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CITTÀ DI POMIGLIANO D’ARCO
Assessorato alla Città Educativa
MARIO DE FALCO
ACQUERELLI
POMIGLIANESI
RICORDI
DI PERSONAGGI,
USI E TRADIZIONI
DI UNA POMIGLIANO
CHE NON C’E’ PIU’
In appendice dal libro
I MIEI RICORDI: “L’ALA SPEZZATA“
Prefazione di
GIOVANNI BASILE
Direttore della Biblioteca Comunale di Pomigliano d’Arco
2003
MARIO DE FALCO
ACQUERELLI
POMIGLIANESI
RICORDI DI PERSONAGGI,
USI E TRADIZIONI
DI UNA POMIGLIANO CHE NON C’E’ PIU’
© COPYRIGHT 2004 – Proprietà letteraria riservata all’autore
E’ vietata la riproduzione dell’opera in ogni sua parte.
Stampato nella Tipo-Litografia “Edizioni Anselmi” s.r.l.
Marigliano (NA) – Tel. 081.841.11.76 – 081.885.42.06
2003
E-mail: [email protected]
PREFAZIONE
Viviamo nella società dell’informazione. A dettare le
regole della nostra vita quotidiana sono sempre più spesso flussi di dati che da ogni luogo costantemente ci bombardano, costringendoci talvolta anche a revisioni del
nostro stesso modo di essere.
La civiltà nella quale ci troviamo a vivere e di cui siamo
figli, punta oramai tutto sulla tecnologia e industrializzazione, mancando spesso di nobilitare le tradizioni, gli
usi e costumi del nostro passato.
Per fortuna, ci sono ancora persone come Mario De
Falco che, per solo amore, senza pensare al profitto, di
tanto in tanto, ci regalano gemme preziose in grado di illuminare tratti oscuri della nostra storia e mettere in evidenza personaggi e mestieri che meglio ci fanno comprendere il presente.
La prima volta che incontrai l’ingegnere Mario De Falco mi trovavo a casa del compianto Dott. Nicola Esposito,
il furioso bibliofilo Pomiglianese. Quello che subito mi
colpì di lui, fu la sua abitudine a conversare in maniera
poco ortodossa, senza infastidire, tuttavia, la dignità né
la sensibilità dell’interlocutore.
Ricordo ancora le sue barzellette e, in particolare, una,
incentrata su un divertente doppio senso: un gioco di
parole tra “mango” frutto e “manco” avverbio.
Da allora, mi ripromisi di conoscerlo meglio, magari
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cominciando a frequentarlo. Questo, purtroppo, non
mi riuscì, a causa, forse, di una velata gelosia del Dott.
Nicola Esposito, suo amico d’infanzia. Solo da qualche
anno, i nostri incontri sono diventati più frequenti.
Mi rendo conto che per contestualizzare al meglio questa pubblicazione, dovrei essere molto più documentato
sulla storia e le tradizioni delle mie origini ma, i miei studi musicali prima e, poi, il mio amore per l’Estremo Oriente, mi hanno sempre portato ad occuparmi delle culture
di popoli lontanissimi, trascurando quella della mia terra
natale. Ma ora che il Sindaco Michele Caiazzo mi ha concesso l’onore di dirigere la Biblioteca Comunale della
nostra città, mi sto affrettando a colmare queste lacune.
La rassegna di gustosi aneddoti tratteggiati come acquerelli impressionistici, che il nostro autore presenta al
lettore, regala importanti tasselli mancanti della nostra
storia e di cuore ci auguriamo che incoraggi costruttivamente le nuove generazioni ad occuparsene, e che esorti
gli anziani Pomiglianesi, custodi della memoria storica, a
tramandare il loro ricco bagaglio di vita vissuta.
L’opera, di facile lettura, dallo stile colloquiale e familiare, arricchisce di certo il patrimonio culturale Pomiglianese.
Il lavoro di Mario De Falco è da apprezzare soprattutto perché rappresenta una risposta pratica alla nostra attuale esigenza: consegnare ai posteri la nostra storia e i
nostri personaggi. Senza pretese, egli è riuscito a rinverdire memorie e riportare quasi in vita personaggi umili
e famosi che hanno fatto la storia della nostra città, e
degne della nostra ammirazione.
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Mario De Falco non si è prodigato solo nella stesura
di questo testo. In passato ha pubblicato un altro libriccino dal titolo “Stroppole. Impressioni, nostalgie, ricordi”,
in cui rievoca con lo stesso efficace disincanto e con il
suo personale stile rapido e deciso, la vita del tempo che
fu; né vanno dimenticate le sue poesie inserite nell’antologia dal titolo “I Poeti Pomiglianesi”, edita nel 1990.
Le rievocazioni, però, nel corposo fluire dei ricordi si
cementano in un sentimento nostalgico che non sempre
appare del tutto giustificato. Lasciando da parte quelle
politiche, sembra che esse non tengano conto dei vantaggi e dei benefici della civiltà moderna, intesa nella sua
accezione tecnologica-scientifica e, quindi, come un mezzo per utilizzare meglio la nostra condizione di vita.
Mi piace concludere citando la parte finale della prefazione di Luigi Di Monda sui “Cenni storici di Pomigliano
d’Arco” di Salvatore Cantone, che vorrei dedicare al nostro autore: “Auguriamoci che il De Falco si determini a
pubblicare altri pregevoli lavori come questo”.
Pomigliano d’Arco, 8 dicembre 2003
Giovanni Basile
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PREMES SA
Da vari mesi ho intestato questo spazio sul mio computer
perché ho pensato che alcuni miei ricordi di personaggi,
umili o famosi, della mia città andavano conservati e “tramandati ai posteri” cioè ai giovani che, nati e vissuti in
questa città industriale, ignorano completamente il substrato
culturale della civiltà contadina che la nostra cittadina, eminentemente agricola fino al 1938, esprimeva.
E oggi, alla soglia degli ottant’anni, mi sono deciso a
iniziare a scrivere e materializzare sul computer questi miei
ricordi con la speranza di avere dal Signore ancora un pò
di tempo per pubblicarli.
E’ forse nostalgia?
Si, è nostalgia! Nostalgia della mia Pomigliano dove la
vita era regolata dal suono delle campane delle sue Chiese
che all’alba davano la sveglia con i loro rintocchi, col suono disteso a gloria segnavano il mezzogiorno e poi a vespero
con i rintocchi dell’Ave segnavano la fine della fatica nei
campi e i contadini, ancora proni sul solco con la zappa in
mano, si cavavano il cappellaccio e si facevano il segno della
Croce e poi mettevano alla vacca, fedele compagna di lavoro, il giogo del loro carretto e si avviavano a ritornare
alle loro case, dove poi, seduti, attorno al modesto desco,
con i figli aspettavano che la moglie scodellasse nella “spasa”
il cibo che aveva preparato. (La spasa era un enorme piatto
in comune che si metteva al centro della tavola e dal quale
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tutti i commensali con un cucchiaio o una forchetta, a secondo del cibo preparato, attingevano a volontà).
Nostalgia del suono del campanaccio della vacca che il
“vaccaio” portava in giro per le strade per mungere direttamente “dalla fonte” il latte nella “giara” che le donne gli
porgevano.
Nostalgia per le voci dei venditori ambulanti che, con le
loro grida, reclamizzavano i loro prodotti.
Nostalgia del rumore del “carruocelo” (piattaforma di
tavole di legno che era fornito ai quattro angoli di vecchi
cuscinetti a sfera che permettevano, a modo di ruote, di
essere trascinato sul selciato con una fune e che portava sopra una caldaia) del venditore di spighe di granturco bollite che a fine agosto deliziava i pomeriggi afosi con il suo
grido: “Volla ‘a pullanca, vo’” o di quello di Zi’ Rachele
che invece col profumo delle sue “llesse” (castagne fresche
sbucciate e bollite ) segnavano in ottobre, di prima mattina, l’inizio delle attività scolastiche e la sua voce che
declamava come in un canto: “Mammà i’ voglio ‘a llesse e
a scola nun vogl’ ì”.
Nostalgia di una vita quasi bucolica, circondato però da
gente forse più ignorante, ma sicuramente più sincera, più
pulita moralmente, più affidabile, da gente che viveva, come
si diceva allora, nel santo timor di Dio.
Dio? Arcaico ricordo di “oppio di popoli” nella “evoluta”
società moderna!
Ma penso che la mia nostalgia sta sfociando in nostomania perciò smetto.
Un’ultima considerazione però voglio farla.
Ricordo nella mia gioventù il terremoto del Vesuvio del
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1931, quello del 1962 dell’Irpinia e poi quello più disastroso del novembre 1980; le “trubee” estive (violenti acquazzoni improvvisi con vortici e trombe d’aria) che colpivano sporadicamente piccole zone del territorio distruggendo in parte i prodotti, facendo “rammaggio” (come i
contadini chiamavano i danni prodotti al raccolto) ma
mai facendo vittime.
Oggi nel tempo della “società evoluta”, (quella del divorzio, dell’aborto, dei conviventi e dei gay) i terremoti si
susseguono con una frequenza impressionante ed i temporali quasi costantemente provocano alluvioni e danni e
parecchie vittime…
Qualcuno ha mai pensato alla biblica “Sodoma e
Gomorra”?
Agli evoluti posteri l’ardua risposta.
Pomigliano, 20 Agosto 2001
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‘O PANARIELLO
Nei miei ricordi, fra i personaggi famosi,
credo che
debba citare, per primo, il Comm. Ercole Cantone che
fu Sindaco di Pomigliano a più riprese, sia prima che
dopo il ventennio Fascista, perché per me costituisce un
fulgido esempio di coerenza politica.
Non costa, certo, a me, fascista, riconoscere tale virtù
in un convinto e integerrimo antifascista. Il Comm. Cantone era avvocato ed iscritto all’Ordine, anche se si occupava più delle sue cariche pubbliche che di cause in Tribunale, infatti, oltre che Sindaco di Pomigliano fu anche Consigliere Provinciale. Quando il regime impose l’iscrizione
obbligatoria al P.N.F. per poter esercitare qualsiasi professione o mestiere, don Ercolino, come era affettuosamente
chiamato dai pomiglianesi, fu cancellato dall’Albo degli
Avvocati ed inibito ad esercitare la professione forense.
Non si piegò e fedele alla sua idea di Liberale, si ritirò
da solo, visto che era celibe, al secondo piano del palazzo
di famiglia vivacchiando, forse, col poco reddito che riusciva a ricavare dal fitto dei suoi terranei. Ma con l’inflazione galoppante che seguì, certo, non aveva da scialare.
La sorella Antonietta, moglie del dott. Antonio Romano, medico e veterinario, gli fu molto di aiuto, ed essendo sua dirimpettaia, escogito un marchingegno per passargli il vitto; creò perciò una specie di teleferica fra il
suo balcone e quello di don Ercolino sulla quale scorreva
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un “panariello” col quale riforniva il fratello di vettovaglie senza imporgli l’umiliazione di sedere, da nullafacente, alla tavola del cognato. Ed il panariello viaggiò
avanti e indietro per molti anni.
Il Comm. Cantone visse gli anni del ventennio in dignitosa solitudine, ma sempre stimato e rispettato da tutti
i Pomiglianesi. Anzi fu anche oggetto di un eccesso di
rispetto da parte di un giovane e brillante avvocato,
Peppino Di Giovanni, Capo Manipolo della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, che al comando del suo
reparto era schierato in piazza Mercato davanti alla Casa
del Fascio, allogata all’epoca nel palazzetto di proprietà
di mia madre, e ordinò ai suoi Militi il “Presentat’arm” al
passaggio del comm. Cantone che con don Gaetano Scialò si stava recando a sedersi fuori la porta del negozio di
Ninuccio Andrisani per sentire, come tutta la folla che
assiepava la piazza, il discorso di Mussolini la sera del 2
ottobre 1935 per la dichiarazione di guerra all’Etiopia.
Naturalmente Peppino Di Giovanni fu destituito dal grado. Non così invece capitò a me personalmente. Io, appena uscito dal Collegio dei Padri Gesuiti alla Conocchia
e conseguito la Maturità Classica, fui subito utilizzato
dal Fascio locale come Componente del Direttorio del
Fascio con l’incarico di Fiduciario dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista. Poiché a me piace approfondire le
cose in cui sono impegnato, frequentai, con successo, un
Corso di preparazione politica per Gerarchi presso la
Federazione Provinciale Fascista di Napoli ottenendo dal
Segretario Federale dott. Fabio Milone la nomina equipollente a Ispettore Federale, sempre addetto alla Sezio14
ne Provinciale dell’I.N.C.F. ma conservando anche la
carica nel Fascio locale che mi affidò anche l’incarico dei
rapporti con la Direzione dello Stabilimento Alfa e con i
Comandi sia Italiano che Tedesco delle Forze Armate
dislocate nella Zona nonché il servizio O.P. (Organizzazione Politica) che si occupava di sentire gli umori e le
eventuali lamentele della popolazione e di scovare eventuali fonti di disfattismo. In questa veste indagai su una
vecchia consuetudine di rispetto per il Comm. Cantone.
I giovani chiamati alle armi, prima di partire, usavano,
accompagnati dai padri, recarsi a salutare don Ercolino.
Ebbene dalla mia indagine era risultato che il Cantone
diceva loro più o meno così: “Ti raccomando, fai sempre
il tuo dovere. Perché se perdiamo la guerra e l’Italia che
la perde non Mussolini!”.
Sennonché verso l’inizio del 1942, il Federale dott.
Milone mi chiamò e mi redarguì mostrandomi un esposto che aveva ricevuto in cui si accusava il Cantone di
disfattismo proprio in occasione di queste visite di congedo che i giovani gli facevano e s’invocava dal Federale
l’applicazione, per lo stesso, del Confino di Polizia.
Il Federale mi invitò perentoriamente a controfirmare
nella mia qualità di addetto al “servizio O.P.” la richiesta
e si adirò molto al mio categorico rifiuto a farlo, al ché io
gli consegnai la mia tessera di Gerarca e gli spiegai che
mai avrei potuto, in coscienza, avallare simili calunnie. Il
dott. Milone ebbe fiducia in me, mi restituì la tessera e
archiviò l’esposto.
Non ho mai raccontato questo fatto né al comm. Cantone né a membri della sua famiglia. Oggi mi è venuta
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l’idea di parlarne in questo mio racconto.
Come non dirò mai, neanche in questa sede, chi erano
i firmatari dell’esposto, dirò solo che essi, nel dopoguerra, si vantavano di essere i più puri esponenti dell’antifascismo pomiglianese.
E venne il 25 luglio del 1943 ed il fatidico 8 settembre.
Ed arrivarono gli alleati e istallarono il loro Town Mayor
al posto del deposto Podestà fascista.
Successivamente, il Governo Militare Alleato cominciò a ricostruire delle normali amministrazioni cittadine
con Sindaci di loro scelta e per Pomigliano la scelta, ovviamente, cadde sul Comm. Cantone. L’avversario di sempre, l’avv. Mauro Leone, che sempre era stato sconfitto
elettoralmente dal Cantone, trovò modo di farsi una rivalsa. Seguendo la tattica del suo maestro Giulio Rodinò,
detto “il polpo”, sguinzagliando i suoi seguaci nei partiti
che si andavano riformando, costituì il cosidetto Comitato di Liberazione Nazionale che impose al Governo
Militare Alleato la destituzione del Cantone e la nomina
a Sindaco di un loro designato: un giovane onesto ma
inesperto, compariello del professore Giovanni Leone,
figlio di don Mauro, il Dott. Salvatore Terracciano.
La scelta non piacque ai cittadini che l’appellarono
subito “‘O Sinnichicchio”.
