88° Congresso Nazionale SCIVAC – Decisioni critiche nella pratica

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88° Congresso Nazionale SCIVAC – Decisioni critiche nella pratica
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SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA
ASSOCIAZIONE FEDERATA ANMVI
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DECISIONI CRITICHE NELLA PRATICA CLINICA
23-25 OTTOBRE 2015 • AREZZO
COMITATO SCIENTIFICO CONGRESSUALE
WALTER BERTAZZOLO, Med Vet, Dipl ECVCP, Pavia
FEDERICO FRACASSI, Med Vet, Dr Ric, Dipl ECVIM-CA, Bologna
FEDERICA ROSSI, Med Vet, Dipl ECVDI, Bologna
CONSIGLIO DIRETTIVO SCIVAC
Presidente - ALBERTO CROTTI
Presidente Senior - FEDERICA ROSSI
Vice Presidente - WALTER BERTAZZOLO
Tesoriere - GUIDO PISANI
Consigliere - BRUNO PEIRONE
Consigliere - MARCO POGGI
DIRETTORE SCIENTIFICO
FULVIO STANGA
Med Vet, Cremona
COORDINATORE CONGRESSUALE
MONICA VILLA
Tel: +39 0372 403504 - Email: [email protected]
SEGRETERIA MARKETING, SPONSOR E AZIENDE ESPOSITRICI
FRANCESCA MANFREDI
Tel: +39 0372 403538 - Email: [email protected]
SEGRETERIA ISCRIZIONI
PAOLA GAMBAROTTI
Tel: +39 0372 403508 - Fax: +39 0372 403512 - Email: [email protected]
ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE
EV - Eventi Veterinari
Via Trecchi, 20 - 26100 CREMONA (Italia)
Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001:2008
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RELATORI
linfomi del gatto: studio morfologico ed immunoistochimico” grazie alla quale ha vinto la borsa di
studio SCIVAC “Riccardo Testa”. Nel 2008 ha frequentato il dipartimento di patologia clinica della
facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di
Cambridge (Regno Unito) presso la quale ha iniziato nel 2009 un percorso di residency, conclusosi con il conseguimento del diploma europeo
in Patologia Clinica Veterinaria (ECVCP) nell’ottobre del 2013. Attualmente è responsabile del
servizio di patologia clinica presso l Animal Health Trust di Newmarket (Regno Unito). È autore
di pubblicazioni su riviste internazionali su argomenti inerenti la citopatologia e disordini linfoproliferativi negli animali domestici. È coautore del
capitolo di citologia del nuovo manuale BSAVA di
patologia clinica in uscita nel 2015.
GIACOMO BIAGI
Med Vet, Dr Ric, Bologna
Laureato con lode in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna
nel 1994, svolge il servizio militare come Sottotenente Veterinario presso la Guardia di Finanza.
Nel 2000 consegue il titolo di dottore di ricerca in
“Miglioramento qualitativo degli alimenti destinati
all’uomo”. Dal 2010 ricopre il ruolo di Professore
associato presso il Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Bologna per il
quale è oggi responsabile del Servizio di Produzioni animali e Sicurezza alimentare. È titolare di
diversi insegnamenti tra cui quello di “Alimentazione degli animali da compagnia” nell’ambito del
corso di Laurea in Medicina Veterinaria. Autore di
pubblicazioni su libri, riviste nazionali e internazionali e relatore a congressi nazionali e internazionali. Membro del FEDIAF Scientific Advisory
Board. Il suo principale campo di ricerca è la nutrizione del cane e del gatto.
DAVIDE DE LORENZI
Med Vet, SMPA, Dipl ECVCP, Dr Ric,
Bologna
1988 Laurea con lode presso l’Università di Bologna; 1992 Specialista in Clinica e Patologia degli animali da compagnia all’Università
di Pisa; 2005 Diploma al College Europeo di Patologia Clinica; 2010 Dottore di Ricerca presso
l’Università di Perugia. È autore di oltre 50 articoli
e comunicazioni pubblicate da riviste italiane e
internazionali su citologia diagnostica, chirurgia
ed endoscopia. Ha curato la versione italiana di
testi di citologia diagnostica ed ha scritto capitoli
ad argomento endoscopico e citologico su testi
nazionali e internazionali; è autore del testo “Malattie dell’apparato respiratorio nel cane e nel
gatto” (ed. Elsevier 2012). Lavora attualmente
presso l’Ospedale Veterinario “I Portoni Rossi”
(Bologna) ed alcune altre strutture veterinarie occupandosi di malattie respiratorie e otorinolaringoiatriche, endoscopia e citologia diagnostica.
WALTER BERTAZZOLO
Med Vet, Dipl ECVCP, Pavia
Diploma di perito chimico industriale
presso l’istituto “Villa Greppi” di Monticello B.za (LC) con la votazione di 60/60 nel
1989. Laureato nel 1995 presso l’Università degli
Studi di Milano, Istituto di Patologia Generale
(Prof. C. Genchi) con una tesi sulla biologia molecolare di Borrelia burgdorferi con votazione
110/110 lode. Ha effettuato un periodo di training
continuo in Patologia Clinica Veterinaria presso il
Dipartimento di Patologia dell’Università di Milano sotto la guida del Prof. Mario Caniatti, DVM,
DECVP, del Prof. Saverio Paltrinieri, DVM,
DECVCP e del Dr. Stefano Comazzi, DVM,
DECVCP. Autore di una quarantina di pubblicazioni su riviste indexate internazionali su argomenti inerenti la patologia clinica e l’oncologia.
Nell’ottobre 2005 ha ottenuto il riconoscimento
come membro defacto dello European College of
Veterinary Clinical Pathology.
FEDERICO FRACASSI
Med Vet, PhD, Dipl ECVIM-CA,
Bologna
Laureato con lode in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna nel 2001.
Dottore di Ricerca nel 2005. Dal 2006 è Ricercatore Universitario presso il Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Bologna
svolgendo attività di docenza e clinico assisten-
FRANCESCO CIAN
DVM, Dipl ECVCP, FRCPath,
MRCVS, UK
Si è laureato nel 2006 presso l’Università degli Studi di Padova, discutendo la tesi “I
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ziale nel settore di Medicina Interna. Ha portato
a termine un residency presso l’Università di Zurigo (CH) conseguendo nel 2012 il titolo di Diplomato al College Europeo di Medicina Interna Veterinaria (ECVIM-CA). È presidente della Società
Italiana di Medicina Interna Veterinaria (SIMIV)
ed è componente del consiglio direttivo dell’European Society of Veterinary Endocrinology
(ESVE). È direttore della rivista scientifica Veterinaria. Autore di pubblicazioni su riviste nazionali
e internazionali e relatore a congressi nazionali e
internazionali. È direttore scientifico di numerosi
corsi inerenti alla medicina interna veterinaria. Il
suo principale campo di ricerca è la medicina interna ed in particolare l’endocrinologia dei piccoli animali.
è stato segretario. Dal 2001 al 2004 è stato membro della Commissione scientifica della SCIVAC.
Dal 2002 al 2005 è stato direttore del corso di
Metodologia Clinica della SCIVAC. Dal 2004 al
2007 è stato presidente della SIMIV (Società Italiana di Medicina Interna Veterinaria). Dal 2009 al
2011 è stato presidente della SIGAV (Società Italiana di Gastroenterologia Veterinaria). È stato direttore del corso di Gastroenterologia della SCIVAC. Trascorre annualmente periodi di aggiornamento presso la CSU (Colorado State University). Attualmente svolge la propria attività presso
la clinica veterinaria “Valdinievole” a Monsummano Terme in Toscana, dove si occupa esclusivamente di medicina interna e di gastroenterologia
ed endoscopia.
PAOLO GAGLIO
Med Vet, Roma
Laureato all’università di Parma nel
1998. Nel 1999 svolge tirocinio presso
la Clinica Veterinaria Gregorio VII del Dott. Matteo Tommasini con particolare attenzione per la
disciplina della medicina d’urgenza seguendo il
Dott. Gabriel Lozano. Dal 1999 lavora presso la
clinica veterinaria Gregorio VII e si occupa della
gestione del pronto soccorso notturno. Dal 2001
ad oggi è relatore del corso di “Medicina d’urgenza” organizzato dalla SCIVAC a Cremona.
Ha partecipato in qualità di relatore a corsi, delegazioni regionali ed a congressi nazionali sulla
tematica della medicina d’urgenza. Ha partecipato alla stesura del libro “Medicina d’urgenza e terapia intensiva del cane e del gatto”. È socio Scivac, V.E.C.C.S., E.V.E.C.C.S. e nel 2009 ha partecipato alla fondazione della SIMUTIV. Nato e
cresciuto a Genova, lavora a Roma e vive a Napoli dove svolge la professione di marito e papà.
STANLEY MARKS
Med Vet, BVSc, PhD, Dipl ACVIM
(Internal Medicine, Oncology),
Dipl ACVN, USA
Dr. Stan Marks graduated from the University of
Pretoria, South Africa, and completed an internship in small animal medicine and surgery at
the University of Missouri, Columbia. He completed a small animal internal medicine residency
program at the University of Florida and an oncology residency program at the University of
California, Davis. Dr. Marks received his PhD degree in Nutrition from the University of California,
Davis, where he is currently a Professor in the
Department of Medicine and Epidemiology. Dr.
Marks is a Diplomate of the American College of
Veterinary Internal Medicine (ACVIM) in the subspecialties of internal medicine and oncology,
and a Diplomate of the American College of Veterinary Nutrition (ACVN). His research interests
focus on the modulation of the intestinal microbiome and on canine dysphagia. Dr. Marks has
received numerous faculty teaching awards over
the years and was honored to be selected the
Speaker of the Year at the 2003 NAVC Conference and the 2012 Canadian Veterinary Medical
Association Convention. He has published extensively in the areas of canine and feline gastroenterology, and has contributed chapters to a number of textbooks.
UGO LOTTI
Med Vet, Monsummano Terme (PT)
Si è laureato con lode in Medicina Veterinaria presso l’Università di Pisa nel
1981. Si è dedicato ad una “mixed practice” fino
al 1988. Nel 1989 si è specializzato in medicina
dei piccoli animali presso l’Università di Pisa e
dal 1990 si occupa solo di med. interna. Autore di
pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali.
Relatore presso numerosi corsi, seminari e congressi. Membro della SCIVAC dalla sua fondazione. Membro effettivo della Comparative Gastroenterology Society. Dal 1995 al 2001 ha fatto
parte del Consiglio Direttivo della SCIVAC, di cui
MARIA CARMELA PISU
Med Vet, Torino
Al secondo anno di corso inizia l’internato nell’Istituto di Fisiologia della
Riproduzione. Al quinto anno sceglie come mo-
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dulo professionalizzante “Riproduzione degli
animali domestici”. Si laurea con lode con tesi
“Impiego di differenti sistemi di attivazione dopo
ICSI nell’oocita di cavallo”. Per un anno resta
come laureato frequentatore alla Clinica Ostetrica Ginecologica della Facoltà di Sassari occupandosi soprattutto degli animali da compagnia. Ha completato a ottobre 2012 il training
per l’ECAR. Relatrice e istruttrice a giornate sulla Riproduzione degli animali da compagnia,
autrice di pubblicazioni su riviste e a Congressi
nazionali e internazionali. Iscritta alla SIRVAC
dal 2003 ne diventa Presidentessa dal 2011.
Dal 2010 membro dell’EVSSAR. Nel 2006 apre
il VRC Centro di Referenza Veterinaria a Torino.
Si occupa esclusivamente di clinica e patologia
della Riproduzione.
ne de la Polymerase Chain Reaction nel diagnostico di leishmaniosi canina”, 1999. Diplomato di
European College of Veterinary Internal Medicine, 2004. Nel 1990 si incarica al servizio di medicina interna all’ospedale clinico veterinario
all’Università Autonoma di Barcellona. È stato
veterinario visitante nella facoltà di veterinaria
dell’Ohio State (1993) e North Carolina State
(1997, 2001 e 2004) e nell’AMC di New York
(2007). Ha presentato comunicazioni e conferenze in congressi e seminari nazionali e internazionali ed ha pubblicato articoli tanto in riviste nazionali come internazionali. Il suo lavoro e la ricerca sono incentrate in medicina interna di cani
e gati, specialmente malattie infettive come la leishmaniosi e altre trasmesse per vettori.
LUIGI VENCO
Med Vet, SCPA, Dipl EVPC, Pavia
Nato nel 1961 consegue la laurea in
Medicina veterinaria e di seguito il Diploma di specializzazione in Clinica dei piccoli
animali presso la Facoltà di Medicina veterinaria
dell’Università degli studi di Milano. Frequenta il
Corso di cardiologia presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli studi di Torino. Soggiorna per periodi di studio, ricerca ed insegnamento all’estero presso le Università di
Athens (GA), Philadelphia (PEN), Fort Collins
(CO), Davis (CA) negli USA e Gifu (Giappone).
È autore e coautore di più di venti articoli inerenti la filariosi cardiopolmonare e la cardiologia
su International peer reviewed Journal (recensiti da PubMed), Editore ed autore della Monografia sulla Filariosi cardiopolmonare pubblicata da
SCIVAC ed autore di capitoli in Dirofilariasis in
Humans and Animal (Università di Salamanca)
e D. immitis and D. repens in dog and cat and
human infections (Università di Napoli). Dal
2006 è diplomato dell’European Veterinary Parasitology College. Lavora a Pavia presso
l’Ospedale veterinario Città di Pavia dove svolge
attività prevalente di referenza inerente le malattie parassitarie e la cardiologia, collabora nel
settore della ricerca parassitologica con le sezioni di parassitologia delle Università degli Studi di Salamanca e Milano, ed è consulente nel
settore della cardiochirurgia.
FEDERICA ROSSI
Med Vet, SRV, Dipl ECVDI,
Bologna
Dr.ssa Federica Rossi, SRV, DECVDI.
Laureata nel 1993 a Bologna, con lode, riceve il
“Premio Rotary” per il miglior Curriculum di Laurea. Dopo diversi periodi di formazione all’estero,
consegue nel 1997 il Dipl di Spec. in Radiologia
e nel 2003 il Dipl del College Europeo in Diagnostica per Immagini (ECVDI). Autrice di numerose
pubblicazioni internazionali e revisore ed autore
di testi italiani ed inglesi. È Past Pres. della Soc.
Ital ed Europ di Diagn. per Immagini (SVIDI e
EAVDI). Ha lavorato alle Univ. di Berna, Philadelphia e Murdoch e come docente nelle Facoltà veterinarie di Torino, Pisa e Teramo. È Direttore della Clinica Vet dell’Orologio di Sasso Marconi
(BO), qui si occupa di Radiologia, Ecografia e
TC. È socio fondatore del Centro Oncologico Veterinario, primo centro di Radioterapia in Italia.
Dal 2013 è Pres. Senior SCIVAC. Nel 2013 riceve il premio alla carriera “Fortunato Rao”.
XAVIER ROURA
Med Vet, PhD, Dipl ECVIM-CA,
Barcellona (E)
Laureato in veterinaria all’Università
Autonoma di Barcellona (Spagna), 1989. Dottore
in medicina veterinaria nella medesima Università con la tesi “Studio comparativo dell’applicazio-
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PROGRAMMA SCIENTIFICO
PRIMO GIORNO, VENERDÌ 23 OTTOBRE 2015
Chairperson: Walter Bertazzolo e Federico Fracassi
09.25
Saluto ai partecipanti, Introduzione al Congresso e inizio lavori
09.40
Sospetto una malattia infettiva: districhiamoci nella giungla dei test diagnostici
Xavier Roura (E)
10.20
Leishmaniosi canina: Vaccino o non vaccino? Le evidenze scientifiche al 2015
Xavier Roura (E)
11.00
Test filaria positivo nel cane: come mi comporto nel 2015?
Luigi Venco (I)
11.40
Questo cane è anemico: e ora?
Francesco Cian (UK)
12.20
Pausa pranzo ed Esposizione Commerciale
14.00
Questo gatto è anemico: e ora?
Francesco Cian (UK)
14.40
Approccio al paziente con rinorragia: come arrestarla e come indagarla
Davide De Lorenzi (I)
15.20
Pausa caffè ed Esposizione Commerciale
16.00
Il cane con collasso tracheale: terapia conservativa o è necessario qualcosa di più invasivo?
Davide De Lorenzi (I)
16.40
Le disfagie nel cane: quale iter diagnostico?
Stanley Marks (USA)
17.20
Alterazioni dell’esofago
Stanley Marks (USA)
18.00
Termine della giornata
Relazione a cura di Eukanuba Italia:
“Healthy ageing in Labrador Retrievers: results of a prospective longitudinal study”
Autori dello studio: Adams VJ, Watson PJ, Morgan DM (2015)
Relatore: Pietro Gioia - Scientific Communication Manager - EUKANUBA Italia
A SEGUIRE EUKANUBA ITALIA SARÀ LIETA D’OFFRIRE UN APERITIVO AI PARTECIPANTI PRESENTI ALLA RELAZIONE
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SECONDO GIORNO, SABATO 24 OTTOBRE 2015
Chairperson: Ugo Lotti e Federica Rossi
09.00
L’enteropatia proteino-disperdente nel cane: è sempre necessaria l’endoscopia o posso attendere?
Stanley Marks (USA)
09.40
L’utilizzo di probiotici e prebiotici nei pazienti con diarrea: servono a qualcosa?
Stanley Marks (USA)
10.20
Enzimi epatici elevati nel cane: come mi comporto? - Ugo Lotti (I)
11.00
Pausa caffè ed Esposizione Commerciale
11.40
Il proprietario mi chiede una dieta casalinga per il suo cane: come mi comporto?
Giacomo Biagi (I)
12.20
Cross reattività tra filaria ed Angiostrongylus vasorum in cane con positività a Leishmania
Paola Palagiano
12.40
Relazione a cura di Royal Canin
“La nutrizione come supporto nelle scelte del clinico” - Relatore: Flavio Morchi
13.00
Quando devo davvero ricorrere ad un esame del midollo osseo? E come devo farlo?
Walter Bertazzolo (I)
13.40
Pausa pranzo ed Esposizione Commerciale
14.20
Devo fare una biopsia: quando può essere citologica e quando deve essere istologica?
Walter Bertazzolo (I)
15.00
Questo paziente ha delle emorragie: quale iter devo percorrere? - Paolo Gaglio (I)
15.40
Pausa caffè ed Esposizione Commerciale
16.20
Il paziente con perdite vulvari: quale iter diagnostico? - Maria Carmela Pisu (I)
17.00
La paziente è sterilizzata ma torna in calore: quale iter diagnostico e quale approccio?
Maria Carmela Pisu (I)
17.40
Diabete mellito nel cane: l’insulina non funziona come dovrebbe. Come mi comporto?
Federico Fracassi (I)
18.00
Termine della giornata
TERZO GIORNO, DOMENICA 25 OTTOBRE 2015
Chairperson: Walter Bertazzolo
09.00
Polmonite, edema, o altro? Il dilemma di fronte ad una radiografia toracica - Federica Rossi (I)
09.40
Osteomielite da Serrazia marcescens multiresistente in cane di 6 mesi - Giovanni Semprini
10.00
Emergenza addominale: scelgo un approccio radiografico, ecografico o altro? - Federica Rossi (I)
10.40
Pausa caffè ed Esposizione Commerciale
11.20
Il paziente con piotorace: serve un drenaggio o provo una terapia conservativa? - Paolo Gaglio (I)
12.00
Il gatto arriva in shock, come mi comporto? - Paolo Gaglio (I)
12.40
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ESTRATTI DELLE RELAZIONI
Questo volume di atti congressuali riporta fedelmente
quanto fornito dagli autori che si assumono la responsabilità
dei contenuti dei propri scritti.
Gli estratti sono elencati in ordine cronologico
di presentazione.
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XAVIER ROURA
MV, PhD, Dipl ECVIM-CA,
Barcellona (E)
Sospetto
una malattia infettiva:
districhiamoci
nella giungla dei test
diagnostici
Venerdì 23 Ottobre 2015
ore 09.40
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Clinical syndromes induced by infectious agents are common in dogs and cats.
Documenting that the infectious agent is still present is the best way to make a definitive diagnosis. However, an important problem for practitioners is that any infectious agent has a specific and more adequate diagnostic protocol. Commonly used
techniques vary by the body system but include fecal flotation, cytology, histopathology, immunohistochemistry, culture, antigen tests, and molecular diagnostic assays. For some agents, antibody test results are also used to help make a clinical diagnosis but for other infectious agents no, and frequently the presence of antibodies
may only document prior exposure, not current infection. So, all diagnostic tests have inherent advantages and limitations. There is not any 100% perfect technique for
the diagnosis of infectious diseases and frequently, we need to combine different diagnosis tests.
Inflammatory lesions are commonly encountered in small animal practice. These
may present as masses, ulcers, plaques, draining tracts, etc. Inflammatory cells are often easier for the practitioner to identify because of a familiarity with the basic cells
types from examination of peripheral blood. If cells other than inflammatory cells are
present, or if infectious organisms are suspected but not confidently recognized, slides can be sent off for evaluation by a clinical pathologist. However, it is important
to recognize that any of the basic inflammatory cells may have a variety of different
appearances in the cytology because of aging changes or because of proliferation at
the site of inflammation. If a lesion is comprised predominantly/exclusively of inflammatory cells, you should 1) try to characterize the type of inflammation as this
may suggest a certain underlying process or list of potential infectious processes and
2) examine for infectious organisms. Most infectious organisms can be easily recognized with practice because stain well with the most used stains used on clinic. One
of the strengths of cytology is rapid identification of infectious organisms.
Serology relies on an immunologically appropriate and diagnostically detectable
host immune response against one or more pathogens. As antibodies can persist for
variable intervals after a pathogen is immunologically or therapeutically eliminated,
serology does not confirm active or persistent infection in the patient, which is a diagnostic disadvantage. However, serology can be used to retrospectively confirm recent infection, by demonstrating seroconversion (a four-fold change in the patient’s
antibody titer between acute and convalescent serum samples). The persistence of circulating antibodies can also be an advantage of serology in that antibodies may be detectable during chronic infections, when a pathogen may be circulating below the limit of PCR detection or sequestered in tissues that are not routinely submitted for
PCR testing. Another potential limitation of serology includes diminished specificity,
due to antibody cross-reactivity within or between pathogens. Conversely, serological
antigens chosen or available for assays may be too specific or mismatched to the etiological pathogens resulting in false negative results. These factors can result in the
inability to accurately identify the infecting species or strain, which can have therapeutic implications for the patient. A technical limitation for the development of some serological assays is the inability to produce antigens in sufficient quantities to be
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used in indirect fluorescent antibody (IFA) or enzyme-linked immunoabsorbent assays (ELISA), although the use of synthetic peptides may help overcome this limitation. With the advent of PCR testing, it has also become obvious that some dogs do
not mount a detectable antibody response, despite acute or even persistent infection
with pathogens.
Similar to serology, PCR has advantages and disadvantages for the diagnosis of infectious agents. PCR has the distinct advantage over serology of detecting “active” infection in a single sample from a single time-point. Additionally, PCR can be used to
specifically target a pathogen at the species or strain level by using different PCR primer sets or by sequencing PCR products. PCR does not require definitive knowledge
of the pathogen DNA sequence. Co-infecting pathogens may cause competition in the
PCR reaction process. Substantially higher concentrations of one pathogen compared
to the other can result in detection of only one organism despite the presence of a coinfection. The main limitation to PCR testing is the requirement for adequate nucleic
acid of the target organism in the dog/cat sample to achieve amplification of the target
DNA sequence. Therefore, PCR testing at a single time point may produce a false negative result for an infected patient. For example, many dogs and cats become negative by PCR assay of blood while on doxycycline or fluoroquinolone or other antibiotic
treatments and so should be sampled prior to treatment. Some other technical disadvantages of PCR-based testing include potential false negative results due to the presence of PCR inhibitors that were not removed during the nucleic acid purification process and the potential for laboratory contamination resulting in false positive reactions
in patients that are not infected. Other potential problems are that minimal standardization exists among commercial laboratories offering PCR assays and minimal external quality control exists. The latter disadvantages can be minimized by the use of appropriate techniques, reagents and the incorporation of appropriate controls. Unless
mechanisms are developed to overcome all of the limitations of PCR-based testing,
PCR is unlikely to serve as a stand-alone assay for the diagnosis of many infections.
In general the diagnostic test of infectious diseases in dogs and cats try to answer
the frequent questions that we have in practice with each case as: Does the test result
prove causation of current illness or predict illness in the future? Does the test result
indicate acute or chronic infection? Does it matter how long the dog or cat has been
infected? Does the test differentiate between vaccine and natural exposure antibodies? Are there any other cross-reactions? Will the test give a positive result at the time of presentation with illness, or do we need to do paired titers (acute and convalescent)? Does the test give a qualitative result (positive or negative) or a quantitative
result? Is a quantitative result helpful? Does the test become negative or wane if the
dog or cat is successfully treated? How long does it take to see a change? Does the
test include information about different infectious diseases?
The diagnosis of infectious diseases in dogs and cats are very complex because have the same clinical signs than other infectious agents, neoplasies or immune-mediate inflammations; and the confirmation usually means to do several diagnostic tests in
order to have a clear overview of each single case.
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References
Littman MP1, Goldstein RE, Labato MA, Lappin MR, Moore GE. ACVIM small animal consensus statement on Lyme disease in dogs: diagnosis, treatment, and prevention. J Vet Intern Med. 2006; 20(2): 422-34.
Schuller Sl, Francey T, Hartmann K, Hugonnard M, Kohn B, Nally JE, Sykes J. European
consensus statement on leptospirosis in dogs and cats. J Small Anim Pract. 2015; 56(3):
159-79.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Hospital Clínic Veterinari, Universitat Autònoma de Barcelona
E-mail: [email protected]
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XAVIER ROURA
MV, PhD, Dipl ECVIM-CA,
Barcellona (E)
Leishmaniosi canina:
vaccino
o non vaccino?
Le evidenze
scientifiche al 2015
Venerdì 23 Ottobre 2015
ore 10.20
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Canine leishmaniosis is the classical example of a disease where the clinical signs
and underlying pathology are intrinsically related to the interaction between the microbe, arthropod vector and host immune system. These interactions have been widely studied in both experimentally induced and spontaneously arising disease in a number of host species, and much of the current knowledge concerning the functional interactions between different T lymphocyte subpopulations was first established using
murine models of this infection.
In broad sense, the term prevention includes the application of measures intended
to avoid instances of infection by a pathogen or the pathologic outcome (disease) of
such instances. Canine leishmaniosis control strategies have varied little for decades,
but in recent years there have been advances in prevention of the disease. Advances
in prevention include evidences that the incidence of leishmaniosis, both in humans
and dogs, can be reduced.
The prevention of sand fly bites is an effective tool in protecting dogs from leishmaniosis and reducing the risk of human infections. In this field, several studies
have been carried out on synthetic pyrethroids to be used on dogs in topical formulations. These are classified as ectoparasiticides, consisting of registered medical remedies that have undergone rigorous registration procedures like other pharmaceuticals. The mode of action of synthetic pyrethroids involves 2 main pharmacological
aspects. After landing on treated dogs, sand flies may rest on the skin for a period
sufficient to absorb a lethal dose of insecticide (effect: toxicity), or the flies may have only fleeting contact with insecticide-treated skin that is sufficient to cause irritation and disorientation, resulting in reduction of blood-feeding rate (effect: no-feeding). Synthetic pyrethroids used for application in dogs combine the properties of
low to moderate mammalian toxic effects, low volatility, and high, fast insecticidal
activity. Modes of application include slow-release protector band (dog collar) such
as Scalibor® or Seresto®; spot-on such as Advantix® or Frontline Tri-Act® or Exspot®
or Effitix® or Vectra 3D®; or spray such as Duowin®. Safety tests performed after application on dog skin have revealed rare and temporary skin reactions to compounds
in some of the smallest breeds with thin delicate skin. Reactions include itchiness
and erythema at the site of application. Permethrin, alone or in combination with
imidacloprid, as a topical (spot-on) treatment and deltamethrin (deltamethrin-triphenylphosphate complex) or flumethrin 4.5% (plus imidacloprid 10%) administered by
slow-release collar are recommended and have publications for their high efficacy in
preventing sand fly bites or Leishmania infection. The different starting periods of
protection activity associated with various synthetic pyrethroid formulations should
be carefully considered when choosing a product. In particular, dog owners that plan
to take their pets from non- endemic to endemic areas of leishmaniosis during the
sand fly activity period should be advised to take into account that periods for full
protection may vary from immediate to 1 week, depending on the product. Because
of a shorter duration of ectoparasiticidal activity, spot-on and spray formulations (3
to 4 weeks’ duration) require owners to remember and comply with frequent applications, whereas slow-release collars containing ectoparasiticides do not need to be
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replaced more than twice a year in environments in which Leishmania vectors are
active throughout the year or once a year in temperate areas in which no adult flies
are present during cold months.
Leishmaniosis provides the single best example of polarisation of the immune response to an infectious agent. Mice, humans and dogs generally develop chronic, progressive disease if the immune response is dominated by Th2 immunity. By contrast,
in those animals where immunity is dominated by a Th1 response, disease is generally mild and self-limiting. Currently, it is widely accepted that the concomitant immunity associated to resistance to canine leishmaniosis is associated to a skewed Th1like immune response with an antigen-specific CD4+ T-cell population producing
IFN- , which in turn activates macrophages to produce NO, the underlying molecule
responsible for the intracellular amastigote death. The mechanisms underlying this
polarisation are only just beginning to be understood. The factors that determine whether individuals progress to clinical disease following Leishmania infection are unclear, but previous studies suggest a large contribution of the host genetic background,
as reviewed elsewhere. Studies in mice provided early support for a strong genetic
component to susceptibility to Leishmania infection. In dogs, genetic susceptibility to
progression of disease from Leishmania infection is supported by the fact that the percentage of infected dogs in endemic areas is as high as 60%, whereas rates of clinical leishmaniosis are much lower in these areas. Similar to familial aggregation and
ethnic differences of leishmaniosis prevalence seen in humans, dog breeds show variable susceptibility to leishmaniosis. Some breeds such as Boxer, German shepherd
and Rottweiler appear more predisposed to overt leishmaniosis. In contrast, the Ibizan hound, a dog breed believed to have been relatively isolated in an endemic area
such as Ibiza (Balearic Islands, Spain), is reported to be resistant to leishmaniosis.
There is a clear genetic influence on the disease resistant and it has been estimated
that a substantial proportion of the genome is affecting the trait and that its heritability could be as high as 60%.
The control of the disease, as it is the case for most parasitic diseases, is almost
confined to chemotherapy, but there is a limited number of drugs available, requiring
long periods of administration, inducing serious side effects, prone to resistance development, and not affordable for the poor. In fact, the European Medicines Agency
has awarded marketing authorisation for the prophylaxis and early treatment of canine leishmaniosis to domperidone (Leisguard®), an antidopaminergic drug that, at 0.5
mg/kg SID PO for 30 days with repetition of the treatment 2 or 3 times a year depending on the geographical area, can act as a proinflammatory cytokine able to skew
immune response towards a Th1-like immune response, with cell-mediated immunity inducing natural killer cell induction and macrophage activation.
Thus, vaccines have been proposed as major cost-effective tools and have been
established as a high priority by the World Health Organisation (resolution
EB118.R3, Geneva 05/07). However, no vaccine against human visceral leishmaniosis has been marketed to date. One vaccine has been granted marketing registration
against canine leishmaniosis in Europe (CaniLeish®: 3 vaccinations, each 3 weeks
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apart, followed by an annual booster). The efficacy of this vaccine remains controversial, particularly when compared with those against viral and bacterial infections.
They do not eradicate the infection, but they do, however, induce a strong cellular immune response, which could prevent the development of the disease.
In summary, two canine leishmaniosis prevention strategies to date have been
shown to be effective: prevention of the infection and prevention of the disease. The
three more commonly strategies used in the dogs are the regular use of topical insecticides-repellents (pyrethroids), oral treatment with domperidone and vaccination. It
is, however, necessary to understand that the protection of each single dog, although
high, is not 100% guaranteed with any of these methods. The preventive efficacy of
pyrethroids is of 84-98% in the individual dog and of 100% at population level; the
preventive efficacy of domperidone is of 80%in the individual dog, and of 68% using
vaccination. The various existing preventive strategies can be combined in order to increase their efficacy; however, no data are available confirming that this approach increases the degree of protection compared to their use alone. Preventive measures are
recommended in any healthy dog that live or is to visit areas in which leishmaniosis
is endemic; the same is true for any dog that is either infected or sick with leishmaniosis, whether under treatment or not, as an effective strategy to reduce the risk of
infecting both humans and dogs.
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LUIGI VENCO
Med Vet, SCPA, Dipl EVPC,
Pavia
Test filaria positivo
nel cane:
come mi comporto
nel 2015?
Venerdì 23 Ottobre 2015
ore 11.00
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La positività ad un test per Filariosi cardiopolmonare non è certamente l’atto finale di un iter diagnostico, ma l’inizio di un processo deduttivo che deve portare ad indicazioni terapeutiche e prognostiche se non addirittura ad una conferma o smentita
del test stesso.
È innanzitutto necessario operare una distinzione apparentemente inutile ma che
deve influire sui processi decisionali. Il test è stato eseguito per la conferma di un sospetto diagnostico o per screening nell’impostazione di un piano di profilassi?
In questo ultimo caso sapendo che oggi la specificità dei Test antigenici per Filariosi cardiopolmonare non è (come ritenuto in passato) del 100% ma inferiore (97%
circa) è necessario prendere in considerazione la prevalenza dell’infestazione nell’areale in cui si opera e le condizioni specifiche ambientali del soggetto testato che
possano rendere più o meno probabile la reale presenza di un’infestazione e che influenzano in modo determinante il Valore predittivo del Test (ossia la possibilità che
il cane sia realmente infestato, e non si tratti di un test falsamente positivo). In area
ad alta endemia il Valore predittivo è alto. In area a bassa endemia invece basso. Per
ovviare quindi a false positività che porterebbero a trattamenti di soggetti non infestati è sempre consigliabile (necessario nelle zone a bassa endemia) utilizzare due test
in parallelo biologicamente indipendenti l’uno dall’altro. Per «biologicamente indipendenti» si intendono test basati su meccanismi diversi. Questo si traduce nell’ambito della Filariosi cardiopolmonare nell’esecuzione di un Test per la ricerca di antigeni circolanti, e di un test di Knott per la ricerca di microfilarie, con conseguente miglioramento del Valore predittivo positivo e negativo (la possibilità che il soggetto che
risulti negativo ai test sia realmente negativo nelle aree ad alta endemia).
Se il test è eseguito su soggetti con sintomatologia clinica manifesta riconducibile
a Filariosi cardiopolmonare (tosse, sincopi, ascite) la probabilità pre-test di riscontrare la malattia sulla base di un corretto indice di sospetto porta con maggiori certezze
alla diagnosi (anche in tali casi tuttavia è consigliabile eseguire sia Test per la ricerca
di antigeni circolanti sia un test di Knott).
A questo punto la Stadiazione della malattia consente di emettere una prognosi e
la scelta dell’opzione terapeutica migliore. Gli accertamenti diagnostici che costantemente si impongono sono:
– studio radiografico del torace (due proiezioni) che fornisce informazioni sullo stato
del parenchima polmonare, delle arterie polmonari ed anche della silhouette cardiaca;
– ecocardiografia che fornisce indicazioni sullo stato delle camere cardiache destre,
delle arterie polmonari e dei loro valori pressori, e su stima della carica parassitaria e localizzazione dei parassiti.
Sulla base delle indagini collaterali eseguite due sono i fattori che devono essere
tenuti in considerazione per la scelta della migliore opzione terapeutica e per una corretta prognosi:
a) entità della carica parassitaria;
b) stato delle arterie polmonari (o del circolo arterioso e parenchima polmonare).
Le possibili variazioni riscontrate portano naturalmente all’individuazione di 4 categorie di pazienti.
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1) Cani senza alterazioni anatomiche arteriose e parenchimali polmonari e bassa carica parassitaria.
2) Cani senza alterazioni anatomiche arteriose e parenchimali polmonari ed alta carica parassitaria.
