scheda rampini ok
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Slow Economy Rinascere con saggezza FEDERICO RAMPINI Mondadori, Milano 2009 pp. 196, euro 17,00 Presentazione del volume Le idee guida di questo testo sono le seguenti: 1. Il metro di misurazione dello stato di benessere di uno Stato non può essere più quello del PIL. I numeri non sono in grado di restituirci la vera percezione che gli uomini e le donne hanno delle loro condizioni di vita. Attualmente, dopo la grande stagione della crisi, vi è una leggera ripresa del PIL, ma gli effetti della crisi sull’economia reale non solo non rallentano ma si fanno sentire ancora di più. A questo livello ci attende infatti una ripresa lenta e soprattutto che non porterà alla creazione di nuovi posti di lavoro. Per questo secondo l’autore ha pienamente ragione il Presidente francese Sarkozy, quando afferma a chiare lettere che «Nel mondo intero i cittadini pensano che noi li stiamo ingannando, che le statistiche sono bugiarde, che i numeri vengono manipolati. E hanno ragione. Dietro la religione dei numeri, dietro tutte quelle cifre e quelle contabilità complesse, c’è il dogma secondo cui il mercato ha sempre ragione». Questo comporta che nessun discorso sul futuro dell’economia e del mondo potrà essere affidato semplicemente agli esperti di settore. È necessario introdurre nuovi parametri di valutazione e di verifica della sostenibilità di certe scelte del mercato, che tengano conto dell’effettiva vita dei singoli e del rapporto dell’industria con l’ambiente. 2. La seconda idea-guida di Rampini è una sorta di grido d’allarme: il sistema finanziario e bancario mondiale non ha imparato per intero la lezione della crisi. Ha approfittato moltissimo degli enormi aiuti statali, ma ora sembra che stia tornando sulla vecchia (cattiva) strada. Un esempio per tutti: per alcuni grandi manager sono stati tolti i premi di fine anno o quelli legati al raggiungimento di particolari obiettivi, ma sono stati aumentati gli stipendi mensili. Da questo punto di vista viene ancora una volta penalizzata l’economia reale, cioè la salute dei Paesi, in particolare quella dell’Usa, mentre continua a rafforzarsi quella della Cina, destinata senz’altro a dominare sempre più lo scacchiere globale. La Cina, infatti, ha resisto meglio alla crisi, grazie ad un modello di crescita differente da quello statunitense. 3. La terza idea guida messa in campo da Rampini è quella di sfruttare con saggezza questo periodo, a suo avviso abbastanza lungo, di economia lenta. Si dovrebbe guardare con maggiore interesse alla saggezza orientale e ad alcune prassi di economia domestica e urbana lì in uso. Di fatto egli racconta come alcune contaminazioni già sono in atto tra Occidente e Oriente. A New York per esempio si stanno diffondendo i rickshaw o risciò, con tutti i vantaggi che ne seguono: nessun consumo energetico, nessun inquinamento, una battaglia contro l’obesità, un’occasione di una piccola occupazione part time, oppure gli orti molto diffusi nelle grandi metropoli americane, i consumi frugali, il risparmio energetico, riciclo degli oggetti... . Ma tutto ciò va perseguito con maggiore impegno e su scala più ampia. Molta parte del testo è dedicata proprio alla descrizione di queste buone pratiche d’Oriente e dei loro vantaggi. Soprattutto egli invita gli Occidentali a un maggior rispetto dell’ambiente, a un nuovo rapporto con la tecnologia. Questo potrebbe diventare un elemento di grande vantaggio per il prossimo futuro, come dimostra un caso esemplare di concorrenza Cina-Italia, risolto a vantaggio di quest’ultima, che è bene citare (pp. 58-60). La lezione del cashmere di Biella L’industria del tessile-abbigliamento per molti italiani evoca una disfatta economica: l’avanzata implacabile del made in China, le delocalizzazioni, il declino di tante aziende storiche che fecero la moda italiana e oggi sono ridimensionate o scomparse, oppure sopravvivono come gusci vuoti dopo aver trasferito di fatto la produzione in Oriente. Ma c’è almeno un settore in cui nessun produttore cinese è riuscito a scalzare veramente il dominio italiano. Il cashmere di lusso continua a essere made in Italy. Anzi, made in Biella, perché i maggiori produttori si chiamano Lanificio Fratelli Cerruti, Loro Piana e Zegna, tutti nell’ area del biellese. Gli scettici potrebbero pensare che si tratti di un’ eccezione dai giorni contati. Tanti altri in passato si sono illusi di avere un monopolio imbattibile, ma alla fine hanno dovuto cedere le armi di fronte alla concorrenza asiatica. Tanti hanno creduto che «mai e poi mai» i cinesi ce l’avrebbero fatta a raggiungerli nella qualità, nell’affidabilità, nelle rifiniture: e quelli invece ci hanno regolarmente sorpreso, hanno smentito le previsioni, hanno bruciato le tappe. Vuoi perché bravi a copiare, vuoi