università degli studi di napoli

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università degli studi di napoli
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI
FEDERICO II
DIPARTIMENTO DI ANALISI DEI PROCESSI ECONOMICO – SOCIALI, LINGUISTICI,
PRODUTTIVI E TERRITORIALI
FACOLTÀ DI ECONOMIA
DOTTORATO DI RICERCA IN STORIA ECONOMICA XXIII° CICLO
GLI ASPETTI AMMINISTRATIVI E FINANZIARI PER LA VALORIZZAZIONE
DEGLI SCAVI DI POMPEI
Tutor:
Candidata:
Chiar.mo Prof.
Rita Coppola
Fra ncesco Balletta
DR 900509
Napoli 2010
1
A mia madre
2
La bambina di Pompei
Poiché l'angoscia di ciascuno è la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l'aria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l'orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull'altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d'assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
Primo Levi, 1984
3
Indice
PREFAZIONE
1.GENESI ED EVOLUZIONE DELL’ANTICA POMPEI
7
10
1.1.Origine e primo sviluppo urbanistico dell’insediamento
10
1.2. Influenze e contatti con greci ed etruschi
12
1.3. La fase sannitica
14
1.4. Pompei romana in età repubblicana e primo-imperiale
17
1.5. Il mondo degli affari
22
1.5.1. Il mondo agricolo
22
1.5.2. Il mondo dell’industria
25
1.6. La circolazione monetale
27
1.7. Il terremoto del 62 d.c. e l’eruzione del 79 d.c.
32
2. GLI SCAVI DALLA SCOPERTA ALL’USO PUBBLICO
35
2.1. La scoperta e il periodo pionieristico
35
2.2. Gli scavi di Pompei all’epoca dell’Italia unita
50
2.3. Dal direttore degli scavi Michele Ruggiero ad Antonio
Sogliano
61
2.3.1. Michele Ruggiero
61
2.3.2. Giulio De Petra
62
2.3.3. Ettore Pais
64
2.3.4. Antonio Sogliano
65
2.4. Il fallimento di esproprio murattiano
67
4
3. L’EVOLUZIONE AMMINISTRATIVA DELLE ANTICHITA’ E
BELLE ARTI
81
3.1. Gli uffici delle amministrazioni preunitarie
81
3.2. L’ordinamento dal 1860 al 1874
85
3.3. Italia meridionale
87
3.4. L’ordinamento amministrativo dal 1875 al 1880:
la Direzione Generale degli Scavi e Musei di Antichità
93
3.5. Commissioni Consultive Conservatrici dei Monumenti
e Ispettori agli scavi
99
3.6. L’ordinamento dal 1881 al 1891:
la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti
102
4. LA LEGISLAZIONE DEI BENI CULTURALI TRA IL
XVIII E IL XIX SECOLO
105
4.1. Fondamenti giuridici del Regno di Napoli
105
4.2. Lo Stato Pontificio
107
4.2.1.La tradizione legislativa da Pio II all’Editto Altieri
107
4.3. La tutela nel XVIII secolo. Nuove prospettive culturali
108
4.4. I ritrovamenti e le scoperte
117
4.5. Il controllo del mercato dei beni culturali
122
4.6. Il controllo della ricerca archeologica
125
4.7. Tra pubblico e privato: dal decennio francese
all’unità d’Italia
127
4.8. La tutela dei beni culturali dell’Italia unita
148
4.9. La tutela nel pensiero di Fiorelli nell’Italia unita
150
4.10. Il dibattito e le osservazioni di Boito e
Beltrami
179
4.11. Progetto per una legge unitaria: dalla legge Nasi
alle leggi Bottai
188
5
5. LA GESTIONE DELLE RISORSE FINANZIARIE E LA LORO
RAPPRESENTAZIONE
195
5.1.Nuovo contratto di appalto per gli scavi di Pompei.
Condizioni generali.
195
5.2. Anticipo di somme e pagamenti di lavori
197
5.3. Qualità dei lavori, penale e casi di sospensione
198
5.4. Misure dei lavori
208
5.5.Misure dei lavori, ritenute e stipendi
230
5.6. Le Regioni di Pompei
243
5.7. Lo scandalo di Villa della Pisanella
268
CONCLUSIONI
272
FONTI ARCHIVISTICHE
282
BIBLIOGRAFIA
290
ELENCO DELLE TAVOLE
298
ELENCO DEI GRAFICI
299
6
PREFAZIONE
Principale obiettivo della ricerca è lo studio delle vicende istituzionali,
legislative e finanziarie degli scavi di Pompei, dalla seconda metà
dell’Ottocento, approfondendo le ragioni che contribuirono al superamento
dell’originaria concezione “personale e privata”, tipica della politica culturale
borbonica, fino alla gestione ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione.
L’aspetto più innovativo del lavoro è stato quello di ricostruire in termini quali
– quantitativi le modalità di impiego delle somme stanziate dal Ministero a
favore dell’Ufficio tecnico degli scavi, così da evidenziare l’incidenza
finanziaria delle operazioni di dissotterramento e successivo recupero dei
reperti archeologici.
In relazione a questo ultimo aspetto, visionando la documentazione
dell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di
Napoli e Pompei, nonostante le difficoltà connesse alla consultazione di fondi
non inventariati, ho ritenuto opportuno procedere aggregando le singole voci
di uscita per anno, luogo, tipologia di intervento, spese parziali e totali.
L’andamento complessivo delle spese annuali è stato pressoché altalenante,
con picco massimo registrato nel 1889. Probabilmente tale incremento è
attribuibile alla direzione di Michele Ruggero, per l’intensificazione, per il
nuovo orientamento nella conduzione dei restauri, per i risultati delle scoperte,
quella direzione fu tra le più felici di Pompei, ed ebbe inizio sotto buoni
auspici con la pubblicazione dei conti scoperti, due anni prima, nella casa di L.
Cecilio Giocondo. In particolare, nel 1889, vennero alla luce le Terme
Stabiane, le più antiche della città, risalenti nel loro primo impianto al IV
secolo a. c..
Attraverso lo studio e le elaborazione dei dati ho spiegato il grado di
concentrazione o dispersione delle singole operazioni e l’impatto complessivo
sulla gestione locale del sito archeologico.
La scelta di approfondire tali aspetti è dovuta alla necessità di colmare alcune
lacune, soprattutto in termini finanziari, poiché l’antica città sepolta dal
7
Vesuvio prolifera di studi che ne avvalorano l’importanza per la parte
archeologica, architettonica ed urbanistica.
A tal fine, ho deciso di strutturare il lavoro in cinque capitoli, ciascuno volto a
mettere in rilievo i tratti tipici e i mutamenti legislativi ed organizzativi tra il
periodo antecedente e successivo all’unità d’Italia, relativi alla valorizzazione
di Pompei, una città intatta in tutte le sue componenti, che fin dalla scoperta
attrasse studiosi da tutto il mondo.
Nel dettaglio, il primo capitolo affronta la genesi e l’evoluzione dell’originario
insediamento prima della devastante eruzione del 79 d.c., focalizzando
l’attenzione sulle abitudini di vita e le attività economiche dei pompeiani.
Con il secondo capitolo ha inizio la resurrezione di Pompei, cercando di
esaltarne i tesori, le case e le botteghe dissotterrate attraverso la visita di colti
viaggiatori e le politiche varate dai direttori degli scavi, succedutisi dal 1861 al
1910, in modo tale da tracciarne le vicissitudini storiche senza invadere la
sfera archeologica. Significativi sono i rigorosi limiti di accessibilità al sito
introdotti dalla dinastia borbonica, vincoli che decadono in presenza di
“illustri personaggi”, come si evince dalle carte dell’Archivio Storico della
Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei.
Nel terzo capitolo, ho approfondito la struttura amministrativa preposta alle
antichità e belle arti, illustrando come essa, nella seconda metà del XIX
secolo, sia diventata molto più articolata e capillarmente diffusa su tutto il
territorio nazionale, favorendo il progressivo superamento della tutela
concepita come problema di amministrazione civile e ordine pubblico della
normativa preunitaria. A completamento di questa sezione vi è il quarto
capitolo, in cui ho tracciato il travagliato iter normativo del settore artistico tra
il XVIII ed il XIX secolo; infatti, nonostante i propositi di riqualificazione
storica, pittorica ed archeologica degli scavi di Pompei, le prammatiche
borboniche giunsero a colmare un intollerabile vuoto legislativo solo diversi
anni più tardi la disciplina pontificia, ove la normativa di tutela dei
ritrovamenti archeologici era costume antico e perennemente aggiornato. Il
medesimo ritardo proseguì dopo l’unificazione, tanto che la prima legge
unitaria di tutela fu emanata solo nel 1902.
8
Il disinteresse del legislatore nazionale sfociò anche in materia finanziaria,
oggetto dell’ultima sezione, tanto che le risorse destinate al Ministero della
Pubblica Istruzione rappresentavano le somme più esigue dell’intero bilancio
statale.
In conclusione, ho cercato di elaborare ed interpretare le voci di spesa,
risaltando le difficoltà connesse all’impiego di fondi non idonei rispetto alla
vastità delle operazioni, che non si esaurivano con il riportare alla luce una
“casa”, bensì con il ripristino e la manutenzione di affreschi, pavimenti e
strutture murarie.
Ad eccezione del primo capitolo, le parti successive, seppur trattate
separatamente sono complementari e sviluppate soprattutto mediante la
consultazione di diverse fonti documentali, fondamentali per ricostruire
l’assetto istituzionale, legislativo e finanziario di un pezzo della storia della
Campania che ha avuto e continua ad avere ai giorni nostri un’imponente
risonanza mondiale. Nel dettaglio ho visionato le carte presso i seguenti
archivi:
 Archivio di Stato di Napoli:
o Fondo Ministero della Pubblica Istruzione del Regno delle Due
Sicilie;
 Archivio
Storico
della
Soprintendenza
Speciale
per
i
Beni
Archeologici di Napoli e Pompei;
 Ufficio Scavi di Pompei e Boscoreale;
 Archivio Centrale di Stato:
o Fondo Archivio della Direzione Generale delle Antichità e Belle
Arti (1860-1890).
9
1. GENESI ED EVOLUZIONE DELL’ANTICA
POMPEI
1.1. ORIGINE E PRIMO SVILUPPO URBANISTICO
DELL’INSEDIAMENTO
Pompei fu edificata su un altopiano, a un livello medio di circa trenta metri sul
mare, formato da una colata di lava vulcanica. L’altopiano era pressoché privo
di risorse idriche, pertanto inadatto per un insediamento urbano in epoca
protostorica1. E’certo, infatti, che i più importanti abitati della prima età del
ferro, in Campania, cioè all’incirca nei primi secoli del I millennio prima di
Cristo, erano stanziati nelle vicinanze di corsi d’acqua. Nella valle del fiume
Sarno, non lontano da Pompei, fu scoperta una necropoli con materiale
risalente a epoca precedente alla fondazione della colonia greca di Pithekusai
nell’isola d’Ischia, anteriore quindi al decennio 780-770 a.C. Gli insediamenti
della valle del Sarno appartenevano ad un aspetto culturale dell’epoca
protostorica detta “delle Tombe a Fossa” proprio perché i defunti, inumati,
erano sepolti in tombe scavate nella terra. Tale cultura copriva un’estensione
territoriale molto ampia, lungo la costa della Campania e giungeva, con le sue
propaggini, fino a Roma, a nord, e in Lucania e Calabria, a sud, sia pure con
particolari differenziazioni. A Pompei vi sono poche tracce della cultura delle
Tombe a Fossa nella zona del Foro Triangolare2; non si può parlare però di un
vero e proprio insediamento. La scarsità d’acqua sull’altopiano, con una falda
freatica raggiungibile solo con una profonda trivellazione del terreno, deve
aver impedito la formazione di un abitato stabile prima della seconda metà del
VII secolo a.C. Recenti sondaggi, lungo le fortificazioni, hanno offerto
l’occasione per una revisione dei dati disponibili; è stato, pertanto, avanzato
un nuovo modello di sviluppo urbanistico, forse più coerente con le più recenti
acquisizioni archeologiche3. Il presupposto che la città si sviluppò intorno ad
un primitivo centro fortificato localizzabile entro le regioni VII e VIII
1
E. La Rocca, Pompei, Milano 1976, p. 11.
Ibidem.
3
Ibidem, pp. 12-13.
2
10
(praticamente intorno al Foro)4, non è del tutto esatto5. Non sembra esserci
sostanziale variazione cronologica tra i materiali rinvenuti in questo settore
della città e quelli rinvenuti in altre aree indagate stratigraficamente6. Nei casi
meglio documentati, i reperti più antichi si datano tra la fine del VII e la prima
metà del VI secolo a.C., in sostanziale coincidenza con la prima fortificazione
in tufo detto “pappamonte”, che seguiva, più o meno, il percorso perimetrale
del piano iscrivendo un’area di 63, 5 ettari. Si dovrà supporre, perciò,
l’esistenza di una sorta di acropoli più intensamente abitata (il settore
compreso nell’ambito delle regioni VII e VIII intorno al Foro) entro un’area
fortificata molto più ampia. In una prima fase, quest’ultima, dovette essere
scarsamente popolata e adibita piuttosto a coltivazioni o a pascolo, solo in una
seconda fase, a partire dalla fine del IV secolo, fu urbanizzata secondo un
razionale piano regolatore, di cui è un esempio la regione VI. Probabilmente il
centro urbano ebbe come nucleo basilare il santuario di Apollo, in origine la
divinità protettrice del nuovo centro. Lo sviluppo rapido della città, che pare
essersi modellata in tempi relativamente brevi, nello spazio di poco più di una
generazione, potrebbe avvalorare l’ipotesi di una fondazione realizzata
rapidamente dietro forti spinte economiche e politiche7. Non è sfuggito, infatti,
che l’ascesa di Pompei coincise con il brusco arresto dei villaggi della valle
del Sarno più vicini, di San Marzano e di San Valentino Torio. La scelta del
sito, un vasto pianoro vicino al mare, alle foci del fiume Sarno, e la celere
realizzazione di mura di fortificazione furono connesse all’espansione degli
Etruschi8
di
Campania,
che
dominavano
l’entroterra
vesuviano,
e
desideravano crearsi uno sbocco marittimo al di là delle aree costiere sotto la
diretta influenza greca. Naturalmente, ciò non vuol dire che Pompei fosse una
città etrusca. La maggioranza della popolazione doveva provenire dai villaggi
della campagna circostante, appartenenti alla “Cultura delle Tombe a Fossa”,
4
A. Maiuri, Saggi negli edifici del Foro di Pompei, in “Notizie scavi 1941”, Roma, 1943, pp. 371
- 404.
5
G. Spano, La Campania felice nelle età più remote. Pompei dalle origini alla fase ellenistica,
Napoli 1936.
6
S. De Caro, Saggi nell’area del Tempio di Apollo a Pompei. Scavi stratigrafici di A. Maiuri nel
1931/32 e 1942/43, Napoli, 1986, pp. 12-23.
7
Ibidem.
8
A. Boethius, Gli Etruschi in Pompei, in “Simbolae Philologicae”, 1932, pp. 1-12.
11
note, in antico, con il nome di Opici. Le classi dominanti aristocratiche
formarono una civiltà “mista”, nella quale elementi culturali locali, sempre
presenti, si fusero con le esperienze culturali etrusche e greche. È probabile
che l’impulso per lo sviluppo di Pompei fosse dovuto alla sua posizione
strategica, quale importante nodo di traffico commerciale. Era il punto di
raccordo di tre importanti strade da Cuma, da Nola e da Stabia, il cui tracciato
era seguito dalla Via Consolare, dalla Via di Nola e dalla Via di Stabia. Come
spesso avviene, il punto d’incontro di strade di grande traffico diventa zona di
mercato e, quindi, centro promotore di un insediamento permanente.
1.2. INFLUENZE E CONTATTI CON GRECI ED ETRUSCHI
La situazione economica ed ambientale propizia permise al primo nucleo
abitato di Pompei di crescere e svilupparsi. La città, infatti, posta alla foce del
fiume Sarno, era destinata a diventare il porto di quei centri dell’entroterra
campano privi di uno sbocco sul mare. Ancora in epoca augustea, Strabone
riferisce che Pompei era il porto naturale di Acerrae, Nola e Nuceria. Di
queste città Nola era, nel VII secolo a.C., la più importante. L’influenza
etrusca penetrò anche a Pompei, la quale dovette subire, almeno fino alla metà
del V secolo a.C., un vero e proprio dominio etrusco9. Molti frammenti di
bucchero con graffiti in lingua etrusca sono stati rinvenuti nell’area del
Tempio di Apollo; altri frammenti provengono dalla zona intorno alle Terme
Stabbiane, dove è stata localizzata una necropoli del VI secolo a.C., della
quale la testimonianza più importante è data dalla tomba ipogeica a camera
inglobata nelle Terme10. Nel VI secolo a.C., la città, sempre di piccole
dimensioni, non doveva avere ancora un piano regolatore. L’abitato intorno al
Foro, che rispecchia nella sua pianta irregolare l’impianto arcaico, sembra
essere stato costruito secondo uno schema preordinato11. Già in questa fase
l’intero altopiano, entro il quale era inserito il nucleo abitato era
probabilmente provvisto di una fortificazione costruita con il tipo di tufo detto
9
Ibidem.
Ibidem.
11
A. Sogliano, Pompei nel suo sviluppo storico. Pompei pre - romana, Roma 1937.
10
12
“pappamonte”.
Fuori
dall’abitato12
era
anche
il
Tempio
Dorico,
originariamente dedicato a Herakles, e in seguito anche ad Athena, costruito
sul limite dell’altopiano, a livello più basso rispetto al Foro. Doveva essere,
quindi, un santuario extra-urbano costruito in un punto tale da poter
controllare la Via di Stabia e la vallata sottostante. Nel VI secolo a.C., divenne
forte anche l’influenza culturale delle città greche13. Il culto di Apollo era
mediato, forse, da Cuma. Infatti, non mancavano importazioni di ceramica
corinzia, rinvenuta negli scavi sotto il Tempio di Apollo14. Inoltre, le terrecotte
architettoniche della seconda metà del VI secolo e dei primi decenni del V
secolo a.C., provenienti dal Tempio Dorico e dal Tempio di Apollo, sono non
solo in argilla di Ischia, ma probabilmente di manifattura, almeno in parte,
cumana. Nel Tempio Dorico sono conservati alcuni rocchi di colonne e
capitelli dall’echino rigonfio, simili a quelli del Tempio detto “Tavole
Palatine” a Metaponto, databile intorno al 520 a.C. In questa fase iniziale, il
Foro non doveva avere ancora quell’ampiezza che raggiunse nel II secolo a.C.
Le strade principali della città erano Via Marina da ovest a est e Via del Foro
da nord a sud. La sconfitta delle popolazioni etrusco – campane, nel 525 a.C.,
e la seguente sconfitta degli Etruschi nel nord, nel 474, da parte di una
coalizione cumano – siracusana, tagliava definitivamente i contatti tra le
grandi città laziali e le città dell’entroterra campano. In questo periodo, così
poco noto, si dovette manifestare un progressivo avanzamento delle
popolazioni sannitiche che abitavano le zone montane dell’entroterra
campano,
lungo
la
fascia
degli
Appennini15.
Impossibile
dire
se
l’oschizzazione delle città campane fosse dovuta a una vera e propria
invasione militare o, molto più semplicemente, a un pacifico incremento della
popolazione sannitica dovuta al richiamo della più facile vita nelle fertili
pianure dell’agro captano e nolano16. L’oschizzazione della Campania fu
12
P. Zanker, Pompe. Società, immagini urbane e forme dell’abitare, Torino, 1993, pp. 150-167.
A. Maiuri, Greci ed Etruschi a Pompei, Memorie Accademia dei Lincei, Roma, 1943, pp. 121149.
14
S. De Caro, Saggi nell’area del Tempio di Apollo a Pompei. Scavi stratigrafici di A. Maiuri nel
1931/32 e 1942/43, Napoli, 1986, pp. 12-23
15
R. C. Carrington, Gli Etruschi e Pompei, in “Antiquity” 1932, pp. 5-23.
16
A. Maiuri, Greci ed Etruschi a Pompei, Memorie Accademia dei Lincei, Roma, 1943, pp. 121149.
13
13
completata alla fine del V secolo a.C., quando anche Cuma, questa volta
militarmente, cadde sotto il dominio dei Sanniti, e gli abitanti furono costretti
a trasferirsi a Neapolis, che divenne, così, l’unico centro greco della
Campania17.
3.6.
LA FASE SANNITICA
Di questo periodo storico restano, a Pompei, scarse tracce anche se la città
dovette ricevere un forte impulso all’urbanizzazione. Infatti, è, probabilmente,
al V secolo a.C. che può farsi risalire la costruzione di una nuova cinta
muraria a doppia cortina di ortostati in calcare di Sarno, che doveva seguire
sostanzialmente un percorso analogo a quello della precedente fortificazione
in “pappamonte”. La fortificazione continuava ad avere uno scopo puramente
difensivo e non delimitava, quindi, il solo centro abitato18. Intorno al 300 a.C.,
devono essere datate le nuove fortificazioni che sostituirono quelle a doppia
cortina, costruite in calcare di Sarno e tufo di Nocera. Ancora, nel IV secolo
a.C., il territorio a nord della Via dei Soprastanti e a est della Via Stabiana era
scarsamente abitato. Scavi stratigrafici nella regione VI hanno dimostrato che
là dove sorsero nel IV – III secolo le grandi case ad atrio calcaree, non vi era
in precedenza alcuna costruzione19. Nel IV secolo a.C., iniziò l’espansione
urbanistica di Pompei, prima nelle aree a nord e poi nelle aree a est del Foro
Civile. Le case furono disposte secondo un accurato impianto urbanistico
ispirato a modelli greci, forse a Neapolis stessa. Divenne comune, in questo
periodo, l’uso del calcare di Sarno per il rivestimento degli edifici, pubblici e
privati, con grandi e regolari lastre20. Lo scoppio della seconda guerra punica
vide gran parte della Campania schierata dalla parte di Annibale, il quale si era
proclamato liberatore della popolazioni italiche dal gioco romano, e
17
Ibidem.
E. La Rocca, Pompei, Milano 1976, p. 14.
19
S. De Caro, Saggi nell’area del Tempio di Apollo a Pompei. Scavi stratigrafici di A. Maiuri nel
1931/32 e 1942/43, Napoli, 1986, pp. 12-23.
20
A. D’Ambrosio, S. De Caro, Un contributo all’architettura e all’urbanistica di Pompei in età
ellenistica. I saggi nella casa VII. 4, 62, in “Annali del Seminario di Studi del mondo classico”,
Napoli, 1989, pp. 173-215.
18
14
prometteva indipendenza. Probabilmente Pompei, che ancora nel III secolo
a.C. non doveva essere una città particolarmente importante, non subì le
conseguenze della vittoria dei Romani che costò, a Capua e Nola, la perdita
delle ultime forme di libertà, con il conseguente pesante controllo sulle attività
politiche e commerciali. La nuova situazione spinse parecchie famiglie, molto
ricche, a emigrare verso zone dalle più favorevoli condizioni di vita. Molti
lasciarono l’Italia e si trasferirono in Oriente o a Delo; altri preferirono
stabilirsi in città italiche non lontane dal loro originario centro di residenza. La
nuova situazione politica venutasi a creare con Roma, ormai padrona del
Mediterraneo, favorì lo svilupparsi a Pompei di una vivace attività
commerciale, basata, principalmente, sull’esportazione di vino e olio. Le
fattorie dei dintorni dovevano essere un modello di sfruttamento razionale
delle terre. Nel II secolo a.C. a Pompei si ebbe un vero e proprio boom
edilizio; tutti gli edifici pubblici della città furono ristrutturati e se ne crearono
altri, come la Basilica e il Tempio di Giove. La notevole ricchezza della città
si manifesta anche nel lusso, a volte sfarzoso, delle case di abitazione, come la
Casa del Fauno di ben metriquadri 2.94021. Inoltre, il contatto, continuo e
diretto, con i regni ellenistici d’Oriente creò le premesse per una revisione, in
senso greco, degli impianti urbanistici e delle forme architettoniche, come si
può ancora constatare osservando lo straordinario complesso formato dal Foro
Triangolare e dai teatri con il Quadriportico, o ancora dall’elegante
ristrutturazione del Foro Civile con gli edifici circostanti. In questo periodo, si
attuò un notevole allargamento della città verso oriente, testimoniato,
malgrado i successivi rifacimenti, dai resti di decorazione pittorica del
cosiddetto primo stile pompeiano riferibili al II secolo a.C22. Del sistema di
governo della città, in epoca sannitica, sappiamo pochissimo, tranne i nomi di
alcuni magistrati, la cui funzione doveva essere simile a quella dei consoli
romani23. Al loro fianco dovevano esserci questori, cui era affidata
21
C. Chiaromonte, Sull’origine e lo sviluppo dell’architettura residenziale di Pompei sannitica,
1990, pp. 5-34.
22
G. Spano, La Campania felice nelle età più remote. Pompei dalle origini alla fase ellenistica,
Napoli, 1936.
23
La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi e prospettive, Atti del Convegno Internazionale Napoli
– Pompei – Ercolano - Stabia, 11-15 novembre 1979, Napoli, 1982.
15
l’amministrazione finanziaria, ed edili che avevano cura e tutela degli edifici
pubblici e privati24. Non doveva mancare, naturalmente, un ordine equivalente
a quello dei senatori. Allo scoppio della guerra sociale, Pompei si affiancò alle
altre città campane per la conquista dei diritti di cittadinanza romana. Nel 89
a.C., Silla occupò e saccheggiò Stabia che, da allora in poi, non riuscì più a
risollevarsi. Il dittatore mosse poi contro Pompei, la quale aveva provveduto
anticipatamente al restauro delle fortificazioni costruendo, sul lato nord, meno
difeso, diverse torri25. In aiuto di Pompei giunse un contigente di guerrieri
celti capitanati da Lucius Cluentius, uno dei capi della rivolta. Le battaglie tra
Silla e Cluentius non furono favorevoli a quest’ultimo, il quale perse la vita
mentre tentava di ritirarsi verso Nola. La popolazione, infatti, non volle
aprirgli le porte della città per il timore che potessero entrare anche i Romani
inseguitori. Presumibilmente, nello stesso anno, anche Pompei capitolava
senza subire alcun serio danno.
24
A. Maiuri, Alla ricerca di Pompei preromana, Napoli, 1973.
O. Elia, Osservazioni sull’urbanistica di Pompei, in “Studi sulla città antica”, Bologna, 1970,
pp. 183 e sgg.
25
16
1.4. POMPEI ROMANA IN ETA’ REPUBBLICANA E PRIMO –
IMPERIALE
In un primo periodo, compreso tra l’89 e l’88 a.C., Pompei non ebbe una
situazione politica e amministrativa molto chiara: Silla era partito per l’Asia
Minore per combattere contro Mitridate e in Campania alcune città, tra cui
Nola, godettero di un periodo di tranquillità in quanto il potere era passato
nelle mani di Cinna che, avverso a Silla, era fautore dell’allargamento della
cittadinanza a tutte le popolazioni italiche26. Con il ritorno di Silla gli ultimi
focolai di sedizione vennero spenti. La Campania si era trovata nell’occhio del
ciclone, e la situazione generale del territorio doveva essere particolarmente
grave. Nell’80 a.C. Silla dedusse una colonia a Pompei per favorire, con
assegnazione di terre confiscate, i veterani che avevano combattuto con lui27.
La colonia ebbe il nome di Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum, dal
nome del dittatore che si chiamava Lucius Cornelius Sulla. Venne aggiunto al
nome del dittatore anche quello della dea da lui particolarmente venerata,
Venere, che divenne così la divinità principale della Pompei sannitica. A capo
della colonia vi fu il nipote di Silla, Publius Cornelius Sulla, uomo politico di
notevoli capacità, che fu una delle personalità più eminenti di epoca
ciceroniana28. Sotto il suo controllo si formò il primo Senato locale e furono
nominati i nuovi magistrati, con esplicita e ovvia preoccupazione di fondere le
nuove genti con le vecchie famiglie detentrici del potere. In seguito a questo
iniziale rimpasto, scomparvero dalla lista dei magistrati i nomi delle più
importanti famiglie dell’oligarchia pompeiana per far posto a uomini nuovi,
spesso generali o amici di Silla arricchitisi rapidamente durante le guerre
sociali29. Ma com’era avvenuta la confisca delle terre date poi ai nuovi
coloni? Fu fatta a danno delle persone contrarie alla politica sillana. La
campagna pompeiana era suddivisa tra villae rusticae aventi ognuna circa
26
E. Lepore, Il quadro storico, in “Pompei 79”, 1984, pp. 13-24.
Ibidem.
28
Ibidem.
29
Ibidem.
27
17
cento iugeri di terreno30. Ai coloni non furono attribuiti tali proporzioni, ma
molti di meno; e comunque sembra che la lottizzazione del terreno non fu mai
completata per varie ragioni. E’probabile, infatti, che molti coloni vendettero i
terreni ai precedenti proprietari, e non misero mai piede a Pompei. Un’altra
ipotesi è che il terreno confiscato non fu mai totalmente suddiviso e rimase di
proprietà della colonia. Dopo un breve periodo distinto dalla presenza di nuovi
magistrati, da Cesare in poi, la vecchia oligarchia locale si riappropria del
potere. Con la fondazione della colonia si provvide a rinnovare anche la
Costituzione, costruita sulla base di quella romana, che restò in vigore fino al
79 d.C. I membri del consiglio della città erano detti decurioni, i cui poteri
erano notevoli, in numero di ottanta/cento, nominati, ogni cinque anni, dai
duoviri con potestà giurisdizionale; la carica decurionale era a vita31. La scelta
era fatta esclusivamente tra uomini liberi, di buona reputazione, con
professioni onorevoli e con una rendita non inferiore ai centomila sesterzi.
Potevano essere nominati decurioni anche i figli di liberti e commercianti,
anche se in casi particolari. Gli edili erano, generalmente, molto giovani, e non
avevano funzioni di grande responsabilità; essi si occupavano della
supervisione e del controllo della città, degli edifici pubblici e dei mercati, dei
templi e degli edifici per spettacoli. Per diventare duoviri occorreva essere
stati edili. Per questo motivo molti edili furono ricordati in graffiti e in
iscrizioni per la loro munificenza, necessaria per lasciare buona memoria della
loro opera nei confronti della cittadinanza32. I duoviri detenevano il potere
esecutivo. Generalmente essi promulgavano i decreti dei decurioni e
proponevano all’assemblea richieste della popolazione. Ogni cinque anni i
duoviri erano detti quinquennales e avevano un potere notevolissimo, quello,
cioè, di nominare i nuovi decurioni33. Le cariche sacerdotali, non furono mai
completamente distinte da quelle pubbliche, anche se i sacerdoti, non
controllando in alcun modo gli affari municipali, non ebbero mai enorme
importanza nel mondo romano. Comunque anche i sacerdoti erano nominati
per elezioni pubbliche e le cariche più distinte erano, in genere, appannaggio
30
E. Lepore, Orientamenti per la storia sociale di Pompei, in “Pompeiana”, 1950, pp. 144-166.
H. H. Tanzen, The common People of Pompeii, Baltimore, 1939.
32
G. O. Onorato, Iscrizioni Pompeiane. La vita pubblica, Firenze, 1957.
33
Ibidem.
31
18
delle grandi famiglie locali. Il territorio di Pompei era suddiviso in vici e pagi
amministrati da magisteri vicorum e magisteri pagorum, che erano, nella
maggior parte dei casi, liberti34. Il loro potere, sottoposto a quello dei
magistrati della città, aveva, tuttavia, una certa autonomia, forse ampliata dal
fatto che si trattava spesso di uomini molto ricchi ai quali si dovevano rilevanti
sovvenzioni per costruzioni pubbliche. Sotto il profilo economico, le vicende
belliche non sembrano aver prodotto eccessivi rivolgimenti nella vita
cittadina. Plinio il Vecchio decantò i vini campani, e in particolare il vino
pompeiano, ricavato da una vite che, per la sua bontà, fu trapiantata persino in
Etruria. La Villa dei Misteri fu trasformata in una di quelle ville agricole nelle
quali si procedeva alla produzione in proprio di vino35. Più complesso è il
problema della diffusione di tale prodotto; esso era direttamente legato a
quello della diffusione di anfore con il bollo M. Porci e L. Eumachi. Il primo è
identificato con il nome di Marcus Porcius, finanziatore della costruzione
dell’Anfiteatro di Pompei. Il secondo apparterrebbe alla famiglia da cui
discende Eumachia, cui si deve la costruzione dell’omonimo edificio. Anfore
di Marcus Porcius sono state rinvenute in Gallia, nella zona di Narbonne –
Toulouse – Bordeaux; anfore di Lucius Eumachius sono state rinvenute in
Africa, per esempio a Cartagine. Anche se l’identificazione di Marcus Porcius
con il viticultore noto dai bolli anforari non sembra più sostenibile, perché le
anfore devono essere datate alla fine della repubblica, non pare comunque ci
sia dubbio che la produzione di vini campani abbia raggiunto mercati lontani.
Si è anche ritenuto che le anfore con il bollo M. Porci andrebbero circoscritte
alla Spagna Terragonese, limitando, quindi, la diffusione dei vini campani; ma
l’ipotesi non è condivisa da tutti, perché le fonti antiche non testimoniano la
diffusione di vino terragonese nel I secolo a.C. Il Porcius delle anfore potrebbe
essere, poi, un discendente del Marcus Porcius sillano36. Alla fine della
repubblica, giunsero i Clodii, i Tallii, i Lucretii e gli Herennii, che occuparono
le cariche più alte, sia profittando del prestigio personale basato sulle loro
34
J. Franklin, Pompeii: the electoral programmata, campaigns and politics A.D. 71-79, Papers and
Monographs of the American Academy in Rome, 1980.
35
W. Moeller, An Analysis of the political, economic and social influence of select families of
colonial Pompeii, Michigan, 1972.
36
Ibidem.
19
ricchezze, sia, principalmente, per le relazioni che li legavano a Cesare prima
e ad Augusto poi. In questo periodo, la città assunse il suo aspetto definitivo,
con il completamento dei lavori già iniziati nel II secolo a.C., e con la
costruzione o il restauro di numerosi edifici pubblici e di case private. La zona
di espansione di Pompei continuò ad essere quella orientale, intorno a Via
dell’Abbondanza. Ai limiti della città si costruì l’Anfiteatro e, in seguito, sotto
Augusto, la Palestra. Negli anni che seguono le guerre sociali e la parentesi
della rivolta di Spartaco, che arrecò gravi danni alla Campania, non si
registrano fatti degni di nota a Pompei, almeno fino a Claudio. Le iscrizioni
sono quanto mai avare, purtroppo, di più precise notizie storiche37. Sembra
assodato che, verso la fine dell’impero di Caligola, dovette svilupparsi a
Pompei una crisi di non chiaro significato che costrinse i decurioni a nominare
l’imperatore stesso, nel 40 d.C., duoviro quinquennale38. Le cose precipitarono
alla morte di Caligola, nel 41 d.C. Sotto Claudio, negli anni dal 41 al 52 d.C.,
non sono testimoniati a Pompei magistrati di alcun genere. Inoltre
all’imperatore non fu dedicata una statua nel Tempio della Fortuna Augusta,
com’era d’abitudine, ma solo due basi di marmo. Fuori Porta Nocera, poi,
sono state rinvenute iscrizioni elettorali riferibili alla città di Nuceria e
nominanti cariche cadute da tempo in disuso, datate all’epoca di Claudio39. Si
è supposto, che Claudio abbia voluto riesumare, in questi momenti di crisi,
vecchie forme federali sannitiche, per esempio la lega di Nocera,
un’associazione a sfondo militare risalente al IV secolo a.C. e formata da città
poste nell’agro nucerino e nelle sue vicinanze. Con Nerone la crisi sembrò
risolversi e la vita procedette tranquilla fino al 59 d.C., l’anno in cui Nerone
fece uccidere la madre Agrippina presso Bacoli. Nello stesso anno, scoppiò
una rissa tra Pompeiani e Nucerini nell’Anfiteatro di Pompei40. Il fatto dovette
avere tanta risonanza anche a Roma, se Tacito ne riferisce negli Annali.
Nuceria era stata fatta colonia dall’imperatore nel 57 d.C. Si potrebbe pensare
che la formazione della nuova colonia abbia arrecato danni economici a
37
G. O. Onorato, Iscrizioni Pompeiane. La vita pubblica, Firenze, 1957
Ibidem.
39
A. Maiuri, Pompei e Nocera, in “Rendiconti Accademia Archeologica, Lettere, Belle Arti di
Napoli”, 1958, pp.53-40.
40
Ibidem.
38
20
Pompei, forse perché il suo territorio era stato depauperato a favore di
Nuceria41. L’intervento di Nerone, infatti, ristabilì la pace, ma furono sciolte
tutte le associazioni illegali, di cui purtroppo non conosciamo nulla, e
l’Anfiteatro fu chiuso per dieci anni42.
Veduta di Pompei antica con rappresentazione dei singoli edifici.
41
42
Ibidem.
Ibidem.
21
1.5. IL MONDO DEGLI AFFARI
1.5.1. IL MONDO AGRICOLO
La Campania è un paradiso agricolo che scoprono con gioia i turisti e che è
stato esaltato dagli agronomi antichi43. I contrassegni di anfore e le pitture o i
rilievi sono la testimonianza delle attitudini agricole di una regione costellata
di proprietà - le villae rusticae - disseminate a nord sulle pendici del Vesuvio,
a sud vicino a Gragnano e a Castellammare di Stabia, e a est nei dintorni di
Scafati. Il suolo campano è straordinariamente fertile e noto per la sua feracità;
formato da un’attività vulcanica sottomarina, le colate di lava preistoriche
perfezionarono le sue qualità.
“Nel territorio campano, si maritano le viti ai pioppi; avvolgendo gli sposi
con braccia amorose, si arrampicano di ramo in ramo nel loro cammino
sinuoso, raggiungendo la cima a una tale altezza che al vendemmiatore il
contratto garantisce rogo e tomba”, scrive Plinio44, la migliore delle guide
nella rassegna delle piante locali. Il primo posto spetta all’Aminea45, per la
forza del suo vino che guadagna sempre più invecchiando. Sembra che la
Campania sia stata il centro da cui si è diffusa questa pianta e i vini del
Vesuvio erano favoriti dall’abbondanza di acido fosforico nel terreno. Un’altra
pianta, la Surcula, supera ottimamente la fioritura e le sue uve si conservano
molto bene in vaso46. Una varietà, la Murgentina, originaria di Murgentia
(Morgantina, in Sicilia a ovest di Catania), si ambientò così bene nelle terre
intorno a Pompei che prese il nome di Pompeiana47. Un’altra qualità è
chiamata Horconia e deriva il suo nome dagli Holconii, ricchi proprietari assai
noti attraverso l’epigrafia e l’iconografia48 pompeiana, attestando così
l’importanza dei viticultori locali nella creazione di piante adatte al suolo, al
clima e al gusto dei consumatori. Non dobbiamo pensare che i pompeiani
43
J. Day, L’agricoltura durante la vita di Pompei, Yale, 1932, pp. 165-208.
R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, p. 148.
45
Ibidem.
46
Ibidem.
47
Ibidem.
48
A. De Franciscis, M. Olconio Rufo, Napoli, 1973, pp. 37-39.
44
22
producessero un solo vino. La loro vinificazione, molto complicata, offriva
una gamma varia che andava dagli aperitivi ai vini medicinali. In primo luogo,
c’è il vino ordinario, il rosso49che è il vino puro, senza niente che possa
intorbidarlo, privo di feccia: la lympa50. Il confusum era un vino aspro
mescolato con un vino dolce, una specie di taglio probabilmente51. I vini
aromatizzati erano indicati, sotto il nome di aromatites52, di mirris, uno dei più
apprezzati. Si aveva, infatti, l’abitudine di produrre un vino aromatico
preparato all’incirca come i profumi, dapprima con mirra, poi anche con nardo
celtico, canna, bitume in palline messe nel mosto o nel vino dolce; altrove con
canne, giunco, nardosiriano, amomo, cannella, zafferano, palma, sempre in
palline. Il gustaticium è un vino aperitivo, che si beve a digiuno, prima del
pasto, consuetudine estranea al costume romano, ma raccomandata dopo
Tiberio dai medici; era un vino cui si aggiungeva il miele53. Se si riduceva a
metà il mosto con la cottura, si otteneva il defrutum: il vin cotto. Serviva al
taglio dei vini per rinforzarli e questa operazione equivale a uno zuccheraggio
dei mosti54. Infine, i pompeiani erano ricchi di vini medicinali. Generalmente,
per ottenerli, si mescolava vino e miele: il prodotto era chiamato mulsum,
quando il miele proviene dal timo e ha un colore dorato, un gusto molto
gradevole e si tira in fili sottilissimi, la qual cosa è una prima prova della sua
qualità55. Il passum era un vino fatto con uva secche che era considerato
l’idromele dei poveri, e serviva per i malati56. Alcune famiglie pompeiane si
erano specializzate nella viticoltura e facevano invecchiare nelle cantine le
anfore di lympa o di mulsum: gli Stlaborii, gli Arrii, i Cornelii, i Vibli, i Zittii,
gli Iulii, i Postumii, i Ceii, i Vettii, i Cesii, gli Appuleii, per citare solo le
famiglie più importanti, perché su 31 villae rusticae, localizzate intorno a
Pompei, 29 offrivano gli ambienti necessari alle operazioni di vinificazione:
49
R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano 1973, p. 149-151.
P. Remare, De amphorarum inscriptionibus latinis quaestiones selectae, Tubingen, 1912, p. 23.
51
Ibidem, p. 24.
52
Ibidem, p. 27.
53
Ibidem.
54
Ibidem.
55
Ibidem, p. 28.
56
J. Kolendo, Le attività agricole degli abitanti di Pompei, in ” Opus 4”, 1985, pp. 111-124.
50
23
cortile dove si scaricava l’uva, ambiente per il torchio (torcularium),
magazzino (cella vinaria) dove il vino acquistava le sue qualità.
Le villae rusticae erano organizzate anche per la produzione dell’olio.
Soprattutto la regione intorno a Gragnano doveva essere coperta di ulivi. Ai
confini della Campania e del Sannio, l’olio prodotto nel territorio di Venafrio
e nella zona circostante dava, nel I secolo, all’Italia, il primo posto tra le
regioni produttrici57. Nelle anfore pompeiane si conservano olive bianche
dolci, olive snocciolate e almeno sette ville, sulle trentuno ispezionate,
producevano olio58. Per la fabbricazione si trovavano i medesimi sistemi usati
per il vino. La macina le preparava per il torchio in modo da non rompere i
noccioli, poiché ciò avrebbe conferito un retrogusto amaro. La pressa per le
olive somigliava, in piccolo, a quella da vino. Il torcularium era situato in una
parte calda della villa e aveva poche finestre; l’olio era immagazzinato in dolia
posti in un corridoio vicino alla cantina e talvolta presso la cantina stessa59.
I proprietari si dedicavano anche all’allevamento, in particolare a quello degli
ovini. Al momento del terremoto del 62, morirono seicento pecore60. In alcune
ville, i greggi erano rinchiusi in un cortile e custoditi da cani. Un angolo del
vasto cortile di una villa, nei pressi di Gragnano, era isolato da un muretto,
dietro il quale si teneva la soccida. Erano allevati nelle ville anche animali da
cortile e suini. I pompeiani gustavano una specie di “cassoulet” fatto di ceci
messi in conserva con lardo, e il formaggio era fatto con il latte di vacca, come
a Gragnano61.
57
R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, p. 151-152.
J. Day, L’agricoltura durante la vita di Pompei, Yale, 1932, pp. 220-221.
59
Ibidem.
60
Ibidem, pp. 223-224.
61
Ibidem.
58
24
1.5.2. IL MONDO DELL’INDUSTRIA
La fabbricazione del pane aveva perso il carattere familiare. I resti di forni di
dimensioni modeste sono poco numerosi, mentre vi erano laboratori
specializzati e la presenza di parecchie mole per macinare il grano designa il
panificio. Ne esistono più di quaranta, del tipo di quello di Terenzio Procuro e
di Terenzio Neo (VII, 2, 1-7; IX, 3, 10-12)62. L’aspetto del mulino è uniforme,
ma le sue dimensioni variano notevolmente. Le mole sono fatte di una lava
grigia scura, molto dura e porosa. Dopo la molitura, il grano macinato era
passato al setaccio. La panificazione si faceva a mano o mediante macchine
impastatrici, costituite da un recipiente cilindrico dove girava un asse di legno
per trazione umana o animale che trascinava delle pale che mescolavano la
pasta trattenuta da bracci fissi, fermati alla parete interna dell’impastatrice63.
La pasta ben lavorata era riposta su un tavolo dove le veniva data a mano la
forma che doveva avere il pane. Ogni pezzo, su cui era impresso il nome del
padrone, veniva posto su una pala munita di un lungo manico che permetteva
di introdurlo nel forno. L’ultima operazione era la cottura nel forno64.
Vi era un’industria che prevaleva su quella della panificazione, l’industria del
garum65, molto utilizzato dagli antichi romani, quale condimento di primi e
secondi piatti: si tratta di una salsa prodotta dalla macerazione di pesci in una
salamoia concentrata di sale marino. La salamoia era sistemata all’aria aperta
in cisterne da 7 a 10 metri cubi esposte al sole, in cui erano immersi pesci,
quali sgombri, tonni. Garum grezzo veniva importato dalla Spagna ed era
sottoposto a Pompei agli ultimi processi di preparazione66.
L’allevamento degli ovini forniva all’industria tessile la lana. La lana tosata
doveva, innanzitutto, essere lavata in una caldaia con la saponaria, che aveva
la funzione di sgrassarla. Poi veniva asciugata, battuta e spelazzata con le
mani. Si procedeva, quindi, alla cardatura con l’aiuto di un pettine di ferro dai
62
L. A. Moritz, Grain-mills and Flour in classical antiquity, Oxford, 1958, p. 75. Le indicazioni
numeriche in parentesi individuano il luogo in cui fu rinvenuto il forno.
63
Ibidem, p. 78.
64
Ibidem, p. 80.
65
P. Grimal, Th. Monod, Sur la véritable nature du garum, in “Revue des Etudes anciennes”,
1952, pp. 27-38.
66
Ibidem.
25
denti ricurvi. La lana, così trattata, poteva essere affidata al fuso delle filatrici.
La filatrice arrotolava la lana in modo da formare una palla all’estremità
superiore della conocchia67. Successivamente, l’operaia prendeva un fuso in
cui si potevano notare l’asta munita di un gancio che teneva a posto il filo, e il
contrappeso di terracotta, che aiutava a mantenere il filo teso e ad accelerare il
movimento di rotazione necessario per torcerlo. I fili di lana, tinti per lo più
con colori vivi – porpora, zafferano - erano messi su un telaio verticale o
orizzontale per essere tessuti. L’operazione più importante era la follatura68, e
i follatori occupavano un posto importante nella borghesia industriale di
Pompei. Dopo che la pezza di lana veniva tessuta, occorre lavarla con i piedi
in recipienti pieni d’acqua e di soda o di altri reattivi alcalini, tra cui l’urina
risulta il meno costoso e il più popolare. In seguito era trattata con terra da
purgo, quale l’argilla, che sgrassa i tessuti per renderli più morbidi. Ma i peli
della superficie, aggrovigliati, necessitavano di essere districati per essere
trasformati in peluria che si potesse rasare regolarmente; a Pompei si eseguiva
questo lavoro sospendendo la stoffa e pettinandola dall’alto al basso con uno
strumento di metallo69. Infine, le stoffe erano esposte all’azione dell’anidride
solforosa, al fine di mettere in risalto la luminosità delle stoffe bianche. I
tessuti servivano a confezionare toghe, tuniche, mantelli, nastri. Pompei non
offriva soltanto capi nuovi, ma diversi laboratori erano specializzati a
rimettere in buono stato gli abiti usati70.
67
A. Maiuri, in Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli, 1958,
pp. 79-81.
68
Ibidem.
69
G. F. La Torre, Gli impianti commerciali ed artigianali nel tessuto urbano di Pompei, Napoli,
1988, pp. 73 sgg.
70
R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, p. 165.
26
1.6. LA CIRCOLAZIONE MONETALE
I “Giornali di Scavo” hanno riportato fedelmente notizie degli oggetti di
valore rinvenuti durante i lavori di dissotterramento, che, per più di due secoli,
furono condotti nell’antica Pompei71. Nella maggior parte dei casi, i dati
inerenti il rinvenimento di monete erano relativi al 79 d.C. essendo ancora
scarsi quelli provenienti da scavi stratigrafici, importanti per ottenere
indicazioni più precise circa la circolazione monetaria nelle varie fasi di vita
della città. Pompei è una realtà archeologica molto importante e in un certo
senso atipica, poiché offre la possibilità di indagare sullo status economico e
sociale di un contesto urbano del I secolo d.C., essendo stata la città sigillata
dall’eruzione del Vesuvio72. A tal fine, si è preferito prendere in esame come
campione d’indagine, le monete rinvenute nell’insula 10 della regio I, detta
del Menandro, scavata tra il 1926 e il 193273. L’insula è interessante perché
ingloba, sia realtà abitative diverse che attività commerciali, comprendendo,
infatti, altre case importanti, come la Casa del Fabbro (I, 10, 6) e la Casa degli
Amanti (I, 10, 11) e attività commerciali come la Tessitoria di Minucius e il
Termopolium.
Complessivamente dall’insula 10 della regio I sono state rinvenute 387
monete che possono essere schematizzate come indicato nella tavola. 1.74.
71
A. d’Ambrosio, P. G. Guzzo, M. Mastroroberto, Storie da un’eruzione: Pompei, Ercolano,
Oplontis, Napoli, 2003, pp. 26-32.
72
F. Zevi, Pompei, Napoli, 1994, pp. 55-56.
73
Le monete provenienti dall’insula 10 della regio I sono state studiate dalla Dott.ssa Teresa Giove
e saranno edite nel III volume, The insula of the Menander at Pompeii, in corso di stampa.
74
Le Soprintendenze per i Beni Archeologici di Pompei e di Napoli e Caserta con l’Università
degli Studi di Napoli Federico II e l’Università degli Studi di Salerno hanno in corso un lavoro
complessivo di ricognizione e pubblicazione di tutte le monete provenienti da Pompei.
27
28
Questo campione di indagine evidenzia che, a Pompei, nel 79 d.C.,
circolavano innanzitutto i nominali in bronzo seguiti dai denari in argento
romano – repubblicani e dai denari “legionari” emessi da Marco Antonio75;
che le numerose monete cronologicamente più recenti, quelle emesse da
Vespasiano, ben coesistevano con quelle più antiche emesse da città
“straniere”; che la moneta d’oro era presente, anche se in numero limitato, il
più delle volte “tesaurizzata”, conservata cioè intenzionalmente per il suo alto
valore intrinseco, il suo pregio e la sua stabilità. Interessante la presenza delle
monete “estere” appartenenti alle zecche campane (Neapolis, Nuceria, Fistelia,
Irnthi), oltre ad esemplari di Luceria, dei Brettii, Reggio, Siracusa, Massaia e
ai bronzi di Paestum di epoca romana. Tra le monete”straniere” un posto a
parte occupano le numerose monete, in bronzo, di piccolo modulo della zecca
di “Ebusus” (l’odierna Ibiza) rinvenute a Pompei. Cronologicamente, queste
serie si collocano tra il 214 e il 150 a.C76., momento in cui la moneta di
Ebusus comincia a circolare fuori dall’isola, diffondendosi nel Mediterraneo,
in concomitanza della conclusione della seconda guerra punica, che segnò il
crollo dell’impero di Cartagine e la fine del monopolio commerciale da essa
posseduta nel Mediterraneo occidentale. La moneta ebusitana ritrovata lungo
le coste della Spagna sud – orientale e della Francia meridionale, oltre che
nella zona costiera della Campania e delle zone interne del Sannio, fa ritenere
che tra questi centri si fosse venuto ad intrecciare un intenso volume di traffici
commerciali, confermato dalla presenza a Ebusus di ceramica campana e in
vari centri del Mediterraneo, tra cui Pompei, di ceramica dipinta iberica coeva
alle monete77. Le monete di Roma sono a Pompei, ovviamente, la stragrande
maggioranza. La moneta in bronzo è la più diffusa essendo utilizzata quasi
esclusivamente nel piccolo commercio78, il denaro d’argento serviva per
pagare i salari, gli stipendi alle truppe e i beni di consumo, mentre quello
75
A. d’Ambrosio, P. G. Guzzo, M. Mastroroberto, Storie da un’eruzione: Pompei, Ercolano,
Oplontis, Napoli, 2003, pp. 26-32.
76
Ibidem.
77
Lo studioso C. Standard, esaminando in particolare una serie di Ebusus con la rappresentazione
estremamente schematica del tipo di Bes, rinvenuta prevalentemente in Campania, ha ipotizzato
che si possa trattare di una imitazione locale degli esemplari ebusitani
78
L’importanza della coniazione in bronzo e il particolare interesse per i nominali enei trova
conferma nel fatto che molto spesso le iscrizioni riportano le cifre in sesterzi mentre gli autori
antichi usavano indifferentemente le cifre sia in sesterzi che in denarii.
29
aureo, l’aureus, equivalente dal tempo di Augusto a 25 denari di argento,
doveva essere usato solo per i traffici di valore. Durante l’impero di Nerone,
con l’aumento del prezzo di mercato dell’oro e dell’argento, si ebbe la
conseguente rarefazione del circolante in metallo prezioso e uno squilibrio nel
sistema monetario; per ovviare a tale situazione nel 63 – 64 d.C. venne
deliberata una riduzione del peso dell’aureo (svalutazione) a 1/45 di libbra (g
7, 3) e l’argento puro, utilizzato fino a quel momento, venne sostituito con una
lega d’argento con una percentuale del 5 – 10% di bronzo79.
E’stato sottolineato che la riforma neroniana, alterando il rapporto di valore tra
i metalli monetati, finiva con il favorire coloro che possedevano monete
d’argento, in particolare la cosiddetta borghesia italica, cioè la nuova classe
emergente dedita ad attività artigianali e mercantili; ma sono i rinvenimenti, in
area vesuviana, che non confermano questa ipotesi, già di per sé alquanto
teorica essendo difficile poter dimostrare che la borghesia preferiva
tesaurizzare i denari d’argento e l’aristocrazia gli aurei80. I rinvenimenti
pompeiani ci testimoniano che solo in pochi casi abbiamo concentrazioni di
notevole quantità di monete d’oro; oltre al famoso ed eccezionale
ritrovamento a Boscoreale di 1.000 aurei (equivalente a 100.000 sesterzi)
nascosti, insieme al ricco e splendido servizio di argenteria (109 pezzi del peso
complessivo di 30 chilogrammi) nella cisterna dell’azienda agricola di Fanno
Sinistre81, si segnalano alcuni esempi significativi a Pompei: 45 aurei e 5
denarii d’argento erano nella cassaforte della Casa detta di Castore e Polluce
(VI, 9, 6-7)82; 47 aurei e 193 argenti erano in una borsa accanto al corpo di
una donna nella bottega tra i civici nn. 6-8 della regio IX, insula 383; nella
Casa del Bracciale d’Oro (VI, 17, 42-44) una donna riccamente ingioiellata
aveva con sé una cassettina di legno contenente 40 aurei, 174 denari d’argento
e un quadrante di bronzo84 (valore complessivo circa 4.700 sesterzi).
79
Già prima del regno di Nerone sussistevano di fatto i primi sintomi di deprezzamento: con
Tiberio e Gaio l’aureo scese a 7, 75 grammi e con Claudio a 7, 7 grammi.
80
F. De Martino, Storia economica di Roma antica, II, Firenze, 1980, p. 349.
81
La rendita annua di questa azienda attiva nella produzione di olio e vino è stata valutata intorno
ai 48.000 sesterzi.
82
G. Fiorelli, Storia delle Antichità Pompeiane, IV, 1862, p. 214.
83
Ibidem, pp. 444-445.
84
Ibidem.
30
Ma quale era il potere d’acquisto del sesterzio nel I secolo d.C.? Quanto
occorreva al giorno per il mantenimento di una famiglia pompeiana di
modeste condizioni?
Purtroppo vi sono scarse notizie circa i prezzi correnti sia a Pompei che
altrove; la maggior parte delle informazioni perviene dalle iscrizioni e dai
graffiti pompeiani, nonché dall’archivio del ”banchiere” L. Cecilio Giocondo
accuratamente documentato dalle tavolette cerate recuperate nella sua
abitazione85. I più indicativi, per avere un’idea del costo della vita di questa
epoca, sono quelli relativi ad alcuni generi di prima necessità:
 1 modio (6, 503 Kg ) di frumento: 12 assi=4 sesterzi.
 1 modio di tritico: 30 assi=7 sesterzi e 2 assi.
 1 modio di lupini: 3 assi.
 1 libbra d’olio: 4 assi=1 sesterzio
 1 misura di vino comune: 1 asse.
 1 pultarius (piatto di minestra di farina e farro): 1 asse86.
85
86
R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano, 1973, pp. 208-212.
Ibidem.
31
1.7. IL TERREMOTO DEL 62 D.C. E L’ERUZIONE DEL 79 D.C.
Nel 62 d.C., un catastrofico terremoto colpiva Pompei e diverse altre città
campane, tra cui Ercolano87; le distruzioni furono immani. Al momento della
catastrofe finale del 79 d.C. i restauri e le ricostruzioni procedevano a ritmo
spedito; ma quasi tutti i monumenti pubblici della città erano ancora in stato di
rovina. I più ricchi si erano trasferiti nelle loro ville fuori di Pompei. Gli altri
si sistemarono in alloggi provvisori, di fortuna. In questo periodo, la città, da
centro economico e finanziario divenne un enorme cantiere di costruzione88,
dove l’attività principale non era certo basata sul commercio. Molti si
arricchirono con la speculazione edilizia e con l’affitto di appartamenti; altri
ricavarono grossi proventi dall’appalto di lavori di restauro. Un’analisi dei
lavori compiuti a Pompei dal 62 al 79 d.C. ha portato alla conclusione che il
centro della vita economica si stava spostando verso l’incrocio tra la Via di
Stabia e Via dell’Abbondanza, dove erano stati rifatti moltissimi negozi, ma le
case non erano state ancora sistemate; anzi un’insula intera era stata abbattuta
per la costruzione delle lussuose Terme Centrali. In avanzato stato di restauro
era, invece, la Regione VI, un quartiere prevalentemente residenziale, di un
certo livello di agiatezza. Particolarmente importante, da un punto di vista
sociale, il fatto che solamente il Tempio di Iside, unico tra gli edifici sacri, era
completato, finanziato per di più da un privato, un liberto, che così apriva la
strada al figlio per raggiungere le più alte cariche municipali89.
Non sappiamo se, e in qual modo, Nerone prima, Vespasiano poi, intervennero
nell’opera di ricostruzione. Pompei era una città ricca, e non doveva mancare
denaro per le necessità del momento. Lo dimostra il lusso con il quale era stato
dato inizio ai lavori di risistemazione di molti edifici, con ampio uso di marmi
colorati, come nel Tempio dei Lari Pubblici90.
87
G. O. Onorato, La data del terremoto di Pompei: 5 febbraio 62 d.C., in “Rendiconti Accademia
dei Lincei”, vol. IV, 1949, pp. 644 e sgg.
88
E. La Rocca, Pompei, Milano, 1976, pp. 21-24.
89
J. Andreau, Histoire des séismes et histoire économique. Le tremblement de terre de Pompéi,
”Annales Economies Sociétés Civilisations” 1973, pp. 369-395.
90
P. Adam, Osservazioni tecniche sugli effetti del terremoto di Pompei del 62 d.C., Bologna,
1989, pp. 4 e sgg.
32
All’alba del 24 agosto del 79 d.C., Pompei era ancora un immenso cantiere; i
pompeiani videro una nuvola a forma di pino aleggiare sul Vesuvio. Verso le
10 il gigantesco tappo di lava solidificata che ostruiva il cono eruttivo del
vulcano esplose con violenza terrificante sotto la spinta dei gas, e volò in aria,
dove fu frantumato e trasformato in lapilli che, spinti dal vento, ricaddero sul
territorio a sud-est del Vesuvio per un raggio di 70 chilometri91. Né Sorrento
né Ercolano furono toccate dalla pioggia di lapilli, che si depositarono su
Pompei per un’altezza di 2, 6 metri. Il lapillo era di pietra pomice. Il primo
strato, di cm 120, era di lapillo bianco; il secondo strato, di cm 140, era grigio
(monolitico-tefritico)92. La pioggia durò fino al 28 agosto, accompagnata da
esalazioni di gas venefico e, alla fine, da una caduta di cenere formata dalla
polvere depositata sugli orli del cono del vulcano, che ricadendo in
continuazione nel cono stesso, era spinta dai gas in aria. Si aggiunsero
frequenti scosse di terremoto, che danneggiarono seriamente città non toccate
dalla pioggia di lapilli, come Nola, Napoli e Sorrento. Ercolano fu invece
ricoperta non dai lapilli, ma da una valanga di fango, formata da un impasto di
cenere e acqua, per un’altezza di ben 20 metri. Pompei finì di esistere nella
stessa giornata iniziale dell’eruzione.
91
M. Gigante, Il racconto pliniano dell’eruzione del Vesuvio dell’anno 79, in studi su “Ercolano e
Pompei”, 1979, pp. 321 e sgg.
92
Ibidem.
33
Ricostruzione digitale del giorno della scomparsa di Pompei.
Il terrore degli abitanti all’appressarsi della catastrofe può essere facilmente
immaginato dagli squarci di tragedia rilevati dalle forme di gesso, ricavate dai
corpi di quanti non riuscirono a fuggire in tempo dalla città93. Molti furono
soffocati dai gas. Alcuni restarono schiacciati dai tetti crollati sotto il peso dei
lapilli. Difficile dire quanti morirono nella catastrofe: forse duemila, o forse
anche più, su una popolazione che può essere calcolata all’incirca sulle
diecimila persone94. L’imperatore Tito intervenne subito in aiuto degli
scampati all’eruzione e formò un’apposita commissione di soccorsi in
Campania95. Le proprietà delle persone morte senza lasciare eredi furono
destinate alle città danneggiate per la loro ricostruzione. Ma Pompei ormai
non esisteva più, e non venne più abitata in maniera intensiva, anche se non
mancarono nelle zone limitrofe poche e rade costruzioni di non grande
importanza96.
93
M. Gigante, Il fungo sul Vesuvio secondo Plinio il Giovane, Roma, 1989, pp. 300 e sgg.
E. La Rocca, Pompei, Milano, 1976, pp. 21-24.
95
Ibidem.
96
M. Gigante, Il racconto pliniano dell’eruzione del Vesuvio dell’anno 79, in studi su “Ercolano e
Pompei”, 1979, pp. 321 e sgg
94
34
2. GLI SCAVI DALLA SCOPERTA ALL’USO PUBBLICO
2.1 LA SCOPERTA E IL PERIODO PIONIERISTICO
Il 23 marzo 1748, l’abate Martorelli, appoggiato dall’ingegnere militare Roque
de Alcubierre, apriva il primo cantiere organizzato per lo scavo di Pompei,
ritenendo, all’epoca, di essere sulle tracce dell’antica Stabia. In prossimità del
quadrivio tra le strade di Stabia e di Nola furono ritrovati oggetti, monete,
statue, affreschi e il primo cadavere97. In questa fase, si realizzarono
esplorazioni sporadiche e disorganiche in vari punti dell’area che portarono
all’individuazione dell’Anfiteatro e della necropoli di Porta Ercolano, con gli
edifici adiacenti. Tuttavia, gli scavi si interruppero presto per dare la
precedenza a quelli di Ercolano – sui quali Carlo di Borbone, aveva
concentrato grandi risorse a partire dal 1738 – dove venne scoperta la Villa dei
Papiri, con il suo grande patrimonio di sculture e di letteratura antica. Lo
scavo pompeiano fu ripreso, nel 1754, e nel 1763, grazie al rinvenimento
dell’iscrizione Res Publica Pompeianorum98, fu possibile identificare
definitivamente e senza più dubbi con l’antica città di Pompei la collina che,
nel
tempo,
aveva conservato
il
nome di
Civita,
unica memoria
dell’insediamento scomparso. Per tale motivo, dal 1752 al 1765, dopo una
breve visita alla città di Ercolano, i viaggiatori riservavano la maggior parte
della giornata allo studio delle opere esposte nel Museo di Portici99. Per molto
tempo, infatti, non ci fu nulla da vedere a Pompei. Nel 1799, le ricchezze del
Real Museo furono trasferite a Napoli, in seguito ad un’imponente eruzione
del Vesuvio, che lo aveva fatto giudicare poco sicuro per la breve distanza dal
cono vulcanico.
Tra il 1764 ed il 1766, cominciò lo scavo dell’area dei Teatri, del Foro
Triangolare e del Tempio di Iside, che verranno completamente alla luce nei
primi anni del secolo successivo. I cantieri vennero impiantati anche nella
zona nord-occidentale della città, dove, tra il 1760 ed il 1772, furono
97
G. Longobardi, Pompei sostenibile, Roma, 2002, p. 39.
Ibidem.
99
A. M. D’Aignan D’Orbessan, Mélanges historiques, critiques de physique, literature et poèsie,
Parigi, 1768, p. 572.
98
35
parzialmente esplorate l’insula occidentalis, la Casa del Chirurgo e la Villa di
Diomede, lungo la via dei Sepolcri, nei cui sotterranei vennero rinvenute
diciotto vittime dell’eruzione ed un tesoro di monete d’oro e d’argento.
Archivio Soprintendenza Archeologica di Pompei (Abb. ASAP) P337. Piante topografiche di
Ercolano e Pompei incise da Giuseppe Guerra (1790-1800).
I ritrovamenti archeologici stimolarono un’intensa attività clandestina e
l’esportazione, oltre, confine degli oggetti di scavo. Il più noto antecedente di
quella che poi divenne una pratica di spoliazione assai diffusa è da
rintracciarsi nella vicenda di cui fu protagonista il principe d’Elboeuf, che nel
1711, facendo effettuare opere di scavo a Resina in un terreno di sua proprietà,
si imbatté nei primi resti dai quali, trent’anni più tardi, sarebbe iniziata
l’esplorazione dell’antico teatro di Ercolano. L’assenza, all’epoca, di uno
specifico divieto di esportazione di opere d’arte consentì al principe di inviare
36
alcune statue a Vienna per arricchire la collezione di Eugenio di Savoia. Lo
scandalo non scoppiò a Napoli bensì nello Stato Pontificio, ove la normativa
di tutela dei ritrovamenti archeologici era costume antico e perennemente
aggiornato, sino agli editti Spinola del 1701100 e del 1704101; trasportate da
Napoli, in tutta segretezza, le statue furono trasferite a Roma per il necessario
restauro e di lì proseguirono per Vienna, incorrendo nella violazione dei
succitati editti pontifici in materia di esportazione. In effetti, la gestione
dell’attività archeologica non appariva improntata al rispetto dell’ortodossia
culturale ed amministrativa: l’avidità dei guadagni dei proprietari dei fondi
dove le opere venivano alla luce e la mancanza di personale capace di
valutarne l’importanza contribuirono al diffondersi di scavi abusivi, ovvero
affidati alla direzione e al controllo di personaggi mai mossi da puro amor
dell’arte e interesse per l’archeologia102. In realtà, la mancanza di una struttura
pubblica preposta alla sovrintendenza e al controllo delle attività di ricerca nel
vasto territorio del Regno rendeva inevitabile che gli scavi, nella migliore
delle ipotesi, venissero realizzati in regime di concessione a singoli cittadini
che ne avessero fatto richiesta; spesso, però, non si avvertiva neanche
l’esigenza di richiedere l’autorizzazione pubblica, ritenuto atto non
indispensabile per l’esecuzione di opere di scavo condotte da privati103.
Inoltre, ad escavazioni indiscriminate ed incaute, si aggiungeva il danno
derivante dal fatto che, in assenza di verifiche sulla sorte dei reperti,
l’amministrazione pubblica era impossibilitata a controllarne la circolazione, e
i preziosi oggetti venivano facilmente alienati, in genere quali costosi
souvenirs per i più fortunati e facoltosi viaggiatori stranieri.
100
Editto Spinola del 18 luglio del 1701: Proibitione sopra l’estrattione di statue di marmo o
metallo, figure, antichità e simili, Roma, nella stamperia della R.C.A., 1701; A. Emiliani, Leggi,
bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani 15711860, Bologna, 1978, p. 83.
101
Editto Spinola del 30 settembre 1704: Editto sopra le pitture, stucchi, mosaici ed altre antichità
che si trovano nelle cave, iscrizioni antiche, scritture e libri manoscritti, Roma, nella stamperia
della R.C.A., 1704; riportato integralmente in A. Emiliani, Legge, bandi…, cit., Bologna, 1978,
pp. 83-86. Su questo editto si veda anche l’analisi di Mario Speroni in, La tutela dei beni culturali
negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, pp. 14-15.
102
P. Laveglia, Paestum dalla decadenza alla riscoperta fino al 1860, Napoli 1971, p. 221.
103
In effetti, il “più antico” provvedimento rintracciato che si occupi in specifico degli scavi
privati, imponendo che siano sottoposti a “permesso reale”, è soltanto del 1792, ma tutto lascia
supporre che anche in seguito sia stato spesse volte disatteso. M. Speroni, La tutela dei beni
culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988.
37
La scoperta di un’intera città antica, intatta in tutte le sue componenti, in
un’accezione settecentesca, venne identificata come una risorsa in grado di
arricchire rapidamente le collezioni d’arte borboniche. Lo scavo apparve come
una fonte inesauribile di tesori, di oggetti preziosi e di opere d’arte, che
potevano conferire lustro e prestigio alla corona104. La necessità di tutelare tali
beni preoccupò Carlo di Borbone, come appare dal dispaccio, del 24 luglio
1755, indirizzato alla Regia Camera Sommaria, nel quale tra l’altro si legge:
”Le province onde questo Regno di Napoli è composto, essendo né tempi
antichi abitate da Greci Romani, (…)hanno in ogni tempo somministrato in
grandissima copia de rari monumenti di antichità agli uomini di quella
studiosi, di statue, di tavole, di medaglie, di vasi e d’istrumenti o per
sacrificio, o per sepolcri, o per altri usi della vita, o di marmi, o di terra, o di
metalli.(…)Niun cura e diligenza è stata per l’addietro usata in raccoglierli e
custodirli, così che tutto ciò che di più pregevole è stato dissotterrato s’e dal
Regno estratto, onde il medesimo ne è ora assai povero. Altri stranieri dè
lontani paesi se ne sono arricchiti e ne fanno i loro maggiori ornamenti,
grandissimi profitti traendone. Di qui la necessità di rifarsi alla esperienza
degli stati più culti dell’Europa, nei quali l’estrazione di sì fatte reliquie
d’antichità, senza espressa licenza de’Sovrani, è stata vietata ed la loro
proibizione osservata esattamente”105.
Il rilascio delle licenze per gli scavi era subordinato al parere di tre periti: per i
dipinti fu nominato il pittore di camera del re, Giuseppe Bonito106, per le
sculture, i marmi e le pietre lavorate Giuseppe Canart, ingegnere e statutario di
Sua Maestà, per tutte le altre antichità uno dei massimi eruditi dell’epoca, il
canonico Alessio Simmaco Mazzocchi. Il divieto di esportazione non era
assoluto, bensì limitato a ciò che “o per eccellenza di lavoro ed artificio, o per
altra rarità, merita di essere tenuto in pregio”. Nel testo napoletano l’elenco
dei beni tutelati fu raggruppato in due categorie, individuate in scultura e
pittura, specificando le pene previste per i contravventori; sanzioni, tra l’altro
molto più repressive dell’editto pontificio, sottolineando la preoccupazione di
104
G. Longobardi, Pompei sostenibile, Roma, 2002, p. 40.
L. Giustiniani, Nuova collezione delle Prammatiche del Regno di Napoli, IV, Napoli, 1804, pp.
201-203.
106
B. De Dominaci, Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, III, Napoli, 1763, pp. 712 ss.
105
38
Carlo di Borbone e, al contempo, la fiducia nel potere dissuasivo delle pene
stesse. Significativa era la punizione per l’esportazione abusiva non soltanto
con la “perdita della roba”, ma altresì con “anni tre di galera per gl’ignobili
e d’anni tre di relegazione per li nobili”; anche il solo tentativo d’estrazione,
qualora l’intenzione criminosa risultava evidente dalle circostanze, era
equiparato al delitto consumato: si avrà per consumato “il delitto per mare,
non solo quando le robe suddette si troveranno già imbarcate, ma anche
allorché si saranno ritrovate vicino le marine, i luoghi d’imbarco, in atto che
si trasportano per imbarcarsi; e per terra, allorché l’estraente sarà ritrovato
vicino ai confini, o avrà voltato le spalle alle Regie Casse, in cammini , ed in
circostanze tali, per cui verisimilmente si debba credere che le robe erano per
estrarsi dal Regno”107. Un interessante novità introdotta dal dispaccio era
l’attenzione dedicata agli “istrumenti”, per il valore storico-documentario che
iniziavano a riconoscersi agli antichi utensili. Tali scoperte erano state, in
parte, divulgate, attraverso pubblicazioni, dovute, sia ad antiquari, che a colti
viaggiatori. Nel 1739, il De Brosses, scrivendo al presidente Bouhier, si
soffermava sui molti mobili da camera e da cucina, sul gran numero di
lampade, di vasi, di sacrifici, per la guerra o per i bagni, formando la più
singolare raccolta di antichità. La scoperta di tali reperti si intensificò nella
prima metà dell’Ottocento, quando i reali del Regno accordavano il permesso
a sovrani italiani e stranieri di visitare gli scavi ed assistere al dissotterramento
di antiche abitazioni, rivelando diversi oggetti di uso quotidiano, quali vasi di
terracotta con avanzi di pesce, candelabri, cucchiaini108, preziosi in bronzo,
vetro, oro109. Numerosi, ad esempio, furono gli “istrumenti”estratti a Pompei,
il 17 luglio 1823, in occasione della visita del Duca di Calabria e della sua
famiglia, in seguito alla quale, l’ingegnere direttore Antonio Bonucci inviò, al
107
L. Giustiniani, Nuova collezione delle Prammatiche del Regno di Napoli, IV, Napoli, 1804, pp.
201-203.
108
Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei,
(Abb. ASSAN) Visita in Pompei del Principe Federico Augusto di Sassonia, fascio XIII B4, il
Direttore degli Scavi di Pompei Nicola D’Apunzo al Soprintendente degli Scavi di Antichità
Michele Arditi, Pompei 11 maggio 1828.
