università degli studi di napoli
Transcript
università degli studi di napoli
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II DIPARTIMENTO DI ANALISI DEI PROCESSI ECONOMICO – SOCIALI, LINGUISTICI, PRODUTTIVI E TERRITORIALI FACOLTÀ DI ECONOMIA DOTTORATO DI RICERCA IN STORIA ECONOMICA XXIII° CICLO GLI ASPETTI AMMINISTRATIVI E FINANZIARI PER LA VALORIZZAZIONE DEGLI SCAVI DI POMPEI Tutor: Candidata: Chiar.mo Prof. Rita Coppola Fra ncesco Balletta DR 900509 Napoli 2010 1 A mia madre 2 La bambina di Pompei Poiché l'angoscia di ciascuno è la nostra Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna Che ti sei stretta convulsamente a tua madre Quasi volessi ripenetrare in lei Quando al meriggio il cielo si è fatto nero. Invano, perché l'aria volta in veleno È filtrata a cercarti per le finestre serrate Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso. Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata A incarcerare per sempre codeste membra gentili. Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso, Agonia senza fine, terribile testimonianza Di quanto importi agli dei l'orgoglioso nostro seme. Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella, Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani: La sua cenere muta è stata dispersa dal vento, La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito. Nulla rimane della scolara di Hiroshima, Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli, Vittima sacrificata sull'altare della paura. Potenti della terra padroni di nuovi veleni, Tristi custodi segreti del tuono definitivo, Ci bastano d'assai le afflizioni donate dal cielo. Prima di premere il dito, fermatevi e considerate. Primo Levi, 1984 3 Indice PREFAZIONE 1.GENESI ED EVOLUZIONE DELL’ANTICA POMPEI 7 10 1.1.Origine e primo sviluppo urbanistico dell’insediamento 10 1.2. Influenze e contatti con greci ed etruschi 12 1.3. La fase sannitica 14 1.4. Pompei romana in età repubblicana e primo-imperiale 17 1.5. Il mondo degli affari 22 1.5.1. Il mondo agricolo 22 1.5.2. Il mondo dell’industria 25 1.6. La circolazione monetale 27 1.7. Il terremoto del 62 d.c. e l’eruzione del 79 d.c. 32 2. GLI SCAVI DALLA SCOPERTA ALL’USO PUBBLICO 35 2.1. La scoperta e il periodo pionieristico 35 2.2. Gli scavi di Pompei all’epoca dell’Italia unita 50 2.3. Dal direttore degli scavi Michele Ruggiero ad Antonio Sogliano 61 2.3.1. Michele Ruggiero 61 2.3.2. Giulio De Petra 62 2.3.3. Ettore Pais 64 2.3.4. Antonio Sogliano 65 2.4. Il fallimento di esproprio murattiano 67 4 3. L’EVOLUZIONE AMMINISTRATIVA DELLE ANTICHITA’ E BELLE ARTI 81 3.1. Gli uffici delle amministrazioni preunitarie 81 3.2. L’ordinamento dal 1860 al 1874 85 3.3. Italia meridionale 87 3.4. L’ordinamento amministrativo dal 1875 al 1880: la Direzione Generale degli Scavi e Musei di Antichità 93 3.5. Commissioni Consultive Conservatrici dei Monumenti e Ispettori agli scavi 99 3.6. L’ordinamento dal 1881 al 1891: la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti 102 4. LA LEGISLAZIONE DEI BENI CULTURALI TRA IL XVIII E IL XIX SECOLO 105 4.1. Fondamenti giuridici del Regno di Napoli 105 4.2. Lo Stato Pontificio 107 4.2.1.La tradizione legislativa da Pio II all’Editto Altieri 107 4.3. La tutela nel XVIII secolo. Nuove prospettive culturali 108 4.4. I ritrovamenti e le scoperte 117 4.5. Il controllo del mercato dei beni culturali 122 4.6. Il controllo della ricerca archeologica 125 4.7. Tra pubblico e privato: dal decennio francese all’unità d’Italia 127 4.8. La tutela dei beni culturali dell’Italia unita 148 4.9. La tutela nel pensiero di Fiorelli nell’Italia unita 150 4.10. Il dibattito e le osservazioni di Boito e Beltrami 179 4.11. Progetto per una legge unitaria: dalla legge Nasi alle leggi Bottai 188 5 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE FINANZIARIE E LA LORO RAPPRESENTAZIONE 195 5.1.Nuovo contratto di appalto per gli scavi di Pompei. Condizioni generali. 195 5.2. Anticipo di somme e pagamenti di lavori 197 5.3. Qualità dei lavori, penale e casi di sospensione 198 5.4. Misure dei lavori 208 5.5.Misure dei lavori, ritenute e stipendi 230 5.6. Le Regioni di Pompei 243 5.7. Lo scandalo di Villa della Pisanella 268 CONCLUSIONI 272 FONTI ARCHIVISTICHE 282 BIBLIOGRAFIA 290 ELENCO DELLE TAVOLE 298 ELENCO DEI GRAFICI 299 6 PREFAZIONE Principale obiettivo della ricerca è lo studio delle vicende istituzionali, legislative e finanziarie degli scavi di Pompei, dalla seconda metà dell’Ottocento, approfondendo le ragioni che contribuirono al superamento dell’originaria concezione “personale e privata”, tipica della politica culturale borbonica, fino alla gestione ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione. L’aspetto più innovativo del lavoro è stato quello di ricostruire in termini quali – quantitativi le modalità di impiego delle somme stanziate dal Ministero a favore dell’Ufficio tecnico degli scavi, così da evidenziare l’incidenza finanziaria delle operazioni di dissotterramento e successivo recupero dei reperti archeologici. In relazione a questo ultimo aspetto, visionando la documentazione dell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, nonostante le difficoltà connesse alla consultazione di fondi non inventariati, ho ritenuto opportuno procedere aggregando le singole voci di uscita per anno, luogo, tipologia di intervento, spese parziali e totali. L’andamento complessivo delle spese annuali è stato pressoché altalenante, con picco massimo registrato nel 1889. Probabilmente tale incremento è attribuibile alla direzione di Michele Ruggero, per l’intensificazione, per il nuovo orientamento nella conduzione dei restauri, per i risultati delle scoperte, quella direzione fu tra le più felici di Pompei, ed ebbe inizio sotto buoni auspici con la pubblicazione dei conti scoperti, due anni prima, nella casa di L. Cecilio Giocondo. In particolare, nel 1889, vennero alla luce le Terme Stabiane, le più antiche della città, risalenti nel loro primo impianto al IV secolo a. c.. Attraverso lo studio e le elaborazione dei dati ho spiegato il grado di concentrazione o dispersione delle singole operazioni e l’impatto complessivo sulla gestione locale del sito archeologico. La scelta di approfondire tali aspetti è dovuta alla necessità di colmare alcune lacune, soprattutto in termini finanziari, poiché l’antica città sepolta dal 7 Vesuvio prolifera di studi che ne avvalorano l’importanza per la parte archeologica, architettonica ed urbanistica. A tal fine, ho deciso di strutturare il lavoro in cinque capitoli, ciascuno volto a mettere in rilievo i tratti tipici e i mutamenti legislativi ed organizzativi tra il periodo antecedente e successivo all’unità d’Italia, relativi alla valorizzazione di Pompei, una città intatta in tutte le sue componenti, che fin dalla scoperta attrasse studiosi da tutto il mondo. Nel dettaglio, il primo capitolo affronta la genesi e l’evoluzione dell’originario insediamento prima della devastante eruzione del 79 d.c., focalizzando l’attenzione sulle abitudini di vita e le attività economiche dei pompeiani. Con il secondo capitolo ha inizio la resurrezione di Pompei, cercando di esaltarne i tesori, le case e le botteghe dissotterrate attraverso la visita di colti viaggiatori e le politiche varate dai direttori degli scavi, succedutisi dal 1861 al 1910, in modo tale da tracciarne le vicissitudini storiche senza invadere la sfera archeologica. Significativi sono i rigorosi limiti di accessibilità al sito introdotti dalla dinastia borbonica, vincoli che decadono in presenza di “illustri personaggi”, come si evince dalle carte dell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Nel terzo capitolo, ho approfondito la struttura amministrativa preposta alle antichità e belle arti, illustrando come essa, nella seconda metà del XIX secolo, sia diventata molto più articolata e capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale, favorendo il progressivo superamento della tutela concepita come problema di amministrazione civile e ordine pubblico della normativa preunitaria. A completamento di questa sezione vi è il quarto capitolo, in cui ho tracciato il travagliato iter normativo del settore artistico tra il XVIII ed il XIX secolo; infatti, nonostante i propositi di riqualificazione storica, pittorica ed archeologica degli scavi di Pompei, le prammatiche borboniche giunsero a colmare un intollerabile vuoto legislativo solo diversi anni più tardi la disciplina pontificia, ove la normativa di tutela dei ritrovamenti archeologici era costume antico e perennemente aggiornato. Il medesimo ritardo proseguì dopo l’unificazione, tanto che la prima legge unitaria di tutela fu emanata solo nel 1902. 8 Il disinteresse del legislatore nazionale sfociò anche in materia finanziaria, oggetto dell’ultima sezione, tanto che le risorse destinate al Ministero della Pubblica Istruzione rappresentavano le somme più esigue dell’intero bilancio statale. In conclusione, ho cercato di elaborare ed interpretare le voci di spesa, risaltando le difficoltà connesse all’impiego di fondi non idonei rispetto alla vastità delle operazioni, che non si esaurivano con il riportare alla luce una “casa”, bensì con il ripristino e la manutenzione di affreschi, pavimenti e strutture murarie. Ad eccezione del primo capitolo, le parti successive, seppur trattate separatamente sono complementari e sviluppate soprattutto mediante la consultazione di diverse fonti documentali, fondamentali per ricostruire l’assetto istituzionale, legislativo e finanziario di un pezzo della storia della Campania che ha avuto e continua ad avere ai giorni nostri un’imponente risonanza mondiale. Nel dettaglio ho visionato le carte presso i seguenti archivi: Archivio di Stato di Napoli: o Fondo Ministero della Pubblica Istruzione del Regno delle Due Sicilie; Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei; Ufficio Scavi di Pompei e Boscoreale; Archivio Centrale di Stato: o Fondo Archivio della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti (1860-1890). 9 1. GENESI ED EVOLUZIONE DELL’ANTICA POMPEI 1.1. ORIGINE E PRIMO SVILUPPO URBANISTICO DELL’INSEDIAMENTO Pompei fu edificata su un altopiano, a un livello medio di circa trenta metri sul mare, formato da una colata di lava vulcanica. L’altopiano era pressoché privo di risorse idriche, pertanto inadatto per un insediamento urbano in epoca protostorica1. E’certo, infatti, che i più importanti abitati della prima età del ferro, in Campania, cioè all’incirca nei primi secoli del I millennio prima di Cristo, erano stanziati nelle vicinanze di corsi d’acqua. Nella valle del fiume Sarno, non lontano da Pompei, fu scoperta una necropoli con materiale risalente a epoca precedente alla fondazione della colonia greca di Pithekusai nell’isola d’Ischia, anteriore quindi al decennio 780-770 a.C. Gli insediamenti della valle del Sarno appartenevano ad un aspetto culturale dell’epoca protostorica detta “delle Tombe a Fossa” proprio perché i defunti, inumati, erano sepolti in tombe scavate nella terra. Tale cultura copriva un’estensione territoriale molto ampia, lungo la costa della Campania e giungeva, con le sue propaggini, fino a Roma, a nord, e in Lucania e Calabria, a sud, sia pure con particolari differenziazioni. A Pompei vi sono poche tracce della cultura delle Tombe a Fossa nella zona del Foro Triangolare2; non si può parlare però di un vero e proprio insediamento. La scarsità d’acqua sull’altopiano, con una falda freatica raggiungibile solo con una profonda trivellazione del terreno, deve aver impedito la formazione di un abitato stabile prima della seconda metà del VII secolo a.C. Recenti sondaggi, lungo le fortificazioni, hanno offerto l’occasione per una revisione dei dati disponibili; è stato, pertanto, avanzato un nuovo modello di sviluppo urbanistico, forse più coerente con le più recenti acquisizioni archeologiche3. Il presupposto che la città si sviluppò intorno ad un primitivo centro fortificato localizzabile entro le regioni VII e VIII 1 E. La Rocca, Pompei, Milano 1976, p. 11. Ibidem. 3 Ibidem, pp. 12-13. 2 10 (praticamente intorno al Foro)4, non è del tutto esatto5. Non sembra esserci sostanziale variazione cronologica tra i materiali rinvenuti in questo settore della città e quelli rinvenuti in altre aree indagate stratigraficamente6. Nei casi meglio documentati, i reperti più antichi si datano tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C., in sostanziale coincidenza con la prima fortificazione in tufo detto “pappamonte”, che seguiva, più o meno, il percorso perimetrale del piano iscrivendo un’area di 63, 5 ettari. Si dovrà supporre, perciò, l’esistenza di una sorta di acropoli più intensamente abitata (il settore compreso nell’ambito delle regioni VII e VIII intorno al Foro) entro un’area fortificata molto più ampia. In una prima fase, quest’ultima, dovette essere scarsamente popolata e adibita piuttosto a coltivazioni o a pascolo, solo in una seconda fase, a partire dalla fine del IV secolo, fu urbanizzata secondo un razionale piano regolatore, di cui è un esempio la regione VI. Probabilmente il centro urbano ebbe come nucleo basilare il santuario di Apollo, in origine la divinità protettrice del nuovo centro. Lo sviluppo rapido della città, che pare essersi modellata in tempi relativamente brevi, nello spazio di poco più di una generazione, potrebbe avvalorare l’ipotesi di una fondazione realizzata rapidamente dietro forti spinte economiche e politiche7. Non è sfuggito, infatti, che l’ascesa di Pompei coincise con il brusco arresto dei villaggi della valle del Sarno più vicini, di San Marzano e di San Valentino Torio. La scelta del sito, un vasto pianoro vicino al mare, alle foci del fiume Sarno, e la celere realizzazione di mura di fortificazione furono connesse all’espansione degli Etruschi8 di Campania, che dominavano l’entroterra vesuviano, e desideravano crearsi uno sbocco marittimo al di là delle aree costiere sotto la diretta influenza greca. Naturalmente, ciò non vuol dire che Pompei fosse una città etrusca. La maggioranza della popolazione doveva provenire dai villaggi della campagna circostante, appartenenti alla “Cultura delle Tombe a Fossa”, 4 A. Maiuri, Saggi negli edifici del Foro di Pompei, in “Notizie scavi 1941”, Roma, 1943, pp. 371 - 404. 5 G. Spano, La Campania felice nelle età più remote. Pompei dalle origini alla fase ellenistica, Napoli 1936. 6 S. De Caro, Saggi nell’area del Tempio di Apollo a Pompei. Scavi stratigrafici di A. Maiuri nel 1931/32 e 1942/43, Napoli, 1986, pp. 12-23. 7 Ibidem. 8 A. Boethius, Gli Etruschi in Pompei, in “Simbolae Philologicae”, 1932, pp. 1-12. 11 note, in antico, con il nome di Opici. Le classi dominanti aristocratiche formarono una civiltà “mista”, nella quale elementi culturali locali, sempre presenti, si fusero con le esperienze culturali etrusche e greche. È probabile che l’impulso per lo sviluppo di Pompei fosse dovuto alla sua posizione strategica, quale importante nodo di traffico commerciale. Era il punto di raccordo di tre importanti strade da Cuma, da Nola e da Stabia, il cui tracciato era seguito dalla Via Consolare, dalla Via di Nola e dalla Via di Stabia. Come spesso avviene, il punto d’incontro di strade di grande traffico diventa zona di mercato e, quindi, centro promotore di un insediamento permanente. 1.2. INFLUENZE E CONTATTI CON GRECI ED ETRUSCHI La situazione economica ed ambientale propizia permise al primo nucleo abitato di Pompei di crescere e svilupparsi. La città, infatti, posta alla foce del fiume Sarno, era destinata a diventare il porto di quei centri dell’entroterra campano privi di uno sbocco sul mare. Ancora in epoca augustea, Strabone riferisce che Pompei era il porto naturale di Acerrae, Nola e Nuceria. Di queste città Nola era, nel VII secolo a.C., la più importante. L’influenza etrusca penetrò anche a Pompei, la quale dovette subire, almeno fino alla metà del V secolo a.C., un vero e proprio dominio etrusco9. Molti frammenti di bucchero con graffiti in lingua etrusca sono stati rinvenuti nell’area del Tempio di Apollo; altri frammenti provengono dalla zona intorno alle Terme Stabbiane, dove è stata localizzata una necropoli del VI secolo a.C., della quale la testimonianza più importante è data dalla tomba ipogeica a camera inglobata nelle Terme10. Nel VI secolo a.C., la città, sempre di piccole dimensioni, non doveva avere ancora un piano regolatore. L’abitato intorno al Foro, che rispecchia nella sua pianta irregolare l’impianto arcaico, sembra essere stato costruito secondo uno schema preordinato11. Già in questa fase l’intero altopiano, entro il quale era inserito il nucleo abitato era probabilmente provvisto di una fortificazione costruita con il tipo di tufo detto 9 Ibidem. Ibidem. 11 A. Sogliano, Pompei nel suo sviluppo storico. Pompei pre - romana, Roma 1937. 10 12 “pappamonte”. Fuori dall’abitato12 era anche il Tempio Dorico, originariamente dedicato a Herakles, e in seguito anche ad Athena, costruito sul limite dell’altopiano, a livello più basso rispetto al Foro. Doveva essere, quindi, un santuario extra-urbano costruito in un punto tale da poter controllare la Via di Stabia e la vallata sottostante. Nel VI secolo a.C., divenne forte anche l’influenza culturale delle città greche13. Il culto di Apollo era mediato, forse, da Cuma. Infatti, non mancavano importazioni di ceramica corinzia, rinvenuta negli scavi sotto il Tempio di Apollo14. Inoltre, le terrecotte architettoniche della seconda metà del VI secolo e dei primi decenni del V secolo a.C., provenienti dal Tempio Dorico e dal Tempio di Apollo, sono non solo in argilla di Ischia, ma probabilmente di manifattura, almeno in parte, cumana. Nel Tempio Dorico sono conservati alcuni rocchi di colonne e capitelli dall’echino rigonfio, simili a quelli del Tempio detto “Tavole Palatine” a Metaponto, databile intorno al 520 a.C. In questa fase iniziale, il Foro non doveva avere ancora quell’ampiezza che raggiunse nel II secolo a.C. Le strade principali della città erano Via Marina da ovest a est e Via del Foro da nord a sud. La sconfitta delle popolazioni etrusco – campane, nel 525 a.C., e la seguente sconfitta degli Etruschi nel nord, nel 474, da parte di una coalizione cumano – siracusana, tagliava definitivamente i contatti tra le grandi città laziali e le città dell’entroterra campano. In questo periodo, così poco noto, si dovette manifestare un progressivo avanzamento delle popolazioni sannitiche che abitavano le zone montane dell’entroterra campano, lungo la fascia degli Appennini15. Impossibile dire se l’oschizzazione delle città campane fosse dovuta a una vera e propria invasione militare o, molto più semplicemente, a un pacifico incremento della popolazione sannitica dovuta al richiamo della più facile vita nelle fertili pianure dell’agro captano e nolano16. L’oschizzazione della Campania fu 12 P. Zanker, Pompe. Società, immagini urbane e forme dell’abitare, Torino, 1993, pp. 150-167. A. Maiuri, Greci ed Etruschi a Pompei, Memorie Accademia dei Lincei, Roma, 1943, pp. 121149. 14 S. De Caro, Saggi nell’area del Tempio di Apollo a Pompei. Scavi stratigrafici di A. Maiuri nel 1931/32 e 1942/43, Napoli, 1986, pp. 12-23 15 R. C. Carrington, Gli Etruschi e Pompei, in “Antiquity” 1932, pp. 5-23. 16 A. Maiuri, Greci ed Etruschi a Pompei, Memorie Accademia dei Lincei, Roma, 1943, pp. 121149. 13 13 completata alla fine del V secolo a.C., quando anche Cuma, questa volta militarmente, cadde sotto il dominio dei Sanniti, e gli abitanti furono costretti a trasferirsi a Neapolis, che divenne, così, l’unico centro greco della Campania17. 3.6. LA FASE SANNITICA Di questo periodo storico restano, a Pompei, scarse tracce anche se la città dovette ricevere un forte impulso all’urbanizzazione. Infatti, è, probabilmente, al V secolo a.C. che può farsi risalire la costruzione di una nuova cinta muraria a doppia cortina di ortostati in calcare di Sarno, che doveva seguire sostanzialmente un percorso analogo a quello della precedente fortificazione in “pappamonte”. La fortificazione continuava ad avere uno scopo puramente difensivo e non delimitava, quindi, il solo centro abitato18. Intorno al 300 a.C., devono essere datate le nuove fortificazioni che sostituirono quelle a doppia cortina, costruite in calcare di Sarno e tufo di Nocera. Ancora, nel IV secolo a.C., il territorio a nord della Via dei Soprastanti e a est della Via Stabiana era scarsamente abitato. Scavi stratigrafici nella regione VI hanno dimostrato che là dove sorsero nel IV – III secolo le grandi case ad atrio calcaree, non vi era in precedenza alcuna costruzione19. Nel IV secolo a.C., iniziò l’espansione urbanistica di Pompei, prima nelle aree a nord e poi nelle aree a est del Foro Civile. Le case furono disposte secondo un accurato impianto urbanistico ispirato a modelli greci, forse a Neapolis stessa. Divenne comune, in questo periodo, l’uso del calcare di Sarno per il rivestimento degli edifici, pubblici e privati, con grandi e regolari lastre20. Lo scoppio della seconda guerra punica vide gran parte della Campania schierata dalla parte di Annibale, il quale si era proclamato liberatore della popolazioni italiche dal gioco romano, e 17 Ibidem. E. La Rocca, Pompei, Milano 1976, p. 14. 19 S. De Caro, Saggi nell’area del Tempio di Apollo a Pompei. Scavi stratigrafici di A. Maiuri nel 1931/32 e 1942/43, Napoli, 1986, pp. 12-23. 20 A. D’Ambrosio, S. De Caro, Un contributo all’architettura e all’urbanistica di Pompei in età ellenistica. I saggi nella casa VII. 4, 62, in “Annali del Seminario di Studi del mondo classico”, Napoli, 1989, pp. 173-215. 18 14 prometteva indipendenza. Probabilmente Pompei, che ancora nel III secolo a.C. non doveva essere una città particolarmente importante, non subì le conseguenze della vittoria dei Romani che costò, a Capua e Nola, la perdita delle ultime forme di libertà, con il conseguente pesante controllo sulle attività politiche e commerciali. La nuova situazione spinse parecchie famiglie, molto ricche, a emigrare verso zone dalle più favorevoli condizioni di vita. Molti lasciarono l’Italia e si trasferirono in Oriente o a Delo; altri preferirono stabilirsi in città italiche non lontane dal loro originario centro di residenza. La nuova situazione politica venutasi a creare con Roma, ormai padrona del Mediterraneo, favorì lo svilupparsi a Pompei di una vivace attività commerciale, basata, principalmente, sull’esportazione di vino e olio. Le fattorie dei dintorni dovevano essere un modello di sfruttamento razionale delle terre. Nel II secolo a.C. a Pompei si ebbe un vero e proprio boom edilizio; tutti gli edifici pubblici della città furono ristrutturati e se ne crearono altri, come la Basilica e il Tempio di Giove. La notevole ricchezza della città si manifesta anche nel lusso, a volte sfarzoso, delle case di abitazione, come la Casa del Fauno di ben metriquadri 2.94021. Inoltre, il contatto, continuo e diretto, con i regni ellenistici d’Oriente creò le premesse per una revisione, in senso greco, degli impianti urbanistici e delle forme architettoniche, come si può ancora constatare osservando lo straordinario complesso formato dal Foro Triangolare e dai teatri con il Quadriportico, o ancora dall’elegante ristrutturazione del Foro Civile con gli edifici circostanti. In questo periodo, si attuò un notevole allargamento della città verso oriente, testimoniato, malgrado i successivi rifacimenti, dai resti di decorazione pittorica del cosiddetto primo stile pompeiano riferibili al II secolo a.C22. Del sistema di governo della città, in epoca sannitica, sappiamo pochissimo, tranne i nomi di alcuni magistrati, la cui funzione doveva essere simile a quella dei consoli romani23. Al loro fianco dovevano esserci questori, cui era affidata 21 C. Chiaromonte, Sull’origine e lo sviluppo dell’architettura residenziale di Pompei sannitica, 1990, pp. 5-34. 22 G. Spano, La Campania felice nelle età più remote. Pompei dalle origini alla fase ellenistica, Napoli, 1936. 23 La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi e prospettive, Atti del Convegno Internazionale Napoli – Pompei – Ercolano - Stabia, 11-15 novembre 1979, Napoli, 1982. 15 l’amministrazione finanziaria, ed edili che avevano cura e tutela degli edifici pubblici e privati24. Non doveva mancare, naturalmente, un ordine equivalente a quello dei senatori. Allo scoppio della guerra sociale, Pompei si affiancò alle altre città campane per la conquista dei diritti di cittadinanza romana. Nel 89 a.C., Silla occupò e saccheggiò Stabia che, da allora in poi, non riuscì più a risollevarsi. Il dittatore mosse poi contro Pompei, la quale aveva provveduto anticipatamente al restauro delle fortificazioni costruendo, sul lato nord, meno difeso, diverse torri25. In aiuto di Pompei giunse un contigente di guerrieri celti capitanati da Lucius Cluentius, uno dei capi della rivolta. Le battaglie tra Silla e Cluentius non furono favorevoli a quest’ultimo, il quale perse la vita mentre tentava di ritirarsi verso Nola. La popolazione, infatti, non volle aprirgli le porte della città per il timore che potessero entrare anche i Romani inseguitori. Presumibilmente, nello stesso anno, anche Pompei capitolava senza subire alcun serio danno. 24 A. Maiuri, Alla ricerca di Pompei preromana, Napoli, 1973. O. Elia, Osservazioni sull’urbanistica di Pompei, in “Studi sulla città antica”, Bologna, 1970, pp. 183 e sgg. 25 16 1.4. POMPEI ROMANA IN ETA’ REPUBBLICANA E PRIMO – IMPERIALE In un primo periodo, compreso tra l’89 e l’88 a.C., Pompei non ebbe una situazione politica e amministrativa molto chiara: Silla era partito per l’Asia Minore per combattere contro Mitridate e in Campania alcune città, tra cui Nola, godettero di un periodo di tranquillità in quanto il potere era passato nelle mani di Cinna che, avverso a Silla, era fautore dell’allargamento della cittadinanza a tutte le popolazioni italiche26. Con il ritorno di Silla gli ultimi focolai di sedizione vennero spenti. La Campania si era trovata nell’occhio del ciclone, e la situazione generale del territorio doveva essere particolarmente grave. Nell’80 a.C. Silla dedusse una colonia a Pompei per favorire, con assegnazione di terre confiscate, i veterani che avevano combattuto con lui27. La colonia ebbe il nome di Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum, dal nome del dittatore che si chiamava Lucius Cornelius Sulla. Venne aggiunto al nome del dittatore anche quello della dea da lui particolarmente venerata, Venere, che divenne così la divinità principale della Pompei sannitica. A capo della colonia vi fu il nipote di Silla, Publius Cornelius Sulla, uomo politico di notevoli capacità, che fu una delle personalità più eminenti di epoca ciceroniana28. Sotto il suo controllo si formò il primo Senato locale e furono nominati i nuovi magistrati, con esplicita e ovvia preoccupazione di fondere le nuove genti con le vecchie famiglie detentrici del potere. In seguito a questo iniziale rimpasto, scomparvero dalla lista dei magistrati i nomi delle più importanti famiglie dell’oligarchia pompeiana per far posto a uomini nuovi, spesso generali o amici di Silla arricchitisi rapidamente durante le guerre sociali29. Ma com’era avvenuta la confisca delle terre date poi ai nuovi coloni? Fu fatta a danno delle persone contrarie alla politica sillana. La campagna pompeiana era suddivisa tra villae rusticae aventi ognuna circa 26 E. Lepore, Il quadro storico, in “Pompei 79”, 1984, pp. 13-24. Ibidem. 28 Ibidem. 29 Ibidem. 27 17 cento iugeri di terreno30. Ai coloni non furono attribuiti tali proporzioni, ma molti di meno; e comunque sembra che la lottizzazione del terreno non fu mai completata per varie ragioni. E’probabile, infatti, che molti coloni vendettero i terreni ai precedenti proprietari, e non misero mai piede a Pompei. Un’altra ipotesi è che il terreno confiscato non fu mai totalmente suddiviso e rimase di proprietà della colonia. Dopo un breve periodo distinto dalla presenza di nuovi magistrati, da Cesare in poi, la vecchia oligarchia locale si riappropria del potere. Con la fondazione della colonia si provvide a rinnovare anche la Costituzione, costruita sulla base di quella romana, che restò in vigore fino al 79 d.C. I membri del consiglio della città erano detti decurioni, i cui poteri erano notevoli, in numero di ottanta/cento, nominati, ogni cinque anni, dai duoviri con potestà giurisdizionale; la carica decurionale era a vita31. La scelta era fatta esclusivamente tra uomini liberi, di buona reputazione, con professioni onorevoli e con una rendita non inferiore ai centomila sesterzi. Potevano essere nominati decurioni anche i figli di liberti e commercianti, anche se in casi particolari. Gli edili erano, generalmente, molto giovani, e non avevano funzioni di grande responsabilità; essi si occupavano della supervisione e del controllo della città, degli edifici pubblici e dei mercati, dei templi e degli edifici per spettacoli. Per diventare duoviri occorreva essere stati edili. Per questo motivo molti edili furono ricordati in graffiti e in iscrizioni per la loro munificenza, necessaria per lasciare buona memoria della loro opera nei confronti della cittadinanza32. I duoviri detenevano il potere esecutivo. Generalmente essi promulgavano i decreti dei decurioni e proponevano all’assemblea richieste della popolazione. Ogni cinque anni i duoviri erano detti quinquennales e avevano un potere notevolissimo, quello, cioè, di nominare i nuovi decurioni33. Le cariche sacerdotali, non furono mai completamente distinte da quelle pubbliche, anche se i sacerdoti, non controllando in alcun modo gli affari municipali, non ebbero mai enorme importanza nel mondo romano. Comunque anche i sacerdoti erano nominati per elezioni pubbliche e le cariche più distinte erano, in genere, appannaggio 30 E. Lepore, Orientamenti per la storia sociale di Pompei, in “Pompeiana”, 1950, pp. 144-166. H. H. Tanzen, The common People of Pompeii, Baltimore, 1939. 32 G. O. Onorato, Iscrizioni Pompeiane. La vita pubblica, Firenze, 1957. 33 Ibidem. 31 18 delle grandi famiglie locali. Il territorio di Pompei era suddiviso in vici e pagi amministrati da magisteri vicorum e magisteri pagorum, che erano, nella maggior parte dei casi, liberti34. Il loro potere, sottoposto a quello dei magistrati della città, aveva, tuttavia, una certa autonomia, forse ampliata dal fatto che si trattava spesso di uomini molto ricchi ai quali si dovevano rilevanti sovvenzioni per costruzioni pubbliche. Sotto il profilo economico, le vicende belliche non sembrano aver prodotto eccessivi rivolgimenti nella vita cittadina. Plinio il Vecchio decantò i vini campani, e in particolare il vino pompeiano, ricavato da una vite che, per la sua bontà, fu trapiantata persino in Etruria. La Villa dei Misteri fu trasformata in una di quelle ville agricole nelle quali si procedeva alla produzione in proprio di vino35. Più complesso è il problema della diffusione di tale prodotto; esso era direttamente legato a quello della diffusione di anfore con il bollo M. Porci e L. Eumachi. Il primo è identificato con il nome di Marcus Porcius, finanziatore della costruzione dell’Anfiteatro di Pompei. Il secondo apparterrebbe alla famiglia da cui discende Eumachia, cui si deve la costruzione dell’omonimo edificio. Anfore di Marcus Porcius sono state rinvenute in Gallia, nella zona di Narbonne – Toulouse – Bordeaux; anfore di Lucius Eumachius sono state rinvenute in Africa, per esempio a Cartagine. Anche se l’identificazione di Marcus Porcius con il viticultore noto dai bolli anforari non sembra più sostenibile, perché le anfore devono essere datate alla fine della repubblica, non pare comunque ci sia dubbio che la produzione di vini campani abbia raggiunto mercati lontani. Si è anche ritenuto che le anfore con il bollo M. Porci andrebbero circoscritte alla Spagna Terragonese, limitando, quindi, la diffusione dei vini campani; ma l’ipotesi non è condivisa da tutti, perché le fonti antiche non testimoniano la diffusione di vino terragonese nel I secolo a.C. Il Porcius delle anfore potrebbe essere, poi, un discendente del Marcus Porcius sillano36. Alla fine della repubblica, giunsero i Clodii, i Tallii, i Lucretii e gli Herennii, che occuparono le cariche più alte, sia profittando del prestigio personale basato sulle loro 34 J. Franklin, Pompeii: the electoral programmata, campaigns and politics A.D. 71-79, Papers and Monographs of the American Academy in Rome, 1980. 35 W. Moeller, An Analysis of the political, economic and social influence of select families of colonial Pompeii, Michigan, 1972. 36 Ibidem. 19 ricchezze, sia, principalmente, per le relazioni che li legavano a Cesare prima e ad Augusto poi. In questo periodo, la città assunse il suo aspetto definitivo, con il completamento dei lavori già iniziati nel II secolo a.C., e con la costruzione o il restauro di numerosi edifici pubblici e di case private. La zona di espansione di Pompei continuò ad essere quella orientale, intorno a Via dell’Abbondanza. Ai limiti della città si costruì l’Anfiteatro e, in seguito, sotto Augusto, la Palestra. Negli anni che seguono le guerre sociali e la parentesi della rivolta di Spartaco, che arrecò gravi danni alla Campania, non si registrano fatti degni di nota a Pompei, almeno fino a Claudio. Le iscrizioni sono quanto mai avare, purtroppo, di più precise notizie storiche37. Sembra assodato che, verso la fine dell’impero di Caligola, dovette svilupparsi a Pompei una crisi di non chiaro significato che costrinse i decurioni a nominare l’imperatore stesso, nel 40 d.C., duoviro quinquennale38. Le cose precipitarono alla morte di Caligola, nel 41 d.C. Sotto Claudio, negli anni dal 41 al 52 d.C., non sono testimoniati a Pompei magistrati di alcun genere. Inoltre all’imperatore non fu dedicata una statua nel Tempio della Fortuna Augusta, com’era d’abitudine, ma solo due basi di marmo. Fuori Porta Nocera, poi, sono state rinvenute iscrizioni elettorali riferibili alla città di Nuceria e nominanti cariche cadute da tempo in disuso, datate all’epoca di Claudio39. Si è supposto, che Claudio abbia voluto riesumare, in questi momenti di crisi, vecchie forme federali sannitiche, per esempio la lega di Nocera, un’associazione a sfondo militare risalente al IV secolo a.C. e formata da città poste nell’agro nucerino e nelle sue vicinanze. Con Nerone la crisi sembrò risolversi e la vita procedette tranquilla fino al 59 d.C., l’anno in cui Nerone fece uccidere la madre Agrippina presso Bacoli. Nello stesso anno, scoppiò una rissa tra Pompeiani e Nucerini nell’Anfiteatro di Pompei40. Il fatto dovette avere tanta risonanza anche a Roma, se Tacito ne riferisce negli Annali. Nuceria era stata fatta colonia dall’imperatore nel 57 d.C. Si potrebbe pensare che la formazione della nuova colonia abbia arrecato danni economici a 37 G. O. Onorato, Iscrizioni Pompeiane. La vita pubblica, Firenze, 1957 Ibidem. 39 A. Maiuri, Pompei e Nocera, in “Rendiconti Accademia Archeologica, Lettere, Belle Arti di Napoli”, 1958, pp.53-40. 40 Ibidem. 38 20 Pompei, forse perché il suo territorio era stato depauperato a favore di Nuceria41. L’intervento di Nerone, infatti, ristabilì la pace, ma furono sciolte tutte le associazioni illegali, di cui purtroppo non conosciamo nulla, e l’Anfiteatro fu chiuso per dieci anni42. Veduta di Pompei antica con rappresentazione dei singoli edifici. 41 42 Ibidem. Ibidem. 21 1.5. IL MONDO DEGLI AFFARI 1.5.1. IL MONDO AGRICOLO La Campania è un paradiso agricolo che scoprono con gioia i turisti e che è stato esaltato dagli agronomi antichi43. I contrassegni di anfore e le pitture o i rilievi sono la testimonianza delle attitudini agricole di una regione costellata di proprietà - le villae rusticae - disseminate a nord sulle pendici del Vesuvio, a sud vicino a Gragnano e a Castellammare di Stabia, e a est nei dintorni di Scafati. Il suolo campano è straordinariamente fertile e noto per la sua feracità; formato da un’attività vulcanica sottomarina, le colate di lava preistoriche perfezionarono le sue qualità. “Nel territorio campano, si maritano le viti ai pioppi; avvolgendo gli sposi con braccia amorose, si arrampicano di ramo in ramo nel loro cammino sinuoso, raggiungendo la cima a una tale altezza che al vendemmiatore il contratto garantisce rogo e tomba”, scrive Plinio44, la migliore delle guide nella rassegna delle piante locali. Il primo posto spetta all’Aminea45, per la forza del suo vino che guadagna sempre più invecchiando. Sembra che la Campania sia stata il centro da cui si è diffusa questa pianta e i vini del Vesuvio erano favoriti dall’abbondanza di acido fosforico nel terreno. Un’altra pianta, la Surcula, supera ottimamente la fioritura e le sue uve si conservano molto bene in vaso46. Una varietà, la Murgentina, originaria di Murgentia (Morgantina, in Sicilia a ovest di Catania), si ambientò così bene nelle terre intorno a Pompei che prese il nome di Pompeiana47. Un’altra qualità è chiamata Horconia e deriva il suo nome dagli Holconii, ricchi proprietari assai noti attraverso l’epigrafia e l’iconografia48 pompeiana, attestando così l’importanza dei viticultori locali nella creazione di piante adatte al suolo, al clima e al gusto dei consumatori. Non dobbiamo pensare che i pompeiani 43 J. Day, L’agricoltura durante la vita di Pompei, Yale, 1932, pp. 165-208. R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, p. 148. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 A. De Franciscis, M. Olconio Rufo, Napoli, 1973, pp. 37-39. 44 22 producessero un solo vino. La loro vinificazione, molto complicata, offriva una gamma varia che andava dagli aperitivi ai vini medicinali. In primo luogo, c’è il vino ordinario, il rosso49che è il vino puro, senza niente che possa intorbidarlo, privo di feccia: la lympa50. Il confusum era un vino aspro mescolato con un vino dolce, una specie di taglio probabilmente51. I vini aromatizzati erano indicati, sotto il nome di aromatites52, di mirris, uno dei più apprezzati. Si aveva, infatti, l’abitudine di produrre un vino aromatico preparato all’incirca come i profumi, dapprima con mirra, poi anche con nardo celtico, canna, bitume in palline messe nel mosto o nel vino dolce; altrove con canne, giunco, nardosiriano, amomo, cannella, zafferano, palma, sempre in palline. Il gustaticium è un vino aperitivo, che si beve a digiuno, prima del pasto, consuetudine estranea al costume romano, ma raccomandata dopo Tiberio dai medici; era un vino cui si aggiungeva il miele53. Se si riduceva a metà il mosto con la cottura, si otteneva il defrutum: il vin cotto. Serviva al taglio dei vini per rinforzarli e questa operazione equivale a uno zuccheraggio dei mosti54. Infine, i pompeiani erano ricchi di vini medicinali. Generalmente, per ottenerli, si mescolava vino e miele: il prodotto era chiamato mulsum, quando il miele proviene dal timo e ha un colore dorato, un gusto molto gradevole e si tira in fili sottilissimi, la qual cosa è una prima prova della sua qualità55. Il passum era un vino fatto con uva secche che era considerato l’idromele dei poveri, e serviva per i malati56. Alcune famiglie pompeiane si erano specializzate nella viticoltura e facevano invecchiare nelle cantine le anfore di lympa o di mulsum: gli Stlaborii, gli Arrii, i Cornelii, i Vibli, i Zittii, gli Iulii, i Postumii, i Ceii, i Vettii, i Cesii, gli Appuleii, per citare solo le famiglie più importanti, perché su 31 villae rusticae, localizzate intorno a Pompei, 29 offrivano gli ambienti necessari alle operazioni di vinificazione: 49 R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano 1973, p. 149-151. P. Remare, De amphorarum inscriptionibus latinis quaestiones selectae, Tubingen, 1912, p. 23. 51 Ibidem, p. 24. 52 Ibidem, p. 27. 53 Ibidem. 54 Ibidem. 55 Ibidem, p. 28. 56 J. Kolendo, Le attività agricole degli abitanti di Pompei, in ” Opus 4”, 1985, pp. 111-124. 50 23 cortile dove si scaricava l’uva, ambiente per il torchio (torcularium), magazzino (cella vinaria) dove il vino acquistava le sue qualità. Le villae rusticae erano organizzate anche per la produzione dell’olio. Soprattutto la regione intorno a Gragnano doveva essere coperta di ulivi. Ai confini della Campania e del Sannio, l’olio prodotto nel territorio di Venafrio e nella zona circostante dava, nel I secolo, all’Italia, il primo posto tra le regioni produttrici57. Nelle anfore pompeiane si conservano olive bianche dolci, olive snocciolate e almeno sette ville, sulle trentuno ispezionate, producevano olio58. Per la fabbricazione si trovavano i medesimi sistemi usati per il vino. La macina le preparava per il torchio in modo da non rompere i noccioli, poiché ciò avrebbe conferito un retrogusto amaro. La pressa per le olive somigliava, in piccolo, a quella da vino. Il torcularium era situato in una parte calda della villa e aveva poche finestre; l’olio era immagazzinato in dolia posti in un corridoio vicino alla cantina e talvolta presso la cantina stessa59. I proprietari si dedicavano anche all’allevamento, in particolare a quello degli ovini. Al momento del terremoto del 62, morirono seicento pecore60. In alcune ville, i greggi erano rinchiusi in un cortile e custoditi da cani. Un angolo del vasto cortile di una villa, nei pressi di Gragnano, era isolato da un muretto, dietro il quale si teneva la soccida. Erano allevati nelle ville anche animali da cortile e suini. I pompeiani gustavano una specie di “cassoulet” fatto di ceci messi in conserva con lardo, e il formaggio era fatto con il latte di vacca, come a Gragnano61. 57 R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, p. 151-152. J. Day, L’agricoltura durante la vita di Pompei, Yale, 1932, pp. 220-221. 59 Ibidem. 60 Ibidem, pp. 223-224. 61 Ibidem. 58 24 1.5.2. IL MONDO DELL’INDUSTRIA La fabbricazione del pane aveva perso il carattere familiare. I resti di forni di dimensioni modeste sono poco numerosi, mentre vi erano laboratori specializzati e la presenza di parecchie mole per macinare il grano designa il panificio. Ne esistono più di quaranta, del tipo di quello di Terenzio Procuro e di Terenzio Neo (VII, 2, 1-7; IX, 3, 10-12)62. L’aspetto del mulino è uniforme, ma le sue dimensioni variano notevolmente. Le mole sono fatte di una lava grigia scura, molto dura e porosa. Dopo la molitura, il grano macinato era passato al setaccio. La panificazione si faceva a mano o mediante macchine impastatrici, costituite da un recipiente cilindrico dove girava un asse di legno per trazione umana o animale che trascinava delle pale che mescolavano la pasta trattenuta da bracci fissi, fermati alla parete interna dell’impastatrice63. La pasta ben lavorata era riposta su un tavolo dove le veniva data a mano la forma che doveva avere il pane. Ogni pezzo, su cui era impresso il nome del padrone, veniva posto su una pala munita di un lungo manico che permetteva di introdurlo nel forno. L’ultima operazione era la cottura nel forno64. Vi era un’industria che prevaleva su quella della panificazione, l’industria del garum65, molto utilizzato dagli antichi romani, quale condimento di primi e secondi piatti: si tratta di una salsa prodotta dalla macerazione di pesci in una salamoia concentrata di sale marino. La salamoia era sistemata all’aria aperta in cisterne da 7 a 10 metri cubi esposte al sole, in cui erano immersi pesci, quali sgombri, tonni. Garum grezzo veniva importato dalla Spagna ed era sottoposto a Pompei agli ultimi processi di preparazione66. L’allevamento degli ovini forniva all’industria tessile la lana. La lana tosata doveva, innanzitutto, essere lavata in una caldaia con la saponaria, che aveva la funzione di sgrassarla. Poi veniva asciugata, battuta e spelazzata con le mani. Si procedeva, quindi, alla cardatura con l’aiuto di un pettine di ferro dai 62 L. A. Moritz, Grain-mills and Flour in classical antiquity, Oxford, 1958, p. 75. Le indicazioni numeriche in parentesi individuano il luogo in cui fu rinvenuto il forno. 63 Ibidem, p. 78. 64 Ibidem, p. 80. 65 P. Grimal, Th. Monod, Sur la véritable nature du garum, in “Revue des Etudes anciennes”, 1952, pp. 27-38. 66 Ibidem. 25 denti ricurvi. La lana, così trattata, poteva essere affidata al fuso delle filatrici. La filatrice arrotolava la lana in modo da formare una palla all’estremità superiore della conocchia67. Successivamente, l’operaia prendeva un fuso in cui si potevano notare l’asta munita di un gancio che teneva a posto il filo, e il contrappeso di terracotta, che aiutava a mantenere il filo teso e ad accelerare il movimento di rotazione necessario per torcerlo. I fili di lana, tinti per lo più con colori vivi – porpora, zafferano - erano messi su un telaio verticale o orizzontale per essere tessuti. L’operazione più importante era la follatura68, e i follatori occupavano un posto importante nella borghesia industriale di Pompei. Dopo che la pezza di lana veniva tessuta, occorre lavarla con i piedi in recipienti pieni d’acqua e di soda o di altri reattivi alcalini, tra cui l’urina risulta il meno costoso e il più popolare. In seguito era trattata con terra da purgo, quale l’argilla, che sgrassa i tessuti per renderli più morbidi. Ma i peli della superficie, aggrovigliati, necessitavano di essere districati per essere trasformati in peluria che si potesse rasare regolarmente; a Pompei si eseguiva questo lavoro sospendendo la stoffa e pettinandola dall’alto al basso con uno strumento di metallo69. Infine, le stoffe erano esposte all’azione dell’anidride solforosa, al fine di mettere in risalto la luminosità delle stoffe bianche. I tessuti servivano a confezionare toghe, tuniche, mantelli, nastri. Pompei non offriva soltanto capi nuovi, ma diversi laboratori erano specializzati a rimettere in buono stato gli abiti usati70. 67 A. Maiuri, in Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli, 1958, pp. 79-81. 68 Ibidem. 69 G. F. La Torre, Gli impianti commerciali ed artigianali nel tessuto urbano di Pompei, Napoli, 1988, pp. 73 sgg. 70 R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, p. 165. 26 1.6. LA CIRCOLAZIONE MONETALE I “Giornali di Scavo” hanno riportato fedelmente notizie degli oggetti di valore rinvenuti durante i lavori di dissotterramento, che, per più di due secoli, furono condotti nell’antica Pompei71. Nella maggior parte dei casi, i dati inerenti il rinvenimento di monete erano relativi al 79 d.C. essendo ancora scarsi quelli provenienti da scavi stratigrafici, importanti per ottenere indicazioni più precise circa la circolazione monetaria nelle varie fasi di vita della città. Pompei è una realtà archeologica molto importante e in un certo senso atipica, poiché offre la possibilità di indagare sullo status economico e sociale di un contesto urbano del I secolo d.C., essendo stata la città sigillata dall’eruzione del Vesuvio72. A tal fine, si è preferito prendere in esame come campione d’indagine, le monete rinvenute nell’insula 10 della regio I, detta del Menandro, scavata tra il 1926 e il 193273. L’insula è interessante perché ingloba, sia realtà abitative diverse che attività commerciali, comprendendo, infatti, altre case importanti, come la Casa del Fabbro (I, 10, 6) e la Casa degli Amanti (I, 10, 11) e attività commerciali come la Tessitoria di Minucius e il Termopolium. Complessivamente dall’insula 10 della regio I sono state rinvenute 387 monete che possono essere schematizzate come indicato nella tavola. 1.74. 71 A. d’Ambrosio, P. G. Guzzo, M. Mastroroberto, Storie da un’eruzione: Pompei, Ercolano, Oplontis, Napoli, 2003, pp. 26-32. 72 F. Zevi, Pompei, Napoli, 1994, pp. 55-56. 73 Le monete provenienti dall’insula 10 della regio I sono state studiate dalla Dott.ssa Teresa Giove e saranno edite nel III volume, The insula of the Menander at Pompeii, in corso di stampa. 74 Le Soprintendenze per i Beni Archeologici di Pompei e di Napoli e Caserta con l’Università degli Studi di Napoli Federico II e l’Università degli Studi di Salerno hanno in corso un lavoro complessivo di ricognizione e pubblicazione di tutte le monete provenienti da Pompei. 27 28 Questo campione di indagine evidenzia che, a Pompei, nel 79 d.C., circolavano innanzitutto i nominali in bronzo seguiti dai denari in argento romano – repubblicani e dai denari “legionari” emessi da Marco Antonio75; che le numerose monete cronologicamente più recenti, quelle emesse da Vespasiano, ben coesistevano con quelle più antiche emesse da città “straniere”; che la moneta d’oro era presente, anche se in numero limitato, il più delle volte “tesaurizzata”, conservata cioè intenzionalmente per il suo alto valore intrinseco, il suo pregio e la sua stabilità. Interessante la presenza delle monete “estere” appartenenti alle zecche campane (Neapolis, Nuceria, Fistelia, Irnthi), oltre ad esemplari di Luceria, dei Brettii, Reggio, Siracusa, Massaia e ai bronzi di Paestum di epoca romana. Tra le monete”straniere” un posto a parte occupano le numerose monete, in bronzo, di piccolo modulo della zecca di “Ebusus” (l’odierna Ibiza) rinvenute a Pompei. Cronologicamente, queste serie si collocano tra il 214 e il 150 a.C76., momento in cui la moneta di Ebusus comincia a circolare fuori dall’isola, diffondendosi nel Mediterraneo, in concomitanza della conclusione della seconda guerra punica, che segnò il crollo dell’impero di Cartagine e la fine del monopolio commerciale da essa posseduta nel Mediterraneo occidentale. La moneta ebusitana ritrovata lungo le coste della Spagna sud – orientale e della Francia meridionale, oltre che nella zona costiera della Campania e delle zone interne del Sannio, fa ritenere che tra questi centri si fosse venuto ad intrecciare un intenso volume di traffici commerciali, confermato dalla presenza a Ebusus di ceramica campana e in vari centri del Mediterraneo, tra cui Pompei, di ceramica dipinta iberica coeva alle monete77. Le monete di Roma sono a Pompei, ovviamente, la stragrande maggioranza. La moneta in bronzo è la più diffusa essendo utilizzata quasi esclusivamente nel piccolo commercio78, il denaro d’argento serviva per pagare i salari, gli stipendi alle truppe e i beni di consumo, mentre quello 75 A. d’Ambrosio, P. G. Guzzo, M. Mastroroberto, Storie da un’eruzione: Pompei, Ercolano, Oplontis, Napoli, 2003, pp. 26-32. 76 Ibidem. 77 Lo studioso C. Standard, esaminando in particolare una serie di Ebusus con la rappresentazione estremamente schematica del tipo di Bes, rinvenuta prevalentemente in Campania, ha ipotizzato che si possa trattare di una imitazione locale degli esemplari ebusitani 78 L’importanza della coniazione in bronzo e il particolare interesse per i nominali enei trova conferma nel fatto che molto spesso le iscrizioni riportano le cifre in sesterzi mentre gli autori antichi usavano indifferentemente le cifre sia in sesterzi che in denarii. 29 aureo, l’aureus, equivalente dal tempo di Augusto a 25 denari di argento, doveva essere usato solo per i traffici di valore. Durante l’impero di Nerone, con l’aumento del prezzo di mercato dell’oro e dell’argento, si ebbe la conseguente rarefazione del circolante in metallo prezioso e uno squilibrio nel sistema monetario; per ovviare a tale situazione nel 63 – 64 d.C. venne deliberata una riduzione del peso dell’aureo (svalutazione) a 1/45 di libbra (g 7, 3) e l’argento puro, utilizzato fino a quel momento, venne sostituito con una lega d’argento con una percentuale del 5 – 10% di bronzo79. E’stato sottolineato che la riforma neroniana, alterando il rapporto di valore tra i metalli monetati, finiva con il favorire coloro che possedevano monete d’argento, in particolare la cosiddetta borghesia italica, cioè la nuova classe emergente dedita ad attività artigianali e mercantili; ma sono i rinvenimenti, in area vesuviana, che non confermano questa ipotesi, già di per sé alquanto teorica essendo difficile poter dimostrare che la borghesia preferiva tesaurizzare i denari d’argento e l’aristocrazia gli aurei80. I rinvenimenti pompeiani ci testimoniano che solo in pochi casi abbiamo concentrazioni di notevole quantità di monete d’oro; oltre al famoso ed eccezionale ritrovamento a Boscoreale di 1.000 aurei (equivalente a 100.000 sesterzi) nascosti, insieme al ricco e splendido servizio di argenteria (109 pezzi del peso complessivo di 30 chilogrammi) nella cisterna dell’azienda agricola di Fanno Sinistre81, si segnalano alcuni esempi significativi a Pompei: 45 aurei e 5 denarii d’argento erano nella cassaforte della Casa detta di Castore e Polluce (VI, 9, 6-7)82; 47 aurei e 193 argenti erano in una borsa accanto al corpo di una donna nella bottega tra i civici nn. 6-8 della regio IX, insula 383; nella Casa del Bracciale d’Oro (VI, 17, 42-44) una donna riccamente ingioiellata aveva con sé una cassettina di legno contenente 40 aurei, 174 denari d’argento e un quadrante di bronzo84 (valore complessivo circa 4.700 sesterzi). 79 Già prima del regno di Nerone sussistevano di fatto i primi sintomi di deprezzamento: con Tiberio e Gaio l’aureo scese a 7, 75 grammi e con Claudio a 7, 7 grammi. 80 F. De Martino, Storia economica di Roma antica, II, Firenze, 1980, p. 349. 81 La rendita annua di questa azienda attiva nella produzione di olio e vino è stata valutata intorno ai 48.000 sesterzi. 82 G. Fiorelli, Storia delle Antichità Pompeiane, IV, 1862, p. 214. 83 Ibidem, pp. 444-445. 84 Ibidem. 30 Ma quale era il potere d’acquisto del sesterzio nel I secolo d.C.? Quanto occorreva al giorno per il mantenimento di una famiglia pompeiana di modeste condizioni? Purtroppo vi sono scarse notizie circa i prezzi correnti sia a Pompei che altrove; la maggior parte delle informazioni perviene dalle iscrizioni e dai graffiti pompeiani, nonché dall’archivio del ”banchiere” L. Cecilio Giocondo accuratamente documentato dalle tavolette cerate recuperate nella sua abitazione85. I più indicativi, per avere un’idea del costo della vita di questa epoca, sono quelli relativi ad alcuni generi di prima necessità: 1 modio (6, 503 Kg ) di frumento: 12 assi=4 sesterzi. 1 modio di tritico: 30 assi=7 sesterzi e 2 assi. 1 modio di lupini: 3 assi. 1 libbra d’olio: 4 assi=1 sesterzio 1 misura di vino comune: 1 asse. 1 pultarius (piatto di minestra di farina e farro): 1 asse86. 85 86 R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, pp. 208-212. Ibidem. 31 1.7. IL TERREMOTO DEL 62 D.C. E L’ERUZIONE DEL 79 D.C. Nel 62 d.C., un catastrofico terremoto colpiva Pompei e diverse altre città campane, tra cui Ercolano87; le distruzioni furono immani. Al momento della catastrofe finale del 79 d.C. i restauri e le ricostruzioni procedevano a ritmo spedito; ma quasi tutti i monumenti pubblici della città erano ancora in stato di rovina. I più ricchi si erano trasferiti nelle loro ville fuori di Pompei. Gli altri si sistemarono in alloggi provvisori, di fortuna. In questo periodo, la città, da centro economico e finanziario divenne un enorme cantiere di costruzione88, dove l’attività principale non era certo basata sul commercio. Molti si arricchirono con la speculazione edilizia e con l’affitto di appartamenti; altri ricavarono grossi proventi dall’appalto di lavori di restauro. Un’analisi dei lavori compiuti a Pompei dal 62 al 79 d.C. ha portato alla conclusione che il centro della vita economica si stava spostando verso l’incrocio tra la Via di Stabia e Via dell’Abbondanza, dove erano stati rifatti moltissimi negozi, ma le case non erano state ancora sistemate; anzi un’insula intera era stata abbattuta per la costruzione delle lussuose Terme Centrali. In avanzato stato di restauro era, invece, la Regione VI, un quartiere prevalentemente residenziale, di un certo livello di agiatezza. Particolarmente importante, da un punto di vista sociale, il fatto che solamente il Tempio di Iside, unico tra gli edifici sacri, era completato, finanziato per di più da un privato, un liberto, che così apriva la strada al figlio per raggiungere le più alte cariche municipali89. Non sappiamo se, e in qual modo, Nerone prima, Vespasiano poi, intervennero nell’opera di ricostruzione. Pompei era una città ricca, e non doveva mancare denaro per le necessità del momento. Lo dimostra il lusso con il quale era stato dato inizio ai lavori di risistemazione di molti edifici, con ampio uso di marmi colorati, come nel Tempio dei Lari Pubblici90. 87 G. O. Onorato, La data del terremoto di Pompei: 5 febbraio 62 d.C., in “Rendiconti Accademia dei Lincei”, vol. IV, 1949, pp. 644 e sgg. 88 E. La Rocca, Pompei, Milano, 1976, pp. 21-24. 89 J. Andreau, Histoire des séismes et histoire économique. Le tremblement de terre de Pompéi, ”Annales Economies Sociétés Civilisations” 1973, pp. 369-395. 90 P. Adam, Osservazioni tecniche sugli effetti del terremoto di Pompei del 62 d.C., Bologna, 1989, pp. 4 e sgg. 32 All’alba del 24 agosto del 79 d.C., Pompei era ancora un immenso cantiere; i pompeiani videro una nuvola a forma di pino aleggiare sul Vesuvio. Verso le 10 il gigantesco tappo di lava solidificata che ostruiva il cono eruttivo del vulcano esplose con violenza terrificante sotto la spinta dei gas, e volò in aria, dove fu frantumato e trasformato in lapilli che, spinti dal vento, ricaddero sul territorio a sud-est del Vesuvio per un raggio di 70 chilometri91. Né Sorrento né Ercolano furono toccate dalla pioggia di lapilli, che si depositarono su Pompei per un’altezza di 2, 6 metri. Il lapillo era di pietra pomice. Il primo strato, di cm 120, era di lapillo bianco; il secondo strato, di cm 140, era grigio (monolitico-tefritico)92. La pioggia durò fino al 28 agosto, accompagnata da esalazioni di gas venefico e, alla fine, da una caduta di cenere formata dalla polvere depositata sugli orli del cono del vulcano, che ricadendo in continuazione nel cono stesso, era spinta dai gas in aria. Si aggiunsero frequenti scosse di terremoto, che danneggiarono seriamente città non toccate dalla pioggia di lapilli, come Nola, Napoli e Sorrento. Ercolano fu invece ricoperta non dai lapilli, ma da una valanga di fango, formata da un impasto di cenere e acqua, per un’altezza di ben 20 metri. Pompei finì di esistere nella stessa giornata iniziale dell’eruzione. 91 M. Gigante, Il racconto pliniano dell’eruzione del Vesuvio dell’anno 79, in studi su “Ercolano e Pompei”, 1979, pp. 321 e sgg. 92 Ibidem. 33 Ricostruzione digitale del giorno della scomparsa di Pompei. Il terrore degli abitanti all’appressarsi della catastrofe può essere facilmente immaginato dagli squarci di tragedia rilevati dalle forme di gesso, ricavate dai corpi di quanti non riuscirono a fuggire in tempo dalla città93. Molti furono soffocati dai gas. Alcuni restarono schiacciati dai tetti crollati sotto il peso dei lapilli. Difficile dire quanti morirono nella catastrofe: forse duemila, o forse anche più, su una popolazione che può essere calcolata all’incirca sulle diecimila persone94. L’imperatore Tito intervenne subito in aiuto degli scampati all’eruzione e formò un’apposita commissione di soccorsi in Campania95. Le proprietà delle persone morte senza lasciare eredi furono destinate alle città danneggiate per la loro ricostruzione. Ma Pompei ormai non esisteva più, e non venne più abitata in maniera intensiva, anche se non mancarono nelle zone limitrofe poche e rade costruzioni di non grande importanza96. 93 M. Gigante, Il fungo sul Vesuvio secondo Plinio il Giovane, Roma, 1989, pp. 300 e sgg. E. La Rocca, Pompei, Milano, 1976, pp. 21-24. 95 Ibidem. 96 M. Gigante, Il racconto pliniano dell’eruzione del Vesuvio dell’anno 79, in studi su “Ercolano e Pompei”, 1979, pp. 321 e sgg 94 34 2. GLI SCAVI DALLA SCOPERTA ALL’USO PUBBLICO 2.1 LA SCOPERTA E IL PERIODO PIONIERISTICO Il 23 marzo 1748, l’abate Martorelli, appoggiato dall’ingegnere militare Roque de Alcubierre, apriva il primo cantiere organizzato per lo scavo di Pompei, ritenendo, all’epoca, di essere sulle tracce dell’antica Stabia. In prossimità del quadrivio tra le strade di Stabia e di Nola furono ritrovati oggetti, monete, statue, affreschi e il primo cadavere97. In questa fase, si realizzarono esplorazioni sporadiche e disorganiche in vari punti dell’area che portarono all’individuazione dell’Anfiteatro e della necropoli di Porta Ercolano, con gli edifici adiacenti. Tuttavia, gli scavi si interruppero presto per dare la precedenza a quelli di Ercolano – sui quali Carlo di Borbone, aveva concentrato grandi risorse a partire dal 1738 – dove venne scoperta la Villa dei Papiri, con il suo grande patrimonio di sculture e di letteratura antica. Lo scavo pompeiano fu ripreso, nel 1754, e nel 1763, grazie al rinvenimento dell’iscrizione Res Publica Pompeianorum98, fu possibile identificare definitivamente e senza più dubbi con l’antica città di Pompei la collina che, nel tempo, aveva conservato il nome di Civita, unica memoria dell’insediamento scomparso. Per tale motivo, dal 1752 al 1765, dopo una breve visita alla città di Ercolano, i viaggiatori riservavano la maggior parte della giornata allo studio delle opere esposte nel Museo di Portici99. Per molto tempo, infatti, non ci fu nulla da vedere a Pompei. Nel 1799, le ricchezze del Real Museo furono trasferite a Napoli, in seguito ad un’imponente eruzione del Vesuvio, che lo aveva fatto giudicare poco sicuro per la breve distanza dal cono vulcanico. Tra il 1764 ed il 1766, cominciò lo scavo dell’area dei Teatri, del Foro Triangolare e del Tempio di Iside, che verranno completamente alla luce nei primi anni del secolo successivo. I cantieri vennero impiantati anche nella zona nord-occidentale della città, dove, tra il 1760 ed il 1772, furono 97 G. Longobardi, Pompei sostenibile, Roma, 2002, p. 39. Ibidem. 99 A. M. D’Aignan D’Orbessan, Mélanges historiques, critiques de physique, literature et poèsie, Parigi, 1768, p. 572. 98 35 parzialmente esplorate l’insula occidentalis, la Casa del Chirurgo e la Villa di Diomede, lungo la via dei Sepolcri, nei cui sotterranei vennero rinvenute diciotto vittime dell’eruzione ed un tesoro di monete d’oro e d’argento. Archivio Soprintendenza Archeologica di Pompei (Abb. ASAP) P337. Piante topografiche di Ercolano e Pompei incise da Giuseppe Guerra (1790-1800). I ritrovamenti archeologici stimolarono un’intensa attività clandestina e l’esportazione, oltre, confine degli oggetti di scavo. Il più noto antecedente di quella che poi divenne una pratica di spoliazione assai diffusa è da rintracciarsi nella vicenda di cui fu protagonista il principe d’Elboeuf, che nel 1711, facendo effettuare opere di scavo a Resina in un terreno di sua proprietà, si imbatté nei primi resti dai quali, trent’anni più tardi, sarebbe iniziata l’esplorazione dell’antico teatro di Ercolano. L’assenza, all’epoca, di uno specifico divieto di esportazione di opere d’arte consentì al principe di inviare 36 alcune statue a Vienna per arricchire la collezione di Eugenio di Savoia. Lo scandalo non scoppiò a Napoli bensì nello Stato Pontificio, ove la normativa di tutela dei ritrovamenti archeologici era costume antico e perennemente aggiornato, sino agli editti Spinola del 1701100 e del 1704101; trasportate da Napoli, in tutta segretezza, le statue furono trasferite a Roma per il necessario restauro e di lì proseguirono per Vienna, incorrendo nella violazione dei succitati editti pontifici in materia di esportazione. In effetti, la gestione dell’attività archeologica non appariva improntata al rispetto dell’ortodossia culturale ed amministrativa: l’avidità dei guadagni dei proprietari dei fondi dove le opere venivano alla luce e la mancanza di personale capace di valutarne l’importanza contribuirono al diffondersi di scavi abusivi, ovvero affidati alla direzione e al controllo di personaggi mai mossi da puro amor dell’arte e interesse per l’archeologia102. In realtà, la mancanza di una struttura pubblica preposta alla sovrintendenza e al controllo delle attività di ricerca nel vasto territorio del Regno rendeva inevitabile che gli scavi, nella migliore delle ipotesi, venissero realizzati in regime di concessione a singoli cittadini che ne avessero fatto richiesta; spesso, però, non si avvertiva neanche l’esigenza di richiedere l’autorizzazione pubblica, ritenuto atto non indispensabile per l’esecuzione di opere di scavo condotte da privati103. Inoltre, ad escavazioni indiscriminate ed incaute, si aggiungeva il danno derivante dal fatto che, in assenza di verifiche sulla sorte dei reperti, l’amministrazione pubblica era impossibilitata a controllarne la circolazione, e i preziosi oggetti venivano facilmente alienati, in genere quali costosi souvenirs per i più fortunati e facoltosi viaggiatori stranieri. 100 Editto Spinola del 18 luglio del 1701: Proibitione sopra l’estrattione di statue di marmo o metallo, figure, antichità e simili, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1701; A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani 15711860, Bologna, 1978, p. 83. 101 Editto Spinola del 30 settembre 1704: Editto sopra le pitture, stucchi, mosaici ed altre antichità che si trovano nelle cave, iscrizioni antiche, scritture e libri manoscritti, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1704; riportato integralmente in A. Emiliani, Legge, bandi…, cit., Bologna, 1978, pp. 83-86. Su questo editto si veda anche l’analisi di Mario Speroni in, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, pp. 14-15. 102 P. Laveglia, Paestum dalla decadenza alla riscoperta fino al 1860, Napoli 1971, p. 221. 103 In effetti, il “più antico” provvedimento rintracciato che si occupi in specifico degli scavi privati, imponendo che siano sottoposti a “permesso reale”, è soltanto del 1792, ma tutto lascia supporre che anche in seguito sia stato spesse volte disatteso. M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988. 37 La scoperta di un’intera città antica, intatta in tutte le sue componenti, in un’accezione settecentesca, venne identificata come una risorsa in grado di arricchire rapidamente le collezioni d’arte borboniche. Lo scavo apparve come una fonte inesauribile di tesori, di oggetti preziosi e di opere d’arte, che potevano conferire lustro e prestigio alla corona104. La necessità di tutelare tali beni preoccupò Carlo di Borbone, come appare dal dispaccio, del 24 luglio 1755, indirizzato alla Regia Camera Sommaria, nel quale tra l’altro si legge: ”Le province onde questo Regno di Napoli è composto, essendo né tempi antichi abitate da Greci Romani, (…)hanno in ogni tempo somministrato in grandissima copia de rari monumenti di antichità agli uomini di quella studiosi, di statue, di tavole, di medaglie, di vasi e d’istrumenti o per sacrificio, o per sepolcri, o per altri usi della vita, o di marmi, o di terra, o di metalli.(…)Niun cura e diligenza è stata per l’addietro usata in raccoglierli e custodirli, così che tutto ciò che di più pregevole è stato dissotterrato s’e dal Regno estratto, onde il medesimo ne è ora assai povero. Altri stranieri dè lontani paesi se ne sono arricchiti e ne fanno i loro maggiori ornamenti, grandissimi profitti traendone. Di qui la necessità di rifarsi alla esperienza degli stati più culti dell’Europa, nei quali l’estrazione di sì fatte reliquie d’antichità, senza espressa licenza de’Sovrani, è stata vietata ed la loro proibizione osservata esattamente”105. Il rilascio delle licenze per gli scavi era subordinato al parere di tre periti: per i dipinti fu nominato il pittore di camera del re, Giuseppe Bonito106, per le sculture, i marmi e le pietre lavorate Giuseppe Canart, ingegnere e statutario di Sua Maestà, per tutte le altre antichità uno dei massimi eruditi dell’epoca, il canonico Alessio Simmaco Mazzocchi. Il divieto di esportazione non era assoluto, bensì limitato a ciò che “o per eccellenza di lavoro ed artificio, o per altra rarità, merita di essere tenuto in pregio”. Nel testo napoletano l’elenco dei beni tutelati fu raggruppato in due categorie, individuate in scultura e pittura, specificando le pene previste per i contravventori; sanzioni, tra l’altro molto più repressive dell’editto pontificio, sottolineando la preoccupazione di 104 G. Longobardi, Pompei sostenibile, Roma, 2002, p. 40. L. Giustiniani, Nuova collezione delle Prammatiche del Regno di Napoli, IV, Napoli, 1804, pp. 201-203. 106 B. De Dominaci, Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, III, Napoli, 1763, pp. 712 ss. 105 38 Carlo di Borbone e, al contempo, la fiducia nel potere dissuasivo delle pene stesse. Significativa era la punizione per l’esportazione abusiva non soltanto con la “perdita della roba”, ma altresì con “anni tre di galera per gl’ignobili e d’anni tre di relegazione per li nobili”; anche il solo tentativo d’estrazione, qualora l’intenzione criminosa risultava evidente dalle circostanze, era equiparato al delitto consumato: si avrà per consumato “il delitto per mare, non solo quando le robe suddette si troveranno già imbarcate, ma anche allorché si saranno ritrovate vicino le marine, i luoghi d’imbarco, in atto che si trasportano per imbarcarsi; e per terra, allorché l’estraente sarà ritrovato vicino ai confini, o avrà voltato le spalle alle Regie Casse, in cammini , ed in circostanze tali, per cui verisimilmente si debba credere che le robe erano per estrarsi dal Regno”107. Un interessante novità introdotta dal dispaccio era l’attenzione dedicata agli “istrumenti”, per il valore storico-documentario che iniziavano a riconoscersi agli antichi utensili. Tali scoperte erano state, in parte, divulgate, attraverso pubblicazioni, dovute, sia ad antiquari, che a colti viaggiatori. Nel 1739, il De Brosses, scrivendo al presidente Bouhier, si soffermava sui molti mobili da camera e da cucina, sul gran numero di lampade, di vasi, di sacrifici, per la guerra o per i bagni, formando la più singolare raccolta di antichità. La scoperta di tali reperti si intensificò nella prima metà dell’Ottocento, quando i reali del Regno accordavano il permesso a sovrani italiani e stranieri di visitare gli scavi ed assistere al dissotterramento di antiche abitazioni, rivelando diversi oggetti di uso quotidiano, quali vasi di terracotta con avanzi di pesce, candelabri, cucchiaini108, preziosi in bronzo, vetro, oro109. Numerosi, ad esempio, furono gli “istrumenti”estratti a Pompei, il 17 luglio 1823, in occasione della visita del Duca di Calabria e della sua famiglia, in seguito alla quale, l’ingegnere direttore Antonio Bonucci inviò, al 107 L. Giustiniani, Nuova collezione delle Prammatiche del Regno di Napoli, IV, Napoli, 1804, pp. 201-203. 108 Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, (Abb. ASSAN) Visita in Pompei del Principe Federico Augusto di Sassonia, fascio XIII B4, il Direttore degli Scavi di Pompei Nicola D’Apunzo al Soprintendente degli Scavi di Antichità Michele Arditi, Pompei 11 maggio 1828. 109 ASSAN, Visita agli scavi di Ercolano e Pompei del Conte Stackelberg al servizio di Sua Maestà l’Imperatore di Russia, fascio XIII B4, 1, il Segretario di Stato di Casa Reale al Direttore del Real Museo Borbonico, Napoli 7 ottobre 1828. 39 Cavaliere Arditi, la descrizione dei reperti, classificati in relazione al tipo di materiale di cui erano composti (argento, bronzo, creta)110. La necessità di provvedere allo studio e alla pubblicazione dei reperti ispirò Carlo di Borbone che, il 13 dicembre 1755, fondò la Reale Accademia Ercolanese, formata da quindici specialisti, con lo scopo di studiare, in modo scientifico, e di pubblicare i rinvenimenti vesuviani. Lo spirito accentratore nelle attività culturali non mancò di manifestarsi anche presso l’Accademia: ai membri era fatto divieto di divulgare le recenti scoperte, restando la pubblicazione dei reperti riservata allo Stato e, per esso agli organi accademici111. Peraltro, i lavori dell’Accademia Ercolanese procedettero con estrema lentezza sino al 1780, per poi essere sospesi fino al 1787, ed infine ripresi per volontà di Ferdinando IV 112. Dal 1757 al 1792, videro la luce i primi otto volumi delle antichità di Ercolano, e non si procedette oltre113. Fosse dipesa esclusivamente dall’attività dell’Accademia Ercolanese, la diffusione delle scoperte archeologiche delle città vesuviane sarebbe stata limitatissima, non solo per il grave ritardo con cui uscirono i volumi, ma anche per la parsimoniosa distribuzione degli stessi, che non potevano essere liberamente acquistati sul mercato librario, ma erano oggetto di selezionato omaggio del re a quanti fossero stimati degni del prezioso dono. Questo regime di ridotta divulgazione fu, tuttavia, spesso infranto dalla solerzia di colti viaggiatori, che, profittando della lentezza dei lavori ufficiali, diedero alle stampe saggi, lettere e dissertazioni sfidando l’ira del re; tra questi vi furono Winckelmann, Hamilton, Fragonard, David, Goethe, Mozart114. Sui luoghi, invece, vigeva un controllo di tipo militare: pochissimi avevano la fortuna di essere ammessi alla visita degli scavi. I pochi eletti erano controllati a vista per timore che potessero sottrarre oggetti o asportare frammenti, e non si potevano nemmeno eseguire schizzi sommari dal vero dei ritrovamenti. 110 ASSAN, Visita agli scavi di Pompei del Conte di Calabria, fascio XIII B4, 1, il Direttore dei Reali Scavi di Pompei, Antonio Bonucci, al Cav. Michele Arditi, Pompei 17 luglio 1823. 111 L. Rollo Bancale, Scrittori inglesi a Napoli. Gran Tour e oltre., p. 79-80, Salerno, 1998. 