E venne il 1946. Le regolari elezioni amministrative
vedevano in lizza la lista liberale del Cantone col suo simbolo del “Cavallo”, la lista dei Leoni con il nuovo simbolo “Scudo Crociato” e con la nuova denominazione del
partito “Democrazia Cristiana” che aveva sostituito quella
di Partito Popolare ed una lista civica di varia composi16
zione che convinsero a capeggiare il Prof. Elia Savelli, già
Podestà di Pomigliano all’inizio degli anni trenta.
E don Ercolino vinse ancora una volta, sia pure grazie
al sistema maggioritario col quale si era votato. La lista
del “Cavallo” conquistò 24 Consiglieri su 30, la D.C. solo
6 Consiglieri, e la lista civica nessuno consigliere.
I Pomiglianesi applaudirono clamorosamente quando il Comm. Cantone, come vecchia consuetudine, fece
il giro del paese in carrozza scoperta, con una pariglia di
cavalli al traino, per ringraziare gli elettori.
In questo nuovo periodo del sindacato del Comm.
Cantone furono impostate le soluzioni dei problemi che
premevano sulla cittadina la quale ormai, dopo la realizzazione dello stabilimento dell’Alfa Romeo, vedeva la sua
economia trasformarsi da eminentemente agricola a industriale. E prima di tutto c’era il problema fognature di
cui Pomigliano era completamente sprovvista.
Don Ercolino, profittando che un suo personale amico già Deputato eletto nel Collegio di Pomigliano prima
del fascismo, l’Onorevole Enrico De Nicola, era stato
nominato dall’Assemblea Costituente Capo Provvisorio
dello Stato, si adoperò perché il De Nicola intervenisse
presso il Ministero dei Lavori Pubblici per perorare uno
stanziamento di fondi per la realizzazione della rete
fognaria cittadina. Ma i Leone misero il bastone tra le
ruote e vanificarono con le loro beghe l’autorevole intervento dell’On. De Nicola. Ebbero anzi l’impudenza di
vantarsi di tale intervento ai danni della cittadinanza
Pomiglianese, infatti in un comizio per le elezioni politiche del 1948 l’On. Giovanni Leone, Deputato uscente
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dell’Assemblea Costituente e candidato alla Camera per
la Democrazia Cristiana, dal balcone di fronte alla Chiesa di S. Felice dichiarò che mai Pomigliano avrebbe avuto
fognature se non quando i Leone si fossero insediati anche al Comune.
La risposta dei Liberali fu affidata alla verve di Mimì
Romano, l’estroso Medico Poeta, che dallo stesso balcone, in un comizio della stessa campagna elettorale, dichiarò che i Pomiglianesi si sarebbero tutti muniti di stivali, ma non avrebbero mai votato un Leone a Sindaco di
Pomigliano.
Per inciso vorrei raccontare qui un episodio che riguarda in un certo modo la mia famiglia. Quando l’On. De
Nicola era eletto Deputato del Collegio di Pomigliano
con l’uninominale, non aveva alle spalle un vero e proprio partito ma in ogni paese del collegio aveva dei gruppi di amici e seguaci che erano coordinati da una persona
di sua fiducia. Per Pomigliano questa persona era Antonio Quercia, mio nonno materno, che l’On. De Nicola,
anche per rispetto dell’età, chiamava affettuosamente Zi’
‘Ntonio. Durante una sua visita a Pomigliano, dopo che
era stato eletto per quella legislatura Presidente della
Camera dei Deputati, alla dichiarazione di mio nonno:
“Come mi piacerebbe vedervi, seduto sulla poltrona di
Presidente, dirigere la Seduta!” il De Nicola subito rispose. “Zi’ ‘Ntonio, vieni a Roma che sarai mio ospite”.
Mio nonno prese la palla al balzo e fatti i relativi preparativi di viaggio si recò a Roma. Fu accolto dal Capo dei
Commessi di Montecitorio e accompagnato ad assistere
alla Seduta nel palco riservato al Presidente. Dopo, finita
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la Seduta, lo stesso lo condusse nello studio di De Nicola. Con il Presidente scese poi nel Transatlantico per
l’aperitivo. Mentre sorbivano l’aperitivo mio nonno vide
che nell’angolo della sala si distribuivano gratuitamente i sigari e le sigarette per i Deputati e, memore della
diceria che i prodotti del Monopolio Tabacchi per i
Deputati erano di gran lunga migliori di quelli che si
vendevano nei tabacchini, chiese all’On. De Nicola di
prendergli un sigaro Michetti, marca che lui fumava,
per poter fare il paragone. Netto il rifiuto del Presidente: “Zi ‘Ntonio sei pazzo?, qua tutti sanno che io non
fumo, si capirebbe subito che l’ho dato a te”.
Anni dopo Presidente della Camera fu l’On. Giovanni Leone; quasi tutta l’enturage democristiana di Pomigliano fumava le Nazionali zigrinate, confezione speciale per il Parlamento.
Purtroppo il comm. Cantone non poté portare a termine il suo mandato perché dopo qualche anno morì.
Gli successe per un breve periodo il Vice Sindaco Avv.
Ettore Cucciolito e poi il Consiglio Comunale elesse Sindaco l’avv. Andrea Pranzataro.
Una vecchia legge, in vigore anche durante il ventennio,
consentiva ai Sindaci di fissarsi uno stipendio mensile che
andava sotto il nome di Indennità di Carica. Mai nessuno però se ne era servito e tantomeno l’aveva fatto il
Cantone né prima, né dopo il ventennio, pur avendo subito un notevole danno economico con la sua radiazione
dall’Albo degli Avvocati.
E, per la verità, neanche i suoi successori si fissarono
indennità di sorta.
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Bisognò aspettare che il buon Ciccio Testa costituisse la prima “Giunta di sinistra, democratica ed antifascista nata dalla Resistenza”, come gli piaceva appellarla, per vedere che fare l’amministratore comunale, Sindaco, Assessore o semplice Consigliere, non era più un
Onore ma un lucroso mestiere. Dei trenta Consiglieri
di quella consiliatura, uno solo, Alberto Di Nuccio,
Consigliere di minoranza per la D.C. e che, per la
verità, da accanito fumatore le sue sigarette le aveva
sempre comprate dalla “Faustina”, rimise al Comune
l’importo del mandato di pagamento emesso in suo favore.
Oggi, a quando mi si dice, l’importo delle prebende –
tenuto scrupolosamente Top Secret – è arrivato, legalmente, a cifre scandalose!
Dicevano i nostri padri latini : “O tempora, o mores!”.
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‘O SCOPACHIAZZA
Dopo il personaggio più illustre voglio subito ricordare il più umile: uno spazzino comunale che ricopriva
all’occorrenza anche l’incarico di Banditore e delle cui
generalità conosco il solo nome: Sebastiano ma che era
conosciuto da tutti come “Sastiano ‘o scopachiazza”.
Generalmente svolgeva quotidianamente il suo compito di spazzino, ma diventava un personaggio imponente quando, indossato il suo berretto con la visiera sul
cui fronte spiccava, ricamato in oro, lo Stemma del
Comune con sotto la scritta “Banditore Comunale” girava le strade del paese soffiando ogni tanto nella sua
tromba a corno per richiamare l’attenzione dei cittadini che poi con voce stentorea appellava: “Pupulazione
‘e Pummigliano...” trasmetteva poi il messaggio che al
Comune gli avevano detto di comunicare. Credo, però
a questo punto, che debba spiegare, soprattutto ai giovani d’oggi, nell’era del computer e di internet, il perché di questa strana usanza.
Allora, come anche oggi, non era ammessa l’ignoranza
delle leggi a giustifica di qualche comportamento illegale
da parte dei cittadini; sennonché, e fino a quasi tutti gli
anni trenta, la massima parte della popolazione era analfabeta e quindi impossibilitata ad apprendere le notizie che
loro andavano comunicate né dai manifesti murali né dai
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giornali, pertanto le Amministrazioni erano costrette a
ricorrere, per comunicare con i cittadini, a questo sussidio audio. Sussidio tanto più efficace in quando quasi
sempre il messaggio veniva trasmesso in dialetto.
Metodo efficace ma che qualche volta dava origine
ad equivoci tragicomici.
Come quando il Sindaco Cantone in persona, il 24
maggio 1915, dette incarico a Sastiano di annunciare alla
cittadinanza che l’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria per ricongiungere alla Patria i territori delle province di Trento e Trieste. E Sastiano tradusse così il messaggio dopo i rituali tre squilli del suo corno: “Pupulazione
‘e Pummigliano ha ditto don Ercolino che l’Italia ha dichiarato guerra all’Austria perché vò trenta tiesti” (i tiesti
sono quei coperchi di banda stagnato che si usavano per
coprire il pentolame di coccio allora molto in uso). Allora Zi’ Carmeluccia, madre di tre figli già richiamati alle
armi, chiamò in casa il banditore e lo pregò: “Sastià, siente,
tu mi hai fa’ nu piacere, dice a don Ercolino che scivesse
‘a ‘o Guverno ca’ pe’ trenta tieste nu vale ‘a pena e fa na
guerra, giovedì ce’ ‘ccatt’ì miezzo o mercato e ce manno”.
Questa che può sembrare una barzelletta è pura realtà, a me è stata raccontata proprio da uno dei figli di Zi’
Carmeluccia.
Pure Sastiano l’ho conosciuto personalmente, abitava
in un basso all’incrocio di via Fiume con via Cavallotti,
ed è stato in servizio come Banditore fino alla pensione,
raggiunta dopo la guerra d’Etiopia.
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‘NTUONO
Così veniva appellato uno dei tre fornai della Pomigliano
della mia infanzia, ed era, in un certo senso, il più famoso.
Può sembrare strano che una cittadina di 12.000 abitanti avesse solo tre fornai, il motivo era che la massima
parte della popolazione era composta da agricoltori coltivatori diretti e quindi produttori di grano i quali poi
provvedevano a macinarlo e quindi il loro pane se lo producevano da soli. Infatti a confronto dei solo tre fornai i
mulini erano molto di più.
Ed anche la costituzione urbanistica dei fabbricati che
costituivano la massima parte del tessuto urbano
rispecchiava la necessità di venire incontro a questa consuetudine. Infatti, poiché un forno a legna era in un certo modo costoso a realizzarsi, nei cortili comuni, sui quali
affacciavano le unità abitative dei singoli proprietari, troneggiavano i cosiddetti “comodi comuni” e cioè pozzo,
forno e lavatoio cui si affiancava spesso il cesso con
sottostante pozzo nero stagno. La larga parcellizzazione
della proprietà contadina faceva sì che erano davvero
poche le persone che non erano in condizione di farsi
personalmente il pane e che dovevano perciò ricorrere al
fornaio. Stranamente queste persone erano di due categorie sociali molto distanti tra loro: i liberi professionisti
e i pubblici impiegati, gli umili artigiani e i braccianti agricoli. Ancora più stranamente anche i tre fornai si diversi23
ficavano con la loro produzione e con l’ubicazione dei
loro negozi.
‘Ntuono, cioè Antonio Montano, con forno “‘mmiez’
‘a chiazza”, (oggi via Roma) quasi all’altezza dell’attuale
Farmacia Romano, produceva pane bianco e fu il primo a
produrre fragranti rosette al lievito di birra, divenne un
poco il panettiere dei “signori” e raggiunse anche un certo benessere economico che ovviamente provocò anche
qualche malcelata invidia tant’è che nacque un motto:
“Ca’ si more ‘Ntuono nun si fa chiù ‘o pane!”. Ma la
tradizione invece fu continuata dai figli ed oggi dai nipoti.
Rabbiele, cioè Gabriele Cozzolino, il forno lo teneva
“‘ncoppo ‘o Carmine”. Era specializzato per le sue pagnotte di “pan’ ‘e grano” (cioè quello che oggi definiamo
pane integrale) nelle due versioni “niro” ed “asciurato” e
la sua clientela era costituita dal ceto più povero ma che
era anche il più numeroso. I suoi figli presero altre strade
ed oggi alcuni suoi nipoti sono stimati professionisti.
Il terzo era un tipo molto caratteristico anche fisicamente, si chiamava Eugenio Cetro ma era soprannominato “Bbiloscia” con forno in via Carmine Guadagni.
La sua produzione di pane integrale era molto limitata,
ma le sue due grandi specialità erano: per prima le
“freselle”, ciambelle di pane semicotto in forno, poi tagliate in due parti nel senso orizzontale e rimesse in forno a biscottare fino al completo raffreddamento del forno stesso. Le suddette freselle erano delizie da gustare
sia sotto una zuppa di fagioli, sia, leggermente sfregate
con uno spicchio di aglio e inumidite, a formare, nelle
calde sere estive, la base della “caponata” cioè coperte da
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pomodori tagliati a metà, alici salate sott’olio, zucchine
alla “scapece”, e spesso anche da melenzane a “fungetielle”
e il tutto irrorato da un filo d’olio costituivano un piatto
unico fresco e fragrante per la cena. La seconda specialità di Cetro erano le classiche pizze napoletane che, in
assenza totale sul territorio delle pizzerie, si era organizzato a produrre di sera e andava in giro a venderle, ben
sistemate nella “stufa” (recipiente di banda stagnata contenente più ripiani e coperto da un coperchio sovrastato
da uno sfiatatoio a camino) e “dava la voce”, scherzando
sul suo soprannome, “Bbiloisc! mò maggio furnuto ‘e
m’appiccicà cu’ Caflìsc” (storico pasticciere napoletano)
e così riforniva di bollenti “margherite” e “marinare” le
mense pomiglianesi di una squisita cena invernale. Poi,
fattosi più avanzato in età, e forse anche per l’incremento della produzione, aveva assunto, per la vendita a domicilio, un suo nipote, Alberto. Per le serate molto fredde, aveva inventato una versione della pizza con “pomodoro, aglio, olio e spadella” (peperoncino piccante cui si
attribuisce anche effetti afrodisiaci) per cui Alberto nel
dare “la voce”, con cui segnalava il suo passaggio per le
strade semibuie, diceva: “Muzzeca ponta ponta... e vire
ca’ t’afferra!”.
Il figlio Vincenzo, prematuramente scomparso per un
incidente stradale, e poi i nipoti, in un panificio moderno, continuano la tradizione delle “freselle” per la delizia
del palato degli intenditori Pomiglianesi e producono
panini all’ingrosso per il rifornimento quotidiano del fragrante alimento alle salumerie della zona.
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ZI’ ANIELLO
Altra figura che è restata ben incisa nella mia memo-
ria è quella di Zi’ Aniello ‘o Spacchisso che mi par di
rivedere ancor oggi, troneggiante con la sua mole, seduto a godersi il riposo del giusto sulla porta della sua
abitazione in via Fiume, di fronte al cancello della casa
mia, col suo mezzo toscano e il suo bastone, col volto
e il cranio pelato bruciati dal tanto sole preso a lavorare nei campi, amorevolmente accudito dalla figlia
Teresina.
Spesso andavo a sedermici vicino e conversavo con
lui che mi conosceva da bambino e mi voleva tanto bene.
Dalla sua bocca fluivano racconti della sua vita vissuta
ed osservazioni su fatti e persone, osservazioni di una
tale saggezza e perspicacia che meravigliava potessero
venire da una persona quasi analfabeta. La sua purezza
d’animo e la sua onestà morale trasparivano da ogni episodio che mi raccontava ed io mi divertivo tanto a parlare con lui e spesso, confesso, riflettendo su quello che
mi aveva detto, ricavavo degli utili insegnamenti per affrontare con la dovuta serenità la vita che mi stava davanti.
Zi’ Aniello era proprietario di un piccolo appezzamento di terreno in quell’area tra Pomigliano ed Acerra
che poi venne espropriata per la costruzione nel 1938
dello stabilimento Alfa Romeo, stabilimento che produsse aerei e motori per la nostra valorosa Aeronautica
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Militare. L’Alfa Romeo trasformò Pomigliano da piccolo centro rurale nell’attuale cittadina industriale. Naturalmente quel piccolo appezzamento non poteva certo
bastare a soddisfare le esigenze della famiglia per cui Zi’
Aniello si prodigava in altri lavori occasionali e perciò
era soprannominato ‘O Spacchisso.