109
ASSAN, Visita agli scavi di Ercolano e Pompei del Conte Stackelberg al servizio di Sua
Maestà l’Imperatore di Russia, fascio XIII B4, 1, il Segretario di Stato di Casa Reale al Direttore
del Real Museo Borbonico, Napoli 7 ottobre 1828.
39
Cavaliere Arditi, la descrizione dei reperti, classificati in relazione al tipo di
materiale di cui erano composti (argento, bronzo, creta)110.
La necessità di provvedere allo studio e alla pubblicazione dei reperti ispirò
Carlo di Borbone che, il 13 dicembre 1755, fondò la Reale Accademia
Ercolanese, formata da quindici specialisti, con lo scopo di studiare, in modo
scientifico, e di pubblicare i rinvenimenti vesuviani. Lo spirito accentratore
nelle attività culturali non mancò di manifestarsi anche presso l’Accademia: ai
membri era fatto divieto di divulgare le recenti scoperte, restando la
pubblicazione dei reperti riservata allo Stato e, per esso agli organi
accademici111. Peraltro, i lavori dell’Accademia Ercolanese procedettero con
estrema lentezza sino al 1780, per poi essere sospesi fino al 1787, ed infine
ripresi per volontà di Ferdinando IV 112. Dal 1757 al 1792, videro la luce i
primi otto volumi delle antichità di Ercolano, e non si procedette oltre113.
Fosse dipesa esclusivamente dall’attività dell’Accademia Ercolanese, la
diffusione delle scoperte archeologiche delle città vesuviane sarebbe stata
limitatissima, non solo per il grave ritardo con cui uscirono i volumi, ma anche
per la parsimoniosa distribuzione degli stessi, che non potevano essere
liberamente acquistati sul mercato librario, ma erano oggetto di selezionato
omaggio del re a quanti fossero stimati degni del prezioso dono. Questo
regime di ridotta divulgazione fu, tuttavia, spesso infranto dalla solerzia di
colti viaggiatori, che, profittando della lentezza dei lavori ufficiali, diedero alle
stampe saggi, lettere e dissertazioni sfidando l’ira del re; tra questi vi furono
Winckelmann, Hamilton, Fragonard, David, Goethe, Mozart114.
Sui luoghi, invece, vigeva un controllo di tipo militare: pochissimi avevano la
fortuna di essere ammessi alla visita degli scavi. I pochi eletti erano controllati
a vista per timore che potessero sottrarre oggetti o asportare frammenti, e non
si potevano nemmeno eseguire schizzi sommari dal vero dei ritrovamenti.
110
ASSAN, Visita agli scavi di Pompei del Conte di Calabria, fascio XIII B4, 1, il Direttore dei
Reali Scavi di Pompei, Antonio Bonucci, al Cav. Michele Arditi, Pompei 17 luglio 1823.
111
L. Rollo Bancale, Scrittori inglesi a Napoli. Gran Tour e oltre., p. 79-80, Salerno, 1998.
112
M. Schipa, Nel Regno di Ferdinando IV di Borbone, Napoli, 1938, pp. 132 ss.
113
Dei volumi curati dall’Accademia Ercolanese, cinque erano dedicati alle pitture, due ai bronzi
ed uno a lucerne ed utensili vari.
114
“Ammireremo Pompei, ed Herculaneum, le città dove si scava e le rarità da poco ritrovate, e
tutto ciò costerà molto denaro”, P. Scialò, Mozart a Napoli nelle lettere di Wolfgang e Leopold,
Napoli, 1991, p. 40.
40
L’accessibilità al sito di Ercolano era ancora più rigorosa in base ai documenti
dell’Archivio Storico della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei,
dai quali è emerso un ristretto numero di autorizzazioni concesse a sovrani e
nobili stranieri rispetto a Pompei, concentrati negli anni 1828-1833; nessuna
visita fu compiuta dopo l’Unità d’Italia115. A partire dal 1755, fu permesso
prendere annotazioni, sotto la sorveglianza di un custode, consentendo solo di
disegnare gli oggetti di cui esistevano già incisioni116. Erano le severe
limitazioni
poste
ai
pochi
visitatori
e
l’organizzazione
espositiva
dell’Ercolanese a risaltare il limite di fondo della politica dei beni culturali dei
Borbone. Il riferimento è alla gestione privata di questi beni che erano, in
prima istanza, sul piano giuridico, beni privati del re e come tali erano
gelosamente vissuti e parsimoniosamente mostrati. Non c’è viaggiatore o
studioso settecentesco che non si lamenti dei numerosi vincoli e limiti che
caratterizzavano le visite ai siti: dalla difficoltà di ottenere un permesso
firmato dal primo ministro, alla ossessiva attenzione dei guardiani,
all’impossibilità di prendere appunti di qualsivoglia natura117. Tra l’altro,
l’idea che il patrimonio artistico fosse mostrato per accrescere il prestigio di
una dinastia reale si fondava su un concetto giuridico di proprietà, che era
115
ASSAN, Visita agli scavi di Ercolano del Principe di Sassonia, fascio XIII B4, 1,
corrispondenza priva di mittente e destinatario, 11 maggio 1828. Visita agli scavi di Ercolano del
Conte Stackelberg al servizio di Sua Maestà l’Imperatore di Russia, fascio XIII B4, 1, il
Segretario di Stato di Casa Reale al Direttore del Real Museo Borbonico, Napoli 7 ottobre 1828.
Visita agli scavi di Ercolano del Principe Reale di Prussia, fascio XIII B4, 1, il Segretario e
Ministro di Stato di Casa Reale Ruffo, al Direttore del Real Museo Borbonico e Soprintendente
degli Scavi Michele Arditi, Napoli 9 novembre 1828. Visita agli scavi di Ercolano delle
Principesse M. Antonietta e M. Amalia, fascio XIII B4, 1, l’architetto direttore Carlo Bonucci al
Soprintendente dei Reali Scavi di Antichità Marchese Arditi, Ercolano 16 novembre 1828. Visita
agli scavi di Ercolano della Gran Duchessa Elena di Russia, fascio XIII B4, 1, l’architetto
direttore Carlo Bonucci al Soprintendente dei Reali Scavi di Antichità Marchese Arditi, Ercolano
10 febbraio 1829. Gli oggetti dissotterrati durante la visita dell’illustre personaggio furono stimati
in quindici carlini. Vista agli scavi di Ercolano del Re di Baviera, durante la quale Sua Maestà
volle maneggiare zappa e piccone, rinvenendo diversi oggetti in vetro, bronzo e terracotta, fascio
XIII B4, 1, l’architetto direttore Carlo Bonucci al Soprintendente dei Reali Scavi di Antichità
Marchese Arditi, Ercolano 28 febbraio 1829. Visita agli scavi di Ercolano del Principe di Capua
e del Conte di Lecce, fascio XIII B4, 1, descrizione del direttore di Casa Reale dell’avvenuta
visita, Napoli 28 giugno 1831. Visita agli scavi di Ercolano dell’Ambasciatore tunisino Selim Agà,
fascio XIII B4, 1, il Ministro Segretario di Stato degli Affari Interni scrive ad Arditi, Napoli 20
luglio 1833.
116
F. Zevi, Gli scavi di Ercolano e Pompei, in “Civiltà”, Napoli, 1998, p. 66.
117
A. O. Cavina, Il Settecento, in” Storia”, II, 2, pp. 165ss. Quaderni del Dipartimento delle
Discipline Storiche, Musei, tutela e legislazione dei beni culturali a Napoli tra ‘700 e ‘800, p. 22,
Napoli, 1995.
41
ulteriormente precisato con il Decreto con cui Ferdinando IV, divenuto
Ferdinando I dopo il suo ritorno sul trono di Napoli, istituì, nel 1816, il Real
Museo Borbonico. L’articolo III sanciva senza equivoci:
“Dichiariamo che tutto quello che contiensi attualmente nel Real Museo
Borbonico, e tutto quello che di nostro ordine vi sarà in avvenire depositato, è
di nostra libera proprietà allodiale, indipendente dà beni della Corona.
Riserbiamo a Noi la facoltà di disporne”118.
La libera proprietà allodiale, ossia una proprietà svincolata da ogni gravame e
limite di tipo feudale, corrisponde all’attuale proprietà privata. L’intero
patrimonio artistico del Regno veniva dichiarato proprietà privata del re, in
quanto individuo e pertanto distinto dai “privati” beni della corona ereditati
dinasticamente e amministrati separatamente attraverso la Segreteria di Casa
Reale. Essendo proprietario esclusivo degli oggetti rinvenuti nelle città
sepolte, il re era l’unica autorità legittimata ad offrirli in dono ai personaggi
che visitavano gli scavi119. Previa autorizzazione di Sua Maestà, il direttore dei
Reali scavi provvedeva ad inviare al Soprintendente e al Ministro dell’Interno
il notamento degli oggetti scoperti ed eventualmente offerti in regalo; si tratta
di un documento redatto dal soprastante e vistato dall’ispettore degli scavi, che
riporta la composizione quali – quantitativa dei preziosi, la data ed il sito del
ritrovamento120. Gli oggetti rinvenuti venivano depositati presso il nuovo
museo, ribadendo che il re ne conservava in pieno il libero possesso, ed
avrebbe, quindi, potuto in qualsiasi momento scegliere per le raccolte una
destinazione diversa da quella indicata. Ciò che colpisce è l’ulteriore e
progressiva accentuazione del carattere giuridicamente privato almeno dei
118
Archivio di Stato di Napoli (ASN),Monumenti e scavi di antichità, Indice Generale 4, (1861 –
1891), Bollettino delle leggi del Regno di Napoli, Napoli, Stamperia Reale, anno 1816, n. 228, p.
155.
119
ASSAN, Dono di preziosi scoperti in Pompei alla Gran Duchessa Elena di Russia, fascio XIII
B4, 1, Il direttore di Casa Reale Ruffo al direttore del Real Museo Borbonico, Napoli 9 febbraio
1829. Dono di oggetti rinvenuti in Pompei al Gran Duca di Toscana Leopoldo II, fascio XIII B4,
1, il Ministro degli Affari Interni al Direttore del Real Museo Borbonico, Napoli 4 giugno 1883.
120
Ibidem, Notamento degli oggetti rinvenuti in Pompei in presenza del Principe di Salerno,
fascio XIII B4, 1, Pompei 31 ottobre 1818. Notamento di oggetti rinvenuti in Pompei in presenza
del Duca e della Duchessa di Calabria, fascio XIII B4, 1, Pompei 27 aprile 1819. Notamento degli
oggetti rinvenuti in Ercolano in presenza della Gran Duchessa Elena di Russia, fascio XIII B4, 1,
Ercolano 6 febbraio 1829. Notamento degli oggetti rinvenuti in Ercolano in presenza del Re di
Baviera, fascio XIII B4, 1, Ercolano 27 febbraio 1829. Notamento degli oggetti rinvenuti in
Pompei in presenza del Principe Augusto di Prussia, fascio XIII B4, 1, Napoli 6 febbraio 1833.
42
beni mobili che durerà sino al 1860, quale caso di arretratezza quasi unico in
Europa121.
Alla fine del XVIII secolo, gli edifici individuati o scavati erano concentrati in
tre aree non collegate organicamente tra loro: porta Ercolano a nord, l’area dei
Teatri a sud e l’Anfiteatro ad est; ciascuna area di scavo aveva un accesso
autonomo da strade vicine preesistenti. Con andamento est-ovest lungo la
strada Napoli – Salerno, vi era la Taverna del Rapillo, una locanda costruita
come primo servizio per gli ospiti degli scavi, per renderne più comoda e
meno frettolosa la visita122.
Era grande l’ammirazione, ma non mancavano certo le critiche, da parte di chi
andava a visitare Pompei. Da principio gli scavi furono rivolti molto più al
rinvenimento di oggetti pregiati asportabili che alla comprensione della
struttura dell’abitato e alle comodità dei visitatori. Per entrare nelle case
bisognava scavalcare vere e proprie colline formatesi con la terra depositata
dagli scavatori. Molti lamentavano l’episodicità e la lentezza degli scavi,
l’assenza di metodo, la scarsezza di operai impiegati nell’impresa, il fatto che i
luoghi fossero lasciati ingombri di terra e cenere e che gli affreschi venissero
distaccati dalle murature, nonché il disinteresse riguardo al disseppellimento
dell’intera città. Altri, come Winckelmann, si interrogavano sulla reale utilità
di condurre a termine lo scavo123. Non c’è ancora, negli spettatori del tempo,
la sensibilità romantica che farà apprezzare il paesaggio di rovine e meditare
sulla transitorietà delle cose umane: in quel momento l’interesse era
concentrato sulle tecniche costruttive, sulle proporzioni architettoniche, sullo
stile.
Nel 1798, dopo la sconfitta subita da Ferdinando IV, che voleva marciare su
Roma per scacciare i Francesi, l’esercito del generale Championnet si diresse
su Napoli: il re fuggì mentre i francesi conquistarono la città proclamando la
Repubblica Partenopea. Championnet, uomo molto colto e aggiornato sulle
121
Quaderni del Dipartimento delle Discipline Storiche, Musei, tutela e legislazione dei beni
culturali a Napoli tra ‘700 e ‘800, p. 25, Napoli, 1995.
122
F. Zevi, La storia degli scavi e la documentazione, Napoli, 1981, p. 13.
123
“Siccome le case furono schiacciate dall’enorme peso della lava, non si vedrebbe altro che
muraglie…e con quale vantaggio? Quello di vedere antiche muraglie rovinate”, lettera al Conte di
Bruhl, in L. Mascoli, Architetti, antiquari e viaggiatori francesi a Pompei dalla metà del
settecento alla fine dell’ottocento, 1981.
43
scoperte pompeiane, diede subito l’ordine di riprendere gli scavi nel quartiere
meridionale dove venne scoperta una casa a lui intitolata (Reg.VIII, Ins.2,
civ.3)124. La Repubblica Partenopea ebbe vita breve e nel giugno del 1799, i
Francesi abbandonarono Napoli; ma Ferdinando IV tornò in città solo nel
1802. In questo arco di tempo i problemi politici e lo scarso contributo
finanziario furono le cause della sospensione delle attività di scavo. Bisognerà
attendere l’arrivo di Giuseppe Bonaparte, nel 1806, per poter vedere rinnovato
l’interesse per Pompei. Il re aumentò il numero degli addetti (circa
cinquecento operai) sotto la guida del ministro Cristoforo Saliceti. In questa
prima fase, furono condotti sondaggi casuali fino a che il direttore del Real
Museo di Portici, Michele Arditi, non fu incaricato di elaborare un piano
organico degli scavi e iniziò ad elaborare un programma per l’esproprio dei
terreni privati nella zona archeologica di Pompei. L’Arditi, inoltre, cercò di
evitare scavi isolati, concentrandosi nella zona, presso Porta Ercolano, dove
venne scoperta la Casa di Sallustio. Nel 1808, Giuseppe Bonaparte fu
destinato al trono di Spagna e lasciò il posto a Gioacchino Murat 125. Sia lui
che sua moglie, Carolina Bonaparte, mostrarono subito entusiasmo per
l’archeologia, al punto tale che la regina si trasferì a Portici da dove
controllava personalmente gli scavi, dando di continuo incoraggiamenti e
sussidi personali agli operai. Il 10 ottobre 1808, in occasione di una sua visita,
i responsabili del cantiere procedettero allo scavo di una bottega, dove furono
riportati alla luce numerosi vasi126. Un altro scavo del medesimo genere risale
al 3 ottobre 1809, durante il quale la Regina fu accompagnata dal Ministro
degli Interni e dal Ministro della Guerra e le furono offerti dei bronzi127. Dalle
carte dell’Archivio Storico della Soprintendenza dei Beni Archeologici di
Napoli e Pompei, tra il 1808 ed il 1815, Carolina visitò numerose volte
l’antica città appassionandosi, soprattutto, ai lavori in corso lungo la Via dei
Sepolcri, dove, nel 1812, furono rinvenuti diversi scheletri con accanto gioielli
124
Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Pompei 1748-1980. I tempi della
documentazione, Roma, 1981, p.13.
125
F. Zevi, La storia degli scavi e della documentazione, Napoli, 1981, p. 14-15.
126
ASSAN, Visita in Pompei di Sua Maestà la Regina, fascio XIII B4, 1, lettera priva di mittente
indirizzata al signor Pietro La Vega, 10 ottobre 1808.
127
ASSAN, Visita della Regina agli scavi di Pompei, fascio XIII B4, 1, 3 ottobre 1809.
44
e altri preziosi; durante tali visite, la regina elargiva ricompense e faceva
trasportare i reperti più suggestivi a Portici.
L’aspetto più interessante e culturalmente nuovo del periodo francese di
Pompei è quello di restituire la completezza di una visione urbana,
l’architettura dei monumenti, la distribuzione e l’organizzazione delle strutture
cittadine. Ma per cogliere questa realtà, nella sua completezza, occorreva
procedere speditamente negli scavi e mettere a punto un programma ed
un’organizzazione finalizzate alla liberazione integrale dell’antica città. Per
elaborare il piano finanziario era necessario avere ben chiari, preliminarmente,
limiti ed estensione del comprensorio urbano; quindi, occorreva mettere subito
allo scoperto il circuito delle mura e, in conseguenza, approntare un piano di
espropri per rendere di proprietà pubblica tutte le terre entro le mura stesse128.
Un progetto grandioso ed organico; la passione ed il tenace interessamento di
Carolina Murat consentirono di superare gli ostacoli e, nel 1811, l’intero
compendio di Pompei fu assicurato allo Stato, mentre i soldati continuarono a
portare alla luce l’anello delle mura e sgomberare l’anfiteatro129. All’interno
delle mura, erano impegnati operai civili, con un’attenta organizzazione del
lavoro che consentisse di accelerare i tempi di scavo senza incorrere nel
rischio di far crollare i resti degli antichi edifici. Nel 1813, il numero degli
operai impiegati registrò un incremento spettacolare: 360 in luglio, 588
all’inizio di settembre per arrivare poi a 624 verso la metà dello stesso mese,
aumento consequenziale alla decisione della Regina di concedere 2.000 ducati
al mese per gli scavi130.
I regnanti francesi accortamente non mutarono nulla per ciò che attiene alla
direzione degli scavi; continua l’équipe napoletana di un tempo, con i rinnovi
necessari per l’avvicendarsi delle generazioni; Pietro La Vega successe al
fratello, e lui fu sostituito da Antonio Bonucci; Michele Arditi resse per
decenni il Museo e la Soprintendenza napoletana. In genere, i rapporti con la
128
ASSAN, Lettera di Sua Maestà la Regina al Ministro dell’Interno, Conte Zurlo, in cui espose
numerose critiche e proposte precise per consentire di vedere Pompei sgomberata in tre o quattro
anni, fascio XIII B4, 1, Napoli 10 settembre 1811.
129
ASN, Ministero dell’Interno, inc, 7, 1812, fasc. 1007, lettera di Carolina Bonaparte al Conte
Zurlo.
130
Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Pompei, Pompei. Gli architetti francesi
dell’Ottocento, Napoli, 1981, p. 30.
45
corte erano ottimi, com’è comprensibile in tempi di tanto fervore
archeologico; Arditi e P. La Vega moltiplicarono relazioni e progetti,
disponibili ad ogni richiesta. Su un punto, tuttavia, le opinioni degli antiquari
si distaccarono da quelle dei regnanti, cioè nel difendere i privilegi di studio e
di pubblicazione. La legislazione borbonica in materia era stata abrogata da
Giuseppe Bonaparte; ma Arditi ne invocò il ripristino, riproponendo il
problema dei sorveglianti, delle visite, del diritto di prender misure o di
eseguire disegni. Per i visitatori, occorrevano autorizzazioni e personale di
custodia, che impedisse loro di scrivere i propri nomi sui muri e di rubare
marmi ed intonaci; quanto agli artisti, era vietato ai “professori e amanti di
belle arti di eseguire copie e disegni”131.
Nonostante tutto, gli scavi conobbero, con i Francesi, un periodo di relativa
liberalizzazione; sono di questi anni le prime guide a stampa, corredate di
planimetrie; soprattutto è di quel tempo la fondamentale opera di F. Mazois,
Les ruines de Pompéi, prima trattazione sistematica, in quattro volumi,
dell’architettura e dell’urbanistica di Pompei. L’autore lavorò con piena
coscienza della novità e importanza della sua impresa, mettendo, per la prima
volta, ordine di scienza in un patrimonio di valore documentario
impareggiabile; il suo lavoro vanta di una profonda e diretta conoscenza delle
rovine: problemi e tematiche prima affrontati solo sulla base delle fonti
letterarie ricevono ora concreta luce nel contatto con i monumenti.
Durante questi anni, le città sepolte dal Vesuvio erano ammirate da illustri
studiosi, in particolare stranieri: tra i quali possiamo ricordare Chateaubriand,
che pensò a Pompei “come ad un favoloso museo della storia domestica del
popolo romano”, visitato da tutti gli europei; per i restauri, un abile architetto
avrebbe dovuto rifarsi allo stile locale di cui poteva trovare i modelli nei
paesaggi dipinti sui muri stessi delle case132. Nelle pagine di Madame de Stael
“Pompei è la rovina più curiosa dell’antichità, perché la vita privata degli
antichi si presenta così com’era”133. Tanto nel romanzo come nei Carnets,
131
ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti (1861 – 1891),Monumenti e scavi di antichità,
Indice generale 4, Bollettino delle leggi del Regno di Napoli, Napoli, anno 1807, decreto 85, pp.
10-11.
132
Chateaubriand, Viaggio in Italia, Firenze, 1990, pp. 145-146.
133
Madame de Stael, Corinne ou l’Italie, Parigi, 1853, p.139.
46
Mme de Stael, con notazioni chiare e precise, forniva dettagli su pitture,
anfore, sul solco delle ruote che segnava il selciato delle strade. In breve,
sembrava regnare la vita: ”Quando ci si mette agli incroci delle strade,
sembra che si aspetti qualcuno, che il padrone di casa stia per venire, ma è
proprio questa apparenza di vita che fa sentire più tristemente il suo eterno
silenzio”134.
Anche per Stendhal, Napoli, dove trascorse alcuni mesi nella primavera del
1817, era “la più bella città dell’universo135 e mai si è visto un tale insieme di
mare, montagna e civiltà”136. Stendhal salì sul Vesuvio, e si recò undici volte
a Pompei e ad Ercolano, così considerevoli agli occhi dei veri amatori. Era
suggestionato dagli scavi di Pompei, perché “è un piacere vivissimo vedere
così da vicino questa antichità sulla quale abbiamo letto tanti libri”137. E
altrove: ”Non dirò niente di Pompei; è la cosa più sorprendente, più
interessante, più divertente in cui mi sia imbattuto; solo conoscendo Pompei si
conosce l’antichità”138.
Ma il fervore e il metodo nelle ricerche del periodo murattiano fu di breve
durata: il ritorno dei Borbone a Napoli segnò un nuovo ristagno delle attività
di scavo e dei mezzi impiegati. Gli operai a lavoro si ridussero a tredici unità
e, tra il 1815 e il 1819, gran parte dei terreni già acquisiti venne ceduta a
Giuseppe dell’Aquila, del quale la bella casina che ancora oggi svetta al centro
degli scavi e ne porta il nome. Negli anni precedenti, la corona aveva
accumulato ingenti debiti nei suoi confronti, in quanto titolare di una
concessione di scavo già nel periodo francese, e non vi seppe far fronte se non
con il trasferimento dei terreni139. Operazione densa di conseguenze per il
futuro assetto dell’area archeologica, se ancora, nel 1902, Sogliano, poi
134
Ibidem, pp. 226-227.
Rome, Naples et Florence, pubblicate nell’edizione del 1854 che dà frammenti della prima
edizione del 1817 non ristampati nell’edizione del 1826.
136
Ibidem.
137
Ibidem, p. 292. Stendhal riferisce che, uscendo dal Museo, ha incontrato tre ufficiali della
Marina inglese che vi entravano. Mentre partiva al galoppo per Napoli, è stato raggiunto quasi
subito dai tre inglesi che la sera gli hanno detto “che quei quadri erano ammirevoli e una delle
cose più curiose dell’universo. Eppure non avevano trascorso in quel Museo che tre o quattro
minuti!”
138
Ibidem, p. 285.
139
A. Muscettola, Problemi di tutela a Pompei nell’Ottocento: il fallimento del progetto di
esproprio murattiano, in Guzzo 2001, Napoli, pp. 29-49, dove si ricostruisce la poco edificante
storia della riacquisizione allo Stato dell’area urbana.
135
47
direttore degli scavi dal 1905 al 1910, lamenterà la presenza ingombrante del
fondo dell’Aquila (all’epoca trasferito ai Grosso e Ferrari) e chiederà con
forza di “scacciare i profanatori dal tempio”140.
ASAP C663, Planimetria di Pompei di Antonio Bonucci con divisioni a diversi proprietari. Al
centro con lettera B sono indicate la aree in possesso di Giuseppe dell’Aquila.
Per i Borbone ritornati sul trono, Pompei, al pari di un giardino di delizie, fu
prevalentemente un luogo di svago della corte reale, dove si intensificò
l’usanza di stupire gli ospiti con finti ritrovamenti fatti capitare ad arte sotto i
loro occhi. A questo periodo risale anche la tradizione di battezzare le case
con il nome del visitatore di rango che aveva assistito alla scoperta141.
Ma la visita, per l’estensione ormai raggiunta dagli scavi, doveva anche essere
faticosa, tant’è che Ferdinando I decise di mostrare Pompei ai suoi ospiti
restando comodamente seduti in carrozza142. I pochi lavori di sterro allora in
140
ASSAN, Relazione di Antonio Sogliano, fascio XVIII B6, Pompei 1902.
E. Corti, Ercolano e Pompei: morte e rinascita di due città, Napoli ,1957, p. 201.
142
ASSAN, Il Direttore Generale del Real Museo Borbonico al Segretario di Stato, Ministro degli
Affari Interni, lettera in cui viene descritta la visita in carrozza di Sua Maestà in Pompei, fascio
XIII B4, 1, Napoli, 4 aprile 1818.
141
48
corso vennero sospesi e per una settimana, nell’aprile 1818, si lavorò per fare
in modo che il cocchio reale potesse percorrere senza intralci quello che nel
periodo francese si era definito come l’itinerario principale della città: dalla
via dei Sepolcri fino al Foro attraverso la via Consolare. Per far questo, fu
necessario rimuovere alcuni grossi blocchi di attraversamento pedonale dalle
strade, perché non erano compatibili con il passo delle carrozze del tempo143.
L’ingresso a Pompei avveniva attraverso la strada nuova aperta nel 1814, a
monte della villa di Diomede; questo rimarrà per molto tempo l’inizio del
percorso canonico di visita, come è quello descritto nel 1844 nella
“Passeggiata per Napoli e contorni” da Emmanuele Bidera144, il quale
percorse la città in compagnia di Antonio Piccolini, protagonista della stagione
neoclassica dell’architettura napoletana, e Carlo Bonucci, architetto direttore
degli scavi: la villa di Diomede, la necropoli di porta Ercolano, la casa di
Cicerone, la via Consolare, il Foro, le Terme del Foro, dove si consumava un
pasto145, il quartiere dei Teatri.
Gli edifici portati alla luce fra il 1815 ed il 1860146:
 Basilica (1813-19)
 Tempio di Apollo (1816-20)
 Foro (1820)
 Edificio di Eumachia (1820)
 Macellum e lato nord ed est del Foro (1821-22)
 Tempio della Fortuna Augusta (1824)
 Terme del Foro (1824)
 Casa del Poeta Tragico (1824)
 Via di Mercurio (1825)
 Casa della Fontana Grande (1826)
 Casa della Fontana Piccola (1827)
143
E. Corti, Ercolano e Pompei: morte e rinascita di due città, Napoli 1957, p. 201.
E. Bidera, Passeggiata per Napoli e contorni, 1844, pp. 219-237.
145
“Poscia che avemmo ammirato il Tempio di Iside pompeiana, passammo in un luogo vicino al
Foro chiamato le Terme, dove era apparecchiato un pranzo di poco lusso, ma di molta eleganza.
Trovammo all’ingresso leggiadre contadine e svelti garzoni che ci riverirono: le vivande fumanti
c’invitavano al pasto, e il lungo viaggio ci avea svegliata tal fame da rendere delizioso ogni cibo”,
in Passeggiata per Napoli e contorni, E. Bidera, 1844, p. 229.
146
G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli, 1861.
144
49
 Completamento dello scavo dell’Insula Ariana (1827)
 Completamento dello scavo dell’Anfiteatro (1827)
 Casa dei Di oscuri (1828-29)
 Casa di Meleagro (1829-30)
 Casa del Centauro (1829-30)
 Casa del Fauno (1830-32)
 Casa dei Capitelli Figurati (1832)
 Casa dei Capitelli Dipinti (1832-33)
 Casa del Labirinto (1834)
 Casa di Apollo (1835)
 Casa di Orfeo (1843-49)
 Mura presso Porta Marina (1850)
 Terme Stabbiane (1854-59)
 Casa del Citarista (1858)147.
2.2. GLI SCAVI DI POMPEI ALL’EPOCA DELL’ITALIA UNITA
Con l’unità d’Italia, lo scavo di Pompei, almeno nei propositi, divenne un
obiettivo prioritario del Regno. Giuseppe Garibaldi, con decreto dittatoriale
del 15 settembre del 1860, nominò Alessandro Dumas Direttore del Museo
Nazionale e degli Scavi di Antichità, con l’incarico di redigere un progetto di
recupero archeologico, storico e pittorico del sito148. Con successivo
intervento, poiché gli scavi di Pompei erano miseramente abbandonati da
diversi mesi, con dolore del mondo della cultura, Garibaldi erogò in loro
favore 5.000 scudi annui affinché i lavori riprendessero nel più breve tempo
possibile, coordinati dai Ministri delle Finanze e dei Lavori Pubblici149.
Vittorio Emanuele II, nel 1860, costituì un fondo destinato alla prosecuzione
dei lavori, oltre a contribuire anch’egli personalmente, e nominò alla direzione
degli scavi Giuseppe Fiorelli. Il nuovo direttore cambiò completamente il
147
Ibidem.
ASN, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 749/16, decreto dittatoriale sulla riapertura
degli scavi di Pompei, Napoli 15 settembre 1860.
149
ASN, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 749/16, decreto dittatoriale sulla riapertura
degli scavi di Pompei, Napoli 16 settembre 1860.
148
50
metodo di conduzione dei lavori, istituendo il diario degli scavi dettagliato150 e
avviando una parallela opera di pubblicazione scientifica delle scoperte 151. In
città, prima di allora, i materiali di scarto erano stati accumulati accanto agli
scavi, fino a rendere la visita difficilmente praticabile. Inoltre, le strutture
erano state lasciate esposte alle intemperie prive di qualsiasi protezione e si
deterioravano rapidamente. Fiorelli avviò una imponente opera di sterro, che
permise finalmente di collegare con chiarezza le parti della città tra loro e
introdusse la toponomastica di Pompei in uso tuttora, che divise l’abitato in
Regiones e in Insulae, assegnando a ciascun ambiente su strada un proprio
numero civico. Fiorelli, inoltre, sperimentò il sistema dei calchi in gesso152,
che venne usato non solo per materializzare i corpi dei pompeiani morti
durante l’eruzione, ma anche per le piante nei giardini e per gli oggetti in
legno: ciò permise di conservare una traccia visibile anche degli elementi
decorativi antichi più deperibili153.
Pompei fu anche dotata di un proprio museo. Nel 1861, Fiorelli aveva fatto
richiesta di costruzione dell’edificio su progetto dell’architetto Gaetano
Genovese, che non fu mai eseguito per motivi economici154. In forme più
modeste, sfruttando un vano di ingresso già esistente sotto il fornice di porta
Marina, fu realizzata una galleria voltata con illuminazione zenitale con
lunghe file di vetrine sui lati. Al centro della galleria erano disposte le
impronte delle vittime di Pompei, che costituirono subito la maggiore
attrazione del piccolo museo.
150
Archivio Centrale di Stato (Abb. ACS), Ministero Pubblica Istruzione (Abb. MPI), Archivio
della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti (Abb. Dir.gen.aa.bb.aa., 1860-1890, I
Versamento), b. 44, Giornale degli scavi di Pompei, 1861-1865.
151
G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli 1861.
152
ACS, MPI, Dir.Gen. aa.bb.aa., 1860-1890, I Versamento, b. 251, Calchi in gesso, lettera di
G.Fiorelli al ministro della Pubblica Istruzione, F. De Sanctis, Pompei 3 febbraio 1862.
153
Ibidem.
154
G. Fiorelli, Appunti autobiografici, premessa a cura di Stefano De Caro, Sorrento, 1994, p. 167168.
51
ASAP C664, Antiquarium, sala di ingresso, 1914; ASAP C665, Antiquarium, sala
centrale, 1914; ASAP C666, Antiquarium, sala di fondo, 1914.
52
Dal punto di vista della fruizione degli scavi, dopo il periodo pionieristico,
quello
post-unitario
può
essere
visto
come
un
momento
di
istituzionalizzazione. L’istituzione della tassa fissa di ingresso regolò, per la
prima volta, la visita come attività ordinaria e un complesso gioco di relazioni
e di reciproche influenze tra gli indirizzi scientifici dello scavo archeologico e
le trasformazioni urbane al suo contorno conferì un peso sempre più
determinante a Pompei nella costruzione dell’impalcatura territoriale.
L’introduzione del pagamento di un biglietto per l’accesso ai musei,
monumenti storici e aree archeologiche ha accompagnato il passaggio da una
concezione illuministica, fondata su una prevalente missione di educazione
popolare, ad una diversa visione del museo inteso come complesso di servizi
culturali rispondenti a molteplici e differenziate esigenze consapevolmente
avvertite dal pubblico155. La crescita del numero dei musei, l’incremento delle
collezioni e dei costi di gestione, l’esigenza di contenere la spesa pubblica e di
valorizzare le potenzialità economiche connesse con il patrimonio culturale,
traendo
vantaggio
anche
dalla
crescita
del
turismo
internazionale,
gradualmente riportarono il dibattito su un terreno più concreto di analisi e di
valutazione delle tariffe in relazione alla domanda e alle politiche di gestione e
promozione del museo e delle aree archeologiche156.
I primi dibattiti relativi all’introduzione di una “leggera” tassa all’ingresso di
Pozzuoli, Baia, Pompei, Ercolano e simili risalgono al 1861: in particolare, il
Cav. Settembrini, Ispettore Generale degli Studi, con nota del 21 agosto 1861
inviata al ministro dell’Istruzione Pubblica, si rammaricava di non riuscire a
proibire la richiesta di mance che gli impiegati rivolgevano ai visitatori dei
diversi siti archeologici, a causa della scarsità degli stipendi ad essi erogati dal
Governo157.
155
A. Maresca Compagna, Criteri e modalità di accesso: la politica tariffaria dei musei statali,
Notiziario 62-64, Roma, 1998.
156
Ibidem.
157
ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., I Versamento, 1860-1890, b. 56, L. Settembrini, ispettore
generale degli studi al Ministro dell’Istruzione Pubblica, 21 agosto 1861.
53
In effetti, dal 1861, Settembrini propose di controbilanciare le spese attraverso
l’introduzione di una leggera tassa pari ad una lira158, per ciascun visitatore
di Pompei e luoghi simili, con proibizione, severissima, agli impiegati di
ricevere mance; il forestiero sarebbe stato contento di non pagare altro che una
lira e l’amministrazione avrebbe guadagnato tanto da aumentare gli
stipendi159. Secondo l’Ispettore Generale degli Studi, occorreva modificare il
regolamento interno avvisando i visitatori con un cartello, posto all’ingresso, e
distribuendone i proventi fra gli impiegati secondo i bisogni e le fatiche160.
Infine, l’istallazione del novello servizio avrebbe richiesto spese d’impianto,
quali registri, biglietti, bolli, accomodi e suppellettili per i locali di esazione e
ricovero delle guardie; poiché il sito di Pompei era già aperto ed accessibile da
ogni punto, i custodi sarebbero stati pagati con il ricavato delle tasse161.
Nonostante i propositi, risale al 27 maggio 1875 la legge n. 2554 che autorizzò
il Governo a riscuotere “ove non vi si opponga la loro collocazione
topografica”una tassa di entrata nei musei, nelle gallerie e negli scavi
archeologici in misura non superiore alle due lire a persona per gli scavi, e di
lire una per musei, gallerie e monumenti162. La stessa legge demandò a
successivi decreti l’elenco degli istituti con tassa d’ingresso e l’individuazione
del giorno della settimana (al massimo due) in cui era prevista l’entrata
gratuita163. Il provvedimento dispose l’iscrizione degli introiti nel bilancio
della Pubblica Istruzione, affinché fossero devoluti alla conservazione dei
monumenti, all’ampliamento degli scavi, all’incremento degli istituti che li
percepivano164. Le risorse così accumulate finanziarono anche gli uffici creati
dal r.d. del 28 marzo 1875, n. 2440, e riguardavano una Direzione generale
per gli scavi ed i musei di antichità di cui un successivo decreto emanato alla
stessa data, n. 2447,
approvava il ruolo del personale. L’ufficio ebbe
158
ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., I Versamento, 1860-1890, b. 57, Pompei tasse d’entrata, il
Ministro della Pubblica Istruzione al Soprintendente del Museo di antichità e scavi di Napoli,
Torino 30 agosto 1861.
159
Ibidem.
160
Ibidem.
161
Ibidem, il Soprintendente Direttore del Museo Nazionale e degli Scavi di Antichità, Principe di
San Giorgio, al Ministro della Pubblica Istruzione, Napoli 9 settembre 1861.
162
Ibidem, Pompei. Tassa d’entrata, 1875.
163
Ibidem.
164
Ibidem.
54
l’incarico di governare gli scavi intrapresi dallo Stato, di sorvegliare le
imprese promosse da altri enti o da privati, di tutelare oggetti e monumenti
antichi e di imporre il rispetto delle norme sull’esportazione limitatamente ai
beni di sua competenza; Giuseppe Fiorelli fu chiamato a reggere la nuova
Direzione generale, realizzando risultati positivi165.
Il nuovo Regolamento generale per la riscossione e per il conteggio della tassa
d’ingresso nei musei, nelle gallerie, negli scavi e nei monumenti nazionali,
approvato con r.d. 11 giugno 1885, n. 3191, su proposta dei ministri della
Pubblica Istruzione e per le Finanze, prevedeva alcune deroghe al pagamento
della tassa a favore di particolari categorie di visitatori, come avvenne nel
1885, in occasione della visita agli scavi di Pompei del Presidente della
Società Africana di Napoli, Nicola Lazzaro166. Per il detto regolamento erano
ammessi all’ingresso gratuito167:
 i professori di archeologia di scuole classiche pubbliche e di scuole
nazionali superiori di Belle Arti;
 gli artisti nazionali ed esteri;
 gli studenti di scuole superiori di Belle Arti;
 gli studenti delle facoltà di lettere durante i loro quattro anni di corso;
 gli alunni di istituti educativi che si presenteranno con il loro Rettore;
 i professori e gli alunni di istituti archeologici stranieri esistenti in
Italia;
 gli artigiani addetti alle industrie affini alle arti e al disegno;
 i sottoufficiali dell’Armata Regio Reale in divisa;
 i membri delle Commissioni Provinciali per la conservazione dei
monumenti e degli oggetti d’arte.
165
Ibidem. Il numero degli impiegati fu fissato a 12: il direttore generale, due commissari centrali,
un caposezione, un segretario di II classe, un ingegnere topografico, un archivista di II classe, due
scrivani, un usciere, due inservienti.
166
ASSAN, Visita del Presidente della Società Africana in Napoli agli scavi di Pompei, fascio
XIII B6, 3, telegramma del Ministro Fiorelli al Direttore degli Scavi di Antichità di Napoli, con
cui autorizza l’entrata gratuita, 10 novembre 1885.
167
ASSAN, Visita del Presidente della Società Africana in Napoli agli scavi di Pompei, fascio
XIII B6, 3, lettera priva di mittente inviata al Presidente della Conferenza Coloniale in Napoli, in
cui sono specificate le condizioni di ingresso gratuito ai siti archeologici.
55
L’esenzione dalla tassa d’ingresso era autorizzata dal Ministro dell’Istruzione
Pubblica e comunicata al Direttore degli Scavi di Antichità168; il Soprastante
di turno, a sua volta, trasmetteva al Direttore degli Scavi le tessere speciali e
personali169 per l’entrata libera agli scavi, esibite all’ingresso170.
Nella normativa ottocentesca, particolarmente interessante, fin dalla legge del
1875, appare l’individuazione di facilitazioni per i visitatori abituali (gli
abbonamenti settimanali, mensili ed annuali; per i giovani minori di dodici
anni vi era una riduzione del 50%) e flessibilità delle tariffe in giorni e periodi
diversi dell’anno171. Tuttavia, spesso, tale flessibilità era solo formale, poiché
nei giorni di entrata gratuita, i custodi offrivano ai visitatori lo spettacolo di
solo una parte molto limitata delle magnificenze pompeiane172. Inoltre,
l’originario divieto di rilasciare mance agli impiegati probabilmente non era
rispettato durante le visite di reali stranieri e nobili, i quali distribuivano
denaro a titolo di regalia per il servizio reso da custodi e scavatori. La somma
più generosa, di 400 lire173, fu elargita dalla Regina di Portogallo, che visitò
gli scavi di Pompei il 20 giugno 1883: le somme venivano ripartite dal
Soprastante di guardia, su incarico del Direttore degli scavi.
168
ASSAN, il Presidente della Società Africana invia un telegramma al Ministro della Pubblica
Istruzione per chiedere l’esecuzione di uno scavo e l’esenzione dalla tassa, fascio XIII B6, 3,
Napoli 10 novembre 1885.
169
ASSAN, Visita in Pompei dei Sovrani d’Italia e di Germania, fascio XIII B6, 13, il Ministro
Fiorelli all’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti. In occasione di tale visita,
saranno muniti di tessera speciale e personale i corrispondenti di giornali esteri ed italiani, Roma
24 aprile 1893.
170
ASSAN, Visita dei componenti il Congresso della Pace, fascio XIII B6, 10, il Soprastante
Guido Sifoni trasmette al Direttore degli scavi le tessere per l’entrata libera in Pompei, Pompei 12
novembre 1891.
171
A. Maresca Compagna, Criteri e modalità di accesso: la politica tariffaria dei musei statali,
Notiziario, 62-64, Roma 1998.
172
ASSAN, corrispondenza dell’Ispettore degli Scavi al Ministro, in cui critica il fatto che
durante i giorni di ingresso gratuito i custodi fanno visitare solo un tratto limitato dell’antica
città, fascio XIII B6, 18, Roma 3 agosto 1898.
173
ASSAN, Visita della Regina di Portogallo agli scavi di Pompei, fascio XIII B6, 2, 21 giugno
1883. Visita in Pompei del Sovrano di Russia, che ha elargito in favore degli operai 150 lire,
fascio XIII B6 3, Pompei 14 novembre 1885. Somma di 30 lire elargite dal Municipio Torrese,
fascio XIII B6, 5, Pompei 21 febbraio 1888. Visita in Pompei della Granduchessa Caterina di
Russia che ha elargito 80 lire, fascio XIII B6 7, Pompei 22 ottobre 1888. Visita in Pompei del
Sottosegretario di Stato Onorevole Fortis che ha elargito 50 lire, fascio XIII B6 8, Napoli 18
novembre 1889. Visita in Pompei dell’Onorevole Duca Guardia Lombarda che ha lasciato 50 lire,
fascio XIII B6 9, Pompei 4 agosto 1890. Visita in Pompei della Principessa di Svezia e Norvegia,
elargendo 75 lire, fascio XIII B6 11, Pompei, 19 maggio 1892. Visita in Pompei del Granduca di
Russia che ha elargito 50 lire, fascio XIII B6 20, Pompei 28 ottobre 1899.
56
L’arrivo della ferrovia, nel 1844, come prolungamento della prima linea
italiana, la Napoli – Portici, aveva già determinato una prima innovazione nel
modo di visitare gli scavi. L’ingresso si spostò a poca distanza dalla stazione,
nel luogo dell’attuale piazza Esedra174, da dove si accedeva in città, attraverso
un viottolo, vicino a Porta Marina175. Il nodo che si determinò tra ingresso agli
scavi e stazione ferroviaria diventò rapidamente un centro vivo: vi si
attestarono i primi hotel, che evocavano nel nome l’epoca del Gran Tour
(Suisse, Anglo-Americano) o le attrazioni della città, come l’hotel
Diomede176, nel quale si può forse riconoscere l’antica taverna del Lapillo.
Alcune azioni del racconto “Una fantasia pompeiana” di Wilhelm Jensen,
scritto nel 1903, ruotano attorno alla pacifica convivenza tra “Diomede”e
“Suisse” e alla distanza di questo centro con un altro albergo, quello del
“Sole”177.
Questo gruppo di alberghi ed attrezzature fu il primo nucleo urbano vero e
proprio, che nacque nelle aree adiacenti agli scavi per godere dei vantaggi
economici offerti dalla rendita di posizione e dal flusso crescente di
viaggiatori. Allora, la città moderna di Pompei ancora non esisteva come tale.
Il Casale di Valle, situato, approssimativamente, nell’area a nord-est degli
scavi, era un agglomerato poverissimo di case rurali, consolidatosi solo
successivamente alla costruzione del Santuario, iniziata nel 1876. Pompei
verrà riconosciuta poi come comune autonomo nel 1928178. Proprio quegli
alberghi ed il progressivo ingrandimento del borgo di Valle furono al centro di
un’aspra critica rivolta da Sogliano all’operato di Fiorelli, accusato di una
“supina noncuranza dell’avvenire degli scavi pompeiani”179: gli alberghi per
le molte servitù create nei confronti dell’area demaniale e il borgo di Valle per
174
In realtà piazza di Porta Marina Inferiore, ma usualmente denominata Piazza Esedra. Per evitare
equivoci con l’ingresso antico alla città, si continuerà ad operare la denominazione più comune.
175
“Due carri e sei operai occupati nell’aprire la strada che lateralmente passa davanti
all’ingresso principale del Tempio di Venere, onde facilitare la salita in questo Real sito a’
forestieri che si portano in Pompei co’convogli della strada di ferro”. G. Fiorelli, Pompeianarum
Antiquitatum Historia, vol. II, p. 431, 1860-64.
176
L’albergo sarà poi demolito per l’apertura della strada verso la stazione della Circumvesuviana
di Villa dei Misteri.
177
W. Jensen, 1903, p. 97 e p. 107. All’albergo del Sole prenderà alloggio anche Le Corbusier
durante il suo soggiorno a Pompei nell’ottobre 1911.
178
G. Longobardi, Pompei sostenibile, Roma ,2002, p. 45.
179
A. Sogliano, Guida di Pompei, Napoli, 1902, p. 100.
57
l’impossibilità di proseguire lo scavo dell’area suburbana e dei sepolcri ad est
di Pompei. A distanza di tempo, si può dire che la visione di Sogliano, guidata
prevalentemente da un criterio archeologico esteso alla scala del territorio,
fosse effettivamente di largo respiro. Successivamente, in un circolo vizioso,
l’edificazione si è progressivamente stretta intorno alla città antica limitando
la possibilità di procedere a espropri estesi e risolutivi180.
Alle diverse difficoltà di definizione del nodo urbano dell’odierna Piazza
Esedra contribuì anche, nel 1878, durante la direzione di Michele Ruggero
(1875-93), la cessione all’Amministrazione degli scavi di un tronco di strada
da parte della Provincia, probabilmente originata dalla necessità sia di
conferire un accesso più comodo agli scavi, sia di lasciar spazio alle
operazioni di sterro nell’area compresa fra i Teatri e Porta Stabia. Venne
tracciata, così, una variante alla strada borbonica di collegamento tra Napoli e
Salerno che divenne, non senza nuovi contenziosi181, interna all’area degli
scavi. Il nuovo tronco di strada determinò la fascia di forma affusolata oggi
occupata prevalentemente dalla pineta e dall’Auditorium, nella quale sorge la
chiesa di San Paolino, la cui forma cubica colpì Le Corbusier durante la sua
visita a Pompei, nel 1911182. Nell’area, parzialmente acquisita dal demanio,
furono realizzati gli uffici amministrativi degli scavi e furono accumulati i
terreni di scarico.
Il nuovo indirizzo dato ai restauri da Giulio De Petra (soprintendente direttore
nel periodo 1893-1900) aveva conferito un aspetto di forte impatto visivo alla
città, che tendeva a recuperare emotivamente l’immagine antica di Pompei, sia
nella scena urbana sia all’interno delle case. Gli edifici nuovamente ricoperti
come all’antica restituirono gradualmente coerenza al paesaggio pompeiano,
distinguendo con chiarezza lo spazio pubblico da quello privato, ma
soprattutto consentirono di non staccare più i dipinti e i mosaici per
180
A. Muscettola, Problemi di tutela a Pompei nell’Ottocento: il fallimento del progetto di
esproprio murattiano, Napoli, 2001, pp. 29-49.
181
“Il possesso di quel tronco di strada da parte dell’Amministrazione, se non è dubbio, richiede
però la più ampia e solenne dimostrazione giuridica”, Sogliano 1902. Il contenzioso fra
Soprintendenza Archeologica di Pompei e privati sulla titolarità di alcune aree derivanti dalla
dismissione della sede stradale dura ancora oggi.
182
W. Jensen, 1903, p. 39. All’albergo del Sole prenderà alloggio anche Le Corbusier durante il
suo soggiorno a Pompei nell’ottobre 1911.
58
proteggerli. Solo da allora chi visitava Pompei ebbe la percezione chiara di
una città completa in tutte le sue parti, con gli ambienti interni leggibili nella
loro integrità architettonica e decorativa, e gli effetti sul pubblico non si fecero
attendere. Sogliano, che ascrive a De Petra – e in parte anche a sé stesso – il
merito di aver restituito a Pompei l’interesse artistico e archeologico, cita lo
straordinario successo di pubblico del famoso mosaico del cave cenem che,
inosservato nel Museo di Napoli accanto a lavori molto più fini, ritornato nella
Casa del Poeta Tragico restaurata, fece lievitare i proventi annui della tassa di
ingresso da 60.000 a 100.000 lire183.
Una fase nuova, ma di breve durata, è segnata da un’innovazione
infrastrutturale, che infittisce ulteriormente la maglia territoriale intorno alla
città antica. Nel 1901, la Società Strade Ferrate Secondarie Meridionali
(SFSM) decise di costruire una nuova linea della Circumvesuviana, la Napoli
–Barra – Pompei - Poggiomarino, il cui tracciato passava a poche decine di
metri dalla porta di Nola, in corrispondenza della quale venne costruita una
stazione, soprattutto in considerazione del fatto che in quel periodo si stavano
scavando i quartieri settentrionali della città con l’intento di liberare le insulae
fronteggianti la via di Nola184. L’importanza del secondo ingresso, a porta
Nola, fu rapidamente ridimensionata con l’avvento alla direzione di Vittorio
Spinazzola, il quale bloccò gli scavi nella parte settentrionale della città e
concentrò gli sforzi sullo scoprimento di via dell’Abbondanza e quindi sul
collegamento dell’Anfiteatro, ancora isolato all’estremità orientale di Pompei.
Obiettivo questo che sarà raggiunto solo negli anni 1933-35 da Amedeo
Maiuri, il quale manterrà ininterrottamente la direzione degli scavi dal 1923
fino agli anni ‘60185.
183
ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., I Versamento, 1860-1890, b. 57, Pompei tasse d’entrata,
Relazione di Antonio Sogliano sui risultati dei restauri, 1902.
184
ASSAN, Il Direttore degli scavi di Pompei scrive al Direttore del Museo Nazionale di Napoli,
comunicando i lavori della SFSM, fascio XVIII B1, 7, Pompei aprile 1901.
185
A. Maiuri, Contributi all’ultima fase edilizia pompeiana, Roma, 1950, p. 21.
59
ASAP P389, Pianta di Pompei con le due stazioni ferroviarie e i relativi ingressi.
Gli edifici scavati fra il 1860 e il 1910186:
o Le scoperte del Fiorelli:
 Casa di Sirico (1862)
 Casa del balcone pensile (1862)
 Porta Marina (1863)
 Vicolo del Lupanare (1863)
 Casa di M. Lucrezio Stabia (1871)
 Tempio di Venere
 Casa di Epidio Sabino
 Casa del Citarista
 Casa di Epidio Rufo
186
G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli 1861.
60
2.3. DAL DIRETTORE DEGLI SCAVI MICHELE RUGGIERO AD
ANTONIO SOGLIANO
2.3.1. MICHELE RUGGIERO
Michele Ruggiero, collaboratore di Fiorelli, dal 1864, in qualità di architetto,
assunse la direzione degli scavi, nel 1875, e la tenne fino al 1893. Per lo
slancio dei lavori, per il nuovo orientamento nella conduzione dei restauri, per
i risultati delle scoperte, questo periodo fu tra i più felici di Pompei, ed ebbe
inizio sotto buoni auspici con la pubblicazione dei conti scoperti, due anni
prima, nella casa di L. Cecilio Giocondo (V, 1, 26).
Ormai lo scavo affrontava, dopo la messa a punto delle grandi articolazioni
dell’urbanistica pompeiana da parte di Fiorelli, i quartieri alti della città,
cercando di avvicinarsi alla porta orientale del decumano superiore, la Porta di
Nola187. Nel 1877-78, tutta la superficie delle terme centrali era scavata; le
terme apparirono incomplete perché la loro costruzione era successiva al
terremoto del 62; verso est fu scelta una delle più belle case (IX, 8, 3) per
consacrarla al diciottesimo centenario del tragico seppellimento. Vi si
scoprirono la statua del Satiro con l’otre e il dipinto di Bacco e del Vesuvio188;
si scavarono le insulae della regione IX (4, 5, 6, 7 nel 1877 e 8 nel 1880-81 e
1886-89), poi quelle della regione V sulla via di Nola e sulla via di Stabia (1
nel 1875-76; 2, 3, 4 nel 1881-87); riprendendo nel 1891 l’insula 2 si scoprì la
casa delle Nozze d’argento, un suggestivo esempio dell’architettura ellenistica
sulla casa pompeiana189.
Lo scavo più difficile e meritorio fu quello dell’insula 2 della VIII regione,
eseguito tra il 1883 e il 1891, nel quartiere in cui le case a piani si
appoggiavano al fianco dell’antica colata lavica. Nel 1886-87, si scoprì, lungo
la muraglia meridionale, un gruppo di tombe sistemate lungo una via che si
supponeva collegasse Pompei a Nocera; nel 1889 venne portata alla luce la
187
R. Etienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano 1973, p. 62.
M. Ruggiero, Dalla eruzione del Vesuvio dell’anno 79, Castellammare di Stabia, 1999, pp. 100102.
189
M. Ruggiero, Impronte pompeiane: note all’accademia di archeologia, lettere e belle arti nella
tornata del 5 febbraio 1889, Napoli, 1890, p. 67.
188
61
Porta Stabiana e si trovarono due tombe190. Fin dal 1878, Ruggiero era in
cerca del vecchio sbocco sul mare di Pompei e la scoperta di quarantotto
scheletri nella proprietà Valiante, verso il Sarno191, dimostrava che la
maggioranza delle vittime dell’eruzione si doveva cercare fra coloro che,
fuggendo attraverso le porte della città, non riuscirono a raggiungere il porto e
la costa192.
Ma il meglio dell’opera di Ruggiero risiede in una chiara visione del
fenomeno del seppellimento, e con i lavori di restauro egli seppe andare al di
là degli scrupoli di Fiorelli, pur rispettando le strutture originali. I suoi due
successi furono l’atrio della casa delle Nozze d’argento e la casa detta del
Balcone sporgente (VII, 12, 28). Su settecento pitture da lui scoperte, ne inviò
solo cinquanta al Museo di Napoli e ristrutturò il muro di supporto delle
pitture per conservarle sul posto193.
2.3.2. GIULIO DE PETRA
Giulio de Petra (1893-1901 e 1906-10) fu il successore di Ruggiero. La sua
fama di scienziato era solidamente fondata dopo la lettura e il deciframento
delle tabulae ceratae di L. Cecilio Giocondo194 e anche per la sua precedente
attività di ispettore degli scavi. Il settennato di de Petra merita di essere
qualificato tra i più attivi nella storia degli scavi di Pompei. I monumenti più
famosi furono portati alla luce: la casa dei Vettii (VI, 15, 1), la Casa di
Lucrezio Frontone (V, 4, 11) e quindi la villa dei Misteri.
Nei primi anni, con ragione, si continuò lo sgombero dei quartieri
settentrionali della città, cioè le Regioni V e VI. Nel 1893 venne finalmente
liberato dalla terra il grandioso cavaedium della casa delle Nozze d’argento
(V, 2); dall’agosto 1894 al novembre 1895 si scavò la casa che diventerà la più
bella dimora di Pompei e la più universalmente nota: la casa dei Vettii e tutta
190
Ibidem.
M. Ruggero, Degli scavi di antichità nelle province di terraferma dell’antico Regno di Napoli:
dal 1743 al 1876: documenti raccolti e pubblicati da Michele Ruggiero, Napoli, 1888, pp. 70-80.
192
M. Ruggiero, Dalla eruzione del Vesuvio dell’anno 79, Castellammare di Stabia, 1999, p. 108.
193
M. Ruggiero, Studi sopra gli edifizi e le arti meccaniche dei pompeiani, Napoli, 1872, p.40.
194
G. de Petra, Le tavolette cerate di Pompei rinvenute il 3 e 5 luglio 1875, Roma, 1876.
191
62
l’insula 15. Dal 24 febbraio al 14 settembre venne portata alla luce la piccola e
deliziosa casa di M. Lucrezio Frontone (V, 4, 11) e, nel 1899, fu parzialmente
liberata la casa detta dei Gladiatori (V, 5, 3) sulla strada di Nola.
Tra il 1897 e il 1898, fu portata alla luce una parte delle mura tra le torri X e
XI delle fortificazioni, preludio a future esplorazioni; si cominciò a scavare la
terrazza dietro la basilica, in cui furono rinvenuti i resti di un tempio dedicato
alla dea tutelare della città, Venus pompeiana. Qualche ricerca superficiale
venne effettuata anche nel tempio di Giove, in quello di Apollo e nella pretesa
prigione del foro195. Ma l’attenzione maggiore fu rivolta alle scoperte
importanti ed inattese nel suburbio e nella campagna di Pompei. Si rendeva
sempre più necessario risolvere i due problemi fondamentali dell’antica
topografia della città: la collocazione del pagus suburbanus e del porto antico.
In effetti, mentre a nord delle mura e della porta del Vesuvio, la scoperta di
un’iscrizione dei magisteri del pagus Augustus Felix suburbanus (ottobre
1897), di un bel mosaico detto dell’Accademia di Platone (luglio 1897), fece
sperare che si trattasse delle prime tracce del pagus più importante di
Pompei196; un privato Gennaro Matrone pretese di scoprire, nei terreni
paludosi a sud della città, il litorale ed il porto di Pompei; si trattava di una
villa marittima (1899-1901), che identificò con la villa di Cicerone, in cui
rinvenne un gruppo di scheletri dell’eruzione, tra i quali volle riconoscere
quello di Plinio. Interpretazioni così azzardate scatenarono numerose
polemiche e gravi dissensi tra i membri della direzione degli scavi.
Ulteriori e fortunati scavi privati fecero riaffiorare numerose ville, alcune delle
quali ornate di pitture e opere d’arte, preziose in quanto offrirono la prima
chiara visione dell’ager pompeiano. Questo primo periodo di de Petra è
segnato disgraziatamente da perdite dolorose, da scandalose speculazioni di
politici e mercanti che offuscarono ingiustamente l’onesta e austera figura di
Giulio de Petra.
Nel secondo periodo della sua direzione, dal 1906 al luglio 1910, vi fu la più
importante scoperta pittorica, quella della villa dei Misteri. De Petra si
195
G. de Petra, Due atti rinvenuti in Pompei: note lette all’Accademia di archeologia, lettere e
belle arti nel giugno 1899, Napoli, 1899.
196
Ibidem.
63
dimostrò l’innovatore più ardito nel sistema di restauro197. Formatosi alla
scuola di un architetto di qualità come Ruggiero e affiancato da un buon
tecnico come Cozzi, non esitò a fare restauri alle coperture e rifacimenti ai
muri che, all’epoca di Fiorelli, sarebbero stati sicuramente condannati e dei
quali si è potuto dire che avevano dato a Pompei il suo nuovo volto: il restauro
della copertura del peristilio della casa delle Nozze d’Argento (V, 2), del
peristilio e della sala della casa dei Vettii (VI, 5, 1), dell’atrio di una casa della
regione VI (15, 10), della casa di M. Lucrezio Frontone (V, 4, 11); si deve a
lui anche il rifacimento metodico dei giardini della casa pompeiana, altro
elemento essenziale della vita e del colore della città restituita alla luce.
2.3.3. ETTORE PAIS
Il grande storico Ettore Pais rimase poco tempo (25 marzo 1901-5 giugno
1905) alla direzione del museo di Napoli e degli scavi di Pompei; grazie al suo
energico intervento, venne posto un freno alle concessioni troppo compiacenti
di cui avevano beneficiato gli scavatori privati, interessati al commercio
clandestino delle scoperte rinvenute. Tuttavia il suo intervento fu di troppo
breve durata per permettergli innovazioni radicali nel programma dei lavori.
Fu riassorbito dalla riattivazione del Museo Nazionale, perché con
l’estromissione di studiosi e tecnici della direzione precedente, gli elementi
attivi scarseggiavano.
I lavori continuarono nei quartieri settentrionali della città, tra la regione V e
la regione VI, per completare lo scavo sul fronte della via Stabiana e di quella
di Nola. Nel 1901-02, vennero riportate alla luce le rimanenti strutture della
Porta Vesuvio, abbattuta, e del monumento essenziale per lo studio del
rifornimento idrico della città; si scavò anche l’ultima parte della via
Stabiana198. Quanto alle abitazioni, si continuò a scavare l’insula 4 della
regione V a fianco della bella casa di M. Lucrezio Frontone (V, 4, 11),
scoprendo due case, una delle quali prese il nome di casa delle Origini di
Roma, da un dipinto raffigurante la leggenda di Rea Silvia; i lavori
197
198
G. de Petra, Pompei: villa romana presso Pompei, Napoli, 1910, p. 67.
E. Pais, Recensioni e notizie, Napoli, 1910, p. 45.
64
proseguirono quindi nell’insula 3, che affacciava sulla via di Nola. Nel 1903,
scavando in via di Stabia, si scoprì la casa dell’Ara Maxima (VI, 15, 16),
molto importante per la conoscenza del culto romano di Ercole, e la preziosa
casa degli Amorini dorati (VI, 16, 7), il cui scavo sarà completato nel 1905.
Un esempio di grande casa patrizia, con uno dei più grandi atri tetrastili di
Pompei, fu offerto dalla casa di Obellio Firmo (IX, 10, 1-4), iniziato nel 1903,
ripreso nel 1905 e portato a termine nel 1911199.
La direzione di de Petra aveva accumulato spinose vertenze giudiziarie:
vertenze con i proprietari privati per la ripartizione e la stima degli oggetti
scoperti e vertenze con i proprietari delle diverse aree comprese nella zona
della città che finivano necessariamente con l’arrestare il normale progresso
degli scavi.
Alcune decisioni di Pais furono prese con intento polemico e tendenzioso,
come quella di non sopraelevare i muri delle stanze da coprire con tetti di
protezione. Egli giustificava questa misura che avrebbe condannato tutto ciò
che era stato fatto da Ruggiero in poi per la conservazione in sito della
decorazione e dell’arredo di Pompei.
Il desiderio di novità portò qualche risultato positivo: il vecchio sistema dei
carretti venne sostituito con un impianto fisso su binari che assicurò
definitivamente l’evacuazione delle macerie e il loro trasporto verso le terre di
bonifica vicino al mare200.
2.3.4. ANTONIO SOGLIANO
Sogliano aveva studiato sotto la direzione di Ruggiero e de Petra, al quale
credeva di succedere. Aveva anche esposto il suo programma di lavoro ai
Lincei, nel 1901: trasporto delle vecchie macerie lontano dalle mura della
città, esplorazione sistematica fuori Porta Vesuvio, ampliamento del museo,
199
Ibidem, p. 48-49.
ASSAN, Ferrovia Decauville, lettera priva di mittente inviata al direttore del Museo Nazionale
di Napoli e degli scavi di antichità in cui sono specificati i materiali per la locomotiva a
scartamento Decauville e la stima della spesa totale di lire 15.784, fascio XVIII B1, 7, Pompei
1911.
200
65
esplorazione del sottosuolo della città201. Acquistò la proprietà Grosso –
Ferrari che impediva la prosecuzione degli scavi in via dell’Abbondanza, ma
non poté condurre in porto i suoi progetti e sarà, successivamente, Spinazzola
a trarre profitto da questo acquisto.
Per cinque anni lo scavo rimase al punto in cui l’aveva lasciato de Petra;
Sogliano fece opera di consolidamento senza scavare un’insula nuova né una
casa nuova. Non proseguì gli scavi, come sarebbe stato augurabile, a nord
della casa delle Nozze d’argento (V, 2) fino alla linea delle mura, né ritornò
verso il decumano inferiore in via dell’Abbondanza. Occorre, tuttavia,
segnalare alcuni progressi oltre Porta di Nola, dove fu rinvenuto il sepolcro a
esedra di Esquillia Polla; fuori Porta Vesuvio, fu scoperto un gruppo non
meno importante di tombe, tra cui quella dell’edile Vestorio Prisco decorata
con scene ricavate dalla vita del defunto202. Un’altra parte della necropoli
sannita venne, infine, scoperta sotto il giardino della villa delle Colonne a
mosaico, una villa di cui non si riuscì a scavare l’intera area.
Durante la direzione di Sogliano, vennero poste in discussione alcune delle più
importanti questioni riguardanti l’archeologia pompeiana: la pretesa colonna
etrusca; lo studio architettonico della basilica; il nuovo esame delle strutture e
del piano del foro triangolare, quello della scena del teatro e della struttura
della fortificazione; nonostante ciò, la ricerca di Sogliano non ha contribuito a
gettare luce su questi oscuri problemi e neppure su altri dell’edilizia
pompeiana. Egli non ottenne grandi risultati, ostinato a ricercare una seconda
Pompei che sarebbe stata costruita dopo la catastrofe del 79203.
Più efficaci furono, in questi anni, i lavori di protezione e di restauro grazie
anche alla cooperazione di Cozzi, architetto degli scavi.
Sono di quest’epoca il restauro della casa delle Nozze d’argento (V, 2); il
riordinamento del peristilio della casa degli Amorini dorati (VI, 16, 7); la
ricomposizione del portico della casa di Sallustio (VI, 2, 4), del bagno della
villa di Diomede, del balcone del lupanare e soprattutto la protezione di
201
ASSAN, Programma di Antonio Sogliano presentato all’Accademia dei Lincei, marzo 1901,
fascio XVIII B1.
202
ACS, MPI, AA. BB. AA., I vers., busta 266, A. Sogliano, Relazione al Ministro della Pubblica
Istruzione degli scavi fatti dal dicembre 1902 a tutto marzo 1905, Roma 1906.
203
A. Sogliano, La rinascita di Pompei, Roma, 1916, p. 78.
66
numerose pitture grazie all’essiccazione dei muri e all’applicazione di una
lamina di piombo204.
2.4. IL FALLIMENTO DI ESPROPRIO MURATTIANO
Tra i tanti aspetti da approfondire ho ritenuto che il piano di esproprio della
città antica meritasse un esame più dettagliato poiché condizionò
l’esplorazione degli scavi lungo tutto l’Ottocento fino agli inizi del Novecento.
Già dal 1807, a seguito di una visita che Giuseppe Bonaparte205compì agli
scavi, si pose il problema della appartenenza dei terreni ai privati e del modo
contorto ed antieconomico con cui l’occupazione, sia di quelli in cui gli scavi
si praticavano sia di quelli impiegati come aree di discarica, veniva
indennizzata ai proprietari. Il problema si era già presentato nel 1792, ma
allora il La Vega antepose all’opportunità di acquistare suoli quello
dell’acquisizione e adeguamento della Taverna del Lapillo206, al fine di
assicurare ospitalità ai visitatori. L’Arditi fu incaricato di presentare un piano,
che prevedeva non solo l’esproprio della intera superficie della città antica ma
anche di un’area di discarica, intorno ad essa207. Il progetto, inizialmente
accantonato, fu ripreso, nel 1808, con l’arrivo a Napoli di Gioacchino e di
Carolina Murat, cui si deve la reale svolta nella conduzione degli scavi. Da un
computo più preciso, ottenuto grazie alla mappa catastale redatta da Pasquale
Scognamiglio, nel 1807, risultò che l’area degli scavi di Pompei assommava a
197 moggi cui erano da aggiungere 72 per l’area da lasciare libera attorno al
perimetro urbano208.
L’aspetto più brillante dell’operazione fu che essa venne realizzata a costo
zero, poiché ai proprietari veniva dato, in permuta, un appezzamento di
terreno proporzionato, appartenente ai monasteri soppressi di Scafati, di Angri
204
ACS, MPI, AA. BB. AA., I vers., busta 266, A. Sogliano, Relazione al Ministro della Pubblica
Istruzione dei lavori eseguiti in Pompei dal 1°giugno 1908 a tutto luglio 1909.
205
ASSAN, Visita agli scavi di Pompei di Giuseppe Bonaparte, fascio XIII B4, 1, Il Ministro
dell’Interno al Cavaliere Michele Arditi, Direttore del Museo Reale e degli scavi, Napoli marzo
1807.
206
G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia I, (Abb. PAH)addenda II, pp. 169-172.
207
G.Fiorelli, PAH I, addenda II p. 247.
208
Ibidem, p. 248.
67
e di Nocera. Nel 1811, l’operazione poteva considerarsi conclusa, pur restando
aperto un contenzioso con ventidue proprietari che, a causa della lontananza,
non accettavano la permuta con i terreni siti in Nocera. L’impresa non fu certo
facile e la documentazione209, che riguarda le vertenze protrattesi nel tempo
con vari proprietari, dimostra l’impegno che fu necessario porre in atto per
raggiungere lo scopo.
Occorre, di questa fase, analizzare alcuni dati che gettano luce sullo sviluppo
successivo della vicenda. Due furono i meriti maggiori dell’interessamento
della regina: da un lato una programmazione più rigorosa della conduzione
degli scavi, dall’altro, l’aver sottratto la pubblicazione dei risultati alla
privativa dell’Accademia Ercolanese. Il 15 giugno 1811, nonostante l’iniziale
parere contrario di La Vega e di Arditi, venne bandita l’asta per dare in
appalto lo scavo; ad assicurarsi il contratto fu Giuseppe dell’Aquila,
personaggio chiave di tutta la secolare vicenda successiva, con una stipula del
7 luglio 1811210. Anche se i lavori ebbero un’accelerazione, Carolina non ne
era ancora soddisfatta. Dopo un anno intervenne personalmente nel
programma di scavo con una lettera al ministro indicava una serie di
provvedimenti211 e nonostante il parere contrario di questi non retrocesse dalla
decisione di affiancare alla scavo dato in appalto quello da farli eseguire da un
corpo di “zapponi”, i militari del Genio; anzi decise di assegnare la somma di
1.000 ducati al mese (4.250 lire), in modo da istituire una sorta di gara di
efficienza. Il 2 ottobre 1812, emanò un decreto che deliberava, per gli ultimi
tre mesi dell’anno, un fondo di 20.000 lire, cifra molto elevata cui non veniva
garantita alcuna continuità. La regina, in visita agli scavi, in novembre,
dichiarò di essere molto soddisfatta dell’opera degli zappatori, mentre criticò
la lentezza del partitario. Questi venne sollecitato ad eseguire il lavoro
previsto, altrimenti si ricorrerà ad altra subasta cui né lui, né altri membri della
famiglia potranno prendere parte212. E’ quanto evidentemente avvenne,
poiché, agli inizi del 1813, oltre a dell’Aquila, che impegnava nello scavo
209
ASN, MDI I inv. 1007/3: Richieste di compensi dal 1809 al 1811; ASN, MDI I inv. 985Pompei 1808-1813. Compensi ai possessori.
210
ASN, MDI I inv. 1007/7; ASN, MDI II inv. 2267.
211
Ibidem.
212
ASN, MDI I inv. 1007/5.
68
centosessanta uomini, operava anche un secondo partitario, presente con
duecentottanta uomini213. Si deliberò anche come dividere il compito degli
scavi tra il partitario e gli “zapponi”, assegnando questi ultimi allo sterro del
circuito delle mura e della strada che si suppone congiungesse la Curia e il
Tempio di Iside con la Via dei Sepolcri.
Non risulta che questo secondo partitario abbia avuto vita lunga. E altrettanto
può dirsi degli zapponi: una laconica comunicazione di Arditi al ministro
Zurlo, del 10 maggio 1813, relaziona che, dal 20 marzo, essi furono richiamati
al loro corpo e che pertanto gli scavi furono scoperti per quanto concerne il
problema della custodia che essi avevano assicurata214.
Un dato importante da sottolineare è che la gestione amministrativa, sia della
permuta dei terreni sia degli scavi e dei pagamenti da effettuare al partitario,
venne assegnata all’Intendenza di Finanza e posta sotto il controllo di Raffaele
Minervini, membro del Consiglio degli Edifici Civili, nominato commissario
dell’Opera degli Scavi. Di ciò ripetutamente si lamentava l’Arditi215,
rivendicando a sé il progetto e la necessità del controllo e facendo presente che
Minervini si avvaleva dell’opera del Mansilli, divenuto cognato di dell’Aquila,
e che tale prassi non mutò nemmeno quando il controllo venne affidato ad
Antonio Bonucci, architetto direttore degli scavi.
Molti nodi vennero al pettine; Minervini accumulò un forte credito con la
Casa Reale, dovuto non solo alle sue spettanze pompeiane, ma anche ad altri
lavori eseguiti per la piazza davanti al Palazzo Reale, per il Monastero di San
Marcellino e altro. Murat non trovò altra soluzione che ricorrere alla cessione
a Minervini di tutta la cintura di terreni espropriati attorno alle mura di
Pompei. Il decreto, del 16 marzo 1815, sancì la decisione, facendo obbligo a
Minervini che tali terreni dovevano essere utilizzati per lo scarico delle terre di
risulta degli scavi216.
213
ASN, MDI Iinv. 1007/2; ASD, MDI II inv. 2271/13; PAH I, III, pp. 103 ss.
ASN, MDI II inv. 2271/13, comunicazione di Arditi al ministro Zurlo.
215
ASN, MDI II inv. 2273, gestione amministrativa, permuta di terreni e pagamenti.
