salò. E ancora, recensendo Marcuse, Sciascia previde che la contestazione in Italia sarebbe finita in anni di piombo. Ancora, vide avanzare a grandi passi l’antipolitica: l’immagine mussoliniana dell’aula «sorda e grigia ha influenzato due generazioni. Anch’io, da deputato, ho provato le stesse sensazioni, osservando una sorda e grigia umanità: di condannati che si considerano eletti». Incroci maledetti. Quest’anno, al pari del sessantennale di Regalpetra, cade anche il trentennale del Maxiprocesso di Palermo a Cosa Nostra. Ricordiamo tutti le polemiche, mai sopite, che seguirono l’articolo del 10 gennaio dell’87 sui "professionisti dell’antimafia". Ma la prima freccia contro i giudici di Palermo, documenta il volume Adelphi, venne scoccata già nell’ottobre del 1986, sull’Espresso. Qui Sciascia cita una poesia di Gioachino Belli e sostiene che il poeta vide «in allegoria, in metafora, il dissociarsi e il pentirsi oggi di brigatisti, camorristi e mafiosi». Ma c’è di più. L’incomprensione tra Sciascia e il pool antimafia di Palermo, nella persona del giudice Giovanni Falcone, risale già al 1982. Quell’anno lo scrittore venne convocato, di notte e in gran segreto, nel bunker dell’ufficio istruzione di Palermo. Nelle intercettazioni relative all’inchiesta su uno dei grandi misteri d’Italia, il falso rapimento in Sicilia di Michele Sindona del 1979, era saltato fuori il nome dello scrittore. Gli intercettati avanzavano una ipotesi: avvicinare Sciascia per spingerlo a un intervento «garantista» in favore di Sindona. Sciascia, seduto faccia a faccia con Falcone, non nascose la sua indignazione per essere stato convocato, e lo trattò ruvidamente. «Come si può anche solo pensare che io abbia a che fare con tali personaggi?» si indignò. Falcone, a sua volta, uscì dall’incontro molto risentito. E nel ‘92 rievocò quelle circostanze all’inviata del palermitano L’Ora e poi di Panorama Bianca Stancanelli, un omicidio che proprio Sciascia definì degno del Raccolto rosso di Dashiell Hammett. Sciascia incrociò spesso i sentieri impervi della storia italiana. Nel 1978 il suo L’affaire Moro per Sellerio fu un bestseller. Tuttavia, nell’84, Sciascia firma un contratto con Bompiani. Vi pubblica i due volumi che raccolsero le sue opere principali e, nell’86, La strega e il capitano, sull’onda del caso Tortora. Ma poi, alla fine di quell’anno, sceglie Adelphi. Perché? Sciascia era un nomade editoriale. Nella sua vita ha pubblicato per Laterza, Einaudi, Sellerio, Bompiani, Adelphi. E amava collaborare con gli editori. «Provava la felicità di fare libri» spiega Giorgio Pinotti, editor in chief di Adelphi «per lui era un prolungamento della scrittura. Del resto, è quel che per anni ha fatto con Sellerio». Un rapporto quasi ventennale, quello con l’editrice siciliana fondata nel ‘69 da Enzo ed Elvira, iniziato nel ‘70 (quando Sciascia da Caltanissetta si trasferì 8 a Palermo). Sellerio divenne la sua terza casa, dopo l’appartamento palermitano di Villa Sperlinga e il buen retiro di campagna in contrada Noce. Con Sellerio Sciascia pubblica i suoi scritti, lancia la collana "La Memoria" e passa i pomeriggi sul divanetto della stanza di Elvira. Negli anni successivi (Sciascia è nel frattempo deputato radicale) il rapporto si dirada. Donna Elvira dichiarerà: «Prima era sempre da noi, poi ha avuto la parentesi politica, la casa editrice nel frattempo aumentava, e si è un po’ allontanato, dice che qui si confonde, troppi telefoni che squillano, troppa gente. Prima eravamo una specie di salotto». Si parla di «una fuga al Nord». Lo scrittore si ritira in campagna. Il cancello della villetta di contrada Noce viene varcato dal «cerchio magico» (i familiari, gli scrittori Bufalino e Consolo, il fotografo Scianna, i professori Nino Buttitta e Natale Tedesco). Riceverà anche Enzo Biagi, offrendogli spaghetti artigianali conditi con pomodori freschi, salsicce, formaggio di capra e fichi d'India. Ma prediligerà la solitudine. Il 12 luglio dell’86 scrive, da Racalmuto, a Roberto Calasso, il patron di Adelphi, inviandogli la sua «piccola divagazione sul 1913». «Veda lei se è il caso di farne un libretto Adelphi». Quattro mesi dopo 1912+1 sarà in libreria. Si tratta del libro che apre la meditazione sulla morte. Seguiranno Il cavaliere e la morte (contrassegnato dall’incisione di Dürer, che per lui si opponeva al Trionfo della morte di Palermo), Porte aperte e Una storia semplice. Dentro ci sono gli ingredienti tradizionali: intrighi, traffici d’armi, delitti, potenti corrotti. C’è il giallo secondo Simenon (Sciascia e il padre di Maigret moriranno nello stesso anno): comprensione e non persecuzione, vocabolario da ottocento parole, alla Racine. Ma c’è anche la ricerca di una ars moriendi (come sostiene lo sciasciano Giuseppe Traina). Le riflessioni su delitto e giustizia travalicano i confini dell’impegno civile, la Storia diventa il Tempo, la morte non un destino ma (lo lesse così il filosofo Manlio Sgalambro) un «omicidio del cosmo». L’arco dello scrittore è teso allo spasmo. In brevi frasi fa esplodere lo gnommero gaddiano che ha arrovellato l’uomo dai presocratici in poi. Nel frattempo si occupa anche di liberare i libri precedenti, perché Adelphi possa pubblicare l’intera opera (o l’unico libro che essa è). Ricorda Giorgio Pinotti: «A partire dal biennio 87-88 comincia a svincolare i suoi libri e chiede, addirittura per volontà testamentaria, che vengano radunati da Adelphi». Sciascia si fonde nel catalogo della casa milanese quando, giunto alla fine del sentiero, deve affrontare la morte non letteraria ma concreta (per mieloma micromolecolare, un tumore al midollo osseo che offenderà anche i reni). Nella tetralogia adelphiana non scantona mai nella conversione religiosa e non sposa la «scienza come religione», secondo l’approccio alla malattia di Susan Sontag. Si interroga, piuttosto, come fece Wilhelm Reich, su cosa possa mai «infettarsi» tra corpo e spirito. Batte la strada di Borges, quel «teologo ateo» che (nel ritratto contenuto in questo libro) erge a «segno più alto della contraddizione in cui viviamo». Pinotti rievoca: «Ha del miracoloso che Sciascia si rallegrasse dei nostri libri e di Borges, come fosse già nostro autore. In realtà, noi lo pubblicammo nel ‘97. Ma lui lo associava a noi, per ragioni di congenialità. Per lui era un autore adelphiano a tutti gli effetti». Sciascia, dunque, si premura di «farsi ereditare», a futura memoria, attraverso quel catalogo che ama, legge e condivide. E la sua opera, effettivamente, non resterà dispersa ma (come sta avvenendo) verrà interamente raccolta, così come lui stesso si era preoccupato di fare per Bompiani con gli scritti di Savinio. C’è il male e c’è la speranza della cura. Questo è, per Sciascia, lo stendhaliano Savinio, che auspicò una «civiltà della conversazione», in luogo di quella che ci vede divisi in «parrocchie e parrocchiette» (su cui Sciascia ironizzò nel suo primo Regalpetra). Inoltre, con Adelphi, appaga l’aspirazione a essere non «scrittore siciliano» (critica sempre mossa ai Verga e ai Pirandello) ma scrittore italiano che conosce bene la Sicilia (come metafora) e autore di portata europea. Infine, l’epitaffio tombale. «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Un haiku di Villiers de l’Isle-Adam, autore ottocentesco, del quale Sciascia conservava una stampina funeraria acquistata a Parigi. A Isle-Adam Borges