Walter Lapini L`EPITALAMIO PER GLAUCE

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Walter Lapini L`EPITALAMIO PER GLAUCE
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Walter Lapini
L’EPITALAMIO PER GLAUCE NELLA MEDEA DI DREYER*
Il film Medea del maestro danese Carl Theodor Dreyer1 non fu mai realizzato, ma
in compenso ne ispirò altri due, quello di Pier Paolo Pasolini e quello di Lars von
Trier2. Del lavoro di Dreyer, risalente agli anni Sessanta, non resta oggi che la sceneggiatura, redatta in collaborazione con Preben Thomsen e indi tradotta in inglese
da Elsa Gress fra il 1966 e il 19673. In questa sceneggiatura, per lo più nota semplicemente con il nome di Scenario, il solco euripideo è seguito solo all’ingrosso, ma
non poi così liberamente come verrebbe fatto di credere leggendo l’asciutta nota
prefatoria della Gress4. Un esempio di questa fedeltà può essere il fatto che Dreyer
non volle eliminare dal copione euripideo neppure la scena dell’incontro Medea/Egeo
(vv. 663-763), una scena “inutile”, scollata, contraddittoria, e che da sempre5 fa
discutere gli interpreti per la sua vera o presunta incapacità di svolgere un ruolo
significativo nell’economia dell’intreccio. In realtà la scena è tutt’altro che gratuita,
anzi costituisce per così dire la ”parabasi” del dramma, il punto in cui il poeta cerca
di indirettamente delineare le condizioni che avrebbero consentito a Medea di mettere
in atto una vendetta giusta e di guadagnarsi così la legittima protezione di Egeo6. Ma
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Un affettuoso ringraziamento all’amica Margherita Rubino.
Biografia e filmografia in P. Tone, Carl Theodor Dreyer, Firenze 1978, e soprattutto M. Drouzy,
Carl Th. Dreyer nato Nilsson, trad. it. Milano 1990 (Paris 1982).
2 I rapporti fra questi autori sono stati finemente analizzati nel volume Medea contemporanea di M.
Rubino e di C. Degregori (Genova 2002). Sul tema delle riscritture della Medea si vedano B.
Gentili-F. Perusino (edd.), Medea nella letteratura e nell’arte, Venezia 2000; P. M. Filippi, Le
riscritture infinite di un mito. La Medea di Franz Grillparzer e la Medea di Christa Wolf, «Atti
dell’Acc. Roveretana degli Agiati», classe di sc. umane, classe di lettere ed arti, serie VIII 2 A, 252,
2002, pp. 169-179 (che non ho personalmente consultato); A. López-A. Pociña (edd.), Medeas.
Versiones de un mito desde Grecia hasta hoy, due voll., Grenada 2002; A. López, Una Medea en el
tercero milenio: Medea en Corinto de Luz Pozo Garza, in: F. De Martino-C. Morenilla (edd.), El
teatre clàssic al marc de la cultura grega ila seva pervivència dins la cultura occidental, Bari 2004,
pp. 347-372; D. Mimoso-Ruiz, Médée antique et moderne. Aspects rituels et socio-politiques d’un
mythe, Paris 1982; P. Radici Colace-A. Zumbo, La riscrittura e il teatro dall’antico al moderno e
dai testi alla scena, Messina 2004. Ma la letteratura su questo tema è vastissima e i testi che ho
appena citato non la esauriscono affatto.
3 L’editio princeps è in J. Jensen, Carl Theodor Dreyer, New York 1988, pp. 79-92; è ora disponibile la traduzione italiana a cura di V. Merler, Medea: filmografia ultima e inedita, diss. Genova
2004.
