P agina a cura del Pr emio Calvino
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P agina a cura del Pr emio Calvino
24 N. 12 Un testo degenere i colori troppo forti, elude i chiarimenti diretti, fino a sfiorare l’inibizione e l’autocensura. In una struttura romanzesca che spettina, spezzetta e confonde in modo un po’ troppo voluto il divenire cronologico della storia, l’uso torinesissimo dell’ellissi è l’elemento più originale e riuscito. Un’ellissi affettiva oltre che temporale. In che modo Toni e Doc abbiano imparato a conoscersi, ad essere quasi padre e quasi figlio, non ci è dato sapere, i loro silenzi restano tali senza spiegazioni a posteriori, senza parole di troppo a sciogliere nodi dolorosi in facili psicologie. L’ambizione, non da poco, è raccontare il vuoto, il silenzio di due uomini impacciati che hanno troppo da dirsi. n di Mario Marchetti Tito Pioli ALFABETO MONDO ROMANZO ABBECEDARIO pp. 175, € 15, Diabasis, Parma 2015 Pagina a cura del Premio Calvino n bell’oggetto innanzitutto U quello predisposto da Diabasis, casa editrice dall’origina- le statuto (essendo proprietà di oltre trenta soci) che si definisce culturalmente indisciplinata. Bella la carta, bella l’impaginazione, bella la copertina con un disegno del burattinaio Patrizio Dall’Argine, buona la cura con la duplice nota dei critici Elvio Guagnini e Camillo Bacchini che inquadrano con acribia l’indisciplinato testo di Tito Pioli, libraio antiquario. Se Guagnini ispirandosi all’epigrafe pasoliniana parla di Alfabeto Mondo – apprezzato testo della XIX edizione del Premio − come di “un messaggio forte, distruttivocostruttivo, di denuncia ma anche di fede, per dissacrare ma anche per consacrare”, Bacchini lo definisce “un’antistruttura cui corrispondono un’antiscrittura e un’antimorale del profitto”. Come si intuisce siamo di fronte a un testo “degenere”, che non appartiene fortunatamente a nessun genere, a un’opera-mondo che tramite l’escamotage dell’abbecedario riesce ad affrontare una gamma straordinariamente ampia di temi e argomenti, dall’A alla Z appunto. Un’opera-mondo, dalla scrittura nervosa ed elegante, nello stile dei profeti antichi, una geremiade, un’invettiva contro l’attualità (la postmodernità?) così com’è, che coinvolge in particolare noi, l’Italia. Ma naturalmente l’invettiva colpisce anche, più in generale, quel legno storto che è l’uomo. Tra un lemma e l’altro dell’abbecedario, rigorosamente esposti in ordine alfabetico, compare sempre, in corsivo, un intervento/commento di Mammamia, il quarantenne paralizzato per un incidente, che riprende vita, tornando bambino, sfogliandone le pagine, anzi entrandovi dentro in compagnia della mamma Clelia. Il grido “Mamma, mamma, mamma” che risuona nella corte di un antico palazzo di Lucca sembra anche essere il grido d’angoscia dell’autore contro i guasti e le ingiustizie del mondo. Si sente l’impellenza assoluta di prendere la parola. In questo romanzo che non è un romanzo c’è un’unica voce che è appunto quella dell’autore. Non ci sono voci seconde o voci terze. Tra i tanti lemmi, particolarmente significativo “Urla”, non a caso dedicato a Carlo Michelstaedter (il filosofo per il quale è solo l’urgenza del dolore a poterci far trascendere la sfera dell’egoismo): “Ho sentito l’ultimo urlo di quelli che sono crepati sul lavoro, sì ma non uno per uno, li ho proprio sentiti in contemporanea, tutti insieme, dai ponteggi, dai tetti, dai muletti, dalle vasche, dalle celle frigorifero, dalle gru, dai trattori... Cristo erano tutti urli diversi mica uguali”. Il valore del pezzo sta nel farci sentire, al tempo stesso, l’universalità del dramma e la singolarità di chi lo vive, l’irripetibilità della sua esperienza. Sempre sul tema del lavoro, spiazzante è il lemma “Grand Tour”, dove l’autore decostruisce il senso che si dà solitamente a questa espressione: il grand tour oggi non è certo quello “pornografico” delle città d’arte, bensì quello delle fabbriche dei bambini (dei frutti del cui deprezzato lavoro tutti godiamo), i lager dei nostri tempi, non di quelli dickensiani, si badi. La tecnica di Pioli è insomma quella di spostare sistematicamente il punto di vista, appropriandosi di quello degli umili e degli umiliati, siano uomini animali o oggetti. E così un giorno, Mammamia e la madre decidono di entrare in una gabbia per capire cosa si prova a vivere in uno spazio concentrazionario per cani: non saranno certamente gli uomini e neppure i bambini a venir loro in aiuto, saranno gli uccelli del cielo in una scena hitchcockiana. Ma nelle sue corde c’è anche molto altro, c’è il gusto dell’ironia e del surreale e c’è la capacità ci dare vita a storie esemplari, autentiche narrazioni in compendio, come quella di Lucia e di Stefi, la suora e la puttana che si contendono l’amore del minorato Andrea. Ma si potrebbe andare a lungo avanti. Certamente un testo che sposta il lettore, lo n inquieta, lo obbliga a prendere posizione. Una galleria dell’assurdo di Chiara D’Ippolito Luigi Cecchi IL KARMA DEL PINOLO pp. 240, € 15, Del Vecchio, Roma 2015 Il romanzo del Toro di Chiara Bongiovanni Simona Garbarini IL POSTO GIUSTO pp. 191, € 13, CasaSirio, Lentate sul Seveso 2015 l campo della Falchera è “I qualcosa di incancellabile (…). A due passi dalla tan- genziale, fracasso di camion più forte dei fischi dell’arbitro. Poco oltre la discarica. Brutto, malmesso, quattro