Episteme N. 7 - gianobifronte

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Episteme N. 7 - gianobifronte
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio
An International Journal
of Science, History and Philosophy
N. 7 - 21 dicembre 2003
Volume I
2
Redazione ([email protected])
"Episteme"
c/o Dipartimento di Matematica e Informatica
Università degli Studi
Via Vanvitelli - 06100 Perugia
Direttore Responsabile
Euro Roscini (Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio, Pubblicazione
registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991)
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici nella parte destra
della tastiera)
Numeri arretrati on line: http://itis.volta.alessandria.it/episteme
ISSN 1593-3482
3
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium
An International Journal of Science, History and Philosophy
N. 7 - 21 dicembre 2003 / 21st Dec. 2003
[La diffusione via Internet di sezioni della rivista può avvenire anche prima della data indicata - Sections of
Episteme can be available in Internet even before the previous date]
Informazioni editoriali/Editorial Policy
Pubblicazioni e informazioni ricevute/Received books, journals and news
1 - Arcangelo Papi: San Francesco, le stimmate e la Sindone - Una possibile antistoria del
cristianesimo (Volume II)
[Un commento di Sabato Scala, con un'ipotesi costruttiva della Sindone a partire dai testi
gnostici] (Volume II)
2 - Sabato Scala: I principi della gnosi nella orientazione delle cattedrali medievali (Volume
II)
3 - Francesco Vitale: L'astronomia nell'antica Pompei e nella Magna Grecia
4 - Alberto Arecchi: Come l'Argentina diventò l'Antartide! - La carta di Piri Re'is, un mito
cartografico che dura da quarant'anni
5 - Emilio Spedicato: On the geography of Eden in Enoch and in Sumerian/Akkadian
sources
6 - Bruno d'Ausser Berrau: Ubinam gentium sumus? - Un Eden ed un popolo o più luoghi e
più genti?
7 - Oktawian Nawrot: What is foetus?
8 - Ezio Albrile: Abissi gnostici
9 - Lino Lista: Il Mistero del Vino di Cana
10 - Umberto Lucia: Dalla cultura matematica una lingua … universale
11 - Alberto Bolognesi: Teoria e osservazione
12 -
"
"
: Foolproof - On All and On Nothing
13 - Emidio Laureti: Dall'impulso nascosto in elettrodinamica classica all'impulso nascosto
nella propulsione non newtoniana
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Reprints (Volume II)
Jean-Baptiste de Mirabaud: Opinion des Anciens sur le Monde (a cura di Massimo
Cardellini)
Paul Maury: Le secret de Virgile et l'architecture des Bucoliques
Commenti ricevuti/Received Comments
Sante Anfiboli: Una notula sul contenuto iniziatico effettivo dei Misteri Eleusini
Franco Baldini: Postilla a "Una questione relativa alle origini della massoneria" (Episteme,
N. 3)
[Un commento di Bruno d'Ausser Berrau]
Alberto Bolognesi: La cosmologia soppressa
Sabato Scala: Leonardo da Vinci conosceva un testo ritrovato a Qumran?
[Un commento dalla redazione di Episteme]
Strabone: UFO? Ubbia e Fomento Ossessivo
Recensioni/Reviews
Paul Davies: Come costruire una macchina del tempo (Alberto Bolognesi)
[Un commento dalla redazione di Episteme]
Alberto Donati: Principi di metafisica dualistica (Arcangelo Papi)
Margherita Hack, Pippo Battaglia, Walter Ferreri: Origine e Fine dell'Universo (Alberto
Bolognesi)
Antonio Lima-de-Faria: Evoluzione senza selezione - Autoevoluzione di Forma e Funzione
Lucio Russo: Flussi e riflussi - Indagine sull'origine di una teoria scientifica
Il prossimo numero di Episteme...
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INFORMAZIONI EDITORIALI
Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso i seguenti
siti:
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Articoli, commenti e altro materiale sono benvenuti, e possono essere presentati per la
pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può essere effettuata
vuoi a mezzo Internet, a:
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vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo:
"Episteme"
Dipartimento di Matematica e Informatica
Università - Via Vanvitelli
06100 Perugia - Italy.
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Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende mantenersi
plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi (quasi!) lingua, vale a dire
Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco (etc.?!).
L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità con la linea
della rivista - che ne informeranno in modo tempestivo i proponenti, riservandosi
eventualmente di acquisire pareri di esperti (le opinioni ricevute saranno eventualmente rese
note agli interessati), e/o di chiedere agli autori chiarimenti o modifiche.
Il materiale ricevuto anche se non utilizzato non si restituisce.
- La diffusione via Internet di parti della rivista avviene in qualche caso prima della data
prevista per la pubblicazione ordinaria, dopo la quale però ogni correzione ai lavori messi a
disposizione in rete viene segnalata in un apposito Errata Corrige.
- Si fa notare che la versione on-line di Episteme è talora necessariamente "semplificata"
rispetto a quella a stampa (per esempio in presenza di caratteri o simboli speciali). Il file
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finanziato da alcun ente, pubblico o privato. Gli organizzatori se ne ripartiscono le spese
secondo le personali momentanee disponibilità. Sovvenzioni per tenere in vita l'iniziativa
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sono ovviamente ben gradite, e possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati
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Oltre alla diffusione on-line, si produce anche un certo numero di copie cartacee della rivista,
tra l'altro per distribuirle, a cura e spese degli organizzatori, presso Biblioteche, Istituzioni,
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EDITORIAL POLICY
Episteme is mostly an on-line publication, but it does produce even printed copies. In order to
obtain them, a request should be sent to the editor, at one of the addresses indicated below.
Episteme is interested in publishing papers which illustrate unconventional points of view that is to say, which do not usually appear in other academic journals - in Science, History and
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Since Episteme is thought of as a multi-linguistic journal, papers are accepted and possibly
published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!).
Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether submitted papers are
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journal's whole issue) will be sent free (as an attachment) from the editorial office to
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Necrologio
Episteme annuncia con dolore ai lettori la scomparsa di Nieves Hayat De Madariaga
Mathews, che aveva onorato il primo numero della rivista con un interessantissimo articolo,
"Francis Bacon, slave-driver or servant of nature? - Is Bacon to blame for the evils of our
polluted age?", una sorta di appassionata "difesa" del suo personaggio preferito dalle
numerose critiche che vengono ad esso da taluni rivolte, in quanto possibile "origine" alla
quale ricondurre certi sgradevoli esiti della "modernità" (vale a dire, di essere stato
catalizzatore della nuova mentalità materialistica scientifico-manipolatoria, o di aver avuto un
ruolo importante, e segreto, nella "trasformazione" della massoneria, nella fondazione del
"Collegio Invisibile", nella definizione della strategia di supremazia militare-politica della
civiltà anglo-sassone, etc.).
Nieves era nata il 3 dicembre del 1917, a Glasgow, padre il celebre scrittore e uomo di stato
spagnolo Salvador de Madariaga, madre la scozzese Constance Archibald. Sin dall'infanzia ha
condotto una vita intensa e movimentata, frequentando ben 11 scuole diverse in paesi diversi,
a causa degli spostamenti continui del babbo, fra la Svizzera, l'Inghilterra, la Francia, e la
Spagna. Quando in quest'ultima nazione scoppia la guerra civile, è costretta ad abbandonare
gli studi universitari che stava seguendo a Madrid, per finire poi con il laurearsi a Londra.
Sposata con due figli, vive nell'isola d'oltremanica durante la seconda guerra mondiale, ma nei
primi anni '50 si trasferisce in Messico, circondata da numerosi intellettuali spagnoli esuli dal
regime franchista. Si trova in Italia sin dal 1954, lavorando per circa 20 anni presso la F.A.O.
a Roma. Nella capitale frequenta circoli letterari, e fa conoscenza con scrittori e studiosi
italiani con i quali stringe duraturi legami di amicizia, mantenendo anche nel contempo i suoi
contatti culturali internazionali. Pubblica poesie nella rivista letteraria Botteghe Oscure, e in
altre analoghe inglesi. E' in tale periodo che scopre le opere di Velikovsky, inizia una
corrispondenza con lui, e lo incontra quando si reca a Roma. Sempre durante quegli anni
comincia le ricerche per quello che più tardi diventerà il libro della sua vita. E' stata infatti una
delle massime esperte internazionali di Bacone, dedicando a questo controverso grande
personaggio uno studio monumentale: Francis Bacon - The History of a Character
Assassination, Yale University Press, 1996, pp. XIII + 592, e con esso contribuendo, come
abbiamo accennato, a qualche rettifica di una diffusa interpretazione del barone di Verulamio.
[Per esempio, in una recente lettera del 19 luglio u.s., Fritjof Capra così le scriveva: <<I am now
planning to write a synthesis [of my three books] about the emerging new scientific understanding of
life ... it is there that I can do something about previous misconceptions of the work of Francis Bacon. I
plan to rewrite, correct, and modify the brief section about Bacon, citing the recent literature you kindly
sent me, which was not available to me when I wrote The Turning Point in the late seventies. Naturally,
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Si è infine ritirata vicino a Cortona,
concentrando la sua attenzione sui possibili incontri e i rapporti intellettuali tra Bacone e
William Shakespeare, e stava continuando a occuparsi della storia di quel periodo in un nuovo
progetto di libro quando la morte l'ha colta.
I will also acknowledge your help and advice in this matter...>>.]
Avendo trascorso gli ultimi anni della sua esistenza nei dintorni di Perugia, lo scrivente ha
avuto l'onore di conoscerla di persona, e di discutere, approfittando della sua grandissima
competenza, e pazienza, di tante questioni di comune interesse (per esempio quelle relative
alla riproposta dell'importante e inquietante saggio "The Rainbow Scheme - British Secret
Service and Pax Britannica", di Stevan Dedijer, apparso in Episteme N. 2). Ricordo oggi con
nostalgia qualche pomeriggio nella sua bella villa in aperta campagna, in particolare alcuni
con l'amico Spedicato, che non mancava di andare a trovarla quando gli capitava di passare
dalle nostre parti.
Presentiamo infine nella triste occasione quello che è stato probabilmente il suo ultimo scritto
rivolto al pubblico, composto per il Simposio Internazionale "Cinquanta anni dopo Mondi in
Collisione di Velikovsky: scenari classici e nuovi sulla evoluzione del sistema solare",
Università di Bergamo, 20/21 ottobre, 2001 (cfr. Episteme N. 4).
(UB)
[Si ringraziano per la collaborazione la figlia della Sig.ra De Madariaga,
Beatrice Cazac De Madariaga <[email protected]>, e il Prof. Emilio Spedicato,
<[email protected]>.]
*****
Message addressed to the participants,
by Nieves Mathews De Madariaga
Dear friends, dear friends of Immanuel Velikovsky, dear Emilio, explorer, on Velikovskian
lines, of the frontiers of Paradise; dear Shulamit, translator of your father's work for the
country of his choice.
As an old friend of Velikovsky, who sent him tit-bits of confirmation throughout the last
twenty-five years of his life - and queries which he answered to my complete satisfaction (on
calendars, on Homer, on Stonehenge…). I wish I could hear viva voce all you have to say
about the changes in planetary orbits and in the earth's axis after near collisions; about the
geological and dendrological evidence of recent catastrophes of extraterrestrial origin; about
the electromagnetic forces which play so vital a role in Velikovsky's cosmological scenario,
and about the fascinating interplay between the rejection and the recognition of scientific
genius. Above all I wish I could hear your arguments and counter-arguments, agreements and
disagreements.
I shall be with you in spirit, and so will my father, the Spanish statesman and historian,
Salvador de Madariaga, who, many years ago, read the copy of Worlds in Collision I had
given him, on his way to America, and became a staunch supporter of its author. When my
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father died (a year before Velikovsky) the last words he dictated were about this friend's
brilliant discoveries, and his undeserved rejection by the Academe of his day.
After half a century of familiarity with Worlds in Collision and with Ages in Chaos, I
welcome a time when those who follow in Velikovsky's footsteps no longer feel the need to
protect themselves from established opinion by dismissing, in a condescending footnote, the
pioneer thinker who had opened up their path, but can hail him instead for the inspired,
indefatigable seeker of the truth Velikovsky was. And I would like to propose to you and to all
his admirers, and particularly to those who recognize their debt to his tought, a way of
honouring the fifty years we have spent in Velikovsky's company - along with the twenty fice
centuries we have spent in that of Plato, who first described the effects of near planetary
collisions on our earth.
We know that Velikovsky made many suggestions for further research which might confirm
his conclusions, whether cosmological or historical, and that some were put into effect, with
noted success. But among those not taken up there is one I think he would have been
particularly glad to see carried out today; the excavation of El-Arish, on the Egyptian frontier
with Palestine - the site of the great Hyksos fortress of Avaris (situated by Manetho to the East
of the Estern Delta of the Nile), which fell at last to Ahmose, the first Pharaoh of the 18th
Dynasty, by the hand of his Israelite ally Saul. A different site has recently been proposed for
this fortress, on the strength of one late allusion to 'Avaris' as a southern quarter of PiRamesses - a city built centuries later by Ramses II above what may have been an ancient
Israelite colony, right on the Eastern Delta. But its author did not refute, or mention, the
numerous converging connections found by Velikovsky in the Bible, in Josephus, and in
various Egyptian, Greek, Arab and other sources. Between 'El-Arish' or 'the brook of Egypt'
(so called by the Assyrian king Esarhaddon) and the site of the imposing fortress from which
the Hyksos - dreaded by Israel a the Biblical Amalekites or 'king-shephards', and by Egypt, as
the Amu, or 'shephard-kings' - spread terror for centuries. Until, as Pharaoh Ahmasis recorded,
'the saviour of Egypt fought in the riverbed ' of the only river of that region.
Not long before Velikovsky's death in 1979, a preliminary attempt was made to survey this
site. Could we not find the funds - and the intrepid minds - to celebrate this great man with so
worth while a project?
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Pubblicazioni e informazioni ricevute/
Received books, journals and news
1 - Autori Vari, Fede e ragione
a cura di Edoardo Mirri e Furia Valori
Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della Formazione, Quaderni del
Dipartimento di Filosofia
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, dicembre 2002
Dario Antiseri, Razionalismo della contingenza e spazio della fede
Massimo Baldini, Fede e ragione nel Diario di Soeren Kierkegaard
Umberto Bartocci, Alle origini della modernità: "il programma di ricerca" cartesiano quale tentativo
di sintesi tra nuova e vecchia religione
Gianni Dotto, Ordine e verità: esercizio della "ratio" e "Itinerarium mentis" in Bonaventura da
Bagnoregio
Bruno Forte, "Fides et ratio": Quale ragione? Quale fede? Quale incontro?
Michele Falaschi, L'"Unum argumentum" di S. Anselmo tra "ratio naturalis" e "intellectus fidei"
Antonio Livi, Fede cristiana e filosofia nell'età moderna: il problema della certezza
Ambrogio Giacomo Manno, Teodorico Moretti-Costanzi: dalla ermeneusi ontologistica di Spinoza al
Cristianesimo-filosofia
Edoardo Mirri, La valenza metafisica del pensiero di G. Bruno
Marco Moschini, Teologia e tempo
Furia Valori, Ermeneutica del discorso parallelo
I contributi di questo volume indicano percorsi, discutono soluzioni, delineano figure - una per tutte
Karol Wojtyla - che incarnano il rapporto fra la fede e la ragione. Gli autori intervenuti nel dibattito
-Dario Antiseri, Massimo Baldini, Umberto Bartocci, Gianni Dotto, Bruno Forte, Michele Falaschi,
Antonio Livi, Ambrogio Giacomo Manno, Edoardo Mirri, Marco Moschini, Furia Valori - affrontano
la tematica ineludibile del nesso fra credere e pensare, ineludibile nonostante i tentativi di volta in
volta messi in atto nella storia per annullare l'uno o l'altro dei due termini; tutti puntualmente falliti, in
quanto sia la fede, sia la ragione, appartengono all'uomo costitutivamente. Su questa base si può e si
deve aprire un dialogo fra le due, o forse è già da sempre istituito, in quanto entrambe hanno come
tensione la ricerca non di un senso qualsiasi, ma del significato ultimo dell'esistenza e, come
condizione, la possibilità di elevarsi e di ancorarsi ad un superiore orizzonte di senso, pur con
modalità diverse. Dopo il fallimento degli "assoluti terrestri" della ragione totalizzante, dopo l'imporsi
di un pensare dagli esiti nichilisti, totalizzante anch'esso in senso opposto, dopo avvenimenti epocali
dettati anche dall'integralismo religioso, urge l'esigenza di uscire da questa situazione fallimentare
recuperando e scoprendo forme della razionalità consapevoli dell'essere itinerante e simbolico
dell'uomo.
2 - Avallon, l'uomo e il sacro, N. 50, 2002
La scrittura delle stelle - Astrologia e presagi
Il Cerchio Iniziative Editoriali
Via Dell'Allodola, 8 - 47900 Rimini
[email protected], htttp://www.ilcerchio.it
Serena Demaria, L'astrologia dell'antico Egitto
Stefano Rossini, Astrologia, predestinazione e iniziazione
Augusto Gianferrari, I principi e le stelle. Gli interessi astrologlci di Settimio Severo e Caracalla
Giuseppe Sermonti, Origine astrologica dell'alfabeto
Giovanni Pettinato, La Mezzaluna fertile e le stelle
11
Archeologia e astronomia in Mesopotamia
L'astrologia caldea e l'architettura templare in Mesopotamia
L'uomo sumerico: creatura e creatore
Disciplina antica di matematica e divinazione; metodo di osservazione e di prevenzione di eventi
atmosferici e di fenomeni siderali come eclissi e comete. Il moto degli astri disegna una scrittura
enigmatica nella geografia celeste e nei tracciati delle costellazioni e dello Zodiaco, nella meccanica
di aspetti e geometrie che richiedono interpretazioni argute e intelligenza analogica ai limiti della
preveggenza. Complesso e articolato orologio che segna accadimenti cosmici e terreni, discorso
persuasivo e oracolare intriso di simboli, indizi e presagi che orientano l'agire umano o che
annunciano rivelazioni e cambiamenti epocali.
3 - Avallon, l'uomo e il sacro, N. 51, 2003
Il divino abbraccio - Sessualità e religione
Il Cerchio Iniziative Editoriali
Via Dell'Allodola, 8 - 47900 Rimini
[email protected], htttp://www.ilcerchio.it
Augusto Gianferrari, Dal delitto di Lemno alle donne etrusche di Teopompo. Condizione femminile e
propaganda politica nell'antichità
Marco Massimiliano Lenzi, Dominio delle passioni ed espressione delle virtù dal pensiero classico
alla spiritualità cristiana
Ezio Albrile, Il battesimo impuro. Sessualità e tenebre nella gnosi antica
Renato Giovannoli, La Sirena e la Donna vestita di sole. Le due facce del simbolismo della
femminilità
Adolfo Morganti - Andrea Piras, Note sulla Minne
A cura della Redazione, "Amore sacro e amor profano" - Florilegio di fonti letterarie
Ananda K. Coomaraswamy, Sahaja
L'abbraccio di un uomo e una donna può esprimere molto di più di un sentimento terreno. Per
l'immaginazione religiosa può essere anche il simbolo dell'amore celeste, condizione di grazia e di
tenerezza che ricongiunge il Cielo alla Terra - l'Anima e lo Spirito, il devoto e il Divino - nella intima
unione del finito e dell'infinito, in una beatitudine paradisiaca dove ogni contrasto si dissolve in
questo abbraccio. Per questa sensibilità - presente nel lirismo dei mistici che anelano alle nozze con
Dio; nella voluttà metafisica dei tantra induisti e buddhisti; nell'alchimia della sessualità del taoismo;
nel matrimonio sacro con la grande Dea che concede benefici e regalità al sovrano - l'eros e la
sessualità sono energie profonde e misteriose che possono condurre al sublime come pure alla
dannazione.
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4 - Christopher Jon Bjerknes, Anticipations of Einstein in the General Theory of Relativity
XTX Inc., P.O. Box 9361, Downers Grove, Illinois, 60515 U.S.A., 2003
[email protected], http://www.xtxinc.com
More information about this title can be found at:
http://home.comcast.net/~xtxinc/AEGRBook.htm
In 1997, noted Einstein scholars Leo Corry, Juergen Renn and John Stachel attempted to
rewrite the history of the gravitational field equations of the general theory of relativity. Their
radical revisionism was largely based on a set of printer's proofs of an important paper by the
world-famous mathematician David Hilbert, in which Hilbert published the field equations of
general relativity five days before Einstein copied them from Hilbert. Corry, Renn and Stachel
claimed that these printer's proofs of Hilbert's paper did not contain the equations which
appeared in Hilbert's final published paper. However, in their 1997 article in the journal
Science, "Belated Decision in the Hilbert-Einstein Priority Dispute", Corry, Renn and Stachel
failed to disclose the fact that these printer's proofs were mutilated, and are missing a critical
part - the very part which contained the equations Corry, Renn and Stachel claimed Hilbert
did not know. The author of Albert Einstein: The Incorrigible Plagiarist, Christopher Jon
Bjerknes, refutes the baseless historical revisionism of Corry, Renn and Stachel in his new
book Anticipations of Einstein in the General Theory of Relativity, and proves that Einstein
did not originate any of the major concepts of the general theory of relativity by comparing the
original source material by Einstein and his predecessors. Einstein was even forced to fudge
his equations in order to achieve the results others had published long before him.
Who originated the general theory of relativity?
"...Gerber, who has given the correct formula far the perihelion motion of Mercury before I
did." - Albert Einstein
"In a sense, Einstein had 'appropriated Hiibert's contribution to the gravitational field
equations as a march of his own ideas - or so it would seem from the reading of his 1916 Ann.
d. Phys. paper on the foundations of general relativity." - Prof. Jagdish Mehra
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"[Hilbert] would soon ... pinpoint flaws in Einstein's rather pedestrian way of dealing with the
mathematics of his gravitation theory." - Dr. Tilman Sauer
"Remarkably, Einstein was not the first to discover the correct form of the law of warpage ...
Recognition for the first discovery must go to Hilbert." - Prof. Kip Thorne
"From these facts the conclusion seems inevitable that Einstein cannot be regarded as a
scientist of real note. He is not an honest investigator." - Prof. O.E. Westin
"In the general theory of relativity the basic thought is that of Mach, viz. the replacement in
dynamics of the law of gravitation by a law of motion." - Robert P. Richardson
Table of Contents:
1. Hilbert's Proofs Prove Hilbert's Priority
1.1 Introduction
1.2 Corry, Renn and Stachel's Baseless Revisionism
1.3 Historical Background and the Correspondence
1.4 Hilbert's Proofs Prove Hilbert's Priority
1.5 A Question of Character
1.6 A Question of Ability
1.7 Conclusion
2. Gerber's Formula
2.1 Introduction
2.2 How Fast Does Gravity Go?
2.3 Gerber's Formula was Well-Known
2.4 Einstein's Fudge
2.5 Conclusion
3. Soldner's Prediction
3.1 Introduction
3.2 Soldner's Hypothesis and Solution
3.3 Einstein Knew the Newtonian Prediction
3.4 Soldner's Formulation
3.5 Conclusion
4. The Principle of Equivalence, Etc.
4.1 Introduction
4.2 Eotvos' Experimental Fact and Planck's Proposition
4.3 Kinertia's Elevator is Einstein's Happiest Thought
4.4 Dynamism
4.5 Space-Time
4.6 Reference Frames and Covariance
4.7 Conclusion
Appendix A: Soldner's Paper on Light
Appendix B: Hilbert's Published Paper
Appendix C: Hilbert's Printer's Proofs
Appendix D: Einstein's Field Equations Paper
Appendix E: Gerber's Paper on Mercury
Appendix F: Einstein's Paper on Mercury
Notes
Index
Bibliography
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5 - Roberto Fondi, Università riformata o demolita?
Asefi, Milano, 2003
[email protected] , http://www.asefi.it
«Quando sono entrato nell'Università», scriveva Nicola Matteucci ne Il Giornale del 10.2.2001, «i
miei maestri mi hanno detto che il mio primo compito era quello di studiare non solo per essere
aggiornato, ma per fare ricerca scientifica, una ricerca da pubblicare per essere poi giudicata dalla
comunità scientifica. E aggiungevano che un autentico insegnamento si dà soltanto quando è nutrito
da una personale ricerca. Oggi le cose si sono capovolte: la cosa primaria è quella di partecipare ai
diversi Consigli di facoltà, poi insegnare e parlare con gli studenti. In un registro, da consegnare a fine
anno, devono essere annotate le ore perse in questi Consigli e le ore dedicate all'insegnamento e agli
studenti. Nulla si dice della ricerca scientifica. Anzi. La tesi di laurea, che è il primo contributo critico
dello studente, è stata praticamente abolita. In sintesi, si ostacola la ricerca scientifica, che è il
compito primario dell'Università: i sindacalisti della pubblica istruzione vorrebbero un professore
impegnato a tempo pieno solo nella didattica, come un professore di liceo; si viola la libertà di
insegnamento, garantita dalla Costituzione; si impedisce al professore di realizzare il vero compito:
educare lo studente all'ambito della ricerca scientifica». Come dimostra ampiamente anche questo
saggio di Roberto Fondi, il brano riportato fotografa con fedeltà l'odierno stato di agonia
dell'università italiana, purtroppo ormai polverizzata - grazie ad una «riforma» operata e mantenuta da
politici asserviti alle oligarchie capitalistiche transcontinentali, e perciò del tutto contraria agli
interessi del nostro Stato nazionale e dei nostri giovani - in uno sciame di «aziende» abbandonate a se
stesse e soggette a una dura e umiliante lotta per la sopravvivenza. E' pertanto necessario e urgente,
secondo l'autore, prendere piena coscienza del gravissimo stato in cui si trova l'intero sistema
educativo-culturale e politico italiano, e dare vita ad un vasto movimento d'opinione finalizzato ad una
sua autentica rifondazione. Rifondazione che, in ogni caso, non potrà mai attuarsi senza il risveglio
nei cittadini di una sincera volontà di riscatto e di concordia sociale, affiancata ad una ferma
riassunzione dei valori tradizionali e ad una non retorica rivitalizzazione del migliore spirito
risorgimentale.
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Per il grande umanista spagnolo Ortega y Gasset, il solo strumento efficace da contrapporre alla da lui
temuta e denunciata degradazione dei popoli era da indicare in un università vera, la quale si rifiutasse
di formare «barbari specialisti» e continuasse ad elaborare idee che fossero all'altezza dei tempi. Ma a
quanto sembra gli attuali padroni del mondo puntano proprio ad allevare e vezzeggiare barbari, in
quanto li considerano sudditi migliori di uomini liberi formatisi in libere istituzioni responsabilmente
rivolte a conseguire il Bene Comune.
Roberto Fondi è associato di Paleontologia all'Università di Siena. Autore con Giuseppe Sermonti di
Dopo Darwin: Critica all'evoluzionismo (1980), che suscitò notevoli discussioni ed ebbe in pochi
mesi quattro edizioni, pubblicò poi Organicismo ed evoluzionismo (1984), la cui edizione francese
riveduta, La révolution organiciste (1986), fu particolarmente apprezzata e presentata dal notissimo
zoologo e Accademico della Sorbona Rémy Chauvin. Con l'embriologo Marcello Barbieri ha fondato
l'Associazione Italiana di Biologia Teorica. In ambito culturale più ampio, collabora alle iniziative del
Club di Budapest, il movimento internazionale per la pace e lo sviluppo di una coscienza planetaria
fondato e presieduto da Ervin Laszlo.
6 - Michael Parenti, The Assassination of Julius Caesar - A People's History of Ancient
Rome
The New Press, 2003
For further information about Michael Parenti and his work, visit: www.MichaelParenti.org.
Most historians, both ancient and modern, have viewed the Late Republic of Rome through the eyes
of its rich nobility. They regard Roman commoners as a parasitic mob, a rabble interested only in
bread and circuses. They cast Caesar, who took up the popular cause, as a despot and demagogue, and
treat his murder as the outcome of a personal feud or constitutional struggle, devoid of social content.
In The Assassination of Julius Caesar, the distinguished author Michael Parenti subjects these
assertions of "gentlemen historians" to a bracing critique, and presents us with a compelling story of
popular resistance against entrenched power and wealth. Parenti shows that Caesar was only the last
in a line of reformers, dating back across the better part of a century, who were murdered by opulent
conservatives. Caesar's assassination set in motion a protracted civil war, the demise of a fivehundred-year Republic, and the emergence of an absolutist rule that would prevail over Western
Europe for centuries to come.
Parenti reconstructs the social and political context of Caesar's murder, offering fascinating details
about Roman society. In these pages we encounter money-driven elections, the struggle for economic
democracy, the use of religion as an instrument of social control, the sexual abuse of slaves, and the
political use of homophobic attacks. Here is a story of empire and corruption, patriarchs and
subordinated women, self-enriching capitalists and plundered provinces, slumlords and urban rioters,
death squads and political witchhunts.
16
The Assassination of Julius Caesar offers a compelling perspective on an ancient era, one that
contains many intriguing parallels to our own times.
Contents:
Introduction: Tyrannicide or Treason?
Gentlemen's History: Empire, Class, and Patriarchy
Slaves, Proletarians, and Masters
A Republic for the Few
"Demagogues" and Death Squads
Cicero's Witchhunt
The Face of Caesar
"You All Did Love Him Once"
The Popularis
The Assassination
The Liberties of Power
Bread and Circuses
Appendix: A Note on Pedantic Citations and Vexatious Names
7 - Giuliano Preparata, Dai quark ai cristalli - Breve storia di un lungo viaggio dentro la
materia
Bollati Boringhieri Saggi, Torino, giugno 2002
Prefazione di Giuliano Boaretto, Emilio Del Giudice, Giorgio Galli e Cesare Medail
0 - Perché questo libro?
1 - Farò il fisico
2 - Lo spin dei bosoni
3 - Quark ad Arcetri
4 - Princeton e dintorni
5 - Il cono di luce
6 - Ma che cosa sono i quark?
7 - You are old, Father Feynman
8 - Il vuoto è tutto
9 - Ricostruire la materia
10 - Sorella acqua
11 - Il sole in provetta
12 - Materia super
13 - Magie della coerenza
14 - Ritorno ai principi
15 - Un ponte verso la biologia
Elenco delle abbreviazioni
Appendice - Bibliografia degli scritti di Giuliano Preparata
Indice dei nomi
Dai quark ai cristalli è la storia di un viaggio che un uomo, un fisico, compie attraverso la realtà
naturale, attraverso la materia, a beneficio dei <<liberi cittadini della "repubblica delle lettere">>,
degli "amici e protettori della scienza", di coloro che sanno quanto a questa "siano debitori il
progresso culturale e il benessere economico". Le idee della fisica teorica si svolgono davanti al
lettore seguendo lo sviluppo storico che hanno avuto nella mente dell'autore, il quale nel corso di
questo cammino si è sempre più spogliato della sua astrattezza e si è avvicinato alla vita concreta.
Giuliano Preparata inizia il suo viaggio partendo dal mondo dell'ortodossia scientifica, di cui diventa
rapidamente un riconosciuto rappresentante. Ma poi, animato dalla passione per la scoperta del vero,
egli lascia i sentieri battuti e si inoltra con pochi compagni lungo piste nuove, al fondo delle quali ci
aspetta la comprensione di affascinanti misteri: il mondo dei quark, la struttura dei liquidi, la fusione
fredda e, infine, la natura del vivente.
17
Giuliano Preparata (Padova 1942 - Frascati 2000), fisico teorico, dal 1986 ordinario di Teoria delle
interazioni subnucleari all'Università di Milano, ha rivolto i suoi studi a diversi campi della ricerca
scientifica. Oltre a numerosissimi articoli, nel 1995 ha pubblicato presso la casa editrice World
Scientific QED Coherence in Matter. Una raccolta di sue "lezioni popolari" è stata di recente edita
con il titolo L'architettura dell'Universo (Bibliopolis, 2001).
[Nel presentare questo libro Episteme si unisce commossa al cordoglio per la prematura
scomparsa di un grande intelletto e di un grande amico.]
8 - Giuseppe Sermonti, Il crepuscolo dello scientismo
Nova Scripta S.r.l., novembre 2002 (I edizione, Rusconi, Milano, 1971)
Salita San Francesco da Paola 20/7 - 16126 Genova
[email protected], [email protected], http://www.medicinealtre.it
Introduzione del Prof. Paolo Aldo Rossi
Prefazione alla prima edizione
Recensioni della prima edizione
Prefazione alla terza edizione
Nota alla terza edizione
Capitolo primo - La biologia volta le spalle al mondo
Le "applicazioni" che hanno preceduto la scienza
Quando la scienza e la tecnica procedevano insieme
Il divorzio tra la biologia e le sue "applicazioni"
La biologia contro l'umano
Capitolo secondo - La vita nel cassetto
Il problema della generazione
Alla ricerca della vita minima
Alla ricerca delle origini della vita
La vita come assoluto
La scienza e il mondo della vita
Capitolo terzo - La scienza si riversa sul mondo
Improprietà del concetto di "scienza applicata"
La trasmissione della conoscenza scientifica al mondo
Il trasferimento tecnologico
La scienza rifiuta il confronto con la realtà
Capitolo quarto - Profilo e limiti del metodo sperimentale
Le condizioni dell'esperimento
La scienza sperimentale contro l'irrazionale
La scienza sperimentale affronta le vie del mondo
Capitolo quinto - Analisi logica del progresso
La motivazione "razionale"
Mitologia della Ragione e del Progresso
Biologia del progresso
Elusività della tesi progressista
Il progresso nelle arti e nelle scienze
Sulla irreversibilità del progresso
Capitolo sesto - Considerazioni sull'inquinamento ambientale
Le nostre offerte al cielo
L'inquinamento delle acque
La scienza ci rassicura
Le piccole cose del mondo
Semplicità, semplicità!
Sora nostra madre terra
Nota Biografica
Indice delle tavole
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Indice Generale
Indice Analitico
L'affermazione che la realtà si possa conoscere servendosi esclusivamente della scienza moderna, e
che ogni problema umano si possa risolvere grazie ad essa ed alle sue applicazioni tecniche, è uno dei
luoghi comuni e dei falsi miti più diffusi della nostra epoca. In questa sua opera Sermonti non vuole
assegnare limiti alla scienza né sminuirla; ma la sua indagine critica è rivolta alla scienza moderna,
alla sua presunzione di non avere limiti e di comprendere entro i propri confini tutto l'universo. È
proprio in questa pretesa che la scienza diventa scientismo. Giuseppe Sermonti, genetista di fama
internazionale e brillante saggista, libero dall'opprimente conformismo culturale dominante,
controbatte il pregiudizio scientista mediante una sorprendente autocritica e una approfondita analisi
della "obiettività scientifica". Il pensiero dell'Autore è di grande interesse poiché proviene proprio da
uno scienziato militante che ha il coraggio e l'audacia intellettuale di contestare l'ideologia scientista
moderna la quale considera come esistente solo quella realtà che è misurabile e quantificabile, nella
convinzione che il vertiginoso progresso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche possa liberare
l'umanità dalle tenebre della metafisica conducendola verso un destino radioso. Per fare ciò, lo
scientismo non si è accontentato di limitare la sua azione al campo specifico della ricerca scientifica,
ma è riuscito ad estendere la sua influenza a tutta la realtà, dileggiando e combattendo tutto ciò che
sfugge ai suoi strumenti di indagine e di misura. Ma i risultati ottenuti sono stati tutt'altro che
confortanti. Se da un lato ha riempito il nostro mondo di ogni tipo di macchine, impoverendo
l'esistenza umana sino a degradarla e a relegarla a livello del puro soddisfacimento di bisogni
fisiologici o indotti, dall'altro ha gettato via come scorie e rifiuti gli elementi che non interessavano i
procedimenti scientifici. Questo ha portato alla logica e drammatica conseguenza dell'inquinamento
ambientale ed ha rivelato chiaramente la mancanza di ogni riguardo per la natura e il naturale, una
predilezione per l'artificio e l'artificiale, al costo di dissipare colossali risorse naturali. Lo scientismo
ha così travisato il vero compito della scienza che doveva fornirci regole di comprensione della natura
per una felice convivenza con essa. Questa ha invece aggredito la varietà in nome dell'unità,
degradando la complessità in nome dell'elementare. Non ha insegnato a comprendere la natura, ma a
sopraffarla; non ha insegnato a convivere con essa ma a soggiogarla, contaminarla e deturparla.
Soltanto sottoponendo lo scientismo moderno ad una severa e radicale critica si potrà arrestare
l'attuale vertiginosa corsa del "progresso" verso l'annientamento della nostra specie.
"Noi abbiamo soltanto domandato alla scienza di restare scientifica, di non avvolgersi in una
metafisica incosciente che si presenta allora agli ignoranti, o ai semidotti, sotto la maschera della
scienza. Durante più di mezzo secolo questo scientismo ha ingombrato la strada della metafisica" (H.
Bergson, Il pensiero e il movente, 1934). Con le parole di Bergson il Professore Paolo Aldo Rossi,
ordinario di Storia del Pensiero Scientifico della Università di Genova, inizia la prefazione al
Crepuscolo dello scientismo, un libro che dopo trent'anni dalla sua prima edizione rivela con forza
tutta la sua straordinaria attualità.
(Recensione tratta da Anthropos & Iatria, Rivista Italiana di Studi e Ricerche sulle Medicine
Antropologiche e di Storia delle Medicine, Anno VI, N. 4, Ottobre-Dicembre 2002 - per una
presentazione di questa rivista, vedi Episteme N. 6, Parte I).
[Del libro del Prof. Sermonti, al tempo della sua prima uscita, il noto teologo "dilettante"
Sergio Quinzio ebbe a scrivere: "Sblocca in maniera chiara e convincente uno dei punti che
impediscono a molti di alzare gli occhi verso il Signore, obbligandoli ad aderire ad un mito".
Orbene, Episteme si accontenterebbe che una consapevolezza maggiore della "metafisica
nascosta" dietro tutta la scienza post-darwinista non impedisse a molti di prendere in
considerazione il dualismo cartesiano tra materia e spirito...]
19
9 - Giuseppe Sermonti, Dimenticare Darwin
Il Cerchio Iniziative Editoriali, 2003
Via Dell'Allodola, 8 - 47900 Rimini
[email protected], htttp://www.ilcerchio.it
Prologo - "L'EVOLUZIONE È MORTA"
Capitolo 1 - ACHILLE ISPIRA REDI
Capitolo 2 - DALL'UOVO DELL'AQUILA, L'AQUILA
Capitolo 3 - L'ECLISSI DELL'ORGANISMO
Capitolo 4 - LA STABILITÀ PENCOLANTE
Capitolo 5 - IMPARANDO IL CANTO INNATO
Capitolo 6 - PERCHÉ LA MOSCA NON È UN CAVALLO?
Capitolo 7 - IL BAMBINO CHE NON VOLEVA CRESCERE
Capitolo 8 - TI POSSO DIRE SOLO QUELLO CHE SAI...
Capitolo 9 - FORME PREDISPOSTE DI VITA
Capitolo 10 - LE GRANDI DIFFERENZE NON SONO NEI GENI
Capitolo 11 - NON C'È CORPO SENZA MENTE
Capitolo 12 - UNA MATEMATICA PER PARLARE DI NUVOLE
Capitolo 13 - LE PROTEINE PRENDONO FORMA
Capitolo 14 - LA VITA È UN GRAN BALLETTO
Capitolo 15 - L'INSETTO-FOGLIA PRIMA DELLE FOGLIE
Capitolo 16 - LE RADICI SOMMERSE DELLE FORME VIVENTI
Conclusione
APPENDICE
RICONOSCIMENTI
INDICE ANALITICO
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
UNA TEORIA SCIENTIFICA dell'evoluzione non è in realtà mai esistita. L'Evoluzionismo è più un
paradigma che una teoria ma, nonostante da molti anni ormai la ricerca scientifica seria ne abbia
sconfessato le basi e le conclusioni, ancora oggi i nostri bambini si trovano sul libro di testo la
scimmia che gradatamente si alza in piedi fino a diventare l'Uomo come oggi lo conosciamo. In
questo libro l'Autore, scienziato e brillante saggista, analizza e confuta le teorie di Darwin e dei neodarwinisti alla luce delle più recenti scoperte nel campo della genetica, svelandone l'intrinseca
inconsistenza ma anche i motivi "nascosti" del suo grande successo presso il grosso pubblico.
*****
Conference For The Relativity and Foundations of Modern Physics - CRFMP
Date: October 9 to October 11, 2003. (This date is delayed detail will spat given)
Place: International Conference Center, Northwestern Polytechnic University Xi'an China
Organized by: Northwestern Polytechnic University
Sponsored by: Academy of Aeronautic China, Academy of Mechanics of Shaanxi China,
(Academy of Time of astronomic), Shanghai Hoff Lu Research Institute of Matter Regularity
(HLRIMRS), Union of Science and Technology in Mathematics, Physics, and Mechanics,
College of Mathematics and Physics of Xi'an University of Engineering Science and
Technology.
20
Aim of the Conference
The 20th century is the century in which unparalleled and splendid achievements have been
made in science and technology, hence the full development of science. Especially after the
birth of relativity and quantum mechanics, social productive forces of the world has been
developed promptly, and mankind has created tremendous achievements in science and
technology as well as material wealth. Since the arrival of the new century, many new
discoveries have been emerging in an endless stream; science and technology have been
changing during the course of even a single day.
However, any theory of physics is a relative truth, which is tenable under the given conditions
and scopes, and of course, there is no exception for the relativity.
Today, when the physics faces unprecedented and expanding opportunities, whether the
physical essence and inner mechanism hidden behind the relativity and quantum mechanics
can be further revealed deeply and thoroughly have become central issues concerned by the
people. In order to promote and make further development of the two fundamental sciences, a
academic conference is to be held, and at the Conference academic exchanges will be carried
out in the aspects of theoretical concepts, mathematical methods, experimental measures, etc.
Content of the academic papers
1. The further explorations of the experimental basis and mathematical logic of the relativity.
2. Explorations for the internal physics essence of the relativistic effects.
3. Interrelations among relativity, quantum mechanics, and theory of gravitation
4. The explorations for physics of Faster-Than-Light.
5. The orientation of physics in the 21st century; the originative researches and Explorations
for the basic theories of modern physics, especially for the experiments: e.g., vacuum structure
and its quantization, interactions between elementary particles and vacuum etc.
Mailing Address: P.O. Box 111
127 Youyixilu Road
Xi'an, Shaanxi Province 710072
P. R. China
Connect: associate professor Dianhu Zhang 0086_29_8495597
Fax: 0086-29-8491419
Email: [email protected]
Consultant
Luo Shijun, Professor and former vice president of NPU
Chen Yijian, Academician of the Chinese Academy of Engineering, Professor of NU
Huang Zhixun, director of Working Group of Electronic Academy, Professor of Broadcast
institute
Pei Yuanji, Director Professor of Academy of National Synchrotron Radiation Laboratory of
University of Science and technology of China.
W. Song, Professor of electro institute Chinese Academy.
Cui Junzhi, Academician of the Chinese Academy of Engineering, Professor of NWPU
21
Advisory Committee
S.Jiang, Director of College of Mathematics and Physics of Xi'an University of Engineering
Science and Technology
Academic Consultant Committee
Profs. R. Rembielinski, J. Remblielinski, T. Chang, F. Selleri, Paramahamsa Tewari, D.E.
Spencer, N. Munch, C.E. Renshaw, F.O. Camphell, J.E. Chappel, G. Galeczki, H. Hayden,
R.M. Santilli, C.K. Whitney, (Bai Jingzhi), Bai Tongyun, Cai Yuanhu, Cao Shenglin, Chen
Changle, Chen Guorui, Chen Xuzong, Dong Jinyi, Gao Zhenghong, Jiao Guiqiong, Jing Sirui,
Li Chunfang, Lizong Lian, Liu Kexi, Liu Qiangang, (Huangaixiang), Ma Feng, Mingxiao, Ni
Guangjung, Shen Shi, Wang Lei, Xu Jiadong, Tong Xiaoyan, Ye Zhengyin, Yang Benluo,
Yang Xintie, Yang Wenxiong, Yang Wenlin, (Xiong Caidong), Xu Shaozhi, Zhang Zhongyin,
Zhang Yifang, Zhang Junhao, Zhou Wei.
Organization Committee
President: Prof. Deyuan Gao, Vice President of NPU.
Vice President: Prof. Jiyue Zhang
Prof. Kaitai Li
Prof. Shoushan Jiang
Prof. Yongliang Lu
Secretary-general: Professor Bingzhen Yang
Vice Secretary-general: Associate professor: Yang Xintie
Members: Director of Office of NPU
Director of Office of International Cooperation Prof. Hong Tang
Director of Science and Technology Office Prof. Zhong Yu
Office of International Cooperation Northwestern Polytechnic University
Prof's: Hao Jianyu, Huangpu Lianzhen, Huang Demin, Jiao Shanqing, Li Huaxing, Li Yubin,
Lu Yongliang, Mu Anrong, Shen Jianqi, Shi Kaimin, Shi Jiaomin,Song Bifeng, Sun Gang,
Wang Lei, Wu Shuiqing, Yan Kun, Wu Wenhui, Xie Suyuan, Yang Zhichun, Yu Changfeng,
Zhang Diangu, Zhang Yingtang, Zhang Xiaodong.
Working language
The working language of the Conference is English, and Chinese can be used with translation
to English.
Submissions
Submitted papers should be in English and will be accepted in two types: regular papers
limited to 6 pages, but no more than 12 pages, and short papers limited to 4 pages. Papers
submitted should be in MS Word or its compressed (zip) form. The format of submitted
papers is: A4, 20mm margin at left side and 18mm at right side; 18pt Times New Roman for
the title; 10.5pt Times New Roman for text, author(s), affiliation(s), mailing address(s) and email address (es); the space between lines is single space and the space between words is
standard. On the first page, the top 50mm of both columns should be reserved for the title,
22
author(s), affiliation(s), mailing address (es) and email address (es), which should be centered
across both columns; on the second and subsequent pages, the text or illustrations should
begin at the top of the page; the abstract should about 12mm below the title area, there should
be 12mm left between the end of the abstract and the beginning of the main text. Picture not
greater than 160mm, width×110mm, high. Since the conference committee will produce both
CD-ROM and hardcopy proceedings, and to make sure paper review process as smooth as
possible, authors are requested to submit their papers in electronic form. Submissions must be
original, unpublished elsewhere and can be submitted on the website or by e-mail. All
accepted papers would be published in the conference proceeding, edition books and disk.
Key Dates
Submission deadline: August 30, 2003 (this date is delayed mindset 2-month detail will later
give)
Notification of acceptance: September 13, 2003 (delayed mindset 2-month detail will later
give)
Submission of final version: September 23, 2003 (delayed mindset 2-month detail will later
give)
Submit
Please submit your paper directly to
P. O. Box 111 of Northwest Polytechnic University,
Xi'an 710072. P. R. China
Email: [email protected]
Connect: associate Professor Dianhu Zhang 0086_29_8495597
Fax: 0086-29-8491419
Office of International Cooperation
Northwestern Polytechnic University
Detail of The Conference Please See: http://relativity.51.net
*****
VIII International Scientific Conference
"Space, Time, Gravitation"
August, 16 - 20, 2004, Saint-Petersburg, Russia
First Announcement
Dear colleagues,
We have the honor to invite you to take part in the Conference, organized by
Baltic State Technical University (BSTU),
Russian Academy of Sciences,
Institute for History of Science and Technology,
Russian Academy of Applied Sciences,
International Slavic Academy of Sciences, Education and Arts,
Peters Academy of Sciences,
23
St.-Petersburg Philosophical Club.
Program (Scientific) Committee welcomes the papers on actual and controversial problems in
Physics, Astronomy and Cosmology, Geodesy and Metrology, Philosophy of Natural
Sciences, Technology at the Earth and in Cosmos.
Simultaneously the section will be organized dedicated to scientific heritage of H. Poincare,
celebrating 150 Anniversary of his birthday.
On Plenary session of August 20 the following program is proposed:
1. Discussion and adoption of a Manifest, summarizing the results of eight Conferences
(1989-2004).
2. The aims and forms of activity of scientific world in a future.
The Conference is hosted by BSTU. Registration fee is 200 USD.
If you intend to participate, please, fill in the enclosed Registration form and send it together
with the summary of your paper (not more than 15 lines) to Local Organizing Committee
before January 15 2004.
After getting your Registration form, Second Announcement will be sent to you with detailed
information.
The address of the Chairman of Local Organizing Committee is:
Dr. Michael Varin, 65-9-1, Pulkovskoe Shosse, 196140, St.-Petersburg, Russia.
E-mail: [email protected] and [email protected]
From Program Scientific Committee, co-chairmen:
S.S.Grigorian, active member of Russian Academy of Sciences, Prof., Doctor of Sciences
G.T.Aldoshin, Leader of the theoretical mechanics and ballistic cathedra BSTU, honored
leader of sciences of Russian Federation, Prof., Doctor of Sciences
From Organizing Committee (LOC):
Chairman Varin M.P., Ph. D.
Secretary Popov V.S., Ph.D.
October 28 2003.
*****
E' NATA L'A.S.S.E. (ASSOCIAZIONE STUDIOSI SCIENZE ETERODOSSE)
l'Associazione che vuole accomunare tutti i ricercatori, gli sperimentatori e gli appassionati
nel campo delle scienze alternative.
Solo iscrivendosi all'ASSE si potrà ricevere la rivista ALTRA SCIENZA, che sarà il
bollettino ufficiale dell'Associazione, e si potrà partecipare alle attività della stessa.
24
A chi si iscriverà, mandando 50 Euro (per i soci ordinari e una cifra superiore per i soci
sostenitori) tramite vaglia postale indirizzato a Franco Modesto Malgarini, via di Boccea 302,
00167 Roma (specificando nella causale: quota associativa ASSE 2003), verrà inviato subito
il CD di Altra Scienza che prossimamente sarà arricchito con video originali di esperimenti.
Le quote associative serviranno per coprire le prime spese dell'Associazione, presieduta da
Franco Malgarini, coadiuvato nel Consiglio Direttivo da Carlo Splendore e da Eugenio
Odorifero.
Presto sarà disponibile lo Statuto che verrà inviato a tutti i soci i quali sono pregati di
partecipare attivamente alla gestione dell'Associazione con consigli e suggerimenti,
soprattutto sulla definizione dei programmi di ricerca.
I Soci sono pregati, contestualmente all'invio del vaglia postale (le cui ricevute costituiscono il
documento d'iscrizione), d'inviare un'email al Presidente ([email protected]) specificando i
dati personali, le proprie attitudini professionali e le aspirazioni nel campo della ricerca
alternativa.
Iniziamo questa avventura affidando il nostro cuore ai Maestri dell'Umanità!
*****
New Features from Akronos Publishing
[AKRONOS Publishing is a publisher of research materials in advanced aether physics and
biophysics]
"Aetherometry Info" <[email protected]>
Dear Friends and Colleagues,
AKRONOS Publishing, the foremost electronic publisher of research works in Aetherometric
Biophysics, has the pleasure to announce the availability of the following new publications
and initiatives:
- The beginning of publication of the seminal Aetherometric Theory of Synchronicity (AToS),
with the release of the first two chapters of Volume II, on the Gravitational Aether:
ABRI Monograph AS3-II.1 - Correa, P and Correa, A (2003)
"The Gravitational Aether, Part I: Gravitational Orgonometry (1)"
Abstract and ordering information at:
http://www.aetherometry.com/abs-AS3-II.html#abstractAS3-II.1
This is the first of a series of AToS monographs on the topic of gravitation, positive and
negative. Most of the future works in this series will be accessible only to members of the
International Society of Friends of Aetherometry (ISFA).
- The creation of the International Society of Friends of Aetherometry (ISFA). This is a joint
initiative of Akronos Publishing and the Aurora Biophysics Research Institute (ABRI). The
purpose of ISFA is to provide a firm basis for the continued support of aetherometric research,
to lay the foundations for an educational infrastructure, and to establish the conditions for
responsible release of the scientific information contained in forthcoming Akronos
publications. Akronos and ABRI invite all those who have a serious interest in Aetherometry
25
and its future to become ISFA members. A more complete description of the goals of ISFA
and its membership privileges can be found at:
http://www.aetherometry.com/ISFA_overview.html.
To apply for membership, please fill out the form at:
http://www.aetherometry.com/ISFA_application.html.
- The release, from ABRI Studios, of a new, digitally remastered Professional Edition of the
DVD video documentary "From Pulsed Plasma Power to the Aether Motor".
The creation of this new edition has been made possible by the success of the special offer (by
www.aethera.org) for the first edition, now sold out.
The DVD provides an overview, including extensive demonstrations, of both the PAGD and
the ORgone/Aether Motor research work undertaken by Dr. Paulo Correa and Alexandra
Correa at Labofex - Applied and Experimental plasma Physics (1987-2002), and at the Aurora
Biophysics Research Institute (ABRI) (1996-2002). It also includes a short review and
demonstrations of the HYBORAC/Stirling Motor technology (2001-2002).
The DVD is a joint production of ABRI and Aethera. It can be ordered from Aethera at
http://www.aethera.org, or, for ISFA members only, at:
http://www.aetherometry.com/cat-abrimedia.html.
*****
Errata Corrige (3.X.003)
Per un errore materiale, nell'articolo dell'Ing. Sabato Scala, intitolato
"Simmetrizzazione delle equazioni di Maxwell con l'introduzione del campo
gravitazionale, un'idea bizzarra?", apparso nel precedente numero di Episteme,
Parte II, e precisamente nell'equazione (12), all'interno del secondo addendo del
membro di destra, figurava un segno meno che deve essere invece
evidentemente un più, così come segue:
12) ∇ × X = κ0(Jm +
∂B
∂D
) - κ0λ0(J +
).
∂t
∂t
L'errore non era presente peraltro nell'equazione (15), che è diretta conseguenza
della (12).
La relativa correzione è stata già riportata nella versione dell'articolo
attualmente reperibile in rete.
26
27
L'astronomia nell'antica Pompei e nella Magna Grecia
(Francesco Vitale)
Riassunto - L'Autore descrive le varie fasi della ricerca che l'ha portato alla scoperta dei criteri
astronomici utilizzati per orientare alcune costruzioni sacre dell'antica Pompei e tutti i templi edificati
nella Magna Grecia. Le conoscenze di matematica e astronomia che dovevano avere gli architetti del
tempo fanno pensare ad un influsso autorevole e di lunga durata dei Pitagorici su tutte le colonie
greche dell'Italia meridionale.
*****
Le nostre ricerche risalgono a qualche anno fa, quando abbiamo cominciato a studiare
l'urbanistica dell'antica Pompei. Ebbene, un sommario esame di una pianta della città ci aveva
fatto sospettare che le sue sette porte si trovassero su un'ellisse. Utilizzando allora la migliore
pianta disponibile, quella redatta dall'ingegnere Hans Eschebach e adottata dalla
Soprintendenza Archeologica di Pompei, abbiamo rilevato le posizioni delle porte
misurandone le coordinate rispetto ad un riferimento cartesiano ortogonale costituito da due
lati della cornice della stessa carta. Mediante la geometria analitica, utilizzando procedimenti
piuttosto complessi, abbiamo trovato che effettivamente per le sette porte passava un'ellisse
con scarti di qualche metro (inferiori alla stessa lunghezza dei loro fòrnici); l'ellisse risultava
inoltre inscritta nella cinta muraria e presentava un rapporto fra gli assi esattamente di 2 a 1; il
suo asse maggiore aveva una lunghezza di sette stadi attici (1.243 m).
Fig. 1: Pianta dell'antica Pompei che riporta le mura, le sette porte e le strade principali.
L'ellisse determinata dal calcolo passa esattamente per tutte le porte
e risulta anche inscritta nel perimetro della cinta muraria.
28
Le stranezze urbanistiche dell'antica Pompei non erano soltanto queste. La strada principale
della città, chiamata cardo maximus (cardine massimo), che, secondo le regole dell'urbanistica
dell'epoca, avrebbe dovuto seguire la direzione nord-sud, segue invece approssimativamente
la direzione NO-SE; inoltre le altre due strade principali, chiamate decumani (cioè Via di Nola
e Via dell'Abbondanza), non intersecano il cardine massimo ortogonalmente, come avrebbero
dovuto, né seguono la direzione dell'asse maggiore dell'ellisse, ma presentano un orientamento
inusuale, come si può vedere nella figura esplicativa.
Fig. 2: Il cardine massimo, i due decumani e l'ellisse passante per le porte.
Poiché sospettavamo che questi orientamenti dipendessero da scelte legate all'astronomia,
siamo andati a misurare sul posto l'angolo (azimut) che l'asse di queste strade, parallele tra
loro, forma rispetto al Nord geografico.
Ricordiamo al lettore che la volta celeste appare come un'enorme sfera che gira intorno ad
un punto ideale, chiamato polo celeste, che oggi, per chi osserva dall'emisfero boreale, è
molto vicino alla stella Polare (in astronomia è indicata col nome latino Polaris), appartenente,
come è noto, alla costellazione dell'Orsa Minore. Il polo celeste forma, rispetto alla linea
dell'orizzonte, un angolo pari alla latitudine geografica della località dalla quale si osserva.
Ebbene, utilizzando la trigonometria sferica, abbiamo trovato che un astro che si vedeva
sorgere sullo sfondo visibile in lontananza guardando lungo l'asse delle due strade, doveva
avere una distanza angolare (che indichiamo con p) dal polo celeste uguale a quella del Sole ai
solstizi. Abbiamo poi trovato che anche il Tempio Dorico di Pompei era orientato verso il
punto, situato sulle pendici del Vesuvio, in cui il Sole, ancora al solstizio d'estate, tramontava.
Allora abbiamo pensato che gli stessi assi dell'ellisse e il cardine massimo fossero stati
orientati dai costruttori secondo un criterio astronomico. Intanto dobbiamo fare presente che
in astronomia non si utilizza la distanza angolare p di una stella dal polo, ma un'altra
grandezza, chiamata declinazione e indicata con la lettera greca δ, legata a p dalla relazione: δ
= 90° - p. Quindi, due astri che hanno la stessa distanza dal polo celeste hanno anche la stessa
declinazione.
Il nostro primo passo è stato quello di calcolare i valori della declinazione di tutte le stelle
più luminose, andando indietro nel tempo fino all'anno 1000 a.C., tenendo conto del loro moto
29
proprio sulla sfera celeste e della precessione degli equinozi. Abbiamo dovuto utilizzare un
computer, perché il procedimento matematico è molto laborioso.
Dai diagrammi ottenuti e riportati nelle ulteriori figure che alleghiamo al presente articolo,
si vede che diverse stelle tra quelle esaminate presentavano, per lo più a due a due, la stessa
declinazione proprio in un'epoca che va dal VI al IV sec. a.C., che è quella dell'edificazione
della cinta muraria di Pompei e dei templi delle città fondate dai Greci in Italia. Questo
significa che, se in un certo tempo, due o più stelle avevano la stessa declinazione (e quindi la
stessa distanza dal polo celeste), a causa del moto apparente intorno a quest'ultimo, sorgevano
e tramontavano in uno stesso punto dell'orizzonte. Ovviamente, ciascuna delle stelle aventi la
stessa declinazione era visibile sulla linea dell'orizzonte in tempi diversi (o in ore diverse nella
stessa notte o in periodi dell'anno diversi). Ebbene, proprio verso i punti in cui si levavano o
tramontavano varie coppie di stelle molto luminose, aventi in passato la stessa declinazione,
furono orientati i templi e le strade che abbiamo esaminato.
Per il cardine massimo di Pompei, la declinazione richiesta era quella che avevano le tre
stelle Vega, Deneb e Capella nel VI sec. a.C., mentre, per l'asse maggiore dell'ellisse, la
declinazione era praticamente coincidente con quella che allora avevano le stelle Procyon e
Aldebaran.
In un secondo tempo, tenendo conto del fatto che i capitelli del Tempio Dorico di Pompei
presentano una forma simile a quelli del tempio di Paestum chiamato "Basilica" e a quelli del
tempio di Metaponto chiamato "Tavole Palatine", abbiamo misurato sul posto gli orientamenti
di tutti i templi edificati in queste città. Peraltro diversi templi furono edificati dai Greci a
Metaponto con orientamenti considerati "anomali" dagli archeologi, perché non tenevano
conto dell'andamento delle strade e quindi del contesto urbanistico nel quale gli stessi templi
erano inseriti. I valori di declinazione ricavati dalle misure da noi eseguite su tutti questi
templi, sono risultati, con qualche eccezione, quelli che presentavano a due a due le stelle più
luminose proprio all'epoca della loro edificazione.
Questi risultati incoraggianti ci hanno spinto a misurare gli orientamenti di tutti quei templi,
di cui ancora esistono tracce, situati in Campania, in Basilicata e in Calabria, limitando cioè le
nostre ricerche a quelli della Magna Grecia. Ai primi templi studiati si sono perciò aggiunti
quelli di Elea, poi diventata Velia [presso Ascea Marina (SA)], di Hipponion (poi diventata
Vibo Valentia), di Caulonia [presso l'odierna Monasterace Marina (CZ)], di Locri Epizefiri, a
poca distanza dall'odierna Locri (RC). I risultati, per tutti i templi esaminati, sono riportati
nella tabella riepilogativa apposta in fine dell'articolo.
Dovevano però essere trovati i veri motivi che avrebbero indotto i Greci a utilizzare questi
criteri astronomici. E' vero che soltanto all'epoca della fondazione delle città greche le stelle
più luminose si vedevano sorgere e tramontare, quasi sempre a due a due, in uno stesso punto
dell'orizzonte; ma questa curiosa coincidenza astronomica non ci sembrava una
giustificazione sufficiente per le scelte operate dagli antichi costruttori. Ci siamo allora avvalsi
degli studi del prof. Giuliano Romano, astronomo dell'Università di Padova. Egli ha fatto
notare che il poeta greco Esiodo (VI sec. a.C.) nel suo poema Opere e giorni, dava molte
informazioni su alcuni fenomeni celesti che potevano fornire precise indicazioni per le attività
agricole. Talvolta queste indicazioni si riferivano alla levata e al tramonto eliaco di alcune
stelle molto luminose.
Siamo stati perciò spinti a esaminare dettagliatamente questi fenomeni legati al crepuscolo,
che è la diffusione della luce solare nel cielo - dovuta al vapore acqueo e al pulviscolo presenti
nell'atmosfera - che si manifesta quando il disco del Sole si trova poco al di sotto
dell'orizzonte: il cielo resta perciò pervaso da un chiarore che aumenta o diminuisce se viene
osservato prima dell'alba o dopo il tramonto.
Per illustrare i fenomeni astronomici legati al crepuscolo, cominciamo col precisare che un
astro è in "levata eliaca" se esso appare all'orizzonte poco prima del sorgere del Sole, quando
la luminosità del cielo dovuta al crepuscolo è tale da consentire di vederlo per un breve tempo.
30
Poi, per effetto dell'ulteriore aumento della luminosità del cielo prodotta dall'innalzarsi, al di
sotto dell'orizzonte, del disco solare prima di sorgere, l'astro diventa totalmente invisibile.
Tuttavia, sempre quando l'astro sta sorgendo, può accadere che, poco dopo il tramonto del
Sole, la luce diffusa nel cielo in quel momento sia tale da renderlo visibile proprio quando sta
spuntando al di sopra dell'orizzonte. Poi, via via che il Sole dalla parte opposta scende al di
sotto dell'orizzonte, l'astro diventa sempre più visibile. Questo fenomeno si potrebbe chiamare
"levata serale".
Se si prende in considerazione un astro nel momento in cui sta tramontando, si dice che è in
"tramonto eliaco" se esso diventa visibile all'orizzonte quando il Sole è tramontato da poco,
ma la luminosità che presenta il cielo in quel momento è appena sufficiente a renderlo visibile
per un breve tempo; poi l'astro scompare sotto l'orizzonte, mentre il cielo diventa sempre più
scuro.
Abbiamo infine considerato anche l'ultimo caso, che è quello in cui l'astro sta tramontando
quando il Sole sta per sorgere. Allora l'astro appare sul profilo dell'orizzonte quando la
luminosità via via crescente del cielo è tale da renderlo visibile per un breve tempo proprio nel
momento in cui sta per scomparire. Questo "tramonto mattutino" viene anche chiamato
"occaso cosmico".
Per determinare il giorno dell'anno in cui si verifica la levata o il tramonto eliaco di una
stella, si può utilizzare un buon astrolabio, oppure si possono utilizzare programmi di
astronomia oggi reperibili con relativa facilità. In ogni caso, consigliamo il lettore di
consultare il nostro libro Astronomia ed esoterismo nell'antica Pompei e ricerche
archeoastronomiche a Paestum, Cuma, Velia, Metaponto, Crotone, Locri e Vibo Valentia Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova (CLEUP) - Padova. Nel libro, presentato
dal prof. Bruno Cester, astrofisico dell'Università di Trieste, abbiamo anche indicato i metodi
per determinare l'orientamento delle costruzioni esaminate e le formule rigorose per calcolare,
attraverso le coordinate celesti, le posizioni di un astro in qualunque epoca, partendo da quelle
attuali e tenendo conto sia della precessione degli equinozi, sia del moto proprio che esso
presenta sulla sfera celeste.
Per determinare il giorno relativo all'osservazione di una stella al crepuscolo al momento
dell'edificazione di un tempio, occorre prima ricavare le posizioni nel cielo della stella
prescelta per quell'epoca, e poi determinare, coi metodi illustrati nel libro anzidetto, il giorno,
che è ovviamente quello del nostro calendario; in effetti, una volta determinate le coordinate
celesti di una stella per una certa epoca, è come se ci trovassimo in quel tempo col nostro
calendario; la sfera celeste ci apparirebbe invece ruotare intorno ad un polo diverso.
Abbiamo trovato che i giorni dell'anno in cui si verificavano i fenomeni crepuscolari per le
stelle prescelte dagli antichi costruttori (nei quattro casi illustrati poc'anzi) segnalavano
innanzitutto le principali attività agricole. Le indicazioni erano abbastanza precise e
indipendenti dalla situazione meteorologica del momento ed evitavano quindi scelte errate e
disastrose per queste attività in presenza di condizioni di tempo anomale rispetto a quelle
medie stagionali. Anche la navigazione risultava sicura soltanto in certi periodi dell'anno e per
determinarli ci si riferiva (come leggiamo nel poema di Esiodo) all'equinozio di primavera e al
solstizio d'estate. Abbiamo trovato che i fenomeni crepuscolari riguardanti alcune tra le stelle
più luminose prescelte dai Greci indicavano persino i giorni dei solstizi e degli equinozi,
senza usare come riferimento la posizione dell'abbagliante disco solare sul profilo
dell'orizzonte. Questa circostanza fa pensare a una conoscenza approfondita dei fenomeni
celesti che si poteva acquisire soltanto attraverso osservazioni eseguite nell'arco di parecchi
decenni.
Il ricorso a questi fenomeni celesti per individuare determinati giorni dell'anno si spiega se
si tiene presente che, all'epoca dell'edificazione dei primi templi (VI - V sec. a.C.), i Greci
avevano un calendario imperfetto, che correggevano senza un criterio stabile, aggiugendo
saltuariamente un mese intercalare.
31
Tuttavia, col passare dei decenni, sia per le variazioni dovute alla precessione degli
equinozi, sia per l'utilizzazione di un calendario più preciso, in alcune città della Magna
Grecia i templi di epoca posteriore a quella arcaica furono talvolta edificati con un diverso
orientamento. Per Locri, per esempio, abbiamo potuto stabilire che il primitivo tempio dorico
di Marasà fu orientato verso il punto medio della congiungente le due stelle Pollux e Castor
della costellazione dei Gemelli (peraltro Castore e Polluce - i Diòscuri - erano i protettori di
Locri); successivamente fu ricostruito in stile ionico sulle fondamenta del precedente, ma fu
orientato verso il punto in cui tramontava il Sole al solstizio d'estate. Poiché il calendario
greco attico, adottato poi da tutte le etnìe greche che avevano colonizzato l'Italia, iniziava
dopo il solstizio d'estate, con questa scelta era possibile individuare stabilmente nel tempo
questo importante giorno dell'anno.
Tuttavia abbiamo trovato che i giorni dell'anno segnalati dai templi fornivano anche
indicazioni sulle principali festività del calendario greco attico. Peraltro questo fatto si spiega
se si tiene conto che quasi sempre le più importanti festività religiose presso le antiche civiltà
cadevano nei periodi in cui si svolgevano le principali attività agricole (semina, mietitura,
vendemmia, ecc.).
Un'esposizione dettagliata di queste festività richiederebbe troppo spazio e siamo costretti a
rimandare al nostro libro. Per quanto riguarda quest'ultimo, crediamo che qualche lettore
possa restare sconcertato per la presenza del termine "esoterismo" nel titolo di un testo di
archeoastronomia. Qui ci sembra necessario chiarire il significato di questa parola che molte
persone, anche colte, non conoscono affatto e tendono perciò erroneamente ad associarla alla
parapsicologia, all'occultismo e alla magia. Invece il termine deriva dall'aggettivo greco
"esoterikòs", che significa "interno, riservato". Così era chiamato l'insegnamento delle scuole
filosofiche greche riservato ai soli allievi e quindi non destinato a essere divulgato; quello che
poteva essere impartito anche ai non allievi, e perciò divulgabile, era invece chiamato
"essoterico", cioè "esterno" (da "exoterikòs").
Ci siamo quindi chiesti quali architetti avrebbero avuto le conoscenze matematiche e
astronomiche necessarie per orientare i templi secondo i criteri che abbiamo illustrato e
soprattutto chi avrebbe indotto gli architetti di città lontane, fondate da etnie diverse e sovente
in guerra tra loro, a utilizzare gli stessi criteri per l'edificazione dei templi.
Intanto, per quanto riguarda l'ellisse della cinta muraria della città, abbiamo constatato che
per il tracciamento di questa curva non fu utilizzata la nota "costruzione del giardiniere", che
avrebbe richiesto l'uso di una corda eccessivamente lunga e pari alla lunghezza dell'asse
maggiore; peraltro il fuoco ovest dell'ellisse cade al di fuori del pianoro - su cui si erge la città
- che presenta (e presentava) in quel punto un ripido scoscendimento. A nostro avviso fu
utilizzata la costruzione sulla quale si basano i cosiddetti "compassi ellittici" (per la quale non
è necessaria la determinazione preliminare della posizione dei fuochi), utilizzando quindi una
corda di lunghezza pari alla metà di quella richiesta dall'altro metodo e cioè uguale alla
lunghezza del semiasse maggiore. Poiché il semiasse minore, nel caso dell'ellisse di Pompei, è
pari alla metà di quest'ultimo, sul punto medio della corda usata per tracciare la curva fu posto
un segno. Una volta tracciati sul terreno gli assi dell'ellisse, si spostava la corda - tenendola
sempre tesa - in modo da posizionare un suo estremo sempre sull'asse minore e il suo punto
medio, indicato dal segno, sempre sull'asse maggiore; l'altra estremità della corda dava così la
posizione di un punto dell'ellisse.
Queste considerazioni portano ad un importante risultato per la storia della matematica: se
infatti l'ellisse era già nota intorno al 550 a.C., quando fu edificata la cinta muraria di Pompei,
certamente non fu scoperta dal greco Menecmo, che, secondo gli studiosi di storia della
matematica, fu il primo a descrivere, verso il 350 a.C., le curve geometriche oggi chiamate
"coniche". La spiegazione più semplice di questo fatto importante ci è sembrata quella di
attribuire tutte queste conoscenze astronomiche e matematiche alla Scuola Pitagorica.
32
Pitagora di Samo (580-500 a.C.) fu discepolo del grande Talete di Mileto (624-548 a.C.),
allora considerato il primo dei Sette Saggi. Entrambi impararono l'astronomia a Babilonia e la
matematica in Egitto. Talete destò lo stupore dei suoi concittadini con la previsione
dell'eclisse di Sole del 585 a.C. Pitagora fondò invece a Crotone, nella Magna Grecia, la sua
scuola, che era proprio di tipo iniziatico: infatti si era ammessi dopo il superamento di prove
molto severe. Le dottrine pitagoriche erano ammantate dal più rigoroso riserbo e di ogni
scoperta fatta da un allievo si soleva dare il merito al maestro. Gli adepti seguivano
un'alimentazione rigorosamente vegetariana.
La Scuola Pitagorica formava una comunità segreta con numerosi gradi di iniziazione, i cui
membri si riconoscevano con segni convenuti. Le discipline più raccomandate erano
la musica, la geometria e l'astronomia.
È certo che l'esoterismo pitagorico influenzò fin dal suo inizio le decisioni dei più
importanti magistrati delle città della Magna Grecia. Così si spiega perché templi edificati in
città fondate da etnie diverse e sovente in lotta tra loro, furono orientati con gli stessi criteri
astronomici. Soltanto l'esoterismo si poteva porre al di sopra delle fazioni politiche e delle
sette religiose e influenzarne le scelte. In effetti, la Scuola Pitagorica, per quanto riguarda
l'organizzazione e la struttura, doveva essere simile alla società segreta dei Liberi Muratori,
quella che, fra l'altro, si occupò soprattutto dell'edificazione delle cattedrali gotiche e che da
questa attività prese il nome. Peraltro numerosi sono gli studi che dimostrano collegamenti di
alcuni elementi architettonici delle cattedrali gotiche con importanti eventi astronomici.
L'esoterismo pitagorico, tenendo conto anche di quanto è emerso dalle nostre ricerche,
abbracciava dunque tutte le conoscenze matematiche, fisiche e astronomiche di quei tempi;
per quanto riguarda la religione, era invece legato al culto di Apollo: poggiando quindi sia
sulla scienza che sulla fede, esso era in grado di tenere unite le eterogenee etnie greche.
Concludiamo facendo notare che, partendo soltanto dagli orientamenti dei templi, sarebbe
possibile risalire all'epoca della loro costruzione - una volta riconosciuto il criterio
astronomico adottato dai loro architetti - senza ricorrere ai metodi puramente archeologici che
sono stati finora utilizzati. Perciò riteniamo che tale criterio sia stato intenzionalmente
adottato proprio per consentire di ricavare, in un futuro più o meno lontano, l'epoca
dell'edificazione dei templi. Questa nostra idea parte dal presupposto che, già nell'antichità,
almeno i Caldei e gli Egizi (presso i quali si recarono Talete e Pitagora), conoscessero lo
spostamento del polo celeste nel tempo. È vero che gli studiosi di storia dell'astronomia,
tenendo conto della segnalazione di Tolomeo nell'Almagesto, attribuiscono all'astronomo
greco Ipparco di Nicea (190-125 a.C.) la scoperta del fenomeno della precessione degli
equinozi, provocata dal quel particolare moto dell'asse terrestre (chiamato appunto
precessione), che produce anche lo spostamento del polo celeste - un esame dettagliato di
questo fenomeno è contenuto nel nostro libro. Tuttavia, si sa anche che Ipparco attinse molte
delle sue conoscenze da Apollonio di Perge, grande matematico e astronomo greco (262-180
a.C.). Peraltro, Ipparco studiò questo fenomeno per ricavare con precisione la durata dell'anno
tropico, attraverso un modello geometrico e matematico, per poter costruire un calendario
preciso; invece, lo spostamento del polo celeste nel tempo doveva essere stato notato molti
secoli prima. Per dare un'idea della sua entità, in cinquecento anni lo spostamento del polo
sulla volta celeste è poco meno di 3° (pari a circa 6 volte il diametro apparente della Luna o
del Sole) e certamente non passò inosservato agli astronomi delle antiche civiltà. La rotazione
delle costellazioni intorno ad un punto del cielo è indicato anche da Omero (Odissea - Libro
V). Il babilonese Beroso, all'epoca di Alessandro Magno, inventò la prima meridiana
emisferica (descritta nel nostro testo), che funziona tenendo conto della posizione del polo
celeste. Nello stesso testo abbiamo anche descritto uno strumento semplicissimo, da noi
ideato, costituito da assi di legno, atto a determinare la posizione del polo nel cielo (anche se
questa non è occupata da alcuna stella) e la direzione del Nord geografico. Dispositivi simili a
33
quello da noi ipotizzato, che si basano sull'osservazione delle stelle circumpolari, sono
accettati da tutti gli astronomi e la loro probabile esistenza è giustificata dal preciso
orientamento riscontrato in costruzioni antichissime - come le prime piramidi egizie, edificate
intorno al 2600 a.C. - che altrimenti sarebbe inspiegabile. Il fatto che non siano stati trovati
dagli archeologi trattati dettagliati di astronomia e di tecnica delle costruzioni scritti dai
Babilonesi o dagli Egizi, non deve portare a credere che questi popoli conoscessero poco tali
discipline: sappiamo infatti che queste, almeno per quanto riguardava la realizzazione dei
grandi edifici sacri, erano appannaggio dei sacerdoti e degli architetti reali.
Ebbene, gli astronomi di un'antica civiltà che avessero determinato la posizione del polo
(rispetto alle stelle circostanti) per un arco di tempo di alcuni secoli, si sarebbero non soltanto
accorti del suo spostamento, ma ne avrebbe determinato facilmente l'entità. A causa della
precisione non elevata raggiungibile con gli strumenti di cui disponevano, tenendo conto che
le loro osservazioni coprivano un periodo che era soltanto una frazione della durata del ciclo
precessionale (che è di circa 25.700 anni), il polo sembrava spostarsi con moto circolare (se
non addirittura rettilineo) uniforme. Tuttavia, per giustificare la nostra ipotesi è sufficiente
ammettere che i Pitagorici fossero venuti a conoscenza, attraverso i Caldei e gli Egizi, che il
polo celeste, 2000 anni prima, si trovava in una posizione diversa da quella che essi
osservavano e che continuava a spostarsi lentamente in modo tale da non lasciar prevedere un
ritorno in tempi brevi nella stessa posizione; non è necessario supporre che essi conoscessero
esattamente la legge secondo la quale si verificava lo spostamento. Approfittarono perciò dei
fenomeni da noi illustrati dovuti alla particolare posizione, in quel tempo, del polo rispetto
alle principali stelle, e legarono indissolubilmente queste, attraverso l'orientamento dei templi,
alla loro epoca. In altre parole, riteniamo che i Pitagorici, a conoscenza dello spostamento del
polo celeste, abbiano utilizzato proprio i fenomeni ad esso legati per ricavarne un criterio atto
a consentire in futuro la determinazione dell'epoca dell'edificazione dei templi, criterio che
portò a realizzare, per ogni tempio, una specie di targa virtuale - con l'indicazione dell'epoca
di costruzione e, implicitamente, del nome degli architetti - paragonabile a quella che la civiltà
umana ha destinato a civiltà extraterrestri e che è stata collocata sulle sonde Pioneer e
Voyager. Siamo infatti convinti che i seguaci della Scuola Pitagorica abbiano voluto non
soltanto lasciare una prova duratura della loro esistenza attraverso i maestosi templi edificati
sotto la loro guida, ma anche inviare alla nostra civiltà un messaggio che, grazie alle attuali
conoscenze scientifiche, può essere compreso soltanto oggi, dopo 2500 anni!
*****
Francesco Vitale è nato a Torre Annunziata (NA) nel 1944. Si è laureato a
Napoli in ingegneria elettronica nel 1969. Oltre a svolgere molteplici attività,
si occupa, da diversi anni, di archeologia e di astronomia, dedicandosi in
particolare allo studio dei corpi minori del Sistema Solare. È anche
collaboratore scientifico di numerose riviste ed è attivo, come conferenziere,
nella divulgazione delle varie discipline che sono oggetto delle sue ricerche.
Oltre al libro di archeoastronomia indicato in quest'articolo, lo stesso Autore
ha scritto Accampamenti romani nel Veneto, che tratta alcuni argomenti di
antichità romane e di archeoastronomia, ed è stato pubblicato proprio in
questi giorni dalla medesima Casa Editrice CLEUP di Padova.
Indirizzo:
Via Nazionale, 144 - 89060 SALINE JONICHE (RC)
Tel. e fax: 0965 782184
34
ALTRE FIGURE
Fig. 3
Fig. 4
35
Fig. 5
Figg. 3, 4, 5: Andamento nel tempo della declinazione
delle principali stelle, dal 1000 a.C. ad oggi.
36
Fig. 6
Fig. 7
Figg. 6, 7: Due stelle, S e S', aventi distanze angolari diverse
dal polo celeste attuale P, sorgono e tramontano in punti diversi dell'orizzonte.
37
Fig. 8
Fig. 9
Figg. 8, 9: Se le stesse stelle, rispetto al polo celeste P' - relativo ad un'epoca passata presentavano la stessa distanza angolare, sorgevano e tramontavano
in uno stesso punto dell'orizzonte. Proprio verso i punti in cui sorgevano
o tramontavano alcune coppie di stelle molto luminose, i Greci orientavano i loro templi.
38
TABELLA RIEPILOGATIVA DEGLI ORIENTAMENTI
La dicitura (levata) oppure (tramonto) indica che il tempio (o la strada) era orientato verso il
punto in cui le stelle prescelte sorgevano oppure tramontavano.
δ = +38°,6 - Intorno al 550 a.C. declinazione di Vega, Capella e Deneb.
Pompei: cardine massimo (tramonto).
δ = +32°,9 - Intorno al 400 a.C. declinazione di Arcturus e Castor.
Cuma: Tempio di Apollo (levata).
Velia: Tempio di Athena - asse trasversale [*] (tramonto).
δ = +31°,0 - Intorno al 600 a.C. declinazione del punto medio della
congiungente Pollux con Castor.
Locri: località Marasà - tempio arcaico (tramonto).
δ = +26°,7 - Intorno al 550 a.C. declinazione del punto intermedio
tra quello in cui tramontava Pollux e quello in cui
tramontava la stella β Cyg.
Metaponto: Tempio AII e Tempio B (tramonto).
δ = +23°,8 - Nel VI - V sec. a.C. declinazione del Sole al solstizio d'estate.
Metaponto: Tempio AI (tramonto).
Locri: località Marasà - nuovo tempio (tramonto).
Pompei: Tempio Dorico (tramonto); decumani (levata).
δ = +20°,8 - Nel V - II sec. a.C. declinazione del Sole nei giorni
corrispondenti al 23 maggio e al 21 luglio.
Pompei: Tempio di Apollo - asse trasversale [*] (levata).
δ = +13°,3 - Intorno al 470 a.C. declinazione delle Pleiades.
Metaponto: Tempio D (tramonto).
δ = +7°,9 - Intorno al 450 a.C. declinazione di Procyon e di Aldebaran.
Caulonia: Tempio Dorico (tramonto).
Pompei: asse maggiore dell'ellisse (levata).
δ = +5°,6 - Intorno al 550 - 520 a.C. declinazione di Altair.
Metaponto: Tavole Palatine (tramonto).
Foce del Sele: templi dell'Heraion (tramonto).
δ = +2°,9 - Intorno al 500 a.C. declinazione di Betelgeuse e di Spica.
Paestum: Heraion
Basilica - 550 a.C. (tramonto).
Tempio di Nettuno - 460 a.C. (tramonto).
Paestum: Athenaion - 520 - 510 a.C. (levata).
Vibo Valentia: tempio dorico (tramonto).
δ = 0° - Sole agli equinozi.
Cuma: Tempio di Giove - 450 a.C. (tramonto).
Crotone: Heraion di Capo Lacinio - 450 a.C. (tramonto).
δ = -16°,7 - Intorno al 600 a.C. declinazione di Antares e Sirius.
Pompei: Tempio di Apollo - prima fase (tramonto).
Metaponto: Tempio C (levata).
δ = -19°,4 - Nel VI - V sec. a.C. declinazione del Sole nei giorni
corrispondenti al 18 nov. e al 25 gen.
Pompei: Tempio di Apollo - asse trasversale [*] (tramonto).
δ = -23°,8 Nel VI - V sec. a.C. declinazione del Sole al solstizio d'inverno.
Pompei: decumani (tramonto)
[*] L'asse del tempio parallelo ai lati più corti del suo basamento.
39
Come l'Argentina diventò l'Antartide
La carta di Piri Re'is, un mito cartografico che dura da quarant'anni
(Alberto Arecchi)
1. Charles Hapgood, la carta di Piri Re'is e gli "extraterrestri" di von Däniken
Tre articoli molto interessanti, scritti da Paul F. Hoye e Paul Lunde a commento alle ipotesi
avanzate da Charles Hapgood sulle "carte degli antichi re del mare", comparvero nel numero
di gennaio-febbraio 1980 della rivista "Aramco World Magazine" (v. nota bibl.).
Riassumiamo brevemente le principali considerazioni di tali articoli.
Gli autori ricordano le fasi del ritrovamento della mappa di Piri Re'is, nel 1929, negli archivi
dell'Impero Ottomano, nel Palazzo del Topkapi di Istanbul. Si trattava della metà occidentale
di un planisfero, che - secondo lo stesso autore - doveva raccogliere tutte le più moderne
conoscenze geografiche dell'epoca. La carta, firmata da un capitano ottomano di nome Piri
Re'is, recava una data corrispondente all'anno 1513 dell'era cristiana, posteriore di soli ventun
anni alla scoperta dell'America, e sembrava derivata da una carta disegnata o usata da
Cristoforo Colombo, con le sue scoperte nel Nuovo Mondo. L'ammiraglio turco era riuscito ad
entrare in possesso di mappe originali, che suo zio Kemal Re'is aveva preso a marinai della
flotta spagnola.
(La carta di Piri Re'is)
Piri Re'is dichiara di avere utilizzato per la propria carta una ventina di diverse fonti, e cita tra
queste otto carte dell'epoca d'Alessandro Magno, una carta araba dell'India, quattro carte
portoghesi dell'Oceano Indiano e della Cina, e la "carta di Colombo" ottenuta tramite suo zio
Kemal. Le altre carte (circa sei, per arrivare ad una ventina) non sono espressamente citate.
40
Tra queste, si suppone per esempio la conoscenza di altre carte portoghesi, relative alle coste
del Brasile, scoperte da Pedro Alvares Cabral nel 1500, sulle quali Piri Re'is riporta appunto
nomi di derivazione portoghese.
Dopo le prime analisi, la parte occidentale della grande carta fu giudicata autentica, anche
sulla base di altre carte dello stesso autore, conservate nella raccolta Kitab-i Bahriye ("Il
manuale del marinaio"), in cui Piri ripete anche un simile racconto della scoperta delle
Americhe da parte di Colombo.
Nel 1954 Charles Hapgood, professore di storia della scienza presso il Keene State College
(New Hampshire), intraprese coi propri studenti lo studio della carta di Piri Re'is.