4 Translator’s Notes, pp. 80-81.
5 Già Aristot. Poet. 1461b-20-21 protestava contro questo episodio, il terzo del dramma.
6 Per questi temi mi permetto di rimandare ad un mio contributo Persecuzione e rivincita nelle
eroine del teatro greco, in: M. Chiabò-F. Doglio (edd.), Romanzesche avventure di donne
perseguitate nei drammi fra Quattro- e Cinquecento, Atti del XXVIII Convegno Internazionale del
Centro Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale, Roma 2005, pp. 13-24, in cui ho delineato
anche un breve stato della questione. La mia idea è che in questa scena Euripide dia le informazioni
necessarie per cogliere la struttura morale della Medea. Il metro del giusto e dell’ingiusto è come
sempre Atene e/o il personaggio ateniese, che qui è Egeo; per capire che cosa è bene e male in
tragedia c’è una regola infallibile: cherchez l’Athénien. Sulla scena di Egeo si veda ora, uscito nel
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questi sottintesi, tanto difficili da cogliere quanto inesorabilmente legati al particolare
contesto etico-politico dei tempi di Euripide, possono riscuotere ben scarso interesse
presso il moderno uomo di cinema, agli occhi del quale i vv. 663ss. della Vorlage
euripidea appariranno per forza come una zavorra di cui è consigliabile sbarazzarsi.
Invece il probo Dreyer e il probo Thomsen decisero di includere nel copione anche
questa – presumibilmente per loro indecifrabile – scena. Una scena che, si noti, anche
Seneca aveva cassato.
Ma non è di questo che vorrei trattare nella presente noterella, bensì di un interessante e fin qui ignorato problema di Quellenforschung che si ravvisa a p. 84 dello
Scenario dreyeriano, dove, giunta notizia che il matrimonio fra Giasone e Glauce è
stato finalmente celebrato, un gruppo di invitati avvia una danza lasciva, «erotically
colored», come dice la didascalia a p. 84, dopodiché due semicori intonano, a guisa di
epitalamio, un’odelette di dieci brevissimi versi in cui vengono celebrate le grazie
della novella sposa (p. 84):
Chorus of Women
Glauce,
your eyes are like Hera’s,
your hands like Athena’s,
your breasts like those of the goddess of Love, Aphrodite’s,
Glauce, your feet are like Thetis’s feet.
Chorus of Men
Happy the man
whose eyes behold you,
threefold happy he who hears your voice.
A demigod he who kisses your lips,
and a god the man whom you receive on your bridal bed.
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Ciò che vorrei segnalare è che questi versi non sono stati né presi dalla Medea di
Euripide né inventati di sana pianta da Dreyer e Thomsen; essi sono stati invece
ricavati, impensabilmente, da un epigramma di Rufino (AP 5.94) in cui una fanciulla
di nome Melite viene alloquita in questo modo:
o[mmat∆ e[cei" ”Hrh", Melivth, ta;" cei'ra" ∆Aqhvnh",
tou;" mazou;" Pafivh", ta; sfura; th'" Qevtido".
eujdaivmwn oJ blevpwn se, trisovlbio" o{sti" ajkouvei,
hJmivqeo" d∆ oJ filw'n, ajqavnato" d∆ oJ gamw'n.
novembre 2005, il contributo di M. Davies, New Light in the Aegeus Episode in Euripides’ Medea,
«Prometheus», 31 (2005), pp. 151-156.
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Hai gli occhi di Era, Melite, e le mani di Atena,
il seno di Afrodite e le caviglie di Teti.
Beato chi ti guarda, tre volte di più chi ti ascolta,
un semidio chi ti ama, un dio chi ti possiede7.
Come si vede da un confronto anche cursorio, Dreyer/Thomsen non si sono
limitati a ispirarsi a questi versi di Rufino, ma li hanno tradotti di peso; il primo
distico viene cantato dal coro femminile, il secondo da quello maschile; gli otto
emistichi dell’originale vengono fatti corrispondere a otto versicoli indipendenti, che
diventano dieci grazie all’isolata Anrede a Glauce e allo smembramento di eujdaivmwn
oJ blevpwn (v. 3) in due cola distinti. Come sempre nelle traduzioni inerziali, così
anche qui succede che alcuni elementi dell’epigramma rufiniano, travasati in un
nuovo contesto, si impoveriscano e si svuotino, molto perdendo della loro
funzionalità originaria. È il caso ad esempio di «your hands like Athena’s» (v. 3), il
cui evidente senso (evidente in quanto nel passo dreyeriano l’unico oggetto di lode è
l’avvenenza della sposa) è che le mani di Glauce sono belle. Poiché però dal mito
antico non risulta che le mani di Atena fossero di particolare bellezza, l’immagine
che ne esce è goffa e poco pertinente. Non così in Rufino, dove, il tema essendo
l’esaltazione dell’arete della donna nella totalità dei suoi aspetti, le “mani di Atena”
(v. 1) indicano del tutto appropriatamente l’abilità nel lavorare al telaio.
