ArNoS. Archivio normanno-svevo. 3 (2011/2012)

Transcript

ArNoS. Archivio normanno-svevo. 3 (2011/2012)
ArNoS
ARCHIVIO NORMANNO-SVEVO
Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII
del Centro Europeo di Studi Normanni
Texts and Studies in Euro-Mediterranean World
during XIth-XIIIth Centuries
of Centro Europeo di Studi Normanni
3
2011/2012
Miscellanea Claudio Leonardi
Centro Europeo di Studi Normanni
Ariano Irpino
ArNoS
ARCHIVIO NORMANNO-SVEVO
Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII
del Centro Europeo di Studi Normanni
COMITATO SCIENTIFICO
G. Arnaldi, Th. Asbridge, P. Bouet, M. Caravale, G. Coppola,
F. Delle Donne, M. D’Onofrio, H. Enzensberger, S. Fodale, C.D. Fonseca,
J. France, G. Galasso, V. Gazeau, E.C. van Houts, Th. Kölzer, C. Leonardi (†),
O. Limone, G.A. Loud, J.M. Martin, E. Mazzarese Fardella, F. Neveux,
M. Oldoni, F. Panarelli, A. Paravicini Bagliani, A. Romano, V. Sivo, W. Stürner,
A.L. Trombetti, H. Takayama, S. Tramontana
SEGRETERIA DI REDAZIONE
L. Russo, T. De Angelis
COMITATO DI DIREZIONE
A. Cernigliaro, E. Cuozzo, E. D’Angelo, O. Zecchino
© 2012 Centro Europeo di Studi Normanni
ISSN: 2036-7759
ISBN: 978-88-98028-00-9
ArNoS 3 (2012)
SOMMARIO
Fulvio Delle Donne, Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa
7
Francesco Panarelli, Le origini del monastero femminile delle SS.
Lucia e Agata a Matera e la famiglia di Maione di Bari
19
Barbara Visentin, Identità signorili e sistemi di gestione tra IX e XII
secolo. Le terre del Castrum Iufuni e la Trinità di Cava
33
Lamia Hadda, Il bassorilievo di Mahdiya. Vicende storico-artistiche tra
Ziridi e Normanni nel Mediterraneo medievale (XI-XII sec.)
59
Mario R. Zecchino, Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
69
Benoît Grévin, Un dictator peut en cacher un autre… À propos de la
lettre «Expectantes expectavimus-noscitis emanasse» et de la jeunesse
de Pierre de la Vigne
89
Teofilo De Angelis, Note propedeutiche all’edizione del libro VI del
cosiddetto Epistolario di Pier della Vigna
105
Fulvio Delle Donne, Su un codice stravagante del cosiddetto Epistolario di Pier della Vigna: Innsbruck, Universitäts-bibliothek, 400
113
Rosanna Lamboglia, Aspetti della guerra del Vespro: il biennio 12961298 nella prospettiva di Federico III, re di Sicilia, e di Ruggero di
Lauria
121
Giovanni Coppola - Carmine Megna, Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
153
Recensioni e schede
179
LE ISCRIZIONI DEL MAUSOLEO DI BOEMONDO
D’ALTAVILLA A CANOSA
Fulvio Delle Donne
Il mausoleo di Boemondo d’Altavilla († 1111), a Canosa, rivela
elementi di sicuro interesse per la storia artistica e culturale del
Mezzogiorno normanno1. Esso gli fu dedicato probabilmente dalla madre
Alberada, e, addossato alla cattedrale di San Sabino, presenta un tamburo
ottagonale, decorato con colonnine e marmi. Particolare attenzione qui
verrà riservata all’iscrizione in versi posta sia sul tamburo che sulle porte
bronzee del mausoleo, che si presenta piuttosto problematica, e per
questo va analizzata attentamente.
1
Sulla vita di Boemondo cfr. soprattutto R.B. Yewdale, Bohemund I, Prince of Antioch,
Princeton 1924; R. Manselli, Boemondo d’Altavilla alla prima Crociata, «Japigia» 11, 1940, pp.
45-79 e 154-184 (poi in Id., Italia e Italiani alla prima Crociata, Roma 1992, pp. 37-110); D.
Girgensohn, Boemondo I, in Dizionario Biografico degli Italiani, 11, Roma 1969, pp. 117-124;
F. Panarelli, Il Concilio di Bari: Boemondo e la Prima Crociata, in Il Concilio di Bari del 1098.
Atti del convegno storico internaz. e celebrazioni del IX centenario del Concilio, cur. S.
Palese e G. Locatelli, Bari 1999, pp. 145-167; R. Hiestand, Boemondo I e la prima Crociata,
in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. Atti delle XIV Giornate normanno-sveve, Bari
17-20 ottobre 2000, cur. G. Musca, Bari 2002, pp. 65-94; J. Flori, Bohémond d’Antioche.
Chevalier d’aventure, Paris 2007; L. Russo, Boemondo. Figlio del Guiscardo e principe di Antiochia,
Avellino 2009. Sul mausoleo, sulle sue decorazioni e sulle sue porte basti, qui, rinviare,
per un quadro complessivo e per alcuni principali riferimenti bibliografici a M. Falla
Castelfranchi, Il Mausoleo di Boemondo a Canosa, in I Normanni popolo d’Europa. 1030-1200,
Catalogo della mostra (Roma, gennaio-aprile 1994), cur. M. D’Onofrio, Venezia 1994,
pp. 327-330. All’argomento è stato recentemente dedicato anche il convegno Boemondo I
di Altavilla, un normanno tra Occidente e Oriente, Canosa 5-7 maggio 2011, in corso di stampa,
in margine al quale le presenti riflessioni sono scaturite.
8
Fulvio Delle Donne
Fig. 1. Canosa, tamburo del mausoleo di Boemondo (le foto sono di Luisa Derosa)
La parte collocata sul tamburo è incisa in caratteri capitali di
tipo romanico, senza abbreviazioni2, su lastre di marmo, e, trascritta
“criticamente”, è questa:
Magnanimus Sirie iacet hoc sub tegmine princeps,
quo nullus melior nascetur in orbe deinceps.
Grecia victa quater, pars maxima Partia mundi
ingenium et vires sensere diu Buamundi.
5 Hic acie in dena vicit virtutis abena
agmina millena, quod et urbs sapit Anthiocena3.
I sei esametri sono incisi sui cinque lati disponibili del tamburo
ottagonale: i primi quattro sono ciascuno su un lato; gli ultimi due,
2
Per una descrizione paleografica ed epigrafica di queste iscrizioni cfr. F.
Magistrale, Forme e funzioni delle scritte esposte nella Puglia normanna, «Scrittura e civiltà» 16,
1992, pp. 5-75, spec. pp. 27-41.
3
«Sotto questa copertura giace il magnanimo principe della Siria, migliore del quale
non nascerà più alcuno al mondo. La Grecia vinta quattro volte, la Partia, grandissima
parte del mondo, ebbero a lungo prova dell’ingegno e delle forze di Boemondo. Costui
in dieci battaglie sottomise alle redini della sua virtù schiere di migliaia di uomini: cosa
che sa anche la città di Antiochia».
Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa
9
Figg. 2-5. Canosa, i versi dell’iscrizione sul tamburo del mausoleo di Boemondo
invece, che sono anche leonini, cioè con rima anche tra le ultime lettere
dei due emistichi, sono messi assieme e disposti su due linee di scrittura,
di cui la prima finisce, senza rispettare la scansione dell’esametro, con
millena, ovvero con la fine rimata del primo emistichio. Questa, tuttavia,
non è l’unica stranezza, poiché anche nel quarto verso il verbo sensere
viene diviso, lasciando molto spazio tra la terza e la quarta lettera. Ma è
soprattutto la prima parola del primo verso a presentare complicazioni:
infatti, essa non è magnanimus, ma è agnanimis. La mancanza della prima
lettera, la m, è solo apparente, perché, evidentemente, è coperta dal
capitello di una delle colonnette che intercalano i lati del tamburo; invece,
l’errore morfologico, cioè un incomprensibile dativo o ablativo plurale
invece del corretto nominativo singolare, fa pensare senza dubbio a un
errore di trascrizione. Bisogna, però, capire come si sia generato: su
questo torneremo fra poco.
Proseguiamo, intanto, con la lettura dei versi incisi a bulino sulla
porta di bronzo, o meglio su una sua anta, del medesimo mausoleo. In
10
Fulvio Delle Donne
Fig. 6. Canosa, le porte di bronzo del mausoleo di Boemondo
Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa
11
Fig. 7. Canosa, vv. 1-6 dell’iscrizione sulla porta di bronzo del mausoleo di Boemondo
alto, si legge un primo gruppo di sei versi, ovvero di tre coppie di distici
elegiaci, che, trascritti “criticamente”, sono i seguenti:
Unde boat mundus, quanti fuerit Boamundus:
Grecia testatur, Syria dinumerat.
Hanc expugnavit, illam protexit ab hoste;
hinc rident Greci, Syria, dampna tua.
5 Quod Grecus ridet, quod Syrus luget, uterque
iuste, vera tibi sit, Boamunde, salus4.
Poi, dopo un grande fregio circolare, si leggono, sempre incisi con
simile tecnica ma con dimensione più ridotta, altre due coppie di distici
(vv. 7-10):
Vicit opes regum Boamundus opusque potentum
et meruit dici nomine iure suo
intonuit terris. Cui cum succumberet orbis,
10 non hominem possum dicere, nolo deum5.
4
«Per questo il mondo rimbomba di quanto sia stato Boemondo: la Grecia lo
testimonia, la Siria lo enumera. Egli espugnò questa, protesse quella dal nemico; così i
Greci ridono dei tuoi danni, o Siria. Ciò di cui ride il Greco, ciò di cui piange il Siro, l’uno
e l’altro giustamente, sono per te vera salvezza, o Boemondo». Non è sintatticamente
corretto, come talvolta viene fatto, rendere interrogative «Quod Grecus ridet? Quod
Syrus luget?». È vero, come segnala Magistrale, Forme, p. 38, che alla fine di questo
verso si vede un punto sovrastato da un breve tratto obliquo: ma mi pare sorprendente
che all’inizio del XII secolo – se pure è vero che tali incisioni risalgono a quell’epoca
– si avesse una coscienza ortografica tanto sviluppata, soprattutto riguardo ai segni
di interpunzione. Pertanto, quel segno potrebbe semplicemente indicare una pausa di
senso, solo leggermente variato rispetto a quelli usati negli altri versi.
5
«Boemondo vinse la potenza dei re e l’opera dei potenti e a buon diritto meritò che
dal suo nome si dicesse che tuonò nelle terre. E, dal momento che il mondo soccombette
a lui, non posso chiamarlo uomo, ma non voglio chiamarlo dio».
12
Fulvio Delle Donne
Fig. 7. Canosa, vv. 7-14 dell’iscrizione sulla porta di bronzo del mausoleo di Boemondo
Poi, ancora, lasciando alcuni centimetri di spazio, seguono altri
quattro versi (11-14), con caratteri di dimensione all’incirca uguale a
quella dei precedenti quattro, ma questa volta tutti esametri:
Qui vivens studuit, ut pro Christo moreretur,
promeruit, quod ei morienti vita daretur.
Hoc ergo Christi clementia conferat isti,
militet ut celis suus hic adleta fidelis6.
E, dopo un altro grande fregio circolare, seguono altri due esametri
(vv. 15-16), che presentano un modulo grafico più grande:
15 Intrans cerne fores; videas, quid scribitur; ores,
ut celo detur Boamundus ibique locetur7.
Tutti i versi sono incisi in maniera tale da occupare ciascuno un
intero rigo di scrittura, ma come si è detto, i moduli grafici appaiono
di dimensione differente. Francesco Magistrale, che ha analizzato
l’iscrizione, sia quella del tamburo, sia quella della porta bronzea, ha
6
«Chi vivendo si adoprò a morire per Cristo, meritò che a lui morente venisse data
la vita. Dunque, la clemenza di Cristo gli conceda questo, che questo suo fedele atleta
faccia il soldato in cielo».
7
«Tu che entri osserva la porta; guarda ciò che è scritto; prega che Boemondo sia
dato al cielo e che lì venga collocato».
Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa
13
rilevato talvolta difformità nel modo di tracciare alcune lettere, ma ha
lasciato intendere che essa è unitaria, ovvero attribuibile a una stessa
mano dell’inizio del XII secolo, e che le diverse dimensioni delle
scritte, maggiori nella parte alta e in quella bassa della porta, sono state,
evidentemente, studiate per agevolare la lettura; e concludeva che l’analisi
condotta, «rivelando una ricca varietà di forme scrittorie accanto ad una
molteplice articolazione nel disegno delle lettere, dimostra che l’ideatore
della scritta sulla valva sinistra del mausoleo, oltre a perseguire manifesti
propositi encomiastici della figura di Boemondo I, ha consapevolmente
organizzato una pagina di scrittura esposta, assumendo liberamente
quali modelli sia la coeva scrittura epigrafica romanica sia il complesso di
lettere maiuscole, minuscole ed onciali, di modulo ingrandito, adoperate
con funzione distintiva in numerose testimonianze documentarie e
librarie della stessa età»8.
In effetti, stabilire la datazione delle iscrizioni permetterebbe di
capirne la funzione. Se, infatti, esse sono tutte dello stesso autore, e se
sono riconducibili a una data immediatamente posteriore alla morte di
Boemondo, si potrebbe desumere un tentativo di legittimazione politica
del principe antiocheno9, la cui memoria – a quanto pare – non trovò,
almeno nell’immediato, molto spazio, né godette di grande favore nella
produzione letteraria riconducibile all’Italia centro-meridionale, ovvero a
quell’area di dominazione normanna che faceva capo alla linea dinastica
di Ruggero Borsa, preferito al primogenito Boemondo dal padre Roberto
il Guiscardo10. Accanto a tale questione, poi, si pone quella non meno
importante degli eventuali rimaneggiamenti del manufatto artistico.
Riguardo a questo secondo problema, si cede il campo a più specifici
e competenti studi; non prima, però, di aver detto che l’iscrizione su lastre
marmoree posta sul tamburo del mausoleo è da considerarsi di fattura
sicuramente assai tarda, confermando quanto l’analisi di un capitello già
8
Magistrale, Forme, p. 38.
Su questi problemi cfr. H. Houben, Da Venosa a Monreale. I luoghi della memoria
dei Normanni del Sud, in Memoria. Ricordare e dimenticare nella cultura del Medioevo – Memoria.
Erinnern und Vergessen in der Kultur des Mittelalters, cur. M. Borgolte, C. D. Fonseca, H.
Houben, Bologna 2005, pp. 51-60; nonché A. Cadei, La porta del mausoleo di Boemondo
a Canosa tra Oriente e Occidente, in Le porte del Paradiso. Arte e tecnologia bizantina tra Italia e
Mediterraneo, cur. A. Iacobini, Roma 2009, pp. 429-469; Flori, Bohémond, pp. 293-300;
Russo, Boemondo, pp. 202-203.
10
Ruggero Borsa nacque dal secondo matrimonio con Sichelgaita, principessa
longobarda, che poteva offrire al Guiscardo maggiori opportunità di penetrazione nel
sistema di dominio territoriale.
9
14
Fulvio Delle Donne
lascia supporre11. Innanzitutto, infatti, si ricorderà che l’errore magnanimis
invece di magnanimus, nel primo verso, l’avevamo classificato come
un errore di “trascrizione”: una trascrizione che ha anche un terminus
post quem. Infatti, Cesare Baronio (1538-1607), nell’ultimo volume dei
suoi Annales ecclesiastici, mandati a stampa poco dopo la sua morte,
descrivendo il mausoleo di Canosa, diceva che le iscrizioni sul tamburo
erano «in tabulis aereis»12: quindi, nel 1607, o poco prima, i sei esametri
del tamburo erano incisi su lastre di bronzo, non di marmo13. Questo
dimostra con sufficiente certezza che in epoca moderna c’è stato non
solo il rimaneggiamento della struttura architettonica e decorativa del
tamburo del mausoleo, confermato senz’altro dal fatto che ancora alla
fine del XVIII secolo aveva un tetto piramidale e non sferico, come
ora14; ma anche il tentativo di imitare – forse si potrebbe addirittura dire
“falsificare” – il modulo grafico “romanico” dell’iscrizione, prendendo
a modello altre iscrizioni, forse anche alcune di quelle sulla porta di
bronzo, che pure, tuttavia, presentano aspetti dubbi.
Infatti, si sarà certamente notato che la parte di iscrizione collocata
sulla porta di bronzo, in alto, comincia con problematico unde, da
intendere, certamente, come conseguenza di ciò che è detto nei versi
incisi sul tamburo, piuttosto che come prolessi del pentametro successivo
«Grecia testatur, Syria dinumerat» (v. 2 della porta): questa seconda ipotesi,
infatti, sembra contraddetta non tanto dalla costruzione sintattica – già
caratterizzata dal prezioso uso del genitivo di stima quanti –, ma piuttosto
dalla circostanza che il verso sembra una citazione abbastanza precisa, se
non una rielaborazione, della parte finale di un componimento dedicato
a Boemondo da Marbodo di Rennes.
Marbodo di Rennes, probabilmente nel 1106, cioè in connessione
con un viaggio compiuto in Francia da Boemondo15, racchiuse in 30
esametri leonini una rappresentazione ampiamente elogiativa dell’eroe
11
Specificamente dedicata alla questione è stata la relazione presentata al menzionato
convegno canosino del maggio 2011 da Luisa Derosa, dal cui confronto sono scaturite le
presenti riflessioni sull’iscrizione canosina dedicata a Boemondo.
12
C. Baronio, Annales ecclesiastici, XII, Romae 1607, p. 89.
13
Detto per inciso, nel primo verso, così come è riportato da Baronio, si legge
magnanimus e non magnanimis.
14
Cfr. J.C. Richard de Saint Non, Voyage pittoresque ou description des Royames de
Naples et de Sicile, III, Paris 1783, p. 34 e relativa incisione.
15
Sul viaggio in Francia, in particolare, cfr. L. Russo, Il viaggio di Boemondo d’Altavilla
in Francia (1106), «Archivio storico italiano» 163, 2005, pp. 3-42.
Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa
15
normanno16. Fin dal primo verso, egli è elevato al di sopra di tutti gli
altri uomini: «In toto mundo non est homo par Boemundo». Anche in
seguito sono celebrate le sue eccelse virtù non solo come condottiero,
ma anche come signore, verso cui, come a un biblico re davidico, tutti
guardano con rispetto:
Syria servit ei, mittunt nova dona Sabaei,
Parthus, Arabs, Medus cupiunt sibi iungere foedus,
mulcet eum donis rex magnificus Babylonis
soldanus, Perses pavet, et fugit illius enses,
Africa formidat, devotaque munus ei dat17.
Il finale del componimento di Marbodo, con un’esplosione
allitterante, porta al parossismo la celebrazione (vv. 28-30):
Istis de causis pro tot et talibus ausis
per totum mundum fert fama boans Boemundum,
et reboet mundus quia tanta facit Boemundus18.
Come nel componimento di Marbodo, anche nella prima parte
dell’iscrizione canosina, dopo aver ricordato le imprese belliche del
Normanno, si fa discendere il gioco etimologico sul nome di Boemondo
dall’effetto di una constatazione («unde...» nell’iscrizione; «istis de
causis...» nel componimento di Marbodo), così da rendere l’esaltazione di
Boemondo una naturale e logica conclusione, derivante dall’assunzione
di un dato di fatto: essa è imposta non solo dalle imprese compiute,
ma è implicita addirittura nello stesso nome, che, come una evidente
16
Marbodus Redonensis episcopus, Carmina varia, XXXVIII, Commendatio
Jerosolymitanae expeditionis, in Patrologia Latina, ed. J. P. Migne, 171, Parisiis 1854, col.
1672 A-C. Cfr. anche V. G. Spreckelmeyer, Das Kreuzzugslied des lateinischen Mittelalters,
München 1974, pp. 192-198. Inoltre, cfr. V. Sivo, Il Mezzogiorno e le Crociate in alcuni testi
letterari, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, pp. 355-377, spec. pp. 364-368: questo
saggio offre un esaustivo quadro complessivo sui testi letterari dedicati a Boemondo.
17
Marbodus, Commendatio cit., vv. 14-18; si segnala che è stato corretto in Perses il
sicuramente errato Persas presente nell’edizione: «la Siria lo serve, nuovi doni gli inviano i
Sabei, il Parto, l’Arabo, il Medio desiderano stringere patti con lui, il sultano di Babilonia,
magnifico re, lo blandisce con regali, ha timore il Persiano e fugge le sue spade, l’Africa
ha paura e, devota, gli concede tributi».
18
Ibid., vv. 28-30: «per queste cause, per tante e tali audacie, la fama porta
rimbombando per tutto il mondo il nome di Boemondo, e il mondo riecheggi, perché
tanto grandi cose fa Boemondo».
16
Fulvio Delle Donne
consequentia rerum, racchiude etimologicamente la natura e il destino
dell’eroe, che riempie il mondo col suo suono assordante.
Il fatto che l’iscrizione sulla porta sia da interpretare come una
prosecuzione di quella sul tamburo ci dovrebbe spingere a ritenere che
esse siano state concepite unitariamente, oppure che quella sulla porta sia
successiva. Tuttavia, l’analisi metrica dei versi rivela alcune incongruenze.
Infatti, degli esametri incisi sul tamburo, i primi quattro sono accoppiati
in rima, mentre gli ultimi due, oltre alla rima finale, hanno anche quella
leonina in cesura. Inoltre, se i primi cinque versi sono prosodicamente
regolari, l’ultimo presenta un forzato – pur se ammesso – allungamento
in cesura della a finale di millena, che, altrimenti, dovrebbe essere breve.
Insomma, quei sei versi, nella parte conclusiva, presentano non solo una
diversa struttura metrica, ma anche un problema prosodico: proprio in
coincidenza con la loro “irrazionale” collocazione accoppiata sull’ultimo
lato del tamburo. A parte questo, poi, lascia perplessi anche il richiamo –
non assolutamente anomalo, ma di certo abbastanza insolito per l’inizio
del XII secolo19 – alla virtù della magnanimitas, in posizione privilegiata,
tra l’altro, all’interno di un esametro che presenta un andamento
“aureo”. Verrebbe quasi da pensare che quei versi non solo siano stati
nuovamente incisi su marmo posteriormente al 1607, ma anche che siano
stati composti in un’imprecisabile epoca non poco posteriore alla morte
di Boemondo; pur se, di contro, si potrebbe ribattere che in un testo
“falso”, ma artatamente creato per avere una facies autentica, un errore di
trascrizione (magnanimis per magnanimus) sarebbe davvero strano.
D’altra parte, i versi sul tamburo sono strutturalmente molto
diversi da quelli incisi sulla porta. Infatti, i primi sei versi della porta,
incisi sulla sua parte alta, sono distici: ovvero, pur proseguendo con unde
quanto sarebbe iniziato sul tamburo, cambiano radicalmente forma e
andamento. E non solo: sorprende, innanzitutto, la grafia diversa usata
per il nome del celebrato (Boamundus, laddove sul tamburo è Buamundus,
che, in ogni caso, non permette il gioco verbale etimologico col verbo
boo), nonché per quello della regione da lui sottomessa (Syria, mentre
sul tamburo è Siria). E se queste differenze nelle abitudini ortografiche
potrebbero anche dipendere dalla successiva trascrizione dell’iscrizione
19
Cfr., ad es., L. K. Born, The perfect prince according to the latin panegyrists, «The
american journal of philology» 55, 1934, pp. 20-35; nonché F. Delle Donne, Il potere e
la sua legittimazione: letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce 2005, da cui si
può ricavare ulteriore bibliografia.
Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa
17
sul tamburo, più difficilmente spiegabile è la differenza nel computo
prosodico di Siria, ovvero Syria e Syrus: sul tamburo (v. 1) la prima sillaba
è, correttamente, breve; sulla porta di bronzo (vv. 2, 4 e 5 della porta)
essa è sempre lunga. A parte ciò, in questi versi si riscontrano anche altri
problemi prosodici: come l’allungamento – teoricamente ammissibile –
in cesura della sillaba finale di expugnavit nel secondo esametro e quello
– teoricamente inammissibile – della sillaba finale di tibi nell’ultimo
pentametro. Insomma, sembra davvero difficile pensare che i versi del
tamburo (o almeno i primi quattro) e i primi sei versi della porta siano
dello stesso autore.
Quei versi scritti sulla parte alta della porta, che, come si ricorderà,
avevano anche un modulo grafico più ampio rispetto ai seguenti,
insomma, sembrano essere posteriori a quelli del tamburo, dei quali,
come si è detto, già è dubbia la datazione. Essi, inoltre, sembrano
dipendere dal citato componimento di Marbodo, che, tuttavia, data la sua
chiara natura d’occasione, potrebbe essere giunto assai presto in Italia
meridionale, portato dall’elogiato o dalla sua moglie francese, la figlia
del re di Francia Filippo I. In ogni caso, però, sembrano anche essere
una ripetizione amplificata dei quattro versi (sempre distici) successivi
(vv. 7-10 della porta), in cui, similmente, si ricordano le imprese di
Boemondo – con rima leonina in cesura e gioco di parole opes / opus nel
primo esametro – e si allude, sia pure in maniera meno evidente, al gioco
etimologico sul nome con l’espressione «intonuit terris»: quindi, non
risulta improbabile che i primi sei versi incisi sulla porta siano posteriori
anche a quelli successivi, posti su una parte più centrale dell’anta, cioè in
posizione più idonea.
La quartina ancora successiva (ovvero i vv. 11-14 della porta), anche
se presenta lo stesso modulo grafico della precedente, è, invece, tutta in
esametri piuttosto regolari: si segnala solo l’allungamento – consentito –
in cesura della finale di studuit. Il cambio di metro, tuttavia, non disturba:
preannunciato dallo spazio che separa questa quartina dalla precedente,
trova giustificazione nel cambio di tema e di tono. Infatti, si passa
dall’esaltazione delle imprese terrene del celebrato alla preghiera per la
sua sorte ultramondana. Di questa quartina, i primi due versi sono in
rima, mentre gli ultimi due sono leonini. Così come sono leonini anche
gli ultimi due esametri (vv. 15-16), quelli che, con prosodia regolare,
sono iscritti nella parte bassa della porta: anch’essi presuppongono la
presenza di altri versi già incisi sulla porta, ma non è possibile stabilire
se, pur presentando un modulo grafico maggiore rispetto agli otto versi
18
Fulvio Delle Donne
precedenti, siano stati concepiti assieme a quelli, o se sono stati aggiunti
posteriormente.
Insomma, concludendo l’esame dell’iscrizione canosina, si può
avanzare, non senza motivo, l’ipotesi che i versi posti nella parte centrale
della porta di bronzo, essendo i meno dubbi, siano anche i più antichi:
a quando risalgano, tuttavia, non è possibile dirlo. In ogni caso, quelli
maggiormente celebrativi, più chiaramente interpretabili in funzione di
rivendicazione politica del “diseredato” figlio del Guiscardo, cioè quelli
sul tamburo e sulla parte alta dell’anta di bronzo, sono proprio i più
dubbi. E questo ci rende consapevoli che, sul territorio, la legittimazione
di Boemondo non fu, probabilmente, immediata, e che l’esplicita
esaltazione in chiave eroica del personaggio fu frutto di una più tarda
rielaborazione della sua memoria.
LE ORIGINI DEL MONASTERO FEMMINILE
DELLE SS. LUCIA E AGATA A MATERA
E LA FAMIGLIA DI MAIONE DI BARI
Francesco Panarelli
Nel febbraio del 1160 il magister Gaugellus della città di Matera si presentò di fronte ai giudici Michele e Maraldicio della stessa città e al magister Marco per esprimere la sua volontà di donare se stesso e tutti suoi
beni alla chiesa di S. Agata, nelle mani del sacerdote Ursone, in quel momento eiusdem ecclesie prior. Il donatore ritenne però necessario aggiungere
che la sua donazione avveniva voluntate et precepto domini Melie Sclavide regiy
comestabulis dominorum amiratorum sororiy et benefactoris magnifici, qui eandem
suam ecclesiam ad laudem et gloriam divini nominis suis opibus ordinavit. Apprendiamo quindi che la donazione era avvenuta su espressa sollecitazione di
Melia (o Melo) Sclavide (o de Sclavo), a sua volta fondatore della chiesa
di S. Agata, istituzione destinataria della nuova donazione.
Il documento, oggi perduto, fu pubblicato – con le incertezze ortografiche che lo caratterizzano – sin dal 1904 da Vincenzo Federici in una
raccolta miscellanea di documenti meridionali con firme in versi1, ma
ha ricevuto scarsa attenzione sia da parte di coloro che si sono occupati
della vicenda della chiesa e del monastero delle SS. Agata e Lucia in Matera, sia da parte di coloro che si sono occupati della vicenda di Maione
di Bari e della sua famiglia. Cominciamo con le osservazioni relative alla
chiesa di S. Agata.
La chiesa fondata da Melia o Melo de Sclavo all’interno della città di
Matera va sicuramente identificata con la chiesa che, almeno dalla fine
del XII secolo, ospitò un’importante comunità monastica femminile benedettina e aggiunse nella seconda metà del XIII secolo la titolazione a
1
V. Federici, Carte medievali con firme in versi, «Archivio storico della R. Società Romana di Storia Patria» 27, 1904, pp. 503-513, a pp. 510-511.
20
Francesco Panarelli
S. Lucia, assieme a quella a S. Agata; si tratta di una delle due fondazioni
monastiche femminili che caratterizzano la storia della Matera bassomedievale. A essa si affiancò infatti la comunità femminile di S. Maria la
Nova, poi intitolata alla SS. Annunziata, legata originariamente a una piccola congregazione di penitenti con sede principale a S. Giovanni d’Acri
e introdotta a Matera nel 1230 per volontà dell’arcivescovo acheruntino
Andrea; la comunità seguiva la regola di Agostino e non casualmente agli
inizi del XV secolo passò a far parte dell’ordine domenicano2.
La fondazione dedicata alle sante Lucia e Agata non è stata, invece,
ancora oggetto di uno studio esauriente, a parte un primo e recente intervento di Hubert Houben3, nel quale lo studioso tedesco mette a frutto
una parte della non disprezzabile documentazione superstite proveniente da questo istituto, che comincia dal 1208. Il fondo documentario del
monastero è andato perduto, ma si sono salvate le trascrizioni di età moderna di una buona parte delle pergamene originali e questo contribuisce
a sanare una parte almeno delle lacune. Abbiamo in corso l’edizione dei
documenti di SS. Agata e Lucia, all’interno del progetto volto a rendere fruibile il “Codice Diplomatico Materano”, la raccolta di documenti
materani ideata e avviata da Giustino Fortunato agli inizi del XX secolo,
senza che trovasse una realizzazione editoriale4. Ovviamente il lavoro
di trascrizione dei documenti non può prescindere anche da una riconsiderazione della storia dell’istituzione che ha prodotto e conservato la
documentazione e questo intervento si propone come prima riflessione
sulla vicenda iniziale della comunità benedettina femminile materana.
La storiografia locale nel complesso ha fornito indicazioni incerte e
lacunose sulla origine della comunità monastica, sulle quali mi riservo di
2
Su questa comunità femminile ci permettiamo un rimando a F. Panarelli, Il Fondo
Annunziata (1237-1493). Codice Diplomatico di Matera I, Galatina 2008 (Università degli
studi di Lecce, Dip. dei Beni delle Arti della Storia, Fonti Medievali e moderne, XIII), e F.
Panarelli (ed.), Da Accon a Matera: Santa Maria la Nova, un monastero femminile tra dimensione
mediterranea e identità urbana (XIII - XVI secolo), Münster 2012 (Vita Regularis 50).
3
H. Houben, I monasteri benedettini femminili autonomi: i casi di S. Giovanni Evangelista
di Lecce e delle SS. Lucia e Agata di Matera, in Il monachesimo femminile tra Puglia e Basilicata.
Atti del Convegno di studi promosso dall’Abbazia benedettina barese di Santa Scolastica
(Bari 3-5 dicembre 2005), cur. C.D. Fonseca, Edipuglia, Bari 2008, pp. 45-59. D’obbligo,
per una prima sintesi della vicenda del monastero, il rimando alla scheda da Hubert Houben curata in Monasticon Italiae, III, Puglia e Basilicata, cur. G. Lunardi - H. Houben - G.
Spinelli, Cesena 1986, n. 41 p. 187.,
4
Sul progetto di edizione, che utilizza le trascrizioni fatte realizzare da Giustino
Fortunato a inizio del ‘900 e che ci hanno trasmesso il testo di documenti andati poi
bruciati nell’incendio di Villa Belsito, cfr. l’Introduzione a Panarelli, Il Fondo Annunziata.
Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera
21
tornare in sede di edizione dei documenti. Qui ricordo soltanto che alla
metà del XVIII secolo il canonico Domenico Nelli sosteneva, sulla base
della mera presenza di una data su un architrave emerso durante lavori
nei pressi delle fabbriche monastiche, che il monastero sarebbe esistito
già a partire dall’8705. Nonostante l’epigrafe non sia conservata e l’interpretazione appaia del tutto incongrua, la possibile datazione si trova
spesso ripetuta nella storiografia locale, così come quella che anticipa
al 1092 l’esistenza della comunità monastica. In questo caso esiste un
riferimento apparentemente più preciso, proveniente dall’opera di Lupo
Protospatario, l’enigmatico cronista pugliese, forse di origine materana,
che nella sua opera annota per il settembre 1093 (quindi 1092, dal momento che Lupo utilizza lo stile bizantino) anche la morte della badessa
Eugenia sancti Benedicti monasterii Materiensis6. La badessa Eugenia gode
anche di un culto a livello locale, come beata, ma non è possibile rinvenire alcun documento o notizia sulla sua persona oltre quanto riportato da
Lupo7, e a maggior ragione risulta priva di fondamento l’ipotesi secondo
la quale il monastero benedettino di cui Eugenia era badessa dovrebbe
coincidere proprio con quello di S. Agata, attestato oltre un secolo più
tardi8. Bisogna per il momento rassegnarsi e ammettere che non sappia5
Il Nelli riferisce che nel 1577 «essendo cascate alcune officine antiche dentro esso
monastero si trovò in quelle rovine un gran pezzo di pietra lunga palmi sette, largo due,
il quale scorgeva ch’era stato architrave d’un camino seù focolare e nel medesimo pezzo
di pietra vi stava la seguente iscrizione … all’uso romano = DCCCLXX», in N.D. Nelli,
Descrizione della città di Matera, della sua origine e denominazione, Matera 1751, ms. Matera,
Museo Nazionale Domenico Ridola, Fondo Gattini, cap. 35, parag. 1; riprod. presso la
Biblioteca Provinciale T. Stigliani di Matera.
6
Lupus Protospatarius, Annales 885-1102, ed. G.H. Pertz, in Monumenta Germaniae
Historica, Scriptores 5, Hannover 1844, pp. 52-63, qui p. 62 (ad a. 1093): «Obiit abbatissa
Eugenia Sancti Benedicti monasterii Materiensis mense octobris, et in eodem mense ipsius anni Urbanus papa venit in Materiem, et applicuit coenobium sancti Eustachii cum
grandi plebe hominum suorum». Cfr. H. Houben, Urbano II e i Normanni (con un’appendice
sull’itinerario del papa nel Sud), in Id., Mezzogiorno normanno-svevo. Monastero e castelli, ebrei e
musulmani, Napoli 1996 (Nuovo Medioevo 52), pp. 115-143, qui p. 127. Su Lupo cfr.
E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003, pp.
198-215; e F. Delle Donne, Lupus Apulus Protospatharius, in Encyclopedia of the Medieval
Chronicle, cur. R.G. Dunphy, Leiden 2010, p. 1051.
7
Da Lupo hanno attinto gli storici materani, anche se è solo la tradizione locale a
tramandare memoria della morte in odore di santità e della sepoltura di Eugenia nella
cripta del monastero di S. Eustachio: cfr. da ultimo M. Morelli, Storia di Matera, Matera
1963, pp. 136-137.
8
Sulla base dei documenti allora disponibili anche Houben tende a dare credibilità
all’ipotesi della coincidenza tra i due istituti, sulla base del legame sia di Eugenia, sia della
22
Francesco Panarelli
mo null’altro del monastero femminile intitolato a S. Benedetto di cui
Eugenia era badessa prima del 1092.
Il documento citato in apertura permette invece di fare chiarezza
sulla situazione della chiesa di S. Agata. Si dice infatti in maniera esplicita
che alla metà del XII secolo la chiesa di S. Agata non ospitava alcuna comunità monastica, né maschile, né tantomeno femminile, ma costituiva
una chiesa di fondazione privata, edificata e dotata per volontà di Melia
di Sclavo, personaggio sul quale ci soffermeremo nel seguito. Come vedremo ancora, il dubbio lecito che la chiesa di S. Agata del 1160 non sia
necessariamente identica con il monastero femminile può essere fugato
sia dalla continuità dei rapporti della famiglia del fondatore con la stessa
chiesa, poi divenuta sede monastica, nel XIII secolo, sia dalla mancanza
di qualsiasi attestazione relativa a due luoghi di culto distinti dedicati entrambi a S. Agata nel circuito urbano di Matera, comprensivo tanto della
Civita, quanto dei due Sassi, nel XII secolo.
Possiamo essere certi che la chiesa del 1160 coincide con l’edificio
utilizzato inizialmente dalla comunità monastica femminile, e tuttora esistente; la chiesa, ora dedicata alle SS. Lucia e Agata, è sita nel Sasso Caveoso, in prossimità dello strapiombo sul torrente Gravina, in una località
denominata nelle fonti Malve o Pianelle. L’edificio attuale è costituito da
una chiesa ipogea caratterizzata da una struttura piuttosto irregolare a
tre navate, che ha subìto numerosi rimaneggiamenti e testimonia di vicende costruttive piuttosto complesse, che lasciano ipotizzare la fusione
di due luoghi di culto originariamente distinti. Una serie di grotte nella
zona sinistra è generalmente interpretata come parte integrante del complesso monastico e destinata all’uso delle monache. Questo edificio fu
parzialmente abbandonato nel corso del XIV secolo dalle monache, che
gli avrebbero preferito una nuova sistemazione sullo sperone terminale
della Civita, a strapiombo sul dirupo sul fiume Gravina9. La dinamica, la
cronologia e le ragioni di questo primo spostamento non risultano però
ancora del tutto chiare, mentre meglio documentato è l’ultimo spostamento della comunità monastica avvenuto alla fine del XVIII secolo sul
comunità di S. Agata con l’importante monastero benedettino urbano di S. Eustachio;
Houben, I monasteri benedettini femminili autonomi, p. 51.
9
Per una prima descrizione delle vicende edilizie della comunità monastica cfr.