aveva dedicato il volume 23 della "Biblioteca di Babele", che curava per Franco Maria Ricci. Il libretto era uscito nell’80, l’anno in cui Sciascia e Borges si conobbero a Roma. Isle-Adam, discendente del primo Gran Maestro dei Cavalieri di Malta, amico di Wagner, frequentatore di Enrico V, era un aristocratico quasi indigente. Borges lo considerava uno specialista in «orrori morali». Aveva scritto della pietra filosofale, il sogno sapienziale degli alchimisti. Non si esclude che si fosse trattato di un composto chimico derivante da zolfo, piombo e inchiostro. Gli stessi elementi della leggendaria Regalpetra. Piero Melati x gentile concessione de Il Venerdi di Repubblica 9 SAMBUCA DI SICILIA L’ANGOLO DELLA POESIA I canti della Passione al mio paese Ci sarò ancora. Ci son sempre stato. Avevo un amore speciale per i Canti della Passione. E la processione, affollata di guanti neri. Il coro degli uomini con il vestito scuro di sartoria. Le donne velate con i loro lamenti accorati. Anch'io bambino ho cantato in quel coro. Preparato da un prete antico davo tono alle note acute. Nella banda suonava mio padre. Era basso, suonava il basso tuba. L'aria e il cielo, ancora freschi d'inverno, sorpresi dalle aeree geometrie delle rondini, vestivano le montagne di primavera. Nel corso si apriva la stagione dei gelati. E dei calzoni corti. Intanto un torturato in Palestina, crocifisso con i chiodi dei fabbri e dei falegnami, urlava il suo messaggio di salvezza. Il suo estremo canto d’amore per l’umanità. E invitava il mondo a credergli. Annunciando a tutti la Resurrezione. L’elezione a «Borgo dei Borghi 2016» ha dato un’impennata alle presenze nel centro belicino. Musei aperti. Dalle 11 alle 13 e dalle 16 alle 19 i turisti possono visitare il teatro L’Idea, l’Istituzione Giambecchina, le sculture tessili di Silvye Clavel, il palazzo Panitteri, il museo archeologico e le cave di pietra. Sambuca ha messo in mostra i propri gioielli e adesso sta mettendo a punto anche un calendario di iniziative, per la prossima stagione estiva, tutte finalizzate a fare in modo che i turisti che arriveranno possano fruire delle bellezze del centro belicino, ma anche di quelle dei Comuni del territorio. Angelo Guarnieri Da Santa Margherita e da Menfi sono già arrivate ampie disponibilità, ma anche Montevago e dunque tutto il territorio delle Terre Sicane vuole muoversi congiuntamente. CONTADINI La terra che stringete nelle mani scotta come la malaria del contadino affebrato; il sapore della terra sangue conosciuto, è sangue amareggiato del contadino uccisio. A Menfi anche nella prossima edizione di Inycon ogni comune avrà la possibilità di gestire un cortile, promuovendo le singole realtà della zona. Santa Margherita Belice con il premio letterario Tomasi di Lampedusa apre anche al territorio. «E Montevago, con le sue terme - dice il vice sindaco Cacioppo rappresenta un’altra punta avanzata della zona». Nostra carne che non parla. Nostra madre mortificata. Terra paziente. La sera porta vento e trascina novembre cieli rossi. A misura d’uomo Misurano i baroni l’orma del tuo passo che traccia confini al latifondo. Turisti in visita anche alle chiese, una ventina quelle di Sambuca, alcune delle quali sono state adibite a museo, dove hanno ammirato le opere del pittore Gianbecchina o le originali sculture tessili di Sylvie Clavel. Molti hanno raggiunto l’area archeologica di monte Adranone e qualcuno si è spinto anche alla riserva naturale di monte Genuardo o lungo le sponde del lago Arancio intorno al quale sorgono rigogliosi vigneti e uliveti. Prese di mira anche le pasticcerie locali, dove i turisti hanno assaggiato le «minni di virgini», dolce tipico di Sambuca, composto da pasta frolla, crema di latte, zuccata, gocce di cioccolato, cannella e impreziosito all’esterno dalla diavulina (palline di zucchero colorato). Compagno contadino, per tutti quelli che non hanno voce tu inizi la canzone sovversiva; tu accendi la gran fiammata che brucia gli stivali dei baroni. 10 DOMENICA SICILIANI Lu trenu parti e lassa la stazioni si porta li surdati siciliani non hannu armi e mancu munizioni ma sulu na valiggia di cartuni Mi porto la pietà domenicale d’una morte che stanca di morire si raggela nell’occhio del capretto sanguinante all’uncino del beccaio. China di spiranzi e di llusioni e di ricordi ca non hannu fini tanti restunu nta la stissa nazioni tanti passunu lu mari e li cunfini La vita si frantuma e si trastulla nella chitarra del sonatore orbo e ride alla vetrina che la specchia la donna comunicata uscita dalla chiesa Spersi ppi lu munnu vannu erranti e umiliati di tutti li genti carni vinnuta a tutti li mircanti e traspurtata ppi li continenti CORO DI BRACCIANTI SICILIANI Lurdu travagghiu magari pisanti e travagghiari la notti e lu jornu ma la so vuluntà sempri custanti a la so terra di fari ritornu Sappiamo come gela Il cuore della terra, come la talpa è pigra ed insistente, ma noi rimasti a cogliere cicoria, ci torce l’uragano, il venti ci flagella. Noi portiamo mantelli e incerate, ma il mondo è freddo. La pioggia spegne il sangue del compagno Ucciso tra un solco e solco; lo ricopre la terra rivoltata. Il mondo è freddo per noi mietitori per noi zappatori che falciamo la speranza, che attacchiamo covoni di dolore con sfilacce di sangue. Passa lu tempu e si ccurza la vita e si rassegninu a lu so distinu ma nta lu cori resta dda firita ca si li cutturia sempri e cuntinu E la mamma perdi li so beddi figghi la megghiu giuvintù di li picciotti ca restunu ngagghiati nta l’artigghi poviri siciliani chista è la sorti Ignazio Santagati Donne scomunicate, non c’è sale di battesimo né olio di morte per gli scalzi senzaterra; non stagna l’acquasanta nelle conche per le mani contadine. Dunque schiodate dalla croce questo Figlio morto e sanguinante; svegliate le impietrite maddalene, queste madonne scure di dolore. E le zappe degli uomini arrestati caricatele a questi nostri sbirri senza pane,che battono catene; che rompano la terra baronale e la pioggia d’inverno arrugginisca le loro nere canne di moschetto. Maglie marinare: l’opera di Walter MORANDO è stata esposta in occasione della Mostra itinerante “Metropolis” inaugurata a Venezia il 18 ottobre 2014 eee successivamente ospitata in varie sedi museali in Europa,Usa e Brasile. di Mario Farinella 11 Un breve racconto della storia del nostro carretto? «È simbolo di un’epoca della Sicilia. I primi risalgono al 1830 e le fonti sono diari di viaggiatori che scrivono di aver visto buffi mezzi a due ruote con immagini sacre e tocchi di colore. Fino ad allora il trasporto avveniva via mare o a dorso di mulo. Man mano le tematiche vanno arricchendosi ma all’inizio prevaleva quella religiosa perché chi affrontava un lungo viaggio era solo, con il suo cavallo, andava incontro a rischi di briganti o piogge, e quelle figure lo consolavano. Nel tempo si sono sedimentate pratiche decorative le cui origini sono ancora argomento di studio. Dal punto di vista artistico e tecnico, il carretto è tutto una regola, un insieme di codici da rispettare e richiede una certa dose di preparazione. Non si può improvvisare. E tra la Sicilia orientale e quella occidentale, e persino tra provincia e provincia, ci sono differenze cromatiche, tematiche. Come pure di misura se si considera che il veicolo deve adeguarsi alle asperità del terreno pianeggiante piuttosto che montuoso. È