L`influenza della corporate governance sulla relazione fra struttura

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L`influenza della corporate governance sulla relazione fra struttura
L’influenza della corporate governance
sulla relazione fra struttura del capitale e valore
MAURIZIO LA ROCCA∗
Abstract
Il presente lavoro approfondisce un tema tradizionalmente caldo negli studi di Gestione
d’Impresa e Finanza Aziendale: la struttura finanziaria delle imprese. In particolare appare
interessante e vivace il dibattito sul ruolo della corporate governance quale variabile di
mediazione e moderazione in grado di spiegare la relazione fra struttura finanziaria e valore
d’impresa. In altri termini, il controverso riscontro empirico sul legame fra leverage e valore
può essere attribuito alla poca attenzione prestata sull’interazione fra struttura finanziaria e
altre variabili di corporate governance. Infatti, la struttura finanziaria rappresenta uno
strumento di corporate governance, come altri, in grado di limitare problemi di agenzia e
asimmetria informativa. Pertanto, per poterne apprezzare il legame fra struttura finanziaria e
valore d’impresa, bisogna considerare la presenza di rapporti di complementarità con altre
variabili di corporate governance quali la concentrazione proprietaria, la partecipazione dei
manager al capitale, la struttura e natura del Consiglio di Amministrazione, ecc. In
conclusione, vengono fornite alcune indicazioni sullo sviluppo di analisi empiriche su tale
relazione.
Key words: struttura finanziaria, governo d’impresa e valore
This paper focuses on a well-known topic in the management and financial literature: the
relation between capital structure and firm’s value. Particularly interesting is the debate on
the role of moderation and/or mediation of corporate governance on the relation between
capital structure and firm’s value. The controversial empirical results on this topic can be
due to the lack of attention on the interaction between capital structure and other corporate
governance variables. In fact, capital structure represents a corporate governance device as
others. For this reason, to appreciate the relation between capital structure and firm’s value,
it is necessary to take into account the presence of complementarity relationships with
ownership concentration, managerial ownership, the role of the Board of Directors, and so
on. To conclude, the paper provides some suggestions for future empirical research on this
topic.
Key words: capital structure, corporate governance and value
∗
Ricercatore di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi della Calabria
e-mail: [email protected]
sinergie n. 68/05
MAURIZIO LA ROCCA
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Introduzione
Gli studi di Economia Aziendale, e in particolar modo di Gestione d’Impresa e
Finanza Aziendale, hanno da sempre, quale elettivo campo d’indagine, analizzato i
processi di creazione di valore economico. Fra i molteplici elementi emersi da tali
studi quali determinanti del valore è possibile rilevare il ruolo della struttura
finanziaria (Venanzi 2003).
Mezzo secolo di ricerche sulla struttura del capitale dell’impresa, iniziate con i
seminali contributi di Modigliani e Miller del 1958, hanno cercato di verificare la
presenza di una struttura finanziaria ottimale, ossia in grado di amplificare la
capacità dell’impresa di creare valore. E si è anche assistito a un acceso dibattito fra
i sostenitori dei due principali approcci teorici, in estrema sintesi rappresentati dalla
teoria del trade-off (Kraus e Litzeberger 1973) e dalla teoria dell’ordine di scelta
(Myers 1984, Myers e Majluf 1984).
In particolare, in base alla teoria del trade-off, bilanciando vantaggi e svantaggi
del debito, sarebbe possibile individuare un livello di indebitamento ottimale verso
cui tendere, in grado di ridurre il costo del capitale e contribuire alla creazione di
valore economico1. In altri termini, si introduce un elemento di equilibrio nelle
scelte di struttura finanziaria dato dall’ottimale combinazione di debito ed equity.
Molteplici sono i fattori che, generando costi e benefici connessi al debito,
contribuiscono alla determinazione della struttura finanziaria ottimale. Le imprese
che ricorrono al debito, infatti, possono non solo sfruttare il beneficio fiscale legato
alla deducibilità degli oneri finanziari, ma anche minimizzare i costi associati alle
asimmetrie informative e disciplinare il comportamento del management nelle
politiche d’investimento aziendale2. Tale forma di finanziamento, tuttavia, comporta
la possibilità di incorrere in alcuni problemi specifici, riconducibili a costi
dell’eventuale dissesto finanziario, costi di agenzia e costi derivanti dalla perdita di
elasticità finanziaria3.
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2
3
Vale la pensa ricordare che i principali metodi di valutazione determinano il valore
dell’impresa utilizzando il costo del capitale quale tasso che attualizza i flussi di ritorni
aziendali; pertanto, l’individuazione della struttura finanziaria ottimale permetterebbe di
minimizzare il costo del capitale, massimizzando il valore d’impresa, grazie all’incidenza
sul fattore di attualizzazione dei flussi futuri.
In quest’ultimo caso l’indebitamento vincola il manager a dover intraprendere solo
progetti in grado di garantire un ritorno sufficiente a far fronte al servizio del debito. Il
ricorso al debito rappresenta, di fatto, una modalità indiretta di controllo e disciplina del
comportamento del management attraverso il contenimento della loro propensione a
utilizzare in maniera discrezionale e inefficiente i flussi di cassa operativi che, in tal
modo, devono in primo luogo essere destinati al pagamento di interessi e quota capitale.
L’utilizzo del debito come strumento di controllo del management fu teorizzato per la
prima volta da Jensen (1986).
Graham e Harvey (2001) hanno evidenziato come i direttori finanziari americani mostrino
grande attenzione verso il mantenimento dell’elasticità finanziaria, cioè della possibilità di
espandere le fonti di finanziamento senza precludersi la capacità di intraprendere progetti
economicamente convenienti in futuro, a salvaguardia della capacità di cogliere le growth
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È opportuno osservare, anticipando successive considerazioni, come da una
sintetica analisi dei costi-benefici legati all’uso del debito sembra emergere uno
stretto legame con l’attività di governo d’impresa. È proprio la teoria dell’ordine di
scelta, infatti, che evidenzia il ruolo attivo e intenzionale del management che
direttamente seleziona le fonti di finanziamento dell’impresa in base a un ordine di
preferenza (risorse autogenerate, debito e, infine, nuovo equity), interpretabile alla
luce della volontà di evitare intromissioni nella sua attività di governo, riducendo
costi di transazione e di asimmetria informativa (proporzionalmente crescenti nel
passaggio dal finanziamento tramite risorse interne, al debito e, infine, all’equity)4.
In altre parole, tale teoria riflette il ruolo centrale svolto dal management nel
processo decisionale verso la salvaguardia di obiettivi di sopravvivenza e
autosufficienza. Secondo la teoria dell’ordine di scelta non esisterebbe una strategia
ottimale di copertura dei fabbisogni finanziari e, di conseguenza, la struttura
finanziaria sarebbe semplicemente il risultato della sedimentazione delle scelte di
finanziamento precedenti.
Il controverso riscontro che la verifica di tali teorie ha prodotto (Harris e Raviv
1991, Venanzi 1999), anche a causa della difficoltà di verificarne la validità
all’interno di un contesto reale, ha animato la ricerca di soluzioni in grado di
“irrobustire” le ipotesi teoriche e migliorare i modelli econometrici5.
A tale riguardo, alcuni recenti contributi (Fluck 1998, Zhang 1998, Zingales
2000, Myers 2000, Heinrich 2000, Mahrt-Smith 2003, Berger e Patti 2003)
testimoniano un vivace ritorno di attenzione al tema della struttura del capitale
dell’impresa. In particolare, richiamando i contributi di Jensen e Smith del 1985 e
Jensen e Warner del 1988, si è acceso nuovamente un’interessante dibattito sulla
necessità di considerare il prezioso contributo offerto dalla corporate governance
quale variabile in grado di spiegare il legame fra struttura finanziaria e valore,
limitando comportamenti opportunistici nelle relazioni economiche fra azionisti,
creditori e manager (Fluck 1998, Heinrich 2000, Bhagat e Jefferis 2002, MahrtSmith 2003, Brailsford et al. 2004).
È noto, infatti, che l’attività di governo dell’impresa è in grado di contribuire alla
creazione di valore non solo attraverso la selezione dei progetti d’investimento ma
anche attraverso la composizione della struttura finanziaria. Nondimeno, considerare
le scelte di finanziamento solo successivamente alla realizzazione di investimenti e
alla concretizzazione di decisioni operative o, comunque, in maniera residuale, non
appare corretto. In questo modo, infatti, si sottovaluterebbe la varietà di soluzioni, e
la connessa capacità di creare valore che, invece, una politica finanziaria, disegnata
4
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opportunities. Un riscontro simile è ottenuto dalla survey condotta sulle imprese europee
da Bancel and Mittou (2003) e Brounen et al. (2004).
Anche secondo la prospettiva degli investitori, problemi di asimmetria informativa
rendono il ricorso all’equity molto costoso (l’incertezza sulla qualità della gestione
aumenta la remunerazione richiesta dagli investitori per coprirsi dal rischio d’impresa)
mentre l’uso del debito riduce tali tipi di problemi.
Su come le tecniche e i modelli econometrici si sono evoluti nel tentativo di cogliere la
complessità del fenomeno si veda il contributo di Bhagat e Jefferis (2002).
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unitamente alle decisioni di investimento, potrebbe garantire.
L’attenzione verso la struttura finanziaria, pertanto, non è solo rivolta al costo
esplicito del debito o dell’equity, ma si estende anche alle implicazioni delle scelte
di finanziamento sulle modalità di governo dell’impresa. In tal senso, la struttura
finanziaria può influenzare il valore dell’impresa:
-
limitando i conflitti d’interesse che possono sorgere fra azionisti e creditori e la
probabilità di incorrere in costi di dissesto e fallimento (Jensen e Meckling 1976,
Williamson 1988);
modificando gli incentivi alla dirigenza (Jensen e Meckling 1976, Myers 1977);
vincolando l’attività del management (Myers 1977, Myers e Majlus 1984, Jensen
1986);
gestendo i segnali e, in generale, i problemi di asimmetria informativa (Ross
1977)6;
incentivando gli azionisti e gli altri finanziatori a controllare l’operato della
dirigenza (Shleifer e Vishny 1986);
e, soprattutto, incentivando investimenti firm-specific del capitale umano e
promuovendo l’efficiente allocazione del potere decisionale nell’impresa (Hart,
1995, Zingales 2000).
