SAMUEL TAYLOR COLERIDGE THE RIME OF THE ANCIENT

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SAMUEL TAYLOR COLERIDGE THE RIME OF THE ANCIENT
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN TECNOLOGIE E DIDATTICA DELLE LINGUE
CORSO DI LETTERATURA INGLESE
PROF. MARCELLO CAPPUZZO
SAMUEL TAYLOR COLERIDGE
THE RIME OF THE ANCIENT MARINER
A CURA DI DI BLASI SALVATORE
ANNO ACCADEMICO 2007/2008
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¾ Pensiero filosofico e poetico dell’autore
Samuel Taylor Coleridge è uno dei maggiori esponenti del romanticismo inglese. Insieme a
William Wordsworth fa parte del primo filone di poeti romantici inglesi, e come tutti gli
scrittori del suo tempo risente in tutta la sua formazione poetica e intellettuale della
Rivoluzione francese e delle sue ripercussioni in tutta Europa. Bisogna dire, tuttavia, che
Coleridge non visse a pieno la rivoluzione come fu, per esempio, per l’amico Wordsworth,
che nel 1792 si trovava in Francia a combattere al fianco dei rivoluzionari; per lui la
rivoluzione fu uno stimolo ulteriore di rottura col passato per provare nuove esperienze,
nuove tecniche di scrittura che fossero distanti da quelle del secolo che si stava chiudendo nel
caos della rivoluzione che aveva sconvolto i sistemi politici, ma anche gli animi e le certezze
degli intellettuali.
Nato nel 1772, ultimo di dieci figli, nel 1791 venne ammesso al Jesus College di Cambridge
dove conobbe Robert Southey, con cui progettò di creare una società nuova chiamata
Pantisocraty, una sorta di protocomunismo il cui carattere principale avrebbe dovuto essere un
cristianesimo primitivo utopistico; questa nuova società, teoricamente avrebbe dovuto essere
composta da dodici famiglie e sarebbe dovuta sorgere nel nuovo mondo, nei nuovi e appena
sorti Stati Uniti d’America. Tuttavia l’esperimento fallì.
Lasciati gli studi di Cambridge si trasferì a Bristol dove conobbe Wordsworth che diventerà
presto suo grande amico e con cui creerà un sodalizio letterario tra i più importanti della storia
della letteratura mondiale. I due infatti progettarono la creazione di un lavoro, una raccolta di
poesie che ebbe grande successo, soprattutto nella seconda edizione del 1800, due anni dopo
la pubblicazione della prima: le “Lyrical Ballads”. In questa raccolta i due poeti si pongono lo
stesso obbiettivo, cioè quello di creare una visione totale ed unitaria della realtà, usando però
due modalità diverse. Wordsworth infatti tende a ricreare nelle sue poesie la realtà quotidiana
attraverso le piccole cose giornaliere, dandogli comunque un aspetto nuovo grazie al
linguaggio poetico; Coleridge invece utilizza personaggi romanzeschi, immaginari, avvolti in
situazioni strane e influenzate da forze soprannaturali, capaci quindi di rendere tangibile al
lettore la sensazione dell’immanenza del soprannaturale sulla realtà. E proprio nella famosa
ballata “The Rime of the Ancient Mariner” Coleridge svilupperà questo aspetto della sua arte
poetica in maniera eccellente.
La seconda edizione delle Lyrical Ballads ebbe grande successo per vari motivi, sia per una
critica letteraria che a due anni dalla prima edizione era pronta ad accogliere un opera di tale
spessore, sia perchè furono molto importanti i due anni tra il 1798 e il 1800, importanti nella
formazione del loro pensiero poetico e filosofico, che i due poeti trascorsero uno in Germania
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e uno lo passarono nel Lake District, al confine con la Scozia, che gli permise di ritrovare il
contatto con la natura, con la vita rurale, semplice, lontano dal caos delle città in frenetica
evoluzione per via della rivoluzione industriale cavalcante.