zolle d’erba ingiallita in una distesa di fango. Ventidue disgraziati che fanno fatica a dare una qualsivoglia direzione al pallone”. Inizia così, in un campetto della più desolata periferia torinese, Il posto giusto di Simona Garbarini, un romanzo per nostalgici del calcio vecchia maniera, ma senza troppa nostalgia, finalista alla XXIII edizione del Premio. È la storia di Toni e di Doc. Doc si è lasciato dietro le spalle una casa in collina, un posto di chirurgo e una bella moglie. Toni segna gol in mezzo al fango con un talento che non passa inosservato. Doc ha un debole per il Negroni ben fatto e i superalcolici a metà pomeriggio. Toni vive in comunità, a un passo dall’eroina. S’incontrano alla Falchera. Doc prende Toni in affido e lo porta in un bell’alloggio in centro. Sono feriti e diffidenti, parlano poco, si osservano da lontano, passano le serate in silenzio, sul divano, a guardare le partite in televisione. Toni scappa, si buca, si prostituisce, torna, gioca e vince. Doc beve, lo aspetta, lo accoglie, lo perde. Tra loro, a dividerli e unirli, una giovane donna con gli occhi verde oltremare e la Torino dei primi anni ottanta, dopo le brigate rosse e prima della movida. La Torino del Toro: dal 1976 al 1989, dallo scudetto di Pulici all’orgoglio dei perdenti, retrocessione in B e stadio pieno. Dialoghi brevi e serrati, descrizioni appena accennate come vividi lampi occasionali, poco slang e un uso parco dell’anacoluto, il romanzo di Simona Garbarini, pubblicato da una giovanissima casa editrice di belle speranze, è lieve, delicato e imperfetto. Con l’imperfezione dei prodotti rigorosamente artigianali, oggi si direbbe a chilometro zero, senza la patina di cera insapore che lucida e livella tutti allo stesso modo. Una scrittura asciutta e leggera in cui un finale potenzialmente melodrammatico, con tanto di figli segreti, morti eroiche e guarigioni inspiegabili, si stempera in una rassegnata elegia in grigio. Se è vero, come si dice, che, almeno per i tifosi, è il Toro la squadra di Torino mentre la Juventus è una sorta di nazionale in trentaduesimo, allora Il posto giusto è davvero il romanzo del Toro perché è un concentrato di torinesità. Il pudore insistito del “non facciamoci conoscere” soffoca le urla da stadio, appanna mmaginate di trovarvi nel bel Iterapia mezzo di una seduta di psicoe che il vostro compas- sato analista si trasformi all’improvviso in un orsacchiotto di pezza. Probabilmente sospettereste di essere in preda ad uno stato allucinatorio e, forse, accettereste senza indugi di assumere una delle pillole che l’impassibile analista-peluche vi porge per aiutarvi a tornare alla realtà. Cosa pensereste, però, se una volta scesi dal lettino e tornati in strada, l’intera città vi apparisse popolata da una folla di giocattoli e bambole di coccio dal comportamento incredibilmente umano? È plausibile che oscillereste tra l’impressione di essere ancora di fronte a delle terrificanti allucinazioni e quella, del tutto opposta, ma altrettanto destabilizzante, di trovarvi davvero in un mondo dove le persone sono diventate dei pupazzi animati. Ecco, è proprio questa sensazione di incredulità e di sorpresa, ma allo stesso tempo di verosimiglianza davanti al verificarsi di eventi apparentemente paradossali e inspiegabili, ad accompagnare la lettura dei diciassette racconti che compongono Il Karma del Pinolo – sviluppo della raccolta Frammenti, segnalata nel 2011 dal comitato di lettura del Premio Calvino – e che Luigi Cecchi, sceneggiatore di fumetti e disegnatore di comic strips, sembra aver voluto mettere insieme per allestire una bizzarra e misteriosa galleria dell’assurdo dove la credibilità non viene mai incoraggiata e dove non è nemmeno importante riuscire a identificare dei confini certi tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Le piccole storie che l’autore offre al lettore, sono, infatti, delle favole surreali, a volte commoventi, altre volte comiche, altre ancora poetiche e delicate, in cui l’elemento fantastico irrompe in modo inaspettato e improvviso nella realtà per divenirne metafora e allegoria, ma anche per influenzare in modo irrimediabile le vite e i destini dei protagonisti. Attraverso un catalogo surreale di personaggi – badanti e vecchietti assassini, strani angeli che fumano Lucky Strike, artisti dell’ingegneria genetica in grado di creare corpi esteticamente perfetti – ci si ritrova, così, a scorrere la pagine di un diario clinico (e cinico) delle esistenze quotidiane degli individui, quasi come se l’autore volesse fornire un elenco ironico e meticoloso delle contraddizioni, delle meschinità e delle debolezze umane, svelate utilizzando ogni declinazione possibile del fantastico e facendo comparire, all’interno di situazioni indiscutibilmente reali e comuni, chupa chups giganti che cadono dal cielo, rocce che sanguinano, barattoli di tè che contengono il senso dell’umorismo o quello della realtà. Ed è esattamente quando il reale incontra il surreale e il fantastico che si rivela l’efficacia dei racconti di Cecchi che, servendosi di una lingua e di uno stile in apparenza piani e privi di virtuosismi (ma in realtà freschi ed affilati), riesce a far emergere la malia e il mistero della vita quotidiana, proprio a partire dal contrasto voluto tra la semplicità e la verosimiglianza espressiva e il carattere eccezionale e grottesco del narrato. n