Alla luce di tutto ciò, la struttura finanziaria emerge quale strumento di
corporate governance, capace di sostenere lo sviluppo dell’impresa, soprattutto in
contesti a elevata complessità, minimizzando il costo del capitale e preservando
l’equilibrio finanziario. In tal modo si rendono disponibili, in modo efficiente, le
risorse finanziarie necessarie a cogliere le opportunità di sviluppo, salvaguardando
le relazioni di governance, quale presupposto fondamentale per un efficiente attività
d’impresa a sostegno del suo vantaggio competitivo7.
In tale contesto, il presente lavoro si pone l’obiettivo di approfondire la relazione
fra struttura finanziaria, corporate governance e valore arrivando alla formulazione
di un’interessante proposizione di ricerca. Verranno presentate evidenze empiriche e
argomentazioni controverse rinvenibili nella letteratura sul tema, identificando i
principali filoni di studio che attualmente si interessano di struttura finanziaria. In
particolare uno di questi filoni di ricerca, attribuendo estrema rilevanza al ruolo della
corporate governance, si mostra in grado di spiegare la relazione fra struttura
finanziaria e valore. Pertanto, dopo aver chiarito il concetto di corporate governance
6
7
Gli stakeholder cercano di interpretare le decisioni dell’organo di governo attraverso le
scelte di finanziamento, per coglierne indicazioni sulle prospettive future. A loro volta, i
manager possono influenzare le aspettative degli stakeholder e, quindi, il prezzo delle
azioni, attraverso le decisioni di finanziamento.
Si sottolinea, inoltre, la centralità di tale tema osservando, a titolo di esempio, come negli
anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, operazioni di LBO, OPA e scalate
ostili abbiano scosso il sistema economico, evidenziando la rilevanza, nel governo
dell’impresa, delle scelte di struttura finanziaria e di design degli strumenti di equity e
debito.
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e il suo legame con il valore d’impresa, verrà approfondita la relazione, e i relativi
nessi causali, fra struttura finanziaria, corporate governance e valore e, in
particolare, le modalità con cui la corporate governance potrebbe rivelarsi cruciale
nello spiegare il legame fra struttura finanziaria e valore, svolgendo un ruolo di
mediazione o di moderazione sulla relazione causale caratterizzante il suddetto
legame.
1. Evidenze empiriche e interpretazioni controverse sulla relazione fra
struttura finanziaria e valore
Nel tentativo di fornire una guida per le decisioni sulla struttura del capitale,
spiegare le scelte finanziarie e dirimere il dilemma sull’esistenza di un livello
d’indebitamento ottimale, che massimizzi il valore economico dell’impresa, sono
state elaborate molteplici teorie.
Ripercorrendo le tappe fondamentali dei contributi teorici sul legame fra
struttura finanziaria e valore attraverso la figura 1, appare subito evidente una
differenza sostanziale tra le formulazioni originarie e quelle più recenti.
Fig. 1: Evoluzione delle teorie sulla relazione fra struttura finanziaria e valore
Fonte: nostra elaborazione
Legenda – W: valore dell’Impresa; L: leverage; L’, L’’ e L’’’: rapporto di indebitamento
ottimale.
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Gli stessi Modigliani e Miller, che originariamente (1958 - figura 1.a) avevano
considerato l’assenza di relazione fra struttura finanziaria e valore, nel 1963 sono
giunti alla paradossale e provocatoria conclusione che un indebitamento massimo,
facendo leva sulla deducibilità fiscale degli interessi, consentirebbe di massimizzare
il valore dell’impresa (figura 1.b). Successivamente molteplici contributi hanno
evidenziato una compensazione di tale effetto in considerazione delle imposte
personali (Miller 1977), della potenziale mancanza di capienza fiscale oppure
dell’effetto di scudi fiscali alternativi (DeAngelo e Masulis 1980), fino
all’introduzione dei costi del dissesto (diretti e indiretti) che compongono un tradeoff fra benefici e costi del debito. Il punto D’ nella figura 1.c identifica il livello
d’indebitamento ottimale, oltre il quale aumenti del leverage causerebbero
incrementi nei benefici del debito meno che proporzionali rispetto ai costi del
dissesto. Inoltre, tale relazione non monotonica verrebbe ulteriormente modificata
considerando, unitamente ai costi del dissesto, anche quelli di agenzia (figura 1.d).
Infine, un ulteriore filone di studio (Myers 1984, Myers e Majluf 1984)
attribuisce rilevanza alle preferenze del manager nella selezione delle fonti di
finanziamento (figura 1.e); in questo caso non emerge un livello di indebitamento
ottimale, ma questo è contingente alle diverse situazioni che il manager ha, nel corso
del tempo, dovuto affrontare. In questo caso il manager devierà dalla struttura
finanziaria ottimale, data la presenza di asimmetrie informative, nel tentativo di
limitare interferenze nell’attività di governo d’impresa e preservare la sua
discrezionalità decisionale. In altri termini, nei modelli teorici precedenti, data la
presenza di asimmetrie informative, interviene la funzione di preferenza del
manager e, pertanto, il livello d’indebitamento d’impresa sarà determinato dal punto
di tangenza fra la funzione valore d’impresa e la curva d’indifferenza del manager8.
Bisogna tener conto che la presenza di asimmetrie informative aveva, già nel 1977,
evidenziato un impatto sulle scelte d’indebitamento con Ross.
In generale, il punto di partenza per una rassegna degli studi che evidenzi lo stato
dell’arte inerente la struttura finanziaria, come sottolineato da Rajan e Zingales
(1995), è certamente il lavoro di Harris e Raviv (1991). Esso, infatti, sintetizza le
conoscenze acquisite, sia da un punto di vista teorico che empirico, fino al 1990,
mostrando “... what we have learned since now...”.
Accanto a tale caposaldo è opportuno segnalare, come ulteriore riferimento, il
contributo di Venanzi (1999), che contiene una ricca e aggiornata rassegna delle
problematiche teoriche afferenti il tema della struttura finanziaria unitamente a un
approfondimento delle principali evidenze empiriche.
Se la maggior parte delle analisi empiriche disponibili riguarda imprese
americane, recentemente i contributi di valore scientifico si stanno moltiplicando
anche nel contesto italiano (fra i tanti Bigelli et. al 2001 e Venanzi 1999 e 2003). I
primi lavori hanno replicato modelli anglosassoni (Bonato, Hamaui e Ratti, 1991,
8
Saranno le caratteristiche del settore, del manager e, soprattutto, il suo livello di
avversione al rischio a influenzare l’andamento delle curve di indifferenza e, quindi, a
determinare una scelta di indebitamento diversa da quella ottimale.
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Buttignon e De Leo 1994) mentre, in seguito, si è tentato di analizzare le scelte di
struttura finanziaria contestualizzando le formulazioni teoriche e le ipotesi di ricerca
alle peculiarità italiane (Venanzi 2003)9.
In generale, si osservano molteplici ipotesi teoriche da testare e un ampio e
contraddittorio riscontro empirico10. In particolare, dalle tabelle sinottiche contenute
in Harris-Raviv (1991), e in sintonia con quanto evidenziato da Venanzi (1999 e
2003), i principali contributi empirici sembrano mostrare un leverage elevato e
crescente quando:
-
per la teoria del trade-off:
- il reddito tassabile è elevato;
- i costi di dissesto finanziario sono bassi,
per la teoria dell’Agenzia:
- le growth opportunities sono basse e/o i flussi di cassa disponibili sono
elevati,
per la teoria delle Asimmetrie Informative:
- le asimmetrie informative sono basse;
- la profittabilità dell’impresa è elevata (quale segnale di successo).
Inoltre, si osserva un aumento del debito in corrispondenza alla maggiore
rilevanza della reputazione dell’impresa sul mercato dei prodotti (Chevralier 1995).
Le ricerche condotte hanno mostrato delle similarità fra imprese appartenenti
allo stesso settore (Bradley et al. 1984, Titman e Wessels 1988, Barclay e Smith
1995); in altri termini la struttura finanziaria tende ad essere industry-specific11. Le
aziende all’interno dei vari settori condividono, infatti, diverse caratteristiche
economico-finanziarie e, pertanto, tendono ad adottare politiche finanziarie analoghe
che riflettono comuni vantaggi e svantaggi connessi al ricorso al debito12. Se è
interessante aver rilevato delle omogeneità a livello settoriale è importante verificare
l’esistenza di un livello di leverage ottimale a livello firm-specific.
In letteratura, come sintetizzato nella figura 2, il leverage risulta essere, in
generale, positivamente connesso, oltre che alla disponibilità di capienza fiscale
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12
Come evidenziato da Venanzi (2003), la struttura finanziaria delle imprese italiane è
“strutturalmente” diversa rispetto agli standard europei.
Non ultima, la verifica empirica di Venanzi (2003) sembra presentare risultati contrastanti
con quelli di Shyam Sunder e Myers (1999).
I settori farmaceutico, cosmetico, alimentare, elettronico, editoriale e delle biotecnologie
presentano, ad esempio, un leverage basso mentre settori altamente regolamentati e
relativamente stabili (tessile, piccola e grande distribuzione, acciaio, telecomunicazioni,
energia e costruzioni) presentano un rapporto d’indebitamento elevato.
Nei settori in cui la volatilità dei flussi di reddito e di cassa è più elevata e minori sono gli
asset in place è ragionevole assumere che il comportamento medio delle imprese sia
orientato a limitare il ricorso al debito. Al contrario, nei settori dove prevale una forte
stabilità dei flussi e maggiori sono le possibilità di collateralizzazione, il ricorso al debito
possa essere in media molto più elevato.