B. Lafratta, Matera. Il monastero di SS. Lucia e Agata, in Monasteri italogreci e benedettini
in Basilicata, cur. L. Bubbico - F. Caputo - A. Maurano, II, Matera 1996, pp. 122-130, a
p.123; alla fine del ‘700 le monache si trasferirono ancora sul piano della Fontana, area di
espansione della città moderna, nell’attuale piazza Vittorio Veneto, ove sono visibili gli
imponenti edifici claustrali moderni.
Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera
23
piano della Civita, nell’ampio edificio moderno che delimita con la sua
mole l’attuale piazza Vittorio Veneto.
La vicenda iniziale di S. Agata, con l’insediamento di una comunità religiosa femminile in una chiesa preesistente, sembra anticipare di
qualche decennio quanto si realizzò anche a S. Maria la Nova: anche qui
abbiamo notizia nel 1204 della esistenza di una chiesa, retta da un prete,
con un probabile legame con la famiglia de Ulmis, senza alcuna menzione di comunità monastiche, mentre nel 1230 si realizzò la trasformazione della chiesa in monastero femminile10. Non mancarono anche per S.
Maria la Nova due spostamenti della comunità femminile, prima presso
la Cattedrale, nella Civita, e poi sul Piano della Fontana, nella stessa piazza Vittorio Veneto ove si trasferirono in età moderna le monache di SS.
Lucia e Agata.
A ogni modo il documento ci fa sapere che la chiesa di S. Agata era
stata edificata per volontà di Melia de Sclavo in un anno non precisato
avanti il 1160. Se non ci è stato possibile individuare ulteriori informazioni in relazione al magister Gaugellus che operò la donazione nel 1160,
conosciamo almeno una parte dell’attività di colui che non solo approva la donazione, ma anche viene indicato come il benefattore che dotò
originariamente la chiesa, cioè Melia di Sclavo. Le informazioni su Melia provengono esclusivamente da atti privati e, quindi, permettono una
ricostruzione parziale della sua carriera, legata essenzialmente a vicende
patrimoniali.
Il padre di Melia era Stefano, figlio di Melia detto Sclavo, il quale
nel 1099 aveva ricevuto un prestito da Petrizzi di Erasmo ponendo a
garanzia una casa e delle vigne in Bari11. Nel 1104 sempre Stefano aveva concesso un prestito di quattordici marche d’argento a Bonfiglio di
Roma e Giovanni di Tolosa, con l’interesse di cinque denari lucchesi per
ogni marca d’argento; sul verso dello stesso documento venne registrato
l’atto del 1108 con il quale sempre Stefano metteva temporaneamente il
documento di prestito nelle mani di Eustachio, abate di S. Nicola, affinché recuperasse la sua quota di credito da Bonfiglio, per poi restituire il
documento a Stefano perché anch’egli potesse recuperare il credito da
Giovanni di Tolosa12. Si trattava quindi di una prima operazione di cre10
Per quanto riguarda la comunità di S. Maria la Nova rimandiamo a Panarelli, Il
Fondo Annunziata, e Panarelli (ed.), Da Accon a Matera.
11
Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo normanno (1075-1194), ed. F. Nitti di Vito,
Bari 1902 (Codice Diplomatico Barese V, d’ora in poi CDB V), n. 29, p. 49, dove la datazione al 1099 è comunque ipotesi dell’editore.
12
CDB V, n. 38, p. 66.
24
Francesco Panarelli
dito abbastanza complessa, alla quale aveva partecipato anche il rettore
della Basilica nicolaiana, con il che si lascia intravedere un giro di rapporti ampio e socialmente elevato da parte di Stefano.
Nel 1144 compare ormai il figlio di Stefano, Melia. Kiri Melia f. domini
Stefani qui et de sclavi aveva rilevato in quell’anno un debito insoluto da
Epifana di Petracca, acquistando in tal modo i beni a suo tempo posti in
pegno13. Nello stesso anno Petracca chroni figlia di Giovanni alienò una
vigna nei pressi di Bari che deteneva per vicariationem da kiri Melia f. domini
Stefani qui et de sclavi14. Nell’insieme queste notizie confermano una continuità di azione tra Stefano e il figlio Melia, con operazioni legate ad attività feneratizie, anche se non sempre è chiarissimo il ruolo da essi svolto.
Un accostamento ancora al mondo del prestiti non manca anche in
un documento proveniente da altra tradizione e che arricchisce notevolmente il profilo di Melia. Nel luglio 1143 Giacomo abate monasterii puellarum s. Salvatoris de Monticlo riceveva da Petracco detto Orsengaro, figlio
di Rodi e residente in Bari, la donazione dei diritti che questi aveva su
una casa nella città di Bari, casa che – ancora una volta - gli era stata data
in pegno per un debito di ventiquattro schifati aurei da Niceforo figlio
di Petracco di Antranica; ad accompagnare l’abate Giacomo vi era il suo
avvocato Kirye Melia de Sclavo15.
Come abbiamo mostrato in altra sede, l’abate Giacomo, destinatario della donazione di Orsengaro, era il superiore del monastero di S.
Salvatore al Goleto, nei pressi Nusco in Irpinia; il monastero era stato
fondato un decennio prima da Guglielmo da Vercelli, già reduce dalla
esperienza di fondazione di S. Maria di Montevergine, e ora impegnato nella guida di una comunità monastica femminile. Alla sua morte,
avvenuta nel giugno del 1142, gli successe l’abate Giacomo, unico (per
13
CDB V, n. 97, p. 165, marzo 1144: Epifana di Petracca, vedova di Rodostamo,
prende possesso di una vigna e oliveto che Alfarana figlia di Petracca di Mira e vedova
di Leone aveva dato in pegno al suo defunto marito per un prestito di ottocento ducali
rimasto insoluto; Melia de Sclavo interviene a questo punto «pro protimissy» e versa gli
ottocento ducali a Epifana, con l’aggiunta di altri trentadue per le migliorie apportate
sulla terra (probabilmente gli interessi per il prestito) e acquista con ciò la terra.
14
CDB V, n. 96, p. 164, settembre 1144.
15
Il documento in questione fa parte del Fondo Fusco acquisito e conservato presso la Società Napoletana di Storia Patria a Napoli; il regesto è pubblicato in Elenco delle
pergamene già appartenenti alla famiglia Fusco, «Archivio storico per le Province Napoletane»
8, 1883, pp. 1153-161, 332-338, 775-787, alle pp. 333-4, mentre un’edizione integrale del
documento si trova in F. Panarelli, Tre documenti sugli esordi della comunità di S. Salvatore al
Goleto, in Mediterraneo, Mezzogiorno, Europa. Studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, Bari
2004, pp. 799-815, alle pp. 811-812.
Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera
25
quanto noto) superiore maschile della comunità femminile del Goleto,
dopo la morte di Guglielmo da Vercelli, e al quale si deve con molta probabilità la committenza della prima parte del testo agiografico dedicato
dai discepoli goletani al fondatore Guglielmo16. Guglielmo da Vercelli
aveva intrattenuto rapporti intensi con l’area barese, testimoniati tanto
dal testo agiografico, dove di parla ripetutamente dei viaggi compiuti da
Guglielmo a Bari, dove avrebbe anche acquistato libri e arredi liturgici
per la prima comunità monastica di Montevergine17, quanto anche da
alcuni atti documentari superstiti18; Guglielmo aveva anzi ricevuto già in
vita la donazione di una chiesa nell’immediato suburbio di Bari, intitolata
a S. Giorgio19.
La donazione effettuata nel 1143 si colloca quindi in continuità con
i rapporti e di Guglielmo da Vercelli e della comunità femminile del Goleto con la città di Bari. Ci interessa però qui, in maniera particolare,
rilevare la presenza di Melia de Sclavo quale avvocato dell’abate goletano,
a testimonianza di un rapporto fiduciario tra la giovane comunità irpina
e lo stesso Melia. Non conosciamo le vie attraverso cui Melia giunse a
questo ruolo, ma si tratta di un affiancamento che proietta comunque
Melia in una dimensione già più ampia rispetto al solo ambito urbano
barese e soprattutto lo pone in diretta relazione con una delle più interessanti esperienze di monachesimo riformato nella Apulia del XII secolo,
quella legata a Guglielmo da Vercelli, e alle sue fondazioni di S. Maria
di Montevergine e di S. Salvatore di Goleto. Non possiamo sapere se vi
fossero più stringenti ragioni economiche, vista la natura da credito della
donazione, ma neppure si deve escludere un coinvolgimento diretto di
Melia nel consolidamento della giovane comunità irpina e delle sue dipendenze in area barese.
16
Rimandiamo per la questione della composizione e della committenza del testo
agiografico su Guglielmo, nonché per la bibliografia precedente, a quanto detto nella
Introduzione in F. Panarelli, Scrittura agiografica nel Mezzogiorno normanno. La Vita di san
Guglielmo da Vercelli, Galatina 2004 (Università degli studi di Lecce, Dip. dei Beni delle
Arti della Storia, Fonti Medievali e moderne, VI).
17
Cfr. Panarelli, Vita di San Guglielmo, p. 14.
18
In particolare in un documento del 1162 si discute dell’affidamento fatto prima
del 1142 a Guglielmo di ben trecento capi di bestiame da parte del cittadino barese
Giovanni detto Scannamanna; documento edito in Panarelli, Tre documenti, pp. 813-815.
19
Cfr. Panarelli, Vita di San Guglielmo, p. 26; la dipendenza della chiesa di S. Giorgio dal monastero del Goleto è documentata a partire dal 1162; cfr. Panarelli, Tre documenti, p. 813. Sulla chiesa e su quanto resta degli edifici cfr. L. Derosa - M. Triggiani, S.
Giorgio martire: un esempio di chiesa rurale alle porte di Bari, «Studi Bitontini» 80, 2005 pp. 5-26.
26
Francesco Panarelli
Merita a questo punto di essere segnalata la puntuale presenza in tutti gli atti compiuti da Melia de Sclavo del giudice barese Leone de Rayza,
che agisce in coppia con l’altro giudice barese Costa nel luglio del 1143
e nel marzo 114420, mentre è presente da solo nel settembre 114421, e
ancora presenzia a un acquisto effettuato ancora dall’abate Giacomo nel
novembre 114422. Leone de Rayza godeva di una posizione di prestigio
nella società barese della prima metà del XII secolo in virtù della carica di
giudice che ricoprì per qualche decennio; più precisamente egli compare
come giudice barese tra il 1119 e il 1135, giudice regio nel 1141 e regalis
iudex o protoiudex tra il 1142 e il 1147, per morire prima dell’aprile del
115523. Ma egli era anche il padre del ben più celebre Maione di Bari, che
proprio negli anni intorno al 1145, cominciava il brillante cursus amministrativo e politico che lo avrebbe condotto a una posizione di massimo
potere nei primi anni di regno di Guglielmo I.
Già a partire dall’ottobre 1144 compare come scriniarius, ed è costantemente attestato presso la curia palermitana negli anni successivi,
tanto che nel 1149 venne nominato vicecancellarius, un ufficio che sembra
sia stato creato appositamente per lui e che segnò il passaggio a vere responsabilità di governo. Con la scomparsa di Roberto di Selby, nel 1152,
Maione fu promosso all’ufficio di cancelliere e poco dopo l’incoronazione di Guglielmo I d’Altavilla, nell’aprile del 1154, egli ottenne il titolo
di magnus ammiratus ammiratorum, denominazione che intendeva tradurre
20
Entrambi i giudici sono ampiamente presenti nelle carte baresi: cfr. CDB V n.
97, p. 165 (marzo 1144), n. 99, p. 169 (novembre 1146), dove sono attestati i due giudici
insieme; Leone de Rayza è più ampiamente attestato in CDB I, n. 40, p. 78 (settembre
1119) CDB V n. 79, p. 136 (agosto 1130), cfr. anche nn. 84 (a. 1135), 86 (a. 1135), 94 (a.
1141), 95 (a. 1142), 96 (a. 1144), 97, 99, 101 (a. 1147), mentre è già defunto nell’aprile
1155 («iuxta sententiam domni Leonis de reiza bone memorie regalis barensium protoiudicis») n. 112, p. 190. Su Leone cfr. H. Houben, Il “Libro del capitolo” del monastero della SS.
Trinità di Venosa (cod. cas. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina 1984,
pp. 143 e 158-159.
21
CDB V, n 96, p. 164, settembre 1144.
22
Regesto in Elenco delle pergamene, cit. p. 334; parziale edizione in Panarelli, Tre
documenti, p. 804. In questo frangente l’abate Giacomo è accompagnato da un diverso
avvocato, Pandolfo.
23
CDB vol. V, n. 112 (5 aprile 1155); «sententiam domni Leonis de Reiza bone
memorie». Il suo obito e quello della moglie Curaza vennero inseriti nel Necrologio
venosino: H. Houben, Il “Libro del capitolo” del monastero della SS. Trinità di Venosa (cod.
cas. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina 1984, pp. 143 e 158-159. La
moglie Kuraza sarebbe morta qualche anno dopo, se è corretta la data con cui è inserita
nel Necrologio di S. Matteo di Salerno: C.A. Garufi, Necrologio del Liber confratrum di S.
Matteo di Salerno, Roma 1922, p. 102.
Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera
27
i poteri straordinari che gli aveva accordato il nuovo sovrano, mentre
anche suo fratello Stefano ascendeva alla carica di ammiratus, con compiti
più legati alla conduzione della flotta.
La figura di Maione di Bari resta indelebilmente segnata dalla descrizione che ne ha imposto lo pseudo-Falcando24 e con difficoltà la storiografia contemporanea ha cercato di disincagliarlo dalla visione fosca,
malvagia e corruttrice che ne disegna il cronista, rischiando spesso, per
contrappasso, di fare in maniera impropria di Maione una sorta di eroe
ante-litteram delle forze “nazionali” contro la corte feudale e straniera
degli Altavilla25. Un profilo meno sbilanciato di Maione stenta ancora a
delinearsi, anche se non mancano più equilibrati interventi recenti26, e
parallelamente si pongono meglio in evidenza anche gli aspetti culturali,
spirituali e religiosi della sua personalità. Il riferimento è tanto alla committenza di testi e traduzioni, quanto soprattutto alla produzione diretta
di testi religiosi da parte di Maione, in primo luogo il Commentario del
Padre nostro27, senza dimenticare che a lui si attribuisce anche, tradizional24
Utilizzo ancora la forma pseudo-Falcando per questo enigmatico autore, per il
quale sono state proposte molte identificazioni; l’ultima in ordine di tempo e anche abbastanza convincente è quella di R. Köhn, Noch einmal zur Identität des “Hugo Falcandus”,
«Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 67, 2011, pp. 499-541, alla quale
rimando anche per la bibliografia precedente; la tesi sostenuta, non del tutto nuova,
comporta l’identificazione dell’autore del Liber con Ugo Faucon, abate di Saint-Denis
(1186-1197).
25
In fondo questa linea tiene ancora insieme le riletture del personaggio Maione che
si succedono da M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 2003 (ed. or. 1872), III,
pp. 240, 222-223, per poi proseguire in O. Hartwig, Re Guglielmo I e il suo grande ammiraglio
Maione da Bari, «Archivio Storico per le Province Napoletane» 8, 1883, pp. 397-485, che
pure valorizza e ripubblica nuove fonti su Maione e in G. B. Siragusa, Il Regno di Guglielmo I in Sicilia, Palermo 1885, che lo esalta quale campione della Sicilia e quindi dello
stato-guida per il “movimento nazionale italiano” e che, come è stato rilevato da Donald
Matthew, nella seconda edizione della sua opera nel 1929 si lanciava in un ardito parallelo
celebrativo tra la figura di Maione e quella di Benito Mussolini; o ancora nel coevo lavoro
di A. Gabrieli, Un grande statista barese del secolo XII, vittima dell’odio feudale, Trani 1899,
che soggiace alla stessa tentazione risorgimentale, ma aggiunge notizie interessanti sulla
famiglia e sul personaggio.
26
Cfr. A. Ancora, Alcuni aspetti della politica di Maione da Bari, in Studi Storici in onore
di Gabriele Pepe, Bari 1969, pp. 301-316; B. Pio, Maione di Bari, in Dizionario Biografico degli
Italiani, 67, Roma 2006, pp. 632-635.
27
Il primo a dare adeguato rilievo a questi aspetti fu Hartwig, che ripubblicò in coda
al suo articolo del 1883 i testi già noti dei Prologhi alle traduzioni del Menone e del Fedone
e soprattutto la Expositio orationis dominicae a Maioni amirati edita, alle pp. 461-485; più recente lo studio su quest’ultimo testo da parte di D. Matthew, Maio of Bari’s Commentary on
the Lord’s Prayer, in Intellectual Life in the Middle Ages. Essays Presented to Margaret Gibson, cur.
L. Smith - B. Word, London - Rio Grande 1982, pp. 119-144, che comincia anche a dare
28
Francesco Panarelli
mente, la fondazione della chiesa di S. Cataldo a Palermo28: personaggio
quindi assolutamente non così cinico e immorale come viene dipinto
dallo pseudo-Falcando, e pure circondato da un clan familiare che non
dipendeva esclusivamente dalla sua fortuna e che non si estinse con la
sua caduta, come ha dimostrato pochi anni or sono Norbert Kamp29.
La parabola del potere di Maione di Bari era al suo culmine nei primi mesi del 1160, quando ancora, nonostante le violenze che avevano
segnato i primi anni di governo di Guglielmo e del suo fidato ministro,
non si poteva prevedere il tragico epilogo che di lì a breve, nel novembre
dello stesso anno, avrebbe travolto lo stesso Maione e una parte del suo
entourage. Nel febbraio del 1160, quindi, nel momento in cui Gaugello
operava la sua donazione a favore della fondazione di Melia de Sclavo,
questi per la prima e unica volta nella documentazione superstite si veste
della carica di regio comestabile e proclama con pompa e compiacimento il suo stato di cognato di Stefano e di Maione, avendone evidentemente sposato una sorella, come l’aggettivo sororius lascia intendere.
Acquista così anche un significato differente la costante presenza
negli atti in cui è attivo Melia, di Leone de Rayza, suocero da una data
imprecisata dello stesso Melia. Non sappiamo se il legame di parentela
fosse già definito nel 1143-44, ma vi erano evidenti basi di contiguità di
interessi tra i due personaggi così spesso affiancati e l’ascesa di Maione
dovette rendere sempre più orgoglioso Melia di questi legami. Non conosciamo purtroppo il nome della consorte di Melia, sorella dell’ammiraglio e personaggio di intersezione tra i due gruppi familiari, così come
non conosciamo il nome dell’altra sorella di Maione che era andata in
sposa al siniscalco Simone30. Non è certo da escludere che anche la carica di comestabile per Melia fosse stata favorita dalla sua parentela con
il potente cognato e che egli sia stato solo per breve tempo in carica,
travolto anche lui dall’onda che sommerse Maione; non è stato infatti
contezza della distribuzione non irrisoria dei testimoni manoscritti di questo testo, alla
cui nuova edizione critica sta ora lavorando Valeria De Fraja.
28
Ugo Falcando, La Historia o Liber de Regno Sicilie e la epistola ad Petrum Panormitane
urbis thesaurarium, ed. G.B. Siragusa, Roma 1897 (Fonti per la Storia d’Italia 22), p. 44,
nota.
29
N. Kamp, Su un nipote di Maione di Bari, che fu giustiziere di Federico II, in Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, cur. G. Rossetti - G. Vitolo, I, Napoli 2000, pp. 283-300; una indicazione di massima sulla sostituzione del cognome “de
Raiza” con quella “de Ammirato” per i discendenti di Maione si trova già in Gabrieli, Un
grande statista, p. 19, anche se poi non vengono fornite indicazioni precise sui discendenti.
30
Kamp, Su un nipote di Maione di Bari, p. 284
Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera
29
possibile trovare altre attestazioni della sua attività come comestabile,
prima o dopo il 1160, a indicare probabilmente la scarsa incidenza del
suo operato. Per il resto sappiamo ben poco.
Lo pseudo-Falcando, dopo l’eccidio del novembre 1160, si sofferma
solo sull’arresto del figlio Stefano e del fratello Stefano, entrambi con il
titolo di ammirato, mentre tace sulla sorte degli altri congiunti di Maione;
Romualdo Salernitano estende la cerchia degli arrestati a filios, sorores et
fratrem di Maione, lasciando intendere che tutti i parenti più stretti vennero fatti prigionieri e furono oggetto di confisca dei beni, includendo implicitamente anche la moglie di Melia31. Non abbiamo comunque possibilità di verificare quanto riportato, alquanto genericamente, da Romualdo e quindi non conosciamo la sorte della moglie di Melia. Entrambi
i coniugi non compaiono comunque nella documentazione successiva.
L’unica sorella di Maione ad avere un nome ci riconduce ancora
una volta al mondo monastico femminile. La terza sorella di Maione,
Eustochia, era badessa del monastero femminile di S. Scolastica a Bari
nel 116032 e probabilmente lo era ancora nel 1200, se si presta fede alla
relazione sulla traslazione di una reliquia dell’apostolo Matteo a Bari da
Spica nel 120633. Il monastero di S. Scolastica rappresenta una delle fondazioni religiose più significative della Bari medievale, la cui creazione,
lungi dal risalire all’età carolingia, molto più verosimilmente si deve all’opera dell’infaticabile abate Elia alla fine dell’XI secolo, come da ultimo
ha mostrato Cosimo Damiano Fonseca34. Il monastero, beneficiato dal
principe di Bari Grimoaldo e riorganizzato radicalmente sotto la badessa
31
Ugo Falcando, La Historia o Liber de Regno Sicilie, p. 45. Romualdus SalernitaChronicon, ed. C.A. Garufi, in Rerum Italicarum scriptores, VII/1, Città di Castello - Bologna 1909-1935, p. 246; cfr. anche l’edizione con traduzione italiana a fronte curata da
C. Bonetti, Cava de Tirreni 2001, pp. 176-178.
32
La presenza di Eustochia alla guida della comunità monastica sin dal 1160 è
attestata in un documento trascritto da Francesco Lombardi intorno al 1730, in una sua
opera manoscritta, pubblicata solo in età contemporanea: F. Lombardi, Dell’Historia del
monasterio di S. Scolastica della Città di Bari dell’Ordine cassinese, cur. F. Zippitelli, Bari 1981, p.
16; il documento è anche pubblicato da Gabrieli, Un grande statista, alle pp. 28-33. Si tratta di una donazione parziale effettuata da Giovanni Pironti di crediti che egli vantava da
Donniza, figlia di Pacifico e vedova di Gregorio Carolilli, e dal di lei fratello Stefanizzo.
33
Lombardi, Dell’Historia del monasterio di S. Scolastica, p. 17. Kamp, Su un nipote, p.
284; Gabrieli, Un grande statista, p. 38.
34
C.D. Fonseca, Il monastero barese di Santa Scolastica tra storia e storiografia, in Il monachesimo femminile, pp. 11-21; per il contesto generale della città cfr. R. Iorio, Sotto i due
Guglielmi, in Storia di Bari dalla conquista di Bari al Ducato Sforzesco, Bari 1990, pp. 62-68; per
la bibliografia precedente cfr. voce di G. Lunardi, S. Scolastica, in Monasticon, n. 35, p. 35.
nus,
30
Francesco Panarelli
Guisanda Sebasta agli inizi del XII secolo, ebbe a soffrire delle violenze
e distruzioni seguite alla rivolta e alla repressione del 1155-56, ma nel
1160 era sicuramente nuovamente abitato e guidato dalla nuova badessa
Eustochia, sorella dell’ammiraglio Maione35. Bisogna supporre che l’elevazione di Eustochia a badessa sia avvenuta prima del novembre del
1160 e dell’assassinio del fratello, e che Eustochia abbia mantenuto la sua
carica anche dopo il fatto di sangue per almeno quaranta anni.
Il legame della famiglia di Maione con comunità religiose femminili
non si fermò al solo monastero barese di S. Scolastica, ma ebbe anche
un ulteriore sviluppo nella chiesa materana fondata da Melia de Sclavo.
Anche se non abbiamo documenti relativi alla situazione di questa istituzione dopo il 1160, possiamo essere certi che in una data imprecisata tra
il 1160 e il 1200 la chiesa divenne sede di una comunità monastica femminile, già consolidata nel 1208. Nel marzo di quell’anno infatti Mathia
Baronissa, figlia di Roberto de Bartinico, decise di donare un vasto tenimento denominato Castellum novum e collocato tra Minervino, Montemilone e Spinazzola nelle mani domine Eugenie monache eiusdem monasteri e alla
presenza dell’avvocato del monastero giudice Maraldicio36. La proprietà,
che faceva parte dei beni dotali di Mathia e comunque proveniva dalla
sua famiglia (pertinens mihi iure paterno), rappresentò nei secoli successivi la
principale fonte di reddito per le monache di SS. Lucia e Agata.
Nel documento si racconta anche del ruolo assunto da Mathia per
la comunità. Si dice infatti che Mathia, subito dopo la donazione, prese
l’abito monacale e per mandato del Cardinale Gregorio di S. Teodoro,
legato pontificio in Puglia, e di Simone, abate di S. Eustachio di Matera, venne nominata badessa del monastero. L’assenso espresso dai due
personaggi rivela ancora una volta l’importanza che la scelta di Mathia
evidentemente rivestiva: il monastero di S. Eustachio rappresentava agli
inizi del XIII secolo sicuramente l’istituzione religiosa più importante e
significativa della città di Matera, mentre la presenza del cardinale legato
35
La notizia in Fonseca, rimanda a Lombardi, Dell’historia del monastero di S. Scolastica,
pp. 18-19; i passi riguardanti S. Scolastica erano già in estratto in Gabrieli, Un grande
statista, p. 38.
36
Il documento è stato pubblicato per ben tre volte. Una prima volta D. Vendola,
Un capitolo di storia del monastero di Sant’Agata e Santa Lucia di Matera, «Archivio Storico
per la Calabria e la Lucania» 6, 1936, pp. 63-79, a pp. 77-79; questa edizione è stata poi
riproposta in P. Dalena, Da Matera a Casalrotto. Civiltà delle grotte e popolamento rupestre (secc.
X-XV), Galatina 1990, pp. 59-60; da una copia del documento originale proviene invece
l’edizione in Codice Diplomatico Barlettano, IV, ed. S. Santeramo, Barletta 1962, pp. 1-2.
Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera
31
di Innocenzo III garantiva anche una sanzione politica di più ampio respiro alla scelta di Mathia37.
Non ci soffermiamo in questa sede né sulle vicende del tenimento
di Castelnuovo, né sulle questioni, tuttavia molto interessanti, legate alla
identificazione della famiglia di Mathia, che sono oggetto autonomo di
indagine da parte nostra e che sembrano ricondurre anche Mathia alla
discendenza di Maione di Bari; si tratta comunque di una pista ancora da
verificare compiutamente.
Per concludere e riassumere. La chiesa di S. Agata di Matera venne
fondata poco prima del 1160 da Melia de Sclavo, personaggio molto attivo nella società barese nella prima metà del XII secolo, che fu in rapporti
probabilmente con san Guglielmo da Vercelli e sicuramente con la comunità femminile di S. Salvatore al Goleto e che in una data imprecisata
prima del 1160 sposò una sorella dell’ammiraglio Maione. Dopo il 1160
la chiesa materana divenne sede di una comunità monastica femminile,
che mantenne probabilmente il suo legame con la famiglia del fondatore,
e accrebbe la sua importanza tanto che, nel 1208, Mathia Baronissa de
Partinico operò una ricca donazione a favore della comunità, divenendone contemporaneamente anche badessa; il rilievo dell’operazione implicò sia una sanzione a livello locale per il tramite dell’abate di S. Eustachio
di Matera, sia a livello politico più ampio, con il consenso del cardinale
legato di Innocenzo III.
37
Gregorio cardinale di S. Teodoro almeno dal 1208 (dal documento materano si
desume che lo fosse già da marzo di quell’anno) era legato pontificio per l’Apulia; cfr. su
di lui W. Stürner, Federico II e l’apogeo del’Impero, Roma 2009, p. 177; soprattutto W. Maleczek, Papst und Kardinalskolleg von 1191 bis 1216. Die Kardinäle unter Coelestin III. und Innocenz
III., Wien 1984, pp.151-153. Per il monastero materano cfr. H. Houben, S. Eustachio, in
Monasticon Italiae, III, n. 40, p. 187.
IDENTITÀ SIGNORILI E SISTEMI DI GESTIONE
TRA ETÀ LONGOBARDA E NORMANNA.
LE TERRE DEL CASTRUM IUFUNI E LA
TRINITÀ DI CAVA
Barbara Visentin
L’abbazia di Cava, con le trasformazioni avvenute soprattutto in età
normanna, offre una prospettiva forse periferica, ma senz’altro significativa per la ricostruzione del processo di dissoluzione dell’ordinamento
pubblico carolingio, che rappresenta uno dei temi più rilevanti del dibattito storiografico. Nel corso della metà del IX secolo, in quasi tutte le
regioni dell’Europa occidentale, comprese nei confini della grande costruzione carolingia, si evidenziano difficoltà di conduzione dell’apparato statale, di gestione delle forme di successione ereditaria e di esercizio
del controllo e della difesa militare sulle terre imperiali.
Cambiamenti evidenti segnano la crisi dalla quale prende forma la
creazione di un mondo nuovo, dotato di grande dinamismo e caratterizzato da una propria specificità, nel quale il cardine degli assetti politico-istituzionali, socio-economici e insediativi diviene la signoria rurale1. Nuclei di potere autonomi a carattere locale, variamente indicati
dalle fonti come dominatus, potestas, consuetudo, districtus, traggono vigore
dallo scardinamento dell’ordinamento pubblico ed esercitano il potere
attraverso la disponibilità di un consistente contingente militare e di un
cospicuo patrimonio fondiario2. La profonda trasformazione giunge a
compimento nella seconda metà dell’XI secolo, determinando in molti
1
Per una panoramica generale sulla nascita della signoria si veda la lezione di S.
Carocci, Signori, castelli, feudi in Storia Medievale, Roma 1999, pp. 247-267 e la bibliografia
citata.
2
Cfr. G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino 1976,
pp. 189-206.
34
Barbara Visentin
casi un’evoluzione del grande patrimonio fondiario secondo un percorso
insieme economico e politico che, dalla semplice signoria fondiaria, lo
converte in quella comunemente definita signoria di ‘banno’3.
In questo quadro s’inseriscono le vicende dell’antico Ducato di Benevento, dove il primo sentore di tale frammentazione appare manifesto
nella spartizione della contea di Capua che i discendenti del gastaldoconte Landolfo mettono in campo, arrivando perfino, tra l’879 e l’882, a
sancire una duplicazione della sede vescovile della città4. Nel Mezzogiorno longobardo del IX secolo munirsi di una fortezza significa dichiarare
apertamente la propria volontà di autonomia, mostrare di possedere i
mezzi militari per conquistarla e dare prova di essere politicamente accorti per amministrarla. Beni fondiari, nuclei abitati, eserciti si organizzano intorno a castra già esistenti o di nuova fondazione, permettendo ad
ognuno dei beneficiari di dar vita alla propria ‘signoria territoriale’, la cui
salvaguardia mina talvolta i principi di sopravvivenza della propria gens5.
Frutto di questo stesso processo di evoluzione delle istituzioni pubbliche è la vicenda del dominatus loci di Giffoni che, inserito nel panorama
complesso del Principato di Salerno, presenta tempi e modi differenti di
affermazione, ricoprendo un ruolo importante nel cambiamento radicale della scena politica tra XI e XII secolo.
3
Nel primo caso il dominus era chiamato ad esercitare un possesso esclusivamente
circoscritto alla terra, mentre nel secondo il dominio del signore, relativo questa volta ad
un distretto ben definito nei suoi confini, prevedeva anche il diritto di coercizione e di
comando nei confronti dei subiecti e costituiva, dunque, un potere fortemente territorializzato. Nel secolo X definire ‘bannale’ un potere significava essenzialmente voler sottolineare il carattere pubblico di alcune emergenti forze locali al fine di legittimarle. Cfr. A.
Barbero - C. Frugoni, Dizionario del Medioevo, Bari 2008, pp. 26-27.
4
Cfr. Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, ed. G. Waitz in M.G.H.,
Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannover 1964, pp. 231-264, cc. 40, 46, pp.
250, 254.
5
Cfr. N. Cilento, Le origini della Signoria capuana nella Langobardia minore, Roma 1966,
p. 26, si veda anche Tabacco, Egemonie sociali, pp. 171-179. Per approfondire il contesto
capuano si rimanda a B. Visentin, Strategie politiche nella Capua longobarda: la difficile divisione
della sede vescovile, «Nuova Rivista Storica» 91/2, 2007, pp. 447-458; Id., La nuova Capua
longobarda. Identità etnica e coscienza civica nel Mezzogiorno altomedievale, Manduria - Bari - Roma
2012. Di parere differente sono M. Del Treppo, Medioevo e Mezzogiorno: appunti per un
bilancio storiografico, proposte per un’interpretazione, in Istituzioni e società nella storia d’Italia. Forme
di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, cur. G. Rossetti, Bologna 1977, pp. 265-268,
e V. Lorè, Uno spazio instabile. Capua e i suoi conti nella seconda metà del IX secolo, in Les élites
et leurs espaces. Mobilité, rayonnement, nomination (du VI au XI siècle), cur. P. Depreux - F. Bougard - R. Le Jan, Turnhout 2007, pp. 341-359.
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
35
Nella primavera del 1052 Guaimario IV e suo fratello Paldolfo cadono vittime di una violenta congiura, aprendo ufficialmente la crisi politica del Principato e rendendo necessaria una sostanziale ristrutturazione
degli ambiti territoriali gravitanti immediatamente intorno alla capitale.
Qualche anno prima Guaimario aveva intrapreso la divisione del patrimonio familiare, mettendo fine all’unità patrimoniale, quale elemento
fondante della solidarietà e dell’unità dinastica, promuovendo un’articolazione familiare del potere principesco e, di fatto, autorizzando le comunità monastiche esistenti ad impegnarsi in operazioni di concentrazione
dei loro patrimoni fondiari6.
Il tentativo, però, di affermare la propria autorità attraverso la presenza di membri illustri della familia, ai quali sono destinate porzioni
consistenti del patrimonio fondiario del principe o importanti funzioni
pubbliche, ha vita breve e l’esperienza longobarda si avvia inesorabilmente al tramonto7. I contesti di Capaccio e Giffoni consentono, tuttavia, di rintracciare gli eventi che segnano la vita di due rami della famiglia
principesca, capaci di affermare la loro presenza, ben oltre la conquista
normanna, all’interno di importanti centri fortificati, posti a controllo
delle terre orientali dell’antico Principato longobardo8. La loro sopravvivenza segna la nascita di importanti signorie locali, gravitanti attorno
ad un castello dove, al riparo di una cinta fortificata, vivono la familia del
dominus, i suoi fideles e gli homines subiecti, ai quali risultano concesse le terre
circostanti.
Il potenziamento della fisionomia locale del potere, fondato su un
controllo efficace del territorio e dei suoi abitanti, coincide con la fondazione di una delle più estese signorie fondiarie, l’abbazia della SS. Trinità di Cava, e con il momento di massimo ampliamento dell’orizzonte
6
Cfr. H. Taviani Carozzi, La principauté lombarde de Salerne (IXe-XIe siècle). Pouvoir
et société en Italie lombarde méridionale, II, Roma 1991 [Collection de l’École Française de
Rome, CLII], pp. 857-865; 1079.
7
V. Lorè, L’aristocrazia salernitana nell’XI secolo in Salerno nel XII secolo. Istituzioni, società, cultura, Atti del Convegno Internazionale Raito di Vietri sul Mare, Auditorium di
Villa Guariglia 16-20 giugno 1999, cur. P. Delogu e P. Peduto, Salerno 2004, pp. 61-102,
in particolare pp. 74-76, e Id, Monasteri, principi, aristocrazie. La Trinità di Cava nei secoli XI
e XII, Spoleto 2008, p. 25.
8
Per una storia più dettagliata dell’insediamento di Capaccio vecchia si rimanda a P.
Delogu, Storia del sito, in Caputaquis Medievale, I, Salerno 1976, pp. 23-32 e per le relazioni
con la SS. Trinità di Cava al recente saggio di B. Visentin, Poteri territoriali e affermazioni
monastiche tra XI e XIII secolo: il dominatus loci di Capaccio e la SS. Trinità di Cava, «Rassegna
Storica Salernitana» 57, giugno 2012, pp. 45-78.
36
Barbara Visentin
patrimoniale della neonata comunità. Nel 1025 il principe di Salerno
Guaimario III e suo figlio Guaimario IV danno vita all’atto di nascita
del patrimonio monastico cavense, concedendo un ampio territorio, ricadente nella valle Metelliana e gravitante attorno alla grotta Arsicia, al
fondatore della Trinità, Alferio principi eiusdem civitatis in magna familiaritate
coniunctus est9.
Tra la seconda metà dell’XI e per tutto il XII secolo i monaci di Cava
si mostrano capaci di tessere le fila di rapporti nuovi, ridisegnando gli
orientamenti della loro strategia di affermazione, per inserirsi negli spazi
che la conquista normanna crea. Questa alternanza costante tra adesione
al vertice dell’ordinamento pubblico ed effettiva autonomia del monastero diventerà uno dei caratteri distintivi della storia della Trinità10. La
dilatazione degli ambiti territoriali apre dinanzi all’abbazia cavense nuovi
e fecondi orizzonti economici, culturali e spirituali dando vita, tra il 1070
e il 1180, ad un’intensa attività patrimoniale. Chiese, monasteri e possedimenti vari entrano nella proprietà monastica e consegnano la Trinità
di Cava al rango di signoria fondiaria, a capo della quale siede l’abate,
entrato definitivamente nella società del potere. Egli offre protezione e
tutela agli uomini che abitano le sue terre, è un dominus a tutti gli effetti,
capace di conciliare le esigenze dell’anima con quelle della sicurezza della
propria persona e dei propri beni.
Il patrimonio acquisito proviene, nella maggior parte dei casi, da donazioni di principi longobardi, prima, di duchi e conti normanni, dopo,
scaturite dall’esigenza di rimediare ad una vita peccaminosa e allo smarrimento che il mistero della morte provoca o determinate dalla necessità
di assicurare l’ufficio liturgico nelle chiese rurali e di ottemperare al principio riformatore che i laici non dispongano delle res ecclesiae11. Non man9
Si vedano le Vitae Quatuor Priorum Abbatum Cavensium, ed. L. Mattei Cerasoli, Bologna 1941 (Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, parte V), p. 5 e Codex Diplomaticus Cavensis, edd.. M. Morcaldi - M. Schiani - S. De Stefano - P. Piazzi, Milano - Pisa - Napoli
1873-1936, V, doc. 764, da questo momento citato come CDC. Per la rapida espansione
cavense si rimanda anche al lavoro di P. Guillaume, Essai historique sur l’abbaye de Cava
d’après des documents inédits, Badia di Cava 1877, pp. 50-52, da questo momento citato come
Guillaume, Essai; G. Vitolo, Insediamenti cavensi in Puglia, Galatina 1984; B. Visentin,
Il monachesimo dei grandi spazi aperti. I Cavensi in Lucania, Puglia e Calabria (secc. XI-XII), in
Riforma della Chiesa, esperienze monastiche e poteri locali. La Badia di Cava e le sue dipendenze nel
Mezzogiorno dei secoli XI-XII, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Badia di Cava dei
Tirreni (SA), 15-17 settembre 2011, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, Firenze, in corso
di stampa.