Debbo premettere che allora tutti, benestanti e poveri, per cucinare usavano o il carbone di legna o la legna
da ardere. Mentre il carbone veniva prodotto direttamente sui monti dai carbonai che facevano bruciare il legname dei boschi cedui tagliato a tronchetti e accatastato in
pire che per evitare lo sviluppo di fiamme e consentire
una perfetta carbonizzazione venivano ricoperte di terra. La legna da ardere era data dalla potatura o dall’abbattimento di alberi da frutta o dai pioppi che erano stati messi a sostegno dei tralci delle viti da uva (le famose
“‘ntennecchie”) che si erano ammalati e dovevano essere abbattuti. Questi alberi venivano sezionati in grossi
pezzi che si chiamavano “stélle” e che si misuravano commercialmente in mucchi di un determinato volume che
si chiamava “passo”. Il passo era anche l’unità di misura
per la vendita.
Le stélle però, a loro volta, dovevano essere ridotte in
varie dimensioni perché fossero idonee ai vari usi e cioè:
a “cippi” per il camino, a “sbancole” per alimentare il
fuoco sotto i pentoloni nei quali si cuocevano le verdure
o i maccheroni, e a piccole listarelle per accendere il fuoco sotto “‘o bbrustulaturo” (cilindro di latta bucherellato e girevole mediante un manico che serviva a tostare
l’orzo o il caffè per preparare la gustosa bibita del matti28
no). Al taglio della legna provvedevano dei lavoratori
occasionali che venivano chiamati “spaccatori” o “spacchissi”.
Un’altra premessa è necessaria per capire alcuni episodi che andrò raccontando.
Tra le famiglie molto agiate e rispettate di Pomigliano
c’era quella dei Siciliano, proprietari terrieri, che annoverava tra i suoi membri il Rev.mo Monsignor Gaspare,
Canonico del Capitolo della Diocesi di Nola e Vicario
Vescovile per Pomigliano, e affettuosamente appellato
da tutti “Zi’ Canonico” e che, essendo restato ad abitare
nella casa avita, si occupava anche di gestire i beni della
famiglia.
I Siciliano erano proprietari di vari appezzamenti di
terreni, e, non essendo coltivatori diretti, li avevano dati
a mezzadria ai piccoli coltivatori diretti confinanti, tra
questi Zi’ Aniello.
A Zi’ Aniello fu affidato un appezzamento in quella
zona dove poi in seguito fu fatto l’aeroporto e che per la
caratteristica di avere la falda freatica quasi affiorante era
ottima per la coltivazione della canapa. Era anche consuetudine che ogni sera, di ritorno dai campi, i mezzadri
passassero a salutare Zi’ Canonico ed a riferirgli anche
dell’andamento dei lavori.
La canapa era una ricchezza per quella zona, ma era soggetta al pericolo che le condizioni metereologiche
ferragostane, cioè a pochi giorni dalla sua maturazione,
ne compromettessero il raccolto. Infatti allora le quattro
stagioni, non ancora modificate dall’effetto serra che l’incuria e l’ingordigia dell’uomo ha creato, si susseguivano
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con un ritmo che anno dopo anno poteva cambiare di
pochi giorni. L’autunno iniziava tra metà agosto e metà
settembre con le prime piogge ed in quella zona coltivata
a canapa, date le forti correnti ascensionali che lo stato di
umidità del suolo creava, si formavano piccole trombe
d’aria che spazzavano il suolo zigzagando e che venivano
chiamate “trubee” e che erano disastrose per la canapa
perché ne spezzava i fusti cavi, prima della maturazione
delle fibra esterna, rendendone così inservibile il raccolto.
Il danno al raccolto provocato dalle trubee o da altri fenomeni metereologici veniva chiamato “rammaggio”.
Un pomeriggio di un certo anno una trubea si abbattè
sui campi e la sera, al consueto incontro dei mezzadri
con Zi’ Canonico, Zi’ Aniello si presentò con una faccia
molto triste. Al ché il Canonico, anche per consolarlo,
l’apostrofò: “Anie’ senza che parli, dalla tua faccia si vede
che la trubea ha fatto assai rammaggio!” e, ricordandosi
all’improvviso di essere anche prete, indirizzò al povero
Zi’ Aniello un predicozzo: “Anie’ devi sapere che non è
vero che nostro Signore Iddio paghi solo il sabato, cioè
ci punisce con l’Inferno o il Purgatorio per i nostri peccati solo dopo la nostra morte o ci premia con il Paradiso se siamo stati sempre osservanti dei Suoi Comandamenti! Ma anche in vita ci punisce facendoci soffrire e
per qualche malattia o anche per qualche difficoltà economica!” e Zi’ Aniello rispondeva: “Zi’ Canonico si ‘o
dicite Vuie!”. Poi, alla fine del pistolotto, Monsignore
lanciò il suo appello: “Anie’ sa che ti dico, io domani
mattina alle sei dico la messa nella Chiesa di San Francesco, vieni pure tu, ti fai una bella Confessione ed una
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bella Comunione così ti rappacifichi con Nostro Signore!”. Allora l’attonito Zi’ Aniello rispose pronto: “Io? e
a me che me ne fotte? ’a canapa che ‘a trubea ha vuttato
‘nterra è ‘a Vostra, a mia sta bbona!”. E nel raccontarmelo maliziosamente aggiungeva: “Isso era prevete e se diceva che nostro Signore puniva i peccati con le trubee
aveva sapé isso ‘e fatti suoi, ve pare o no?”.
Altro episodio che ricordo è quello di una scommessa
che fece con mio padre. Papà aveva nel suo studio, tra i
cimeli portati a casa dal suo primo servizio da ufficiale
medico passato in Eritrea nell’immediato dopoguerra, uno
scudo abissino di pelle d’ippopotamo essiccata che, come
si sa, è di una durezza tale che riesce perfino a resistere ad
un colpo di fucile sparato a breve distanza. Zi’ Aniello
scommise che con un colpo della sua scure l’avrebbe spaccato; papà accettò la scommessa e siccome Zi’ Aniello stava
proprio lavorando in casa nostra al passo di stelle acquistato per integrare le riserve energetiche necessarie al
fabbisogno familiare, si procedette subito alla scommessa. La posta in gioco era la paga della giornata di lavoro o,
in caso di vittoria, il raddoppio della paga.
Io, allora bambino non ancora decenne, ho ancora
davanti agli occhi la scena; Zi’ Aniello, allora ancora nel
pieno vigore fisico e con la sua mole, sistemò a terra nel
cortile lo scudo, poi con la sua enorme scure calò sullo
scudo un terribile fendente; riuscì appena a scalfire con
un graffio il mammellone centrale dello scudo. Ricordo
la costernazione espressa dal suo viso quando ammise di
aver perduto la scommessa.
Naturalmente non se ne fece niente e papà gli pagò
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regolarmente il lavoro. Conservo ancora quello scudo
tra i ricordi di famiglia.
Ma il culmine degli episodi di Zi’ Aniello riguarda ancora un rapporto con mio padre.
Debbo però fare prima delle precisazioni.
Mio padre era un accanito fumatore e normalmente
fumava sulle 80 sigarette al giorno il che, al risveglio
mattutino nel passaggio dalla stazione supina a quella
eretta, gli provocava quello accumulo di muchi bronchiali
alla gola e di cui si liberava con colpi di tosse, che veniva
chiamata proprio tosse dei fumatori, che favoriva l’espettorato dei muchi e rimetteva in sesto la funzione bronchiale. Inoltre, mio padre aveva l’abitudine, appena si levava, di scendere in giardino a guardare i suoi fiori e pertanto questa funzione mattutina della tosse si svolgeva
“coram populi”.
Inoltre, prima della scoperta della penicillina, le bronco
polmonite venivano curate con i sulfamidici con cicli di
cura che duravano sette giorni, o multipli di sette, fino
alla guarigione o, purtroppo, al decesso. Generalmente,
a termine di ogni ciclo si manifestava una crisi di aggravamento della sintomatologia che poi poteva portare alla
risoluzione della malattia, il ché però allarmava molto i
parenti del paziente specie quando questa crisi risolutiva
avveniva di notte.
Avvenne che pure Zi’ Aniello si ammalo di broncopolmonite e naturalmente mio padre lo curava; e avvenne pure che la crisi risolutiva Zi’ Aniello l’ebbe di
notte, amorevolmente assistito dalle spaventatissime
moglie e figlie, per le quali sentire la tosse di papà in
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giardino poco dopo il sorgere del sole fu la fine dell’incubo notturno. La moglie subito attraversò la strada e
avvicinatasi al cancello disse a mio padre quello che era
accaduto la notte. Subito papà, in pigiama com’era accorse accanto al malato per controllare gli effetti della
crisi e, capito che la crisi era stata quella risolutiva, la
rassicurò. Allora Zi’ Ntuniella timidamente chiese:
“Chillo stanotte teneva ‘na tosse che pare che le spaccava o pietto, n’ ‘un le putisseve dà ‘na medicina pe n’
‘un la fa venì chiù?”. Allora Zi’ Aniello, che fino ad
allora era stato immobile e silenzioso, spossato dal travaglio notturno, intervenne con voce flebile rivolto alla
moglie: “Ma vide quanta sì scema tu! Da chisto vuò ‘a
medicina p’ ‘a tosse, chillo si ha teneva s’ ‘a pigliava
isso invece ‘e fa chella tarantella c’ ‘a tosse ogni matina!”.
Suprema saggezza contadina!
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DON GIACUMINO ‘O PREVETE
Nicola Esposito nella prefazione delle mie “Stroppole”
fa giustamente risalire la nostra amicizia all’essere stati
nella nostra infanzia alunni della terza elementare di don
Giacomino De Luca, Sacerdote ed Insegnante in quella
terza elementare della scuola allocata nel “Palazzo” di
piazza Mercato.
Debbo ricordare che il “Palazzo”, già dimora dei
feudatari pomiglianesi, era un edificio con un atrio, che si
apriva nell’angolo sud-ovest della piazza, e che immetteva
in un ampia corte che arrivava fino alla via Vittorio Emanuele dove c’era un altro ingresso chiuso da un cancello in
ferro. Sotto l’atrio c’era uno splendido scalone in pietra
che immetteva al piano nobile dove si aprivano ampie sale
nelle quali il Comune aveva allocato una sezione staccata
del Circolo Didattico che aveva sede nella Scuola Carmine.
In questa sezione staccata prestavano servizio solo cinque
Insegnanti: Carmela Giampaolino e Filomena Verdesca,
mia zia, che si alternavano nell’insegnamento alla Prima e
Seconda Elementare, Don Giacomino De Luca che teneva la Terza, il Prof. Falco che teneva la Quarta ed il siculo
Prof. Conte che teneva la Quinta.
Io, dopo la parentesi della scuola napoletana “Basilio
Puoti” diretta da mio nonno Carmine che, con orgoglio,
aveva preteso di portarsi alla sua scuola il nipotino per la
Prima e Seconda elementare. Una volta collocato in pen-
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sione il nonno, approdai alla Terza elementare di Don
Giacomino De Luca.
“Maestro non solo di scuola ma di vita” lo definisce
Nicola nella sua prefazione ed era così!
Questo Sacerdote Insegnante aveva il dono della chiarezza nell’esporre le sue lezioni tanto da farsi seguire in
silenzio assoluto dalla quarantina e più di alunni che componevano la sua classe mentre ci snocciolava le prime nozioni di Fisica o di Storia Naturale o ci leggeva un racconto del libro “Cuore” del De Amicis o una poesia del
Pascoli.
Unica interruzione alla lezione era l’esigenza del cambio della maglia intima perché Don Giacomino, non so
per quale sua patologia, sudava enormemente anche in inverno e procedeva al cambio della maglia almeno due volte
durante l’orario scolastico, operazione che effettuava dietro il cavalletto che sosteneva in un angolo dell’aula la lavagna di ardesia prelevando il ricambio dall’inseparabile
borsone che portava sempre con se. Inoltre era afflitto da
un catarro permanente che gli procurava quelli che Nicola
definisce “nasate” e che erano enormi e fragorosi starnuti
che tuonavano all’improvviso nel silenzio dell’aula attenta
alla spiegazione e ai quali provvedeva estraendo dalle tasche dell’abito talare un enorme fazzolettone in tela colorata, quelli che in pomiglianese venivano chiamati
“maccaturi”, e procedendo a soffiate di naso ancor più fragorose degli starnuti che l’avevano precedute, riprendeva
con voce chiara e affascinante la sua spiegazione.
Aveva un concetto pedagogico un po’ all’inglese e puniva con punizioni corporali sia le mancanze disciplinari
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sia quelle di apprendimento. Infatti si era attrezzato a
tale scopo e perciò sulla sua cattedra faceva bella mostra
di se la “spalmata”, assicella di legno duro ben levigata, in
modo da evitare eventuali effrazioni, con la quale dava
uno o più colpi nel palmo della mano protesa del reo.
Dietro alla cattedra poi c’era una batteria di aste di varie
lunghezze, ricavate dai virgulti delle piante di nocciolo, e
che permettevano a Don Giacomino di intervenire, senza muoversi dalla cattedra, a richiamare l’attenzione dei
distratti o sedare piccoli tafferugli fra gli scolari dal primo all’ultimo dei banchi disposti a scalare nell’aula. Ogni
asta aveva un suo nome specifico. Ricordo solo quello
del primo banco in cui sedevo insieme a Nicola Esposito:
si chiamava “Peppinella”.
Altra cosa cui ci teneva moltissimo, ed era logico dato
il suo stato Sacerdotale, era la presenza alla Messa della
domenica e delle altre feste di precetto. A tal fine aveva
raggiunto un accordo con tutti i Parroci del paese per
cui, dopo la celebrazione della Messa, i Parroci rilasciavano agli alunni di Don Giacomino un bigliettino con la
data e col timbro della Parrocchia, bigliettino che dovevamo esibire all’ingresso in aula il giorno dopo, a prova
della partecipazione alla messa.
Nella didattica dell’epoca si usava, per esercitare negli
allievi l’uso della memoria, far mandare a memoria poesie dei grandi poeti italiani o alcuni brani di grandi scrittori, cosa che la moderna didattica pare che ritenga
obsoleta, e naturalmente nelle prime classi elementari le
insegnanti facevano mandare a memoria le preghiere base
della Religione Cattolica. Ebbene, Don Giacomino a
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quelli di noi che si sapeva che avrebbero continuato gli
studi, dopo le Elementari, pretendeva che imparassimo a
memoria le preghiere in latino. Questo ci inorgogliva
molto e ci faceva sentire importanti. Ed io, confesso, che
ancor oggi rifiuto di accettare la riforma del pregare nella propria lingua e, sia nelle quotidiane preghiere mattutine, come mia madre mi ha insegnato, sia durante la
Messa mi rivolgo al Signore nella lingua dei nostri Padri.
Purtroppo Don Giacomino morì quando io ero in
collegio, e non potetti rendergli il mio ultimo saluto, ma
ancor oggi mi fermo a dirgli un requiem quando passo
per la sua tomba che è vicina a quella dei miei genitori.
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ZI’ FILUMENA ‘A MAESTRA
Un’altra figura storica della mia infanzia era Zi’
Filumena ‘A maestra, una mia vicina di casa che abitava
in via Matteo Renato Imbriani, in un piccolo fabbricato
arretrato rispetto al filo della strada, proprio di fronte
alla via Salerno, oggi via Vincenzo Pirozzi, su cui si apriva l’accesso secondario della mia casa.
