13 Agosto 1980 Castelvetrano (TP). Ucciso Vito

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13 Agosto 1980 Castelvetrano (TP). Ucciso Vito
13 Agosto 1980 Castelvetrano (TP). Ucciso Vito Lipari. Sindaco DC.
Era il sindaco di Castelvetrano, città in provincia di Trapani. È stato ucciso il 13 agosto 1980
dai mafiosi Mariano Agate, Francesco Mangione, Rosario Romeo e Nitto Santapaola, su ordine
di Nitto Santapaola. Si sarebbe scoperto, poi, che Lipari era stato ucciso perché aveva
cercato di smascherare gli imbrogli che avvolgevano la ricostruzione della valle del Belice,
dopo il terremoto del 1968.
Fonte: claudiofava.it
Capire la Mafia: il mafioso, il capitano e il cavaliere
di Claudio Fava, Miki Gambino e Riccardo Orioles
da "I Siciliani", novembre 1984
Ore 9,15. Vito Lipari esce da casa - una bella villa sul litorale di Triscina, a pochi chilometri da
Castelvetrano - e sale sulla sua Golf: è diretto al municipio, deve presiedere una riunione di
giunta. Ed è già in ritardo. L'auto dei killer gli si affianca all'uscita di una curva, Lipari se ne
accorge pochi istanti prima che gli assassini - tre, forse quattro persone - aprano il fuoco contro
di lui. Vito Lipari resta fulminato; l'ultima revolverata, il colpo di grazia, gliela esplodono a pochi
centimetri dalla faccia, per sfigurarlo. Muore così, la mattina del 13 agosto 1980, il sindaco
democristiano di Castelvetrano, 45.000 preferenze alle ultime politiche, una solida amicizia con
la famiglia degli esattori Salvo ed un'agendina in tasca con troppi numeri di telefono.
Il delitto è un lavoro da professionisti: rapidissima la sequenza, nessun testimone, nessun
indizio, nulla. E' solo un caso che, tre ore dopo, una pattuglia dei carabinieri fermi ad un posto
di blocco alle porte di Mazara del Vallo una Renault 30 targata Napoli. Quattro persone a bordo
- tratti del viso duri, sguardo inespressivo, un imbarazzato silenzio - e basta un'occhiata ai
documenti per convincere i carabinieri a proseguire la conversazione con quei quattro in
caserma. Per Nitto Santapaola, Mariano Agate, Francesco Mangione e Rosario Romeo è un
pericoloso intoppo.
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Solo quattro anni dopo - la dimensione del tempo, per la giustizia siciliana, segue ritmi insoliti la breve cronaca di questa vicenda comincerà ad assumere contorni più precisi. Dunque: il
pomeriggio del 13 agosto 1980 ci sono quattro pregiudicati in camera di sicurezza dai
carabinieri di Mazara, la loro auto è sorvegliata nel cortile della caserma ed il pretore De
Agustinis redige puntigliosamente un verbale di arresto. Per reticenza, falsa testimonianza e
violazione degli obblighi di soggiorno. Ma c'è anche quell'omicidio, a Castelvetrano. Che ci
facevano Santapaola ed i suoi amici a ducentocinquanta chilometri dalla loro città?
E' semplice, signor giudice, volevo acquistare cocomeri, spiegherà Santapaola. Per la mia
bancarella in piazza Carlo Alberto, a Catania; c'è scritto pure qui, guardi, nei miei documenti:
Santapaola Benedetto, classe 1938, venditore ambulante di generi ortofrutticoli. D'accordo,
signor Santapaola; ma gli amici di Catania che erano con lei stamattina? Amici, appunto. E
Mariano Agate? Un amico anche lui, spiega Nitto, ha una fabbrica di calcestruzzi a Trapani, qui
conosce molta gente. E il mercato dei cocomeri, in agosto, è pieno di insidie...
Lasciamo perdere. Convalidiamo i fermi, guanto di paraffina per tutti e quattro, poi
trasmettiamo gli atti al Procuratore di Marsala. Un momento, signor giudice, ha detto guanto di
paraffina? E allora io vorrei far mettere a verbale che forse il guanto darà esito positivo. Perché
ieri pomeriggio ho partecipato ad una battuta di caccia. Da un amico di Catania...