216
ASSAN, I C4, 5. “Volendo compensare gli utili e lunghi servizii straordinari, prestati da
Raffaele Minervini per gli scavi di Pompei, Foro S. Gioacchino ed altro, sul rapporto del nostro
Ministro dell’Interno abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:
Art. 1: I terreni posti fuori il recinto delle mura dell’antica città di Pompei, da noi acquistati per
iscaricarvi le terre che si estraggono dall’interno della città medesima, sono donati a Raffaele
214
69
Con il ritorno dei Borbone, si tentò di recuperare tali terreni, omologandoli a
quelli dati in donazione all’epoca della “occupazione militare”. Inoltre ci si
accorse che a Minervini era stato concesso anche un terreno all’interno degli
scavi sul lato settentrionale, adiacente al fronte della regio VI, pur non
rientrando in quelli esplicitamente enunciati nel decreto di Murat, era
comunque stato conteggiato in quanto a lui dovuto, e risultava regolarmente
nello strumento notarile. Nonostante l’opposizione di Arditi, che cercò di
negare ogni diritto a Minervini ed, in ultimo, almeno quello del possesso dei
terreni interni alla città, due delibere della corte dei conti del 1818 dettero
finalmente ragione al Minervini217.
Il partitario di dell’Aquila, a cui si continuò a rinnovare l’appalto, aveva
cumulato negli anni 1813-1815 un credito di circa 10.000 ducati (42.500 lire)
che non gli si riusciva a saldare. L’intendente incaricò Minervini di verificare
l’esattezza del debito cumulato e non è improbabile che questi o
l’intermediario Mansilli suggerì a dell’Aquila una soluzione analoga a quella
praticata per il Minervini. Lo stesso dell’Aquila propose, infatti, di avere
terreni anziché soldi, e precisamente la parte settentrionale della città “la quale
non potrà essere scavata prima di cinquanta, o sessant’anni, contentandosi di
cedere i terreni stessi a misura del bisogno quando si dovranno scavare e per
lo stesso prezzo, che ora gli assegnerebbero”218.
Antonio Bonucci venne incaricato di eseguire la pianta sia per la definizione
dei terreni assegnati a Minervini sia per proporre la scelta di quelli da cedere a
dell’Aquila. Ma questa prima pianta, come purtroppo altre di quelle relative
alle varie vicende di vendite, permute e riacquisti, non è stata ritrovata219.
Minervini, a condizione che debbano essi servire allo scavo di dette terre, senza che possa in niun
caso competere al donatario escomputo di sorta alcuna per vendita perduta, né per proprietà
degradata.
Art. 2: Il Ministero dell’Interno è incaricato della esecuzione del presente decreto.”
217
ASN, MDI I inv. 1007/17, delibera Corte dei Conti, 1818.
218
ASN, MDI II inv. 2072/13, cessione terreni dell’Aquila; ASSAN I C4, 1.
219
ASSAN, I A5: ”Napoli 10 novembre 1816. Dall’Ingegnere direttore degli scavi di Pompei al
Sig. Cav. Arditi. Con suo pregiato foglio del 28 dello scorso maggio cor. Anno mi ha Ella
comunicate le disposizioni di S.E. il Ministro dell’Interno che venghi io incaricato di eseguire la
confinazione e la determinazione fra i terreni assegnati a D. Raffaele Minervini e quelli del
Governo che coprono la città med.a. In adempimento di siffatto incarico, mi do l’onore di riferirle
di aver eseguiti esattamente gli ordini dell’E.S.; vale a dire ho procurato primieramente di
riconoscere sulla faccia del luogo quel recinto delle mura di d. antica città che trovasi ora di già
di sterrato tanto nel lato settentrionale che in quello meridionale; indi poi passando negli altri
70
E’ evidente che, all’entusiasmo iniziale di Carolina, non era seguito un
rispondente impegno economico e la scelta di dare in appalto gli scavi, fin
dall’inizio, si rivelò greve di contropartite.
La soluzione adottata per Minervini era destinata infatti a diventare una prassi
con l’aggravante che il terreno assegnato a dell’Aquila, di circa 53 moggie di
estensione, venne distaccato all’interno della città, nella zona nord-orientale,
con l’unico obbligo di rivenderlo allo Stato al pari prezzo di quello valutato220.
Ma nel 1817, egli aveva accumulato un altro credito per quasi 6.000 ducati
(25.500 lire) e la soluzione fu la stessa già praticata. Arditi non accettò una
annuale sospensione degli scavi che avrebbe consentito di saldare il debito
senza altre rinunce territoriali, ma sarebbe risultata di grande disdoro per la
dinastia borbonica, per cui accettò la cessione di quasi 30 moggie di terreno al
dell’Aquila. Questi si era inoltre assicurato, nel dicembre del 1818, l’affitto
dei terreni posseduti dall’amministrazione221, e cioè quelli ad ovest
dell’Anfiteatro.
Lo scavo di Pompei tornò così ad essere asserragliato in una morsa di terreni
privati e la sua prosecuzione condizionata da continui patteggiamenti e
permute.
Una prima vertenza con dell’Aquila si aprì, nel 1822, su questioni concernenti
il pagamento dell’imposta fondiaria. Ne nacque un lungo contenzioso sulla
reale estensione dei terreni da lui posseduti, che rese necessaria l’esecuzione
punti del recinto medesimo sulle tracce che appariscono di alcune altre porzioni di d. mura, ho
marcato la linea dove potevano essere le rimanenti, ora invisibili per i terrapieni che le occultano
e che formar dovevano l’intiero recinto di essa antica Città; lasciando sempre qualunque
apparizione di antico edificio nel compreso recinto, quantunque potessero comparire Edifici
costruiti fuori delle mura secondo la direzione delle porzioni apparenti di esse. Fatta dunque una
tale primiera osservazione ho eseguito la seconda, ch’è stata quella di affiggere i termini lapidi e
tenor del Real decreto. Questi sono stati fissati nei luoghi dove non sono visibili le mura, e
propriamente nella linea da me marcata, giacché negli altri luoghi, le mura esistenti scoperte ne
formano visibilmente la terminazione come potrà ella il tutto bene osservare da una pianta, che io
le rimetto a bella posta per dimostrare con precisione la distanza di ciascun termine dai siti già di
sterrati dell’antica città e che separano i terreni appartenenti al Sig. Minervini, restando con ciò
essi soggetti allo scarico delle terre per la continuazione dello serramento di essa città. Mi fo
ancora in dovere di rassegnarle che nella med. pianta che io le rimetto, vi è ben anche separata la
porzione del territorio da distaccarsi a beneficio del partitario Sig. dell’Aquila; onde possa Ella
dopo essere stata sopra la faccia del luogo ad osservarne la situazione, con maggior precisione
distinguerle sulla pianta, a tenor di quanto io le promisi. Antonio Bonucci”.
220
ASSAN, I C4, 1.
221
ASN, MDI I inv. 1007/19, cessione terreni, 1818.
71
di una perizia da parte di Pietro Bianchi e di C. Franano 222. Nella relazione del
settembre 1822, il Bianchi sottolinea i problemi: ”La porzione della corte è
divisa da quella spettante al dell’Aquila da segni lapidei, me questi si fanno
camminare secondo il bisogno. Infatti se ne vedono tuttora smossi, ed
abbattuti. Dappiù si è accordato al dell’Aquila de’spazi per infruttiferi, che in
effetti non lo sono; una via che non gli spetta. Per rimediare a tali sconcerti, è
necessario che persona forte, e non soggetta ad impegni, faccia misurare al
dell’Aquila ciò, che sa gli è venduto, e che si ignora, facendo rimanere tutto il
di più alla R. Casa, munendolo di termini di fabbrica”223.Dell’Aquila contestò
il fatto che alla perizia non abbia presenziato un proprio rappresentante. Si
decise quindi, nel 1825, che la situazione dovesse essere riesaminata da due
architetti, di cui uno scelto da dell’Aquila. In mancanza di un accordo anche
dopo questa perizia, nel 1827, si addivenne ad una transazione e dell’Aquila
accettò di pagare 150 ducati (638 lire) dei 316, 40 (1.343 lire) richiesti.
Venire a patti con dell’Aquila era diventata un esigenza da cui dipendeva ogni
possibilità di proseguire lo scavo, sempre più condizionato dalle ristrettezze
economiche. Fu questo problema a suggerire di cedergli parte dei terreni che
aveva in affitto, e questo ancor prima che la vertenza sulla reale consistenza
dei terreni da lui posseduti fosse chiusa. A proporre tale soluzione fu Antonio
Bonucci, tuttavia la prassi era destinata a durare a lungo e a degenerare
ulteriormente224. A questa epoca appartiene anche la decisione di vendergli un
appezzamento superiore a quello necessario alla permuta, poiché parte della
somma ricavata dalla vendita, 500 ducati (2.125 lire), si sperava venisse
assegnata al restauro del Foro, secondo un progetto presentato non a caso
dall’architetto Carlo Bonucci, nipote di Antonio, nominato Architetto
Direttore degli Scavi nel 1828 e su cui la Commissione di Restauro darà
parere negativo225.
222
ASN, MDI II inv. 2072/13.
Ibidem.
224
M. Pagano, Pietro Bianchi archeologo: da architetto fiscale a direttore degli scavi di Pompei,
Napoli, 1990, pp. 151-160.
225
ASN, MDI, II inv. 2113/9. Il parere è trascritto in M. Pagano, Pietro Bianchi archeologo, cit.,
p. 153.
223
72
Un problema da risolvere con urgenza era divenuto quello della riacquisizione
del suolo interno alla città erroneamente ceduto al Minervini e restituito negli
anni Trenta, all’epoca della direzione di Pietro Bianchi.
Ritornando ai terreni di proprietà dell’Aquila, altri terreni, scavati dal 1836 al
1847 a sud della Via della Fortuna, vennero riscattati continuando a permutarli
con terreni nei pressi dell’Anfitetatro226. Quando, nel 1848, la Commissione
per la Riforma degli Scavi di Pompei ottenne, provvisoriamente, il blocco del
sistema dell’appalto, così D’Ambra denunciava l’operato di dell’Aquila: ”ma
che si deve attendere da un conduttore di appalto di opere pubbliche, vero
padrone di questi scavamenti da circa cinquanta anni, libero di qualunque
soggezione di superiori, o stipendiati, o gratificati da lui; arricchendosi ogni
giorno di più con le ricchezze acquistando maggiori mezzi di corruzione; ed
avido, insaziabile di ancora più grandi profitti e guadagni nel governativo
abbandono della cosa pubblica?Non si poteva altrimenti pascere la propria
avidità e l’altrui, che accelerando il tempo, impiegando pochi operai per
frutto di molti, usando materiali pessimi in luogo di ottimi, vecchi per
nuovi”227.
Già nel 1847 Fiorelli relazionò all’Avellino che dell’Aquila aveva
abusivamente occupato terreni statali presso Porta di Nola228.
Successivamente si stabilì, per la prima volta, che, anziché dare in permuta a
dell’Aquila altri terreni, sarebbe stato opportuno acquistarli. Le acquisizioni
continuarono ad essere realizzate in modo estremamente parcellizzato, tale da
consentire solo la prosecuzione immediata dello scavo229. Eppure, nel 1853230,
si decise di riscattare le circa 29 moggia di terreno, corrispondenti alla prima
cessione fatta a dell’Aquila, che questi aveva lasciato in eredità a tre figlie: ciò
significava non soddisfare le esigenze di scavo, ma frantumare in diversi
tronconi la proprietà, imponendo servitù di passaggio e zone di rispetto lungo i
confini, non consentendo di collegare internamente l’Anfiteatro al resto degli
226
ASSAN, I A 5, 1.
R. D’Ambra, Pompei: abusi, disordini e danni, Napoli, 1995, p. 18.
228
S. De Caro, Giuseppe Fiorelli e gli scavi di Pompei, in “A Giuseppe Fiorelli nel centenario
della mostra”. Atti del Convegno, Napoli 1999, pp. 5-23.
229
ACS, AABBAA I vers. B. 41, Scavi di Pompei.
230
ASSAN, I A 5, 2-4. La vendita è ricordata anche sul “Giornale del Regno delle due Sicilie”, in
data 26 gennaio 1853, p. 76.
227
73
scavi. L’unica possibile motivazione a tale scelta, riproposta costantemente
con dell’Aquila, era la difficoltà di misurare le rispettive aree di pertinenza.
Nel frattempo, anche la situazione dei suoli ceduti a Minervini fuori le mura
urbane divenne critica: in questo caso a rendere più complessa la situazione fu
anche il fatto che, nel corso del secolo, la proprietà venne frazionata in otto
appezzamenti, in buona parte venduti a diversi proprietari. Il primo settore a
presentare problemi era quello sud occidentale a ridosso della Basilica, la cui
situazione era ulteriormente complicata dalla presenza di una casa rurale che
veniva a trovarsi in un punto accessibile degli scavi. Una comunicazione di
Pietro Bianchi al ministro, nel marzo del 1839, segnalava come essa era
divenuta “l’albergo di non pochi disegnatori esteri”231. Come soluzione,
Bianchi propose di concederla in affitto: ”Di qui nascerebbe il vantaggio che i
forestieri non avrebbero l’opportunità di alloggiare tanto d’appresso agli
scavi”232. Il contratto venne di lì a poco stilato, quale espediente per porre un
freno a possibili ed incontrollabili accessi illegali alla città; con atto
successivo, Minervini fu costretto a fare della casa solo un uso personale. Nel
1846, Carlo Bonucci chiese al Ministero di imporre a Minervini di non scavare
le ceneri e i lapilli accumulati sulla sua terra, così come di trasportarli altrove.
Per garantire la sicurezza dello scavo su questo lato egli suggeriva anche che
si facesse divieto a dell’Aquila, che gestiva la Taverna del Lapillo, di
accogliere alcun artista o viaggiatore straniero. Lo stesso Bunucci fece
tracciare un solco tra i terreni dell’amministrazione e la proprietà del
Minervini: ne nacque un lungo contenzioso, poiché questi asseriva che non
erano rispettati i limiti stabiliti all’epoca della cessione. Ad aggravare la
situazione contribuì nel 1846 l’apertura di un nuovo accesso alla città, proprio
attraverso la proprietà e la casa di Minervini. Nel novembre 1847, il Ministero
dette mandato a Luigi Malesi, presidente dell’Accademia di Belle Arti, di
valutare la situazione. Nella sua relazione, mentre a più riprese confermava
che la casa insiste ed utilizza murature antiche, concludeva asserendo che essa
era al di fuori della città e che la Basilica rappresentava l’estremo limite
231
M. Pagano, Pietro Bianchi archeologo: da architetto fiscale a direttore degli scavi di Pompei,
p. 170.
232
Ibidem.
74
occidentale della stessa233. Una relazione dell’avvocato G. Rocco, funzionario
dell’Agenzia del Contenzioso della Tesoreria Generale, del dicembre 1849,
dimostrava le debolezze della perizia di Malesi, ma invitava a trovare una
soluzione conciliativa. Il Principe di San Giorgio che, nel frattempo, era
subentrato alla direzione del museo e degli scavi sottolineò, nel maggio 1850,
la necessità di procedere allo scavo per verificare l’andamento delle mura.
Dalle relazioni conservate234, vi è conferma che egli stesso indicò come
procedere, partendo dal limite occidentale del Tempio di Apollo (che allora
veniva definito Tempio di Venere).
A seguito di questi primi scavi, nel 1852, risultò evidente che i termini erano
erroneamente stati posti dal Bonucci nel 1816 e quindi l’avvocato del Real
Museo Borbonico, Michele Trentalance concluse che i terreni dovevano essere
rilasciati all’amministrazione235. Uno strumento, del 23 febbraio 1867, impose
a Minervini la restituzione dei suoli che “a giudizio dell’ingegnere direttore
degli scavi si sarebbero riconosciuti trovarsi entro le antiche mura di
Pompei236”, obbligando però l’amministrazione ad un risarcimento annuo che
invano si era cercato di addebitare al Ministero dell’Interno e a quello delle
Finanze. Nel 1889, si giunse alla vendita dell’intero terreno da parte di Giulio
Minervini, divenutone erede237. La valutazione fu capitalizzata a 1.705 lire,
ma risultando Minervini debitore verso il Ministero di 1360 lire, gli venne
pagata solo la differenza238. Nel frattempo era stato definitivamente abolito il
sistema dell’appalto, contro cui si era pronunciata la Commissione del
1848239. San Giorgio ripristinò la prassi e in pochi anni si successero ben
quattro appaltatori:
Lettieri, i fratelli Fiorentino, Riccio e Volpe. Dai
documenti conservati240 si riscontra non solo una rigorosa normativa sulla
conduzione e controllo dello scavo, ma anche un progetto, perseguito da
Fiorelli, nel 1862, di sgombero dei terreni di scarico che affogavano il
233
G. Fiorelli, PAH II, pp. 485 ss.
Ibidem.
235
ASN, MPI I inv. 437/11, parere dell’avvocato del Real Museo Borbonico, 1852.
236
Ibidem, restituzione dei terreni entro le antiche mura di Pompei, 1876.
237
ACS, AABBAA I vers. B. 39, Scavi di Pompei, 1861-1875.
238
Ibidem.
239
R. D’Ambra, Pompei, cit., p. 11.
240
ACS, AABBAA I vers. B. 39/67, Scavi di Pompei, 1861-1875.
234
75
perimetro della città. A proporre l’impresa fu Riccio con un progetto che
prevedeva l’uso di una ferrovia mobile e lo scarico dei terreni sul lido di Torre
Annunziata. Fiorelli, in un primo momento, appoggiò la proposta, che venne
approvata anche in un Consiglio di Stato del settembre 1862. Ci si accorse,
però, che la spesa prevista era esorbitante, di circa otto milioni di lire, e che
avrebbe comportato anche l’emanazione di una legge per la cessione a Riccio
della fascia demaniale sul litorale: lo stesso Fiorelli bloccò quindi
l’iniziativa241. Il documento evidenzia l’attenzione al problema da parte di
Fiorelli, anche se da ciò non deriverà una sua soluzione. Piuttosto, da allora
nacque un lungo contenzioso che si sarebbe iterato nel 1888, nel 1890, nel
1910, perché il Genio Civile continuava a sostenere che l’Amministrazione
degli Scavi, traendo dall’impresa il maggiore beneficio, era quella che ne
doveva assumere il maggiore onere finanziario242. Il progetto venne quindi
accantonato e solo negli anni cinquanta, nell’ambito delle iniziative che
potranno essere assunte con la Cassa per il Mezzogiorno, verrà risolto243.
Anche questa vicenda aveva accresciuto la diffidenza di Fiorelli verso il
sistema degli appalti che nel 1868 venne definitivamente abbandonato con il
ritorno al sistema in economia244.
241
ACS, AABBAA I vers. B. 39/67.16. Fiorelli al ministro della Pubblica Istruzione, 11 ottobre
1864: ”Lunghe e ripetute pratiche, come può rilevare la S.V.I. da precedenti serbati nel Ministero
sonosi scambiate fra questa Soprintendenza e il Ministro medesimo onde poter provvedere in
Pompei al deposito de’materiali risultanti dagli scavi, e sgombrare ad un tempo, in quell’antica
città, la cerchia dei cumuli di terreno che indecorosamente la circondano, e che furono creati, ad
ogni giorno aumentati, appunto co’materiali risultanti dalle annuali escavazioni. A raggiungere la
desidera meta mi recai nello scorso luglio costà per trattare verbalmente con il Ministero intorno
a questa pratica, e dopo matura e lunga discussione, agitatasi con l’intervento del Ministro de’
lavori pubblici, si convenne, che il miglior modo per raggiungere lo sgombero de’terreni dei quali
è parola, sarebbe stato quello di utilizzare tali terreni per lavori delle bonifiche circostanti a
Pompei. In seguito di tutto ciò il citato Ministro de’lavori pubblici ordinò ai suoi dipendenti, qui
in Napoli, di studiare e di progettare quanto era d’uopo al proposito. E’a mia notizia che la
commissione incaricata dal Ministro dei lavori pubblici va a presentare il suo lavoro. Prego
pertanto la S.V.I. a voler inoltrare, presso il lodato suo collega, i valevoli suoi uffizi, onde il grave
inconveniente sia con sollecitudine riparato, perocché come ho già esposto a codesto Ministero, io
non saprei da qui innanzi senza gravissima spesa provvedere al deposito risultatane dagli scavi
pompeiani, i quali correrebbero forse anche il pericolo di doversi interrompere, come ho già
esposto, e ripetutamente a diversi Ministeri dà quali ho avuto l’onore di dipendere per la
Soprintendenza del Museo e degli Scavi”.
242
ACS, AABBAA IV vers. I div .1908 - 1924 B. 121/272, Napoli. Conti e bilanci.
243
A. Maiuri, Gli scavi di Pompei nel programma delle opere della Cassa per il Mezzogiorno,
Napoli, 1951.
244
ACS, AABBAA III vers. B. 72, G. Fiorelli, Gli scavi di Pompei dal 1861 al 1872. Relazione al
Ministro della Istruzione Pubblica, Napoli, 1873, p. 2.
76
Nel 1898, fu riacquistato il fondo di Minervini estendendosi tra Porta
Ercolanese e quella del Sarno che era passato in eredità alla figlia Clementina,
sposata Barbatelli, con la spesa di 21.000 lire245.
Negli anni successivi, si programmò anche l’acquisto di alcune proprietà
ubicate tra il vecchio ed il nuovo tracciato stradale, operazioni che
continuarono fino agli inizi del Novecento senza particolari problemi.
Ancora due vaste aree restavano in mano ai privati. L’ampia zona interna alla
città rimasta di proprietà delle eredi dell’Aquila e divisa in due tronconi dalla
riacquisizione del 1852, e l’area esterna sud-orientale delle mura, ereditata da
un’altra figlia del Minervini, Angelina, e, dopo varie vicende, acquistata da
Giovanni Pacifico nel 1891246.
Particolarmente lungo e faticoso fu l’iter relativo alla proprietà dell’Aquila,
che condizionava il proseguo degli scavi247. La situazione interna alla città
divenne gravosa negli anni ottanta: lo scavo era giunto al Vicolo dei Vettii e
non poteva proseguire oltre. I tentativi di riscatto di due aree si scontravano
con l’intransigenza dell’ultima figlia di dell’Aquila, Carolina, che alle ripetute
richieste dell’amministrazione opponeva continua resistenza, facendosi forza
anche della presenza di un erede incapace di intendere e quindi dei problemi
giuridici connessi alla tutela dei suoi interessi.
La lunga relazione di De Petra al Ministero, nel 1896,
248
sintetizzava il
problema, e soprattutto evidenziava la situazione delicata in cui si trovava la
Soprintendenza, situazione che imponeva la ricerca di una situazione di
compromesso. La possibilità di accedere all’area dell’Anfiteatro dipendeva,
essenzialmente dalla disponibilità di passaggio attraverso i terreni di
dell’Aquila: la presenza di fasce di accumulo di terre di scarico, i cosiddetti
“rilevati”su cui correva la ferrovia249 che aveva sostituito i carretti per
245
A. Sogliano, Un nuovo orientamento da dare agli scavi di Pompei, Napoli, 1901, p. 383, n. 1.
ASSAN I C4, 5.
247
ACS, AABBAA III vers. B. 42, Pompei: scavi e scoperte, 1886-1890. La vicenda è
sommariamente ricostruita in Casina dell’Aquila. Recupero di un’ immagine. Mostra storica e del
restauro, Pompei 1985: a p. 10 erroneamente si asserisce che nel 1852 si era tornati in possesso di
tutta la proprietà dell’Aquila.
248
ASSAN, III C 1, 6.
249
Questo sistema fu incrementato da E. Pais che nel gennaio 1902 aveva acquistato una ferrovia
Decauville dall’ingegnere Graziadei. Il programma di un ulteriore ampliamento del servizio
coincise con l’allontanamento del Pais e determinò una vertenza con il Graziadei. ACS, AABBAA
246
77
scaricare fuori città le macerie, l’essersi portato lo scavo ai limiti dell’area
privata, senza rispettare una distanza necessaria ad evitare gli smottamenti,
erano tutti elementi che potevano venir impugnati dalla dell’Aquila e che
suggerivano di tenere bassa la guardia. Come De Petra sottolineava, con il
passaggio di proprietà ai Grosso - Ferrari si poteva sperare nella possibilità di
riprendere le trattative. Ma le sue proposte rimasero al momento inascoltate;
anzi, da parte del Ministero si fece presente che l’acquisto del fondo Barbatelli
aveva già pesantemente inciso sul bilancio e che quel terreno poteva essere
utilizzato per la prosecuzione dello scavo, come in effetti, seppur
parzialmente, avvenne. Così anche con i nuovi proprietari la situazione era
destinata ad inasprirsi, e questi richiesero il risarcimento dei danni e il
pagamento per l’area da espropriare.
Una sentenza del 1899 riconobbe il diritto alla retrocessione dell’area richiesta
da parte dell’amministrazione, me le impose il risarcimento dei danni. Venne,
di conseguenza, nominato un perito, l’ingegnere E. Donzelli dell’Ufficio
Erariale, che stese una memoria a stampa di ben centottantasette pagine 250. I
danni, computati dal 1876 al 1901, ammontarono a 31.151, 66 lire, o a 8.405,
27 lire se calcolati a partire dal 1896, e il ripristino dello stato precedente
comporta la spesa di 24.230 lire251.
La situazione si era fatta pesante e richiedeva una soluzione non più
procrastinabile. Appariva, finalmente, evidente che ogni proposta parziale non
avrebbe risolto il problema e sarebbe risultata, in proseguo di tempo, più
onerosa.
Nel 1905, giunsero a maturazione le trattative, ma l’iter per l’acquisto
dell’area al prezzo di 55.222, 85 lire, per una serie di contenziosi, prenderà
IV vers. I div. 1908-1912 B. 5/50. Altri riferimenti della ferrovia Decauville sono in ASSAN,
XVIII B1, 7.
250
ASSAN, III C1, 5: Memoria di E.Donzelli, p. 1: ”Rinvenute le ruine dell’antica Pompei, nella
metà del secolo 18°l’intera regione avrebbe dovuto sottrarsi al dominio privato, reintegrandola
allo Stato, vigile custode dei tesori d’arte nazionale; ma a tale concetto fondamentale non si fu
costantemente ossequienti, e oggi la presente controversia ritrae la sua origine dall’errore di aver
alienato a privati-sia pure con il patto di riscatto-, gran parte dell’antica Pompei, creando, nel
cuore degli scavi, una complessa rete di interessi e di diritti di privati, che attingono dalla legge e
dai contratti la guarentigia all’integrità ed assoluto dominio della cosa posseduta, senza che la
tutela del diritto di proprietà-sordo al sentimento d’arte-possa cedere il passo ad esigenze
tecniche, ed anche artistiche, per quanto collegate ad un monumento nazionale”.
251
ACS, AABBAA B. 2 III vers.
78
alcuni anni252. Il decreto ministeriale di approvazione della spesa fu infatti
emanato il 26 maggio 1907 e la presa di possesso dei suoli del 4 febbraio
1908.
Evento molto atteso da Sogliano253, che nel 1900 comunicava: ”essendo il
centro di Pompei occupato dal fondo già dell’Aquila, poi Grosso e Ferrari,
principal cura della Direzione fu di liberar Pompei dal condominio degli
estranei; ed alla fine del 1900 già la vertenza Grosso e Ferrari era in via di
soluzione favorevole agli interessi degli scavi”. Le relazioni degli anni
successivi continuarono a iterare la speranza in un imminente acquisto254.
Lo scavo di Via dell’Abbondanza, che rappresenta la dimensione
novecentesca dell’esplorazione di Pompei, non poté essere iniziato prima che
una commissione creata ad hoc non avesse risolto il problema della
destinazione delle terre di scarico255. La vasta impresa, che porterà in luce la
strada e finalmente consentirà di collegare, lungo l’asse viario antico,
l’Anfiteatro al resto della città, avrà inizio nel 1911. Nel frattempo, si era
aperto un contenzioso anche con il Pacifico256. La rilevanza archeologica
dell’area fuori Porta di Nocera era resa evidente dalla scoperta di alcuni
monumenti funerari avvenuta negli anni precedenti257.
Nel 1907, Pacifico avanzò una richiesta di 45.000 lire che apparve esagerata
al Ministero. Un opuscolo a stampa del novembre dello stesso anno, a nome
degli avvocati A. Freda e P. Giovene dell’Ufficio Erariale, riprese tutti gli
estremi del contenzioso, ricordando come, sulla falsariga dello strumento del
1867 con cui era stata imposta a Minervini la restituzione dei terreni che erano
risultati essere interni al perimetro della città, si voleva sostenere che anche “la
pubblica via avente origine dalla Porta Nucerina, fiancheggiata da monumenti
sepolcrali pompeiani, debba essere considerata quale parte integrante
252
Ibidem.
A. Sogliano, Sul nuovo orientamento, cit., p. 383.
254
ACS, AABBAA IV vers. I div .1902 - 1924 B. 121/272, A. Sogliano, Gli scavi di Pompei dal
1873 al 1900; ibidem, Dei lavori eseguiti in Pompei dal 1°aprile 1906 a tutto marzo 1908.
Relazione a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Napoli, 1907, p. 5.
255
Ibidem, A. Sogliano, Dei lavori eseguiti in Pompei dal 1°aprile 1907 a tutto giugno 1908.
Relazione a S. E. il Ministro della Istruzione Pubblica, Napoli, 1908, p. 8.
256
ASSAN, I C4, 5; ACS, AABBAA III vers. II parte B. 41, Scavi di Pompei.
257
ACS, AABBAA IV vers. I div .1902 - 1924 B. 121/272, A. Sogliano, Dei lavori eseguiti in
Pompei dal 1°aprile 1907 a tutto giugno 1908. Relazione a S. E. il Ministro della Istruzione
Pubblica, Napoli, 1908, p. 8.
253
79
dell’antica città”. Dal canto suo, Pacifico sosteneva che il suo fondo era ormai
giunto a saturazione e quindi non più utilizzabile come discarica. La sentenza
del dicembre 1907 si oppose a questa istanza, ma, al tempo stesso, condannò
la Soprintendenza a far eseguire le opere di contenimento e al pagamento dei
danni.
Nella
nota di
trasmissione,
l’avvocato
erariale invitava
la
Soprintendenza a non ricorrere in secondo grado e a procedere all’acquisto del
suolo.
Una legge del 24 dicembre 1908 stanziò la somma di 35.000 lire per
l’acquisto. Il contratto stipulato il 25 marzo e ratificato dal Ministero il 7
maggio, assicurava allo Stato quest’altra area, importante non solo per le
evidenze della necropoli che negli anni cinquanta sarebbero state portate alla
luce258, ma anche come area di rispetto contro il sempre più incessante
estendersi della città moderna.
Il percorso tracciato è valso ad evidenziare come il progetto di esproprio
murattiano, che si presentava come un processo estremamente moderno e
allineato alla cultura di tutela e rispetto, fosse nato senza radici. Mancava,
cioè, della consapevolezza di una scelta proiettata nel futuro e finalizzata a
garantire l’inviolabilità dell’area archeologica. Così, non appena la
situazione si intorbidì, e purtroppo le circostanze negative si presentarono
quando era da poco finita la fase degli espropri, non si trovò altra soluzione
che iniziare il processo a ritroso, in una progressiva e aberrante rinuncia
dell’opera compiuta.
258
A. D’Ambrosio, S. De Caro, Un impegno per Pompei. Fotopiano e documentazione della
Necropoli di Porta Nocera, Torino, 1983, p. 23.
80
3. L’EVOLUZIONE AMMINISTRATIVA DELLE ANTICHITA’ E
BELLE ARTI
3.1. GLI UFFICI DELLE AMMINISTRAZIONI PREUNITARIE
Gli stati regionali, malgrado carenze e parzialità, produssero un notevole
sforzo legislativo nella prima metà del sec. XIX. I governi elaborarono
principi generali e canoni di intervento che restarono a lungo il miglior
prodotto della cultura giuridica ed amministrativa in materia di belle arti.
Il limite della normativa preunitaria non risiedeva tanto in carenti enunciazioni
di principio, o nella individuazione dei fini, ma piuttosto nella scarsa idoneità
dei dettati a promuovere apparati esecutivi funzionali ed efficienti. Le diverse
istituzioni preposte al governo della materia agirono, molto spesso, in modo
del tutto scoordinato dipendendo da uffici diversi anche nell’ambito della
stessa compagine statale259.
In Piemonte, espletavano un ruolo dirigente, contemporaneamente, il
Ministero della Real Casa e quello della Pubblica Istruzione 260; in Toscana i
Ministeri dell’interno, dell’istruzione e della giustizia261; a Napoli la Real casa
e il Ministero degli Interni262; a Parma solo l’Interno; a Roma la Reverenda
camera apostolica prima, il Ministro dei lavori pubblici poi. La preminenza del
Ministero dell’interno dimostra come il problema della tutela sia stato a lungo
concepito come problema di amministrazione civile e, sotto certi aspetti,
anche di ordine pubblico. A Roma, dove era stata istituita una tassa sulle
esportazioni, il problema assunse connotati di ordine finanziario, sicché
l’amministrazione fu posta alle dipendenze della Camera Apostolica263.
Ovunque la pubblica istruzione esercitò un ruolo marginale quando non fu del
tutto assente. Le tipologie amministrative, di volta in volta poste in essere,
259
L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte. Raccolta di leggi, decreti e
regolamenti, circolari relative alla conservazione delle cose di interesse storico-artistiche e alla
difesa delle bellezze naturali, Roma, 1935.
260
C. F. Biscarra, Relazione storica intorno alla R. Accademia Albertina di belle arti in Torino,
Torino, 1873.
261
G. F. Gamurrini, Relazione storica del R. Museo in Firenze, Firenze, 1873.
262
G. Fiorelli, Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio. Memorie e notizie pubblicate
dall’ufficio tecnico degli scavi delle province meridionali, Napoli, 1879.
263
E. De Ruggero, Catalogo del museo in Roma, Roma, 1878.
81
testimoniano la difficoltà, allora riscontrata, di interpretare la natura, i bisogni
e l’autonomia specifica del settore. L’amministrazione attiva rimase
saldamente nelle mani di impiegati dell’amministrazione civile o della
pubblica sicurezza, mentre gli operatori tecnici furono relegati all’esercizio di
funzioni consultive che assunsero di massima la forma di commissioni. Del
resto non fu un caso se solo le legislazioni più organiche ed accorte, come la
lombarda264 e la lucchese265, avvertirono la necessità di creare amministrazioni
indipendenti. Il ruolo meramente consultivo affidato al personale specializzato
finì, quasi ovunque, per restringere gli interventi nell’ambito territoriale più
prossimo alle sedi delle amministrazioni centrali.
Nel Regno delle Due Sicilie, esisteva nell’ambito del dicastero dell’Interno, un
embrione di amministrazione attiva riconducibile alla Soprintendenza del
museo e degli scavi di Pompei. Si trattava di un ente dotato di personale e
risorse finanziarie con competenze territoriali assai limitate. La legge del 14
maggio 1822, relativa alla regolamentazione degli scavi, affidava al direttore
del museo il compito di sorvegliare gli sterri, da chiunque effettuati, tramite i
soci dell’Accademia Ercolanese o propri fiduciari. Il marchese Arditi, titolare
dell’ufficio, riuscì a creare una rete omogenea di ispettori, ma la mancanza di
poteri coercitivi non consentì alla struttura di funzionare; tuttavia la figura
dell’ispettore fu recuperata dalla normativa post unitaria e preposta agli scavi.
Sempre nel 1822, fu creata, a Napoli, una Commissione di antichità e belle
arti, incaricata del rilascio delle licenze di esportazione, che operò fino al
1860, quando con decreto del luogotenente Farini, in data 7 dicembre, le sue
competenze passarono alla Soprintendenza del museo266.
Un aspetto peculiare degli stati regionali fu quello di limitare i diritti della
proprietà privata solo in questo settore. I beni immobili risalenti all’età
classica subirono i vincoli di una legislazione che ovunque vietava
manipolazioni, distrazioni di materiale e la loro destinazione ad usi vili
264
In Lombardia operava, alle dirette dipendenze della Commissione centrale di Vienna, una
Commissione milanese che nominò, presso le circoscrizioni territoriali minori, propri fiduciari
denominati conservatori corrispondenti, con la funzione di raccogliere le informazioni necessarie
allo svolgimento dei compiti istituzionali. Solo in Lombardia la Commissione milanese unì alle
funzioni consultive anche funzioni attive, potendo altresì disporre di risorse finanziarie.
265
A Lucca operava una Commissione costituita da sei professori della locale Accademia artistica.
266
ACS, MPI, Dir.gen.aa.bb.aa., 1860-1890, Div. III, B. 490, fasc. 540, s.fasc.3.
82
prescrivendo, in taluni casi, e sia pure a pubbliche spese, la costruzione sui
fondi privati di strade finalizzate all’accesso del pubblico267. La disposizione
appare tanto più rilevante se si considera che gli immobili in generale
restarono addirittura estranei alle leggi di tutela, fatta eccezione per la
Lombardia austriaca dove la locale commissione ebbe competenza non solo
per gli stabilimenti pubblici o per gli edifici religiosi, ma perfino per le case
urbane ed extraurbane di ragione privata. In verità la commissione lombarda
deliberava anche in materia di pubblico ornato, vale a dire in un settore
antesignano della moderna urbanistica, ed i suoi deliberati avevano priorità
sulle decisioni delle autorità civiche268. Ma si trattò per l’appunto di eccezioni,
poiché nessun altro governo si era preoccupato di tutelare efficacemente gli
immobili monumentali. Solo nello Stato pontificio ci si limitò a raccomandare
una certa cautela nel procedere al restauro delle chiese più antiche269, mentre a
Napoli, l’indicazione riguardò pure gli edifici pubblici di uso civile270.
Prescindendo dai resti dell’architettura classica, la protezione riguardò quasi
esclusivamente i beni mobili, e neanche tutti, restando largamente esclusi
quelli di proprietà privata. Tra questi ultimi furono oggetto di protezione solo i
reperti esposti alla pubblica vista in ragione della loro collocazione271; nel qual
caso operava il vincolo della pubblica servitù e di conseguenza subentrava il
divieto di rimozione.
Verso l’intero patrimonio, sia pubblico che privato, vigeva generalmente il
divieto di libera esportazione, variamente articolato ed uniformemente
disciplinato tramite il rilascio di una apposita licenza da parte di specifici
267
Editto Pacca emanato il 7 aprile 1820.
Il decreto imperiale n. 5481-100 è l’unico testo normativo ottocentesco che si preoccupa
dell’intero patrimonio, mobile ed immobile, pubblico o privato che fosse, ed anche di questioni
urbanistiche. Concepisce una organica rete mussale strettamente connessa al territorio e non lesiva
degli interessi privati configurandosi anche come la legislazione più liberale allora vigente. Lo
Stato lascia ai privati, 50% al proprietario e 50% allo scopritore, la proprietà degli oggetti rinvenuti
nel sottosuolo. Non frena l’esportazione, limitandosi ad esercitare un semplice diritto di prelazione
in caso di trasferimento di proprietà a favore di cittadini stranieri.
269
Editto Pacca emanato il 7 aprile 1820, art. 14.
270
ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti, monumenti e scavi di antichità. R.d. 16
settembre 1839 contenente disposizioni per la conservazione e l’esportazione dei monumenti, art.
2.
271
Stato pontificio, editto del cardinale Doria Pamphili 2 ottobre 1802, art. 6; Regno di Napoli,
legge sulla conservazione ed esportazione dei monumenti 13 maggio 1822.art. 1; Granducato di
Toscana, legge sulla conservazione degli oggetti d’arte esistenti nei pubblici e nei privati edifici 16
aprile 1854, art. 1.
268
83
uffici. Il nulla osta assunse significati diversi col variare del contesto politico.
A Napoli, si configurava un regime vincolistico272. I divieti, tuttavia, restarono
aleatori poiché, in assenza di un censimento organico del patrimonio, non fu
mai possibile esercitare sui privati gli opportuni controlli e la repressione degli
abusi. Su questo piano, la legislazione preunitaria manifesta le carenze più
vistose. Benché il principio della catalogazione si fosse già affermato nella
cultura giuridica del tempo, solo a Roma divenne norma positiva,
limitatamente, però, agli oggetti di proprietà pubblica273; il relativo disposto
dell’editto Pacca fu, peraltro, nei fatti, abbondantemente disatteso. In realtà
pesò negativamente, e non solo nello stato pontificio, lo spirito liberale
dell’epoca per il quale pareva improbabile qualsiasi seria limitazione al diritto
di proprietà e più in generale qualsiasi serio regime vincolistico. Ne derivò che
le amministrazioni più moderne ed operativamente più efficienti scontarono il
peso dell’ideologia liberista, che si poneva in evidente contraddizione con
l’idea di tutela. A loro volta gli stati più conservatori annullarono i vantaggi
del regime vincolistico in ragione delle carenze di organizzazione
amministrativa.
In entrambi i casi, però, il liberismo giocò un ruolo preponderante, come si
evince anche dalla generale assenza di controllo che governò il regime degli
scavi274. Lo Stato rinunciava a vantare qualsiasi diritto su quanto rinvenuto
che restava proprietà degli imprenditori e dei proprietari del terreno, i quali
spartivano gli oggetti secondo percentuali, in linea di massima, definite
contrattualmente. E’bensì vero che l’autorità pubblica sorvegliava gli sterri,
ma solo per poter effettuare l’acquisto dei reperti più pregiati. Non aveva, del
resto, neppure facoltà di imporre uno scavo quando il proprietario del terreno
fosse stato insoddisfatto della remunerazione propostagli.
Dopo il 1860, tutti i soggetti giuridici ebbero la facoltà di intraprendere
ricerche archeologiche nelle aree di proprietà o acquisite alla loro iniziativa in
altre forme quali affitto, contratti pluriennali e così via. In pratica le difficoltà
272
Regno delle Due Sicilie, l. 13 maggio 1822, art. 3.
Editto Cardinale Pacca, art. 7. Regno delle Due Sicilie, legge 14 maggio 1822.
274
Stato pontificio, editto Pacca, art. 37; Regno Lombardo-Veneto, decreto imperiale 15 giugno
1846 n. 19704-834; Regno delle Due Sicilie, legge sugli scavi 14 maggio 1822, art. 5; Granducato
di Toscana, legge sugli scavi e sui rinvenimenti di antichità 5 agosto 1780.
273
84
finanziarie del Regno bloccarono a lungo qualsiasi programma statale 275 né si
riuscì a coordinare l’attività degli altri enti con funzioni culturali e
amministrative operanti nel settore, quali ad esempio i comuni e le province.
Qualche limitata campagna fu avviata, con scarsi mezzi, dagli istituti
universitari di archeologia i quali trovarono così modo di arricchire le loro
raccolte. L’iniziativa dello Stato rimase confinata ai comprensori di Pompei ed
Ercolano, ridotta piuttosto alla gestione dell’esistente che non all’avvio di
nuovi programmi di sterro e di recupero. La ricerca archeologica rimase
affidata all’iniziativa privata, strutturata in imprese che agivano a fini di lucro,
e, per molto tempo, costituì una vera e propria branca dell’iniziativa
economica276.
3.2. L’ORDINAMENTO DAL 1860 AL 1874
In assenza di una legislazione organica, acquistò importanza fondamentale la
prassi istaurata dagli uffici centrali e periferici. Nel primo periodo post
unitario, non era generalmente accettato il principio che l’amministrazione
preposta alla conservazione dei monumenti dovesse dipendere dal Ministero
della Pubblica Istruzione. Una ipotesi alternativa aveva sostenuto la
risoluzione del problema a favore del Ministero dell’Interno, poiché,
difettando uno specifico apparato tecnicamente competente ed adeguatamente
ramificato, la conservazione era già di fatto affidata, nella maggior parte dei
casi, a sindaci e prefetti, funzionari dell’amministrazione civile, i quali solo
avevano l’autorità per imporre la volontà dello Stato, potendo predisporre
anche misure coercitive. Bisognò aspettare il 1864277 allorché il Consiglio dei
ministri si pronunciasse definitivamente a favore del Ministero della pubblica
istruzione. Quest’ultimo fu organizzato con r. d. 11 agosto 1861, n. 202278, che
prevedeva l’impiego di un ministro, un segretario generale, un consultore
275
Nessuna somma fu stanziata per gli scavi nel bilancio dello Stato almeno fino al 1874.
La documentazione della Direzione generale antichità e belle arti a cavallo dei due secoli rende
ancora adeguata testimonianza circa l’incidenza del fenomeno; in particolare ACS, MPI,
Dir.gen.aa.bb.aa., III versamento, II parte, titolo I.
277
Bollettino Ufficiale della Pubblica Istruzione, anno 1874.
278
Ibidem.
276
85
legale, tre ispettori generali, tre ispettori semplici, due capi divisione di I
classe, due capi di divisione di II classe, sei capi sezione, oltre a segretari ed
applicati, per un totale di 43 persone ed una massa stipendiale pari a lire
236.521. Con modifiche intervenute nel 1863 a seguito del r.d. 20 settembre
1863, n. 148, il numero dei dipendenti salì a 60 in una struttura minuscola ed
agile nei suoi interventi, che nei primi anni si limitò ad elaborare le linee
politiche generali delegando la loro attuazione pratica alle tre Segreterie della
pubblica istruzione attive a Napoli, Firenze e Palermo279. Nel suo ambito, con
molta lentezza, si delineò un insieme di uffici e competenze riconoscibili
come amministrazione delle antichità e belle arti.
Nel 1860-1861, a livello centrale, operò la Divisione I competente su archivi,
biblioteche, accademie di belle arti, affari generali, personale amministrativo
ed insegnante, ed affari della Toscana per il periodo di autonomia280. Nel
1862, le competenze della Divisione I si differenziarono, articolandosi in due
sezioni. La prima fu competente per accademie di belle arti, musei, scavi,
congressi, scientifici, esposizioni, pinacoteche, accademie scientifiche e
letterarie, biblioteche, archivi, deputazioni di storia patria, teatri, affari
generali e personale del ministero. La seconda amministrò gli affari
concernenti il Consiglio superiore della pubblica istruzione281. L’anno dopo, si
aggiunse una nuova sezione, la terza, competente per il protocollo generale282.
Nel 1864, tutte le competenze, allargate all’annuario bibliografico ed ai posti
di studio per scienze letterarie ed arti, passarono alla Divisione II, fatta
eccezione per le sezioni seconda e terza e per gli affari generali rimasti alla
Divisione I283. Nel biennio 1866-1867, l’organigramma delle competenze fu
ristrutturato ancora, per approdare ad una configurazione che restò immutata
fino al 1874, assicurando il governo di belle arti, antichità, conservatori
musicali, accademie e corpi scientifico e letterari, biblioteche non universitarie
ed archivi284. La direzione rimase costantemente affidata a Giulio Rezasco. In
279
Ibidem.
MPI, Annuario, 1860-1861, p. 16.
281
Ibidem, 1861-1862, p. 4.
282
Ibidem, 1862-1863, p. 16.
283
Ibidem, 1863-1864, p. 3.
284
Ibidem, 1866-1867, p. 8.
280
86
una prima fase, il personale fu costituito, in prevalenza, da impiegati di origine
piemontese, la cui formazione era di carattere giuridico – amministrativa. Il
quadro cominciò a mutare, nel 1874, quando al vertice degli apparati
comparvero dirigenti provenienti da aree geografiche differenziate e di
formazione tecnico – scientifica, inaugurando una tradizione che si protrarrà
ininterrottamente fino agli anni Trenta del nuovo secolo.
3.3. ITALIA MERIDIONALE
Nel 1860, la caduta del Regno delle Due Sicilie comportò la semplificazione
dell’apparato amministrativo preposto alle arti. Il decreto luogotenenziale del
7 dicembre sciolse la commissione di belle arti e trasferì i poteri dell’ufficio
alla direzione del Museo di Napoli,
285
meglio nota con la denominazione di
Sovrintendenza. L’avvenimento, tuttavia, non si tradusse nel potenziamento
della efficienza burocratica, poiché l’assenza di apparati periferici nel
territorio provinciale continuò a paralizzare l’attività pubblica. Non di meno la
struttura facente capo al museo nazionale difese tenacemente le sue
prerogative benché riuscisse a fronteggiare, con difficoltà, appena i bisogni
della regione campana. La direzione rifiutò di inserire i suoi lavori nell’ambito
dei programmi ministeriali fino a che, nel 1864, il ministro della pubblica
istruzione fu costretto a rivolgersi di persona al sovrintendente Fiorelli per
essere informato sulle attività e sulla organizzazione interna dell’istituto 286. La
capacità di opporsi allo sforzo centralizzatore derivava dalle dimensioni stesse
dell’ufficio, che, nel 1866, arrivò a contare 106 dipendenti, 287 potendo reggere
agevolmente il confronto con l’intera organizzazione centrale del ministero.
Al vertice dell’apparato si trovava il Consiglio di sovrintendenza formato dal
sovrintendente e da due ispettori che furono collettivamente responsabili per la
285
Decreto luogotenenziale 7 dicembre 1860, che abolisce la commissione di antichità e belle arti.
Leggi, regolamenti, decreti e circolari, relativi alle antichità e belle arti.
286
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 490, fasc.540, s. fasc. 4, lettera del Ministro
della Pubblica Istruzione al sovrintendente Fiorelli, Roma 1864.
287
ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti, (1861 – 1891), monumenti e scavi di antichità,
Indice generale 4, R. D. 22 aprile 1866, n. 2880, che approva il ruolo normale degli impiegati del
museo nazionale di Napoli, dell’officina dei papiri ercolanensi e degli scavi di antichità nelle
province napoletane.
87
gestione dei fondi, per la programmazione degli scavi, per il governo degli
acquisti e per il rilascio delle licenze di esportazione. L’autorità del Consiglio
fu assoluta e quasi di tipo militare, poiché i subalterni furono obbligati ad
eseguire comunque gli ordini e solo in seconda istanza poterono inoltrare
reclami ed esprimere dissensi288. I poteri del sovrintendente coincisero,
largamente, con le competenze del Consiglio che egli personificava tra una
sessione e l’altra delle riunioni. Accanto a lui ebbe grande rilevanza il
segretario amministrativo che governava il personale estraneo ai ruoli tecnici
svolgendo delicate mansioni che gli consentivano di penetrare nei recessi più
riservati dell’attività istituzionale. Egli, infatti, registrava le delibere del
Consiglio, curava la corrispondenza e ordinava l’archivio suddiviso nelle tre
sezioni degli scavi, del museo e delle esportazioni289. Gli ispettori, invece,
furono responsabili, rispettivamente, degli scavi e del museo. Nel 1878, fu
istituito un ispettorato anche per la pinacoteca nell’ambito, però, di una
struttura burocratica già largamente modificata. L’ispettore del museo fu
delegato a curare gli affari concernenti la conservazione, sicché vigilava sul
ricevimento degli oggetti, presenziava al riscontro biennale dei cataloghi,
firmava le licenze di esportazione e dirigeva i restauri. Gli impiegati più
numerosi a lui subordinati furono proprio i 26 conservatori addetti alla pulizia
delle sale e segnalare la necessità delle raccolte290. Il coordinamento del
servizio fu affidato al controloro il quale, a sua volta, era un impiegato atipico.
Esercitava, infatti, funzioni direttive su tutto il personale di grado inferiore, tra
cui gli uscieri, gli inservienti ed il portinaio, ma curava, anche, la
conservazione in generale delle raccolte e la manutenzione dell’edificio,
avvalendosi di un architetto specificamente assunto con questa mansione291.
L’ispettore archeologico organizzava il servizio degli scavi essendo obbligato
a recarsi due volte alla settimana a Pompei ed una volta a Capua, Pozzuoli o
Ercolano, dove vigilava sulla corretta esecuzione degli ordini e sul rispetto
della disciplina. Egli fruiva di ampia autonomia essendo solo obbligato ad
informare il sovrintendente ed il Consiglio sulle scoperte effettuate,
288
Ibidem.
Ibidem.
290
Ibidem.
291
Ibidem.
289
88
rispettivamente con frequenza quotidiana e settimanale292. Il personale a lui
subordinato comprendeva i due architetti, i disegnatori, il soprastante, i
custodi, gli operai ed i manovali. Gli architetti operarono rispettivamente a
Pompei ed Ercolano con l’obbligo, almeno per il primo, di residenza in
sede293. Le loro mansioni annoverarono la direzione pratica dei lavori,
l’esecuzione di piante e disegni, la compilazione del rapporto giornaliero e la
sostituzione delle strutture murarie distrutte con copie di gesso. Il soprastante
coordinava operai e manovali, vigilava sui reperti e compilava il Giornale
degli scavi. I custodi, infine, esercitavano la funzione di guide accanto ai
compiti di sorveglianza294.
La struttura varata nel 1860 conservò il monopolio amministrativo su tutta
l’Italia meridionale almeno fino al 1866, quando il r.d. del 15 agosto, n. 3164,
ridimensionò la sua autorità sottraendole numerose competenze. Questo
provvedimento istituì a Napoli la commissione conservatrice dei monumenti a
cui furono trasferiti i poteri relativi agli oggetti d’arte e agli immobili
medievali e moderni, lasciando alla sovrintendenza solo il governo degli scavi
e del museo. L’evento incise profondamente sulla organizzazione burocratica
perché, accanto al servizio consultivo, la commissione conservatrice
napoletana esercitava funzioni attive, differenziandosi in misura cospicua
dagli uffici consimili diffusi in altre regioni. La deputazione provinciale
stanziò, annualmente, a suo favore la considerevole somma di 6.000 lire, che
le consentì di provvedere ai monumenti senza dover umiliare sistematicamente
competenza ed autorità di fronte alla prefettura295. Giuseppe Fiorelli fu
nominato primo presidente della commissione conservatrice per rinnovare gli
apparati senza intaccare il suo prestigio. La stessa sovrintendenza, del resto, si
appagò di continuare a governare solo il servizio archeologico ben lieta di
ritagliarsi un’area di esclusiva competenza in tempi di ristrutturazioni
accelerate. La commissione conservatrice fu composta da 12 membri
organizzati nelle 4 sezioni di pittura, scultura, architettura ed erudizione
storico – artistica. I primi commissari furono per la pittura A. Franchi, C.
292
Ibidem.
Ibidem.
294
Ibidem.
295
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 490, fasc.540, s. fasc.4.
293
89
Guerra e Sambiase Sanseverino, per la scultura T. Solari, T. Angelici ed I.
Rodinò, per l’architettura M. Ruggero, E. Alvino ed A. Maltese, per
l’erudizione storico – artistica P. Imbriani, C. Minieri Riccio e G.
Minervini296. Negli anni seguenti, Minervini fu anche nominato ispettore
archeologico per la provincia di Napoli diventando, in sede locale, il fiduciario
di Fiorelli dopo la sua ascesa al vertice della neonata Direzione generale degli
scavi297. Gli avvenimenti napoletani stimolarono l’istituzione di commissioni
conservatrici nelle altre province campane restringendo ulteriormente lo
spazio della sovrintendenza. Il r.d. 21 agosto 1869, n. 5251, istituì la
commissione di Caserta che ricalcava largamente il modello partenopeo nelle
mansioni esercitate e nella organizzazione interna. La presidenza, tuttavia,
venne affidata al prefetto che coinvolse nel servizio l’amministrazione civile
delegando ai comuni la sorveglianza sui monumenti. I funzionari tecnici
arrivarono appena ad occupare la vicepresidenza assegnata a G. Minervini, il
quale, sommando gli incarichi di Napoli e di Caserta, diventò la figura
emergente della amministrazione campana. L’ufficio dedicò cure particolari
alla tutela dei reperti archeologici e, nel 1870, propose l’istituzione di un
museo campano a Capua. Questa città fu preferita a Caserta, poiché, nel
capoluogo, era già attivo un istituto comunale fondato nel 1868, con la
dotazione annuale di 200 lire298. Giuseppe Fiorelli appoggiò, senza riserve, la
creazione di musei comunali e provinciali per invertire la tendenza
accentratrice della amministrazione borbonica che nei decenni precedenti
aveva impoverito il patrimonio provinciale trasferendo i reperti a Napoli e
trasformando gli istituti della capitale in uffici privi di specializzazione e
scarsamente fruibili sul piano didattico. Al contrario, egli si oppose alla
diffusione delle commissioni conservatrici che gli sembrarono inutili essendo
appesantite da un numero eccessivo di funzionari. Le ristrettezze finanziarie e
le carenze di personale specializzato consentivano, a mala pena, di perseguire
modesti risultati sicché, a suo avviso, era meglio creare una amministrazione
periferica molto ristretta ed affidata alla responsabilità di una sola persona in
296
Ibidem.
ACS, MPI, Personale 1860-1880, Parte II, B. 489.
298
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 187, fasc. 28, s. fasc. 1.
297
90
modo da garantire maggiore agilità agli interventi ed un migliore controllo
tecnico299. In pratica, il funzionario periferico avrebbe trasmesso informazioni
agli uffici centrali dove tecnici di sicuro affidamento avrebbero deliberato sul
da farsi delegando ai prefetti le mansioni operative. L’opinione di Fiorelli fu
espressa, nel 1868, quando la dispersione delle antichità di Rugge fece nascere
negli uffici ministeriali l’idea di varare una commissione in provincia di
Lecce. Nonostante l’opposizione del sovrintendente il progetto arrivò in porto
con r.d. 21 febbraio 1868, n. 4906. Fiorelli, tuttavia, non aveva tutti i torti
poiché le circostanze che egli lamentava aprirono lacune vistose nella struttura
amministrativa delle regioni meridionali. Tra il 1873 ed il 1874, si costituì la
commissione conservatrice di Salerno con una dotazione annuale di 1.000 lire.
L’ufficio lavorò poco e male. Un suo funzionario, Pecori, poi nominato anche
ispettore archeologico, si sforzò invano di compilare l’inventario generale
degli oggetti d’arte300. Nel 1875, il Ministero degli interni concesse il
riconoscimento alla commissione provinciale di Catanzaro, affidando la
direzione al presidente dell’Accademia di scienze, lettere ed arti, per diritto di
carica. L’ufficio era sorto, nel 1863, emanazione dell’accademia stessa, e nel
1864 si era trasformato in organo della deputazione provinciale che finanziava
le sue attività. Dovette, tuttavia, aspettare 11 anni per ottenere il benestare del
dicastero competente301.
Le altre province restarono prive di qualsiasi struttura burocratica preposta
alle antichità e belle arti.
299
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 187, fasc. 28, s. fasc. 1.
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 586, fasc. 997, s. fasc. 1, 2, 3.
301
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 441, fasc. 170.
300
91
Apparato amministrativo preposto alle arti dopo il 1860
92
3.4. L’ORDINAMENTO AMMINISTRATIVO DAL 1875 AL 1880: LA
DIREZIONE GENERALE DEGLI SCAVI E MUSEI DI ANTICHITA’
L’assetto acquisito dagli uffici, a seguito del r. d. 2032 del 1874, che avrebbe
anche potuto stabilizzarsi per un lungo periodo di tempo, fu invece rimesso in
discussione
l’anno
seguente,
con
la
creazione
di
una
specifica
amministrazione preposta al governo dell’attività archeologica, che sembrava
piuttosto
penalizzata
entro
l’apparato
delle
commissioni
consultive
conservatrici, mentre, la sensibilità dell’epoca poneva questa disciplina in
rapporto privilegiato rispetto alla cultura artistica. Il 1875 resta, comunque,
una delle date critiche nella storia degli uffici preposti alle cose d’arte e
d’antichità. Durante quest’anno, infatti, non solo fu posto in essere un
apparato finemente robusto e capace di intervenire con sufficiente efficacia,
ma furono anche stanziate le risorse finanziarie necessarie all’espletamento del
servizio. In precedenza, l’amministrazione era stata travagliata da cronica
ristrettezza. Mentre, infatti, tra il 1861 ed il 1874, il bilancio dello Stato aveva
raddoppiato le previsioni di spesa passando, rispettivamente, da 840 a 1.540
milioni di lire302, gli stanziamenti a favore della Pubblica Istruzione passarono
da poco più di 15 a 22 milioni, dopo essere rimasti, però, costanti lungo tutto
lo scorcio degli anni ’60303. Tali somme costituirono le più modeste voci di
spesa dell’intero bilancio statale fatta eccezione per le previsioni riservate al
Ministero dell’agricoltura ed al Ministero degli esteri. In particolare le risorse
destinate alle antichità e belle arti subirono addirittura una contrazione per
recuperare, solo nel 1874, il livello del 1861, di circa 2 milioni di lire304. Nel
1874, comparve, anche, per la prima volta, tra le specificazioni delle uscite, la
voce scavi con una cifra pari a 300.000 lire305. A questa si aggiunsero nel 1875
i gettiti della tassa di entrata dei musei, introdotta con r. d. del 27 maggio, n.
2554306. Il provvedimento dispose l’iscrizione degli introiti nel bilancio della
Pubblica Istruzione affinché fossero devoluti alla conservazione dei
302
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. I, B. 33, Conti e bilanci, 1874-1880.
Ibidem.
304
Ibidem.
305
Ibidem.
306
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. I, B. 57, Pompei. Tassa di entrata, 1875.
303
93
monumenti, all’ampliamento degli scavi, all’incremento degli istituti che li
percepivano, o di altri consimili, attivi nella medesima città. Le risorse così
accumulate finanziarono anche gli uffici creati dal r. d. 28 marzo 1875, n.
2440, che istituiva una Direzione generale per gli scavi ed i musei di antichità
di cui un successivo decreto emanato alla stessa data, n. 2447, approvava il
ruolo del personale307. L’ufficio ebbe l’incarico di governare gli scavi
intrapresi dallo Stato, di sorvegliare le imprese promosse da altri enti o da
privati, di tutelare oggetti e monumenti antichi e di imporre il rispetto delle
norme sull’esportazione limitatamente ai beni di sua competenza.
Le articolazioni periferiche furono organizzate su doppia istanza, sicché da un
lato operarono gli ispettori locali e dall’altro gli uffici tecnici. La figura
dell’ispettore riproponeva un modello di burocrate già sperimentato senza
successo dal cessato governo borbonico, negli anni Venti. L’innesto del nuovo
apparato, voluto da Giuseppe Fiorelli, che fu chiamato a reggere la nuova
Direzione generale, diede risultati positivi. Gli ispettori furono posti a capo di
circoscrizioni territoriali piuttosto modeste, nel cui ambito esercitarono
formalmente un ampio mandato. Rispetto alle commissioni provinciali
conservatrici dei monumenti, operando su zone poco estese, poterono
assolvere le loro mansioni senza la necessità di spostarsi e neanche di ricorrere
a faticose mediazioni, poiché non condivisero con terzi l’onere dell’ufficio. La
rete ispettiva, posta alle immediate dipendenze del direttore generale, ricoprì
l’intero
territorio
nazionale
assicurando
agli
uffici
centrali
pronta
informazione ed agile capacità di intervento308.
I suoi compiti contemplavano la vigilanza circa il rispetto delle leggi nelle
ricerche eseguite dallo Stato o da privati, la cura per l’integrità e la
conservazione dei reperti, la direzione dei soprastanti, custodi e semplici
operai quando non erano posti alle dipendenze di un ufficio tecnico, il restauro
degli oggetti mobili, la sorveglianza sui monumenti antichi di cui
307
Il numero degli impiegati fu fissato a 12: il direttore generale, due commissari centrali, un
caposezione, un segretario di II classe, un ingegnere topografo, un archivista di II classe, due
scrivani, un usciere, due inservienti.
308
ACS, MPI, circolare 7 ottobre 1875, n. 451, sulle nomine degli ispettori archeologici.
94
sottolineavano la necessità, la compilazione del Giornale degli scavi309, la
trasmissione di informazioni alla direzione generale sui ritrovamenti fortuiti.
Influì negativamente la necessità di mobilitare, per gli interventi, uomini e
mezzi di cui solo i prefetti potevano disporre sicché gli ispettori dovettero
limitarsi a segnalare le esigenze alla direzione generale la quale a sua volta
agiva tramite i rappresentanti dell’esecutivo in sede provinciale. La
conservazione dei beni mobili fu parzialmente affidata anche a province e
comuni ai sensi del citato decreto n. 2440, previ accordi con la direzione
generale che si riservò semplicemente l’esercizio di un’alta sorveglianza sulle
iniziative degli enti pubblici minori. Gli scavi statali, infine, vennero
rigidamente assoggettati al controllo degli uffici romani, sia perché la
direzione generale non disponeva, in periferia, di funzionari tecnici affidabili,
sia perché le risorse disponibili furono convogliate per venire incontro alle
aspirazioni degli individui posti al vertice dell’apparato centrale310. In pratica,
gli ispettori si limitarono, in larga misura, a sorvegliare gli scavi effettuati dai
privati e a segnalare i ritrovamenti fortuiti.
Si trattò, comunque, di un evento positivo poiché finalmente il patrimonio
archeologico fu sottoposto se non altro ad iniziative di controllo e la direzione
generale fu messa in grado di conoscere con sufficiente esattezza lo stato della
situazione, anche grazie all’opera di alcuni incaricati che espletavano una
intensa e meritevole attività311. Il territorio nazionale fu diviso in cinque zone,
l’Italia settentrionale, comprendente anche l’Emilia e la Toscana, l’Italia
centrale comprende Lazio, Umbria e Marche, l’Italia meridionale, la Sicilia e
la Sardegna. Gli scavi in ciascuna area furono affidati all’autorità del direttore
generale Fiorelli e dei due commissari centrali, Pietro Rosa e Francesco
Gamurrini, i quali furono rispettivamente responsabili del Meridione, del
Centro e del Settentrione312. All’inizio di ogni anno, il direttore generale
convocava i responsabili delle zone i quali lo informavano circa i programmi
309
ACS, AABBAA III vers. B. 72, G. Fiorelli, Relazione del Direttore generale antichità e belle
arti a S. E. il Ministro dell’Istruzione Pubblica sull’ordinamento del servizio archeologico, Roma
1876.
310
Ibidem.
311
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 4, 5.
312
Ibidem.
95
formulati e le norme tecniche cui intendevano attenersi nel corso dei lavori. I
rapporti venivano trasmessi alla Giunta consultiva di archeologia che li
esaminava per impartire le opportune istruzioni. Su tali basi i commissari
centrali ed insulari notificavano, successivamente, al direttore generale i
preventivi di spesa che venivano soddisfatti in rapporto alle effettive
disponibilità finanziarie computate dopo aver detratto, dalle somme iscritte in
bilancio, le quote riservate alle spese correnti313. I responsabili di ciascuna
zona istruirono nelle aree prescelte gli uffici tecnici che erano sottoposti in
modo esclusivo alla loro autorità senza interferenze da parte dell’ispettore
locale.
La direzione pratica dei lavori era demandata ad un responsabile tecnico, il
quale, tra le altre mansioni, amministrava custodi e guardie con lo scopo di
tutelare la integrità e la manutenzione dei reperti. Egli inoltre informava gli
uffici centrali sull’andamento dei lavori attraverso rapporti settimanali mentre
i commissari erano tenuti ad inviare resoconti solo con frequenza bimestrale in
segno di maggiore indipendenza dalla direzione generale, la quale condivideva
con essi le decisioni circa la destinazione degli oggetti ai diversi musei del
Regno. Al termine dei lavori, gli uffici tecnici venivano sciolti per essere
ricreati laddove le circostanze lo richiedessero314. L’impianto varato e
confermato dal regolamento promulgato il 4 luglio 1875315, non fu un modello
di funzionalità, bensì l’unica soluzione praticabile per inaugurare una
amministrazione unitaria nonostante le gelosie di dirigenti già in larga misura
preposti ad amministrazioni preunitarie, i quali, peraltro, giammai avrebbero
accettato l’instaurarsi di rapporti gerarchici al loro interno, preferendo, quasi
per un ultimo sussulto particolaristico, di poter agire in piena autonomia.
Bisognò unificare gli apparati e salvaguardare l’indipendenza degli individui,
sicché la direzione generale fu costretta a rinunciare ai controlli sull’impiego
delle somme stanziate una volta che fossero state consegnate ai responsabili di
313
Ibidem. Il commissario Francesco Lanza di Scalea, il direttore del museo, Antonio Salinas,
l’ingegnere degli scavi, Francesco Saverio Cavallaio, l’ispettore alla pinacoteca, Giuseppe Meli, il
conservatore del museo, Fazio Giuseppe, un segretario economo, due scritturali, un usciere, un
portinaio.
314
Ibidem.
315
D. M. 4 luglio 1875, in “Bollettino ufficiale del Ministero della pubblica istruzione”, anno
1875, vol. I, fasc. IX.
96
zona, i quali ebbero anche il potere di rivolgersi direttamente alla Divisione I
del ministero per richiedere anticipazioni. Per lo stesso motivo gli impiegati
del servizio non furono riuniti in un ruolo unico nazionale ed ogni ufficio
tecnico rimase libero di provvedere alle assunzioni esercitando un
considerevole potere proprio grazie alle ampie prerogative in fatto di gestione
del personale. Non fu, perciò, casuale se fin dagli inizi gli uffici tecnici furono
dichiarati indipendenti dall’autorità degli ispettori locali, e se i primi ad essere
istituiti ebbero sede a Roma e Napoli, dove già operavano i più robusti
apparati del Regno. Il decreto istitutivo della direzione generale aveva
disposto, a suo tempo, che le sovrintendenze delle due città fossero sciolte per
far posto agli uffici tecnici. Il mutamento fu un atto esclusivamente di facciata
che a Roma si risolse in mero espediente nominalistico mentre a Napoli
comportò solo qualche modifica di dettaglio316. Probabilmente non fu casuale
neppure la preoccupazione del direttore generale di ricevere i rapporti
settimanali direttamente dai direttori operativi degli uffici tecnici scavalcando
i commissari di zona.
Allo stesso modo si può interpretare lo sforzo di affermare la sua autorità sugli
ispettori locali in modo da abbozzare, su tutto il territorio nazionale, un
embrione di potere unico centralizzato che per il momento conobbe ampie
zone d’ombra proprio nelle aree di maggiore interesse archeologico. Il
sospetto circa un latente conflitto tra gli ispettori e la struttura degli uffici
tecnici gestita dai commissari centrali discende dall’esame di alcuni episodi
significativi. Nella sede napoletana, l’ispettore fu nominato ai sensi del regio
decreto n. 2440 del 1875. Benché il funzionario designato fosse la robusta
personalità di Girolamo Minervini non si proponevano problemi di coesistenza
con Giuseppe Fiorelli, direttore generale e responsabile scientifico dell’area
meridionale317. Quest’ultimo, infatti, in virtù dell’ufficio ricoperto, non nutriva
timori per la sua autorità nell’ambito delle strutture presso cui, del resto, aveva
316
ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti (1861 – 1891), Monumenti e scavi di antichità,
indice generale 4. Il r. d. 11 aprile 1875, n. 2444, confermò il museo nazionale quale sede
dell’ufficio partenopeo e sancì il ruolo unico degli impiegati presso i due enti, ma affidò anche, da
allora in poi, la direzione del museo al professore di archeologia figurata dell’università.
317
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 83, fasc. 110, Vicende dell’Ufficio tecnico di
Roma.
97
percorso la sua precedente carriera. A Roma, invece, amministrata insieme a
Lazio, Umbria e Marche da Pietro Rosa, l’ispettore non fu mai nominato
poiché costui, che tra l’altro era anche senatore del Regno, intese esercitare
una autorità illimitata anche a costo di ostacolare il consolidamento
amministrativo318. Il peso della sua influenza si evince, tra l’altro, dalle
somme che fu abilitato a gestire. Nel 1875, per esempio, poté spendere
202.500 lire per gli scavi e 30.000 lire per il restauro dei monumenti319.
Nel 1877, fu abolito il ruolo normale dell’ufficio tecnico di Roma ed
approvato il ruolo per tutto il territorio nazionale, degli addetti al servizio
scavi che comprendeva: 7 ingegneri, uno dei quali direttore, 4 disegnatori, 5
soprastanti, di cui uno capo, 108 guardie più il loro capo, 8 brigadieri320.
Il provvedimento divise gli impiegati in due categorie: personale tecnico e del
personale di custodia, che compresero rispettivamente ingegneri e disegnatori
da un lato, soprastanti e guardie dall’altro, mentre gli ispettori locali furono
equiparati al personale tecnico. L’aspetto più importante del decreto fu
sintetizzato nell’art. 10 il quale così dettava: ”A ciascun commissariato o
ufficio tecnico verrà addetto un ispettore degli scavi ed un numero di guardie
per il disbrigo delle rispettive incombenze”321. In quelle circostanze, la norma
aveva lo scopo di limitare l’autonomia dei commissari centrali i quali
dovettero accettare la presenza di un funzionario direttamente dipendente dal
direttore generale con mansioni di controllo. Gli uffici ebbero sede presso i
musei archeologici ed anzi, da allora in poi, la presenza di un istituto di
conservazione divenne requisito fondamentale perché la sede potesse ospitare
un commissariato322, riproponendo così la stretta connessione tra museo ed
attività di escavazione già propria dell’amministrazione borbonica. La più
ampia articolazione degli uffici periferici e le maggiori possibilità finanziarie
alimentarono iniziative di scavo sempre più numerose, sicché, molto
frequentemente, furono istituiti uffici tecnici non più sottoposti al commissario
318
Ibidem.
Ibidem.
320
R. d. 18 gennaio 1877, n. 3639, che abolisce il ruolo normale dell’ufficio tecnico degli scavi
della provincia romana ed approva il ruolo unico degli impiegati addetti al servizio degli scavi di
antichità.
321
Ibidem.
322
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. II, B. 3, fasc. 4.
319
98
centrale, bensì affidati all’ingegnere direttore oppure agli ispettori locali che
trovarono una nuova e specifica identità culturale ed amministrativa proprio
nel governo degli sterri da cui erano stati fino ad allora esclusi. Il fatto che i
commissari centrali non avessero più totale ingerenza, diretta ed immediata,
nelle escavazioni e, per converso, l’affermarsi di funzionari direttamente
dipendenti dal direttore generale, come erano per l’appunto gli ispettori locali,
rappresentarono obiettivamente fattori di centralizzazione e di rafforzamento
della struttura unitaria.
La nascita della direzione generale determinò, tra l’altro, un rinnovato
interesse per i problemi della formazione dei quadri tecnici necessari al
servizio. Fu potenziata la preesistente e poco efficiente scuola di archeologia
che aveva sede ad Atene, con l’istituzione, nel 1875, di due nuove sezioni,
nella stessa Atene e Roma323, con riserva dei posti a laureati in lettere.
Successivamente, il r. d. 8 dicembre 1878, n. 4635, aggregò la scuola alla
facoltà di filosofia dell’Università di Roma ed allargò la possibilità di
iscriversi a tutti gli studenti comprese le matricole del primo anno. Il corso
aveva durata triennale e si articolava in due cicli rispettivamente di uno e due
anni.