3) Cani con alterazioni anatomiche arteriose e parenchimali polmonari ed alta carica
parassitaria.
4) Cani con alterazioni anatomiche arteriose e parenchimali polmonari e bassa carica
parassitaria.
Nelle prime due categorie di pazienti la sintomatologia è solitamente assente o
molto sfumata, ma gli approcci terapeutici divergenti. In presenza di una carica parassitaria ridotta la terapia medica adulticida con melarsomina (protocollo in tre dosi
refratte) rappresenta il Gold standard.
L’impatto di un tromboembolismo non grave, stante il basso numero di parassiti, su
un circolo polmonare normale sono ben tollerati dal paziente, anche se non esimono
dal mettere in atto tutte quelle misure (riposo in primis, pre-trattamento con Doxiciclina per eliminare Wolbachia sp., l’endosimbionte di D. immitis, somministrazione di
eparina o di prednisolone a basse dosi pulsate) che contribuiscono a minimizzarlo.
Nel caso (categoria 2) la carica parassitaria sia elevata (il dato discriminante è
l’evidenziazione di numerosi echi riferibili a macrofilarie di D. immitis a livello di
tronco comune ed arteria polmonare destra durante l’esame ecografico) l’entità degli
eventi tromboembolici a seguito di terapia adulticida può essere grave o fatale, con rischio non solo di morte del paziente di ma di danni polmonari irreversibili (sviluppo
di ipertensione polmonare). In questi soggetti la rimozione per via transgiugulare con
Flexible Alligator Forcep o con altri device descritti in letteratura scientifica è la prima scelta perché consente di evitare il tromboembolismo, azzerando il rischio di morte conseguente e garantendo la guarigione parassitologica senza danni organici irreversibili. Per i medesimi motivi la terapia chirurgica mini-invasiva è senza dubbio
l’opzione migliore anche per i pazienti in categoria 3. Un tromboembolismo massivo
conseguente a terapia adulticida con melarsomina, o ancora peggio uno procrastinato
a 10-18 mesi con terapia combinata ivermectina/doxiciclina) sono mal tollerati da un
circolo arterioso polmonare già compromesso.
Il rischio di morte o di un ulteriore e non sostenibile peggioramento dell’ipertensione polmonare sono eventualità molto più che concrete.
Per i pazienti in categoria 4 l’opzione terapeutica migliore deve essere ponderata
con attenzione. La presenza di una bassa carica parassitaria è imputabile ad infestazioni in atto da tempo con spontanea morte dei parassiti e danni cronici da tromboembolismo ripetuto. Le alterazioni arteriose e parenchimali polmonari sono oramai irreversibili. L’eliminazione dei pochi parassiti rimasti non porta di norma vantaggi clinici ed una terapia adulticida, anche a fronte di un tromboembolismo atteso lieve, è
indubbiamente rischiosa per le preesistenti gravi alterazioni. In questi pazienti un’opzione ragionevole può essere quella di cercare di limitare la progressione del danno
semplicemente con misure atte a combattere le alterazioni indotte e non i parassiti
stessi.
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Il riposo deve essere anche in questo caso considerato l’ausilio terapeutico più utile ed importante, eventualmente associato a somministrazione ciclica di corticosteroidi e, solo in caso di ascite o versamento pleurico di diuretici (meglio se a basse dosi ed in associazione di diuretici d’ansa con spironolattone e tiazidici). Gli inibitori
della Fosfodiesterasi 5 (sildenafil, tadalafil) efficaci in altre forme di ipertensione polmonare in corso di Filariosi cardiopolmonare non presentano alcuna utilità, poiché
l’endoarterite proliferativa ed i fenomeni di fibrosi vasale rendo impossibili un’efficace vasodilatazione.
Tra le opzioni terapeutiche volte alla guarigione parassitologica l’utilizzazione
protratta di lattoni macrociciclici in associazione ad antibiotici in grado di eliminare
Wolbachia sp, l’endosimbionte di D. immitis (ivermectina più doxiciclina), anche se
in ampia e crescente diffusa non deve essere considerata la prima scelta ma confinata ad un ristretto numero di soggetti appartenenti esclusivamente alle categorie 1 e 4
in cui altre soluzioni siano sconsigliabili o impraticabili. I tempi richiesti per l’eliminazione dei parassiti sono inevitabilmente lunghi e consentono il deterioramento progressivo delle strutture polmonari, non si elimina in ogni caso il rischio tromboembolico legato alla morte dei parassiti ed inoltre la produzione di anticorpi da parte dei
soggetti trattati ed il conseguente fenomeno di “antigen masking” porta ad un elevato numero di soggetto con test antigenici falsamente negativi, che appaiono quindi parassitologicamente guariti ma che albergano ancora parassiti adulti vivi.
Questo tipo di trattamento espone inoltre concretamente al rischio di selezione di
ceppi resistenti, alcuni già individuati in USA. Due resistenti alla singola somministrazione profilattica di lattoni macrociclici (Michigan e MPP3) ma sensibili a somministrazioni ripetute, due assolutamente resistenti alla loro azione (JYB e Yazoo).
Per quanto remota questa possibilità lo spettro evocato è quella di perdere completamente la possibilità di avere una valida profilassi per la malattia.
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FRANCESCO CIAN
Med Vet, Dipl ECVCP, FRCPath, MRCVS,
European and RCVS Specialist
in Veterinary Clinical Pathology, UK
Questo cane
è anemico: e ora?
Venerdì 23 Ottobre 2015
ore 11.40
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Nella presente relazione verrà illustrato un approccio sistematico all’anemia del
cane, sottolineando l’importanza della valutazione diagnostica iniziale ed indicando
le possibili diagnosi differenziali. Verranno poi proposti dei casi clinici che daranno
l’opportunità ai partecipanti di mettere in pratica le informazioni apprese.
L’anemia è una condizione clinica caratterizzata da una riduzione della massa eritrocitaria circolante e da uno o più dei seguenti parametri: conta eritrocitaria (RBC)
ematocrito (HCT), ed emoglobina (Hgb).
Un appropriato iter diagnostico è considerato necessario per una sua più dettagliata classificazione che a sua volta può essere d’aiuto per identificarne la causa ed il più
efficace approccio terapeutico.
Un corretto approccio diagnostico all’anemia si basa inizialmente su una valutazione del grado di severità (indicato da HCT/PCV) e dal grado di rigenerazione (indice della risposta midollare). Quest’ultima si basa su una valutazione di:
– esame striscio ematico (morfologia eritrocitaria, policromasia)
– valutazione indici eritrocitari (es. MCV, MCHC, CHCM, RDW)
– quantificazione della componente reticolocitaria.
Gli eritrociti (e conseguentemente l’anemia) vengono classificati in funzione della
dimensione cellulare in normociti/macrociti/microciti, ed in funzione del contenuto
emoglobinico in normocromici/ipercromici/ipocromici. La valutazione di questi parametri eritrocitari si basa sull’osservazione dello striscio ematico e sulla valutazione
degli indici eritrocitari (es. MCV, MCHC, RDW) forniti dall’apparecchio contaglobuli. Anemie rigenerative sono caratterizzate dalla presenza nella circolazione periferica di elementi eritrocitari immaturi (policromatofili/reticolociti), i quali conferiscono all’anemia un aspetto macrocitico ipocromico.
La valutazione esclusiva degli indici eritrocitari non è considerata sufficiente per
una corretta classificazione della tipologia di anemia e della risposta rigenerativa. Studi recenti hanno evidenziato una bassissima sensibilità (11%) di MCV e MCHC nel
predirre la risposta rigenerativa nella specie canina (Hodges et al., 2011). Inoltre, vi
sono altre condizioni fisiologiche e artefattuali che possono causare un’alterazione di
questi parametri. Microcitosi fisiologica è riportata in soggetti giovani (<8-16 settimane), nelle razze giapponesi (Shar pei, Akita Inu, Shiba Inu) e nei Siberian Husky.
Un aumento artefattuale del volume medio eritrocitario (MCV) si osserva comunemente in campioni di sangue analizzati oltre le 24 ore dal prelievo. Un aumento spurio della concentrazione corpuscolare media di emoglobina (MCHC) si osserva inoltre in campioni emolitici ed itterici, e in presenza di Corpi di Heinz, in quanto questi
fattori posso interferire con la misurazione spettrofotometrica dell’emoglobina. Le
moderne macchine contaglobuli offrono la misurazione della concentrazione cellulare media di emoglobina (CHCM) che non è influenzata da questi fattori, basandosi su
una misurazione spettrofotometrica dell’emoglobina intracellulare.
La risposta midollare può essere quantificata attraverso l’osservazione dello striscio ematico con quantificazione dei policromatofili e/o attraverso la conta (automatica o manuale) dei reticolociti.
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I reticolociti non sono comunemente osservati nel circolo sanguigno fino a 2-3
giorni dall’evento emorragico/emolitico. La risposta reticolocitaria inizia poi a manifestarsi con un picco tra il 4 e il 7 giorno seguente l’insulto e declina dopo 2-3 settimane (a patto che la causa sottostante sia stata risolta).
La conta reticolocitaria può essere effettuata secondo una procedura manuale che
prevede la colorazione dello striscio ematico con blu di Metilene o una conta automatizzata. La conta reticolocitaria assoluta è preferita alla conta percentuale per la valutazione della risposta rigenerativa. Quest’ultima è considerata tale quando i reticolociti > 50-80 x 10^9/L (cut-off variabile a seconda del laboratorio di analisi). La conta reticolocitaria è considerata più attendibile della conta dei policromatofili nella valutazione della risposta rigenerativa, soprattutto in corso di anemie poco rigenerative
(Collicutt et al., 2012). Reticolocitosi può essere inoltre osservata in pazienti non anemici. La reticolocitosi fisiologica si osserva in caso di prematuro rilascio di reticolociti da parte del midollo osseo, e in caso di contrazione splenica (secondaria a intensa attività fisica, eccitazione).
Nell’ambito della valutazione della risposta rigenerativa in corso di anemia, è
estremamente importante ricordare come la risposta midollare richieda mediamente
3-4 giorni prima di produrre effetti nel circolo periferico (incremento del numero di
policromatofili/reticolociti); una condizione di anemia normocitica normocromica
pertanto può semplicemente indicare una condizione pre-rigenerativa (e non una
mancata risposta midollare). Una anemia normocitica normocromica si definisce propriamente non rigenerativa quando vi è persistente assenza di segni di rigenerazione
> 3-4 giorni.
ANEMIE RIGENERATIVE
Anemie rigenerative sono comunemente macrocitiche ipocromiche e sono caratterizzate da un aumento del numero di reticolociti/policromatofili nella circolazione periferica. Cause comuni di questo tipo di anemia includono emolisi (anemia emolitica
immunomediata e non) ed emoraggia. La distinzione tra queste due forme si basa su
una combinazione di fattori che includono storia clinica, valutazione delle proteine
plasmatiche, esame dello striscio di sangue periferico, ed esito di ulteriori esame diagnostici (es. test di Coombs).
ANEMIE NON RIGENERATIVE
Anemie non rigenerative sono comunemente normocitiche normocromiche e sono
caratterizzata dall’assenza di elementi circolanti immaturi nel circolo periferico. Tra
le cause di anemia non rigenerativa rientrano condizioni patologiche midollari (es.
neoplasie primarie o metastatiche del midollo osseo) ed extramidollari quali endocrinopatie (es. ipotiroidismo, ipoadrenocorticismo) ed insufficienza renale cronica.
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L’anemia da malattia cronica è la forme più comune di anemia (non rigenerativa)
osservata nella specie canina. La patogenesi di questa forma di anemia si basa sulla
soppressione dell’eritropoiesi midollare da parte di citochine infiammatorie e una ridotta emivita eritrocitaria. L’identificazione di questa forma di anemia si basa sulla
storia clinica (evidenza clinica di concomitante patologia/infiammazione in corso),
presenza di alterazioni ematologiche e biochimiche suggestive di infiammazione (es.
leucogramma infiammatorio, trombocitosi, iperglobulinemia, ipoalbuminemia).
Occasionalmente, l’anemia rigenerativa può presentarsi microcitica ipocromica.
Questa forma è caratterizzata dalla presenza di eritrociti di dimensioni inferiori e con
una ridotta concentrazione di emoglobina che si traduce all’esaminazione dello striscio ematico in un aumento del pallore centrale. La ridotta dimensione eritrocitaria è
legata alla carenza di ferro (e conseguente minore produzione di emoglobina) la quale induce una prolungata divisione cellulare eritrocitaria. Anemie microcitiche ipocromiche si osservano comunemente in caso di condizioni ferro prive, primariamente emorragie croniche (soprattutto gastrointestinali).
Bibliografia
Harvey J. Veterinary Hematology: a diagnostic guide and color atlas. Elsevier. 2011.
Hodges J, Christopher MM. Diagnostic accuracy of using erythrocyte indices and polychromasia to identify regenerative anemia in dogs. J Am Vet Med Assoc. 2011. 238: 1452-1458.
Collicutt NB, Grindem CB, Neel JA. Comparison of manual polychromatophilic cell and automated reticulocyte quantification in evaluating regenerative response in anemic dogs.
Vet Clin Path. 2012. 41: 256-260.
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23-25 OTTOBRE 2015 • AREZZO
FRANCESCO CIAN
Med Vet, Dipl ECVCP, FRCPath, MRCVS,
European and RCVS Specialist
in Veterinary Clinical Pathology, UK
Questo gatto
è anemico: e ora?
Venerdì 23 Ottobre 2015
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Nella presente relazione verrà illustrato un approccio sistematico all’anemia del
gatto, sottolineando le principali differenze osservate nei confronti della specie canina. Verranno poi proposti dei casi clinici che daranno l’opportunità ai partecipanti
di mettere in pratica le informazioni apprese.
L’anemia è definita come una riduzione della massa eritrocitaria circolante ed è caratterizzata dalla riduzione di uno o più dei seguenti parametri: conta eritrocitaria
(RBC) ematocrito (HCT), ed emoglobina (Hgb).
L’anemia è una condizione osservata molto frequentemente nella specie felina e
presenta delle peculiarità che la contraddistinguono dalle altre specie.
1) ERITROCITI - L’emitivita eritrocitaria è inferiore rispetto alle altre specie e si
aggira sui 70 giorni, rispetto ai 110 giorni della specie canina. Il volume ematico è
approssimativamente il 6-8% del peso corporeo, comparato con l’8-9% nel cane.
La ridotta emitiva eritrocitaria, associata a un ridotto volume ematico sono alcune
delle ragioni che spiegano la rapida insorgenza di alcune forme di anemia
(emolitica, emorragica) nella specie felina.
Gli eritrociti appaiono morfologicamente diversi rispetto alle altre specie domestiche. La dimensione eritrocitaria media è di 5,5-6,5 micron e il pallore centrale non
è visibile. Quest’ultimo elemento deve essere tenuto in considerazione quando, in
corso di anemia rigenerativa, si sospettano forme emolitiche immunomediate (IMHA) dal momento che la presenza di sferociti non può essere apprezzata.
2) EMOGLOBINA - L’emoglobina felina è particolarmente sensibile ai processi
ossidativi ed ha una minore affinità per l’ossigeno rispetto alle altre specie. Questo
spiega perché l’anemia da danno ossidativo sia particolarmente comune, e perché
nel gatto vi sia una maggiore tolleranza all’anemia, con sintomi clinici che spesso
insorgono più tardivamente. Anemie emolitiche da danno ossidativo sono
comunemente osservate a seguito di ingestione di farmaci (paracetamolo), alimenti
(cipolla), endocrinopatie (diabete mellito, ipertiroidismo) e processi neoplastici
(linfoma). Il danno ossidativo induce denaturazione delle catene di globina (con
formazione di corpi di Heinz), ossidazione del ferro dalla forma ferrosa (2+) a
ferrica (3+) (con formazione di metaemoglobina), e ossidazione e cross linking
delle proteine di membrana (con formazione di eccentrociti).
3) HCT/PCV - L’intervallo di riferimento del
HCT/PCV è variabile di laboratorio in
laboratorio, ma è generalmente inferiore
rispetto al cane. Il grado di anemia nel gatto
viene pertanto valutato differentemente.
Anemia (PCV)
Gatto
Cane
Lieve
20-26
30-37
Moderata
14-19
20-29
Grave
<13
<19
4) RETICOLOCITI - La conta reticolocitaria viene considerata il test diagnostico
elettivo per la valutazione della risposta rigenerativa in corso di anemia. Nella specie
felina, si osservano due forme principali di reticolociti nella circolazione periferica:
i reticolociti puntati e i reticolociti aggregati. I reticolociti aggregati riflettono la reale
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attività ematopoietica del midollo; sono i primi ad essere immessi in circolo e vi
rimangono per circa 24 ore prima di maturare a reticolociti puntati. Questi ultimi
rimangono poi in circolo per un tempo variabile di 10-12 giorni prima di divenire
eritrociti maturi. La quantificazione dei reticolociti può essere effettuata con tecniche
manuali o automatiche. Qualora vengano utilizzate tecniche manuali (colorazione
dello striscio ematico con blu di metilene) la distinzione tra le due forme
reticolocitarie deve essere considerata. Le moderne apparecchiature contaglobuli
sono settate per misurare soltanto le forme aggregate. La conta reticolocitaria
assoluta è preferita alla conta reticolocitaria percentuale per quantificare la risposta
rigenerativa. Il cut-off per indicare se un’anemia è rigenerativa varia a seconda del
laboratorio di analisi, ma si aggira su valori di 50 x 10^9 reticolociti/L.
La risposta rigenerativa viene spesso confermata attraverso l’osservazione dello
striscio ematico (valutazione semi quantitativa dei policromatofili) e attraverso l’interpretazione degli indici eritrocitari. La presenza di un’anemia macrocitica ipocromica (elevato MCV, ridotto MCHC) è considerata un chiaro indicatore di rigenerazione. Recenti pubblicazioni (Furman et al., 2014) hanno evidenziato una bassa sensibilità (19,5%) dei parametri MCV e MCHC nell’identificare una risposta rigenerativa. Altri parametri eritrocitari quali il RDW (indice di distribuzione eritrocitaria)
rappresentano un valido ausilio diagnostico, in quanto subiscono delle variazioni in
corso di processi rigenerativi, più precoci rispetto a MCV e MCHC.
Nella specie felina la macrocitosi non è una caratteristica esclusiva delle anemie rigenerative, in quanto può essere osservata anche in corso di anemia non rigenerativa
in soggetti affetti da FeLV e mielodisplasia.
Le cause di anemia nella specie felina sono significativamente diverse rispetto alle
altre specie domestiche. Un recente studio retrospettivo dell’Università di Bristol (UK)
(Korman et al., 2013) ha evidenziato una prevalenza di forme non rigenerative (56%)
spesso legate a disfunzioni midollari o processi infiammatori (anemia da patologia infiammatoria cronica), seguite da forme emorragiche (21%) ed emolitiche (11%). Tra le
principali cause di anemia rientrano patologie infettive, in particolare FIV, FeLV, e Haemoplasma, seguite da forme neoplastiche (es. linfoma). Anomalie midollari sono comunemente associate a forme di anemia più severa. La sopravvivenza pare essere associata alla causa dell’anemia piuttosto che al grado, con un tasso di sopravvivenza maggiore nei soggetti affetti da emolisi, rispetto a disordini midollari e processi neoplastici.
Bibliografia
Harvey J. Veterinary Hematology: a diagnostic guide and color atlas. Elsevier. 2011.
Furman E. Leidinger E, Hooijberg EH, et al. A retrospective study of 1098 blood samples with
anemia from adult cats: frequency, classification, and association with serum creatinine
concentration. J Vet Intern Med. 2014. 28: 1391-1397.
Korman RM, Hetzel N, Knowles TG, et al. A retrospective study of 180 anaemic cats: features, aetiologies and survival data. J Feline Med Surg. 2013. 15: 81-90.
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DAVIDE DE LORENZI
Med Vet, SMPA, Dipl ECVCP, Dr Ric,
Bologna
Approccio al paziente
con rinorragia:
come arrestarla
e come indagarla
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ore 14.40
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Le cavità nasali sono estremamente irrorate; l’apporto ematico è fornito dalle arterie etmoidali derivanti dalle arterie carotidi interne e dall’arteria mascellare, una delle diramazioni principali della carotide esterna. Questi vasi si ramificano fino a formare un fitto intreccio capillare sottomucoso, superficiale e relativamente esposto a
potenziali eventi traumatici e irritanti.
Molte cause, sia locali che sistemiche, possono causare emorragia nasale e l’entità dal sanguinamento può variare da modeste quantità in episodi che si risolvono
spontaneamente a emorragia violente e continue potenzialmente mortali; è importante ricordare che la reale entità del sanguinamento può non essere valutabile con precisione perché una quantità non definibile di sangue viene deglutito dall’animale dando luogo a melena.
Come ricordato in precedenza l’epistassi prevede cause sistemiche ed endonasali
le quali possono presentarsi singolarmente oppure contemporaneamente; la causa del
sanguinamento può sembrare a volte ovvia (trauma, deformazione del profilo frontonsale) ma anche nei casi di apparente semplice risoluzione valutazioni ematobiochimiche estese risultano indispensabili e metodologicamente corrette poiché consentono al clinico di escludere o confermare altre malattie sottostanti, potenziali cause o concause di epistassi.
CAUSE SISTEMICHE DI EPISTASSI
Le principali cause sistemiche di epistassi sono rappresentate dai difetti della emostasi sia primaria che secondaria.
Fra le prime la trombocitopenia (ovvero una diminuzione quantitative delle piastrine) è considerata la causa più frequente di rinorragia; come noto, questa può derivare da una diminuita produzione di piastrine a livello midollare oppure da una loro
aumentata distruzione, consumo o sequestro. In assenza di malattie concomitanti (vasculiti, coagulopatie) il sanguinamento nasale in genere non si manifesta per valori
pari o superiori a 40.000 piastrine/µl. La trombocitopenia immunomediata (frequente nel cane ma rara nel gatto) si può verificare in corso di alcune malattie infettive o
neoplastiche nel corso delle quali anticorpi aderiscono alla superficie delle piastrine
che vengono rapidamente distrutte dal sistema reticoloendoteliale. Meno comuni sono le malattie che determinano diminuita produzione di piastrine: fra queste ricordiamo alcune malattie infettive (FIV e FeLV nel gatto, erlichiosi, leishmaniosi, setticemia in generale), i tumori linfo- e mielo-proliferativi, mielodisplasia, anticorpi antimegacariociti e mielodisplasia. La coagulazione intravasale disseminata e le vasculiti rappresentano le cause più frequenti di trombocitopenia da aumentato consumo: anche in queste circostanze le cause primarie sono varie e differenti (setticemia, malattie infettive, endotossiemie, neoplasie).
Un’altra possibile causa di epistassi è data dalla trombocitopatia, nel corso della
quale il problema deriva da una inefficiente funzionalità delle piastrine e non da una
loro diminuzione numerica.
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Sono descritte trombocitopatie ereditarie in grado di determinare anomalie di adesione, secrezione o aggregazione piastrinica; si tratta di malattie segnalate in determinate razze canine (ad es tromboastenia di Glanzmann nel cane da montagna dei Pirenei) e molto raramente anche nel gatto (un difetto nel contenuto dei granuli pastrinici come elemento della sindrome di Chediak-Higashi nella varietà “blue smoke” di
gatti Perisani).
La malattia di von Willebrand, al contrario, deriva da una diminuita produzione
della proteina di von Willebrand da parte della mucosa endoteliale; questa proteina favorisce l’adesione piastrinica al collagene sub-endoteliale e partecipa quindi alla fase
primaria della coagulazione. Questa malattia deve essere inserita all’inizio di una possibile lista di diagnosi differenziali se il paziente con rinorragia è un cane giovane, di
razza Dobermann, con eventuali altri segni di sanguinamento superficiale (petecchie,
ecchimosi ed emorragie della sclera).
Al contrario di quello che avviene nelle trombopatie ereditarie, dove il paziente è
clinicamente normale ad eccezione della tendenza al sanguinamento, le trombopatie
acquisite spesso vengono individuate in cani e gatti affetti da malattie differenti, come neoplasie (ad es plasmocitoma) o malattie infettive (ad es. erlichiosi); il meccanismo patogenetico prevede una interazione fra le immunoglobuline prodotte in eccesso e la superficie piastrinica con conseguente interferenza nel processo di adesione
delle piastrine.
Una caratteristica comune alle emorragie derivanti da un difetto dell’emostasi primaria è quella di non essere quantitativamente importanti perché, anche se in ritardo,
si forma un tappo costituito in prevalenza da fibrina in grado di fermare l’emorragia.
Al contrario, se l’emorragia deriva da un difetto emostatico secondario i sanguinamenti tendono ad essere più copiosi, spesso intracavitari, e possono causare la morte
del paziente.
I problemi di emostasi secondaria possono, anche se più raramente dei primari, essere causa di emorragia nasale; anche fra questi si riconoscono malattie congenite
(emofilia) e problemi acquisiti (avvelenamento da rodenticidi, grave insufficienza
epatica con diminuita sintesi dei fattori della coagulazione, coagulazione intravasale
disseminata).
Le altre due principali cause sistemiche di rinorragia sono l’ipertensione e la sindrome da iperviscosità ematica.
In generale, la pressione in animali (sia cani che gatti) svegli e in stazione quadrupedale non supera i 160/100 mm/Hg ma la misurazione in pazienti agitati e non
cooperativi può determinare aumenti artefattuali causati dalla tachicardia e dall’aumento pressorio relativo. Il principale segno clinico associato a ipertensione arteriosa è dato dal distacco retinico e dalla cecità associata anche se il sanguinamento
nasale è stato riportato specialmente nel cane. Nella grande maggioranza dei casi
questo problema è secondario a malattie renali croniche, ipercorticosurrenalismo e
ipertiroidismo ma sono stati segnalati casi di ipertensione primaria nel cane; il sanguinamento in genere deriva da una aumentata fragilità capillare associata all’aumentata pressione intravasale.
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Nella sindrome da iperviscosità secondaria a policitemia o iperglobulinemia
l’emorragia deriva da un rallentamento del flusso ematico con conseguente distensione e ingorgo dei piccoli vasi sanguigni e dei capillari che possono rompersi causando
sanguinamento. La policitemia può essere primaria oppure secondaria; nel primo caso deriva da una malattia mieloproliferativa nella quale si verifica una replicazione
clonale di elementi eritroidi non dipendente dall’attività dell’eritropoietina mentre la
policitemia secondaria deriva da un aumentata produzione di eritropoietina causata da
ipossia tissutale sistemica (insufficienza cardiorespiratoria), ipossia renale oppure
neoplasie eritropoietina-secernenti. Il mieloma multiplo e alcune malattie infettive
(erlichiosi) possono causare un aumento notevole delle globuline tale da determinare
un incremento marcato della viscosità ematica. Non va dimenticato che queste malattie causano molto più spesso segni clinici riferibili a una malattia neurologica (convulsioni, tremori, modificazioni comportamentali), specialmente nei gatti.
CAUSE LOCALI DI EPISTASSI
I sanguinamenti nasali che derivano da una malattia locale sono spesso associati o
preceduti da scolo nasale di tipo sieroso, mucoso o catarrale e nella storia clinica degli animali che vengono portati a visita per questo tipo di problema quasi invariabilmente sono segnalati rumori respiratori e atteggiamenti quali starnuti, russamento,
starnuto inverso, facile affaticamento, respirazione a bocca aperta, tutti elementi che
concorrono nel circoscrivere alle cavità rinosinusali e/o al rinofaringe l’origine del
problema.
Le cause locali di sanguinamento nasale sono molto più frequenti di quelle descritte nei paragrafi precedenti: nella mia personale casistica il rapporto è di circa 20
casi di sanguinamento endonasale contro 1 di sanguinamento da causa sistemica. Non
frequentemente coesistono nello stesso paziente elementi diagnostici che fanno ipotizzare la concomitanza di cause locali e cause sistemiche: ad esempio, in caso di sanguinamento nasale in cane con leishmaniosi le cause possono essere sia locali (ulcere mucosali) che sistemiche (iperviscosità per ipergammaglobulinemia, piastrinopenia, pastrinopatia).
Le principali cause di sanguinamento da cause endonasali sono rappresentate da
neoplasia, micosi rinosinusa, corpo estraneo inalato, rinite linfoplasmacellulare e
trauma rinosinusale.
A differenza di quanto spesso ritenuto, un lavoro retrospettivo svolto su 176 con
epistassi ha evidenziato come la presentazione con emorragia unilaterale non rappresenti un elemento affidabile a sostegno di un problema locale perché oltre le metà dei cani con una causa sistemica mostrava sanguinamento monolaterale; lo stesso
dicasi per l’insorgenza acuta del problema, generalmente ritenuta indicativa di una
malattia sistemica e infatti nello stesso lavoro il numero di cani con emorragia insorta da meno di 2 settimane era simile sia quando la causa era locale che quando la
causa era sistemica.
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DIAGNOSI
L’approccio diagnostico in pazienti con rinorragia deve sempre essere esteso, anche quando la causa sembra ovvia; unica importante eccezione è il trauma seguito da
emorragia in animali in precedenza clinicamente sani.
Le indagini laboratoristiche devono necessariamente comprendere valutazioni
ematobiochimiche e delle urine, un profilo coagulativo comprendente tempo di protrombina, tempo di tromboplastina parziale attivata, fibrinogeno, antitrombina e D-dimeri, sierologia per le principali malattie infettive potenzialmente causa di problema
coagulativo sistemico (Leishmania, Ehrlichia ed Anaplasma nel cane, FIV e FeLV nel
gatto); a questo è importante aggiungere la misurazione della pressione arteriosa e almeno una radiografia toracica in proiezione laterolaterale.
Se i risultati degli esami non permettono di diagnosticare malattie possibili cause
dell’emorragia e se il paziente è in grado di sopportare una anestesia generale, l’indagine procede con uno studio di diagnostica per immagini delle cavità nasali attraverso radiografie in tre proiezioni o, meglio, tramite tomografia computerizzata; a
queste, durante la stessa procedura anestesiologica, segue l’esame rinoscopico anterogrado e retrogrado che si conclude con campionamenti per esami cito-istologici.
Questo complesso iter diagnostico dovrebbe consentire al clinico di identificare la
causa della rinorragia; il condizionale però è d’obbligo. Nel lavoro sopra citato infatti, su 176 casi di emorragia nasale una diagnosi conclusiva fu ottenuta in 109 casi
mentre in 67 casi (pari al 38%) non si riuscì ad identificare alcuna causa per il problema clinico.
In caso di sanguinamento intermittente da causa non nota alcuni autori suggeriscono la rinotomia esplorativa, associata ad asportazione dei turbinati nasali da sottoporre ad esame istologico. Gli stessi autori sostengono che questo approccio permette di risolvere la maggior parte di questi frustranti e gravi problemi clinici.
GESTIONE DELL’EMERGENZA DEI CASI DI EPISTASSI ACUTA
Se il paziente viene portato a visita per una emorragia nasale grave e acuta difficilmente sarà visitabile in maniera adeguata perché questi animali si trovano in uno
stato di eccitazione associata a starnuto continuo e a volte tosse per aspirazione di
sangue; i tentativi di contenere il cane per visitarlo avranno come unico risultato quello di aumentare l’agitazione e il sanguinamento. In questi casi preferisco cercare di
tranquillizzare l’animale evitando di toccarlo e cercando di raccogliere dal proprietario tutte le informazioni che possono darmi una idea sulle cause del problema: se il
cane o il gatto ha accesso libero e non controllato all’ambiente esterno, se si tratta del
primo episodio di rinorragia o se ne sono stati notati altri in precedenza, se sono state fatte terapie recenti per malattie di qualsiasi natura, se era presente scolo di altra
natura, se l’animale aveva manifestato rumori respiratori quali starnuto, stertore, russamento, se è presente respiro a bocca aperta, se sono state notati sanguinamenti da
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altri distretti o feci di colore nerastro. Se durante questo periodo non diminuisce o
cessa il sanguinamento è opportuno sedare l’animale con una iniezione intramuscolare di acepromazina (20-30 µg/kg ev comunque da somministrarsi sulla base del protocollo anestesiologico impiegato) che ha il doppio vantaggio di tranquillizzare il paziente e contemporaneamente di diminuire la pressione arteriosa così da bloccare
l’emorragia. È possibile ripetere la somministrazione del farmaco dopo 4 ore in modo da avere un più lungo effetto sedativo. In casi estremi di sanguinamento non controllabile nemmeno con l’acepromazina è indicata una anestesia con propofolo o pentothal seguita da intubazione e accurata cuffiatura; con l’animale così anestetizzato
inserisco dei lunghi tamponi nel tentativo di bloccare il sanguinamento ed eventualmente appoggio sul dorso del naso uno o due siberini avvolti da una spugna. In alternativa utilizzo un catetere di Foley il cui pallone viene gonfiato in modo da esercitare una forte pressione sulla zona di emorragia; circa ogni 10-15 minuti sgonfio gradualmente il pallone così da verificare se l’emorragia si è arrestata accertandomi con
l’ispezione del cavo orale che il sanguinamento non sia ancora attivo in direzione retrograda, allagando il faringe. In questa fase si eseguono i prelievi del caso mentre in
genere risultano poco utili radiografie o tomografia poiché i coaguli possono simulare neoplasie o infiltrati di altra origine.
Nei rari casi in cui nemmeno questo sia efficace e il paziente sia a rischio di vita è
indicato un intervento chirurgico per eseguire la legatura dell’arteria carotide esterna
omolaterale.
In sintesi:
– le cause di emorragia nasale possono essere sistemiche o locali anche e queste ultime sono molto più frequento delle prime;
– anche quando la causa di sanguinamento sembra ovvia è necessario eseguire sempre un protocollo diagnostico esteso al fine di evidenziare eventuali processi patologici concomitanti o causali;
– nonostante un approccio diagnostico approfondito è possibile che la causa dell’emorragia nasale resti non svelata.
Bibliografia
Mylonakis ME, Saridomichelakis MN, Lazaridis V et al. A retrospective study of 61 cases of
spontaneous canine epistaxis (1998 to 2001). J Small Anim Pract. 2008 Apr; 49(4):191-6.
Petanides TA, Koutinas AF, Mylonakis ME et al. Factors associated with the occurrence of epistaxis in natural canine leishmaniasis (Leishmania infantum). J Vet Intern Med. 2008 JulAug; 22(4):866-72.
Bissett SA, Drobatz KJ, McKnight A et al. Prevalence, clinical features, and causes of epistaxis in dogs: 176 cases (1996-2001). J Am Vet Med Assoc. 2007 Dec 15; 231(12):1843-50.
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Il cane con collasso
tracheale:
terapia conservativa
o è necessario
qualcosa di più
invasivo?
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Il collasso tracheale (CT) è una patologia caratterizzata da un appiattimento in senso dorso-ventrale degli anelli tracheali, associato a notevole lassità della membrana
tracheale dorsale.
L’anomalia primaria consiste nella diminuzione, evidenziabile istologicamente,
delle glicoproteine e del contenuto in glicosaminoglicani della cartilagine ialina; questo si traduce in una diminuita capacità della cartilagine di trattenere acqua con conseguente diminuzione della sua rigidità funzionale. L’idea che alla base sia presente
una predisposizione genetica e che il difetto sia congenito è sostenuta dal fatto che in
alcuni animali il problema si manifesta in giovanissima età, entro l’anno di vita. Fra
i possibili fattori scatenanti si citano l’obesità, la cardiomegalia, i traumi al collo, l’intubazione, l’inalazione di allergeni irritanti.
Il CT è una patologia dinamica, quando il collasso è confinato al tratto cervicale lo
schiacciamento tracheale si manifesta in fase inspiratoria mentre se il collasso è presente a livello intratoracico, la riduzione del diametro si evidenzierà in fase espiratoria. Quando tutta la trachea è interessata, vi sarà sempre un tratto tracheale collassato, sia in inspirazione che in espirazione. La membrana tracheale dorsale contribuisce
ad aggravare i segni clinici, venendo risucchiata durante il collasso degli anelli e determinando ulteriore ostruzione del lume tracheale; sia la maggiore velocità dell’aria
attraverso la struttura deformata che il contatto della membrana con gli anelli e della
parte superiore ed inferiore degli anelli stessi determina infiammazione mucosale con
sua conseguente iperplasia e aumentata secrezione.