Zi’ Filumena era vedova della prima guerra mondiale
ed aveva due figli Raffaele e Carmine Maione e, come
tante altre donne di Pomigliano facevano in altre zone
del paese, per arrotondare la pensione, offriva i suoi servizi a intrattenere e custodire i figli di madri lavoratrici,
soprattutto di braccianti agricole, che non avevano possibilità di affidare i propri figli a persone di famiglia durante le ore in cui erano assenti da casa per il loro lavoro
nei campi e che erano troppo piccoli per essere accolti
allo Asilo Infantile Duchessa Elena d’Aosta, gestito dalle Suore della Carità.
Queste donne venivano chiamate popolarmente “‘E
Maestre”, ma non avevano, naturalmente, alcun titolo culturale né alcuna preparazione pedagogica, ma espletavano
la loro preziosa funzione sociale con una vigile custodia
dei piccoli e insegnando loro ‘e cose ‘e Dio, come si chiamavano allora i primi rudimenti della Fede Cattolica, li
facevano giocare nei semplici giochetti che si facevano a
quell’età, e li aiutavano a mangiare il pranzo che le loro
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madri avevano messo nel panierino ed anche a
socializzare con i compagni.
Anche mia madre per poter accudire più facilmente
alle faccende domestiche si servì dell’opera di Zi’ Filumena
e così io, a tre anni, la mattinata la trascorrevo nel terraneo
o, nelle belle giornate, nello spiazzo antistante la “scuola
‘e Zi’ Filumena” insieme ai miei coetanei vicini di casa,
seduti sulle “seggiolelle” dal sedile di paglia intrecciata e
imparavamo dalla “maestra” le prime preghiere cristiane.
Poi il Governo Fascista estese a parecchi Comuni quei
tipi di asili pre-elementari che venivano chiamati “Giardini d’infanzia” cui erano preposte Insegnanti Elementari specializzate indicate col titolo di “Maestre Giardiniere”.
A Pomigliano il Giardino d’infanzia fu allocato al piano terra della Scuola “Carmine” nell’aula prospiciente
l’ampio giardino che era alla spalle dell’edificio Comunale, utilizzato poi nell’ultimo dopoguerra per la costruzione della sede dell’Istituto Magistrale. Per il primo anno
fu preposta una distinta insegnante, Donna Matilde Gentile, e successivamente la figliuola Maria di cui fui alunno
fino alla prima elementare.
Ricordo, con nostalgia, quelle mattinate trascorse tra i
compagnelli ad apprendere dalla dolce voce di Zi’ Filumena a recitare l’Ave Maria!
Comunque Zi’ Filumena trasmise la passione dell’insegnamento e della cura dei piccoli ai suoi eredi. Il figlio
Carmine, valoroso Ufficiale nell’ultima guerra e poi prigioniero in Germania, fu un dotto Professore di Lettere
di Liceo. Sua figlia ha seguito la professione paterna men40
tre il figlio Franco, laureatosi in Medicina, e, forse subendo l’influsso avito, si è specializzato in Pediatria. Due
delle figliuole di Raffaele sono attualmente Docenti nelle Scuole Secondarie di Pomigliano.
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SCARPARE E CUSUTURI
Voglio pure ricordare ai giovani che Pomigliano era
famoso per la forte concentrazione di artigiani dell’abbigliamento: Scarpari e Cusuturi, come si chiamavano
allora i Calzolai e i Sarti che lavoravano su misura, sia
per gli uomini che per le donne. I loro laboratori, oltre
ad essere vere e proprie piccole fabbriche di prodotti
artigianali, erano anche scuole di apprendistato del mestiere, infatti ad esse i genitori mandavano i ragazzi, sia
dopo il completamento del ciclo di studi delle elementari, sia, se ancora in età scolare nel solo pomeriggio,
durante l’anno scolastico, e poi durante le vacanze estive. Nel linguaggio corrente si diceva che i ragazzi andavano a “‘o masto”.
Da piccoli venivano impegnati in lavori di rassetto e
pulizia degli arnesi e dei locali, così imparavano a conoscere gli attrezzi del mestiere, poi a eseguire il lavoro dei
particolari più semplici, e via via più complessi fino ad
arrivare ad essere assunti come lavoranti della bottega.
Per la retribuzione il primo periodo era gratis, poi veniva
loro corrisposto una piccola paghetta settimanale e assunti poi come lavoranti erano retribuiti regolarmente
con una paga settimanale. L’apprendistato durava abitualmente fino alla chiamata alle armi per servizio militare.
Al congedo poi i più capaci, ritornati a casa, aprivano
bottega per conto proprio e pian piano si formavano una
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loro clientela. I più sfortunati, invece, o ritornavano a
fare i lavoranti nella bottega del loro maestro, o lavoravano in casa loro ma sempre per fare lavori per conto del
loro o di altri maestri.
Fiorente era anche l’indotto prodotto da queste botteghe artigiane nel campo del lavoro femminile; infatti,
alcune ragazze lavoravano nelle loro case, guadagnandosi dei soldini che permettevano loro di contribuire alle
necessità del bilancio familiare ed anche di mettere da
parte un gruzzolo per costituirsi un corredo di biancheria e di attrezzature casalinghe da portare in dote in un
futuro matrimonio.
I due mestieri femminili indotti erano le “rivettatrici”
per i calzolai e le “pantalonaie” per i sarti.
I calzolai, infatti, tagliavano dalla pelle di vitello o di
capretto le varie sagome che dovevano comporre la tomaia della scarpa e le consegnavano alle rivettatrici che,
con la “macchina a braccio” di loro proprietà e a casa
loro, le cucivano insieme e le foderavano sì da rendere la
tomaia completa e pronta ad essere montata sulla apposita forma di legno.
Toccava poi al maestro calzolaio montare la tomaia sulla
forma, applicarci il “forte” e il “cappelletto”, cucirci con
la “suglia” e lo spago cerato la suola di cuoio e il “guardiunciello”, lucidarla col ferro rovente, sformarla, mettere il
laccio e rendere le scarpe pronte all’uso.
I sarti pure tagliavano dalla “pezza” di stoffa, in genere fornita dal cliente, le varie parti che costituivano il
pantalone nonché le parti di “fodera” necessarie per le
tasche, la cintola e la pattina della “vrachetta” e le conse44
gnavano alla “cazunara” che a casa sua provvedeva a cucire a macchina il pantalone, farci le “cchiette”, ossia le asole,
cucirci i bottoni di corno, i passanti portacinghia in vita e
il nastrino salvapiega nell’interno posteriore del pantalone
che strusciava sul “forte” delle scarpe.
Toccava invece al “masto” la fattura e la rifinitura della
giacca e dell’eventuale gilet.
Mi si chiederà, dato che il vestito e le scarpe sono dei
beni quasi duraturi, come facevano a sopravvivere tanti
artigiani in un paese agricolo che allora contava solo
dodicimila anime?
La risposta è che la maestria dei maestri artigiani
pomiglianesi era conosciuta in tutta la provincia ed anche oltre e la loro clientela non era limitata all’ambito
paesano, ma si estendeva anche alla città di Napoli. Infatti, all’imbrunire, sulla Stazione ferroviaria, si vedevano i maestri artigiani sarti, carichi delle loro “mappate”,
che si recavano a provare i vestiti “messi a misura” ai loro
clienti in città. Il sabato sera e la domenica mattina nella
“mappata” c’era l’abito finito che veniva consegnato al
domicilio dei clienti. Insieme ai sarti poi c’erano i calzolai, col loro pacco di scatole legate con una cordicella,
che andavano a consegnare ai clienti le paia di scarpe prodotte nella settimana.
Inoltre questi artigiani, quando non avevano ordini dai
loro clienti privati, avevano accordi con i proprietari di
importanti negozi di abbigliamento di Napoli e lavoravano a “taglie” per questi negozi che così avevano la possibilità do offrire ai loro acquirenti la prelibatezza del
“capo fatto a mano”.
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Mi è gradito qui ricordare gli artigiani più famosi
nelle confezioni maschili nella mia epoca: la sartoria
dei fratelli Alfuso, dalla quale derivò poi quella dei nipoti fratelli Caputo, quella dei fratelli Seneca tutte situate “int’ ‘a via nova” cioè alla via Umberto e quella
dei fratelli Russo situata “‘mponta ‘a o vico ‘e Santu
Veneditto” cioè via Matteo Renato Imbriani.
Donna Pasqualina Mormile e il marito don Ciccio
Cozzolino che nel campo femminile estendeva la sua
clientela fino alla capitale e annoverava fra le sue clienti le
signore dell’alta società e dell’alta burocrazia statale e della
finanza.
Per i calzolai don Pasqualino Esposito, Antonio e
Peppino Iossa, figli del più celebre “Mastu’ Carminiello”,
Raffaele Caprioli, specialista in scarpe in pelle di capretto, e i fratelli Basile.
Altra scuola di apprendistato, sia pure in un campo
totalmente diverso, era la fucina dei fratelli Cristiano nei
terranei del “Palazzo” di piazza Mercato ove si eseguivano pregevoli opere in ferro battuto e dove si producevano ringhiere, cancellate e cancelli completi di cardini, serrature e chiavi tutti prodotti in officina si da essere pezzi
unici. Credo che dalla scuola di “Mastu’ Peppe” siano
usciti tutti i fabbri di Pomigliano!
Poi venne la guerra e con essa l’economia agricola fu
stravolta e con essa anche l’economia artigiana.
Pomigliano per la sua peculiarità di avere un territorio con la falda freatica quasi affiorante e perciò molto
ricca di quelle correnti ascensionali (quelle stesse che
provocavano le famose “trubee” estive) fu scelta come
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sede idonea per la costruzione di un aeroporto da annettere allo stabilimento di costruzione aeronautiche
che fu affidato all’Alfa Romeo e perciò tutto il territorio a nord della Strada Nazionale delle Puglie venne
espropriata dallo Stato e in meno di un anno su di esso
fu costruito quel grande complesso industriale che ancora oggi esiste.
Naturalmente il Governo non abbandonò gli espropriati al loro destino, ma, con la previdenza di allora, costruì per prima cosa, in località San Martino, una Scuola
di Addestramento Professionale, ottimamente diretta
dall’ingegnere Focaccetti, per trasformare i più giovani
contadini, ma anche i lavoranti scarpari e cusuturi, in capaci operai metalmeccanici che furono poi subito assunti nel nuovo Stabilimento e contribuirono egregiamente
a sfornare ali e motori per la nostra gloriosa Arma Azzurra.
I vecchi maestri artigiani restarono così soli nelle loro
botteghe a continuare una tradizione e rimpiangere il bel
tempo che fu!
Poi il dopoguerra sviluppò la teoria tutta americana
dell’usa e getta e si ebbe il diffondersi dell’abito e delle
scarpe “di serie” prodotti in grandi complessi industriali
e quindi a costi assai più contenuti e fu la fine dell’artigianato non solo per Pomigliano ma credo per tutto il
meridione.
Oggi esiste ancora qualche vecchio artigiano che riesce a personalizzarti addosso un abito a “taglia” comprato nel negozio, ma per poter tirare avanti una famiglia lo
può fare solo come secondo lavoro.
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ZI’ MARIA GRAZIA ‘A PIZZAIOLA
All’epoca in cui a Pomigliano l’economia agricola era
prevalente la ristorazione era assolutamente deficiente.
Infatti, la sera i contadini, stremati dalla fatica, al ritorno
dai campi, sedevano con moglie e figli intorno al desco
familiare a consumare una parca “spesa”, cioè un piatto
unico costituito quasi sempre da una minestra mista di
pasta e legumi, ed andavano subito a dormire perché all’alba dell’indomani dovevano essere ancora sulla breccia.
Solo i braccianti più giovani uscivano dopo il pranzo
serale e si riunivano nelle “cantine” che durante il giorno
erano rivendite di vino sfuso e che la sera si trasformavano in luogo di convegno dove gli “sciacquanti” (così erano chiamati questi frequentatori) bevevano ancora qualche bicchiere di vino, magari supportato da una fetta di
pane e da una manciata di olive in salamoia o di lupini.
L’unico luogo dove l’occasionale forestiero, che per
ragioni di lavoro si trovava a Pomigliano all’ora di pranzo, potesse mangiare qualcosa era un’osteria “‘ncoppo’
‘o ponte”. Quest’osteria era gestita dalla simpatica Zi’
Maria Grazia con la quale collaborava uno stuolo di nipoti. Zi’ Maria Grazia era soprannominata “‘A Pizzaiola”,
ma non perché nella sua osteria sfornasse la gustosa pizza napoletana, che a Pomigliano era appannaggio esclusivo di “Biloscia”, ma, pare, perché servisse spesso agli
avventori della sua osteria (per il pochissimo tempo che
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la preparazione richiedeva) un piatto di linguine condite con la salsa chiamata “pizzaiola”. Questa salsa, peraltro gustosissima, era costituita da un intingolo formato da pomodori “do’ piennolo” schiacciati e cosparsi da un trito di aglio e origano e irrorati di olio d’oliva.
In tale intingolo, dopo qualche minuto, si aggiungeva
anche una fetta di carne, così da avere pronto anche un
secondo piatto, mentre con la salsa si condivano le
linguine ben “allutammate” (cioè abbondantemente
cosparse)con “caso ‘e Roma” (pecorino romano) grattugiato e una macinata di pepe nero.
Prospiciente a questa osteria, c’era un ampio terreno
coltivato a giardino e qui il Comune, negli anni trenta, fece
costruire un moderno edificio scolastico, oggi sede del 2°
Circolo Didattico. L’edificio era arretrato di parecchio dal
filo stradale per cui sul davanti risultava libero un ampio
spazio che venne sistemato a giardino pubblico.
In questo giardino, intorno al 1938, fu collocato il
Monumento ai Caduti della prima guerra mondiale. Detto
monumento era costituito da una base marmorea, ai cui
lati erano scolpiti i nomi dei pomiglianesi Caduti in quella
guerra, sovrastata da una scultura in bronzo a grandezza
d’uomo raffigurante un Fante, nello slancio dell’avanzata, col braccio e un dito della mano protesi ad indicare la
meta. Il monumento fu inaugurato da Sua Altezza Reale
Umberto di Savoia, Principe di Piemonte. Ma subito la
innata arguzia popolare diffuse la voce che il Podestà del
tempo aveva voluto premiare Zi’ Maria Grazia, unica ristoratrice pomiglianese, infatti il dito proteso del Fante
stava ad indicare “Llà stà ‘a pizzaiola!”.
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Le difficoltà annonarie sopraggiunte con lo scoppio
della II guerra mondiale e, forse, la morte della titolare
portarono alla scomparsa dell’osteria.
A me, inguaribile nostalgico di quella mia vecchia
Pomigliano, ha fatto immenso piacere rivedere riaperti
quei locali sui frontone dei quali spicca una lucida insegna: “Pizza Doc”.
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MULINI E LAMMICCHI
L’economia prevalentemente agricola del paese com-
portava alcune necessità della popolazione per soddisfare delle specifiche esigenze che potevano essere soddisfatte solo da attrezzature a carattere industriale, sia pure
di modeste dimensioni.
Come ho già accennato precedentemente parlando dei
panificatori, la massima parte della popolazione produceva, nel campicello che coltivava, i prodotti necessari
per l’alimentazione del suo nucleo familiare, riservando
alla vendita sul mercato solo il prodotto eccedente. Inoltre, data la fecondità del nostro suolo, la produzione era
alternata e i campi non erano coltivati a monocultura,
ma lo stesso appezzamento produceva per ogni annata
agraria grano, patate, cavoli, granturco, pomodori e fagioli. Inoltre era uso tra i nostri contadini segnare i confini della loro particella con filari di viti da vino e piante
di noci. Pertanto ognuno produceva il vino in casa e si
approvvigionava della gustosa frutta secca da sgranocchiare, a fine pasto, accompagnata da una fetta di “pane
‘e grano” e un buon bicchiere di vino.