3.5. COMMISSIONI CONSULTIVE CONSERVATRICI DEI
MONUMENTI E ISPETTORI AGLI SCAVI
Le innovazioni del 1875 avevano diviso l’amministrazione centrale in due
distinti uffici, le cui sfere di competenza erano state delimitate secondo un
criterio cronologico. La Direzione generale degli scavi avrebbe gestito i beni
di epoca anteriore al 476 d.c., mentre il Provveditorato artistico i beni di epoca
posteriore324. A tale differenziazione sembrava dovessero conformarsi anche
gli uffici periferici, che erano per la Direzione generale gli ispettori
archeologici locali, i commissariati centrali, gli uffici tecnici. Il Provveditorato
artistico, a sua volta, poteva contare sulla rete delle commissioni conservatrici
323
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. I, B. 167/168, Scuola di Archeologia.
Ministero della Pubblica Istruzione, Catalogo generale dei musei di antichità e degli oggetti
d’arte raccolti nelle gallerie e nelle biblioteche del Regno, Roma 1881-1887.
324
99
dei monumenti presiedute dai prefetti. Le disposizioni del diritto positivo non
lasciano dubbi circa il fatto che questa fosse l’intenzione originaria del
legislatore. Infatti il r. d. 28 marzo 1875, n. 2440, istitutivo della Direzione
generale, annoverava tra i compiti degli ispettori archeologici locali, anche
quello di segnalare all’amministrazione centrale le necessità dei monumenti
antichi, sottraendo la competenza alle commissioni conservatrici.
Malgrado ciò il modello di amministrazione periferica, effettivamente posto in
essere, risultò largamente promiscuo. Il fenomeno fu ingenerato da diversi
fattori anche di natura psicologica. Il ministro Borghi, ad esempio, pur
riconoscendo le deficienze del servizio archeologico gestito dalle commissioni
conservatrici e, pur attribuendo agli ispettori ogni competenza in materia,
riservava alle commissioni non meno definiti compiti di studio sui materiali
raccolti dai predetti ispettori. Poiché non si hanno notizie di studi effettuati da
commissioni conservatrici, né di materiali a queste trasmesse da qualche
ispettore, bisogna arguire che le affermazioni del ministro siano state un modo
non sostanziale per compensare le commissioni conservatrici delle
competenze loro sottratte325. A ciò si aggiunsero motivazioni di carattere più
propriamente tecnico – specialistico. La professione di archeologo, allora
come oggi, si incentrava sulle operazioni di sterro, sul recupero e la
valutazione storico – scientifica dei reperti. Viceversa il restauro ed il
consolidamento degli immobili, anche classici, presuppongono una cultura
architettonica all’epoca prevalentemente presente presso le commissioni
conservatrici e solo in misura ridotta presso l’amministrazione degli scavi 326.
Giocò, infine, un ruolo la necessità della direzione generale di operare tramite
i prefetti per tutta una serie di attività, dal rilascio delle licenze di esportazione
alla collocazione dei reperti presso gli istituti museali. I prefetti, dal canto loro,
si basavano sul consiglio tecnico scientifico delle commissioni conservatrici le
quali, di fatto, finivano per essere organi periferici anche del servizio
archeologico oltre che del Provveditorato artistico. Stante l’inevitabile
interferenza tra i due apparati periferici, l’intera materia fu riorganizzata dal
325
Ministero della Pubblica Istruzione, Documenti inediti per servire alla storia dei musei d’Italia,
Roma 1878-1880.
326
Ibidem.
100
r.d. 5 marzo 1876, n. 3028327. Il provvedimento assegnava definitivamente ai
prefetti la presidenza delle commissioni conservatrici che erano anche
obbligate a riunirsi con cadenza bimestrale328.
Entrava inoltre a farne parte, per diritto di carica, l’ispettore archeologico in
servizio presso la città capoluogo di provincia. Questi funzionava da tramite
tra l’ufficio ed i suoi colleghi sparsi nel territorio della provincia. Gli ispettori
archeologici si trovarono così in una posizione di triplice dipendenza potendo
ricevere disposizioni direttamente dalla Direzione generale nonché dalle
Commissioni provinciali conservatrici dei monumenti e dai Commissariati
interregionali. Lo schema delle dipendenze si potrebbe così rappresentare:
Nei fatti l’apparato funzionò senza rispettare eccessivamente ruoli gerarchici e
delimitazioni di competenze, facendo piuttosto appello alla buona volontà ed
alle disponibilità personali. La commissione di Arezzo, per esempio, rivendicò
il diritto di governare le antichità senza urtare la suscettibilità dell’ispettore
Marcucci, forse per l’autorevolezza di alcuni commissari tra cui Fungini e
Gamurrini, designati all’incarico quali rappresentanti dell’amministrazione
provinciale329. La commissione di Bologna, invece, delegò gli affari
archeologici ad una apposita sezione innescando, tra l’altro, una curiosa
vertenza con le autorità centrali. Il ministro, infatti, ravvisò nei comportamenti
327
L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte. Raccolta di leggi, decreti e
regolamenti, circolari relative alla conservazione delle cose di interesse storico – artistiche e alla
difesa delle bellezze naturali, Roma 1935, p. 67 e ss.
328
Ibidem.
329
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 430, fasc. 82.
101
degli uffici una tendenza a scavalcare il proprio ambito consultivo sicché
ritenne di doverlo richiamare al rispetto della norma330. A Messina, le parti si
capovolsero e fu l’ispettore degli scavi, Gregorio Raimondo Granata, a
provvedere anche per gli oggetti d’arte, poiché la commissione conservatrice,
costituita nel 1876, rimase inattiva fino ad essere del tutto soppiantata331. Altre
commissioni, infine, ebbero un’esistenza precaria.
L’opera delle commissioni conservatrici, comunque, rimase ininfluente sul
versante delle ricerche archeologiche vere e proprie, poiché la direzione
generale fu particolarmente sensibile nella difesa delle proprie specifiche
prerogative in materia. Il complesso di commissari, ingegneri, ispettori,
soprastanti, operai e custodi fornì, nell’ambito delle arti, un esempio di
amministrazione autonomamente strutturata e capace di agire libera da
interferenze secondo ragioni e fini che scaturivano esclusivamente dalla
propria ragion d’essere.
3.6. L’ORDINAMENTO DAL 1881 AL 1891: LA DIREZIONE
GENERALE DELLE ANTICHITA’ E BELLE ARTI
Il Provveditorato artistico cessò di esistere, nel 1881, quando le sue mansioni
furono trasferite alla Direzione generale degli scavi, la quale allargò le sue
competenze diventando la Direzione generale antichità e belle arti. Per la
prima volta le arti furono governate da un’unica e specifica amministrazione
strutturata organicamente.
Il r. d. 13 marzo 1882, n. 679, istituì infatti un ruolo unico del personale per
tutti i 388 impiegati addetti ai musei, scavi, gallerie e monumenti del
Regno332. Il numero degli addetti non era aumentato sensibilmente rispetto al
personale ereditato dagli stati regionali, ma la fusione dei ruoli particolari si
tradusse in risultati qualitativamente superiori rispetto alla semplice somma
degli impiegati già in servizio. L’inserimento, per esempio, delle guardie di
330
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 117, fasc. 3.
ACS, MPI, AABBAA, 1860-1890, Div. III, B. 458, fasc. 1.
332
In particolare il ruolo contemplava 4 commissari, 6 direttori effettivi e 7 incaricati, 7
vicedirettori, 6 ispettori, 19 adiutori, 11 viceadiutori, 12 custodi, 5 segretari economi, 16
vicesegretari, 10 applicati, 8 architetti topografi, 7 disegnatori, 9 soprastanti, 12 brigadieri, 110
guardie, 45 uscieri e 34 inservienti.
331
102
Pompei all’interno del ruolo unico nazionale alimentò anche la tendenza ad
estendere la rete burocratica in periferia, introducendo il criterio della mobilità
del personale per fronteggiare gli stati di necessità333.
Anche la previsione in ruolo di 4 commissari consolidò il servizio periferico
eliminando il carattere di precarietà connesso alla precedente funzione
volontaria. I commissari furono funzionari retribuiti, vincolati perciò da uno
specifico codice di diritti e doveri a tutto vantaggio della funzionalità
burocratica. Per gli uffici dell’amministrazione centrale, nel periodo 1881 –
1887, non si sono rinvenuti dati relativi alla ripartizione interna dei servizi ed
in particolare all’articolazione in divisioni. Si è potuto verificare che a, partire
dal 1885, le sezioni, dapprima due, divennero tre. Non si riesce, peraltro, a
ricomporre il quadro delle competenze esercitate da ciascuna. L’unico dato
sicuro riguarda le competenze della Direzione generale nel suo complesso:
musei e scavi, conservazione dei monumenti, pinacoteche, gallerie, accademie
ed istituti di belle arti, premi e sussidi, congressi, esposizioni, società
promotrici di belle arti, scuole di declamazione, istituti di istruzione
musicale334.
La carica di direttore generale rimase ancora affidata a Giuseppe Fiorelli, che,
in questi anni, accrebbe il suo prestigio su scala continentale e ricevette una
serie di riconoscimenti anche da istituzioni culturali straniere 335. Nel 1879, fu
nominato membro onorario della Società archeologica belga di Anversa e del
Royal Institute of British Architects. Nel 1884, divenne membro onorario
della Società archeologica di Cambridge, mentre “Les Annales Historiques”di
Parigi arrivarono perfino a pubblicarne la biografia336. Il principale tra i suoi
collaboratori fu Felice Barnabei, che abbandonò la carica di segretario per
diventare prima ispettore generale e poi direttore della divisione musei e scavi.
Nel riassetto del 1881, il settore archeologico non subì rilevanti trasformazioni
conservando in sostanza l’organizzazione voluta da Fiorelli negli anni
333
ASN, Raccolta ufficiale delle leggi e decreti (1861-1891), Monumenti e scavi di antichità, r. d.
che approva il ruolo unico degli impiegati addetti ai musei, alle gallerie, agli scavi di antichità e
ai monumenti nazionali, Vol. LXV, p. 733.
334
ASN, Calendario generale del Regno d’Italia, 1881-1887.
335
S. De Caro, Giuseppe Fiorelli. Appunti autobiografici, Sorrento 1994, p. 121-122.
336
ACS, MPI, AABBAA, Personale 1860-1880, I parte, B. 714.
103
precedenti. Il r. d. 22 aprile 1886, n. 3859, concesse alle strutture periferiche la
facoltà di eseguire gli sterri affidandosi ad imprese specializzate. Fino a quel
momento l’amministrazione aveva preferito gestire, in prima persona,
l’impiego di operai e materiali. Il decreto n. 3859, invece, introdusse il criterio
dei contratti a trattativa privata. Gli uffici centrali si riservarono, pur sempre,
la facoltà di approvare i programmi e di stanziare i fondi relativi, mentre gli
uffici periferici furono abilitati a delegare le operazioni esecutive ad imprese
ritenute degne di fiducia. La legge impose allo schema contrattuale di
specificare l’elenco dei lavori e delle somministrazioni, il loro prezzo unitario,
distinguendo tra esecuzioni a misura ed a corpo, le condizioni di esecuzione, i
termini di compimento, le modalità di pagamento, le penalità.
Nel 1888, fu riformata anche la scuola di archeologia che si trasformò in
scuola di perfezionamento per laureati in lettere o, eccezionalmente, in legge,
ai sensi del r.d. 30 settembre, n. 5888337.
Nel 1889, fu creato un ufficio speciale per disegnare la carta archeologica
d’Italia, 338 riprendendo un progetto di alcuni anni prima che individuava negli
archivi della Direzione generale la fonte principale per lo studio topografico
dell’Italia antica; la direzione dei lavori fu affidata a Francesco Gamurrini il
quale dopo anni di contrasto riattivò un proficuo rapporto di collaborazione
con gli uffici centrali.
337
La durata del corso rimase triennale, ma il provvedimento introdusse l’obbligo di frequenza e di
residenza presso le diverse sezioni del corso che ebbero sede a Roma, Napoli ed Atene. Il direttore
generale diresse la sezione di Roma, il direttore del museo nazionale la sezione di Napoli, mentre
il ministero si riservò di scegliere il titolare della sezione di Atene. I programmi contemplarono lo
studio di epigrafia italica, antichità ed epigrafia romana, antichità ed epigrafia greca, archeologia e
storia dell’arte, topografia romana, paleontologia. L’insegnamento privilegiò chiaramente la civiltà
classica relegando nell’ombra ogni altra cultura ad eccezione dei residui paleoetnografici oggetto
di qualche modesto interesse. La Direzione generale istituì borse di studio per sostenere gli
studenti che peraltro dovevano superare dei corsi molto selettivi. Gli allievi, infatti, affrontavano
alla fine di ciascun anno esami scritti ed orali per dimostrare il profitto conseguito. L’esito
negativo delle prove comportava l’esclusione del beneficio in modo da garantire la più ampia
qualificazione dei diplomi i quali, a fronte delle difficoltà superate, costituivano l’unico titolo
valido a concorrere per l’immissione nei ruoli tecnici dell’amministrazione.
338
D. m. 7 novembre 1889 che istituisce un ufficio per la carta archeologica d’Italia; ACS, MPI,
AABBAA, 1860-1890, Div. II, BB. 168 e 169, fasc. 345.
104
4. LA LEGISLAZIONE DEI BENI CULTURALI TRA IL XVIII
E IL XIX SECOLO
4.1. FONDAMENTI GIURIDICI DEL REGNO DI NAPOLI
La scoperta di Ercolano e di Pompei rappresentò uno dei caratteri peculiari
della cultura settecentesca italiana, portando nuove forme di conoscenza
diretta che in precedenza erano inimmaginabili. Ciò vale per gli oggetti di uso
comune, per le cosiddette arti minori e per la pittura. Tuttavia la rinascita delle
città vesuviane si collocava in un vuoto legislativo a cui si riferiva anche
l’intervento dello scultore Giuseppe Canart – responsabile dei restauri delle
sculture in marmo e supervisore per il distacco ed il restauro dei mosaici e
degli affreschi presso il Real Museo Ercolanese339 – il quale, in una lettera
datata Portici, 2 ottobre 1751, riferendo di alcune scoperte fatte da un
contadino in Abruzzo, sosteneva la improrogabile necessità di una disciplina
che vietasse, definitivamente, l’esportazione dei reperti archeologici, sulla
falsariga della vigente legislazione vincolistica pontificia: ” Le due teste
mancanti eran state troncate, e trasportate a Roma dal Signore Duca di
Cesarini: onde, che crederei mancante al proprio mio dovere, se non lo
partecipassi all’E. V. per la sovrana intelligenza, ed affinché se sia di suo
aggrado possa impedire l’astrazione dal Regno, qual purtroppo non solo suol
accadere in somiglianti cose ma ben anche di colonne e pietre di verde antico,
d’alabastri, ed ogni sorta d’altre pietre, come di quadri d’insigni pittori,
antichi e moderni, in comprova di che si sovverrà l’E. V. d’averle io esposto
fu da Roma, che oltre le colonne di verde antico colà da me comprate,
ven’erano quattro altre, due di bianco e negro attico, e due d’alabastro
orientale, il tutto estratto da questo regno per non esservi proibizione alcuna,
e per cui motivo ne rimane in parte esausto.
In Roma Ecc. mo Sig. re è proibito sotto pena a qual rivoglia il far cavare
anche né propri territori senza il permesso, e la vista del luogo, affinché non
339
B. Croce, I marmi del palazzo reale di Portici, in “Napoli mobilissima”, Napoli, 1898, pp. 3032; M. Cagiano De Azevedo, Una scuola napoletana di restauro nel XVII e nel XVIII secolo, in
“Bollettino dell’Istituto Centrale del Restauro”, I, 1950, pp. 44 ss.
105
segua demolizione di vestigi antichi, o pericolo per la vigilanza di essi, ed
allorché se ne accorda il permesso, vien tenuta la persona interessata a
denunciare quanto trova.
V’è altresì particolar divieto per l’estrazione de’sud.ti generi, senza
preventiva supplica, e di quelle tali cose, che al ricorrente viene accordato il
permesso di estrarre, è tenuto soggiacere alla stima delle medesime che si fa
da persona conosciuta proba e capace a ciò destinata, ed a pagare il quattro
per cento alla dogana, ed una piastra per visita ed affitto di carrozza allo
stimatore. Ciò tutto si pratica non tanto per quella tal contribuzione (che per
altro non lascia di formar qualche somma in capo all’anno), ma per essere
intesi de lo che si ritrova, ed estrae”340.
Canart, dunque, individuò con chiarezza, attraverso il riferimento al modello
legislativo romano, i due settori in cui si rendeva urgente un intervento
normativo a tutela degli oggetti di interesse storico – artistico: da un lato, la
necessità di sottoporre a controllo le attività di scavo condotte da privati
“anche ne’propri territori”, rendendo obbligatoria una licenza rilasciata dalle
autorità competenti e la conseguente denuncia degli oggetti ritrovati;
dall’altro, l’esigenza di impedire “l’estrazione”, ossia l’esportazione
indiscriminata di tali beni fuori dai confini del regno. Intervento assai incisivo
quindi, quello di Canart, rivolto al concreto delle questioni e alla sostanza dei
possibili rimedi, additando soluzioni percorribili e già sperimentate341.
Poiché i successivi provvedimenti varati da Carlo e Ferdinando di Borbone,
descritti nei capitoli secondo e terzo, richiamavano l’antica tradizione
legislativa pontificia, abbiamo ritenuto di procedere, prima, ad un’analisi
approfondita della medesima, e, successivamente, proseguire mettendo in luce
gli sviluppi normativi più interessanti del XIX secolo fino alla vigilia della
prima guerra mondiale.
340
ASN, Casa Reale Antica, fascio 1539, inc. 27, Giuseppe Canart, Portici 2 ottobre 1751.
Il riferimento è agli editti Spinola del 1701, 1704 e 1717; editto Albani del 1726 e l’allora
recentissimo editto Valenti del 1750, pubblicati in A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per
la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, Napoli, 1978, pp. 8390; 96-108.
341
106
4.2. LO STATO PONTIFICIO
4.2.1. LA TRADIZIONE LEGISLATIVA DA PIO II ALL’EDITTO
ALTIERI
La legislazione di tutela dei monumenti nello stato pontificio ha un’antica
tradizione. Il primo provvedimento organico in materia fu la bolla di Pio II del
28 aprile 1462, che proibiva a chiunque di demolire, distruggere o danneggiare
gli antichi edifici pubblici, od i loro resti, esistenti in Roma e nel suo distretto
anche se collocati in fondi di proprietà privata, senza licenza del pontefice342.
Il 7 aprile 1474 Sisto IV emanò una bolla volta ad impedire che le chiese
venissero spogliate dei marmi e degli altri ornamenti. A questi primi
provvedimenti ne seguirono altri nel Cinquecento. Leone X, nel 1515, conferì
a Raffaello l’incarico di sorvegliare le antiche iscrizioni; Paolo III, il 28
novembre 1534, nominò Latino Giovenale Manetti commissario delle
antichità, con il compito di vigilare sulla loro conservazione e di impedirne
l’esportazione da Roma. Di particolare importanza, fu l’incarico offerto a
Mario Frangipane, nel 1556343, fissando, per la prima volta, i compiti e i poteri
dell’ufficio incaricato della tutela. Negli statuti di Roma, riformati nel 1580,
sotto Gregorio III, si ribadì la competenza dei conservatori del popolo romano
a custodire gli antichi monumenti. Ma è nel Seicento che la legislazione di
tutela dei beni culturali acquisisce le sue linee fondamentali, attraverso gli
editti dei cardinali camerlenghi, i più complessi dei quali furono gli editti
Altieri del 9 maggio 1685 e del 5 febbraio 1686344. La disciplina della
conservazione dei beni culturali, della loro circolazione all’interno dello stato
e della loro esportazione all’estero, dei ritrovamenti e delle scoperte
archeologiche,
è
sostanzialmente
quella
elaborata
nella
legislazione
settecentesca.
342
L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, I, Roma, 1932, pp. 17 ss.
Ibidem.
344
Ibidem.
343
107
4.3. LA TUTELA NEL XVIII SECOLO. NUOVE PROSPETTIVE
CULTURALI.
Il Settecento è il secolo più ricco di editti di tutela dei beni culturali. Il
Pontificato di Clemente XI si aprì con gli editti Spinola del 18 luglio 1701 345 e
del 30 settembre 1704346, dovuti all’ispirazione del commissario delle
antichità Francesco
eltra347. Particolarmente interessante era il secondo
provvedimento per la consapevolezza culturale a cui si ispirava ed alcune
innovazioni. Il suo scopo era “che si conservino, quanto più si può, le antiche
memorie e ornamenti di quest’alma città di Roma, quali tanto conferiscono a
promuovere la stima della sua magnificenza e splendore presso le nazioni
straniere, come pur vagliono mirabilmente a confermare e illustrare le notizie
appartenenti alla storia, così sacra come profana”348. Una duplice finalità,
quindi, di promozione del prestigio internazionale di Roma, e, dello stato, e di
conservazione dei documenti della storia sacra e profana. Da questa premessa
derivarono alcune interessanti disposizioni innovative, come quella che stabilì
che venisse fatto un disegno delle cose non conservate; la speciale
salvaguardia delle iscrizioni e l’immissione della normativa di tutela del
patrimonio librario ed archivistico, di solito oggetto di separati provvedimenti,
in un editto di difesa complessiva dei beni culturali. Solo diversi anni dopo si
tornò al sistema di editti speciali per la tutela delle scritture e dei libri
manoscritti349. Significativo fu anche l’editto Spinola, dell’8 aprile 1717350,
che introdusse l’obbligo di licenza per i commercianti di antichità ed opere
d’arte. Un’altra importante serie di editti fu dovuta al nipote di Clemente IX, il
card. Annibale Albani, camerlengo dal 1719 al 1747351. Un primo editto
345
M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988,
”Proibitione sopra l’estrazione di statue di marmo o metallo, figure, antichità e simili”, 1701.
346
Ibidem, ”Editto sopra le pitture, stucchi, mosaici ed altre antichità, che si trovano nelle cave,
iscrizioni antiche, scritture e libri manoscritti”, 1704.
347
A. Petrucci, Dizionario biografico degli italiani, VI, Roma, 1964, p. 572.
348
Editto Spinola 1704.
349
Gli editti Spinola del 14 maggio 1712, Albani del 1°dicembre 1742, Colonna del 15 dicembre
1757 e Rezzonico del 16 giugno 1772.
350
M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988,
”Proibizione sopra l’estrazione di statue di marmo o metallo, figure, antichità e simili”, 1717.
351
A. Petrucci, Dizionario biografico degli italiani, VI, Roma, 1964, p. 574.
108
riguardava l’attività degli scalpellini, segatori di marmi e cavatori, mentre altri
editti l’estrazione delle statue di marmo o metallo, pitture, antichità e simili
del 21 ottobre 1726 e del 10 settembre 1733352. Lo scopo comune di queste
disposizioni era di rendere più efficace la scoperta e la repressione della
violazione delle norme di tutela, intensificando i controlli ed incentivando le
denunce. Al cardinale Silvio Valenti Gonzaga353, segretario di stato di
Benedetto XIV e camerlengo, dopo le dimissioni dell’Albani nel 1747,
dobbiamo un editto, del 5 gennaio 1750354, che costituisce il pilastro della
legislazione settecentesca sulla tutela dei beni culturali nello stato pontificio.
Esso tentò di sistemare la materia, che, come descritto, era stata oggetto di
numerosi interventi nel Sei e Settecento. Le riforme più importanti, introdotte
dall’editto Valenti, furono l’istituzione degli assessori, accanto al commissario
sopra le antichità, ed i provvedimenti per la destinazione ai musei Capitolini
degli oggetti sequestrati. Per il resto riprendeva le disposizioni degli editti
precedenti, in particolare dell’editto Spinola del 1717 e degli editti Albani del
1726 e del 1733 sul divieto di esportazione delle antichità e delle opere d’arte.
Le premesse culturali, sono desumibili dal primo paragrafo: ”importando
sommamente al pubblico decoro di quest’alma città di Roma il conservarsi in
essa le opere illustri di scoltura e pittura, e specialmente quelle che si
rendono più stimabili e rare per la loro antichità, la conservazione delle quali
non solo conferisce molto alla erudizione, sì sacra, che profana, ma ancora
porge incitamento a’forestieri di portarsi alla medesima città, per vederle ed
ammirarle, e dà norma sicura di studio a quelli che applicano all’esercizio di
quelle nobili arti, con gran vantaggio del pubblico e privato bene”355.
Accanto al tema della conservazione delle reliquie del passato, in quanto
testimonianze utili per la storia sacra e profana, già presente nell’editto
Spinola del 1704, emerse un nuovo contributo, ossia la loro funzione turistica,
concepite, come mezzo per attirare a Roma gli eruditi e gli appassionati
352
Ibidem.
M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988,
”Proibizione della estrazione delle statue di marmo o metallo, pitture, antichità e simili”, Roma
1750.
354
Ibidem.
355
Ibidem.
353
109
stranieri, ed infine la concezione dell’opera antica come norma di studio per
gli artisti356.
La competenza in materia di tutela dei beni culturali apparteneva, in via
esclusiva, al camerlengo357. Solo nel caso di esportazione dallo stato di cose
antiche e, a partire dall’editto Valenti del 1750, anche di cose rare e di molto
valore, la licenza da lui rilasciata era subordinata all’emanazione di un
chirografo pontificio358. Egli si avvaleva per l’espletamento di tale funzione
degli uffici del dicastero cui era preposto, la camera apostolica. In particolare
tutti gli atti di competenza del camerlengo potevano essere compiuti anche dal
suo auditore generale; entrambi erano coadiuvati dai segretari di camera, per
gli adempimenti burocratici. Accanto a questi funzionari, che non avevano
competenze specifiche nel campo delle antichità e belle arti, vi era il
commissario sopra le antichità e le cave, con compiti tecnici nella tutela dei
beni culturali, quali la conservazione, la circolazione ed il commercio;
esprimeva pareri sul valore degli oggetti di cui si chiedeva la licenza di
esportazione, provvedeva ai controlli per impedirne il contrabbando,
sorvegliava gli scavi359. La carica fu ricoperta quasi sempre da personalità di
prestigio. Nel Settecento possiamo ricordare Francesco Batoli, J. J.
Winckelmann, Giovanni Maria Visconti. Tuttavia i risultati non furono sempre
entusiasmanti a causa dell’ampiezza dei compiti affidati al commissario.
Perciò, già nel 1726, fu prevista la collaborazione di una persona idonea e
capace; si trattava di un aiutante assunto non dalla camera, bensì dal
commissario a sue spese. Neanche con tale sistema si riuscì ad ovviare ai
continui disordini, tanto che l’editto Valenti affiancò ai commissari tre
assessori con funzioni ausiliarie360. Ogni assessore era competente in un
settore specifico: uno per la pittura, l’altro per la scultura ed il terzo per i
cammei, medaglie, incisioni e ogni altra sorte di antichità. Per i libri
manoscritti ed i documenti di interesse archivistico, la competenza per il
356
Ibidem.
A. Lodolini, L’Archivio di Stato di Roma, Roma, 1960, pp. 167 ss.
358
Ibidem.
359
Ibidem.
360
Editto Valenti, 1750.
357
110
rilascio delle licenze era dei prefetti dell’archivio segreto Vaticano e di quello
di Castel S. Angelo361.
La tutela comprendeva sia i beni immobili che mobili. La tutela degli
immobili si riferiva non solo agli edifici monumentali ma anche quelli di
interesse storico ed archeologico. Restavano così tutelati, gli edifici e le
fabbriche antiche, gli archi, le mura, i ponti, le antiche strade pubbliche, le
muraglie di travertino, marmo, paperino o di altro materiale362. L’oggetto
dell’archeologia cristiana era salvaguardato attraverso la tutela degli antichi
cimiteri.
Per i beni mobili gli editti dei camerlenghi offrivano un’elencazione molto
analitica. L’editto Valenti, riproducendo sostanzialmente il dettato di editti
precedenti,
tutelava “statue, figure, bassorilievi, colonne, vasi, alabastri,
agate, diaspri, ametiste ed altri marmi preziosi, gioie e pietre lavorate, dorsi,
teste, frammenti, pili, piedestalli, iscrizioni o altri ornamenti, fregi, medaglie,
camei, cornioli, monete o intagli, di qualsivoglia pietra, ovvero metallo, oro,
argento, di qualsivoglia materia, antica o moderna; né meno figure, quadri,
pitture antiche”363. Gli editti contenevano, poi, dopo questo lungo elenco, una
disposizione avente funzione di “norma di drenaggio”364, volta cioè ad evitare
che alcuni beni meritevoli di tutela sfuggissero ad essa, a causa di
un’interpretazione eccessivamente puntuale dell’elenco dei beni tutelati.
Infatti, era precisato che la tutela dovesse comprendere anche “altre opere, in
qualsivoglia cosa scolpite e dipinte, intagliate, commesse, lavorate o in altro
modo fatte”365.
Alcuni editti si soffermavano, in particolare, su alcuni dei beni protetti. Così
l’editto Spinola del 1704 prevedeva una tutela specifica per le pitture, stucchi,
pavimenti, figure o latri lavori di mosaico, monumenti o sepolcri di
qualsivoglia natura. A partire dall’editto Albani del 1733 venne posta
361
Editto Spinola 1704; inoltre Editto sopra le scritture e libri manoscritti, Roma, nella stamperia
della R. C. A., 1712.
362
Editto Valenti, 1750. Su questo punto esso riprende la disciplina degli editti precedenti, tra cui
quello Albani del 21 ottobre 1726 sopra li scalpellini, segatori di marmi, cavatori ed altri.
363
Editto Valenti, 1750.
364
L’espressione di G. Piva, Cose d’arte, in “Enciclopedia del diritto”, XI, Milano, 1962, p. 96, è
riferita all’art. 2 della legge 1089/39, che svolge, la stessa funzione delle disposizioni in esame.
365
Editto Valenti, 1750.
111
l’attenzione sul commercio di cammei, medaglie, monete, bronzi ed altri
piccoli oggetti di antiquariato, che alimentavano un vasto mercato, con la
presenza di numerose falsificazioni.
Il regime di tutela si applicava ai beni indicati indipendentemente dalla loro
appartenenza. Gli editti specificavano, più volte, che le disposizioni in esse
contenute vincolavano “ogni persona, tanto ecclesiastica, quanto secolare, di
qualsivoglia stato, grado e condizione, ancorché richiedesse specialissima
menzione e benché munita di qualunque sorta di patenti, familiarità, inibizioni,
privilegi, indulti ed esenzioni”366. Anche gli stranieri erano assoggettati a tale
disciplina, sia si trattasse di forestieri ecclesiastici, soggetti immediatamente o
mediatamente alla Santa Sede, che di stranieri, sudditi di altri principi, purché
si trovassero in Roma o nello Stato Pontificio.
Destinatario delle disposizioni contenute nella legislazione di tutela era,
quindi, qualunque soggetto che si trovasse in un determinato rapporto
qualificato con il bene tutelato, rapporto che poteva essere non solo di
proprietà, ma anche di possesso e di detenzione, a qualsiasi titolo367.
Dopo aver individuato i beni soggetti a tutela, attraverso la loro tipologia e la
loro appartenenza, è opportuno esaminare l’espletazione delle potestà
pubbliche, attraverso le quali era raggiunto il fine di tutela. Occorre
sottolineare che esse si manifestavano, soprattutto, in relazione e a due
momenti, ritenuti i più importanti per la salvaguardia del patrimonio artistico e
storico, l’esportazione dei beni da Roma e dallo stato e l’attività di ricerca
archeologica. Non va a questo proposito dimenticato che Roma nel Settecento
era il più importante centro mondiale del commercio antiquario ed un grande
mercato artistico. Tuttavia la tutela non si fermò alla regolamentazione delle
esportazioni ed alla disciplina degli scavi, ma assunse anche altre forme. La
conservazione dei resti dell’antichità era sempre stata, come si è visto,
366
Ibidem.
Ibidem: ”E perché vi sono molte persone che cavano e fanno cavare in luoghi pubblici e
privati…e che le dette cose cavate e ritrovate, bene spesso, ancorché vi siano pene gravi e
proibizioni, fatte e comminate in essi bandi, vendono, scansano, trafugano ed ascondono, in Roma
e fuori di Roma, senza saputa e licenza nostra, scienza ed ordine de’ padroni delli propri luoghi e
proprie cose ritrovate, con danno pubblico e particolare, e gravezza delle loro coscienze, e così
privano e spogliano quest’alma città di Roma e li propri padroni delle più belle cose che in essa
città si trovano, così antiche come moderne.”
367
112
un’esigenza sentita dai pontefici. Tale esigenza era ben presente negli editti
settecenteschi, che vietavamo più volte di danneggiare “qualunque edifizio o
fabbrica o altra opera antica sopra terra, ancorché lesa da tempo o
rovinosa”.368 Era altresì vietato fare scavi vicino “agli edifizi e muraglie
antiche, acciò non ne restino danneggiate369” . Quanto alle cose mobili, vi era
la “proibizione di rompere le statue antiche o altri ornamenti di qualsivoglia
materia”, ed era vietato ad “alcun calcararo, cavatori o altri simili persone,
come scalpellini, fonditori ed altri guastatori, rompere, guastare spezzare per
far calce o portar via o rivedere alcuna sorte di marmi scritti, lavorati, statue,
figure o altri ornamenti antichi, né meno fondere, guastare o ammaccare
figure, medaglie, monete, intagli, di metallo d’oro, di argento, antichi, che
abbiano figurazione o memoria di cose antiche”370. Disposizioni particolari
riguardavano alcuni beni specifici; era vietato danneggiare o demolire gli
antichi monumenti sepolcrali ed i mosaici e gli stucchi 371. L’editto Albani del
1726 proibiva agli scalpellini di segare, far segare, rompere o guastare le
colonne o tronchi di esse, quando, riuniti, potevano formare una colonna
intera. Di specifica tutela, ai fini della loro conservazione, godevano anche i
manoscritti ed i documenti di interesse archivistico. Era fatto divieto ai librai,
pizzicagnoli, battilori, cartolai, tamburai ed altri artigiani di “sciogliere,
dividere, rompere o guastare detti libri e scritture”372. I divieti indicati non
avevano carattere assoluto, ma potevano essere rimossi attraverso l’intervento
dell’autorità pubblica. Il camerlengo poteva, infatti, rilasciare una licenza che
autorizzasse il proprietario, o comunque chi avesse la disponibilità
dell’oggetto, a compiere quegli atti che gli erano stati vietati. Tali licenze
erano rilasciate materialmente dai segretari di camera, previa ispezione del
commissario sopra le antichità e dopo l’editto Valenti, di un assessore. Oltre
al potere di ispezione, al commissario spettava anche un potere di controllo su
cave, siti, luoghi e botteghe, in cui erano presenti statue ed altri beni mobili
368
Editto Albani 21 ottobre 1726, Editto sopra li scalpellini, segatori di marmi, cavatori ed altri.
Ibidem.
370
Ibidem, proibisce a scalpellini, segatori di marmi ed altri, di segare, rompere o guastare pietre
o marmi contenenti iscrizioni o bassorilievi.
371
Editto Spinola, 1704.
372
Ibidem.
369
113
sottoposti a tutela373. Ad esso corrispose l’obbligo di chi aveva la disponibilità
della cosa di lasciarlo “entrare, vedere, pigliarne e darne nota di tutte le cose
antiche e prestargli ogni aiuto e favore”374. La conservazione delle cose
confiscate, a seguito di violazioni degli editti di tutela, avveniva, dopo l’editto
Valenti, per statue, marmi e bronzi nel Campidoglio fondata da Clemente XII,
quanto ai
“quadri ed altre pitture”nella pinacoteca del palazzo dei
Conservatori, dove “saranno unite e custodite con l’altre, a pubblico comodo
ed a perpetua gloria di Sua Beatitudine”. Per i “camei, medaglie ed altre simili
antichità”si provvide “secondo le disposizioni ed ordini della Santità Sua”375.
In precedenza ho rilevato come una delle principali preoccupazioni della
legislazione pontificia fosse di evitare l’esportazione incontrollata delle
antichità e degli oggetti d’arte. Tale preoccupazione riguardava anche il
trasferimento dei beni tutelati da Roma, e dal suo distretto e territorio, in altri
luoghi dello stato. In questo caso si applicava ad essi la medesima disciplina
che ne regolava l’esportazione e che prevedeva il rilascio di un apposita
licenza376. Già l’editto Sforza del 1646 precisava che l’obbligo di licenza si
estendesse alla compravendita di beni tutelati in Roma, ma con il fine di
trasferirli fuori dalla città377. L’editto Spinola del 1717 riprese il dettato del
precedente editto Sforza, ma estese però l’obbligo di licenza ad ogni caso di
compravendita, ”anche se non vi sia intenzione di trasportar detta roba fuori di
Roma e dello stato ecclesiastico”378. La licenza era gratuita e veniva rilasciata
dal camerlengo. Essa indicava i nomi del venditore, del compratore e
dell’eventuale intermediario. Lo scopo di tale restrizione era di evitare frodi
quotidiane commesse in collusione fra compratori e venditori, “con occultarsi
da quelli l’intenzione dell’estrazzioni e trasporti per fuori di Roma e stato
ecclesiastico di simili antichità”. Particolari limitazioni alla facoltà di alienare
i beni tutelati riguardavano coloro che compivano scavi per fini archeologici.
373
Editto Valenti, 1750.
Ibidem.
375
Ibidem.
376
A. Emiliani, Musei e museologia, in “Storia d’Italia”, V, I documenti, 2, Torino, 1973, p. 1615.
377
Editto sopra l’estrattioni e cave di statue, figure, intagli, medaglie.inscrittioni di marmo, di
mischio, metallo, oro, argento, gioie e cose simili antiche e moderne, Roma, presso la stamperia
camerale, 29 gennaio 1646.
378
Editto Spinola, 1717.
374
114
In questo caso essi, per vendere gli oggetti ritrovati, dovevano, oltre che
richiedere la licenza, sottoporli ad una preventiva ispezione del commissario
sopra le antichità o dell’assessore379. La medesima disciplina si applicava
anche agli scalpellini, fonditori ed altri guastatori380. Inoltre la legislazione
degli editti prevedeva un intervento pubblico ancora più incisivo nella
circolazione dei beni, prevedendo l’acquisto coattivo dei medesimi. A questo
fine era vietato “a qualsivoglia cavatore, vignaiolo, operario, muratore,
scultore, scarpellino e qualunque padrone si sia di statue, cave, siti, luoghi e
botteghe, dove siano dette cose antiche di sopra espresse, tanto in Roma,
quanto fuori”, di venderle e trasportarle per i cinque giorni successivi
all’ispezione del commissario sopra le antichità, il quale provvedeva a farne
denunzia al camerlengo381. Era, poi, vietato, a chiunque venisse rilasciata una
licenza per scavare, di vendere gli oggetti ritrovati, finché non venissero
visitati dal commissario e stimati da periti nominati dal camerlengo382.
L’obbligo della licenza era previsto anche per la compravendita di manoscritti
e documenti. A questo proposito si stabilì che essa dovesse procedere la
vendita, o comunque almeno la consegna383. I vari editti per la tutela di tali
beni prevedevano che la licenza per la vendita non venisse rilasciata, se non
dopo che i prefetti degli archivi Vaticano e di Castel S. Angelo avessero
incamerato le “cose che avranno credute rilevanti”. Le “scritture buone”erano
pagate ai pizzicagnoli ed agli altri commercianti ed artigiani “a peso di carta”,
ai librai “conforme al giusto”384.
L’importanza del commercio degli oggetti di antichità e delle opere d’arte,
nell’economia romana, legittimava gli editti ad intervenire a disciplinare anche
tale settore. “E’ così vietato a scultori, scalpellini, rivenditori, cavatori e
padroni di cave di commerciare tali oggetti prima di aver comunicato una nota
di essi al notaio della camera, affinché si possi sapere l’esito e l’esistenza in
Roma di dette robe…”385. Inoltre i cavatori, muratori, operai, vignaioli ed altri
379
M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, p. 24.
Ibidem.
381
Editto Valenti, 1750.
382
Ibidem.
383
M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, p. 26.
384
Editti Albani del 1°dicembre 1742 e Rezzonico del 16 giugno 1772.
385
Editto Spinola, 1717.
380
115
simili persone, come scalpellini, scultori, rivenditori, bottegai, non potevano
vendere e comperare oggetti d’antichità e d’arte di valore superiore ad uno
scudo, senza previa comunicazione al commissario sopra le antichità o al
notaio di camera; ciò perché spesso venivano trafugati e venduti all’insaputa
dei proprietari386.In particolare, per il commercio dei cammei, intagli, monete,
medaglie, corniole, bronzi ed altri piccoli oggetti d’antiquariato, di cui vi era
grandissima richiesta387, vennero introdotte, accanto al divieto di esportazione
senza licenza, severe pene per chi alteri, falsifichi e metta in circolazione tali
oggetti falsificati. Ciò al fine di evitare che si getti discredito sul pubblico
commercio e si inganni la buona fede dei forestieri, cui venivano venduti a
prezzi esorbitanti e lesivi, come specificato nell’editto Albani del 1733.
386
Ibidem.
Va ricordato che Roma fu nel ‘700 il principale centro della lavorazione dei cammei moderni e
del commercio degli antichi. Qui fu attiva la famiglia dei Pichler, originaria di Bressanone, fra i
quali si distinsero, per la sapiente imitazione dei modelli greco – romani, Antonio (Bressanone
1687-Roma 1779) e Giovanni (Napoli 1734-Roma 1791).
387
116
4.4. I RITROVAMENTI E LE SCOPERTE
Un’altra materia oggetto di particolari attenzioni da parte del legislatore
pontificio fu quella degli scavi. Roma e lo stato pontificio, nel Settecento,
rappresentavamo ancora una ricca miniera per coloro che intraprendevano la
ricerca archeologica e la richiesta del mercato antiquario era altissima. Le
antichità sepolte nel sottosuolo erano oggetto del “sovrano diritto di regalia”,
allo stesso modo dei tesori e delle miniere388. Qualunque attività di ricerca
archeologica, senza l’osservanza delle norme, era considerata illegale; ciò,
peraltro, non significava che i privati non potessero compiere scavi. Essi
dovevano munirsi di un apposita licenza rilasciata dal camerlengo389. La
licenza era necessaria in ogni caso, sia che gli scavi avvenivano su terreni di
proprietà pubblica, che su terreni di proprietà privata; essa era richiesta
all’ufficio delle strade, in caso di cave di marmo o altri materiali per l’edilizia,
mentre per gli scavi archeologici la competenza spettava ai segretari di
camera. La licenza conteneva le prescrizioni per evitare danni agli edifici
antichi, alle mura, alle vie pubbliche, alle cripte e alle catacombe390, stabilendo
il versamento di una cauzione e l’obbligo di ripristino dei luoghi. Nel caso di
scavi in terreni privati era necessario il consenso del proprietario; una parte
degli oggetti rinvenuti era di spettanza della camera, in misura di un quarto del
valore per i ritrovamenti in fondi privati e di un terzo per quelli in fondi
pubblici391. Il cattivo stato dell’amministrazione previde, già dall’editto Sforza
del 1646, che i titolari di licenze, in occasione della pubblicazione di un nuovo
editto, dovevano, entro il termine di dieci giorni, darne nota ai segretari di
camera, a pena della revoca della medesima392. Questo per consentire
388
G. Bufferli, La regalia dei tesori nei pontifici domini, Roma, 1778, p. 43.
Per la disciplina degli scavi qui di seguito esaminata, il riferimento è all’editto Valenti del
1750.
390
G. Bufferli, La regalia dei tesori nei pontifici domini, Roma, 1778, p. 49.
391
C. Fea, Replica antiquario-legale alla seconda scrittura del sig. avv. Scipione Cavi, Roma,
1823, pp. 3 ss. Le condizioni variavano anche a seconda del richiedente e dello scopo per cui si
effettuavano gli scavi. Comunque dall’esame delle licenze conservate si osserva una tendenza a
ridurre le quote di spettanza della camera. Nel XVI secolo la norma era di riservarle la metà del
valore degli oggetti ritrovati in luoghi pubblici ed un terzo di quelli scavati in fondi privati. Ma già
nella seconda metà del secolo si trovano licenze che riservano al fisco un terzo del valore per i
ritrovamenti in luoghi pubblici od addirittura lasciano allo scavatore tutto quanto rinvenuto.
392
Questo concetto fu ripreso anche dall’editto Spinola 1701 e 1717 e dall’editto Valenti del 1750.
389
117
all’amministrazione camerale di operare un censimento degli scavi autorizzati,
al fine di esercitare i necessari controlli. Infatti era prevista l’assistenza alle
operazioni di scavo del commissario sopra le antichità e le cave, ovvero
dell’assessore o di una persona a ciò deputata. Lo scopo era duplice: di
garantire che la ricerca avvenisse nei luoghi permessi e con modalità tali da
non recare danno ai resti archeologici e di evitare che gli oggetti ritrovati
venissero sottratti al diritto del principato e messi abusivamente in
circolazione. L’editto Albani del 1726 disponeva che “ritrovandosi nel far
cave, in luoghi tanto pubblici quanto privati, statue o frammenti di esse, torsi,
teste, bassorilievi, piedistalli, colonne, capitelli, iscrizioni, vasi, urne ed altri
ornamenti antichi, di pietra, marmo, terra cotta, bronzo o altro metallo”doveva
essere avvisato immediatamente il commissario, prima di rimuoverli dal luogo
del ritrovamento, in modo che egli poteva procedere all’esame e dare le
prescrizioni necessarie affinché “non si rompino o offendino nello scavarli”393.
Anche l’editto Spinola del 1704 prevedeva che, ritrovandosi negli scavi
pitture, stucchi, mosaici, antichi sepolcri, il ritrovamento dovesse essere
segnalato al commissario e qualsiasi operazione necessitava di una preventiva
licenza. Inoltre il commissario doveva provvedere a disegnare le cose che non
potevano essere conservate394. Vari editti prescrivevano il divieto di vendere
gli oggetti ritrovati, prima dell’ispezione del commissario e della stima di
periti, per stabilire la parte di spettanza alla camera395. Fin dal 1646396 venne
prescritto l’obbligo per carrettieri, facchini, portatori di munirsi di licenza per
il trasporto di antichità provenienti da scavi o edifici antichi. Tale licenza
doveva essere mostrata al commissario o incaricati, in caso di controlli durante
il tragitto.
Il ritrovamento di oggetti d’interesse archeologico, storico o artistico può
essere il risultato, non solo di un’attività a ciò preordinata, come gli scavi
archeologici, ma anche di scoperte fortuite. Gli editti intervennero con le loro
disposizioni a regolare anche questa materia, prevedendo l’intervento del
commissario a salvaguardia degli oggetti rinvenuti.
393
Editto Albani 1726 sopra li scalpellini.
Editto Spinola 1704.
395
M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Milano, 1988, p. 30.
396
Editto Sforza 1646.
394
118
La mancata osservanza delle prescrizioni volte alla tutela delle antichità e
delle opere d’arte dava luogo a sanzioni. Il loro esame permette di
comprendere quali comportamenti illeciti il governo pontificio considerasse
più pericolosi e pertanto maggiormente necessitanti di repressione. Le pene
più gravi erano riservate all’esportazione abusiva all’estero e al trasferimento
da Roma, nello stato pontificio, dei beni tutelati. In questo caso era prevista la
confisca dei beni, siano essi rimasti in Roma, in quanto l’esportazione ed il
trasferimento sono stati solo tentati, sia vengano a trovarsi in qualunque altro
luogo dello stato. Oltre alla confisca, era prevista una pena pecuniaria di
cinquecento ducati d’oro e pene corporali, “secondo la qualità delle persone e
delitti”, ad arbitrio del camerlengo397. Coloro che collaboravano a tali reati, sia
aiutando ad incassare ed imballare gli oggetti da trasferire, sia trasportandoli
per terra o per acqua, erano puniti con la pena di tre tratti di corda e di
venticinque scudi, oltre alla confisca dei colli contenenti gli oggetti. Per la
pena pecuniaria, il padrone rispondeva per il servitore ed il maestro d’arte per
l’apprendista398. I custodi e gli altri ministri delle porte e dei “luoghi di passo”
che lasciavano transitare cose sottoposte a tutela, senza il preventivo
accertamento della licenza di estrazione, erano puniti con la privazione
dell’ufficio e con una pena pecuniaria di venticinque scudi e pene corporali ad
arbitrio del camerlengo399. L’editto Spinola del 1717 estendeva le pene
previste per l’esportazione abusiva anche alla compravendita di antichità ed
opere d’arte400, mentre l’editto del 1704 per i manoscritti ed i documenti
prevedeva la pena di duecento scudi e di tre tratti di corda401. Inoltre, in
quest’ultimo caso, era previsto anche il risarcimento dei danni, non solo a
favore dei proprietari delle scritture, ma anche di coloro che, senza essere
proprietari, vantavano un interesse su tali scritture. Si pensi, ad “instromenti,
processi, inventari, lettere, bolle, diplomi”, seguendo l’elencazione dell’editto,
comprovanti l’esistenza di diritti e di obblighi402. I commercianti di cammei,
397
Editto Valenti 1750.
Ibidem.
399
Ibidem.
400
A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli
antichi stati italiani, 1571 – 1860, Bologna, 1978, pp. 68 ss.
401
Ibidem.
402
Ibidem.
398
119
monete, medaglie, bronzi ed altri simili antichità, contraffatti ed alterati, erano
puniti in modo analogo all’esportatore e al commerciante abusivo403. Per
l’inosservanza del divieto di vendere o trasportare gli oggetti di cui il
commissario sopra le antichità avesse fatto denuncia al camerlengo, ai fini di
un eventuale acquisto, così come l’opporsi a o l’ostacolare le sue ispezioni, era
prevista la pena pecuniaria di dieci scudi e pene corporali404. Meno severe
erano le pene stabilite in caso di danno di beni mobili ed immobili di interesse
storico ed archeologico; sanzioni più rigorose erano previste in casi particolari.
Il danneggiamento e la demolizioni di camere sepolcrali, l’eventuale distacco
di stucchi, mosaici o pitture, la rimozione di antiche iscrizioni, il
danneggiamento di manoscritti e di documenti archivistici, erano puniti con
pena pecuniaria di cento scudi e pene corporali405. Anche la ricerca
archeologica abusiva era punita meno severamente dell’esportazione. Gli scavi
abusivi o inosservanti delle prescrizioni contenute nella licenza, quali
l’assistenza del commissario sopra le antichità o di un suo delegato, le distanze
da rispettare dagli edifici antichi, l’obbligo di denuncia degli oggetti ritrovati,
erano puniti con la confisca ed una pena pecuniaria di venticinque scudi406. La
medesima pena era applicata a coloro che, avendo scoperto fortuitamente
oggetti archeologici, ometta di farne denuncia al commissario407. La mancata
comunicazione del ritrovamento di sepolcri contenenti pitture, stucchi,
mosaici, prevedeva una pena pecuniaria più grave, pari a cento scudi 408. La
vendita degli oggetti ritrovati, prima dell’ispezione del commissario e della
stima dei periti, era punita con la confisca, la pena pecuniaria di dieci scudi e
pene corporali409. Al fine di incoraggiare le scoperte e le denuncie delle
violazioni degli editti di tutela, una parte della sanzione pecuniaria era
assegnata al commissario sopra le antichità ed una parte al privato
denunciante. Tale quota, originariamente di un quarto, venne portata ad un
terzo con l’editto Albani del 1733. La seconda parte di questo editto era
403
Editto Valenti, 1750.
Editto Spinola, 1717; Editto Valenti, 1750.
405
Editto Spinola, 1704.
406
Editto Albani, 1726 “sopra li scalpellini”.
407
Ibidem.
408
Editto Spinola, 1704.
409
Editto Valenti, 1750.
404
120
dedicata a disposizioni miranti a rendere più efficace la repressione
dell’inosservanza delle prescrizioni in materia di antichità e di opere d’arte.
Venne, così, stabilito che “l’accusatore o denunziante” doveva essere tenuto
segreto, pena la perdita dell’ufficio per quei segretari di camera o ministri del
tribunale del camerlengo che ne rivelavano il nome. “Chi, falegname,
facchino, carrettiere, marinaio, barcaiolo, locandiere, oste, albergatore,
abbia concorso nell’esportazione clandestina degli oggetti tutelati, qualora ne
faccia denuncia spontaneamente, prima di essere inquisito per tal causa,
otterrà la remissione della pena ed anche la parte di sanzione pecuniaria che
spetta agli accusatori non colpevoli. Il premio di un terzo della pena
pecuniaria spetta anche agli officiale delle porte e dei passi, agli esattori delle
gabelle pubbliche e private, agli esecutori di giustizia che scoprano il
contrabbando”410. Il commissario era il funzionario istituzionalmente
incaricato di provvedere alla repressione delle violazioni degli editti di tutela.
Egli non poteva accettare alcun dono dagli interessati per l’esercizio delle sue
funzioni,a pena della perdita dell’ufficio e di sanzioni corporali, ad eccezione,
come si è detto, della quota delle sanzioni pecuniarie prevista. In seguito
all’istituzione degli assessori, questi acquisirono il diritto della quota spettante
al commissario, nel caso siano loro ad accertare le infrazioni degli editti411.
410
A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli
antichi stati italiani, 1571 – 1860, Bologna, 1978, pp. 68 ss.
411
Ibidem. Editto Valenti, 1750.
121
4.5. IL CONTROLLO DEL MERCATO DEI BENI CULTURALI
A questo punto ci domandiamo quale fosse l’effettiva portata pratica della
normativa contenuta negli editti dei camerlenghi, che originò un sistema
abbastanza completo di tutela ed in alcuni suoi punti assai avanzato; in effetti
il compito che il governo pontificio doveva affrontare era enorme, tenuto
conto dei mezzi economici ed amministrativi a disposizione. I problemi più
significativi erano, come descritto, l’esodo dallo stato delle opere d’arte e delle
antichità, il controllo dell’attività archeologica e la conservazione degli antichi
monumenti412. Il primo problema era già emerso in misura notevole nel
Seicento, ma nel secolo successivo l’esportazione delle opere d’arte raggiunse
livelli preoccupanti. “La nuova Roma vende a pezzo a pezzo l’antica”,
scriveva Montesquieu nel suo “Viaggio in Italia”413. In merito alla vendita
delle statue delle collezioni Albani e Chigi a Federico Augusto di Sassonia,
Montesquieu proseguiva: “a Roma bisognerebbe fare una legge, per cui le
statue più importanti fossero inamovibili e potessero essere vendute soltanto
insieme con la casa in cui si trovano, sotto pena della confisca della casa e di
altri effetti del venditore. Se non si farà così, Roma sarà completamente
spogliata”414.
L’aggravarsi della crisi economica segnò, già nella seconda metà del XVII
secolo, il declino del mecenatismo privato romano e, dopo la morte di
Alessandro VII (1667), anche di quello pubblico. Vi erano, tuttavia, ancora
grandi collezionisti, come il card. Pietro Ottoboni ed il marchese Pallavicini, a
412
Sul mercato artistico ed archeologico a Roma nel XVIII secolo, sugli scavi, sulla politica
artistica dei pontifici, sul movimento artistico, oltre alla letteratura, per un quadro d’insieme
fondamentale è l’opera di S. Pinto, La promozione delle arti negli Stati italiani dall’età delle
riforme all’Unità, in “Storia dell’arte italiana”, Torino, 1982.
413
Voyage en Italie, traduzione di M. Colesanti, Bari, 1971, p. 219.
414
Ibidem, pp. 168 ss. In effetti alcune delle collezioni più importanti erano o saranno tutelate, per
volontà di chi le aveva raccolte o dei suoi discendenti, dal vincolo fidecommissario. Così farà lo
stesso card. Albani, con testamento del 1778, come avevano fatto, nello stesso secolo, il principe
Giovanni Battista Pamphili, nel 1709, e la duchessa Maria Camilla Pallavicini Rospigliosi, nel
1710, sui grandi esempi di Paolo V Borghese, di Urbano VIII Barberini, di Innocenzo X Pamphili.
Ma non sempre questo tipo di tutela si mostrerà efficace, come dimostrano le dispersioni avvenute.
Si pensi alla collezione di Villa Albani, prosciolta dal vincolo fidecommissario con chirografo del
6 ottobre 1866 ed acquistata dai Torlonia nel dicembre successivo, tenuta assieme all’ex museo
della Lungara, ora trasformato in una casa di appartamenti di lusso, di proprietà della stessa
famiglia, in deplorevole stato di conservazione e resa praticamente inaccessibile agli studiosi.
122
cavallo dei due secoli, e, più tardi, i cardinali Neri Corsini415, Silvio Valenti,
della cui galleria vi è una rappresentazione pittorica eseguita dal Pannini nel
1749416, ed infine, la figura di maggior rilievo, il card. Alessandro Albani,
fratello dell’autore degli editti del 1726 e del ’33. La storia delle sue raccolte
era emblematica in confronto alla situazione del collezionismo romano del
Settecento. Giovanissimo entrò in contatto con il più famoso antiquario
dell’epoca, Bianchini417; con l’assistenza di questo erudito, promosse fortunate
campagne di scavi in vari luoghi del Lazio ed poté ampliare la sua collezione
con acquisti di rilievo. Nel 1728, però, dovette vendere parte di essa, perché
quasi ridotto alla rovina finanziaria. Il fatto suscitò nella capitale impressione
ed amarezza. L’episodio fece si che, pochi anni dopo, Clemente XII
acquistasse dal cardinale, ancora bisognoso di denaro, la sua collezione di
statue, busti ed iscrizioni antiche per il museo Capitolino. Il cardinale Albani,
fu anche uno dei principali tramiti per i collezionisti inglesi, che volevano
effettuare acquisti di antichità romane. Difensore, più o meno palese, degli
interessi del governo presso la santa sede, protesse anche diversi artisti
britannici residenti nella capitale, tra i quali alcuni operanti nel grande giro del
mercato antiquario, come Gavin Hamilton e Thomas Jenkins. I suoi contatti
con i collezionisti anglosassoni gli valsero la nomina a membro della società
degli antiquari di Londra.
Nella grave crisi in cui versava lo Stato, tale mercato era uno dei pochi settori
attivi, attorno al quale gravitavano anche attività artistiche ed artigianali, dal
restauro, alle vedute pittoriche di rovine, alle incisioni, fino alla produzione di
ricordi per turisti di più modeste pretese. All’origine di tutto ciò vi era il
rinnovato interesse per l’antichità classica, di cui l’esplorazione e lo scavo
archeologico, con le grandi scoperte del secolo, furono ad un tempo,
conseguenza e stimolo. Riuscire a controllare una situazione del genere era un
compito assai arduo, anche per un governo fornito di mezzi, economici ed
amministrativi, più consistenti di quelli a disposizione del debole governo
415
E. Borsellino, Il cardinale Neri Corsini mecenate e committente, in “Bollettino d’arte”, Roma,
1981, pp. 49 ss.
416
R. Venuti, Accurata descrizione topografica e storica di Roma moderna, Roma, 1766 e 1767.
417
G. Cantino, Archeologia e archeologie. Il rapporto con l’antico nell’arte italiana, Torino,
1984, pp. 214 ss.
123
pontificio. Ciò nonostante, come appare dall’esame delle licenze rilasciate dal
camerlengo, e conservate nel fondo Camerale II, Antichità e Belle Arti,
dell’archivio di stato di Roma, un certo controllo sull’esportazione esisteva418.
Occorre, tuttavia, considerare che non sempre il giudizio che accompagnava
tali licenze corrisponde alla realtà. Valutazioni del tipo “moderni”, “ordinari”,
“boni ma non singolari”, “mediocri”, di “poco valore”, riferiti agli oggetti da
esportare, corrispondevano più a criteri burocratici di opportunità o di merito,
che a giudizi estetici419. La prassi di ricevere regalie ed emolumenti per le
visite effettuate dal commissario e dagli assessori era comune, anche se
proibita con gravi sanzioni420. Essa corrispose, per altro, ad una concezione
diffusa del servizio pubblico nell’ancien régime, che non poteva comunque
non spingere, oltre ovviamente ai casi più gravi di corruzione, ad
un’interpretazione lassista del sistema normativo di rilascio delle licenze, che
era più o meno rigoroso, a seconda dell’antichità, della qualità e del valore
venale dell’opera421.
In particolare, l’esportazione di quadri, che la legge sottoponeva ad un
controllo meno rigoroso, avveniva quasi senza formalità. Spesso nelle licenze
veniva indicata solo la quantità dei quadri esportati; non raramente si trattava
di permessi riguardanti cento, centocinquanta, duecento, trecento pezzi per
volta. Le licenze erano più precise in caso di statue. La ragione di tale
comportamento era nel maggiore interesse dei commissari per l’antichità
classica, che aveva le più alte espressioni artistiche nelle opere di scultura, e
nella convinzione, presente nel Winckelmann, come, più tardi nel Canova, che
si dovessero salvare per i musei pubblici solo quelle opere d’arte che fossero
dei capolavori422. Accanto al mercato ufficiale vi era un fiorente mercato
clandestino, cui si riferivano le disposizioni degli editti.
418
Archivio di Stato di Roma, Camerale II, Antichità e Belle Arti, busta 7, fasc. 178, pubblicato
poi da O. Rossi Pinelli, Carlo Fea e il chirografo del 1802: cronaca, giudiziaria e non della prima
battaglia per la tutela delle Belle Arti, in “Ricerche di Storia dell’arte”, 8, Roma, 1979, p. 32 ss.
419
Ibidem.
420
Ibidem. Lo conferma la testimonianza del Fea, che, in una sua memoria del 1803, a prova della
propria onestà e del proprio disinteresse, porta non solo il rifiuto di tante generose “esibizioni”,
fattegli perché facilitasse le esportazioni, ma anche la rinuncia alle “regalie ed emolumenti” che
erano soliti ricevere i suoi predecessori, p. 33.
421
Ibidem.
422
Ibidem.
124
Un’altra forma di intervento dei papi sul mercato artistico e antiquario
riguardò l’acquisto di singole opere e di intere collezioni, trasferite, poi, ai
musei Capitolino e Vaticano e alla biblioteca Vaticana. Ad esse si
aggiungevano numerose e cospicue donazioni. Tuttavia, in particolare, i
pontificati di Clemente XIV e di Pio VI conobbero due enormi perdite per il
patrimonio culturale di Roma: nel 1769 partì per Firenze il gruppo dei Niobidi,
conservato a Villa Medici, e tra la fine del 1786 e gli inizi del 1787 i Borbone
provvidero al trasferimento delle sculture e altre antichità farnesiane a
Napoli423.
4.6.
IL CONTROLLO DELLA RICERCA ARCHEOLOGICA
La passione per l’archeologia, alimentata dal rinnovato interesse per
l’antichità, che sfocerà nella seconda metà del secolo nel gusto neoclassico, ed
incrementata dallo scalpore suscitato dalle grandi scoperte di Pompei e delle
altre città vesuviane, contribuì al moltiplicarsi di scavi in Roma e fuori.
L’escavazione abusiva era assai diffusa, mirante a salvare solo quei reperti
appetibili al mercato collezionistico, distruggendo il resto e mettendo in
pericolo gli stessi monumenti già riportati alla luce424. A questo problema il
governo pontificio rispose con una legislazione di grande sapienza e
consapevolezza culturale, in cui erano espresse le esigenze più avanzate della
cultura archeologica del tempo. Il disordine amministrativo era grande; non si
sa quante furono le licenze rilasciate, non sempre, tra l’altro, dall’autorità
competente. I papi intervenivano promuovendo scavi di iniziativa pubblica.
Sotto Clemente XI, riprese l’esplorazione delle catacombe e si attuarono gli
scavi di S. Maria Antiqua e del palazzo di Domiziano, nei giardini farnesiani,
sul Palatino. Ma non sempre la qualità dell’investigazione archeologica era di
423
A. Gonzales Palacios, Il trasporto delle statue farnesiane da Roma a Napoli, in “Antologia di
Belle Arti”, 1978, pp. 168 ss.
424
Gli editti Altieri 1686 e Valenti 1750, significativamente usano le stesse parole per
stigmatizzare il fenomeno: “E perché vi sono molte persone che scavano e fanno cavare, in luoghi
pubblici e privati, vicino agli edifizi, fabbriche e mura e ponti antichi…con pericolo e rovina di
detti edifizi…ed in oltre cavano e fanno cavare in diverse cave publiche e private…senza saputa e
licenza nostra…”.
125
buon livello. Boldetti425, nominato dal papa custode delle catacombe, fece
importanti scoperte, come quelle delle catacombe di Camomilla, nella vigna
Serafini, e di Trasone, sulla Salaria, suscitando non poche critiche per la
mancanza di ordine e metodo. Il materiale rinvenuto fu interamente asportato,
senza attenzioni e privo di criteri.
Organiche campagne di scavi, furono intraprese sotto il pontificato di Pio VI,
che ricercò in tale attività l’affermazione della sua politica di prestigio nel
campo della cultura e delle arti426. Egli promosse scavi a Civitavecchia, ad
Otricoli, a Subiaco. Particolare scalpore suscitarono gli scavi nella villa di
Cassio, presso Tivoli427. Un’altra scoperta interessante fu quella del sepolcro
degli Scipioni sull’Appia, nel 1778 – 80. Esso era già stato rinvenuto nel 1614,
ma era caduto in abbandono428.
Un altro problema era quello della conservazione dei monumenti e delle opere
d’arte. In gran numero di essi poneva notevoli difficoltà al governo pontificio,
la cui sensibilità era antica, ma limitata dalla crisi finanziaria, in cui versava lo
stato nel XVIII secolo. Non mancarono, tuttavia, interventi di conservazione
attiva di grande rilievo, come il restauro dell’arco di Costantino, da parte di
Clemente XII, ed il salvataggio del Colosseo, in stato di grave abbandono,
dopo il terremoto del 1703, promosso da Benedetto XIV.
Ma dove la politica dei papi acquista grandissimi meriti è nel campo
museografico.
A papa Clemente XII dobbiamo la costruzione di un grande museo pubblico di
arte antica in Campidoglio, inaugurato nel 1734, cui si aggiunse, per volontà
di Benedetto XIV, la pinacoteca, ospitata nel palazzo dei Conservatori. La
sistemazione delle collezioni vaticane secondo criteri razionali avvenne nel
XVIII secolo. Benedetto XIV costituì, nel 1756, il museo delle antichità
cristiane, su proposta di Scipione Maffei. Allo stesso papa si deve la raccolta
di epigrafi della galleria lapidaria. Nel 1767, sotto Clemente XIII, al museo
sacro si aggiunse quello profano, ideato dal card. Albani. A Clemente XIV ed
425
N. Parise, Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1969, pp. 247 ss.
C. Pietrangeli, Scavi e scoperte di antichità sotto il pontificato di Pio VI, Roma, 1958, p. 67.
427
Ibidem.
428
Ibidem, p. 70.
426
126
a Pio VI si deve uno degli interventi più innovatori e più organici della
museografia settecentesca, il museo Pio – Clementino429.
Nel campo della conservazione bibliografica ed archivistica, Clemente XIII
emanò un regolamento per la biblioteca Vaticana, molto rigoroso, mentre
l’archivio segreto acquisì importanti fondi, come le carte di Clemente XI , i
manoscritti della casa Pio. Infine a Benedetto XII si deve la costituzione
Maxima Vigilantia, del 14 giugno 1727, con cui si provvide alla disciplina
degli archivi ecclesiastici430.
4.7.
TRA PUBBLICO E PRIVATO: DAL DECENNIO FRANCESE
ALL’UNITA’ D’ITALIA.
Una valutazione dei beni artistici nell’ambito dell’ordinamento giuridico del
regno delle Due Sicilie tra il Decennio francese e l’Unità d’Italia, va correlata
all’affermazione di un diritto positivo fortemente divaricato rispetto all’ancien
régime e, allo stesso tempo, al nuovo assetto che al suo interno assume la
proprietà privata.
La spinta rivoluzionaria partita dalla Francia ed i successivi avvenimenti,
infatti, frantumarono vecchi schemi politici e giuridici dando vita ad una
concezione dello Stato in cui omogeneità dell’ordinamento, supremazia della
legge, codificazione e razionalizzazione burocratico – amministrativa erano
elementi convergenti e necessari per la costruzione di un impianto statuale
meglio rispondente ai fini che esso era chiamato ad assolvere. Le basi teoriche
e culturali sulle quali si costituirono gli ordinamenti in parte erano nuove, ma
in larga parte erano anche il frutto delle dottrine e delle esperienze del passato,
anche se nuova era la loro riformulazione e il contesto storico di riferimento.
Le innovazioni conseguenti non comportarono solo l’adozione di schemi
tecnico – giuridici diversi dal passato, ma lo Stato stesso acquisì
progressivamente il ruolo di ente deputato a forgiare l’ordine sociale con un
intervento positivo e costante nel tempo, per il perseguimento di obiettivi
429
C. Pietrangeli, Il Museo Clementino Vaticano, in !Atti della Pontificia Accademia Romana di
Archeologia”, Roma, 1952, pp. 87 ss.
430
G. Badini, Archivi e chiese. Lineamenti di archivistica ecclesiastica e religiosa, Bologna, 1984
pp. 57.
127
funzionali a bisogni storicamente manifestati. Si affermò,in definitiva, in
modo incontrastato, un diritto dello Stato considerato sotto il duplice profilo
del diritto pubblico e del diritto privato, con conseguente distinzione di
caratteri e funzioni afferenti a ciascuna delle due situazioni giuridiche. Come
ente di diritto pubblico, lo Stato, attraverso il re, esercitava il suo potere
sovrano, provvedendo alla sicurezza dei suoi sudditi, promuovendo attività
commerciali e il benessere in genere, stringendo e mantenendo relazioni
internazionali; come ente di diritto privato – come ogni altra persona giuridica
– gestiva i suoi interessi per ricavarne il vantaggio migliore. Nel primo caso
era proprietario del demanio pubblico, nel secondo del patrimonio fiscale.
Nel contesto di queste innovazioni acquisirono ordinata dimensione giuridica
tanto i beni pubblici quanto i beni dei privati, con relativa differenziazione
funzionale all’interno dell’ordinamento.
Ed è nella dialettica tra libera proprietà privata e dimensione pubblicistica dei
beni che si intende, in questa sede, inquadrare lo studio dei monumenti di
antichità ed arte nella prima metà dell’Ottocento. Si sottolinea che, nel periodo
in esame, non esisteva l’idea della “funzione sociale”431 della proprietà, che
trovò, solo successivamente, pieno accoglimento tra i principe della carta
costituzionale del 1948. Così, mentre il periodo considerato era caratterizzato
da una concezione individualistica della proprietà, tendenzialmente alienata da
ogni intervento della sfera dei pubblici poteri, poiché la volontà dell’oggetto,
l’io, era al centro dell’ordinamento, con l’avvento di concezioni più realistiche
e più sociali affermatesi tra Ottocento e Novecento, l’individuo era in continua
contrapposizione con altri centri di interesse.
In una visione rispondente ai principi di solidarietà sociale, il concetto di
rapporto giuridico rappresenta il superamento della tendenza, che esaurisce la
costruzione degli istituti civilistici in termini esclusivi di attribuzione di diritti
ai soggetti432.
431
E. Cimbali, La proprietà e i suoi limiti nella legislazione civile italiana, in “Studi di dottrina e
giurisprudenza civile”, Lanciano, 1889.
432
P. Pierlingieri, Profili istituzionali del diritto civile, Napoli, 1979, p. 263.
E’ il caso di sottolineare che nella dottrina più recente, diversamente dal passato, “la condizione
giuridica delle cose di interesse artistico e storico viene a dispiegarsi in termini che non appaiono
riconducibili al principio della funzione sociale della proprietà, e quindi a differenziarsi da quelle
altre specie di beni di interesse pubblico il cui regime trova adeguata sistemazione alla luce
128
Ciò vuol dire che nella visione giuridica della prima metà dell’Ottocento, il
concetto di proprietà consacra un livello tendenzialmente assoluto di garanzia
della sfera patrimoniale e privata del soggetto; successivamente, la categoria
dei diritti soggettivi ha ricevuto un sostanziale ridimensionamento in vista di
relazioni ed interrelazioni con la pluralità dei soggetti giuridici. La disciplina
giuridica della proprietà, quindi, a seconda del momento storico, sembrerebbe
condizionata da queste impostazioni teoriche e relative conseguenze sul piano
normativo. Anche nella prima metà del XIX secolo, tuttavia, l’assolutezza
della definizione della proprietà subì modifiche in corrispondenza dei diritti
reali e particolarmente dei diritti reali di godimento, ove l’ordinamento e le
leggi ravvisavano la necessità di tutelare alcuni specifici e ben individuati
interessi. La petizione di principio, dunque, nelle sue soluzioni tecnico –
giuridiche non ha avuto sempre valenza cogente; anzi, considerato nella sua
essenzialità, lo schema dell’assetto proprietario ha accolto sostanziali
delimitazioni tese ad evitare: possibili lesioni al diritto di terzi433; motivazioni
dovute alla difesa o promozione di interessi direttamente e indirettamente
attinenti all’utile pubblico434.
appunto della funzione sociale. Infatti alla base della costruzione giuridica del concetto di bene
culturale sta la considerazione, fondata sull’analisi del complesso dei poteri pubblici che
gravitano sulla cosa di interesse artistico e storico, che la gestione ed utilizzazione della cosa per
ciò che attiene al suo valore culturale resta al di fuori della sfera di disponibilità e di controllo del
soggetto cui la cosa stessa appartiene in quanto bene patrimoniale. A differenza quindi di altri
beni, per i quali la loro destinazione all’interesse pubblico è attuata mediante un indirizzo
funzionale impresso al diritto di proprietà, le cose che costituiscono dei beni culturali restano
vincolate alla funzione connessa a questa loro natura, non per mezzo di un esercizio
funzionalizzato del diritto di proprietà, ma grazie al loro affidamento, per quanto attiene al loro
essere beni culturali, alla mano pubblica”, considerazione che ho ritenuto utile riportare tratta da,
P. G. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, Torino, 1987, vol. II, p. 218.
433
J. G. Locré de Boisses, Legislazione civile commerciale e criminale, Napoli, 1841, vol. IV, p.
109, da cui, “La vera libertà consiste in un giusto accordo tra i diritti ed i poteri individuali col
bene comune. Quando ciascuno può fare ciò che gli piace, può fare ancora ciò che nuoce al più
gran numero. La licenza di ciascun particolare produrrebbe infallibilmente la sventura di tutti”.