Il CT colpisce quasi esclusivamente razze toy e cani di piccola taglia; fra le razze
più colpite ricordiamo lo yorkshire terrier, il barboncino toy, il pinscher, il chihuahua.
L’età alla quale i cani vengono portati a visita per CT è 6-7 anni anche se l’indagine
anamnestica evidenzia presenza di tosse progressivamente ingravescente già presente anche da anni. In circa il 25% dei pazienti la tosse era già presente entro il primo
anno di vita.
La tosse rappresenta il segno clinico principale: episodi parossistici, scatenati da
eventi quali eccitazione, attività fisica anche molto modesta, trazione del guinzaglio
sul collare. È presente tosse secca, aspra e sonora, a volte simile al verso di un’anatra
anche se questa caratteristica non è presente che in una piccola percentuale di casi. In
casi gravi agli accessi di tosse seguono episodi di grave dispnea fino alla cianosi. Comunque pazienti con collasso tracheale anche grave possono essere quasi completamente asintomatici: è importante sottolineare come il quadro clinico non sempre si
correla con la gravità della deformazione tracheale e che, per questo, la classificazione in gradi del collasso è di limitata utilità.
Il collasso tracheale viene diviso in 4 gradi, a seconda della riduzione di diametro
del lume tracheale: il primo grado non presenta in realtà una deformazione degli anelli, ma piuttosto un prolasso della membrana tracheale dorsale; gli altri gradi sono associato ad un sempre più evidente schiacciamento degli anelli.
La diagnosi di collasso tracheale può essere eseguita con varie tecniche: l’esame
radiografico consente di sospettare il problema ma sono possibili falsi positivi e falsi
negativi; in particolare non di rado l’esofago e la muscolatura del collo si sovrappon-
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gono in posizione laterolaterale alla silhouette tracheale, in corrispondenza dell’ingresso del torace dando un quadro radiografico simile a quello del CT. La diagnosi
radiografica di vero CT deriva dal confronto fra larghezza tracheale in fase inspiratoria e fase espiratoria. L’esame radiografico risulta fondamentale per evidenziare altri
problemi concomitanti quali alterazioni polmonari, masse, cardiomegalia, megaesofago. La fluoroscopia permette di ovviare a questi limiti dando una visione dinamica
e abbastanza precisa del difetto sia cervicale che toracico. L’esame ecografico può
mettere in evidenza un’alterazione dinamica della trachea; si tratta di un esame comunque poco utilizzato e non utile se il problema risulta essere intratoracico. L’esame endoscopico rappresenta la tecnica di scelta, eseguito con il paziente anestetizzato e non intubato, collo esteso, testa leggermente sollevata e apribocca applicato. Può
essere utilizzato sia uno strumento rigido che un’ottica flessibile.
La terapia del CT varia a seconda della presentazione clinica:
– presentazione acuta: il cane che si presenta con distress respiratorio acuto deve
essere considerato un’emergenza medica ed ogni indagine deve essere rimandata
dopo la sua stabilizzazione;
– presentazione cronica: il problema clinico principale dei cani con collasso tracheale è la tosse e la terapia si basa sul suo controllo farmacologico e le sostanze
più efficaci sono sedativi oppioidi. L’impiego di broncodilatatori è controverso.
I cortisonici vanno usati con estremo giudizio e solamente per ridurre l’eventuale
infiammazione presente a livello laringeo e tracheo-bronchiale.
Altre possibili cause scatenanti che devono essere controllate sono le patologie cardiache, le infezioni concomitanti, le polveri e gli irritanti ambientali ed il collare che
deve essere sostituito con una pettorina.
L’uso di Stanozololo (Stargate®) non è mai stato supportato da lavori scientificamente rigorosi e deve essere considerata, fino a prova contraria, destituita di ogni
fondamento.
In presenza di grave sintomatologia che non risponde alle terapie sopra descritte,
è possibile attuare procedure chirurgiche che possiamo definire come “salvavita”.
L’applicazione chirurgica extratracheale di protesi ad anello risulta utile solo in casi
selezionati e per il CT cervicale.
Recentemente sono state impiegate tecniche di dilatazione intraluminale con l’impiego di stent a rete non ricoperta di acciaio o nitinolo (lega di nichel e titanio). Il vantaggio di questa procedura risiede nella facile applicazione, che non richiede un intervento chirurgico e nell’immediato miglioramento clinico che segue l’applicazione
dello stent. I principali svantaggi stanno nella relativa fragilità e nella impossibilità di
una loro rimozione dopo l’applicazione; complicazioni secondarie alla non corretta
scelta delle misure dello stent e ad un suo non adeguato posizionamento sono date da
iperplasia mucosale fino alla formazione di granulomi con conseguente ulteriore riduzione del diametro tracheale. I pazienti devono essere selezionati con cura, è importante escludere quelli che presentano bronchite cronica, polmonite, cardiopatie
congestizie, neoplasie polmonari, filariosi cardiopolomonare; in questi casi la tosse
determinata da queste patologie può causare la rottura dello stent. Prima di applicare
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uno stent è necessario definire bene con il proprietario le aspettative sulla qualità di
vita del proprio animale ed è bene ricordare che comunque si tratta di animali che dovranno essere sottoposti a terapia farmacologica spesso nell’arco della loro vita.
Al loro posto, nei pazienti umani, vengono routinariamente utilizzate protesi siliconiche, applicate sotto visione endoscopica diretta e con appositi introduttori rigidi
a stantuffo.
La protesi di Dumon, in medicina umana, è la più usata al mondo ed è costituita
da silicone morbido con rilevatezze regolarmente distribuite sulla sua superficie esterna, che ne facilitano l’ancoraggio. È presente in diverse lunghezze variabili fino a 7
cm e in diametri da 10 a 18 mm (diametro esterno) e con diversi gradi di rigidità. Ne
esiste inoltre un modello radiopaco. Gli speroni prevengono la migrazione e limitano
il contatto con la mucosa respiratoria. La superficie interna è ricoperta da un rivestimento antiaderente per ridurre il ristagno di secrezioni. I bordi alle estremità sono levigate per evitare sbavature che, avendo azione irritante, potrebbero causare granulomi. Tale protesi, rispetto alle precedenti al nitinolo non ricoperte, possono essere facilmente rimosse e riposizionate con pinze da corpo estraneo. Le principali complicanze, riportate in medicina umana, nell’utilizzo delle Dumon sono: la migrazione
(2,8%-18,6%), la formazione di granulomi (1%-18,9%) e l’ostruzione da secrezioni
(1%-30,6%). I dati riportati in letteratura dimostrano ampie variazioni legate alla diversa tipologia di patologie trattate. Complicanze rare sono l’ostruzione da tumore,
l’infezione, lo shock settico e l’afonia. Le complicanze sono più frequenti nei pazienti
con stenosi benigne rispetto a quelli con patologia neoplastica. Le protesi siliconiche
hanno, a differenza delle metalliche auto espandibili, un diametro fisso e pertanto
possono migrare soprattutto in presenza di una mucosa liscia; in genere la migrazione è un evento precoce dopo il posizionamento.
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Diagnostic approach
to canine dysphagia
and disorders
of the esophagus
Venerdì 23 Ottobre 2015
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Dysphagia is defined as an abnormality in swallowing, and is frequently a diagnostic challenge for veterinarians. The causes of dysphagia may be secondary to either a neurologic or muscular disturbance of the swallowing reflex (functional) or secondary to strictures, traumatic injury, foreign bodies, or neoplastic processes (structural) involving the oropharyngeal region or esophagus. The swallowing reflex involves a coordinated process involving the tongue, hard and soft palate, pharyngeal
muscles, esophagus, and gastroesophageal junction. The swallowing reflex is also dependent on normally functioning striated muscle and neuromuscular transmission, the
integrity of the trigeminal, facial, glossopharyngeal, vagus, and hypoglossal nerves,
their nuclei in the brainstem, and the swallowing center in the reticular formation of
the brain.
Dysphagia is a relatively common sign in dogs and is less commonly seen in cats.
The animal’s signalment is important to consider as dysphagic puppies and kittens
and younger dogs or cats can be diagnosed with a variety of congenital disorders causing abnormal swallowing. In addition, caution must be heeded in differentiating clinical signs of dysphagia, regurgitation, vomiting, retching, and gagging. Failure to
differentiate these signs during the clinical examination can result in inappropriate
diagnostic testing and a likely misdiagnosis.
Key Point - It is important to remember that dysphagia is not a specific disease,
but a clinical sign caused by a variety of functional and structural disorders affecting the swallowing reflex.
ANATOMICAL LOCALIZATION OF DYSPHAGIA
Dysphagia may be further classified based on cineradiographic analysis according
to the anatomic area in which the swallowing dysfunction originates. Patients affected by oropharyngeal dysphagia make exaggerated swallowing movements and food will usually drop from the mouth within seconds of prehension. In contrast, esophageal dysphagia results in more delayed regurgitation and is usually not associated with exaggerated swallowing movements. Gastroesophageal dysphagias are
well documented in people, and are being increasingly recognized in dogs and cats
secondary to hiatal hernias and decreased tone in the lower esophageal sphincter. Table 1 contains a list of differential diagnoses for disorders affecting each of the anatomical regions affecting the swallowing reflex.
DIAGNOSIS OF SWALLOWING DISORDERS
1) History: The age of onset of the dysphagia and the breed should be determined.
Congenital problems are usually due to idiopathic megaesophagus or vascular ring
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TABLE 1
Anatomic localization
Differential diagnoses
Oropharyngeal dysphagias
Oral phase
Cranial nerve V, VII and XIII dysfunction, skull fractures,
oral masses or foreign bodies
Pharyngeal phase
Pharyngeal abscess, foreign body or mass, Cranial nerve V,
VII, X, and IX dysfunction resulting in pharyngeal
paresis/paralysis
Cricopharyngeal phase
Cricopharyngeal achalasia, cricopharyngeal dysynchrony
Esophageal dysphagias
Primary (idiopathic) megaesophagus, secondary
megaesophagus, esophageal stricture, mass, granuloma,
foreign body, extra-esophageal compression, esophageal
diverticulum
Gastroesophageal dysphagias
Hiatal hernia, periesophageal hernia, gastroesophageal
intussusceptions, reflux esophagitis
anomalies, but occasionally foreign bodies or cricopharyngeal dysphagia will be
diagnosed. If the patient shows signs of dysphagia in adulthood, the likelihood of
a recent anesthesia or exposure to caustic chemicals, foreign bodies, or toxic
agents should be evaluated. Gastroesophageal reflux is a relatively common phenomenon in anesthetized patients, and can result in secondary esophagitis with potential stricture formation. Reports of concurrent muscle weakness or neurologic
disorders should alert the clinician to an extraesophageal disease process that may
underlie the esophageal disease. Information regarding the animal’s ability to retain liquids, soft food, or solid food should be obtained. It is essential to obtain an
accurate description of the dysphagia.
2) Physical Exam: This must include careful examination of the pharynx (using sedation or anesthesia if necessary). The pharynx and neck should be carefully palpated for masses, asymmetry, or pain. The chest should be carefully auscultated for
evidence of inhalation pneumonia. Evaluation of cranial nerves should be performed including assessment of tongue and jaw tone, and abduction of the arytenoid
cartilages with inspiration. Complete physical and neurological examination may
identify clinical signs supportive of a generalized neuromuscular disorder, including muscle atrophy, stiffness, or decreased/absent spinal reflexes.
Key Point - One of the most valuable diagnostic tests in dysphagic animals is to
observe the animal ingesting whatever food (or liquid) the animal has difficulty
swallowing. Close observation will usually separate dysphagia into oral, pharyngeal, cricopharyngeal, or esophageal causes.
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3) Cervical and Thoracic Radiographs: The pharynx of normal animals is evident
on radiographs because it is air filled. The size of the air-filled space can be decreased by local inflammation or neoplasia, laryngeal edema, or elongation of the
soft palate. Pharyngeal size can also appear increased with dysfunction of the pharynx or upper esophageal sphincter, chronic respiratory (inspiratory) disease, and
chronic severe megaesophagus. The normal esophagus is not visible on survey radiographs. An exception occurs following aerophagia due to excitement, nausea,
dyspnea, or anesthesia.
4) Barium Contrast Videofluoroscopy: Videofluoroscopy can define normal pharyngeal and upper esophageal anatomy (Figure 1) and is used to evaluate and classify functional oropharyngeal dysphagias. The animal is fasted for 12 hours prior
to the procedure and survey radiographs of the thorax and cervical region are obtained to rule out gross abnormalities. The patient is then placed in lateral or sternal recumbency on the fluoroscopy table. Liquid barium sulfate suspension is administered orally in small (5-15 ml) boluses and at least 3 swallows should be observed. At least 1 bolus should be followed all the way to the stomach. Recording
the study and performing frame-by-frame analysis can provide quantitative measures of swallowing function in subtle or debatable cases of asynchronous UES
opening. The normal timing of the swallowing act has been reported. Barium soaked kibble should also be given orally and bolus propulsion observed fluoroscopically so as to rule out a functional abnormality that allows liquid passage but affects swallowing of solid foods.
Key Point - A dynamic study utilizing videofluoroscopy is essential to diagnose disorders affecting the cricopharyngeal stage of swallowing.
Figure 1
A single fluoroscopic frame of a
normal dog is shown to define
the normal pharyngeal
anatomy.
1 = nasopharynx,
2 = soft palate,
3 = base of tongue,
4 = epiglottis,
5 = trachea,
6 = upper esophageal sphincter,
7 = cranial esophagus.
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5) Endoscopy (esophagoscopy) with either a rigid or flexible fiberoptic scope is an
important tool for evaluating esophageal disease. Foreign bodies can be visualized
and retrieved, strictures can be ballooned, and esophageal biopsies can also be procured for histologic confirmation of suspected esophagitis.
6) Esophageal manometry is a useful technique to evaluate esophageal pressure and
motor function. It is utilized extensively in human medicine and on research animals, but has not been widely applied in clinical veterinary medicine.
7) Electromyography (EMG) can be helpful in localizing the dysphagia and evaluating myopathic causes of dysphagia.
8) Muscle biopsy is an invaluable diagnostic tool for confirming myopathic causes
of dysphagia.
SPECIFIC DISEASES OF THE ESOPHAGUS
(A) Megaesophagus
Generalized loss of motor function to the esophagus results in dilatation and loss
of normal peristaltic motility. As a result, food and fluid accumulate in the esophagus.
Idiopathic megaesophagus is the most common type of megaesophagus in the
dog and cat. The syndrome may be manifested either in puppies at the time of weaning or in adulthood. The etiology of idiopathic megaesophagus is unknown. The congenital form of the disease may be due to a delay in maturation of the esophageal neuromuscular system; a theory that explains why young dogs may improve with careful
feeding management. Idiopathic megaesophagus has been shown to be inherited in
the wire-haired fox terrier and the miniature schnauzer. A breed predisposition also
exists for the German Shepherd, Great Dane and Irish Setter. The site and pathogenesis of the lesion in idiopathic megaesophagus is unknown. Suggested hypotheses
include abnormalities of the afferent limb of the reflex arc (receptors, neurons) or of
the swallowing center in the CNS. Idiopathic megaesophagus may also occur rarely
in the cat.
Secondary megaesophagus may result from a large number of systemic diseases
including, myasthenia gravis, SLE, polymyositis, polymyopathies, dermatomyositis,
polyneuropathies, dysautonomia, botulism, distemper, neoplasia, brain stem disease,
lead and thallium toxicity, Addison’s disease, hypothyroidism, pituitary dwarfism,
and thymoma. Many obstructive esophageal diseases (neoplasia, granuloma, vascular
ring anomaly, stricture, periesophageal masses and foreign bodies) can also lead to
megaesophagus if they are of sufficiently chronic duration.
Dogs with megaesophagus usually present for regurgitation which often occurs immediately or several hours after eating. The food is undigested and usually has an alkaline pH. Dysphagia is not generally present. Anorexia, drooling, and pain on swal-
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lowing may be seen secondary to esophagitis which can develop due to the accumulation of food in the esophagus. Animals with megaesophagus are predisposed to
aspiration pneumonia.
Key Point - Reliance on the timing of the regurgitation event in relation to the ingestion of a meal must be interpreted with caution, as many dogs can regurgitate
many hours following a meal.
Diagnosis: Megaesophagus is diagnosed based on the history, clinical signs, and
thoracic radiography. Survey thoracic radiographs may be diagnostic if the cervical
esophagus is dilated by air or if the thoracic esophagus contains large amounts of food or fluid. Dogs that are excited or animals that are anesthetized frequently have air
in the esophagus which is a normal phenomenon. Positive contrast studies utilizing
fluoroscopy may be required to confirm esophageal dysfunction and to evaluate esophageal motility. Enlargement of the proximal esophagus with normal function of the
distal esophagus suggests a vascular ring anomaly or esophageal stricture. Once a
diagnosis of generalized megaesophagus is confirmed, diagnostic testing should be
performed to establish an underlying etiology if possible.
Diagnostic tests that should be considered to evaluate animals with generalized
megaesophagus include a complete blood count, biochemical panel, urinalysis, blood lead level, creatine kinase concentration, acetylcholine receptor antibody test
(for evaluation of myasthenia gravis), and evaluation of adrenal and thyroid gland
function.
Key Point - It is important to recognize that some dogs with focal myasthenia gravis (diffuse megaesophagus diagnosed on thoracic radiographs) can have a normal acetylcholine receptor antibody test at initial testing, and have an abnormal
(positive) acetylcholine receptor antibody test when repeated 2-3 months later.
It is the authors belief that repeat testing is important in dogs, as many dogs with
atypical focal myasthenia gravis have been misdiagnosed with idiopathic megaesophagus on the basis of a single normal acetylcholine receptor antibody test. Additional diagnostic procedures that can be performed based on the animal’s signalment, history, and neurological examination include an EMG, nerve conduction velocities,
and muscle biopsies. Videofluoroscopy is essential for the diagnosis of functional
esophageal disorders (esophageal dysmotility) not associated with esophageal dilation and has some prognostic value in megaesophagus via assessment of the severity
of peristaltic dysfunction. Esophagoscopy is less reliable than radiography and fluoroscopy, although it can be used to rule out underlying causes of megaesophagus such
as esophagitis, neoplasia, and radiolucent foreign bodies.
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Medical management of generalized megaesophagus involves modification of
feeding practices. Dogs with megaesophagus generally tolerate a liquid or semiliquid gruel better than solid food. Feeding from an elevated position allows gravity to help move the liquid into the stomach. If possible the animal should be held
in a vertical position for 5-10 minutes after eating. Multiple feedings rather than
one large single meal may also help minimize food accumulation in the esophagus. We have successfully placed low-profile-gastrostomy tubes for feeding in many dogs with idiopathic megaesophagus in an effort to minimize aspiration pneumonia. The silicon tubes used are extremely durable and are usually replaced on a
yearly basis. The frequency of aspiration pneumonia has been markedly reduced
in comparison to oral feeding and this therapeutic modality should be considered
when a client is willing to dedicate the time to tube maintenance and feeding. The
prognosis for dogs with megaesophagus is very variable depending upon the underlying etiology, the degree of dysfunction and the systemic status of the dog. The
long-term prognosis is poor in most cases, although some cases can be managed
successfully for years. The prognosis is improved if treatment of an underlying disease is possible.
(B) Esophageal obstruction
Esophageal obstruction may be intraluminal, intramural or periesophageal.
Most intraluminal obstructions are caused by foreign bodies, most commonly bones and fish hooks. Objects tend to become caught in the thoracic inlet, at the base
of the heart and at the diaphragmatic hiatus, which are the areas of least distensibility. Since foreign bodies stimulate peristalsis, severe ulcerative esophagitis, esophageal perforation (causing pleuritis or mediastinitis) or stricture formation can be
the result.
The clinical signs of an esophageal foreign body include anorexia, adipsia, lethargy, hypersalivation, and drooling. Occasionally regurgitation is observed. A definitive diagnosis is made by radiography. Most commonly survey radiographs are adequate, however radiolucent objects may require barium swallow for visualization. Barium should not be given if esophageal perforation is suspected, because this can cause granulomas if it leaks into the mediastinum. In this case an iodinated compound
should be administered, or endoscopy should be utilized to visualize the foreign body. If available, endoscopic diagnosis is preferable to barium contrast studies, even if
perforation is not suspected, since diagnosis and removal can often be accomplished
in one step.
Treatment involves removal of the foreign body by either endoscopy or surgery.
Endoscopy is the technique of choice unless the object is deeply embedded, or has
perforated through the esophageal wall. Complications associated with esophageal
foreign bodies include mediastinitis secondary to perforation, aspiration pneumonia,
stricture formation or segmental hypomotility.
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Intramural esophageal obstruction is usually a result of stricture formation.
Strictures develop when esophageal erosions extend into the muscle layer of the esophagus stimulating the production of fibrous tissue. Esophageal foreign bodies and
reflux esophagitis which may occur during abdominal surgery are the usual causes of
stricture formation. The primary clinical sign associated with esophageal stricture is
regurgitation. Diagnosis relies on positive contrast radiography and endoscopic visualization. Esophageal dilatation may occur cranial to the stricture and abnormal
esophageal motility may also occur.
Treatment of esophageal stricture(s) can be challenging. Medical treatment involves
decreasing esophagitis by feeding the animal through a gastrostomy tube and dilatation of the stricture using balloon catheter dilators (passed through an endoscope under direct vision, or under fluoroscopic guidance). Esophageal strictures may require
repeated dilation at 3 to 4 day intervals for up to 6 procedures to prevent restricturing.
Some authors recommend administration of intralesional corticosteroids given at antiinflammatory doses after dilation to inhibit the formation of new fibrous connective
tissue. While total resolution of strictures is not usually possible, clinical signs can
usually be kept to a minimum by dietary manipulations such as feeding a liquefied diet.
Sucralfate (Carafate) is a basic aluminum salt of a sulfated disaccharide that binds selectively to proteins at the ulcer site by way of electrostatic interactions. Sucralfate is
an excellent drug to help manage patients with strictures associated with esophagitis.
An H2-receptor antagonist such as famotidine or preferably a more potent antacid such
as omeprazole are frequently administered to increase the intragastric pH, and minimize esophageal mucosa damage from refluxed gastric juice. Surgical resection should
be reserved for those cases in which no response is seen to medical treatment, or when
the lesion is very near to the gastroesophageal junction.
Peri-esophageal causes of esophageal obstruction include inflammation, neoplasia, severe cardiomegaly, hilar lymphadenopathy and vascular ring anomalies.
The most common vascular ring anomaly is persistent right aortic arch (PRAA). In
this anomaly the aortic arch develops from the right rather than the left fourth aortic
arch. As a result the esophagus becomes constricted by a ring formed by the aorta on
the right, the pulmonary artery on the left, the ligamentum arteriosum dorsally and the
trachea ventrally. Irish Setters, German Shepherd dogs, and Boston Terriers are the
most commonly affected by PRAA. PRAA has also been reported rarely in the cat.
Food is unable to pass through the vascular ring and accumulates in the cranial esophagus, causing dilatation and loss of esophageal motility. Clinical signs of regurgitation and poor weight gain are first observed when puppies are weaned onto solid food. Diagnosis is by positive contrast radiography which usually reveals esophageal
dilation cranial to the base of the heart and a normal esophagus caudal to the heart.
Therapy involves surgical resection of the ligamentum arteriosum, however irreversible esophageal damage may cause some clinical signs to persist in 67% of cases. No
improvement is seen in 24% of cases.
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(C) Esophagitis
Inflammation of the esophagus may result from the ingestion of caustic agents,
chronic vomiting, foreign body obstruction or reflux esophagitis. Reflux esophagitis results from loss of competency of the gastroesophageal sphincter (lower esophageal sphincter) and subsequent reflux of gastric contents and acid into the distal esophagus. The etiology is not known although translocation of the abdominal section of
the esophagus (which is responsible for maintaining a competent gastroesophageal
sphincter) into the thorax has been suggested as a cause. This can occur due to neuromuscular disease, neoplasia, hiatal hernias, abdominal surgery, pharyngostomy tube placement, or protracted vomiting. Reduced gastroesophageal sphincter tone has
also been reported in dogs with megaesophagus, with inspiratory dyspnea, and following the administration of a number of drugs. Lastly, animals that are under general
anesthesia are at increased risk for gastroesophageal reflux, as many of the induction
agents decrease the lower esophageal sphincter pressure, and the position of the animal increases the likelihood of reflux.
Clinical signs of esophagitis are dependent on the severity of the inflammation.
With mild inflammation no clinical signs or just intermittent regurgitation may be evident. With severe inflammation, anorexia, adipsia, hypersalivation, depression, regurgitation, odynophagia (painful swallowing), and weight loss may be seen.
Diagnosis: Positive contrast radiography will often reveal random and uncoordinated esophageal contractions. Barium tends to move easily in both the oral and aboral directions and is frequently retained in the inflamed portions of the esophagus. Occasional gastroesophageal reflux in normal dogs is not considered abnormal if the refluxed ingesta is rapidly returned to the stomach. Definitive diagnosis of esophagitis
requires endoscopy and esophageal biopsy which can be obtained with endoscopy
biopsy forceps. Gross mucosal findings include mucosal erythema, edema, ulceration
and hemorrhage.
Therapy for esophagitis involves removing the underlying cause if possible, discontinuation of oral feeding for 24 - 48 hours (for severe esophagitis), followed by
small frequent feedings of a fat-restricted diet and neutralization or inhibition of gastric acid secretion. Oral antacids, such as amphogel, basojel, or digel are not recommended, as they need to be given up to six times a day to prevent rebound gastric acid
hypersecretion. H2-receptor antagonists such as ranitidine or famotidine are moderately effective in reducing parietal cell acid secretion; however, proton pump inhibitors
such as omeprazole are superior to H2-blockers for animals with severe esophagitis.
Prokinetic agents such as cisapride can be used to increase lower esophageal sphincter pressure and increase gastric emptying.
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Key Point - Cisapride should NOT be used in dogs with megaesophagus as the
drug only works on smooth muscle. Because the entire length of the canine esophagus is composed of striated muscle, cisapride would have no effect on the esophagus in a dog with megaesophagus, but would tighten the lower esophageal
sphincter (which contains smooth muscle fibers), which could have disastrous
consequences.
The diffusion-barrier drug, sucralfate is also valuable in managing patients with severe esophagitis as the drug will coat ulcerated mucosa and act as a barrier. A combination of cisapride, sucralfate, and omeprazole is very effective in the management
of severe esophagitis caused by persistent vomiting, gastroesophageal reflux, foreign
body induced trauma and surgical manipulations.
(D) Esophageal Neoplasia
Neoplasia of the esophagus is very rare in small animals. Leiomyomas, carcinomas, and sarcomas have been reported. In the southeastern portions of the United States, Spirocerca lupi infections can induce fibrosarcomas and osteosarcomas in the
esophagus.
SPECIFIC DISEASES OF THE GASTROESOPHAGEAL REGION
Gastroesophageal dysphagias may present with clinical signs of regurgitation, hematemesis, or respiratory distress. Cranial abdominal pain may also be found. Barium
contrast videofluoroscopic esophagography can help diagnose and differentiate between many of these disorders.
Key Point - Transient lesions such as hiatal hernias and gastroesophageal reflux
may manifest intermittently and often require extended fluoroscopic surveillance
to document.
Although videofluoroscopy is a worthwhile diagnostic procedure in these cases, in
our experience, intermittent lesions are frequently missed. Various types of hiatal hernias have been reported in dogs and cats, including the type 1 or sliding hernia, in
which the gastroesophageal junction lies within the thoracic cavity. In type 2, or paraesophageal hiatal hernia, the gastric fundus or other abdominal viscera are displaced through the hiatus and located in the thoracic cavity, but the gastroesophageal junction is in a normal position. In type 3 or mixed hiatal hernias, characteristics of type
1 and 2 are observed. Type 4 is a type 3 complicated by stomach or other abdominal
viscera being located in the paraesophageal sac. The sliding hiatal hernia is the most
commonly reported in the Shar pei, English Bulldog as well as in other dog breeds.
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Address for correspondence:
University of California, Davis, School of Veterinary Medicine
Davis, California, USA
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Canine protein
losing enteropathy:
is endoscopy
always necessary?
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Protein-losing enteropathy (PLE) is a syndrome caused by a variety of gastrointestinal diseases causing the enteric loss of albumin and globulin.1,2 Intestinal inflammation, infiltration, ulceration, blood loss, and primary or secondary lymphangiectasia are well documented causes of PLE (Table 1). If left untreated, the final outcome
of PLE is panhypoproteinemia with decreased intravascular oncotic pressure and the
development of abdominal and pleural effusion, peripheral oedema, and death. An
important sequel to PLE includes thromboembolic disease secondary to the loss of
antithrombin. Protein-losing enteropathy is uncommon in cats, and most cats with
PLE are diagnosed with intestinal lymphoma or severe IBD.
DIAGNOSTIC APPROACH
In some animals, weight loss is the only initial symptom of PLE because the syndrome can also occur in dogs without clinical signs of gastrointestinal disease.1 The
TABLE 1
Causes of Protein-Losing-Enteropathy (PLE).
A. Diseases affecting intestinal lymphatic drainage
Primary lymphangiectasia
• Congenital or idiopathic acquired
• Breed predisposition
– Yorkshire Terrier
– Maltese Terrier
– Norwegian Lundehund
– Soft Coated Wheaton Terrier*
– Poodle
Secondary lymphangiectasia
• IBD
• Neoplasia
• Congestion secondary to right-sided heart failure or portal hypertension
B. Acute or chronic inflammatory diseases that result in increased mucosal
permeability to protein
• Inflammatory bowel disease (eosinophilic or lymphoplasmacytic enteritis)
• Granulomatous enteritis (histoplasmosis, Pythiosis)
• Intestinal neoplasia, (lymphoma, carcinoma)
• Immunoproliferative enteropathy of Basenjis
• Parasitic enteritis in young animals
• Villous atrophy, gluten enteropathy, certain viral and bacterial enteritides
• Chronic obstruction or intussusception
C. Gastrointestinal Blood Loss
• Bleeding tumors
• Ulceration/erosion
• Intestinal parasites (Hookworms)
• Soft Coated Wheaton Terriers develop PLE and PLN (protein-losing nephropathy)
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signalment of the animal is important as certain breeds such as the Yorkshire Terrier,
Soft-Coated Wheaton Terrier, Norwegian Lundehund, and Basenji are predisposed to
PLE. Standard laboratory investigations include a complete blood count (CBC), serum biochemistry profile, and urinalysis. Lymphopenia is often associated with
PLE secondary to lymphangiectasia. Serum albumin and total protein should be carefully evaluated in all patients with a history of weight loss, anorexia, vomiting or
diarrhoea. Although PLE is typically associated with panhypoproteinemia, the absence of hypoglobulinemia does not preclude a diagnosis of PLE because there are numerous reasons for increased production of globulin in dogs (e.g., intestinal histoplasmosis or pythiosis). Additional abnormalities found on the serum biochemistry profile in association with PLE include hypocholesterolemia (secondary to malabsorption) and hypocalcemia. The causes for the hypocalcemia are multifactorial and include hypoalbuminemia (affects total calcium), decreased absorption of vitamin D,
and malabsorption of magnesium. Magnesium has been shown to be pivotal for the
activation of PTH in the parathyroid gland, increasing the renal and skeletal tissue responsiveness to PTH, and activation of vitamin D.3 Yorkshire terriers with PLE are
apparently 9.2 X more likely to develop hypomagnasemia and hypovitaminosis D
compared to other canine breeds.3 Measurement of total and ionized serum magnesium is recommended in animals with gastrointestinal disease and hypocalcemia. A
faecal flotation should be routinely performed in all diarrheic animals to help rule out
intestinal parasites (e.g., Hookworms) which may contribute to the loss of protein.
Once hypoalbuminemia has been documented, the cause must be identified. Important considerations for hypoalbuminemia include protein-losing enteropathy, hepatic insufficiency, protein-losing nephropathy (PLN), vasculitis, exudative skin lesions, exocrine pancreatic insufficiency (EPI), and Addisons disease. Dogs with concurrent liver disease and intestinal disease can prove challenging, in that disorders of
both organs can be associated with hypoalbuminemia. Protein-losing nephropathy
can be easily eliminated from the differential list by performing a urinalysis and determining the urine protein:creatinine ratio if the animal is proteinuric. Caution
should be heeded in the interpretation of mild increases in the UPC ratio, as animals
with active urine sediment can also have a mild increase in the UPC ratio in the absence of glomerular disease. In addition, most patients with proteinuria tend to exhibit hypoalbuminemia in the presence of normo-or mild hyperglobulinemia. Dogs with
Cushings disease or dogs receiving exogenous steroids can also have abnormal UPC
ratios. Once PLN has been ruled out based on the urinalysis, further evaluation of hepatic function should be determined to help rule out hepatic insufficiency as the cause for the hypoalbuminemia. Careful evaluation of hepatocellular function parameters
(BUN, cholesterol, glucose, albumin, and bilirubin) on the chemistry panel should be
performed before measurement of serum bile acids. Interpretation of liver enzyme
values (ALT, AST, GGT, and ALP) should be done with caution as many dogs with
severe liver disease do not have marked elevations in hepatocellular enzymes. Elevations in serum bile acid concentrations are not pathognomonic for hepatic insufficiency, as nonhepatic diseases are well documented at increasing serum bile acids (in-
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testinal disease, pancreatitis, anemia, diabetes mellitus, etc). Occasionally, biopsy of
the liver and intestinal tract is required to differentiate primary liver disease from reactive hepatopathies. Laboratory assessment of EPI can be performed by measuring
concentrations of canine tryspinogen-like immunoreactivity (cTLI), and evaluation
of the small intestinal absorptive function can be evaluated by measuring concentrations of serum cobalamin and folate. Dogs that are severely hypocalcemic should
be further evaluated to determine the cause for the low calcium.
Measurement of faecal 1-proteinase inhibitor (α1-PI) can be used to further
support a diagnosis of PLE in animals with concurrent liver disease or PLN, although this test is limited by logistical constraints in that samples must be shipped
frozen, and there is currently only one laboratory that performs the ELISA at Texas
A & M University.4 α1-proteinase inhibitor is the same size as albumin and is lost in
the intestinal tract and excreted via the feces where it can be measured as a marker
for PLE. Three separate voided faecal specimens are collected into special volumecalibrated cups available from the laboratory. It is important that the faecal specimens be naturally voided as digital extraction of the faecal specimen can result in
microscopic blood loss and false elevations in faecal α1-PI. The faecal specimens
should be immediately frozen after collection and shipped on ice via overnight mail
to the laboratory.
Abdominal imaging via ultrasonography can be particularly helpful to further
elucidate the cause of PLE, as many dogs with intestinal lymphangiectasia show evidence of hyperechoic mucosal striations secondary to lacteal dilation.5 In addition,
abdominal ultrasonography can be helpful for aspirating abdominal fluid for cytological characterization.
Most dogs with PLE require intestinal biopsies to confirm the diagnosis, and empiric dietary and medical trials that are commonly utilized for dogs with no evidence
of panhypoproteinemia are typically avoided in an effort to procure a specific diagnosis as soon as possible. Gastroduodenoscopy and biopsy can be used to diagnose
lymphangiectasia in most patients if appropriate biopsy technique is utilized and
biopsies of the duodenum and ileum are obtained. Gastroduodenoscopy also affords
one the opportunity to evaluate the intestinal mucosa for erythema and dilated lacteals that are filled with chyle. Occasionally the dilated lymphatics are located below
the mucosal layer and can be missed endoscopically despite the implementation of
appropriate biopsy technique. Exploratory laparotomy and biopsy affords one the luxury of full-thickness biopsies that are usually easier for pathologists to interpret; however, the disease can be patchy or multifocal underscoring the importance of obtaining multiple full-thickness biopsies from the duodenum, jejunum, and ileum. Lipogranulomas are commonly seen on the serosal aspect of the intestine in dogs with
lymphangiectasia. Caution should be heeded when performing full-thickness biopsies
in animals that are hypoproteinemic with ascites. These patients are at increased risk
for dehiscence, and implementation of nonabsorbable or poorly absorbable suture
should limit the risk of suture line leakage.
