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Fedeltà altre e appartenenze conflittuali.
Una discussione sulle scelte di campo nel XX secolo
Firenze, 27 maggio 2005
STATO E NAZIONE NELLA FRANCIA DI VICHY:
IDEE ED ESPERIENZE
tra Collaborationisme, Révolution Nationale et Résistance
Monica Caiazzo
Nel giugno 1940 la Francia vive uno dei momenti più drammatici della sua storia: il crollo
di un sistema che si era espresso e sviluppato nella più lunga delle repubbliche ed una
nuova collocazione nella compagine internazionale, accanto alle dittature fasciste.
Quando, già nei primi mesi, il governo Pétain mostrerà i veri tratti e le linee direttive su cui
costruire il nuovo Stato e la nuova “nazione”, è possibile rilevare come, dopo aver subito
l’umiliazione dell’armistizio e dell’occupazione, differenti scelte di campo vengano
espresse dalle varie componenti sociali e politiche francesi, impegnate ad elaborare
diversi progetti finalizzati a generare il necessario riscatto nazionale.
Una cospicua fetta della classe politica francese sceglierà di appoggiare il Maresciallo,
accogliendo come unica e opportuna soluzione alle problematiche di natura politica
nazionale e internazionale, quella di concentrare risorse e strumenti, avvalendosi del
fondamentale contributo di tecnici ed esperti, per ridisegnare una nuova Francia,
indipendentemente dal nuovo alleato. Stigmatizzare con vigore il passato regime e tutti
coloro che potevano essere indicati come responsabili di un depauperamento morale e
civile nazionale, sarebbe stato il primo passo per realizzare un nuovo sistema politico e
culturale, fondato sugli essenziali valori di Patrie, Famille, Travail et Dieu.
Mentre i vichysti Pétainisti accettano il percorso di collaborazione con la Germania, ma
sostengono l’affermazione dell’individualità storica e politica della nazione francese ed
espongono un progetto che si faccia veicolo della memoria nazionale, numerose
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personalità politiche vengono definite collaborationistes, poiché reclamano una vera e
propria alleanza con la Germania, accogliendo pienamente non solo le scelte di politica
internazionale, considerate obbligate, ma anche sostenendo spesso una concreta
adesione ai valori professati dalla propaganda hitleriana. La denuncia dei notabili, del
clericalismo e della società borghese, deve conciliarsi con una riformata e svecchiata idea
d’Europa (in cui Francia e Germania dovranno essere protagoniste), di cui si fanno
rappresentanti voci autorevoli, soprattutto provenienti dalla cosiddetta ultradroite, come
l’intellettuale Drieu La Rochelle, ma provenienti in parte anche dal mondo sindacalista o
comunista, come René Belin o il vecchio leader sindacale e ora fervente antibolscevico
Georges Dumoulin.
Alcune significative figure nella prassi politica del regime mi aiuteranno ad illustrare queste
differenti visioni delle scelte politiche sostenute.
Maxime Weigand rappresenta un’importante fetta della dirigenza pétainista, quella
tradizionalista, espressione di una radicale opposizione alla modernità, considerata fonte
di instabilità e di inquinamento dell’originale linfa nazionale. Proprio i tradizionalisti
sostenevano la necessità di controllo del progresso e delle potenziali conseguenze di
questo sull’integrità sociale e sull’immagine identitaria nazionale, con lo scopo invece di
riportare economia e società ad un antico e sano equilibrio naturale. Sotto quest’ala
trovarono riparo gruppi sociali importanti, come numerosi cattolici ed ufficiali, che nel
recupero di un ordine gerarchico ed autoritario individuavano la più opportuna via d’uscita.
Il generale Weygand, nel 1937 nel Rassemblement national pour la réconstruction de la
France, poi Ministro della Difesa fino al 6 settembre 1940 e poi proconsole di Vichy
nell’Africa francese, è sicuramente un buon esempio di come questa forma di
appartenenza ad un gruppo di conservatori e tradizionalisti spinga in una direzione di
scelte di campo ben lontane da quelle dei cosiddetti collaborazionisti.
Addirittura accusato nel 1941 di aver compromesso i protocolli di Parigi, il promotore della
Légion Française des Combattents, come il Maresciallo Pétain ed i suoi sostenitori più
vicini, si adoperò per affermare una politica nazionale, che non si mostrasse cieca
subordinazione ai dettati di una nazione “altra”, tradizionale nemica. Se infatti l’armistizio si
era rivelato per il capitano un’inevitabile decisione per il neonato governo, malgrado le
conseguenze da esso derivate (invasione di un soggetto straniero sul territorio nazionale
ed affermazione del suo potere su settori importanti della società e dell’economia
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francesi), questo non significava un’accettazione dello status quo a tempo indeterminato.