Due anni dopo, le prime considerazioni dell'équipe furono rivelate dallo svizzero Erich von
Däniken, nel discutibile best-seller Chariots of the Gods, che ottenne oltre 18 edizioni in
inglese e fu tradotto in molte altre lingue. Si tratta d'un precedente non trascurabile, perché il
libro di von Däniken, che vendette diversi milioni di copie, è anteriore d'una decina d'anni alla
prima edizione autografa e "scientifica" delle ipotesi di Hapgood (1966), in cui vengono anche
citati i pareri del capitano Arlington H. Mallery, cartografo della Marina degli Stati Uniti, e
dei direttori degli osservatori astronomici del Boston College e della Georgetown University,
Daniel Linehan e Francis Heyden.
Fondamento di questi libri è l'ipotesi che la carta di Piri Re'is raffiguri all'estremo sud le coste
dell'Antartide, minuziosamente disegnate, ma prive della calotta ghiacciata che oggi le
ricopre, percorse da fiumi e popolate da animali. Dunque, un antichissimo popolo avrebbe
saputo realizzare carte geografiche accurate; queste sarebbero state tramandate e copiate nei
secoli, ma sarebbero poi andate distrutte negli incendi della grande Biblioteca d'Alessandria,
salvo qualcuna che - miracolosamente scampata - sarebbe giunta tra le mani dell'ammiraglio
turco.
(Lo schema della carta di Piri Re'is, disegnato da Hapgood)
La differenza tra il racconto di von Däniken e quello di Hapgood consiste nel fatto che il
primo presume esplicitamente l'intervento di extraterrestri, mentre il secondo sviluppa un
riferimento più generico ad un impero di "antichi Re del mare", senza ulteriori speculazioni
sulle loro origini etniche. Nel frattempo, l'illustre geografo del New Hampshire aveva
41
pubblicato le proprie teorie sullo scorrimento della crosta terrestre, per dimostrare come
l'Antartide fosse stata in passato una terra fertile ed abitata.
2. Altre carte che suscitano interrogativi
Nel libro sulle carte degli "antichi Re del mare", Hapgood cita altre antiche carte, a sostegno
dell'ipotesi di conoscenze geografiche, stabilite sin da epoche antichissime (addirittura prima
dell'ultima glaciazione, con un'Antartide scoperta dai ghiacci).
Vi sono altre carte geografiche "fuori della norma", apparentemente anacronistiche.
Una è quella dell'America, realizzata nel 1510 da Glareano, famoso poeta, matematico e
geografo svizzero. È simile alla carta di Piri Re'is, ma in più vi appare la costa occidentale
dell'America, una dozzina d'anni prima del passaggio ad ovest da parte di Magellano. Questa
carta fu riprodotta nel 1512 nel celebre atlante edito a Cracovia da Johannes de Stobnicza.
Hoye e Lunde, autori degli articoli su "Aramco World Magazine", non escludono che questa
edizione dell'opera di Tolomeo possa essere giunta tra le mani di Piri Re'is e addirittura che ad
essa - e a Tolomeo - faccia riferimento l'ammiraglio turco, quando parla di opere "dell'epoca
di Alessandro Magno".
Si sa che il primo cartografo europeo ad indicare l'esistenza d'un continente australe fu
Leonardo da Vinci, che progettò il planisfero, poi dipinto intorno al 1508 da Francesco
Rosselli. Vi appare una vasta terra, a sud dell'Africa, chiamata Antarcticus. Nel 1515 un
continente australe appare nella carta di Schoner. Tra le antiche carte che mostrano l'Antartide
prima della sua "scoperta ufficiale", le più note sono quelle redatte negli anni 1531-1532 dal
cartografo francese Oronteus Finaeus (Oronce Finé, nato nel Delfinato nel 1494).
Un'iscrizione in latino campeggia e dice: "Terra australe scoperta di recente, non ancora del
tutto conosciuta". Vi sono importanti differenze tra il suo "continente australe" e la vera
Antartide. Nella carta di Finé, l'estremità dell'America del Sud e l'Antartide sembrano toccarsi,
mentre sono distanti circa 600 miglia. Inoltre, la penisola di Palmer manca completamente.
Nonostante che il continente australe vi appaia orientato in modo errato, e nonostante
l'assenza della lunga penisola Antartica, rivolta verso capo Horn, sembra convincente l'ipotesi
di Hapgood, il quale sostiene che si tratti di una vera testimonianza della ricognizione di
quelle terre, prima che fossero ricoperte dei ghiacci.
La carta di Finé appare più precisa delle precedenti. Lunde suggerisce una possibile
spiegazione, derivata da una scritta della carta di Cornelio il Giudeo (de Judaeis), datata 1593,
in cui si afferma che un promontorio di quella terra fu "scoperto dai Portoghesi, ma non fu
esplorato all'interno".
Si può anche osservare che nella carta di Finé la presunta Antartide reca la scritta "regio
Brasilis" e che in quella di Piri Re'is, sulla lunga terra che chiude in basso la carta, si legge: "I
Portoghesi riferiscono che qui le notti ed i giorni più brevi siano di due ore, e quelli più lunghi
di ventidue ore". Subito dopo, però, aggiunge: "Ma il giorno è molto caldo e la notte ricca di
rugiada".
L'insieme di queste note suggerisce che qualche sconosciuto navigatore portoghese possa
avere raggiunto le coste dell'Antartide, prima del 1513, e che del suo viaggio sia rimasto il
ricordo soltanto in qualche mappa. Questo però non spiega i giorni caldi, le notti di rugiada, o
la rassomiglianza dell'insieme del continente, nella carta di Finé, con le carte moderne.
Un'altra possibilità, proposta da Lunde, consisterebbe nella confusione di rilievi della costa
settentrionale dell'Australia, compiuti dai Portoghesi (che occupavano Timor, a sole 285
miglia a nord). L'aspetto di questa costa somiglia un poco all'Antartide.
Nel libro di Hapgood, vengono sviluppate considerazioni in merito anche ad altre carte, che
dovrebbero mostrare la Groenlandia e le terre dell'estremo Nord prima che fossero coperte dai
ghiacci, o - al contrario - in epoche in cui l'intera Scandinavia era ricoperta da una grande
coltre ghiacciata.
42
Schematicamente, Hapgood propone le seguenti conclusioni:
- la carta di Piri Re'is, i portolani ed altre carte antiche contengono informazioni geografiche
che si suppongono sconosciute, talune sino alla metà del sec. XX;
- tali carte sono inspiegabilmente accurate, in particolare per quanto riguarda la definizione
delle longitudini, che né i marinai, né i cartografi sapevano calcolare, prima degli sviluppi
della trigonometria sferica (sec. XVII-XVIII);
- dunque, qualche antica civiltà ancora sconosciuta, precedente ad ogni civiltà già studiata,
sarebbe stata capace di rilevare e disegnare le coste dell'America, della Cina, della
Groenlandia e persino dell'Antartide, addirittura in un'epoca in cui la Groenlandia e l'Antartide
non erano coperte dalle loro coltri millenarie di ghiacci;
- tutto ciò implica che essi conoscessero l'astronomia, gli strumenti di navigazione, come il
cronometro, e che possedessero nozioni di matematica, di geometria piana e di trigonometria,
molto tempo prima che tali scienze fossero coltivate dai Greci;
- le conoscenze cartografiche avanzate, che traspaiono nelle carte di Piri Re'is, di Oronteus
Finaeus e d'altri autori, furono tramandate loro come frammenti, sopravvissuti alla distruzione
delle antiche conoscenze, in particolare quelle causate dall'incendio della biblioteca
d'Alessandria.
3. Le critiche
Il dibattito è aperto ormai da quattro decenni, tra i fautori ed i critici delle teorie sostenute da
Hapgood.
Da un lato, appaiono i lati deboli d'una teoria che stimola le fantasie di autori come von
Däniken, tesi alla scoperta del sensazionale.
D'altra parte, occorre ricordare che diversi cartografi militari lavorarono con Hapgood per due
anni e condivisero le sue conclusioni. Le conclusioni, tuttavia, appaiono deboli.
Hoye e Lunde pongono in rilievo il fatto che le tesi di Hapgood sono esclusivamente basate su
proiezioni matematiche e logiche, mentre il materiale di base offrirebbe solo la possibilità d'un
ragionamento induttivo. La presunta precisione delle carte è in realtà frutto d'una ricostruzione
mediata da molteplici proiezioni, compiute da Hapgood. Ogni similitudine così ottenuta viene
accettata, mentre sono trascurati errori anche molto consistenti, come l'obliterazione di 900
miglia di costa.
Hapgood, inoltre, non attribuisce la dovuta importanza alla mappa di Cristoforo Colombo, da
cui Piri Re'is dichiara di aver tratto - ed ha sicuramente tratto - la parte caraibica della sua
carta. Non presta sufficiente attenzione all'estensione dei toponimi d'origine spagnola e
portoghese (che appaiono evidenti, soltanto trascritti con caratteri arabi), che denotano la
derivazione di parti della cartografia dell'ammiraglio turco da mappe delle nazioni che stavano
esplorando la parte occidentale dell'Atlantico.
Appare molto discutibile il fatto che Hapgood pensi di riconoscere le Ande nelle montagne
disegnate nella carta di Piri Re'is, parallele alle coste atlantiche dell'America del Sud.
Occorre ricordare che nella carta non appare la minima traccia delle coste verso l'Oceano
Pacifico (mostrate invece in altre carte, di fattura occidentale, non molto posteriori… ma
questo è un altro discorso). Non appare neppure l'evidente forma del Mar delle Antille, che
non sarebbe sfuggita agli antichi, precisi cartografi.
43
Infine, la situazione di un'Antartide scoperta dai ghiacci dovrebbe ricondurre la presunta
"prima carta" ad una data di circa 50 milioni d'anni fa.
4. Il Mediterraneo di Opicino de Canistris
Tra le antiche carte esaminate da Hapgood, colpisce il riferimento a due disegni di Opicino de
Canistris, un prete del sec. XIV, le cui opere sono state studiate da diversi autori (v. nota
bibliografica). Diverse considerazioni potrebbero essere svolte sulle carte del mondo redatte
da Opicino, che sono per molti versi sconcertanti perché in certi particolari fanno presumere la
possibile conoscenza d'una Terra di forma sferica… ma Hapgood non sviluppa nulla di tutto
questo (perché non conosce la relativa documentazione). Si limita ad alcune osservazioni su
una griglia a maglia quadrata, che ricopre due diverse carte del Mediterraneo, e le suppone
essere una scansione di meridiani e paralleli… mentre è risaputo che si tratta della pianta della
città di Pavia, schematizzata nelle sue insulae di matrice romana, e sovrapposta alla carta per
ricercare dei significati allegorici nella coincidenza di luoghi e figure. Tali studi erano in parte
disponibili sin dalla pubblicazione della ponderosa opera curata da Salomon per il Warburg
Institute (1936, v. bibl.), e comunque Opicino de Canistris e la sua cosmografia sono stati
studiati in modo ben più ampio ed attento di quanto Hapgood sembri conoscere, sotto i più
diversi aspetti: cartografici, iconografici, allegorici e persino psicanalitici.
5. Le conclusioni raggiunte - ma non espresse - da Hapgood
Un ragionamento che presuma l'esistenza di carte del mondo in un'epoca così remota, da
mostrare le coste dell'Antartide prive di ghiacci, sottovaluta il fatto che - prima della fine
dell'ultima glaciazione - le ulteriori differenze nei profili costieri dei continenti dovettero
essere ben più consistenti rispetto a quelle elencate da Hapgood nella sua analisi della carta di
Piri Re'is: la foce del Guadalquivir (che era un estuario e non un delta), o la parte occidentale
di Cuba ancora sommersa, o infine un vasto lago centrale nella penisola iberica (elemento
geologico di dubbia prova). Dovevano certamente essere ben diversi i profili costieri
dell'Africa, i suoi "mari interni". Eppure le "peregrine" osservazioni compiute da Hapgood
sulla carta di Piri Re'is sono soltanto quelle sopra elencate, oltre il fatto che l'ignoto,
antichissimo cartografo non si sarebbe accorto - se seguiamo quest'ipotesi - di aver trascurato
almeno metà dell'estensione in latitudine dell'America del Sud.
Sarebbe un'evidente contraddizione presumere l'esistenza di un antico cartografo, capace di
rilevare le coste del continente antartico, e poi presumere che lo stesso non si accorga di aver
trascurato la restituzione di 900 miglia di costa, equivalenti a 16° di latitudine, poiché la
presunta costa dell'Antartide si volge ad est subito a sud del Rio de la Plata e manca tutta la
parte di "Cono sud" compresa tra Cabo Frio e Bahia Blanca. Inoltre, nella carta non appaiono
né lo stretto di Magellano, né Capo Horn.
In nessun caso, comunque, l'errato orientamento - o la rotazione voluta, sosteniamo noi - di
alcune parti della carta potrebbe giustificare l'elisione di circa 1500 km di coste dell'America
del Sud, mentre la continuità fisica con cui la costa è rappresentata suggerisce una sua naturale
prosecuzione (pur con il differente orientamento, che appare evidente).
44
(Le rotazioni proposte per le parti nord e sud della carta di Piri Re'is)
Quali motivi poterono spingere o costringere il disegnatore della carta di Piri Re'is a
modificare l'orientamento e ruotare alcune parti della sua rappresentazione?
Il primo e più elementare è il necessario adattamento ai margini della pelle di gazzella, su cui
la carta è disegnata: appare evidente come le coste americane, all'estrema sinistra della pelle,
debbano adattarsi al suo perimetro per non uscirne.
Un altro, possibile, motivo può essere stato costituito da incertezze o errori nel montaggio
delle differenti mappe, da cui la carta è composta.
Un terzo è ravvisabile nelle osservazioni di fondo, espresse proprio nel libro di Hapgood.
La carta di Piri Re'is è solcata da una rete di linee che corrono in diverse direzioni e
determinano angoli di diverse ampiezze. Si tratta d'una costruzione caratteristica della
cartografia medievale; molti pensano che queste linee servissero ad aiutare il tracciamento
delle rotte. In mezzo all'Atlantico sono raffigurate due scale grafiche.
Hapgood arriva alla conclusione che i portolani - e in particolare la carta di Piri Re'is - non si
basassero su un reticolo di coordinate ortogonali, basate sulla latitudine e sulla longitudine,
ma che in essi fosse possibile la compresenza d'una "pluralità" d'orientamenti. Tant'è vero che,
proprio per la parte caraibica della carta di Piri Re'is, egli propone che il disegnatore abbia
impresso una rotazione in senso orario di circa 85°.
Come mai lo stesso ragionamento non è applicato per la parte inferiore della medesima costa,
che invece appare ruotata dello stesso angolo, ma in senso inverso?
45
(La carta risultante dalle rotazioni applicate alla carta di Piri Re'is)
Sarebbe stata la logica conclusione, il postulato del ragionamento che lo stesso Hapgood
aveva condotto relativamente alle Antille ed a quella che egli ritiene essere l'isola di Cuba
(nonostante sia chiaramente indicata come "Espaniola", ossia Hispaniola). Sotto Hispaniola si
vede Puerto Rico, e a nord-ovest un gruppo di undici isole, col nome trascritto dall'italiano:
"Undizi Vergine".
Forse le comunicazioni di consenso ricevute dal capitano Arlington H. Mallery e da altri
cartografi "ufficiali", ed il conseguente entusiasmo di massa, collegato al "mistero" di mappe
dell'Antartide realizzate dagli antichi "Re del mare", oscurarono a questo punto la lucidità
della ricerca.
Forse era difficile smentire la "anticipazione" delle sue ricerche, fornita dal libro di von
Däniken, e proporre con chiarezza una diversa interpretazione del punto-chiave delle sue
ricerche.
Fatto sta che la logica conclusione del ragionamento di Hapgood, sulla pluralità di
orientamenti utilizzati in diverse parti della carta di Piri Re'is, conduce alle rotazioni mostrate
nelle illustrazioni a corredo di questo articolo… lasciamo ai lettori tutti i dubbi, tutte le
deduzioni, relativamente al fatto che la parte inferiore della carta di Piri Re'is raffiguri
l'Antartide, o non piuttosto la parte meridionale del "Cono sud" americano, che oggi
conosciamo col nome di Argentina. A noi sembra che, con la rotazione di 85° in senso
antiorario della parte settentrionale delle coste americane (Mar delle Antille), suggerita dallo
stesso Hapgood, e con un'analoga rotazione in senso inverso della parte meridionale della
costa del Cono sud, l'aspetto della carta assuma in modo plausibile le normali caratteristiche
tipiche della resa cartografica di altre mappe del sec. XVI.
46
(Una carta moderna, cui sono state applicate le medesime rotazioni
supposte per la carta di Piri Re'is - si confronti con la fig. 1)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
R. G. SALOMON, Opicinus de Canistris. Weltbild und Bekenntnisse eines Avignonesischen
Klerikers des 14. Jahrunderts, London-Leipzig, The Warburg Institute, 1936, 2 vol.
E. VON DÄNIKEN, Chariots of the Gods, 1956.
Ch. HAPGOOD, Earth's Shifting Crust, Pantheon Books, New York, 1958.
Ch. HAPGOOD, Maps of the Ancient Sea Kings, Chilton Books, Philadelphia, 1966, 1979
(ed. francese: 1981).
P. F. HOYE - P. LUNDE, Piri Reis and the Hapgood Hypotheses;
P. LUNDE, Piri Reis and the Columbian Theory;
P. LUNDE, The Oronteus Finaeus Map; in "Aramco World Magazine", jan.-feb. 1980 (i tre
articoli sono reperibili, integralmente, sul sito: http://www.millersv.edu; cfr. anche
http://www.world-mysteries.com/sar_1_4.htm).
M. GRECCHI, L'universo di Opicino de Canistris, Liutprand, Pavia, 1996.
A. ARECCHI, Piri Reis non ha rappresentato l'Antartide, in "Hera", n. 35, nov. 2002, p. 8.
47
----Alberto Arecchi è nato nel 1947. Architetto, oggi professore di Disegno e
Storia dell'Arte in un Liceo di Pavia, ha vissuto lunghi anni in Africa, operando
dal 1975 al 1989 come esperto della cooperazione per lo sviluppo
internazionale (in Somalia, Mozambico, Algeria, poi in Senegal e negli altri
Paesi del Sahel: Mali, Mauritania, Ciad, Niger). Oltre che del saggio Atlantide
- un mondo scomparso, un'ipotesi per ritrovarlo, presentato nel N. 5 di
Episteme, è autore di diversi studi sulla storia, sulle culture dei Paesi africani e
sui problemi dell'habitat e delle tecnologie appropriate, delle costruzioni con
l'uso di materiali locali migliorati, nel quadro di un forte stimolo alla
partecipazione popolare. È fondatore e presidente dell'Associazione culturale
Liutprand, che cura in particolare pubblicazioni sul patrimonio storico e
culturale del territorio pavese. Suoi interessi professionali prevalenti: il
restauro, la bio-architettura e l'architettura dei tracciati, costruzioni con
tecnologie appropriate, progetti di sviluppo con forte partecipazione popolare.
[email protected], www.liutprand.it
48
Geography and Numerics of Eden, Kharsag
and Paradise: Sumerian and Enochian Sources
Versus the Genesis Tale
(Emilio Spedicato)
Abstract - In two papers [1,2] we have analyzed the geographical data referring to the Garden
of Eden, the place where according to Genesis the "first" human couple of Adam and Eve was
"created". We concluded that the biblical data were satisfied by identifying the Garden of
Eden with the Hunza valley in northern Pakistan. In this paper we consider the geographical
information in Genesis concerning the place of "creation" in Sumerian sources and in the
books of Enoch. We conclude that such data are consistent with our previous identification,
extending moreover the information pertaining to the region around the Hunza valley and
providing a new interpretation of what the mythical underworld might have been. We end
with a review of possible meanings of the "gods" and "creation" stories, within the
catastrophic quantavolutionary view of the evolution of the solar system and of mankind in
the period circa 12.000 BC to circa 700 BC, given by Velikovsky [3], De Grazia [4], De
Grazia and Milton [5] and Ackerman [7,8].
1. Introduction
In two previous papers [1,2] we have analyzed the geographical data in Genesis about the
Garden of Eden ( GAN in Hebrew, paradeisos in the Septuaginta Greek version of the 3rd
century BC, a word of Persian origin meaning "walled garden"). Such data are the following:
•
•
•
•
•
•
•
the information that four rivers originate from the same geographical location; here we
argued that the usual translation a river dividing into four rivers is wrong, in addition of
being geographically virtually impossible, nahar having not only the meaning "river" but
also that of "snow field"
the names of the four rivers: Hindekel, Gihon, Pishon, PRT ( PRT is usually translated as
Euphrates, but we related PRT to perath= fertility, pirot=fruit, parot=cows, hence PRT
would be the river of food bearing country)
the information that Hindekel flew eastwards of "Ashur"
the information that Gihon bordered the land of Kush
the information that Pishon bordered the land of Havilah, rich in gold, onyx (?) and
bdellium (usually assumed to be an aromatic substance; but in [2] we suggest the
meaning "asbestos")
the information that PRT watered the Garden of Eden, located in the eastern part of Eden
the information that the Garden of Eden had an eastern access ( a "gate"), wherefrom
Adam and Eve were expelled; the gate was defended by a Cherubim (KRB) branding a
fiery sword.
Our thesis in [1,2] was that a location does indeed exist on earth where all the above
geographical details are satisfied. Such a location seems to have escaped attention of all
previous people involved with the problem of the geography of Eden (albeit we suspect that
our proposed location may have been known to the Ismaelites or to the Druses and be part of
their still amply secret doctrine). In [2] we have therefore criticized some serious attempts,
49
e.g. by Rohl [9] and by Salibi [10], to locate the Garden of Eden elsewhere (respectively in
eastern Anatolia or in south-western Arabia).
Our interpretation of the Genesis geographical data is as follows:
•
•
Eden consists of the very special mountaineous region of central Asia where four great
rivers spring out of the huge massif that separates the Hunza valley in north Pakistan from
the Wakhan valley of the eastern Afghanistan province of Badakshan. This is also the
region where four mighty mountain ranges join, namely the Karakorum from SE, the
Hindukush from SW, the Pamir-Tienshan from NW, the Kunlun from NE. The precise
borders of Eden are undefinable, but the fact that the Garden is said to lie in the eastern
part suggests that several regions, consisting of fluvial valleys, made up Eden. This
consideration will be reinforced by the analysis of the Sumerian texts presented in this
paper. We think that Eden comprised at least the Hunza Valley ( the Garden, GAN), the
upper Gihon valley, i.e. the Badakshan (location of the only known mine of lapislazuli in
ancient times, the Blue Mountain; and probably of the antediluvian city of Bad Tibira),
and the upper valley of the Mintaka-Tashkurgan river, the present Karakol, down at least
to the city of Tashkurgan (the city of "Ashur" as we argued).
The four rivers are all mighty rivers (lengths in the range 500 to 2500 km), with their
sources a few km or at most a few dozen km one from the other. They are born in the
massif that separates the Hunza valley from the Badakshan, with peaks cuminating in the
Hunza Kunji, at 7785 (we will give our interpretation of the meaning of this name and its
special identification in the Enochian geography of "paradise"). Such four rivers are
identified by us as the following rivers in their modern names:
• the Hindekel with the river born as Mintaka and ending as Tarim in the sands
below sea level of the Lop Nor desert; about 2500 km length
•
the Gihon with the river presently named Pandji for the part of its course amid
mountains, as Amu Darya for the part in the Turanian plane, ending up in the Aral
Sea, some 2500 km long; we noted that the biblical name Gihon was used instead
of Pandji until the 19th century
•
the Pishon with the river now variously named as Mastuj, Yarkhand, Konar,
Kabul, joining the Indus after Peshawar, some 1000 km long. We suspect that this
river in the past did not join the Indus, changing mid course a SW direction
brusquely into an eastern direction, but it continued in the SW direction where we
now find the Helmand river, ending up in the Hamun lake. The "creation" event
took place before the Flood and the later catastrophic event referred to in the Bible
as the "breaking of the earth" at Peleg's time. Both events may have resulted in
quite a substantial rearrangement of the orography and of the course of rivers.
Substantial modifications of a river course after relatively minor natural events or
possibly moderate action by man are known to have occurred in recent times. One
example is the change of the mouth of the Yellow River, which in the last
millennium shifted north to south and then back to north of the Shantung
peninsula, as a result of heavy floods. Another is the rearrangement of the course
of the San Francisco in Brasil, see de Mahieu [22], that used to flow in a straight
northern direction, where we now find the Piaui river, the eastern turn in Remano
being possibly due to artificial work to drain via some rapids some large marshes
in precolombian times (de Mahieu thesis is that the Templars used that waterway
to import silver from the Tiahuanaco region)
• the PRT (Perath, Parot, Parot...) or "river of food/fertility", which flows through
the Garden of Eden in the eastern part of Eden, is identified with the Hunza river.
This river has a source just a few km from sources of the Mintaka and the Pandji
(which one is the source of a river is an ill defined problem: the criterion of the
50
maximum distance to the sea was almost impossible to apply in ancient times
when accurate mapping was not available, and moreover is subject to changes due
to landfalls and other geological effects; "religious" criteria, like the one defining
the sources of the Ganges, are usually more significant from the point of view of
the meaning of the river to man, but are generally inconsistent with the maximum
length criterion). The Hunza river flows through the Hunza valley, a very special
region for agricultural and anthropological considerations, for some 200 km, then
continues through a deep and narrow valley for again some 100 km to Gilgit.
Transit from Gilgit to Hunza valley used to require, even in the 20 th century, after
the road improvements made by the British but before the construction of the
modern Karakorum highway, about two weeks, using mules or horses. After
Gilgit the rivers continues through the Kashmir till it joins the Indus, after a
course of some 500 km.
The other geographical details are identified as follows:
the city of Ashur is the "city of Asia", probably a city in the Karakol ("the black lake"),
possibly the strategically located city now called Tashkurgan, meaning rather clearly the
gate (tash) to the mountains (kur) of the Garden of Eden (gan). The "Asia" may be related
to both the transoxiana land of the "Asioi" referred to by classical geographers, as
Pomponius Mela, or to the kingdom of the Azha, very important in the ancient history of
Tibet, see Hummel [11]
• the land of Kush corresponds to present Hindukush, the word kush to be related either to
the Sanskrit ku =peak (which is the standard academic interpretation) or to the Persian
kushtan = to kill, which we prefer since it nicely relates to the story of Cain and Abel
• the land of Havilah is the present region of Kabul (called once Kabulistan, see De
Claustre [12]), Havilah meaning possibly land of Abel; notice also that Kabul, believed by
its inhabitants to be the oldest city in the world, possibly means soul of Abel (in [21] we
gave arguments that ka is a word with worldwide meaning as soul, person, people we can
add that it means precisely soul in nahuatl, see de Mahieu [22])
• the eastern gate is identified with the north-east access to the Hunza valley, namely the
Khunjerab pass, a name actually providing in the consonantic structure the Genesis
information (Cherubim = KRB = JRB, Khun may be related with the ancient TurkishUighur word khun, meaning shining divine Sun).
•
In the following sections we will look to the geographical information on the place of
"creation" that is available in several Sumerian texts, and, with reference to the "paradise", in
the books of Enoch. The Sumerian texts either have come to us directly as texts predating
Moses, the traditional author of Genesis, active, according to Velikovsky [13], in the 15 th
century BC, or in later texts, e.g. from the library of Assurbanipal, 7 th century BC, that are
more or less accurate Akkadian transcriptions of older Sumerian documents. The books of
Enoch, expunged from the set of canonical sacred books by the Christian Church in the 4 th
century AD, were previously accepted and generally greatly estimated by the Church fathers
(they are even now part of the Canon of the Ethiopian church). These books in their present
version are dated usually at the second century BC. It is likely that such a date just refers to
the surviving versions, where an ancient obsolete language was modernized. They were
indeed considered, e.g. by St Augustin, as works of "hoary antiquity" and they do in fact deal
with prediluvian events, about which only intriguing hints may be found in Genesis. That
several texts dealing with very ancient events were once in circulation to be later completely
lost, also follows from references in the Pentateuch to vanished books, e.g. The wars of
Jahweh.
51
We will consider in the next section the geographical data in the Sumerian creation texts,
claiming that they are compatible with the geographic setting of Eden obtained from the
Genesis data. The new sources provide elements that enrich our proposed scenario. Among
the results that we obtain:
•
•
•
•
•
the possible meaning of the word Hunza, till now unexplained by linguists or
anthropologists (the Hunza or Hunzakut call themselves Bororo)
the possible meaning of the name Hunza Kunji, referring to the highest peak in the massif
where the four rivers are born
the role in the creation story of the two great mountains that dominate, with a very
intriguing geometry, the Hunza valley, namely the Hunza Kunji and the Rakaposhi
the role in the creation story of the great chasm that separates the Hunza valley from the
region of Gilgit
a new geographic identification of the Apsu, which also provides additional arguments for
the origin of the Sumerians from the heart of Asia.
2. Geographical information from Sumerian sources on Eden
We have looked at several Sumerian-Akkadian sources on the "creation" event and its
location, including the following ones:
•
•
•
•
•
The so called "cylinder of Nippur", discovered in Nippur (about 80 km SE of Babylon) by
American archaeologists at the beginning of the 20th century. The cylinder, whose surface
is partly ruined (out of 320 lines only 170 can be read) has been dated at the first half of
the third millennium BC, possibly the 27th century BC. A first tentative translation was
given in 1918 by professor George A. Barton [14]. Due to unresolved difficulties in
making sense of such text, it has been left out of later collections of texts on the origins,
like those by Kramer [15], Bottero and Kramer [16], later referred to as B&K, and
Pettinato [17]. For this work we have used the revised version of Barton's translation
proposed by C. O' Brien [18] and by C. and B. O' Brien [19], this last one later referred to
as B&B. C. O' Brien was a geologist, author of important monographs on the orogenesis
of the Zagros and the Rocky Mountains. Having become fascinated with the ancient
Middle East history during the many years he spent in Iran and Mesopotamia, he devoted
much of his time (most of the last 40 years of his long life) to the study of Hebrew,
Akkadian and Sumerian. Working with his wife, he was able to provide new translations
of several problematic texts (including Genesis and the Phaistos disk), developing a new
theory on the identity of the "gods" in ancient religions and traditions.
The Enuma Elish (when over there…), or Epic of Creation, in the translation of B&K.
First published by Smith [20] in 1875, this initially incomplete text was in time integrated
by several findings in different places; an almost complete text is given in B&K. It is
believed that the present form of the epics was written in the 12th century BC.
The Atrahasis (The great wise man), which is a fundamental text also for the discussion of
the Flood and of another catastrophe, before the Flood, involving a great epidemics. This
poem may be dated in the present version at least to the 17th century BC.
The so called Bilingual Story of human creation, see B&K section 39, dated at least to the
12th century BC.
Nergal and Ereshkigal, a story of relations and travels between the region of the gods and
the underworld. The story has come to us in two versions, one usually dated at the paleobabylonian time, circa the 18th century, the second one coming from a private library in
Sultan Tepe has been dated at the 8th century BC.
52
Except for the cylinder of Nippur, we have used the translations in B&K.
The Sumerian story of the creation is much more complex, structured and informative than the
story in Genesis. Here it is not the place for a thorough comparison of the two stories. For the
further discussion, here we state our working hypothesis that the ancient documents that we
consider are based upon real events, whose memory has survived, albeit with transmission
errors in the oral and written versions and in the choice of the words. We will strive to find the
invariant and significant elements surviving in the texts. With the specific reference to the
differences between Genesis and the Sumerian-Akkadian text, our opinion is that the two
stories refer basically to the same event, but from the point of view of two distinct lines of
transmission: the line of the descendents of Adam and Eve, who survived the Flood in the
eastern Anatolia region of Urartu, and the line of the descendants of the prediluvian
Sumerians, who before the Flood lived in cities in Central Asia (in another work [21] we have
argued that the mount Nimush where Utnapishtim/Ziusudra survived should be identified with
the Anye Machen massif, near the sources of the Yellow River). In other terms, it is our belief
that Moses did not borrow the creation story from contacts with the Mesopotamian
civilization. We think that this story was a common heritage of the descendants of Abraham,
thus known not only by the Hebrews but also by the Madianites, where Moses spent many
years (the Madianites were most probably descendants of Madian, son of Abraham and
Keturah; Jethru, father in law of Moses, lived in Arabia near the city now called Medina, once
called Yathrib, a city possibly founded by Madian).
The Sumerian creation story starts with the arrival in a certain place of a group of beings of
"divine" nature, the Anunnaki (a word variously interpreted as the great sons of light, the
great sons of Anu), with higher knowledge and technical skill than man. The region where
they settle lies amid mountains and is called Kursag, also read Kharsag. In this word kur
means "mountain", sag according to B&K has no clear meaning, while according to O&O
should mean lofty enclosure, close in meaning to the Genesis gan or paradise= walled
enclosure.
The gods descending on Kharsag are a structured group, consisting, from Enuma Elish, of 600
members of the lower Igigi group, of 50 "great gods" and of 7 high chiefs, the gods of destiny.
The Igigi appear to be divided sometimes between 300 located at the "sky" and 300 at the
"Apsu". The chief of the Anunnaki in the "sky" region is Enlil, whose name means " Lord of
the sky" and also, according to O&O, " Lord of cultivation"). The lord of the Apsu is Enki,
whose name means lord of the lowland, and who is a brother of Enlil. A sister of Enlil, living
in Kharsag, is Ninlin or Ninkarsag; she plays a fundamental role in the creation of ullu, the
modern man. Finally we should quote the father of Enlil, Enki and Ninlin, namely the
supreme chief of the gods, Anu. He lives far away "in the sky", but appears at Kharsag on
special occasions.
In Karsag the Anunnaki become involved in a special project, namely the attempt to make
water easily available for agricultural purposes by building canals and in particular by
damming a local river. This work is the task of the Igigi, who spend many years on it, without
being able to complete it. Tired of a work that they find too heavy, the Igigi rebel against
Enlil. To quash the rebellion, Enlil, Enki and Ninlil decide to "create" man, to help in the
heavy work of water management and in the agricultural activities. Man is therefore created as
a worker, to be compensated with the fruits of the soil. It is intriguing to observe here how,
according to Pettinato [23], the signs of the zodiac were known by the Sumerians well before
they appeared in the other western sources, all with the same name as today, except the first
one: aries is a wrong translation, explained by a little difference in the cuneiform script, of the
Sumerion words ullu hunga, meaning salaried man. While Pettinato puts the origin of this
term at the beginning of an economy where people would be hired for a salary, one might
possibly consider also the hypothesis of a reference to the ullu created in Kharsag, subject to
53
work in change of free vegetarian meals … thus instead of Aries the first sign should be the
sign of the first man.
The creation of man, decided by Enlil, is implemented with a complex process well different
from the process described in Genesis (but see O&O for a radically different translation of
Genesis than the one usually given). The "creation" is realized by a group of Anunnaki, under
the direction of Ninlil and with the important help of Enki. The process involves using some
vital material from one specially selected male Anunnaki, named Weila in the Atrahasis,
Xingu in the Enuma Elish (VI,33), and results in the creation of seven couples. The specific
details of the creation are called, in the Bilingual Text ) B&K, text 39), "a secret doctrine,
that can be spoken only by experts". A very important feature of the created man from a
theological point of view and definitely going beyond anything stated in Genesis, is contained
in the following three lines of Atrahasis, Karsap-Aya text, lines 215-217, B&K p. 571, our
English version:
Thanks to the divine flesh ,
a spirit will be alive in man,
that will be alive even after his death.
In the Sumerian texts man continues to work with the gods for a substantial amount of time;
no reference is made to a couple being expelled from Kharsag. Kharsag becomes apparently a
settlement of model agriculture, with a dam and irrigation canals, various buildings including
the palace of Enlil, the Ekur, breeding of animals (sheep, goat, cows) and rich orchards (quite
curiously the Nippur cylinder, plate 4, claims that some "heavenly" fruit trees could not be
cultivated successfully). The settlement thrives, disregarding some problems and fightings
among the Anunnaki, for over a couple of thousand years. According to the Atrahasis a first
crisis comes after less than 1200 years from "creation", when an epidemics devastates the
settlement. The second crisis comes again less than 1200 years after the epidemics, being the
Flood to which Ziusudra-Utnapishtim are survivors. The interval between the creation and the
Flood is thus given at circa 2300 years, which agrees very well with the estimate obtainable
from the Septuaginta (the time when the first ten Patriarchs, from Adam to Noah, lived is
circa 2600 years; since Noah outlived the Flood by about 300 years the estimates are close).
It is not here the place to comment in detail the creation story, see Appendix 2 for a brief
discussion of possible interpretations.
We now look at the geographical information that can be gleaned from the Sumerian texts.
We should point out that our investigation is by no means exhaustive.
•
•
Kharsag is a settlement among the mountains, as its name says. The palace of Enlil is
called Ekur, i.e. "palace of the mountains". The place if often contrasted with the lowland
controlled by Enki, the region of the Apsu, and with the region controlled by Ereshkigal,
the underworld. Such geographical data agree with our identification of the Garden of
Eden as the high Hunza valley, but of course would also agree with very many other
mountain places.
The lord of the Anunnaki is Enlil. He would correspond to Yahweh as lord of the Elohim,
if we could consider the world elohim, which is definitely a plural, as referring to a
plurality of higher beings, and so not be, as in the standard interpretation of the three main
monotheistic religions, a "pluralis majestatis". Now Enlil has another name, albeit less
common, namely enzu, meaning Lord of knowledge, see O&O, p. 68. The phonetic
analogy between Enzu and Hunza suggests that the present name Hunza, whose meaning
as far as we know is unknown to anthropologists and to linguists, preserves the memory of
the ancient god who according to the Sumerian texts presided there to the "creation" event.
It is also a tradition of the Hunza people that they entered the valley only relatively
54
•
recently from the west, i.e. from Badakshan (but Mandel conjectures that the tribes in the
high Kashmir may be remnants of people from the Indus civilization, who fled the Arian
invasion, see [41]). They also believe that some of their ancestors were Alexander the
Great soldiers, quite a possibility since Alexander spent three years in Bactriana and
Sogdiana, the regions of the Persian empire that gave the strongest resistance to his army.
We may therefore surmise that the Hunza valley, which can be accessed with great
difficulty from the south, remained empty of people for a long time after the Flood, but
that the memory of its unique place in human history was preserved by the surrounding
people, especially those living in the valleys more easily accessible via the Kilik, Mintaka
and Khunjerab passes. Evidence of transit between Gilgit and the Khunjerab pass was
amply obtained during the works of construction of the Karakorum highway, when
thousand of petroglyphs showing human figures were found, the most ancient having been
dated to the fourth millennium BC, see Uhlig [43]. The first evidence that the Hunza river
valley constituted the southern branch of the silk road was obtained in 1942 by the great
explorer Aurel Stein, then an octagenarian, who found petroglyphs he dated at the second
millennium BC.
Kharsag is a fertile land, but requires substantial and difficult work for irrigation and
control of water. Such a work, in the epics, is so tiring that, initially in charge of the Igigi,
it leads to their rebellion and hence to the decision to create man, ullu, as a worker. This
scenario fits perfectly the Hunza valley. The Karakorum mountains have plenty of glaciers
and snowfields, and there are reasons to believe that they were more extended several
thousand years ago (the creation story may be set at circa 5500 BC on reasons that cannot
be developed here; such estimate by the way already appears in a fragment of Julius
Africanus Chronography, preserved by the 8th century Byzantine writer Georgius
Syncellus; Africanus also gives 2262 years from Adam to the Flood, in excellent
agreement with the estimate from Atrahasis). However the bottom valleys are usually very
dry, the monsoons (we are close to their northern limit) discharging mainly on the high
mountains. Due to this lack of rain the Hunza people have built a complex system of
canals, called "kuls", of several km length, depth and widths about one meter, crossing
rocky obstacles via tunnels. Perhaps more importantly the Hunza river flows in a deeply
excavated bed, in some places over two hundred meters deep. The river effectively divides
the Hunza valley into two separate regions, inhabited by different tribes speaking different
dialects, having different characters and adhering to different professions of Islam (one
sunni, the other ismaelite). The great and difficult work of the Igigi before their rebellion
makes much sense in this context, as a project to dam the Hunza river in the eastern part
of the valley to provide easier access to water for irrigation. One may surmise that if any
archaeological evidence will ever come of Eden in Hunza, it will be in the form of traces
of the dam built along the river (albeit there is the strong possibility that nothing was left
after the Flood). Finally, a line in Atrahasis, I/25, suggests that canalization work was not
limited to the Hunza valley, but also was done along the Mintaka river (referred as Tigris),
hence in the Karakol. This statement suggests that the expansion from Kharsag/Hunza was
in the northern direction, leading, via the valley of the Mintaka, to the great basin of the
Takla Makan and Lop Nor that, as we will now argue, was at that time filled with water
and constituted the Apsu.
We will discuss later from the Enoch texts geographical evidence pointing to two great and
special mountains that dominate the Hunza valley from both sides of the river. We will now
look at other geographical features, associated with Kharsag but lying at some distance.
The main region associated with Kharsag and generally with the prediluvian world is the
Apsu, under the control of Enki. Here are some of the features of the Apsu; additional ones
could certainly be obtained by a fuller search of the Sumerian literature:
55
•
the Apsu is characterized by being a basin of sweet water. We establish that its waters are
sweet by its name (AP=AB=A= water in Persian, Sanskrit and Sumerian; SU = sweet, good,
in Sanskrit) and by the explicit statement (lines 75-79 of poem 4 in B&K, Enki in Nippur) that
carps lived in its waters
• the prediluvian city of Eridu was built on the border of Apsu. This statement is intriguing
because the excavated Eridu in Mesopotamia lies about 200 km from the sea line (it is
believed that the sea line has not changed much since Sumerian times)
• the Apsu, where Enki settled, is also associated with the region of Dilmun/Tilmun, defined
to be a place of "purity and light", see poem 5, Enki and Ninhursag, in B&K. Dilmun is also
stated to be located beyond the sea, where the sun rises. It is also the place where
Ziusudra/Utnapishtim, the survivor of the Flood, settled, see poem 46 in B&K, based on a
tablet found in Nippur.
The second geographical region associated with the Kharsag is the underworld, where the
goddess Ereshkigal, sister of Enlil and Enki, is the lord. A visit to the underworld is described
in the poem Nergal and Ereshkigal, n. 26 in B&K. Among the features of the underworld:
•
•
•
it is dark, sunshine does not reach there
one can go there, but to return is almost impossible
it is connected with the "gate of Anu, Enlil and Ea (Enki)" by a "long stair of the sky".
We give now an interpretation of the Apsu and the underwold that agrees very well with the
geography of that part of Central Asia where the Hunza valley is located. First, we identify the
Apsu with the huge inner sea that until a few thousand years ago filled the presently desertic
depressions of Takla Makan and Lop Nor, the first a desert with great sandy dunes, the second
a steppe type desert full of salty flats. It is a recent fundamental discovery based upon the
analysis of satellites pictures, due to the Turkish geomorphologist Eroz Orgul, see Pittman and
Ryan [24], that the said deserts were filled with water for a substantial depth until about the
second millennium BC. The "creation" event being datable at the sixth millennium BC, we
would then be in presence of a substantial water basin, of the order one million square km, in
the very heart of Asia, surrounded by the Kunlun range in the south, by the Pamir-Tienshan in
the west and north, by the Nanshan in the east. All these are mighty mountain ranges, reaching
in many places over 6000 meters. Further we should notice:
• The waters, stated in the texts to be sweet, are expected to have been so, since they
probably formed in the tenth millennium BC at the time of the rapid worldwide melting of
glaciers, in this case of the glaciers over the Tibetan plateau and the surrounding great chain of
mountains; the water produced by such melting had no outlet to the ocean and accumulated in
the Takla Makan and Lop Nor basin. Additional water of celestial origin may have arrived
later from planet Mars if the catastrophic scenarios developed by Velikovsky [3], De Grazia
[4] and Ackerman [7,8] are correct. The main catastrophe after "creation" has been the Flood,
that most probably implied some tsunamic invasion of continents by salty oceanic waters. The
Takla Makan and Lop Nor basin are far inside the Asian continent and well protected by high
mountain ranges against tsunamic event, a fact that suggests that the origin of the water of
Apsu was mainly not oceanic (against for instance the origin of the waters of the Caspian sea).
A limited amount of oceanic water may have reached there and contributed to the salt found in
the flats of the Lop Nor.
• The basin surface, viewed from the surrounding high mountains, was very low, thousand
meters below the mountain ridges, thereby giving to Apsu the additional meaning of "abyss"
or "subterranean sea".
56
• The basin, being located far from the oceans and being moreover surrounded by high
mountains, was bound to be a dry area, where evaporation would greatly exceed the amount of
water brought by rains. Thus the Apsu was destined to disappear in time and its level would
significantly drop even over a moderate span of time. This fact would explain several
passages in the Sumerian texts where irrigation works play a fundamental role in the economy
of the land.
• The dry weather would nicely explain the qualification of Dilmun as a place of especially
luminous sky. This quality is not true for most days in Mesopotamia, which is affected very
often by haze due to the humidity coming from the Persian Gulf and by dust flown from the
western deserts of Arabia Deserta. The same consideration holds for the often proposed
identification of Dilmun with Bahrein (notice that an eastern location was considered by
already Kramer, who suggested the Indus-Sarasvati basin). It is however reasonable that in
postdiluvian times the name Dilmun would be given to some eastern land with which trade
was possible by ships. There are indeed indications of contacts by sea with far away lands in
the first, second and third millennium BC, see [33], i.e. :
• a Lagash tablet, circa 2500 BC, refers to ships from Dilmun with a cargo of wood
• a document of circa 1800 BC refers to an expedition to get copper in Dilmun
• Sargon of Assyria, end of 8th century BC, receives gifts from the king of Dilmun
It is our hypothesis that the Sumerians, who called themselves black heads (which is exactly
the name the Tibetans give to themselves, bod pa, as stated in the books of Alexandra DavidNéel) lived in the Apsu-Dilmun region before the Flood, survived the Flood in the Anye
Machen region, near Dilmun or part of Dilmun, and then moved to Mesopotamia probably by
the way of India; some of them may have remained there (we have in mind the Pani, an
ancient Indian population involved in maritime trade; remember that boat technology had to
be well developed in the Apsu region!)
• from the Flood story in the epics of Gilgamesh, see poem 48 in B&K, we deduce that
Utnapishtim (Ziusudra in older Sumerian stories) leaves his city of Shurrupak, descends to the
Apsu and builds there his boat. This is an indication in our scenario that the prediluvian
Shurrupak was located at some distance from the basin filling the Takla Makan and Lob Nor
depressions, a possible indication that substantial lowering of the Apsu had taken place since
the construction of the city. In the Poem of Erra (n. 51 in B&K) we have the intriguing
statement that the city of Sippar, where Utnapishtim hid important books in a safe place
before the Flood, escaped the destruction by water during the Flood but was otherwise
devasted, apparently by earthquake:
of Sippar, ancient city
whose territory the Lord of the Earth
preserved from the Flood,
against the will of Shamash, its lord,
you destroyed both the walls and their foundations
Since the Flood must have implied a uniform rise of the waters of the Apsu, we deduce that
Sippar was located higher than Shurrupak from the shoreline of the Apsu, hence it was
probably built before (under the hypothesis that cities were preferably built near the shoreline
of this sweet water basin); thus, while it could escape being flooded, since the rise of the level
of the Apsu was limited, it could not escape the global earthquake that must have
characterized the Flood event, to be discussed in a forthcoming paper [25].
We conclude this section with our interpretation of the underworld. We have noted that the
Hunza valley was historically almost isolated, especially with respect to the access from the
south, since the way to Gilgit goes through a deep, narrow and dangerous chasm. We are led
to the hypothesis that the underwold refers geographically exactly to the chasm between
57
Hunza and Gilgit. We can see here indeed the following features of the mythological
underwold:
• it is dark, being mostly a very narrow canyon 2 to 3 km deep. For most of the day the light
of the sun would not reach the bottom. Since the latitude is about 36º, the sun would never be
at the zenith
• going down would not be easy, going up would be more difficult
• access to it would require building trails along very steep mountain sides, very often with
stairs indented in the rock, hence the description of the stairway going to the sky. The trail
from Gilgit to Hunza was known before construction of the modern road as the "trail of
bridges", due to the many narrow and dangerous rope bridges needed to pass from one side to
the other of the steep almost impassable valley walls.
We note that in the Enochian texts, see next section, the underworld is a place of punishment
not for man but for the Angels/Watchers, who violated their duties by copulating with human
females and providing man with information not be divulged. In the Enochian underworld
there is fire, and rivers of fire are seen by Enoch during his trip to this region. Here we notice
that the chasm between Hunza and Gilgit lies in the western Karakorum (black rocks) reaches,
mainly consisting of granite, a very ancient volcanic rock. We have been unable to ascertain
whether the region contains recently deposited volcanic rock. The chasm lies however also
south of the Rakaposhi mountain, at which basis hot water sources are found, see Tilman [32].
They indicate a magmatic activity going on not too deeply, a sign of possible surface
magmatic events before the Flood.
3. Geographical information on Paradise in the book of Enoch
As said before, the book of Enoch, considered by St Augustin to be of "hoary antiquity",
respected and cited by the early Church Fathers, was not included in the Canon of the
Christian Church, which meant its doom and oblivion. The last quotation in ancient times was
by Syncellus, circa 800 AD. The book however survived on the periphery of Christianity,
particularly in Ethiopia, where many ancient documents and traditions escaped the ostracism
that affected them in the former Roman world. Two copies of the Enoch book were found and
brought to Europe by the great Scottish explorer and leader of Masonry James Bruce, who
entered Ethiopia from Massaua in 1760 and left it by the way of the Blue Nile and Egypt in
1733, see [26]. Other versions of Enoch book, the so called Slavic Enoch, have been found in
five manuscripts in monasteries of Serbia and Russia, the oldest dating at the 15 th century. The
origin of these Slavic books is obscure. They might have been preserved by some Jewish
scholars (fragments of Enoch have also been found in Qumram) or may have arrived from
Armenia, another region escaping the control of the Roman church, via the Bogomils, who
from their first settlement in Bulgaria spread throughout the Balkans (wherefrom they may
have influenced the Cathars and the Templars). The Slavic Enoch is much smaller, about one
third, than the Ethiopian Enoch (which seems to contain also material from the once
independent books of Noah and Methuselah). Scholars usually value the Slavic Enoch as the
closest to the original text. The best known translation is still the one made by Charles in
1896. We have used the translation into Italian of all Enoch books recently provided by
Pincherle [28]. We indicate by EE the Ethiopian Enoch, by ES the Slavic Enoch.
Enoch is the seventh in the line of the ten prediluvian Patriarchs (Adam, Seth, Enos, Cainan,
Malaleel, Jared, Enoch, Methuselah, Lamech, Noah); notice that the span of time covered by
these Patriarchs is given in the Septuaginta as about 2630 years; since Noah survived the
Flood by about 300 years, this provides about 2300 years between the "creation" and the
Flood, as in the Atrahasis.
58
Some data about the life of Enoch are the following:
he lives in a place called Acuzan (ES, 54/2), possibly, from the interpretation in O&O,
in the valley of the river Dan, south of Mount Hermon, in Palestine
he is a man of justice and knowledge and he can write; his name, "Hanukk" means
"the initiated" and he is called by his people "Enoch the scribe". Here we should notice that
forms of writing predating the earliest official written texts (Egyptian hieroglyphic and
Sumerian cuneiform texts) by at least two thousand years have been found both in the Balkans
(on polished bones) and in the middle Yellow River valley (engraved on tombstones and in
the special writing that until a couple of generations ago was still used, but only by women,
who also had their own special language, remembering the female-only language eme sal of
the Sumerians). A tradition preserved by the Persian historian Al Tabari [31] maintains that
Adam was able to write
during Enoch life, 200 "angels", also called "watchers", descend on Mount Hermon,
led by Shemyaza. These angels are attracted by the most beautiful of the human females. They
seduce them and take them as wives. Their children are "giants" of an evil nature; they attack
man, even eat their flesh, create immense disturbance. Then the High Lord decides to punish
them, sending against them the archangel Michael. In vain the watchers try to enlist the help
of the righteous Enoch to avoid their punishment. They are defeated, lose their freedom and
are relegated to a hellish prison, full of fire, to await their final judgment. This story, amply
developed in Enoch, is only hinted to in Genesis, where it is said that the Nephilim took
women as wives and generated giants
one day he is visited by two tall and shining beings, who take him by a special craft to
the dominion of the High Lord. During the trip which has been variously interpreted as a
vision or an actual space trip he has visions both of earth features from the high and of the
surroundings of our planet. He enters the splendid palace of the Lord and meets the Lord
himself. There he is taught many things about angels, archangels and the future of mankind,
including the Flood
after his return, he writes what he has seen and was taught in 366 books (ES 23/6),
given to his son Methuselah (a successor of Seth in the order of Melchisedek according to
ethiopian sources). These books will remain secret till the end of human times (ES 33/11) and
will survive the Flood (ES 33/12). We may refer here to the theory of Pincherle [39] that they
have been hidden inside the Great Pyramid of Giza; notice that Duranti [29] has claimed on
astronomical considerations that at least the lower part of the Great Pyramid was completed
by the year 3440 BC (about 250 years before our estimated date for the Flood)
Enoch is taken again to "the sky" in a second trip, never to return to his people; he is
therefore, with Eliah, one of the two persons in the Bible who are claimed not to have died on
earth. He is however once visited in his new abode by his son Methuselah on the occasion of
the birth of Noah (Noah was born with white hair, shining eyes and a big body; his father
Lamech was scared and afraid that he might be the son of a Watcher; Enoch tells Methuselah
that Lamech should not worry, that Noah is his son and is destined to save mankind from the
Flood).
It is of course very difficult to deal with a text like Enoch, arrived to us in versions very late
with the respect to the described events and certainly seriously affected by later revisions. It is
also quite a problem to decide which sense to give to a text involving contacts with angels, of
both good and evil nature, and the meeting with the High Lord after what at face value
appears to be a space travel. Most commentators would give to the Enoch texts only a
symbolic, allegorical value, but see O&O for an interpretation in realistic terms.
59
Now we will look at some geographical features from the "aerial travel" of Enoch, concerning
our identification of Eden/Kharsag/Paradise with the Hunza valley. The following lines (EE,
26/1-5) are of special interest:
1 - From there I reached the center of earth and saw a blessed place with trees in bloom
2- There I saw a holy mountain; east of it a river was flowing to the south
3- To the east I saw a high mountain; a deep and narrow valley was between the two
mountains
4 - West of this mountain was a lower mountain, with a deep and dry valley between the three
mountains
5 - The valley was deep, narrow, only hard rock, without trees.
This is our interpretation in the framework of the Hunza area complex:
1 - The blessed place with trees is the Hunza valley, identified with the Garden of Eden; the
definition "center of the world" is not inappropriate, being this area the place where four great
rivers are born and four mighty mountain ranges converge. If an airship would approach Earth
from space, this region would certainly come to special attention due to these features!
2 - The holy mountain west of a river can be identified with the Pasu Group, dominating the
massif where the four rivers are born. The highest peak here, in a series of peaks of almost the
same height, is called Hunza Kunji. According to Maraini [30], "kunshi" is a much used
Tibetan word meaning "the creator of all"( the standard spelling, has noted Vogliotti to us,
would be kungzhi, meaning the first cause, the original nature, the spirit). From our previous
identification of the meaning of Hunza, we can thus surmise for "Hunza Kunji" the meaning
"The Lord of knowledge, the creator of all", this being a reference, in the Sumerian context, to
Enlil, if not Anu. Thus within the context of the Sumerian tales, this mountain might be
identified with the mountain of assembly, the place where Anu descended when he had to
attend emergency meetings.
3 - The highest peak in the east can be identified with the Rakaposhi, that dominates in height
a group of several tall mountains. This mountain has a very definite pyramidal shape,
dominates the valley especially when seen by people who descend from the northern passes
(Mintaka, Kilik), is white shining being covered with ice, was considered not climbable for
many years (it was climbed the first time in 1958). It is considered sacred by the Hunza
people, who call it with the name Dumani, meaning "necklace of clouds". The name
Rakaposhi has no certain meaning and this mountains is not known to have been referred to in
the literature. We propose the etymology "border of the people of God", from the relations
POSHI= border (root PSH in Pishon, Peshawar…), KA=people, RA=God. See also Appendix
4.
4,5 - The narrow and deep valley may be related to the chasm between Hunza and Gilgit, that
we discussed in relation with the underworld, closed on the southern side by much lower
mountains, on the north by the Rakaposhi). We already noticed that the presence of sources of
hot water on the way to the Rakaposhi suggests past volcanic activity. This would explain
several passages in the Enochian texts about fire in the region that he visited.
Conclusion
Our analysis has shown a compatibility between the geography in the Sumerian sources about
Kharsag and the Enochian information about Paradise, with the location that we have
previously suggested for the Garden of Eden described in the Bible book of Genesis. Our
approach is based upon the hypothesis that the considered texts preserve a memory of real
events. Further research should include a fuller search of the Sumerian-Akkadian sources and
60
of Jewish sources (Qumram, Talmud, Midrash, Legends). Moreover it would be extremely
important to look at any surviving traditions among the people in the Karakorum-HindukushPamir-Kunlun region. Some of these people, e.g. the so called Kafiri of the Kafiristan region
between Pakistan and Afghanistan, have been isolated for millennia and were only recently
forced to convert to Islam, see Maraini [34].
Appendix 1. Who were the Anunnaki?
In Genesis we find two names associated with divinity, Elohim and Yahveh, the first being a
plural, meaning "the shining ones", but usually translated as a singular, via the pluralis
majestatis interpretation, hence as another name of God = Yahveh. In the books of Enoch we
are presented with Angels and Archangels (with detailed classification of their role in the
celestial abode), fallen Angels and the Lord of the High. In the Sumerian texts we meet the
Annunaki, Great Sons of the Light, with their tripartite division.
The question naturally arises about who are the "god, gods" of the considered texts. We just
consider a list of some possible answers:
1. The positivistic answer, dominating the scientific and academic world: the gods are
inventions of the religious authorities, who have to provide an answer to the eternal questions:
who we are? where do we come from? What will happen of us after death?
2. The answer of the modern religions, in particular the three monotheistic religions of
Hebraism, Christianity and Islam: the unique God has directly operated on Earth, possibly
with the help of his Angels, to create man, a union of a physical body and a spiritual soul.
From this answer the rejection follows of the detailed interactions between man and gods
appearing in the "pagan" religions, unless the "gods" are interpreted as devils, which was the
usual stand of the Church Fathers. Hence the systematic destruction of ancient documents by
Christians (the bonfire of the magician books in Tarsus by Paul; a first destruction of the
Alexandria library under Theodosius; the bonfires of the Mayan codices in Mexico by Diego
de Landa; the destruction of almost all the 8000 rongorongo tablets still existing in Easter
Island last century, only 21 are left…) and by Islam (the final destruction of the Alexandria
library in the 7th century; the devastation of the Hindu temples and libraries in northern India;
the destruction in Asir of the holy place of the cult of El Ais by Ibn Saud at the beginning of
the 20th century ….).
3. The hypothesis of authors as Collins [37] or Hancock [38] that the "gods" are deified
human beings, survivors of a previous higher civilization destroyed by a catastrophe, typically
the civilization of Atlantis dated at the time set by Plato, circa 9500 BC.
4. The hypothesis of O&O, amply developed in the substantial monograph [19], where the
traces of the Shining Ones are followed throughout the world, that the "gods" are superior
beings, originating from what a school of Sikh mystics calls "causal and astral regions".
These beings are deemed to have visited the Earth in the period between the end of the last
glaciation and the first millennium BC. Man would be the result of a hybridization process
between such beings and the pre-existing Cro Magnon man. Agriculture would have been the
result of their teaching.
5. It is a thesis of De Grazia [5] that "gods" exist in many places of the universe, this term
defining classes of intelligent beings, a class endowed with higher intelligence being
considered of "gods" by a less endowed class. The "gods" of ancient traditions might therefore
be interpreted as visitors to our planet from another planet with more advanced intelligent life.
A further step can be taken within the scenario developed by Ackerman [7,8], who describes
the birth of Venus a few millennia ago in the context of catastrophic interactions with Earth
and Mars. Ackerman posits that Mars was previously within the habitable zone, wherefrom it
was expelled by Venus, reaching its present orbit around 700 BC after several close
61
interactions with Earth, as independently argued before by Velikovsky [3] and De Grazia [4].
He assumes that Mars had water, a significant atmosphere and life; this biosphere would have
been lost during the catastrophic events that affected Mars before it settled in its present orbit
in a non habitable zone. If we assume that life included also intelligent life more advanced
than the level reached at that time by man, then two hypothesis should be considered
naturally:
•
That the intelligent beings in Mars, possessing sufficiently advanced space
technology, left Mars towards habitable planets of other stars with parameters similar to those
characterizing Mars (even a very advanced civilization would be impotent vis-à-vis a collision
or a quasi collision with another planet); the usual objection against interstellar travel due to
the speed of light limit is no more valid, see Van Flandern [42].
•
A small number of the Mars people visited Earth in several occasions, and
particularly at the time of the catastrophic events in the period of the Venus-Mars close
passages (albeit Earth was affected less than Mars). They improved man by hybridization,
taught various techniques and laws of social organization, possibly even brought from Mars
plants not previously existing on Earth. Then they left when the catastrophic time ended, circa
700 BC.
6. As a variation of the above scenario which does not assume presence of advanced
intelligent life on Mars but on one or more planets of stars in our part of the galaxy, one may
hypothesize that the very special events that affected the solar system for several thousand
years, described by Velikovsky, De Grazia and Ackerman, may have attracted to the solar
system visitors from one of such inhabited planet. These visitors inter alia would have
interacted with man via genetic modifications (of the type we are close to be able to
implement ourselves) and cultural influence. It should be noted that intelligent beings with a
scientific development just a few hundred (but it could be many millennia or million ) years
more advanced than ours should be capable at least of the following feats:
• full knowledge of DNA and capacity of modifying it, obtaining e.g. a longer span of life
• detailed knowledge of the planetary systems in the galaxy
• capacity of travelling to other planetary systems, either at superluminal speed (if this fact
is not physically impossible) or at close to the light speed; in such a case the long span of life
would make the time of travel not the big problem that now seems to make such trips out of
reach of man.
Appendix 2. One Eve or seven Eves?
According to Genesis, one couple is created in the Garden of Eve: Adam first, then Eve, by a
curious process that involves a rib of Adam. Eve is called "flesh of the flesh" of Adam. There
are worldwide several traditions of mankind descending from a single couple and it is
sometimes specified, e.g. for the primordial couple of Fuxi and Nawa, referred to in Chinese
traditions, that they were twins.
Just as an intriguing thought, let us note the following facts about the creation of Eve as
described in Genesis:
•
Ribs are among the human bones with the highest content of staminal cells, which are
clonable
•
a normal clone of Adam would be another male; now a male has a Y and an X
chromosome, while a female has two X chromosomes; hence it would appear within reaches
of genetic engineering that a female cell could be obtained from two male cells, substituting
the Y chromosome of one with a second X from the other cell. Creating a male cell from
female cells would t be a much more complex genetic engineering feat.
62
In the Sumerian tale, seven couples are created. It is another intriguing observation that from
recent mitochondrical analysis, see Sykes [35], the population of at least Europe and the
Mediterranean region can be clustered into seven groups, each one deriving from a single
female ancestor. However these women ancestors are not dated at the same time, so it is not
possible to straightforwardly identify then with the seven women of the creation in Kharsag
(albeit it must be said that the dating of the ancestor is very tentative, based upon some
tentative extrapolations from mutation rates in fast breeding animals; it could be completely
wrong under the catastrophic scenario of recent evolution of the solar system developed by
Velikovsky, De Grazia and Ackerman).
A striking difference between the Genesis and the Sumerian creation story is the presence of
one couple versus seven couples. A possible way out of this problem is that the woman of one
couple died and was substituted by a newly "created" younger woman, Eve, a clone of Adam.
The new couple felt to be special, aimed at a special role within the small community, was
envied by the others, and was finally expelled. That Adam had a previous wife before Eve is
actually stated in some Jewish ancient traditions, where such a woman is given the name
Lilith and is considered as a demoness.
Appendix 3. The location of the prediluvian Sumerian cities
Our discussion of Apsu has taken us to times much later than the creation event. We know
from Sumerian texts that several cities existed before the Flood (three gods are even claimed
to have reigned in Bad Tibira for 108.000 years, see [40]); we also know from Genesis that
cities were build and metallurgy had been developed in the land settled by the descendents of
Cain, the land of Nod, that we in [1] identified with the heart of Asia. From the previous
scenario and our work in [1] we are led to a tentative identification of the location of the
following prediluvian cities of the Sumerian tradition:
• Uruk is the same as biblical Ashur, the "city of Asia"; thus it is possibly present
Tashkurgan in the Karakol
• Nippur, being associated with the Ekur, the mountain palace of Enlil, was probably the
main settlement in the Hunza valley
• Bad Tibira was located in Badakshan, at a place convenient for trade and for working the
lapis lazuli of the Blue Mountain (and possibly work of the jade imported from the region of
Khotan)
• Shurrupak was in present Xinjang, probably at some distance from the southern shore of
the Apsu
• Sippar was also in Xinjang, or possibly near the flooded basin of Tsaidam, in Xinghai.
Despite the immense devastation brought by the Flood, it is not impossible that remains of
these cities may be found. These cities were anyway reconstructed in Mesopotamia, the region
where after the Flood the Sumerians migrated (from Dilmun). The well known ruins of these
cities lie over a sterile layer of alluvial sand, first discovered by Woolley, below which are
found remains of cities of a different civilization, the Ubaitic one, also present in Bahrein and
in the Arabian peninsula. One should observe that Central Asia is still an almost virgin land
for archaeological research. The recent discoveries of huge cities of the first/second
millennium BC in Xinjang (Loulan, Miran…) and of the third millennium BC in
Turkmenistan and Tagikistan (in the so called BAM, Bactriana/Margiana complex) suggest
that we are approaching an important revision of the established scenarios on the
historical/geographical development of civilization.
Appendix 4. A reference to Rakaposhi and Hunza Kunji in Hurrian and Hittite
mythology?
63
The Hurrians are a people that are present on the scenario of the Middle East from the second
half of the third millennium BC to the first half of the first millennium BC. They were located
between present Turkey and Syria near the Mediterranean. Their language, poorly known, is
of the agglutinant type (like Sumerian, Turkish or Mongolian), which may point to an origin
from Central Asia. Their religion had some connection with the Sumerian/Akkadian religion,
some of the main texts of these people, e.g. the epics of Gilgamesh, having been found
translated into Hurrian. See Imparati [44] for a review of the knowledge about Hurrians in the
sixties.
In our discussion of the Hunza valley as the possible location of the Garden of Eden of
Genesis, of Kharsag of Sumerian texts and of Paradise of Enoch, we have noticed the special
feature provided by the twin mountains Hunza Kunji and Rakaposhi, located on the same
meridian and with virtually the same elevation. It is therefore of interest to notice that a
reference to two holy mountains appears in the Hurrian mythology: the god Tessub, god of the
high peaks, usually considered to corresp0ond to the Akkadian god Adad, is claimed to
advance between two divine mountains, one named HAZZI (perhaps a connection with Hunza
Kunji ?), the other named NANNI (perhaps related with the Hunzakut name of Rakaposhi,
DU-MANI = DU-NANI ?). Furthermore, in the great rocky sanctuary of Yazilikaya, close to
the Hittite capital Hattusa, where most of the shown divinities are actually from the Hurrian
pantheon, the Hittite king Tudhalija IV is shown standing with his feet on two sacred
mountains.
References
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Miscellanea 1/01, University of Bergamo, 2001 (see also Episteme N. 6, Part I, only in Italian)
[2] E. Spedicato, Eden revisited: geography, numerics and other tales (revised version),
preprint, 2003
[3] I. Velikovsky, Worlds in Collision, Doubleday, 1950
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Natural History, Metron, Princeton, 1981
[5] A. De Grazia, Divine Succession, a Science of Gods Old and New, Metron, Princeton,
1983
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Metron, Princeton, 1984
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[11] S. Hummel, On Zhang-Zhung, Library of Tibetan Works and Archives, Dharamsala,
2000 (G. Vogliotti ed.)
[12] J. de Claustre, Histoire de Tamas Kouli Kan, Nouveau Roi de Perse, chez Sirtori, Milano,
1746
[13] I. Velikovsky, Ages in Chaos, Sidgwick and Jackson, 1953
[14] G.A. Barton, Sumerian Religious Texts, New Haven, 1918
[15] S.N. Kramer, Sumerian Mythology, New York, 1961
[16] J. Bottero, S.N. Kramer, Uomini e Dei della Mesopotamia, Einaudi, 1992
[17] G. Pettinato, Mitologia Sumerica, UTET, 2002
[18] S. O' Brien and B. O' Brien, The Genius of the Few, Dianthus Publishing, Cirencester,
1999
[19] S. O' Brien and B. O' Brien, The Shining Ones, Dianthus Publishing, Cirencester, 2002
[20] G. Smith, The Chaldaean Account of Genesis, London, 1875
[21] E. Spedicato, Numerics and Geography of Gilgamesh Travels, Report DMSIA
Miscellanea 1/00, University of Bergamo, 2000 (also in Migration and Diffusion, 1/6 and 1/7,
2001)
[22] J. de Mahieu, Les Templiers en Amérique, Laffont, 1981
[23] G. Pettinato, La Scrittura Celeste, Mondadori, 1988
[24] W. Pitman and W. Ryan, Noah's Flood, the New Scientific Discoveries on the Event that
Changed History, Simon and Schuster, 1998
[25] E. Spedicato, The three great catastrophes of Plato, a discussion of their chronology and
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[26] J. Bruce, Travels and Discoveries in Abyssinia, Nimmo and Mitchell, Edinburgh, circa
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[27] C. O' Brien, The path of light, Dianthus, Cirencester, 2003
[28] M. Pincherle, Enoch, il primo libro del mondo, Macro Edizioni, 2000
[29] G. Duranti, Nella grande piramide di Giza, un messaggio per il nostro millennio?
Filosofia Oggi, 26, 147-163, 2003
[30] F. Maraini, Segreto Tibet, Corbaccio, 1998
[31] Al Tabari, I Profeti e i Re, Guanda, 1993
65
[32] H.W. Tilman, Deux Montagnes et une Rivière, Arthaud, 1953
[33] Hindunet, www.hindunet.org, People called Martu
[34] F. Maraini, Paropamiso, Corbaccio, 2002
[35] B. Sykes, The Seven Daughters of Eve, Norton & Company, 2001
[36] F. Vinci, Da Omero nel Baltico al paradiso indoeuropeo e al giardino dell' Eden,
Archeomisteri 1, 50-69, 2002
[37] A. Collins, From the Ashes of Angels, the Forbidden Legacy of a Fallen Race, Signet
Book, 1997
[38] G. Hancock, Fingerprints of the Gods, Crown, 1995
[39] M. Pincherle, La grande piramide e lo Zed, Macro Edizioni, 2000
[40] text W-B-144, quoted in Sitchin, The Twelfth Placet, Stein and Day, 1976
[41] H. Mandel, La civiltà della valle dell' Indo, Sugarco, Milano, 1976
[42] T. Van Flandern, Speed of gravity result interests the UFO community, Meta Research
Bulletin, 12,2, 18-20, 2003
[43] H. Uhlig, La via della seta, Garzanti, 2000
[44] F. Imparati, I Hurriti, Sansoni, 1964
----Acknowledgements - Work partly supported by MAF and Fondi Ateneo 2002. Thanks are due
to Antonio Agriesti, Michele Manher and Guido Vogliotti for useful comments.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
66
Map 1. The region surrounding Hunza (from Tilman [32])
67
Map 2. Showing the four rivers exiting
from the massif separating Hunza from Wakhan
68
Ubinam gentium sumus?*
Un Eden ed un popolo o più luoghi e più genti?
(Bruno d'Ausser Berrau)
Profondo è il pozzo del passato
O non dovremmo dirlo imperscrutabile?
(Thomas Mann, GIUSEPPE E I SUOI FRATELLI: incipit)
PRIMA PARTE
Ai lettori d'EPISTEME sarà, indubbiamente, sorta qualche perplessità nel vedersi suggerire, dalle
nostre pagine, alcune localizzazioni dell'Eden tra loro alternative; 1 tanto più che tutte si
presentano supportate da obiettivi riscontri. Dati dunque questi ultimi, dov'è allora la ratio,
che, da tali apparenti contraddizioni, possa far emergere un ordine ed un significato?
La risposta, per essere esauriente, deve abbandonare, com'è già avvenuto in nostri precedenti
scritti, sia i cammini consueti della preistoria, sia quelli della cosmologia contemporanea.
Cammini la cui visuale è di una civiltà fatta di pochi, recenti millenni mentre il paesaggio
umano, pur avendo orizzonti che si perdono nelle lontananze di un passato indefinito, appare
segnato da deprimenti connotati belluini.
È sufficiente una qualche confidenza con la geografia per rendersi conto della frequenza con
la quale, attraverso le più disparate contrade (abbiamo in mente soprattutto l'Eurasia e
l'Africa), si ripresentano gli stessi nomi di luogo: che questo debba essere un semplice
attributo del caso, pare - data anche la molteplicità delle lingue e delle genti coinvolte e quindi
sul piano della stessa eventualità statistica - davvero improponibile. L'origine più contingente
di questo fenomeno è quella che, in tempi recenti, trova esempio nelle terre oggetto
dell'imponente migrazione susseguente alle grandi scoperte geografiche: le Americhe ed il
continente australe sono, infatti, territori saturi di richiami alla toponomastica europea,
talvolta aggettivati con nuovo ma tutti, inevitabilmente, collegati o a mere nostalgie, o a più
pregnanti congruenze geografiche tra l'insediamento oltremare e quello perduto.
In tali esempi, la motivazione è dunque psicologica ma in altri - e qui torniamo al "vecchio"
mondo - nei quali il nome implica significati di diversa e più complessa natura, la
giustificazione si colloca, per l'opera di remote élites, sul piano di una meditata scelta di
carattere intellettuale. In tutti i casi, c'è dunque un prototipo la cui replica scaturisce da ragioni
profondamente radicate nella tradizione del popolo vettore.
A questo punto, viene spontanea, alla mente, una domanda: quale, degli Eden propostici, è il
giardino primevo o, piuttosto, non sono tutti, di quel remoto prototipo, soltanto la pallida,
approssimativa replica?
In effetti, è l'ultima ipotesi quella che più s'avvicina al vero, con la precisazione che
quell'approssimazione, quella lontananza dal modello debba intendersi nella sua accezione
estrema. E tale alterità, nel racconto biblico, è resa dal precipitare dei nostri mitici progenitori
in tuniche di pelle.2
69
In altri termini, il presente ciclo3 d'umanità, del resto iniziatosi, come anche quelli che
l'avevano preceduto, nello stato sottile, era poi transitato o meglio era - allo scadere di un
determinato periodo - "caduto"4 nella condizione grossolana.
Ciò, a scanso d'equivoci, facilmente generati da un avventato, astratto spiritualismo, non
significa che la nostra umanità abbia avuto il suo immediato inizio sul piano di una vaga,
indefinibile trascendenza: no, nella modalità sottile, non solo siamo ancora all'interno della
manifestazione ma, per la precisione, ci troviamo nella manifestazione formale (uomini in
forma d'uomini insomma) ossia ben addentro al dominio della physis come, in breve, lo siamo
adesso.5
Per comprendere cosa, nella fisica antica, tutto questo abbia voluto significare, dobbiamo però
rendere, alla medesima physis, un'ampiezza che, soltanto concependola secondo l'indefinita
propagazione di un movimento di natura vibratoria e d'andamento sferoidale, faccia di questi
due stati - il sottile ed il grossolano - nient'altro che due momenti successivi della stessa
appartenenza cosmica. È la contiguità ed interdipendenza tra le due posizioni, che pone la più
prossima ragion sufficiente della modalità grossolana in quella sottile ma, nel frattempo, la
cesura, provocata dalla Caduta, rende il distacco tra questo mondo e "l'altro" - com'anco nel
comune linguaggio si definisce - quanto di più netto possa darsi essendo le due collocazioni
ormai separate dall'abisso di ciò cui noi attribuiamo nome di morte.6
In altri nostri precedenti articoli, abbiamo fatto ripetuto riferimento all'ubicazione polare del
primo centro d'irradiazione della presente umanità. Il perché ciò, nei racconti delle più diverse
scritture tradizionali, non sia sempre presente e perché quand'anche lo sia, non sempre
l'accenno appaia trasparente, attiene alla suddivisione del ciclo ed alle leggi che lo reggono: la
ripartizione è complessa poiché - e quella degli Yugas, e quella dei Grandi Anni aggettano
l'una sull'altra7 mentre, all'interno dei rispettivi frazionamenti, è necessario tenere conto della
subordinazione gerarchica dei vari centri tradizionali. Alcuni, sono stati fulcro d'intere civiltà,
altri invece punto di riferimento d'ambiti culturali assai più modesti ma, nondimeno, tutti si
mostrano costituiti rispettando una serie di parametri geografici e linguistici significanti.
Quello che però, da questi, fa la differenza con il prototipo è l'invalicabile cesura che adesso si
frappone. Cesura che spesso viene resa con la metafora della sotterraneità mentre, in Dante expressis verbis - il Paradiso Terrestre è, ora, nell'Oltretomba.
Nella rappresentazione che, nella COMMEDIA, se ne fa, ci sono però diverse importanti
indicazioni; vediamone alcune: la localizzazione è antartica, si sottintende tout court il (un)
Polo senza specificazione del segno rispetto all'Equatore ma la diversità modale (i.e. la
condizione sottile), e solo quella, è resa qui con gli antipodi. Nel frattempo, è lo stesso orbe
terracqueo l'ambiente nel quale continua a svolgersi il viaggio, anzi, rispetto alla condizione
infernale, in quel momento (…e quindi uscimmo a riveder le stelle.8) ci si
trova proprio sulla superficie; dunque nella parte del globo normalmente abitata da tutti noi.
Ma allora, in quale modalità si stanno svolgendo gli avvenimenti narrati?
La contraddizione con ciò che doveva essere una peregrinatio nel regno dei morti, è solo
fittizia. L'effettivo riferimento è a quanto più sopra accennato, vale a dire la continuità
cosmica tra la valenza grossolana e la sottile. La Terra totale abbraccia l'una e l'altra sponda. 9
Quindi, se le cose stanno così, questa totalità dovrà comprendere anche aspetti adesso non
percepibili. Tale particolare, nel poema, è sotteso alla struttura della montagna 10 del
Purgatorio sulla cui sommità, ricordiamolo, si trova il Giardino.
Essa ha sette balze,11 le quali sono poi soltanto un modo per rappresentare sette differenti
condizioni d'esistenza. E sette, secondo una quantità di miti e tradizioni, sono le terre. 12 In altri
termini, la terra, sulla quale si svolge il ciclo (Manvantara) della presente umanità, è solo un
settimo della terra totale e, nelle dottrine cosmologiche indù, le sette terre (dwipas, lett.
continents13), all'interno di un ciclo d'ordine superiore - il Kalpa - fungono da supporto
70
per i quattordici Manvantaras che lo costituiscono. In questo modo, ognuna di esse viene ad
essere utilizzata due volte.
La montagna, in quella prima era,14 proprio per l'evidenza del suo imporsi, è un preciso
riferimento all'accessibilità del vero sicché la vetta, sede del pardes,15 ne diventa eccelso
luogo di verità.16 Del resto è la conoscenza, nonostante il susseguente, progressivo
allontanamento dal privilegiato status degli inizi, il Dharma17 dell'uomo: essa è natura e
dovere. Questa posizione di vertice di quel primo centro, unita al fatto che sette sono le terre,
fa sì che la struttura del satyaloka venga a corrispondere a qualcosa come un huitième climat.
E ciò con un'importantissima ricaduta sulla tipologia del successivo riprodursi del modello
originale: pressoché tutte le città sante ovvero i centri secondari, scaglionati nel tempo e
nello spazio, sono costruite su sette colli o, almeno, affermano d'esserlo.
La montagna, graficamente, nell'estrema semplificazione, è resa da un triangolo. È questa una
figura la quale ben evidenzia il carattere assiale della culminazione polare; col farla ruotare
sulla base se n'ottiene un'immagine speculare: un triangolo rovesciato. Esso sarà allora in
evidente opposizione a ciò che il monte, concettualmente, ha rappresentato. È per tale motivo
che la caverna diventa un modo per alludere ad una condizione d'occultamento,
d'inattingibilità; in via di metafora, la precitata "sotteraneità". È per questo - e ne vedremo la
ragione - che, nell'Induismo, il Centro del nostro mondo è designato col nome di Agarttha e,
su tutti questi nomi, correlati al centro supremo, merita diffondersi con una certa ampiezza.
Intanto è necessario fare una premessa; nonostante che quella tradizione sia la più diretta
erede della prima umanità, nonostante ciò dunque, non solo gli indù non sono ormai,
fisicamente, quelli che erano quand'arrivarono nel sub-continente ma né loro, né alcun'altra
popolazione attuale, appartengono, per evidenti ragioni, alla razza del primo Grande Anno. Il
nome tramandato, di questa popolazione, a livello razziale ancora indifferenziata, è, in
sanscrito, haņsá, swan, goose18 ed anche nella mitologia classica la patria del cigno è
nel paese degli Iperborei: è infatti là, sulle rive dell'oceano artico, ancora più a nord della
Terra del Vento del Nord,19 che i cigni, trainando il carro di Apollo, vi conducono il dio 20 al
quale questi uccelli rimarranno sempre sacri.
Del resto, la primordialità connessa alla loro simbologia è ben resa dal nome e un haņsá21 è a
aquatic bird, in particolare è un uccello dei fiumi,22 quei quattro fiumi che
sono una costante edenica tant'è che sul Meru23 - il quale
is the residence of Brahmā, and a place of meeting for the
Gods, Ŗishis,24 Gandharvas25 &c.26 - on its summit, the river
Ganges falls from heaven and flows thence to the surrounding
worlds in four streams.
Anche il nome ebraico del cigno bērebûr, ricondotto alle sue componenti consonantiche
BRBOR, contiene un indubbio suggerimento di settentrionalità: intanto BR è son,27 da
intendere quindi - lato sensu - nell'accezione di filiazione, appartenenza. Vediamo
poi BOR; qui l'omofonia con boréas è davvero impressionante ma passiamo ai suoi
significati: in ebr. abbiamo cleaness ma anche purify, select. Ancora più esplicito,
nella conformità alle caratteristiche attribuite alla prima umanità, il senso connesso al
correlato ar. barr, he was pious, good, virtuous, honest, true.28 Di
conseguenza, nel suo insieme, BRBOR esprime sia la stretta relazione con quell'habitat, sia la
conformità alle caratteristiche antropologiche della primordiale ecumene boreale.
Inoltre, sempre nell'ambito di queste connessioni linguistiche, la stessa relazione (i quattro
fiumi) si rivela anche nei riferimenti idrici: 29 BOR nell'accadico30 būru, diventa uno
71
specchio d'acqua mentre, nel sumero,31 si precisa decisamente verso l'accezione
fluviale con bura, dove bu è to rush around e ra, to flood, overflow, tant'è che
Buranun32 è il nome sumero (+ nun, great, noble) dell'Eufrate (uno dei quattro fiumi
edenici del racconto biblico), giunto a questa forma attraverso, il parsi, per una modifica
dell'acc. Purātu.
Parimenti importanti sono le connessioni, che si ricavano dagli altri nomi dati a questo
volatile acquatico; l'ing. swann, (td. der Schwan) ed il norreno svanr, hanno lo stesso etimo
(cfr. skr. svana, sound; ant. irl. sennim, spielen; ant. ing. swinn, sing, music) del lt.
sonus,33 il che equivale a dire il Verbo, il Logos.
Su questo tema "acustico" ci siamo diffusi con maggiore ampiezza nel nostro studio ATOPON,34
dove abbiamo mostrato come, attraverso l'imperativo del fiat lux!,35 si determini,
attraverso la sua azione sulla ýlē,36 una vibrazione armonica in grado di percorrerla totalmente:
è così che, mediante il passaggio dalla potenza all'atto, viene prodotta l'indefinita molteplicità
di stati e modalità, i quali andranno a costituire l'Esistenza.
In greco, la prossimità tra kúknos, cigno e kúklos, cerchio, anello,37 because
interchanges between the consonants of this series occur in
various languages and those involving n and l are especially
frequent fanno sì che, proprio per la forma arrotondata assunta, mentre nuota, dalla parte
anteriore dell'uccello, questo sia anche le nom d'un bateau38 la cui prora, appunto, ne
ricorda la linea. E come allora non pensare a quelle concave, veloci navi, che, nel corso dei
millenni ed in varie ondate, dall'estremo settentrione d'Europa, con le loro alte e sinuose prore
hanno solcato l'oceano per scendere nel Mediterraneo o, dal Baltico, hanno percorso le interne
vie d'acqua che, attraverso laghi e fiumi, conducono sino al Mar Nero ed al Caspio?39
Vediamo ora un altro aspetto del conferimento, nell'Induismo, di un nome d'uccello a quella
prima razza umana; ancor oggi, in svariate tradizioni, è questione di un'enigmatica lingua
degli uccelli e s'attribuisce, a chi ne possieda la conoscenza, un livello intellettuale 40
non comune: infatti, per il loro muoversi nell'aria è connesso ai volatili un simbolismo che ne
fa un tramite tra cielo e terra ovvero tra questo piano d'esistenza e gli stati superiori
dell'essere.
Pertanto, con l'affermare che gli uomini della prima età fossero cigni, si voleva
sottintendere che ne possedessero la lingua e, con la lingua, anche siffatta privilegiata facoltà;
è ciò che al-Qōran41 attribuisce a Salomone:
…noi siamo stati istruiti nel linguaggio degli uccelli e ricolmati
di tutto…42
significandone così la piena reintegrazione nello stato dell'uomo prima della Caduta.
Quello stato pel quale tutto era parlante e vivente. Una condizione unitiva che, insomma,
intrinsecamente fruiva della chiave dei simboli.