E l'appuntato, diligente, verbalizza tutto: Santapaola Benedetto a domanda risponde che ieri
pomeriggio, 12 agosto 1980, si trovava nella tenuta di caccia del signor... Due giorni dopo il
fascicolo arriva a Marsala, sulla scrivania del Procuratore capo Coci (lo stesso che dovrebbe
sostituire il collega Lumia di Trapani dopo il recente repulisti voluto dal Csm). Poche paginette
di verbali, molti indizi a carico dei quattro ma anche alcuni alibi da verificare.
E la verifica viene affidata ad un solerte ufficiale dell'Arma, il capitano Vincenzo Melito,
comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Trapani. Melito parte per Catania, e
ritorna a Marsala tre giorni dopo: alibi confermati, signor Procuratore, Benedetto Santapaola e i
suoi amici con il delitto Lipari non c'entrano. Dopo otto giorni trascorsi nelle camere di
sicurezza, Santapaola, Romeo, Mangione e Agate vengono scarcerati. Con tante scuse.
Quattro anni dopo, dicevamo. Vincenzo Melito, ormai ex-capitano dell'Arma, viene raggiunto da
un mandato di cattura dell'Ufficio Istruzione di Marsala. L'accusa è grave ed anche piuttosto
semplice nella sua articolazione: Melito avrebbe avallato il falso alibi di Santapaola e in cambio
avrebbe ricevuto la stessa auto su cui Nitto ed i suoi amici erano stati fermati la mattina
dell'omicidio Lipari, una Renault 30 TX appena immatricolata dalla Pam Car di Catania, la
concessionaria di Santapaola. L'alibi del boss, insomma, è falso.
A proposito dell'alibi, ricordate? Sono andato a caccia, signor giudice, aveva avvertito don Nitto
quando era stato fermato dai carabinieri di Mazara. E a verbale aveva fatto mettere anche il
nome dell'amico catanese che lo avrebbe invitato a caccia nelle sue proprietà. Oggi, tutto
questo appartiene definitivamente alla cronaca. Tutto, tranne l'identità dell'"amico catanese".
«...in una tenuta di caccia nei pressi di Catania» taglia corto il Giornale di Sicilia; «Un potente e
noto personaggio di cui non si è mai fatto il nome...» aggiunge nel pomeriggio il quotidiano
palermitano L'Ora; nemmeno La Repubblica va oltre il generico riferimento ad «...un
personaggio di primissimo piano di cui non si è mai saputo il nome».
La parola d'ordine, insomma, è quella di non sbilanciarsi; non, almeno, come aveva fatto la
stessa Repubblica nell'autunno di due anni fa quando, traendo spunto dallo scandalo sulle
fatture false - in cui erano coinvolti i maggiori imprenditori siciliani - aveva rispolverato il delitto
Lipari, l'arresto di Santapaola e l'alibi della battuta di caccia. Ed aveva fatto un nome, quello
dell'imprenditore catanese Gaetano Graci: proprio il cavaliere del lavoro - era scritto - avrebbe
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confermato l'alibi di Santapaola dicendo che il giorno prima del delitto il boss catanese era stato
in una sua tenuta di campagna, per una battuta di caccia.
Ma il nome di Graci oggi ricorre anche in altro modo - e con accenti ben più inquietanti - sullo
sfondo del delitto Lipari e dell'alibi fornito da Santapaola. D'accordo, signor giudice, non c'è
stata solo una battuta di caccia, avrebbe fatto verbalizzare Santapaola dopo il suo arresto,
quella mattina del 13 agosto 1980 eravamo a Mazara soprattutto per portare a termine un
delicato incarico. Ed in quel verbale d'interrogatorio è detto, con estrema chiarezza, di quale
incarico si trattava.
In principio c'erano stati alcuni fortunati appalti che le imprese di Gaetano Graci si erano
aggiudicate nella zona di Trapani pochi mesi prima del delitto Lipari: costruzione di alcuni
complessi per edilizia popolare ed altri lavori pubblici da cui il cavaliere avrebbe ricavato
qualche decina di miliardi. Del resto, non era la prima volta che l'imprenditore catanese
impiantava i propri cantieri in quella provincia: in passato Gaetano Graci era riuscito ad
aggiudicarsi altri eccellenti appalti, puntando anche su una solida alleanza con altri due cavalieri
catanesi, Carmelo Costanzo e Mario Rendo (l'ultima realizzazione del consorzio Re.Co.Gra. è
l'ampliamento dell'aeroporto di Pantelleria).