434
In relazione alla problematica della concezione della proprietà nella prima metà del XIX secolo,
mi sembra opportuno richiamare quanto ha scritto P. Grossi in “Tradizioni e modelli nella
sistemazione post – unitaria della proprietà, Firenze, 1977, “La dottrina giuridica ottocentesca –
e, tra essa, dunque, anche quella italiana – dimostra di non avere né la capacità né la possibilità
per strutturare un modello giuridico combaciante perfettamente quello filosofico – politico, per
chiarire e fissare a livello del diritto il problema proprietà, così come era stato chiarito e fissato
nei programmi politologici e sociologici; dimostra di essere ipotecata da quel complesso
rilevantissimo di scelte, in fatto di rapporti fra uomo e beni, la esperienza medioevale aveva
compiuto. Il modello filosofico chiedeva al giurista la costruzione di una proprietà rigorosamente
individuale, pensata come situazione al massimo grado indipendente e piena, di possibile
assolutezza (…), il più possibile monolitica, il più possibile stabile. E premeva sul giurista per
129
Una concezione siffatta della proprietà e dei beni riceve la sua prima
definizione nel Codice civile francese del 1804, dal quale venne poi recepita
nella legislazione e nell’esperienza giuridica del regno delle Due Sicilie.
Nonostante il Codice non individuasse i monumenti, le opere d’arte e altri beni
culturali in genere da sottoporre al regime di tutela, qualche considerazione
può essere fatta con riferimento specifico agli art. 462, 469 e 477435.
L’art. 462 c.c. 1° comma affermava che “ i proprietari hanno libera facoltà a
disporre dei beni che loro appartengono, colle modificazioni stabilite dalla
legge”. La disposizione del precedente articolo assumeva, con l’art. 469, una
connotazione rinforzata, stabilendo che “la proprietà è il diritto di disporre
delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato
dalle leggi o da regolamenti”. Si affermava, quindi, in linea generale, il pieno
diritto di proprietà sulle cose possedute, a condizione che tale facoltà non
fosse in contrasto con la previsione di atti normativi primari o secondari, cui
era demandato il compito di individuare il perimetro delle libertà, obblighi e
vincoli.
L’art. 477, infine, affermava il diritto di proprietà su suoli e sottosuoli. Si tratta
di previsioni importanti in quanto si assoggettavano i beni immobili ai mutui
servigi da cui scaturivano diritti ed obbligazioni conseguenti. In particolare il
3° comma affermava che il proprietario “può fare al di sotto (del suolo) tutte le
costruzioni e scavamenti che crederà a proposito, a trarre da questi i prodotti
che en pervengono; salve le modificazioni risultanti dalle leggi e dai
regolamenti relativi alle miniere e dalle leggi di polizia”436. Anche in questo
caso ci troviamo di fronte ad una prescrizione di tipo negativo con espresso
rinvio a norme positive. Il Codice, in definitiva, non specificava sempre i
contenuti delle situazioni giuridiche oggetto di tutela, come avviene nelle
orientarlo in due direzioni tecniche ben precisate: da un lato, costruzione della proprietà come
situazione qualitativamente, intrinsecamente diversa, dal restante fascio dei diritti reali;
dall’altro, e conseguentemente, separazione concettuale fra quella e questi, con la tendenza
marcata a fare anzi di quella e di questi una sorta di dati antitetici, in un vero e proprio rapporto
d’opposizione di carattere squisitamente logico. Il ceto dei giuristi non rispose all’appello:
certamente non sul piano della riflessione scientifica, ma nemmeno interamente sul piano della
legislazione, su cui le incertezze dottrinali ebbero il loro peso.
435
R. Di Costanzo, Tutela giuridica di beni artistici e proprietà privata nel Mezzogiorno
preunitario, Atti del convegno di studi, “Beni culturali a Napoli nell’Ottocento”, Napoli, 1997, p.
56 ss.
436
Ibidem.
130
sistemazioni giuridiche successive. Le prescrizioni erano in negativo perché, il
principio individualistico del pubblico interesse spettava al legislatore, cioè al
re, che ne era il supremo garante e la personificazione, oltre che la fonte stessa
dei diritti riconosciuti dalla legge dello Stato.
Secondo il giurista francese Jean S. M. Portalis, “spetta al cittadino la
proprietà, e l’impero al monarca: tale è la massima di tutti i tempi”437. In
realtà, su tale formulazione non tutti giuristi erano d’accordo. Alcuni
ritenevano
che
l’affermazione
del
Portalis
manifestasse
una
“vera
contraddizione: ché la Sovranità non includesse un vero dominio eminente
sulle proprietà de’ sudditi, neppure l’utilità pubblica darebbe giammai al
Sovrano quel diritto di disporre delle proprietà medesime, (…) che ove il
sovrano mancasse di quell’eminente dominio, mancherebbe quel potere
necessario alla sanzione di molte leggi civili, alcune delle quali suppongono
essenzialmente nel legislatore il dominio eminente di tutte le proprietà
esistenti nello Stato, come sarebbero le leggi dell’usucapione, le leggi delle
prescrizioni, le leggi di successione, ecc”438.
A questa seconda valutazione di tale diritto si allineava, ad esempio, il
comportamento di Ferdinando I con il decreto del 1816 in base al quale
acquisì al patrimonio privato borbonico i monumenti di antichità e arte439
progressivamente trasportati nel Museo, comprensivi di beni di diversa
provenienza ivi depositati durante il Decennio francese440.
437
Ibidem.
Considerazione tratta da, J. G. Locré de Boisses, Legislazione civile commerciale e criminale,
Napoli, 1841, vol. IV, p. 109.
439
E’ opportuno sottolineare che già in questo periodo è da ritenersi fortemente innovativa la
dizione “monumenti di antichità e arte” spesso ricorrente nella documentazione. Essa, difatti,
implica e sottolinea il principio secondo cui gli oggetti della tutela legislativa non sono soltanto
opere di pregio artistico, ma tutto ciò che è frutto della cultura, della religione e della civiltà dei
popoli che hanno resistito all’usura del tempo.
440
Sul Museo, e in particolar modo sul r. d. del 1816, si sono molto soffermati sia P. D’Alconzo
sia A. Milanese i cui contributi sono entrambi inseriti nel volume “Musei, tutela e legislazione dei
beni culturali a Napoli tra ‘700 e ‘800”, Napoli, 1995. Le disposizioni contenute nel decreto del
22 febbraio 1816, distinguono la dimensione giuridica dei monumenti che devono essere
considerati di esclusiva proprietà privata del re da tutto ciò che appartiene ai beni della corona.
Questi ultimi, per definizione e prassi, in alcun modo appartengono ad un regime privatistico
fecente capo alla persona del sovrano. La distinzione, peraltro, è nella ratio stessa del
provvedimento, poiché se in linea di diritto vi fosse identità tra le due fattispecie essa sarebbe del
tutto ridondante. Va precisato, invece, che i beni della corona altro non sono che beni facenti parte
del demanio pubblico dello Stato, da esso separati e distaccati per le necessità e lo splendore del
438
131
Appare ovvio che la competenza del re sulla materia di antichità e belle arti
aveva natura ordinamentale ed il Codice rinviava ad esso in qualità di
detentore del potere legislativo ed esecutivo. A ciò si aggiunse che le opere
d’arte fin dal Settecento assunsero carattere di assoluta preminenza441,
intendendosi con ciò che i Borbone individuarono in essi caratteristiche di
bene di interesse nazionale.
La tutela giuridica dei monumenti di antichità e arte nacque dall’intento di
preservare quei valori ritenuti essenziali ad un bene riconosciuto come tale.
Essa manifestava i suoi effetti con mezzi preventivi e repressivi, determinando
il divieto a non procedere ad una certa cosa nonché la piena osservanza di
procedure e obblighi da esse prescritte. Diverse prescrizioni negative, dunque,
che investivano non solo i proprietari, ma anche eventuali possessori, a
qualsiasi titolo, dei beni. In questo senso la legislazione di settore
puntualizzava ed integrava le disposizioni del Codice Civile. Tale legislazione,
peraltro, lungi dall’avere caratteristiche organiche, era costituita da norme
emanate a più riprese e con contenuti che di volta in volta assumevano
caratteristiche rinforzate rispetto alle precedenti statuizioni. Il carattere quasi
generale era quello di impedire ai privati la rimozione dal sito naturale,
l’esportazione e la vendita all’estero di qualsiasi oggetto d’arte, anche quando
il governo non poteva comprarli per sé, limitando questa facoltà per quei soli
capi ritenuti di minore pregio e interesse storico o artistico. Di particolare
importanza sono i regi decreti del 15 settembre 1806 e 7 agosto 1809
concernenti la tutela delle opere d’arte dei monasteri soppressi, di cui si ordinò
l’immediata inventariazione avente carattere cautelativo e di accertamento
probatorio,
onde
evitare
l’illegale
depauperamento
di
quell’ingente
patrimonio, artistico e non442.
Ad un fine identico, ma basato su presupposti giuridici diversi, mirava il r. d.
del 3 giugno 1811, in quanto il provvedimento vietava espressamente
l’asportazione o vendita d qualsiasi oggetto d’arte sito nelle chiese e nei
monasteri non soppressi (art. 1), oltre che alle cappelle di patronato privato
trono. Su questi beni il re esercita i diritti dell’usuario, e dell’usufruttuario e talvolta anche diritti
eccedenti dovuti alla natura assolutistica del potere di cui è titolare.
441
P. D’Alconzo, La prima legislazione di tutela dei beni culturali, Napoli, 1995, p. 57.
442
Ibidem.
132
(art. 2). In questo secondo caso, la normativa modificava la proprietà privata
secondo i principi precedentemente esposti, assoggettandola al regime di
servitù monumentale. Il divieto espresso nell’art. 1,relativo alle chiese non
devolute al regio demanio, si ispirava ai principi della demanialità, dato che le
cose sacre degli edifici conservati alla destinazione di culto erano deputate
all’uso pubblico e per tal motivo rese non commerciabili443. Il divieto, dunque,
era volto ad impedire l’alienazione o l’appropriazione illegittima di cosa sacra
anche se no di appartenenza diretta allo Stato.
La materia degli scavi era oggetto di alcuni importanti provvedimenti; il r.d.
del 7 aprile 1807 ordinò la sospensione di tutti gli scavi, sia per conto del re
sia d’iniziativa privata, fino ad una nuova regolamentazione dell’intero settore,
la cui stesura fu demandata al soprintendente dell’Accademia di storia e
antichità. La normativa venne pubblicata, il 15 febbraio 1808, con riferimento
esclusivo agli scavi eseguiti per iniziativa privata. I punti principali del
provvedimento erano i seguenti: autorizzazione preventiva del Ministero
dell’interno; descrizione del sito sottoposto ad operazioni di scavo ed
autorizzazione del proprietario legittimo, nel caso in cui il petizionario fosse
usufruttuario o semplice ricercatore; comunicazione dell’autorizzazione
all’Intendente competente per territorio ed al Soprintendente generale degli
scavi, al quale spetta il compito di nominare una persona di fiducia per il
controllo della regolarità delle operazioni; rapporto mensile dei sorveglianti
al Ministro dell’interno ed all’Accademia di storia e antichità, il cui compito
era valutare quali oggetti avrebbero potuto restare nella libera disponibilità
dei privati, quali acquistare per i Musei reali; confisca, ai sensi dell’art. 7, in
caso di scavi effettuati illegalmente o di tentata esportazione senza reale
permesso in violazione dell’art. 3 del r. d. 7 aprile 1807.
Queste disposizioni vennero successivamente confermate con i provvedimenti
emanati il 13 e 14 maggio 1822 da Ferdinando I, i cui contenuti non si
distaccavano molto dalla normativa precedente se non per i seguenti aspetti
pur rilevanti sul piano sostanziale: estensione del divieto di cui ai precedenti
decreti 7 aprile 1807 e 3 giugno 1811 anche agli edifici pubblici; estensione
443
Ibidem, p. 59
133
ai fondi privati del divieto di demolizione o degradazione di monumenti;
proibizione relativa a all’esportazione di qualsiasi capo monumentale o
artistico senza permesso, con autorizzazione limitata alle sole opere ritenute
di scarso interesse ai fini del “decoro della Nazione”; il permesso
all’esportazione sarebbe stato concesso dal Sovrano coadiuvato da una
commissione ad hoc (Commissione di antichità e belle arti)444. In particolare
con decreto del 14 maggio dello stesso anno si provvide a definire il
regolamento di attuazione i cui punti salienti erano i seguenti: in primo luogo
la richiesta, dei rr. dd. 20 giugno e 10 luglio 1822, doveva essere al Ministero
di Casa Reale, nelle cui attribuzioni è passata l’intera materia, e la relativa
autorizzazione concessa dal re; doppio regime di sorveglianza sia da parte dei
sindaci, su incarico dell’Intendente della provincia, sia da un ispettore
nominato dal direttore del Real Museo tra persone di sua fiducia oppure tra i
soci dell’Accademia ercolanese; attestato legale di proprietà del fondo o
autorizzazione concessa dai proprietari ad usufruttuari; in caso di scoperta di
monumenti, statue, iscrizioni vigeva l’obbligo di notifica a carico
dell’inventore al sindaco entro tre giorni; immediato rapporto degli incaricati
alla sorveglianza ai rispettivi committenti; obbligo di consegna dei beni
monumentali preso gli inventori, ai quali era vietata la libertà di disposizione,
compresi eventuali lavori di restauro, senza preventiva autorizzazione
sovrana445.
Va anche notato, che “qualunque sia il merito degli oggetti rinvenuti, essi
erano considerati a tutti gli effetti come proprietà degli inventori”446.
La determinazione su questo punto si diversifica dal regolamento del 1808,
con la quale si era stabilito che in base al merito degli oggetti scavati,
l’Accademia di storia e di antichità avrebbe stabilito quali beni sarebbero
rimasti nella libera disposizione dei proprietari e quali da “riguardare come
conducenti alla istruzione e al decoro nazionale”, assoggettandoli a
disposizioni conseguenti.
444
Ibidem, p. 60.
Ibidem.
446
Ibidem.
445
134
Si prevedeva, infine, la confisca dei beni in caso di contravvenzione a
ciascuna delle norme descritte, oppure una multa nel caso di loro scomparsa.
Tali disposizioni furono integrate dalla circolare del Ministro di casa reale del
22 settembre 1824, in base alla quale la sorveglianza sugli scavi doveva essere
esercitata anche dagli agenti di polizia “né quali si abbia maggior fiducia”447.
Analogamente alle prammatiche borboniche del XVIII secolo, anche i decreti
di Ferdinando I erano ispirati alla legislazione pontificia, con specifico
riferimento all’Editto Pacca,448 emanato il 7 aprile 1820, sotto il pontificato di
Pio VII, dal cardinale camerlengo, il beneventano Bartolomeo Pacca,
rappresentando la prima disciplina organica di tutela, ispiratrice e modello per
la legislazione degli altri stati e, successivamente, per quella nazionale.
Esso prevedeva l’obbligo di denunciare e descrivere alla Commissione di belle
arti tutti gli oggetti di antichità e d’arte che si trovavano nelle chiese o in
qualunque stabilimento ecclesiastico o secolare, in modo da consentirne la
catalogazione; disponeva una serie di vincoli e controlli per la conservazione,
il restauro e la circolazione degli stessi oggetti, distinguendo quelli di
“singolare e famoso pregio per l’arte e per l’erudizione” (che potevano
essere alienati solo all’interno dello Stato e previa licenza) da quelli non
ritenuti “necessari o di sommo riguardo per il Governo” (dei quali comunque
doveva essere denunciata l’alienazione, pena la confisca, ed è vietata
l’esportazione senza una licenza comportante un dazio del 20% del valore sul
mercato), e dettava anche una prima disciplina degli scavi. Sull’osservanza di
tali norme era deputato a vigilare, mediante visite annuali, l’Ispettorato delle
Antichità e Belle Arti449.
Nel successivo seppur breve regno di Francesco I di Borbone (1825 – 1830),
si ebbe, grazie anche all’interessamento personale del sovrano, una ripresa
delle campagne di scavo, stanziando, nel 1828, la somma annua di 2.000
ducati450. Poco dopo, ad opera del ministro Ruffo, fu redatto un progetto di
447
Ibidem.
D. Mastrangelo, Dall’Editto Pacca al Codice Urbani. Breve storia della normativa sui beni
culturali, Roma, 2005, p. 11.
449
A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni culturali degli antichi stati
italiani, 1571 – 1860, Bologna, 1978, p. 60.
450
ASN, Ministero Affari Interni, I inv. Busta 1002, Rapporti sul procedere degli scavi di Pompei.
448
135
legge sul Real Museo Borbonico e sugli scavi, che avrebbe dovuto completare
e migliorare la precedente legislazione borbonica. Il progetto fu trasmesso dal
ministro all’Accademia ercolanese, ed esaminato da una commissione
composta dal presidente C. M. Rosini, dal direttore del Museo e
soprintendente generale degli scavi del Regno M. Arditi. Tale progetto è stato
rinvenuto presso la Società Napoletana di Storia Patria451. Qui di seguito
riporterò il testo, assai interessante per la novità di una gestione, in qualche
misura collegiale del Museo e degli scavi, strettamente collegata alle
istituzioni accademiche:
“Francesco Primo”
Volendo dare al Nostro Real Museo Borbonico una conveniente
organizzazione:
Art. 1°. Istituiamo nella dipendenza della R. Segreteria, e Ministero di Stato di
Casa Reale una Sopraintendenza generale del Nostro Museo Reale
Borbonico, composta da un Sopraintendente, da quattro individui, e da un
Segretario nominati da noi sulla proposizione che ce ne farà il nostro
Ministro Segretario di Stato di Casa Reale fra’ socii ordinarii, ovvero
onorarii dell’Accademia Ercolanese di Archeologia, e di quella di belle arti.
Art. 2°. Ad eccezione del Sopraintendente e del Segretario, tutti gli individui
della Sopraintendenza eserciteranno le loro funzioni per un solo biennio,
scorso il quale verranno rimpiazzati da altri, tanti socii di dette Accademie
che ci riserbiamo di nominare anche sulla proposizione dello stesso Nostro
Ministro Segretario di Stato di Casa Reale.
Art. 3°. Il Segretario avrà alla sua immediazione due Aiutanti. E saranno
addetti al servizio della Sopraintendenza un usciere, ed un barandiere.
Art. 4°. Tutti i monumenti di antichità e di belle arti che attualmente esistono
nel Reale Palazzo degli studi, quelli che verranno quivi trasportati dal Museo
Ercolanese di Portici, gli oggetti tutti che si troveranno negli scavi di Pompei,
ed in generale tutti gli altri dei quali crederanno ordinare l’acquisto coi fondi
all’uopo destinati costituiranno il Nostro Museo Reale Borbonico, la cui
451
Società Napoletana di Storia Patria, Fondo Cuomo, 2.4.19 e 2.4.21.
136
superiore vigilanza vogliamo che resti affidata alla nuova Sopraintendenza
generale, nelle attribuzioni della quale passeranno eziandio gli scavi di
Pompei, le antichità del regno, non che la sorveglianza sugli scavi in
generale.
Art. 5°. In conseguenza vogliamo che siano da ora innanzi trasfuse nella
Sopraintendenza generale le attuali attribuzioni del Direttore del Museo
Sopraintendente degli scavi le incombenze finora date all’Accademia
Ercolanese di Archeologia, ed all’Accademia delle belle arti per affari relativi
al Museo suddetto, e quelle affidate alla Commissione per restauro degli
antichi edificii di Pompei, ed all’altra Commissione incaricata di esaminare
gli oggetti di antichità e belle arti di proprietà particolare che si vogliono
esportare dal regno; restando da questo momento soppresse tanto la carica di
Direttore del Real Museo, quanto le suddivisate Commissioni, e rivocate le
disposizioni per le altre incombenze relative a detto Museo, di tempo in tempo
affidate alle Accademie.
Art. 6°. All’immediazione della Sopraintendenza generale vi sarà una
Commissione incaricata di dar parere sopra tutte le restaurazioni che
occorreranno farsi sia negli antichi edificii di Pompei, che su quadri, sulle
statue, ed altre sculture, su vasi fittili, e di bronzo, e sopra ogni altro antico
monumento del Real Museo. Siffatta Commissione sarà presieduta da uno dei
due membri della Sopraintendenza generale appartenenti all’Accademia
Ercolanese che Noi destineremo, cioè da due Architetti, da due Pittori e da
due Scultori che nomineremo tra socii ordinarii, ovvero onorarii
dell’Accademia di belle arti, e tra Professori del Real Istituto. L’Architetto più
giovine farà da Segretario presso la Commissione, la quale si corrisponderà
direttamente colla Sopraintendenza. Le funzioni di tutti gli individui
componenti la Commissione medesima saranno limitate ad un biennio, scorso
il quale verranno rimpiazzati da altri tanti che sceglieranno nello stesso
modo.
Art. 7°. Per lo servizio del M. R. Borbonico vi saranno i seguenti impiegati,
cioè
Un Custode maggiore
137
Otto Custodi
Due Custodi aiutanti
Due Portinai
Due Facchini
Due Ordinanze.
Vi saranno inoltre per la esattezza maggiore del servizio, e per soddisfare
ancora la curiosità degli Amatori che visiteranno lo stabilimento, cinque
Dimostratori con un aiutante.
Uno pei monumenti Egiziani, Etruschi, Volschi, e Greco – antichi, e per le
iscrizioni.
Un altro per gli utensili di bronzo e pei vasi fittili, e di vetro.
Il terzo per le monete, e medaglie, e per gli oggetti preziosi.
Il quarto per le statue.
Il quinto pe’ quadri, e per le dipinture a fresco provenienti da Ercolano e da
Pompei, avvalendosi per queste dell’opera dell’aiutante.
Art. 8. I Dimostratori e l’aiutante saranno scelti per concorso, ed il loro esame
verserà sulle conoscenze relative a qual ramo cui appartengono, e dovranno
inoltre conoscere tra le lingue estere, almeno la francese, sulla quale caderà
eziandio l’esame.
Art. 9. Vi sarà un Architetto coll’incarico di tutti i lavori che occorreranno
nelle parti del R. Palazzo degli studii, e né monumenti di antichità che sono
fra le attribuzioni della Soprintendenza generale, dalla quale dovrà egli
dipendere.
Art. 10. Saranno addetti al R. Museo sotto gli ordini della Sopraintendenza
generale un costruttore di modelli in sughero e dieci restauratori, cioè sei pe’
quadri, uno per le statue, uno pe’ vasi fittili, uno pe’ vasi ed altri utensili di
bronzo, ed un altro pe’ mosaici. I medesimi non avranno soldo fisso, ma
verranno volta per volta compensati in proporzione del loro lavoro.
Art. 11. Per regolare l’Orologio del R. Palazzo degli studii, vi sarà un
Orologiaio.
Art. 12. Pel ramo degli scavi di Pompei vi saranno
Un Architetto Direttore
138
Due Disegnatori
Tre Sovrastanti
Quattro Custodi
Art. 13. Vi sarà un Custode per le antichità esistenti in Ercolano. Uno pel
tempio di Se rapide in Pozzuoli. Un altro per l’Anfiteatro Campano, e l’altro
per le antichità di Pesto.
Art. 14. Tutti gli altri impieghi non compresi nel presente decreto rimangono
da questo momento soppressi.
Art. 15. I soldi de’ diversi impiegati della Sopraintendenza generale del Real
Museo Borbonico saranno i seguenti.
Art. 16. Gli individui componenti la Sopraintendenza ed il Segretario che han
soldo, avranno un gettone di presenza consistente in una medaglia del valore
di ducati tre tutte le volte che interverranno nelle sessioni. Il Sopraintendente
nell’inviare al Ministro di Casa Reale la copia de’ processi verbali di dette
sessioni, farà conoscere i nomi di coloro che vi saranno intervenuti, per
disporsene a di loro favore il pagamento.
Art. 17. L’annesso regolamento, col quale sono determinate le attribuzioni ed i
doveri
della
Sopraintendenza
generale,
del
Sopraintendente,
della
Commissione de’ restauri, e di tutti gli impiegati nel nostro Real Museo e sue
dipendenze, è da Noi approvato.
Riporto anche il testo delle osservazioni fatte dalla Commissione sul progetto
di legge:
“Articolo 2. La Commissione è di avviso che il Soprintendente debba
presiedere esso stesso la Commissione de’ restauri. E’ indispensabile che il
Sopraintendente in vigili con massima attenzione su questa parte importante
del servizio del Real Museo, e che richiami sempre la Commissione de’
restauri ai principii ed alle norme che si saranno una volta giudicate le più
opportune. Quindi sembra più regolare far presiedere la Commissione de’
restauri dal Sopraintendente che è sempre lo stesso, piuttosto che da uno degli
individui della Sopraintendenza, che sono variabili.
139
Oltre a ciò la Commissione crede per le ragioni addotte sotto l’articolo 2 che
convenga anche riserbarsi la facoltà di confermare dopo il biennio o tutti o
parte degli individui componenti la commissione de’ restauri.
Art. 7. La Commissione crede che il numero di otto custodi non possa essere
sufficiente al servizio del Real Museo, ma che convenga estenderlo a nove.
Infatti coll’articolo 2 del regolamento si stabilisce un solo custode, per le
iscrizioni, e per gli affreschi Ercolanesi e Pompeiani mentre queste due
collezioni esigono indispensabilmente due distinti custodi. Nulla può essere
più facile, quanto il trovarsi contemporaneamente visitata si l’una che l’altra
di queste collezioni, e allora se esse non avessero che un solo custode
mancherebbe la necessaria assistenza.
Il numero poi de’ custodi aiutanti sembra alla Commissione doversi ancora
portare almeno a quattro. Uno infatti è necessario per la collezione delle
statue, e particolarmente per invigilare su coloro che vi disegnano, o vi
dipingono, si per servire di guida a curiosi, e badare che non rechino guasto
alcuno. Il quarto aiutante deve essere addetto ad alcune delle altre collezioni
che si vedrà colla esperienza averne maggiore bisogno.
La Commissione ha creduto ancora, che il nome dei dimostratori istituiti con
questo articolo possa combinarsi in quello che sembra più decoroso e proprio
di Ispettori, giacché l’uso della voce di dimostratori sembra averla limitata
alle osservazioni anatomiche, ed a coloro che ne professano la scienza.
Sull’art. 10 la Commissione crede potersi usare la voce più propria di modelli
architettonici in vece di quella di modelli in sughero. Infatti la materia onde i
modelli architettonici sono composti puote essere ed è sovente dal sughero
diversa. Crede ancora la Commissione non essere necessario fissare il
numero dei restauratori da adoperarsi potendo esser questo maggiore o
minore secondo le occorrenze de’ lavori da eseguirsi. Quando poi si dovesse
il numero stabilire, sembra poco proporzionato quello di sei pe’ soli quadri,
mentre un solo se ne stabilisce su ciascuna delle altre collezioni, che hanno
bisogno di restauri.
Art. 12. Parlandosi in questo articolo de’ Soprastanti e de’ Custodi di Pompei,
la Commissione è di avviso che si aggiungano a’ medesimi per eseguire la
140
custodia in tutti i punti colla massima possibile esattezza, un determinato
numero di ordinanze, che si dovrebbero stabilire in Pompei, prendendole tra
più probi veterani, e mettendole sotto gli ordini e le dipendenze dell’Architetto
Direttore. In tal modo e con lieve spesa, si avrebbe una custodia attiva ed
efficace che è impossibile sperare co’ semplici soprastanti e custodi di cui
questo articolo ragione. E’ inutile il trattenersi a dimostrare di quanta
importanza sia quest’oggetto, e quanto meriti di essere preso nella più seria
considerazione.
Art. 16. Sembra che la Commissione de’ restauri nelle sue adunanze ottener
debba lo stesso gettone, che si attribuisce alla Sopraintendenza. Se le funzioni
della Commissione fossero gratuite, è da creder che poco si interesserebbero i
componenti a disimpegnarle con zelo e attenzione. Inoltre il gettone dovrebbe
anche darsi sia alla Soprintendenza, sia alla Commissione de’ restauri tutte le
volte che esse si recano in Pompei”.
Non può dirsi che il disegno di legge fosse particolarmente avanzato: infatti in
esso si ribadisce la proprietà reale privata (allodiale) delle collezioni.
Significativo era l’istituzionalizzazione della Commissione per i restauri,
incaricata di controllare la metodologia e la qualità dei restauri.
Nello stesso momento, fu stilato un dettagliato regolamento sia per il Real
Museo Borbonico, che per gli scavi, di cui di seguito riporterò solo gli articoli
più interessanti riguardanti la gestione degli scavi452.
452
ASN, Ministero Affari Interni, I inv. Busta 1002, Rapporti sul procedere degli scavi di Pompei
Questo progetto fu ripreso dalla Commissione per le riforme del museo e degli scavi di antichità,
insediata nel 1848.
141
Estratto dal regolamento approvato nel 1828
Cap. 13
Metodo da tenersi per gli scavi di Pompei
Art. 92. il cavamento dell’antica città di Pompei dovrà procedere coll’ordine
costante, che le strade principali siano sgombrate a preferenza delle strade
minori.
Art. 93. Se l’apparenza di qualche edifizio cospicuo suggerirà l’espediente
che si disterri a preferenza della strada principale, il Soprintendente col
parere della Soprintendenza ne farà rapporto al Ministero per le superiori
determinazioni. Intanto qualora si creda necessario che le aperture delle case
sporgenti alla strada siano custodite con tavole fino a che siano disterrate,
l’Architetto Direttore presi gli ordini della Soprintendenza ne darà i
provvedimenti.
Art. 94. L’appaltatore dello scavo è immediatamente soggetto all’Architetto
Direttore il quale praticherà le seguenti diligenze.
Art. 95. Se degli antichi edifizii appariscono tracce, ne farà il disegno onde
serva per notizia dalla soprintendenza, e dall’Accademia Ercolanese, come
pure disegnerà le impronte delle antiche imposte di legno distrutte dal tempo.
Dovrà parimenti disegnare, e fare un’esatta annotazione delle parti distaccate
degli edifizii, come sono i vani delle porte e finestre, i buchi dove erano fitti i
legnami, i pezzi ancora esistenti de’ legnami stessi, e cose simili.
Art. 96. Qualunque muro di quegli antichi edifizii non si dovrà altrimenti
scavare, se non da ambo le facce, in pari tempo, e gradatamente, onde non
vada a crollare.
Art. 97. Apparendo pitture sulle pareti, lo scavo si farà con tale diligenza che
non soffrano detrimento. Lo stesso si farà ove appariscano capitelli, colonne,
cornici, statue, utensili di qualunque materia, ed altro.
Art. 98. Le pitture saranno immediatamente cautelate affinché l’aria non le
alteri prima di disegnarsi, a quale effetto vi si adopererà la vernice inventata
dal
Pittore
Signor
Celestino
colle
istruzioni
all’uopo
suggerite
dall’Accademia di belle arti, e da Sua Maestà già approvate; ed oltre a ciò,
qualora compariscano alla luce pitture di molto merito, e che per tali siano
142
giudicate dall’Architetto Direttore e dalla Soprintendenza in questo caso si
aggiungerà alla indicata cautela quella di coprirsi con lastra di cristallo entro
una cornice di metallo ben attaccata all’intonaco della parete. Se poi avvenga
che se ne scoprano di quelle di singolare e straordinario merito, la
Soprintendenza inteso l’Architetto Direttore, e la Commissione de’ restauri
proporrà che siano tagliate e trasferite al Real Museo, indicando la spesa, ed
attendendo la sovrana risoluzione per farla eseguire.
Art. 99. Le pitture oscene saranno subito coverte, oppure tagliate ed inviate al
Museo. Tutte le altre poi saranno prontamente copiate prima a contorni, e poi
a colore, e se potranno rimanere sulle pareti senza pericolo che si perdano, vi
si lasceranno, in caso contrario si taglieranno pure, e si porteranno nel
Museo colle regole di sopra stabilite.
Art. 100. Qualunque frammento di iscrizione sarà diligentemente raccolto,
indicando il sito ove è stato trovato, e ricercandone con esattezza ogni piccola
parte. Le iscrizioni dipinte e segnate sulle pareti saranno immediatamente
disegnate, e l’Architetto Direttore ne farà le copie per inviarle al Ministro ed
alla Soprintendenza, come si dirà a suo luogo.
Art. 101. All’atto dello serramento i soprastanti registreranno in un libro
all’uopo destinato tutti gli oggetti che si troveranno indicandone la materia, e
la forma. Questo libro verrà da essi soscritto in ciascun giorno, e dal
medesimo verrà estratto il notamento, che anche con la loro firma si passerà
all’Architetto Direttore. Intanto gli oggetti rimarranno affidati alla loro
solidale responsabilità, e saranno riposti momentaneamente in un magazzino
all’uopo destinato. L’Architetto Direttore riscontrerà, e verificherà l’esistenza
di tali oggetti col registro, e vi apporrà il suo visto. Passerà poi una copia
della nota al Ministro di Casa Reale, ed un’altra alla Soprintendenza del
Museo.
Art. 102. Le ceneri intorno agli scheletri saranno con maggior diligenza
ricercate e crivellate, onde non perdersi le monete, le gemme, e gli altri
antichi ornamenti che spesso vi si trovano d’intorno. La stessa diligenza
praticherà l’Architetto Direttore tutte le volte che lo stimi a proposito prima
che le ceneri si gettino fuori la città.
143
Art. 103. Tutte le sere terminato il travaglio si diliginzieranno gli operai per
assicurarsi che non abbiansi appropriato qualche oggetto, e trovandosene
qualcuno colpevole, sarà arrestato da’ Veterani, e tradotto al Giudice
competente, cui l’Architetto Direttore farà rapporto dell’accaduto.
Art. 108. Di tutti i rapporti che il Ministro riceverà dall’Architetto Direttore,
ne farà consapevole l’Accademia Ercolanese, e questa dandone riscontro,
spiegherà se degli oggetti nuovamente scoverti, si dovrà far supplemento ai
volumi già pubblicati dell’opera di Ercolano, se saranno destinati a nuovi
volumi o se basterà darne semplice notizia per l’opera della pubblicazione del
Real Museo.
Art. 109. Niun impiegato, e niun’altra persona potrà pubblicare come che sia
le scoverte che si faranno negli scavi di regio conto.
Cap. 14
Sistema da tenersi per la manutenzione e restaurazione degli antichi edifizii di
Pompei.
Art. 110. Al momento stesso che si scopriranno muri antichi, si dovrà fare
sugli estremi un intonaco per evitare le degradazioni che potrebbero derivare
filtrandosi le acque. Si dovranno
eltram diligentemente fermare con grappe
di ferro a punta aguzza gli antichi intonachi dipinti, e non dipinti qualora non
si trovino ben attaccati a’ muri, onde non vadano in rovina. L’Architetto
Direttore ne esaminerà lo stato, e calcolata la spesa occorrente, domanderà
al Ministro di Casa Reale l’autorizzazione per farla eseguire. Ne farà però
contemporaneamente rapporto alla Sopraintendenza.
Art. 111. Resta definito per regola generale che di tutti i rapporti che
l’Architetto Direttore invierà alla Sopraintendenza, e che in qualunque modo
riguarderanno lavori da farsi per riparazioni, o restaurazioni degli antichi
edifici di Pompei, se ne dovranno dalla Soprintendenza inviare le copie alla
Commissione dei restauri, onde la medesima sia in grado di conoscere tutto
l’andamento del servizio, e presentare alla medesima il suo ragionevole
parere per le restaurazioni da farvisi.
Art. 112. Subito che verrà di sterrato tutto parte di qualche antico edificio,
dovrà l’Architetto Direttore osservare, se abbia bisogno di pronte ed urgenti
144
riparazioni, o pure di restaurazioni. Le riparazioni urgenti hanno per oggetto
di non far crollare i muri, e altre parti di antichi edificii, applicandovi i
puntelli, e adoperandovi gli altri mezzi dell’arte, e queste riparazioni saranno
interamente affidate alla cura e diligenza di esso Direttore, il quale solo ne
rimane responsabile, essendo autorizzato a fare per questa parte ciò che
crederà opportuno, dandone però immediatamente conto al Ministro ed alla
Soprintendenza.
Art. 113. Le restaurazioni poi che si distinguono in piccole, ed importanti. Le
piccole consistono nel rifare qualche piccola parte di muro, e nel rimettere a
suo luogo i pezzi smessi, e distaccati. Le importanti nel ricostruire qualche
porzione di antico edificio, nel rifare le coperture, e simili.
Art. 114. Niuna delle restaurazioni sian piccole, siano importanti potrà
eseguirsi, se prima la Commissione de’ restauri non avrà dato il suo parere, e
sia stato questo esaminato, e discusso dalla Soprintendenza, e quindi
superiormente approvato. In conseguenza l’Architetto Direttore farà
conoscere alla Soprintendenza medesima con suo motivato rapporto le
restaurazioni da eseguirsi, unendovi le piante, i disegni e le annotazioni
indicate nell’art. 95. La Soprintendenza passerà le carte alla Commissione
de’ restauri, incaricandola di farne l’esame, e proporne l’occorrente. La
Commissione distinguerà le piccole restaurazioni dalle importanti, e
presenterà alla Soprintendenza il suo parere nel modo indicato nell’art. 71.
La Soprintendenza lo discuterà, e lo rassegnerà al Ministro, il quale disporrà
l’esecuzione delle piccole restaurazioni, e prenderà gli ordini di S. M., perché
si eseguano quelle di importanza.
Art. 115. Le statue di buona scultura, che si trovano a Pompei, saranno
trasportate al Museo, e ne saranno tirati gli esemplari in gesso per collocarsi
nello stesso sito degli originali. Quelle di un merito inferiore rimarranno colà.
Lo stesso si praticherà per le iscrizioni, facendo eseguire la copia di quelle
che interessano le collezioni del Real Museo, per riporsi nel sito
dell’originale. E tutte le altre che non si crederà di farle passare al Museo,
per riporsi nel sito dell’originale. E tutte le altre che non si crederà di farle
passare al Museo, resteranno ove si trovano.
145
Art. 116. Nell’autunno di ciascun anno si dovranno coprire i pavimenti di
mosaico e di marmo, e si dovranno oziando cautelare con maggior diligenza
le pitture, onde preservare gli uni, e le altre da qualunque degradazione.
Cap. 15
Dell’Architetto Direttore
Art. 118. L’Architetto Direttore avrà la sua abitazione permanete a Pompei, e
fino a che non sarà preparato un conveniente locale, che la Soprintendenza
dovrà proporre nel più breve termine, dimorerà nella Torre dell’Annunziata,
affinché in tutti i giorni ne’ quali si travaglia al casamento, vi si possa recare
prontamente per l’esatto disimpegno dei doveri della sua carica.
Art. 119. Oltre le obbligazioni, delle quali si è fatta parola nei due precedenti
capitoli, dovrà l’Architetto Direttore compilare, e rimettere al Ministro di
Casa Reale un giornale periodico relativo agli scavi, descrivendo, ed
illustrando per quanto sarà possibile tutti gli oggetti che vi si troveranno.
Art. 120. Dovrà inoltre levar la pianta esatta degli edifizii scoverti, e di quelli
che vanno a scoprirsi, e queste ridotte a dimensioni minori, si aggiungeranno
alla pianta di tutta la città, di cui si terranno sempre pronti gli esemplari in
contorno. Di tali piante in dimensione maggiore invierà le copie al Ministro di
Casa Reale, e alla Soprintendenza del Real Museo.
Art. 121. Alla fine di ciascun mese farà la misura dei lavori eseguiti nel corso
del medesimo colla indicazione dell’importo di essi, secondo i prezzi del
contratto, e ne rilascerà a favore del Partitario il certificato, e questo insieme
colla misura sarà inviato al Soprintendente, il quale munito col suo visto
buono, lo rimetterà al Ministro pel pagamento corrispondente.
Art. 123. Ne’ terreni del recinto di Pompei si userà dall’Architetto Direttore
la più esatta diligenza onde sotto pretesto di piantarvi viti, e altri alberi non si
cavi tanto che si giunga all’apice degli antichi edifizii, col pericolo di
guastarsi.
Art. 125. I disegnatori dovranno trarne i disegni a semplici contorni delle
pitture appena che saranno disterrate, onde servire all’Accademia Ercolanese
per la illustrazione delle medesime. Dovranno poi farne i disegni a colore, da
incidersi per la continuazione dell’opera di Ercolano.
146
Art. 127. A misura che termineranno un disegno sia a contorni, sia a colore,
lo mostreranno all’Architetto Direttore, e lo presenteranno pure al
Soprintendente, da cui verrà rimesso al Ministro per inviarsi all’Accademia
Ercolanese se sia a contorni, o alla Stamperia Reale se sia colorato.
Gli anni successivi, fino alla caduta del regno borbonico, procedettero senza
sostanziali novità riguardo agli scavi di Pompei, ad eccezione del r. d. del 16
settembre 1839, che non soltanto affidava la vigilanza alle autorità
amministrative, ma subordinò al permesso ministeriale e al parere della
Commissione delle antichità e belle arti, eventuali lavori di restauro o
ristrutturazioni degli immobili monumentali ed opere d’arte453. Determinò,
inoltre, il principio che la cura e le spese restino a carico dei rispettivi
proprietari, siano essi enti pubblici, corpi morali o privati sudditi454.
Il combinato disposto del r. d. del 1839 e dei rr. dd. 13 e 14 maggio 1822, ha
avuto il merito di sottolineare la tutela non solo per monumenti esterni ma per
tutte le parti stabilmente collegate all’immobile per destinazione, quindi
statue, bassorilievi, affreschi ecc. Tuttavia, la normativa del 1839 presentava
un vuoto per quel che concerneva i beni mobili dei privati rispetto ai quali
nessuna prescrizione di sorta introdusse vincoli diretti a tutelare le opere
d’arte. Questo grave vuoto nel tessuto normativo, è stato certamente una
delle cause determinanti a far si che numerose collezioni d’arte private
possano essere state esportate all’estero senza incontrare opposizione di sorta
da parte dei competenti uffici doganali.
Concludendo, la politica dei Borbone nei confronti degli scavi vesuviani fu
altalenante: da anni di discreta e buona amministrazione, si passa a ben più
lunghi periodi di crisi e di stagnazione, che contribuirono ad alimentare la
cattiva fama della dinastia nella gestione della antiche città vesuviane. Solo
assai tardi i ritrovamenti archeologici pompeiani diventarono patrimonio
nazionale e non più proprietà privata del re.
453
454
Ibidem.
Ibidem.
147
4.8.
LA TUTELA DEI BENI CULTURALI DELL’ITALIA UNITA
L’analisi delle disposizioni sulla tutela del patrimonio storico – artistico e
paesaggistico, nell’età liberale, cioè dal 1861 fino alla fine della prima guerra
mondiale, è preliminare alla disamina degli aspetti essenziali della disciplina
delle “cose d’arte”, oggetto della legge 1089/39, e delle bellezze
naturalistiche, previste dalla legge 1497/39.
L’evoluzione giuridica del patrimonio storico – artistico – archeologico,
continuò per diversi anni a far riferimento a quanto disposto dallo Statuto
Albertino, quale espressione della tradizione liberale, con specifico
riferimento all’art. 29: “Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono
inviolabili455”, confermando la libera disponibilità delle cose patrimoniali da
parte dei proprietari, senza disporre alcunché in merito alla
oggetti d’arte. Ciò, probabilmente,
tutela degli
era sintomatico di un disinteresse del
legislatore nazionale verso la protezione del patrimonio artistico.
Soltanto nel 1865 si registrarono i primi tentativi di normazione in materia di
vigilanza e tutela delle cose d’arte; in particolare, la legge 25 giugno 1865 n.
2359 prevedeva, all’art. 83: “Ogni monumento storico o di antichità nazionale
che abbia natura di immobile, e la cui conservazione pericolasse continuando
ad essere posseduto da qualche corpo morale o da un privato cittadino, può
essere acquistato dallo Stato, dalle province e dai comuni, in via di
espropriazione per causa di pubblica utilità”456.
L’estensione delle leggi italiane in particolare del codice civile del 1865, a
tutti gli ex territori pontifici, fece si che venisse abolita la pratica del
fedecommesso, istituto finalizzato a preservare i beni nell’ambito dei
discendenti di una determinata famiglia457, e unico vincolo esistente a quel
tempo per la conservazione dei musei e delle gallerie di Roma. L’esigenza di
assicurare protezione all’asse storico artistico nazionale si scontrava con il
radicalismo ideologico di chi, sostenendo la necessaria abolizione dei
fedecommessi, abbracciava il pensiero di Carlo Armellini che, in una
455
N. Greco, Stato di cultura e gestione dei beni culturali, il Mulino, Bologna, 1980, p. 29.
E. Mattaliano, Il movimento legislativo per la tutela delle cose d’interesse artistico e storico dal
1861 al 1939, in “Ricerca sui beni culturali”, vol. I, Camera dei deputati, Roma, 1975, p. 3.
457
Ibidem.
456
148
relazione al parlamento pontificio, affermò: “L’ora della libertà che suonò per
le persone doveva battere altresì per le cose”458. La legge 28 giugno 1871 n.
276, risolse parzialmente il problema, stabilendo il rinvio alle leggi pre
unitarie, per ciò che concerne la tutela del patrimonio culturale, pur restando
sciolti i fedecommessi.
La prima iniziativa legislativa per la protezione delle cose di antichità e di arte
si ebbe con il progetto di legge del Ministro Correnti, presentato al Senato, nel
1872, e mai approvato. Da allora si assiste ad una tormentata vicenda
legislativa in cui si manifesta la costante resistenza di quelle forze, largamente
presenti in Parlamento, che si opponevano ad ogni intervento dello Stato che
potesse limitare il principio libero – scambista ed i diritti dei proprietari.
E’ ben chiaro, che i due strumenti della tutela, quello giuridico e quello
tecnico – amministrativo, sono tra loro inscindibili e, pertanto, devono essere
frutto di una visione unitaria, in assenza della quale non può ottenersi né
l’effettiva applicazione della legge né l’efficiente ed utile funzionamento
dell’amministrazione pubblica. Ai tempi di Fiorelli, si imponeva, perciò, un
provvedimento legislativo unico e coerente che stabilisse sia i principi ed i
fini, politici e culturali, della tutela del patrimonio di arte e di storia, sia gli
strumenti ed i mezzi atti ad assicurare il raggiungimento dei suddetti fini e,
quindi, il rispetto delle leggi. L’incapacità di pervenire ad una legislazione
complessiva, nel momento in cui scriveva Fiorelli, ha prodotto danni
gravissimi al patrimonio culturale presente nel nostro territorio nazionale;
patrimonio che riveste rilevante interesse per il mondo intero.
Gli anni della permanenza di Fiorelli al Ministero della Istruzione Pubblica
(1875 – 91) sono caratterizzati in tutta Europa da una fase di ulteriore sviluppo
economico ed industriale che ha i suoi riflessi anche in Italia e che produsse
profonde trasformazioni di numerose, grandi, antiche città italiane, con
conseguenti forti manomissioni del patrimonio artistico e con numerosi
interventi di restauro459.
In questo vasto e vivace scenario – in cui si muovono con forza, rilevanti
interessi politici ed economici, spesso antitetici a quelli della conservazione
458
459
L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, vol. II, Roma, 1913, p. 211.
F. Borsi, L’architettura dell’Unità d’Italia, Firenze, 1966, p. 95 ss.
149
dei beni culturali460 - si svolgeva, dunque, l’opera del Direttore generale
Giuseppe Fiorelli, del quale le fondamentali relazioni al Ministro della
Istruzione Pubblica, sono particolarmente interessanti – come vedremo – per
la comprensione della cultura della conservazione in Italia, per gli anni
intercorsi tra i primi tentativi normativi post unitari e la prima legge organica
nazionale del 1902.
4.9.
LA TUTELA NEL PENSIERO DI FIORELLI NELL’ITALIA
UNITA
“Per valutare con piena consapevolezza la situazione – affermava Fiorelli –
occorre svolgere alcune considerazioni ed alcuni ricordi, sottolineando
innanzitutto, che il Governo ha sempre rivolto speciali cure alla tutela del
patrimonio archeologico ed artistico della nazione461. Anzi, è da rilevare che
alcune disposizioni portano la data dei primi anni del nuovo Regno, e sono
ispirate da un concetto così largo e proficuo, che si direbbero dettate oggi
stesso, dopo tanti anni di prove e di ammaestramenti462”.
Tuttavia, tali provvedimenti furono, spesso, emanati in condizioni di
particolare urgenza o di fronte a casi eccezionali e, quindi, mancavano della
necessaria organicità. D’altra parte, la situazione generale del paese, in quei
primi anni dell’Italia unita, costringeva a rassegnarsi ad un programma
minimo. In ogni modo, fino al 1870, si riuscì a fornire aiuti per la Sicilia, per
Napoli, per le Marche, per il museo di Parma e gli scavi di Velleia. “Trasferita
la capitale a Roma, fu necessario provvedere con urgenza e priorità assolute
alla tutela dei monumenti della città capitale e si recò pure di tutelare i
monumenti etruschi463. Né ci si limitò solo ad operare nel campo archeologico,
però, si vide che bisognava pure occuparsi direttamente del restauro e della
460
G. B. Cavalcaselle, Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte e sulla riforma
dell’insegnamento accademico, in “Rivista dei Comuni italiani”, Torino, 1863.
461
ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio
archeologico, Relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il Ministro della
Istruzione Pubblica, Roma 1883, p. 6.
462
Idem, Ibidem.
463
Idem, p. 7.
150
tutela dei monumenti medioevali”464. A tale scopo, si provvide a finanziare gli
interventi sulla base di progetti ben precisi.
Inoltre “molti e molti altri opportunissimi provvedimenti furono dati sempre
conservando il carattere speciale ed eccezionale. Per cui sempre più apparvero
indispensabili altri provvedimenti di ordine superiore, per potere non solo
esercitare in modo più proficuo l’azione amministrativa, ma per poter
finalmente preparare gli elementi necessari alla formazione di una legge, che
mettesse il Governo in grado di tutelare pienamente i diritti dello Stato, sul
patrimonio archeologico e artistico della nazione”465.
In questo senso è da rilevare l’importanza dell’azione svolta in Parlamento466
dall’onorevole Ruggero Borghi, nel febbraio 1875, quando venne istituita la
Direzione generale dei musei e degli scavi con il compito di predisporre le
strutture ed i metodi necessari per assolvere al nuovo e grande dovere, che
l’amministrazione pubblica era chiamata a compiere, e cioè la tutela del
patrimonio culturale dell’Italia unita467.
“La Direzione Generale – afferma Fiorelli – era chiamata innanzitutto, a
coordinare fra loro le funzioni dei vari istituti archeologici, sostenuti con
denaro del pubblico erario468. A tale scopo fu creata, innanzitutto, una Giunta
superiore per l’archeologia incaricata specialmente di ben ripartire le somme
stanziate nel bilancio, che non dovevano essere assegnate soltanto a
determinate e ben note zone di scavo, ma dovevano pure spendersi in altre
regioni di alta importanza archeologica, troppo trascurate fino a quel tempo. E
proprio allo scopo di poter abbracciare le cure di tutte le antichità del
Regno”469.
464
Idem.
Idem, p. 8.
466
R. A. Genovese, Restauro, in “Quaderni di restauro dei monumenti e di urbanistica dei centri
antichi”, Bologna, 1992, in cui ricorda i dibattiti svoltisi nei due rami del Parlamento, in occasione
della presentazione dei seguenti disegni di legge: Progetto Scialoia, 13 maggio 1872 (al Senato);
progetto Coppino, 3 febbraio 1877 (al Senato); progetto de Sanctis, 2 maggio 1878 (al Senato);
progetto Borghi, 8 febbraio 1875 ( alla Camera).
467
ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio
archeologico, Relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il Ministro della
Istruzione Pubblica, Roma 1883, p. 9.
468
Idem, p. 10.
469
Idem.
465
151
La Direzione Generale fu composta da tre commissari (rispettivamente per
l’Italia settentrionale, centrale e meridionale) e due commissari speciali (per la
Sicilia e per la Sardegna). Data la scarsità di personale furono associati al
lavoro di tali commissari, “con ufficio gratuito dei regi Ispettori degli scavi e
dei monumenti, tutti quegli uomini benemeriti, che nei vari comuni o nei vari
circondari avevano mostrato il più caldo amore per le antichità, e la maggior
perizia nell’illustrarle.470” Il compito degli ispettori era quello di informare il
Ministro di ogni ritrovamento, di controllare che non fossero eseguiti scavi
non autorizzati e che quelli permessi fossero eseguiti “col più rigoroso metodo
scientifico, compilando il giornale dello scavo, ed esigendo la esatta custodia
delle cose trovate”471, onde consentire alla Stato di esercitare il diritto di
prelazione.
Inoltre, per evitare che molte zone del paese continuassero ad essere prive di
qualsiasi vigilanza e controllo (per cui “per lo abbandono governativo
continuava la dilapidazione”) furono create speciali commissioni “in ciascuna
provincia per soprintendere principalmente alla tutela dei monumenti
medioevali”. A tali “Commissioni consultive e conservatrici dei monumenti e
degli oggetti d’arte furono aggregati gli ispettori, perché potessero colla
maggiore autorità esercitare il loro ufficio”472. L’opera delle commissioni e
degli ispettori fu di grande importanza ed il “profitto, che diremo di ordine
scientifico fu accompagnato da altro profitto di ordine amministrativo”473 in
conseguenza di diverse riforme strutturali interne. Tra l’altro, venne accorpata
nella Direzione centrale la cura di tutti i musei e le raccolte di opere di
proprietà dello Stato, in modo che “con unico e proficuo intendimento, fossero
distribuite le forze d’uomini e di denaro, delle quali il Ministero poteva
disporre per una simile tutela”474. Immediatamente, però, si dimostrò
l’inadeguatezza del personale, oltre che dei mezzi finanziari. Di fronte alla
gravità della situazione, Fiorelli lanciò un chiaro appello al Parlamento,
affinché “i benemeriti rappresentanti della nazione, non solo vorranno
470
Idem.
Idem, p. 11.
472
Idem, ibidem.
473
Idem, p. 12.
474
Idem, ibidem.
471
152
accordare ciò che necessita, per assicurare la custodia materiale del patrimonio
dello Stato, ma vorranno altresì dare gli aiuti richiesti per ordinare il servizio
archeologico, in modo da corrispondere a tutte le esigenze dello studio e
dell’amministrazione”475. Il che risulta di particolare rilevanza – fa osservare
Fiorelli – poiché “vi è stato tale cambiamento nell’indirizzo degli studi e nei
bisogni della scienza” che dovevano adottarsi nuovi criteri “nel comporre i
musei”, i quali non dovevano più servire “soltanto alle esercitazioni pratiche
di coloro, che frequentavano i corsi universitari dell’archeologia; ovvero
dovevano porgere i materiali alle elucubrazioni di qualche professore, o di
qualche accademico, e sanno tutti che prima di pensare al profitto delle scuole,
ha obbligo il Governo di pensare alla tutela dei documenti veri della nostra
storia più antica476. In tale ottica nuova, appunto, bisogna adunque ai musei
attuali accrescere la dovizia, coi soli tesori archeologici della regione propria,
e fondare altri musei in quelle parti del Regno, che hanno diritto a custodire in
un proprio istituto i documenti più autentici della loro storia”477.
Ma tutto ciò comportava un enorme incremento dell’impegno scientifico che
non si poteva ottenere semplicemente evidenziando la attribuzioni degli attuali
addetti. “Perocché non saprei quanto gioverebbe lo accrescere il compito di un
ufficio, il quale pel modo con cui trovasi costituito, non poté finora adempiere
ai minori doveri che gli vennero assegnati”478. Inoltre, Fiorelli rilevò che “di
ciò che è fuori de’ musei, è assai poco quello che ora facciamo”; vale a dire,
che risultava trascurata tutta quella parte del patrimonio che è immobile e che
non “può essere mai rimossa dal luogo dove è, e devesi anzi porre ogni cura
per mantenervela e conservarvela”. Tali carenze comportarono che
“giornalmente si distruggono avanzi di antiche strade e resti di classiche
costruzioni, per toglierne il materiale per nuovi edifici. Si ricorre ai tribunali,
ed il più delle volte il colpevole è assoluto, poiché ignorava che la distruzione
non era permessa, né vi era stata autorità alcuna che gli avesse imposto di
rispettare il monumento esistente nei suoi fondi”479. Né tale mancanza di
475
Idem, p. 13.
Idem, pp. 13 – 14.
477
Idem, p. 14.
478
Idem, ibidem.
479
Idem, p. 17.
476
153
vincolo e di avvertimento poteva addebitarsi al Ministero poiché questi per
amministrare il patrimonio archeologico ed artistico, “era mestieri innanzi
tutto che conoscesse questo patrimonio, e lo conoscesse in tutte le sue parti”.
Occorreva, dunque, “un lavoro dei più seri e dei più capitali, quello cioè della
minuta ricognizione di tutto quanto il territorio”. Lavoro che doveva essere
fatto dai Comuni e Province e dagli Ispettori e Commissioni.
Pianta di Pompei fatta eseguire da Giuseppe Fiorelli (dal volume di Marc Monnier, Pompei e i
Pompeiani , Milano, 1875).
“Ma l’esperienza ci ha dimostrato, che da persone le quali gratuitamente si
prestano, non si poteva pretendere un’opera di sommo rilievo”, affermò
Fiorelli, che aggiunse “il nostro bilancio non ci offrì neanche le somme
necessarie al pagamento delle spese, per le gite delle Commissioni”480.
Appunto, è stata questa insufficienza di mezzi finanziari che paralizzò
l’attività della Direzione e impedì di creare nuovi uffici a livello regionale. Ma
ciò non bastò, avvertì Fiorelli; occorrevano persone “le quali possano essere
unicamente dedicate al loro ufficio e suddivise in due carriere diverse in
questo stesso ramo del pubblico servizio”: gli amministrativi ed i tecnici, cioè
480
Idem, ibidem.
154
coloro che “colla preparazione negli studi potranno trattare con competenza
tutto ciò che riguarda il buon andamento degli scavi, l’ottimo restauro dei
monumenti, e l’ordine dei musei e delle gallerie”481. Per tutto ciò era
indispensabile che il Parlamento stanziasse somme necessarie per il
riordinamento del servizio archeologico, secondo l’importanza storica delle
diverse regioni. Fiorelli, poi, proseguì nell’indicare il ruolo e le funzioni dei
nuovi uffici; sottolineando, innanzitutto, l’importanza “di condurre a termine
nel modo più completo l’inventario del patrimonio archeologico ed artistico,
acciò sieno riuniti tutti i dati che debbano porgere al Governo la guida sicura,
per procedere alla tutela dei monumenti. E ciò permetterà inoltre di facilitare
al Governo stesso quell’altro compito, che dalla felicità dei tempi e dal
desiderio dei dotti gli venne assegnato, il compito cioè di fornire i materiali
più autentici allo studio della storia”482.
Altro compito fondamentale degli uffici del Ministero, poi, doveva consistere
nella possibilità di intervenire direttamente nel restauro dei monumenti,
eliminando la dannosa attività del Ministro dei Lavori pubblici e, quindi, del
Genio Civile. Interventi diretti per i quali occorrevano, però, architetti
specificamente preparati. In proposito, data l’importanza della questione, è più
significativo riportare le parole di Fiorelli:
“Resta poi l’altra parte, che riguarda specialmente i monumenti medioevali,
alla cui conservazione e restauro per provvedere secondo convenienza,
dovrebbe il Ministero della pubblica istruzione agire direttamente, con
personale posto alla immediata sua dipendenza, ed estendendo la propria
azione sopra tutti gli edifizi monumentali, senza accettarne alcuno, qualunque
sia l’amministrazione che li possiede; affinché la ingerenza nostra per la tutela
artistica, potesse avere quell’effetto medesimo, che ha l’ingerenza del
Ministero dei lavori pubblici nelle altre opere di ordine pubblico. Per tale
motivo le spese dovrebbero essere ripartite in guisa, che i proprietari od i
possessori sostenessero quelle, che si richiedono per mantenere gli edifizi,
adatti all’uso a cui sono ora destinati; e rimanessero a carico del nostro
Ministero, quelle altre, che riguardano unicamente gli interessi dell’arte. Al
481
482
Idem, p. 20.
Idem, p. 22.
155
quale proposito molto si è discusso negli ultimi tempi, se per la costituzione
degli uffici speciali, dipendenti da questo Ministero, ed incaricati della
conservazione dei monumenti, si debba ricorrere all’opera di architetti ufficiali
stipendiati, ovvero a quella di architetti liberi esercenti nelle varie regioni;
negli uffici dei quali, come in altrettante scuole pratiche, potessero i giovani
trovar modo di studiare i monumenti, a fine di perfezionarsi nella cultura
artistica. E poiché tale argomento si collega alla questione, circa la riforma
dell’insegnamento dell’architettura, per cui resta tuttora a decidere, se
convenga o no di procedere come per le scuole della pittura e della scultura,
dividendolo cioè in due parti, una elementare ed l’altra superiore; poiché per
conseguenza non si può provvedere alla istituzione di tali uffici, se prima la
detta questione non venga risoluta; è mestieri che senz’altro indugio questa
tesi venga sciolta, affinché le spese che il Ministero deve sostenere, siano
erogate con i canoni migliori, che dalle amministrazioni competenti potranno
essere stabiliti.
Per parte nostra abbiamo finora messo tutto l’impegno, nel volgere l’opera dei
restauri all’ottimo fine; servendoci per quanto era possibile di persone a
dipendenza di questo Ministero, pigliando azione diretta nei restauri di edifici
che si posseggano da altre amministrazioni, ed ottenendo che queste
amministrazioni medesime concorressero alla erogazione delle spese.
Tuttavolta siamo ancora ben lungi dallo aver conseguito quel beneficio, che
era nei nostri voti. Nella maggior parte dei casi, siamo ancora costretti a
valerci di persone, dipendenti da altre amministrazioni governative, che o per
mancanza di studi e di preparazioni speciali, o per essere distratte da altre
occupazioni pure di ordine pubblico, non possono produrre opera
soddisfacente. E benché i lavori si limitino il più delle volte a quelli, che sono
strettamente necessari per provvedere al miglioramento delle condizioni
statiche, e si escludano per quanto è possibile i restauri artistici, pure non
pochi inconvenienti succedono, specie nell’imitare o riprodurre l’antico. Senza
dire, che il più delle volte, dobbiamo restringere l’opera nostra ad una
156
semplice vigilanza sui lavori, i quali diretti da altre amministrazioni, con fine e
con criteri diversi, lasciano purtroppo moltissimo a desiderare”483.
Resta il fatto che i servizi dello Stato, secondo Fiorelli, non potranno mai
funzionare in assenza di una legge di tutela che fornisse loro il sostegno e
l’autorità necessari. Nella prima relazione, 1883, Fiorelli affrontò il punto
centrale della questione e cioè il rapporto tra interesse privato ed interesse
pubblico nel diritto di proprietà.
Con molta chiarezza egli scrive:
“Comprendo bene, che molto sarebbe agevolato il compito del Governo, se
fosse stata promulgata una legge, la quale servisse di valido sostegno agli
ufficiali di questo Ministro, preposti alla tutela dei monumenti e degli oggetti
d’arte e di antichità. Ma se altri gravi cure richiamarono l’opera degli
onorevoli rappresentanti della nazione, sarà con sommo profitto per questo
tema, di cui pure tosto o tardi dovranno essi occuparsi, che sieno intanto
preparati tutti quanti gli elementi necessari a risolverlo nel modo più
soddisfacente; potendo servire anche a ciò i lavori, che a preferenza i nuovi
uffici dovranno compiere. Quantunque, messe pure da banda quelle
discussioni che implicano le maggiori controversie, e che dovranno essere
trattate con nuovi e profondi studi, a me non sembri difficile, che il Corpo
legislativo possa intanto approvare un provvedimento, che renda efficace
l’esercizio del diritto dello Stato sulla conservazione delle antichità e degli
oggetti d’arte, e che metta il Governo in grado di poter esercitare quel diritto
di prelazione, che da nessuno può essere impugnato. Perocché credo tutti
essere di accordo nel riconoscere, che la proprietà privata in materia che si
riferisce ai monumenti storici ed alle cose dell’arte, debba essere subordinata
al alcuni principi che rientrano nell’ordine pubblico, e riguardano il decoro
della nazione; o per lo meno cerdo non ci sia alcuno, il quale non ammetta
essere vietato agli altri di esercitare il proprio diritto, a danno degli interessi
generali. E basterebbe a noi, prima di risolvere la tesi in tutte quante le sue
parti, che fosse sanzionato per legge l’obbligo dei cittadini e delle
amministrazioni, d’informare il Governo sopra ogni scoperta fortuita; di non
483
Idem, pp. 23 – 24.
157
intraprendere scavi o restauri di monumenti, senza l’autorizzazione
governativa; di sospendere i lavori, quando la loro prosecuzione riuscisse a
danno positivo della scienza; finalmente di non disporre in modo alcuno delle
cose rinvenute e degli oggetti d’arte, senza che lo Stato avesse esercitato il
diritto di prelazione.
Basterebbe insomma, che fossero sanzionati quei principi universalmente
accettati,
che
servendo
di
base
all’opera
del
Governo,
tutelano
contemporaneamente l’utile dei proprietari. Perocché molto vi sarebbe a dire
intorno ai danni, che derivano ai proprietari medesimi per il difetto di misure
uniformi in tutte le province del Regno, come pure moltissimo vi sarebbe a
dire sul danno, che ne deriva agli stessi musei esteri, i quali nelle attuali
condizioni di cose, rimangono esposti a tutte le arti degli speculatori,
premurosi il più delle volte di nascondere la vera provenienza degli oggetti, e
capaci di nuocere al frutto degli studi”484.
Sulle “condizioni presenti dell’amministrazione pubblica”, Fiorelli si espresse
nella sua seconda relazione al Ministro, nel 1885, allo scopo di “indagare
donde provenga il male tuttodì deplorato, se cioè dall’organismo
amministrativo insufficiente ovvero dalla natura stessa delle disposizioni
mantenute”485.
Per quanto l’organismo amministrativo, Fiorelli riteneva che esso non debba
considerarsi completamente insufficiente “non essendovi cosa alla quale non
siasi cercato di provvedere”486. Infatti, oltre alla creazione, nel 1875, della
nuova Direzione centrale dei musei e degli scavi, si avviò con il decreto 5
marzo 1876, il coordinamento tra le Commissioni conservatrici dei
monumenti e degli Ispettori. In tal modo, per i monumenti, si poteva vigilare
sia quelli di proprietà privata che pubblica, affinché non si deteriorassero,
proponendo ai proprietari e alle autorità competenti i mezzi necessari al buon
mantenimento. Per i beni mobili, poi, veniva esercitata una più attenta
vigilanza sia sui ritrovamenti che sulle alienazioni che dovevano essere
484
Ibidem, pp. 26 – 27.
ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio
archeologico, seconda relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il
Ministro della Istruzione Pubblica, Roma 1885, p. 36.
486
Idem, p. 38.
485
158
sempre autorizzate. Per gli scavi archeologici, infine, veniva incrementato il
controllo sulle scoperte effettuate, che dovevano essere comunicate al
Ministero, e, quando vi erano i mezzi per farlo, raccolte nei musei provinciali
e comunali.
L’organizzazione del Servizio, dunque, non era insufficiente – osservava
Fiorelli – pur ammettendo che occorrevano ancora nuovi provvedimenti per
una maggiore efficienza. Il maggior inconveniente era da individuarsi nella
natura stessa delle disposizioni, le quali, in base alla legge del 28 giugno 1871
n. 286, erano ancora quelle vigenti nei vari Stati che preesistevano
all’unificazione del territorio italiano.
Di tali leggi Fiorelli effettuò un esame puntuale nei capitoli “Leggi emanate
dai cessati governi per la conservazione delle antichità e dei monumenti” e
“Disposizioni dei Governi provvisori”, riportate integralmente in appendice
alla relazione del 1885.
Gli aspetti più interessanti di questo esame furono le sostanziali difformità dei
provvedimenti rispondenti a concezioni politiche, a volte contrastanti tra loro.
In particolare, Fiorelli segnalava per la sua gravità il problema della estrazione
degli oggetti di arte e di antichità: “E’ tanto grave, che la Camera non ha
cessato mai di raccomandare al Governo, la maggiore sollecitudine nel
presentare un progetto di legge per regolarlo. L’ultimo voto fu quello
approvato nella tornata del 19 giugno 1883, su proposta dell’ On. Martini, il
quale, come affermò l’On.
eltra, per la quinta volta mostrava l’urgenza di
quella legge, ritenuta necessaria anche all’On. Ministro delle Finanze”487.
Ma Fiorelli invitava a riflettere ancora sul fatto che da molti anni il
Parlamento, chiamato a pronunziarsi in materia, non riusciva a legiferare.
Infatti, fin “dall’8 febbraio 1875 l’On. Ministro Borghi aveva presentato alla
Camera un progetto di legge, composto di tre articoli, riguardo all’estrazione
degli oggetti antichi di belle arti od altrimenti preziosi; ed il fatto che dopo
dieci anni non siamo riusciti a risolvere questa sola parte della legge, non è
ultima prova che la questione gravissima non si possa scindere 488. Vale a dire
487
488
Idem, p. 36.
Idem, p. 39.
159
che, la questione dell’abusiva appropriazione degli oggetti rinvenuti non può
scindersi dalla legge generale sulla conservazione delle antichità”.
Purtroppo, scriveva Fiorelli, “è manifestamente provato, che per la sua grave
difficoltà, per le mille questioni che vi sono inerenti, questo aspettato progetto
non sarà presto presentato, o se anche presentato, non sarà discusso”489.
D’altra parte, nota Fiorelli, non era affatto facile tentare di armonizzare le
eterogenee disposizioni vigenti, al fine di adempiere gli obblighi imposti allo
Stato nella tutela delle memorie antiche. Tale difficoltà era dimostrata proprio
dall’esperienza.
“Intendiamo accennare al progetto presentato al Senato del Regno il 13
maggio 1872, progetto in cui si era cercato di soddisfare i nuovi bisogni, senza
trascurare alcuno di quei provvidi elementi, che si trovano nelle leggi più
complete emanate dai Governi anteriori. Ebbene, si disse che questo progetto
conservava tutto il carattere di una legge immaginata da un Governo assoluto,
ed applicata ad un paese che si governa a libero regime. Si disse che nella
presente condizione di Governo, quella proposta portava due difetti capitali: la
proposizione che emerge evidente tra lo scopo che il Governo si propone, ed i
mezzi dei quali dispone per raggiungerlo; in secondo luogo la mancanza del
rispetto, che par dovuto ai diritti ed alla proprietà dei varii enti morali colpiti
dalla legge, e particolarmente quando di tratta di privati. Si dissero molte altre
cose; e se dopo sei anni, modificato in molta parte, giunse quel progetto di
avere l’approvazione del Senato, non rimase in noi la fiducia che sarebbe stato
approvato dalla Camera, tanto più se tenevasi conto del poco favore con cui
venne accolto dalla Commissione, alla quale fu deferito pel debito esame”490.
Fiorelli collocò alla base del ragionamento di impostazione della legge,
l’individuazione delle finalità della tutela. Infatti, egli si pose tre quesiti: in
primo luogo, se esiste un fine supremo al quale debba essere subordinata la
tutela dei monumenti,; poi – posto che esista tale fine – se esso costituisca un
dovere dello Stato ed, infine, soddisfatte le prime due condizioni, quali sono le
leggi speciali necessarie per ottenere i mezzi idonei al raggiungimento della
tutela stessa.
489
490
Idem, ibidem.
Idem, p. 39.
160
Per rispondere a tali quesiti, Fiorelli analizzò qual’era il reale rapporto tra le
antichità, da un lato e, le Scuole d’arte, l’insegnamento classico universitario e
la cultura, dall’altro lato. Egli osservò, in linea preliminare, che dal dibattito
culturale del suo tempo non era possibile trarre un’indicazione unitaria capace
di definire il fine al quale dovesse tendere la tutela delle antichità. Con chiaro
riferimento al solo patrimonio archeologico, egli individuò, infatti, le finalità
seguenti:
 l’ornamento delle città;
 l’interesse storico;
 l’educazione degli artisti491. La formazione dei giovani all’interno delle
Accademie di belle arti, nel XIX secolo,si basava sullo studio e
sull’osservazione diretta delle opere dell’antichità classica.
Poiché al primo punto si provvide con norme di tipo edilizio ed urbanistico,
Fiorelli affermò che “la tutela delle antichità patrie deve mirare o
all’insegnamento artistico, o all’educazione classica”492.
“Ora, per quanto riguarda l’insegnamento artistico non si può accettare senza
alcun dubbio l’ipotesi che l’attuale tipo di formazione sia l’unico ammissibile.
Al contrario, occorre tenere in conto in tutta quanta la sua estensione la tesi
sullo stato dell’arte ai nostri giorni ed, inoltre, riflettere sulla legittimità della
interferenza del Governo sull’arte e sul suo compito di dirigerla e di
aiutarla”493.
A parte ciò, Fiorelli riteneva che se la tutela dovesse essere finalizzata al solo
insegnamento artistico non era necessario che le leggi imponessero, per
esempio, di non rimuovere i ritrovamenti archeologici per consentire lo studio
delle indicazioni di scavo, utili solo alla conoscenza storica. E si deve ritenere
che, nella stessa logica, erano stati eseguiti interventi di restauro con
isolamento dei grandi monumenti archeologici della città. Restauri che,
comunque, costituirono oggetto di interessanti riflessioni di carattere storico e,
senza dubbio, contribuirono alla promozione dello sviluppo degli studi storico
– artistici. Secondo Fiorelli, se si volesse prendere in esame il fine
491
Idem, p. 41.
Idem, ibidem.
493
Idem, p. 42.
492
161
dell’insegnamento delle Scuole di architettura, di scultura e di pittura
bisognerebbe riconoscere l’importanza che lo studio delle antichità riveste in
tale campo. Ma non vi era dubbio che, altrettanta importanza rivestisse l’arte
contemporanea. Per conseguenza, non era sufficiente che lo Stato si limitasse
a proteggere le antichità, analogamente ai secoli precedenti; ed ancora,
occorreva comprendere che proteggere le antichità per fornire materiale di
studio per le scuole d’arte non poteva significare semplicemente esercitare una
serie di azioni di vincolo di vario genere. Occorre sottolineare, infatti, che era
necessario e sufficiente che le scuole disponessero non già delle statue
originali, ma di ricche raccolte di calchi in gesso di quelle originali, e in
particolar modo per l’architettura, di modelli. Evidentemente per promuovere
e facilitare la formazione di tali raccolte non era necessario promulgare leggi
speciali di tutela.
Di rilievo sono le considerazioni che Fiorelli espresse a proposito della utilità
della conservazione delle antichità ai fini dell’insegnamento classico
universitario. Esse, infatti, consentono di constatare, come l’oggetto della
conservazione, nella cultura ottocentesca, fosse prevalentemente il patrimonio
archeologico (cioè le antichità), comprendente sia le opere di scultura e di
pittura (le belle arti) che le architetture (i monumenti) appartenenti,
prevalentemente, al mondo classico greco e romano. In tale ottica, Fiorelli
individuò nel problema del rilancio delle Scuole di archeologia il punto
centrale dell’educazione umanistica al livello universitario. Egli sottolineò che
non vi era accordo da parte degli esperti nell’indicare il metodo di studio
idoneo ad ottimizzare gli studi universitari del settore. In particolare,
evidenziò ciò che era sostenuto da alcuni illustri personaggi, come fatto
essenziale e risolutivo, l’esigenza “di rendere i nostri musei atti a servire alle
scuole di archeologia, affinché essi costituiscano ciò che sono i laboratori
nell’insegnamento delle scienze sperimentali”494. Fiorelli non condivideva tale
affermazione; più nel dettaglio, non riteneva che i musei non fossero utili alle
scuole, ma che non poteva confrontarsi il laboratorio scientifico con il museo
archeologico, non fosse altro per il fatto che gli oggetti dei musei necessitano
494
Idem, p. 43.