il risultato del lavoro di tanti artigiani: in ordine di tempo il pittore è l’ultimo mentre il primo è il “carradore” che organizza anche il lavoro dello scultore. Poi c’è il fabbro che si occupa delle parti in ferro mentre il sellaio dei finimenti dei cavalli». L’arte del carretto resiste o è giunta al capolinea? «Non è morta anche se un tempo c’erano 30-50 pittori a provincia, oggi ce ne sono 1-2. Anche le altre figure si contano sulle dita di una mano. Come donna sono l’unica della mia generazione». Il carretto è il suo lavoro quotidiano? «Nel tempo ho acquistato credibilità dinanzi agli occhi di questi uomini che di solito non hanno a che fare con le donne. Dalla richiesta di piccole cose, si è passati alle scene fino a un carretto per intero, a Randazzo dove facevo spola tutti i giorni. Ne ho dipinti tanti di media taglia e da circa un anno sono alle prese con i finimenti di tre carretti. Tempi e costi? Dipendono da tante cose, da quanto vuole spendere il committente: per dipingerlo dai 4000 euro in su e da 3 mesi in poi. Oggi sono riconosciuta come pittrice di carretti ma per vivere faccio anche altro». Carretti a parte…? «Vivo in una casa laboratorio. Dipingo quadri, decoro ceramiche e da un po’ ho cominciato a provare delle eccezioni alla regola mescolando elementi decorativi orientali e occidentali su tavoli, sedie, testate di letto come pure su oggetti di uso quotidiano e Vespe. Alice Valenti l’ultima donna che dipinge i carretti siciliani Si laurea in Conservazione dei Beni Culturali a Pisa, torna confusa a Catania e si ritrova, per caso, a fare quello che faceva suo nonno. O quasi, perché lui era un “carradore”, lavorava con il legno e i carretti siciliani li costruiva; lei, invece, macina colori e li dipinge. Dalla scena, che definisce il tema principale, ai decori su sponde, traini o finimenti dei cavalli, l’artista Alice Valenti, a un passo dagli “anta”, pratica l’arte “du carrettu” ormai da quasi 15 anni e si diverte pure a raffigurarne i motivi su elementi di arredo, oggetti d’uso quotidiano e altri mezzi di trasporto. Da quella suggestione la sua arte non si stacca ma nel tempo è arrivata a inglobare tanti altri soggetti di sicilianità. È stata allieva del maestro Domenico Di Mauro, grande custode di questa tradizione, e tutto è cominciato a partire da un libro. Quando il carretto è entrato nella sua vita? «Mi ero appena laureata e brancolavo nel buio. Sapevo solo di voler fare qualcosa di artistico e artigianale. E avevo voglia di riappropriarmi delle mie radici. Stavo leggendo “Il carretto siciliano”, un volume a edizione limitata del 1967, quando vidi il nome di mio nonno nell’elenco degli artigiani. Mio padre mi raccontò della collaborazione con il maestro Di Mauro che a 17 anni andava a dipingere da lui a Scordia. Il giorno dopo andai a trovarlo ad Aci Sant’Antonio e in quella bottega, sua e del cognato Antonio Zappalà, ci rimasi cinque anni. Ricordo ancora quel momento: mi ritrovai come in una situazione antica, su quel basolato di pietra lavica, tra Sant’Agata e storie di paladini, con tutti quei carretti smembrati e accatastati, e loro due, curvi, con i capelli bianchi, in mezzo a tutti quei colori». Com’è stata quell’esperienza in bottega? «Il maestro mi diceva: “Ti sei laureata in via Tito 8”, l’indirizzo della bottega, perché avevo sempre disegnato ma è stato lui a insegnarmi la pittura a olio, come dipingere le scene, lo sbozzo del quadro mentre da Antonio ho imparato a decorare tutte le altre parti del carretto. Di solito ci sono due figure, il maestro, che si occupa delle parti più importanti, veri e propri quadri sul tema principale solitamente scelto dal committente; e ‘u giuvini che decora l’interno delle casse, il traino, le ruote, le aste. Ed io ho imparato a fare sia l’uno che l’altro. Oggi Domenico Di Mauro ha 102 anni e lavora ogni mattina. Vado spesso a trovarlo e la nostra è un’amicizia bella e forte». 12 In realtà lo avevano già fatto artisti all’inizio del Novecento, se si pensa ai banchi dell’acquaiolo decorati con gli stilemi del carro. O più recentemente alle motoapi. Questo perché il carretto era stato scavalcato da altri mezzi e i carrettieri erano diventati camionisti o guidatori di Ape ma continuavano a farsi dipingere quelle iconografie. Oggi il committente medio lo percepisce come un oggetto d’arte e da collezione. E mentre in altri casi si può rielaborare in chiave contemporanea quel sapore, quando si tratta di carretto tradizionale inventare è un sacrilegio. Dipingo anche altro ma si tratta sempre di iconografie popolari e tradizionali, come dolci tipici, cavalli bardati». Nel 2001, quando è cominciata la sua avventura, il digitale stava per esplodere. Oggi c’è questo trend dell’handmade e la voglia di spostare le mani da mouse e touch screen per tornare alla materia e ai mestieri. «L’arte è sempre stata la mia passione ma non sapevo che veste dare. Mi occupo anche di grafica al pc ma fare le cose con le mani dà ben altra soddisfazione. Qualcosa di terapeutico, salvifico. Un valore ritrovato per le nuove generazioni». Progetti futuri? «La copertina del cd di Giada Salerno, una cantante di brani folkloristici dell’800. In generale mi definisco “in cerca” perché vorrei scoprire altre frontiere e tentare nuovi strumenti». Continua la pubblicazione del libro del nostro Umberto Gugliotta IL ROSARIO DEL VESCOVO Capitolo sesto Tanu si era un po’ allontanato dal bailamme che perdurava nello stanzone e, incollato allo stipite della grande porta aperta della rimessa, fumava una sigaretta con lunghe e voluttuose boccate, annotando mentalmente quello che vedeva intorno a sé: “Miiiii…! Talia Carmelo Arena quantu avi a chi fari cu tutti sti fimmini!” Di nascosto, ci fece un’attenta ispezione al culo di Rosalia che è pure sposata. “Idda nenti rissi. Vito, u maritu, nenti vitti.” E io che pensavo che fosse una persona seria…e poi mettersi con una buttana come Rosalia c’è il rischio di prendersi qualche malattia. ”A mugghieri ci accatta i sigaretti e iddu è cuntentu e curnutu e, per giunta, nu sciata. Talé…talé Michele Rampulla che avi tre figghi, a mugghieri e puru l’amanti”, che fa gli occhi dolci alla figlia di Gaspare, Ninnuzza, che non ha ancora quattordici anni. I ragionamenti di Tanu interrotti da un servo, venuto apposta dal palazzo per sussurargli qualcosa all’orecchio; dovette essere qualcosa di importante perché il fac-totum si mosse subito cercando, spingendo e scansando, di entrare nella prospettiva di donna Gerardina, in modo che lei potesse adocchiarlo nonostante la distanza; in più agitò il berretto, e bastarono solo pochi momenti: la padrona lo vide e gli fece cenno di avvicinarsi. Quando l’uomo le fu vicino, annunciٍ: -Arrivò il dottore Ferdinando Lo Basso, Eccellenza. - Accompagnalo qua, per favore. Ordinòٍ con confidenza donna Gerardina. Pochi minuti dopo i due, Tanu avanti a fare largo e don Ferdinando Lo Basso dietro, fendevano la piccola folla; il veterinario ben presto, precisamente quando Tanu si scostò per cedergli il passo, si trovò al cospetto della nobildonna; si lasciò andare in un profondo inchino, poi, ripresa non senza difficoltà la posizione eretta, pronunciò:: - Eccellenza, perdonate il ritardo, ma non fu per causa mia, come vi spiegherò. Vedo che ve la siete cavata egregiamente, anche senza di me. Un servo mi raccontò quanto è successo…bravo, bravo Ricuzzu…ehem…voglio dire vostro