Il fatto poi che si parli di un canto del cigno43 sta proprio in relazione con
quell'aspetto ritmato ed armonico, che è la più alta espressione del linguaggio, tale, quale
compiutamente si dovrebbe esprime nella poesia. Ritmi, le cui vibrazioni e frequenze sono in
grado di corrispondere ed interagire con quella più intima natura del Cosmo cui, or ora,
abbiamo fatto cenno.44
Questo vale per il linguaggio inteso secondo il criterio più generale ma - se si vuole precisare
quale fosse, di fatto, quella prima lingua, evidentemente comune a tutta l'umanità - si viene a
72
toccare un problema strettamente connesso con la constatazione della paradossale pluralità
degli Eden; ambigua impasse che ha motivato questo nostro tentativo di chiarificazione.
Il pregiudizio di primordialità, in ambiente giudaico-cristiano, favorisce l'ebraico ma,
parimenti, in civiltà diverse, lo troviamo suggerito anche per altre lingue, cosa che, con
evidenza implica, incompatibilità. Ad esempio, detta preferenza, in ambito mussulmano,
s'indirizza, naturalmente, verso l'arabo ma quest'opinione popolare è contraddetta da
le véritable enseignement traditionnel de l'Islam, suivant lequel la
langue «adamique» était la «langue syriaque» loghah sûryâniyah45
Ora, com'afferma lo stesso RG, il paese citato non ha niente a che vedere con la Siria dei
nostri giorni ma è, invece, quella terra del sole il cui nome è connesso alla √sur.46
Essa, in una lingua storica come il sanscrito, ha poi appunto prodotto sūrya, the sun. E la
terra del sole non è tra quelle dove esso esprime tutta la sua forza ma è in quelle
pallide zone circumpolari nelle quali, durante l'annuale fase notturna, la sua lunga assenza
produce la spasmodica attesa del primo apparire dell'aurora che, come una tenue fiaccola
sorge sopra l'orizzonte e poi, nel suo moto giornaliero, che tutto lo percorre, sempre più
splendente, danza secondo l'espressione vedica47 ed omerica,48 sino a che, dopo un tempo
variabile in rapporto alla latitudine, è lo stesso disco solare che, per dare inizio alla lunga
stagione diurna, comincia ad emergere fino ad innalzarsi compiutamente.
Resta dunque impossibile conoscere quale fosse la prima lingua dell'umanità. Le notizie assai
vaghe49 concernenti l'alfabeto watan, supposta origine degli alfabeti contemporanei, lo
attribuiscono all'eredità atlantidea e pertanto esso e la lingua che doveva corrispondergli
risalgono ad un'epoca molto lontana dalle origini, tuttavia determinante per l'immediata
continuità con il presente, ultimo GA.
Con certezza, notiamo come l'attribuzione di primordialità, nei vari contesti storici e culturali,
segua un processo analogo a quello sotteso al transfert toponomastico; cosicché possiamo
cominciare a comprendere quali debbano essere le linee guida per orientarci in ciò che è stata
l'articolata costituzione dei centri spirituali secondari, relati sia a differenti fasi temporali, sia quando sincroni - a diversificazioni di popoli e civiltà ma, tutti, immagini o riflessi di un
archetipo ormai inconoscibile ed inaccessibile.
Ma, per adesso, ritorniamo ad occuparci dell'Agarttha. È con qualche probabile accento di
contestazione nei confronti della nota esposizione di RG, 50 che qualcuno ha obiettato che essa
non sia parola sanscrita. In effetti, ove si vada a controllare sul MMW, tale lemma non appare,
c'è però gárta; hole, cave, grave. Inoltre, in tale lingua, esiste l'alfa privativo, del
quale possiamo trovare un esempio in una modifica del composto gartamit, buried in a
hole (-mit, deriva da una √mi, to fix or fasten in the earth): ágartamit
diventa, infatti, not buried in a hole. Da questo, pel nostro agarttha, è facile
ricavare il valore come di un qualcosa privo d'aperture o, viceversa, trovarvi
l'essenza della chiusura.
Siamo perciò di nuovo all'idea di nascondimento, d'intangibilità e, di conseguenza,
di luogo nascosto, protetto. È da qui che dunque provengono sia il simbolo della
caverna, sia la metafora della sotteraneità. L'altra accezione di gárta è a high seat,
throne (of Mitra and Varuna) or the seat of war-chariot e qui, in
conformità con ciò che - secondo tutte le apparenze, dovendo designare the Holy See of the
King of the World51 - noi siamo a confrontarci, in piena congruità, con la maestà,
l'eccellenza e lo spirito di comando.
Se non è allora parola sanscrita, Agarttha, a riprova della predetta filiazione della civiltà indù,
possiamo costatare come, col sanscrito, si spieghi però benissimo ma non è al sanscrito che ci
73
si debba limitare, perché, dal nucleo concettuale originario, promanano tutta una serie di
ricadute. In ambito i.e. Asgaard è der Garden des Asen, il giardino degli
dei; quel giardino che ritroviamo anche nella virgiliana, idilliaca e pastorale Arcadia.52
Allo stesso etimo ed a conferma che si tratta proprio del Paradiso boreale, si rifanno pure
articus e arctos mentre arcanus unisce la sacralità al nascondimento. Gaard è allora
l'hortus conclusus e ben guardato - l'it. guardia proviene dal germ. cfr. l'ing. ward ed il
td. warten, custodire e die Warte, sentinella - posto al culmine di quel dominio cui,
dall'epoca della Caduta, è sempre più arduo l'accesso ai viventi, tant'è che tale rara condizione
di Dante sia sempre notata sì da far esclamare:
… che i vivi piedi - così sicuro per lo inferno freghi.53
Accesso che, dall'inizio del Kaly Yuga,54 secondo concordanti tradizioni, si è reso ancora più
arduo così da ben giustificare la meraviglia di quei trapassati. In ambito semitico e sul piano
della stretta affinità etimologica, abbiamo l'accadico ĥarādu, to wake up, to keep
watch; ĥardattu, alertness; ĥardu, wachsam mentre, su un piano concettuale, è molto
interessante un verso di IS. 14.13
…dimorerò sul
settentrione…
monte
dell'assemblea,
nelle
parti
più
remote
del
Tale monte, in ebr., è esattamente hèr mô´ēd, ovverosia:
the mount of meeting or assembly (of the gods; the mountain of the
gods in the extreme north, the oriental Olympus, persian Alborg,
hindu Meru, babylon.[accadico] Arallû).55
In particolare settentrione è tzaphon,56 da una √TzPhN, il cui significato è
nascondere con un riflesso di nascondere qualcosa di prezioso. Tant'è che in
Ez. 7.22 ha il senso di cherished place sottintendendo Gerusalemme. E la città santa per eccellenza57 - è, appunto, un'immagine dell'Eden ossia, in altri termini, quel tesoro
ora nascosto (l'Agarttha), il quale, a Nord, sul Monte Meru, corrisponde al precitato hèr mô
´ēd d'Isaia.
Dopo la Caduta e nel corso del Manvantara, dalla prima umanità haņsá, seguendo la
scansione dei Grandi Anni (GG.AA.), si differenziano le razze e, ad ognuna - in successione 58
- passa la "reggenza" di questi ampi periodi. È in tal modo che, sul piano geografico, si
verificano le principali proiezioni, i suddetti riflessi dell'archetipo centro boreale.59
A complicare la situazione, bisogna aggiungere che, centri secondari si sono creati, all'inizio
d'ogni GA, non solo rispetto al modello originario ma, sempre seguendone in qualche modo le
caratteristiche, anche all'interno dei singoli GG.AA., ciò è avvenuto in ordine a qualche
esempio già, di per sé, accessorio. Allo stato attuale dei fatti, orientarsi in tale intreccio non
appare facile, si possono però stabilire alcuni punti fissi.
Il primo ed il più importante è che, in prevalenza, pur rapportandosi ad un principio assoluto
ossia alla cosmogenesi, le più diverse tradizioni, nel restringere la narrazione all'inizio
dell'umanità, non solo si limitano all'avvio di quest'umanità ma, spesso, lo fanno nei termini di
una situazione che è limitata alla partenza di questo, ultimo GA.60
Anche la tradizione indù, nella ricostruzione del Tilak, col fornirci indicazioni sulla sede
originaria della razza, s'esprime secondo parametri che fanno riferimento ai diretti antenati di
74
quel popolo61 ed alla loro collocazione boreale62 e non certo all'originaria dimora degli haņsá.
Pertanto, in merito alla distanza cronologica dai giorni nostri, non si superano i valori predetti.
L'altro punto da prendere in considerazione concerne la lingua e già abbiamo visto cosa si
debba, correttamente, intendere per loghah sûryâniyah però, in anni recenti, con gli
approfondimenti nello studio dell'accadico o lingua assira (stesso etimo di sûryâniyah) che
dir si voglia, s'è visto come quest'affermazione tradizionale corrisponda anche a qualcosa di
più contingente e, nel tempo, a noi più prossima.
Nel modo in cui anche i precedenti numerosi rimandi etimologici stanno dimostrando, essa ci
appare quasi un momento di giunzione tra le lingue semitiche e quelle indoeuropee. E questo
è, appunto, il risultato dell'incontro avvenuto tra le due grandi correnti culturali, che hanno
segnato tutte le vicende dell'ultimo GA: l'una, erede dei dominatori del precedente GA ovvero
la razza rossa occidentale e marittima e l'altra, costituita dalla discesa proto-indeuropea dal
suo habitat continentale sito nell'estremo settentrione dell'Eurasia.
Luoghi privilegiati di questi contatti sono stati il Nord scandinavo63 (vd. Vinci)64 e, in seguito
(periodo orionico65 del Tilak), l'Asia Centrale (vd. Spedicato). 66 Naturalmente le curiose
caratteristiche dell'accadico risalgono, in gran parte, a quest'ultimo momento.
Bisogna precisare come, così stando le cose, sia assai difficile, per chi non abbia conoscenza
del retroterra preistorico qui sommariamente esposto, non vedere, nelle numerose coincidenze
etimologiche di parole i.e. con termini semitici, la prova del ruolo principiale di quest'idioma
e tale è, appunto, l'equivoco del Semerano,67 che fa della koinế semitica, intesa poi
limitatamente alla sua storica accezione mediorientale, la fonte prima di ogni espressione
linguistica della cultura europea, con la conseguenza di negare qualsivoglia originalità ed
autonomia all'insieme degli idiomi di matrice i.e.
Resta da fare un'ulteriore precisazione riguardo alla prossimità tra lo stesso periodo orionico e
l'inizio della tradizione cinese, la quale - basandoci, come abbiamo fatto per l'ebraismo, sul
calendario - è databile al - 3468.68 Siamo, con tutta evidenza, in una fase sorgiva delle civiltà
determinanti tutti quei successivi sviluppi storici, che giungono sino ai nostri giorni.
È proprio intorno a quel periodo che possono esser fatte risalire le più antiche mummie tra le
numerose che, di recente, sono state scoperte, nel bacino del Tarim, nella Cina occidentale. Il
fatto singolare è che queste mummie, 69 oltre ad essere straordinariamente ben conservate,
presentano caratteristiche fisiche nettamente nord-europee70 tanto da far pensare come l'ultima
traccia linguistica di questa comunità sia il tocarico, lingua appunto i.e. i cui reperti
documentali, rinvenuti in area centro-asiatica ci hanno poi permesso di accertarne, da alcune
palesi influenze lessicali, i sicuri rapporti con il mondo cinese.71
Un attento lettore di quest'articolo, ricordando la ns. n. 58, potrebbe adesso domandarsi: ma
non è della razza gialla la dominanza del secondo GA mentre qui siamo ben al quinto GA del
Manvantara? In effetti, la civiltà cinese da noi conosciuta è, dopo un lunghissimo periodo
d'oscuramento, la risorgenza di un remoto retaggio, latente in alcune regioni centrali dell'Asia.
E, per tale risveglio, è molto probabile sia stato decisivo proprio il contribuito di quelle
popolazioni provenienti da Occidente, reduci, a loro volta, da quel primo incontro/scontro nel
precedente Eden scandinavo. Del resto anche la tradizione primordiale, nel corso dei tre
GG.AA. successivi alla Caduta, era rimasta in sonno nell'estremo settentrione mantenendo,
soprattutto in quello che è poi stato l'Induismo, certi suoi elementi essenziali.
Rimane a dire come, in ogni caso, qualche incertezza - su cosa stesse a significare che, dalle
medesime indicazioni bibliche, sia risultato possibile individuare due distanti ma ammissibili
sedi edeniche - indubitabilmente sussista.
75
La nostra ipotesi di una diacronia tra le due, dove quella scandinava preceda, appare, per certi
versi, la più razionale: alla fine della fase di scontro tra le due predette correnti subentrò un
periodo di pace; infatti, dovrebbe esserci questo significato nell'aver dato nome di Gemini alla
costellazione in cui, allora, sostò il punto vernale (-6540/-4380). Poi, mantenendosi a
latitudini ancora piuttosto elevate, ci fu una migrazione verso Oriente - del resto anche nel
GENESI (2.8) si legge di un giardino posto a Oriente - dove, gli elementi in prevalenza
occidentali (i proto-semiti) nel suddetto -3760 dettero origine a quella che sarà la
tradizione ebraica propriamente detta e, in seguito, si sposteranno verso sud, nelle regioni site
nella parte più alta della Mesopotamia (fase accadica 72) mentre, come abbiamo visto,
all'incirca alla stessa epoca (-3468, appunto) l'incontro tra Tocarici e proto-Cinesi dovrebbe
aver dato inizio a quest'ultima civiltà o, quanto meno, alle sue caratterizzazioni storicamente
note.
La vera e propria nascita dell'Israele storico implica però un nuovo rapporto con coloro che,
caratterizzati in senso più nettamente i.e., nel frattempo, erano rimasti nel primo Eden
scandinavo. Quelle che seguono l'arrivo dei popoli del mare73 sono, infatti, guerre ma
anche mistioni, soprattutto per le settentrionali tra le dodici tribù, ad es. Dan. 74 L'epoca è
quella della prima metà del secondo millennio a. C., nella quale i proto-Greci, ossia i Micenei
e tutte le altre genti i.e. cominciano a popolare i paesi intorno al Mediterraneo.
Ma, a questo punto, l'intrico delle complesse relazioni precedenti è ormai velato dal mito ed
incomprensibile ai più.
SECONDA PARTE
Nella nota n. 58 della parte precedente, abbiamo elencato le razze egemoni succedutesi in
questo ruolo nel corso del Manvantara ma, a proposito di tale lista (haņsá, gialla, nera, rossa,
bianca), appare necessario fare alcune considerazioni. Intanto, mentre per quattro di loro
l'abbinamento ad un colore - sebbene meritevole di maggiori spiegazioni - è esplicito, la
prima, traendo titolo da un uccello, rimane d'apparenza meno raffigurabile.
A tal proposito, riteniamo che uno dei significati, in varie lingue sottesi al nome del cigno,
ovverosia il candore, sia rivelatore. Ma di quale candidezza si tratta se l'ultima razza del ciclo
è, a sua volta, definita bianca? Allo scopo d'evidenziare una qualche differenza, è bene subito
chiarire come, per la sensibilità cromatica della cultura islamica, il tipo umano dagli
anglosassoni chiamato caucasico e nordico in altri contesti, sia - a ragione della trasparenza
del sangue venoso - quello degli uomini blu. Il blu che, per la scarsa presenza di pigmento
nello stroma e nell'epitelio, in varie tonalità, ritroviamo, quale caratteristica di questo stesso
fenotipo, anche nell'iride. Inoltre ed in linea di massima, la pelle è rosea ma spesso suscettibile
di dorarsi al sole mentre il biondo, sempre a causa del pigmento, non può certo essere
totalmente assimilato al bianco.
Quel bianco che - nella cromia luminosa additiva e pertanto per quanto concerne l'aspetto come risultante della sovrapposizione di tutti i colori, diventa il colore massimo e principiale
rispetto alla serie che, per differenziazione, da esso, in seguito, si produrrà.
Sul piano strettamente fisiologico, per il medesimo, vale invece il criterio della cromia
sottrattiva ed infatti, causa l'assenza delle cellule melanofore, diviene difetto di colore ed è ciò
che, appunto, si ritrova nell'albinismo totale. Nel suo caso, l'assoluta trasparenza produce una
pupilla caratteristica con nuances che possono variare dal roseo al rosso vivo mentre quelle
dell'iride trascolorano dall'azzurro pallido ad un tenue viola.
A questo punto, spontanea, sorgerà in molti un'obiezione: allora la razza haņsá sarebbe stata
una razza di albini, com'è però possibile se l'albinismo non è una razza ma un'anomalia
76
congenita ed ereditaria, un handicap che, appunto, può manifestarsi presso tutte le etnie anche
le più scure? Intanto, il fatto che esso sia presente ovunque starebbe, semmai, a confermarne
la principalità rispetto ad ogni successiva differenziazione. Inoltre, certe sue precise
caratteristiche - quali l'intolleranza alla luce, sia a livello della vista, sia della cute - sono
evidenti tracce della predisposizione ad una vita in ambienti con una differente qualità
luminosa come può trovarsi o in zone boreali, o in quella condizione sottile dove, per una
serie di narrazioni mitiche la luce splende ma non disturba.
È la lux victorialis o l'iranico xvarnah che permea di sé i mondi superiori ma il cui attenuato
riflesso illumina le valenze attualmente non sensibili della terra:
le Var de Yima comprend en effet, à la façon d'une cité, des
maisons, des réserves, des remparts. Il a portes et fenêtres
luminescentes qui sécrètent d'elles-mêmes la lumière à l'intérieur,
car il est illuminé à la fois par des lumières incréées et par des
lumières créées75
ed a quelle latitudini dove
une fois seulement chaque année, on voit se coucher et se lever les
étoiles, la lune et le soleil ; c'est pourquoi une année ne semble
qu'un jour:76
Terre di penombra e di raggi obliqui e non certo d'accecanti meriggi. La connessione, dei tardi
epigoni degli haņsá, con l'elemento eterico77 ne fa, nel folklore di molti popoli, un tramite
privilegiato con l'altro mondo e con le sue inquietanti irruzioni in questo:
Kennst du die Blassen in Heideland,
Mit blonden flächsenen Haaren?
Mit Augen so klar, wie an Weihers Rand
Die Blitze der Welle fahren?
O, sprich ein Gebet, inbrünstig, echt,
Für die Seher der Nacht, das gequälte Geschlecht.78
Così comincia la ballata VORGESCHICHTE (Second sight) che Annette von Droste-Hülshoff,
dedica all'episodio in cui, un albino di ceppo falico, un membro della casa baronale dei von
Kerkering zu Borg, in una notte di luna piena, avrebbe avuto la visione del suo funerale,
sicché, preso atto della premonizione:
Dann hat er die Lampe still entfacht
Und schreibt sein Testament in der Nacht.79
Ma la chiave di tutto sta nella gequälte Geschlecht, in quella stirpe
tormentata dove la patologia dell'albinismo, quale elemento biologico e concreto,
trascendendo le effettive intenzioni e conoscenze dell'autrice, serba la possibilità di portare a
soluzione i nodi complessi di un destino legato a situazioni remote e strettamente connesse
alle radici profonde della decadenza.
Decadenza o Caduta che coinvolse la prima razza e che, di età in età, si ripeté per le
successive nella staffetta dei GG.AA. L'ultima a manifestarsi è quella adombrata dai Nephilim
(i caduti) di GEN.6.1-4 dove, parimenti, pur con stimmate albine, è della razza rossa che
si sta parlando quando, lo stesso Noè, alla nascita, rischia, da parte del padre, per la sua
somiglianza con coloro, i quali erano ormai giunti alla conclusione della loro vicenda, il
rifiuto:
77
Dopo del tempo, mio figlio [è Enoc che parla] Matusalemme prese una
moglie per suo figlio Lamek e costei rimase incinta da lui e generò
un figlio. Ed era la sua carne, bianca come neve e rossa come rosa e
i capelli del suo capo e la sua chioma erano come bianca lana e
belli erano i suoi occhi e, quando li apriva, illuminava tutta la
casa come il sole, e tutta la casa risplendeva assai. E quando suo
padre, Lamek, ebbe paura di lui, fuggì. E venne da suo padre
Matusalemme.80
E così, è sempre il rifiuto dell'albinismo che mette a repentaglio la vita di un protagonista
della teosofia iranica ishrâqî ma, nel contempo, ne segna l'eccezionalità:
Sam, the son of Nariman, was the lord of Zabol and the preeminent
champion of Iran, but he had no sons, and this was a source of great
grief to him. At last a beautiful woman of his entourage became
pregnant by him and she gave birth to a handsome son. But although
the baby had rosy cheeks and black eyes and a fine face, his hair
was as white as snow. His mother was very distressed by this. No one
dared go to Sam and say that he had a son whose hair was as white as
that of an old man. Finally the boy's wet nurse, who was a
courageous woman, conquered her fear and went to Sam and said, <<My
lord, I bring good news. You have a handsome, healthy son as
splendid as the sun. And if he has white hair, well, this was your
Destiny fated by God. You must rejoice and not grieve about this.>>81
Parimenti, si racconta dello stupore generato dai capelli bianchi del neonato Lao-Tze ed in tal
modo, si potrebbe continuare citando le innumerevoli tradizioni, nelle quali angeli ed eroi
hanno la stessa scioccante singolarità.
A questo punto, appare evidente come l'abbandono della materia subtilis, propria allo stato
edenico e l'assunzione della condizione grossolana sia stata segnata, sul piano geoastronomico, dall'inclinazione dell'asse (la Caduta) e dal passaggio dal cerchio all'ellisse per
quello che riguarda l'orbita, mentre su quello corporeo, c'è stata la comparsa del pigmento che
è poi ciò che dà senso a quella categoria formale rappresentata dalle razze.82
La razza haņsá, ma, visto come stanno le cose, sarebbe più giusto definirla una pre-razza, è
quindi letteralmente immacolata, sine labe originali concepta,83 secondo la
definizione cattolica della Vergine e labes, la quale è
tache, sens physique et moral ... identité complète de forme avec
labes «chute», puis «ce qui cause la chute» ou «ruine»84
Per esprimere, in sintesi, le due precitate realtà, quella astronomica e quella fisiologica, non si
sarebbe potuto dire meglio. E macchia è, appunto, la macchia mongolica85 che
caratterizza, nella loro relativa chiarità, molti individui di questa razza, 86 la quale, non a caso,
n'è l'eponimo avendo inaugurato, dopo la cacciata dal Giardino, i tempi
dell'umanità contraddistinta da un colore.
Nonostante l'esplicita attribuzione nel nome, essa è assai più presente tra i neri 87 e, sebbene
nettamente minoritaria, non manca tra gli europei dell'area mediterranea.88
È in queste radici ancestrali che si spiega l'importanza data al colore nella classificazione
sociale degli individui: in India, varna, colore, è il nome col quale si definiscono le quattro
grandi suddivisioni89 di quella società ed in Brasile,90 alla nascita, sul neonato, con ansia, si
cerca a mancha proprio perché è intesa quale un sigillo di contaminazione ossia come la non
gradita testimonianza di un magari remoto vulnus alla limpeça do sangre.91 Nel ricollegarci al
suddetto aspetto di decadenza, si può rilevare che, così come un handicap è oggi l'albinismo,
78
anche la macchia accompagna un'alterazione genetica gravemente inabilitante: la sindrome di
Down.
Questo però, sia chiaro, avviene senza compromettere la piena normalità fisica e psichica a
tutti gli altri portatori.
Anche tra alcune tribù degli indiani d'America - i Navajos ad esempio - a conferma della loro
probabile origine asiatica, la macchia è presente mentre tra gli Ainu, la popolazione davvero
indigena del Giappone, ad ulteriore dimostrazione delle loro non mongoliche ascendenze, 92
tale particolarità non si presenta.
Per meglio rendere il rapporto non facile che, in relazione al colore, si stabilisce tra i non
europei e quest'ultimi, ci sembra opportuno riprodurre per intero questo brano di Junichiro
Tanizaki:93
Mi sono spesso chiesto quale influenza abbia esercitato, sulla
nostra civiltà, il colorito della pelle. Sempre, ai giapponesi, la
pelle chiara è piaciuta più della scura. Del resto esistono, fra
noi, individui con pelli più chiare dell'occidentale medio. Vi sono
anche, in Occidente, uomini più scuri della media giapponese. Non
credo che la differenza profonda stia nel maggiore o minor grado di
bianchezza; a distinguere veramente la nostra carnagione è una certa
tonalità. Tempo fa, quando abitavo nella zona alta di Yokohama,
dov'è il quartiere degli stranieri, mi accadeva di recarmi, la sera,
nei ristoranti o nelle sale da ballo frequentati dagli occidentali.
Partecipavo alle loro feste, e avevo agio di osservare la loro pelle
da vicino: non era poi così bianca! Ma, se appena mi scostavo,
subito il contrasto con la pelle giapponese appariva evidente.
V'erano
delle
giapponesi
là,
che
esibivano
abiti
da
sera
all'occidentale, non diversi da quelli delle straniere, e carnagioni
chiarissime. Perché dunque, da lontano, erano immediatamente
distinguibili dalle occidentali? Per qualcosa di denso e di
intorbidito, che v'era nella loro carnagione. Benché si fossero
sforzate di schiarire le schiene, le braccia, persino le ascelle,
insomma tutte le parti esposte del corpo un pigmento d'ombra
continuava a ristagnare sotto l'epidermide. Osservarle era come
scoprire, dall'alto, sul fondo di un limpido specchio d'acqua, un
sudiciume lungamente accumulato. Il trucco pesante non riusciva a
celare chiazze, scurimento, cerchiature, alla base delle dita,
intorno alle narici, in fondo alla nuca, lungo la spina dorsale. La
pelle degli occidentali, anche quando è particolarmente bruna,
conserva tuttavia una bianchezza e una purità sottocutanee; in
nessuna parte del corpo appaiono le nostre opacità dubbie, le nostre
untuosità. Fra gli occidentali, un giapponese si sente come una
macchia di inchiostro diluito, su un foglio candido. È una
sensazione vaga, incongrua, sgradevole.94
Dopo la razza mongolica, a testimonianza di una completa affermazione della corporeità che,
non a caso, investe il GA posto esattamente al centro del Manvantara, la pigmentazione
giunge a piena affermazione con i neri. Per loro, situandosi in ambito meridionale 95 il punto
d'irradiazione, l'inversione, rispetto alle condizioni iniziali del ciclo, essendo segnata dal
passaggio all'altro polo, risalta, nella sua estremizzazione, anche sul piano geografico.
Questa specularità arriva financo a concretamente riflettersi negli stessi elementi simbolici:
bianca ed immacolata è la specie di cigno che vive nelle regioni boreali, mentre è nera - the
black swan la Chenopis atrata dei naturalisti - quella indigena dei mari del Sud.96 In tali
popolazioni assai più che in altre, la remota perdita della condizione di privilegio ed assai
prima del sorgere dei tempi moderni, è stata segnata dalla forte incidenza nella stirpe dello
79
status degenerativo di "selvaggi"97 nonché, per la conseguente diminuita capacità di reazione,
rispetto a popolazioni culturalmente meglio attrezzate, al flagello della schiavitù.98
Per tutte queste ragioni, nei neri, nonostante i molti, attuali, insistiti tentativi, d'organizzazioni
e singoli intellettuali, tutti intesi a ribaltare il pregiudizio con la polemica affermazione di una
supremazia (black is beautiful, la negritude…), il disagio del colore - così sottilmente espresso
da Tanizaki - ha raggiunto il massimo con vere, interne gerarchie, nelle quali l'accettabilità
sociale è inversamente proporzionale all'intensità presente nei toni dell'incarnato.
Non si deve però credere che - dal marchio e dal pesante destino di vinti, provocato dalla
ciclotomia ripropositiva della Caduta - sfuggano le altre razze.
Singolare è il caso dei rossi, signori dell'ultimo GA. La specificità del tipo reddish, sul piano
biologico, è data dal fatto che i capelli fulvi derivano dalla presenza di un tipo particolare di
melanina, la feumelanina mentre il capello biondo è determinato solo da una scarsa attività dei
melanociti ossia quelle eumelanine, le quali, quando sono presenti in maggior quantità,
producono anche i capelli castani o neri. Inoltre, la pelle, sebbene molto chiara, forse la più
bianca in assoluto dopo quella degli albini, ha, a sua volta, lo stigma della labe in quella forma
sporadica rappresentata dalle efelidi. Esse compaiono solo nelle zone esposte alla luce,
soprattutto il volto e la parte alta del tronco: nonostante siano caratteristiche dei rossi, non
sono infrequenti neppure nei biondi.99
Dei pregiudizi nei confronti di questo tipo umano è pieno il folklore, tant'è che, nel mondo
anglosassone,100 esistono associazioni di tutela da una delle quali, per meglio rendere gli
estremi del disagio, riproduciamo la perorazione che segue:
Ask yourself now, are red-haired people any different from the rest
of society? Should they be discriminated against in the same way
that black people have similarly been oppressed in the past? Our
society has a duty to this minority group which has been ignored for
longer than Jewish or Black people. This prejudice is as old as the
human race, and today is the moment when we should recognize that it
should be eliminated from our so-called "just and democratic
society".101
Nel paragone con gli altri gruppi discriminati è interessante la relazione con gli ebrei essendo,
quella coi neri, fatto di mera sociologia. Rivelatore è che molti dei pregiudizi avversi ai rossi
siano ricorrenti topoi dell'antisemitismo102 e la ragione sta nel diretto rapporto esistente tra la
tradizione ebraica a quella atlantidea.
Uno degli indici è il nome stesso di Adamo (Adam) che, sebbene utilizzato nell'accezione più
estesa di progenitore della presente umanità, è, per i significati che sottende, anche il mitico
capostipite della razza rossa e quindi di quella specifica tradizione nonché dei prolungamenti
di essa nel presente ed ultimo GA. Entrando negli interni dispositivi della lingua, vediamo
come dam, sangue - il suo colore è noto - sia parola comune all'ebraico ed all'arabo ma la
radice è 'DM il cui significato è fondamentalmente esprimibile col lt. rubere, da qui
proviene anche un'altra voce che è adamah con la quale si designa la caratteristica argilla
rossa, quella terra usata, per la sua plasticità, dai vasai e che pertanto ben simboleggia
l'opera del Primo Artefice.
Nel caso della pregiudiziale discriminazione e del diffuso disprezzo per l'individuo di razza
nera, l'intera questione è talmente conosciuta che non è questa l'occasione di soffermarsi sulla
casistica mentre appare diverso e meno comprensibile il negativo atteggiamento che investe la
tipologia del rosso anche perché, per la fusione (in Gemini: -6540/-4380) citata in precedenza,
l'interazione etnica tra i protagonisti del penultimo GA e quelli dell'ultimo è stata, da molti
millenni, totale.
80
Per meglio rendere però i termini del problema, è bene entrare in qualche più concreto
particolare: l'idea più diffusa, ovunque in Europa, era che, in primis, i capelli rossi ma anche
"voglie" e segni,103 fossero l'indizio di un concepimento avvenuto durante le regole.
Altro marchio104 considerato negativo era quella forma che l'orecchio assume quando, spesso
accompagnandosi al rutilismo, si presenta privo del lobo. In questo dettaglio, si voleva fosse
messa in evidenza la relazione esistente tra ebrei, lebbrosi e maiali: il morbo di Hansen
porta alla caduta di parti del corpo ed il maiale colpito da una specifica forma ulcerosa, 105
volgarmente assimilata alla patologia umana, per interdirne la commestibilità, veniva segnato
dal taglio dell'orecchio. Inoltre, in certe legislazioni anche al ladro,106 si tagliava l'orecchio.
Il senso della ricerca e della messa in evidenza di queste tracce era nel paragone con la
temutissima lebbra che subdola si trasmette nella stirpe cosicché le testimonianze di una tabe
ancestrale mai mancano di palesare la razza.107
Un singolare gruppo umano, presente in Bretagna, in tutta la Francia del Sud-Ovest, nel
Béarn, nel Paese Basco e nelle vallate pirenaiche, che accolsero anche i rifugiati dalla
persecuzione contro i Catari, vittima per secoli da pesantissime discriminazioni, fu quello che
ebbe nome di Cagots. Ecco come vengono descritti:
Los agotes eran rubios, de piel blanquecina, con el lóbulo de las
orejas pegado y de mal aliento; incluso se dice que tenían rabo. Al
considerárseles portadores del pecado original, se recomendaba
mantenerse alejado de ellos por su mala sangre.108
In effetti, questi poveretti, in niente si distinguevano dai loro simili se non per la prevalenza
delle suddette caratteristiche ma erano i veri paria di quelle regioni: sebbene cattolici, in
quanto
race maudite à vie, leur condition était mentionnée dès la naissance
dans l'acte de baptême, célébré à la nuit tombée, sans carillons.
Ils ne portaient pas de nom mais un prénom suivi du terme Chrestiaa,
Cagot, Gézitain. Une fois morts ils étaient inhumés à l'écart des
"vrais chrétiens". Parmi la longue liste des interdits on peut
citer: le mariage avec des non cagots, l'exercice de certains
métiers en rapport avec l'eau, la terre, le feu, les aliments,
porter une arme ou un objet tranchant…109
Entravano in chiesa, dove avevano uno spazio riservato e modesto, da una porta laterale e loro
dedicata, ricevevano inoltre l'eucaristia per mezzo di una pertica. I villaggi che li ospitavano
sorgevano spesso su antichi lebbrosari.
Erano costretti a portare sugli abiti una zampa d'oca di stoffa rossa ed mestieri permessi o
tollerati erano, in prevalenza, quelli di muratori, tessitori e carpentieri: infatti, il legno era
ritenuto non suscettibile d'essere un veicolo di trasmissione delle supposte patologie dalle
quali erano ritenuti infetti, tra esse, ovviamente, primeggiava la lebbra.
Curiosamente perché in contraddizione con il supposto rischio di contagio ma, di nuovo, in
similitudine con il trattamento riservato agli ebrei - che spesso erano medici - si trovavano tra
loro chirurghi e levatrici. Aleggiava inoltre una diffusa fama di guaritori.
Ci siamo dilungati sull'assai singolare caso dei Cagots, sia perché poco conosciuto in Italia,
sia perché ci permette, con l'arricchirla, di meglio definire la problematica della decadenza.
L'aspetto fisico e molte leggende, li volevano, non senza plausibilità, discendenti o di Goti110 o
di Normanni. Quanto dunque - secondo ben note teorie - quanto di più nordico ed "ariano"
fosse reperibile nella zona ma tant'è; la loro difficile benché enigmatica condizione di paria sta
81
allora a dimostrare come, nella prevalenza dei casi d'emarginazione sociale, sia quello stesso
status a generare un fenotipo morale, vero o presunto, particolarmente basso e pertanto dovuto
non a speciali, congenite disarmonie psichiche e, men che meno, alla dominanza di supposti
caratteri razziali inferiori (tutte le caratteristiche "nordiche" 111 erano prevalenti) ma, sul piano
etico e nel generale stile di vita, il rischio di lasciarsi andare scaturisce, semplicemente,
dall'impossibilità - per l'altrui costrizione - di condurre una normale vita pubblica.
Intere civiltà, nel corso dei millenni, sono scomparse senza lasciare tracce apparenti ed il
processo d'obnubilamento dei loro tardi e dispersi epigoni c'è stato descritto, con brevità ed
efficacia, da Platone112 ma talvolta qualcosa della loro grandezza e dell'antico ruolo può
permanere sotto altre vesti e, in qualche modo, trasparire.
Una parte della classe sacerdotale della civiltà cancellata, quella che, nel sottrarsi al proscenio
della storia, seppe mantenere fedeltà al deposito sapienziale avuto in consegna, non fu vinta
ma, proprio col dare prova d'aver saputo rispondere all'arduo invito del destino, mostrò la sua
grandezza o meglio, la sua elezione.
La coscienza di questa missione universale di popolo prescelto a sacerdote 113 e maestro delle
nazioni, nel filum che darà poi vita alla forma religionis dell'Ebraismo storico, risale quindi ad
epoca assai più remota di quella testimoniata dal mito del Patto sul Sinai.
È del resto nella stessa Thorà, nel precitato, a proposito dei neri, brano (9.25) del GENESI114 - il
quale prosegue inesorabile (9.26) Benedetto il Signore, Dio di Sem, Cam
sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende
di Sem, Cam sia suo schiavo! - che preannuncia, oltre al duro futuro di Cam, sia
l'espansione (indoeuropea) di Iafet, sia il fatto che poi egli, prevalentemente, verrà ad abitare
le tende - ovverosia farà sua la religio - di Sem; quello che, con la parziale eccezione
dell'India, è poi puntualmente avvenuto con la germinazione, dallo stesso tronco, prima del
Cristianesimo e poi dell'Islam.
Più che di dispersione dovremmo quindi parlare di una presenza che, in forme più o meno
palesi, continuerà ad agire per disseminazione.
In analogia al modo col quale la prisca sapientia, d'età in età, s'è diffusa e trasmessa attraverso
tutto il Manvantara, parimenti le caratteristiche fondamentali, che sono state gli elementi
distintivi d'ogni GA, hanno influenzato quello seguente e, in misura ridotta, anche i
successivi. Similmente, per questo GA, di gran rilevanza è, come abbiamo visto, la funzione
d'assegnare agli esiti della civiltà atlantidea. Esiti i quali vengono a sommarsi con il ruolo di
suggello dell'intero ciclo che la nostra epoca riveste.
Poiché, durante la discesa verso la conclusione, c'è una progressiva dispersione della
conoscenza originaria ed una perdita progressiva sia della metafisica, sia della percezione
dell'effettiva natura e struttura del cosmo, in parallelo con il lascito positivo sopra citato, 115
dalla stessa antica civiltà, ci sono pervenuti anche i germi scaturiti invece da una qualche
degenerazione avvenuta prima che tutto quel mondo fosse travolto. 116 Germi vettori di quella
patologia dell'intelligenza che dovrà trovare un effimero trionfo, prima della chiusura e
raddrizzamento finali.
La trasmissione di tale malattia dello spirito ha - nei contaminati ma soprattutto qui
intendiamo riferirci al gruppo operativo - se così si può dire, tagliato le radici dell'intelletto,
chiudendo ogni possibilità d'effettiva comprensione metafisica. Nel contempo, non ha però
danneggiato la possibilità d'accedere e di penetrare a fondo alle conoscenze d'ordine
cosmologico. Per esse, pur con il limite dell'ignoranza delle più intime relazioni esistenti tra
sostanza ed essenza e di questa con il non manifestato, s'è semmai verificato un
rafforzamento, dando, a tutto ciò che investe la valenza corporea e parti di quella sottile,
anche sul piano applicativo, una crescita inusitata. Evoluzione il cui pallido e parziale riflesso
82
sono gli attuali, palesi sviluppi tecnologici mentre di quant'è celato si può tutt'al più parlare
von dingen am Himmel gesehen werden117.
Del resto, l'impoverimento conoscitivo segnato, agli albori dell'età moderna, da un lascito
tradizionale isterilito, sul piano dottrinario, in un insieme di mitologhemi teologici e, su quello
sociale, in strutture di una grettezza incapacitante non molto offriva a chi avesse voluto
recuperare ciò che è sparso.118
C'è nella struttura del Manvantara una qualche simmetria, infatti, mentre nel centro
cronologico,119 si colloca il GA che vede la massima espansione e dominanza dei neri, i
bianchi si partiscono i due estremi: l'inizio è appannaggio degli immacolati haņsá e la
chiusura appartiene ai loro remoti ma, dalla labe, in qualche misura contaminati eredi: la razza
bianca.
La differenza tra le due è data appunto dalla presenza del pigmento che, come abbiamo visto,
nel tipo nordico la dissomiglianza rispetto a quello presente nei neri e nei mongolici è mera
questione di quantità mentre ha sue specifiche caratteristiche solo nei rossi.
Quale sigillo del ciclo, l'ultima stirpe boreale (la c.d. razza nordica) non soltanto, in modo
attenuato, ha mantenuto e poi riproposto l'imago corporis di coloro che l'avevano inaugurato
ma, durante tutto il suo svolgimento, ha conservato nel nord dell'Eurasia un habitat attiguo a
quello originario120 e, elemento ancor più importante, ha veicolato ciò che di più prossimo sia
dato d'incontrare rispetto alla formulazione di quella prisca sapientia la cui ricostituzione
dovrebbe essere lo scopo d'ogni uomo di conoscenza. 121 Ed in particolare, nell'India non
islamizzata, pur tra mille intrusioni e deformazioni, s'è salvaguardata la parte più significativa
di quel deposito ancestrale.
POST SCRIPTUM
Ci sembra oltremodo opportuno precisare che, pur avendo in uggia il politically correct, vista
però la scivolosa e di per sé non facile natura di molti temi diffusamente trattati in questo
studio e senza escludere gli altri che, sempre a nostro nome, nei nn. precedenti, sono apparsi
su queste stesse pagine e pertanto al fine d'evitare qualche spiacevole non recte intellegere,
crediamo sia davvero il caso di procedere ad alcune, estremamente sommarie
puntualizzazioni.
1. I riferimenti alla prisca sapientia ed il valore da noi concesso ai dispersi dati di essa
pervenutici, in alcun modo, implicano adesione allo stucchevole scolasticismo "tradizionale"
di certuni, i quali, di questo punto di vista, hanno fatto, svilendolo, non un metodo ma un
rigido e sterile protocollo dal quale dedurre stereotipate lezioncine e col quale, soprattutto,
nutrire astiosissime, sebbene insondabili ai più, controversie settarie. Non parliamo poi
dell'incongruo uso politico (assolutamente estremista) da altri usurpato e dal quale siamo, se
possibile, ancor più lontani. Riteniamo pertanto la modernità un momento riepilogativo nel
quale, in parallelo ad un oscuramento della metafisica e cosmologia tradizionali, si sono
presentate delle opportunità d'effettiva conoscenza (intendiamo anche - senza voler essere
paradossali - in senso sapienziale) del tutto impensabili nel mondo asfittico ed ormai irrigidito
delle cosiddette società tradizionali.
2. L'uso del termine razza non ha, per noi, un senso discriminatorio e serve semplicemente a
designare i vari tipi umani di base le cui indubitabili differenze formali e temperamentali,
stante l'appartenenza ad un'unica specie ovvero alla comune umanità, non possono, in via di
principio, giustificare, sul piano della dignità e del rispetto dovuti ad ognuno (individuo o
collettività), apartheid alcuna (ad es. l'islamica dhimma): culturale, civile….. Purtroppo, a
nostro parere, le lingue europee non offrono niente di meglio e l'uso criminale che del
83
vocabolo è stato fatto non è sufficiente a giustificare la ricerca affannosa ed abbastanza
ridicola di qualche sinonimo oppure di negarne addirittura la realtà. Questo detto, sia ben
chiaro che non vediamo alcun vantaggio nell'incoraggiare sia un facile e sprovveduto
irenismo, sia un'universale meticciato ma anzi, giudichiamo estremamente probabile uno
scontro di civiltà o meglio, inevitabile la disastrosa collisione tra alcune di esse.
3. La distinzione tra razza e popolo resta per noi fondamentale: non ha alcun senso parlare di
razza tedesca, italiana o ebraica. In ogni popolo attualmente esistente sono presenti, ancorché
in percentuali mutevoli, svariati tipi umani a loro volta assai di rado, perfettamente,
sovrapponibili ad uno dei fenotipi di base menzionati nel nostro articolo. In altre parole, il
concetto di purezza, applicato a quest'argomento, sfiora decisamente il ridicolo. Ci preme
inoltre fare presente come quello che siamo andati scrivendo stia a dimostrare che l'alterità tra
dominio semitico e dominio indo-europeo sia un'ubbia delle peggiori: non solo per i disastri di
cui c'è storica testimonianza - in quel caso sarebbe solo una valutazione d'opportunità - ma
proprio sul piano dell'oggettiva constatazione di quanto, da millenni, è avvenuto.
4. Ci preme infine dissociarci da qualsivoglia interpretazione poliziesca della storia,
precisando che, ciò dicendo, non intendiamo affatto escludere singoli e ben organizzati
complotti di molti dei quali c'è documentale contezza ma che intendiamo riferirci a quella
particolare deformazione della ragione, la quale vuole il vero sempre all'inverso del palese.
Ancor meno quindi crediamo a certe paranoiche ricostruzioni dove il complotto si prolunga
per epoche intere, letteralmente cioè per secoli e secoli come si può riscontrare nella recente
ipotesi in cui, una di tali fantasiose congiure - ordita da una, per stirpe, anche troppo bene
identificata <<famiglia>>, surclassando alla grande le tesi dei PROTOCOLLI - andrebbe avanti
addirittura da 3300 anni. Riteniamo insomma tali enunciati più di competenza terapeutica che
di una valutazione critica quale può ben concedersi a proposte seppur eterodosse di ricerca
storica. Questo per togliere ogni equivoco da quell'allusione che abbiamo avanzata riguardo
ad un certo filum atlantideo la cui portata, di ben altra natura, investe, se così si può dire, il
mistero del male nella storia.
Note
* Cicerone, Oratio in Catilinam Prima In Senatu Habita.
1
Cfr. gli articoli di Felice Vinci ed Emilio Spedicato nel n. 6 di EPISTEME.
2
GEN. 3.21. Che la Caduta sia la formazione del mondo sensibile è detto chiaramente da
Origene in DE PRINCIPIIS. II. 9. 2 e, agli inizi della Scolastica, ripreso da Scoto Eriugena in DE
DIVIS. NAT. II.25.
3
Per la natura ciclica del tempo, tralasciando qui ogni altra considerazione, basta ricordare
come annus e anulus abbiano lo stesso etimo. Questo comporta che il sistema di misura ad
esso più appropriato sia, naturalmente, quello sessagesimale impostato sui 360° gradi del
cerchio (cfr. infra nn. 4 e 37) mentre il sistema decimale è il più consono alla dimensione
rettilinea.
4
Sotto tale dizione, deve, di fatto, intendersi il prodursi dell'attuale inclinazione dell'asse, che,
non più perpendicolare all'eclittica, determinò le alternanze stagionali. Ulteriore modifica fu la
polarizzazione in due fuochi dell'orbita che da circolare, divenne ellittica, da qui i due Soli:
quello grossolano e quello nascosto che, prima della Caduta, si trovava unico (solus) al centro:
84
…cette lumière, le Saint béni soit-il l'a dissimulée : quand
au commencement elle était apparue, elle brillait d'un bout du
monde à l'autre, lorsqu'Il tourna ses regards sur….tous les
pécheurs, Il dissimula cette lumière...,
MIQETS § 35, LE SOLEIL CACHÉ dal Tome III de LE ZOHAR, Verdier, 1991.
Per questo tema cfr. anche infra n. 37.
5
È poi sull'estremizzazione di questa corporeità paradisiaca, ritenuta, per superare gli effetti
della Caduta, l'obiettivo da raggiungere quacumque ratione che, nei millenni, in durissima
ascesi, si sono cimentate schiere innumeri di mistici. Questo sul piano individuale; su quello
macrocosmico, la Terra e tutti gli esseri che essa contiene, al compimento di questo ciclo,
secondo un processo che i Padri della Chiesa orientale chiamavano Apocatastasi, sarà
restituita alla condizione originaria.
6
GEN. 3.3 e 3.19. A tal proposito anche la tradizione cinese s'esprime negli stessi termini: LaoTze
…parle notamment d'un «abîme immense» et sans fond situé a à
l'est du golf du Ho-pei, «à l'endroit où le ciel se sépare de
la terre» et que l'on appelle «le confluent universel»…
(X. Yvanoff, LA CHAIR DES ANGES, Paris, 2002).
San Tommaso specifica come Adamo, prima del peccato,non conoscesse la morte (SUMMA
C.G., IV, 83. II, § 1) e come tale stato sia paragonabile al post mortem ovvero alla condizione
attinente al corpus ressurrectionis (ibidem, IV, 83, III, § 1). C'è d'aggiungere che, nella discesa
ciclica, avviene anche una proporzionale "solidificazione" (cfr. infra n. 85) dell'ambiente,
rendendo sempre più ardui ed incerti i rapporti tra le due realtà.
7
La divisione in Yugas, ha carattere eminentemente qualitativo e si compone di quattro
periodi (krita, trêtâ, dwâpara, kaly), aventi durata decrescente, secondo i rapporti della
Tetraktys pitagorica: 4+3+2+1=10 mentre i Grandi Anni partiscono il Manvantara (64800 a)
in conformità a cinque intervalli temporali tra loro eguali sicché, ad ognuno, viene ad essere
assegnata una durata pari ad un semiperiodo (12960 a) della precessione degli equinozi;
inoltre, tale frequenza - sempre in connessione con la precessione - è, a sua volta, visualizzata
da un altro apparente moto degli astri che, invece d'essere scandito dalla regressione lungo
l'orizzonte, risulta determinato da un'oscillazione secondo la verticale. Precessione (25920 a)
che, a partire dalla Caduta, regge tutta la struttura del ciclo. Vd. infra nn. 17 e 37.
8
INF. 34.139
9
In tal senso è davvero esplicito Platone quando, nel FEDONE (58 e ss.), descrive, appunto, la
vera struttura della Terra. Altri riferimenti alla cosiddetta geografia sacra, si trovano
nel TIMEO.
10
È l'Olimpo della tradizione classica, l'iranico Alburz, l'acc. Arallû ed il Meru indù; in ordine
alla predetta metafora della sotterraneità, è interessante rilevare come Arallû derivi dal
sumerico monte Aral ← arala, arali: the netherworld. Cfr. infra n. 31 e 55.
11
Specularmente anche l'Inferno ha sette cerchi, il tutto in analogia con i sette cieli ma, con
essi però, pur permanendo nella physis, siamo fuori dell'ambito terrestre e dal dominio
dell'uomo. Analoga orografia a balze ha, in Cina, la mitica montagna K'ouen-louen sede degli
Immortali.
85
12
Le sette terre della Qabbalah, i sette keshvar iranici….
13
Perché tali essi sono se le sette valenze (la grossolana + le sottili) debbano essere intese
soltanto quali parti di un'unica Terra. I loro nomi sono: Jambu (l'attuale Terra grossolana),
Plaksha, Shalmali, Kusha, Krouncha, Shaka e Pushkara. La traduzione e la spiegazione dei
termini sanscriti, qui riportata, s'intende tratta, anche in seguito e salvo diversa indicazione,
dal Sir Monier Monier-Williams, A Sanskrit-English Dictionary, Delhi, 1995, abbr. MMW.
14
In skr. è il satyayuga, da satya, truth.
15
Dal medo pairi-daeza, walled around: an enclosed garden, s'arriva al nostro
paradiso.
16
In skr. satyaloka; cfr. supra n. 14. Secondo Platone (FED. 248a e ss.) era lì, in quello stato,
che l'uomo contemplava la verità a faccia a faccia. Parimente s'esprime Plotino (ENN. VI. 9. 9)
nonché i Padri della Chiesa orientale.
17
È la natura essenziale di un essere o di una specie; da una √dhri, to hold, bear,
carry, maintain, preserve, keep, possess, have…….il Dharma è dato ad
ogni umanità dal Manu (mánu → mānavá, a human being, man) ossia il legislatore
primordiale. Nel Kalpa tali legislatori sono quattordici come i Manvantaras. Il Manu del
nostro tempo ha nome Vaivasvata o Satyavrata (devoted to a vow) la cui assonanza
con Saturno (saturnus ←sateurnus: vd. qui deus in Saliaribus Sateurnus
nominatur…FESTUS, 432.17), ritenuto colui che introdusse in Italia la civiltà e l'ordine
sociale (i Saturnia regna = l'età dell'oro) è notevole per congruità funzionale. Ma anche
manu non è privo di concordanze: a Roma il primo re, Numa, n'è l'anagramma quando, in
greco, il nómos è la lex. Così re-legislatori sono Mínōs a Creta, il Menes egizio mentre in certi
racconti celtici Menw is Merlin the wizard.
18
Nell'Induismo, il cigno, quale veicolo di Brahmā, è anche un emblema dello Spirito Divino
alitante - in stretta analogia con le immagini cosmogoniche della Bibbia - sulle acque
primordiali.
19
Tale vento è boréas, la triestina bora, e quindi ancor più a nord c'è l'Iperborea
(‘Yperbóreas), dalla quale deriva uno degli attributi di Apollo.
20
Alceo, FRAMM. 142p.
21
Cfr. il lt. anser (anche hanser), oca.
22
S.v. anser, DIZIONARIO [etimologico] DELLA LINGUA
CULTURA EUROPEA (Firenze, 1994) di G. Semerano.
23
LATINA,
in vol. II de LE ORIGINI
DELLA
La specificità di questo fondamento dello status primordiale è rimasta nell'agg. lt. merus,
pur, sans mélanges:
…antiqui dicebant solum…at nunc merum purum appellamus
(FESTUS, 111.12).
24
Di esse
86
In the Mahabharata, it is said that the stars of the Ursa Maior
were the seven sages called Rishis. They were happily married to
seven sisters named Krttika. They originally lived all together
in the northern sky. But one day, the god of fire, Agni, fell
in love with the seven Krttika. Trying to forget his love, Agni
wandered in the forest where he met Svaha, the star Zeta Tauri.
Svaha was at once infatuated with Agni. To conquer Agni's love,
Svaha disguised herself as six of the seven Krttika. Agni who
believed he had conquered the attractive wives of the seven
Rishis. Svaha had a child. Rumors began to spread that six of the
Rishis' wives were his mother. The seven Rishis divorced their
wives. Arundhati was the only one that remained with her husband
as the star Alcor. The other six Krttika went away to become the
Pleiades.
Riguardo a questa leggenda, che troppo lungo sarebbe compiutamente analizzare, è qui
sufficiente capire come vi sia sottinteso il passaggio da un "centro" settentrionale a quello
d'altra collocazione e le Pleiadi sono, infatti, figlie d'Atlante.
25
Dei dell'amore e della musica.
26
Cfr. infra la ns. citazione di IS. 14.13.
27
HEBREW LEXICON OF THE OLD TESTAMENT, OUP. La traduzione e la spiegazione dei termini
ebraici, qui riportata, s'intende tratta, anche in seguito e salvo diversa indicazione, da tale
testo; abbr. HLOT.
28
S.v. BOR →BRR, in HLOT.
29
Nella stessa espressione pairi-daeza, walled around, è coerentemente sottinteso che
the wall is originally made of clay e l'argilla, il fango sono, sia a
earthy moist substance, quale espressione di un ambiente alluvionale, sia the
human character regarded as serving the purpose of a divine
creator ossia la plasticità.
30
Le citazioni da questa lingua sono, in prevalenza, tratte da A CONCISE DICTIONARY OF ACCADIAN,
Wiesbaden, 2000.
31
Lingua agglutinante avente strette affinità
with the family of languages made up of the Uralic [Ural è nome di
origine sumerica, cfr. infra n. 55] languages, comprising the Finno-Ugric
group (which includes Finnish, Estonian, and Hungarian in
Europe) and Samoyedic (in Europe and Asia), and the Altaic
languages, comprising the Turkic, Mongolian, and Tungusic
languages, spoken from south-eastern Europe to the northern
Pacific coast of Asia. Korean and Japanese are sometimes
tentatively included in the family.
A dette famiglie linguistiche deve aggiungersi il gruppo dravidico. I Dravidi sono quella
popolazione ricacciata nel sud dell'India, dopo le invasioni i.e. Per questo è ipotizzabile
un'antica continuità culturale, caratterizzata, sul piano delle tecniche rituali, da ciò che ha oggi
nome di Sciamanesimo. È però singolare che in skr. sumera, essendo un nome composto da
sú-, corresponding in sense to Gk. eu e da -meru, la montagna polare,
87
si possa quindi rendere con l'espressione beata sede iperborea; il che, riguardo al
ruolo - a suo tempo svolto da questa civiltà - non è sicuramente da sottovalutare.
32
A dimostrazione di quante e di quanto intricate siano state le migrazioni di popoli nei
periodi che precedono la storia propriamente detta, c'è, per l'appunto in Italia, e precisamente
nelle Marche, un affluente del Metauro che ha nome Burano il quale, vorticoso scende dalla
Serra omonima. Si possono inoltre aggiungere: il paese di Burana sito nei pressi di un'ansa del
Po, in provincia di Ferrara ed anche per le località di Burano e Murano, site su isole dell'ampia
laguna veneta, non si può pretendere che tale nome sia un caso e così pure per l'oasi
naturalistica di Burano, posta di fronte al Tirreno, nel Parco dell'Uccellina, in provincia di
Grosseto.
33
Vd. infra a proposito del canto del cigno.
34
In EPISTEME, n. 6.
35
GEN. 1.3.
36
Cfr. supra n. 18 il ruolo cosmogonico del cigno.
37
Prossimità assai singolare che si ripete negli etimi, dove per kúknos abbiamo il skr. shúkrá,
clear, bright, white mentre kúklos ci manda a cākrá, weel, circular.In
entrambi i casi, sia la figura geometrica, sia il colore (vd. anche il romancio alva, weiss) si
collegano ai primordiali concetti di completezza e purità. Per l'ambito semitico c'è
l'ebr. gilgal, weel ma anche l'aram. gulgutā, skull (da cui il ns. Golgota, il monte
del cranio), il quale è tondeggiante e biancastro. Non manca l'acc. con kulūlu, der
Kranz. La primordialità del cerchio è anche intimamente connessa alle condizioni geoastronomiche del primo Grande Anno (1 GA = 12960 a; 1 a = 360 gg): orbita terrestre
circolare + asse perpendicolare all'eclittica. Con la Caduta, si ha: inclinazione asse = inizio
precessione (25920 a); orbita ellittica; 1 a = 365 g 5h 48' 46". Per tale concezione del cerchio,
cfr. il frammento del fenicio Sanchoniaton:
ante rotundus eram nunc sum depressus in ovum…
Vd. supra n. 3.
38
P. Chantraine, DICTIONNAIRE ÉTYMOLOGIQUE DE LA LANGUE GREQUE , Paris, 1990.
39
Come tanti reperti dell'età del bronzo nordica ci testimoniano, spesso lo si associava al
disegno delle rituali barche solari e, del resto, anche le vere navi s'ispiravano a quella forma
elegante tanto confacente all'idrodinamica.
40
È in questo senso che
l'intelletto è il più veloce tra gli uccelli: mano javişţham
patayatsv antah; ŖIG VEDA, 6.9,5.
41
COR. 27.16: ulimma mantiqat-tayri, istruiti nel linguaggio degli
uccelli.
42
In René Guénon, SYMBOLES FONDAMENTAUX
tale autore sarà indicato con RG.
DE LA
SCIENCE
SACRÉE ,
Ch. 7, Paris, 1962. In seguito,
88
43
Anche il dare per scontato che questo canto sia mera leggenda, è parzialmente smentito
dall'esistenza di quel tipo di cigno selvatico noto come Cygnus musicus, in grado d'emettere
un verso singolare ma assai armonico, a volte vicino ad un rintocco di campana ed altre al
suono di un indefinibile strumento a fiato.
44
In tale prospettiva, cfr. la prossimità tra il lt. carmen, il fr. charme ed il skr. kārma,
ritual action.
45
RG, testo citato, n. 42, Ch.6.
46
to rule, possess supreme or superhuman power, to shine. Sur →
sura, a god, divinity, deity.
47
Nel RIG VEDA, sono le danze di Uşas, the dawn. Cfr. B. G: Tilak, THE ARCTIC HOME IN THE
VEDAS, Poona, 1905; ingiustamente molto meno citato, quand'anche non trascurato dallo stesso
Tilak (vd. la sua n. 20, Ch. IV), ma altrettanto importante è l'ampio studio di Sir George W.
Cox, THE MYTHOLOGY OF THE ARYAN NATIONS, Reprint. 1999, 2 volumes, New Delhi (first edition;
UK, 1870).
48
ODISSEA 12.4.
49
Contenute in Saint-Yves d'Alveydre, L'ARCHÉOMÈTRE, Ed. Dorbon, 1901. È storicamente
certo che, di fatto, le forme alfabetiche esistenti siano tutte riconducibili ad un'origine semitica
e quindi, in coerente rapporto con la discendenza occidentale di quella cultura, questo
dovrebbe essere il prototipo di tale sistema di segni. Infatti, presa per buona la versione fornita
dal Saint-Yves, il disegno delle lettere trova riscontri sia nel gruppo linguistico semitico, sia in
quello i.e. fruitore del prestito: vd. l'alfabeto greco, da cui il latino e poi tutti i loro derivati,
più il brāmī che, in India, precedé il devanāgarī più, naturalmente, quest'ultimo.
50
51
In LE ROI DU MONDE, Gallimard, 1950.
Per questo monarca universale, appaiono singolari sia l'assonanza che in ebr. si ha tra il
Giardino (‛êden, Eden) e tale suo Signore ('adôn, signore, reso in it. da Adonai), sia nella mitologia greca - l'abbinamento tra la figura di Adone ed i giardini: i ben noti
‘Adốnidos kẽpoi. Per questa versione ellenica, c'è però da precisare come le coincidenze tra
due tradizioni apparentemente lontane, si spieghino col fatto che Adon fosse inizialmente un
dio fenicio (Adon Tammouz di Gublu [originally a earth-wall, serving as
defense], la biblica Gebal, per i greci Byblos ed adesso Jebleh: la prima località
dell'insediamento fenicio) e quindi già appartenente ad un ambito culturale semitico. - Inoltre,
Nina Jidejian nel suo BYBLOS THROUGH THE AGES (UCD, 2000, ISBN: 2-84289-293-3), scrive che
Some of the inhabitants of Byblos maintain that the Egyptian
Osiris is buried in their town, and that the public mourning
and secret rites are performed in memory not of Adonis but of
Osiris;
per di più, Luciano afferma esplicitamente che Adone è Osiris. Tutto ciò è, in questa
fattispecie, di notevole interesse perché, nel ns. DE VERBO MIRIFICO (EPISTEME, n. 6), abbiamo
mostrato, attraverso Plutarco, le inaspettate relazioni che intercorrono tra il Dio biblico e
l'egizio Osiride. Si può anche aggiungere che
Byblos also gave its name to the Bible and it was here that
the first linear alphabet, ancestor of our alphabet, was
89
invented. In 1922 the oldest alphabetic inscription was found
on the 13th century B.C. coffin of King Ahiram.
(Barry Cunliffe, THE CELTIC WORLD, New York: St. Martin's Press, 1993. ISBN: 031209700X).
Non privo di significato è il nome della madre d'Adone; Mirra (myrra, dall'acc. murrânu, a
tree or shrub, presente - con forti assonanze boreali - anche nella forma burrânu; cfr
supra n. 32). Essa corrisponde all'ambrosia (àmbrosía) greca ed all'amritâ indù ed è, pertanto,
il nutrimento d'immortalità (l'a- ha funz. priv.: a-mors); non a caso, è la mirra uno dei doni.
portato a Gesù dai Tre Re, e quindi quello che lo consacra per la sua più alta missione
redentrice: la salvezza dalla morte dell'anima. D'altra parte, nell'Epifania, tale triplice presenza
appare in perfetta sintonia con le tre supreme gerarchie (Brahâtmâ, Mahâtma, Mahânga)
dell'Agarttha. Sempre per i raffronti col Cristianesimo, Luciano di Samosata (DE DEA SYRIA, 6),
racconta che gli abitanti di Biblios celebravano i funerali del dio come se fosse davvero morto
ma, il giorno dopo, affermavano che egli fosse, in realtà, vivo ed asceso al cielo. Infine, oltre
alle differenti personæ, le quali ne sottendono il ruolo pontificale nelle più diverse tradizioni
(Prete Gianni, Imam Nascosto…), di lui, di questo monarca universale, ci sono
anche non pochi avatars laici tutti titolabili sotto la comune divisa du roi caché, come, in
Portogallo, le leggende sullo scomparso Re Sebastiano; in Germania, la storia del Barbarossa
dormiente, in Thuringia, nel castello sotterraneo del Kyffhauserberg; in Russia, l'apparizione
dei falsi Dimitri oppure, in Francia, il preteso François de Valois (vd. Yves-Marie Bercé, LE
ROI CACHÉ, Paris, 1990)……emersioni folkloriche che attengono ad uno psichismo collettivo
alimentato dalla stessa nascosta radice.
52
La speciale condizione dell'earthly paradise è sottesa anche alla stessa terminologia biblica:
l'ebr. ‘êden proviene dall'acc. ēdēnu che, potendosi rendere con alone, n'esprime
sinteticamente tutta la singolarità. Del resto, nella mitologia greca, il regno d'Oltretomba è,
com'attesta Omero (IL, 23.19, 69-81) la casa di Ade, la cui omofonia con Eden e Adon è
rafforzata dalla congruenza etimologica; Aỉdēs, è infatti d'avvicinare al vb. òráō: aor.2 eidon,
eidomen, guardai, e pf. oida, so. C'è poi eĩdon, vedere (√vid, cfr. il lt. video) dove
l'inf. è idein,dal quale, per l'alfa priv., si giunge a aidếs, invisibile, occulto.
Pertanto, tutto questo fa di Ade l'epiteto di un qualcosa caché, invisibile ed ormai
disparu. Altra importante considerazione da fare è quella che attiene all'analisi radicale: in
ebr. la √'D è strettamente connessa al senso del tempo e della durata mentre, come
suffisso, -N esprime accrescimento, sviluppo. Risulta quindi significativo che, con
tale vocabolo ('DN), si stia ad indicare la fase sorgente di un ciclo temporale. Il centro supremo
è conosciuto anche sotto il nome di Tule, che - come toponimo - troviamo pur esso ovunque
ed il cui significato è rinvenibile nel skr. tulấ, a balance; infatti, il nome Lybra solo in più
tarda epoca è passato ad un asterismo zodiacale poiché in principio esso stava a designare le
due Orse (Maior et Minor) che, se osservate da una regione boreale, appaiono come i due
piatti di una stadera, la quale, imperniata sulla Stella Polare, oscilli sul Polo celeste.
53
54
INF. 16.33
Lett. l'età oscura; inizio: - 4480. È intorno a tale data che si può collocare anche
l'episodio biblico della Torre di Babele e della confusione delle lingue.
Quest'insorgente incomprensione non è però da prendere alla lettera perché, all'epoca, la
lingua unica primordiale era ormai lontanissima, ma qui lingue va letto nell'accezione che,
pur oggi, è in uso in ambito islamico ovvero nel senso di forme tradizionali. Quella
capacità insomma, ancora presente nel mondo classico di "tradurre" nei propri personaggi
mitologici e senza tante ansie, gli dei stranieri con i quali esso entrava in contatto. Attitudine
90
non solo mancante ma della quale, per l'esclusivistica forma mentis delle tre religioni
abraminiche, ad esse ripugna anche soltanto il prenderne in considerazione la possibilità.
55
Come specifica lo HLOT. Inoltre Arallû è lo stesso nome dato dai sumeri al monte Aral e
poiché in tale lingua the vowel a and u often alternate è chiaro anche il ruolo che può aver
avuto la catena degli Urali (Ural). Gli assiri ritenevano che the Arallû mountains containing
gold e tale particolare, richiamato anche dal Vinci, ci rimanda al paese di Avila di GEN. 2.10.
Infine, è molto singolare l'assonanza che si ha tra Avila ed il skr. ilvala, f. pl. name of
the five stars in Orion's head. E la costellazione d'Orione è quella che assegna
il nome al periodo orionico della fase "edenica" centro-asiatica, cfr. infra. Appare inoltre
importante mettere in evidenza la stretta connessione etimologica rilevabile - tramite lo slavo
gora ed appunto boréas - tra il monte ed il Nord.
56
Il Nord (tzaphon) è anche uno degli attributi della principale divinità Cananea: Baal, da una
√ba΄l, rule over. Poi, dalla forma di Ba΄l-tzaphon, god of the nord, a motivo
del sempre presente processo di demonizzazione degli antichi dei, siamo giunti - anche per
assonanza - alla derisoria alterazione in Ba΄l-z ebub, lord of flies; vd. Mt. 12.24:
Baal myîan. Si può aggiungere che
the name is found as a prefix to place-names (e.g. Baalbek) and as
the last element in Phoenician names such as Hannibal and
Jezebel.
57
Cfr. il suo nome arabo al-Muqaddas o, più brevemente, al-Quds.
58
Haņsá, gialla, nera, rossa, bianca. Ogni razza è poi in relazione con un temperamento che,
rispettando la precedente sequenza, dà questa successione: equilibrato, nervoso, sanguigno,
bilioso, flemmatico.. Parimenti corrispondono gli elementi: etere, aria, fuoco, terra, acqua. I
cataclismi, che segnano i transiti da un GA all'altro, sono provocati dallo scatenamento del
relativo elemento antagonista: l'etere che contraddistingue lo stato sottile non può essere
"vinto" (la Caduta) che da se stesso, pertanto la serie sarà: l'etere dall'etere, l'aria è soffocata
dalla terra, il fuoco spento dall'aria, la terra sommersa dall'acqua mentre l'acqua non potrà
essere fatta evaporare che dal fuoco;
dies iræ dies illa solvet sæcula in favilla, testet David cum
Sybilla.
E non sono soltanto la tradizione giudaico-cristiana (David) e quella classica (Sybilla) a
far terminare così il Manvantara.
59
C'è pertanto anche una relazione tra razze e punti cardinali (raffigurabili con la croce
solida): 0. virtualmente Centrale, di fatto, Polo Artico. 2. Est, ambito eurasiatico, zona
boreal-orientale. 3. Sud, emisfero australe. 4. Ovest, nord-atlantico. 5. Nord, ambito
eurasiatico, zona boreal-centrale.
60
In una lettera a Gaston Georgel - facendo riferimento a quale fine del mondo tratti la
tradizione cristiana - RG ha modo d'affermare come essa non vada al di là del presente
Manvantara. Dobbiamo la segnalazione all'Amm. Licio Zuliani di La Spezia.
61
62
Da intendersi nell'estensiva accezione degli i.e. indivisi.
Il Tilak propende per una zona prossima alle coste del Mar Glaciale Artico e posta intorno
al 70° di long. Est; cfr. supra n. 59 eurasiatico (boreal-centrale): id est
Penisola Jamal, Pen. di Tajmyr…
91
63
Circa -8000/-6000.
64
Naturalmente qui, del Vinci, s'intende l'ipotesi edenica, essendo l'altra, l'omerica, relativa ad
un periodo assai più tardo ovvero collocabile intorno al -2000, quando l'incontro tra le due
grandi correnti s'era già verificato con fusioni su tutti i piani (razziale, culturale, linguistico) e
quella branca degli indoeuropei che erano gli Achei ancora sostava in area scandinava.
65
Circa -4500/-3500 (cfr. B. G. Tilak, THE ORION OR RESEARCHES INTO THE ANTIQUITY
New Delhi, 1972); infatti, lo starting point della tradizione ebraica è il -3760.
OF THE
VEDAS ,
66
Analoghe e ulteriori considerazioni sulla sede edenica si trovano in un sito evangelico
statunitense: www.bibleword.org/genesis4.html
67
Cfr. supra n. 22.
68
Data attribuita alla nascita del primo mitico Imperatore, Fo-hi, il cui regno corrisponde però
ad un vero e proprio periodo storico della durata di alcuni secoli.
69
Elizabeth W. Barber, THE MUMMIES OF ÜRÜMCHI, MacMillan, 1999.
70
Biondismo e rutilismo, dolicocefalia, altezze intorno a m. 1,80 ÷ 1,90 per le donne e spesso
oltre i 2 m. per gli uomini; particolari i quali fanno pensare alle leggende dei giganti che, a
nostro avviso, appartengono appunto alla prima fase di scontro, nel Nord-Europa, tra la
corrente occidentale e quella boreale ma da quell'epoca siamo qui lontani alcune migliaia di
anni. Sono le guerre che, nell'Induismo si dicono condotte da Parashu Rama (parashu,
ascia; periodo: -8700/-6540, punto vernale in Cancer) mentre l'assai più tardo momento
bellico, condotto quando l'invasione aria giunse nel sub-continente (-1800/-1500) e si scontrò
coi nativi di razza nera, è sotteso alle vicende attribuite all'altro Rama, il protagonista del
Ramyana: Rama Candrá; candrá, glittering, shining as gold……said of
gods, kings…il ns. illustre insomma.
71
In particolare
…the transmission of terms in the sphere of cattle-breeding
from IE (mostly Tokharic) to Chinese: terms for dog, horse,
cow, milk, honey. This doesn't add new information on the
Urheimat question but neatly confirms the long-suspected
presence of Tokharic in Western China since at least the 2nd
millennium BC.
in Koenraad Elst, UPDATE ON THE ARYAN INVASION DEBATE, Aditya Prakashan, New Delhi, s.d.
Da alcuni elementi (una specifica cintura ad es.) dell'abbigliamento - l'insieme rammenta il
costume lappone con tratti celtico (il tartan) / tirolesi (i copricapo) - ci si potrebbe spingere
sino al Giappone dove la cultura ed i lineamenti europoidi degli Ainu troverebbero così una
possibile spiegazione: cfr. SECONDA PARTE.
72
In ogni caso, l'accertata collocazione storica di questa lingua, non esclude che, in una certa
misura, le sue coincidenze con le lingue i.e. risalgano anche al primo contatto tra le due
correnti avvenuto nel Nord dell'Europa.
92
73
La loro non facile presenza accanto a Israele, ci è nota sotto il nome di Filistei: nome dal
quale viene quello attuale di Palestina e dei suoi nativi arabofoni. Per tutte queste interessanti
relazioni vd. Giovanni Garbini, I FILISTEI, Milano, 1997.
74
La cui affinità con Danai (Dănăoí) è evidente.
75
H. Corbin, TERRE CÉLESTE ET CORPS DE RÉSURRECTION, Paris, 1960, p. 47.
76
Ibidem.
77
Cfr. supra n. 58.
78
Trad. it. Giorgio Culatelli:
Conosci, alla brughiera, certi tipi slavati / dai capelli di
stoppa / dagli occhi chiari / come luccica l'acqua ai bordi
dello stagno? / Di' una preghiera, allora, accesa e schietta /
per chi vede nella notte, razza tormentata.,
in LA CASA NELLA BRUGHIERA, Milano, 1988.
79
Ibidem
Accende la sua lampada in silenzio / e scrive nella notte il
testamento...
80
LIBRO DI ENOC, 106.1-4 in APOCRIFI DELL'ANTICO TESTAMENTO, vol. 1°, Torino, 1981. Il LIBRO DI
ENOC etiopico - qui citato - è posto, in quel canone, prima del LIBRO DI GIOBBE: quindi,
significativamente, tra i Libri Sapienziali. Riguardo all'aspetto di Noè, si deve considerare la
frequenza dello pseudo-albinismo neonatale nei rossi e - tratto indicativo della monogenesi
della specie umana - esso è costante presso i neri aborigeni australiani. La specifica
caratteristica del profeta, quantunque rintracciabile in un testo di non larga diffusione, ha
determinato la scelta - con l'acrostico NOAH - della sigla relativa alla propria associazione,
dagli statunitensi affetti da questa sindrome: NATIONAL ORGANISATION FOR ALBINISM AND
HYPOPIGMENTATION.
81
THE BIRTH OF ZAL pp. 84-88.
82
Tutto questo non esclude altre importantissime conseguenze sul piano più strettamente
qualitativo ma qui c'importava metterne in luce aspetti che, di norma, non vengono affrontati.
83
È uno degli attributi presenti nelle LITANIE LAURETANE.
84
S.v. labes in A. Ernout et A. Meillet, DICTIONNAIRE ÉTYMOLOGIQUE DE LA LANGUE LATINE, Paris,
1959. Viene anzi aggiunto che l'accezione di chute sia, rispetto alle testimonianze di
tache (ENN. Plt.), quella più anticamente attestata (Cic. ed altri in epoca imp.). Del resto,
l'origine è nel vb. labo (-as, -aui, -atum, -are), tomber, s'écruler dal quale viene anche
labor quale logica conseguenza della Caduta: GEN. 3. 19. Per gli sviluppi del tema vd. infra n.
107.
85
Tâche mongolique, mongolian spot, mancha mongólica, giapp. mou kohan, cin. meng
guban. Ha un diametro variabile ma, in genere, è intorno ai 10 cm. È di un colore blu-ardesia
(it is a particular type of blue naevus) e risulta posizionata all'altezza dell'osso sacro e nella
parte alta delle natiche, raramente altrove. Piatta e pigmentosa, dai bordi nebulosi e dalla
93
forma irregolare, non è nient'altro che una concentrazione, nel derma, di melanociti. In
seguito, essi migreranno distribuendosi nell'epidermide; infatti, il colore vira, gradatamente, al
rosaceo ed infine, già dopo il primo anno, la macchia scompare completamente. È solo in casi
molto rari che permane anche in età adulta. Essa fu documentata per la prima volta nel 1885
dall'antropologo tedesco Baelz col nome, appunto, di mongolische Flecken. Interessante è
l'osservazione fatta dal Prof. Spedicato (al § 10 del suo già citato articolo su EPISTEME), con la
quale egli mette in relazione la macchia con il passo di GEN. 4.15
…il Signore impose a Caino un segno ('oth Qayin)…
e ricorda il caso di Gengis Khan che l'ebbe per tutta la vita ed in una posizione rara: sulla
mano. In effetti, la realtà del drammatico mito di Caino e Abele, sottende una fase della
progressiva "solidificazione" del mondo iniziatasi, appunto, con la Caduta. Nella fattispecie,
verso la fine del Manvantara, i popoli nomadi (Abele; in ebr. Hèbèl, la √HBL dà
lightness, vapour, breath, vanity ), allevatori di bestiame, sono sempre più
costretti a sedentarizzarsi dai popoli praticanti l'agricoltura (Caino; in ebr. la √QYN dà fit
together, fabricate, forge: is a descriptive appellation
rather than a real personal name) e le arti urbane. La macchia, attribuita quindi
al popolo che ha inaugurato la fase di solidificazione ed al personaggio biblico che la
rappresenta, è del tutto congrua con quanto andiamo esponendo in assegnazioni etniche e
cronologia. La sedentarietà è così connaturata all'umanità successiva alla Caduta che ogni sua
perdita è vissuta come tribolazione. La diaspora ebraica, che del nomadismo è una peculiare
variante, riflette tale sofferenza nella costanza con la quale quel popolo, quanto meno in
prospettiva escatologica, se n'è sempre proposto la rettifica. Gli zingari la cui erranza, solo
apparentemente connaturata perché la si vuole scaturita dal drammatico all'allontanamento da
un centro spirituale, come s'evince da questi versi del poeta rrom Eslam Drudak e dietro
quella che può solo sembrare un'immagine letteraria, aspirano ed anch'essi rimpiangono una
patria perduta:
- Motho, manqe, Rrome! a
Kaj si amari phuv,
Amare plaja, amare lenă
Amare umala thaj amare veśa
Kaj si amare limóra?
- Ande lava tale,
andelava amare čhibăqere!
Dimmi, dimmi tu Rrom, dov'è la nostra terra, dove le nostre
montagne, i nostri fiumi, i nostri campi e le nostre foreste?
E dove sono le nostre tombe? Tutto è nelle parole, nelle
parole della nostra lingua!
86
80% tra gli asiatici.
87
96% circa.
88
9,5% in media, però
num estudo realizado numa maternidade portuguesa,
mongólica foi encontrada em 22% dos recém-nascidos;
insomma, per un paese europeo, davvero non poco.
89
a
mancha
In origine i varnas (brahmani, kshatriya, vaishya, shudra) erano categorie funzionali
secondo le quali, in ordine alle più pregnanti caratteristiche individuali, l'individuo assumeva
94
il suo ruolo sociale. È solo nel proseguimento del tempo che il sistema s'è sclerotizzato nella
jati, la casta, essa ha poi proliferato una miriade (letteralmente) di sottoripartizioni (il
concetto è che ogni combinazione generativa di varna abbia prodotto una specifica jati ma la
cosa è stata resa ancor più complicata), nelle quali, chi vi nasca, si trova indissolubilmente
legato ad una condizione, un'attività o ad un mestiere specifico. Gli ultimi degli ultimi, coloro
i quali, fondamentalmente, non appartengono al popolo che conquistò il paese, sono i
chandalas o intoccabili. La loro situazione è così penosa che, per designarli, spesso, si
ricorre a eufemismi e, per iniziativa di Gandhi, oggi, va molto harijan, figlio di Hari,
che potremmo anche meglio rendere con il più nostro creatura di Dio e qui, nella
fattispecie, s'allude a Vishnu.
90
46% tra i latinos. Per avere un'idea del peso che il problema razziale ha sempre avuto, basti
considerare come, al tempo della dominazione spagnola, nelle Antille, allo stato civile, il
grado d'ibridismo, fosse contrassegnato da nomi specifici intesi a limitare i diritti civili dei
titolari: terceron ¾ bianco e ¼ nero, quarteron 4/5 bianco, quinteron 5/6 bianco. Solo il
sesteron (6/7 bianco) ritornava nella pienezza dei diritti.
91
Nella letteratura brasiliana, si mettono spesso in relazione le caratteristiche
dell'appartenenza etnica (bianco/nero) con le gerarchie sociali (padrone/schiavo). L'argomento
è così degno d'attenzione che l'IBGE (Istituto Brasileiro de Geografia e Estatística) elenca
ben 135 colori di pelle espressamente dichiarati dalla popolazione e rileva che il 90% degli
intervistati s'autoclassifica in 6 di questi: bianco, bruno chiaro, bruno, bruno scuro, mulatto,
nero. È allora il caso di ricordare come, per due anni (1850-52), prima di scrivere il suo
famoso saggio (TRAITÉ SUR L'INÉGALITÉ DES RACES), il Conte De Gobineau fosse stato ambasciatore
in quel paese.
92
Cfr. supra n. 71.
93
1886- 1965:
Junichiro Tanizaki wrote erotically and ironically about the
dynamics of Japanese culture and the effect of Western
influences on tradition. In a style that is delicate and
emotionally powerful, Tanizaki's narratives progress through
dialogue and careful description without an omniscience
narrator. The result is a filmic realism in which the
viewer/reader creates narrative continuity.
94
da LIBRO D'OMBRA, trad. dal giapp. di Atsuko Ricca Suga, Milano, 1982.
95
Cfr. supra n. 59.
96
Cosa assai curiosa, quest'opposizione delle due varietà è resa in un artistico monogramma
del Cristo (IHS), impresso quale super libris nella rilegatura dei volumi della biblioteca
personale di Henri III, Re di Francia: tralasciando la descrizione dell'altrettanto elaborato
disegno della I e della H, colpisce che la S sia formata da due colli di cigno contrapposti;
bianco quello in alto e - naturalmente - nero il secondo. Cfr. Louis Charbonneau - Lassay, LE
BESTIAIRE DU CHRIST, Milano, 1975, s.v. le Cygne. Henri III ha regnato dal 1574 al 1589 e la
conoscenza del mondo australe inizia con certezza nel secolo successivo mentre, pel XVI sec.,
ci possono essere state solo vaghe notizie recepite da qualche navigatore portoghese.
95
97
Si ricorda come il selvaggio non sia un primitivo ma solo un decaduto: di fatto, un residuo
di quelle popolazioni, le quali, a seguito dei cataclismi che hanno segnato il transito dei
GG.AA, rimaste isolate e, già prive di un sufficiente supporto culturale (cfr. TIMEO, 22C e ss.;
CRIZIA, 109D-110C), sono scivolate in condizioni sempre più precarie sino a giungere alla
penosa situazione che conosciamo: altro che i sogni sulla felicità del buon selvaggio;
quello è solo un robusto antipasto infernale su questa terra.
98
Cfr. GEN. 9.25:
Sia maledetto
fratelli!
Cam!
Schiavo
degli
schiavi
sarà
per
i
suoi
99
La loro formazione è stimolata da un processo d'ossidazione scatenato dai raggi UVA che
colpiscono la pelle e pertanto sono più evidenti nel periodo estivo mentre, in Inverno,
s'attenuano. La differenza con le lentiggini (dal lt. lens, lente e precisamente dal dim.
lenticula), con le quali non devono essere confuse, è che queste ultime sono forti accumuli di
melanina la cui intensità non dipende dall'irraggiamento. Tali addensamenti sono molto
superficiali e possono apparire ovunque comprese le zone nascoste alla luce e le mucose. In
certe circostanze, sono presenti fin dalla nascita o insorgono nell'infanzia e, con la pubertà,
possono aumentare di numero e d'intensità.
100
Non a caso, conformemente alla collocazione nord-occidentale della civiltà atlantidea, la
massima incidenza della presenza reddish si ha in Scozia con un valore di circa il 10%,
parimenti elevata è presso altri popoli d'origine celtica o, comunque, di habitat atlantico come,
ad esempio, gli irlandesi e i norvegesi. Tale colorazione è egualmente significativa tra gli
ebrei, in specie tra gli ashkenaziti mentre, le rimanenti popolazioni europee hanno una media
che s'aggira intorno all'1%.
101
Da http://www.redheadsunited.com/ Per tutta questa tematica, ci siamo ampiamente
espressi nel ns. DE VERBO MIRIFICO sul n. 5 di EPISTEME.
102
Per tutti questi temi vd. Claudine Fabre-Vassas, LA BÊTE SINGULIÈRE, Paris, 1994.
103
È da qui, che proviene la locuzione popolare, riferita a qualche individuo dal particolare
destino: era segnato!
104
A tutto questo s'associava: un malsano calore corporeo che avrebbe generato una libido
incontenibile, un alito pesante e un particolare odore fisico che, per gli ebrei, diventava il
preteso fetor judaicus.
105
Ulcere e cisti che si presentano, nei muscoli o sotto la lingua dell'animale, per lo sviluppo
delle larve di un tenia.
106
Chi commette furto, in it., è ladro mentre la ladrerie, in fr., designa la suddetta (cfr.
supra n. 105) patologia suina; entrambi i vocaboli derivano - sempre per questa curiosa
relazione con il taglio dell'orecchio - da una deformazione del nome pr. ebr. 'Èleazar da cui il
lt. eccl. Lazarus; il protagonista, coperto appunto d'ulcere, di una popolare anedottica anche
iconica e del quale si narra nella parabola di LC. 16. 20.