Come ho già detto precedentemente, ogni famiglia
contadina faceva il pane in casa, ma nei campi il contadino produceva il grano non la farina, perciò sorsero delle
piccole industrie molitorie a carattere familiare chiamate
comunemente “‘e mulini” presso le quali i nostri conta52
53
dini portavano a macinare un sacco di grano per volta
in modo da avere a disposizione in casa farina sempre
fresca e c’era perciò la possibilità di lavoro per più opifici.
Io ne ricordo ben quattro: il più grosso quello Mocerino ubicato in quella traversa cieca di via Vittorio Emanuele, che ancor oggi è indicata come “int’ ‘o mulino”, e
che il proprietario, scapolo e senza eredi, generosamente
lasciò in eredità alle Suore della Congregazione di San
Giovanni Bosco. Oggi, nei locali ristrutturati, le Suore
gestiscono tante loro meritevoli opere assistenziali per
l’infanzia e per la gioventù; “‘o mulino ‘e Carrera” di don
Vincenzo Antignano in via Abate Felice Toscano; “‘o
mulino ‘e Pacciano”, in via S. Pietro, proprietà dei fratelli
Giacomo e Peppino Siciliano e infine il mulino Perrotta
in via Roma, condotta da Giovanni ‘o Zzono, che gestiva
anche una poteca di cas’ ‘a duoglio.
Da essi però il grano ritornava nei sacchi solo macinato. Era compito poi della brava massaia selezionare la farina per i vari usi attraverso la cernita con vari stacci a
maglie sempre più fitte e che avevano vari nomi: ‘o crivo,
‘o setaccio, e ‘o setillo.
Innanzitutto col crivo si stacciava la “vrenna” (crusca)
che veniva utilizzata per confezionare unitamente ai
“patanielli”, patate non completamente cresciute al momento del raccolto e che allora era considerato prodotto
di scarto (mentre oggi vengono considerate primizie e
costano più delle patate normali). L’ottimo pastone che
ne derivava serviva per alimentare il maiale e altri animali
domestici. La farina ottenuta serviva alla preparazione
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del pane nero, quello chiamato “pane ‘e grano” e che in
linguaggio moderno è chiamato “pane integrale”. Con il
setaccio si toglieva una parte del cruschello e si otteneva
la farina per il pane “asciurato” e infine con il setillo si
otteneva la farina bianca, quella che oggi si indica 00, che
veniva utilizzata per confezionare torte o altri dolci tradizionali per le varie festività.
Dalle “ ‘ntennecchie” (festoni di tralci) poi di “uva suricillo” tese tra i pioppi piantati sul confine delle particelle
si ricavava, alla vendemmia, il vino necessario al fabbisogno familiare.
L’operazione della vendemmia era molto folkloristica.
Gli uomini di arrampicavano sugli “scalilli” (scale molto alte e molto strette, per diminuirne il peso, ricavate da
tronchi cedui di castagno e che si appoggiavano alle
‘ntennecchie) muniti di “fescene” (cesto di vimini a forma simile a un cono rovesciato e munito di un gancio per
fissarlo allo scalillo) e le riempivano dei grappoli di uva
raccolti e poi, una volta pieni, scendevano a sversarle in
dei tini sistemati sul carretto.
Finito il raccolto, si tornava a casa dove donne e ragazzi erano pronti alla pigiatura e dove era pronto un
grande tino sovrastato da una madia col fondo a stecche. Le donne allora riempivano i loro “cupielli” (tini
di piccole dimensioni che normalmente si trasportavano sul capo con interposto “ ‘o turcituro” – cuscinetto
fatto di stracci arrotolati a modo di ciambella – che
proteggeva le ossa del cranio e nello stesso tempo offriva un appoggio più stabile al fondo del cupiello) con i
grappoli d’uva dai tini sistemati sul carretto e li versa55
vano nella madia dove i ragazzi a piedi nudi provvedevano a schiacciarli e a farli cadere nel tino sottostante.
Finita la pigiatura si ricopriva il tino con un telo pulito
e si aspettava qualche giorno che cominciasse la fermentazione.
Quando cominciava il processo di fermentazione e la
turbolenza della anidride carbonica che si sviluppava dando alla massa l’aspetto dell’ebollizione spingeva in superficie i raspi e le bucce degli acini formando il classico
cappello, per evitare che questo si ossidasse asciugandosi
all’aria ed inacidisse, bisognava rivoltarlo nel mosto che
si andava formando per lo meno due volte al giorno. A
turbolenza finita il mosto si spillava e veniva trasferito
nei “carrati” – botti della capacità di sette ettolitri – già
predisposti nella cantina, fino alla fine della fermentazione
che avveniva in genere sul tardo autunno.
Nei tini veniva poi versata acqua e si sfruttava così il
residuo alcol dell’uva producendo, miscelato al liquido
ricavato dalla torchiatura, un vinello di pronta beva che
veniva chiamato “l’acquata” e utilizzato in attesa della
maturazione del vino base.
Restavano così da smaltire le sole vinacce. A questa
incombenza provvedevano “‘e lammicchi” piccole distillerie a carattere familiare e stagionale che producevano
un alcol non perfettamente puro, ma davano anch’esse
occasione di lavoro a parecchi operai.
‘O lammicco era costituito da una grossa caldaia in
rame ove venivano caricate le vinacce immerse in acqua,
appoggiata su una fornace, alimentata inizialmente con
legna da ardere, che permetteva di portare ad ebollizione
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la massa ed alla vaporizzazione delle materie volatili. Alla
cupola di chiusura ermetica della caldaia era collegato un
tubo in rame avvolto a spirale che attraversava una zona
di raffreddamento a pioggia con acqua fredda che produceva la condensazione del vapore che, ritornato allo stato liquido, sgocciolava nei recipienti di raccolta. Infatti,
sfruttando il principio fisico della distillazione frazionata,
essendo il punto di vaporizzazione dell’alcol, cioè la temperatura alla quale l’alcol passava dallo stato liquido a
quello di vapore, più basso del punto di vaporizzazione
dell’acqua, dopo un poco dall’avvio del processo nel tubo
a spirale, detto tecnicamente “serpentina di raffreddamento” fluiva solo vapore d’alcol e quindi il condensato che
sgocciolava dal tubo era alcol quasi puro. Quando il
distillatore si accorgeva che il tubo cominciava ad ospitare vapore acqueo fermava il processo, scaricava l’acqua
residua ed estraeva dalla caldaia la vinaccia mettendola ad
essiccare sull’aia annesso alla costruzione.
La vinaccia essiccata veniva utilizzata come combustibile per gli altri cicli di distillazione, ma prima bisognava
effettuare un’altra operazione per ricavare un altro prodotto molto apprezzato allora; infatti la vinaccia era costituita dai raspi semilegnosi cui erano stati attaccati i
chicchi, dalle bucce dei chicchi stessi e dai vinaccioli, cioè
i semi dell’uva che erano ricchi di sostanze nutritive
pregiate. I vinaccioli nella lingua napoletana si chiamano
“arilli” e le donne che con enormi stacci metallici li ricavavano dalla massa di vinaccia essiccata erano denominate “Cern’ ‘arilli”.
Il loro lavoro era puramente manuale e non richie57
deva alcuna preparazione, ma solo forza fisica e tenacia, ed era eseguito da donne di tutte le età, che però
all’epoca della distillazione riuscivano a raggranellare
qualche soldino molto comodo per il bilancio familiare.
L’appellativo di “cern’ ‘arilli” era anche utilizzato in tono
dispregiativo per indicare chi era ritenuto incapace di fare
qualcosa ove era necessario un minimo di intelligenza.
Gli “arilli” erano utilizzati per l’alimentazione delle
galline ovaiole ed io ricordo ancora il sapore delle uova
delle galline di casa mia quando erano alimentate con
questo mangime.
Anche di “lammicchi” ce ne erano parecchi, io ricordo
quello di don Aniello ‘e Cristofaro ‘ncoppo Santa Maria,
di don Felicetto Pirozzi in via Cavallotti, dei D’Onofrio
all’angolo di via Salerno e del genero don Felice Palmese
che lo aveva ‘into ‘o Palazzo, quello ‘e Barbano into ‘a via
Nova nonché quello dei fratelli Romano a Pacciano.
Con la fine della civiltà contadina anche i lammicchi
sconparvero, salvo due.
Quello di don Aniello Esposito, che già precedentemente aveva dato una impostazione industriale al suo
impianto, che era diventato una Distilleria ove l’alcol prodotto dai lammicchi era rettificato e, depurato da residui
di acqua, era portato ai 95% in volume diventando così
“alcol fino” per liquori. Don Aniello non ebbe figli, allora adottò una nipote della moglie, la signora Immacolata
Paparo che poi sposata al comm. Castaldo, dette enorme
sviluppo all’azienda e creò insieme al marito addirittura
un sidrificio per la distillazione di alcol da frutta oltre a
produrre, con estratto di anetolo che importava dalle
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Indie, un “Anice” veramente sopraffino.
L’ altro che continuò l’attività fu quello dei fratelli
Romano di Pacciano che poi i figli di uno di essi, visto
che l’altro era Sacerdote, hanno trasformato in una fabbrica di liquori di una certa fama.
Del resto una certa consuetudine a fabbricare liquori
a Pomigliano era molto diffusa tra i proprietari dei “Caffè” di una volta; io ricordo benissimo la “Crema di cacao” che don Giacomo Santostefano ricavava direttamente dalle noci di cacao che importava dalle Americhe, i
vari liquori con essenze distillate da piante officinali che
don Gennaro Esposito, denominato, forse per la sua bassa
statura, “Gennaareniello”, prima e poi suo figlio Salvatore, purtroppo prematuramente scomparso, fabbricavano
nella piccola azienda vicino alla vecchia stazione della Ferrovia Napoli-Nola-Baiano, ma soprattutto il “Pomilia”
creato dal buon don Pasquale Del Prete, col Caffè in via
Vittorio Emanuele, che gli invidiosi denigratori del tempo definirono sprezzantemente solo come “Alcolato di
ginepro” ma che invece tanto piacque ad un industriale
di Benevento che fabbricava torrone il Comm. Alberti,
che ne comprò la formula dal Del Prete e si mise a fabbricarlo in grande dandogli il nome che ancora oggi primeggia sul mercato la “Strega Alberti”.
Ho avuto la ventura di essere compagno di collegio
alla “Conocchia” di un nipote del comm. Alberti che mi
raccontava come suo nonno avesse lanciato, soprattutto
in alta Italia, il suo nuovo prodotto. Fece un ampio giro
nel nord mangiando e cenando nei più famosi ristoranti
e quando a fine pasto il cameriere gli chiedeva cosa gra59
diva come digestivo, chiedeva secco: “Uno Strega
Alberti” e si mostrava molto contrariato e stupito quando
l’attonito cameriere gli confessava di non conoscere questo liquore.
Dopo qualche mese fece ripetere il giro ad un suo venditore che ritornò a Benevento con un cospicuo bottino
di ordini.
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FESTE ‘E PRANZI ‘E NA VOTA
Voglio qui ricordare il susseguirsi, nel corso dell’an-
no, delle feste popolari che erano la gioia non solo di
noi bambini ma anche degli adulti, che erano legate agli
eventi religiosi e le tradizioni gastronomiche ad esse
collegate. Oggi, nello squallore della vita moderna, sono
cadute in disuso se non addirittura abolite.
Si dice che i Borboni avessero un trio di “F” come guida per governare il popolo del Regno delle due Sicilie:
Feste, Farina e Forca; feste cioè agevolare il popolo a ritrovarsi insieme per socializzare e trascorrere delle ore in
un sano divertimento, farina cioè assicurare ai meno abbienti un minimo di alimenti necessari per la sopravvivenza, forca cioè garantire una giustizia giusta anche se
molto severa.
Ma ritorniamo alle feste pomiglianesi che cercherò di
elencare secondo un ordine cronologico.
La prima era la festa dei bambini ‘A Befana, quella bruttissima vecchia che nella notte tra il 5 ed il 6 gennaio, a
cavallo di una scopa, volava nel cielo, discendeva nelle
case attraverso la cappa del camino e deponeva nelle calze che i bambini vi avevano attaccate qualche “pazziella”
(giocattolo), delle caramelle e, immancabilmente, dei
pezzi di carbone in quantità più o meno grande a seconda della più o meno buona condotta del destinatario,
estraendo il tutto dalla sua bisaccia.
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Questo mistero affascinava tutti i bambini della mia
generazione e, secondo me, era una cosa bellissima.
Io personalmente ne ero superaffascinato tanto che, a
sei anni, decisi che dovevo vedere la Befana per cui la sera
del 5 andai a letto nella mia camera che era vicino a quella
dei miei genitori non senza aver appeso la mia calza ai
piedi del mio letto visto che il caminetto noi l’avevamo al
piano inferiore nella sala da pranzo. Me ne stetti immobile, ma sveglio, non so per quanto tempo finchè la mia
aspettativa non andò delusa, nell’oscurità della notte sentii
aprire la porta e vidi un’ombra che si avvicinava con dei
pacchi in mano e cominciava a infilarli nella mia calza.
Allora la gioia della mia scoperta fu tale che gridai con
quanto fiato avevo in gola: “Befà t’ ‘aggio visto!”. Quel
grido nella notte per poco non fece prendere un colpo a
mia madre che, in camicia da notte, si accingeva alla bisogna e per me, purtroppo, segnò la fine del mistero e da
quell’ anno non ricevetti più i doni della Befana.
I bambini di oggi non credono più alla Befana, ma
smaliziati dal consumismo imperante e ben istruiti dalla
propaganda televisiva “ordinano” ai genitori i regali che
vogliono trovare sotto l’albero di Natale.
La seconda festa dell’anno era il 14 gennaio festa del
Santo Patrono: San Felice in Pincis, denominazione secondo me errata perché si riferisce ad un Santo cui è dedicata una Chiesa in Roma sul colle Pincio, mentre sarebbe più corretto appellarlo S. Felice da Nola o meglio
ancora San Felice Prete, visto la sua scelta di non accettare l’elezione a Vescovo per restare a curare le anime della
sua Chiesa alla periferia di Nola: Cimitile.
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Questa festa però alla sua scadenza di calendario era
limitata alla funzione religiosa con la Messa solenne celebrata nella Chiesa Madre di Pomigliano con la partecipazione di tutte le Autorità Civili, Religiose e Militari,
con all’esterno solo qualche arcata di luminaria e qualche
bancarella.
La vera festa popolare si celebrava a settembre quando
generalmente le condizioni metereologiche davano più
sicurezza per la sua buona riuscita. Durava tre giorni sabato, domenica e lunedì e consisteva principalmente nella “‘allumata” cioè nella illuminazione di tutte le strade
della Parrocchia con arcate sostenute da pali e recanti
miriadi di lampadine multicolori fissate ai disegni delle
arcate e che poi, viste in prospettiva, creavano una
fantasmagorica volta luminosa alle strade stesse. Ai lati
delle strade si allineavano poi decine di bancarelle che
offrivano di tutto, dai prodotti gastronomici al tiro a segno con fucili ad aria compressa, dai giocattoli per i bambini a qualche capo di vestiario per gli adulti. E dal tramonto, ora in cui si “appicciava l’‘allummata”, fino alla
mezzanotte una folla festosa affollava le strade della festa. Il sabato mattina poi arrivava il complesso bandistico
che era stato scritturato per le tre sere della festa e sfilava
per le strade del paese con le sue variopinte divise, la sera
poi si esibiva, dal palco eretto sul sagrato della Chiesa, in
un concerto di musica operistica e classica e solo la sera
del lunedì chiudeva il suo programma con una serie delle
più famose canzoni napoletane.