10
Lorè, Monasteri, principi, aristocrazie, p. 24.
11
Cfr. Vitolo, Insediamenti cavensi, pp. 12-14.
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
37
cano, inoltre, carte di concessione di vescovi e arcivescovi, come di privati cittadini laici ed ecclesiastici, e privilegi illustri di sovrani e pontefici.
La costruzione di questo complesso edificio patrimoniale appare, nel
suo realizzarsi, quasi un ininterrotto lavoro di sperimentazione, innestato
nel solco della corrente riformatrice e segnato dall’esperienza cluniacense come dalle difficili contingenze politiche di questi anni12. L’autorità
principesca mostra con chiarezza i segni di una crisi pesante e irreversibile, segnata dalla perdita progressiva delle sue prerogative pubbliche,
mentre il monastero cavense assume i caratteri di una signoria fondiaria,
affrancandosi da qualsiasi controllo e giocando un ruolo politico autonomo13. Un’assoluta uniformità di gestione s’instaura in tutta la congregazione, priori provenienti direttamente da Cava subentrano alla morte
degli abati in carica nei monasteri assorbiti14 e ad essi spetta l’amministrazione dei beni del priorato, condotta secondo le direttive ricevute
dall’abate, il quale interviene personalmente nella vita delle dipendenze,
«visita i fratelli e li invita con paterne ammonizioni ad operare meglio»,
come aveva scritto l’abate cluniacense Odilone. Il rapido sviluppo che la
Trinità conosce in questi anni si muove, tuttavia, su due binari, da un lato
il vuoto di potere che segna il passaggio dal dominio longobardo all’età normanna, dall’altro, le spinte innovative che provengono dall’ascesa
delle identità signorili, legate all’universo politico locale all’interno del
quale si muovono le acquisizioni cavensi.
Un dominatus loci nelle terre del Picentino
La prima notizia dell’esistenza di un insediamento fortificato nel territorio di Giffoni si legge in una carta del 976, che ricorda l’appartenenza
di alcune porzioni delle cappelle di San Giorgio, in finibus Stricturie, e di
Santa Maria, que edificata est intus castello de Iufuni, alla chiesa salernitana
dei Santi apostoli Matteo e Tommaso15. I ruderi del castello, che ancora
dominano il borgo di Terravecchia16, rivelano chiaramente la posizio12
Cfr. quanto ha scritto G. M. Cantarella, I monaci di Cluny, Torino 1993, pp.
179-255.
13
Lorè, Monasteri, principi, aristocrazie, pp. 36-37.
14
Emblematica la vicenda della chiesa salernitana di San Massimo, cfr. B. Ruggiero, Principi, nobiltà e Chiesa nel Mezzogiorno longobardo. L’esempio di san Massimo di Salerno,
Napoli 1973.
15
CDC, VIII, p. 51, a. 1057.
16
Il complesso fortificato comprende una prima cinta muraria, relativa alla difesa
del solo fortilizio, databile al XIII secolo e munita di merlature, feritoie e torrette, e una
38
Barbara Visentin
ne strategica della fortificazione, sorta a controllo dei percorsi viari che
consentono, a nord, l’accesso alla valle del fiume Sabato, in direzione dei
centri di Avellino e Benevento, mentre a sud, aprono l’ingresso alla città
di Salerno e lo sbocco sul mare. Un castrum strategico, dunque, che risulta
dotato anche di una cappella intitolata alla Vergine, in virtù della quale
l’immagine della fortezza sembra coniugarsi con quella di un castello di
popolamento, un receptum destinato a proteggere gli homines che abitano
le terre circostanti e ad immagazzinare riserve alimentari per il sostentamento della corte salernitana17.
A commissionare la costruzione della chiesa dei SS. Matteo e Tommaso era stato il conte Pietro, figlio di un certo Landolfo, la cappella
privata era sorta intorno al 970, nel quartiere dell’Orto Magno, un’area
piuttosto estesa posta all’estremità orientale della città di Salerno, non
lontano dall’insula episcopalis. La fondazione aveva occupato terre confinanti con altri beni della famiglia, incamerati dal nonno di Pietro, il conte
Alfano, attraverso una donazione che il principe Gisulfo I aveva indirizzato a suo favore. È probabile allora che la carta del 976 rappresenti il
completamento della dotazione di cui Pietro correda la sua cappella, il
San Giorgio di Stricturia, posto ai piedi del castello di Giffoni, e la cappella di Santa Maria, edificata all’interno della rocca castri, dovevano essere
rientrate a pieno titolo nel patrimonio della famiglia comitale, ma nel 976
le divisioni ereditarie le presentano già frazionate in diverse sortiones.
Il terreno su cui Pietro edifica la sua chiesa all’interno della città gli
appartiene, lo ha probabilmente ereditato insieme agli altri possedimenti
fondiari che erano toccati al padre Landolfo, tra i quali potrebbero riconoscersi anche le proprietà situate fuori dalle mura urbiche, nel ricco
contado salernitano, in loco Stricturia. Il vecchio conte Alfano sarebbe così
il fondatore delle cappelle di San Giorgio e di Santa Maria che, al momento della sua morte, avvenuta nell’anno 971, sarebbero state ripartite
tra i tre figli Alfano, Pietro e Landolfo. Il conte avrebbe edificato due
seconda cortina di mura, destinata a proteggere il borgo antico e dotata di 12 torri circolari con base scarpata, tipiche delle fortificazioni di età angioina. Cfr. M. R. D’Ambrosi,
Terravecchia di Giffoni V. Piana storia e immagine architettonica di un borgo fortificato, «Progetto»
3, dicembre 1991, pp. 61-64.
17
P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, cur.
G. Sergi, Torino 1995, pp. 37-39. Seguendo la proposta di Pierre Toubert, i modelli di
fortificazioni presenti in quegli anni appaiono sostanzialmente tre: il castrum di popolamento, i castelli strategici e recepta, le strutture fortificate con duplice funzione, difensiva
ed economica.
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
39
chiese nell’ambito di pertinenza di una fortificazione, atto che necessariamente va ricondotto ad una concessione dell’autorità principesca18.
È ipotizzabile allora che lo stesso castrum di Giffoni gli fosse stato
affidato da Gisulfo I e, a tale riguardo, sembra non trascurabile una notizia riportata da Alessandro Di Meo circa la concessione che il giovane
principe avrebbe fatto, nell’anno 943, ad un non meglio precisato conte
di Giffoni, del gastaldato di Sanseverino, unitamente alle piazzeforti di
Montoro e Serino19. Non è compito agevole stabilire se il conte ricordato
dall’erudito del Settecento possa identificarsi con Alfano o tantomeno risalire al lignaggio a cui Alfano appartiene20, non vi è dubbio però sul rilievo singolare della figura del conte, uomo capace e fidato, vicino al principe e a lui particolarmente devoto, al quale non è improbabile che Gisulfo
I abbia deciso di assegnare il castello di Giffoni e, successivamente, il
controllo di uno dei gastaldati più importanti del Principato, punto nevralgico delle comunicazioni lungo l’asse Benevento-Avellino-Salerno21.
Dopo il 976 un lungo periodo di silenzio delle fonti non consente
di rintracciare notizie ulteriori sulla roccaforte quod Iufuni dicitur, fino a
quando nel 1097 Guaimario (II), filius benigne recordationis domni Guaimari,
qui fuerat filius domni Guidonis ducis, filii domni Guaimarii principis, non dona
al monastero della SS. Trinità di Cava buona parte dei suoi possedimenti
18
Cfr. F. Cusin, Per la storia del castello medievale, «Rivista Storica Italiana» serie V, 4,
1939, pp. 491-542. Sulle tesi degli storici del diritto italiani di questo periodo si veda la
discussione di Toubert, Dalla terra ai castelli, pp. 27-30.
19
A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli nella mezzana età, V, Napoli
1785, n. 5. Il Di Meo potrebbe aver mutuato l’informazione da quello che lui spesso indica come l’Annalista salernitano, da non confondere con l’Anonimo salernitano autore
del Chronicon, ma da riconoscere in Francesco Maria Pratilli (1689-1763) che Nicola Cilento definiva:«il falsario della storia dei longobardi meridionali». La mancata menzione
della fonte, però, da cui il Di Meo trae la notizia, che qualora si tratti del Pratilli viene
nella maggior parte dei casi indicata, lascia aperto qualche spiraglio che lo storico abbia
derivato l’informazione dalla lettura di un documento forse oggi perduto e che, dunque,
la si possa ritenere autentica.
20
Un gran numero di conti con lo stesso nome si rintracciano a Salerno sul finire del
secolo X, anche il padre della principessa Gemma, sposa di Gisulfo I, si chiamava Alfano.
Cfr. M. Schipa, Storia del Principato longobardo di Salerno in F. Hirsch - M. Schipa, La Longobardia meridionale (570-1077), Roma 1968, p. 168, e Taviani Carozzi, La principauté, p. 764.
21
Si potrebbe riconoscere nel conte di Giffoni, ricordato da Di Meo nell’anno 943,
il conte Alfano. La già menzionata donazione ad Alfano di un terreno all’interno delle
mura salernitane, nel quartiere dell’Orto Magno, potrebbe costituire un indizio del rapporto intercorso tra il principe Gisulfo ed Alfano.
40
Barbara Visentin
in loco Stricturie22. Tra le diverse pertinenze elencate dal notaio, si fa riferimento anche ad una via que ducit ad castellum nostrum quod Iufuni dicitur e ad
un’ecclesia Sancti Georgii, que constructa est in pede de ipso nostro castello Iufuni.
L’atto non lascia dubbi, il castellum appartiene alla famiglia del giovane
Guaimario, discendenza diretta del principe salernitano Guaimario III
del quale Guido, conte di Conza e duca di Sorrento, è figlio cadetto.
Il nome del duca Guidone richiama alla memoria gli anni difficili che
il Principato di Salerno attraversa tra il 1047 ed il 1052, durante i quali Guaimario IV procede alla divisione del patrimonio familiare con i
suoi due fratelli e, nel 1052, cade vittima di una violenta congiura, che
punta ad azzerare i vertici della gens principesca di Salerno. Nei quattro istrumenti di divisione che si conservano Guaimario IV, Paldolfo e
Guido si spartiscono i territori in finibus Lucaniae, in loco Muntoro, de loco
Rota, in loco Felecta, de loco Propiciano, de loco Tusciano23, non menzionando
in alcun modo il castrum Iufuni e le terre del locus Stricturia24. Rientrano
nel patrimonio di Guaimario IV soltanto terreni localizzati nella parte
nord-occidentale del territorio del Picentino, concernenti i distretti di
San Cipriano, Filetta e Prepezzano, lasciando immaginare che Giffoni
e il suo castello appartenessero ancora alla famiglia del conte Alfano.
L’unità dinastica sembra ulteriormente minacciata da una simile divisione, tuttavia il frazionamento del patrimonio doveva presentarsi come
l’ultima speranza di tenere sotto controllo l’evolversi degli avvenimenti25,
consentendo una gestione più efficace del territorio.
Indizi interessanti si rintracciano, inoltre, in una carta del 1091,
quando Guaimarius (I) qui vocor de Iufuni, filius bone recordationis domni Guidonis ducis, stanco di una vita fatta di violente lotte fratricide, offre al
monastero cavense una parte considerevole dei suoi possedimenti, chiedendo in cambio di vestire l’abito monastico e di ricevere sepoltura nello
stesso cenobio, per sé e per suo figlio26. Il signore di Giffoni, mosso da
un bisogno di spiritualità che non trova spazio nella confusione della
società salernitana della fine dell’XI secolo27, si mostra particolarmente
generoso, trasferendo nel patrimonio della Trinità alcune terre nelle località di Passiano e Balnearia, nei pressi dell’abbazia, e le sue quote di un
22
Archivio della Badia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni (da ora in avanti citato
come AC), D 9: gennaio 1096 e 13: marzo 1097.
23
Cfr. quanto riporta Taviani Carozzi, La principauté, pp. 857-861.
24
Cfr. CDC, VII, pp. 102 e ss.; pp. 94 e ss.
25
Cfr. Taviani Carozzi, La principauté, pp. 861-865.
26
AC, C 29.
27
A. Vauchez, La spiritualità dell’Occidente medievale, Milano 19932, pp. 49-55.
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
41
sesto delle chiese salernitane di San Massimo, Sant’Andrea e Santa Maria
de domno28, del monastero di Sant’Andrea, sorto a super porta Radeprandi, e
della chiesa rurale di San Nicola de Laneo.
Guaimario (I) è, quindi, il signore di quelle terre che, almeno fino
al 1049, sono appartenute presumibilmente agli eredi del conte Alfano,
i quali figurano tra i promotori della congiura contro il principe Guaimario IV. Traspare in controluce, a questo punto, l’ipotesi di un trasferimento di poteri sul territorio di Giffoni, dalla famiglia di Alfano a quella
del conte Guido, padre di Guaimario (I), cronologicamente riferibile al
quarantennio che intercorre tra il 1049, anno delle ultime due spartizioni
fondiarie del patrimonio principesco, e il 1091, data della prima attestazione di Guaimario a Giffoni. Tutta la vicenda pare ruotare intorno
al fatidico 1052, trucidati gli autori della congiura, i loro beni risultano
probabilmente confiscati e non sono estranee a questa sorte anche le
terre, le cappelle ed il castello posseduti in loco Stricturia dai discendenti
di Alfano. In questo momento di grande disordine generale sarebbe avvenuta l’assegnazione del futuro dominatus loci di Giffoni a Guido, l’unico
sopravvissuto alla furia omicida dei congiurati.
La famiglia del conte Alfano, dimostratasi per il passato fermamente
legata alla prima dinastia principesca salernitana, doveva essersi lasciata
irretire da pericolose ambizioni di grandezza, delle quali pare cominciasse ad avere sentore già Guaimario III. Se si considera, infatti, il numero consistente di chiese private che il principe edifica ai margini del
territorio di Stricturia29, sembra potersi cogliere in esse un primo tentativo di controllo del potentato di Giffoni. L’assenza di attestazioni non
permette di conoscere in quali termini il locus Stricturia viene affidato a
Guido, si tratta con ogni probabilità del frutto di un accordo preventivo,
intercorso tra il conte di Conza e i Normanni, grazie al quale l’ultimo
principe longobardo di Salerno, Gisulfo II, ottiene il controllo del Principato. Alla metà dell’XI secolo un ramo della famiglia principesca salernitana si avvia ad assumere atteggiamenti di tipo signorile, controllando
un territorio altamente produttivo, circondato su tre lati da alture che lo
dotano di importanti difese naturali e protetto, in direzione della fascia
28
La S. Maria inter muro et muricino, poi S. Maria de domno, fondata dalla seconda dinastia principesca poco dopo l’insediamento del capostipite Giovanni nel 983. Su S. Maria
cfr. P. Delogu, Mito di una città meridionale, Napoli 1977, pp. 144-147, e Taviani Carozzi,
La principauté, passim.
29
Si tratta delle fondazioni principesche di S. Giovanni nel casale Pariti di Filetta, di
S. Cipriano nel cuore dell’omonimo centro tra i monti Picentini e di S. Vito nel distretto
del locus Tuscianus.
42
Barbara Visentin
pianeggiante, dal fortilizio del monte Castello. Giffoni offre così tutti
i presupposti per dar vita ad una dominazione territoriale, al castrum si
uniscono la solida base fondiaria, la popolazione numerosa che ne abita
le terre e il riconoscimento di dominus fatto a Guido30.
La descrizione puntuale dei confini, riportata nella carta del 1097,
consente di indicare a grandi linee l’ambito di influenza del potentato.
Le terre in esame si estendono a destra e a sinistra del medio corso
del fiume Picentino, dall’altura dell’Arenella, il pede dearenola ubi ad crucem dicitur, al Rio Secco, il ribum quod Constantii dicitur, lungo il quale veris
tempus aqua decurrit. L’estremo limite settentrionale è segnato dalla colla
que dicitur badumaiore, il Varco della Colla, che ancora oggi si eleva quale
confine naturale della Stricturia, nel cuore dei Monti Picentini, mentre a
Mezzogiorno, propinquo flubio Calabra, l’attuale corso d’acqua del Calàuro,
abbondano le coltivazioni di olivo. I declivi collinari e le aree pianeggianti
ospitano vigneti pregiati, cereali e variegati arbores fructiferi31, menzionati
in loco Calabra, a suptus ecclesie Sancti Georgii32, e ubi ad Sanctam Mariam et
Derrupata dicitur, le Ripe del Salvatore, fino a raggiungere la strada diretta
alle chiese di San Giorgio e di San Liberatore, a super valle de Calabrano, in
prossimità della quale correre il limite meridionale33.
Una miriade di insediamenti sparsi caratterizza la geografia di queste
terre, una fitta rete economico-politico-religiosa ne controlla gli homines
subiecti, trovando i suoi principali punti di riferimento in un sistema di
ecclesiae propriae, legate al diffondersi dei poteri signorili34. Nel dominatus
30
Cfr. AC, D 9: gennaio 1096 e 13: marzo 1097: «… termino quod olim suprascriptus
dominus Guido, abus meus figere iusserat».
31
Si veda B. Visentin, Destrutturazione tardo antica e riorganizzazione altomedievale nelle
terre del Picentino (secc. VI-XI), «Schola Salernitana. Annali», 3-4, 1998-1999, pp. 243-249.
32
Non lontano dalla stessa località va collocata anche la zona ubi ad Arcu dicitur, nei
documenti della seconda metà del XII secolo, infatti, le terre sulle quali sorge la chiesa di
S. Giorgio vengono dette in contrada Arco. Cfr. A. Balducci, L’archivio diocesano di Salerno,
Salerno 1959-1960, p. 22, n. 59; p. 30, n. 90. Il toponimo ad arcu potrebbe conservare il
ricordo di un antico edificio di età romana legato, con molta probabilità, al vicino insediamento di piazza Umberto I; i resti di tale struttura dovevano risultare ancora visibili
tra XI e XII secolo.
33
Per una ricostruzione di quelli che probabilmente furono, tra X ed XI secolo, i
limiti del distretto amministrativo del locus Stricturia si rimanda a Visentin, Destrutturazione
tardo antica, pp. 226-237.
34
Per tali considerazioni si veda in generale G. Tabacco, L’Alto medioevo, in G.
Tabacco - G. G. Merlo, Medioevo, Bologna 1989, pp. 214-215. Il risultato è quello di
una sostanziale patrimonializzazione della giurisdizione, che rende ormai del tutto insufficiente definire tali forme di potere semplici ‘signorie rurali’ e guadagna loro il titolo
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
43
loci di Giffoni si contano in questa fase almeno tre ‘chiese private’, luoghi
di culto e di assistenza religiosa di proprietà del conte, attraverso i quali la
cura animarum viene strettamente controllata. Ciascuna cappella è dotata
di un ampio beneficium, al cui interno spesso ricadono altre fondazioni religiose indicate con il titolo di obedientiae. È in questo complicato sistema
che andrà ben presto ad inserirsi la SS. Trinità di Cava, alla quale i signori
di Giffoni e le donne della famiglia rivolgeranno la loro generosa attenzione, offrendo tra il 1091 e il 1148 buona parte delle chiese rientranti
nel loro patrimonio.
Nella stessa traditio del 1097 è riportata l’attestazione di un’oleara pertinens hominibus iufunensibus … subiectis e di un’ecclesia Sancti Adiutoris, obedientia prefate ecclesie Sancti Michaelis, quam iufunensi homines a nobo fundamine
construxerant35, segni evidenti della natura eterogenea tipica delle signorie
di ‘banno’. In un’età in cui mulini, forni, frantoi e palmenta per il vino
sono proprietà del dominus e rappresentano costruzioni di grande interesse economico, sulle quali vengono imposti canoni salati36, Guaimario
(II) non sembra rivendicare alcun tipo di censo sull’oleara di Giffoni,
mostrando forse l’avvenuta redazione di una qualche convenzione con
gli homines iufunenses, volta a sancire la riduzione degli oneri signorili.
Nel 1114, infine, Guaimario (II) muore senza eredi e nel suo lascito
testamentario sembra identificarsi un’altra traccia del rapporto che il dominus ha instaurato con i suoi sudditi e della presenza, tra la popolazione
rurale, di gruppi sociali privilegiati, capaci di contenere il potere signorile. Il conte stabilisce che la grande abbazia cavense ottenga il casale
cilentano di Selifone e all’arcivescovo di Conza spetta l’intero castello di
Oliveto, con tutti i suoi uomini, stabilendo che questi ultimi conservino
la condizione di liberi37. La scomparsa di Guaimario segna l’estinzione
più complesso di ‘signorie territoriali di banno’. Sulle questioni inerenti i poteri di banno
si veda in generale G. Sergi, Villaggi e curtis come basi economico-territoriali per lo sviluppo del
banno, in Curtis e signoria rurale: interferenze fra due strutture medievali, cur. G. Sergi, Torino
1993, pp. 17-20.
35
Per quanto concerne la localizzazione della cappella di Sant’Adiutore non è possibile fornire alcun tipo di indicazioni, se non che doveva trovarsi nella parte centrosettentrionale del dominatus. L’edificio, comunque, non pare essersi conservato e quella
dell’anno 1097 rimane l’unica menzione della chiesa.
36
Tabacco, L’Alto medioevo, p. 211.
37
Inserto del 1114 in AC, F 28: 1125. Sul documento pesa un sospetto di falsità per
il quale si veda M. Galante, Un esempio di diplomatica signorile: i documenti dei Sanseverino in
Civiltà del Mezzogiorno d’Italia, pp. 291-292, nota n. 52. Sulla gestione di torchi, palmenta,
mulini e altro si rimanda a Tabacco, L’Alto medioevo, p. 211.
44
Barbara Visentin
della linea maschile della famiglia, da questo momento Giffoni ricade
sotto il controllo dei signori di Eboli e, in un inserto del 1116, viene
ricordato un tale visconte di Roberto, signore di Eboli, che presiede al
castrum di Giffoni, acquisito probabilmente dal dominus delle terre ebolitane per via ereditaria, avendo preso in moglie Mabilia, sorella di Guaimario (II)38.
Le dipendenze cavensi di San Michele e di San Vincenzo: episodi differenti di
gestione fondiaria.
La trasformazione dell’aristocrazia longobarda, mostrata nel contesto particolare della signoria di Giffoni, offre con chiarezza l’immagine
di una società in rapida evoluzione. A caratterizzarla è un atteggiamento
costantemente in bilico tra il senso di appartenenza cittadina, che la gens
del conte Guido sente forte per il suo legame diretto con il principe di
Salerno, e la nascita di un’identità signorile, tra proprietà della terra e dominio sugli uomini, quest’ultimo del tutto assente nelle concessioni che i
signori di Giffoni effettuano sullo scorcio dell’XI secolo39.
Questo mescolarsi complesso di elementi tradizionali e spinte nuove, nate dalla dissoluzione del dominio longobardo, facilita e accelera
l’ascesa di vescovati ed enti monastici, ai quali viene concesso un numero
sempre più consistente di diritti e beni fondiari, fino a farne importanti centri di potere40. Le fasi di questo processo appaiono ben delineate
nella fortunata parabola di vita che interessa l’abbazia della SS. Trinità di
Cava, tra la seconda metà dell’XI e per tutto il XII secolo il monastero si
dimostra capace di incamerare un territorio molto ampio e di costruire
un articolato network fatto di chiese, terre e comunità monastiche latine
ed italo-greche, all’interno del quale i rapporti tra ‘centro’ e ‘periferia’, la
loro capacità di comunicare e di interagire, le interferenze delle diverse
componenti esogene, divengono fondamentali41.
38
AC, XXII 4: 1125.
Il castrum di Capaccio presenta un’evoluzione assai simile a quella evidenziata per
il centro di Giffoni, per un approfondimento dell’ingresso cavense sulle terre del dominatus caputaquensis si rimanda Visentin, Poteri territoriali, pp. 45-78.
40
Cfr. Lorè, Monasteri, Principi, Aristocrazie, p. 38 e le indicazioni bibliografiche
contenute nelle note, che sottolineano il ruolo analogo svolto dai monasteri dell’Italia
centro-settentrionale tra X-XI secolo.
41
Zentrum und Netzwerk. Kirchliche Kommunikationem und Raumstrukturen im Mittelalter, cur. G. Drossbach - J. Schmidt, Berlin 2008 (Scrinium Friburgense 22). In questa
direzione si muovono le ricerche di Gert Melville e della sua scuola, cfr. G. Melville,
Razionalità del sistema e successo dei domenicani nell’Europa medievale, in La memoria ritrovata.
39
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
45
Uno straordinario cammino di irradiazione del sistema cavense, nel
quale si contano almeno quattro momenti significativi, il primo riferibile
agli anni tra il 1025 e il 1078, nel corso dei quali l’abbazia guadagna una
parte considerevole dei beni che il palatium salernitano possiede nel Cilento, mentre sullo sfondo matura l’indebolimento del potere principesco e l’azione riformatrice della Chiesa entra nella fase del suo maggior
vigore42. Il 1079 inaugura il secondo momento dell’espansione cavense
e fino al 1123 la Trinità accoglie nel proprio patrimonio circa 100 dipendenze disseminate in tutta l’Italia meridionale43. Si precisano i termini dell’appartenenza a Cava di alcune importanti comunità monastiche,
quali quelle di Sant’Arcangelo di Perdifumo e di San Magno44, nel Cilento, mentre Roberto il Guiscardo e sua moglie Sichelgaita stabiliscono
pubblicamente che gli uomini dipendenti dai cenobi cavensi del Cilento
siano in tutto soggetti all’abate della Trinità45.
L’interesse manifestato dal ceto dirigente, longobardo prima e normanno poi, nei riguardi della Trinità di Cava permette all’abbazia di
acquisire aree di controllo lungo alcune precise vie di comunicazione,
attraversate da percorsi viari importanti e impreziosite da piccoli ancoraggi alle foci dei fiumi46. Ai monaci della Trinità non sfugge il valore
Pietro Geremia e le carte della storia, cur. F. Migliorino - L. Giordano, Catania 2006, pp. 15-58;
F. Cygler - J. Oberste - G. Melville, Aspekte zur Verbindung von Organisation und Schriftlichkeit im Ordenswesen. Ein Vergleich zwischen den Zisterziensern und Cluniazensern des 12.-13.
Jahrhunderts, in Viva vox und ratio scripta. Mündliche und schriftliche Kommunikationsformen im
Mönchtum des Mittelalters, cur. C. M. Kasper, Münster 1997 (Vita regularis 5), pp. 205-280,
e C. Andenna, Le forme della comunicazione negli ordini religiosi del XII e XIII secolo: periferia,
sottocentri e filiazioni, in Die Ordnung dei Kommunikation und die Kommunikation dei Ordnungen
im mittelalterlichen Europa, I, Netzwerke: Klöster und Orden im 12. und 13. Jahrhundert, cur. C.
Andenna - K. Herbers - G. Melville (Aurora 1), in corso di pubblicazione.
42
Si veda a tale riguardo Taviani Carozzi, La principauté lombarde de Salerne, pp. 10541059, e CDC, IX, nn. 126 e 127, pp. 369-374.
43
Si veda il lavoro di Guillaume, Essai, pp. 50-52.
44
La copiosa documentazione conservatasi per i due monasteri, infatti, ricorda la
presenza di un priore a Sant’Arcangelo a partire dal 1082, cfr. AC, XIII, 119 e XV, 70, 82:
Disideo, presbiter et prior del monastero dal 1082 al 1096, mentre, negli stessi anni, l’abbazia
di S. Magno trasforma il titolo del proprio abate Abalsamus in quello di priore, cfr. AC,
XIII, 63: marzo 1079; 70: dicembre 1078; 71, 72, 73: aprile 1079/1082; 84: novembre
1079; XIV, 5: aprile 1084. Si veda anche il privilegio pontificio di Urbano II AC, C, 35 bis:
settembre 1089 e 21: ottobre 1089.
45
AC, B, 13: 1080; 33: 1083. Sul monastero di San Magno si rimanda al lavoro di
G. Vitolo, Il monastero in Mille anni di storia San Mango Cilento, cur. F. Volpe, Napoli 1994,
pp. 55-67.
46
Cfr. quanto ha scritto circa i vari fronti dell’espansione cluniacense Cantarella,
I monaci di Cluny, pp. 179-255, e anche Id., È esistito un «modello cluniacense»?, in Dinamiche
46
Barbara Visentin
politico-economico che il controllo di questi snodi territoriali esprime e
la rete dei priorati sembra articolarsi proprio lungo strategici canali di comunicazione, attraverso i quali l’abbazia si apre a proficue relazioni commerciali e culturali. Si prediligono le vie d’acqua dell’Agri e del Sinni, del
Tanagro e del Calore cilentano, le valli fluviali del Mingardo e dell’Alento
così come quelle, più prossime a Salerno, del Tusciano e del Picentino.
In questi anni in cui Cava è un ‘castello del cielo’ in rapida costruzione,
Guaimario (I) di Giffoni provvede alla stipula della sua prima cartula offertionis a favore della Trinità. L’autunno del 1091 inaugura la presenza
cavense sul territorio di Stricturia, costituendo la prima testimonianza
esplicita di un dominio signorile sul territorio di Giffoni47.
Tra il 1124 e il 1171 l’abbazia entra nella terza fase della sua irradiazione patrimoniale, la curva delle acquisizioni si mantiene alta e l’esigenza di esercitare una tutela più efficace sui numerosi piccoli insediamenti,
monastici e non, sorti lontano dalla Trinità, caratterizza in questi anni la
gestione delle proprietà, improntata ad una maggiore centralizzazione
dell’assetto organizzativo48. L’ultimo periodo della grande espansione
cavense si attesta tra il 1172 e il 1194, dando avvio ad una brusca fase
calante delle acquisizioni, destinate ad arrestarsi quasi completamente
nel corso del XIII secolo, per lasciare il posto ad un’attività di consolidamento e difesa della proprietà.
In questa rete ampia di possedimenti si rintracciano alcuni contesti
che presentano particolari elementi di problematicità e criteri di evoluzione propri, consentendo di individuare le differenti modalità di gestione adottate da Cava. Il caso della chiesa di San Michele Arcangelo di
Giffoni è, a tale riguardo, un esempio chiaro dei rapporti che la SS. Trinità di Cava intrattenne con i poteri territoriali locali affermatisi nell’area
meridionale dell’antico principato di Salerno, essendo direttamente legata alle vicende che interessarono l’avamposto militare del castrum Iufuni.
Nel 1092 Guaimario (II), presente l’anno prima accanto al padre
nella cartula offertionis con la quale i due avevano chiesto di vestire l’abito monastico e di essere sepolti nell’abbazia cavense, conferma alla
Trinità la concessione della sua quota del patrimonio principesco nel
Cilento49. Cinque anni più tardi, nel gennaio del 1097, un’altra donazione
istituzionali delle reti monastiche e canonicali nell’Italia dei secoli X-XII, Atti del XXVIII Convegno del Centro di Studi Avellaniti, Fonte Avellana 29-31 agosto 2006, cur. N. D’Acunto,
Verona 2007, pp. 61-85, e Id., I monaci di Cluny, Torino 1993.
47
AC, C 29.
48
Cfr. Vitolo, Il monastero in Mille anni di storia San Mango, pp. 65-66.
49
AC, C 32.
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
47
non meno importante delle precedenti porta nel patrimonio monastico
la dipendenza cilentana di San Matteo ad duo flumina50, edificata nel punto
di confluenza dei fiumi Alento e Palistro, alle cui foci erano sorti due
dei tre antichi porti di Velia, e una serie di chiese poste all’interno della
signoria di Giffoni51.
Guaimario (II), filius benigne recordationis domni Guaimarii, pro salute anime, consegna nelle mani del venerabilis abbas Pietro l’ecclesiam Sancti Michaelis, sorta in loco Stricturie, ubi Padudiccle dicitur, in pede montis quod Oraturus
dicitur52. La chiesa è accompagnata da omnibus ipsis rebus in quibus constructa
est e da tutte le sostanze che, in eadem ecclesia, il suprascriptus genitor suus
aveva offerto, ovvero il beneficium destinato alla chiesa da Guaimario (I),
probabilmente al momento della fondazione. L’acquisizione della dipendenza di San Michele rappresenta una fase significativa nel potenziamento del patrimonio cavense, la chiesa porta con sé una consistente
dotazione fondiaria, concentrata nella parte settentrionale del dominatus,
50
Agostino Venereo la ricorda come l’ecclesia parrochialis S. Mathaei ad duo flumina in
Lucania … matrix oppidi Casalicii, olim matrix casalis S. Mathaei ad duo flumina, cum monasterio
sub titulo prioratus et custodiae, cfr. A. Venereo, Dictionarium Archivii Cavensis, manoscritto,
vol. II, pp. 231, 434, da ora in avanti citato come Venereo, Dict., che talvolta la confonde
con la cappella di S. Matteo sub arce di Capaccio, cfr. Venereo, Dict., vol. I, p. 183; vol. II,
pp. 434, 491. Sulla scia di Venereo anche G. Talamo Atenolfi, I testi medievali degli atti di
S. Matteo l’Evangelista, Roma 1958, p. 49 confonde le due cappelle di S. Matteo, scrivendo:
«La chiesa (nella quale il monaco Atanasio pose la reliquia di san Matteo nel 954) era nella
contrada «ad duo flumina» così chiamata per la vicina confluenza del Palistro con l’Alento, sulla riva destra di quest’ultimo nella pianura sotto Velia detta la «subarce», e si trovava
poco lontana dai possessi del Sacro Palazzo recentemente concessi all’Ordine di san
Benedetto in persona dell’abate Giovanni, forse lo stesso di cui è parola nella ‘translatio’,
là dove sorse più tardi l’abbazia di S. Maria di Torricella (CDC, I, 232). Dal racconto della
‘traslatio’ parrebbe che la chiesa della deposizione fosse stata affidata al monaco Atanasio
dal vescovo pestano Giovanni, dal quale la chiesa dipendeva, sì che questi direttamente vi
si reca e vi convoca il rettore. Ancora alla diocesi pestana apparteneva la chiesa nel 1054,
quando il vescovo Amato rinunziò per 5 libbre d’argento ai diritti della curia in favore
di Teodora di Tuscolo, figlia di Gregorio console e duce dei Romani, e nipote di papa
Benedetto IX. Questa, vedova di Pandolfo di Salerno, conte di Capaccio e signore di quei
luoghi, aveva ricostruito la chiesa stessa … col centenario del ritrovamento … Circa due
anni più tardi, nell’aprile 1072, per disposizione di Gisulfo II … la chiesa col circostante
territorio fu donata alla congregazione … cavense che vi costituì l’abbazia di san Matteo
ad duo flumina … Poco lungi è la marina, detta ora di Casalvelino».
51
AC, D 9: gennaio 1096 e 13: marzo 1097.
52
La cappella di S. Michele potrebbe essere sorta ai piedi del colle Menaturo, a
nord-est del castello di Terravecchia, ipotizzando la derivazione dell’attuale toponimo
dall’antico mons quod Oraturus dicitur.
48
Barbara Visentin
non lontano da quello che il giovane Guaimario definisce castellum nostrum quod Iufuni dicitur.
Alle terre si aggiungono, inoltre, altre tre fondazioni religiose, l’ecclesia Sancti Adiutoris, edificata dagli stessi iufunensi homines … ubi Oraturum dicitur e indicata quale obedientia prefate ecclesie Sancti Michaelis53, l’antica
chiesa di San Giorgio, sorta ai piedi del castello e ricordata tra i beni dei
domini di Giffoni già nel 97654, e quella di San Liberatore, que edificata est a
super valle de Calabrano, ciascuna cum omnibus ad eam pertinentibus55. La Trinità ha incamerato in una sola volta un importante circuito di chiese rurali
gravitante attorno alla dipendenza dell’Arcangelo e legato al controllo
di un territorio ricco di ulivi, vigne, alberi da frutto, castagni e uomini,
con i quali i monaci instaurano vincoli spirituali ed economici. Il punto
di convergenza di questa ‘rete’ sembra rimanere, almeno nei primi anni
del XII secolo, la chiesa di San Michele, l’unica menzionata tra le dipendenze, apud oppidum Geffuni, che il pontefice Pasquale II conferma al
monastero cavense nell’agosto del 110056. Ad essa si affianca nella bolla
di Eugenio III, emessa nella primavera del 1149, la chiesa di San Gior53
Cfr. anche Venereo, Dict., vol. I, p. 15v. Sulla gestione di torchi, palmenta, mulini
e altro si rimanda a Tabacco, L’Alto medioevo, p. 211.
54
Cfr. Per la chiesa di San Giorgio si conserva ancora il toponimo ‘San Giorgio Vecchio’ alle falde del versante orientale del monte Castello, dove oggi sorge la nuova chiesa
di San Giorgio. In questa zona si scorgono anche i ruderi di un edificio quadrangolare
dalle modeste dimensioni, nelle cui murature si leggono almeno due fasi costruttive: la
prima, poggiante direttamente sulla roccia, è costituita da pietre di fiume, malta, tufi grigi
di provenienza locale e laterizi; la seconda, invece, interessa quello che rimane dell’elevato
e consente di riconoscere una copertura realizzata con una volta a crociera, sostenuta
da quattro colonnine inserite negli angoli dell’edificio. All’interno dell’ambiente, inoltre,
sono visibili lacerti di affreschi, forse trecenteschi, che possono essere messi in relazione
con la seconda fase costruttiva. Lo spessore delle murature poggianti direttamente sulla
roccia, la pianta perfettamente quadrata dell’edificio ed il punto in cui i ruderi sorgono,
lascerebbero pensare ad una torre del castello, posta a guardia della pianura circostante e
delle vie di comunicazione che dovevano solcarla, in particolare la via que ducit ad castellum
nostrum, quod Iufuni dicitur nei pressi della località ubi ad arcu dicitur dove appunto sorge la
chiesa di San Giorgio. L’esistenza di affreschi sulle pareti interne, però, non si concilia
con una simile ipotesi ma sembrerebbe favorire l’idea della presenza di una chiesa, potrebbe darsi, allora, che le strutture dell’ambiente dopo una prima destinazione, siano
state restaurate per essere adattate ad un nuovo uso.
55
Per l’ubicazione delle cappelle e l’identificazione dei toponimi ricordati nel documento si rimanda ancora a Visentin, Destrutturazione tardo antica, pp. 268-270, e alla
tavola IV, p. 278.
56
AC, D 26, 29 e P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, Italia Pontificia, 10 voll.,
VIII, 324, nr. 19, da questo momento citato come Kehr, IP.