In quell'estate dell'80, però, qualcosa non stava andando per il verso giusto: subito dopo
l'aggiudicazione degli appalti, contro operai e tecnici dell'impresa Graci erano iniziate le prime
intimidazioni, le minacce, gli avvertimenti; e la matrice - criminalità locale, probabilmente
spalleggiata da alcune Famiglie della zona - era stata subito chiara. Un invito estremamente
esplicito, insomma, ad andarsi a coltivare i propri appalti altrove. L'invito, invece, non era stato
accolto, e a risolvere la faccenda, intercedendo per l'imprenditore catanese, sarebbe
intervenuto proprio Santapaola. Tutto il suo peso di boss mafioso sulla bilancia: per mediare,
convincere, e - se necessario - minacciare. I conti, stando a quel che raccontava Santapaola, in
questo modo potevano anche quadrare: quella mattina, a pochi chilometri da Castelvetrano,
c'era lui, don Nitto, boss catanese; c'erano i suoi due luogotenenti, Romeo e Mangione; ed in
compagnia dei tre c'era anche Mariano Agate, boss di Mazara, oggi in carcere all'Ucciardone
dove sta scontando una condanna per traffico internazionale di stupefacenti subita al processo
Mafara. C'era stata una battuta di caccia il giorno prima, nella tenuta di Graci, e adesso c'era da
portare a termine quel lavoretto di persuasione per far andare avanti senza problemi gli operai
di Graci. Tutto questo, naturalmente, verbalizzato e sottoscritto.
Nei verbali degli interrogatori, però, c'è dell'altro. Nitto, infatti, non si limitò a fare il nome di
Graci ma indicò anche una serie di persone al di sopra di ogni sospetto che avrebbero fatto da
tramite fra lui e l'imprenditore catanese e che avrebbero potuto confermare questa sua
versione. Insomma, l'incarico di "mediazione" conferito al boss mafioso era una missione di
estrema fiducia per conferire la quale si erano fatti avanti personaggi legati a Graci - per motivi
di affinità culturale o più semplicemente di interesse - ma vicini, nello stesso tempo, anche a
Santapaola: per motivi di lavoro o, più esattamente, "d'ufficio".
Sull'identità di questi insospettabili si sa ben poco; i magistrati che hanno ridato impulso
all'inchiesta sul delitto Lipari (quattro anni dopo l'omicidio, e otto mesi dopo l'invio di una
comunicazione giudiziaria al capitano Melito) si trincerano dietro il segreto istruttorio. E' certo,
comunque, che le conferme che il capitano Melito andò a raccogliere a Catania furono fornite
proprio da questi "personaggi al di sopra di ogni sospetto" i quali avallarono l'alibi di
Santapaola: lo avevano contattato loro - confermarono a Melito - perché andasse a Trapani e
risolvesse i problemi di Gaetano Graci.
Quattro anni dopo, anche queste testimonianze eccellenti vacillano. L'arresto di Melito ne è
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una indiretta conferma: quella definitiva verrà dagli sviluppi che le indagini registreranno da qui
alle prossime settimane. Fin da ora, comunque, è possibile formulare alcune precise ipotesi, o
meglio, individuare i dubbi che questa inchiesta è chiamata a sciogliere.
Il primo. Un capitano dei carabinieri arrestato, un alibi smantellato, una storia che non regge:
ma allora, Santapaola perché era dalle parti di Castelvetrano quella mattina? In altre parole, chi
ha ucciso Vito Lipari, e perché? Un dubbio al quale se ne aggancia subito un altro. In entrambi i
casi (esecutore del delitto Lipari oppure mediatore fra un imprenditore catanese e la malavita
trapanese), Nitto Santapaola nell'agosto del 1980 - cioè due anni prima che venisse eliminato
l'altro boss catanese Alfio Ferlito, che venisse ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e
che lui, Nitto, fosse costretto alla latitanza - possedeva già tale autorevolezza mafiosa da poter
dettare la propria legge (per un omicidio o per una difficile transazione criminale) non solo a
Catania ma anche a Trapani, cioè dall'altra parte dell'Isola.