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MANAGEMENT OF PLE
The goal of therapy for intestinal lymphangiectasia is to decrease the enteric loss
of plasma protein, resolve associated intestinal or lymphatic inflammation, and control effusion or oedema. The prognosis for PLE is guarded because of the variable underlying causes and severity of the disease when diagnosed.
Medical Management
Parenteral fluid therapy: Administration of colloids such as Dextran 70 or Hetastarch can be used to increase the plasma oncotic pressure in animals that are severely hypoalbuminemic. This is typically administered prior to surgery in an effort to minimize complications associated with low plasma colloidal oncotic pressure. The administration of fresh frozen plasma is an expensive and less efficient means of increasing the COP in dogs that are severely hypoalbuminemic. Parenteral fluid therapy can be discontinued when the albumin is > 1.5 g/dl and any ascites or peripheral
oedema has resolved. Loop diuretics such as furosemide (1-2 mg/kg, SC or PO) can
be used to decrease abdominal or pleural effusions, although caution should be heeded in monitoring the patient’s hydration status and serum potassium concentrations.
Potassium sparing diuretics such as spironolactone (2-4 mg/kg PO or IV) can be
used together with furosemide to decrease the likelihood of hypokalemia arising.
Most dogs with lymphangiectasia do not warrant anti-inflammatory therapy, unless the intestinal biopsies show evidence of moderate to severe intestinal inflammation with the lymphangiectasia. In these animals a tapering dose of prednisone or
prednisolone can be administered starting at 1-2 mg/kg BID with a gradual taper
over the ensuing 8-12 weeks. Large-breed dogs can be started on azathioprine concurrent with the prednisone in an effort to reduce the amount of steroid administered
and decrease adverse effects. Azathioprine is administered to dogs at a dosage of 1-2
mg/kg SID for 10-14 days, followed by 1-2 mg/kg every second day. Prednisone dosage is typically reduced by 50% if administered concurrently with azathioprine. In
dogs with severe malasimmilation, orally administered prednisone is unlikely to be
absorbed properly, and one should administer the prednisone parenterally for the first
week before switching to oral administration. A recently published study documented the therapeutic benefit of cyclosporine (5 mg/kg SID for dogs with IBD refractory to prednisone therapy.6 Cobalamin (vitamin B12) should be administered parenterally in all dogs with subnormal serum cobalamin concentrations. The author administers cobalamin at a dose of 500 to 1000 g per dog SC once weekly for 6 weeks.
Readministration of cobalamin should be based on reevaluation of serum cobalamin
concentrations and resolution of clinical signs. Patients that are severely hypocalcemic (despite attempted correction for the hypoalbuminemia) should be considered for
parenteral magnesium supplementation in the form of magnesium sulphate at 1
mEq/kg/day. Magnesium can also be supplemented orally as magnesium hydroxide
(milk of magnesia) at a dosage of 5-15 ml per dog/24 hrs. Antibiotics such as me-
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tronidazole (10 mg/kg BID) or tylosin (20 mg/kg BID) both for 3 weeks are often administered to dogs with IBD.
Dietary Management
Severe dietary fat restriction is one of the most important aspects in the management of dogs with intestinal lymphangiectasia. Diets that are highly digestible and
that contain < 20% fat calories on an ME basis are recommended.7 The author recommends the feeding of a premium commercial-based diet if possible; however, there are a small number of dogs with severe lymphangiectasia that will need further fat
restriction than that provided in commercial diets, and home-cooked diets are warranted. These home-cooked diets should be made up by a veterinary nutritionist to ensure that the diets are complete and balanced. Dogs with concurrent IBD and lymphangiectasia are more challenging to manage from a dietary perspective, because
these animals need a novel, select protein source diet that is also markedly fat restricted and virtually all commercial diets do not fit these criteria. An alternative to
consider is the use of hypoallergenic diets containing hydrolyzed protein sources and
moderate amounts of dietary fat. Failure to respond favorably to these diets warrants
a home-cooked diet that is more fat-restricted and contains a novel, select protein
source. Administration of medium chain triglycerides (MCT’s) to enhance the caloric
density of the diet is not recommended due to its unpleasant taste and potential for inducing diarrhoea. Recent evidence also suggests that MCT’s are not transported entirely via the portal circulation to the liver, and can exacerbate the lymphangiectasia.
Total parenteral nutrition can be administered to cachectic animals with severe hypoalbuminemia and intractable vomiting or diarrhoea.
References
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Address for correspondence:
University of California, Davis, School of Veterinary Medicine
Davis, California, USA
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STANLEY L. MARKS
BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Internal Medicine,
Oncology), Dipl ACVN, USA
The use of probiotics
in dogs and cats
with diarrhea:
are they useful?
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The mammalian intestinal tract contains a complex, dynamic, and diverse population of non-pathogenic bacteria. Researchers have estimated that the average human
contains 100 trillion microbes in the gut, which is 10 times more than the cells of the
human body.1 The intestinal microbiota influences the health of the host by providing
nutritional substrates, modulating the immune system, and providing a support in the
defence against intestinal pathogens.2 The term microbiome refers to the total number
of microorganisms and their genetic material and is contrasted from the term microbiota, which is the microbial population present in different ecosystems in the body.
There has been a plethora of research focusing on the mechanisms by which pathogenic bacteria influence intestinal function and induce disease; however, recent attention has focused on the indigenous non-pathogenic microbiota and the ways in
which it may benefit the host. Initial colonization of the sterile newborn intestine occurs with maternal vaginal and fecal bacterial flora. The first colonizers have a high
reduction potential and include species such as enterobacter, streptococcus, and staphylococcus. These bacteria metabolize oxygen, favouring the growth of anaerobic
bacteria, including lactobacilli and bifidobacteria. Colonization with these bacteria is
significantly delayed in caesarean deliveries,3 leading to delayed activation of the efferent limb of the mucosal immune response.4 Additional beneficial effects of developing a normal bacterial flora is seen in germ free mice that have small intestines that
weigh less than their healthy counterparts. This effect occurs partly due to underdevelopment of lymphoid constituents, with a lack of plasma cells in the lamina propria
and Peyer’s patches, and subsequent reduction in IgA production. Exposure to bacteria results in a reversal of this phenomenon within 28 days of exposure.5
The intestinal microbiota has been associated with Crohn’s disease and ulcerative
colitis, as well as irritable bowel syndrome in humans.6-8 In addition, the intestinal microbiota has also been implicated in the pathogenesis of various canine GI disorders,
either associated with the presence of specific enteropathogens such as Salmonella,
Clostridium perfringens, and viruses in acute episodes of diarrhea or a non-specific
dysbiosis precipitating inflammatory bowel disease.9,10 Molecular phylogenetic studies have revealed a bacterial and/or fungal dysbiosis in the duodenum of dogs with
IBD. A decrease in the proportion of Clostridiales and an increase in Proteobacteria
is most commonly observed.10 Only a few studies have described the fecal microbiota of dogs with acute and chronic GI disorders. Dogs with acute diarrhea, particularly those with acute hemorrhagic diarrhea (AHD) have the most profound alterations
in their microbiome characterized by decreases in Blautia, Ruminococcaceae including Faecalibacterium and Turicibacter spp., and significant increases in genus Sutterella and Clostridium perfringens compared to healthy dogs. Dogs with clinically
active IBD had decreased Faecalibacterium spp. and Fusobacteria that increased during resolution of the IBD.10 The bacterial species that are commonly decreased during diarrhea are thought to be important short-chain fatty acid producers and could
promote intestinal health. A deeper understanding of the gut microbiome will provide reference values for healthy populations and assist in diagnosing and treating diseased animals. In addition, manipulation of the intestinal microbiome via dietary in-
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tervention, administration of probiotics, prebiotics, or synbiotics, and fecal transplantation is currently being performed to maintain gut health in people and companion
animals.
Manipulation of canine GI microbiota to improve health via dietary intervention
did not begin until the early 1990’s. Dietary fiber, prebiotics and probiotics have been the major nutritional strategies studied to modulate the canine and feline GI microbiota. Unfortunately, most of the research studies published to date have evaluated
the effects of dietary manipulation of the GI microbiome in clinically healthy dogs
and cats, and many of these studies have used traditional plating techniques or qPCR
to quantify a limited number of bacteria (e.g., Lactobacillus, Bifidobacteria, C. perfringens, and E. coli) to assess efficacy.
PROBIOTICS
Probiotics refer to live microorganisms which when administered in adequate
amounts confer a health benefit on the host. The term probiotic was derived from the
Greek, meaning “for life.” The Food and Agricultural Organization of the United States (FAO) and the World Health Organization (WHO) have stated that there is adequate scientific evidence to indicate that there is potential for probiotic foods to provide health benefits and that specific strains are safe for human use.11 There has been
a literal explosion of interest and research on the subject in recent years. Despite this
activity, much still remains to be done to determine the specific indications and applications of probiotics in dogs and cats. There has been tremendous interest among
veterinary pet food companies and manufacturers of animal health and wellness products to market probiotic formulations that are safe, pure, stable, and confer a beneficial effect in dogs and cats. These products are generally preferred to the multitude
of over-the-counter probiotics marketed for veterinary use, given the concerns pertaining to quality control of the over-the-counter products.12 A number of criteria are essential for efficacy and safety of probiotics. These include resistance to gastric acid
and bile, ability to colonize the gastrointestinal tract, efficacy against pathogenic microorganisms, and modulation of the immune system.13 Several potential mechanisms
have been proposed for how probiotics reduce the severity or duration of diarrhea:
competition with pathogenic bacteria or viruses for nutrients, competition for receptor sites, modification of the metabolic activity of the intestinal microflora, and the direct antagonism through the action of antimicrobial metabolites.14,15
Evidence for the benefits of probiotics in people
There is currently level 1 evidence (i.e., data from either high-quality, randomized
controlled trials with statistically significant results and few design limitations or
from systematic reviews of trials) for effectiveness of probiotics in treating lactose intolerance/maldigestion, treating acute infectious or nosocomial diarrhea in children,
preventing or treating antibiotic-associated diarrhea, preventing and maintaining re-
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mission of pouchitis in adults, and maintaining remission of ulcerative colitis in
adults.16 In addition, there is level 2 evidence (evidence obtained from randomized
trials that have limitations in methodology or results that have wide confidence intervals) for using probiotics to treat traveler’s diarrhea, prevent sepsis secondary to severe acute pancreatitis, and prevent infections in postoperative patients.16 Unfortunately, a similar level of evidence critically evaluating the benefits of specific probiotic
strains in dogs and cats is currently lacking in the veterinary profession.
Evidence for the benefits of probiotics in dogs
To date, only a relatively small number of studies have been published evaluating
the effects of probiotics in dogs, and many of these have focused on the intestinal microbiota in apparently healthy dogs. Probiotic strains of human or canine origin (Lactobacilli, Bifidobacter, and Enterococcus) were used in healthy adult dogs or dogs
with food-responsive diarrhea to assess their effects on intestinal microbial populations, their ability to reduce specific pathogens in feces, and effectiveness as immunomodulators.17-22 In many of these studies, probiotics added to the food in healthy
dogs had an equivocal effect on fecal microflora and pathogens.19,22 However, it is important to note that most of these studies were not randomized, controlled trials, and
the strains of probiotic varied from study to study, making interpretation of findings
more challenging. In addition, many studies focused on fecal isolation and quantitative cultures of putative pathogenic bacteria such as C. perfringens, rather than on the
evaluation of more meaningful end points such as phylogenetic characterization of
the microbiota, mucosal immunopathology, and alterations in intestinal integrity. Only two studies addressing the role of probiotics in management of dietary sensitivity
and food-responsive diarrhea have been published to date, with overall positive results.17,18 Only one of those studies was a randomized, placebo-controlled clinical
trial,17 and the results of that study, although clinically positive (all of the dogs in the
study improved when they were placed on the elimination diet) showed no specific
changes in the inflammatory cytokine patterns or a specific benefit of the probiotic.
The immunomodulatory effects of Enterococcus faecium SF68 have been studied in
dogs, and the probiotic was associated with increased fecal IgA concentrations and
increased vaccine-specific circulating IgG and IgA concentrations.23 Although increased immune globulins may suggest enhanced immune response, the clinical relevance of this finding is not known.
Additional studies are warranted in dogs to further assess the immunomodulatory
effects of probiotics and to evaluate their safety. The latter issue is particularly important given the recent finding of increased intestinal adhesion of Campylobacter jejuni in an in vitro model of canine intestinal mucus following incubation with Enterococcus faecium.24 It should be noted that this E. faecium strain is different from the
E. faecium SF68 strain available commercially; moreover, to date there has been no
clinical or anecdotal evidence of Campylobacter-associated diarrhea in dogs associated with E. faecium administration. Short-term treatment (6 weeks) with E. faecium
SF68 to 20 dogs with chronic naturally acquired subclinical giardiasis failed to affect
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giardial cyst shedding or fecal giardial antigen and did not alter innate or adaptive immune responses at multiple time points.25 These results are in contrast to those shown
following the oral feeding of E. faecium strain SF68 to mice experimentally infected
with Giardia intestinalis trophozoites.26 Oral feeding of E. faecium strain SF68 starting 7 days before inoculation with Giardia trophozoites significantly increased the
production of specific anti-Giardia intestinal IgA and blood IgG. This humoral response was mirrored at the cellular level by an increased percentage of CD4+ T-cells
in the Peyer’s patches and in the spleens of SF68-fed mice. The improvement of specific immune responses in probiotic-fed mice was associated with a diminution in the
number of active trophozoites in the small intestine as well as decreased shedding of
fecal Giardia antigens (GSA65 protein). The latter findings underscore the importance of carefully evaluating the animal model, the timing of probiotic administration
(prior to infection or following infection), and the specific end-points assessed.
Evidence for the benefits of probiotics in cats
Unfortunately, there is little published information pertaining to probiotic use in
cats, and only one clinical study has reported a beneficial effect of probiotic therapy
for any feline disease to date. In that study, administration of Enterococcus faecium
SF68 to 217 cats housed in an animal shelter was associated with a significantly lower
percentage of cats with diarrhea ≥ 2 days (7.4%) compared with a placebo group
(20.7%).27 One study evaluating the effect of dietary supplementation with the probiotic strain of Lactobacillus acidophilus DSM 13241 (2 × 108 CFU/d for 4.5 weeks) administered to 15 healthy adult cats demonstrated that recovery of the probiotic from
the feces of the cats was associated with a significant reduction in Clostridium spp. and
Enterococcus faecalis.28 However, the immunomodulatory effects were reported based
on decreased lymphocyte and increased eosinophil populations and increased activities of peripheral blood phagocytes. The relevance of these findings is unclear, because this study was not a randomized trial and the changes reported in the populations of
peripheral blood cells cannot be extrapolated into evidence of systemic health benefits.
Evaluation of the effect of supplementation with Enterococcus faecium strain SF68 on
immune function responses following administration of a multivalent vaccine was evaluated in specific pathogen-free kittens.29 This prospective, randomized, placebo-controlled study resulted in the recovery of E. faecium SF68 from the feces of seven of nine cats treated with the probiotic, and a nonsignificant increase in feline herpesvirus 1specific serum IgG levels. Concentrations of total IgG and IgA in serum were similar
in the probiotic and placebo groups, and the percentage of CD4+ lymphocytes was increased significantly only in kittens at 27 weeks and not at any other time points. Probiotics also have been evaluated in juvenile captive cheetahs, a population with a relatively high incidence of bacteria-associated enteritis. Administration of a species-specific probiotic containing Lactobacillus Group 2 and Enterococcus faecium to 27 juvenile cheetahs was associated with a significantly increased body weight in the treatment group, with no increase in the control group.30 In addition, administration of the
probiotic was associated with improved fecal quality in the probiotic group.
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PREBIOTICS
A prebiotic is defined as a “nondigestible food ingredient that beneficially affects
the host by selectively stimulating the growth of and/or activates the metabolism of
one or a limited number of health promoting bacteria in the intestinal tract.”31 The
most common prebiotics studied are fructans, although other prebiotics such as mannans, lactosucrose, and lactulose are also being evaluated.
Evidence for the benefits of prebiotics in dogs and cats
Unfortunately, there is a paucity of information evaluating the clinical benefits of
prebiotics in dogs and cats. Most of the outcomes published in the literature are limited to nutrient digestibility, microbial concentrations in feces, and fecal protein catabolites that may not necessarily denote a health benefit to the patient. The effects of
short chain fructooligosaccharides (scFOS) were evaluated in a group of German
Shepherd dogs suspected to have IgA deficiency.32 Although the scFOS supplemented dogs had decreased aerobic and anaerobic bacteria in intestinal biopsies, the findings of the study were clouded in light of the fact that anaerobic bacterial counts did
not decrease in the intestinal fluid samples of the dogs supplemented with scFOS. The
effects of various oligosaccharides have been tested in adult ileal cannulated dogs to
evaluate the effects on ilial and total tract nutrient digestibilities, microbial populations, ileal pH, ammonia, blood glucose, fecal consistency, and SCFA concentrations.
Oligosaccharides (oligofructose, mannanoligossacharides, and xylooligosaccharides)
were each given at 0.5% of the diet in a Latin square design. The only significant finding was a decrease in fecal Clostridium perfringens populations in dogs fed MOS.33
The effects of 3% inulin supplementation of elimination and hydrolyzed protein diets
to healthy dogs was associated with a slight increase in fecal moisture content (not
clinically relevant), decreased apparent nutrient digestibility coefficients of crude protein in dogs on the elimination diet, and no effect on fecal IgA concentrations.34 Adult
beagles fed diets containing cellulose or beet pulp plus oligofructose for 6 weeks were found to have similar fecal concentrations of total anaerobes and aerobes; however,
the dogs fed oligofructose had fewer Enerobacteriaceae and clostridia and greater
numbers of lactobacilli. In addition, dogs fed oligofructose had longer and heavier
small intestines (35% heavier), and 37% more mucosal mass with consequent greater
absorptive surface area.35 Administration of 1% scFOS or 1% inulin to weanling puppies (12-weeks-old) during a pathogen (Salmonella Typhimurium) challenge was associated with a lower severity of enterocyte sloughing in puppies consuming the fructans versus the control diet. In addition, puppies fed inulin also had higher fecal acetate, total SCFA concentrations and lactobacilli, indicating that prebiotics appear to
attenuate some of the adverse effects of Salmonella challenge, and may provide protection against infection in weanling puppies. Cats fed diets containing 0 or 0.75%
oligofructose had significantly increased fecal concentrations of lactobacilli and decreased concentrations of C. perfringens and E. coli compared with controls.36 A study evaluating the effects of short-chain fructooligosaccharides (0.5%) and galactooli-
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gosaccharides (0.5%) in healthy cats showed no effect on fecal protein catabolites, including ammonia, 4-methylphenol, indole, and biogenic amines, underscoring the
fact that concentrations of oligosaccharides > 0.5% should be used to elicit a positive response.37
The first nutritional intervention study in dogs that used pyrosequencing to evaluate the effects of beet pulp fiber on fecal microbial composition was performed in
2010.38 Dog fed a control diet were compared to dogs fed a diet containing 7.5% beet pulp in a crossover design with 14 day periods. Eubacterium balii and Faecalibacterium prausnitzii, both of which are butyrate producers, were overrepresented in the
dogs fed the beet-pulp containing diet, suggesting a possible anti-inflammatory effect
of the beet-pulp. In contrast, Fusobacteria was under-represented in dogs fed he beetpulp-containing diet. The effects of a synbiotic formulation to privately owned dogs
for 21 days was evaluated via fecal 454 pyrosequencing.39 The most abundant phylum in feces of all dogs was Firmicutes, followed by Actinobacteria and Bacteroidetes, regardless of synbiotic treatment. Synbiotic administration was associated with
increased abundance of family Eubacteriaceae and phylum Fusobacteria. Recent studies have attempted to characterize the fecal microbiota of diarrheic dogs, as well as
dogs with IBD. Reduced bacterial diversity as well as significantly higher proportion
of Enterobacteriaceae were observed in duodenal brush borders from dogs with IBD
compared to healthy controls.9 Suchodolski et al. confirmed a bacterial dysbiosis in
fecal samples of dogs with chronic diarrhea (IBD) and acute hemorrhagic diarrhea,
and observed changes in the microbiome between acute and chronic disease states.
The bacterial groups that were commonly decreased are important producers of shortchain-fatty acids and may play an important role in caninc intestinal health.10
FECAL MICROBIOTIA TRANSPLANTATION (FMT)
Fecal microbiotal transplantation or infusion of a fecal suspension from a healthy
individual into the gastrointestinal tract of another person to cure a specific disease,
is best known as a treatment for recurrent Clostridium difficile infection (RCDI) in
people,40 and experience with FMT for ulcerative colitis and Crohn’s disease is somewhat limited. Re-establishment of the wide diversity of intestinal microbiotia via
infusion of donor feces into the colon is the proposed mechanism in patients with
RCDI and IBD. FMT has been performed in dogs with a variety of chronic enteropathies (Scott Weese, personal communication), and the author (SLM) is currently completing a clinical trial evaluating the efficacy of FMT in Macaques with chronic colitis. There are a variety of application methods to inoculate the donor feces into the patient, and most studies have relied upon colonoscopy over retention enemas or nasogatric tubes to facilitate inoculation of the feces in the ileum and colon.
Donor stool is most often used within 8 hours of passage; however, frozen stool
samples from standardized donors have been thawed and colonoscopically administered 1-8 weeks after passage for treatment of RCDI with similar success rates to
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fresh stool.41 Donor fecal samples must be carefully screened for bacterial, viral, and
parasitic enteropathogens, and human donors are excluded if they have taken antibiotics within the preceding 3 months or are on immunosuppressive or chemotherapeutic agents. In addition, patients with IBD, atopy, GI malignancy, and chronic
diarrhea are excluded from being donors. The amount of donor stool used has varied;
however, in a recent review, relapse was four-fold greater when < 50 g of stool was
used in people with RCDI.42 Stool is most commonly suspended in nonbacteriostatic saline; however, other diluents (e.g., yoghurt and milk) have been successfully
used. The donor stool is mixed with diluent to a consistency that can be injected via
the biopsy channel of a colonoscope. The suspension should be filtered through gauze pads or strainer to remove large particulate matter before aspiration into the syringe. The volume of stool suspension that is deposited in the colon varies tremendously, although volumes of 300-500 mL are commonly used. A larger volume allows the clinician to deposit aliquots of 90-100 mL into multiple locations within the
intestinal tract, including the jejunum, ileum, ascending colon, transverse colon, and
upper descending colon.
CONCLUSIONS AND FUTURE DIRECTIONS
The potential benefits and specific indications for the administration of pro- and
prebiotics to dogs and cats have yet to be fully defined, although our knowledge and
understanding of the nature and diversity of the feline and canine intestinal microbiome during health and disease has expanded rapidly following the advent of highthroughput DNA-sequencing platforms. Defining a role for pro- and prebiotics as
well as FMT in dogs and cats will require completion of prospective, randomized,
placebo-controlled studies that rely on clinically relevant end points related to a particular physiological or pathological condition. Further studies are warranted to determine the need for probiotics to be live microorganisms following the provocative
studies of Rachmilewitz et al., who documented that the beneficial effects of probiotics are mediated by their DNA, circumventing the need for live, viable bacteria.43
Pro- and prebiotics do appear to have a potential role in the prevention and treatment
of various gastrointestinal illnesses, but it is likely that benefits achieved are specific
to the bacterial species used and to the underlying disease context.
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UGO LOTTI
DVM, Clinica Veterinaria Valdinievole,
Monsummano Terme (PT)
Enzimi epatici elevati
nel cane:
come mi comporto?
Sabato 24 Ottobre 2015
ore 10.20
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INTRODUZIONE
Trovare gli enzimi epatici elevati sia nel paziente sintomatico che in quello asintomatico è molto comune quando eseguiamo degli esami del sangue di routine. È riportato in letteratura umana che in circa il 4% dei pazienti asintomatici c’è un aumento degli enzimi epatici. In uno studio su 1022 esami del sangue eseguiti su cani e
gatti sani o malati il 39% avevano la ALP aumentata e il 17% la ALT. Quando ci sono delle anomalie biochimiche del fegato si dovrebbero sempre fare delle ipotesi diagnostiche che ci dovrebbero guidare verso ulteriori esami di approfondimento. Queste anomalie enzimatiche epatiche sono spesso aspecifiche quindi gli enzimi misurati possono essere isoenzimi provenienti da un altro tessuto o lo stesso enzima generato da una fonte tissutale diversa. Le anomalie ematologiche epatiche sono classificate come provenienti da: 1) danno epatocellulare, 2) colestasi, 3) induzione enzimatica, 4) problema metabolico (Cushing), 5) capacità di sintesi danneggiata.
ESAMI DI LABORATORIO
È importante capire il significato degli esami epatici di base, allo scopo di determinare in caso di anomalie, delle eziologie probabili quindi decidere cosa fare. Come
detto ci sono dei test epatici che sono aspecifici nel senso che anche in caso di fegato sostanzialmente sano ma reattivo per un malattia non-epatica, si possono alterare.
In questo caso è necessario valutare questi dati alla luce dell’anamnesi, terapie eventuali e segni clinici che, come detto, sono spesso silenti. L’ampiezza dell’alterazione
e la sua durata dipende anche dal tipo, la gravità e da quanto tempo è presente lo stimolo che la produce oltre che dalla specie interessata (cane o gatto). Queste anomalie non hanno un valore prognostico di per sé la prima volta che le rileviamo, semmai
la loro tendenza può darci questo tipo di informazioni. In pratica se trovo una ALT a
10.000 UI una volta, non significa che quel fegato sia malato gravemente anche perché il tessuto epatico è coinvolto in così tante funzioni che un solo dato non è sufficiente a darci informazioni dettagliate su tutto l’organo.
INDICATORI DI DANNO EPATOCELLULARE
Il citoplasma degli epatociti sia nel cane che nel gatto è ricco di ALT lo è meno di
AST e un’alterata permeabilità della membrana epatocellulare causata da un danno
diretto oppure da un problema metabolico porta al rilascio di questi enzimi nel torrente circolatorio. In teoria ALT e AST dovrebbero essere enzimi che passano attraverso una “perdita” della membrana epatocellulare e in caso di un danno acuto la
quantità del loro valore numerico è direttamente proporzionale a quanti epatociti sono stati danneggiati per cui un valore di ALT e AST di 10-15000 UI/L denota un danno molto esteso al parenchima epatico anche se questo insulto non è specifico per una
determinata eziologia e nemmeno di una prognosi più o meno grave. L’emivita pla-
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smatica della ALT nel cane è di circa 60 ore mentre nel gatto è di poche ore mentre
l’AST ha un’emivita di 24 ore. In caso di danno acuto, comunque, le concentrazioni
di ALT possono metterci molti giorni a diminuire, anche più di due settimane. Si consiglia di indagare con esami di approfondimento quando i valori di ALT superino di
due volte il normale oppure se si tratta di aumenti persistenti nel tempo. Nel cane una
ALT persistentemente aumentata spesso indica un’epatite cronica.
AUMENTO DI ALT E AST (Fig. 1)
Come detto, un aumento persistente dell’ALT oppure un valore di due volte al di
sopra del normale consiglia il clinico di cercare la causa sottostante, che se viene
scoperta per tempo si evitano conseguenze peggiori. L’esempio classico è l’epatite
cronica idiopatica (EC) che se viene diagnosticata e curata, precocemente si impedisce che inizi la “bridging fibrosis”, quindi che si trasformi in cirrosi. La EC di solito, si presenta nel cane, spesso femmina, di 2-5 anni semplicemente con l’aumento dell’ALT poi ci sono delle forme di EC associate a determinate razze (dobermann,
labrador, barbone ecc.). Una ALT elevata in cani giovani sotto l’anno di età potrebbe essere associata a problemi vascolari epatici (PSS oppure ipoplasia della vena
porta), in questo caso si dovrebbe fare anche il test degli acidi biliari che sono qua-
Figura 1 - Cause di aumento di ALT/AST.
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si sempre elevati soprattutto i post-prandiali. Qualche volta si vedono pazienti giovani da sottoporre a ovarioisterectomia o castrazione, che negli esami pre-chirurgia,
hanno una ALT elevata e per ragioni sconosciute all’autore, ritornano alla normalità. Alcuni pazienti che hanno questo dato biochimico alterato quindi vengono sottoposti a biopsia epatica che risulta senza alterazioni istologiche significative e queste
situazioni, probabilmente, riflettono delle lievi alterazioni di membrana degli epatociti che non sono visibili al microscopio ottico. La AST è presente in molti tessuti,
soprattutto fegato e muscolo che ne contengono alte concentrazioni. Questo enzima,
nel fegato, si trova soprattutto nei mitocondri degli epatociti ma per un 20% è anche
nel citoplasma. Se c’è un problema infiammatorio muscolare si alzano, anche sensibilmente, AST e in minor misura ALT quindi, in questo caso, non è di origine epatica e questa affermazione deve essere convalidata dal contemporaneo aumento della
CK che è un enzima specifico del muscolo. In medicina veterinaria l’esperienza clinica indica che valutare con la giusta attenzione possibili aumenti degli enzimi epatici, anche in animali completamente asintomatici, ci aiuta molto nella diagnosi e
nella terapia per cui sono test di alto valore diagnostico. Dopo un danno epatico acuto, con un aumento da moderato a grave di ALT e AST, la AST sierica si normalizza più rapidamente (da ore a giorni) rispetto alla ALT (giorni) a causa della loro diversa collocazione (citoplasma vs mitocondri) all’interno dell’epatocita ma anche
per la differenza nell’emivita plasmatica. Per valutare la guarigione di questo danno
acuto è utile monitorizzare gli enzimi epatici per capire se c’è un andamento positivo oppure la patologia è persistente.
MARKERS DI COLESTASI E DI INDUZIONE DA FARMACI
La ALP e la GGT vengono riversate nel torrente circolatorio in quantità minima se
il tessuto epatico è sano ma aumentano sensibilmente ma aumentano marcatamente
in caso di stasi biliare oppure se c’è un’induzione enzimatica secondaria all’azione di
determinati farmaci come gli steroidi o i barbiturici. Questi enzimi sono legati alla
membrana cellulare degli epatociti sulla parte che tappezza i canalicoli biliari; nel dettaglio la ALP è collegata alla membrana dei canalicoli e la GGT alle cellule epiteliali che comprendono il sistema dei duttuli biliari. In caso di colestasi la tensione della
superfice dei canalicoli e dei duttuli aumenta per cui questi enzimi che si trovano in
quella sede, vengono riversati nel torrente circolatorio in misura molto maggiore.
Aumento della ALP (fosfatasi alcalina)
e della GGT (gammaglutamiltranspeptidasi) (Fig. 2)
Trovare dei pazienti con ALP aumentata è molto frequente, ma questo esame, ai
fini della diagnosi di una possibile epatopatia, ha una buona sensibilità (80%) ma
una bassa specificità (51%) questo perché ci sono molti isoenzimi che possono essere indotti nella produzione. La fosfatasi alcalina è presente in molti tessuti ma solo due, osso e fegato, sono importanti dal punto di vista diagnostico. L’emivita pla-
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Figura 2 - Cause di aumento di ALP/GGT.
smatica della ALP nel cane è circa 70 ore mentre nel gatto è di circa 6 ore inoltre il
valore numerico di questo enzima, in caso di aumento, tende a essere molto più alto nel cane che nel gatto. L’isoenzima di origine ossea deriva dall’attività osteoblastica che è presente nell’animale in accrescimento fino alla chiusura delle fisi ossee
e nell’adulto quando ci sono lesioni ossee come in caso di un osteosarcoma. Nel paziente oltre l’anno di età quando troviamo una ALP elevata e non ci sono problemi
ossei evidenti, dobbiamo pensare a un problema epatico. Uno studio recente ha evidenziato come la ALP aumentata in cani con tumori ossei osteogenici era indice di
prognosi infausta per la presenza, molto probabile, di metastasi ossee diffuse. La
GGT non aumenta in caso di lesioni ossee per cui può essere un utile conferma di
un problema epatico se entrambe sono aumentate. Un aumento di ALP e GGT può
essere secondario alla presenza di glucocorticoidi (esogeni o endogeni), antiepilettici e altri farmaci occasionalmente. Gli aumenti da induzione enzimatica hanno
un’ampiezza che varia da individuo a individuo e non sono mai accompagnati da
iperbilirubinemia per cui una ALP aumentata anche di molto, senza aumento della
bilirubina ci deve far pensare a una induzione enzimatica per cui è bene eseguire
una corretta anamnesi, circa la somministrazione sistemica o locale di steroidi o antiepilettici inoltre è bene eseguire un controllo sulla funzione surrenalica (ipercoticosurrenalismo). Si ritiene che i corticosteroidi stimolino la produzione, nel cane,
di un isoenzima della ALP steroido-indotto che può essere distinto con esami par-
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ticolari, da quello provocato dalla colestasi. Si pensava, inoltre, che l’isoenzima
correlato alla somministrazione dei corticosteroidi poteva essere utilizzato come
marker per differenziare gli steroidi esogeni da quelli endogeni provocati dal morbo di Cushing, in realtà questo test è molto sensibile al fine della diagnosi di ipercorticosurrenalismo ma poco specifico infatti aumenta anche per malattie epatobiliari come avviene in una malattia epatica osservata in cani anziani che è l’epatopatia vacuolare idiopatica in cui c’è un aumento della ALP steroido-indotta e la valutazione della funzione surrenalica (ACTH stim, LDDS, ACTH endogeno ecc.) è
quasi sempre negativa in questi casi. Alcuni pensano che la causa sia nella produzione, da parte delle surrenali, di steroidi atipici che non rientrano nella cortisolemia come avviene con il progesterone e derivati che si legano ai recettori epatocitari dei corticosteroidi e possono indurre una produzione di ALP. Nello scottish terrier ci può essere un aumento della ALP che è idiopatico ma lo possiamo dire solo
dopo avere escluso altre possibili cause. Infine un’iperplasia nodulare o una neoplasia epatica possono portare ad ALP elevata per cui con un’ecoaddome possiamo
sospettarle e fare gli accertamenti necessari come un ago fine ed esame citologico
oppure una biopsia epatica che ci permetteranno di avere una diagnosi. La GGT può
aumentare sia nel cane che nel gatto, per un flusso biliare danneggiato mentre solo
nel cane vediamo un aumento anche in corso di terapia con glucocorticoidi mentre
gli antiepilettici non sembra che abbiano questo effetto. La GGT, come detto, non
è prodotta dal tessuto osseo per cui l’accrescimento e una malattia ossea non influenzano questo test come avviene per la ALP. Il latte e il colostro sono molto ricchi in GGT per cui gli animali molto giovani potrebbero averla aumentata. La misurazione della GGT, in corso di malattie epatobiliari, non sembra che porti un vantaggio diagnostico almeno nel cane mentre nel gatto con malattie biliari, è riportato che sia un marker diagnostico più sensibile.
VALUTAZIONE DELLA FUNZIONE EPATICA
Nel profilo biochimico di routine i test di funzionalità epatica che possiamo valutare sono: anomalie ematologiche, bilirubina, albumina, glucosio, BUN e colesterolo.