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
49
gio57 e, nel gennaio del 1168, il privilegio di Alessandro III riporta per la
prima volta l’indicazione di un’ecclesiam Sancti Georgii e di un monasterium
Sancti Michaelis58.
È probabile che l’abbazia abbia potenziato, nel corso del XII secolo,
il numero dei monaci presenti sul territorio del castrum Iufuni, arrivando
a costituire una piccola comunità monastica attorno alla chiesa di San
Michele59, nucleo di centralizzazione degli interessi cavensi sul territorio,
e conferendo alla chiesa di San Giorgio una dignità maggiore rispetto
alle altre soggette al monastero dell’Arcangelo60. Nell’agosto del 1169,
infatti, la vendita di una terra in loco Stricturia, ubi proprie curtis dicitur, viene
curata dal monaco Alferius, praepositus monasterii Sancti Michaelis Archangeli
de Gifono … et ecclesiae Sancti Georgii, così come la permuta di due terreni
nella stessa località e la concessione del diritto di passaggio per i monachi
et alii homines, qui in ipse ecclesia fuerint, fatta a Cava dai coniugi Florio e
Gemma, nella primavera del 117161.
Alferio è, dunque, il preposito del monastero di San Michele e della
chiesa di San Giorgio, almeno fino al 1173 quando, in una cartula venditionis, risulta menzionato semplicemente quale monachus ecclesiae Sancti Michaelis Archangeli, lasciando immaginare che nel frattempo la prepositura
della chiesa di San Giorgio sia stata separata da quella del monastero di
San Michele e magari assegnata ad un altro confratello62. Il beneficium della chiesa dell’Arcangelo rientra nel patrimonio cavense fino al 1548, data
in cui il Venereo ricorda per l’ultima volta la dipendenza, riportandone
la concessione in fitto, mentre per le obbedienze che da essa dipendono
l’unica notizia che si rintraccia, prima del XVI secolo, risale al luglio del
1225, quando la chiesa di San Giorgio in pertinentiis castri Gifoni, in casali
57
AC, H 7: maggio del 1149, e Kehr, IP, VIII, 325, nr. 23.
AC, H 50 falso e P 24: transunto del marzo 1399 – H 51: transunto – I 1: transunto e Kehr, IP, VIII, 326, nr. 26.
59
Cfr. anche Venereo, Dict., vol. I, p. 42r. che la indica con la qualifica di ecclesia cum
monasterio sub titulo prioratus.
60
Il Venereo la cita con la qualifica di ecclesia S. Georgii de Gifono, in casali Valle, … cum
monasterio sub titulo prioratus, cfr. Venereo, Dict., vol. II, pp. 222v-223r.
61
Cfr. AC, XXXIII 33; 35: agosto 1169; 103: maggio 1171.
62
AC, XXXIV 73: agosto 1173, nella vendita di una terra il monaco Alferio, precedentemente indicato come prepositus monasterii S. Michaelis Archangeli e, contemporaneamente, della cappella di S. Giorgio, viene semplicemente menzionato quale monachus
ecclesiae S. Michaelis Archangeli.
58
50
Barbara Visentin
quod la Valle dicitur, viene concessa per 29 anni al chierico Gualterio de
Salerno63.
L’afflusso cospicuo di ricchezze nei già consistenti patrimoni di cui
erano dotate le chiese ed i monasteri salernitani può, dunque, facilmente
inquadrarsi nel contesto di trasformazione generale che seguì all’indomani della conquista normanna. Per ciò che concerne, invece, i destinatari
di tali donazioni, va detto che fin dagli ultimi anni del secolo X si era dato
inizio ad un processo di progressiva acquisizione di capitali, soprattutto
fondiari, da parte di alcuni enti ecclesiastici salernitani particolarmente
interessati alle terre del Picentino. È questo il caso delle chiese urbane di
fondazione principesca come Santa Maria de domno e S. Massimo64, dei
monasteri intitolati ai Santi Angelo e Sofia65, a San Nicola de palma66 e a
San Giorgio67, e delle cappelle private dedicate a San Martino ulter flubio
63
AC, LII 108.
CDC, I, p. 176. La notizia più antica che si possiede a tale proposito risale al 919
ed interessa il locus Pulianus, all’interno del quale il presbitero Valperto dona tutti i beni di
sua proprietà alla chiesa salernitana di S. Massimo. Per più di un secolo, poi, non si rintracciano altre testimonianze, fino a quando nel 1034 l’abate di S. Massimo non è chiamato a definire i confini dei suoi possedimenti con un tale Disio di Propiciano, attestando
tra le terre di pertinenza della chiesa salernitana anche zone site nell’attuale Comune di
Prepezzano. CDC, VI, p. 6. Si fermano a queste le indicazioni che le fonti documentarie,
comprese tra X ed XI secolo, forniscono per la fondazione principesca di S. Massimo,
una simile esiguità di informazioni non permette, dunque, un discorso molto articolato
sulla disposizione delle proprietà della chiesa nella valle del Picentino.
65
Delogu, Mito di una città meridionale, p. 141, note n. 120 e n. 121; in proposito si
veda anche Taviani Carozzi, La principautè, pp. 742-746. A cominciare dall’anno 1023 il
monastero di S. Sofia si trova citato in qualità di possessore di alcune terre site in loco
Campiliano CDC, IV, p. 10. Altre terre possedute in Campiliano dai monasteri salernitani
di S. Angelo e S. Sofia sono attestate negli anni 1041, 1044, 1049 e 1058; CDC, VI, p.
160; p. 161; p. 254; VII, p. 117; L. Cassese, Pergamene del monastero benedettino di San Giorgio
(1038-1698), Salerno 1950, p. 11 da adesso citato come P.S.G.; CDC, VIII, p. 62; p. 81.
e in loco Silia cfr. CDC, V, p. 179, a. 1023; p. 157, a. 1028; p. 166, a. 1029; VII, p. 173, a.
1052. e fino al 1040 non si rinviene associato a quello di S. Angelo. Nel 1049 i due conventi posseggono terre a Bespanicus CDC, VII, p. 118. mentre quasi dieci anni più tardi un
certo Bonifacio restituisce a Maraldo, abate di S. Sofia, tutte le sue proprietà in loco Iufuni
ubi Segeti dicitur CDC, VIII, p. 81.
66
CDC, IX, p. 243.
67
Cassese, P.S.G., p. XXXI. Il monastero femminile di S. Giorgio di Salerno prope
muros veteris palatii, doveva possedere un consistente numero di terre a Faiano, come attestano due atti rispettivamente degli anni 1037, cfr. L. Pennacchini, Pergamene Salernitane,
Salerno 1941, p. 23, a. 1008, per la ridatazione di questo documento al 1037 si veda M.
Galante, Per la datazione dei documenti salernitani di epoca longobarda. Note ed osservazioni, «Ras64
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
51
Lirino68 e agli apostoli Matteo e Tommaso, sul limite orientale della città
di Salerno69. Illuminante sembra essere, allora, il caso della fondazione
principesca salernitana di Santa Maria de domno che, realizzata sul finire
del X secolo inter murum et muricinum, conosce nel corso dell’XI una massiccia acquisizione di terre, a potenziamento delle cospicue sostanze di
cui è stata dotata fin dall’inizio dal principe Giovanni.
Nell’anno 994 Dumnellus presbiter et abbas ecclesie Sancte Marie, quem ...
domnus Iohannes princeps et domna Sichelgaita principissa uxor sua ... construsserunt ... inter muro et muricino, si industria per scambiare alcune terre in locum
Bespanicum, erga flubio Pecentino, con altre nella stessa località ma coniuntum
cum rebus nostra, al fine di costruirvi un mulino70. Da questo momento
in poi l’abate di Santa Maria de domno diviene una figura ricorrente nelle
transazioni concernenti il territorio in esame, nel 997 è ancora Dumnello
a fare le veci della chiesa nella quale officia e a ricevere, da Amatus presbiter et notarius, ... inclita sortione ... de ecclesia Sancti Symeonis et casis in locum
Martorano, Stricturie finibus71. La chiesa di San Simeone doveva costituire
un donativo di particolare importanza, se Santa Maria de domno fu così
interessata a percepirne il pieno possesso e, a distanza di appena due
anni, lo stesso Dumnello compare dinanzi al giudice Adenolfus per riceverne la restante metà, insieme a pannos, munimen, ferrum, siricum, aurum et
argentum72.
Le pertinenze della cappella di Santa Maria all’interno del distretto
di Stricturia si presentano, così, piuttosto estese e ben documentate, in
segna degli Archivi di Stato» 2-3, pp. 370-372, e 1042, cfr. M. Galante, Nuove pergamene
del monastero femminile di S. Giorgio di Salerno. I (993-1256 ), Altavilla Silentina 1984, p. 9.
68
La chiesa intitolata a S. Martino, localizzata fuori dalle mura della città di Salerno, ulter flubio Lirino, era stata dotata, invece, di un patrimonio che comprendeva alcune
pertinenze all’interno della città di Salerno ma che per la maggior parte si estendeva tra
i territori degli attuali Comuni di Giffoni e di Montecorvino Rovella; la chiesa viene,
infatti, menzionata per la prima volta in tre carte dell’anno 986 come dominus di terre
situate in loco Campiliano, Taviani Carozzi, La principautè, p. 738. CDC, II, p. 229; p. 231;
p. 232. La chiesa di S. Martino sull’Irno è ricordata ancora in qualità di dominus per terre
in Campiliano nell’anno 1010, cfr. CDC, IV, p. 173.
69
Taviani Carozzi, La principautè, p. 764. CDC, VIII, pp. 51, 297: In un lungo istrumento del 1064, infine, che definisce una serie di scambi di terre, alla cappella vengono
riconosciute proprietà in loco Propiciano, ubi Monte de Spelengaru dicitur, in loco Selecta (Felecta)
ed in loco sancto Cipriano.
70
CDC, III, p. 20.
71
Ivi, p. 76.
72
Ivi, p. 98.
52
Barbara Visentin
due carte rispettivamente del 99873 e del 99974 vengono addirittura menzionate sei diverse località, purtroppo oggi non tutte rintracciabili, che
contengono terre appartenenti alla chiesa salernitana. I possedimenti si
concentrano, in modo particolare, tra i casali di Martoranus ad est e di Correianus ad ovest, entrambi compresi in finibus Stricturie, interessando anche
l’Aqua Argenza, l’attuale corso d’acqua del Rienna, nei pressi del quale
sorge la chiesa di San Vincenzo, dipendenza di Santa Maria de domno nel
1141 e, successivamente, obbedienza cavense. Non mancano attestazioni di terre appartenenti a Santa Maria anche in altri punti del territorio indagato, è il caso di un atto risalente all’anno 1000, nel quale Lisoprando,
filius quondam Iannelgari, commuta delle proprietà con Dumnello, presbiteri
et abbati pro pars ecclesie Sancte Marie, in locum Propiciano75, mentre nell’anno
1002 è ancora un contratto di pastinato a fornire indicazioni circa due pecie de terra campensis che la chiesa di Santa Maria de domno possiede in locum
Bespanicum ulter flubio Pecentino76.
Il caso della chiesa di San Vincenzo, però, rientrante nelle terre di
pertinenza del castrum Iufuni, offre la possibilità di mettere a fuoco un
contesto particolare, segnato dalla presenza di una cella vulturnense fin
dai primi anni del IX secolo, transitata nel patrimonio fondiario della
cappella principesca di Santa Maria de domno e, solo alla metà del XII
secolo, confluita nella congregazione cavense. La stessa situazione documentaria caratterizza in modo diverso le vicende della chiesa di San
Vincenzo, le carte superstiti si presentano infatti piuttosto dettagliate per
ciò che riguarda le vicende anteriori all’ingresso nel raggio d’azione della
Trinità, ma purtroppo assai carenti per il periodo in cui la cappella rientra
tra le dipendenze di Cava.
La prima menzione della chiesa risale all’anno 819 e si rintraccia in
una conferma dell’imperatore Ludovico I al monastero di San Vincenzo
al Volturno, nella quale vengono ricordate, tra le altre, la cellam Sancti
Georgii infra Salernitanam civitatem, la cellam Sancti Vincencii in fluvio Tusciano,
la cellam Sancti Vincencii in fluvio Tensa e la cellam Sancti Valentini in fluvio
Bisentino, nella quale sembra potersi riconoscere quella che diventerà la
73
Ivi, p. 89.
Ivi, p. 90.
75
CDC, III, p. 105.
76
CDC, IV, p. 7; VI, p. 139: 1040. Terre site nelle località di Bespanicus e di Giffoni
sono, anche, ricordate in un inserto del 1041, riportato in un documento più tardo del
1054, cfr. CDC, VII, p. 223. La chiesa di S. Maria de domno possedeva, inoltre, terre a
Campiliano, a tal proposito cfr. CDC, IX, p. 62, a. 1066.
74
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
53
chiesa di San Vincenzo77. Bisogna aspettare l’anno 962 per avere ancora
notizia della cella Sancti Valentini in fluvio Vixentino78, il diploma è emanato
da Ottone I e va ad inserirsi in quel clima di ristrutturazione generale che
interessa il cenobio di San Vincenzo al Volturno tra il 940 e il 960. L’imperatore ribadisce nuovamente la giurisdizione del cenobio sulle celle del
Tusciano e del Tensa, nonché su quelle di San Giorgio di Salerno e di
San Valentino sul Picentino, tuttavia, nel 983, l’abate vulturnense torna
a chiedere la ratifica imperiale per il possesso di alcuni beni, tra i quali
compaiono ancora la cappella et cella infra Salernitanam civitatem in honore
Santi Georgii constructam, la cellam Sancti Vincencii in fluvio Vixentino, la cellam
Sancti Vincencii in fluvio Tusciano e la cellam Sancti Vincencii in fluvio Tensa79.
Il diploma indica, per la prima volta, la cella sul Picentino come dedicata
a San Vincenzo e la nuova attestazione lascia pensare ad una corruzione
del nome da parte del copista oppure ad una nuova dedicazione del complesso, avvenuta nel corso dei ventun’anni che intercorrono tra l’ultima
notizia della presenza di una cella di San Valentino lungo il Picentino e la
prima indicazione della stessa intitolata a San Vincenzo.
A distanza di alcuni anni, nel giugno del 1141, si rintraccia la descrizione dettagliata delle terre all’interno delle quali sorge l’ecclesia Sancti
Vincentii, nel frattempo passata tra le pertinenze della chiesa salernitana
di Santa Maria de domno80. L’occasione è data dalla composizione di una
lite, intercorsa tra un tale Soldanus e Iohannes, presbiter ecclesie Sancte Marie
que dicitur de domno, circa i limiti di alcuni possessi fondiari, all’interno
dei quali era stata edificata la chiesa di San Vincenzo. Le indicazioni toponomastiche fornite nell’atto dal notaio Pietro rimandano alle località
di San Vincenzo e Cellara, nell’attuale Comune di Giffoni Valle Piana,
dove il torrente Rienna incontra il fiume Picentino, incipiendo a coniunctione
posteriore nominati rivi cum flumine, e dove i resti dell’antica chiesa sembrano
potersi riconoscere inglobati in una masseria del XVIII secolo81. I contadini del posto chiamano questa zona la cappella vecchia di San Vincenzo,
di fronte alla quale, su una piccola altura, ricordano la presenza dell’aia
77
Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, ed. V. Federici, I, Roma 1925 (Fonti per la
storia d’Italia, LVIII), p. 232, da adesso citato come Chron. Vult.
78
Chron. Vult., II, p. 127.
79
Chron. Vult., II, p. 247.
80
AC, XXV 21.
81
Nella fabbrica attuale si nota un semplice arco molto interrato che conserva
ancora un affresco, probabilmente settecentesco, raffigurante l’Annunciazione con in
primo piano l’Angelo e la Vergine Maria e sul fondo la figura di un santo monaco, san
Vincenzo, con la Palma del martirio nella mano destra.
54
Barbara Visentin
di San Vincenzo e, non molto distante, anche una fontana porta il nome
del santo. La breve distanza, poi, che intercorre tra la cappella vecchia di
San Vincenzo e la chiesa di Sant’Ambrogio, nel Comune di Montecorvino
Rovella, il cui ciclo pittorico presenta analogie con gli affreschi realizzati
nel monastero alle fonti del Volturno, alla metà del IX secolo82, estende
alle terre sulle quali sorge il Sant’Ambrogio l’area di dominio della chiesa
di San Vincenzo sul Picentino.
Possedimenti piuttosto vasti che si sviluppano dalla cella di San
Vincenzo alla chiesa di Sant’Ambrogio, sulle sponde del Rienna, per un
estensione di due chilometri circa, comprendendo zone particolarmente
fertili e ricche di corsi d’acqua, confluite prima tra le pertinenze della
chiesa principesca di Santa Maria de domno e successivamente, tra il 1149 e
il 1168, nel vasto patrimonio dell’abbazia cavense. Nel maggio del 1149,
infatti, la bolla pontificia di Eugenio III cita, tra le numerose dipendenze
confermate alla SS. Trinità, solo l’ecclesia Sancte Marie de domno83, mentre
vent’anni più tardi Alessandro III, nel gennaio del 1168, riporta nuovamente la conferma e l’esenzione da ogni autorità secolare e religiosa per
la chiesa salernitana, ma in questa occasione Santa Maria de domno è ricordata cum cellis suis, tra le quali ci sarebbe la cella/chiesa di San Vincenzo84. L’ipotesi verrebbe confermata anche dal Venereo, il quale nel suo
Dictionarium Archivii Cavensis riporta che la chiesa venne concessa a Cava,
confirmata et exempta da Alessandro III nel gennaio del 1168, ricordando
inoltre che il beneficium della stessa rientra nel patrimonio abbaziale fino
al 154885.
82
Per l’architettura, il ciclo di affreschi e la datazione della chiesa di S. Ambrogio si
vedano i saggi di P. Peduto - D. Mauro, Il Sant’Ambrogio di Montecorvino Rovella, «Rassegna
storica salernitana» 7, 1990, pp. 15-23; Pace, La pittura medievale in Campania, p. 245, e B.
Visentin, Salerno ed il Tusciano in età longobarda: quattro esempi di pittura altomedievale, «Schola
Salernitana. annali» 5-6, 2000-2001, pp. 157-195. Per le decorazioni pittoriche del San
Vincenzo Maggiore si rimanda a R. Hodges - F. Marazzi - J. Mitchell, Il San Vincenzo
Maggiore di IX secolo, in R. Hodges et alii, San Vincenzo al Volturno, scavi 1994. La scoperta
del San Vincenzo Maggiore, «Archeologia Medievale» 22, 1995, pp. 59-67; J. Mitchell, The
display of script and uses of painting in longobard Italy in Testo ed immagine nell’Alto medioevo,
Settimana del Cisam XLI, Spoleto 1994, pp. 940-945.
83
AC, H 7 e Kehr, IP, VIII, 325, nr. 23.
84
AC, H 50 falso e P 24: transunto del marzo 1399 – H 51: transunto – I 1: transunto e Kehr, IP, VIII, 326, nr. 26.
85
Venereo, Dict., vol. II, p. 222v.
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
55
L’epilogo
La crisi politica del Principato di Salerno e la conseguente ristrutturazione degli ambiti territoriali rappresentano i due parametri di fondo
sui quali maturano e si muovono, da un lato, l’esperienza del dominatus
loci di Giffoni, dall’altro, la nascita e la rapida espansione della grande
abbazia cavense.
Alla metà dell’XI secolo mentre un ramo cadetto della famiglia principesca salernitana, sopravvissuto alla furia omicida del 1052, assume
atteggiamenti di tipo signorile, controllando un territorio strategico e ricco, la SS. Trinità di Cava, guidata dal venerabilis abbas Pietro, mette a punto
un sistema accentrato, sul modello di quello cluniacense, assicurando
protezione efficace a tante piccole comunità locali che, diversamente,
avrebbero incontrato maggiori difficoltà di sopravvivenza. In entrambi i
casi si tratta di importanti signorie locali, la prima gravitante attorno ad
un castellum, nel quale vivono il dominus e i suoi fideles, e al quale fanno riferimento gli homines subiecti che popolano le terre circostanti; la seconda
legata alla santa societas dei monaci, a capo della quale siede l’abate, divenuto ineludibile protagonista della società del potere, capace di conciliare
le esigenze dell’anima con quelle del mondo.
Cava e Giffoni svolgono un ruolo per nulla marginale nel cambiamento della scena politica meridionale tra XI e XII secolo, il conte di
Conza, Guido, riceve il territorio di Stricturia, ben consapevole delle potenzialità che un castello come quello di Giffoni nasconde e inaugura un
ricompattamento di ambiti micro-territoriali, forte del titolo di dominus
che ha guadagnato86.
Cuore e fulcro del territorio del Picentino, Giffoni diviene la sede
di un vasto e complesso dominatus loci, all’interno del quale sorgono le
chiese private di San Michele Arcangelo e di San Liberatore che, insieme a quelle di San Giorgio e di Santa Maria nel castello, permettono
un confronto con le cappelle delle signorie territoriali incastellate87. Una
presenza così numerosa di chiese appartenenti al dominus loci rappresenta,
però, un caso singolare, segno di quell’incremento demografico che in86
L’esistenza di una famiglia comitale a Giffoni viene ulteriormente confermata
da un atto del 1301 nel quale si legge: terra Gifoni ... fuit olim per celebris quippe quae ab ipso
Longobardorum tempore suos comites habuit. Cfr. Syllabus membranarum ad Regiae Siclae Archivum
pertinentium, II, Neapoli 1845, p. 60.
87
Cfr. C. Violante, Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia
centrosettentrionale (secoli V-X) in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne
nell’Alto medioeve: espansione e resistenze, Settimane di studio del Cisam, Spoleto 1980, p. 1149.
56
Barbara Visentin
teressa l’ultima età longobarda e tutta l’età normanna e, probabilmente,
determina nei casali di Giffoni una concentrazione di individui notevole,
rendendo necessaria l’edificazione di più cappelle che provvedano alla
cura animarum e insieme ad un controllo puntuale degli homines.
La complessità dei diritti signorili esercitati da Guido e dai suoi eredi
sulle terre di Giffoni si mostra con chiarezza nella menzione della chiesa di Sant’Adiutore e dell’oleara, pertinentes hominibus iufunensibus, ai quali
non sembra richiesto alcun censo per l’utilizzo del frantoio88. I caratteri
originari di queste presenze, apparentemente inspiegabili, vanno forse
ricercati in quella che da sempre fu la natura degli arimanni longobardi,
uomini liberi anche nel rapporto con il loro dominus, al quale li lega un
giuramento di fedeltà e mai una sottomissione di tipo servile. Simili concetti sono alla base della gens longobarda e fanno parte di quel bagaglio
di tradizioni che ha costituito il nerbo vitale della loro idea di popolo,
elementi fondamentali per i quali difendere la propria dignità di uomo e
l’unità della stirpe89.
Nella società meridionale del Mezzogiorno medievale alla SS. Trinità
di Cava spetta un ruolo assai più multiforme, dal quale emerge una presenza cavense poderosa e consistente. L’abbazia pone problemi di carattere istituzionale e organizzativo, quali il peso ricoperto nell’ambito della
riforma della Chiesa e i rapporti intercorsi tra il monastero e i vescovi;
problemi di ordine più strettamente religioso, legati all’incidenza che i
monaci ebbero nell’organizzazione della cura animarum, e problemi di carattere politico-sociale, come le relazioni che la Trinità intrattenne con le
aristocrazie territoriali. La documentazione presa in esame fornisce una
messe copiosa di dati, notizie, elementi, capaci di attestare il ruolo essenziale svolto dai monaci e la fortuna toccata alla congregazione cavense
tra la fine dell’XI e l’intero XII secolo. Questo straordinario cammino di
irradiazione del sistema cavense sembra dettato da fattori molteplici90, il
calcolo politico è uno di questi ma ad esso vanno aggiunte le condizioni
88
AC, D 9.
Per un inquadramento generale sulla natura e sul valore delle tradizioni del popolo longobardo si veda S. Gasparri, La cultura tradizionale dei Longobardi. Struttura tribale
e resistenze pagane, Spoleto 1983.
90
A proposito dell’infondatezza di un antagonismo tra il monachesimo latino e
quello greco nel Mezzogiorno monastico medioevale e del desiderio di latinizzazione
perseguito dai Normanni si veda anche lo studio di G. Vitolo, La latinizzazione dei monasteri italo-greci del Mezzogiorno medievale. L’esempio di S. Nicola di Gallocanta presso Salerno in
S. Leone - G. Vitolo, Minima Cavensia. Studi in margine al IX volume del Codex Diplomaticus
Cavensis, Salerno 1983, pp. 75-92.
89
Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna
57
in cui versano la vita religiosa e le istituzioni ecclesiastiche di base, la
necessità di garantire il regolare svolgimento della liturgia nelle chiese,
l’azione riformatrice condotta da vescovi e pontefici nelle terre del Mezzogiorno, il modello di profonda spiritualità offerto dagli abati cavensi e
la forza della preghiera di cui i monaci si fanno promotori.
IL BASSORILIEVO DI MAHDIYA
VICENDE STORICO-ARTISTICHE TRA ZIRIDI E NORMANNI
NEL MEDITERRANEO MEDIEVALE (XI-XII SEC.)
Lamia Hadda
La vicenda mediterranea tra gli Ziridi della Tunisia medievale (Ifriqiya)
e tra i Normanni d’Italia meridionale s’inquadra in un panorama politico
la cui lettura anche se estremamente complessa e articolata può essere
brevemente sintetizzata.
È bene ricordare che il Canale di Sicilia nel suo punto più stretto non
supera i centocinquanta chilometri di larghezza. È logico quindi pensare
che chi governava la Sicilia non poteva non tener conto di quello che
accadeva sulla sponda opposta del Mediterraneo.
Nel 973, il quarto califfo fatimide al-Mu‘izz ibn al-Mansūr (953-973)
trasferì la sede del potere in Egitto appena conquistato. In seguito i Fatimidi riuscirono ad impossessarsi della vecchia capitale egiziana al-Fustat
e a fondare una nuova città palatina a qualche chilometro più a Nord,
sede dell’amministrazione centrale del reame fatimida, che dapprima
prese il nome di al-Mansuriyya, come la vecchia capitale ifriqiyena, per
poi essere ribattezzata con il nome di al-Qahira (Il Cairo). Quest’ultima,
in poco tempo, diventò una delle metropoli più ricche e più importanti
del mondo islamico. Per circa due secoli, la dinastia sciita fatimide che
aveva regnato per circa due secoli sull’Egitto e sul Nordafrica divenne la
principale potenza mediterranea1.
Tutto ciò aveva comportato una frammentazione politica del Maghreb che venne governata per la prima volta dopo la conquista araba da
1
E. J. Grube, Il periodo fatimide in Egitto dal 297/909 al 567/1171, in Eredità dell’Islam,
arte islamica in Italia, cur. G. Curatola, Catalogo della mostra, Venezia, Palazzo ducale 30
ottobre 1993-30 aprile 1994, Milano 1993, pp. 133-139; H. Halm, L’histoire d’une brillante
dynastie, in Trésors fatimides du Caire, Catalogue de l’exposition de l’Institut du monde arabe,
28 avril-30 août 1998, Paris 1998, pp. 44-51; A. Fuad al-Sayyid, Les Fatimides en Egypte,
Beyrout 2000; R. Ettinghausen, O. Grabar, M. Jenkins-Madina, Islamic Art and Architecture 650-1250, London 2001, pp. 190-213.
60
Lamia Hadda
tribù berbere di Sanhagia: gli Ziridi e gli Hammaditi2. Dopo lo strappo,
praticato da queste tribù nei confronti del potere sciita del Cairo, che
coincise con la scelta di sottomettersi al califfo sunnita di Bagdad, i Fatimidi spinsero le tribù nomadi dei Banu Hilal e Banu Sulaym provenienti
dall’Alto Egitto a punire la defezione degli Ziridi. La crisi politico-economica che ne seguì fu grave tanto che si formarono delle piccole entità
autonome che si sostituirono allo stato di generale anarchia derivante da
un potere centrale ormai inesistente. Gli Ziridi intanto trasferirono la
loro capitale da Kairouan a Mahdiya che rimase tale fino alla conquista
normanna del 11483.
Prima di questa data però i Normanni avevano assicurato un appoggio agli Ziridi che esercitavano una sorta di stato cuscinetto tra i Fatimiti
e gli Almoravidi e in seguito tra i Fatimiti e gli Almohadi, due dinastie
berbere provenienti dal Sud del Marocco, al fine di garantire una certa
stabilità territoriale, seppure con evidenti limiti, e di conseguenza garantire più sicurezza alle navi commerciali che solcavano il Mediterraneo i
cui guadagni erano lucrosi per la Sicilia. Per quanto esistesse una tregua
siglata nel 1075 tra i Normanni e gli Ziriti, continui erano stati gli scontri terresti e navali tra Cristiani e Musulmani. Presupposto di un vero e
proprio attacco in Africa del Nord, fu l’assalto almoravide di Nicotera
sulla costa calabrese nella primavera del 1122, ritenuto da Ruggero II
opera di Hasan ibn Alì e conseguenza di un’alleanza tra Ziriti e Almoravidi, considerata, come abbiamo già detto, pericolosa per la navigazione
normanna4.
C’è da sottolineare che la Sicilia e la Tunisia avevano però instaurato uno stabile e fruttuoso traffico commerciale marittimo dovuto soprattutto alla vicinanza delle due coste: il viaggio era abbastanza celere
per l’época poiché non si impiegava più di una settimana tra Palermo e
Mahdiya5.
Il progetto di assicurarsi una base stabile sul territorio africano nasceva sempre più dall’idea di garantire sicurezza ai traffici su una rotta già
2
Sugli avvenimenti storici delle due dinastie berbere regionali si veda per tutti: H.
R. Idris, La Berbérie orientale sous les Zirides (Xe-XIIe s.), I, Paris 1962; A. Dhouib, L’époque
ziride, in Histoire générale de la Tunisie. Le Moyen Age (27-982 H./647-1574), II, Tunis 2005,
pp. 269-321.
3
A. Ibn Khaldūn, Histoire des Berbères, trad. De Slane, II, Paris 1999, pp. 4-29. 4
Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, trad. M. Amari e riveduta da U. Rizzitano, II,
Firenze 1997, pp. 361-363; Dhouib, L’époque ziride, pp. 313-318.
5
A. Aziz, La Sicile islamique, Paris 1990, pp. 59-61; G. Jehel, L’Italie et le Maghreb au
Moyen Age. Conflits et échanges du VIIe au XVe siècle, Paris 2001, pp. 51-53.
Il bassorilievo di Mahdiya
61
esistente ma pericolosa allo stesso tempo di prelevare ingenti quantitativi
di oro da utilizzare per la fabbricazione dei tarì nelle zecche di Sicilia e di
Salerno e nella stessa città di Mahdiya dove probabilmente era attiva una
produzione per la fabbricazione delle monete. Per di più la scelta della
città di Mahdiya, quale possibile prima conquista sul territorio africano, è
presto spiegata dal fatto che per la sua importanza tra le città del Maghreb e per la sua particolare posizione sul mare era diventata il terminale
delle rotte carovaniere dell’oro transhariano6.
In tutti i modi il primo scontro tra Normanni di Sicilia e ifriqiyeni
di Mahdiya avvenne nell’agosto del 1123. L’autore arabo Ibn Hamdis
descrisse enfaticamente e in ogni dettaglio la disfatta normanna, avvenuta sia presso la fortezza che nell’isolotto di al-Ahāsī situato proprio di
fronte al castello di Ras al-Dimas posto sul mare a circa una decina di
chilometri a Nord di Mahdiya7.
Il silenzio che seguì i primi attacchi costieri da parte dei cronisti italomeridionali, sono facilmente spiegabili alla luce degli evidenti insuccessi
militari che seguirono le prime spedizioni sul suolo africano. L’unico
a segnalare, anche con una certa mancanza di precisazioni cronologiche, la sconfitta e il definitivo abbandono normanno dell’Ifriqiya fu Ugo
Falcando8.
Solo due cronisti francesi si sono interessati delle vicende normanne
durante la fase successiva dell’occupazione costiera africana, Guglielmo
di Nangis e Roberto di Torigny9.
6
Sulla conquista nordafricana, si consulti: F. Gabrieli, La politique arabe des Normands de Sicile, «Studia islamica» 9, 1958, pp. 83-96; K. Belkhodja, Les Normands de Sicile en
Ifriqiya, «Les Cahiers de Tunisie» 12, 1964, pp. 37-40; M. Brett, The City-State in Mediaeval
Ifriqiya; the Case of Tripoli, «Les Cahiers de Tunisie» 34, 1986, pp. 69-94; E. Caspar, Ruggero
II e la fondazione della monarchia normanna di Sicilia, Roma - Bari 1999, pp. 43-47, 152-154,
382-390; H. Houben, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, Roma - Bari
1999, pp. 100-110; A. De Simone, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Islam Africano, in Il
Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo, Atti delle XIII giornate
normanno-sveve, Bari 21-24 ottobre 1997, Bari 1999, pp. 261-263; A. De Simone, Ruggero II e l’Africa islamica, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le crociate, Atti delle quattordicesime
giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 2000, Bari 2002, pp. 95-129.
7
M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, ed. U. Rizzitano, III, Firenze 1998, pp. 724-731; A.
Borruso, La battaglia di Capo Dīmās nei versi di Ibn Hamdīs poeta arabo di Sicilia, «Bollettino
del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani» 13, 1977, pp. 5-19.
8
Ugo Falcando, La Historia o Liber de regno Sicilie e la Epistola ad Petrum Panormitane
Ecclesie thesaurium, ed. G.B. Siragusa, Roma 1897, pp. 24-28.
9
Guglielmo di Nangis, Chronique latine, ed. H. Geraud, I, Paris 1843, p. 45; Roberto di Torigny, Monumenta Germaniae Historica, SS, VI, p. 473.
62
Lamia Hadda
Le fonti arabe che descrivono la presa di Mahdiya, successive agli
avvenimenti, si rifanno tutte alla cronaca perduta di ibn Shaddad testimone oculare della presa della città: Tijani, Ibn al-Athir, Ibn Khaldun e
Ibn Abi Dinar10.
La spedizione navale salpata da Marsala tra il 27 giugno e il 26 luglio
del 1123 era formata da circa trecento navi che trasportavano trentamila
uomini e un migliaio di cavalli11.
Alla disfatta contribuirono numerosi fattori. Una tempesta fece
affondare molti vascelli mentre altri si riparavano a Pantelleria. Il vento contrario che costrinse la flotta di Ruggero a fermarsi nell’isoletta
(Jazīrat) di al-Ahasī e avanzare a remi. I due ammiragli, Giorgio e Abd alRahmān il Cristiano, posero il campo sull’isola e seguirono le mura della
città di Mahdiya fino alla vicina città di Zawīla, impressionandosi sui
numerosi soldati che erano presenti sugli spalti. Nel frattempo al-Ahasī
era stata presa dagli Arabi e il tentativo di sorpresa di attaccare Mahdiya fallito. Inoltre, tre giorni dopo, la presa della fortezza di al-Dīmās
si rivelò uno scacco per le truppe normanne. I cento soldati normanni
che erano riusciti ad introdursi all’interno del fortilizio per corruzione
vi rimasero intrappolati e vennero in seguito trucidati in un tentativo di
sortita avvenuto per fame nella prima settimana dell’agosto del 1123. Le
truppe normanne non potendo soccorrerli levarono l’ancora alla volta
della Sicilia. La sconfitta ifriqiyena da parte di Ruggero aveva arrecato un
danno d’immagine di non poco conto al non ancora re di Sicilia12.
Dopo la sconfitta si dice che alla corte di Palermo “uno dei franchi” probabilmente Giorgio d’Antiochia13, l’ammiraglio di Ruggero II
dalla barba lunga giurava di tagliarsela solo dopo essersi vendicato della
sconfitta subita14. Infatti, con una menzogna la flotta normanna giunse
10
Al-Tijani, Biblioteca arabo-sicula, II, pp. 506-510; Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, II, pp. 369-373; Ibn Khaldoun, Biblioteca arabo-sicula, II, pp. 605-608; Ibn Abi Dinar,
Biblioteca arabo-sicula, III, pp. 660-662.
11
Ibi Abi Dinar, Biblioteca arabo-sicula, III, p. 660.
12
Sulla sconfitta normanna di al-Dimas: Idris, La Berbérie orientale, pp. 334-338; sulla dettagliata narrazione degli avvenimenti: Al-Tijani, Biblioteca arabo-sicula, pp. 502-506.
13
Sul personaggio si veda: L.-R. Ménager, Amiratus, L’Emirat et les origines de l’Amirauté (XIe-XIIe), Paris 1960, pp. 44-54.
14
Ibn Idhari, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 479. Ibn Idhari, pensando probabilmente
all’ammiraglio Giorgio d’Antiochia, riporta testualmente ciò che probabilmente aveva
udito da qualche testimone oculare dopo la clamorosa sconfitta di al-Dimas raccontare
alla corte di Ruggero II, cioè che: «un Franco molto barbuto, si strizzava con la mano la
punta della barba, giurando per gli evangeli di non tagliarne un sol pelo prima di pigliare
vendetta sopra il popolo di al-Mahdiyah».
Il bassorilievo di Mahdiya
63
davanti l’imprendibile città di al-Mahdiya, capitale dell’ormai traballante
stato Ziride. Ruggero II essendosi inserito negli affari d’Ifriqiya e reclamando i mancati pagamenti per i rifornimenti di grano a seguito dei
debiti accumulati da al-Hasan prese il pretesto per l’attacco15.
Dopo la conquista dell’isola di Djerba (1135)16 e delle isole di Kerkenna (1145-1146)17 in Tunisia e della città di Tripoli (1146) in Libia18,
nell’estate del 1148 Giorgio l’antiocheno giunge davanti al porto di Mahdiya in Tunisia con duecentocinquanta-trecento galere e lascia la città per
due ore al saccheggio di tutte le sue ricchezze19. Subito dopo vengono
prese altre due importanti città del litorale tunisino senza grossi problemi: Susa e Sfax (1148)20.
Dopo solo qualche anno i Normanni avevano conquistato la costa
nordafricana da Tripoli a Bona concedendo ai musulmani di praticare la
loro religione. Nel settembre del 1148 il papa Eugenio III (1145-1153)
consacrò a Brescia il vescovo d’Africa cioè d’Ifriqiya (ovvero della Tunisia medievale)21 e in quello stesso anno probabilmente venne realizzata
l’epigrafe funeraria quadrilingue (latino, ebraico, greco, arabo), conservata a Palermo presso il Palazzo della Zisa, dove Ruggero viene indicato
come malik d’Italia, Longobardia, Calabria, Sicilia e Ifriqiya22.
Ormai l’espansione degli Almohadi, tribù come abbiamo già detto
provenienti dal Marocco, erano alle porte e non potevano essere contenute a lungo tanto è che subito dopo la morte di Ruggero II (Palermo,
26 febbraio 1154) tutte le conquiste siciliane nel Nordafrica vennero perse e il sogno dell’Impero d’Africa svanì definitivamente23.