Insomma, la conferma dell'esistenza di un'asse mafiosa fra Sicilia occidentale ed orientale che
risale a molto prima del delitto Ferlito. E qui si fa strada il terzo dubbio: è lecito limitare il gioco
delle parti e delle alleanze ad una dimensione puramente criminale? In altre parole qual è il
significato della contemporanea presenza, nella Sicilia occidentale, dei maggiori cavalieri del
lavoro e del più pericoloso criminale catanese? Interi quartieri residenziali, un aeroporto,
fognature ed acquedotti costruiti dalle imprese di Rendo, Costanzo e Graci e - nella stessa zona
e negli stessi anni - precisi sospetti di colpevolezza a carico del boss catanese Nitto Santapaola
per l'omicidio mafioso del sindaco di Castelvetrano. Tutto ciò ha un significato che va oltre la
casualità? Ed in che modo si ricollega all'analisi che Dalla Chiesa proponeva pochi giorni prima
della sua morte sulle condizioni («...il consenso della mafia palermitana», e «...una nuova
mappa del potere mafioso») che avevano permesso alle «...quattro maggiori imprese catanesi»
di lavorare a Palermo?
Di dubbi ne rimangono molti. Torniamo per un attimo al delitto Lipari: chi avrebbe fornito a
Santapaola l'alibi (l'opera di pacificazione fra Graci e i mafiosi trapanesi) per quei giorni? Da
quali ambienti, da quali insospettabili personaggi il capitano Melito avrebbe raccolto le
deposizioni necessarie per scagionare almeno per quattro anni il boss catanese? Istintivamente
si pensa a qualcuno all'interno delle istituzioni, a Catania: solo in ambienti del genere d'altra
parte si possono immaginare personaggi che abbiano nello stesso tempo la necessaria
credibilità, la possibilità "tecnica" di collegarsi col boss catanese e l'autorità per chiedere un suo
intervento a Trapani in favore dell'imprenditore minacciato. Non tutti avrebbero i mezzi per far
tanto.
Ed ancora il capitano Melito. E' improbabile che un'auto per quanto nuova di zecca possa aver
convinto un ufficiale dei carabinieri a farsi corrompere e a rendersi complice di un delitto.
Cos'altro è accaduto? E qual è stato esattamente il ruolo del capitano Melito nei giorni in cui fu
a Catania per raccogliere le conferme sull'alibi di Santapaola?
Ed infine il dubbio più amaro di tutti: perché di tutto questo si apprende (ed in modo ancora
assolutamente sommario) notizia solo dopo quattro anni? E quanto ha influito sulla decisione di
riaprire il caso Lipari il modo in cui il Consiglio Superiore della Magistratura ha agito per il caso
Antonio Costa a Trapani?
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Articolo del 15 Gennaio 2011 da antimafiaduemila.com
Il terremoto del Belice del 1968, l'omicidio mafioso del sindaco di Castelvetrano, Lipari
di Rino Giacalone
Una interminabile ferita lunga 43 anni. Un solco rimasto non colmato, sporco anche di sangue,
quello dei morti ammazzati, «solco» segnato da scandali più o meno risolti o rimasti avvolti nel
mistero, come certi omicidi.
Oggi i sindaci hanno scelto la via del «silenzio», adeguandosi, hanno spiegato al «silenzio»
che impera a Roma a proposito di Belice. Ma il «silenzio» c'è da tempo, ed è quello che ha
circondato gli intrallazzi, gli affari illeciti, gli scandali ed i delitti. Come quello dell'ex sindaco di
Castelvetrano Vito Lipari, ucciso il 13 agosto del 1980. Per il suo delitto sono stati condannati
gli esecutori, ma sono rimasti sconosciuti mandanti e movente.
Mauro Rostagno dagli schermi di Rtc non perdeva una sola delle udienze del primo processo
per il delitto Lipari, quello che vedeva imputato il capo mafia di Mazara Mariano Agate; fu
durante una pausa di una udienza di questo dibattimento che Agate mandò a dire, da dentro la
gabbia, che Rostagno «doveva dire meno minchiate» sul suo conto. Qualche mese dopo
Rostagno fu ucciso.
Una delle piste del delitto Lipari conduce ad un «segnale» (di morte) mandato dalla cupola di
Cosa Nostra alla "famiglia" degli esattori Salvo ai quali Lipari, esponente di punta della Dc,
primo dei non eletti alla Camera, era «politicamente» legato. Un'altra traccia conduce al
«sacco» del Belice, a quella parte del piano di ricostruzione che riguardava la zona di
Castelvetrano, individuato sulle carte della ricostruzione come IV comprensorio, interessava 10
Comuni e 80 mila ettari. Ci sarebbero state due planimetrie, una quella ufficiale, l'altra quella
voluta dai «mammasantissima», terreni sui quali non si doveva costruire, si è invece costruito,
terreni che così hanno preso grande valore.