112 M. Schipa, Nel Regno di Ferdinando IV di Borbone, Napoli, 1938, pp. 132 ss. 113 Dei volumi curati dall’Accademia Ercolanese, cinque erano dedicati alle pitture, due ai bronzi ed uno a lucerne ed utensili vari. 114 “Ammireremo Pompei, ed Herculaneum, le città dove si scava e le rarità da poco ritrovate, e tutto ciò costerà molto denaro”, P. Scialò, Mozart a Napoli nelle lettere di Wolfgang e Leopold, Napoli, 1991, p. 40. 40 L’accessibilità al sito di Ercolano era ancora più rigorosa in base ai documenti dell’Archivio Storico della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, dai quali è emerso un ristretto numero di autorizzazioni concesse a sovrani e nobili stranieri rispetto a Pompei, concentrati negli anni 1828-1833; nessuna visita fu compiuta dopo l’Unità d’Italia115. A partire dal 1755, fu permesso prendere annotazioni, sotto la sorveglianza di un custode, consentendo solo di disegnare gli oggetti di cui esistevano già incisioni116. Erano le severe limitazioni poste ai pochi visitatori e l’organizzazione espositiva dell’Ercolanese a risaltare il limite di fondo della politica dei beni culturali dei Borbone. Il riferimento è alla gestione privata di questi beni che erano, in prima istanza, sul piano giuridico, beni privati del re e come tali erano gelosamente vissuti e parsimoniosamente mostrati. Non c’è viaggiatore o studioso settecentesco che non si lamenti dei numerosi vincoli e limiti che caratterizzavano le visite ai siti: dalla difficoltà di ottenere un permesso firmato dal primo ministro, alla ossessiva attenzione dei guardiani, all’impossibilità di prendere appunti di qualsivoglia natura117. Tra l’altro, l’idea che il patrimonio artistico fosse mostrato per accrescere il prestigio di una dinastia reale si fondava su un concetto giuridico di proprietà, che era 115 ASSAN, Visita agli scavi di Ercolano del Principe di Sassonia, fascio XIII B4, 1, corrispondenza priva di mittente e destinatario, 11 maggio 1828. Visita agli scavi di Ercolano del Conte Stackelberg al servizio di Sua Maestà l’Imperatore di Russia, fascio XIII B4, 1, il Segretario di Stato di Casa Reale al Direttore del Real Museo Borbonico, Napoli 7 ottobre 1828. Visita agli scavi di Ercolano del Principe Reale di Prussia, fascio XIII B4, 1, il Segretario e Ministro di Stato di Casa Reale Ruffo, al Direttore del Real Museo Borbonico e Soprintendente degli Scavi Michele Arditi, Napoli 9 novembre 1828. Visita agli scavi di Ercolano delle Principesse M. Antonietta e M. Amalia, fascio XIII B4, 1, l’architetto direttore Carlo Bonucci al Soprintendente dei Reali Scavi di Antichità Marchese Arditi, Ercolano 16 novembre 1828. Visita agli scavi di Ercolano della Gran Duchessa Elena di Russia, fascio XIII B4, 1, l’architetto direttore Carlo Bonucci al Soprintendente dei Reali Scavi di Antichità Marchese Arditi, Ercolano 10 febbraio 1829. Gli oggetti dissotterrati durante la visita dell’illustre personaggio furono stimati in quindici carlini. Vista agli scavi di Ercolano del Re di Baviera, durante la quale Sua Maestà volle maneggiare zappa e piccone, rinvenendo diversi oggetti in vetro, bronzo e terracotta, fascio XIII B4, 1, l’architetto direttore Carlo Bonucci al Soprintendente dei Reali Scavi di Antichità Marchese Arditi, Ercolano 28 febbraio 1829. Visita agli scavi di Ercolano del Principe di Capua e del Conte di Lecce, fascio XIII B4, 1, descrizione del direttore di Casa Reale dell’avvenuta visita, Napoli 28 giugno 1831. Visita agli scavi di Ercolano dell’Ambasciatore tunisino Selim Agà, fascio XIII B4, 1, il Ministro Segretario di Stato degli Affari Interni scrive ad Arditi, Napoli 20 luglio 1833. 116 F. Zevi, Gli scavi di Ercolano e Pompei, in “Civiltà”, Napoli, 1998, p. 66. 117 A. O. Cavina, Il Settecento, in” Storia”, II, 2, pp. 165ss. Quaderni del Dipartimento delle Discipline Storiche, Musei, tutela e legislazione dei beni culturali a Napoli tra ‘700 e ‘800, p. 22, Napoli, 1995. 41 ulteriormente precisato con il Decreto con cui Ferdinando IV, divenuto Ferdinando I dopo il suo ritorno sul trono di Napoli, istituì, nel 1816, il Real Museo Borbonico. L’articolo III sanciva senza equivoci: “Dichiariamo che tutto quello che contiensi attualmente nel Real Museo Borbonico, e tutto quello che di nostro ordine vi sarà in avvenire depositato, è di nostra libera proprietà allodiale, indipendente dà beni della Corona. Riserbiamo a Noi la facoltà di disporne”118. La libera proprietà allodiale, ossia una proprietà svincolata da ogni gravame e limite di tipo feudale, corrisponde all’attuale proprietà privata. L’intero patrimonio artistico del Regno veniva dichiarato proprietà privata del re, in quanto individuo e pertanto distinto dai “privati” beni della corona ereditati dinasticamente e amministrati separatamente attraverso la Segreteria di Casa Reale. Essendo proprietario esclusivo degli oggetti rinvenuti nelle città sepolte, il re era l’unica autorità legittimata ad offrirli in dono ai personaggi che visitavano gli scavi119. Previa autorizzazione di Sua Maestà, il direttore dei Reali scavi provvedeva ad inviare al Soprintendente e al Ministro dell’Interno il notamento degli oggetti scoperti ed eventualmente offerti in regalo; si tratta di un documento redatto dal soprastante e vistato dall’ispettore degli scavi, che riporta la composizione quali – quantitativa dei preziosi, la data ed il sito del ritrovamento120. Gli oggetti rinvenuti venivano depositati presso il nuovo museo, ribadendo che il re ne conservava in pieno il libero possesso, ed avrebbe, quindi, potuto in qualsiasi momento scegliere per le raccolte una destinazione diversa da quella indicata. Ciò che colpisce è l’ulteriore e progressiva accentuazione del carattere giuridicamente privato almeno dei 118 Archivio di Stato di Napoli (ASN),Monumenti e scavi di antichità, Indice Generale 4, (1861 – 1891), Bollettino delle leggi del Regno di Napoli, Napoli, Stamperia Reale, anno 1816, n. 228, p. 155. 119 ASSAN, Dono di preziosi scoperti in Pompei alla Gran Duchessa Elena di Russia, fascio XIII B4, 1, Il direttore di Casa Reale Ruffo al direttore del Real Museo Borbonico, Napoli 9 febbraio 1829. Dono di oggetti rinvenuti in Pompei al Gran Duca di Toscana Leopoldo II, fascio XIII B4, 1, il Ministro degli Affari Interni al Direttore del Real Museo Borbonico, Napoli 4 giugno 1883. 120 Ibidem, Notamento degli oggetti rinvenuti in Pompei in presenza del Principe di Salerno, fascio XIII B4, 1, Pompei 31 ottobre 1818. Notamento di oggetti rinvenuti in Pompei in presenza del Duca e della Duchessa di Calabria, fascio XIII B4, 1, Pompei 27 aprile 1819. Notamento degli oggetti rinvenuti in Ercolano in presenza della Gran Duchessa Elena di Russia, fascio XIII B4, 1, Ercolano 6 febbraio 1829. Notamento degli oggetti rinvenuti in Ercolano in presenza del Re di Baviera, fascio XIII B4, 1, Ercolano 27 febbraio 1829. Notamento degli oggetti rinvenuti in Pompei in presenza del Principe Augusto di Prussia, fascio XIII B4, 1, Napoli 6 febbraio 1833. 42 beni mobili che durerà sino al 1860, quale caso di arretratezza quasi unico in Europa121. Alla fine del XVIII secolo, gli edifici individuati o scavati erano concentrati in tre aree non collegate organicamente tra loro: porta Ercolano a nord, l’area dei Teatri a sud e l’Anfiteatro ad est; ciascuna area di scavo aveva un accesso autonomo da strade vicine preesistenti. Con andamento est-ovest lungo la strada Napoli – Salerno, vi era la Taverna del Rapillo, una locanda costruita come primo servizio per gli ospiti degli scavi, per renderne più comoda e meno frettolosa la visita122. Era grande l’ammirazione, ma non mancavano certo le critiche, da parte di chi andava a visitare Pompei. Da principio gli scavi furono rivolti molto più al rinvenimento di oggetti pregiati asportabili che alla comprensione della struttura dell’abitato e alle comodità dei visitatori. Per entrare nelle case bisognava scavalcare vere e proprie colline formatesi con la terra depositata dagli scavatori. Molti lamentavano l’episodicità e la lentezza degli scavi, l’assenza di metodo, la scarsezza di operai impiegati nell’impresa, il fatto che i luoghi fossero lasciati ingombri di terra e cenere e che gli affreschi venissero distaccati dalle murature, nonché il disinteresse riguardo al disseppellimento dell’intera città. Altri, come Winckelmann, si interrogavano sulla reale utilità di condurre a termine lo scavo123. Non c’è ancora, negli spettatori del tempo, la sensibilità romantica che farà apprezzare il paesaggio di rovine e meditare sulla transitorietà delle cose umane: in quel momento l’interesse era concentrato sulle tecniche costruttive, sulle proporzioni architettoniche, sullo stile. Nel 1798, dopo la sconfitta subita da Ferdinando IV, che voleva marciare su Roma per scacciare i Francesi, l’esercito del generale Championnet si diresse su Napoli: il re fuggì mentre i francesi conquistarono la città proclamando la Repubblica Partenopea. Championnet, uomo molto colto e aggiornato sulle 121 Quaderni del Dipartimento delle Discipline Storiche, Musei, tutela e legislazione dei beni culturali a Napoli tra ‘700 e ‘800, p. 25, Napoli, 1995. 122 F. Zevi, La storia degli scavi e la documentazione, Napoli, 1981, p. 13. 123 “Siccome le case furono schiacciate dall’enorme peso della lava, non si vedrebbe altro che muraglie…e con quale vantaggio? Quello di vedere antiche muraglie rovinate”, lettera al Conte di Bruhl, in L. Mascoli, Architetti, antiquari e viaggiatori francesi a Pompei dalla metà del settecento alla fine dell’ottocento, 1981. 43 scoperte pompeiane, diede subito l’ordine di riprendere gli scavi nel quartiere meridionale dove venne scoperta una casa a lui intitolata (Reg.VIII, Ins.2, civ.3)124. La Repubblica Partenopea ebbe vita breve e nel giugno del 1799, i Francesi abbandonarono Napoli; ma Ferdinando IV tornò in città solo nel 1802. In questo arco di tempo i problemi politici e lo scarso contributo finanziario furono le cause della sospensione delle attività di scavo. Bisognerà attendere l’arrivo di Giuseppe Bonaparte, nel 1806, per poter vedere rinnovato l’interesse per Pompei. Il re aumentò il numero degli addetti (circa cinquecento operai) sotto la guida del ministro Cristoforo Saliceti. In questa prima fase, furono condotti sondaggi casuali fino a che il direttore del Real Museo di Portici, Michele Arditi, non fu incaricato di elaborare un piano organico degli scavi e iniziò ad elaborare un programma per l’esproprio dei terreni privati nella zona archeologica di Pompei. L’Arditi, inoltre, cercò di evitare scavi isolati, concentrandosi nella zona, presso Porta Ercolano, dove venne scoperta la Casa di Sallustio. Nel 1808, Giuseppe Bonaparte fu destinato al trono di Spagna e lasciò il posto a Gioacchino Murat 125. Sia lui che sua moglie, Carolina Bonaparte, mostrarono subito entusiasmo per l’archeologia, al punto tale che la regina si trasferì a Portici da dove controllava personalmente gli scavi, dando di continuo incoraggiamenti e sussidi personali agli operai. Il 10 ottobre 1808, in occasione di una sua visita, i responsabili del cantiere procedettero allo scavo di una bottega, dove furono riportati alla luce numerosi vasi126. Un altro scavo del medesimo genere risale al 3 ottobre 1809, durante il quale la Regina fu accompagnata dal Ministro degli Interni e dal Ministro della Guerra e le furono offerti dei bronzi127. Dalle carte dell’Archivio Storico della Soprintendenza dei Beni Archeologici di Napoli e Pompei, tra il 1808 ed il 1815, Carolina visitò numerose volte l’antica città appassionandosi, soprattutto, ai lavori in corso lungo la Via dei Sepolcri, dove, nel 1812, furono rinvenuti diversi scheletri con accanto gioielli 124 Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Pompei 1748-1980. I tempi della documentazione, Roma, 1981, p.13. 125 F. Zevi, La storia degli scavi e della documentazione, Napoli, 1981, p. 14-15. 126 ASSAN, Visita in Pompei di Sua Maestà la Regina, fascio XIII B4, 1, lettera priva di mittente indirizzata al signor Pietro La Vega, 10 ottobre 1808. 127 ASSAN, Visita della Regina agli scavi di Pompei, fascio XIII B4, 1, 3 ottobre 1809. 44 e altri preziosi; durante tali visite, la regina elargiva ricompense e faceva trasportare i reperti più suggestivi a Portici. L’aspetto più interessante e culturalmente nuovo del periodo francese di Pompei è quello di restituire la completezza di una visione urbana, l’architettura dei monumenti, la distribuzione e l’organizzazione delle strutture cittadine. Ma per cogliere questa realtà, nella sua completezza, occorreva procedere speditamente negli scavi e mettere a punto un programma ed un’organizzazione finalizzate alla liberazione integrale dell’antica città. Per elaborare il piano finanziario era necessario avere ben chiari, preliminarmente, limiti ed estensione del comprensorio urbano; quindi, occorreva mettere subito allo scoperto il circuito delle mura e, in conseguenza, approntare un piano di espropri per rendere di proprietà pubblica tutte le terre entro le mura stesse128. Un progetto grandioso ed organico; la passione ed il tenace interessamento di Carolina Murat consentirono di superare gli ostacoli e, nel 1811, l’intero compendio di Pompei fu assicurato allo Stato, mentre i soldati continuarono a portare alla luce l’anello delle mura e sgomberare l’anfiteatro129. All’interno delle mura, erano impegnati operai civili, con un’attenta organizzazione del lavoro che consentisse di accelerare i tempi di scavo senza incorrere nel rischio di far crollare i resti degli antichi edifici. Nel 1813, il numero degli operai impiegati registrò un incremento spettacolare: 360 in luglio, 588 all’inizio di settembre per arrivare poi a 624 verso la metà dello stesso mese, aumento consequenziale alla decisione della Regina di concedere 2.000 ducati al mese per gli scavi130. I regnanti francesi accortamente non mutarono nulla per ciò che attiene alla direzione degli scavi; continua l’équipe napoletana di un tempo, con i rinnovi necessari per l’avvicendarsi delle generazioni; Pietro La Vega successe al fratello, e lui fu sostituito da Antonio Bonucci; Michele Arditi resse per decenni il Museo e la Soprintendenza napoletana. In genere, i rapporti con la 128 ASSAN, Lettera di Sua Maestà la Regina al Ministro dell’Interno, Conte Zurlo, in cui espose numerose critiche e proposte precise per consentire di vedere Pompei sgomberata in tre o quattro anni, fascio XIII B4, 1, Napoli 10 settembre 1811. 129 ASN, Ministero dell’Interno, inc, 7, 1812, fasc. 1007, lettera di Carolina Bonaparte al Conte Zurlo. 130 Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Pompei, Pompei. Gli architetti francesi dell’Ottocento, Napoli, 1981, p. 30. 45 corte erano ottimi, com’è comprensibile in tempi di tanto fervore archeologico; Arditi e P. La Vega moltiplicarono relazioni e progetti, disponibili ad ogni richiesta. Su un punto, tuttavia, le opinioni degli antiquari si distaccarono da quelle dei regnanti, cioè nel difendere i privilegi di studio e di pubblicazione. La legislazione borbonica in materia era stata abrogata da Giuseppe Bonaparte; ma Arditi ne invocò il ripristino, riproponendo il problema dei sorveglianti, delle visite, del diritto di prender misure o di eseguire disegni. Per i visitatori, occorrevano autorizzazioni e personale di custodia, che impedisse loro di scrivere i propri nomi sui muri e di rubare marmi ed intonaci; quanto agli artisti, era vietato ai “professori e amanti di belle arti di eseguire copie e disegni”131. Nonostante tutto, gli scavi conobbero, con i Francesi, un periodo di relativa liberalizzazione; sono di questi anni le prime guide a stampa, corredate di planimetrie; soprattutto è di quel tempo la fondamentale opera di F. Mazois, Les ruines de Pompéi, prima trattazione sistematica, in quattro volumi, dell’architettura e dell’urbanistica di Pompei. L’autore lavorò con piena coscienza della novità e importanza della sua impresa, mettendo, per la prima volta, ordine di scienza in un patrimonio di valore documentario impareggiabile; il suo lavoro vanta di una profonda e diretta conoscenza delle rovine: problemi e tematiche prima affrontati solo sulla base delle fonti letterarie ricevono ora concreta luce nel contatto con i monumenti. Durante questi anni, le città sepolte dal Vesuvio erano ammirate da illustri studiosi, in particolare stranieri: tra i quali possiamo ricordare Chateaubriand, che pensò a Pompei “come ad un favoloso museo della storia domestica del popolo romano”, visitato da tutti gli europei; per i restauri, un abile architetto avrebbe dovuto rifarsi allo stile locale di cui poteva trovare i modelli nei paesaggi dipinti sui muri stessi delle case132. Nelle pagine di Madame de Stael “Pompei è la rovina più curiosa dell’antichità, perché la vita privata degli antichi si presenta così com’era”133. Tanto nel romanzo come nei Carnets, 131 ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti (1861 – 1891),Monumenti e scavi di antichità, Indice generale 4, Bollettino delle leggi del Regno di Napoli, Napoli, anno 1807, decreto 85, pp. 10-11. 132 Chateaubriand, Viaggio in Italia, Firenze, 1990, pp. 145-146. 133 Madame de Stael, Corinne ou l’Italie, Parigi, 1853, p.139. 46 Mme de Stael, con notazioni chiare e precise, forniva dettagli su pitture, anfore, sul solco delle ruote che segnava il selciato delle strade. In breve, sembrava regnare la vita: ”Quando ci si mette agli incroci delle strade, sembra che si aspetti qualcuno, che il padrone di casa stia per venire, ma è proprio questa apparenza di vita che fa sentire più tristemente il suo eterno silenzio”134. Anche per Stendhal, Napoli, dove trascorse alcuni mesi nella primavera del 1817, era “la più bella città dell’universo135 e mai si è visto un tale insieme di mare, montagna e civiltà”136. Stendhal salì sul Vesuvio, e si recò undici volte a Pompei e ad Ercolano, così considerevoli agli occhi dei veri amatori. Era suggestionato dagli scavi di Pompei, perché “è un piacere vivissimo vedere così da vicino questa antichità sulla quale abbiamo letto tanti libri”137. E altrove: ”Non dirò niente di Pompei; è la cosa più sorprendente, più interessante, più divertente in cui mi sia imbattuto; solo conoscendo Pompei si conosce l’antichità”138. Ma il fervore e il metodo nelle ricerche del periodo murattiano fu di breve durata: il ritorno dei Borbone a Napoli segnò un nuovo ristagno delle attività di scavo e dei mezzi impiegati. Gli operai a lavoro si ridussero a tredici unità e, tra il 1815 e il 1819, gran parte dei terreni già acquisiti venne ceduta a Giuseppe dell’Aquila, del quale la bella casina che ancora oggi svetta al centro degli scavi e ne porta il nome. Negli anni precedenti, la corona aveva accumulato ingenti debiti nei suoi confronti, in quanto titolare di una concessione di scavo già nel periodo francese, e non vi seppe far fronte se non con il trasferimento dei terreni139. Operazione densa di conseguenze per il futuro assetto dell’area archeologica, se ancora, nel 1902, Sogliano, poi 134 Ibidem, pp. 226-227. Rome, Naples et Florence, pubblicate nell’edizione del 1854 che dà frammenti della prima edizione del 1817 non ristampati nell’edizione del 1826. 136 Ibidem. 137 Ibidem, p. 292. Stendhal riferisce che, uscendo dal Museo, ha incontrato tre ufficiali della Marina inglese che vi entravano. Mentre partiva al galoppo per Napoli, è stato raggiunto quasi subito dai tre inglesi che la sera gli hanno detto “che quei quadri erano ammirevoli e una delle cose più curiose dell’universo. Eppure non avevano trascorso in quel Museo che tre o quattro minuti!” 138 Ibidem, p. 285. 139 A. Muscettola, Problemi di tutela a Pompei nell’Ottocento: il fallimento del progetto di esproprio murattiano, in Guzzo 2001, Napoli, pp. 29-49, dove si ricostruisce la poco edificante storia della riacquisizione allo Stato dell’area urbana. 135 47 direttore degli scavi dal 1905 al 1910, lamenterà la presenza ingombrante del fondo dell’Aquila (all’epoca trasferito ai Grosso e Ferrari) e chiederà con forza di “scacciare i profanatori dal tempio”140. ASAP C663, Planimetria di Pompei di Antonio Bonucci con divisioni a diversi proprietari. Al centro con lettera B sono indicate la aree in possesso di Giuseppe dell’Aquila. Per i Borbone ritornati sul trono, Pompei, al pari di un giardino di delizie, fu prevalentemente un luogo di svago della corte reale, dove si intensificò l’usanza di stupire gli ospiti con finti ritrovamenti fatti capitare ad arte sotto i loro occhi. A questo periodo risale anche la tradizione di battezzare le case con il nome del visitatore di rango che aveva assistito alla scoperta141. Ma la visita, per l’estensione ormai raggiunta dagli scavi, doveva anche essere faticosa, tant’è che Ferdinando I decise di mostrare Pompei ai suoi ospiti restando comodamente seduti in carrozza142. I pochi lavori di sterro allora in 140 ASSAN, Relazione di Antonio Sogliano, fascio XVIII B6, Pompei 1902. E. Corti, Ercolano e Pompei: morte e rinascita di due città, Napoli ,1957, p. 201. 142 ASSAN, Il Direttore Generale del Real Museo Borbonico al Segretario di Stato, Ministro degli Affari Interni, lettera in cui viene descritta la visita in carrozza di Sua Maestà in Pompei, fascio XIII B4, 1, Napoli, 4 aprile 1818. 141 48 corso vennero sospesi e per una settimana, nell’aprile 1818, si lavorò per fare in modo che il cocchio reale potesse percorrere senza intralci quello che nel periodo francese si era definito come l’itinerario principale della città: dalla via dei Sepolcri fino al Foro attraverso la via Consolare. Per far questo, fu necessario rimuovere alcuni grossi blocchi di attraversamento pedonale dalle strade, perché non erano compatibili con il passo delle carrozze del tempo143. L’ingresso a Pompei avveniva attraverso la strada nuova aperta nel 1814, a monte della villa di Diomede; questo rimarrà per molto tempo l’inizio del percorso canonico di visita, come è quello descritto nel 1844 nella “Passeggiata per Napoli e contorni” da Emmanuele Bidera144, il quale percorse la città in compagnia di Antonio Piccolini, protagonista della stagione neoclassica dell’architettura napoletana, e Carlo Bonucci, architetto direttore degli scavi: la villa di Diomede, la necropoli di porta Ercolano, la casa di Cicerone, la via Consolare, il Foro, le Terme del Foro, dove si consumava un pasto145, il quartiere dei Teatri. Gli edifici portati alla luce fra il 1815 ed il 1860146: Basilica (1813-19) Tempio di Apollo (1816-20) Foro (1820) Edificio di Eumachia (1820) Macellum e lato nord ed est del Foro (1821-22) Tempio della Fortuna Augusta (1824) Terme del Foro (1824) Casa del Poeta Tragico (1824) Via di Mercurio (1825) Casa della Fontana Grande (1826) Casa della Fontana Piccola (1827) 143 E. Corti, Ercolano e Pompei: morte e rinascita di due città, Napoli 1957, p. 201. E. Bidera, Passeggiata per Napoli e contorni, 1844, pp. 219-237. 145 “Poscia che avemmo ammirato il Tempio di Iside pompeiana, passammo in un luogo vicino al Foro chiamato le Terme, dove era apparecchiato un pranzo di poco lusso, ma di molta eleganza. Trovammo all’ingresso leggiadre contadine e svelti garzoni che ci riverirono: le vivande fumanti c’invitavano al pasto, e il lungo viaggio ci avea svegliata tal fame da rendere delizioso ogni cibo”, in Passeggiata per Napoli e contorni, E. Bidera, 1844, p. 229. 146 G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli, 1861. 144 49 Completamento dello scavo dell’Insula Ariana (1827) Completamento dello scavo dell’Anfiteatro (1827) Casa dei Di oscuri (1828-29) Casa di Meleagro (1829-30) Casa del Centauro (1829-30) Casa del Fauno (1830-32) Casa dei Capitelli Figurati (1832) Casa dei Capitelli Dipinti (1832-33) Casa del Labirinto (1834) Casa di Apollo (1835) Casa di Orfeo (1843-49) Mura presso Porta Marina (1850) Terme Stabbiane (1854-59) Casa del Citarista (1858)147. 2.2. GLI SCAVI DI POMPEI ALL’EPOCA DELL’ITALIA UNITA Con l’unità d’Italia, lo scavo di Pompei, almeno nei propositi, divenne un obiettivo prioritario del Regno. Giuseppe Garibaldi, con decreto dittatoriale del 15 settembre del 1860, nominò Alessandro Dumas Direttore del Museo Nazionale e degli Scavi di Antichità, con l’incarico di redigere un progetto di recupero archeologico, storico e pittorico del sito148. Con successivo intervento, poiché gli scavi di Pompei erano miseramente abbandonati da diversi mesi, con dolore del mondo della cultura, Garibaldi erogò in loro favore 5.000 scudi annui affinché i lavori riprendessero nel più breve tempo possibile, coordinati dai Ministri delle Finanze e dei Lavori Pubblici149. Vittorio Emanuele II, nel 1860, costituì un fondo destinato alla prosecuzione dei lavori, oltre a contribuire anch’egli personalmente, e nominò alla direzione degli scavi Giuseppe Fiorelli. Il nuovo direttore cambiò completamente il 147 Ibidem. ASN, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 749/16, decreto dittatoriale sulla riapertura degli scavi di Pompei, Napoli 15 settembre 1860. 149 ASN, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 749/16, decreto dittatoriale sulla riapertura degli scavi di Pompei, Napoli 16 settembre 1860. 148 50 metodo di conduzione dei lavori, istituendo il diario degli scavi dettagliato150 e avviando una parallela opera di pubblicazione scientifica delle scoperte 151. In città, prima di allora, i materiali di scarto erano stati accumulati accanto agli scavi, fino a rendere la visita difficilmente praticabile. Inoltre, le strutture erano state lasciate esposte alle intemperie prive di qualsiasi protezione e si deterioravano rapidamente. Fiorelli avviò una imponente opera di sterro, che permise finalmente di collegare con chiarezza le parti della città tra loro e introdusse la toponomastica di Pompei in uso tuttora, che divise l’abitato in Regiones e in Insulae, assegnando a ciascun ambiente su strada un proprio numero civico. Fiorelli, inoltre, sperimentò il sistema dei calchi in gesso152, che venne usato non solo per materializzare i corpi dei pompeiani morti durante l’eruzione, ma anche per le piante nei giardini e per gli oggetti in legno: ciò permise di conservare una traccia visibile anche degli elementi decorativi antichi più deperibili153. Pompei fu anche dotata di un proprio museo. Nel 1861, Fiorelli aveva fatto richiesta di costruzione dell’edificio su progetto dell’architetto Gaetano Genovese, che non fu mai eseguito per motivi economici154. In forme più modeste, sfruttando un vano di ingresso già esistente sotto il fornice di porta Marina, fu realizzata una galleria voltata con illuminazione zenitale con lunghe file di vetrine sui lati. Al centro della galleria erano disposte le impronte delle vittime di Pompei, che costituirono subito la maggiore attrazione del piccolo museo. 150 Archivio Centrale di Stato (Abb. ACS), Ministero Pubblica Istruzione (Abb. MPI), Archivio della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti (Abb. Dir.gen.aa.bb.aa., 1860-1890, I Versamento), b. 44, Giornale degli scavi di Pompei, 1861-1865. 151 G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli 1861. 152 ACS, MPI, Dir.Gen. aa.bb.aa., 1860-1890, I Versamento, b. 251, Calchi in gesso, lettera di G.Fiorelli al ministro della Pubblica Istruzione, F. De Sanctis, Pompei 3 febbraio 1862. 153 Ibidem. 154 G. Fiorelli, Appunti autobiografici, premessa a cura di Stefano De Caro, Sorrento, 1994, p. 167168. 51 ASAP C664, Antiquarium, sala di ingresso, 1914; ASAP C665, Antiquarium, sala centrale, 1914; ASAP C666, Antiquarium, sala di fondo, 1914. 52 Dal punto di vista della fruizione degli scavi, dopo il periodo pionieristico, quello post-unitario può essere visto come un momento di istituzionalizzazione. L’istituzione della tassa fissa di ingresso regolò, per la prima volta, la visita come attività ordinaria e un complesso gioco di relazioni e di reciproche influenze tra gli indirizzi scientifici dello scavo archeologico e le trasformazioni urbane al suo contorno conferì un peso sempre più determinante a Pompei nella costruzione dell’impalcatura territoriale. L’introduzione del pagamento di un biglietto per l’accesso ai musei, monumenti storici e aree archeologiche ha accompagnato il passaggio da una concezione illuministica, fondata su una prevalente missione di educazione popolare, ad una diversa visione del museo inteso come complesso di servizi culturali rispondenti a molteplici e differenziate esigenze consapevolmente avvertite dal pubblico155. La crescita del numero dei musei, l’incremento delle collezioni e dei costi di gestione, l’esigenza di contenere la spesa pubblica e di valorizzare le potenzialità economiche connesse con il patrimonio culturale, traendo vantaggio anche dalla crescita del turismo internazionale, gradualmente riportarono il dibattito su un terreno più concreto di analisi e di valutazione delle tariffe in relazione alla domanda e alle politiche di gestione e promozione del museo e delle aree archeologiche156. I primi dibattiti relativi all’introduzione di una “leggera” tassa all’ingresso di Pozzuoli, Baia, Pompei, Ercolano e simili risalgono al 1861: in particolare, il Cav. Settembrini, Ispettore Generale degli Studi, con nota del 21 agosto 1861 inviata al ministro dell’Istruzione Pubblica, si rammaricava di non riuscire a proibire la richiesta di mance che gli impiegati rivolgevano ai visitatori dei diversi siti archeologici, a causa della scarsità degli stipendi ad essi erogati dal Governo157. 155 A. Maresca Compagna, Criteri e modalità di accesso: la politica tariffaria dei musei statali, Notiziario 62-64, Roma, 1998. 156 Ibidem. 157 ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., I Versamento, 1860-1890, b. 56, L. Settembrini, ispettore generale degli studi al Ministro dell’Istruzione Pubblica, 21 agosto 1861. 53 In effetti, dal 1861, Settembrini propose di controbilanciare le spese attraverso l’introduzione di una leggera tassa pari ad una lira158, per ciascun visitatore di Pompei e luoghi simili, con proibizione, severissima, agli impiegati di ricevere mance; il forestiero sarebbe stato contento di non pagare altro che una lira e l’amministrazione avrebbe guadagnato tanto da aumentare gli stipendi159. Secondo l’Ispettore Generale degli Studi, occorreva modificare il regolamento interno avvisando i visitatori con un cartello, posto all’ingresso, e distribuendone i proventi fra gli impiegati secondo i bisogni e le fatiche160. Infine, l’istallazione del novello servizio avrebbe richiesto spese d’impianto, quali registri, biglietti, bolli, accomodi e suppellettili per i locali di esazione e ricovero delle guardie; poiché il sito di Pompei era già aperto ed accessibile da ogni punto, i custodi sarebbero stati pagati con il ricavato delle tasse161. Nonostante i propositi, risale al 27 maggio 1875 la legge n. 2554 che autorizzò il Governo a riscuotere “ove non vi si opponga la loro collocazione topografica”una tassa di entrata nei musei, nelle gallerie e negli scavi archeologici in misura non superiore alle due lire a persona per gli scavi, e di lire una per musei, gallerie e monumenti162. La stessa legge demandò a successivi decreti l’elenco degli istituti con tassa d’ingresso e l’individuazione del giorno della settimana (al massimo due) in cui era prevista l’entrata gratuita163. Il provvedimento dispose l’iscrizione degli introiti nel bilancio della Pubblica Istruzione, affinché fossero devoluti alla conservazione dei monumenti, all’ampliamento degli scavi, all’incremento degli istituti che li percepivano164. Le risorse così accumulate finanziarono anche gli uffici creati dal r.d. del 28 marzo 1875, n. 2440, e riguardavano una Direzione generale per gli scavi ed i musei di antichità di cui un successivo decreto emanato alla stessa data, n. 2447, approvava il ruolo del personale. L’ufficio ebbe 158 ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., I Versamento, 1860-1890, b. 57, Pompei tasse d’entrata, il Ministro della Pubblica Istruzione al Soprintendente del Museo di antichità e scavi di Napoli, Torino 30 agosto 1861. 159 Ibidem. 160 Ibidem. 161 Ibidem, il Soprintendente Direttore del Museo Nazionale e degli Scavi di Antichità, Principe di San Giorgio, al Ministro della Pubblica Istruzione, Napoli 9 settembre 1861. 162 Ibidem, Pompei. Tassa d’entrata, 1875. 163 Ibidem. 164 Ibidem. 54 l’incarico di governare gli scavi intrapresi dallo Stato, di sorvegliare le imprese promosse da altri enti o da privati, di tutelare oggetti e monumenti antichi e di imporre il rispetto delle norme sull’esportazione limitatamente ai beni di sua competenza; Giuseppe Fiorelli fu chiamato a reggere la nuova Direzione generale, realizzando risultati positivi165. Il nuovo Regolamento generale per la riscossione e per il conteggio della tassa d’ingresso nei musei, nelle gallerie, negli scavi e nei monumenti nazionali, approvato con r.d. 11 giugno 1885, n. 3191, su proposta dei ministri della Pubblica Istruzione e per le Finanze, prevedeva alcune deroghe al pagamento della tassa a favore di particolari categorie di visitatori, come avvenne nel 1885, in occasione della visita agli scavi di Pompei del Presidente della Società Africana di Napoli, Nicola Lazzaro166. Per il detto regolamento erano ammessi all’ingresso gratuito167: i professori di archeologia di scuole classiche pubbliche e di scuole nazionali superiori di Belle Arti; gli artisti nazionali ed esteri; gli studenti di scuole superiori di Belle Arti; gli studenti delle facoltà di lettere durante i loro quattro anni di corso; gli alunni di istituti educativi che si presenteranno con il loro Rettore; i professori e gli alunni di istituti archeologici stranieri esistenti in Italia; gli artigiani addetti alle industrie affini alle arti e al disegno; i sottoufficiali dell’Armata Regio Reale in divisa; i membri delle Commissioni Provinciali per la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte. 165 Ibidem. Il numero degli impiegati fu fissato a 12: il direttore generale, due commissari centrali, un caposezione, un segretario di II classe, un ingegnere topografico, un archivista di II classe, due scrivani, un usciere, due inservienti. 166 ASSAN, Visita del Presidente della Società Africana in Napoli agli scavi di Pompei, fascio XIII B6, 3, telegramma del Ministro Fiorelli al Direttore degli Scavi di Antichità di Napoli, con cui autorizza l’entrata gratuita, 10 novembre 1885. 167 ASSAN, Visita del Presidente della Società Africana in Napoli agli scavi di Pompei, fascio XIII B6, 3, lettera priva di mittente inviata al Presidente della Conferenza Coloniale in Napoli, in cui sono specificate le condizioni di ingresso gratuito ai siti archeologici. 55 L’esenzione dalla tassa d’ingresso era autorizzata dal Ministro dell’Istruzione Pubblica e comunicata al Direttore degli Scavi di Antichità168; il Soprastante di turno, a sua volta, trasmetteva al Direttore degli Scavi le tessere speciali e personali169 per l’entrata libera agli scavi, esibite all’ingresso170. Nella normativa ottocentesca, particolarmente interessante, fin dalla legge del 1875, appare l’individuazione di facilitazioni per i visitatori abituali (gli abbonamenti settimanali, mensili ed annuali; per i giovani minori di dodici anni vi era una riduzione del 50%) e flessibilità delle tariffe in giorni e periodi diversi dell’anno171. Tuttavia, spesso, tale flessibilità era solo formale, poiché nei giorni di entrata gratuita, i custodi offrivano ai visitatori lo spettacolo di solo una parte molto limitata delle magnificenze pompeiane172. Inoltre, l’originario divieto di rilasciare mance agli impiegati probabilmente non era rispettato durante le visite di reali stranieri e nobili, i quali distribuivano denaro a titolo di regalia per il servizio reso da custodi e scavatori. La somma più generosa, di 400 lire173, fu elargita dalla Regina di Portogallo, che visitò gli scavi di Pompei il 20 giugno 1883: le somme venivano ripartite dal Soprastante di guardia, su incarico del Direttore degli scavi. 168 ASSAN, il Presidente della Società Africana invia un telegramma al Ministro della Pubblica Istruzione per chiedere l’esecuzione di uno scavo e l’esenzione dalla tassa, fascio XIII B6, 3, Napoli 10 novembre 1885. 169 ASSAN, Visita in Pompei dei Sovrani d’Italia e di Germania, fascio XIII B6, 13, il Ministro Fiorelli all’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti. In occasione di tale visita, saranno muniti di tessera speciale e personale i corrispondenti di giornali esteri ed italiani, Roma 24 aprile 1893. 170 ASSAN, Visita dei componenti il Congresso della Pace, fascio XIII B6, 10, il Soprastante Guido Sifoni trasmette al Direttore degli scavi le tessere per l’entrata libera in Pompei, Pompei 12 novembre 1891. 171 A. Maresca Compagna, Criteri e modalità di accesso: la politica tariffaria dei musei statali, Notiziario, 62-64, Roma 1998. 172 ASSAN, corrispondenza dell’Ispettore degli Scavi al Ministro, in cui critica il fatto che durante i giorni di ingresso gratuito i custodi fanno visitare solo un tratto limitato dell’antica città, fascio XIII B6, 18, Roma 3 agosto 1898. 173 ASSAN, Visita della Regina di Portogallo agli scavi di Pompei, fascio XIII B6, 2, 21 giugno 1883. Visita in Pompei del Sovrano di Russia, che ha elargito in favore degli operai 150 lire, fascio XIII B6 3, Pompei 14 novembre 1885. Somma di 30 lire elargite dal Municipio Torrese, fascio XIII B6, 5, Pompei 21 febbraio 1888. Visita in Pompei della Granduchessa Caterina di Russia che ha elargito 80 lire, fascio XIII B6 7, Pompei 22 ottobre 1888. Visita in Pompei del Sottosegretario di Stato Onorevole Fortis che ha elargito 50 lire, fascio XIII B6 8, Napoli 18 novembre 1889. Visita in Pompei dell’Onorevole Duca Guardia Lombarda che ha lasciato 50 lire, fascio XIII B6 9, Pompei 4 agosto 1890. Visita in Pompei della Principessa di Svezia e Norvegia, elargendo 75 lire, fascio XIII B6 11, Pompei, 19 maggio 1892. Visita in Pompei del Granduca di Russia che ha elargito 50 lire, fascio XIII B6 20, Pompei 28 ottobre 1899. 56 L’arrivo della ferrovia, nel 1844, come prolungamento della prima linea italiana, la Napoli – Portici, aveva già determinato una prima innovazione nel modo di visitare gli scavi. L’ingresso si spostò a poca distanza dalla stazione, nel luogo dell’attuale piazza Esedra174, da dove si accedeva in città, attraverso un viottolo, vicino a Porta Marina175. Il nodo che si determinò tra ingresso agli scavi e stazione ferroviaria diventò rapidamente un centro vivo: vi si attestarono i primi hotel, che evocavano nel nome l’epoca del Gran Tour (Suisse, Anglo-Americano) o le attrazioni della città, come l’hotel Diomede176, nel quale si può forse riconoscere l’antica taverna del Lapillo. Alcune azioni del racconto “Una fantasia pompeiana” di Wilhelm Jensen, scritto nel 1903, ruotano attorno alla pacifica convivenza tra “Diomede”e “Suisse” e alla distanza di questo centro con un altro albergo, quello del “Sole”177. Questo gruppo di alberghi ed attrezzature fu il primo nucleo urbano vero e proprio, che nacque nelle aree adiacenti agli scavi per godere dei vantaggi economici offerti dalla rendita di posizione e dal flusso crescente di viaggiatori. Allora, la città moderna di Pompei ancora non esisteva come tale. Il Casale di Valle, situato, approssimativamente, nell’area a nord-est degli scavi, era un agglomerato poverissimo di case rurali, consolidatosi solo successivamente alla costruzione del Santuario, iniziata nel 1876. Pompei verrà riconosciuta poi come comune autonomo nel 1928178. Proprio quegli alberghi ed il progressivo ingrandimento del borgo di Valle furono al centro di un’aspra critica rivolta da Sogliano all’operato di Fiorelli, accusato di una “supina noncuranza dell’avvenire degli scavi pompeiani”179: gli alberghi per le molte servitù create nei confronti dell’area demaniale e il borgo di Valle per 174 In realtà piazza di Porta Marina Inferiore, ma usualmente denominata Piazza Esedra. Per evitare equivoci con l’ingresso antico alla città, si continuerà ad operare la denominazione più comune. 175 “Due carri e sei operai occupati nell’aprire la strada che lateralmente passa davanti all’ingresso principale del Tempio di Venere, onde facilitare la salita in questo Real sito a’ forestieri che si portano in Pompei co’convogli della strada di ferro”. G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, vol. II, p. 431, 1860-64. 176 L’albergo sarà poi demolito per l’apertura della strada verso la stazione della Circumvesuviana di Villa dei Misteri. 177 W. Jensen, 1903, p. 97 e p. 107. All’albergo del Sole prenderà alloggio anche Le Corbusier durante il suo soggiorno a Pompei nell’ottobre 1911. 178 G. Longobardi, Pompei sostenibile, Roma ,2002, p. 45. 179 A. Sogliano, Guida di Pompei, Napoli, 1902, p. 100. 57 l’impossibilità di proseguire lo scavo dell’area suburbana e dei sepolcri ad est di Pompei. A distanza di tempo, si può dire che la visione di Sogliano, guidata prevalentemente da un criterio archeologico esteso alla scala del territorio, fosse effettivamente di largo respiro. Successivamente, in un circolo vizioso, l’edificazione si è progressivamente stretta intorno alla città antica limitando la possibilità di procedere a espropri estesi e risolutivi180. Alle diverse difficoltà di definizione del nodo urbano dell’odierna Piazza Esedra contribuì anche, nel 1878, durante la direzione di Michele Ruggero (1875-93), la cessione all’Amministrazione degli scavi di un tronco di strada da parte della Provincia, probabilmente originata dalla necessità sia di conferire un accesso più comodo agli scavi, sia di lasciar spazio alle operazioni di sterro nell’area compresa fra i Teatri e Porta Stabia. Venne tracciata, così, una variante alla strada borbonica di collegamento tra Napoli e Salerno che divenne, non senza nuovi contenziosi181, interna all’area degli scavi. Il nuovo tronco di strada determinò la fascia di forma affusolata oggi occupata prevalentemente dalla pineta e dall’Auditorium, nella quale sorge la chiesa di San Paolino, la cui forma cubica colpì Le Corbusier durante la sua visita a Pompei, nel 1911182. Nell’area, parzialmente acquisita dal demanio, furono realizzati gli uffici amministrativi degli scavi e furono accumulati i terreni di scarico. Il nuovo indirizzo dato ai restauri da Giulio De Petra (soprintendente direttore nel periodo 1893-1900) aveva conferito un aspetto di forte impatto visivo alla città, che tendeva a recuperare emotivamente l’immagine antica di Pompei, sia nella scena urbana sia all’interno delle case. Gli edifici nuovamente ricoperti come all’antica restituirono gradualmente coerenza al paesaggio pompeiano, distinguendo con chiarezza lo spazio pubblico da quello privato, ma soprattutto consentirono di non staccare più i dipinti e i mosaici per 180 A. Muscettola, Problemi di tutela a Pompei nell’Ottocento: il fallimento del progetto di esproprio murattiano, Napoli, 2001, pp. 29-49. 181 “Il possesso di quel tronco di strada da parte dell’Amministrazione, se non è dubbio, richiede però la più ampia e solenne dimostrazione giuridica”, Sogliano 1902. Il contenzioso fra Soprintendenza Archeologica di Pompei e privati sulla titolarità di alcune aree derivanti dalla dismissione della sede stradale dura ancora oggi. 182 W. Jensen, 1903, p. 39. All’albergo del Sole prenderà alloggio anche Le Corbusier durante il suo soggiorno a Pompei nell’ottobre 1911. 58 proteggerli. Solo da allora chi visitava Pompei ebbe la percezione chiara di una città completa in tutte le sue parti, con gli ambienti interni leggibili nella loro integrità architettonica e decorativa, e gli effetti sul pubblico non si fecero attendere. Sogliano, che ascrive a De Petra – e in parte anche a sé stesso – il merito di aver restituito a Pompei l’interesse artistico e archeologico, cita lo straordinario successo di pubblico del famoso mosaico del cave cenem che, inosservato nel Museo di Napoli accanto a lavori molto più fini, ritornato nella Casa del Poeta Tragico restaurata, fece lievitare i proventi annui della tassa di ingresso da 60.000 a 100.000 lire183. Una fase nuova, ma di breve durata, è segnata da un’innovazione infrastrutturale, che infittisce ulteriormente la maglia territoriale intorno alla città antica. Nel 1901, la Società Strade Ferrate Secondarie Meridionali (SFSM) decise di costruire una nuova linea della Circumvesuviana, la Napoli –Barra – Pompei - Poggiomarino, il cui tracciato passava a poche decine di metri dalla porta di Nola, in corrispondenza della quale venne costruita una stazione, soprattutto in considerazione del fatto che in quel periodo si stavano scavando i quartieri settentrionali della città con l’intento di liberare le insulae fronteggianti la via di Nola184. L’importanza del secondo ingresso, a porta Nola, fu rapidamente ridimensionata con l’avvento alla direzione di Vittorio Spinazzola, il quale bloccò gli scavi nella parte settentrionale della città e concentrò gli sforzi sullo scoprimento di via dell’Abbondanza e quindi sul collegamento dell’Anfiteatro, ancora isolato all’estremità orientale di Pompei. Obiettivo questo che sarà raggiunto solo negli anni 1933-35 da Amedeo Maiuri, il quale manterrà ininterrottamente la direzione degli scavi dal 1923 fino agli anni ‘60185. 183 ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., I Versamento, 1860-1890, b. 57, Pompei tasse d’entrata, Relazione di Antonio Sogliano sui risultati dei restauri, 1902. 184 ASSAN, Il Direttore degli scavi di Pompei scrive al Direttore del Museo Nazionale di Napoli, comunicando i lavori della SFSM, fascio XVIII B1, 7, Pompei aprile 1901. 185 A. Maiuri, Contributi all’ultima fase edilizia pompeiana, Roma, 1950, p. 21. 59 ASAP P389, Pianta di Pompei con le due stazioni ferroviarie e i relativi ingressi. Gli edifici scavati fra il 1860 e il 1910186: o Le scoperte del Fiorelli: Casa di Sirico (1862) Casa del balcone pensile (1862) Porta Marina (1863) Vicolo del Lupanare (1863) Casa di M. Lucrezio Stabia (1871) Tempio di Venere Casa di Epidio Sabino Casa del Citarista Casa di Epidio Rufo 186 G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli 1861. 60 2.3. DAL DIRETTORE DEGLI SCAVI MICHELE RUGGIERO AD ANTONIO SOGLIANO 2.3.1. MICHELE RUGGIERO Michele Ruggiero, collaboratore di Fiorelli, dal 1864, in qualità di architetto, assunse la direzione degli scavi, nel 1875, e la tenne fino al 1893. Per lo slancio dei lavori, per il nuovo orientamento nella conduzione dei restauri, per i risultati delle scoperte, questo periodo fu tra i più felici di Pompei, ed ebbe inizio sotto buoni auspici con la pubblicazione dei conti scoperti, due anni prima, nella casa di L. Cecilio Giocondo (V, 1, 26). Ormai lo scavo affrontava, dopo la messa a punto delle grandi articolazioni dell’urbanistica pompeiana da parte di Fiorelli, i quartieri alti della città, cercando di avvicinarsi alla porta orientale del decumano superiore, la Porta di Nola187. Nel 1877-78, tutta la superficie delle terme centrali era scavata; le terme apparirono incomplete perché la loro costruzione era successiva al terremoto del 62; verso est fu scelta una delle più belle case (IX, 8, 3) per consacrarla al diciottesimo centenario del tragico seppellimento. Vi si scoprirono la statua del Satiro con l’otre e il dipinto di Bacco e del Vesuvio188; si scavarono le insulae della regione IX (4, 5, 6, 7 nel 1877 e 8 nel 1880-81 e 1886-89), poi quelle della regione V sulla via di Nola e sulla via di Stabia (1 nel 1875-76; 2, 3, 4 nel 1881-87); riprendendo nel 1891 l’insula 2 si scoprì la casa delle Nozze d’argento, un suggestivo esempio dell’architettura ellenistica sulla casa pompeiana189. Lo scavo più difficile e meritorio fu quello dell’insula 2 della VIII regione, eseguito tra il 1883 e il 1891, nel quartiere in cui le case a piani si appoggiavano al fianco dell’antica colata lavica. Nel 1886-87, si scoprì, lungo la muraglia meridionale, un gruppo di tombe sistemate lungo una via che si supponeva collegasse Pompei a Nocera; nel 1889 venne portata alla luce la 187 R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano 1973, p. 62. M. Ruggiero, Dalla eruzione del Vesuvio dell’anno 79, Castellammare di Stabia, 1999, pp. 100102. 189 M. Ruggiero, Impronte pompeiane: note all’accademia di archeologia, lettere e belle arti nella tornata del 5 febbraio 1889, Napoli, 1890, p. 67. 188 61 Porta Stabiana e si trovarono due tombe190. Fin dal 1878, Ruggiero era in cerca del vecchio sbocco sul mare di Pompei e la scoperta di quarantotto scheletri nella proprietà Valiante, verso il Sarno191, dimostrava che la maggioranza delle vittime dell’eruzione si doveva cercare fra coloro che, fuggendo attraverso le porte della città, non riuscirono a raggiungere il porto e la costa192. Ma il meglio dell’opera di Ruggiero risiede in una chiara visione del fenomeno del seppellimento, e con i lavori di restauro egli seppe andare al di là degli scrupoli di Fiorelli, pur rispettando le strutture originali. I suoi due successi furono l’atrio della casa delle Nozze d’argento e la casa detta del Balcone sporgente (VII, 12, 28). Su settecento pitture da lui scoperte, ne inviò solo cinquanta al Museo di Napoli e ristrutturò il muro di supporto delle pitture per conservarle sul posto193. 2.3.2. GIULIO DE PETRA Giulio de Petra (1893-1901 e 1906-10) fu il successore di Ruggiero. La sua fama di scienziato era solidamente fondata dopo la lettura e il deciframento delle tabulae ceratae di L. Cecilio Giocondo194 e anche per la sua precedente attività di ispettore degli scavi. Il settennato di de Petra merita di essere qualificato tra i più attivi nella storia degli scavi di Pompei. I monumenti più famosi furono portati alla luce: la casa dei Vettii (VI, 15, 1), la Casa di Lucrezio Frontone (V, 4, 11) e quindi la villa dei Misteri. Nei primi anni, con ragione, si continuò lo sgombero dei quartieri settentrionali della città, cioè le Regioni V e VI. Nel 1893 venne finalmente liberato dalla terra il grandioso cavaedium della casa delle Nozze d’argento (V, 2); dall’agosto 1894 al novembre 1895 si scavò la casa che diventerà la più bella dimora di Pompei e la più universalmente nota: la casa dei Vettii e tutta 190 Ibidem. M. Ruggero, Degli scavi di antichità nelle province di terraferma dell’antico Regno di Napoli: dal 1743 al 1876: documenti raccolti e pubblicati da Michele Ruggiero, Napoli, 1888, pp. 70-80. 192 M. Ruggiero, Dalla eruzione del Vesuvio dell’anno 79, Castellammare di Stabia, 1999, p. 108. 193 M. Ruggiero, Studi sopra gli edifizi e le arti meccaniche dei pompeiani, Napoli, 1872, p.40. 194 G. de Petra, Le tavolette cerate di Pompei rinvenute il 3 e 5 luglio 1875, Roma, 1876. 191 62 l’insula 15. Dal 24 febbraio al 14 settembre venne portata alla luce la piccola e deliziosa casa di M. Lucrezio Frontone (V, 4, 11) e, nel 1899, fu parzialmente liberata la casa detta dei Gladiatori (V, 5, 3) sulla strada di Nola. Tra il 1897 e il 1898, fu portata alla luce una parte delle mura tra le torri X e XI delle fortificazioni, preludio a future esplorazioni; si cominciò a scavare la terrazza dietro la basilica, in cui furono rinvenuti i resti di un tempio dedicato alla dea tutelare della città, Venus pompeiana. Qualche ricerca superficiale venne effettuata anche nel tempio di Giove, in quello di Apollo e nella pretesa prigione del foro195. Ma l’attenzione maggiore fu rivolta alle scoperte importanti ed inattese nel suburbio e nella campagna di Pompei. Si rendeva sempre più necessario risolvere i due problemi fondamentali dell’antica topografia della città: la collocazione del pagus suburbanus e del porto antico. In effetti, mentre a nord delle mura e della porta del Vesuvio, la scoperta di un’iscrizione dei magisteri del pagus Augustus Felix suburbanus (ottobre 1897), di un bel mosaico detto dell’Accademia di Platone (luglio 1897), fece sperare che si trattasse delle prime tracce del pagus più importante di Pompei196; un privato Gennaro Matrone pretese di scoprire, nei terreni paludosi a sud della città, il litorale ed il porto di Pompei; si trattava di una villa marittima (1899-1901), che identificò con la villa di Cicerone, in cui rinvenne un gruppo di scheletri dell’eruzione, tra i quali volle riconoscere quello di Plinio. Interpretazioni così azzardate scatenarono numerose polemiche e gravi dissensi tra i membri della direzione degli scavi. Ulteriori e fortunati scavi privati fecero riaffiorare numerose ville, alcune delle quali ornate di pitture e opere d’arte, preziose in quanto offrirono la prima chiara visione dell’ager pompeiano. Questo primo periodo di de Petra è segnato disgraziatamente da perdite dolorose, da scandalose speculazioni di politici e mercanti che offuscarono ingiustamente l’onesta e austera figura di Giulio de Petra. Nel secondo periodo della sua direzione, dal 1906 al luglio 1910, vi fu la più importante scoperta pittorica, quella della villa dei Misteri. De Petra si 195 G. de Petra, Due atti rinvenuti in Pompei: note lette all’Accademia di archeologia, lettere e belle arti nel giugno 1899, Napoli, 1899. 196 Ibidem. 63 dimostrò l’innovatore più ardito nel sistema di restauro197. Formatosi alla scuola di un architetto di qualità come Ruggiero e affiancato da un buon tecnico come Cozzi, non esitò a fare restauri alle coperture e rifacimenti ai muri che, all’epoca di Fiorelli, sarebbero stati sicuramente condannati e dei quali si è potuto dire che avevano dato a Pompei il suo nuovo volto: il restauro della copertura del peristilio della casa delle Nozze d’Argento (V, 2), del peristilio e della sala della casa dei Vettii (VI, 5, 1), dell’atrio di una casa della regione VI (15, 10), della casa di M. Lucrezio Frontone (V, 4, 11); si deve a lui anche il rifacimento metodico dei giardini della casa pompeiana, altro elemento essenziale della vita e del colore della città restituita alla luce. 2.3.3. ETTORE PAIS Il grande storico Ettore Pais rimase poco tempo (25 marzo 1901-5 giugno 1905) alla direzione del museo di Napoli e degli scavi di Pompei; grazie al suo energico intervento, venne posto un freno alle concessioni troppo compiacenti di cui avevano beneficiato gli scavatori privati, interessati al commercio clandestino delle scoperte rinvenute. Tuttavia il suo intervento fu di troppo breve durata per permettergli innovazioni radicali nel programma dei lavori. Fu riassorbito dalla riattivazione del Museo Nazionale, perché con l’estromissione di studiosi e tecnici della direzione precedente, gli elementi attivi scarseggiavano. I lavori continuarono nei quartieri settentrionali della città, tra la regione V e la regione VI, per completare lo scavo sul fronte della via Stabiana e di quella di Nola. Nel 1901-02, vennero riportate alla luce le rimanenti strutture della Porta Vesuvio, abbattuta, e del monumento essenziale per lo studio del rifornimento idrico della città; si scavò anche l’ultima parte della via Stabiana198. Quanto alle abitazioni, si continuò a scavare l’insula 4 della regione V a fianco della bella casa di M. Lucrezio Frontone (V, 4, 11), scoprendo due case, una delle quali prese il nome di casa delle Origini di Roma, da un dipinto raffigurante la leggenda di Rea Silvia; i lavori 197 198 G. de Petra, Pompei: villa romana presso Pompei, Napoli, 1910, p. 67. E. Pais, Recensioni e notizie, Napoli, 1910, p. 45. 64 proseguirono quindi nell’insula 3, che affacciava sulla via di Nola. Nel 1903, scavando in via di Stabia, si scoprì la casa dell’Ara Maxima (VI, 15, 16), molto importante per la conoscenza del culto romano di Ercole, e la preziosa casa degli Amorini dorati (VI, 16, 7), il cui scavo sarà completato nel 1905. Un esempio di grande casa patrizia, con uno dei più grandi atri tetrastili di Pompei, fu offerto dalla casa di Obellio Firmo (IX, 10, 1-4), iniziato nel 1903, ripreso nel 1905 e portato a termine nel 1911199. La direzione di de Petra aveva accumulato spinose vertenze giudiziarie: vertenze con i proprietari privati per la ripartizione e la stima degli oggetti scoperti e vertenze con i proprietari delle diverse aree comprese nella zona della città che finivano necessariamente con l’arrestare il normale progresso degli scavi. Alcune decisioni di Pais furono prese con intento polemico e tendenzioso, come quella di non sopraelevare i muri delle stanze da coprire con tetti di protezione. Egli giustificava questa misura che avrebbe condannato tutto ciò che era stato fatto da Ruggiero in poi per la conservazione in sito della decorazione e dell’arredo di Pompei. Il desiderio di novità portò qualche risultato positivo: il vecchio sistema dei carretti venne sostituito con un impianto fisso su binari che assicurò definitivamente l’evacuazione delle macerie e il loro trasporto verso le terre di bonifica vicino al mare200. 2.3.4. ANTONIO SOGLIANO Sogliano aveva studiato sotto la direzione di Ruggiero e de Petra, al quale credeva di succedere. Aveva anche esposto il suo programma di lavoro ai Lincei, nel 1901: trasporto delle vecchie macerie lontano dalle mura della città, esplorazione sistematica fuori Porta Vesuvio, ampliamento del museo, 199 Ibidem, p. 48-49. ASSAN, Ferrovia Decauville, lettera priva di mittente inviata al direttore del Museo Nazionale di Napoli e degli scavi di antichità in cui sono specificati i materiali per la locomotiva a scartamento Decauville e la stima della spesa totale di lire 15.784, fascio XVIII B1, 7, Pompei 1911. 200 65 esplorazione del sottosuolo della città201. Acquistò la proprietà Grosso – Ferrari che impediva la prosecuzione degli scavi in via dell’Abbondanza, ma non poté condurre in porto i suoi progetti e sarà, successivamente, Spinazzola a trarre profitto da questo acquisto. Per cinque anni lo scavo rimase al punto in cui l’aveva lasciato de Petra; Sogliano fece opera di consolidamento senza scavare un’insula nuova né una casa nuova. Non proseguì gli scavi, come sarebbe stato augurabile, a nord della casa delle Nozze d’argento (V, 2) fino alla linea delle mura, né ritornò verso il decumano inferiore in via dell’Abbondanza. Occorre, tuttavia, segnalare alcuni progressi oltre Porta di Nola, dove fu rinvenuto il sepolcro a esedra di Esquillia Polla; fuori Porta Vesuvio, fu scoperto un gruppo non meno importante di tombe, tra cui quella dell’edile Vestorio Prisco decorata con scene ricavate dalla vita del defunto202. Un’altra parte della necropoli sannita venne, infine, scoperta sotto il giardino della villa delle Colonne a mosaico, una villa di cui non si riuscì a scavare l’intera area. Durante la direzione di Sogliano, vennero poste in discussione alcune delle più importanti questioni riguardanti l’archeologia pompeiana: la pretesa colonna etrusca; lo studio architettonico della basilica; il nuovo esame delle strutture e del piano del foro triangolare, quello della scena del teatro e della struttura della fortificazione; nonostante ciò, la ricerca di Sogliano non ha contribuito a gettare luce su questi oscuri problemi e neppure su altri dell’edilizia pompeiana. Egli non ottenne grandi risultati, ostinato a ricercare una seconda Pompei che sarebbe stata costruita dopo la catastrofe del 79203. Più efficaci furono, in questi anni, i lavori di protezione e di restauro grazie anche alla cooperazione di Cozzi, architetto degli scavi. Sono di quest’epoca il restauro della casa delle Nozze d’argento (V, 2); il riordinamento del peristilio della casa degli Amorini dorati (VI, 16, 7); la ricomposizione del portico della casa di Sallustio (VI, 2, 4), del bagno della villa di Diomede, del balcone del lupanare e soprattutto la protezione di 201 ASSAN, Programma di Antonio Sogliano presentato all’Accademia dei Lincei, marzo 1901, fascio XVIII B1. 202 ACS, MPI, AA. BB. AA., I vers., busta 266, A. Sogliano, Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione degli scavi fatti dal dicembre 1902 a tutto marzo 1905, Roma 1906. 203 A. Sogliano, La rinascita di Pompei, Roma, 1916, p. 78. 66 numerose pitture grazie all’essiccazione dei muri e all’applicazione di una lamina di piombo204. 2.4. IL FALLIMENTO DI ESPROPRIO MURATTIANO Tra i tanti aspetti da approfondire ho ritenuto che il piano di esproprio della città antica meritasse un esame più dettagliato poiché condizionò l’esplorazione degli scavi lungo tutto l’Ottocento fino agli inizi del Novecento. Già dal 1807, a seguito di una visita che Giuseppe Bonaparte205compì agli scavi, si pose il problema della appartenenza dei terreni ai privati e del modo contorto ed antieconomico con cui l’occupazione, sia di quelli in cui gli scavi si praticavano sia di quelli impiegati come aree di discarica, veniva indennizzata ai proprietari. Il problema si era già presentato nel 1792, ma allora il La Vega antepose all’opportunità di acquistare suoli quello dell’acquisizione e adeguamento della Taverna del Lapillo206, al fine di assicurare ospitalità ai visitatori. L’Arditi fu incaricato di presentare un piano, che prevedeva non solo l’esproprio della intera superficie della città antica ma anche di un’area di discarica, intorno ad essa207. Il progetto, inizialmente accantonato, fu ripreso, nel 1808, con l’arrivo a Napoli di Gioacchino e di Carolina Murat, cui si deve la reale svolta nella conduzione degli scavi. Da un computo più preciso, ottenuto grazie alla mappa catastale redatta da Pasquale Scognamiglio, nel 1807, risultò che l’area degli scavi di Pompei assommava a 197 moggi cui erano da aggiungere 72 per l’area da lasciare libera attorno al perimetro urbano208. L’aspetto più brillante dell’operazione fu che essa venne realizzata a costo zero, poiché ai proprietari veniva dato, in permuta, un appezzamento di terreno proporzionato, appartenente ai monasteri soppressi di Scafati, di Angri 204 ACS, MPI, AA. BB. AA., I vers., busta 266, A. Sogliano, Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione dei lavori eseguiti in Pompei dal 1°giugno 1908 a tutto luglio 1909. 205 ASSAN, Visita agli scavi di Pompei di Giuseppe Bonaparte, fascio XIII B4, 1, Il Ministro dell’Interno al Cavaliere Michele Arditi, Direttore del Museo Reale e degli scavi, Napoli marzo 1807. 206 G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia I, (Abb. PAH)addenda II, pp. 169-172. 207 G.Fiorelli, PAH I, addenda II p. 247. 208 Ibidem, p. 248. 67 e di Nocera. Nel 1811, l’operazione poteva considerarsi conclusa, pur restando aperto un contenzioso con ventidue proprietari che, a causa della lontananza, non accettavano la permuta con i terreni siti in Nocera. L’impresa non fu certo facile e la documentazione209, che riguarda le vertenze protrattesi nel tempo con vari proprietari, dimostra l’impegno che fu necessario porre in atto per raggiungere lo scopo. Occorre, di questa fase, analizzare alcuni dati che gettano luce sullo sviluppo successivo della vicenda. Due furono i meriti maggiori dell’interessamento della regina: da un lato una programmazione più rigorosa della conduzione degli scavi, dall’altro, l’aver sottratto la pubblicazione dei risultati alla privativa dell’Accademia Ercolanese. Il 15 giugno 1811, nonostante l’iniziale parere contrario di La Vega e di Arditi, venne bandita l’asta per dare in appalto lo scavo; ad assicurarsi il contratto fu Giuseppe dell’Aquila, personaggio chiave di tutta la secolare vicenda successiva, con una stipula del 7 luglio 1811210. Anche se i lavori ebbero un’accelerazione, Carolina non ne era ancora soddisfatta. Dopo un anno intervenne personalmente nel programma di scavo con una lettera al ministro indicava una serie di provvedimenti211 e nonostante il parere contrario di questi non retrocesse dalla decisione di affiancare alla scavo dato in appalto quello da farli eseguire da un corpo di “zapponi”, i militari del Genio; anzi decise di assegnare la somma di 1.000 ducati al mese (4.250 lire), in modo da istituire una sorta di gara di efficienza. Il 2 ottobre 1812, emanò un decreto che deliberava, per gli ultimi tre mesi dell’anno, un fondo di 20.000 lire, cifra molto elevata cui non veniva garantita alcuna continuità. La regina, in visita agli scavi, in novembre, dichiarò di essere molto soddisfatta dell’opera degli zappatori, mentre criticò la lentezza del partitario. Questi venne sollecitato ad eseguire il lavoro previsto, altrimenti si ricorrerà ad altra subasta cui né lui, né altri membri della famiglia potranno prendere parte212. E’ quanto evidentemente avvenne, poiché, agli inizi del 1813, oltre a dell’Aquila, che impegnava nello scavo 209 ASN, MDI I inv. 1007/3: Richieste di compensi dal 1809 al 1811; ASN, MDI I inv. 985Pompei 1808-1813. Compensi ai possessori. 210 ASN, MDI I inv. 1007/7; ASN, MDI II inv. 2267. 211 Ibidem. 212 ASN, MDI I inv. 1007/5. 68 centosessanta uomini, operava anche un secondo partitario, presente con duecentottanta uomini213. Si deliberò anche come dividere il compito degli scavi tra il partitario e gli “zapponi”, assegnando questi ultimi allo sterro del circuito delle mura e della strada che si suppone congiungesse la Curia e il Tempio di Iside con la Via dei Sepolcri. Non risulta che questo secondo partitario abbia avuto vita lunga. E altrettanto può dirsi degli zapponi: una laconica comunicazione di Arditi al ministro Zurlo, del 10 maggio 1813, relaziona che, dal 20 marzo, essi furono richiamati al loro corpo e che pertanto gli scavi furono scoperti per quanto concerne il problema della custodia che essi avevano assicurata214. Un dato importante da sottolineare è che la gestione amministrativa, sia della permuta dei terreni sia degli scavi e dei pagamenti da effettuare al partitario, venne assegnata all’Intendenza di Finanza e posta sotto il controllo di Raffaele Minervini, membro del Consiglio degli Edifici Civili, nominato commissario dell’Opera degli Scavi. Di ciò ripetutamente si lamentava l’Arditi215, rivendicando a sé il progetto e la necessità del controllo e facendo presente che Minervini si avvaleva dell’opera del Mansilli, divenuto cognato di dell’Aquila, e che tale prassi non mutò nemmeno quando il controllo venne affidato ad Antonio Bonucci, architetto direttore degli scavi. Molti nodi vennero al pettine; Minervini accumulò un forte credito con la Casa Reale, dovuto non solo alle sue spettanze pompeiane, ma anche ad altri lavori eseguiti per la piazza davanti al Palazzo Reale, per il Monastero di San Marcellino e altro. Murat non trovò altra soluzione che ricorrere alla cessione a Minervini di tutta la cintura di terreni espropriati attorno alle mura di Pompei. Il decreto, del 16 marzo 1815, sancì la decisione, facendo obbligo a Minervini che tali terreni dovevano essere utilizzati per lo scarico delle terre di risulta degli scavi216. 213 ASN, MDI Iinv. 1007/2; ASD, MDI II inv. 2271/13; PAH I, III, pp. 103 ss. ASN, MDI II inv. 2271/13, comunicazione di Arditi al ministro Zurlo. 215 ASN, MDI II inv. 2273, gestione amministrativa, permuta di terreni e pagamenti. 216 ASSAN, I C4, 5. “Volendo compensare gli utili e lunghi servizii straordinari, prestati da Raffaele Minervini per gli scavi di Pompei, Foro S. Gioacchino ed altro, sul rapporto del nostro Ministro dell’Interno abbiamo decretato e decretiamo quanto segue: Art. 1: I terreni posti fuori il recinto delle mura dell’antica città di Pompei, da noi acquistati per iscaricarvi le terre che si estraggono dall’interno della città medesima, sono donati a Raffaele 214 69 Con il ritorno dei Borbone, si tentò di recuperare tali terreni, omologandoli a quelli dati in donazione all’epoca della “occupazione militare”. Inoltre ci si accorse che a Minervini era stato concesso anche un terreno all’interno degli scavi sul lato settentrionale, adiacente al fronte della regio VI, pur non rientrando in quelli esplicitamente enunciati nel decreto di Murat, era comunque stato conteggiato in quanto a lui dovuto, e risultava regolarmente nello strumento notarile. Nonostante l’opposizione di Arditi, che cercò di negare ogni diritto a Minervini ed, in ultimo, almeno quello del possesso dei terreni interni alla città, due delibere della corte dei conti del 1818 dettero finalmente ragione al Minervini217. Il partitario di dell’Aquila, a cui si continuò a rinnovare l’appalto, aveva cumulato negli anni 1813-1815 un credito di circa 10.000 ducati (42.500 lire) che non gli si riusciva a saldare. L’intendente incaricò Minervini di verificare l’esattezza del debito cumulato e non è improbabile che questi o l’intermediario Mansilli suggerì a dell’Aquila una soluzione analoga a quella praticata per il Minervini. Lo stesso dell’Aquila propose, infatti, di avere terreni anziché soldi, e precisamente la parte settentrionale della città “la quale non potrà essere scavata prima di cinquanta, o sessant’anni, contentandosi di cedere i terreni stessi a misura del bisogno quando si dovranno scavare e per lo stesso prezzo, che ora gli assegnerebbero”218. Antonio Bonucci venne incaricato di eseguire la pianta sia per la definizione dei terreni assegnati a Minervini sia per proporre la scelta di quelli da cedere a dell’Aquila. Ma questa prima pianta, come purtroppo altre di quelle relative alle varie vicende di vendite, permute e riacquisti, non è stata ritrovata219. Minervini, a condizione che debbano essi servire allo scavo di dette terre, senza che possa in niun caso competere al donatario escomputo di sorta alcuna per vendita perduta, né per proprietà degradata. Art. 2: Il Ministero dell’Interno è incaricato della esecuzione del presente decreto.” 217 ASN, MDI I inv. 1007/17, delibera Corte dei Conti, 1818. 218 ASN, MDI II inv. 2072/13, cessione terreni dell’Aquila; ASSAN I C4, 1. 219 ASSAN, I A5: ”Napoli 10 novembre 1816. Dall’Ingegnere direttore degli scavi di Pompei al Sig. Cav. Arditi. Con suo pregiato foglio del 28 dello scorso maggio cor. Anno mi ha Ella comunicate le disposizioni di S.E. il Ministro dell’Interno che venghi io incaricato di eseguire la confinazione e la determinazione fra i terreni assegnati a D. Raffaele Minervini e quelli del Governo che coprono la città med.a. In adempimento di siffatto incarico, mi do l’onore di riferirle di aver eseguiti esattamente gli ordini dell’E.S.; vale a dire ho procurato primieramente di riconoscere sulla faccia del luogo quel recinto delle mura di d. antica città che trovasi ora di già di sterrato tanto nel lato settentrionale che in quello meridionale; indi poi passando negli altri 70 E’ evidente che, all’entusiasmo iniziale di Carolina, non era seguito un rispondente impegno economico e la scelta di dare in appalto gli scavi, fin dall’inizio, si rivelò greve di contropartite. La soluzione adottata per Minervini era destinata infatti a diventare una prassi con l’aggravante che il terreno assegnato a dell’Aquila, di circa 53 moggie di estensione, venne distaccato all’interno della città, nella zona nord-orientale, con l’unico obbligo di rivenderlo allo Stato al pari prezzo di quello valutato220. Ma nel 1817, egli aveva accumulato un altro credito per quasi 6.000 ducati (25.500 lire) e la soluzione fu la stessa già praticata. Arditi non accettò una annuale sospensione degli scavi che avrebbe consentito di saldare il debito senza altre rinunce territoriali, ma sarebbe risultata di grande disdoro per la dinastia borbonica, per cui accettò la cessione di quasi 30 moggie di terreno al dell’Aquila. Questi si era inoltre assicurato, nel dicembre del 1818, l’affitto dei terreni posseduti dall’amministrazione221, e cioè quelli ad ovest dell’Anfiteatro. Lo scavo di Pompei tornò così ad essere asserragliato in una morsa di terreni privati e la sua prosecuzione condizionata da continui patteggiamenti e permute. Una prima vertenza con dell’Aquila si aprì, nel 1822, su questioni concernenti il pagamento dell’imposta fondiaria. Ne nacque un lungo contenzioso sulla reale estensione dei terreni da lui posseduti, che rese necessaria l’esecuzione punti del recinto medesimo sulle tracce che appariscono di alcune altre porzioni di d. mura, ho marcato la linea dove potevano essere le rimanenti, ora invisibili per i terrapieni che le occultano e che formar dovevano l’intiero recinto di essa antica Città; lasciando sempre qualunque apparizione di antico edificio nel compreso recinto, quantunque potessero comparire Edifici costruiti fuori delle mura secondo la direzione delle porzioni apparenti di esse. Fatta dunque una tale primiera osservazione ho eseguito la seconda, ch’è stata quella di affiggere i termini lapidi e tenor del Real decreto. Questi sono stati fissati nei luoghi dove non sono visibili le mura, e propriamente nella linea da me marcata, giacché negli altri luoghi, le mura esistenti scoperte ne formano visibilmente la terminazione come potrà ella il tutto bene osservare da una pianta, che io le rimetto a bella posta per dimostrare con precisione la distanza di ciascun termine dai siti già di sterrati dell’antica città e che separano i terreni appartenenti al Sig. Minervini, restando con ciò essi soggetti allo scarico delle terre per la continuazione dello serramento di essa città. Mi fo ancora in dovere di rassegnarle che nella med. pianta che io le rimetto, vi è ben anche separata la porzione del territorio da distaccarsi a beneficio del partitario Sig. dell’Aquila; onde possa Ella dopo essere stata sopra la faccia del luogo ad osservarne la situazione, con maggior precisione distinguerle sulla pianta, a tenor di quanto io le promisi. Antonio Bonucci”. 220 ASSAN, I C4, 1. 221 ASN, MDI I inv. 1007/19, cessione terreni, 1818. 