Le alterazioni dell’emogramma che possiamo trovare in corso di epatopatia sono: la
microcitosi/codociti che si vedono in corso di PSS e grave insufficienza epatica a causa di un metabolismo e trasporto del ferro anomalo, gli acantociti che compaiono per
problemi nel metabolismo lipidico e gli ovalociti/elliptociti frequenti nei gatti con lipidosi. L’albumina è prodotta esclusivamente dal fegato per cui, in caso di una sua
diminuzione, se si possono escludere perdita (reni o intestino), sequestro (ascite) o diluizione eccessiva del siero, una ipoalbuminemia può essere dovuta solo a una mancata produzione quindi un fegato che non funziona. Solo una funzionalità epatica ridotta di più del 60% può provocare una ipoalbuminemia. I fattori della coagulazione, eccetto il fattore VIII, sono prodotti dal fegato per cui un allungamento dei test
coagulativi PT e APTT potrebbero suggerirci una disfunzione epatica in questo caso
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la prognosi dell’epatopatia sarebbe da riservata a infausta. La bilirubina (Fig. 3) può
aumentare per una malattia preepatica come un’emolisi e in questo caso ci dovrà essere un’anemia a confermarla oppure per un’ostruzione delle vie biliari come avviene in corso di pancreatite, calcoli nel coledoco o neoplasia delle vie biliari, pancreas
o intestino. In questi casi vedrò un marcato aumento di ALP e GGT assieme a una
elevazione più contenuta di ALT e ALP. La iperbilirubinemia di origine epatica è secondaria sia a una produzione ridotta da parte degli epatociti che a una colestasi intraepatica. Questo tipo di aumento della bilirubina richiede una grave malattia epatica per manifestarsi per cui è un indice importante di ridotta funzionalità e non richiede ulteriori test (acidi biliari) di valutazione funzionale per la diagnosi. Il colesterolo,
in corso di epatopatia può elevarsi a causa della colestasi ma ci può essere anche una
ipocolesterolemia secondaria a una sintesi diminuita per uno shunt porto sistemico
oppure un’insufficienza funzionale. Il glucosio può diminuire come risultato di una
riduzione della capacità di immagazzinare glicogeno, per una gluconeogenesi inadeguata o anche per una ridotta clearance dell’insulina e l’ipoglicemia, in genere, implica un danno epatico molto esteso. Ci può essere anche un’iperglicemia come conseguenza di un ridotto assorbimento da parte della circolazione portale anche se è
un’evenienza molto rara a verificarsi. La BUN in corso di ridotta funzione epatica tende a diminuire a causa di un ciclo dell’urea inadeguato che porta a ipoazotemia e iperammoniemia. Uno dei test di funzionalità epatica più sensibili e specifici nei piccoli animali è il dosaggio degli acidi biliari. La concentrazione totale degli acidi biliari
Figura 3 - Cause di aumento di bilirubina e ac. Biliari.
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a digiuno (FSBA - Fasting Serum Bile Acid) riflette l’efficienza e l’integrità della circolazione enteroepatica. Una patologia del sistema epatobiliare o della circolazione
portale determina una elevazione del valore sierico degli FSBA prima che questa epatopatia faccia innalzare la bilirubinemia infatti il test degli FSBA è inutile nei casi di
ittero epatico. Questo aumento non è specifico di una particolare malattia può essere
causato da varie patologie epatiche ed epatobiliari. Questo test si esegue anche per valutare la funzionalità epatica in animali in cui si sospetti uno shunt portosistemico
congenito (PSS) o una cirrosi oppure quando è presente un aumento persistente degli
enzimi epatici. Gli acidi biliari si dosano anche per monitorizzare un’eventuale terapia per un’epatopatia. Questo esame si esegue con l’animale digiuno da 12 ore quindi si fa il prelievo prepandiale (FSBA) poi si somministra una dieta a moderato contenuto di grassi che stimola la contrazione della cistifellea e si fa il secondo prelievo
dopo 2 ore (PPSBA - Post-Prandial Serum Bile Acid). È assolutamente indispensabile eseguire entrambi i prelievi perché in alcune malattie epatiche (PSS) gli FSBA sono normali mentre i PPSBA sono anche molto elevati. Può succedere qualche volta
che anche in cani normali e sani, gli acidi biliari dopo il pasto siano maggiori di 25
mol/L anche se è improbabile un aumento significativo. Gli acidi biliari, di solito,
non aumentano in corso di induzione enzimatica da fenobarbitale o glucocorticoidi e
nemmeno per malattie non epatiche. Gli acidi biliari urinari hanno un’utilità diagnostica simile a quelli sierici sia nel cane che nel gatto. I vantaggi di questo test sulle urine sono la specificità e sensibilità comparabile al test ematico, il campione di
urine può essere preso anche a domicilio dal proprietario, è facile fare un test di screening a cucciolate in cui si sospetti un PSS congenito, non è necessario fare due prelievi di sangue soprattutto in animali poco collaborativi. Il test sulle urine, inoltre, bypassa problemi come la lipemia che si verifica in certi soggetti epatopatici o sotto
somministrazione di fenobarbitale, la contrazione precoce della cistifellea, ritardato
svuotamento gastrico e transito intestinale rallentato. Sono particolarmente utili nel
monitoraggi di pazienti a rischio di epatopatie come gli epilettici o quelli sotto terapia cronica con azatioprina. In conclusione, i marker di malattia epatica sono molti e
ciascuno di essi ha la sua specificità/sensibilità, l’autore crede una buona combinazione di test potrebbe essere una associazione tra la ALT/ALP e il test degli acidi biliari, questi due esami assieme a tutti gli altri parametri del biochimico/urine hanno
un alta sensibilità e specificità. L’esperienza clinica insegna che la presenza contemporanea di AST/ALT aumentate supporta la diagnosi di malattia epatocellulare e che
gli PPSBA migliorano la valutazione della funzione epatica.
Gestione dei pazienti con valori epatici alterati (Fig. 4)
Nel paziente asintomatico prima di parlare di un aumento degli enzimi secondario a una malattia primaria epatica, si dovrebbero ripetere gli esami almeno una volta, per escludere eventuali errori pre o postanalitici inoltre l’anamnesi ci deve escludere la somministrazione di farmaci anche locali. Il segnalamento del paziente ci può
guidare a un’eventuale eziologia infatti un cane anziano potrebbe avere un’iperplasia nodulare oppure una neoplasia mentre un animale giovane o di mezza età è più
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Figura 4 - Cosa fare in corso di enzimi epatici alterati.
facile che soffra di epatite cronica che colpisce di più alcune razze come il labrador,
il dobermann o il barbone. Anche l’esame fisico è essenziale a guidarci nella diagnosi perché un aumento degli enzimi epatici, percentualmente, è più probabile che
sia secondario a un’epatopatia reattiva piuttosto che a una malattia primaria, per cui
si potrebbero essere problemi intraddominali come la pancreatite, l’IBD, malattie
cardiovascolari o problemi metabolici, tutte patologie che un’attenta visita dell’animale ci aiuta a sospettare. Queste epatopatie reattive tendono, tuttavia, a scomparire
una volta che abbiamo risolto il problema primario e se questo miglioramento non
avviene allora si deve tornare a pensare ad una epatopatia primaria. Se le alterazioni di laboratorio non trovano una spiegazione convincente allora ci sono due cose da
fare eseguire il test degli acidi biliari o ripetere gli esami alterati dopo un periodo di
4-6 settimane. In caso di positività agli acidi biliari è consigliabile proseguire negli
accertamenti diagnostici.
Strategie diagnostiche
In caso di positività agli acidi biliari si dovrebbe fare una diagnostica per immagini del fegato con un esame radiografico dell’addome che ci permette di valutare le
dimensioni dell’organo e altri eventuali problemi intraddominali. Un esame ecogra-
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fico dell’addome è il test di scelta in questi casi perché non è invasivo e ci permette
di vedere lesioni localizzate o diffuse, sospettare una neoplasia, valutare la presenza
di un PSS congenito o secondario magari a un’ipertensione portale. Spesso questo
esame si associa a un ago fine con citologia che non ha un’alta sensibilità/specificità ma che l’autore consiglia di eseguire a patto che non ci siano problemi coagulativi. Le patologie che si possono diagnosticare eseguendo una citologia epatica sono
le neoplasie (linfomi, carcinomi ecc.), la lipidosi epatica del gatto e le epatopatie vacuolari diffuse, in caso di epatite cronica la capacità diagnostica della citologia epatica è molto limitata. Nei casi in cui diagnostichiamo un aumento persistente degli
enzimi epatici di origine primaria soprattutto se gli acidi biliari sono alterati l’autore consiglia l’esecuzione di una biopsia epatica con dosaggio quantitativo di ferro,
zinco e soprattutto del rame. Ci sono certe razze (labrador, bellington terrier) dove
c’è un difetto metabolico che porta a un accumulo di rame che sta alla base di tutto
il problema e richiede una terapia specifica (penicillamina) per cui se non eseguo il
dosaggio di questi minerali non possiamo arrivare alla radice del problema. Ci sono
vari metodi per eseguire la biopsia del fegato e tutti hanno vantaggi e svantaggi, l’autore preferisce il metodo laparoscopico.
CONCLUSIONI
Quando repertiamo un’alterazione degli enzimi epatici, anche in un paziente asintomatico, una volta confermato la corretta esecuzione dell’esame si dovrebbe sempre procedere con approfondimenti diagnostici eseguiti in modo sistematico come
già detto. In caso di proprietari disponibili se la malattia epatica è primaria l’esame
che ci permette di fare la diagnosi è la biopsia epatica con dosaggio dei minerali. Se
ci sono problemi economici l’alternativa è di fare una terapia sintomatica con dieta
ed epatoprotettori.
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GIACOMO BIAGI
Med Vet, Dr Ric, Bologna
Il proprietario
mi chiede una dieta
casalinga per
il suo cane:
come mi comporto?
Sabato 24 Ottobre 2015
ore 11.40
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INTRODUZIONE
La presenza sul mercato di una vastissima scelta di alimenti industriali per animali da compagnia ha portato in questi ultimi decenni la maggior parte dei proprietari di
cane ad abbandonare l’abitudine di preparare il pasto del proprio animale. E, ad onore del vero, l’ampia disponibilità dei suddetti alimenti industriali, ivi compresi quelli
dietetici da impiegare nelle diverse situazioni patologiche, ha contribuito a far sì che
la maggior parte dei medici veterinari, oggi, non sappia formulare correttamente una
dieta casalinga per cani. Eppure, non è così raro che un proprietario manifesti la volontà di alimentare il proprio cane con una dieta di tipo casalingo, ed è importante che
il medico veterinario sappia indirizzare questa persona verso una dieta davvero completa e bilanciata, evitando che il proprietario si affidi a ricette fai da te, magari trovate su internet, proposte sulla base dell’ultima moda, ma prive di qualsiasi valore
scientifico. Inoltre, in alcune situazioni patologiche, mediante il ricorso all’alimentazione casalinga è possibile personalizzare la dieta del cane, adattandola perfettamente alle necessità del momento, e contribuendo in maniera significativa alla gestione
clinica del paziente.
QUANDO RICORRERE ALLA FORMULAZIONE
DI UNA DIETA CASALINGA?
Le situazioni nelle quali il medico veterinario può prendere in considerazione la
possibilità di formulare una dieta casalinga sono varie.
Ovviamente, in primo luogo, questo accade quando c’è la volontà da parte del proprietario di “cucinare” per il proprio animale. In genere, questa scelta origina dal fatto che la dieta casalinga viene percepita come più naturale rispetto agli alimenti industriali, nei confronti dei quali esiste, in alcuni proprietari, una certa diffidenza. Infine, è indubbio che la preparazione del pasto è sentita da questi proprietari come un
momento in cui essi si prendono cura del proprio animale, con ricadute positive sul
rapporto emotivo con lo stesso.
In altre situazioni, il passaggio da una dieta industriale a quella casalinga viene
affrontato per problemi di scarso gradimento degli alimenti industriali, e di quelli
estrusi secchi in particolar modo, da parte dell’animale. In queste situazioni, il veterinario dovrebbe innanzitutto valutare lo stato di nutrizione del cane per verificare se davvero esista una condizione di sottonutrizione. Infatti, molto spesso, il cane
che secondo il proprietario “mangia poco” è semplicemente un animale che mangia
solo quello che gli serve, mantenendo un peso forma ottimale, ma senza manifestare al momento del pasto l’entusiasmo che il proprietario si aspetterebbe. In altri casi, invece, può davvero esistere un problema di appetibilità delle crocchette, che
persiste a prescindere dagli ingredienti che le compongono e dalla marca che viene
scelta. Questo è particolarmente vero per alcuni alimenti dietetici, come ad esempio quelli per la gestione del paziente renale cronico, che dovendo necessariamen-
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te essere poveri di proteine sono spesso poco graditi al cane (e, a maggior ragione,
al gatto).
Infine, si è già accennato a come, in presenza di alcune situazioni patologiche, il
ricorso all’alimentazione casalinga permetta di personalizzare la dieta del cane, adattandone le caratteristiche nutrizionali alle esigenze dell’animale (si pensi a come si
possa adattare la dieta alla progressione di una patologia cronica, come appunto quella renale). Inoltre, è evidente come il ricorso alla dieta casalinga permetta di conoscere esattamente quali ingredienti il cane assume. Per quest’ultimo motivo, le diete
casalinghe sono spesso impiegate come diete ad esclusione in dermatologia e gastroenterologia, con finalità diagnostiche e, in seconda battuta, terapeutiche.
COME SI FORMULA UNA DIETA CASALINGA?
La formulazione di una dieta casalinga deve tenere conto, in primo luogo, dei fabbisogni nutrizionali dell’animale, ovvero della necessità che il cane ha di trovare nella propria dieta tutti i nutrienti indispensabili allo svolgimento delle diverse funzioni
dell’organismo e al mantenimento della propria salute. Pertanto, la dieta deve apportare al cane diverse categorie di sostanze nutrienti, quali le proteine, i lipidi, i minerali e le vitamine e, eventualmente, i carboidrati digeribili e la fibra (oltre, naturalmente, all’acqua). Inoltre, la dieta deve fornire al cane la giusta quantità giornaliera
di energia, che l’animale ricaverà dal catabolismo di lipidi (la fonte energetica ideale
per un animale carnivoro) e, secondariamente, di proteine e carboidrati digeribili
(amido, in primo luogo).
I fabbisogni energetici e nutrizionali del cane sono influenzati da diversi fattori,
quali l’età, l’eventuale attività riproduttiva (gravidanza e allattamento), il livello di attività fisica ed eventuali condizioni patologiche. A questo proposito, i fabbisogni nutrizionali del cane nelle diverse fasi della sua vita (accrescimento nelle prime 14 settimane di vita, accrescimento dopo le 14 settimane, età adulta) sono consultabili presso il sito web di FEDIAF (FEDIAF, 2014). Per quanto riguarda i fabbisogni energetici del cane, diverse equazioni sono state proposte per la loro stima (Case et al., 2000;
FEDIAF, 2014). Per poter stabilire la quantità giornaliera di cibo da somministrare al
cane dovremo infine calcolare l’energia metabolizzabile (EM) della dieta impiegando i cosiddetti fattori di Atwater modificati, assegnando 8,5 kcal di EM ad un grammo di lipidi e 3,5 kcal di EM ad un grammo di proteine e carboidrati.
Una volti definiti i fabbisogni del cane, dovremo pensare a quali ingredienti impiegare per ottenere una dieta completa e bilanciata, che non si limiti a soddisfare tali fabbisogni ma che risulti anche appetibile, digeribile e sicura da un punto di vista
igienico-sanitario. La dieta che formuleremo dovrà anche tenere conto di eventuali intolleranze alimentari di cui il proprietario sia a conoscenza e, infine, del costo degli
ingredienti che useremo.
È evidente come la formulazione di una dieta richieda una approfondita conoscenza
delle proprietà nutrizionali dei diversi ingredienti impiegabili. A questo proposito, l’im-
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piego di appositi software di razionamento, dotati di un buon database di alimenti impiegabili nell’alimentazione casalinga del cane, è quasi indispensabile se si vuole ottenere un risultato scientificamente sicuro (cioè una dieta davvero completa e bilanciata)
in tempi relativamente rapidi. Non a caso, capita spesso nella pratica di imbattersi in
diete casalinghe formulate con eccessiva superficialità, spesso carenti di nutrienti essenziali, come oligoelementi minerali o vitamine, o, viceversa, contenenti alcuni nutrienti in quantità troppo elevate (ad es. il calcio nelle diete contenenti grandi quantità
di ossa, la vitamina A nelle diete ricche di fegato, la vitamina D in quelle ricche di pesce e/o di olio di fegato di merluzzo, ecc.); tanto è vero che la diffusa presenza di diete
casalinghe per cani malamente formulate, ma pubblicate su libri e pagine internet, è stata oggetto di alcuni articoli scientifici (Streiff et al., 2002; Stockman et al., 2013).
QUALI INGREDIENTI IMPIEGARE E COME SOMMINISTRARLI?
La scelta degli ingredienti da impiegare nella formulazione della dieta casalinga
per un cane dovrebbe tenere conto, in primo luogo, dell’obiettivo che ci si propone
per quanto riguarda le caratteristiche nutrizionali della dieta stessa e, in seconda battuta, del gradimento del cane nei confronti dei diversi alimenti e del loro costo.
Ai fini operativi, è consigliabile ragionare per categorie di alimenti: distinguendo
alimenti proteici (carne e organi, pesce e molluschi, uova, formaggio, soia) che potranno essere più o meno ricchi di grassi, alimenti lipidici (grassi animali, olio di pesce e oli vegetali), alimenti fonti di carboidrati digeribili (cereali, patate, piselli e altri legumi, ecc.), alimenti fibrosi (le verdure in generale, la crusca di frumento, ecc.),
alimenti minerali (sale da cucina, carbonato di calcio e fosfato mono- e dicalcico,
ecc.) e integratori commerciali che apportano acidi grassi essenziali, macro- e oligoelementi minerali nonché vitamine ed altri nutrienti ancora.
Benché sia ampiamente riconosciuto, in alimentazione umana, come l’assunzione
di diversi alimenti (e diverse categorie di alimenti) nel corso dei giorni rappresenti
una buona regola per avvicinarsi ad una dieta completa, un approccio di questo tipo
è difficilmente proponibile quando si alimenta un cane, in quanto esso viene spesso
percepito come eccessivamente impegnativo e laborioso da parte del proprietario.
Inoltre, alcuni cani potrebbero mangiare solo i pasti graditi, rifiutando gli altri. In ragione di ciò, il più delle volte è bene proporre una dieta semplice, costituita da pochi
ingredienti, ma comunque perfettamente completa e bilanciata, che il cane assumerà
tutti i giorni (assicurandosi che gli ingredienti vengano ben miscelati, così da evitare
che il cane scelga quelli a lui più graditi, scartando gli altri; se ciò accadesse, infatti,
il cane assumerebbe una dieta diversa da quella da noi formulata).
Una dieta così pensata potrebbe essere costituita da un tipo di carne (fonte di proteine), un olio (fonte di lipidi), un cereale (fonte di amido) e un tipo di verdura (fonte di fibra), con, in aggiunta, una integrazione che assicuri la presenza di vitamine e
minerali (altrimenti alcuni di questi nutrienti sarebbero inevitabilmente carenti in una
dieta costituita da pochi ingredienti). Un approccio di questo tipo permette comunque
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di prevedere delle alternative, soprattutto per quanto riguarda la carne (che potrà essere sostituita con altri tipi di carne o con pesce), sia per evitare che l’animale si stanchi di ricevere sempre la stessa dieta (la fonte proteica è certamente quella che maggiormente influenza l’appetibilità di una dieta destinata ad un animale carnivoro), sia
per meglio bilanciare alcuni aspetti nutrizionali (ad esempio, il rapporto acidi grassi
omega-6/omega-3, alternando carne e pesce). Viene riportato un esempio di dieta casalinga, costituita da relativamente pochi ingredienti, in Tabella 1 (Biagi, 2013). Si osservi come, nel rispetto della dieta proposta, sia possibile alternare il cuore di suino e
il pesce, mantenendone intatto il rapporto (ad esempio, alternando due settimane con
solo cuore suino ad una con solo pesce). Allo stesso modo, la pasta potrebbe essere
sostituita con riso e le carote con altre verdure.
A conclusione di quanto detto, si ricordi che la razione giornaliera di un cane dovrebbe essere suddivisa in almeno due pasti di volume simile, da somministrarsi a distanza di 8-12 ore l’uno dall’altro (a meno che l’animale non svolga attività fisica che
consigli una diversa distribuzione del cibo nell’arco della giornata). Una volta somTABELLA 1
Esempio di dieta casalinga di mantenimento per cani adulti (Biagi, 2013).
Ingrediente
Peso (per 1 kg di dieta)
Cuore di suino
260 g
Pesce (merluzzo)
130 g
Pasta di semola
410 g
Carote
160 g
Olio di soia
30 g
Fosfato dicalcico
4g
Sale dietetico
2g
Carbonato di calcio
4g
Attivo Tabs compresse (Bayer)
3g
Principali caratteristiche della dieta
Contenuto calorico (kcal/kg di dieta tal quale)
1.760
Proteine (% s.s.)
24
Lipidi (% s.s.)
9,5
Rapporto acidi grassi omega-6/omega-3
7,5
Calcio (% s.s.)
0,6
Fosforo (% s.s.)
0,5
Fibra alimentare (% s.s.)
2,8
Costo (€/kg di dieta tal quale)
4,1
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ministrata, una dieta casalinga non dovrebbe rimanere nella ciotola per più di 30 minuti; l’impiego di alimenti freschi e l’aggiunta ad essi di acqua tiepida permettono infatti la crescita di batteri e muffe che alterano l’alimento, in particolar modo in presenza di temperature ambientali elevate. Se il proprietario conserva in frigorifero (o
congelatore) la dieta già preparata per il cane, è bene che essa venga riscaldata (perlomeno riportata a temperatura ambiente) prima della sua somministrazione all’animale. L’ingestione di cibo freddo può infatti causare disturbi gastrointestinali, quali
vomito e diarrea (sebbene molti animali tollerino l’assunzione di alimenti freddi);
inoltre, l’appetibilità di un alimento freddo è in genere più bassa.
QUALI ALIMENTI DEVO CUOCERE E QUALI POSSONO ESSERE
SOMMINISTRATI CRUDI?
Una domanda che viene spesso posta al veterinario relativamente alla preparazione di una dieta casalinga per cani riguarda la necessità di cuocere gli ingredienti che
la compongono. Non vi è alcun dubbio che gli alimenti impiegati come fonte di amido (cereali e patate) debbano sempre essere ben cotti perché la cottura aumenta la digeribilità dell’amido (a meno che non si usino alimenti già cotti, come cereali fioccati, riso soffiato e pasta precotta per cani). È però l’opportunità di cuocere o meno la
carne destinata al cane che è spesso motivo di discussione. In generale, la cottura della carne (o di qualsiasi altro organo) comporta sia vantaggi che svantaggi: se, infatti,
da un punto di vista igienico-sanitario, la carne cotta è molto più sicura (la cottura uccide infatti i microrganismi e i parassiti eventualmente presenti), è altrettanto vero che
il suo valore nutrizionale è leggermente più basso, poiché il calore inattiva parte delle vitamine di cui la carne è naturalmente ricca; inoltre, una cottura particolarmente
lunga ed intensa può ridurre la digeribilità delle proteine, riducendo in particolar modo la biodisponibilità di alcuni aminoacidi, quali lisina e taurina.
Relativamente alla possibile presenza di batteri patogeni nella carne, è bene ricordare che questi batteri, se sono presenti, lo sono sulla superficie della carne, e, pertanto, potrebbe essere sufficiente cuocere la carne esternamente (lasciando l’interno
praticamente crudo) per garantire un buon livello di sicurezza senza compromettere
le proprietà nutrizionali della carne cruda (questo concetto non vale però per i prodotti macinati, poiché la macinazione determina la distribuzione nell’intera massa del
macinato dei batteri). Bisogna poi aggiungere che la contaminazione batterica di alcuni tipi di carne, come ad esempio quella di pollo (e, in minor misura, quella di tacchino), è piuttosto elevata, così da consigliare una buona cottura di queste carni. Per
quanto riguarda la carne suina, sebbene essa sia oggi molto più sicura di quanto fosse in passato per quanto riguarda la presenza di batteri e parassiti patogeni (Davies,
2011), esiste ancora in Italia il rischio che essa sia contaminata dal virus di Aujezsky,
responsabile nel cane e nel gatto della pseudorabbia, e dovrebbe pertanto essere somministrata ben cotta (anche se la presenza del virus è molto più frequente nelle frattaglie, polmoni in particolare, che nella carne).
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Per quanto riguarda il fegato, si consiglia di somministrarlo ben cotto, per ridurne
il tenore in vitamina A.
Il pesce crudo può contenere il parassita anisakis, che viene ucciso sia dalla cottura che dal congelamento per alcuni giorni; alcuni pesci contengono però l’enzima tiaminasi che, se non viene inattivato con la cottura, è capace, nel tempo, di indurre nel
cane una carenza di vitamina B1.
Le uova dovrebbero essere sempre bollite, al fine di eliminare i batteri presenti (in
genere sul guscio, molto più raramente all’interno) e inattivare l’avidina, un fattore
antinutrizionale presente nell’albume capace di provocare una carenza di biotina.
Per quanto riguarda le verdure, la cottura provoca la perdita di alcuni principi nutrienti (vitamine, in particolare); viceversa, sebbene anche nelle verdure possano essere presenti microrganismi e parassiti potenzialmente patogeni, non esistono rischi
igienici tali da renderne necessaria la cottura. In linea di massima, quindi, è preferibile, per motivi nutrizionali, impiegare verdure fresche crude (come verdura a foglia
larga, carote, zucchine, ecc.), sempre che queste siano ben tollerate dal cane.
In conclusione, tornando alle carni, quella di manzo (così come le carni equine e
ovine) potrebbero essere impiegate dopo averne appena “scottato” la superficie, mentre le carni degli avicoli e dei suini, così come le carni macinate di qualsiasi origine,
andrebbero cotte più in profondità.
La contestazione spesso rivolta all’invito a cuocere la carne si basa sull’osservazione che i cani tollerano il più delle volte senza alcun problema la carne cruda, anche se contaminata da batteri patogeni, perché il loro apparato gastrointestinale ha
una maggior capacità, rispetto a quello umano, di inattivare questi batteri. Ora, senza
dimenticare che, come si è già detto, le carni crude rappresentano anche una potenziale fonte di virus e parassiti patogeni (protozoi inclusi), esiste evidenza in letteratura scientifica del fatto che il consumo di carni crude da parte del cane non è così privo di rischi, contrariamente a quanto alcuni sono portati a credere, per l’animale
(Marks et al., 2011; Selmi et al., 2011) e per le persone che vivono nello stesso ambiente. Numerosi studi hanno evidenziato la frequente presenza di batteri patogeni
(sierotipi patogeni di Escherichia coli, Salmonella spp., Campylobacter spp.) in diete per cani commercializzate crude e congelate (Joffe e Schlesinger, 2002; Strohmeyer et al., 2006; Finley et al., 2007), riconoscendo nella carne di pollo quella più spesso contaminata. Sulla base di queste evidenze, il potenziale rischio microbiologico
rappresentato dalle feci escrete da cani alimentati con carni crude per le persone (in
particolar modo per quelle più a rischio, come neonati e individui immunodepressi)
con cui essi vengono a contatto è oggi oggetto di discussione (Finley et al., 2006; Lefebvre et al., 2007; Lenz et al., 2009).
CONCLUSIONI
In conclusione, è possibile, ed è relativamente semplice, formulare una dieta casalinga per cani che sia davvero completa e bilanciata da un punto di vista nutriziona-
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le. Il medico veterinario in grado di fare ciò avrà la possibilità di soddisfare il desiderio di coloro che intendono preparare il pasto del proprio animale e avrà a disposizione, inoltre, uno strumento utile alla gestione di alcune situazioni patologiche, quali, in particolare, quelle caratterizzate da inappetenza o anoressia e quelle per le quali si sospettano reazioni avverse al cibo.
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WALTER BERTAZZOLO
Med Vet, Dipl ECVCP, Pavia
Quando devo davvero
ricorrere ad un esame
del midollo osseo?
E come devo farlo?
Sabato 24 Ottobre 2015
ore 13.00
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INTRODUZIONE
L’ematopoiesi è il processo attraverso il quale vengono prodotte le cellule del sangue. Nella vita fetale questo funzione viene sostenuto prima dal sacco vitellino, quindi dalla milza e dal fegato, infine verso il termine della gestazione dal midollo osseo.
Nella vita post-natale è invece il midollo osseo a compiere prevalentemente ematopoiesi, sebbene la milza, il fegato, e raramente linfonodi e polmone possono costituire sedi di ematopoiesi extramidollare.
La vita media delle cellule circolanti varia da poche ore (granulociti neutrofili), a
giorni (piastrine), alcuni mesi (eritrociti) fino ad alcuni anni (aluni linfoiciti): pertanto il sistema ematopoietico è in grado di mantenere un equilibrio tra le richieste periferiche e la produzione midollare sia in condizioni fisiologiche che patologiche.
Il midollo osseo ematopoietico è il tessuto destinato alla produzione delle cellule
ematiche circolanti nella vita post natale. Esso è costituito da una complessa rete di
cellule stromali, accessorie e matrice extracellulare in grado di promuovere la proliferazione e la differenziazione dei precursori ematopoietici. La proliferazione e la differenziazione dei precursori ematopietici viene stimolata o inibita da fattori locali (es.
citochine) o sistemici (es. eritropoietina, trombopoietina). Le cellule staminali situate nel midollo osseo danno origine ai precursori di tutte le linee cellulari ematopoietiche (mieloide, eritroide e megakariocitaria), oltre che a osteoblasti e mastociti.
Negli animali giovani il midollo osseo ematopoietico (midollo rosso) è presente all’interno di tutte le ossa, mentre rimane attivo, nell’animale adulto, solo nei corpi vertebrali, nelle ossa piatte e nelle epifisi prossimali di femore ed omero, venendo sostituito nelle altri sedi da tessuto adiposo (midollo giallo). Conoscere questa distribuzione dei tessuti ematopoieticamente attivi è importante per selezionare la corretta sede di campionamento midollare in base all’età del paziente.
L’esame del midollo osseo deve essere sempre interpretato sempre alla luce dei rilievi clinici e di laboratorio e non può mai prescindere da una completa valutazione
dell’emogramma.
CLASSIFICAZIONE E NOMENCLATURA
DEI PRECURSORI EMATOPOIETICI
In tutte le tre linee ematopoietiche, la proliferazione cellulare segue uno schema piramidale: il numero di precursori precoci (blasti) è molto basso in condizioni fisiologiche,
mentre quello dei precursori successivi tende a crescere di numero esponenzialmente.
Durante la differenziazione cellulare, gli elementi mieloidi ed eritroidi diminuiscono di
volume, mentre i precursori megakariocitari crescono notevolmente di dimensione.
Terminologia midollare: di seguito verrano indicate le terminologie e le caratteristiche citologiche dei differenti precursori ematopietici, dai più precoci ai più tardivi. Da notare che gli elementi eritroidi possono venir definiti da due sistemi classificativi diversi.
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1) Serie eritroide:
– rubriblasto (proeritroblasto): primo precursore eritroide riconoscibile. Dimensioni 2-3 RBC. Rima citoplasmatica completa e marcatamente basofila. Ampio
nucleo rotondo centrale/eccentrico con nucleoli visibili;
– prorubricita: simile al rubriblasto ma privo di nucleolo;
– rubricita (eritroblasto): dimensioni 1,5-2 RBC. Rima citoplasmatica completa
che può variare dal basofilo (rubricita/eritroblasto basofilo), a policromatofilo ed
infine più eosinofilo, ovvero dello stesso colore dei reticolociti finali (rubricita/eritroblasto ortocromatico). Il cambiamento delle affinità tintoriali del citoplasma degli eritroblasti riflette l’attività sintetica proteica (sintesi di emoglobina) di
tali cellule, che inizialmente sono ricche di poliribosomi (citoplasma basofilo),
quindi virano all’eosinofilo per l’accumularsi di emoglobina. Nucleo progressivamente più piccolo e con cromatina coartata. Nucleoli non più evidenti;
– metarubricita: dimensioni poco superiori a un eritrocita. Presenza di un nucleo
picnotico solitamente eccentrico. Citoplasma eosinofilo (come i reticolociti).
Con l’espulsione del nucleo divengono reticolociti;
– reticolocita: dimensioni leggermente superiori agli eritrociti e con citoplasma
policromatofilo per la presenza di residui di RNA.
2) Serie mieloide:
– mieloblasto: cellule di ampie dimensioni (2-3 RBC), con moderata quantità di
citoplasma azzurro talora contenente granuli azzurrofili (ovvero di color rosa). I
mieloblasti privi di granulazioni vengono definiti Mieloblasti tipo I, mentre
quelli con granuli (<15 granulazioni) Mieloblasti tipo II. Quando i granuli divengono più numerosi e i nucleoli tendono a scomparire si parla di promielocita. Nucleo rotondo/ovale spesso eccentrico con nucleolo/i evidente/i;
– monoblasto: simile al mieloblasto ma con nuclei più irregolari e con indentature. Dal monoblasto deriveranno i monociti;
– mielocita: minor dimensione rispetto al mieloblasto (circa 2 RBC); a questo stadio è possibile riconoscere il tipo di granulocita che deriverà, in fatti il citoplasma
azzurro può essere privo di evidenti granulazioni (mielocita neutrofilo) o con granulazioni eosinofile e basofile (mielocita eosinofilo e basofilo rispettivamente);
– metamielocita: cellula simile al mielocita ma di dimensioni leggermente inferiori e con nucleo insellato. È possibile distingure metamielociti neutrofili, eosinofili e basofili;
– granulociti bandati e maturi: questi presentano le medesime cratteristiche osservabili negli strisci ematici periferici.
3) Serie megakariocitaria:
– megakarioblasto: cellule di dimensione ed aspetto simile agli altri blasti; citoplasma scarso, intensamente basofilo e talora con proiezioni (blebs) e vacuolizzazioni;
– promegakariocita: il nucleo dei megakarioblasti si suddivide dando origine a
cellule con nuclei da due a quattro, aumentando progressivamente di volume. Il
citoplasma permane scarso, basofilo e vacuolizzato;
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– megakariocità: i nuclei divengono 8 e poi tendono a fondersi in un’unica massa
nucleare informe; citoplasma prima moderato e basofilo, quindi progressivamente più abbondante, eosinofilo e granulare, da cui si distaccano frammenti
(piastrine). Il megakariocita, essendo il risultato di numerose endomitosi, è una
cellula poliploide (8N-32N).
4) Cellule linfodi: i linfociti originano da precursori linfoidi midollari (linfoblasti, cellule linfoidi di piccole dimensioni, con scarso citoplasma e nuclei con cromatina fine): le cellule T migrano successivamente nel timo, dove si differenziano e si specializzano. I linfociti B migrano negli organi periferici linfatici (linfonodi, milza,
Mucosal Associated Lymphoid Tissue - MALT) dove possono andare incontro ad
espansione clonale dopo esposizione antigenica. Le cellule linfatiche possono andare incontro a numerosi ricircoli emato-linfatici e vivere a lungo come cellule memoria. Si considera accettabile una quantità di cellule linfoidi nel midollo osseo inferiore al 10% di tutte le cellule nucleate, anche se nei gatti talora questa percentuale può anche essere superiore. Le plasmacellule sono spesso riunite in piccoli
gruppi e sono solitamente inferiori al 2% delle cellule nucleate totali midollari.
5) Altre cellule: osteoclasti, osteoblasti, cellule fusate (cellule stromali), mastociti e
macrofagi sono solo occasionali (<1% delle cellule nucleate midollari).
QUANDO E PERCHÉ ESEGUIRE UNA BIOPSIA MIDOLLARE
Nella pratica clinica, l’esame del midollo osseo è consigliabile nelle seguenti
situazioni:
1) Anomalie ematologiche rilevate mediante esame emocromocitometrico che non
possono essere spiegate dalle indagini cliniche e dagli esami di routine (es. citopenie periferiche, soprattutto se associate tra loro, presenza di cellule circolanti
anomale, trombocitosi/leucocitosi persistenti). La maggior parte delle alterazioni
ematologiche periferiche può infatti trovare una giustificazione attraverso esami
collaterali che esulano dal prelievo midollare. Facciamo alcuni semplici esempi.
Un paziente con grave anemia non rigenerativa ed insufficienza renale cronica non
ha nessun bisogno di esame midollare, in quanto la causa dell’anemia è facilmente riconducibile alla ridotta produzione di eritropoietina conseguente alla patologia
renale. Un paziente con reazione leucemoide avrà quasi certamente una grave infezione localizzata in alcuni tessuti o sistemica, per cui in questo caso l’esame del
midollo osseo non aggiunge nulla a quello che già individuiamo dall’esame emocromocitometrico; piuttosto sarà necessario ricercare la sede e la causa dell’infezione. Ancora un paziente con sindrome di Evans (anemia e trombocitopenia immunomediata) ed anemia fortemente rigenerativa, non ha nessun bisogno di esame
midollare, in quanto già dall’emocromocitometrico sappiamo che il midollo sta
funzionando (rigenerazione).
