Scarica il documento

Transcript

Scarica il documento
20
Tra finzione e realtà
Una pellicola del 1975 sembra anticipare
la “conquista” del capoluogo lombardo da parte della criminalità
Domenica 7 dicembre 2008
’NDRINE A
MILANO
FILM GIA’ VISTO
di MICHELE PINGITORE
l film "Milano: il clan dei calabresi" del 1975, diretto da
Giorgio Stegani, sembra un
deja vu. I protagonisti sono
Antonio Sabato, Silvia Monti, Pier Paolo Capponi e Nicoletta
Rizzi e la pellicola pare aver anticipato di quasi 35 anni l'attualità.
La cronaca di qualche mese fa ha
riportato la notizia di una banda
sgominata a Milano, guidata da
un boss di Petilia Policastro, Mario Carvelli detto "il Poma". Un
malvivente che controllava vasti
settori della droga e compiva altre attività illegali nel capoluogo
lombardo insieme alla sua banda,
di cui sono stati arrestati 29 membri. La cosiddetta "'ndrangheta
emigrata" non è nuova a Milano e
in altre zone del nord Italia già da
molti anni. Ma nel film citato le similitudini con la vicenda del "Poma" sono sorprendentemente
molteplici. Sia nella realtà che
nella finzione i boss calabresi subiscono una vendetta trasversale
da parte dei gruppi malavitosi rivali. Nel film è stato lo stesso protagonista ad essere vittima di un
attentato, mentre nella realtà la
banda Carvelli è stata colpita sia
da mano esterna che interna.
Un altro comune denominatore è il lusso dei personaggi coinvolti: nel film, il protagonista
sfreccia in città con un’auto sfarzosa, mentre l'operazione di polizia che ha sgominato la banda
Carvelli ha visto il sequestro di
32 veicoli, tra moto e macchine di
grossa cilindrata.
"Milano: il clan dei calabresi" è
un film poliziesco che all'epoca fece scatenare
(e può farlo ancora oggi) gli immancabili pregiudizi legati all'immagine del calabrese poco di buono. La pellicola è densa di luoghi comuni e stereotipi, che forse in fondo esistevano solo nella testa degli sceneggiatori del
film. Citiamo uno di quelli più ovvi, quando
un personaggio secondario in questura urla:
«che tutti i terroni vengano mandati a casa loro». Ma gli risponde pacatamente e saggiamente un maresciallo: «Sì, bravo, mezza città
compreso me».
Pregiudizi a parte, il film rientra in quel cinema poliziottesco tanto in voga negli anni
'70, e che ha trovato anche recentemente una
sua versione in dvd, quindi ancora un pubblico di fruitori.
Paolo Mancuso, calabrese d'origine, arriva
con la moglie a Milano in cerca di fortuna. Ma
dopo aver sofferto la miseria e la fame, non
trova di meglio che cercare di arraffare miliardi inserendosi nel giro della malavita che
controlla il traffico della droga e della prostituzione. Riesce in pochi anni a diventare un
temuto boss della mafia, ma la sua fortuna
scatena contro di lui l'ostilità delle bande rivali. Braccato durante un agguato, si rifugia in un laboratorio biologico dove viene morso da una cavia portatrice di un
virus letale. Destinato ad una
morte certa entro venti ore, decide di trascinare con sé molti
dei suoi avversari, per poi morire in una baraccopoli linciato
dai suoi abitanti.
È un film, che pur se in modo superficiale,
cerca di configurare in chiave sociologica la
condizione del cosiddetto "calabrese", che cerca di affrancarsi dalla miseria della propria
regione per cercare maggior fortuna a Milano. Ma le circostanze non gli permettono d'inserirsi onestamente in quel tipo di società e
diventa così un delinquente.
Film del genere all'epoca ne venivano prodotti a ritmi costanti. Perché rientravano in
quel cinema di genere spettacolare che tanto
I
Alcune scene
del film
“Milano: il
clan dei
calabresi”
riempiva le sale e tanto lasciava di stucco la
critica. Una critica che solo decenni dopo
avrebbe capito il loro vero valore.
Sì, perché questo era uno di quei film d'intrattenimento che sfruttavano gli istinti più
immediati di un pubblico semplice. Probabilmente, tutte le analisi sociologiche o antropologiche che sono state addebitate successivamente, non sono altro che l'altra faccia indispettita e sospetta di quegli stessi critici che
all'epoca ignoravano film del genere.
Tuttavia, ancora oggi “Milano: il clan dei
calabresi” mantiene un suo fascino che il regista ha saputo costruire ad hoc su una trama che talvolta diventa avvincente.