71 di una perizia da parte di Pietro Bianchi e di C. Franano 222. Nella relazione del settembre 1822, il Bianchi sottolinea i problemi: ”La porzione della corte è divisa da quella spettante al dell’Aquila da segni lapidei, me questi si fanno camminare secondo il bisogno. Infatti se ne vedono tuttora smossi, ed abbattuti. Dappiù si è accordato al dell’Aquila de’spazi per infruttiferi, che in effetti non lo sono; una via che non gli spetta. Per rimediare a tali sconcerti, è necessario che persona forte, e non soggetta ad impegni, faccia misurare al dell’Aquila ciò, che sa gli è venduto, e che si ignora, facendo rimanere tutto il di più alla R. Casa, munendolo di termini di fabbrica”223.Dell’Aquila contestò il fatto che alla perizia non abbia presenziato un proprio rappresentante. Si decise quindi, nel 1825, che la situazione dovesse essere riesaminata da due architetti, di cui uno scelto da dell’Aquila. In mancanza di un accordo anche dopo questa perizia, nel 1827, si addivenne ad una transazione e dell’Aquila accettò di pagare 150 ducati (638 lire) dei 316, 40 (1.343 lire) richiesti. Venire a patti con dell’Aquila era diventata un esigenza da cui dipendeva ogni possibilità di proseguire lo scavo, sempre più condizionato dalle ristrettezze economiche. Fu questo problema a suggerire di cedergli parte dei terreni che aveva in affitto, e questo ancor prima che la vertenza sulla reale consistenza dei terreni da lui posseduti fosse chiusa. A proporre tale soluzione fu Antonio Bonucci, tuttavia la prassi era destinata a durare a lungo e a degenerare ulteriormente224. A questa epoca appartiene anche la decisione di vendergli un appezzamento superiore a quello necessario alla permuta, poiché parte della somma ricavata dalla vendita, 500 ducati (2.125 lire), si sperava venisse assegnata al restauro del Foro, secondo un progetto presentato non a caso dall’architetto Carlo Bonucci, nipote di Antonio, nominato Architetto Direttore degli Scavi nel 1828 e su cui la Commissione di Restauro darà parere negativo225. 222 ASN, MDI II inv. 2072/13. Ibidem. 224 M. Pagano, Pietro Bianchi archeologo: da architetto fiscale a direttore degli scavi di Pompei, Napoli, 1990, pp. 151-160. 225 ASN, MDI, II inv. 2113/9. Il parere è trascritto in M. Pagano, Pietro Bianchi archeologo, cit., p. 153. 223 72 Un problema da risolvere con urgenza era divenuto quello della riacquisizione del suolo interno alla città erroneamente ceduto al Minervini e restituito negli anni Trenta, all’epoca della direzione di Pietro Bianchi. Ritornando ai terreni di proprietà dell’Aquila, altri terreni, scavati dal 1836 al 1847 a sud della Via della Fortuna, vennero riscattati continuando a permutarli con terreni nei pressi dell’Anfitetatro226. Quando, nel 1848, la Commissione per la Riforma degli Scavi di Pompei ottenne, provvisoriamente, il blocco del sistema dell’appalto, così D’Ambra denunciava l’operato di dell’Aquila: ”ma che si deve attendere da un conduttore di appalto di opere pubbliche, vero padrone di questi scavamenti da circa cinquanta anni, libero di qualunque soggezione di superiori, o stipendiati, o gratificati da lui; arricchendosi ogni giorno di più con le ricchezze acquistando maggiori mezzi di corruzione; ed avido, insaziabile di ancora più grandi profitti e guadagni nel governativo abbandono della cosa pubblica?Non si poteva altrimenti pascere la propria avidità e l’altrui, che accelerando il tempo, impiegando pochi operai per frutto di molti, usando materiali pessimi in luogo di ottimi, vecchi per nuovi”227. Già nel 1847 Fiorelli relazionò all’Avellino che dell’Aquila aveva abusivamente occupato terreni statali presso Porta di Nola228. Successivamente si stabilì, per la prima volta, che, anziché dare in permuta a dell’Aquila altri terreni, sarebbe stato opportuno acquistarli. Le acquisizioni continuarono ad essere realizzate in modo estremamente parcellizzato, tale da consentire solo la prosecuzione immediata dello scavo229. Eppure, nel 1853230, si decise di riscattare le circa 29 moggia di terreno, corrispondenti alla prima cessione fatta a dell’Aquila, che questi aveva lasciato in eredità a tre figlie: ciò significava non soddisfare le esigenze di scavo, ma frantumare in diversi tronconi la proprietà, imponendo servitù di passaggio e zone di rispetto lungo i confini, non consentendo di collegare internamente l’Anfiteatro al resto degli 226 ASSAN, I A 5, 1. R. D’Ambra, Pompei: abusi, disordini e danni, Napoli, 1995, p. 18. 228 S. De Caro, Giuseppe Fiorelli e gli scavi di Pompei, in “A Giuseppe Fiorelli nel centenario della mostra”. Atti del Convegno, Napoli 1999, pp. 5-23. 229 ACS, AABBAA I vers. B. 41, Scavi di Pompei. 230 ASSAN, I A 5, 2-4. La vendita è ricordata anche sul “Giornale del Regno delle due Sicilie”, in data 26 gennaio 1853, p. 76. 227 73 scavi. L’unica possibile motivazione a tale scelta, riproposta costantemente con dell’Aquila, era la difficoltà di misurare le rispettive aree di pertinenza. Nel frattempo, anche la situazione dei suoli ceduti a Minervini fuori le mura urbane divenne critica: in questo caso a rendere più complessa la situazione fu anche il fatto che, nel corso del secolo, la proprietà venne frazionata in otto appezzamenti, in buona parte venduti a diversi proprietari. Il primo settore a presentare problemi era quello sud occidentale a ridosso della Basilica, la cui situazione era ulteriormente complicata dalla presenza di una casa rurale che veniva a trovarsi in un punto accessibile degli scavi. Una comunicazione di Pietro Bianchi al ministro, nel marzo del 1839, segnalava come essa era divenuta “l’albergo di non pochi disegnatori esteri”231. Come soluzione, Bianchi propose di concederla in affitto: ”Di qui nascerebbe il vantaggio che i forestieri non avrebbero l’opportunità di alloggiare tanto d’appresso agli scavi”232. Il contratto venne di lì a poco stilato, quale espediente per porre un freno a possibili ed incontrollabili accessi illegali alla città; con atto successivo, Minervini fu costretto a fare della casa solo un uso personale. Nel 1846, Carlo Bonucci chiese al Ministero di imporre a Minervini di non scavare le ceneri e i lapilli accumulati sulla sua terra, così come di trasportarli altrove. Per garantire la sicurezza dello scavo su questo lato egli suggeriva anche che si facesse divieto a dell’Aquila, che gestiva la Taverna del Lapillo, di accogliere alcun artista o viaggiatore straniero. Lo stesso Bunucci fece tracciare un solco tra i terreni dell’amministrazione e la proprietà del Minervini: ne nacque un lungo contenzioso, poiché questi asseriva che non erano rispettati i limiti stabiliti all’epoca della cessione. Ad aggravare la situazione contribuì nel 1846 l’apertura di un nuovo accesso alla città, proprio attraverso la proprietà e la casa di Minervini. Nel novembre 1847, il Ministero dette mandato a Luigi Malesi, presidente dell’Accademia di Belle Arti, di valutare la situazione. Nella sua relazione, mentre a più riprese confermava che la casa insiste ed utilizza murature antiche, concludeva asserendo che essa era al di fuori della città e che la Basilica rappresentava l’estremo limite 231 M. Pagano, Pietro Bianchi archeologo: da architetto fiscale a direttore degli scavi di Pompei, p. 170. 232 Ibidem. 74 occidentale della stessa233. Una relazione dell’avvocato G. Rocco, funzionario dell’Agenzia del Contenzioso della Tesoreria Generale, del dicembre 1849, dimostrava le debolezze della perizia di Malesi, ma invitava a trovare una soluzione conciliativa. Il Principe di San Giorgio che, nel frattempo, era subentrato alla direzione del museo e degli scavi sottolineò, nel maggio 1850, la necessità di procedere allo scavo per verificare l’andamento delle mura. Dalle relazioni conservate234, vi è conferma che egli stesso indicò come procedere, partendo dal limite occidentale del Tempio di Apollo (che allora veniva definito Tempio di Venere). A seguito di questi primi scavi, nel 1852, risultò evidente che i termini erano erroneamente stati posti dal Bonucci nel 1816 e quindi l’avvocato del Real Museo Borbonico, Michele Trentalance concluse che i terreni dovevano essere rilasciati all’amministrazione235. Uno strumento, del 23 febbraio 1867, impose a Minervini la restituzione dei suoli che “a giudizio dell’ingegnere direttore degli scavi si sarebbero riconosciuti trovarsi entro le antiche mura di Pompei236”, obbligando però l’amministrazione ad un risarcimento annuo che invano si era cercato di addebitare al Ministero dell’Interno e a quello delle Finanze. Nel 1889, si giunse alla vendita dell’intero terreno da parte di Giulio Minervini, divenutone erede237. La valutazione fu capitalizzata a 1.705 lire, ma risultando Minervini debitore verso il Ministero di 1360 lire, gli venne pagata solo la differenza238. Nel frattempo era stato definitivamente abolito il sistema dell’appalto, contro cui si era pronunciata la Commissione del 1848239. San Giorgio ripristinò la prassi e in pochi anni si successero ben quattro appaltatori: Lettieri, i fratelli Fiorentino, Riccio e Volpe. Dai documenti conservati240 si riscontra non solo una rigorosa normativa sulla conduzione e controllo dello scavo, ma anche un progetto, perseguito da Fiorelli, nel 1862, di sgombero dei terreni di scarico che affogavano il 233 G. Fiorelli, PAH II, pp. 485 ss. Ibidem. 235 ASN, MPI I inv. 437/11, parere dell’avvocato del Real Museo Borbonico, 1852. 236 Ibidem, restituzione dei terreni entro le antiche mura di Pompei, 1876. 237 ACS, AABBAA I vers. B. 39, Scavi di Pompei, 1861-1875. 238 Ibidem. 239 R. D’Ambra, Pompei, cit., p. 11. 240 ACS, AABBAA I vers. B. 39/67, Scavi di Pompei, 1861-1875. 234 75 perimetro della città. A proporre l’impresa fu Riccio con un progetto che prevedeva l’uso di una ferrovia mobile e lo scarico dei terreni sul lido di Torre Annunziata. Fiorelli, in un primo momento, appoggiò la proposta, che venne approvata anche in un Consiglio di Stato del settembre 1862. Ci si accorse, però, che la spesa prevista era esorbitante, di circa otto milioni di lire, e che avrebbe comportato anche l’emanazione di una legge per la cessione a Riccio della fascia demaniale sul litorale: lo stesso Fiorelli bloccò quindi l’iniziativa241. Il documento evidenzia l’attenzione al problema da parte di Fiorelli, anche se da ciò non deriverà una sua soluzione. Piuttosto, da allora nacque un lungo contenzioso che si sarebbe iterato nel 1888, nel 1890, nel 1910, perché il Genio Civile continuava a sostenere che l’Amministrazione degli Scavi, traendo dall’impresa il maggiore beneficio, era quella che ne doveva assumere il maggiore onere finanziario242. Il progetto venne quindi accantonato e solo negli anni cinquanta, nell’ambito delle iniziative che potranno essere assunte con la Cassa per il Mezzogiorno, verrà risolto243. Anche questa vicenda aveva accresciuto la diffidenza di Fiorelli verso il sistema degli appalti che nel 1868 venne definitivamente abbandonato con il ritorno al sistema in economia244. 241 ACS, AABBAA I vers. B. 39/67.16. Fiorelli al ministro della Pubblica Istruzione, 11 ottobre 1864: ”Lunghe e ripetute pratiche, come può rilevare la S.V.I. da precedenti serbati nel Ministero sonosi scambiate fra questa Soprintendenza e il Ministro medesimo onde poter provvedere in Pompei al deposito de’materiali risultanti dagli scavi, e sgombrare ad un tempo, in quell’antica città, la cerchia dei cumuli di terreno che indecorosamente la circondano, e che furono creati, ad ogni giorno aumentati, appunto co’materiali risultanti dalle annuali escavazioni. A raggiungere la desidera meta mi recai nello scorso luglio costà per trattare verbalmente con il Ministero intorno a questa pratica, e dopo matura e lunga discussione, agitatasi con l’intervento del Ministro de’ lavori pubblici, si convenne, che il miglior modo per raggiungere lo sgombero de’terreni dei quali è parola, sarebbe stato quello di utilizzare tali terreni per lavori delle bonifiche circostanti a Pompei. In seguito di tutto ciò il citato Ministro de’lavori pubblici ordinò ai suoi dipendenti, qui in Napoli, di studiare e di progettare quanto era d’uopo al proposito. E’a mia notizia che la commissione incaricata dal Ministro dei lavori pubblici va a presentare il suo lavoro. Prego pertanto la S.V.I. a voler inoltrare, presso il lodato suo collega, i valevoli suoi uffizi, onde il grave inconveniente sia con sollecitudine riparato, perocché come ho già esposto a codesto Ministero, io non saprei da qui innanzi senza gravissima spesa provvedere al deposito risultatane dagli scavi pompeiani, i quali correrebbero forse anche il pericolo di doversi interrompere, come ho già esposto, e ripetutamente a diversi Ministeri dà quali ho avuto l’onore di dipendere per la Soprintendenza del Museo e degli Scavi”. 242 ACS, AABBAA IV vers. I div .1908 - 1924 B. 121/272, Napoli. Conti e bilanci. 243 A. Maiuri, Gli scavi di Pompei nel programma delle opere della Cassa per il Mezzogiorno, Napoli, 1951. 244 ACS, AABBAA III vers. B. 72, G. Fiorelli, Gli scavi di Pompei dal 1861 al 1872. Relazione al Ministro della Istruzione Pubblica, Napoli, 1873, p. 2. 76 Nel 1898, fu riacquistato il fondo di Minervini estendendosi tra Porta Ercolanese e quella del Sarno che era passato in eredità alla figlia Clementina, sposata Barbatelli, con la spesa di 21.000 lire245. Negli anni successivi, si programmò anche l’acquisto di alcune proprietà ubicate tra il vecchio ed il nuovo tracciato stradale, operazioni che continuarono fino agli inizi del Novecento senza particolari problemi. Ancora due vaste aree restavano in mano ai privati. L’ampia zona interna alla città rimasta di proprietà delle eredi dell’Aquila e divisa in due tronconi dalla riacquisizione del 1852, e l’area esterna sud-orientale delle mura, ereditata da un’altra figlia del Minervini, Angelina, e, dopo varie vicende, acquistata da Giovanni Pacifico nel 1891246. Particolarmente lungo e faticoso fu l’iter relativo alla proprietà dell’Aquila, che condizionava il proseguo degli scavi247. La situazione interna alla città divenne gravosa negli anni ottanta: lo scavo era giunto al Vicolo dei Vettii e non poteva proseguire oltre. I tentativi di riscatto di due aree si scontravano con l’intransigenza dell’ultima figlia di dell’Aquila, Carolina, che alle ripetute richieste dell’amministrazione opponeva continua resistenza, facendosi forza anche della presenza di un erede incapace di intendere e quindi dei problemi giuridici connessi alla tutela dei suoi interessi. La lunga relazione di De Petra al Ministero, nel 1896, 248 sintetizzava il problema, e soprattutto evidenziava la situazione delicata in cui si trovava la Soprintendenza, situazione che imponeva la ricerca di una situazione di compromesso. La possibilità di accedere all’area dell’Anfiteatro dipendeva, essenzialmente dalla disponibilità di passaggio attraverso i terreni di dell’Aquila: la presenza di fasce di accumulo di terre di scarico, i cosiddetti “rilevati”su cui correva la ferrovia249 che aveva sostituito i carretti per 245 A. Sogliano, Un nuovo orientamento da dare agli scavi di Pompei, Napoli, 1901, p. 383, n. 1. ASSAN I C4, 5. 247 ACS, AABBAA III vers. B. 42, Pompei: scavi e scoperte, 1886-1890. La vicenda è sommariamente ricostruita in Casina dell’Aquila. Recupero di un’ immagine. Mostra storica e del restauro, Pompei 1985: a p. 10 erroneamente si asserisce che nel 1852 si era tornati in possesso di tutta la proprietà dell’Aquila. 248 ASSAN, III C 1, 6. 249 Questo sistema fu incrementato da E. Pais che nel gennaio 1902 aveva acquistato una ferrovia Decauville dall’ingegnere Graziadei. Il programma di un ulteriore ampliamento del servizio coincise con l’allontanamento del Pais e determinò una vertenza con il Graziadei. ACS, AABBAA 246 77 scaricare fuori città le macerie, l’essersi portato lo scavo ai limiti dell’area privata, senza rispettare una distanza necessaria ad evitare gli smottamenti, erano tutti elementi che potevano venir impugnati dalla dell’Aquila e che suggerivano di tenere bassa la guardia. Come De Petra sottolineava, con il passaggio di proprietà ai Grosso - Ferrari si poteva sperare nella possibilità di riprendere le trattative. Ma le sue proposte rimasero al momento inascoltate; anzi, da parte del Ministero si fece presente che l’acquisto del fondo Barbatelli aveva già pesantemente inciso sul bilancio e che quel terreno poteva essere utilizzato per la prosecuzione dello scavo, come in effetti, seppur parzialmente, avvenne. Così anche con i nuovi proprietari la situazione era destinata ad inasprirsi, e questi richiesero il risarcimento dei danni e il pagamento per l’area da espropriare. Una sentenza del 1899 riconobbe il diritto alla retrocessione dell’area richiesta da parte dell’amministrazione, me le impose il risarcimento dei danni. Venne, di conseguenza, nominato un perito, l’ingegnere E. Donzelli dell’Ufficio Erariale, che stese una memoria a stampa di ben centottantasette pagine 250. I danni, computati dal 1876 al 1901, ammontarono a 31.151, 66 lire, o a 8.405, 27 lire se calcolati a partire dal 1896, e il ripristino dello stato precedente comporta la spesa di 24.230 lire251. La situazione si era fatta pesante e richiedeva una soluzione non più procrastinabile. Appariva, finalmente, evidente che ogni proposta parziale non avrebbe risolto il problema e sarebbe risultata, in proseguo di tempo, più onerosa. Nel 1905, giunsero a maturazione le trattative, ma l’iter per l’acquisto dell’area al prezzo di 55.222, 85 lire, per una serie di contenziosi, prenderà IV vers. I div. 1908-1912 B. 5/50. Altri riferimenti della ferrovia Decauville sono in ASSAN, XVIII B1, 7. 250 ASSAN, III C1, 5: Memoria di E.Donzelli, p. 1: ”Rinvenute le ruine dell’antica Pompei, nella metà del secolo 18°l’intera regione avrebbe dovuto sottrarsi al dominio privato, reintegrandola allo Stato, vigile custode dei tesori d’arte nazionale; ma a tale concetto fondamentale non si fu costantemente ossequienti, e oggi la presente controversia ritrae la sua origine dall’errore di aver alienato a privati-sia pure con il patto di riscatto-, gran parte dell’antica Pompei, creando, nel cuore degli scavi, una complessa rete di interessi e di diritti di privati, che attingono dalla legge e dai contratti la guarentigia all’integrità ed assoluto dominio della cosa posseduta, senza che la tutela del diritto di proprietà-sordo al sentimento d’arte-possa cedere il passo ad esigenze tecniche, ed anche artistiche, per quanto collegate ad un monumento nazionale”. 251 ACS, AABBAA B. 2 III vers. 78 alcuni anni252. Il decreto ministeriale di approvazione della spesa fu infatti emanato il 26 maggio 1907 e la presa di possesso dei suoli del 4 febbraio 1908. Evento molto atteso da Sogliano253, che nel 1900 comunicava: ”essendo il centro di Pompei occupato dal fondo già dell’Aquila, poi Grosso e Ferrari, principal cura della Direzione fu di liberar Pompei dal condominio degli estranei; ed alla fine del 1900 già la vertenza Grosso e Ferrari era in via di soluzione favorevole agli interessi degli scavi”. Le relazioni degli anni successivi continuarono a iterare la speranza in un imminente acquisto254. Lo scavo di Via dell’Abbondanza, che rappresenta la dimensione novecentesca dell’esplorazione di Pompei, non poté essere iniziato prima che una commissione creata ad hoc non avesse risolto il problema della destinazione delle terre di scarico255. La vasta impresa, che porterà in luce la strada e finalmente consentirà di collegare, lungo l’asse viario antico, l’Anfiteatro al resto della città, avrà inizio nel 1911. Nel frattempo, si era aperto un contenzioso anche con il Pacifico256. La rilevanza archeologica dell’area fuori Porta di Nocera era resa evidente dalla scoperta di alcuni monumenti funerari avvenuta negli anni precedenti257. Nel 1907, Pacifico avanzò una richiesta di 45.000 lire che apparve esagerata al Ministero. Un opuscolo a stampa del novembre dello stesso anno, a nome degli avvocati A. Freda e P. Giovene dell’Ufficio Erariale, riprese tutti gli estremi del contenzioso, ricordando come, sulla falsariga dello strumento del 1867 con cui era stata imposta a Minervini la restituzione dei terreni che erano risultati essere interni al perimetro della città, si voleva sostenere che anche “la pubblica via avente origine dalla Porta Nucerina, fiancheggiata da monumenti sepolcrali pompeiani, debba essere considerata quale parte integrante 252 Ibidem. A. Sogliano, Sul nuovo orientamento, cit., p. 383. 254 ACS, AABBAA IV vers. I div .1902 - 1924 B. 121/272, A. Sogliano, Gli scavi di Pompei dal 1873 al 1900; ibidem, Dei lavori eseguiti in Pompei dal 1°aprile 1906 a tutto marzo 1908. Relazione a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Napoli, 1907, p. 5. 255 Ibidem, A. Sogliano, Dei lavori eseguiti in Pompei dal 1°aprile 1907 a tutto giugno 1908. Relazione a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Napoli, 1908, p. 8. 256 ASSAN, I C4, 5; ACS, AABBAA III vers. II parte B. 41, Scavi di Pompei. 257 ACS, AABBAA IV vers. I div .1902 - 1924 B. 121/272, A. Sogliano, Dei lavori eseguiti in Pompei dal 1°aprile 1907 a tutto giugno 1908. Relazione a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Napoli, 1908, p. 8. 253 79 dell’antica città”. Dal canto suo, Pacifico sosteneva che il suo fondo era ormai giunto a saturazione e quindi non più utilizzabile come discarica. La sentenza del dicembre 1907 si oppose a questa istanza, ma, al tempo stesso, condannò la Soprintendenza a far eseguire le opere di contenimento e al pagamento dei danni. Nella nota di trasmissione, l’avvocato erariale invitava la Soprintendenza a non ricorrere in secondo grado e a procedere all’acquisto del suolo. Una legge del 24 dicembre 1908 stanziò la somma di 35.000 lire per l’acquisto. Il contratto stipulato il 25 marzo e ratificato dal Ministero il 7 maggio, assicurava allo Stato quest’altra area, importante non solo per le evidenze della necropoli che negli anni cinquanta sarebbero state portate alla luce258, ma anche come area di rispetto contro il sempre più incessante estendersi della città moderna. Il percorso tracciato è valso ad evidenziare come il progetto di esproprio murattiano, che si presentava come un processo estremamente moderno e allineato alla cultura di tutela e rispetto, fosse nato senza radici. Mancava, cioè, della consapevolezza di una scelta proiettata nel futuro e finalizzata a garantire l’inviolabilità dell’area archeologica. Così, non appena la situazione si intorbidì, e purtroppo le circostanze negative si presentarono quando era da poco finita la fase degli espropri, non si trovò altra soluzione che iniziare il processo a ritroso, in una progressiva e aberrante rinuncia dell’opera compiuta. 258 A. D’Ambrosio, S. De Caro, Un impegno per Pompei. Fotopiano e documentazione della Necropoli di Porta Nocera, Torino, 1983, p. 23. 80 3. L’EVOLUZIONE AMMINISTRATIVA DELLE ANTICHITA’ E BELLE ARTI 3.1. GLI UFFICI DELLE AMMINISTRAZIONI PREUNITARIE Gli stati regionali, malgrado carenze e parzialità, produssero un notevole sforzo legislativo nella prima metà del sec. XIX. I governi elaborarono principi generali e canoni di intervento che restarono a lungo il miglior prodotto della cultura giuridica ed amministrativa in materia di belle arti. Il limite della normativa preunitaria non risiedeva tanto in carenti enunciazioni di principio, o nella individuazione dei fini, ma piuttosto nella scarsa idoneità dei dettati a promuovere apparati esecutivi funzionali ed efficienti. Le diverse istituzioni preposte al governo della materia agirono, molto spesso, in modo del tutto scoordinato dipendendo da uffici diversi anche nell’ambito della stessa compagine statale259. In Piemonte, espletavano un ruolo dirigente, contemporaneamente, il Ministero della Real Casa e quello della Pubblica Istruzione 260; in Toscana i Ministeri dell’interno, dell’istruzione e della giustizia261; a Napoli la Real casa e il Ministero degli Interni262; a Parma solo l’Interno; a Roma la Reverenda camera apostolica prima, il Ministro dei lavori pubblici poi. La preminenza del Ministero dell’interno dimostra come il problema della tutela sia stato a lungo concepito come problema di amministrazione civile e, sotto certi aspetti, anche di ordine pubblico. A Roma, dove era stata istituita una tassa sulle esportazioni, il problema assunse connotati di ordine finanziario, sicché l’amministrazione fu posta alle dipendenze della Camera Apostolica263. Ovunque la pubblica istruzione esercitò un ruolo marginale quando non fu del tutto assente. Le tipologie amministrative, di volta in volta poste in essere, 259 L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte. Raccolta di leggi, decreti e regolamenti, circolari relative alla conservazione delle cose di interesse storico-artistiche e alla difesa delle bellezze naturali, Roma, 1935. 260 C. F. Biscarra, Relazione storica intorno alla R. Accademia Albertina di belle arti in Torino, Torino, 1873. 261 G. F. Gamurrini, Relazione storica del R. Museo in Firenze, Firenze, 1873. 262 G. Fiorelli, Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio. Memorie e notizie pubblicate dall’ufficio tecnico degli scavi delle province meridionali, Napoli, 1879. 263 E. De Ruggero, Catalogo del museo in Roma, Roma, 1878. 81 testimoniano la difficoltà, allora riscontrata, di interpretare la natura, i bisogni e l’autonomia specifica del settore. L’amministrazione attiva rimase saldamente nelle mani di impiegati dell’amministrazione civile o della pubblica sicurezza, mentre gli operatori tecnici furono relegati all’esercizio di funzioni consultive che assunsero di massima la forma di commissioni. Del resto non fu un caso se solo le legislazioni più organiche ed accorte, come la lombarda264 e la lucchese265, avvertirono la necessità di creare amministrazioni indipendenti. Il ruolo meramente consultivo affidato al personale specializzato finì, quasi ovunque, per restringere gli interventi nell’ambito territoriale più prossimo alle sedi delle amministrazioni centrali. Nel Regno delle Due Sicilie, esisteva nell’ambito del dicastero dell’Interno, un embrione di amministrazione attiva riconducibile alla Soprintendenza del museo e degli scavi di Pompei. Si trattava di un ente dotato di personale e risorse finanziarie con competenze territoriali assai limitate. La legge del 14 maggio 1822, relativa alla regolamentazione degli scavi, affidava al direttore del museo il compito di sorvegliare gli sterri, da chiunque effettuati, tramite i soci dell’Accademia Ercolanese o propri fiduciari. Il marchese Arditi, titolare dell’ufficio, riuscì a creare una rete omogenea di ispettori, ma la mancanza di poteri coercitivi non consentì alla struttura di funzionare; tuttavia la figura dell’ispettore fu recuperata dalla normativa post unitaria e preposta agli scavi. Sempre nel 1822, fu creata, a Napoli, una Commissione di antichità e belle arti, incaricata del rilascio delle licenze di esportazione, che operò fino al 1860, quando con decreto del luogotenente Farini, in data 7 dicembre, le sue competenze passarono alla Soprintendenza del museo266. Un aspetto peculiare degli stati regionali fu quello di limitare i diritti della proprietà privata solo in questo settore. I beni immobili risalenti all’età classica subirono i vincoli di una legislazione che ovunque vietava manipolazioni, distrazioni di materiale e la loro destinazione ad usi vili 264 In Lombardia operava, alle dirette dipendenze della Commissione centrale di Vienna, una Commissione milanese che nominò, presso le circoscrizioni territoriali minori, propri fiduciari denominati conservatori corrispondenti, con la funzione di raccogliere le informazioni necessarie allo svolgimento dei compiti istituzionali. Solo in Lombardia la Commissione milanese unì alle funzioni consultive anche funzioni attive, potendo altresì disporre di risorse finanziarie. 265 A Lucca operava una Commissione costituita da sei professori della locale Accademia artistica. 266 ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., 1860-1890, Div. III, B. 490, fasc. 540, s.fasc.3. 82 prescrivendo, in taluni casi, e sia pure a pubbliche spese, la costruzione sui fondi privati di strade finalizzate all’accesso del pubblico267. La disposizione appare tanto più rilevante se si considera che gli immobili in generale restarono addirittura estranei alle leggi di tutela, fatta eccezione per la Lombardia austriaca dove la locale commissione ebbe competenza non solo per gli stabilimenti pubblici o per gli edifici religiosi, ma perfino per le case urbane ed extraurbane di ragione privata. In verità la commissione lombarda deliberava anche in materia di pubblico ornato, vale a dire in un settore antesignano della moderna urbanistica, ed i suoi deliberati avevano priorità sulle decisioni delle autorità civiche268. Ma si trattò per l’appunto di eccezioni, poiché nessun altro governo si era preoccupato di tutelare efficacemente gli immobili monumentali. Solo nello Stato pontificio ci si limitò a raccomandare una certa cautela nel procedere al restauro delle chiese più antiche269, mentre a Napoli, l’indicazione riguardò pure gli edifici pubblici di uso civile270. Prescindendo dai resti dell’architettura classica, la protezione riguardò quasi esclusivamente i beni mobili, e neanche tutti, restando largamente esclusi quelli di proprietà privata. Tra questi ultimi furono oggetto di protezione solo i reperti esposti alla pubblica vista in ragione della loro collocazione271; nel qual caso operava il vincolo della pubblica servitù e di conseguenza subentrava il divieto di rimozione. Verso l’intero patrimonio, sia pubblico che privato, vigeva generalmente il divieto di libera esportazione, variamente articolato ed uniformemente disciplinato tramite il rilascio di una apposita licenza da parte di specifici 267 Editto Pacca emanato il 7 aprile 1820. Il decreto imperiale n. 5481-100 è l’unico testo normativo ottocentesco che si preoccupa dell’intero patrimonio, mobile ed immobile, pubblico o privato che fosse, ed anche di questioni urbanistiche. Concepisce una organica rete mussale strettamente connessa al territorio e non lesiva degli interessi privati configurandosi anche come la legislazione più liberale allora vigente. Lo Stato lascia ai privati, 50% al proprietario e 50% allo scopritore, la proprietà degli oggetti rinvenuti nel sottosuolo. Non frena l’esportazione, limitandosi ad esercitare un semplice diritto di prelazione in caso di trasferimento di proprietà a favore di cittadini stranieri. 269 Editto Pacca emanato il 7 aprile 1820, art. 14. 270 ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti, monumenti e scavi di antichità. R.d. 16 settembre 1839 contenente disposizioni per la conservazione e l’esportazione dei monumenti, art. 2. 271 Stato pontificio, editto del cardinale Doria Pamphili 2 ottobre 1802, art. 6; Regno di Napoli, legge sulla conservazione ed esportazione dei monumenti 13 maggio 1822.art. 1; Granducato di Toscana, legge sulla conservazione degli oggetti d’arte esistenti nei pubblici e nei privati edifici 16 aprile 1854, art. 1. 268 83 uffici. Il nulla osta assunse significati diversi col variare del contesto politico. A Napoli, si configurava un regime vincolistico272. I divieti, tuttavia, restarono aleatori poiché, in assenza di un censimento organico del patrimonio, non fu mai possibile esercitare sui privati gli opportuni controlli e la repressione degli abusi. Su questo piano, la legislazione preunitaria manifesta le carenze più vistose. Benché il principio della catalogazione si fosse già affermato nella cultura giuridica del tempo, solo a Roma divenne norma positiva, limitatamente, però, agli oggetti di proprietà pubblica273; il relativo disposto dell’editto Pacca fu, peraltro, nei fatti, abbondantemente disatteso. In realtà pesò negativamente, e non solo nello stato pontificio, lo spirito liberale dell’epoca per il quale pareva improbabile qualsiasi seria limitazione al diritto di proprietà e più in generale qualsiasi serio regime vincolistico. Ne derivò che le amministrazioni più moderne ed operativamente più efficienti scontarono il peso dell’ideologia liberista, che si poneva in evidente contraddizione con l’idea di tutela. A loro volta gli stati più conservatori annullarono i vantaggi del regime vincolistico in ragione delle carenze di organizzazione amministrativa. In entrambi i casi, però, il liberismo giocò un ruolo preponderante, come si evince anche dalla generale assenza di controllo che governò il regime degli scavi274. Lo Stato rinunciava a vantare qualsiasi diritto su quanto rinvenuto che restava proprietà degli imprenditori e dei proprietari del terreno, i quali spartivano gli oggetti secondo percentuali, in linea di massima, definite contrattualmente. E’bensì vero che l’autorità pubblica sorvegliava gli sterri, ma solo per poter effettuare l’acquisto dei reperti più pregiati. Non aveva, del resto, neppure facoltà di imporre uno scavo quando il proprietario del terreno fosse stato insoddisfatto della remunerazione propostagli. Dopo il 1860, tutti i soggetti giuridici ebbero la facoltà di intraprendere ricerche archeologiche nelle aree di proprietà o acquisite alla loro iniziativa in altre forme quali affitto, contratti pluriennali e così via. In pratica le difficoltà 272 Regno delle Due Sicilie, l. 13 maggio 1822, art. 3. Editto Cardinale Pacca, art. 7. Regno delle Due Sicilie, legge 14 maggio 1822. 274 Stato pontificio, editto Pacca, art. 37; Regno Lombardo-Veneto, decreto imperiale 15 giugno 1846 n. 19704-834; Regno delle Due Sicilie, legge sugli scavi 14 maggio 1822, art. 5; Granducato di Toscana, legge sugli scavi e sui rinvenimenti di antichità 5 agosto 1780. 273 84 finanziarie del Regno bloccarono a lungo qualsiasi programma statale 275 né si riuscì a coordinare l’attività degli altri enti con funzioni culturali e amministrative operanti nel settore, quali ad esempio i comuni e le province. Qualche limitata campagna fu avviata, con scarsi mezzi, dagli istituti universitari di archeologia i quali trovarono così modo di arricchire le loro raccolte. L’iniziativa dello Stato rimase confinata ai comprensori di Pompei ed Ercolano, ridotta piuttosto alla gestione dell’esistente che non all’avvio di nuovi programmi di sterro e di recupero. La ricerca archeologica rimase affidata all’iniziativa privata, strutturata in imprese che agivano a fini di lucro, e, per molto tempo, costituì una vera e propria branca dell’iniziativa economica276. 3.2. L’ORDINAMENTO DAL 1860 AL 1874 In assenza di una legislazione organica, acquistò importanza fondamentale la prassi istaurata dagli uffici centrali e periferici. Nel primo periodo post unitario, non era generalmente accettato il principio che l’amministrazione preposta alla conservazione dei monumenti dovesse dipendere dal Ministero della Pubblica Istruzione. Una ipotesi alternativa aveva sostenuto la risoluzione del problema a favore del Ministero dell’Interno, poiché, difettando uno specifico apparato tecnicamente competente ed adeguatamente ramificato, la conservazione era già di fatto affidata, nella maggior parte dei casi, a sindaci e prefetti, funzionari dell’amministrazione civile, i quali solo avevano l’autorità per imporre la volontà dello Stato, potendo predisporre anche misure coercitive. Bisognò aspettare il 1864277 allorché il Consiglio dei ministri si pronunciasse definitivamente a favore del Ministero della pubblica istruzione. Quest’ultimo fu organizzato con r. d. 11 agosto 1861, n. 202278, che prevedeva l’impiego di un ministro, un segretario generale, un consultore 275 Nessuna somma fu stanziata per gli scavi nel bilancio dello Stato almeno fino al 1874. La documentazione della Direzione generale antichità e belle arti a cavallo dei due secoli rende ancora adeguata testimonianza circa l’incidenza del fenomeno; in particolare ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., III versamento, II parte, titolo I. 277 Bollettino Ufficiale della Pubblica Istruzione, anno 1874. 278 Ibidem. 276 85 legale, tre ispettori generali, tre ispettori semplici, due capi divisione di I classe, due capi di divisione di II classe, sei capi sezione, oltre a segretari ed applicati, per un totale di 43 persone ed una massa stipendiale pari a lire 236.521. Con modifiche intervenute nel 1863 a seguito del r.d. 20 settembre 1863, n. 148, il numero dei dipendenti salì a 60 in una struttura minuscola ed agile nei suoi interventi, che nei primi anni si limitò ad elaborare le linee politiche generali delegando la loro attuazione pratica alle tre Segreterie della pubblica istruzione attive a Napoli, Firenze e Palermo279. Nel suo ambito, con molta lentezza, si delineò un insieme di uffici e competenze riconoscibili come amministrazione delle antichità e belle arti. Nel 1860-1861, a livello centrale, operò la Divisione I competente su archivi, biblioteche, accademie di belle arti, affari generali, personale amministrativo ed insegnante, ed affari della Toscana per il periodo di autonomia280. Nel 1862, le competenze della Divisione I si differenziarono, articolandosi in due sezioni. La prima fu competente per accademie di belle arti, musei, scavi, congressi, scientifici, esposizioni, pinacoteche, accademie scientifiche e letterarie, biblioteche, archivi, deputazioni di storia patria, teatri, affari generali e personale del ministero. La seconda amministrò gli affari concernenti il Consiglio superiore della pubblica istruzione281. L’anno dopo, si aggiunse una nuova sezione, la terza, competente per il protocollo generale282. Nel 1864, tutte le competenze, allargate all’annuario bibliografico ed ai posti di studio per scienze letterarie ed arti, passarono alla Divisione II, fatta eccezione per le sezioni seconda e terza e per gli affari generali rimasti alla Divisione I283. Nel biennio 1866-1867, l’organigramma delle competenze fu ristrutturato ancora, per approdare ad una configurazione che restò immutata fino al 1874, assicurando il governo di belle arti, antichità, conservatori musicali, accademie e corpi scientifico e letterari, biblioteche non universitarie ed archivi284. La direzione rimase costantemente affidata a Giulio Rezasco. In 279 Ibidem. MPI, Annuario, 1860-1861, p. 16. 281 Ibidem, 1861-1862, p. 4. 282 Ibidem, 1862-1863, p. 16. 283 Ibidem, 1863-1864, p. 3. 284 Ibidem, 1866-1867, p. 8. 280 86 una prima fase, il personale fu costituito, in prevalenza, da impiegati di origine piemontese, la cui formazione era di carattere giuridico – amministrativa. Il quadro cominciò a mutare, nel 1874, quando al vertice degli apparati comparvero dirigenti provenienti da aree geografiche differenziate e di formazione tecnico – scientifica, inaugurando una tradizione che si protrarrà ininterrottamente fino agli anni Trenta del nuovo secolo. 3.3. ITALIA MERIDIONALE Nel 1860, la caduta del Regno delle Due Sicilie comportò la semplificazione dell’apparato amministrativo preposto alle arti. Il decreto luogotenenziale del 7 dicembre sciolse la commissione di belle arti e trasferì i poteri dell’ufficio alla direzione del Museo di Napoli, 285 meglio nota con la denominazione di Sovrintendenza. L’avvenimento, tuttavia, non si tradusse nel potenziamento della efficienza burocratica, poiché l’assenza di apparati periferici nel territorio provinciale continuò a paralizzare l’attività pubblica. Non di meno la struttura facente capo al museo nazionale difese tenacemente le sue prerogative benché riuscisse a fronteggiare, con difficoltà, appena i bisogni della regione campana. La direzione rifiutò di inserire i suoi lavori nell’ambito dei programmi ministeriali fino a che, nel 1864, il ministro della pubblica istruzione fu costretto a rivolgersi di persona al sovrintendente Fiorelli per essere informato sulle attività e sulla organizzazione interna dell’istituto 286. La capacità di opporsi allo sforzo centralizzatore derivava dalle dimensioni stesse dell’ufficio, che, nel 1866, arrivò a contare 106 dipendenti, 287 potendo reggere agevolmente il confronto con l’intera organizzazione centrale del ministero. Al vertice dell’apparato si trovava il Consiglio di sovrintendenza formato dal sovrintendente e da due ispettori che furono collettivamente responsabili per la 285 Decreto luogotenenziale 7 dicembre 1860, che abolisce la commissione di antichità e belle arti. Leggi, regolamenti, decreti e circolari, relativi alle antichità e belle arti. 286 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 490, fasc.540, s. fasc. 4, lettera del Ministro della Pubblica Istruzione al sovrintendente Fiorelli, Roma 1864. 287 ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti, (1861 – 1891), monumenti e scavi di antichità, Indice generale 4, R. D. 22 aprile 1866, n. 2880, che approva il ruolo normale degli impiegati del museo nazionale di Napoli, dell’officina dei papiri ercolanensi e degli scavi di antichità nelle province napoletane. 87 gestione dei fondi, per la programmazione degli scavi, per il governo degli acquisti e per il rilascio delle licenze di esportazione. L’autorità del Consiglio fu assoluta e quasi di tipo militare, poiché i subalterni furono obbligati ad eseguire comunque gli ordini e solo in seconda istanza poterono inoltrare reclami ed esprimere dissensi288. I poteri del sovrintendente coincisero, largamente, con le competenze del Consiglio che egli personificava tra una sessione e l’altra delle riunioni. Accanto a lui ebbe grande rilevanza il segretario amministrativo che governava il personale estraneo ai ruoli tecnici svolgendo delicate mansioni che gli consentivano di penetrare nei recessi più riservati dell’attività istituzionale. Egli, infatti, registrava le delibere del Consiglio, curava la corrispondenza e ordinava l’archivio suddiviso nelle tre sezioni degli scavi, del museo e delle esportazioni289. Gli ispettori, invece, furono responsabili, rispettivamente, degli scavi e del museo. Nel 1878, fu istituito un ispettorato anche per la pinacoteca nell’ambito, però, di una struttura burocratica già largamente modificata. L’ispettore del museo fu delegato a curare gli affari concernenti la conservazione, sicché vigilava sul ricevimento degli oggetti, presenziava al riscontro biennale dei cataloghi, firmava le licenze di esportazione e dirigeva i restauri. Gli impiegati più numerosi a lui subordinati furono proprio i 26 conservatori addetti alla pulizia delle sale e segnalare la necessità delle raccolte290. Il coordinamento del servizio fu affidato al controloro il quale, a sua volta, era un impiegato atipico. Esercitava, infatti, funzioni direttive su tutto il personale di grado inferiore, tra cui gli uscieri, gli inservienti ed il portinaio, ma curava, anche, la conservazione in generale delle raccolte e la manutenzione dell’edificio, avvalendosi di un architetto specificamente assunto con questa mansione291. L’ispettore archeologico organizzava il servizio degli scavi essendo obbligato a recarsi due volte alla settimana a Pompei ed una volta a Capua, Pozzuoli o Ercolano, dove vigilava sulla corretta esecuzione degli ordini e sul rispetto della disciplina. Egli fruiva di ampia autonomia essendo solo obbligato ad informare il sovrintendente ed il Consiglio sulle scoperte effettuate, 288 Ibidem. Ibidem. 290 Ibidem. 291 Ibidem. 289 88 rispettivamente con frequenza quotidiana e settimanale292. Il personale a lui subordinato comprendeva i due architetti, i disegnatori, il soprastante, i custodi, gli operai ed i manovali. Gli architetti operarono rispettivamente a Pompei ed Ercolano con l’obbligo, almeno per il primo, di residenza in sede293. Le loro mansioni annoverarono la direzione pratica dei lavori, l’esecuzione di piante e disegni, la compilazione del rapporto giornaliero e la sostituzione delle strutture murarie distrutte con copie di gesso. Il soprastante coordinava operai e manovali, vigilava sui reperti e compilava il Giornale degli scavi. I custodi, infine, esercitavano la funzione di guide accanto ai compiti di sorveglianza294. La struttura varata nel 1860 conservò il monopolio amministrativo su tutta l’Italia meridionale almeno fino al 1866, quando il r.d. del 15 agosto, n. 3164, ridimensionò la sua autorità sottraendole numerose competenze. Questo provvedimento istituì a Napoli la commissione conservatrice dei monumenti a cui furono trasferiti i poteri relativi agli oggetti d’arte e agli immobili medievali e moderni, lasciando alla sovrintendenza solo il governo degli scavi e del museo. L’evento incise profondamente sulla organizzazione burocratica perché, accanto al servizio consultivo, la commissione conservatrice napoletana esercitava funzioni attive, differenziandosi in misura cospicua dagli uffici consimili diffusi in altre regioni. La deputazione provinciale stanziò, annualmente, a suo favore la considerevole somma di 6.000 lire, che le consentì di provvedere ai monumenti senza dover umiliare sistematicamente competenza ed autorità di fronte alla prefettura295. Giuseppe Fiorelli fu nominato primo presidente della commissione conservatrice per rinnovare gli apparati senza intaccare il suo prestigio. La stessa sovrintendenza, del resto, si appagò di continuare a governare solo il servizio archeologico ben lieta di ritagliarsi un’area di esclusiva competenza in tempi di ristrutturazioni accelerate. La commissione conservatrice fu composta da 12 membri organizzati nelle 4 sezioni di pittura, scultura, architettura ed erudizione storico – artistica. I primi commissari furono per la pittura A. Franchi, C. 292 Ibidem. Ibidem. 294 Ibidem. 295 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 490, fasc.540, s. fasc.4. 293 89 Guerra e Sambiase Sanseverino, per la scultura T. Solari, T. Angelici ed I. Rodinò, per l’architettura M. Ruggero, E. Alvino ed A. Maltese, per l’erudizione storico – artistica P. Imbriani, C. Minieri Riccio e G. Minervini296. Negli anni seguenti, Minervini fu anche nominato ispettore archeologico per la provincia di Napoli diventando, in sede locale, il fiduciario di Fiorelli dopo la sua ascesa al vertice della neonata Direzione generale degli scavi297. Gli avvenimenti napoletani stimolarono l’istituzione di commissioni conservatrici nelle altre province campane restringendo ulteriormente lo spazio della sovrintendenza. Il r.d. 21 agosto 1869, n. 5251, istituì la commissione di Caserta che ricalcava largamente il modello partenopeo nelle mansioni esercitate e nella organizzazione interna. La presidenza, tuttavia, venne affidata al prefetto che coinvolse nel servizio l’amministrazione civile delegando ai comuni la sorveglianza sui monumenti. I funzionari tecnici arrivarono appena ad occupare la vicepresidenza assegnata a G. Minervini, il quale, sommando gli incarichi di Napoli e di Caserta, diventò la figura emergente della amministrazione campana. L’ufficio dedicò cure particolari alla tutela dei reperti archeologici e, nel 1870, propose l’istituzione di un museo campano a Capua. Questa città fu preferita a Caserta, poiché, nel capoluogo, era già attivo un istituto comunale fondato nel 1868, con la dotazione annuale di 200 lire298. Giuseppe Fiorelli appoggiò, senza riserve, la creazione di musei comunali e provinciali per invertire la tendenza accentratrice della amministrazione borbonica che nei decenni precedenti aveva impoverito il patrimonio provinciale trasferendo i reperti a Napoli e trasformando gli istituti della capitale in uffici privi di specializzazione e scarsamente fruibili sul piano didattico. Al contrario, egli si oppose alla diffusione delle commissioni conservatrici che gli sembrarono inutili essendo appesantite da un numero eccessivo di funzionari. Le ristrettezze finanziarie e le carenze di personale specializzato consentivano, a mala pena, di perseguire modesti risultati sicché, a suo avviso, era meglio creare una amministrazione periferica molto ristretta ed affidata alla responsabilità di una sola persona in 296 Ibidem. ACS, MPI, Personale 1860-1880, Parte II, B. 489. 298 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 187, fasc. 28, s. fasc. 1. 297 90 modo da garantire maggiore agilità agli interventi ed un migliore controllo tecnico299. In pratica, il funzionario periferico avrebbe trasmesso informazioni agli uffici centrali dove tecnici di sicuro affidamento avrebbero deliberato sul da farsi delegando ai prefetti le mansioni operative. L’opinione di Fiorelli fu espressa, nel 1868, quando la dispersione delle antichità di Rugge fece nascere negli uffici ministeriali l’idea di varare una commissione in provincia di Lecce. Nonostante l’opposizione del sovrintendente il progetto arrivò in porto con r.d. 21 febbraio 1868, n. 4906. Fiorelli, tuttavia, non aveva tutti i torti poiché le circostanze che egli lamentava aprirono lacune vistose nella struttura amministrativa delle regioni meridionali. Tra il 1873 ed il 1874, si costituì la commissione conservatrice di Salerno con una dotazione annuale di 1.000 lire. L’ufficio lavorò poco e male. Un suo funzionario, Pecori, poi nominato anche ispettore archeologico, si sforzò invano di compilare l’inventario generale degli oggetti d’arte300. Nel 1875, il Ministero degli interni concesse il riconoscimento alla commissione provinciale di Catanzaro, affidando la direzione al presidente dell’Accademia di scienze, lettere ed arti, per diritto di carica. L’ufficio era sorto, nel 1863, emanazione dell’accademia stessa, e nel 1864 si era trasformato in organo della deputazione provinciale che finanziava le sue attività. Dovette, tuttavia, aspettare 11 anni per ottenere il benestare del dicastero competente301. Le altre province restarono prive di qualsiasi struttura burocratica preposta alle antichità e belle arti. 299 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 187, fasc. 28, s. fasc. 1. ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 586, fasc. 997, s. fasc. 1, 2, 3. 301 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 441, fasc. 170. 300 91 Apparato amministrativo preposto alle arti dopo il 1860 92 3.4. L’ORDINAMENTO AMMINISTRATIVO DAL 1875 AL 1880: LA DIREZIONE GENERALE DEGLI SCAVI E MUSEI DI ANTICHITA’ L’assetto acquisito dagli uffici, a seguito del r. d. 2032 del 1874, che avrebbe anche potuto stabilizzarsi per un lungo periodo di tempo, fu invece rimesso in discussione l’anno seguente, con la creazione di una specifica amministrazione preposta al governo dell’attività archeologica, che sembrava piuttosto penalizzata entro l’apparato delle commissioni consultive conservatrici, mentre, la sensibilità dell’epoca poneva questa disciplina in rapporto privilegiato rispetto alla cultura artistica. Il 1875 resta, comunque, una delle date critiche nella storia degli uffici preposti alle cose d’arte e d’antichità. Durante quest’anno, infatti, non solo fu posto in essere un apparato finemente robusto e capace di intervenire con sufficiente efficacia, ma furono anche stanziate le risorse finanziarie necessarie all’espletamento del servizio. In precedenza, l’amministrazione era stata travagliata da cronica ristrettezza. Mentre, infatti, tra il 1861 ed il 1874, il bilancio dello Stato aveva raddoppiato le previsioni di spesa passando, rispettivamente, da 840 a 1.540 milioni di lire302, gli stanziamenti a favore della Pubblica Istruzione passarono da poco più di 15 a 22 milioni, dopo essere rimasti, però, costanti lungo tutto lo scorcio degli anni ’60303. Tali somme costituirono le più modeste voci di spesa dell’intero bilancio statale fatta eccezione per le previsioni riservate al Ministero dell’agricoltura ed al Ministero degli esteri. In particolare le risorse destinate alle antichità e belle arti subirono addirittura una contrazione per recuperare, solo nel 1874, il livello del 1861, di circa 2 milioni di lire304. Nel 1874, comparve, anche, per la prima volta, tra le specificazioni delle uscite, la voce scavi con una cifra pari a 300.000 lire305. A questa si aggiunsero nel 1875 i gettiti della tassa di entrata dei musei, introdotta con r. d. del 27 maggio, n. 2554306. Il provvedimento dispose l’iscrizione degli introiti nel bilancio della Pubblica Istruzione affinché fossero devoluti alla conservazione dei 302 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. I, B. 33, Conti e bilanci, 1874-1880. Ibidem. 304 Ibidem. 305 Ibidem. 306 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. I, B. 57, Pompei. Tassa di entrata, 1875. 303 93 monumenti, all’ampliamento degli scavi, all’incremento degli istituti che li percepivano, o di altri consimili, attivi nella medesima città. Le risorse così accumulate finanziarono anche gli uffici creati dal r. d. 28 marzo 1875, n. 2440, che istituiva una Direzione generale per gli scavi ed i musei di antichità di cui un successivo decreto emanato alla stessa data, n. 2447, approvava il ruolo del personale307. L’ufficio ebbe l’incarico di governare gli scavi intrapresi dallo Stato, di sorvegliare le imprese promosse da altri enti o da privati, di tutelare oggetti e monumenti antichi e di imporre il rispetto delle norme sull’esportazione limitatamente ai beni di sua competenza. Le articolazioni periferiche furono organizzate su doppia istanza, sicché da un lato operarono gli ispettori locali e dall’altro gli uffici tecnici. La figura dell’ispettore riproponeva un modello di burocrate già sperimentato senza successo dal cessato governo borbonico, negli anni Venti. L’innesto del nuovo apparato, voluto da Giuseppe Fiorelli, che fu chiamato a reggere la nuova Direzione generale, diede risultati positivi. Gli ispettori furono posti a capo di circoscrizioni territoriali piuttosto modeste, nel cui ambito esercitarono formalmente un ampio mandato. Rispetto alle commissioni provinciali conservatrici dei monumenti, operando su zone poco estese, poterono assolvere le loro mansioni senza la necessità di spostarsi e neanche di ricorrere a faticose mediazioni, poiché non condivisero con terzi l’onere dell’ufficio. La rete ispettiva, posta alle immediate dipendenze del direttore generale, ricoprì l’intero territorio nazionale assicurando agli uffici centrali pronta informazione ed agile capacità di intervento308. I suoi compiti contemplavano la vigilanza circa il rispetto delle leggi nelle ricerche eseguite dallo Stato o da privati, la cura per l’integrità e la conservazione dei reperti, la direzione dei soprastanti, custodi e semplici operai quando non erano posti alle dipendenze di un ufficio tecnico, il restauro degli oggetti mobili, la sorveglianza sui monumenti antichi di cui 307 Il numero degli impiegati fu fissato a 12: il direttore generale, due commissari centrali, un caposezione, un segretario di II classe, un ingegnere topografo, un archivista di II classe, due scrivani, un usciere, due inservienti. 308 ACS, MPI, circolare 7 ottobre 1875, n. 451, sulle nomine degli ispettori archeologici. 94 sottolineavano la necessità, la compilazione del Giornale degli scavi309, la trasmissione di informazioni alla direzione generale sui ritrovamenti fortuiti. Influì negativamente la necessità di mobilitare, per gli interventi, uomini e mezzi di cui solo i prefetti potevano disporre sicché gli ispettori dovettero limitarsi a segnalare le esigenze alla direzione generale la quale a sua volta agiva tramite i rappresentanti dell’esecutivo in sede provinciale. La conservazione dei beni mobili fu parzialmente affidata anche a province e comuni ai sensi del citato decreto n. 2440, previ accordi con la direzione generale che si riservò semplicemente l’esercizio di un’alta sorveglianza sulle iniziative degli enti pubblici minori. Gli scavi statali, infine, vennero rigidamente assoggettati al controllo degli uffici romani, sia perché la direzione generale non disponeva, in periferia, di funzionari tecnici affidabili, sia perché le risorse disponibili furono convogliate per venire incontro alle aspirazioni degli individui posti al vertice dell’apparato centrale310. In pratica, gli ispettori si limitarono, in larga misura, a sorvegliare gli scavi effettuati dai privati e a segnalare i ritrovamenti fortuiti. Si trattò, comunque, di un evento positivo poiché finalmente il patrimonio archeologico fu sottoposto se non altro ad iniziative di controllo e la direzione generale fu messa in grado di conoscere con sufficiente esattezza lo stato della situazione, anche grazie all’opera di alcuni incaricati che espletavano una intensa e meritevole attività311. Il territorio nazionale fu diviso in cinque zone, l’Italia settentrionale, comprendente anche l’Emilia e la Toscana, l’Italia centrale comprende Lazio, Umbria e Marche, l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna. Gli scavi in ciascuna area furono affidati all’autorità del direttore generale Fiorelli e dei due commissari centrali, Pietro Rosa e Francesco Gamurrini, i quali furono rispettivamente responsabili del Meridione, del Centro e del Settentrione312. All’inizio di ogni anno, il direttore generale convocava i responsabili delle zone i quali lo informavano circa i programmi 309 ACS, AABBAA III vers. B. 72, G. Fiorelli, Relazione del Direttore generale antichità e belle arti a S. E. il Ministro dell’Istruzione Pubblica sull’ordinamento del servizio archeologico, Roma 1876. 310 Ibidem. 311 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 4, 5. 312 Ibidem. 95 formulati e le norme tecniche cui intendevano attenersi nel corso dei lavori. I rapporti venivano trasmessi alla Giunta consultiva di archeologia che li esaminava per impartire le opportune istruzioni. Su tali basi i commissari centrali ed insulari notificavano, successivamente, al direttore generale i preventivi di spesa che venivano soddisfatti in rapporto alle effettive disponibilità finanziarie computate dopo aver detratto, dalle somme iscritte in bilancio, le quote riservate alle spese correnti313. I responsabili di ciascuna zona istruirono nelle aree prescelte gli uffici tecnici che erano sottoposti in modo esclusivo alla loro autorità senza interferenze da parte dell’ispettore locale. La direzione pratica dei lavori era demandata ad un responsabile tecnico, il quale, tra le altre mansioni, amministrava custodi e guardie con lo scopo di tutelare la integrità e la manutenzione dei reperti. Egli inoltre informava gli uffici centrali sull’andamento dei lavori attraverso rapporti settimanali mentre i commissari erano tenuti ad inviare resoconti solo con frequenza bimestrale in segno di maggiore indipendenza dalla direzione generale, la quale condivideva con essi le decisioni circa la destinazione degli oggetti ai diversi musei del Regno. Al termine dei lavori, gli uffici tecnici venivano sciolti per essere ricreati laddove le circostanze lo richiedessero314. L’impianto varato e confermato dal regolamento promulgato il 4 luglio 1875315, non fu un modello di funzionalità, bensì l’unica soluzione praticabile per inaugurare una amministrazione unitaria nonostante le gelosie di dirigenti già in larga misura preposti ad amministrazioni preunitarie, i quali, peraltro, giammai avrebbero accettato l’instaurarsi di rapporti gerarchici al loro interno, preferendo, quasi per un ultimo sussulto particolaristico, di poter agire in piena autonomia. Bisognò unificare gli apparati e salvaguardare l’indipendenza degli individui, sicché la direzione generale fu costretta a rinunciare ai controlli sull’impiego delle somme stanziate una volta che fossero state consegnate ai responsabili di 313 Ibidem. Il commissario Francesco Lanza di Scalea, il direttore del museo, Antonio Salinas, l’ingegnere degli scavi, Francesco Saverio Cavallaio, l’ispettore alla pinacoteca, Giuseppe Meli, il conservatore del museo, Fazio Giuseppe, un segretario economo, due scritturali, un usciere, un portinaio. 314 Ibidem. 315 D. M. 4 luglio 1875, in “Bollettino ufficiale del Ministero della pubblica istruzione”, anno 1875, vol. I, fasc. IX. 96 zona, i quali ebbero anche il potere di rivolgersi direttamente alla Divisione I del ministero per richiedere anticipazioni. Per lo stesso motivo gli impiegati del servizio non furono riuniti in un ruolo unico nazionale ed ogni ufficio tecnico rimase libero di provvedere alle assunzioni esercitando un considerevole potere proprio grazie alle ampie prerogative in fatto di gestione del personale. Non fu, perciò, casuale se fin dagli inizi gli uffici tecnici furono dichiarati indipendenti dall’autorità degli ispettori locali, e se i primi ad essere istituiti ebbero sede a Roma e Napoli, dove già operavano i più robusti apparati del Regno. Il decreto istitutivo della direzione generale aveva disposto, a suo tempo, che le sovrintendenze delle due città fossero sciolte per far posto agli uffici tecnici. Il mutamento fu un atto esclusivamente di facciata che a Roma si risolse in mero espediente nominalistico mentre a Napoli comportò solo qualche modifica di dettaglio316. Probabilmente non fu casuale neppure la preoccupazione del direttore generale di ricevere i rapporti settimanali direttamente dai direttori operativi degli uffici tecnici scavalcando i commissari di zona. Allo stesso modo si può interpretare lo sforzo di affermare la sua autorità sugli ispettori locali in modo da abbozzare, su tutto il territorio nazionale, un embrione di potere unico centralizzato che per il momento conobbe ampie zone d’ombra proprio nelle aree di maggiore interesse archeologico. Il sospetto circa un latente conflitto tra gli ispettori e la struttura degli uffici tecnici gestita dai commissari centrali discende dall’esame di alcuni episodi significativi. Nella sede napoletana, l’ispettore fu nominato ai sensi del regio decreto n. 2440 del 1875. Benché il funzionario designato fosse la robusta personalità di Girolamo Minervini non si proponevano problemi di coesistenza con Giuseppe Fiorelli, direttore generale e responsabile scientifico dell’area meridionale317. Quest’ultimo, infatti, in virtù dell’ufficio ricoperto, non nutriva timori per la sua autorità nell’ambito delle strutture presso cui, del resto, aveva 316 ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti (1861 – 1891), Monumenti e scavi di antichità, indice generale 4. Il r. d. 11 aprile 1875, n. 2444, confermò il museo nazionale quale sede dell’ufficio partenopeo e sancì il ruolo unico degli impiegati presso i due enti, ma affidò anche, da allora in poi, la direzione del museo al professore di archeologia figurata dell’università. 317 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 83, fasc. 110, Vicende dell’Ufficio tecnico di Roma. 97 percorso la sua precedente carriera. A Roma, invece, amministrata insieme a Lazio, Umbria e Marche da Pietro Rosa, l’ispettore non fu mai nominato poiché costui, che tra l’altro era anche senatore del Regno, intese esercitare una autorità illimitata anche a costo di ostacolare il consolidamento amministrativo318. Il peso della sua influenza si evince, tra l’altro, dalle somme che fu abilitato a gestire. Nel 1875, per esempio, poté spendere 202.500 lire per gli scavi e 30.000 lire per il restauro dei monumenti319. Nel 1877, fu abolito il ruolo normale dell’ufficio tecnico di Roma ed approvato il ruolo per tutto il territorio nazionale, degli addetti al servizio scavi che comprendeva: 7 ingegneri, uno dei quali direttore, 4 disegnatori, 5 soprastanti, di cui uno capo, 108 guardie più il loro capo, 8 brigadieri320. Il provvedimento divise gli impiegati in due categorie: personale tecnico e del personale di custodia, che compresero rispettivamente ingegneri e disegnatori da un lato, soprastanti e guardie dall’altro, mentre gli ispettori locali furono equiparati al personale tecnico. L’aspetto più importante del decreto fu sintetizzato nell’art. 10 il quale così dettava: ”A ciascun commissariato o ufficio tecnico verrà addetto un ispettore degli scavi ed un numero di guardie per il disbrigo delle rispettive incombenze”321. In quelle circostanze, la norma aveva lo scopo di limitare l’autonomia dei commissari centrali i quali dovettero accettare la presenza di un funzionario direttamente dipendente dal direttore generale con mansioni di controllo. Gli uffici ebbero sede presso i musei archeologici ed anzi, da allora in poi, la presenza di un istituto di conservazione divenne requisito fondamentale perché la sede potesse ospitare un commissariato322, riproponendo così la stretta connessione tra museo ed attività di escavazione già propria dell’amministrazione borbonica. La più ampia articolazione degli uffici periferici e le maggiori possibilità finanziarie alimentarono iniziative di scavo sempre più numerose, sicché, molto frequentemente, furono istituiti uffici tecnici non più sottoposti al commissario 318 Ibidem. Ibidem. 320 R. d. 18 gennaio 1877, n. 3639, che abolisce il ruolo normale dell’ufficio tecnico degli scavi della provincia romana ed approva il ruolo unico degli impiegati addetti al servizio degli scavi di antichità. 321 Ibidem. 322 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 3, fasc. 4. 319 98 centrale, bensì affidati all’ingegnere direttore oppure agli ispettori locali che trovarono una nuova e specifica identità culturale ed amministrativa proprio nel governo degli sterri da cui erano stati fino ad allora esclusi. Il fatto che i commissari centrali non avessero più totale ingerenza, diretta ed immediata, nelle escavazioni e, per converso, l’affermarsi di funzionari direttamente dipendenti dal direttore generale, come erano per l’appunto gli ispettori locali, rappresentarono obiettivamente fattori di centralizzazione e di rafforzamento della struttura unitaria. La nascita della direzione generale determinò, tra l’altro, un rinnovato interesse per i problemi della formazione dei quadri tecnici necessari al servizio. Fu potenziata la preesistente e poco efficiente scuola di archeologia che aveva sede ad Atene, con l’istituzione, nel 1875, di due nuove sezioni, nella stessa Atene e Roma323, con riserva dei posti a laureati in lettere. Successivamente, il r. d. 8 dicembre 1878, n. 4635, aggregò la scuola alla facoltà di filosofia dell’Università di Roma ed allargò la possibilità di iscriversi a tutti gli studenti comprese le matricole del primo anno. Il corso aveva durata triennale e si articolava in due cicli rispettivamente di uno e due anni. 3.5. COMMISSIONI CONSULTIVE CONSERVATRICI DEI MONUMENTI E ISPETTORI AGLI SCAVI Le innovazioni del 1875 avevano diviso l’amministrazione centrale in due distinti uffici, le cui sfere di competenza erano state delimitate secondo un criterio cronologico. La Direzione generale degli scavi avrebbe gestito i beni di epoca anteriore al 476 d.c., mentre il Provveditorato artistico i beni di epoca posteriore324. A tale differenziazione sembrava dovessero conformarsi anche gli uffici periferici, che erano per la Direzione generale gli ispettori archeologici locali, i commissariati centrali, gli uffici tecnici. Il Provveditorato artistico, a sua volta, poteva contare sulla rete delle commissioni conservatrici 323 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. I, B. 167/168, Scuola di Archeologia. Ministero della Pubblica Istruzione, Catalogo generale dei musei di antichità e degli oggetti d’arte raccolti nelle gallerie e nelle biblioteche del Regno, Roma 1881-1887. 324 99 dei monumenti presiedute dai prefetti. Le disposizioni del diritto positivo non lasciano dubbi circa il fatto che questa fosse l’intenzione originaria del legislatore. Infatti il r. d. 28 marzo 1875, n. 2440, istitutivo della Direzione generale, annoverava tra i compiti degli ispettori archeologici locali, anche quello di segnalare all’amministrazione centrale le necessità dei monumenti antichi, sottraendo la competenza alle commissioni conservatrici. Malgrado ciò il modello di amministrazione periferica, effettivamente posto in essere, risultò largamente promiscuo. Il fenomeno fu ingenerato da diversi fattori anche di natura psicologica. Il ministro Borghi, ad esempio, pur riconoscendo le deficienze del servizio archeologico gestito dalle commissioni conservatrici e, pur attribuendo agli ispettori ogni competenza in materia, riservava alle commissioni non meno definiti compiti di studio sui materiali raccolti dai predetti ispettori. Poiché non si hanno notizie di studi effettuati da commissioni conservatrici, né di materiali a queste trasmesse da qualche ispettore, bisogna arguire che le affermazioni del ministro siano state un modo non sostanziale per compensare le commissioni conservatrici delle competenze loro sottratte325. A ciò si aggiunsero motivazioni di carattere più propriamente tecnico – specialistico. La professione di archeologo, allora come oggi, si incentrava sulle operazioni di sterro, sul recupero e la valutazione storico – scientifica dei reperti. Viceversa il restauro ed il consolidamento degli immobili, anche classici, presuppongono una cultura architettonica all’epoca prevalentemente presente presso le commissioni conservatrici e solo in misura ridotta presso l’amministrazione degli scavi 326. Giocò, infine, un ruolo la necessità della direzione generale di operare tramite i prefetti per tutta una serie di attività, dal rilascio delle licenze di esportazione alla collocazione dei reperti presso gli istituti museali. I prefetti, dal canto loro, si basavano sul consiglio tecnico scientifico delle commissioni conservatrici le quali, di fatto, finivano per essere organi periferici anche del servizio archeologico oltre che del Provveditorato artistico. Stante l’inevitabile interferenza tra i due apparati periferici, l’intera materia fu riorganizzata dal 325 Ministero della Pubblica Istruzione, Documenti inediti per servire alla storia dei musei d’Italia, Roma 1878-1880. 326 Ibidem. 100 r.d. 5 marzo 1876, n. 3028327. Il provvedimento assegnava definitivamente ai prefetti la presidenza delle commissioni conservatrici che erano anche obbligate a riunirsi con cadenza bimestrale328. Entrava inoltre a farne parte, per diritto di carica, l’ispettore archeologico in servizio presso la città capoluogo di provincia. Questi funzionava da tramite tra l’ufficio ed i suoi colleghi sparsi nel territorio della provincia. Gli ispettori archeologici si trovarono così in una posizione di triplice dipendenza potendo ricevere disposizioni direttamente dalla Direzione generale nonché dalle Commissioni provinciali conservatrici dei monumenti e dai Commissariati interregionali. Lo schema delle dipendenze si potrebbe così rappresentare: Nei fatti l’apparato funzionò senza rispettare eccessivamente ruoli gerarchici e delimitazioni di competenze, facendo piuttosto appello alla buona volontà ed alle disponibilità personali. La commissione di Arezzo, per esempio, rivendicò il diritto di governare le antichità senza urtare la suscettibilità dell’ispettore Marcucci, forse per l’autorevolezza di alcuni commissari tra cui Fungini e Gamurrini, designati all’incarico quali rappresentanti dell’amministrazione provinciale329. La commissione di Bologna, invece, delegò gli affari archeologici ad una apposita sezione innescando, tra l’altro, una curiosa vertenza con le autorità centrali. Il ministro, infatti, ravvisò nei comportamenti 327 L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte. Raccolta di leggi, decreti e regolamenti, circolari relative alla conservazione delle cose di interesse storico – artistiche e alla difesa delle bellezze naturali, Roma 1935, p. 67 e ss. 328 Ibidem. 329 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 430, fasc. 82. 101 degli uffici una tendenza a scavalcare il proprio ambito consultivo sicché ritenne di doverlo richiamare al rispetto della norma330. A Messina, le parti si capovolsero e fu l’ispettore degli scavi, Gregorio Raimondo Granata, a provvedere anche per gli oggetti d’arte, poiché la commissione conservatrice, costituita nel 1876, rimase inattiva fino ad essere del tutto soppiantata331. Altre commissioni, infine, ebbero un’esistenza precaria. L’opera delle commissioni conservatrici, comunque, rimase ininfluente sul versante delle ricerche archeologiche vere e proprie, poiché la direzione generale fu particolarmente sensibile nella difesa delle proprie specifiche prerogative in materia. Il complesso di commissari, ingegneri, ispettori, soprastanti, operai e custodi fornì, nell’ambito delle arti, un esempio di amministrazione autonomamente strutturata e capace di agire libera da interferenze secondo ragioni e fini che scaturivano esclusivamente dalla propria ragion d’essere. 3.6. L’ORDINAMENTO DAL 1881 AL 1891: LA DIREZIONE GENERALE DELLE ANTICHITA’ E BELLE ARTI Il Provveditorato artistico cessò di esistere, nel 1881, quando le sue mansioni furono trasferite alla Direzione generale degli scavi, la quale allargò le sue competenze diventando la Direzione generale antichità e belle arti. Per la prima volta le arti furono governate da un’unica e specifica amministrazione strutturata organicamente. Il r. d. 13 marzo 1882, n. 679, istituì infatti un ruolo unico del personale per tutti i 388 impiegati addetti ai musei, scavi, gallerie e monumenti del Regno332. Il numero degli addetti non era aumentato sensibilmente rispetto al personale ereditato dagli stati regionali, ma la fusione dei ruoli particolari si tradusse in risultati qualitativamente superiori rispetto alla semplice somma degli impiegati già in servizio. L’inserimento, per esempio, delle guardie di 330 ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 117, fasc. 3. ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 458, fasc. 1. 332 In particolare il ruolo contemplava 4 commissari, 6 direttori effettivi e 7 incaricati, 7 vicedirettori, 6 ispettori, 19 adiutori, 11 viceadiutori, 12 custodi, 5 segretari economi, 16 vicesegretari, 10 applicati, 8 architetti topografi, 7 disegnatori, 9 soprastanti, 12 brigadieri, 110 guardie, 45 uscieri e 34 inservienti. 331 102 Pompei all’interno del ruolo unico nazionale alimentò anche la tendenza ad estendere la rete burocratica in periferia, introducendo il criterio della mobilità del personale per fronteggiare gli stati di necessità333. Anche la previsione in ruolo di 4 commissari consolidò il servizio periferico eliminando il carattere di precarietà connesso alla precedente funzione volontaria. I commissari furono funzionari retribuiti, vincolati perciò da uno specifico codice di diritti e doveri a tutto vantaggio della funzionalità burocratica. Per gli uffici dell’amministrazione centrale, nel periodo 1881 – 1887, non si sono rinvenuti dati relativi alla ripartizione interna dei servizi ed in particolare all’articolazione in divisioni. Si è potuto verificare che a, partire dal 1885, le sezioni, dapprima due, divennero tre. Non si riesce, peraltro, a ricomporre il quadro delle competenze esercitate da ciascuna. L’unico dato sicuro riguarda le competenze della Direzione generale nel suo complesso: musei e scavi, conservazione dei monumenti, pinacoteche, gallerie, accademie ed istituti di belle arti, premi e sussidi, congressi, esposizioni, società promotrici di belle arti, scuole di declamazione, istituti di istruzione musicale334. La carica di direttore generale rimase ancora affidata a Giuseppe Fiorelli, che, in questi anni, accrebbe il suo prestigio su scala continentale e ricevette una serie di riconoscimenti anche da istituzioni culturali straniere 335. Nel 1879, fu nominato membro onorario della Società archeologica belga di Anversa e del Royal Institute of British Architects. Nel 1884, divenne membro onorario della Società archeologica di Cambridge, mentre “Les Annales Historiques”di Parigi arrivarono perfino a pubblicarne la biografia336. Il principale tra i suoi collaboratori fu Felice Barnabei, che abbandonò la carica di segretario per diventare prima ispettore generale e poi direttore della divisione musei e scavi. Nel riassetto del 1881, il settore archeologico non subì rilevanti trasformazioni conservando in sostanza l’organizzazione voluta da Fiorelli negli anni 333 ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti (1861-1891), Monumenti e scavi di antichità, r. d. che approva il ruolo unico degli impiegati addetti ai musei, alle gallerie, agli scavi di antichità e ai monumenti nazionali, Vol. LXV, p. 733. 334 ASN, Calendario generale del Regno d’Italia, 1881-1887. 335 S. De Caro, Giuseppe Fiorelli. Appunti autobiografici, Sorrento 1994, p. 121-122. 336 ACS, MPI, AABBAA, Personale 1860-1880, I parte, B. 714. 103 precedenti. Il r. d. 22 aprile 1886, n. 3859, concesse alle strutture periferiche la facoltà di eseguire gli sterri affidandosi ad imprese specializzate. Fino a quel momento l’amministrazione aveva preferito gestire, in prima persona, l’impiego di operai e materiali. Il decreto n. 3859, invece, introdusse il criterio dei contratti a trattativa privata. Gli uffici centrali si riservarono, pur sempre, la facoltà di approvare i programmi e di stanziare i fondi relativi, mentre gli uffici periferici furono abilitati a delegare le operazioni esecutive ad imprese ritenute degne di fiducia. La legge impose allo schema contrattuale di specificare l’elenco dei lavori e delle somministrazioni, il loro prezzo unitario, distinguendo tra esecuzioni a misura ed a corpo, le condizioni di esecuzione, i termini di compimento, le modalità di pagamento, le penalità. Nel 1888, fu riformata anche la scuola di archeologia che si trasformò in scuola di perfezionamento per laureati in lettere o, eccezionalmente, in legge, ai sensi del r.d. 30 settembre, n. 5888337. Nel 1889, fu creato un ufficio speciale per disegnare la carta archeologica d’Italia, 338 riprendendo un progetto di alcuni anni prima che individuava negli archivi della Direzione generale la fonte principale per lo studio topografico dell’Italia antica; la direzione dei lavori fu affidata a Francesco Gamurrini il quale dopo anni di contrasto riattivò un proficuo rapporto di collaborazione con gli uffici centrali. 337 La durata del corso rimase triennale, ma il provvedimento introdusse l’obbligo di frequenza e di residenza presso le diverse sezioni del corso che ebbero sede a Roma, Napoli ed Atene. Il direttore generale diresse la sezione di Roma, il direttore del museo nazionale la sezione di Napoli, mentre il ministero si riservò di scegliere il titolare della sezione di Atene. I programmi contemplarono lo studio di epigrafia italica, antichità ed epigrafia romana, antichità ed epigrafia greca, archeologia e storia dell’arte, topografia romana, paleontologia. L’insegnamento privilegiò chiaramente la civiltà classica relegando nell’ombra ogni altra cultura ad eccezione dei residui paleoetnografici oggetto di qualche modesto interesse. La Direzione generale istituì borse di studio per sostenere gli studenti che peraltro dovevano superare dei corsi molto selettivi. Gli allievi, infatti, affrontavano alla fine di ciascun anno esami scritti ed orali per dimostrare il profitto conseguito. L’esito negativo delle prove comportava l’esclusione del beneficio in modo da garantire la più ampia qualificazione dei diplomi i quali, a fronte delle difficoltà superate, costituivano l’unico titolo valido a concorrere per l’immissione nei ruoli tecnici dell’amministrazione. 338 D. m. 7 novembre 1889 che istituisce un ufficio per la carta archeologica d’Italia; ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, BB. 168 e 169, fasc. 345. 104 4. LA LEGISLAZIONE DEI BENI CULTURALI TRA IL XVIII E IL XIX SECOLO 4.1. FONDAMENTI GIURIDICI DEL REGNO DI NAPOLI La scoperta di Ercolano e di Pompei rappresentò uno dei caratteri peculiari della cultura settecentesca italiana, portando nuove forme di conoscenza diretta che in precedenza erano inimmaginabili. Ciò vale per gli oggetti di uso comune, per le cosiddette arti minori e per la pittura. Tuttavia la rinascita delle città vesuviane si collocava in un vuoto legislativo a cui si riferiva anche l’intervento dello scultore Giuseppe Canart – responsabile dei restauri delle sculture in marmo e supervisore per il distacco ed il restauro dei mosaici e degli affreschi presso il Real Museo Ercolanese339 – il quale, in una lettera datata Portici, 2 ottobre 1751, riferendo di alcune scoperte fatte da un contadino in Abruzzo, sosteneva la improrogabile necessità di una disciplina che vietasse, definitivamente, l’esportazione dei reperti archeologici, sulla falsariga della vigente legislazione vincolistica pontificia: ” Le due teste mancanti eran state troncate, e trasportate a Roma dal Signore Duca di Cesarini: onde, che crederei mancante al proprio mio dovere, se non lo partecipassi all’E. V. per la sovrana intelligenza, ed affinché se sia di suo aggrado possa impedire l’astrazione dal Regno, qual purtroppo non solo suol accadere in somiglianti cose ma ben anche di colonne e pietre di verde antico, d’alabastri, ed ogni sorta d’altre pietre, come di quadri d’insigni pittori, antichi e moderni, in comprova di che si sovverrà l’E. V. d’averle io esposto fu da Roma, che oltre le colonne di verde antico colà da me comprate, ven’erano quattro altre, due di bianco e negro attico, e due d’alabastro orientale, il tutto estratto da questo regno per non esservi proibizione alcuna, e per cui motivo ne rimane in parte esausto. In Roma Ecc. mo Sig. re è proibito sotto pena a qual rivoglia il far cavare anche né propri territori senza il permesso, e la vista del luogo, affinché non 339 B. Croce, I marmi del palazzo reale di Portici, in “Napoli mobilissima”, Napoli, 1898, pp. 3032; M. Cagiano De Azevedo, Una scuola napoletana di restauro nel XVII e nel XVIII secolo, in “Bollettino dell’Istituto Centrale del Restauro”, I, 1950, pp. 44 ss. 105 segua demolizione di vestigi antichi, o pericolo per la vigilanza di essi, ed allorché se ne accorda il permesso, vien tenuta la persona interessata a denunciare quanto trova. V’è altresì particolar divieto per l’estrazione de’sud.ti generi, senza preventiva supplica, e di quelle tali cose, che al ricorrente viene accordato il permesso di estrarre, è tenuto soggiacere alla stima delle medesime che si fa da persona conosciuta proba e capace a ciò destinata, ed a pagare il quattro per cento alla dogana, ed una piastra per visita ed affitto di carrozza allo stimatore. Ciò tutto si pratica non tanto per quella tal contribuzione (che per altro non lascia di formar qualche somma in capo all’anno), ma per essere intesi de lo che si ritrova, ed estrae”340. Canart, dunque, individuò con chiarezza, attraverso il riferimento al modello legislativo romano, i due settori in cui si rendeva urgente un intervento normativo a tutela degli oggetti di interesse storico – artistico: da un lato, la necessità di sottoporre a controllo le attività di scavo condotte da privati “anche ne’propri territori”, rendendo obbligatoria una licenza rilasciata dalle autorità competenti e la conseguente denuncia degli oggetti ritrovati; dall’altro, l’esigenza di impedire “l’estrazione”, ossia l’esportazione indiscriminata di tali beni fuori dai confini del regno. Intervento assai incisivo quindi, quello di Canart, rivolto al concreto delle questioni e alla sostanza dei possibili rimedi, additando soluzioni percorribili e già sperimentate341. Poiché i successivi provvedimenti varati da Carlo e Ferdinando di Borbone, descritti nei capitoli secondo e terzo, richiamavano l’antica tradizione legislativa pontificia, abbiamo ritenuto di procedere, prima, ad un’analisi approfondita della medesima, e, successivamente, proseguire mettendo in luce gli sviluppi normativi più interessanti del XIX secolo fino alla vigilia della prima guerra mondiale. 340 ASN, Casa Reale Antica, fascio 1539, inc. 27, Giuseppe Canart, Portici 2 ottobre 1751. Il riferimento è agli editti Spinola del 1701, 1704 e 1717; editto Albani del 1726 e l’allora recentissimo editto Valenti del 1750, pubblicati in A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, Napoli, 1978, pp. 8390; 96-108. 341 106 4.2. LO STATO PONTIFICIO 4.2.1. LA TRADIZIONE LEGISLATIVA DA PIO II ALL’EDITTO ALTIERI La legislazione di tutela dei monumenti nello stato pontificio ha un’antica tradizione. Il primo provvedimento organico in materia fu la bolla di Pio II del 28 aprile 1462, che proibiva a chiunque di demolire, distruggere o danneggiare gli antichi edifici pubblici, od i loro resti, esistenti in Roma e nel suo distretto anche se collocati in fondi di proprietà privata, senza licenza del pontefice342. Il 7 aprile 1474 Sisto IV emanò una bolla volta ad impedire che le chiese venissero spogliate dei marmi e degli altri ornamenti. A questi primi provvedimenti ne seguirono altri nel Cinquecento. Leone X, nel 1515, conferì a Raffaello l’incarico di sorvegliare le antiche iscrizioni; Paolo III, il 28 novembre 1534, nominò Latino Giovenale Manetti commissario delle antichità, con il compito di vigilare sulla loro conservazione e di impedirne l’esportazione da Roma. Di particolare importanza, fu l’incarico offerto a Mario Frangipane, nel 1556343, fissando, per la prima volta, i compiti e i poteri dell’ufficio incaricato della tutela. Negli statuti di Roma, riformati nel 1580, sotto Gregorio III, si ribadì la competenza dei conservatori del popolo romano a custodire gli antichi monumenti. Ma è nel Seicento che la legislazione di tutela dei beni culturali acquisisce le sue linee fondamentali, attraverso gli editti dei cardinali camerlenghi, i più complessi dei quali furono gli editti Altieri del 9 maggio 1685 e del 5 febbraio 1686344. La disciplina della conservazione dei beni culturali, della loro circolazione all’interno dello stato e della loro esportazione all’estero, dei ritrovamenti e delle scoperte archeologiche, è sostanzialmente quella elaborata nella legislazione settecentesca. 342 L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, I, Roma, 1932, pp. 17 ss. Ibidem. 344 Ibidem. 343 107 4.3. LA TUTELA NEL XVIII SECOLO. NUOVE PROSPETTIVE CULTURALI. Il Settecento è il secolo più ricco di editti di tutela dei beni culturali. Il Pontificato di Clemente XI si aprì con gli editti Spinola del 18 luglio 1701 345 e del 30 settembre 1704346, dovuti all’ispirazione del commissario delle antichità Francesco eltra347. Particolarmente interessante era il secondo provvedimento per la consapevolezza culturale a cui si ispirava ed alcune innovazioni. Il suo scopo era “che si conservino, quanto più si può, le antiche memorie e ornamenti di quest’alma città di Roma, quali tanto conferiscono a promuovere la stima della sua magnificenza e splendore presso le nazioni straniere, come pur vagliono mirabilmente a confermare e illustrare le notizie appartenenti alla storia, così sacra come profana”348. Una duplice finalità, quindi, di promozione del prestigio internazionale di Roma, e, dello stato, e di conservazione dei documenti della storia sacra e profana. Da questa premessa derivarono alcune interessanti disposizioni innovative, come quella che stabilì che venisse fatto un disegno delle cose non conservate; la speciale salvaguardia delle iscrizioni e l’immissione della normativa di tutela del patrimonio librario ed archivistico, di solito oggetto di separati provvedimenti, in un editto di difesa complessiva dei beni culturali. Solo diversi anni dopo si tornò al sistema di editti speciali per la tutela delle scritture e dei libri manoscritti349. Significativo fu anche l’editto Spinola, dell’8 aprile 1717350, che introdusse l’obbligo di licenza per i commercianti di antichità ed opere d’arte. Un’altra importante serie di editti fu dovuta al nipote di Clemente IX, il card. Annibale Albani, camerlengo dal 1719 al 1747351. Un primo editto 345 M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, ”Proibitione sopra l’estrazione di statue di marmo o metallo, figure, antichità e simili”, 1701. 346 Ibidem, ”Editto sopra le pitture, stucchi, mosaici ed altre antichità, che si trovano nelle cave, iscrizioni antiche, scritture e libri manoscritti”, 1704. 347 A. Petrucci, Dizionario biografico degli italiani, VI, Roma, 1964, p. 572. 348 Editto Spinola 1704. 349 Gli editti Spinola del 14 maggio 1712, Albani del 1°dicembre 1742, Colonna del 15 dicembre 1757 e Rezzonico del 16 giugno 1772. 350 M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, ”Proibizione sopra l’estrazione di statue di marmo o metallo, figure, antichità e simili”, 1717. 351 A. Petrucci, Dizionario biografico degli italiani, VI, Roma, 1964, p. 574. 108 riguardava l’attività degli scalpellini, segatori di marmi e cavatori, mentre altri editti l’estrazione delle statue di marmo o metallo, pitture, antichità e simili del 21 ottobre 1726 e del 10 settembre 1733352. Lo scopo comune di queste disposizioni era di rendere più efficace la scoperta e la repressione della violazione delle norme di tutela, intensificando i controlli ed incentivando le denunce. Al cardinale Silvio Valenti Gonzaga353, segretario di stato di Benedetto XIV e camerlengo, dopo le dimissioni dell’Albani nel 1747, dobbiamo un editto, del 5 gennaio 1750354, che costituisce il pilastro della legislazione settecentesca sulla tutela dei beni culturali nello stato pontificio. Esso tentò di sistemare la materia, che, come descritto, era stata oggetto di numerosi interventi nel Sei e Settecento. Le riforme più importanti, introdotte dall’editto Valenti, furono l’istituzione degli assessori, accanto al commissario sopra le antichità, ed i provvedimenti per la destinazione ai musei Capitolini degli oggetti sequestrati. Per il resto riprendeva le disposizioni degli editti precedenti, in particolare dell’editto Spinola del 1717 e degli editti Albani del 1726 e del 1733 sul divieto di esportazione delle antichità e delle opere d’arte. Le premesse culturali, sono desumibili dal primo paragrafo: ”importando sommamente al pubblico decoro di quest’alma città di Roma il conservarsi in essa le opere illustri di scoltura e pittura, e specialmente quelle che si rendono più stimabili e rare per la loro antichità, la conservazione delle quali non solo conferisce molto alla erudizione, sì sacra, che profana, ma ancora porge incitamento a’forestieri di portarsi alla medesima città, per vederle ed ammirarle, e dà norma sicura di studio a quelli che applicano all’esercizio di quelle nobili arti, con gran vantaggio del pubblico e privato bene”355. Accanto al tema della conservazione delle reliquie del passato, in quanto testimonianze utili per la storia sacra e profana, già presente nell’editto Spinola del 1704, emerse un nuovo contributo, ossia la loro funzione turistica, concepite, come mezzo per attirare a Roma gli eruditi e gli appassionati 352 Ibidem. M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, ”Proibizione della estrazione delle statue di marmo o metallo, pitture, antichità e simili”, Roma 1750. 354 Ibidem. 355 Ibidem. 353 109 stranieri, ed infine la concezione dell’opera antica come norma di studio per gli artisti356. La competenza in materia di tutela dei beni culturali apparteneva, in via esclusiva, al camerlengo357. Solo nel caso di esportazione dallo stato di cose antiche e, a partire dall’editto Valenti del 1750, anche di cose rare e di molto valore, la licenza da lui rilasciata era subordinata all’emanazione di un chirografo pontificio358. Egli si avvaleva per l’espletamento di tale funzione degli uffici del dicastero cui era preposto, la camera apostolica. In particolare tutti gli atti di competenza del camerlengo potevano essere compiuti anche dal suo auditore generale; entrambi erano coadiuvati dai segretari di camera, per gli adempimenti burocratici. Accanto a questi funzionari, che non avevano competenze specifiche nel campo delle antichità e belle arti, vi era il commissario sopra le antichità e le cave, con compiti tecnici nella tutela dei beni culturali, quali la conservazione, la circolazione ed il commercio; esprimeva pareri sul valore degli oggetti di cui si chiedeva la licenza di esportazione, provvedeva ai controlli per impedirne il contrabbando, sorvegliava gli scavi359. La carica fu ricoperta quasi sempre da personalità di prestigio. Nel Settecento possiamo ricordare Francesco Batoli, J. J. Winckelmann, Giovanni Maria Visconti. Tuttavia i risultati non furono sempre entusiasmanti a causa dell’ampiezza dei compiti affidati al commissario. Perciò, già nel 1726, fu prevista la collaborazione di una persona idonea e capace; si trattava di un aiutante assunto non dalla camera, bensì dal commissario a sue spese. Neanche con tale sistema si riuscì ad ovviare ai continui disordini, tanto che l’editto Valenti affiancò ai commissari tre assessori con funzioni ausiliarie360. Ogni assessore era competente in un settore specifico: uno per la pittura, l’altro per la scultura ed il terzo per i cammei, medaglie, incisioni e ogni altra sorte di antichità. Per i libri manoscritti ed i documenti di interesse archivistico, la competenza per il 356 Ibidem. A. Lodolini, L’Archivio di Stato di Roma, Roma, 1960, pp. 167 ss. 358 Ibidem. 359 Ibidem. 360 Editto Valenti, 1750. 357 110 rilascio delle licenze era dei prefetti dell’archivio segreto Vaticano e di quello di Castel S. Angelo361. La tutela comprendeva sia i beni immobili che mobili. La tutela degli immobili si riferiva non solo agli edifici monumentali ma anche quelli di interesse storico ed archeologico. Restavano così tutelati, gli edifici e le fabbriche antiche, gli archi, le mura, i ponti, le antiche strade pubbliche, le muraglie di travertino, marmo, paperino o di altro materiale362. L’oggetto dell’archeologia cristiana era salvaguardato attraverso la tutela degli antichi cimiteri. Per i beni mobili gli editti dei camerlenghi offrivano un’elencazione molto analitica. L’editto Valenti, riproducendo sostanzialmente il dettato di editti precedenti, tutelava “statue, figure, bassorilievi, colonne, vasi, alabastri, agate, diaspri, ametiste ed altri marmi preziosi, gioie e pietre lavorate, dorsi, teste, frammenti, pili, piedestalli, iscrizioni o altri ornamenti, fregi, medaglie, camei, cornioli, monete o intagli, di qualsivoglia pietra, ovvero metallo, oro, argento, di qualsivoglia materia, antica o moderna; né meno figure, quadri, pitture antiche”363. Gli editti contenevano, poi, dopo questo lungo elenco, una disposizione avente funzione di “norma di drenaggio”364, volta cioè ad evitare che alcuni beni meritevoli di tutela sfuggissero ad essa, a causa di un’interpretazione eccessivamente puntuale dell’elenco dei beni tutelati. Infatti, era precisato che la tutela dovesse comprendere anche “altre opere, in qualsivoglia cosa scolpite e dipinte, intagliate, commesse, lavorate o in altro modo fatte”365. Alcuni editti si soffermavano, in particolare, su alcuni dei beni protetti. Così l’editto Spinola del 1704 prevedeva una tutela specifica per le pitture, stucchi, pavimenti, figure o latri lavori di mosaico, monumenti o sepolcri di qualsivoglia natura. A partire dall’editto Albani del 1733 venne posta 361 Editto Spinola 1704; inoltre Editto sopra le scritture e libri manoscritti, Roma, nella stamperia della R. C. A., 1712. 362 Editto Valenti, 1750. Su questo punto esso riprende la disciplina degli editti precedenti, tra cui quello Albani del 21 ottobre 1726 sopra li scalpellini, segatori di marmi, cavatori ed altri. 363 Editto Valenti, 1750. 364 L’espressione di G. Piva, Cose d’arte, in “Enciclopedia del diritto”, XI, Milano, 1962, p. 96, è riferita all’art. 2 della legge 1089/39, che svolge, la stessa funzione delle disposizioni in esame. 365 Editto Valenti, 1750. 111 l’attenzione sul commercio di cammei, medaglie, monete, bronzi ed altri piccoli oggetti di antiquariato, che alimentavano un vasto mercato, con la presenza di numerose falsificazioni. Il regime di tutela si applicava ai beni indicati indipendentemente dalla loro appartenenza. Gli editti specificavano, più volte, che le disposizioni in esse contenute vincolavano “ogni persona, tanto ecclesiastica, quanto secolare, di qualsivoglia stato, grado e condizione, ancorché richiedesse specialissima menzione e benché munita di qualunque sorta di patenti, familiarità, inibizioni, privilegi, indulti ed esenzioni”366. Anche gli stranieri erano assoggettati a tale disciplina, sia si trattasse di forestieri ecclesiastici, soggetti immediatamente o mediatamente alla Santa Sede, che di stranieri, sudditi di altri principi, purché si trovassero in Roma o nello Stato Pontificio. Destinatario delle disposizioni contenute nella legislazione di tutela era, quindi, qualunque soggetto che si trovasse in un determinato rapporto qualificato con il bene tutelato, rapporto che poteva essere non solo di proprietà, ma anche di possesso e di detenzione, a qualsiasi titolo367. Dopo aver individuato i beni soggetti a tutela, attraverso la loro tipologia e la loro appartenenza, è opportuno esaminare l’espletazione delle potestà pubbliche, attraverso le quali era raggiunto il fine di tutela. Occorre sottolineare che esse si manifestavano, soprattutto, in relazione e a due momenti, ritenuti i più importanti per la salvaguardia del patrimonio artistico e storico, l’esportazione dei beni da Roma e dallo stato e l’attività di ricerca archeologica. Non va a questo proposito dimenticato che Roma nel Settecento era il più importante centro mondiale del commercio antiquario ed un grande mercato artistico. Tuttavia la tutela non si fermò alla regolamentazione delle esportazioni ed alla disciplina degli scavi, ma assunse anche altre forme. La conservazione dei resti dell’antichità era sempre stata, come si è visto, 366 Ibidem. Ibidem: ”E perché vi sono molte persone che cavano e fanno cavare in luoghi pubblici e privati…e che le dette cose cavate e ritrovate, bene spesso, ancorché vi siano pene gravi e proibizioni, fatte e comminate in essi bandi, vendono, scansano, trafugano ed ascondono, in Roma e fuori di Roma, senza saputa e licenza nostra, scienza ed ordine de’ padroni delli propri luoghi e proprie cose ritrovate, con danno pubblico e particolare, e gravezza delle loro coscienze, e così privano e spogliano quest’alma città di Roma e li propri padroni delle più belle cose che in essa città si trovano, così antiche come moderne.” 367 112 un’esigenza sentita dai pontefici. Tale esigenza era ben presente negli editti settecenteschi, che vietavamo più volte di danneggiare “qualunque edifizio o fabbrica o altra opera antica sopra terra, ancorché lesa da tempo o rovinosa”.368 Era altresì vietato fare scavi vicino “agli edifizi e muraglie antiche, acciò non ne restino danneggiate369” . Quanto alle cose mobili, vi era la “proibizione di rompere le statue antiche o altri ornamenti di qualsivoglia materia”, ed era vietato ad “alcun calcararo, cavatori o altri simili persone, come scalpellini, fonditori ed altri guastatori, rompere, guastare spezzare per far calce o portar via o rivedere alcuna sorte di marmi scritti, lavorati, statue, figure o altri ornamenti antichi, né meno fondere, guastare o ammaccare figure, medaglie, monete, intagli, di metallo d’oro, di argento, antichi, che abbiano figurazione o memoria di cose antiche”370. Disposizioni particolari riguardavano alcuni beni specifici; era vietato danneggiare o demolire gli antichi monumenti sepolcrali ed i mosaici e gli stucchi 371. L’editto Albani del 1726 proibiva agli scalpellini di segare, far segare, rompere o guastare le colonne o tronchi di esse, quando, riuniti, potevano formare una colonna intera. Di specifica tutela, ai fini della loro conservazione, godevano anche i manoscritti ed i documenti di interesse archivistico. Era fatto divieto ai librai, pizzicagnoli, battilori, cartolai, tamburai ed altri artigiani di “sciogliere, dividere, rompere o guastare detti libri e scritture”372. I divieti indicati non avevano carattere assoluto, ma potevano essere rimossi attraverso l’intervento dell’autorità pubblica. Il camerlengo poteva, infatti, rilasciare una licenza che autorizzasse il proprietario, o comunque chi avesse la disponibilità dell’oggetto, a compiere quegli atti che gli erano stati vietati. Tali licenze erano rilasciate materialmente dai segretari di camera, previa ispezione del commissario sopra le antichità e dopo l’editto Valenti, di un assessore. Oltre al potere di ispezione, al commissario spettava anche un potere di controllo su cave, siti, luoghi e botteghe, in cui erano presenti statue ed altri beni mobili 368 Editto Albani 21 ottobre 1726, Editto sopra li scalpellini, segatori di marmi, cavatori ed altri. Ibidem. 370 Ibidem, proibisce a scalpellini, segatori di marmi ed altri, di segare, rompere o guastare pietre o marmi contenenti iscrizioni o bassorilievi. 371 Editto Spinola, 1704. 372 Ibidem. 369 113 sottoposti a tutela373. Ad esso corrispose l’obbligo di chi aveva la disponibilità della cosa di lasciarlo “entrare, vedere, pigliarne e darne nota di tutte le cose antiche e prestargli ogni aiuto e favore”374. La conservazione delle cose confiscate, a seguito di violazioni degli editti di tutela, avveniva, dopo l’editto Valenti, per statue, marmi e bronzi nel Campidoglio fondata da Clemente XII, quanto ai “quadri ed altre pitture”nella pinacoteca del palazzo dei Conservatori, dove “saranno unite e custodite con l’altre, a pubblico comodo ed a perpetua gloria di Sua Beatitudine”. Per i “camei, medaglie ed altre simili antichità”si provvide “secondo le disposizioni ed ordini della Santità Sua”375. In precedenza ho rilevato come una delle principali preoccupazioni della legislazione pontificia fosse di evitare l’esportazione incontrollata delle antichità e degli oggetti d’arte. Tale preoccupazione riguardava anche il trasferimento dei beni tutelati da Roma, e dal suo distretto e territorio, in altri luoghi dello stato. In questo caso si applicava ad essi la medesima disciplina che ne regolava l’esportazione e che prevedeva il rilascio di un apposita licenza376. Già l’editto Sforza del 1646 precisava che l’obbligo di licenza si estendesse alla compravendita di beni tutelati in Roma, ma con il fine di trasferirli fuori dalla città377. L’editto Spinola del 1717 riprese il dettato del precedente editto Sforza, ma estese però l’obbligo di licenza ad ogni caso di compravendita, ”anche se non vi sia intenzione di trasportar detta roba fuori di Roma e dello stato ecclesiastico”378. La licenza era gratuita e veniva rilasciata dal camerlengo. Essa indicava i nomi del venditore, del compratore e dell’eventuale intermediario. Lo scopo di tale restrizione era di evitare frodi quotidiane commesse in collusione fra compratori e venditori, “con occultarsi da quelli l’intenzione dell’estrazzioni e trasporti per fuori di Roma e stato ecclesiastico di simili antichità”. Particolari limitazioni alla facoltà di alienare i beni tutelati riguardavano coloro che compivano scavi per fini archeologici. 373 Editto Valenti, 1750. Ibidem. 375 Ibidem. 376 A. Emiliani, Musei e museologia, in “Storia d’Italia”, V, I documenti, 2, Torino, 1973, p. 1615. 377 Editto sopra l’estrattioni e cave di statue, figure, intagli, medaglie.inscrittioni di marmo, di mischio, metallo, oro, argento, gioie e cose simili antiche e moderne, Roma, presso la stamperia camerale, 29 gennaio 1646. 378 Editto Spinola, 1717. 374 114 In questo caso essi, per vendere gli oggetti ritrovati, dovevano, oltre che richiedere la licenza, sottoporli ad una preventiva ispezione del commissario sopra le antichità o dell’assessore379. La medesima disciplina si applicava anche agli scalpellini, fonditori ed altri guastatori380. Inoltre la legislazione degli editti prevedeva un intervento pubblico ancora più incisivo nella circolazione dei beni, prevedendo l’acquisto coattivo dei medesimi. A questo fine era vietato “a qualsivoglia cavatore, vignaiolo, operario, muratore, scultore, scarpellino e qualunque padrone si sia di statue, cave, siti, luoghi e botteghe, dove siano dette cose antiche di sopra espresse, tanto in Roma, quanto fuori”, di venderle e trasportarle per i cinque giorni successivi all’ispezione del commissario sopra le antichità, il quale provvedeva a farne denunzia al camerlengo381. Era, poi, vietato, a chiunque venisse rilasciata una licenza per scavare, di vendere gli oggetti ritrovati, finché non venissero visitati dal commissario e stimati da periti nominati dal camerlengo382. L’obbligo della licenza era previsto anche per la compravendita di manoscritti e documenti. A questo proposito si stabilì che essa dovesse procedere la vendita, o comunque almeno la consegna383. I vari editti per la tutela di tali beni prevedevano che la licenza per la vendita non venisse rilasciata, se non dopo che i prefetti degli archivi Vaticano e di Castel S. Angelo avessero incamerato le “cose che avranno credute rilevanti”. Le “scritture buone”erano pagate ai pizzicagnoli ed agli altri commercianti ed artigiani “a peso di carta”, ai librai “conforme al giusto”384. L’importanza del commercio degli oggetti di antichità e delle opere d’arte, nell’economia romana, legittimava gli editti ad intervenire a disciplinare anche tale settore. “E’ così vietato a scultori, scalpellini, rivenditori, cavatori e padroni di cave di commerciare tali oggetti prima di aver comunicato una nota di essi al notaio della camera, affinché si possi sapere l’esito e l’esistenza in Roma di dette robe…”385. Inoltre i cavatori, muratori, operai, vignaioli ed altri 379 M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, p. 24. Ibidem. 381 Editto Valenti, 1750. 382 Ibidem. 383 M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, p. 26. 384 Editti Albani del 1°dicembre 1742 e Rezzonico del 16 giugno 1772. 385 Editto Spinola, 1717. 380 115 simili persone, come scalpellini, scultori, rivenditori, bottegai, non potevano vendere e comperare oggetti d’antichità e d’arte di valore superiore ad uno scudo, senza previa comunicazione al commissario sopra le antichità o al notaio di camera; ciò perché spesso venivano trafugati e venduti all’insaputa dei proprietari386.In particolare, per il commercio dei cammei, intagli, monete, medaglie, corniole, bronzi ed altri piccoli oggetti d’antiquariato, di cui vi era grandissima richiesta387, vennero introdotte, accanto al divieto di esportazione senza licenza, severe pene per chi alteri, falsifichi e metta in circolazione tali oggetti falsificati. Ciò al fine di evitare che si getti discredito sul pubblico commercio e si inganni la buona fede dei forestieri, cui venivano venduti a prezzi esorbitanti e lesivi, come specificato nell’editto Albani del 1733. 386 Ibidem. Va ricordato che Roma fu nel ‘700 il principale centro della lavorazione dei cammei moderni e del commercio degli antichi. Qui fu attiva la famiglia dei Pichler, originaria di Bressanone, fra i quali si distinsero, per la sapiente imitazione dei modelli greco – romani, Antonio (Bressanone 1687-Roma 1779) e Giovanni (Napoli 1734-Roma 1791). 387 116 4.4. I RITROVAMENTI E LE SCOPERTE Un’altra materia oggetto di particolari attenzioni da parte del legislatore pontificio fu quella degli scavi. Roma e lo stato pontificio, nel Settecento, rappresentavamo ancora una ricca miniera per coloro che intraprendevano la ricerca archeologica e la richiesta del mercato antiquario era altissima. Le antichità sepolte nel sottosuolo erano oggetto del “sovrano diritto di regalia”, allo stesso modo dei tesori e delle miniere388. Qualunque attività di ricerca archeologica, senza l’osservanza delle norme, era considerata illegale; ciò, peraltro, non significava che i privati non potessero compiere scavi. Essi dovevano munirsi di un apposita licenza rilasciata dal camerlengo389. La licenza era necessaria in ogni caso, sia che gli scavi avvenivano su terreni di proprietà pubblica, che su terreni di proprietà privata; essa era richiesta all’ufficio delle strade, in caso di cave di marmo o altri materiali per l’edilizia, mentre per gli scavi archeologici la competenza spettava ai segretari di camera. La licenza conteneva le prescrizioni per evitare danni agli edifici antichi, alle mura, alle vie pubbliche, alle cripte e alle catacombe390, stabilendo il versamento di una cauzione e l’obbligo di ripristino dei luoghi. Nel caso di scavi in terreni privati era necessario il consenso del proprietario; una parte degli oggetti rinvenuti era di spettanza della camera, in misura di un quarto del valore per i ritrovamenti in fondi privati e di un terzo per quelli in fondi pubblici391. Il cattivo stato dell’amministrazione previde, già dall’editto Sforza del 1646, che i titolari di licenze, in occasione della pubblicazione di un nuovo editto, dovevano, entro il termine di dieci giorni, darne nota ai segretari di camera, a pena della revoca della medesima392. Questo per consentire 388 G. Bufferli, La regalia dei tesori nei pontifici domini, Roma, 1778, p. 43. Per la disciplina degli scavi qui di seguito esaminata, il riferimento è all’editto Valenti del 1750. 390 G. Bufferli, La regalia dei tesori nei pontifici domini, Roma, 1778, p. 49. 391 C. Fea, Replica antiquario-legale alla seconda scrittura del sig. avv. Scipione Cavi, Roma, 1823, pp. 3 ss. Le condizioni variavano anche a seconda del richiedente e dello scopo per cui si effettuavano gli scavi. Comunque dall’esame delle licenze conservate si osserva una tendenza a ridurre le quote di spettanza della camera. Nel XVI secolo la norma era di riservarle la metà del valore degli oggetti ritrovati in luoghi pubblici ed un terzo di quelli scavati in fondi privati. Ma già nella seconda metà del secolo si trovano licenze che riservano al fisco un terzo del valore per i ritrovamenti in luoghi pubblici od addirittura lasciano allo scavatore tutto quanto rinvenuto. 392 Questo concetto fu ripreso anche dall’editto Spinola 1701 e 1717 e dall’editto Valenti del 1750. 389 117 all’amministrazione camerale di operare un censimento degli scavi autorizzati, al fine di esercitare i necessari controlli. Infatti era prevista l’assistenza alle operazioni di scavo del commissario sopra le antichità e le cave, ovvero dell’assessore o di una persona a ciò deputata. Lo scopo era duplice: di garantire che la ricerca avvenisse nei luoghi permessi e con modalità tali da non recare danno ai resti archeologici e di evitare che gli oggetti ritrovati venissero sottratti al diritto del principato e messi abusivamente in circolazione. L’editto Albani del 1726 disponeva che “ritrovandosi nel far cave, in luoghi tanto pubblici quanto privati, statue o frammenti di esse, torsi, teste, bassorilievi, piedistalli, colonne, capitelli, iscrizioni, vasi, urne ed altri ornamenti antichi, di pietra, marmo, terra cotta, bronzo o altro metallo”doveva essere avvisato immediatamente il commissario, prima di rimuoverli dal luogo del ritrovamento, in modo che egli poteva procedere all’esame e dare le prescrizioni necessarie affinché “non si rompino o offendino nello scavarli”393. Anche l’editto Spinola del 1704 prevedeva che, ritrovandosi negli scavi pitture, stucchi, mosaici, antichi sepolcri, il ritrovamento dovesse essere segnalato al commissario e qualsiasi operazione necessitava di una preventiva licenza. Inoltre il commissario doveva provvedere a disegnare le cose che non potevano essere conservate394. Vari editti prescrivevano il divieto di vendere gli oggetti ritrovati, prima dell’ispezione del commissario e della stima di periti, per stabilire la parte di spettanza alla camera395. Fin dal 1646396 venne prescritto l’obbligo per carrettieri, facchini, portatori di munirsi di licenza per il trasporto di antichità provenienti da scavi o edifici antichi. Tale licenza doveva essere mostrata al commissario o incaricati, in caso di controlli durante il tragitto. Il ritrovamento di oggetti d’interesse archeologico, storico o artistico può essere il risultato, non solo di un’attività a ciò preordinata, come gli scavi archeologici, ma anche di scoperte fortuite. Gli editti intervennero con le loro disposizioni a regolare anche questa materia, prevedendo l’intervento del commissario a salvaguardia degli oggetti rinvenuti. 393 Editto Albani 1726 sopra li scalpellini. Editto Spinola 1704. 395 M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, p. 30. 396 Editto Sforza 1646. 394 118 La mancata osservanza delle prescrizioni volte alla tutela delle antichità e delle opere d’arte dava luogo a sanzioni. Il loro esame permette di comprendere quali comportamenti illeciti il governo pontificio considerasse più pericolosi e pertanto maggiormente necessitanti di repressione. Le pene più gravi erano riservate all’esportazione abusiva all’estero e al trasferimento da Roma, nello stato pontificio, dei beni tutelati. In questo caso era prevista la confisca dei beni, siano essi rimasti in Roma, in quanto l’esportazione ed il trasferimento sono stati solo tentati, sia vengano a trovarsi in qualunque altro luogo dello stato. Oltre alla confisca, era prevista una pena pecuniaria di cinquecento ducati d’oro e pene corporali, “secondo la qualità delle persone e delitti”, ad arbitrio del camerlengo397. Coloro che collaboravano a tali reati, sia aiutando ad incassare ed imballare gli oggetti da trasferire, sia trasportandoli per terra o per acqua, erano puniti con la pena di tre tratti di corda e di venticinque scudi, oltre alla confisca dei colli contenenti gli oggetti. Per la pena pecuniaria, il padrone rispondeva per il servitore ed il maestro d’arte per l’apprendista398. I custodi e gli altri ministri delle porte e dei “luoghi di passo” che lasciavano transitare cose sottoposte a tutela, senza il preventivo accertamento della licenza di estrazione, erano puniti con la privazione dell’ufficio e con una pena pecuniaria di venticinque scudi e pene corporali ad arbitrio del camerlengo399. L’editto Spinola del 1717 estendeva le pene previste per l’esportazione abusiva anche alla compravendita di antichità ed opere d’arte400, mentre l’editto del 1704 per i manoscritti ed i documenti prevedeva la pena di duecento scudi e di tre tratti di corda401. Inoltre, in quest’ultimo caso, era previsto anche il risarcimento dei danni, non solo a favore dei proprietari delle scritture, ma anche di coloro che, senza essere proprietari, vantavano un interesse su tali scritture. Si pensi, ad “instromenti, processi, inventari, lettere, bolle, diplomi”, seguendo l’elencazione dell’editto, comprovanti l’esistenza di diritti e di obblighi402. I commercianti di cammei, 397 Editto Valenti 1750. Ibidem. 399 Ibidem. 400 A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani, 1571 – 1860, Bologna, 1978, pp. 68 ss. 401 Ibidem. 402 Ibidem. 398 119 monete, medaglie, bronzi ed altri simili antichità, contraffatti ed alterati, erano puniti in modo analogo all’esportatore e al commerciante abusivo403. Per l’inosservanza del divieto di vendere o trasportare gli oggetti di cui il commissario sopra le antichità avesse fatto denuncia al camerlengo, ai fini di un eventuale acquisto, così come l’opporsi a o l’ostacolare le sue ispezioni, era prevista la pena pecuniaria di dieci scudi e pene corporali404. Meno severe erano le pene stabilite in caso di danno di beni mobili ed immobili di interesse storico ed archeologico; sanzioni più rigorose erano previste in casi particolari. Il danneggiamento e la demolizioni di camere sepolcrali, l’eventuale distacco di stucchi, mosaici o pitture, la rimozione di antiche iscrizioni, il danneggiamento di manoscritti e di documenti archivistici, erano puniti con pena pecuniaria di cento scudi e pene corporali405. Anche la ricerca archeologica abusiva era punita meno severamente dell’esportazione. Gli scavi abusivi o inosservanti delle prescrizioni contenute nella licenza, quali l’assistenza del commissario sopra le antichità o di un suo delegato, le distanze da rispettare dagli edifici antichi, l’obbligo di denuncia degli oggetti ritrovati, erano puniti con la confisca ed una pena pecuniaria di venticinque scudi406. La medesima pena era applicata a coloro che, avendo scoperto fortuitamente oggetti archeologici, ometta di farne denuncia al commissario407. La mancata comunicazione del ritrovamento di sepolcri contenenti pitture, stucchi, mosaici, prevedeva una pena pecuniaria più grave, pari a cento scudi 408. La vendita degli oggetti ritrovati, prima dell’ispezione del commissario e della stima dei periti, era punita con la confisca, la pena pecuniaria di dieci scudi e pene corporali409. Al fine di incoraggiare le scoperte e le denuncie delle violazioni degli editti di tutela, una parte della sanzione pecuniaria era assegnata al commissario sopra le antichità ed una parte al privato denunciante. Tale quota, originariamente di un quarto, venne portata ad un terzo con l’editto Albani del 1733. La seconda parte di questo editto era 403 Editto Valenti, 1750. Editto Spinola, 1717; Editto Valenti, 1750. 405 Editto Spinola, 1704. 406 Editto Albani, 1726 “sopra li scalpellini”. 407 Ibidem. 408 Editto Spinola, 1704. 409 Editto Valenti, 1750. 404 120 dedicata a disposizioni miranti a rendere più efficace la repressione dell’inosservanza delle prescrizioni in materia di antichità e di opere d’arte. Venne, così, stabilito che “l’accusatore o denunziante” doveva essere tenuto segreto, pena la perdita dell’ufficio per quei segretari di camera o ministri del tribunale del camerlengo che ne rivelavano il nome. “Chi, falegname, facchino, carrettiere, marinaio, barcaiolo, locandiere, oste, albergatore, abbia concorso nell’esportazione clandestina degli oggetti tutelati, qualora ne faccia denuncia spontaneamente, prima di essere inquisito per tal causa, otterrà la remissione della pena ed anche la parte di sanzione pecuniaria che spetta agli accusatori non colpevoli. Il premio di un terzo della pena pecuniaria spetta anche agli officiale delle porte e dei passi, agli esattori delle gabelle pubbliche e private, agli esecutori di giustizia che scoprano il contrabbando”410. Il commissario era il funzionario istituzionalmente incaricato di provvedere alla repressione delle violazioni degli editti di tutela. Egli non poteva accettare alcun dono dagli interessati per l’esercizio delle sue funzioni,a pena della perdita dell’ufficio e di sanzioni corporali, ad eccezione, come si è detto, della quota delle sanzioni pecuniarie prevista. In seguito all’istituzione degli assessori, questi acquisirono il diritto della quota spettante al commissario, nel caso siano loro ad accertare le infrazioni degli editti411. 410 A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani, 1571 – 1860, Bologna, 1978, pp. 68 ss. 411 Ibidem. Editto Valenti, 1750. 121 4.5. IL CONTROLLO DEL MERCATO DEI BENI CULTURALI A questo punto ci domandiamo quale fosse l’effettiva portata pratica della normativa contenuta negli editti dei camerlenghi, che originò un sistema abbastanza completo di tutela ed in alcuni suoi punti assai avanzato; in effetti il compito che il governo pontificio doveva affrontare era enorme, tenuto conto dei mezzi economici ed amministrativi a disposizione. I problemi più significativi erano, come descritto, l’esodo dallo stato delle opere d’arte e delle antichità, il controllo dell’attività archeologica e la conservazione degli antichi monumenti412. Il primo problema era già emerso in misura notevole nel Seicento, ma nel secolo successivo l’esportazione delle opere d’arte raggiunse livelli preoccupanti. “La nuova Roma vende a pezzo a pezzo l’antica”, scriveva Montesquieu nel suo “Viaggio in Italia”413. In merito alla vendita delle statue delle collezioni Albani e Chigi a Federico Augusto di Sassonia, Montesquieu proseguiva: “a Roma bisognerebbe fare una legge, per cui le statue più importanti fossero inamovibili e potessero essere vendute soltanto insieme con la casa in cui si trovano, sotto pena della confisca della casa e di altri effetti del venditore. Se non si farà così, Roma sarà completamente spogliata”414. L’aggravarsi della crisi economica segnò, già nella seconda metà del XVII secolo, il declino del mecenatismo privato romano e, dopo la morte di Alessandro VII (1667), anche di quello pubblico. Vi erano, tuttavia, ancora grandi collezionisti, come il card. Pietro Ottoboni ed il marchese Pallavicini, a 412 Sul mercato artistico ed archeologico a Roma nel XVIII secolo, sugli scavi, sulla politica artistica dei pontifici, sul movimento artistico, oltre alla letteratura, per un quadro d’insieme fondamentale è l’opera di S. Pinto, La promozione delle arti negli Stati italiani dall’età delle riforme all’Unità, in “Storia dell’arte italiana”, Torino, 1982. 413 Voyage en Italie, traduzione di M. Colesanti, Bari, 1971, p. 219. 414 Ibidem, pp. 168 ss. In effetti alcune delle collezioni più importanti erano o saranno tutelate, per volontà di chi le aveva raccolte o dei suoi discendenti, dal vincolo fidecommissario. Così farà lo stesso card. Albani, con testamento del 1778, come avevano fatto, nello stesso secolo, il principe Giovanni Battista Pamphili, nel 1709, e la duchessa Maria Camilla Pallavicini Rospigliosi, nel 1710, sui grandi esempi di Paolo V Borghese, di Urbano VIII Barberini, di Innocenzo X Pamphili. Ma non sempre questo tipo di tutela si mostrerà efficace, come dimostrano le dispersioni avvenute. Si pensi alla collezione di Villa Albani, prosciolta dal vincolo fidecommissario con chirografo del 6 ottobre 1866 ed acquistata dai Torlonia nel dicembre successivo, tenuta assieme all’ex museo della Lungara, ora trasformato in una casa di appartamenti di lusso, di proprietà della stessa famiglia, in deplorevole stato di conservazione e resa praticamente inaccessibile agli studiosi. 122 cavallo dei due secoli, e, più tardi, i cardinali Neri Corsini415, Silvio Valenti, della cui galleria vi è una rappresentazione pittorica eseguita dal Pannini nel 1749416, ed infine, la figura di maggior rilievo, il card. Alessandro Albani, fratello dell’autore degli editti del 1726 e del ’33. La storia delle sue raccolte era emblematica in confronto alla situazione del collezionismo romano del Settecento. Giovanissimo entrò in contatto con il più famoso antiquario dell’epoca, Bianchini417; con l’assistenza di questo erudito, promosse fortunate campagne di scavi in vari luoghi del Lazio ed poté ampliare la sua collezione con acquisti di rilievo. Nel 1728, però, dovette vendere parte di essa, perché quasi ridotto alla rovina finanziaria. Il fatto suscitò nella capitale impressione ed amarezza. L’episodio fece si che, pochi anni dopo, Clemente XII acquistasse dal cardinale, ancora bisognoso di denaro, la sua collezione di statue, busti ed iscrizioni antiche per il museo Capitolino. Il cardinale Albani, fu anche uno dei principali tramiti per i collezionisti inglesi, che volevano effettuare acquisti di antichità romane. Difensore, più o meno palese, degli interessi del governo presso la santa sede, protesse anche diversi artisti britannici residenti nella capitale, tra i quali alcuni operanti nel grande giro del mercato antiquario, come Gavin Hamilton e Thomas Jenkins. I suoi contatti con i collezionisti anglosassoni gli valsero la nomina a membro della società degli antiquari di Londra. Nella grave crisi in cui versava lo Stato, tale mercato era uno dei pochi settori attivi, attorno al quale gravitavano anche attività artistiche ed artigianali, dal restauro, alle vedute pittoriche di rovine, alle incisioni, fino alla produzione di ricordi per turisti di più modeste pretese. All’origine di tutto ciò vi era il rinnovato interesse per l’antichità classica, di cui l’esplorazione e lo scavo archeologico, con le grandi scoperte del secolo, furono ad un tempo, conseguenza e stimolo. Riuscire a controllare una situazione del genere era un compito assai arduo, anche per un governo fornito di mezzi, economici ed amministrativi, più consistenti di quelli a disposizione del debole governo 415 E. Borsellino, Il cardinale Neri Corsini mecenate e committente, in “Bollettino d’arte”, Roma, 1981, pp. 49 ss. 416 R. Venuti, Accurata descrizione topografica e storica di Roma moderna, Roma, 1766 e 1767. 417 G. Cantino, Archeologia e archeologie. Il rapporto con l’antico nell’arte italiana, Torino, 1984, pp. 214 ss. 123 pontificio. Ciò nonostante, come appare dall’esame delle licenze rilasciate dal camerlengo, e conservate nel fondo Camerale II, Antichità e Belle Arti, dell’archivio di stato di Roma, un certo controllo sull’esportazione esisteva418. Occorre, tuttavia, considerare che non sempre il giudizio che accompagnava tali licenze corrisponde alla realtà. Valutazioni del tipo “moderni”, “ordinari”, “boni ma non singolari”, “mediocri”, di “poco valore”, riferiti agli oggetti da esportare, corrispondevano più a criteri burocratici di opportunità o di merito, che a giudizi estetici419. La prassi di ricevere regalie ed emolumenti per le visite effettuate dal commissario e dagli assessori era comune, anche se proibita con gravi sanzioni420. Essa corrispose, per altro, ad una concezione diffusa del servizio pubblico nell’ancien régime, che non poteva comunque non spingere, oltre ovviamente ai casi più gravi di corruzione, ad un’interpretazione lassista del sistema normativo di rilascio delle licenze, che era più o meno rigoroso, a seconda dell’antichità, della qualità e del valore venale dell’opera421. In particolare, l’esportazione di quadri, che la legge sottoponeva ad un controllo meno rigoroso, avveniva quasi senza formalità. Spesso nelle licenze veniva indicata solo la quantità dei quadri esportati; non raramente si trattava di permessi riguardanti cento, centocinquanta, duecento, trecento pezzi per volta. Le licenze erano più precise in caso di statue. La ragione di tale comportamento era nel maggiore interesse dei commissari per l’antichità classica, che aveva le più alte espressioni artistiche nelle opere di scultura, e nella convinzione, presente nel Winckelmann, come, più tardi nel Canova, che si dovessero salvare per i musei pubblici solo quelle opere d’arte che fossero dei capolavori422. Accanto al mercato ufficiale vi era un fiorente mercato clandestino, cui si riferivano le disposizioni degli editti. 418 Archivio di Stato di Roma, Camerale II, Antichità e Belle Arti, busta 7, fasc. 178, pubblicato poi da O. Rossi Pinelli, Carlo Fea e il chirografo del 1802: cronaca, giudiziaria e non della prima battaglia per la tutela delle Belle Arti, in “Ricerche di Storia dell’arte”, 8, Roma, 1979, p. 32 ss. 419 Ibidem. 420 Ibidem. Lo conferma la testimonianza del Fea, che, in una sua memoria del 1803, a prova della propria onestà e del proprio disinteresse, porta non solo il rifiuto di tante generose “esibizioni”, fattegli perché facilitasse le esportazioni, ma anche la rinuncia alle “regalie ed emolumenti” che erano soliti ricevere i suoi predecessori, p. 33. 421 Ibidem. 422 Ibidem. 124 Un’altra forma di intervento dei papi sul mercato artistico e antiquario riguardò l’acquisto di singole opere e di intere collezioni, trasferite, poi, ai musei Capitolino e Vaticano e alla biblioteca Vaticana. Ad esse si aggiungevano numerose e cospicue donazioni. Tuttavia, in particolare, i pontificati di Clemente XIV e di Pio VI conobbero due enormi perdite per il patrimonio culturale di Roma: nel 1769 partì per Firenze il gruppo dei Niobidi, conservato a Villa Medici, e tra la fine del 1786 e gli inizi del 1787 i Borbone provvidero al trasferimento delle sculture e altre antichità farnesiane a Napoli423. 4.6. IL CONTROLLO DELLA RICERCA ARCHEOLOGICA La passione per l’archeologia, alimentata dal rinnovato interesse per l’antichità, che sfocerà nella seconda metà del secolo nel gusto neoclassico, ed incrementata dallo scalpore suscitato dalle grandi scoperte di Pompei e delle altre città vesuviane, contribuì al moltiplicarsi di scavi in Roma e fuori. L’escavazione abusiva era assai diffusa, mirante a salvare solo quei reperti appetibili al mercato collezionistico, distruggendo il resto e mettendo in pericolo gli stessi monumenti già riportati alla luce424. A questo problema il governo pontificio rispose con una legislazione di grande sapienza e consapevolezza culturale, in cui erano espresse le esigenze più avanzate della cultura archeologica del tempo. Il disordine amministrativo era grande; non si sa quante furono le licenze rilasciate, non sempre, tra l’altro, dall’autorità competente. I papi intervenivano promuovendo scavi di iniziativa pubblica. Sotto Clemente XI, riprese l’esplorazione delle catacombe e si attuarono gli scavi di S. Maria Antiqua e del palazzo di Domiziano, nei giardini farnesiani, sul Palatino. Ma non sempre la qualità dell’investigazione archeologica era di 423 A. Gonzales Palacios, Il trasporto delle statue farnesiane da Roma a Napoli, in “Antologia di Belle Arti”, 1978, pp. 168 ss. 424 Gli editti Altieri 1686 e Valenti 1750, significativamente usano le stesse parole per stigmatizzare il fenomeno: “E perché vi sono molte persone che scavano e fanno cavare, in luoghi pubblici e privati, vicino agli edifizi, fabbriche e mura e ponti antichi…con pericolo e rovina di detti edifizi…ed in oltre cavano e fanno cavare in diverse cave publiche e private…senza saputa e licenza nostra…”. 125 buon livello. Boldetti425, nominato dal papa custode delle catacombe, fece importanti scoperte, come quelle delle catacombe di Camomilla, nella vigna Serafini, e di Trasone, sulla Salaria, suscitando non poche critiche per la mancanza di ordine e metodo. Il materiale rinvenuto fu interamente asportato, senza attenzioni e privo di criteri. Organiche campagne di scavi, furono intraprese sotto il pontificato di Pio VI, che ricercò in tale attività l’affermazione della sua politica di prestigio nel campo della cultura e delle arti426. Egli promosse scavi a Civitavecchia, ad Otricoli, a Subiaco. Particolare scalpore suscitarono gli scavi nella villa di Cassio, presso Tivoli427. Un’altra scoperta interessante fu quella del sepolcro degli Scipioni sull’Appia, nel 1778 – 80. Esso era già stato rinvenuto nel 1614, ma era caduto in abbandono428. Un altro problema era quello della conservazione dei monumenti e delle opere d’arte. In gran numero di essi poneva notevoli difficoltà al governo pontificio, la cui sensibilità era antica, ma limitata dalla crisi finanziaria, in cui versava lo stato nel XVIII secolo. Non mancarono, tuttavia, interventi di conservazione attiva di grande rilievo, come il restauro dell’arco di Costantino, da parte di Clemente XII, ed il salvataggio del Colosseo, in stato di grave abbandono, dopo il terremoto del 1703, promosso da Benedetto XIV. Ma dove la politica dei papi acquista grandissimi meriti è nel campo museografico. A papa Clemente XII dobbiamo la costruzione di un grande museo pubblico di arte antica in Campidoglio, inaugurato nel 1734, cui si aggiunse, per volontà di Benedetto XIV, la pinacoteca, ospitata nel palazzo dei Conservatori. La sistemazione delle collezioni vaticane secondo criteri razionali avvenne nel XVIII secolo. Benedetto XIV costituì, nel 1756, il museo delle antichità cristiane, su proposta di Scipione Maffei. Allo stesso papa si deve la raccolta di epigrafi della galleria lapidaria. Nel 1767, sotto Clemente XIII, al museo sacro si aggiunse quello profano, ideato dal card. Albani. A Clemente XIV ed 425 N. Parise, Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1969, pp. 247 ss. C. Pietrangeli, Scavi e scoperte di antichità sotto il pontificato di Pio VI, Roma, 1958, p. 67. 427 Ibidem. 428 Ibidem, p. 70. 426 126 a Pio VI si deve uno degli interventi più innovatori e più organici della museografia settecentesca, il museo Pio – Clementino429. Nel campo della conservazione bibliografica ed archivistica, Clemente XIII emanò un regolamento per la biblioteca Vaticana, molto rigoroso, mentre l’archivio segreto acquisì importanti fondi, come le carte di Clemente XI , i manoscritti della casa Pio. Infine a Benedetto XII si deve la costituzione Maxima Vigilantia, del 14 giugno 1727, con cui si provvide alla disciplina degli archivi ecclesiastici430. 4.7. TRA PUBBLICO E PRIVATO: DAL DECENNIO FRANCESE ALL’UNITA’ D’ITALIA. Una valutazione dei beni artistici nell’ambito dell’ordinamento giuridico del regno delle Due Sicilie tra il Decennio francese e l’Unità d’Italia, va correlata all’affermazione di un diritto positivo fortemente divaricato rispetto all’ancien régime e, allo stesso tempo, al nuovo assetto che al suo interno assume la proprietà privata. La spinta rivoluzionaria partita dalla Francia ed i successivi avvenimenti, infatti, frantumarono vecchi schemi politici e giuridici dando vita ad una concezione dello Stato in cui omogeneità dell’ordinamento, supremazia della legge, codificazione e razionalizzazione burocratico – amministrativa erano elementi convergenti e necessari per la costruzione di un impianto statuale meglio rispondente ai fini che esso era chiamato ad assolvere. Le basi teoriche e culturali sulle quali si costituirono gli ordinamenti in parte erano nuove, ma in larga parte erano anche il frutto delle dottrine e delle esperienze del passato, anche se nuova era la loro riformulazione e il contesto storico di riferimento. Le innovazioni conseguenti non comportarono solo l’adozione di schemi tecnico – giuridici diversi dal passato, ma lo Stato stesso acquisì progressivamente il ruolo di ente deputato a forgiare l’ordine sociale con un intervento positivo e costante nel tempo, per il perseguimento di obiettivi 429 C. Pietrangeli, Il Museo Clementino Vaticano, in !Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia”, Roma, 1952, pp. 87 ss. 430 G. Badini, Archivi e chiese. Lineamenti di archivistica ecclesiastica e religiosa, Bologna, 1984 pp. 57. 127 funzionali a bisogni storicamente manifestati. Si affermò,in definitiva, in modo incontrastato, un diritto dello Stato considerato sotto il duplice profilo del diritto pubblico e del diritto privato, con conseguente distinzione di caratteri e funzioni afferenti a ciascuna delle due situazioni giuridiche. Come ente di diritto pubblico, lo Stato, attraverso il re, esercitava il suo potere sovrano, provvedendo alla sicurezza dei suoi sudditi, promuovendo attività commerciali e il benessere in genere, stringendo e mantenendo relazioni internazionali; come ente di diritto privato – come ogni altra persona giuridica – gestiva i suoi interessi per ricavarne il vantaggio migliore. Nel primo caso era proprietario del demanio pubblico, nel secondo del patrimonio fiscale. Nel contesto di queste innovazioni acquisirono ordinata dimensione giuridica tanto i beni pubblici quanto i beni dei privati, con relativa differenziazione funzionale all’interno dell’ordinamento. Ed è nella dialettica tra libera proprietà privata e dimensione pubblicistica dei beni che si intende, in questa sede, inquadrare lo studio dei monumenti di antichità ed arte nella prima metà dell’Ottocento. Si sottolinea che, nel periodo in esame, non esisteva l’idea della “funzione sociale”431 della proprietà, che trovò, solo successivamente, pieno accoglimento tra i principe della carta costituzionale del 1948. Così, mentre il periodo considerato era caratterizzato da una concezione individualistica della proprietà, tendenzialmente alienata da ogni intervento della sfera dei pubblici poteri, poiché la volontà dell’oggetto, l’io, era al centro dell’ordinamento, con l’avvento di concezioni più realistiche e più sociali affermatesi tra Ottocento e Novecento, l’individuo era in continua contrapposizione con altri centri di interesse. In una visione rispondente ai principi di solidarietà sociale, il concetto di rapporto giuridico rappresenta il superamento della tendenza, che esaurisce la costruzione degli istituti civilistici in termini esclusivi di attribuzione di diritti ai soggetti432. 431 E. Cimbali, La proprietà e i suoi limiti nella legislazione civile italiana, in “Studi di dottrina e giurisprudenza civile”, Lanciano, 1889. 432 P. Pierlingieri, Profili istituzionali del diritto civile, Napoli, 1979, p. 263. E’ il caso di sottolineare che nella dottrina più recente, diversamente dal passato, “la condizione giuridica delle cose di interesse artistico e storico viene a dispiegarsi in termini che non appaiono riconducibili al principio della funzione sociale della proprietà, e quindi a differenziarsi da quelle altre specie di beni di interesse pubblico il cui regime trova adeguata sistemazione alla luce 128 Ciò vuol dire che nella visione giuridica della prima metà dell’Ottocento, il concetto di proprietà consacra un livello tendenzialmente assoluto di garanzia della sfera patrimoniale e privata del soggetto; successivamente, la categoria dei diritti soggettivi ha ricevuto un sostanziale ridimensionamento in vista di relazioni ed interrelazioni con la pluralità dei soggetti giuridici. La disciplina giuridica della proprietà, quindi, a seconda del momento storico, sembrerebbe condizionata da queste impostazioni teoriche e relative conseguenze sul piano normativo. Anche nella prima metà del XIX secolo, tuttavia, l’assolutezza della definizione della proprietà subì modifiche in corrispondenza dei diritti reali e particolarmente dei diritti reali di godimento, ove l’ordinamento e le leggi ravvisavano la necessità di tutelare alcuni specifici e ben individuati interessi. La petizione di principio, dunque, nelle sue soluzioni tecnico – giuridiche non ha avuto sempre valenza cogente; anzi, considerato nella sua essenzialità, lo schema dell’assetto proprietario ha accolto sostanziali delimitazioni tese ad evitare: possibili lesioni al diritto di terzi433; motivazioni dovute alla difesa o promozione di interessi direttamente e indirettamente attinenti all’utile pubblico434. appunto della funzione sociale. Infatti alla base della costruzione giuridica del concetto di bene culturale sta la considerazione, fondata sull’analisi del complesso dei poteri pubblici che gravitano sulla cosa di interesse artistico e storico, che la gestione ed utilizzazione della cosa per ciò che attiene al suo valore culturale resta al di fuori della sfera di disponibilità e di controllo del soggetto cui la cosa stessa appartiene in quanto bene patrimoniale. A differenza quindi di altri beni, per i quali la loro destinazione all’interesse pubblico è attuata mediante un indirizzo funzionale impresso al diritto di proprietà, le cose che costituiscono dei beni culturali restano vincolate alla funzione connessa a questa loro natura, non per mezzo di un esercizio funzionalizzato del diritto di proprietà, ma grazie al loro affidamento, per quanto attiene al loro essere beni culturali, alla mano pubblica”, considerazione che ho ritenuto utile riportare tratta da, P. G. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, Torino, 1987, vol. II, p. 218. 433 J. G. Locré de Boisses, Legislazione civile commerciale e criminale, Napoli, 1841, vol. IV, p. 109, da cui, “La vera libertà consiste in un giusto accordo tra i diritti ed i poteri individuali col bene comune. Quando ciascuno può fare ciò che gli piace, può fare ancora ciò che nuoce al più gran numero. La licenza di ciascun particolare produrrebbe infallibilmente la sventura di tutti”. 434 In relazione alla problematica della concezione della proprietà nella prima metà del XIX secolo, mi sembra opportuno richiamare quanto ha scritto P. Grossi in “Tradizioni e modelli nella sistemazione post – unitaria della proprietà, Firenze, 1977, “La dottrina giuridica ottocentesca – e, tra essa, dunque, anche quella italiana – dimostra di non avere né la capacità né la possibilità per strutturare un modello giuridico combaciante perfettamente quello filosofico – politico, per chiarire e fissare a livello del diritto il problema proprietà, così come era stato chiarito e fissato nei programmi politologici e sociologici; dimostra di essere ipotecata da quel complesso rilevantissimo di scelte, in fatto di rapporti fra uomo e beni, la esperienza medioevale aveva compiuto. Il modello filosofico chiedeva al giurista la costruzione di una proprietà rigorosamente individuale, pensata come situazione al massimo grado indipendente e piena, di possibile assolutezza (…), il più possibile monolitica, il più possibile stabile. E premeva sul giurista per 129 Una concezione siffatta della proprietà e dei beni riceve la sua prima definizione nel Codice civile francese del 1804, dal quale venne poi recepita nella legislazione e nell’esperienza giuridica del regno delle Due Sicilie. Nonostante il Codice non individuasse i monumenti, le opere d’arte e altri beni culturali in genere da sottoporre al regime di tutela, qualche considerazione può essere fatta con riferimento specifico agli art. 462, 469 e 477435. L’art. 462 c.c. 1° comma affermava che “ i proprietari hanno libera facoltà a disporre dei beni che loro appartengono, colle modificazioni stabilite dalla legge”. La disposizione del precedente articolo assumeva, con l’art. 469, una connotazione rinforzata, stabilendo che “la proprietà è il diritto di disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o da regolamenti”. Si affermava, quindi, in linea generale, il pieno diritto di proprietà sulle cose possedute, a condizione che tale facoltà non fosse in contrasto con la previsione di atti normativi primari o secondari, cui era demandato il compito di individuare il perimetro delle libertà, obblighi e vincoli. L’art. 477, infine, affermava il diritto di proprietà su suoli e sottosuoli. Si tratta di previsioni importanti in quanto si assoggettavano i beni immobili ai mutui servigi da cui scaturivano diritti ed obbligazioni conseguenti. In particolare il 3° comma affermava che il proprietario “può fare al di sotto (del suolo) tutte le costruzioni e scavamenti che crederà a proposito, a trarre da questi i prodotti che en pervengono; salve le modificazioni risultanti dalle leggi e dai regolamenti relativi alle miniere e dalle leggi di polizia”436. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una prescrizione di tipo negativo con espresso rinvio a norme positive. Il Codice, in definitiva, non specificava sempre i contenuti delle situazioni giuridiche oggetto di tutela, come avviene nelle orientarlo in due direzioni tecniche ben precisate: da un lato, costruzione della proprietà come situazione qualitativamente, intrinsecamente diversa, dal restante fascio dei diritti reali; dall’altro, e conseguentemente, separazione concettuale fra quella e questi, con la tendenza marcata a fare anzi di quella e di questi una sorta di dati antitetici, in un vero e proprio rapporto d’opposizione di carattere squisitamente logico. Il ceto dei giuristi non rispose all’appello: certamente non sul piano della riflessione scientifica, ma nemmeno interamente sul piano della legislazione, su cui le incertezze dottrinali ebbero il loro peso. 435 R. Di Costanzo, Tutela giuridica di beni artistici e proprietà privata nel Mezzogiorno preunitario, Atti del convegno di studi, “Beni culturali a Napoli nell’Ottocento”, Napoli, 1997, p. 56 ss. 436 Ibidem. 130 sistemazioni giuridiche successive. Le prescrizioni erano in negativo perché, il principio individualistico del pubblico interesse spettava al legislatore, cioè al re, che ne era il supremo garante e la personificazione, oltre che la fonte stessa dei diritti riconosciuti dalla legge dello Stato. Secondo il giurista francese Jean S. M. Portalis, “spetta al cittadino la proprietà, e l’impero al monarca: tale è la massima di tutti i tempi”437. In realtà, su tale formulazione non tutti giuristi erano d’accordo. Alcuni ritenevano che l’affermazione del Portalis manifestasse una “vera contraddizione: ché la Sovranità non includesse un vero dominio eminente sulle proprietà de’ sudditi, neppure l’utilità pubblica darebbe giammai al Sovrano quel diritto di disporre delle proprietà medesime, (…) che ove il sovrano mancasse di quell’eminente dominio, mancherebbe quel potere necessario alla sanzione di molte leggi civili, alcune delle quali suppongono essenzialmente nel legislatore il dominio eminente di tutte le proprietà esistenti nello Stato, come sarebbero le leggi dell’usucapione, le leggi delle prescrizioni, le leggi di successione, ecc”438. A questa seconda valutazione di tale diritto si allineava, ad esempio, il comportamento di Ferdinando I con il decreto del 1816 in base al quale acquisì al patrimonio privato borbonico i monumenti di antichità e arte439 progressivamente trasportati nel Museo, comprensivi di beni di diversa provenienza ivi depositati durante il Decennio francese440. 437 Ibidem. Considerazione tratta da, J. G. Locré de Boisses, Legislazione civile commerciale e criminale, Napoli, 1841, vol. IV, p. 109. 439 E’ opportuno sottolineare che già in questo periodo è da ritenersi fortemente innovativa la dizione “monumenti di antichità e arte” spesso ricorrente nella documentazione. Essa, difatti, implica e sottolinea il principio secondo cui gli oggetti della tutela legislativa non sono soltanto opere di pregio artistico, ma tutto ciò che è frutto della cultura, della religione e della civiltà dei popoli che hanno resistito all’usura del tempo. 440 Sul Museo, e in particolar modo sul r. d. del 1816, si sono molto soffermati sia P. D’Alconzo sia A. Milanese i cui contributi sono entrambi inseriti nel volume “Musei, tutela e legislazione dei beni culturali a Napoli tra ‘700 e ‘800”, Napoli, 1995. Le disposizioni contenute nel decreto del 22 febbraio 1816, distinguono la dimensione giuridica dei monumenti che devono essere considerati di esclusiva proprietà privata del re da tutto ciò che appartiene ai beni della corona. Questi ultimi, per definizione e prassi, in alcun modo appartengono ad un regime privatistico fecente capo alla persona del sovrano. La distinzione, peraltro, è nella ratio stessa del provvedimento, poiché se in linea di diritto vi fosse identità tra le due fattispecie essa sarebbe del tutto ridondante. Va precisato, invece, che i beni della corona altro non sono che beni facenti parte del demanio pubblico dello Stato, da esso separati e distaccati per le necessità e lo splendore del 438 131 Appare ovvio che la competenza del re sulla materia di antichità e belle arti aveva natura ordinamentale ed il Codice rinviava ad esso in qualità di detentore del potere legislativo ed esecutivo. A ciò si aggiunse che le opere d’arte fin dal Settecento assunsero carattere di assoluta preminenza441, intendendosi con ciò che i Borbone individuarono in essi caratteristiche di bene di interesse nazionale. La tutela giuridica dei monumenti di antichità e arte nacque dall’intento di preservare quei valori ritenuti essenziali ad un bene riconosciuto come tale. Essa manifestava i suoi effetti con mezzi preventivi e repressivi, determinando il divieto a non procedere ad una certa cosa nonché la piena osservanza di procedure e obblighi da esse prescritte. Diverse prescrizioni negative, dunque, che investivano non solo i proprietari, ma anche eventuali possessori, a qualsiasi titolo, dei beni. In questo senso la legislazione di settore puntualizzava ed integrava le disposizioni del Codice Civile. Tale legislazione, peraltro, lungi dall’avere caratteristiche organiche, era costituita da norme emanate a più riprese e con contenuti che di volta in volta assumevano caratteristiche rinforzate rispetto alle precedenti statuizioni. Il carattere quasi generale era quello di impedire ai privati la rimozione dal sito naturale, l’esportazione e la vendita all’estero di qualsiasi oggetto d’arte, anche quando il governo non poteva comprarli per sé, limitando questa facoltà per quei soli capi ritenuti di minore pregio e interesse storico o artistico. Di particolare importanza sono i regi decreti del 15 settembre 1806 e 7 agosto 1809 concernenti la tutela delle opere d’arte dei monasteri soppressi, di cui si ordinò l’immediata inventariazione avente carattere cautelativo e di accertamento probatorio, onde evitare l’illegale depauperamento di quell’ingente patrimonio, artistico e non442. Ad un fine identico, ma basato su presupposti giuridici diversi, mirava il r. d. del 3 giugno 1811, in quanto il provvedimento vietava espressamente l’asportazione o vendita d qualsiasi oggetto d’arte sito nelle chiese e nei monasteri non soppressi (art. 1), oltre che alle cappelle di patronato privato trono. Su questi beni il re esercita i diritti dell’usuario, e dell’usufruttuario e talvolta anche diritti eccedenti dovuti alla natura assolutistica del potere di cui è titolare. 