Tuttavia, soprattutto per Coleridge, fu di grande importanza e ispirazione il viaggio in
Germania, dove venne a contatto con il romantico Gruppo di Jena, di cui facevano parte anche
personaggi di alta levatura come Novalis e Schlegel. In quell’ambiente pregno di cultura,
Coleridge venne a contatto con gli idealisti tedeschi della seconda metà del XVIII secolo da
cui apprese, per poi elaborare a suo modo e mettere in pratica nei suoi scritti, gran parte delle
tematiche del pensiero filosofico che poi esprimerà a pieno nella “Biographia literaria”, una
sorta di testamento pubblicato nel 1817, un’autobiografia filosofica in cui discute di:
conciliazione degli opposti, contrapposizione tra imagination e fancy, la distinzione tra
simbolo e allegoria, l’idea del sublime e la discussione sul genio.
Per Coleridge il sublime è un sentimento soggettivo, vale a dire che di per sé nessun oggetto è
sublime, ma diventa tale solo quando vi si associa, ognuno per se, un’idea, in quanto l’idea è
l’unione dell’universale e del particolare, l’idea è l’essenza. Quando si parla di idea entra in
gioco il concetto di simbolo, che rende accessibile l’idea in quanto parte stessa dell’idea;
l’idea è direttamente collegata alla natura. Diversa dal simbolo è invece l’allegoria, che
rappresenta una traduzione di concetti astratti in un linguaggio pittorico. È possibile assistere
in Coleridge, come in molti altri poeti romantici, alla sacralizzazione del simbolo, in quanto
strumento che permette di giungere all’idea e quindi alla natura, matrice di tutto, forza che
sottende l’uomo, fatto sublime e al tempo stesso misterioso e indefinibile. Tutte queste
tematiche troveranno poi riscontro nella ballata del vecchio marinaio.
Nel pensiero filosofico di Coleridge gioca un ruolo molto importante la distinzione che viene
fatta tra imagination e fancy, le due facoltà creative della poesia. Sempre dagli idealisti
tedeschi prese spunto, che poi rielaborò a suo modo, invertendo i termini, probabilmente per
un errore di traduzione. Con questa distinzione Coleridge creò uno schema conoscitivo che
riguardasse le diverse capacità che messe insieme danno la visione del tutto. L’imagination, in
italiano fantasia, è la facoltà specifica del genio poetico; questa facoltà permette di unificare
tutte le cose, di mediare tra ragione ed intelletto, di mutare il possibile nel reale, di conciliare,
grazie alla poesia, gli opposti.
Direttamente connessa all’imagination è la creatività del “genio” poetico in quanto, secondo
Coleridge, nell’imagination opera la struttura dialettica “soggetto-oggetto-sintesi”, in cui il
soggetto corrisponde al genio, l’oggetto è l’oggetto di studio e la sintesi è la creazione.
L’imagination è contrapposta alla fancy, immaginazione in italiano, facoltà inferiore legata
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alle percezioni, ai sentimenti e alla memoria; la fancy comprende il talento e
l’immaginazione, ma questi sono meccanicistici, cioè si limitano a combinare. Tuttavia,
malgrado questa distinzione, è importante riferire che secondo lo schema di Coleridge,
imagination e fancy, pur essendo diverse, non si escludono l’un l’altra, ma sono
complementari per il genio poetico.
Da Schelling inoltre Coleridge per una distinzione tra primary e secondary imagination. La
prima è l’intuizione inconscia, il principio che permette le operazioni di dialettica, ovvero
separare, riunire e sintetizzare; la seconda invece è l’arte di per se, e coesiste con la volontà e
la coscienza. Entrambe queste “sub-facoltà” sono proprie del poeta.