107
È importante verificare come una malattia, che incomincia col manifestarsi in segni, qual è
il caso appunto della lebbra, sia ricollegata all'area semantica già indagata; il lt. lepra è un
calco del gr. lépra ma, poiché non ci sono etimi i.e. certi, è ancora una volta l'ambito semitico
96
con l'accadico a darcene la chiave: infatti, la'bu, a skin disease; la'abum, be
infected ma, e qui il cerchio si chiude, ecco anche - ben evidente - l'etimo della stessa
labes (ed annessi vd. supra n. 84). Del resto, la sua accezione di caduta, si ha anche in acc.
con lābat, to fall, to be thrown down. A questo punto, diventa intrigante supporre
che, in virtù di tutte queste interconnessioni, proprio la congenita mancanza o il taglio
(punizione), di quella parte dell'orecchio (gr. lobos) che pende (lt. labat), sia uno degli stigmi
della labes originalis. Non per caso allora, la presenza del lobo è sottolineata ed impreziosita
da orecchini o enfatizzata allungandolo come in alcune culture e com'avveniva nell'Isola di
Pasqua: vd. i Moai e tutta quella tragica storia.
108
Da EUSKONEW & MEDIA: Ainara Iraeta Usabiaga,
http://suse00.su.ehu.es/euskonews/0070zbk/gaia7004es.html
109
LOS
AGOTES;
vd.
LE GRAND GUIDE DES PYRÉNÉES, édit. Milan et Rando-Editions.
110
Etimo popolare: cagots da cangots ovvero un insulto: cani di goti. In ogni caso,
l'espressione appare oscura; in bretone caqueux sta per cattivo. Ci può essere prossimità al
gr. kakós, spregevole, sordido che, privo d'etimo i.e., rimanda al solito accad. kakku,
ominoso.
111
Anche la zampa d'oca che li contraddistingueva e della quale, scioccamente, si
favoleggiava avessero i piedi era, insieme al cigno un ben illustre, tradizionale rimando al
mondo boreale. Sciocchi ma non bonari i loro persecutori: la trafittura dei piedi, era, infatti, la
punizione per un cagot, che fosse stato colto a trasgredire uno dei numerosi interdetti cui era
ristretto.
112
Cfr. supra n. 97.
113
In un altro nostro contributo (vd. supra n. 101), abbiamo mostrato le relazioni esistenti tra
caldei, ebrei (Abramo esce da Ur dei caldei) e celti, presso questi ultimi era il cinghiale a
simboleggiare la casta sacerdotale druidica (l'orso faceva riferimento ai guerrieri) mentre, tra
le accuse infamanti del pregiudizio antisemita, la Fabre-Vessas (vd. supra n. 102) riporta,
come abbiamo già scritto, l'assimilazione dell'ebreo a tale bête intesa nella sua versione
domestica. Il motivo, occultato da strati di millenaria ignoranza, sta, con evidenza, nel
suddetto rapporto simbolico tra il popolo sacerdotale ed il cinghiale (dal lt. singularis): da qui,
con ogni probabilità le disposizioni della kashruth. Inoltre, nell'Induismo, l'attuale Kalpa (il
ciclo superiore al Manvantara) è lo swêta varâha kalpa, il kalpa del cinghiale
bianco.
114
Vd. supra n. 98.
115
Lascito simbolizzato dal mito dell'Arca, nella quale, ciò che di valido, appunto, la civiltà
condannata possedeva, attraverso una navigazione sui flutti della cesura cataclismica, si
congiunge al mondo nascente.
116
Per quest'argomento vd. anche PRIMA PARTE, ed in particolare sul tema giganti, si riporta
la seguente citazione da la JEWISH ENCICLOPEDIA:
The giants of the Bible are not monsters; they are rather the
children of evil than perpetrators of evil. In the later
literature they appear as bereft of reason (Bar. iii. 26-28);
of an insolent spirit, rebelling against God (Wisdom of
97
Solomon xiv. 6; III Macc. ii. 4; Ecclus. [Sirach] xvi. 7). The
Hebrew text has
("the princes of olden days"), which may
be a reference to the chief angels enumerated in Enoch; and
these are described as
("that guided the world"). But
the final ‫ ם‬in the fragments as reproduced by Schechter looks
like a possible ‫ ש‬followed by the line for abbreviations, which
would give the reading [ ]
, meaning "who ruined the
world" (by their violence,
; comp. Enoch vii. 3, 4). These
giants are descended from the fallen angels…….the original
giants, who begot the Nefilim, to whom in turn were born the
Eliud (Book of Enoch, vii. 2; and the Greek Syncellus
[Charles, "Book of Enoch," p. 65]). In the Book of Jubilees
the last-mentioned are called "Elyo" (vii. 22). These three
classes correspond to the three names employed in Gen. vi. 4 =
"Nephilim," "Gibborim," and "Anshe ha-Shem" (i.e., "Anakim";
"Elyo" is certainly a misreading for the abbreviation
).
117
Il riferimento alla nota opera di Carl Gustav Jung non comporta, pel complesso fenomeno,
una nostra condivisione della sua interpretazione psicologica. Pur con molte perplessità, in
merito a tutto un certo approccio interpretativo, inficiato da una notevolissima dose di
personali fantasie, si può suggerire la bibliografia del francese Jean Robin.
118
Vd. infra n. 121.
119
Centro cronologico, cui - a ragione della precitata piena assunzione della corporeità potremmo anche dare l'attributo della gravità (si "scende" sino all'altro Polo) senza però
dimenticare che, sul piano di quella che potremmo definire solidificazione ovvero con
la chiusura verso il mondo sottile e verso gli stati superiori dell'essere, la situazione non è poi
così avanzata: infatti, è opportuno ricordare come, all'epoca, per la partizione qualitativa del
Manvantara, si sia soltanto nel Têtrâ Yuga o età d'argento.
120
Prima della Caduta - ma anch'oggi (l'Agartha), nelle valenze sottili - il Pardes ossia il
centro degli haņsá (il "giardino dei cigni"), era situato sul monte polare (Meru), quel
monte-isola coassiale al fulcro della rotazione terrestre. Dopo tal evento, l'intera area appare
vuota ed occupata dall'Oceano Artico mentre the Arctic Home degli eredi della
Tradizione Primordiale, per innumeri millenni, non poté che esser posta in un ambito
circumpolare, prospiciente a quello che, tuttora, se riprodotto secondo una confacente
proiezione, appare quale un vero e proprio mediterraneo iperboreo. È per la precitata
simmetria strutturale del ciclo che, dopo la Caduta, ai poli, le disposizioni dei "vuoti" e dei
"pieni" s'invertono cosicché, adesso, in contrapposizione alla situazione dell'emisfero
settentrionale, c'è, al Sud, il vasto continente Antartico. Alternante distribuzione geografica
che fa da interno corrispettivo con quella ben più radicale inversione dei poli (da cui il
conseguente sconvolgimento del moto apparente degli astri: cfr. MT. 24. 29 e MC. 13. 24-25,
LC. 21. 25-26), posta a suggello (inizio e fine / fine e inizio) d'ogni transito tra un Manvantara
e l'altro. Tutto ciò è in relazione con le denominazioni di sumeru (i.e. Nord, positivo: vd.
supra n. 31) e kumeru (i.e. Sud, negativo) attribuite, nell'Induismo, ai due poli: the
southern hemisphere or pole …è invece chiamato Kumeru, dove ku- è a
prefix implying deterioration, depreciation, deficiency ed il
luogo è a region of the demons…(MMW). Altra simmetria è quella che vede, in
Aquarius, sia l'inizio (dopo la Caduta) della fase precessionaria, sia la sua fine al termine
dell'intero ciclo.
98
121
Tale scopo era chiarissimo anche ad alcuni fondatori del pensiero moderno: in Leibniz, per
i suoi legami rosacrociani ed in Newton, per espresse convinzioni, le quali, solo ora, appaiono
in tutta la loro portata come s'evince d'assai recenti studi, quale il notevole The Janus faces of
Genius, Cambridge, 1991, di Betty Jo Teeter-Dobbs. Del resto, un antico precetto massonico è
che sia compito del master mason, il raccogliere ciò che è sparso; cfr. anche
San Paolo in 1Ts. 5.21: vagliate tutto e trattenete ciò che vale. Dove,
appunto, quanto traditum est appare fondamentale per ricollegarsi alla prisca sapientia,
avendo però ben presente in qual misura, questo tesoro risulti disperso in mille rivoli e, per di
più, velato e spesso stravolto dalla forma mitologica, folklorica ed evemeristica nonché
sovraccarico di risvolti etici, contingenti preoccupazioni sociali e complesse costruzioni
teologiche non sempre rispettose del fondamento metafisico da cui, per avere piena
legittimità, dovrebbero scaturire. Gli intricati e non facili rapporti tra le due versioni della
Masonry (Moderns and Antients) con la Royal Society sottendono anche questo.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme.]
[email protected]
99
What is foetus?
(Oktawian Nawrot)
1. Historical background.
In 1901 a French archeological expedition to Susa, the capital of Elam, discovered an 18th
century B.C. diorite stele measuring over 2 meters. In the top part of the stele there was a basrelief showing a person being given regalia from the hands of Shamash, the Babylonian god of
sun, the judge of heaven and earth. The rest of the stele was covered with cuneiform writing.
Naturally, the man entertaining relations with gods is Hammurabi, and the text on the stele is
of course his code of law.
From the text of the Code of Hammurabi we find out that in ancient Mesopotamian society
the foetus in a mother's womb was protected by law. The Code of Hammurabi stated clearly
that in the case of a criminal deed resulting with miscarriage, the perpetrator is obliged to pay
a relevant compensation1.
Financial compensations for causing a miscarriage to a woman by a third party were
provided by all legislation of eastern tyrannies preserved until today. The amount of the
compensation for a lost offspring (or rather a chance to have offspring) depended on the social
status of the pregnant woman, the degree of the perpetrator's fault and the advancement of the
pregnancy. The last of these factors is visible especially in the primary version of the Hittite
Code: in the situation when the miscarriage was caused by a third party before the end of the
fifth month of pregnancy, the compensation paid to the head of the family was ten halfshackles of silver; if the pregnancy did not last longer than five months, it was only half of the
mentioned sum2.
The question was approached much more strictly in the Assyrian law, which treated causing
a miscarriage to a woman from the highest social strata as a crime against the state. In the case
of committing such crime, its perpetrator, apart from paying a compensation to the unborn
child's father, was punished by flogging and was obliged to work for his ruler in the sweat of
his brow for a month. Such solution to a problem could suggest that the position of nasciturus
in the Assyrian society had been greatly strengthened: the state itself was interested in its
survival. Such a conclusion, however, turns out to be too early, as the Assyrian legislation
completely ignored the situation when the abortion was procured with the father's consent. In
view of the ideas on the nature of the unborn, another interesting thing is Article I. 50 from the
Assyrian collection of laws from 1075 B.C., which relates the amount of the sanctions to the
degree of the foetus's development (the more developed, the higher the sanction). It is also
worth mentioning Article I. 52 of the Assyrian collection of laws, stating that a woman who
consciously procured an abortion is to be impaled, and her corpse could not be buried.
Moreover, this punishment was to be performed even if the woman had died during the
abortion3. In the opinion of some authors, such a statement suggests that it was nasciturus and
its life that was the sole subject of protection in this case. This hypothesis can be supported by
the fact that the article mentioned does not make a distinction between single and married
women and thus the interest of the father is not taken into account here. We can also come up
with a statement that in the described situation abortion was treated as a crime against the
state or the family.
A legal construction similar to that of the Code of Hammurabi can be found in the Exodus,
being a part of the Pentateuch (the Laws of Moses). In the light of the rules contained in the
so-called Code of Covenant, for causing a miscarriage to a pregnant woman whose social
100
status - interestingly - was not defined, only a fine was provided. However, in a situation when
she was hurt herself, the punishment of lex talionis was to be applied ("eye for an eye, a tooth
for a tooth").
From the above one can conclude that nasciturus was not regarded as a human being by
Jewish tribes. Such a conviction was a result of the assumption that (according to Genesis,
Chapter II, Verse 7) a human foetus becomes a living creature only when it is given a breath
of life, the animating force from the Divine Spirit (Ruach Jahwe), revealing itself by making
the first breath. This hypothesis finds a confirmation in the text of the Book of Job, touching
the theme of uncommitted suffering. Desperate Job, answering his friend Bildad's accusations,
says the following words: "Why did you let me out from the womb? May I have died and
nobody had seen me, as someone who had never existed, put to the grave from womb." 4
Again, we see that nasciturus was not treated as a human by the Jewish tribes. Moreover,
according to Job's words, it seems a mistake to introduce a word to describe a being which has
been conceived but not yet born, as it simply does not exist, does not constitute an individual
in the ontological sense, being a part of the mother's body at most.
The situation of the unborn was similar in other countries of the Mediterranean, including
ancient Rome, where legislation was undoubtedly at the highest level. Because of practical
implications of many legal institutions, such as inheritance, it was vital to define the
beginning of the existence of a human being. This problem in the Roman law was solved by
means of the assumption of the rule that stated that the term persona can be applied to a
human being from the moment of his birth. The proof for a living baby's birth, according to
Proculians, was to be the baby's shout. On the other hand, Sabinians, the representatives of the
other law school of ancient Rome, claimed that to honor the legal existence of the newborn it
is enough that the baby gives any gesture made by him. In the case of serious doubts as to the
foetus's being alive, its vitality was taken into account. A vital foetus was a foetus which was
at least seven months old5.
According to the above, the unborn was not regarded as an individual in ancient Rome.
However, in the Romanist study one can find a rule conceptus pro iam nato habetur (the
conceived is regarded as the born)6. The above rule was in fact a legal fiction, enabling
nasciturus to gain property. The key factor was the fact that the unborn could inherit. With
time, this rule was broadened to all cases where the unborn baby's interest played a part,
changing itself into: nasciturus pro iam nato habetur, quotiens de commodes eius agitur (the
unborn is regarded as the born, whenever his benefit is considered) 7. It must be noticed,
though, that the legislatory practice of ancient states was not always identical with the views
of the intellectual elite to the condition of the unborn, the expression of that being
undoubtedly the works of Aristotle.
To understand the Aristotle's concept of the development of a human being, it is necessary
to introduce a few notions concerning his metaphysics. Stagirite gave as many as four
definitions of metaphysics, one of which claims that the aim of metaphysics is researching
the primary causes. Aristotle himself gave four causes: the formal cause, the material cause,
the efficient cause and the final cause. The formal cause is nothing but the being or, as
Aristotle describes it, the form (μορφή) of the given thing, the structure of the given object
(such as the shape or construction of a table or house), its inner nature (the formal relations for
geometrical figures or the soul for a human being). The material cause or the matter (μορφή)
is what constitutes the material for the given thing, the substrate which makes the thing, what
the thing is made of and lasts, such as wood for the table, bricks and mortar for the house,
flesh and bones for the animals. The efficient cause, also called animating, is where the
movement primarily comes from, which makes the change in things. Therefore, the efficient
cause for the table will be the carpenter, for the house - the bricklayer etc. The final cause is a
reason for which the given thing exists or becomes what it is to be, the motivation for the
particular action or change8.
101
After making the above comments we can go on to analyze the concept of human
development by Aristotle. Above all, Stagirite noticed that menstruation in women stops when
they get pregnant, and that the fact is a consequence of having a sexual intercourse with a
man. In the face of such frugal data Aristotle referred to the laws of his metaphysics, claiming
that there has to exist an efficient cause and some matter (the material cause) for any process
to be initiated. According to this statement, it was obvious to claim that in the case of
pregnancy the efficient cause is the man, and the role of the woman as a passive factor is to
provide the material (the matter) of which the offspring will be formed.
In general, in Aristotle's opinion, the efficient cause of the existence of a human being is the
man, who by introducing sperm, and with it the vital force called pneuma, to the mother's
body causes the clotting of the menstrual blood (the matter). After about a week there occurs
the conception and the vegetative soul (the form) enters the embryo's body. Further on, there
occurs the process of differentiation of the cells and the growth of the embryo, so after 40 days
in case of male fetuses there appear the sensory organs, and in the same way the sensitive soul
(in the case of female embryos the process lasts about 90 days) -the embryo becomes the
foetus and starts his animal life. After some undefined period of time the sensible soul enters
from the outside, making the living body a human being9.
With the appearance of Christianity at the intellectual arena of Europe, a new and energetic
center was created, soon becoming the dominant one. It must be noticed that before the birth
of Christ the Judaist view on the nature of the unborn had undergone a deep evolution. The
Jews living in Alexandria had got to know Greek philosophy and had been subject to its
influence. Aristotle's views played a special part there. The above presented interpretation of
the Genesis and the Exodus had been modified, nasciturus had ceased to be treated as
property and started to gain the status of a human being. With getting to know the stages of its
development, the Jews accepted the idea that the developed foetus in its mother's womb is
already presented with the breath of life, which according to Stagirite's terminology is the
sensible soul.
In the document dated from the 1st century A.D. entitled Didache ton dodeka apostolon
(The Teaching of the Twelve Apostles 2,2), being the oldest extrabiblical Christian text, one
can read the following words: you shall not kill a foetus, interrupting a pregnancy, and you
shall not kill an unborn baby. A similar passage referring to procured abortion can be found in
St. Peter's Apocalypse, an apocryphal work by an anonymous author, published in the first
centuries A.D. The reason for condemning procured abortion in the above text was the fact
that the death of nasciturus happens before it is christened, and therefore the baby dies tainted
with the original sin and cannot entertain redemption.
Therefore, procured abortion in early Christianity was considered as a sin. However, it did
not automatically mean killing a human being. It was a consequence of the problem of how to
define precisely the moment when the foetus is presented with the animating force of the
Divine Spirit and becomes a full human being. The most often quoted opinion was that of
Aristotle, but one could also encounter opinions that from the moment of conception we are
dealing with a human being, for example the views of Tertullian and St. Basil.
Theological discussions on the subject of animation which started at that time did not have any
reflection in the official doctrine of the early Church at the beginning, the expression of this being for
example the canons published by the council of Elvira 10 (around 310 A.D.) and Ancyra 11 (around 314
A.D.). Those documents do not refer to biological questions, the result of this being the lack of
distinction between formed and unformed foetuses. Procuring abortion in the light of these canons
was not an act of murder, although it was considered a reprehensible misdeed, for which one could be
excluded from the Christian community (excommunication), initially forever, later - the punishment
was less strict and limited in time. It must be noted as well that the above sanctions were only for
those who procured abortion to hide adultery.
In the 4th century A.D. under the influence of St. Hieronymus of Strydon the Church
unequivocally declared against abortion. However, even though Strydonite treated women
102
procuring abortion as child-murderesses, he shared the opinion expressed by most of his
contemporary Christians that the murder took place only if the killed foetus was fully formed.
The same opinion was expressed by St. Augustine, one of the greatest philosophers and
theologians in the history of the Church. In his Enchiridion Augustine makes a distinction
between fully formed foetuses and those which have not been formed yet. Considering the
question of resurrection he referred to the latter with the following words: Unformed foetuses
disappear as seeds which do not give fruit. Thus, abortion at an early stage of development of
the foetus was a sin but not a murder, unless it was procured to hide adultery12.
As we can see from the above, early Christianity quite commonly honored the theory of delayed
animation and treated unformed embryos as something pre-human, as it was the soul that was
regarded as the constitutive element of a human being. Without soul, the foetus could not be
considered as a human being. This idea was presented very strongly in the 5th century A.D. by
Gennandius of Marseille: When the body has been formed completely, then the soul is brought to life
and put into the body13.
The theory of delayed animation had its reflection five centuries later in the Decretals by
Raymond of Penafort. These Decretals, supported by the authority of one of the greater (if not
the greatest) medieval philosophers, St. Thomas Aquinas, have been the basic corpus of the
canonic law until contemporary times.
The appearance of philosophical theories concerning prenatal human development
competitive to that of Aristotle was made possible only at the end of the Middle Ages by the
development of natural sciences. A newly-formed Renaissance school of nature, constituting a
reaction to the far-gone formalism of scholastic thinking, stated that the world should be
examined on the basis of its own rules discovered by direct observation; the individual has the
right to decide about truth, basing on the common sense. Naturally, this fresh air of freedom
could be seen in medical sciences as well.
In the heritage of one of the greatest minds that have ever walked the earth, Leonardo da
Vinci, we can find drawings showing human foetuses in a womb. Moreover, Leonardo is
known to have measured foetuses. Some very valuable observations were also made by a great
anatomist and surgeon, a professor at the University of Padova, Hieronymus Fabricius. It is
worth mentioning here that it was him who, as one of the first, applied the comparative
method in anatomical and embryological research.
Applying the empirical method in natural sciences and questioning the indiscriminate
acceptance of ancient and medieval authorities resulted directly in the appearance of a new
view on the nature of nasciturus. In 1620, a Flemish physician Thomas Fineus questioned the
opinions of both Aristotle and St. Thomas Aquinas concerning animation. Fineus asked why
presenting nasciturus with a sensible soul happens as late as after the period of 40 days from
conception, if the soul is the rule organizing the body from the very moment of conception? If
human soul is to be the formal cause organizing a human being, why then do we introduce
graduation here and speak of as many as three types of it: vegetative, sensitive and sensible?
Isn't it more proper to assume that we are dealing with the same type of soul from the very
beginning, the soul alone forming the body in the prenatal period and preparing the tools to be
used in future? Finally, Thomas Fineus stated that the sensible soul appears as early as three
days after the intercourse, as it is the amount of time it needs to clot the menstrual blood.
Only a year later there appeared another very important opinion connecting animation with
conception, by a Roman physician Paolo Zacchias. In his treaty The Medical And Legal
Problems Zacchias proved that the sensible soul is present in the foetus from the very
conception, and that only part of its functions is left in the state of ability for some time.
However this view initially faced a massive attack from the side of traditionalists, it started to
gain acceptance gradually. In 1644 the Pope Innocent III honored Zacchias with the title of
General Physician of the Whole Roman Church State and with it opened to his views the
opportunity to be accepted by the environment of the Catholic Church.
103
A huge support for theories alternative to Aristotle's concept of human development was the
research of Fabricius's student, William Harvey (1587-1657). Harvey was the first to conduct
a systematic research of a developing mammal embryo. In the treaty Exercitationes de
generatione animalum, without hiding his sympathy to Aristotle, he claimed that the research
of the sources of a human being must be started from its causes, especially from its material
and efficient cause.
As to the causes, Harvey did not think they could be male or female sperms secreted during
intercourse nor their mixture nor, as Aristotle claimed, menstrual blood. Naturally, he did not
negate the fact that conception and pregnancy were consequences of a sexual act, but using
only the primitive equipment available he was not capable of noticing egg cells or an early
embryo because of their small size. Therefore, Harvey concluded in the following way: if after
a sexual intercourse one cannot notice anything in the womb and it is sure that without the
intercourse no offspring would appear, then the intercourse itself must be life-giving. Thus,
there must occur something similar to being infected with an infectious disease transmitted by
means of direct contact with the infected person. This cause, the force working in the egg,
although undoubtedly introduced to the egg by both the man and the woman, must be
something immaterial coming from heaven, the sun or the Almighty Creator14.
To explain the mechanism of the conception further, Harvey referred to the analogy between
this process and the creation of a thought in the brain. Like under the influence of an outer
impulse which is the object there appears an impression of it by means of sensory organs,
there occur conception in a mystical way by means of the intercourse between a man and a
woman. Even though Harvey did not actually suggest his own biological idea of conception,
he doubtlessly proved the fault of Aristotle's thinking on a medical field. It can be said that the
finishing stroke to Aristotle's theory was given in the second half of the 18th century by two
Dutchmen: Robert Reinerde Graaf, who described the egg follicle in a rabbit, thinking that he
discovered the ovum, and Anthony van Leeuwenhoek, who discovered sperms using a
microscope of his own construction.
The popularity of a philosophical concept of human development according to which
animation was to occur as early as at the moment of conception was supported by the theory
of another great 17th century Dutch embryologist, the author of a work which still surprises us
with its precision entitled Biblia naturae, Jan Swammerdam (1637-1680). Swammerdam was
the author of a new theory of embryological development - preformation, according to which
the development of a foetus consists only in the growth of the parts and organs of the foetus
existing from the very beginning. Swammerdam in his research concentrated mainly on the
stages of development of insects: he used to say that grubs are simply young representatives of
a given species which after dropping the surrounding membrane take up its mature form. This
idea soon started to be extrapolated to the whole animal world and therefore to the man. In the
light of these ideas, a human embryo is nothing but a miniature man (homunculus) different
from a mature human being only in terms of size. Its body with all its organs is fully formed
from the very conception and therefore it is doubtless that the sensible soul is present in its
body from the conception as well.
The theory of immediate animation was also grounded in the views of Descartes and his
famous thesis cogito, ergo sum. Searching a statement which will be capable of resisting all
skeptical arguments undermining the believability of human cognition, Descartes found the
answer in the phenomenon of doubt. If I doubt the truth of my cognition, then in spite of
everything, I definitely doubt. If I say that the world may not exist or the reality I experience
may in fact be different from what it appears to me, then it is me who is the subject expressing
doubts. Therefore doubt and thought must exist even if its subject is the thought or the doubt
itself. However faulty the thought may be, however mistaken can I be in my thinking, I cannot
be mistaken in the very fact that I think. According to Descartes, the truth must be looked for
not in the object but in the subject; not in the external world but in the man himself. Further
104
conclusions would be only simple consequences of accepting this thesis: if I think, I must
exist as a subject, as someone who thinks - cogito ergo sum. The only question left to be
answered was who was that active, thinking subject; exactly this answer has contributed to the
theory of animation at the moment of conception. For Descartes the thinking subject, the
existing I was the being, the sensible soul, which doubtlessly exists even if the body is only an
illusion. However, if this is how it is, if just the thinking being is doubtless, then it must be
independent from the body, it must be a completely autonomic substance, a separate reality.
However, it must be clearly stated that Descartes himself was a supporter of the theory of
delayed animation even though, as it has already been said, his philosophy surprisingly
supported the theory of immediate animation. Descartes did not doubt that the sensible soul
appears in the body only when the brain starts functioning and the individual becomes capable
of thinking15.
In this way, the theory of immediate animation starts to dominate: both natural sciences and
philosophy supported it. Despite the fact that the theory of preformation was undermined as
early as in 1759 by Casper Fridrich Wollf and his theory of epigenesis, nothing inclined
towards regarding any moment of foetal life but the conception as the moment of presenting
the sensible soul to the foetus.
In the 18th century a new view on the nature of nasciturus became popular; lay legislation
reached the climax of amenability to punishment with regard to people procuring abortion. All
legal codes published during this period penalized abortion, even if not all of them treated it
equally as murder. Codex iuris Bavarici criminalis published in Bavaria in 1751 kept the
distinction between animated and unanimated foetuses. According to its norms, if the foetus
was animated, the woman who has procured abortion was to be sentenced to death. The
moment of animation was set at more or less the middle of the pregnancy, which is the period
in which the woman could be sure of pregnancy by feeling the baby moving. The end of the
distinction between animated and unanimated foetuses can be seen in a penal code Theresiana
published by Maria Theresa, the empress of Austria, in 1768. Here, in all cases the abortion
was considered as murder and because of blood relations between the mother and the baby, it
was to be penalized with a qualified death sentence. A similar legal regulation can be found in
the Russian Collection of Laws dated from 1832.
With the end of the 18th century, a gradual liberalization of regulations concerning the
penalties for procuring an abortion can be observed. The first example of a breach of strict
regulations was a legal code published by emperor Joseph II in 1787, which is known as
Josephina. Josephina also resigned from the distinctions in the prenatal period of human life,
but the punishment for procuring an abortion could not be more than five years of heavy
prison with public works. The most liberal was the French legal code from 1792. This
document completely abolished the legal responsibility of a woman for procuring abortion on
her own pregnancy. The punishment (20 years of prison) for the third party performing an
illegal act to a pregnant woman, the result of which being a miscarriage, was kept, though.
To summarize this historical part, it is worth noticing that the theory of delayed animation
expressed the official attitude of the Catholic Church in the subject of animation until 1869,
when Pope Pius IX announced the constitution Apostolicae Sedis. Even as late as in 1713,
when both Descartes's opinions and the results of Harvey's research were widely known,
Sacrum Officium expressed its opinion on the question of christening miscarried foetuses in
the following words: if there are justified grounds for the conviction that the foetus was given
a sensible soul, then it can and even should be christened. If, however, there are no rational
grounds for such conviction, then on no account can it be christened. From the quoted words
one can clearly conclude that Aristotle's concept was still kept by the authority of the Church.
Nevertheless, it is worth stressing that no definite amount of time that must pass from the
conception to be sure that the sensible soul was there in the foetus's body was mentioned. St.
Alfonso Liguori, the personal confessor of Pius VII, supported the views of St. Thomas
105
Aquinas in the question of animation, but knowing the achievements of natural sciences, he
stressed that to eliminate the risk of murder, it is safer to ban abortion completely. This view
seems to show some evolution undergone by the notion of abortion. It is rather doubtless that
in the opinion of St. Alfonso, there is no murder when abortion is procured before the soul
enters the body of the foetus, which would comply with the long-term tradition of the Catholic
Church. However, to say that banning abortion can eliminate the risk of murder concerning it
is to introduce a new factor, as it turns out that the theory of delayed animation causes more
and more problems with defining the moment in which the foetus is animated. The data
provided by natural sciences ruin the clear opinion of Aristotle by introducing disorder and it
seems that introducing the ban on abortion just in case is the only means of preventing us
from committing murder. This thought was developed in 1864 by a Jesuit Jean Gury. Gury,
being - as St. Alfonso - a supporter of the traditional theory of delayed animation, was
strongly against abortion, as in his opinion the foetus - even if not given a soul - is assigned to
become a human being. Aborting pregnancy is therefore an anticipated murder. Let us note
here that this opinion lays grounds for starting to consider a human embryo as a human being,
having a sensible soul as early as at the very beginning of its prenatal life.
As we can see a discussion concerning animation, which is the moment of endowing the
human foetus with the soul, has its roots in antiquity. Philosophers, theologians, doctors and
lawyers took part in it. They defended the views according to which the human soul enters the
body, and in this way a human being is created, at the moment of insemination, at some
specific point in the prenatal period or at the moment of birth. It is interesting that the problem
has not been solved until now and it echoes in public debates on the subjects of abortion,
artificial insemination or cloning. It is worth considering, then, whether the achievements of
contemporary medicine and its domains can in some way help us solve this puzzle.
2. Insemination Versus Animation.
Not only in popular scientific essays, but also in typically scientific studies, one can very often
come face to face with the statement that the beginning of the prenatal development of a
human being starts with insemination, which is the fusion of female and male gamete. At this
point the question when a human being appears seems pointless. Since the development of a
human being begins with insemination, how can we ask when this being is created? It turns
out, however, that the question can still be asked, even with the above assumption. Let us take
the analogy with a building. If one wants to put up any building, it is necessary to prepare the
project, secure the area, dig out the foundations and gather the building materials beforehand.
The difference between the activity of building and the house itself are different. Moreover,
we must notice that it is very difficult to determine the point at which we are already dealing
with the house. Would we call the foundations the house? No, we would not. And if we put up
the first floor? The house appears only at some point after the beginning of the construction
and we are not dealing with the house at the moment of making the project or gathering the
materials necessary to build it. It is possible that this is also the case with the human being:
may the first period just be a preliminary stage, and the real human might appear only later? If
we assume that the human soul is what constitutes human existence, we must consider
whether it can appear as early as at the moment of insemination and solve the problem in this
way.
Insemination is doubtlessly the breakthrough in the appearance of a new life. It is certain
that as a result of it there appears a new living organism, completely different from the
organisms of its mother and father. The zygote created in this way characterizes itself with a
unique genetic code which determines such features as skin, eye and hair colour, height, build,
weight, facial features etc. in its future life. Male and female reproductive cells have 23
106
chromosomes each and as a result of their fusion there appears a new cell having the correct
number of 46 chromosomes. The view treating insemination as the moment in which a human
being is created is, among others, the expression of the official doctrine of the Catholic
Church. It was perspicuously expressed by J. T. Noonan, a Catholic professor of law, in the
work entitled The Morality of Abortion. Noonan claimed that anyone conceived by a man and
a woman is human16. To him, the genetic criteria was the deciding argument for the fact that
the human being is created at that particular moment. A being with a human genetic code is
man17. Therefore, all that was conceived by humans is a human 18, because nothing but a
human can be created out of human reproductive cells 19. It is also worth quoting the opinion
of Paul Ramsey, a Protestant bioethician: Genetics teaches that we were from the beginning
what we essentially still are in every cell and in every generally human attribute and in every
individual attribute. There are formal principles constituting us from the beginning. Thus
genetic seems to have provided an approximation to the religious belief that there is a soul
animating and forming a man's bodily being from the very beginning20.
It must be stressed that the genetic criteria as the ultimate instance deciding about the
moment of the origination of a new human individual is propagated by people not connected
directly to the Church as well. As we have already mentioned, immediately after the fusion of
the gametes we are dealing with a new organism, even if it is completely dependent from the
organism of the mother. Going through various stages of its development, it will all the time
be the same individual being, the identity of who was determined at the moment of
insemination. Thus, the zygote and the adult person who will grow out of it possess the same
genetic identity21. Professor J. Lejeune, MD, the head of the Institute of Genetics at R.
Descartes University in Paris, stresses that in the light of contemporary knowledge the
statement that after insemination there appears a new human being has already ceased to be
the matter of preference or opinion22. Similarly, a Polish scientist, W Fijalkowski, MD, claims
clearly that human life starts at the moment of insemination, when occurs the fusion of
chromosomes, and that it constitutes a continuum until death23. The human individual created
at that moment simply goes through various stages: the zygote, the embryo, the foetus, the
infant, without ever ceasing to be a human being24.
Doubtless as it is that insemination is the beginning of the life of a new organism, there is a
lot of controversy as to the thesis that this is also the beginning of the life of a human being. It
turns out that not all that has been conceived by humans must be a human. The truth is that as
a result of aberration of chromosomes, about 8 to 12 % of human zygotes develops into empty
foetal ova, without the baby. Therefore, conception occurs, but no human being is conceived,
even though the foetal ovum in this case certainly has human origins. Moreover, possessing a
human genotype does not determine that we are dealing with a human being. Take any human
white blood cell and it will contain a complete genetic information. We should not forget,
either, that for example foetal membranes also consist of human cells having human genotype,
but they are not people, they live their own life and after the delivery of the baby they are
simply thrown away25. Cellular biopsy, enabling us to discover genetic diseases, is currently
done on postembryonic membrane chorion tissue, the genetic structure of which is identical
with the structure of the foetus, but it certainly is not a human being.
The genetic determination of the embryo does not itself condition the fact that we are
dealing with a human being, either, because the genome must be activated for the human
individual to appear. It is surely known that the genome of a human embryo is not activated by
the bi-cellular stage, and it may even be sleeping until the four-cell stage, because up to this
stage of development the dynamics of the zygote is controlled by the RNA of the mother.
From this point of view, the zygote in itself is active, but its development is not conditioned
by the genetic programme according to which the embryo, and later the adult human, will
develop. To illustrate this process, let us imagine a child who has obtained the genes
responsible for hemophilia. As long as these genes are not expressed, the disease does not
107
appear, and in this way the child remains healthy: it will be a potential hemophiliac, not a
person actually suffering from hemophilia. Therefore, even though a new ontologically and
genetically different from its parents organism appears as a result of chromosome fusion, it is
only a potential human being26.
Another argument against treating the chromosome fusion as the frontier point from which
we are dealing with a human being equipped with a soul is the possibility of appearance of
monozygotic multiplets, which are the multiplets originating from one zygote. It turns out that
blastomeres created during striation are totipotential, which means that from each of them can
give rise to a living human individual. At such an early stage of development we cannot
therefore say whether one or more human beings will originate from one zygote. Thus, we
cannot claim that from the moment of insemination we are dealing with a human being, as it
turns out that the human being at some point would lose its ontological identity: from one
person we would suddenly have two.
The next argument against treating insemination as the moment in which a new human being
appears is the possibility of appearance of the so-called chimeras, who are human beings
resulting from the fusion of two or more embryos 27. If we assume that we are dealing with a
separate human being right after the fusion of a male and female gamete, what would we do
with a situation in which two such beings blend into one having two genetic lines? Would we
say that the two beings ceased to exist and a new one started? Or would we assume that one
organism had absorbed the other and in fact the former will develop into a human being and
the latter will cease to exist? Or maybe we would say that there are still two individuals
existing in one body?
3. The Argument from Implantation and the Rise of a Human Individual.
For the reason of the problems presented above many authors tend to assume that the
moment of the apparition of a human individual is some moment between insemination and
birth. Of course there can be many criteria here. The definition of a human being which gains
considerable popularity is the definition on the basis of the criteria such as: indivisibility,
imblendable and the possibility of distinguishing it from other beings 28. Some authors defines
the moment in which the above criteria are fulfilled as the end of the process of implantation
of blastocyst in the mucous membrane of the uterus (the 14th day hypothesis).
After 12-13 days from insemination the blastocyst is already settled. Until that time, in the
opinion of the 14th day hypothesis supporters, we are only dealing with some kind of a genetic
individual, but not a personal individual. After the process of implantation is finalized, on the
13-14th day there appears primitive streak and from this moment, according to many authors,
for the first time we are dealing with a single, multicellular and individual living being, who
moreover possesses a final cephalic-caudal rachis of the body, dorsal and celiac area and
bilateral symmetry. The cells lose their totipotentiality: from this moment their development
will be strictly directed towards the creation of a human individual. With the achievement of
the primitive streak stage by an embryo, we can say with full conviction how many new
individuals will have the opportunity of being created (the possibility of occurrence of twins
has already been excluded). From this moment, if we cut the embryo in half in order to create
two individuals from its cells, we would not achieve anything: we would only kill the new
being. After the appearance of primitive streak we are dealing not only with a genetically
defined individual, as this individual is directed towards further development of a biologically
individualized representative of the human species. Therefore apart from genetic
determination we can also speak of ontological determination.
To sum up, the supporters of the 14 th day hypothesis claim that up to the primitive streak
stage we cannot speak of an individual being equipped with a soul. Before a blastocyst loses
its pluripotency, there can appear one or may human individuals (theoretically, a human being
108
can be created from each separate part of a blastocyst). It is thus hard to recognize as an
individual an embryo just after insemination, as it has the potential to become two individuals.
Until the moment of the apparition of primitive streak we are dealing with a collection of
cells, which actually, even though loosely connected, are neither one thing nor many things.
Only after the stage of primitive streak is reached, the possibility is lost: we face a new,
separate individual.
4. The Neurological Criterion for Being a Human.
Many people connect being a human individual equipped with a soul with the ability to feel,
because an individual who does not feel, cannot experience anything - even the fact of its own
being. The apparition of consciousness, which in the opinion of the supporters of the
neurological criterion makes us people, is the frontier between humanity and the subhuman
stage of development. Only the appearance of cerebral structures let us speak of the thinking
nature of nasciturus, at the same time including him in the human family. Until then we can at
most speak of a living mass of cells having the potential to become a human being. The brain
constitutes the center of an individual, but rather the whole individual.
Practically, the neurological arguments, or rather the reactions of an embryo and a foetus
connected with them, cause great emotions. One can often meet charts comparing the
embryology data (sometimes untrue) with the abortion methods and the reactions of
nasciturus caused by pain29. The allegedly unbelievable sufferings which are inflicted at the
unborn are expected to be the proof for the fact that we are dealing with a fully developed
human being. A clear example of such practice is the film The Silent Scream.
What does embryology speak of the ability to feel anything by nasciturus? Many authors
connect brain activity, and therefore the ability to feel and the appearance of consciousness,
with its bioelectrical activity, which takes place just after six weeks from the conception. It is
possible that together with the improvement of medical equipment this moment will be moved
to earlier and earlier stages of embryonic development. Thus, the embryo would become a
human being as early as six weeks after insemination, because there exists not only genetic or
ontological, but also psychic individuality30. In the light of contemporary medical knowledge
this thesis seems doubtful, though. Registering the bioelectrical activity of the brain by means
of electroencephalography (EEG) does not prove anything. If we place two electrodes for
example at both sides of the membrane of the paramecium, we will receive an electrical signal
changing in time as well, but we will not treat that as the proof for the fact that paramecium
possesses an organized psychic life. Actually, EEG does not prove anything but the fact that
we are dealing with a living organism. In the case of placing the electrodes at a particular part
of the brain, what we get is an EEG graph proving that the cells constituting it are living. Of
course, the brain of an adult person shows some characteristic electrical activity indicating the
existence of working neurons, and therefore consciousness, but in the case of a six-week old
embryo it is difficult to speak of such signals31.
Practically, the notion of bioelectrical activity of the brain of an early embryo is rooted in
the survey conducted by two Finnish surgeons in 1963. The scientists have performed a series
of abortions by caesarean section on foeta in early stages of their development (59 to 158
days). After each abortion they placed electrodes on the yet living embryo, in three parts of its
brain: the cerebral pith, hypothalamus and on the surface of the cortex . After a series of
measurements it turned out that bioelectrical activity in the cerebral pith existed in all the
examined foeta (from the 84th day it could be also caused by touching the area of the lips of
the foetus). In older foeta the electrical activity was observed in hypothalamus as well. In no
case, though, was the activity observed in the area of the cortex. It is worth mentioning as well
that a bioelectrical activity similar to the one described above was observed by stimulating the
muscle of the leg of the foetus32.
109
The already mentioned film The Silent Scream very suggestively presents a twelve-week-old
foetus, on which abortion is performed. Dramatic pictures are accompanied by the following
commentary: now this tiny person of twelve weeks is a completely developed, fully
recognizable human being. It has had brainwaves for at least six weeks… 33 As much as we
know about the anatomy and functioning of the brain, it is, to say the least, a
misunderstanding. A twelve-week-old foetus does not have any connections in the cortex and
therefore it is unable to feel any emotions. Also, a foetus in this period cannot consciously try
to avoid danger, its moves have nothing to do with volitional acts34.
When does nasciturus start to be able to feel? Part of the authors claim that it happens
between the twenty-fifth and thirty-second week of pregnancy, as this is the moment when the
synapses in the cortex are created35. However, it turns out that simple feelings, such as joy or
pain, are located in more primitive areas of the brain, which though are formed not earlier than
before three months from the conception. On the other hand, we know that in the third
trimester of pregnancy the ability to feel does exist. Thus, the sensitivity to external factors,
and possibly consciousness, appears between the end of the third and the beginning of the
seventh month of pregnancy. Doubtlessly, this feature does not appear all of a sudden, it is not
then possible to set the precise limit before which the foetus does not feel anything for sure,
and after which it is capable of experiencing a whole scope of human sensations. This
uncertainty refers therefore to the second trimester of pregnancy: in the first trimester the
embryo and later foetus surely does not feel anything and in the third it doubtlessly has the
capacity of feeling36.
5. The Human Being and Birth.
To finish with, it is worth mentioning one more opinion concerning the nature of the human
being, according to which the name of a human being can be attributed to an autonomic
organism, living outside the organism of the mother who is a representative of the human
race. This view can be surprising, especially in the light of the criteria for being a human
individual quoted above. Nevertheless, this opinion must be presented, even for the sake of its
domination in many legal systems of the world. It is worth mentioning that this view can be
found also in rabbinic law.
The first characteristic feature of the described point of view is the omission of all factual
differences, crucial for obtaining the status of a subject, or rather humanity, between the
embryo and the foetus on various stages of its development. Thus, both the inseminated ovum
and the developed foetus on the verge of birth do not deserve to be recognized as human
beings in the same way. Humanity appears with the birth of the child: until this moment it can
be treated only as a part of its mother's organism, not an individual being.
In connection to the above statement, it is very important to delimit clear criteria of birth as
a moment in which the foetus leaving its mother's womb becomes a human. In the literature
devoted to this subject three main criteria are distinguished:
1. The physical-physiological criterion, according to which the creation of a new human
individual occurs at the moment of total separation of the child's organism from the
organism of the mother.
2. The physical criterion - to state the existence of an autonomic human being it is
enough to observe at least partial removal of the child's organism from the organism of
the mother.
3. The obstetric criterion, giving the status of a human to the foetus as early as at the
moment of puerperal action.
110
As it is visible from the criteria quoted above, the search for clear and unambiguous points
of passage from the prenatal to postnatal period is in fact absurd. It is not absurd, though, the
struggle to answer the question: at which moment the born becomes a human. In fact, it is
some convention, however with important social, economical and above all legal
consequences. It seems dubious, though, whether any of these moments was so important in
the biological development of an individual that we could tie animation with it.
6. Summary.
The creation of a human being is the process still being a mystery and causing a lot of
controversy. Thus, the attempts to answer the question when a human being is created and
when he obtains soul also cause plenty of emotions. The way of looking at the unborn has
come through various stages through centuries as well. One can show periods in which a
considerable part of the society tended to regard the inseminated ovum as a human being, as
well as those in which the term human being was attributed only to the postnatal period in
human life.
The dispute on humanity is still in progress and the question of determining the neuralgic
point, after which the conceived becomes part of the human family, still remains unsolved.
The data from detailed sciences are submitted to various interpretations, the results of which
are often determined by the earlier opinion of the scientist expressing his opinion on the
subject. This discrepancy concerning the interpretation of medical facts is visible also on the
legal ground: depending from what the legislator regards as a fundamental value, he tends to
honour either the genetic criterion, or the 14th day hypothesis, or the neurological criterion as
the measurement for humanity.
It is doubtless that the creation of a human being is a process. Even if we assume that it is
created at the "moment" of insemination, we must not forget that the insemination itself takes
time. There appear attempts to explain this problem but they only give rise to new questions
and as a consequence, one might say that the more we know about human life at its prenatal
stage, the more difficult it is to set the limit behind which the embryo or foetus becomes a
human. The insemination itself is a doubtless breakthrough in the creation of a human life. As
a result of this, a new living organism is created, completely different from the organisms of
its mother and father, equipped with a unique human genetic code. But on the other hand, it
turns out that such an organism does not have to develop into a human being, as there is a
possibility that it will only create an empty fetal ovum, possessing human DNA, but surely not
being a human.
In the light of the above statement, it seems that the earliest moment which can be treated as
an appearance of a new human individual equipped with a soul is the end of the implantation
process, which is the so-called 14th day hypothesis. It is worth noticing that this view finds its
supporters among the representatives of the Catholic Church as well. For example professor
Tadeusz Slipko, a priest, claims that the general assumption that the man from the beginning
of his existence is a person can be useful in preaching, catechesis, publications, but not in
scientific thought, as it can do more harm than good there, especially if the discourse concerns
the right of the unborn to life37.
Notes
1
The Avalon Project at the Yale Law School, The
http://www.yale.edu/lawweb/ avalon/hamcode.htm, §209 - §212.
Code
of
Hammurabi,
111
2
Ancient History Sourcebook: The Code of the Nesilim, c. 1650-1500 BCE,
http://www.fordham.edu/halsall/ ancient/1650nesilim.html, §17, §18.
3
Ancient History Sourcebook: The Code of the Assura,
http://www.fordham.edu/halsall/ ancient / 1075assyriancode.html.
4
Book of Job, 10, 18-19.
5
K. Kolańczyk, Prawo rzymskie, Warsaw 2000, p. 177.
6
W. Litewski, Rzymskie prawo prywatne, Warsaw 1999, p. 114.
7
Ibidem.
8
M. Krąpiec, Metafizyka, Lublin 1995, p. 368 - 400.
c.
1075
BCE,
9
N. Ford, Kiedy powstałem? Problem początku jednostki ludzkiej w historii, filozofii i w
nauce (When did I begin? Conception of the human individual in history, philosophy and
science), Warsaw 1995, p. 51 - 54.
10
The
Council
of
Elvira,
http://www.bu.edu/religion/courses/syllabi/rn301/canons.htm, canons 63 - 64.
11
canons,
The Council of Ancyra, canons, http://www.newadvent.org/fathers/3802.htm, canon 21.
12
J.T. Noonan, An Almost Absolute Value in History, (in:) The Morality of Abortion. Legal
and Historical Perspectives, Cambridge 1970, p. 15 - 16.
13
L. Kostro, Eros, sex i aborcja w ocenie katolicyzmu krytycznego, Gdansk 2002, p. 51.
14
N. Ford, op. cit., p. 71 - 75.
15
Zob. L. Kostro, Philosophical implications of modern human embryology considered in
relation to Cartesian and neo-Thomist anthropology (in:) L. Conti, M. Capria (ed.), La
scienza e i vortici del dubbio, Napoli 1999, p. 456 - 457.
16
J.T. Noonan , op. cit., p. 54.
17
Ibidem, p. 57.
18
Por. L. Kostro, op. cit., p. 41.
19
Por. W. Fijałkowski, Ku afirmacji życia, Warsaw 1989, p. 68 and next.
20
P. Ramsey, Reference Points in Deciding about Abortion, (in:) J. Noonan, op. cit., p. 67.
21
N. Ford, op. cit., p. 146.
22
J. Lejeune, Czym jest ludzki embrion?, Gniezno 1999, p. 30 - 47.
23
W. Fijałkowski, Dar rodzenia, Warsaw 1985, p. 58.
112
24
S. Schwarz, The Moral Question of Abortion, chapter 1: Is the Being in the Womb a Real
Child?, Continuum of Human Life, http://www.ohiolife.org/mqa.
25
L. Kostro, op. cit., p. 41 - 42.
26
N. Ford, op. cit., p. 155 - 156.
27
N. Ford, op. cit., p. 181 - 188.
28
L. Kostro, op. cit., p. 47.
29
S. Schwarz, op. cit., Chapter 2: Is Abortion the Killing of this Being?, Methods of Abortion,
http://www.ohiolife.org/mqa.
30
Ibidem.
31
H.J. Morowitz, J. S. Trefil, Jak powstaje człowiek? Nauka i spór o aborcję, Warsaw 1995,
p. 127 - 131.
32
Ibidem, p. 129 - 130.
33
Ibidem, p. 132.
34
Ibidem, p. 132 - 133.
35
Ibidem, p. 122 - 125.
36
J. Kis, Aborcja. Argumenty za i przeciw , Warsaw 1993, p. 140 - 142.
37
T. Ślipko, Za czy przeciw życiu. Pokłosie dyskusji, Krakow - Warsaw 1992, p. 32.
----[A presentation of the author, who is Fellow of the Foundation for Polish
Science (FNP), can be found in Episteme N. 6.]
Institute of Philosophy and Sociology
University of Gdańsk
ul. Bielańska 5
80-851 Gdańsk, Poland
[email protected]
113
Abissi gnostici
(Ezio Albrile)
Disquisire di gnosi e gnosticismo è cosa alquanto difficile, principalmente a causa delle
precomprensioni che gli ambienti cosiddetti "tradizionali" hanno da sempre mostrato verso
questa tematica. Il mio non vuole essere un articolo polemico, ma dimostrare unicamente
quanto il problema non sia l'ideologia o la dottrina "gnostica" di volta in volta presa in
considerazione, bensì l'uomo con la propria limitatezza e finitudine esistenziale.
Ma partiamo dall'inizio.
I termini "gnosi" o "gnosticismo" designano i differenti sistemi di pensiero esoterico che agli
albori della tarda antichità hanno cercato di armonizzare i fondamenti salvifici della
misteriosofia ellenistica e della religiosità orientale con il nascente Cristianesimo. La "gnosi",
dal greco "conoscenza", è quindi un sistema sincretistico in cui confluiscono le più variegate
tradizioni religiose, inclini a dimostrare un unico assunto: la "discesa", in greco katabasis, e
l'imprigionamento nel nostro mondo di un principio spirituale superiore, una scintilla
luminosa che solo attraverso la vera "conoscenza" l'uomo può riconoscere e ritrovare in se
stesso.
Il mito centrale dello gnosticismo è espressione di una "nostalgia", di un anelito del
"centro", ovvero delle origini, una sorta di desiderio precosmico dal quale si sviluppa una
colpa anteriore che porta alla creazione dell'uomo e del mondo, intesi entrambi quali carceri
dell'Anima divina.
Le concezioni e le aspettative della gnosi sono ben effigiate dal mito valentiniano: da un
"centro" in sé conchiuso si dipartono delle emanazioni che si configurano in una "pienezza",
un pleroma, cioè realizzano armonicamente tutte le infinite potenzialità creative insite
embrionalmente nel "centro", ovvero nel Padre ipsissimo e sconosciuto. Fin qui non siamo
lontani dal concetto di perfezione e di "compiutezza" cosmica teorizzata da Platone nel Timeo,
rivisitato in chiave mitologica, ma la distanza fra "centro" e "periferia" aumenta a dismisura e
subentra il collasso ontologico.
Tutte le emanazioni del "centro", cioè gli Eoni sgorgati dal Padre celeste, sono personificate
e procedono usualmente per "coppie", le syzygie, riflesso dell'androginia che, rintracciabile ad
ogni livello della divinità, designa la sua perfezione in rapporto al mondo, luogo esistentivo in
cui vi è scissione e polarità senza mediazione (maschile/femminile, freddo/caldo,
secco/umido, etc.). Solo l'ultima di esse, un'entità femminile, nel desiderio e nella "passione"
di afferrare l'inconoscibile "centro", produce una lacerazione tra mondo superiore, il pleroma,
e mondo inferiore, il kenoma, il"vuoto", il nostro universo. È l'origine di una generazione
irregolare da cui sorge il Demiurgo inferiore, un essere abnorme, ignaro che al di sopra di lui
c'è il pleroma e superbo nella sua fittizia unicità. Egli crea gli Arconti, sorta di demoni
planetari attraverso il cui aiuto plasma il mondo e l'uomo. Ma l'uomo riceve, all'insaputa del
Demiurgo inferiore ed omicida, una "scintilla" luminosa della vera divinità.
L'uomo potrà, gradualmente, venire a conoscenza di questa "scintilla", spinther o pneuma,
nascosta in lui altrettanto profondamente quanto lo è la vera divinità nel cosmo rispetto al
114
Demiurgo omicida. La riscoperta della vera dimensione spirituale nello gnosticismo coincide
quindi con la "conoscenza" accurata delle facoltà noetiche in cui si esteriorizza il nostro
pensiero: aletheia, ekklesia, zoe, logos, pleroma, sono tutti termini che nella gnosi
valentiniana presuppongono una interazione creativa tra l'Intelletto o la Mente, il Nous, e il
Pensiero, Ennoia. Un movimento conoscitivo che dal "silenzio" dell'Uno porta all'"abisso"
della molteplicità.
La finalità che si prefiggevano i maestri gnostici era quella di fornire ai propri discepoli una
via per sfuggire al "destino", la heimarmene, per liberarsi dai lacci delle archai ed exousiai
che regnano sul cosmo, al fine di conseguire l'athanasia, l'immortalità. Un'immortalità,
diffusa in tutta l'area ermetico-misterica, che si raggiunge con il "ritorno", con l'epistrophé
dell'Anima luminosa e superiore alle sue origini divine e "pleromatiche". L'Anima infatti è
una particella di Dio, il Dio luminoso ed ineffabile che nel mito gnostico scende nel vuoto
della Hyle, la Materia, a salvare se stesso. È il paradosso del mito che uno storico delle
religioni di inizio Novecento, Richard Reitzenstein, ha definito del "Salvatore salvato",
espressione poi perfezionata da Carsten Colpe in "Salvatore salvando": Dio è Luce sorgiva ed
una frazione di questa Luce cade prigioniera nella Tenebra; salvandola, Dio paradossalmente
salva se stesso!
Al principio della cosmogonia attribuita agli gnostici Valentiniani esiste una diade scissa in
Abisso e Silenzio, Bythos e Sige: la profonda inesprimibilità della parola iniziale è l'occasione
mancata da Ruggero Puletti, autore di un recente libro agiografico La storia occulta: Il
Pendolo di Foucault di Umberto Eco (Biblioteca di studi moderni 55, Piero Lacaita Editore,
Manduria-Bari-Roma 2000), cortigiano elogio (di ben 597 pagine!) dell'opera scaturita dalla
mente compulsiva del famoso semiologo e romanziere italico, ora più che mai balzato agli
onori della cronaca politica quale strenuo difensore (assieme a Moretti, Lerner e De Benedetti)
della "democrazia".
Il volume è una gigantesca glossa al libro di Eco, un libro il cui fine apparente è la
ridicolizzazione dell'esoterismo e della metastoria. "Perle" e "chicche" inedite affiorano però
qui e là nel lunghissimo saggio di Puletti: è il caso dell'esteso excursus dedicato al compianto
Ioan Petru Culianu, che il nostro autore conobbe studente all'Università per stranieri di
Perugia. La fama ormai oscura di questo grande storico delle religioni rumeno è in parte legata
al tragico assassinio in una latrina dell'Università di Chicago il 21 maggio del 1991.
Il Puletti nel tratteggiare la vicenda biografica di Culianu trascura purtroppo totalmente le
vicende intellettuali italiane, che coinvolsero lo studioso rumeno in un dottorato di studi
gnostici sotto la guida del prof. Ugo Bianchi, studi che ebbero compimento in un breve
incarico presso l'Università Cattolica di Milano. Il nostro autore ricorda unicamente il periodo
statunitense, periodo terminale che vide la pubblicazione dei Viaggi dell'anima, un'opera di
sintesi, minore, in Italia pubblicata quasi istantaneamente da Mondadori, un libro attraverso il
quale - come intravisto da Giovanni Casadio nel necrologio apparso in Religioni & Società (8
[1993]), - il Culianu intendeva proporsi alla platea "New Age" americana. Apparente
digressione dagli intenti originari di acribico studioso di fenomeni storico-religiosi al crocevia
tra eros, magia e gnosi antica, ma in logica sintonia con un progetto il cui fine era la creazione
di un nuovo universo interiore, un nuovo paradigma psichico in grado, per iperboli, di
modificare la realtà.
La percezione dell'"immaginazione creatrice" era già in Bergson, ma forse troppo
pedantemente per essere afferrata in modo attivo. Lo stesso dicasi per Corbin, profondo
fecondatore di Jung, in cui la cosiddetta "geografia immaginale" viene intuita ad un livello
115
ancora troppo noetico ed intellettuale. In Culianu troviamo invece la concezione demiurgica
delle idee gettate nel mondo quali germi virtuali in cui si articola il divenire: l'illusione guida
l'uomo verso traguardi fittizi, le presunte acquisizioni del pensiero, le spiegazioni della
"realtà" in definitiva dipendono da un "cambio di paradigma" scaturito da una creazione
continua della mente: è l'esperienza dell'uni-totalità, in cui alla modificazione della parte
corrisponde una trasmutazione del tutto. Un Culianu che il Puletti presenta come "illuminato"
vittima dell'intollerante e sanguinaria polizia segreta rumena, la Securitate. A dire il vero, chi
legge attentamente i numerosi saggi, articoli e racconti del grande storico delle religioni
rumeno, intuisce come le cose non stiano proprio così. Che ci sia stato perlomeno un
"percorso comune" tra Culianu e la Securitate è cosa che si può intravedere da numerosi dati
di fatto, lo stesso Casadio - amico di Culianu - nel suo necrologio ipotizza una sorta di
vendetta trasversale, un complotto ordito in accordo tra Securitate e frange estreme del neonazismo rumeno. Materiale interessante per la nostra ipotesi si può attingere inoltre da "Il
corridore tibetano", un suggestivo racconto di Culianu incluso nella raccolta La collezione di
smeraldi pubblicata in Italia per i tipi della Jaca Book (1989). Una vicenda che evoca in modo
esotico e dissonante gli intrecci di un classico del genere spionistico, La talpa (= Tinker
Tailor, Soldier, Spy) di John Le Carrè.
Il cosiddetto "diagramma di flusso" è uno degli strumenti grafici più elementari usati
dall'intelligence di ogni paese per relazionare prove e fatti utili alle indagini. Non stupisce
quindi trovare la stessa terminologia usata da Culianu per definire la logica combinatoria dei
sistemi gnostici, una "sorta di albero a disgiunzioni binarie, molto simile ad un diagramma di
flusso" (Puletti, p. 595). L'universo noetico degli gnostici interferirebbe con la storia in modo
assai singolare e "attivo": un agglomerato di idee che si sviluppano in modo apparentemente
autonomo, attraverso una combinatoria astratta in perenne interferenza con il divenire.
A ben riflettere qualcosa di simile è la presunta "illuminazione" lisergica: Timothy Leary,
primo fantasmatico patrocinatore dell'LSD, intendeva diffondere la nuova droga come una
sorta di eucaristico "pasto sacro", libagione per le masse al fine di accellerarne il processo di
illuminazione. Non è un caso che lo scopritore dell'LSD sia Albert Hoffmann, un adepto del
mondo estatico legato ad un altro gnostico eccellente, Ernst Jünger: l'idea infatti che sta dietro
alla diffusione dell'eucarestia lisergica è quella di salvare gli gnostici physei sozomenoi, gli
"eletti per natura": il pasto sacro, suscitando la palingenesi, salva i pochi già predestinati alla
salvezza e danna i molti, provocando uno stato di totale oblivione nei più, soggiogati
dall'illusione che diviene realtà. L'idea era già nello gnostico Basilide il quale descriveva, in
seguito all'apokatastasis ed alla reintegrazione degli eletti alla fonte luminosa, il cosmo come
un agglomerato di esseri depauperati della propria coscienza, sorta di automi ignari del bene
dimorante nel mondo ipercosmico.
La liturgia lisergica, ora definita "enteogena" poiché suscita la divinità dallo "spazio interno"
(un universo catatonico ben descritto da J.G. Ballard), richiama la vacuità del presente:
plasticamente è simile all'iniziazione "rovesciata" del protagonista de La nona porta, un
lungometraggio di Roman Polanski, dove ricerca dell'Abisso e conseguimento celestiale si
confondono. Nell'opera dell'inquietante regista troviamo ancora strani riferimenti agli
argomenti da noi trattati: ci viene da chiedere infatti quale sia la vera identità di quel
mefistofelico editore di nome Balkan, nome che è un calco di Barcan, un potentissimo
demone evocato in italiche sette gnostico-esoteriche, ma che fa presagire il gioco di parole
con un importante e noto mecenate ed editore rumeno (residente in Italia), che Claudio Gatti
ne il suo romanzo Il presagio ipotizza coinvolto nella fine di Culianu.
116
Il filone esoterico nella scomparsa di Culianu è il meno frequentato, ma forse il più
tangibile, perlomeno in quel luogo di confine tra Servizi Segreti ed occultismo, cosa più che
plausibile in una mentalità non "razionale": in questa prospettiva la filosofia appare come una
vera e propria menzogna, il ghigno sofistico ridicolizzato da Aristofane nelle sue Nuvole.
L'ultimo Kubrick di Eyes wide shut ha plasmato l'aurora di questa "gnosi infinita", un
lungometraggio - perlomeno esteticamente - ispirato alla pornografia di Mario Salieri.
L'universo eidetico gnostico si muove in siffatta prospettiva: una logica combinatoria
totalmente assurda, percepita però dall'uomo come "ordinaria normalità", ed è proprio tale
senso di sicurezza generalizzato che impedisce all'uomo comune di liberarsi.
In questo il Puletti non afferra lo stratagemma di Eco: il cinismo del grande semiologo
appartiene ad una specie di "pedagogia rovesciata" che nel condannare e principalmente
ridicolizzare il mondo dell'esoterismo in genere, contribuisce a modificare ed a creare una
fittizia realtà. Con ciò assistiamo al nascere ed al continuo ricrearsi di una religiosità "New
Age" di cui, come accennato, il Culianu si proponeva esegeta al pubblico statunitense. Una
religiosità, sintesi sincretistica di luoghi comuni di cui il libro di Eco è infarcito. In questa
sorta di pedagogia a rovescio si colloca anche l'opera inquisitoriale di uno storico delle
religioni nostrano, Cristiano Grottanelli: abile manipolatore di fonti e testimonianze (spesso
secondarie) ha contribuito in questi anni a dare maggiore credibilità a quel "mito nazi"
presente più negli scaffali dell'editoria progressista che non nella genuinità dei fatti.
Fascinazioni anch'esse parte di quella irrazionale combinazione di idee che vede il cosmo
scisso in un dualismo insanabile. Prova è l'uso spregiativo e capillare del termine "manicheo"
oggi consueto nelle tenzoni politiche, espediente linguistico che contribuisce a dare maggior
"senso" alla vanità del presente. Forse sarà più proficuo rifugiarsi in un universo mitografico
parallelo, separato dalla realtà: Lovecraft ne Il caso di Charles Dexter Ward ha intuito uno
spiraglio di verità, l'estasi ha portato il solitario di Providence ad intuizioni affini se non
analoghe a quelle degli gnostici antichi. Il Puletti affabula di Archontici (p. 421: nel testo
leggo però Arconici!), non menzionando però l'idea - sostanzialmente "lovecraftiana" - della
demonizzazione spazio-temporale e dell'esistenza nel cielo più vicino alla terra di Arconti
affamati di anime umane. La psicofagia arcontica, cardine delle dottrine gnosticogurdjieffiane, è oggi preda di lungometraggi come Dark City o Matrix, prova di quanto detto
circa la "pedagogia rovesciata". Qualche idealista tedesco la chiamava "eterogenesi dei fini",
ma era forse troppo ottimista.
Una cosa ancora è stata dimenticata in tutte queste congetture su Culianu: Furio Jesi, il
temibile amico-nemico di Evola, di Kerenyi e di tanti altri, il cui ultimo romanzo pubblicato
anni orsono postumo dalla Marietti, crea inquietanti enigmi sulla sua scomparsa. La velleità
apologetica di Jesi forse nascondeva qualcosa, una paura ed una necessità di essere
"ortodosso" ad ogni costo, l'elogio della Resistenza contro i regimi presunti "totalitari" che
nulla ha da spartire con la storia della cultura, ma che rassicurava la menzogna sovversiva.
Ma dietro questa retorica da quattro soldi si cela l'"istante", dagli gnostici ritenuto diabolico:
l'orizzonte temporale finito che si dischiude ad ogni possibile evento, nuova formulazione
dell'antica heimarmene. Evento che potrebbe dissolversi senza il conseguimento della
palingenesia, la "nuova creazione". Un rischio da correre per l'uomo di conoscenza!
117
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme.]
Via Paisiello, 76/B
10154 Torino
-----
(Il protagonista di Matrix, liberato dal suo contenitore, guarda gli altri
esseri umani che "sognano" di vivere un'esistenza reale
attraverso immagini costruite dalle macchine.)
118
Il Mistero del Vino di Cana
(Lino Lista)
Venuto a mancare il vino la madre di Gesù gli disse:
«Non hanno più vino».
Gesù le disse: «Quid mihi et tibi, mulier? L'ora mia non è ancora venuta» (GV, 2,3-4).
Premessa
<<Quid mihi et tibi, mulier?>>. Alla lettera si è tradotto: <<Che cosa a me e a te, o donna?
>>. Talvolta, mancando un verbo a rendere il significato del tutto chiaro, si trova aggiunta una
parentesi con nota d'autore esplicativa: <<Che cosa (importa) a me e a te, o donna?>>. In
un'altra versione, più aderente al senso di un semitismo ricorrente nell'Antico Testamento 1, è
stato scritto: <<Che cosa c'è tra me e te, o donna?>>. Inasprendo il senso di quest'ultima
traduzione si è chiosato: <<Che ho da fare con te, o donna?>>. Le parafrasi delle letture testé
citate dell'enigmatico passo, poi, non si contano. In qualsiasi modo, però, si sia interpretato,
considerata l'affermazione che ancora la sua ora non era venuta, a non conoscere il seguito, si
potrebbe immaginare che, alle nozze di Cana, gli invitati dovettero brindare alla felicità degli
sposi con l'acqua. Non fu così, invece. La Madre ordinò ai servi di fare quanto egli avesse
detto e il Figlio, a sua volta, comandò agli stessi servi che sei giare fossero colmate d'acqua.
Acqua che, com'è noto, miracolosamente fu trasformata in ottimo vino. Il tutto tra l'apparente
indifferenza della sposa (che nemmeno si degnò di comparire sulla scena) ed il grande stupore
del maestro di banchetto. Un vero paradosso la figura di quest'ultimo per la mansione svolta:
neppure s'era avveduto della scarsità della bevanda e si fece vivo soltanto nel momento
dell'assaggio.
La logica del conto, da un punto di vista squisitamente letterario intendo, non torna. I profili
caratteriali e comportamentali di Gesù e Maria, nella maggior parte delle correnti letture del
racconto di Cana, si mostrano differenti da come sono figurati in ogni altra narrazione. La
Madre, qualora s'intenda la locuzione di Cristo alla stregua di un rifiuto a manifestarsi
mediante il segno del miracolo, si mostra irrispettosa dei tempi del Figlio e, quindi, autoritaria
piuttosto che obbediente, prevaricatrice invece che dolce, per niente umile nei confronti di lui
che rivendica la propria divinità. Ella, quindi, si spoglia delle virtù che tradizionalmente la
contraddistinguono come personaggio. Il Figlio, che in ogni altra sede è campione di coerenza
essendo egli la Via e la Verità, che prioritariamente deve fare la volontà del Padre, che aveva
119
affermato che ancora la propria ora non era giunta, si dimostra perlomeno incostante
nell'operare un intervento che, appena un attimo prima, aveva escluso dal suo immediato
interesse. La riflessione che l'amore possa averlo indotto a mutare parere, quell'amore che egli
indiscutibilmente nutre per la Madre, non mitiga il giudizio (delle correnti interpretazioni
della lettera, ancora intendo). Non è lui, infatti, lo stesso Gesù che comandò un parlare deciso
fatto di "sì, sì; no, no"2? E' inesplicabile, poi, come abbia potuto mostrarsi indifferente (se non
contrario) ad una richiesta che avrebbe successivamente esaudito: non conosceva egli tutti, e
quindi tutto, e pertanto che gli astanti avrebbero bevuto il suo vino, sin dal principio? Nessuna
meraviglia, quindi, che, a fronte di tante inconciliabilità, il vino di Cana sia divenuto motivo
di controversia all'interno della numerosa ed eterogenea famiglia cristiana.
Le dispute teologiche
Bene ha fatto Ignace de la Potterie, eminente esegeta biblico, nel discettare di mistero,
piuttosto che di miracolo, a proposito dell'evento della trasformazione dell'acqua. Una sacra
rappresentazione, questa delle nozze, che ha intrigato padri e dottori di tutte le Chiese.
Ognuna delle quali, in ragione dei propri orientamenti di fede, ha colto l'uno o l'altro segno. I
fautori del protestantesimo, per niente inclini a riconoscere alla Vergine il ruolo assegnatale
ispecie dai cattolici d'ispirazione mariana, continuano ad indottrinare che, nel racconto di
Cana, mediante la semitica frase, il Dio-Figlio intese evidenziare la netta separazione tra la
propria Persona e la donna-madre, onorabile mezzo per l'incarnazione, la quale non doveva
però interferire nelle questioni divine. I commentatori cattolici, al contrario, generalmente
glissando sull'enigmatico passo, battono il tasto sul fatto che Gesù fece grazia
dell'escatologico dono del vino soltanto a seguito della perorazione della Vergine.
Differentemente si è comportata la mistica Maria Valtorta la quale, nel "Poema dell'UomoDio", con lo scopo di raddolcire la risposta apparentemente scostante di Gesù, suggerisce che
il testo pervenuto dall'originale greco sia giunto corrotto e mancante dell'avverbio "più".
<<Che ho da fare più con te, o donna?>>, aggiunge la scrittrice. Un'ipotesi dalla quale, in
ogni caso, s'immagina che Gesù abbia voluto prendere le distanze dai diritti materni accampati
nei propri confronti. Ciò nella considerazione, teologicamente corretta, che il miracolo,
ovverosia l'inizio dei segni messianici, non poteva essere determinato dalla Madre ma soltanto
dal Padre. Una tesi, questa di Maria Valtorta, che, anziché rimuovere le incoerenze della
storia, ne introduce una di più. Per quale motivo, se l'ora non è ancora venuta, già il Figlio
deve prendere le distanze dalla Madre? Volendo sottilizzare: un simile distacco non l'aveva,
Gesù, già esternato quando, appena dodicenne, spiegò alla Madre (con garbo) che il suo
compito era attendere a ciò che riguarda il Padre suo?3. L'aggiunta del "più", in ogni caso,
non risolve la principale delle contraddizioni nell'ambito di una lettura d'impronta mariana:
perché mai la Madre dovrebbe chiedere di determinare eventi, anticipando il Padre, quando le
stesse Scritture evangeliche affermano che la volontà di lei è conseguente alla parola di Dio?
<< Ecco la serva del Signore; si faccia di me come hai detto tu!>> è la risposta tramandata
della Vergine all'Angelo dell'Annunciazione4.
Non esiste modo per conciliare le tesi. Le Nozze di Cana (sempre dal punto di vista letterale,
intendo) sembrano lasciare pochi spazi alla mediazione. Ci troviamo, in filosofia, al cospetto
di una contraddizione nella quale il giudizio non ammette vie di mezzo: necessariamente
bisogna scegliere tra Figlio e Madre. A meno di non lanciare due ipotesi in grado di
armonizzare i contrasti del racconto: l'ora alla quale Gesù fa riferimento non è quella di fare
un miracolo e, in ogni caso, non fu lui a trasformare l'acqua giacché la mutazione in vino
nuziale avvenne grazie a distinta Persona. Non me ne voglia Giovanni dell'Apocalisse ché
niente io aggiungo e niente io tolgo: quando mai, infatti, ha egli esplicitamente scritto che fu il
Figlio ad operare la trasformazione? Si leggano le Nozze di Cana, per credere. Gesù,
120
semplicemente, disse: <<Riempite d'acqua questi recipienti» e, poi, <<Attingete ora e
portatene al capo del banchetto>>.
Il Simbolo e il Mosaico, il Circolo e l'Autore
Un testo letterario, al pari di qualsiasi opera d'arte, è simile ad uno specchio. Meglio: è come
uno specchio d'acqua nel quale Narciso, naturalmente, è spinto a riflettersi. Nel caso in cui,
invece, si voglia osservarne il fondo dal punto di vista della fonte e non di Narciso, se si vorrà
analizzare il contenuto dal punto di vista dell'opera stessa e non del critico, occorrerà dar
conto dei raggi rifratti e non dei riflessi, ovverosia occorrerà fare propri gli assunti
chiarificatori interni al testo medesimo e mettere da parte i pre-giudizi, i quali sono le
riflessioni che fanno annegare Narciso nella fonte della ricerca. In primis occorrerà accettare,
sia pur dovendo ragionare per assurdo, che la trattazione concerne un brano divinamente
ispirato, il quale narra d'eventi divini. E' questo un punto di vista interno alla lettera. Allora,
per logica conseguenza, per suo privilegio ontologico, il testo andrà considerato perfettamente
autosussistente e, come tale, qualora comprenda figure quali la contraddizione, il paradosso e
l'enigma, esso sarà da ritenere auto-documentante, nel senso che dovrà incorporare in sé il
codice per la soluzione. Con questo spirito, allora, sarà possibile il tentativo d'interpretazione
delle Nozze di Cana mediante il ricorso all'analisi del brano. Essendo quest'ultimo un
approccio più che consolidato nel campo dell'esegesi neotestamentaria, il commento che
procederà, per quanto riguarda i valori simbolici, potrà fornire soltanto alcuni elementi di
novità. Originale, invece, sarà il metodo (che in altra pubblicazione ho definito mosaicale) che
si seguirà ai fini della comprensione. Esso consiste in un lavoro d'estrazione, dall'opera in
analisi, d'ogni elemento che possa costituire segno. Le tessere in tal modo rilevate andranno
poi disposte su di un piano concettuale. E' bene porre in risalto che, a cagione della
molteplicità di significati che sovente si ritrovano correlati con uno stesso significante, al pari
che nel gioco per bambini dei cubetti con le facce figurate, all'occorrenza occorrerà costruire
distinti piani interpretativi. Col metodo ermeneutico mosaicale su ogni piano e per ogni
tessera, avendo cura che le facce assemblate costituiscano un insieme simbolicamente
omogeneo5, andrà disposto il senso prescelto tra quelli plurimi di uno stesso segno. Ora è
proprio nella scelta del senso del primo segno, un segno dominante al quale tutti gli altri
dovranno omologarsi per natura, l'aspetto più critico d'ogni interpretazione. L'adozione di un
significato anziché di un altro condurrà ad uno o ad un altro livello di lettura proprio del testo
o, qualora il significato assunto sia estraneo alla comunicazione del narratore, porterà in un
piano interpretativo errato. La correttezza della scelta sarà facilmente riscontrabile dalla figura
emergente dal mosaico. Essa sarà (nel caso in cui si sia travisato il senso del segno dominante
e, conseguentemente, degli altri) incomprensibile ed incoerente col pensiero dell'autore,
astratta e piena di vuoti a causa di tessere non incastrabili. Sarà un disegno pregno, continuo e
coerente nel caso di una corretta adozione dei valori simbolici caratteristici del narratore.
Ai fini dell'esatta rilevazione dei segni, oltre che della conferma del senso generale, si
utilizzerà una tecnica riconducibile all'idea del "circolo ermeneutico" di F. Schleiermacher. In
pratica, si applicherà al testo delle "Nozze di Cana" il principio che "...Il senso di una parola
in un dato passo deve essere determinato secondo la sua coesistenza con quelle che la
circondano... ogni particolare può essere capito solo a partire dall'universale di cui è parte e
viceversa". Il singolo segno linguistico di un autore, quindi, va interpretato nell'ambito di tutta
la sua opera (inquadrata nel contesto storico, geografico e culturale d'ambientazione) e,
viceversa, il tutto deve essere compreso a partire dal singolo particolare. E' evidente che, per
le Nozze di Cana, come per ogni altro racconto evangelico, quale autore dell'opera dovrà
essere considerato non il narratore bensì il maestro di cui sono raccontati il pensiero e le
opere. Ancora: secondo il codice interno, l'azione del Figlio è continuazione di quella del
Padre riferita nel Vecchio Testamento. Il senso di una parola testamentaria, quindi, volendo
121
applicare e percorrere il circolo ermeneutico in tutta la massima estensione, deve essere
analizzato secondo la sua coesistenza con il patrimonio linguistico dell'intera Bibbia. Un testo,
d'altra parte, è etimologicamente un textus, ovverosia un tessuto, participio passato di texere,
vale a dire il verbo tessere. Ogni filo logico, quindi, come in una trama, deve necessariamente
connettersi ad un altro. Nel caso di un'esegesi biblica (applicando il codice interno al testo
medesimo secondo il quale il principio coincide con la fine, il primo con l'ultimo, l'alfa con
l'omega, giustappunto la geometria di una figura chiusa, qual è il nostro circolo ermeneutico)
il disegno dovrà essere considerato a cerchi concentrici piuttosto che lineare. La
corrispondenza (analogica/simbolica) degli eventi potrà, allora, fornire un ausilio eccezionale
per la comprensione del particolare e del tutto (dogmi e misteri di fede a parte, chiaramente).
I segni di Cana
Per semplicità d'esposizione e lettura il racconto di Cana sarà illustrato per periodi compiuti e,
per ciascun periodo, si tenterà di identificare ed interpretare ogni elemento che possa costituire
simbolo. E' bene, a motivazione di un'analisi che in taluni punti potrebbe apparire eccessiva,
evidenziare che in Giovanni Evangelista niente è casuale. Aquila della comunicazione
simbolica, egli è il narratore della Visione dell'Apocalisse. In una visione ogni elemento
costituente (numero, nome, colore, luogo, personaggio, animale e così via) è rivelatore di un
senso celato e costituisce un'unità informativa ai fini dell'interpretazione complessiva. Le
Nozze di Cana, nella trattazione che segue, saranno allora considerate alla stregua di una
visione: simbolicamente perfetta, con ogni segno perfettamente significante al posto giusto. E'
questa l'ipotesi necessaria per la ricerca del mosaico concettuale sotteso alla lettera. Quale
segno dominante del testo si assumerà l'acqua, sia per la considerazione che essa è, in
comunanza col vino, il simbolo più importante dell'evento, sia perché nel Vangelo di
Giovanni l'acqua è citata ben venticinque volte (essendo dal numero escluse le citazioni dei
luoghi acquatici), una ricorrenza questa addirittura maggiore di quelle del vino, del sangue e
del pane, prese complessivamente. Ciò anteposto, diamo seguito all'analisi del testo.
(1) Tre giorni dopo eranvi nozze in Cana di Galilea.
Tre sono i possibili simboli utilizzati nell'esordio del racconto: il numero tre, le nozze ed il
nome Cana (Galilea, che deriva da gelil, significa semplicemente distretto). Per quanto
concerne i primi due, le nozze e il tre, il loro valore figurativo è consolidato nella tradizione
interpretativa. Le nozze, tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento, alludono ad uno
sposalizio celeste, ad un banchetto escatologico, ad un matrimonio sapienziale o spirituale con
la Divinità. "Uscite, o fanciulle di Sion, a vedere il re Salomone, con la corona onde l'ha
coronato sua madre il giorno delle nozze, il giorno della gioia nel suo cuore", recita il
Cantico dei Cantici6. "Il regno dei cieli è simile ad un re che fece un banchetto di nozze per
suo figlio", spiega una parabola di Gesù7.
Il numero tre, cifra perfetta, è il simbolo trinitario. Con la locuzione tre giorni dopo,
coerentemente, nella Bibbia s'intende il momento di una teofania. Sempre avviene, come nella
Resurrezione, che Dio si manifesta tre giorni dopo. E' interessante riferire, al proposito, che
Giovanni, successivamente al prologo e precedentemente all'inizio del racconto in analisi,
cadenza con scrupolosa attenzione i giorni e le nozze di Cana capitano giusto nel sesto
contato. E' un rimando alla settimana della Genesi e al dì della creazione dell'uomo. Così
hanno interpretato numerosi esegeti, evidenziando come il ministero pubblico del Messia
abbia inizio nello stesso giorno in cui Dio aveva sospeso l'opera di creazione: il sesto. Il dato
simbolico ha un immediato riscontro di natura ermeneutica e fa comprendere perché,
successivamente a Cana, al fine di dimostrare la continuità dell'opera, Cristo darà tanta enfasi
all'azione nel settimo giorno affermando: "Il Figliuol dell'uomo è padrone anche del Sabato"8.
122
In relazione al possibile terzo segno, occorre considerare che del nome della cittadina Cana
non esiste un'interpretazione univoca. La maggior parte delle fonti ritiene che esso possa
provenire dal greco e tradurre l'ebraico Quanah = canna. L'etimologia è accettabile perché
presuppone per la cittadina un'ubicazione9 in un luogo idoneo a far crescere bambù ed i
cammini spirituali, tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento, hanno spesso avuto
inizio o si sono sviluppati lungo percorsi acquatici (mari, fiumi, laghi, rocce zampillanti,
pozzi, piscine, eccetera). Questo sin dalla Genesi, e siamo già in tema d'interpretazione delle
Nozze, dove "...lo spirito di Dio si librava sulle acque"10. Ben doveva il primo miracolo che
involve l'acqua, in coerenza col criterio ermeneutico circolare, avvenire in un luogo con le
acque.
(2) C'era la madre di Gesù, e anche Gesù co' suoi discepoli, vi venne invitato.
Nel secondo versetto non risaltano elementi suscettibili di assumere valore di segno. Lo stesso
vocabolo di madre, prescelto costantemente nel Vangelo di Giovanni quale appellativo per
nominare Maria, sembra voler indicare unicamente un rapporto familiare esistente tra la
Vergine e il Cristo. Il vocabolo "madre", infatti, ricorre nel Vangelo di Giovanni undici volte e
sempre nel senso della maternità. Nelle undici ricorrenze una volta è associato ai temi della
rinascita, dell'acqua e dello Spirito Santo11 ed una volta alla parola donna12. Interessante, nel
secondo passo in analisi, è lo studio del testo per quanto concerne la forma la quale, al pari del
segno, può essere apportatrice di messaggi velati. L'ordine, con il quale i personaggi sono
presentati, è gerarchicamente invertito. Il nome della Madre, infatti, è anteposto a quello del
Figlio ed è isolato tra il secondo e terzo periodo mediante un opportuno uso della
punteggiatura. Ora, pur volendo considerare esatta l'informazione riportata dai vangeli
apocrifi, secondo la quale Maria era parente dello sposo, la successione con la quale i
protagonisti entrano in scena non è usuale. Il Figlio, nei ventuno capitoli del Vangelo di
Giovanni, è menzionato per primo per ben quindici volte. Una volta compare in apertura il
nome di Dio; in altri quattro la sequenzialità logica degli avvenimenti giustifica la citazione di
Gesù successivamente ad altri personaggi. Il particolare che la Madre, nelle Nozze di Cana,
sia presentata per prima può trovare ragione soltanto in due supposizioni: la perizia di
Giovanni nello scandire in analogia temporale gli eventi biblici 13 e la sua intenzione di
affidare alla Madre il ruolo di "prima comparsa" nelle Nozze di Cana.
(3) Venuto a mancare il vino la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino».
Il passo è di conferma del ruolo della Vergine nel racconto. Lei, oltre che comparire per
prima, è anche la prima, nel giorno del primo miracolo, a parlare. Dal brano è evidente che la
mancanza di vino (qualsiasi sia il significato del segno) non riguarda né la Madre né il Figlio.
In caso contrario, infatti, la lettera avrebbe dovuto informare: <<Non abbiamo più vino>>.
Non è possibile, al momento, interpretare dal testo se, nella molteplicità della terza persona
plurale utilizzata, siano stati contemplati gli stessi discepoli.
Unico simbolo del versetto è il vino. Un segno polisenso che, a volerne enumerare tutti i
significati, potrebbe girare la testa. In S. Tommaso d'Aquino ha valore di gioia dello spirito. In
Osea la sua mancanza è infedeltà verso Dio14. Nella Bibbia si ritrova come simbolo
d'immortalità, di salute dell'anima e del corpo, d'amore, di prosperità, d'abbondanza, di
fertilità. Nei suoi sensi opposti sono da annoverare i significati di smodatezza, inganno,
rovina. Nella letteratura sapienziale esiste una stretta correlazione tra vino e sapienza 15. E' un
simbolo della Torah e, in particolare, in un sesto giorno come quello di Cana, richiama il
"Qiddush", il rito della benedizione sul bicchiere di vino con cui si proclama la santificazione
della festa, il riposo sabatico che comincia il venerdì sera al calar del sole. Il vino, in
sant'Agostino, è figura del Vangelo16. Da un punto di vista sostanziale, infine, è acqua con
123
spirito, ovverosia acqua spirituale. Essendo lo Spirito che dona la vita il vino è,
metaforicamente, acqua viva.
(4) Gesù le disse: «Quid mihi et tibi, mulier? L'ora mia non è ancora venuta».