2) Stadiazione di neoplasie (linfoma, mastocitoma, carcinomi, ecc.) o identificazone
di neoplasie primaria midollari (es. leucemie e mielomi).
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3) Iter diagnostico Di problemi internistici quali febbre di origine sconosciuta, ipercalcemia, gammopatie mono- e policlonali: alcune di queste condizioni riconoscono infatti patologie primariamente midollari (es. leucemie, mielomi) o con coinvolgimento midollare in corso di patologia sistemica (es. leishmaniosi).
4) Ricerca agenti eziologici (leishmaniasi, infezioni fungine sistemiche, ecc.). Per la
leishmaniosi in particolare, il midollo è generalmente il tessuto dal quale è più probabile individuare l’agente eziologico mediante esame citologico e biologia molecolare (PCR).
5) Valutazione di lesioni radiografiche ossee che possono suggerire un coinvolgimento midollare (mieloma multiplo, neoplasie ossee primarie, metastasi, malattie
infiammatorie/infettive, ecc.).
ESECUZIONE DELLE BIOPSIE MIDOLLARI IN PRATICA
La biopsia midollare può essere di tipo citologico (aspirativa) o istologico (needlecore). Entrambe sono metodiche relativamente semplici e solitamente prive rischi, ma
vanno spesso eseguite in sedazione profonda o anestesia generale. In alcuni paziente
e per alcuni tipi di prelievo (es. FNA costo-condrale), può essere sufficiente l’anestesia locale. La prima tecnica bioptica (citologica) è particolarmente indicata per la valutazione della morfologia cellulare o la ricerca di parassiti, la seconda (istologica)
per valutare la cellularità o alterazioni quali aplasia midollare, mielofibrosi, iperostosi e metastasi occulte. Le biopsie midollari si possono eseguire con aghi di diametro
variabile, con o senza mandrino. Gli aghi mandrinati sono da preferirsi in quanto non
si occludono durante l’inserimento come capita invece spesso utilizzando aghi normali. I punti di repere preferenziali sono l’epifisi prossimale omerale e femorale, la
cresta iliaca, la giunzione costocondrale (solo per prelievi aspirativi e con aghi di piccolo calibro, >18G) e lo sterno. Prima di procedere alla biopsia è sempre necessario
preparare adeguatamente il campo operatorio (tricotomia e asepsi). Dopo la preparazione del campo è consigliabile eseguire una incisione cutanea con lama da bisturi pre
facilitare l’introduzione dell’ago (solo in caso di aghi midollari di grosso calibro).
I prelievi citologici (agoaspirativi) vengono effettuati aspirando sangue midollare
contenente le particelle di midollo osseo (spicole). L’autore preferisce utilizzare siringhe a basso volume (es. 5 ml) in quanto, provocando un vuoto minore, viene aspirato meno sangue in proporzione al tessuto midollare; per ridurre inoltre la contaminazione ematica e staccare il maggior numero di spicole è consigliabile non effettuare una aspirazione continua e lenta, ma a intervalli con piccoli colpi. Il midollo aspirato deve essere strisciato immediatamente per evitarne la coagulazione. Alternativamente può essere mescolato ad EDTA (previamente posto nella siringa utilizzata per
il prelievo) ed essere processato entro poche ore. Non è consigliabile utilizzare altri
anticoagulanti (es. eparina) in quanto i campioni così ottenuti non presentano una
morfologia ben conservata. Appena preparati, gli strisci devono essere fissati all’aria
immediatamente (possibilmente con ascigacapelli o in stufa) e colorati con colora-
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zioni del tipo Romanowsky (preferibilmente May-Grünwald-Giemsa). L’adeguata
preparazione dei campioni citologici è la fase più critica ai fini della corretta interpretazione in quanto solo se correttamente strisciati, fissati e colorati i campioni possono essere adeguatamente valutati microscopicamente.
I prelievi needle-core vengono ottenuti con appositi aghi mandrinati per biopsie
midollari od ossee. La tecnica è solitamente dolorosa e richiede l’utilizzo di protocolli
anestesiologici locali o generali. Le sedi preferenziali per l’esecuzione di una bipsia
istologica midollare sono le epifisi prossimali di omero e femore e la cresta iliaca. Le
prime due sedi sono di più semplice accesso anche per operatori non avvezzi alle tecniche ortopediche. Una volta che l’ago mandrinato è stato introdotto nella corticale
ossea, il mandrino viene tolto e la cannula viene sospinta in profondità nell’osso per
1-2 cm. Prima di ritirarla è consigliabile eseguire alcuni movimenti di lateralità per
facilitare il distacco della carota midollare dalla base a cui è attaccata. La “carota” di
tessuto prelevata viene fatta fuoriuscire dalla parte posteriore della cannula (mediante apposito specillo); successivimante deve essere fissata in formalina e processata
mediante le comuni tecniche istopatologiche. Prima di essere posta in formalina, il
frammento bioptico può essere rotolato delicatamente su vetrino per ottenere preparati per citologia.
COME SI INTERPRETANO GLI STRISCI MIDOLLARI
AL MICROSCOPIO
L’esame microscopico del midollo osseo prevede innanzitutto la valutazione del
campione prelevato per accertarsi che tessuto o cellule di origine ematopoietica siano state effettivamente ottenute. Può infatti capitare che il materiale prelevato sia privo di tessuto ematopoietico e sia costituito solamente da sangue e non sia pertanto
valutabile. In secondo luogo si deve procedere alla valutazione della cellularità. Quest’ultima viene stimata più correttamente in campioni bioptici needle-core. Un prelievo citologico eccessivamente contaminato da sangue o scarsamente cellulare può
infatti dipendere da patologie intrinseche al midollo ematopoietico o da errori tecnici dell’operatore. Un campione può essere classificato come ipo, normo o ipercellulare in funzione del rapporto tra quantità di tessuto ematopoietico e tessuto adiposo.
Se il tessuto adiposo rappresenta il 25-75% del campione prelevato, questo è da considerarsi normocellulare. Se più del 75% del midollo osseo prelevato è costituito da
tessuto adiposo allora il campione è da considerarsi ipocellulare. Infine il 75% del
campione è costituito da tessuto emtopoietico allora il campione è da considerarsi
ipercellulare. Campioni ipocellulari possono dipendere da età (soggetti anziani), sede del prelievo inappropriata, o da patologie intrinseche al midollo osseo (aplasia
midollare, ipoplasie selettive, farmaci/tossici, parvovirosi, ehrlichiosi cronica, ematopoiesi extramidollare, mielofibrosi, osteosclerosi/iperostosi). Campioni ipercellulari possono conseguire iperplasie reattive delle diverse linee ematopoietiche (anemie fortemente rigenerative, infezioni, trombocitopenia autoimmune) o a malattie
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mieloproliferative, linfoprolife- Tabella 1
Percentuali delle diverse popolazioni
rative o mielodisplatiche.
Successivamente devono esse- nucleate in modolli normali canini e felini.
re valutati i rapporti tra le diverse
Tipo cellulare
Cane
Gatto
linee ematopoietiche e la maturaBlasti Mieloidi
<3
<3
zione nelle tre linee. Il modo miMielociti
neutrofili
3-6
0,5-8
gliore per interpretare questi rapporti è quello di effettuare delle
Metamielociti neutrofili
5-9
4-13
conte (contare almeno 500 celluNeutrofili banda e segmentati
20-40
20-40
le nucleate) ottenendo così delle
Eosinofili totali
<6
<3
percentuali come indicato nelBasofili
totali
<1
<1
l’Appendice. In condizioni normali, ciascuna serie ematopoietiBlasti eritroidi
<3
<2
ca deve presentare un processo di
Rubriciti
20-30
10-30
maturazione ordinato e sequenMetarubriciti
9-16
1-10
ziale: precursori più “giovani”
Rapporto
Mieloide/eritroide
0,9-1,8
1,2-2,2
devono cioè rappresentare una
percentuale ridotta rispetto agli
Linfociti
1-5
10-20
elementi in via di maturazione
Plasmacellule
1-2
0-2
(vedi Tabella 1). Inoltre non deMonociti
<2
<2
vono sussistere arresti di maturaMacrofagi
<1
<1
zione nelle diverse linee ematopoietiche e non devono essere
evidenti segni di displasia cellulare.
Il rapporto M/E e la maturazione cellulare possono subire alterazioni in corso di
patologie specifiche (ad esempio riduzione del rapporto M/E in caso di iperplasia eritroide secondaria ad anemia emolitica immunomediata, oppure aumento del rapporto
M/E in corso di infezioni batteriche). Gli arresti di maturazione possono conseguire
a patologie immunomediate, a disordini mieloproliferativi e mielodisplastici. Aspetti
di displasia cellulare possono essere osservati in casi di mielodisplasie, dismielopoiesi secondarie o in caso di leucemie.
La classificazione dei disordini mieloproliferativi e delle sindromi mielodisplastiche primarie viene effettuata seguendo schemi standardizzati in bibliografia che si basano sui rapporti numerici tra le diverse cellule ematopoietiche, in particolare valutando il rapporto numerico esistente tra i blasti e le altre cellule nucleate.
La morfologia cellulare dei precursori ematici e i loro rapporti numerici devono essere valutate da personale esperto in quanto possono presentare alterazioni indicative di patologie immunomediate, dismielopoietiche, mielodisplatiche o francamente leucemiche.
Bibliografia
Harvey JW. Atlas of Veterinary Hematology. WB Saunders Philadelphia, 2001.
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ALLEGATO: ESEMPIO DI SCHEDA DI REFERTAZIONE
BIOPSIA CITOLOGICA MIDOLLARE
Proprietario Sig.:
Segnalamento:
Sede prelievo:
Veterinario Dr.:
Dati clinici:
Descrizione microscopica:
– Cellularità: descrizione
– Serie megakariocitaria: descrizione
– Serie eritroide: descrizione
– Serie mieloide: descrizione
Dettaglio conte:
Blasti eritroidi: %
Rubriciti: %
Metarubriciti: %
Blasti mieloidi: %
Mielociti: %
Metamielociti: %
Granulociti neutrofili bandati e segmentati: %
Eosinofili: %
Cellule monocitoidi: %
Rapporto Mieloide/Eritroide:
Linfociti: %
Plasmacellule: %
Macrofagi: %
Altre cellule:
Commento:
Indirizzo per la corrispondenza:
Ospedale Veterinario Città di Pavia
Laboratorio LaVallonea, Alessano (Le)
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Devo fare una biopsia:
quando può essere
citologica e
quando deve essere
istologica?
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INTRODUZIONE
Per biopsia si intende un campionamento di cellule e/o tessuti da un paziente “in
vita”, al fine di ottenere informazioni diagnostiche su un possibile processo patologico in atto. Ovviamente tanto la biopsia citologica che quella istologica necessitano di
appropriate e dedicate pro cessazioni prima di poter essere interpretate dal patologo.
Metodi di prelievo e modalità di processazione dei campioni esulano tuttavia dalla
presente relazione, che verterà invece su vantaggi e svantaggi delle due procedure e
su consigli pratici riguardo la scelta di uno o dell’altro tipo di campionamento.
Innanzitutto va sottolineato che biopsie citologiche e istologiche non sono mutualmente esclusive e che non sempre ci danno le stesse informazioni. Anzi, in alcuni casi sono da considerarsi complementari in quanto possono fornire dati patologici complementari. Ad esempio, nel caso del midollo osseo, la citologia è fondamentale per
il corretto riconoscimento delle varie fasi maturative delle linee ematopoietiche; queste informazioni non possono derivare dall’istologia in quanto non è possibile da un
campione midollare istologico riconoscere le varie fasi maturative. Viceversa, l’architettura midollare, la cellularità del campione, l’eventuale presenza di fibrosi, ecc.
sono molto più accuratamente evidenziate mediante un campione istologico.
Nella Tabella 1 sono riassunti i vantaggi e gli svantaggi delle due procedure.
QUANDO È MEGLIO LA CITOLOGIA E QUANDO L’ISTOLOGIA
(E QUANDO CI VOGLIONO ENTRAMBE)
Vediamo ora nello specifico quando è meglio ricorrere a lla citologia e quando è
meglio l’istologia. In generale, prima di valutare esempi pratici specifici, è bene ri-
TABELLA 1
Vantaggi e svantaggi di biopsia citologica ed istologica nella pratica clinica.
CITOLOGIA
ISTOLOGIA
Tecnica semplice
Tecnica solitamente chirurgica
Poco dispendiosa e costosa
Più costosa
Non richiede solitamente anestesia
Solitamente richiede anestesia locale/generale
Tempi di risposta brevi
Tempi di risposta più lunghi
Minor accuratezza diagnostica
Maggior accuratezza diagnostica
Raccolta di una piccola frazione di tessuto
Raccolta di una porzione maggiore di tessuto
Non possibile valutazione architettura tissutale
Valutazione dell’architettura tissutale
Indagini aggiuntive limitate
Indagini aggiuntive più agevoli
(es. Istochimica, immuno-istochimica, ecc.)
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cordare che se per quella particolare indagine diagnostica è necessario il ricorso ad
un’anestesia generale, allora è buona pratica medica non limitarsi ad una più semplice citologia, ma prepararsi comunque a campionare anche frammenti di tessuto per
un eventuale esame istologico.
Lesioni cutanee: di fronte ad una lesione nodulare cutanea/sottocutanea, l’approccio più razionale è l’esecuzione di prelievi citologici per FNA, semplici e non invasivi. Nella maggior parte dei casi questo tipo di citologia fornisce informazioni diagnostiche molto utili, mentre a fronte di risultati non diagnostici è poi consigliabile
passare ad una più invasiva biospia istologica. Nel caso di lesioni non nodulari (es.
Lesioni cutanee superficiali come croste, ulcere, dermatiti, ecc.) la citologia può dare informazioni utili solo nell’ambito di una completa visitita dermatologica ed è pertanto uno step diagnostico obbligato per il dermatologo, il quale però poi, per molte
patologie, deve ricorrere a biopsie istologiche cutanee mirate al fine di valutare le alterazioni morfologiche in maniera più approfondita.
Linfoadenomegalie: in corso di linfoadenomegalia (locale o sistemica, superficiale o profonda), l’esame citologico per FNA è un passo pressoché obbligatorio nell’iter
diagnostico, in quanto nella stragrande maggioranza dei casi fonrisce indicazioni fondamentali (presenza di liafoadenopatia reattiva, linfadenite, neoplasia e metastasi linfonodali). In alcuni casi però la biopsia istologica linfonodale è necessaria (es. Per
svelare metastasi non evidenti all’esame citologico, oppure per una diagnosi e classificazione più accurata dei infomi) ed in questi casi è importante eseguire una biopsia
di tipo escissionale del linfonodo maggiormente colpito, se possibile evitando i linfonodi mandibolari, talvolta più difficili da interpretare.
Raccolte liquide non cavitarie: per le lesioni cistiche a contenuto liquido, l’esame
citologico del fluido è senz’altro uno step necessario sebbene nella stragrande maggioranza dei casi non possa fornire informazioni sull’origine della formazione. Pertanto solitamente è poi necessario il ricorso ad una biopsia istologica della formazione cistica nel suo insieme.
Versamenti cavitari: in questo caso invece l’esame citologico, coadiuvato dagli altri rilievi (aspetto macroscopico, conte cellulari, esame chimico-fisico) è spesso essenziale per la corretta classificazione del versamento e quindi nella ricerca delle possibili cause della raccolta intra-cavitaria.
Organi parenchimatosi: organi come milza, fegato, reni, prostata, polmoni, ecc.
possono essere facilmente campionati per FNA. I quadri citologici, coadiuvati dai rilievi di diagnostica per immagini, forniscono spesso informazioni diagnostiche molto utili in alcuni casi (es. Patologie infiltrative neoplastiche e non, infezioni), mentre
lo sono molto poco in altri (es. Patologie renali croniche). In queste ultime situazioni, la diagnosi definitiva deve pertanto basarsi sui rilievi istologici.
Lesioni ossee litiche/produttive possono essere facilmente campionate per FNA e
la citologia può fornire quadri diagnostici di neoplasia o infezioni (es. Micosi). Sebbene sia nel complesso meno informativa della biopsia istologica per carotaggio, il
prelievo per FNA è senz’altro meno traumatico per i tessuti ossei alterati, permettendo quindi molti più tentativi di campionamento rispetto alla biopsia istologica.
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Prelievi per via endoscopica: in questi casi è sempre consigliabile ricorere al prelievo di più frammenti bioptici, destinandone la maggior parte all’esame istologico,
ed usandone 1-2 per ottenere dei preparatici citologici (preferibilmente mediante
squash technique).
Indirizzo per la corrispondenza:
Ospedale Veterinario Città di Pavia
Laboratorio LaVallonea, Alessano (Le)
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PAOLO GAGLIO
Med Vet, Roma
Questo paziente
ha delle emorragie:
quale iter
devo percorrere?
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Il paziente che sanguina, a causa di un trauma o per un’altra qualsivoglia causa, è
un’urgenza assoluta.
Oltre a fermare immediatamente l’emorragia il medico d’urgenza deve anche essere in grado di scegliere, appena possibile, gli esami complementari che permettono
di identificare e trattare la causa del sanguinamento.
Il sanguinamento può causare shock ipovolemico (per es. emoaddome) ed essere
associato anche a gravi problemi respiratori (es. contusione polmonare o emotorace).
Le emorragie possono essere visibili o non visibili. Per sanguinamenti visibili s’intendono quelle perdite di sangue a livello cutaneo o mucosale che si notano ad occhio
nudo quali: ecchimosi, petecchie, ematomi, epistassi, sanguinamenti genitali, urinari
(ematuria), gastro-enterici e piaghe o tumori superficiali che sanguinano in modo
continuo o intermittente.
Per emorragie occulte s’intendono quelle perdite di sangue che solo un esame clinico accurato o esami complementari (centesi, ecografie, radiografie, etc) possono
mettere in evidenza. Esempi sono emorragie a livello di: fondo dell’occhio, SNC, apparato cardio-vascolare, respiratorio, nonchè le emorragie che si presentano a livello
delle grandi cavità (torace o addome) o nello spazio retro-peritoneale.
Le emorragie a livello peritoneale generalmente non provocano un aumento del volume dell’addome clinicamente evidente (questo è possibile solo se il volume di sangue
perso sia nell’ordine dei 40 ml/kg). Per questo motivo le radiografie o ancora meglio
l’eco-fast dell’addome sono strumenti indispensabili in caso di sospetto di emoaddome.
La diminuzione del volume sanguineo porta una diminuzione della pressione di
riempimento del cuore, e conseguentemente un abbassamento della portata cardiaca
che tende a provocare ipotensione. Come meccanismo compensatorio si realizza
un’attivazione ortosimpatica con tachicardia, splenocontrazione, vasocostrizione periferica (soprattutto cutanea, renale e gastroenterica). In caso di scompenso si verifica una vasoplegia (vasodilatazione e diminuzione della resistenza arteriosa periferica) che è il punto di partenza dell’acidosi metabolica. La perdita acuta di sangue è il
classico esempio di shock ipovolemico e come tale va trattato cercando di ristabilire
una perfusione normale.
La conseguenza diretta di un grave sanguinamento acuto è l’anemia. che tuttavia
non si instaura immediatamente. L’ematocrito (Hct) diminuisce solo dopo qualche
ora (splenocontrazione compensatoria e tempo necessario per il trasferimento del liquido intestiziale allo spazio intravasale, per il ristabilimento della volemia). Nel cane la splenocontrazione mobilita 20 ml di sangue per kg di peso corporeo (solo 5
ml/kg nel gatto). Il tasso di proteine sieriche o plasmatiche diminuisce più precocemente rispetto all’ematocrito.
CAUSE DI SANGUINAMENTO
Le cause di sanguinamento possono essere dovute a un insulto diretto ai vasi sanguigni (cause vascolari) oppure a un’emostasi alterata.
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Cause “vascolari”
Le cause “vascolari” sono dovute a vari tipi di traumatismi: complicazioni circolatorie, traumi, ferite fa morso, traumi da investimento, ferite, tumori etc. Possiamo osservare sanguinamento anche in caso di vasculite, infiltrazione leucemica, policitemia, ipertensione etc.
TURBE DELL’EMOSTASI
Le turbe dell’emostasi possono essere divise in turbe dell’emostasi primaria e turbe dell’emostasi secondaria e terziaria.
Turbe dell’emostasi primaria
Le turbe dell’emostasi primaria si traducono spesso in petecchie/porpora e nel sanguinamento delle mucose (epistassi etc.) si tratta di:
– trombocitopenie centrali (estrogenoterapia, tumori estrogenici, ehrlichiosi cronica, infezione da FeLV, infiltrazione midollare di emopatie maligne) e trombocitopenie periferiche (a mediazione immunitaria, babesiosi, ehrlichiosi in fase acuta, coagulazione intravasale disseminata). Affinché una trombocitopenia riesca a
provocare da sola un sanguinamento è necessario che sia di una certa importanza (<50x109/l);
– turbe della funzionalità piastriniche: farmaci (FANS) diverse turbe ereditarie come
la malattia di Von Willebrand, poliglobulie, disglobulinemie, emopatie maligne.
Turbe della coagulazione secondaria e terziaria
Queste turbe si manifestano con sanguinamenti variabili, come ad esempio ematomi e sanguinamenti delle grandi cavità corporee. Solitamente non si rileva la presenza di petecchie tranne nel caso non vi sia un problema che coinvolga anche la coagulazione primaria.
Si tratta solitamente di:
– diverse turbe ereditarie come l’emofilia A nel cane e il deficit del fattore XII della
coagulazione nel gatto;
– turbe acquisite soprattutto in seguito a intossicazioni da anti-vitamina K, CID (coagulazione intravasale disseminata), epatopatie etc.
COMPORTAMENTO DA SEGUIRE IN CORSO
DI SANGUINAMENTO
Se in urgenza ci si trova di fronte a un paziente che sanguina, ad esempio da un
arto, bisogna cercare di fermare l’emorragia o con la semplice pressione o aiutandosi con un laccio emostatico e con fasciature compressive, per poi chiudere il vaso
chirurgicamente.
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La compressione digitale o l’apposizione di una fasciatura compressiva deve essere effettuata a monte della lesione (nel caso di un sanguinamento arterioso), sulla lesione stessa (nel caso di un sanguinamento arterioso o venoso) oppure a valle ne caso di un sanguinamento venoso).
In caso di sanguinamento copioso di origine traumatica i mezzi fisici spesso sono
i soli a rivelarsi efficaci; i mezzi chimici (derivati della segale cornuta, acqua ossigenata, compresse emostatiche) si rilevano efficaci solo nel caso di ferite superficiali e
di dimensioni modeste.
Se è presente un grave stato di shock ipovolemico naturalmente bisogna trattarlo
in maniera adeguata.
TRATTAMENTO
Se il sanguinamento è sicuramente traumatico, l’eventualità più frequente è che ci
si trovi davanti a un paziente in shock ipovolemico grave, per combattere il quale bisogna intervenire con una certa urgenza, al fine di assicurare il riempimento del letto
vascolare, e instaurando un’idonea assistenza respiratoria e/o cardiovascolare. A volte è necessario intervenire chirurgicamente a scopo esplorativo o con preciso intento
salvavita (toracotomia o laparotomia d’urgenza) naturalmente se tutte le opzioni conservative (per es. bendaggio compressivo addominale) si sono dimostrate inutili.
Se lo shock o l’emorragia non mettono gravemente a rischio la vita del paziente,
bisogna assolutamente effettuare un prelievo emocromocitrometrico (2,5 ml di sangue in EDTA) e di bilancio della funzione coagulativa (2,5 ml di sangue in citrato di
sodio) prima di intraprendere qualsiasi terapia medica per poter avere un quadro clinico ematico non alterato da eventuali terapie in urgenza.
Se il sanguinamento non è di origine traumatica bisogna valutare, attraverso un
prelievo sanguineo, eventuali problemi ella coagulazione e conta delle piastrine.
Nel caso non si possano effettuare questi test subito è comunque necessario prelevare del sangue in EDTA e in citrato di sodio prima di iniziare qualsiasi terapia.
Una volta effettuato il prelievo si può procedere alla terapia mirata (per es vitamina K oppure trasfusione di sangue fresco o plasma).
Indirizzo per la corrispondenza:
Ospedale Veterinario Gregorio VII - Roma
Responsabile Pronto Soccorso Notturno
E-mail: [email protected]
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MARIA CARMELA PISU
Med Vet, Torino
Il paziente
con perdite vulvari:
quale iter
diagnostico?
Sabato 24 Ottobre 2015
ore 16.20
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Le perdite vulvari sono un problema abbastanza comune nelle cagne sin dall’infanzia e possono essere la manifestazione di situazioni fisiologiche o patologiche
molto differenti. Risulta pertanto molto importante saper effettuare un corretto iter
diagnostico per poter intervenire con la corretta terapia se e quando necessario.
Le perdite vulvari sono date dalle secrezioni delle ghiandole mucipare vaginali,
delle ghiandole endometriali ed eventualmente dal risultato della degradazione batterica da parte dei neutrofili, in situazioni particolari sono inoltre costituite da sangue
che per diapedesi o per microemorragie passa nel canale genitale e si unisce alle secrezioni fisiologiche. A livello ispettivo è dunque possibile riconoscere delle secrezioni mucipare limpide, più o meno fluide, delle secrezioni più dense dal colore che
varia dal giallo paglierino al bruno, delle secrezioni francamente purulente e delle secrezioni muco-emorragiche.
Come per qualsiasi patologia, il corretto iter diagnostico parte dal segnalamento e
dalla raccolta corretta e completa dell’anamnesi.
Nel momento in cui si presenta a visita una paziente con scolo vulvare la prima
considerazione da fare è se la cagna è impubere o se ha già avuto il primo ciclo estrale. In una cagna impubere le diagnosi differenziali in corso di scolo vulvare sono infatti soltanto due: presenza di corpo estraneo vaginale o più frequentemente vaginite
del cucciolo (o vaginite infantile).
La vaginite infantile è una situazione patologica che essere già osservata dalle 8
settimane d’età in avanti. Clinicamente, si può osservare una perdita vulvare mucosa
o mucopurulenta, in alcuni casi in notevole quantità. Le cucciole si presentano in buone condizioni generali anche se spesso risulta evidente una dermatite perivulvare causata dal costante lambimento conseguente al fastidio dello scolo (spesso il motivo per
cui la cagna viene portata in visita).
L’eziologia della patologia non è del tutto chiara, probabilmente è dovuta principalmente a un processo infiammatorio vaginale in una situazione in cui l’epitelio è facilmente soggetto agli insulti esterni. I batteri, se presenti, sono di colonizzazione secondaria tant’è che i tamponi batteriologici spesso non conducono a una crescita batterica
significativa. Molto utile a livello diagnostico si rivela invece il colpocitologico perché
la presenza di cellule vaginali parabasali o intermedie è accompagnata da presenza di
numerose cellule infiammatorie (neutrofili). Purtroppo a causa delle dimensioni delle
pazienti in alcune razze l’esecuzione del tampone per la citologia risulta difficoltosa non
potendo arrivare alla parte craniale della vagina e quindi l’esame non da le indicazioni
necessarie. In alcuni casi le cucciole attirano i maschi come se fossero in calore.
In più dell’80% dei casi, la condizione si risolve spontaneamente dopo il primo
estro, per l’azione meccanica del flusso ematico e soprattutto per la cheratinizzazione e la successiva rigenerazione dell’epitelio vaginale indotta degli estrogeni. Per tale motivo risulta controindicata la sterilizzazione precoce perché può indurre una forma cronica di vaginite molto difficile da trattare.
Il trattamento con antibiotici per quanto sembri inizialmente essere efficace induce
tendenzialmente una risoluzione a breve termine, ma la patologia recidiva poco dopo
la sospensione del trattamento. È invece utile un trattamento locale a base di ovuli di
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lattobacilli e triticum vulgaris che riequilibrano la corretta flora vaginale e proteggono
la mucosa. In casi resistenti basse dosi di estrogeni sintetici possono essere d’aiuto.
In una cagna pubere nel raccogliere l’anamnesi sarà da evidenziare il momento
dell’ultimo calore, l’avvenuto accoppiamento ed eventuale conferma di gravidanza.
L’esame obiettivo generale della paziente non andrebbe mai tralasciato perché lo
scolo vulvare che ha attirato l’attenzione del proprietario potrebbe essere associato a
serie patologie sistemiche; devono quindi essere sempre prese in considerazione Temperatura, frequenza cardiaca e respiratoria.
Nell’esame obiettivo particolare va posta particolare attenzione all’ispezione della
vulva, della porzione esplorabile della vagina e della cute perineale sia per valutare
l’edema e l’iperemia della mucosa e la possibile dermatite perivulvare o la decolorazione del pelo che danno indicazione del lambimento costante. Spesso infatti i proprietari non sanno quantificare le perdite né da quanto tempo è presente lo scolo perché la
cagna si lava assiduamente. Il prelievo tramite tampone delle secrezioni profonde permette inoltre di valutarle in modo corretto a livello macroscopico e microscopico.
La fase estrale, da accertare mediante colpocitologico ed eventuale dosaggio ormonale, risulta fondamentale per poter inquadrare correttamente il problema. È infatti sempre da tener presente che la maggior parte delle patologie ginecologiche sono
strettamente legate agli ormoni che le supportano e le promuovono.
L’esame citologico delle cellule della mucosa vaginale risulta inoltre importante
per riconoscere le cellule non appartenenti alla mucosa vaginale che compongono le
secrezioni quali eritrociti, neutrofili batteri.
Dopo aver definito la fase estrale per un corretto iter diagnostico bisogna valutare
quali patologie possono portare a scolo vulvare sotto l’influsso dell’ormone predominante in quella fase.
Considerando l’eziologia delle patologie in fase proestro-estrale uno scolo limpido
e filante o anche tendente al giallo-crema molto probabilmente è solo indice dell’aumentata attività secretrice delle cellule mucipare vaginali e delle cellule secretrici vaginali ed è solitamente correlata al momento ovulatorio. Uno scolo marrone scuro o
tendenzialmente purulento in fase proestro-estrale solitamente è correlato a vaginiti
importanti o corpi estranei vaginali che abbiano attivato l’accorsa neutrofilica con conseguente produzione di pus che si unisce al flusso ematico tipico della fase stessa. Flussi emorragici esageratamente abbondanti o persistenti oltre al fisiologico periodo della fase estrale possono essere indicativi di cisti ovariche o problemi coagulativi, o ancora di alterazioni epatiche per le quali gli estrogeni non vengono correttamente metabolizzati e rimangono attivi e in circolazione per un tempo prolungato.
La fase diestrale è quella in cui più sovente si riscontano le perdite vulvari perché
è in questa fase che per effetto del progesterone si abbassano notevolmente le difese
immunitarie locali e le infezioni prima subcliniche diventano evidenti.
Le patologie che devono essere messe in diagnosi differenziale se la paziente si
trova in questa fase estrale sono ovviamente le endometriti purulente, le vaginiti, i
corpi estranei vaginali se le secrezioni sono muco-purulente o ancora cisti follicolari
se lo scolo si presenta muco-emorragico.
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La patologia che viene comunemente associata a delle perdite vulvari è ancora oggi la piometra anche se in realtà la piometra è raramente imputata in corso di scolo
vulvare poiché per sua stessa definizione la piometra è una raccolta di pus endocavitaria uterina e quindi presuppone che non ci sia fuoriuscita di secreto dal lume vaginale. Comunemente la piometra viene però classificata come “chiusa” o “aperta” intendendo con “piometra aperta” l’endometrite purulenta.
In corso di endometrite purulenta lo scolo può essere appena rilevabile o molto
abbondante.
Il percorso diagnostico comprende un esame emocromocitometrico, per valutare
un’eventuale neutrofilia, un’ecografia genitale per poter evidenziare alterazioni a livello endometriale e un tampone cervicale per esame batteriologico con antibiogramma.
In corso di endometrite, a livello ecografico è possibile solitamente evidenziare
a livello endometriale un aumento dell’ecogenicità e un notevole iperafflusso all’esame colordoppler. Sono però evidenetemente segni che non possono essere ritenuti diagnostici.
Il tampone cervicale va eseguito con tamponi camiciati in modo da prelevare solo
i batteri presenti in cervice senza la contaminazione delle flora vaginale.
La flora vaginale infatti non rispecchia la flora uterina e il riscontro di batteri in vagina non è indicativo di possibili endometriti neanche quando questi sono in coltura
pura.
I batteri invece isolati dalla pozione cervicale dell’utero rispecchiano solitamente
la flora endouterina.
È importante ricordare poi che comunque per poter essere ritenuti responsabili di
un’infezione i batteri devono essere in numero superiore alle 10000 UFC (unità formanti colonia).
È importante inoltre richiedere anche la ricerca di micoplasmi e ureplasmi che possono essere responsabili di endometriti subcliniche.
La diagnosi definitiva di piometra è invece ecografica: gli ultrasuoni permettono di
visualizzare l’utero disteso e con lume occupato da materiale fluido corpuscolato e
permettono anche di valutare sia lo spessore della parete uterina sia eventuali iniziali
segni di infiammazione peritoneale.
Il percorso diagnostico si basa sulla raccolta completa dei dati anamnestici (età
della paziente, data dell’ultimo calore, eventuali perdite vaginali anomale, aumento
della sete e/o dell’urinazione, disappetenza, abbattimento), sulla visita clinica completa (T° corporea, valutazione delle mucose, della frequenza cardiaca e respiratoria,
palpazione addominale per valutare l’eventuale aumento di volume uterino).
È importante in cagne in fase di diestro, che presentano uno o più dei sintomi sopraelencati o alterazioni nella visita clinica, soprattutto se di età superiore ai 4 anni,
approfondire l’iter diagnostico per riconoscere e trattare tempestivamente una eventuale piometra.
Nell’impossibilità di eseguire immediatamente un’ecografia, è utile sottoporre la
paziente a radiografie addominali, che evidenziano l’utero quando il lume contiene
dei fluidi, ed a esami ematobiochimici i quali evidenziano una leucocitosi marcata
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con spostamento a sinistra della linea o, in fase avanzata, una leucopenia, anemia normocitica normocromica non rigenerativa, iperproteinemia e iperglobulinemia, enzimi
epatici elevati e iperazotemia e creatininemia elevata.
In fase anasetrale invece essendo basali i livelli di tutti gli ormoni sessuali steroidei le perdite vulvari possono essere associate a vaginiti, corpi estranei vaginali, tumori vaginali o malformazioni vaginali congenite o acquisite. Come evidenziato questi problemi essendo slegati dall’influsso ormonale posso essere presenti in qualsiasi
momento del ciclo estrale.
Per la diagnosi in questi casi sia vvale della colpocitologia e della colposcopia.
Il colpocitologico come nel caso di vaginite prepubere evidenzia un elevato numero di neutrofili polimorfonucleati attivi ed un elevato numero di batteri liberi e fagocitati. L ‘esame batteriologico in questo caso risulta in questo caso molto utile per
scegliere la terapia più corretta e deve sempre essere associato ad un esame micologico, nonostante le infezioni fungine non siano frequenti.
La colposcopia può invece risultare utile in tutti i casi in cui si sospettano lesioni
acquisite da trauma o per corpi estranei permettendo di esplorare tutto il canale che
per la lunghezza e il ridotto diametro non può essere esplorato digitalmente né tantomeno con il semplice colposcopio bivalve.
In caso di positività per miceti (solitamente Candida Albicans) è importantissimo
effettuare un controllo della glicemia perché spesso si diagnostica un diabete mellito,
la presenza di glucosio nelle urine e quindi poi a livello vaginale favorisce l’azione
patogena di questi funghi.
Le vaginiti nella cagna adulta sono quasi sempre un’infiammazione cronica o
ricorrente.
L’eziologia solitamente dipendente da infezioni batteriche, con batteri isolati in
monocoltura.