Secondo Coleridge il poeta, il genio poetico, deve avere tute le facoltà di cui si è appena
descritto, in se deve riunire la percezione consapevole ed inconsapevole, in quanto è un
creatore cosciente che lavora inconsciamente. Kant nel ‘700 parlava di corrispondenza tra
genio e regole naturali; Coleridge rielabora questo pensiero kantiano parlando del genio
poetico come di colui che ha in se la qualità dell’universalità, dell’impersonalità e
dell’oggettività; il genio concilia gli opposti con naturalezza; è distaccato dai sentimenti
personali per avvicinarsi a quelli universali. Tuttavia il genio poetico non deve essere troppo
astratto, ma deve ricreare l’universale nel particolare, poichè la grandezza del creato si vede in
ogni piccola creatura della Terra: consiste in questo la capacità di conciliare gli opposti.
Inoltre il poeta genio non deve essere semplicemente un poeta, ma deve essere esperto in
molti altri campi. Dice Coleridge che il poeta deve possedere determinate qualità: sensibilità,
passione, volontà, buon senso, giudizio, fantasia ed immaginazione; deve essere implicito ed
esplicito, filosofo, devoto, in quanto deve sempre stupirsi di fronte al mistero dell’universo;
deve essere anche uomo di scienza, esperto in campi come l’anatomia, idrostatica,
metallurgia, scienza dei fossili.
Coleridge riteneva che la massima espressione del genio poetico avesse avuto la figura di
William Shakespear. Dice Coleridge che in Shakespear non c’è né passato né futuro, ma tutto
è permanente, nel senso che i temi trattati dal grande poeta inglese del ‘600 sono sempre di
attualità, sebbene siano stati scritti due secoli prima; trascendono il carattere personale sia
dello stesso scrittore che dei personaggi narrati nelle opere scritte, per raggiungere un
carattere universale. Shakespear è il poeta ideale.
Per ciò che riguarda il fine ultimo della poesia, Coleridge scrive che la poesia deve condurre il
lettore al piacere estetico, almeno come obbiettivo immediato; in questo modo Coleridge si
discosta abbastanza dai canoni romantici che mirano alla poesia impegnata, alla verità e
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all’utile, come per esempio era la poesia dell’amico Wordsworth. L’utile e il buono sono
soltanto il fine ultimo, raggiungibili attraverso il piacere.
Coleridge tenta di introdurre, inoltre, una distinzione tra poesy e poetry: secondo la sua
opinione il termine poesy va attribuito a tutte le belle arti, mentre con poetry Coleridge
identifica le opere il cui mezzo comunicativo ed espressivo sono le parole. Tuttavia, spesso
nei suoi scritti si trova il termine poetry usato in un altro senso, ovvero lo utilizza per indicare
quelle forme d’arte che più dilettano i sensi umani: per esempio parla della musica come della
poetry dell’orecchio, della pittura come della poetry dell’occhio.
Questi sono i caratteri generali della filosofia di Coleridge, che lui riporterà poi nella sua
poetica. È anche importante ricordare un altro aspetto della vita del poeta, una cosa che ha
molto inciso sul suo modo di scrivere: l’oppio. Coleridge faceva grande uso di oppio, un uso
cominciato si dall’età di circa dieci anni per alleviare dei dolori reumatici, ma via via
cresciuto fino a diventarne dipendente. Alcuni critici letterari sostengono che questo eccessivo
uso di oppio gli causasse molte visioni, e che quindi molto lo aiutasse per le ambientazioni
strane ed esotiche delle sue opere; tuttavia altri ritengono che questa grande capacità
immaginativa fosse data da un’indole passiva del poeta che lo portava ad immaginare più che
a vivere la vita.