E' il passo controverso discusso in premessa. Ogni suo tentativo d'interpretazione deve essere
anticipato da due considerazioni. Nella prima occorre evidenziare che l'appellativo "mulier",
con il quale il Figlio si rivolge alla Madre, è solo apparentemente irrispettoso: nella Bibbia
"donna" è, sin dalla Genesi17, un titolo altamente onorifico. In Giovanni, poi, è un segno
grandioso mediante il quale è definita la Vergine incoronata dell'Apocalisse 18. Il vocabolo
"donna", inoltre, giacché indicatore di un genere o di una classe, è l'unica voce possibile per
racchiudere un'idea inconcepibile dalla mente umana e, quindi, non codificata nei linguaggi
con un termine specifico: l'idea del rapporto familiare che c'è tra Gesù e Maria. Un rapporto
che soltanto un endecasillabo dantesco è stato in grado di sintetizzare al meglio: "Vergine
Madre, figlia del tuo figlio". Nella seconda considerazione occorre rilevare che l'ora alla quale
Gesù fa riferimento, l'ora che ancora non è venuta, non è l'ora della manifestazione mediante
il segno del miracolo, quale si può ipotizzare da una lettura a sé stante delle Nozze. Il metodo
del circolo ermeneutico può dare convincimento dell' asserzione mediante l'applicazione, al
Vangelo di Giovanni, di una funzione di ricerca f("ora" Near "venuta"; d= 8)19. Sono sei i
passi che verificano la condizione:
1) Gesù le disse: «Che cosa c'è tra me e te, o donna? L'ora mia non è ancora venuta» (Gv
2,4)
2) Perciò cercavano di prenderlo; ma nessuno gli mise le mani addosso, perché la sua ora
non era ancora venuta (Gv 7,30)
3) Queste parole disse Gesù nel gazofilacio, insegnando nel tempio; e nessuno lo prese
perché non era ancora venuta l'ora sua (Gv 8,20)
4) Gesù rispose loro: «È venuta l'ora, nella quale il Figliuol dell'uomo sarà glorificato...E
che dirò io? Padre, liberami da quest'ora. Ma io sono venuto appunto per quest'ora» (Gv 12,
23-27)
5) Ecco, viene l'ora, anzi è già venuta, in cui voi sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi
lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16,32)
6) Così parlò Gesù. Poi, elevati gli occhi al cielo, disse: «Padre, l'ora è venuta: glorifica il
tuo Figliuolo, affinché il tuo Figliuolo glorifichi te... » (Gv 17,1)
Ora, essendo inconcepibile che una simile ricorrenza possa non assumere valore informativo,
si può soltanto affermare, concordando con sant'Agostino, che l'ora alla quale il Figlio fa
riferimento nelle Nozze di Cana non è quella della manifestazione, mediante il segno del
miracolo, bensì quella della glorificazione, dell'elevazione sulla croce. Conseguentemente le
possibili contraddizioni del testo, evidenziate in premessa, sono suscettibili di sciogliersi
come neve al sole. Si può leggere che Gesù non rifiuta che sia giunta l'ora del miracolo del
vino di Cana, né che prenda distanza dalla Madre e dai bisogni dei convitati. Si può ritenere
che egli affermi, profeticamente, che ancora non è venuta l'ora del vino dell'Ultima Cena,
segno della Passione. Il senso letterale delle sue parole, allora, diviene commovente piuttosto
che distaccato. La sua diventa la risposta di un umanissimo Figlio, turbato al pari della Madre
al fissarsi del primo segnale della via che porta al Calvario. Un figlio il quale si rivolge alla
mamma, come per rassicurarla, dicendole: <<Che cosa (importa) a me e a te, oh donna 20?
Non è ancora venuta l'ora del Vino dell'Ultima Cena>>. Il riferimento, e quindi da questo il
Figlio prende le distanze, non già dalla Madre, è per l'ora nella quale egli avrebbe anticipato,
nel segno del versamento del vino, il sangue sparso sulla croce. Un vino che sarebbe stato
ricambiato con una spugna imbevuta di vino aceto in cima ad una canna21. Una lettura della
124
lettera, questa proposta, nella quale il semitismo del "Quid mihi et tibi" è recepito, al pari di
un segno, in una delle sue possibili sfumature, sfumature che possono consentire
un'interpretazione del testo su più livelli.
(5) Ma la madre disse ai servi: «Fate tutto quello che vi dirà».
Suscettibile di assumere valore di simbolo è la parola servi. Giovanni, di regola, utilizza il
vocabolo nella sua accezione biblica, ovverosia quella di servitore di Dio, di profeta, di
discepolo22. Ancor più eloquente del segno, però, è l'ordine della Madre. Tutti hanno scritto
che essa rinvia, senza metafore di sorta, alla rivelazione del Sinai, alle tavole della Legge
Mosaica, quando il popolo ad una voce gridò: «Tutto quello che il Signore ha detto, lo
faremo23». In questa sede aggiungiamo che sul Sinai, quale rito di preparazione al ricevimento
dell'ordinamento, ci fu la purificazione del popolo. Tre giorni dopo sarebbe avvenuta una
teofania e la comunicazione della Legge sulle tavole di pietra.
(6) C'eran là sei pile di pietra, preparate per le purificazioni dei Giudei, ciascuna della
capacità di due o tre metrete.
(7) Gesù disse loro: «Riempite d'acqua questi recipienti». Ed essi li riempirono fino
all'orlo.
Sono questi i passaggi fondamentali per la comprensione del testo, dai quali evincere uno dei
sensi da associare al segno dominante dell'acqua. Segno il quale è circoscritto da un numero
talmente alto d'attributi da non lasciare dubbio di sorta, almeno per una delle sue giuste
interpretazioni. I contenitori, infatti, sono preparati per la cerimonia di purificazione dei
Giudei: il concetto d'acqua per la purificazione rinvia direttamente alle prescrizioni della legge
mosaica24. Sono di pietra, come le tavole della Legge. Sono in numero di sei ad indicare
l'incompletezza, l'insufficienza della stessa legge (6 = 7 – 1, ovverosia manca qualcosa per
raggiungere la perfezione che è nel sette). Sono da riempire perché vuoti o semivuoti, nel
senso che nemmeno l'ordinamento è pienamente osservato 25. Hanno una capacità di due o tre
misure (o metrete26, da metrein = misurare) nel senso che, a causa dell'inosservanza, il
giudizio non è univoco. Sono da colmare fino all'orlo, per indicare che, seppure insufficiente e
da perfezionare con la trasformazione, la Legge non è da abolire bensì da recepire
pienamente27. Ritenendo del tutto coerente ed espressiva la porzione di mosaico che già si è
andata generando, assumeremo la Legge giudaica del Vecchio Testamento quale significato
del segno dominante dell'acqua.
(8) Poi soggiunse: «Attingete ora e portatene al capo del banchetto». Ed essi gliene
portarono.
(9) Allorché il capo del banchetto ebbe assaggiato l'acqua cambiata in vino - egli non
sapeva donde venisse quel vino, ma ben lo sapevano i servi, che avevano attinto l'acqua chiamò lo sposo.
(10) e gli disse: «Tutti servono in principio il vino buono; poi quando sono brilli quello
men buono; tu invece hai riservato il buono fino a questo momento».
Sono due i simboli, oltre a quelli già analizzati, nei tre passi che concludono la narrazione
dell'evento: lo sposo e il capo del banchetto. Per quanto concerne lo sposo non occorre
tracciare lungi il raggio del circolo ermeneutico: fu il Figlio stesso a definirsi con tale icona 28,
in identità d'immagine con JHWH-Sposo dell'Antico Testamento. La figura del capo-
125
banchetto, invece, non compare in altri brani biblici. Essa è da evincersi per deduzione dal
senso prescelto per il segno dominante dell'acqua, ovverosia quello della legge mosaica.
Interpretazione semplice, visto che il maestro di tavola esercitava la propria autorità in un
luogo dove c'erano pile per la purificazione dei Giudei ed è descritto in opposizione ai
servi/discepoli i quali, a sua differenza, sapevano donde provenisse il vino. Il capo del
banchetto simboleggia un dottore della legge giudaica. Questi, con la sua affermazione che il
vino buono era stato riservato per quel momento, conferma che era quella l'ora prevista per il
segno del vino.
(11) Gesù in Cana di Galilea compì questo suo primo miracolo e manifestò la sua gloria, e
i suoi discepoli credettero in lui.
Completato il racconto dell'evento, il narratore, in prima persona, commenta gli avvenimenti.
Il testo della lettera originaria, in realtà, asseriva: "Gesù fece questo inizio dei segni". In
Giovanni, infatti, il miracolo è il biblico segno, operato da Dio, con il quale il profeta
dimostrava l'autenticità della missione divina. La gloria di Gesù, invece, sempre per
l'Evangelista, è soprattutto riferita all'ora della Passione, dell'elevazione sulla Croce 29. Il passo,
allora, potrà essere letteralmente letto: "Gesù in Cana di Galilea fece quest'inizio dei segni e
tramite essi manifestò l'ora della sua glorificazione...".
Occorre adesso notare che mai, nella narrazione di Cana, si trova indicato che sia stato il
Figlio a trasformare l'acqua. Lo stesso Figlio, d'altra parte, pur dimostrandosi pienamente
consapevole della mutazione dell'acqua in vino, nulla dichiara al fine di assumersene la
paternità. Omette, addirittura, di pronunciare una frase che mai mancherà nelle moltiplicazioni
e trasformazioni delle sostanze di cui, successivamente, si occuperà: Gesù non <<rese
grazie>>.
Sta conducendo verso un'eresia, potrà pensare il lettore di Episteme, l'ermeneutica del segno,
del circolo e del mosaico? Non lo affermi ancora. Mi usi la cortesia di seguirmi, ancora per un
poco, nella dimensione della trasformata del simbolo, dove questo si spoglia della sua veste
formale diventando, a sua volta, lettera. Mi segua sul piano della magia della parola, anzi della
Parola, dove se il significante si muta nel significato, se l'acqua e il vino si convertono nei loro
equivalenti metaforici, allora anche i personaggi che governano la scena, al fine di rendere
pienamente intelligibile il racconto, si devono trasformare. Mi segua ancora per un pochino,
badando però all'avvertenza che, sempre per codice interno, nei fatti scritturali si devono
intendere per veri sia gli eventi raccontati sia le allegorie sottese, le quali spiegano al meglio i
fatti.
Il Mosaico allegorico
Vi fu un banchetto d'iniziazione nella cittadina delle Canne, in Galilea. Avvenne nel sesto
giorno ed era, quindi, ancora l'ora del Padre (per conseguenza la legge vigente era quella di
Mosè). Era, anche, tre giorni dopo (c'era da attendersi, perciò, una teofania, una
manifestazione di Dio). Al convito c'era la sposa celeste, la Madre di Gesù. Anche Gesù con i
suoi discepoli vi fu invitato. Improvvisamente, durante il convivio, accadde un segno: venne a
mancare il vino. La Madre di Gesù (cogliendo il segno) gli disse: <<Non hanno più vino (con
il che si deve intendere che l'osservanza formale della Torah, le cerimonie di santificazione, la
Legge mosaica nel suo complesso, non erano più sufficienti a garantire un intimo rapporto con
Dio) >>. Rispose il Figlio: << Che vi è di comune tra me e te, o donna 30? L'ora mia non è
ancora venuta (il che va interpretato nel senso che non era quella l'ora di Gesù bensì,
coerentemente con il segno del sesto giorno, ancora quella del Padre)>>. Ma, sic et
sempliciter, che vi è di comune tra Gesù e Maria? Maria conosceva la soluzione dell'enigma,
conosceva il mistero d'essere, nello stesso tempo, figlia e madre di Dio. Era consapevole di
126
avere, in comune con il Figlio, il Padre. Sapeva, anche, d'essere ancora nell'ora del Padre ed
era, oramai, cosciente che a parlare e ad operare nel Figlio fosse lo stesso Padre. Rispose,
pertanto, come figlia al Padre, con le parole dell'ora del Padre, quelle del Sinai: «Fate tutto
quello che vi dirà». Una frase, questa di Maria, analoga a quella che lei già aveva diretto a Dio
Padre, mediante l'Angelo messaggero, nel dì dell'Annunciazione: <<Si faccia di me come hai
detto tu >>.
C'erano là sei pile di pietra preparate per la purificazione dei Giudei, pile non colme d'acqua
perché, in seguito, sarebbe stato necessario riempirle (cosa che lascia intuire che i Giudei,
attenendosi alla tradizione degli antichi, prima di mangiare avevano lavato mani, stoviglie,
bicchieri e oggetti d'ogni genere). Le pile erano sei e con ciò si deve intendere l'insufficienza,
l'imperfezione di un culto che, ridotto oramai a mere tradizioni e prescrizioni interpretate a
misura d'uomo, lasciava da parte il Comandamento ed appariva vano al cospetto di Dio. Il
quale, allora, ordinò ai suoi discepoli di colmare le idrie d'acqua, disposizione che significa
che le prescrizioni delle tavole mosaiche andavano pienamente osservate. Il Padre, quindi,
mutò l'acqua in vino, con il che si deve intendere che Gesù nel convivio di Cana, per opera del
Padre che era in lui, diede inizio alla missione d'evangelizzazione con la novella Parola la
quale trasformava, migliorandola, la Legge. Parola alla quale attinsero per primi i discepoli. Il
vino di verità del Vangelo fu elargito anche al maestro di tavola, con il che l'allegoria spiega
che Gesù cominciò ad ammaestrare anche i dottori della legge giudaica. I quali, seppure
fossero meravigliati per la qualità del vino (cioè della Parola messianica) e ne riconoscessero
l'altissimo pregio, a differenza dei discepoli (e della Madre, che per prima l'aveva inteso) non
compresero che essa fosse Parola di Dio riservata per quell'ora.
La settima brocca
Al lettore attento, dal punto di vista letterale, potrà sembrare che l'interpretazione proposta sul
piano dell'allegoria possa aver, sufficientemente, rimosso le contraddizioni apparenti della
lettera originaria. Non così è per il lettore simbolista, invece. Se, come già affermato, l'opera
per suo privilegio ontologico deve essere perfetta, allora, sia pur empiti con ottimo vino, gli
otri di Cana restano in numero di sei, segno d'incompiutezza, mancanza di perfezione. Un
teologo potrebbe affrontare il problema asserendo, giusta tesi di per sé, che il settimo vaso è la
Madre, contenitore di Gesù, vaso spirituale, vaso di sapienza. Per il simbolista, però, la tesi
non funzionerebbe. Egli si troverebbe già trasportato su di un piano ancora più elevato dove,
per omogeneità dell'insieme, se la Madre diventa vaso di spirito allora i sei contenitori
devono, anch'essi, essere mutati in recipienti (di carne) spirituali. Per il simbolista, il settimo
vaso che manca per la perfezione (del piano allegorico precedentemente edificato) deve essere
rigorosamente di pietra, come lo sono le idrie/tavole della Legge, contenitori d'acqua di
conoscenza.
Si sta richiedendo troppo al simbolismo della Bibbia? No, perché essa è l'opera nella quale il
Figliuolo, venuto al mondo a Betlemme (da bet lehem che significa casa del pane, sostanza
nella quale Gesù avrebbe indicato il proprio corpo da mangiare), che fu posto in una
mangiatoia (segno che il suo destino era quello d'essere mangiato) dopo essere stato fasciato 31
(segno della sindone), che ebbe per padre putativo un carpentiere 32 (il quale lavorava con
legno e chiodi, quindi segno della croce), seguirà perfettamente la sorte racchiusa nei simboli
della nascita.
Dove cercare, allora, la settima brocca? Il criterio del circolo ermeneutico indirizza in un
luogo letterale ben preciso. Occorre scavare nei passi nei quali ci sia acqua, in prossimità
dell'ora che deve venire. La ricerca conduce, senza eccessive digressioni, nell'ambiente
dell'Ultima Cena.
127
Venne il giorno degli azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e
Giovanni: «Andate» disse loro «a preparare il banchetto pasquale». Essi gli domandarono:
«Dove vuoi che prepariamo?». Rispose loro: «Entrando in città, troverete un uomo che
porta una brocca d'acqua; seguitelo fin nella casa ove entrerà e direte al padrone di casa: - Il
maestro ti manda a dire: Dov'è la sala nella quale mangerò la Pasqua co' miei discepoli? Ed
egli vi mostrerà una gran sala allestita; quivi apparecchiate» (Lc 22, 7-12).
Ed ecco, finalmente, che per il simbolista il mosaico è compiuto. Il disegno iniziato a Cana,
nel segno dell'acqua e dei sei recipienti, si chiude nel segno dell'acqua e della settima brocca.
Con il che si deve intendere che l'evangelizzazione del Figlio, cominciata nel segno dell'acqua
e dei sei vasi nella casa delle Nozze di Cana, trova il fine e la perfezione nel segno dell'acqua
e della settima brocca nella casa dell'Ultima Cena, dove il vino sarà, a sua volta, trasmutato in
sangue. Quale sia stata, poi, la reale funzione del settimo vaso nell'economia del convito,
perché esso sia stato portato da un uomo anziché, come nella consuetudine ebraica, da una
donna, quale importanza abbia avuto la brocca per essere stata eletta segno del luogo della
prima Eucarestia, non è dato sapere dalle sezioni analizzate. Qualcuno ha ritenuto che con il
vaso si abbia voluto tramandare l'adesione di Gesù ad una setta essena giacché si sostiene che,
tra gli esseni, erano gli uomini a portare le brocche (sic!). Il che sembra oltremodo labile, oltre
che eccessivamente criptico, per un'informazione; la quale è tale soltanto se è in grado di
fornire un determinato livello di certezza al destinatario. Qualcun altro potrà ipotizzare che
esso è simbolo della lavanda dei piedi raccontata da Giovanni, interpretazione che appare
riduttiva per il gran risalto dato alla brocca. Il lettore simbolista, invece, potrà cominciare con
l'immaginare che, nella circolarità e nelle simmetrie della Scrittura biblica, nel suo codice
autoesplicativo, la settima brocca, posta quale segno della casa dell'Ultima Cena, abbia in
primis voluto perfezionare e sciogliere i misteri dell'ora e del vino di Cana.
Note
1
Oltre che nelle Nozze di Cana, il semitismo è presente, con varie sfumature di significato, in
un discreto numero di casi: Giosuè (22,24); Giudici (11,12); II libro Samuele (16,10) e
(19,23); I libro dei Re (17,18); II Libro dei Re (3,13) e (9,18-19); II libro delle Cronache
(35,21). Nel Nuovo Testamento si ritrova in Mt (8,29); Mc (1,24) e (5,7); Lc (4,34) e (8,28).
2
Mt. (5,33-37)
3
Lc, (2,46-49)
4
Lc (1,38)
5
Il concetto d'omogeneità simbolica è facilmente intuibile mediante l'esempio della "selva" di
Dante. Sul piano trascendente, dove per selva s'intende il traviamento spirituale, alla lupa deve
essere associato il significato di peccato di cupidigia. Qualora, invece, nella selva si voglia
individuare un riferimento alla società coeva a Dante, allora nella lupa dovrà essere ricercato
un contemporaneo dell'Alighieri caratterizzato da avidità.
6
Cantico dei Cantici (3,11)
7
Mt (22,2)
8
Gv (5,17)
128
9
Ai dì nostri l'identificazione con la Cana biblica è contesa tra due cittadine di Galilea,
Khirbet Quana e Kefr Kenna, e Cana, nel Libano meridionale.
10
Genesi (1,2)
11
Gv (3,4-5)
12
Gv (19,26-27)
13
Nel protovangelo la "donna" anticipa "la stirpe": in Genesi (3,15) Dio, infatti, dice al
serpente: "Porrò inimicizia tra te e la donna, fra la stirpe tua e quella di lei; essa ti
schiaccerà il capo..."
14
Osea (9,2)
15
Proverbi (9,5); Cantico dei Cantici (5,1)
16
<<Bonum enim vinum Christus servavit usque adhuc, id est Evangelium suum>> (Trattati
sul Vangelo di Gv, IX,2).
17
Genesi (3,15). La citazione è nella nota 12.
18
Apocalisse (12,1): "E un gran portento apparve nel cielo: una donna ravvolta nel sole, e la
luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle". G. Dorè, semplicemente
dando forma grafica al segno linguistico, raffigurò la Vergine Maria incoronata.
19
La funzione di ricerca f("nome1" Near "nome2"; d=8) fornisce in uscita tutti i passi nei quali
le stringhe nome1 e nome2 sono distanziate tra loro al massimo di 8 parole.
20
La traduzione del passo in esame è quello generalmente proposto nelle traduzioni della
Vulgata di S. Girolamo e ripreso da 2Re (9,18-19).
21
Mt (27,48): "E subito un di loro corse a prendere una spugna, che inzuppò nell'aceto e,
postala in cima a una canna, gli diede da bere".
22
Apocalisse (1,1): "Rivelazione di Gesù Cristo, la quale Dio gli diede per indicare ai suoi
servi le cose che debbono accadere tra breve, e ch'egli fece conoscere con l'invio del suo
angelo al suo servo Giovanni".
23
Esodo (19, 8)
24
Numeri, cap. 19
25
Gesù ai Giudei in (Gv, 7,19): <<Mosè non vi ha dato la legge? Eppure nessuno di voi
osserva la legge>>.
26
Il metrete misurava 39,4 litri, circa 40, quindi. Il numero rinvia anch'esso all'Esodo. Infatti
furono quaranta i giorni e le notti in cui Mosè stette col Signore per la scrittura delle tavole
con le dieci proposizioni (Esodo 34,28).
129
27
Mt (5,17): <<Non vogliate credere che io sia venuto per abolire la legge o i Profeti: non
son venuto per abolirli, ma per completarli.>>.
28
Rispose Gesù: <<È mai possibile che gli amici dello sposo siano tristi, finché lo sposo è
con loro? Ma verranno i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno>> Mt
(9,15).
29
Gv (12, 23-27; 13,31; 17,1)
30
Il semitismo è stato tradotto come Giosuè (22,24) nella Vulgata.
31
Lc 2,7
32
Mc 6,3
Bibliografia essenziale di riferimento
La Vulgata, Ed. Salani, vers. CD ROM Ergoset Milano,1994
La Bibbia di Gerusalemme, ed. Dehoniane-Borla, Bologna-Roma, 1971
La Bibbia, ed. San Paolo Milano, 1987
Riconoscimenti:
a Pia, che nel Tempio mi mostrò il volto della Vergine;
a Roberta, che comprese il sogno dei sei orologi d'argento e dell'orologio d'oro.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme.]
[email protected] , [email protected]
http://www.philia.it/
130
Dalla cultura matematica una lingua … universale
(Umberto Lucia)
Nel 1932 Galileo sottolineava l'importanza della scrittura e del linguaggio per la
comunicazione ponendo, nella gerarchia delle invenzioni più ragguardevoli, al primo posto
l'alfabeto, che consente attraverso gli scritti di comunicare a distanza di tempo e di spazio.
Galileo, membro dal 1605 dell'Accademia della Crusca, nel 1612 fece stampare il primo
Vocabolario della lingua italiana, mostrando una considerevole sensibilità ai problemi
linguistici e della comunicazione scientifica.
Già René Descartes (1596-1650) e Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) avevano
avanzato seicento progetti di lingua universale che per le loro caratteristiche, in stretta
connessione con le loro concezioni filosofiche e matematiche, sono stati inseriti fra quelli
denominati "lingue filosofiche". Descartes sosteneva che sono soprattutto la difficoltà della
grammatica a costituire un ostacolo per la comprensione delle lingue. Se si semplificano le
regole grammaticali, non ci si stupirà poi se il "volgo" sarà in grado, con l'aiuto del dizionario,
di scrivere nella lingua così costruita. Il francese sogna una lingua che dipenda dalla vera
filosofia, in grado di enumerare tutti i pensieri, metterli in ordine, distinguendo quelli chiari e
semplici, proprio come avviene per i numeri. I principi direttori del suo progetto, legati alla
concezione delle nozioni chiare e distinte, e ad una visione meccanicistica dei processi
mentali, si basavano sull'analogia fra le idee e le nozioni di numero; sulla ricerca delle idee
semplici che, combinate fra loro, producessero tutte le altre; sull'analogia fra tali combinazioni
e le operazioni aritmetiche; e, infine, sulla convinzione che il ragionamento sia paragonabile a
un calcolo meccanico infallibile.
Affascinato dal programma cartesiano di lingua universale, Leibniz, riflettendo sulla
dipendenza della lingua dalla vera filosofia, immagina la lingua in progressiva evoluzione,
quasi a seguire di pari passi lo sviluppo della scienza. Egli non solo considera tutte le idee
come combinazioni di un piccolo numero di idee semplici che comporrebbero l'alfabeto dei
pensieri umani, ma sogna una lingua universale che sia ad un tempo espressione del pensiero
e strumento della ragione; una lingua "razionale" nella quale le parole esprimano le
definizioni delle idee, ne mostrino le connessioni e le verità conseguenti, in modo che le si
possa dedurre con trasformazioni algebriche e sostituire quindi così al ragionamento il
calcolo. La lingua a cui Leibniz pensa è "un'algebra logica" che si applica a tutte le idee e gli
oggetti del pensiero, dove la composizione delle idee è analoga alla moltiplicazione in
aritmetica e la decomposizione di un'idea nei suoi elementi semplici è analoga alla
scomposizione di un numero nei suoi fattori primi, mentre le verità logiche sono i corrispettivi
delle proprietà aritmetiche dell'addizione e della moltiplicazione. Il progetto di Leibniz rimase
allo stadio teorico e come quello di Descartes fu giudicato utopico e "assolutamente
chimerico".
Tra la metà dell'ottocento e l'inizio del novecento prolificano progetti di lingue artificiali e
centinaia di associazioni allo scopo di insegnarle e diffonderle. La necessità di costituire una
lingua internazionale che permettesse un legame diretto fra nazioni diverse assume rilevanza
con lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, e con il conseguente intensificarsi
delle relazioni commerciali e intellettuali tra i popoli.
131
Hermann Grassmann (1809-1877), che fin da giovane coltivò studi filologici, seguendo con
entusiasmo il suo maestro Schleiermacher, si dedicò con impegno a questo settore, diventando
un esperto cultore del sanscrito e curando fra l'altro un glossario al Rig Veda. Giusto Bellavitis
(1803-1880) pubblicò nelle memorie dell'Istituto Veneto un ampio e articolato studio sulle
caratteristiche che una lingua filosofica universale deve avere circa l'etimologia, la
grammatica e l'ortografia, la pronuncia e la scrittura. Bellavitis interviene con competenza
sulle questioni linguistiche più dibattute e offre contributi preziosi alla semplificazione delle
regole e alla creazione di una grammatica razionale. Non trascura considerazioni e proposte
pratiche sui possibili modi di comunicare senza far uso né della scrittura, né del linguaggio, ad
esempio con segni telegrafici, oppure segnali luminosi di diverso colore per i naviganti.
E' verso il 1855 che in Francia la questione della lingua universale riceve nuova attenzione
dalla Societé Internationale de Linguistique, che nomina un comitato per scegliere e
diffondere il progetto migliore da adottare a livello internazionale.
Definite le condizioni a cui tale lingua dovrebbe soddisfare, quali il carattere scientifico, la
semplicità, la chiarezza, la razionalità, la logica, la ricchezza, la praticità, ecc., gli esperti
concordano sull'impossibilità di accogliere lingue antiche, lingue moderne o lingue viventi, a
meno di far subire a queste radicali modifiche. L'idea del filosofo Charles Renovier (18151903) di creare una lingua artificiale improntata su una grammatica dalla massima
semplificazione, e il cui vocabolario sia tratto dalle lingue viventi, ricevette ampi consensi, e
sarà di guida per i progetti di lingue artificiali di maggior successo e diffusione alla fine
dell'ottocento e nei primi decenni del novecento.
Il matematico Giuseppe Peano (1858-1932) si lascia coinvolgere dall'amico matematico e
filosofo Louis Couturat (1868-1914) su questi temi, ed evidenzia l'importanza che la
costruzione della lingua internazionale avrebbe per il progresso della scienza, sottolineando il
suo disagio come matematico a tenersi al corrente sulle ricerche più recenti, se pubblicate in
lingue a lui sconosciute.
La lingua denominata Volapuk è quella che raggiunge il successo più rapido, seguito però da
un declino altrettanto veloce. Ideato nel 1879 dal sacerdote cattolico Johann Martin Schleyer
(1831-1912), si componeva dei vocaboli delle lingue naturali e presentava una grammatica
molto regolare, basata sull'inglese popolare.
Nel 1887 compare in pubblico l'Esperanto, lingua internazionale artificiale che prende il
nome dallo pseudonimo scelto nella stampa dal suo ideatore, il medico russo Ludovic Lazarus
Zamenhof (1859-1917), che pensò di costruire una lingua neutra che potesse porre fine alle
ostilità culturali tra le etnie (russa, polacca, tedesca ed ebrea) che vivevano nella sua città,
Bielostok. Fondato sui due principi del massimo di internazionalità nella scelta delle radici e
dell'invariabilità degli elementi lessicologici, l'Esperanto riesce ancora ad attirare la simpatia
di molti intellettuali sia per i nobili motivi umanitari che lo ispirarono sia per gli aspetti di
democrazia e di civiltà che contraddistinguevano la sua fondazione.
Nonostante tutti i tentativi filantropico-idealistici di cercare di uniformare ed agevolare la
comunicazione per mezzo della ideazione di una lingua universale di facile apprendimento e
di facile utilizzo, essi sono sempre sostanzialmente falliti, in quanto una lingua è soprattutto il
risultato di un processo storico-culturale che coinvolge la struttura intera di una popolazione.
In conformità, si potrebbe allora riflettere sul fatto che una lingua piuttosto di altre sta
svolgendo attualmente il ruolo di lingua universalmente accettata come mezzo globale di
comunicazione: questa lingua è l'inglese. Si stima che oggi quattrocento milioni di persone al
132
mondo utilizzino l'inglese come lingua madre: queste persone sono definite A-user of English.
Ci sono molti altri milioni di persone che vengono denominate B-users of English, ovvero che
utilizzano nella vita quotidiana l'inglese come seconda lingua ufficiale. Ma esiste una ulteriore
classe di persone, i C-users of English, che utilizzano l'inglese nella vita quotidiana per lavoro
o per studio. L'imponenza di questi numeri rende di fatto l'inglese un mezzo universale di
comunicazione.
Questa diffusione capillare nel globo di una lingua reale, che si propone anche come lingua
"ufficiale del mondo economico e tecnico-scientifico", è ovviamente conseguenza del ruolo
storico, economico e politico svolto negli ultimi secoli dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti, e
dalla leadership della componente angloamericana nella conclusione vittoriosa della II guerra
mondiale (una tendenza che si è andata evidentemente rafforzando dopo la caduta del muro di
Berlino, e l'avvento della cosiddetta "globalizzazione"). Però, a prescindere da tali circostanze
contingenti, l'inglese appare pure in verità come una lingua caratterizzata da una semplice
struttura grammaticale, che consente quindi un'immediata ed univoca comprensione
dell'informazione che si deve comunicare, oltre a possedere una rilevante presenza di lessico
greco-latino sovrapposto a quello originario teutonico, caratteristica che ne rende più agevole
l'assimilazione da parte di altre popolazioni europee.
Bibliografia
Burgess A., They wrote in English, Tramontana editore, Presso, 1979, 1-4.
Couturat L., La logique de Leibniz d'après des documents inédits, Alcan, Paris, 1901; Olms,
1961; 51-80.
Galilei G., Dialogo sopra i massimi sistemi, Giornata prima, Opere VII, Barbera, Firenze,
1993, 130-131.
Peano G., Il latino quale lingua ausiliare internazionale, Atti Acc. Sci. Torino, XXXIX,
1903-04, 273.
Pucci C., Sui temi di italiano nella scuola secondaria, riflessioni e ricordi, Archimede, 2
(1996) 72-78.
Roero C.S., I matematici e la lingua internazionale, Bollettino U.M.I., (8) 2° (1999) 159-182.
----[Una presentazione dell'autore, che è membro della Società Italiana di Storia
delle Matematiche, si trova nel numero 4 di Episteme.]
I.T.I.S. "Alessandro Volta"
Spalto Marengo 42
15100 Alessandria
[email protected]
133
Teoria e osservazione
(Alberto Bolognesi)
Zodiaco di Dendera
1. L'universo allo specchio
E' come passare la notte sull'albero maestro di una nave che scivola sul mare, dicono gli
astronomi. "Un turno di notte nella gabbia del fuoco primario di un grande telescopio ti può
cambiare la vita". E non è mica una passeggiata quando il freddo è pungente, la notte è senza
luna e la vescica è piena. Te ne stai lì al buio con taccuino, carte celesti e lastre fotografiche
che ti sei portato dietro dopo esserti arrampicato come un geko, mani e piedi, fino alla gabbia.
Io ci sono entrato da raccomandato con un cartoncino di plastica appuntato sulla giacca a
vento che diceva che io sono io, e sono rimasto nell'oscurità a sbirciare in un gelido oculare
come un intruso, come un clandestino che viaggia al termine della notte. Ogni tanto mi alzavo
per sgranchirmi e per guardare giù in basso verso lo specchio, che sembrava un'immensa
scodella galleggiante di pepite d'oro. L'universo nel pozzo.
Ma i tempi cambiano. Entro pochi anni sarà possibile effettuare sistematicamente anche le
osservazioni più estreme standosene sprofondati nella poltrona di casa, alle dieci del mattino,
davanti a un cappuccino e a una tastiera. Qualche diligente cliccata e un gigante di dieci metri
di diametro ruoterà docilmente su qualche picco innevato a migliaia di chilometri di distanza
verso l'oggetto prescelto. L'universo sui polpastrelli delle dita. Ci voleva tanto?
Qualcuno mormora che è la vittoria dei "lavativi" del Cassegrain, ma qui non c'è il temuto
allungamento della distanza focale, tutto è assolutamente ottimale, tempo permettendo. Il
digitale ha stravinto. Avremo osservazioni sempre migliori stando sempre più comodi, e agli
astronomi più romantici - o più bigotti - che si vantavano di aver reni d'acciaio e cervicali
134
bioniche, non resteranno che Osservatori obsoleti e fatiscenti circondati da odorose conifere.
Di cosa parleranno, se non dei "bei tempi andati" e degli incredibili seeings che furono?
Il futuro non si può fermare. La speranza è che queste enormi facilitazioni all'astronomia
osservativa inducano quei teorici che ammettono candidamente di non aver mai visto una
galassia al telescopio (ma che in compenso sanno un'enormità di cose sugli anelli caustici e
sui frattali di materia oscura, che dominano a menadito gli algoritmi di Barrabes-Frolov o la
compattificazione di Calabi-Yau, e che calcolano con stupefacente approssimazione quanti
universi vengono creati quando due buchi neri si fondono insieme), li inducano, dicevo, a dare
un'occhiatina ...
Si deve avere rispetto e profonda ammirazione per il talento matematico e la sagacia
interpretativa dei professionisti della Creazione, ma quando è in ballo l'universo intero la
domanda che torna è sempre impietosamente la stessa. Chi fissa le condizioni "iniziali" e
quelle al contorno? E' la teoria che deve precedere l'osservazione o è l'osservazione che deve
ispirare la teoria? E, tanto per aggiungere "banalità" a un approccio così scontato, chi ha
veramente il coltello dalla parte del manico? L'universo o la mente di chi lo esplora?
E' noto che si possono formulare ipotesi matematicamente corrette ma in conflitto con la
natura, capaci di fornire ottime predizioni dei fenomeni: il Sistema Tolemaico, per esempio, è
in grado di rappresentare coerentemente le posizioni degli astri nel cielo, di prevedere eclissi,
congiunzioni, opposizioni, elongazioni. Eppure è smentito dall'osservazione, dalle sonde e dai
satelliti artificiali, dall'aberrazione astronomica e dalla rotazione galattica. Non è solo
sbagliato, è spaventosamente sbagliato. Ma ha resistito millecinquecento anni e sarebbe
ancora in grado di fornire previsioni attendibili con un raffinato make-up al computer dei suoi
epicicli, equanti e deferenti.
Allora la questione è di decidere se teorie formalmente corrette, ma smentite o non
comprovate dall'esperienza, possono pretendere di avere il primato sull'osservazione. "In
fisica - mi scrive il Professor Daniele Cattani dell'Università di Bologna - la verità non esiste.
Esistono solo teorie che spiegano nell'ambito della teoria stessa i fatti della Natura".
Riecheggiano le affermazioni di Stephen Hawking che hanno fatto il giro del mondo: "Io non
chiedo che una teoria corrisponda alla realtà perché in definitiva non so quale sia questa
realtà: quel che mi interessa è che la teoria predica i risultati di misurazioni" (La Natura dello
Spazio e del Tempo, Hawking e Penrose). Io credo che Hawking e Cattani non dubitino
realmente che i pianeti ruotino intorno a un sole centrale, ma sospetto che entrambi ritengano
questa rappresentazione "un po' parziale" e irrimediabilmente "antropocentrica".
C'è qualcosa di vero, suppongo, ma un simile indebolimento del concetto di realtà dovrebbe
vanificare automaticamente tutte le ambizioni cosmologiche di una teoria "universale". Che
cosa ce ne facciamo di un sistema del mondo se non è reale?
La domanda si ripropone imperiosa: chi deve guidarci nell'esplorazione o
nell'approfondimento della natura, la teoria formalmente e matematicamente corretta o
l'osservazione? Se gli stessi fisici dubitano del concetto di realtà, la fede in una teoria riposa
essenzialmente nella convinzione che dentro la matematica siano già contemplate le soluzioni
che si cercano, un po' come nella teologia è già presupposta l'esistenza di Dio. Se, come dice
Gell Mann, al centro del sole non c'è chimica ma fisica (Il quark e il giaguaro), al centro della
fisica c'è un dio che parla per bocca di Gell Mann.
Se si accetta il "fallibilismo" delle teorie, come appare inevitabile a qualsiasi epistemologo,
è tuttavia legittimo coltivare l'idea che "le nostre ipotesi migliorano se chiunque è libero di
discuterle" (G. Giorello). Per i cosmologi del Big Bang sembrerebbe esattamente il contrario:
le loro ipotesi peggiorano se chiunque è libero di discuterle. La comunicazione che è
essenziale nella formulazione e nella gestione di una teoria scientifica, deve sempre
permettere il controllo e il confronto con dati contrari, anche a costo della sua falsificazione.
Come ricordava centocinquant'anni fa John Stuart Mill "è proprio la completa libertà di
contraddire e confutare la nostra opinione che ci giustifica quando ne presumiamo la verità"
135
(Saggio sulla Libertà). "Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su, altra
salvaguardia che un invito e una sfida permanente al mondo intero di dimostrarle infondate".
La sfida è invece sistematicamente evitata, o soppressa, come se la cosmologia, ben
consapevole della sua fragilità, optasse per una presunzione di infallibilità. Sto toccando un
punto cruciale: messo nell'angolo, qualsiasi cosmologo in buona fede conviene che il Big
Bang è un modello meramente matematico, che tutta la teoria della Genesi cosmica e della
Grande Esplosione è per definizione una teoria. Ma se chiedete ai responsabili della NASA se
la mappa a radioonde ottenuta da C.O.B.E. o dalla sonda B.O.O.M.E.R.A.N.G. rappresenta
davvero il residuo di un gran botto che avrebbe dato origine a tutto l'universo ... verrete
guardati come imbecilli. Uno di questi, Fred Hoyle, definiva la radiazione di 3° K
"temperature of local space": se vi trovate in mezzo alla nebbia, diceva, non pensate all'origine
dell'universo ma semplicemente di stare in mezzo alla nebbia! E' pur vero che Hoyle si è
sbagliato un'infinità di volte, ma né Hawking, né Lange, né de Bernardis possono negare che i
nostri strumenti di rilevazione sono (e saranno sempre) vicinissimi al nostro "spazio locale" e
lontanissimi dal "fondo" dell'universo che si pretende di misurare. Quando io scrissi queste
cose su un quotidiano, il Direttore di un mensile di scienza e cultura, si affrettò a inviare un
avvertimento trasversale alla redazione che mi ospitava.
La mia proscrizione, è ovvio, non ha fatto alcun danno, ma se si considera che "è stata
proprio la scoperta della radiazione fossile ad affossare la teoria dello stato stazionario" come
ogni buon studente di astronomia apprende dai cosmologi, resterebbe molto da dire sui
requisiti di una "scoperta scientifica". Nessuno può dubitare che la radiazione di Penzias e
Wilson sia una scoperta scientifica, ma se si dice che la radiazione fossile è una scoperta
scientifica si dice una cosa completamente diversa.
Nel suo celebre testo Karl Popper analizza questo "salto" che separa fenomeno da
fondamento, notando che "ogni cosiddetta scoperta contiene un elemento irrazionale o
un'intuizione creativa" e conclude che qualsiasi scoperta casuale è immediatamente esposta
"alla cattura" di un programma o da "un'idea guida" precedente (Logica della Scoperta
Scientifica). E' in parte ciò che già aveva portato Ernst Mach fuori dalla scienza, e indotto a
trincerarsi in un "fenomenismo" e in un empirismo radicale (Conoscenza ed errore) che lo
fece dubitare perfino dell'esistenza degli atomi. Qui, tuttavia, non occorre farla troppo lunga
per fissare i termini della questione: se la scoperta di un segnale uniforme rilevato da antenne
al suolo o da satelliti artificiali in orbita intorno alla Terra può diventare "il fatto che
l'universo ne è completamente avvolto e quindi la conferma che è nato da una caldissima
esplosione" (Margherita Hack), la logica della scoperta scientifica è ancora tutta da scrivere. A
onore di Penzias e Wilson, che ricevettero il Nobel, va riconosciuto tuttavia anche il merito di
essersi sempre mantenuti agnostici, nonostante le enormi pressioni ricevute, rispetto alla
natura "cosmologica" della radiazione di 3° K.
Sulla "fossilizzazione" del lampo iniziale ebbi un divertente battibecco con il rinomato
cosmologo inglese John Barrow, al termine di una conferenza organizzata dalla Biblioteca di
Misano nel 1997. Nel mio stentato inglese gli feci notare che la tanto celebrata energia del
vuoto potrebbe essere un ottimo "risonante" per l'emissione di un fondo così uniforme e che
comunque, ipotesi per ipotesi, si potrebbe sostenere alternativamente che si tratti della
temperatura residua della nebulosa planetaria che ci ha prodotti. "L'importante differenza - lo
incalzai - è che la nebulosa ci ha certamente preceduti, mentre il Big Bang è tutto da
dimostrare". "Ah, tutto questo è molto interessante - sorrise - ma è meglio avere una soluzione
generale che una locale". "Sarebbe disposto a uccidere per questo?" domandai scherzoso. "Sì,
naturalmente" fu la risposta.
136
2. Tutto alla rovescia
Se le teorie non possono dirci ciò che è vero e ciò che è falso, la cosmologia deduttiva assume
inevitabilmente i connotati di una disciplina speculativa. Proponendosi come scienza
dell'universo fisico nella sua totalità, è obbligata ad assumere in modo del tutto arbitrario la
certezza di avere una visione estesa e panoramica del Mondo.
Per gli ammutinati dalla "tuttologia" (quattro gatti e un topolino in via di estinzione), l'unità
cosmologica non è che un mito o una grossolana generalizzazione. Se ci si domanda come è
nato l'universo si parte con la domanda sbagliata, perché la soluzione cosmogonica deve
rappresentare l'atto finale, il coronamento di un percorso di indagine scientifica, e non la sua
premessa. L'antinomia kantiana - universo creato o eternamente esistente - scopre
impietosamente le pretese idealistiche delle teorie del Cielo, perché creazione ed eternità non
possono essere in alcun modo matematizzate. Per ogni eretico che palesa l'impossibilità di
arrivare a un inizio a partire dal nulla c'è un ortodosso che sostiene che l'eternità è priva di
senso. Un dialogo fra sordi, che sembra ridurre la cosmologia a quella scienza parzialmente
burlesca e parzialmente tragica, "la patafisica", immaginata da Alfred Jarry e teorizzata dal
suo Dottor Faustroller sotto il nome di "fisica delle soluzioni immaginarie".
L'alternativa di una cosmologia induttiva e "locale", dedotta interamente dalle osservazioni,
ha in Viktor Ambartsumian (1908-1996), astronomo armeno dell'ex Unione Sovietica, il suo
antesignano. Ebbe momenti di grande celebrità e contese con l'Occidente nei lunghi decenni
della guerra fredda il primato per l'interpretazione della struttura cosmica. Se ci sarà una
controriforma in cosmologia, Ambartsumian dovrà essere ripescato dall'oblio e posto sul
gradino più alto come l'Aristarco della modernità.
Poiché l'antinomia finito-infinito è indecibile, l'unico universo di cui abbia senso parlare è
quello osservabile o potenzialmente osservabile. Non è nemmeno il caso di accostare
l'epistemologia alla cosmologia: per Ambartsumian le enormi variazioni di densità nel cosmo
vanificano ogni possibilità di far funzionare le equazioni di base della fisica, mentre
l'osservazione ottica, la radioastronomia e l'emergente astronomia delle alte energie
arricchiscono senza sosta l'evidenza della diversità qualitativa delle galassie. Il suo empirismo
è estremo e improntato alla massima economia logica. La conoscenza dei fenomeni cosmici è
ridotta alle loro trasformazioni: voler introdurre modelli matematici che già assumono la
spiegazione che si vuole trovare, equivale a contaminare e a stravolgere le osservazioni stesse.
Se si rinuncia drasticamente al metodo dei modelli - nota Ambartsumian - la più ovvia delle
constatazioni è che le età delle diverse galassie sono molto differenti tra loro. Ma, questa è già
una reductio ad absurdum per la cosmologia del Big Bang che è costretta a giustificare la
diversa composizione chimica e stellare delle galassie con l'ipotesi delle fusioni e delle
collisioni continue, che provocherebbero in questo modo nuove formazioni di popolazioni
stellari. "Questa semplice evidenza - dice con ammirazione Halton Arp - era disponibile già
con il telescopio Hooker di Monte Wilson, e avremmo dovuto accorgercene: il fatto che
Ambartsumian l'abbia sostenuta proprio sulla base delle surveys effettuate da astronomi
americani agli inizi degli anni Cinquanta, dimostra che lui e i suoi collaboratori guardavano le
lastre più attentamente di coloro che le avevano ottenute".
Ambartsumian ha inizialmente fissato la sua attenzione sullo studio e sulla classificazione
delle stelle e in particolare su quelle dei primi tipi spettrali (0 e B), molto splendenti e molto
azzurre, sparse in grappoli e spesso mescolate al centro di popolazioni meno recenti. Si
consolidò in lui l'idea che le associazioni stellari definissero un processo a senso unico volto
nella prospettiva del divenire e che questa fosse la chiave di volta più generale per la
comprensione delle stesse galassie e in definitiva di tutto l'universo osservabile. "E'
sorprendente che sia così semplice - confidò ai suoi collaboratori di Bjurakan - ma lo è!".
137
Prendendo in contropiede tutte le interpretazioni accettate dagli astrofisici occidentali,
generalizzò questo processo "genetico" agli ammassi di galassie concludendo che l'"età"
dell'universo è in flagrante contraddizione con le osservazioni, e che proprio dalle galassie a
struttura anomala si potevano estrarre le informazioni più cruciali su come viene
continuamente ad organizzarsi su larga scala la struttura cosmica. Definì "ridicola" l'ipotesi
delle collisioni e ne constatò l'inadeguatezza proprio attraverso l'analisi accurata di quei casi
che venivano considerati "emblematici": il calcolo delle masse fluide sottoposto a reciproca
attrazione mostrava con evidenza schiacciante che i filamenti e gli effetti di marea dovevano
essere considerati invece "come l'ultimo legame che ancora unisce due galassie formatesi per
scissione da un nucleo primigenio e che ora sono in via di completa separazione" (On the
evolution of galaxies, 1959). La formazione delle galassie in gruppi e in ammassi doveva
compiersi attraverso la moltiplicazione e la frammentazione di oggetti originariamente unici,
da separazioni ed espulsioni secondarie, come un processo macroscopico di creazione e di
fissione continua. Ciò implicava a sua volta uno stato più diffuso di tutta la materia, una
"premateria" in grado di condensarsi in masse che Ambartsumian, derogando alla sua
economia logica, denominò ipoteticamente "corpi D".
3. Le osservazioni di Arp confermano le "fissioni" di Ambartsumian?
Eliminando ogni modello aprioristico dell'universo, Ambartsumian identifica di fatto le leggi
dell'astrofisica con le osservazioni stesse. Nessuno può dire a quale spaventosa potenza
negativa del numero dieci sporofonderebbe la possibilità di dedurre "il tutto" dalla mente
pura: solo l'induzione a partire dal dato sensibile ci può dire qualcosa sulla struttura
osservabile (La Méthode en Cosmogonie, 1959).
Questa tentazione, anzi questa scelta è evidente anche in Arp. Dopotutto nessuna fisica
teorica avrebbe mai potuto predire la scoperta del fuoco o la forma delle galassie a spirale, i
quasar o i bursts di raggi gamma, e il sistema copernicano sarebbe stato stravolto dagli stessi
addetti ai lavori (T. Brahe) senza le osservazioni al telescopio di Galileo. Ciò non significa
che se le teorie sono potenzialmente fallibili devono essere sempre sbagliate: gli universi-isola
erano già stati intuiti ai tempi di Kant così come il sistema eliocentrico era già stato presagito
da Aristarco, ed è fuor di dubbio che senza l'ausilio della matematica, della geometria e del
metodo delle ipotesi, nessun approfondimento della conoscenza sensibile sarebbe mai stato
possibile. E' un dilemma irrisolto, ne abbiamo già accennato a proposito della correttezza
formale del sistema tolemaico: l'epistemologia dovrebbe dire più chiaramente se le teorie non
comprovate dall'esperienza sono già scienza.
Ciò che Arp e Ambartsumian non sono disposti a concedere alle potenzialità della
conoscenza è la soluzione aprioristica del Mondo e considerano una sorta di "pervertimento
scientifico" l'assumere come già note tutte le leggi della fisica. "Ci si inventa la soluzione
possibile dell'universo - lamenta Arp - e si cercano ... prove indiziarie". Prendete la costante
cosmologica - rincara un altro illustre dissidente, l'indiano Jayant Narlikar -: è stata bandita
dalla fisica relativistica come il più grande errore di Einstein e poi ripescata con tutti gli onori
per tenere in piedi l'incoerente distribuzione dei redshift delle galassie ospiti di supenovae Si
vuol forse dire che la costante cosmologica è adesso una scoperta scientifica?".
Pochi anni dopo le comunicazioni di Ambartsumian, Arp pubblicò il suo primo Atlante
delle Galassie Peculiari (1966). Le galassie selezionate mostravano evidentissimi stati di non
equilibrio, erano frequentemente coinvolte in discordanze di redshift e quasi sempre associate
a un eccesso di radiosorgenti e a sorgenti di raggi X, che risultarono poi essere quasar "del
lontano sfondo". "E' evidente che si tratta nella stragrande maggioranza di sistemi giovani, ma
la notevole attenzione che riscosse questa raccolta declinò bruscamente non appena le
conseguenze cosmologiche divennero chiare" (Arp, Pasadena, 1980).
138
E allora, in conclusione, ci si può chiedere se le sue osservazioni confermano quelle di
Ambartsumian? La teoria del Big Bang è presa così sul serio che anche questa semplice
domanda può risultare provocatoria, così io mi limito a mostrare alcune di queste galassie
peculiari nello spirito dell'indagine scientifica di un tempo, sollecitando chi le guarda a darsi
una risposta da solo. Quei lettori di Episteme che hanno seguito con sospetto o con irritazione
la mia rivisitazione della controversia non hanno nulla da temere. Sanno bene che i redshift
anomali non esistono e che si tratta semplicemente di effetti di prospettiva. Sanno che non ci
sono galassie che si spaccano, che si frammentano, che si sdoppiano o che si separano da un
corpo originariamente unico, e che vi sono soltanto fusioni e collisioni. Non ci sono le
"separazioni" di Ambartsumian, né galassie compagne che emergono dai bracci delle spirali.
E non ci devono essere "catene" di oggetti che non siano configurazioni accidentali, perché gli
allineamenti, per potersi conservare, richiederebbero la formazione di galassie in tempi
estremamente recenti e quindi una creazione continua della materia cosmica nell'universo.
Guardare per credere le immagini delle galassie che ho selezionato dall'Atlante di Arp.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 2 di Episteme.]
[email protected]
139
Arp
30 Arp
17 Arp
32
Arp 39 Arp 54 Arp 59
Arp
62 Arp 63 Arp 66
140
Arp 71 Arp 72 Arp 81
Arp 82 Arp 83 Arp 84
Arp 85 Arp 86 Arp 87
141
Arp 88 Arp 90 Arp 91
Arp 93 Arp 94 Arp 97
Arp 105 Arp 106 Arp 107
142
Arp
113 Arp 122
Arp 123 Arp 125 Arp 128
Arp 138 Arp 140 Arp 141
111
Arp
143
Arp 143 Arp 144 Arp 145
Arp
148
Arp
149 Arp 151
Arp
176 Arp 188
160
Arp
144
Arp 193 Arp 194 Arp 197
Arp
199 Arp 204
Arp 205 Arp 238 Arp 239
198
Arp
145
Arp
240 Arp
241 Arp 242
Arp
248
Arp 252 Arp 253
Arp
264 Arp 266
263
Arp
146
Arp
270
Arp
278
Arp 272 Arp 277
Arp 279 Arp 282ù
147
Arp
287 Arp 295
Arp 329
284
Arp
148
Foolproof
On All and On Nothing
(Alberto Bolognesi)
1.
There is an ancient dispute that divides supporters of the objectivity of science and proponents
of the relative, limited and partial nature of everything that we know.
Gödel's famous theorem, suggesting that mathematics is partly based on inherently unprovable
propositions, hangs like a sword of Damocles above contemporary science. Karl Popper
challenged the validity of constructing, scientific truth by the mere accumulation of congruent
facts, claiming that the discovery of a single piece of contrary evidence could be equated to
falsification of the whole. The fragile fields of cosmology and even of remote astronomy
would thus be permanently exposed to the risk of total annihilation, given the impossibility of
making, direct checks or measurements. Only the philosopher Thomas Kuhn offers some kind
of consolation for universe builders, outlining a path of reason marked by phases of normal
science and moments of revolutionary breakthroughs1.
Despite this, the Big Bang has become the be-all and end-all of the whole world of physics.
There are those who predict that it will swallow not only up the Devil himself, but also
astronomy, chemistry, biology, logic, philosophy and religion. Stephen Hawking, to mention
just one, is convinced that it will be possible to reach a Unified Theory before 2000, one that
could explain the totality of reality for us in a very clear way, while John Schwarz of Caltech
and Michael Green of Imperial College London claim that they are capable of redefining, the
fabric of matter and the cosmic eco itself using, Indivisible ring-shaped entities of about 10-33
cm in size. These rings, called "superstrings", are neither bodies nor energy, and neither are
they geometry, but manage to be all three at the same time.
Superstrings are rapidly winning favor among researchers into the "Theory of Everything",
although their illustrious critics include Nobel prizewinner Sheldon Glashow, who advocates
their immediate withdrawal from the cosmology scene. To start with, observes Glashow,
something must start them vibrating in the first place, and then we need to hypothesize a
space-time with ten or more dimensions and a significant quantity of new particles. This in
itself would be no daunting prospect for Glashow, as he claims that theorists in general,
himself included, are capable of inventing "all sorts of rubbish" with which to fill the
universe2. Nevertheless, he feels that superstrings are quite beyond the bounds of science, and
that their inventors are sailing in purely speculative waters. It was Glashow, together with his
fellow Nobel prizewinners Weinberg and Salam, who demonstrated the existence of a
fundamental link between electromagnetism and simple nuclear force. He is also credited with
shedding valuable light on the first ten billionth of a second of the universe, but modestly
prefers to refrain from talking about cosmology.
Even more critical is another Nobel prizewinner, Philip Anderson, who works on condensed
matter and fails to believe that a Unified Theory can ever succeed in explaining the world
satisfactorily. The dominant validity of physical laws comes up against insuperable
contradictions when we move from one cosmic scale to another, and a totally different set of
concepts, parameters and languages is needed. Anderson claims that reality has a hierarchical
structure, and that every level of scale has its particular characteristics, independent and
sometimes in blatant contrast with the others. It is very tempting but equally mistaken to
believe that a general principle valid at one level could be accepted as valid for all the others3.
149
Harsher still is IBM information scientist Rolf Landauer, who bluntly declares that the
Philosopher's Stone simply does not exist, and rank upon rank of scientists and observational
astronomers side with him, anxious to win back the universe after their reckless flirt with
microphysics.
There are many more people, however, who feel that this flirtation has led to an indissoluble
marriage. As the Kitt Peak astronomer Dave Crawford humorously puts it, when there's a
sacrament involved, there's no way of backing out. You have no choice but to go on together,
moving back through time to when the galaxies were so close together that they formed a
single chunk of primordial matter, stepping even further without fear inside the cosmic egg
itself, the dimensionless point that exploded into the universe.
For the moment, at least, a majority of persons seem to have already made their choice, and
uncreated matter is no longer of interest. What is far more stimulating is the subject of
creation. By now what counts is not whether a story is true or false-what counts is to narrate it
well.
Alexandr Vilenkin is an important name in cosmology. After emigrating from Russia and
stopping off briefly in Italy, he moved to America and found a job from a newspaper advert.
He studied Zeldovic and made his mark with "nothing", "bubbles" and "foam".
What is "nothing"? "Nothing", he could calmly reply. Neither time nor space, neither energy
or geometry. Is it the opposite of superstrings? Again, "nothing" would be the answer,
followed by his specifying that he has only worked with Turok's strings4.
Because there are strings and there are superstrings, and in the same way that there's a Theory
of Everything, there's also a Theory of Nothing. Here, strings are not "super", and they are
consequences, not causes. They could be described as a web of cracks in space-time, thin
labyrinths smaller than a particle where the energy conditions of the Big Bang still survive.
But Vilenkin goes way beyond strings, and much further back. His viewpoint is that the
universe is a vacuum fluctuation, the same viewpoint that earned fame for an American
physics student when he brought down the house in laughter at a convention5.
In his Creation of Universes from Nothing (Physics Letters, 1982), Vilenkin lucidly examined
the possibility that the universe, or even multiple universes, could emerge from nothing
without violating any law of conservation, quite simply as a "bubble" or a crinkle emerging
from the vacuum of eternity, from the perfect homogeneity, from the "supersymmetry". An
accidental bubble or bubbles, but totally real in the midst of a mass of virtual or impossible
foam that constantly collapses back into the oceanic vacuum. A bubble or bubbles that must
nevertheless obey pre-existing physical laws once they have emerged. Are physical constants
what they are because this "bubble" is what it is? Vilenkin doubts this. lf it had been a little
different, perhaps this universe would not have come through. Nothing has an imprint, but no
matter.
2. Matter and Life
The particle physicist Heinz Pagels is someone else who wants to know where physical
constants come from. "Who is it that tells the nothing that it can give birth to a possible
universe on certain conditions?" he asks. On the other hand, he also challenges the Anthropic
Principle, claiming that this fable has never provided even a single factual proof or number to
demonstrate its validity. In his oft-quoted book Perfect Symmetry, Pagels proposes that life is
not a selective principle that is predominant over matter, but is a consequence.
The basic idea is that if life is a property of matter, even Aladdin must have come out of his
lamp. Perhaps plain and simple rules exist capable of combining to generate the complex
systems that we call "life". The complexologist Christopher Langton claims that if a
programmer were to create a world of synthetic molecules able to follow these rules, they
150
would organize themselves spontaneously, feeding, reproducing and evolving. They would be
alive, even though only inside a computer.
The age-old dispute between vitalists and mechanists has thus been transferred from
philosophy to science, and thence to computers, in the hope that some final explanation might
be found. The debate continues, in milder tones and on paradoxically inverted fronts, with
algorithms and notions of cosmology, molecular biology and genetic engineering, generating
new monsters and resuscitating ancient divisions.
Harvard evolutionist Stephen Jay Gould came close to Pagel's position when he argued that
life is not shaped by deterministic laws but by unpredictable circumstances. Gould is a
biologist, and his reference was more specifically addressed to the phenomenon of organic life
that to the entirety of the universe, but even here we can sense an adhesion to casual
causationism that has a distinct flavor of quantum mechanics and the supersymmetrical Big
Bang.
Retaliation was simmering. Philip Anderson appeared again to protest that biology is not
simply applied chemistry, while the great French biologist Jacques Monod warned that life is
highly and even demonstrably improbable.
Stuart Kauffman, the expert in artificial life, fires broadsides of vitalist mechanism almost
without realizing it. Kauffman is convinced that Nature knows perfect1y well what she has to
do, following a code, or even better, a fully-fledged universal trend, an anti-chaos, a new
fundamental force that competes with disorder and the second principle of thermodynamics!
In his book At Home in the Universe (1995), Kauffman even takes his distance from Monod
and the improbability of life. He claims instead that biological genesis and its evolution are in
a certain sense inevitable, a much more voluntary process than simple natural selection.
The Anthropic Principle is an old idea that keeps coming back. The doctors of Montpellier
proclaimed it at the end of the eighteenth century, including it in the celebrated Encyclopédie6.
They imagined the vital essence to be an unconscious force, a kind of spontaneous organizing
principle that acts at molecular level. This is not unlike the "new fundamental force" now
advocated by Kauffman, the same that not so long ago, with infinite facets, inspired Bergson,
Driesch, Reinke and countless others. It is worth remembering, however, that this principle
has faced an uphill struggle ever since it was first enunciated, as only a few years later, in
1828, urea was synthesized from purely inorganic ingredients.
But Kauffman sticks staunchly to his guns, attempting to prove by means of sophisticated
computer simulations that when a group of substances attains a certain level of complexity or
interconnection, it undergoes a spontaneous transition that represents a veritable shift in
phase. The molecules start to combine into larger molecules of increasing complexity, just as
if they were following a plan. It is this autocatalytic capacity, argues Kauffman, and not the
accidental formation of a molecule capable of reproduction, that leads to the creation of life.
Murray Gell-Mann tries to obtain consensus on the language to be used. In his book The
Quark and The Jaguar, he claims that the probabilistic nature of quantum mechanics allows
the universe to unwind in an infinite number of ways, in some of which there may be
conditions favorable to the appearance of complex phenomena, such as life in galaxies, and
then right on down to us, on our tiny planet. But we have still not managed to square our
circle. It seems far too easy for Gell-Mann to say that there is no need for "a new force" to
explain complex phenomena like life, and that the second principle of thermodynamics in
itself permits the temporaneous growth of order and complexity in relatively isolated systems.
We come inevitably back to Pagel's dilemma, which is none other than that once posed by
Aristotle: Who decides physical constants? Just who is it that dictates the laws of
thermodynamics, who determines electron mass or the varieties of quarks? And who inspires
Murray Gell-Mann?
We could think of God, perhaps, to the joy of Allan Sandage, or of the Aliens series for sci-fi
fans, when the heroine poses her sinister question: "Who lays the eggs?".
151
3. Foolproof
Marco is thirteen, and has inherited his eyes and his shiny black hair from his Philippine
mother. He wants to be an astronomer when he grows up, or a computer programmer, and he's
an enthusiastic follower of gravitational lenses.
"Perhaps God doesn't exist", he says, in his typically loud voice, "because if He did we'd have
seen Him already behind the universe".
"You don't expect to see an old man with a white beard or a square eye, do you?" I hasten. to
reply.
"But what's strangest of all", he continues, ignoring my interruption, "is that if every sight-line
in the sky ends up in the Big Bang, the light of creation should be amplified and we ought to
be able to see it still".
Maybe Marco is a genius, or maybe he doesn't play outside enough. Maybe in a few years his
passion for astronomy will dry up, and maybe his math talent will be put to far more profitable
use (in monetary terms) doing the books for a restaurant with paper lampshades that serves
bamboo shoots and fried squid. But if in the meantime the most sophisticated observation
instruments should happen to detect some kind of luminous radiation like the one postulated
by Marco, then 1 solemnly swear that I will forever call it by his name and none other.
There are already too many contenders on our waiting list for a fossil background of X and
gamma rays. "Marco's light", instead, would do justice to them all, without the mumbles and
grumbles that unfortunately accompanied 3° K radiation. Perhaps no-one will ever see the
fireball, the lux biblica of Lemaitre, Gamov or Marco, but pessimism is certainly out of order
here. Anyone concerned with physics knows that if you look stubbornly enough for
something, you always end up finding something, even though this something might be
something completely different. My twenty-five readers are doubtless aware that in remote
astronomy, direct verifications of any kind are absolutely impossible. If we were to pose the
provocative hypothesis that 3° K radiation is not fossil but local, linked to our own galaxy, or
to the cluster or supercluster of which we are a part, we would need thousands, millions or
billions of years respectively to confirm this, because of the limits imposed on us by the speed
of fight.
It is truly disheartening to calculate the time that would be needed for a space probe using
present-day technology to leave our galaxy, cluster or supercluster, complete its observations
of the background and send its data back to us. To give some idea of this for those who rarely
think about the problem, the effect can be compared to discovering that Santa Claus does not
exist, that Martians live a long, long way away and that very often, to keep our spirits up, we
are forced to do our own present-giving to ourselves. No cosmologist will ever willingly tell
you that in remote astronomy, our measurements, convictions and errors are all doomed by
eternity.
Fortunately, this does not mean that we are prevented from finding at least a few answers, and
neither does it mean that anything goes. What it means is that we will never have all the
answers. More than a human condition, this seems to be a condition of physics.
Naturally, no-one at Caltech, Harvard, MIT or Fermilab will become more, cautious because
there's a skeptical amateur at the AAU7 Who writes things like this. On the contrary, many
scientists are convinced that they can relegate even Kant to their archives, and are looking
forward to a chance of booting the noumenon round some even bigger accelerator,
discovering the secret of the universe and perhaps even selling it to the Japanese!
In the meantime, the model of the universe has been officially acquired into the world of
science-there was an explosion starting from a single point, a point without dimensions that
now surrounds us in all directions.
152
What is considered to be one of the most influential articles in the immense panorama of Big
Bang literature appeared in the August 1991 number of Nature. Entitled The Case for the
Relativistic Hot Big Bang Cosmology, it was penned by Jim Peebles, David Schramm, Edwin
Turner and Richard Kron (PSTK). Peebles and Schramm need no presentation-they are so
famous that some people call them "The Bio Bane, Bombers". Turner is an astronomer
specializing in gravitational lenses. Kron has made a great reputation with his surveys on red
shifts carried out on small sections of deep space.
Right from their introduction, these authors attribute three fundamental requisites to the Bio
Bang:
1)
2)
3)
It explains and forecasts observations in an excellent way.
No other satisfactory alternative cosmological models are known.
Although there are a few unsolved puzzles, nothing contradicts the Big Bang.
So we could stop here if we wanted, and continue reading, the article only if we have a
particular weakness for questions of details, anecdotes and "puzzles"
In another article in the Italian edition of Scientific American8, PSTK conclude their nth
discussion of the topic by declaring that any new cosmological theory must inevitably
incorporate the idea of the Big Bang. Whatever may happen in. the future, cosmology has by
now been transformed from a branch of philosophy into a physical science, in which
hypotheses must pass the test of observations and experiments.
Foolproof. The Big Bang is proclaimed to be a physical phenomenon and cosmologists
nominate themselves the depositaries of scientific truth. Extrapolations and not observations
and experiments (not even future ones!) will guide us on the path of wisdom. An empirical
finding, when it contradicts the assumed hypothesis, will be discarded as an error of selection.
Apart from the usual predictable people, no-one seems to have raised any objection to PSTK's
syllogism-cosmology is science; the only plausible cosmology is the Big Bang; therefore the
Big Bang is the only science.
Halton Arp and T. Van Flandern immediately fired off their Case Against the Big Bang8 in
the direction of the exultant Case for the Relativistic Hot Big Bang Cosmology, listing a great
quantity of data and observations that seem to be incompatible with PSTK's model. But how
many people read it? And who wants a to risk a shoot-out with our Fermilab colleagues or to
stir up trouble at CERN?
Thus it was that Italy's Nobel prizewinner, Carlo Rubbia, safe and sheltered beneath the
umbrella of "whatever may happen in the future", told a television audience that the universe
is "15 billion years old", and that quite soon we should be able to emulate God by reproducing
in a cellar somewhere the ultra-heavy particles of the Creation, technically known as the Hot
Bio Bang.
At the moment of writing, following more precise measurements made with the Hubble Space
Telescope, the age of the universe is quite literally crumbling. The expansion constant H o,
generally thought to be below 50 km per second per megaparsec, has now been calculated as
being no less than 80 and more probably nearer 90 km per second per megaparsec. And this to
the understandable embarrassment of cosmologists, admits Duccio Macchetto, the director of
the HST Institute, who are now called on to put together galaxies that can be no older than
seven or eight billion years with star clusters that are at least twenty billion years old9.
If we prefer not to phone Chicago or Baltimore so as not to disturb, we can always try
Professor Rubbia at CERN, perhaps posing some question like: "Why did you declare that the
universe is 15 rnillion years old?" I actually tried ringing him, on all the numbers 1 could find,
but after 1 stated my reason for calling 1 was never put through.
So it is to PSTK that we must ask our question, loud and clear. As concems "whatever may
happen in the future", just what might happen if Ho, is 80 km per second per megaparsec? Do
153
we have to retrieve the term "∆" from field equations, the notorious "cosmological constant"
that helped Einstein hold his static universe in equilibrium? Or will we have to rewrite the
entire story of stellar evolution (naturally, as an accelerated evolution)?
Both of these seem likely. A touch of acceleration here, slow down that piece over there, a bit
of computer-dressing, and our Big Bang will be safe again. Halton Arp will write another
article of fiery dissent that no-one will read, and a deranged star-gazer will set phones ringing
in vain in the cosmology departments of half the world.
Notes
1
Thomas Kuhn, La struttura delle Rivoluzioni, Scientifiche, 1962.
2
Sheldon Glashow, Desperately Seeking Superstrings, Psysics Today. The remark was
reiterated in full at the Cambridge convention on dark matter.
3
Philip Anderson, More is Different, Science, 1972.
4
Neil Turok, English physicist and one of the main proponents of cosmic strings.
5
Ed Tryon, now a Professor at Hunter College, New York, and author of "Is the Universe a
Vacuum Fluctuation?", Nature 246.
6
Paul Barthez (1734-1806), state physician and member of the Académie des Sciences.
7
AA.VV. Associazione Astronomia Umbra.
8
PSTK, L' evoluzione dell' universo, Scientific American, special edition 1994, no. 316,
Italian edition.
9
The most recent measurements of variable cepheids belonging to galaxy clusters in Virgo
and Leo, obtained with the Keck Telescope and the HST, give these results:
Ho = 87 ± 7 km. sec. Mpc (NGC 4571, M. Pierce et al, 1994).
Ho = 80 ± 17 km. sec. Mpc (M 100, W. Freedman et al, 1994)
Ho = 69 ± 8 km. sec. Mpc (M. 96, N. Tanvir et al, 1995).
----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 2.]
[email protected]
154
Dall'impulso nascosto in elettrodinamica classica
all'impulso nascosto nella propulsione non newtoniana
(Emidio Laureti)
Introduzione
In base all'elettrodinamica classica l'unico modo, per via e.m. di variare la quantità di moto
(qdm) di un corpo materiale sta nel fargli emettere o assorbire radiazione e.m..
Consideriamo il caso molto semplice di assorbimento di un'onda e.m., propagantesi lungo
l'asse delle z e polarizzata lungo l'asse delle x, da parte di un elettrone libero (di massa m e
carica e) nell'origine di una terna cartesiana.
In assorbimento lungo l'asse delle z l'impulso ricevuto dalla carica non può essere in modulo
maggiore di pz=W/c dove W è l'energia assorbita e c è la velocità della luce.
Verrà mostrato che (W/c)vers(z) non è l'unico impulso esistente.
La situazione sperimentale è pertanto quella di un campo elettrico oscillante lungo la
direzione x: Ex = E0cos(kz-ωt) che investe la carica, mentre l'onda si propaga lungo l'asse
delle z. Mentre interagisce con l'onda e.m. la particella carica acquisisce, in campo libero,
anche moto e impulso trasversale (lungo l'asse delle x) mentre il campo e.m. veicola solo
impulso longitudinale (lungo l'asse delle z).
Varie domande sorgono molto evidenti:
1) Come si può salvaguardare la conservazione dell'impulso lungo la direzione ortogonale alla
direzione di propagazione dell'onda e.m.?
2) Come mai tale evento di palese e apparente contraddizione con la conservazione della
quantità di moto non ha avuto lo stesso peso di natura teorica e pubblicitaria del rinculo
fotonico W/c (mi riferisco in dettaglio a tutta la letteratura basata sulle propulsioni a fotoni
come ad esempio vele solari e razzi a emissione laser) ?
3) Come mai è stato ignorato nell'elettrodinamica di Maxwell [1], da Einstein in ambito
relativistico e successivamente viene ignorato da tutti coloro che ritengono che, come E. Fabri
[cfr. 2]: "…l'unico modo di variare per via e.m. la q. di moto di un corpo materiale isolato sta
nel fargli emettere (o assorbire) radiazione e.m., e che in tal caso la q. di moto non potra'
superare E/c, essendo E l'energia dell'onda emessa (o assorbita)…"?
Conservazione della QDM
Come scrisse diversi anni fa in Nova Astronautica il Socio Asps Carlo Bresciani esistono
fenomeni in cui la conservazione dell'impulso non può essere spiegata dal solo momentum
fotonico pz = W/c [3] [4].
E questo si verifica appunto nell'oscillazione ortogonale lungo la direzione del campo elettrico
di di un elettrone o anche di una carica pesante elettrica, quando vengono investiti da un'onda
e.m..
155
L'oscillazione dell'elettrone piccola o grande che sia conserva l'impulso solo attraverso
la definizione di un impulso complementare elettrico [3] [4] che si deve inevitabilmente
attribuire al campo elettrodinamico dell'onda e della carica.
La conclusione è che la conservazione della qdm anche nel limite non relativistico tra cariche
e campi è conservata non solo dal mero rinculo fotonico.
Il problema verrà analizzato nel riferimento dove in media la particella è a riposo, trascurando
l'energia irraggiata dall'elettrone, e sotto la condizione eErms/mω c << 1 (rms = root-meansquare) [5].
Per la qdm dell'elettrone si può dire che:
[a] esiste durante l'oscillazione lungo l'asse delle x un impulso:
1) Pmech = mdx/dt = (e/ω)E0sinωt
ovvero in pratica esiste istante per istante un impulso anche se in media è nullo;
[b] mentre l'elettrone varia il suo impulso lungo l'asse delle x tutto ciò avviene senza assorbire
o emettere qualcosa lungo la direzione dell'asse delle x;
[c] parimenti può essere creato un modello interpretativo per la conservazione della quantità
di moto che, pur violando istante per istante il principio di azione e reazione lungo l'asse delle
x,conservi appunto l'impulso lungo tale direzione;
[d] può essere dimostrato che |Pmech| può essere maggiore di W/c .
Per quel che riguarda i punti [a] e [b] essi sono evidenti di per sé, e costituiscono un
interessante motivo di studio del perché essi vennero ignorati nell'elettrodinamica classica di
ascendenza maxwelliana dato che alcune sue conclusioni sono di conseguenza
impropriamente utilizzate contro la PNN [2].
L'articolo di K.Mc Donald [5] soddisfa quanto attiene al punto [c]. In tale articolo l'autore fa
notare che Poynting [6] ipotizzò che un campo e.m. potesse contenere un flusso di energia
(energia per unità di area e per unità di tempo) dato da:
2) S = cExB/4π
in unità Gaussiane, dove E è il campo elettrico, B è il campo magnetico nel vuoto e c è la
velocità della luce.
Poincaré [6] [7] notò che questo flusso di energia può anche essere associato a una densità di
impulso nell'interazione dell'onda viaggiante con i campi e.m. prodotti dalla carica:
3) pfield = S/c2 = ExB/4πc = (Ewave + Echarge)x(Bwave + Bcharge)/4πc
Pertanto il problema si riduce a trovare per un elettrone libero investito da un'onda e.m. piana
un "electromagnetic field momentum" che sia uguale e opposto all'impulso meccanico:
Pmech = mdx/dt = (e/ω)E0sinωt .
156
Viene dimostrato che [5]:
4) Pint = ∫pintdVol = ∫ dVol(EwavexBcharge + EchargexBwave)/4πc
è uguale e opposto al momento meccanico dell'elettrone.
Ciò è possibile nel considerare, in analogia all'analisi di Fourier, il campo e.m. associato
all'elettrone oscillante come sovrapposizione di altri campi, ovvero:
-
un campo elettrico di un elettrone a riposo nell'origine;
il campo di un dipolo consistente in un positrone a riposo nell'origine + il campo
dell'elettrone oscillante.
Attraverso il calcolo si trova che solo la "componente statica" del campo della carica pwave;static,
interagendo con il campo dell'onda, consente la conservazione dell'impulso meccanico lungo
l'asse delle x [5]. Ovvero che nel dettaglio:
5) pint = pwave;static = -pmech .
Il ragionamento di cui sopra è così evidente che va ad intaccare la modellizzazione di ogni
tipo di situazione sperimentale in cui si è ricavata teoricamente l'univocità del valore W/c.
W/c non è l'unico modo in cui si può definire un impulso tra un'onda e.m. e una carica. La
logica fisica che è alla base di W/c è manifestamente parziale, e quindi tale parzialità di
impostazione non può avere titoli per definire leggi generali che esorbitino dalla base
sperimentale da cui sono sorte, ovvero che possano operare non solo contro una delle
affermazioni riportate in [a], [b], [c], [d], ma anche contro la PNN (Propulsione Non
Newtoniana) [9] [11].
Per quel che riguarda il punto [d], immaginiamo che il campo viaggiante lungo l'asse z sia
costituito da un solo fotone di energia
W= hν ,
dove h è la costante di Planck e ν è la frequenza. Poiché l'impulso ottenuto è W/c, la velocità
vz dell'elettrone sarà:
vz = (hν/mc)vers(z) .
Confrontiamo ora il modulo di |vz| con il valor medio dei moduli della velocità <|vx|> derivanti
dall'impulso meccanico dell'elettrone lungo l'asse delle x. Ricordando che l'onda e.m. che si
propaga lungo l'asse delle z ha una densità di energia che si ripartisce ugualmente tra le
componenti elettrica e magnetica [16], si trova per il suo valor medio che:
Wm = ε0E02/8π .
Eguagliando Wm per metro2 con hν abbiamo che:
E0 = (8πhν/ε0)1/2
157
<|vx|> = eE0/mνπ2 = (e/m)(8h/π3ε0ν)1/2 .
Eguagliando ora:
<|vx|> = |vz|
si ottiene la frequenza di taglio:
6) νt = (2/π)(e2c2/ε0h)1/3
da cui:
7) <|vx|> > |vz| per ν < νt ,
ovvero che il modulo della qdm dell'hidden momentum lungo l'asse delle x in media e
per alcune frequenze può eccedere W/c lungo l'asse delle z.
Ritorniamo alle osservabili interattive associate al nostro elettrone oscillante:
pint = -(e/ω)E0sinωt
Xint = (e/mω2)E0cosωt
Fint = -eE0cosωt .
La Fint è in tutto simile a una forza di richiamo a cui è soggetto l'elettrone oscillante. E
possiamo pure ritenere che ciò che conserva l'impulso conservi pure l'energia totale
dell'elettrone oscillante. Ovvero che il sistema elettrone + campo elettromagnetico sia un
sistema conservativo, perché la forza Fx= -kx cui è soggetto l'elettrone è derivabile, a meno di
una costante, da un'ipotizzabile energia potenziale elettromagnetica U = kx 2/2, dove k= mω2, e
quindi:
Fx = -dU/dx .
L'energia potenziale dell'elettrone varia tra 0 e il valore massimo kx02/2, dove:
x0 = eE0/mω2
è l'ampiezza di oscillazione dell'elettrone lungo l'asse x.
Si trova questa energia potenziale U = (e E )2/(2mω2), e in pratica il nostro elettrone mentre
oscilla aumenta (o viceversa) la sua energia cinetica e diminuisce (o viceversa) la sua energia
potenziale e.m. nel campo elettrodinamico.
L'analogo in ambito PNN
Ricordando il legame che esiste tra campi elettrici e magnetici variabili ovvero che la III
equazione di Maxwell è la legge di Faraday Neumann Lenz (e viceversa) [10], si può supporre
che la stessa procedura che conserva l'impulso pmech = -pint = -pwave;static attraverso l'impulso
complementare elettrico conservi anche l'impulso magnetico negli esperimenti di natura PNN.
158
In più è però presente l'essenziale dettaglio che l'impulso complementare magnetico
opposto a quello generato dalla forza "ilB" [11] pur essendo hidden non è più in media
nullo dato che, a differenza dal caso elettrico, la combinazione tra correnti e campi
magnetici cambia simultaneamente verso in ogni semiperiodo e quindi la forza
elettrodinamica di tipo PNN ha un identico verso e direzione in tutti i semiperiodi [17].
Ammettendo come esistente anche nel caso della PNN un equivalente campo "statico" come
substrato di quello proprio oscillante si può bilanciare l 'impulso della PNN con uno uguale e
opposto dovuto all'interazione del campo magnetico statico della corrente i con quelli
dell'onda e.m.. La conservazione dell'impulso per la PNN si pone in stretta analogia con
quello di cui parlano Carlo Bresciani e K.T. Mc Donald. Come si può conservare l'impulso
trasversale di una carica investita da un'onda longitudinale con una opportuna interazione tra
la "componente statica" del campo elettrodinamico [5] [6] [7] della particella carica
(oscillante trasversalmente) e l'onda stessa, così si può bilanciare l'impulso PNN generato
dalla forza "ilB" [11] con quello derivante dall'interazione dei campi e.m. dell'onda con quelli
della corrente oscillante.
E tale procedura ci permette di dire in perfetta similitudine che l'energia totale di SC2.12 si
conserva perché l'aumento comunque grande dell'energia cinetica di traslazione è compensato
dalla diminuzione comunque piccola dell'energia potenziale magnetica [8] del sistema nel
campo elettrodinamico statico in cui l'aumento dell'energia cinetica avviene.
In prima analisi un aumento comunque grande dell'energia cinetica di tipo PNN, e un
abbassamento dell'energia potenziale magnetica comunque grande, nel riferimento delle stelle
fisse andrebbe inevitabilmente a scaricarsi sull'unica osservabile che si dovrebbe
presumibilmente mantenere immutata: la massa.
In conclusione in dinamica PNN la massa elettromagnetica dovrebbe diminuire
all'aumentare della velocità per non violare la conservazione dell'energia.
Ma la diminuzione di massa in relazione all'aumento di velocità PNN determina una
ridefinizione della legge del moto e in conseguenza la legge di inerzia dovrebbe cambiare.
La PNN si basa su una elettrodinamica classica senza omissioni
Ripeto ancora che non ho alcuna teoria da proporre [9] [11] se non indicare la procedura di
utilizzazione di fenomeni già conosciuti da molto tempo [3] in elettrodinamica classica,
attraverso i quali si può dare ragione alla teoria di Laplace che ammetteva l'esistenza di forze
elettrodinamiche tra circuiti aperti [12] [13] in automatica ed evidente "possibile" violazione
(e ridefinizione [2] [3] [4]) del principio di azione e reazione newtoniano.
Il problema è semplicemente che coloro che pretendevano di descrivere compiutamente e
completamente l'elettrodinamica classica ( prima Maxwell e successivamente Einstein ) con
l'univocità dell'evento W/c, non hanno tenuto in considerazione nella loro teoria
l'interazione di una carica libera sottoposta ad oscillazione perpendicolare alla direzione
di propagazione dell'onda che l'investe e della conseguente procedura di conservazione
della quantità di moto trasversale.
Nell'ambito delle teorie che si basano sulla limitazione W/c non c'è traccia di tutto ciò e
quindi queste teorie non hanno nessun titolo per porre dei limiti all'impulso determinabile tra
onde e.m. e cariche. Se si vuole proporre una teoria generale: leggasi elettrodinamica di
Maxwell e teoria della relatività, quando pongono limiti o propongono teoremi sull'impulso
veicolabile dal campo e.m., non è accettabile che possa essere ignorato l'impulso nascosto.
159
Poiché nell'universo fin dove possiamo osservarlo si è propagata anche la sovrapposizione di
tutti i campi elettrici e magnetici stazionari delle cariche della materia, possiamo dire che è
"almeno" presente questa componente statica dei campi nel cosiddetto vuoto.
La presenza della componente statica dei campi ai fini della conservazione della qdm è quasi
una nemesi per la storica disputa sull'Etere [14] [15] dato che sembra aggiornare con un
possibile nuovo concetto di substrato il declassato concetto storico dell'Etere Luminifero. Per
quanto sopra l'esistenza del nuovo substrato è necessaria ai fini della conservazione della
quantità di moto ed inoltre ha una struttura idonea a superare le contraddizioni con
esperimenti che non ne determinavano in passato l'esistenza. Infatti il nuovo substrato è in
piena contiguità con il "principio di sovrapposizione" [17] e conseguentemente la
radiazione e.m. nell'interferometro dell'esperimento di Michelson Morley non interferisce
affatto con la sovrapposizione dei campi elettrici e magnetici stazionari.
Riferimenti Bibliografici
[1] J.C. Maxwell., A Treatise on Electricity and Magnetism, V2, Dover, New York, 1954
[2] E. Laureti, "E Nessuno Può Dimostrare il Contrario", Nova Astronautica n. 97 Vol. 23
2003
[3] C. Bresciani, "L'Impulso Complementare", Nova Astronautica n. 6 Vol. 1 1981
[4] C. Bresciani, "Precisazioni sull'Impulso Complementare", Nova Astronautica n. 11 Vol. 2
1982
[5] Kirk T. McDonald, Joseph Henry Laboratories, Princeton University, Princeton, NJ
08544 (Nov. 15, 1998) [PDF] The Transverse Momentum of an Electron in a Wave 1
Problem 2... Formato file: PDF/Adobe Acrobat - Versione HTML
Page 1. The Transverse Momentum of an Electron in a Wave Kirk T. McDonald Joseph
Henry Laboratories, Princeton University, Princeton, NJ 08544 (Nov. 15, 1998) 1...
www.hep.princeton.edu/~mcdonald/examples/transmom2.pdf [6] J.H. Poynting, "On the Transfer of Energy in the Electromagnetic Field", Phil. Trans.