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ovvero alla possibilità di godere di benefici fiscali grazie alla presenza di un elevato
reddito13, al livello degli asset tangibili dell’impresa (attività collaterali)14, alla
dimensione aziendale15 e alla disponibilità di un elevato cash-flow, mentre evidenzia
un legame negativo con la rischiosità dell’impresa16 e gli investimenti in ricerca e
sviluppo, le spese di pubblicità17 e il market to book ratio18, quali proxy delle
opportunità di crescita (Harris e Raviv 1991, Venanzi 1999).
Capienza
fiscale
Dimensioni
+
+
Redditività
Tangibilità
degli asset
+
+
Leverage
Intangibles e
growth
opportunities
-
Rischiosità
Fig. 2: Influenza esercitata sulla struttura finanziaria dai principali fattori determinanti
Fonte: nostra elaborazione
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In letteratura è stato anche riscontrato un legame negativo, interpretato attraverso la teoria
dell’ordine delle scelte (Titman e Wessel 1988).
Il legame positivo viene interpretato come capacità dell’attivo tangibile di ridurre i costi
di fallimento (teoria del trade-off) e capacità di emettere del debito sicuro (teoria delle
asimmetrie informative e dell’agenzia). Si trova riscontro nelle analisi di Titman e
Wessels (1988) e Rajan e Zingales (1995).
La relazione positiva viene interpretata come minore rischio operativo e, quindi, minore
probabilità di fallimento. Emerge un riscontro attraverso i contributi di Titman e Wessels
(1988), Friend e Lang (1988), Rajan e Zingales (1995) e Sapienza (1997).
In questo caso si fa riferimento alla probabilità di fallimento. Si riscontra tale legame nei
contributi di Bradley et al. (1984), Titman e Wessels (1988), Friend e Lang (1988).
In questo caso si fa riferimento al grado di intangibilità degli asset (maggiori costi di
fallimento) e al maggiore valore di opzioni di crescita futuri che rilevano costi di agenzia
del debito. Emerge un riscontro attraverso i contributi di Bradley et al. (1984), Graham
(1996) e, in Italia, Bonato-Faini (1991).
In tal caso si fa riferimento alle growth opportunities, trovando un riscontro nel contributo
di Bradley et al. (1984), Titman e Wessels (1988), Berger, Ofek e Yermack (1997).
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Il confronto empirico fra teoria del trade-off e teoria dell’ordine di scelta appare
controverso. Da un lato le evidenze empiriche si mostrano moderatamente coerenti
con la teoria del trade-off, nel momento in cui si considera contestualmente fattore
fiscale e problemi di agenzia.
Infatti, il fattore fiscale sembra rilevante all’interno di analisi cross-sectional19
ma non rappresenta un fattore esaustivo nello spiegare le scelte di struttura
finanziaria. A fronte di un rilevante beneficio fiscale (MacKie-Mason 1990, Graham
1996 e 2000) i costi del dissesto finanziario non sembrano capaci di spiegare un
basso rapporto d’indebitamento presente in molte imprese (ad esempio Coca-Cola,
Intell e Microsoft oppure Ferrero in Italia).
Appare controverso osservare come imprese con utili elevati, e con un’elevata
capienza fiscale, mantengano un basso rapporto d’indebitamento, rinunciando ai
benefici della deducibilità fiscale degli oneri finanziari e lasciando, come si dice in
gergo, “money on the table” (Andrade e Kaplan 1998). La teoria dell’agenzia20, la
cui rilevanza viene amplificata dalla presenza di asimmetrie informative, sembra
possedere un’elevata capacità esplicativa anche se appare enormemente difficoltoso
un suo approfondimento empirico; è arduo, infatti, misurare l’effetto dei costi di
agenzia distinguendo comportamenti opportunistici da errori dei manager.
Dall’altro la presenza di un legame negativo fra leverage e redditività
dell’impresa sembrerebbe non supportare la teoria del trade-off, confermando la
presenza di un ordine gerarchico nelle scelte di finanziamento. Il ruolo fondamentale
degli utili reinvestiti quale fonte di finanziamento sembra avvalorare le implicazioni
suggerite dalla teoria dell'ordine di scelta sia a livello internazionale (Mayer 1990;
Rajan e Zingales 1995) che in Italia (Bonato e Faini 1991, Bonato, Hamaui e Ratti,
1993, Buttignon e De Leo 1994)21.
È chiaro, dunque, come il tema della struttura finanziaria sia tutt’altro che
consolidato e come molteplici siano le problematiche tutt’ora aperte (Harris e Raviv
1991, Venanzi 1999).
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Graham (2000) ha vinto il premio Brattle, uno dei più importanti nel mondo accademico
della finanza, quantificando il beneficio fiscale pari al 9.7% del valore dell’impresa.
Riferimenti significativi sulla teoria dell’agenzia sono i lavori di Titman e Wessels
(1988), McConnell e Servaes (1995) oltre a Lang, Ofek e Stulz (1996) su imprese
americane, mentre il riscontro di tale teoria in Italia viene approfondito dai contributi di
Bonato, Hamaui e Ratti (1991) e dall'Indagine sulle piccole e medie imprese industriali,
del giugno 1995, curata dal Mediocredito Centrale. Sul contributo fornito dalla teoria
dell’agenzia nell’interpretare la realtà italiana è altrettanto rilevante il lavoro di Bigelli e
Sandri (1994).
Rajan e Zingales (1995), a parziale giustificazione di tale legame negativo, fanno notare il
ruolo rivestito da problemi di causalità o endogeneity; ad esempio un aumento del reddito
comporta un aumento del capitale proprio per la parte non distribuita e, di conseguenza,
un aumento “meccanico” dell’equity che riduce il leverage dell’impresa.
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2. Principali filoni di ricerca
Come sostenuto da vari autori (Rajan e Zingales 1995, Bigelli et al. 2001 e
Venanzi 1999 e 2003), e accennato in precedenza in questo stesso lavoro, la struttura
finanziaria è un tema “caldo” negli studi di finanza aziendale.
Dall’analisi della letteratura internazionale è possibile evincere una serie di
indirizzi di ricerca prioritari, derivanti da evidenze empiriche controverse, da nuove
prospettive d’analisi e dall’ampliamento del numero di “variabili”, ritenute idonee a
interpretare il comportamento delle imprese. In particolare si segnala:
− l’importante confronto fra finanza “razionale” e “comportamentale” (Shleifer
2000, Baker e Wurgler 2000 e Barberis e Thaler 2002);
− un vivace confronto fra la teoria dell’ordine delle scelte e la teoria del trade-off
(Shyam Sunder e Myers 1999, Venanzi 2003);
− lo sforzo di contestualizzazione di tali teorie sulle imprese minori (Pencarelli e
Dini 1995, Berger e Udell 1998, Romano et al. 2001, Fluck 2001, Venanzi
2003);
− il ruolo della corporate governance sulla relazione fra struttura finanziaria e
valore (Fluck 1998, Zhang 1998, Heinrich 2000, Bhagat e Jefferis 2002, MahrtSmith 2003, Brailsford et al. 2004).
Il recente confronto fra finanza “razionale” e “behavioral” (Stein 1996, Shleifer
2000, Baker e Wrugler 2000), sintetizzato nella survey di Barberis e Thaler (2002),
ha acceso, grazie a tale nuova prospettiva, un rinnovato interesse per il tema della
struttura finanziaria, sia da un punto di vista teorico che empirico22. Stein (1996), in
risposta alla controversa evidenza empirica mostrata dai paradigmi tradizionali
(Harris e Raviv 1991), sostiene che alcuni fenomeni finanziari possono essere
meglio compresi utilizzando dei modelli che considerano la non razionalità degli
agenti economici. Baker e Wrugler (2000) sostengono che le scelte di struttura
finanziaria siano frutto del comportamento di un soggetto razionale, il manager, in
relazione a soggetti irrazionali, gli investitori; gli autori osservano, a tal riguardo, un
“market timing” nelle scelte di struttura finanziaria: a periodi di euforia nei mercati
borsistici corrisponde un maggior numero di emissioni azionarie (aumento
dell’equity e riduzione del leverage); e, viceversa, a periodi di “orso” in Borsa
corrisponde un maggior numero di operazioni di riacquisto di azioni (riduzione
dell’equity e aumento del leverage). La survey di Graham e Harvey (2001)
evidenzia come la struttura finanziaria dipenda dall’accumulazione di decisioni
passate unitamente a situazioni contingenti. Più che la ricerca di una struttura
finanziaria ottimale, le scelte di finanziamento sembrano seguire il “sentimento” del
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A tutt’oggi molti workshop e seminari di studio nei principali dipartimenti di Finanza,
quali ad esempio quello dell’Università di Chicago - Graduate School of Business, sono
caratterizzati da accesi confronti fra le due prospettive, i cui principali paladini sono Fama
(Finanza razionale) e Thaler (Finanza behavioral).
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management (emettere azioni quando il prezzo di mercato è alto, in modo tale da
ottenere maggiori risorse finanziarie e riacquistare azioni sul mercato quando il
prezzo è basso)23.
L’approccio behavioral, considerando l’ordine di scelta delle fonti di
finanziamento in termini di preferenze “irrazionali” dei soggetti, ha causato
un’immediata reazione di Stewart Myers (1999, 2000 e 2001), fondatore della teoria
dell’ordine di scelta. I problemi di asimmetria informativa (maggiori informazioni
disponibili per il manager in merito alle prospettive di crescita dell’impresa e al
rischio delle sue strategie) unitamente ai costi di transazione (nulli in caso di utilizzo
di risorse autogenerate e proporzionalmente crescente utilizzando debito e, infine,
equity), sostenendo la presenza di un ordine gerarchico seguito dal manager nelle
scelte di finanziamento, sarebbero in grado di fornire una spiegazione razionale al
comportamento manageriale (Fama e French 2002 e 2003). Di fronte a tali costi (di
asimmetria informativa e di transazione), infatti, il management sceglierà di
finanziare nuovi investimenti con risorse interne, in assenza delle quali, preferirà
utilizzare debito bancario; successivamente debito obbligazionario (più rischioso
rispetto al precedente) e, infine, non potendone fare a meno, farà ricorso a nuove
emissioni azionarie. In questo modo la struttura finanziaria dipenderebbe dalla
disponibilità di cash flow. Alla luce di ciò, si potrebbe considerare tale spiegazione
“razionale” al fenomeno osservato da Stein (1996), Baker e Wrugler (2000) e
Barberis e Thaler (2002).