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¾ Analisi dell’opera
La “Rime of the Ancient Mariner” nacque nel 1797, e probabilmente ha radici in letture che
Coleridge aveva fatto in passato, letture di libri di viaggio; infatti il lungo percorso descritto
da Coleridge ripropone, per molti aspetti, il viaggio attraverso cui Ferdinando Magellano
raggiunse la Patagonia e l’Oceano Pacifico due secoli e mezzo prima. Altre letture fonte di
ispirazione sembrano poter essere il Lenore di Bürger in cui si trovano termini marinareschi,
nonché tematiche esoteriche, aspetti oscuri e magici allo stesso tempo; ma ciò che forse lo
colpì più di tute fu la storia del capitano James Cook, di qualche anno precedente alla stesura
della ballata, avventura molto simile in effetti a quella narrata da Coleridge: infatti il capitano
Cook giunse in Antartide dopo aver attraversato l’equatore, soffrendo la bonaccia e il sole
caldo prima e il freddo dei ghiacci incontrati man mano che scendeva verso il polo sud. Lo
stesso Cook, inoltre, dice che durante il viaggio di ritorno fu condotto a casa “in sogno o con
un prodigio”, come fu pure per il vecchio marinaio della storia.
La “Rime of the Ancient Mariner” è divisa in sette parti. Coleridge, prima di cominciare il
corpo del testo della ballata, pone un’epigrafe di Thomas Brunet tratta da Archeologiae
Philosophicae; si tratta di un’epigrafe in latino in cui si accenna alla vita di cose visibili ed
invisibili nell’universo, quale sia la loro funzione, ed invita a non chiudere la mente alle
piccolezze della vita, ma a pensare a qualcosa di soprannaturale che pende sull’umanità. Il
tema del soprannaturale, la consapevolezza che esiste qualcosa di superiore all’uomo e alle
sue possibilità ricorre nella ballata, è lo scheletro su cui si erge l’opera.
Come dice il titolo stesso, la metrica è tipica delle ballate, con quartine a rima alternata
ABCB, e come si è già accennato in precedenza, Coleridge cura molto la musicalità dei versi
e delle quartine, tramite l’uso di ripetizioni di parole o di versi, come se fossero piccoli
ritornelli della ballata, e di allitterazioni
“Higher and higher every day” (v. 29),
“The ice was here, the ice was there,
The ice was all around” (vv. 59-60),
“Swiftly, swiftly flew the ship,
Yet she sailed softly too:
Sweetly, sweetly blew the breeze –
On me alone it blew.” (vv. 460-3).
La ballata ha ambientazione, almeno all’inizio, in un banchetto di nozze, dove si introduce un
uomo vecchio, dall’aria paurosa, con una lunga barba grigia; si tratta del vecchio marinaio che
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afferra per il braccio un giovane, uno degli invitati alla festa, per raccontargli la sua storia. A
primo acchitto il ragazzo non vuole ascoltare il vecchio, anche perchè spaventato da quella
figura; tuttavia non riesce a staccarsi, perchè è come ipnotizzato dall’occhio ardente del
marinaio “[...] glittering eye” (v. 3) prova ad allontanarsi da quell’uomo strano, ma
“He holds him with his glittering eyeThe wedding guest stood still,
And listens like a three years’ child” (vv. 13-5).
Il ragazzo è ipnotizzato, immobile, e ascolta come un bimbo di tre anni la storia che il
marinaio si appresta a raccontargli. Inizia così il racconto del viaggio in nave del marinaio,
che procede senza problemi fino all’equatore, che segna un punto di svolta nel viaggio, in
quanto le condizioni del tempo diventano funeste, la nave viene come costretta a fuggire la
tempesta, finché non giungono al Polo Sud, terra di ghiacci e nebbia, e di conseguenza la nave
è costretta all’immobilità. Questo stato di non movimento dura finché non giunge l’albatro,
grosso uccello che viene accolto dalla ciurma come un simbolo divino, di salvezza
“As if had been a Christian soul,
We hailed it in God’s name” (vv. 65-6).