nipote don Errico d’Altomare. Una cosa incredibile…un ballo, per giunta senza musica, e un grido, “Yeahhhaaa”, press’a poco. Bello, incredibile. Ci voglio provare anch’io appena si presenterà l’occasione. Don Ferdinando, eccitato, aveva parlato in un solo fiato. Per questo, detta l’ultima parola, non era riuscito a trattenersi dal tossire rumorosamente. di Danila Giaquinta 13 Tuttavia, cessato l’affanno, continuò: - Lì, nella campagna dei Tre Santi, successe la solita storia, Voscenza. “Avi ri stamattina a le cinqu ca sugnu in peri” e comincio ad essere stanco. La solita storia… stavo dicendo… - E qual’è la solita storia? Sollecitò donna Gerardina. - Ci stavo arrivando Voscenza, ci stavo arrivando…Però Voscenza “m’ha dari u tiempu di putiracillo cuntari” nel modo dovuto. Precisò il veterinario prima di riprendere il racconto: - Che stavo dicendo? Ah sì! Ancora era notte che arrivò a casa mia un giovanotto a cavallo, mandato dal vostro sovrintendente don Gino Tirò; disse a Ognigiorno, il mio guardaspalle, che c’erano, nella campagna di Tre Santi, tre vacche che stavano per terra mezzo morte e che occorreva la mia immediata presenza… - Vucca di lupu! Un’altra volta Vucca di lupu! Ma quando finirà ‘sta storia? Fece donna Gerardina, perdendo il suo abituale autocontrollo. - …il guardaspalle mi riferì di gran corsa, io m’alzai e gli dissi di assicurare all’inviato di Tirò la mia presenza. Il tempo di lavarmi, di vestirmi e di salire sul calesse. Era ancora notte…come vi ho già detto. ”Voscenza u sapi”) quant’è pericoloso viaggiare con lo scuro…”sia p’u cavaddu che p’u cavaleri”. Se il cavallo s’azzoppa non resta che il colpo di grazia, una “scupettata” in mezzo alla fronte; e lo stesso capita al cavaliere, se ha la sfortuna, troppo frequente di questi tempi, di incontrare qualche brigante. Arrivai che cominciava a fare chiaro. Don Gino Tirò m’aspettava impaziente davanti al cancello della masseria. Non mi salutò neppure, preoccupato com’era e, per raccontarmi il fatto, disse più bestemmie che parole giuste. Cercammo le bestie e le trovammo in posti diversi, a distanza di almeno un chilometro l’una dall’altra, tutte e tre prone a terra, con la bava alla bocca, inavvicinabili. E questa è la quarta volta in due mesi, la prima volta tre vacche, come ora, rubate e trovate morte avvelenate, la seconda un cavallo, per fortuna ormai vecchio, anche lui ammazzato col veleno, la terza una vitellina di pochi mesi, sgozzata. Io ai Carabinieri glielo ho detto, come ben sapete, che in ognuna di queste circostanze, i massari e i manovali hanno avvistato Vucca di lupu, cioé Beniamino, il figlio del maniscalco. Mi pare che Voscenza “u canusci” é “nu picciottu di circa vent’anni”, randagio, che vive qua e là nelle campagne o in qualche casa diroccata o nelle grotte di Monte Saraceno. Gira a cavallo e porta due pistole nella cinta e un moschetto a tracolla e quando incontra gente, e la incontra solo quando vuole, urla sempre: “Io sugnu u Principi d’Altomari e tutto chiddu ca viriti è robba mia”).…Un pazzo! - Un pazzo! Confermò donna Gerardina , restituendo la parola al veterinario: - Parlai pure con il padre che mi confessò che suo figlio se ne andò via di casa poco meno di un anno fa e non l’ha più visto . “Pigghiau u cavaddu a na manciata di sordi e si ni iu senza neppure salutarimi.” Comunque stavolta, le vostre vacche le ho salvate. Ce n’è voluto di lavoro e di persone: quattro uomini a combattere con ognuna di quelle bestie, e di prescia perché, mentre si cercava di salvarne una, potevano morire le altre due, a più di un chilometro di distanza. Ma stavolta Beniamino non mi ha preso alla sprovvista: nella borsa avevo un antidoto che m’ero fatto preparare da un farmacista di Siracusa. Funzionò, benedetto Iddio, funzionò! Ma i Carabinieri non fanno niente… dicono che si sposta sempre, che non è una cosa semplice scovarlo. Forse il Comandante della caserma ha preso sottogamba la cosa, visto che non c’è stata mai, finora, una denuncia da parte delle vostre Eccellenze. E questa, Voscenza scusasse, sicuramente ai Carabinieri ci pare cosa strana, tanto più che Beniamino “ci l’avi sulu cu viatri, ché con tutti l’autri c’è puri amico”. E poi chissà cos’è che gli gira in quella testa di pazzo da fargli credere di essere il Principe d’Altomare. Voscenza scusasse, ma un esposto alle Autorità lo deve fare, se no questa pantomima non finirà mai. - Vedremo, don Lo Basso, vedremo. In futuro. Per ora vi ringrazio di cuore. Dichiarò imbarazzata donna Gerardina, congedandolo. Notòsubito Tanu che di nuovo le faceva segno di volerle parlare. Gli fece cenno d’avvicinarsi. Voscenza, arrivò ora ora il dottore don Ciccio Nifosì. ”E’ fora c’aspetta!” Balbettò preoccupato il sovrintendente. - “Cu ci manca ancora?Mi pari ca ci siemu tutti, finalmente!”Accompagnalo da me. Disse con sorridente ironia la padrona. Poco dopo il dottore Nifosì giunse accompagnato da Tanu; donna Gerardina non gli diede neppure il tempo di salutarla perché cinguettò: - Amico carissimo, ero certa che non avreste deluso il mio invito e infatti siete qui di fronte a me! Ciò detto, lo prese sottobraccio e lo guidò verso la cavalla puerpera alle cui mammelle il puledrino, ancora malfermo sulle sproporzionate zampe, si era attaccato con voracità. Guardate “comu suca”…guardate… e pensare 14 che fino a poco fa non sapevamo neppure se era maschio o femmina. Intanto, incuriosito dalla presenza del medico, il veterinario Lo Basso si era avvicinato al gruppetto; tese la mano a don Nifosì e, con affettata cordialità, disse: - Che piacere vedervi, caro collega, pensavo che vi interessaste solo di buoni cristiani, di quelli che hanno l’anima e non anche di bestie che, com’è risaputo, l’anima non ce l’hanno. Donna Gerardina intervenne, prevenendo la risposta del dottore Nifosì, irritato per essere stato chiamato “collega” da un veterinario che nulla aveva a che fare con un medico; e ciò non solo per via della questione sull’anima dei rispettivi pazienti, ma anche perché -pensava- “i veterinari sono destinati a servire i medici come le bestie sono destinate a servire gli uomini.” Rivolta a don Nifosì, commentò: - Vedete quel magnifico puledro? Sprizza salute da tutte i pori. Negli occhi ha la felicità di essere venuto al mondo. E pensare che è nato prematuro, come ha detto mia cognata Carolina. Carolina d’Altomare Ajello era lì vicino e non perse l’occasione per intervenire: - Eh sì, è proprio così. Tanti soldi spesi per avere l'esemplare di una nuova razza invece è spuntato un prematuro di razza sconosciuta. - Per quello che ne capisco io, direi che non siete stata del tutto sfortunata, perché per essere settimino mi pare bello e robusto! Con queste parole Don Nifosì, il medico, disse la sua. Donna Carolina continuò: - Mi fa piacere sentirvelo dire perché, a parte i soldi, che vanno e vengono, anzi, per la verità, vanno sempre e vengono di rado, avrei dovuto fare i conti con il malumore di mio marito, al suo ritorno dal continente. Solo a pensarci mi sento male. Visto che è bello e robusto, anche se settimino, può darsi che si accontenti e che la collera duri poco. Comunque sia, sono andati a monte il lavoro di anni, tanti soldi e le speranze che avevamo riposte in questo affare. Don Ferdinando Lo Basso, che conosceva la considerazione in cui il medico aveva i veterinari, per avergli un comune amico riportato la frase che don Nifosì, questa