Una delle tante testimonianze materiale delle conquiste normanne in
Africa settentrionale resta molto probabilmente il bassorilievo in marmo bianco, conosciuto con il nome di “lastra di Mahdiya” (53 × 36
15
Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 365.
Ibn Abi Dinar, Biblioteca arabo-sicula, III, pp. 660-661.
17
Idrisi, Biblioteca arabo-sicula, I, p. 105.
18
An-Nuwayri, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 561.
19
Al-Tijani, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 508.
20
Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 373.
21
H. Bresc, Le royaume normand d’Afrique et l’archevêché de Mahdiyya, in Le partage du
monde échanges et colonisation dans la Méditerranée médiévale, sous la direction de M. Balard et
A. Ducellier, Paris 1998, pp. 347-366.
22
La scritta in arabo è la seguente: Mālikah Itāliyah wa-Ankubardhah wa-Qillawriyah
wa-Siqilliyyah wa-Ifriqiyah. Sull’epigrafe funeraria quadrilingue: M. Amari, Le epigrafi arabiche
di Sicilia, cur. F. Gabrieli, Palermo 1971, pp. 201-212, tav. IX, fig. 2; B. Lagumina, Nota
sulla iscrizione quadrilingue esistente nel Museo Nazionale di Palermo, «Archivio Storico Siciliano» 15, 1890, pp. 108-110.
23
A. De Simone, Ruggero II e l’Africa islamica, pp. 124-125.
16
64
Lamia Hadda
Fig. 1. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo, lastra di Mahdiya, XII secolo
cm). L’elemento marmoreo scolpito, attualmente conservato all’interno
della sezione islamica del museo Nazionale del Bardo di Tunisi, venne
scoperto sulle rovine del palazzo di al-Qa‘im bi-Amer Allah (934-946) a
Mahdiya. Di recente il bassorilievo è stato oggetto di un’attenta analisi
archeologica e artistica da parte di Faouzi Mahfoudh24. Lo studioso ha
ripercorso le vicende che hanno accompagnato il bassorilievo a partire
dalla sua fortuita scoperta avvenuta alla metà del XX secolo. Questa importante lastra è stata segnalata nel corso dei secoli da numerosi storici
dell’arte islamica anche se nessuno ha mai avanzato ipotesi circa la sua
datazione25. A Mahfoudh va il merito di aver per primo cercato di contestualizzare questo esemplare che assume un grande valore artistico per
la sua testimonianza archeologica poiché rappresenta l’unico elemento
24
F. Mahfoudh, Bāyna al-Mahdiya wa Siqilliya. Tahlil lī mashhād manhūt, «Africa» 20,
2004, pp. 5-33.
25
G. Marçais, L’art musulman du XIe siècle en Tunisie d’après quelques trouvailles récentes,
«Revue de l’art ancien et moderne» 44, 1923, pp. 161-173; H. H. Abdul-Wahab, Warakat,
c
an al-hdhāra al-carabiya bi Ifriqiya, II, Tunisi 1965-1972, pp. 203-206; M. S. Zbiss, Les sujets
animés dans le décor musulman d’Ifriqiya (Tunisie), in Actes du 79èmecongrès national des sociétés
savantes Alger 1954, Paris 1957, pp. 297-325, in particolare si consulti la pagina 302; M.
Yacoub, Pièces maîtresses des musées de Tunisie, Tunis 1994, pp. 130-133.
Il bassorilievo di Mahdiya
65
materiale oggi conosciuto del passaggio dei condottieri normanni sul
territorio africano26.
La scultura rappresenta un re seduto su un piccolo scranno e con
i piedi incrociati. Il monarca reca sul capo una corona a tre punte, due
laterali e una più larga centrale, coperto da una tunica decorata da una
fascia ornata da una greca che corre sulle maniche del vestito (tirāz).
Una cintura decorata con cerchietti lascia pendere al centro un ulteriore
elemento che si allunga di poco verso il basso. Il sovrano regge nella
mano destra un calice mentre alla sua sinistra è rappresentato un musico
nell’atto di suonare il flauto.
Data la successione degli avvenimenti storici del contesto archeologico in cui è stato trovato il bassorilievo, la sua attribuzione non è
immediata. Di certo si conosce la datazione delle rovine del palazzo del
X secolo, ma sappiamo anche che tale residenza venne abitata sia dai
principi ziridi nell’XI secolo che da quelli normanni, dopo la loro conquista avvenuta durante le campagne belliche condotte da Ruggero II
nella metà del XII secolo sul litorale mediterraneo come è stato già descritto all’inizio di questo studio. Nel 1148, a seguito della conquista della
città di Mahdiya, i Normanni utilizzarono le residenze palaziali fatimidi
come alloggio e trasformarono la Grande moschea in chiesa cristiana al
fine di praticare la loro religione27. Inutile aggiungere che alcuni pezzi
di notevole valore venivano scambiati come regali e questa era un’abitudine molto diffusa nel mondo mediterraneo tra i nobili dell’epoca28.
Un’ulteriore considerazione porta ad affermare che molti elementi tratti
dal repertorio figurativo umano erano ben presenti nell’arte fatimide del
Cairo anche se nelle loro variegate raffigurazioni di sovrani e principi
musulmani, il copricapo non è rappresentato da una corona bensì da un
turbante29.
26
Mahfoudh, Bāyna al-Mahdiya wa Siqilliya, pp. 32-33.
Bresc, Le royaume normand d’Afrique et l’archevêché de Mahdiyya, pp. 347-366.
28
Jehel, L’Italie et le Maghreb, pp. 52-53.
29
G. Marçais, Les figures d’hommes et de bêtes dans les bois sculptés d’époque fâtimide conservés
au Musée arabe du Caire, in Mélanges d’Histoire et d’Archéologie de l’Occident musulman, I, Alger
1954, pp. 81-92; J.M. Bloom, L’iconographie figurative dans les arts décoratifs, in Egypte, l’âge d’or
des Fatimides, Dossiers d’archéologie, 233, Paris 1998, pp. 58-65; A. Contadini, Des arts
décoratifs florissant, in Trésors fatimides du Caire, pp. 74-84; A. Papadopoulo, L’Islam e l’arte
musulmana, Milano 2000, pp. 70-75, fig. 20; G. Curatola - G. Scarcia, Le arti nell’Islam,
Roma 2001, pp. 264-265; J. Kröger - M. Najjar, L’arte figurativa, in Alla scoperta dell’arte
islamica nel Mediterraneo, Roma 2007, pp. 51-58.
27
66
Lamia Hadda
Fig. 2. Palermo, Cappella Palatina, dettaglio del soffitto dipinto, XII secolo
È bene rilevare che sul soffitto dipinto della Cappella Palatina a Palermo figurano molte scene in cui un personaggio regale seduto nella
stessa maniera che sul nostro bassorilievo, con una corona a tre punte,
mentre regge nella mano destra un calice30. Anch’egli è coperto da una
leggera tunica decorata con una fascia sulle maniche. Sui lati trovano
posto nel pannello ligneo due monaci incappucciati. Lo stesso tema dei
bevitori è trattato sul soffitto dipinto della cattedrale di Cefalù dove ricorrono numerose scene di personaggi che recano in mano un calice31.
Le stringenti affinità con l’arte arabo-normanna del XII secolo e
i rapporti frequenti di incontro-scontro tra queste popolazioni hanno
portato lo storico dell’arte tunisino a supporre per la prima volta che
la lastra potrebbe essere attribuita all’epoca normanna ovvero al tempo
della conquista ifriqiyena di Ruggero II. In tal caso la lastra raffigurereb30
31
F. Gabrieli - U. Scerrato, Gli Arabi in Italia, Milano 1993, pp. 359-396, figg. 40-96.
Aurigemma, Il cielo stellato di Ruggero II, pp. 132-136.
Il bassorilievo di Mahdiya
67
Fig. 3. Il Cairo, Museo d’Arte Islamica, frammento di affresco proveniente dal bagno pubblico di Fustat, XI secolo
Fig. 4. Berlino, Museo di Arte Islamica, pannello in avorio proveniente dall’Egitto,
XII secolo
be il sovrano normanno nell’atto di festeggiare a suggello dell’annessione dei nuovi territori dell’Africa del Nord32.
Del resto, in alcune titolazioni tratte da documenti normanni a Ruggero vengono attribuiti in arabo titoli del tipo: «al-malik al-mu‘azzam
Rujār al-mu‘tazz bi‘llāh, al-muqtadir bi-qudratihi, malik Siqilliyya waItāliyya wa-Ankubarda wa-qillawriyya, imām Rûmiyya al-nāsir li ‘l-milla
al-nasrāniyya», ovvero «il re sublime, il potente per grazia di Dio, il possente attraverso la sua onnipotenza, re di Sicilia, d’Italia, di Longobardia e di Calabria, difensore del papa di Roma, protettore della religione
cristiana»33. In un’epigrafe sepolcrale di un importante chierico della cor32
33
Mahfoudh, Bāyna al-Mahdiya wa Siqilliya, pp. 31-33.
De Simone, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Islam africano, p. 270.
68
Lamia Hadda
Fig. 5. Il Cairo, Museo di Arte Islamica, piatto di ceramica a lustro metallico, X secolo
te normanna posta nella chiesa di S. Michele Arcangelo in Puglia oltre ai
titoli consueti appare anche quello di malik d’Ifriqiya34. Non è un caso se
il mantello di Ruggero II conservato nella Schatzkammer del Kunsthistorisches Museum di Vienna, la cui copia fedele all’originale è anch’essa
conservata presso il Museo normanno di Ariano Irpino, è delimitato da
un gallone che reca una iscrizione cufica ricamata in oro35.
34
Amari, Le epigrafi arabe, pp. 212-214.
Poiché l’originale del mantello conservato a Vienna era inamovibile (3.45 × 1.46
m), una copia adeguata per fedeltà e qualità venne realizzata dalla impresa Ratti nel 1993
dal Centro Europeo di Studi Normanni durante la mostra curata da M. D’Onofrio dal
titolo “I Normanni popolo d’Europa” e tenutasi a Roma presso il Palazzo Venezia tra
il 28 gennaio e il 30 aprile 1994. Il mantello originale è costituito da un tessuto in seta,
ricamato con oro con applicazioni di smalti e riccamente decorato con una moltitudine
di perle di fiume.
35
RECENTI RITROVAMENTI DI MONETE MEDIEVALI
IN IRPINIA
Mario R. Zecchino
Le monete, specialmente per il Medioevo avaro d’altri reperti, costituiscono documenti preziosi, capaci di testimoniare politica, economia,
diritto, cultura, vita sociale, lingua, arte e religione di un determinato
contesto politico-territoriale. Le possiamo considerare «uno dei monumenti antichi più piccoli, ma maggiormente carico di informazioni, che
sia a disposizione per decifrare la nostra storia»1. L’iconografia monetaria, in particolare, ha avuto funzioni molto importanti, tra le quali quella
di identificare l’autorità emittente, di rendere comprensibile il rapporto
Stato-sudditi-cittadini ed il contesto politico, economico, religioso e culturale. La moneta infine ha assolto quasi sempre funzioni di simbolo e
propaganda per il detentore del potere.
I frequenti ritrovamenti monetali sporadici rischiano quasi sempre
di restare occultati – soprattutto a causa delle rigidità della legislazione
italiana che non lascia margini ai privati possessori – con comprensibile
danno non solo per gli studi numismatici, ma anche per la più generale
conoscenza storica. Si è già detto che le monete sono testimoni, spesso
solitari, di eventi e contesti altrimenti inconoscibili, ma esse, in funzione
dei luoghi di ritrovamento, spesso risultano anche segnali importanti di
transiti e traffici, in grado di aprirci importanti scenari di itinerari e relazioni di varia natura.
È questo il caso del notevole materiale rinvenuto in tempi recenti
in Irpinia, regione montuosa tra Puglia e Campania, che in particolare
a partire dal X secolo ha giocato un ruolo importante nella geopolitica
dell’Italia meridionale peninsulare, essendo terra di frontiera tra il ducato
longobardo di Benevento, i domini bizantini di Puglia e le città-Stato
1
F. Barello, Archeologia della moneta. Produzione e utilizzo nell’antichità, Roma 2009, p. 11.
70
Mario R. Zecchino
della Campania costiera. Ciò comportò una particolare intensità, in essa,
del fenomeno dell’incastellamento (oggi si contano 54 tracce di strutture
castellari, molte delle quali restaurate), che la mise al centro delle prime
vicende dell’insediamento normanno in Italia del sud, fino poi alla costituzione del Regno di Sicilia, nel 1130-1140, da parte di Ruggero II
d’Altavilla.
1. Rinvenimenti in Ariano Irpino
Particolarmente espressivo di questa condizione dell’Irpinia è il territorio del Comune di Ariano Irpino (prov. Avellino) che, con i suoi 18
mila ettari, è tra i grandi Comuni italiani per estensione. Esso presenta
testimonianze stratificate di varie epoche storiche, a partire dal neolitico.
Collocandosi al confine tra Puglia e Campania, Ariano sin dall’antichità è stata snodo viario nel percorso da Roma alle coste pugliesi. Il suo
territorio, infatti, è lambito da due importanti vie romane: la Traiana (costruita tra il 108 e il 110 d. C.) e la Herculea (realizzata nel III secolo da
Diocleziano come appendice della Via Traiana per i collegamenti con la
Lucania)2. Nel Medioevo ha continuato a rivestire il ruolo di principale
snodo viario per i pellegrini che si dirigevano al Santuario di San Michele
sul Gargano o diretti in Terra Santa. Il suo castello, una grande fortezza
di origine longobarda, costruita in cima ad un colle di oltre 800 metri di
altezza sul l/m, rivestì un ruolo rilevante soprattutto in età normanna.
Dalla documentazione d’archivio (atti di compravendita)3, si evince
come la circolazione monetaria avesse subito un’apprezzabile regressione con la caduta dell’impero romano, fino all’arrivo dei Normanni e che
fosse sempre più frequente il ricorso al baratto. Nella documentazione
superstite4 sono comunque menzionati solidi bizantini, tarì d’oro – forse
utilizzati come moneta di conto – e denari in argento coniati dalle zecche
francesi, i provesini di Provins e dell’Italia settentrionale. L’avvento dei
Normanni, destinato a segnare la vita del Mezzogiorno, segnò una svolta
anche nelle vicende di Ariano. Come è noto, giunti in Italia meridionale
a piccoli gruppi – grazie alle loro capacità politiche e alle sviluppate at-
2
P. Dalena, Dagli Itinera ai percorsi. Viaggiare nel Mezzogiorno medievale, Bari 2003.
J. M. Martin, Ariano nella documentazione altomedievale (secoli VIII-XII), in Ariano tra
feudalità e demanio, Atti del Convegno, Ariano Irpino, 17-18 ottobre 2003, cur. Centro
Europeo di Studi Normanni, in attesa di pubblicazione.
4
Ibid.
3
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
L’Italia meridionale prima dell’arrivo dei Normanni
71
72
Mario R. Zecchino
titudini guerriere – divennero protagonisti nelle tante guerre locali che
affliggevano l’Italia meridionale.
Il cronista Amato di Montecassino5 narra le vicende di Melo di Bari,
un esponente di spicco dell’aristocrazia longobarda pugliese che domandò il loro aiuto per combattere i Bizantini: «Costoro vennero in aiuto
di Melo ed entrarono con lui nella terra di Puglia. E cominciarono a
combattere contro i Greci, e videro che erano come femmine. E abbattono i loro nemici esamini nei campi arenosi di Puglia. E per la morte
di questi si produsse grande tristezza (e l’imperatore di Bisanzio) più ne
rimandò a combattere. E quando sentì dire che la sua terra era assalita
dall’ardimento dei cavalieri, mandò contro i Normanni gli uomini più
forti che potè trovare. E quando questi altri furono arrivati, dispongono
una seconda battaglia. Ma i Greci persero e i Normanni erano sempre
saldi. E di questo ebbe gran dolore l’Imperatore. E mandò grande moltitudine di gente e ordinò la terza battaglia, e la quarta e la quinta. E tutte
le vinsero i Normanni. E così per la forza dei Normanni, Melo salì al
trono dell’onore»6. Nuovi documenti e una rivisitazione di quelli già a
disposizione permettono ad Errico Cuozzo di ipotizzare che la contea
di Ariano, e non quella di Aversa (fondata nel 1030 dal conte Rainulfo
Drengot Quarrel), sia stato il primo organismo politico realizzato dai
Normanni nel Mezzogiorno. Furono proprio i Normanni che combatterono al seguito di Melo contro i Bizantini a dar vita ad Ariano, tra il
1017 ed il 1019, alla prima contea normanna in Italia meridionale con il
conte Ubberto7.
I primi Normanni giunti sul suolo italiano erano gruppi di mercenari, incapaci di imporre proprie leggi e tanto meno proprie monete. Si
adeguarono ai sistemi vigenti al loro arrivo e continuarono ad utilizzare
le monete già circolanti sul territorio. Prima del loro arrivo, la circolazione monetaria nell’Italia meridionale era molto diversificata: circolavano
monete bizantine, longobarde e tardo imperiali (prevalentemente solidi
d’oro e folles di rame) nell’area pugliese e lucana, mentre in Sicilia e le
zone costiere tirreniche circolavano monete arabe (dinar d’oro e dirhem
5
Monaco benedettino dell’abbazia di Montecassino, autore di una “Chronica” sulle
vicende dei Normanni in Italia meridionale tra il 1016 e il 1078.
6
Amatus Casinensis, Storia de’ Normanni di Amato di Montecassino volgarizzata in antico
francese, ed. V. de Bartholomaeis, Roma 1935, I, 21, pp. 27-28; questa è l’edizione critica
usata anche in Amato di Montecassino, Storia dei Normanni, introduzione di G. Sperduti,
traduzione di A. Tamburrini, Cassino 1999, pp. 56-58.
7
E. Cuozzo, Intorno alla prima contea normanna nell’Italia meridionale in Cavalieri alla conquista del Sud. Studi sull’Italia normanna in memoria di Leon-Robert Menager. cur. E. Cuozzo - J.
M. Martin, Bari 1998, pp. 171 ss.
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
73
Il Regno di Sicilia nel 1154
d’argento)8. Le monete in uso in Italia meridionale erano quindi in rame,
argento ed oro. La conquista normanna della Sicilia e della Calabria da
parte di Roberto il Guiscardo e di suo fratello Ruggero non rivoluzionò
l’assetto monetario preesistente.
Ruggero II, successore del padre Ruggero I nella contea di Sicilia
strappata agli Arabi, dimostrò presto grande dinamismo e vocazioni
espansioniste, inizialmente rivolte al nord Africa e successivamente al
8
L. Travaini, La monetazione nell’Italia normanna, Roma 1995, pp. 99-100: «Nel X secolo il sistema monetario siciliano era quello fatimita, basato sul dinar d’oro e sul dirhem
d’argento, ma le monete effettivamente usate erano soltanto il quarto di dinar, detto
ruba’i, di circa un grammo (il dinar legale era di 4,25 grammi e il suo quarto teorico era di
1,06 grammi) ed una piccola frazione d’argento detta kharruba».
74
Mario R. Zecchino
Mezzogiorno d’Italia. Dopo varie vicissitudini riuscì ad unificare la Sicilia
all’Italia meridionale per proclamarsi, nel 1130 a Palermo, re di Sicilia.
A sanzionare l’effettività del Regno, Ruggero volle promulgare un
corpo di leggi a validità generale per l’intero territorio a lui sottomesso,
per regolare gli aspetti fondamentali della vita istituzionale e sociale del
neonato Regno, senza con ciò abrogare consuetudini e diritti locali che
non fossero in contrasto con le nuove disposizioni generali. La promulgazione avvenne nel corso di un’assemblea dei grandi del Regno convocata in Ariano nel settembre del 11409 in cui emanò anche un’ importante riforma monetaria.
A sancire il rilievo di Ariano nel neonato Regno, va ricordato che nel
1142 Ruggero vi tenne una seconda grande assemblea generale di tutti i
feudatari laici ed ecclesiastici del Regno (si noti che quella del 1140 e del
1142 sono le uniche assemblee note del regno di Ruggero) per trattare
affari inerenti all’organizzazione militare. Con l’instaurazione del Regno,
la circolazione monetale (sulla base dei rinvenimenti) in Ariano sembra
normalizzarsi, tornando ai livelli del periodo romano-imperiale (come
potremo vedere, sono pochi i rinvenimenti di monete bizantine, del tutto
assenti le monete longobarde, nonostante la vicinanza della città al ducato di Benevento, e abbondanti i ritrovamenti di monete normanne e
dei successivi regnanti). Altro dato da porre in evidenza è l’assenza, nel
campione preso in esame, di monete della vicina zecca di Salerno10 (che
avrebbe dovuto fornire il circolante anche nell’entroterra peninsulare).
Viceversa, è possibile constatare la presenza di numerose monete (follari) della zecca di Messina.
I rinvenimenti monetali sporadici in Ariano hanno consentito di catalogare circa 370 monete. Di queste, circa la metà risalgono al periodo
romano imperiale, circa 50 all’età moderna, le restanti al periodo medievale. Tra le medievali, si segnala la presenza di: 2 follis ribattuti; 1 follis
di Romano I (920-944) e Costantino VII della zecca di Costantinopoli;
3 aspron trachy di rame bizantini, concavi, probabilmente di Alessio III;
15 follari normanni; 1 tarì d’oro di Ruggero II; 24 denari svevi; 7 denari
angioini; 4 denari tornese; 3 denari enriciani di Lucca; 2 denari “piccoli”
della zecca di Verona; 1 denaro della zecca di Ancona; 1 obolo della zec9
Le Assise di Ariano 1984, ed. O. Zecchino, Cava dei Tirreni 1984.
Con la riorganizzazione amministrativa del Regno adoperata da Ruggero II nel
1140, divenne l’unica zecca regia dell’Italia peninsulare (le altre due zecche regie attive erano quelle di Palermo e Messina). La zecca di Salerno, chiusa definitivamente da
Enrico VI, fu attiva dal IX secolo fino alla fine del XII secolo.
10
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
75
ca di Tebe11 (ducato di Atene) di Guglielmo I de la Roche (1280-1287);
1 quartaro di Genova del III tipo (1139-1339); 1 obolo della zecca di
Venezia o Verona; 43 denari aragonesi [5 di Federico III (1296-1337)
della zecca di Messina; 2 di Ludovico (1342-1355) della zecca di Messina;
11 di Federico IV “il semplice” (1355-1377) della zecca di Palermo; 2
di Maria e Martino (1392-1402) della zecca di Messina; 1 di Alfonso
(1416-1458) della zecca di Messina; 3 di Giovanni (1458-1479) della zecca di Messina; 15 denari aragonesi non meglio classificabili perché molto
consunti (tra cui un denaro con al rovescio l’aquila volta a sinistra invece
che a destra); 2 denari di Alfonso I (1442-1458) o Ferdinando (14581494) della zecca di Napoli; 1 mezzo carlino o “giustino” (1459-1460) di
Ferdinando d’Aragona; 12 monete, un cavallo, di Ferdinando d’Aragona
(1458-1494) – quasi tutte in pessimo stato di conservazione – 1 mezzo
tarì d’argento tosato della zecca di Messina di Ferdinando II il Cattolico
(1479-1516)].
A seguire una descrizione più dettagliata delle monete normanne e
sveve (i disegni delle monete, con relativa numerazione, sono ripresi da
L. Travaini, La monetazione nell’Italia normanna, Roma 1995):
• Quindici follari normanni attribuibili:
Quattro a Ruggero II: Zecca di Messina, anno Egira 540 (1145-6).
Riferimenti: Spahr 1976 n. 79; Travaini 1995 n. 245-246; Grierson - Travaini 1998
n. 221-225.
Dritto: ottagono al centro di una croce, con leggenda cufica nei quarti: bi-amr almalik Rujar al-mu’azzam (per ordine del re Ruggero il grande).
Rovescio: forma stellata a sei raggi, con globetto al centro; leggenda cufica a sei raggi, leggenda cufica sui raggi e negli spazi: duriba bi-Masina sanat (coniato a Messina l’anno
quarantesimo cinquecentesimo).
11
Era una colonia genovese. Sulla moneta è raffigurato al dritto il castello genovese e in leggenda THEBE CIVIS; al rovescio un fiore di giglio e in leggenda G DVX
ATENES.
76
Mario R. Zecchino
Otto a Guglielmo I: Zecca di Messina, anno Egira 550 (1155-6).
Riferimenti: Spahr 1976 n. 99; Travaini 1995 n. 302; Grierson - Travaini 1998 n.
286-289.
Dritto: su due righe nel campo REX/ W leggenda circolare araba: duriba Masini
sanat 550 (battuto a Messina nell’anno 550).
Rovescio: busto della Vergine con il Bambino; a sinistra, MP ΘY
Tre a Guglielmo II:
o Due follari della zecca di Messina.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 118; Travaini 1995 n. 371; Grierson - Travaini 1998
n. 432-437
Dritto: testa di leone.
Rovescio: nel campo, al malik / Ghulyalim / al-thani (re Guglielmo il secondo).
o Un follaro della zecca di Messina.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 119; Travaini 1995 n. 368; Grierson - Travaini 1998
n. 401-409
Dritto: nel campo, al-malik / Ghulyalim / al-thani; leggenda circolare: duriba bi-amr
al-malik al-mu’azzam al-musta’izz bi-llah (coniato per ordine del Re magnifico bramoso di
essere esaltato da Dio).
Rovescio: nel campo, REX W / SCDS (Re Guglielmo il secondo); leggenda circolare: + OPERATA IN URBE MESSANE (battuta nella città di Messina).
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
77
• Un tarì di Ruggero II (rinvenuto in un vaso di terracotta e attualmente conservato nel Museo della Civiltà Normanna di Ariano
Irpino).
Riferimenti: Spahr 1976 n. 55-60; Travaini 1995 n. 182-190; Grierson - Travaini
1998 n. 176-177.
Dritto: su tre righe nel campo: al-mu’tazz bi-llah / al-malik Rujar / al-mu’azzam
(Esaltato da Dio / Re Ruggero / ridottato). Giro di esterno, formula di zecca e data.
Rovescio: IC XC NI KA (Cristo vince) nei quarti di una croce. Giro esterno, formula di zecca e data.
Questi tarì, emessi a Palermo e Messina probabilmente tra il 11301140, sarebbero i primi tarì siciliani ad avere un carattere marcatamente
“cristiano” essendovi raffigurata, su un verso delle monete, una croce
patente.
Da notare che proprio in questo periodo (1139), secondo Falcone
Beneventano, Ruggero II era intento a combattere l’omonimo conte
di Ariano Ruggero: «Lontano quattro miglia dalla città stava il conte
Ruggero d’Ariano, con settecento cavalieri pronti ormai a battersi sino
alla morte […] e lui [Ruggero], con il duca suo figlio ed il loro esercito
congiunto, si portò contro la città di Ariano, feudo del conte Ruggero;
immediatamente il re assediò la città e fece costruire delle macchine di
legno per poterla espugnare. Ma i cittadini e i cavalieri che erano con
loro, non avevano affatto paura delle cose che si andavano approntando;
infatti in città erano entrati duecento cavalieri e quasi ventimila uomini
d’arme. Il re allora, vedendola così ben fortificata e così pronta, diede
ordine di spostare l’accampamento e, imbestialito, ordinò di abbattere e
devastare le vigne, gli ulivi, gli alberi e i campi che si potevano trovare; e
così, si trattenne due giorni da quelle parti»12. Ariano fu conquistata da
Ruggero II un anno dopo, divenendo città demaniale e sede dell’assemblea generale dei vassalli in cui furono promulgate le Assise (1140).
•
Ventitre denari svevi, invece, vengono così classificati: 5 di
Federico II; 3 di Corrado I; 3 di Corrado II e 13 di Manfredi.
12
Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum. Città e feudi nell’Italia dei Normanni,
ed. E. D’Angelo, Firenze 1998, p. 219.
78
Mario R. Zecchino
Tra i cinque denari di Federico II si segnalano:
o Due denari del 1244, XV emissione, della zecca di Messina.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 133; Travaini 1993 n. 39; Grierson - Travaini 1998
n. 559a; Colucci 2010 n. 43.
Dritto: aquila coronata a destra. In leggenda + F ROM IMP SEP AVG
Rovescio: croce patente. In leggenda + R IERSL ET SICIL’
o Due denari del 1245, XVI emissione, della zecca di Brindisi.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 135; Travaini 1993 n. 40; Grierson - Travaini 1998
n. 560-561; Colucci 2010 n. 45.
Dritto: IPR con doppia omega. In leggenda + F ROMANORVM
Rovescio: croce patente con crescente in ogni quarto. In leggenda + IERSL ET
SICIL R
°° Un denaro del 1246, XVII emissione, della zecca di Messina.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 137; Travaini 1993 n. 41; Grierson - Travaini 1998
n. 562; Colucci 2010 n. 50.
Dritto: + . F . ROMANORVM intorno a IP con omega e apex basale entro cerchio
rigato.
Rovescio: + . R . IERL’ET . SICL’ . intorno a croce patente entro cerchio rigato.
Da un testo recentemente edito, che ha per titolo Narratio qualiter imperator Federicus reaquisivit regnum sibi rebellatum quando accessit ad aquirendum
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
L’itinerario compiuto da Federico nel 1229-1230 (da F. Delle Donne, Federico II:
la condanna della memoria. Metamorfosi di un mito, Roma 2012, p. 131)
79
80
Mario R. Zecchino
Jerusalem et sepulcrum Christi13, si è potuto definire l’itinerario percorso da
Federico II, di rientro dalla sesta crociata, per riconquistare il suo Regno
(dopo l’invasione dell’esercito papale) e sottomettere le città ribelli. Dal
testo si apprende che, dopo essere approdato a Brindisi verso la fine di
maggio del 1229, l’imperatore si recò, per ristabilire la propria autorità,
in molte città ribelli tra Puglia e Terra di Lavoro e, tra queste, Ariano
verso la fine di agosto. “Ariano, come veniamo a sapere, era una “camera
imperiale”, ossia un arsenale di armi e un centro di manifattura di stoffe.
Poiché Ariano non gli volle aprire le porte, Federico, pensando che per
aver ragione delle sue difese naturali e delle sue fortificazioni avrebbe
avuto bisogno di troppo tempo, decise di proseguire per Benevento, che
fu espugnata e di cui furono abbattute le mura”14. Nel lasciare Ariano
Federico le avrebbe rivolto questi versi:
Ara dei Jani, que camera nostra fuisti,
nunc hostis effecta, nostra legata fugisti.
Andria tua soror te multo prudentius egit:
que leta venit ad nos non nostra poemata legit.
Propter hoc incolumis remansit ultima nobis.
Quod tibi non erit multis implicita globis
quod fugiunt homines aliena pericula docent.
Sed tu seva petis que tantum pessima nocent.
Certe tibi Barolum bene poterit esse magister
ni tibi quod Deus est propter lata sinister.
Credo quod confidis montis stabilita per altum.
Non tibi plura loquor, aliis intentus agendis.
Monstrabit reditus quid sit offensio grandis15.
Tre denari di Corrado I, della zecca di Messina, tutti della stessa
tipologia.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 155; Travaini 1993 n. 52; Grierson - Travaini 1998 n.
585-589.
13
F. Delle Donne, Città e Monarchia nel Regno svevo di Sicilia. L’itinerario di Federico II
di anonimo pugliese, Salerno 1998.
14
Ibid., p. 77.
15
Ibid., pp. 107-108; nonché Id., Federico II: la condanna della memoria. Metamorfosi di
un mito, Roma 2012, p. 170; E. D’Angelo, Federico II scrittore, Avellino 2006, pp. 80-81.
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
81
Dritto: croce patente con un rombo nel primo e quarto spazio della croce. In leggenda + CONRADVS
Rovescio: al centro RX. In leggenda + IERL’ET SICIL’
Tre denari di Corrado II, della zecca di Brindisi, tutti della stessa
tipologia.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 166; Travaini 1993 n. 56; Grierson - Travaini 1998 n. 590.
Dritto: aquila coronata con testa a sinistra. In leggenda + C SECVNDVS
Rovescio: croce patente con globetti nel secondo e terzo quarto. In leggenda + IER
ET SICIL’ R
Dodici denari di Manfredi, invece, sono di diverse tipologie ma
quasi tutti delle zecche di Brindisi o Manfredonia.
o tre denari della zecca di Brindisi o Manfredonia:
Riferimenti: Spahr 1976 n. 195; Travaini 1993 n. 66.
Dritto: AP in monogramma tra tre globetti. In leggenda + MAYNFRIDVS
Rovescio: Croce patente con quattro cunei negli angoli. In leggenda + REX
SICILIE
o Un denaro della zecca di Brindisi o Manfredonia.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 206; Travaini 1993 n. 73; Grierson - Travaini 1998
n. 613.
82
Mario R. Zecchino
Dritto: M gotica al centro. In leggenda + AYNFR’ REX
Rovescio: Croce patente. In leggenda + SICILIE
o Due denari alla zecca di Brindisi o Manfredonia.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 214; Travaini 1993 n. 80.
Dritto: M gotica tra due globetti in alto e in basso. In leggenda + MAYNFRIDVS
Rovescio: croce. In leggenda + REX SICILIE
o Un denaro della zecca di Brindisi o Manfredonia.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 200; Travaini 1993 n. 71; Grierson - Travaini 1998
n. 610.
Dritto: nel campo, MyA (iniziale di Manfredi). In leggenda + NFRIDVS REX
Rovescio: croce a tutto campo e in leggenda + SI CI LI E
o Un denaro della zecca di Brindisi o Manfredonia di forma
ottagonale.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 217; Travaini 1993 n. 82; Grierson - Travaini 1998
n. 621.
Dritto: m gotica sormontata da omega. In leggenda + DEI GRACR’
Rovescio: croce patente con Quattro globetti agli angoli. In leggenda + SICILIE
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
83
o Un denaro della zecca di Messina.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 211; Travaini 1993 n. 78; Grierson - Travaini 1998
n. 614.
Dritto: + MAYNR intorno a T stilizzato a mo’di foglia fra tre globetti (in monogramma Trinacria)
Rovescio: + SICILIE intorno a croce
o Un denaro della zecca di Messina.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 198; Travaini 1993 n. 69; Grierson - Travaini 1998 n. 604.
Dritto: croce patente. In leggenda + MAYNFRID
Rovescio: S fra due globetti. In leggenda + REX SICILIE
o Due denari probabilmente di Manfredi (rispettano peso e dimensioni, oltre alla croce, molto simili ad altri denari del re svevo) ma
non meglio classificabili perché molto consunti.
Sette denari angioini sono stati catalogati come segue: due di Carlo
I d’Angiò, due di Carlo II d’Angiò e tre di Roberto d’Angiò.
Tra le monete rinvenute di maggiore interesse storico rientra sicuramente il mezzo carlino, o giustina, di Ferdinando I d’Aragona. La moneta, molto rara, fu battuta probabilmente dalla zecca di Napoli e riporta in
leggenda al rovescio la dicitura latina IUSTICIA E FORTITUDO MEA:
la giustizia è la mia forza (la leggenda si riferisce ai problemi incontrati
da Ferdinando I d’Aragona per farsi incoronare re)16.
16
D. Fabrizi, Monete Italiane Regionali. Napoli, Lecce 2010, p. 12.
84
Mario R. Zecchino
Sempre ad Ariano, dagli scavi condotti dal Prof. Marcello Rotili all’inizio degli anni ’90 all’interno del castello, sono state rinvenute 7 monete: un denaro tornese della zecca di Tebe (ducato di Atene) di Guglielmo
I de la Roche (1280-1287), un denaro della zecca di Napoli di Roberto
d’Angiò, un denaro della zecca di Napoli di Giovanna I d’Angiò (13431381), tre monete, un cavallo, di Ferdinando I d’Aragona (1458-1494,
due della zecca di Napoli ed uno della zecca dell’Aquila), un sestino di
Giovanna la pazza con il figlio Carlo della zecca di Napoli (1516-1519).
Al Museo Archeologico “Antiquarium” di Ariano Irpino sono conservate oltre ad alcune monete romane (prevalentemente antoniniani),
anche un denaro della zecca di Ancona del XIII sec., un denaro emesso
dalla zecca di Napoli a nome di Roberto d’Angiò e un’ interessante bolla
pontificia, in buona conservazione, di papa Giovanni XXII17 (del peso
di 56,71 gr. e diametro di 40 mm.). Tutti rinvenuti durante una campagna
di scavo nella zona Camporeale/Starza di Ariano Irpino. Di particolare
interesse la bolla plumbea rappresentante gli apostoli Pietro e Paolo da
un verso e il nome del pontefice dall’altro. Queste bolle, o sigilli, erano
utilizzate per convalidare le comunicazioni ufficiali emanate dalla Curia
Romana (i primi esempi di bolle pontificie, attualmente conosciute, risalgono al VI secolo).
2. Rinvenimenti in Sant’Angelo dei Lombardi
In altri scavi, condotti nel castello di Sant’Angelo dei Lombardi
(1987-96) sempre dal Prof. Marcello Rotili18, sono state rinvenute 17
monete (di cui 9 illeggibili). Tra queste, è stata rinvenuta una moneta che
ho potuto classificare come denaro della zecca di Maguelonne19 del XIIXIII secolo (moneta con iconografia e leggenda immobilizzata, coniata
dal X secolo ed utilizzata fino al XIII secolo soprattutto a Montpellier).
17
Fu papa dal 1316 al 1334 e stabilì la sua residenza ad Avignone. Introdusse la
processione del Corpus Domini e la festa della Santissima Trinità e istituì il Tribunale della
Sacra Rota. Dante lo colloca all’inferno.
18
M. Rotili, Sant’Angelo dei Lombardi. Ricerche nel castello (1987-96), Napoli 2002, p. 274.
19
Sulla moneta da un verso è raffigurata una croce composta da un fascio e da
due stendardi con in leggenda RAMVNDS; dall’altro lato è presente una croce formata
da quattro anelletti con in leggenda NAIDONA (degenerazione di Narbona, ovvero
Narbonne). Questa leggenda potrebbe trarre in inganno perché in realtà queste monete
non venivano coniate a Narbona ma furono copiate da quelle di Raimondo I di Narbonne
(966-1023).
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
85
Altro rinvenimento da segnalare è quello di un denaro tornese battuto a
Lepanto da Filippo di Taranto dopo il 1294.
La presenza di queste monete “straniere” è indice di una circolazione monetaria variegata, dovuta probabilmente anche alle dominazioni francesi in Italia meridionale (il principato di Acaia apparteneva agli
Angiò dal 1267). Frequenti sono infatti i rinvenimenti, in Italia meridionale, di denari francesi (della zecca di Maguelonne, di Rouen, di Tours,
di Provins ecc..) e di denari tornesi della Grecia franca (della zecca di
Lepanto, di Chiarenza, di Tebe, di Corfù).