Infatti le cose cambiano; comincia a soffiare un vento propizio che li spinge verso nord, fuori
da quei ghiacci per l’Oceano Pacifico finché, malauguratamente, il vecchio marinaio con la
sua balestra uccide l’albatro.
Comincia qui la seconda parte della ballata, col viaggio verso nord ancora spinti dal vento, ma
giunti all’equatore quel vento favorevole smette di soffiare e la nave si ferma, sotto un sole
cocente che li rende assetati, con le gole arse, col mare sotto di loro che sembra imputridire,
ed un demone, abitante dell’Antartide, che li segue dalle profondità marine
“And some in dreams assured were
Of the Spirit that plagued us so;
Nine fathom deep he had followed us
From the land of mist and snow” (vv. 131-4).
Allora la ciurma comprende che uccidere l’albatro è stato un grande sbaglio così, come per
Cristo, il cadavere del grosso uccello viene appeso alle spalle del vecchio marinaio.
La terza parte è quella in cui la ciurma intera, tranne il protagonista della ballata, muore. Le
gole infatti sono arse, secche, nessuno riesce a proferire parola, finché da lontano compare
un’imbarcazione, che nonostante la completa assenza di vento e il mare piatto si avvicina: la
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vela è stracciata, dello scafo rimane solo lo scheletro, tanto che il sole guardato attraverso di
esso sembra in prigione; capiscono così quale immane sciagura si stia abbattendo su di loro
“And straight the Sun was flecked with bars,
(heaven’s Mother send us grace!)” (vv. 177-8).
A bordo di quella spaventosa imbarcazione stanno solo due figure inquietanti che giocano a
dadi, si giocano la sorte dell’equipaggio: sono Morte e Vita-In-Morte, e la seconda vince il
vecchio marinaio
“And the twain were casting dice;
<< The game is done! I’ve won! I’ve won!>>
Quoth she, and whistles thrice.” (vv. 196-8).
Al triplice fischio il sole scomparve di colpo, tutto si fece buio, e non appena la luna giunse a
splendere in cielo uno dopo l’altro i marinai morivano, e nel momento del trapasso
maledicevano con lo sguardo il vecchio marinaio
“One after one, by the star – dogged – Moon,
Too quick for groan or sigh,
Each turned his face with a ghastly pang,
And cursed me with his eye.” (vv. 211-4).
Le loro anime volano in cielo passando accanto al vecchio marinaio, con un sibilo che
richiama la balestra che uccise l’albatro.
La quarta parte si apre con un cambiamento di set, infatti si torna all’ambientazione della festa
di matrimonio, con il giovane convitato che si impaurisce pensando che anche il vecchio
marinaio sia un morto; ma lui è vivo, ha vissuto la morte, l’ha vista coi propri occhi. Prosegue
così il racconto del marinaio, con l’accentuazione della solitudine che sente solo, in mezzo
all’oceano, su una nave coi cadaveri dei suoi compagni di viaggio, così comincia a provare
disprezzo per le creature viscide che vede sott’acqua, nonché per lo stesso mare, putrido
“And a thousand thousand slimy things
Live on; and so did I.
I looked upon the rotting sea,
And drew my eyes away;
I looked upon the rotting deck,
And there the dead men lay.” (vv. 238-243).
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Il marinaio guarda quei corpi morti, che hanno gli occhi fissi su di lui, ancora quegli sguardi
che lo maledicono. Finche, ad un certo punto, sotto la luce della luna, il marinaio comincia a
guardare le cose con occhio diverso: vede le creature del mare adesso splendide
“I watched their rich attire” (v. 278)
e le considera “happy living things” (v. 282), felici creature viventi, e inconsapevolmente le
benedice. In quello stesso istante il marinaio riesce a pregare, e ciò comincia a rompere quella
sorta di incantesimo in cui era caduto
“The self-same moment I could pray;
And from my neck so free
The Albatross fell off, and sank
Like lead into the sea.” (vv. 288-291).