La sua volontà di salvaguardare l’integrità dell’impero, a discapito dell’intervento invasivo
non solo della componente inglese e gollista, ma anche tedesca, e la necessità sostenuta
con forza di costruire uno stato nuovo, capace di mostrare la sua forza autonoma, lo
indussero a considerare la situazione attuale come punto di partenza per una ricostruzione
dello stato e della nazione, legati al passato della grandeur francese e capaci di
richiamarsi ai suoi miti fondativi: la Francia di Napoleone, di Giovanna d’Arco, di Luigi XIV.
L’antico prestigio nazionale diveniva così mattone fondante di un futuro in cui le relazioni
franco-tedesche avrebbero presto raggiunto un nuovo e più equo punto di equilibrio.
Dopo la perdita della Siria, le sue proteste rivolte al governo per un eccessiva
collaborazione con la Germania furono proprio la causa delle sue dimissioni provocate
dalle autorità tedesche nel novembre 1941.
Dall’altro lato Pierre Laval, accusato da Weigand di essere un fervente antibritannico,
illustra invece la diversa scelta di coloro che nella sconfitta rividero una possibilità di
ricollocazione del paese in un contesto politico internazionale ben distinto dal precedente
schema geopolitico europeo, che a seguito di una crisi economica di portata mondiale
aveva visto sfaldarsi antichi collanti e mostrato i suoi anelli più deboli.
Fin dai suoi primi mesi al governo, in qualità di vice presidente del Consiglio, Laval si
concentrò sulle relazioni diplomatiche e fu proprio lui l’interlocutore preferenziale di Otto
Abetz nella Francia occupata. Il suo anticlericalismo ed il suo disprezzo per i circoli
tradizionalisti cominciarono presto a trovare una linea di dialogo con il radicalismo nazista.
Abbattendo gli antichi confini indotti dalla revanche, un fervente spirito antibritannico ed
antigaullista avrebbe definitivamente sostituito quello antitedesco, garantendo maggiori
vantaggi ad entrambe le parti in gioco.
SIcuro di un’imminente vittoria tedesca, Pierre Laval non esitò a moltiplicare le proprie
relazioni e concessioni alla Germania per instaurare un rapporto di vera e propria
collaborazione sotto ogni versante. Il rafforzamento militare francese in Africa in luce
antinglese ed antigaullista avrebbe dovuto corrispondere ad una serie di concessioni
tedesche (come lo spostamento del governo a Versailles), simboliche di un effettivo
rafforzamento delle alleanze.
Mentre il Maresciallo privilegiava dunque la sua politica di realizzazione della Rivoluzione
Nazionale, Laval, caparbio e popolano uomo pragmatico quale aveva dimostrato d’essere
già dalla sua vecchia militanza alla SFIO e poi all’apice della carriera politica, negli anni
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’30, preferì perseguire la strada del collegamento e delle contrattazioni con la Germania.
Non che Pétain sottovalutasse la necessità di trattare con le autorità tedesche, né Laval si
disinteressò alla politica interna francese, come testimoniò il suo acceso interesse per la
riforma interna dello stato, a partire dal testo costituzionale (compito cui si dedicò
immediatamente dopo l’armistizio). Ma il Maresciallo si accostò ai temi legati alla politica
estera con un’attenzione molto più profonda alle complessive dinamiche internazionali ed
interne: non guastare completamente i rapporti con l’interlocutore d’oltre atlantico (in
particolare nei primi mesi del regime) e vagliare con maggior scrupolosità l’eccessiva
portata delle concessioni ai tedeschi (come l’ accettazione – cui Laval arrivò dopo lunghe
trattative - del veto sul trasferimento del governo a Versailles).
Ad evidenziare questa importante differenza di impostazione politica è proprio il 13
dicembre: con la destituzione e l’arresto di Laval il punto di cesura tra i due diversi progetti
politici si manifesta in tutta la sua portata.
I successivi esperimenti Flandin e Darlan non soddisfecero tuttavia né Pétain né
l’occupante: tali furono le conseguenti pressioni tedesche da portare alla costituzione del
nuovo governo Laval dell’aprile del 1942, che testimoniò come il sogno del Maresciallo di
poter dar vita ad un governo tradizionalista e cattolico perse completamente consistenza.