Non c’è dubbio dunque che Dreyer e Thomsen attinsero direttamente all’epigramma di Rufino, limitandosi a cambiare “Melite” in “Glauce”e lasciando uguale tutto il
resto. Ma come poterono i due imbattersi in questo testo così fuori mano, così
distante da Euripide? Thomsen era un poeta, e non è impensabile che avesse una
certa confidenza con l’Antologia Palatina e in particolare con il libro quinto, di gran
lunga il più celebre; né è impensabile che proprio nella Palatina egli si inducesse a
cercare un modello di «bridal hymn»8, in cui venissero indicizzati incisivamente e
con brevità, con quasi anatomica completezza, tutti i possibili aspetti della bellezza
femminile9. Detto questo, però, bisognerebbe anche capire perché l’attenzione di
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Traduzione di G. Paduano, Antologia Palatina. Epigrammi erotici, intr., trad. e note di G. P., Milano 1989, p. 101. Si tenga presente che, nel contesto, filw'n del v. 4 significa ‘baciare’ piuttosto
che ‘amare’. Quanto a gamei'n, il senso è quello di futuere, come in Eur. Cycl. 181; [Luc.] Asinus
32; Clem. Strom. 7.84.4 (56.4 Stählin); sul verbo si veda anche Page, The Epigrams of Rufinus, ed.
with an intr. and comm. by D. P., Cambridge 1978, p. 102. A questi casi va aggiunto, così credo,
Aristoph. Nub. 49 tauvthn o{t∆ ejgavmoun.
8 Scenario, p. 84 (didascalia).
9 Il tipo di confronto che l’epigramma rufiniano sviluppa, basato sull’elencazione delle parti del corpo, è scherzosamente definito «dividere la persona in pezzi» da Luciano (Pro imag. 25), il quale
peraltro testimonia che questa forma di elogio, che egli personalmente disapprova, coinvolgeva con
insistenza proprio Era e Afrodite. Rufino porta il numero delle dee a quattro. Tolta Teti, si tratta del
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Thomsen/Dreyer si sia fermata proprio su 5.94 e non su qualche altro epigramma del
libro quinto. È probabile che questa curiosità sia destinata a restare insoddisfatta, ma
non sarà fuori luogo segnalare che il nome Melite, la donna a cui Rufino si rivolge,
non doveva suonare nuovo a uno sceneggiatore che lavorasse sul mito di Medea
quale viene raccontato da Euripide. Si è detto sopra che Dreyer/Thomsen, abbastanza
inaspettatamente, non eliminarono l’episodio dell’incontro fra Medea ed Egeo;
orbene al v. 673, che nell’originale si trova appunto all’interno di tale episodio, e in cui
Egeo dichiara di essere già ammogliato, lo scolio spiega: «(Egeo) sposò per prima Melite
figlia di Oplete (Melivthn th;n ”Oplhto"), per seconda Calciope figlia di Calcodonte, per
terza Medea»10.
Il nome Melite, altrove raro, ricorre con singolare frequenza nell’Antologia Palatina; oltre che in 5.94, Rufino celebra l’estasiante bellezza di costei in 5.15 e in 5.36,
e ad una donna che porta lo stesso nome, e che è altrettanto desiderabile, sono rivolti
gli epp. 5.242 e 5.282, rispettivamente di Eratostene e di Agazia. Ma, come si è
appena visto, Melite è un personaggio “di casa” anche nella Medea; o dunque si
pensa a pura casualità (e potrebbe anche essere), ovvero si suppone che sia stata
appunto la Melite menzionata dallo scolio al v. 673 a funzionare da reagente
mnemonico e a guidare Thomsen/Dreyer sulla pista della Melite rufiniana e di conseguenza dell’epigramma che le è dedicato. Ovviamente sarebbe ridicolo immaginare
che Thomsen e Dreyer vergassero il copione di un film tenendo a portata di mano gli
scolii euripidei dello Schwartz, anzi è pure possibile che nessuno dei due avesse più
di una vaga cognizione di che cos’è uno scolio antico. Ma nondimeno essi avranno
ben dovuto utilizzare qualche edizione della Medea di Euripide, consultare qualche
nota, rifarsi a qualche commento, sia pure di basso o bassissimo profilo. Incontrare il
nome Melite nelle edizioni scolastiche e divulgative della Medea (oltre che in quelle
scientifiche)11 non è affatto raro; esso si incontra, ad esempio, in quella di Ferrari-Di
Benedetto («Egeo sposò prima Melite e poi Calciope»)12 o in quella di GalassoMontana («Egeo sposò dapprima Melite, figlia di Olete13, e poi Calciope, figlia di
Rexenore»)14, e non c’è ragione di credere che le edizioni che circolavano quarant’anni fa in Danimarca, Germania o Inghilterra fossero molto diverse da quelle che
trio del giudizio di Paride. Si noti che il poeta non è nuovo a simili spezzatini: cf. AP 5.48, dove si
parla di occhi, bocca, collo e piedi, «più bianchi dell’argentea Teti» (v. 4).