E gli cade dalle spalle, come per magia, l’albatro morto che affonda nel mare. È
l’apprezzamento per la bellezza della natura che salva il marinaio; quelle creature che lui
ammira e benedice sono il simbolo della natura.
Col rompersi dell’incantesimo il marinaio viene pervaso dal sonno, dolce, un sonno che
scende direttamente dal cielo, benedetto dalla Madonna. Siamo qui nella quinta parte, in cui
viene fatta una comparazione tra due opposti, la realtà ed il sogno; il marinaio infatti sogna di
essere tutto bagnato e di vedere i secchi sul ponte della nave traboccanti d’acqua, e così infatti
è, perchè piove davvero; la realtà diventa visionaria
“The silly buckets on the deck,
That had so long remained,
I dreamt that they were filled with dew;
And when I awoke, it rained.” (vv. 297-300).
Comincia a soffiare un forte vento che smuove le vele della nave che erano ferme da tanto
tempo, il marinaio ode suoni stavolta benevoli provenire dal cielo e dal fondo del mare, vede
cose strane in cielo e in acqua; e ad un tratto i corpi dei marinai morti riprendono a muoversi,
animati da spiriti benevoli, che mettono in moto la nave. Non erano demoni o anime dannate,
e si capisce dal fatto che all’alba tutti quei marinai si radunano intorno all’albero maestro e
cominciano ad intonare inni di benedizione verso il cielo, mentre il marinaio udiva suoni
soavi, di natura anche boschiva, di uccelli
“Sometimes a-dropping from the sky
I heard the sky-lark sing;
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Sometimes all little birds that are,
How they seemed to fill the sea and air
With their sweet jargoning!” (vv. 358-362).
A mezzogiorno , calato il vento, la nave continua a muoversi grazie allo Spirito dell’Antartide
che la spinge verso l’equatore, come ha voluto la schiera degli angeli e spiriti benevoli che
muove i corpi dei marinai. Giunti all’equatore lo spirito smette di spingere e la nave si ferma,
fa piccoli movimenti, finché non fa un balzo da far cadere per terra il marinaio senza sensi. In
uno stato tra il sonno e la veglia, tra realtà e sogno, il marinaio ode due voci: sono di due
demoni, compagni dello Spirito dell’Antartide, che intanto faceva rotta verso il Polo Sud, e
discutono del marinaio e di ciò che l’aspetta
“‘Is it he?’ quoth one, ‘Is this the man?
By him who died on cross.
With his cruel bow he laid full low
The harmless Albatross.’” (vv. 398-401),
“Quoth he, ‘The man hath penance done,
And penance more will do. (vv. 408-9),
il marinaio non ha finito di scontare la sua pena, perchè lo Spirito dell’Antartide vuole la sua
vendetta.
La sesta parte si apre col marinaio ancora nello stato di trans ipnotico, mentre ode ancora i
due demoni sulla nave parlare e discutere sulla nave che, nonostante manchi vento, corre tanto
veloce da non permettere al marinaio di svegliarsi. E un demone spiega all’altro che la nave si
muove così veloce perchè il mare obbedisce alla luna, secondo la gerarchia della natura: la
luna, divina, ordina al mare di far viaggiare la nave veloce verso casa.
Quando si sveglia il marinaio, la nave procede lenta, ma lui deve proseguire la sua penitenza:
infatti i corpi dei marinai stanno tutti in piedi, e lo fissano con occhi di pietra, “stony eyes” (v.
436), tanto da non poter volgere lo sguardo al cielo e pregare
“I could not draw my eyes from theirs,
Nor turn them up to pray.” (vv. 440-1).