441 P. D’Alconzo, La prima legislazione di tutela dei beni culturali, Napoli, 1995, p. 57. 442 Ibidem. 132 (art. 2). In questo secondo caso, la normativa modificava la proprietà privata secondo i principi precedentemente esposti, assoggettandola al regime di servitù monumentale. Il divieto espresso nell’art. 1,relativo alle chiese non devolute al regio demanio, si ispirava ai principi della demanialità, dato che le cose sacre degli edifici conservati alla destinazione di culto erano deputate all’uso pubblico e per tal motivo rese non commerciabili443. Il divieto, dunque, era volto ad impedire l’alienazione o l’appropriazione illegittima di cosa sacra anche se no di appartenenza diretta allo Stato. La materia degli scavi era oggetto di alcuni importanti provvedimenti; il r.d. del 7 aprile 1807 ordinò la sospensione di tutti gli scavi, sia per conto del re sia d’iniziativa privata, fino ad una nuova regolamentazione dell’intero settore, la cui stesura fu demandata al soprintendente dell’Accademia di storia e antichità. La normativa venne pubblicata, il 15 febbraio 1808, con riferimento esclusivo agli scavi eseguiti per iniziativa privata. I punti principali del provvedimento erano i seguenti: autorizzazione preventiva del Ministero dell’interno; descrizione del sito sottoposto ad operazioni di scavo ed autorizzazione del proprietario legittimo, nel caso in cui il petizionario fosse usufruttuario o semplice ricercatore; comunicazione dell’autorizzazione all’Intendente competente per territorio ed al Soprintendente generale degli scavi, al quale spetta il compito di nominare una persona di fiducia per il controllo della regolarità delle operazioni; rapporto mensile dei sorveglianti al Ministro dell’interno ed all’Accademia di storia e antichità, il cui compito era valutare quali oggetti avrebbero potuto restare nella libera disponibilità dei privati, quali acquistare per i Musei reali; confisca, ai sensi dell’art. 7, in caso di scavi effettuati illegalmente o di tentata esportazione senza reale permesso in violazione dell’art. 3 del r. d. 7 aprile 1807. Queste disposizioni vennero successivamente confermate con i provvedimenti emanati il 13 e 14 maggio 1822 da Ferdinando I, i cui contenuti non si distaccavano molto dalla normativa precedente se non per i seguenti aspetti pur rilevanti sul piano sostanziale: estensione del divieto di cui ai precedenti decreti 7 aprile 1807 e 3 giugno 1811 anche agli edifici pubblici; estensione 443 Ibidem, p. 59 133 ai fondi privati del divieto di demolizione o degradazione di monumenti; proibizione relativa a all’esportazione di qualsiasi capo monumentale o artistico senza permesso, con autorizzazione limitata alle sole opere ritenute di scarso interesse ai fini del “decoro della Nazione”; il permesso all’esportazione sarebbe stato concesso dal Sovrano coadiuvato da una commissione ad hoc (Commissione di antichità e belle arti)444. In particolare con decreto del 14 maggio dello stesso anno si provvide a definire il regolamento di attuazione i cui punti salienti erano i seguenti: in primo luogo la richiesta, dei rr. dd. 20 giugno e 10 luglio 1822, doveva essere al Ministero di Casa Reale, nelle cui attribuzioni è passata l’intera materia, e la relativa autorizzazione concessa dal re; doppio regime di sorveglianza sia da parte dei sindaci, su incarico dell’Intendente della provincia, sia da un ispettore nominato dal direttore del Real Museo tra persone di sua fiducia oppure tra i soci dell’Accademia ercolanese; attestato legale di proprietà del fondo o autorizzazione concessa dai proprietari ad usufruttuari; in caso di scoperta di monumenti, statue, iscrizioni vigeva l’obbligo di notifica a carico dell’inventore al sindaco entro tre giorni; immediato rapporto degli incaricati alla sorveglianza ai rispettivi committenti; obbligo di consegna dei beni monumentali preso gli inventori, ai quali era vietata la libertà di disposizione, compresi eventuali lavori di restauro, senza preventiva autorizzazione sovrana445. Va anche notato, che “qualunque sia il merito degli oggetti rinvenuti, essi erano considerati a tutti gli effetti come proprietà degli inventori”446. La determinazione su questo punto si diversifica dal regolamento del 1808, con la quale si era stabilito che in base al merito degli oggetti scavati, l’Accademia di storia e di antichità avrebbe stabilito quali beni sarebbero rimasti nella libera disposizione dei proprietari e quali da “riguardare come conducenti alla istruzione e al decoro nazionale”, assoggettandoli a disposizioni conseguenti. 444 Ibidem, p. 60. Ibidem. 446 Ibidem. 445 134 Si prevedeva, infine, la confisca dei beni in caso di contravvenzione a ciascuna delle norme descritte, oppure una multa nel caso di loro scomparsa. Tali disposizioni furono integrate dalla circolare del Ministro di casa reale del 22 settembre 1824, in base alla quale la sorveglianza sugli scavi doveva essere esercitata anche dagli agenti di polizia “né quali si abbia maggior fiducia”447. Analogamente alle prammatiche borboniche del XVIII secolo, anche i decreti di Ferdinando I erano ispirati alla legislazione pontificia, con specifico riferimento all’Editto Pacca,448 emanato il 7 aprile 1820, sotto il pontificato di Pio VII, dal cardinale camerlengo, il beneventano Bartolomeo Pacca, rappresentando la prima disciplina organica di tutela, ispiratrice e modello per la legislazione degli altri stati e, successivamente, per quella nazionale. Esso prevedeva l’obbligo di denunciare e descrivere alla Commissione di belle arti tutti gli oggetti di antichità e d’arte che si trovavano nelle chiese o in qualunque stabilimento ecclesiastico o secolare, in modo da consentirne la catalogazione; disponeva una serie di vincoli e controlli per la conservazione, il restauro e la circolazione degli stessi oggetti, distinguendo quelli di “singolare e famoso pregio per l’arte e per l’erudizione” (che potevano essere alienati solo all’interno dello Stato e previa licenza) da quelli non ritenuti “necessari o di sommo riguardo per il Governo” (dei quali comunque doveva essere denunciata l’alienazione, pena la confisca, ed è vietata l’esportazione senza una licenza comportante un dazio del 20% del valore sul mercato), e dettava anche una prima disciplina degli scavi. Sull’osservanza di tali norme era deputato a vigilare, mediante visite annuali, l’Ispettorato delle Antichità e Belle Arti449. Nel successivo seppur breve regno di Francesco I di Borbone (1825 – 1830), si ebbe, grazie anche all’interessamento personale del sovrano, una ripresa delle campagne di scavo, stanziando, nel 1828, la somma annua di 2.000 ducati450. Poco dopo, ad opera del ministro Ruffo, fu redatto un progetto di 447 Ibidem. D. Mastrangelo, Dall’Editto Pacca al Codice Urbani. Breve storia della normativa sui beni culturali, Roma, 2005, p. 11. 449 A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni culturali degli antichi stati italiani, 1571 – 1860, Bologna, 1978, p. 60. 450 ASN, Ministero Affari Interni, I inv. Busta 1002, Rapporti sul procedere degli scavi di Pompei. 448 135 legge sul Real Museo Borbonico e sugli scavi, che avrebbe dovuto completare e migliorare la precedente legislazione borbonica. Il progetto fu trasmesso dal ministro all’Accademia ercolanese, ed esaminato da una commissione composta dal presidente C. M. Rosini, dal direttore del Museo e soprintendente generale degli scavi del Regno M. Arditi. Tale progetto è stato rinvenuto presso la Società Napoletana di Storia Patria451. Qui di seguito riporterò il testo, assai interessante per la novità di una gestione, in qualche misura collegiale del Museo e degli scavi, strettamente collegata alle istituzioni accademiche: “Francesco Primo” Volendo dare al Nostro Real Museo Borbonico una conveniente organizzazione: Art. 1°. Istituiamo nella dipendenza della R. Segreteria, e Ministero di Stato di Casa Reale una Sopraintendenza generale del Nostro Museo Reale Borbonico, composta da un Sopraintendente, da quattro individui, e da un Segretario nominati da noi sulla proposizione che ce ne farà il nostro Ministro Segretario di Stato di Casa Reale fra’ socii ordinarii, ovvero onorarii dell’Accademia Ercolanese di Archeologia, e di quella di belle arti. Art. 2°. Ad eccezione del Sopraintendente e del Segretario, tutti gli individui della Sopraintendenza eserciteranno le loro funzioni per un solo biennio, scorso il quale verranno rimpiazzati da altri, tanti socii di dette Accademie che ci riserbiamo di nominare anche sulla proposizione dello stesso Nostro Ministro Segretario di Stato di Casa Reale. Art. 3°. Il Segretario avrà alla sua immediazione due Aiutanti. E saranno addetti al servizio della Sopraintendenza un usciere, ed un barandiere. Art. 4°. Tutti i monumenti di antichità e di belle arti che attualmente esistono nel Reale Palazzo degli studi, quelli che verranno quivi trasportati dal Museo Ercolanese di Portici, gli oggetti tutti che si troveranno negli scavi di Pompei, ed in generale tutti gli altri dei quali crederanno ordinare l’acquisto coi fondi all’uopo destinati costituiranno il Nostro Museo Reale Borbonico, la cui 451 Società Napoletana di Storia Patria, Fondo Cuomo, 2.4.19 e 2.4.21. 136 superiore vigilanza vogliamo che resti affidata alla nuova Sopraintendenza generale, nelle attribuzioni della quale passeranno eziandio gli scavi di Pompei, le antichità del regno, non che la sorveglianza sugli scavi in generale. Art. 5°. In conseguenza vogliamo che siano da ora innanzi trasfuse nella Sopraintendenza generale le attuali attribuzioni del Direttore del Museo Sopraintendente degli scavi le incombenze finora date all’Accademia Ercolanese di Archeologia, ed all’Accademia delle belle arti per affari relativi al Museo suddetto, e quelle affidate alla Commissione per restauro degli antichi edificii di Pompei, ed all’altra Commissione incaricata di esaminare gli oggetti di antichità e belle arti di proprietà particolare che si vogliono esportare dal regno; restando da questo momento soppresse tanto la carica di Direttore del Real Museo, quanto le suddivisate Commissioni, e rivocate le disposizioni per le altre incombenze relative a detto Museo, di tempo in tempo affidate alle Accademie. Art. 6°. All’immediazione della Sopraintendenza generale vi sarà una Commissione incaricata di dar parere sopra tutte le restaurazioni che occorreranno farsi sia negli antichi edificii di Pompei, che su quadri, sulle statue, ed altre sculture, su vasi fittili, e di bronzo, e sopra ogni altro antico monumento del Real Museo. Siffatta Commissione sarà presieduta da uno dei due membri della Sopraintendenza generale appartenenti all’Accademia Ercolanese che Noi destineremo, cioè da due Architetti, da due Pittori e da due Scultori che nomineremo tra socii ordinarii, ovvero onorarii dell’Accademia di belle arti, e tra Professori del Real Istituto. L’Architetto più giovine farà da Segretario presso la Commissione, la quale si corrisponderà direttamente colla Sopraintendenza. Le funzioni di tutti gli individui componenti la Commissione medesima saranno limitate ad un biennio, scorso il quale verranno rimpiazzati da altri tanti che sceglieranno nello stesso modo. Art. 7°. Per lo servizio del M. R. Borbonico vi saranno i seguenti impiegati, cioè Un Custode maggiore 137 Otto Custodi Due Custodi aiutanti Due Portinai Due Facchini Due Ordinanze. Vi saranno inoltre per la esattezza maggiore del servizio, e per soddisfare ancora la curiosità degli Amatori che visiteranno lo stabilimento, cinque Dimostratori con un aiutante. Uno pei monumenti Egiziani, Etruschi, Volschi, e Greco – antichi, e per le iscrizioni. Un altro per gli utensili di bronzo e pei vasi fittili, e di vetro. Il terzo per le monete, e medaglie, e per gli oggetti preziosi. Il quarto per le statue. Il quinto pe’ quadri, e per le dipinture a fresco provenienti da Ercolano e da Pompei, avvalendosi per queste dell’opera dell’aiutante. Art. 8. I Dimostratori e l’aiutante saranno scelti per concorso, ed il loro esame verserà sulle conoscenze relative a qual ramo cui appartengono, e dovranno inoltre conoscere tra le lingue estere, almeno la francese, sulla quale caderà eziandio l’esame. Art. 9. Vi sarà un Architetto coll’incarico di tutti i lavori che occorreranno nelle parti del R. Palazzo degli studii, e né monumenti di antichità che sono fra le attribuzioni della Soprintendenza generale, dalla quale dovrà egli dipendere. Art. 10. Saranno addetti al R. Museo sotto gli ordini della Sopraintendenza generale un costruttore di modelli in sughero e dieci restauratori, cioè sei pe’ quadri, uno per le statue, uno pe’ vasi fittili, uno pe’ vasi ed altri utensili di bronzo, ed un altro pe’ mosaici. I medesimi non avranno soldo fisso, ma verranno volta per volta compensati in proporzione del loro lavoro. Art. 11. Per regolare l’Orologio del R. Palazzo degli studii, vi sarà un Orologiaio. Art. 12. Pel ramo degli scavi di Pompei vi saranno Un Architetto Direttore 138 Due Disegnatori Tre Sovrastanti Quattro Custodi Art. 13. Vi sarà un Custode per le antichità esistenti in Ercolano. Uno pel tempio di Se rapide in Pozzuoli. Un altro per l’Anfiteatro Campano, e l’altro per le antichità di Pesto. Art. 14. Tutti gli altri impieghi non compresi nel presente decreto rimangono da questo momento soppressi. Art. 15. I soldi de’ diversi impiegati della Sopraintendenza generale del Real Museo Borbonico saranno i seguenti. Art. 16. Gli individui componenti la Sopraintendenza ed il Segretario che han soldo, avranno un gettone di presenza consistente in una medaglia del valore di ducati tre tutte le volte che interverranno nelle sessioni. Il Sopraintendente nell’inviare al Ministro di Casa Reale la copia de’ processi verbali di dette sessioni, farà conoscere i nomi di coloro che vi saranno intervenuti, per disporsene a di loro favore il pagamento. Art. 17. L’annesso regolamento, col quale sono determinate le attribuzioni ed i doveri della Sopraintendenza generale, del Sopraintendente, della Commissione de’ restauri, e di tutti gli impiegati nel nostro Real Museo e sue dipendenze, è da Noi approvato. Riporto anche il testo delle osservazioni fatte dalla Commissione sul progetto di legge: “Articolo 2. La Commissione è di avviso che il Soprintendente debba presiedere esso stesso la Commissione de’ restauri. E’ indispensabile che il Sopraintendente in vigili con massima attenzione su questa parte importante del servizio del Real Museo, e che richiami sempre la Commissione de’ restauri ai principii ed alle norme che si saranno una volta giudicate le più opportune. Quindi sembra più regolare far presiedere la Commissione de’ restauri dal Sopraintendente che è sempre lo stesso, piuttosto che da uno degli individui della Sopraintendenza, che sono variabili. 139 Oltre a ciò la Commissione crede per le ragioni addotte sotto l’articolo 2 che convenga anche riserbarsi la facoltà di confermare dopo il biennio o tutti o parte degli individui componenti la commissione de’ restauri. Art. 7. La Commissione crede che il numero di otto custodi non possa essere sufficiente al servizio del Real Museo, ma che convenga estenderlo a nove. Infatti coll’articolo 2 del regolamento si stabilisce un solo custode, per le iscrizioni, e per gli affreschi Ercolanesi e Pompeiani mentre queste due collezioni esigono indispensabilmente due distinti custodi. Nulla può essere più facile, quanto il trovarsi contemporaneamente visitata si l’una che l’altra di queste collezioni, e allora se esse non avessero che un solo custode mancherebbe la necessaria assistenza. Il numero poi de’ custodi aiutanti sembra alla Commissione doversi ancora portare almeno a quattro. Uno infatti è necessario per la collezione delle statue, e particolarmente per invigilare su coloro che vi disegnano, o vi dipingono, si per servire di guida a curiosi, e badare che non rechino guasto alcuno. Il quarto aiutante deve essere addetto ad alcune delle altre collezioni che si vedrà colla esperienza averne maggiore bisogno. La Commissione ha creduto ancora, che il nome dei dimostratori istituiti con questo articolo possa combinarsi in quello che sembra più decoroso e proprio di Ispettori, giacché l’uso della voce di dimostratori sembra averla limitata alle osservazioni anatomiche, ed a coloro che ne professano la scienza. Sull’art. 10 la Commissione crede potersi usare la voce più propria di modelli architettonici in vece di quella di modelli in sughero. Infatti la materia onde i modelli architettonici sono composti puote essere ed è sovente dal sughero diversa. Crede ancora la Commissione non essere necessario fissare il numero dei restauratori da adoperarsi potendo esser questo maggiore o minore secondo le occorrenze de’ lavori da eseguirsi. Quando poi si dovesse il numero stabilire, sembra poco proporzionato quello di sei pe’ soli quadri, mentre un solo se ne stabilisce su ciascuna delle altre collezioni, che hanno bisogno di restauri. Art. 12. Parlandosi in questo articolo de’ Soprastanti e de’ Custodi di Pompei, la Commissione è di avviso che si aggiungano a’ medesimi per eseguire la 140 custodia in tutti i punti colla massima possibile esattezza, un determinato numero di ordinanze, che si dovrebbero stabilire in Pompei, prendendole tra più probi veterani, e mettendole sotto gli ordini e le dipendenze dell’Architetto Direttore. In tal modo e con lieve spesa, si avrebbe una custodia attiva ed efficace che è impossibile sperare co’ semplici soprastanti e custodi di cui questo articolo ragione. E’ inutile il trattenersi a dimostrare di quanta importanza sia quest’oggetto, e quanto meriti di essere preso nella più seria considerazione. Art. 16. Sembra che la Commissione de’ restauri nelle sue adunanze ottener debba lo stesso gettone, che si attribuisce alla Sopraintendenza. Se le funzioni della Commissione fossero gratuite, è da creder che poco si interesserebbero i componenti a disimpegnarle con zelo e attenzione. Inoltre il gettone dovrebbe anche darsi sia alla Soprintendenza, sia alla Commissione de’ restauri tutte le volte che esse si recano in Pompei”. Non può dirsi che il disegno di legge fosse particolarmente avanzato: infatti in esso si ribadisce la proprietà reale privata (allodiale) delle collezioni. Significativo era l’istituzionalizzazione della Commissione per i restauri, incaricata di controllare la metodologia e la qualità dei restauri. Nello stesso momento, fu stilato un dettagliato regolamento sia per il Real Museo Borbonico, che per gli scavi, di cui di seguito riporterò solo gli articoli più interessanti riguardanti la gestione degli scavi452. 452 ASN, Ministero Affari Interni, I inv. Busta 1002, Rapporti sul procedere degli scavi di Pompei Questo progetto fu ripreso dalla Commissione per le riforme del museo e degli scavi di antichità, insediata nel 1848. 141 Estratto dal regolamento approvato nel 1828 Cap. 13 Metodo da tenersi per gli scavi di Pompei Art. 92. il cavamento dell’antica città di Pompei dovrà procedere coll’ordine costante, che le strade principali siano sgombrate a preferenza delle strade minori. Art. 93. Se l’apparenza di qualche edifizio cospicuo suggerirà l’espediente che si disterri a preferenza della strada principale, il Soprintendente col parere della Soprintendenza ne farà rapporto al Ministero per le superiori determinazioni. Intanto qualora si creda necessario che le aperture delle case sporgenti alla strada siano custodite con tavole fino a che siano disterrate, l’Architetto Direttore presi gli ordini della Soprintendenza ne darà i provvedimenti. Art. 94. L’appaltatore dello scavo è immediatamente soggetto all’Architetto Direttore il quale praticherà le seguenti diligenze. Art. 95. Se degli antichi edifizii appariscono tracce, ne farà il disegno onde serva per notizia dalla soprintendenza, e dall’Accademia Ercolanese, come pure disegnerà le impronte delle antiche imposte di legno distrutte dal tempo. Dovrà parimenti disegnare, e fare un’esatta annotazione delle parti distaccate degli edifizii, come sono i vani delle porte e finestre, i buchi dove erano fitti i legnami, i pezzi ancora esistenti de’ legnami stessi, e cose simili. Art. 96. Qualunque muro di quegli antichi edifizii non si dovrà altrimenti scavare, se non da ambo le facce, in pari tempo, e gradatamente, onde non vada a crollare. Art. 97. Apparendo pitture sulle pareti, lo scavo si farà con tale diligenza che non soffrano detrimento. Lo stesso si farà ove appariscano capitelli, colonne, cornici, statue, utensili di qualunque materia, ed altro. Art. 98. Le pitture saranno immediatamente cautelate affinché l’aria non le alteri prima di disegnarsi, a quale effetto vi si adopererà la vernice inventata dal Pittore Signor Celestino colle istruzioni all’uopo suggerite dall’Accademia di belle arti, e da Sua Maestà già approvate; ed oltre a ciò, qualora compariscano alla luce pitture di molto merito, e che per tali siano 142 giudicate dall’Architetto Direttore e dalla Soprintendenza in questo caso si aggiungerà alla indicata cautela quella di coprirsi con lastra di cristallo entro una cornice di metallo ben attaccata all’intonaco della parete. Se poi avvenga che se ne scoprano di quelle di singolare e straordinario merito, la Soprintendenza inteso l’Architetto Direttore, e la Commissione de’ restauri proporrà che siano tagliate e trasferite al Real Museo, indicando la spesa, ed attendendo la sovrana risoluzione per farla eseguire. Art. 99. Le pitture oscene saranno subito coverte, oppure tagliate ed inviate al Museo. Tutte le altre poi saranno prontamente copiate prima a contorni, e poi a colore, e se potranno rimanere sulle pareti senza pericolo che si perdano, vi si lasceranno, in caso contrario si taglieranno pure, e si porteranno nel Museo colle regole di sopra stabilite. Art. 100. Qualunque frammento di iscrizione sarà diligentemente raccolto, indicando il sito ove è stato trovato, e ricercandone con esattezza ogni piccola parte. Le iscrizioni dipinte e segnate sulle pareti saranno immediatamente disegnate, e l’Architetto Direttore ne farà le copie per inviarle al Ministro ed alla Soprintendenza, come si dirà a suo luogo. Art. 101. All’atto dello serramento i soprastanti registreranno in un libro all’uopo destinato tutti gli oggetti che si troveranno indicandone la materia, e la forma. Questo libro verrà da essi soscritto in ciascun giorno, e dal medesimo verrà estratto il notamento, che anche con la loro firma si passerà all’Architetto Direttore. Intanto gli oggetti rimarranno affidati alla loro solidale responsabilità, e saranno riposti momentaneamente in un magazzino all’uopo destinato. L’Architetto Direttore riscontrerà, e verificherà l’esistenza di tali oggetti col registro, e vi apporrà il suo visto. Passerà poi una copia della nota al Ministro di Casa Reale, ed un’altra alla Soprintendenza del Museo. Art. 102. Le ceneri intorno agli scheletri saranno con maggior diligenza ricercate e crivellate, onde non perdersi le monete, le gemme, e gli altri antichi ornamenti che spesso vi si trovano d’intorno. La stessa diligenza praticherà l’Architetto Direttore tutte le volte che lo stimi a proposito prima che le ceneri si gettino fuori la città. 143 Art. 103. Tutte le sere terminato il travaglio si diliginzieranno gli operai per assicurarsi che non abbiansi appropriato qualche oggetto, e trovandosene qualcuno colpevole, sarà arrestato da’ Veterani, e tradotto al Giudice competente, cui l’Architetto Direttore farà rapporto dell’accaduto. Art. 108. Di tutti i rapporti che il Ministro riceverà dall’Architetto Direttore, ne farà consapevole l’Accademia Ercolanese, e questa dandone riscontro, spiegherà se degli oggetti nuovamente scoverti, si dovrà far supplemento ai volumi già pubblicati dell’opera di Ercolano, se saranno destinati a nuovi volumi o se basterà darne semplice notizia per l’opera della pubblicazione del Real Museo. Art. 109. Niun impiegato, e niun’altra persona potrà pubblicare come che sia le scoverte che si faranno negli scavi di regio conto. Cap. 14 Sistema da tenersi per la manutenzione e restaurazione degli antichi edifizii di Pompei. Art. 110. Al momento stesso che si scopriranno muri antichi, si dovrà fare sugli estremi un intonaco per evitare le degradazioni che potrebbero derivare filtrandosi le acque. Si dovranno eltram diligentemente fermare con grappe di ferro a punta aguzza gli antichi intonachi dipinti, e non dipinti qualora non si trovino ben attaccati a’ muri, onde non vadano in rovina. L’Architetto Direttore ne esaminerà lo stato, e calcolata la spesa occorrente, domanderà al Ministro di Casa Reale l’autorizzazione per farla eseguire. Ne farà però contemporaneamente rapporto alla Sopraintendenza. Art. 111. Resta definito per regola generale che di tutti i rapporti che l’Architetto Direttore invierà alla Sopraintendenza, e che in qualunque modo riguarderanno lavori da farsi per riparazioni, o restaurazioni degli antichi edifici di Pompei, se ne dovranno dalla Soprintendenza inviare le copie alla Commissione dei restauri, onde la medesima sia in grado di conoscere tutto l’andamento del servizio, e presentare alla medesima il suo ragionevole parere per le restaurazioni da farvisi. Art. 112. Subito che verrà di sterrato tutto parte di qualche antico edificio, dovrà l’Architetto Direttore osservare, se abbia bisogno di pronte ed urgenti 144 riparazioni, o pure di restaurazioni. Le riparazioni urgenti hanno per oggetto di non far crollare i muri, e altre parti di antichi edificii, applicandovi i puntelli, e adoperandovi gli altri mezzi dell’arte, e queste riparazioni saranno interamente affidate alla cura e diligenza di esso Direttore, il quale solo ne rimane responsabile, essendo autorizzato a fare per questa parte ciò che crederà opportuno, dandone però immediatamente conto al Ministro ed alla Soprintendenza. Art. 113. Le restaurazioni poi che si distinguono in piccole, ed importanti. Le piccole consistono nel rifare qualche piccola parte di muro, e nel rimettere a suo luogo i pezzi smessi, e distaccati. Le importanti nel ricostruire qualche porzione di antico edificio, nel rifare le coperture, e simili. Art. 114. Niuna delle restaurazioni sian piccole, siano importanti potrà eseguirsi, se prima la Commissione de’ restauri non avrà dato il suo parere, e sia stato questo esaminato, e discusso dalla Soprintendenza, e quindi superiormente approvato. In conseguenza l’Architetto Direttore farà conoscere alla Soprintendenza medesima con suo motivato rapporto le restaurazioni da eseguirsi, unendovi le piante, i disegni e le annotazioni indicate nell’art. 95. La Soprintendenza passerà le carte alla Commissione de’ restauri, incaricandola di farne l’esame, e proporne l’occorrente. La Commissione distinguerà le piccole restaurazioni dalle importanti, e presenterà alla Soprintendenza il suo parere nel modo indicato nell’art. 71. La Soprintendenza lo discuterà, e lo rassegnerà al Ministro, il quale disporrà l’esecuzione delle piccole restaurazioni, e prenderà gli ordini di S. M., perché si eseguano quelle di importanza. Art. 115. Le statue di buona scultura, che si trovano a Pompei, saranno trasportate al Museo, e ne saranno tirati gli esemplari in gesso per collocarsi nello stesso sito degli originali. Quelle di un merito inferiore rimarranno colà. Lo stesso si praticherà per le iscrizioni, facendo eseguire la copia di quelle che interessano le collezioni del Real Museo, per riporsi nel sito dell’originale. E tutte le altre che non si crederà di farle passare al Museo, per riporsi nel sito dell’originale. E tutte le altre che non si crederà di farle passare al Museo, resteranno ove si trovano. 145 Art. 116. Nell’autunno di ciascun anno si dovranno coprire i pavimenti di mosaico e di marmo, e si dovranno oziando cautelare con maggior diligenza le pitture, onde preservare gli uni, e le altre da qualunque degradazione. Cap. 15 Dell’Architetto Direttore Art. 118. L’Architetto Direttore avrà la sua abitazione permanete a Pompei, e fino a che non sarà preparato un conveniente locale, che la Soprintendenza dovrà proporre nel più breve termine, dimorerà nella Torre dell’Annunziata, affinché in tutti i giorni ne’ quali si travaglia al casamento, vi si possa recare prontamente per l’esatto disimpegno dei doveri della sua carica. Art. 119. Oltre le obbligazioni, delle quali si è fatta parola nei due precedenti capitoli, dovrà l’Architetto Direttore compilare, e rimettere al Ministro di Casa Reale un giornale periodico relativo agli scavi, descrivendo, ed illustrando per quanto sarà possibile tutti gli oggetti che vi si troveranno. Art. 120. Dovrà inoltre levar la pianta esatta degli edifizii scoverti, e di quelli che vanno a scoprirsi, e queste ridotte a dimensioni minori, si aggiungeranno alla pianta di tutta la città, di cui si terranno sempre pronti gli esemplari in contorno. Di tali piante in dimensione maggiore invierà le copie al Ministro di Casa Reale, e alla Soprintendenza del Real Museo. Art. 121. Alla fine di ciascun mese farà la misura dei lavori eseguiti nel corso del medesimo colla indicazione dell’importo di essi, secondo i prezzi del contratto, e ne rilascerà a favore del Partitario il certificato, e questo insieme colla misura sarà inviato al Soprintendente, il quale munito col suo visto buono, lo rimetterà al Ministro pel pagamento corrispondente. Art. 123. Ne’ terreni del recinto di Pompei si userà dall’Architetto Direttore la più esatta diligenza onde sotto pretesto di piantarvi viti, e altri alberi non si cavi tanto che si giunga all’apice degli antichi edifizii, col pericolo di guastarsi. Art. 125. I disegnatori dovranno trarne i disegni a semplici contorni delle pitture appena che saranno disterrate, onde servire all’Accademia Ercolanese per la illustrazione delle medesime. Dovranno poi farne i disegni a colore, da incidersi per la continuazione dell’opera di Ercolano. 146 Art. 127. A misura che termineranno un disegno sia a contorni, sia a colore, lo mostreranno all’Architetto Direttore, e lo presenteranno pure al Soprintendente, da cui verrà rimesso al Ministro per inviarsi all’Accademia Ercolanese se sia a contorni, o alla Stamperia Reale se sia colorato. Gli anni successivi, fino alla caduta del regno borbonico, procedettero senza sostanziali novità riguardo agli scavi di Pompei, ad eccezione del r. d. del 16 settembre 1839, che non soltanto affidava la vigilanza alle autorità amministrative, ma subordinò al permesso ministeriale e al parere della Commissione delle antichità e belle arti, eventuali lavori di restauro o ristrutturazioni degli immobili monumentali ed opere d’arte453. Determinò, inoltre, il principio che la cura e le spese restino a carico dei rispettivi proprietari, siano essi enti pubblici, corpi morali o privati sudditi454. Il combinato disposto del r. d. del 1839 e dei rr. dd. 13 e 14 maggio 1822, ha avuto il merito di sottolineare la tutela non solo per monumenti esterni ma per tutte le parti stabilmente collegate all’immobile per destinazione, quindi statue, bassorilievi, affreschi ecc. Tuttavia, la normativa del 1839 presentava un vuoto per quel che concerneva i beni mobili dei privati rispetto ai quali nessuna prescrizione di sorta introdusse vincoli diretti a tutelare le opere d’arte. Questo grave vuoto nel tessuto normativo, è stato certamente una delle cause determinanti a far si che numerose collezioni d’arte private possano essere state esportate all’estero senza incontrare opposizione di sorta da parte dei competenti uffici doganali. Concludendo, la politica dei Borbone nei confronti degli scavi vesuviani fu altalenante: da anni di discreta e buona amministrazione, si passa a ben più lunghi periodi di crisi e di stagnazione, che contribuirono ad alimentare la cattiva fama della dinastia nella gestione della antiche città vesuviane. Solo assai tardi i ritrovamenti archeologici pompeiani diventarono patrimonio nazionale e non più proprietà privata del re. 453 454 Ibidem. Ibidem. 147 4.8. LA TUTELA DEI BENI CULTURALI DELL’ITALIA UNITA L’analisi delle disposizioni sulla tutela del patrimonio storico – artistico e paesaggistico, nell’età liberale, cioè dal 1861 fino alla fine della prima guerra mondiale, è preliminare alla disamina degli aspetti essenziali della disciplina delle “cose d’arte”, oggetto della legge 1089/39, e delle bellezze naturalistiche, previste dalla legge 1497/39. L’evoluzione giuridica del patrimonio storico – artistico – archeologico, continuò per diversi anni a far riferimento a quanto disposto dallo Statuto Albertino, quale espressione della tradizione liberale, con specifico riferimento all’art. 29: “Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili455”, confermando la libera disponibilità delle cose patrimoniali da parte dei proprietari, senza disporre alcunché in merito alla oggetti d’arte. Ciò, probabilmente, tutela degli era sintomatico di un disinteresse del legislatore nazionale verso la protezione del patrimonio artistico. Soltanto nel 1865 si registrarono i primi tentativi di normazione in materia di vigilanza e tutela delle cose d’arte; in particolare, la legge 25 giugno 1865 n. 2359 prevedeva, all’art. 83: “Ogni monumento storico o di antichità nazionale che abbia natura di immobile, e la cui conservazione pericolasse continuando ad essere posseduto da qualche corpo morale o da un privato cittadino, può essere acquistato dallo Stato, dalle province e dai comuni, in via di espropriazione per causa di pubblica utilità”456. L’estensione delle leggi italiane in particolare del codice civile del 1865, a tutti gli ex territori pontifici, fece si che venisse abolita la pratica del fedecommesso, istituto finalizzato a preservare i beni nell’ambito dei discendenti di una determinata famiglia457, e unico vincolo esistente a quel tempo per la conservazione dei musei e delle gallerie di Roma. L’esigenza di assicurare protezione all’asse storico artistico nazionale si scontrava con il radicalismo ideologico di chi, sostenendo la necessaria abolizione dei fedecommessi, abbracciava il pensiero di Carlo Armellini che, in una 455 N. Greco, Stato di cultura e gestione dei beni culturali, il Mulino, Bologna, 1980, p. 29. E. Mattaliano, Il movimento legislativo per la tutela delle cose d’interesse artistico e storico dal 1861 al 1939, in “Ricerca sui beni culturali”, vol. I, Camera dei deputati, Roma, 1975, p. 3. 457 Ibidem. 456 148 relazione al parlamento pontificio, affermò: “L’ora della libertà che suonò per le persone doveva battere altresì per le cose”458. La legge 28 giugno 1871 n. 276, risolse parzialmente il problema, stabilendo il rinvio alle leggi pre unitarie, per ciò che concerne la tutela del patrimonio culturale, pur restando sciolti i fedecommessi. La prima iniziativa legislativa per la protezione delle cose di antichità e di arte si ebbe con il progetto di legge del Ministro Correnti, presentato al Senato, nel 1872, e mai approvato. Da allora si assiste ad una tormentata vicenda legislativa in cui si manifesta la costante resistenza di quelle forze, largamente presenti in Parlamento, che si opponevano ad ogni intervento dello Stato che potesse limitare il principio libero – scambista ed i diritti dei proprietari. E’ ben chiaro, che i due strumenti della tutela, quello giuridico e quello tecnico – amministrativo, sono tra loro inscindibili e, pertanto, devono essere frutto di una visione unitaria, in assenza della quale non può ottenersi né l’effettiva applicazione della legge né l’efficiente ed utile funzionamento dell’amministrazione pubblica. Ai tempi di Fiorelli, si imponeva, perciò, un provvedimento legislativo unico e coerente che stabilisse sia i principi ed i fini, politici e culturali, della tutela del patrimonio di arte e di storia, sia gli strumenti ed i mezzi atti ad assicurare il raggiungimento dei suddetti fini e, quindi, il rispetto delle leggi. L’incapacità di pervenire ad una legislazione complessiva, nel momento in cui scriveva Fiorelli, ha prodotto danni gravissimi al patrimonio culturale presente nel nostro territorio nazionale; patrimonio che riveste rilevante interesse per il mondo intero. Gli anni della permanenza di Fiorelli al Ministero della Istruzione Pubblica (1875 – 91) sono caratterizzati in tutta Europa da una fase di ulteriore sviluppo economico ed industriale che ha i suoi riflessi anche in Italia e che produsse profonde trasformazioni di numerose, grandi, antiche città italiane, con conseguenti forti manomissioni del patrimonio artistico e con numerosi interventi di restauro459. In questo vasto e vivace scenario – in cui si muovono con forza, rilevanti interessi politici ed economici, spesso antitetici a quelli della conservazione 458 459 L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, vol. II, Roma, 1913, p. 211. F. Borsi, L’architettura dell’Unità d’Italia, Firenze, 1966, p. 95 ss. 149 dei beni culturali460 - si svolgeva, dunque, l’opera del Direttore generale Giuseppe Fiorelli, del quale le fondamentali relazioni al Ministro della Istruzione Pubblica, sono particolarmente interessanti – come vedremo – per la comprensione della cultura della conservazione in Italia, per gli anni intercorsi tra i primi tentativi normativi post unitari e la prima legge organica nazionale del 1902. 4.9. LA TUTELA NEL PENSIERO DI FIORELLI NELL’ITALIA UNITA “Per valutare con piena consapevolezza la situazione – affermava Fiorelli – occorre svolgere alcune considerazioni ed alcuni ricordi, sottolineando innanzitutto, che il Governo ha sempre rivolto speciali cure alla tutela del patrimonio archeologico ed artistico della nazione461. Anzi, è da rilevare che alcune disposizioni portano la data dei primi anni del nuovo Regno, e sono ispirate da un concetto così largo e proficuo, che si direbbero dettate oggi stesso, dopo tanti anni di prove e di ammaestramenti462”. Tuttavia, tali provvedimenti furono, spesso, emanati in condizioni di particolare urgenza o di fronte a casi eccezionali e, quindi, mancavano della necessaria organicità. D’altra parte, la situazione generale del paese, in quei primi anni dell’Italia unita, costringeva a rassegnarsi ad un programma minimo. In ogni modo, fino al 1870, si riuscì a fornire aiuti per la Sicilia, per Napoli, per le Marche, per il museo di Parma e gli scavi di Velleia. “Trasferita la capitale a Roma, fu necessario provvedere con urgenza e priorità assolute alla tutela dei monumenti della città capitale e si recò pure di tutelare i monumenti etruschi463. Né ci si limitò solo ad operare nel campo archeologico, però, si vide che bisognava pure occuparsi direttamente del restauro e della 460 G. B. Cavalcaselle, Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte e sulla riforma dell’insegnamento accademico, in “Rivista dei Comuni italiani”, Torino, 1863. 461 ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio archeologico, Relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Roma 1883, p. 6. 462 Idem, Ibidem. 463 Idem, p. 7. 150 tutela dei monumenti medioevali”464. A tale scopo, si provvide a finanziare gli interventi sulla base di progetti ben precisi. Inoltre “molti e molti altri opportunissimi provvedimenti furono dati sempre conservando il carattere speciale ed eccezionale. Per cui sempre più apparvero indispensabili altri provvedimenti di ordine superiore, per potere non solo esercitare in modo più proficuo l’azione amministrativa, ma per poter finalmente preparare gli elementi necessari alla formazione di una legge, che mettesse il Governo in grado di tutelare pienamente i diritti dello Stato, sul patrimonio archeologico e artistico della nazione”465. In questo senso è da rilevare l’importanza dell’azione svolta in Parlamento466 dall’onorevole Ruggero Borghi, nel febbraio 1875, quando venne istituita la Direzione generale dei musei e degli scavi con il compito di predisporre le strutture ed i metodi necessari per assolvere al nuovo e grande dovere, che l’amministrazione pubblica era chiamata a compiere, e cioè la tutela del patrimonio culturale dell’Italia unita467. “La Direzione Generale – afferma Fiorelli – era chiamata innanzitutto, a coordinare fra loro le funzioni dei vari istituti archeologici, sostenuti con denaro del pubblico erario468. A tale scopo fu creata, innanzitutto, una Giunta superiore per l’archeologia incaricata specialmente di ben ripartire le somme stanziate nel bilancio, che non dovevano essere assegnate soltanto a determinate e ben note zone di scavo, ma dovevano pure spendersi in altre regioni di alta importanza archeologica, troppo trascurate fino a quel tempo. E proprio allo scopo di poter abbracciare le cure di tutte le antichità del Regno”469. 464 Idem. Idem, p. 8. 466 R. A. Genovese, Restauro, in “Quaderni di restauro dei monumenti e di urbanistica dei centri antichi”, Bologna, 1992, in cui ricorda i dibattiti svoltisi nei due rami del Parlamento, in occasione della presentazione dei seguenti disegni di legge: Progetto Scialoia, 13 maggio 1872 (al Senato); progetto Coppino, 3 febbraio 1877 (al Senato); progetto de Sanctis, 2 maggio 1878 (al Senato); progetto Borghi, 8 febbraio 1875 ( alla Camera). 467 ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio archeologico, Relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Roma 1883, p. 9. 468 Idem, p. 10. 469 Idem. 465 151 La Direzione Generale fu composta da tre commissari (rispettivamente per l’Italia settentrionale, centrale e meridionale) e due commissari speciali (per la Sicilia e per la Sardegna). Data la scarsità di personale furono associati al lavoro di tali commissari, “con ufficio gratuito dei regi Ispettori degli scavi e dei monumenti, tutti quegli uomini benemeriti, che nei vari comuni o nei vari circondari avevano mostrato il più caldo amore per le antichità, e la maggior perizia nell’illustrarle.470” Il compito degli ispettori era quello di informare il Ministro di ogni ritrovamento, di controllare che non fossero eseguiti scavi non autorizzati e che quelli permessi fossero eseguiti “col più rigoroso metodo scientifico, compilando il giornale dello scavo, ed esigendo la esatta custodia delle cose trovate”471, onde consentire alla Stato di esercitare il diritto di prelazione. Inoltre, per evitare che molte zone del paese continuassero ad essere prive di qualsiasi vigilanza e controllo (per cui “per lo abbandono governativo continuava la dilapidazione”) furono create speciali commissioni “in ciascuna provincia per soprintendere principalmente alla tutela dei monumenti medioevali”. A tali “Commissioni consultive e conservatrici dei monumenti e degli oggetti d’arte furono aggregati gli ispettori, perché potessero colla maggiore autorità esercitare il loro ufficio”472. L’opera delle commissioni e degli ispettori fu di grande importanza ed il “profitto, che diremo di ordine scientifico fu accompagnato da altro profitto di ordine amministrativo”473 in conseguenza di diverse riforme strutturali interne. Tra l’altro, venne accorpata nella Direzione centrale la cura di tutti i musei e le raccolte di opere di proprietà dello Stato, in modo che “con unico e proficuo intendimento, fossero distribuite le forze d’uomini e di denaro, delle quali il Ministero poteva disporre per una simile tutela”474. Immediatamente, però, si dimostrò l’inadeguatezza del personale, oltre che dei mezzi finanziari. Di fronte alla gravità della situazione, Fiorelli lanciò un chiaro appello al Parlamento, affinché “i benemeriti rappresentanti della nazione, non solo vorranno 470 Idem. Idem, p. 11. 472 Idem, ibidem. 473 Idem, p. 12. 474 Idem, ibidem. 471 152 accordare ciò che necessita, per assicurare la custodia materiale del patrimonio dello Stato, ma vorranno altresì dare gli aiuti richiesti per ordinare il servizio archeologico, in modo da corrispondere a tutte le esigenze dello studio e dell’amministrazione”475. Il che risulta di particolare rilevanza – fa osservare Fiorelli – poiché “vi è stato tale cambiamento nell’indirizzo degli studi e nei bisogni della scienza” che dovevano adottarsi nuovi criteri “nel comporre i musei”, i quali non dovevano più servire “soltanto alle esercitazioni pratiche di coloro, che frequentavano i corsi universitari dell’archeologia; ovvero dovevano porgere i materiali alle elucubrazioni di qualche professore, o di qualche accademico, e sanno tutti che prima di pensare al profitto delle scuole, ha obbligo il Governo di pensare alla tutela dei documenti veri della nostra storia più antica476. In tale ottica nuova, appunto, bisogna adunque ai musei attuali accrescere la dovizia, coi soli tesori archeologici della regione propria, e fondare altri musei in quelle parti del Regno, che hanno diritto a custodire in un proprio istituto i documenti più autentici della loro storia”477. Ma tutto ciò comportava un enorme incremento dell’impegno scientifico che non si poteva ottenere semplicemente evidenziando la attribuzioni degli attuali addetti. “Perocché non saprei quanto gioverebbe lo accrescere il compito di un ufficio, il quale pel modo con cui trovasi costituito, non poté finora adempiere ai minori doveri che gli vennero assegnati”478. Inoltre, Fiorelli rilevò che “di ciò che è fuori de’ musei, è assai poco quello che ora facciamo”; vale a dire, che risultava trascurata tutta quella parte del patrimonio che è immobile e che non “può essere mai rimossa dal luogo dove è, e devesi anzi porre ogni cura per mantenervela e conservarvela”. Tali carenze comportarono che “giornalmente si distruggono avanzi di antiche strade e resti di classiche costruzioni, per toglierne il materiale per nuovi edifici. Si ricorre ai tribunali, ed il più delle volte il colpevole è assoluto, poiché ignorava che la distruzione non era permessa, né vi era stata autorità alcuna che gli avesse imposto di rispettare il monumento esistente nei suoi fondi”479. Né tale mancanza di 475 Idem, p. 13. Idem, pp. 13 – 14. 477 Idem, p. 14. 478 Idem, ibidem. 479 Idem, p. 17. 476 153 vincolo e di avvertimento poteva addebitarsi al Ministero poiché questi per amministrare il patrimonio archeologico ed artistico, “era mestieri innanzi tutto che conoscesse questo patrimonio, e lo conoscesse in tutte le sue parti”. Occorreva, dunque, “un lavoro dei più seri e dei più capitali, quello cioè della minuta ricognizione di tutto quanto il territorio”. Lavoro che doveva essere fatto dai Comuni e Province e dagli Ispettori e Commissioni. Pianta di Pompei fatta eseguire da Giuseppe Fiorelli (dal volume di Marc Monnier, Pompei e i Pompeiani , Milano, 1875). “Ma l’esperienza ci ha dimostrato, che da persone le quali gratuitamente si prestano, non si poteva pretendere un’opera di sommo rilievo”, affermò Fiorelli, che aggiunse “il nostro bilancio non ci offrì neanche le somme necessarie al pagamento delle spese, per le gite delle Commissioni”480. Appunto, è stata questa insufficienza di mezzi finanziari che paralizzò l’attività della Direzione e impedì di creare nuovi uffici a livello regionale. Ma ciò non bastò, avvertì Fiorelli; occorrevano persone “le quali possano essere unicamente dedicate al loro ufficio e suddivise in due carriere diverse in questo stesso ramo del pubblico servizio”: gli amministrativi ed i tecnici, cioè 480 Idem, ibidem. 154 coloro che “colla preparazione negli studi potranno trattare con competenza tutto ciò che riguarda il buon andamento degli scavi, l’ottimo restauro dei monumenti, e l’ordine dei musei e delle gallerie”481. Per tutto ciò era indispensabile che il Parlamento stanziasse somme necessarie per il riordinamento del servizio archeologico, secondo l’importanza storica delle diverse regioni. Fiorelli, poi, proseguì nell’indicare il ruolo e le funzioni dei nuovi uffici; sottolineando, innanzitutto, l’importanza “di condurre a termine nel modo più completo l’inventario del patrimonio archeologico ed artistico, acciò sieno riuniti tutti i dati che debbano porgere al Governo la guida sicura, per procedere alla tutela dei monumenti. E ciò permetterà inoltre di facilitare al Governo stesso quell’altro compito, che dalla felicità dei tempi e dal desiderio dei dotti gli venne assegnato, il compito cioè di fornire i materiali più autentici allo studio della storia”482. Altro compito fondamentale degli uffici del Ministero, poi, doveva consistere nella possibilità di intervenire direttamente nel restauro dei monumenti, eliminando la dannosa attività del Ministro dei Lavori pubblici e, quindi, del Genio Civile. Interventi diretti per i quali occorrevano, però, architetti specificamente preparati. In proposito, data l’importanza della questione, è più significativo riportare le parole di Fiorelli: “Resta poi l’altra parte, che riguarda specialmente i monumenti medioevali, alla cui conservazione e restauro per provvedere secondo convenienza, dovrebbe il Ministero della pubblica istruzione agire direttamente, con personale posto alla immediata sua dipendenza, ed estendendo la propria azione sopra tutti gli edifizi monumentali, senza accettarne alcuno, qualunque sia l’amministrazione che li possiede; affinché la ingerenza nostra per la tutela artistica, potesse avere quell’effetto medesimo, che ha l’ingerenza del Ministero dei lavori pubblici nelle altre opere di ordine pubblico. Per tale motivo le spese dovrebbero essere ripartite in guisa, che i proprietari od i possessori sostenessero quelle, che si richiedono per mantenere gli edifizi, adatti all’uso a cui sono ora destinati; e rimanessero a carico del nostro Ministero, quelle altre, che riguardano unicamente gli interessi dell’arte. Al 481 482 Idem, p. 20. Idem, p. 22. 155 quale proposito molto si è discusso negli ultimi tempi, se per la costituzione degli uffici speciali, dipendenti da questo Ministero, ed incaricati della conservazione dei monumenti, si debba ricorrere all’opera di architetti ufficiali stipendiati, ovvero a quella di architetti liberi esercenti nelle varie regioni; negli uffici dei quali, come in altrettante scuole pratiche, potessero i giovani trovar modo di studiare i monumenti, a fine di perfezionarsi nella cultura artistica. E poiché tale argomento si collega alla questione, circa la riforma dell’insegnamento dell’architettura, per cui resta tuttora a decidere, se convenga o no di procedere come per le scuole della pittura e della scultura, dividendolo cioè in due parti, una elementare ed l’altra superiore; poiché per conseguenza non si può provvedere alla istituzione di tali uffici, se prima la detta questione non venga risoluta; è mestieri che senz’altro indugio questa tesi venga sciolta, affinché le spese che il Ministero deve sostenere, siano erogate con i canoni migliori, che dalle amministrazioni competenti potranno essere stabiliti. Per parte nostra abbiamo finora messo tutto l’impegno, nel volgere l’opera dei restauri all’ottimo fine; servendoci per quanto era possibile di persone a dipendenza di questo Ministero, pigliando azione diretta nei restauri di edifici che si posseggano da altre amministrazioni, ed ottenendo che queste amministrazioni medesime concorressero alla erogazione delle spese. Tuttavolta siamo ancora ben lungi dallo aver conseguito quel beneficio, che era nei nostri voti. Nella maggior parte dei casi, siamo ancora costretti a valerci di persone, dipendenti da altre amministrazioni governative, che o per mancanza di studi e di preparazioni speciali, o per essere distratte da altre occupazioni pure di ordine pubblico, non possono produrre opera soddisfacente. E benché i lavori si limitino il più delle volte a quelli, che sono strettamente necessari per provvedere al miglioramento delle condizioni statiche, e si escludano per quanto è possibile i restauri artistici, pure non pochi inconvenienti succedono, specie nell’imitare o riprodurre l’antico. Senza dire, che il più delle volte, dobbiamo restringere l’opera nostra ad una 156 semplice vigilanza sui lavori, i quali diretti da altre amministrazioni, con fine e con criteri diversi, lasciano purtroppo moltissimo a desiderare”483. Resta il fatto che i servizi dello Stato, secondo Fiorelli, non potranno mai funzionare in assenza di una legge di tutela che fornisse loro il sostegno e l’autorità necessari. Nella prima relazione, 1883, Fiorelli affrontò il punto centrale della questione e cioè il rapporto tra interesse privato ed interesse pubblico nel diritto di proprietà. Con molta chiarezza egli scrive: “Comprendo bene, che molto sarebbe agevolato il compito del Governo, se fosse stata promulgata una legge, la quale servisse di valido sostegno agli ufficiali di questo Ministro, preposti alla tutela dei monumenti e degli oggetti d’arte e di antichità. Ma se altri gravi cure richiamarono l’opera degli onorevoli rappresentanti della nazione, sarà con sommo profitto per questo tema, di cui pure tosto o tardi dovranno essi occuparsi, che sieno intanto preparati tutti quanti gli elementi necessari a risolverlo nel modo più soddisfacente; potendo servire anche a ciò i lavori, che a preferenza i nuovi uffici dovranno compiere. Quantunque, messe pure da banda quelle discussioni che implicano le maggiori controversie, e che dovranno essere trattate con nuovi e profondi studi, a me non sembri difficile, che il Corpo legislativo possa intanto approvare un provvedimento, che renda efficace l’esercizio del diritto dello Stato sulla conservazione delle antichità e degli oggetti d’arte, e che metta il Governo in grado di poter esercitare quel diritto di prelazione, che da nessuno può essere impugnato. Perocché credo tutti essere di accordo nel riconoscere, che la proprietà privata in materia che si riferisce ai monumenti storici ed alle cose dell’arte, debba essere subordinata al alcuni principi che rientrano nell’ordine pubblico, e riguardano il decoro della nazione; o per lo meno cerdo non ci sia alcuno, il quale non ammetta essere vietato agli altri di esercitare il proprio diritto, a danno degli interessi generali. E basterebbe a noi, prima di risolvere la tesi in tutte quante le sue parti, che fosse sanzionato per legge l’obbligo dei cittadini e delle amministrazioni, d’informare il Governo sopra ogni scoperta fortuita; di non 483 Idem, pp. 23 – 24. 157 intraprendere scavi o restauri di monumenti, senza l’autorizzazione governativa; di sospendere i lavori, quando la loro prosecuzione riuscisse a danno positivo della scienza; finalmente di non disporre in modo alcuno delle cose rinvenute e degli oggetti d’arte, senza che lo Stato avesse esercitato il diritto di prelazione. Basterebbe insomma, che fossero sanzionati quei principi universalmente accettati, che servendo di base all’opera del Governo, tutelano contemporaneamente l’utile dei proprietari. Perocché molto vi sarebbe a dire intorno ai danni, che derivano ai proprietari medesimi per il difetto di misure uniformi in tutte le province del Regno, come pure moltissimo vi sarebbe a dire sul danno, che ne deriva agli stessi musei esteri, i quali nelle attuali condizioni di cose, rimangono esposti a tutte le arti degli speculatori, premurosi il più delle volte di nascondere la vera provenienza degli oggetti, e capaci di nuocere al frutto degli studi”484. Sulle “condizioni presenti dell’amministrazione pubblica”, Fiorelli si espresse nella sua seconda relazione al Ministro, nel 1885, allo scopo di “indagare donde provenga il male tuttodì deplorato, se cioè dall’organismo amministrativo insufficiente ovvero dalla natura stessa delle disposizioni mantenute”485. Per quanto l’organismo amministrativo, Fiorelli riteneva che esso non debba considerarsi completamente insufficiente “non essendovi cosa alla quale non siasi cercato di provvedere”486. Infatti, oltre alla creazione, nel 1875, della nuova Direzione centrale dei musei e degli scavi, si avviò con il decreto 5 marzo 1876, il coordinamento tra le Commissioni conservatrici dei monumenti e degli Ispettori. In tal modo, per i monumenti, si poteva vigilare sia quelli di proprietà privata che pubblica, affinché non si deteriorassero, proponendo ai proprietari e alle autorità competenti i mezzi necessari al buon mantenimento. Per i beni mobili, poi, veniva esercitata una più attenta vigilanza sia sui ritrovamenti che sulle alienazioni che dovevano essere 484 Ibidem, pp. 26 – 27. ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio archeologico, seconda relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Roma 1885, p. 36. 486 Idem, p. 38. 485 158 sempre autorizzate. Per gli scavi archeologici, infine, veniva incrementato il controllo sulle scoperte effettuate, che dovevano essere comunicate al Ministero, e, quando vi erano i mezzi per farlo, raccolte nei musei provinciali e comunali. L’organizzazione del Servizio, dunque, non era insufficiente – osservava Fiorelli – pur ammettendo che occorrevano ancora nuovi provvedimenti per una maggiore efficienza. Il maggior inconveniente era da individuarsi nella natura stessa delle disposizioni, le quali, in base alla legge del 28 giugno 1871 n. 286, erano ancora quelle vigenti nei vari Stati che preesistevano all’unificazione del territorio italiano. Di tali leggi Fiorelli effettuò un esame puntuale nei capitoli “Leggi emanate dai cessati governi per la conservazione delle antichità e dei monumenti” e “Disposizioni dei Governi provvisori”, riportate integralmente in appendice alla relazione del 1885. Gli aspetti più interessanti di questo esame furono le sostanziali difformità dei provvedimenti rispondenti a concezioni politiche, a volte contrastanti tra loro. In particolare, Fiorelli segnalava per la sua gravità il problema della estrazione degli oggetti di arte e di antichità: “E’ tanto grave, che la Camera non ha cessato mai di raccomandare al Governo, la maggiore sollecitudine nel presentare un progetto di legge per regolarlo. L’ultimo voto fu quello approvato nella tornata del 19 giugno 1883, su proposta dell’ On. Martini, il quale, come affermò l’On. eltra, per la quinta volta mostrava l’urgenza di quella legge, ritenuta necessaria anche all’On. Ministro delle Finanze”487. Ma Fiorelli invitava a riflettere ancora sul fatto che da molti anni il Parlamento, chiamato a pronunziarsi in materia, non riusciva a legiferare. Infatti, fin “dall’8 febbraio 1875 l’On. Ministro Borghi aveva presentato alla Camera un progetto di legge, composto di tre articoli, riguardo all’estrazione degli oggetti antichi di belle arti od altrimenti preziosi; ed il fatto che dopo dieci anni non siamo riusciti a risolvere questa sola parte della legge, non è ultima prova che la questione gravissima non si possa scindere 488. Vale a dire 487 488 Idem, p. 36. Idem, p. 39. 159 che, la questione dell’abusiva appropriazione degli oggetti rinvenuti non può scindersi dalla legge generale sulla conservazione delle antichità”. Purtroppo, scriveva Fiorelli, “è manifestamente provato, che per la sua grave difficoltà, per le mille questioni che vi sono inerenti, questo aspettato progetto non sarà presto presentato, o se anche presentato, non sarà discusso”489. D’altra parte, nota Fiorelli, non era affatto facile tentare di armonizzare le eterogenee disposizioni vigenti, al fine di adempiere gli obblighi imposti allo Stato nella tutela delle memorie antiche. Tale difficoltà era dimostrata proprio dall’esperienza. “Intendiamo accennare al progetto presentato al Senato del Regno il 13 maggio 1872, progetto in cui si era cercato di soddisfare i nuovi bisogni, senza trascurare alcuno di quei provvidi elementi, che si trovano nelle leggi più complete emanate dai Governi anteriori. Ebbene, si disse che questo progetto conservava tutto il carattere di una legge immaginata da un Governo assoluto, ed applicata ad un paese che si governa a libero regime. Si disse che nella presente condizione di Governo, quella proposta portava due difetti capitali: la proposizione che emerge evidente tra lo scopo che il Governo si propone, ed i mezzi dei quali dispone per raggiungerlo; in secondo luogo la mancanza del rispetto, che par dovuto ai diritti ed alla proprietà dei varii enti morali colpiti dalla legge, e particolarmente quando di tratta di privati. Si dissero molte altre cose; e se dopo sei anni, modificato in molta parte, giunse quel progetto di avere l’approvazione del Senato, non rimase in noi la fiducia che sarebbe stato approvato dalla Camera, tanto più se tenevasi conto del poco favore con cui venne accolto dalla Commissione, alla quale fu deferito pel debito esame”490. Fiorelli collocò alla base del ragionamento di impostazione della legge, l’individuazione delle finalità della tutela. Infatti, egli si pose tre quesiti: in primo luogo, se esiste un fine supremo al quale debba essere subordinata la tutela dei monumenti,; poi – posto che esista tale fine – se esso costituisca un dovere dello Stato ed, infine, soddisfatte le prime due condizioni, quali sono le leggi speciali necessarie per ottenere i mezzi idonei al raggiungimento della tutela stessa. 489 490 Idem, ibidem. Idem, p. 39. 160 Per rispondere a tali quesiti, Fiorelli analizzò qual’era il reale rapporto tra le antichità, da un lato e, le Scuole d’arte, l’insegnamento classico universitario e la cultura, dall’altro lato. Egli osservò, in linea preliminare, che dal dibattito culturale del suo tempo non era possibile trarre un’indicazione unitaria capace di definire il fine al quale dovesse tendere la tutela delle antichità. Con chiaro riferimento al solo patrimonio archeologico, egli individuò, infatti, le finalità seguenti: l’ornamento delle città; l’interesse storico; l’educazione degli artisti491. La formazione dei giovani all’interno delle Accademie di belle arti, nel XIX secolo,si basava sullo studio e sull’osservazione diretta delle opere dell’antichità classica. Poiché al primo punto si provvide con norme di tipo edilizio ed urbanistico, Fiorelli affermò che “la tutela delle antichità patrie deve mirare o all’insegnamento artistico, o all’educazione classica”492. “Ora, per quanto riguarda l’insegnamento artistico non si può accettare senza alcun dubbio l’ipotesi che l’attuale tipo di formazione sia l’unico ammissibile. Al contrario, occorre tenere in conto in tutta quanta la sua estensione la tesi sullo stato dell’arte ai nostri giorni ed, inoltre, riflettere sulla legittimità della interferenza del Governo sull’arte e sul suo compito di dirigerla e di aiutarla”493. A parte ciò, Fiorelli riteneva che se la tutela dovesse essere finalizzata al solo insegnamento artistico non era necessario che le leggi imponessero, per esempio, di non rimuovere i ritrovamenti archeologici per consentire lo studio delle indicazioni di scavo, utili solo alla conoscenza storica. E si deve ritenere che, nella stessa logica, erano stati eseguiti interventi di restauro con isolamento dei grandi monumenti archeologici della città. Restauri che, comunque, costituirono oggetto di interessanti riflessioni di carattere storico e, senza dubbio, contribuirono alla promozione dello sviluppo degli studi storico – artistici. Secondo Fiorelli, se si volesse prendere in esame il fine 491 Idem, p. 41. Idem, ibidem. 493 Idem, p. 42. 492 161 dell’insegnamento delle Scuole di architettura, di scultura e di pittura bisognerebbe riconoscere l’importanza che lo studio delle antichità riveste in tale campo. Ma non vi era dubbio che, altrettanta importanza rivestisse l’arte contemporanea. Per conseguenza, non era sufficiente che lo Stato si limitasse a proteggere le antichità, analogamente ai secoli precedenti; ed ancora, occorreva comprendere che proteggere le antichità per fornire materiale di studio per le scuole d’arte non poteva significare semplicemente esercitare una serie di azioni di vincolo di vario genere. Occorre sottolineare, infatti, che era necessario e sufficiente che le scuole disponessero non già delle statue originali, ma di ricche raccolte di calchi in gesso di quelle originali, e in particolar modo per l’architettura, di modelli. Evidentemente per promuovere e facilitare la formazione di tali raccolte non era necessario promulgare leggi speciali di tutela. Di rilievo sono le considerazioni che Fiorelli espresse a proposito della utilità della conservazione delle antichità ai fini dell’insegnamento classico universitario. Esse, infatti, consentono di constatare, come l’oggetto della conservazione, nella cultura ottocentesca, fosse prevalentemente il patrimonio archeologico (cioè le antichità), comprendente sia le opere di scultura e di pittura (le belle arti) che le architetture (i monumenti) appartenenti, prevalentemente, al mondo classico greco e romano. In tale ottica, Fiorelli individuò nel problema del rilancio delle Scuole di archeologia il punto centrale dell’educazione umanistica al livello universitario. Egli sottolineò che non vi era accordo da parte degli esperti nell’indicare il metodo di studio idoneo ad ottimizzare gli studi universitari del settore. In particolare, evidenziò ciò che era sostenuto da alcuni illustri personaggi, come fatto essenziale e risolutivo, l’esigenza “di rendere i nostri musei atti a servire alle scuole di archeologia, affinché essi costituiscano ciò che sono i laboratori nell’insegnamento delle scienze sperimentali”494. Fiorelli non condivideva tale affermazione; più nel dettaglio, non riteneva che i musei non fossero utili alle scuole, ma che non poteva confrontarsi il laboratorio scientifico con il museo archeologico, non fosse altro per il fatto che gli oggetti dei musei necessitano 494 Idem, p. 43. 162 di cure continue in modo da impedirne il deterioramento. Egli osservò, inoltre, che un tale museo – laboratorio, annesso ad una Università, non avrebbe mai contenuto “tutto il materiale, che per le esercitazioni pratiche dell’insegnamento è richiesto”495. Non era pensabile raccogliere tutto “perocché i materiali scolastici non riguardano soltanto le antichità nostre, ma hanno principalmente in mira le antichità della Grecia e dell’Asia Minore496. Ciò che è possibile è raccogliere le copie degli originali. D’altra parte non si può ritenere che il compito di tutela dello Stato si riduce al solo fine dell’insegnamento elementare dell’archeologia, che non può certo essere una delle ragioni supreme le quali impongono allo Stato misure speciali per la tutela del patrimonio archeologico della nazione497. E ciò senza considerare – continua Fiorelli – che lo stesso metodo di insegnamento dell’archeologia è messo in discussione e che non si conosce il metodo da seguire. Certo è che non può tollerarsi che nelle Università, l’archeologia venga insegnata in un solo anno, al quale, peraltro, i giovani giungono impreparati, perché non hanno affrontato la disciplina nei ginnasi e nei licei. A parte il fatto che non vi è accordo sulla decisione di introdurre tali materie nelle scuole secondarie, resta la difficoltà, per mancanza di uomini e di denaro, di moltiplicare l’insegnamento dell’archeologia suddividendo il corso. Al massimo, potrebbe prevedersi una divisione in due branche, l’una, che si occupa delle antichità letterate o scritte, che potrà dirsi archeologia classica e l’altra che studia le antichità artistiche o figurate relative, cioè, principalmente all’arte e che potrà conservare il nome di archeologia. Ma anche su questo punto sembra che le idee generalmente in Italia siano alquanto confuse. Pur se si arrivasse a determinare in modo netto il metodo universitario per le scuole di archeologia498 si avrebbe un chiarimento relativo alla tutela dei beni dell’antichità, con esclusione, quindi, di tutti quelli di età paleocristiana, medievali e rinascimentali. E cioè, resterebbe da sistematizzare lo studio, particolarmente importante, dei monumenti di architettura i quali costituiscono 495 Idem, p. 45. Idem, pp. 45 – 46. 497 Idem, p. 46. 498 Idem, p. 48. 496 163 una parte rilevantissima del patrimonio della cultura, nel senso più ampio del termine”. Fiorelli insiste nel porre in evidenza la reale importanza della protezione e conservazione di tutti beni ai fini di partecipare allo sviluppo della cultura. In altre parole, egli sostenne con forza che oltre alle esigenze di fornire materiale utile all’insegnamento artistico ed all’educazione umanistica, occorre considerare tale patrimonio come strumento per l’approfondimento della conoscenza del nostro paese nel quadro più generale della cultura. In particolare, egli ha insistito sul fatto che il contributo a tale conoscenza, ottenuto attraverso lo studio dei monumenti, non deve essere riservato agli studiosi italiani, ma propositivo anche per quelli stranieri. Infatti, proprio in nome del principio dell’universalità della cultura, le opere italiane devono essere tutelate per essere messe a disposizione degli studiosi di tutto il mondo. Constatato, dunque, che il fine ultimo della conservazione delle antichità non poteva essere costituito solo dal trarre utilità per l’insegnamento artistico e classico, Fiorelli sottolineò l’importanza della tutela ai fini della maggiore diffusione della cultura. E’ interessante notare, a tal proposito, come egli non si sia limitato al concetto di un’alta cultura del paese, la quale, nel suo implicito sentimento nazionalistico abbia offerto una sorte di protezione alle opere “dell’ingegno nostro”499. Al contrario, Fiorelli sostenne con forza il principio della cooperazione culturale internazionale, quale strumento essenziale per garantire l’universalità della cultura ed il progresso del sapere. A sostegno di ciò affermò che: “il decoro nazionale non può trovare la sua radice ultima in un sentimento di gelosia, colà dove invece si trionfa con la gara mobilissima”500. Ecco, dunque, che le leggi speciali per la tutela del patrimonio culturale diventano necessarie per il raggiungimento di fini speciali, capaci di fornire una utilità di carattere eccezionale ed universale, ben al di là di quella limitata all’educazione artistica ed alla istruzione classica. Per il raggiungimento di tali fini devono essere studiati dal Governo e dal Parlamento i mezzi necessari, che sono di due tipi: gli strumenti legislativi e la 499 500 Idem, p. 49. Idem, p. 50. 164 struttura dei servizi atti ad applicare tali leggi. Per Fiorelli, dunque, apparve necessario valutare se tali mezzi, così come erano disponibili nel momento in cui scriveva, potevano considerarsi idonei e validi. Individuato, dunque, l’obiettivo che una nazione ha il dovere di perseguire, Fiorelli nella sua relazione del 1885 (capo VII), ha proseguito con i “Criteri pel nuovo ordinamento del servizio archeologico” . Egli scrive:” Questo fine maggiore consiste nella tutela delle più alte regioni della scienza archeologica, concepita nel suo più vasto significato, ad incremento non della cultura nazionale soltanto, ma a diretto vantaggio della cultura universale; tutela che non potrebbe essere da altri sostenuta fuorché dallo Stato, e da cui lo Stato non potrebbe sottrarsi, senza offendere il decoro del paese. Le quali ragioni della scienza allora saranno tutelate, quando il materiale stesso sarà conosciuto in modo pieno, e custodito secondo convenienza; così che non vi sia parte alcuna, che si lasci per ignoranza o rimanga negletta per inadeguato apprezzamento; né vi sia parte che essendo degna di esser mantenuta con determinata cura, per difetto di questa deperisca o si perda. Trattasi adunque di due operazioni ben distinte: riconoscere innanzitutto ciò che forma il soggetto dell’archeologia, e riconoscerlo in tutta la sua pienezza; in secondo luogo di conservarlo, e di conservarlo in quella misura che si richiede, affinché si abbiano costantemente i mezzi più efficaci pel progresso dei vari studi, nei quali l’archeologia si dirama, e coi quali arreca il più forte sussidio alla cultura storica”501. Fiorelli inoltre precisò che questi compiti spettassero alla Stato per motivi molto precisi. Per quanto riguarda l’attività di conservazione distinse due ordini di problemi: quello degli edifici monumentali che dovevano essere mantenuti convenientemente e quello degli oggetti antichi, che meritavano di essere custoditi ed esposti nelle nostre collezioni. Nel dettaglio, egli specificò: “Che sia compito del Governo il conservare ciò che deve essere conservato, noi non osiamo mettere in dubbio, sapendo bene non esser necessario che tutto ciò che è antico si conservi indistintamente. Nessuna necessità infatti ci può essere pel bisogno della scienza, che si 501 Idem, p. 51. 