Shyam Sunder e Myers (1999), di fatto, ripropongono una risposta razionale alle
scelte di struttura finanziaria, osservando la necessità di ricondurre e indirizzare gli
studi verso il confronto fra ordine gerarchico di scelta e trade-off24. In particolare i
due autori evidenziano le ipotesi e le variabili da utilizzare per poter confutare, o
meno, la presenza di un ordine di scelta sottostante alla formazione delle struttura
finanziaria.
Inoltre, gli studi su tale tema sono stati estesi alle PMI e alle imprese familiari
(Berger e Udell 1998, Michaelas et al. 1999, Romano et al. 2001, Fluck 2001,
Venanzi 2003), data la notevole rilevanza dell’attività economica svolta da imprese
di piccole e medie dimensioni (che pesano per il 95% in Europa e contribuiscono
23
24
Nell’analisi effettuata, infatti, il 67% dei manager finanziari americani intervistati ha
dichiarato il tentativo di cogliere le opportunità che offre il mercato, emettendo equity
prevalentemente quando il prezzo di mercato delle azioni è alto. Pagano, Panetta e
Zingales (1998) e Baker e Wrugler (2000) evidenziano come il rapporto prezzo di
mercato su valore contabile delle azioni rappresenti una significativa proxy per nuove
emissioni di azioni (quando tale rapporto è alto è più probabile assistere a nuove
emissioni azionarie).
Shyam Sunder e Myers (1999) sembrano riscontrare un livello d’indebitamento obiettivo
verso cui le imprese tendono nel lungo periodo anche se Venanzi (2003), applicando lo
stesso modello alla realtà italiana, solleva qualche perplessità sulla presenza di una
strategia di indebitamento obiettivo di lungo termine così come sostenuta dai due autori.
L’autrice, infatti, riscontra una strategia composita che tiene conto di più fattori
contemporaneamente; sicuramente l’adeguamento all’ottimo risulta condizionato dalla
dinamica del fabbisogno e delle fonti di copertura autogenerate.
116
MAURIZIO LA ROCCA
all’assorbimento del 65% della forza lavoro); anche Zingales (2000) ha sottolineato
come ancora oggi “l’attenzione rivolta verso le grandi imprese tenda, in parte, a
oscurare le imprese che non hanno accesso ai mercati finanziari”.
Pencarelli e Dini, già nel 1995, osservano un cambiamento di atteggiamento
negli studiosi, di recente maggiormente consapevoli e interessati alle peculiarità
finanziarie (e non solo) delle piccole e medie imprese e alla necessità di ridefinire i
modelli di “financial management” con riferimento alle dimensioni aziendali.
In particolare, in uno dei lavori più interessanti sul tema Berger e Udell (1998)
hanno sostenuto come ci sia un diverso comportamento finanziario delle imprese a
seconda della fase del ciclo di vita. Si osserva la necessità, anche per le grandi
corporation, di reinterpretare le scelte di struttura finanziaria alla luce del ciclo di
vita del finanziamento delle imprese (Fluck 2001). Infatti, si potrebbe riscontrare
una struttura finanziaria pro-tempore ottimale a seconda della fase del ciclo di vita
in cui l’impresa si trova.
Infine, prendendo spunto dalle osservazioni di Michael Jensen (1986) e dai suoi
numerosi contributi sul governo dell’impresa, unitamente al lavoro di Williamson
(1988), è stato alimentato un filone di ricerca che appare molto promettente
nell’analizzare come la corporate governance influenzi, direttamente o
indirettamente, la relazione fra struttura finanziaria e valore. La prospettiva e le
ipotesi di ricerca emerse (Fluck 1998, Zhang 1998, Myers 2000, Heinrich 2000,
Bhagat e Jefferis 2002, De Jong 2002, Mahrt-Smith 2003, Berger e Patti 2003,
Brailsford et al. 2004), infatti, rendono rilevante verificare la capacità della struttura
finanziaria di creare valore attraverso l’intervento e l’interazione con la corporate
governance. In altri termini emerge la diversa capacità di debito ed equity
nell’incentivare25, controllare e vincolare26 l’attività del management.
In tal senso si evidenzia il ruolo della struttura finanziaria quale strumento in
grado di comporre in maniera efficiente le modalità di esercizio delle attività
dell’organo di governo dell’impresa, offrendo, in combinazione con la struttura
proprietaria, un sistema di incentivo e, allo stesso tempo, un vincolo all’attività del
management (Hart 1995).
In sintesi è possibile affermare l’imprescindibilità dell’analisi contestuale di
struttura finanziaria e corporate governance per descrivere e interpretare la capacità
dell’impresa di creare valore (Zingales 2000, Heinrich 2000, Bhagat e Jefferis 2002
e Mahrt-Smith 2003). Tale considerazione potrebbe consentire di superare le
controversie, nelle teorizzazioni e nelle evidenze, sui legami fra struttura finanziaria
e valore.
25
26
Un più elevato leverage aumenta il rischio di dissesto e, successivamente, di fallimento
dell’impresa; il manager, pertanto, sarà restio a sviluppare competenze firm-specific il cui
valore andrebbe perso al di fuori dell’impresa.
Le clausole contenute nel contratto di debito (covenant) sono in grado di limitare la
discrezionalità del manager nell’uso delle risorse dell’impresa, vincolando il
comportamento manageriale ad attività ritenute più efficienti.
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
3. Ruolo della
implicazioni
corporate
governance:
concetto,
dimensioni
117
e
Per apprezzare il ruolo della corporate governance sulla relazione fra struttura
finanziaria e valore è necessario definire tale concetto descrivendone i principali
processi di influenza diretta e indiretta sulla creazione di valore.
La corporate governance è in grado di generare valore attraverso meccanismi
manageriali, che influenzano dall’interno la gestione dell’impresa, e meccanismi
istituzionali, presenti nel contesto competitivo e transazionale che dall’esterno
incidono sul grado di efficienza allocativa delle risorse d’impresa.
Il problema di agenzia, nato a seguito della separazione tra proprietà e controllo
(Berle e Means 1932) e comunemente riferito alla presenza di conflitti d’interesse e
comportamenti opportunistici nel rapporto proprietario-manager (Jensen e Meckling
1976), unitamente a problemi di asimmetria informativa e incompletezza
contrattuale, ora coinvolge tutte le categorie di investitori e portatori di interesse
nell’attività d’impresa (Jensen 2001), caratterizzando il concetto di corporate
governance.
Senza una valida protezione a favore degli stakeholder, i manager potrebbero
usare la propria posizione per appropriarsi a titolo individuale di benefici economici,
a discapito della performance di lungo periodo e della capacità stessa dell’impresa di
creare valore; tutto ciò aumenta i rischi e i costi che i fornitori di capitale devono
sostenere per difendersi da comportamenti opportunistici
La corporate governance ha, quindi, l’obiettivo di assicurare che nelle relazioni
d’impresa non vengano adottati comportamenti opportunistici, mitigando e
moderando problemi di agenzia che potrebbero interessare, sotto diverse prospettive,
un agente (manager) e diversi principali (azionisti, creditori, dipendenti, fornitori,
clienti, ecc.) oppure un principale (l’imprenditore iniziale) e più agenti (manager,
dipendenti, investitori, ecc.).
La corporate governance è un concetto ampio, complesso e problematico, di
estrema rilevanza ma di non facile definizione a ragione delle molteplici dimensioni
che lo caratterizzano (Zingales 1998, Becht et al. 2002). Certo, vi sono alcuni
elementi comuni a tutte le definizioni di corporate governance: l’oggetto è
riconducibile alle relazioni fra stakeholder d’impresa e l’obiettivo alla promozione
di correttezza, trasparenza e responsabilità (accountability) nell’attività economica.
Il tutto nella prospettiva più ampia dell’efficiente allocazione delle risorse
nell’impresa e nel sistema economico.
L’espressione corporate governance può assumere due prospettive (Lazzari
2001) in dipendenza della maggiore enfasi attribuita a meccanismi e strumenti di
allocazione e gestione del potere di governo all’interno dell’impresa, endogeni alla
struttura dell’organizzazione, oppure al ruolo di istituzioni e meccanismi esterni che
presiedono all’efficienza dell’attività d’impresa.
Ne consegue, l’esistenza di strumenti (interni ossia gestionali rispetto ad altri
esterni ossia istituzionali) che consentono di superare, o almeno attenuare, il
conflitto di interessi potenziale e/o effettivo nelle relazioni di governo d’impresa fra
118
MAURIZIO LA ROCCA
i molteplici portatori d’interesse che interagiscono, direttamente o indirettamente,
con l’impresa. In base a queste due dimensioni la corporate governance può essere
definita come:
1. sistema di assegnazione del potere decisionale all’interno dell’impresa, per
ovviare all’impossibilità di concludere contratti completi tra diversi stakeholder
(c.d. corporate govenrance gestionale, manageriale ossia interna)27;
2. insieme di regole, istituzioni e pratiche concepite per proteggere gli investitori da
comportamenti opportunistici da parte di imprenditori e manager (c.d. corporate
govenrance istituzionale ossia esterna)28.
Rispetto a tali dimensioni appare opportuno introdurre la descrizione dei
meccanismi tradizionalmente indicati per salvaguardare l’efficiente governo
dell’impresa, rimandando a Shleifer e Vishny (1997) e Denis (2001) per una
puntuale rassegna.
Sui meccanismi di corporate govenrance gestionale o interna esiste una
letteratura vastissima che ha esaminato il ruolo del Consiglio di Amministrazione e
la composizione di tale organo e il coinvolgimento di investitori istituzionali29 nel
cercare di controllare l’attività di gestione manageriale oppure il ruolo del debito
quale vincolo all’attività manageriale, ma anche l’eventuale presenza di
partecipazione manageriale, in grado di allineare gli interessi di manager e azionisti,
e la rilevanza di bonus o stock option per incentivare l’impegno del management
(modificando la loro sensibilità al rischio).