Ad un tratto però la maledizione si spezza, il marinaio ricomincia a vedere la natura nel suo
reale splendore, sempre però impaurito, perchè ha visto la morte, e ha paura di voltarsi
indietro e rivederla ancora; c’è qui un paragone con Dante, che nell’Inferno si appresta ad
entrare e si volta per l’ultima volta a guardare il mondo dei vivi, tanto che Coleridge nel testo
originale della ballata pone accanto, come nota “from Dante”. Riprende a sentire il vento, che
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però soffia solo su lui, stranamente, finché non comincia ad intravedere la costa, il porto, il
faro, la sua terra, così felice da non capire se è realmente vivo o morto, sveglio o ancora
sognante
“O let me be awake, my God!
Or let me sleep alway” (vv. 470-1).
C’è ancora similitudine tra lo stato di vita e di morte, di veglia e sogno.
Adesso le anime beate, i serafini, lasciano i corpi del marinaio e ritornano al cielo, salutando il
vecchio marinaio
“It was a heavenly sight!” (v. 493)
che si sente bene, e sente una musica che proviene dal suo cuore
“This seraph-band, each waved his hand,
No voice did they impartNo voice; but oh! the silence sank
Like music on my heart.” (vv. 496-9).
C’è subito il ritorno alla realtà; il marinaio vede da lontano, all’interno della baia in cui si
specchia la luna, una barca che si avvicina in cui stanno tre uomini: il pilota, il mozzo e
l’eremita che viene dal bosco e laverà il peccato dell’uccisione dell’albatro, l’uccello sacro.
Nell’ultima parte vediamo che l’eremita rimane impressionato alla visione di quella nave
spettrale, dallo scafo contorto, consumato, dalle vele stracciate e lise, finché tutto d’un tratto
non ritorna il soprannaturale: dalle profondità del mare si ode un rumore forte, il mare si apre
e la nave del vecchio marinaio si inabissa
“Under the water it rumbled on,
Still louder and more dread:
It reached the ship, it split the bay;
The ship went down like lead.” (vv. 546-9).
Il vecchio marinaio si salva e si risveglia a bordo della barca dell’eremita, ma appena apre
bocca il pilota muore, e appena si mette ai remi il mozzo comincia a delirare, impazzito, e lo
prende per il diavolo
“Laughed loud and long, and all the while
His eyes went to and fro.
‘Ha! ha!’ quoth he, ‘full plain I see
The Devil knows how to row.’” (vv. 566-9).
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Giunti a terra il vecchio marinaio chiede all’eremita di essere confessato, che accetta, così il
marinaio può raccontare per la prima volta l’avventura che ha fatto; in questo momento viene
descritta la dinamica di come nasce la poesia nell’animo poetico, figlia di un’esperienza
strana che causa un forte turbamento interiore. Infatti quando il marinaio sente dentro di se
una forte agonia, ha bisogno di raccontare la sua storia
“Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told,
This heart within me burns.” (vv. 582-5).
Così è accaduto per il convitato al matrimonio.
La ballata si conclude col marinaio che esprime nostalgia per la chiesa, un luogo in cui la sua
anima dannata non potrà mai più entrare, con una morale finale: bisogna amare la natura ed
ogni creatura vivente per poter amare bene Dio
“He prayeth well, who loveth well
Both man and bird and beast.
He prayeth best, who loveth best
All things both great and small;
For the dear God who loveth us,
He made and loveth all.” (vv. 612-7)
Sene va dal matrimonio il vecchio marinaio, ma se ne va anche il convitato, con una nuova
consapevolezza, nata dalla storia ascoltata: si sente adesso come lui
“He went like one that hath been stunned,
And is of sense forlorn:
A sadder and wiser man,
He rose the morrow morn.” (vv. 622-5).
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Bibliografia:
Buffoni, F. (2005). Poeti romantici inglesi. Milano: Oscar Mondadori.
Coleridge, S. T. (1985). La ballata del vecchio marinaio. A cura di Ginevra Bompiani.
Milano: Biblioteca Universale Rizzoli.
Wellek, R. (1961). Storia della critica moderna. Bologna: Società editrice Il Mulino.