162
di cure continue in modo da impedirne il deterioramento. Egli osservò, inoltre,
che un tale museo – laboratorio, annesso ad una Università, non avrebbe mai
contenuto
“tutto
il
materiale,
che
per
le
esercitazioni
pratiche
dell’insegnamento è richiesto”495. Non era pensabile raccogliere tutto
“perocché i materiali scolastici non riguardano soltanto le antichità nostre, ma
hanno principalmente in mira le antichità della Grecia e dell’Asia Minore496.
Ciò che è possibile è raccogliere le copie degli originali. D’altra parte non si
può ritenere che il compito di tutela dello Stato si riduce al solo fine
dell’insegnamento elementare dell’archeologia, che non può certo essere una
delle ragioni supreme le quali impongono allo Stato misure speciali per la
tutela del patrimonio archeologico della nazione497. E ciò senza considerare –
continua Fiorelli – che lo stesso metodo di insegnamento dell’archeologia è
messo in discussione e che non si conosce il metodo da seguire. Certo è che
non può tollerarsi che nelle Università, l’archeologia venga insegnata in un
solo anno, al quale, peraltro, i giovani giungono impreparati, perché non
hanno affrontato la disciplina nei ginnasi e nei licei. A parte il fatto che non vi
è accordo sulla decisione di introdurre tali materie nelle scuole secondarie,
resta la difficoltà, per mancanza di uomini e di denaro, di moltiplicare
l’insegnamento dell’archeologia suddividendo il corso. Al massimo, potrebbe
prevedersi una divisione in due branche, l’una, che si occupa delle antichità
letterate o scritte, che potrà dirsi archeologia classica e l’altra che studia le
antichità artistiche o figurate relative, cioè, principalmente all’arte e che potrà
conservare il nome di archeologia. Ma anche su questo punto sembra che le
idee generalmente in Italia siano alquanto confuse. Pur se si arrivasse a
determinare in modo netto il metodo universitario per le scuole di
archeologia498 si avrebbe un chiarimento relativo alla tutela dei beni
dell’antichità, con esclusione, quindi, di tutti quelli di età paleocristiana,
medievali e rinascimentali. E cioè, resterebbe da sistematizzare lo studio,
particolarmente importante, dei monumenti di architettura i quali costituiscono
495
Idem, p. 45.
Idem, pp. 45 – 46.
497
Idem, p. 46.
498
Idem, p. 48.
496
163
una parte rilevantissima del patrimonio della cultura, nel senso più ampio del
termine”.
Fiorelli insiste nel porre in evidenza la reale importanza della protezione e
conservazione di tutti beni ai fini di partecipare allo sviluppo della cultura. In
altre parole, egli sostenne con forza che oltre alle esigenze di fornire materiale
utile all’insegnamento artistico ed all’educazione umanistica, occorre
considerare tale patrimonio come strumento per l’approfondimento della
conoscenza del nostro paese nel quadro più generale della cultura. In
particolare, egli ha insistito sul fatto che il contributo a tale conoscenza,
ottenuto attraverso lo studio dei monumenti, non deve essere riservato agli
studiosi italiani, ma propositivo anche per quelli stranieri. Infatti, proprio in
nome del principio dell’universalità della cultura, le opere italiane devono
essere tutelate per essere messe a disposizione degli studiosi di tutto il mondo.
Constatato, dunque, che il fine ultimo della conservazione delle antichità non
poteva essere costituito solo dal trarre utilità per l’insegnamento artistico e
classico, Fiorelli sottolineò l’importanza della tutela ai fini della maggiore
diffusione della cultura. E’ interessante notare, a tal proposito, come egli non
si sia limitato al concetto di un’alta cultura del paese, la quale, nel suo
implicito sentimento nazionalistico abbia offerto una sorte di protezione alle
opere “dell’ingegno nostro”499. Al contrario, Fiorelli sostenne con forza il
principio della cooperazione culturale internazionale, quale strumento
essenziale per garantire l’universalità della cultura ed il progresso del sapere.
A sostegno di ciò affermò che: “il decoro nazionale non può trovare la sua
radice ultima in un sentimento di gelosia, colà dove invece si trionfa con la
gara mobilissima”500.
Ecco, dunque, che le leggi speciali per la tutela del patrimonio culturale
diventano necessarie per il raggiungimento di fini speciali, capaci di fornire
una utilità di carattere eccezionale ed universale, ben al di là di quella limitata
all’educazione artistica ed alla istruzione classica.
Per il raggiungimento di tali fini devono essere studiati dal Governo e dal
Parlamento i mezzi necessari, che sono di due tipi: gli strumenti legislativi e la
499
500
Idem, p. 49.
Idem, p. 50.
164
struttura dei servizi atti ad applicare tali leggi. Per Fiorelli, dunque, apparve
necessario valutare se tali mezzi, così come erano disponibili nel momento in
cui scriveva, potevano considerarsi idonei e validi.
Individuato, dunque, l’obiettivo che una nazione ha il dovere di perseguire,
Fiorelli nella sua relazione del 1885 (capo VII), ha proseguito con i “Criteri
pel nuovo ordinamento del servizio archeologico” . Egli scrive:” Questo fine
maggiore consiste nella tutela delle più alte regioni della scienza archeologica,
concepita nel suo più vasto significato, ad incremento non della cultura
nazionale soltanto, ma a diretto vantaggio della cultura universale; tutela che
non potrebbe essere da altri sostenuta fuorché dallo Stato, e da cui lo Stato non
potrebbe sottrarsi, senza offendere il decoro del paese. Le quali ragioni della
scienza allora saranno tutelate, quando il materiale stesso sarà conosciuto in
modo pieno, e custodito secondo convenienza; così che non vi sia parte
alcuna, che si lasci per ignoranza o rimanga negletta per inadeguato
apprezzamento; né vi sia parte che essendo degna di esser mantenuta con
determinata cura, per difetto di questa deperisca o si perda. Trattasi adunque di
due operazioni ben distinte: riconoscere innanzitutto ciò che forma il soggetto
dell’archeologia, e riconoscerlo in tutta la sua pienezza; in secondo luogo di
conservarlo, e di conservarlo in quella misura che si richiede, affinché si
abbiano costantemente i mezzi più efficaci pel progresso dei vari studi, nei
quali l’archeologia si dirama, e coi quali arreca il più forte sussidio alla cultura
storica”501.
Fiorelli inoltre precisò che questi compiti spettassero alla Stato per motivi
molto precisi. Per quanto riguarda l’attività di conservazione distinse due
ordini di problemi: quello degli edifici monumentali che dovevano essere
mantenuti convenientemente e quello degli oggetti antichi, che meritavano di
essere custoditi ed esposti nelle nostre collezioni.
Nel dettaglio, egli specificò: “Che sia compito del Governo il conservare ciò
che deve essere conservato, noi non osiamo mettere in dubbio, sapendo bene
non esser necessario che tutto ciò che è antico si conservi indistintamente.
Nessuna necessità infatti ci può essere pel bisogno della scienza, che si
501
Idem, p. 51.
165
conservino cento ossari o cento tombe, simili in tutto le une alle altre, formate
nel modo stesso, e coi medesimi oggetti, appartenenti alla medesima
necropoli, e scavate nel medesimo luogo. Sarà necessario invece, che si
conservi quell’ossuario solo o quella sola tomba, la quale presenti in sé tutti
quegli elementi capaci di essere serbati materialmente, e che necessitano,
affinché l’oggetto od il gruppo di oggetti divenga il mezzo efficace di cui lo
studio si giova, per argomentare del tempo al quale la tomba si riferisce, e dei
rapporti fra la città ove fu scoperta, e le altre che in quel tempo medesimo
fiorivano nella penisola, o nelle cui necropoli una somigliante suppellettile
funebre fu raccolta. E come non è necessario per l’utile della scienza, che si
conservi tutto ciò che è capace di conservazione, così non è sempre possibile
che tutto ciò che dovrebbe essere conservato, si possa conservare
materialmente. Come si potrebbe infatti conservare nella sua integrità una di
quelle tombe della necropoli di Tolentino, costruite a vari strati, e con più
recinti di sassi in ciascuno di detti strati, nelle quali senza distruggere ciò che
trovasi superiormente, non si può penetrare colà dove importa che lo studio
principale si fermi? Ma tutto ciò per altro non deve minimamente portare a
concludere, che il dovere dello Stato si limiti solo a conservare quello che
deve essere preservato, e che debba lo Stato procedere con uffici ben distinti;
quelli cioè che attendano alla conservazione dei monumenti, fuori dei musei, e
quelli che si occupino di ciò che è nei musei o deve entrarvi, della
conservazione cioè degli antichi oggetti”502.
A proposito dei beni immobili, Fiorelli precisò: “dovendo il Governo attendere
alla sola opera di conservazione, con uno degli uffici a ciò destinati debba
procurare, che gli edifici monumentali ed i beni stabili del patrimonio
archeologico non soffrano ulteriori danni, né siano offesi da quei restauri, che
fanno al paese maggior vergogna
di quello che gli arrechi il completo
abbandono; e con altri uffici debba provvedere di mettere presto in salvo
quegli oggetti, che sarebbe improvvido per noi se gli stranieri ci portassero
via, e se ne servissero per arricchire le loro pubbliche raccolte. E poiché per i
monumenti non basta promulgare il divieto di destinarli ad usi, che ne
502
Idem, pp. 52 – 53.
166
diminuiscano la dignità o ne mettano in pericolo l’esistenza, ma occorre
scongiurare altresì il male, che nessun divieto di legge potrebbe impedire, il
male cioè che la forza di struggitrice del tempo largamente produce, è mestieri
riconoscere il loro stato, ed indicare le opere di conservazione che si
richiedono, e le norme più opportune per eseguirle”503.
Per i beni mobili, invece, la questione era di maggiore gravità, essendo essi
facilmente trasportabili, “ ed avvenendo il più delle volte, che passino le Alpi
o piglino la via del mare, prima che per noi si conoscano, e prima quindi che
ci sia possibile di sapere, se dobbiamo usare del nostro diritto per mantenerli
in Italia. Né ci è dato procedere col semplice criterio, che il riprendere un
oggetto nostro, che un forestiero si comprerebbe, corrisponda a salvare il
decoro della nazione, che rimarrebbe offeso, se si lasciasse tutelare da altri,
quello che noi crediamo di dover preservare. Perocché riuscirebbe difficile a
comprendere, come il decoro nazionale potesse essere soddisfatto, non avendo
altra ragione da far valere che l’esercizio del diritto del più forte; massime poi
se lo si vuol collegare all’utile della scienza, la quale non sa proprio che farsi
di cure così prodigate, essendo manifesto che trattandosi di tutela per tutela,
valga per la scienza precisamente lo stesso, se questa semplice tutela si eserciti
da noi o da altri. Per conseguenza, dovendo rimanere a noi il diritto di scelta,
fondato sul merito che gli oggetti possano avere, pare che tutto si riduca ad
impedire che gli oggetti se ne vadano, prima che il Governo abbia potuto far
giudicare della importanza loro alle autorità proprie, ed abbia quindi potuto
decidere sulla convenienza di aggiungerli alle raccolte nazionali. E poiché
potrebbe aver carattere di misura eccessiva, l’obbligare i proprietari a portare
essi medesimi alle autorità gli oggetti antichi che posseggono, sembra che non
si debba porre indugio nell’invitare gli amministratori dei musei ad esaminare
le raccolte private; a riconoscere gli oggetti sparsi nelle varie parti del Regno;
ad indicare al Governo quelli, che ciascuna delle collezioni pubbliche si
dovessero acquistare”504.
Stabilita, dunque, la validità del concetto generale di attuare, con appositi e
distinti uffici, la conservazione dei beni immobili e di quelli mobili, occorreva
503
504
Idem, p. 53.
Idem, pp. 53 – 54.
167
– prosegue Fiorelli – “vedere, quali disposizioni di leggi possano occorrere,
per impedire che i proprietari di edifici monumentali abusino di questa
proprietà loro a detrimento del pubblico e per impedire che i possessori di
antichi oggetti ne dispongano, prima che si sia veduto se gli oggetti stessi
debbano rimanere nelle nostre raccolte505. Tali leggi certamente porteranno
alcuni vantaggi ma non forniranno quello, che le altre regioni della scienza, a
vantaggio della cultura generale, richiedono dai noi; e cioè che si conservi con
definita custodia e con determinati rapporti, ciò che per un complesso di titoli,
che costituiscono il valore vero del monumento o dell’oggetto, acquista forza
e dignità di vero e proprio documento storico. E proprio e vero documento
storico sono gli oggetti di qualunque forma essi sieno, purchè si valutino non
solo per il pregio che possono avere in sé stessi, ma per quello che acquistano
dalle circostanze; e non da alcune circostanze soltanto ma da tutte, considerate
col rigoroso metodo scientifico, affinché porgano gli elementi che occorrono
ad un giudizio pieno e sicuro. Non già che non via siano oggetti di sommo
pregio intrinseco, per la materia onde sono composti, e per la bellezza artistica
di cui si informano, come appunto quelle tazze fittili aretine scoperte di
recente. Ma se considerate in sé e per sé, potranno quelle tazze essere utili alla
scuola dell’arte, nessun utile potranno arrecare alla scienza, che devesi servire
di esse, non perché valgano solo a destare un profondo senso di ammirazione e
di stupore, ma perché per essere state trovate in quel dato sito, ed in unione a
quei tali frammenti, e per essere state raccolte in quel determinato modo,
diventano proprio e vero documento storico. Senza dire, che può benissimo
mancare qualunque pregio intrinseco, ed acquistar l’oggetto cotanto merito per
le circostanze che ne accompagnarono il trovamento, da diventar
preziosissimo per lo studio”506.
Il riconoscimento del valore vero non poteva essere compiuto in base alle
indicazioni sommarie date dalle Commissioni e dagli Ispettori. Anzi, proprio
tali indicazioni stimolarono gli abusi, “e si va incontro al male gravissimo che
deploriamo, spendendo somme cospicue dell’erario in edifici che non
meritano tutela, con detrimento di altri che pure è necessario di conservare;
505
506
Idem, p. 54.
Idem, pp. 55 – 56.
168
perocché per motivo di trarre aiuti dalle casse dello Stato, furono talvolta
scritte nell’ordine dei monumenti chiese di pochissimo conto; e nella
compilazione degli elenchi tenendosi in principal riguardo gli edifici sacri, ne
furono trascurati molti altri di carattere pubblico, e molti specialmente di
quelli che si riferiscono alla vita civile del medioevo”507.
Ma pur se si riuscirà ad ottenere alcuni vantaggi dal coordinamento delle
attività delle Commissioni e degli ispettori nelle diverse province – prosegue
Fiorelli – “rimarrà sempre sproporzionata l’opera del Governo al fine ultimo a
cui deve tendere; essendo noto, per quello che riguarda i monumenti, che la
cultura pubblica trae vantaggio non solo dalla conservazione di quelli, il cui
pregio si rivela agli occhi di tutti o dei più, e che dal comune consensi sono
additati come meritevoli delle maggiori cure, ma ha bisogno altresì che ne
siano conservati altri, i quali se a parere della moltitudine non rivelano pregi di
sorta, meritano invece di essere mantenuti al loro sito, con lo zelo medesimo
con cui debbono essere conservati i maestosi avanzi degli antichi mausolei. Né
si deve indugiare nell’andar ricercando dove questi monumenti si trovino,
poiché l’indugio è causa di danno gravissimo; non essendo vero quello che
purtroppo si ripete, cioè che il pericolo maggiore sia per gli oggetti, i quali se
non arriviamo in tempo a sapere dove siano, vanno via dall’Italia, o si perdono
per noi. Che anzi, se ben si considera, vi è pericolo di danno minore in ciò che
riguarda gli oggetti, essendo manifesto che se sono portati via, non ne
consegue che siano totalmente perduti per la scienza; mentre pei monumenti,
se non si accorre in tempo, si va incontro al male che purtroppo abbiamo
sovente occasione di deplorare, al male cioè che siano distrutti e perduti
irreparabilmente. Bisogna adunque rifar da capo gli elenchi dei monumenti e
nella loro compilazione tener conto, non solo di quei titoli che formano
argomento di pregio, a giudizio degli architetti e degli ingegneri, ma ricercare
altresì tutti gli altri titoli, pei quali si determina il valore del monumento, non
riguardo all’arte soltanto, ma anche rispetto alla storia. E bisogna non fermarsi
sopra gli edifici di una data età, o di un dato pericolo della storia locale, ma
considerare altresì quelli, che pure sono testimoni del vario grado di civiltà che
507
Idem, p. 56.
169
in quel luogo si svolse. E poiché potrebbe non esser necessario conservarli
tutti, né si potrebbe giudicare pienamente intorno a tale necessità, se non dopo
aver tenuto conto degli altri monumenti consimili, che per ciascuna età furono
costruiti in territori vicini, ove secondo i tempi crebbe in eguali proporzioni la
cultura pubblica, bisogna così che non si considerino i monumenti di un sito
indipendentemente da quelli di altri luoghi coi quali hanno rapporto, ma che si
proceda secondo la ragione storica delle varie regioni del Regno, che ebbero
comuni le vicende nel corso del tempo. Ed occorre che hai restauri degli
edifici riconosciuti degni di tutela, precedano i necessari studi storici ed
artistici, affinché coloro che devono attendervi, possano trasportarsi nell’età in
cui quelli furono innalzati, e giudicare pienamente della loro esatta
reintegrazione. Finalmente è mestieri, che ai restauri non si metta mano se non
direttamente dal Ministero dell’istruzione, acciò sia impedita la troppo facile
sostituzione del nuovo al vecchio, e si possa con gli aiuti della scienza
moderna opporre l’opera nostra all’azione di struggitrice del tempo”508.
Osservazioni analoghe a quelle fin qui espresse per i monumenti potevano
essere sviluppate anche per i beni mobili. Fiorelli prosegue nella sua relazione:
“si deve concludere, quindi, che lo Stato deve farsi carico oltre che della
conservazione anche del riconoscimento del valore dei beni culturali, essendo
vero che allora la conservazione dei monumenti e degli oggetti riuscirà
completa, quando sarà preceduta dall’opera di ricognizione piena, di tutto ciò
che forma il soggetto della scienza; senza di che è assolutamente impossibile
decidere di ciò che si debba conservare, e del modo di effettuarlo. Perocchè
non è indifferente, che tutto ciò che nei musei è mestiere di tenere, si riponga
in uno o in altro sito, in unione di questi o di quegli oggetti; ma è necessario
che l’opera stessa della conservazione sia regolata per modo, che serva
costantemente a provare la esattezza con cui la ricognizione fu condotta,
porgendo nel collocamento degli oggetti i materiali necessari allo studio,
secondo che la ragione di questo richiede”509.
Da tali esperienze scientifiche nacque l’obbligo di mettere ordine
nell’esportazione all’estero delle opere mobili, tenuto presente che le attività
508
509
Idem, pp. 57 – 58.
Idem, p. 58.
170
del Governo non erano dirette al solo vantaggio della cultura interna, ma
tendevano al pieno profitto della cultura storica universale. Dopo una lunga
disamina di tale importante questione, Fiorelli giunse alla conclusione che non
si debba negare la possibilità di far tenere ai musei esteri i beni mobili e i
reperti archeologici italiani. “Anzi – scrive l’autore – è opportuno concederli
nel modo che meglio risponda alla buona amministrazione che ne sarà fatta da
noi. La quale non porta di conseguenza, che si debbano negare ai forestieri
questi sussidi; che anzi induce a concederli, nel modo che meglio risponda a
tutte le esigenze dello studio, non essendo necessario che tutto presso di noi si
conservi, secondo che sopra si è detto, ma che si conservi quello soltanto, che
la ragione scientifica ed il buon metodo richiedono. Per tutto il resto poi, che
rappresenta solo il numero, nessuna difficoltà deve esservi che se ne vada al di
fuori, ove gli oggetti nostri non rimarranno nella vile condizione di profughi,
ma accompagnati dalle nostre cure, avranno la feconda operosità di industriosi
coloni. Né sarebbe giusto lo accusarci di avere la stessa generosità di chi offre
il rifiuto, non potendo né dovendo essere considerata una merce scadente,
quella che per le ragioni scientifiche, essendo esuberante fra noi, diventa utile
per il di fuori, né utile in modo limitato, ma utile in modo pieno.510”
Diverso era, invece, l’atteggiamento nei confronti delle esportazioni praticate
dai mercanti d’arte, le cui attività “per quanto attualmente ci offendano, non
verranno certo a darci continua difficoltà in avvenire, se i benemeriti
amministratori dei grandi istituti antiquari pubblici presso le varie nazioni,
cassando dalla maniera finora tenuta negli acquisti degli oggetti antichi in
Italia, riusciranno con il loro esempio a frenare la pazza cupidigia dei
raccoglitori passionati, e ci presteranno quell’aiuto che abbiamo il diritto di
chiedere, in nome di quella scienza appunto per cui essi costantemente si
affaticano. Tanto più che finalmente non ci dovrà essere conteso di ricorrere a
tutti i mezzi, che sia nel nostro diritto di usare, per non mostrarci inferiori alle
nazioni estere, le quali in nessuna maniera permetterebbero lo sperpero delle
memorie loro, alla cui custodia attendono con lo zelo più lodevole, non
510
Idem, p. 67.
171
concedendone parte alcuna, che fosse richiesta per la serie completa dei
documenti della propria storia”511.
Era necessario, dunque, fare approvare leggi sicure che consentissero allo
Stato di assolvere efficacemente al dovere di soprintendere alla conservazione
della antichità; e per far ciò occorreva respingere il timore di coloro che
credevano in forme di accentramento scientifico, creando una nuova funzione
statale di monopolio della scienza stessa dell’antichità. Timore basato,
secondo Fiorelli, sull’errore di confondere la scienza con il materiale
scientifico, senza comprendere che il compito statale della conservazione era
di procurare materiale scientifico ottimo. Materiale (costituente il patrimonio
archeologico nazionale) che, d’altra parte, non necessitava di essere suddiviso
in due gruppi, l’uno avente dignità di documento storico, l’altro avente il
pregio dell’arte. Una tale concezione portò a credere che i limiti tra
l’archeologia e l’arte fossero stabiliti dalla presenza maggiore di fonti vive
delle scritture. Anzi, dal dibattito riassunto dalle relazioni sono emerse
conclusioni che, afferma Fiorelli, non soddisfacevano nessuno. Conclusioni
che sancivano che: “monumento archeologico sia quello, che serva, a provare
l’esistenza, le abitudini, l’indole civile o sociale del popolo o dell’età a cui
appartiene; monumento artistico per contrario quello che, eretto in tempo di
più abbondanti notizie, valga più specialmente a segnalare l’intelligenza od il
gusto della nazione che lo innalzò”512.
Definizione che non era dettata dalla ragione vera delle cose, ma piuttosto
consigliata dalla necessità di trovare un argomento, che spiegasse il modo con
cui il Governo, in una grande deficienza di mezzi, si occupava della gestione
dei problemi di cui si tratta. Pertanto, continua il nostro autore, “non è certo
più ammissibile, una tale divisione, oggi quando gli studi sul medio evo sono
fortemente sviluppati specialmente in Francia, Germania ed Inghilterra. Una
buona amministrazione deve occuparsi di tutti i materiali, che nella loro
qualità di veri e propri documenti storici, vengono a farci conoscere il vario
grado di civiltà, che nel corso dei secoli si svolse in ciascuna delle regioni del
511
512
Idem, p. 71.
Idem, p. 69.
172
Regno”513.
Regioni
che
dovranno
corrispondere
all’ordinamento
amministrativo vigente secondo il quale “a mano a mano dovranno essere
costituiti gli uffici governativi per la tutela delle antichità patrie.
La creazione di uffici regionali, oltre a rispondere all’esigenza del
decentramento amministrativo suscitò la massima partecipazione delle varie
province, coinvolte nel programma di conservazione del patrimonio culturale.
Ciò non esclude che una saggia amministrazione si dovesse basare su una
precisa divisione dei ruoli e delle competenze, a livello centrale ed a livello
periferico ed all’interno di una chiara legge – quadro nazionale; occorre,
scrive Fiorelli: ” che ciascuno rimanga nella propria sfera, né usurpi ciò che
spetta ad altri, né agisca indipendentemente, consumando le forze proprie,
senza quel maggiore effetto che dalla buona disciplina si ottiene”514.
Lo Stato, dal canto suo, non poteva limitarsi, però, a prescrivere le norme che
dovevano regolare le attività delle province e dei consumi, ma doveva
provvedere con grande cura ad istituire gli uffici governativi regionali. Sulle
caratteristiche di tali uffici, Fiorelli si soffermò con una serie di precise
osservazioni, rivestendo carattere di grande validità ed attualità. Innanzitutto,
questi uffici “dovranno avere in sé una grande competenza dottrinale, per
poter coordinare tutto il loro congegno amministrativo, al progresso ed alla
utilità della scienza archeologica e storica del paese nostro515. Competenza
dottrinale che non sia acquista a tentoni ed a sbalzi né che si trova in uno di
quei Consigli, che finiscono per soffocare ogni vera operosità scientifica.
D’altra parte, la pubblica amministrazione non deve pensare di potersi
avvalere della competenza dottrinale dei professori universitari; questi non
hanno, infatti, la possibilità di prestarci l’opera loro autorevolissima,a tempo
pieno, come è necessario che sia. Senza dire, che non sempre le qualità ottime
di un professore sono adatte in un direttore di ufficio, che deve saper
provvedere anche a risolvere i problemi amministrativi. Beninteso, se sarà
eccessivo e dannoso lo impiegare l’attività e lo zelo di quelli che professano la
scienza, sarebbe certo non meno dannoso lo adoperare semplici amministratori
513
Idem, p. 70.
Idem, p. 71.
515
Idem, pp. 71 – 72.
514
173
o ufficiali, per non dire architetti od ingegneri, che in lavori di altra indole si
sono esercitati, e che per rendersi degni dei posti che occupano, non furono
obbligati a dar prova di studi fatti sopra le antichità516.
Bisognava,
quindi,
convenientemente
riconoscere
addestrate
517
.
la
necessità,
Persone,
che,
di
però,
avere
persone
devono
essere
giustamente remunerate ed avere buone possibilità di carriera, in modo da
essere incoraggiate ad entrare in questa nuova vita.
Nasce, perciò, il problema della formazione professionale – scrive sempre
Fiorelli – che non si può ottenere colle semplici norme necessarie a formare
degli insegnanti; occorre, invece, una preparazione speciale”. A tale scopo,
Fiorelli formulò una precisa proposta e cioè quella di creare un alunnato518,
trasformando la scuola di archeologia da lui stesso creata, “valevole a dare
uomini capaci di dirigere musei ed esplorazioni archeologiche, o che educati
negli studi artistici, si rendano atti a ben dirigere le opere di restauro ai
monumenti”519.
Tali alunnati avrebbero potuto beneficiare anche dell’aiuto esterno delle
benemerite Società di Storia Patria, e dalla solerzia dei direttori degli archivi
di Stato, per tutte le notizie necessarie alla storia dei monumenti medioevali,
nonché dei professori di architettura, per lo studio della parte artistica dei
monumenti e dei docenti delle scuole di ingegneria per consulti tecnici.
516
Idem, p. 72.
Idem, ibidem.
518
Il prof. G. Miarelli Mariani, nella prefazione al volume di Monumenti e istituzioni, richiama
l’attenzione anche sulla importanza della richiesta avanzata da Fiorelli alla Scuola di applicazione
per gli ingegneri di Roma, di creare un laboratorio per la conservazione dei materiali impiegati
negli antichi monumenti. Scrive Miarelli: “Il laboratorio che verrà allestito qualche anno dopo in
virtù dell’impegno esemplare e concorde del Ministero, dell’Università e della Direzione
generale, è un’iniziativa due volte encomiabile. In primo luogo perché è una dimostrazione di
come il Ministero abbia ben compreso che la salvaguardia di un bene tanto prezioso qual è quello
storico – artistico non può essere effettuata da una singola istituzione, sia pure prestigiosa ed
efficiente, ma soltanto dall’apporto di più forze sinergiche; di qui la necessità, ancor oggi
largamente ignorata, di operare perché ogni istituzione – specialmente pubblica – sia utile alle
altre. Una seconda ragione di encomio deriva dalla constatazione che sollecitare dall’Università
gli studi che si richiedono per la soluzione dei quesiti riguardanti la conservazione dei materiali
impiegati negli antichi monumenti dimostra come la Direzione generale fosse in linea con le
posizioni più avanzate in tema di restauro”. Roma, 1971.
519
ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, G. Fiorelli, Sull’ordinamento del Servizio
archeologico, seconda relazione del Direttore Generale delle antichità e belle arti a S. E. il
Ministro della Istruzione Pubblica, Roma 1885, p. 73.
517
174
L’istituzione degli uffici governativi in tutte le regioni, la creazione
dell’alunnato ed il riordinamento degli Uffici centrali richiedevano uno grande
sforzo economico che l’Italia, in quel momento storico, non poteva compiere.
Ma Fiorelli sosteneva che non era necessario attuare totalmente il programma
suddetto; cosa, peraltro, resa impossibile dal fatto di non disporre di un gran
numero di persone idonee. Al contrario, occorreva avviare il processo, anche
in via sperimentale, proprio per mostrare tutti i benefici che ne sarebbero
derivati a lungo andare. Non necessitavano, perciò, grandi risorse finanziarie;
“stabilito per ora il principio, ci si accordi quanto assolutamente occorre per
l’impianto di alcuni uffici, lasciando ai bilanci futuri i provvedimenti per il
resto, secondo che il lavoro acquisterà maggiori proporzioni”520.
Il problema appariva risolvibile dal punto di vista finanziario e
dell’organizzazione
dell’amministrazione,
qualora
fossero
promulgati
provvedimenti speciali di leggi. Leggi che – sintetizzando il pensiero di
Fiorelli – dovevano sancire i punti seguenti521:
 che venga fissato l’obbligo, per tutti, di rivelare al Governo “qualunque
scoperta fortuita”, sospendendo i relativi scavi per consentire agli uffici
statali “di volgere il casuale rinvenimento a maggior utile dello studio”;
 che sia stabilita l’obbligatorietà per l’esecuzione degli scavi delle licenze
che il Governo potrà accordare solo quando la pubblica amministrazione
ha la possibilità effettiva di seguire i lavori o quando non riterrà di
eseguirli direttamente;
 che venga “meglio dichiarato l’effetto a cui sono rivolte le disposizioni per
la tutela” in terreni di proprietà dello Stato;
 che sia stabilito che “tutto ciò che è antico” ed è di proprietà ecclesiastica
venga amministrato dal Governo “per l’utile della cultura pubblica”;
 che nei terreni di proprietà delle parrocchie sia vietata l’esplorazione
archeologica ed il commercio degli oggetti rinvenuti, non avendo i
“parroci il diritto di abusare della proprietà di cui sono usufruttuari”;
520
521
Idem, p. 73.
Idem, pp. 74 – 75 – 76.
175
 che sia stabilita, per gli enti morali, “la inalienabilità degli oggetti antichi
da essi posseduti”;
 che sia imposto “alle province e ai comuni l’obbligo, di non alienare le
cose antiche di cui sono in possesso”;
 che sia stabilito l’obbligo di non permettere esplorazioni archeologiche nei
terreni provinciali e comunali, dovendo l’esplorazione stessa essere
condotta sotto la direzione degli uffici incaricati della tutela del patrimonio
archeologico, pur se “a totale vantaggio degli istituti antiquari locali”.
Tali norme, relative agli oggetti, dovevano valere anche per i ruderi
archeologici immobili (detti da Fiorelli “i monumenti”). Essi dovranno
divenire di proprietà pubblica “rimborsando al compratore il prezzo dell’area
occupata dal monumento, l’importo della spesa fatta per scoprirlo, e di quella
che sarà necessaria per potervi accedere”522.
Ma vi era ancora da regolare la questione gravissima – come si esprime
Fiorelli – della proprietà privata, decidendo preliminarmente se il rispetto per
essa dovesse consentire che i privati ne abusino a danno del pubblico. La
questione non poteva essere risolta con il semplice uso della prelazione: diritto
dello Stato che diventa inefficace se non è accompagnato da tutte le cautele
richieste, per ben determinare in modo assoluto il vero valore di ciò che si
dovrebbe acquistare523. Secondo Fiorelli, tutti concordavano nell’esigere dai
proprietari di provvedere, sotto il controllo delle autorità competenti,
all’obbligo della conservazione dei monumenti archeologici, “salva la ragione
di quei compensi che fossero riconosciuti ragionevoli”524. Per quanto riguarda
gli oggetti, poi, lo Stato doveva poter stabilire il vero valore per accertare la
convenienza ad acquistarli e, in ogni caso, doveva poter controllare le
operazioni di scavo per impedire, tra l’altro, che venissero distrutti, “gli
elementi che servono per giudicarne in modo sicuro”525.
522
Idem, p. 75.
Idem, ibidem.
524
Idem.
525
Idem, p. 76.
523
176
Ho riportato le proposte di Fiorelli per i nuovi provvedimenti legislativi,
proposte furono nel disegno di legge presentato dal Ministro Coppino alla
Camera dei deputati (seduta del 16 febbraio 1886), recante: “Per la
conservazione dei Monumenti e degli oggetti d’arte di antichità”.
Questo disegno di legge definì la composizione del patrimonio, posto sotto la
vigilanza del Governo, composto di tutti gli oggetti di antichità e d’arte
esistenti nel regno, qualunque ne sia la forma e la materia, e di tutti i
monumenti ed avanzi d’antiche costruzioni affini alla storia o all’arte, dalle età
più remote alla fine del secolo XVIII526. Il provvedimento stabilì anche il
decentramento, con la divisione del servizio in regioni, in ciascuna delle quali
era prevista l’istituzione di un Museo ed un ufficio governativo.
Inoltre, il disegno di legge dichiarava: “è vietato di distruggere, restaurare o
alterare in qualsivoglia modo edifici pregevoli per la storia e per l’arte, resti
monumentali, oggetti antichi senza averne prima ottenuto il permesso
dall’autorità
competente”527.
Veniva,
cioè,
affermata
la
prevalenza
dell’interesse pubblico su quello privato; e ciò pur consentendo che, nel caso
in cui i progetti sottoposti all’autorizzazione, venissero modificati, i
richiedenti dovevano essere indennizzati, ferma restando la facoltà del
Governo di sospendere i lavori “quando fossero condotti contro le norme
stabilite”528.
Sempre per i monumenti architettonici fu fissato anche il divieto, per le
amministrazioni governative, di alienare edifici monumentali o resti di tali
edifici, senza autorizzazione del Ministero della istruzione pubblica.
A tutela dell’interesse pubblico, lo Stato era autorizzato “a far rimuovere dal
luogo in cui si trovano, e depositare in uno dei Musei della regione, quegli
oggetti pregevoli d’antichità o d’arte, esposti a deterioramento o destinati agli
ignobili usi”529. Ed ancora, era sancito il divieto di alienare gli oggetti; divieto
assoluto per le amministrazioni governative ed enti morali; per i privati,
526
ACS, Atti Parlamentari, Legislatura XV, 1° sessione 1882 – 86, Documenti, disegni di legge e
relazioni. Disegno di legge n. 403 presentato dal Ministro della Pubblica Istruzione, M. Coppino,
alla Camera dei Deputati, nella seduta del 16 febbraio 1886.
527
Idem, art. 5.
528
Idem, art. 7.
529
Idem, art. 8.
177
invece, il divieto era limitato a quelli che “l’autorità competente avrà
dichiarato necessario per le collezioni dei Musei pubblici”530.
In tutti i casi, però, le vendite dovevano riguardare il territorio nazionale, in
modo da impedire l’esportazione all’estero, ammessa solo in seguito alla
licenza dell’autorità competente e al pagamento della tassa del 20% sul loro
valore531, facendo salvo il diritto di prelazione del Governo.
Fu, altresì, sancita l’acquisizione allo Stato di “avanzi di templi, basiliche,
teatri, anfiteatri, archi trionfali, terme, acquedotti, vie pubbliche, mura di città
ed altri resti monumentali di carattere pubblico”, ritornati alla luce dagli scavi.
In tali casi lo Stato avrebbe dovuto “corrispondere al padrone del fondo il
valore della superficie del suolo occupato dal monumento, quello dell’area
necessaria per accedervi e l’ammontare della spesa fatta per scoprirlo”532.
Il diritto dello Stato di acquisire alla proprietà pubblica tutto ciò che attiene al
patrimonio culturale dall’art. 17 secondo cui: “sarà sempre riserbata allo Stato
la proprietà dei resti monumentali e degli oggetti di antichità o di arte che
esistano in terreni ed edifici demaniali che vengono venduti nonché in tutte le
opere che si eseguiscono con denaro pubblico”. Per gli scavi archeologici, da
qualunque intrapresi, fu sancito il controllo dello Stato sia per quanto riguarda
la sorveglianza dei lavori che per l’autorizzazione preventiva, che poteva
essere rifiutata per scavi riconosciuti di interesse nazionale. Allo Stato era
anche riconosciuto il diritto di far sospendere
gli scavi che fossero mal
condotti, o riuscissero dannosi ai monumenti di arte e di antichità533.
530
Idem, art. 10.
Idem, art. 11.
532
Idem, art. 16.
533
Idem, art. 14.
531
178
4.10.
IL DIBATTITO E LE OSSERVAZIONI DI BOITO E BELTRAMI
Le relazioni di Giuseppe Fiorelli furono al centro dell’ampia discussione che,
in quegli anni, si svolgeva negli ambienti culturali e professionali, oltre che
politici, per cercare una via che assicurasse una precisa azione pubblica per la
conservazione del patrimonio culturale italiano.
Tra le figure maggiormente impegnate vi era quella di Camillo Boito534,
storico dell’architettura, architetto militante, professore universitario e
membro, dal 1882, della Commissione permanente presieduta dal Ministero.
Tra i numerosi scritti in materia, va ricordato il saggio “I nostri vecchi
monumenti”
535
, sul quale vale la pena fermare l’attenzione poiché consente
una serie di osservazioni utili per meglio comprendere la figura e l’opera di
Fiorelli.
Lo scritto di Boito è apparso lo stesso anno, 1885, in cui Fiorelli pubblica la
sua seconda relazione, il testo della quale probabilmente era già noto ai più
autorevoli membri della Commissione, tra cui era Boito. Quest’ultimo, pur
citando nel suo articolo solo la relazione del 1883, si occupa degli stessi
argomenti trattati da Fiorelli nella relazione del 1885; quindi vi è fondata
ragione per ritenere che egli abbia voluto svolgere un commento critico alle
affermazioni e alle proposte del Direttore generale, rendendo particolarmente
importante il contributo dello studioso milanese.
Il Boito, dunque, innanzitutto, ricorda che il ritardo nell’emanazione della
legge di tutela era da attribuirsi, tra l’altro, alla intensità del lavoro legislativo
di quegli anni, per cui molti deputati “entrano nella Camera o nel Governo con
i più animosi propositi, e il frastuono, il chiasso li introna, e si assopiscono, e
buona notte”536. Ciò non toglie che numerosi sono i parlamentari che
tentarono doi portare avanti l’argomento. Tra questi, Boito, ricorda
Ferdinando Martini, che fu relatore del bilancio nel 1883 e che fece votare,
all’unanimità, un ordine del giorno con il quale la Camera invitava il governo
534
G. Rocchi, Camillo Boito e le prime proposte normative del restauro, in “Restauro”, n. 15,
Napoli 1974.
535
C. Boito, I nostri vecchi monumenti; necessità di una legge per conservarli, in “Nuova
Antologia di Scienze, Lettere ed Arti”, prima e seconda parte, 1885.
536
179
a presentare, entro l’anno corrente un disegno di legge per regolare
l’andamento del servizio archeologico. Cosa che non accadde, tant’è che nel
1885, si sperava che il ministro Coppino presentasse la legge, preparata con
l’aiuto del senatore Fiorelli, riferendosi al quale Boito testimonia: “Bisogna
leggere la relazione fatta da lui il 15 febbraio 1883 alla eccellenza del signor
ministro, che allora era il Baccelli. Le verità non gliele ha mandate a dire.
Mostra perché e come si faccia assai poco, e soggiunge: “E’naturale che
questa guisa, alla ignoranza dei tesori custoditi in casa succede la ignoranza di
quelli che si trovano al di fuori; e che si rimanga in uno stato di cose, che
produce danni innumerevoli, dei quali ogni giorno di più risentiamo le gravi
conseguenze”537.
Sottolinea Boito, la profondità dell’impegno di Fiorelli, il quale con quel suo
modo calmo, sereno, garbato, ha detto chiaro e tondo la verità tutta intera; e in
tal senso ripropone dalla relazione del Fiorelli del 1883 il passo dove si legge:
“Molte e molte altre cose si potranno dire; ma la conclusione sarà sempre la
stessa, cioè che con tutto il nostro buon volere, e con tutto lo zelo di coloro
che ci promettono il maggior aiuto, saremo costretti a condurre innanzi molte
opere con vero pregiudizio dell’avvenire, moltiplicando quelle difficoltà che è
nostro proposito di combattere, se non si provvederà a spartire il servizio
archeologico in modo da rispondere alle funzioni che il Governo deve
esercitare, per la tutela delle memorie patrie”538.
Infatti, il punto centrale del problema della tutela del patrimonio culturale era
costituito dall’ordinamento degli Uffici statali del settore. In quegli anni Boito
affermò che: “gli strumenti della vigilanza scarseggiano, e l’accordo fra
ministri, fra capi di divisione, fra ispettori, fra impiegati secondari non è un
punto facile a conseguire”539.
Anzi la mancanza totale di coordinamento tra ministeri produsse, oltre che lo
spreco di denaro pubblico, l’assurdo inconveniente per il quale “il Governo
537
Ibidem, prima parte, p. 76.
Ibidem, p. 92.
539
Ibidem, pp. 76 – 77.
538
180
stesso distrugge o deforma i monumenti della grandezza italiana. L’un braccio
non sa quello che l’altro faccia”540.
In particolare, Boito sottolinea i gravi danni prodotti dagli interventi sui
monumenti eseguiti dal Ministero dei Lavori Pubblici, che, in quel tempo
aveva l’incarico di studiare i monumenti, di proporre i modi per restaurarli, di
compilare i relativi progetti, di dirigere l’esecuzione delle opere, di liquidare i
conti. La legge 5 luglio 1882, sulle attribuzioni e sul servizio del Genio civile,
consentiva di utilizzare, per il restauro, architetti ed ingegneri liberi
professionisti. Purtroppo, scrive Boito: “ancora non è entrato nei cervelli che
ingegnere ed architetto non sono la stessa cosa!”541; per conseguenza,
venivano impiegati quasi sempre ingegneri nel campo del restauro. D’altra
parte, “le Commissioni conservatrici dei monumenti e gli ispettori dei
monumenti e degli scavi non sono in grado di guidare, salvo rare eccezioni, gli
impiegati del Genio Civile. E per guidarli non basta che siano intendenti
d’antichità, bisognerebbe che fossero anche architetti”542.
Per Boito, la difficoltà di impedire la pericolosa azione degli incompetenti e
degli ingegneri del Genio civile, consiste, sostanzialmente, nel fatto che:
“E’ impresa troppo difficile persuadere un ministro e sopra tutto la burocrazia
d’un ministero a rinunciare, come in questo caso dovrebbe fare
l’Amministrazione dei lavori pubblici, ad una parte delle proprie attribuzioni e
quindi della propria influenza ed autorità”543.
A tal proposito, egli richiama il passo della relazione Fiorelli 1883, dove si
legge : “Nella maggior parte dei casi, siamo ancora costretti a valerci di
persone, dipendenti da altre amministrazioni governative, che o per mancanza
di studi e di preparazioni speciali, o per essere distratte da altre occupazioni
pure di ordine pubblico, non possono produrre opera soddisfacente”544.
Boito, insiste con forza su tale aspetto e ricorda nel suo scritto il voto del
Congresso degli ingegneri e degli architetti:
540
Ibidem, pp. 77 – 78.
Ibidem, p. 78.
542
Ibidem, p. 79.
543
Ibidem, p. 81.
544
Ibidem.
541
181
“Il IV Congresso degli ingegneri ed architetti italiani: Convinto che gli
ordinamenti oggi in vigore non valgano a tutelare in Italia, con sicura
efficacia, i monumenti architettonici del passato, e compreso della
responsabilità che per la conservazione e pel restauro di essi il Governo
assume, non solo in faccia al paese, ma in faccia al mondo civile; confermano
le deliberazioni dell’ultimo Congresso artistico tenuto a Torino nel 1880 e
dell’ultimo Congresso degli ingegneri ed architetti tenuto in Napoli nel 1879;
fa voti perché i restauri di pubblici edifici monumentali non siano affidati dal
Governo agli uffici del Genio civile, dove le norme amministrative e gli
incarichi riguardanti ogni ramo d’ingegneria, come non lasciano tempo ed
agio a lunghi e difficili studi d’arte, di archeologia e di storia, così non
ammettono una diretta e palese responsabilità personale; fa voti, inoltre,
perché, all’intento di meglio provvedere allo studio, alla conservazione ed al
restauro dei monumenti, vengano istituiti nelle grandi regioni italiane nuovi
uffici di ispettorati regionali, composti dell’architetto ispettore, e secondo il
bisogno, di architetti aggiunti e di disegnatori, convenientemente retribuiti, ed
eletti per mezzo di pubblici e severi concorsi”545.
Coerentemente con quanto sopra riportato, Boito sosteneva la necessità di
disporre di personale qualificato e responsabile del proprio operato nei
confronti del Governo; personale, però, che doveva essere remunerato e non
doveva lavorare gratuitamente, come allora accadeva per gli ispettori. Ed a
conferma di tale tesi, egli richiamava, ancora una volta, le parole di Fiorelli:
“La esperienza ci ha dimostrato, che da persone le quali gratuitamente si
prestano, non si poteva pretendere un’opera di sommo rilievo. Ed il nostro
bilancio non ci offrì neanche le somme necessarie al pagamento delle spese
per le gite delle Commissioni nei vari luoghi delle province, ove conveniva di
accedere per la compilazione degli elenchi dei monumenti”.
545
Ibidem pp. 81 – 82.
182
Giuseppe Fiorelli
Altro problema ritenuto fondamentale, fin da quei tempi, era quello del
decentramento; vale a dire dell’organizzazione dei servizi per regioni, come
consigliato dal comune consenso dei corpi scientifici del mondo civile. Tale
concetto risultava, in qualche modo, già recepito allora, dalle leggi riguardanti
i musei archeologici. “Però – avverte Boito – non bisogna confondere con la
spartizione delle regioni, le quali devono abbracciare tutto il passato, anche
quello che seguì ai romani e che ci lasciò le innumerevoli e stupende bellezze
del medio evo, del rinascimento, del risorgimento e persino del periodo
barocco”546.
Egli, quindi, propose la crezione di otto Uffici regionali di Ispettorato per i
monumenti architettonici (con sedi a: Roma, Napoli, Palermo, Firenze,
Bologna, Venezia, Milano, Torino), composti da un architetto ispettore,
546
Ibidem, p. 84.
183
architetto aggiunto e un disegnatore. Tali uffici avrebbero dovuto occuparsi,
innanzitutto, della catalogazione dei monumenti e degli oggetti d’arte. Inoltre,
il lavoro degli Uffici regionali, poi, si sarebbe dovuto coordinare con quello
degli altri organismi statali esistenti e con le Accademie e gli Istituti di Belle
Arti, con i professori dell’Università in modo tale che – secondo l’autore –
“l’ispettore, pagato e autorevole, diventerebbe il centro degli studi sparsi e
imprimerebbe ad essi un indirizzo pratico per la migliore conoscenza dei
monumenti e per la loro più fedele e più lunga conservazione. Sarebbe suo
incarico il riferire al Governo sullo stato degli edifici monumentali, il proporre
i ripari ai danni, il compilare i progetti di restauro, il sovrintendere
all’esecuzione delle opere, giovandosi di assistenti come fa il Genio civile.
Ufficio, questo ultimo, le cui attribuzioni verrebbero limitate a quelle
esclusivamente tecniche ed amministrative”547.
Naturalmente, la proposta di Boito, come quella di Fiorelli, era fondata
sull’alta qualità e sulle competenze degli Ispettori. Altro presupposto
dell’organizzazione proposta da Boito era quello di poter disporre di pratiche
istruzioni, comuni per tutti, che fornissero i canoni essenziali del buon
restauro; questo doveva essere il compito della allora esistente Commissione
permanente di belle arti. Essa, tuttavia, era oberata di compiti e non sembrava
particolarmente specializzata nel campo del restauro architettonico. La
soluzione, allora, poteva consistere nell’affiancare alla Commissione gli otto
Ispettori, dando vita, in tal modo, ad un Consiglio superiore dei monumenti.
In definitiva, Boito poneva in rilievo l’urgenza di procedere al riordino dei
servizi. E questo già porrebbe freno ai gravi danni che si dovevano registrare:
“……disordine, indisciplina, mancanza di verifiche informazioni, difetto di
competenza e di autorità, bestialità di ispettori gratuiti e di Commissioni
gratuite, tutti malanni i quali si risolvono nel più disgraziato spreco di denaro,
perché è uno spreco che dall’una parte sciupa i monumenti e dall’altra
demoralizza gli uomini”548.
Un altro aspetto importante da affrontare era la normativa di tutela riguardante
i monumenti e le opere d’arte di proprietà dei privati, in moda da definire i
547
548
Ibidem, p. 87.
Ibidem, p. 91.
184
modi e i diritti di intervento dello Stato nella espropriazione o limitazione
della proprietà privata a titolo di utilità pubblica per gli edifici monumentali,
gli oggetti d’arte preziosa, le cose scavate e da scavare. Infatti, il rapporto con
la proprietà privata e l’equilibrio fra l’autorità dello Stato e i diritti dei
cittadini, era il punto che bloccava il cammino della legge per la
conservazione dei monumenti nell’Italia appena unificata. Occorreva una
legge che non poteva non prevedere, tra l’altro, il principio dell’espropriazione
o dell’uso delle cose private per il vantaggio della collettività o, con le parole
di Boito, “l’acquisto di una proprietà privata, pagandola quanto vale”549.
Intervento dello Stato, questo, che già veniva ampiamente adottato per
numerose ragioni: dalla difesa del patrimonio e dalla sicurezza degli abitanti
alla costruzione delle strade e delle ferrovie, allo sviluppo del commercio e
così via.
Considerando, dunque, l’utilità pubblica della conservazione dei monumenti,
si comprende il diritto dello Stato di avocare a sé la loro proprietà o di limitare
l’uso della proprietà altrui, secondo il bisogno e nei limiti del bisogno. E ciò,
inoltre, facendo le dovute distinzioni tra i monumenti mobili e gli immobili550.
Ma in ogni caso, l’acquisizione della proprietà da parte dello Stato comporta la
disponibilità delle risorse finanziarie necessarie. Occorre, quindi, che lo Stato,
una volta stabilita l’utilità pubblica degli oggetti e il diritto di esproprio
pagando il giusto prezzo, stanzi nel bilancio le somme necessarie.
A fronte di tale previsione di spesa, vi è, però, - osserva il Boito – quella di
introito derivante dalla possibilità di imporre un sensibile dazio di
esportazione. Il che, d’altra parte, era già stato proposto nel 1872, dalla legge
presentata da Correnti per la “Conservazione dei monumenti e degli oggetti di
arte e di archeologia”, approvata dalla Commissione competente del Senato,
ma mai trasformata in legge. L’imposizione del dazio, applicata in vari leggi
preesistenti all’unità come spiegato in precedenza, potrebbe, infatti, assicurare
un buon provento per lo Stato.
Come scrive Boito: “E per quanto sia la facilità di frodar le dogane, massime
nelle città marittime, il dazio servirà non di meno a impacciare e scemare
549
550
Ibidem, parte seconda, p. 95.
Ibidem, p. 96.
185
l’esportazione tanto delle cose eccellenti, e sarà un bene, quanto delle cose
mediocri e cattive, e non sarà né bene né male, perché non si può dire che il
commercio delle anticaglie sia uno di quelli che fanno rifiorire i paesi e che i
Governi hanno l’obbligo di incoraggiare e proteggere”551.
Tutto ciò è, poi, strettamente collegato con le possibilità di conoscere,
attraverso la catalogazione, l’esistenza delle opere d’arte, comprese quelle
presenti all’interno delle proprietà private, ove sono da stabilire sia il diritto
che i ruoli ammissibili per lo Stato di accedere per le constatazioni necessarie.
Inoltre, per la conservazione delle opere architettoniche occorre stabilire una
stretta collaborazione nel campo dei regolamenti edilizi, vigenti in tutte le città
d’Italia e approvati dal Governo sul voto del Consiglio di Stato e del Consiglio
superiore dei lavori pubblici552.
È interessante riportare anche un’altra citazione di Boito, ancora oggi attuale
nel considerare l’operato degli organismi consultivi ministeriali: “…quando
pure la Commissione permanente avesse le attitudini per giudicare, le
mancherebbe il tempo, Andare per pochi giorni a Roma ogni quattro o cinque
mesi, vedere in fretta carte, disegni, fotografie di un edificio di cui non s’è
forse mai sentito parlare, risolvere le controversie, sputar sentenze, ci vuol ben
altro!”553.
E’ evidente, dunque, il pensiero e le proposte di Fiorelli risultano condivise da
Boito e, pertanto, può dirsi che erano perfettamente inquadrate nelle posizioni
culturali di quei tempi.
Un’ulteriore conferma fu offerta qualche anno dopo (1892), da uno scritto di
Luca Beltrami554 nel quale l’illustre studioso e senatore del Regno, nel
partecipare al dibattito relativo alla promulgazione della legge di tutela ed alla
riorganizzazione dei servizi statali, esaminò gli avvenimenti verificatesi nel
settore degli ultimi vent’anni (1872 – 92). E appunto, nel compiere tale
excursus egli ha occasione di commentare e sostenere l’opera di Direttore
551
Ibidem, p. 102.
Ibidem, p. 105.
553
Questa citazione è presente nella prefazione del libro di M. A. Crippa, Camillo Boito, il Nuovo
e l’Antico in Architettura, Milano, 1989.
554
L. Beltrami, La conservazione dei monumenti nell’ultimo ventennio, in “Nuova Antologia di
Scienze, Lettere ed Arti”, III serie, Roma, 1892.
552
186
generale, di cui ricorda, innanzitutto, la relazione del 1883, in cui viene
delineato lo stato soddisfacente dell’attività statale della tutela.
Beltrami, in tal proposito, riporta il seguente brano dello scritto di Fiorelli: “Si
dirà: la colpa è del Ministero, che non ha saputo fare il dover suo, dando la
responsabilità delle cose a chi aveva l’obbligo di assumerla. Ciò è presto
detto: ma affinché il Ministero avesse potuto impedire le vendite demaniali,
impedire lo sperpero degli oggetti di arte custoditi nelle chiese, affinché
avesse potuto amministrare il patrimonio archeologico ed artistico della
nazione, sarebbe stato mestieri innanzitutto che conoscesse questo patrimonio
e lo conoscesse in tutte le sue parti”555. E prosegue denunciando
l’insufficienza dei mezzi a disposizione del Ministero: “Fu quindi in questa
relazione del senatore Fiorelli che, or sono quasi dieci anni, cominciò a farsi
strada, tanto il concetto della istituzione di uffici i quali provvedessero alla
tutela e conservazione del patrimonio artistico secondo le regioni, quanto
l’altro concetto di una razionale distinzione del personale scientifico o tecnico,
dal personale amministrativo”556.
Concludendo, per spiegare i motivi per i quali l’impostazione proposta da
Fiorelli e da lui condivisa non avesse dato i risultati attesi, Beltrami prosegue
scrivendo: “Ma le condizioni del bilancio non potevano lasciar sperare una
sollecitata attuazione di queste riforme, per quanto vi fosse da ripromettersene
un vantaggio abbastanza immediato anche dal punto di vista economico:
d’altra parte le continue difficoltà che insorgevano contro l’approvazione di
una legge per la conservazione dei monumenti, la quale provvedesse a dare
valido aiuto all’azione del Ministero nella tutela del patrimonio artistico,
venivano quasi a giustificare gli indugi che il Ministero frapponeva ad una
vera riforma del servizio archeologico”557.
555
Ibidem, p. 457.
Ibidem, pp. 458 – 459.
557
Ibidem.
556
187
4.11.
PROGETTO PER UNA LEGGE UNITARIA: DALLA LEGGE
NASI ALLE LEGGI BOTTAI
Agli inizi del XX secolo, il Parlamento approvò la prima legge nazionale di
tutela delle belle arti, n. 185 del 12 giugno 1902, nota come “Legge Nasi”, dal
nome dell’allora Ministro dell’istruzione558.
Anche se in ritardo, si trattò di un momento assai felice per la storia della
tutela dei beni culturali. Dopo un lungo e travagliato periodo di vacanza
legislativa, anche il settore artistico poteva vantare una normativa certa, che
fissava una serie di coordinate fondamentali per l’esercizio dell’azione
pubblica.
La legge stabiliva l’inalienabilità degli oggetti d’arte dei comuni, delle
province e degli enti ecclesiastici, ammettendo il cambio di opere d’arte con
musei stranieri; regolava gli scavi riconoscendo ai privati la facoltà di eseguirli
sotto sorveglianza governativa e disponendo in ordine agli stanziamenti ed
all’esportazione per la conservazione dei monumenti e delle opere d’arte. La
normativa, era, però, lacunosa soprattutto in relazione al procedimento di
autorizzazione alla vendita delle collezioni o dei singoli beni, e lasciava
margini di discrezionalità troppo ampi al Ministro559.
Il suo campo di applicazione, peraltro, era assai limitato, circoscritto ai
monumenti, agli immobili e agli oggetti mobili, a cui era riconosciuta la
dichiarazione
di
sommo
pregio
d’antichità
o
d’arte,
ai
fini
dell’inventariazione.
L’eccessiva cautela del legislatore, impose, di lì a qualche anno, alcune
sostanziali modifiche, attraverso la legge 20 giugno 1909, n. 364, c. d. “legge
Rosadi”. Giovanni Rosadi, da buon politico, fu anche Consigliere Comunale
(1895 – 1898), deputato dal 1903 al 1924, nonché sottosegretario al Ministero
della Pubblica Istruzione (1914 - 1916 e 1920 -1922); fu sempre strenuo
difensore delle belle arti e delle bellezze naturali560. Egli predicava in
558
M. S. Giannini, Introduzione, in “Ricerca sui beni culturali”, vol. I, Camera dei deputati,
Roma, 1975, p. 20.
559
S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, p. 45.
560
C. Ceccuti, Un parlamentare fiorentino in età giolittiana: Giovanni Rosadi, in “Rassegna
storica toscana”, n. 1. 1981, p. 73.
188
Parlamento l’integrità del patrimonio, o denunciava la cattiva gestione e i
molti abusi, tanto che lo stesso Giuseppe Bottai, una trentina di anni dopo,
l’avrebbe definito “avvocato di grido” e “ardente cultore delle belle arti”561.
La nuova e più completa legge estese l’azione pubblica alle “cose immobili e
mobili che abbiano interesse storico, archeologico e artistico”, abbandonando i
generici “monumenti”, includendo, tra l’altro, i codici, gli antichi manoscritti,
gli incunaboli, le stampe e incisioni rare e di pregio e di interesse
numismatico”, puntualizzando meglio gli strumenti giuridici di protezione,
controllo ed appropriabilità pubblica del patrimonio, con ampi poteri sui
privati e le cose d’arte in loro possesso562.
In particolare, essa abolì il principio secondo il quale la tutela doveva essere
subordinata all’iscrizione in un catalogo ufficiale, prevedendo, per i beni di
appartenenza privata, la notifica di importante interesse, l’obbligo
di
denuncia in caso di alienazione e il diritto di prelazione dello Stato563.
561
G. Bottai, Politica fascista delle arti, Roma, 1941.
Ne “La Nuova Antologia”, del 1° febbraio 1908, Valentino Leonardi raffrontava in estrema
sintesi le leggi di tutela del 1902 e del 1909: “Mentre infatti la legge Nasi affermava:
1° Il semplice diritto di prelazione dello Stato sui capolavori esportati;
2° l’inapplicabilità della legge all’interno degli edifici monumentali privati;
3° la devoluzione allo Stato della sola quarta parte degli oggetti di scavo privato, o del loro
prezzo, dei tre quarti del frutto degli scavi di Stato, e dell’intero degli scavi intrapresi da
stranieri, e il nessun diritto dello Stato stesso sugli oggetti rinvenuti casualmente dai cittadini;
Il nuovo programma ora propugna:
1° Il divieto assoluto di esportazione per le opere di sommo pregio, artistico o storico;
2° la tutela legale anche dell’interno degli edifici monumentali privati;
3°
la devoluzione allo Stato di una metà degli oggetti, scavati dai privati e casualmente
rinvenuti, salvo a ritenerne il prezzo quando non avessero importanza; e l’attribuzione di un
sol decimo d’aumento sul prezzo d’acquisto o sull’indennizzo ai proprietari, nel caso di scavi
di Stato in fondi privati: con la dichiarazione che nel prezzo degli oggetti non sarà computato
il sopravalore a questi derivante dai mercati esteri, e che in quello dei fondi non sarà
computato il valore degli oggetti o monumenti che si ritenga possano trovarvisi.
563
R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia
giolittiana, Collana dei dibattiti storici in Parlamento a cura dell’Archivio Storico del Senato della
Repubblica, Bologna, 2003. In apertura vi si legge: “La storia della legge n. 364 del 20 giugno
1909 “Per le antichità e le belle arti” vale la pena di essere raccontata per una serie di buoni
motivi. Il primo, intrinseco alla materia che disciplina, risiede nell’istituzione di un sistema di
vincoli più forti a tutela del patrimonio culturale nazionale, ed in particolare dei beni mobili ed
artistici. Il secondo, più generale, riguarda il rapporto fra pubblico e privato nella sensibilità
dell’opinione pubblica e della classe dirigente d’inizio secolo. Il terzo, interessa i sottili nessi
ideologici e simbolici di cui è intessuto il processo di nazionalizzazione nell’Italia, al di là dello
schematismo dei programmi dei partiti. Il quarto, ha a che fare con la qualità del riformismo
giolittiano, con le sue concrete modalità di realizzazione, nella mediazione degli interessi e nella
materialità del lavoro parlamentare”
562
189
La successiva legge del 23 giugno 1912, n. 688, ampliò ancora di più l’oggetto
di tutela, comprendendo tra i beni meritevoli di protezione anche “le ville, i
parchi e i giardini che abbiano interesse storico o artistico”.
In suo scritto, Andrea Emiliani, con rammarico, sottolineò che: “Anche questa
volta ci si dimentica il paesaggio, che, in armonia con la antica avversione
italiana per la natura, si concreterà nel concetto limitativo di ville, parchi e
giardini dando così un altro valido contributo a quella carentissima nozione
del rapporto fra natura e società che dall’antropocentrismo umanistico
transiterà con corriva facilità a licenze pressoché illimitate, lottizzazioni senza
rispetto, demolizioni di ambienti naturali pressoché totali, e cioè insomma alla
degradazione territoriale imposta e voluta dalle prime attività industriali e
dall’ormai adulta speculazione in nome dell’idea inarrestabile del progresso di
qui in avanti identificato esclusivamente nella costruzione di edifici e di
fabbriche”564.
Contemporaneamente sul piano amministrativo si lavorò per perfezionare la
struttura amministrativa. Fu il Ministro Baccelli, a richiamare l’attenzione
dell’esecutivo sulla necessità di tale perfezionamento, più vicino al territorio e
alle sue specifiche esigenze.
Nel 1904 – quasi contemporaneamente alla approvazione della prima legge di
tutela nazionale – nacque la nuova struttura periferica del Ministero. Furono
soppressi i commissariati regionali, sostituiti dai nuovi organi periferici,
chiamati Soprintendenze. Si dispose che le competenze dei costituendi uffici
non dovessero essere attribuiti su scala territoriale (come era accaduto in
passato per i commissariati regionali), ma in funzione di un criterio settoriale,
in “monumenti”, “archeologia” e “gallerie e oggetti d’arte”. Ed ancora, al fine
di garantire, un più efficiente e trasparente legame con le esigenze locali, si
stabilì il reclutamento del personale con concorsi, così da selezionare esperti
di grande prestigio565.
Nel 1907, le Soprintendenze diventarono una realtà. Tuttavia, l’autonomia
degli uffici periferici si rivelò poca cosa ed il loro margine di azione molto
limitato a compiti prettamente esecutivi. Infatti, i poteri decisionali restarono
564
565
A. Emiliani, Una politica dei beni culturali, Torino, 1974, pp. 94 – 95.
Ibidem, p. 92.
190
saldamente nelle mani degli uffici centrali, evolvendo in direzione del
rafforzamento dei medesimi566.
La politica di tutela del ventennio fascista radicalizzò il verticismo dell’età
giolittiana. Nel 1923 fu varato un nuovo ordinamento delle Soprintendenze,
distinguendole in “Soprintendenze alle antichità”, “Soprintendenze ai
monumenti e alle gallerie” e “Soprintendenze miste”. In virtù del nuovo
ordinamento, vennero aboliti i concorsi e la figura del Soprintendente sempre
più assimilata a quella del burocrate, senza poteri sostanziali, chiamato ad
eseguire le disposizioni enunciate dai vertici.
Nel giro di pochi anni, il fascismo recise il legame che univa il patrimonio e la
sua cura al luogo originario e alla gestione diretta. Tale processo raggiunse la
sua più significativa espressione nel nuovo ordinamento del Ministero, varato
dal Ministro Bottai tra il 1938 e il 1939567. La legge del n. 1673 del 1938
istituì un unico Consiglio Nazionale dell’Educazione e delle Belle Arti. Un
anno più tardi, con la legge n. 823 del 1939, si procedette alla ristrutturazione
degli uffici periferici: le Soprintendenze divennero cinquantotto ed i settori di
competenza definiti verticalmente. Tale ampliamento fu presentato come lo
strumento fondamentale per garantire la massima funzionalità dell’apparato:
in realtà, celata dietro tale scelta, vi era, ancora una volta, il bisogno del
vertice di controllare la situazione568.
Sul piano normativo, in quegli stessi anni, vide la luce la legge 1° giugno
1939, n. 1089, sulla “Tutela delle cose d’interesse artistico e storico” (c. d.
“legge Bottai”), alla quale viene pacificamente attribuita dalla dottrina
un’importanza centrale, soprattutto per quel che riguarda la regolazione del
rapporto tra i diritti del proprietario del bene culturale e l’interesse pubblico
alla sua conservazione e al suo godimento569. Essa poneva l’attenzione in
campi di intervento non esplorati o insufficientemente trattati, spaziando così
dai beni di interesse artistico e archeologico fino a comprendere l’arte
566
E. Mattaliano, Il movimento legislativo per la tutela delle cose d’interesse artistico e storico dal
1861 al 1939, in Ricerca sui beni culturali, vol. I, Camera dei deputati, Roma, 1975, p. 21.
567
S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in “L’amministrazione dello Stato”, Milano,
1976, pp. 153 ss.
568
Ibidem.
569
Ibidem.
191
contemporanea, le manifestazioni e le istituzioni sportive, i restauri, gli
archivi, il diritto di stampa e d’autore fino alla materia urbanistica ed alle
relative organizzazioni amministrative.
Il modello cui la legge si ispirò era quello della normativa del 1909: e infatti,
da una parte, a favore dei privati, introdusse disposizioni volte a regolare
l’esportazione
e il commercio antiquario; dall’altra, a favore dei poteri
pubblici e degli interessi della collettività:
 estese il potere di espropriazione,
 dispose di ammettere il pubblico alla visita dei beni immobili e delle
collezioni o serie di oggetti in appartenenza privata,
 avocò alla proprietà statale tutti i ritrovamenti delle cose d’arte570.
Inoltre, la legge del 1939, prevedeva che le cose di antichità e d’arte
appartenenti allo Stato o ad altro istituto pubblico fossero inalienabili (art. 23).
Il Ministro, però, sulla base del suo giudizio discrezionale, poteva autorizzarne
l’alienazione, purché non ne derivasse “danno alla loro conservazione e non
ne fosse menomato il pubblico godimento”, (art. 24).
Le cose appartenenti agli enti morali, invece, potevano essere alienate, ad
eccezione delle collezioni o serie di oggetti notificate: anche in questo caso,
occorreva un’autorizzazione ministeriale, che poteva essere rifiutata qualora
l’alienazione procurasse un grave danno al patrimonio nazionale o al pubblico
godimento della cosa571.
Molto interessante era la disciplina dell’esportazione all’estero dei beni
culturali della suddetta legge, collocandosi in linea di continuità con la
tradizione pre unitaria per i limiti previsti. Il sistema ruotava attorno a tre
concetti fondamentali – quello di interesse, quello di patrimonio nazionale e
quello di danno - tra loro intimamente correlati.
Secondo l’art. 35, co. 1°: “E’ vietata nei casi in cui costituisca ingente danno
per il patrimonio storico e culturale nazionale, l’esportazione delle cose di cui
all’art. 1 della presente legge che presentino notevole interesse storico,
570
571
G. Bottai, Politica fascista delle arti, Roma, 1941.
Ibidem.
192
artistico, archeologico, etnografico, a motivato giudizio dei competenti uffici
di esportazione delle soprintendenze alle antichità e belle arti”572.
Quanto all’ambito di applicazione erano da intendersi esportabili i beni in
appartenenza sia pubblica che privata. Con riferimento a questi ultimi, la legge
disponeva che potevano essere oggetto di esportazione tanto le cose non
notificate quanto quelle vincolate. La diversa intensità della disciplina
dell’esportazione rispetto a quella più strettamente di conservazione dei beni
in appartenenza privata era affine al clima politico che caratterizzava l’epoca
in cui la legge entrò in vigore e con le contraddizioni ad esso peculiari: da un
lato, la necessità di tutelare il patrimonio artistico e storico, dall’altro quella di
non pregiudicare gli interessi del commercio antiquariale573. Il disegno
generale della legge, infatti, mostrava una certa ambiguità, poiché, mentre
definiva un adeguato sistema protettivo del grandioso patrimonio artistico e
storico della Nazione, in concreto introdusse una disciplina di esportazione
meno rigida, consentendola anche per le cose notificate, ossia quelle a cui era
già riconosciuta la rilevanza per il patrimonio nazionale574.
Quanto al procedimento, le legge stabiliva che chiunque intendesse esportare
un bene culturale, qualunque fosse il paese di destinazione, era obbligato a:
 farne denuncia al Ministero della Pubblica Istruzione;
 presentare il bene ai competenti uffici di esportazione;
 dichiararne il valore venale;
 versare, a titolo cauzionale, una somma pari all’importo della imposta
progressiva sul valore dichiarato che l’esportatore era obbligato a pagare,
nel caso avesse ottenuto l’autorizzazione all’esportazione575.
La legge, prevedeva, infine, un sistema di sanzioni per le violazioni:
l’esportatore poteva essere multato per aver solo anche tentato l’esportazione
clandestina, ovvero punito con la reclusione da uno a quattro anni quando la
cosa non sia stata presentata alla dogana, oppure presentata con dichiarazione
572
G. Bottai, Relazione alla Camera sul disegno di legge da cui sarebbe sortita la L. 1089/1939, in
Leggi, 1939, p. 892 ss.
573
T. Alibrandi, L’evoluzione del concetto di bene culturale, 1999, pp. 2702 ss.
574
Ibidem.
575
G. Bottai, Relazione alla Camera sul disegno di legge da cui sarebbe sortita la L. 1089/1939, in
Leggi, 1939, p. 892 ss.
193
falsa o equivoca, ovvero nascosta per sottrarla alla licenza di esportazione o al
pagamento della tassa relativa, e, non da ultimo, la cosa poteva essere
confiscata576.
Ai fini della decisione circa il rilascio o il diniego della autorizzazione, il
Ministero doveva valutare, più che il pregio della cosa d’arte, la posizione, e/o
il ruolo da essa rivestiti nel quadro generale del patrimonio storico, artistico,
archeologico della nazione.
Innanzi alla richiesta di esportazione, il Ministero poteva scegliere fra tre
diverse soluzioni prospettate dalla legge:
 opporre il veto, laddove avesse ritenuto che l’uscita del bene
rappresentasse un ingente danno al patrimonio culturale nazionale;
 concedere la licenza, ove avesse reputato non sussistente il danno;
 esercitare il diritto di acquisto coattivo all’esportazione, cioè acquisire il
bene versando all’esportatore l’equivalente del valore dichiarato, laddove
avesse valutato che esso presentasse interesse per il patrimonio tutelato
dalla legge577.
Anche l’esportazione temporanea era sottoposta allo stesso regime di
autorizzazioni: nel caso di mancato ritorno dell’oggetto nei termini stabiliti, la
somma versata a titolo cauzionale sarebbe stata acquisita a titolo definitivo578.
Con successivo provvedimento, la legge n. 1497 del 1939, Bottai, introdusse
definitivamente il concetto di paesaggio nel patrimonio nazionale, che fu, così,
suddiviso nelle due categorie di beni culturali e paesaggistici.
Le leggi Bottai del 1939 hanno rappresentato dei veri e propri pilastri per il
concetto ed il metodo della tutela del XX secolo, al punto tale che la relativa
disciplina confluì in gran parte nel D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, con cui è
stato approvato il primo “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.
576
Ibidem.
Ibidem.
578
Ibidem.
577
194
5. LA GESTIONE DELLE RISORSE FINANZIARIE E LA
LORO RAPPRESENTAZIONE
5.1. NUOVO CONTRATTO DI APPALTO PER GLI SCAVI DI
POMPEI. CONDIZIONI GENERALI
Il giorno 4 settembre 1861, alla presenza del notaio del Museo Nazionale di
Napoli, Tommaso Maria Piscopo, fu stipulato il primo contratto di appalto
post unitario tra il Principe di Sangiorgio D. Domenico Spinelli, Direttore del
Museo Nazionale e Soprintendente generale degli Scavi di antichità, (dal 1850
al 1863), - il cui servizio fu sospeso nel periodo in cui Giuseppe Garibaldi
occupò Napoli e offrì il suo incarico ad Alexandre Dumas, dal 1861 al 1864 –
e Nicola e Carmine Fiorentino, entrambi appaltatori579.