Denaro della zecca di Maguelonne.
Denaro tornese battuto a Lepanto da Filippo di Taranto.
Dritto: Croce patente. In leggenda + PhS.P.TAR DESP
Rovescio: Castello tornese. In leggenda NEPATNI CIVIS.
3. Rinvenimenti in Montella
Gli scavi di Montella, condotti sempre dal Prof. Marcello Rotili hanno restituito il maggior numero di monete. Tra queste vanno segnalate:
un follis di Teofilo della zecca di Costantinopoli (829-842);
un follis di Basilio I della zecca di Costantinopoli (867-886);
tre follis di Costantino VII (913-959) a nome di Romano I della
zecca di Costantinopoli (920-944);
un follis anonimo classe K dell’XI secolo con il busto frontale
del Cristo e la Vergine a mezzo corpo;un follaro di Roberto il Guiscardo
della zecca di Salerno con al rovescio XC·RE/XC·IM[P] (Christus regnat,
86
Mario R. Zecchino
Christus imperat). Ribattuto su follis anonimo (1077-1085). Riferimenti:
Travaini 1995 n. 32; Grierson - Travaini 1998 n. 75-82.
Ernst Kantorowicz, nel suo studio sulle Laudes Regiae20, pone in rilievo il problema della diffusione della leggenda Christus vincit sulle monete.
Secondo lo studioso, questa leggenda si sarebbe diffusa principalmente
sulle monete francesi, per poi essere utilizzata anche sulle monete circolanti in altri territori, tra il XIII e il XIV secolo. È da segnalare la presenza di questo motto in due diverse versioni (IhSUS XPISTUS NICA
e IC XC NI KA) anche su monete bizantine. Il motto è rinvenibile con
varianti anche presso i Normanni dell’Italia meridionale (sia prima che
dopo la fondazione del Regno): IC XC NI KA (che compare anche sui
tarì Svevi) e XRS VNC XR REG XRS I21.
Un follaro di Ruggero II della zecca di Salerno22 (1127-1130).
Riferimenti: Travaini 1995 n. 177; Grierson - Travaini 1998 n. 170-171;
quattro denari di Enrico VI con Costanza d’Altavilla della zecca
di Brindisi con AP. Riferimenti: Spahr 1976 n. 30; Travaini 1993 n. 6;
Grierson - Travaini 1998 n. 485-487;
un mezzo denaro di Federico II del 1239 della zecca di Brindisi.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 122; Travaini 1993 n. 31; Grierson - Travaini
1998 n. 549;
un mezzo denaro di Federico II del 1243 della zecca di Brindisi.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 129; Travaini 1993 n. 35a; Grierson - Travaini
1998 n. 558;
un denaro di Federico II del 1243 della zecca di Brindisi.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 128; Travaini 1993 n. 35; Grierson - Travaini
1998 n. 555;
un mezzo denaro di Federico II del 1245 della zecca di Brindisi.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 136; Travaini 1993 n. 40; Grierson - Travaini
1998 n. 560;
20
E. Kantorowicz, Laudes Regiae. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del
sovrano nel Medioevo, Milano 2006 (ed. or. Berkeley - Los Angeles 1946), pp. 215-225.
21
Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera.
22
Questo è uno dei primi follari che riporta il titolo di duca che Ruggero II aveva
assunto nel 1127:
D/ + ROGERIVS DVX testa di ¾ a destra con capelli inanellati;
R/ IC XC ai lati di una croce con base ad ancora.
Il follaro rinvenuto, dal peso di 2,4 grammi ed un diametro di 17 mm., non leggibile
ai lati (non è visibile la leggenda), potrebbe essere una variante del tipo conosciuto in
quanto il volto rappresentato riporta la testa completamente avvolta da capelli inanellati
e non è presente la leggenda ROGERIVS DVX (forse perché non rientrata nel conio
della moneta).
Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia
87
due denari di Federico II del 1247 della zecca di Brindisi o
Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 143; Travaini 1993 n. 44; Grierson
- Travaini 1998 n. 565;
cinque denari di Federico II del 1249 della zecca di Brindisi.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 148; Travaini 1993 n. 48; Grierson - Travaini
1998 n. 570;
un denaro di Corrado I di Svevia della zecca di Messina.
Riferimenti: Spahr 1976 n. 158, Travaini 1993 n. 54, Grierson - Travaini
1998 n. 577;
un denaro di Carlo I d’Angiò della zecca di Brindisi. Riferimenti:
Spahr 1976 n. 43; Travaini 1993 n. 100; Grierson - Travaini 1998 n. 647;
un denaro di Carlo I d’Angiò della zecca di Brindisi. Riferimenti:
Spahr 1976 n. 41; Travaini 1993 n. 98; Grierson - Travaini 1998 n. 644;
un denaro tornese di Guglielmo I de la Roche (1280-1287) della
zecca di Tebe (ducato di Atene);
un denaro gherardino di Carlo II d’Angiò della zecca di Napoli
(1285-1309). Rifermenti: Grierson - Travaini 1998 n. 693;
un denaro tornese di Isabella di Villehardouin, Chiarenza, principato di Acaia (1297-1301);
due denari tornesi di Filippo di Savoia, Chiarenza, principato di
Acaia (1301-1307);
due denari tornesi di Chiarenza di incerta attribuzione;
un denaro di Roberto II d’Angiò della zecca di Napoli (13091343). Riferimenti: Grierson - Travaini 1998 n. 718-719;
quattro denari di Giovanna I d’Angiò della zecca di Napoli
(1343-1381);
un denaro di Ludovico e Giovanna I di Taranto della zecca di
Napoli (1343-1347);
due denari di Carlo III di Durazzo della zecca di Napoli (13821386). Riferimenti: Grierson - Travaini 1998 n.725;
due denari di Ladislao di Durazzo della zecca di Napoli (13861390). Riferimenti: Grierson - Travaini 1998 n. 728;
un denaro di Alfonso I d’Aragona della zecca di Napoli
(1442-1458);
un cavallo di Ferdinando d’Aragona della zecca di Napoli
(1458-1494).
88
Mario R. Zecchino
BIBLIOGRAFIA
Amato di Montecassino, Storia dei Normanni, introduzione di G. Sperduti, traduzione di A. Tamburrini, Cassino 1999
Amatus Casinensis, Storia de’ Normanni di Amato di Montecassino volgarizzata in antico
francese, ed. V. de Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la storia d’Italia pubblicate dall’Istituto storico italiano, 76)
Barello F., Archeologia della moneta. Produzione e utilizzo nell’antichità, Roma 2009
Colucci G., Denari e frazioni di Federico II Hohenstaufen nel Regno di Sicilia in Collana
di Studi Numismatici II. Atti del 2° Congresso di Numismatica. Bari 13-14 Novembre 2009. La
monetazione pugliese dall’età classica al Medioevo (2). Le monete della Peucezia. La monetazione sveva
nel regno di Sicilia, Bari 2010, pp. 223-262
Cuozzo E., Intorno alla prima contea normanna nell’Italia meridionale in Cavalieri alla conquista del Sud. Studi sull’Italia normanna in memoria di Leon-Robert Menager, cur. E. Cuozzo - J.
M. Martin, Bari 1998, pp. 171-193
Dalena P., Dagli Itinera ai percorsi. Viaggiare nel Mezzogiorno medievale, Bari 2003
D’Angelo E., Federico II scrittore, Avellino 2006
Delle Donne F., Città e Monarchia nel Regno svevo di Sicilia. L’itinerario di Federico II di
anonimo pugliese, Salerno 1998
Delle Donne F., Federico II: la condanna della memoria. Metamorfosi di un mito, Roma
2012
Fabrizi D., Monete Italiane Regionali. Napoli, Lecce 2010
Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum. Città e feudi nell’Italia dei Normanni,
ed. E. D’Angelo, Firenze 1998
Grierson P. - Travaini L., Medieval European Coinage. With a catalogue of the coins in
the Fitzwilliam Museum, Cambridge. 14. Italy (III) (South Italy, Sicily, Sardinia), Cambridge
1998
Kantorowicz E., Laudes Regiae. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del
sovrano nel Medioevo, Milano 2006
Martin J. M., Ariano nella documentazione altomedievale (secoli VIII-XII), in Ariano tra feudalità e demanio. Atti del Convegno, Ariano Irpino, 17-18 ottobre 2003, a cura del Centro
Europeo di Studi Normanni, in attesa di pubblicazione)
Rotili M., Sant’Angelo dei Lombardi. Ricerche nel castello (1987-96), Napoli 2002
Spahr R., Le monete siciliane dai bizantini a Carlo I d’Angiò (582-282), Zurich-Graz 1976
Travaini L., Hohenstaufen and Angevin denari of Sicily and Southern Italy: their mint attributions, «Numismatic Chronicle» 153, 1993, pp. 91-135
Travaini L., La monetazione nell’Italia normanna, Roma 1995
Le Assise di Ariano, ed. O. Zecchino, Cava dei Tirreni 1984
UN DICTATOR PEUT EN CACHER UN AUTRE…
À PROPOS DE LA LETTRE
«EXPECTANTES EXPECTAVIMUS-NOSCITIS EMANASSE»
ET DE LA JEUNESSE DE PIERRE DE LA VIGNE
Benoît Grévin
1. Attribution, autorité, compilation: statut et analyse textuelle des dictamina
contenus dans les Lettres dites de Pierre de la Vigne
L’histoire de la gestation, de la diffusion et de l’utilisation des diverses collections de dictamina connues sous le nom de Lettres de Pierre
de la Vigne est encore loin d’être reconstituée dans son intégralité. Son
élucidation a néanmoins considérablement progressé depuis vingt ans1.
Le principe de compilation et de sélection des textes de tout genre regroupés dans ces sommes a en particulier pu être éclairé à la lumière des
1
Sur les diverses collections des Lettres de Pierre de la Vigne, cfr. essentiellement
H. M. Schaller, Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993 (MGH Schriften, 38),
pp. 225-282; H. M. Schaller, Handschriftenverzeichnis zur Briefsammlung des Petrus de Vinea, Hannover 2002 (MGH Hilfsmittel, 18); B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les
Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XIVe siècle), Rome
2008 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 339); F. Delle Donne,
Le consolationes del IV libro dell’epistolario di Pier delle Vigne, «Vichiana», Ser. III, 4, 1993,
pp. 268-290; Nicola da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003 (Edizione
nazionale dei testi mediolatini, 9), Introduzione; F. Delle Donne, Una ‘costellazione’ di epistolari del XIII secolo: Tommaso da Capua, Pier della Vigna, Nicola da Rocca, «Filologia mediolatina», 11, 2004, pp. 143-159; Dall’ars dictaminis al preumanesimo? Per un profilo letterario
del secolo XIII, cur. F. Delle Donne, Firenze (SISMEL), sous presse (incluant plusieurs
communications sur la collection des Lettres de Pierre de la Vigne). Une édition de la
grande collection en six livres est en cours par les soins de K. Borchardt dans le cadre
du programme des Monumenta Germaniae Historica. Une édition collective de la petite
collection en six livres est en cours pour le Centro Europeo di Studi Normanni (volumes
concernant les livres II, IV et V sous presse, avec pour éditeurs respectifs A. Boccia, F.
Delle Donne et E. D’Angelo).
90
Benoît Grévin
nouvelles tendances de l’histoire textuelle médiévale. Ce qui apparaissait
aux chercheurs du dix-neuvième siècle comme un processus chaotique et
presque aberrant de sélection documentaire2 est désormais mieux compris: les lettrés responsables de l’organisation de ces summae dictaminis ont
entrepris un travail de mémorialisation qui intégrait plusieurs paramètres
parfois contradictoires, ce qui explique en partie certaines caractéristiques déroutantes de ces collections textuelles. Devant résumer l’activité
d’écriture d’un milieu très particulier – celui des dictatores gravitant autour
de la chancellerie de Frédéric II, Conrad IV et Manfred, mais aussi servir
d’instruments de travail aux futurs notaires, les collections de dictamina
dites de Pierre de la Vigne furent organisées en plusieurs étapes, en fonction de critères pratiques (classement thématique), mais aussi mémoriels
(regroupements partiels par incipit3), voire esthétiques.
Miroirs rhétoriques reflétant l’activité d’un milieu professionnel tout
comme la complexité de réseaux familiaux et amicaux centrés autour
de dictatores prestigieux, ces sommes étaient placées sous l’autorité du
représentant le plus prestigieux de ce milieu, Pierre de la Vigne, tout
en contenant de nombreux documents rédigés par d’autre lettrés gravitant dans l’orbite de la cour sicilienne, soit de son vivant, soit après sa
chute en 12494. En fait, les diverses collections des Lettres contiennent un
ensemble de documents dont le statut originel était extraordinairement
varié. Certaines lettres font partie de ce que la recherche traditionnelle
n’aurait pas hésité à qualifier de “correspondance familiale” ou “privée”,
qu’elle concerne Pierre de la Vigne ou d’autres dictatores. D’autres relèvent
de l’activité normale (mandats, privilèges) ou extraordinaire (propagande
politique) de la chancellerie sicilienne, et peuvent avoir été aussi bien
rédigées directement par Pierre, que supervisées, ou simplement visées
par celui-ci dans le cas où la date (postulée ou prouvée) de leur rédaction
initiale se place avant février 1249. Enfin, nombre de ces dictamina ont
été sûrement ou peut-être remaniés par une chaîne d’un ou plusieurs
2
Cfr. J. L. A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne ministre
de l’empereur Frédéric II avec une étude sur le mouvement réformiste au XIIIe siècle, Paris 1864, p.
21: «On doit aussi s’étonner de la persistance avec laquelle les auteurs des manuscrits,
se copiant les uns les autres sans plus ample examen, ont attribué le tout au principal
ministre de l’Empereur et se sont servis de son nom comme d’une étiquette pour faire
valoir un mélange composé sans ordre, sans goût et sans discernement…».
3
Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 48-49.
4
Sur la répartition des lettres entre la période 1220-1249 et la période 1249-1254
(les dictamina antérieurs à 1220 et postérieurs à 1254 sont rarissimes dans les collections
ordonnées), cfr. Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 45-106.
À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne
91
dictatores entre le moment de leur rédaction initiale, et leur “mémorialisation” dans l’une ou l’autre des versions des Lettres. Ce dernier point
explique que certains textes contenus dans ces collections posent des
problèmes de datation quasi-insolubles en apparence. Ils ont en fait pu
être réutilisés sous une forme différente de leur première apparition (par
exemple sous Conrad IV), ou retravaillés entre leur première rédaction
“frédéricienne” et l’époque de leur(s) compilation(s)5.
L’extraordinaire complexité de ce mouvement de compilation – à
la mesure d’instruments textuels reflétant non la vie d’un homme, mais
celle d’un milieu-socioprofessionnel – explique que la plus grande partie
des dictamina inclus dans les Lettres qui reflètent des correspondances
“privées”, échangées entre amis ou familiers, reste difficile à interpréter.
L’absence, la réduction à l’initiale ou la mutilation des noms propres
qui accompagne généralement le processus de réduction des lettres à
l’état de modèle rhétorique inhérent à ces pratiques de compilation, tout
comme la suppression des dates et autres éléments adventices, obligent
dans bien des cas l’historien à se contenter des indices contenus dans
le corps du document pour tenter d’établir l’identité du rédacteur, du
correspondant, la date de la rédaction, voire le caractère réel ou fictif
de l’échange analysé. On aboutit parfois au paradoxe suivant: la richesse
des allusions rhétoriques, et des détails en tout genre contenus dans un
document ayant pour rédacteur ou pour destinataire supposé tel ou tel
dictator et traitant de telle intrigue de cour, ou de tel argument familial
complexe, tout en donnant une idée très concrète de l’atmosphère, des
préoccupations et des intrigues de ce milieu des techniciens du dictamen
gravitant dans l’orbite de la cour sicilienne, ne permet pourtant pas de
préciser de quel épisode particulier le texte parle. L’analyse de ces dictamina peut servir d’appui à une histoire culturelle ou sociale du milieu des
praticiens du dictamen issus de la Terra Laboris au XIIIe siècle: elle peine à
reconstituer le détail des parcours individuels.
L’effet de brouillage créé par les différentes étapes de gestation des
collections et par leur structure textuelle se répercute donc sur les documents, pris isolément. De même que l’autorité de Pierre de la Vigne –
rédacteur initial d’une partie de leurs textes – cache l’autorité seconde du
ou des organisateurs des premiers prototypes des collections, vraisemblablement entre 1254 au plus tôt et 1268 au plus tard, de même certains
5
Sur ce dernier point, cfr. en particulier R. Gamberini, Le epistole di Pier della Vigna per Federico II: tradizioni manoscritte a confronto, sous presse dans Dall’ars dictaminis al
preumanesimo?.
92
Benoît Grévin
dictamina traditionnellement attribués à Pierre de la Vigne, ou mis en
rapport avec lui, sont susceptibles de se rapporter plutôt à l’activité des
lettrés qui se sont couverts de son autorité pour élaborer l’une ou l’autre
des formes les plus anciennes des Lettres de Pierre de la Vigne.
Parmi les lettrés appartenant à ce que l’on pourrait qualifier de
“seconde génération” de l’école campanienne d’ars dictaminis6, et qui
auraient pu avoir une responsabilité de premier plan dans le processus
de mémorialisation à l’origine de la constitution des Lettres, une partie
de la recherche a mis en avant le nom de Nicola da Rocca senior, disciple
favori de Pierre durant les années qui précédèrent sa chute, continuateur
et transmetteur de la tradition d’écriture campanienne pendant le règne
de Conrad IV et Manfred, et rédacteur avéré ou probable de certains des
documents contenus dans les quatre collections ordonnés7. Il est ainsi
remarquable qu’au centre symbolique et matériel de la collection classique des Lettres, des Laudes Petri de Vinea écrites par Nicola fassent pendant aux Laudes Friderici secundi écrites par Pierre de la Vigne, comme si le
disciple avait voulu, tout en s’effaçant derrière son maître, souligner son
rôle-clé dans le processus de transmission des dictamina ayant convergé
6
Sur le problème de l’école campanienne (ou capouane) d’ars dictaminis, cfr. Die kampanische Briefsammlung (Paris lat. 11867), ed. S. Tuczek, Hannover 2010 (MGH Briefe des
spätmittelalters, 2), pp. 37-42; Nicola da Rocca, Epistolae, pp. XXVII-XXXI; Una silloge
epistolare della seconda metà del XIII secolo, ed. F. Delle Donne, Firenze 2007 (Edizione nazionale dei testi mediolatini 19), pp. XLIII-LIX; F. Delle Donne, La cultura e gli insegnamenti
retorici latini nell’Alta Terra di Lavoro, in ‘Suavis Terra inexpugnabile castrum’. L’Alta Terra
di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angionina, cur. F. Delle Donne, Arce 2007 (Testis
Temporum. Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia centrale e Meridionale, 3), pp. 133-157;
Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 267-270, et B. Grévin, La collection campanienne (Paris,
BnF, lat. 11867). Réflexions sur la méthodologie d’édition des proses rythmées de la fin du Moyen Âge,
«Archivum Latinitatis Medii Aevi», 69, 2011, pp. 231-255, pp. 232-238. La Campanie est
l’un des berceaux de l’Ars dictaminis, qui prend naissance au Mont-Cassin dès la fin du
XIe siècle, mais les discussions sur l’existence et la cohérence d’une école capouane ou
campanienne se focalisent principalement sur les années 1190-1280, avec la génération
de Thomas de Capoue et Pierre de la Vigne (tous deux originaires de Capoue), celle de
Nicola da Rocca senior, et celle des épigones Henri d’Isernia, Nicola da Rocca junior et
autres dictatores en transition entre les mondes souabe et angevin. La reconstitution des
phases de gestation des collections de lettres dites de Pierre de la Vigne est l’un des
éléments susceptibles de nous faire mieux comprendre les caractéristiques de ce milieu
socioprofessionnel des praticiens du dictamen campaniens du XIIIe siècle, ses pratiques
et son idéologie.
7
Sur Nicola da Rocca senior, sa famille et son réseau épistolaire, cfr. Nicola da
Rocca, Epistolae, Introduzione. Sur son rôle possible dans le regroupement et les premières
compilations des collections dites de Pierre de la Vigne, cfr. Grévin, Rhétorique du pouvoir,
pp. 65-103.
À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne
93
dans les sommes8. S’il est difficile de mesurer dans quelles proportions
Nicola da Rocca s’est couvert de l’autorité de Pierre pour insérer des
compositions personnelles – dont certaines ont d’ailleurs pu être créées
sous la supervision de Pierre – dans l’un ou l’autre des prototypes des
lettres, il est tentant de penser qu’une partie du matériel réuni dans les
quatre collections ordonnées reflète cette dialectique du maître et du
disciple. Un corollaire de cette hypothèse, est que certains documents
traditionnellement considérés comme se rapportant à l’activité de Pierre
sont susceptibles de refléter aussi bien celle de Nicola.
C’est en particulier le cas de l’une des “lettres familiales” de la grande
collection en six livres qui servent traditionnellement à reconstituer les
premières étapes – les plus mal connues et les plus embrouillées par
la légende – de la carrière de Pierre de la Vigne. Cette lettre a été incluse par Huillard-Bréholles parmi les pièces justificatives de sa Vie et
Correspondance de Pierre de la Vigne9. Elle pourrait en fait également être
interprétée comme concernant la jeunesse de son disciple, Nicola da
Rocca: la confusion entre les deux figures opérée dans la création de
la somme se retrouverait alors dans le traitement des informations par
l’éditeur-historien.
2. La jeunesse réinventée de Pierre de la Vigne (vers 1200-1220)
Les débuts de Pierre de la Vigne sont obscurs et quasi légendaires.
En passant au crible de son érudition l’ensemble des clichés sur l’élévation du fameux rhéteur à partir d’un statut relativement humble, que véhiculent les lettres d’Henri d’Isernia, et dont l’astrologue Guido Bonatti
se fait l’écho fantaisiste 10, Huillard-Bréholles avait jadis débrouillé l’histoire prosaïque du rejeton d’un rameau d’une famille patricienne mais
probablement peu argentée de Capoue, né dans une fourchette sans
doute comprise entre 1185 et 120011. Ses déductions ont été récemment
8
Ces deux textes sont répertoriés comme PdV III, 44 et 45 (lettres 44 et 45 du
troisième livre de la collection classique (petite collection en six livres).
9
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4, pp. 292-298: (Expectantes expectavimus/materia noscitis emanasse), sous la rubrique «Lettre d’un anonyme (probablement d’un
ex-juge de la grande cour) à Pierre de la Vigne, pour lui rappeler que, puissant maintenant, il doit oublier les anciens torts de sa famille envers lui».
10
Cfr. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, p. 8, citant Guido Bonatti, Astrologia, Pars I, Consideratio 141: «Fuit similiter quidam de regno Apuliae, natione vilis, nomine
Petrus de Vinea, qui cum esset scholaris Bononiae mendicabat nec habebat quod comederet, et postea effectus est notarius, deinde protonotarius Friderici secundi». 11
Ibid., pp. 3-11.
94
Benoît Grévin
confirmées et précisées par une note érudite de Fulvio Delle Donne. Il
y édite un acte ôtant toute ambiguïté sur le nom du père de Pierre de
la Vigne, Angelo de Capoue, lui-même juge, et frère d’un abbé Taddée,
ce qui exclut que la famille de Vinea n’ait pas fait partie, au moins à
la marge, des potentes et maiores de la cité12. Le problème qui se pose à
l’historien est de reconstituer les étapes de la formation de Pierre avant
son entrée à la cour impériale (vers 1221). Les forts liens ultérieurement
entretenus avec le chapitre de Capoue et l’archevêque Jacques (12271242) conduisent à postuler qu’il a pu étudier une partie de son enfance
ou de sa prime jeunesse sous la direction de ce dernier, dont la carrière
est toutefois difficile à retracer à cette époque13.
La lettre censée donner les renseignements les plus circonstanciés sur
les difficultés essuyées par Pierre dans sa jeunesse fait partie des dictamina
qui ont été recueillis dans le rameau des collections de Pierre de la Vigne
dit “grande collection en six livres”, pour être ensuite écartés des petites
collections en six livres, les plus diffusées durant le reste du Moyen Âge.
Comme nombre de ces dictamina propres à la grande collection en six
livres se rapportent à la famille de Pierre et à ses activités personnelles, il
est tentant de supposer que ce document concerne le puissant conseiller
de Frédéric II. Huillard-Bréholles a donc exploité son contenu pour tenter d’y voir plus clair dans ce qui reste la question majeure du parcours
initial de Pierre de la Vigne: son séjour à Bologne, tradition répercutée
par de nombreux chroniqueurs médiévaux et savants modernes14.
On peut résumer le contenu de la lettre de la manière suivante. C’est
une suite de reproches qu’un ami, apparemment déjà vieux, adresse à un
homme plus jeune, parvenu récemment à une certaine faveur à la cour15,
et peut-être pressenti pour des succès ultérieurs. Ce jeune “parvenu”
12
Sur l’origine de Pierre de la Vigne, cfr. L. Mattei-Cerasoli, I genitori di Pier della
Vigna, «Archivio storico per le province napoletane»», 49, 1924, pp. 321-330, F. Delle
Donne, Nobiltà minore e amministrazione nel regno di Federico II. Sulle origini e sui genitori di
Pier della Vigna, «Archivio storico per le province napoletane», 116, 1998, pp. 1-9, et H.
M. Schaller, Pier della Vigna, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp.
501-507.
13
Sur Jacques de Capoue, cfr. N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich
Sizilien, I, Abruzzen und Campanien, München 1973, p. 121-128.
14
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 7-9. Cfr. également W. Stürner,
Friedrich II. Der Kaiser 1220-1250, Darmstadt 2000, p. 42: «Vermutlich hatte er in Bologna
studiert, ehe er zu Beginn der zwanziger Jahre, offenbar auf Empfehlung des Erzbischofs Berard von Palermo, eine Notarstelle in der kaiserlichen Kanzlei erlangte».
15
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4, pp. 292-293: «Expectantes expectavimus diu (…) tardeque nobis comparuit veniens dies illa quae gratam afferret cum
À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne
95
tient apparemment rigueur à un cercle composé de sa famille et de cet
ami de l’avoir délaissé au temps de sa misère, alors qu’il errait dans des
contrés reculées16, où il avait accumulé un savoir remarquable17. Ce long
exil a laissé une trace d’amertume dans le dictator désormais bien en cour.
Il s’en venge par ses dédains sur ses parents, et le rédacteur de la lettre
anticipe dans sa missive les reproches que son correspondant lui adresserait s’il était présent:
Vous direz peut-être – lui fait dire le rédacteur anonyme – voulant
couper court à nos objections: ‘vous, mes parents et mes proches, qui
vous dressez en face de moi avec de telles instances pour accuser mon
innocence et couvrir votre négligence: celui-là même que, alors qu’il
errait dans l’abjection et le mépris depuis son jeune âge dans de lointaines régions, sans avoir aucune part à vos biens et à l’héritage paternel,
vous dédaignâtes de rechercher, c’est avec une belle audace, une belle
impudence, que vous l’assaillez à présent de vos mordants reproches18.
L’ami explique ensuite que, situés à la frontière du royaume, ni lui
ni les parents du destinataire n’osent la franchir (apparemment pour le
rejoindre à la cour dans un de ses voyages en Italie du nord?), de crainte
de tomber sous le coup de l’édit de l’empereur qui interdisait toute communication entre les frontaliers du Patrimonium Petri et ce dernier19. Dans
la suite de ce long texte, le seul indice concret sur l’origine du rédacteur
celebritate laeticiam, ut de vestrorum jocunditate successum sitientis animo votiva refunderet libamina gaudiorum».
16
Ibid., p. 293: «Factum est mirifice Salvatoris arbitrio qui de remotis mundi partibus
velut a ventre ceti vos ad patriae limina reduxit incolumes, votisque propiciatus orantium cum
apud vos amici vestri favore censerentur indigni, sustinere non voluit ut nostris ultra
possetis aspectibus elongari».
17
Ibid., pp. 293-294: «Recte namque videtur a celesti majestate provisum ut scientia
vestra tot occultata temporibus tantis laboribus acquisita, dignis non esset caritura profectibus,
sed locum sortiretur in culmine ubi lucerna super candelabrum posita omnibus propatulo foret sui luminis radios expansura».
18
Ibid., pp. 294-295: «Dicetis autem nostris forte volentes objectionibus subinferre:
‘vos parentes et proximi qui taliter adversus me objurgando consurgitis, culpantes innocentiam meam vestramque negligentiam palliantes, cum eum quem velut abjectum et
contemptibilem a primaevo in longis regionibus oberrantem, bonorum vestrorum et totius paternae facultatis expertem requirere neglexistis, nunc tam audacter et impudenter verbis
mordacibus increpatis’».
19
Ibid., p. 295: «Nos enim qui velut ad sagittam in confinio positi, ventorum omnium
impulsione concutimur, sic a serpentum morsibus exterriti sumus quod et lacertarum
tactus effugimus, nec audaces esse possumus quia de personis et rebus nostris libertatis
arbitrium non habemus. Cum igitur propter edictum Cesaris super hoc generaliter promulgatum,
96
Benoît Grévin
est l’indication que le rédacteur, qui dit avoir aidé le destinataire à se former dans son jeune âge, est lui-même retiré de la cour, mais a un fils que
César-Frédéric a honoré de l’office de prothojudicatus (juge de la grande
cour?), et qui peut donc l’entretenir20.
Huillard-Bréholles a supposé – en soulignant la fragilité de l’attribution – que la lettre était destinée à Pierre de la Vigne. Les errances dans
des régions lointaines, des parties du monde reculées, correspondraient
donc aux études de Pierre à Bologne, sans doute dans la décennie 12101220, et les allusions à la relative pauvreté de la famille, mais aussi à sa
noblesse, confirmeraient que Pierre provenait d’un rameau d’une famille
patricienne de Capoue désargentée. L’érudit a par ailleurs proposé de
dater la missive de 1239, année de promulgation de l’édit de Frédéric II
interdisant la sortie du royaume en direction du patrimoine de saint
Pierre dont il semble être question dans la lettre, et a avancé une identification du rédacteur avec un maître Theodinus dont le fils, Pierre de
San Germano, était devenu juge de la grande cour en 1237 et y est attesté
jusqu’en 124121. Il ne pouvait être question du neveu de Pierre de la
Vigne, Guillaume. Cela reviendrait à faire du rédacteur de la lettre le frère
de Pierre, ce que le choix des expressions employées semble exclure. Il
s’agirait donc d’un ami, peut-être apparenté à Pierre, qui parlerait au nom
de sa famille pour l’exhorter à la relever22:
Que Dieu même vous accompagne et dirige vos actes, qu’il vous assure
une carrière pleine de grâces pour votre félicité, afin que votre bonté
nous profite, à moi et à tous les vôtres, que la noblesse de votre maison,
que votre absence a sans aucun doute abaissé, reverdisse sous votre
cum papa criminis suspicionem quam leviter possemus incurrere, regni fines non audemus sine speciali
licentia pertransire».
20
Ibid., p. 297: «Possum quoque de Dei munificentia gloriari quod gratum paravit
mee senectuti remedium. Habeo namque familiam de filiabus et filiis, et jam filiorum
filios videre inivi in quibus delectatur spiritus meus super omnes divitias quas habere
possumus; et in eis fiducialiter requiesco, quibus existentibus etsi viam perennem ingrediar, totaliter non peribo; maxime cum unus sit mihi specialis et primogenitus filius in
litteratura et bonitate provectus, potens in legibus, quem Cesar in prothojudicatus officio
substituit, qui re pariter et nomine inter convicinos et compatriotas laudabiliter eminet
et tam in regimine ac sustentatione familiae quam in amicorum et dominorum obsequiis
vires meas sufficienter implere poterit et congrue sustinere».
21
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 5-7, et note 1 pour l’attribution
possible à Theodinus.
22
Ibid., n° 4, p. 298.
À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne
97
patronage, comme il est de bonne mémoire qu’elle a fleuri, dans son
état ancien, au temps mémorable de nos prédécesseurs23.
Tout cela est plausible, mais un certain nombre de points laissent
perplexe. Comment se fait-il que la famille (éloignée?) de Pierre se réveille en 1239 pour demander un certain nombre de faveurs, et le féliciter
de son accession à de hautes charges (non spécifiées), à un moment où
le juge avait commencé la partie la plus prestigieuse de sa carrière depuis
longtemps? Il entre vraisemblablement à la cour en 1221, est attesté
comme juge une première fois en 1225, et son activité commence à être
régulièrement documentée à partir de 1230. En 1232, il participe aux
négociations avec la papauté sur l’expédition contre les Romains, et à
partir de ce moment, il ne cesse de prendre part aux ambassades les plus
importantes, comme la double ambassade en Angleterre de 1234-1235
qui lui vaut une pension du roi d’Angleterre24, une ambassade auprès du
pape, et bien d’autres missions. L’épisode célèbre du discours politique
de Frédéric, prononcé par Pierre, le dimanche suivant l’excommunication de l’empereur du 20 mars 1239 à Padoue, le montre déjà occupant
les fonctions de fait de logothète et porte-parole principal du souverain,
et le registre de 1239/1240 le voit installé au centre d’une administration
dont il prend dès lors rapidement la première place25.
En revanche, la promotion dont la lettre pourrait se faire l’écho reste
mystérieuse. Ce n’est qu’en 1244, bien tard pour une lettre rappelant
avec une telle insistance ses pérégrinations et ses origines26, et parlant en
termes relativement mesurés de succès qui doivent entraîner des succès
23
«Ipse [Deus] vos comitetur et dirigat actus vestros gratumque prebeat in vestra
felicitate profectum ut mihi et vestris omnibus bonitas vestra proficiat, et domus vestre
nobilitas quam vestra sine dubio depressit absentia, in statu pristino quo memorandis predecessorum nostrorum temporibus floruisse recolitur, vestro patrocinio revirescat.
24
E. H. Kantorowicz, Petrus de Vinea in England, «Mitteilungen des Österreichischen Instituts für Geschichtsforschung», 51, 1937, pp. 43-88.
25
Sur ces différentes étapes de sa carrière, cf. la toujours valable dissertation de
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 11-36 (de son entrée à la chancellerie
jusqu’en 1241), à compléter par H. M. Schaller, Della Vigna, Pietro, in Dizionario Biografico
degli Italiani, 37, Roma 1989, pp. 776-784, et H. M. Schaller, Pier della Vigna, in Federico II.
Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp. 501-507.
26
Cfr. également Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4, p. 294: «Habemus
etiam contra vos impetrata venia justam satis et rationabilem conquerendi materiam, quia
cum vos ad partes istas clemens prout dictum est fortuna reduxerit, vos fastu quodam
contentionis vel arrogantie dedignati estis adventus vestri nobis communicare materiam,
nec certitudinem aliquam de vobis obtinere meruimus, nisi quod rumor publicus attulit
et generalis opinio confirmavit».
98
Benoît Grévin
ultérieurs27, que Pierre se voit promu aux fonctions de logothète et de
protonotaire, alors flottantes, et qui correspondaient apparemment plus
à une volonté de l’empereur d’entériner la position désormais éminente
de son ministre sans lui donner le titre de chancelier que celle de renforcer précisément ses attributions28. Le ton de la lettre convient-il d’ailleurs
à une époque (1239) où la faveur de Pierre était déjà très haute, et où l’on
attendrait au moins une allusion à son rôle auprès de César-Frédéric, ou
aux fatigues de sa charge?
3. La jeunesse reconstituée de Nicola da Rocca (vers 1225-1245?)
L’histoire des premiers temps de Nicola da Rocca et de sa famille a
été longtemps enveloppée dans une obscurité assez semblable à celle de
la jeunesse de Pierre, avant qu’une source inattendue ne lui donne un
peu plus de consistance29. Issu d’une famille sans doute noble originaire
de Rocca Guillelma, bourg proche du Mont-Cassin, dont on ignore malheureusement les rapports avec la noblesse de cette partie occidentale de
la Terra Laboris, Nicola, après des études qui auraient pu avoir été faites
à Naples, mais aussi ailleurs, a eu un début (?) de carrière notariale fort
original, puisqu’il a été très probablement le notarius Nicolaus da Rocca,
notaire personnel de Richard Filangieri, représentant de Frédéric II dans
le royaume de Jérusalem entre 1231 et 1242, sans qu’on sache s’il a rempli ces fonctions pendant toute la période concernée30. Rentré en Italie,
peut-être dans le sillage de Richard qui perdit en 1242 ses derniers appuis
27
Ibid.: «Tamen est quod spe alimur et fiducia confortamur, sperantes jugiter et
confidentes in Domino quod ipse qui bonum paravit initium, gratum in antea pro sua
clementia largietur eventum, et sicut vigiliarum praecedentia signa libavimus, sic favente
Altissimo de vestre promotionis augmento votivae jocunditatis tripudia sentiemus». Peuton parler de l’initium de la carrière de Pierre en 1239, après ses multiples ambassades,
alors qu’il avait déjà le rôle de secrétaire particulier de Frédéric depuis plusieurs années?
28
Ibid., pp. 49-50.
29
Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae, Introduzione, pp. XII-XVIII, corrigeant H. M.
Schaller, Die Kanzlei Kaiser II. Ihr Personal und ihr Sprachstil, «Archiv für Diplomatik, Siegel- und Wappenkunde», 3, 1957, n° 55 pp. 275-276, et H. E. Mayer, Die Kanzlei der
lateinischen Könige von Jerusalem, Hannover 1996 (MGH Schriften, 40), pp. 763-781. Les
principales corrections portent sur les confusions entre Nicola da Rocca senior et Nicola
da Rocca junior, que Delle Donne a nettement séparés, alors que Schaller et Mayer attribuaient la carrière du second dans le sillage de la Curie romaine au premier.
30
Mayer, Die Kanzlei, pp. 763-781, et H. E. Mayer, Einwanderer in der Kanzlei und am
Hof der Kreuzfahrerkönige von Jerusalem, in Kreuzfahrerstaaten als multikulturelle Gesellschaft. Einwanderer und Minderheiten im 12. und 13. Jahrhundert, cur. H. E. Mayer - E. Müller-Luckner,
München 1997 (Schriften des historischen Kollegs. Kolloquien, 37), pp. 25-42.
À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne
99
politiques en Syrie, peut-être auparavant, Nicola intégra dans les mois ou
les années qui suivirent la chancellerie impériale où il est employé, peutêtre dès 1244-1245, et avança rapidement dans la faveur de Pierre de la
Vigne dans les mois qui précédèrent sa chute en février 124931.