volta, aveva pensato ma non pronunciato, per prudenza e rispetto verso donna Gerardina, non perse l’occasione di rendergli la pariglia. Non senza un certo sussiego, rivolto a donna Carolina, chiarì: - Certo che se le cose fossero in questi termini, cioè come disse l’esimio don Nifosì, non avreste, alla fin fine, di che lamentarvi, o, quanto meno, non sarebbe una tragedia, Voscenza. Ma io vi dirò di più per tranquillizzarvi: vi dirò che sono sicuro che il puledrino non è settimino…che è nato quando doveva, insomma. Donna Carolina d’Altomare, contrariata, non riuscì a mascherare una smorfia di disappunto; la sua voce divenne acuta: - Vi faccio subito i conti. Ma prima vi racconterò tutta la storia, dall’inizio. Mio marito, don Ajello, circa cinque anni fa si mise in testa di fare un esperimento: un incrocio fra una cavalla lipizzana ed un cavallo maremmano. Sottopose la sua idea ad un allevatore toscano, precisamente della maremma settentrionale, ormai quasi del tutto bonificata, che aveva conosciuto qualche anno prima, durante una della sue tante puntate al Nord. Si erano fatti simpatia e si tenevano in contatto epistolare. Questa persona, che alleva cavalli maremmani in una tenuta non lontana da Piombino, cittadina dirimpettaia dell’isola d’Elba, gli confermò la fattibilità della cosa e gli propose di procurargli la cavalla lipizzana, evitandogli così di fare un viaggio fino a Trieste, esattamente a Lipizza, dove si allevano i cavalli chiamati appunto lipizzani. In quella località, scrisse, aveva un caro amico, allevatore anch’esso, serio e capace; naturalmente l’acquisto sarebbe stato non solo ampiamente garantito ma anche condizionato al completo gradimento di mio marito, che accettò l’offerta giudicata vantaggiosa. Qualche tempo dopo, convocato a Piombino, gli fu presentata una splendida cavalla lipizzana di pochi mesi. Se ne innamorò e si complimentò con l’amico allevatore per la validità dell’offerta; le diede nome Rosetta, scelto e raccomandato da Sofia, nostra figlia. Passarono ancora circa due settimane quando marito e cavalla giunsero qui ad Altomare a bordo di un brigantino, il cui Comandante aveva accettato di ospitarli, naturalmente dietro pagamento. L’idea era questa: creare una razza particolarmente forte e adatta, non solo al tiro delle carrozze, caratteristica del cavallo lipizzano, ma anche al cammino, in cui il cavallo maremmano primeggiava per velocità e resistenza, anche nelle condizioni più disagevoli di fatica e di clima. Trovata la cavalla e atteso che giungesse in età da marito, si rese necessario provvedere alla seconda e ultima parte del programma: la monta. Presi i necessari accordi con l’amico allevatore 15 toscano, verso la fine di ottobre dell’anno passato, cavalla e marito s’ imbarcarono nuovamente diretti a Piombino, dove Rosetta era attesa da un magnifico stallone maremmano. Ora possiamo fare i conti: novembre uno, dicembre due, gennaio tre, febbraio quattro, marzo cinque, aprile sei e maggio sette…oggi “n’aviemo sei di giugno” e quindi sono passati sette mesi e qualche giorno. Il puledro perciò è settimino, come giustamente convenne anche don Ciccio Nifosì. Convinto don Lo Basso? Don Ferdinando Lo Basso, che aveva ascoltato attentamente il racconto della nobildonna, volse lo sguardo verso il medico e rispose: - Io convinto lo sarei se si trattasse di cristiani, vale a dire di quegli esseri che hanno l’anima, ma in questo caso, caro collega, si discute di animali cioè di bestie cioè di esseri che non hanno anima. E si dà il caso che il periodo di gestazione della cavalla sia più lungo di quello della femmina umana di due o tre mesi, quindi la monta, se fosse giusta la mia tesi, dovrebbe essere avvenuta press’a poco nel periodo che va dal sei giugno al sei luglio dell’anno scorso; infatti, contando a ritroso mese per mese, a cominciare da quello del parto, si avrebbe: giugno maggio uno, maggio aprile due, aprile marzo tre, marzo febbraio quattro, febbraio gennaio cinque, gennaio dicembre sei, dicembre novembre sette, novembre ottobre otto, ottobre settembre nove, settembre agosto dieci, agosto luglio undici, luglio giugno dodici. Il veterinario tornٍò a guardare donna Carolina e continuò: -Vostra Eccellenza disse che la monta avvenne verso la fine di ottobre dell’anno scorso e, per questo, sarebbe settimino. Voscenza, in tutta sincerità, vi sembra che questo bellissimo puledrino possa essere il frutto di una gravidanza di soli sette degli undici o dodici mesi canonici? Come sapete, io una certa confidenza con vostro marito, l’eccellentissimo don Gaetano Ajello, ce l’ho, visto che, da anni, mi fa l’onore di affidarsi a me per la cura degli animali. E non solo. Spesso mi mette a conoscenza delle sue aspettative, dei suoi desideri, delle sue preoccupazioni; addirittura ho notato che non prende decisione importante, se non dopo avermi consultato. Magari poi fa di testa sua…ma questo è un altro discorso. Io, perciò, sapevo molte delle cose che avete raccontato: l’incrocio fra lipizzana e maremmano, i viaggi a Piombino, eccetera. A proposito di viaggi: quanti ne fece vostro marito, di andata e ritorno, nel continente, per quest’affare? Donna Carolina aveva osservato Don Ferdinando con gli occhi semichiusi, stupefatta di quel discorso che giudicava insolente, per essere in contrasto con ciò che lei aveva narrato. La voce le uscì, con suo dispetto, ancora acuta: - Non capisco dove volete andare a parare, egregio dottore Lo Basso; forse a mettere in mostra, per partito preso, tutta la vostra scienza di fronte al qui presente dottore don Ciccio Nifosì? E questo perché non ebbe ritegno di affermare che il puledrino è settimino, come un cristiano? Sapete quanti scherzi fa la natura, magari un settimino è bello e robusto e, invece un altro, nato preciso di nove mesi, è brutto e malaticcio. E poi i viaggi…i viaggi sono quelli che ho detto. La paura di perdere l’importante cliente fu tale da persuadere don Ferdinando a cedere immediatamente: Mi dispiace di aver contraddetto, probabilmente a sproposito, vostra Eccellenza e quindi mi compiaccio di presentarvi le mie umili scuse. - Io sono certa che mia cognata, fosse anche per sola curiosità, vi permetterà di portare a termine il vostro ragionamento. Volete don Ferdinando? L’intervento di donna Gerardina, borghese come lui, rincuorò il veterinario che, senza abbandonare, per questo, il suo atteggiamento remissivo, disse rivolto a donna Carolina: - Se Voscenza lo consente… La nobildonna, seppure contrariata, annuì e don Ferdinando riprese guardandola di soppiatto: - Si diceva dei viaggi. Quanti? Forse in quelli elencati da donna Carolina d’Altomare ne manca uno. Se don Gaetano Ajellofosse qui con noi, potrebbe chiarirci i fatti, perché ne fu l’interessato protagonista. A me sembra di ricordare, ma potrei anche sbagliare per scherzo dell’età, che don Ajello e Rosetta fecero due viaggi a Piombino; quindi, se per un momento ammettessimo, per pura ipotesi, che in un giorno compreso, più o meno, fra il sei di giugno ed il sei di luglio dell’anno scorso, il vostro esimio marito accompagnò la giovane cavalla lipizzana, per il suo primo appuntamento d’amore, ne conseguirebbe che la gravidanza di Rosetta è stata, all’incirca, di undici o dodici mesi. Il secondo viaggio, quello di ottobre che Voscenza ricorda, don Ajello lo affrontò, se la memoria non mi tradisce, per avere dall’amico allevatore, da