165 conservino cento ossari o cento tombe, simili in tutto le une alle altre, formate nel modo stesso, e coi medesimi oggetti, appartenenti alla medesima necropoli, e scavate nel medesimo luogo. Sarà necessario invece, che si conservi quell’ossuario solo o quella sola tomba, la quale presenti in sé tutti quegli elementi capaci di essere serbati materialmente, e che necessitano, affinché l’oggetto od il gruppo di oggetti divenga il mezzo efficace di cui lo studio si giova, per argomentare del tempo al quale la tomba si riferisce, e dei rapporti fra la città ove fu scoperta, e le altre che in quel tempo medesimo fiorivano nella penisola, o nelle cui necropoli una somigliante suppellettile funebre fu raccolta. E come non è necessario per l’utile della scienza, che si conservi tutto ciò che è capace di conservazione, così non è sempre possibile che tutto ciò che dovrebbe essere conservato, si possa conservare materialmente. Come si potrebbe infatti conservare nella sua integrità una di quelle tombe della necropoli di Tolentino, costruite a vari strati, e con più recinti di sassi in ciascuno di detti strati, nelle quali senza distruggere ciò che trovasi superiormente, non si può penetrare colà dove importa che lo studio principale si fermi? Ma tutto ciò per altro non deve minimamente portare a concludere, che il dovere dello Stato si limiti solo a conservare quello che deve essere preservato, e che debba lo Stato procedere con uffici ben distinti; quelli cioè che attendano alla conservazione dei monumenti, fuori dei musei, e quelli che si occupino di ciò che è nei musei o deve entrarvi, della conservazione cioè degli antichi oggetti”502. A proposito dei beni immobili, Fiorelli precisò: “dovendo il Governo attendere alla sola opera di conservazione, con uno degli uffici a ciò destinati debba procurare, che gli edifici monumentali ed i beni stabili del patrimonio archeologico non soffrano ulteriori danni, né siano offesi da quei restauri, che fanno al paese maggior vergogna di quello che gli arrechi il completo abbandono; e con altri uffici debba provvedere di mettere presto in salvo quegli oggetti, che sarebbe improvvido per noi se gli stranieri ci portassero via, e se ne servissero per arricchire le loro pubbliche raccolte. E poiché per i monumenti non basta promulgare il divieto di destinarli ad usi, che ne 502 Idem, pp. 52 – 53. 166 diminuiscano la dignità o ne mettano in pericolo l’esistenza, ma occorre scongiurare altresì il male, che nessun divieto di legge potrebbe impedire, il male cioè che la forza di struggitrice del tempo largamente produce, è mestieri riconoscere il loro stato, ed indicare le opere di conservazione che si richiedono, e le norme più opportune per eseguirle”503. Per i beni mobili, invece, la questione era di maggiore gravità, essendo essi facilmente trasportabili, “ ed avvenendo il più delle volte, che passino le Alpi o piglino la via del mare, prima che per noi si conoscano, e prima quindi che ci sia possibile di sapere, se dobbiamo usare del nostro diritto per mantenerli in Italia. Né ci è dato procedere col semplice criterio, che il riprendere un oggetto nostro, che un forestiero si comprerebbe, corrisponda a salvare il decoro della nazione, che rimarrebbe offeso, se si lasciasse tutelare da altri, quello che noi crediamo di dover preservare. Perocché riuscirebbe difficile a comprendere, come il decoro nazionale potesse essere soddisfatto, non avendo altra ragione da far valere che l’esercizio del diritto del più forte; massime poi se lo si vuol collegare all’utile della scienza, la quale non sa proprio che farsi di cure così prodigate, essendo manifesto che trattandosi di tutela per tutela, valga per la scienza precisamente lo stesso, se questa semplice tutela si eserciti da noi o da altri. Per conseguenza, dovendo rimanere a noi il diritto di scelta, fondato sul merito che gli oggetti possano avere, pare che tutto si riduca ad impedire che gli oggetti se ne vadano, prima che il Governo abbia potuto far giudicare della importanza loro alle autorità proprie, ed abbia quindi potuto decidere sulla convenienza di aggiungerli alle raccolte nazionali. E poiché potrebbe aver carattere di misura eccessiva, l’obbligare i proprietari a portare essi medesimi alle autorità gli oggetti antichi che posseggono, sembra che non si debba porre indugio nell’invitare gli amministratori dei musei ad esaminare le raccolte private; a riconoscere gli oggetti sparsi nelle varie parti del Regno; ad indicare al Governo quelli, che ciascuna delle collezioni pubbliche si dovessero acquistare”504. Stabilita, dunque, la validità del concetto generale di attuare, con appositi e distinti uffici, la conservazione dei beni immobili e di quelli mobili, occorreva 503 504 Idem, p. 53. Idem, pp. 53 – 54. 167 – prosegue Fiorelli – “vedere, quali disposizioni di leggi possano occorrere, per impedire che i proprietari di edifici monumentali abusino di questa proprietà loro a detrimento del pubblico e per impedire che i possessori di antichi oggetti ne dispongano, prima che si sia veduto se gli oggetti stessi debbano rimanere nelle nostre raccolte505. Tali leggi certamente porteranno alcuni vantaggi ma non forniranno quello, che le altre regioni della scienza, a vantaggio della cultura generale, richiedono dai noi; e cioè che si conservi con definita custodia e con determinati rapporti, ciò che per un complesso di titoli, che costituiscono il valore vero del monumento o dell’oggetto, acquista forza e dignità di vero e proprio documento storico. E proprio e vero documento storico sono gli oggetti di qualunque forma essi sieno, purchè si valutino non solo per il pregio che possono avere in sé stessi, ma per quello che acquistano dalle circostanze; e non da alcune circostanze soltanto ma da tutte, considerate col rigoroso metodo scientifico, affinché porgano gli elementi che occorrono ad un giudizio pieno e sicuro. Non già che non via siano oggetti di sommo pregio intrinseco, per la materia onde sono composti, e per la bellezza artistica di cui si informano, come appunto quelle tazze fittili aretine scoperte di recente. Ma se considerate in sé e per sé, potranno quelle tazze essere utili alla scuola dell’arte, nessun utile potranno arrecare alla scienza, che devesi servire di esse, non perché valgano solo a destare un profondo senso di ammirazione e di stupore, ma perché per essere state trovate in quel dato sito, ed in unione a quei tali frammenti, e per essere state raccolte in quel determinato modo, diventano proprio e vero documento storico. Senza dire, che può benissimo mancare qualunque pregio intrinseco, ed acquistar l’oggetto cotanto merito per le circostanze che ne accompagnarono il trovamento, da diventar preziosissimo per lo studio”506. Il riconoscimento del valore vero non poteva essere compiuto in base alle indicazioni sommarie date dalle Commissioni e dagli Ispettori. Anzi, proprio tali indicazioni stimolarono gli abusi, “e si va incontro al male gravissimo che deploriamo, spendendo somme cospicue dell’erario in edifici che non meritano tutela, con detrimento di altri che pure è necessario di conservare; 505 506 Idem, p. 54. Idem, pp. 55 – 56. 168 perocché per motivo di trarre aiuti dalle casse dello Stato, furono talvolta scritte nell’ordine dei monumenti chiese di pochissimo conto; e nella compilazione degli elenchi tenendosi in principal riguardo gli edifici sacri, ne furono trascurati molti altri di carattere pubblico, e molti specialmente di quelli che si riferiscono alla vita civile del medioevo”507. Ma pur se si riuscirà ad ottenere alcuni vantaggi dal coordinamento delle attività delle Commissioni e degli ispettori nelle diverse province – prosegue Fiorelli – “rimarrà sempre sproporzionata l’opera del Governo al fine ultimo a cui deve tendere; essendo noto, per quello che riguarda i monumenti, che la cultura pubblica trae vantaggio non solo dalla conservazione di quelli, il cui pregio si rivela agli occhi di tutti o dei più, e che dal comune consensi sono additati come meritevoli delle maggiori cure, ma ha bisogno altresì che ne siano conservati altri, i quali se a parere della moltitudine non rivelano pregi di sorta, meritano invece di essere mantenuti al loro sito, con lo zelo medesimo con cui debbono essere conservati i maestosi avanzi degli antichi mausolei. Né si deve indugiare nell’andar ricercando dove questi monumenti si trovino, poiché l’indugio è causa di danno gravissimo; non essendo vero quello che purtroppo si ripete, cioè che il pericolo maggiore sia per gli oggetti, i quali se non arriviamo in tempo a sapere dove siano, vanno via dall’Italia, o si perdono per noi. Che anzi, se ben si considera, vi è pericolo di danno minore in ciò che riguarda gli oggetti, essendo manifesto che se sono portati via, non ne consegue che siano totalmente perduti per la scienza; mentre pei monumenti, se non si accorre in tempo, si va incontro al male che purtroppo abbiamo sovente occasione di deplorare, al male cioè che siano distrutti e perduti irreparabilmente. Bisogna adunque rifar da capo gli elenchi dei monumenti e nella loro compilazione tener conto, non solo di quei titoli che formano argomento di pregio, a giudizio degli architetti e degli ingegneri, ma ricercare altresì tutti gli altri titoli, pei quali si determina il valore del monumento, non riguardo all’arte soltanto, ma anche rispetto alla storia. E bisogna non fermarsi sopra gli edifici di una data età, o di un dato pericolo della storia locale, ma considerare altresì quelli, che pure sono testimoni del vario grado di civiltà che 507 Idem, p. 56. 169 in quel luogo si svolse. E poiché potrebbe non esser necessario conservarli tutti, né si potrebbe giudicare pienamente intorno a tale necessità, se non dopo aver tenuto conto degli altri monumenti consimili, che per ciascuna età furono costruiti in territori vicini, ove secondo i tempi crebbe in eguali proporzioni la cultura pubblica, bisogna così che non si considerino i monumenti di un sito indipendentemente da quelli di altri luoghi coi quali hanno rapporto, ma che si proceda secondo la ragione storica delle varie regioni del Regno, che ebbero comuni le vicende nel corso del tempo. Ed occorre che hai restauri degli edifici riconosciuti degni di tutela, precedano i necessari studi storici ed artistici, affinché coloro che devono attendervi, possano trasportarsi nell’età in cui quelli furono innalzati, e giudicare pienamente della loro esatta reintegrazione. Finalmente è mestieri, che ai restauri non si metta mano se non direttamente dal Ministero dell’istruzione, acciò sia impedita la troppo facile sostituzione del nuovo al vecchio, e si possa con gli aiuti della scienza moderna opporre l’opera nostra all’azione di struggitrice del tempo”508. Osservazioni analoghe a quelle fin qui espresse per i monumenti potevano essere sviluppate anche per i beni mobili. Fiorelli prosegue nella sua relazione: “si deve concludere, quindi, che lo Stato deve farsi carico oltre che della conservazione anche del riconoscimento del valore dei beni culturali, essendo vero che allora la conservazione dei monumenti e degli oggetti riuscirà completa, quando sarà preceduta dall’opera di ricognizione piena, di tutto ciò che forma il soggetto della scienza; senza di che è assolutamente impossibile decidere di ciò che si debba conservare, e del modo di effettuarlo. Perocchè non è indifferente, che tutto ciò che nei musei è mestiere di tenere, si riponga in uno o in altro sito, in unione di questi o di quegli oggetti; ma è necessario che l’opera stessa della conservazione sia regolata per modo, che serva costantemente a provare la esattezza con cui la ricognizione fu condotta, porgendo nel collocamento degli oggetti i materiali necessari allo studio, secondo che la ragione di questo richiede”509. Da tali esperienze scientifiche nacque l’obbligo di mettere ordine nell’esportazione all’estero delle opere mobili, tenuto presente che le attività 508 509 Idem, pp. 57 – 58. Idem, p. 58. 170 del Governo non erano dirette al solo vantaggio della cultura interna, ma tendevano al pieno profitto della cultura storica universale. Dopo una lunga disamina di tale importante questione, Fiorelli giunse alla conclusione che non si debba negare la possibilità di far tenere ai musei esteri i beni mobili e i reperti archeologici italiani. “Anzi – scrive l’autore – è opportuno concederli nel modo che meglio risponda alla buona amministrazione che ne sarà fatta da noi. La quale non porta di conseguenza, che si debbano negare ai forestieri questi sussidi; che anzi induce a concederli, nel modo che meglio risponda a tutte le esigenze dello studio, non essendo necessario che tutto presso di noi si conservi, secondo che sopra si è detto, ma che si conservi quello soltanto, che la ragione scientifica ed il buon metodo richiedono. Per tutto il resto poi, che rappresenta solo il numero, nessuna difficoltà deve esservi che se ne vada al di fuori, ove gli oggetti nostri non rimarranno nella vile condizione di profughi, ma accompagnati dalle nostre cure, avranno la feconda operosità di industriosi coloni. Né sarebbe giusto lo accusarci di avere la stessa generosità di chi offre il rifiuto, non potendo né dovendo essere considerata una merce scadente, quella che per le ragioni scientifiche, essendo esuberante fra noi, diventa utile per il di fuori, né utile in modo limitato, ma utile in modo pieno.510” Diverso era, invece, l’atteggiamento nei confronti delle esportazioni praticate dai mercanti d’arte, le cui attività “per quanto attualmente ci offendano, non verranno certo a darci continua difficoltà in avvenire, se i benemeriti amministratori dei grandi istituti antiquari pubblici presso le varie nazioni, cassando dalla maniera finora tenuta negli acquisti degli oggetti antichi in Italia, riusciranno con il loro esempio a frenare la pazza cupidigia dei raccoglitori passionati, e ci presteranno quell’aiuto che abbiamo il diritto di chiedere, in nome di quella scienza appunto per cui essi costantemente si affaticano. Tanto più che finalmente non ci dovrà essere conteso di ricorrere a tutti i mezzi, che sia nel nostro diritto di usare, per non mostrarci inferiori alle nazioni estere, le quali in nessuna maniera permetterebbero lo sperpero delle memorie loro, alla cui custodia attendono con lo zelo più lodevole, non 510 Idem, p. 67. 171 concedendone parte alcuna, che fosse richiesta per la serie completa dei documenti della propria storia”511. Era necessario, dunque, fare approvare leggi sicure che consentissero allo Stato di assolvere efficacemente al dovere di soprintendere alla conservazione della antichità; e per far ciò occorreva respingere il timore di coloro che credevano in forme di accentramento scientifico, creando una nuova funzione statale di monopolio della scienza stessa dell’antichità. Timore basato, secondo Fiorelli, sull’errore di confondere la scienza con il materiale scientifico, senza comprendere che il compito statale della conservazione era di procurare materiale scientifico ottimo. Materiale (costituente il patrimonio archeologico nazionale) che, d’altra parte, non necessitava di essere suddiviso in due gruppi, l’uno avente dignità di documento storico, l’altro avente il pregio dell’arte. Una tale concezione portò a credere che i limiti tra l’archeologia e l’arte fossero stabiliti dalla presenza maggiore di fonti vive delle scritture. Anzi, dal dibattito riassunto dalle relazioni sono emerse conclusioni che, afferma Fiorelli, non soddisfacevano nessuno. Conclusioni che sancivano che: “monumento archeologico sia quello, che serva, a provare l’esistenza, le abitudini, l’indole civile o sociale del popolo o dell’età a cui appartiene; monumento artistico per contrario quello che, eretto in tempo di più abbondanti notizie, valga più specialmente a segnalare l’intelligenza od il gusto della nazione che lo innalzò”512. Definizione che non era dettata dalla ragione vera delle cose, ma piuttosto consigliata dalla necessità di trovare un argomento, che spiegasse il modo con cui il Governo, in una grande deficienza di mezzi, si occupava della gestione dei problemi di cui si tratta. Pertanto, continua il nostro autore, “non è certo più ammissibile, una tale divisione, oggi quando gli studi sul medio evo sono fortemente sviluppati specialmente in Francia, Germania ed Inghilterra. Una buona amministrazione deve occuparsi di tutti i materiali, che nella loro qualità di veri e propri documenti storici, vengono a farci conoscere il vario grado di civiltà, che nel corso dei secoli si svolse in ciascuna delle regioni del 511 512 Idem, p. 71. Idem, p. 69. 172 Regno”513. Regioni che dovranno corrispondere all’ordinamento amministrativo vigente secondo il quale “a mano a mano dovranno essere costituiti gli uffici governativi per la tutela delle antichità patrie. La creazione di uffici regionali, oltre a rispondere all’esigenza del decentramento amministrativo suscitò la massima partecipazione delle varie province, coinvolte nel programma di conservazione del patrimonio culturale. Ciò non esclude che una saggia amministrazione si dovesse basare su una precisa divisione dei ruoli e delle competenze, a livello centrale ed a livello periferico ed all’interno di una chiara legge – quadro nazionale; occorre, scrive Fiorelli: ” che ciascuno rimanga nella propria sfera, né usurpi ciò che spetta ad altri, né agisca indipendentemente, consumando le forze proprie, senza quel maggiore effetto che dalla buona disciplina si ottiene”514. Lo Stato, dal canto suo, non poteva limitarsi, però, a prescrivere le norme che dovevano regolare le attività delle province e dei consumi, ma doveva provvedere con grande cura ad istituire gli uffici governativi regionali. Sulle caratteristiche di tali uffici, Fiorelli si soffermò con una serie di precise osservazioni, rivestendo carattere di grande validità ed attualità. Innanzitutto, questi uffici “dovranno avere in sé una grande competenza dottrinale, per poter coordinare tutto il loro congegno amministrativo, al progresso ed alla utilità della scienza archeologica e storica del paese nostro515. Competenza dottrinale che non sia acquista a tentoni ed a sbalzi né che si trova in uno di quei Consigli, che finiscono per soffocare ogni vera operosità scientifica. D’altra parte, la pubblica amministrazione non deve pensare di potersi avvalere della competenza dottrinale dei professori universitari; questi non hanno, infatti, la possibilità di prestarci l’opera loro autorevolissima,a tempo pieno, come è necessario che sia. Senza dire, che non sempre le qualità ottime di un professore sono adatte in un direttore di ufficio, che deve saper provvedere anche a risolvere i problemi amministrativi. Beninteso, se sarà eccessivo e dannoso lo impiegare l’attività e lo zelo di quelli che professano la scienza, sarebbe certo non meno dannoso lo adoperare semplici amministratori 513 Idem, p. 70. Idem, p. 71. 515 Idem, pp. 71 – 72. 514 173 o ufficiali, per non dire architetti od ingegneri, che in lavori di altra indole si sono esercitati, e che per rendersi degni dei posti che occupano, non furono obbligati a dar prova di studi fatti sopra le antichità516. Bisognava, quindi, convenientemente riconoscere addestrate 517 . la necessità, Persone, che, di però, avere persone devono essere giustamente remunerate ed avere buone possibilità di carriera, in modo da essere incoraggiate ad entrare in questa nuova vita. Nasce, perciò, il problema della formazione professionale – scrive sempre Fiorelli – che non si può ottenere colle semplici norme necessarie a formare degli insegnanti; occorre, invece, una preparazione speciale”. A tale scopo, Fiorelli formulò una precisa proposta e cioè quella di creare un alunnato518, trasformando la scuola di archeologia da lui stesso creata, “valevole a dare uomini capaci di dirigere musei ed esplorazioni archeologiche, o che educati negli studi artistici, si rendano atti a ben dirigere le opere di restauro ai monumenti”519. Tali alunnati avrebbero potuto beneficiare anche dell’aiuto esterno delle benemerite Società di Storia Patria, e dalla solerzia dei direttori degli archivi di Stato, per tutte le notizie necessarie alla storia dei monumenti medioevali, nonché dei professori di architettura, per lo studio della parte artistica dei monumenti e dei docenti delle scuole di ingegneria per consulti tecnici. 516 Idem, p. 72. Idem, ibidem. 518 Il prof. G. Miarelli Mariani, nella prefazione al volume di Monumenti e istituzioni, richiama l’attenzione anche sulla importanza della richiesta avanzata da Fiorelli alla Scuola di applicazione per gli ingegneri di Roma, di creare un laboratorio per la conservazione dei materiali impiegati negli antichi monumenti. Scrive Miarelli: “Il laboratorio che verrà allestito qualche anno dopo in virtù dell’impegno esemplare e concorde del Ministero, dell’Università e della Direzione generale, è un’iniziativa due volte encomiabile. In primo luogo perché è una dimostrazione di come il Ministero abbia ben compreso che la salvaguardia di un bene tanto prezioso qual è quello storico – artistico non può essere effettuata da una singola istituzione, sia pure prestigiosa ed efficiente, ma soltanto dall’apporto di più forze sinergiche; di qui la necessità, ancor oggi largamente ignorata, di operare perché ogni istituzione – specialmente pubblica – sia utile alle altre. Una seconda ragione di encomio deriva dalla constatazione che sollecitare dall’Università gli studi che si richiedono per la soluzione dei quesiti riguardanti la conservazione dei materiali impiegati negli antichi monumenti dimostra come la Direzione generale fosse in linea con le posizioni più avanzate in tema di restauro”. Roma, 1971. 519 ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio archeologico, seconda relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Roma 1885, p. 73. 517 174 L’istituzione degli uffici governativi in tutte le regioni, la creazione dell’alunnato ed il riordinamento degli Uffici centrali richiedevano uno grande sforzo economico che l’Italia, in quel momento storico, non poteva compiere. Ma Fiorelli sosteneva che non era necessario attuare totalmente il programma suddetto; cosa, peraltro, resa impossibile dal fatto di non disporre di un gran numero di persone idonee. Al contrario, occorreva avviare il processo, anche in via sperimentale, proprio per mostrare tutti i benefici che ne sarebbero derivati a lungo andare. Non necessitavano, perciò, grandi risorse finanziarie; “stabilito per ora il principio, ci si accordi quanto assolutamente occorre per l’impianto di alcuni uffici, lasciando ai bilanci futuri i provvedimenti per il resto, secondo che il lavoro acquisterà maggiori proporzioni”520. Il problema appariva risolvibile dal punto di vista finanziario e dell’organizzazione dell’amministrazione, qualora fossero promulgati provvedimenti speciali di leggi. Leggi che – sintetizzando il pensiero di Fiorelli – dovevano sancire i punti seguenti521: che venga fissato l’obbligo, per tutti, di rivelare al Governo “qualunque scoperta fortuita”, sospendendo i relativi scavi per consentire agli uffici statali “di volgere il casuale rinvenimento a maggior utile dello studio”; che sia stabilita l’obbligatorietà per l’esecuzione degli scavi delle licenze che il Governo potrà accordare solo quando la pubblica amministrazione ha la possibilità effettiva di seguire i lavori o quando non riterrà di eseguirli direttamente; che venga “meglio dichiarato l’effetto a cui sono rivolte le disposizioni per la tutela” in terreni di proprietà dello Stato; che sia stabilito che “tutto ciò che è antico” ed è di proprietà ecclesiastica venga amministrato dal Governo “per l’utile della cultura pubblica”; che nei terreni di proprietà delle parrocchie sia vietata l’esplorazione archeologica ed il commercio degli oggetti rinvenuti, non avendo i “parroci il diritto di abusare della proprietà di cui sono usufruttuari”; 520 521 Idem, p. 73. Idem, pp. 74 – 75 – 76. 175 che sia stabilita, per gli enti morali, “la inalienabilità degli oggetti antichi da essi posseduti”; che sia imposto “alle province e ai comuni l’obbligo, di non alienare le cose antiche di cui sono in possesso”; che sia stabilito l’obbligo di non permettere esplorazioni archeologiche nei terreni provinciali e comunali, dovendo l’esplorazione stessa essere condotta sotto la direzione degli uffici incaricati della tutela del patrimonio archeologico, pur se “a totale vantaggio degli istituti antiquari locali”. Tali norme, relative agli oggetti, dovevano valere anche per i ruderi archeologici immobili (detti da Fiorelli “i monumenti”). Essi dovranno divenire di proprietà pubblica “rimborsando al compratore il prezzo dell’area occupata dal monumento, l’importo della spesa fatta per scoprirlo, e di quella che sarà necessaria per potervi accedere”522. Ma vi era ancora da regolare la questione gravissima – come si esprime Fiorelli – della proprietà privata, decidendo preliminarmente se il rispetto per essa dovesse consentire che i privati ne abusino a danno del pubblico. La questione non poteva essere risolta con il semplice uso della prelazione: diritto dello Stato che diventa inefficace se non è accompagnato da tutte le cautele richieste, per ben determinare in modo assoluto il vero valore di ciò che si dovrebbe acquistare523. Secondo Fiorelli, tutti concordavano nell’esigere dai proprietari di provvedere, sotto il controllo delle autorità competenti, all’obbligo della conservazione dei monumenti archeologici, “salva la ragione di quei compensi che fossero riconosciuti ragionevoli”524. Per quanto riguarda gli oggetti, poi, lo Stato doveva poter stabilire il vero valore per accertare la convenienza ad acquistarli e, in ogni caso, doveva poter controllare le operazioni di scavo per impedire, tra l’altro, che venissero distrutti, “gli elementi che servono per giudicarne in modo sicuro”525. 522 Idem, p. 75. Idem, ibidem. 524 Idem. 525 Idem, p. 76. 523 176 Ho riportato le proposte di Fiorelli per i nuovi provvedimenti legislativi, proposte furono nel disegno di legge presentato dal Ministro Coppino alla Camera dei deputati (seduta del 16 febbraio 1886), recante: “Per la conservazione dei Monumenti e degli oggetti d’arte di antichità”. Questo disegno di legge definì la composizione del patrimonio, posto sotto la vigilanza del Governo, composto di tutti gli oggetti di antichità e d’arte esistenti nel regno, qualunque ne sia la forma e la materia, e di tutti i monumenti ed avanzi d’antiche costruzioni affini alla storia o all’arte, dalle età più remote alla fine del secolo XVIII526. Il provvedimento stabilì anche il decentramento, con la divisione del servizio in regioni, in ciascuna delle quali era prevista l’istituzione di un Museo ed un ufficio governativo. Inoltre, il disegno di legge dichiarava: “è vietato di distruggere, restaurare o alterare in qualsivoglia modo edifici pregevoli per la storia e per l’arte, resti monumentali, oggetti antichi senza averne prima ottenuto il permesso dall’autorità competente”527. Veniva, cioè, affermata la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato; e ciò pur consentendo che, nel caso in cui i progetti sottoposti all’autorizzazione, venissero modificati, i richiedenti dovevano essere indennizzati, ferma restando la facoltà del Governo di sospendere i lavori “quando fossero condotti contro le norme stabilite”528. Sempre per i monumenti architettonici fu fissato anche il divieto, per le amministrazioni governative, di alienare edifici monumentali o resti di tali edifici, senza autorizzazione del Ministero della istruzione pubblica. A tutela dell’interesse pubblico, lo Stato era autorizzato “a far rimuovere dal luogo in cui si trovano, e depositare in uno dei Musei della regione, quegli oggetti pregevoli d’antichità o d’arte, esposti a deterioramento o destinati agli ignobili usi”529. Ed ancora, era sancito il divieto di alienare gli oggetti; divieto assoluto per le amministrazioni governative ed enti morali; per i privati, 526 ACS, Atti Parlamentari, Legislatura XV, 1° sessione 1882 – 86, Documenti, disegni di legge e relazioni. Disegno di legge n. 403 presentato dal Ministro della Pubblica Istruzione, M. Coppino, alla Camera dei Deputati, nella seduta del 16 febbraio 1886. 527 Idem, art. 5. 528 Idem, art. 7. 529 Idem, art. 8. 177 invece, il divieto era limitato a quelli che “l’autorità competente avrà dichiarato necessario per le collezioni dei Musei pubblici”530. In tutti i casi, però, le vendite dovevano riguardare il territorio nazionale, in modo da impedire l’esportazione all’estero, ammessa solo in seguito alla licenza dell’autorità competente e al pagamento della tassa del 20% sul loro valore531, facendo salvo il diritto di prelazione del Governo. Fu, altresì, sancita l’acquisizione allo Stato di “avanzi di templi, basiliche, teatri, anfiteatri, archi trionfali, terme, acquedotti, vie pubbliche, mura di città ed altri resti monumentali di carattere pubblico”, ritornati alla luce dagli scavi. In tali casi lo Stato avrebbe dovuto “corrispondere al padrone del fondo il valore della superficie del suolo occupato dal monumento, quello dell’area necessaria per accedervi e l’ammontare della spesa fatta per scoprirlo”532. Il diritto dello Stato di acquisire alla proprietà pubblica tutto ciò che attiene al patrimonio culturale dall’art. 17 secondo cui: “sarà sempre riserbata allo Stato la proprietà dei resti monumentali e degli oggetti di antichità o di arte che esistano in terreni ed edifici demaniali che vengono venduti nonché in tutte le opere che si eseguiscono con denaro pubblico”. Per gli scavi archeologici, da qualunque intrapresi, fu sancito il controllo dello Stato sia per quanto riguarda la sorveglianza dei lavori che per l’autorizzazione preventiva, che poteva essere rifiutata per scavi riconosciuti di interesse nazionale. Allo Stato era anche riconosciuto il diritto di far sospendere gli scavi che fossero mal condotti, o riuscissero dannosi ai monumenti di arte e di antichità533. 530 Idem, art. 10. Idem, art. 11. 532 Idem, art. 16. 533 Idem, art. 14. 531 178 4.10. IL DIBATTITO E LE OSSERVAZIONI DI BOITO E BELTRAMI Le relazioni di Giuseppe Fiorelli furono al centro dell’ampia discussione che, in quegli anni, si svolgeva negli ambienti culturali e professionali, oltre che politici, per cercare una via che assicurasse una precisa azione pubblica per la conservazione del patrimonio culturale italiano. Tra le figure maggiormente impegnate vi era quella di Camillo Boito534, storico dell’architettura, architetto militante, professore universitario e membro, dal 1882, della Commissione permanente presieduta dal Ministero. Tra i numerosi scritti in materia, va ricordato il saggio “I nostri vecchi monumenti” 535 , sul quale vale la pena fermare l’attenzione poiché consente una serie di osservazioni utili per meglio comprendere la figura e l’opera di Fiorelli. Lo scritto di Boito è apparso lo stesso anno, 1885, in cui Fiorelli pubblica la sua seconda relazione, il testo della quale probabilmente era già noto ai più autorevoli membri della Commissione, tra cui era Boito. Quest’ultimo, pur citando nel suo articolo solo la relazione del 1883, si occupa degli stessi argomenti trattati da Fiorelli nella relazione del 1885; quindi vi è fondata ragione per ritenere che egli abbia voluto svolgere un commento critico alle affermazioni e alle proposte del Direttore generale, rendendo particolarmente importante il contributo dello studioso milanese. Il Boito, dunque, innanzitutto, ricorda che il ritardo nell’emanazione della legge di tutela era da attribuirsi, tra l’altro, alla intensità del lavoro legislativo di quegli anni, per cui molti deputati “entrano nella Camera o nel Governo con i più animosi propositi, e il frastuono, il chiasso li introna, e si assopiscono, e buona notte”536. Ciò non toglie che numerosi sono i parlamentari che tentarono doi portare avanti l’argomento. Tra questi, Boito, ricorda Ferdinando Martini, che fu relatore del bilancio nel 1883 e che fece votare, all’unanimità, un ordine del giorno con il quale la Camera invitava il governo 534 G. Rocchi, Camillo Boito e le prime proposte normative del restauro, in “Restauro”, n. 15, Napoli 1974. 535 C. Boito, I nostri vecchi monumenti; necessità di una legge per conservarli, in “Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti”, prima e seconda parte, 1885. 536 179 a presentare, entro l’anno corrente un disegno di legge per regolare l’andamento del servizio archeologico. Cosa che non accadde, tant’è che nel 1885, si sperava che il ministro Coppino presentasse la legge, preparata con l’aiuto del senatore Fiorelli, riferendosi al quale Boito testimonia: “Bisogna leggere la relazione fatta da lui il 15 febbraio 1883 alla eccellenza del signor ministro, che allora era il Baccelli. Le verità non gliele ha mandate a dire. Mostra perché e come si faccia assai poco, e soggiunge: “E’naturale che questa guisa, alla ignoranza dei tesori custoditi in casa succede la ignoranza di quelli che si trovano al di fuori; e che si rimanga in uno stato di cose, che produce danni innumerevoli, dei quali ogni giorno di più risentiamo le gravi conseguenze”537. Sottolinea Boito, la profondità dell’impegno di Fiorelli, il quale con quel suo modo calmo, sereno, garbato, ha detto chiaro e tondo la verità tutta intera; e in tal senso ripropone dalla relazione del Fiorelli del 1883 il passo dove si legge: “Molte e molte altre cose si potranno dire; ma la conclusione sarà sempre la stessa, cioè che con tutto il nostro buon volere, e con tutto lo zelo di coloro che ci promettono il maggior aiuto, saremo costretti a condurre innanzi molte opere con vero pregiudizio dell’avvenire, moltiplicando quelle difficoltà che è nostro proposito di combattere, se non si provvederà a spartire il servizio archeologico in modo da rispondere alle funzioni che il Governo deve esercitare, per la tutela delle memorie patrie”538. Infatti, il punto centrale del problema della tutela del patrimonio culturale era costituito dall’ordinamento degli Uffici statali del settore. In quegli anni Boito affermò che: “gli strumenti della vigilanza scarseggiano, e l’accordo fra ministri, fra capi di divisione, fra ispettori, fra impiegati secondari non è un punto facile a conseguire”539. Anzi la mancanza totale di coordinamento tra ministeri produsse, oltre che lo spreco di denaro pubblico, l’assurdo inconveniente per il quale “il Governo 537 Ibidem, prima parte, p. 76. Ibidem, p. 92. 539 Ibidem, pp. 76 – 77. 538 180 stesso distrugge o deforma i monumenti della grandezza italiana. L’un braccio non sa quello che l’altro faccia”540. In particolare, Boito sottolinea i gravi danni prodotti dagli interventi sui monumenti eseguiti dal Ministero dei Lavori Pubblici, che, in quel tempo aveva l’incarico di studiare i monumenti, di proporre i modi per restaurarli, di compilare i relativi progetti, di dirigere l’esecuzione delle opere, di liquidare i conti. La legge 5 luglio 1882, sulle attribuzioni e sul servizio del Genio civile, consentiva di utilizzare, per il restauro, architetti ed ingegneri liberi professionisti. Purtroppo, scrive Boito: “ancora non è entrato nei cervelli che ingegnere ed architetto non sono la stessa cosa!”541; per conseguenza, venivano impiegati quasi sempre ingegneri nel campo del restauro. D’altra parte, “le Commissioni conservatrici dei monumenti e gli ispettori dei monumenti e degli scavi non sono in grado di guidare, salvo rare eccezioni, gli impiegati del Genio Civile. E per guidarli non basta che siano intendenti d’antichità, bisognerebbe che fossero anche architetti”542. Per Boito, la difficoltà di impedire la pericolosa azione degli incompetenti e degli ingegneri del Genio civile, consiste, sostanzialmente, nel fatto che: “E’ impresa troppo difficile persuadere un ministro e sopra tutto la burocrazia d’un ministero a rinunciare, come in questo caso dovrebbe fare l’Amministrazione dei lavori pubblici, ad una parte delle proprie attribuzioni e quindi della propria influenza ed autorità”543. A tal proposito, egli richiama il passo della relazione Fiorelli 1883, dove si legge : “Nella maggior parte dei casi, siamo ancora costretti a valerci di persone, dipendenti da altre amministrazioni governative, che o per mancanza di studi e di preparazioni speciali, o per essere distratte da altre occupazioni pure di ordine pubblico, non possono produrre opera soddisfacente”544. Boito, insiste con forza su tale aspetto e ricorda nel suo scritto il voto del Congresso degli ingegneri e degli architetti: 540 Ibidem, pp. 77 – 78. Ibidem, p. 78. 542 Ibidem, p. 79. 543 Ibidem, p. 81. 544 Ibidem. 541 181 “Il IV Congresso degli ingegneri ed architetti italiani: Convinto che gli ordinamenti oggi in vigore non valgano a tutelare in Italia, con sicura efficacia, i monumenti architettonici del passato, e compreso della responsabilità che per la conservazione e pel restauro di essi il Governo assume, non solo in faccia al paese, ma in faccia al mondo civile; confermano le deliberazioni dell’ultimo Congresso artistico tenuto a Torino nel 1880 e dell’ultimo Congresso degli ingegneri ed architetti tenuto in Napoli nel 1879; fa voti perché i restauri di pubblici edifici monumentali non siano affidati dal Governo agli uffici del Genio civile, dove le norme amministrative e gli incarichi riguardanti ogni ramo d’ingegneria, come non lasciano tempo ed agio a lunghi e difficili studi d’arte, di archeologia e di storia, così non ammettono una diretta e palese responsabilità personale; fa voti, inoltre, perché, all’intento di meglio provvedere allo studio, alla conservazione ed al restauro dei monumenti, vengano istituiti nelle grandi regioni italiane nuovi uffici di ispettorati regionali, composti dell’architetto ispettore, e secondo il bisogno, di architetti aggiunti e di disegnatori, convenientemente retribuiti, ed eletti per mezzo di pubblici e severi concorsi”545. Coerentemente con quanto sopra riportato, Boito sosteneva la necessità di disporre di personale qualificato e responsabile del proprio operato nei confronti del Governo; personale, però, che doveva essere remunerato e non doveva lavorare gratuitamente, come allora accadeva per gli ispettori. Ed a conferma di tale tesi, egli richiamava, ancora una volta, le parole di Fiorelli: “La esperienza ci ha dimostrato, che da persone le quali gratuitamente si prestano, non si poteva pretendere un’opera di sommo rilievo. Ed il nostro bilancio non ci offrì neanche le somme necessarie al pagamento delle spese per le gite delle Commissioni nei vari luoghi delle province, ove conveniva di accedere per la compilazione degli elenchi dei monumenti”. 545 Ibidem pp. 81 – 82. 182 Giuseppe Fiorelli Altro problema ritenuto fondamentale, fin da quei tempi, era quello del decentramento; vale a dire dell’organizzazione dei servizi per regioni, come consigliato dal comune consenso dei corpi scientifici del mondo civile. Tale concetto risultava, in qualche modo, già recepito allora, dalle leggi riguardanti i musei archeologici. “Però – avverte Boito – non bisogna confondere con la spartizione delle regioni, le quali devono abbracciare tutto il passato, anche quello che seguì ai romani e che ci lasciò le innumerevoli e stupende bellezze del medio evo, del rinascimento, del risorgimento e persino del periodo barocco”546. Egli, quindi, propose la crezione di otto Uffici regionali di Ispettorato per i monumenti architettonici (con sedi a: Roma, Napoli, Palermo, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino), composti da un architetto ispettore, 546 Ibidem, p. 84. 183 architetto aggiunto e un disegnatore. Tali uffici avrebbero dovuto occuparsi, innanzitutto, della catalogazione dei monumenti e degli oggetti d’arte. Inoltre, il lavoro degli Uffici regionali, poi, si sarebbe dovuto coordinare con quello degli altri organismi statali esistenti e con le Accademie e gli Istituti di Belle Arti, con i professori dell’Università in modo tale che – secondo l’autore – “l’ispettore, pagato e autorevole, diventerebbe il centro degli studi sparsi e imprimerebbe ad essi un indirizzo pratico per la migliore conoscenza dei monumenti e per la loro più fedele e più lunga conservazione. Sarebbe suo incarico il riferire al Governo sullo stato degli edifici monumentali, il proporre i ripari ai danni, il compilare i progetti di restauro, il sovrintendere all’esecuzione delle opere, giovandosi di assistenti come fa il Genio civile. Ufficio, questo ultimo, le cui attribuzioni verrebbero limitate a quelle esclusivamente tecniche ed amministrative”547. Naturalmente, la proposta di Boito, come quella di Fiorelli, era fondata sull’alta qualità e sulle competenze degli Ispettori. Altro presupposto dell’organizzazione proposta da Boito era quello di poter disporre di pratiche istruzioni, comuni per tutti, che fornissero i canoni essenziali del buon restauro; questo doveva essere il compito della allora esistente Commissione permanente di belle arti. Essa, tuttavia, era oberata di compiti e non sembrava particolarmente specializzata nel campo del restauro architettonico. La soluzione, allora, poteva consistere nell’affiancare alla Commissione gli otto Ispettori, dando vita, in tal modo, ad un Consiglio superiore dei monumenti. In definitiva, Boito poneva in rilievo l’urgenza di procedere al riordino dei servizi. E questo già porrebbe freno ai gravi danni che si dovevano registrare: “……disordine, indisciplina, mancanza di verifiche informazioni, difetto di competenza e di autorità, bestialità di ispettori gratuiti e di Commissioni gratuite, tutti malanni i quali si risolvono nel più disgraziato spreco di denaro, perché è uno spreco che dall’una parte sciupa i monumenti e dall’altra demoralizza gli uomini”548. Un altro aspetto importante da affrontare era la normativa di tutela riguardante i monumenti e le opere d’arte di proprietà dei privati, in moda da definire i 547 548 Ibidem, p. 87. Ibidem, p. 91. 184 modi e i diritti di intervento dello Stato nella espropriazione o limitazione della proprietà privata a titolo di utilità pubblica per gli edifici monumentali, gli oggetti d’arte preziosa, le cose scavate e da scavare. Infatti, il rapporto con la proprietà privata e l’equilibrio fra l’autorità dello Stato e i diritti dei cittadini, era il punto che bloccava il cammino della legge per la conservazione dei monumenti nell’Italia appena unificata. Occorreva una legge che non poteva non prevedere, tra l’altro, il principio dell’espropriazione o dell’uso delle cose private per il vantaggio della collettività o, con le parole di Boito, “l’acquisto di una proprietà privata, pagandola quanto vale”549. Intervento dello Stato, questo, che già veniva ampiamente adottato per numerose ragioni: dalla difesa del patrimonio e dalla sicurezza degli abitanti alla costruzione delle strade e delle ferrovie, allo sviluppo del commercio e così via. Considerando, dunque, l’utilità pubblica della conservazione dei monumenti, si comprende il diritto dello Stato di avocare a sé la loro proprietà o di limitare l’uso della proprietà altrui, secondo il bisogno e nei limiti del bisogno. E ciò, inoltre, facendo le dovute distinzioni tra i monumenti mobili e gli immobili550. Ma in ogni caso, l’acquisizione della proprietà da parte dello Stato comporta la disponibilità delle risorse finanziarie necessarie. Occorre, quindi, che lo Stato, una volta stabilita l’utilità pubblica degli oggetti e il diritto di esproprio pagando il giusto prezzo, stanzi nel bilancio le somme necessarie. A fronte di tale previsione di spesa, vi è, però, - osserva il Boito – quella di introito derivante dalla possibilità di imporre un sensibile dazio di esportazione. Il che, d’altra parte, era già stato proposto nel 1872, dalla legge presentata da Correnti per la “Conservazione dei monumenti e degli oggetti di arte e di archeologia”, approvata dalla Commissione competente del Senato, ma mai trasformata in legge. L’imposizione del dazio, applicata in vari leggi preesistenti all’unità come spiegato in precedenza, potrebbe, infatti, assicurare un buon provento per lo Stato. Come scrive Boito: “E per quanto sia la facilità di frodar le dogane, massime nelle città marittime, il dazio servirà non di meno a impacciare e scemare 549 550 Ibidem, parte seconda, p. 95. Ibidem, p. 96. 185 l’esportazione tanto delle cose eccellenti, e sarà un bene, quanto delle cose mediocri e cattive, e non sarà né bene né male, perché non si può dire che il commercio delle anticaglie sia uno di quelli che fanno rifiorire i paesi e che i Governi hanno l’obbligo di incoraggiare e proteggere”551. Tutto ciò è, poi, strettamente collegato con le possibilità di conoscere, attraverso la catalogazione, l’esistenza delle opere d’arte, comprese quelle presenti all’interno delle proprietà private, ove sono da stabilire sia il diritto che i ruoli ammissibili per lo Stato di accedere per le constatazioni necessarie. Inoltre, per la conservazione delle opere architettoniche occorre stabilire una stretta collaborazione nel campo dei regolamenti edilizi, vigenti in tutte le città d’Italia e approvati dal Governo sul voto del Consiglio di Stato e del Consiglio superiore dei lavori pubblici552. È interessante riportare anche un’altra citazione di Boito, ancora oggi attuale nel considerare l’operato degli organismi consultivi ministeriali: “…quando pure la Commissione permanente avesse le attitudini per giudicare, le mancherebbe il tempo, Andare per pochi giorni a Roma ogni quattro o cinque mesi, vedere in fretta carte, disegni, fotografie di un edificio di cui non s’è forse mai sentito parlare, risolvere le controversie, sputar sentenze, ci vuol ben altro!”553. E’ evidente, dunque, il pensiero e le proposte di Fiorelli risultano condivise da Boito e, pertanto, può dirsi che erano perfettamente inquadrate nelle posizioni culturali di quei tempi. Un’ulteriore conferma fu offerta qualche anno dopo (1892), da uno scritto di Luca Beltrami554 nel quale l’illustre studioso e senatore del Regno, nel partecipare al dibattito relativo alla promulgazione della legge di tutela ed alla riorganizzazione dei servizi statali, esaminò gli avvenimenti verificatesi nel settore degli ultimi vent’anni (1872 – 92). E appunto, nel compiere tale excursus egli ha occasione di commentare e sostenere l’opera di Direttore 551 Ibidem, p. 102. Ibidem, p. 105. 553 Questa citazione è presente nella prefazione del libro di M. A. Crippa, Camillo Boito, il Nuovo e l’Antico in Architettura, Milano, 1989. 554 L. Beltrami, La conservazione dei monumenti nell’ultimo ventennio, in “Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti”, III serie, Roma, 1892. 552 186 generale, di cui ricorda, innanzitutto, la relazione del 1883, in cui viene delineato lo stato soddisfacente dell’attività statale della tutela. Beltrami, in tal proposito, riporta il seguente brano dello scritto di Fiorelli: “Si dirà: la colpa è del Ministero, che non ha saputo fare il dover suo, dando la responsabilità delle cose a chi aveva l’obbligo di assumerla. Ciò è presto detto: ma affinché il Ministero avesse potuto impedire le vendite demaniali, impedire lo sperpero degli oggetti di arte custoditi nelle chiese, affinché avesse potuto amministrare il patrimonio archeologico ed artistico della nazione, sarebbe stato mestieri innanzitutto che conoscesse questo patrimonio e lo conoscesse in tutte le sue parti”555. E prosegue denunciando l’insufficienza dei mezzi a disposizione del Ministero: “Fu quindi in questa relazione del senatore Fiorelli che, or sono quasi dieci anni, cominciò a farsi strada, tanto il concetto della istituzione di uffici i quali provvedessero alla tutela e conservazione del patrimonio artistico secondo le regioni, quanto l’altro concetto di una razionale distinzione del personale scientifico o tecnico, dal personale amministrativo”556. Concludendo, per spiegare i motivi per i quali l’impostazione proposta da Fiorelli e da lui condivisa non avesse dato i risultati attesi, Beltrami prosegue scrivendo: “Ma le condizioni del bilancio non potevano lasciar sperare una sollecitata attuazione di queste riforme, per quanto vi fosse da ripromettersene un vantaggio abbastanza immediato anche dal punto di vista economico: d’altra parte le continue difficoltà che insorgevano contro l’approvazione di una legge per la conservazione dei monumenti, la quale provvedesse a dare valido aiuto all’azione del Ministero nella tutela del patrimonio artistico, venivano quasi a giustificare gli indugi che il Ministero frapponeva ad una vera riforma del servizio archeologico”557. 555 Ibidem, p. 457. Ibidem, pp. 458 – 459. 557 Ibidem. 556 187 4.11. PROGETTO PER UNA LEGGE UNITARIA: DALLA LEGGE NASI ALLE LEGGI BOTTAI Agli inizi del XX secolo, il Parlamento approvò la prima legge nazionale di tutela delle belle arti, n. 185 del 12 giugno 1902, nota come “Legge Nasi”, dal nome dell’allora Ministro dell’istruzione558. Anche se in ritardo, si trattò di un momento assai felice per la storia della tutela dei beni culturali. Dopo un lungo e travagliato periodo di vacanza legislativa, anche il settore artistico poteva vantare una normativa certa, che fissava una serie di coordinate fondamentali per l’esercizio dell’azione pubblica. La legge stabiliva l’inalienabilità degli oggetti d’arte dei comuni, delle province e degli enti ecclesiastici, ammettendo il cambio di opere d’arte con musei stranieri; regolava gli scavi riconoscendo ai privati la facoltà di eseguirli sotto sorveglianza governativa e disponendo in ordine agli stanziamenti ed all’esportazione per la conservazione dei monumenti e delle opere d’arte. La normativa, era, però, lacunosa soprattutto in relazione al procedimento di autorizzazione alla vendita delle collezioni o dei singoli beni, e lasciava margini di discrezionalità troppo ampi al Ministro559. Il suo campo di applicazione, peraltro, era assai limitato, circoscritto ai monumenti, agli immobili e agli oggetti mobili, a cui era riconosciuta la dichiarazione di sommo pregio d’antichità o d’arte, ai fini dell’inventariazione. L’eccessiva cautela del legislatore, impose, di lì a qualche anno, alcune sostanziali modifiche, attraverso la legge 20 giugno 1909, n. 364, c. d. “legge Rosadi”. Giovanni Rosadi, da buon politico, fu anche Consigliere Comunale (1895 – 1898), deputato dal 1903 al 1924, nonché sottosegretario al Ministero della Pubblica Istruzione (1914 - 1916 e 1920 -1922); fu sempre strenuo difensore delle belle arti e delle bellezze naturali560. Egli predicava in 558 M. S. Giannini, Introduzione, in “Ricerca sui beni culturali”, vol. I, Camera dei deputati, Roma, 1975, p. 20. 559 S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, p. 45. 560 C. Ceccuti, Un parlamentare fiorentino in età giolittiana: Giovanni Rosadi, in “Rassegna storica toscana”, n. 1. 1981, p. 73. 188 Parlamento l’integrità del patrimonio, o denunciava la cattiva gestione e i molti abusi, tanto che lo stesso Giuseppe Bottai, una trentina di anni dopo, l’avrebbe definito “avvocato di grido” e “ardente cultore delle belle arti”561. La nuova e più completa legge estese l’azione pubblica alle “cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico e artistico”, abbandonando i generici “monumenti”, includendo, tra l’altro, i codici, gli antichi manoscritti, gli incunaboli, le stampe e incisioni rare e di pregio e di interesse numismatico”, puntualizzando meglio gli strumenti giuridici di protezione, controllo ed appropriabilità pubblica del patrimonio, con ampi poteri sui privati e le cose d’arte in loro possesso562. In particolare, essa abolì il principio secondo il quale la tutela doveva essere subordinata all’iscrizione in un catalogo ufficiale, prevedendo, per i beni di appartenenza privata, la notifica di importante interesse, l’obbligo di denuncia in caso di alienazione e il diritto di prelazione dello Stato563. 561 G. Bottai, Politica fascista delle arti, Roma, 1941. Ne “La Nuova Antologia”, del 1° febbraio 1908, Valentino Leonardi raffrontava in estrema sintesi le leggi di tutela del 1902 e del 1909: “Mentre infatti la legge Nasi affermava: 1° Il semplice diritto di prelazione dello Stato sui capolavori esportati; 2° l’inapplicabilità della legge all’interno degli edifici monumentali privati; 3° la devoluzione allo Stato della sola quarta parte degli oggetti di scavo privato, o del loro prezzo, dei tre quarti del frutto degli scavi di Stato, e dell’intero degli scavi intrapresi da stranieri, e il nessun diritto dello Stato stesso sugli oggetti rinvenuti casualmente dai cittadini; Il nuovo programma ora propugna: 1° Il divieto assoluto di esportazione per le opere di sommo pregio, artistico o storico; 2° la tutela legale anche dell’interno degli edifici monumentali privati; 3° la devoluzione allo Stato di una metà degli oggetti, scavati dai privati e casualmente rinvenuti, salvo a ritenerne il prezzo quando non avessero importanza; e l’attribuzione di un sol decimo d’aumento sul prezzo d’acquisto o sull’indennizzo ai proprietari, nel caso di scavi di Stato in fondi privati: con la dichiarazione che nel prezzo degli oggetti non sarà computato il sopravalore a questi derivante dai mercati esteri, e che in quello dei fondi non sarà computato il valore degli oggetti o monumenti che si ritenga possano trovarvisi. 563 R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, Collana dei dibattiti storici in Parlamento a cura dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica, Bologna, 2003. In apertura vi si legge: “La storia della legge n. 364 del 20 giugno 1909 “Per le antichità e le belle arti” vale la pena di essere raccontata per una serie di buoni motivi. Il primo, intrinseco alla materia che disciplina, risiede nell’istituzione di un sistema di vincoli più forti a tutela del patrimonio culturale nazionale, ed in particolare dei beni mobili ed artistici. Il secondo, più generale, riguarda il rapporto fra pubblico e privato nella sensibilità dell’opinione pubblica e della classe dirigente d’inizio secolo. Il terzo, interessa i sottili nessi ideologici e simbolici di cui è intessuto il processo di nazionalizzazione nell’Italia, al di là dello schematismo dei programmi dei partiti. Il quarto, ha a che fare con la qualità del riformismo giolittiano, con le sue concrete modalità di realizzazione, nella mediazione degli interessi e nella materialità del lavoro parlamentare” 562 189 La successiva legge del 23 giugno 1912, n. 688, ampliò ancora di più l’oggetto di tutela, comprendendo tra i beni meritevoli di protezione anche “le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse storico o artistico”. In suo scritto, Andrea Emiliani, con rammarico, sottolineò che: “Anche questa volta ci si dimentica il paesaggio, che, in armonia con la antica avversione italiana per la natura, si concreterà nel concetto limitativo di ville, parchi e giardini dando così un altro valido contributo a quella carentissima nozione del rapporto fra natura e società che dall’antropocentrismo umanistico transiterà con corriva facilità a licenze pressoché illimitate, lottizzazioni senza rispetto, demolizioni di ambienti naturali pressoché totali, e cioè insomma alla degradazione territoriale imposta e voluta dalle prime attività industriali e dall’ormai adulta speculazione in nome dell’idea inarrestabile del progresso di qui in avanti identificato esclusivamente nella costruzione di edifici e di fabbriche”564. Contemporaneamente sul piano amministrativo si lavorò per perfezionare la struttura amministrativa. Fu il Ministro Baccelli, a richiamare l’attenzione dell’esecutivo sulla necessità di tale perfezionamento, più vicino al territorio e alle sue specifiche esigenze. Nel 1904 – quasi contemporaneamente alla approvazione della prima legge di tutela nazionale – nacque la nuova struttura periferica del Ministero. Furono soppressi i commissariati regionali, sostituiti dai nuovi organi periferici, chiamati Soprintendenze. Si dispose che le competenze dei costituendi uffici non dovessero essere attribuiti su scala territoriale (come era accaduto in passato per i commissariati regionali), ma in funzione di un criterio settoriale, in “monumenti”, “archeologia” e “gallerie e oggetti d’arte”. Ed ancora, al fine di garantire, un più efficiente e trasparente legame con le esigenze locali, si stabilì il reclutamento del personale con concorsi, così da selezionare esperti di grande prestigio565. Nel 1907, le Soprintendenze diventarono una realtà. Tuttavia, l’autonomia degli uffici periferici si rivelò poca cosa ed il loro margine di azione molto limitato a compiti prettamente esecutivi. Infatti, i poteri decisionali restarono 564 565 A. Emiliani, Una politica dei beni culturali, Torino, 1974, pp. 94 – 95. Ibidem, p. 92. 190 saldamente nelle mani degli uffici centrali, evolvendo in direzione del rafforzamento dei medesimi566. La politica di tutela del ventennio fascista radicalizzò il verticismo dell’età giolittiana. Nel 1923 fu varato un nuovo ordinamento delle Soprintendenze, distinguendole in “Soprintendenze alle antichità”, “Soprintendenze ai monumenti e alle gallerie” e “Soprintendenze miste”. In virtù del nuovo ordinamento, vennero aboliti i concorsi e la figura del Soprintendente sempre più assimilata a quella del burocrate, senza poteri sostanziali, chiamato ad eseguire le disposizioni enunciate dai vertici. Nel giro di pochi anni, il fascismo recise il legame che univa il patrimonio e la sua cura al luogo originario e alla gestione diretta. Tale processo raggiunse la sua più significativa espressione nel nuovo ordinamento del Ministero, varato dal Ministro Bottai tra il 1938 e il 1939567. La legge del n. 1673 del 1938 istituì un unico Consiglio Nazionale dell’Educazione e delle Belle Arti. Un anno più tardi, con la legge n. 823 del 1939, si procedette alla ristrutturazione degli uffici periferici: le Soprintendenze divennero cinquantotto ed i settori di competenza definiti verticalmente. Tale ampliamento fu presentato come lo strumento fondamentale per garantire la massima funzionalità dell’apparato: in realtà, celata dietro tale scelta, vi era, ancora una volta, il bisogno del vertice di controllare la situazione568. Sul piano normativo, in quegli stessi anni, vide la luce la legge 1° giugno 1939, n. 1089, sulla “Tutela delle cose d’interesse artistico e storico” (c. d. “legge Bottai”), alla quale viene pacificamente attribuita dalla dottrina un’importanza centrale, soprattutto per quel che riguarda la regolazione del rapporto tra i diritti del proprietario del bene culturale e l’interesse pubblico alla sua conservazione e al suo godimento569. Essa poneva l’attenzione in campi di intervento non esplorati o insufficientemente trattati, spaziando così dai beni di interesse artistico e archeologico fino a comprendere l’arte 566 E. Mattaliano, Il movimento legislativo per la tutela delle cose d’interesse artistico e storico dal 1861 al 1939, in Ricerca sui beni culturali, vol. I, Camera dei deputati, Roma, 1975, p. 21. 567 S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in “L’amministrazione dello Stato”, Milano, 1976, pp. 153 ss. 568 Ibidem. 569 Ibidem. 191 contemporanea, le manifestazioni e le istituzioni sportive, i restauri, gli archivi, il diritto di stampa e d’autore fino alla materia urbanistica ed alle relative organizzazioni amministrative. Il modello cui la legge si ispirò era quello della normativa del 1909: e infatti, da una parte, a favore dei privati, introdusse disposizioni volte a regolare l’esportazione e il commercio antiquario; dall’altra, a favore dei poteri pubblici e degli interessi della collettività: estese il potere di espropriazione, dispose di ammettere il pubblico alla visita dei beni immobili e delle collezioni o serie di oggetti in appartenenza privata, avocò alla proprietà statale tutti i ritrovamenti delle cose d’arte570. Inoltre, la legge del 1939, prevedeva che le cose di antichità e d’arte appartenenti allo Stato o ad altro istituto pubblico fossero inalienabili (art. 23). Il Ministro, però, sulla base del suo giudizio discrezionale, poteva autorizzarne l’alienazione, purché non ne derivasse “danno alla loro conservazione e non ne fosse menomato il pubblico godimento”, (art. 24). Le cose appartenenti agli enti morali, invece, potevano essere alienate, ad eccezione delle collezioni o serie di oggetti notificate: anche in questo caso, occorreva un’autorizzazione ministeriale, che poteva essere rifiutata qualora l’alienazione procurasse un grave danno al patrimonio nazionale o al pubblico godimento della cosa571. Molto interessante era la disciplina dell’esportazione all’estero dei beni culturali della suddetta legge, collocandosi in linea di continuità con la tradizione pre unitaria per i limiti previsti. Il sistema ruotava attorno a tre concetti fondamentali – quello di interesse, quello di patrimonio nazionale e quello di danno - tra loro intimamente correlati. Secondo l’art. 35, co. 1°: “E’ vietata nei casi in cui costituisca ingente danno per il patrimonio storico e culturale nazionale, l’esportazione delle cose di cui all’art. 1 della presente legge che presentino notevole interesse storico, 570 571 G. Bottai, Politica fascista delle arti, Roma, 1941. Ibidem. 192 artistico, archeologico, etnografico, a motivato giudizio dei competenti uffici di esportazione delle soprintendenze alle antichità e belle arti”572. Quanto all’ambito di applicazione erano da intendersi esportabili i beni in appartenenza sia pubblica che privata. Con riferimento a questi ultimi, la legge disponeva che potevano essere oggetto di esportazione tanto le cose non notificate quanto quelle vincolate. La diversa intensità della disciplina dell’esportazione rispetto a quella più strettamente di conservazione dei beni in appartenenza privata era affine al clima politico che caratterizzava l’epoca in cui la legge entrò in vigore e con le contraddizioni ad esso peculiari: da un lato, la necessità di tutelare il patrimonio artistico e storico, dall’altro quella di non pregiudicare gli interessi del commercio antiquariale573. Il disegno generale della legge, infatti, mostrava una certa ambiguità, poiché, mentre definiva un adeguato sistema protettivo del grandioso patrimonio artistico e storico della Nazione, in concreto introdusse una disciplina di esportazione meno rigida, consentendola anche per le cose notificate, ossia quelle a cui era già riconosciuta la rilevanza per il patrimonio nazionale574. Quanto al procedimento, le legge stabiliva che chiunque intendesse esportare un bene culturale, qualunque fosse il paese di destinazione, era obbligato a: farne denuncia al Ministero della Pubblica Istruzione; presentare il bene ai competenti uffici di esportazione; dichiararne il valore venale; versare, a titolo cauzionale, una somma pari all’importo della imposta progressiva sul valore dichiarato che l’esportatore era obbligato a pagare, nel caso avesse ottenuto l’autorizzazione all’esportazione575. La legge, prevedeva, infine, un sistema di sanzioni per le violazioni: l’esportatore poteva essere multato per aver solo anche tentato l’esportazione clandestina, ovvero punito con la reclusione da uno a quattro anni quando la cosa non sia stata presentata alla dogana, oppure presentata con dichiarazione 572 G. Bottai, Relazione alla Camera sul disegno di legge da cui sarebbe sortita la L. 1089/1939, in Leggi, 1939, p. 892 ss. 573 T. Alibrandi, L’evoluzione del concetto di bene culturale, 1999, pp. 2702 ss. 574 Ibidem. 575 G. Bottai, Relazione alla Camera sul disegno di legge da cui sarebbe sortita la L. 1089/1939, in Leggi, 1939, p. 892 ss. 193 falsa o equivoca, ovvero nascosta per sottrarla alla licenza di esportazione o al pagamento della tassa relativa, e, non da ultimo, la cosa poteva essere confiscata576. Ai fini della decisione circa il rilascio o il diniego della autorizzazione, il Ministero doveva valutare, più che il pregio della cosa d’arte, la posizione, e/o il ruolo da essa rivestiti nel quadro generale del patrimonio storico, artistico, archeologico della nazione. Innanzi alla richiesta di esportazione, il Ministero poteva scegliere fra tre diverse soluzioni prospettate dalla legge: opporre il veto, laddove avesse ritenuto che l’uscita del bene rappresentasse un ingente danno al patrimonio culturale nazionale; concedere la licenza, ove avesse reputato non sussistente il danno; esercitare il diritto di acquisto coattivo all’esportazione, cioè acquisire il bene versando all’esportatore l’equivalente del valore dichiarato, laddove avesse valutato che esso presentasse interesse per il patrimonio tutelato dalla legge577. Anche l’esportazione temporanea era sottoposta allo stesso regime di autorizzazioni: nel caso di mancato ritorno dell’oggetto nei termini stabiliti, la somma versata a titolo cauzionale sarebbe stata acquisita a titolo definitivo578. Con successivo provvedimento, la legge n. 1497 del 1939, Bottai, introdusse definitivamente il concetto di paesaggio nel patrimonio nazionale, che fu, così, suddiviso nelle due categorie di beni culturali e paesaggistici. Le leggi Bottai del 1939 hanno rappresentato dei veri e propri pilastri per il concetto ed il metodo della tutela del XX secolo, al punto tale che la relativa disciplina confluì in gran parte nel D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, con cui è stato approvato il primo “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. 576 Ibidem. Ibidem. 578 Ibidem. 577 194 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE FINANZIARIE E LA LORO RAPPRESENTAZIONE 5.1. NUOVO CONTRATTO DI APPALTO PER GLI SCAVI DI POMPEI. CONDIZIONI GENERALI Il giorno 4 settembre 1861, alla presenza del notaio del Museo Nazionale di Napoli, Tommaso Maria Piscopo, fu stipulato il primo contratto di appalto post unitario tra il Principe di Sangiorgio D. Domenico Spinelli, Direttore del Museo Nazionale e Soprintendente generale degli Scavi di antichità, (dal 1850 al 1863), - il cui servizio fu sospeso nel periodo in cui Giuseppe Garibaldi occupò Napoli e offrì il suo incarico ad Alexandre Dumas, dal 1861 al 1864 – e Nicola e Carmine Fiorentino, entrambi appaltatori579. Le condizioni pattuite erano le stesse sancite dal precedente contratto di appalto, risalente al 24 gennaio 1859 stipulato con il sig. Lettieri580, ad eccezione di due nuovi aspetti: l’uso della rotaia di ferro per il trasporto delle terre risultanti dagli scavi, ed il conseguente pagamento ai nuovi appaltatori per la spesa sostenuta. L’ammontare fu stimato dall’Architetto direttore dei suddetti scavi, incluse le carrette e gli altri utensili analoghi per l’uso della rotaia. Inoltre, il pagamento della somma era condizione necessaria e preventiva per l’impiego del novello mezzo di trasporto. La durata del nuovo contratto fu fissata in 4 anni, dal 1° luglio 1861 fino a tutto giugno 1865, diversamente dalla pattuizione precedente in cui la risoluzione del rapporto si concludeva in 2 anni. L’appalto era concesso per gara amministrativa a ribasso sulla tariffa dei lavori necessari, presentata da un partitario di fama conosciuta, abile, onesto e ricco di mezzi, rinnovato quante volte il Maggiordomo maggiore e 579 ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861. Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39, Scavi di Pompei, 1861 – 1875. 580 ASSAN, fascio XVII B10, Contratto di appalto stipulato con il sign. Lettieri, Napoli 24 gennaio 1859. 195 Soprintendente generale di Casa Reale lo stimassero conveniente581. Esso comprendeva la somministrazione dei materiali e della mano d’opera, con riferimento alle sole persone riconosciute idonee per abilità di mestiere, quale requisito indispensabile per eseguire puntualmente i lavori in Pompei582. In seguito alla ammissione alla gara, gli “appaltatori” erano iscritti in un “notamento” affisso alla porta del Reale Museo Borbonico e Soprintendenza Generale degli scavi del Regno; ciascun concorrente depositava una fede di credito, o contante, della somma di ducati 50583, (pari a 212 lire al 1861); per coloro che non si aggiudicavano l’appalto era prevista la restituzione della medesima. L’aggiudicatario assumeva non solo gli obblighi di legge vigenti per gli imprenditori di opere pubbliche, ma anche quelli indicati nei regolamenti approvati dalle istituzioni preposte alla gestione del sito archeologico. I lavori erano pagati in funzione dei prezzi stabiliti nella tariffa contenuta nel contratto del 1859584; in caso di lavori non previsti, i prezzi erano calcolati dall’Architetto direttore, compatibilmente con quelli della Tariffa del Genio Militare di Castellammare585. Stipulato il contratto, l’imprenditore era tenuto, negli otto giorni successivi, ad apprestare gli utensili, gli strumenti e le macchine necessarie a condurre i lavori, riposte in un apposito locale adibito in prossimità degli scavi di Pompei; locale che non poteva essere impiegato ad uso abitativo per sé ed i propri dipendenti, poichè a Pompei il pernottamento notturno era autorizzato solo alle persone impiegate al Real servizio, o la forza militare di custodia. In caso di mancato apporto di macchine ed utensili, l’Amministrazione stabiliva a carico dell’imprenditore una multa pari al 10% della cauzione586. 581 ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861. Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39, Scavi di Pompei, 1861 – 1875. 582 Ibidem. 583 Ibidem. 584 ASSAN, fascio XVII B10, Contratto di appalto stipulato con il sign. Lettieri, Napoli 24 gennaio 1859 585 Ibidem. 586 ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861. Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39, Scavi di Pompei, 1861 – 1875. 196 5.2. ANTICIPO DI SOMME E PAGAMENTI DI LAVORI L’appaltatore era tenuto ad anticipare 500 ducati (pari a 2.125 lire al 1861), in deposito presso l’Amministrazione, al fine di fronteggiare eventuali lavori straordinari conseguenti a danni inferti alle antichità per trascuratezza o per cattiva realizzazione del servizio. A termine del contratto, la cauzione era restituita previo rilascio del certificato di verifica dell’Architetto direttore degli scavi. I pagamenti erano erogati mediante certificato bimestrale dell’Architetto direttore, attestante l’esecuzione dei lavori in conformità alla tariffa e alla qualità pattuita, riportando, separatamente, lo stato sommario587 con i rispettivi prezzi, specificando le diverse categorie di intervento, deducendo, infine, dall’importo complessivo, il 4% a titolo di “offerta” per l’Amministrazione degli scavi, ed il 2% a beneficio della Casa Reale588. L’architetto direttore degli scavi di Pompei compilava un registro riportante i tempi, il luogo in cui gli interventi erano stati realizzati, la tipologia ed i certificati di pagamento sia del partitario sia dei materiali consumati; siffatto notamento o registro, detto libretta589, era sottoscritto dall’appaltatore e dall’ingegnere di dettaglio residente in Pompei. Il compenso spettante all’appaltatore era pari al 10% della somma complessiva pagata agli impiegati durante il bimestre. 587 Ibidem, art. 15, p. 134. Tra l’altro il sommario dei lavori, completa la descrizione dei lavori compiuti a Pompei contenuta nelle “Misure dei lavori”, riportando il costo effettivo delle operazioni, contenute nei fasci dell’ Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei 588 Ibidem. 589 La “libretta” corrisponde alle “Misure dei lavori”, estrapolate dai documenti dell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei: si trattava di registri bimestrali dell’Ufficio tecnico degli scavi in cui erano rendicontati in termini quali – quantitativi le operazioni di sterro con relativa valutazione delle spese sostenute. Si trattava della prima forma embrionale di “bilancio” per gli scavi di Pompei. 197 5.3. QUALITA’ DEI LAVORI, PENALE E CASI DI SOSPENSIONE I lavori dovevano essere eseguiti a “perfezione tanto dei materiali che della mano d’opera”590 , imitando il più possibile le diverse costruzioni antiche e rispettando scrupolosamente gli ordini impartiti dall’Architetto direttore, relativamente alla qualità e all’uso dei materiali impiegati a Pompei. Qualora l’Architetto direttore avesse rilevato dei “difetti”, si procedeva alla demolizione del lavoro e al successivo ripristino del medesimo a danno ed interesse dell’appaltatore591. La puntuale esecuzione dei lavori era funzione dell’abilità e dell’onestà delle persone che l’appaltatore assumeva, con particolare attenzione alla tutela delle antichità, affinché gli oggetti rinvenuti negli scavi non venissero lesi o occultati592; nel caso in cui l’Architetto direttore non dichiarasse idoneo un impiegato, l’appaltatore era tenuto a licenziarlo “con semplice ordine verbale”, e a sostituirlo con persone che godessero la fiducia dello stesso architetto593. Il personale scelto dall’appaltatore, oppure dall’Architetto direttore, era tenuto a rispettare tutte le speciali prescrizioni emesse per garantire il regolare andamento del servizio di Pompei, soprattutto quelle contenute nel Real rescritto del 8 dicembre 1852, per effetto del quale tutti gli operai, di qualsiasi mestiere adoperati negli scavi di Pompei, erano sottoposti alla disciplina militare594. Un altro vincolo a cui era sottoposto l’appaltatore era il versamento di una cauzione complessiva di 750 ducati (pari a 3.188 lire al 1861), al fine di garantire la perfetta esecuzione dei lavori; di cui 500 ducati (pari a 2.125 lire al 1861), come anticipato, restavano in deposito presso la Soprintendenza degli scavi, mentre i rimanenti 250 ducati (pari a 1.063 lire al 1861) a titolo di garanzia “legale”595. Il termine della garanzia legale, era denunciato a cura 590 ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861. Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39, Scavi di Pompei, 1861 – 1875. 591 Ibidem. 592 Ibidem. 593 Ibidem. 594 Ibidem. 595 Ibidem. 198 dell’imprenditore, ma veniva sciolto solo in seguito all’assenso del Maggiordomo Maggiore Soprintendente di Casa Reale. In caso di danni o difetti, risultanti dalla verifica, l’appaltatore era tenuto, nei dieci giorni successivi, a porre rimedio alle conseguenze di un’errata manutenzione, a proprie spese. L’unico caso in cui l’imprenditore era autorizzato a sospendere i lavori, previa intimidazione all’Amministrazione, era per mancato pagamento, decorso il termine di 20 giorni dalla data cui sarebbe dovuto pervenire il secondo certificato mensile; in caso di ritardato pagamento, egli aveva diritto alla corresponsione del 5% l’anno su pagamenti non ricevuti596. Nell’ipotesi di sospensione dell’opera per volontà reale, l’imprenditore poteva beneficiare del rimborso della somma oppure chiedere la risoluzione del contratto: in questo secondo caso, l’appaltatore poteva richiedere solo il valore degli ammonimenti esistenti, secondo gli ordini ricevuti597. Inoltre, la risoluzione di un’eventuale controversia fra l’Architetto direttore e l’appaltatore, era rimessa all’autorità del Soprintendente di Casa Reale. Tuttavia, qualsiasi fosse la questione, non poteva essere di ostacolo al progredire dei lavori; nell’ipotesi in cui l’imprenditore se ne fosse servito quale pretesto per sospenderli, sarebbe incorso in quanto descritto in precedenza598. Le spese per il contratto di appalto, nonché le relative copie per l’Amministrazione e l’Architetto direttore erano a carico dell’appaltatore. Egli era tenuto a pagare anche quanto sostenuto per le spese di copia dei certificati e degli stati sommari in tripla spedizione, una all’Amministrazione, un’altra alla Soprintendenza di Casa Reale e l’ultima all’Architetto direttore599. Di seguito riporto la tariffa600, estrapolata dallo strumento notarile del 1861 ed applicata nella “misura dei lavori”, dal 1861 al 1893, per i diversi interventi eseguiti presso gli scavi di Pompei; essa è importante non solo per quantificare quanto speso, ma anche per comprendere che cosa di intendesse per 596 Ibidem. Ibidem. 598 Ibidem. 599 Ibidem. 600 Ibidem, pag. 139 – 145. 597 199 “scavamento”. In caso di operazioni non specificate nel contratto di appalto, la stima dei lavori, dal 1876, era contemplata in base a quanto previsto dalla tariffa del Genio Civile per le province di Napoli601. I prezzi della suddetta tariffa sono espressi in ducati, per cui accanto ad essi, riporterò la relativa conversione in lire al valore del 1861. TARIFFA DEI LAVORI NECESSARI ALLO SCAVAMENTO DELLE CELEBRI ANTICAGLIE DI POMPEI, E DI QUANTO ABBISOGNA PER RESTAURARE, E CONSERVARE, E MANUTENERE QUEI RUDERI. ART. 1 – CAVAMENTI 1. Il tagliamento delle terre per l’apertura delle vie, e dove gli spazi sono aperti, o del taglio delle terre a scarpa senza il perfezionamento delle superficie, considerato come osservarsi in Pompei di terre miste di cenere, lapilli, pozzolane, e talvolta di terre compatte stratificate, ed indurite dalle acque, sarà pagato per ogni canna cubica legale, compreso il carico e scarico del materiale che risulta in adattati veicoli per trasporto altrove grana 0,80 – lire 3,4. 2. Il detto carico e scarico del materiale risultato dagli scavi, o tagliamenti, s’intende sempre compreso in tutti i prezzi dei tagli, o scavi che si eseguono, come pure il separare dalle terre il materiale utile per mutamenti od altro, secondo le prescrizioni dell’Architetto direttore, e riporli in siti prossimi allo scavo per uso di ricostruzioni dei ruderi da riparare. 3. Incontrandosi nei grandi massi di pietre dure, di marmi o altro che ecceda i palmi cubici due, ne sarà pagato il trasporto a seconda dei mezzi da impiegare all’uopo, o della distanza, facendosi la deduzione del loro volume da quello delle terre dei paramenti, come si pratica per le fabbriche di muri antichi e simili. 4. Se le terre si debbono crivellare, perché di frequente si rinvengono scheletri, od oggetti preziosi antichi, in qualunque punto lo sterro sia, sarà 601 ASSAN, fascio XVII B6, “Misure dei lavori”, anni 1873 – 1875 – 1878. 200 aggiunto al prezzo denotato od agli altri seguenti per ogni canna cubica legale grana 0,25 – lire 1,06. 5. Se questi sterri si debbono sospendere, e riprendere di poi più accuratamente col metodo di uno dei seguenti numeri, perché l’invenimento dei scheletri o altro il richieda a norma dei regolamenti, per eseguirsi in presenza dell’Architetto direttore, il partitario non potrà negarsi a sospenderli senza pretendere aumento di prezzo per tale causa, soltanto aggiungendosi quanto di diritto per la corrispondenza ed altro seguente numero. 6. lo sterro accurato, o diligente, orizzontale, con la maneggiatura del materiale fino ai palmi 50, a fin di scoprire i ruderi, le coperture, ed altro che esiste quasi a fior di campagna, ed alla profondità media di palmi 10, con il trasporto in rampa alla medesima distanza di palmi 50, ducato 1,20 – lire 5,10. 7. Per ogni maggior profondità dovendo usare arganelli o altre macchine, lo sterro diligente orizzontale lasciando palmi 3 a 4 sopra pavimenti, e discoprendo diligentemente da un sol lato qualche imposta, sarà pagato al prezzo medio di ducato 1,50 – lire 6,38. 8. Allo sterro ultimo di palmi 3 a 4 lasciato sopra pavimenti delle camere, o ambienti qualsiasi, aggiungendovi la maggior diligenza da usarvi, compresavi la crivellatura poiché in questo caso le vie per i trasporti e per la maneggiatura del materiale sono state aperte, ducato 1,45 – lire 6,17. 9. Il trasporto di una canna cubica di materiali degli indicati scavi o sterri a spalla d’uomo, per ogni 100 palmi al di là dei palmi 50 preveduti, di cammino orizzontale od in falso piano compreso il ritorno per ricaricare, verrà pagato grana 0,20 – lire 0,85. 10. Se il trasporto sarà in elevazione, montando una scala od una rampa, grana 0,25 – lire 1,07. 11. Il trasporto con carretti tirati da animali per sgombrare gli anzidetti materiali inutili, e gettati nel sito da scaricatoio o da deposito espressamente stabilito dall’Architetto direttore, qualunque sia la salita o discesa delle rampe, o delle vie, il giro per cammino tortuoso indicato dal 201 medesimo Architetto direttore, compresovi tutti i possibili ritardi prodotti dalla natura e topografia dei luoghi, o per qualsiasi altra causa, per ogni ricambio di palmi 1000 compreso il ritorno, ed il carico e scarico, per ogni canna cubica di terre miste come sopra a fango asciutto, grana 0,90 – lire 3,83. 12. Se l’architetto direttore escogitasse altro mezzo idoneo a facilitare questi dispendiosi trasporti e meneggiature con economia delle spese, propostosi quello alla superiore autorità, ed ottenutane l’approvazione, il partitario dovrà accettare, ed eseguire quel mezzo, colla riduzione del correlativo prezzo, come se fosse nell’istrumento di appalto convenuto. Solo potrà avanzarne richiamo a S. E. il Maggiordomo maggiore Soprintendente generale di Casa Reale, il quale nella sua saggezza e giustizia deciderà inappellabilmente l’occorrente sulle querele del partitario. 13. Il perfezionamento della superficie delle scarpe per ogni canna legale superficiale, grana 0,12 – lire 0,51. Il partitario sarà obbligato di caricare i veicoli in modo, che le terre non cadano lungo il tragitto ad ingombrare così le vie per dove passano, poiché se ciò accada sarà egli tenuto a togliere a sue spese le terre cadute, e pulire le strade allorché sarà ordinato dall’Architetto direttore. 14. Le tappie ovvero scaloni nei terreni da farsi, ove altre terre si debbano sostenere con ciglio di spini e cavità orizzontali per contenere le acque, ogni canna superficiale compresavi la maneggiatura, l’avvicinamento del terreno, i strati di essi ben pistonati, e la superficie inclinata ben battuta e levigata da non potersi eccedere l’altezza di palmi 12, grana 0,40 – lire 1,7. 202 ART. II. – MURAMENTI DIVERSI 15. Il prezzo dei mutamenti verrà considerato per volume effettivo di essi qualunque ne sia la grossezza, deducendone i vani ovvero le aperture, e per le superficie apparenti quante esse saranno, e per gli angoli che ne potranno risultare dal loro incontro. Il prezzo del volume non avrà distinzione nelle altezze, poiché in Pompei i ruderi tutti non sono molto alti ed esso sarà considerato come medio. Sarà considerato inoltre il trasporto dei materiali a spalla d’uomo, e non diversamente negli edifici, e dalle vie che possono essere percorse dai veicoli comunque in piano, in discesa, ed in salita. Vi sarà nel prezzo riunito ancora la costruzione degli anditi volanti ed a castelletti, senza far buco nelle mura, così del pari in ogni altro qualsiasi lavoro da muratore o da stuccatore, non escluse le demolizioni. 16. E come in Pompei qualche muro cadente si dovrà abbattere per non potersi sostenere od essere inutile, o perché sia di pessima qualità da non poter reggere in piedi, così questa demolizione di qualunque grossezza potesse essere, compreso lo sgombro dei calcinacci fino al sito da scaricatoio, e segregando il materiale utile da riporre in apposito sito prossimo, secondo le prescrizioni dell’Architetto direttore, sarà pagata per ogni canna cuba legale, ducato 1,60 – lire 6,8. 17. I mutamenti in elevazione con malta di pozzolana vulcanica ed arena del luogo, componendo un mutamento incerto, sarà pagato per ogni canna cubica legale, ducati 15,60 – lire 66,3. 18. I muri anzidetti si sono considerati con le pietre del paramento senza lavorio delle facce interne, e però le facce apparenti dei muri di superficie piana per ogni canna superficiale verrà pagato grana 0,30 – lire 1,28. 19. Le superficie curve per archi ed altro saranno aumentate di grana 20, divise per raggio della curva, grana 0,20 – lire 0,86. 20. I spigoli, o angoli salienti, o rientranti risultanti dalla unione di pareti piane o curve, qualunque angolo formassero tra loro, verranno pagati a grana uno il palmo corrente, comunque siano di pilastri o di mostre, o di fasce, o 203 di qualunque risalto, ed a condizione che dovranno essere a perfetta linea retta, grana 0,01 – lire 0,05. 21. La muratura per archi o volte e piattabanda, con pietre del luogo lavorate perfettamente a cunei e di opportune dimensioni, comunque frammiste a mattoni del luogo, verrà pagata ducati 19 senz’altro compenso per maggior magistero, e ciò si intende sempre che di archi o volte si parli, di qualunque figura o forma ed ampiezza: saranno compresi gli anditi volanti come sopra si è dichiarato ducati 19 – lire 80,75. 22. I mutamenti con pietre dell’appaltatore saranno pagati a giudizio dell’Architetto direttore in ragione della quantità della pietra, e della distanza delle cave, prendendo ancora norma dalla tariffa di Casa Reale per Quisisana, o da quella del Genio per Castellammare secondo più convenga ai Reali interessi. 23. I mutamenti di laterizi con mattoni antichi del luogo verranno pagati con simile malta, ducati 24 – lire 102. 24. Il magistero delle pareti piane qualunque siano, come precedentemente si è detto grana 0,40 – lire 1,7. 25. Le pareti, o superficie curve di archi e volte, sarà con l’aumento di grana 0,20 – lire 0,85. 26. Gli angoli salienti e rientranti, con le medesime avvertenze precedenti, grana 0,01 – lire 0,04. 27. Se i detti muri laterizi si dovranno costruire con mattoni dell’appaltatore, vi sarà aggiunto il prezzo dei mattoni considerati trasportati sopra luogo, e secondo le qualità di essi delle diverse fabbriche. 28. I muri di struttura mista saranno pagati secondo i rispettivi prezzi qui prima stabiliti, per la quantità delle diverse strutture che contengono in una canna cubica, tanto per il valore che per le superficie, come per ogni altra circostanza. 29. I lacerti così detti podea fatti nel margine degli intonachi onde sostenerli, con pozzolana di fuoco, o di Bosco tre case, di larghezza media palmo zero e 5 decimi previo abbozzo e rinzaffo, bene fratassato stretto e senza distacco o copertura, indi con superficie soprapposta bene levigata, 204 governata, e senza la minima screpolatura ogni canna lineare grana 0,15 – lire 0,64. 30. Lo abbozzo di ottima malta di arena e pozzolana vulcanica, previo arriccio da farsi in due strati entrambi di un decimo di palmo, bene conguagliati appianati con sparvieri ed altri ordigni senza screpolatura, lasciando la superficie ruvida onde attaccarsi lo intonaco per ogni canna superficiale grana 0,25 – lire 1,07. 31. Per ogni altro decimo poi di maggior grossezza grana 20, e minorando questa grossezza con le debite proporzioni, le frazioni di detta grossezza usando le medesime avvertenze, grana 0,20 – lire 0,85. 32. L’arricciatura a guisa di abbozzo per gli intonachi, con simile malta di sabbia e pozzolana vulcanica o di Bosco tre case sottilmente crivellata, della spessezza da 3 a 4 centesimi di palmo sulle pareti piane, grana 0,12 – lire 0,51. 33. Lo intonaco della spessezza di 4 a 5 centesimi di palmo, con malta fina tutta di arena sottilmente crivellata, fracassato e ben governato con cassuola, lisciato senza la minima screpolatura, grana 0,30 – lire 1,28. 34. I simili intonachi con arena vulcanica o di Bosco tre case con le simili condizioni, grana 0,35 – lire 1,49. 35. Lo intonaco a righella, preceduto da apparecchio o arricciatura di sottile malta di pozzolana di fuoco o Bosco tre case, di uno strato di malta simile di spessezza 5 centesimi di palmo, disponendo prima le liste a guida a breve distanza con piombi o bighelloni onde ottenere un perfetto piano, con gli angoli a rettifilo, e con altro strato sottile di circa un centesimo di palmo, con malta colata nell’intonaco fino conguagliato, e lisciato a perfezione, curando nel fracassare lo intonaco di spesso bagnarlo perché risulti della massima compattezza possibile, grana 0,90 – lire 3,83. 36. Tegole d’Ischia della forma grande a fazione di quelle del Granatello, di palmo uno e 5 decimi, e canali simili. Ogni 100 coppie, per costo e trasporto fino al luogo del lavoro, e ponimento in opera, tettoie con canne oscure e palombelle, di malta di pozzolana di fuoco, ducati 4,50 – lire 19,13. 205 37. Se poste in sazio di calce sopra i muri ducati 5,70 – lire 24,23. 38. La rinvoltura dei tetti con canne oscure e palombelle, per ogni 100 coppie di tegole, e canali appaiati ducati 1,30 – lire 5,52. 39. Un palmo lineare di legno castagno di selva cedua bene stagionato, perfettamente netto di scorza e di alburno, in ogni lato a filo battuto senza nodi cattivi, ed alcuno difetto o fenditure nocive che chiamansi stellate, verrà pagato per tutte siffatte qualità, e sulle dimensioni del legname in opera, se di palmi 25 del diametro in cima palmo zero e 6 decimi, grana 0,18 – lire 0,77. 40. Un palmo di trave di lunghezza palmi 20, di diametro in cima palmo zero e 57 centesimi, con le medesime condizioni del numero precedente, come nei seguenti intendesi ripetuto, grana 0,15 – lire 0,64. 41. Se di palmi 15, di diametro in cima palmo zero e 54 centesimi, grana 0,18 – lire 0,56. 42. Le travi di lunghezza intermedia tra le indicate verranno pagate al prezzo di quella più prossima. 43. Ciascuna ginella detta bastarda, di lunghezza palmi 13 a palmi 14, netta di corteccia e d’alburno, di diametro in cima palmo zero e 29 centesimi, grana 0,17 – lire 0,73. 44. Ciascuna ginella detta d’arma di palmi 14 e 15, di diametro in cima palmo zero e 23 centesimi, grana 0,14 – lire 0,60. Nota. Il ponimento di queste ginelle per tetti, per rastrelli fissi, per divisioni o altro sarà pagato a parte. 45. Un palmo quadrato di tavoloni di castagno per arcotravi, della spessezza di palmo zero e 33 centesimi, netto di nodi senza fenditure o così detto piano, o mancanza, o altro difetto grana 0,08 – lire 0,34. 46. Un palmo quadrato dello stesso legno, se della grandezza di 5 decimi, grana 0,12 – lire 0,51. 47. I cancelli fatti con ginelle d’arma distanti tra loro palmo zero e 33 centesimi, fra telai di listoni squadrati, compreso il magistero, li stateri di listoni squadrati, i chiodi, le mecce, ed altro, per ogni palmo superficiale, grana 0,08 – lire 0,34. 206 48. I cancelli fissi o mobili di listoni squadrati fino alla larghezza di palmi 6, di buon legno castagno, con telai e stateri di spessezza palmo zero 33 centesimi in quadro, e balaustri di palmo zero 25 centesimi in quadro, tra loro distanti palmo zero e 33 centesimi, ogni palmo superficiale perfettamente ammecciati e lavorati, grana 0,18 – lire 0,77. 49. I medesimi da palmi 6 in sopra, tutto simile nel resto, grana 0,22 – lire 0,94. 50. Il ponimento delle ferrature sarà pagato a parte, e la misura di detti cancelli sarà presa fuori i stateri. 51. Le imposte a due pezzi così dette alla Tornese con tavole a canna soprapposte al telaio armato a due riquadri, per ogni pezzo di tavole alla mercantile compreso il telaio maestro, i chiodi, gli incastri per le ferrature, ed il ponimento in opera, grana 0,17 – lire 0,73. 52. Se ad un pezzo, la imposta come sopra compreso il telaio maestro, grana 0,15 – lire 0,64. 53. La tinta ad olio color piombino, o gialletto a tre passate, previo la stuccheggiatura sulla prima d’apparecchio con buon colore tutto ad olio, grana 0,01 – lire 0,04. Nota. I rastelli ed i cancelli saranno considerati ad una faccia, ed un quarto per la superficie della tinta, atteso le distanze stabilite fra balaustri e ginelle. 54. Tutti gli altri lavori non considerati, né preveduti in questa tariffa che potranno bisognare, saranno valutati con la tariffa del Genio, ed in mancanza per analisi e stima dell’Architetto direttore, attingendo gli elementi da quanto è stabilito in questa stessa tariffa, i cui prezzi devono essere in armonia. 55. Sopra tutti i denotati prezzi e valori delle opere, si dovrà rilasciare il 2% a beneficio della Soprintendenza generale degli Scavi del Regno. 56. L’olio, ed i carboni di ottima qualità, che si somministreranno agli impiegati civili e militari residenti in Pompei, saranno valutati secondo le mercuriali di Torre Annunziata, essendo variabile il prezzo, ottenute dal partitario a sue cure e spese. 207 5.4. MISURE DEI LAVORI Quando l’Italia, nel marzo del 1861, divenne politicamente unita, la vita economica era in fervida trasformazione in tutta l’Europa centro occidentale. Tuttavia, il Regno d’Italia dovette affrontare fin dall’inizio gravi problemi: occorreva pensare all’unificazione dei codici, del sistema fiscale, delle forze armate, dei sistemi metrici e monetari di un paese di circa ventidue milioni di abitanti602, soggetto ad una frantumazione secolare, per tradizioni e mentalità. Per quanto concerne la politica economica, il nuovo Regno era portatore di una politica liberista e non mostrò alcuna propensione ad occuparsi della protezione dei beni artistici e storici privati, ma al contrario, favorendo una inversione di tendenza rispetto al blocco della dispersione del patrimonio culturale attuato dalla dinastia borbonica. Si tratta di un aspetto da non trascurare, a seguito del quale la gestione del settore artistico mutò radicalmente. Gravissimo era il deficit del nuovo Stato, che aveva ereditato il pesantissimo debito pubblico degli stati pre unitari, riconoscendo priorità finanziaria ad altri settori, quali i lavori pubblici, le costruzioni ferroviarie e le infrastrutture in genere, minimizzando l’attenzione verso le antichità e belle arti: occorreva agire con tempestività per assicurare all’erario i mezzi adeguati all’importanza politica del nuovo stato, alle esigenze e agli interessi delle diverse province. Per l’ordinamento amministrativo, prevalse una struttura accentrata, attraverso la quale gli scavi di Pompei divennero istituzionalmente e finanziariamente dipendenti dal Ministero della Istruzione Pubblica. Di conseguenza, nell’ambito della più generale programmazione del dicastero, l’iter procedurale prevedeva che la Direzione dei monumenti e scavi di antichità di Napoli, in funzione degli interventi da svolgere, predisponesse un apposito “rendiconto”603, specificando le risorse necessarie per un eventuale stanziamento. La richiesta si collocava all’interno di alcuni “capitoli di spesa”604 propri del bilancio del Ministero dell’Istruzione Pubblica. 602 G. De Rosa, Storia contemporanea, Bergamo 1982, p. 112. ACS, MPI, AABBAA, Divisione antichità e scavi, 1860 – 1890, b. 35, Napoli. Conti e bilanci. 604 Ibidem. 603 208 Successivamente, in base alle richieste e alle risorse disponibili, il Ministero – Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti – emetteva un decreto con cui si procedeva a prelevare dal “Capitolo 47 Art. 7 delle spese ministeriali, le “anticipazioni” necessarie per proseguire i lavori a Pompei605. In relazione alle risorse allocate, la Soprintendenza di Pompei svolgeva le proprie attività, predisponendo le gare di appalto, secondo le modalità e i vincoli descritti. Tra l’altro gli stanziamenti erano vincolati alle richieste valutate in termini quali – quantitativi: infatti, in caso di eventuali e sopraggiunte necessità, all’interno dei capitoli, era possibile variare la destinazione della spesa previa autorizzazione ministeriale, mentre era vietato qualsiasi storno tra i capitoli di spesa. Una circostanza eccezionale fu, ad esempio, la gravissima epidemia di colera che, a partire dall’estate del 1884, colpì Napoli e diverse cittadine vicine, tra cui Pompei, mietendo numerose vittime: al fine di compensare la perdita di personale che ne derivò e stimolare i superstiti a proseguire i lavori di sterro, fu sancito un incremento del 67% degli stipendi erogati agli impiegati606. Per la “rendicontazione” della gestione pompeiana, la direzione dei lavori era demandata all’Ufficio tecnico degli scavi di Pompei, in cui l’architetto direttore redigeva una “libretta”, chiamata“Misura dei lavori”, mettendo in rilievo la tipologia di intervento, specificandone, nel dettaglio, le dimensioni in termini di altezza, lunghezza, larghezza e metricubi. In effetti, dall’unità d’Italia fino al 1893, le anticipazioni ministeriali erano investite, principalmente, per eseguire opere di dissotterramento, poiché qualsiasi dipinto emerso dalle ceneri era staccato dal luogo di ritrovamento, con le conseguenze derivanti da eventuali lesioni, e in seguito inviate al Museo di Napoli. Solo alla fine del XIX secolo, grazie ad una oculata politica gestionale di Fiorelli, le opere cominciano ad essere studiate ed ammirate sul luogo. All’interno dei “notamenti”, l’esercizio finanziario era suddiviso in bimestri, sottoscritti ed approvati dall’appaltatore e dall’ingegnere incaricato. 605 Ibidem. Si tratta di conti frammentati e privi di regolarità in cui non sempre il capitolo di spesa era quello indicato; talvolta non vi è alcuna specificazione. Ciò evidenzia un’inadeguata pianificazione degli interventi con conseguente stanziamento di fondi in funzione delle “circostanze”. 606 ASSAN, fascio XVII B 3, Misura dei lavori, V bimestre 1884. 209 Successivamente, previo esame del Direttore degli scavi e del Genio Civile per la provincia di Napoli, il documento era inviato al Ministero della Pubblica Istruzione, confluendo, a fine esercizio, nel passivo del bilancio della relativa amministrazione. Esaminando i registri, la ripartizione in bimestri non fu rispettata dal 1861 al 1865607, dato che è stato possibile stimare l’ammontare annuale complessivo di quanto speso mentre l’aggregazione indicata nelle carte non rispettava alcun criterio temporale608. Il costo degli interventi di sterro era riportato in allegato nel cosiddetto “stato sommario dei lavori”; i materiali per i quali non era indicata la valutazione, il calcolo è stato eseguito tenendo conto di quanto riportato nella tariffa dei lavori illustrata in precedenza. Con riferimento alla suddetta tariffa, in cui i lavori di scavo erano raggruppati solo in “cavamenti” e “muramenti diversi”, nel proseguo ho individuato un numero maggiore di categorie di spese, ossia quelle più ricorrenti dal 1861 al 1893. Di seguito, ho elaborato una prima sintesi delle spese, aggregando le singole voci in funzione della tipologia di intervento realizzato e dei periodi a cui si riferiva l’operazione, finalizzata esclusivamente a dissotterrare parti dell’antica città di Pompei. 607 Dal 1861 al 1863, nello stato sommario dei lavori, i costi sostenuti per gli interventi di sterro e per i compensi erogati agli impiegati, erano espressi in ducati. Nelle elaborazioni successive ho convertito i ducati in lire italiane, in modo da rendere omogenea e fluida l’interpretazione dei dati. Nel dettaglio 1 ducato corrispondeva a 4,25 lire italiane al 1861. 608 ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI B. 751 II, fascio 3, Misure dei lavori da giugno a dicembre 1862: IDEM, fascio 6, I semestre 1863; IDEM, fascio 7, II semestre 1863; ASSAN, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da gennaio a settembre e VI bimestre 1865. 210 Tav. 2. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di Pompei (1861 – 1867):609 609 ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI B. 751 II, fascio 3, Misure dei lavori da giugno a dicembre 1862: IDEM, fascio 6, I semestre 1863; IDEM, fascio 7, II semestre 1863. 211 Seguito tav. 2.610 610 ASSAN, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da gennaio a settembre e VI bimestre 1865; IDEM , fascio XVII B8 e XVII B9, dal I al VI bimestre 1866, I, V, VI bimestre 1867. 212 Graf. 1. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1861 – 1867) 70.000 60.000 50.000 40.000 L ire 30.000 20.000 10.000 0 1860 1861 1862 1863 1864 1865 1866 1867 1868 Tra il 1861 ed il 1864, le spese di scavo registrarono un graduale incremento passando da 55.197 lire a 65.843 lire per poi decrescere vertiginosamente a 37.696 lire nel 1865; dal 1866 al 1867 gli interventi ricominciarono ad aumentare passando da 47.328 a 54.924 lire (Tav. 2). Per i periodi in cui tali spese furono sostenute, ad eccezione del 1866 e del 1867 per i quali i costi erano associati ai bimestri, dal 1861 al 1865, non ho individuato alcun criterio omogeneo, come si evince dalla tabella “Tipologia di intervento e consistenza della spesa”. In particolare, nel 1861, il I bimestre fu quello in cui si lavorò maggiormente, con un’uscita del 41% sulla spesa totale annuale, riconducibile ad una cospicua partecipazione dei cavamenti di terra, di 11.496 lire; tuttavia, nel solo mese di ottobre, la spesa ebbe un incidenza di appena il 3%. Nel 1862, le spese sostenute da gennaio a maggio erano di 5.749 lire, per poi aumentare significativamente negli ultimi sette mesi dell’anno fino a 50.405 lire, imputabili, in gran parte, al trasporto a schiena d’uomo per 27.264 lire. Per il 1863, l’andamento semestrale delle spese, seppur decrescente, fu più regolare in confronto agli anni precedenti; l’unica peculiarità riscontrata era che la somma a disposizione dell’Ufficio tecnico di Pompei, durante il secondo semestre, fu impiegata solo per i cavamenti di terra, per 25.733 lire (Tav. 2). 213 Del 1864 vi è un’unica stima annuale di “Misura dei lavori” , in cui l’impiego dei vagoni per trasportare la terra crivellata rappresentò il 49% della spesa complessiva; esigua fu, invece, la spesa per i lavori in ferro, di soli 179 lire. Da gennaio a giugno 1865, la spesa registrò un brusco calo, rispetto ai mesi di novembre e dicembre, passando da 36.558 a 638 lire; ancora più contenute furono le risorse impiegate da luglio a settembre: in effetti, si spesero solo 500 lire per innalzare degli architravi in legno. Degli anni ’60 del XIX secolo, il 1866 ha rappresentato l’unico esercizio ricostruibile in tutti i sei bimestri, mostrando un andamento altalenante, con punta massima di 12.333 lire nel quarto periodo e, un netto calo durante il quinto bimestre, di 4.000 lire. Le operazioni di sterro del 1867 sono state stimate solo per il I, V e VI bimestre, con evidente tendenza decrescente, passando da 39.928 lire a 4.248 lire (Tav. 2). Studiando i registri, ricorreva, con andamento tendenzialmente crescente in tutti gli anni ed in particolare dal 1878 in poi, una categoria di spesa, definita “partita di stima”, che ho aggregato nella voce “diversi”: si trattava di “lavori in economia”, non quantificabili in misura e, pertanto, pagati ad ore di lavoro. Assimilabili ad essi erano le attività di pulizia, consolidamento e restauro delle pitture antiche, dei mosaici e degli stucchi, sostituzioni di architravi in legno, recupero archeologico di oggetti, stesura della paraffina sulle pitture per renderle lucide, protezione con sabbia, teli e quant’altro su apparati decorativi. La manutenzione tecnica di monumenti antichi era sancita da un’apposita legge “sui lavori pubblici” del 20 marzo del 1865. Dal 1867 al 1877, vi è un vuoto in termini di “rendicontazione” e di eventuale impiego di risorse, il che fa presumere che non siano state eseguite opere di scavo a Pompei. In aggiunta a tali considerazioni, è evidente che, fino al 1867, le somme investite erano molto modeste, rilevando una scarsa attenzione alla tutela delle antichità e belle arti. Probabilmente lo scarso contributo dei fondi ministeriali può essere spiegato associando la realtà pompeiana al cavilloso e delicato contesto storico che il neo Stato italiano viveva. In effetti, la costituzione del Regno d’Italia pose problemi ed esigeva soluzioni che, per la loro importanza e per la loro urgenza, andavano al di là di quelli 214 “culturali” sin qui considerati, con priorità diverse finalizzate ad impattare sulla realtà economica della penisola. Si trattava della necessità di difendere un “nuovo ordine”, minacciato dall’interno per l’insorgere, sin dalla primavera del 1861, del brigantaggio meridionale e bisognoso di completarsi con la risoluzione delle questioni del Veneto e di Roma611, nonché le inevitabili questioni di politica estera. Di fronte a tali problemi, una priorità assoluta nel disegno politico nazionale era certamente rivolta alla destinazione di una cospicua parte della spesa pubblica agli apparati militari e alle grandi opere pubbliche,612 anziché al settore dell’istruzione. L’elevatezza delle spese militari, in relazione alle altre voci di spesa, è nota dalle analisi dei dati ufficiali di bilancio. Infatti, tra il 1862 e il 1866, tali spese assorbirono oltre il 30% dell’intero volume di spese statali e, in media, oltre il 50% dell’intero volume di tutte le entrate dello Stato. Ci furono anni in cui queste percentuali furono anche maggiori, per esempio, nel triennio 1862 – 1864, probabilmente per il concorso delle spese sostenute per reprimere il brigantaggio; ma è soprattutto, nel 1866, certamente a motivo della guerra contro l’Austria, che le spese militari assorbirono il 43% della spesa pubblica effettiva e ben il 93% delle entrate613. Un’altra priorità del bilancio statale del primo decennio dell’Unità riguardava le spese per opere pubbliche, specialmente quelle sostenute per la costruzione di strade e ferrovie. A tal fine, molto interessante era la relazione sull’amministrazione dei lavori pubblici dal 1860 al 1867 presentata al 611 F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, 1964. “Al Sella la grossa spesa del 1862 non parve capace di grandissimi risparmi, anzi di nessun risparmio, se non si toccassero i tre bilanci della marina, della guerra e dei lavori pubblici, che non s’era in grado di toccare in nessuna maniera. Né dopo rimasto altri sei mesi al Ministero, nel dicembre di quell’anno la sua impressione s’era mutata; anzi prima di uscirne, riproponeva la presunzione della spesa del 1863 con un notevole aumento su quella che aveva fatta nel giugno. Egli diceva chiaro di non sapere in che limiti la spesa del Regno d’Italia si sarebbe potuta contenere”. ( R. Bonghi, Storia della finanza italiana, p. 41). Lo stesso Sella, nell’esposizione finanziaria alla Camera del 12 dicembre 1871 delineando l’andamento della spesa nel suo insieme osservava: “Signori, abbiamo speso nello scorso decennio 10.490 milioni, circa dieci miliardi e mezzo! Le finanze ci entrano per oltre la metà in questa terribile cifra; dopo le finanze l’onore del primato spetta ai miei colleghi della guerra e della marina che ci hanno speso il 27%; pei lavori pubblici si spese quasi il decimo, e tutti gli altri Ministeri insieme non fanno che il decimo. La guerra e la marina ci hanno costato in questo decennio oltre 2.800 milioni di lire. Possiamo desiderare che le cose fossero andate meglio; ma certo nessuno rimpiangerà questa spesa, imperocché senza l’esercito e senza la flotta l’unità italiana non si sarebbe fatta”. ( L. Izzo, La finanza pubblica nel primo decennio dell’unità italiana, p. 481). 613 L. De Rosa, Difesa militare e sviluppo economico in Italia (1861 – 1914), Bari, 1973, p. 111. 612 215 Parlamento il 31 gennaio 1867, dal ministro dei lavori pubblici, allora in carica, Stefano Jacini, di cui riporto un breve tratto: “Tutte queste opere, che avrebbero in altri tempi alimentato per lunghi anni l’attività di una grande nazione, l’Italia le ha dovute compiere, si può dire, in pochi mesi, non tanto per favorire l’incremento della operosità e della ricchezza nazionale, quanto per assicurare la sua indipendenza, per assodare la sua interna costituzione, per cancellare rapidamente le tracce della antiche divisioni, e fondare sopra salde basi la sua unità e la potenza del suo Governo…..Finché le varie parti del regno rimanevano smembrate e sconnesse, separate da monti, da fiumi, da vaste pianure, attraverso le quali le comunicazioni si facevano lentamente per poche e non sempre comode strade ruotabili, l’azione del Governo soffriva una inevitabile debolezza materiale, dalla quale rimanevano paralizzate in gran parte le forze destinate all’esterna e alla interna difesa del regno”614. Di fronte a tanta chiarezza si spiega perché gli stanziamenti destinati all’Istruzione Pubblica, Direzione antichità e belle arti, tra il 1861 e il 1874 rappresentavano appena il 2% delle spese complessive statali615. Tra l’altro, non vi era alcuna convenienza economica nel programmare previsioni di spesa maggiori dato che gli scavi di Pompei non generavano flussi di introiti adeguati, poiché le “antiche magnificenze” erano riservate ad un turismo di “élite”. Dalle carte dell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei, è emerso che le visite al sito di Pompei, successive all’unità d’Italia, ebbero inizio solo nel 1883616, cioè diversi anni dopo l’introduzione della tassa d’ingresso. In effetti anche in seguito al pagamento di un biglietto, che presupponeva l’accesso ad un pubblico più vasto ed eterogeneo, la situazione economica di Pompei non migliorò, dato che i principali visitatori continuarono ad essere nobili e uomini di cultura, a favore dei quali, con un regolamento del 1885, fu stabilita l’esenzione da qualsiasi esborso617. 614 S. Jacini, L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867, Firenze, 1867, p. 1 e 74 – 75. 615 ACS, MPI, AABBAA, 1860 – 1890, Div. I, B. 33, Conti e bilanci, 1874 – 1880. 616 ASSAN, faldone XIII B6, dal fascicolo 1 al fascicolo 21. 617 IDEM. 216 Durante questi anni, l’archeologia era concepita, non come una disciplina autonoma, bensì come strumento utile a ricostruire la “storia dell’arte”, destinata, quindi, nella più generale opera di pianificazione finanziaria statale ad essere messa in secondo piano rispetto all’elaborazione di severi piani di risanamento. Quindi, in relazione alle priorità settoriali descritte, il primo decennio dell’Unità, fu caratterizzato da un elevato deficit di bilancio. Fu indispensabile ricorrere a metodi diversi per risanare l’assetto finanziario italiano: ricorso ai prestiti, attraverso l’emissione di Buoni del Tesoro; introduzione, nel 1866, del corso forzoso ad opera del ministro Scialoia: si trattava di una politica inflazionistica, che permise di sopperire ai bisogni più urgenti dell’erario, peggiorando il livello di vita delle masse; alienazione dei beni demaniali ed ecclesiastici; inasprimento tributario. Quintino Sella, ministro delle finanze dal 1862 al 1865, e dal 1869 al 1873, puntò al pareggio di bilancio con un programma di “economie fino all’osso”618, introducendo l’imposta sul macinato. Il pareggio del bilancio fu raggiunto, nel 1876, imponendo, tuttavia, ai cittadini sacrifici che difficilmente potevano sopportare, colpiti soprattutto dal pesante fiscalismo. In effetti, il risanamento della finanza italiana quasi coincise con la ripresa di un, seppur embrionale, sistema di rendicontazione dell’Ufficio tecnico di Pompei, infatti nel 1878, riapparvero le “librette” seppur dei soli IV e VI bimestre e, con maggiore continuità, proseguirono fino al 1893. 618 L’imposta, già applicata durante il governo borbonico, fu proposta da Sella nel 1865, e le reazioni che suscitò provocarono la caduta del governo: ma dopo pochi anni, nel 1868, fu necessario rimetterla in vigore. Fu abolita definitivamente nel 1884. 217 Tav. 3. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di Pompei (1878 – 1886)619 619 ASSAN, fascio XVII B6, IV e VI bimestre 1878, I, II, IV, V e VI bimestre 1879; IDEM, fascio XVII B4, dal I al IV bimestre 1880, dal I al VI bimestre 1881. 218 Seguito tav. 3.620 620 IDEM, fascio XVII B1, dal I al VI bimestre 1883; IDEM, fascio XVII B3, dal I al VI bimestre 1884; IDEM, fascio XVII A8, dal I al III bimestre 1885; IDEM, fascio XVII A9, dal IV al VI bimestre 1885, dal I al III bimestre 1886; IDEM, fascio XVII A6, dal IV al VI bimestre 1886. 219 Graf. 2. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1878 – 1885) 90.000 80.000 70.000 60.000 50.000 L ire 40.000 30.000 20.000 10.000 0 1877 1878 1879 1880 1881 1882 1883 1884 1885 1886 L’andamento delle spese per lavori fu irregolare tra il 1878 ed il 1880, diventando più costante con tendenza decrescente dal 1881 al 1886 (Graf. 2.). Dell’intero periodo studiato, l’anno meno produttivo fu il 1878, con una spesa annua di 20.991 lire, ed un incidenza dei soli cavamenti di terra pari al 53% del totale. Dopo il primo decennio dall’unità d’Italia, un nuovo slancio all’attività degli scavi si registrò nel 1879; sebbene nel terzo bimestre non sono stati effettuati lavori di sterro, la spesa annuale ammontava a 70.190 lire; il primo bimestre fu quello più costoso, in cui per il solo impiego di vagoni si spesero 10.549 lire a fronte di una spesa bimestrale di 22.729 lire. Nei bimestri successivi le spese subirono un progressivo calo. Durante il 1880, si lavorò solo da gennaio ad agosto, con scarsissimi risultati, considerando che la spesa complessiva subì una contrazione di oltre la metà rispetto all’anno precedente. Decisamente migliore e più omogenee furono le attività compiute nel 1881, spendendo, complessivamente, 76.376 lire; i lavori si intensificarono tra novembre e dicembre, durante i quali si spesero 26.042 lire, di cui quasi il 50% per il trasporto di terra a schiena d’uomo (Tav. 3.). Una lieve contrazione si registrò nel 1883, in cui la spesa scese a 69.118 lire: la “categoria” in cui si investì maggiormente fu quella dei “lavori in 220 economia”, probabilmente si provvide a curare di più lo stato conservativo degli ambienti dissotterrati. Altre voci cospicue furono i trasporti di terra, sia eseguiti da uomini che con vagoni, rispettivamente pari a 12.612 lire e 7.645 lire: in effetti queste due operazioni, assieme ai cavamenti, sono quelle più ricorrenti in tutti i bimestri, proprio ad evidenziare ulteriormente la sola esecuzione di operazioni di scavo anziché di conservazione dell’esistente. Il trend decrescente proseguì nel 1884 e nel 1885, passando da 60.251 lire a 43.892 lire: confrontando il IV, il V ed il VI bimestre del biennio, la contrazione fu maggiore nel 1885 (Tav. 3), nonostante l’epidemia di colera che colpì Pompei nell’estate del 1884. Tra le operazioni meno costose vi erano i lavori in ferro e quelli di pittura, mentre si investì di più per l’innalzamento di muri e per i cavamenti. Come si rileva dalla tabella successiva e dal grafico 3, l’andamento delle spese divenne ancora più altalenante rispetto a quanto illustrato finora; è indubbio che l’attenzione rivolta a Pompei fu sicuramente più intensa, se si considera che la “libretta” era redatta con una più puntuale regolarità bimestrale, nonostante le cifre ancora contenute: almeno la scoperta di nuove vie, case o botteghe era continua e costante, soprattutto dal 1883 al 1892. 221 Tav. 4. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di Pompei (1887 – 1893)621: 621 ASSAN, fascio XVII A6, dal I al VI bimestre 1887, dal I al VI bimestre 1888; IDEM, fascio 222 Seguito tav. 4.622 XVII A7, dal I al VI bimestre 1889, dal I al VI bimestre 1890. 622 IDEM, fascio XVII A7, I e II bimestre 1893; IDEM, fascio XVII A5, dal I al VI bimestre 1891, dal I al V bimestre 1892. 223 Graf. 3. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1886 – 1893) 100.000 90.000 80.000 70.000 60.000 50.000 40.000 L ire 30.000 20.000 10.000 0 1885 1886 1887 1888 1889 1890 1891 1892 1893 1894 Gli anni che vanno dal 1886 al 1893, furono caratterizzati da continui alti e bassi, in linea con l’irregolarità delle anticipazioni ministeriali (Graf. 3). Infatti, soprattutto nell’ultimo scorcio del XIX secolo, diversi erano gli episodi di scavi organizzati “ad hoc”, ossia in seguito alla comunicazione inviata al Museo di Napoli oppure al Ministro dell’Istruzione Pubblica circa le visite a Pompei di illustri personaggi: per cui, talvolta, per gettare fumo negli occhi sulla reale situazione gestionale e finanziaria, si provvedeva a stanziare somme occasionali per scavare una “bottega” o “stanza”; successivamente la si ricopriva di terra, per poi fingere lo stupore in presenza del visitatore623. A causa delle croniche ristrettezze finanziarie, numerosi erano gli episodi di “doni” in denaro generosamente elargiti dai visitatori, che venivano poi allocati per eseguire i lavori di scavo624. 623 ASSAN, fascio XIII B6, 4, Visita a Pompei dell’On. Ungano e del Reggimento di Cavalleria di Firenze, 1886; IDEM, XIII B6, 5, Visita a Pompei del Ministro per la Grazia e Giustizia, 1887; IDEM, XIII B6, 6, Visita a Pompei dell’Imperatore di Germania, 1888; IDEM, XIII B6, 8, Visita a Pompei del Ministro dell’Interno giapponese, del Principe di Danimarca e dell’Imperatrice d’Austria, 1889; IDEM, XIII B6, 9, Visita in Pompei del Principe del Giappone, del Ministro britannico, 1890; IDEM, XIII B6, 10, Visita in Pompei degli alunni della Scuola Marina Spagnola, 1891; IDEM, XIII B6, 11, Visita in Pompei della Principessa di Svezia e di Norvegia, 1892; IDEM, XIII B6, 12, Visita in Pompei della Principessa del Galles, 1893. 624 ASSAN, XIII B6, 3, Il Principe di Prussia erogò 150 lire, 1885; IDEM, XIII B6, 5, Il Sindaco di Torre Annunziata elargì 100 lire, 1887; IDEM, XIII B6, 7, La Gran Duchessa Elena di Russia erogò 135 lire, 1888; IDEM, XIII B6, 8, Il Principe di Danimarca erogò 50 lire; IDEM, XIII B6, 9, L’Onorevole Duca Guardia Lombarda erogò 50 lire; IDEM, XIII B6, 11, La Principessa di Svezia e di Norvegia erogò 75 lire, 1892. 224 Nel 1886, l’unico bimestre rilevante fu il II in cui si spesero 26.172 lire, con ampia partecipazione dei “lavori in economia”, mentre scarso fu il contributo dei cavamenti e del trasporto con vagoni; nei bimestri successivi, l’andamento fu decrescente. Le spese declinarono nel 1887, passando da 61.700 a 55.353 lire, per poi salire nuovamente a 78.583 lire, nel 1888 (Tav. 4.). Graf. 4. Andamento bimestrale delle spese di intervento a Pompei nel 1889 30.000 25.000 20.000 15.000 L ire 10.000 5.000 0 I° II° III° IV ° V° V I° bim e stre bim e stre bim e stre bim e stre bim e stre bim e stre Dal 1861 al 1893, l’unico anno in cui la spesa raggiunse un ammontare più “consistente” fu il 1889, pari a 91. 341 lire (Tav. 4). Dal I al II semestre si evince un incremento molto contenuto; il III bimestre fu quello più intenso di lavoro, raddoppiando quasi la spesa da 11. 920 lire a 25. 607 lire. Da luglio a dicembre il trend diminuì progressivamente (Graf. 4.). Probabilmente il maggior incremento delle spese del 1889 è da attribuire alla direzione di Michele Ruggero (1875 – 1893). Infatti, per lo slancio dei lavori, per il nuovo orientamento nella conduzione dei restauri, per i risultati delle scoperte, questo periodo fu tra i più felici di Pompei, ed ebbe inizio sotto buoni auspici con la pubblicazione dei conti scoperti, due anni prima, nella casa di L. Cecilio Giocondo. Tra l’altro, nel 1889, vennero alla luce le Terme Stabiane, le più antiche della città, risalenti nel loro primo impianto forse addirittura al IV secolo a. c.. 225 Nel 1890, la spesa annuale quasi dimezzò, passando a 50.716 lire: nei mesi di settembre ed ottobre le operazioni di sterro assorbirono quasi il 30% della ammontare annuo, a differenza degli altri bimestri in cui la spesa raggiungeva appena il 10%. Nel 1891, per gli scavi di Pompei si spesero 77.170 lire; in particolare l’ attività più costosa dei sei bimestri fu il trasporto di terra a schiena d’uomo, il cui ammontare annuo era di 43.482 lire. Dal I al III bimestre la spesa aumentò a ritmo sostenuto, al contrario, nella seconda parte dell’anno, la tendenza era al ribasso (Tav. 4.). Nel 1892, si lavorò in tutti i bimestri ad eccezione dei mesi di novembre e dicembre, di cui non vi sono stime. A settembre ed ottobre, la spesa raddoppiò rispetto ai mesi di gennaio e febbraio, passando da 7.633 lire a 14.494 lire. Nel complesso fu un anno in cui le uscite calarono bruscamente fino a 39.869 lire. L’indice più significativo fu il trasporto di terra a schiena d’uomini di 17.095 lire, diversamente dalle altre operazioni di gran lunga inferiori alle 10.000 lire. Nel 1893, la spesa salì nuovamente a 62.962 lire; si trattò di un incremento di non poco conto considerando che si lavorò solo da gennaio ad aprile; in particolare, dal I al II bimestre la spesa salì significativamente da 10.576 lire a 52.386 lire, spendendo solo per il trasporto a schiena d’uomini 39.862 lire (Tav. 4.). Complessivamente, dal 1861 al 1893, le attività per le quali si investì molto poco furono i lavori in ferro e di pittura, valorizzando, invece, gli interventi necessari a “liberare” il suolo ed il sottosuolo dalla terra per disseppellire l’antica città, nonché quelli volti a “sostenere” con muri, architravi e simili quanto ritornava alla luce. Le modalità d’intervento, successive all’unità d’Italia, sono molto interessanti poiché per gran parte del XVIII secolo si scavava e poi si rinterrava tutto, adottando dei criteri scarsamente protettivi dell’antico, quali, ad esempio, staccare le pitture dai muri ed inviarne a blocchi al Museo di Napoli. In seguito, è la complessità urbana che iniziò ad affascinare e a catturare l’attenzione, non soltanto di colti viaggiatori, ma anche delle autorità preposte all’amministrazione del sito. 226 Non è un caso che dalla fine degli anni settanta del XIX secolo, le operazioni di sterro divennero più regolari e sistematiche: infatti, iniziò una nuova fase della gestione Fiorelli, che, dal 1875 al 1891, operò presso le sedi ministeriali per organizzare l’azione di tutela del patrimonio culturale dell’Italia unita. Quando nel 1875 il Ministro dell’Istruzione Pubblica, Ruggero Bonghi625, creò la Direzione centrale degli Scavi e dei Musei del Regno, affidò a Giuseppe Fiorelli l’incarico di guidarla. Fiorelli, si trovò di fronte all’esigenza di abbandonare quasi totalmente, il lavoro di scavo e le altre attività napoletane, alle quali da anni si dedicava con zelo; sollecitato dalla volontà di fornire un indirizzo tecnico unitario alle strutture periferiche, oltre che di migliorare la gestione amministrativa e, soprattutto, di promuovere una maggiore attenzione del Parlamento e del Governo verso i problemi della tutela, accettò l’incarico del Ministro. Tuttavia, la riforma Bonghi mostrò presto i suoi limiti consistenti soprattutto nella differenza tra le strutture dell’Amministrazione del patrimonio archeologico, da un lato, e dei Monumenti e della Gallerie, dall’altro. A ciò si aggiungeva la carenza di mezzi finanziari e di personale, che implicava l’inadeguatezza delle strutture periferiche626. Solo nel 1881, con il Ministro Baccelli, la Direzione centrale divenne Direzione generale, non solo delle Antichità ma anche delle Belle Arti. In seguito ad una temporanea sospensione dell’ufficio, fu ricostituito, nel 1894, e dal 1897 ne fu Direttore Felice Barnabei, l’archeologo che Fiorelli coinvolse fin dal 1875, considerandolo il suo più qualificato e devoto collaboratore. Le trasformazioni descritte in campo artistico, negli ultimi decenni del XIX secolo, si svilupparono all’interno di un contesto economico unitario molto delicato: la crisi agraria che coinvolse tutta l’Europa, a partire dal 1873, si fece 625 Ruggero Bonghi, Ministro dell’Istruzione Pubblica dal 1874 al 1876. ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, Giuseppe Fiorelli, Sullo stato dei Musei e degli Scavi del Regno nel 1875. Relazione al Ministro, del Direttore centrale, commendatore Fiorelli. In una nota a tale titolo si legge: “Alla presente relazione, che è la prima che ragioni distesamente dello stato dei Musei e degli Scavi del Regno, e delle provvisioni intese a tutelarli ed accrescerli, seguiranno man mano altre relazioni somiglianti per i diversi rami dell’Amministrazione Scolastica. Per tal modo si verrà ad avere alla fine di ciascun anno il quadro compiuto dell’operato del Ministero”. 626 227 sentire anche in Italia, mettendo in crisi la cerealicoltura, già svantaggiata da metodi di conduzione e tecniche di coltivazione arcaiche. La congiuntura sfavorevole, le pressioni dei proprietari terrieri e la necessità di proteggere le industrie nascenti, determinarono da parte del governo la scelta di una politica economica protezionistica. L’industria italiana decollò solo dal 1896, cioè dopo la fine della grande depressione, grazie alle sovvenzioni ed ingenti commesse statali per la costruzioni di linee ferroviarie, per forniture alle forze armate, per appalti di lavori pubblici. Nonostante la più intensa partecipazione riscontrata nelle “misure dei lavori”, dal 1878 al 1893, le cifre stanziate continuarono ad essere modeste proprio perché, analogamente al primo decennio unitario, lo Stato ebbe nuove e diverse priorità, orientando le proprie scelte finanziarie a sostegno dello sviluppo industriale. A prescindere dalle scelte di politica economica nazionale, gli aspetti finanziari esaminati sorprendono per la totale irrilevanza, in logica gestionale, di una realtà organizzativa come Pompei: la Soprintendenza non esisteva neanche come “centro di costo”, ma ci si limitava ad effettuare le spese nell’ambito dei capitoli ministeriali, ponendo in essere un delicato problema di “compatibilizzazione”, ossia tradurre in priorità ciò che gli archeologi dei diversi territori richiedevano al Ministero, dato che gli stanziamenti non sarebbero stati sufficienti a soddisfare tutte le richieste. La stessa programmazione, spesso, era disattesa a causa di modifiche per sopraggiunti eventi straordinari che richiedevano la precedenza, quale, ad esempio, il colera del 1884. Inoltre, molti complessi archeologici necessitavano di diversi anni di scavo per ritornare completamente alla luce; il che era anche conseguenza, non solo dei metodi di conduzione degli scavi, ma anche del fatto che l’ammontare complessivo destinato a Pompei doveva essere impiegato per coprire tutte le necessità, quindi ogni intervento ad un singolo complesso veniva frazionato in più anni, così da suddividere il finanziamento totale di un anno in tante parti quante erano le urgenze. 228 Tav. 5. Riepilogo spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei (1861 – 1893) 229 5.5. MISURE DEI LAVORI, PAGAMENTO DI RITENUTE E STIPENDI Un ulteriore interpretazione dei dati rilevati, concerne la stima della spesa complessiva impiegata dalla Direzione di Pompei, depurata da ritenute e dall’ammontare dei compensi erogati al personale impiegato durante i bimestri. Infatti, in base al carteggio dell’Archivio della Soprintendenza di Napoli e le clausole del contratto di appalto del 1861, le misure dei lavori, rappresentavano voci di uscita “parziali”, ossia, al termine del periodo, si procedeva allo storno di ulteriori costi così da ottenere l’effettivo ammontare speso. Secondo il citato contratto, dallo stato sommario dei lavori occorreva dedurre la ritenuta del 4% in favore dell’amministrazione degli scavi, e quella del 2% a beneficio di Casa Reale627. Successivamente, all’importo netto si aggiungevano le indennità pagate, distintamente, agli impiegati e all’appaltatore: la somma di cui beneficiava quest’utimo era pari al 10% degli “stipendi”. Quindi, in funzione di quanto erogato al partitario, l’andamento finale dalla spesa annua subiva alcune modifiche. Un aspetto interessante da sottolineare è che non vi era alcuna specificazione di quanto si spendesse per “gli operai”, quali muratori, falegnami, pittori ecc, cioè coloro che eseguivano le operazioni di scavo descritte in precedenza; viceversa, la stima era indicata solo per quelle categorie di lavoratori più “qualificati”, quali architetti, soprastanti, restauratori ecc. In effetti, molti degli operai assunti erano mendicanti, galeotti, ossia categorie sociali reperite fuori all’ingresso degli scavi in base alle esigenze congiunturali e pagati alla giornata. Tra l’altro un importante limite nell’amministrazione pompeiana, era la generale difficoltà di determinare l’ammontare complessivo delle “spese per il personale”, diretta conseguenza della gestione accentrata delle risorse umane che confluivano indistintamente nel bilancio del Ministero. 627 ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861. Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39, Scavi di Pompei, 1861 – 1875. 230 Tav. 6. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1861 – 1879)628 628 Si tratta di un’elaborazione dei dati da me effettuata in base alle condizioni del contratto di appalto del 1861; i riferimenti circa gli “stipendi” sono stati calcolati, per gli stessi bimestri dal 1861 al 1893, in base alle indicazioni dei fasci intitolati “misure dei lavori”, in ASN e ASSAN. In particolare: ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI B. 751 II, fascio 3, Misure dei lavori da giugno a dicembre 1862: IDEM, fascio 6, I semestre 1863; IDEM, fascio 7, II semestre 1863; IDEM, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da gennaio a settembre e VI bimestre 1865. 231 Seguito tav. 6.629 629 IDEM, fascio XVII B8 e XVII B9, dal I al VI bimestre 1866, I, V, VI bimestre 1867; IDEM, fascio XVII B6, IV e VI bimestre 1878, I, II, IV, V e VI bimestre 1879. 232 Graf. 5. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1861 – 1867) 70.000 60.000 50.000 40.000 L ire 30.000 20.000 10.000 0 1860 1861 1862 1863 1864 1865 1866 1867 1868 A differenza delle ritenute e di quanto versato all’appaltatore, le cui percentuali erano costanti, le indennità pagate ai lavoratori, erano diverse a seconda del numero degli addetti impiegati e delle risorse disponibili: ne conseguiva la maggiore o minore variabilità della spesa totale (Graf. 5.). Dal 1861 al 1863 i lavori furono eseguiti dagli appaltatori Nicola e Carmine Fiorentino. Nel 1861, la spesa complessiva ammontava a 55.656 lire; da luglio a settembre gli stipendi furono molto bassi, rispetto ai mesi precedenti, dato che fu eseguito un solo pagamento di 47 lire al primo Disegnatore, il signor Abbate. Tra novembre e dicembre gli stipendi salirono a 2.174 lire per effetto delle indennità di alloggio pagate all’Ispettore degli scavi e all’Architetto locale. Nel 1862, la spesa annua subì un lieve calo, passando a 56.501 lire; si tratta di un risultato imputabile, quasi completamente, agli intereventi eseguiti da giugno e dicembre, pari a 50.490 lire, di cui 2.826 lire (Tav. 6.) ripartite tra un ampio numero di impiegati quali architetto, 9 soprastanti, diversi restauratori di bronzi antichi, terracotte e vetri. 233 La spesa continuò ad aumentare, nel 1863, fino a 65.802 lire; le stime dei lavori, analogamente agli stipendi, sono state pressoché costanti sia nel I che nel II semestre. Dal 1864 al 1865, la gara di appalto fu vinta da Carlo Riccio; del 1864 fu compilata un’unica libretta da gennaio a dicembre, in cui la spesa finale registrò un lieve declino, passando a 65.796 lire (Tav. 6.). Gli stipendi ammontavano a 3.548 lire, di cui 910 lire per alloggio pagato agli impiegati, 1.001 lire al restauratore Vincenzo Bramante, 1.118 lire agli “operai”630, 519 lire ai soprastanti. Nel 1865 la spesa diminuì a 42.655 lire; l’aspetto interessante concerne la mancanza di pagamenti erogati agli impiegati e all’appaltatore, da luglio a settembre; furono eseguiti solo lavori di falegnameria, volti all’ impiego di architravi di castagno a sostegno di botteghe presso diversi vicoli dell’antica città, per un ammontare, al lordo delle ritenute, pari 500 lire. Dal 1866 al 1867, la spesa cominciò a salire nuovamente (Graf. 5.), passando da 49.348 a 64.896 lire; inoltre, a partire dal 1867, fu abolita la ritenuta del 2% a beneficio di Casa Reale, mentre quella in favore dell’Amministrazione pompeiana, fu portata al 4,40%. Sempre nel 1867, da marzo ad agosto, furono eseguiti interventi non pianificati all’interno di “misure dei lavori”, per i quali le “note dei lavori eseguiti”, e pagati agli impiegati ammontavano a 597 lire631 (Tav. 6.). 630 Il riferimento è: muratore Raffaele Mengione, da Gennaio ad Agosto, 840 lire; falegname Luigi Lettieri, 59 lire; capo muratore Vincenzo Errico, 38 lire; ferraio Andrea di Pietro, 181 lire. 631 ASSAN, XVIII B8 e B9, Note dei lavori eseguiti in Pompei, dall’architetto Villari, il soprastante Andrea Fraia da maggio a luglio, da Biagio Calabrese, da Giuseppe D’Albero e da Vincenzo Mele. Il 10% era a beneficio dell’appaltatore Giuseppe Volpe. 234 Tav. 7. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1880 – 1884)632 632 ASSAN, fascio XVII B4, dal I al IV bimestre 1880, dal I al VI bimestre 1881; IDEM, fascio XVII B1, dal I al VI bimestre 1883; IDEM, fascio XVII B3, dal I al VI bimestre 1884. 235 Graf. 6. Spesa complessiva annua per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1878 – 1884) Dal 1878 fino alla fine del XIX secolo, le operazioni di sterro furono calcolate mediante i prezzi pattuiti nell’ultimo contratto di appalto stipulato tra l’Amministrazione degli scavi di Pompei e l’appaltatore Giuseppe Volpe nel 1866. Nei registri degli anni successivi non sono riportate altre indicazioni circa l’identificazione dell’impresa appaltatrice, ad eccezione del relativo costo. Nel 1878, si lavorò solo nei mesi di luglio, agosto, novembre e dicembre, con una spesa annua di 22.270 lire; l’incidenza degli stipendi fu maggiore nel IV bimestre, pari a 1.104 lire di cui 677 lire a favore della categoria dei restauratori633 (Tav. 7.). Un netto aumento della spesa si registrò nel 1879, passando a 71.123 lire; gli unici mesi in cui non si lavorò furono maggio e giugno. Il costo del lavoro è stato alto durante il I ed il V bimestre, intorno a 1.000 lire. Dal 1880 al 1884, la spesa annua presenta un andamento crescente, con punta massima nel 1881 (Graf. 6): infatti da 40.419 lire, del 1880, salì a 88.475 lire nel 1881. Il VI bimestre 1881 fu caratterizzato da un alto costo del personale, 633 ASSAN, fascio XIII B6, IV bimestre 1878: restauratore Vincenzo Bramante, 430 lire; restauratore Giuseppe Stampanoni, 247 lire. 236 il più significativo del trend in esame, pari a 8.977 lire634. In effetti la maggiore entità degli stipendi era in linea con il progredire dei lavori di sterro che passarono da 8.922 lire del I bimestre a 26.042 lire del VI bimestre. Nel biennio successivo, il trend subì una lieve flessione: nel 1883, in tutti i bimestri, le indennità versate ai lavoratori si mantennero costanti, oscillando intorno alle 2.500 lire, ad eccezione dei mesi di novembre e dicembre, in cui furono contabilizzate diverse spese di 841 lire della Direzione di Napoli, per un ammontare complessivo di 3.182 lire (Tav. 7.). Il 1884 fu un anno caratterizzato da una situazione simile al precedente; l’unica novità di rilievo riguardò un provvedimento del Ministro della Pubblica Istruzione con il quale, a seguito delle conseguenze della grave epidemia, sancì la riduzione delle ore di lavoro da dieci a sei in ciascun giorno. Inoltre, previde un aumento della spesa per la manodopera del 67%635. 634 Nel dettaglio: i soprastanti di Pompei, 352 lire; restauratore di bronzi, Vincenzo Bramante, 262 lire; restauratore dei mosaici antichi 322 lire; n. 32 giornate pagate agli operai che hanno coadiuvato le guardie che non erano in numero sufficiente per la custodia dei monumenti 48 lire; agli operai che hanno estirpato l’erba dai monumenti, 2.561 lire; spese di trasporto eseguite per conto della Direzione di Pompei, 1.505 lire; coloni di terreni circostanti Pompei per danni arrecati nell’esecuzione dei lavori, 125 lire; architetti della Direzione di Napoli, 3.802 lire. 635 ASSAN, fascio XIII B3, V bimestre 1884. Nello stato sommario dei lavori sono riportate le indennità già aumentate del 67%. 237 Tav. 8. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1885 –1893) 636 636 ASSAN, fascio XVII A8, dal I al III bimestre 1885; IDEM, fascio XVII A9, dal IV al VI bimestre 1885, dal I al III bimestre 1886; IDEM, fascio XVII A6, dal IV al VI bimestre 1886; 238 Seguito tav. 8.637 IDEM, fascio XVII A6, dal I al VI bimestre 1887, dal I al VI bimestre 1888. 637 IDEM, fascio XVII A7, dal I al VI bimestre 1889, dal I al VI bimestre 1890. IDEM, fascio XVII A5, dal I al VI bimestre 1891, dal I al V bimestre 1892. 239 Seguito tav. 8.638 Graf. 7. Spesa complessiva annua sostenta per gli scavi di Pompei al netto di ritenute e al lordo di stipendi (1885 – 1893) 120.000 100.000 80.000 60.000 L ire 40.000 20.000 0 1884 1886 1888 1890 1892 1894 Dal 1885 al 1893 si ebbero continui alti e bassi di spese; in seguito ad un aumento, tra il 1885 ed il 1886, la spesa annua registrò una lieve contrazione nel 1887, per poi aumentare nuovamente tra il 1888 ed il 1889, anno in cui il livello delle somme stanziate fu massimo (Graf.7.). Un inversione di tendenza contraddistinse il 1890, in cui la spesa calò significativamente, aumentando, nel 1891, per poi dimezzarsi nel 1892. Infine, nel 1893, si registrò un ulteriore 638 IDEM, fascio XVII A7, I e II bimestre 1893. 240 incremento (Graf. 7.); infatti pur essendo circoscritto il periodo di lavoro, da gennaio ad aprile, l’ammontare complessivo raggiunse livelli analoghi ad anni in cui l’attività fu intensa in tutti i bimestri, quali ad esempio il 1885 ed il 1890. Un aspetto interessante che si evince confrontando gli ultimi otto anni considerati, concerne l’incompatibilità tra quanto si spese per i lavori di sterro, quali cavamenti, trasporti, muratura ecc, e quanto pagato agli addetti per eseguire tali interventi: cioè a fronte di bimestri in cui la stima delle misure dei lavori era alta, corrispondevano indennità modeste e viceversa (Tav. 8.). Nel dettaglio, durante il IV bimestre 1885, si spesero solo 5.547 lire, associati al costo del lavoro più alto dell’interno anno, di 3.730 lire, conseguente all’incidenza di lavori straordinari per 1.692 lire nonché al pagamento degli operai addetti alla pulizia dei luoghi per 437 lire in aggiunta alle tipiche figure professionali; la discrepanza era notevole se si considera che, nei mesi di maggio e giugno, in cui si registrò la spesa più consistente dell’anno, 10.603 lire, si pagarono indennità per 2.539 lire. Anche il 1886 presenta il medesimo andamento del 1885: la misura dei lavori del II bimestre era di 26.172 lire, a cui si sommarono 1.744 lire, quali indennità pagate agli operai, mentre tra novembre e dicembre si spese per la manodopera 2.657 lire e per lo scavo 1.732 lire, cioè l’onerosità del lavoro fu maggiore degli interventi eseguiti (Tav. 8.). Ad eccezione dei soprastanti e restauratori, quali categorie ricorrenti, il risultato era imputabile a 133 lire spese per 14 giornate a favore di otto operai che lavorarono nei giorni di maggiori affluenze di visite coadiuvando le guardie che non erano in numero sufficiente per la custodia dei monumenti; 829 lire per i dipendenti della Direzione di Napoli, approvate dall’Autorità Superiore; 409 lire in favore degli operai incaricati di estirpare le erbe dai monumenti. La stessa discrepanza si manifestò durante il V bimestre 1887639. Nel 1888 interessanti sono i risultati del I e del II bimestre: tra gennaio e febbraio la spesa complessiva fu di 6.651 lire, di cui il costo del personale 639 ASSAN, fascio XVII A6, anno 1887, in cui gli stipendi superarono i servizi resi: 988 lire per i dipendenti della Direzione di Napoli; 589 lire per gli operai addetti a pulizie e ad estirpare le erbe dai monumenti. 241 rappresentava quasi il 38%. A marzo e ad aprile la spesa salì a 30.077 lire, nonostante ciò la spesa per il personale differiva di poco rispetto al bimestre precedete (2.497 lire nel I bimestre e 3.117 lire nel II). In ambedue gli esercizi, ricorre l’incidenza delle spese per la Direzione di Napoli. Lo stesso risultato si ripete l’anno seguente con riferimento, però, al III e al VI bimestre durante i quali la spesa finale passò da 26.761 lire a 9.003 lire. Nel 1890, la spesa annua da 103.741 lire precipitò a 64.155 lire, nei mesi di maggio e giugno molto più contenute furono le spese destinate agli sterri, mentre il personale assorbì il 48% della spesa stanziata nel bimestre. La categoria verso la quale si spese la somma maggiore fu quella degli operai incaricati della pulizia di Pompei, per lire 574. Le irregolarità riscontrate fino a questo momento proseguirono anche nell’ultimo triennio, 1891 – 1893 (Graf. 7.). In particolare, nel 1891, il bimestre più interessante è il III, poiché, a fronte di una stima dei lavori pari a 33.942 lire, quindi anche molto alta rispetto agli andamenti bimestrali dei singoli anni, per il personale si spese 1.868 lire, cioè circa il 5% della spesa complessiva. Il riferimento è alle sole categorie dei soprastanti e dei restauratori dei bronzi e dei mosaici. Nel 1892, l’ammontare complessivo della spesa quasi si dimezzò confrontato con il 1891, passando da 84.592 a 48.039 lire (Tav. 8.). Nel complesso, si trattò di un anno contraddistinto da andamenti bimestrali più regolari dei precedenti anni, sia per la stima dei lavori sia per quella delle indennità. Un ulteriore discrepanza, tuttavia, si evince dall’ultimo periodo preso in esame, ossia i primi due bimestri del 1893: nei mesi di gennaio e febbraio, la spesa complessiva fu di 12.341 lire, che crebbe sensibilmente a 51.869 lire nel bimestre successivo: ancora una volta una differenza significativa ha ad oggetto le indennità pagate agli operai che nel secondo periodo sono inferiori, ed erogate principalmente ai restauratori. Durante il trend esaminato, la maggiore onerosità del lavoro era imputabile, quindi, all’esecuzione di lavori straordinari, per i quali non vi era altra indicazione, e agli operai addetti alla pulizia del sito archeologico: probabilmente i primi erano connessi ai lavori in economia, non stimabili, ma 242 di grande rilievo economico nelle misure dei lavori, mentre i secondi, rappresentano una categoria che inizia ad essere identificata solo dopo il 1885: in entrambi i casi comincia ad acquisire maggiore importanza, rispetto al passato, lo stato conservativo dei monumenti, infatti coincise con gli ultimi decenni dell’Ottocento, la fine dell’impropria pratica di staccare dalle pareti i dipinti, consentendo, così, ai “tecnici” il restauro sul posto senza deturpare ulteriormente l’intera struttura e ai pochi visitatori di ammirarne lo splendore nel suggestivo contesto di origine. 5.6. LE REGIONI DI POMPEI Dopo aver illustrato come si spendevano le anticipazioni ministeriali per le diverse operazioni di scavo e come variavano tali spese in funzione di ritenute e indennità al personale, ho aggregato nuovamente le misure dei lavori in modo da rispondere ad un altro interrogativo: le risorse finanziarie venivano impiegate per dissotterrare quali parti all’interno della cinta muraria di Pompei? In base a quali criteri si decideva di scavare un “luogo” anziché un altro”? Le scelte della progressione delle aree da scavare è cambiata con le epoche e i metodi di scavo: fino al 1760, si scavava e poi si rinterrava tutto, successivamente, individuato il foro e i teatri si decise di liberare le strade che mettevano in comunicazione questi grandi complessi, fino al 1860; in seguito, cominciarono ad essere portate alla luce le case e le botteghe all’interno delle principali strade. 243 Pianta che individua le epoche degli scavi effettuati a Pompei: La dimensione del parco archeologico di Pompei rendeva particolarmente complessa l’ identificazione degli edifici pubblici e privati. Nel 1858, Giuseppe Fiorelli mise a punto un “sistema catastale”, che diventò ufficiale per il sito di Pompei e i cui criteri furono in seguito applicati anche all’area archeologica di Ercolano640. Per evitare confusione con le centinaia di nomi convenzionali attribuiti alle case e alle botteghe al momento dello scavo, la città venne divisa in nove quartieri chiamate “regioni”. Ciascuna regione era poi solcata da un certo numero di vie secondarie, che la dividevano in altrettanti segmenti minori, detti “insule”, all’interno dei quali vi erano case e botteghe identificate da un proprio numero civico. In questo modo era possibile individuare sulla pianta della città l’edificio a cui si faceva riferimento. 640 G. Fiorelli, Appunti autobiografici, premessa a cura di Stefano De Caro, Sorrento, 1994, p. 167 – 168. 244 Pianta dei quartieri abitativi (le regioni identificate in numeri romani, le insule e le case o botteghe con numeri arabi. Esempio, Casa della Grata Metallica, I, 2, 27 – 29) Come si rileva dalla pianta, gli scavi di Pompei sono racchiusi in una cinta muraria in cui si aprono sette porte: tre verso settentrione, Porta Ercolano, Porta Vesuvio e Porta Nola; una verso oriente, Porta Sarno; due verso sud, Porta Nocera e Porta Stabia; e una verso occidente, creduta molto prossima al mare e per questo chiamata Porta Marina. Di seguito è riportata la stima delle spese per tutti gli anni in cui sono state stilate le misure dei lavori, raggruppate, a seconda delle regioni beneficiarie degli stanziamenti ministeriali. 245 Tav. 9. Ripartizione delle spese complessive effettuate a Pompei per Regioni (1861 – 1893)641 641 ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI, B. 751 II, fasc. 3, Misura dei lavori da giugno a dicembre 1862; IDEM, B. 751 II, fasc. 6, Misura dei lavori I e II semestre 1863; ASSAN, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da gennaio a settembre e VI bimestre 1865; IDEM , fascio XVII B8 e XVII B9, dal I al VI bimestre 1866, I, V, VI bimestre 1867; IDEM, fascio XVII B6, IV e VI bimestre 1878, I, II, IV, V e VI bimestre 1879; IDEM, fascio XVII B4, dal I al IV bimestre 1880, dal I al VI bimestre 1881; IDEM, fascio XVII B1, dal I al VI bimestre 1883; IDEM, fascio XVII B3, dal I al VI bimestre 1884; IDEM, fascio XVII A8, dal I al III bimestre 1885; IDEM, fascio XVII A9, dal IV al VI bimestre 1885, dal I al III bimestre 1886; IDEM, fascio XVII A6, dal IV al VI bimestre 1886, dal I al VI bimestre 1887, dal I al VI bimestre 1888; IDEM, fascio XVII A7, dal I al VI bimestre 1889, dal I al VI bimestre 1890, I e II bimestre 1893; IDEM, fascio XVII A5, dal I al VI bimestre 1891, dal I al V bimestre 1892. 246 Graf. 8. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1861 Graf. 9. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1862 247 Durante gli anni 1861 e 1862, non vi è alcuna specificazione circa i luoghi scavati, l’unico riferimento citato nelle carte è “l’esecuzione di una massa di lavori nel disseppellire i ruderi di quell’antica città”642. Nelle ipotesi in cui non è stato possibile individuare la regione, la spesa è aggregata nella categoria “Fuori Regione” (Tav. 9). In questi casi, nello stato sommario dei lavori, generalmente, è riportata solo la stima quali – quantitativa dell’operazione eseguita. Graf. 10. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1863 Anche la spesa complessiva di 60.845 lire, del 1863, è stata inserita in “Fuori Regione”, (Graf. 10) benché vi fosse una differenza rispetto ai generici ruderi del biennio precedente: infatti gli sterri furono eseguiti per scoprire delle “botteghe”, prive, tuttavia, di altri suggerimenti. 