Sugli strumenti istituzionali è possibile, invece, fare riferimento al sistema
legale, ossia all’insieme di leggi e regole a tutela degli investitori, al sistema di
enforcement30, ossia il sistema giudiziario che supporta il rispetto di norme e regole
27
28
29
30
La corporate governance gestionale viene considerata come sistema di assegnazione del
potere decisionale all’interno dell’impresa (Lazzari 2001); Zingales (1998) definisce la
corporate governance come insieme complesso di regole e vincoli che configurano le
modalità di distribuzione ex-post del valore generato dall’impresa; in tale definizione
traspare il legame con Williamson (1988) che descrive il sistema di governance come
“complesso di vincoli che modellano l’allocazione dei profitti generati nel corso di una
relazione economica”.
Shleifer e Vishny (1997), con il sostegno di un’autorevole survey, hanno definito, la
corporate governance istituzionale come un insieme di strumenti atti ad assicurare agli
investitori (azionisti, obbligazionisti e creditori in genere) un ritorno da tale investimento,
oppure ancora come l’architettura di istituzioni adatte a far convergere gli interessi dei
manager con quelli degli investitori.
La partecipazione di investitori istituzionali al capitale d’impresa contribuisce con
professionalità e anche economie di costo a verificare la qualità delle azioni manageriali.
Non solo è rilevante il sistema di leggi che caratterizza uno Stato ma anche il grado di
enforcement in esso presente, cioè la capacità di avere un apparato giudiziale capace di
rendere effettivi e sostenere (enforce) i vincoli posti da tali norme, assicurando un sistema
di protezione generale, comune e univoco, e, pertanto, in grado di sanzionare, con
efficacia e tempestività, comportamenti contrari alla norma.
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
119
giuridiche, e al market for corporate control, ovvero al ruolo positivo dei takeover e,
quindi, di un mercato finanziario efficiente nel togliere il controllo dell’impresa ai
manager in caso di inefficienze nella gestione (Jensen 1986). Inoltre, una particolare
rilevanza, in tale contesto, merita anche il ruolo svolto dal mercato dei prodotti31.
Pertanto, gli strumenti gestionali o interni rappresentano dei meccanismi di
coordinamento utilizzabili nei processi di contrattazione bilaterale tra il management
e la proprietà oppure fra il management e gli altri stakeholder32. Gli strumenti
istituzionali o esterni sono dei meccanismi di coordinamento collettivi, che operano
attraverso i mercati finanziari, il sistema di leggi e norme, il sistema giudiziario e il
mercato del lavoro manageriale.
Le due dimensioni, gestionale e istituzionale, pur presentando diverse prospettive
d’analisi ed enfatizzando il ruolo di diversi strumenti atti a preservare l’attività
d’impresa da comportamenti opportunistici, presentano ampie aree di
sovrapposizione, poiché meccanismi istituzionali, esterni all’impresa, influenzano
l’efficienza degli strumenti interni di allocazione e gestione del potere di governo e
viceversa.
La presenza di conflitti d’interesse e il rischio di comportamenti opportunistici
aumentano il costo del capitale dell’impresa: gli investitori saranno restii a dare
fiducia e risorse finanziarie a tali imprese. Al contrario, la presenza di un’attività di
governo efficiente, che sostenga l’affidabilità dell’impresa, genera apprezzamento
nel mercato e fiducia negli investitori, facilita la raccolta di capitali e favorisce il
processo di creazione di valore.
La partecipazione del management al capitale sociale dell’impresa, la presenza di
membri esterni e indipendenti nel consiglio amministrazione, la presenza di
investitori istituzionali e l’efficienza del sistema finanziario, del sistema legale e di
enforcement sono solo alcune delle “leve” di corporate governance, sia gestionali
che istituzionali, che vanno integrate con il ruolo della struttura finanziaria per
comprendere la capacità dell’impresa di creare valore.
31
32
La competizione nel mercato dei prodotti (product market competition) rappresenta un
meccanismo di estremo interesse. Un’impresa che non riesce a soddisfare i bisogni dei
clienti, o lo fa in modo meno efficiente rispetto ai concorrenti, entra in uno stato di crisi
che potrebbe portare alla sua eliminazione dal mercato o alla sostituzione del suo
management. Di conseguenza, la competizione sul mercato dei prodotti spinge i manager
a dover aumentare il proprio impegno per salvaguardare la sopravvivenza stessa
dell’impresa (Chevalier 1995).
Pertanto, bisognerebbe interpretare attraverso la prospettiva gestionale della corporate
governance temi di controllo societario, allocazione della proprietà azionaria, schemi di
incentivi manageriali, organizzazione degli organi sociali e del Consiglio
d’Amministrazione, contratti parasociali e struttura organizzativa dell’impresa.
120
MAURIZIO LA ROCCA
4. Influenza della corporate governance sulla relazione fra struttura
finanziaria e valore
La struttura del capitale, come già evidenziato da Fazzi nel 1982, può essere
analizzata non solo in termini puramente finanziari ma, anche, per i connessi diritti e
attributi che caratterizzano i titoli dell’impresa, che influenzano, con diversa
intensità, l’attività dell’organo di governo33. Equity e debito, dunque, devono essere
considerati, contestualmente, strumenti finanziari e strumenti di governo
dell’impresa: il debito subordina l’attività di governo a più stringenti regole
gestionali mentre l’equity consente maggiore flessibilità e discrezionalità.
Se ne desume che quando ci si riferisce alla struttura finanziaria quale strumento
di corporate governance non si considera solo il mix fra debito ed equity, con le ben
note conseguenze di natura fiscale, ma anche la modalità con cui viene influenzata
l’allocazione del cash flow (cash-flow right) e, ancor di più, l’esercizio dei diritti a
prendere decisioni e a controllare l'impresa (voting right). Ad esempio, i venture
capitalist, allo scopo di preservare l’ottimale assetto di governo dell’impresa,
incentivare il management e controllarne l’operato, si mostrano particolarmente
sensibili alle modalità con cui si compone la struttura del capitale dell’impresa e agli
aspetti contrattuali degli strumenti di finanziamento (Zingales 2000)34.
Già Williamson (1988), rifacendosi all’analisi di Jensen e Meckling (1976),
fornisce un prezioso contributo all’interpretazione della relazione fra debito ed
equity in termini di struttura di governo dell’impresa, sostenendo la capacità della
struttura finanziaria di influenzare l’attività del management.
Lo stesso Coase (1991), in una sorta di lettura autocritica del suo seminale lavoro
del 1937, evidenzia la necessità di prestare maggiore attenzione al ruolo della
struttura finanziaria quale strumento per mediare e moderare le transazioni
economiche interne all’impresa e, quindi, le relazioni fra imprenditore e altri
stakeholder (relazioni di corporate governance). Sempre Coase (1991) afferma,
inoltre, la necessità di considerare congiuntamente, negli studi sulla struttura
finanziaria, principi economici, di organizzazione e giuridici.
A tale riguardo già Sandri (1992) osserva come gli stessi Jensen e Meckling
(1976) non si siano preoccupati solo di individuare una struttura finanziaria ottimale
ma, allargando l’orizzonte, ossia scomponendo l’equity in capitale proprio interno ed
esterno, considerino contestualmente il legame fra struttura proprietaria e
33
34
Sviluppi nella teoria dell’agenzia suggeriscono che la corporate governance influenza il
valore delle imprese, unitamente alle scelte di struttura finanziaria, mitigando i conflitti di
agenzia fra manager, azionisti e creditori (Putman 1993).
Il ruolo dei venture capitalist consiste principalmente, oltre all’attività professionalmente
organizzata di investimento in capitale di rischio finalizzata all'avvio e sostegno di nuovi
business, nel progettare una struttura del capitale, in senso ampio (finanziaria e
proprietaria e strutturando strumenti finanziari ad hoc), in grado di porre dei vincoli e
incentivi al governo dell’impresa. Il venture capitalist cerca attraverso l’accensione di
azioni privilegiate e convertibili e strutture contrattuali complesse di tutelarsi contro
eventuali problemi di agenzia e di asimmetrie informative.
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
121
finanziaria35. Addirittura, a partire dal dibattito sul ruolo di leggi, norme e
regolamenti in grado di disciplinare le relazioni d’impresa36, alcuni autori (Zingales
2000) propongono di considerare la struttura finanziaria quale componente
dell’architettura organizzativa dell’impresa37, da cui dipende l’efficienza dell’attività
di governo e, in generale, il successo dell’impresa. Pertanto, come esplicitamente
espresso da Bhagat e Jefferis 2002, prestando attenzione ai nessi causa-effetto e alle
interazioni recentemente evidenziate a livello teorico (Fluck 1998, Zhang 1998,
Heinrich 2000, Mahrt-Smith 2003, Brailsford et al. 2004), quale “proposizione di
ricerca”, verso cui orientare futuri approfondimenti empirici, si evidenzia come la
corporate governance possa potenzialmente esercitare un’influenza rilevante sulla
relazione fra struttura finanziaria e valore, con un effetto di mediazione e/o
moderazione. La figura 3 illustra le relazioni che caratterizzano la sopraccitata
proposizione di ricerca, il cui obiettivo è, quindi, la valutazione del contributo
offerto dalla corporate governance, quale variabile di moderazione e mediazione, in
grado di influenzare la relazione fra struttura finanziaria e valore (legame B-C-A e
A-B) e le scelte di struttura finanziaria (legame E).
Corporate Governance
E
Struttura Finanziaria
B
D
A
C
Valore
Ruolo di mediazione della corporate governance nella relazione fra struttura finanziaria e valore
(legame B-C-A)
Ruolo di moderazione della corporate governance nella relazione fra struttura finanziaria e valore
(legame A-D)
Ruolo della corporate governance quale determinante delle scelte di struttura finanziaria (legame
E).
Fig. 3: Ruolo di mediazione e moderazione svolto dalla corporate governance
sul legame fra struttura finanziaria e valore
Fonte: nostra elaborazione
35
36
37
Le scelte di finanziamento dell’impresa alterando anche gli assetti proprietari modificano
la rilevanza e l’intensità degli interessi di alcuni stakeholder primari nei confronti
dell’attività di governo dell’impresa.