Un particolare ambito politico: l’antisemitismo di stato, e le due personalità di maggior
rilievo in questo specifico campo, va a consolidare e suffragare questi contenuti,
illustrando in maniera ancora più chiara le distinte prospettive e scelte avanzate dalle
diverse “categorie” citate: vichysti-pétainisti e collaborazionisti.
Xavier Vallat, brillante combattente decorato dalla Legione d’Onore dopo la guerra 191418, convinto cattolico, ex-militante dell’Action Française e creatore della Légion Française
des Combattents, antitedesco fin dai tempi di Versailles, nel marzo 1940 fu accolto in
veste di responsabile al Commissariat Général aux Questions Juives, neonata istituzione
antisemita.
Malgrado la sua ostilità nei confronti della Germania, espressa già in precedenza con il
sostegno agli accordi di Versailles del 1919, le sue doti organizzative oltrechè il suo
ferreo credo antisemita sembrarono in un primo tempo giustificare la sua presenza nella
compagine istituzionale francese, in un ruolo giudicato determinante dallo stesso Servizio
di Sicurezza tedesco.
Nonostante il fervore antisemita che caratterizzò tutto il suo operato, dall’approvazione dei
due statuti antiebraici, alla realizzazione del processo d’arianizzazione, il neocommissario
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non dimenticò mai di professare la sua avversione ad espressioni brutali e disordinate di
razzismo “Blut und baden”, in quanto slegato al ruolo storico della Francia, alla sua
missione civilizzatrice. Così giustificherà Xavier Vallat lo statuto del 1941: “Non c’è
imitazione della legislazione di un regime totalitario qualunque: c’è fedeltà ad una
tradizione antiebraica di Stato che può trovare precedenti tanto nel passato storico della
nostra stessa nazione quanto in quello della cristianità. Questa legislazione fu, se si può
dire, spontanea, autoctona”.
E quando si accentuarono le pressioni tedesche per la creazione di una nuova
organizzazione controllata, questa volta, dai tedeschi: l’Union Générale des Israélites de
France, i punti di scontro tra pétainisti e nazisti arrivarono ad una posizione di
incompatibilità evidente. Soffermarsi brevemente sulla storia di questa organizzazione
consentirà di far luce su questi elementi di collisione.
Meno estenuante sarebbe stato, secondo i rappresentanti del potere tedesco, realizzare
l’obiettivo dell’affermazione integrale dell’antisemitismo di stato, qualora la popolazione
ebraica si fosse raccolta attorno ad un’apposita amministrazione, anch’essa gestita da
ebrei. Nel progetto di Danneker quell’organismo cui si doveva dar vita, che prese poi il
nome di UGIF appunto, doveva essere uno stimolo alla segregazione della popolazione
ebraica e quindi un passo avanti verso la deportazione e la “soluzione finale”. Un “gruppo
obbligatorio di ebrei”, così veniva definito nel progetto di costituzione da Dannecker.
Molto forti saranno le resistenze del governo francese e dello stesso Vallat alla nascita di
questa nuova istituzione: fin dall’inizio era chiara l’intenzione dello Stato Maggiore tedesco
di esercitare un’attività di direzione e controllo su un’organizzazione che avrebbe
collaborato al completo assoggettamento delle scelte relative alla presenza di ebrei sul
territorio francese, ai piani tedeschi, ma le pressioni furono talmente forti da costringere il
Commissario Generale a farsi carico dell’elaborazione e presentazione di un progetto di
legge che ufficializzasse l’istituzione del nuovo organismo, malgrado i successivi
rallentamenti attuativi. Pétain e il suo governo si vedevano forzati ad accettare una
decisione che entrava in contraddizione con il loro orientamento politico: per la prima volta
anche agli ebrei francesi sarebbe stata negata ogni sorta di tutela, per allontanarli
definitivamente dal territorio nazionale.
L’insistenza con la quale Pétain affermava la necessità di effettuare una distinzione tra
ebrei “stranieri” ed ebrei radicati sul territorio nazionale, si legava alla volontà di rendere le
imminenti normative e la nascente istituzione consone alle specificità nazionali, che non
dovevano essere confuse con quelle tedesche.
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Pétain riuscirà comunque a far valere, almeno fino ad un certo periodo, la propria volontà
in merito alla politica antisemita ed alle deroghe previste per gli ebrei francesi, ma in
seguito alla destituzione di Vallat e con la successiva classe dirigente guidata da Darquier
sarà molto meno difficoltoso per le autorità tedesche attivare l’Unione conformemente alle
intenzioni delle stesse.