4. Parcours de jeunesse de Pierre, ou parcours de jeunesse de Nicola? ‘Illazioni’
autour d’une lettre de la grande collection en six livres
Cette petite digression était nécessaire pour entamer une brève relecture des extraits de la lettre sur la “jeunesse de Pierre de la Vigne” dont le
contenu vient d’être évoqué. Comment se fait-il qu’un ami de Pierre de
la Vigne s’adresse à lui en 1239 au plus tôt32, alors qu’il était déjà puissant
depuis des années et qu’il ne ménageait pas sa faveur à ses proches, pour
lui parler de relever sa famille “qu’a abaissé une longue absence, dans des
parties éloignées de l’univers, où son savoir était caché?” Et que la famille
en liens étroits avec le rédacteur de la lettre ait été placée dans une situation politique délicate, aux confins de la Terra Laboris et de l’État papal, à
un jet de flèche de la frontière?
En effet – dit le rédacteur de la lettre – nous qui sommes placés aux
confins, comme à une portée de flèche (de la frontière), nous sommes
ébranlés par le souffle du moindre vent, et nous ne pouvons payer
d’audace car nous n’avons notre libre arbitre, ni pour nos biens, ni pour
nos personnes33.
La famille proche ou lointaine de Pierre entretenait des liens apparemment exclusifs avec Capoue, l’un des centres névralgiques du
31
Sur l’entrée en fonction de Nicola à la chancellerie, on peut s’appuyer avec prudence sur les documents où P. Zinsmaier, Die Reichskanzlei unter Friedrich II., in Probleme
um Friedrich II., cur. J. Fleckenstein, Sigmaringen, 1974, pp. 135-166 (Vorträge und Forschungen, 16), a reconnu sa main (à partir de septembre 1245), et souligner que dans une
demande de promotion adressée à Pierre, il dit avoir été depuis un an simple registrator, ce
qui ferait remonter les débuts de son activité au plus tard à 1244. Si le notaire est revenu
avec Riccardo Filangieri et non avant (ce qui n’est pas certain), il est tentant de penser
qu’il était entré à la chancellerie comme registrator dans la foulée de son retour.
32
L’inexistence de l’édit impérial interdisant aux habitants de la frontière du
royaume les allers-et-venues en direction du Patrimonium Petri avant l’excommunication
de 1239 rend impossible une datation antérieure, cfr. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, p. 6.
33
«Nos enim – dit le rédacteur – qui velut ad sagittam in confinio positi, ventorum
omnium impulsione concutimur (…), nec audaces esse possumus quia de personis et
rebus nostris libertatis arbitrium non habemus».
100
Benoît Grévin
royaume. Cette ville se trouvait encore à bien des lieues de la frontière34,
dont la séparaient de nombreuses cités mineures et places fortes, même
s’il est vrai que c’était la plus septentrionale des “capitales” de Frédéric II, donc la plus exposée aux attaques ennemies, et qu’elle assumait
de ce fait le rôle d’une place forte couvrant les confins nord-ouest du
royaume. Rocca Guglielma, la cité d’origine de Nicola, et Pontecorvo,
où il avait des biens, sont, elles, littéralement à deux pas de la frontière
médiévale entre le royaume de Sicile et l’État pontifical, puisqu’elles se
trouvent un peu à l’ouest du Mont-Cassin, et très près de San Germano
(qui est la ville dépendante du monastère), à une dizaine de kilomètres de
l’État pontifical. Ce sont autant d’arguments pour voir dans le destinataire de la lettre un Nicola da Rocca quelque peu aigri contre sa famille.
Celle-ci l’aurait laissé sans argent et sans nouvelles outre-mer pendant la
longue période (une décennie entière? Ou un peu moins de temps?) de
son service notarial auprès de Richard Filangieri.
Une fois rentré, Nicola aurait trouvé rapidement l’accès de la cour
impériale, contre les attentes de ses relations qui l’avaient oublié, et
aurait opposé à leurs sollicitations un dédain glacé. Le ton de la lettre
est mesuré. Elle ne semble guère s’adresser à un ministre tout puissant,
mais plutôt à un homme nouvellement promu, et pouvant espérer des
promotions plus grandes. La différence d’âge entre un interlocuteur qui
souligne avoir aidé le destinataire dans sa prime jeunesse et son correspondant en ferait un homme sans doute très vieux s’il avait été d’une
génération antérieure à Pierre de la Vigne, dont on postule généralement
qu’il avait entre cinquante et soixante ans à l’époque de sa mort35. Le
rédacteur serait simplement vieux dans le cas de Nicola, sans doute né
vers 1210.
Tous ces éléments concourent pour faire de Nicola un destinataire
possible de la lettre, que l’on pourrait imaginer avoir été écrite à la première promotion significative (de registrator comme notaire?36) après son
retour de la Terre Sainte, entre 1239 et 1248 (?), ou pour être plus précis, entre 1239 et 1241 d’une part, et 1243-48 d’autre part, puisque la
mention de l’édit impérial semble exclure le temps de la vacance entre
Grégoire IX et Innocent IV. Reste le problème du rédacteur dont le fils
34
A peu près quatre-vingt kilomètres.
Un problème impossible à résoudre en l’absence de tout témoignage sérieux, à
moins de dix ans près. Pierre de la Vigne dut avoir vingt ans quelque part entre 1205 et
1220, mais nous ne pouvons guère en savoir plus.
36
Sur cette promotion, cfr. Nicola da Rocca, Epistolae, p. XIV.
35
À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne
101
est juge à la grande cour. Huillard-Bréholles avait tenté de le résoudre par
une identification du juge fils de celui-ci avec Pierre de San Germano,
par déduction, en cherchant un juge actif en 1239, dont le père, Theodinus pourrait avoir été en contact avec Pierre, parce qu’il avait déduit de
la mention de l’édit impérial de 1239 que la lettre remontait à cette date
précise37.
Mais l’interdiction de franchir la frontière sans ordre impérial et plus
généralement la surveillance de la frontière a été valable sans interruption à partir de 1239 jusqu’en 1250 (peut-être avec un certain relâchement pendant la vacance d’août 1241 à juin 1243), et il n’y a guère de
raison de se laisser impressionner par ce choix de datation qui n’indique
qu’un terminus ante quem. A partir de ce moment, supposer un lien entre
le père d’un des juges en activité en 1239-1241 ou 1243-44, possessionné
ou en liaison avec une famille installée aux frontières de l’état papal, qu’il
s’agisse de Pierre de San Germano (attesté seulement jusqu’en 1241)
ou de Roffrido de San Germano (attesté jusqu’en 1246), et Nicolas da
Rocca, n’est guère plus gratuit que le faire pour Pierre.
Restent deux arguments, pour et contre, à faire valoir. Contre: la
lettre est incluse dans la grande collection en six livres entre deux séries
de lettres qui semblent plutôt en rapport avec Pierre de la Vigne qu’avec
Nicola da Rocca38. Cet argument est de poids. Il est quelque peu affaibli
par le fait qu’il ne s’agit pas de lettres privées, et par la place immédiate
de la lettre dans la collection, certes précédée d’une lettre datant de 1239
(PdV I, 31), mais suivie par la seule lettre du premier livre attribuable
à Manfred, datée de 1264, et qui a donc de fortes chances d’avoir été
rédigée par Nicola39.
5. La preuve par la baleine?
L’autre argument, en faveur de l’identification du destinataire avec
Nicola, est d’une nature bien différente. Il repose en effet sur l’interprétation des techniques de rédaction de la lettre, dont les métaphores
sont comme l’ensemble des dictamina de la chancellerie sicilienne très
37
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, p. 6 note 1. Cfr. à présent sur Theodinus C. Friedl, Studien zur Beamtenschaft Kaiser Friedrichs II. im Königreich Sizilien (1220-1250),
Wien 2005 (Österreichische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische
Klasse, Denkschriften, 337), pp. 153, 171, 179 et surtout 182.
38
Cfr. Schaller, Stauferzeit, p. 232.
39
Cfr. sur ce point Grévin, Rhétorique du pouvoir, p. 65.
102
Benoît Grévin
fortement influencées par la bible et son exégèse40. Or dans le premier
passage évoquant le retour du dictator, il est question du “libre choix du
Sauveur qui vous a reconduit indemne au seuil de la patrie, depuis les
parties les plus lointaines de l’univers, comme du ventre de la baleine41“.
Cette image de l’homme recraché sur le rivage par la baleine sur
intervention divine, extraite du livre de Jonas, concorde bien avec la
crainte légitime que les hommes du Moyen Âge pouvaient éprouver à
l’encontre du long et dangereux voyage outre-mer42. Elle s’applique bien
à un retour de Terre Sainte en Italie, bien peu en revanche à un retour
de Bologne en Campanie. Est-il besoin de rappeler qu’à l’époque où la
lettre a probablement été rédigée (1239-1250, et si l’hypothèse Nicola da
Rocca est correcte, sans doute plutôt 1242-1246), la cour impériale résidait souvent à Crémone? Même en faisant abstraction de ce fait, la cité
émilienne pouvait difficilement passer pour une remota pars universi pour
un Campanien, à moins d’une véritable exagération rhétorique. Même si
les liens entre le père d’un des juges de la cour, les environs du MontCassin et la famille de Nicola restent à éclaircir, c’est peut-être plutôt à
Nicola-Jonas qu’à Pierre que s’adresse le vieillard anonyme de la lettre. À
moins que cette allusion ne s’appliquât plutôt aux voyages de Pierre en
Angleterre et en Allemagne pour le compte ou à la suite de l’empereur
dans les années 1235-1240, ou à quelque voyage mystérieux – et tombé
dans l’oubli – de sa jeunesse43?
Il ne s’agit pas ici, pour une fois, de trancher la question. La possibilité d’une oscillation dans l’attribution de cette lettre entre Pierre,
l’autorité officielle des collections, et Nicola, compilateur possible de
leur archétype44, illustre la manière dont la rhétorique allusive des lettres
privées, fussent-elles familiales, peut obliger l’historien à un surcroît
40
Sur la question des techniques métaphoriques utilisées par les dictatores de la cour
impériale, cfr. Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 200-220.
41
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4 p. 293: «Salvatoris arbitrio qui de
remotis mundi partibus velut a ventre ceti vos ad patriae limina reduxit incolumes».
42
Sur les aléas rencontrés dans la navigation outre-mer au XIIIe siècle, même par
les plus grands personnages, lire les péripéties du voyage de retour de Louis IX après la
croisade de 1249, cfr. le témoignage de la Vie de saint Louis de Joinville, § 618-630 (ed.
Jacques Monfrin, Paris 1998, pp 306-315).
43
Si l’on privilégiait la vieille interprétation, qui fait du destinataire de la lettre Pierre,
on pourrait imaginer à partir de ces expressions que le jeune Pierre ne s’était pas limité
à faire des études à Bologne, mais qu’il avait poussé plus loin, par exemple vers Paris, ce
qui correspondrait mieux, vu du Mezzogiorno, à une remota pars universi…
44
Cf. sur cette question supra, note 7.
À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne
103
d’hypothèses, nécessitant un véritable décodage rhétorique, pour tirer de
documents extrêmement denses, en dépit de leur réputation de pauvreté
événementielle, mais tout aussi allusifs, des faits positifs sur la position
relative, et même sur l’identité de leurs rédacteurs et destinataires. Dans
le cas de la lettre Expectantes expectavimus-noscitis emanasse, la fusion des
correspondances officielles de Pierre et Nicola au sein des collections
de lettres de Pierre de la Vigne a peut-être créé une confusion, facilitée
par le caractère vague et anonyme de la rubrique retranscrite par Huillard-Bréholles45. Et c’est ainsi que l’argument – encore bien fragile, de
son aveu même46 – le plus solide mis en avant par Huillard-Bréholles en
faveur de la pauvreté initiale de Pierre dans sa jeunesse et de ses longues
études en Italie du nord repose peut-être sur un malentendu typique de
l’histoire des Lettres: la confusion entre des lettres écrites par Pierre et
Nicola.
6. Conclusion: l’analyse des dictamina et ses paramètres
L’argument “par la baleine” qui a été utilisé dans cette tentative de
“recontextualisation” invite enfin à réfléchir sur la possibilité d’améliorer la méthodologie d’analyse des ces dictamina sud-italiens du treizième
siècle. En apparence, la “preuve par la baleine” n’est pas si éloignée des
déductions opérées à partir de la mention par le rédacteur de liens avec
un grand-juge. Dans un cas comme dans l’autre, l’on a tenté de jauger si
les indices textuels correspondaient mieux au peu que l’on sait de la carrière de Pierre de la Vigne ou de celle de Nicola da Rocca. Pourtant, l’assimilation du destinataire à Jonas recraché par la baleine ne saurait être
mise sur le même plan que la mention d’une parenté avec un grand-juge
de la cour impériale. Avec l’utilisation de la comparaison biblique, nous
entrons dans le domaine de la métaphorisation des parcours individuels,
de la recherche par le lettré d’une équivalence entre l’épisode commenté,
et un topos identifiant – généralement, mais pas uniquement, d’origine
biblique – qui lui fournit une référence et une explication topique. L’on
se trouve donc à l’intérieur du périmètre de la transumptio, cet ensemble
de techniques de métaphorisation du discours dont l’armature théorique
a été empruntée à la théologie par le dictamen à la fin du XIIe siècle, et
45
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4 p. 292: «Verba ludibria ad amicum
congratulando sibi».
46
Ibid., p. 7: «Si cette lettre fut réellement adressée à Pierre de la Vigne (et nous
avons la ferme confiance que sur ce point quelque autre manuscrit viendra confirmer
notre opinion)…».
104
Benoît Grévin
qui conditionne en grande partie la pensée de l’ars dictaminis, en Italie du
nord comme du sud, au cours du XIIIe siècle47.
La possibilité de recourir à l’analyse de ces voilements métaphoriques
pour faire progresser l’interprétation du texte, là où la critique positive
reste en défaut ou en suspens, souligne à quel point l’étude des dictamina
du milieu frédéricien et post-frédéricien est dépendante d’une méthodologie particulière, adaptée aux techniques de rédaction des lettres contenues dans les diverses collections qui reflètent la richesse de ce milieu
culturel, aussi bien qu’à leur mode de transmission particulier. Il s’agit
en quelque sorte de trouver le point d’équilibre où une interprétation
inspirée de l’herméneutique biblique peut être utilisée comme auxiliaire
d’une critique d’attribution/authenticité reposant par définition sur des
logiques d’un autre type. Non que les deux démarches soient strictement
incompatibles. Il ne faut pas considérer que les historiens positivistes
du XIXe siècle, souvent dotés d’une excellente culture biblique, outre
leur culture classique, fussent incapables de se servir de ces indices rhétoriques pour préciser le contexte de rédaction ou la signification d’un
document. La lecture de la Vie et correspondance de Pierre de la Vigne prouve
en maint passage le contraire48. Nos prédécesseurs étaient néanmoins
nécessairement limités dans cet exercice par leur connaissance encore
embryonnaire des logiques de transmission et de compilation à l’origine
des collections textuelles du type des Lettres de Pierre de la Vigne. Et
à l’heure où des travaux d’édition de ces sommes répondant à des critères scientifiques modernes portent enfin, après bien des avatars, leurs
premiers fruits49, il est sans doute possible de repartir de l’analyse des
collections, pour examiner à nouveaux frais le statut des textes isolés,
susceptibles d’être réinterprétés en fonction de ce que nous savons du
principe d’autorité multiple qui a présidé à la sélection de ces textes.
47
Sur la transumptio comme concept rhétorique dans l’Italie du XIIIe siècle, cfr. F.
Forti, La ‘Transumptio’ nei dettatori bolognesi e in Dante, in Dante e Bologna nei tempi di Dante,
Bologna 1967, pp. 127-149, et Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 200-220.
48
Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 119-120, traduction-commentaire
de la lettre éditée ibid., n° 60 p. 355 (Cum omni devotione-audiero procuratum), correspondance
entre Pierre et Bérard de Palerme se servant de transumptiones pour parler cryptiquement
de personnages de la cour.
49
Cf. supra, note 1.
NOTE PROPEDEUTICHE ALL’EDIZIONE DEL LIBRO VI
DEL COSIDDETTO EPISTOLARIO DI PIER DELLA VIGNA
Teofilo De Angelis
L’edizione critica del cosiddetto Epistolario di Pier della Vigna (in
seguito indicato con PdV) è un progetto di fronte al quale ogni filologo,
credo, possa essere colto da scoramento e senso di inadeguatezza, tante
e tali sono le difficoltà. Questo compito è stato affidato al prof. Edoardo D’Angelo che, su continuo incoraggiamento del Centro Europeo
di Studi Normanni, e avvalendosi della collaborazione di Fulvio Delle
Donne, che da molti anni si occupa dell’argomento, ha avuto il compito
di individuare i membri che avrebbero costituito il team di lavoro, al quale ho la fortuna di appartenere, insieme a Alessandro Boccia e Roberto
Gamberini.
L’edizione del VI libro dell’Epistolario di PdV1, alla quale sto lavorando2, altro non è che un tassello dell’edizione dell’Epistolario stesso
inteso nella sua totalità; tale edizione rappresenterà, con tutta probabilità,
un notevole passo in avanti nella conoscenza dell’epoca sveva del XIII
secolo e della scrittura epistolare di quel periodo (1194-1266).
Il fatto che ancora oggi non esista a conti fatti una sua edizione critica testimonia l’enorme difficoltà che un lavoro del genere ha sempre
1
Per le informazioni biografiche cfr. J.L.A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865; H.M. Schaller, Della Vigna Pietro, in Dizionario
Biografico degli Italiani, XXXVII, Roma 1989, pp. 776-784; F. Delle Donne, Nobiltà minore
e amministrazione nel Regno di Federico II. Sulle origini e i genitori di Pier della Vigna, «Archivio
Storico per le Province Napoletane» 116, 1998, pp. 1-9.
2
È doveroso, da parte mia, un ringraziamento in primis al prof. Edoardo D’Angelo
che, in qualità di direttore e responsabile del progetto, ha ritenuto che io fossi in grado
di cimentarmi con un lavoro tanto difficile quanto prestigioso, in secundis al prof. Francesco Santi che, in qualità di tutor di dottorato, mi seguirà guidandomi con i suoi preziosi
consigli.
106
Teofilo De Angelis
comportato e comporta, nonostante l’impegno anche da parte dei MGH
di mettere in calendario, sin dalla loro fondazione, questo lavoro; oggi si
conservano “solo” (ma preziosi) studi preparatori, soprattutto di H.M.
Schaller3.
Le difficoltà di questo tipo di edizione consistono essenzialmente
nella grande diffusione dell’opera, nella sua tradizione particolarmente
“attiva”4 e, quindi, di fatto nell’impossibilità di ricostruzione di uno stemma codicum di tipo in qualche modo lachmanniano della raccolta di PdV;
ma procediamo per ordine.
L’epistolario di Pier della Vigna, contenente circa 550 dictamina, databili tra il 1198 ed 1264 e tramandato da più di 250 manoscritti, ha goduto – così come ci suggeriscono questi numeri – di una enorme fortuna;
tanto grande da indurre spesso a tramandare sotto il nome del dictator
capuano anche testi non suoi; infatti, poiché sappiamo che entrò a far
parte della cancelleria fredericiana nel 1220 e che morì all’inizio del 1249,
tutti i dictamina anteriori al 1220 e posteriori al 1249 non possono essere
a lui attribuiti.
L’enorme diffusione, provata dal numero di testimoni con le relative
differenze anche “contenutistiche”, inoltre, deriva dal fatto che i suoi
scritti, data la sua celeberrima fama di dictator, finirono per perdere il
proprio contenuto contingente e per divenire exempla da utilizzare nei
vari ambiti, da quelli scolastici a quelli notarili e cancellereschi5.
3
Per le edizioni critiche di alcune epistole cfr. J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia
diplomatica Friderici Secundi, 6 voll., Parigi 1852-1861; E. Marténe - U. Durand, Veterum
scriptorum et monumentorum historicorum, dogmaticorum, moralium amplissima collectio, II, Paris
1724; E. Winkelmann, Acta imperii inedita, 2 voll., Innsbruck 1880; J.F. Böhmer, Acta imperii selecta, Innsbruck 1870; Nicola da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003;
F. Delle Donne, Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo. I dictamina provenienti
dall’Italia meridionale del ms. Paris, Bibl. Nat., Lat. 8567, Firenze 2007; F. Delle Donne, «Per
scientiarum haustum et seminarium doctrinarum». Storia dello Studium di Napoli in età sveva, Bari
2010, che ripubblica con qualche aggiunta l’articolo in «Bullettino dell’Istituto storico
italiano per il Medioevo» 111, 2009, pp. 101-225; cfr. inoltre, H.M. Schaller, L’epistolario
di Pier della Vigna, in Politica e cultura nell’età di Federico II, cur. S. Gensini, Pisa 1986, pp.
95-111; H.M. Schaller, Zur Entstehung der sogenannten Briefsammlung des Petrus de Vinea,
«Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 12, 1956, pp. 114-159 (ristampato
in Id., Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993, pp. 225-270).
4
Sull’uso dell’espressione in questo contesto cfr. F. Delle Donne, Autori, redazioni,
trasmissioni, Ricezione. I problemi editoriali delle raccolte di dictamina di epoca sveva e dell’epistolario
di Pier della Vigna, in Archivio normanno-svevo. Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli
XI-XIII, II, Napoli 2009, pp. 7-28, qui in part. p. 24.
5
Cfr. ivi, pp. 24-28.
Note propedeutiche all’edizione del libro VI dell’epistolario di Pier della Vigna
107
L’epistolario è tramandato, nello specifico, da circa 125 codici che
raccolgono il materiale in maniera sistematica e altri 30 che contengono
frammenti e florilegi, sempre tratti da raccolte sistematiche; poi ci sono
circa 110 manoscritti che tramandano una tradizione “stravagante”, cioè
di lettere spesso non comprese nelle raccolte sistematiche; infine circa 50
manoscritti sono andati dispersi o distrutti.
Un problema legato alla tradizione sistematica è dato dalla questione da chi e dove sia partita la raccolta e la sistemazione del cosiddetto
Epistolario di PdV. Schaller ipotizza che essa sia avvenuta presso la curia
papale, spinta non tanto dalla volontà di studiare e rispondere alla propaganda imperiale, quanto piuttosto per il suo valore altamente retorico;
Delle Donne, in merito, avanza l’ipotesi che il compilatore e assemblatore della raccolta possa essere stato il cardinale Giordano di Terracina,
amico di Nicola da Rocca, che pure svolse un ruolo di primaria importanza nello snodo della tradizione dell’epistolario6.
Tale lavoro, però, non dovette essere fatto in maniera univoca e sotto
un’unica guida se oggi abbiamo una redazione non definitiva e che anzi
si presenta in ben quattro tipologie principali:
M6: «grande in sei libri» (11 codici e 477 epp.);
P6: «piccola in sei libri» (95 codici e 366 epp.);
M5: «grande in cinque libri» (7 codici e 279 epp.);
P5: «piccola in cinque libri» (3 codici e 133 epp.).
Nella raccolta in sei libri, le lettere sono così suddivise: il I libro contiene quelle scritte in occasione dello scontro con il papa; il II quelle che
narrano battaglie e vittorie; il III quelle di argomento privato, commercio
epistolare, etc; il IV quelle consolatorie; il V quelle scritte per problemi
amministrativi; il VI quelle che trattano di privilegi. Mentre nelle raccolte in cinque libri il terzo ed il quarto libro risultano, sostanzialmente,
accorpati, nella raccolta in sei libri, invece, il quarto libro, dedicato alle
consolationes, è a sé stante, forse sul modello dell’epistolario di Tommaso
di Capua7.
L’edizione del VI libro, in linea e in piena sintonia con il progetto
più generale, tenderà a ricostruire il testo della P6, cioè della raccolta che
ebbe maggiore diffusione con i suoi 95 codici.
6
Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae, p. XX, e anche Delle Donne, Autori, redazioni,
trasmissioni, pp. 10-11.
7
Cfr. F. Delle Donne, Le “consolationes” del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna,
«Vichiana» 4, 1993, pp. 268-290; e cfr. Schaller, L’epistolario, p. 107.
108
Teofilo De Angelis
Un’altra difficoltà, derivante dalla constatazione che molte delle “lettere” di questa collezione sicuramente non sono della mano di PdV, ci
spinge inevitabilmente a una riflessione di natura ecdotica; dagli studi
di Delle Donne è emerso, ad esempio, che vi sono molte differenze (e
quindi errori-adattamenti), anche contenutistiche, tra la tradizione stravagante e quella sistematica8. Sarebbe, allora, necessario domandarsi a
quale delle due tradizione dare credito; e pare che, almeno nei casi presi
in esame dal Delle Donne, sia più attendibile la tradizione stravagante
per ricostruire l’informazione originaria. Ciò, però, non deve spingerci
ad affidarci unicamente alla tradizione “stravagante”, o credere che essa
ci dia sempre la lezione esatta, perché – come sottolinea sempre Delle Donne – una valore oltremodo rilevante risiede proprio nella natura
“retorico-letteraria” della stessa della “raccolta”.
È doveroso, dunque, tentare di rispondere alla domanda se sia più
opportuno seguire la tradizione stravagante, considerando le lettere
come unità indipendenti e riuscendo così a recuperare meglio le corrette
informazioni presenti nei documenti, o piuttosto quella sistematica, sacrificando da un lato la correttezza delle informazioni storiche ma rispettando il dato culturale rappresentato da una silloge siffatta, che nasce con
scopi professionali e didattici, e non di conservazione del patrimonio
documentario di una cancelleria e meno che mai di conservazione di dati
e fatti storici9.
Ha profonde motivazioni scientifiche, dunque, privilegiare questo
secondo aspetto, ricostruendo il testo che ebbe maggiore diffusione (redazione P6), perché, viceversa, e siamo alla terza problematica, ci troveremmo a dover di volta in volta tentare la constitutio textus dei singoli
dictamina, piuttosto che dell’Epistolario.
8
Cfr. F. Delle Donne, Un’inedita epistola sulla morte di Guglielmo de Luna, maestro
presso lo Studium di Napoli, e le traduzioni prodotte alla corte di Manfredi di Svevia, «Recherches
de Théologie et Philosophie Médiévales» 74, 2007, pp. 225-245; Delle Donne ha mostrato e dimostrato che, ad esempio, l’epistola III 67 annuncia ai maestri dello studium di
Bologna l’invio di alcune traduzioni in latino di Aristotele. In tale lettera, riportata dalla
P6, cioè dalla redazione che ebbe più fortuna e diffusione, si scrive che fu prodotta dalla
cancelleria di Federico II; la stessa missiva è riportata anche in un manoscritto “stravagante” conservato a Parigi (Bibliothéque Nazionale Lat. 8567) e ci si accorge di alcune
differenze: l’epistola fu redatta da Manfredi (figlio di Federico II) e il destinatario era
l’università di Parigi.
9
Questa è la questione più ampiamente affrontata in Delle Donne, Autori, redazioni, trasmissioni, pp. 24-28.
Note propedeutiche all’edizione del libro VI dell’epistolario di Pier della Vigna
109
Alla luce di quanto scritto, ne consegue che l’edizione del VI libro
si baserà innanzitutto su un eccellente testimone della redazione P6: il
manoscritto P (Paris, Bibliothèque Nationale, Lat., 8563), sia perché è il
codice più antico10, sia perché è di origine avignonese, cioè di quell’ambiente presso il quale potrebbe aver avuto origine la raccolta dei dictamina
di PdV. L’affidarsi a un unico manoscritto non implica la volontà di affidarsi al “metodo di Bédier” basato sul criterio del codex optimus, dato che,
di fronte a luoghi evidentemente corrotti, si guarderanno altri testimoni,
sempre scelti con il criterio della datazione, della geografia e della tipologia redazionale.
Quello che a prima vista potrebbe sembrare una scelta “ossimorica”,
in realtà non lo è se si pensa che il lavoro non ha alcuna presunzione di
essere definitivo, quanto piuttosto intende offrire la possibilità di presentare un testo anzitutto leggibile e corretto nella forma. Ogni intenzione,
per quanto nobile e meritoria, non può autolegittimarsi, ma necessita
sempre di una giustificazione che, nel nostro caso, ci viene offerta da
Giovanni Orlandi il quale, in merito al metodo lachmanniano, sostiene
che, quando ci si trova di fronte ad una tradizione molto ampia, si può
decidere di collazionare solo un numero limitato di manoscritti sulla base
di «una scelta anche violenta e talora aprioristica»11.
In particolare, per ciò che riguarda il VI libro, quanto scritto sinora
in merito alla problematicità del progetto nel suo insieme, è cioè nella
scelta di privilegiare il testo che avuto maggiore diffusione e non quello
che fu “creato” dalla penna del dictator capuano, esso è testimone importante di tali criticità12, se si pensa che delle 33 “epistole” contenutevi, tra
mandati e privilegi, non vi sono mai riferimenti diretti a PdV; e ci sono
10
Cfr. B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la
formation du langage politique européen (xiiie-xve siècle), Rome 2008, p. 1023, in part. p. 27 dove
scrive che la sua datazione è anteriore al 1318; cfr. anche Schaller, Zur Entstehung, p. 141.
11
G. Orlandi, Perché non possiamo non dirci lachmanniani, «Filologia Mediolatina» 2,
1995, pp. 1-42 (ristampato in Id., Scritti di filologia mediolatina, Firenze 2008, pp. 95-130),
qui in part. p. 25.
12
Il presente lavoro di analisi dei “contenuti” del VI libro si basa sull’edizione
dell’Iselius, Basileae 1740, e sui dati forniti da J.F. Böhmer - J. Ficker - E. Winkelmann,
Die Regesten des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV., Friedrich II., Heinrich (VII.), Conrad IV.,
Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard 1198-1272, in Regesta Imperii, V, 1-3, Innsbruck 18811901, nonché dai Nachträge und Ergänzungen di P. Zinsmaier, in Regesta Imperii, V, 1-3,
Köln - Wien 1983..
110
Teofilo De Angelis
invece ben 12 documenti che non possono essere stati scritti dal Capuano, perché successivi alla data della sua morte13.
Ep.
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
Mittente
Conradus IV
Conradus IV
Conradus IV
Conradus IV
Conradus IV
Conradus IV
Fridericus II
Conradus IV
Conradus IV
--------Conradus IV
--------Conradus IV
Fridericus II
Datazione
1253
1252
1252
1254
1252
1253
1231
1252 II
1254
--------1252
--------1252
1248
XV
Fridericus II
1248?
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
Fridericus II
Fridericus II
Fridericus II
Fridericus II
Fridericus II
Conradus IV
Fridericus II, Conradus IV,
Manfredus
Fridericus II / Conradus IV
Fridericus II
Fridericus II, Conradus IV,
Manfredus
Fridericus II
1220-50
1220-1250
1220-50
1247?
1247?
1254…
1220-1266
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
13
Destinatario / Finalità
Neapolitani
Comes Acerrarum
Aquinates
T. de Otra
Andrea de Equino
Marchio De Haimburg
Extranei
Fridericus de Antiochia
Ad Aquila construenda
Comes Heinricus
Ad restitutionem destituiti
Judaei
C. et O.
Ut de concessione quarundam terrarum, facta Pisanis, filius non turbetur
Exordium super gratiis
faciendis
T. de Curis
A. de N.
G. de Placentia
Civitas Forlinii
N. de N.
N. de N.
C. de N.
1239 / 1253 IX A.
1231-50
N.
1220-1266
N.
1245
Dux Austriae
È il caso delle epp. II, III, V, VIII, XI e XIII, perché del 1252; delle epp. I e VI,
perché del 1253; delle epp. IV, IX, XXI, del 1254; dell’ep. XXVII, perché di un arco
temporale che va dal 1252 al 1266.
Note propedeutiche all’edizione del libro VI dell’epistolario di Pier della Vigna
XXVII
Manfredus
1252-1266
XXVIII Fridericus II, Conradus IV, 1220-1266
Manfredus
XXIX Fridericus II
1238
XXX
Fridericus II
1224 III
XXXI
Fridericus II
XXXII Fridericus II
XXXIII Fridericus II
1240 VII
1231-1250
1240
111
Exordium super gratiis
faciendis
Exordium super gratiis
faciendis
C. de N.
Quidam gentes ad catholicae fidei unitatem conversi
Exordium super gratiis
faciendis
T. Tauriensis
Heinricus, domorum Militiae praeceptor
Un elemento molto indicativo che non può passare inosservato è
il fatto che i destinatari, o i riferimenti a persone ed avvenimenti, sono
indicati con sigle o lettere molto generiche (soprattutto «N»)14, le quali
non facilitano il lavoro di ricognizione di un “definitivo” apparato storico; quest’aspetto che è certamente limitante ha, però, in sé un elemento
caratterizzante ed esplicativo: chi, nel corso degli anni, raccoglie e tramanda nelle redazioni sistematiche non ha alcun interesse per il dato
storico, ma vuole anzitutto raccogliere un modello di ars dictandi maxima; si potrebbe dire che chi ha organizzato la tradizione dell’Epistolario
di PdV ha, però, “tradìto” l’aspetto storico-istituzionale, perché non ad
esso interessato; ma tutto ciò poco importa se si tiene presente che «nelle
lettere il rapporto con la realtà dei fatti è secondario rispetto all’esigenza
ideologica, che produce – con l’ausilio appunto della retorica – enfatizzazioni, prolissità, manipolazioni»15. L’ideologia e la retorica, appunto,
che non possono fermarsi dinanzi al tempo, ma anzi sanno adattarsi e
superarlo semplicemente cambiando nome o anche acquisendo quello
generico di «N».
14
Si pensi ai generici Exordia delle epp. XV, XXVII, XXVIII e XXXI; ancora ai
destinatari indicati con «C. et O.» (ep. XIII), con «A. de N.» (ep. XVII), con «A.» (ep.
XXIII), con «C. de N.» (epp. XXII, XXIX), con «N.» (epp. XXIV e XXV) oppure con
«N. de N.» (epp. XX e XXI).
15
Cfr. A.Bartoli Langeli, Cancellierato e produzione epistolare, in Le riforme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 251-261.
SU UN CODICE STRAVAGANTE DEL COSIDDETTO
EPISTOLARIO DI PIER DELLA VIGNA:
INNSBRUCK, UNIVERSITÄTS-BIBLIOTHEK, 400
Fulvio Delle Donne
Il codice 400 della Biblioteca Universitaria di Innsbruck, sin da quando Josef Riedmann ne presentò la scoperta in un convegno in Tirolo
nel 20051, ha destato sempre molto interesse, perché, oltre a contenere
nuovi documenti sull’età di Corrado e Manfredi di Svevia, offre anche
nuovi spunti di riflessione sull’organizzazione dell’epistolario di Pier della Vigna, uno dei più grossi rompicapo della filologia mediolatina.
Non è il caso di spiegare nel dettaglio in cosa consista il cosiddetto
«epistolario di Pier della Vigna»: ogni chiarimento è stato già offerto in
questa stessa sede2. Basti ricordare che contiene circa 550 tra manifesti,
mandati, epistole e documenti di vario genere risalenti al periodo che va
dal 1198 al 1264: molti di essi, dunque, sicuramente non possono essere
usciti dalla penna del dictator capuano Pier della Vigna, che dovette en1
Sul codice cfr. J. Riedmann, Unbekannte Schreiben Kaiser Friedrichs II. und Konrads
IV. in einer Handschrift der Universtitätsbibliothek Innsbruck. Forschungsbericht und vorläufige
Analyse, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 62, 2006, pp. 135-200.
Josef Riedmann, che sta curando l’edizione del codice per i Monumenta Germaniae
Historica, presentò la scoperta del codice nel convegno tenuto a Innbruck e Stams tra il
13 e il 16 aprile 2005: gli atti di quel convegno sono stati pubblicati solo alcuni anni dopo:
L’eredità di Federico II. Dalla storia al mito, dalla Puglia al Tirolo – Das Erbe Friedrichs II. Von der
Geschichte zum Mythos, von Apulien bis Tirol, cur. F. Delle Donne, A. Pagliardini, E. Perna,
M. Siller, F. Violante, Bari 2010. Il presente saggio, invece, costituisce una rielaborazione
della relazione presentata al convegno specificamente dedicato a quel convegno, Nuove
fonti per la storia del tardo periodo svevo in Italia, tenutosi nella sede dell’Istituto storico italiano
per il medio evo, Roma il 6 marzo 2008.
2
F. Delle Donne, Autori, redazioni, trasmissioni, ricezione. I problemi editoriali delle raccolte
di dictamina di epoca sveva e dell’epistolario di Pier della Vigna, in Archivio normanno-svevo. Testi e
studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII, II, Napoli 2009, pp. 7-33.
114
Fulvio Delle Donne
trare a far parte della cancelleria federiciana intorno al 1220 e morì all’inizio del 1249. Inoltre, si può aggiungere che è tramandato da circa 250
codici: 120, circa, raccolgono il materiale in maniera sistematica sotto la
forma di 4 principali redazioni (due in 5 libri e due in 6 libri), i restanti
in maniera non sistematica o sotto forma di florilegi: quindi ebbe una
circolazione decisamente ampia3.
Il codice su cui, qui, si concentra l’attenzione può essere classificato tra quelli che raccolgono le lettere del cosiddetto «epistolario di Pier
della Vigna» in maniera non sistematica, in quanto contiene 39 epistole
che sono tràdite anche dalla redazione piccola in 6 libri dell’epistolario
di Pier della Vigna, quella che ebbe maggiore diffusione, anche a stampa,
e di cui ora sta per uscire una nuova edizione presso il Centro Europeo
di Studi Normanni4.
Questo è l’elenco delle lettere del codice, segnalate col numero assegnato da Josef Riedmann5 e dalla corrispondenza, tra parentesi, col
numero della lettera dell’epistolario di Pier della Vigna (PdV) nella forma
della redazione piccola in 6 libri: 12 (PdV I 23); 13 (PdV V 1); 14 (PdV
II 35); 22 (PdV I 18); 25 (PdV II 51); 35 (PdV VI 14); 37 (PdV II 14); 45
(PdV II 42); 48 (PdV I 19 ?); 54 (PdV II 17); 58 (PdV III 15); 62 (PdV
III 27); 71 (PdV II 32); 72 (PdV II 29); 74 (PdV II 30); 77 (PdV VI 1); 80
(PdV III 20); 84 (PdV III 34); 108 (PdV VI 9); 112 (PdV V 6); 114 (PdV
V 20); 116 (PdV VI 22); 136 (PdV VI 16); 141 (PdV V 9); 169 (PdV IV
6); 170 (PdV IV 4); 175 (PdV IV 3); 177 (PdV IV 1); 178 (PdV IV 2);
179 (PdV IV 15); 180 (PdV I 20); 181 (PdV I 31); 182 (PdV I 34); 183
(PdV II 12); 184 (PdV II 18); 185 (PdV II 19); 206 (PdV II 8); 207 (PdV
3
Cfr. H. M. Schaller, Zur Entstehung der sogenannten Briefsammlung des Petrus de Vinea,
«Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 12, 1956, pp. 114-59 (ristampato
in H. M. Schaller, Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993, pp. 225-70); H. M.
Schaller, L’epistolario di Pier della Vigna, in Politica e cultura nell’Italia di Federico II, cur.