642 ASSAN, fascio XVII B 10, Certificati a favore degli appaltatori Nicola e Carmine Fiorentino, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI, B. 751 II, fasc. 3, Misura dei lavori da giugno a dicembre 1862 248 Graf. 11. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1864 Un primo riscontro sulla divisione delle spese sostenute per Pompei, apparve nel 1864, in cui la spesa complessiva di 65.843 lire fu interamente impiegata per gli scavi nella Regione II. Essa occupa il quadrante sud – orientale della città, costituito da Via dell’Abbondanza; una parte significativa dell’area è occupata dai grandi complessi pubblici della Palestra Grande e dell’Anfiteatro643. La descrizione dei lavori, specificava l’utilizzo di architravi di quercia presso le botteghe n. 8, n. 16 nel vicolo del Lupanare, n. 12, n. 9, nel vicolo perpendicolare a quello del Lupanare e alla casa n. 11644. 643 Riferimenti circa le epoche di scavo oppure brevi cenni sulle caratteristiche delle Regioni, sono stati possibili attraverso l’archivio digitale dell’Ufficio Scavi di Pompei e Boscoreale, i diversi complessi sono ricostruiti cronologicamente in base agli studi archeologici che si sono succeduti. 644 Quando un edificio è identificato esclusivamente con numero civico, senza altre indicazioni o denominazioni, significa che lo scavo è ancora ai livelli embrionali, per cui non sono stati ancora rinvenuti oggetti quali statue, affreschi, materiale da lavoro ecc, tali da identificare il proprietario o comunque offrire una qualche peculiarità utile a dare un nome ben specifico alla casa. Infatti, molti sono in casi di complessi i cui nomi sono stati dati parecchi anni dopo il primo colpo di piccone, oppure è mutato nel corso del tempo, assumendo quelli di chi faceva la scoperta oppure conduceva gli scavi. Con particolare riferimento agli anni studiati, ad eccezione delle regioni la cui collocazione è rimasta immutata, le case e le botteghe estrapolate da ASSAN, con altissime probabilità attualmente hanno cambiato civico oppure nome. 249 Graf. 12. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1865 Graf. 13. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regione, anno 1866 Nel 1865, la spesa complessiva diminuì in confronto ai quattro anni di vita precedenti, passando dai 55.197 lire, del 1861, a 37.696 lire (Tav. 9.). L’unica indicazione è che la somma fu interamente impiegata per la casa n. 40, in via dell’Abbondanza. Nel 1866, si registrò un incremento, ma anche qui lo scavo 250 è da inserire in “Fuori Regione”, poiché è indicato solo il tipo di operazione e il rispettivo costo, senza alcun riferimento ai luoghi. Graf. 14. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1867 Nel 1867, la spesa di 54.924 lire (Tav. 9.) fu impiegata per lavori eseguiti presso la Casa del Fauno collocata nella Regione VI, estesa su tutto il quadrante nord – occidentale del pianoro; il quartiere presenta una struttura particolarmente uniforme nella parte centrale, dove insule rettangolari sono definite da un reticolo di strade fra loro ortogonali. La Casa del Fauno ( VI, 12, 1 – 8) fu picconata per la prima volta nel 1829 e attualmente rappresenta la più suntuosa fra le case di Pompei. Un ulteriore indicazione, nell’ambito di questa regione, furono i lavori compiuti per liberare dalla terra Via della Fortuna 251 Graf. 15. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1878 Dal 1878 al 1893, i lavori di scavo cominciarono ad essere sistematici e ripartiti più equamente tra le diverse regioni, riducendo significativamente le percentuali di spesa destinate a “Fuori Regione”. Nel 1878, quasi tutta la spesa annua, pari a 20.991 lire, fu impiegata per lavori eseguiti presso la Regione IX, Insula 5 e 6, per lire 19.583 (Tav. 9.). Si trattò principalmente di case, ad eccezione di una bottega in cui fu rinvenuto un forno con ingresso in Via Nolana. Nei mesi tra novembre e dicembre, 1.408 lire furono impiegate nella Regione V, Isola 1, per lavori nella cantina n. 2. Lo scavo integrale della Regione IX, fu interrotto negli ultimi anni dell’Ottocento, coincidendo con l’ultima libretta redatta: all’epoca fu messa in luce all’incirca la metà dell’intera superficie; solo in anni recenti gli scavi si sono concentrati nuovamente su alcune dimore allora solo parzialmente individuate. 252 Graf. 16. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1879 Nel 1879, i lavori furono intensi dalla Regione V alla Regione IX. La Regio V, messa solo parzialmente in luce nel corso dell’Ottocento, occupa il quadrante nord – orientale della città insieme alla Regio IV, che nel periodo in esame, era ancora interamente coperta da lapilli. Le Regioni VII e VIII furono ampiamente scavate fino alla fine dell’Ottocento, scoprendo numerosi settori abitativi. La spesa complessiva ammontava a 70.190 lire, di cui la parte più cospicua fu spesa per la Regione IX, per 37.693 lire; la spesa si ridusse progressivamente nei quartieri restanti, ad eccezione della Regio I e della Regio V in cui raggiunse livelli esigui, rispettivamente 141 lire e 194 lire (Tav. 9.). Durante quest’anno le uniche due case identificate furono la Casa di Cecilio Giocondo (V, n. 26) e la Casa di Sallustio (VI, 2, n. 4). 253 Graf. 17. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1880 L’anno seguente la spesa annua calò notevolmente, passando a 37.652 lire; il 77% della spesa fu utilizzata per i soli lavori nella Regione IX, (Graf. 17.) Insula 5 e 6, in cui si scavò esclusivamente per tutto il I bimestre. Ulteriori interventi furono realizzati anche da marzo ad agosto, alternandoli con lo scavo di numerose altre case site nelle Regio VI, VII e VIII645. (Graf. 17.). 645 ASSAN, fascio XVII B4, anno 1880: Regio VI, Isola 9, casa n. 2; Regio VII, Isola 4, casa n. 48; Regio VIII, Isola 2, case n. 12, 14, 15, 17, 18, 20, 21, 23, 24, 25, 26. 254 Graf. 18. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1881 Gli anni ’80 dell’Ottocento rappresentano il periodo più fecondo dell’attività di scavo nonostante le croniche ristrettezze finanziarie: diversamente dai bimestri successivi, fu nei mesi di gennaio e febbraio 1881 che si lavorò attivamente su ben tre Regioni: la VI, la VII e la IX. (Graf. 18). La Regione più costosa fu la VI per 39.428 lire, mentre, diversamente dagli anni precedenti, solo il 4% della spesa annua fu destinata alla Regione IX. La Regio I, dal 1881 inizia ad essere disseppellita con una certa sistematicità, pur destinando ai suoi complessi una parte molto ristretta dei fondi pervenuti. 255 Graf. 19. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1883 Nel 1883, la discrepanza tra quanto speso per le diverse regioni fu più contenuta rispetto agli anni esaminati fino a questo momento: infatti i quartieri che maggiormente beneficiarono dei fondi furono le Regioni VI, VII e VIII, (Graf. 19.) in cui si spese, rispettivamente 17.250 lire, 17.677 lire e 18.383 lire (Tav. 9.). In particolare, nella Regione VII si lavorava per liberare le Terme della Fortuna. Anche la Regione I fu interessata dagli sterri, rappresentando la minor voce di uscita per 1.056 lire. Dal II al VI bimestre si lavorò quasi contemporaneamente nelle Regioni VI, VII, VIII e IX; tra gennaio e febbraio furono interessate solo le Regio VIII e VI. Infatti, in funzione dei fondi allocati dal Ministero e dalla manodopera disponibile, uno stesso quartiere poteva essere scavato anche in momenti diversi dell’anno, magari concentrando le risorse in altre Insule oppure edifici, a seconda di quello scoperto in precedenza. 256 Graf. 20. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1884 Nel 1884, si lavorò nelle Regioni I e II, V, VI, VII, VIII e IX. (Graf. 20.) Diversamente dal I quartiere, la Regio II fu scavata molto saltuariamente durante il trend in esame, stanziando risorse modeste, rispetto ai luoghi più ricorrenti. Infatti, la spesa nei primi due quartieri differì di poco, ma comunque fu bassa rispetto ad altre “porzioni” del sito archeologico. Le Regioni in cui si investì maggiormente furono la VII, VIII e IX, spendendo per ciascuna circa 17.000 lire. Sia nel II che nel III bimestre si lavorò in tutte le regioni interessate, mentre, tra gennaio e febbraio, i lavori furono concentrati solo nella Regione V e VI. Inoltre, nella Regio VII, Isola VIII, fu possibile identificare un altro edificio, il Tempio di Giove. 257 Graf. 21. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1885 Nel 1885, la spesa annua fu di 43.892 lire: di cui 24.221 destinate alla Regio VIII e 13.170 lire alla Regio VII. (Tav. 9.). Diversamente dagli altri anni, minori furono le risorse destinate alle Regioni V, VI, e IX, che non raggiungevano le 2.000 lire. Addirittura per questi quartieri si spese meno di quanto destinato alla Regione I, gran parte della quale fu messa in luce solo all’epoca degli “Scavi nuovi e recenti” ( 1910 – 11; 1927 – 61). Da gennaio a giugno si lavorò solo nelle Regioni VII, VIII e IX mentre le restanti furono interessate nella seconda parte dell’anno. 258 Graf. 22. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1886 Nel 1886, le Regioni interessate alle operazioni di sterro continuarono ad essere le stesse in cui si lavorò negli anni precedenti (Graf. 22.): l’unica differenza concerneva la spesa associata a ciascuna di essa che variava di anno in anno. Durante il 1866, la spesa maggiore si registrò nella Regione VIII pari a 18.929 lire (Tav.9); di poco inferiore era l’ammontare investito nella V e nella VII regione. Il 4% della spesa complessiva, fu impiegato per costruire un nuovo ingresso in Pompei, e inserito nella categoria “Fuori Regione”, poiché non vi era alcuna indicazione circa il luogo in cui i lavori erano cominciati. 259 Graf. 23. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1887 Per il 1887, gli interventi più massicci furono realizzati per scoprire la Regione IX: infatti, a fronte di una spesa annua di 55.353 lire, solo per questa porzione di Pompei si spese 31.150 lire, e si lavorò per tutto il II bimestre; di rilievo fu anche la spesa per la Regione VIII di 18.254 lire. Molto basso fu quanto previsto per la Regio I, che non arrivava alle 300 lire. 260 Graf. 24. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regione, anno 1888 Nel 1888, si lavorò nelle Regioni V, VI, VII, VIII, IX e la spesa complessiva fu la più elevata del decennio 1878 - 88, sebbene l’andamento, come d’altronde, tutti gli anni interessati, fu caratterizzato da continui alti e bassi (Graf. 24.). Nella Regione IX, la spesa fu molto alta, pari a 34.875 lire, evidenziando un ampia discrepanza rispetto ai fondi impiegati negli altri quartieri che oscillavano dalle 12 alle 19.000 lire, ad eccezione della Regione VI che assorbì appena il 2% della spesa complessiva. 261 Graf. 25. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1889 A differenza di tutti gli anni considerati, nel 1889 si ebbero i maggiori stanziamenti ministeriali: per quanto concerne l’allocazione delle risorse in relazione a specifiche porzioni di territorio, la ripartizione fu analoga all’anno precedente: la spesa più alta fu destinata alla Regione VII, pari a 34.938 lire, (Tav. 9.) in cui all’isolato 8 i lavori furono compiuti per disseppellire il Tempio di Iside, mentre dalla Regione V e alla Regione IX si spese tra i 7 e le 19.000 lire, quindi mostrando un divario non indifferente. Diversamente dal 1888, oltre alla Regione I, furono disseppelliti edifici anche presso la Regione II, quest’ultima rappresentando l’importo più basso. 262 Graf. 26. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1890 Il 1890 presenta due aspetti interessanti rispetto gli anni precedenti: il primo è che si tratta dell’unico anno in cui si spese per disseppellire la Regione I più di 10.000 lire, non essendo, fino a quel momento, destinata neanche la metà di tale importo. L’altra novità è che la spesa più cospicua rientra nelle categoria “Fuori Regione”, (Graf. 26) poiché da “misure dei lavori”, nel VI bimestre si ebbero i diversi interventi con relativa stima, trattati nei paragrafi precedenti, ma con riferimento a generiche botteghe. Negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia, l’importo riportato in questa categoria corrispondeva con l’intera stima annuale della spesa, per cui anche molto più alto dell’anno considerato, dato che la suddivisione in Regioni ed in Insule, ancora doveva essere applicata all’interno dei registri ma nel 1890, chiaramente vi sono spese in altre Regioni ben identificate, quali la Regio V per 1.256 lire, la Regio VI per 4.560 lire, la Regio VII per 8.622 lire ed infine la Regio IX per soli 112 lire. (Tav. 9.) 263 Graf. 27. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1891 Nel 1891, le spese più significative servirono a portare alla luce le case delle Regioni VIII e IX, rispettivamente per 22.369 lire e 29.566 lire: più specificamente nella Regione IX gli sterri erano rivolti alla “Casa del Centenario”, comparsa per la prima volta con questa denominazione: infatti la sua scoperta risale al 1879 e rappresenta una delle abitazioni più grandi di Pompei. Anche per la Regione V troviamo un indicazione più specifica di “casa” chiamata “Casa dell’Imperatore di Germania”, il cui nome potrebbe far pensare che fu scoperta in occasione di una visita del sovrano di Germania. In realtà, i sovrani di Germania si recarono presso il sito archeologico solo qualche anno più tardi646. A prescindere dalla sua origine, furono spese 15.089 lire, l’ultimo importo di rilievo, poiché i lavori realizzati altrove non superarono i 5.000 lire. Inoltre, per la prima volta, si lavorò nella Regio III, spendendo 1.022 lire. (Tav. 9). Si tratta di un aspetto da non trascurare se si considera che attualmente quasi tutto il quartiere è ancora coperto dai lapilli dell’eruzione e di esso sono state scavate solo le facciate di abitazioni e botteghe aperte a sud su Via dell’Abbondanza e poche case disposte all’angolo di alcuni importanti incroci viari. 646 ASSAN, fascio XIII B6, 13, Visita in Pompei dei Sovrani di Germania, anno 1893. 264 Graf. 28. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1892 Nel 1892, la spesa complessiva fu di 39.869 lire, relativamente bassa se si considerano gli anni passati. Il V quartiere fu il complesso verso cui si concentrarono le spese più consistenti pari a 23. 350 lire (Tav. 9.), mentre nelle Regioni VI, VII e VIII oscillarono tra le 2.000 e le 7.000 lire. Circa il 3% delle risorse fu impiegato anche per edifici non identificati nella nota classificazione. 265 Graf. 29. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1893 Nel 1893 si lavorò nelle Regioni V, VII, VIII e IX. (Graf. 29). In particolare per la Regione V si spesero 37.127 lire, ossia assorbì più della metà della spesa complessiva. I lavori contribuirono alla scoperta della “Villa di Diomede”, lungo la Via detta delle Tombe. Significativo fu anche la spesa della Regio IX di 18.591 lire, mentre per la Regio VII e VIII la spesa non superò le 4.000 lire. In base alla sintesi elaborata è emerso che sulle nove Regioni individuate da Fiorelli, le somme spese a Pompei furono distribuite principalmente per riportare alla luce le sole Regioni V, VI, VII, VIII, IX. Il concentrare le risorse finanziarie in questi quartieri era probabilmente connesso al riemergere dalle ceneri di case importanti ed edifici pubblici, presso i quali si svolgeva l’attività intellettuale e commerciale della città: infatti, numerosi erano i riferimenti i “cavamenti” volti a liberare dalla terra i vicoli. Nella prima metà del Novecento, l’attività di scavo si concentrò nella parte orientale della città, sotto la direzione di Vittorio Spinazzola e Amedeo Maiuri. Quest’ultimo fu Soprintendente dal 1923 al 1961, legando a sé le più importanti scoperte di Pompei, un organico piano di ricostruzione delle aree 266 messe in luce (isolati delle Regioni I e II) ed una serie di indagini stratigrafiche volte ad individuare le fasi più antiche della città. Al termine della sua lunga attività erano stati messi in luce 44 dei circa 65 ettari della superficie urbana compresa entro le mura e la sua copiosa produzione scientifica è ancora oggi alla base di ogni ricerca sull’archeologia e sull’urbanistica pompeiana. Negli anni finali del XX secolo si ebbero poche, mirate attività di scavo, concentrando le risorse soprattutto nel restauro degli edifici messi in luce, molti dei quali in grave stato di sofferenza dopo più di due secoli di esposizione agli agenti atmosferici. 267 5.7. LO SCANDALO DI VILLA DELLA PISANELLA Le vicende che accompagnarono il rinvenimento del “tesoro di Boscoreale” e la sua esportazione clandestina in Francia sono state cruciali poiché denunciarono il disinteresse e la sconfitta dell’Italia unita nel settore culturale647. La scoperta di una casa pompeiana nel territorio di Boscoreale avvenne, nel 1894, quando Vincenzo De Prisco iniziò dei lavori in un terreno di sua proprietà. Il fortunato scopritore inviò una lettera al Ministro per l’Istruzione Pubblica, Guido Baccelli, chiedendo l’autorizzazione al proseguimento dello scavo, attenendosi alle disposizioni del decreto ferdinandeo del 1822. I lavori proseguirono, in seguito ad autorizzazione ministeriale, e sotto la sorveglianza del direttore del Museo di Napoli Giulio De Petra e dell’Ispettore Sogliano. I primi rinvenimenti di un certo valore risalgono al 1895 e altri preziosi tornarono alla luce nei mesi successivi. Prive di risultati furono le continue richieste di speciali fondi al ministro Baccelli, da parte del direttore De Petra, per l’acquisto di tali opere così per arricchire il Museo di Napoli. Numerose e contrastanti furono le corrispondenze tra il Ministro ed il Direttore circa la validità legale degli scavi condotti da De Prisco. Tuttavia, prima di decretare sull’argomento scoppiò lo scandalo. La Direzione degli scavi di Pompei trasmise al ministro Baccelli la notizia dell’esportazione clandestina, a Parigi, da parte dell’antiquario napoletano Ercole Canessa, che già in passato lavorò con De Prisco, di una collezione di vent’otto vasi antichi di argento. Poiché nessun privato era stato in grado di far fronte alla richiesta di centoventicinquemila franchi, lo stesso Canessa si presentò alla Direzione del Louvre, con un numero maggiore di vasi, per i 647 La vicenda di contrada Pianella fu dettagliatamente studiata dalla Prof.ssa Gina Carla Ascione, la quale attraverso la documentazione dell’Archivio Centrale dello Stato (AA.BB.AA., II versamento, I serie, b. 147, inc. 2382 bis) studiò il fitto carteggio intercorso tra il ministro dell’Istruzione Guido Baccelli ed il Direttore del Museo Nazionale di Napoli Giulio De Petra. Ho illustrato brevemente i tratti salienti della questione al fine di evidenziare che dopo trent’anni dall’unità d’Italia, le manovre statali continuavano ad essere orientate esclusivamente verso altre priorità, trascurando il problema degli scavi archeologici, ed eludendo sia la questione finanziaria sia la cavillosa questione legislativa, per la quale sembrava impossibile conciliare lo spirito coercitivo e autoritario dei decreti precedenti l’unità con l’inviolabile diritto alla proprietà privata. 268 quali chiedeva mezzo milione di franchi. Tale cifra fu giudicata troppo alta anche per il Louvre, che avrebbe perso l’occasione di ottenere la preziosa raccolta se non fosse intervenuto il banchiere Edmond de Rothschild che, evitandone la partenza per il Museo di Boston degli USA, provvide all’acquisto e al restauro di tutti gli oggetti d’argento presentati dall’antiquario napoletano. In seguito tali argenti entrarono, per donazione del celebre banchiere, a fare parte delle collezioni romane del museo francese. Le indagini si conclusero pochi mesi dopo con la completa assoluzione di De Prisco, per inesistenza di reato, non esistendo prove concrete dell’esportazione clandestina. In aggiunta, gli fu riconosciuta la possibilità di proseguire i lavori di scavo, esercitando il suo diritto di proprietà senza violare i decreti ferdinandei. Tra l’altro, due furono gli elementi principali che contribuirono all’esito di questa sentenza: la mancanza di una legge di tutela unitaria circa il ricevimento di reperti archeologici da parte di privati ed una lettera del direttore De Petra indirizzata a De Prisco, in cui affermava che lo Stato non poteva procedere all’acquisto degli oggetti a causa di persistenti problemi finanziari, pertanto poteva disporne a suo piacimento. Lo scandalo del tesoro di Boscoreale fu di grandissimo rilievo suscitando, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, una reazione a favore della tutela del patrimonio archeologico che sfocerà, qualche anno più tardi, nella legge del 1902. Erano gli anni del secondo Governo Crispi (dicembre 1894 – marzo 1896), caratterizzati, sul piano economico, da un energica azione promossa da Sonnino, Ministro delle Finanze, per risanare il bilancio e riordinare la circolazione del credito, attraverso una politica di fortissime economie e l’aumento del carico fiscale. Ai settori meno produttivi, come l’Istruzione, ancora una volta, fu destinata una parte esigua delle finanze dello stato, volte piuttosto a coprire le ingenti spese della politica coloniale. Inutili, si rivelarono gli appelli del Direttore del Museo di Napoli al Ministro per ottenere fondi di entità tali da permettere l’acquisizione alle collezioni statali di oggetti rinvenuti in terreni di proprietà privata. La politica estera di Crispi, antifrancese, non assecondò neanche la richiesta del Direttore del Museo di 269 ricorrere alle vie diplomatiche per ottenere dal Louvre notizie circa il tesoro di Boscoreale, nella speranza di un eventuale recupero. Ad accrescere i dubbi e a confondere le idee contribuì l’incertezza legislativa: in mancanza di una regolamentazione, il riferimento era alla legislazione dei governi preunitari, rivelatasi obsoleta, sia perché vennero a mancare i presupposti giuridico – amministrativi degli antichi stati, sia perché si trattava di norme valide nella situazione storica precedente, divenute ormai improponibili sul piano di una concreta applicazione. Inoltre vi è un altro aspetto che potrebbe essere una diretta conseguenza degli avvenimenti di quegli anni: dopo il 1893, non vi sono più “Misure dei lavori”, probabilmente perché le risorse ministeriali stanziate divennero ancora più esigue dei decenni precedenti, al punto da non riuscire nemmeno a garantire una pianificazione bimestrale delle operazioni. Di seguito una suggestiva immagine di alcuni dei vasi protagonisti dello scandalo di fine Ottocento. 270 Vasi antichi del tesoro di Boscoreale 271 CONCLUSIONI Gli scavi di Pompei ebbero inizio nel 1748, durante il regno di Carlo di Borbone, con l’intento di conferire prestigio alla casa reale. Fin dai primi ritrovamenti, lo scavo apparve come una fonte inesauribile di tesori, oggetti preziosi e di opere d’arte, che stimolarono un’intensa attività clandestina di esportazione oltre confine. La necessità di tutelare tali ricchezze preoccupò il re, tanto che, il 24 luglio 1755, emise un primo dispaccio volto a vietare “l’estrazione di si fatte reliquie che per eccellenza di lavoro ed artificio, o per altra rarità, merita di essere tenuto in pregio”. Un successivo ed interessante provvedimento reale risale al 13 dicembre 1755, a cui conseguì l’istituzione della Reale Accademia Ercolanese, composta da quindici specialisti incaricati di studiare scientificamente i rinvenimenti vesuviani e pubblicarne i risultati. E’ opportuno sottolineare che le prammatiche borboniche giunsero a colmare, seppur in ritardo rispetto all’antica legislazione pontificia di tutela dei monumenti, un intollerabile vuoto legislativo, ispirandosi nei contenuti al modello romano. Ben presto la politica culturale borbonica si rivelò molto severa, tanto che sui luoghi di scavo quasi vigeva un controllo di tipo militare: i pochi eletti ammessi a visitare il sito, previa autorizzazione reale e del primo Ministro, erano sorvegliati a vista dai guardiani per timore che potessero sottrarre oggetti o asportare frammenti; era vietato, persino, eseguire disegni sommari dei ritrovamenti. Il medesimo spirito accentratore si manifestò nell’esecuzione dei lavori dell’Accademia: infatti, ai membri era vietato divulgare le scoperte, restando la pubblicazione dei reperti riservata allo Stato. Pertanto, l’attività dell’istituto procedette con estrema lentezza al punto tale che i primi volumi relativi ai ritrovamenti furono pubblicati solo alla fine del XVIII secolo. Erano proprio i rigidi vincoli posti ai pochi visitatori e l’organizzazione espositiva dell’Ercolanese a risaltare il limite principale dell’attività culturale dei Borbone. Il riferimento è alla gestione privata dei reperti che, sul piano giuridico, erano di proprietà private del re e come tali gelosamente vissuti e parsimoniosamente mostrati. 272 Di grande interesse e culturalmente innovativo si rivelò per Pompei il periodo francese, soprattutto grazie a Gioccachino e Carolina Murat, cui si deve una reale svolta nella conduzione degli scavi, al fine di restituire la completezza di una visione urbana. Per rendere ciò possibile i sovrani provvidero a predisporre un piano di esproprio dell’intera città antica e il finanziamento di numerose operazioni. Ma il fervore e il metodo nelle ricerche del periodo murattiano fu di breve durata: il ritorno dei Borbone a Napoli segnò un nuovo ristagno nelle attività di scavo e dei mezzi impiegati. Dal punto di vista istituzionale, durante la prima metà del XIX secolo, nell’ambito del dicastero dell’Interno, esisteva un embrione di amministrazione degli scavi di Pompei; si trattava di un ente dotato di personale e risorse finanziarie con competenze territoriali limitate. La legge del 14 maggio 1822, relativa alla regolamentazione degli scavi, affidava al direttore del museo il compito di sorvegliare gli sterri, da chiunque effettuati, tramite i soci dell’Accademia Ercolanese o propri fiduciari. Il marchese Arditi, titolare dell’ufficio, riuscì a creare una rete omogenea di ispettori, ma la mancanza di poteri coercitivi non consentì alla struttura di funzionare; tuttavia la figura dell’ispettore fu recuperata con maggiori responsabilità dall’organizzazione post unitaria. Sempre nel 1822, fu creata, a Napoli, una Commissione di antichità e belle arti, incaricata del rilascio delle licenze di esportazione, che operò fino al 1860, quando con decreto del luogotenente Farini, in data 7 dicembre, le sue competenze passarono alla Sovrintendenza del museo di Napoli. La politica vincolistica borbonica subì una battuta d’arresto il 15 settembre 1860, in seguito al provvedimento di Giuseppe Garibaldi con cui nominò Alessandro Dumas Direttore del Museo Nazionale e degli Scavi di Antichità, con l’incarico di redigere un progetto di recupero archeologico, storico e pittorico del sito di Pompei. Con successivo intervento, Garibaldi erogò per gli scavi 5.000 ducati annui affinché i lavori riprendessero nel più breve tempo possibile. 273 Con r.d. 11 agosto 1861 n. 202, fu approvata la nuova pianta organica del Ministero della Pubblica Istruzione da cui dipendevano anche gli scavi. La normativa relativa all’accesso ai musei, monumenti storici ed aree archeologiche dell’Italia riunificata segnò il passaggio da una concezione illuministica, fondata su una prevalente missione di educazione popolare, ad una diversa visione del “museo”, inteso come complesso di servizi culturali volti a soddisfare molteplici e differenziate esigenze avvertite dal pubblico. I primi dibattiti relativi all’introduzione di una “leggera” tassa per l’ingresso nei siti archeologici campani risalgono al 1861, in seguito alla nota inviata dal Cav. Settembrini, Ispettore Generale degli Studi, al Ministro dell’Istruzione Pubblica, rammaricandosi di non riuscire a proibire la richiesta di mance che gli impiegati rivolgevano ai visitatori, a causa dell’esiguità degli stipendi erogati dal Governo. In effetti, mentre tra il 1861 ed il 1874, il bilancio dello Stato aveva quasi raddoppiato le previsioni di spesa, passando da 840 a 1.540 milioni di lire, gli stanziamenti a favore della Pubblica Istruzione passarono da poco più di 15 a 22 milioni di lire; tali somme costituirono le più modeste voci di spesa dell’intero bilancio statale. Addirittura, le risorse destinate alle antichità e belle arti registrarono una contrazione per recuperare, solo nel 1874, il livello del 1861; sempre nel 1874, comparve, per la prima volta, tra le specificazioni delle uscite, la voce scavi con una cifra pari a 300.000 lire. Per la gestione dei fondi, nell’ambito della direzione degli scavi di Pompei, le somme ministeriali, che con molta difficoltà ed irregolarità pervenivano, furono aggregate secondo tre diversi criteri, in modo tale da evidenziare la tipologia di intervento realizzato, la “gestione del personale” e il “luogo” presso cui si intendevano indirizzare gli sforzi umani e finanziari, inquadrando tali risultati nel contesto economico italiano. Nonostante i propositi, risale solo al 1875 la legge che autorizzò il Governo a riscuotere una tassa di entrata nei musei, nelle gallerie e negli scavi archeologici in misura non superiore alle due lire a persona per gli scavi, e di lire una per gli altri istituti. Il provvedimento dispose l’iscrizione dei relativi introiti nel bilancio della Pubblica Istruzione, affinché fossero devoluti alla conservazione dei monumenti, all’ampliamento degli scavi, all’incremento 274 degli istituti che li percepivano. Tra l’altro, tale ritardo era sintomo di una situazione molto più travagliata, che riproponeva, ancora una volta, la medesima vacanza legislativa che caratterizzò gli anni della scoperta di Pompei, con la differenza che prima l’oggetto della disciplina ruotava intorno alle sole antichità partenopee, dopo il 1861, si trattava dell’intero patrimonio culturale nazionale. E’ ben chiaro, che i due strumenti della tutela, quello giuridico e quello tecnico – amministrativo, erano tra loro inscindibili, pertanto necessitavano di una visione unitaria, in assenza della quale non poteva ottenersi né l’effettiva applicazione della dell’amministrazione legge né pubblica. l’efficiente Di ed conseguenza utile si funzionamento imponeva un provvedimento legislativo unico che stabilisse sia i principi ed i fini, politici e culturali, della tutela del patrimonio di arte e di storia, sia gli strumenti ed i mezzi atti ad assicurare il raggiungimento dei suddetti fini e quindi, il rispetto delle leggi. La prima iniziativa legislativa in materia risale al progetto di legge del Ministro Correnti, presentato al Senato, nel 1872, e mai approvato. Da allora cominciò una tormentata vicenda legislativa ad opera di forze largamente presenti in Parlamento, che si opponevano ad ogni intervento dello Stato che potesse limitare la proprietà privata. Purtroppo l’incapacità di pervenire ad una soluzione normativa complessiva ha prodotto danni gravissimi al patrimonio culturale italiano, patrimonio di rilevante interesse per il mondo intero. Non sono mancati però, in Italia, dall’Unità ad oggi, studiosi ed uomini di cultura che hanno lavorato sia sul piano scientifico che su quello politico affinché si riflettesse su tutti i molteplici aspetti e problemi che concorrono alla formulazione di proposte di legge unitarie in tale settore. Fra questi costruttori della struttura di salvaguardia del patrimonio culturale e della sua conservazione, ha occupato un posto di rilievo, nella seconda metà del XIX secolo, Giuseppe Fiorelli, studioso di numismatica e di archeologia, che si dedicò non solo alla ricerca scientifica, pubblicando numerose opere, ma anche all’attività di scavo e di valorizzazione dell’area pompeiana. Fin da 275 giovane, egli si dedicò alla causa comune, tanto da essere nominato senatore del regno. Per questa riconosciuta fede nella grandezza della nascente nazione italiana, congiunta ad un’ampia cultura ed a serie capacità organizzative, fu incaricato di creare il servizio statale per la tutela ed a suggerire proposte per legiferare in materia, come si evince dalle approfondite relazioni al Ministro dell’Istruzione Pubblica. A tal fine, da un lato, Fiorelli lavorò alla definizione di una politica italiana della tutela, collocata nel quadro della cooperazione internazionale, dall’altro lato, si dedicò all’organizzazione di uffici periferici distribuiti nelle diverse aree del paese, fornendo linee guida in diversi settori: dallo scavo archeologico alla catalogazione, dalla formazione dei funzionari al restauro architettonico. Il suo contributo è stato fondamentale, frutto di una lunga riflessione sull’annoso problema e di piena consapevolezza della realtà peculiare della nazione. Nonostante l’impegno profuso, la prima legge nazionale di tutela delle belle arti fu emanata solo nel 1902, la cosiddetta “Legge Nasi”: si trattò di un momento felice per la storia della tutela, seppur con eccessivo ritardo, anche il settore artistico poteva finalmente vantare una normativa certa, che fissava una serie di coordinate fondamentali relative all’esercizio dell’azione pubblica. Dopo il doveroso rendiconto del lavoro svolto, ritengo opportuno esternare alcune riflessioni e considerazioni. Nel corso dei tre anni di Dottorato di Ricerca, fervidi di importanti esperienze formative per il mio percorso professionale, ho incontrato numerosi ostacoli nell’approvvigionare le fonti necessarie affinché fossi in grado di ricostruire il “mosaico” storico, legislativo e finanziario degli scavi di Pompei. Il primo problema è stato quello che Pompei non rappresenta una tematica direttamente riconducibile alla storia finanziaria, ma è figlia dell’archeologia, analogamente agli altri siti campani devastati dalla nota eruzione. Di conseguenza, l’approccio ad una disciplina completamente diversa dalla mia formazione è stato inevitabile, impegnandomi nel cercare di trovare un equo “compromesso” tra i due campi di studi. Ciò mi ha condotto, in diverse occasioni, a confrontarmi con studiosi di archeologia. A tal fine colgo l’occasione per ringraziare, in modo particolare, il Dottor Salvatore Ciro 276 Nappo, Professore di Archeologia presso l’Università di Salerno e la Dott.ssa Annamaria Sodo, responsabile del S.I.A.V. (Sistema Informativo Archeologico Vesuviano) della Soprintendenza Archeologica di Pompei, che con la loro disponibilità ed umanità sono riusciti a farmi calare nella “logica culturale”, in modo da comprendere determinate scelte del difficile periodo esaminato. Il confronto con le istituzioni preposte alla gestione del sito, quali la Soprintendenza Archeologica di Pompei e successivamente quella di Napoli, è stato inevitabile. Si è trattato di incontri necessari, considerando che la sfera organizzativa e ancor più quella finanziaria sono profondamente trascurate da studi, pubblicazioni e quant’altro presupponesse un approfondimento precedente. Con mio sommo rammarico, non solo nella maggior parte dei casi non ho avuto un riscontro “adeguato” alle mie domande, ma in determinate circostanze quasi ho avvertito dell’ostruzionismo. Il riferimento è soprattutto alla comprensione quali – quantitativa della gestione finanziaria, per la quale ho sacrificato tanti sforzi non solo nel cercare presso quale archivio la documentazione fosse stata depositata, ma anche, successivamente, al rinvenimento della stessa, dato che i fasci non erano mai stati aperti né tanto meno inventariati. L’aspetto, a mio avviso, più preoccupante soprattutto per chi si occupa di ricerca, è la constatazione che lo studio di un patrimonio così immenso, ricco, sopravvissuto alle calamità naturali nel corso dei secoli e soprattutto espressione dell’immagine dell’Italia nel mondo, offra opportunità evolutive solo per contesti specifici, mentre per tematiche più “innovative” ed “originali”, purtroppo il risultato è la dispersione e confusione delle fonti e la scarsa collaborazione interdisciplinare. Ringrazio invece per la comprensione, professionalità e attenzione dedicatami al personale dell’Archivio Centrale di Stato a Roma e l’Archivio di Stato di Napoli, le cui “buste” mi hanno permesso la ricognizione istituzionale circa le vicende pompeiane, e soprattutto mi hanno restituito fiducia ed entusiasmo nel proseguire le mie ricerche, dato che finalmente riuscivo a trovare i primi contenuti non di natura archeologica o architettonica. 277 Un aspetto interessante emerso dalle carte, per certi versi recente, riguarda le continue lamentele dei direttori degli scavi nel richiedere denaro al Ministro dell’Istruzione Pubblica, dato che le “anticipazioni “ erogate in favore delle province napoletane si rivelavano insufficienti rispetto agli interventi da eseguire. Tali deficienze hanno impedito all’Ufficio tecnico degli scavi di “rendicontare”, in modo organico e puntuale, le diverse voci di uscita, poiché la preoccupazione primaria era di soddisfare esigenze di “cassa”, legate alla conservazione di un affresco, il ripristino di un muro, piuttosto che investire risorse per migliorare l’organizzazione interna analoga a quella societaria. Anche una ricostruzione dei costi degli operai è estremamente complicata, dato che per minimizzare le spese, spesso, erano impiegati galeotti oppure mendicanti. Occorre sottolineare che il primo bilancio di Pompei risale al 1989, e l’aspetto più suggestivo è la stessa impostazione metodologica riscontrata nelle “Misure dei lavori” dell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Inoltre, anche le prime analisi relative alla possibilità di una gestione “manageriale” delle organizzazioni che operano nel comparto culturale, sono recentissime e risalgono al 1997 realizzate da alcuni docenti di Economia Aziendale della Facoltà di Bologna e aventi ad oggetto proprio il rilancio di Pompei verso forme moderne di accountability. Un deplorevole evento che offre nuove prospettive di riflessione è la triste e nota vicenda di cui è stata protagonista Pompei il 6 novembre 2010: il crollo della Domus dei Gladiatori, edificio risalente agli ultimi anni di vita della città romana prima che l’eruzione la seppellisse, collocata in via dell’Abbondanza, la strada principale maggiormente percorsa dai turisti in direzione Anfiteatro. La casa, secondo gli studiosi, doveva fungere da sede di una associazione militare e deposito delle armature. 278 La domus era sopravvissuta all’eruzione del Vesuvio, ma nulla ha potuto contro l’incuria, la pioggia, la manutenzione carente e, forse, anche sbagliata. Il tragico crollo ha fatto il giro del mondo, essendo Pompei un patrimonio non replicabile, da preservare per le generazioni future. Lo stesso Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha definito la vicenda una “vergogna per l’Italia”. Ancora una volta le croniche ristrettezze finanziarie per la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e architettonico hanno inferto ferite mortali all’immagine dell’Italia e al fatturato turistico campano. Infatti gli scavi di Pompei si sono confermati la meta preferita da turisti italiani e stranieri, con un incremento del 66,71 per cento di presenze durante la festività di Ognissanti 2010. Probabilmente la questione della tutela e del finanziamento di un sito così imponente non può essere affrontata solo dal Governo italiano, ma necessita del coordinato e profuso contributo di istituzioni internazionali, trattandosi di un patrimonio di cui beneficia l’umanità. Emerge una preoccupante contraddizione tra gli introiti connessi all’ incremento turistico e il degrado di cui sono protagonisti gli scavi negli ultimi 279 mesi del 2010, di pubblico dominio; a tal fine viene da chiedersi come ciò sia potuto accadere. Certamente le ragioni del degrado sono molteplici: innanzitutto va rilevata la problematicità in sé della conservazione di un sito archeologico esposto all’aria da secoli, con un inevitabile e irreversibile processo di decadimento. Non si tratta di un piccolo monumento, bensì di un intera città, caratterizzata da un tessuto urbano assai fragile, diversificato in ragione dell’epoca e delle metodologie adottate per lo scavo quanto per il restauro; a ciò si aggiunga la necessità di affrontare problemi conservativi così vasti sotto la pressione del pubblico dei visitatori. Nonostante tutto, l’antica città di Pompei sta affrontando le conseguenze del disastro più grave: l’azione dell’uomo. È infatti l’uomo che è intervenuto acuendo i danni: gli errori nella tecnica di restauro degli anni ’50, con uso massiccio di materiali oggi riconosciuti inadatti; la scarsità dei finanziamenti; gli sprechi di risorse connessi alla logica “clientelare” su cui ancora indaga la magistratura; le pressioni sindacali in una zona depressa e in cui lo spettro della disoccupazione assume livelli elevati. Tutto ciò è vero, ma è innegabile che intervenga un altro fattore a rendere gli effetti di questi eventi e pressioni ancora più dirompenti: le modalità gestionali con cui queste emergenze sono affrontate, che si traduce storicamente nella carenza di una visione organica e nell’incapacità ad organizzare le risorse in modo efficace. Ho impiegato l’espressione “storicamente” proprio per far risaltare le analogie emerse tra gli avvenimenti recenti e il quadro ricostruito nel XIX secolo, da cui è emerso con forza il problema della scarsa attenzione rivolta a Pompei e di un suo recupero al punto tale da compromettere i meccanismi di accumulazione del sapere. Mai come in questa circostanza assume significato profondo la frase “la storia si ripete”. Concludo riportando le parole espresse dal segretario generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roberto Cecchi, in occasione del crollo della Domus, invocando la necessità di risorse e ad una più attenta pianificazione delle stesse: 280 “Questo ennesimo caso di dissesto ripropone il tema della tutela del patrimonio culturale e quindi della necessità di disporre di risorse adeguate e di provvedere a quella manutenzione ordinaria che non facciamo più da almeno mezzo secolo. La cura di un patrimonio delle dimensioni di quello di Pompei e di quello nazionale non lo si può affidare ad interventi episodici ed eclatanti” . Un ringraziamento affettuoso e speciale è per il carissimo Prof. Francesco Balletta, che in questi tre anni mi ha insegnato molto non solo dal punto di vista lavorativo, ma soprattutto umano, per la forza ed il coraggio nel non arrendersi mai e combattere sempre per ciò in cui crede. 281 FONTI ARCHIVISTICHE 1. Archivio di Stato di Napoli a) Bollettino delle leggi del Regno di Napoli, monumenti e scavi di antichità, Indice generale 4, (1861 – 1891): R. D. che istituisce una direzione centrale degli scavi e musei del regno; R. D. che approva il regolamento per gli scavi di antichità; R. D. che modifica il regolamento per servizio degli scavi di antichità; R. D. che approva il regolamento per i lavori in economia per i restauri sui monumenti nazionali e per gli scavi di antichità; R. D. che approva il ruolo degli impiegati della direzione generale dei musei e degli scavi di antichità del regno; R. D. che approva il ruolo degli impiegati del Museo di Napoli e dell’ufficio tecnico degli scavi di antichità nelle province meridionali; R. D. concernente l’organico delle gallerie, dei musei e degli scavi; R. D. che istituisce presso il Ministero della Pubblica Istruzione un Consiglio Centrale di Archeologia e Belle Arti; R. D., che sopprime la Direzione generale delle antichità e belle arti e ne ripartisce i servizi in due divisioni del Ministero dell’Istruzione Pubblica e ne approva il regolamento; Calendario generale del Regno d’Italia, 1881 – 1887. b) Ministero Affari Interni, I inventario: busta 1007, inc. 7, lettera di Carolina Bonaparte al Conte Zurlo, Napoli 1812; busta 1007/3, richieste di compensi dal 1809 al 1811; busta 1007/5, compensi ai militari del Genio; busta 1007/17, delibera Corte dei Conti, 1818; busta 1007/19, cessione terreni, 1818; busta 983, pagamenti agli operai degli scavi di Pompei, anni 1806 – 1811; busta 984, pratiche interne agli scavi di Pompei, 1807; busta 985, compensi ai proprietari di terreni espropriati a Pompei per l’esecuzione degli scavi, anni 1808 – 1813; busta 1002, somministrazione di olio, carbone e altri generi ai veterani addetti al corpo di guardie degli scavi di Pompei, 1825 – 1837, notamento dei lavori eseguiti in Pompei, relativi 282 pagamenti e rapporti sul procedere degli scavi, 1836 – 1837; busta 1005, spese di sterramento, trasporto, fabbriche e restauri in Pompei, anni 1820 – 1848; busta 1014, spese e pratiche relative agli scavi, anni 1766 – 1836; busta 437/11, parere dell’avvocato del Real Museo Borbonico e restituzione dei terreni di Pompei, anni 1852 – 1867. c) Ministero Affari Interni, II inventario: busta 2271/13, comunicazione di Arditi al ministro Zurlo; busta 2273, gestione amministrativa, permuta dei terreni e pagamenti; busta 2072/13, cessione terreni dell’Aquila; d) Casa Reale Antica: fascio 1539/27, Giuseppe Canart, Portici 2 ottobre 1751. e) Ministero della Pubblica Istruzione del Regno delle Due Sicilie: busta 749/16, decreti dittatoriali sulla riapertura degli scavi di Pompei, Napoli 15 e 16 settembre 1860; busta 750 I 3, Soprintendenza generale degli Scavi. Decreti nomina soprastanti e custodi, anni 1861 – 1863; busta 751 I 21, Soprintendenza generale degli scavi. Pompei, pagamenti, anni 1860 – 1861; busta 751 I 27, Pompei, certificati di pagamento, anni 1859 – 1863; busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861; busta 751 II 3, Pompei, misura dei lavori, da giugno a tutto dicembre 1862; busta 751 II 6, Pompei, misura dei lavori per il primo semestre del 1863; busta 751 II 7, Pompei, misure dei lavori per il secondo semestre 1863; busta 752 I 4, Pagamenti all’imprenditore Carlo Riccio; busta 753/1.2 28 e 29, Contabilità, anni 1860 – 1862; busta 753 II 46, Pompei, pagamento fondo, 1861; busta 753 II, Soprintendenza generale scavi, regi decreti, anni 1848 – 1864; busta 755 I 2 21, Pompei, pagamenti di spese diverse, anni 1861 – 1862. 2. Società Napoletana di Storia Patria Fondo Cuomo, busta 2.4.19 e 2.4.21, progetto di legge sul Real Museo Borbonico e sugli scavi ad opera del ministro Ruffo, 1828. 283 3. Archivio fotografico Soprintendenza Archeologica di Pompei P337, Piante topografiche di Ercolano e Pompei incise da Giuseppe Guerra (1790 – 1800); C663, Planimetria di Pompei di Antonio Bonucci con divisioni a diversi proprietari; C664, Antiquarium, sala di ingresso, 1914; C665, Antiquarium, sala centrale, 1914; C666, Antiquarium, sala di fondo, 1914; P389, Pianta di Pompei con le due stazioni ferroviarie e i relativi ingressi; 4. Archivio Centrale di Stato a) Ministero Pubblica Istruzione, Archivio della Direzione Generale della Antichità e Belle Arti (1860 – 1890), I versamento: dalla busta 29 alla busta 35, Napoli. Conti e bilanci dell’Ufficio degli Scavi, anni 1885 – 1891; dalla busta 39 alla busta 42, Pompei, scavi e scoperte, anni 1869 – 1885; dalla busta 44 alla busta 51, Giornale degli scavi di Pompei, anni dal 1861 al 1867, dal 1872 al 1877 al 1887; dal 1889 al 1893; busta 56, L. Settembrini, Ispettore generale degli studi, scrive al Ministro dell’Istruzione Pubblica, 21 agosto 1861; buste 57 e 58, Pompei, tassa d’ingresso, corrispondenze tra il Direttore del Museo Nazionale e degli Scavi di Antichità, Principe di San Giorgio, al Ministro della Pubblica Istruzione, 1861; busta 58, istituzione tassa d’ingresso, 1875; busta 57, Pompei tassa d’entrata, relazione di Antonio Sogliano sui risultati dei restauri, 1902; busta 266, A. Sogliano, relazioni al Ministro della Pubblica Istruzione degli scavi fatti dal dicembre 1902 a tutto marzo 1905 e dal 1° giugno 1908 a tutto luglio 1908; busta 67, Fiorelli scrive al Ministro della Pubblica Istruzione, 11 ottobre 1864; Ibidem, gli scavi di Pompei dal 1861 al 1872, relazione di Fiorelli al Ministro dell’Istruzione Pubblica, 1873; busta 72, G. Fiorelli, Relazioni del Direttore generale antichità e belle arti a S. E. il Ministro dell’Istruzione Pubblica sull’ordinamento del servizio archeologico, Roma 1876, 1883, 1885; busta 167 e 168, Scuola di Archeologia; busta 251, Calchi in gesso, lettera di G. Fiorelli al Ministro della Pubblica Istruzione, F. De Sanctis, Pompei 3 febbraio 1862. 284 b) Ministero Pubblica Istruzione, Archivio della Direzione Generale della Antichità e Belle Arti (1860 – 1890), II versamento – Personale 1860/1880, parte prima: busta 489; busta 187, fasc. 28, s. fasc. 1; busta 586, fasc. 997, s. fasc. 1, 2, 3; busta 441, fasc. 170; busta 4 e 5; busta 83, fasc. 110, Vicende dell’Ufficio Tecnico di Roma; busta 3, fasc. 4; busta 714; buste 168 e 169, fasc. 345. d) Ministero Pubblica Istruzione, Archivio della Direzione Generale della Antichità e Belle Arti (1860 – 1890), III versamento – Personale 1860/1880, parte seconda: buste 41 e 42, Scavi di Pompei, 1886 – 1890; buste 121 e 272, Napoli. Conti e bilanci, 1908 – 1924; busta 490, fasc. 540, s. fasc. 3; busta 490, fasc. 540, s. fasc. 4; busta 430, fasc. 82; busta 117, fasc. 3; busta 458, fasc. 1. c) Presidenza del Consiglio dei Ministri: buste 3680, 11184, 1826, fascicoli 11, 14, 5, s. fasc. 2, 2, 2, Pompei Scavi, anni 1931 – 33; busta 2030, fasc. 7, s. fasc. 1.2., Pompei, autostrada Napoli – Pompei, 1922; busta 2444, fasc. 1, s. fasc. 1. 1., Scavi di Pompei, operai invocano pagamenti, 1924. 4. Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei a) Per quanto riguarda il turismo archeologico durante il XIX secolo, ho visionato il faldone XIII B4 fascicolo 1, “ Visite in Pompei ed Ercolano di sovrani e distinti personaggi (1808 – 1838)” : dal 1808 al 1815 sono riportate le corrispondenze tra il Cav. Arditi, Direttore del Museo Reale degli Scavi ed il Ministro degli Affari Interni circa le visite a Pompei della Regina Carolina Bonaparte; visita a Pompei del Principe Leopoldo, 6 novembre 1815; visita a Pompei del Real Collegio Militare, 1817; visita a Pompei del Principe e della Principessa di Salerno, 31 ottobre 1818; visita a Pompei dell’Arciduca Palatino, 28 gennaio 1819; visita a Pompei dell’Arciduca Michele di Rupia, 14 marzo 1819; visita a Pompei del Duca e della Duchessa di Calabria, 27 aprile 1819; visita a Pompei del Principe e della Principessa di Salerno, 13 maggio 1819; visita a Pompei del Principe e 285 della Principessa di Danimarca, 19 marzo 1820; visita a Pompei della Duchessa di Lucca e del Duca di Calabria, 29 aprile 1822; visita a Pompei dell’inglese signor Colburn, 30 ottobre 1822; visita a Pompei del Duca di Calabria e famiglia, 17 maggio 1823; visita a Pompei del Duca Devonshire, 5 novembre 1823; visita a Pompei del Cavaliere Hamilton, 6 novembre 1824; visita a Pompei della Principessa di Salerno con il suo maggiordomo, 10 novembre 1824; visita a Pompei del Duca di Calabria e Principe e Principessa di Salerno, 4 agosto 1826; visita a Pompei della Principessa Maria Cristina, 13 settembre 1826; visita a Pompei della Gran Duchessa Elena di Austria, 3 giugno 1828; visita a Pompei di Monsignor Belisario Aristalvi, Tesoriere Generale di Sua Santità, 28 febbraio 1828; visita a Pompei del Cav. Giuseppe Ruffo, Direttore del Real Ministero di Stato, 22 aprile 1828; visita a Pompei del Principe Federico Augusto di Sassonia, 5 maggio 1828 e ad Ercolano, 11 maggio 1828; visita a Pompei del Principe di Prussia, 26 settembre 1828; visita a Pompei ed Ercolano del Conte di Stackelberg, ottobre 1828; visita a Pompei della Gran Duchessa Elena di Russia, 20 ottobre 1828, ed a Ercolano, 9 novembre 1828; visita a Ercolano delle Principesse M. Antonietta e M. Amalia, 16 novembre 1828; visita a Pompei della Gran Duchessa Elena di Russia, 27 gennaio 1829 e a Ercolano, 10 febbraio 1829; visita a Pompei del Re di Baviera, 27 febbraio 1829 e a Ercolano, 29 febbraio 1829; visita a Pompei della Gran Duchessa Elena di Russia, 9 marzo 1829; visita a Ercolano dei Principi Alessandro e Federico di Wurtenberg, 5 marzo 1830; visita a Pompei del Conte di Porenzaley, 20 aprile 1830; visita a Pompei dei Reali di Baviera, 28 febbraio 1830; visita a Pompei di Giuseppe Ruffo, direttore della Segreteria di Casa Reale; visita a Pompei del Principe Carlo, 16 maggio 1831; visita a Ercolano del Principe di Capua e del Conte di Lecce, 28 giugno 1831; visita a Pompei della Regina di Sardegna, 4 ottobre 1831; visita a Pompei della Duchessa di Berry, 9 dicembre 1831; visita a Pompei del Principe Massimiliano Giuseppe di Baviera, 29 marzo 1832; visita a Pompei del Gran Duca di Toscana Leopoldo II, 4 giugno 1833; visita a Pompei della Gran Duchessa di Baden, 27 giugno 1833; visita a Pompei e Ercolano dell’ambasciatore tunisino Selim Agà, luglio 1833; visita a Pompei della 286 Contessa Lavall, 20 agosto 1833; visita a Pompei del Principe di Capua, 20 dicembre 1833; visita a Pompei del Re di Wuttemberg, 17 luglio 1834; visita a Pompei del Principe di Salerno, 3 agosto 1834; visita a Pompei della Principessa Galitria ed il Generale Kaissaroff, 21 novembre 1834; visita a Pompei dei Conte Gustavo, Consigliere del Re di Svezia, 24 novembre 1834; visita a Pompei del Principe di Weimar, 1° aprile 1835; visita a Pompei del Principe di Capua, 2 aprile 1835; visita a Pompei del Ministro russo, 30 giugno 1835; visita a Pompei del Principe di Salerno, 29 luglio 1835; visita a Pompei della Principessa di Danimarca, 27 luglio 1836; visita a Pompei del Conte di Siracusa e del Conte di Lecce, 14 ottobre 1836; visita a Pompei dell’Imperatore di Russia, 14 luglio 1837; visita a Pompei dell’Arciduca Federico di Austria, del Principe e della Principessa di Salerno, 22 agosto 1837; visita a Pompei del Marchese Pallavicini, 24 ottobre 1837; visita a Pompei del Principe di Lieven, 20 gennaio 1838; visita a Pompei della Baronessa Werner e la Contessa Wingfield, 13 marzo 1838; visita a Pompei della Baronessa Werner e la Contessa Wingfield, 13 marzo 1838; visita a Pompei del Conte Stocklates e del Barone Boissere, 13 maggio 1838; visita a Pompei del Ministro degli Affari Interni Santangelo e famiglia, 23 maggio 1838; visita a Pompei del Cav. Schlich, 9 giugno 1838; visita a Pompei del Duca Massimiliano di Baviera, 25 luglio 1838; visita a Pompei del Re di Baviera, 28 aprile 1838; visita a Pompei della Regina di Inghilterra, 12 ottobre 1838; visita a Pompei di Lord e Lady Jersey, 26 novembre 1838. b) Faldone XIII B6: fascicolo 1, visita a Pompei del Ministro dei Lavori pubblici, 1883; fasc. 2, visita a Pompei di Sua Maestà la Regina d’Italia e Portogallo, 1883; fasc. 3, visita a Pompei dei Principi di Prussia e dei membri della Conferenza Coloniale, 1885; fasc. 4, visita a Pompei dell’On. Ungano e del Reggimento di Cavalleria di Firenze, 1886; fasc. 5, visita a Pompei del Ministro di Grazia e Giustizia e del Presidente del Consiglio dei Ministri, 1887, 1888; fasc. 6, visita a Pompei del Re d’Italia e l’Imperatore di Germania, 1888; fasc. 7, visita a Pompei della Gran Duchessa Caterina di Russia, 22 ottobre 1888, visita a Pompei del Re di Svezia Oscar II, 27 aprile 1888, visita a Pompei di 287 Sir Henry Layard, 13 febbraio 1888; fasc. 8, visita a Pompei del Generale Conte Yamagata, Ministro dell’Interno del Giappone, 8 marzo 1889, visita a Pompei del Ministro dei Lavori Pubblici, 23 settembre 1889, visita a Pompei della Granduchessa di Russia, 4 ottobre 1889, visita a Pompei del Sottosegretario di Stato Onorevole Fortis, 18 novembre 1889, visita a Pompei del Principe di Danimarca, 8 dicembre 1889, visita a Pompei dell’Imperatrice Federica di Austria, 9 dicembre 1889; fasc. 9, visita a Pompei del Marchese De Maestri, 21 giugno 1890, visita a Pompei del Duca Guardia Lombarda, 4 agosto 1890, visita a Pompei del Prefetto di Castellammare di Stabia, 21 agosto, visita a Pompei di Sir Evelyn Baring, Ministro britannico al Cairo, e il generale Sir Francio Grenfell Sirdar dell’esercito egiziano, 23 settembre 1890, visita a Pompei delle Regina Elisabetta d’Austria, 17 novembre 1890; fasc. 10, visita a Pompei del Comandante e degli alunni della Scuola Marina Spagnola, marzo 1890, visita a Pompei dell’Imperatrice d’Austria, 23 aprile 1891, visita a Pompei dei componenti il Congresso della Pace, 9 novembre 1891; fasc. 11, visita a Pompei del Commendatore Berti, 16 aprile 1892, visita a Pompei della Principessa di Svezia e di Norvegia, 19 maggio 1892, visita a Pompei del Commendatore Sangiorgi, Questore di Napoli, 13 giugno 1892; fasc. 12, visita a Pompei della Principessa di Galles, 1883; fasc. 13, visita a Pompei del Re e della Regina di Germania, 1893; fasc. 14, visita a Pompei del Duca d’Isola, anno 1893; fasc. 15, visita a Pompei della Duchessa di Mecklemburg, 1894; fasc. 16, visita a Pompei dell’Imperatore e dell’Imperatrice di Germania, 1896; fasc. 17, visita a Pompei di un impiegato della Prefettura, di Lord Crawfort, Lady Ashburton e dei sovrani d’Italia, 1897; fasc. 18, visita a Pompei del Signor Drummont e famiglia, dell’Ambasciatore degli Stati Uniti d’America, Sir Draper, 1898; fasc. 19, visita a Pompei del Ministro della Pubblica Istruzione e del Gran Duca di Russia, 1899; fasc. 21, visita a Pompei del Signor Hue de Gorge, 1904. c) per quanto riguarda la ricostruzione della gestione finanziaria, ho consultato numerosi fondi non inventariati, denominati “Misure dei lavori”: XVII B10, anno 1861; XVII B11, anni 1861/1862; XVII B7, anni 1864/1865; XVII B8 e XVII B9, anni 1866/1867; XVII B6, anni 1875/1878/1879; XVII B4, 288 anni 1880/1881; XVII B1, anno 1883; XVII B3, anno 1884; XVII A8, anni 1884/1885; XVII A9, anni 1885/1886; XVII A6, anni 1886/1887/1888; XVII A7, anni 1889/1890; XVI A5, anni 1891/1892/1893; XVIII A2 (1), anni 1864/1866; XVII A2 (2), anni 1866/1867; in XVIII B6, anni dal 1900 al 1910 e XVIII B1, anni dal 1906 al 1910, non riportano più le “Misure dei lavori”, bensì singoli interventi di spesa casuali e privi di continuità. 289 BIBLIOGRAFIA ADAM P., Osservazioni tecniche sugli effetti del terremoto di Pompei del 62 d. c., Bologna, 1989; ALIBRANDI T., L’evoluzione del concetto di bene culturale, 1999. ANDREAU J., Histoire des séismes et histoire économique. Le tremblement de terre de Pompéi, “Annales Economies Sociétés Civilisations”, 1973; Atti del Convegno Internazionale Napoli – Pompei – Ercolano – Stabia, La regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli, 1982; BADINI G., Archivi e chiese. Lineamenti di archivistica ecclesiastica e religiosa, Bologna, 1984; BALZANI R., Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, Bologna, 2003; BELTRAMI L., La conservazione dei monumenti nell’ultimo ventennio, in “Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti”, Roma, 1892; BIDERA E., Passeggiata per Napoli e contorni, 1844; BISCARRA C. F., Relazione storica intorno alla R. Accademia Albertina di belle arti in Torino, Torino, 1873; BOETHIUS A., Gli etruschi in Pompei, in “Simbolae Philologicae”, 1932; BOITO C., I nostri vecchi monumenti; necessità di una legge per conservarli, in “Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti”, 1885; BORSELLINO E., Il Cardinale Neri Corsini mecenate e committente, in “Bollettino d’arte”, Roma, 1981; BORSI F., L’architettura dell’Unità d’Italia, Firenze, 1966; BOTTAI G., Politica fascista delle arti, Roma, 1941; BOTTAI G., Relazione alla Camera sul disegno di legge da cui sarebbe sortita la l. 1089/1939, Roma, 1939; BUFFERLI G., La regalia dei tesori nei pontifici domini, Roma, 1778; CAGIANO DE AZEVEDO M., Una scuola napoletana di restauro nel XVII e nel XVIII secolo, in “Bollettino dell’Istituto Centrale del Restauro”, 1950; 290 CANTINO G., Archeologia e archeologie. Il rapporto con l’antico nell’arte italiana, Torino, 1984; CARRINGTON R. C., Gli Etruschi e Pompei, 1932; CASSESE S., I beni culturali da Bottai a Spadolini, in “L’amministrazione dello Stato”, Milano, 1976; CAVALCACASELLE G. B., Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte e sulla riforma dell’insegnamento accademico, in “Rivista dei Comuni Italiani”, Torino, 1863; CAVINA A. O., Il Settecento, in “Storia”, II, 2, Napoli, 1995; CECCUTI C., Un parlamentare fiorentino in età giolittiana: Giovanni Rosadi, 1981; CHATEAUBRIAND, Viaggio in Italia, Firenze, 1990; CHIAROMONTE C., Sull’origine e lo sviluppo dell’architettura residenziale di Pompei sannitica, 1990; CIMBALI E., La proprietà e i suoi limiti nella legislazione civile italiana, in “Studi di dottrina e giurisprudenza civile”, Lanciano, 1889; COLESANTI M., Voyage en Italie, Bari, 1971; CORTI E., Ercolano e Pompei: morte e rinascita di due città, Napoli, 1957; CRIPPA M. A., Camillo Boito, il Nuovo e l’Antico in Architettura, Milano, 1989; CROCE B., I marmi del palazzo reale di Portici, in “Napoli mobilissima”, Napoli, 1898; D’AIGNAN D’ORBESSAN A. M., Mélanges historiques, critiques de physique, literature et poèsie, Parigi, 1768; D’ALCONZO P., La prima legislazione di tutela dei beni culturali, Napoli, 1995; D’AMBRA R., Pompei:abusi, disordini e danni, Napoli, 1995; D’AMBROSIO A., DE CARO S., Un contributo all’architettura e all’urbanistica di Pompei in età ellenistica. I saggi nella casa VII. 4, 62, in “Annali del Seminario di studi del mondo classico”, Napoli, 1989; D’AMBROSIO A., DE CARO S., Un impegno per Pompei. Fotopiano e documentazione della Necropoli di Porta Nocera, Torino, 1983; 291 D’AMBROSIO A., GUZZO P. G., MASTROROBERTO M., Storie da un’eruzione: Pompei, Ercolano, Oplontis, Napoli, 2003; DAY J., L’agricoltura durante la vita di Pompei, Yale, 1932; DE CARO S., G. Fiorelli: appunti autobiografici, Sorrento, 1994; DE CARO S., Saggi nell’area del Tempio di Apollo a Pompei. Scavi stratigrafici di A. Maturi nel 1931/32 e 1942/43, Napoli, 1986; DE CARO STEFANO, Giuseppe Fiorelli e gli scavi di Pompei, in “Giuseppe Fiorelli nel centenario della mostra”. Atti del Convegno, Napoli, 1999. DE DOMINACI B., Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, III, Napoli, 1763; DE FRANCISCIS A., M. Olconio Rufo, Napoli, 1973; DE MARTINO F., Storia economica di Roma antica, II, Firenze, 1980; DE PETRA G., Due atti rinvenuti in Pompei: note lette all’Accademia di archeologia, lettere e belle arti nel giugno 1899, Napoli, 1899; DE PETRA G., Le tavolette cerate di Pompei rinvenute il 3 e 5 luglio 1875, Roma, 1876; DE PETRA G., Pompei: villa romana presso Pompei, Napoli, 1910; DE ROSA G., Storia contemporanea, Bergamo, 1982; DE ROSA L., Difesa militare e sviluppo economico in Italia (1861 – 1914), Bari, 1973; DE RUGGERO E., Catalogo del museo in Roma, Roma, 1878; DI COSTANZO R., Tutela giuridica di beni artistici e proprietà privata nel Mezzogiorno preunitario, atti del convegno di studi, “Beni culturali a Napoli nell’Ottocento”, Napoli, 1997; ELIA O., Osservazioni sull’urbanistica di Pompei, in “Studi sulla città antica”, Bologna, 1970; EMILIANI A., Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani 1571 – 1860, Bologna, 1978; EMILIANI A., Una politica dei beni culturali, Torino, 1974; FEA C., Replica antiquario-legale alla seconda scrittura del sig., avv. Scipione Cavi, Roma, 1823; 292 FERRI P. G., Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, Torino, 1987; FIORELLI G., Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio. Memorie e notizie pubblicate dall’ufficio tecnico degli scavi delle province meridionali, Napoli, 1879; FIORELLI G., Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli, 1861; FIORELLI G., Storia delle Antichità Pompeiane, IV, 1862; FOA’ S., La gestione dei beni culturali, Torino, 2001; FRANKLIN J., Pompeii: the electoral programmata, campaigns and politics A. D. 71-79, “Papers and Monographs of the American Academy in Rome”, 1980; GAMURRINI G. F., Relazione storica del R. Museo in Firenze, Firenze, 1873; GENOVESE R. A., Restauro, Bologna, 1992; GIANNINI M. S., Introduzione, in “Ricerca sui beni culturali”, Roma, 1975; GIGANTE M., Il fungo sul Vesuvio secondo Plinio il Giovane, Roma, 1989; GIGANTE M., Il racconto pliniano dell’eruzione del Vesuvio dell’anno 79, in studi su “Ercolano e Pompei”, 1979; GIUSTINIANI L., Nuova collezioni delle Prammatiche del Regno di Napoli, IV, Napoli, 1804; GONZALES PALACIOS A., Il trasporto delle statue farnesiane da Roma a Napoli, in “Antologia di Belle Arti”, 1978; GRECO N., Stato di cultura e gestione dei beni culturali, Bologna, 1980; GRIMAL P., MONOD T., Sur la veritable nature du garum, in “Reveu des Etudes anciennes”, 1952; GROSSI P., Tradizioni e modelli nella sistemazione post – unitaria della proprietà, Firenze, 1977; ISTITUTO CENTRALE PER IL CATALOGO E LA DOCUMENTAZIONE, Pompei 1748-1980. I tempi della documentazione, Roma, 1981; JACINI S., L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867, Firenze, 1867; 293 KOLENDO J., Le attività agricole degli abitanti di Pompei, in “Opus 4”, 1985; LA ROCCA E., Pompei, Milano, 1976; LA TORRE G. F., Gli impianti commerciali ed artigianali nel tessuto urbano di Pompei, Napoli, 1988; LADOLINI A., L’Archivio di Stato di Roma, Roma, 1960; LEONARDI V., La Nuova Antologia, Roma, 1908; LEPORE E., Il quadro storico, in “Pompei 79”, 1984; LEPORE E., Orientamenti per la storia sociale di Pompei, in “Pompeiana”, 1950; LOCRE’ J. G., Legislazione civile commerciale e criminale, Napoli, 1841; LONGOBARDI G., Pompei sostenibile, Roma, 2002; MADAME DE STAEL, Corinne ou Italie, Parigi, 1853; MAIURI A., Alla ricerca di Pompei preromana, Napoli, 1973; MAIURI A., Contribuiti all’ultima fase edilizia pompeiana, Roma, 1950; MAIURI A., Gli scavi di Pompei nel programma delle opere della Cassa per il Mezzogiorno, Napoli, 1951; MAIURI A., Greci ed etruschi a Pompei, Roma, 1943; MAIURI A., Pompei e Nocera, in “Rendiconti Accademia Archeologica, Lettere, Belle Arti di Napoli”, Napoli, 1958; MAIURI A., Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Napoli, 1958; MAIURI A., Saggi negli edifici del Foro di Pompei, in “Notizie scavi 1941”, Roma, 1943; MARESCA COMPAGNA A., Criteri e modalità di accesso: la politica tariffaria dei musei statali, Roma, 1998; MASCOLI L., Architetti, antiquari e viaggiatori francesi a Pompei dalla metà del Settecento alla fine dell’Ottocento, 1981; MASTRANGELO D., Dall’editto Pacca al Codice Urbani. Breve storia della normativa sui beni culturali, Roma, 2005; MATTALIANO E., Il movimento legislativo per la tutela delle cose d’interesse artistico e storico dal 1861 al 1939, in “Ricerca sui beni culturali”, Roma, 1975; 294 MIARELLI MARIANI G., Monumenti e istituzioni, Roma, 1971; MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, Catalogo generale dei musei di antichità e degli oggetti d’arte raccolti nelle gallerie e nelle biblioteche del Regno, Roma, 1881 – 1887; MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, Documenti inediti per servire alla storia dei musei d’Italia, Roma, 1878 – 1880; MOELLER W., An Analysis of the political, economic and social influence of select families of colonial Pompeii, Michigan, 1972; MOLFESE F., Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, 1964; MORITZ L. A., Grain – mills and Flour in classical antiquity, Oxford, 1958; MUSCETTOLA A., Problemi di tutela a Pompei nell’Ottocento: il fallimento del progetto di esproprio murattiano, Napoli, 2001; ONORATO G. O., Iscrizioni Pompeiane. La vita pubblica, Firenze, 1957; ONORATO G. O., La data del terremoto di Pompei: 5 febbraio 62 d. c., in “Rendiconti Accademia dei Lincei”, vol. IV, 1949; PAGANO M., Pietro Bianchi archeologo: da architetto fiscale a direttore degli scavi di Pompei, Napoli, 1990; PAIS E., Recensioni e notizie, Napoli, 1910; PARISE N., Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1969; PARPAGLIOLO L., Codice delle antichità e degli oggetti d’arte. Raccolte di leggi, decreti e regolamenti, circolari relative alla conservazione delle cose di interesse storico – artistiche e alla difesa delle bellezze naturali, Roma, 1935. PETRUCCI A., Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1964; PIERLINGIERI P., Profili istituzionali del diritto civile, Napoli, 1979; PIETRANGELI C., Il Museo Clementino Vaticano, Roma, 1952; PIETRANGELI N., Scavi e scoperte di antichità sotto il pontificato di Pio VI, Roma, 1958; PINTO S., La promozione delle arti negli Stati italiani dall’età delle riforme all’Unità, in “Storia dell’arte italiana”, Torino, 1982; PIVA G., Cose d’arte, in “Enciclopedia del diritto”, XI, Milano, 1962; 295 QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DELLE DISCIPLINE STORICHE, Musei, tutela e legislazione dei beni culturali a Napoli tra ‘700 e ‘800, Napoli, 1995; REMARE P., De amphorarum inscriptionibus latinis quaestiones selectae, Tubingen, 1912; ROCCHI G., Camillo Boito e le prime proposte normative del restauro, in “Restauro”, Napoli, 1974; ROLLO BANCALE L., Scrittori inglesi a Napoli. Gran Tour e oltre, Salerno, 1998; ROSSI PINELLI O., Carlo Fea e il chirografo del 1802: cronaca, giudiziaria e non della prima battaglia per la tutela delle Belle Arti, in “Ricerche di Storia dell’arte”, Roma, 1979; RUGGERO M., Degli scavi di antichità nelle province di terraferma dell’antico Regno di Napoli dal 1743 al 1876, Napoli, 1888; RUGGIERO M., Impronte pompeiane: note all’accademia di archeologia, lettere e belle nella tornata del 5 febbraio 1889, Napoli, 1890; RUGGIERO M., Studi sopra gli edifizi e le arti meccaniche dei pompeiani, Napoli, 1872; RUGGIRO M., Dalla eruzione del Vesuvio dell’anno 79, Castellammare di Stabia, 1999; SCHIPA M., Nel Regno di Ferdinando IV di Borbone, Napoli, 1938; SCIALO’ P., Mozart a Napoli nelle lettere di Wolfgang e Leopold, Napoli, 1991; SOGLIANO A., Guida di Pompei, Napoli, 1902; SOGLIANO A., La rinascita di Pompei, Roma, 1916; SOGLIANO A., Pompei nel suo sviluppo storico. Pompei pre – romana, Roma, 1937; SOGLIANO A., Un nuovo orientamento da dare agli scavi di Pompei, Napoli, 1901; SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI DI NAPOLI E DI POMPEI, Pompei. Gli architetti francesi dell’Ottocento, Napoli, 1981; 296 SPANO G., La Campania felice nelle età più remote. Pompei dalle origini alla fase ellenistica, Napoli, 1936; SPERONI M., La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988; TANZEN H. H., The common People of Pompeii, Baltimore, 1939; VENUTI R., Accurata descrizione topografica e storica di Roma moderna, Roma, 1766 e 1767; ZANKER P., Pompei. Società, immagini urbane e forme dell’abitare, Torino, 1993; ZEVI F., Gli scavi di Ercolano e Pompei, in “Civiltà”, Napoli, 1998; ZEVI F., La storia degli scavi e la documentazione, Napoli, 1981; ZEVI F., Pompei, Napoli, 1994. 297 ELENCO DELLE TAVOLE Tav. 1. Classificazione delle monete della Regio I Insula 10 di Pompei Tav. 2. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di Pompei (1861 – 1867) Tav. 3. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di Pompei (1878 – 1886) Tav. 4. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di Pompei (1887 – 1893) Tav. 5. Riepilogo spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei (1861 – 1893) Tav. 6. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1861 – 1879) Tav. 7. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1880 – 1884) Tav. 8. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1885 – 1893) Tav. 9. Ripartizione delle spese complessive effettuate a Pompei per Regioni (1861 – 1893) 298 ELENCO DEI GRAFICI Graf. 1. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1861 – 1867) Graf. 2. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1878 – 1885) Graf. 3. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1886 – 1893) Graf. 4. Andamento bimestrale delle spese di intervento a Pompei nel 1889 Graf. 5. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1861 – 1867) Graf. 6. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1878 – 1884) Graf. 7. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo degli stipendi (1885 – 1893) Graf. 8. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1861 Graf. 9. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1862 Graf. 10. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1863 Graf. 11. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1864 Graf. 12. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1865 Graf. 13. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1866 Graf. 14. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1867 Graf. 15. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1878 Graf. 16. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1879 Graf. 17. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1880 Graf. 18. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1881 Graf. 19. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1883 Graf. 20. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1884 Graf. 21. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1885 Graf. 22. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1886 Graf. 23. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1887 Graf. 24. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1888 Graf. 25. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1889 Graf. 26. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1890 Graf. 27. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1891 299 Graf. 28. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1892 Graf. 29. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1893 300