Altri agenti eziologici sono l- Herpes virus che da la tipica vaginite con vescicole
evidenti soprattutto alla congiunzione muco-cutanea, il virus di Carrèe le micosi(molto rare). In quest’ultimo caso le vaginiti sono solitamente remittenti e ricorrenti a brevi intervalli.
I tumori vaginali, fortunatamente non comuni nella cagna e nel 90% dei casi sono
benigni; si osservano solitamente nelle cagne di età maggiore a 10 anni e i Boxer sembrano essere maggiormente predisposti. I tumori più comuni sono i leiomiomi a seguire fibromi, fibroleiomiomi e fibropapillomi.
I tumori maligni che possono essere osservati nella vagina sono leiomiosarcomi (il
più comune), adenocarcinomi, carcinomi epidermoidi, carcinomi delle cellule di transizione che originano dall’epitelio uretrale. L’analisi citologica di un ago aspirato favorisce la differenziazione tra i tipi tumorali. La possibile presenza di scolo vaginale
in corso di tumori può dipendere da microemorragie dal tumore stesso o più frequentemente dalla vaginite secondaria che il tumore favorisce.
Indirizzo per la corrispondenza:
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MARIA CARMELA PISU
Med Vet, Torino
La paziente è
sterilizzata ma torna
in calore: quale iter
diagnostico e quale
approccio?
Sabato 24 Ottobre 2015
ore 17.00
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Uno dei problemi più complicati da risolvere e che possono mettere in cattiva il
Medico Veterinario è una cagna che benché sterilizzata mostri segni di calore.
Fortunatamente non sempre nel momento in cui viene riferita una paziente per manifestazioni estrali post gonadectomia c’è stato un errore in chirurgia.
In diagnosi differenziale possiamo quindi inserire certamente un residuo di tessuto ovarico attivo, una vaginite ricorrente con produzione di sostanza ad azione ferormonale, terapie con farmaci contenenti estrogeni e iperplasia surrenalica con produzione di estrogeni.
Quest’ultima patologia è tipica e molto conosciuta nelle furette nelle quali in seguito all’ovariectomia viene a mancare il feedback negativo degli ormoni prodotti
dall’ovaio sull’asse ipotalamo-ipofisi e quindi l’ipofisi continua a secernere FSH che
va a stimolare le surrenali alla produzione di estrogeni.
Per quanto evenienza rarissima questo problema è stato riportato anche nelle gatte
e segnalato nelle cagne.
Il percorso diagnostico in caso di manifestazioni estrali post ovariectomia parte
dalla raccolta corretta dell’anamnesi per valutare se i comportamenti evidenziati sono effettivamente correlati alla possibile presenza di ormoni, spesso infatti i proprietari riferiscono comportamenti “ da calore” ma sono alterazioni comportamentali atte a ristabilire una gerarchia post intervento.
Importante anche nell’anamnesi indagare sulla possibile somministrazione di farmaci contenenti estrogeni o sulla loro somministrazione in formulazioni depot prima
della sterilizzazione.
Il passo successivo alla raccolta dell’anamnesi è come sempre un accurato esame
obiettivo particolare. È importante precisare che l’esame obiettivo è utile se la paziente viene portata in una fase con sintomi da calore non in una fase in cui la sintomatologia è muta.
Nel primo caso sarà importante valutare l’eventuale edema vulvare, l’iperemia della mucosa vaginale e la presenza di scolo siero-emorragico o muco-filante. Si deve
poi eseguire un esame colpocitologico della porzione craniale della vagina che indicherà con chiarezza la presenza di ormoni sessuali e quindi la presenza di tessuto secernente. È bene ricordarsi che il colopocitologico risulta utile in qualsiasi momento
del ciclo perché evidenzia la presenza di cellule superficiali cheratinizzate che indicano un’azione estrogenica e anche in fase diestrale perché la citologia sotto l’influenza progestinica è patognomonica quindi si è in tal caso certi che c’è stata una fase estrale e un’ovulazione quindi c’è tessuto ovarico. Va notato però che la citologia
risponde a qualsiasi stimolazione ormonale quindi anche in corso di estrogenemia alta per introduzione iatrogena di estrogeni il quadro colpocitologico mostrerà la presenza di cellule cheratinizzate.
Il colpocitologico risulta poi molto utile soprattutto perché in diagnosi differenziale con il residuo ovarico, nel momento in cui una cagna sterilizzata presenta segni di
calore e attrae anche i maschi bisogna sempre mettere la vaginite attiva. I batteri che
causano la vaginite producono infatti sostanze ferormonali ed estrogeno-simili che
fan si che i maschi percepiscano la femmina come in estro.
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Purtroppo comunque anche con il citologico non è possibile escludere né confermare il sospetto di residuo ovarico.
È possibile effettuare un’ecografia addominale che potrebbe in alcuni casi evidenziare delle formazioni in loggia ovarica e nel contempo escludere iperplasia o adenomi surrenalici.
In realtà nella maggior parte dei casi anche l’ecografia risulta muta.
Risulta pressochè inutile invece un dosaggio degli estrogeni singolo primo perché
ne abbiamo già l’evidenza sintomatologica secondo e più importante perché potremmo avere dei falsi negativi.
È invece diagnostico il test da stimolazione con hcg o il dosaggio delle gonadotropine sieriche.
Nelle cagne ovariectomizzate viene ovviamente a mancare il feedback ovarico sull’asse ipotalamo-iposisi.
L’ipotalamoi non viene più inibito dal feedback degli ormoni steroidei e l’ipofisi
secerne quindi costantemente gonadotropiniche la cui concentrazione plasmatica risulta quindi elevata.
Il dosaggio dell’FSH è ad esempio usato in medicina umana per la diagnosi di menopausa ed è un valido metodo per accertarsi dell’assenza di tessuto ovarico.
Lo stesso risultato è possibile con il dosaggio dell’LH che ugualmente risulta costantemente > 1 ng/ml nelle cagne ovariectomizzate.
Il motivo per cui personalmente non considero questi test come prima scelta sta
nel fatto che nel ciclo sessuale di femmine intere e con tessuto ovarico funzionante
c’è una fase sotto l’influenza dell’FSG e un picco di LH della durata di circa 36 ore
oltre a dei picchi temporanei in maturazione follicolare della durata di circa 30 minuti per cui si potrebbero avere dei falsi negativi, cioè considerare come correttamente ovariectomizzata una cagna per aver dosato l’LH > 1 ng, o l’FSH basale,
quando tali ormoni risultano in concentrazioni sieriche elevate per la fase proestroestrale in atto.
Inoltre per il particolare ciclo sessuale della cagna nella quale il picco dell’LH è
stimolato dal particolare assetto ormonale con estrogenemia in discesa e progesteronemia in rapido aumento, non è neanche certo che l’LH post sterilizzazione sia aumentato in tutte le cagne, mentre lo è sicuramente l’FSH ma il costa del dosaggio è
particolarmente elevato.
Il test da stimolazione si basa sull’utilizza di hcg alla dose di 250-500 UI per stimolare il tessuto ovarico.
Per completare il test ed avere diagnosi certa di residuo ovarico 8 giorni dopo la
stimolazione si dosa il progesterone che se in concentrazioni > 2 ng/ml è conferma di
presenza ti tessuto ovarico che è l’unico in grado di produrre questo ormone.
In realtà anche un dosaggio del P4 basale se positivo è già indice certo di residuo
ovarico, ma è molto raro ritrovarlo positivo perché di solito le cagne vengono portate
in visita al momento di manifestazioni estrali.
Con la stimolazione inoltre si provoca di solito la comparsa di corpi lutei e si rendono più facilmente evidenziabili a livello ecografico i residui.
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Un altro test da stimolazione molto valido, con risposta rapida e certa consiste nella stimolazione utilizzando il buserelin (analogo sintetico del GnRH): si esegue una
estrogenemia basale, si somministrano 0,12 mg/kg IV di buserelin e si ed esegue un
prelievo per estrogenemia dopo 60 e/o 90 minuti (Guenzel-Apel et al., 2012).
In caso di tessuto secernente l’estrogenemia risulta significativamente aumentata
nei dosaggi post stimolazione.
TERAPIA
La terapia elettiva è ovviamente la revisione chirurgica che risulta più semplice dopo la stimolazione per la presenza dei corpi lutei che rendono più semplice il reperimento del tessuto ovarico.
Nel caso non si potesse procedere alla chirurgia (solitamente per rifiuto dei proprietari) o nel caso la revisione chirurgica non abbia permesso l’individuazione e la
rimozione del tessuto attivo si può optare per l’impianto di Deslorelin che sterilizza
chimicamente la paziente.
Bisogna però ovviamente spiegare in modo completo ai proprietari che se da un
lato è vero che con questa terapia si evita l’intervento chirurgico è anche vero che
il Deslorelin nella cagna ha un effetto terapeutico che dura a seconda della taglia
dai 6 ai 10 mesi, che essere sicuri di un effetto continuativo ogni 180 giorni bisogna ripetere la somministrazione. In realtà nella mia esperienza in caso di residui
ovarici di piccole dimensioni dopo 2 o 3 inserimenti senza permettere l’innalzamento estrogenico, il tessuto residuo va in contro ad tresi e non risultano necessari
ulteriori somministrazioni.
Indirizzo per la corrispondenza:
E-mail: [email protected]
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DECISIONI CRITICHE NELLA PRATICA CLINICA
23-25 OTTOBRE 2015 • AREZZO
FEDERICO FRACASSI
Med Vet, PhD, Dipl ECVIM-CA,
Bologna
Diabete mellito
nel cane:
l’insulina non funziona
come dovrebbe.
Come mi comporto?
Sabato 24 Ottobre 2015
ore 17.40
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INTRODUZIONE
Il diabete mellito è indubbiamente l’endocrinopatia più comune nel cane. La diagnosi della è piuttosto semplice, non si può dire tuttavia lo stesso per quanto riguarda la gestione terapeutica e spesso il veterinario si trova in difficoltà nel gestire casi
complessi che nn rispondono alla terapia impostata.
Essendo una patologia cronica richiede un trattamento costante e periodici controlli veterinari. Solitamente i soggetti colpiti necessitano di una terapia a vita. Di seguito vengono riportate le problematiche più comunemente riscontrate nella gestione
terapeutica del diabete mellito del cane.
PROBLEMI CHE CAUSANO PERSISTENZA
O RECIDIVA DEI SEGNI CLINICI
La persistenza o la recidiva dei segni clinici rappresentano un frequente problema
nella gestione dei pazienti diabetici. Le cause più comunemente riscontrate sono rappresentate da problemi tecnici nel somministrare l’insulina, problemi legati al tipo di
insulina, alla dose o alla frequenza di somministrazione. Altre cause comuni sono legate a fenomeni di insulino-resistenza legati a stati infiammatori/infettivi neoplastici
o altre patologie endocrine concomitanti. Una panoramica di come affrontare il cane
diabetico con segni clinici persistenti nonostante la terapia è fornito nell’algoritmo
che segue (Figura 1).
Figura 1 - Algoritmo per gestire un cane diabetico non ben controllato.
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PROBLEMI TECNICI
Spesso la cattiva gestione è connessa ad errori tecnici. È possibile che l’insulina
non venga conservata appropriatamente (ad esempio il congelamento o il riscaldamento eccessivo inattivano l’insulina), non venga miscelata adeguatamente prima della somministrazione, venga diluita con diluenti non dedicati, non venga dosata o iniettata correttamente. Un errore molto comune è rappresentato dall’uso di siringhe sbagliate ((U-40/ml vs U-100/ml). Le insuline veterinarie devono essere somministrate
con siringhe U-40/ml mentre le insuline ad uso umano con siringhe U-100/ml. È bene scoraggiare i calcolo per usare insuline U-40/ml con siringhe U-100/ml, tale
procedura è infatti una frequentissima fonte di errore. Un’altra comune fonte di
errore è rappresentata dal dosare l’insulina in ml anziché in unità. Nel caso in cui il
proprietario decida di utilizzare una penna per la somministrazione di insulina il veterinario dovrà insegnare accuratamente tutte le procedure per l’utilizzo di tale strumento. È bene che il veterinario supervisioni l’intera procedura della preparazione e
somministrazione di insulina fino a quando il proprietario non sarà in grado di padroneggiare con la tecnica.
SOTTO DOSAGGIO DI INSULINA
Nella maggior parte dei casi i cani risultano ben controllati con dosi di insulina ≤ 1
iniezione U/BID kg. Nel caso in cui il cane risulti mal controllato e la dose di insulina
sia notevolmente inferiore a 1 U iniezione/kg e il cane sta ricevendo insulina BID, il
sotto-dosaggio può essere la ragione per scarso controllo glicemico. In questo caso, la
dose di insulina deve essere gradualmente aumentata del 10-25% a settimana.
SOVRADOSAGGIO DI INSULINA ED EFFETTO SOMOGYI
La risposta o effetto Somogyi è definito come il rimbalzo iperglicemico causato
della ipersecrezione di ormoni controregolatori, in particolare glucagone e adrenalina
durante l’episodio ipoglicemico. La ragione di questo fenomeno è il sovradosaggio di
insulina e si verifica quando la glicemia scende sotto < 65 mg/dl; può verificarsi anche quando la concentrazione di glucosio nel sangue scende troppo rapidamente (2-3
ore) indipendentemente dalla presenza o meno di segni clinici e dal nadir glicemico.
Una storia ciclica di uno o due giorni di buon controllo dei segni clinici, seguiti da diversi giorni di scarso controllo dovrebbe sollevare il sospetto di una risposta Somogyi. La diagnosi richiede la documentazione di ipoglicemia o rapida diminuzione del
livello di glucosio seguita da iperglicemia (> 300 mg/dl) in un periodo di 12 ore. Le
concentrazioni sieriche di fruttosamina sono imprevedibili, ma solitamente nei cani
con la risposta Somogyi i livelli di fruttosamina sono elevati (> 500 mmol/l). Lo stato iperglicemico può durare da 24 a 72 ore e la diagnosi può essere estremamente dif-
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ficile. L’identificazione del problema può richiedere curve glicemiche seriali, da effettuarsi idealmente tramite l’utilizzo di sistemi di monitoraggio glicemico continuo.
A volte non è facile distinguere l’effetto Somogyi da una breve durata dell’insulina.
Se l’effetto Somogyi viene documentato o fortemente sospettato la dose di insulina
deve essere arbitrariamente ridotta gradualmente (da 1 a 5 U a seconda delle dimensioni del cane e della dose di insulina); il proprietario dovrebbe poi monitorare i segni clinici del cane nel successivi 2-5 giorni. Nel caso in cui non venga osservato alcun cambiamento può essere tentata una ulteriore riduzione della dose. Se i segni clinici peggiorano è probabile che ciò che era stato osservato era presumibilmente un
breve effetto della durata d’azione dell’insulina.
BREVE DURATA DELL’EFFETTO DELL’INSULINA
In alcuni cani diabetici l’effetto dell’insulina NPH (Humulin I®) o dell’insulina
Lenta (Caninslin®) può durare meno di 8 ore. Come conseguenza si ha uno stato iperglicemico (> 300 mg/dl) per molte ore ogni giorno ed è quindi comune che il proprietario riporti la permanenza dei segni clinici. Il problema viene rilevato effettuando una curva glicemica. Il trattamento prevede il passaggio a un’insulina ad azione
prolungata (cioè PZI, glargine o detemir) due volte al giorno.
DURATA PROLUNGATA DELL’EFFETTO DELL’INSULINA
In alcuni cani vi può essere il problema di una eccessiva durata d’azione dell’effetto dell’insulina. Se l’effetto dura più di 12 ore, l’azione delle due somministrazioni insulina si sovrappongono con il rischio di uno sviluppo di effetto Somogyi o rischio di ipoglicemie. Una durata prolungate dell’effetto dell’insulina si osserva quando il nadir glicemico si verifica 10 o più ore dopo l’iniezione. Il problema viene solitamente risolto passando ad un’insulina ad azione più breve. In alternativa si può usare una insulina ad azione prolungata, ad esempio detemir (Levemir®) o glargine (Lantus®) somministrate una volta al giorno.
ANTICORPI ANTI-INSULINA
L’insulina del cane, del suino e dell’uomo sono estremamente simili fra loro; lo
sviluppo di anticorpi anti-insulina è pertanto infrequente in cani trattati con insulina
suina o insulina ricombinante umana. Invece l’insulina bovina è piuttosto differente
da quella del cane e si è visto che nel 40%-65% dei cani trattati con insulina bovina
si sviluppano anticorpi anti-insulina. La presenza di anticorpi anti-insulina in alcuni
casi può influenzare la farmacocinetica e la farmacodinamica della stessa insulina. La
conseguenza è un controllo irregolare e scadente della glicemia, l’incapacità di con-
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trollare la glicemia per lunghi periodi di tempo, la necessità di frequenti aggiustamenti della dose, e l’occasionale sviluppo di insulino-resistenza. Fortunatamente l’insulina bovina, ampiamente utilizzato in passato per trattare il diabete mellito nel cane, è oggi molto meno disponibile. Per questo motivo, il ruolo degli anticorpi anti-insulina nello sviluppo di scarso controllo glicemico è oggi probabilmente meno rilevante rispetto al passato. Anche se raramente, gli anticorpi anti-insulina possono svilupparsi in cani trattati con insulina umana ricombinante. Per documentare la presenza di anticorpi anti-insulina è necessario usare test validati per il cane. Il problema
viene risolto passando ad un’insulina di origine suina che ha la stessa sequenza amminoacidica di quella del cane.
PROBLEMATICHE CONCOMITANTI
CHE CAUSANO RESISTENZA ALL’INSULINA
Solitamente i cani diabetici risultano ben controllati con dosi di insulina ≤ 1 U/kg
due volte al giorno. Quando si utilizzano dosi maggiori senza aver ottenuto un buon
controllo glicemico e siano stati esclusi problemi tecnici o l’effetto Somogyi o una
breve durata d’azione dell’insulina è opportuno considerare la presenza di possibili
patologie concomitanti. Nessuna dose di insulina definisce chiaramente la resistenza
all’insulina. E ‘stato proposto che la resistenza all’insulina possa essere sospettata
quando il controllo glicemico è scarso nonostante le dosi di insulina siano > 1,5 U/kg
BID, quando alte dosi (> 1,5 U/kg) sono necessarie a mantenere la glicemia <300
mg/dL, o quando il controllo glicemico risulti particolarmente irregolare e la dose di
insulina debba essere continuamente modificata. L’insulino resistenza può essere causata da molte problematiche infiammatorie, infettive, neoplastiche ed endocrine. Anche l’obesità e la somministrazione di farmaci (soprattutto terapie corticosteroidee e
progestinici) possono causare insulino-resistenza. Le più comuni cause di insulinoresistenza nel cane sono rappresentate da somministrazione di glucocorticoidi, Sindrome di Cushing, diestro, ipotiroidismo, pancreatite cronica, malattia renale cronica,
infezioni del tratto urinario e della cavità orale, neoplasie, iperlipidemia e obesità grave. Altre cause meno comuni di insulino-resistenza sono rappresentate da insufficienza pancreatica esocrina, insufficienza cardiaca, insufficienza epatica, glucagonoma e feocromocitoma (Tabella 1).
L’anamnesi e un esame fisico completo sono i passi più importanti nell’identificazione di problematiche concomitanti. Nella maggior parte dei casi un completo workup diagnostico che comprenda un esame emocromocitometrico, un profilo biochimico,
l’analisi delle urine con coltura batterica, ecografia addominale e radiografia del torace
spesso permette di identificare la problematica sottostante. Quando indicato, possono risultare necessarie altre valutazioni diagnostiche quali il test di soppressione con desametasone a basse dosi, la concentrazione sierica del progesterone (nelle femmine intere), test di funzionalità tiroidea, lipasi pancreatica sierica(cPLI), attività sierica tripsino
simile (TLI) e tomografia computerizzata o risonanza magnetica (massa pituitaria).
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TABELLA 1
Cause riconosciute di inefficacia insulinica o insulino-resistenza nel cane
diabetico (Da Feldman EC et al.: Canine and Feline Endocrinology, ed 4,
St Louis, 2015, WB Saunders).
Causate dall’insulinoterapia
Problematiche che causano
grave insulino-resistenza
Problematiche che causano
insulino-resistenza lieve
o altalenante
Insulina inattiva
Sindrome di Cushing
Obesità
Insulina diluita
inappropriatamente
Diestro
Infezioni
Insulina somministrata
in modo sbagliato
Tumori surrenalici secernenti
progesterone
Infiammazioni croniche
Dose inadeguata
Farmaci diabetogeni
Pancreatite cronica
Effetto Somogyi
Glucocorticoidi
IBD
Inadeguata frequenza
di somministrazione
Progestinici
Patologie del cavo orale
Inadeguato assorbimento
insulinico
Ipotiroidismo
Malattia renale cronica
Anticorpi anti insulina
Patologie epatobiliari
Patologie cardiache
Ipertiroidismo
Insufficienza pancreatica
esocrina
Iperlipidemia
Neoplasia
Glucagonoma
Feocromocitoma
Indirizzo per la corrispondenza:
Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie, Università degli Studi di Bologna
Via Tolara di Sopra, 50 - 40064 Ozzano dell’Emilia (BO)
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FEDERICA ROSSI
Med Vet, SRV, Dipl ECVDI,
Bologna
Polmonite, edema,
o altro?
Il dilemma di fronte
ad una radiografia
toracica
Domenica 25 Ottobre 2015
ore 09.00
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Quando un animale viene presentato con sintomatologia respiratoria, una accurata visita clinica consente generalmente di orientarsi verso un problema che interessa
le prime vie respiratorie o verso una patologia intratoracica. La presenza di tosse e di
alterazioni all’auscultazione indirizzano verso un coinvolgimento delle basse vie aeree e del parenchima polmonare.
A questo punto, la radiologia del torace ci fornisce un potente mezzo per valutare direttamente le strutture intratoraciche e capire se e quali sono alterate. Tuttavia, il
riconoscimento e l’interpretazione dei segni radiografici non è sempre semplice e può
dare adito a dubbi, soprattutto a chi inizia ad approcciare queste tematiche.
Gli obiettivi di questa sessione sono:
1) rivedere quali sono i principi fondamentali per il riconoscimento di una patologia
del parenchima polmonare;
2) capire quali le strategie possiamo utilizzare per orientarsi verso le diverse diagnosi differenziali;
3) identificare concomitanti segni radiografici di alterazioni extrapolmonari;
4) i concetti vengono esemplificati mediante diversi casi radiografici in cui la lettura
e l’interpretazione è guidata dal relatore.
Il più importanti segni radiografico di un coinvolgimento del POLMONE in una
malattia toracica includono il pattern alveolare ed il lobar sing.
Il pattern alveolare si verifica quando gli alveoli polmonari perdono il loro contenuto di aria e ciò si può verificare fondamentalmente in queste situazioni:
• vengono riempiti da liquido (edema cardiogeno o non cardiogeno);
• vengono riempiti da cellule, in seguito a consolidamento causato da infiltrato infiammatorio o neoplastico;
• collassano o vanno incontro ad atelettasia.
Le aree di parenchima polmonare colpite presentano aumentata radiopacità e
l’aspetto radiografico varia mano a mano che l’infiltrato si estende nelle vie aeree. Ai
fini didattici, possiamo distinguere 4 fasi in questa evoluzione, che spiegano le possibili presentazioni radiografiche di un infiltrato alveolare.
1) Inizialmente le aree radiopache sono di piccole dimensioni, mal delimitate con
margini sfumati assumendo aspetto cosiddetto “cotonoso”. In questa fase è più difficile la normale visualizzazione delle pareti vascolari e bronchiali. I primi due disegni illustrano la situazione normale (bronco e vasi polmonari ben visibili) e la
prima fase di infiltrato alveolare.
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2) Con l’accumulo di altro infiltrato, la progressiva confluenza di queste piccole aree
forma ampie zone di consolidamento polmonare che diventano più grandi e ben
delimitate quando raggiungono la superficie pleurica del lobo polmonare o il margine adiacente ad un bronco.
3) Se tutto il parenchima che circonda un bronco contenente aria si consolida, appare l’immagine del “broncogramma aereo”, patognomonico per il pattern alveolare. Si tratta di una banda radiolucente (che corrisponde all’aria contenuta all’interno del bronco) circondata da una zona con radiopacità relativamente omogenea,
prodotta dal parenchima polmonare consolidato.
4) Se anche il bronco è occupato da materiale liquido o cellulare il broncogramma aereo non si vede e tutto il lobo appare uniformemente radiopaco.
Il riconoscimento di un pattern alveolare è importante ma non porta ad una diagnosi di una specifica malattia, poiché questa è una situazione che si verifica nel corso di numerose malattie polmonari.
Il secondo segno radiografico di coinvolgimento di un lobo polmonare è il cosiddetto LOBAR SIGN, che si verifica quando la radiopacità è aumentata fino al mar-
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Figura 1 - Schema e particolare di una radiografia in proiezione latero-laterale sinistra di un
cucciolo con broncopolmonite batterica. Nel lobo craniale destro sono evidenti le ramificazioni del bronco craniale che appaiono come bande radiotrasparenti (frecce bianche, broncogrammi aerei) circondati da parenchima polmonare radiopaco. Le frecce rosse mettono in evidenza il margine caudoventrale del lobo, che si visualizza in quanto contrasta con il tessuto
adiacente a contenuto gassoso (lobar sign).
gine del lobo polmonare, mentre il lobo adiacente presenta normale contenuto gassoso (vedi Fig. 1). In questa situazione, il margine lobare appare come una evidente e
netta interfaccia di separazione tra queste due aree. Questo segno non va confuso con
un versamento pleurico.
Per orientarsi nelle diverse diagnosi differenziali sono importanti alcuni
elementi:
1. sede del pattern alveolare (regioni ventrali, dorsali del polmone o sede ilare)
2. distribuzione (focale, multifocale, diffusa, simmetrica o asimmetrica)
3. presenza di alterazioni concomitanti (cuore e vasi polmonari, bronchi, pleura, parete toracica)
4. evoluzione nel tempo anche in base alla terapia instaurata. L’evoluzione è rapida
soprattutto se prevale la componente fluida, che può essere facilmente rimossa per
esempio con l’uso di una terapia diuretica. Più lenta invece è l’evoluzione se l’infiltrato è cellulare (es. emorragia, infiammazione).
La distribuzione e la progressione delle lesioni nel tempo sono elementi utili per
giungere a una corretta lista di diagnosi differenziali.
Inoltre, la presenza di concomitanti altre alterazioni delle strutture intratoraciche
(cuore e vasi polmonari, pleura, parete toracica), aiuta a distinguere tra le varie cause
di infiltrato alveolare.
Per esempio, la presenza di un pattern di tipo alveolare diffuso, con distribuzione
simmetrica nelle regioni ilare o dorso-caudale del polmone è suggestivo di edema
cardiogeno, diagnosi che può essere supportata dalla presenza di cardiomegalia e dilatazione delle vene polmonari. Ciò è vero soprattutto per il cane, poiché nel gatto la
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Diagnosi differenziali per il pattern alveolare.
Malattia
Distribuzione e localizzazione
Edema cardiogeno
Inizialmente focale peri-ilare, procede verso la periferia in
modo simmetrico
Associato a cardiomegalia e/o distensione vasi intratoracici
Spesso edema peribronchiale e ispessimento interstiziale
diffuso concomitante
Edema non cardiogeno
(sepsi, origine allergica, tossica,
da inalazione, da ostruzione
delle vie aeree superiori,
neurogeno)
Diffuso, maggiormente localizzato ai lobi caudali
Broncopolmonite:
– batterica
– aspirazione
– corpo estraneo
– micotica
– parassitaria
– allergica
Associato anche a pattern bronchiale
Focale, cranio-ventrale (spesso asimmetrica) focale,
ventrale (lobi medi e caudali)
Focale, dorso-caudale
Focale o diffusa, variabile, spesso lobi caudali
(+ linfoadenomegalia mediastinica)
Diffusa, localizzazione variabile
Lobi caudali
Neoplasia primitiva
Più spesso focale, localizzazione variabile,
spesso caudo-dorsale
Tromboembolismo
Focale o multifocale, spesso periferia dei lobi caudali
Emorragia:
– trauma
– coagulopatia
Variabile in base al tipo di trauma (corrispondente alla
lesione sulla parete toracica)
Diffusa
Torsione lobo
Focale, lobo medio destro, lobo craniale sinistro
Figura 2 - Edema polmonare cariogeno in un cane (sinistra) ed in un gatto (destra).
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distribuzione dell’edema polmonare è molto più variabile, spesso sono coinvolte le regioni ventrali e non dorsali può essere anche asimmetrica.
L’edema polmonare non cardiogeno ha distribuzione variabile in base alla causa che
lo produce: è spesso diffuso a tutto il polmone in modo simmetrico in corso di sepsi,
DIC, gravi tossicosi, reazioni allergiche a farmaci. Tende invece a localizzarsi nelle regioni caudo-dorsali del polmone in seguito a trauma cranico, shock elettrico, grave ipossia o affogamento, avvelenamenti. Può interessare un solo emitorace o parte di esso se
è prodotto da ipostasi (in seguito a prolungato decubito laterale) oppure se causato da
una massa che altera il meccanismo di drenaggio venoso e linfatico del polmone.
Altra frequente causa di pattern di tipo alveolare, soprattutto nei cani giovani, è la
broncopolmonite batterica, che coinvolge spesso in modo asimmetrico le regioni
cranio-ventrali del polmone.
Se la causa della polmonite è l’aspirazione di materiale che transita nell’apparato
digerente (per esempio in seguito a rigurgito o somministrazione forzata di farmaci),
le zone più colpite sono le aree ventrali dei lobi medi e caudali. La localizzazione dipende anche dalla posizione dell’animale durante l’aspirazione.
L’aspirazione di un corpo estraneo come per esempio la spiga di una graminacea
tende a produrre un pattern misto di tipo bronchiale e alveolare che interessa preferenzialmente le regioni dorso-caudali del polmone (lobo caudale o accessorio), in
quanto il corpo estraneo viene sospinto dal flusso dell’aria dalla trachea all’interno
delle ramificazioni bronchiali allineate con la trachea.
Con la progressione della broncopolmonite, il consolidamento del parenchima polmonare inizia dalla periferia del lobo e progredisce verso l’ilo polmonare fino ad interessare tutto il lobo, che assume un aspetto radiopaco omogeneo, eventualmente interrotto dall’immagine dei broncogrammi aerei. Percorso inverso si nota durante la fase di risoluzione della malattia: le aree più periferiche del polmone tornano per ultime alla normale radiopacità.
Il consolidamento di un singolo lobo polmonare può essere causato da neoplasie
primarie, che possono avere localizzazione variabile. Nel tempo le lesioni neoplastiche aumentano di volume, fino a rendere convessi i margini del lobo e talvolta spostare il mediastino verso l’emitorace sano.
L’emorragia polmonare produce un pattern di tipo alveolare più localizzato se se
causato da trauma (ed eventualmente associato a fratture costali, tumefazione dei tessuti molli della parete toracica e pneumoderma), diffuso se dipende da alterazioni dello stato di coagulazione.
Il collasso o atelettasia di un lobo polmonare produce la riduzione del volume del
lobo e l’aumento omogeneo della sua radiopacità, con o senza la presenza di broncogrammi aerei. Le cause di atelettasia comprendono ostruzioni del bronco (corpi estranei, essudato o masse all’interno del lume bronchiale), compressioni esterne del lobo
(prolungato decubito, versamento pleurico, pneumotorace, masse), aderenze causate
da malattie polmonari o pleuriche croniche e la torsione del lobo polmonare. Il lobo
medio destro, che è il lobo con minore rapporto tra volume e ventilazione collaterale, è predisposto al collasso.
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Figura 3 - Esempio di consolidamento di una parte del lobo caudale sinistro in un cane affetto da AC
polmonare.
La torsione di un lobo è una evenienza rara, che interessa soprattutto alcune razze (es. Carlino), è riportata anche una predisposizione in cani a torace stretto e profondo. Altri fattori predisponenti sono la presenza di versamento pleurico, l’ernia
diaframmatica e una pregressa chirurgia toracica. I lobi più frequentemente interessati sono il lobo medio destro ed il lobo craniale sinistro, tuttavia sono riportate an-
Figura 4 - Torsione del lobo craniale sinistro in un
cane di razza Carlino.
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che torsioni di altri lobi. In seguito alla torsione, il lobo polmonare è interessato da
una massiva congestione venosa ed infarcimento emorragico che ne producono inizialmente un aumento di volume. In breve tempo, la completa ostruzione del bronco ed il riassorbimento dell’aria residuale determinano il collasso del lobo interessato, che spesso va incontro a necrosi. In questa fase il volume del lobo diminuisce
e viene circondato da versamento pleurico localizzato. La diagnosi radiografica di
torsione del lobo è spesso difficile. I segni radiografici indicativi sono la presenza di
un lobo atelettasico circondato da versamento pleurico e la visualizzazione di un
bronco con una posizione e direzione anormale. Talvolta si osserva anche un pattern
di tipo enfisematoso.
Bibliografia
Thrall DE: cap. 5 - Introduction to radiographic interpretation. In Thrall DE, editor: Textbook
of Veterinary Diagnostic Radiology, ed 6, Saunders, 2013.
Thrall DE: cap. 25 - Pricniple of radiographic interpretation of the thorax. In Thrall DE, editor:
Textbook of Veterinary Diagnostic Radiology, ed 5, Saunders, 2007.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria dell’Orologio e Centro Oncologico Veterinario
Sasso Marconi (BO)
E-mail: [email protected]
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FEDERICA ROSSI
Med Vet, SRV, Dipl ECVDI,
Bologna
Emergenza
addominale:
scelgo un approccio
radiografico,
ecografico o altro?
Domenica 25 Ottobre 2015
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Radiologia diretta o con mdc ed ecografia vengono utilizzate di routine per gestire le emergenze addominali dopo la visita clinica.
RADIOLOGIA & ECOGRAFIA
La scelta tra radiologia ed ecografia nella gestione di un paziente con emergenza
addominale è dettata dalla causa dell’emergenza e dal risultato dell’esame clinico. Vi
sono situazioni in cui è chiaramente indicata l’una o l’altra metodica, altre situazioni
in cui vi è consigliato eseguire entrambi gli esami. Facciamo alcuni esempi:
1. lesione traumatica con sospetta lesione di organi addominali (Fig. 1).
In questo caso, sicuramente la radiologia ha la priorità, per diversi motivi:
– è in grado di riconoscere lesioni scheletriche concomitanti
– consente di valutare anche una porzione di torace, quindi di valutare se ci sono
per esempio ernie (diaframmatica o altra)
– fornisce una visione di insieme della parete addominale.
2. Lesione acuta delle vie urinarie con ostruzione (Fig. 1)
Anche qui, la radiologia con mdc (uretrografia, cistografia, urografia discendente)
consente di studiare tutto il tratto urinario, incluse le piccole strutture (uretra, ureteri) che non vengono visualizzati interamente in ecografia.
3. Emergenza accompagnata da versamento addominale (peritonite, rotture
d’organo)
In questo caso, la presenza di fluido riduce drasticamente il contrasto addominale,
quindi la radiologia diretta è scarsamente informativa. Se il versamento viene sospettato clinicamente, è preferibile programmare direttamente un esame ecografico.
Figura 1 - Esempio di gatto traumatizzato con fratture della pelvi e tumefazione retroperitoneale con
sospetta rottura delle vie urinarie.
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Figura 2 - Uretrografia discendente, fase cistografica e
uretrografica. Si visualizza un ematoma vescicale e la rottura dell’uretra.
4. Sospetta massa addominale (riscontro palpatorio) - Fig. 3 e 4
La radiologia consente nella maggior parte dei casi di identificare l’origine di una
massa addominale, grazie alla posizione della lesione ed allo spostamento degli organi adiacenti. Tuttavia, non fornisce indicazioni riguardo la struttura della lesione, mentre ciò può essere osservato in ecografia valutando l’ecostruttura e l’eco-
Figura 3 - Massa retroperitoneale di sospetta origine renale sinistra in un gatto adulto.