175, 343-361 (1884); also, pp. 174-193, Collected Scientific Papers, Cambridge U. Press,
1920
[7] H. Poincaré, "Theorie de Lorentz et le Principe de la Reaction", Arch. Neerl. 5, 252-278
1900
[8] E. Perucca, Fisica Generale e Sperimentale II, Un. Tip Ed. Torinese 1949, da pag.411
[9] E. Laureti, "Le basi sperimentali della Propulsione Non Newtoniana", Episteme n.6 Parte
II 21 Dicembre 2002 pp. 132-136
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/ep6/ep6-asps.htm
[10] E. Laureti, "Corrente di Spostamento e Corrente di Autoinduzione Sono la Stessa Cosa",
Nova Astronautica n. 94 Vol. 22 2002
[11] E. Laureti, "Descrizione Generale del Principio di Funzionamento della PNN", Nova
Astronautica n. 97 Vol. 23 2003
160
[12] E. Amaldi, Fisica Generale II, Università di Roma, 1965 pag. 290-291
[13] E. Perucca, Fisica Generale e Sperimentale II, Un. Tip. Ed. Torinese 1949, pag. 627628
[14] U. Bartocci, "On a Possible Experimental Discrimination Between Classical and
Relativistic Electrodynamics", Atti del Convegno Internazionale Quale Fisica per il 2000?,
Ischia, Italy 29 Maggio - 1 Giugno 1991, Società Editrice Andromeda n. 59, supplemento a
Seagreen 1991-1992
[15] U. Bartocci,"Looking for Special Relativity's Possible Experimental Falsifications",
Episteme n. 6 Parte II 21 Dicembre 2002
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/ep6/ep6-bart.htm
[16] E. Perucca, Fisica Generale e Sperimentale II, Un. Tip Ed. Torinese 1949, pag.853
[17] E. Laureti, "Il Prototipo SC23", Nova Astronautica n. 77 Vol. 18 1998
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme, Parte II]
Associazione Sviluppo Propulsione Spaziale
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Una notula sul contenuto iniziatico effettivo dei Misteri Eleusini
(Sante Anfiboli)
"Alla radice dell'Occidente c'è una tradizione spirituale celata, concepita dai fondatori
originari delle nostre scienze, ma poi travisata e cancellata con cura, sicché ben pochi ne
conoscono ormai i nomi stessi, salvo i rarissimi che sappiano di avere in tasca la storia delle
stelle e di poter andare in direzione del futuro soltanto guardando al passato".
(ZOLLA E., Discesa all'Ade e resurrezione, Adelphi, Milano, 2002, p. 96)
Leggo nell'ottimo libro della filologa classica Marion Giebel I culti misterici nel mondo
antico (ECIG, Genova, 1993, pp. 37-38):
Poi, ancora velato, il myste poteva toccare, con l'aiuto del mistagogo, gli Hierà, gli oggetti
sacri della cysta mystica. A questo rito rimanda la «parola di passo» (Synthema),
tramandataci dall'autore cristiano Clemente Alessandrino, che tutti i mysti dovevano
pronunciare successivamente, al momento dell'ingressso nel luogo sacro dell'iniziazione:
«Ho digiunato, ho bevuto il kykeon, ho preso [qualcosa] dalla cista (il contenitore con
coperchio), l'ho meneggiato, l'ho posto nel kalathos (un contenitore aperto) e dal canestro
nuovamente nella cista. Nelle raffigurazioni un serpente si attorciglia intorno al canestro che
il myste deve toccare senza timore. Si è supposto che questi oggetti misteriosi - che non
dovevano essere necessariamente gli stessi mostrati dallo ierofante durante l'iniziazione fossero delle riproduzioni dei genitali, come sostengono gli scrittori cristiani; forse si trattava
di dolci sacrificali a forma di fallo e di utero. Quindi, mettendo in contatto i due oggetti,
l'iniziando partecipava all'origine della vita in tutte le sue forme. Si può però pensare
(anche?) a un mortaio e a un pestello, strumenti utilizzati per la macinatura del frumento,
con i quali l'iniziando non solo faceva proprio il dono di Demetra, come aveva fatto
Trittolemo, ma al tempo stesso si sottoponeva simbolicamente a un processo di
trasformazione e di passaggio, come il chicco di grano che muore e porta nuovamente
frutto.
Le considerazioni della Giebel lasciano tuttavia profondamente insoddisfatti. Perché? Ma
perché sono prive di ogni elementare forma di buon senso.
Ella dice che i Misteri di Demetra erano celebrazioni simboliche:
-
o, come vorrebbe una certa patristica cristiana, dell'accoppiamento sessuale;
o dell'attività agricola.
Ma allora non si capisce la necessità dell'estrema segretezza che doveva essere mantenuta su
di essi. Che senso ha mantenere segreta la ripetizione simbolica di qualcosa che si fa
quotidianamente nelle campagne o nei talami? Qualcosa che è ben noto a tutti? Sarebbe un
esoterismo da baraccone, come tra l'altro obietta proprio Clemente Alessandrino.
O ci si vuol far credere che gli iniziati ai Misteri fossero degli stupidi?
È molto più logico pensare che accoppiamento sessuale e agricoltura fossero impiegati come
simboli di qualcos'altro che non era affatto noto a tutti e che veniva tenuto effettivamente
segreto.
163
Già, ma che cosa?
Qui è interessante considerare l'interpretazione degli oggetti sacri come mortaio e pestello interpretazione proposta da molti dei migliori autori come Burkert, Mylonas ed Eliade -,
tuttavia nel menzionarla la Giebel ricade nell'interpretazione "agricola" di cui ho già
denunciato l'inadeguatezza.
A ciò aggiungo che solo a un filologo classico poteva venire in mente che a quei tempi il
grano si macinasse con mortaio e pestello: è vero che si poteva farlo, tuttavia ciò avrebbe
voluto dire impiegare mezza giornata per produrre la farina necessaria a cuocere un panino.
Anche allora la farina veniva prodotta con il sistema delle macine e relativi asinelli che le
facevano girare. Con buona pace della Giebel, mortaio e pestello non erano affatto strumenti
tipici della panificazione, si vede dunque assai male come avrebbero potuto divenirne i
simboli.
Ma allora, a cos'altro potevano servire?
Ciascuno a questo punto è libero di rispondere come crede: io di sicuro ho la mia idea. E la
mia idea è che mortaio e pestello erano invece strumenti affatto tipici dell'attività chimicofarmaceutica.
Mi si ribatterà: "Ah, la solita alchimia!" Naturalmente non ribatto: ciascuno la pensi come
vuole.
Tuttavia faccio osservare solamente una cosa: il culmine del rito era l'ostensione della spiga. È
noto che gli iniziati ai Misteri di Demetra erano di due livelli: la gran massa dei mystai e il
piccolo numero degli epoptai. A mio modestissimo parere queste due categorie reagivano alla
visione della spiga in due modi diversi. Il myste vedendola si riempiva la testa di pensieri
edificanti relativi a morte e rinascita e al seme che se non muore non porta frutto: un po' alla
Giebel, diciamo. Invece nella mente dell'epopte si formava secondo me qualcosa di simile
all'immagine seguente.
Più eloquente di così si muore. Dopotutto forse la spiga di grano non era nient'altro che un
simbolo scelto apposta per la sua singolare somiglianza con certe forme cristalline di un
minerale necessario al lavoro alchemico.
164
In ogni caso adesso non avete più solo mortaio e pestello ma anche qualcosa da pestarci
dentro: contenti?
Secondo me quella che ho appena fatto non è una piccola confidenza. Tuttavia è
importantissimo che ciascuno continui a pensarla come vuole.
Prosit!
----[L'autore, che preferisce mantenere riservatezza sulla propria persona facendo
ricorso a uno pseudonimo, è intervenuto con due suoi contributi anche nel
precedente numero di Episteme.]
165
Postilla a "Una questione relativa alle origini della massoneria"
(Episteme, N. 3)
(Franco Baldini)
Naouté sian li pajan.
In una breve nota pubblicata sul terzo numero di Episteme - intitolata Una questione relativa
alle origini della Massoneria con uno scambio di idee sull'argomento con Bruno d'Ausser
Berrau - ho formulato l'ipotesi di un collegamento tra il movimento culturale e poetico
dell'Arcadia e la Massoneria moderna inglese delle origini. Collegamento non esclusivo
perché è ben documentato che in questa istituzione confluirono numerose altre correnti
dell'esoterismo occidentale: tuttavia prima d'ora Arcadia e Massoneria non erano mai state
poste in relazione.
Nonostante D'Ausser Berrau non ne fosse al corrente, le implicazioni esoteriche dell'Arcadia
- da Sannazzaro a Cristina di Svezia - come ho documentato sono note e universalmente
riconosciute dagli specialisti per cui non è il caso che io vi ritorni.
Voglio qui solo aggiungere qualche dato a sostegno della mia congettura.
L'Arcadia era sostanzialmente un movimento esoterico che - in piena controriforma proseguiva sotto altra veste l'ermetismo delle cosiddette accademie neoplatoniche. Il nome del
movimento proviene dal fatto che l'Arcadia era l'unico luogo in cui - secondo Erodoto - dopo
l'invasione dei Dori erano stati conservati e tramandati i misteri di Demetra - l'Iside degli
Egizi - originariamente portati in Grecia dalle figlie di Danao e da queste trasmessi ai Pelasgi.
La qualifica di "pastori" è parimenti da riconnettere al nome di Pimandro, titolo di un
importante scritto ermetico. Uno dei primi commentatori moderni dell'ermetismo, Louis
Ménard, pone infatti l'accento su una sorta di tradizione "pastorale" - la parola Pimandro
significa in effetti "pastore" - derivata dalle scuole dei Terapeuti egizi: l'insegnamento di
questa tradizione si sarebbe tramandato proprio attraverso la rivelazione ermetica. È anche da
ricordare che i sacerdoti del culto di Dioniso - l'Osiride egizio - erano noti come boukóloi,
cioè "mandriani". Echi di questa definizione pastorale del sacerdozio rimangono notoriamente
anche nella religione cristiana.
La tematica dell'Arcadia fu significativamente introdotta in Inghilterra da Sir Philip Sidney
(1554-1586), letterato-ermetista allievo di John Dee ed amico di Giordano Bruno, autore di un
poema intitolato appunto Arcadia.
166
È sufficiente leggere l'ottimo libro di Vittoria Feola Origini e sviluppi della massoneria in
età moderna (Bastogi, Foggia, 1999) per rendersi conto dell'influsso di Dee e Bruno, nonché
dei loro allievi, sull'istituzione in questione.
La tradizione "arcadica" inglese sopravvisse certamente per oltre cent'anni: uno dei primi
Grand Master della Gran Loggia di Londra fu Sir Philip Wharton (1698-1731), il quale si fece
ritrarre proprio in vesti di pastore d'Arcadia: ciò rende la mia congettura, se non certa, almeno
estremamente plausibile.
Wharton fu assai probabilmente nicodemista, cioè una persona che camuffava le sue vere
convinzioni religiose e politiche dietro il paravento delle idee ufficialmente ammesse, e
167
questo spiega l'essenziale della sua vita tormentata. Per l'enorme diffusione del nicodemismo
nella società colta inglese del tempo ci si può ancora riportare utilmente al citato libro della
Feola.
Wharton fondò il famigerato Hell-Fire Club, di cui sono stati detti peste e corna - accuse di
satanismo, deboscia, ecc. - ma che fu assai probabilmente un circolo collegato alla Massoneria
in cui si praticava una qualche forma di cultualità dionisiaca.
L'Hell-Fire fu poco dopo resuscitato - sempre circondato dalla consueta aura demoniaca - da
Francis Dashwood (1708-1781), anch'egli massone e nicodemista, noto uomo politico
dell'epoca ed amico di Benjamin Franklin insieme a cui, nel 1773, revisionò il Book of
Common Prayer: strana occupazione per un adepto di Satana!
In gioventù Sir Francis aveva fatto parte della misteriosa Society of Gentlemen of Spalding, i
cui membri includevano molti massoni, fondata dall'antiquario Maurice Johnson. Ne facevano
parte l'antiquario e Druido Capo Dr. Rev. William Stukeley, Sir Isaac Newton, il professor
Andreas Celsius di Uppsala, Joseph Banks (padre di Sir Joseph), John Anstis, il poeta John
Gay, John Theophilus Desaguliers e il Cavaliere Ramsay (in questo caso tutt'altro che in
opposizione tra loro!), infine Sir Hans Sloane, presidente della Royal Society.
Probabilmente Dashwood ricreò l'Hell Fire Club su suggerimento di Lady Mary Wortley
Montagu (1689-1762), la famosa scrittrice e divulgatrice della vaccinazione antivaiolosa, che
aveva fatto parte del primo Club - era stata l'amante di Wharton - e fece parte anche del
secondo, insieme al fratello di Dashwood, John Dashwood-King, John Montagu Earl di
Sandwich, John Wilkes, George Bubb Dodington, il barone Melcombe, Paul Whitehead, il
principe di Galles, il pittore William Hogarth e altri.
168
Per testimoniare la probabile orientazione pagana e misterica dei Medmenham Monk's - così
venivano chiamati i membri del Club, dal luogo in cui si riunivano - segnalerò brevemente
alcuni fatti.
All'ingresso di Medmenham Abbey campeggiava il motto che François Rabelais aveva
assegnato all'abbazia di Thelème: "Fay ce que voudras", "Fa ciò che vuoi", nonché una statua
di Arpocrate, il dio del silenzio esoterico.
John Wilkes, un membro importante del Club, che poi abbandonò e contro cui diresse strali
velenosi, scrisse: "No profane eye has dared to penetrate into the English Eleusinian
mysteries of the chapter-room, where the monks assembled on all solemn occasions, the more
secret rites were performed and libations poured forth in much pomp to the Bona Dea." [Eric
Towers, Dashwood: The Man and the Myth, Aquarian Press, Wellington, Northamptonshire,
1986, p. 158.]
Horace Walpole, fratello di Sir Robert, uno dei nemici politici di Dashwood, annotò:
"Whatever their doctrines were, their practice was rigorously pagan: Bacchus and Venus
were the deities to whom they almost publicly sacrificed; and the nymphs and the hogsheads
that were laid in against the festivals of this new church, sufficiently informed the
neighbourhood of the complexion of those hermits." [Horace Walpole, Memoirs and Portraits,
Macmillan, New York, 1963, p. 129.]
Nonostante le frasi precedenti siano accuse di detrattori, esistono scarsi dubbi sulla loro
verità: a questo proposito mi limito a segnalare che uno dei pochi arredi rimasti nelle
Medmenham's Caves - e può essere visto ancor'oggi - è la statua di Dioniso che riproduco qui
sotto.
169
Più o meno negli stessi anni un Hell-Fire Club venne fondato anche a Dublino da Richard
Parsons, 1° Earl di Rosse, che fu Grand Master della Massoneria irlandese, dal colonnello
Jack St. Leger, dal pittore James Worsdale, da Buck Whaley e da un certo Old Bagenal:
inutile dire che le voci popolari parlano anche in questo caso di satanismo e deboscia quando
la realtà era assai più innocente.
Dopo di allora le tracce degli ultimi Pastori d'Arcadia inglesi - che si professavano ora
protestanti ora cattolici secondo l'esigenza del momento ma erano in realtà pagani, seguaci di
Demetra e Dioniso - sembrano svanire nei meandri dell'istituzione massonica...
...e intenzionalmente, dato che - come riferisce Ragon nel suo Rituel du grade de
Compagnon - alla fine del XVIII secolo tutte le parole sacre e di passo dell'istituzione
vengono ebraicizzate.
170
Potrei aggiungere molto altro, ma credo che a un ricercatore attento e intelligente quanto ho
scritto possa bastare a ritrovare il resto, che non è poco, mi si creda.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme.]
[email protected]
*****
[A proposito del citato John Dee, e del suo eventuale coinvolgimento
nell'attività di società cosiddette "segrete", segnaliamo ai lettori di Episteme un
URL nel quale possono trovare l'articolo di Ron Heisler, "John Dee and the
Secret Societies", apparso su The Hermetic Journal nel 1992:
http://www.levity.com/alchemy/h_dee.html .]
171
Un commento di Bruno d'Ausser Berrau
Sull'attuale numero di Episteme, nella postilla a "Una questione relativa alle origini della
massoneria" (Episteme, N. 3), di Franco Baldini, leggo questo incipit:
<<In una breve nota pubblicata sul terzo numero di Episteme - intitolata Una questione
relativa alle origini della Massoneria con uno scambio di idee sull'argomento con Bruno
d'Ausser Berrau - ho formulato l'ipotesi di un collegamento tra il movimento culturale e
poetico dell'Arcadia e la Massoneria moderna inglese delle origini. Collegamento non
esclusivo perché è ben documentato che in questa istituzione confluirono numerose altre
correnti dell'esoterismo occidentale: tuttavia prima d'ora Arcadia e Massoneria non erano mai
state poste in relazione. Nonostante D'Ausser Berrau non ne fosse al corrente, le implicazioni
esoteriche dell'Arcadia - da Sannazzaro a Cristina di Svezia - come ho documentato sono note
e universalmente riconosciute dagli specialisti per cui non è il caso che io vi ritorni.>>
E, dal senso del riferimento alla mia persona, capisco che non ci siamo proprio intesi. Basta,
infatti, un minimo d'informazione per ammettere le implicazioni esoteriche dell'Arcadia - in
molti casi direi che esse siano proprio evidenti - così come lo sono gli interessi conformi di
molti suoi membri.
Quello che io però intendo ribadire è che l'Arcadia, in quanto tale e sin dagli inizi, fosse
soltanto una delle tante académies et sociétés savantes dell'epoca ossia, nello specifico,
un'accademia romana. In seguito, grazie al notevole successo, ottenuto presso alcuni ambienti
colti, insofferenti dell'asfittica atmosfera culturale della nazione, i quali, per la poesia italiana,
<<mandata quasi a soqquadro dalla barbarie dell'ultimo secolo>>, vi scorsero un'occasione di
riscossa, essa s'ampliò, nel raggiungere dimensione europea, in un vero e proprio movimento
letterario.
Quello che però l'Arcadia non fu - ed è soltanto questo ciò che tengo ad affermare - è molto
chiaro: non si trattava di un'organizzazione esoterica, cioè a dire, non era un gruppo con
iniziazione, rituali ed una trasmissione ab immemorabili. La differenza è sostanziale, anche
perché se - nonostante l'evidente costituzione ex novo - mi si volesse far presente che un
ricollegamento alla remota, ininterrotta tradizione della poesia pastorale (antichità, medioevo
ed età moderna) tuttavia esisteva, si potrebbe obiettare che, di bucolico, in quelle rime si
trovava davvero ben poco, ma è anzi facile verificare come, in esse, la preferenza sia stata
piuttosto rivolta alla lirica pindarica, a quella petrarchesca ed all'anacreontica.
Insomma, oltre alla siringa di Pan, al gianicolense Bosco Parrasio, la sceneggiata dei nomi ed
un po' d'emblematica in tema, delle millenarie pastorellerie rimaneva proprio ben poco.
Naturalmente questo non scarta i probabilissimi rapporti con la Massoneria (organizzazione
iniziatica) del tempo, e la sua eventuale influenza sui "fratelli". Fratelli che, d'altro canto,
niente impediva fossero stati anche Arcadi. Questo vale sempre, sia per le società, sia per gli
individui: chi s'occupa (anche) di tematiche esoteriche non necessariamente fornisce
iniziazioni o ne ha ricevute. La mia non è una valutazione di merito ma una semplice
constatazione.
172
In conclusione, si tratta di una differenza tecnica, che il Baldini, nonostante le notizie
importanti da lui raccolte, ma a ragione dell'accenno polemico nei miei confronti, non sembra
aver colto.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme.]
[email protected]
173
La cosmologia soppressa
(Alberto Bolognesi)
Fig. 1 - La galassia sferica gigante M 87 emette una fila di oggetti compatti azzurri
1. Il caso volontario
L'accensione delle stelle e delle galassie è un processo casuale? Si può definire l'universo un
"fenomeno naturale"? Può il caso puro creare preliminarmente la materia cosmica a partire dal
nulla?
Nella prefazione al suo Atlante delle Galassie Peculiari (1966) l'astronomo all'indice Halton
Arp scriveva: "A quarant'anni dalla scoperta che le galassie sono sistemi stellari indipendenti,
non siamo ancora in grado di penetrare il mistero della loro esistenza, il problema di come si
sostengano e si alimentino e quali siano le forze in grado di produrre le forme tipiche
osservate. Che cosa determina la struttura a spirale? Quali sono le relazioni che legano le
galassie ellittiche a quelle a spirale? Come si vengono a formare le galassie, e come
evolvono?".
La moderna teoria del Mondo postula che in principio ci fu un'esplosione. Che ci fu un
"Inizio", un cominciamento, un'epifania della natura là dove precedentemente non c'erano né
tempo né spazio, né particelle né radiazioni: la migliore risposta che la scienza oggi sa dare
all'esistenza delle galassie è che provengono tutte da un'unica esplosione.
Come ebbe a notare Fred Hoyle in una famosa lezione tenuta a Pasadena nel 1972 "se niente
in astronomia può prescindere dalla fisica nota, l'origine dell'intero universo avvenuta
simultaneamente e tutta in una volta al tempo-zero rappresenta una discontinuità, non
un'origine, e allora il fenomeno dell'origine delle galassie giace fatalmente al di fuori della
fisica nota"1. Per la fisica nota, la fisica si è realizzata attraverso un avvenimento "singolare"
che trascende le leggi della fisica, "un lampo" primigenio di raggio zero e di energia infinita
174
assimilabile a "una fluttuazione del nulla" come ci precisano i cosmologi, o a "un atto di pura
compossibilità", come puntualizzano i filosofi di oscura glossa. Ciò ha consentito alla
temperatura e alla densità di precedere i suoi stessi elementi costitutivi e anzi di realizzarli. A
rigore, più che una fornace primordiale, la teoria del Big Bang implica una fissione del Mondo
dal nulla.
C'è un consenso quasi "bulgaro" intorno al paradigma della Creazione: "Dio ha fatto la sua
opera e la lascia andare … - commenta l'astronomo sacerdote George Coyne -, l'universo non
sa cosa fare e le galassie si separano sempre di più a causa dell'espansione, in balia del caso e
della necessità". "All'universo non interessa un fico secco di quel che gli capita - gli fa eco il
fisico delle particelle Murray Gell-Mann - e si sta scaricando come una molla". Automa di
Dio o incidente del caso, l'armistizio fra atei e credenti poggia evidentemente sull'accordo che
nel realizzare la sua opera il Creatore adopera i dadi: ma è proprio così?
Finalismo e antifinalismo sono i cani e i gatti della filosofia naturale ed è inevitabile che
proprio a livello cosmico, come vecchi nemici che tornano, ritrovino esasperati tutti i motivi
della loro conflittualità. E' come se, ammoniscono i darwinisti e i monodiani: come se le
proprietà della materia e la sua stessa evoluzione eseguissero un compito prestabilito. Che non
c'è. Se si medita per esempio sulle caratteristiche di un cristallo di sale, la sua stupefacente
architettura deriva soltanto dalle "mere" proprietà, dalle tensioni interne, dalle aggregazioni
molecolari, dalle cariche elettriche, etc., quindi una geometria e un monumento fatto da
nessuno, come una stalagmite o una stalagtite. E' come se l'architetto ci fosse senza che ci sia:
ci sono solo proprietà intrinseche accumulate sullo spartito della storia e della contingenza e
ciò avviene tanto per la materia inorganica che per quella organica. E' come se ci fosse un
copione, una scaletta un know how, che viene invece modellato o storpiato dal caso e dalla
necessità, ed è un'ingannevole trama intessuta da nessuno. E' insomma come se fossimo
davvero qua in qualche luogo compiuto e realizzato fatti vivi e coscienti, ma la coscienza non
è che un pacchetto di neuroni emerso dal caso e fatto da nessuno.
La replica, prevedibilmente, è quasi scontata: ma come può il mondo della materia e della vita
biologica scaturire preliminarmente dal caso? Chi ha detto alla "storia" e alle "mere proprietà"
di esistere? Il caso e la necessità funzionano benissimo solo quando la tavola è già
apparecchiata! Quando si parla di mere proprietà di un elettrone, di un atomo, di una molecola
o di un'intera galassia, come può il caso puro averli foggiati e plasmati a partire dal nulla? Se
prendiamo quel cristallo di sale, quella galassia o, peggio, una cellula replicante o un neurone,
non possiamo dire che si son fatti da sé a causa del caso, perché allora dovremmo attribuire al
caso la capacità di materializzare all'origine il mondo secondo modalità che preesistevano nel
nulla. Vogliamo dire che il caso ha creato le leggi della fisica? Vogliamo forse dire che
l'energia o la gravitazione sono prodotti del caso? Che cosa diavolo applicava il caso
"all'inizio" se non la sua ipotetica volontà?
Con intento provocatorio, l'immagine seguente mostra la galassia "spirale perfetta" NGC 628
fotografata dal Gemini North sulle montagne della Polinesia, a cui la rivista scientifica
Coelum (46-2001) ha sovrapposto un gasteropode fossile. Nella cornice convenzionale le
galassie sono le strutture più antiche di tutto l'universo e con età stimabili intorno a 13
miliardi di anni rappresentano i monumenti più durevoli e persistenti edificati dal caso e dalla
necessità.
La domanda è introduttiva: è un prodotto della contingenza o un insieme ordinato?
175
Fig. 2
2. Il piacere della scoperta
In un libro di recente pubblicazione lo scienziato Italo Mazzitelli illustra con stile ridanciano
"tutti gli universi possibili e altri ancora"2. Non c'è alternativa, discendono tutti - anche quelli
impossibili - dal Big Bang. "E' ufficiale, - corrobora dalle colonne di un quotidiano di grande
tiratura una quotata divulgatrice - l'universo ha 13,7 miliardi di anni. Le prime stelle si sono
formate quando ne aveva 200 milioni, è tridimensionalmente piatto e continua a crescere di 71
Km. al secondo per megaparsec, cioè per ogni distanza compresa in 3 milioni di anni luce.
Infine contiene il 4% di materia normale, il 23% di materia oscura e il 73% di energia oscura.
Fine delle teorie fantasiose, quintessenze, topologie a manici, stringhe o brane: adesso, come
dice un titolo di «Nature», la cosmologia diventa reale e le tocca scontrarsi coi fatti"3.
Ma i fatti reali sono che oggetti con alto spostamento verso il rosso appaiono fisicamente
collegati a oggetti di basso spostamento, che svariati quasar risultano connessi da filamenti e
ponti di materia alle galassie stesse e che la relazione redshift-distanza-velocità viene violata
da un numero sempre più impressionante di casi. Questi casi, noti fin dagli anni Cinquanta,
hanno continuato ad accumularsi sistematicamente sul tavolo dell'astrofisica: per un po' sono
stati definiti "redshift anomali" e poi, man mano che le conseguenze cosmologiche
diventavano chiare, "accidenti di prospettiva". E' ovvio che una diversa lettura dello
spostamento verso il rosso delle galassie comporterebbe l'immediata messa in crisi
dell'espansione cosmica, spogliando contemporaneamente la radiazione a 2,7 K o di qualsiasi
requisito "fossile". Che succede - se già non è successo - se Hubble Space Telescope o un
grande strumento a terra fotografano inequivocabilmente la connessione fra un quasar e una
grande galassia con redshift molto diversi? Ci si può chiedere maliziosamente se i più
celebrati divulgatori definirebbero questo avvenimento "Il piacere della scoperta"?
Due casi emblematici fra le molte centinaia esistenti (migliaia, se si considerano quelli
attribuiti "a dispersione delle velocità") sono stati recentemente riportati alla cronaca.
Il primo, molto famoso, è la galassia di Seyfert NGC 4319 e il quasar Markarian 205. Nel
1971 con il 5 metri dello Hale di Monte Palomar venne scoperto un filamento luminoso che
collegava la galassia a basso redshift al quasar con spostamento verso il rosso molto più
elevato. Ciò procurò un enorme sconcerto nella comunità astronomica perché la connessione
176
contraddiceva l'assunzione fondamentale della cosmologia che il redshift è invariabilmente
una misura di velocità e di distanza, e invalidava così l'ipotesi di un universo in espansione. Il
filamento venne osservato con i più grandi telescopi e perfino con strumenti amatoriali
provocando violente controversie e allontanamenti di professionisti, ma alla fine tutta
l'evidenza accumulata fu accantonata.
Fig. 3 (cortesia di H. Arp)
Fig. 4 (Sulentic 1983)
177
Fig. 5 - Connessione ripresa attraverso un filtro blu,
in 10 minuti di esposizione con camera CCD
al fuoco del telescopio Mayall da 3,8 m. del KPNO
La polemica riesplose nel 1993 quando un dilettante fece richiesta di fotografare con l'Hubble
Space Telescope la coppia di oggetti, avvalendosi del tempo di osservazione che la NASA
offriva alle Associazioni Amatoriali: la connessione apparve puntualmente, scatenò un
putiferio e alla fine venne revocato l'utilizzo del Telescopio Spaziale alle istituzioni private.
Ultimo atto: ottobre 2002. Con l'Hubble revisionato e potenziato di nuove ottiche, lo Space
Science Telescope Institute rilasciò alle agenzie di stampa una nuova immagine insolitamente
buia di NGC 4319/Mrk 205 dichiarando che non c'era alcun ponte di materia o filamento
luminoso che collegasse il quasar alla galassia, che la coppia era "spaiata" e che la
controversia era definitivamente archiviata. Ma la cosa più stupefacente era che, nonostante il
commento, l'immagine mostrava realmente il ponte di materia! La fig. 6 riproduce l'immagine
rilasciata dalla NASA, ma se qualcuno scarica la web image dallo StscI e l'appoggia sul vetro
di una finestra, le connessioni tra il quasar e la galassia emergono inequivocabili. Un gran
numero di dilettanti e di associazioni private hanno prodotto evidentissime immagini del
"ponte" (una sorta di cordone ombelicale e tutta una corona di propaggini gassose)
semplicemente aumentando il contrasto.
Fig. 6 (HST)
178
Figg. 7-8
L'astronomo americano Jack Sulentic ha prontamente pubblicato su Science (11.Oct. 2002, p.
345) un articolo di protesta, rivendicando l'esistenza del "ponte", ma nessun eminente
professionista ha voluto commentare il comunicato NASA o l'evidenza della connessione che
tuttavia il Telescopio Spaziale potrebbe adesso riproporre a più alte risoluzioni e con grande
ricchezza di dettagli.
Il secondo caso (NGC 7603 A e B) è, se possibile, ancora più clamoroso.
Primo atto: 1970, Monte Palomar. Nel corso di una survey su galassie peculiari selezionate in
precedenza, Halton Arp misurò gli spostamenti verso il rosso di un sistema binario, sistema
che viene mostrato nella fig. 9 in una bella immagine ottenuta da N. Sharp.
179
Fig. 9 (cortesia di N. Sharp)
E' considerato uno dei casi più sorprendenti di "redshift discordi" anche dall'ortodossia, perché
nessun astronomo di credo convenzionale si è mai sentito di invocare apertamente l'accidente
prospettico. Il compagno minore compare infatti perfettamente allineato alla fine del braccio
di spirale dell'oggetto più massiccio, ma se si assume che lo spostamento verso il rosso misura
invariabilmente la distanza e la velocità di recessione, essi devono recedere rispettivamente a
17.000 e a 8.700 km/sec e trovarsi separati a enormi distanze nella profondità dello spazio
l'uno dall'altro. La configurazione è così imbarazzante che nessuno studio approfondito fu più
effettuato dopo la scoperta di Arp, né con i nuovi giganti costruiti a terra né col Telescopio
Spaziale. Nota a margine: nel descrivere questo sistema Arp notò due condensazioni compatte
all'interno del braccio di connessione e auspicò che gli spettrografi di futura generazione
potessero ricavare ulteriori informazioni da questo caso stupefacente.
Atto secondo: La Palma, Canarie, trentun anni dopo.
In una notte con seeing eccellente due giovani astronomi spagnoli, Martin Lopez Corredoira e
Carlos Manuel Gutierrez con il telescopio di modesta apertura di 2,6 metri del N.O.T. ma con
tecnologia progredita, riuscirono a procurarsi gli spettri delle due condensazioni immerse nel
braccio. Apparvero le tipiche, compatte linee di emissione dei quasar con redshift di z = 0.391
per l'oggetto angolarmente più vicino alla galassia principale e z = 0.243 per quello più
prossimo alla compagna!! Il mondo avrebbe dovuto fermarsi almeno per un giorno, ma né Il
Sole 24 Ore né nessun altro divulgatore della Big Science riportò la notizia.
Nota finale a margine: i risultati furono inviati alla rivista Nature e all'Astrophysical Journal
che si rifiutarono di pubblicarli e alla fine apparvero solo su Astronomy and Astrophysics,
390-L15, 2002. Richieste successive di investigazioni con il telescopio orbitale a raggi X
Chandra e con l'otto metri del VLT al Cerro Paranal sono state prontamente respinte.
Se le osservazioni hanno ancora un peso in cosmologia, saremmo tentati di adottare la prosa
dei grilli parlanti: "E' ufficiale, i quasar sono connessi alle galassie e lo spostamento verso il
rosso non è né una misura della distanza né una misura della velocità".
Il piacere della scoperta?
180
Fig. 10
3. L'alternativa cosmologica
L'alternativa all'"origine" dell'universo è ovviamente un universo senza origine, senza
espansione e in trasformazione continua, un universo senza tempo che trae dall'interno di se
stesso le occasioni per le sue mutazioni. Questa alternativa non va confusa con la vecchia o
con la più recente versione dello stato stazionario, perché i modelli in questione adottano
come nel Big Bang una metrica in espansione del tutto inidonea a rendere conto delle
discordanze di redshift osservate. Rimandando ai testi elencati nei riferimenti bibliografici,
qui si può dire sommariamente che un universo senza data di nascita comporta età molto
differenti degli oggetti cosmici, e quindi tempi di formazione e di dissoluzione delle galassie
estremamente variegati. In un simile universo lo spazio non è più vuoto né in espansione, ma
un vero e proprio brodo di cultura dove le galassie germogliano e decadono dentro uno stato
fondamentale "di minima", un campo universale assimilabile in termini convenzionali a
quello che viene definito falso vuoto o radiazione di punto zero.
Lo scopo di questo thread non è però di esaminare nel dettaglio il campo di Hoyle e Narlikar o
il modello cosmologico statico di Arp, ma solo di rimarcare come il cambiamento
nell'interpretazione dello spostamento verso il rosso modifichi alla radice i fondamenti della
scienza e della stessa filosofia naturale. Da un fatto apparentemente banale come la differenza
di età tra una galassia e l'altra possiamo ricavare una visione del mondo radicalmente nuova.
Che succede infatti se una galassia è semplicemente molto più giovane o molto più antica di
un'altra? Si pone inevitabilmente il dilemma di questa creazione forzata, da dove germogliano
e dove finiscono le singole galassie, e per quale misteriosa ragione esibiscono, nella loro
generalità, forme così tipiche e ricorrenti. Se lo spazio è solo in apparenza vuoto e rappresenta
lo stato fondamentale da cui vanno e vengono gli oggetti cosmici, abbiamo per così dire
un'atmosfera in cui far comparire nuvole e cicloni.
Che cosa determina la forma a spirale? Negli anni Cinquanta l'astronomo sovietico Viktor
Ambartsumian avanzò l'idea che dalle condensazioni stocastiche di questo "mezzo" potessero
innescarsi continuamente perturbazioni in grado di accumulare energia. Immaginò dunque una
"premateria", condensazioni locali di masse prestellari che chiamò convenzionalmente "corpi
D" e concluse che proprio la loro inevitabile accensione avrebbe portato alla formazione di
bracci di spirale. Paris Pismis e S.S. Huang proposero quasi contemporaneamente questo
concetto nel 1960 che Arp ritenne di dimostrare su base osservativa pochi anni dopo,
dall'evidenza morfologica raccolta su numerosissimi esempi di galassie peculiari. Affermò che
la formazione reale di stelle ha luogo lungo i filamenti di gas causati da emissioni recenti e
concluse che l'espulsione è di fatto la causa generale di tutta la struttura a spirale.
181
"Con i filamenti gassosi e la formazione di stelle, abbiamo gli ingredienti per la formazione
dei bracci di spirale. Ci occorre solo la rotazione differenziale del gas già presente nel disco
per fornire il momento angolare rotazionale nei bracci e stirarli nella loro caratteristica
forma a spirale. Forse il campo magnetico che si trova lungo i bracci ricurvi delle spirali
trasforma velocità di espulsione in velocità di rotazione: infine, a questo punto, agiscono
probabilmente i meccanismi convenzionali di densità, di compressione d'onda e formazione
stocastica (traiettorie casuali) di stelle nei bracci di spirali". (Quasars, Redshifts and
Controversies, 1987).
L'universo fiorisce come una pianta dall'interno di se stesso, accende i nuclei di "premateria"
destinati a diventare galassie che a loro volta si moltiplicano attraverso espulsioni secondarie,
alimentando in continuazione nuovi quasar che diventeranno nuove galassie. Sarebbero
dunque le differenti età degli oggetti cosmici a determinare il posizionamento delle righe
spettrali alle frequenze e alle lunghezze d'onda osservate.
4. Vita sulla frontiera
"Se mare e cielo hanno prodotto pinne e ali - disse una volta Hoyle - il confine che separa
materia organica e inorganica è punteggiato da innumerevoli varchi. Dopotutto, anche la terra
ha un'origine extra terrestre!"4.
L'eliminazione di un Big Bang e dell'espansione dell'universo a favore di uno scenario a
creazione continua ha implicazioni fortissime sulla filosofia della natura perché conferisce alla
struttura cosmica la reminiscenza di un organismo vivente: se le osservazioni di Arp sono
corrette, il caso non è più solo e il mondo non è più un automa che non sa cosa fare o una
molla che si scarica, perché è perfino ovvio che se le galassie hanno età diverse esse devono
essere in grado di riprodurre se stesse per poter riempire l'universo!
Storicamente Ambartsumian fu il primo a considerare la possibilità che alla scala cosmica
alcuni eventi fossero prodotti da "meccanismi macroscopici non casuali di un genere a noi
finora ignoto"5. Questi "meccanismi" hanno avuto dall'osservazione di getti di plasma nelle
galassie e nei quasar la più spettacolare delle conferme: quando si medita sugli ordini di
grandezza implicati, sulla loro estensione, sulla loro stupefacente collimazione e sulle quantità
di energia convogliata, è arduo ritenere che questi eventi siano interamente governati dal caso
e dalla "sottostante" meccanica quantistica. Sono stati ipotizzati effetti Compton inversi
attraverso interazioni con il falso vuoto, interazioni che sono del tutto insufficienti a rendere
conto dell'entità dei fenomeni osservati. La materia nell'universo cadrebbe deliberatamente
fuori, in un processo moltiplicativo a cascata che gli eretici definiscono una gragnuola
continuata di "buchi bianchi", "piccoli bangs" e perfino "Big Bang permanente".
"Non c'è nessuna deriva mistica - dice Arp - se questa concezione minoritaria è indotta dalle
osservazioni. Se gli eventi su scala cosmica mostrano analogie con ciò che per gli uomini è un
chiaro comportamento biologico, forse si possono ricavare ulteriori informazioni
interpretando in termini biologici le strutture e i fenomeni osservati. Potrebbe essere altamente
produttivo anche per la limitata esperienza umana, per la filosofia oltre che per la scienza,
lasciare aperta la possibilità a forme di vita e a strutture gerarchiche enormemente più grandi e
più complesse. Chi conosce il confine tra materia organica e inorganica? Certo è sempre
possibile che le galassie, come i vulcani, le nuvole, il vento e la pioggia siano fenomeni senza
scopo, ma sarebbe uno spiacevole errore presumerlo con leggerezza. Microcosmo e
macrocosmo mostrano costantemente un'irreversibilità che le leggi simmetriche della
dinamica o della fisica non riescono a spiegare. Il quadro di un artista non tornerà mai alla
tavolozza da cui apparentemente è stato estratto … Se i dinosauri sono diventati uccelli in
pochi milioni di anni, che cosa potrebbero diventare gli esseri umani? E cosa potrebbero
diventare le stesse galassie?"6.
182
E' bello essere eretici almeno per un giorno, e affidare al quasar neonato che proprio adesso
sta emergendo dal disco di una sfolgorante galassia la possibilità di progredire lungo la scala
gerarchica delle complessità … Fred Hoyle, che sta già verificando la correttezza di queste
tesi, scriveva ancora molti anni fa in lista di attesa: "Ciò che preferirei è un'evoluzione della
vita in virtù della quale l'essenza di ognuno possa amalgamarsi entro una struttura molto più
potente e molto più vasta"7. Siamo fatti per esistere, il mondo non è invano, la fisica vive.
Note
1
"The developing crisis in Astronomy", F. Hoyle, American Astronomical Society, April 8-12,
1972.
2
Tutti gli universi possibili e altri ancora, I. Mazzitelli, Liguori ed., 2003.
3
Il Sole 24 Ore, S. Coyaud, 11.5.03.
4
Comunicazione privata, 1978.
5
Simposio U.A.I. n. 3, Dublino 1955.
6
Comunicazione privata, 1994.
7
La Nuvola Nera, 1962.
Riferimenti bibliografici
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1955.
AMBARTSUMIAN V., La Méthode en Cosmogonie, Le Cosmos S.E.U., 1959.
AMBARTSUMIAN V.,On the Evolution of Galaxies, S.E.U., 1959.
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ARP H., A.J. Letters, 7, 1971.
ARP H., Quasars, Redshifts and Controversies, Interstellar Media, 1987.
ARP H., "Seeing Red", Apeiron, Canada, 1998.
ARP H. e LORRE J., A.J. 210, 1976.
ARP H. e NARLIKAR J., "Flat spacetime cosmology", A.J., 405, 1993.
ARP, BURBIDGE, CHU et al., A & A, 391.833, 2002.
BOLOGNESI A., Eppur non si muove!, Studio Stampa, San Marino, 1996.
BOLOGNESI A., "La Nuova Teoria del cielo", Episteme n. 6, Univ. di Perugia, 2002.
183
BOLOGNESI A., "The smoking gun", Coelum n. 50, 2002.
BURBIDGE G., NARLIKAR J., e HEWITT A., Nature, 317, 1985.
HOYLE F., Russell Lecture, W. Benjamin Inc. Reading Mass., 1973.
HOYLE F., Highlights in Astronomy, W.H. Freeman, 1975.
HOYLE F., A.J. 196, 1975.
HOYLE F., A.J. 399, 1992.
HOYLE e NARLIKAR, Action at Distance, W.H. Freeman, 1974.
HOYLE, BURBIDGE & NARLIKAR , A different approach to Cosmology, Cambridge, 2000.
LOPEZ CORREDOIRA M. e GUTIERREZ C., A & A, 390 L15, 2002.
NARLIKAR J., Ann. Phys., 107, 325, 1977.
NARLIKAR J. e P.K. DAS, A.J. 240, 1980.
NARLIKAR, ARP, BURBIDGE, HOYLE, WICKRAMASHINGE , "An alternative view", Hypothesis, 1993.
SULENTIC J., A.J. Letters 265, 1983.
SULENTIC J., A.J. 286, 1985.
SULENTIC J., Science, 11 Oct. 2002.
SULENTIC J. e LORRE J., Sky and Telescope, 1984.
SULENTIC e ARP, A.J., 319, 1987.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 2 di Episteme.]
[email protected]
[La presente nota appare anche sul numero di settembre 2003 della rivista
Coelum.]
184
Leonardo da Vinci conosceva un testo ritrovato a Qumran?
(Sabato Scala)
Agli amici di Episteme
Rileggendo il testo del rotolo 5Q15 ritrovato a Qumran, che espone dimensioni e forma della
Nuova Gerusalemme Celeste, arrivando al dettaglio delle misure dei singoli isolati e di
ciascuna casa, mi sono accorto di una coincidenza a dir poco sorprendente.
Il testo descrive le dimensioni delle abitazioni in questi termini. Esse sono dotate di un
ambiente superiore adibito a sala da pranzo, munito di 11 finestre, sotto le quali ci sono 2 letti
per finestra (totale 22). Le dimensioni della stanza sono di 19 cubiti (9,7 mt circa) per 12
cubiti (6,15) per 7 cubiti d'altezza (3,5 mt circa).
Ad essa si accede attraverso un vano scala, costituito da una scala a chiocciola di 4 cubiti per
4 cubiti (2 mt circa), che sale fino al tetto. Tale circostanza porta a congetturare che la rampa
impegnasse una delle pareti, poiché è improbabile che attraversasse la stanza.
Da qui si deduce che, verosimilmente, le finestre erano allocate sulle altre tre pareti, e quindi 4
+ 3 + 4 = 11 finestre.
Nel complesso, un ambiente la cui configurazione può essere adeguatamente descritta dalla
seguente figura:
185
Proponiamo precisamente i brani che ci consentono l'esatta ricostruzione della struttura e delle
misure degli edifici residenziali (per la corretta interpretazione del testo dal nostro punto di
vista va ricordato che 1 cubito vale 0,525 metri):
Vano scala
Cap. II [2] ...A sinistra di questo ingresso mi fece vedere il vano di una scala [3] a
chiocciola, la cui lunghezza e la lunghezza avevano le stesse dimensioni: due canne per due,
cioè quattordici cubiti...
Il pilastro interno del vano attorno al quale s'avvolge e sale la scala aveva la larghezza de
una lunghezza di sei cubiti per sei: [5] quadrato. La scala che sale al suo lato era lunga
quattro cubiti: si avvolge attorno e sale all'altezza di due canne fino al tetto.
Dimensioni della casa
Cap. II [6] ...La lunghezza delle case era di tre canne cioè ventuno cubiti; la larghezza era di [8] due
canne cioè quattordici cubiti era così per tutti i piani.
Dimensioni e struttura del piano superiore
Cap. II [10]…Mi fece vedere le dimensioni delle sale da pranzo: ogni sala era lunga 19 cubiti [11] e
larga dodici cubiti; ognuna conteneva 22 letti; e undici finestre a rete al di sopra dei letti. [12] A lato
della sala c'era un cataletto di scolo esteriore. Misurò il vano delle finestre: due cubiti di altezza […] e
la sua profondità era uguale alla larghezza del muro.
Orbene, guardate l'immagine del famoso dipinto di Leonardo raffigurante l'Ultima Cena
collocata all'inizio dell'articolo. Ci sono esattamente 11 finestre, distribuite esattamente
secondo la sequenza appena descritta. Ma non è finita qui.
Effettuando un rapido calcolo, stimando la larghezza di un bacino umano in circa 0,5 mt, si
ricava che la lunghezza del tavolo, approssimativamente pari alla lunghezza del muro in
fondo, è di circa 6 mt. Ora se in 6 mt ci sono 3 finestre (il testo, il cui manoscritto non è
pervenuto in buono stato, e con lacune, sembra tacere in effetti sulla loro larghezza, che
potremmo probabilmente ritenere di un cubito e mezzo, vale a dire circa 75 cm., un'ampiezza
186
molto simile alle tipiche nostre finestre da camera), se ne desume che in 9 mt ce ne sono 4,
proprio come accade per i muri laterali del dipinto.
E' singolare notare poi che il quadro di Leonardo sembra rispettare persino la profondità del
muro, che è possibile ricavare per differenza dalle dimensioni dell'edificio (21 x 14 cubiti)
rispetto a quelle del piano superiore (19 x 12 cubiti), in 1 cubito e quindi 0,525 mt. Infatti lo
spessore approssimativo del muro della sala nel quadro è ricavabile sia da quello evidenziato
dalle finestre in fondo alla sala, sia dal fatto che l'effetto prospettico e la particolare profondità
del muro non consentono di vedere il panorama esterno alle finestre sulle pareti laterali.
Anche per l'altezza della stanza si arriva approssimativamente a 3,5 mt, se si considera che
essa sembra essere il doppio dell'altezza di Gesù (1,80 mt?).
Leonardo conosceva 5Q15 ed i papiri di Qumran?
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme.]
[email protected]
187
Un commento dalla redazione di Episteme
L'acuta osservazione di Sabato Scala (che non è minimamente coinvolto nel presente
commento alquanto "fantasioso"!) ci sembra confermare le ricorrenti ipotesi che in taluni
gruppi "esoterici" romani e fiorentini circolassero, a proposito delle origini del cristianesimo,
informazioni e interpretazioni assai poco ortodosse, aventi presumibilmente una radice
"templare" (e il problema non è tanto se certe interpretazioni corrispondano nei fatti a una
realtà che ormai ci sfugge, sepolta dalla polvere del tempo, ma se ad esse qualcuno abbia
creduto - continui ancor oggi a credere! - in quale misura, e soprattutto con quali conseguenze
nella storia).
Per quanto riguarda l'Ultima Cena in particolare [Che, come è noto, fu commissionata nel 1495,
allo scopo di abbellire il Convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, e portata a termine nel 1497.
In pessime condizioni fino a poco tempo fa, è stata recentemente restaurata, vedi per esempio:
http://www.cenacolovinciano.it/html/ita/restauro.htm, oppure:
http://www.italica.rai.it/principali/argomenti/arte/leonardo/segretoleo.htm] , ricordiamo che nella
quinta figura alla destra del Cristo qualcuno ha voluto intravedere un criptico riferimento al
tema del "gemello", e nella quarta alla sinistra lo stesso pittore, che (unico tra i presenti)
volgerebbe le spalle al Cristo non per caso, ma secondo un simbolismo che può facilmente
ricollegarsi appunto ad altri atteggiamenti "anticristiani" contestati all'Ordine disciolto
all'inizio del XIV secolo. Uno spunto analogo - ultima figura alla destra di chi guarda sembrerebbe essere sviluppato anche nell'Adorazione dei Magi, composta tra il 1481 e il
1482, e attualmente conservata presso la Galleria degli Uffizi a Firenze. Manifestazioni di
quel nicodemismo di cui parla Baldini in questa stessa sezione della rivista?
Il soggetto dei due Messia [Per il quale vedi anche gli scritti di David Donnini in Episteme N. 4, ma
soprattutto Robert Ambelain (1907-1997): Jésus ou le mortel secret des Templiers, Ed. Robert Laffont,
1970, un libro di cui circola una versione italiana a cura di G. de Turris e S. Fusco. Notizie su questo
interessante autore si possono trovare nel sito:
188
http://www.france-spiritualites.com/PARTRobertambelainexplorateurdessciencessecretes.html]
sembrerebbe ispirare pure altri dipinti di Leonardo (Vinci 1452 - Cloux 1519), quali la celebre
Vergine delle Rocce [L'immagine che precede è una delle tre versioni conosciute, la seconda in
ordine cronologico, che viene ricondotta proprio agli anni tra il 1494 e il 1497. Si trova attualmente
presso una collezione privata in Svizzera], o il disegno che qui di seguito riproduciamo:
A questa storia [Che è lo spunto di alcune opere di Tony Bushby, vedi http://www.thebiblefraud.com:
opere certo in qualche senso discutibili, ma non per questo del tutto prive di fondamento! Riferiamo
anche che esse sono state presentate dalla rivista Nexus, una lettura "inconfessabile" in ambito
accademico, ma in verità sempre stimolante, con le dovute cautele.] non sarebbe estraneo l'altro
grande artista cinquecentesco, Michelangelo (Caprese 1475 - Roma 1564). Viene presentata ai
lettori in chiusura d'articolo la cosiddetta Madonna Pitti (il secondo bambino fa capolino
dietro la figura della madre, e non se ne comprendono né la necessità teologica, né quella
iconografica - più divertente, riteniamo, e non priva di fondamento, l'ipotesi che si tratti di una
specie di ammiccamento, un segno d'intesa rivolto a coloro che fossero in grado di
intenderlo), ma ovviamente potrebbero portarsi ulteriori casi significativi concernenti tale
autore.
Va da sé, il punto di vista "essoterico" scorgeva, può scorgere, in siffatte raffigurazioni
soltanto il Santo Bambino e ... San Giovannino, vale a dire San Giovanni Battista piccolo. Ma,
ad occhi non condizionati, in esse apparirebbe rappresentata semplicemente una madre di due
bambini, un effetto rafforzato dall'assenza della pretesa seconda madre, cioè di Santa
Elisabetta. Si dovrebbe invero trovare strano che essa sia generalmente assente anche in
numerose composizioni del genere di differenti autori, in una sorta di tradizione chissà come e
da dove originata (forse l'influenza dei due artisti qui citati?!). Per contro, compare talvolta
Sant'Anna, ossia ... la nonna di Gesù!
Che la presenza di questo San Giovannino fosse a qualcuno sgradita, in quanto avvertita come
impropria, è testimoniato per esempio dalla curiosa vicenda che accompagnò la commissione
della Vergine delle Rocce, e che rammentiamo sinteticamente. Nel 1483 Leonardo accetta di
dipingere un quadro - destinato a un altare della confraternita dell'Immacolata Concezione -
189
che avrebbe dovuto rappresentare Dio in alto e la Vergine con il Bambin Gesù al centro.
Leonardo non rispettò le consegne ricevute per il soggetto, e i committenti rifiutarono di
corrispondere il compenso pattuito con l'artista. Perplessità furono suscitate anche dalla
centralità di San Giovanni (che, ricordiamolo, è "patrono" di Firenze, e ... della Massoneria),
che diminuisce inevitabilmente quella del Santo Bambino - anomala centralità viepiù
sottolineata dalla circostanza che il dito dell'angelo indica il primo bambino e non il secondo ma de hoc satis, c'è quanto basta per cominciare a riflettere sulla validità di talune congetture
storiografiche...
(La cosiddetta Madonna di Manchester, che viene fatta risalire
al 1510 circa, ad opera di qualche pittore strettamente collegato
a Michelangelo.)
190
*****
Dal lettore Marco Zagari ([email protected]) riceviamo il seguente
interessante contributo.
> A proposito di eventuali credenze eretiche di Leonardo e di altri artisti del Rinascimento
ipotizzate nel commento che Episteme ha dedicato alla nota di Sabato Scala, mi sembrerebbe
importante accennare anche alla possibilità che si trattasse di eresie di tendenza cosiddetta
Giovannita. Segnalo quindi ai lettori della rivista alcuni link in cui vengono illustrate simili
ipotesi:
- http://www.stoke5399.freeserve.co.uk/leo/speculation-heresy.htm
(in questa pagina web si parla dei Mandei, e segnalo allora che
http://www.mandaeans.org/frameset.htm è il sito ufficiale dei moderni Mandei dell'Iran e
dell'Iraq; vi si illustra, fra l'altro, la dottrina Giovannita - mi è parso che diplomaticamente
sorvolino sul fatto che secondo i Giovanniti il Battista fu ucciso proprio dai seguaci di Gesù)
- http://www.antiqillum.com/texts/bg/Qadosh/qadosh007.htm
(in quest'altra pagina, il secondo breve passaggio, che comincia con "The johannites
ascribed...", è tratto dalla allocuzione di Pio IX che credo si intitoli "Multiplices inter
machinationes")
- http://www.crystalinks.com/templars4.html
(vi si trova un altro passo, sempre molto breve, della stessa allocuzione, che spiega la
confusione che a volte sembra sorgere fra il Battista e l'Evangelista).
Aggiungo che mi pare di ricordare così a orecchio, che un grado dei Rosacroce si chiami
"Intimo di S. Giovanni", e che i loro Sovrani si chiamino Giovanni I, Giovanni II etc.
*****
191
Per una buffa coincidenza, proprio poco dopo aver redatto il precedente commento, ci è
pervenuta la seguente notizia (da CRISIS Magazine - e-Letter, 25 luglio 2003, tramite la "Lista
di informazione su cattolici e politica sotto la protezione di Giuseppe Tovini. Per contattare
l'amministratore scrivere a [email protected]"):
> Molte persone mi hanno chiesto di The Da Vinci Code - il romanzo best-seller in voga che
afferma che la Chiesa Cattolica ha nascosto la "verità" su Gesù. Tra le altre cose, il libro
sostiene che Gesù sposò Maria Maddalena ed ebbe figli da lei. Questo libro è un attacco
violento su tutta la scala al Cristianesimo e condurrà molte persone fuori strada. Nel prossimo
numero di settembre di CRISIS smonteremo il Da Vinci Code, dimostrando il pregiudizio
anticristiano del romanziere e la ricerca scandalosamente povera.
Non abbiamo letto il romanzo in questione, e non sappiano quindi quanto meriti per esempio
le ulteriori critiche che riportiamo qui di seguito in modo esplicito (per comodità dei nostri
lettori e ... a "futura memoria", vista l'estrema precarietà delle informazioni circolanti in rete),
assieme a una presentazione invece positiva, ma siamo del parere che, seppure talvolta mal
utilizzati, certi "ingredienti" possano sostanzialmente corrispondere alla realtà di fatti che
hanno uno spessore nascosto che la ricerca storica ufficiale non riesce quasi mai a scalfire,
spesso per principio...
----http://books.guardian.co.uk/reviews/crime/0,6121,1005850,00.html
Crime - Signs for the times - Saturday July 26, 2003 - The Guardian
Mark Lawson finds that nothing is left to chance in Dan Brown's ludicrous but gripping
bestseller, The Da Vinci Code (by Dan Brown 454pp, Bantam, £10.99)
The conspiracy thriller, it can be argued, is the purest kind of bestseller. The premise of such
books is that there's no such thing as a random happening; meanwhile, though bestsellers
aren't exactly conspiracies, most huge publishing successes can be traced back to a web of
connected events, so that form and content collide to an unusual degree.
For example, Peter Benchley's Jaws was probably a good enough story to find readers at any
time, but became a mid-70s sensation because the implications of the plot - horrible, sudden
death in a holiday resort - reflected the neuroses of an affluent American generation enduring
both a cold war and an oil war. Helen Fielding spotted that young unmarrieds were a social
grouping without a literature; Allison Pearson noticed the same gap for working mums.
And coming up to two years after September 11, 2001 - roughly the time it takes conventional
fiction publishing to respond to cultural shifts - what did we find unstoppably atop the
American fiction charts? Dan Brown's The Da Vinci Code, 450 pages of irritatingly gripping
tosh, offers terrified and vengeful Americans a hidden pattern in the world's confusions.
When bad things happen, Brown reassures us, it is probably because of the machinations of a
1,000-year-old secret society which is quietly running the world, though often in conflict with
another hidden organisation. There are probably a couple of verses in Nostradamus predicting
the triumph of The Da Vinci Code: "As the painted French woman smiles/The Brown man
will top the heap", or something similar. Certainly, the novel's success can be attributed to
those who read Nostradamus and believe that the smoke from the blazing twin towers formed
the face of the devil or Osama bin Laden.
What happens in The Da Vinci Code is ... alert readers will have noticed a delay in getting
round to plot summary, but it takes time to force the face straight. Anyway, my lips are now
level, so let's go. Art expert Jacques Sauniere is discovered murdered in the Louvre, having
192
somehow found the strength in his last haemorrhaging moments to arrange his body in the
shape of a famous artwork and leave a series of codes around the building.
These altruistic clues are interpreted by Robert Langdon, an American "professor of religious
symbology" who, by chance, is visiting Paris, and Sophie Neveu, a French "cryptologist" who
is the granddaughter of the artistic cadaver in the Louvre.
As they joust with authorial research - about the divine proportion in nature and the possibility
that the Mona Lisa is a painting of Leonardo himself in drag - a thug from the secretive
Catholic organisation Opus Dei, under orders from a sinister bishop, is also trying to
understand the meaning of the imaginative corpse in the museum.
It all seems to be connected with the Priory of Sion, a secret society. Reading a book of this
kind is rather like going to the doctor for the results of tests. You desperately want to know
the outcome but have a sickening feeling about what it might prove to be. In this case, the
answer was as bad as I'd feared.
Recently, crime and thriller fiction has been increasingly easy to defend against literary snobs
at the level of the sentence. Not here. Brown keeps lugging in nuggets from his library:
"Nowadays, few people realised that the four-year schedule of modern Olympic Games still
followed the cycles of Venus." Otherwise, he favours clunking, one-line plot-quickeners:
"Andorra, he thought, feeling his muscles tighten." French characters speak in American,
while occasionally throwing in a "précisement" to flap their passport at us.
Criticism won't hurt Brown, who can probably now buy an island with his royalties and a
second one with the film rights. The author has, though, recently found himself on the end of
an unwanted conspiracy theory: another writer has accused him of plagiarism. In strongly
denying this, Brown employed a striking defence: that the points of overlap were clichés
which were part of the genre of the thriller and therefore belonged to no one writer.
This admission of unoriginality may further anger readers and writers annoyed by seeing
something as preposterous and sloppy (one terrible howler involves the European passport
system) as The Da Vinci Code on its way to selling millions. But the success of this book is
due not to the writing but to post-9/11 therapy. It tells so many Americans what they want to
hear: that everything is meant. In doing so, Brown has cracked the bestseller code.
Mark Lawson's novel Going Out Live is published by Picador.
----http://www.wired.com/news/culture/0,1284,58378,00.html
Ever looked at the Mona Lisa and wondered why he's got such a goofy grin?
Yes, we do mean he.
Evidently, Mona isn't quite the woman art historians thought she was. But only those who
know the secret code can look at Leonardo da Vinci's famous portrait and see the happy
hermaphrodite that lurks within.
Dan Brown's latest novel, The Da Vinci Code, published by Doubleday Books, is about the
famous Renaissance artist and the oblique references to the occult contained in his equally
famous paintings. It's also about ancient secret societies, modern forensics, science and
engineering, and the history of religion.
Most of all The Da Vinci Code is about the history of encryption -- the many methods
developed over time to keep private information from prying eyes.
The novel begins with Harvard symbologist Robert Langdon receiving an urgent late-night
phone call: The elderly curator of the Louvre has been murdered inside the museum.
Near the body, police have found a secret message. With the help of a gifted cryptologist,
Langdon solves the enigmatic riddle. But it's only the first signpost along a tangled trail of
193
clues hidden in the works of Leonardo da Vinci. If Langdon doesn't crack the code, an ancient
secret will be lost forever.
Brown's characters are fictional, but he swears that "all descriptions of artwork, architecture,
documents and secret rituals in this novel are accurate."
The author provides detailed background on the novel's historic basis on his website, but he
suggests readers finish the book before reviewing the site, which gives away some of the plot's
twists.
The book's publicity hints darkly that the story lays bare "the greatest conspiracy of the past
2,000 years." Perhaps, but anyone who is interested in conspiracy theories won't find anything
new here. The basic thesis is that da Vinci was a member of a secret society charged with
protecting the true history of Christianity until the world is ready to hear it. This theme has
been explored in depth in other books such as Holy Blood, Holy Grail and The Messianic
Legacy, both written by Michael Baigent, Henry Lincoln and Richard Leigh.
Where The Da Vinci Code does shine -- brilliantly -- is in its exploration of cryptology,
particularly the encoding methods developed by Leonardo da Vinci, whose art and
manuscripts are packed with mystifying symbolism and quirky codes.
Brown, who specializes in writing readable books on privacy and technology, cites da Vinci
as an unheralded privacy advocate and encryption pioneer. His descriptions of da Vinci's
cryptology devices are fascinating.
Throughout history, entrusting a messenger with a private communication has been rife with
problems. In da Vinci's time, a major concern was that the messenger might be paid more to
sell the information to adversaries than to deliver it as promised.
To address that problem, Brown writes that da Vinci invented one of the first rudimentary
forms of public-key encryption centuries ago: a portable container to safeguard documents.
Da Vinci's cryptography invention is a tube with lettered dials. The dials have to be rotated to
a proper sequence, spelling out the password, for the cylinder to slide apart. Once a message
was "encrypted" inside the container only an individual with the correct password could open
it. This encryption method was physically unhackable: If anyone tried to force the container
open, the information inside would self-destruct.
Da Vinci rigged this by writing his message on a papyrus scroll, and rolling it around a
delicate glass vial filled with vinegar. If someone attempted to force the container open, the
vial would break, and the vinegar would dissolve the papyrus almost instantly.
Brown also brings readers deep into the Cathedral of Codes, a chapel in Great Britain with a
ceiling from which hundreds of stone blocks protrude. Each block is carved with a symbol
that, when combined, is thought to create the world's largest cipher.
"Modern cryptographers have never been able to break this code, and a generous reward is
offered to anyone who can decipher the baffling message," Brown writes on his site.
"In recent years, geological ultrasounds have revealed the startling presence of an enormous
subterranean vault hidden beneath the chapel. This vault appears to have no entrance and no
exit. To this day, the curators of the chapel have permitted no excavation."
Brown specializes in literary excavation. His previous books have all involved secrets -keeping them and breaking them -- and how personal privacy slams up against national
security or institutional interests.
He's written about the National Reconnaissance Office, the agency that designs, builds and
operates the nation's reconnaissance satellites. He's also written about the Vatican and the
National Security Agency. Brown's first novel, Digital Fortress, published in 1998, details a
hack attack on the NSA's top-secret super computer, Transltr, which monitors and decodes email between terrorists. But the computer can also covertly intercept e-mail between private
citizens. A hacker discovers the computer and takes it down, and demands that the NSA
publicly admit Transltr's existence or he'll auction off access to the computer to the highest
bidder.
194
"My interest in secret societies sparks from growing up in New England, surrounded by the
clandestine clubs of Ivy League universities, the Masonic lodges of our Founding Fathers and
the hidden hallways of early government power," Brown said. "New England has a long
tradition of elite private clubs, fraternities and secrecy."
To encourage his readers to discover the joys of cracking code, Brown has created an Internetbased treasure hunt based on The Da Vinci Code that involves Google searches, code
cracking, e-mail missives and low-level password hacking (http://www.danbrown.com/).
Winners will receive a prize that, Brown said, involves "something money can't buy." He
declined to provide details, saying that he wants winners to be surprised.
(L'Adorazione dei Magi)
195
UFO?
Ubbia e Fomento Ossessivo
(Strabone)
Iam lucis orto sidere
Deum precemur supplices,
ut in diurnis actibus
nos servet a nocentibus.
(Incipit di un inno ambrosiano)
Cercare di fare il punto sul tema degli UFO è impresa difficile. Intorno ad esso, come nel caso
di ciò che appartiene al cosiddetto paranormale e nonostante che, a differenza di questo, il
primo s'ammanti di una veste di maggior concretezza, è tale la polvere sollevata dai
personaggi più disparati ed inaffidabili per cui riuscire anche solo a migliorare la visione non
appare cosa da poco. Si possono però, con raziocinio, mettere alcuni paletti confinari e, entro
questi, cercare poi di aprirsi una via.
In questi ultimi tempi, m'è capitato d'associare qualche lettura sull'argomento, con la
rivisitazione di alcuni articoli apparsi appunto su EPISTEME. Articoli che, tra l'altro, mi hanno
indotto a meglio documentarmi sui riferimenti in essi citati.
In omaggio al metodo del filosofo, cui s'ispira il pensiero e l'attività dell'amico Prof. Bartocci,
stimo essenziale cominciare con lo smontare la complessità che ci sovrasta nelle sue principali
parti costitutive. Ritengo in realtà che gli eventi, oggi, in prevalenza, classificati come UFO
siano stati, nei tempi passati, attribuiti al dominio del vero e proprio paranormale (celeste o
infero che fosse) e che, pertanto, l'insieme di tali manifestazioni risalga ad epoca assai remota
e quindi ben anteriore a quel XIX secolo nel quale hanno avuto la massima pubblicità e
destato così vivo interesse.
Questo detto, subito però preciso che, a differenza (suppongo) degli amici post-cartesiani, io
sono anche del parere di non considerare corretta la riduzione di tutta quella casistica o al
mero dato naturalistico (fenomeni meteorologici ed elettromagnetici) o - con alcune riserve e
specificità - alla visionarietà (la tesi di C. G. Jung) soggettiva e collettiva. In altre parole, io,
pur non riconducendo ad essa tutto l'inspiegabile, non escludo l'obiettiva esistenza di una
fenomenologia paranormale, cui alcune di queste apparizioni possono essere riportate ma
neppure rifiuto la circostanza di una loro positiva materialità.
Nella disamina, in primis, privilegerò quest'ultima fattispecie mentre, in fine, passerò a
considerare quello che io ritengo un eclatante, quantunque frainteso, esempio dell'altra.
Per sgombrare il campo da un altro possibile impedimento dialettico e quindi solo per poter
proseguire il discorso, sono anche dell'avviso che sia necessario escludere l'imbroglio o
l'equivoco e non - è ovvio - perché entrambi non siano da porsi (anzi, qui abbondano) ma
proprio perché, sul piano statistico, l'influenza quantitativa degli episodi è di tale ingenza da
imporre questo criterio espositivo il cui risultato finale è, appunto, non una certezza ma
un'ipotesi.
196
Parlare di UFO significa anche esprimersi sulla vita in altri mondi e, riguardo ad essa, dico
subito che, sulla sua eventualità non nutro incertezza alcuna ma molte invece me ne riservo
per la praticabilità di una comunicazione con gli esseri che casomai la rappresentino.
Affrontare il problema come, in genere, si fa, m'appare invero oltremodo semplicistico: i
recettori presenti nella nostra fisiologia ci permettono di percepire la realtà esterna attraverso
gli organi di senso (esterocettori) mentre la contezza di noi stessi ci è data soprattutto
dall'intero sistema nervoso al quale giungono stimoli (propriocettori) anche attraverso la pelle,
i muscoli, i visceri e le ossa. Nella sua totalità, è questo a generare il nostro, contingente
mondo di conoscenza. Mondo che ci rimanda a quella fondamentale componente vibratoria
sottesa al reale nella sua interezza. Perciò l'uomo, nel percepire soltanto alcuni settori di
queste frequenze, determina, con i confini della sua conoscenza sensibile, gran parte di quelli
della stessa coscienza di sé. Gli strumenti permettono l'estensione di tali settori ma la loro
concezione ed operatività non può non essere determinata dai limiti insiti nella natura del
costruttore. Un corollario di queste considerazioni è che la conoscenza in senso assoluto non
può coincidere con la coscienza.
Tra due mondi di conoscenza così delineati esiste dunque una possibilità di comunicazione
esclusivamente quando essi, anche solo in parte, possono interagire ovvero quando ci sia
almeno parziale sovrapponibilità dei rispettivi settori di frequenza percettiva. Dato per
assodato non possa esistere eguaglianza totale tra due individui pur appartenenti alla stessa
specie, è palese come queste possibilità di comunicazione diminuiscano mano a mano che le
specie s'allontanano tra loro. Per illustrare ciò che intendo dire, è sufficiente riflettere sulla
nostra prossimità a certi mammiferi, paragonandola al mondo di un insetto. Ma si può andare
oltre fino ad ideare come tutte le componenti vibratorie, attinenti ad un individuo o, diremmo
allora meglio, ad una certa condizione d'esistenza, siano al di fuori delle nostre capacità
sensibili cosicché è concepibile che, qui ed ora, possano coesistere esseri e mondi senza
alcuna possibile interazione con noi. E se questo vale per la nostra Terra, dove anche esseri
molto prossimi all'uomo, come alcune specie domestiche, godono della fruizione di modalità
vibratorie per noi inattingibili, quale sarà mai la situazione nello spazio esterno dove vigono
condizioni remote da quelle cui siamo adusi? In conclusione e per quanto concerne
un'ipotetica nostra relazione con civiltà non terrestri, le probabilità, non di una vita intelligente
che - ripeto - l'escluderla sarebbe porre limiti alla possibilità universale ma solo quelle di
venire in contatto con essa, appaiono oltremodo remote. Non sembra inutile specificare come,
nel dubitare della presa di contatto, io intenda non solo l'improbabilità della comunicazione
ma dello stesso accorgersi della reciproca esistenza.
L'ostinazione però sull'origine extra-terrestre è, presso i cultori dell'argomento, davvero
unanime e questo - nonostante appaia razionale, per i motivi esposti, escludere l'appartenenza
dei misteriosi ospiti ad una civiltà aliena e sia quindi sensato supporre in loro dei nostri simili
- fa sì che io creda come tale costante presunzione non debba essere sottovalutata, bensì debba
essere considerata una traccia molto importante per giungere a mettere insieme tutti gli
elementi del puzzle.
Ora, noi sappiamo come gli incontri, quando ci siano stati contatti ravvicinati (rammento
ancora l'artifizio retorico della presunzione di verità), abbiano evidenziato l'esistenza di due
tipi di gran lunga difformi, cosicché il gergo ufologico, per distinguerli, ha escogitato i
nomignoli di "grigi" e "nordici". Per i primi, dato l'aspetto assai repellente ed inusitato,
l'attributo di extraterrestri sembrerebbe trovare qualche obiettivo riscontro mentre per gli altri
l'appartenenza alla specie umana, corroborata da un'allure atletica e da un'indubbia "bella
presenza", appare lampante. Di conseguenza, se questi signori sono davvero individui come
197
noi, le cose si complicano e non poco. Infatti, è allora lecito domandarsi da dove vengano,
quali progetti abbiano e come facciano a nascondere tutta la flotta di cui sembrano dotati.
Sul tema, la vastissima letteratura esistente è, per la più gran parte, segnata da deprimenti
caratteristiche d'inaffidabilità e, in parte, questo avviene anche in chi, come in Jean Robin (LE
ROYAUME DU GRAAL e VEILLEUR, OÙ EN EST LA NUIT? Ed. Trédaniel), sussistono impostazioni di
fondo che, in un certo qual modo, io trovo convincenti ma poi l'insidiosissimo soggetto deve
avere stregato anche lui, trascinandolo in derive romanzesche assolutamente inverosimili. Per
Robin dunque, i "nordici" sono - e non solo appaiono - uomini e sono coloro che Guénon
designa quali contro-iniziati. I "grigi" sono invece esseri del mondo sottile, i quali, per il patto
scellerato stipulato tra "maghi neri" e le valenze più basse del mondo à coté, con alacre
impegno, collaborano al piano. Anche a voler immaginare, da parte di forze attive ab
immemorabili ed allo scopo di meglio agire nell'attuale contesto, un tempestivo
aggiornamento di linguaggio e pure senza escludere come certe entità possano mostrarsi nel
nostro mondo (esempi: Melusine, l'agnazione della dinastia jagellonica, le "volpi"
dell'Estremo Oriente, i djinn…), sembra molto difficile che, per pilotare un oggetto ipertecnologico qual è un UFO, ci sia proprio bisogno di utilizzare uno gnomo, un elfo o qualche
simile satanasso. Per dirla col Carducci:
…Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù…
Insomma, sebbene l'esito non sia meno angoscioso, si deve supporre qualcosa di più solido e
ruspante. Si possono anzi ammettere entrambe le presenze; nel senso che, a volte, alcune
manifestazioni paranormali, per i peculiari orientamenti della mentalità contemporanea, siano
state interpretate quali incontri con extra-terrestri. L'inverso insomma di quanto sarebbe
avvenuto nei secoli passati. Ma a quest'aspetto della questione mi dedicherò, con più
ampiezza e come già annunciato, in chiusura. In tutti gli altri casi, nello scenario
estremamente "avanzato" secondo il quale il mondo degli UFO si rappresenta, appare quindi
più ragionevole ritenere questi esseri la risultante di operazioni genetiche finalizzate al
supporto operativo nei tanti programmi dei loro creatori. In tale prospettiva, la supposta
ostilità tra i due tipi appare come una sorta di disinformazione, un vero e proprio gioco delle
parti, messo in atto da chi gestisce tutto lo spettacolo.
Ma da dove mai possono venire questi uomini schivi le cui umbratili, sporadiche ed
imprevedibili apparizioni mostrano sempre un qualcosa a noi simile ma che frattanto ci
sopravanza? Data per assodata, per le considerazioni già esposte, la comune appartenenza alla
madre Terra, dobbiamo immaginarci, sulla falsariga di Robin, qualche sotterraneo rifugio
nelle Ande o, come ipotizzano altri, vagheggiare improbabili recessi antartici? Tutte queste
illazioni m'appaiono assai sprovvedute nella valutazione delle attuali capacità investigative:
oggi non c'è angolo del pianeta che non sia monitorato dai satelliti e comunque un centro
ancorché remoto e dal quale si levasse un tale traffico aereo non potrebbe, negli anni, essere
passato inosservato. No, la base della flotta è altrove.
Prima però di cercare di localizzarla, vorrei mettere in evidenza come le impetuose crescite
tecnologiche, le quali contraddistinguono questo momento culturale e che, implicite alla
nascita della modernità, hanno avuto definitivo impulso dalla rivoluzione industriale, siano
caratteristiche della fase tarda di ogni civiltà. Il mondo classico, con l'avvento del
Cristianesimo, fu corretto o meglio, fu impedito dall'iniziare questo sviluppo però le premesse
erano ben presenti non solo in quel naturalismo venato di forte pragmatismo (specie a Roma)
198
ma anche in veri e propri exploits chimici e meccanici, quali - per esemplificare - il fuoco
greco ed il cosiddetto "oggetto di Antikythera" che, certo, non sarà stato l'unico
manufatto del genere. Inoltre, tutte le antiche civiltà non sono di sicuro prosperate sprovviste
di una consistente crescita in campo applicativo e, senza voler insistere sulle ipotesi più ardite,
basti pensare alle infrastrutture indispensabili per la realizzazione di tutte le grandi opere
idrauliche ed edilizie. Non c'è, infatti, motivo di non classificare in quest'ambito dell'umana
ingegnosità, le tecniche che le resero possibili e sarebbe semplicistico nonché fuorviante
seguitare ad immaginare come la mera disponibilità quantitativa di un'inesauribile
manovalanza possa continuare a spiegare ogni cosa.
Visto l'argomento, mi corre l'obbligo di segnalare le indagini, sul sapere degli antichi, svolte,
con grande competenza e acutezza, da Lucio Russo: LA RIVOLUZIONE DIMENTICATA, IL PENSIERO
SCIENTIFICO GRECO E LA SCIENZA MODERNA, FLUSSI E RIFLUSSI; Ed. Feltrinelli. In esse, si smentisce,
con abbondanza di prove, la pretesa ingenuità di quelle conoscenze mentre si dimostra come
molte concezioni cosmologiche e scoperte tecniche, attribuite al solo imporsi della modernità,
fossero, in realtà, rivisitazioni di quello che egli definisce <<un sapere fossile>>
ovvero un sapere il cui senso sfugge essendo ormai avulso da un contesto nel quale erano
invece esistite sia teorie giustificative, sia prassi d'utilità. Di fatto, è noto che Newton
dedicasse un quantità incredibile del suo tempo allo studio dell'alchimia e di altre scienze
tradizionali (cfr. Betty J. Teeter-Dobbs, THE JANUS FACES OF GENIUS, Cambridge U.P. 1991) e che
quello non fosse, appunto, né tempo perso, né una stravaganza albionica, da tutto ciò, appare
davvero assodato.
Sempre dai nostri antichi, pel filum della traditio ed attraverso gli egizi, c'è giunta notizia
della civiltà atlantidea. Per di più, dal testo biblico, sappiamo essersi verificata l'enigmatica
deviazione dei Nephilim, i quali altro non sono se non i Titani ed i Giganti di molte mitologie.
Della connessione tra Diluvio e Nephilim, è risaputo com'essa fosse intrinseca all'epoca ultima
e disastrosa di quel ciclo ormai remoto. Ebbene, proviamo a supporre che la "colpa" di un
mondo scomparso da dodicimila / tredicimila anni avesse forti analogie con quanto, da noi, s'è
verificato tra la fine del Medio Evo e gli inizi della rivoluzione industriale. Se dilatiamo poi
lungo un così grande arco di millenni l'intero processo, ci rendiamo conto che, pur non
trascurando il dato tradizionale, relativo, per il passato, ad una minor velocità del fluire
temporale, in quell'immenso intervallo, mantenendo un trend scientifico paragonabile
all'attuale, si sarebbero potuti verificare progressi notevolissimi. Sì, mi si può obiettare, ma
dove? Ecco il quid; dove?
Prima d'azzardare una risposta, deve essere premesso come concordanti dati tradizionali
attribuiscano, durante la discesa ciclica, uno spazio ognora crescente al mare: solo 1/7
dell'intera superficie agli inizi di quello che l'Induismo chiama Manvantara, 1/4 nel periodo
atlantideo mentre, ai nostri giorni, la proporzione s'è addirittura invertita scendendo per le
terre emerse sino ad un misero 1 a 4. Sebbene il cataclisma che travolse Atlantide, debba
essersi verificato in più stadi, la sommersione finale deve essere stata impressionante. In ogni
caso, per raggiungere le attuali proporzioni, sono trascorsi millenni: basti pensare che la
formazione del Mar Nero, avvenuta per tracimazione del Mediterraneo, viene fatta risalire ad
un'epoca intorno al 5600 a. C. C'è stato, insomma, un lento volgere di ere nel corso del quale
la disponibilità di spazi era, di gran lunga, superiore alla presente e, ove a questo s'aggiunga
un'assai minore densità di popolazione, non è difficile immaginare come un gruppo umano,
altamente organizzato e coeso, per di più, dotato di una superiorità militare indiscutibile
(<<quei famosi eroi>> di Gen. 6) mentre, indisturbato, elaborava precise strategie,
abbia potuto sviluppare, al riparo di non gradite ingerenze, la propria specifica cultura.
199
A questo punto, vorrei però ricordare come Atlantide fosse stata una talassocrazia e che,
pertanto, in Poseidone, avesse avuto, naturaliter, il suo Dio. È curioso come il suo emblema
sia il Tridente e come la reiterazione di quella triplice struttura dia poi la Menorah: il
candelabro a sette braccia. Uno dei più antichi simboli dell'Ebraismo. Questa religione ha
origini "occidentali" ampiamente attestate, sicché, oltre ad essere uno degli elementi fondanti
la nostra cultura - non a caso autodefinitasi appunto occidentale - viene a rappresentare
il più diretto erede della tradizione atlantidea. A tutto ciò, ampi ed approfonditi riferimenti
sono reperibili nei lavori di d'Ausser-Berrau già apparsi su EPISTEME. In tempi recenti, nel
1999, a Barbury Castle, in Inghilterra, s'è manifestato un crop circle - genere di eventi la cui
fenomenologia è certamente riconducibile alla materia di quest'articolo - nel quale era
identificabile, disegnato con grande precisione ed eleganza grafica, questo stesso simbolo e,
sempre per il medesimo luogo, si ha notizia di un altro glifo riproducente l'Albero
Sephirotico. C'è da far presente come anche quest'ultimo schema sia una costruzione
fondata su tre segmenti paralleli e verticali. Del resto, non ha analoga architettura anche
l'Ancora, sorta di tridente rovesciato, indubbio strumento ed emblema marittimo? Cosa dire
infine delle demenziali credenze nell'origine extraterreste degli Elohim, proprie a quella che con mero eufemismo mi limito a classificare come stramba pseudo-religione - i cui fedeli
sono conosciuti col nome di raeliani? E dove - sia pel gioco sotteso al nome tramite
l'infantile sottrazione di due lettere, sia per la patente allusione al Mogen David nelle loro
insegne - la volontà allusiva e mimetica è evidente: <<Though this be madness,
yet there is method in't.>>.
Poseidone è un Dio quasi pari, in dignità, al fratello Zeus ma, rispetto al maggiore, è
contraddistinto da un carattere cupo e litigioso, del tutto in sintonia con la scelta di volere, per
reggia, un tenebroso palazzo abissale, nel quale, in stalle spaziose, sono custoditi i bianchi
cavalli, dagli zoccoli di bronzo e dalle auree criniere, che, aggiogati all'altrettanto aureo
cocchio del loro signore, inesausti lo conducono a trascorrere gli oceani. A tale divino,
maestoso apparato, emersi - immani - dalle onde, fanno terribile, innumere scorta i mostri
marini. A tanto spettacolo, pel pavor panicus, attonito ogni vivente s'acquieta, cessano i venti
ed ogni tempesta si placa. È allora il caso di fare presente che, poco meno noti degli
unidentified flying objects, in questa singolare casistica, ci siano anche gli unidentified
submerged objects (USO), il cui avvistamento non è forse meno impressionante: corpi
metallici di grandi e, a volte, di grandissime dimensioni, sorti improvvisi dal fondo, i quali,
non sempre, si limitano al liquido elemento ma, con altrettanta facilità, sembrano in grado di
navigare nell'aria: infatti, facilmente, s'involano dimostrando la mera formalità di una loro
distinta classificazione. Ecco dunque, anche in quel sesto e tuttora, in gran parte, sconosciuto
continente, un ulteriore, possibile nascondimento per chi, ex antiqua consuetudine, doveva
ben conoscerne i segreti.
Se ciò è avvenuto e per l'epoca in cui è avvenuto, n'è risultato uno strano mixing tra vaste
conoscenze cosmologiche tradizionali, per le quali - ricordiamolo - la realtà ha innumeri
livelli vibratori, uno solo dei quali è quello sensibile ed esperibile attraverso il metodo della
scienza empirica, e qualcosa di molto affine a quest'ultima, con la sua vasta ed inquietante
panoplia di un minaccioso corredo tecnologico ed utilitaristico. Questi nostri simili,
nell'accezione corrente del termine, non sono quindi uomini moderni ma, parimenti, rispetto
all'attuale civilizzazione, sono - con paradossale coincidenza - precursori ed epigoni. Credere
però che tanta superiore specificità sia potuta, ed aggiungerei anche voluta, passare appieno
inosservata sarebbe illudersi, sia sulle effettive capacità di nascondimento offerte, alla lunga,
dal nostro pianeta, sia sulle più profonde inclinazioni della stessa natura umana. In questo
senso ovvero per giungere ad identificare tali remote, probabili e sconcertanti comparse, io
200
sono del parere sia indispensabile il rifarsi ad una precisa, quantunque prudente e calibrata
metodologia.