L’obiezione maggiore contro Xavier Vallat fu la reticenza contro ogni influenza tedesca ed i
ritardi apportati all’applicazione delle leggi, ed interessante è notare come i rallentamenti
del ritmo in questo campo si spieghino meno con il desiderio di trattare con riguardo gli
ebrei in questione che con quello di guadagnare tempo fino a quando l’influenza
unicamente francese non sia assicurata.
Darquier de Pellepoix, il suo successore, aderente fin dalle sue origini alla Croix-deFeux, la lasciò proprio nel 1935, periodo in cui si impegnò in una strenua ricerca di fondi
da asservire alla principale causa di cui si considerava un essenziale portavoce:
l’antisemitismo. Nei primi due anni dell’Occupazione, si troverà particolarmente impegnato
in un’intensa attivazione della propaganda antisemita, alla guida di una nuova
Associazione: l’ Association pour la défense de la race. Vicino alla dirigenza nazista,
condurrà però soprattutto a partire dal 6 maggio 1942, una vigorosa e violenta campagna
antisemita, che assumerà un peso preponderante in ambito politico-istituzionale, grazie
alla sua nomina a Commissario Generale agli Affari Ebraici. Una maggior convivenza dei
precedenti principi ispiratori dell’antisemitismo, con i più ideologici principi base del
razzismo nazionalsocialista, sembrava fare da perno al nuovo edificio che si stava
velocemente costruendo. A cominciare dall’abrogazione della legge Marchandeau (che
fissava il divieto reciso ad ogni genere di propaganda razzista) nell’agosto 1940, era sorta
una notevole quantità di giornali, quotidiani, settimanali e vari periodici, con lo scopo di
sostenere le scelte di politica interna ed estera del governo, di rafforzarne le posizioni
quanto a decisioni difficili da accettare per un popolo che non si era ancora abituato a
vivere secondo le regole imposte dall’armistizio.
La volontà di “convincere” i cittadini della necessità di questo passo verrà ben testimoniata
anche della nascita nel novembre 1942 della Direzione di Propaganda il cui obiettivo era
duplice: “Diffondere ed impiantare l’ideologia razzista nella popolazione e sviluppare la sua
influenza e le sue concezioni sulle autorità francesi”.
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L’antisemitismo francese compì dunque una seconda tappa, aggiungendo alle precedenti
motivazioni nuove asserzioni ideologiche che non potevano più dirsi estranee al puro ed
indiscriminato razzismo.
La propaganda antisemita evidenzia nitidamente le sostanziali differenze delle scelte dei
due uomini: nei primi due anni, intervenendo soprattutto sulla stampa quotidiana, ma
anche attraverso nuovi strumenti di comunicazione (come mostre ed esposizioni), si sforzò
di dipingere le scelte antisemite collegandole sempre alle solide fondamenta storiche e
culturali nazionali, attenta a non generare nel cittadino francese l’impressione di un
asservimento alle logiche politiche tedesche. Con Darquier invece, che confidò in maniera
esasperata nell’uso di nuovi e più diretti strumenti propagandistici (tra cui la radio assunse
un ruolo privilegiato) per catturare l’attenzione del comune cittadino, si avvierà un concreto
tentativo di diffusione ad ampio livello delle radici razziste del pensiero nazista.
Ritengo che questa breve digressione sia illuminante sul diverso valore delle scelte di
campo che all’interno della folta schiera di sostenitori del regime vennero elaborate ed in
particolare sulle differenze attraverso le quali le stesse scelte vennero in un secondo
tempo rappresentate e “pubblicizzate” al fine di raccogliere il consenso popolare. Gli studi
che sto svolgendo sulla propaganda e lo spoglio delle fonti archivistiche, iconografiche e
audiovisive, mi hanno consentito di riflettere su questo processo diacronico e di capire
come le scelte, il linguaggio, l’immaginario e la simbologia varino in relazione alle differenti
radici ed ideologie che fondano tali scelte: alla strenua ricerca di collegamenti nel passato
per costruire un futuro migliore, avvalendosi di immagini mitologiche tradizionali, si
accompagna per esempio nelle numerose brochures volte ad “educare” i nuovi tecnici di
propaganda, l’uso invece indiscriminato di slogan collaborazionisti e “rivoluzionari”, che
mediante la nuova alleanza con l’occupante prospettano quel fermento innovatore e
capace di temprare gli animi, tipico della propaganda hitleriana.