Le condizioni pattuite erano le stesse sancite dal precedente contratto di
appalto, risalente al 24 gennaio 1859 stipulato con il sig. Lettieri580, ad
eccezione di due nuovi aspetti:
 l’uso della rotaia di ferro per il trasporto delle terre risultanti dagli scavi,
ed il conseguente pagamento ai nuovi appaltatori per la spesa sostenuta.
L’ammontare fu stimato dall’Architetto direttore dei suddetti scavi, incluse
le carrette e gli altri utensili analoghi per l’uso della rotaia. Inoltre, il
pagamento della somma era condizione necessaria e preventiva per
l’impiego del novello mezzo di trasporto.
 La durata del nuovo contratto fu fissata in 4 anni, dal 1° luglio 1861 fino a
tutto giugno 1865, diversamente dalla pattuizione precedente in cui la
risoluzione del rapporto si concludeva in 2 anni.
L’appalto era concesso per gara amministrativa a ribasso sulla tariffa dei
lavori necessari, presentata da un partitario di fama conosciuta, abile, onesto e
ricco di mezzi, rinnovato quante volte il Maggiordomo maggiore e
579
ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861. Il
medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39,
Scavi di Pompei, 1861 – 1875.
580
ASSAN, fascio XVII B10, Contratto di appalto stipulato con il sign. Lettieri, Napoli 24 gennaio
1859.
195
Soprintendente generale di Casa Reale lo stimassero conveniente581. Esso
comprendeva la somministrazione dei materiali e della mano d’opera, con
riferimento alle sole persone riconosciute idonee per abilità di mestiere, quale
requisito indispensabile per eseguire puntualmente i lavori in Pompei582.
In seguito alla ammissione alla gara, gli “appaltatori” erano iscritti in un
“notamento” affisso alla porta del Reale Museo Borbonico e Soprintendenza
Generale degli scavi del Regno; ciascun concorrente depositava una fede di
credito, o contante, della somma di ducati 50583, (pari a 212 lire al 1861); per
coloro che non si aggiudicavano l’appalto era prevista la restituzione della
medesima.
L’aggiudicatario assumeva non solo gli obblighi di legge vigenti per gli
imprenditori di opere pubbliche, ma anche quelli indicati nei regolamenti
approvati dalle istituzioni preposte alla gestione del sito archeologico. I lavori
erano pagati in funzione dei prezzi stabiliti nella tariffa contenuta nel contratto
del 1859584; in caso di lavori non previsti, i prezzi erano calcolati
dall’Architetto direttore, compatibilmente con quelli della Tariffa del Genio
Militare di Castellammare585.
Stipulato il contratto, l’imprenditore era tenuto, negli otto giorni successivi, ad
apprestare gli utensili, gli strumenti e le macchine necessarie a condurre i
lavori, riposte in un apposito locale adibito in prossimità degli scavi di
Pompei; locale che non poteva essere impiegato ad uso abitativo per sé ed i
propri dipendenti, poichè a Pompei il pernottamento notturno era autorizzato
solo alle persone impiegate al Real servizio, o la forza militare di custodia.
In caso di mancato apporto di macchine ed utensili, l’Amministrazione
stabiliva a carico dell’imprenditore una multa pari al 10% della cauzione586.
581
ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861.
Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39,
Scavi di Pompei, 1861 – 1875.
582
Ibidem.
583
Ibidem.
584
ASSAN, fascio XVII B10, Contratto di appalto stipulato con il sign. Lettieri, Napoli 24
gennaio 1859
585
Ibidem.
586
ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861.
Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39,
Scavi di Pompei, 1861 – 1875.
196
5.2. ANTICIPO DI SOMME E PAGAMENTI DI LAVORI
L’appaltatore era tenuto ad anticipare 500 ducati (pari a 2.125 lire al 1861), in
deposito presso l’Amministrazione, al fine di fronteggiare eventuali lavori
straordinari conseguenti a danni inferti alle antichità per trascuratezza o per
cattiva realizzazione del servizio. A termine del contratto, la cauzione era
restituita previo rilascio del certificato di verifica dell’Architetto direttore
degli scavi.
I pagamenti erano erogati mediante certificato bimestrale dell’Architetto
direttore, attestante l’esecuzione dei lavori in conformità alla tariffa e alla
qualità pattuita, riportando, separatamente, lo stato sommario587 con i
rispettivi prezzi, specificando le diverse categorie di intervento, deducendo,
infine, dall’importo complessivo, il 4% a titolo di “offerta” per
l’Amministrazione degli scavi, ed il 2% a beneficio della Casa Reale588.
L’architetto direttore degli scavi di Pompei compilava un registro riportante i
tempi, il luogo in cui gli interventi erano stati realizzati, la tipologia ed i
certificati di pagamento sia del partitario sia dei materiali consumati; siffatto
notamento o registro, detto libretta589, era sottoscritto dall’appaltatore e
dall’ingegnere di dettaglio residente in Pompei. Il compenso spettante
all’appaltatore era pari al 10% della somma complessiva pagata agli impiegati
durante il bimestre.
587
Ibidem, art. 15, p. 134. Tra l’altro il sommario dei lavori, completa la descrizione dei lavori
compiuti a Pompei contenuta nelle “Misure dei lavori”, riportando il costo effettivo delle
operazioni, contenute nei fasci dell’ Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni
Archeologici di Napoli e Pompei
588
Ibidem.
589
La “libretta” corrisponde alle “Misure dei lavori”, estrapolate dai documenti dell’Archivio
Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei: si trattava di
registri bimestrali dell’Ufficio tecnico degli scavi in cui erano rendicontati in termini quali –
quantitativi le operazioni di sterro con relativa valutazione delle spese sostenute. Si trattava della
prima forma embrionale di “bilancio” per gli scavi di Pompei.
197
5.3. QUALITA’ DEI LAVORI, PENALE E CASI DI SOSPENSIONE
I lavori dovevano essere eseguiti a “perfezione tanto dei materiali che della
mano d’opera”590 , imitando il più possibile le diverse costruzioni antiche e
rispettando scrupolosamente gli ordini impartiti dall’Architetto direttore,
relativamente alla qualità e all’uso dei materiali impiegati a Pompei. Qualora
l’Architetto direttore avesse rilevato dei “difetti”, si procedeva alla
demolizione del lavoro e al successivo ripristino del medesimo a danno ed
interesse dell’appaltatore591.
La puntuale esecuzione dei lavori era funzione dell’abilità e dell’onestà delle
persone che l’appaltatore assumeva, con particolare attenzione alla tutela delle
antichità, affinché gli oggetti rinvenuti negli scavi non venissero lesi o
occultati592; nel caso in cui l’Architetto direttore non dichiarasse idoneo un
impiegato, l’appaltatore era tenuto a licenziarlo “con semplice ordine verbale”,
e a sostituirlo con persone che godessero la fiducia dello stesso architetto593.
Il personale scelto dall’appaltatore, oppure dall’Architetto direttore, era tenuto
a rispettare tutte le speciali prescrizioni emesse per garantire il regolare
andamento del servizio di Pompei, soprattutto quelle contenute nel Real
rescritto del 8 dicembre 1852, per effetto del quale tutti gli operai, di qualsiasi
mestiere adoperati negli scavi di Pompei, erano sottoposti alla disciplina
militare594.
Un altro vincolo a cui era sottoposto l’appaltatore era il versamento di una
cauzione complessiva di 750 ducati (pari a 3.188 lire al 1861), al fine di
garantire la perfetta esecuzione dei lavori; di cui 500 ducati (pari a 2.125 lire
al 1861), come anticipato, restavano in deposito presso la Soprintendenza
degli scavi, mentre i rimanenti 250 ducati (pari a 1.063 lire al 1861) a titolo di
garanzia “legale”595. Il termine della garanzia legale, era denunciato a cura
590
ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861.
Il medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39,
Scavi di Pompei, 1861 – 1875.
591
Ibidem.
592
Ibidem.
593
Ibidem.
594
Ibidem.
595
Ibidem.
198
dell’imprenditore, ma veniva sciolto solo in seguito all’assenso del
Maggiordomo Maggiore Soprintendente di Casa Reale. In caso di danni o
difetti, risultanti dalla verifica, l’appaltatore era tenuto, nei dieci giorni
successivi, a porre rimedio alle conseguenze di un’errata manutenzione, a
proprie spese.
L’unico caso in cui l’imprenditore era autorizzato a sospendere i lavori, previa
intimidazione all’Amministrazione, era per mancato pagamento, decorso il
termine di 20 giorni dalla data cui sarebbe dovuto pervenire il secondo
certificato mensile; in caso di ritardato pagamento, egli aveva diritto alla
corresponsione del 5% l’anno su pagamenti non ricevuti596. Nell’ipotesi di
sospensione dell’opera per volontà reale, l’imprenditore poteva beneficiare
del rimborso della somma oppure chiedere la risoluzione del contratto: in
questo secondo caso, l’appaltatore poteva richiedere solo il valore degli
ammonimenti esistenti, secondo gli ordini ricevuti597.
Inoltre, la risoluzione di un’eventuale controversia fra l’Architetto direttore e
l’appaltatore, era rimessa all’autorità del Soprintendente di Casa Reale.
Tuttavia, qualsiasi fosse la questione, non poteva essere di ostacolo al
progredire dei lavori; nell’ipotesi in cui l’imprenditore se ne fosse servito
quale pretesto per sospenderli, sarebbe incorso in quanto descritto in
precedenza598.
Le spese per il contratto di appalto, nonché le relative copie per
l’Amministrazione e l’Architetto direttore erano a carico dell’appaltatore. Egli
era tenuto a pagare anche quanto sostenuto per le spese di copia dei certificati
e degli stati sommari in tripla spedizione, una all’Amministrazione, un’altra
alla Soprintendenza di Casa Reale e l’ultima all’Architetto direttore599.
Di seguito riporto la tariffa600, estrapolata dallo strumento notarile del 1861 ed
applicata nella “misura dei lavori”, dal 1861 al 1893, per i diversi interventi
eseguiti presso gli scavi di Pompei; essa è importante non solo per quantificare
quanto speso, ma anche per comprendere che cosa di intendesse per
596
Ibidem.
Ibidem.
598
Ibidem.
599
Ibidem.
600
Ibidem, pag. 139 – 145.
597
199
“scavamento”. In caso di operazioni non specificate nel contratto di appalto, la
stima dei lavori, dal 1876, era contemplata in base a quanto previsto dalla
tariffa del Genio Civile per le province di Napoli601. I prezzi della suddetta
tariffa sono espressi in ducati, per cui accanto ad essi, riporterò la relativa
conversione in lire al valore del 1861.
TARIFFA DEI LAVORI NECESSARI ALLO SCAVAMENTO DELLE CELEBRI
ANTICAGLIE DI POMPEI, E DI QUANTO ABBISOGNA PER RESTAURARE, E
CONSERVARE, E MANUTENERE QUEI RUDERI.
ART. 1 – CAVAMENTI
1. Il tagliamento delle terre per l’apertura delle vie, e dove gli spazi sono
aperti, o del taglio delle terre a scarpa senza il perfezionamento delle
superficie, considerato come osservarsi in Pompei di terre miste di cenere,
lapilli, pozzolane, e talvolta di terre compatte stratificate, ed indurite dalle
acque, sarà pagato per ogni canna cubica legale, compreso il carico e
scarico del materiale che risulta in adattati veicoli per trasporto altrove
grana 0,80 – lire 3,4.
2. Il detto carico e scarico del materiale risultato dagli scavi, o tagliamenti,
s’intende sempre compreso in tutti i prezzi dei tagli, o scavi che si
eseguono, come pure il separare dalle terre il materiale utile per mutamenti
od altro, secondo le prescrizioni dell’Architetto direttore, e riporli in siti
prossimi allo scavo per uso di ricostruzioni dei ruderi da riparare.
3. Incontrandosi nei grandi massi di pietre dure, di marmi o altro che ecceda i
palmi cubici due, ne sarà pagato il trasporto a seconda dei mezzi da
impiegare all’uopo, o della distanza, facendosi la deduzione del loro
volume da quello delle terre dei paramenti, come si pratica per le fabbriche
di muri antichi e simili.
4. Se le terre si debbono crivellare, perché di frequente si rinvengono
scheletri, od oggetti preziosi antichi, in qualunque punto lo sterro sia, sarà
601
ASSAN, fascio XVII B6, “Misure dei lavori”, anni 1873 – 1875 – 1878.
200
aggiunto al prezzo denotato od agli altri seguenti per ogni canna cubica
legale grana 0,25 – lire 1,06.
5. Se questi sterri si debbono sospendere, e riprendere di poi più
accuratamente col metodo di uno dei seguenti numeri, perché
l’invenimento dei scheletri o altro il richieda a norma dei regolamenti, per
eseguirsi in presenza dell’Architetto direttore, il partitario non potrà
negarsi a sospenderli senza pretendere aumento di prezzo per tale causa,
soltanto aggiungendosi quanto di diritto per la corrispondenza ed altro
seguente numero.
6. lo sterro accurato, o diligente, orizzontale, con la maneggiatura del
materiale fino ai palmi 50, a fin di scoprire i ruderi, le coperture, ed altro
che esiste quasi a fior di campagna, ed alla profondità media di palmi 10,
con il trasporto in rampa alla medesima distanza di palmi 50, ducato 1,20
– lire 5,10.
7. Per ogni maggior profondità dovendo usare arganelli o altre macchine, lo
sterro diligente orizzontale lasciando palmi 3 a 4 sopra pavimenti, e
discoprendo diligentemente da un sol lato qualche imposta, sarà pagato al
prezzo medio di ducato 1,50 – lire 6,38.
8. Allo sterro ultimo di palmi 3 a 4 lasciato sopra pavimenti delle camere, o
ambienti qualsiasi, aggiungendovi la maggior diligenza da usarvi,
compresavi la crivellatura poiché in questo caso le vie per i trasporti e per
la maneggiatura del materiale sono state aperte, ducato 1,45 – lire 6,17.
9. Il trasporto di una canna cubica di materiali degli indicati scavi o sterri a
spalla d’uomo, per ogni 100 palmi al di là dei palmi 50 preveduti, di
cammino orizzontale od in falso piano compreso il ritorno per ricaricare,
verrà pagato grana 0,20 – lire 0,85.
10. Se il trasporto sarà in elevazione, montando una scala od una rampa,
grana 0,25 – lire 1,07.
11. Il trasporto con carretti tirati da animali per sgombrare gli anzidetti
materiali inutili, e gettati nel sito da scaricatoio o da deposito
espressamente stabilito dall’Architetto direttore, qualunque sia la salita o
discesa delle rampe, o delle vie, il giro per cammino tortuoso indicato dal
201
medesimo Architetto direttore, compresovi tutti i possibili ritardi prodotti
dalla natura e topografia dei luoghi, o per qualsiasi altra causa, per ogni
ricambio di palmi 1000 compreso il ritorno, ed il carico e scarico, per ogni
canna cubica di terre miste come sopra a fango asciutto, grana 0,90 – lire
3,83.
12. Se l’architetto direttore escogitasse altro mezzo idoneo a facilitare questi
dispendiosi trasporti e meneggiature con economia delle spese, propostosi
quello alla superiore autorità, ed ottenutane l’approvazione, il partitario
dovrà accettare, ed eseguire quel mezzo, colla riduzione del correlativo
prezzo, come se fosse nell’istrumento di appalto convenuto. Solo potrà
avanzarne richiamo a S. E. il Maggiordomo maggiore Soprintendente
generale di Casa Reale, il quale nella sua saggezza e giustizia deciderà
inappellabilmente l’occorrente sulle querele del partitario.
13. Il perfezionamento della superficie delle scarpe per ogni canna legale
superficiale, grana 0,12 – lire 0,51. Il partitario sarà obbligato di caricare i
veicoli in modo, che le terre non cadano lungo il tragitto ad ingombrare
così le vie per dove passano, poiché se ciò accada sarà egli tenuto a
togliere a sue spese le terre cadute, e pulire le strade allorché sarà ordinato
dall’Architetto direttore.
14. Le tappie ovvero scaloni nei terreni da farsi, ove altre terre si debbano
sostenere con ciglio di spini e cavità orizzontali per contenere le acque,
ogni canna superficiale compresavi la maneggiatura, l’avvicinamento del
terreno, i strati di essi ben pistonati, e la superficie inclinata ben battuta e
levigata da non potersi eccedere l’altezza di palmi 12, grana 0,40 – lire
1,7.
202
ART. II. – MURAMENTI DIVERSI
15. Il prezzo dei mutamenti verrà considerato per volume effettivo di essi
qualunque ne sia la grossezza, deducendone i vani ovvero le aperture, e
per le superficie apparenti quante esse saranno, e per gli angoli che ne
potranno risultare dal loro incontro. Il prezzo del volume non avrà
distinzione nelle altezze, poiché in Pompei i ruderi tutti non sono molto
alti ed esso sarà considerato come medio. Sarà considerato inoltre il
trasporto dei materiali a spalla d’uomo, e non diversamente negli edifici, e
dalle vie che possono essere percorse dai veicoli comunque in piano, in
discesa, ed in salita. Vi sarà nel prezzo riunito ancora la costruzione degli
anditi volanti ed a castelletti, senza far buco nelle mura, così del pari in
ogni altro qualsiasi lavoro da muratore o da stuccatore, non escluse le
demolizioni.
16. E come in Pompei qualche muro cadente si dovrà abbattere per non potersi
sostenere od essere inutile, o perché sia di pessima qualità da non poter
reggere in piedi, così questa demolizione di qualunque grossezza potesse
essere, compreso lo sgombro dei calcinacci fino al sito da scaricatoio, e
segregando il materiale utile da riporre in apposito sito prossimo, secondo
le prescrizioni dell’Architetto direttore, sarà pagata per ogni canna cuba
legale, ducato 1,60 – lire 6,8.
17. I mutamenti in elevazione con malta di pozzolana vulcanica ed arena del
luogo, componendo un mutamento incerto, sarà pagato per ogni canna
cubica legale, ducati 15,60 – lire 66,3.
18. I muri anzidetti si sono considerati con le pietre del paramento senza
lavorio delle facce interne, e però le facce apparenti dei muri di superficie
piana per ogni canna superficiale verrà pagato grana 0,30 – lire 1,28.
19. Le superficie curve per archi ed altro saranno aumentate di grana 20,
divise per raggio della curva, grana 0,20 – lire 0,86.
20. I spigoli, o angoli salienti, o rientranti risultanti dalla unione di pareti piane
o curve, qualunque angolo formassero tra loro, verranno pagati a grana
uno il palmo corrente, comunque siano di pilastri o di mostre, o di fasce, o
203
di qualunque risalto, ed a condizione che dovranno essere a perfetta linea
retta, grana 0,01 – lire 0,05.
21. La muratura per archi o volte e piattabanda, con pietre del luogo lavorate
perfettamente a cunei e di opportune dimensioni, comunque frammiste a
mattoni del luogo, verrà pagata ducati 19 senz’altro compenso per maggior
magistero, e ciò si intende sempre che di archi o volte si parli, di
qualunque figura o forma ed ampiezza: saranno compresi gli anditi volanti
come sopra si è dichiarato ducati 19 – lire 80,75.
22. I mutamenti con pietre dell’appaltatore saranno pagati a giudizio
dell’Architetto direttore in ragione della quantità della pietra, e della
distanza delle cave, prendendo ancora norma dalla tariffa di Casa Reale
per Quisisana, o da quella del Genio per Castellammare secondo più
convenga ai Reali interessi.
23. I mutamenti di laterizi con mattoni antichi del luogo verranno pagati con
simile malta, ducati 24 – lire 102.
24. Il magistero delle pareti piane qualunque siano, come precedentemente si è
detto grana 0,40 – lire 1,7.
25. Le pareti, o superficie curve di archi e volte, sarà con l’aumento di grana
0,20 – lire 0,85.
26. Gli angoli salienti e rientranti, con le medesime avvertenze precedenti,
grana 0,01 – lire 0,04.
27. Se i detti muri laterizi si dovranno costruire con mattoni dell’appaltatore,
vi sarà aggiunto il prezzo dei mattoni considerati trasportati sopra luogo, e
secondo le qualità di essi delle diverse fabbriche.
28. I muri di struttura mista saranno pagati secondo i rispettivi prezzi qui
prima stabiliti, per la quantità delle diverse strutture che contengono in una
canna cubica, tanto per il valore che per le superficie, come per ogni altra
circostanza.
29. I lacerti così detti podea fatti nel margine degli intonachi onde sostenerli,
con pozzolana di fuoco, o di Bosco tre case, di larghezza media palmo
zero e 5 decimi previo abbozzo e rinzaffo, bene fratassato stretto e senza
distacco o copertura, indi con superficie soprapposta bene levigata,
204
governata, e senza la minima screpolatura ogni canna lineare grana 0,15 –
lire 0,64.
30. Lo abbozzo di ottima malta di arena e pozzolana vulcanica, previo arriccio
da farsi in due strati entrambi di un decimo di palmo, bene conguagliati
appianati con sparvieri ed altri ordigni senza screpolatura, lasciando la
superficie ruvida onde attaccarsi lo intonaco per ogni canna superficiale
grana 0,25 – lire 1,07.
31. Per ogni altro decimo poi di maggior grossezza grana 20, e minorando
questa grossezza con le debite proporzioni, le frazioni di detta grossezza
usando le medesime avvertenze, grana 0,20 – lire 0,85.
32. L’arricciatura a guisa di abbozzo per gli intonachi, con simile malta di
sabbia e pozzolana vulcanica o di Bosco tre case sottilmente crivellata,
della spessezza da 3 a 4 centesimi di palmo sulle pareti piane, grana 0,12
– lire 0,51.
33. Lo intonaco della spessezza di 4 a 5 centesimi di palmo, con malta fina
tutta di arena sottilmente crivellata, fracassato e ben governato con
cassuola, lisciato senza la minima screpolatura, grana 0,30 – lire 1,28.
34. I simili intonachi con arena vulcanica o di Bosco tre case con le simili
condizioni, grana 0,35 – lire 1,49.
35. Lo intonaco a righella, preceduto da apparecchio o arricciatura di sottile
malta di pozzolana di fuoco o Bosco tre case, di uno strato di malta simile
di spessezza 5 centesimi di palmo, disponendo prima le liste a guida a
breve distanza con piombi o bighelloni onde ottenere un perfetto piano,
con gli angoli a rettifilo, e con altro strato sottile di circa un centesimo di
palmo, con malta colata nell’intonaco fino conguagliato, e lisciato a
perfezione, curando nel fracassare lo intonaco di spesso bagnarlo perché
risulti della massima compattezza possibile, grana 0,90 – lire 3,83.
36. Tegole d’Ischia della forma grande a fazione di quelle del Granatello, di
palmo uno e 5 decimi, e canali simili. Ogni 100 coppie, per costo e
trasporto fino al luogo del lavoro, e ponimento in opera, tettoie con canne
oscure e palombelle, di malta di pozzolana di fuoco, ducati 4,50 – lire
19,13.
205
37. Se poste in sazio di calce sopra i muri ducati 5,70 – lire 24,23.
38. La rinvoltura dei tetti con canne oscure e palombelle, per ogni 100 coppie
di tegole, e canali appaiati ducati 1,30 – lire 5,52.
39. Un palmo lineare di legno castagno di selva cedua bene stagionato,
perfettamente netto di scorza e di alburno, in ogni lato a filo battuto senza
nodi cattivi, ed alcuno difetto o fenditure nocive che chiamansi stellate,
verrà pagato per tutte siffatte qualità, e sulle dimensioni del legname in
opera, se di palmi 25 del diametro in cima palmo zero e 6 decimi, grana
0,18 – lire 0,77.
40. Un palmo di trave di lunghezza palmi 20, di diametro in cima palmo zero e
57 centesimi, con le medesime condizioni del numero precedente, come
nei seguenti intendesi ripetuto, grana 0,15 – lire 0,64.
41. Se di palmi 15, di diametro in cima palmo zero e 54 centesimi, grana 0,18
– lire 0,56.
42. Le travi di lunghezza intermedia tra le indicate verranno pagate al prezzo
di quella più prossima.
43. Ciascuna ginella detta bastarda, di lunghezza palmi 13 a palmi 14, netta di
corteccia e d’alburno, di diametro in cima palmo zero e 29 centesimi,
grana 0,17 – lire 0,73.
44. Ciascuna ginella detta d’arma di palmi 14 e 15, di diametro in cima palmo
zero e 23 centesimi, grana 0,14 – lire 0,60. Nota. Il ponimento di queste
ginelle per tetti, per rastrelli fissi, per divisioni o altro sarà pagato a parte.
45. Un palmo quadrato di tavoloni di castagno per arcotravi, della spessezza di
palmo zero e 33 centesimi, netto di nodi senza fenditure o così detto piano,
o mancanza, o altro difetto grana 0,08 – lire 0,34.
46. Un palmo quadrato dello stesso legno, se della grandezza di 5 decimi,
grana 0,12 – lire 0,51.
47. I cancelli fatti con ginelle d’arma distanti tra loro palmo zero e 33
centesimi, fra telai di listoni squadrati, compreso il magistero, li stateri di
listoni squadrati, i chiodi, le mecce, ed altro, per ogni palmo superficiale,
grana 0,08 – lire 0,34.
206
48. I cancelli fissi o mobili di listoni squadrati fino alla larghezza di palmi 6,
di buon legno castagno, con telai e stateri di spessezza palmo zero 33
centesimi in quadro, e balaustri di palmo zero 25 centesimi in quadro, tra
loro distanti palmo zero e 33 centesimi, ogni palmo superficiale
perfettamente ammecciati e lavorati, grana 0,18 – lire 0,77.
49. I medesimi da palmi 6 in sopra, tutto simile nel resto, grana 0,22 – lire
0,94.
50. Il ponimento delle ferrature sarà pagato a parte, e la misura di detti cancelli
sarà presa fuori i stateri.
51. Le imposte a due pezzi così dette alla Tornese con tavole a canna
soprapposte al telaio armato a due riquadri, per ogni pezzo di tavole alla
mercantile compreso il telaio maestro, i chiodi, gli incastri per le ferrature,
ed il ponimento in opera, grana 0,17 – lire 0,73.
52. Se ad un pezzo, la imposta come sopra compreso il telaio maestro, grana
0,15 – lire 0,64.
53. La tinta ad olio color piombino, o gialletto a tre passate, previo la
stuccheggiatura sulla prima d’apparecchio con buon colore tutto ad olio,
grana 0,01 – lire 0,04. Nota. I rastelli ed i cancelli saranno considerati ad
una faccia, ed un quarto per la superficie della tinta, atteso le distanze
stabilite fra balaustri e ginelle.
54. Tutti gli altri lavori non considerati, né preveduti in questa tariffa che
potranno bisognare, saranno valutati con la tariffa del Genio, ed in
mancanza per analisi e stima dell’Architetto direttore, attingendo gli
elementi da quanto è stabilito in questa stessa tariffa, i cui prezzi devono
essere in armonia.
55. Sopra tutti i denotati prezzi e valori delle opere, si dovrà rilasciare il 2% a
beneficio della Soprintendenza generale degli Scavi del Regno.
56. L’olio, ed i carboni di ottima qualità, che si somministreranno agli
impiegati civili e militari residenti in Pompei, saranno valutati secondo le
mercuriali di Torre Annunziata, essendo variabile il prezzo, ottenute dal
partitario a sue cure e spese.
207
5.4. MISURE DEI LAVORI
Quando l’Italia, nel marzo del 1861, divenne politicamente unita, la vita
economica era in fervida trasformazione in tutta l’Europa centro occidentale.
Tuttavia, il Regno d’Italia dovette affrontare fin dall’inizio gravi problemi:
occorreva pensare all’unificazione dei codici, del sistema fiscale, delle forze
armate, dei sistemi metrici e monetari di un paese di circa ventidue milioni di
abitanti602, soggetto ad una frantumazione secolare, per tradizioni e mentalità.
Per quanto concerne la politica economica, il nuovo Regno era portatore di
una politica liberista e non mostrò alcuna propensione ad occuparsi della
protezione dei beni artistici e storici privati, ma al contrario, favorendo una
inversione di tendenza rispetto al blocco della dispersione del patrimonio
culturale attuato dalla dinastia borbonica. Si tratta di un aspetto da non
trascurare, a seguito del quale la gestione del settore artistico mutò
radicalmente.
Gravissimo era il deficit del nuovo Stato, che aveva ereditato il pesantissimo
debito pubblico degli stati pre unitari, riconoscendo priorità finanziaria ad altri
settori, quali i lavori pubblici, le costruzioni ferroviarie e le infrastrutture in
genere, minimizzando l’attenzione verso le antichità e belle arti: occorreva
agire con tempestività per assicurare all’erario i mezzi adeguati all’importanza
politica del nuovo stato, alle esigenze e agli interessi delle diverse province.
Per l’ordinamento amministrativo, prevalse una struttura accentrata, attraverso
la quale gli scavi di Pompei divennero istituzionalmente e finanziariamente
dipendenti dal Ministero della Istruzione Pubblica. Di conseguenza,
nell’ambito della più generale programmazione del dicastero, l’iter
procedurale prevedeva che la Direzione dei monumenti e scavi di antichità di
Napoli, in funzione degli interventi da svolgere, predisponesse un apposito
“rendiconto”603, specificando le risorse necessarie per un eventuale
stanziamento. La richiesta si collocava all’interno di alcuni “capitoli di
spesa”604 propri del bilancio del Ministero dell’Istruzione Pubblica.
602
G. De Rosa, Storia contemporanea, Bergamo 1982, p. 112.
ACS, MPI, AABBAA, Divisione antichità e scavi, 1860 – 1890, b. 35, Napoli. Conti e bilanci.
604
Ibidem.
603
208
Successivamente, in base alle richieste e alle risorse disponibili, il Ministero –
Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti – emetteva un decreto con cui
si procedeva a prelevare dal “Capitolo 47 Art. 7 delle spese ministeriali, le
“anticipazioni” necessarie per proseguire i lavori a Pompei605. In relazione
alle risorse allocate, la Soprintendenza di Pompei svolgeva le proprie attività,
predisponendo le gare di appalto, secondo le modalità e i vincoli descritti. Tra
l’altro gli stanziamenti erano vincolati alle richieste valutate in termini quali –
quantitativi: infatti, in caso di eventuali e sopraggiunte necessità, all’interno
dei capitoli, era possibile variare la destinazione della spesa previa
autorizzazione ministeriale, mentre era vietato qualsiasi storno tra i capitoli di
spesa. Una circostanza eccezionale fu, ad esempio, la gravissima epidemia di
colera che, a partire dall’estate del 1884, colpì Napoli e diverse cittadine
vicine, tra cui Pompei, mietendo numerose vittime: al fine di compensare la
perdita di personale che ne derivò e stimolare i superstiti a proseguire i lavori
di sterro, fu sancito un incremento del 67% degli stipendi erogati agli
impiegati606.
Per la “rendicontazione” della gestione pompeiana, la direzione dei lavori era
demandata all’Ufficio tecnico degli scavi di Pompei, in cui l’architetto
direttore redigeva una “libretta”, chiamata“Misura dei lavori”, mettendo in
rilievo la tipologia di intervento, specificandone, nel dettaglio, le dimensioni
in termini di altezza, lunghezza, larghezza e metricubi. In effetti, dall’unità
d’Italia fino al 1893, le anticipazioni ministeriali
erano investite,
principalmente, per eseguire opere di dissotterramento, poiché qualsiasi
dipinto emerso dalle ceneri era staccato dal luogo di ritrovamento, con le
conseguenze derivanti da eventuali lesioni, e in seguito inviate al Museo di
Napoli. Solo alla fine del XIX secolo, grazie ad una oculata politica gestionale
di Fiorelli, le opere cominciano ad essere studiate ed ammirate sul luogo.
All’interno dei “notamenti”, l’esercizio finanziario era suddiviso in bimestri,
sottoscritti ed approvati dall’appaltatore e dall’ingegnere incaricato.
605
Ibidem. Si tratta di conti frammentati e privi di regolarità in cui non sempre il capitolo di spesa
era quello indicato; talvolta non vi è alcuna specificazione. Ciò evidenzia un’inadeguata
pianificazione degli interventi con conseguente stanziamento di fondi in funzione delle
“circostanze”.
606
ASSAN, fascio XVII B 3, Misura dei lavori, V bimestre 1884.
209
Successivamente, previo esame del Direttore degli scavi e del Genio Civile
per la provincia di Napoli, il documento era inviato al Ministero della Pubblica
Istruzione, confluendo, a fine esercizio, nel passivo del bilancio della relativa
amministrazione.
Esaminando i registri, la ripartizione in bimestri non fu rispettata dal 1861 al
1865607, dato che è stato possibile stimare l’ammontare annuale complessivo
di quanto speso mentre l’aggregazione indicata nelle carte non rispettava alcun
criterio temporale608.
Il costo degli interventi di sterro era riportato in allegato nel cosiddetto “stato
sommario dei lavori”; i materiali per i quali non era indicata la valutazione, il
calcolo è stato eseguito tenendo conto di quanto riportato nella tariffa dei
lavori illustrata in precedenza. Con riferimento alla suddetta tariffa, in cui i
lavori di scavo erano raggruppati solo in “cavamenti” e “muramenti diversi”,
nel proseguo ho individuato un numero maggiore di categorie di spese, ossia
quelle più ricorrenti dal 1861 al 1893.
Di seguito, ho elaborato una prima sintesi delle spese, aggregando le singole
voci in funzione della tipologia di intervento realizzato e dei periodi a cui si
riferiva l’operazione, finalizzata esclusivamente a dissotterrare parti
dell’antica città di Pompei.
607
Dal 1861 al 1863, nello stato sommario dei lavori, i costi sostenuti per gli interventi di sterro e
per i compensi erogati agli impiegati, erano espressi in ducati. Nelle elaborazioni successive ho
convertito i ducati in lire italiane, in modo da rendere omogenea e fluida l’interpretazione dei dati.
Nel dettaglio 1 ducato corrispondeva a 4,25 lire italiane al 1861.
608
ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII
B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI B.
751 II, fascio 3, Misure dei lavori da giugno a dicembre 1862: IDEM, fascio 6, I semestre 1863;
IDEM, fascio 7, II semestre 1863; ASSAN, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da
gennaio a settembre e VI bimestre 1865.
210
Tav. 2. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di
Pompei (1861 – 1867):609
609
ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1,
da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI B. 751 II,
fascio 3, Misure dei lavori da giugno a dicembre 1862: IDEM, fascio 6, I semestre 1863; IDEM,
fascio 7, II semestre 1863.
211
Seguito tav. 2.610
610
ASSAN, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da gennaio a settembre e VI bimestre
1865; IDEM , fascio XVII B8 e XVII B9, dal I al VI bimestre 1866, I, V, VI bimestre 1867.
212
Graf. 1. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1861 – 1867)
70.000
60.000
50.000
40.000
L ire
30.000
20.000
10.000
0
1860
1861
1862
1863
1864
1865
1866
1867
1868
Tra il 1861 ed il 1864, le spese di scavo registrarono un graduale incremento
passando da 55.197 lire a 65.843 lire per poi decrescere vertiginosamente a
37.696 lire nel 1865; dal 1866 al 1867 gli interventi ricominciarono ad
aumentare passando da 47.328 a 54.924 lire (Tav. 2). Per i periodi in cui tali
spese furono sostenute, ad eccezione del 1866 e del 1867 per i quali i costi
erano associati ai bimestri, dal 1861 al 1865, non ho individuato alcun criterio
omogeneo, come si evince dalla tabella “Tipologia di intervento e consistenza
della spesa”. In particolare, nel 1861, il I bimestre fu quello in cui si lavorò
maggiormente, con un’uscita del 41% sulla spesa totale annuale, riconducibile
ad una cospicua partecipazione dei cavamenti di terra, di 11.496 lire; tuttavia,
nel solo mese di ottobre, la spesa ebbe un incidenza di appena il 3%. Nel
1862, le spese sostenute da gennaio a maggio erano di 5.749 lire, per poi
aumentare significativamente negli ultimi sette mesi dell’anno fino a 50.405
lire, imputabili, in gran parte, al trasporto a schiena d’uomo per 27.264 lire.
Per il 1863, l’andamento semestrale delle spese, seppur decrescente, fu più
regolare in confronto agli anni precedenti; l’unica peculiarità riscontrata era
che la somma a disposizione dell’Ufficio tecnico di Pompei, durante il
secondo semestre, fu impiegata solo per i cavamenti di terra, per 25.733 lire
(Tav. 2).
213
Del 1864 vi è un’unica stima annuale di “Misura dei lavori” , in cui l’impiego
dei vagoni per trasportare la terra crivellata rappresentò il 49% della spesa
complessiva; esigua fu, invece, la spesa per i lavori in ferro, di soli 179 lire.
Da gennaio a giugno 1865, la spesa registrò un brusco calo, rispetto ai mesi di
novembre e dicembre, passando da 36.558 a 638 lire; ancora più contenute
furono le risorse impiegate da luglio a settembre: in effetti, si spesero solo
500 lire per innalzare degli architravi in legno.
Degli anni ’60 del XIX secolo, il 1866 ha rappresentato l’unico esercizio
ricostruibile in tutti i sei bimestri, mostrando un andamento altalenante, con
punta massima di 12.333 lire nel quarto periodo e, un netto calo durante il
quinto bimestre, di 4.000 lire. Le operazioni di sterro del 1867 sono state
stimate solo per il I, V e VI bimestre, con evidente tendenza decrescente,
passando da 39.928 lire a 4.248 lire (Tav. 2).
Studiando i registri, ricorreva, con andamento tendenzialmente crescente in
tutti gli anni ed in particolare dal 1878 in poi, una categoria di spesa, definita
“partita di stima”, che ho aggregato nella voce “diversi”: si trattava di “lavori
in economia”, non quantificabili in misura e, pertanto, pagati ad ore di lavoro.
Assimilabili ad essi erano le attività di pulizia, consolidamento e restauro delle
pitture antiche, dei mosaici e degli stucchi, sostituzioni di architravi in legno,
recupero archeologico di oggetti, stesura della paraffina sulle pitture per
renderle lucide, protezione con sabbia, teli e quant’altro su apparati decorativi.
La manutenzione tecnica di monumenti antichi era sancita da un’apposita
legge “sui lavori pubblici” del 20 marzo del 1865.
Dal 1867 al 1877, vi è un vuoto in termini di “rendicontazione” e di eventuale
impiego di risorse, il che fa presumere che non siano state eseguite opere di
scavo a Pompei. In aggiunta a tali considerazioni, è evidente che, fino al 1867,
le somme investite erano molto modeste, rilevando una scarsa attenzione alla
tutela delle antichità e belle arti. Probabilmente lo scarso contributo dei fondi
ministeriali può essere spiegato associando la realtà pompeiana al cavilloso e
delicato contesto storico che il neo Stato italiano viveva.
In effetti, la costituzione del Regno d’Italia pose problemi ed esigeva soluzioni
che, per la loro importanza e per la loro urgenza, andavano al di là di quelli
214
“culturali” sin qui considerati, con priorità diverse finalizzate ad impattare
sulla realtà economica della penisola. Si trattava della necessità di difendere
un “nuovo ordine”, minacciato dall’interno per l’insorgere, sin dalla primavera
del 1861, del brigantaggio meridionale e bisognoso di completarsi con la
risoluzione delle questioni del Veneto e di Roma611, nonché le inevitabili
questioni di politica estera. Di fronte a tali problemi, una priorità assoluta nel
disegno politico nazionale era certamente rivolta alla destinazione di una
cospicua parte della spesa pubblica agli apparati militari e alle grandi opere
pubbliche,612 anziché al settore dell’istruzione.
L’elevatezza delle spese militari, in relazione alle altre voci di spesa, è nota
dalle analisi dei dati ufficiali di bilancio. Infatti, tra il 1862 e il 1866, tali spese
assorbirono oltre il 30% dell’intero volume di spese statali e, in media, oltre il
50% dell’intero volume di tutte le entrate dello Stato. Ci furono anni in cui
queste percentuali furono anche maggiori, per esempio, nel triennio 1862 –
1864, probabilmente per il concorso delle spese sostenute per reprimere il
brigantaggio; ma è soprattutto, nel 1866, certamente a motivo della guerra
contro l’Austria, che le spese militari assorbirono il 43% della spesa pubblica
effettiva e ben il 93% delle entrate613.
Un’altra priorità del bilancio statale del primo decennio dell’Unità riguardava
le spese per opere pubbliche, specialmente quelle sostenute per la costruzione
di strade e ferrovie. A tal fine, molto interessante era la relazione
sull’amministrazione dei lavori pubblici dal 1860 al 1867 presentata al
611
F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, 1964.
“Al Sella la grossa spesa del 1862 non parve capace di grandissimi risparmi, anzi di nessun
risparmio, se non si toccassero i tre bilanci della marina, della guerra e dei lavori pubblici, che
non s’era in grado di toccare in nessuna maniera. Né dopo rimasto altri sei mesi al Ministero, nel
dicembre di quell’anno la sua impressione s’era mutata; anzi prima di uscirne, riproponeva la
presunzione della spesa del 1863 con un notevole aumento su quella che aveva fatta nel giugno.
Egli diceva chiaro di non sapere in che limiti la spesa del Regno d’Italia si sarebbe potuta
contenere”. ( R. Bonghi, Storia della finanza italiana, p. 41). Lo stesso Sella, nell’esposizione
finanziaria alla Camera del 12 dicembre 1871 delineando l’andamento della spesa nel suo insieme
osservava: “Signori, abbiamo speso nello scorso decennio 10.490 milioni, circa dieci miliardi e
mezzo! Le finanze ci entrano per oltre la metà in questa terribile cifra; dopo le finanze l’onore del
primato spetta ai miei colleghi della guerra e della marina che ci hanno speso il 27%; pei lavori
pubblici si spese quasi il decimo, e tutti gli altri Ministeri insieme non fanno che il decimo. La
guerra e la marina ci hanno costato in questo decennio oltre 2.800 milioni di lire. Possiamo
desiderare che le cose fossero andate meglio; ma certo nessuno rimpiangerà questa spesa,
imperocché senza l’esercito e senza la flotta l’unità italiana non si sarebbe fatta”. ( L. Izzo, La
finanza pubblica nel primo decennio dell’unità italiana, p. 481).
613
L. De Rosa, Difesa militare e sviluppo economico in Italia (1861 – 1914), Bari, 1973, p. 111.
612
215
Parlamento il 31 gennaio 1867, dal ministro dei lavori pubblici, allora in
carica, Stefano Jacini, di cui riporto un breve tratto: “Tutte queste opere, che
avrebbero in altri tempi alimentato per lunghi anni l’attività di una grande
nazione, l’Italia le ha dovute compiere, si può dire, in pochi mesi, non tanto
per favorire l’incremento della operosità e della ricchezza nazionale, quanto
per assicurare la sua indipendenza, per assodare la sua interna costituzione, per
cancellare rapidamente le tracce della antiche divisioni, e fondare sopra salde
basi la sua unità e la potenza del suo Governo…..Finché le varie parti del
regno rimanevano smembrate e sconnesse, separate da monti, da fiumi, da
vaste pianure, attraverso le quali le comunicazioni si facevano lentamente per
poche e non sempre comode strade ruotabili, l’azione del Governo soffriva
una inevitabile debolezza materiale, dalla quale rimanevano paralizzate in
gran parte le forze destinate all’esterna e alla interna difesa del regno”614.
Di fronte a tanta chiarezza si spiega perché gli stanziamenti destinati
all’Istruzione Pubblica, Direzione antichità e belle arti, tra il 1861 e il 1874
rappresentavano appena il 2% delle spese complessive statali615. Tra l’altro,
non vi era alcuna convenienza economica nel programmare previsioni di spesa
maggiori dato che gli scavi di Pompei non generavano flussi di introiti
adeguati, poiché le “antiche magnificenze” erano riservate ad un turismo di
“élite”.
Dalle carte dell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i beni
archeologici di Napoli e Pompei, è emerso che le visite al sito di Pompei,
successive all’unità d’Italia, ebbero inizio solo nel 1883616, cioè diversi anni
dopo l’introduzione della tassa d’ingresso. In effetti anche in seguito al
pagamento di un biglietto, che presupponeva l’accesso ad un pubblico più
vasto ed eterogeneo, la situazione economica di Pompei non migliorò, dato
che i principali visitatori continuarono ad essere nobili e uomini di cultura, a
favore dei quali, con un regolamento del 1885, fu stabilita l’esenzione da
qualsiasi esborso617.
614
S. Jacini, L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867, Firenze, 1867, p. 1 e
74 – 75.
615
ACS, MPI, AABBAA, 1860 – 1890, Div. I, B. 33, Conti e bilanci, 1874 – 1880.
616
ASSAN, faldone XIII B6, dal fascicolo 1 al fascicolo 21.
617
IDEM.
216
Durante questi anni, l’archeologia era concepita, non come una disciplina
autonoma, bensì come strumento utile a
ricostruire la “storia dell’arte”,
destinata, quindi, nella più generale opera di pianificazione finanziaria statale
ad essere messa in secondo piano rispetto all’elaborazione di severi piani di
risanamento.
Quindi, in relazione alle priorità settoriali descritte, il primo decennio
dell’Unità, fu caratterizzato da un elevato deficit di bilancio. Fu indispensabile
ricorrere a metodi diversi per risanare l’assetto finanziario italiano: ricorso ai
prestiti, attraverso l’emissione di Buoni del Tesoro; introduzione, nel 1866,
del corso forzoso ad opera del ministro Scialoia: si trattava di una politica
inflazionistica, che permise di sopperire ai bisogni più urgenti dell’erario,
peggiorando il livello di vita delle masse; alienazione dei beni demaniali ed
ecclesiastici; inasprimento tributario. Quintino Sella, ministro delle finanze
dal 1862 al 1865, e dal 1869 al 1873, puntò al pareggio di bilancio con un
programma di “economie fino all’osso”618, introducendo l’imposta sul
macinato.
Il pareggio del bilancio fu raggiunto, nel 1876, imponendo, tuttavia, ai
cittadini sacrifici che difficilmente potevano sopportare, colpiti soprattutto dal
pesante fiscalismo. In effetti, il risanamento della finanza italiana quasi
coincise con la ripresa di un, seppur embrionale, sistema di rendicontazione
dell’Ufficio tecnico di Pompei, infatti nel 1878, riapparvero le “librette”
seppur dei soli IV e VI bimestre e, con maggiore continuità, proseguirono fino
al 1893.
618
L’imposta, già applicata durante il governo borbonico, fu proposta da Sella nel 1865, e le
reazioni che suscitò provocarono la caduta del governo: ma dopo pochi anni, nel 1868, fu
necessario rimetterla in vigore. Fu abolita definitivamente nel 1884.
217
Tav. 3. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di
Pompei (1878 – 1886)619
619
ASSAN, fascio XVII B6, IV e VI bimestre 1878, I, II, IV, V e VI bimestre 1879; IDEM, fascio
XVII B4, dal I al IV bimestre 1880, dal I al VI bimestre 1881.
218
Seguito tav. 3.620
620
IDEM, fascio XVII B1, dal I al VI bimestre 1883; IDEM, fascio XVII B3, dal I al VI bimestre
1884; IDEM, fascio XVII A8, dal I al III bimestre 1885; IDEM, fascio XVII A9, dal IV al VI
bimestre 1885, dal I al III bimestre 1886; IDEM, fascio XVII A6, dal IV al VI bimestre 1886.
219
Graf. 2. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1878 – 1885)
90.000
80.000
70.000
60.000
50.000
L ire
40.000
30.000
20.000
10.000
0
1877
1878 1879
1880
1881 1882
1883
1884 1885
1886
L’andamento delle spese per lavori fu irregolare tra il 1878 ed il 1880,
diventando più costante con tendenza decrescente dal 1881 al 1886 (Graf. 2.).
Dell’intero periodo studiato, l’anno meno produttivo fu il 1878, con una spesa
annua di 20.991 lire, ed un incidenza dei soli cavamenti di terra pari al 53%
del totale.
Dopo il primo decennio dall’unità d’Italia, un nuovo slancio all’attività degli
scavi si registrò nel 1879; sebbene nel terzo bimestre non sono stati effettuati
lavori di sterro, la spesa annuale ammontava a 70.190 lire; il primo bimestre fu
quello più costoso, in cui per il solo impiego di vagoni si spesero 10.549 lire a
fronte di una spesa bimestrale di 22.729 lire. Nei bimestri successivi le spese
subirono un progressivo calo.
Durante il 1880, si lavorò solo da gennaio ad agosto, con scarsissimi risultati,
considerando che la spesa complessiva subì una contrazione di oltre la metà
rispetto all’anno precedente. Decisamente migliore e più omogenee furono le
attività compiute nel 1881, spendendo, complessivamente, 76.376 lire; i lavori
si intensificarono tra novembre e dicembre, durante i quali si spesero 26.042
lire, di cui quasi il 50% per il trasporto di terra a schiena d’uomo (Tav. 3.).
Una lieve contrazione si registrò nel 1883, in cui la spesa scese a 69.118 lire:
la “categoria” in cui si investì maggiormente fu quella dei “lavori in
220
economia”, probabilmente si provvide a curare di più lo stato conservativo
degli ambienti dissotterrati. Altre voci cospicue furono i trasporti di terra, sia
eseguiti da uomini che con vagoni, rispettivamente pari a 12.612 lire e 7.645
lire: in effetti queste due operazioni, assieme ai cavamenti, sono quelle più
ricorrenti in tutti i bimestri, proprio ad evidenziare ulteriormente la sola
esecuzione di operazioni di scavo anziché di conservazione dell’esistente.
Il trend decrescente proseguì nel 1884 e nel 1885, passando da 60.251 lire a
43.892 lire: confrontando il IV, il V ed il VI bimestre del biennio, la
contrazione fu maggiore nel 1885 (Tav. 3), nonostante l’epidemia di colera
che colpì Pompei nell’estate del 1884. Tra le operazioni meno costose vi erano
i lavori in ferro e quelli di pittura, mentre si investì di più per l’innalzamento
di muri e per i cavamenti.
Come si rileva dalla tabella successiva e dal grafico 3, l’andamento delle spese
divenne ancora più altalenante rispetto a quanto illustrato finora; è indubbio
che l’attenzione rivolta a Pompei fu sicuramente più intensa, se si considera
che la “libretta” era redatta con una più puntuale regolarità bimestrale,
nonostante le cifre ancora contenute: almeno la scoperta di nuove vie, case o
botteghe era continua e costante, soprattutto dal 1883 al 1892.
221
Tav. 4. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di
Pompei (1887 – 1893)621:
621
ASSAN, fascio XVII A6, dal I al VI bimestre 1887, dal I al VI bimestre 1888; IDEM, fascio
222
Seguito tav. 4.622
XVII A7, dal I al VI bimestre 1889, dal I al VI bimestre 1890.
622
IDEM, fascio XVII A7, I e II bimestre 1893; IDEM, fascio XVII A5, dal I al VI bimestre 1891,
dal I al V bimestre 1892.
223
Graf. 3. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1886 – 1893)
100.000
90.000
80.000
70.000
60.000
50.000
40.000
L ire
30.000
20.000
10.000
0
1885 1886 1887 1888 1889 1890 1891 1892 1893 1894
Gli anni che vanno dal 1886 al 1893, furono caratterizzati da continui alti e
bassi, in linea con l’irregolarità delle anticipazioni ministeriali (Graf. 3).
Infatti, soprattutto nell’ultimo scorcio del XIX secolo, diversi erano gli episodi
di scavi organizzati “ad hoc”, ossia in seguito alla comunicazione inviata al
Museo di Napoli oppure al Ministro dell’Istruzione Pubblica circa le visite a
Pompei di illustri personaggi: per cui, talvolta, per gettare fumo negli occhi
sulla reale situazione gestionale e finanziaria, si provvedeva a stanziare
somme occasionali per scavare una “bottega” o “stanza”; successivamente la
si ricopriva di terra, per poi fingere lo stupore in presenza del visitatore623. A
causa delle croniche ristrettezze finanziarie, numerosi erano gli episodi di
“doni” in denaro generosamente elargiti dai visitatori, che venivano poi
allocati per eseguire i lavori di scavo624.
623
ASSAN, fascio XIII B6, 4, Visita a Pompei dell’On. Ungano e del Reggimento di Cavalleria di
Firenze, 1886; IDEM, XIII B6, 5, Visita a Pompei del Ministro per la Grazia e Giustizia, 1887;
IDEM, XIII B6, 6, Visita a Pompei dell’Imperatore di Germania, 1888; IDEM, XIII B6, 8, Visita
a Pompei del Ministro dell’Interno giapponese, del Principe di Danimarca e dell’Imperatrice
d’Austria, 1889; IDEM, XIII B6, 9, Visita in Pompei del Principe del Giappone, del Ministro
britannico, 1890; IDEM, XIII B6, 10, Visita in Pompei degli alunni della Scuola Marina
Spagnola, 1891; IDEM, XIII B6, 11, Visita in Pompei della Principessa di Svezia e di Norvegia,
1892; IDEM, XIII B6, 12, Visita in Pompei della Principessa del Galles, 1893.
624
ASSAN, XIII B6, 3, Il Principe di Prussia erogò 150 lire, 1885; IDEM, XIII B6, 5, Il Sindaco
di Torre Annunziata elargì 100 lire, 1887; IDEM, XIII B6, 7, La Gran Duchessa Elena di Russia
erogò 135 lire, 1888; IDEM, XIII B6, 8, Il Principe di Danimarca erogò 50 lire; IDEM, XIII B6, 9,
L’Onorevole Duca Guardia Lombarda erogò 50 lire; IDEM, XIII B6, 11, La Principessa di Svezia
e di Norvegia erogò 75 lire, 1892.
224
Nel 1886, l’unico bimestre rilevante fu il II in cui si spesero 26.172 lire, con
ampia partecipazione dei “lavori in economia”, mentre scarso fu il contributo
dei cavamenti e del trasporto con vagoni; nei bimestri successivi, l’andamento
fu decrescente.
Le spese declinarono nel 1887, passando da 61.700 a 55.353 lire, per poi salire
nuovamente a 78.583 lire, nel 1888 (Tav. 4.).
Graf. 4. Andamento bimestrale delle spese di intervento a Pompei nel 1889
30.000
25.000
20.000
15.000
L ire
10.000
5.000
0
I°
II°
III°
IV °
V°
V I°
bim e stre bim e stre bim e stre bim e stre bim e stre bim e stre
Dal 1861 al 1893, l’unico anno in cui la spesa raggiunse un ammontare più
“consistente” fu il 1889, pari a 91. 341 lire (Tav. 4). Dal I al II semestre si
evince un incremento molto contenuto; il III bimestre fu quello più intenso di
lavoro, raddoppiando quasi la spesa da 11. 920 lire a 25. 607 lire. Da luglio a
dicembre il trend diminuì progressivamente (Graf. 4.).
Probabilmente il maggior incremento delle spese del 1889 è da attribuire alla
direzione di Michele Ruggero (1875 – 1893). Infatti, per lo slancio dei lavori,
per il nuovo orientamento nella conduzione dei restauri, per i risultati delle
scoperte, questo periodo fu tra i più felici di Pompei, ed ebbe inizio sotto
buoni auspici con la pubblicazione dei conti scoperti, due anni prima, nella
casa di L. Cecilio Giocondo. Tra l’altro, nel 1889, vennero alla luce le Terme
Stabiane, le più antiche della città, risalenti nel loro primo impianto forse
addirittura al IV secolo a. c..
225
Nel 1890, la spesa annuale quasi dimezzò, passando a 50.716 lire: nei mesi di
settembre ed ottobre le operazioni di sterro assorbirono quasi il 30% della
ammontare annuo, a differenza degli altri bimestri in cui la spesa raggiungeva
appena il 10%.
Nel 1891, per gli scavi di Pompei si spesero 77.170 lire; in particolare l’
attività più costosa dei sei bimestri fu il trasporto di terra a schiena d’uomo, il
cui ammontare annuo era di 43.482 lire. Dal I al III bimestre la spesa aumentò
a ritmo sostenuto, al contrario, nella seconda parte dell’anno, la tendenza era
al ribasso (Tav. 4.).
Nel 1892, si lavorò in tutti i bimestri ad eccezione dei mesi di novembre e
dicembre, di cui non vi sono stime. A settembre ed ottobre, la spesa raddoppiò
rispetto ai mesi di gennaio e febbraio, passando da 7.633 lire a 14.494 lire. Nel
complesso fu un anno in cui le uscite calarono bruscamente fino a 39.869 lire.
L’indice più significativo fu il trasporto di terra a schiena d’uomini di 17.095
lire, diversamente dalle altre operazioni di gran lunga inferiori alle 10.000 lire.
Nel 1893, la spesa salì nuovamente a 62.962 lire; si trattò di un incremento di
non poco conto considerando che si lavorò solo da gennaio ad aprile; in
particolare, dal I al II bimestre la spesa salì significativamente da 10.576 lire a
52.386 lire, spendendo solo per il trasporto a schiena d’uomini 39.862 lire
(Tav. 4.).
Complessivamente, dal 1861 al 1893, le attività per le quali si investì molto
poco furono i lavori in ferro e di pittura, valorizzando, invece, gli interventi
necessari a “liberare” il suolo ed il sottosuolo dalla terra per disseppellire
l’antica città, nonché quelli volti a “sostenere” con muri, architravi e simili
quanto ritornava alla luce. Le modalità d’intervento, successive all’unità
d’Italia, sono molto interessanti poiché per gran parte del XVIII secolo si
scavava e poi si rinterrava tutto, adottando dei criteri scarsamente protettivi
dell’antico, quali, ad esempio, staccare le pitture dai muri ed inviarne a blocchi
al Museo di Napoli. In seguito, è la complessità urbana che iniziò ad
affascinare e a catturare l’attenzione, non soltanto di colti viaggiatori, ma
anche delle autorità preposte all’amministrazione del sito.
226
Non è un caso che dalla fine degli anni settanta del XIX secolo, le operazioni
di sterro divennero più regolari e sistematiche: infatti, iniziò una nuova fase
della gestione Fiorelli, che, dal 1875 al 1891, operò presso le sedi ministeriali
per organizzare l’azione di tutela del patrimonio culturale dell’Italia unita.
Quando nel 1875 il Ministro dell’Istruzione Pubblica, Ruggero Bonghi625, creò
la Direzione centrale degli Scavi e dei Musei del Regno, affidò a Giuseppe
Fiorelli l’incarico di guidarla.
Fiorelli, si trovò di fronte all’esigenza di abbandonare quasi totalmente, il
lavoro di scavo e le altre attività napoletane, alle quali da anni si dedicava con
zelo; sollecitato dalla volontà di fornire un indirizzo tecnico unitario alle
strutture periferiche, oltre che di migliorare la gestione amministrativa e,
soprattutto, di promuovere una maggiore attenzione del Parlamento e del
Governo verso i problemi della tutela, accettò l’incarico del Ministro.
Tuttavia, la riforma Bonghi mostrò presto i suoi limiti consistenti soprattutto
nella differenza tra le strutture dell’Amministrazione del patrimonio
archeologico, da un lato, e dei Monumenti e della Gallerie, dall’altro. A ciò si
aggiungeva la carenza di mezzi finanziari e di personale, che implicava
l’inadeguatezza delle strutture periferiche626.
Solo nel 1881, con il Ministro Baccelli, la Direzione centrale divenne
Direzione generale, non solo delle Antichità ma anche delle Belle Arti.
In seguito ad una temporanea sospensione dell’ufficio, fu ricostituito, nel
1894, e dal 1897 ne fu Direttore Felice Barnabei, l’archeologo che Fiorelli
coinvolse fin dal 1875, considerandolo il suo più qualificato e devoto
collaboratore.
Le trasformazioni descritte in campo artistico, negli ultimi decenni del XIX
secolo, si svilupparono all’interno di un contesto economico unitario molto
delicato: la crisi agraria che coinvolse tutta l’Europa, a partire dal 1873, si fece
625
Ruggero Bonghi, Ministro dell’Istruzione Pubblica dal 1874 al 1876.
ACS, MPI, Dir. gen. aa. bb. aa., I Versamento, b. 72, Giuseppe Fiorelli, Sullo stato dei Musei e
degli Scavi del Regno nel 1875. Relazione al Ministro, del Direttore centrale, commendatore
Fiorelli. In una nota a tale titolo si legge: “Alla presente relazione, che è la prima che ragioni
distesamente dello stato dei Musei e degli Scavi del Regno, e delle provvisioni intese a tutelarli ed
accrescerli, seguiranno man mano altre relazioni somiglianti per i diversi rami
dell’Amministrazione Scolastica. Per tal modo si verrà ad avere alla fine di ciascun anno il
quadro compiuto dell’operato del Ministero”.
626
227
sentire anche in Italia, mettendo in crisi la cerealicoltura, già svantaggiata da
metodi di conduzione e tecniche di coltivazione arcaiche.
La congiuntura sfavorevole, le pressioni dei proprietari terrieri e la necessità di
proteggere le industrie nascenti, determinarono da parte del governo la scelta
di una politica economica protezionistica. L’industria italiana decollò solo dal
1896, cioè dopo la fine della grande depressione, grazie alle sovvenzioni ed
ingenti commesse statali per la costruzioni di linee ferroviarie, per forniture
alle forze armate, per appalti di lavori pubblici.
Nonostante la più intensa partecipazione riscontrata nelle “misure dei lavori”,
dal 1878 al 1893, le cifre stanziate continuarono ad essere modeste proprio
perché, analogamente al primo decennio unitario, lo Stato ebbe nuove e
diverse priorità, orientando le proprie scelte finanziarie a sostegno dello
sviluppo industriale.
A prescindere dalle scelte di politica economica nazionale, gli aspetti
finanziari esaminati sorprendono per la totale irrilevanza, in logica gestionale,
di una realtà organizzativa come Pompei: la Soprintendenza non esisteva
neanche come “centro di costo”, ma ci si limitava ad effettuare le spese
nell’ambito dei capitoli ministeriali, ponendo in essere un delicato problema di
“compatibilizzazione”, ossia tradurre in priorità ciò che gli archeologi dei
diversi territori richiedevano al Ministero, dato che gli stanziamenti non
sarebbero stati sufficienti a soddisfare tutte le richieste. La stessa
programmazione, spesso, era disattesa a causa di modifiche per sopraggiunti
eventi straordinari che richiedevano la precedenza, quale, ad esempio, il colera
del 1884. Inoltre, molti complessi archeologici necessitavano di diversi anni di
scavo per ritornare completamente alla luce; il che era anche conseguenza,
non solo dei metodi di conduzione degli scavi, ma anche del fatto che
l’ammontare complessivo destinato a Pompei doveva essere impiegato per
coprire tutte le necessità, quindi ogni intervento ad un singolo complesso
veniva frazionato in più anni, così da suddividere il finanziamento totale di un
anno in tante parti quante erano le urgenze.
228
Tav. 5. Riepilogo spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei
(1861 – 1893)
229
5.5. MISURE DEI LAVORI, PAGAMENTO DI
RITENUTE E
STIPENDI
Un ulteriore interpretazione dei dati rilevati, concerne la stima della spesa
complessiva impiegata dalla Direzione di Pompei, depurata da ritenute e
dall’ammontare dei compensi erogati al personale impiegato durante i
bimestri.
Infatti, in base al carteggio dell’Archivio della Soprintendenza di Napoli e le
clausole del contratto di appalto del 1861, le misure dei lavori,
rappresentavano voci di uscita “parziali”, ossia, al termine del periodo, si
procedeva allo storno di ulteriori costi così da ottenere l’effettivo ammontare
speso.
Secondo il citato contratto, dallo stato sommario dei lavori occorreva dedurre
la ritenuta del 4% in favore dell’amministrazione degli scavi, e quella del 2%
a beneficio di Casa Reale627. Successivamente, all’importo netto si
aggiungevano
le
indennità
pagate,
distintamente,
agli
impiegati
e
all’appaltatore: la somma di cui beneficiava quest’utimo era pari al 10% degli
“stipendi”. Quindi, in funzione di quanto erogato al partitario, l’andamento
finale dalla spesa annua subiva alcune modifiche. Un aspetto interessante da
sottolineare è che non vi era alcuna specificazione di quanto si spendesse per
“gli operai”, quali muratori, falegnami, pittori ecc, cioè coloro che eseguivano
le operazioni di scavo descritte in precedenza; viceversa, la stima era indicata
solo per quelle categorie di lavoratori più “qualificati”, quali architetti,
soprastanti, restauratori ecc. In effetti, molti degli operai assunti erano
mendicanti, galeotti, ossia categorie sociali reperite fuori all’ingresso degli
scavi in base alle esigenze congiunturali e pagati alla giornata. Tra l’altro un
importante limite nell’amministrazione pompeiana, era la generale difficoltà di
determinare l’ammontare complessivo delle “spese per il personale”, diretta
conseguenza della gestione accentrata delle risorse umane che confluivano
indistintamente nel bilancio del Ministero.
627
ASN, MPI, busta 751 II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861. Il
medesimo contratto è contenuto anche in: ACS, MPI, Dir. Gen. aa. bb. aa., I versamento, b. 39,
Scavi di Pompei, 1861 – 1875.
230
Tav. 6. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle
ritenute e al lordo degli stipendi (1861 – 1879)628
628
Si tratta di un’elaborazione dei dati da me effettuata in base alle condizioni del contratto di
appalto del 1861; i riferimenti circa gli “stipendi” sono stati calcolati, per gli stessi bimestri dal
1861 al 1893, in base alle indicazioni dei fasci intitolati “misure dei lavori”, in ASN e ASSAN.
In particolare:
ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1,
da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI B. 751 II,
fascio 3, Misure dei lavori da giugno a dicembre 1862: IDEM, fascio 6, I semestre 1863; IDEM,
fascio 7, II semestre 1863; IDEM, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da gennaio a
settembre e VI bimestre 1865.
231
Seguito tav. 6.629
629
IDEM, fascio XVII B8 e XVII B9, dal I al VI bimestre 1866, I, V, VI bimestre 1867; IDEM,
fascio XVII B6, IV e VI bimestre 1878, I, II, IV, V e VI bimestre 1879.
232
Graf. 5. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute
e al lordo degli stipendi (1861 – 1867)
70.000
60.000
50.000
40.000
L ire
30.000
20.000
10.000
0
1860
1861
1862
1863
1864
1865
1866
1867
1868
A differenza delle ritenute e di quanto versato all’appaltatore, le cui
percentuali erano costanti, le indennità pagate ai lavoratori, erano diverse a
seconda del numero degli addetti impiegati e delle risorse disponibili: ne
conseguiva la maggiore o minore variabilità della spesa totale (Graf. 5.).
Dal 1861 al 1863 i lavori furono eseguiti dagli appaltatori Nicola e Carmine
Fiorentino.
Nel 1861, la spesa complessiva ammontava a 55.656 lire; da luglio a
settembre gli stipendi furono molto bassi, rispetto ai mesi precedenti, dato che
fu eseguito un solo pagamento di 47 lire al primo Disegnatore, il signor
Abbate. Tra novembre e dicembre gli stipendi salirono a 2.174 lire per effetto
delle indennità di alloggio pagate all’Ispettore degli scavi e all’Architetto
locale.
Nel 1862, la spesa annua subì un lieve calo, passando a 56.501 lire; si tratta di
un risultato imputabile, quasi completamente, agli intereventi eseguiti da
giugno e dicembre, pari a 50.490 lire, di cui 2.826 lire (Tav. 6.) ripartite tra un
ampio numero di impiegati quali architetto, 9 soprastanti, diversi restauratori
di bronzi antichi, terracotte e vetri.
233
La spesa continuò ad aumentare, nel 1863, fino a 65.802 lire; le stime dei
lavori, analogamente agli stipendi, sono state pressoché costanti sia nel I che
nel II semestre.
Dal 1864 al 1865, la gara di appalto fu vinta da Carlo Riccio; del 1864 fu
compilata un’unica libretta da gennaio a dicembre, in cui la spesa finale
registrò un lieve declino, passando a 65.796 lire (Tav. 6.). Gli stipendi
ammontavano a 3.548 lire, di cui 910 lire per alloggio pagato agli impiegati,
1.001 lire al restauratore Vincenzo Bramante, 1.118 lire agli “operai”630, 519
lire ai soprastanti.
Nel 1865 la spesa diminuì a 42.655 lire; l’aspetto interessante concerne la
mancanza di pagamenti erogati agli impiegati e all’appaltatore, da luglio a
settembre; furono eseguiti solo lavori di falegnameria, volti all’ impiego di
architravi di castagno a sostegno di botteghe presso diversi vicoli dell’antica
città, per un ammontare, al lordo delle ritenute, pari 500 lire.
Dal 1866 al 1867, la spesa cominciò a salire nuovamente (Graf. 5.), passando
da 49.348 a 64.896 lire; inoltre, a partire dal 1867, fu abolita la ritenuta del 2%
a beneficio di Casa Reale, mentre quella in favore dell’Amministrazione
pompeiana, fu portata al 4,40%. Sempre nel 1867, da marzo ad agosto, furono
eseguiti interventi non pianificati all’interno di “misure dei lavori”, per i quali
le “note dei lavori eseguiti”, e pagati agli impiegati ammontavano a 597 lire631
(Tav. 6.).
630
Il riferimento è: muratore Raffaele Mengione, da Gennaio ad Agosto, 840 lire; falegname Luigi
Lettieri, 59 lire; capo muratore Vincenzo Errico, 38 lire; ferraio Andrea di Pietro, 181 lire.
631
ASSAN, XVIII B8 e B9, Note dei lavori eseguiti in Pompei, dall’architetto Villari, il
soprastante Andrea Fraia da maggio a luglio, da Biagio Calabrese, da Giuseppe D’Albero e da
Vincenzo Mele. Il 10% era a beneficio dell’appaltatore Giuseppe Volpe.
234
Tav. 7. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle
ritenute e al lordo degli stipendi (1880 – 1884)632
632
ASSAN, fascio XVII B4, dal I al IV bimestre 1880, dal I al VI bimestre 1881; IDEM, fascio
XVII B1, dal I al VI bimestre 1883; IDEM, fascio XVII B3, dal I al VI bimestre 1884.
235
Graf. 6. Spesa complessiva annua per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e al lordo
degli stipendi (1878 – 1884)
Dal 1878 fino alla fine del XIX secolo, le operazioni di sterro furono calcolate
mediante i prezzi pattuiti nell’ultimo contratto di appalto stipulato tra
l’Amministrazione degli scavi di Pompei e l’appaltatore Giuseppe Volpe nel
1866. Nei registri degli anni successivi non sono riportate altre indicazioni
circa l’identificazione dell’impresa appaltatrice, ad eccezione del relativo
costo.
Nel 1878, si lavorò solo nei mesi di luglio, agosto, novembre e dicembre, con
una spesa annua di 22.270 lire; l’incidenza degli stipendi fu maggiore nel IV
bimestre, pari a 1.104 lire di cui 677 lire a favore della categoria dei
restauratori633 (Tav. 7.). Un netto aumento della spesa si registrò nel 1879,
passando a 71.123 lire; gli unici mesi in cui non si lavorò furono maggio e
giugno. Il costo del lavoro è stato alto durante il I ed il V bimestre, intorno a
1.000 lire.
Dal 1880 al 1884, la spesa annua presenta un andamento crescente, con punta
massima nel 1881 (Graf. 6): infatti da 40.419 lire, del 1880, salì a 88.475 lire
nel 1881. Il VI bimestre 1881 fu caratterizzato da un alto costo del personale,
633
ASSAN, fascio XIII B6, IV bimestre 1878: restauratore Vincenzo Bramante, 430 lire;
restauratore Giuseppe Stampanoni, 247 lire.
236
il più significativo del trend in esame, pari a 8.977 lire634. In effetti la
maggiore entità degli stipendi era in linea con il progredire dei lavori di sterro
che passarono da 8.922 lire del I bimestre a 26.042 lire del VI bimestre.
Nel biennio successivo, il trend subì una lieve flessione: nel 1883, in tutti i
bimestri, le indennità versate ai lavoratori si mantennero costanti, oscillando
intorno alle 2.500 lire, ad eccezione dei mesi di novembre e dicembre, in cui
furono contabilizzate diverse spese di 841 lire della Direzione di Napoli, per
un ammontare complessivo di 3.182 lire (Tav. 7.).
Il 1884 fu un anno caratterizzato da una situazione simile al precedente;
l’unica novità di rilievo riguardò un provvedimento del Ministro della
Pubblica Istruzione con il quale, a seguito delle conseguenze della grave
epidemia, sancì la riduzione delle ore di lavoro da dieci a sei in ciascun
giorno. Inoltre, previde un aumento della spesa per la manodopera del 67%635.
634
Nel dettaglio: i soprastanti di Pompei, 352 lire; restauratore di bronzi, Vincenzo Bramante, 262
lire; restauratore dei mosaici antichi 322 lire; n. 32 giornate pagate agli operai che hanno
coadiuvato le guardie che non erano in numero sufficiente per la custodia dei monumenti 48 lire;
agli operai che hanno estirpato l’erba dai monumenti, 2.561 lire; spese di trasporto eseguite per
conto della Direzione di Pompei, 1.505 lire; coloni di terreni circostanti Pompei per danni arrecati
nell’esecuzione dei lavori, 125 lire; architetti della Direzione di Napoli, 3.802 lire.
635
ASSAN, fascio XIII B3, V bimestre 1884. Nello stato sommario dei lavori sono riportate le
indennità già aumentate del 67%.
237
Tav. 8. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle ritenute e
al lordo degli stipendi (1885 –1893) 636
636
ASSAN, fascio XVII A8, dal I al III bimestre 1885; IDEM, fascio XVII A9, dal IV al VI
bimestre 1885, dal I al III bimestre 1886; IDEM, fascio XVII A6, dal IV al VI bimestre 1886;
238
Seguito tav. 8.637
IDEM, fascio XVII A6, dal I al VI bimestre 1887, dal I al VI bimestre 1888.
637
IDEM, fascio XVII A7, dal I al VI bimestre 1889, dal I al VI bimestre 1890. IDEM, fascio
XVII A5, dal I al VI bimestre 1891, dal I al V bimestre 1892.
239
Seguito tav. 8.638
Graf. 7. Spesa complessiva annua sostenta per gli scavi di Pompei al netto di ritenute e al
lordo di stipendi (1885 – 1893)
120.000
100.000
80.000
60.000
L ire
40.000
20.000
0
1884
1886
1888
1890
1892
1894
Dal 1885 al 1893 si ebbero continui alti e bassi di spese; in seguito ad un
aumento, tra il 1885 ed il 1886, la spesa annua registrò una lieve contrazione
nel 1887, per poi aumentare nuovamente tra il 1888 ed il 1889, anno in cui il
livello delle somme stanziate fu massimo (Graf.7.). Un inversione di tendenza
contraddistinse il 1890, in cui la spesa calò significativamente, aumentando,
nel 1891, per poi dimezzarsi nel 1892. Infine, nel 1893, si registrò un ulteriore
638
IDEM, fascio XVII A7, I e II bimestre 1893.