Ad esempio, in Italia, è possibile rilevare, attraverso l’introduzione del Testo Unico della
Finanza (1998), una maggiore trasparenza e protezione verso gli investitori; così come la
riforma del diritto societario ha modificato il concetto giuridico d’impresa nel tentativo di
coglierne il cambiamento di natura e avvicinarlo al concetto economico.
L’architettura organizzativa è composta, oltre che dal sistema di valutazione delle
performance e dal sistema di incentivi e ricompense anche dal sistema di allocazione del
potere decisionale. Da quest’ultimo aspetto emerge la rilevanza della struttura finanziaria
(Smith 2001).
122
MAURIZIO LA ROCCA
I cinque legami sopra identificati descrivono:
− la relazione fra struttura finanziaria e valore d’impresa (legame A) attraverso il
ruolo di “mediazione” della corporate governance (legame B-C)38;
− la relazione fra struttura finanziaria e valore d’impresa (legame A) attraverso il
ruolo di “moderazione” della corporate governance (legame D)39;
− il ruolo della corporate governance quale determinante delle scelte di struttura
finanziaria (legame E).
Tutti e cinque i legami evidenziati nella figura 3 sono particolarmente
interessanti ed evidenziano due filoni di studio che, in particolare, si focalizzano
sulle relazioni:
− fra struttura finanziaria e valore, mediato (relazione indiretta attraverso
l’intervento di un’altra variabile - legame B-C-A in figura 2) e/o mitigato
(relazione diretta ma condizionata da un’altra variabile - legame A-D in figura 2)
dalla variabile corporate governance;
− fra governo dell’impresa e struttura finanziaria, in cui sono le dimensioni della
corporate governance a determinare le scelte di finanziamento dell’impresa, alla
luce di un possibile rapporto di reciproca concausazione (legame E-B in figura
2).
Sia che il management scelga volontariamente di utilizzare il debito quale fonte
di finanziamento per ridurre problemi di asimmetria informativa e di transazione,
massimizzando l’efficienza delle sue decisioni di governo d’impresa, sia che venga
imposto un maggior indebitamento quale strumento per disciplinarne il
comportamento e assicurare il buon governo dell’impresa, la struttura finanziaria è
influenzata dalla corporate governance (legame E) e viceversa (legame B).
Da un lato un cambiamento nella composizione di debito ed equity influenza
l’attività di governo d’impresa modificando la struttura degli incentivi e il controllo
manageriale. Se nell’impresa convergono, sia attraverso debito che equity, diverse
categorie di investitori, con differenti capacità di influenza delle scelte di governo,
allora i manager avranno delle preferenze nel determinare la prevalenza di una di
queste categorie nella struttura del capitale dell’impresa40. Ancor di più, attraverso
38
39
40
La relazione fra struttura finanziaria e valore è, in realtà, spiegata grazie al ruolo svolto
dalla corporate governance. Tale terza variabile funge da “ponte” ovvero “interviene”
nella relazione struttura finanziaria e valore. Non si può dire che il legame fra struttura
finanziaria e valore non esista ma il nesso è mediato e si formalizza attraverso una catena
causale fra variabili.
In questo caso la corporate governance “condiziona” il senso e l’intensità del legame fra
struttura finanziaria e valore, e ci troveremo di fronte a un fenomeno “d’interazione” fra
variabili; in questo caso si entra nel campo delle relazioni non lineari.
Il debito vincola l’attività del management, mentre l’equity consente maggiore
discrezionalità. Il livello di dispersione dei titoli dell’impresa che causa costi di free
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
123
un’opportuna predisposizione (design) dei contratti di debito e di equity è possibile
amplificare notevolmente l’efficienza del governo dell’impresa.
Dall’altro lato, anche la corporate governance influenza le scelte di struttura
finanziaria (legame E)41. Myers (1984) e Myers e Majluf (1984) evidenziano come
le scelte di finanziamento dell’impresa siano operate dal management seguendo un
ordine di preferenza42; in questo caso, se è il manager a selezionare le fonti di
finanziamento è presumibile che eviti di ridurre la propria discrezionalità decisionale
sottoponendosi alla disciplina del debito. Il finanziamento attraverso risorse interne
permette al management di evitare l’intromissione di altri soggetti nel processo
decisionale.
De Jong (2002) rileva come in Olanda i manager cerchino di evitare l’uso del
debito in modo tale da non limitare la propria discrezionalità decisionale.
Analogamente Zwiebel (1996) ha osservato come i manager non si sottomettano
volontariamente alla “disciplina” del debito; sono altri meccanismi di governance
che impongono l’emissione di debito. Lo stesso Jensen (1986) fece notare che le
decisioni di aumentare l’indebitamento dell’impresa vengono prese volontariamente
dal management nel momento in cui intende “rassicurare” gli stakeholder della
“correttezza” della sua attività di governo.
Pertanto, le decisioni di finanziamento dell’impresa possono essere deliberate dal
manager-imprenditore oppure possono essere indotte da situazioni specifiche di
contesto, indipendenti dalla volontà dell’organo di governo43.
Le controverse evidenze sulla relazione fra struttura finanziaria e valore (HarrisRaviv 1991, Venanzi 1999 – legame A) e gli ambigui risultati emersi in merito
all’esistenza di un rapporto d’indebitamento ottimale sono, pertanto, riconducibili
41
42
43
riding, costi di monitoring che sorgono per verificare la correttezza nel comportamento
manageriale, la presenza di covenant con vincoli contrattuali espliciti unitamente a
ulteriori vincoli presenti nel contesto istituzionale, rappresentano variabili che influenzano
la capacità delle singole classi di investitori di salvaguardare l’efficienza del governo
dell’impresa, determinando la preferenza del manager per debito o equity.
La concentrazione di azioni o del debito permette di sottoporre l’attività del management
a un maggiore controllo. Le competenze e le capacità dei soggetti che detengono equity o
che forniscono capitale di debito influenzano il tipo di controllo sull'attività del manager.
In base al tipo di titolo (azioni oppure obbligazioni) e al soggetto che lo detiene (un
piccolo azionista, un investitore istituzionale o un venture capitalist) è ben diverso non
solo il diritto ma anche la capacità di entrare nel merito di scelte gestionali e contestare
l'operato del management. Ad esempio, la presenza, fra gli azionisti di riferimento, di un
investitore istituzionale aumenta la competente partecipazione alle scelte di gestione più
importanti.
Ad esempio, la Ferrero SpA mostra negli ultimi cinque anni un bassissimo livello
d’indebitamento (solo bancario a breve) avendo avuto la possibilità di autofinanziare, e
sostenere con le proprie risorse, il processo di crescita. Aver rinunciato al beneficio fiscale
del debito indica la presenza di più elevati benefici derivanti da un basso ricorso a capitale
di debito.
Le scelte di struttura finanziaria debbono intendersi come frutto di processi decisionali
“attivi” e non solo come il risultato di un’analisi ex-post di fatto passiva.
124
MAURIZIO LA ROCCA
alla necessità di tener conto delle specificità del governo dell’impresa (Heinrich
2000, Mahrt-Smith 2003). La formulazione del modello causale rappresenta un
fenomeno complesso che, tuttavia, potrebbe orientare un promettente filone di
ricerca futura. Infatti, la corporate governance potrebbe rivelarsi cruciale nello
spiegare il legame fra struttura finanziaria e valore in quanto variabile
“interveniente” nella predetta relazione (effetto di mediazione – legame B-C-A)
oppure variabile che “condiziona” il senso e l’intensità di tale legame (effetto di
moderazione – legame A-D); in quest’ultimo caso ci si troverebbe di fronte a un
fenomeno “d’interazione” fra variabili (Corbetta 1992).
Il legame B-C-A indica che la relazione fra struttura finanziaria e valore è, in
realtà, spiegata grazie a una terza variabile (corporate governance) che “interviene”
(per questo motivo viene chiamata “variabile interveniente”) nella relazione fra
struttura finanziaria e valore. Quest’ultima farebbe da “ponte” svolgendo una
funzione di mediazione fra leverage e valore, evidenziando un nesso non rilevabile
altrimenti. Non si può dire che il legame fra struttura finanziaria e valore non esista
(Modigliani e Miller 1958), ma il nesso è mediato e, acquistando senso economico,
si formalizza attraverso una catena causale fra variabili. In altri termini si osserva
come non sia possibile rilevare una relazione diretta fra struttura finanziaria e valore
ma, in realtà, la struttura finanziaria influisce sul governo dell’impresa a sua volta
legato con il valore aziendale44. Richiamando alcune considerazioni di metodo
avanzate da Corbetta (1992), l’introduzione di una variabile interveniente potrebbe
svelare, oltre alla presenza di un legame indiretto:
− struttura finanziaria Î corporate governance Î valore (legame B-C);
anche una relazione diretta:
− struttura finanziaria Î valore (legame A), precedentemente mascherata.
In questo caso la struttura finanziaria contribuirebbe a configurare l’assetto di
governo e, di conseguenza, alla creazione di valore unitamente agli altri strumenti di
governance (figura 2 - legame B-C-A). In pratica, tenendo sotto controllo l’effetto
della corporate governance, cioè considerando le dimensioni della corporate
governance in un modello econometrico, si potrebbe cogliere l’effettivo legame fra
struttura finanziaria e valore (legame A) in precedenza assente, distorto o
statisticamente non supportato.
Al contrario il legame A-D rappresenta un complesso fenomeno di “interazione”
fra variabili, difficile da trattare in termini di formalizzazione matematica dei nessi
causali in quanto si entra nel campo delle relazioni non lineari45. In tal caso la
relazione fra struttura finanziaria e valore viene condizionata (moderata) dalla
corporate governance, che interagisce con la prima.
44
45
Se la relazione fra leverage e valore fosse “spuria” mancherebbe il legame, anche
indiretto, fra struttura finanziaria, corporate governance e valore.
Applicando la tecnica econometria della regressione l’effetto di moderazione fra variabili
andrebbe misurato attraverso una variabile d’interazione determinata moltiplicando i
valori delle variabili che interagiscono.
