Il regalo di compleanno
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Il regalo di compleanno
2 Tanti modi di raccontare – Il racconto di fantasmi Marjorie Darke Il regalo di compleanno 1. guerra: la Seconda guerra mondiale. «Ridotte in poltiglia, proprio così», disse il vecchio Fatty Scrimshaw. «Disintegrate. Dico davvero. Non era rimasto in piedi neanche un mattone.» Il vecchio Fatty Scrimshaw vive sul nostro pianerottolo nel palazzo della Torre e capita spesso a casa nostra per scambiare due chiacchiere. Il che significa che va avanti per ore a parlare dei tempi della guerra1. Eccolo là che ricominciava, puntando il dito verso il pavimento di cucina. «Qui, proprio nel punto in cui sono adesso. Trentotto anni fa, anno più anno meno. Un’intera fila di case, sa, di quelle coi laboratori di tessitura al piano di sopra. Costruzioni solide, fatte per durare. Una bella beffa, se ci si pensa bene! Sparite in un baleno in un bombardamento, in meno di quanto ci metta io a raccontarlo, signora Hollins», concluse, emettendo un profondo sospiro e scuotendo la testa rivolto alla mamma. «E poi…?», urlò la mamma, perché il vecchio Fatty è più sordo di sei campane messe insieme. «Quant’è vero che il sole sorge tutti i giorni», proseguì contento il vecchio Fatty, «qui, in questa casa, viveva O’Malley, con sua moglie e una nidiata di bambini. Erano un bel gruppetto di monellacci! Dio del cielo… quel che erano capaci di inventarsi quei ragazzi! E che scherzi! Peggio di un branco di scimmie!» Si fermò e rise, al ricordo. Poi proseguì. «E già… e laggiù, più o meno sotto la stanza del suo Kevin, stavano i Dreefes. Il signor Dreefes, sua moglie e…» Smisi di ascoltare e mi concentrai sulla maniera per uscire di casa. Il signor Scrimshaw stava proprio davanti alla porta, praticamente seduto sulla maniglia. Misurai a occhio lo spazio, ma era impossibile passarci perché lui è grosso come un armadio! Se avessi chiesto «Permesso», avrei dovuto urlare e la mamma avrebbe voluto sapere dove pensavo di andare a quell’ora di sabato sera, quando la squadra di calcio della città stava giocando con gli Spurs. Sapete, la mamma di solito è brava, ma va fuori di zucca come una zucchina quando si tratta di partite di calcio e di «teppisti»: termine con cui definisce chiunque vada allo stadio. Ho tentato di spiegarle che si sbaglia, ma è come cercare di spostare un macigno con una piuma. Io non sono patito di calcio come mio fratello Dave. E non ho nessuna voglia di vedere gli Spurs farci la festa! Ma detesto l’idea di essere bloccato in un appartamento a cinque piani da terra il sabato pomeriggio, quando non c’è niente alla TV, a parte qualche film mediocre, e lo skateboard mi chiama dal suo angolo perché lo prenda Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education 1 2 Tanti modi di raccontare – Il racconto di fantasmi e sfrecci via. C’è un’altra cosa che la mamma non approva affatto: gli skateboard. Li chiama «Ammazza vecchiette». Stava quasi per menare Dave, quando me l’ha regalato per il mio compleanno. Ora fissavo disperato il vecchio Fatty che continuava a parlare di bombardamenti. Gemetti fra me e me. Accidenti, non c’era davvero speranza! E proprio allora, inaspettatamente, la mamma (sì, la mamma!) venne in mio aiuto. «Ma si accomodi in cucina, signor Scrimshaw», urlò. «Si sieda e si riposi un po’ le gambe. Le preparo una bella tazza di tè.» Non sprecai altro tempo. Ci avrebbe messo almeno cinque minuti a fare il tè. Quindi tirai fuori lo skateboard da dietro la scatola dove Dave tiene i pezzi di ricambio della sua moto, volai fuori di casa e avevo già fatto tre piani quando sentii la mamma chiamare: «Kev… Kevin!». Continuai a correre. Al ritorno mi avrebbe dato una bella battuta, ma ne sarebbe valsa la pena. Avevo