perché hanno comprato i nostri stessi macchinari, talvolta hanno ingaggiato i nostri tecnici, i nostri esperti, i nostri disegnatori. Insomma, se la storia degli ultimi vent’anni ci insegna qualcosa, è che di fronte ai cinesi non bisogna mai dire mai: sono capaci di tutto, hanno recuperato ritardi che sembravano incolmabili, hanno fatto progressi che credevamo impossibili. Il caso del cashmere, però, è diverso. I cinesi partono con un vantaggio notevole: hanno la materia prima a portata di mano, soprattutto in Mongolia. E da tempo i loro produttori più forti stanno cercando di accreditarsi nei segmenti di maggiore qualità e valore aggiunto. Grandi aziende di Pechino, Shanghai e Canton hanno comprato costosissimi macchinari italiani. Hanno mandato i loro manager a studiare in Italia. Hanno spedito tecnici e operai a formarsi nel nostro Paese. Anche qualche produttore biellese è stato tentato dalla delocalizzazione, ha provato a trapiantare esattamente gli stessi metodi di lavorazione in Cina, e ha dovuto rinunciare. Niente da fare. Il cashmere made in China resta di una qualità modestissima, francamente scadente, soggetto a un’usura troppo rapida. Quei cinesi che hanno il potere d’acquisto per permetterselo preferiscono spendere dieci volte tanto e comprare cashmere lavorato in Italia: per morbidezza e resistenza, non c’è gara. Perfino un consumatore inesperto se ne accorge. A occhi chiusi fategli sfiorare con le dita un maglione di cashmere italiano, e uno di quelli fatti in Mongolia che si vendono al Silk Market di Pechino: impossibile non sentire la differenza. Del resto gli stessi stilisti di lusso cinesi quando si tratta di cashmere comprano la materia prima in Italia. Com’è possibile che in questo caso la leggendaria capacità di apprendimento cinese sia fallita? La risposta la conosce bene Ian Borra Cerruti. È un segreto semplice e bellissimo: si chiama acqua. «Per lavorare un metro di cashmere» dice Cerruti «ci vogliono tre litri d’acqua. La morbidezza, la lucidità del tessuto dipendono molto dalla qualità di quell’ acqua. A Biella abbiamo un’ acqua molto leggera, la stessa dell’acqua minerale Lauretana. I fiumi Cervo e Sesia sono rimasti molto puliti. A valle delle fabbriche si può ancora fare il bagno. I controlli sull’ acqua che rimettiamo nel fiume sono severi. Se io compro la fibra in Mongolia e la lavoro a Biella, con l’acqua del mio fiume, anche se uso macchinari vecchi ha una morbidezza che nessuno è riuscito a riprodurre in altre zone del mondo.» Tantomeno in Cina: chiunque abbia provato a migliorare la qualità del cashmere made in China, pur senza badare a spese per avere le tecnologie avanzate e i migliori esperti italiani, si è scontrato con un ostacolo insormontabile: il disastro ambientale dei fiumi cinesi. Inutile investire nei macchinari, nel design, nel brand e nel marketing. La qualità dell’ acqua si è rivelata un handicap competitivo insormontabile. In nessuna zona della Repubblica popolare, neppure in quelle che in teoria dovrebbero ancora essere incontaminate, è stato possibile trovare fiumi abbastanza puliti. È una storia che ci rincuora. Perché dimostra che nel nostro futuro la difesa dell’ ambiente non andrà mai più scambiata per un costo, una tassa. Al contrario, diventerà un’ arma vincente nella competizione. 4. Verso il FIL ? Un’ultima lezione importante l’Occidente dovrebbe infine coglierla dal piccolo Stato del Bhutan, che si trova vicino alle cime dell’Himalaya. In esso non viene più adottato il PIL quale indicatore del benessere, bensì il FIL: la felicità interna lorda. Gli autori Federico Rampini (Genova, 1956) Scrittore e giornalista italiano, ha iniziato la sua attività giornalistica nel 1977 a "Città futura", settimanale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI), di cui era segretario generale Massimo D'Alema; dal 1979 scrive per "Rinascita", giornale che deve abbandonare nel 1982 dopo avervi pubblicato un'inchiesta sulla corruzione in seno al PCI. In seguito è stato prima vicedirettore de "Il Sole 24 Ore" poi capo della redazione milanese ed in seguito inviato del quotidiano "La Repubblica" a Parigi, Bruxelles e San Francisco. Come corrispondente ha raccontato dapprima le vicende della Silicon Valley; ha lasciato poi gli Stati Uniti per aprire l'ufficio di corrispondenza di Pechino. Ha insegnato alle università di Berkeley e Shanghai. Nel 2005 ha vinto il Premio Luigi Barzini per il giornalismo, nel 2006 il Premio Saint Vincent. È autore di numerosi saggi, tra cui: Le paure dell'America (Laterza 2003), Tutti gli uomini del presidente. George W. Bush e la nuova destra americana (Carocci 2004), San Francisco - Milano (Laterza 2004). Per Mondadori ha pubblicato Kosovo (1999, insieme a Massimo D'Alema), Il secolo cinese (2005), L'impero di Cindia (2006) e L'ombra di Mao (2006).