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
125
La possibilità che la corporate governance abbia un effetto di moderazione non
esclude che tale variabile possa, anche o in alternativa, mediare la relazione fra
struttura finanziaria e valore. È, pertanto, altrettanto importante osservare come la
struttura finanziaria influenzi il valore dell’impresa attraverso l’interazione con le
molteplici dimensioni di corporate governance (legame A-D).
In tal senso la variabile corporate governance svolge un ruolo di moderazione
sul legame fra struttura finanziaria e valore, che può avere un effetto di
amplificazione (+) o di riduzione (-) della relazione di base (legame A); al crescere
dell’indebitamento il valore d’impresa potrebbe aumentare o diminuire a seconda
del ruolo di altri strumenti di corporate governance.
Il debito si potrebbe mostrare quale efficiente strumento per contribuire o,
quanto meno, salvaguardare, il valore economico dell’impresa a seconda dell’assetto
degli altri strumenti di corporate governance. Il debito potrebbe svolgere un ruolo
marginale di disciplina del management in presenza di un azionista di riferimento
nell’assetto proprietario oppure di una partecipazione statale. Al contrario, in caso di
assenza di altre forme di disciplina dell’organo di governo potrebbe essere proprio la
struttura finanziaria quel meccanismo capace di salvaguardare l’efficiente governo
dell’impresa, preservando il valore del complesso aziendale. L’ipotesi, dunque, è
che la capacità di creare valore (variabile dipendente) sia influenzata dall’interazione
fra struttura finanziaria e dimensioni della corporate governance.
Nel mondo anglosassone si ricorre al concetto di “capital structure design”,
riferendosi con tale locuzione non solo alle scelte di struttura finanziaria ma anche al
contestuale assetto dell’equity e del debito, influenzato dal contesto esterno46. Si
intende cogliere, in altri termini, la scelta del rapporto fra debito ed equity (struttura
finanziaria in senso stretto), unitamente alla definizione dell’assetto proprietario
(tipo o struttura dell’equity47) e della struttura del debito48. Secondo alcuni autori
non appare giustificabile, pertanto, analizzare singolarmente solo la struttura
46
47
48
Con riferimento alle componenti esterne della corporate governance, quale il
sovrasistema finanziario, Guiso, Sapienza e Zingales (2003) osservano come il livello di
efficienza del sistema finanziario, nazionale ma anche locale, influenzi la qualità del
debito e dell’equity fornendo, a sua volta, un contributo in termini di incentivo e controllo
all’attività di governo dell’impresa. In particolare, tale sistema consente di limitare
problemi di opportunismo attraverso attività di ex-ante screening, di ex-post monitoring e
di predisposizione di contratti finanziari atti a incentivare, ma anche a vincolare, l’attività
dell’organo di governo.
La struttura dell’equity riguarda la definizione delle tipologie di azioni emesse (ordinarie,
privilegiate, senza diritto di voto, a voto limitato, ecc.), dei soggetti a cui vengono
assegnate (se ai manager stessi dell’impresa, a investitori istituzionali, piuttosto che a
investitori in genere) e la proporzione (grado di concentrazione azionaria) con cui ciò
avviene.
La presenza di debito a breve oppure o medio-lungo termine, unitamente alla differenza
fra debito bancario, obbligazionario e convertibile, ha un diverso impatto sull’attività di
governo dell’impresa, alterando il sistema di incentivi e vincoli e interessando soggetti
che a vario titolo, con competenze differenti e con diverse prospettive future di rimborso
del capitale o di trasformazione del capitale di debito in capitale di rischio.
126
MAURIZIO LA ROCCA
finanziaria o solo l’assetto proprietario di un’impresa, data la loro stretta
complementarità (Fluck 1998, Heinrich 2000). Ancor di più la relazione fra struttura
del capitale e governo dell’impresa assume massima rilevanza se si considera il suo
fondamentale ruolo nei processi di generazione e distribuzione del valore (Guatri
1991, Guatri e Massari 1992, Bhagat e Jefferis 2002).
La struttura finanziaria dell’impresa, interagendo con altri strumenti di corporate
governance, si mostra capace di salvaguardare un efficiente processo di creazione di
valore, stabilendo, così come sostenuto da Zingales (1998), le modalità di
distribuzione, ex-post, del valore generato; in altri termini, viene influenzata la
distribuzione del surplus creato (Zingales 2000)49.
Le modalità di allocazione e di esercizio del potere di governo, infatti, spiegano
la capacità dell’impresa di creare e cogliere growth opportunities (Williamson 1988,
Zingales 1998). E, in tal senso, considerando il valore dell’impresa quale insieme di
asset in place e growth opportunities (Myers 1977), emerge che l’ottimale
composizione della struttura del capitale può legare le opportunità di sviluppo
all’impresa, evitando che vengano disperse o esplose al di fuori di essa, attraverso
comportamenti opportunistici50.
Zingales (2000) evidenzia come le scelte di struttura del capitale influenzino il
governo d’impresa alterando le modalità di gestione del “capitale umano”. Ad
esempio, una crisi finanziaria temporaneamente provocata da una mancanza di
liquidità, possa alterare in maniera irreversibile il valore dell’impresa e la sua
capacità competitiva, riducendo le growth opportunities, o semplicemente la
probabilità di riuscire a coglierle; i manager o i dipendenti, infatti, potrebbero
perdere l’incentivo a specializzare le loro competenze e capacità sugli asset in place
dell’impresa (a causa del rischio che con il fallimento aziendale il loro investimento
firm-specific perda valore sul mercato, in quanto idiosincratico alle attività
dell’impresa) facendo, così, mancare un fattore competitivo aziendale fondamentale
(Zingales 2000). Da questo punto di vista, problemi di struttura finanziaria
potrebbero produrre conseguenze negative sul valore dell’impresa, alterando
l’efficienza delle relazioni economiche d’impresa anche in maniera permanente
(Zingales 2000). Pertanto, la relazione fra struttura finanziaria e valore potrebbe
configurarsi in modo diverso in quanto mediata oppure moderata dalla corporate
governance; nondimeno la struttura finanziaria potrebbe, a sua volta, intervenire o
interagire nella relazione fra corporate governance e valore.
In tal modo potrebbe emergere l’esistenza di un rapporto di sostituibilità oppure
di complementarità fra partecipazione manageriale al capitale e altre variabili di
corporate governance.
49
50
In altri termini emergere la capacità della corporate governance di creare valore oppure di
evitare che comportamenti opportunistici lo distruggano.
I ben noti problemi di under e overinvestment (Myers 1977 e Jensen e Meckling 1976),
basati sulla presenza di conflitti d’interesse fra manager, azionisti e creditori e originati
dall’interazione fra scelte d’investimento e di finanziamento, si interessano proprio della
possibilità di creare e cogliere growth opportunities, senza che qualcuno se ne possa
appropriare indebitamente.
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
127
Molteplici analisi teoriche ed empiriche hanno approfondito gli studi su struttura
finanziaria, corporate governance e valore d’impresa, ma la maggior parte di esse si
è concentrata singolarmente su uno solo dei cinque legami evidenziati nella figura 3¸
esaminando, quindi, una singola direzione della relazione e non prendendo in
considerazione la presenza di reciproche causazioni e la complementarità fra
struttura finanziaria e altri strumenti di governance (Jensen e Warner 1988, BorschSupan e Koke 2000, Heinrich 2000, Bhagat e Jefferis 2002) quale determinante del
valore dell’impresa.
Come sottolineato da Shleifer e Vishny (1997), se in passato si cercava di
individuare il migliore meccanismo di governance per risolvere problemi di
opportunismo, oggi è chiara l’importanza di identificare la migliore combinazione
dei diversi meccanismi di governance. In passato gli strumenti di corporate
governance venivano considerati “sostituti”51; in realtà sembrerebbero perfetti
“complementi”.
Appare opportuno un uso congiunto delle scelte di finanziamento in relazione
alla struttura di governo che caratterizza l’impresa e al contesto istituzionale in cui
essa opera (Heinrich 2000)52.
In altri termini, la composizione della struttura finanziaria, a causa di
incompletezza contrattuale, costi di agenzia e di transazione unitamente a problemi
di asimmetrie informative, è in grado di offrire un valido contributo per un efficiente
funzionamento dell’attività di governo e creazione di valore. Di conseguenza,
componendo un rapporto ottimale di indebitamento e attraverso un’opportuna
predisposizione (design) dei contratti di debito e di equity, si potrebbe riuscire ad
amplificare l’efficienza dell’attività di governo dell’impresa53.
5. Implicazioni per la ricerca e per la governance delle imprese
Questo lavoro approfondisce le implicazioni di un interessante filone di ricerca
(Fluck 1998, Zhang 1998, Zingales 2000, Heinrich 2000, Mahrt-Smith 2003, Bhagat
e Jefferis 2002, Berger e Patti 2003 e Brailsford et al. 2004)54, riconducibile ai
51
52
53
54
Era sufficiente un singolo strumento ben applicato per risolvere problemi di agenzia ed
era necessario identificare il migliore in base alle caratteristiche idiosincratiche
dell’impresa (Cfr. Shleifer e Vishny 1997).
Ad esempio, Gugler (2001) sostiene la necessità di un uso ponderato di diversi
meccanismi istituzionali e manageriali di corporate governance.
A tale proposito si osserva, come già precedentemente detto, come il servizio migliore
offerto dai venture capitalist consiste proprio nell’ottimale definizione del livello
d’indebitamento e delle tipologie di equity e debito atte a mantenere un massimo controllo
sull’attività dell’imprenditore, evitando comportamenti opportunistici e salvaguardando la
capacità di creare valore.
Il Prof Kaplan (Università di Chicago – Graduate School of Business), nel suo corso
“Teoria delle decisioni finanziarie II” (A.A. 2002-2003), ha evidenziato come ci sia
“grande necessità di ulteriori ricerche empiriche su tale argomento”.