Il film è una versione aggiornata quindici
anni dopo di "Rocco e i suoi fratelli", con tutte
le sue contraddizioni rimaste irrisolte. La
storia è quella dell'agonia di un boss. Un calabrese testardo e cocciuto che cerca di mantenere i propri principi. In alcune circostanze
la storia diventa quasi melodrammatica.
Quando il film inizia il protagonista è già
da molti anni quel personaggio temuto e contrastato: uno dei signori della città con macchine di lusso, un’amante bellissima e affari
anche in attività commerciali
di facciata, che gli servono per
coprire le attività illecite.
Durante un incontro struggente con la moglie, verso la
fine del film, apprendiamo in
un loro dialogo tutto quello
che non abbiamo visto sullo
schermo. Quando erano poveri e insieme arrivarono a Milano, il protagonista stesso dice: «un pezzente
con una famiglia di pezzenti». Proprio per
questo il loro unico figlio muore di polmonite, perché la casa dove vivevano era troppo
umida. Quindi anche per questo motivo decide di darsi all'illecito, perché come dice, «nessuno mi ha mai dato nulla e allora o preso tutto quello che ho potuto».
In tutto il film c'è soltanto una breve scena
in dialetto calabrese, quando il protagonista,
ormai braccato da tutti, ritorna alla propria
Il regista Stegani
racconta il successo
e il declino di un boss
base e ad attenderlo fedele è rimasto
soltanto Renzo, un giovane ragazzo
calabrese. «Senza di voi a Milano sarei morto di fame», gli dice. Per ricompensarlo della sua fedeltà, Mancuso gli dà dei soldi e gli ordina di
tornarsene in Calabria.
Ma nel film fanno la loro apparizione, seppure fugacemente, altri
personaggi calabresi di contorno,
tutti però ormai integrati nella vita
metropolitana della città come
quello soprannominato "Merenda",
una sorta di magnaccia, o una prostituta di Cosenza che si fa chiamare Carmine
Marcella.
Se andiamo a sbirciare le critiche cinematografiche dell'epoca, quando il film uscì in
prima visione, scopriamo che su due importanti quotidiani nazionali i giudizi e i parametri di valori sono quasi all'opposto. Il Corriere della Sera stronca completamente l'intento e il film stesso con queste parole: «Gran
parata di teppisti, prostitute, barboni ed
emarginati di vario genere, sullo sfondo della "mala" calabrese nelle periferie della Milano industriale. (…) La farraginosa vicenda trova il proprio
epilogo in un'improbabile bidonville alle porte della città,
fra sanguinari "barboni" che
rovesciano il mito edificante di
Miracolo a Milano. Questa
specie di citazione alla rovescia è forse il solo segno che attesti una vaga consuetudine
col cinema del regista Giorgio Stegani, che
per il resto ostenta il più assoluto analfabetismo per quanto riguarda la tecnica del racconto ed il linguaggio della cinepresa. Fra le
cose più esilaranti di questa mal riuscita imitazione di film, condita dalla solita immancabile dose di violenza, sono da segnalare gli
estemporanei predicozzi di alcuni personaggi di contorno, che illustrano con insulsa retorica i disagi della condizione meridionale».
Mentre ben diversa è stata invece la recen-
sione
uscita sul quotidiano "Il Giorno",
che seppure non esalta l'opera cerca almeno
di mettere in risalto alcune sue caratteristiche: "Salita e caduta di un uomo, con tentativo
di una vaga, e qualunquistica analisi sociologica, sono rappresentati con efficacia dal regista Giorgio Stegani, padrone dei mezzi cinematografici che gli consentono di mantenere la tensione per tutto l'arco della vicenda.
Tensione e nient'altro. Antonio Sabato, sia
pure con qualche riserva, è un buon protagonista. Meglio di lui Nicoletta
Rizzi, intensamente espressiva, e Silvia Monti. (…) C'è anche una trovatina che vorrebbe collegare i giorni del dopoguerra milanese agli attuali:
le scene finali, drammatiche,
sono girate in un villaggio di
catapecchie che ricorda, nella
struttura, nei personaggi che
la popolano, persino nel dinamismo della scena, "Miracolo a Milano". ma anche qui siamo
ad un gioco tutto di testa, non approfondito, e
perciò non attendibile».
E se nel film il potente boss calabrese muore da solo, quasi come un martire, nella realtà
anche dopo che è stata sgominata la banda
Carvelli, come viene scritto nella relazione
della Commissione parlamentare antimafia
«l'emergenza 'ndrangheta in Lombardia non
è sicuramente ancora risolta».
Scontri tra clan
droga, prostituzione
e auto di lusso