Nella storia delle idee, tra i precursori, ed in contrasto con quant'è di solito identificato sotto
titolo di scetticismo e d'ateismo, io sarei per una diversa interpretazione di quella linea di
pensiero che, nella cultura occidentale, lascia traccia di sé, sin dal 500-400 a. C. Ad emergere
in modo tangibile dalle nebbie di un lontano passato, il primo di tali anticipatori è Ecateo di
Mileto, il quale - appunto - del traditum est, cerca d'attenuare gli elementi più favolosi
contenuti nell'epos arcaico, dando ordine a quella che, sul piano storico, era solo confusione e
contraddizione. Sia ben chiaro, io non discuto che il mito, come l'etimo suggerisce,
"silenziosamente", dietro il velo del suo specifico linguaggio, trasmetta elementi di
carattere metafisico e cosmologico, affermo però che, se la storia è sempre ierostoria, lo stesso
non avvenga pel contrario e che ciò sia tanto più vero quanto più, nella sua lettura, l'approccio
a quest'ultima sia stato di pedissequo tipo letteralistico. Quindi, quello del mito è un
linguaggio complesso, dal quale possono trarsi diversi ordini d'insegnamento e, non ultime,
importanti notizie storiche. Ecateo, del quale non si può passare sotto silenzio la simpatia per
la cultura egizia, cultura - ricordiamolo - tra le più ieratiche tra quante ne annoveri la civiltà
occidentale, Ecateo dunque, dal materiale di cui disponeva, cercò di fare storia ed è forse un
ben moderno anacronismo positivista, supporre che il suo scopo fosse di minarne il senso
trascendente: affermare, come alcuni fanno, che egli abbia vanificato il mondo del mito
riconducendolo a quello della physis, significa - tra l'altro - misconoscere la latitudine, dagli
antichi attribuita al concetto di cosmos dove, alla physis, apparteneva non solo la materia
subtilis in questo piano d'esistenza ma erano propri anche gli stati superiori dell'essere. Fatto
si è che, a prescindere dai di lui ormai imperscrutabili intenti, già in epoca remota ed assai
prima della decadenza del mondo antico, si provò ad estrarre informazioni "utili" da un
corpus in altra maniera strutturato ed ad altro scopo destinato.
Il più famoso erede di questa linea di pensiero è Evemero di Messene (circa 340/240 a. C.), il
quale, a proposito della sua ben nota dottrina sulla natura degli dei, afferma d'averla tratta da
un dato tradizionale ossia dall'esposizione della medesima quale sarebbe risultata da un testo
inciso su una stele antichissima, situata nel tempio di Zeus Trifilio. Purtroppo, l'affermazione,
sulla quale s'imposta la sua ‘IERÀ ÀNAGRAPHẾ (SACRA SCRITTURA nell'accezione di descrizione
delle cose sacre), che è poi l'unica opera di cui s'abbia notizia, è inficiata dal tono
romanzesco ed utopico di un improbabile resoconto di viaggio. Per Evemero, gli dei hanno
origine umana e sono assurti a gloria divina grazie alla devozione tributata loro dalle masse:
così è avvenuto nel caso di alcuni re, pei quali, determinante è stata la riconoscenza dei
sudditi. In tutto questo, ove si valuti con attenzione il processo, che configura le forme
tradizionali, non c'è niente di davvero ateistico: si tratta della collocazione - in funzioni che,
negli stati superiori dell'essere, trovano il loro fondamento intemporale - di certe figure
storiche, la cui effettiva incarnazione di tale spirito pre-esistenziale non è, di fatto,
determinante alla loro santificazione. In pratica, non tenendo conto di ciò che, nei più, sia o
meno cosciente, il culto e la sua efficacia spesso discendono entrambi dalla funzione e non
dall'intercessione dell'eventuale personaggio storico nella cui nicchia il medesimo si trova ad
essere sistemato. Per giunta, la vita, da lui stesso di fatto vissuta, dai posteri, ne sarà in toto
reinterpretata sino ad essere opportunamente rifusa in uno stampo che la trascenda. In ogni
caso, nella fattispecie della tradizione classica, la deificazione di una precisa individualità non
mi sembra episodio frequente ma, a parer mio, molto numerose sono invece le sparse
intrusioni storiche in racconti d'impronta mitica. Racconti il cui peculiare linguaggio, fatta
accezione per l'ineffabile che, difficilmente, potrebbe esimersene, fa sì che rivelare sia velare
di nuovo, col risultato che chi legge, di norma, non capisce. E questo avviene perché anche chi
redige i testi trasmette qualcosa che, della limpidezza originaria, ha ormai ben poco, e quindi
201
tutto è come disperso, mascherato, nascosto e - diciamolo pure - deformato. In un certo senso,
anche in questa fattispecie, siamo di fronte ad una delle possibili accezioni del precitato
concetto di <<sapere fossile>>. Da qui, la necessità dell'esegesi e di un continuo,
difficile lavoro di scavo e di ricostruzione. C'è anche da aggiungere che, se al linguaggio
mitico si fossero tolte le sue suggestioni, le masse non avrebbero "creduto", le società non si
sarebbero ordinate ed il caos si sarebbe impadronito di ogni settore dell'umana attività.
Purtroppo la nuda verità non è facilmente affrontabile. Per nessuno.
Chiusa questa breve digressione, condotta, per l'importanza del tema, in termini davvero
sommari e riduttivi, mi limito, per quello che reputo a obvious embedded historical element,
ad un solo esempio tratto dall'ILIADE: canto XVIII, la fucina di Efesto. Il soggetto è il dio:
…venti tripodi in una volta faceva,
da collocare intorno alle pareti della sala ben costruita;
ruote d'oro poneva sotto ciascun piedistallo,
perché da soli entrassero nell'assemblea divina,
poi tornassero a casa, meraviglia a vedersi.
(vv. 373-377)
Ed ancora:
…due ancelle si affaticavano a sostenere il signore,
auree, simili a fanciulle vive;
avevano mente nel petto e avevano voce
e forza, sapevano l'opere per dono dei numi immortali;
queste si affaticavano a sostenere il signore…
(vv. 417-421)
Senza voler supinamente cadere nell'assai discutibile abitus, caratteristico di molti autori
sensazionalistici, sempre intenti a rinvenire meraviglie tecnologiche in remote narrazioni ed in
reperti archeologici, in certe occasioni, è difficile essere in forse: infatti, nelle circostanze,
quale quella dei versi citati, optare per l'interpretazione allegorica, sarebbe più espressione di
volontà anziché di un sincero proposito di comprensione. Non c'è dubbio come la descrizione
dell'ambiente, nel quale si stava adoprando questo dio, tra macchine utensili robotizzate ed
androidi, fosse più consona a quella relativa ad un informatizzato centro di produzione - in un
mondo, ancor oggi, in gran parte da venire - piuttosto che conforme al risultato elegiaco della
mitopoiesi del secondo millennio a. C. E qui, tengo a precisare che condivido le tesi omeriche
e, con essa, anche la cronologia loro attribuita dal ns. collaboratore Felice Vinci.
Nel riflettere su tutta questa tematica mi sono però detto che, intanto, quel gruppo, o meglio,
quel popolo doveva essere davvero molto ridotto e, soprattutto, di ben singolare formazione:
…i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero…
(Gen. 6.2).
Ora, se decodifichiamo le specificità linguistiche del testo, si può pensare che i figli di Dio
costituissero la classe sacerdotale o, in termini ancor più attuali, l'élite intellettuale della
civiltà atlantidea o, almeno, una sua porzione. Del resto, quel modo di trovare una compagna,
da parte degli esponenti di un nucleo che, in origine, sembra essere stato esclusivamente
maschile e dominato dall'idea guida di un progetto fondatore, è lo stesso che, millenni dopo,
ritroviamo nella mitica descrizione del costituirsi dell'Urbe. E tale sembra essere una costante
di quei gruppi di giovani guerrieri denominati maryannu (in accadico ma cfr. anche il skr
marya, young men) che, con i loro carri da battaglia, hanno molta parte in tutta l'epica
202
indoeuropea e, in particolare, presso gli Hittiti, i Mitanni ed gli altri popoli dell'area. Nel
nostro caso, non si trattava però, almeno nell'immediato, di fondare un impero, perché quello,
al momento, già esisteva ma forse il piano, nascendo proprio prima della fine di esso ed
evidentemente perché quest'esito catastrofico, in qualche modo, era già stato intravisto, il
piano dunque si presentava, in una prospettiva di continuità nella trasformazione, assai più
complesso ed ambizioso. Pertanto, oltre che su un elemento di potenza militare (<<sono
questi gli eroi dell'antichità, uomini famosi>> Gen. 6.4), si basava
su importanti fattori di conoscenza. Il concetto guida per il mantenimento del gruppo, già
messo in atto - al fine d'ottenere anche un normale supporto demografico - verso l'altro sesso,
doveva essere quello della cooptazione; da qui un discretissimo proselitismo che, io ritengo
non sia mai cessato. In ogni caso, la sopravvivenza di società chiuse può essere straordinaria:
si pensi agli Hutteriti che, ai tempi della Riforma, usciti da Moos in Val Fiscalina (Alta
Pusteria), dopo vicissitudini incredibili che, nei secoli, li hanno portati prima in Ungheria e
poi in Ucraina, vivono adesso, essendo fuggiti negli anni della rivoluzione russa, nel Montana
e in Manitoba. Là, in America, ancora parlano il loro ruvido, remoto dialetto pusterese e
seguono sempre i rigidi, immodificati dettami del fondatore (Jacob Hutter). Così facendo,
continuano, instancabili, a generare colonie agricole, secondo una regola che ne prevede la
geminazione al momento in cui una di queste raggiunga i centoventi membri. E sono solo
contadini senza aspirazioni intellettuali, che vadano oltre la gretta osservanza del loro
devozionalismo settario. Analoga storia per i Mennoniti e, a ben considerare, anche analoghi
raggruppamenti di casa nostra - mi suggeriscono un paio di casi qui in Piemonte - nel loro
piccolo, con l'endogamia e tutto un contorno dottrinario e normativo, stanno anch'essi
sperimentando - nella loro illusione: ad maiorem Dei gloriam - la costituzione di uno di quei
magici cerchi volti al totale asservimento sociale e psicologico di chiunque, al loro interno,
ingenuamente, cada:
...nella ricerca del Vero, razionalità e spirito critico sono indispensabili per chi, su essi come su zattera,
navighi nel gurgite vasto dell'esistenza profana ma, del Vero giunti alla riva e trovato il Maestro, quella
zattera è solo un peso e deve essere abbandonata…..
…..così, suadente, canta la sirena….
Cerco, adesso, d'immaginare alcune possibili obiezioni.
Non è da trascurare l'osservazione che, il nostro mondo, prima con la rivoluzione industriale e
poi con ciò che, sino ad oggi, n'è seguito, abbia dato luogo ad una serie di modifiche
dell'ambiente di un'imponenza impressionante e tali, se tutto dovesse durare ancora migliaia di
anni, da lasciare tracce indelebili e difficilmente trascurabili per le civiltà successive. Ebbene,
qualcosa d'analogo, pel passato, manca: è incontestabile. Ma, qui ripeto; quella non era,
ancorché appartata, una civiltà "normale", bensì si trattava di una società strutturata e
rigidamente diretta. Insomma non ci dovevano essere né le incomprimibili dinamiche di
quello che, oggi, conosciamo quale libero mercato, né il magmatico procedere di tante civiltà
tradizionali. Inoltre, un'altra possibilità non è da trascurare: la padronanza di tecnologie
sofisticate e potenti può aver fatto optare, per tutto quello che avrebbe potuto essere
considerato imbarazzante o comunque inappropriato mostrare, a favore della disposizione
sotterranea e - perché no? - per il possibile, anche di quella sottomarina. Basti pensare come,
già nella nostra epoca, ci sia chi, nel sottosuolo, prospetta la futura, privilegiata destinazione
di quanto di sgradevole ci assilla: centrali, industrie ed altre bruttezze. Non a caso, da tempo
ed un po' ovunque, per alcune grandi infrastrutture di sicurezza, direzione e ricerca, s'è optato
a favore di tale discreta ed appartata dislocazione.
203
Un altro prevedibile argomento contrario potrebbe consistere nel fare presente come le
caratteristiche qualificative del tempo, intrinseche alle epoche passate, non avrebbero
permesso uno sviluppo alternativo a quello conforme alle fasi culturali, le quali hanno
preceduto l'attuale momento tecnologico. Si può rispondere che, infatti, l'era tardo atlantidea
avesse generato, appunto, una deviazione e che proprio tale fosse, tanto da essere ristretta ad
un ambito estremamente limitato dell'umanità. Ambito sopravvissuto proprio grazie ad una
specifica volontà ed a risorse che, per i tempi, erano definibili, sotto svariati punti di vista,
assolutamente prodigiose.
Naturalmente, non si può, in assoluto, escludere che gli UFO siano davvero il prodotto di
civiltà aliene ma questa è un'ipotesi che ritengo tanto remota da evitare per adesso ogni
ulteriore argomento oltre a quelli esposti.
Quando dunque le possibilità d'occultamento offerte dalla Terra apparvero minacciate oppure
scaturendo solo da una scelta programmata e meditata, svincolata quindi da limitazioni
contingenti ed allorché, grazie ad un salto tecnologico d'assoluta rilevanza, quale avrebbe
potuto essere l'acquisizione di una propulsione antigravitazionale, si resero possibili i viaggi
interplanetari, quel piccolo popolo, che potremmo anche definire di superstiti, si creò altrove
un rifugio imprendibile, una corazza impenetrabile. Quale fu dunque la destinazione? Ma è
ovvio: la Luna, Marte, qualche asteroide ... e dove mai sennò? Dove altrimenti si sarebbe
potuta nascondere e con tanta infrangibile sicurezza una così imponente armata aerea nonché
le infrastrutture, la logistica, i comandi, gli alloggi, la produzione, i laboratori, gli istituti di
ricerca, i centri direzionali e, last but not least, il governo di tutta la comunità? Forse, e senza
escludere altre basi e presidii, soprattutto per un limitato e ben mirato terraforming, tra i
possibili, Marte sarebbe stato il luogo migliore. Altre civiltà, nei cicli su quel mondo trascorsi,
lo avevano abitato lasciando segni che, quantunque imponenti, ancora s'intravedono sconvolti
e diruti. Al momento della scelta, nella condizione grossolana, comune a tutta questa modalità
cosmica, il pianeta si presentava però inospitale ma, a livello sotterraneo, si poteva fare molto
e, pur con qualche limitazione, anche la superficie, avrebbe offerto modeste possibilità. Poi
c'era sempre la Terra dove, secondo un opportuno incognito, molti avrebbero potuto
continuare a vivere e, con molta oculatezza, seguitare a far proseliti. Quando dunque c'è stato
il "trasloco" maggiore, grazie a tecniche ormai collaudate, anche "lassù" e non solo per motivi
di sicurezza ma, in quel contesto, soprattutto, per le particolarissime condizioni ambientali, s'è
praticata, come la più ovvia e naturale, tale ormai sperimentata sistemazione. A quel punto, si
può anche presumere come, per ciò che atteneva alla Terra, tracce ed indizi compromettenti,
al momento opportuno, siano stati abilmente cancellati mentre altri, meno rintracciabili, siano
rimasti occultati nelle profondità; alcuni caduti in disuso mentre altri….Ma, in ogni caso, quei
nostri simili - androidi e varianti genetiche a parte - sono, appunto, a noi così simili che,
quando vogliono, se la possono cavare benissimo alla luce del sole. Ecco dunque una ristretta
comunità di uomini che, secondo l'aurea regola della disinformatzija, per confondere vuol
apparire aliena e col far credere una menzogna confessa però il vero:
Così facendo il cover-up assumerà la forma della rivelazione e la rivelazione sarà il cover-up. Negate
l'evidenza ma lasciate che la gente si formi la propria opinione. Lasciate che lo scetticismo giochi dalla
nostra parte finché la verità non diventerà accettabile.
(Col. Philip J. Corso, IL GIORNO DOPO ROSWELL, ed. Futuro)
Ma torniamo ai i proseliti ed all'ipotesi di Jean Robin. Essi sono organici al progetto, che
regge e di sé permea tutta l'organizzazione, imponendone la necessità. Perché la prospettiva
non può che essere un ritorno e la presa di possesso piena ed incontrastata del nostro (ma
anche loro!) pianeta e delle sue sorti, in un disegno parodistico - sebbene convinto e appunto
204
per questo, ai danni degli stessi promotori, intimamente illusorio - della vera spiritualità.
Perché è importante ripetere che questi non sono davvero, nell'accezione corrente, uomini
moderni. Di conseguenza, nella lunghissima fase preparatoria, la convinzione e la totale
adesione di individui "qualificati" è ed è sempre stata indispensabile mentre la conversione
universale permane quale irrinunciabile obiettivo finale. E come, nel linguaggio teologico
cristiano, in quell'evento, che va sotto il nome di Seconda Venuta,
…si manifesterà il Signore Gesù dal cielo…
(2Ts. 1.7)
così, in stupefacente e supertecnologica concretezza, quando i tempi saranno maturi, da un
ben noto ed usuale firmamento, potrà fare la sua epifania il Grande Mistificatore. Se tutto ciò
non è vero, la guénoniana contro-iniziazione è solo un'accolita di prevedibili ed indigesti
maghi neri. Facile immaginarli, con i piedi ben saldi su questa Terra e dediti a riti tenebrosi e
potenti malefici. Resta da capire come tanto eccentrici e desueti personaggi, quando i tempi
saranno maturi, possano, presentandosi con vesti così incongrue, fare davvero colpo sulle
moltitudini come le parole di Paolo fanno intravedere:
Il mistero dell'empietà infatti è già all'opera, aspettando soltanto che chi lo trattiene [il tanto citato κατέχων] al
presente sia tolto di mezzo. Allora sarà manifestato quell'empio che il Signore distruggerà col soffio della sua
bocca e annienterà all'apparire della sua venuta. La venuta di quell'empio avverrà per l'azione di Satana,
accompagnata da ogni sorta di portenti, di segni e di prodigi bugiardi, e da ogni inganno di malvagità per quelli
che periscono, perché hanno rifiutato di amare la verità per essere salvati.
(2 Ts. 2.7-12)
In questo, io, col Robin, sono più del parere d'interpretare e, di conseguenza, di figurare in
altro modo lo scenario lì delineato. Insomma, se l'<<empio>> in questione scendesse da un
UFO, dicendo (senza mentire) di venire da Marte, il successo, malauguratamente, sarebbe
molto meglio assicurato. Assai più, credo, che con improbabili giochi di magia. In fin dei
conti, non è la stessa tecnica una forma di magia? E perché poi non pensare che il temibile
personaggio padroneggi entrambe? Anzi è proprio dalla coalescenza cognitiva dei due ambiti,
il grossolano ed il sottile, che il controllo della physis dovrebbe raggiungere il suo massimo
operativo.
Finora ho parlato di uomini ma, nell'intricato puzzle di questo dannato tema, ci sono anche
altre presenze e di uno speciale genere di esse, esemplare, m'è sembrata la davvero intrigante e
quasi pubblica dimostrazione avvenuta in un italiano ed ormai datato episodio di abduction:
quello del genovese caso Zanfretta (1978). Riportare per esteso quell'evento non entra nei
limiti già troppo ampliatisi di quest'articolo ma l'aspetto, che mi preme mettere in evidenza, è
come - insieme a caratteristiche senza dubbio paranormali - i riscontri obiettivi effettuati da
testimoni ed investigatori esterni non certo mancassero: impronte di esseri giganteschi e tracce
d'oggetti posatesi dove si diceva un UFO fosse stato visto. Effrazioni con danneggiamenti
rilevanti alla casa disabitata nel cui giardino era avvenuto uno degli avvistamenti. Concordanti
testimonianze di persone del luogo su fenomeni luminosi osservati nelle notti incriminate.
Consonanti attestazioni dei colleghi del soggetto, in via parziale, coinvolti nei fatti.
Inspiegabili traslazioni dell'auto e della motoretta guidate dal protagonista, con susseguente,
insopportabile e persistente surriscaldamento del mezzo. Ripetute sedute di ipnosi, sino all'uso
del "siero della verità", sulla vittima-protagonista e tutte confermanti ed amplificanti la
narrazione cosciente. Insistiti, professionali riconoscimenti della normalità psichica dello
Zanfretta, la cui buona fede, almeno iniziale, è certa.
205
In sostanza, tutto sembra tornare ma è questo invece uno di quei casi dove, a parer mio, i
protagonisti sono tutt'altri da quelli che sembrano. Nello stesso tempo, gli esseri mostruosi alti
tre metri ed in dettaglio descritti dal povero metronotte, in modo singolare somigliano sia a
the creature from the Black Lagoon, dell'omonimo film di fantascienza degli
anni '50, sia ai del pari orridi protagonisti di un paio di episodi - disegnati da Franco Donatelli
e da questo stesso film ispirati - comparsi sul fumetto italiano ZAGOR,. Tale pubblicazione fu
una creazione, anni '60, di Guido Nolitta - alias l'editore Sergio Bonelli - e del suo primo
disegnatore Gallieno Ferri. Ancora: queste entità chiamano sé Dargos e dichiarano di
provenire da una lontana galassia dove abitano il pianeta Titania. Ma Titania is the
Queen of the Fairies nello shakespeariano A MIDSUMMER NIGHT'S DREAM. Ella è quindi,
con il suo compagno Oberon, un essere del mondo sottile mentre risponde allo stesso nome la
quattordicesima e la più grande delle lune di Urano. E gli astronomi l'hanno chiamata così
proprio per le note, mitiche relazioni, che legano i tenebrosi Titani (cfr. supra anche il loro
rapporto coi Nephilim) al dio eponimo di quel sistema. Strano poi che, a nessuno dei dotti
esaminatori dello sconvolto Zanfretta, sia venuto da domandarsi e, di quindi, d'approfondire
come esseri provenienti da un mondo immensamente lontano, pur traducendo il loro pensiero
nella nostra lingua, lo chiamassero con un nome così evocativo ed al contempo tutt'altro che
esotico. Per mio conto, su INTERNET, ho poi condotto una breve ricerca relativa a Dargos ed ho
appreso che, intorno alla stessa epoca in cui nacque il fumetto italiano, in 1966, the
legendary futurist Gene Roddenberry created a science fictionbased television series called STAR TREK (nientemeno! Un must del genere) e
che Dargos is a tall man. Oltre a questo, il nome imperversa nei giochi di ruolo ed
ha a che fare sia con la fantasy, sia col mondo dei "supereroi". È per il complesso dei succitati
richiami che, mutatis mutandis, l'intera vicenda mi ricorda lo stupore destato, nei due secoli
passati, tra i partecipanti a certe sedute spiritiche, quando, a volte ed inopinatamente, evocate
dalla trance medianica, si presentavano figure letterarie quali la signora Bovary o il gobbo di
Nôtre Dame. È qui che allora entra in gioco quello psichismo impersonale e pervasivo, cui
Carl Gustaf Jung ha dato nome d'inconscio collettivo, ed al quale il medesimo, nel suo EIN
MODERNER MYTHUS. VON DINGEN AM HIMMEL GESEHEN WERDEN (Rascher Verlag 1958), attribuisce,
nella sua totalità ed in una prospettiva visionaria, il fenomeno degli UFO. Il mio insistito
parere è che, nella complessa e vasta casistica ufologica, a tale fattispecie, possa ricondursi
solo una parte degli episodi che la costituiscono e questo di Genova, per tanti versi, di essa,
m'appare affatto dimostrativo. Del resto, i casi d'abduction hanno sempre tormentato poveri
cristi; individui che, in altra epoca o, in contesti meno aggiornati, dopo analoghi eventi,
sarebbero stati costretti a subire durissime pratiche d'esorcismo. Persone, dunque, con una
struttura psichica assai elementare e con falle di tipo medianico, sì che stupisce come a
nessuno venga da domandarsi perché alieni così "avanzati", per comunicare col nostro mondo,
vadano poi a pescare soggetti sprovveduti e resi inetti da intrinseche incapacità. Quando poi,
per la modestia del ruolo sociale, risultano inascoltati latori di qualsivoglia, supposto,
autorevole messaggio. Posso aggiungere che, gli stessi riscontri obiettivi, sopra elencati in
tutta la loro evidente materialità, in alcun modo contraddicono la mia conclusione, essendo
proprio del medianismo e di quanto va sotto il nome di paranormale, il superamento
dell'esperienza soggettiva sicché, oltre alla produzione di fotismi, è accertata anche quella di
violenti e talvolta pericolosi episodi cinetici.
Ora che le tessere del mosaico sembrano andate a posto, qualcuno potrebbe pensare che, su
così tormentata materia, sia questa la mia definitiva e consolidata opinione: ….e sia….io non
voglio davvero smentirlo però, sull'intera ipotesi, pongo a suggello una grave riserva e, nella
traversata di quest'infida palude, mi piace allora aggiungere come, tutte le soluzioni di
percorso, che abbiamo visto in competizione tra loro, siano esse stesse un segno ovvero
206
l'epifenomeno di quello specifico dominio nel quale le opposizioni, non più armonizzate e
composte dall'azione di un principio superiore, si scatenano ne
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina:
voltando e percotendo li molesta.
(Inf. V. 31-33)
----[Dato il tema assai controverso, e la soluzione altamente originale proposta,
l'autore preferisce mantenere riservatezza sulla propria persona, facendo ricorso
all'evidente pseudonimo "Strabone"...]
207
RECENSIONI/
REVIEWS
208
Come costruire una macchina del tempo
(Paul Davies)
(Mondadori, 2003)
Nello sterminato stupidario divulgativo si incontra spesso l'affermazione che il futuro viaggia
alla velocità della luce. La natura idealistica dello spaziotempo venne impietosamente rivelata
nel 1948 dal celebre Kurt Goedel, il quale dimostrò a un imbarazzato Einstein, equazioni del
campo alla mano, che la struttura di Minkowski contemplava la possibilità di percorrere linee
temporali che riportavano al passato. "Ciò permetterebbe a qualcuno di ritrovare se stesso ironizza Goedel - in un certo periodo precedente della sua vita e perfino indurlo a fare
qualcosa che a lui non è mai capitata".
Nella risposta a Goedel, Einstein rileva che "la direzione del tempo può essere definita in
senso fisico soltanto dall'azione causale e che lo spaziotempo non pretende di avere una sua
esistenza propria", ammettendo esplicitamente che il solo modo di salvare la causalità era di
attribuire alle linee chiuse di tipo temporale un'esistenza geometrica e non fisica. Sembrerebbe
un de profundis per i viaggi nel passato, ma è proprio qui, curiosamente, che Einstein si è
giocato tutto il suo futuro: in che modo una fisica relativistica basata sullo spaziotempo - e per
la quale gli enti geometrici quadridimensionali sono gli enti fisici stessi - potrebbe
sopravvivere se lo spaziotempo non è reale? Che cos'è che si incurva? Lo spazio e il tempo o
la struttura di Minkowski? Che ne sarebbe della fisica corrente e della molto celebrata
astrofisica dei buchi neri se la geometria ritenuta realtà fosse soltanto una similitudine o un
artificio matematico?
Questa terribile domanda tenuta in naftalina da oltre mezzo secolo consente al prolifico Paul
Davies di cimentarsi in un'altra impresa editoriale al centro della filosofia del tempo e che ha
per oggetto la costruzione di una macchina in grado di andare su e giù per la coordinata
209
immaginaria. Che "immaginaria" poi non è, sostiene Davies, sennò tanti saluti allo
spaziotempo, alla teoria einsteniana e ai viaggi di Wells.
La gran questione viene liquidata in poche righe al paragrafo "Ma è davvero il tempo che
rallenta?" (p. 29): "Alcuni obiettano che la teoria della Relatività si limita a descrivere il
modo in cui gli orologi (e i processi fisici) risentono del moto e della gravità, ma non
dimostra l'esistenza di un tempo vero e proprio. Questo è un fraintendimento, - sentenzia
newtonianamente Davies - gli orologi misurano il tempo". E se si può perdonare all'Autore di
trascurare le affermazioni del padre della Relatività (in una celebre conversazione con Rudolf
Carnap, Einstein dichiarò con enfasi che "il tempo è fuori dalla scienza"), è difficile sorvolare
sull'ammissione che sfugge nei primi capoversi di p. 143 al fisico australiano: "Il tempo di per
sé non scorre da nessuna parte". Che cosa misurano allora gli orologi?
Il resto del libro è alchimia pura, se così si può dire. Spaziotempo elastico, cunicoli di tarlo,
antigravità, fusioni di vuoto quantistico, schiume esotiche, corde cosmiche, cavorite, putiput e
triccheballacche: quel che serve, in sostanza, è un collisore, un dispositivo di implosione, un
dilatatore e un differenziatore. "La macchina del tempo di Wells prendeva parte al trasporto
temporale andando avanti e indietro con il guidatore - rileva Davies - mentre la nostra
macchina (dello spaziotempo) funziona facendo compiere al viaggiatore uno spostamento
nello spazio che termina nel passato".
Eureka? Poiché la tecnologia è inarrestabile e dal momento che nessuno può dimostrare in
modo conclusivo la possibilità o l'impossibilità di alcunché, possiamo immaginarci Paul
Davies che sbatte questo libro sulla scrivania di H.G. Wells accusandolo di plagio? Ma sì, non
facciamo sempre gli intolleranti. Da Herbert Dingle che convince Einstein a riscrivere la
Relatività all'inventore pazzo che muore di vecchiaia mentre ritorna al passato, niente in tutto
l'universo appare più giustificato del nostro diritto di sognare.
Come costruire una macchina del tempo
Paul Davies
Mondadori 2003, pp. 154, prezzo 15 €
(Alberto Bolognesi)
[Una presentazione dell'autore di questa recensione si trova nel numero 2 di
Episteme.]
[email protected]
210
Un commento dalla redazione di Episteme
Di fronte all'attuale situazione nel campo delle scienze,
si è costretti a credere o che molti scienziati sono diventati
stupidi, o che molti stupidi sono diventati scienziati.
L'arguta recensione di Alberto Bolognesi fa doverosamente il punto su un fenomeno che sta
diventando in effetti sempre più preoccupante per chi ha cuore le sorti della "vera conoscenza"
(la quale non può che essere umile, ed ammettere tutto ciò che non sa, e forse non saprà mai
con certezza). Episteme si associa quindi senza esitazioni alla denuncia dell'autore (che non è
comunque coinvolto, neppure parzialmente, nel presente commento).
Gli esempi di un tale malcostume vanno invero moltiplicandosi. Si va da Le Scienze (N. 418,
giugno 2003, p. 55), in cui si trovano considerazioni come:
"Universi paralleli - Non è fantascienza: l'esistenza di altri universi è una conseguenza diretta
delle osservazioni cosmologiche [...] Il più semplice e accreditato dei modelli cosmologici
prevede che ognuno di noi abbia un gemello in una galassia che si trova a una distanza di circa
10 elevato alla 1028 metri da qui [...] In uno spazio infinito, anche gli eventi più improbabili
devono avvenire, da qualche parte. Esistono quindi infiniti altri mondi abitati, e non solo uno
ma infiniti fra essi ospitano persone che hanno il vostro stesso aspetto, nome e ricordi e che
sperimentano tutte le possibili permutazioni delle vostre scelte di vita."
(e via su questo tono; si raccomandano naturalmente quel "circa", bontà dell'autore, e la
dimostrazione che un siffatto scenario "esiste", da far impallidire le famose prove logicofilosofiche dell'esistenza di Dio - le quali fecero dire una volta, non rammento ora a chi, che
da principio era un credente convinto, ma che aveva cominciato a nutrire qualche serio dubbio
dopo aver studiato le più celebrate "dimostrazioni" ontologiche...),
per arrivare al gemello "minore" Focus, che ci tiene ovviamente a non rimanere fuori dal coro
(N. 131, settembre 1003, pp. 32 e segg.):
"Al di là dell'universo - Ci sono forse immensi spazi vuoti, zone molto dense, bolle di 'falso
vuoto' e perfino mondi identici al nostro - Un mondo identico al nostro? Potrebbe esserci, ma
sarebbe lontanissimo [...] Un vuoto diverso dal nostro ci apparirebbe non come un vuoto ma
come una materia durissima e impenetrabile. E, viceversa, per coloro che fossero dall'altra
parte, il nostro vuoto sarebbe impenetrabile. [...] Secondo quest'ipotesi, il multiverso è nato da
un vuoto primordiale freddissimo (allo zero assoluto) e totalmente privo di materia (a parte le
fluttuazioni microscopiche), in cui il tempo non scorreva in una direzione precisa. Era così
vuoto che anche le forze tra particelle erano inesistenti. etc."
(meravigliose, quelle forze "inesistenti" tra particelle dal canto loro necessariamente
inesistenti perché si trattava di un vuoto tanto vuoto che più vuoto non si riesce a immaginare
(e chissà come avrebbe potuto allora essere altro che "freddissimo", almeno secondo le
concezioni correnti), a parte talune "fluttuazioni microscopiche" che vanno e vengono non si
sa bene dove; e meraviglioso anche quel tempo che è incerto da quale parte scorrere; ma forse
era un tempo ancora immaginario, o a un qualche imprecisato numero di dimensioni,
211
stupidaggine per stupidaggine perché no? Comunque, rileviamo positivamente che si usa in
maniera esplicita il termine ipotesi).
Cosa dire, di fronte a codeste costruzioni dell'umana fantasia, se non ricordare che il Signore
quos vult perdere dementat, e che è avvilente pensare che alcune persone hanno messo in
gioco la loro vita perché la "scienza", che stavano faticosamente edificando, contendendo il
posto alla superstizione, si tramutasse poi in un siffatto gigantesco sciocchezzaio?
Naturalmente, la scusa è sempre pronta (un po' come per i meteorologi, che da quando si sono
affidati completamente all'elaborazione automatica incappano talvolta in clamorose cantonate
relativamente alle previsioni a medio termine, ma hanno a disposizione i pretesti della
complessità, e dell'effetto farfalla, concetti che fanno molto comodo peraltro pure ai loro
colleghi economisti): in fondo, la scienza produce soltanto semplici "teorie", "modelli" utili o
meno utili, da prendere in ogni caso con una certa dose di scetticismo e di umorismo, scusa
che è però vanificata dalle continue allusioni a osservazioni, prove sperimentali, etc., le quali
sottintendono che quanto appare sbalorditivo e incomprensibile al comune mortale non è tale
per gli "specialisti", gli unici che non si smarriscono di fronte a un simile latinorum, e sono in
grado di capire in modo esatto e completo. E' così anche sottinteso che da qualche parte essi
esistono in carne ed ossa: ma dove precisamente, forse in un universo parallelo? Peccato
infatti che quei comuni mortali che fanno sacrifici per far prendere una laurea scientifica ai
figli non riescano neppure da questi (che non li hanno avuti a loro volta dai "professori") ad
avere migliori chiarimenti. In effetti, difficile incontrare nella realtà un "esperto" che,
sottoposto a stringente interrogatorio, mostri di sapere davvero di cosa si parla nel complesso
("fondamenti" compresi), appunto perché da specialista è specializzato solamente in un
particolare aspetto della sua disciplina. Ricordo con una certa commozione un amico
cosmologo, oggi scomparso, che mi confidava quanto fosse accademicamente confortevole la
sua scienza: "Dopo tutto, chi può venire a rinfacciarmi che sbaglio, che la realtà non è così?
Nessuno potrà mai andare tanto lontano a verificare sul posto, nessuno era presente nei primi
istanti della nascita dell'universo".
Difficile è sopravvivere a questo continuo lavorio ai fianchi, non cadere nella tentazione di
ammettere che siamo noi a non capire, perché non abbiamo "studiato" (sudato) abbastanza, e
di tacere quindi per pudore, come nella famosa fiaba dei vestiti dell'imperatore. Raro
imbattersi in persone quali il fisico Roberto Monti, autore di diversi articoli pubblicati da
Episteme, che abbiano il fegato di sostenere apertamente e presuntuosamente (almeno così
viene loro rinfacciato): "O sono stupido io o sono stupidi gli altri, io stupido non sono..."
(l'ultima affermazione non è presunzione, ma soltanto "umanesimo" di stampo cartesiano,
unito a un "principio di universalità" che descrive gli esseri umani sostanzialmente identici tra
loro, salvo "peccati" della loro voluntas...).
Il bello è poi che gli stessi "scienziati" si preoccupano di combattere le irrazionalità dei
"paranormalisti", i vari ben noti ed eterni (a quel che pare) deliri allucinatori di natura
religiosa, etc. (essi appaiono sempre presenti, e con un ruolo rilevante, nel passato che
conosciamo, ed è presumibile che forse sempre esisteranno), ma oggi sembrano addirittura
"scientificamente" rafforzati grazie agli argomenti che i loro sostenitori più informati trovano
nelle ultime speculazioni della scienza moderna. Un esempio eloquente ci viene offerto dalle
seguenti righe (sorvoliamo per discrezione sulla fonte):
"Parapsicologia e medianità - [Tra le conquiste dell'ultima ora] c'è l'avvento del cosiddetto
'Paradigma olografico' su piuttosto solide basi scientifiche e sperimentali [...] Nel 1982 un
gruppo di ricerca dell'Università di Parigi diretta dal fisico Alain Aspect, ha portato a termine
un esperimento che potrebbe rivelarsi come il più importante del XX secolo. Esso ha infatti
212
scoperto (ma l'idea era già nell'aria!) che, sottoponendo a certe condizioni delle particelle
subatomiche come gli elettroni, esse siano in grado di comunicare istantaneamente tra di loro,
indipendentemente dalla distanza che le separa, anche se si tratta di 10 miliardi di chilometri.
E' come se ogni singola particella sapesse esattamente cosa stanno facendo tutte le altre. [...]
David Bohm, noto fisico dell'Università di Londra, sosteneva che le scoperte di Aspect
implicavano il fatto della non oggettività della realtà. A questo punto del ragionamento,
l'Universo appare - anzi, sarebbe - una specie di 'fantasma', un ologramma gigantesco e molto
dettagliato. [...] In base a questi fatti, Bohm si convinse che il motivo per cui le particelle
subatomiche rimangono in contatto tra di loro, anche a grandissime distanze, sta nel fatto che
la distanza che le separa è una illusione. [...] Sul piano del discorso scientifico la cosa
naturalmente è più complessa, ma da questo primo approccio, per logica estensiva,
discenderebbe che la realtà non esiste (sarebbe quindi la 'maya' delle credenze indù!) [...] che
il mondo materiale è una pura illusione [...] Anche se, al momento, una parte degli scienziati
non è d'accordo su tutto questo [Per fortuna! - nota della redazione di Episteme., si aspettano
naturalmente libere elezioni, aperte possibilmente a "tutti", per decidere quale sia la "verità".] , un'altra
parte ne è rimasta entusiasta, fino a dire che esso è il più accurato modello di realtà finora
raggiunto dalla scienza. [AHINOI!] In un Universo in cui le menti individuali sono dimostrate
essere parti indivisibili di un ologramma, e dove tutto è infinitamente interconnesso, i
cosiddetti 'stati modificati di coscienza' - punta di diamante delle recenti ricerche psi potrebbero semplicemente essere il passaggio ad un livello olografico più elevato. etc."
In cauda venenum, dopo tanti apprezzamenti scientifici, per organizzazioni come il Comitato
Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale (che forse dovrebbe cominciare a
controllare anche affermazioni quali quelle dianzi riportate su giornali "scientifici")! Esempi
di una simile prosa si potrebbero naturalmente moltiplicare ad libitum, e il "male" non è nelle
concezioni filosofiche che vi vengono esposte (o nelle pretese esperienze personali che
vengono comunicate), bensì nel volersi appoggiare per la loro difesa al "prestigio" conquistato
dai "fisici" (non certo dalle ultime generazioni, che si limitano a vivacchiare di rendita*), a
evidenze sperimentali ottenute in laboratori superfinanziati (che qualcosa debbono pur
raccontare al pubblico per giustificare i denari che ricevono), necessariamente poco o mal
comprese, e all'autorità di "noti" scienziati (il più citato in siffatti contesti, non è difficile
indovinarlo, è il "grande" Einstein).
Per ciò che riguarda la fisica dei viaggi nel tempo, dei buchi neri, della cancellazione
immediata delle distanze (che ispira i salti nell'iperspazio di innumerevoli romanzi di
fantascienza, di cui chi scrive è peraltro appassionato lettore e collezionista) ricordiamo il caro
e compianto amico Stefan Marinov. Questo brillante ed eccentrico uomo di scienza, invece di
esprimere un'opinione articolata se una tal cosa che gli si proponeva fosse o no possibile (e ci
vengono alla mente tante recenti discussioni con nostri corrispondenti sul cronovisore di
padre Ernetti), si limitava a dire: do it boy, do it!
Insomma, piuttosto che reclamare a gran voce che non si è responsabili del modo in cui viene
interpretata e utilizzata certa "divulgazione", sarebbe più onesto riconoscere che i "deliri
irrazionali" (quando non autentiche truffe premeditate ai danni dei più bisognosi e indifesi)
combattuti lodevolmente da organizzazioni come il nominato CICAP [Nei momenti in cui non fa
opera di agiografia (non ce n'è bisogno per coloro che sono impegnati, professionisti o dilettanti, nella
ricerca di "verità" sia pure assai parziali; l'unica sua conseguenza è di consolidare un principio di
autorità dal quale benefattori come Cartesio avevano cercato di liberare l'umanità nel periodo
protomoderno), o non si attesta su posizioni conservatrici di retroguardia] , possono essere talora
delle prevedibilissime ricadute di una scienza divenuta purtroppo a sua volta "irrazionale".
213
* Prevedendo che ci sia chi voglia obiettare a siffatta constatazione portando sulla scena
supertelefonini e supercomputer, supercollider e bombe intelligenti, e simili gadget (non
voglio ironizzare sui viaggi sulla Luna che qualche tempo fa erano d'obbligo in tale genere di
difese, ma che oggi sono trascurati perché non se ne fanno più da un pezzo, o su Shuttle che
falliscono puntualmente), non potendo peraltro rinunciare all'esperienza personale frutto di 40
anni di frequentazioni universitarie (anche per corrispondenza, in Italia e all'estero),
controbatterei che delle due l'una: o i rapporti tra scienza e tecnologia non sono così stretti
come si sarebbe indotti a ritenere (tesi che è illustrata in modo suggestivo in diverse opere di
Giuseppe Sermonti), oppure che certi sorprendenti progressi della tecnica abbiano una matrice
diciamo ... extraterrestre! E questo è proprio ciò che sostengono numerosi "ufologi", ai quali si
è sempre tentati di dare poco credito, o insinua sottilmente "Strabone" nel presente numero di
Episteme...
(Agosto 2003)
----Breve coda (novembre 2003).
Subito dopo aver pubblicato in rete il precedente commento alla recensione di Alberto
Bolognesi, sono pervenuti alla redazione di Episteme diversi messaggi, dai quali ci piace
estrarre, a futura memoria, alcune segnalazioni.
1 - Prima di tutto quella dell'iniziativa del Dott. Felice Masi, magistrato della Corte dei Conti
a riposo, attuale direttore della rivista trimestrale La Ricerca psichica..., che ha proposto la
fondazione di un CICAS, ovvero di un Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni
della Scienza! <<Perché la cosiddetta "scienza" ci rifila ogni tanto una serie di asserzioni, che
fa passare per vere; e noi ci crediamo perché le ha dette la "scienza", perché sono
"scientifiche">>. Plaudiamo all'iniziativa, anche se da un punto di vista "filosofico" alquanto
differente...
[E qui corre l'obbligo di una precisazione, simile a quella contenuta nella recensione al libro
di Lucio Russo sulle maree: certo sano scetticismo nei confronti degli scienziati d'oggi
(meglio parlare di uomini che non di "scienza") non implica necessariamente una tendenza
ad apprezzare gli studi sul cosiddetto "paranormale". Essi sono ovviamente giustificati, così
come è giustificata ogni umana curiosità, e l'esercizio della propria libertà di ricerca (bisogna
ammettere che in effetti non si sa mai!), ma si tratta di una fenomenologia nella quale lo
scrivente non si è mai imbattuto, né gli sembra che sia tanto "comune", o che le
testimonianze relative ad essa, tenuto conto delle persone da cui di solito provengono, siano
particolarmente degne di attenzione. Ciò motiva il suo attuale (ovvero fino a prova contraria)
disinteresse, e conseguentemente quello di Episteme, verso l'intera tematica.]
2 - Poi, quella di un divertente gioco di parole, FANTASCIENZA O FINTA-SCIENZA?, un
interrogativo proposto in alcune riflessioni di Corrado Malanga, vedi:
http://www.edicolaweb.net/edic009a.htm.
3 - Infine, la segnalazione di un articolo, reperibile presso la pagina web:
214
http://www.newmediaexplorer.org/sepp/2003/09/18/dutchman_predicts_scientific_revolution.
htm ,
dalla premessa del tutto condivisibile e attraente:
Dutchman predicts scientific revolution - Before twenty years we'll laugh at Einstein and
the Big Bang.
[This article was published in a Dutch newspaper, the Groninger Gezinsbode, on the third of
September 2003; Text: Hans Berens.]
<<Physics and astronomy took a wrong turn with Albert Einstein. Also Newton was wrong
with his ideas about gravity, that's how Eit Gaastra (41) [Eit Gaastra studied at the Technical
University of Delft in the eighties.] is thinking. "Within twenty years we laugh at the Big
Bang-theory, the idea of a universe originating from a small point much smaller than an atom,
and also about black holes that would suck up everything."
"A paradigm shift within astronomy is at hand, like five hundred years ago, when Copernicus
argued that the Earth orbits the Sun instead of the Sun orbiting the Earth as scientists thought
at that time. After a paradigm shift within astronomy a paradigm shift within physics will
follow: Einstein's relativity and Newtonian gravity will be left for theories that can explain
things in a better and more coherent way...">>
[Si ringraziano in modo particolare Josef Hasslberger e Luciana Petruccelli per la gentile,
costante e competente attenzione.]
215
Lineamenti di metafisica dualistica
(Alberto Donati)
(Morlacchi, Perugia, 2002)
<<La caduta della centralità cosmica dell'esperienza umana, la discoperta dell'ordinamento
termodinamico informato al principio di entropia, dell'ordinamento biologico di senso
opposto, la rilevazione dell'andamento evolutivo di quest'ultimo, il venir meno della visione
armonica dell'universo, l'affermazione secondo cui a fronte della realtà connotata da un
divenire creativo non può darsi una causa prima immobilis, la constatazione dell'esistenza di
due ontologie etiche contrapposte, rendono inadeguata, obsoleta, la filosofia intellettualistica
tradizionale.
Più comprensivamente, lo studio dell'esistente (dell'ens in quantum est ens) rivela la presenza
di due forze antagonistiche, l'una tendente verso l'ordine, l'altra, verso il cháos. La via
ricostruttiva di una visione d'insieme razionalizzante, che non sia, quindi, semplicemente
nichilistica, ovvero, che non sia retrocedente ai fondamentalismi religiosi, vale a dire, alla
negazione del Lógos universale (ο κοινος), non può che prendere le mosse dalla descrizione
di tale dualismo e dalla sua irriducibilità ad una visione monistica del trascendente.
Di conseguenza non è più possibile asseverare una sola matrice metafisica, ma si deve
necessariamente concludere per la presenza di due matrici metafisiche. Una volta accertato
che il bene ed il male hanno realtà ontologica, pertanto, che il male non è mera carentia boni,
la reductio ad unitatem sul piano trascendentale diviene impossibile poiché, ove proposta,
essa contraddirebbe questa ontologia.
Ciò induce una profonda revisione del rapporto tra Dio e l'uomo, nel senso che tale rapporto
216
assume la strutturazione propria della relazione organica. L'uomo, dunque, è "instrumentum
Dei" e, a seconda della matrice metafisica di cui è espressione, è volto al bene o al male, a
realizzare, nel quadro di una relazione necessariamente conflittuale, la corrispondente istanza
ontologica.>>
Alberto Donati, professore straordinario di Diritto civile presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi di Perugia, conclude, con questo lavoro, i suoi studi diretti al
rinvenimento del fondamento ultimo del diritto e della giustizia. Tra i contributi pregressi:
Elementa juris naturalis, ESI, 1990; La concezione della giustizia nella vigente Costituzione,
ESI. 1998; Bioetica, Dio della filosofia, Dio della religione, in "Bioetica", 1999, p. 668 sqq.:
Etica darwiniana, in Studi in memoria di Lino Salis, Giappichelli, 2000; Volontarisrno ed
intellettualismo nella defìnizione della giustizia, in Studi in memoria di A. Giuliani <I>, VoI,
I, ESI. 2001, p. 145 sqq.; Giusnaturalismo e diritto europeo. Human Rights e Grundrechte,
Giuffrè, 2002.
Introduzione
Capitolo I - L'oggetto della filosofia
Sezione I - I prima principia speculativa
Le modalità della conoscenza: la conoscenza intellettiva. L'adaequatio intellectus ad rem
come suo criterio di verifica
Segue: la conoscenza deduttiva
Segue: la conoscenza induttiva
Unificazione della conoscenza sensibile e della conoscenza intellettiva
Il rapporto tra il divenire e la conoscenza
Sezione II - L'ens in quantunt est ens
Lo studio dell'"esistente in quanto tale" come trascendimento della settorialità delle singole
scienze
Segue: dell'homo in quantum est homo
Sintesi dei presupposti della speculazione filosofica
Sezione III - Le connotazioni fondamentali dell'ens in quantum est ens
La veridicità e 1'unità dell'ente in quanto tale
L'inesistenza del nulla
Il tempo e la distanza
Unità di sostanza e materia
Segue
Il movimento
Il principio di causalità e le sue specificazioni: la causalità meccanicistica
La causalità teleologica e le sue sottopartizioni: la causalità per saltus
Segue: la causalità volontaria
Segue: la causalità etica
Il principio di teleologicità
Il principio di causalità e la causa prima
L'analogia entis
Appendice I - La negazione del principio di causalità in Hume
La indefinibilità del concetto di causa
Segue
Appendice II - La negazione della conoscibilità dell'esistente nel pensiero di G.B. Vico
"Verum et factum convertuntur"
Appendice III - La critica di Hegel al principio d'identità
Il primato della coincidentia oppositorum
Appendice IV - La negazione del principio di non contraddizione in Nietzsche
217
L'incompatibilità tra il principio di identità ed il divenire della realtà
Appendice V - L'idealità del pensato nella filosofia volontaristica
Esse est concipi
Considerazioni critiche
Capitolo II - L'esistenza di Dio nella visione intellettualistica
La rilevanza gnoseologica ed etica dell'esistenza di Dio
La dimostrazione eterologica dell'esistenza di Dio. La sua critica. Inconsistenza di
quest'ultima
Critica alla prima obiezione
Critica alla seconda obiezione
Critica alla terza obiezione
La dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio
Capitolo III - Limiti della theologia naturalis
Dio come pensiero che pensa se stesso
Dio come causa initialis e come causa finalis
L'"eterno ritorno dell'uguale"
Il male fisico
Il male morale
La generazione della materia
Bonum est diffusivum sui come ratio della generazione dell'esistente
Il pluralismo delle forme
Segue: la loro immutabilità
La conoscenza
Capitolo IV - I limiti della filosofia scientifica
I contenuti della fisica classica
I contenuti della filosofia scientifica
Segue
Rilievi critici:
a) Il mancato riscontro della dimensione ontologica
b) La reintroduzione, in contraddizione con i propri presupposti, dell'ordinamento finalistico
dell'esistente
c) La negazione del principio di causalità
Lo iatus tra la visione della natura e la visione filosofica
Capitolo V - Il dualismo teologico
Sezione I - La teologia veterotestamentaria: il primato del Decalogo
"Principium sapientiae timor Domini"
Il peccato e la sua punizione da parte di Dio
Pentimento e ripristino del Decalogo
L'espiazione
La misericordia divina
La dannazione dell'empio
Il trionfo finale del Decalogo e dei giusti
Segue: l'instaurazione del regno messianico
Sezione II - L'etica neotestamentaria: il primato della charitas
"Dalle opere della Legge nessuna carne verrà giustificata"
La fondazione della charitas divina
Il superamento del peccato mediante la charitas divina
Gesù di Nazareth come unico mediatore tra Dio e l'uomo
Il Decalogo come guida alla charitas
Dalla charitas divina alla charitas humana
Charitas e timor Domini
218
Sezione III - L'escatologia della vicenda umana nel nuovo Testamento
L'Apocalisse
Il trionfo sul Decalogo
L'estinzione dell'esistente
La nuova creazione
Il periodo di tempo tra la morte e la risurrezione: il letargo dell'anima
La rigenerazione del corpo e dell'anima
La sottomissione del Cristo cosmico a Dio
Sezione IV - Momenti di contrasto tra le due teologie
Il corpo umano come fonte della moralità
Segue
La salvezza dell'empio
L'esaltazione dei "piccoli"
"Nolite iudicare"
Il "dies Domini"
"Diliges proximum tuum"
Il mediatore tra Dio e l'uomo
Le due ontologie etiche
Capitolo VI - Metafisica intellettualistica e metafisica volontaristica
Parte I - La concezione di Dio nella visione intellettualistica
Dio come summa ratio
Dio come summum bonum
Dio come summum bonum diffusivum, ed attractivum
La semplicità divina
La soggezione di Dio alla propria razionalità. La fondazione dell'etica umana
Parte II - La concezione di Dio nella visione volontaristica
Sezione I - La teologia cristiana
La "duplex veritas"
La risoluzione della duplex veritas nel duplex veritatis modus
Critica: la permanenza del contrasto
Segue: la salvezza dell'empio come sua motivazione
Gli attributi del Dio della fede: Dio come exsistentia
L'infinitas come fonte della perfectio e della unitas divine.
Dio come summa veritas e come summa bonitas
Dio come summa voluntas
Dio come charitas, l'unità trinitarietà
La fondazione dell'etica umana sul valore della charitas
Sezione II - Analisi differenziale
Dio come summa ratio e come summa voluntas
La generazione "de ipso"ed "ex ipso"
Dio come armonizzazione dei contrari e come discordantia discordantium
La diversa definizione della giustizia
Il diverso atteggiarsi della imitatio Dei
L'uomo come "imago Dei" e come "imago Christi"
Il libero arbitrio
La morte di Gesù di Nazareth e la morte di Socrate
Mistica intellettualistica
Mistica volontaristica
Sezione III - La teologia volontaristica laica
Dio come exsistentia
Sezione IV - Analisi differenziale
219
Sintesi delle principali differenze
Il diverso atteggiarsi del rapporto tra etica e dianoetica
La concezione organica dell'esistente nelle due visioni
Appendice VI - Perfectio divina e creatio ex nihilo
L'incompatibilità della creatio ex nihilo con la perfectio divina
Capitolo VII - Il dualismo etico e metafisico
Sezione I - Il malum nella visione intellettualistica
La materia come "primo male"
Il male morale
Limite di questa costruzione
Il benessere dell'empio
Sezione II - Il malum nella visione volontaristica
Il male fisico
Il male morale come male-colpa
"Malum nihil est"
Appendice VII - La relativizzazione dell'etica nella filosofia di Hume
La tesi della indeducibilità del dover-essere dalla sfera dell'essere
I suoi limiti
Appendice VIII - Il bene ed il male nell'"a priori collettivo" di Jung
Il male come "faccia escrementizia" del "Deus absconditus"
Capitolo VIII - Lineamenti di metafisica dualistica
La vita come "adattamento reattivo" all'ambiente
La dialetticità dell'esperienza umana
Il bonum come participatio boni; il malum come participatio mali
Lógos e Cháos. Il dualismo metafisico come spiegazione della dialetticità del divenire
La ratio del rapporto dialettico tra Lógos e Cháos
Segue
Dio come potentia activa
L 'esistente come pars Dei
Dio e l'esistente: il problema delle predicazioni che ne determinano il reciproco rapporto
Le predicazioni nella teologia volontaristica
La risoluzione delle predicazioni nella sola predicazione univoca
La duplicità della predicazione univoca
Principi di ethica nova
Note di chiusura
*****
1. Ci sono libri per così dire inerti, che lasciano del tutto passivi in balia del testo, e libri che
al contrario accendono l'attenzione del lettore, coinvolgendolo profondamente nei temi
d'indagine. Di solito i primi si richiudono in se stessi, mentre i secondi aprono sorprendenti
scenari, che abbisognano, al limite, dello stesso contributo di chi legge. Quest'ultimo genere di
testi appare dotato d'una sorta di 'motore critico', che attiva il nostro interesse in tutte le
possibili direzioni. Si tratta, in questo caso, di lavori di qualità e d'autentico spessore, come
sono appunto questi Lineamenti di metafisica dualistica del Prof. Alberto Donati (Morlacchi
Editore, Perugia, 2002, pag. 575, di cui 357 di testo e 218 di ricchissime note).
Quest'ultima impegnativa fatica del Prof. Donati non solo è un'interessantissima opera di
'metafisica', ma anche un lavoro di 'filosofia del diritto', quella branca specialistica che si
occupa del problema generale del 'diritto' e della 'giustizia', attuale più che mai. Del resto,
quest'eccellente libro fa seguito ad altri rilevanti contributi scientifici, il cui elenco e la stessa
sequenza cronologica evidenziano il forte ed accresciuto interesse di questo attento giurista
220
verso l'indagine filosofica, e in particolare, nei riguardi di quella corrente di pensiero che va
sotto il nome di 'giusnaturalismo' (in contrapposto al 'giuspositivismo' che invece emerse,
come orientamento specifico, dopo le prime codificazioni europee - vale a dire il codice di
Federico II di Prussia del 1794, il codice napoleonico del 1804, cui seguirono il codice civile
italiano del 1865 e poi il codice del 1942, il codice belga del 1900 e il codice civile svizzero
del 1901, ed anche il codice austriaco del 1811, che per la verità faceva ancora posto al c.d.
'diritto naturale').
2. Diciamo subito che il termine latino jus va qui inteso come sinonimo di 'giustizia' più che di
'comando' (da jussu, jubere). La filosofia del diritto (vedi per tutti Francesco Olgiati, Il
concetto di giuridicità nella scienza moderna del diritto, Vita e Pensiero, Milano, 1950) ha
avuto figure di spicco tra i massimi pensatori moderni, ma è indubbio che le sue origini
risalgano alla filosofia antica: cioè ai Sofisti, a Platone e ad Aristotele, agli Stoici e ai giuristi
romani. Al lettore che ne voglia sapere di più, indichiamo, come riferimento assai utile, anche
la Storia della filosofia del diritto (Milano, 1958) del 'neokantiano' Giorgio Del Vecchio, una
delle figure di massimo spicco del 'giusnaturalismo' nel panorama italiano del Novecento, che
aveva rivendicato, appena agli inizi del secolo scorso, e cioè in epoca di imperante
positivismo, il valore 'universale' del diritto naturale.
In qualche modo, 'diritto naturale' e 'diritto positivo' si confrontano e si contrappongono,
generando una 'dualità', proprio nel senso indicato e precisato da Donati nel suo lavoro. Sulla
scorta del filosofo del diritto Guido Fassò, che riprese nel dopoguerra la tematica del
giusnaturalismo, tale contrasto già si evidenzia nell'Antigone di Sofocle, versi 450-457.
Propriamente, l'opposizione si rivela tra il decreto del tiranno di Tebe, Creonte, che impedisce
la sepoltura di Polinice, il cui cadavere, perciò, deve essere dato in pasto agli uccelli, e il senso
di giustizia riposto nel cuore umano. Sotto le mura di Tebe sono caduti, combattendo l'uno
contro l'altro, i due fratelli di Antigone, Eteocle e Polinice. Polinice era schierato con i nemici
del re della città ed invece Eteocle combatteva in sua difesa. Per questo Creonte ha decretato
solenni onori funebri ad Eteocle, mentre ha ordinato che il cadavere di Polinice resti
nell'incuria, minacciando di severissime pene chi tentasse di dargli sepoltura. Di nascosto, la
pietosa Antigone ci riesce, e condotta davanti al tiranno, ella si appella al diritto naturale, alle
leggi non scritte: <<io non credei che tanta forza avessero i tuoi bandi da far sì che le leggi
dei Celesti non scritte, ed incrollabili, potesse soverchiare un mortale: che non adesso furon
sancite, o ieri: eterne vivono esse; e niuno conosce il dì che nacquero>>. Un esempio di leggi
non scritte, cioè di rinvio al 'diritto naturale', ce lo offre lo stesso articolo 2 della nostra
Costituzione, dove si afferma che <<la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo>>. A che cosa si riferisce questo articolo? Quali sono questi diritti? Come si fa a
riconoscerli? Non sono istituiti dalla legge, perché, anzi, la Costituzione si preoccupa proprio
di stabilire che le 'leggi' non debbono violarli. E si possono fare tanti altri esempi: la
Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti di America del 1776, la Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 in Francia, fino alla Carta dell'ONU e alle
Convenzioni umanitarie internazionali. E' pacifico che i "diritti inviolabili" dell'art. 2 della
Costituzione Italiana (che sancisce tra l'altro il principio di 'solidarietà') non siano i 'diritti
innati' (gli "inherent Rights") della tradizione costituzionale protestante ed illuminista, come
chiarisce Donati ne La concezione della giustizia nella vigente Costituzione (1998, op. cit.).
Di che cosa stiamo dunque parlando? Per San Tommaso la legge naturale è, secondo le sue
precise parole, <<partecipazione della legge eterna nella creatura razionale>>. Di fronte al
dilemma che Sant'Agostino aveva posto al successivo pensiero medievale - legge in quanto
ragione o legge in quanto volontà - S. Tommaso non esita a indicare nella 'razionalità'
l'essenza stessa della legge. Questa posizione, a cui resterà fedele, nella sua grandissima
maggioranza, il pensiero cattolico, fu invece combattuta da altri teologi nel tardo medioevo.
Secondo S. Tommaso una legge positiva non può non essere conforme alla legge naturale. A
221
questo principio sono ancor oggi legati i giusnaturaslisti cattolici, i quali sostengono la non
validità, e addirittura l'inesistenza, delle leggi 'ingiuste', cioè contrastanti col diritto naturale.
Sembra tutto chiaro ed invece vale l'esatto contrario. Si tratta, in effetti, di una massima
incertezza. Per comprenderlo dobbiamo leggere Donati e cogliere l'essenza di questa
contrapposizione 'metafisica' tra bene e male, giusto ed ingiusto, e in termini ancor più
generali, tra 'vita-morte', quasi nella medesima accezione poetica di Giorgio Caproni:
<<Seguita a pullulare vita-morte, tenera ed oscura, chiara ed inconoscibile>>, se può valere
questo suggestivo richiamo.
3. Per rendere al lettore appena una pallidissima idea dello spessore di questa formidabile
problematica, ricordiamo che una delle aspirazioni del giuspositivismo è quella della "certezza
del diritto", e che mentre i Sofisti distinguevano fra un "giusto per natura" e un "giusto per
legge", Platone (nel Protagora, 24, 337 d) mette in bocca ad Ippia, uno di questi sofisti,
l'affermazione che <<la legge, tiranna degli uomini, alla natura fa molte volte violenza>>. In
un altro dialogo (Gorgia, 38-39) Platone fa dire ad un altro sofista, Callicle, l'esatto contrario:
che il diritto di natura rifulge quando i forti <<calpestano le legge>>, nel preciso senso che
<<conformi alla legge di natura>> sono appunto <<il dominio e la supremazia del più forte
sul più debole>>. 'Sub signo contradictionis'. Già dai primordi della storia del pensiero
filosofico si incontrano tre differenti versioni della dottrina del 'diritto naturale', come rileva il
Fassò, connesse ciascuna con un diverso ideale politico. Si tratta della versione 'teologica' di
Antigone (che può anche dirsi volontaristica, perché secondo essa, la legge naturale è posta da
una volontà superiore), della versione 'naturalistica' dei sofisti, ed infine di quella
'razionalistica'.
4. Le problematiche filosofiche del 'giusnaturalismo' (ed anche quelle del 'giuspositivismo')
sono ovviamente implicate nel grande affresco di pensiero tracciato da Donati, in chiave
autenticamente "metafisica". Per gli stoici il principio divino è dato dalla ragione ed è
immanente all'universo, identificandosi con la natura. Il giusnaturalismo stoico ebbe successo
a Roma, dove fu efficacemente divulgato da Cicerone. L'idea della legge naturale fu
trasmessa, più tardi, al pensiero cristiano, e penetrò profondamente nella filosofia e nella
teologia morale del medioevo. Nella Lettera ai Romani di San Paolo figura un passo (II, 1415) in cui l'apostolo rimprovera agli Ebrei, che pure possedevano la legge data direttamente
loro da Dio, di non essere migliori dei Gentili (cioè di tutti gli altri popoli). Dice San Paolo
che costoro, i Gentili, compiono tuttavia <<per natura>> le opere della legge, così che <<essi
mostrano l'opera della legge scritta nei loro cuori>>. E siamo arrivati alla "legge eterna" di
Sant'Agostino (De libero arbitrio, I,5), che si rivela come "legge naturale" alla "ragione
dell'uomo", poi ripresa da San Tommaso. Eppure si tratta di quel medesimo problema, già
affacciato da Platone nell'Eutifrone: la legge eterna, cioè il criterio per definire ciò che è bene
e ciò che è male, è posta dalla "ragione" o dalla "volontà" di Dio? Ed ecco che emergono due
opposte direzioni: quella della "filosofia volontaristica" e quella della "filosofia
intellettualistica", con le quali si apre l'importante 'introduzione' del saggio di Donati, che poi,
con somma maestria, ne constata, analiticamente, oggetto per oggetto, momento per
momento, le rispettive inadeguatezze, per trarne le logiche conseguenze, alla fine del saggio
stesso (cap. VIII).
5. Che si tratti di un lavoro di grandissimo impegno filosofico e di solidissimo impianto
concettuale, lo dimostra la stessa articolazione dei vari capitoli in cui il libro si suddivide.
Dopo la chiarissima 'introduzione', che costituisce fondamentale 'chiave di lettura' del saggio,
seguono un'attentissima analisi dell'"oggetto della filosofia" (cap. I: dalle "modalità della
conoscenza" all'ontologia e all'analisi della causalità), il problema dell'"esistenza di Dio nella
visione intellettualistica" (cap. II), la disamina dei limiti della "theologia naturalis" (cap. III), i
222
"limiti della filosofia scientifica" (cap. IV), il "dualismo telogico" (cap. V), la "metafisica
intellettualistica" e la "metafisica volontaristica" (cap. VI), il "dualismo etico e metafisico"
(cap. VII), e quindi le conclusioni (cap. VIII). Il lettore comprende bene che Donati fissa
congruamente tutti i "paletti" del suo discorso, essenzialmente rivolto alla concettualizzazione
di una 'metafisica dualistica' quale autentico modello esplicativo della complessità globale
dell'esperienza oggettiva che abbiamo del mondo. La complessità e compattezza di questo
lavoro risultano oggettivamente evidenti. Da qui l'interesse oggettivo per un'opera di tanto
impegno.
6. Nel dopoguerra, la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Perugia ebbe, tra i suoi
illustri docenti, Massimo Severo Giannini (un giurista di prima grandezza ed una importante
figura della 'scuola sociologica' del diritto) che nel 1950 qui scrisse le sue Lezioni di diritto
amministrativo ('in nuce' la sua principale opera di giurista), noti civilisti come Adolfo Ravà e
Adriano De Cupis, un costituzionalista come Giuliano Amato, uno storico del diritto italiano
del calibro di Edoardo Ruffini, due filosofi del diritto di prima grandezza come Umberto
Scarpelli (un 'giuspositivista' proveniente dalla scuola torinese di Norberto Bobbio), e un
grande 'giusnaturalista' quale fu Alessandro Giuliani, legato da profonda amicizia a Donati (ed
anche a Bartocci, l'anima di questa rivista alternativa).
7. In quest'ambito degli studi di 'filosofia del diritto', si passò, allora, dalla Dottrina pura del
diritto di Hans Kelsen e dalla Teoria della norma giuridica o dal saggio su Il positivismo
giuridico di Norberto Bobbio, in altre parole dallo statualismo e dal giuspositivismo a
meditazioni più profonde sull'essenza stessa della 'giustizia'. Su quest'ultima scia si pone
Donati, che perviene a conclusioni del tutto straordinarie nel suo ultimo lavoro anche a
proposito del 'fondamento' del 'diritto'. Al lettore che voglia dirigersi alla lettura di questo
saggio, che qui si tenta in qualche modo di recensire, in forma alquanto limitata ed angusta,
affacciamo la carica di suggestione di questi pochi e rapidi esempi (mentre ad es. troverà in
Donati, pag. 331, un'interessantissima riflessione sulle contraddizioni inerenti all'abrogazione
della legge ripresa dal gesuita spagnolo Francesco Suarez pressoché contemporaneo di
Bacone, di Cartesio, di Alberico Gentili e di Grozio). Grozio (Huig de Groot, olandese, 15831645), autore dell'opera De jure belli ac pacis (quindi attualissima), che gli rese fama e che fu
pubblicata nel 1625, è unanimemente riconosciuto come il fondatore della moderna filosofia
del diritto. Grozio aveva di mira il diritto internazionale, voleva cioè determinare i rapporti
giuridici che devono correre tra gli Stati in tempo di guerra, sia di pace. Alberico Gentili (nato
a San Ginesio nel 1552 e che a lungo insegnò in Inghilterra) aveva scritto (nel 1588-89) il De
jure belli, un testo in cui aveva riconnesso il 'diritto delle genti' (o jus gentium), come allora
veniva chiamato il diritto internazionale, alle <<leggi non scritte, innate>>, che costituiscono
il diritto naturale, e sono dettate dalla ragione. Ma Grozio impostò e trattò il problema in
modo nuovo, sulla base della sola ragione, senza alcuna premessa di carattere religioso, come
invece nel medioevo. Del resto che Grozio sia il fondatore del diritto internazionale deriva da
una ricostruzione riduttiva del suo pensiero, come direttamente mi fa presente il Prof. Donati.
Il "bellum" trattato da Grozio individua ogni possibile conflittualità umana, e il principio di
giustizia, cioè l'"alieni abstinentia", che egli pone a fondamento delle relazioni
intersoggettive, ha pertanto una latitudine corrispondente.
8. Secondo Grozio, il diritto naturale sussisterebbe ugualmente anche se facessimo a meno
dell'ipotesi di Dio. Cioè il diritto naturale è tanto immutabile che Dio stesso non può
cambiarlo, così come non può Egli mutare certe verità di ragione, come "due più due fa
quattro". In realtà Grozio (secondo Fassò) voleva soltanto confutare le opinioni dei calvinisti
più accesi, che, volontaristi com'erano, facevano dipendere le norme morali dalla pura e
semplice volontà di Dio. Ed in effetti la filosofia del Seicento, come la fisica che allora si era
223
costituita in scienza autonoma, non ammetteva ormai altre fonti di conoscenza, che la ragione
e l'esperienza. A parte ciò, dopo Grozio, il giusnaturalismo rimase a lungo la premessa e il
fondamento del diritto internazionale, mentre per il giuspositivismo estremo: <<la legge è la
legge, il comando è comando>>. Sicché una tragedia toccò proprio al giurista cattolico Carl
Schmitt, il teorico del nazionalsocialismo sotto il periodo nazista, a lungo sopravvissuto alla
rovine della guerra mondiale e morto a tardissima età, riconosciuto, oggi, come uno dei
massimi filosofi del diritto. In rapidissima sintesi, il concetto dell'essenza della politica,
secondo Schmitt (ben inteso, il giovane 'filosofo' che operò durante il nazismo, e non il
pensatore dell'epoca successiva, che corresse il tiro), è indipendente da altri concetti, come i
concetti di buono e cattivo (etica), di bello e di brutto (estetica), di utile e di dannoso
(economia), ed è originario di fronte al concetto di "statale" e di "giuridico". A questo punto la
peculiare distinzione della politica, alla quale si possono ricondurre tutti i motivi e tutte le
azioni umane, è soltanto la distinzione di "amicus" e di "hostis". Conta questo soltanto. Ma la
fine della guerra mondiale, con i suoi spettacoli di crudeltà, di inumanità, di violazione di ciò
che era sentito inviolabile, fece risplendere davanti alle menti degli uomini l'ideale, forse
ingenuo, ma indubbiamente sentito, di una regola universale della condotta umana,
possibilmente fatta valere da istituzioni di carattere mondiale. Fu il vecchio ideale
giusnaturalistico, come chiarisce il Fassò, ad ispirare la "Carta Atlantica", proposta e firmata
da Roosevelt e da Churchill nel 1941, ed a portare poi all'istituzione dell'ONU, in luogo della
vecchia Società delle Nazioni. E vi è eco delle dichiarazioni 'giusnaturalistiche' del Settecento
nella "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo" adottata il 10 dicembre 1947
dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Anche in Italia si ebbe una reazione
nell'immediato dopoguerra, con la rinascita del diritto naturale, di cui voce accorata fu, ad es.,
il civilista cattolico Domenico Barbero (scomparso nel 1963), nell'accesa prefazione al suo
Sistema del diritto privato italiano in due volumi, che era il manuale adottato in quegli anni
dagli studenti dell'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. In quegli stessi anni, un
grandissimo e prolifico giurista nonché straordinario avvocato, geniale e poliedrico come
Francesco Carnelutti, aveva abbandonato la concezione positiva del diritto, per passare al
"diritto naturale", fino ad elaborare, negli ultimi anni della sua vita, una sorta di dottrina
dell'amore, che gli attirò anche malevoli ironie negli stessi ambienti accademici e giudiziari in
cui aveva trionfato in passato. Ma la dottrina del diritto naturale, quando non urtò col
positivismo, si trovò contro lo storicismo. Benedetto Croce, studente a Roma, ebbe un giorno
l'incarico dal suo professore di stendere un'esercitazione di filosofia del diritto sui "diritti
innati" dell'uomo. Ma <<dopo avervi lavorato intorno alcune settimane>> come egli
scrive,<<mi presentai infine al professore a dichiarare, assai confuso e umiliato, che nel corso
dello studio ero stato tratto a ridurre quei diritti a numero via via sempre minore, e che me
n'era poi rimasto tra le mani un solo, e quel solo anch'esso, in ultimo, non so come, era
sfumato>>. E di questa opinione egli sempre rimase, sostenendo che le teorie del diritto
naturale fossero <<idee malamente accozzate degli scrittori e dei professori>>.
9. A questo punto il lettore non ben introdotto vorrebbe sapere cos'è effettivamente il "diritto",
se esso non sia per caso mera prassi, cioè una regola dei rapporti di forza, oppure qualcosa di
molto di più. Se, vale a dire, il diritto è "giusto", se esso corrisponde ad una universale istanza
di giustizia e di proporzione. La risposta è contraddittoria, e ce lo spiega molto bene Donati.
Anzi la risposta di Donati sembra, in effetti, l'unica risposta razionale che possa essere
affacciata con assoluta coerenza, rispetto all'esigenza di giustizia che attiene strettamente al
diritto in quanto tale. Ma questa risposta non è, va sottolineato, una risposta impossibile. Per
Dante Alighieri (De monarchia) il diritto è relazione (come intendeva appunto Carnelutti, e ci
sembra, con chiarezza, Donati). Affermava Dante che <<Jus est hominis ad hominem
proportio, qua servata societatem preservat, et corrupta corrumpit>>. Giustamente il Prof.
Donati mi chiarisce che la definizione di giustizia, intesa come "virtus ad alterum" o come
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"proportio", è aristotelica, e, comunque, propria di tutta la filosofia classica. E poiché
l'argomento mi sta personalmente a cuore, questa utilissima precisazione del Prof. Donati mi
offre, qui di seguito, la possibilità di una breve digressione, spero utile anche al lettore.
10. Aristotele distingue anzitutto tra "giustizia distributiva" e giustizia "rettificatrice o
riparatrice". Quest'ultima, regola i rapporti scambievoli. A prescindere dall'identificazione in
due generi (commutativa e giudiziaria) della giustizia 'rettificatrice', è l'equità il vero criterio
d'applicazione della legge, che permette di adattarla al caso singolo, temperandone la durezza.
Per rendere chiaro questo concetto, Aristotele paragona l'equità ad una certa misura (regolo
lesbio), fatta di una sostanza pieghevole, che permetteva di seguire le sinuosità degli oggetti
da misurare. Aristotele teorizzò la 'via di mezzo', un criterio universale di equilibrio e di
temperamento. Il giusto mezzo non è un criterio statico, ma deve fare i conti con ogni
individuo. Aristotele giunge a dire che questa difficoltà somiglia alquanto all'indovinare il
centro di un cerchio. In realtà, egli distinse tra diritto naturale e diritto positivo, e il "giusto
mezzo" regola, soprattutto, le situazioni inerenti agli 'eccessi' ed ai 'difetti' del primo. Il
criterio di medietà ha valore generale, ed Aristotele lo applica in biologia, in politica, e
persino nella logica. Il giusto mezzo nell'etica diventa, quindi, la corretta proporzione (Etica
Nicomachea, II, 6, 1106 b 9). Ma è proprio in campo etico che il criterio del giusto mezzo non
sembra più del tutto adeguato. Per una moderna sensibilità, etica e diritto possiedono confini
labili e indefiniti. L'uno tende verso l'altra, e viceversa. Si tratta di un rapporto 'dialettico', o
meglio, dinamico ed instabile. I rapporti del "diritto" sono fondamentalmente "interrelativi", e
la loro giustizia sostanziale e legalità formale, tra loro contrapposte in una tensione dinamica
che appare inesausta, riposano tendenzialmente su istanze di proporzione e d'equilibrio,
attraverso una "dualità" che esprime anche l'alterità delle situazioni di confronto, se abbiamo
correttamente inteso questo aspetto, assai intenso e del tutto originalmente risolto, del
notevolissimo saggio in esame. Donati ha pagine importanti anche su questo tema, affrontato,
in generale, in una visione filosofica di ampio respiro, che del resto sembra l'unica soluzione
proponibile nei riguardi del problema 'metafisico' della giustizia. 'Bene' e 'male' si confrontano
incessantemente, ma il male non è un 'non essere', una semplice "carentia boni", come
sosteneva S.Agostino, sulla scorta del neoplatonismo e del platonismo cristiano. Secondo
Donati è invece una 'realtà ontologica', un 'essere' attivo e ben presente. Quindi il problema del
"libero arbitrio" deve trovare un diverso inquadramento nell'ambito di un nuovo modello. La
libertà di scelta tra bene e male è forse inesistente. Ogni essere umano nasce con un
imprinting etico (si tratta di un chiarimento che Donati stesso mi fornisce, e che pone un
grandissimo argomento di riflessione), al quale non potrà che attenersi (infatti, "Principium
boni aut malis a nobis et in nobis esse", secondo Cujacius). Il 'libero arbitrio' riguarderebbe
invece la scelta dei comportamenti idonei per realizzarlo. In altre parole, il bene viene
perseguito da chi è buono per sua natura: né per terrore di pena, né per speranza di premio. E
mi sembra che Donati abbia ragione per davvero, cogliendo la verità di un fenomeno che
continuamente si ripete e la cui causa egli ben individua in termini 'metafisici' pregnanti.
11. Ci siamo dilungati, ma forse non siamo andati fuori del segno. Il libro del Prof. Donati è,
del resto, di tale ricchezza e spessore filosofico, che non si potevano omettere dei modesti
richiami al contorno, proprio per segnalarne l'importanza e renderne ancor più palesi i
contenuti. I limiti e le inconciliabili contraddizioni che Donati scorge ed analizza criticamente
e puntualmente, a proposito della 'filosofia volontaristica' e della 'filosofia intellettualista', che
tra loro si contrappongono, riguardano, in definitiva, un 'dualismo' trascendente, vale a dire di
carattere strettamente 'metafisico'. Due parole occorre quindi spendere sulla 'metafisica', e sul
'dualismo' contrapposto al 'monismo', a tutto vantaggio del lettore, che vogliamo immaginare
essere uno studente universitario, bisognevole di un piccolo istradamento, soprattutto coi
tempi che corrono, nella c.d. scuola moderna che sembra aver dimenticato, quasi del tutto, le
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sue vere matrici (si vedano al riguardo alcuni acutissimi rilievi nel sito del Prof. Bartocci).
Com'è ovvio, si tratta, da parte nostra, soltanto di semplici e modestissime nozioni al contorno
e di qualche richiamo di pura curiosità, poiché è soltanto dal vivo del testo di Donati che va
rilevata, direttamente, tutta la questione, nella sua reale complessità. La 'metafisica' è quella
branca della filosofia, risalente a Platone e ad Aristotele, che appartiene alla 'teoria della
conoscenza', e che come 'filosofia prima' consiste nella 'scienza del reale' considerata 'al di là'
delle apparenze sensibili immediate. In realtà, "metafisica" significa soltanto "dopo la fisica",
poiché un antico editore pose il libro della Fisica di Aristotele 'subito prima', nella collezione
delle opere di questo grande filosofo. Ma, come rileva Bertrand Russell, non è facile discutere
della 'metafisica' di Aristotele, se ci riferisce a questo filosofo soltanto, in parte perché
dispersa in tutte le sue opere, e in parte perché occorre una chiave interpretativa. Ma è chiaro
che una fondamentale opera di Aristotele, non importa se frutto di una sorta di compilazione
scolastica, anziché di prima mano come quelle platoniche, è chiamata Metafisica, proprio per
distinguerla dalla Fisica. E la si trova, oggi, in edizione italiana disponibile per tutti,
nell'ottima collana "Rizzoli" dei classici della filosofia diretta da Giovanni Reale. Giovanni
Reale ed Emanuele Severino sono i massimi nomi della 'storia della filosofia' in Italia. Donati
si rifà alcune volte a Severino, seguendone alcuni spunti.
12. Quando diciamo 'metafisica', intendiamo riferirci alla conoscenza ultima, alla radice
fondante dei saperi. Pure in altri contesti di pensiero, assai differenti da quello di Aristotele, la
metafisica si pone "al di sopra" delle varie scienze del finito, e cioè come dottrina della "realtà
assoluta". Tale è la metafisica per Cartesio, per Spinoza, per Leibniz, per Berkeley, per Hegel,
e via dicendo. Addirittura Carnot intitolò Riflessioni sulla metafisica del calcolo
infinitesimale un suo saggio scritto per giustificare i procedimenti di quel calcolo 'sublime', il
cui rigore, a quei tempi, era stato messo in dubbio, e la cui giustificazione fondazionale si avrà
soltanto alla fine dell'800, con Frege e Dedekind. Si suole peraltro affermare che con Kant
termina la filosofia antica e inizia quella moderna. La dimostrazione kantiana
dell'impossibilità della metafisica come scienza, non è indiscriminatamente riferita a tutta la
metafisica, ma soltanto a quella 'dogmatica', e cioè a quella metafisica che pretende di
sostituirsi alla conoscenza dei sensi e dell'intelletto. "La Ragion pura", come rileva Pietro
Emanuele, "è una profilassi contro il sorgere della metafisica". L'ambiguo Wittgenstein,
proveniente dal Circolo di Vienna del Prof. Sclick, e che poi si accostò a Russell, e, non pago,
anche a George Moore, non solo si sdoppiò filosoficamente, ma preferì tacere (memorabile
una sua baruffa con Popper, a Cambridge, sotto gli occhi divertiti di Russell). La 'metafisica',
che era già contenuta 'in nuce' nell'affermazione della "Via della Verità" della Dea di
Parmenide, rispunta, malgrado tutto, anche nella "fenomenologia" di Husserl, dove i
"fenomeni" sono autentiche manifestazioni della realtà, sinonimo di essenza, e non mere
apparenze kantiane. In Heidegger, che nel 1928 tenne una famosa lezione sul significato della
'metafisica' (da assistente, già dal 1919 aveva preso la cattedra del suo maestro Husserl), la
metafisica è riunita nella 'coscienza' dell'uomo. L'essere dell'uomo è un "essere nel mondo",
vale a dire un "esserci". L'angoscia svela il nulla dell'esistenza. Già Parmenide aveva chiamato
"essere" la realtà, suscitando la diffidenza di Aristotele, che nella Metafisica aveva cautamente
constatato che <<l'essere si dice in molti modi>>. Ma "essere", da solo, come può significare
qualcosa? Il pensiero moderno si è mostrato assai diffidente nei confronti della 'metafisica',
pretendendo di espungerla dal panorama della vera conoscenza. Per Rudolf Carnap, che
scriveva nel 1933, e che in questo caso si riferiva ad Hegel, <<poiché tutte le leggi della
logica sono tautologiche e vuote di contenuto, esse non possono dirci assolutamente nulla sul
mondo reale. Qualsiasi legittimità è perciò negata, e tale è per gran parte per la metafisica>>.
In precedenza (1925) C.E.M. Joad, filosofo di Oxford, aveva osservato che <<se Bertrand
Russell ha ragione, la maggior parte della filosofia è priva di significato; se egli ha torto,
possiamo ancora sperare che, grazie ai metodi seguiti tradizionalmente dalla filosofia, si possa
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arrivare alla conoscenza della verità dell'universo>>. Secondo Carnap e Russell ogni filosofia,
nel senso antico della parola, sia che si richiami a Platone, a S. Tommaso, a Kant, a Schelling,
a Hegel, sia che eriga una "metafisica dell'essere" o una "filosofia dialettica", appare, alla luce
della critica inesorabile della nuova logica, come una dottrina non falsa nel suo contenuto, ma
logicamente insostenibile, e quindi destituita di significato. Il senso di stroncature come
queste riposa in una scelta radicale, quella almeno dell'inutilità della metafisica, se non quella
della sua improponibilità. Ma vi è un sottile ed ambiguo destino di irriducibile ambivalenza, o
un principio di dualità, che contrappone ad es. l'io all'es nella psicanalisi, l'io e il mondo nella
filosofia, la mente e la realtà nel principio antropico in cosmologia moderna, le ragioni ultime
rispetto alla 'verità' che non si discopre dai suoi travestimenti, la coscienza dagli algoritmi, e la
matematica computazionale dalla libera 'scoperta' creativa dei teoremi (su quest'ultimo punto
in particolare, si veda ancora il sito del Prof. Bartocci). Più la si respinge, e più la metafisica si
riaccosta a noi. Non se ne può fare a meno. Avevano perciò ragione sia Platone che Cartesio.
C'è un ponte oscuro tra noi e la realtà diveniente. Un turbine di mistero, che ci coinvolge
integralmente. La rinuncia al discorso metafisico costituisce una 'capitis deminutio' del
pensiero moderno, una abiura illegittima che svuota l'indagine di ogni sua profondità, come se
il mare dell'essere si riducesse a mera superficie.
13. Le critiche del genere accennato, sembrano aver reso inattuale la metafisica nel panorama
filosofico moderno, respingendola nell'angolo di un'apparente inutilità, ma così piallando la
verticalità del pensiero, con le funeste conseguenze alle quali oggi assistiamo, in modo assai
diffuso ed allargato. Ciò non significa affatto che il discorso scientifico deve soggiacere a
quello metafisico, ma i due ambiti restano separati e distinti, con la loro rispettiva immagine.