Cosa c'entra il sindaco Lipari ammazzato dalla mafia in tutto questo? Pare che lui fosse in
possesso delle due cartografie, quindi ucciso perchè risultato per la mafia «troppo informato di
cose che non doveva sapere». Oppure diventato un «complice» ingombrante. Difficile tanti
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anni dopo avere la verità, il «silenzio» anche in questo caso ha fatto sparire tutto, quelle
cartografie, assieme alla memoria e al ricordo.
Articolo del Corriere della Sera del 13 Giugno 1992
la profezia del pentito Calcara: Cosa Nostra non
perdonera' Borsellino
dopo il recente decreto del governo, parla Vincenzo Calcara, l'
ultimo pentito di mafia. rivelazioni sull' omicidio di Lipari Vito
PALERMO . Eccolo qui, l' ultimo pentito di mafia, che torna sul palcoscenico della giustizia
dopo il recente decreto del governo. Sotto i clic dei fotografi, Vincenzo Calcara da' vita a un'
udienza spettacolare. Polemico, ironico, sprezzante. Strapazza gli avvocati che gli tendono
mille trappole, inchioda killer e mandanti di Vito Lipari, rilancia le accuse contro un altro ex
sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, rovescia fiumi di insulti su uno degli imputati che
lo taccia di "infamita' ", rinnega pubblicamente la filosofia di Cosa Nostra, pronuncia la piu'
sinistra delle profezie: "Le cosche non perdoneranno mai al giudice Borsellino di aver messo in
ginocchio una delle famiglie piu' potenti di Trapani". L' ex soldato del clan di Castelvetrano e' in
forma strepitosa. La lettera della ritrattazione? "Solo un momento di smarrimento, dovuto allo
choc per le immagini della strage Falcone viste in Tv", spiega alla corte giustificando quel
dietrofront che ora vuol cancellare con una memorabile "cantata". "La mia collaborazione e'
appena cominciata. Ne sentirete delle belle", promette. Ma qui Calcara puo' solo parlare dell'
omicidio di Vito Lipari. E dalla sua memoria affiorano i ricordi di quella mattina d'agosto
di dodici anni fa, quando il pentito e altri uomini d'onore della famiglia si mobilitarono
per coprire la fuga dei killer del sindaco. "Dovevamo sparare sulla pattuglia della polizia
o dei carabinieri che sarebbe eventualmente passata per la stradella che da Triscina
porta a Castelvetrano", spiega Vincenzo Calcara. "Eravamo pronti a fare una strage, ma
non fu necessario". Poi, incalzato dalle domande dei difensori, butta giu' un particolare
inedito, agghiacciante: "Vito Lipari doveva morire a ogni costo. Se non fosse uscito di
casa quella mattina, gli assassini sarebbero andati a domicilio. Avrebbero ammazzato
lui e, se il caso, anche la moglie e la bambina"
. E Tonino Vaccarino? "Era il mio capo. La sera prima del delitto andammo a cenare insieme in
un ristorante di Mazara del Vallo. C' erano anche Nitto Santapaola e Mariano Agate. Dopo
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aver mangiato, Vaccarino mi disse di allontanarmi per un' ora. Andai a passeggiare sul
lungomare, a guardare le ragazze. Tornato, mi sedetti al tavolo e dopo un quarto d' ora
arrivarono Francesco Mangion e altre due persone". Dalla gabbia Mangion esplode: "Sei
infame e cornuto". Calcara replica a tono: "Non ti agitare, rilassati. Infame sei tu e tutta Cosa
Nostra. Io non ho paura. La mia e' stata un scelta di lealta' verso la giustizia, non di
convenienza". Calcara insiste sul pentimento e sugli incontri con il giudice Paolo Borsellino.
"Ogni volta che me lo trovo davanti, penso: guarda un po', proprio io dovevo ucciderlo, e
ricordo le parole che mi disse quando gli chiesi se non avesse paura. Rispose: e' bello morire
per cio' in cui si crede". E. M.
Per la visione dei Video del programma TV di Mauro Rostagno
andare ai seguenti Link:
Ragionando di mafia intorno al Processo Lipari - 1
http://youtu.be/moLuYlE0PRo
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Ragionando di mafia intorno al Processo Lipari - 2
http://youtu.be/HiVSpYs7gt4
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