Un particolare ed efficace strumento propagandistico di cui il governo vichysta si è avvalso
mette in luce questo aspetto: il cinegiornale. Comparando infatti i primi due anni in cui
esistono due differenti cinegiornali in ognuna delle due zone: les Actualités Mondiales
nella zona occupata e Journal France-Actualités Pathé, prodotto a Marsiglia, in zona Sud,
e gli ultimi due anni in cui assistiamo all’unificazione dei due in un unico giornale sotto
controllo tedesco, France-Actualités, è stato possibile indagare sullo specifico e peculiare
ruolo e spazio attribuito alla propaganda dal governo francese e sui contenuti su cui essa
si è maggiormente soffermata: cogliere un proprio e significativo spazio individuale e
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soggettivo o realizzare una netta alleanza con l’occupante, accettando quindi i
conseguenti condizionamenti nelle scelte di campo internazionali e nella politica sociale e
culturale interna al paese? Mettendo in evidenza diversi dettagli simbolici, risaltando
discorsi o singole parole, costruendo angolazioni di immagini tali da indurre specifiche
reazioni emotive nello spettatore, ritagliando in modo diverso la presentazione dei più
svariati temi, cambia la risposta a questo quesito.
La propaganda non corrispondeva infatti, come hanno confermato anche i miei studi su
riviste di diverso orientamento politico (come France: revue de l’Etat nouveau per l’area
pétainista e La Revue du Monde per l’area invece collaborazionista), alle stesse intenzioni
in uomini come Déat, Marion, Drieu La Rochelle piuttosto che nei progetti di Pétain,
Alibert, Vallat. Una concezione della propaganda come macchina di inquadramento e di
accelerato indottrinamento era un progetto diverso rispetto alla volontà di inculcare, passo
per passo, la necessità di ridisegnazione della France paysanne, cattolica e conservatrice,
ma rinnovata nel suo contesto interno e nel suo posto nella compagine internazionale.
Ma non potrei terminare questa esposizione senza soffermarmi su un’altra scelta di campo
che merita un significativo rilievo, pur ben distanziandosi da quelle appena citate: la
categoria definita dei vichysto-résistants, che comprende un significativo numero di
francesi che hanno creduto nel valore e nelle possibilità di realizzazione del dettato della
Rivoluzione nazionale, ma che hanno in un secondo tempo (soprattutto dopo lo sbarco in
Algeria e in Marocco) aderito al movimento resistenziale. Tra i vichysto-résistants
ritroviamo membri dell’esercito pre-1940, funzionari e numerosi intellettuali, tra cui Angelo
Tasca, che se ritennero possibile accettare in un primo tempo la realizzazione di quella
Rivoluzione nazionale, pur respingendo sempre nel loro percorso l’antisemitismo e le più
pericolose compromissioni ideologiche, colsero presto le contraddizioni e le accentuazioni
del regime in senso autoritario e marcatamente antidemocratico, modificando le proprie
scelte. Ed infine la personalità francese più nota tra essi: François Mitterand, che militò
nella Légion e che nel periodo in cui espresse il proprio consenso al regime fu addirittura
decorato con le francisque in quanto “loyau serviteur du régime”. Dopo aver trovato un
piccolo lavoro alla Legione, divenne nel giugno 1942 capo della sezione stampa del
Commissariat au reclassement des prisonniers de guerre.
François Mitterrand ben rappresenta quella categoria di patrioti antitedeschi, che
accettarono il regime in un contesto politico internazionale in cui l’opzione pétainista parse
realistica ed accettabile punto di partenza verso una credibile riaffermazione della propria
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identità nazionale. Solo agli inizi del 1943 le derive vichyste lo indussero ad entrare in
contatto con i movimenti resistenziali, quando nel febbraio-marzo, sotto lo pseudonimo
Morland o Monnier, creò il suo movimento resistenziale, il Rassemblement national des
prisonniers de guerre e aderì ufficialmente alla resistenza nel mese di dicembre.
Un avant-guerre caratterizzato da un’innegabile forma di decadenza e di invecchiamento
del paese sotto importanti versanti e dall’accentuazione di una significativa instabilità
economica e sociale, sembrava aver generato in molti uomini che poi scrissero capitoli
importanti della storia della Francia, quella fiducia e fede tipica del post-1945, di cui gli
anni “neri” sembrano un passaggio inizialmente legittimato e successivamente superato al
fine di indurre e consentire una nuova e significativa fase politica.
E’ così che la strada vichysta si rivelò a molti come quell’unica percorribile strada in salita
che ad un certo punto parve inaspettatamente condurre ad un bivio e forse proprio a quel
punto una nuova scelta di campo poté essere addotta a giustificazione, comprensione ed
attenuazione del valore dell’imbocco di quella stessa strada.
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