La domenica mattina era dedicata alle funzioni religiosi normali eccetto la Messa Solenne delle 10 cui inter63
venivano tutte le Autorità Civili e Militari come nel giorno del Santo Patrono, ma alle 15 la statua di San Felice,
con la testa e le mani di argento massiccio, usciva in processione, portata a spalla dai giovani fedeli che si alternavano nella fatica, e percorreva tutte le strade del paese
preceduta dalle Organizzazioni Cattoliche, dalla banda
musicale e dal Clero al completo e seguita dalla folla dei
fedeli, sostando soltanto per il cambio dei portatori o
per consentire lo sparo dei “mascoli” (piccoli mortaretti
di bronzo caricati di polvere pirica cui si dava fuoco con
una miccia accesa situata in punta a una canna di bambù)
o dei “pezzi ‘e fuoco” (incastellature in legno che sorreggevano batterie di bengali e girandole collegate in successione e che, bruciando, diffondevano una pioggia di
fuoco variamente colorata). I fuochi erano offerti, in
onore del Santo, da gruppi di fedeli delle varie zone che
la processione attraversava. Al tramonto poi, dopo aver
assistito al “pezzo ‘e fuoco” offerto dai “masti di festa”
sul sagrato della Chiesa, San Felice benedicente, di spalle, si ritirava nella sua Chiesa adornato con i nastri zeppi
delle banconote offerte dai fedeli durante la processione
e attaccate ai nastri dai masti di festa.
Il lunedì, dopo le canzoni napoletane che concludevano il concerto del complesso bandistico, uno spettacolo
di fuochi pirotecnici chiudeva il ciclo dei festeggiamenti.
Subito dopo San Felice, il 17 gennaio ricorreva la festa di Sant’Antonio Abate, chiamato comunemente nel
napoletano Sant’Antuono per distinguerlo dall’altro
Santo Antonio da Padova che si venera nel Santuario di
Afragola.
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Questo Santo Eremita è ritenuto protettore degli animali e invocato per la protezione dal fuoco.
Nel pieno della nostra economia agricola io, bambino,
ricordo che i nostri contadini, al ritorno dai campi la sera,
portavano le loro vacche, i cavalli, i muli, gli asini e qualcuno anche il maiale ed i più piccoli anche i cagnolini e i
gatti di casa sul sagrato della Chiesa di San Felice dove
poi il Reverendissimo Canonico Siciliano impartiva con
l’aspersorio dell’Acqua Santa la Benedizione agli animali. Ma poi passammo alla evoluzione industriale, l’economia agricola finì, e questa tradizione fu abolita per... mancanza di animali da benedire.
Dopo la benedizione poi si accendevano i “fucaroni”
all’angolo di parecchie strade.
Questi fucaroni erano costituiti da fascine o altro legname secco da ardere che alcuni volenterosi raccoglievano durante il giorno fra gli abitanti della zona e provvedevano ad ammassare fino a costituire una pira cui poi
la sera si dava fuoco e tutti assistevano allo spettacolo
cantando e suonando ed i bambini lanciando nelle fiamme i “tricche-tracchi” che con il loro scoppiettio tanto li
divertivano. Quando tutta la pira era ridotta ad un cumulo di brace ardente si procedeva a distribuire la brace
tra gli intervenuti versandola con una pala nelle “vrasere”
che ognuno aveva portato e che, religiosamente, ognuno
si riportava in casa quasi fosse un fuoco benedetto.
La “vrasera” era un recipiente a forma di un grande
bacile in banda stagnata o, per i più abbienti, in rame, che
costituiva il sistema di riscaldamento invernale del tempo; ogni sera ogni brava massaia la riempiva di carbonella,
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(la più pregiata era quella costituita dalla scorze di nocelle
avellane carbonizzate), vi accendeva sopra un foglio di
carta e qualche pezzetto di legno da ardere, la copriva col
“diavolillo” e la metteva fuori dell’uscio per avviare una
rapida combustione, quando la brace era ben avviata la
riportava in casa e la metteva nel piede di sostegno che
poteva essere costituito da cerchi concentrici in ferro o
anche da una zoccolatura di legno con il buco al centro
per sostenere la vrasera e tutti, seduti intorno, godevano
del tepore che la brace diffondeva. Il “diavolillo” era poi
un apparecchio per avviare la combustione della carbonella. Era costituito da un tronco di cono rovesciato e
bucherellato che era saldato ad un tubo alto circa un
metro. Quando lo si appoggiava sulla carbonella su cui si
era accesa la carta ed i pezzetti di legno, l’aria nel tubo si
riscaldava e fuoriuscendo dal tubo stesso tirava aria esterna dalla base bucherellata producendo così una corrente
d’aria che, lambendo la carbonella appena accesa in qualche punto, ne ravvivava la combustione. Questo sistema
di riscaldamento era diffusissimo ma molto pericoloso
perché, in mancanza di un sufficiente ricambio d’aria nell’ambiente, saturandolo con l’ossido di carbonio che si
sviluppava dalla combustione, poteva avere effetti anche
letali.
Ma il 17 gennaio era anche il giorno d’inizio del tempo
di Carnevale, epoca che normalmente coincideva col periodo più freddo dell’anno e che, per tradizione, era ritenuto il migliore per la mattazione del maiale che, con
tanta diligenza, si era portato all’ingrasso nell’anno precedente.
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Era perciò il tempo in cui ogni famiglia provvedeva ad
approvvigionare la sua dispensa delle “pezze di lardo”,
della “nzogna”, del prosciutto, del “vucculare”, delle
“sopressate” e delle catene di “sacicce” affumicate, e delle orecchie, dei piedi e del “mascariello” salati che andavano ad arricchire “‘o mperticato” (asta di legno fissata
al soffitto dello scantinato con due staffe di ferro e cui si
appendevano, per una buona conservazione, le delizie
nominate in precedenza, eccetto la “nzogna” che veniva
conservata in vasi di terracotta vetrificati chiamati
“vasetti”).
Naturalmente era il tempo di una grande disponibilità
di carne fresca di maiale che non era stata utilizzata nella
confezione dei prodotti da conservare e perciò, con l’uso
e l’abuso di “zuppe ‘e zuffritto”, “custatelle fritte co’ ‘e
pupacelle sott’ ‘a cita”, “sacicce fritte co’ ‘e vruoccole ‘e
rape”, “ragù co’ ‘a gallenella ‘e puorco”, segnavano un
periodo gastronomicamente godereccio che culminava
col pranzo del martedì grasso che chiudeva il periodo
carnevalesco. Questo pranzo, che veniva consumato generalmente di sera, era costituito, inesorabilmente, dalla
lasagna alla napoletana seguita, come secondo piatto, da
‘e purpette al ragù il cui sugo era servito ad irrorare la
lasagna. Le brave massaie cominciavano, a “primma
matina” a preparare “‘e purpette” con un macinato di
carne di maiale, ben mischiato “cu ‘e passi e pignuoli”, e
arrotolate a formare delle sfere di circa dieci centimetri
di diametro, e molte altre più piccole della dimensione di
un oliva, il tutto veniva soffritto con poco olio in un capace “tiano ‘e creta”, quando il tutto aveva formato sulla
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superficie una bella crosticina ed il grasso nel tegame era
aumentato, per la liquefazione dei grassi contenuti nella
carne, si estraevano le polpettine che servivano per l’imbottitura della lasagna. Si versava nel tegame un passato
di pomodori fino a coprire abbondantemente le sfere di
carne, si salava, si copriva il tegame e lo si metteva su un
fuoco lento a “pippiciare”, cioè a sobbollire a lungo fin
quando il sugo era abbastanza ristretto e la carne cotta.
Nel frattempo si preparavano gli altri ingredienti occorrenti per la preparazione della lasagna. In una zuppiera di creta si montava una ricotta di Roma o meglio ancora di Montella, in un’altra si sbattevano delle uova come
per fare una frittata, si grattuggiava un certa quantità di
formaggio stagionato ed infine, essendo ormai il ragù
pronto, si sbollentavano le lasagne e le si allineavano su
un canovaccio steso su un tavolo.
Si procedeva poi alla confezione vera e propria.
Si foderava un “ruoto di rame stagnato”, unto con un
mestolo di ragù, con le strisce di lasagne sbollentate avendo cura che esse debordassero almeno di un dieci centimetri, si distribuiva sul fondo uno strato di ricotta, lo si
irrorava con qualche mestolo di ragù, vi si spargeva sopra
qualche cucchiaiata di uova sbattute e un pizzico di formaggio grattuggiato e vi si distribuivano sopra delle
polpettine, si chiudeva con altre strisce di lasagne tagliate secondo la misura interna del ruoto, ma allineate in
direzione ortogonale a quello dello strato precedente, e
si ricominciava daccapo con la sequenza come prima,
formando vari strati, fino ad esaurimento degli ingredienti, si chiudeva il tutto col rivoltare nel ruoto le strisce
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debordanti, vi si spargeva sopra uno strato del residuo
ragù e una spolverata di formaggio e lo si metteva in forno a gratinare, la lasagna dopo una mezz’ora era pronta.
La si lasciava riposare qualche oretta perché intiepidisse
e la si serviva poi a tavola tagliata a fette triangolari. Seguivano poi, per secondo piatto, le polpette con contorno di scarole o broccoli all’insalata e si concludeva il pasto con qualche cucchiaio di “sanguinaccio” (crema di
sangue di maiale e cioccolata, prodotto oggi scomparso
perché la sua confezione oggi è vietata dalla legge) accompagnato da qualche “chiacchiera” o da una fetta di
“migliaccio” (torta costituita da un impasto di semolino
di grano tenero, latte bollito con la scorza di un limone e
stecca di vainiglia e zucchero, cui poi si incorporavano,
impastando, uova freschissime, si versava in un “ruoto di
rame stagnato” lo si cuoceva in forno e, una volta raffreddato, lo si cospargeva di zucchero a velo).
Finiva così il periodo godereccio e l’indomani la Chiesa chiamava col suo “Memento homo quae pulvis est et
in pulvere reverteris!” alla penitenza ed alla preghiera in
preparazione della Pasqua di Resurrezione.
Cominciava la Quaresima con le sue giornate di astinenza e digiuno. Il primo giorno, Mercoledì delle Ceneri, era di rigore un solo pasto con lo “scagnuozzo e ‘e
vruoccoli di rape fritti”, usanza molto salutare dopo
l’abbuffate del carnevale.
Lo “scagnuozzo” era costituito da farina di granturco,
messa in una zuppiera di terracotta, su cui si versava di
colpo acqua bollente e si aspettava che questa venisse ben
assorbita dalla farina, poi la massaia la impastava un poco
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con le mani e ne faceva un disco a modo di focaccia e lo
metteva a friggere, con olio di oliva, in una padella di ferro fin quando il fondo si compattava con una crosta dorata, la bravura consisteva nel rivoltarlo, senza farlo sgretolare, e cuocerlo sull’altra faccia. Le brave massaie ci riuscivano con un colpo di polso facendo volare in alto il
disco e facendolo poi ricadere capovolto nella stessa padella per completarne la cottura. Cotto lo “scagnuozzo”
si versavano nella padella i broccoli, alle volte appena
sbollentati in una pentola di acqua bollente e salata, e alle
volte a crudo e ben lavati, si aggiungeva qualche spicchio
di aglio e qualche “spadella” (peperoncino piccante) spezzettata si copriva con un coperchio e li si portava a cottura, poi li si serviva come companatico ad una fetta di
scagnuozzo.
I broccoli di rape sono un ortaggio prettamente meridionale e sono di due qualità di cui la più nota, ed oggi
unica superstite, è il “friariello”, nome che gli deriva proprio dal modo di cucinarlo a Napoli e che qualcuno ha
voluto italianizzarlo in un ridicolo “friggiarello”. L’altra
invece era il broccolo di “rape ‘e catozza”, verdura che si
coltivava in pieno inverno e che serviva come foraggio
fresco per l’alimentazione delle vacche da latte nei mesi
freddi. A differenza del “friariello” al posto della radice a
fittone, sviluppava come radice un tubero bianco, rotondo, schiacciato, edule, chiamato “catozza”, che aveva
spiccate proprietà rinfrescante e diuretiche per l’apparato intestinale non solo degli animali, ma anche degli uomini; i contadini le “rape ‘e catozza” le coltivavano per
l’alimentazione delle loro vacche e quando erano ben
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accestite e sviluppate con molte foglie, le estirpavano con
tutta la radice e le portavano a casa per alimentare gli ospiti
della loro stalla, ma le brave massaie, prima di darle in
pasto alle bestie, ne staccavano i germogli teneri che portavano l’infiorescenza e vendevano queste prelibatezze
ricavandone qualche lira per piccole spese personali.
Questi erano “e vruoccoli ‘e rape ‘e catozza” che erano
conosciuti solo nei paesi agricoli e completamente ignorati nelle città. Io ricordo con nostalgia il sapore un poco
amarognolo ma gustoso di quelli che, durante l’inverno,
mi forniva “Filumena”, una mia vicina di casa, insieme a
qualche “catozza” più tenera e che utilizzavo con tutta la
famiglia come cena caldi, appena bolliti, con olio e limone o, a pranzo, all’insalata insieme a fagioli cannellini cotti
nel “pignatiello” o anche “sfritti” in padella con i vermicelli lessati.
Nel mercoledì delle Ceneri c’era anche l’uso di appendere all’incrocio di alcune strade un pupazzo di stracci,
rigorosamente neri, raffigurante la Quaresima con sotto
applicata una patata con infisse cinque penne di gallina a
segnare le cinque settimane che separavano dalla Domenica delle Palme ed ogni successiva domenica se ne asportava una.
Inoltre nella mattinata delle Domeniche di Quaresima si sentivano per strada dei canti che si concludevano
con l’invocazione: “A Maronna ‘e l’Arco!”, erano i
questuanti dei Comitati dei “Vattienti” che, portando in
giro il labaro con la Sacra Effige, raccoglievano offerte
che poi, il lunedì in albis, avrebbero versato ai Padri
Domenicani del Santuario di Santa Anastasia; oggi i Co71
mitati sono un poco diminuiti di numero, ma la tradizione continua.
Un’altra usanza che è scomparsa, e non ne so dire il
perché, era che il Parroco, in cotta e stola, di pomeriggio
girava per tutte le case della Parrocchia per impartire la
Benedizione Pasquale. Egli era accompagnato da due
chierichetti, uno col secchiello dell’Acqua Santa e l’altro
con un capace paniere in vimini atto ad accogliere la
“nferta” che i fedeli offrivano, nelle due ultime settimane di Quaresima.
Poi la Domenica delle Palme, col suo lungo Vangelo
sulla Passione di Gesù, letto non solo dall’Officiante, ma a
più voci, iniziava la Settimana Santa con i suoi Riti, che
ancor oggi si ripetono, ma che, erroneamente, si concludevano con lo “sciogliere la Gloria” al mezzogiorno del
Sabato Santo per cui al pranzo si consumavano le uova
sode, che alcuni coloravano facendole bollire unitamente
a verdure o fiori, la “fellata ‘e sopressata” e il “casatiello” –
ciambella di pasta di pane impastata con lo strutto e arricchita di pezzi di salame, di formaggio e di “cigoli ‘e nzogna”,
decorata con uova che poi diventavano sode, fermate sulla
faccia superiore con strisce di pasta incrociate, e poi cotta
in forno – E si gustava anche la “pizza chiena” – timballo
di pasta frolla imbottito con una crema di ricotta lavorata
con torli d’uova ed arricchita can pezzi di salame, di mozzarella e fette di uova sode e aromatizzata, alle volte anche
abbondantemente, con pepe nero macinato.
Opportunamente è stato ripristinato alla Messa di
mezzanotte il momento della Resurrezione di Nostro
Signore.
72
Per le massaie però nella Settimana Santa, oltre a seguire i Riti religiosi, c’era l’incombenza della preparazione dei “taralli” e delle “pastiere” che non dovevano mancare sul desco Pasquale.
I “taralli” erano ciambelle di pasta frolla aromatizzata
con vainiglia che si allineavano in enormi teglie unte di
sugna e che si facevano biscottare in un forno a legna; si
consumavano, inzuppati nel latte, per la colazione del
mattino o come dessert di fine pasto e anche come spuntino pomeridiano, inzuppati in un buon bicchiere di vino
o, meglio ancora, in un bicchierino di “Marsala Florio”;
preferibilmente nella versione “Marsala all’uovo”.