lui considerato persona di grande esperienza e competenza, un parere sull’andamento della gravidanza. Io se fossi in voi, Eccellenza, sarei perfettamente tranquillo. Non voglio insistere, ma sono sicuro che suo marito confermerà le mie supposizioni. E così non ci saranno arrabbiature da parte di nessuno. Donna Carolina, pur avendo seguito in silenzio e con attenzione il discorso del veterinario, non 16 aveva mutato la sua espressione contrariata e, non volendo dargliela vinta, limitò la sua risposta a poche parole: - Fra qualche giorno don Ajello tornerà dal continente e chiarirà la situazione. E soprattutto bastonerà lo scimunito che attaccò Rosetta alla carrozza. Ciò detto si allontanò, seguita dal dottore Ciccio Nifosì e dallo sguardo pungente di donna Gerardina. Tanu, nel corso del battibecco fra donna Carolina, don Nifosì e don Lo Basso, aveva pensato che la sua presenza non era necessaria, anzi sarebbe potuta sembrare indiscreta; si era quindi allontanato dal gruppetto per riportare ordine nella confusione creata dallo straordinario avvenimento. Pochi comandi chiari e secchi, come aveva imparato dal Principe Gioacchino Tornabene d’Altomare, erano stati sufficienti. Nella rimessa, ripulita e riordinata, vi erano ormai solo due stallieri, comandati ad approntare un ricovero confortevole e bene attrezzato per puerpera e neonato, ormai consapevoli della loro tenera parentela; vi si attardavano anche Tanu, il Vescovo Ignazio d’Altomare, il professore don Giovanni d’Altomare, donna Gerardina e don Ferdinando Lo Basso. In attesa, vicino alla porta, sostavano donna Carolina, che aveva vicino a sé figlia e nipote, e, già sulla strada acciottolata, don Ciccio Nifosì. La padrona di casa, ricevuti gli omaggi dei due sanitari, li congedò manifestando loro la sua gratitudine. Infine, rivolta ai parenti, disse: -“Putiemu acchianari…” e, guardando il cognato Vescovo, non dimenticò di aggiungere: - …sempreché Vossignoria lo voglia… al maestro di sala le opportune disposizioni sulla cena, che sperava ormai imminente; concluse dicendogli: - Intorno a mezzanotte, se tutto va bene. Sofia, sottobraccio a Ricuzzu fin dall’uscita dalla rimessa, non lasciò la presa e, rivolta al cugino, seriamente imbarazzato, cominciò ad intrattenerlo con un fitto monologo appena sussurrato. La situazione non sfuggì allo zio Monsignore che, seppure con passo lento, riuscì ad avvicinarsi alla coppia per ribadire sottovoce, guardando negli occhi la nipote: Ricordatevi che siete cugini e che il Signore certe cose non le permette! E poi siete ancora troppo giovani… la purezza… soprattutto la purezza! Nel nome del Signore. Sofia non abbassò lo sguardo ma, anche questa volta, non fece in tempo a replicare perché giunse, decisa, la voce di donna Gerardina: - E’ ora di salire… venite! Lo scalone, illuminato fastosamente, era un inno alla grandiosità della stirpe d’Altomare, uno sfoggio di ricchezza forse sfrontato. Donna Gerardina incalzò scherzando: - “Acchianamu!…” la cavalla é ormai entrata a Troia ed ha aperto il suo ventre! (segue) DETTI E PROVERBI Una nnì fa’ e centu ‘nnì penza. Un corpu a la vutti e unu a lu timpagnu. Un occhiu a Cristu e n’atru a S.Giuvanni. (lo strabico) Un occhiu nun po’ bidiri l’atr’ occhiu. Un jornu senza n’atru nunn’è vita. Un jornu giudica all’atru e l’urtimu giudica a tutti. Un patri lassa a li figli la terra e la zappudda, li sudura ci l’ann’ammettiri iddi. Un pilu di fimmina tira cchiossà di un paru di vò. Un pugnu ‘ntò n’occhiu. Un putiri fari un’occhiu a na’ pupa. Unu bbonu nun sì po’ fari malatu…un malatu nun si po’ fari bonu. Unu poviru e malatu nunn’avi parintatu. Unu: nun putennu accattari .’pattia’. I componenti la famiglia d’Altomare avevano percorso a ritroso la strada che portava dalla rimessa al palazzo in un silenzio violato solo dai passi sull’acciottolato: probabilmente nessuno era riuscito ancora ad archiviare nella memoria le emozioni regalate da un avvenimento sicuramente insolito. Nonostante il chiarore ancora sparso dalle fiaccole poste lungo il cammino, due servitori, con i lumi nella mano, si erano fatti carico di scortare il gruppetto, camminando ai suoi fianchi. La campana dell’orologio della Cattedrale di San Giovanni Battista sonò la mezza delle ore dieci della sera, quando i Tornabene d’Altomare varcarono l’imponente settecentesco portone di legno. Sostarono qualche minuto nell’androne, chi per bere qualcosa di fresco, chi per mangiare un dolcetto, chi per recarsi nella stanza dei servizi. La vedova d’Altomare approfittò della pausa per dare Fra amici: Io la mattina faccio 100 addominali e 50 flessioni , Tu? Io dico 100 volte :“Ora mi susu.” 17 della Democrazia. Antonino Amato di questi ideali ne fece la sua bandiera; per il suo coraggio e la sua determinazione veicolate dalle sue vive convinzioni socialiste assunse ben presto la carica di Maresciallo delle truppe Partigiane di stanza sull’Appennino ligure. Ormai a pochi mesi dalla Liberazione del territorio italiano dall’occupazione nemica, Antonino Amato con la sua truppa era impegnato nel bloccare l’avanzata nazista. Ma il nemico era ormai alle spalle, erano rimasti pochi istanti per collocare la carica esplosiva alla base di un ponte nella zona di Onzo, che avrebbe tagliato la strada al nemico; in uno slancio di sacrificio Antonino a soli 22 anni si gettò nell’impresa impedendo ai compagni di fermarsi e intimando loro di proseguire per mettersi in salvo. Il giovane riuscì a far esplodere il ponte ma nello stesso momento fu colpito alle spalle da una raffica mortale. Era il 21 gennaio 1945. A ragione di tale gesto eroico e coraggioso fu attribuita la Medaglia d’Oro al Valor Partigiano alla memoria di Antonino Amato e negli anni Settanta, in occasione della modifica della toponomastica di Cianciana, fu intitolata al valoroso personaggio la via che costeggia Palazzo Giandalia. Di seguito riportiamo l’immagine che la famiglia di Albenga che per alcuni mesi aveva tenuto nascosto Antonino, decise di stampare in ricordo del giovane eroe partigiano. Oggi Antonino Amato riposa nel cimitero civile di Albenga nel quale è stato eretto un monumento ai Caduti che porta le incisioni dei nomi di quanti vi riposano. La pro-nipote Tanina Amato I Siciliani sconosciuti:Antonino Amato Cianciana(Ag)1923-Onzo (Sv) 1945 : Medaglia d’Oro al Valor Partigiano. Nella memoria di quel periodo violento e irragionevole nel quale si consumò la Seconda Guerra Mondiale, sento il desiderio di portare su queste pagine il ricordo di un mio familiare che non ho avuto l’onore di conoscere, ma che si è distinto per coraggio e determinazione dando lustro alla nostra terra ciancianese. Poco più che diciannovenne, Antonino Amato di Pietro e Antonina Taglialavore, terzo di cinque figli, come tanti giovani dell’epoca fu chiamato alle armi. Erano già passati quasi due anni dalla dichiarazione di guerra da parte di Mussolini,avvenuta il 10 giugno 1940, ma già negli anni 1941 e 1942 si intravedevano i primi segnali della sconfitta. Intanto Antonino Amato era impegnato a prestare servizio sulle Dolomiti bellunesi per poi spostarsi nel salernitano e risalire poi verso la Liguria tra gli stenti di un esercito sempre più stanco e sfiduciato. La popolazione italiana, stanca di tre anni di bombardamenti e di privazioni di ogni genere aveva ormai capito che la guerra era perduta. Lo sbarco degli Alleati in Sicilia del 10 luglio 1943 ne