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Figura 4 - L’esame ecografico consente di confermare l’origine renale e di identificare una pesudocisti renale.
genicità. Anche se non ci
sono quadri patognomonici in base all’aspetto
ecografico, un operatore
esperto ottiene molte informazioni che possono
orientare verso l’origine
della massa (neoplasia
versus lesione infiammatoria). Per questi motivi, l’ecografia in questi
casi è la metodica di prima scelta. Talvolta tuttavia l’esame ecografico
può risultare difficoltoso
o dubbio, per esempio
quando la massa presenta una componente gassosa o molto densa (es.
con aree di mineralizzazione o feci molto compatte), e in questi casi di
nuovo può essere molto
utile aggiungere uno studio radiografico.
5. Ostruzione del tratto gastroenterico
Questa è una tipica situazione in cui radiologia ed ecografia sono
COMPLEMENTARI e
non alternative. Un ecoFigura 5 - Cucciolo con dilatazione moderata e diffusa del
grafista esperto è senpiccolo intestino, tutte le anse presentano prevalente contez’altro in grado di riconuto gassoso. Lo stomaco non è dilatato. È presente piccola
noscere senza grosse
formazione a radiopacità minerale. Il quadro è suggestivo di
difficoltà i segni di
un ileo dinamico (causa gastroneterite). Lo studio ecografico
ostruzione del tratto gaera dubbio per la presenza di una ostruzione meccanica.
stroenterico, identificandone la causa, la sede, la
lunghezza e le possibili complicazioni (perforazione, peritonite associata). Se l’intestino è molto dilatato con notevole contenuto di gas, per esempio in caso di ileo paralitico diffuso, il mancato ritrovamento di segni di ostruzione possono lasciare il
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Figura 6 - Ostruzione da CE lineare in un gatto, nel centro
dell’addome è presente un agglomerato di anse intestinali
con contenuto di piccole bolle di gas.
dubbio di una ecografia
falsamente negativa. In
queste situazioni o se
l’ecografista non ha sufficiente confidenza per
escludere con certezza
una ostruzione, l’utilizzo
della radiologia diventa
un prezioso ausilio per
prendere decisioni soprattutto che riguardano
la necessità di proseguire in chirurgia.
ALTRO?
In alcuni casi, le metodiche avanzate (CEUS,
TC, RM) possono essere
utilizzate per gestire casi
urgenti. Oggi questo è
diventato realistico grazie alla maggiore dispoFigura 7 - Stesso gatto, riscontro ecografico di CE lineare.
nibilità di queste metodiche, anche in caso di
emergenza, e consente di utilizarle anche per esempio prima di eseguire un intervento
chirurgico. Ciò è vero soprattutto per la CT, in quanto la velocità di esecuzione si combina bene con una situazione clinica che deve essere gestita rapidamente.
Possibili indicazioni di esame TC in emergenza: rotture d’organo (per traumi o
masse), torsioni d’organo, tromboembolismi, peritoniti di origine non identificata.
L’utilizzo del mezzo di contrasto consente di valutare l’origine, la struttura e vascolarizzazione di una lesione e di studiare i rapporti con gli organi circostanti.
Durante la presentazione, la relatrice illustrerà casi in cui la TC è stata usata in pazienti in emergenza.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria dell’Orologio e Centro Oncologico Veterinario
Sasso Marconi (BO)
E-mail: [email protected]
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PAOLO GAGLIO
Med Vet, Roma
Il paziente
con piotorace:
serve un drenaggio
o provo una
terapia conservativa?
Domenica 25 Ottobre 2015
ore 11.20
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Viene definito piotorace l’accumulo, a livello dello spazio pleurico, di versamento
di tipo purulento.
La cavità toracica o pleurica è lo spazio virtuale tra polmoni, mediastino, diaframma e parete toracica. È delimitata dalla pleura, una membrana sierosa, che è classificata a seconda delle strutture che ricopre in viscerale (posizionata sul polmone) e parietale (posizionata sul resto della cavità toracica). La pleura parietale è a sua volta
suddivisa in costale, diaframmatica e mediastinica. Nel cane e nel gatto si pensa che
la pleura mediastinica sia fenestrata e che metta in comunicazione i due emitoraci,
tuttavia in condizioni infiammatorie (es. piotorace) questa comunicazione può essere
interrotta isolando così i due lati della cavità toracica.
Normalmente nello spazio pleurico è contenuta una minima quantità di liquido che
ha la funzione di lubrificare la pleura parietale e quella viscerale durante gli atti respiratori. La produzione e l’assorbimento di questo fluido è regolata dalle forze di
Starling (pressione idrostatica a livello intestiziale/ pressione oncotica a livello capillare). Quando questo equilibrio è alterato si sviluppa il versamento pleurico. In caso
di piotorace il rilascio di mediatori chimici, conseguente allo stato infiammatorio,
causa un danno diretto alla membrana capillare (con aumento di permeabilità) e
un’ostruzione del drenaggio linfatico. I batteri possono penetrare nello spazio pleurico in conseguenza a patologie del parenchima polmonare oppure per lacerazioni di
trachea, bronchi, esofago o parete toracica.
EZIOLOGIA
Risalire alla causa del piotorace non è per nulla facile. Vari studi sull’argomento riportano come cause principali nel cane: la migrazione di corpi estranei, ferite da morso penetranti in torace, evoluzione di broncopolmoniti, perforazione esofagea, migrazione parassitaria, diffusione ematogena o cause iatrogene.
Nel gatto uno studio retrospettivo ha dimostrato che l’inalazione della flora batterica normalmente presente nella cavità orale è la più causa più frequente di piotorace. (Barrs et al., 2005). Quindi il meccanismo d’infezione presuppone l’aspirazione
della flora orofaringea e in seguito la colonizzazione delle vie aeree inferiori con passaggio dei batteri nello spazio pleurico. Questo contrasta con le rilevazioni degli studi precedenti, dove si pensava che l’inoculazione dei batteri nello spazio pleurico dovesse avvenire necessariamente attraverso il morso di altri gatti.
I batteri isolati di solito sono anaerobi obbligati o facoltativi: Bacteroidaceae (Bacteroides spp., Porphyromonas spp., Prevotella spp.), Fusobacterium spp., Peptostreptococcus spp., Clostridium spp., Actinomyces spp., Eubacterium spp., Propionibacterium spp., Filifactorvillosus, Pasteurella multocida, Streptococcus spp. e Mycoplasma
spp. (Pidgeon, 1978; Thompson et al., 1992; Walker et al., 2000; Gulbahar e Gurturk,
2002; Wegner e Pablo, 2006).
La Pasteurella spp. è il microorganismo maggiormente isolato nel piotorace felino
mentre nel cane si riscontrano frequentemente: Escherichia coli, Pasteurella spp., Ac-
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tinomyces spp. e Nocardia spp. Gli Actinomyces spp. sono i batteri più comunemente associati con la migrazione di corpi estranei vegetali.
DIAGNOSI
Dato l’andamento subdolo della patologia spesso il cane o il gatto sono portati in
visita quando la patologia è avanzata e quindi presentano già gravi sintomi di dispnea.
L’anamnesi remota può riferire sintomi aspecifici quali difficoltà respiratoria, febbre, perdita di peso, intolleranza all’esercizio e letargia.
All’auscultazione della parete toracica si riscontra attenuazione dei toni cardiaci
e dei toni polmonari; la percussione è utile per delimitare l’effettiva estensione del
versamento.
Il pattern respiratorio varia dal respiro frequente e superficiale al classico respiro
discordante (sopratutto nel gatto) che presuppone un aumento di pressione nello spazio pleurico.
Un aspetto molto importante nel paziente con piotorace è la stabilizzazione.
I pazienti con piotorace sono in SIRS (Sindrome della risposta infiammatoria sistemica) è quindi necessario procedere con una fluidoterapia aggressiva endovenosa e con
il supporto che necessita in pazienti con un grave stato di shock di tipo distributivo.
Hanno inoltre bisogno dell’immediata somministrazione di ossigeno prima di procedere a qualsiasi tipo di manualità.
Prima di fare indagini radiografiche, se è presente una grave dispnea,
è necessario eseguire una toracocentesi che ci permette di stabilizzare il
paziente e nel contempo di valutare le
caratteristiche del liquido pleurico.
La toracocentesi è una manovra
che può essere definita diagnostica e
terapeutica nello stesso tempo. Questa manovra richiede, nella maggior
parte dei casi, solo una contenzione
farmacologica.
Materiale (Fig. 1):
– Tosatrice
– Lidocaina 2%
– Ago da 20/22 gauge o butterfly o
catetere
– Valvola a tre vie
– Tubo di estensione
– Siringa da 20/60 ml.
Figura 1 - Materiale occorrente per eseguire
una toracocentesi.
Il paziente deve essere posto in de-
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cubito sternale quindi si esegue: anestesia locale, tricotomia e disinfezione chirurgica
della zona interessata, poi s’introduce l’ago (con la bietta rivolta verso l’animale) a livello del quinto - ottavo spazio intercostale stando adiacenti al margine craniale della costola caudale (per evitare i decorso dei vasi e nervi) e tenendosi a livello del confine tra terzo medio e terzo inferiore della parete toracica. Dopo l’ingresso nello spazio pleurico si colloca l’ago parallelo alla parete toracica e s’inizia l’aspirazione del
liquido. Se necessario si ripete l’operazione nell’emitorace opposto. Il liquido raccolto deve essere conservato in provette da siero e con EDTA per essere analizzato.
Il liquido prelevato è solitamente: opaco, flocculante, può essere emorragico e maleodorante. La diagnosi di un essudato è effettuata quando la concentrazione proteica
è maggiore di 3,0 g/dl, peso specifico è maggiore di 1.025, e la conta delle cellule nucleate è maggiore di 3000 cellule/l (anche se conta è spesso > 30.000 cellule/l).
In medicina umana vi sono studi che valutano i valori di pH, LDH (lattato deidrogenasi) e glucosio del versamento pleurico. Questi test aiutano a formulare una prognosi e a stabilire se la terapia deve essere più o meno aggressiva. Se il pH del fluido
è inferiore a 7.2, la concentrazione di glucosio nel fluido è inferiore a 60 mg/dl, o l’attività di LDH è tre volte il valore sierico, la terapia deve essere aggressiva e la prognosi è riservata (Light et al. 1973; Light et al. 2006). Ad oggi ci sono poche informazioni per quanto riguarda la valutazione biochimica del liquido pleurico nel piotorace del cane e del gatto.
L’uso dell’ecografo (tecnica Tfast) ci permette rapidamente di individuare il versamento limitando lo stress al paziente e di aspirarlo dove è maggiormente presente.
L’indagine radiografica, eseguita solo quando il paziente è stabile, identifica facilmente il liquido attraverso una radiopacità che nasconde i margini della silhouette cardiaca, una retrazione dei lobi polmonari dalla parete toracica, l’evidenza delle scissure pleuriche e un arrotondamento degli angoli costo frenici (segno precoce di versamento nel gatto).
TRATTAMENTO
Una volta diagnosticato il piotorace e stabilizzato il paziente ci sono varie scelte
per la gestione dei casi. La Tabella 1 riassume in maniera schematica i vari articoli sul
piotorace e i metodi usati per la terapia.
Oltre alla terapia antibiotica (dapprima a largo spettro e poi mirata dopo i risultati
dell’antibiogramma) è evidente che il posizionamento di un drenaggio toracico (uni o
bilaterale) è una scelta obbligata per ottenere una risoluzione della sintomatologia.
L’esecuzione di una o più toracocentesi è limitata al periodo di stabilizzazione del
paziente, in seguito, per ottenere un efficace drenaggio della cavità pleurica, bisogna
passare all’inserimento del drenaggio toracico
La metodica di inserimento del drenaggio pleurico presuppone (Fig. 2):
– anestesia generale o sedazione e anestesia locoregionale;
– preparazione chirurgica dell’emitorace;
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TABELLA 1
Schematizzazione degli studi più rilevanti sul piotorace felino e canino.
Tradotto da: Catriona M. MacPhail, DVM, PhD. Medical and Surgical
Management of Pyothorax. Vet Clin Small Anim 37 (2007).
Autori
Luogo
N°
dello studio Casi
Johnson and Martin
Inghilterra
2007
15
Specie
Trattamento
Percentuale
di successo
Percentuali
di casi con
FolloW-up
Canina
Drenaggio toracico
unilaterale
100%
0/15%
Felina
6 (22%) morti o fatta
eutanasia senza trattamento;
18 (67%) denaggio toracico;
2 (8%) antibioticoterapia;
1 (3%) drenaggio seguito
da toracotomia
78%
(2/14) 14%
86%
(1/43) 2,3%
Barrs et al.
2005
Australia
27
Demetriou et al.
2002
Inghilterra
Irlanda
50
10 (20%) chirurgia;
Canina
36 (72%) drenaggio e lavaggi;
e Felina
4 (8%) solo drenaggio
Mellanby et al.
2002
Stati uniti
13
Canina
2 (15%) eutanasia senza
trattamento;
8 (62%) solo drenaggio;
3 (23%) chirurgia
64%
(0/7) 0%
Canina
7 (27%) drenaggio;
12 (46%) drenaggio seguito
da chirurgia;
7 (27%) chirurgia entro
le 48 ore
58%
(3/26) 11,6%
66,1%
(1/17) 5,8%
100%
(0/8) 0%
Rooney
and Monnet
2002
Stati uniti
26
Waddel et al.
2002
Stati uniti
80
Felina
21 (26%) eutanasia
senza trattamento;
5 (6%) drenaggio seguito
da chirurgia;
3 (4%) toracocentesi;
48 (60%) drenaggio;
3 (4%) solo antibiotici
Piek and Robben
2000
Olanda
9
Canina
9 (100%) antibioticoterapia
con drenaggio toracico
e lavaggi
– incisione nel terzo dorsale della parete toracica a livello del 10-12 spazio intercostale;
– passaggio del drenaggio armato di mandrino lungo un tunnel sottocute dalla direzione caudo-dorsale alla cranio-ventrale;
– penetrazione del drenaggio nello spazio pleurico a livello del settimo ottavo spazio
intercostale;
– fissaggio e bendaggio del drenaggio.
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Spesso si preferisce
l’inserimento bilaterale.
Le ragioni di questa
scelta sono:
– la possibile non comunicazione dei due emitoraci (vedi Fig. 3);
– la possibilità che il
versamento sia saccato e quindi difficilmente aspirabile da
un unico drenaggio;
– la possibilità che uno
Figura 2 - Corretto posizionamento di un drenaggio pleurico
dei due drenaggi si
nel gatto. Tratto da: Vanessa R. Barrs, Julia A. Beatty. Feline
possa otturare/sfilare.
pyothorax - new insights into an old problem: Part 2. Treatment
Negli ultimi tempi è
recommendations and prophylaxis. The Veterinary Journal 179
stato proposto l’inseri(2009) 171-178.
mento, anche per il piotorace, di un “Small-bore wire-guided chest
drain” (Valtolina C. and
Adamantos S. 2009).
Questa metodica ha la
caratteristica di utilizzare appositi drenaggi di
piccolo calibro in commercio (10-14 french)
inseriti con la metodica
Seldinger (Fig. 4).
Gli aspetti positivi di
questa metodica comprendono:
– facilità e velocità
Figura 3 - Aspirazione di liquidi di colorazione diversa da due
drenaggi sullo stesso paziente, a testimonianza del fatto che
d’inserimento;
non ci sia comunicazione tra i due emitoraci. Tratta da De– possibilità d’inserimentriou JL, Foale RD, Ladlow J, et al. Canine and feline pyomento con l’animale
thorax; a retrospective study of 50 cases in the UK and Ireland.
sveglio o sedato;
J Small Anim Pract 2002; 43(9):388-94.
– riduzione del fastidio
e dolore dovuto alla
presenza di un tubo di grosso calibro a livello pleurico.
L’unico aspetto negativo è dato dal calibro ridotto che può facilmente portare ad occlusione, ma dall’articolo preso in considerazione sembra che gli autori non abbiano trovato difficoltà in questo senso nemmeno con essudati densi come quelli del piotorace.
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Dopo il posizionamento del drenaggio/i si
passa all’aspirazione
che nel caso del piotorace è intermittente. In genere è eseguita sei volte
al giorno nelle prime
24/48 ore per poi passare a 4 volte/die a seconda dei casi. Nei vari articoli presi in considerazione è dibattuta l’efficacia dell’uso dei lavaggi pleurici attraverso i
drenaggi. Questa metoFigura 4 - Mila® Chest Drain kit Tratta da: Valtolina C. and
dica comporta l’inseriAdamantos S. 2009. Evaluation of small-bore wire-guided
mento attraverso il drechest drains for management of pleural space disease. Journal
naggio di soluzione fiof Small Animal Practice. 9, 290-297.
siologica sterile preriscaldata a 37°C e la riaspirazione dopo 5-10 minuti (di solito se ne recupera circa il 75% di quello inserito).
In medicina umana si usano agenti fibrinolitici nel liquido di lavaggio mentre nella pratica veterinaria è stato consigliato l’uso di eparina (1500 UI in 100 ml).
La frequenza dei lavaggi varia dalle 4-6 volte al giorno nelle prime 24-48 per poi
stabilizzarsi dalle due a tre volte al giorno per i gg. seguenti.
Il drenaggio toracico di solito va rimosso quando sono stati ottenuti i seguenti risultati (in media dopo 4-6 gg.):
– riduzione del versamento pleurico a circa 2 ml/kg/die;
– risoluzione del versamento pleurico nelle radiografie toraciche;
– risoluzione a livello citologico del versamento (assenza di batteri intracellulari, riduzione del numero dei neutrofili e perdita del loro aspetto degenerativo e riduzione dei macrofagi).
La gestione del paziente con il drenaggio pleurico, oltre che allo stretto monitoraggio, deve fare particolare attenzione alla gestione del dolore. Di solito si possono
usare oppioidi sistemici insieme all’istillazione di bupivacaina (1,5-2 mg/kg) tamponata con bicarbonato di sodio direttamente dentro il drenaggio (Hansen, 2000; Mathews e Dyson, 2005).
La gestione chirurgica ha dato (come si può vedere nella Tabella 1) ottimi risultati confrontata a quella conservativa. Si può scegliere tale gestione immediatamente
dopo la stabilizzazione del paziente, dopo il fallimento della terapia medica conservativa oppure nel caso di recidive.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Ospedale Veterinario Gregorio VII - Roma
Responsabile Pronto Soccorso Notturno
E-mail: [email protected]
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PAOLO GAGLIO
Med Vet, Roma
Il gatto arriva in shock,
come mi comporto?
Domenica 25 Ottobre 2015
ore 12.00
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L’approccio al gatto in stato di shock ha delle differenze sostanziali rispetto alla
stabilizzazione del cane. Naturalmente il classico approccio (ABC: Airway, Breathing, Circulation) della medicina d’urgenza rimane invariato, ma cambiano i volumi
di fluidi da infondere (vista la differenza di dimensioni delle due specie) e i sintomi
dello shock che nel gatto hanno caratteristiche particolari.
Qui di seguito sono elencate le principali differenze gatto/ cane che vanno considerate in corso di rianimazione.
Shock il primo stadio dello shock (fase iperdinamica), caratterizzata da tachicardia e polso duro, è difficilmente rilevabile nel gatto. Normalmente il gatto si presenta con la classica triade: ipotermia, ipotensione, bradicardia /frequenza normale.
Considerazioni: È di fondamentale importanza valutare sempre la frequenza cardiaca in un paziente in stato di shock insieme a tutti gli altri parametri della perfusione.
Volume vascolare: nel gatto 66 ml/kg contro i 90 ml/kg nel cane.
Considerazioni: nel gatto la dose dei fluidi da somministrare per la rianimazione
dovrebbe essere composta da piccoli boli e da un volume ridotto rispetto al cane (boli da 5-10 ml/kg di cristalloidi in 10 min ripetuti a seconda del miglioramento o meno dei parametri e volume totale da infondere 40-60 ml/kg).
Superficie corporea: nei pazienti di piccola taglia è normale avere un alto rapporto superficie/massa corporea.
Considerazioni: i gatti sono più soggetti a una rapida perdita di calore corporeo e
riescono con difficoltà a compensarne la dissipazione.
Organo shock: nel gatto il polmone è stato dimostrato essere l’organo “shock”;
nel cane invece è l’intestino.
Considerazioni: l’auscultazione polmonare in un gatto critico va ripetuta più volte
in corso di rianimazione. L’aumento della frequenza e dello sforzo respiratorio o la
presenza di crepitii polmonari può indicare una complicazione dello shock (ards, oppure edema polmonare iatrogeno per eccesso di fluidi durante la rianimazione).
Patologie cardiache occulte: la difficoltà nel diagnosticare dei problemi cardiaci
nel gatto spesso può essere un problema durante la rianimazione.
Considerazioni: la presenza di patologie cardiache occulte può portare, in corso di
rianimazione, a un sovraccarico di volume e quindi allo sviluppo di edema polmonare/versamento pleurico. Per questo bisogna rivalutare spesso il gatto critico per evidenziare attraverso l’auscultazione l’insorgere di rumori polmonari e per escludere
aritmie, soffi cardiaci, ritmo di galoppo.
Predisposizione a un sovraccarico in corso di fluidoterapia rianimatoria: nel
gatto, a causa di un suo scarso adattamento al sovraccarico vascolare, si può facilmente indurre edema polmonare e o versamento pleurico.
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Considerazioni: i fattori che possono aumentare il rischio di sviluppo di edema
polmonare/versamento pleurico sono: ipotermia (che rallenta la normale risposta vascolare alla somministrazione di fluidi), patologie cardiache occulte, presenza di problemi polmonari preesistenti, SIRS/sepsi, insufficienza renale, ipoalbuminemia, ipocalcemia, somministrazione di volumi troppo elevati di colloidi, grave anemia, etc.
Iperglicemia da stress: uno stato iperglicemico (valori di 285 mg/dl) è normalmente riscontrabile in gatti sottoposti a stress (a causa di un aumento del livello catecolamine circolanti).
Considerazioni: è buona regola controllare in maniera seriale la glicemia nei gatti
in stato di shock (l’iperglicemia da stress è spesso transitoria).
Metabolismo dei farmaci: i gatti hanno una ridotta capacità di glucuronidazione
epatica e una deficienza di tiopurina metiltransferasi (TPMT).
Considerazioni: la ridotta capacità di glucuronidazione epatica è la ragione per la
quale il paracetamolo è molto tossico nel gatto e sembra, anche se non ancora dimostrato, che sia alla base della tossicità specie specifica della permetrina.
Anemia: spesso patologie croniche nel gatto sono associate a una moderata o grave anemia.
Considerazioni: prima di iniziare con la rianimazione bisogna sempre valutare il
PCV in considerazione della disidratazione del paziente per non sovrastimarlo.
Una grave anemia associata ad un aumento rapido dei volumi vascolari e cardiaci,
può essere causa di edema polmonare/versamento pleurico nel gatto.
Gruppi sanguigni: i gatti a differenza dei cani presentano alloanticorpi naturali
per gli altri gruppi sanguigni.
Considerazioni: nel gatto anche in corso di prima trasfusione bisogna fare SEMPRE le prove di compatibilità crociata. La somministrazione di sangue incompatibile può causare una reazione trasfusionale spesso fatale.
Lipidosi epatica: i gatti obesi sono ad alto rischio di sviluppo di lipidosi epatica
dopo periodi relativamente brevi di anoressia.
Considerazioni: nel gatto anoressico prevedendo periodi di digiuno prolungato bisogna sempre tenere in considerazione il posizionamento di una sonda alimentare per
iniziare una alimentazione enterale.
Richiesta costante di proteine nella dieta: incapacità di abbassare la richiesta del
fabbisogno proteico.
Considerazioni: dopo un breve periodo di malattia/anoressia si sviluppa molto rapidamente il catabolismo delle riserve proteiche per favorire la gluconeogenesi.
Alimentare subito il gatto dopo un’iniziale stabilizzazione è una priorità in terapia
intensiva.
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Risposta al dolore: spesso i segni del dolore nel gatto non sono semplici da recepire, uno stato algico può manifestarsi con: posizione curva del corpo, riduzione della fessura palpebrale, pelo arruffato, assenza di interazione, assenza di toelettatura,
mancanza di appetito, riluttanza al movimento ed aggressività.
Considerazioni: il riconoscimento e il controllo del dolore è di fondamentale importanza nella stabilizzazione del gatto (e del cane).
Aggressività: paura, stress e dolore sono spesso causa nel gatto di un atteggiamento aggressivo che può compromettere e complicare le manovre di rianimazione.
Considerazioni: lo scopo del medico d’urgenza deve essere quello di limitare al
massimo lo stress. A questo scopo attraverso la contenzione farmacologica con oppioidi (butorfanolo 0,1/0,2 mg/kg) si possono rendere possibili manovre che altrimenti il gatto non sopporterebbe.
Indirizzo per la corrispondenza:
Ospedale Veterinario Gregorio VII - Roma
Responsabile Pronto Soccorso Notturno
E-mail: [email protected]
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COMUNICAZIONI BREVI
Le comunicazioni sono elencate in ordine alfabetico
secondo il cognome dell’autore presentatore.
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CROSS REATTIVITÀ TRA FILARIA
ED ANGIOSTRONGYLUS VASORUM IN CANE
CON POSITIVITÀ A LEISHMANIA
P. Palagiano, DVM, SCMPA, Gp Cert(SAM)1, F. Buri, DVM, SCMPA1
1
Clinica Veterinaria Meda, Meda, Italia
Tipologia: Caso Clinico
Area di interesse: Medicina interna
Introduzione. L’uso sempre più costante di test diagnostici a scopo di screening ha
aumentato la consapevolezza dell’esistenza di diverse infezioni/infestazioni. I test in
questi casi possono mettere in luce positività multiple. Tuttavia l’interpretazione degli esami deve essere valutata criticamente in base allo stato clinico del soggetto. Si
descrive una falsa positività a un test filaria causata da una cross reazione all’antigene dell’angiostrongilo. Tale possibilità è stata recentemente descritta da Schnyder che
ha valutato la cross reattività in cinque test rapidi della filaria (uno con doppia lettura, ambulatoriale e di laboratorio) nei confronti del nematode polmonare. Il medesimo soggetto, risultato positivo agli anticorpi della leishmania, è stato inquadrato appartenente alla classe A o B come proposto dal CLWG (Canine Leishmaniosis Working Group).
Descrizione. Una cagna femmina sterilizzata di circa quattro anni, proveniente da un
canile del Centro Italia, era stata riferita per impostare una terapia nei confronti di filariosi cardiopolmonare e leishmaniosi.
A un test di screening per filaria (snap HRTW® Idexx) era risultata positiva e aveva
un titolo IFI leishmania 1:80.
La successiva stadiazione del soggetto, con l’ausilio di ulteriori test diagnostici, valutazioni di laboratorio e diagnostica per immagini aveva però individuato delle incongruenze.
La ripetizione del test e la ricerca di microfilarie erano risultati negativi, il quadro radiografico era atipico e la ricerca di larve L1 dell’A. vasorum con tecnica di Baermann aveva dato esito positivo.
Il paziente al termine dell’iter è risultato negativo nei confronti di dirofilaria immitis,
ed è stato trattato nei confronti dell’A. vasorum. Il successivo monitoraggio ha riscontrato un miglioramento del quadro polmonare. L’IFI leishmania all’esame di controllo si era negativizzato e si osservava una normalizzazione del tracciato elettroforetico in assenza di alcun trattamento per l’infezione protozoaria.
Conclusioni. La positività ai test diagnostici deve essere valutata in maniera critica
confrontando i riscontri clinici con i dati di laboratorio e di diagnostica per immagini. La cross reattività del test della filariosi all’antigene dell’A. vasorum non è un
evento infrequente e deve essere considerato nel diagnostico differenziale dei pazienti risultati positivi ai test rapidi di screening. La positività agli anticorpi della leishmania non necessariamente implica una terapia nei confronti dell’infezione.
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Bibliografia
E. Morgan, S. Shaw. Angiostrongylus Vasorum infection in dogs: continuing spread and developments in diagnosis and treatment. JSAP 51: 616-621, 2010.
J. R. Helm, E.R. Morgan, M.W. Jackson, et al. Canine angiostrongylosis: an emerging disease
in Europe. J Vet. Em. Cri. Care 20: 98-109, 2010.
L. Guardone, M. Schnyderb, F. et al. Serological detection of circulating Angiostrongylus vasorum antigen and specific antibodies in dogs from central and northern Italy. Vet. Par.
192: 192-198, 2013.
D. Traversa, A. Di Cesare, et al. Canine angiostrongylosis in Italy: occurrence of Angiostrongylus vasorum in dogs with compatible clinical pictures. Par Res 112:2473-2480, 2013.
P. S. Chapman, A. K.Boag, et al. Angiostrongylus vasorum infection in 23 dogs (1999-2002).
JSAP 45: 435-440, 2004.
K. Boag, C. R. Lamb, et al. Radiographic findings in 16 dogs infected with Angiostrongylus
vasorum. Vet Rec 154:426-430, 2004.
K. Borgeat, S. Sudunagunta, et al. Retrospective evaluation of moderate-to-severe pulmonary
hypertension in dogs naturally infected with Angiostrongylus vasorum. JSAP 56:196-202,
2015.
M. Schnyder, P. Deplazes. Cross-reactions of sera from dogs infected with Angiostrongylus vasorum in commercially available Dirofilaria immitis test kits. Par & Vec 5:258, 2012.
J.L. Willesen, A.T. Kristensen, et al. Efficacy and safety of imidacloprid/moxidectin spot-on solution and fenbendazole in the treatment of dogs naturally infected with Angiostrongylus
vasorum Vet Par 147:258-264, 2007.
S. Paltrinieri, L. Solano-Gallego, A. Fondati, et al. Guidelines for diagnosis and clinical classification of leishmaniasis in dogs. JAVMA 236: 1184-1191, 2010.
E. Bottero, M. Poggi, et al. Lesioni papulari indotte da leishmania spp. in 8 cani giovani. Vet
20: 33-36, 2006.
L. Solano-Gallego, A. Koutinas, et al. Directions for the diagnosis, clinical staging, treatment
and prevention of canine leishmaniosis. Vet Par165: 1-18, 2009.
L. Solano-Gallego, G. Miró, et al. LeishVet guidelines for the practical management of canine
leishmaniosis. Par & Vec 4:86, 2011.
Indirizzo per corrispondenza:
Dott.ssa Paola Palagiano - Via Libertà, 76 - 20821 Meda (MB) - Italia
Tel. 0362/557456 - Cell. 393/0217176 - E-mail: [email protected]
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OSTEOMIELITE DA SERRAZIA MARCESCENS
MULTIRESISTENTE IN CANE DI 6 MESI
G. Semprini, DMV, SPCAA1, S. Russo, DMV, PhD1, A. Alpino, DMV1,
M. Falqui Massidda, DMV1
1
Centro Veterinario Bolognese srl, Bologna, Italia
Tipologia: Caso Clinico
Area di interesse: Medicina interna
Introduzione. La Serratia marcescens è un batterio Gram- (fam. Enterobacteriacee)
patogeno opportunista che può sviluppare resistenza ai comuni antibiotici e ai disinfettanti più utilizzati. La resistenza anche verso molecole di ultima generazione rende le infezioni da Serratia m. difficili da trattare. Diversi sono i case report di recidive anche a distanza di anni dal primo episodio. In Medicina Umana è riconosciuto come responsabile di infezioni nosocomiali e le vie di ingresso più frequentemente riportate sono quella gastroenterica, urinaria e iatrogena, mediante cateterismi endovenosi e linee per nutrizione parenterale. Molteplici sono le segnalazioni di focolai di
infezioni ospedaliere, tra cui anche terapie intensive neonatali. In Medicina Veterinaria sono riportati alcuni case report o case series nel cane, tra i quali un caso di endocardite, un caso di piogranuloma cutaneo e un isolamento con altri patogeni da agocannule di pazienti ospedalizzati in corso di parvovirosi. Il caso oggetto di questo lavoro potrebbe essere, sulla base dei dati presenti in letteratura, il primo riguardante
un’osteomielite da Serratia marcescens, di sospetta natura nosocomiale, nel cane.
Descrizione del caso. Un cane femmina, meticcio di 6 mesi e di 6,7 kg veniva riferito per zoppia di quarto grado, anoressia e letargia da 3 giorni. Nel periodo precedente il cane era stato sottoposto a due ricoveri presso un’altra struttura per episodi di
diarrea e tosse. Per la zoppia, insorta successivamente, era stato trattato con carprofen (2 mg/kg q24 h)e cefalessina (30 mg/kg q12 h) senza risultato. All’esame fisico il
cane presentava 39,6°C di temperatura, zoppia di quarto grado e forte dolorabilità a
carico dell’arto anteriore destro. Gli esami emocromocitometrico, biochimica sierica
con proteina C reattiva (CRP) e test per malattie infettive trasmesse da vettori (Erlichia, Anaplasma, Borrelia, Filaria e Leishmania) risultavano compatibili con un processo infiammatorio acuto (leucocitosi neutrofilica e incremento della CRP, 3,3
mg/dl, R.I. 0-1 mg/dl). L’esame radiografico evidenziava una area di rarefazione ossea al limite della frattura patologica a carico dell’epifisi prossimale dell’omero destro. Dalla lesione omerale veniva eseguito FNA per esame batteriologico che risultava positivo per Serratia marcescens, e l’antibiogramma dimostrava resistenza a diversi antibiotici (amoxicillina + clavulanico, ampicillina, cefalosporine di prima e seconda generazione, tetracicline) e sensibilità a fluorochinoloni e cefalosporine di III
generazione. Sulla base dell’esame batteriologico veniva impostata una terapia antibatterica con marbofloxacina 3 m/kg integrata, per ipertermia persistente, dopo 7
giorni con cefovecina 8 mg/kg ogni 14 giorni. Dopo 25 giorni di terapia la zoppia an-
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dava in remissione clinica consensualmente all’ipertermia e si assisteva a ricalcificazione dell’area lesa. Dopo 45 giorni la terapia antibiotica veniva sospesa e a 60 giorni la radiografia di controllo mostrava una normalizzazione del tessuto osseo.
Conclusioni. Il caso descritto potrebbe essere il primo documentato di osteomielite
da Serratia marcescens in un cane. Il batterio, come riportato in diverse fonti bibliografiche di Medicina Umana, è risultato anche in questo caso resistente ai comuni antibiotici e l’esame batteriologico comprensivo di antibiogramma, eseguito precocemente, è risultato fondamentale per instaurare tempestivamente una terapia mirata. Il
paziente è andato in completa remissione clinica e radiografica in un periodo di tempo di circa 40 giorni. Questa esperienza clinica può essere di notevole supporto a
mantenere le più alte norme igieniche e accorgimenti in ambienti ospedalieri, soprattutto per l’inserimento e la gestione di agocannule venose e cateteri urinari, che come
tali risultano essere ambienti che favoriscono lo sviluppo di agenti microbici particolarmente resistenti a molecole antibatteriche e disinfettanti comunemente utilizzati,
soprattutto in pazienti con sistema immunitario compromesso.
Bibliografia
Pasquin A. et al Relapse of Serratia marcescens sternal osteitis 15 years after the first episode.
J Clin Microbiol 2012 Jan; 50(1):184-6.
Khanna A et al. Serratia marcescens - a rare opportunistic nosocomial pathogen and measures
to limit its spread in hospitalized patients. J Clin Diagn Res 2013 Feb; 7(2):243-6.
Montagnani C. et al. Serratia marcescens outbreak in a neonatal intensive care unit: crucial role of implementing hand hygiene among external consultants. BMC Infect Dis 2015 Jan
13; 15:11.
Cornegliani L. et al. Identification by real-time PCR with SYBR Green of Leishmania spp. and
Serratia marcescens in canine ‘sterile’ cutaneous nodular lesions. Vet Dermatol 2015 Jun;
26(3):186-92
Indirizzo per corrispondenza:
Dott. Giovanni Semprini - Centro Veterinario Bolognese S.R.L
Via Montenero, 24/A - 40131 Bologna (BO) - Italia
Tel. 051/6491706 - E-mail: [email protected]
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SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA
ASSOCIAZIONE FEDERATA ANMVI
Ringrazia gli Sponsor per il sostegno dato all’evento
ORGANIZZATO DA:
E.V. Soc. Cons. a r.l. è una Società con
sistema qualità certificato ISO 9001:2008