128
MAURIZIO LA ROCCA
seminali contributi di Jensen e Smith (1985), Jensen e Warner (1988) e Williamson
(1988), che si concentra sul ruolo d’influenza della corporate governance sulla
relazione fra struttura finanziaria e valore, valutando, inoltre, la sua capacità di
spiegare l’esistenza di un livello d’indebitamento ottimale. L’intenzione è definire
un modello teorico che potrebbe contribuire a chiarire la relazione fra struttura
finanziaria, corporate govenrance e valore, promuovendo, quale obiettivo di future
ricerche, una migliore specificazione del disegno della ricerca empirica.
Gli articoli di Jensen e Smith (1985) e di Jensen e Warner (1988) sono stati
rivisitati e riproposti in una recente pubblicazione dello stesso Jensen (2000),
affermando che: “… assetti proprietari e assetti di governo, struttura finanziaria e
strumenti di incentivazione e limitazione della discrezionalità manageriale
interagiscono con altre forze interne all’organizzazione d’impresa influenzando il
comportamento aziendale in modo significativo. Appare promettente il contributo di
giovani ricercatori, attraverso differenti prospettive d’analisi, su tale tema …”. In tal
modo Jensen suggerisce l’indirizzo che future ricerche dovrebbero intraprendere.
In tale prospettiva, come emerso teoricamente (Fluck 1998, Heinrich 2000,
Myers 2001 e Mahrt-Smith 2003) ed empiricamente (McConnell e Servaes 1995,
Lang, Ofek e Stulz 1996, DeJong 2002, Berger e Patti 2003 e Brailsford et al. 2004),
la struttura finanziaria rappresenta uno fra i diversi strumenti in grado di preservare
l’efficiente governo dell’impresa, salvaguardando la sua capacità di creare valore55.
Pertanto, tale filone di studi afferma che se le politiche d’investimento
permettono di creare valore, quelle di finanziamento, combinandosi con altri
strumenti di governance, sono in grado di assicurare l’efficiente realizzazione delle
prime, preservando il valore dell’impresa da decisioni opportunistiche.
Le implicazioni che si desumono dall’analisi proposta forniscono spunti e
approfondimenti verso cui potrebbe orientarsi la futura ricerca, sia di natura teorica
che empirica.
In altri termini, diversi autori (Borsch-Supan e Koke 2000, Bhagate Jefferes
2002 e Berger e Patti 2003), fermo restando il ruolo del settore e del contesto
istituzionale di appartenenza, sostengono la necessità di analizzare la relazione fra
struttura finanziaria e valore, necessariamente prendendo in considerazione anche
l’intervento e l’interazione con variabili di corporate governance quali il grado di
concentrazione proprietaria, la partecipazione manageriale a capitale di rischio, la
composizione del Consiglio di Amministrazione, ecc.
In particolare, come evidenziato da Bhaget e Jefferis (2002), specialmente negli
attuali contesti complessi, il modello econometrico da applicare, per investigare la
relazione fra corporate governance, struttura finanziaria e valore, dovrebbe
prevedere la simultanea soluzione di tre equazioni:
55
La maggior parte delle precedenti verifiche empiriche si sono mostrate poco esaustive,
soffermandosi sulle capacità di singoli meccanismi di governance di creare valore, senza
approfondire il contributo derivante da un loro uso congiunto.
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
129
valore = f (corporate governance, struttura finanziaria, Zi, ε)
struttura finanziaria = f (corporate governance, valore, Zi, ε)
corporate governance = f (struttura finanziaria, valore, Zi, ε)
in cui Zi rappresenta un insieme di variabili di controllo, cioè indicatori che
influenzano la variabile dipendente, e ε indica l’errore derivante da fattori esogeni e
da variabili o relazioni non osservabili, inerenti il comportamento, le competenze e
le capacità manageriali.
Ancor di più è opportuno inserire nella seconda e terza equazione anche la
variabile valore, in modo da considerare tutte le possibili interrelazioni e reciproche
causazioni potenzialmente in grado di alterare l’oggetto d’analisi della ricerca.
Il precedente sistema di equazioni, una volta specificato e risolto permetterebbe
di rispondere contestualmente a molteplici research question: qual è l’impatto della
corporate governance e della struttura finanziaria sul valore? Qual è l’impatto della
struttura finanziaria, ed anche del valore, sulla corporate governance? E qual è
l’impatto della corporate governance, ed anche del valore, sulla struttura
finanziaria?
Altrettanto importante e difficoltosa è l’operazionalizzazione dei costrutti, dato
che, particolarmente per la corporate governance e il valore, essendo la loro natura
multidimensionale e non potendo essere misurati direttamente, è necessario
utilizzare un set di molteplici misure; in tal caso è necessario selezionane gli
indicatori opportuni, potenzialmente in grado di misurare tali concetti, da applicare
in un test empirico. La difficoltà nel disporre di indicatori che corrispondano
perfettamente ai costrutti teorici richiede l’utilizzo di variabili proxy, ossia di misure
empiriche di costrutti latenti (Corbetta 1992)56.
Inoltre, bisogna considerare l’eventuale presenza di distorsioni nei segni e
nell’entità dei legami fra variabili a causa di potenziali problemi di endogeneity,
ossia presenza di covariazione anche in assenza di causazione57, e reciproca
causalità, in cui viene meno la distinzione fra variabile causa e variabile effetto, ed
entrambe si influenzano reciprocamente58 .
56
57
58
Una variabile proxy è strettamente legata alla variabile teorica che non è disponibile. In
questo caso vengono individuate delle variabili empiriche in grado di approssimare il più
possibile la variabile teorica. Pertanto, le variabili teoriche vengono misurate in maniera
indiretta attraverso l’uso di variabili-indicatori (proxy), quali funzioni lineari di uno o più
attributi legati della variabile teorica; si ipotizza, cioè, che attraverso queste variabili
proxy si riesca a ottenere una buona approssimazione degli effetti generati dalle variabili
teoriche.
La covariazione fra struttura finanziaria e valore sarebbe provocata da una (o più) ulteriori
variabili, che agiscono causalmente sia sulla struttura finanziaria che sul valore. In altri
termini, esistono delle cause comuni alla spalle delle due variabili covarianti; la loro
relazione viene definita “spuria” ovvero ingannevole e apparente (Corbetta 1992).
Questa situazione viene anche definita di mutua relazione ovvero di simultaneità, nel
senso che è vero che la struttura finanziaria influenza il valore dell’impresa ma,
simultaneamente e contestualmente, anche il valore dell’impresa influenza la struttura
finanziaria.
130
MAURIZIO LA ROCCA
Da un punto di vista econometrico, sembrerebbe opportuno approfondire la
proposizione di ricerca precedentemente formulata, verificando empiricamente il
modello proposto (figura 3), mediante tecniche econometriche più sofisticate, in
grado di gestire la complessità delle relazioni oggetto di studio. In letteratura sono
presenti delle proposte d’intervento; ad esempio, Venanzi (1999) consiglia
l’applicazioni di variabili lagged, ovvero ritardate59; Borsch-Supan e Koke (2000)
sostengono che, piuttosto che usare variabili ritardate, appare opportuno individuare
variabili strumentali, che influenzano solo uno dei due fattori oggetto di studio;
Berger e Patti (2003), Borsch-Supan e Koke (2000) e Chen e Steiner (1999)
promuovono l’applicazione dei modelli di equazioni strutturali per risolvere tali
problematiche; si tratta di una metodologia adatta a esaminare le relazioni causali tra
variabili latenti, unidimensionali o multidimensionali, misurate con indicatori
multipli (Corbetta, 1992)60. Bhagat e Jefferis (2002), nel testo “The econometrics of
corporate governance studies” evidenziano le principali problematiche
sinteticamente esposte nel presente articolo, evidenziando benefici e limiti connessi
alle potenziali soluzioni applicabili. I riscontri di tali analisi econometriche
dovrebbero essere, poi, confrontati con i risultati derivanti da modelli econometrici
classici, attraverso l’uso di regressioni multipli di tipo OLS (ordinary least squares)
per verificare se la maggiore complessità tecnica sia necessaria per l’ottenimento di
risultati non distorti, significativamente differenti da applicazioni meno sofisticate,
oppure se si tratti di esercizi di eleganza tecnica che non modificano la sostanza dei
riscontri empirici.
In conclusione lo studio della relazione fra struttura finanziaria, corporate
governance e valore attraverso l’analisi di ampi campioni d’impresa, evidenziata
nella figura 2, deve affrontare problemi di endogeneity e di reciproca causazione,
unitamente alla forte presenza di interazioni e complementarità fra struttura del
capitale e variabili di corporate governance, dev’essere approfondita in analisi
cross-country, che tengano conto di fattori country-specific, e necessitano
dell’applicazione di tecniche econometriche più raffinate, in grado di tener contro
delle criticità descritte in precedenza. Infine, bisogna osservare che lo stesso
modello evidenziato nella figura 2 potrebbe essere applicato anche per lo studio di
casi clinici, ossia utilizzato per interpretare la relazione fra struttura finanziaria,
corporate governance e valore in una singola azienda.
Pertanto, in questo lavoro viene definito il modello teorico che potrebbe
contribuire a chiarire la relazione fra struttura finanziaria, corporate governance e
valore, promuovendo quale obiettivo per sviluppi futuri della ricerca, la verifica
59
60
L’uso di variabili lagged (ritardate), quale, ad esempio, il leverage riferito all’anno
precedente, analizzato per verificarne l’effetto sul valore nel periodo successivo, potrebbe,
come osservato da Venanzi (1999), limitare l’endogeneity a patto che non riguardi
variabili di stock ma solo variabili di flusso; ed essendo il leverage calcolato come
rapporto fra debiti finanziari su debiti finanziari + equity la distorsione nell’analisi rimane.
I modelli di equazioni strutturali, ad esempio applicando il software Lisrel, sono una
tecnica particolarmente adatta a condurre un’analisi di tipo confermativo, cioè per
verificare la presenza delle relazioni ipotizzate a priori nel modello teorico.
CORPORATE GOVERNANCE, STRUTTURA DEL CAPITALE E VALORE
131
della validità del modello descritto, sia attraverso analisi su grandi campioni
d’impresa che su casi aziendali.
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