era la conferma e aveva alimentato tensioni non solo a livello popolare ma anche nelle Forze Armate e perfino tra le gerarchie fasciste. La decisione del re Vittorio Emanuele III di nominare Badoglio alla guida del nuovo Governo, dopo l’arresto di Mussolini e l’infelice decisione di continuare la guerra senza impartire ordini precisi alle truppe gettò queste ultime e la stessa popolazione nella più assoluta confusione. A questi fatti si aggiunse la firma dell’Armistizio dell’8 settembre 1943 che fu interpretato da Tedeschi come un tradimento che portò all’occupazione nazista del territorio italiano non ancora occupato dagli Alleati. Intanto l’Esercito Italiano negli stessi momenti in cui il Re Vittorio Emanuele e i gerarchi fascisti fuggivano da Roma, si trovavano a fronteggiare quello che fino a poco tempo prima era stato l’esercito alleato. L’8 settembre 1943 iniziò, tra l’altro, l’attuazione della caccia agli ebrei e della loro deportazione nei campi di sterminio. A questi fatti si aggiunse la liberazione di Mussolini che portò alla formazione della Repubblica di Salò e di conseguenza alla vera e propria guerra civile: fratelli contro fratelli. In quegli anni prese vigore politico e militare l’intervento Partigiano, giovani motivati e fortemente decisi a cacciare i Tedeschi e annientare la presenza fascista in Italia, in nome della Libertà e Ringrazio pubblicamente il prof. Eugenio Giannone per essersi fatto promotore di questa segnalazione presso l'associazione nazionale dell'ANPI (sezione di Catania). http://anpicatania.wordpress.com 18 Giufà è un personaggio incontenibile, clownesca provocazione sta forse l'effetto catartico delle sue storie « Secondo alcuni Giufà non è mai morto, è riuscito a scappare alla morte talmente tante volte che ancora sta scappando e ancora gira per il mondo. […] Qualcun altro invece racconta 'sta storia. Che un bel giorno Giufà vide l'angelo della morte. L'angelo della morte lo guardava strano… » privo di qualsiasi malizia e furberia, credulone, facile preda di malandrini e truffatori di ogni genere. Nella sua vita gli saranno rubati o sottratti, in modo truffaldino e con estrema facilità, una pentola, un maiale, un pollo arrosto, un asino, una gallina, un tacchino. L'iperbolica trama prende spunto da fatti realmente ricorrenti nelle campagne del palermitano, quando ladri e imbroglioni ricorrevano a promesse allettanti avanzate a ragazzi (che mai avrebbero mantenuto) per ottenerne in cambio prelibatezze sottratte alla campagna o alle dispense dei loro genitori. Un esempio della tipica stoltezza del personaggio si ha nell'episodio "Giufà, tirati la porta" nel quale sua madre gli ricorda: "Quando esci, tirati dietro la porta" (nel senso di "accosta, chiudi, la porta"). Ma il giovane prende alla lettera l'invito e, anziché chiudere la porta, la scardina e se la porta con sé a messa. Giufà è un bambino, molto ignorante, che si esprime per frasi fatte e che conosce soltanto una certa tradizione orale impartitagli dalla madre. Nelle sue avventure egli si caccia spesso nei guai, ma riesce quasi sempre a uscirne illeso, spesso involontariamente. Giufà vive alla giornata, in maniera candida e spensierata, incurante di un mondo esterno che pare sempre sul punto di crollargli addosso. Personaggio creato in chiave comica, caricatura di tutti i bambini siciliani, Giufà fa sorridere, con le sue incredibili storie di sfortuna, sciocchezza e saggezza, ma ha anche il gran merito di far conoscere meglio la cultura dominante in Sicilia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Nella tradizione giudaico-spagnola Giufà è un ragazzo intelligente e stupido, furbo e credulone, onesto e disonesto, triste e allegro, povero e ricco, credente e miscredente. (Vita e morte di Giufà: La morte di Giufà, in Ascanio Celestini, Cecafumo, 2004 Giufà, il cristiano e l'ebreo Giufà, un cristiano e un ebreo vivevano nella stessa casa. Una sera, per cena, venne loro servito un magnifico piatto di carne. Ciascuno dei tre commensali desiderava avere solo per sè quel cibo succulento, e nessuno voleva cederlo all’altro. Allora l’ebreo disse: - Io propongo che noi tre si vada a dormire senza toccare cibo. Colui che al suo risveglio, domattina, racconterà il sogno più bello, mangerà tutto quanto. E cosi fecero. La mattina dopo ciascuno racconto il suo sogno. Disse il cristiano: - Ho sognato che il Messia (su di lui la pace!) è venuto a prendermi per mano e mi ha fatto vedere le meraviglie della terra. - Nel mio sogno invece - replicò l’ebreo - il nostro profeta Mosé (su di lui la benedizione!) è venuto e mi ha fatto visitare il regno celeste. Infine, parlò Giufà: - In quanto a me, il mio profeta Maometto (Allah preghi per lui e gli conceda la Sua benedizione!) mi ha svegliato e mi ha detto: "I tuoi due amici sono occupati a visitare la terra e il cielo, e non torneranno molto presto. Quindi, è meglio che tu mangi la carne, prima che vada a male" - e cosi ho fatto. “U sceccu nto linzolu” Traduzione L’asino nel lenzuolo. Lo si ritrova in ogni situazione possibile: realistica, fantastica, assurda. Non sa comprare nemmeno un pomodoro ma sa vendere una pecora brutta e magra a un prezzo favoloso. È figlio di un ricco ma non ha neppure una camicia. Non ha da mangiare ma nutre gli affamati. Insomma, è un saggio, ma di una saggezza che non si riconosce a prima vista. è un modo di dire utilizzato a Messina, con cui ci si riferisce a qualcuno che fa il finto ingenuo. Viene, cioè, rivolta a chi, facendo finta di essere sprovveduto, vuole far credere di non sapere di cosa si sta parlando, di non aver visto nulla, di non conoscere nulla, in base alla situazione di riferimento. Si dice di persona furba, quindi, che per evitare certe situazioni, si finge ingenuo, mentre non lo è affatto. Giufà incarna anche il ribelle alle convenzioni sociali, il burlone che si fa gioco di tutto e di tutti, che irride l'autorità, la paura, la morte stessa; e in questa sua 19 regalando giusto qualche altro piccolo frammento di vita. «Certo che ce l’avevo, la casa. Fino a tre anni fa. Ma ho avuto i miei problemi. E se rimani senza lavoro e poi senza famiglia, il percorso è segnato. La strada ora è casa mia. Ci sto più o meno bene. Non ho bisogno di molto, io. Non ho grandi pretese». Si vede che al signor Walter non interessa farsi nuovi amici. Ma la sua immagine messa su Twitter con l’hashtag Camilleri, attira l’attenzione dell’agenzia letteraria che segue l’inventore della serie ambientata a Vigata e di mille altri successi. Il grande scrittore siciliano non segue certo Twitter, ma la sua agente gli parla di questo senza tetto che a Milano divora i suoi romanzi. Camilleri, che di pubblicità e di rumore attorno ne vorrebbe il meno possibile, sorride. Poi dice una frase. «Mi hanno raccontato di una foto che mostra un clochard che legge un mio romanzo. Spesso mi chiedono a cosa serve la letteratura. Ecco questo è un bellissimo esempio. Serve, almeno per un momento, a far dimenticare il mondo che sta attorno, e a trasportarti in un’altra dimensione ». A mille chilometri di distanza, il clochard ancora non sa niente, non immagina che attraverso una foto si sia messa in moto una catena di idee sul suo conto. L’agenzia letteraria parla con la casa editrice, pensano a come fare per far avere a quel senza tetto altri libri della collana blu. Anche Antonio Sellerio aveva notato il tweet: «Appena lo