240
incremento (Graf. 7.); infatti pur essendo circoscritto il periodo di lavoro, da
gennaio ad aprile, l’ammontare complessivo raggiunse livelli analoghi ad anni
in cui l’attività fu intensa in tutti i bimestri, quali ad esempio il 1885 ed il
1890.
Un aspetto interessante che si evince confrontando gli ultimi otto anni
considerati, concerne l’incompatibilità tra quanto si spese per i lavori di sterro,
quali cavamenti, trasporti, muratura ecc, e quanto pagato agli addetti per
eseguire tali interventi: cioè a fronte di bimestri in cui la stima delle misure dei
lavori era alta, corrispondevano indennità modeste e viceversa (Tav. 8.).
Nel dettaglio, durante il IV bimestre 1885, si spesero solo 5.547 lire, associati
al costo del lavoro più alto dell’interno anno, di 3.730 lire, conseguente
all’incidenza di lavori straordinari per 1.692 lire nonché al pagamento degli
operai addetti alla pulizia dei luoghi per 437 lire in aggiunta alle tipiche figure
professionali; la discrepanza era notevole se si considera che, nei mesi di
maggio e giugno, in cui si registrò la spesa più consistente dell’anno, 10.603
lire, si pagarono indennità per 2.539 lire.
Anche il 1886 presenta il medesimo andamento del 1885: la misura dei lavori
del II bimestre era di 26.172 lire, a cui si sommarono 1.744 lire, quali
indennità pagate agli operai, mentre tra novembre e dicembre si spese per la
manodopera 2.657 lire e per lo scavo 1.732 lire, cioè l’onerosità del lavoro fu
maggiore degli interventi eseguiti (Tav. 8.). Ad eccezione dei soprastanti e
restauratori, quali categorie ricorrenti, il risultato era imputabile a 133 lire
spese per 14 giornate a favore di otto operai che lavorarono nei giorni di
maggiori affluenze di visite coadiuvando le guardie che non erano in numero
sufficiente per la custodia dei monumenti; 829 lire per i dipendenti della
Direzione di Napoli, approvate dall’Autorità Superiore; 409 lire in favore
degli operai incaricati di estirpare le erbe dai monumenti. La stessa
discrepanza si manifestò durante il V bimestre 1887639.
Nel 1888 interessanti sono i risultati del I e del II bimestre: tra gennaio e
febbraio la spesa complessiva fu di 6.651 lire, di cui il costo del personale
639
ASSAN, fascio XVII A6, anno 1887, in cui gli stipendi superarono i servizi resi: 988 lire per i
dipendenti della Direzione di Napoli; 589 lire per gli operai addetti a pulizie e ad estirpare le erbe
dai monumenti.
241
rappresentava quasi il 38%. A marzo e ad aprile la spesa salì a 30.077 lire,
nonostante ciò la spesa per il personale differiva di poco rispetto al bimestre
precedete (2.497 lire nel I bimestre e 3.117 lire nel II). In ambedue gli esercizi,
ricorre l’incidenza delle spese per la Direzione di Napoli.
Lo stesso risultato si ripete l’anno seguente con riferimento, però, al III e al VI
bimestre durante i quali la spesa finale passò da 26.761 lire a 9.003 lire.
Nel 1890, la spesa annua da 103.741 lire precipitò a 64.155 lire, nei mesi di
maggio e giugno molto più contenute furono le spese destinate agli sterri,
mentre il personale assorbì il 48% della spesa stanziata nel bimestre. La
categoria verso la quale si spese la somma maggiore fu quella degli operai
incaricati della pulizia di Pompei, per lire 574.
Le irregolarità riscontrate fino a questo momento proseguirono anche
nell’ultimo triennio, 1891 – 1893 (Graf. 7.).
In particolare, nel 1891, il bimestre più interessante è il III, poiché, a fronte di
una stima dei lavori pari a 33.942 lire, quindi anche molto alta rispetto agli
andamenti bimestrali dei singoli anni, per il personale si spese 1.868 lire, cioè
circa il 5% della spesa complessiva. Il riferimento è alle sole categorie dei
soprastanti e dei restauratori dei bronzi e dei mosaici.
Nel 1892, l’ammontare complessivo della spesa quasi si dimezzò confrontato
con il 1891, passando da 84.592 a 48.039 lire (Tav. 8.). Nel complesso, si
trattò di un anno contraddistinto da andamenti bimestrali più regolari dei
precedenti anni, sia per la stima dei lavori sia per quella delle indennità.
Un ulteriore discrepanza, tuttavia, si evince dall’ultimo periodo preso in
esame, ossia i primi due bimestri del 1893: nei mesi di gennaio e febbraio, la
spesa complessiva fu di 12.341 lire, che crebbe sensibilmente a 51.869 lire nel
bimestre successivo: ancora una volta una differenza significativa ha ad
oggetto le indennità pagate agli operai che nel secondo periodo sono inferiori,
ed erogate principalmente ai restauratori.
Durante il trend esaminato, la maggiore onerosità del lavoro era imputabile,
quindi, all’esecuzione di lavori straordinari, per i quali non vi era altra
indicazione, e agli operai addetti alla pulizia del sito archeologico:
probabilmente i primi erano connessi ai lavori in economia, non stimabili, ma
242
di grande rilievo economico nelle misure dei lavori, mentre i secondi,
rappresentano una categoria che inizia ad essere identificata solo dopo il 1885:
in entrambi i casi comincia ad acquisire maggiore importanza, rispetto al
passato, lo stato conservativo dei monumenti, infatti coincise con gli ultimi
decenni dell’Ottocento, la fine dell’impropria pratica di staccare dalle pareti i
dipinti, consentendo, così, ai “tecnici” il restauro sul posto senza deturpare
ulteriormente l’intera struttura e ai pochi visitatori di ammirarne lo splendore
nel suggestivo contesto di origine.
5.6. LE REGIONI DI POMPEI
Dopo aver illustrato come si spendevano le anticipazioni ministeriali per le
diverse operazioni di scavo e come variavano tali spese in funzione di ritenute
e indennità al personale, ho aggregato nuovamente le misure dei lavori in
modo da rispondere ad un altro interrogativo: le risorse finanziarie venivano
impiegate per dissotterrare quali parti all’interno della cinta muraria di
Pompei? In base a quali criteri si decideva di scavare un “luogo” anziché un
altro”?
Le scelte della progressione delle aree da scavare è cambiata con le epoche e i
metodi di scavo: fino al 1760, si scavava e poi si rinterrava tutto,
successivamente, individuato il foro e i teatri si decise di liberare le strade che
mettevano in comunicazione questi grandi complessi, fino al 1860; in seguito,
cominciarono ad essere portate alla luce le case e le botteghe all’interno delle
principali strade.
243
Pianta che individua le epoche degli scavi effettuati a Pompei:
La dimensione del parco archeologico di Pompei rendeva particolarmente
complessa l’ identificazione degli edifici pubblici e privati. Nel 1858,
Giuseppe Fiorelli mise a punto un “sistema catastale”, che diventò ufficiale
per il sito di Pompei e i cui criteri furono in seguito applicati anche all’area
archeologica di Ercolano640.
Per evitare confusione con le centinaia di nomi convenzionali attribuiti alle
case e alle botteghe al momento dello scavo, la città venne divisa in nove
quartieri chiamate “regioni”. Ciascuna regione era poi solcata da un certo
numero di vie secondarie, che la dividevano in altrettanti segmenti minori,
detti “insule”, all’interno dei quali vi erano case e botteghe identificate da un
proprio numero civico. In questo modo era possibile individuare sulla pianta
della città l’edificio a cui si faceva riferimento.
640
G. Fiorelli, Appunti autobiografici, premessa a cura di Stefano De Caro, Sorrento, 1994, p. 167
– 168.
244
Pianta dei quartieri abitativi (le regioni identificate in numeri romani, le
insule e le case o botteghe con numeri arabi. Esempio, Casa della Grata
Metallica, I, 2, 27 – 29)
Come si rileva dalla pianta, gli scavi di Pompei sono racchiusi in una cinta
muraria in cui si aprono sette porte: tre verso settentrione, Porta Ercolano,
Porta Vesuvio e Porta Nola; una verso oriente, Porta Sarno; due verso sud,
Porta Nocera e Porta Stabia; e una verso occidente, creduta molto prossima al
mare e per questo chiamata Porta Marina.
Di seguito è riportata la stima delle spese per tutti gli anni in cui sono state
stilate le misure dei lavori, raggruppate, a seconda delle regioni beneficiarie
degli stanziamenti ministeriali.
245
Tav. 9. Ripartizione delle spese complessive effettuate a Pompei per Regioni (1861 – 1893)641
641
ASSAN, fascio XVII B 10, Misura dei lavori, dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII
B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre 1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI, B.
751 II, fasc. 3, Misura dei lavori da giugno a dicembre 1862; IDEM, B. 751 II, fasc. 6, Misura dei
lavori I e II semestre 1863; ASSAN, fascio XVII B7, da gennaio a dicembre 1864, da gennaio a
settembre e VI bimestre 1865; IDEM , fascio XVII B8 e XVII B9, dal I al VI bimestre 1866, I, V,
VI bimestre 1867; IDEM, fascio XVII B6, IV e VI bimestre 1878, I, II, IV, V e VI bimestre 1879;
IDEM, fascio XVII B4, dal I al IV bimestre 1880, dal I al VI bimestre 1881; IDEM, fascio XVII
B1, dal I al VI bimestre 1883; IDEM, fascio XVII B3, dal I al VI bimestre 1884; IDEM, fascio
XVII A8, dal I al III bimestre 1885; IDEM, fascio XVII A9, dal IV al VI bimestre 1885, dal I al III
bimestre 1886; IDEM, fascio XVII A6, dal IV al VI bimestre 1886, dal I al VI bimestre 1887, dal I
al VI bimestre 1888; IDEM, fascio XVII A7, dal I al VI bimestre 1889, dal I al VI bimestre 1890, I
e II bimestre 1893; IDEM, fascio XVII A5, dal I al VI bimestre 1891, dal I al V bimestre 1892.
246
Graf. 8. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1861
Graf. 9. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1862
247
Durante gli anni 1861 e 1862, non vi è alcuna specificazione circa i luoghi
scavati, l’unico riferimento citato nelle carte è “l’esecuzione di una massa di
lavori nel disseppellire i ruderi di quell’antica città”642.
Nelle ipotesi in cui non è stato possibile individuare la regione, la spesa è
aggregata nella categoria “Fuori Regione” (Tav. 9). In questi casi, nello stato
sommario dei lavori, generalmente, è riportata solo la stima quali –
quantitativa dell’operazione eseguita.
Graf. 10. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1863
Anche la spesa complessiva di 60.845 lire, del 1863, è stata inserita in “Fuori
Regione”, (Graf. 10) benché vi fosse una differenza rispetto ai generici ruderi
del biennio precedente: infatti gli sterri furono eseguiti per scoprire delle
“botteghe”, prive, tuttavia, di altri suggerimenti.
642
ASSAN, fascio XVII B 10, Certificati a favore degli appaltatori Nicola e Carmine Fiorentino,
dal I al II bimestre 1861; IDEM, fascio XVII B1, da luglio a settembre, ottobre e VI bimestre
1861, da gennaio a maggio 1862; ASN, MPI, B. 751 II, fasc. 3, Misura dei lavori da giugno a
dicembre 1862
248
Graf. 11. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1864
Un primo riscontro sulla divisione delle spese sostenute per Pompei, apparve
nel 1864, in cui la spesa complessiva di 65.843 lire fu interamente impiegata
per gli scavi nella Regione II.
Essa occupa il quadrante sud – orientale della città, costituito da Via
dell’Abbondanza; una parte significativa dell’area è occupata dai grandi
complessi pubblici della Palestra Grande e dell’Anfiteatro643.
La descrizione dei lavori, specificava l’utilizzo di architravi di quercia presso
le botteghe n. 8, n. 16 nel vicolo del Lupanare, n. 12, n. 9, nel vicolo
perpendicolare a quello del Lupanare e alla casa n. 11644.
643
Riferimenti circa le epoche di scavo oppure brevi cenni sulle caratteristiche delle Regioni, sono
stati possibili attraverso l’archivio digitale dell’Ufficio Scavi di Pompei e Boscoreale, i diversi
complessi sono ricostruiti cronologicamente in base agli studi archeologici che si sono succeduti.
644
Quando un edificio è identificato esclusivamente con numero civico, senza altre indicazioni o
denominazioni, significa che lo scavo è ancora ai livelli embrionali, per cui non sono stati ancora
rinvenuti oggetti quali statue, affreschi, materiale da lavoro ecc, tali da identificare il proprietario o
comunque offrire una qualche peculiarità utile a dare un nome ben specifico alla casa. Infatti, molti
sono in casi di complessi i cui nomi sono stati dati parecchi anni dopo il primo colpo di piccone,
oppure è mutato nel corso del tempo, assumendo quelli di chi faceva la scoperta oppure conduceva
gli scavi. Con particolare riferimento agli anni studiati, ad eccezione delle regioni la cui
collocazione è rimasta immutata, le case e le botteghe estrapolate da ASSAN, con altissime
probabilità attualmente hanno cambiato civico oppure nome.
249
Graf. 12. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1865
Graf. 13. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regione, anno 1866
Nel 1865, la spesa complessiva diminuì in confronto ai quattro anni di vita
precedenti, passando dai 55.197 lire, del 1861, a 37.696 lire (Tav. 9.). L’unica
indicazione è che la somma fu interamente impiegata per la casa n. 40, in via
dell’Abbondanza. Nel 1866, si registrò un incremento, ma anche qui lo scavo
250
è da inserire in “Fuori Regione”, poiché è indicato solo il tipo di operazione e
il rispettivo costo, senza alcun riferimento ai luoghi.
Graf. 14. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1867
Nel 1867, la spesa di 54.924 lire (Tav. 9.) fu impiegata per lavori eseguiti
presso la Casa del Fauno collocata nella Regione VI, estesa su tutto il
quadrante nord – occidentale del pianoro; il quartiere presenta una struttura
particolarmente uniforme nella parte centrale, dove insule rettangolari sono
definite da un reticolo di strade fra loro ortogonali.
La Casa del Fauno ( VI, 12, 1 – 8) fu picconata per la prima volta nel 1829 e
attualmente rappresenta la più suntuosa fra le case di Pompei.
Un ulteriore indicazione, nell’ambito di questa regione, furono i lavori
compiuti per liberare dalla terra Via della Fortuna
251
Graf. 15. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1878
Dal 1878 al 1893, i lavori di scavo cominciarono ad essere sistematici e
ripartiti più equamente tra le diverse regioni, riducendo significativamente le
percentuali di spesa destinate a “Fuori Regione”.
Nel 1878, quasi tutta la spesa annua, pari a 20.991 lire, fu impiegata per lavori
eseguiti presso la Regione IX, Insula 5 e 6, per lire 19.583 (Tav. 9.). Si trattò
principalmente di case, ad eccezione di una bottega in cui fu rinvenuto un
forno con ingresso in Via Nolana. Nei mesi tra novembre e dicembre, 1.408
lire furono impiegate nella Regione V, Isola 1, per lavori nella cantina n. 2.
Lo scavo integrale della Regione IX, fu interrotto negli ultimi anni
dell’Ottocento, coincidendo con l’ultima libretta redatta: all’epoca fu messa in
luce all’incirca la metà dell’intera superficie; solo in anni recenti gli scavi si
sono concentrati nuovamente su alcune dimore allora solo parzialmente
individuate.
252
Graf. 16. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1879
Nel 1879, i lavori furono intensi dalla Regione V alla Regione IX. La Regio
V, messa solo parzialmente in luce nel corso dell’Ottocento, occupa il
quadrante nord – orientale della città insieme alla Regio IV, che nel periodo in
esame, era ancora interamente coperta da lapilli. Le Regioni VII e VIII furono
ampiamente scavate fino alla fine dell’Ottocento, scoprendo numerosi settori
abitativi. La spesa complessiva ammontava a 70.190 lire, di cui la parte più
cospicua fu spesa per la Regione IX, per 37.693 lire; la spesa si ridusse
progressivamente nei quartieri restanti, ad eccezione della Regio I e della
Regio V in cui raggiunse livelli esigui, rispettivamente 141 lire e 194 lire
(Tav. 9.).
Durante quest’anno le uniche due case identificate furono la Casa di Cecilio
Giocondo (V, n. 26) e la Casa di Sallustio (VI, 2, n. 4).
253
Graf. 17. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1880
L’anno seguente la spesa annua calò notevolmente, passando a 37.652 lire; il
77% della spesa fu utilizzata per i soli lavori nella Regione IX, (Graf. 17.)
Insula 5 e 6, in cui si scavò esclusivamente per tutto il I bimestre. Ulteriori
interventi furono realizzati anche da marzo ad agosto, alternandoli con lo
scavo di numerose altre case site nelle Regio VI, VII e VIII645. (Graf. 17.).
645
ASSAN, fascio XVII B4, anno 1880: Regio VI, Isola 9, casa n. 2; Regio VII, Isola 4, casa n.
48; Regio VIII, Isola 2, case n. 12, 14, 15, 17, 18, 20, 21, 23, 24, 25, 26.
254
Graf. 18. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1881
Gli anni ’80 dell’Ottocento rappresentano il periodo più fecondo dell’attività
di scavo nonostante le croniche ristrettezze finanziarie: diversamente dai
bimestri successivi, fu nei mesi di gennaio e febbraio 1881 che si lavorò
attivamente su ben tre Regioni: la VI, la VII e la IX. (Graf. 18). La Regione
più costosa fu la VI per 39.428 lire, mentre, diversamente dagli anni
precedenti, solo il 4% della spesa annua fu destinata alla Regione IX. La
Regio I, dal 1881 inizia ad essere disseppellita con una certa sistematicità, pur
destinando ai suoi complessi una parte molto ristretta dei fondi pervenuti.
255
Graf. 19. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1883
Nel 1883, la discrepanza tra quanto speso per le diverse regioni fu più
contenuta rispetto agli anni esaminati fino a questo momento: infatti i quartieri
che maggiormente beneficiarono dei fondi furono le Regioni VI, VII e VIII,
(Graf. 19.) in cui si spese, rispettivamente 17.250 lire, 17.677 lire e 18.383 lire
(Tav. 9.). In particolare, nella Regione VII si lavorava per liberare le Terme
della Fortuna. Anche la Regione I fu interessata dagli sterri, rappresentando la
minor voce di uscita per 1.056 lire. Dal II al VI bimestre si lavorò quasi
contemporaneamente nelle Regioni VI, VII, VIII e IX; tra gennaio e febbraio
furono interessate solo le Regio VIII e VI. Infatti, in funzione dei fondi
allocati dal Ministero e dalla manodopera disponibile, uno stesso quartiere
poteva essere scavato anche in momenti diversi dell’anno, magari
concentrando le risorse in altre Insule oppure edifici, a seconda di quello
scoperto in precedenza.
256
Graf. 20. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1884
Nel 1884, si lavorò nelle Regioni I e II, V, VI, VII, VIII e IX. (Graf. 20.)
Diversamente dal I quartiere, la Regio II fu scavata molto saltuariamente
durante il trend in esame, stanziando risorse modeste, rispetto ai luoghi più
ricorrenti. Infatti, la spesa nei primi due quartieri differì di poco, ma
comunque fu bassa rispetto ad altre “porzioni” del sito archeologico.
Le Regioni in cui si investì maggiormente furono la VII, VIII e IX, spendendo
per ciascuna circa 17.000 lire. Sia nel II che nel III bimestre si lavorò in tutte
le regioni interessate, mentre, tra gennaio e febbraio, i lavori furono
concentrati solo nella Regione V e VI. Inoltre, nella Regio VII, Isola VIII, fu
possibile identificare un altro edificio, il Tempio di Giove.
257
Graf. 21. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1885
Nel 1885, la spesa annua fu di 43.892 lire: di cui 24.221 destinate alla Regio
VIII e 13.170 lire alla Regio VII. (Tav. 9.). Diversamente dagli altri anni,
minori furono le risorse destinate alle Regioni V, VI, e IX, che non
raggiungevano le 2.000 lire. Addirittura per questi quartieri si spese meno di
quanto destinato alla Regione I, gran parte della quale fu messa in luce solo
all’epoca degli “Scavi nuovi e recenti” ( 1910 – 11; 1927 – 61). Da gennaio a
giugno si lavorò solo nelle Regioni VII, VIII e IX mentre le restanti furono
interessate nella seconda parte dell’anno.
258
Graf. 22. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1886
Nel 1886, le Regioni interessate alle operazioni di sterro continuarono ad
essere le stesse in cui si lavorò negli anni precedenti (Graf. 22.): l’unica
differenza concerneva la spesa associata a ciascuna di essa che variava di anno
in anno.
Durante il 1866, la spesa maggiore si registrò nella Regione VIII pari a 18.929
lire (Tav.9); di poco inferiore era l’ammontare investito nella V e nella VII
regione. Il 4% della spesa complessiva, fu impiegato per costruire un nuovo
ingresso in Pompei, e inserito nella categoria “Fuori Regione”, poiché non vi
era alcuna indicazione circa il luogo in cui i lavori erano cominciati.
259
Graf. 23. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1887
Per il 1887, gli interventi più massicci furono realizzati per scoprire la
Regione IX: infatti, a fronte di una spesa annua di 55.353 lire, solo per questa
porzione di Pompei si spese 31.150 lire, e si lavorò per tutto il II bimestre; di
rilievo fu anche la spesa per la Regione VIII di 18.254 lire. Molto basso fu
quanto previsto per la Regio I, che non arrivava alle 300 lire.
260
Graf. 24. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regione, anno 1888
Nel 1888, si lavorò nelle Regioni V, VI, VII, VIII, IX e la spesa complessiva
fu la più elevata del decennio 1878 - 88, sebbene l’andamento, come
d’altronde, tutti gli anni interessati, fu caratterizzato da continui alti e bassi
(Graf. 24.).
Nella Regione IX, la spesa fu molto alta, pari a 34.875 lire, evidenziando un
ampia discrepanza rispetto ai fondi impiegati negli altri quartieri che
oscillavano dalle 12 alle 19.000 lire, ad eccezione della Regione VI che
assorbì appena il 2% della spesa complessiva.
261
Graf. 25. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1889
A differenza di tutti gli anni considerati, nel 1889 si ebbero i maggiori
stanziamenti ministeriali: per quanto concerne l’allocazione delle risorse in
relazione a specifiche porzioni di territorio, la ripartizione fu analoga all’anno
precedente: la spesa più alta fu destinata alla Regione VII, pari a 34.938 lire,
(Tav. 9.) in cui all’isolato 8 i lavori furono compiuti per disseppellire il
Tempio di Iside, mentre dalla Regione V e alla Regione IX si spese tra i 7 e le
19.000 lire, quindi mostrando un divario non indifferente. Diversamente dal
1888, oltre alla Regione I, furono disseppelliti edifici anche presso la Regione
II, quest’ultima rappresentando l’importo più basso.
262
Graf. 26. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1890
Il 1890 presenta due aspetti interessanti rispetto gli anni precedenti: il primo è
che si tratta dell’unico anno in cui si spese per disseppellire la Regione I più di
10.000 lire, non essendo, fino a quel momento, destinata neanche la metà di
tale importo. L’altra novità è che la spesa più cospicua rientra nelle categoria
“Fuori Regione”, (Graf. 26) poiché da “misure dei lavori”, nel VI bimestre si
ebbero i diversi interventi con relativa stima, trattati nei paragrafi precedenti,
ma con riferimento a generiche botteghe.
Negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia, l’importo riportato in
questa categoria corrispondeva con l’intera stima annuale della spesa, per cui
anche molto più alto dell’anno considerato, dato che la suddivisione in
Regioni ed in Insule, ancora doveva essere applicata all’interno dei registri ma
nel 1890, chiaramente vi sono spese in altre Regioni ben identificate, quali la
Regio V per 1.256 lire, la Regio VI per 4.560 lire, la Regio VII per 8.622 lire
ed infine la Regio IX per soli 112 lire. (Tav. 9.)
263
Graf. 27. Spesa per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1891
Nel 1891, le spese più significative servirono a portare alla luce le case delle
Regioni VIII e IX, rispettivamente per 22.369 lire e 29.566 lire: più
specificamente nella Regione IX gli sterri erano rivolti alla “Casa del
Centenario”, comparsa per la prima volta con questa denominazione: infatti la
sua scoperta risale al 1879 e rappresenta una delle abitazioni più grandi di
Pompei.
Anche per la Regione V troviamo un indicazione più specifica di “casa”
chiamata “Casa dell’Imperatore di Germania”, il cui nome potrebbe far
pensare che fu scoperta in occasione di una visita del sovrano di Germania. In
realtà, i sovrani di Germania si recarono presso il sito archeologico solo
qualche anno più tardi646. A prescindere dalla sua origine, furono spese 15.089
lire, l’ultimo importo di rilievo, poiché i lavori realizzati altrove non
superarono i 5.000 lire.
Inoltre, per la prima volta, si lavorò nella Regio III, spendendo 1.022 lire.
(Tav. 9). Si tratta di un aspetto da non trascurare se si considera che
attualmente quasi tutto il quartiere è ancora coperto dai lapilli dell’eruzione e
di esso sono state scavate solo le facciate di abitazioni e botteghe aperte a sud
su Via dell’Abbondanza e poche case disposte all’angolo di alcuni importanti
incroci viari.
646
ASSAN, fascio XIII B6, 13, Visita in Pompei dei Sovrani di Germania, anno 1893.
264
Graf. 28. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1892
Nel 1892, la spesa complessiva fu di 39.869 lire, relativamente bassa se si
considerano gli anni passati. Il V quartiere fu il complesso verso cui si
concentrarono le spese più consistenti pari a 23. 350 lire (Tav. 9.), mentre
nelle Regioni VI, VII e VIII oscillarono tra le 2.000 e le 7.000 lire. Circa il 3%
delle risorse fu impiegato anche per edifici non identificati nella nota
classificazione.
265
Graf. 29. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1893
Nel 1893 si lavorò nelle Regioni V, VII, VIII e IX. (Graf. 29). In particolare
per la Regione V si spesero 37.127 lire, ossia assorbì più della metà della
spesa complessiva. I lavori contribuirono alla scoperta della “Villa di
Diomede”, lungo la Via detta delle Tombe. Significativo fu anche la spesa
della Regio IX di 18.591 lire, mentre per la Regio VII e VIII la spesa non
superò le 4.000 lire.
In base alla sintesi elaborata è emerso che sulle nove Regioni individuate da
Fiorelli, le somme spese a Pompei furono distribuite principalmente per
riportare alla luce le sole Regioni V, VI, VII, VIII, IX. Il concentrare le risorse
finanziarie in questi quartieri era probabilmente connesso al riemergere dalle
ceneri di case importanti ed edifici pubblici, presso i quali si svolgeva l’attività
intellettuale e commerciale della città: infatti, numerosi erano i riferimenti i
“cavamenti” volti a liberare dalla terra i vicoli.
Nella prima metà del Novecento, l’attività di scavo si concentrò nella parte
orientale della città, sotto la direzione di Vittorio Spinazzola e Amedeo
Maiuri. Quest’ultimo fu Soprintendente dal 1923 al 1961, legando a sé le più
importanti scoperte di Pompei, un organico piano di ricostruzione delle aree
266
messe in luce (isolati delle Regioni I e II) ed una serie di indagini
stratigrafiche volte ad individuare le fasi più antiche della città. Al termine
della sua lunga attività erano stati messi in luce 44 dei circa 65 ettari della
superficie urbana compresa entro le mura e la sua copiosa produzione
scientifica è ancora oggi alla base di ogni ricerca sull’archeologia e
sull’urbanistica pompeiana.
Negli anni finali del XX secolo si ebbero poche, mirate attività di scavo,
concentrando le risorse soprattutto nel restauro degli edifici messi in luce,
molti dei quali in grave stato di sofferenza dopo più di due secoli di
esposizione agli agenti atmosferici.
267
5.7. LO SCANDALO DI VILLA DELLA PISANELLA
Le vicende che accompagnarono il rinvenimento del “tesoro di Boscoreale” e
la sua esportazione clandestina in Francia sono state cruciali poiché
denunciarono il disinteresse e la sconfitta dell’Italia unita nel settore
culturale647.
La scoperta di una casa pompeiana nel territorio di Boscoreale avvenne, nel
1894, quando Vincenzo De Prisco iniziò dei lavori in un terreno di sua
proprietà. Il fortunato scopritore inviò una lettera al Ministro per l’Istruzione
Pubblica, Guido Baccelli, chiedendo l’autorizzazione al proseguimento dello
scavo, attenendosi alle disposizioni del decreto ferdinandeo del 1822. I lavori
proseguirono, in seguito ad autorizzazione ministeriale, e sotto la sorveglianza
del direttore del Museo di Napoli Giulio De Petra e dell’Ispettore Sogliano. I
primi rinvenimenti di un certo valore risalgono al 1895 e altri preziosi
tornarono alla luce nei mesi successivi. Prive di risultati furono le continue
richieste di speciali fondi al ministro Baccelli, da parte del direttore De Petra,
per l’acquisto di tali opere così per arricchire il Museo di Napoli.
Numerose e contrastanti furono le corrispondenze tra il Ministro ed il
Direttore circa la validità legale degli scavi condotti da De Prisco. Tuttavia,
prima di decretare sull’argomento scoppiò lo scandalo.
La Direzione degli scavi di Pompei trasmise al ministro Baccelli la notizia
dell’esportazione clandestina, a Parigi, da parte dell’antiquario napoletano
Ercole Canessa, che già in passato lavorò con De Prisco, di una collezione di
vent’otto vasi antichi di argento. Poiché nessun privato era stato in grado di far
fronte alla richiesta di centoventicinquemila franchi, lo stesso Canessa si
presentò alla Direzione del Louvre, con un numero maggiore di vasi, per i
647
La vicenda di contrada Pianella fu dettagliatamente studiata dalla Prof.ssa Gina Carla Ascione,
la quale attraverso la documentazione dell’Archivio Centrale dello Stato (AA.BB.AA., II
versamento, I serie, b. 147, inc. 2382 bis) studiò il fitto carteggio intercorso tra il ministro
dell’Istruzione Guido Baccelli ed il Direttore del Museo Nazionale di Napoli Giulio De Petra.
Ho illustrato brevemente i tratti salienti della questione al fine di evidenziare che dopo trent’anni
dall’unità d’Italia, le manovre statali continuavano ad essere orientate esclusivamente verso altre
priorità, trascurando il problema degli scavi archeologici, ed eludendo sia la questione finanziaria
sia la cavillosa questione legislativa, per la quale sembrava impossibile conciliare lo spirito
coercitivo e autoritario dei decreti precedenti l’unità con l’inviolabile diritto alla proprietà privata.
268
quali chiedeva mezzo milione di franchi. Tale cifra fu giudicata troppo alta
anche per il Louvre, che avrebbe perso l’occasione di ottenere la preziosa
raccolta se non fosse intervenuto il banchiere Edmond de Rothschild che,
evitandone la partenza per il Museo di Boston degli USA, provvide
all’acquisto e al restauro di tutti gli oggetti d’argento presentati dall’antiquario
napoletano. In seguito tali argenti entrarono, per donazione del celebre
banchiere, a fare parte delle collezioni romane del museo francese.
Le indagini si conclusero pochi mesi dopo con la completa assoluzione di De
Prisco, per inesistenza di reato, non esistendo prove concrete dell’esportazione
clandestina. In aggiunta, gli fu riconosciuta la possibilità di proseguire i lavori
di scavo, esercitando il suo diritto di proprietà senza violare i decreti
ferdinandei. Tra l’altro, due furono gli elementi principali che contribuirono
all’esito di questa sentenza: la mancanza di una legge di tutela unitaria circa il
ricevimento di reperti archeologici da parte di privati ed una lettera del
direttore De Petra indirizzata a De Prisco, in cui affermava che lo Stato non
poteva procedere all’acquisto degli oggetti a causa di persistenti problemi
finanziari, pertanto poteva disporne a suo piacimento.
Lo scandalo del tesoro di Boscoreale fu di grandissimo rilievo suscitando, per
la prima volta nella storia dell’Italia unita, una reazione a favore della tutela
del patrimonio archeologico che sfocerà, qualche anno più tardi, nella legge
del 1902.
Erano gli anni del secondo Governo Crispi (dicembre 1894 – marzo 1896),
caratterizzati, sul piano economico, da un energica azione promossa da
Sonnino, Ministro delle Finanze, per risanare il bilancio e riordinare la
circolazione del credito, attraverso una politica di fortissime economie e
l’aumento del carico fiscale. Ai settori meno produttivi, come l’Istruzione,
ancora una volta, fu destinata una parte esigua delle finanze dello stato, volte
piuttosto a coprire le ingenti spese della politica coloniale. Inutili, si rivelarono
gli appelli del Direttore del Museo di Napoli al Ministro per ottenere fondi di
entità tali da permettere l’acquisizione alle collezioni statali di oggetti
rinvenuti in terreni di proprietà privata. La politica estera di Crispi,
antifrancese, non assecondò neanche la richiesta del Direttore del Museo di
269
ricorrere alle vie diplomatiche per ottenere dal Louvre notizie circa il tesoro di
Boscoreale, nella speranza di un eventuale recupero. Ad accrescere i dubbi e a
confondere le idee contribuì l’incertezza legislativa: in mancanza di una
regolamentazione, il riferimento era alla legislazione dei governi preunitari,
rivelatasi obsoleta, sia perché vennero a mancare i presupposti giuridico –
amministrativi degli antichi stati, sia perché si trattava di norme valide nella
situazione storica precedente, divenute ormai improponibili sul piano di una
concreta applicazione.
Inoltre vi è un altro aspetto che potrebbe essere una diretta conseguenza degli
avvenimenti di quegli anni: dopo il 1893, non vi sono più “Misure dei lavori”,
probabilmente perché le risorse ministeriali stanziate divennero ancora più
esigue dei decenni precedenti, al punto da non riuscire nemmeno a garantire
una pianificazione bimestrale delle operazioni.
Di seguito una suggestiva immagine di alcuni dei vasi protagonisti dello
scandalo di fine Ottocento.
270
Vasi antichi del tesoro di Boscoreale
271
CONCLUSIONI
Gli scavi di Pompei ebbero inizio nel 1748, durante il regno di Carlo di
Borbone, con l’intento di conferire prestigio alla casa reale. Fin dai primi
ritrovamenti, lo scavo apparve come una fonte inesauribile di tesori, oggetti
preziosi e di opere d’arte, che stimolarono un’intensa attività clandestina di
esportazione oltre confine. La necessità di tutelare tali ricchezze preoccupò il
re, tanto che, il 24 luglio 1755, emise un primo dispaccio volto a vietare
“l’estrazione di si fatte reliquie che per eccellenza di lavoro ed artificio, o per
altra rarità, merita di essere tenuto in pregio”. Un successivo ed interessante
provvedimento reale risale al 13 dicembre 1755, a cui conseguì l’istituzione
della Reale Accademia Ercolanese, composta da quindici specialisti incaricati
di studiare scientificamente i rinvenimenti vesuviani e pubblicarne i risultati.
E’ opportuno sottolineare che le prammatiche borboniche giunsero a colmare,
seppur in ritardo rispetto all’antica legislazione pontificia di tutela dei
monumenti, un intollerabile vuoto legislativo, ispirandosi nei contenuti al
modello romano.
Ben presto la politica culturale borbonica si rivelò molto severa, tanto che sui
luoghi di scavo quasi vigeva un controllo di tipo militare: i pochi eletti
ammessi a visitare il sito, previa autorizzazione reale e del primo Ministro,
erano sorvegliati a vista dai guardiani per timore che potessero sottrarre
oggetti o asportare frammenti; era vietato, persino, eseguire disegni sommari
dei ritrovamenti. Il medesimo spirito accentratore si manifestò nell’esecuzione
dei lavori dell’Accademia: infatti, ai membri era vietato divulgare le scoperte,
restando la pubblicazione dei reperti riservata allo Stato. Pertanto, l’attività
dell’istituto procedette con estrema lentezza al punto tale che i primi volumi
relativi ai ritrovamenti furono pubblicati solo alla fine del XVIII secolo. Erano
proprio i rigidi vincoli posti ai pochi visitatori e l’organizzazione espositiva
dell’Ercolanese a risaltare il limite principale dell’attività culturale dei
Borbone. Il riferimento è alla gestione privata dei reperti che, sul piano
giuridico, erano di proprietà private del re e come tali gelosamente vissuti e
parsimoniosamente mostrati.
272
Di grande interesse e culturalmente innovativo si rivelò per Pompei il periodo
francese, soprattutto grazie a Gioccachino e Carolina Murat, cui si deve una
reale svolta nella conduzione degli scavi, al fine di restituire la completezza di
una visione urbana. Per rendere ciò possibile i sovrani provvidero a
predisporre un piano di esproprio dell’intera città antica e il finanziamento di
numerose operazioni.
Ma il fervore e il metodo nelle ricerche del periodo murattiano fu di breve
durata: il ritorno dei Borbone a Napoli segnò un nuovo ristagno nelle attività
di scavo e dei mezzi impiegati.
Dal punto di vista istituzionale, durante la prima metà del XIX secolo,
nell’ambito
del
dicastero
dell’Interno,
esisteva
un
embrione
di
amministrazione degli scavi di Pompei; si trattava di un ente dotato di
personale e risorse finanziarie con competenze territoriali limitate. La legge
del 14 maggio 1822, relativa alla regolamentazione degli scavi, affidava al
direttore del museo il compito di sorvegliare gli sterri, da chiunque effettuati,
tramite i soci dell’Accademia Ercolanese o propri fiduciari. Il marchese Arditi,
titolare dell’ufficio, riuscì a creare una rete omogenea di ispettori, ma la
mancanza di poteri coercitivi non consentì alla struttura di funzionare; tuttavia
la
figura
dell’ispettore
fu
recuperata
con
maggiori
responsabilità
dall’organizzazione post unitaria. Sempre nel 1822, fu creata, a Napoli, una
Commissione di antichità e belle arti, incaricata del rilascio delle licenze di
esportazione, che operò fino al 1860, quando con decreto del luogotenente
Farini, in data 7 dicembre, le sue competenze passarono alla Sovrintendenza
del museo di Napoli.
La politica vincolistica borbonica subì una battuta d’arresto il 15 settembre
1860, in seguito al provvedimento di Giuseppe Garibaldi con cui nominò
Alessandro Dumas Direttore del Museo Nazionale e degli Scavi di Antichità,
con l’incarico di redigere un progetto di recupero archeologico, storico e
pittorico del sito di Pompei. Con successivo intervento, Garibaldi erogò per gli
scavi 5.000 ducati annui affinché i lavori riprendessero nel più breve tempo
possibile.
273
Con r.d. 11 agosto 1861 n. 202, fu approvata la nuova pianta organica del
Ministero della Pubblica Istruzione da cui dipendevano anche gli scavi.
La normativa relativa all’accesso ai musei, monumenti storici ed aree
archeologiche dell’Italia riunificata segnò il passaggio da una concezione
illuministica, fondata su una prevalente missione di educazione popolare, ad
una diversa visione del “museo”, inteso come complesso di servizi culturali
volti a soddisfare molteplici e differenziate esigenze avvertite dal pubblico. I
primi dibattiti relativi all’introduzione di una “leggera” tassa per l’ingresso
nei siti archeologici campani risalgono al 1861, in seguito alla nota inviata dal
Cav. Settembrini, Ispettore Generale degli Studi, al Ministro dell’Istruzione
Pubblica, rammaricandosi di non riuscire a proibire la richiesta di mance che
gli impiegati rivolgevano ai visitatori, a causa dell’esiguità degli stipendi
erogati dal Governo. In effetti, mentre tra il 1861 ed il 1874, il bilancio dello
Stato aveva quasi raddoppiato le previsioni di spesa, passando da 840 a 1.540
milioni di lire, gli stanziamenti a favore della Pubblica Istruzione passarono da
poco più di 15 a 22 milioni di lire; tali somme costituirono le più modeste voci
di spesa dell’intero bilancio statale. Addirittura, le risorse destinate alle
antichità e belle arti registrarono una contrazione per recuperare, solo nel
1874, il livello del 1861; sempre nel 1874, comparve, per la prima volta, tra le
specificazioni delle uscite, la voce scavi con una cifra pari a 300.000 lire. Per
la gestione dei fondi, nell’ambito della direzione degli scavi di Pompei, le
somme ministeriali, che con molta difficoltà ed irregolarità pervenivano,
furono aggregate secondo tre diversi criteri, in modo tale da evidenziare la
tipologia di intervento realizzato, la “gestione del personale” e il “luogo”
presso cui si intendevano indirizzare gli sforzi umani e finanziari, inquadrando
tali risultati nel contesto economico italiano.
Nonostante i propositi, risale solo al 1875 la legge che autorizzò il Governo a
riscuotere una tassa di entrata nei musei, nelle gallerie e negli scavi
archeologici in misura non superiore alle due lire a persona per gli scavi, e di
lire una per gli altri istituti. Il provvedimento dispose l’iscrizione dei relativi
introiti nel bilancio della Pubblica Istruzione, affinché fossero devoluti alla
conservazione dei monumenti, all’ampliamento degli scavi, all’incremento
274
degli istituti che li percepivano. Tra l’altro, tale ritardo era sintomo di una
situazione molto più travagliata, che riproponeva, ancora una volta, la
medesima vacanza legislativa che caratterizzò gli anni della scoperta di
Pompei, con la differenza che prima l’oggetto della disciplina ruotava intorno
alle sole antichità partenopee, dopo il 1861, si trattava dell’intero patrimonio
culturale nazionale.
E’ ben chiaro, che i due strumenti della tutela, quello giuridico e quello
tecnico – amministrativo, erano tra loro inscindibili, pertanto necessitavano di
una visione unitaria, in assenza della quale non poteva ottenersi né l’effettiva
applicazione
della
dell’amministrazione
legge
né
pubblica.
l’efficiente
Di
ed
conseguenza
utile
si
funzionamento
imponeva
un
provvedimento legislativo unico che stabilisse sia i principi ed i fini, politici e
culturali, della tutela del patrimonio di arte e di storia, sia gli strumenti ed i
mezzi atti ad assicurare il raggiungimento dei suddetti fini e quindi, il rispetto
delle leggi.
La prima iniziativa legislativa in materia risale al progetto di legge del
Ministro Correnti, presentato al Senato, nel 1872, e mai approvato. Da allora
cominciò una tormentata vicenda legislativa ad opera di forze largamente
presenti in Parlamento, che si opponevano ad ogni intervento dello Stato che
potesse limitare la proprietà privata.
Purtroppo l’incapacità di pervenire ad una soluzione normativa complessiva
ha prodotto danni gravissimi al patrimonio culturale italiano, patrimonio di
rilevante interesse per il mondo intero.
Non sono mancati però, in Italia, dall’Unità ad oggi, studiosi ed uomini di
cultura che hanno lavorato sia sul piano scientifico che su quello politico
affinché si riflettesse su tutti i molteplici aspetti e problemi che concorrono
alla formulazione di proposte di legge unitarie in tale settore.
Fra questi costruttori della struttura di salvaguardia del patrimonio culturale e
della sua conservazione, ha occupato un posto di rilievo, nella seconda metà
del XIX secolo, Giuseppe Fiorelli, studioso di numismatica e di archeologia,
che si dedicò non solo alla ricerca scientifica, pubblicando numerose opere,
ma anche all’attività di scavo e di valorizzazione dell’area pompeiana. Fin da
275
giovane, egli si dedicò alla causa comune, tanto da essere nominato senatore
del regno. Per questa riconosciuta fede nella grandezza della nascente nazione
italiana, congiunta ad un’ampia cultura ed a serie capacità organizzative, fu
incaricato di creare il servizio statale per la tutela ed a suggerire proposte per
legiferare in materia, come si evince dalle approfondite relazioni al Ministro
dell’Istruzione Pubblica. A tal fine, da un lato, Fiorelli lavorò alla definizione
di una politica italiana della tutela, collocata nel quadro della cooperazione
internazionale, dall’altro lato, si dedicò all’organizzazione di uffici periferici
distribuiti nelle diverse aree del paese, fornendo linee guida in diversi settori:
dallo scavo archeologico alla catalogazione, dalla formazione dei funzionari al
restauro architettonico. Il suo contributo è stato fondamentale, frutto di una
lunga riflessione sull’annoso problema e di piena consapevolezza della realtà
peculiare della nazione.
Nonostante l’impegno profuso, la prima legge nazionale di tutela delle belle
arti fu emanata solo nel 1902, la cosiddetta “Legge Nasi”: si trattò di un
momento felice per la storia della tutela, seppur con eccessivo ritardo, anche il
settore artistico poteva finalmente vantare una normativa certa, che fissava una
serie di coordinate fondamentali relative all’esercizio dell’azione pubblica.
Dopo il doveroso rendiconto del lavoro svolto, ritengo opportuno esternare
alcune riflessioni e considerazioni. Nel corso dei tre anni di Dottorato di
Ricerca, fervidi di importanti esperienze formative per il mio percorso
professionale, ho incontrato numerosi ostacoli nell’approvvigionare le fonti
necessarie affinché fossi in grado di ricostruire il “mosaico” storico,
legislativo e finanziario degli scavi di Pompei.
Il primo problema è stato quello che Pompei non rappresenta una tematica
direttamente riconducibile alla storia finanziaria, ma è figlia dell’archeologia,
analogamente agli altri siti campani devastati dalla nota eruzione. Di
conseguenza, l’approccio ad una disciplina completamente diversa dalla mia
formazione è stato inevitabile, impegnandomi nel cercare di trovare un equo
“compromesso” tra i due campi di studi. Ciò mi ha condotto, in diverse
occasioni, a confrontarmi con studiosi di archeologia. A tal fine colgo
l’occasione per ringraziare, in modo particolare, il Dottor Salvatore Ciro
276
Nappo, Professore di Archeologia presso l’Università di Salerno e la Dott.ssa
Annamaria
Sodo,
responsabile
del
S.I.A.V.
(Sistema
Informativo
Archeologico Vesuviano) della Soprintendenza Archeologica di Pompei, che
con la loro disponibilità ed umanità sono riusciti a farmi calare nella “logica
culturale”, in modo da comprendere determinate scelte del difficile periodo
esaminato.
Il confronto con le istituzioni preposte alla gestione del sito, quali la
Soprintendenza Archeologica di Pompei e successivamente quella di Napoli, è
stato inevitabile.
Si è trattato di incontri necessari, considerando che la sfera organizzativa e
ancor più quella finanziaria sono profondamente trascurate da studi,
pubblicazioni e quant’altro presupponesse un approfondimento precedente.
Con mio sommo rammarico, non solo nella maggior parte dei casi non ho
avuto un riscontro “adeguato” alle mie domande, ma in determinate
circostanze quasi ho avvertito dell’ostruzionismo. Il riferimento è soprattutto
alla comprensione quali – quantitativa della gestione finanziaria, per la quale
ho sacrificato tanti sforzi non solo nel cercare presso quale archivio la
documentazione fosse stata depositata, ma anche, successivamente, al
rinvenimento della stessa, dato che i fasci non erano mai stati aperti né tanto
meno inventariati. L’aspetto, a mio avviso, più preoccupante soprattutto per
chi si occupa di ricerca, è la constatazione che lo studio di un patrimonio così
immenso, ricco, sopravvissuto alle calamità naturali nel corso dei secoli e
soprattutto espressione dell’immagine dell’Italia nel mondo, offra opportunità
evolutive solo per contesti specifici, mentre per tematiche più “innovative” ed
“originali”, purtroppo il risultato è la dispersione e confusione delle fonti e la
scarsa collaborazione interdisciplinare.
Ringrazio invece per la comprensione, professionalità e attenzione dedicatami
al personale dell’Archivio Centrale di Stato a Roma e l’Archivio di Stato di
Napoli, le cui “buste” mi hanno permesso la ricognizione istituzionale circa le
vicende pompeiane, e soprattutto mi hanno restituito fiducia ed entusiasmo nel
proseguire le mie ricerche, dato che finalmente riuscivo a trovare i primi
contenuti non di natura archeologica o architettonica.
277
Un aspetto interessante emerso dalle carte, per certi versi recente, riguarda le
continue lamentele dei direttori degli scavi nel richiedere denaro al Ministro
dell’Istruzione Pubblica, dato che le “anticipazioni “ erogate in favore delle
province napoletane si rivelavano insufficienti rispetto agli interventi da
eseguire. Tali deficienze hanno impedito all’Ufficio tecnico degli scavi di
“rendicontare”, in modo organico e puntuale, le diverse voci di uscita, poiché
la preoccupazione primaria era di soddisfare esigenze di “cassa”, legate alla
conservazione di un affresco, il ripristino di un muro, piuttosto che investire
risorse per migliorare l’organizzazione interna analoga a quella societaria.
Anche una ricostruzione dei costi degli operai è estremamente complicata,
dato che per minimizzare le spese, spesso, erano impiegati galeotti oppure
mendicanti. Occorre sottolineare che il primo bilancio di Pompei risale al
1989, e l’aspetto più suggestivo è la stessa impostazione metodologica
riscontrata
nelle “Misure dei lavori” dell’Archivio Storico della
Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Inoltre,
anche le prime analisi relative alla possibilità di una gestione “manageriale”
delle organizzazioni che operano nel comparto culturale, sono recentissime e
risalgono al 1997 realizzate da alcuni docenti di Economia Aziendale della
Facoltà di Bologna e aventi ad oggetto proprio il rilancio di Pompei verso
forme moderne di accountability.
Un deplorevole evento che offre nuove prospettive di riflessione è la triste e
nota vicenda di cui è stata protagonista Pompei il 6 novembre 2010: il crollo
della Domus dei Gladiatori, edificio risalente agli ultimi anni di vita della città
romana prima che l’eruzione la seppellisse, collocata in via dell’Abbondanza,
la strada principale maggiormente percorsa dai turisti in direzione Anfiteatro.
La casa, secondo gli studiosi, doveva fungere da sede di una associazione
militare e deposito delle armature.
278
La domus era sopravvissuta all’eruzione del Vesuvio, ma nulla ha potuto
contro l’incuria, la pioggia, la manutenzione carente e, forse, anche sbagliata.
Il tragico crollo ha fatto il giro del mondo, essendo Pompei un patrimonio non
replicabile, da preservare per le generazioni future. Lo stesso Capo dello Stato,
Giorgio Napolitano, ha definito la vicenda una “vergogna per l’Italia”.
Ancora una volta le croniche ristrettezze finanziarie per la valorizzazione del
patrimonio storico, artistico e architettonico hanno inferto ferite mortali
all’immagine dell’Italia e al fatturato turistico campano. Infatti gli scavi di
Pompei si sono confermati la meta preferita da turisti italiani e stranieri, con
un incremento del 66,71 per cento di presenze durante la festività di
Ognissanti 2010. Probabilmente la questione della tutela e del finanziamento
di un sito così imponente non può essere affrontata solo dal Governo italiano,
ma necessita del coordinato e profuso contributo di istituzioni internazionali,
trattandosi di un patrimonio di cui beneficia l’umanità.
Emerge una preoccupante contraddizione tra gli introiti connessi all’
incremento turistico e il degrado di cui sono protagonisti gli scavi negli ultimi
279
mesi del 2010, di pubblico dominio; a tal fine viene da chiedersi come ciò sia
potuto accadere.
Certamente le ragioni del degrado sono molteplici: innanzitutto va rilevata la
problematicità in sé della conservazione di un sito archeologico esposto
all’aria da secoli, con un inevitabile e irreversibile processo di decadimento.
Non si tratta di un piccolo monumento, bensì di un intera città, caratterizzata
da un tessuto urbano assai fragile, diversificato in ragione dell’epoca e delle
metodologie adottate per lo scavo quanto per il restauro; a ciò si aggiunga la
necessità di affrontare problemi conservativi così vasti sotto la pressione del
pubblico dei visitatori. Nonostante tutto, l’antica città di Pompei sta
affrontando le conseguenze del disastro più grave: l’azione dell’uomo.
È infatti l’uomo che è intervenuto acuendo i danni: gli errori nella tecnica di
restauro degli anni ’50, con uso massiccio di materiali oggi riconosciuti
inadatti; la scarsità dei finanziamenti; gli sprechi di risorse connessi alla logica
“clientelare” su cui ancora indaga la magistratura; le pressioni sindacali in
una zona depressa e in cui lo spettro della disoccupazione assume livelli
elevati.
Tutto ciò è vero, ma è innegabile che intervenga un altro fattore a rendere gli
effetti di questi eventi e pressioni ancora più dirompenti: le modalità gestionali
con cui queste emergenze sono affrontate, che si traduce storicamente nella
carenza di una visione organica e nell’incapacità ad organizzare le risorse in
modo efficace. Ho impiegato l’espressione “storicamente” proprio per far
risaltare le analogie emerse tra gli avvenimenti recenti e il quadro ricostruito
nel XIX secolo, da cui è emerso con forza il problema della scarsa attenzione
rivolta a Pompei e di un suo recupero al punto tale da compromettere i
meccanismi di accumulazione del sapere.
Mai come in questa circostanza assume significato profondo la frase “la storia
si ripete”.
Concludo riportando le parole espresse dal segretario generale del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Roberto Cecchi, in occasione del crollo della
Domus, invocando la necessità di risorse e ad una più attenta pianificazione
delle stesse:
280
“Questo ennesimo caso di dissesto ripropone il tema della tutela del
patrimonio culturale e quindi della necessità di disporre di risorse adeguate
e di provvedere a quella manutenzione ordinaria che non facciamo più da
almeno mezzo secolo. La cura di un patrimonio delle dimensioni di quello di
Pompei e di quello nazionale non lo si può affidare ad interventi episodici ed
eclatanti” .
Un ringraziamento affettuoso e speciale è per il carissimo Prof. Francesco Balletta, che in
questi tre anni mi ha insegnato molto non solo dal punto di vista lavorativo, ma
soprattutto umano, per la forza ed il coraggio nel non arrendersi mai e combattere sempre
per ciò in cui crede.
281
FONTI ARCHIVISTICHE
1. Archivio di Stato di Napoli
a) Bollettino delle leggi del Regno di Napoli, monumenti e scavi di antichità,
Indice generale 4, (1861 – 1891):
R. D. che istituisce una direzione centrale degli scavi e musei del regno; R. D.
che approva il regolamento per gli scavi di antichità; R. D. che modifica il
regolamento per servizio degli scavi di antichità; R. D. che approva il
regolamento per i lavori in economia per i restauri sui monumenti nazionali e
per gli scavi di antichità; R. D. che approva il ruolo degli impiegati della
direzione generale dei musei e degli scavi di antichità del regno; R. D. che
approva il ruolo degli impiegati del Museo di Napoli e dell’ufficio tecnico
degli scavi di antichità nelle province meridionali; R. D. concernente
l’organico delle gallerie, dei musei e degli scavi; R. D. che istituisce presso il
Ministero della Pubblica Istruzione un Consiglio Centrale di Archeologia e
Belle Arti; R. D., che sopprime la Direzione generale delle antichità e belle
arti e ne ripartisce i servizi in due divisioni del Ministero dell’Istruzione
Pubblica e ne approva il regolamento; Calendario generale del Regno d’Italia,
1881 – 1887.
b) Ministero Affari Interni, I inventario:
busta 1007, inc. 7, lettera di Carolina Bonaparte al Conte Zurlo, Napoli 1812;
busta 1007/3, richieste di compensi dal 1809 al 1811; busta 1007/5, compensi
ai militari del Genio; busta 1007/17, delibera Corte dei Conti, 1818; busta
1007/19, cessione terreni, 1818; busta 983, pagamenti agli operai degli scavi
di Pompei, anni 1806 – 1811; busta 984, pratiche interne agli scavi di Pompei,
1807; busta 985, compensi ai proprietari di terreni espropriati a Pompei per
l’esecuzione degli scavi, anni 1808 – 1813; busta 1002, somministrazione di
olio, carbone e altri generi ai veterani addetti al corpo di guardie degli scavi
di Pompei, 1825 – 1837, notamento dei lavori eseguiti in Pompei, relativi
282
pagamenti e rapporti sul procedere degli scavi, 1836 – 1837; busta 1005,
spese di sterramento, trasporto, fabbriche e restauri in Pompei, anni 1820 –
1848; busta 1014, spese e pratiche relative agli scavi, anni 1766 – 1836; busta
437/11, parere dell’avvocato del Real Museo Borbonico e restituzione dei
terreni di Pompei, anni 1852 – 1867.
c) Ministero Affari Interni, II inventario:
busta 2271/13, comunicazione di Arditi al ministro Zurlo; busta 2273, gestione
amministrativa, permuta dei terreni e pagamenti; busta 2072/13, cessione
terreni dell’Aquila;
d) Casa Reale Antica:
fascio 1539/27, Giuseppe Canart, Portici 2 ottobre 1751.
e) Ministero della Pubblica Istruzione del Regno delle Due Sicilie:
busta 749/16, decreti dittatoriali sulla riapertura degli scavi di Pompei,
Napoli 15 e 16 settembre 1860; busta 750 I 3, Soprintendenza generale degli
Scavi. Decreti nomina soprastanti e custodi, anni 1861 – 1863; busta 751 I 21,
Soprintendenza generale degli scavi. Pompei, pagamenti, anni 1860 – 1861;
busta 751 I 27, Pompei, certificati di pagamento, anni 1859 – 1863; busta 751
II 1, Pompei, contratto di appalto dei lavori di scavo, anni 1858 – 1861; busta
751 II 3, Pompei, misura dei lavori, da giugno a tutto dicembre 1862; busta
751 II 6, Pompei, misura dei lavori per il primo semestre del 1863; busta 751
II 7, Pompei, misure dei lavori per il secondo semestre 1863; busta 752 I 4,
Pagamenti all’imprenditore Carlo Riccio; busta 753/1.2 28 e 29, Contabilità,
anni 1860 – 1862; busta 753 II 46, Pompei, pagamento fondo, 1861; busta 753
II, Soprintendenza generale scavi, regi decreti, anni 1848 – 1864; busta 755 I
2 21, Pompei, pagamenti di spese diverse, anni 1861 – 1862.
2. Società Napoletana di Storia Patria
Fondo Cuomo, busta 2.4.19 e 2.4.21, progetto di legge sul Real Museo
Borbonico e sugli scavi ad opera del ministro Ruffo, 1828.
283
3. Archivio fotografico Soprintendenza Archeologica di Pompei
P337, Piante topografiche di Ercolano e Pompei incise da Giuseppe Guerra
(1790 – 1800); C663, Planimetria di Pompei di Antonio Bonucci con divisioni
a diversi proprietari; C664, Antiquarium, sala di ingresso, 1914; C665,
Antiquarium, sala centrale, 1914; C666, Antiquarium, sala di fondo, 1914;
P389, Pianta di Pompei con le due stazioni ferroviarie e i relativi ingressi;
4. Archivio Centrale di Stato
a) Ministero Pubblica Istruzione, Archivio della Direzione Generale della
Antichità e Belle Arti (1860 – 1890), I versamento:
dalla busta 29 alla busta 35, Napoli. Conti e bilanci dell’Ufficio degli Scavi,
anni 1885 – 1891; dalla busta 39 alla busta 42, Pompei, scavi e scoperte, anni
1869 – 1885; dalla busta 44 alla busta 51, Giornale degli scavi di Pompei,
anni dal 1861 al 1867, dal 1872 al 1877 al 1887; dal 1889 al 1893; busta 56, L.
Settembrini, Ispettore generale degli studi, scrive al Ministro dell’Istruzione
Pubblica, 21 agosto 1861; buste 57 e 58, Pompei, tassa d’ingresso,
corrispondenze tra il Direttore del Museo Nazionale e degli Scavi di
Antichità, Principe di San Giorgio, al Ministro della Pubblica Istruzione,
1861; busta 58, istituzione tassa d’ingresso, 1875; busta 57, Pompei tassa
d’entrata, relazione di Antonio Sogliano sui risultati dei restauri, 1902; busta
266, A. Sogliano, relazioni al Ministro della Pubblica Istruzione degli scavi
fatti dal dicembre 1902 a tutto marzo 1905 e dal 1° giugno 1908 a tutto luglio
1908; busta 67, Fiorelli scrive al Ministro della Pubblica Istruzione, 11
ottobre 1864; Ibidem, gli scavi di Pompei dal 1861 al 1872, relazione di
Fiorelli al Ministro dell’Istruzione Pubblica, 1873; busta 72, G. Fiorelli,
Relazioni del Direttore generale antichità e belle arti a S. E. il Ministro
dell’Istruzione Pubblica sull’ordinamento del servizio archeologico, Roma
1876, 1883, 1885; busta 167 e 168, Scuola di Archeologia; busta 251, Calchi
in gesso, lettera di G. Fiorelli al Ministro della Pubblica Istruzione, F. De
Sanctis, Pompei 3 febbraio 1862.
284
b) Ministero Pubblica Istruzione, Archivio della Direzione Generale della
Antichità e Belle Arti (1860 – 1890), II versamento – Personale 1860/1880,
parte prima:
busta 489; busta 187, fasc. 28, s. fasc. 1; busta 586, fasc. 997, s. fasc. 1, 2, 3;
busta 441, fasc. 170; busta 4 e 5; busta 83, fasc. 110, Vicende dell’Ufficio
Tecnico di Roma; busta 3, fasc. 4; busta 714; buste 168 e 169, fasc. 345.
d) Ministero Pubblica Istruzione, Archivio della Direzione Generale della
Antichità e Belle Arti (1860 – 1890), III versamento – Personale 1860/1880,
parte seconda:
buste 41 e 42, Scavi di Pompei, 1886 – 1890; buste 121 e 272, Napoli. Conti e
bilanci, 1908 – 1924; busta 490, fasc. 540, s. fasc. 3; busta 490, fasc. 540, s.
fasc. 4; busta 430, fasc. 82; busta 117, fasc. 3; busta 458, fasc. 1.
c) Presidenza del Consiglio dei Ministri:
buste 3680, 11184, 1826, fascicoli 11, 14, 5, s. fasc. 2, 2, 2, Pompei Scavi,
anni 1931 – 33; busta 2030, fasc. 7, s. fasc. 1.2., Pompei, autostrada Napoli –
Pompei, 1922; busta 2444, fasc. 1, s. fasc. 1. 1., Scavi di Pompei, operai
invocano pagamenti, 1924.
4. Archivio Storico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici
di Napoli e Pompei
a) Per quanto riguarda il turismo archeologico durante il XIX secolo, ho
visionato il faldone XIII B4 fascicolo 1, “ Visite in Pompei ed Ercolano di
sovrani e distinti personaggi (1808 – 1838)” :
dal 1808 al 1815 sono riportate le corrispondenze tra il Cav. Arditi, Direttore
del Museo Reale degli Scavi ed il Ministro degli Affari Interni circa le visite a
Pompei della Regina Carolina Bonaparte; visita a Pompei del Principe
Leopoldo, 6 novembre 1815; visita a Pompei del Real Collegio Militare, 1817;
visita a Pompei del Principe e della Principessa di Salerno, 31 ottobre 1818;
visita a Pompei dell’Arciduca Palatino, 28 gennaio 1819; visita a Pompei
dell’Arciduca Michele di Rupia, 14 marzo 1819; visita a Pompei del Duca e
della Duchessa di Calabria, 27 aprile 1819; visita a Pompei del Principe e
della Principessa di Salerno, 13 maggio 1819; visita a Pompei del Principe e
285
della Principessa di Danimarca, 19 marzo 1820; visita a Pompei della
Duchessa di Lucca e del Duca di Calabria, 29 aprile 1822; visita a Pompei
dell’inglese signor Colburn, 30 ottobre 1822; visita a Pompei del Duca di
Calabria e famiglia, 17 maggio 1823; visita a Pompei del Duca Devonshire, 5
novembre 1823; visita a Pompei del Cavaliere Hamilton, 6 novembre 1824;
visita a Pompei della Principessa di Salerno con il suo maggiordomo, 10
novembre 1824; visita a Pompei del Duca di Calabria e Principe e
Principessa di Salerno, 4 agosto 1826; visita a Pompei della Principessa
Maria Cristina, 13 settembre 1826; visita a Pompei della Gran Duchessa
Elena di Austria, 3 giugno 1828; visita a Pompei di Monsignor Belisario
Aristalvi, Tesoriere Generale di Sua Santità, 28 febbraio 1828; visita a Pompei
del Cav. Giuseppe Ruffo, Direttore del Real Ministero di Stato, 22 aprile 1828;
visita a Pompei del Principe Federico Augusto di Sassonia, 5 maggio 1828 e
ad Ercolano, 11 maggio 1828; visita a Pompei del Principe di Prussia, 26
settembre 1828; visita a Pompei ed Ercolano del Conte di Stackelberg, ottobre
1828; visita a Pompei della Gran Duchessa Elena di Russia, 20 ottobre 1828,
ed a Ercolano, 9 novembre 1828; visita a Ercolano delle Principesse M.
Antonietta e M. Amalia, 16 novembre 1828; visita a Pompei della Gran
Duchessa Elena di Russia, 27 gennaio 1829 e a Ercolano, 10 febbraio 1829;
visita a Pompei del Re di Baviera, 27 febbraio 1829 e a Ercolano, 29 febbraio
1829; visita a Pompei della Gran Duchessa Elena di Russia, 9 marzo 1829;
visita a Ercolano dei Principi Alessandro e Federico di Wurtenberg, 5 marzo
1830; visita a Pompei del Conte di Porenzaley, 20 aprile 1830; visita a Pompei
dei Reali di Baviera, 28 febbraio 1830; visita a Pompei di Giuseppe Ruffo,
direttore della Segreteria di Casa Reale; visita a Pompei del Principe Carlo, 16
maggio 1831; visita a Ercolano del Principe di Capua e del Conte di Lecce, 28
giugno 1831; visita a Pompei della Regina di Sardegna, 4 ottobre 1831; visita
a Pompei della Duchessa di Berry, 9 dicembre 1831; visita a Pompei del
Principe Massimiliano Giuseppe di Baviera, 29 marzo 1832; visita a Pompei
del Gran Duca di Toscana Leopoldo II, 4 giugno 1833; visita a Pompei della
Gran Duchessa di Baden, 27 giugno 1833; visita a Pompei e Ercolano
dell’ambasciatore tunisino Selim Agà, luglio 1833; visita a Pompei della
286
Contessa Lavall, 20 agosto 1833; visita a Pompei del Principe di Capua, 20
dicembre 1833; visita a Pompei del Re di Wuttemberg, 17 luglio 1834; visita a
Pompei del Principe di Salerno, 3 agosto 1834; visita a Pompei della
Principessa Galitria ed il Generale Kaissaroff, 21 novembre 1834; visita a
Pompei dei Conte Gustavo, Consigliere del Re di Svezia, 24 novembre 1834;
visita a Pompei del Principe di Weimar, 1° aprile 1835; visita a Pompei del
Principe di Capua, 2 aprile 1835; visita a Pompei del Ministro russo, 30
giugno 1835; visita a Pompei del Principe di Salerno, 29 luglio 1835; visita a
Pompei della Principessa di Danimarca, 27 luglio 1836; visita a Pompei del
Conte di Siracusa e del Conte di Lecce, 14 ottobre 1836; visita a Pompei
dell’Imperatore di Russia, 14 luglio 1837; visita a Pompei dell’Arciduca
Federico di Austria, del Principe e della Principessa di Salerno, 22 agosto
1837; visita a Pompei del Marchese Pallavicini, 24 ottobre 1837; visita a
Pompei del Principe di Lieven, 20 gennaio 1838; visita a Pompei della
Baronessa Werner e la Contessa Wingfield, 13 marzo 1838; visita a Pompei
della Baronessa Werner e la Contessa Wingfield, 13 marzo 1838; visita a
Pompei del Conte Stocklates e del Barone Boissere, 13 maggio 1838; visita a
Pompei del Ministro degli Affari Interni Santangelo e famiglia, 23 maggio
1838; visita a Pompei del Cav. Schlich, 9 giugno 1838; visita a Pompei del
Duca Massimiliano di Baviera, 25 luglio 1838; visita a Pompei del Re di
Baviera, 28 aprile 1838; visita a Pompei della Regina di Inghilterra, 12
ottobre 1838; visita a Pompei di Lord e Lady Jersey, 26 novembre 1838.
b) Faldone XIII B6:
fascicolo 1, visita a Pompei del Ministro dei Lavori pubblici, 1883; fasc. 2,
visita a Pompei di Sua Maestà la Regina d’Italia e Portogallo, 1883; fasc. 3,
visita a Pompei dei Principi di Prussia e dei membri della Conferenza
Coloniale, 1885; fasc. 4, visita a Pompei dell’On. Ungano e del Reggimento di
Cavalleria di Firenze, 1886; fasc. 5, visita a Pompei del Ministro di Grazia e
Giustizia e del Presidente del Consiglio dei Ministri, 1887, 1888; fasc. 6,
visita a Pompei del Re d’Italia e l’Imperatore di Germania, 1888; fasc. 7,
visita a Pompei della Gran Duchessa Caterina di Russia, 22 ottobre 1888,
visita a Pompei del Re di Svezia Oscar II, 27 aprile 1888, visita a Pompei di
287
Sir Henry Layard, 13 febbraio 1888; fasc. 8, visita a Pompei del Generale
Conte Yamagata, Ministro dell’Interno del Giappone, 8 marzo 1889, visita a
Pompei del Ministro dei Lavori Pubblici, 23 settembre 1889, visita a Pompei
della Granduchessa di Russia, 4 ottobre 1889, visita a Pompei del
Sottosegretario di Stato Onorevole Fortis, 18 novembre 1889, visita a Pompei
del Principe di Danimarca, 8 dicembre 1889, visita a Pompei dell’Imperatrice
Federica di Austria, 9 dicembre 1889; fasc. 9, visita a Pompei del Marchese
De Maestri, 21 giugno 1890, visita a Pompei del Duca Guardia Lombarda, 4
agosto 1890, visita a Pompei del Prefetto di Castellammare di Stabia, 21
agosto, visita a Pompei di Sir Evelyn Baring, Ministro britannico al Cairo, e il
generale Sir Francio Grenfell Sirdar dell’esercito egiziano, 23 settembre
1890, visita a Pompei delle Regina Elisabetta d’Austria, 17 novembre 1890;
fasc. 10, visita a Pompei del Comandante e degli alunni della Scuola Marina
Spagnola, marzo 1890, visita a Pompei dell’Imperatrice d’Austria, 23 aprile
1891, visita a Pompei dei componenti il Congresso della Pace, 9 novembre
1891; fasc. 11, visita a Pompei del Commendatore Berti, 16 aprile 1892, visita
a Pompei della Principessa di Svezia e di Norvegia, 19 maggio 1892, visita a
Pompei del Commendatore Sangiorgi, Questore di Napoli, 13 giugno 1892;
fasc. 12, visita a Pompei della Principessa di Galles, 1883; fasc. 13, visita a
Pompei del Re e della Regina di Germania, 1893; fasc. 14, visita a Pompei del
Duca d’Isola, anno 1893; fasc. 15, visita a Pompei della Duchessa di
Mecklemburg, 1894;
fasc. 16, visita a
Pompei dell’Imperatore e
dell’Imperatrice di Germania, 1896; fasc. 17, visita a Pompei di un impiegato
della Prefettura, di Lord Crawfort, Lady Ashburton e dei sovrani d’Italia,
1897; fasc. 18, visita a Pompei del Signor Drummont e famiglia,
dell’Ambasciatore degli Stati Uniti d’America, Sir Draper, 1898; fasc. 19,
visita a Pompei del Ministro della Pubblica Istruzione e del Gran Duca di
Russia, 1899; fasc. 21, visita a Pompei del Signor Hue de Gorge, 1904.
c) per quanto riguarda la ricostruzione della gestione finanziaria, ho
consultato numerosi fondi non inventariati, denominati “Misure dei lavori”:
XVII B10, anno 1861; XVII B11, anni 1861/1862; XVII B7, anni 1864/1865;
XVII B8 e XVII B9, anni 1866/1867; XVII B6, anni 1875/1878/1879; XVII B4,
288
anni 1880/1881; XVII B1, anno 1883; XVII B3, anno 1884; XVII A8, anni
1884/1885; XVII A9, anni 1885/1886; XVII A6, anni 1886/1887/1888; XVII
A7, anni 1889/1890; XVI A5, anni 1891/1892/1893; XVIII A2 (1), anni
1864/1866; XVII A2 (2), anni 1866/1867; in XVIII B6, anni dal 1900 al 1910 e
XVIII B1, anni dal 1906 al 1910, non riportano più le “Misure dei lavori”,
bensì singoli interventi di spesa casuali e privi di continuità.
289
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ELENCO DELLE TAVOLE
Tav. 1. Classificazione delle monete della Regio I Insula 10 di Pompei
Tav. 2. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di
Pompei (1861 – 1867)
Tav. 3. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di
Pompei (1878 – 1886)
Tav. 4. Tipologia di intervento e consistenza della spesa per gli scavi di
Pompei (1887 – 1893)
Tav. 5. Riepilogo spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei (1861 –
1893)
Tav. 6. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle
ritenute e al lordo degli stipendi (1861 – 1879)
Tav. 7. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle
ritenute e al lordo degli stipendi (1880 – 1884)
Tav. 8. Spese complessive sostenute per gli scavi di Pompei al netto delle
ritenute e al lordo degli stipendi (1885 – 1893)
Tav. 9. Ripartizione delle spese complessive effettuate a Pompei per Regioni
(1861 – 1893)
298
ELENCO DEI GRAFICI
Graf. 1. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1861 – 1867)
Graf. 2. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1878 – 1885)
Graf. 3. Spesa complessiva annuale per gli scavi di Pompei (1886 – 1893)
Graf. 4. Andamento bimestrale delle spese di intervento a Pompei nel 1889
Graf. 5. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto
delle ritenute e al lordo degli stipendi (1861 – 1867)
Graf. 6. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto
delle ritenute e al lordo degli stipendi (1878 – 1884)
Graf. 7. Spesa complessiva annua sostenuta per gli scavi di Pompei al netto
delle ritenute e al lordo degli stipendi (1885 – 1893)
Graf. 8. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1861
Graf. 9. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1862
Graf. 10. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1863
Graf. 11. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1864
Graf. 12. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1865
Graf. 13. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1866
Graf. 14. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1867
Graf. 15. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1878
Graf. 16. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1879
Graf. 17. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1880
Graf. 18. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1881
Graf. 19. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1883
Graf. 20. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1884
Graf. 21. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1885
Graf. 22. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1886
Graf. 23. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1887
Graf. 24. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1888
Graf. 25. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1889
Graf. 26. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1890
Graf. 27. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1891
299
Graf. 28. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1892
Graf. 29. Spese per lavori effettuati a Pompei ripartite per Regioni, anno 1893
300