La “pastiera” è quella elaboratissima torta di pasta frolla, grano perlato cotto nel latte, ricotta stacciata e uova,
arricchita con pezzetti di cedro candito e aromatizzata
con “acqua di fiori” che ancor oggi compare nel pranzo
Pasquale, anche se non più preparata in casa dalle brave
massaie, ma comprata in pasticceria.
Comunque la preparazione del pranzo Pasquale cominciava la sera del sabato perché bisognava mettere a
dissalare in acqua tiepida i pezzi di maiale salati e appesi a
‘o mperticato e a “conciare” tutti i tipi di verdure, ingredienti occorrenti per la preparazione della “menesta maritata” che costituiva il piatto base del pranzo Pasquale.
La mattina di Pasqua, dopo essere stata alla prima
Messa, la brava massaia metteva in un pentolone a bollire
un orecchio di maiale dissalato, “‘o mascariello”, una fetta di “vucculare”, un piede di maiale dissalato e vi aggiungeva due o tre “nnoglie” (insaccato preparato con lo stomaco del maiale e aromatizzato “cu ‘e funucchielli” cioè
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semi di finocchio selvatico), tre o quattro “sacicci ‘e
purmone” (altro insaccato preparato con parti di scarto
del maiale tritate col coltello e ampiamente impastato con
polvere di peperoncino piccante) e un bel pezzo di
“pettola ‘e spalla” (coperta di spalla) di manzo, ultimi tre
ingredienti comprati dal “chianchiere” (macellaio), e li
lasciava cuocere a fuoco lento per ricavarne un fin troppo sapido brodo; nel frattempo in altre pentole
sbollentava, a secondo del tempo di cottura necessario,
le cicorie e le scarolelle, i ciuffetti azzurrini di “a menesta
‘e foglie”, la borraggine, ‘e torzaricce e le foglie ricavate
da un cavolo verza.
A cottura ultimata, si estraeva dal brodo la carne e gli
insaccati, la si disossava e la si tagliava a pezzettini e a
rondelle e si teneva il tutto in caldo, mentre nel pentolone
si versavano a strati alternati le varie verdure avendo cura
di ben mischiarle tra loro e le si lasciavano ben insaporire
nel brodo.
Al momento di mettersi a tavola, nelle famiglie timorate
di Dio, si usava che il capo famiglia benedicesse il desco
familiare col la boccettina di Acqua Santa che, dopo la
Messa, si era fatta dare dal Parroco, poi si distribuivano ai
piccoli della famiglia le uova di cioccolata che, oltre al vistoso variopinto incartaggio, contenevano al loro interno
la “sorpresa” – piccoli giocattoli o, per le bambine, piccoli
monili di latta – che tanto le facevano felici. Ci si sedeva
poi a tavola e si consumavano, per antipasto, le uova e le
fette di salame superate del pranzo del giorno precedente,
poi le donne di casa servivano i piatti in cui si era distribuito, ben assortiti, i pezzetti di carne ricoperti da abbon74
danti forchettate di verdura ed irrorate con qualche mestolo di brodo; seguiva poi il tradizionale agnello pasquale
cotto al forno con patate e piselli o arrostito sulla brace
con contorno di patate fritte e broccoli di rapa, si concludeva il pranzo con la tradizionale fetta di “pastiera”.
Il Lunedì in Albis era poi dedicato alla festa della Madonna dell’Arco, il cui Santuario sorge in una frazione
del vicino Comune di Sant’Anastasia.
La tradizione vuole che in tempi molto remoti in quel
posto esisteva un’Edicola ad arco sotto il quale era collocato un quadro raffigurante la Madonna col Bambino
Gesù in braccio; il Lunedì in Albis, vicino all’Edicola,
giocavano a bocce un gruppo di amici tra cui uno
soprannominato “Cazzola” e questo, preso dall’ira per
aver perduto la partita, bestemmiando, scagliò una boccia contro il quadro colpendo lo zigomo destro della Sacra Effige producendovi l’ecchimosi che ancor oggi si
nota, ma mal gliene incolse perché immediatamente gli
si rinsecchirono e gli si staccarono i piedi. Cazzola allora, per spostarsi, fu costretto a trascinarsi, seduto in un
“carruocelo” di legno, facendo forza con le palme delle
mani per terra, perciò il detto popolare “Cazzola int’ ‘a
carriola”. La voce di questo miracolo rapidamente si sparse e l’Edicola con la Sacra Immagine divenne presto meta
di pellegrinaggi e di devozione di fedeli tanto che attorno ad essa si è costruito un Santuario, affidato oggi alle
cure dei Padri Domenicani, e splende in un tronetto di
pregiatissimi marmi al centro della crociera della bellissima chiesa che è meta, in tutto l’anno, ma soprattutto nella
settimana in albis, di devoti che richiedono grazie come
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è documentato dalle centinaia di tavolette ex voto che
ricoprono tutte le pareti del Tempio ove, in una teca, sono
in mostra anche i piedi rinsecchiti di Cazzola.
Questi devoti sono organizzati nei comitati di cui ho
parlato in precedenza e che sono diffusi non solo nell’immediato circondario del Santuario, ma anche in paesi
molto lontani da esso e la tradizione vuole che il Lunedì
in Albis effettuano un pellegrinaggio al Santuario, rigorosamente a piedi e scalzi, una volta , ma oggi calzando
scarpette di gomma, senza mai fermarsi nel movimento
dei piedi per cui sono indicati come “vattienti” o in altre
zone come “fuienti”.
La mattina del Lunedì in Albis, già dall’alba, echeggiano in tutti i paesi l’eco degli spari di mortaretti che chiamano a raccolta i “vattienti” per la Messa nella propria
Parrocchia e poi comincia il pellegrinaggio, a piccolo
passo di corsa, verso il Santuario.
In fila indiana, tutti vestiti di bianco, con una fascia
colorata, stretta in vita o a tracolla, del colore del Comitato con in mano una candela cui è legato un fiore, con in
testa alla fila il labaro del Comitato sfilano per le strade
cittadine e poi per la provinciale fino alla porta del Santuario e qui si inginocchiano e, camminando sulle ginocchia, raggiungono il Tronetto ove depositano le loro candele ed il Capo del Comitato la somma raccolta nelle
questue domenicali. Spesso, purtroppo, quest’ultima fase
della cerimonia è turbata da scene di isterismo.
Poi la giornata si conclude con un buon pranzo nei
tanti ristoranti della zona e col ritorno a casa dei vattienti,
estremamente sfiniti.
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Il lunedì seguente la terza Domenica di Pasqua era
consacrata al culto di Santa Maria di Castello, Sacra Effige
collocata in un piccolo Tempio su un pianoro alle falde
del Monte Somma, nel Comune di Somma Vesuviana,
cui si accede da una strada che si diparte dalla strada provinciale proprio all’angolo del Castello una volta appartenuto al Feudatario della zona, perciò forse il titolo di
Madonna di Castello dato alla Madonna.
Ci si recava in pellegrinaggio in comitiva a bordo dei
“brecchi ‘e Biasiello ‘e Pellicchiella” (tipo di diligenza trainata da due cavalli con i posti per i passeggeri sistemati su
panche, collocate di lungo sui lati, cui si accedeva per una
scaletta sita sul lato posteriore). Dopo la Messa si consumava una ben ricca colazione al sacco trascorrendo così la
giornata in una piacevole scampagnata. Ma la caratteristica di questa festa era che per “Castiello” da tutti i Comuni
limitrofi si organizzavano carri allegorici con a bordo orchestre e cantanti che si sfidavano in gare canore anche
con canzoni scritte proprio per l’occasione.
Da Pomigliano si organizzavano più carri, ma il migliore e più famoso sempre, era “‘o carro ‘e Ciccillo
Matrisciano”, simpaticissimo “scambista” alla Stazione
di Pomigliano della Ferrovia Napoli-Nola-Baiano, e che
in quel giorno si esibiva sul suo carro come “cantante
macchiettista” armato della sua logora Bombetta all’inglese e accompagnato dalla sua orchestra di “tammorra”,
“buchitibù”, “triccaballacco” e “scetavaiasse”, strumenti
classici della musica popolare napoletana insieme al
mandolino e alla chitarra. La “tammorra” è quel tamburello rivestito di pelle su una sola faccia e porta, incise
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nell’ossatura, delle feritoie in cui sono collocati dei
dischetti metallici che, oscillando alla percussione della
faccia in pelle, danno insieme al rumore classico del tamburo, anche un tintinnio argentino (la si usa ancora, insieme alle nacchere, nella tarantella sorrentina); il
“buchitibù” è costituito da una pentola di coccio chiusa
da una pelle ben tesa che porta inserito al centro un bastoncino di nocciolo ben levigato. Lo si suona sfregando
con la mano il bastoncino e le vibrazioni della pelle tesa,
amplificate dall’aria chiusa nella pentola che funziona da
cassa armonica, emette un suono simile ad un serie di
“pernacchia”. Il “triccaballacco” è costituito da tre martelletti di legno incernierati alla base dei manici a quello
centrale fisso fra due guide in legno, lo si suona facendo
oscillare fra le guide i due laterali fino a percuotere quello centrale per cui emette un suono molto simile alle nacchere; infine lo “scetavaiasse” (sveglia vaiasse, con questo
termine vengono indicate le popolane abitanti nei “vasci”,
vani a piano terra adibiti ad abitazione popolari) costituito da due aste a sezione triangolare di cui una la si impugna , col vertice in alto, appoggiandola alla spalla a mò di
violino mentre l’altra, col vertice dentellato rivolto in basso, e che porta sopra, fissati con dei chiodi, una serie di
piattini di banda stagnata oscillanti, la si usa come l’archetto
del violino per cui emette, saltellando sull’altra asta, una
serie di suoni metallici. I carri poi all’imbrunire, dopo la
gara canora a “Castiello”, con cantanti e suonatori un poco
alticci per le libagioni, ritornavano in paese esibendosi col
loro repertorio nelle varie piazze tra la folla di cittadini che
divertiti li applaudivano.
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A chiudere il periodo Pasquale veniva poi la Pentecoste, detta nel napoletano “Pasqua rusata”, perché era
tradizione che la sera del sabato che la precedeva le
mamme mettessero a macerare in una catinella d’acqua
i petali delle prime rose e la mattina i figli con quell’acqua si lavavano tutti felici mani e viso.
A distanza di dieci giorni, il giovedì, la Chiesa celebrava la festività del Corpus Domini, denominata popolarmente come “Festa degli Altari” per il modo tradizionale con cui era celebrata. In quel giorno, la mattina in ogni
Parrocchia si celebravano le Messe in modo solenne, ma
il pomeriggio aveva luogo la grande Processione con il
Clero e le organizzazioni parrocchiali di tutte le Parrocchie e con la partecipazione di tutte le Autorità del luogo
e percorreva tutte le strade della città. In ogni Parrocchia
veniva allestito un Altare su una piattaforma di legno
soprelevata sul livello stradale; detto Altare era adornato
da candelabri e fasci di fiori e circondato da tappeti di
petali variopinti. Dalla Chiesa di San Felice usciva in processione il Santissimo Sacramento esposto nell’Ostensorio sorretto dal Parroco che indossava il Piviale e procedeva sotto il “Pallio” (Baldacchino di broccato tenuto
teso da sei aste verticali portate spesso dalle massime
Autorità Civili) e, percorrendo le strade della Parrocchia,
raggiungeva l’Altare predisposto dalla Chiesa del
Carmine, qui si fermava e impartiva la Benedizione Solenne con l’Ostensorio. Poi la processione ripartiva con
l’Ostensorio sorretto dal Priore del Convento del
Carmine fino all’Altare allestito dalla Chiesa di Santa
Maria delle Grazie ove si ripeteva la funzione della Bene79
dizione e così di seguito, passando per l’Altare della Parrocchia di San Francesco, fino all’Altare che la Parrocchia di San Felice usava allestire in via Umberto, a ridosso
del muraglione di contenimento di villa Caprioli, e qui il
Santissimo ritornava nelle mani del Parroco di San Felice
che lo riportava in Chiesa. Lungo tutto il percorso della
Processione il passaggio del Santissimo Sacramento era
salutato con spari di mortaretti e “pezzi ‘e fuoco”.
Poi il Governo di centro-sinistra, si dice per aumentare la produttività delle industrie, soppresse alcune festività infrasettimanali, fra cui il Corpus Domini, spostandone la celebrazione alla domenica successiva.
Ma le decine di giornate di scioperi, troppo spesso insulsi, non incidono forse di più sulla produttività?
Le Amministrazioni Comunali poi, dicono per ragioni di traffico, hanno ridotto drasticamente a poche strade, per lo più periferiche, il percorso delle Processioni,
per cui oggi, nel giorno del Corpus Domini, in “processione” per le strade cittadine vanno solo le macchine con
la loro letale nube di smog e di altre emissioni nocive.
Dopo queste feste della tarda primavera veniva il mese
di luglio con le sue due feste importanti, il 2 luglio era
Santa Maria delle Grazie ed il 16 era la festa della Madonna del Carmelo, cui sono dedicate due Chiese di
Pomigliano, e, data la buona stagione, nella domenica più
prossima alle due date si svolgeva la festa di piazza secondo il rituale già ampiamente descritto per la festa
settembrina di San Felice con la sola variante che per la
festa del Carmine la chiusura con i fuochi di artificio non
era eseguita da una sola ditta, ma era tradizione che si
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effettuava una gara tra più fabbriche di fuochi pirotecnici
e una commissione di esperti, istallata sul terrazzo del
palazzo Comunale, premiava con una coppa la migliore
esecuzione.
Ad agosto poi ricorreva la festività dell’Assunta ed era
prescritto dalla Chiesa il giorno prima, per prepararsi
spiritualmente all’evento, una giornata di penitenza con
l’osservanza di uno stretto digiuno per cui era tradizione
pranzare mangiando solo pane e una bella fetta d’anguria. Oggi invece tutto questo è abolito ed il consumismo
imperante lo ha sostituito con le ferie del Ferragosto.
A settembre poi oltre alla festa di San Felice, era tradizione assistere, specie la domenica mattina, al passaggio
per la via Nazionale delle Puglie, dei pellegrinaggi al Santuario di Montevergine, sito vicino ad Avellino sul monte Partenio, delle famose “maeste ‘ncannaccate” (popolane rigorosamente vestite con abiti uguali e di colori
smaglianti,e adornate con nastri dello stesso colore dell’abito annodati fra i capelli) che a bordo delle lunghe
torpedo ad otto posti decappottabili e armate di “tammorre” attraversavano i centri abitati cantando a squarciagola le canzoni dedicate a “Mamma Schiavona” come
viene appellata la Madonna di Montevergine.
Naturalmente i pranzi di queste feste erano quelli della cucina classica napoletana: maccheroni al ragù o al forno, arrosto di “annecchia” alla brace, “pullastiello alla
cacciatore” e conclusi sempre da frutta secca e altre
“sciociole” innaffiate da un buon bicchiere di vino.
A ottobre poi in prossimità del giorno 4, festa del
Poverello di Assisi che si venerava nella piccola Cappella
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di via Roma che ora non c’è più e si è trasferita nella
nuova Chiesa Parrocchiale che io mi onoro di aver progettato, si svolgeva la festa di San Francesco che differiva dalle altre solo per la durata. Infatti si concludeva di
martedì col “concertino” che si teneva sul palco eretto
nella piazza “vicin’ ‘o passo” e consisteva in uno spettacolo in cui si esibivano i migliori artisti
dell’avanspettacolo napoletano; io bambino ricordo le
macchiette di Nino Taranto con la sua paglietta a tre
pizzi, e le mimiche di Totò, con la sua classica
“sciammeria”, bombetta e “cazone ‘a zompafuosso”,
soprattutto quella del burattino Pinocchio che poi ripete nel film “Totò a colori”.