Si dovrebbe anzi parlare di 'cattivi maestri', almeno sotto certi aspetti (vedasi
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/listamat.htm), quando si introducano nella scienza
forme occulte, mascheramenti metafisici. Del resto, la critica kantiana, fondata sulla
razionalità, aprì le porte a correnti assai diverse: l'idealismo, la fenomenologia, ed anche al
positivismo logico. Resta comunque intatto il problema 'etico' del fondamento della morale,
affrontato in età matura da Kant, nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785), dopo
che nel 1766, ne I sogni di un visionario spiegati dai sogni della metafisica, si era interessato,
in contrasto con le idee professate da Newton, alla pericolosa facilità delle ipotesi 'metafisicoteologiche' e della loro arbitrarietà. Ma il cielo stellato si trova sopra di noi e la legge morale
dentro di noi. Ciò che non contraddice, affatto, al reale problema 'metafisico' dei fondamenti
dell'etica. Già in Platone l'aspetto etico e quello scientifico procedevano insieme. Il bene si
identifica con la conoscenza. E' l'indagine disinteressata che costituisce il bene, come rileva
Russell a chiusura de La saggezza dell'Occidente. Per l'uomo una vita non meditata, egli
sostiene, non è davvero degna di essere vissuta. Il "tema etico" è dunque centrale in ogni
filosofia, ed indubbiamente esso si coniuga all'azione e si impasta con la realtà. L'etica è
strettamente correlata al diritto e alla giustizia, come già sapeva benissimo l'audace Antigone.
Secondo Aristotele, la 'filosofia prima' ha il compito di mettere in luce i caratteri fondamentali
dell'essere, distinguendo gli attributi necessari di esso, da quelli contingenti. In questo senso la
metafisica è 'ontologia', cioè scienza dell'essere, e la sua priorità, rispetto alle altre scienze,
poggia su di un fondamento puramente logico. La logica, del resto, sembra tenere in piedi il
mondo. A ben guardare, il problema dell'essere, e al suo opposto quello del divenire, che
rimontano alle correnti di pensiero della prima filosofia greca, quella 'occidentale' di
Parmenide d'Elea e quella 'orientale' dello ionico Eraclito (ambedue scrissero un poema sulla
Natura), non può dirsi in alcun modo risolto. Né forse mai lo sarà. Il saggio di Popper su
Parmenide rivisita, modernamente, una questione fondamentale, che già si era affacciata, in
tutta la sua straordinaria consistenza, in un dibattito che si era tenuto ad Atene, presente il
giovanissimo Socrate, come ci fa sapere Platone, il quale affronta il tremendo problema della
'conoscenza' soprattutto nel Parmenide, nel Teeteto e nel Sofista. Zenone, accompagnato dal
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suo vecchio maestro Parmenide, si recò dall'Italia ad Atene, per discutere in modo
paradossale, attraverso una 'reductio ad absurdum', il problema dello 'spazio' e del 'tempo',
cioè dell'essere e del divenire, tra loro coppie irreconciliabili, ma anche complementari.
Zenone formulò all'incirca una quarantina di paradossi, di cui ne restano appena quattro, che
ancora oggi danno luogo a sorprendenti interpretazioni 'moderne'. Nel paradosso può infatti
nascondersi una autentica 'coincidentia oppositorum' e si potrebbe constatare, in questo senso,
la paradossalità di tutta la scienza moderna. La scienza dell'essere nasceva, già a quel tempo,
in modo ambiguo e contraddittorio, così come l'arcaico dio iranico Zurvan, alato ed
androgino, dà alla luce due gemelli, che gli escono dalle spalle. L'antico mito di Zurvan, padre
di Ohrmazd e di Ahriman, è riferito da Eudemo di Rodi, in questi termini: <<i Magi…
chiamano il Tutto uno e intelligibile, ora 'Spazio', ora 'Tempo'; da esso sarebbero nati sia
Ohrmazd e Ahriman, sia la Luce e le Tenebre>>. Metafisica dualistica, dunque, e non l'uno
vagheggiato da Plotino, e altri filosofi ancora. E neppure si tratta della riconciliazione nella
dialettica 'triadica' hegeliana, che infatti appare sempre diveniente e sempre provvisoria,
volgendo alla 'meta' dell'autocoscienza con un rinvio 'sine die'. La questione è assai
complessa, del tutto irrisolta, e vi abbiamo alluso, molto da lontano e in termini del tutto
sommari e impropri, soltanto per solleticare la curiosità del lettore ad accostarsi direttamente
allo straordinario e singolare 'percorso concettuale' compiuto dal Prof. Donati in questo suo
eccellente lavoro in cui egli pone in luce che lo studio dell'esistente (vale a dire dell'ens in
quantum est ens) rivela la presenza di due forze antagonistiche, l'una tendente verso l'ordine, o
Lógos, l'altra verso il Cháos. I due principi sono di natura trascendente, e dal loro incessante
antagonismo si produce tutta la realtà. Si tratta, perciò, di un "dualismo metafisico", come
dichiara l'Autore, che appunto esclude il 'monismo', ma non esclude affatto l'esistenza di Dio.
La singolarità di questa sorprendente ed originalissima linea di pensiero appare evidente ed
assai stuzzicante, non solo per l'addetto ai lavori, ma anche per il lettore colto ed informato.
Con ciò vogliamo dire che si tratta di uno di quei libri che vanno assolutamente letti, non
fosse altro che per studiarne i limiti (ma scommettiamo, al contrario, che se ne scoprirebbero
tutti i notevolissimi pregi).
14. Per comprendere meglio questo percorso, è opportuno fare cenno ai temi essenziali del
'monismo' e del 'dualismo' in filosofia. Il 'monismo' è il sistema filosofico che concepisce la
molteplicità come manifestazione di un'unica sostanza: contrariamente al 'dualismo' e al
'pluralismo', per i quali l'essere comprende, rispettivamente, due o più sostanze. Quindi Donati
deve partire, anzitutto, dall'analisi dell'essere, e compiere una profonda indagine filosofica,
utilizzando un linguaggio del tutto appropriato allo scopo, cosa che gli riesce benissimo, in
termini concettuali e di chiarezza espositiva, anche se, all'apparenza, questo linguaggio
definitorio sembra modulato prevalentemente su Aristotele e San Tommaso. Ma si tratta
soltanto di un'impressione formale, in quanto nel saggio, in realtà, viene impiegato un
linguaggio del tutto autonomo e distinto, per quanto si accolga, in senso moderno, il concetto
aristotelico di "causa finale", come del resto hanno fatto di recente anche altri studiosi, sia in
ambito filosofico che in campo scientifico.
Nella storia della filosofia greca e di quella cristiana, da Platone a Cartesio, è stata comunque
prevalente la concezione dualistica, poggiando sulla distinzione tra materia e spirito, tra cielo
e terra. Monista è invece Spinoza, col suo panteismo. In filosofia del diritto è monista la teoria
(ad es. del Kelsen), che il complesso delle norme giuridiche costituisce un tutt'uno, mentre la
teoria dualistica distingue, ad es., tra diritto internazionale e diritto interno. Ma il discorso
filosofico di Donati è del tutto originale. Il suo 'dualismo' è compresente in modo originario e
del tutto libero, ed attraversa tutte le manifestazioni del reale. Questo dualismo non contrasta
affatto con l'esistenza e l'unicità di Dio. Ed è questa la singolarità assolutamente
caratterizzante questo sorprendentissimo lavoro. Anzi, Dio è, al limite, l'unificatore di tutti
processi. Lo scopo finale si attualizza attimo per attimo, nella direzione evolutiva che risale al
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significato ultimo della contrapposta dialettica dualistica. Si perviene a questa conclusione in
modo necessario, una volta che siano state constatate e verificate tutte le limitazioni che
caratterizzano gli aspetti fondanti delle due filosofie possibili: quella 'volontaristica' e quella
'intellettualistica'. In questa analisi, puntualmente capillare, degli accennati limiti filosofici
delle due contrapposte correnti, Donati prende in esame (capitoli V e VI) anche il "dualismo
teologico" nell'ambito del Vecchio e del Nuovo Testamento, nonché la concezione di Dio
secondo le diverse visioni (tra l'altro, ci sono sembrate, queste, le pagine più belle, ispirate, del
tutto originali ed oltremodo interessanti dell'intero lavoro di Donati, la cui consistenza non è
peraltro scindibile in parti distinte, trattandosi di un discorso serratissimo, senza pause
concettuali).
15. Ma veniamo adesso al singolare linguaggio filosofico col quale il saggio è per così dire
costruito. Anzitutto Donati utilizza un pertinente linguaggio definitorio a proposito dell'
"oggetto della filosofia" (cap. I) e dell' "ontologia", determinandone tutte le proprietà logiche
ed espressive. Si può avere, a prima lettura, l'impressione, come detto del tutto superficiale,
che questo 'linguaggio' sia stato sostanzialmente raccolto da Aristotele e da S. Tommaso, ma
in realtà non è così. Vi è, invece, la ravvisata necessità della totale chiarezza, il dover reperire
un'opportuna terminologia, posto che un testo filosofico deve escludere tutte le ambiguità
semantiche del linguaggio comune. Nella creazione di questo linguaggio espressivo Donati si
giova di tutta la sua sapienza di giurista, abituato alla logica ed assai esperto navigatore tra le
sirene e le secche del linguaggio ordinario. Da qui la scelta, coerente, di un linguaggio
filosofico assai appropriato agli scopi. Tra l'altro non solo è ben presente nell'Autore lo
sviluppo storico del pensiero fino alla modernità attuale, ma accanto a questa matrice,
strettamente filosofica, si pongono, altresì, le conquiste fondamentali della scienza moderna,
che dalla macro e micro fisica, arrivano a toccare la teoria della complessità e quella della
matematica del 'caos'. Com'è ben sintetizzato nella locandina di presentazione del saggio, la
tesi fondamentale di Donati è che <<la caduta della centralità cosmica dell'esperienza umana,
la discoperta dell'ordinamento termodinamico informato al principio di entropia,
dell'ordinamento biologico in senso opposto, la rilevazione dell'andamento evolutivo di
quest'ultimo, il venir meno della visione armonica dell'universo, l'affermazione secondo cui a
fronte della realtà connotata da un divenire creativo non può darsi una 'causa prima
immobilis', la constatazione dell'esistenza di due ontologie etiche contrapposte, rendono
inadeguata, obsoleta, la filosofia intellettualistica tradizionale>>. Ne consegue, pertanto, che
<<la via ricostruttiva di una visione d'insieme razionalizzante, che non sia, quindi,
semplicemente nichilistica, ovvero, che non sia retrocedente ai fondamentalismi religiosi, vale
a dire, alla negazione del Lógos universale, non può che prendere le mosse dalla descrizione
di tale dualismo e dalla sua irriducibilità ad una visione monistica del trascendente>>. Dunque
Lógos e Cháos, due principi contrapposti in una dialettica generativa incessante, oppure, come
ama ricordare lo stesso animatore di Episteme, "Ordo ab chao". L'interesse di questa
concezione è evidente. Essa potrebbe essere trasposta nei più diversi ambiti di verifica (come
in parte fa Donati stesso), ed avere, essa stessa, un solido fondamento scientifico. Non a caso
Donati si rifà ai più interessanti pensatori moderni in campo scientifico, come Jung, Monod,
Allègre o Prigogine. I tempi presenti sono ormai maturi per un tentativo di sintesi tra scienza e
filosofia, che possa raccogliere a senso compiuto il significato della ricerca. La metafisica di
Donati è rivolta in definitiva a questo scopo.
16. I principali autori ai quali si rifà il Prof. Donati nel ricchissimo e sapientissimo apparato di
note, vanno da Platone ad Aristotele a Plotino, da S. Agostino a S. Tommaso, da Cartesio a
Spinoza a Leibinz a Hume e a Kant, da Vico ad Hegel e a Croce, fino a Nietzsche, Husserl,
Heidegger per citare i più importanti, e dal Suarez a Grozio a Kelsen in filosofia del diritto, su
su fino a Darwin, a Jung, a Monod, a Ruelle, a Allègre, a Prigogine. Sono altresì citati svariati
229
autori greci e latini, medievali e delle epoche successive, con straordinaria ricchezza di
riferimenti e il dispiegato ventaglio di una grandissima cultura, oggi alquanto inusitata per la
'nouvelle vague' dei moderni 'giuristi', rapidissimamente pragmatici ed assai spesso vuoti di
pensiero. Dopo una serratissima analisi delle rispettive carenze della 'filosofia
intellettualistica' e di quella 'volontaristica' (una contrapposta categoria che si presenta
particolarmente accentuata in filosofia del diritto, ma che attraversa tutti gli 'oggetti' del
pensiero filosofico: dall'ontologia alla logica, dalla filosofia della storia a quella della scienza,
dall'etica alla filosofia del diritto e alla teologia), Donati - che riesce ad elaborare una
straordinaria visione d'insieme, ottimamente impostata, che tocca svariate questioni
filosofiche fondamentali, come l'oggetto e i limiti della conoscenza, la causalità, la filosofia
della storia e la filosofia della scienza, la visione teologica vetero e neotestamentaria, il
divenire, l'evoluzione, il problema del bene e del male eccetera - perviene alla conclusione
(vedi cap. VIII) che non è possibile asseverare una sola matrice metafisica, ma si deve
necessariamente concludere per la presenza di due matrici. Una volta accertato, come riesce a
fare Donati, che il 'bene' e il 'male' hanno realtà ontologica, pertanto, che il male non è mera
'carentia boni', la 'reductio ad unitatem' sul piano trascendentale diviene impossibile poiché,
ove proposta, essa contraddirebbe questa 'ontologia'. Ciò induce una profonda revisione del
rapporto tra Dio e l'uomo, nel senso che tale rapporto assume la strutturazione propria di una
relazione organica. L'uomo è dunque "instrumentum Dei", e, a seconda della matrice
metafisica di cui è espressione, egli è volto al bene o al male, a realizzare, nel quadro di una
relazione necessariamente conflittuale, la corrispondente istanza ontologica. Il libero arbitrio e
il principio della responsabilità individuale, che fondano i valori etici, restano in ogni caso
inseriti in quest'insieme, in quanto la duplicità contrapposta dei principi generativi della realtà,
evoluzione ed entropia, corrispondono, in chiave etica, all'esercizio degli indirizzi dell'azione
umana, che sempre si traducono in una modificazione del reale. Su di una sorta di scacchiera
metafisica agiscono ed interagiscono entità e forze contrapposte che potremmo definire bene e
male, azione e negazione, azione e reazione, in una complessità globale che avvince tutti gli
aspetti della realtà.
17. Il lettore si domanderà, a questo punto, come si possa giungere a queste straordinarie
conclusioni. E il bello è proprio questo: che il libro occorre non solo leggerlo, ma meditarlo
profondamente, farlo proprio fino in fondo. A questo punto, un invisibile motore intellettuale
si accende per noi, e si è costretti a ripercorrere i passi già letti, a sviscerarli nelle loro ardite
pieghe, a rivisitarli innestandovi il proprio patrimonio di sensibilità e di cultura. Il che
importa, di conseguenza, non solo un approfondimento dei temi 'fondamentali' della filosofia
pura e della scienza moderna (quindi un percorso assai stimolante, raccomandabile anche a
studenti universitari in formazione, che vogliano adeguatamente rendersi conto della
complessità delle interrelazioni tra c.d. cultura umanistica e cultura scientifica); ma, anche un
coinvolgimento a livello personale, appunto quali soggetti 'pensanti', interessati al problema
della conoscenza ed anche a quello dell'etica, soprattutto a proposito delle nostre opinioni, dei
nostri convincimenti, della nostra stessa personale 'visione' del mondo. Non va infatti
dimenticato che Donati è un autentico filosofo, e quindi anche un vero filosofo del diritto,
oltre che un provetto giurista. Gli aspetti strettamente di 'filosofia del diritto' restano perciò
assorbiti, ma non per questo non affrontati o convenientemente risolti, in una visione generale
ed onnicomprensiva. Tale arditezza merita la massima considerazione ed ogni possibile
attenzione ai massimi livelli.
18. Il libro del Prof. Donati si apre con la citazione di un bellissimo passo biblico tratto da
"Sapienza" 7,30: <<La malvagità non può prevalere sulla sapienza>>. Viene così
manifestato, in modo anticipato, il significato più profondo di quell'asserzione, che chiude il
saggio stesso (vedi pag. 357): <<Non è l'uomo ad avere bisogno di Dio, ma è Dio ad avere
230
bisogno dell'uomo e, più in generale, dell'esistente, per la piena realizzazione di se stesso>>.
Vogliamo ricordare, a chi avrà la fortuna di accostarsi a questo straordinario lavoro di Donati,
che negli anni Cinquanta uscì in Francia un film, che suscitò allora molto scandalo in ambienti
cattolici, dal titolo "Dio ha bisogno degli uomini". Non si trattava certo di un film blasfemo,
tutt'altro. E vogliamo pure trascrivere, per intero, le ultime righe (28-30) del passo di Sapienza
(a proposito della "Natura divina e attività cosmica della sapienza"), richiamato da Donati:
<<Nulla infatti Dio ama se non chi convive con la sapienza. Essa è più bella del sole e supera
ogni costellazione; paragonata alla luce, risulta più splendida; a questa certamente succede
la notte, ma la malvagità umana non può prevalere sulla sapienza>>. 'Sapienza' è l'ultimo
libro dell'Antico Testamento. Il testo s'intitola "Sapienza di Salomone", attribuzione però
fittizia. Infatti l'autore biblico apparteneva alla 'diaspora' giudaica residente in Egitto, ad
Alessandria, e il libro fu scritto verso il primo secolo avanti Cristo, in lingua greca. Nel brano
che abbiamo voluto riportare poco sopra, figurano, emblematicamente contrapposti, luce e
buio, bene e male. I "manichei", alla cui setta, fondata dal persiano Mani, aderì anche
Tertulliano, famoso avvocato e retore cristiano del II secolo, ammettevano la coesistenza e la
lotta perpetua di due principi opposti: quello del bene, simbolizzato dalla luce e governato dal
"padre della grandezza", e quello del male, retto dal "principe delle tenebre", rappresentato dal
buio, e identificantesi con la materia. In termini moderni Donati fa giustamente presente la
straordinaria importanza di quell'enigma scientifico per cui accanto alla legge di entropia si
pone, in contrapposto, il principio di evoluzione, con una concezione già intravista da
Theilard de Chardin e dal grande filosofo 'neotomista' francese, Jacques Maritain. Ciò non
toglie affatto l'unicità di Dio. Ma Dio si realizza, secondo Donati, nell'umanità, ed Egli è
invischiato nel Suo atto di creazione. Il problema etico non solo è del massimo risalto, ma
attraversa tutta la nostra libertà. Quindi la battaglia cosmica che si combatte su questa
'scacchiera' dello 'spazio-tempo', ha un suo vero scopo e tutto il suo significato. Scopo e
significato di questa lotta o contrasto ineluttabile che si svolge nel mondo, sono di carattere
etico, e attengono alla crescita, all'evoluzione, al farsi della vita stessa. Tutto e tutti, la materia
e il vivente, sono ricompresi e coinvolti in questa sorta di enigma metafisico, di cui scopo
ultimo è il compimento d'un progetto.
19. Non è detto che opere di così grande impegno coincidano per forza con la semplicistica
etichettatura, vagamente distintiva, del 'facile' e del 'difficile', secondo l'invalso criterio che
purtroppo oggi deve essere risparmiata al lettore ogni fatica. Anzi, i più interessanti nel loro
genere, sono proprio i cosiddetti libri 'difficili', quelli cioè che invitano a pensare, e con i quali
occorre dunque confrontarsi, impegnando il proprio personale patrimonio di cultura,
sensibilità e conoscenza. Lo stile di scrittura può restare, in ogni caso, chiaro e semplice, una
volta penetrati nelle categorie del linguaggio utilizzato, che del resto si pone, di stretta
necessità, al di fuori di quello definito come linguaggio comune. Densità e scorrevolezza non
sono termini antitetici. Il che non vuole dire certamente convenzionalità e terminologia
scontata, com'è oggi pratica invalsa, ma soltanto un linguaggio appropriato, strumentalmente
efficace, e cioè scientificamente conformato alle necessità della comunicazione del pensiero,
tanto più esso si faccia denso e fondante. Ma saranno sempre i contenuti a farla da padroni, in
specie in un testo di metafisica, come appunto s'intitola l'impegnativo lavoro del Prof. Donati.
E se di per sè, complessa e difficile, è la materia, chiaro e coerente dev'essere, tuttavia, il
linguaggio, in grado di esprimerla. I due aspetti, anzi, debbono trovare un loro reciproco
equilibrio, cosa questa assai spesso difficile da raggiungere. Donati sembra esserci riuscito, ed
è questo un ulteriore merito del suo attento lavoro. Una volta entrati nel testo, colte le
sfumature definitorie, tutto appare molto più scorrevole, e ci si trova in definitiva a proprio
agio per un confronto concettuale col testo scritto, essendo questo lo scopo implicito di ogni
lavoro strettamente filosofico, destinato cioè a fornire ampia materia di pensiero critico. Ci
sono libri, pur scritti in modo assai chiaro e scorrevole, nei quali, tanto per adoperare una
231
categoria definitoria, tratta dalle famose Lezioni Americane di Italo Calvino, in cui la
"pesantezza", contrapposta alla "leggerezza", è un pregio intrinseco, e, parimenti, una
necessità ineludibile. Ma secondo Calvino, appartiene alla categoria della "leggerezza" anche
la <<narrazione d'un ragionamento o d'un processo … in cui agiscono elementi sottili ... o
qualunque grado di astrazione>>. Il testo di Donati, una volta penetrati, con qualche iniziale
difficoltà, nel linguaggio da lui adoperato, scorre chiarissimo, con bellissime pagine di grande
densità e profondissimo significato. Questa 'chiarezza' finale nasce dall'impegno e dalla
capacità logica di cui l'Autore fa bella mostra, quando si dirige alla difficile e sottile ricerca
della verità, e quando scala vette arditissime, in pagine assai profonde e pensate. Nel segnalare
questi aspetti formali del saggio non intendiamo tuttavia discostarci dalla sua densità, che anzi
abbiamo ben presente, davanti a noi, come pregio fondamentale.
20. Vorremmo concludere questa recensione evidenziando, a questo punto, gli aspetti che
maggiormente ci hanno colpito. Conoscevamo il Prof. Alberto Donati già dalla fine degli anni
'60, quando giovane ed agguerrito assistente universitario, egli frequentava l'Istituto di Diritto
Privato presso il quale ci recavamo per scrivere la nostra tesi. La sua bella e giovane presenza
di studioso trascorreva silenziosa, elegante e discreta. I suoi silenzi erano raccolti nel pensiero
profondo, lo avevamo già intuito allora, del quale scorgiamo, oggi, tutto lo spessore.
Trascriviamo da pagina 337 del saggio in argomento: <<Il rapporto antagonistico tra Lógos e
Cháos si sviluppa in tre livelli: il primo, esprime la contrapposizione universale tra queste due
entità; il secondo, si rende percettibile nella contrapposizione tra generi e specie provenienti,
rispettivamente, dall'una o dall'altra delle due forze; il terzo, è riscontrabile all'interno delle
specie, in particolare, in quella umana dove, infatti, è rinvenibile la compresenza sia della
componente intellettualistica che di quella volontaristica. L'armonia che regna nell'universo è
solo apparente. Si tratta, piuttosto, di una disarmonia, di un processo dialettico attraverso il
quale il Lógos sviluppa la propria emancipazione dal Cháos. L'armonia universale è il portato
della concezione monistica della divinità e dell'idea di provvidenza che ad essa è correlativa.
D'altra parte, la visione dualistica dell'esistente è immanente alle costruzioni teologiche e
filosofiche secondo quanto si è già esposto. Nelle cosmogonie è affermata l'esistenza, o la
creazione, originaria del caos dal quale Dio avrebbe, poi, tratto l'ordine dell'universo. Per
altro, muovendo dalla perfezione divina, non c'è alcun bisogno di postulare la reazione del
caos e, quindi, una successiva razionalizzazione di quest'ultimo (come anche ha luogo nella
narrazione della Genesi). Resta, dunque, inspiegato questo doppio passaggio, il perché della
mancata diretta creazione di un universo ordinato. Il caos, pertanto, è avvertito come realtà
originaria, non pretermittibile, donde, a ben vedere, la costruzione intrinsecamente dualistica
dell'ens inquantm est ens>>.
I lettori di Episteme conoscono molto bene, oltre al Prof. Bartocci, anche il direttore
responsabile della testata, Dott. Euro Roscini, quest'ultimo un convintissimo sostenitore della
visione "ternaria". Una breve comunicazione del primo al secondo suonava così: <<…poiché
hai un po' contagiato anche me con il "ternario", e pur non essendo d'istinto triadico (troppa
abitudine a ragionamenti di tipo diadico, on/off, algoritmi ad albero ecc.), te ne spedisco
alcuni che considero significativi in ordine alla matematica (et relata) che andrebbero letti e
confrontati nell'ordine (ovvero "colonna per colonna"):
1* Reale / Pensato / Parlato
2* Fisica / Matematica / Semiologia
3* Geometria / Aritmetica / Logica
4* Forma / Ordine/ Struttura
5* Misura / Quantità / Algoritmo
6* Spazio / Tempo / Coscienza
7* Materia / Spirito / Intelletto
232
Anche il matematico Piergiorgio Odifreddi, nel suo Il vangelo secondo la scienza (Einaudi,
1999, pag. 17: un' indagine 'logica' e 'scientifica' sulle domande 'religiose' che possono avere
un senso) accenna ad alcune <<triadi storiche che sostanzialmente interdipendenti e
complementari, mostrano una tripartizione della realtà in fisica, psichica e metafisica, della
logica in induttiva, deduttiva e dialettica, della fisiologia in muscolare, cerebrale e viscerale,
dell'esperienza in sensoriale, mentale e trascendente, dell' attività mentale in conscia,
preconscia e inconscia, della conoscenza in naturale, speculativa e mitica, e della religiosità in
rituale, teologica e e mistica>>. Non ci dilunghiamo oltre dopo questi rapidissimi accenni, pur
segnalando 'en passant', all'attento lettore, che già Popper (in Congetture e confutazioni,
sottotitolo "Lo sviluppo della conoscenza scientifica", Il Mulino, Bologna, 1972, pag. 135 ss.)
aveva attentamente preso in esame le varie coppie antitetiche o diadiche del pensiero
'dualistico' pitagorico, come ad es. la contrapposizione retto e curvo, pari e dispari, maschile e
femminile ecc. Ricordiamo soltanto che per Donati il rapporto antagonistico e duale tra Lógos
e Cháos si sviluppa sempre in tre livelli. Hegel pubblicò la Fenomenologia dello spirito nel
1807, e nel 1821 i suoi Lineamenti di filosofia del diritto. Nella "Fenomenologia" viene
descritto, quale fondamentale compito della filosofia, il processo della 'coscienza' per giungere
alla "comprensione di sé". Già nel mito di Antigone si rivela, per Hegel, la frattura della felice
armonia tra legge non scritta e legge dell'uomo. Lo spirito cerca, allora, di conquistarsi nella
'moralità' e nella 'religione', ma solo nella 'filosofia' l'autocoscienza si fa 'spirito assoluto', e la
realtà si risolve tutta in 'autoconcetto'. La posizione di Donati è diversa: <<L'esistente, l'uomo,
sono le propaggini del Lógos e del Cháos, gli strumenti della loro progressiva realizzazione,
della liberazione del Lógos dal Cháos, inversamente, del suo impedimento>>. Con queste
precise e chiarissime parole si chiude l'illustre saggio del Prof. Donati sulla "metafisica
dualistica", che in queste poche ed incerte pagine abbiamo cercato, coi nostri scarsi mezzi, di
presentare, e soprattutto di far conoscere ai lettori di Episteme, sempre molto attenti e
vivamente interessati ai grandi temi della cultura e del pensiero. Il teologo Hans Kueng aveva
dedicato al problema di Dio nell'età moderna, il suo notissimo Dio esiste? (Mondadori, 1979,
più volte ristampato). Donati accoglie pienamente l'esistenza di Dio, ma nega ogni valore al
principio esclusivo della causalità 'meccanicistica'. V'è senz'altro, ci deve essere, parimenti, un
andamento "teleologico". I mezzi ed i fini tendono a coincidere, e vi sono un piano fisico ed
un piano metafisico: ma non vogliamo togliere al lettore il piacere di assaporare direttamente
le più che corrette, e del tutto consequenziali, conclusioni di Donati, esposte con grande
chiarezza ed essenzialità, nell'ottavo e conclusivo capitolo del suo saggio, le quali riassumono
un pensiero assai profondo e molto ben articolato.
La dialetticità dell'esperienza umana concerne anche il diritto. <<Nessuna società umana può
sussistere senza un principio di giustizia che presieda alla disciplina delle relazioni
intersoggettive. Tuttavia, la filosofia della giustizia non è unitaria, scindendosi, anch'essa,
nella filosofia intellettualistica e in quella volontaristica di cui si fanno portatrici le
corrispondenti componenti umane. La prima, è incentrata sul primato dei precetti di diritto
naturale, la seconda, su un giusnaturalismo asseverante precetti diametralmente opposti>>
(vedi Donati, pag. 327).
Già il mondo classico aveva evidenziato la compresenza della filosofia intellettualistica e di
quella volontaristica, e a tale contrapposizione si sostituisce, poi, quella tra cultura classica e
teologia cristiana, quest'ultima già antagonista dell'intellettualismo 'veterotestamentario'.
Basterebbero già questi brevissimi accenni a far balenare, davanti agli occhi del lettore, la
profondità e ricchezza degli scenari di pensiero in cui si muove Donati.
Quindi, un testo di tale qualità e spessore, merita senz'altro un adeguato approfondimento
seminariale, opportunamente organizzato dalle diverse Facoltà di filosofia, di giurisprudenza e
quelle d'indirizzo propriamente scientifico. Ne trarrebbero grandissimo giovamento gli
studenti che si accostano alla rispettive discipline senza un'affidabile guida di fondo ed
233
un'affinata capacità di raccogliere quegli elementi critici, che fondano, realmente, il dramma,
per così dire sublime, della conoscenza. Il lavoro di Donati ci è parso di grandissimo livello,
assolutamente meritorio della massima considerazione nelle sedi culturali e scientifiche
deputate. La nostra recensione, che compare su una rivista assai attenta a tutte le possibili
'tracce' della verità, costituisce soltanto il modestissimo riconoscimento da parte di un
semplice e comune lettore, il quale, tanto per concludere queste pagine di carattere puramente
indicativo, ritiene, in aggiunta a quanto detto, di aver scorto alcuni elementi di contatto, ferme
le rispettive diversità, con la Grande sintesi del conterraneo Pietro Ubaldi, un libro uscito nel
lontano anteguerra per i tipi della casa editrice "Ulrico Hoepli" (ma ristampato anche di
recente dalle Edizioni Mediterranee), favorevolmente recensito, in quella prima occasione,
addirittura da Enrico Fermi, che si espresse in termini estremamente elogiativi
sottolineandone <<il quadro di filosofia scientifica e di antropologia etico-sociale>> <<che si
lascia indietro i tentativi consimili esperiti nell'ultimo secolo, per l'ampiezza della trama e per
la novità singolare del metodo>>.
Con identica certezza, ovviamente quella del 'lettore' però fortemente interessato a lavori
originali e di genio, possiamo affermare, senza alcun dubbio di smentita, che anche questo
saggio del Prof. Alberto Donati è ugualmente destinato a restare negli annali della migliore
cultura prodottasi in terra d'Umbria. Questo il nostro più sincero apprezzamento e questo il
ben fondato augurio. Infatti, nulla può oscurare "la sapienza".
(Arcangelo Papi)
[Una presentazione dell'autore di questa recensione si trova nel numero 5 di
Episteme.]
[email protected]
234
Origine e Fine dell'Universo
(Margherita Hack, Pippo Battaglia, Walter Ferreri)
(UTET, 2002)
Fare cosmologia è dire che cos'è il cielo. Origine e Fine dell'Universo in 258 pagine per i tipi
della UTET non si fa certo pregare: qualche lustro addietro qualcuno avrebbe potuto definirlo
un titolo da neuroscienze o un argomento di pneumatica, ma quando a firmarlo sono
nientedimeno che Margherita Hack, un brillante divulgatore siciliano (Pippo Battaglia) e un
apprezzato astronomo torinese (Walter Ferreri), la faccenda si fa terribilmente seria. Che cosa
è accaduto alla scienza negli ultimi quindici anni? E' la verità sull'universo? E' una teoria? E'
un trionfo virtuale o un incauto acquisto?
Dal nulla al tutto e dal tutto all'infinita rarefazione, la Hack ci sospinge con mano esperta in
una saga dell'abracadabra dove materia, radiazione, costanti fisiche, spazio e tempo emergono
da un luogo di raggio zero che precedentemente non esisteva. Oppure, a scelta, da una
singolarità di estensione infinita i cui unici attributi sono calore e densità. Ma non è il caso di
fare del facile … scetticismo: è la migliore teoria che abbiamo fatta con la migliore
matematica che abbiamo e fino a 10-43 secondi dall'"Inizio" funziona "splendidamente". Big
Bang dunque, nascita delle stringhe e poi quark, atomi, stelle, galassie, materia oscura e buchi
neri che si dipanano in uno spazio che produce nuovo spazio al ritmo crescente e capriccioso
di una misteriosa "energia del vuoto", o "quintessenza". Come una molla che tende man mano
a scaricarsi e che renderà alla fine l'universo sempre più freddo, sempre più vuoto, sempre più
morto.
235
Meravigliosamente semplice. E' vero che al di là dell'ultimo trilionesimo di secondo la
termodinamica sembra invertirsi, che il moto delle particelle proviene dal calore e che
l'entropia sorge dal nulla, pardon dalla simmetria assoluta, ma Boltzmann o Darwin non
avrebbero niente di che rabbrividire: dopotutto che ne sapevano loro della radiazione "fossile"
a 2,7° K? Nella cornice convenzionale il botto primigenio precede la materia e la radiazione,
perché se fosse il contrario dovremmo poi spiegare come è nata la radiazione e la materia: e
perché cadere in questo rompicapo senza speranza quando basta una parolina magica (Big
Bang), un'invenzione alla lavagna più veloce della luce (inflazione) e le speculazioni di
Andrej Linde (multiverso a bolle) per riconciliare creazione ed eternità?
Le alternative e le controversie cosmologiche sono affidate sommariamente a Pippo
Battaglia, che in qualche pagina riesce a far dire ad Arp il contrario di quanto le osservazioni
di Arp richiedono. A p. 84 vi si legge: "Arp non nega l'espansione dell'universo - ?? - ma
soltanto che i redshift dei quasar associati alle galassie peculiari avrebbero lo stesso redshift
di queste, più un redshift di natura diversa". E' chiaro che Battaglia non conosce le
osservazioni di Arp ma ne ha soltanto sentito parlare ed è un ben triste destino che gli "eretici
del Big Bang" non siano accreditati nemmeno per le cose che realmente sostengono. Un
destino a cui sorprendentemente contribuisce la stessa Hack, quando a p. 31 accomuna Arp
nell'interpretazione alternativa della radiazione di fondo proposta da Hoyle, Burbidge,
Narlikar e Wickramashinge, per i quali l'osservata nebbia radio sarebbe provocata da aghi
ferrosi liberati nelle esplosioni di supernovae. La rigorosa Hack merita una rigorosa
precisazione che del resto Arp ripete da anni nei suoi introvabili libri e nei suoi articoli
professionali: "In the non-expanding universe an obvious, and much simpler, explanation for
the CBR is that we are simply seeing the temperature of the underlying extragalactic medium"
(Seeing Red, 1998, pp. 237).
Precisazione "macchinosa"? Per gli Autori dell'alfa e l'omega evidentemente sì. "Sappiamo"
che l'universo proviene dal Big Bang, che "è aperto, piano e in espansione all'infinito, e che
qualsiasi osservatore situato in una qualsiasi galassia è destinato a vedere un cielo sempre più
vuoto e sempre più nero…". Questo pianeta sarà pieno di conflitti e di lacerazioni ma per quel
che riguarda la conoscenza cosmica stiamo vivendo l'età dell'oro. O i casi di Arp sono tutte
illusioni ottiche o questo libro è sbagliato.
Origine e Fine dell'Universo
Margherita Hack, Pippo Battaglia,
Walter Ferreri
UTET, 2002, pp. 258, prezzo 18,50 €
(Alberto Bolognesi)
[Una presentazione dell'autore di questa recensione si trova nel numero 2 di
Episteme.]
[email protected]
236
Evoluzione senza selezione
Autoevoluzione di Forma e Funzione
(Antonio Lima-de-Faria)
(Nova Scripta Edizioni, Genova, 2003)
<<Forse, un giorno, il nostro tempo sarà chiamato era darwiniana, così come
noi parliamo dell'era newtoniana di due secoli fa. L'evoluzione, l'evoluzione,
questa semplice idea che non si ritiene più necessario esaminare, copre
come una tenda tutte le età che conducono dal primitivismo alla civiltà.
Gradualmente, ci viene detto, un passo dopo l'altro, gli uomini produssero le
arti e i mestieri, fecero questo e quello, finché non emersero alla luce della
storia. Questi soporiferi gradualmente e un passo dopo l'altro, ripetuti senza
tregua, mirano a nascondere un'ignoranza a un tempo vasta e sorprendente.
[...] Forse gli storici dei secoli futuri ci dichiareranno tutti pazzi per non aver
scoperto subito e confutato con la necessaria energia questa incredibile
cantonata>> (Giorgio de Santillana)
<<Quest'opera rivoluzionaria di biologia teoretica apre una profonda revisione dei concetti di
forma e funzione viventi, sintetizzando quaranta anni di ricerche e riflessioni. Valica i
consueti limiti epistemologici e disciplinari tra fisica, mineralogia, fitologia e zoologia, e sfida
apertamente il paradigma neo-darwiniano. Il rigore della discussione è bilanciato da
un'estrema chiarezza espositiva e da un corredo di immagini che, per la sua eccezionalità,
basta da solo a fare di questo libro un classico per la prima volta tradotto in lingua italiana>>.
237
<<Il Prof. Antonio Lima-de-Faria (Università di Lund, Svezia) svolge importanti ricerche nel
campo della simmetria e della citogenetica, e ha pubblicato oltre 180 studi, fra i quali il
fondamentale Molecular Evolution and Organization of the Chromosome (Elsevier, 1983). E'
stato il primo a realizzare la fusione fra una cellula umana ed una di origine vegetale.
Accademico dei Lincei, della Società Fisiografica di Svezia, dell'Accademia delle Scienze di
New York e di altre importanti Istituzioni internazionali, ha collaborato con le più importanti
Università del mondo. E' considerato il padre della genetica molecolare contemporanea>>.
Dopo aver estratto le precedenti informazioni da una presentazione ufficiale, e tenuto conto
dell'assoluta incompetenza dello scrivente in siffatte questioni, continuiamo a illustrare ai
lettori di Episteme quest'opera poderosa e coraggiosa (dato lo "spirito dei tempi") mediante
alcune considerazioni dell'editore, attivamente impegnato egli stesso in campo scientifico
(vedi in Episteme N. 6, Parte I, le notizie relative ad Anthropos & Iatria - Rivista Italiana di
Studi e Ricerche sulle Medicine Antropologiche e di Storia delle Medicine), giunteci tramite
comunicazione privata.
<<Si tratta di un'opera rivoluzionaria che apre una profonda revisione dei concetti biologici di
forma e funzione degli esseri viventi, sintetizzando quaranta anni di studi, di ricerche e di
riflessioni di uno dei pionieri e dei più rilevanti esponenti mondiali della citogenetica
molecolare. Il libro è già stato definito <<il più importante libro sull'evoluzione dei prossimi
cento anni>> e propone una radicale revisione del concetto di selezione naturale e formula un
approccio del tutto nuovo all'evoluzione biologica. Un nuovo paradigma con cui spiegare la
vita, fondato sulla forma, la funzione, la periodicità, anziché sui geni, sul caso e sulla teoria
della selezione naturale. La ricerca dell'Autore va infatti oltre le comuni acquisizioni in
materia, arrivando a considerare l'evoluzione dei viventi come la continuazione canalizzata di
quella del mondo fisico, la cui essenza è costituita dalla combinazione e dalla sovrapposizione
di un numero limitato di forme e funzioni iniziali. Questa importante opera, che ho appena
editato nella sua prima edizione italiana, ha richiesto anni di fatiche e di particolari attenzioni
e cure. Tradotto e curato dal Dott. Stefano Serafini con la supervisione del Prof. Giuseppe
Sermonti [vedi quanto se ne dice anche in questo numero di Episteme, nella sezione
"Pubblicazioni ricevute"] oltre ad essere un'opera fondamentale di biologia teoretica, ha
dimostrato di essere anche un vero e proprio <<caso>> di sociologia della scienza per le feroci
resistenze che ne hanno reso impervia la pubblicazione e la diffusione in area angloamericana
e soprattutto italiana. Ormai esaurito da anni nelle edizioni inglese, russa e giapponese,
quest'opera demolisce il dogma del paradigma neo-darwiniano e ridimensiona il ruolo del
gene nell'architettura del vivente. Senza alcun dubbio, questa geniale opera di Antonio Limade-Faria, che senza dubbio sarà destinata a suscitare accese discussioni nel mondo
accademico, rappresenta un evento scientifico, culturale e intellettuale di grandissima portata
per la comprensione non solo dell'evoluzionismo, ma di molti altri fenomeni che governano la
vita, le trasformazioni biologiche, l'organizzazione della materia e i livelli di complessità degli
organismi viventi>>.
Si sa bene come alle riserve sull'idea di "lente" trasformazioni attraverso cui si perviene a
giustificare tutta la complessità del vivente, si accompagnino invece (e più frequentemente)
incondizionati apprezzamenti, ad esempio quelli espressi in Charles Darwin geologo, di
Guido Chiesura (Hevelius Edizioni, Benevento, 2002), del quale testo riprendiamo una
presentazione apparsa in rete, anche perché sottolinea un aspetto meno conosciuto degli
interessi scientifici del creatore ufficiale della teoria dell'evoluzione, e una fonte di intuizione
inaspettata per le sue concezioni "trasformazioniste".
238
<<La storiografia scientifica ha descritto l'immagine di Darwin come quella del genio che ha
formulato la teoria detta evoluzionismo. Meno nota è la sua frequentazione della geologia;
egli ha scritto, tra l'altro, tre importanti opere geologiche nelle quali il mondo fisico viene
osservato e descritto nella sua dinamica lenta e continua. Lungo le coste del continente
sudamericano, sulle isole vulcaniche e negli atolli corallini degli oceani l'occhio attento del
giovane geologo legge gli eventi del passato. Il concepimento della teoria trasformista ha
bisogno dei tempi lunghissimi della geologia; se un continente può essere stato sollevato
dall'oceano e quindi nuovamente sprofondato in esso, se le vette delle Ande mostrano le rocce
che si sono formate in fondo al mare, un essere vivente, nella sua lotta per l'esistenza, può
mutare la sua forma e lentamente si trasforma in un altro>>.
Personalmente, ci appare assai bizzarro che la congettura ai nostri giorni maggiormente
accettata e divulgata sull'origine della vita possa far ritenere "sensate" affermazioni del tipo:
<<Circa 700 milioni di anni fa i vegetali escono dalle acque e si avventurano sulla
terraferma...>>, che si trovano in scritti divulgativi, e in testi destinati ai giovani studenti,
mah, confessiamo che ci sembra questo un altro dei casi in cui una controversia scientifica
rappresenta in realtà uno scontro tra "concezioni del mondo" rivali (cfr. anche quanto se ne
accenna nella successiva recensione del libro di Lucio Russo), sicché la specificazione relativa
alla scientificità del tema del contendere non coglie appieno l'essenza della situazione.
"Scienza" è oggi termine piuttosto abusato, ma dovrebbe comunque essere sempre riferito
(pena lo sconfinamento nel vago) a settori della conoscenza nei quali è rilevante l'aspetto
sperimentale (e pertanto "a posteriori") dei dati su cui si fondano le diverse teorie, mentre il
"principio" generale sotteso al darwinismo e ad altre "analoghe" ipotesi, può benissimo essere
concepito a priori, come prova palesemente l'argomentazione di Cyrano de Bergerac (1649)
che si trova riportata in http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/kauff.html (una pagina dedicata
a un commento delle tesi esposte da Stuart A. Kauffman in The Origins of Order - SelfOrganization and Selection in Evolution, Oxford University Press, 1993, un testo che ha
evidentemente a che fare con gli argomenti qui dibattuti, e su cui tra breve ritorneremo). A
ulteriore conferma, possiamo citare il sito anti-darwinista di un esponente della cultura
islamica, http://www.harunyahya.com/, nel quale è appunto contenuta una Refutation of
Darwinism, e ci sembra che nuovi spunti di riflessione in tale direzione siano offerti da Aldo
Mola (Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano,
1992): <<La vulgata dell'evoluzionismo divenne presto uno dei punti d'incontro di certi
massoni che, anche senz'avere una precisa cognizione dei contenuti scientifici del darwinismo
e delle sue possibili implicanze socio-politiche, dalle strenua lotta sostenuta dalla Chiesa di
Roma contro la sua diffusione e per la sua stessa provenienza dalla terra di Desaguliers ed
Anderson deducevano ch'esso fosse comunque un buon compagno di strada, se non verso la
Vera Luce almeno per dissipare le tenebre più fitte>>. Ben vengano dunque libri come questo
del Prof. Lima-de-Faria, che riportano la discussione sul terreno che dovrebbe esserle più
congeniale, e sono capaci di mostrare anche a dei "profani" (quale chi organizza, ripetiamo, la
presente "recensione") le eventuali debolezze della proposta di Darwin proprio nel suo campo
specifico. Questione che paradossalmente assume meno rilevanza di quanto ci si aspetterebbe
in quello che si suppone comunque un fair play, dal momento che si tratta alla radice di una
"nobile" giustificazione di concezioni del mondo oggi di grande successo (sia nell'economia
che nell'etica), sebbene antitetiche a un'intera tradizione che concepisce in ben altro modo il
ruolo dell'essere umano nell'avventura del manifestato; tali Weltanschauung non hanno infatti
alcun interesse a mettere in aperta discussione il loro "fondamento", a rischio di potersi
trovare poi indebolite. Allo scopo di far comprendere l'elevato valore della posta in gioco,
citiamo il darwinista James Rachels, che nel suo Creati dagli animali - Implicazioni morali
del darwinismo (Edizioni di Comunità, Milano, 1996), ammette francamente:
239
<<Così, sulla base del modo in cui il dibattito si è sviluppato, sembrano possibili solo due
soluzioni: la tesi fondamentalista che il darwinismo mini i valori tradizionali, e debba dunque
essere respinto; e la risposta evoluzionista secondo cui il darwinismo non costituisce affatto
una minaccia per tali valori. Quando le linee vengono tracciate in questo modo, risulta
difficile prendere sul serio la possibilità che la teoria di Darwin abbia conseguenze morali - e
in particolare l'idea che essa mini la moralità tradizionale - senza dar l'impressione di
schierarsi con i nemici dell'evoluzione [...] Si è così persa nella nebbia la possibilità di una
terza soluzione: che la teoria darwiniana sia incompatibile con la moralità tradizionale, e
fornisca dunque una ragione per respingere tale moralità e sostituirla con qualcosa di meglio
[...] La teoria di Darwin, se è corretta, riguarda questioni di fatto [...] Esiste una relazione tra
la teoria di Darwin e queste più ampie questioni, anche se si tratta di qualcosa di più
complesso di una semplice implicazione logica. Io argomenterò che la teoria di Darwin mina
in effetti i valori tradizionali. [...] Così, pur essendo un darwinista, difenderò una tesi cui gli
amici di Darwin si sono in genere opposti. Ma non assumerò, con i nemici di Darwin, che tali
implicazioni siano moralmente perniciose [...] La moralità tradizionale dipende dall'idea che
gli esseri umani si situino in una categoria etica particolare: dal punto di vista morale, la vita
umana ha un valore speciale e unico, mentre la vita non-umana ha relativamente poca
importanza [...] Ci si riferisce comunemente a ciò come alla dottrina della dignità umana. Ma
tale dottrina non esiste in un vacuum logico. Tradizionalmente, essa è stata suffragata in due
modi: innanzi tutto tramite l'idea che l'uomo sia fatto a immagine di Dio, e in secondo luogo,
tramite l'idea che l'uomo sia l'unico essere razionale [...] [Il darwinismo] mina tanto l'idea che
l'uomo sia fatto a immagine di Dio, quanto l'idea che l'uomo sia l'unico essere razionale [...] se
il darwinismo è corretto, è improbabile che si trovi un qualsiasi ulteriore sostegno per la
dottrina della dignità umana. Tale dottrina risulta pertanto essere l'emanazione morale di una
metafisica screditata>> (pp. 5 e segg.).
*****
Arricchiamo infine la presentazione di quest'opera offrendo per intero ai lettori la Prefazione
del Prof. Sergio Carrà (Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica "Giulio
Natta" del Politecnico di Milano, Accademico dei Lincei) che apre il volume, informando
soltanto che in essa si accenna a una concezione di moda (come di moda, e autorevole,
diventa oggi tutto ciò che proviene dal mondo dell'informatica, e dei computer), alla quale
abbiamo avanzato qualche critica nella pagina web dianzi menzionata, dedicata al lavoro di
Kauffman.
<<Sembra che Huxley abbia affermato che la cosa strana sulla teoria dell'evoluzione sia il
fatto che ciascuno ritiene di averla capita. Se ciò fosse vero non si giustificherebbero le
continue ed accese discussioni che vengono condotte su di essa e l'enorme numero di articoli e
libri che vengono continuamente pubblicati.
In una recente sintesi del darwinismo ortodosso, che si trova nel volume del filosofo Daniel
Dennett dal titolo emblematico: Darwin dangerous idea, viene illustrato come un processo
iterativo articolato sugli stadi complementari di mutazione e selezione possa giustificare
l'esistenza della molteplicità degli organismi che popolano la biosfera. Si tratta di un
meccanismo corrosivo che non offre scampo ad un'implacabile e continua trasformazione
degli organismi viventi. Tutto ciò in accordo ad un paradigma in base al quale le forme delle
strutture viventi possono essere attinte da un serbatoio di dimensioni infinite, che contiene
tutte quelle possibili, lasciando alla selezione il privilegio della scelta. Ad esempio S.J. Gould
nel suo libro dal titolo accattivante, Wonderful life, portando indietro l'orologio di quasi 600
milioni di anni ci offre uno stupefacente panorama della diversità presente nelle forme dei
fossili del periodo Cambriano.
240
Il determinismo genetico, attualmente predominante, rafforza ulteriormente tale impostazione
sfociando in un riduzionismo radicale, propagandato da Richard Dawkins, [The Blind
Watchmaker, Longman, Harlow, 1986] in base al quale le forze evolutive agiscono
unicamente sul gene mentre la sua espressione fisica, il fenotipo, si limita a veicolarlo. Non si
può negare che questo scenario abbia la capacità di coordinare i singoli fatti biologici in un
insieme coerente, apparentemente tetragono alle più valide obiezioni. E ciò anche se sfuggono
le ragioni in virtù delle quali dal materiale inorganico si siano formate delle cellule che a loro
volta si sono unite o coordinate in strutture dotate di un livello sempre più elevato di
organizzazione.
L'automatismo dei processi evolutivi esclude la presenza di un progresso che tenda ad un fine
ultimo della creazione che si identifichi ad esempio con l'uomo e con le creature che lo
circondano. A questa osservazione si può obbiettare che, senza appellarsi alle "cause finali"
della teleologia, la differenziazione e l'aumento di complessità che si riscontra nella articolata
gerarchia di strutture che presentano gli organismi viventi richiede una giustificazione che
vada al di là della semplice casualità.
In realtà la teoria dell'evoluzione tende a generare atteggiamenti manicheistici. Ad esempio
già dalla pubblicazione della Origine della specie, nel 1859, si è avviata una
controrivoluzione che successivamente si è coagulata in quella linea di pensiero nota come
Creazionismo che anche oggi, in una sua forma più moderna chiamata Intelligent Design,
raccoglie adepti e simpatizzanti fra sofisticati intellettuali, inclusi alcuni scienziati.
Purtroppo la dura reazione da parte del mondo scientifico ortodosso rischia di esorcizzare
anche coloro che, obbedendo semplicemente agli stimoli della curiosità intellettuale, osano
mettere in discussione il rigido determinismo evoluzionistico, dimenticando che non è
necessario essere cattolici integralisti per chiedersi come un organismo così complesso quale
un essere umano possa essere solamente il risultato di una successione di eventi casuali.
Sin dalla sua nascita la teoria dell'evoluzione ha generato uno scontro fra la scuola di pensiero
allora dominante, chiamata morfologia razionale, che cercava nelle leggi fisiche la
spiegazione della tendenza della natura a generare alcune particolari strutture, e quella che
individua nella selezione una adeguata spiegazione della loro esistenza. Con il passare del
tempo la seconda ha prevalso sulla prima.
La letteratura è ricca di esemplificazioni dalle quali appare che l'interazione fra le fluttuazioni
casuali dell'ambiente e le scelte condizionate dal filtro selettivo sia sufficiente per giustificare
la comparsa e scomparsa nel tempo delle molteplici specie viventi, anche se alcune di esse
appaiono come delle narrazioni avvincenti ma talora tautologiche poiché sembrano fabbricate
ad hoc. In sostanza la vita in tutti i suoi diversi e molteplici aspetti costituirebbe una
successione di contingenti colpi di fortuna, per cui allo scienziato resterebbe unicamente la
possibilità di annotare, per quanto sia possibile, gli eventi che si sono succeduti e raccontarne
la storia.
In realtà la morfologia razionale non è mai scomparsa del tutto ma è rimasta latente sino a
riemergere nel secolo scorso grazie ai lavori di biologi teorici, quali Conrad Waddington [The
strategy of the Genes, Allen and Unwin, London, 1957] e più recentemente Brian Goodwin,
["Structuralism in Biology", Science Progress (Oxford) 74 (1990), pp. 227-244; Development,
Hodder & Stoughton and The Open University, London, 1991] i quali ritengono che i fattori
che condizionano l'evoluzione delle forme biologiche siano riconducibili alle leggi della fisica
matematica e della chimica.
Questo atteggiamento trae convincimento dal fatto che l'osservazione delle forme naturali
rivela la presenza di alcune tipologie particolari, comuni ad oggetti inanimati e ad organismi
viventi, la cui formazione non può essere del tutto giustificata attraverso un meccanismo
selettivo. Questi problemi erano già stati pionieristicamente affrontati in modo sistematico
dallo zoologo scozzese D'Arcy Thompson ed esposti in un libro dal titolo On Growth and
Forni, pubblicato nel 1917. La sua influenza sul panorama culturale scientifico si è affermata
241
lentamente e solo oggi viene adeguatamente riconosciuta. Il punto di partenza della sua
indagine nasce dal presupposto che per interpretare i fenomeni naturali si debba applicare il
rasoio di Ockham facendo giustizia delle ipotesi non necessarie. E poiché è possibile
constatare, o dimostrare, che molte forme naturali incluse quelle biologiche, sono compatibili
con le leggi della chimica fisica non dovrebbe essere necessario ricorrere a meccanismi
alternativi.
D'Arcy Thompson era del tutto consapevole che tale impostazione lo avrebbe collocato ai
limiti dell'eresia poiché si opponeva esplicitamente a quel dogma selettivo che veniva
considerato dal convenzionale darwinismo come la risposta universale a tutti i problemi della
biologia. Attualmente egli dovrebbe combattere contro la più agguerrita forma moderna
dell'idea darwiniana, alimentata dalla genetica e dalla biologia molecolare.
In realtà l'opera di D'Arcy Thompson ha aperto un programma di ricerche che ha acquistato un
respiro sempre più ampio coinvolgendo matematici, fisici, chimici e biologi, inteso ad
approfondire la natura di quei processi di auto organizzazione che riflettono la capacità dei
sistemi termodinamici aperti ad evolversi spontaneamente, in determinate condizioni, verso
stati con un più elevato grado di organizzazione.
Dal punto di vista matematico esso ha preso l'avvio da un lavoro pionieristico di Alan Turing
del 1952, ["The chemical basis of morphogenesis", Philosophical Transactions of the RoyaI
Society, B 327 (1952), pp. 37-72.] che può essere considerato uno dei più importanti
contributi alla biologia teorica sino ad ora apparsi.
Il problema da lui affrontato è quello della morfogenesi, intesa ad interpretare il meccanismo
della formazione spontanea di strutture coerenti nel tempo e nello spazio. In particolare egli è
riuscito a dimostrare che esse si possono generare nei sistemi nei quali abbiano luogo
particolari reazioni chimiche la velocità delle quali è limitata dai processi diffusivi dei
reagenti e soggetti a ben definite condizioni dal contorno.
In questo quadro la formazione di modelli spaziali è dovuta a perturbazioni instabili che
promuovono trasformazioni verso stati con minore simmetria ma maggiore contenuto
organizzativo. I modelli matematici così elaborati offrono pertanto una descrizione
convincente dei processi nei quali emerge un ordine spaziale. E' allora legittimo chiedersi se i
risultati ottenuti da tali indagini possano avere una ricaduta sulla teoria dell'evoluzione poiché
sembrano indicare che la gamma delle variazioni a disposizione della selezione naturale non è
infinita, poiché i processi morfologici favoriscono lo sviluppo di particolari e ben definite
forme.
Gli studi sui processi di autorganizzazione hanno ormai acquistato una piena collocazione
nella scienza della complessità traendo vantaggio dalla affermazione di nuove metodologie
matematiche come quella degli automi cellulari e dallo sviluppo del calcolo elettronico. Ad
esempio nel centro di ricerche più avanzato nel settore, che si trova a Santa Fé, è stata
realizzata la simulazione dinamica di sistemi contenenti centinaia di reti interconnesse fra di
loro. Si è così constatato che di fronte alle illimitate possibilità finiscono per prevalere alcuni
comportamenti privilegiati.
In sostanza il comportamento dinamico della rete si assesta su un numero limitato di
particolari cicli, o attrattori, indipendentemente dalle condizioni iniziali. Se si trasferisce tale
risultato al comportamento dei genomi se ne può trarre la conclusione che essi non si limitino
a riflettere le pressioni dell'ambiente ma che possano anche generare mutamenti e strutture.
Nel libro menzionato Gould, dopo averci stupefatti con la descrizione di creature scomparse,
le cui forme sono del tutto aliene a quelle degli attuali organismi viventi, riconosce però che
l'esistenza di principi organizzatori renda inevitabile un particolare tipo di vita. E ciò anche se
trova molto difficile individuare il confine che demarca l'influenza delle leggi fisiche da quella
dei fattori ambientali specifici.
In sostanza anche se tutti hanno capito la teoria dell'evoluzione le ricerche in corso sui sistemi
complessi sembrano indicare che essa rimarrebbe incompleta se venissero del tutto ignorati i
242
fenomeni di auto organizzazione. Se viceversa si vogliono approfondire le relazioni fra auto
organizzazione e selezione naturale si presentano allora diverse opzioni di indagine fra le
quali meritano di essere considerate le seguenti:
•
•
•
•
•
la selezione e l'auto organizzazione non hanno nessuna relazione;
l'auto organizzazione svolge solo un'azione ausiliaria alla selezione;
l'auto organizzazione pone alla selezione dei vincoli che guidano i processi evolutivi;
la selezione è in grado di generare auto organizzazione;
la selezione e l'auto organizzazione sono aspetti di un unico processo.
Ciascuno degli aspetti precedenti ha un'ampiezza tale da poter ospitare posizioni teoriche in
competizione o intese a conciliare le due correnti di pensiero. Questi aspetti sono chiaramente
illustrati nel recente volume di D.J. Depew e B. H. Weber, Darwinism evolving.
Il professor Lima-de-Faria, scienziato di riconosciuta fama e convinto evoluzionista, ci offre
con questo volume un contributo personale alla teoria della evoluzione nel quale attraverso
una analisi puntigliosa e dettagliata di diversi fatti mette in profonda discussione il ruolo della
selezione naturale. La sua drastica posizione che rifiuta ogni compromesso dialettico fra
strutturalismo e selezione, ritenendola del tutto inutile, lo colloca però in una posizione isolata
nell'attuale panorama scientifico.
Pertanto non c'è alcun dubbio che quest'opera sia destinata a suscitare discussioni. Tuttavia
proprio per il suo contributo anticonformista essa merita un'attenzione libera da atteggiamenti
pregiudiziali, intesa ad evidenziare quegli spunti che possono contribuire al dibattito
menzionato>>.
*****
Chiudiamo riportando, come al solito, l'indice del volume, un oggetto che è particolarmente
pregiato anche sotto il puro profilo editoriale, assieme ad alcune sue caratteristiche tecniche.
Indice sintetico
Prefazione
Nota del curatore
Nota bio-bibliografica
Prefazione all'edizione italiana
Introduzione
Ringraziamenti
I. Non conosciamo il meccanismo dell'evoluzione
1. Il neo-darwinismo è d'ostacolo alla scoperta del meccanismo dell'evoluzione
2. Ascesa e declino del darwinismo e del neo-darwinismo
5. La base dell'autoevoluzionismo
II. Le tre evoluzioni che hanno preceduto e canalizzato l'evoluzione biologica
4. L'evoluzione autonoma delle particelle elementari
5. L'impronta fisica
6. L'evoluzione autonoma degli elementi chimici
7. L'impronta chimica
8. L'evoluzione autonoma dei minerali
9. L'isomorfismo e l'origine minerale della forma biologica
10. L'isofunzionalismo e l'origine minerale della funzione biologica
243
11. L'evoluzione della funzione
12. La canalizzazione minerale e l'evoluzione delle simmetrie
III. L'autoassemblaggio è la conseguenza visibile dell'autoevoluzione
13. L'autoassemblaggio delle particelle elementari, degli atomi, delle molecole e degli
organuli cellulari
14. L'autoassemblaggio delle cellule, degli organi e degli organismi
15. Autoassemblaggio e società: la comunicazione chimica e fisica nell'organismo
IV. Contrastare la costituzione originaria
16. Contrastare i componenti fisici e chimici
17. In che modo il gene, il cromosoma e la cellula contrastano l'ambiente e la morte
18. In che modo l'organismo, la specie e il phylum contrastano l'ambiente e la morte
V. I cambiamenti imposti dall'ambiente
19. Modificazioni causate da agenti fisici
20. Modificazioni causate da agenti chimici
21. Le trasformazioni acqua-aria
22. Fino a che punto l'ambiente e lo sviluppo modificano i geni
VI. Spiegazione dei "fatti enigmatici" dell'evoluzione mediante l'autoevoluzionismo
23. L'evoluzione dell'organismo è la simbiosi di molte evoluzioni autonome
24. L'adattamento spiegato con l'autoevoluzionismo
25. Il ruolo del gene e del cromosoma dal punto di vista dell'autoevoluzionismo
26. Le implicazioni dell'autoevoluzionismo per la sociobiologia
VII. Verso un periodo sperimentale nello studio dell'evoluzione
27. Non è la biologia che è da cambiare ma la fisica
28. I principi dell'autoevoluzionismo
29. Autoevoluzionismo contro neodarwinismo
Bibliografia
Indice analitico
Caratteristiche del libro - cm. 17 x 24 pagg. XLVIII + 456 interne in carta matt. da 115 gr.
stampa nero con 134 illustrazioni bianco e nero e 2250 voci di indice analitico. Copertina
cartonata rigida stampa a 5 colori e plastificazione esterna lucida, brossura: filo refe; peso kg.
1,400. Introduzione dell'Autore all'edizione italiana, prefazione del Prof. Sergio Carrà,
supervisione del Prof. Giuseppe Sermonti, a cura e traduzione del Dr. Stefano Serafini.
Codice ISBN 88-88251-05-01 - Euro 45,00
(UB)
244
Flussi e riflussi
Indagine sull'origine di una teoria scientifica
(Lucio Russo)
(Feltrinelli, Milano, 2003)
<<Salomon saith: There is no new thing upon the earth. So that as
Plato had an imagination, that all knowledge was but remembrance; so
Salomon giveth his sentence, that all novelty is but oblivion>>
(Francis Bacon; Jorge Luis Borges)
<<Questo libro ricostruisce per la prima volta nella sua interezza la storia della scoperta della
teoria astronomica delle maree. Si tratta di un caso esemplare di mancata trasmissione delle
conoscenze, dovuto in gran parte a una comunità scientifica - quella romana e medievale che, sotto l'influsso di una cultura dominante avversa, aveva finito col perdere le capacità di
padroneggiare certi risultati scientifici. Oggi nei manuali standard la prima formulazione della
teoria viene attribuita a Newton, che ne diede la versione completa nei Principia
Mathematica, unitamente alle leggi sulla gravitazione universale. Questa attribuzione però è
inesatta, come dimostra Lucio Russo, non solo perché vi avevano contribuito molti altri
studiosi, ma soprattutto perché già nella Grecia ellenistica, Eratostene e Seleuco, basandosi su
una serie di osservazioni rese possibili dall'espandersi delle esplorazioni navali, ne avevano
dato una descrizione completa e "moderna". Ci troviamo dunque in presenza di una vicenda
ricca di spunti di riflessione. Paradigmatico è il modo in cui la teoria greca era caduta
nell'oblio, sopravvivendo in maniera frammentaria e dispersa. Paradigmatico il modo in cui da
245
questi frammenti sparsi fu poi possibile rigenerarla. Paradigmatico il modo in cui più
personalità vi lavorarono, aggiungendo tassello a tassello. La ricostruzione di Russo è
condotta attraverso l'esame di documenti originali e indiziari, incrociando testimonianze
provenienti da ambiti diversi, con un metodo quasi "poliziesco" che partendo dal
diciassettesimo secolo ripercorre a ritroso la vicenda fino alle sue lontane origini nel secondo
e terzo secolo a.C.>> (dalla quarta di copertina).
E' con vivo piacere che invitiamo i lettori di Episteme alla lettura di questo "piccolo" libro
(soltanto 152 pagine), ciò nonostante molto denso di contenuto, che riprende in un certo senso
il discorso iniziato in La rivoluzione dimenticata. La presentazione sopra riportata, estratta
dall'opera stessa, illustra sinteticamente ma chiaramente la tesi generale di Russo: la scienza
ellenistica era pervenuta a costruire una serie di teorie scientifiche del tutto "moderne", che
sono state successivamente "dimenticate", sia per il progressivo stabilirsi di una "concezione
del mondo" <<avversa>>, sia per la loro oggettiva "complessità", che le ha rese di difficile
comprensione e tradizione per una cultura decisamente decaduta nell'ambito scientifico,
capace quindi di lasciarne unicamente tracce, indizi, per lo più in scritti non appositamente
dedicati a siffatti argomenti. L'attenzione dell'autore si punta stavolta in modo specifico sul
tema delle maree, ma non solo di esso ovviamente si tratta, a ragione del suo collegamento
con la cosiddetta "rivoluzione astronomica", ovvero con il problema dell'eliocentrismo, e di
un'adeguata corrispondente "teoria della gravitazione" (si rammenti che non a caso Galileo
inserisce la discussione sulle maree nell'ultima parte del suo celebre Dialogo..., quale
possibile "prova" del moto reale della Terra: <<il medesimo flusso e reflusso [del mare]
comparisca a confermare la terrestre mobilità>>).
Le conclusioni "epistemologiche" a cui giunge Russo sono senz'altro non comuni, rispetto alla
vulgata corrente. Riportiamo integralmente a mo' d'esempio un passo che ci sembra
particolarmente significativo (dalle pp. 105-107).
<<Nella più autorevole enciclopedia sull'antichità classica [Otto Eduard Neugebauer, A History of
Ancient Mathematical Astronomy, p. 697.] si considera poco credibile l'esistenza del moto di
rivoluzione della Terra, poiché per verificare gli effetti dei moti della Terra sulla posizione
apparente delle stelle fisse occorre una precisione nelle misure angolari che in epoca moderna
fu raggiunta solo nel XIX secolo (la prima misura di parallasse stellare fu realizzata da Bessel
nel 1837). L'argomento merita una confutazione. Possiamo certamente escludere che all'epoca
di Seleuco fossero eseguite misure precise quanto quelle di Bessel. La convinzione che la sola
vera prova dell'eliocentrismo sia quella basata sullo spostamento apparente delle stelle è però
doppiamente singolare. Notiamo innanzitutto che si riesce così a escludere la possibilità che
l'argomento di Seleuco fosse scientifico al prezzo di estendere l'esclusione non solo
all'eliocentrisino di Copernico, Galileo e Keplero (il che è probabilmente condivisibile) e a
quello di Newton e Halley (il che è già più difficile da concedere), ma anche alla meccanica
celeste di Laplace. In breve, occorre respingere nel limbo della non scientificità buona parte
della meccanica e dell'astronomia dell'età moderna. [Nota nel testo: La tendenza a restringere la
"scientificità" alle verifiche basate su misure di precisione, escludendone gli argomenti teorici, è poco
conosciuta tra gli scienziati, ma sembra diffusa tra i classicisti. Anche in [Perilli], per esempio, si
afferma che i moti della Terra furono dimostrati scientificamente solo nel 1837.] Inoltre non si
capisce perché la constatazione del moto apparente delle stelle fisse dovrebbe implicare
logicamente il moto della Terra. Chi rifiuta la meccanica celeste, non considerandola
sufficientemente provata, può anche attribuire realmente il moto osservato alle stelle.
Naturalmente l'ipotesi eliocentrica spiega i moti apparenti delle stelle fisse (osservati da
Bessel nel caso di una sola stella) in modo più semplice, ma esattamente lo stesso argomento
di semplicità può essere usato a favore dell'ipotesi di Aristarco di Samo, che aveva dedotto le
246
retrogradazioni dei vari pianeti dall'ipotesi di un solo moto della Terra. La prima "prova
scientifica" dei moti della Terra, che si vorrebbe spostare dall'epoca di Newton al 1837,
dovrebbe quindi, per la stessa ragione, essere retrodatata da Seleuco ad Aristarco. Affermare,
come Seleuco, che veramente il Sole è fisso e la Terra è in moto equivale a sostenere che le
retrogradazioni planetarie non solo scompaiono nell'ipotesi che il Sole sia fermo, ma
realmente non esistono. Poiché il carattere apparente di stazioni e retrogradazioni è ripetuto da
diverse fonti latine pretolemaiche e in particolare da Plinio, Lucrezio e Seneca, dobbiamo
dedurne che il passaggio dall'eliocentrismo cinematico di Aristarco all'affermazione della sua
realtà fisica, lungi dall'essere stata un'idea isolata, fosse stato largamente condiviso>>.
Poco dopo si aggiunge (p. 125):
<<Il quadro emerso dalla nostra indagine può apparire molto deprimente. Abbiamo visto
scienziati che per secoli hanno continuato a travasare affermazioni da un libro all'altro,
tentativi di interpretare antichi testi contrabbandati per intuizioni originali, storici della
scienza che ne nascondono la storia e molte altre umane debolezze. Forse non si tratta di
fenomeni che riguardano solo le teorie delle maree. La scienza è un'attività umana come le
altre, dovuta a uomini costituzionalmente non diversi da quelli che si occupano di agricoltura,
commercio o guerra. Abbiamo scoperto da tempo che la storia non è l'opera di eroi. Che la
scienza non sia prodotta da geni?>>.
Il ragionamento dell'autore appare in effetti più che fondato, anche se non del tutto scontato ci
sembra pervenire, pur accettate le stesse premesse, al medesimo approdo concettuale.
Tornando infatti all'alternativa proposta come "paradossale", <<occorre respingere nel limbo
della non scientificità buona parte della meccanica e dell'astronomia dell'età moderna>>, la
domanda che diventa d'obbligo è: e perché no?, almeno se si intende il concetto di
"scientificità" ristretto a una prevalenza di dati sperimentali nei confronti di quelli teorici.
Perché non ammettere che si sono contrabbandate a lungo quali assolute certezze (per
esempio del tipo che una mela quando si stacca dal ramo cade al suolo, e non si leva verso il
cielo), teorie che invece avevano ancora bisogno di conferme osservative prima di essere date
per sicure? (negli ovvi limiti poi in cui un "giudizio sintetico a posteriori" può offrire
certezza).
In altre parole, è nostra opinione che al complesso di ragioni raccolte dall'autore potrebbe
darsi anche un'interpretazione diversa, seppure ancora più "scandalosa" per l'orgoglioso
pensiero scientifico moderno: trattandosi di controversie su questioni di fatto, solo argomenti
di fatto possono convincere in maniera definitiva di una "congettura" rispetto a un'altra, e in
campo astronomico per lungo tempo unicamente di fronte a congetture, ancorché
"ragionevoli", ci si è trovati ad accapigliarsi. Più precisamente, essendo i dati a disposizione
delle parti sempre gli stessi, e niente affatto decisivi (come fa al contrario ritenere la
successiva storia apologetica della scienza, che conduce a inquadrare semplicisticamente lo
sconfitto nella categoria dell'"irragionevole"), il dibattito verteva piuttosto sulla loro
interpretazione, occultando sotto il manto della "scientificità" ciò che era invece
sostanzialmente uno scontro tra diverse Weltanschauung. In conformità a quanto abbiamo
spiegato (con Laila Rossi) in Episteme N. 4, "La scienza come strumento ideologico - Il caso
Galilei e la falsificazione della cosmologia tolemaica", (e ribadito in:
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/profilo3.doc, soprattutto nel punto 3-2-11), per
arrivare a talune conclusioni non basta che le teorie di Newton e di Laplace siano espresse in
una forma rigorosamente matematica (veste che è propria per esempio anche della teoria della
relatività, sulla quale abbiamo pure da queste pagine spesso sollevato qualche dubbio sotto il
profilo della "verità", ovvero della sua corrispondenza al reale), né basta il loro accordo con
247
le osservazioni dei moti celesti effettuate esclusivamente dalla Terra (proprietà che era
condivisa anche da altri "sistemi", come quello di Tycho Brahe). Per poter asserire con
assoluta cogenza erga omnes che le retrogradazioni planetarie sono un fenomeno solo
"apparente" (dal punto di vista cioè di un abitante del nostro pianeta), ossia che dal punto di
vista del Sole esse letteralmente non esistono, bisognerebbe andare a guardare da lì, o
conoscere con una notevole precisione delle distanze relative, impresa che fino all'avvento di
un certo progresso tecnologico non era possibile di realizzare.
Ci sembra interessante sottolineare inoltre un curioso fenomeno "epistemologico", che attira
giustamente l'attenzione dell'autore, ossia la circostanza che la confutazione di una delle
obiezioni principali contro la teoria eliocentrica, vale a dire la non rilevazione di una
parallasse stellare annua (la "scoperta" di Bessel non rappresenta nulla di diverso da ciò), si
tramuti ipso facto in un argomento a favore della teoria eliocentrica. Come osserva bene
Russo, <<chi rifiuta la meccanica celeste, non considerandola sufficientemente provata, può
anche attribuire realmente il moto osservato alle stelle>>.
Non possiamo per completezza (e per adesione personale alla "fisica cartesiana") passare sotto
silenzio il fatto che una simile argomentazione potrebbe ripetersi nei confronti dell'altra
famosa obiezione all'ipotesi di un moto reale della terra: ma se la Terra si "muove", perché
non si avvertono effetti di tale movimento? Ad essa si è risposto ab initio proponendo il
"principio di relatività" quale una delle principali leggi della natura, espediente che riteniamo
però insoddisfacente per almeno due motivi. Il primo rimanda direttamente alla posizione
ingiustamente sottovalutata di Cartesio (N. 19, Parte III, dei suoi Principia Philosophiae):
<<io nego il movimento della Terra con più cura di Copernico e più verità di Tycho>>. Il
secondo, che la rotazione diurna avrebbe dovuto in ogni caso avvertirsi, ciò che si è ben
constatato a posteriori (dal pendolo di Foucault ad altre esperienze, anche elettromagnetiche,
come il test di Michelson-Gale), e se non appare così all'esperienza "comune" è solo per una
coincidenza quantitativa, ossia perché la relativa accelerazione centrifuga è ben minore
dell'accelerazione di gravità centripeta (ma se la Terra avesse densità inferiore all'attuale, pur
continuando a ruotare alla stessa velocità, il movimento si sentirebbe eccome).
Riassumendo, ci sembra che dal Seicento (almeno) a oggi ci sia stata sempre eccessiva "fretta"
nell'accettare determinate teorie (il caso della relatività einsteiniana versus concezioni di tipo
meccanico-eteristico dello spazio fisico è paradigmatico), e ridicolizzare, cancellare, differenti
alternative, fretta che si può immaginare non generata esclusivamente da umane intrinseche
"debolezze", ma pure da finalità che potrebbero non impropriamente definirsi "ideologiche", il
che giustifica più che ampiamente l'osservazione dell'autore (il quale però si colloca
palesemente su un piano interpretativo diverso da quello qui per sommi capi delineato) che
abbiamo voluto scegliere come "motto" per questo numero di Episteme.
[L'occasione si presta a una precisazione, di fronte a un fraintendimento che notiamo spesso
dalla corrispondenza che riceviamo, quasi che una "difesa" delle tesi sostenute dagli sconfitti
significasse solidarietà ideologica con essi, e dissenso sulle motivazioni dei loro avversari.
Ribadiamo allora che la lotta contro le mitologie giudaico-cristiane, e la relativa incarnazione
storica più rilevante nel potere spirituale e temporale della Chiesa romana, ci appare degna
di apprezzamento, allo stesso modo che encomiabile giudichiamo l'attività delle persone che
contribuirono all'avvento di una rivoluzione che potremmo dire forse oggi "tradita". Pensiamo
però che sarebbe stata preferibile, e più coraggiosa, ancorché probabilmente impraticabile
con successo sul piano concreto, una contrapposizione diretta, senza stare a scomodare il
povero Tolomeo, o argomentazioni scientifiche di incerta solidità - per non parlare del fatto
che una tale dissociazione sarebbe stata a distanza di secoli più efficace, dal momento che
ai nostri giorni si assiste per esempio al ritorno sulla scena di affermazioni di "compatibilità",
248
e di richiami alla necessità di una "conversione" addirittura quale unica condizione per la
salvaguardia della "pace nel mondo", fenomeni inquietanti per ciascun "rivoluzionario"
cultore della "ragione" (ahinoi, bisogna essere rivoluzionari per asserire la semplice
supremazia dell'onestà e del "buon senso"?)...]
Tenuto conto dei particolari interessi di chi redige questa breve (e sicuramente incompleta)
presentazione, si ritiene doveroso un cenno anche all'importanza delle maree in relazione alla
scoperta dell'America, di cui Russo si occupa in alcune pagine del suo lavoro (pp. 70-72). Di
maree si tratta infatti diffusamente in America: una rotta templare, citando tra l'altro un brano
di Raimondo Lullo, considerato cruciale nella "genesi della grande scoperta": <<La principale
causa del flusso e del riflusso del Mar Grande o del Mar d'Inghilterra è l'arco dell'acqua del
mare che a ponente appoggia o confina in una terra opposta alle coste dell'Inghilterra, Francia,
Spagna e di tutta la confinante Africa, nella quale gli occhi nostri vedono il flusso e riflusso
delle acque perché l'arco che forma l'acqua come corpo sferico è naturale che abbia appoggi
(confini) opposti su cui posare, poiché altrimenti non potrebbe sostenersi. Per conseguenza,
così come in questa parte appoggia sul nostro continente, che vediamo e conosciamo, nella
parte opposta di ponente appoggia sull'altro continente che non vediamo e non conosciamo
fino ad oggi; però per mezzo della vera filosofia, che riconosce ed osserva mediante i sensi la
sfericità dell'acqua ed il conseguente flusso e riflusso, il quale necessariamente esige due
sponde opposte che contengano l'acqua tanto movimentata e siano i piedistalli del suo arco, si
inferisce logicamente che nella parte occidentale esiste un continente nel quale l'acqua mossa
va ad urtare così come rispettivamente urta nella nostra parte orientale>> (Quodlibeta,
Questione 154, Tomo IV).
Nel menzionato saggio del 1995 (in cui sono inseriti alcuni calcoli espliciti per dimostrare che
Colombo sarebbe potuto anche pervenire a una stima ragionevole della distanza del
"continente sconosciuto" di Lullo, tramite appunto un confronto tra le maree atlantiche e
quelle del mare Mediterraneo), si esprimeva sostanzialmente la convinzione, dovuta
all'insufficienza delle informazioni in possesso dello scrivente, che si fosse in presenza di
acquisizioni teoriche originali tardo-medievali, da ricondurre a un ben preciso ambiente
scientifico, lo stesso che successivamente animò il Centro di Sagres di Enrico il Navigatore. A
sorpresa Russo ci rende invece edotti che si trattava in realtà di una semplice ripresa di
concetti già noti alla scienza ellenistica, il che rafforza e non diminuisce la prospettiva storica
generale allora abbozzata, riproponendo tra l'altro (ma non è questo ovviamente l'unico
spunto) l'importante questione relativa a quali siano state davvero le "culle di conservazione"
di certe antiche conoscenze scientifiche, e del ruolo della comunità ebraica in tale
mantenimento, e riutilizzazione. Possiamo esclamare, peccato che una persona di così vasta
cultura classica e scientifica non si sia occupata di questo aspetto del problema, dedicando al
"Medioevo" soltanto poche pagine di sfuggita.
A beneficio dei lettori, che si spera vorranno approfondire la problematica direttamente sul
testo in oggetto, riportiamo ancora qualche passo estratto da esso (pp. 70-71). Prima di tutto
Russo cita Strabone, il quale chiama in causa Ipparco e Seleuco, sostenitori della teoria che
con il senno di poi si dimostrerà corretta, ma solo per confutarli:
<<Ipparco non è convincente quando afferma contro questa opinione [che l'oceano sia un
unico mare continuo] che né l'oceano subisce del tutto le stesse trasformazioni né, ciò
concesso, ne seguirebbe che l'Atlantico sia tutto continuo in cerchio, chiamando a testimone
dell'andamento non uniforme [dell'oceano] Seleuco di Babilonia>>.
L'autore così prosegue:
249
<<[...] scientificamente Strabone ha con Ipparco (e probabilmente anche con Seleuco) il
rapporto di un nano con un gigante. [...] In questo caso la testimonianza è tuttavia molto
interessante, per varie ragioni. Innanzitutto ci comunica che l'attendibilità delle ricerche di
Seleuco di Babilonia sulle maree non era posta in dubbio dal massimo astronomo
dell'antichità, Ipparco, e un simile avallo costringe anche noi a considerarle molto seriamente.
Inoltre il passo di Strabone dimostra che lo stesso Ipparco aveva toccato il tema nelle sue
opere: un dettaglio che varrà la pena ricordare più avanti. Ovviamente se in epoca ellenistica
fosse stata elaborata una teoria astronomica delle maree, Ipparco, che è al tempo stesso il
massimo e ultimo astronomo e geografo del periodo, non sarebbe potuto rimanerne all'oscuro.
[...] Ipparco, poiché, sulla base dei dati di Seleuco, sapeva che le maree dei due oceani sono
notevolmente diverse (in particolare perché le disuguaglianze diurne, vistose nell'oceano
Indiano, non sono visibili nell'Atlantico) ne aveva dedotto l'esistenza di quella che noi
chiamiamo America>>.
Concludiamo riportando, come nostra consuetudine, l'indice dell'opera di Lucio Russo,
insieme a qualche informazione biografica sull'autore.
Indice
Prologo
1. Un precedente: il caso della forma della Terra
Antiche idee sulla Terra e la gravità
Fossilizzazione delle conoscenze
Modelli che salvano i fenomeni (e loro frammenti)
2. Le maree
I fenomeni da salvare
Le maree nella storia della scienza
3. Alcune idee pre-newtoniane
Prima di Newton nulla?
Antichità e Medioevo
Qualche scienziato della prima età moderna
4. Due teorie contrapposte
Galileo e la teoria cinetica
Un arcivescovo dannato e la teoria luni-solare
5. Cercando l'origine della teoria luni-solare
Lezioni di medicina e astrologia a Padova
L'ambigua fortuna della teoria luni-solare
Un confronto tra i trattati veneti
de Dominis salva un fenomeno che ignora
Incontriamo Seleuco di Babilonia
Sulla perdita delle conoscenze
6. La teoria luni-solare nella scienza vera
Le maree tra Grecia classica ed Ellenismo
Eratostene dissente da Archimede
250
Seleuco, Ipparco e l'esistenza dell'America
Strabone riferisce su Posidonio
La testimonianza di Plinio
In Persia, alla corte di Cosroe I
7. Cercando l'origine della teoria cinetica
Galileo e de Dominis avevano un amico in comune
Un umanista eclettico e un botanico aristotelico
Ci s'imbatte dì nuovo in Seleuco
8. Sulle tracce di Seleuco di Babilonia
Evoluzione dello idee sulla gravità nella scienza greca
Eliocentrismo dinamico e gravitazione
La prova di Seleuco dell'eliocentrismo
L'analogia della fionda e le maree
9. Verso Newton e oltre
Rivisitando la teoria di Galileo
Un copernicano estremista
John Wallis e il moto attorno al baricentro
Gravità e forza centrifuga
Un puzzle che si ricompone
Dopo Newton
Epilogo
Quadro cronologico
Indice delle fonti
Abbreviazioni bibliografiche
Indice dei nomi
Lucio Russo (Venezia 1944) insegna Calcolo delle probabilità all'Università Tor Vergata di
Roma. Con Feltrinelli ha pubblicato: La rivoluzione dimenticata - Il pensiero scientifico
greco e la scienza moderna (1996, finalista premio Viareggio per la saggistica 1997);
Segmenti e bastoncini (1998); Dove sta andando la scuola? (1998, opera che ha dato inizio a
un ampio dibattito sulla riforma scolastica).
(UB)
251
Il prossimo numero di Episteme...
Nel prossimo, speriamo sempre interessante, fascicolo della rivista (che sarà
probabilmente aperto in rete alquanto presto, diciamo intorno alle prime
settimane di marzo 2004) ci occuperemo tra l'altro di:
- Apologia della modernità (Franco Baldini)
- L'Arduo, un esperimento italiano di una "rivista di scienza - filosofia e storia",
1921-1923 (a cura di Umberto Bartocci)
- De Mysteriis - Iniziazione virtuale ed iniziazione effettiva (Bruno d'Ausser
Berrau)
- Il Disco di Festo - Un calcolatore vecchio di 4000 anni (Rosario Vieni)
- Kurt Godel : un relativista incompleto (Luca Umena)
- I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo (Umberto
Bartocci)
- Le secret de Virgile et l'architecture des Bucoliques (un articolo di Paul Maury
riproposto e commentato da Bruno d'Ausser Berrau)

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