due possibilità per raggiungere il posto in cui ero diretto. La strada più lunga passava per vie illuminate, ma c’era anche una scorciatoia attraverso il cimitero. Al buio faceva un po’ paura. La luce arancione dei lampioni a nafta della strada principale filtrava attraverso gli alberi mossi dalla brezza, disegnando sul terreno strane ombre simili a lunghe zampe di ragno che sembravano volerti ghermire. C’era un bel vento teso, ma mi arrischiai lo stesso. L’aria scuoteva i rami e li faceva scrocchiare come dita nodose. Potete immaginare come mi sentii quando un ramo mi si impigliò fra i capelli. Feci un salto alto sei metri, degno di un campione olimpionico! Fui davvero felice quando sbucai sulla strada illuminata e raggiunsi la diga. Arrivai alla strada principale che delimita il centro della città. Una parte di essa è sopraelevata e sotto ci passa una serie di traverse. C’è anche un sottopassaggio per i pedoni. In fondo la strada si biforca: a sinistra c’è la stazione e a destra Jakes Road. Andare sullo skateboard non sarebbe permesso, ma un sacco di ragazzini lo fa. Devi solo stare attento che qualche impiccione non faccia la spia. Quando arrivai era ormai completamente buio. Le automobili sfrecciavano rombando sulla strada principale. Posai a terra lo skateboard. Un paio di spinte con il piede sinistro ed ecco che sfrecciavo in un otto perfetto intorno a un tipo con stivali da cowboy e vestito di velluto nero. Poi una sterzata a sinistra per evitare di andare a sbattere contro una donna indiana che spingeva una carrozzina. Ci sono momenti in cui ti sembra che tutto sia perfettamente sincronizzato. L’equilibrio, i tempi, la fiducia nelle tue capacità… tutto quanto. Questo era uno di quei momenti. I brividi e la paura che avevo provato prima al cimitero erano totalmente spariti. Mi sentivo in perfetta forma. Ero formidabile mentre sfrecciavo, mi accucciavo, mi piegavo e serpeggiavo da un lato all’altro della strada. FanRosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education 2 2 Tanti modi di raccontare – Il racconto di fantasmi 2. abbarbicato: attac- cato. 3. Annuì: disse di sì. tastico! Ma sapevo che al ritorno avrei fatto centomila volte meglio. Raccolsi lo skateboard e mi avviai lungo il pendio. Fu allora che lo vidi. Era in cima alla salita: un bambinetto smilzo, abbarbicato 2 su due pattini troppo grandi per lui. Erano vecchi schettini con le rotelle di acciaio e facevano uno strano effetto, in fondo a quelle gambette a fiammifero. Non potei fare a meno di chiedermi dove li avesse trovati – sicuramente in qualche negozio di roba usata. I suoi occhi, immensi nella faccia appuntita, mi scrutavano con aria furtiva. Non sembrava un bambino piccolo. Aveva uno strano aspetto, a metà tra il giovane e il vecchio, che rendeva difficile dargli un’età. Ma portava i pantaloni corti e la cosa mi sembrò abbastanza curiosa in una sera di novembre così gelida. E poi aveva delle mani enormi, appese a polsi sottili che sbucavano dalle maniche di un maglione decisamente troppo corto per lui. Devo ammettere che mi irritai un po’. «È meglio che non mi venga in mezzo ai piedi», pensai, posando nuovamente lo skateboard. Mi ero preparato a fare una sequenza punta-tacco spettacolare e non volevo certo inciampare in quel gamberetto coi pattini dell’età della pietra. Due colpi di piede destro e sfrecciai via di nuovo. Con tutt’e due i piedi su, questa volta. A cento all’ora attraverso l’imboccatura del sottopassaggio. Ma non ero solo. Il ragazzino mi si era messo proprio dietro. Lì per lì mi arrabbiai come un matto. Quel pidocchioso… che credeva di fare? Ma la furia mi passò in fretta. Se io ero fantastico, lui faceva cose dell’altro mondo! Non c’era nulla che non riuscisse a fare con quei pattini arrugginiti: curve, svolte, otto… di tutto. Confesso che provai una certa invidia. Sfrecciammo verso la stazione. Gli sorrisi con ammirazione: non potei farne a meno. E lui mi rispose con un sorriso. Poi, senza una parola, ci slanciammo come un sol uomo, come se ci fossimo esercitati per intere settimane. Intrecciandoci, piroettando, incrociandoci con la precisione di un orologio. Favoloso! Arrivato alla fine di Jakes Road mi fermai per riprendere fiato. Anche l’altro si era fermato e notai che mi osservava. Il suo sguardo esprimeva un grande desiderio e io sapevo esattamente cosa voleva. «Vuoi fare un giro con questo?», gli domandai con disinvoltura, perché non capisse che morivo dalla voglia di provare i suoi pattini. Annuì3 e la sua faccetta pallida s’illuminò. «Allora facciamo due volte su e giù per la strada. Dài, dammi i tuoi pattini.» Facemmo cambio e cominciai ad allacciarli. Nello stesso momento sentii un’eco rimbombante: un suono di voci e dei botti, come se qualcuno stesse colpendo con forza settantasei taniche di benzina. Scossi la testa e il rumore si affievolì, ma non sparì del tutto. Ero un po’ preoccupato. Per distrarmi mi concentrai sui lacci degli schettini e domandai al bambino come si chiamava. Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education 3 2 Tanti modi di raccontare – Il racconto di fantasmi 4. brutti ceffi: persone poco raccomandabili. 5. tibia: osso lungo della gamba. «Stan.» Sentii chiaramente il suo nome anche se potrei giurare che non aveva aperto la bocca. Prese il mio skateboard, lo posò a terra e schizzò via come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. «Fermati!», urlai, alzandomi in piedi e barcollando come un ubriaco, cercando di seguirlo sotto il tunnel. «Aspettami!» Mi sentivo un perfetto imbecille, davvero. Rischiai di andare a sbattere contro il ponte per ben due volte. Con addosso i suoi pattini, che prima sembravano magici, mi trasformai in un bamboccio goffo e imbranato. Sbandai pericolosamente. Mi raddrizzai e scoprii che il ragazzino era scomparso. Per giunta il rumore di prima, che sembrava quasi svanito, si fece sentire di nuovo. Questa volta era un frastuono vero e proprio. Un gruppo di brutti ceffi4 con sciarpe e cappelli del colore della propria squadra stava venendo verso di me. La maggior parte aveva in mano una lattina di birra che, a giudicare dai canti e dalle urla che risuonavano nel sottopassaggio, non doveva essere la prima della serata. Pensai troppo tardi ai racconti raccapriccianti di mia madre sulla crudeltà dei «teppisti» per fare in tempo a nascondermi: mi avevano già visto e iniziarono a strillare: «Ehi, guarda un po’ chi c’è qui…». «Già, guarda Braccio di Ferro…» «No, non è lui…» «Ma sì, prima di mangiare gli spinaci…» «Facci fare un giro sui tuoi pattini, amico…» Volevo scappare, ma non era possibile con quei piedi che mi scivolavano da tutte le parti. Mi voltai a metà su me stesso, cercando una via di scampo, e vidi Stan all’imbocco del tunnel. Era dritto in piedi sul mio adorato skateboard. Anche i teppisti lo videro. «Scendi da quella tavola, scricciolo!» «Scappa, Stan», strillai. «Vattene… svelto!» Un istante dopo mi arrivò addosso una lattina, lanciata da uno dei teppisti, che mi colpì sulla tibia5. Persi l’equilibrio e andai a sbattere contro uno dei suoi amici, che mi spinse contro un altro e poi contro un altro ancora: ogni volta con più violenza. Loro ridevano, ma io ero davvero spaventato. All’improvviso, con la coda dell’occhio, vidi che qualcosa stava precipitandosi verso di noi. Diritto e veloce come una pallottola. Stan. Sul mio skateboard! Anche gli altri lo avevano visto. Uno dei teppisti allungò un braccio, con l’intenzione di afferrare Stan e di tirarlo giù dallo skateboard, ma si immobilizzò