Si arrivava così al Natale !
Si cominciava verso metà dicembre in quasi tutte le
case a preparare il Presepe, che poteva essere più o meno
grande a seconda della più o meno disponibilità di spazio
nell’abitazione e della quantità di “pastori” posseduti ed
era una grande gioia dei bambini nel collaborare alla costruzione della stalla, delle casette di cartone, delle montagne fatte con pezzi di sughero incollati tra loro e cosparsi poi con della farina a simulare la neve e a collocarvi
poi sopra i pastori di creta tra i quali non poteva mancare
nella grotta, dietro la mangiatoia, il bue e l’asinello e davanti San Giuseppe e la Madonna, il Bambinello per tradizione veniva aggiunto dopo la cena della vigilia dal più
piccolo dei componenti della famiglia, un gregge di pecore col loro pastore, l’Angelo con la tromba e altre figure di contadini accorsi alla chiamata dell’Angelo.
Questa tradizione risale indietro nei secoli al primo
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Presepe costruito nel Convento di Greggio nel 1220 da
San Francesco d’Assisi e si diffuse moltissimo anche tra
le famiglie facoltose che si fecero costruire fastosi presepi nelle loro dimore interessando i migliori Architetti del
tempo. A Napoli poi fu un fiorire di presepi principeschi
che addirittura il Re si degnava di andare a visitare. E ancora oggi in via San Gregorio Armeno intere famiglie lavorano tutto l’anno per fabbricare quelle piccole sculture in argilla che sono conosciute in tutto il mondo cattolico col nome di “pastori”.
Dal punto di vista gastronomico le festività natalizie
si dividevano in due tipi di pranzi; la sera della Vigilia
doveva essere di stretta osservanza di magro con gli spaghetti a vongole o conditi da una salsa fatta con “e cape e
‘e core do capitone” seguito poi dal re della festa il “capitone” cucinato fritto, arrostito alla brace o in cassuola
con una generosa dose di succo di limone, dal tradizionale pezzo di baccalà fritto e per contorno una “‘nzalata
‘e rinforzo”, formata da fiocchi di cavolfiore bollito,
“pupacelle sott’ ‘a cita”, foglie di “scarola ‘ncappucciata”,
alici salate, ulive verdi in salamoia, il tutto irrorato da un
filo di olio d’oliva e si finiva con la frutta: fichi secchi del
Cilento, nocelle avellane e qualche dattero della Tunisia.
Il giorno di Natale invece era caratterizzato dalla classica minestra di cicoria e scarolelle in brodo di cappone
arricchito da una stracciatella di uova e formaggio e per
seconda portata dal cappone che era servito per il brodo,
ricotto sezionato a pezzi in un tegame con un poco di
sugna per ottenerne una buona glassatura, servito con
contorno di “‘nzalata ‘e rinforzo” e si concludeva con
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una porzione di “struffoli” (palline di pasta bignè fritte
in olio di oliva, miscelate in miele d’api fuso a caldo con
pezzi di cedro candito e sistemate su un piatto a forma di
ciambella e decorati con una miriade variopinta di
confettini “diavolilli” e qualche “confetto alla vainiglia”).
Per Santo Stefano si tornava alla normalità del pranzo
domenicale solo arricchito qualche volta da un “ruoto di
capretto al forno”.
Per il cenone di San Silvestro, ignorando completamente all’epoca zamponi o cotechini e lenticchie, si ripeteva il trionfo di vongole e capitone come la vigilia di
Natale, solo che allo scoccare della mezzanotte con il
botto dei tappi di spumante scoppiava anche la guerra
dei botti pirotecnici che durava parecchi minuti provocando troppo spesso feriti e mutilati, usanza che purtroppo permane anche ai nostri giorni, mentre fortunatamente è scomparsa l’altra incivile usanza di buttare dai
balconi in istrada piatti e bottiglie rotte ed altri oggetti di
cui ci si voleva sbarazzare.
Si concludeva così l’anno vecchio e si apriva il nuovo
con la speranza, troppo spesso delusa, che fosse un po’
migliore del precedente.
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‘A PARMENTATA
Questa parola credo che pochi giovani la conoscano, ma tra i vecchi contadini di Pomigliano molti se la
ricordano.
Era una simpatica usanza per festeggiare la fine della
costruzione del rustico di un nuovo fabbricato ed io, fosse
anche per deformazione professionale, ho voluto ricordarla alla fine come conclusione di questo mio lavoro.
E’ necessario però a questo punto fare una premessa;
chi intendeva realizzare un nuovo fabbricato per le necessità della sua famiglia si rivolgeva non ad un’impresa
edile come si fa oggi appaltando l’intera costruzione dello stabile, ma ci si rivolgeva ad un capomastro muratore
e si collaborava anche con i membri della propria famiglia alla realizzazione delle strutture portanti, muri perimetrali, solai intermedi e copertura del fabbricato che
poteva essere o a lastrico a cielo, come si chiamava il solaio piano di copertura, o a suppenno con coppi di argilla
o con le tegole alla “marsigliese”, dopo di che la costruzione veniva sospesa. Si provvedeva successivamente a
fare le tramezzature, gli intonaci, gli infissi, i pavimenti e
rivestimenti, gli impianti igienici ed elettrici ed infine alle
attintature. Questa seconda fase della costruzione non
era eseguita dallo stesso capomastro che aveva realizzato
il rustico, ma da operai vari specializzati nelle singole categorie di lavori: tramezzisti, stuccatori, pavimentisti,
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falegnami, idraulici, elettricisti ed infine imbianchini.
Questa procedura permetteva al proprietario, che certo non nuotava nell’oro, di costruirsi la casa “a rate” cadenzando le spese a seconda dell’andamento dei raccolti
e dei guadagni realizzati nelle varie annate agrarie. Ed era
una sana economia.
Il pagamento a rate mensili, ma soprattutto il firmare
una cambiale, era considerato allora un atto enormemente
disonorevole.
Ma ritorniamo alla parmentata.
Il giorno in cui si completava la copertura del fabbricato gli operai che avevano realizzato il rustico innalzavano su di esso la Bandiera Tricolore ed il proprietario
offriva, a tutti quelli che avevano partecipato alla costruzione, un pranzo che si chiamava “parmentata” preparato dalle donne della famiglia e che consisteva nelle “pettole
lardiate” servite in enormi piattoni a bordo leggermente
rialzati che venivano chiamate “spase”, a una tavolata,
costruita dai carpentieri del cantiere, con le “tavole di
ponte” usate per i ponteggi e sostenuta da cavalletti fatte
di “mascelle e mezzanelle” e sulla quale la padrona di casa
aveva steso i candidi “mesali” di tela del suo corredo.
Intorno alla tavolata pigliavano posto tutti i membri
della famiglia insieme agli operai e tecnici che avevano
partecipato alla costruzione. Io stesso ricordo, con nostalgia, a quante parmentate ho partecipato.
Le pettole erano fatte con un impasto di farina “asciugata” (cioè farina integrale così come usciva dalle macine del mulino, passata allo staccio per togliere la sola crusca e parte del cruschello) e acqua, senza uova, e steso
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col “lavanaturo” (matterello) sulla spianatoia e poi tagliata a strisce larghe un due centimetri e lunghe un quindici, lessate e condite con una salsa ottenuta con lardo
“allacciato” insieme al basilico, “sfritto” per qualche minuto in un tegame di coccio e allungato da un buon sugo
di pomodori e cotta pochissimo, cosparsi da una buona
manciata di “caso ‘e Roma” cioè pecorino laziale dal caratteristico aroma. Il tutto abbondantemente innaffiato
con “l’acquata” altro prodotto che è scomparso dalle
nostre mense e di cui ho già parlato precedentemente.
Il banchetto si concludeva con della frutta fresca, se
ne era la stagione, ma sempre con le “sciociole” (noci,
nocelle, arachidi e “semente”, cioè semi di zucca seccate,
tutte tostate) innaffiate da bicchieri di acquata e con i
canti corali e le stornellate degli operai in un clima
festaiolo ed augurale per i padroni di casa.
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APPENDICE
Con “‘a parmentata”, forse per deformazione professionale, avevo chiuso questo mio lavoro che ho redatto
contemporaneamente a quello dei ricordi della mia vita,
che è ben lungi dall’essere terminato. Purtroppo non so
se il Signore Iddio mi darà tempo e salute per completarlo. Allora ho creduto doveroso aggiungere, in appendice
a questo volume, un capitolo della prossima pubblicazione in onore di un personaggio eroico di Pomigliano:
Cicetto Terracciano, che io ho avuto la fortuna di incontrare qualche giorno prima della sua morte.
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L’ALA SPEZZATA
10 luglio 1943.
Era l’onomastico di papà, e, due giorni prima gli aveB IAN CA
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vo inviato gli auguri con una cartolina di Posta Militare, con la speranza che gli arrivasse!
Quel giorno il mio plotone, a pattuglie di tre, era impiegato alla vigilanza del campo di volo dell’aeroporto di
Ciampino. Percorrevamo i bordi del campo con il fucile
carico e col colpo in canna e baionetta innestata tenuto
con la cinghia infilata al braccio. Ad un certo momento
si sentirono le sirene dei carri dei Vigili del Fuoco e
dell’autoambulanza che si dirigevano verso la pista di atterraggio. Poco dopo in cielo apparve un nostro cacciabombardiere che volava inclinato su un lato, quando passò
sulle nostre teste notammo che aveva un ala spezzata.
Tentò più volte di raddrizzare l’aereo ed atterrare sulla
pista senza fracassarsi al suolo, e, quando non ci riusciva,
riprendeva quota e riprovava e l’autobotte dei Vigili del
Fuoco impazziva a seguirlo sulla pista con i Vigili pronti
con le lance in mano. Finalmente ci riuscì e io con i miei
due compagni di pattuglia commentammo la bravura del
pilota, ma osservammo pure che quell’uomo doveva avere i nervi a pezzi.
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L’aereo, una volta atterrato, rullò piano sulla pista e
poi sul prato fino a raggiungere il suo posto di parcheggio, il pilota, ancora con il casco, la maschera del respiratore e gli occhialoni balzò dalla carlinga e si avviò verso la
palazzina Comando passando a breva distanza da noi tre,
che avendo notato dai gradi che con l’aquila di pilota spiccavano sul taschino del giubbotto di pelle che era un
Capitano, c’irrigidimmo sull’attenti per salutare; rispose
al nostro saluto portando la mano alla visiera del casco e
fece ancora qualche passo, poi improvvisamente tornò
indietro e mi mollò un ceffone. Restai irrigidito sull’attenti, pensando allo stato dei suoi nervi, senza parlare;
ma mi mollò un altro ceffone e, visto che non reagivo, mi
apostrofò in napoletano: “Ma tu si Mario ‘o figlio ‘e don’
‘Ettorino?”, al mio “Signorsì” mi chiese: “E non mi hai
riconosciuto?” allora gli risposi: “Come faccio a riconoscervi, signor Capitano, se non vedo niente di Voi?” allora, ridendo, disse: “Già!” e si tolse con un sol movimento della mano destra casco, occhialoni e maschera e vidi
il suo viso incorniciato dalla caratteristica barbetta, era
Cicetto Terracciano, caro amico di famiglia che abitava
da giovane a pochi passi da casa mia e che era noto a tutta
Pomigliano per i suoi raids a volo radente su piazza Mercato, ove abitava, per salutare i suoi, appena conseguito il
brevetto di pilota. Ci abbracciammo e ci intrattenemmo
a parlare per qualche minuto dandoci appuntamento per
il giorno dopo.
L’indomani ci rivedemmo e trascorremmo pochi minuti insieme parlando di mio padre e di altri amici comuni ed
a conclusione del nostro incontro m’invitò per la sera del
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13 a cena in un ristorante delle Capannelle fissando l’incontro davanti alla Mensa Ufficiali dell’aereoporto.
Mi trovai all’ora fissata e vedendolo ritardare chiesi ad
un aviere addetto alla mensa se per caso l’avesse visto;
l’aviere entrò nella palazzina e dopo poco ne uscì dicendomi gelido: “Il signor Capitano Terracciano oggi non è
rientrato dalla sua missione in Sicilia per cui è da considerarsi disperso”. Rimasi impietrito dal dolore e pregai
per la Sua anima.
Nei giorni seguenti appresi in aeroporto che il Comandante lo aveva proposto per la concessione della
Medaglia d’Oro al Valor Militare “Alla memoria”, ma poi
sopravvennero i tragici eventi dell’8 settembre e non ne
seppi più nulla.
Quando il 7 gennaio 1947, insieme ad un gruppo di
amici fondammo a Pomigliano la Sezione del Movimento Sociale Italiano, tutti d’accordo onorammo la Sua
memoria intestando la Sezione al “Capitano Pilota Felice Terracciano, Pluridecorato al Valor Militare” e il Labaro
Tricolore della Sezione di Pomigliano del M.S.I., che fu
benedetto nella Chiesa di San Felice da Monsignor
Campanale, portava ricamato in oro il Suo nome.
Le strade del Rione case famiglia costruito dall’Alfa
Romeo per i suoi operai erano intestate ad Eroi della
Aviazione eccetto quella a sud e quella a nord del rione
che non erano completate. Nel luglio del 1942, in onore
del figlio di Mussolini caduto con il suo aereo, il Fascio
locale propose d’intestare questa via “Viale Bruno
Mussolini”. Caduto il fascismo il leccaculismo locale pensò subito di cambiare il nome della strada in “Viale
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Badoglio”. Nel frattempo detta strada si sviluppò fino
a congiungere il Rione Palazzine, come era comunemente chiamato, alla via Carmine Guadagni alla periferia est del vecchio centro urbano.
Quando il Movimento Sociale Italiano conquistò alle
elezioni amministrative un gruppo consistente di Consiglieri e l’edilizia della zona si era molto sviluppata, in
Commissione Toponomastica fu proposto di rispettare
il concetto ispiratore del Rione e, su proposta di mio padre, Consigliere Comunale del M.S.I., intitolare la via a
nord al Capitano Pilota Felice Terracciano e quella a sud
al Tenente Pilota Francesco Caiazzo, caduto nel 1938 in
A.O.I. – Africa Orientale Italiana –, come racconterò nei
“I miei ricordi”.
La proposta fu accettata e così avemmo il “Viale Felice
Terracciano” a nord e “Viale Francesco Caiazzo” a sud
del Rione Palazzine.
Ho appreso poi nel giugno 1988 dal numero 2, anno
II°, pagina 6, di “ACTA“ (Una pubblicazione bimestrale
informativa dell’Istituto Storico della R.S.I. – Repubblica Sociale Italiana –, che ha sede nella frazione Cicogna
del Comune di Terranova Bracciolini in Provincia di
Arezzo) che il Gruppo Aerotrasporti A.N.R. della Aviazione della R.S.I. era intitolato alla “Medaglia di Oro Cap.
Pil. Felice Terracciano”.
Semplice omonimia? Non credo!
Penso piuttosto che l’iter burocratico della concessione sia stato portato a termine dopo il caos dell’armistizio
ed il decreto di concessione sia stato firmato dal Governo della R.S.I. e pubblicato su quella Gazzetta Ufficiale.
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INDICE
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 5
» 09
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
‘O Panariello . . . . . . . .
‘O Scopachiazza . . . . . .
‘Ntuono . . . . . . . . . .
Zi’ Aniello . . . . . . . . .
Don Giacumino ‘O Prevete
Zi’ Filumena ‘A Maestra . .
Scarpare e Cusuturi . . . .
Zi’ Mariagrazia ‘A Pizzaiola
Mulini e Lammicchi . . . .
Feste ‘e Pranzi ‘e na vota . .
‘A Parmentata . . . . . . .
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APPENDICE . . . . . . . . . . . . . . . .
L’Ala Spezzata . . . . . . . . . . . . . . . .
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