10 Cf. Scholia in Euripidem, coll., rec., ed. E. Schwartz, Berolini 1891 (rist. 1966), II, p. 178.
Apollod. 3.15.6 attribuisce alla prima moglie il nome di Meta.
11 Lo scolio contenente il nome Melite è citato un po’ da tutti, dall’edizione di Elmsley (Euripides.
Medea, rec. et ill. P. E., accedunt G. Hermanni adnotationes, Lipsiae 1822, rist. Hildesheim 1967, p.
189) a quella di Page (Euripides. Medea, ed. with intr. and comm. by D. L. P., Oxford 1938, p.
121).
12 Euripide. Medea, Troiane, Baccanti, intr. di V. Di Benedetto, premessa al testo di F. Ferrari,
Milano 1982, p. 141 n. 31.
13 Sic. Il vero nome del personaggio è ‘Oplete’.
14 Euripide, Medea, a c. di L. Galasso-F. Montana, Torino 2004, p. 111.
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circolavano e tuttora circolano in Italia.
Del resto, che Thomsen, Dreyer e Gress lavorassero con strumenti di facile accesso e di larga diffusione è cosa non solo a priori probabile, ma in qualche caso
dimostrabile. Ai vv. 679-681 della Medea di Euripide, Egeo riferisce in questo modo
le enigmatiche istruzioni di Apollo: ajskou' me to;n prouvconta mh; lu'sai povda |
pri;n a]n patrwv/an au\qi" eJstivan movlw, «non sciogliere il piede sporgente dell’otre
prima di essere tornato al patrio focolare», dove “piede sporgente” e “otre” alludono
metaforicamente al membro e al ventre. Nel copione dreyeriano il senso della delfica
ambage non sembra còlto, sia perché to;n prouvconta povda è tralasciato, sia
soprattutto perché ajskov" è reso con “wineskin”, otre da vino, invece che col semplice
“skin”. Non è possibile sapere quali dizionari dal greco furono eventualmente
utilizzati da Dreyer/Thomsen, ma, nel caso, si sarà trattato senza dubbio di riduzioni
dal Liddell-Scott, come sono da gran pezza tutti i dizionari non specialistici in uso in
Europa e nel mondo. E nel Liddell-Scott (+ Jones) s.v. ajskov" si legge appunto così:
«skin, hide, PFay. 121.9 (i/ii A.D.); but usually, skin made into a bag, esp.
wineskin...»15. Non è difficile rendersi conto di come possa ragionare un dilettante
che si trovi alle prese con questa stringa lessicale: egli si farà guidare il più possibile
dalle didascalie e si fermerà sui significati che il vocabolo ha “usually” ed “especially”. E il primo di questi è appunto “wineskin”, ed è dunque “wineskin” che finirà
per essere scelto. Interpretare male il dizionario, o anche leggerlo male, è un comune
infortunio per gli studenti, ma può capitare anche agli studiosi di professione. Cito
per tutti il caso di Irene Chirico, recente editrice del libro III delle Questioni convivali
di Plutarco per il Corpus Plutarchi Moralium. Imbattutasi nell’aggettivo laqikhdhv"
di 657D, la Chirico va a cercarne il significato nel vecchio Rocci, ma trascrive male,
e «che fa dimenticare gli affanni» diventa, grottescamente, «che fa dimenticare gli
affari»16.
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A Greek-English Lexicon, ed. H. G. Liddell-R. Scott-H. S. Jones et al., Oxford 19969.
Plutarco. Conversazioni a tavola. Libro III, «Corpus Plutarchi Moralium» 35, a c. di I. Chirico,
Napoli 2001, p. 185.
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