sconvolto. Perché Stan ci passò attraverso. Sì, attraverso! Come una nave che fende le onde. Ancora adesso non riesco a spiegarmi cosa sia successo. Tutto ciò che ricordo di quel momento è un freddo terribile, Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education 4 2 Tanti modi di raccontare – Il racconto di fantasmi gelido e un silenzio assordante. Quanto durò quel momento è un altro mistero. Un secondo? Un anno? L’uno e l’altro, forse. Poi sentii nuovamente i rumori intorno a me. Rumori di passi frettolosi mentre i teppisti fuggivano via, spaventati a morte, lasciandomi stordito e completamente solo. No. Non è vero. Non ero completamente solo. Con me c’era lo skateboard, appoggiato al muro in fondo al tunnel. Niente Stan, però. E neppure i suoi pattini. Raccattai lo skateboard e continuai a correre senza fermarmi, costeggiando il molo e attraversando il cimitero. Correvo e correvo. Avevo un solo pensiero: CASA! Quando arrivai il vecchio Fatty Scrimshaw era ancora lì. E non aveva ancora finito di raccontare la sua storia preferita. «Tutti morti… tutti», stava dicendo. «Ogni singolo uomo, da non crederci!» E scosse la testa calva. La mamma annuì, gli occhi incollati alla faccia del vecchio, come se fosse la prima volta che ascoltava quel racconto. Il vecchio Fatty cavò fuori di tasca un grande fazzoletto stropicciato e si soffiò il naso. «Ogni singolo uomo… meno il più piccolo della famiglia Dreefes. Lui non lo ritrovarono. Badi bene, molte persone scomparvero quella notte. Che buffo ragazzino era quello. Silenzioso. Sottile come una canna, con delle mani enormi.» Un brivido ghiacciato mi partì da dietro le orecchie e scese giù per il collo. Volevo fare una domanda, ma mi rimase incastrata tra le labbra. «Dov’era finito?», strepitò la mamma. Il vecchio Fatty emise un profondo sospiro e scrollò le spalle colossali. «Era andato a fare un giro con quei vecchi schettini che gli aveva regalato suo fratello. Ce li aveva sempre ai piedi. Badi bene, nessuno l’aveva visto allontanarsi. Ma sono sicuro che è andata così. Era molto affezionato ai suoi pattini. Ed era così bravo che avrebbe potuto gareggiare.» Si chinò verso la mamma e, alla luce della lampada, vidi che i suoi occhi erano umidi. «Ogni santo giorno andava in cima alla strada principale, si buttava giù a tutta forza, disegnava un otto perfetto e si fermava davanti alla porta, immobile, dritto come un fuso.» La mamma sembrava tutta presa dal racconto. Non mi aveva ancora visto. «Ma non può essere svanito nel nulla!» Il vecchio Fatty sospirò di nuovo. «Quella notte sganciarono moltissime bombe.» «Vuol dire che non riuscirono a trovare la minima traccia del ragazzo, neppure un capello?» Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education 5 2 Tanti modi di raccontare – Il racconto di fantasmi «Niente. Neanche una ruota degli schettini.» Ero rimasto fermo come un palo per tutto quel tempo, ma il vecchio staccò lo sguardo da mia madre e lo fissò su di me. «Non si può dire che non lo usi lo skateboard che hai ricevuto in regalo per il tuo compleanno, eh Kevin?» La mamma si girò sulla sedia. Aveva la fronte aggrottata e io cominciai a tremare in tutto il corpo. Sentii che diceva, con voce penetrante: «Quello skateboard…». Poi si fermò, sbuffò e mi fissò. Il viso tirato si rilassò e mi porse la scatola dei biscotti. Stava quasi sorridendo. Rischiai di raccontare tutta la storia per filo e per segno, soprattutto perché il povero signor Fatty aveva ancora gli occhi lucidi. Ma qualcosa mi trattenne. Scivolai nella mia camera e chiudendo la porta dissi sottovoce, perché nessuno mi sentisse: «Grazie, Stan!». (in L’aquilone del diavolo, a cura di J. Russell, Salani, Milano, rid. e adatt.) 6 Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education