abbiamo visto, mi sono emozionato — dice l’editore — Ci siamo chiesti come metterci in contatto con il ragazzo ritratto nel post. Grazie per avercelo fatto conoscere e per la disponibilità che ci ha dato per fargli avere altri nostri libri». A questo punto, l’uomo che legge sul marciapiede viene informato di quel che è successo nell’arco di un giorno. Sorride anche lui. Per un secondo mette giù il nuovo libro che ha iniziato: «Camilleri vuole regalare dei libri a me? — chiede sorpreso — Mi sembra una bellissima cosa. Ma è vero? Proprio a me? si stupisce - Il problema è che io non ho casa, quindi leggo volentieri. Ma quando ho finito, li devo lasciare in giro. Non ho certo posto per tenerli. Ma così almeno, qualcun altro avrà lo stesso piacere che ho avuto io». Walter, 53 anni faceva il barista prima di essere licenziato. Poi si è separato e da tempo vive in strada. La sua foto mentre legge è diventata virale nel web. Sarebbe un bellissimo titolo per un libro: «Il clochard che leggeva i romanzi di Camilleri». Ma questa non è una storia inventata. Il senza tetto che ama le avventure del commissario Montalbano esiste davvero. Vive su un foglio di cartone, avvolto in un sacco a pelo, sotto un portico nel centro di Milano, a due passi dal Duomo. Lo salutano i tanti che frequentano il vicino cinema Arlecchino. Persone che conoscono la sua passione per la lettura e gli regalano continuamente nuovi volumi, perché riempia le sue notti solitarie. Il clochard di via San Pietro all’Orto ha il diploma di terza media, ma in strada ha scoperto la gioia di leggere. «Qualche tempo fa, ho trovato su un marciapiede un libro di Camilleri — racconta mentre chiude il volume che ha in mano, illuminato dalla luce della vetrina davanti a cui si sdraia ogni sera — Non lo conoscevo come autore. Anzi, prima di quel giorno non avevo mai letto un libro tutto intero. Ho cominciato a darci un’occhiata. La storia mi ha preso subito. E da allora non mi sono più fermato. Ne leggo almeno uno al giorno. Il tempo non mi manca ». Il clochard ha una bella faccia segnata dal tempo, un maglione di lana a righe colorate, la barba di qualche giorno e due occhi attenti, che inchiodano chi si avvicina senza motivo. Non parla volentieri con gli estranei, soprattutto perché è molto preso dalla lettura. Ma qualche parola la concede: «Facevo il barista, mi hanno licenziato, poi mi sono separato. E così da tre anni vivo in questo posto. Mi trovo abbastanza bene, la gente mi conosce e mi porta da leggere ». Si lascia fare una foto, senza staccare gli occhi dalla pagina, (ZITA DAZZI) 20 RICETTA PRIMAVERILE Salone del libro Torino maggio 2016 Pasta con asparagi selvatici e primo sale pepato Ingredienti per 4 persone • • • • • • 200g di punte di asparagi selvatici 300g di pasta 1 cipollotto Pecorino fresco pepato q.b. Olio extravergine di oliva Pepe Ci sono immagini, come quella qua sopra, che scatenano forti emozioni. E’ la foto dello stand della Sellerio, che ha voluto omaggiare un caro amico, un grande maestro, un poeta della musica, Gianmaria Testa, accogliendo fra le pile dei volumi azzurri, tipici della editrice palermitana, il libro postumo, edito da un’altra casa (Einaudi) “Da questa parte del mare”. Con orgoglio rivendico di aver conosciuto e frequentato l’amico Gianmaria e “Donna Elvira” il cui stile continua a persistere nella bella casa siciliana. E anche di questa conterroneità mi vanto. Un bel ponte Sicilia-Piemonte, che vorremmo si replicasse in tante altre circostanze. Preparazione Soffriggere un cipollotto in olio extravergine d’oliva, aggiungere le punte di asparagi selvatici e soffri gerli per 3 minuti. Aggiungere un po’ di acqua di cottura della pasta, pepe e sale q.b.; Aggiungere la pasta al dente e saltare per un minuto; rifinire con scaglie di pecorino fresco pepato. Accompagnare con un buon vino bianco. L’asparago selvatico, i cui germogli sono usati in cucina per diverse preparazioni, raccolto in primavera, arricchisce di sapore e profumi numerose ricette, come pasta, risotti, frittate, e viene anche usato come decotto per le sue proprietà diuretiche e antitumorali. Il Primosale Siciliano pepato è un formaggio prodotto in Sicilia con latte ovino e vaccino pastorizzato. È un formaggio a pasta elastica, compatta, di color paglierino. Ha la crosta rugosa per i segni lasciati dai canestri in cui viene prodotto. La pasta presenta un’occhiatura scarsa, e al suo interno sono riconoscibili i grani interi di pepe nero, che gli donano un aroma deciso, leggermente piccante se stagionato più a lungo. Ottimo come aperitivo, accompagnato da marmellata di fichi 21 COSE DI CASA NOSTRA APPUNTAMENTI DA NON PERDERE Nuovofilmstudio, in collaborazione con il Festival Internazionale di Poesia di Genova presenta: Il nostro socio Toruccio Finocchiaro, reduce da un intervento estremamente invasivo, ha in questi giorni festeggiato i suoi primi 60 anni con la sua Lena. Nel frattempo sta completando gli studi per l’ennesima laurea. Gli formuliamo i più sentiti Auguri e le felicitazioni per tutti questi successi. Poevisioni 2016. Nato nel 2010 è la sezione cinematografica del Festival Internazionale di Poesia di Genova, diretto da Claudio Pozzani, che porta in Liguria poeti e intellettuali provenienti da tutto il mondo. Organizzato dall'associazione culturale "FreeZone", presieduta da Maurizio Fantoni Minnella, "Poevisioni" è ormai diventato un appuntamento fisso dell'estate cinematografica indipendente, curando cicli a tema e monografie di realizzatori che non hanno accesso alla grande distribuzione, pur avendo un largo seguito di appassionati e cinefili. Una delle sue caratteristiche è proprio quella di concentrarsi sul cinema di qualità soprattutto in rapporto con la poesia e la letteratura, un settore che è stato poco studiato e presentato dai Festival cinematografici e tuttora assente. Ingresso senza obbligo di tessera. Il 16 maggio abbiamo festeggiato la giornata dei “Siciliani nel Mondo” nell’incontro in Sala Rossa con i professori Zappulla e Muscarà le cui belle relazioni ci hanno fatto scoprire aspetti della famiglia Pirandelliana ancora poco conosciuti anche ai più esperti. Un incontro simpatico accompagnato da un profondo e accurato esame dei rapporti fra Stefano, prigioniero della grandezza del padre Luigi, con il primo che anelava ad un successo postumo alla dipartita del padre e addirittura alla propria, che lo avrebbe liberato dalla costrizione autoimposta del cambio di nome da Stefano Landi a Stefano Pirandello. Calendario delle proiezioni Ospite in sala il regista Peter Greenaway 11-06 | h. 18.00 | Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di P. Greenaway - 120’ 11-06 | h. 21.00 | Eisenstein in Messico di Peter Greenaway - 105’ 12-06 | h. 15.30 | Il colore del vento di Bruno Bigoni - 75’ 12-06 | h. 18.00 | Benvenuti nel ghetto! di Maurizio Fanoni Minnella - 70’ 12-06 | h. 20.30 | L’immagine mancante di Rithy Panh - 90’ 13-06 | h. 15.30 | Chi lavora è perduto di T.Brass - 90’ 13-06 | h. 18.00 | L’urlo di Tinto Brass - 100’ 13-06 | h. 20.30 | Action di Tinto Brass - 121’ Un particolare ringraziamento agli amici catanesi Sarah e Enzo, che accompagnati per Savona, hanno espresso il loro entusiastico apprezzamento per le bellezze cittadine e formulato la promessa di una futura visita per meglio approfondire. Li aspettiamo con piacere. in collegamento skype il regista Tinto Brass Santuzzo 22