S. Gensini, Pisa 1986, pp. 95-111 (ristampato in tedesco in Schaller, Stauferzeit, pp.
463-78); H. M. Schaller, Handschriftenverzeichnis zur Briefsammlung des Petrus de Vinea,
Hannover 2002.
4
L’edizione finora più consultata è quella curata da Johann Rudolf Iselin (Iselius),
Basileae 1740. La nuova edizione (con traduzione italiana) in corso presso il Centro
Europeo di Studi Normanni è coordinata da Edoardo D’Angelo, e stanno già per essere
mandati a stampa alcuni libri: il II è curato da A. Boccia; il IV da chi scrive; il V da E.
D’Angelo.
5
Riedmann, Unbekannte Schreiben, pp. 135-200.
Su un codice stravagante dell’epistolario di Pier della Vigna
115
V 21); 208 (PdV V 22). Di queste, tre (le 170, 207 e 208) furono scritte,
in realtà, da Nicola da Rocca6.
Ci sono, poi, una lettera contenuta anche nella redazione grande in 6
libri dell’epistolario di Pier della Vigna (la nr. 75); dieci lettere tràdite anche da altri codici che contengono prevalentemente lettere di Pier della
Vigna: 2, 6, 8, 44, arenga non numerata di c. 134r, 60, 86, 166, 168, 1767.
Inoltre, quattro lettere presentano formule molto simili a quelle usate in
lettere dell’epistolario di Pier della Vigna: arenga non numerata di c. 135r
(PdV VI 15); 118 (PdV V 100); 120 (PdV V 100); 123 (PdV VI 24). Di
queste soprattutto la prima (l’arenga non numerata di c. 135r) è per buona parte quasi identica a quella dell’epistolario di Pier della Vigna, pur
essendo molto breve.
Ho compiuto una collazione, sia pure sommaria e soltanto indicativa, tra il testo tràdito dal ms. 400 di Innsbruck e quello trasmesso dall’edizione Iselius dell’epistolario di Pier della Vigna, che, come già detto,
riproduce la redazione piccola in 6 libri, da cui è emerso che nel ms. 400
è stato attuato un sistema di raccolta non univoco.
In alcuni casi, soprattutto nella parte finale del codice, le lettere non
presentano varianti degne di grande rilievo, né nell’intitulatio o nella rubrica, né nel contenuto (anche se a volte il nome del mittente, nel ms. 400,
è ridotto a un idem, che non fa capire sempre chiaramente se sia riferito a
Federico II o a Corrado IV): come nelle lettere 77 (PdV VI 1), 136 (PdV
VI 16), 169 (PdV IV 6), 170 (PdV IV 4), 179 (PdV IV 15, ma nel ms. 400
viene lasciato dello spazio in bianco per la rubrica), 182 (PdV I 34), 183
(PdV II 12), 184 (PdV II 18), 185 (PdV II 19), dove l’intitulatio manca del
tutto, così come la rubrica esplicativa del contenuto, e mancano talvolta
anche i nomi presenti nella raccolta di Pier della Vigna (lettere 136, 169,
170), o sono incomplete (lettera 136); oppure nelle lettere 12 (PdV I 23),
14 (PdV II 35), 22 (PdV I 18), 37 (PdV II 14), 62 (PdV III 27), 84 (PdV
III 34), 141 (PdV V 9), dove l’intitulatio appare, ma non c’è la rubrica, e
in un caso (lettera 14) la lettera è incompleta.
In qualche caso, il destinatario appare anche nell’intitulatio del ms.
400, mentre manca nella raccolta di Pier della Vigna, come per la lettera
6
Nicola da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003 (Edizione nazionale
dei testi mediolatini 9), docc. 4, 26, 27.
7
Le lettere 44, 60 e 176 sono anche in Una silloge epistolare della seconda metà del XIII
secolo, ed. F. Delle Donne, Firenze 2007 (Edizione nazionale dei testi mediolatini 19),
rispettivamente come i docc. 162, 168 e 170. L’ arenga non numerata di c. 134r è anche
in Nicola da Rocca, Epistolae, doc. 41. Per un elenco dei manoscritti che contengono
queste lettere cfr. Schaller, Handschriftenverzeichnis, ad ind.
116
Fulvio Delle Donne
175 (PdV IV 3), ma quel nome si ricava anche dal corpo della lettera,
incompleto nel ms. 400; oppure è lo stesso, ma ci sono parti in più, come
nella lettera 25 (PdV II 51), o compaiono nomi omessi nella raccolta di
Pier della Vigna, come nella lettera 112 (PdV V 6).
Talvolta, vengono fornite informazioni in più riguardo al destinatario della lettera, o vengono indicati nomi, omessi invece nella raccolta
di Pier della Vigna: come nelle lettere 13 (PdV V 1), 35 (PdV VI 14), 45
(PdV II 42), 54 (PdV II 17), 71 (PdV II 32), 72 (PdV II 29), 114 (PdV
V 20), 116 (PdV VI 22). Ma in alcuni casi, tali lettere sono incomplete, e
tendono spesso a riassumere fortemente la parte dispositiva con formule
molto sbrigative e non coincidenti con quelle usate nella raccolta di Pier
della Vigna, come le 13, 45, 54, 72, 108, 116. Anche la lettera 48 riporta
nell’intitulatio il nome del destinatario (il marchese di Hohenburg), ma
sembra ampiamente incompleta, in quanto è costituita da due sole frasi:
la prima è identica a PdV I 19, poi c’è un etc. e poi un’altra frase che non
è presa dalla stessa lettera di PdV, per cui c’è il forte sospetto che siano
state unite assieme due lettere.
Le lettere 58 (PdV III 15), 74 (PdV II 30) e 80 (PdV III 20) portano
destinatari e mittenti diversi da quelli della raccolta di Pier della Vigna:
cosa, comunque, che non sorprende chi ha dimestichezza con tale tipo
di raccolte epistolari.
Quindi, da quanto abbiamo detto, si ricava che chi ha organizzato
il ms. 400 di Innsbruck non ha preso le lettere dalla raccolta organizzata dell’epistolario di Pier della Vigna. Ma questo poteva anche risultare
scontato se si pensa che le prime raccolte organizzate di quell’epistolario
pare che abbiano avuto circolazione a partire da un periodo successivo
a quello in cui sembra che sia stato esemplato il ms. 400. Questo, però,
apre un altro problema: che tipo di testo offrono le lettere del ms. 400?
Ovvero, derivano direttamente dai registri della cancelleria, o hanno subito qualche mediazione?
In qualche caso, come per la lettera 108 (PdV VI 9), c’è l’escatocollo, che manca nella tradizione canonica delle lettere di Pier della Vigna;
ma mancano l’intitulatio e i nomi di alcuni luoghi, che invece ci sono
nella tradizione canonica delle lettere di Pier della Vigna. Per quanto
riguarda la lettera V 20, in particolare, è interessante notare che il ms. di
Innsbruck (c. 159r) scrive il nesso «votivis suspiriis fructus expectatur»,
così come i mss. della redazione piccola in 5 libri e quelli della grande
in 6 libri (sono le due più antiche)8, laddove nell’edizione di Iselin (vol.
8
Questi mss., a dire il vero, presentano la forma «votivis suspiriis fructus expectant», ma la differenza è paleograficamente irrilevante. Per la maggiore antichità della
Su un codice stravagante dell’epistolario di Pier della Vigna
117
II, p. 59, rr. 14-15), è scritto, invece, «commodum sperant», mentre è
completamente omesso nel ms. di Paris, B. N. F., Lat. 8563, c. 75r, usato
come base per la citata edizione in preparazione per il Centro Europeo
di Studi Normanni.
Quindi, in questi casi, si potrebbe pensare anche che il compilatore
del ms. 400 abbia avuto presente un modello derivato direttamente dalla
cancelleria, e che l’abbia tagliato nella maniera che più gli conveniva.
Ma tale atteggiamento, come abbiamo visto, non è univoco. Risulta, invece, più semplice pensare che il ms. 400 sia stato organizzato come
una personale raccolta di modelli epistolari da un notaio di qualche cancelleria (magari uno di quelli che esularono dopo la caduta del regime
svevo, come Enrico di Isernia, Pietro da Prezza o, forse, anche Nicola
da Rocca9), perché se ne potesse servire come una sorta di prontuario
retorico ogni volta che ne sentiva la necessità. Magari, i documenti che
conservano l’escatocollo possono essere stati scritti da un medesimo notaio, che conservava le minute dei propri scritti10. Del resto, spicca il fatto
che alcune lettere siano raggruppate per argomento ovvero per tipologia
(ad es. le consolationes ai nn. 166-179), per incipit (ad es. 40 e 41), o per destinatario (ad es. le lettere 20-21 indirizzate a Tommaso di Savoia, o le 3133 indirizzate a Pavia, o le 37-39, indirizzate a Tivoli). Tali raccolte non
sono rare, anche perché venivano usate spesso come libri di testo – per
dir così – nelle scuole di dictamen (praticamente propedeutiche alla professione notarile), sia quelle locali, sia quelle connesse con gli studia più
organizzati: in pratica, i manoscritti che tramandano l’epistolario di Pier
della Vigna, sia in forma organizzata sistematicamente, sia in forma non
organizzata sistematicamente ebbero quasi sempre questo scopo. Del
resto, dato il grande sviluppo che l’insegnamento del dictamen epistolare
redazione piccola in 5 libri (e, poi, di quella grande in 6 libri) cfr. F. Delle Donne, Die
Probleme der Überlieferung von Dictamina in der Zeit Friedrichs II., in Briefkultur im 13. und 14.
Jahrhundert, in corso di stampa.
9
Su Enrico di Isernia cfr. soprattutto H.M. Schaller, Enrico Da Isernia (Henricus de
Isernia), in Dizionario Biografico degli Italiani, 42, Roma 1993, pp. 743-746; K. Hampe, Beiträge
zur Geschichte der letzten Staufer. Ungedruckte Briefe aus der Sammlung des Magisters Heinrich
von Isernia, Leipzig 1910; su un suo trattato retorico e le sue fonti cfr. B. Schaller, Der
Traktat des Heinrich von Isernia De coloribus rethoricis, «Deutsches Archiv für Erforschung des
Mittelalters» 49, 1993, pp. 113-154. Su Pietro da Prezza cfr. soprattutto E. Müller, Peter
von Prezza, ein Publizist der Zeit des Interregnums, Heidelberg 1913; R.M. Kloos, Petrus de Prece
und Konradin, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken»
34, 1954, pp. 88-108. Su Nicola da Rocca cfr. l’Introduzione a Nicola da Rocca, Epistolae.
10
Così, forse, è capitato con Nicola da Rocca nel ms. Paris, B. N. F., Lat. 8567, dove
i dictamina conservano il nome dell’autore: cfr. l’Introduzione a Nicola da Rocca, Epistolae.
118
Fulvio Delle Donne
ebbe, in quel periodo, nella zona dell’Italia centro-meridionale, a partire
da Karl Hampe si è parlato di “scuola capuana”11, anche se il centro di
quella scuola mi pare che sia più Montecassino che Capua12.
A questa conclusione – ovvero che il ms. 400 sia una sorta di prontuario retorico – spingerebbe anche la constatazione che tre lettere del
ms. 400 sono contenute anche nell’epistolario di Tommaso di Capua
(TdC)13, e con una tradizione che spesso si interseca con quella di Pier
della Vigna: le lettere 5 (TdC I 1), arenga non numerata di c. 133v (TdC
VIII 49), arenga non numerata di c. 193v (TdC II 57). La nr. 11, invece, presenta solo un incipit simile a quello di TdC VII 115. E, come già
segnalato da Josef Riedmann, poi, ventuno lettere sono tràdite anche
dal cosiddetto epistolario di maestro Trasmondo (Trasm.)14: 186 (Trasm.
116), 187 (Trasm. 119), 188 (Trasm. 1), 189 (Trasm. 2), 190 (Trasm. 185),
11
Cfr. K. Hampe, Über eine Ausgabe der Capuaner Briefsammlung des Cod. lat.
11867 der Pariser Nationalbibliothek, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie
der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.» 1910, 8; K. Hampe, Mitteilungen aus der Capuaner
Briefsammlung I, II, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften.
Phil. - hist. Kl.» 1910, 13; K. Hampe, Mitteilungen aus der Capuaner Briefsammlung III,
«Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.»
1911, 13; K. Hampe - F. Baethgen, Mitteilungen aus der Capuaner Briefsammlung IV,
«Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.» 1912,
14.
12
Cfr. F. Delle Donne, Le consolationes del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna,
«Vichiana» s. III 4, 1993, pp. 287-290; F. Delle Donne, La cultura e gli insegnamenti retorici
latini nell’Alta Terra di Lavoro, in ‘Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L’Alta Terra di Lavoro
dal dominio svevo alla conquista angioina, a cura di F. Delle Donne, Arce 2007, pp. 133-157.
13
L’Ars dictandi è stata pubblicata da E. Heller, Die Ars dictandi des Thomas von
Capua, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil.-hist.
Klasse» 1928/29, 4. L’epistolario, invece, è ora in Die Briefsammlung des Thomas von Capua.
Aus den nachgelassenen Unterlagen von Emmy Heller und Hans Martin Schaller, edd. M. Thumser
- J. Frohmann, München 2011. Alcune lettere dell’epistolario, che è stato raccolto sistematicamente in 10 libri, erano già in S.F. Hahn, Collectio Monumentorum, I, Brunsvigae
1724, pp. 279-385, che pubblicava, in sostanza, solo i primi due libri dell’epistolario; 34
lettere erano pubblicate anche da J. Freiherr von Hormayr, Thomas a Capua Dictamina,
«Archiv für Geographie, Historie, Staats- und Kriegskunst» 12, 1821, pp. 510 s., 513-16,
521-23, 527-30, 545-48, 549-53, 557-60, 585-88; altre lettere ancora erano pubblicate
da E. Heller, Der kuriale Geschäftsgang in den Briefen des Thomas von Capua, «Archiv für
Urkundenforschung» 13, 1935, pp. 198-318: 256-318; per l’edizione di altre lettere cfr. H.
M. Schaller, Studien zur Briefsammlung des Kardinals Thomas von Capua, «Deutsches Archiv
für Erforschung des Mittelalters» 21, 1965, pp. 371-518, spec. 394-399.
14
S. Heathcote, The letter collections attributed to Master Transmundus, Papal Notary and
Monk of Clairvaux in the Late Twelfth Century, «Analecta Cisterciensia» 21, 1965, pp. 35-109
e 167-238.
Su un codice stravagante dell’epistolario di Pier della Vigna
119
191 (Trasm.27), 192 (Trasm. 28), 193 (Trasm. 35), 194 (Trasm. 1a), 195
(Trasm. 117), 196 (Trasm. 33), 197 (Trasm. 171), 198 (Trasm. 173), 199
(Trasm. 4), 200 (Trasm. 152), 201 (Trasm. 153), 202 (Trasm. 154), 203
(Trasm. 16), 204 (Trasm. 8), 205 (Trasm. 7). Del resto, la prima parte del
codice contiene anche le Institutiones minores di Prisciano e la Summa dictaminum di Ludolfo di Hildesheim (morto nel 1256 circa).
Tutto questo, ci farebbe pensare che al codice venisse attribuita una
funzionalità di tipo grammaticale e retorico, e che conteneva modelli
di dictamina. Tuttavia, non va sottovalutato un aspetto interessante del
codice 400. Alcune lettere, non tutte, sembrano fornire una redazione
per dir così primitiva rispetto a quella più diffusa e trasmessa dalle raccolte organizzate dell’epistolario di Pier della Vigna: insomma, forniscono
una redazione che non è ancora passata attraverso tutti i filtri che ha
subito la redazione organizzata sistematicamente dell’epistolario di Pier
della Vigna, pur avendone subìto comunque qualcuno. Queste lettere,
dunque, talvolta, forniscono alcune informazioni in più, utili a meglio
contestualizzarle dal punto di vista storico. Ma, ad es., la lettera 58 nel
ms. di Innsbruck è indirizzata al re d’Ungheria, mentre nella tradizione
sistematica delle lettere di Pier della Vigna è indirizzata al re di Cipro: ma
poiché nella lettera viene raccomandato un personaggio (frate Elia, il cui
nome viene omesso nel ms. 400) che deve compiere un viaggio in partes
transmarinas (espressione pure omessa nel ms. 400), le indicazioni offerte
dalle raccolte sistematiche dell’epistolario di Pier della Vigna si adattano
meglio, rispetto a quelle fornite nel ms. 400.
Dunque, il ms. di Innsbruck, configurandosi come un codice che
raccoglie lettere di Pier della Vigna non organizzate sistematicamente,
può costituire una fonte importante per approfondire la conoscenza
dell’epoca sveva: non solo quella storico-istituzionale, ma anche quella
culturale. E, da questo punto di vista, il ms. 400 costituisce un’ulteriore
attestazione dell’ampissima diffusione che ebbero le lettere attribuite a
Pier della Vigna, che furono lette ed ammirate per secoli, e non solo in
tutt’Italia e in Austria, ma anche in Inghilterra, in Spagna, in Boemia, in
Germania, in Francia, dove furono prese a modello e addirittura riutilizzate per nuovi componimenti epistolari15.
15
Su tali questioni cfr., da ultimo, l’approfondito e preciso studio di B. Grévin,
Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique
européen XIIIe-XIVe siècle, Rome 2008.
ASPETTI DELLA GUERRA DEL VESPRO:
IL BIENNIO 1296-1298 NELLA PROSPETTIVA DI
FEDERICO III, RE DI SICILIA, E DI RUGGERO DI LAURIA
Rosanna Lamboglia
I vent’anni della guerra del Vespro siciliano (1282-1302) – esito
estremo della frattura tra il potere regio e i ceti nobiliari isolani che si era
andata prefigurando già alla fine del dominio svevo in Italia meridionale1
– rappresentano un periodo breve della storia del Mezzogiorno medievale
e tuttavia estremamente significativo, soprattutto se si considera che
dalla sollevazione palermitana si generarono conseguenze di carattere
permanente, destinate a determinare, ben oltre la soluzione del conflitto,
gli sviluppi politico-economici dell’intera area. Ciò che poteva sembrare
una faccenda locale e marginale, sulla scala invece delle tendenze di
durata secolare e dei bilanci a lungo termine, finiva col rivelarsi un
punto di non ritorno nella storia del Mediterraneo, proprio per i suoi
imprevedibili esiti. Infatti, a partire da quegli anni, la Corona d’Aragona
si sarebbe imposta come uno dei maggiori protagonisti politici della
scena mediterranea, ma anche come un tenace elemento perturbatore2.
1
Cfr. E. Pispisa, Nicolò di Jamsilla. Un intellettuale alla corte di Manfredi, Soveria Mannelli
1984, pp. 18-19, dove si approfondisce e amplia una tematica già affrontata in Id., Nicolò
di Jamsilla tra cultura e politica, in La società mediterranea all’epoca del Vespro, Atti dell’XI
Congresso di Storia della Corona d’Aragona (Palermo - Trapani - Erice 23-30 aprile
1982), IV, Palermo 1984, pp. 105-130.
2
In proposito, numerosi sono stati gli studi che hanno considerato la fase di
espansione che caratterizzava da tempo l’Europa dal Mediterraneo al Baltico. Sull’area
mediterranea catalano-aragonese, è ritornato recentemente P. Corrao, Mezzogiorno e
Sicilia fra Mediterraneo ed Europa (secoli XI-XV), in P. Corrao - M. Gallina - C. Villa,
L’Italia mediterranea e gli incontri di civiltà, Bari 2001, pp. 97-168: 135, e Id., Corona d’Aragona
ed espansione catalano-aragonese: l’osservatorio siciliano, in Europa e Mediterraneo tra medioevo e
prima età moderna: l’osservatorio italiano, cur. S. Gensini, Pisa 1992, pp. 255-280: 267. Tra le
122
Rosanna Lamboglia
Allo stesso tempo, si sarebbe avviato quel processo storico conclusosi
non solo con l’annessione dell’Isola alla Corona d’Aragona, bensì con la
riduzione di tutto il Regno a Viceregno.
Se però ci si attiene ad una prospettiva di medio termine, va parimenti
rilevato come con l’incoronazione nella primavera del 1296 dell’infante
Federico d’Aragona a re di Sicilia3 si apra un nuovo periodo di autonomia
giuridica dell’Isola, che sarebbe poi continuato sotto i successori, fino
almeno a tutto il regno di Federico IV (1355-1377) e, in parte, nel breve
regno di Martino I, il Giovane (1402-1409).
L’acclamazione a re di Federico in un parlamento, a Catania, già nel
gennaio del 1296, è la soluzione di un complesso nodo politico secondo
una prospettiva di parte – quella del cosiddetto partito dei “Siciliani”
– che, sin dal 1293, si era opposta a qualsiasi trattativa di pace, volta a
realizzare un ritorno dell’Isola sotto le insegne angioine4. In tal senso,
la rilettura dei capitoli conclusivi dell’Historia Sicula di Bartolomeo di
più recenti iniziative di studio sul tema, si segnalano L’exspansió catalana a la Mediterrània
a la baixa Etad Mitjana, cur. M. T. Ferrer i Mallol - D. Coulon, Barcelona 1999, e La
Corona catalanoaragonesa i el seu entorn mediterrani a la baixa Etad Mitjana, cur. M. T. Ferrer
i Mallol - J. Mutgé i Vives - M. Sánchez Martínez, Barcelona 2005. Gli argomenti qui
trattati prendono avvio dalla tesi di dottorato Ruggero di Lauria nel contesto del Mediterraneo
bassomedievale, da me svolta sotto la guida del prof. Francesco Panarelli e discussa presso
la Scuola di Dottorato dell’Università degli Studi della Basilicata nell’a. a. 2009/2010.
3
Sulla natura della titolazione da attribuire al nuovo sovrano e sulla sua significazione,
cfr. E. Pispisa, Regnum Siciliae. La polemica sulla intitolazione, Palermo 1988, pp. 63-71. Sul
regno di Federico III, re di Sicilia, si vedano, da ultimo, V. D’Alessandro, Un re per un
nuovo Regno, in Federico III d’Aragona re di Sicilia (1296-1337), Convegno di studi (Palermo,
27 - 30 novembre 1996), cur. M. Ganci - V. D’Alessandro - R. Scaglione Guccione,
Palermo 1997, pp. 21-45, e C. R. Backman, Declino e caduta della Sicilia medievale. Politica,
religione ed economia nel regno di Federico III d’Aragona Rex Siciliae (1296-1337), ediz. it. cur. A.
Musco, Palermo 2007 (ed. or. Cambridge 1995).
4
F. Giunta, Il Vespro e l’esperienza della «Communitas Siciliae». Il baronaggio e la
soluzione catalano-aragonese dalla fine dell’indipendenza al Vicereregno spagnolo, in Storia della
Sicilia, dir. R. Romeo, III, Napoli 1980, pp. 305-407: 324-331. La persistenza di un
sentimento di autonomia dell’Isola rispetto alla Corona d’Aragona è tuttavia abbastanza
precoce. Significativa è infatti la lettera del giugno 1286 che Ruggero di Lauria doveva
consegnare a re Alfonso III d’Aragona e nella quale era espresso il parere contrario della
regina Costanza e di Giacomo, re di Sicilia, a trattare una pace, qualora ad essi non fosse
rimasta l’Isola: ACA, RC, Reg. 66, f. 125r (prima del 21 giugno 1286), ma trascritto anche
in G. La Mantia, Codice diplomatico dei re aragonesi di Sicilia, I (Anni 1282-1290), ristampa
anastatica, premessa di V. D’Alessandro, Palermo 1990 (1a ed. 1917), p. 320, doc. CXLVII
(ma con errore nell’indicazione del Registro).
Aspetti della guerra del vespro
123
Neocastro5 è assai eloquente di una precisa linea d’azione, maturata
all’interno dell’osservatorio politico siciliano e relativa alle trattative di
pace messe in campo dalla diplomazia di papa Niccolò IV. Ciò infatti
è quanto emerge dal discorso, intriso di retorica, che il Cronista fa
pronunciare a uno dei legati dell’ambasceria siciliana presso la corte
aragonese, il messinese Pandolfo di Falcone.
In un’arringa in cui è prevalente il motivo polemico nei confronti del
re aragonese, Giacomo II, che si è lasciato troppo facilmente persuadere
alla pace non considerando adeguatamente tanto l’inganno soggiacente
alla pace stessa quanto pure la sorte dei Siciliani, Pandolfo di Falcone
mette bene in evidenza come, in Sicilia, si fosse posto il problema
del gioco politico di Giacomo. Salvaguardare l’autonomia dell’Isola e
allo stesso tempo garantirne la difesa erano pertanto le due massime
preoccupazioni che i Siciliani individuavano e che quindi esponevano
nell’ambasceria6.
La soluzione politica prospettata da Bartolomeo di Neocastro per
bocca di Pandolfo di Falcone è molto chiara: essa prevede la designazione
di Federico a re e la difesa militare della Sicilia, da affidare ancora così
come lo era stato sino a quel momento all’ammiraglio della flotta siculocatalana, Ruggero di Lauria (1245/1250 ca - València 1305)7. Ad essere
richiesti erano però anche l’intervento e il consenso di Giacomo; anzi,
proprio costui doveva sentirsi in dovere di patrocinare la designazione
regale di Federico sulla base di quella discendenza avita che dai Siciliani
era parimenti riconosciuta, dopo di lui, anche all’Infante e che risaliva
per mezzo di Costanza di Svevia alla famiglia dell’imperatore Federico
II: tanto, dunque, i Siciliani – novelli figli dell’aquila8 – chiedevano e si
aspettavano che Giacomo facesse a loro garanzia e tutela9.
I resoconti delle cronache – è noto – non sono una completa
testimonianza di verità, in quanto i cronisti scelgono i fatti che riportano
e ne sono in primo luogo commentatori e giudici. Pertanto dietro
l’immagine di un resoconto che viene presentato con un qualche gradiente
5
Bartholomaeus de Neocastro, Historia Sicula [A.A. 1250-1293], ed. G. Paladino,
in Rerum Italicarum Scriptores, serie 2 (= R.I.S.2), XIII, Bologna 1921-1922, pp. 1-192.
6
Ivi, c. CXXIV, pp. 137-140.
7
Su Ruggero di Lauria, si veda A. Kiesewetter, Lauria, Ruggero di, in Dizionario
biografico degli Italiani, 64, Roma 2005, pp. 98-103, nonché R. Lamboglia, Tessere documentali
per l’identità dell’ammiraglio Ruggero di Lauria, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania»
77, 2011, pp. 15-54.
8
Bartholomaeus de Neocastro, Historia Sicula, c. CXXIV, p. 138.
9
Ivi, pp. 139-140.
124
Rosanna Lamboglia
di ufficialità, c’è sempre il nesso tra fatti narrati e modo in cui vengono
narrati: esso è in un certo qual modo rivelativo della parzialità della
cronaca, almeno nella misura in cui questa veicola la cultura, l’inclinazione
politica e il sentimento d’appartenenza propri di chi queste narrazioni ha
redatto. Se dunque vale ancora il monito di Gina Fasoli secondo cui le
cronache «a saperle leggere con quello che dicono e con quello che non
dicono, raccontano moltissime cose»10, anche l’improbabilità dell’arringa
di Pandolfo consente di cogliere gli aspetti propri del problema che una
eventuale trattativa di pace avrebbe comportato per i Siciliani. E questo è
tanto più prezioso, quanto più conciso ed essenziale è invece il resoconto
che, relativamente alle stesse vicende, offre l’altro cronista sincrono,
Nicolò Speciale11.
Nella Historia Sicula di Nicolò Speciale, a prendere l’iniziativa
dell’ambasceria alla corte catalana è la regina Costanza di Svevia che,
dalla Sicilia e nel 1295, chiede al figlio Giacomo chiarimenti non più sulle
trattative di pace di papa Niccolò, bensì su quelle che il nuovo pontefice,
Bonifacio VIII, aveva posto in essere con gli accordi di Anagni12. È in
Nicolò Speciale, dunque, che l’elezione di Federico si determina come
deroga e rifiuto della pace di fatto stipulata, nel giugno del 1295 ad
Anagni13, tra Giacomo II, papa Bonifacio e l’angioino Carlo II; e tale
10
G. Fasoli, Cronache medievali di Sicilia. Note d’orientamento, cur. O. Capitani - F.
Bocchi, Bologna 1995. p. 4; il saggio apparve dapprima in rivista col titolo Cronache
medievali di Sicilia, «Siculorum Gymnasium» n. s. 2, 1949, pp. 186-241; poi come volume,
Catania 1950.
11
Per un profilo biografico del Cronista, si rinvia a G. Ferraù, Nicolò Speciale.
Storico del Regnum Siciliae, Palermo 1974, pp. 17-32 e a V. Labate, Un precursore siciliano
dell’Umanesimo. Niccolò Speciale, Acireale 1898 [ma estratto dagli «Atti e Rendiconti
dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti degli Zelanti e PP. dello Studio di Acireale» 9,
1897-1898, pp. 1-22].
12
Nicolaus Specialis, Historia Sicula ab anno MCCLXXXII ad annum MCCCXXXVII,
in Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, ed. R. Gregorio,
I, Palermo 1791, l. II, c. XXII, pp. 349-350: 350.
13
In proposito, cfr. V. Salavert y Roca, El tratado de Anagni y la expansión mediterránea
de la Corona de Aragón, Zaragoza 1952 [ma estratto da «Estudios de Etad Media de la
Corona de Aragón» 5, 1952, pp. 209-360], e Id., La pretendida ‘traición’ de Jaime II de
Aragón contra Sicilia y los sicilianos, «Estudios de Edad Media de la Corona de Aragón» 7,
1962, pp. 599-622, nonché, da ultimo, P. Corrao, Il nodo mediterraneo: Corona d’Aragona e
Sicilia nella politica di Bonifacio VIII, in Bonifacio VIII. Atti del XXXIX Convegno storico
internazionale (Todi 13-16 ottobre 2002), Spoleto 2003, pp. 145-170. Per le vicende
d’insieme e particolari della guerra del Vespro siciliano, si rinvia all’opera ancora oggi
fondamentale di M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, cur. F. Giunta, Palermo 1969
(della quale esiste una nuova edizione con introduzione di M. Moretti, Roma 2003) e per
Aspetti della guerra del vespro
125
determinazione il Cronista enuncia sempre più chiaramente dal XXII al
XXV capitolo dell’Historia14.
Nel mezzo – e, nella fattispecie, nel cap. XXIII – Nicolò Speciale
riferisce che fu proprio Ruggero di Lauria insieme a Vinciguerra di
Palizzi a veicolare in maniera determinante l’acclamazione di Federico
a re di Sicilia, avvenuta all’interno di un generale colloquium, a Catania,
il 15 gennaio 129615. La narrazione è anche ricca di particolari a
riguardo, poiché afferma che alla designazione si procede al termine di
un’orazione di Ruggero di Lauria, nella quale l’Ammiraglio, primum orans,
prendendo cioè la parola per primo, aveva indicato la soluzione politica
dell’incoronazione dell’Infante. E vi si procede “legittimamente”,
in quanto Federico è detto substitutus ex testamento patris16 e dopo che
chiari erano risultati gli intendimenti di Giacomo17. Nel prosieguo del
racconto, sono ancora gli stessi Ruggero di Lauria, Vinciguerra di Palizzi
e altri Siciliani a ricusare l’ambasceria che Bonifacio VIII aveva poi
sollecitamente inviato in Sicilia per ricondurre tutti a più miti propositi18.
Su questi fatti, una lettura integrata dei cronisti Bartolomeo di
Neocastro e Nicolò Speciale mette ben in evidenza la prospettiva dei
un quadro più generale a S. Runciman, I Vespri siciliani. Storia del mondo mediterraneo alla fine
del tredicesimo secolo, Milano 1976 (ed. or. London 1958).
14
Cfr. più dettagliatamente infra, nelle pp. seguenti.
15
Sul passo, va però segnalato che a parlare di un intervento specifico di Ruggero
di Lauria è solamente la cronaca di Nicolò Speciale. Diversamente accade nella cronaca
del catalano Ramon Muntaner, dove il medesimo ruolo è assunto invece da Giovanni
da Procida. In merito, cfr. Ramon Muntaner, Crònica, in Jaume I - Bernat Desclot
- Ramon Muntaner - Pere III, Les quatre grans cròniques, ed. F. Soldevila, Barcelona
1971, pp. 665-1000: c. 185, pp. 832-833. Sulla data dell’incoronazione di Federico, tutti
concordano su quella che, dopo i cronisti Nicolò Speciale (cfr. Nicolaus Specialis,
Historia Sicula, l. III, c. I, pp. 354-355: 354) e il cosiddetto Anonimo palermitano del
Chronicon Siculum (cfr. Chronicon Siculum, in Bibliotheca Scriptorum, II, c. LVI, pp. 168-171:
171), generalmente si indica (cfr. Amari, La guerra del Vespro, I, p. 491; Kiesewetter,
Lauria, p. 101; D’Alessandro, Un re per un nuovo Regno, p. 21 et al.); solo il Runciman,
I Vespri siciliani, p. 353, scrive che l’incoronazione avvenne il 12 dicembre, a Palermo.
Quanto al Chronicon Siculum, c’è da aggiungere che è in fase di definizione l’edizione
critica Cronica Sicilie, cur. P. Colletta, in Rerum Italicarum Scriptores, serie 3 (= R.I.S.3), di cui
è stato però recentemente anticipato uno studio preparatorio: cfr. P. Colletta, Storia,
cultura e propaganda nel Regno di Sicilia nella prima metà del XVI secolo: la Cronica Sicilie, Roma
2011. In attesa del nuovo testo, la Cronaca continuerà qui ed essere indicata ancora con
il titolo e l’edizione licenziati da Rosario Gregorio.
16
Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXIII, p. 351.
17
Ivi, l. II, c. XXII, p. 350.
18
Ivi, l. II, c. XXIV, p. 352.
126
Rosanna Lamboglia
Siciliani e fa comprendere anche più a fondo la serie di attestazioni
documentali di cui si dirà in seguito. Ed è abbastanza singolare che per
far ciò si scelga un protagonista della storia militare del Vespro, Ruggero
di Lauria, che molto deve in termini negativi alla vulgata storiografica
di matrice sicilianista e nella cui definizione molta parte hanno avuto
anche le vicende che principiarono con l’acclamazione di Federico. La
figura di Ruggero di Lauria e i documenti che a lui si riferiscono offrono
infatti un’insolita chiave di lettura delle diverse linee politiche alla base
dal trattato di Anagni. In particolare, sono i rapporti che l’Ammiraglio
intrattiene nel biennio 1296-98 con Federico d’Aragona, Giacomo II
e Bonifacio VIII a chiarire come un quadro politico assai nebuloso e
ambiguo per l’interferenza dei ruoli mano a mano si dipani sotto i colpi
dei vincoli vecchi e nuovi, che la politica riesce a cementare.
Abbastanza nota è la vulgata storiografica attorno all’ammiraglio
Ruggero di Lauria: essa ne ha fatto spesso una figura controversa e
contraddittoria, in quanto al Lauria vengono parimenti attribuiti tanto
la fama conquistata sul campo di battaglia, cui però fin da subito si legò
una coloritura negativa – quella cioè di un personaggio sanguinario ed
efferato – quanto l’abominio del tradimento di cui lo tacciava tutta una
tradizione storiografica che dal cronista Speciale risaliva sino all’Amari,
per il supposto cambiamento di fronte nella quaestio Siculorum19. In
proposito, non si tratta di ripercorrere i termini di una vulgata che non
ci porterebbe molto lontano lungo la strada sempre impervia delle
contrapposizioni, bensì di considerare l’intero frangente dal punto di vista
dell’implicazione dei ruoli. In tal senso, giova rilevare come la posizione
di Ruggero di Lauria nelle vicende del Vespro sia più volte ambivalente:
egli è infatti prima vassallo dei re aragonesi – Pietro il Grande, Alfonso
il Liberale e Giacomo II, nel doppio ruolo di re d’Aragona e di Sicilia
– in ragione di una signoria territoriale nel Regno di Valenza costituitasi
a cominciare dai tempi di Giacomo I, ma è anche vassallo, oltre che di
Giacomo II, pure dell’infante Federico nel periodo della luogotenenza e
come re dal 1296, possedendo l’Ammiraglio castelli e terre, nel distretto
di Messina20. Ruggero di Lauria è però anche comandante della flotta
19
R. Lamboglia, Sedimentazioni storiografiche a proposito della figura dell’ammiraglio Ruggero
di Lauria, «Leukanikà. Rivista lucana di varia cultura» 7/4, 2007, pp. 44-50.
20
Documenti relativi all’epoca del Vespro, tratti dai manoscritti di Domenico Schiavo della
Biblioteca Comunale di Palermo, cur. I. Mirazita, presentazione di F. Giunta, Palermo 1983,
pp. 41-42, doc. 57. I possedimenti di Ruggero di Lauria, in Sicilia, si desumono oltre
che dalle indicazioni isolate e sparse dei cronisti Bartolomeo di Neocastro e Nicolò
Speciale anche da quanto il settecentesco Domenico Schiavo annotò nei volumi dei suoi
“Diplomata”, che raccoglievano trascrizioni e transunti di documenti, frutto dei propri
Aspetti della guerra del vespro
127
siculo-aragonese per la designazione di Pietro III21 del 1283, e continua
ad esserlo, dopo la riconferma nel ruolo da parte di Alfonso III22, per
tutto il periodo a seguire sino a buona parte del 1296, anche cioé nella
Sicilia del nuovo re, Federico III.
Alla luce di tale interferenza di ruoli, non è dunque secondario
considerare la posizione di Ruggero di Lauria in relazione alla pace
di Anagni. Certo è che prima che venisse stipulata, Ruggero aveva
accompagnato Federico ad un convegno con papa Bonifacio presso
Velletri23 il 30 maggio 1295 e a Bonifacio aveva dichiarato l’improponibilità
della questione della restituzione della Sicilia alla Chiesa. Con il successivo
interessi e ricerche. Per gli aspetti e le vicende dei feudi e dei castelli nel Regno di Valenza
e in quello di Sicilia, per le attestazioni documentali e le vertenze giudiziarie relative, una
ricostruzione è nella tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria (vd. supra, nota n. 2).
21
Archivo de la Corona d’Aragón (e da ora ACA), Real Cancillería, Registros (da
ora RC, Reg.) 54, f. 227r (Messina, 20 aprile [1283]), ma molte sono le edizioni che
trascrivono il documento. In merito, cfr. M. J. Quintana, Apendices a la vida de Roger de
Lauria, in Id., Vidas de los españoles célebres, Madrid 1922, (1a ed. Madrid 1807-1833), I, pp.
201-215: 203-204, doc. I (senza però indicazione di Registro e di foglio) e il De rebus Regni
Siciliae (9 settembre 1282-26 agosto 1283), Documenti estratti dall’Archivio della Corona
d’Aragona e pubblicati dalla Sovrintendenza agli Archivi della Sicilia, cur. [I. Carini] - G.
Silvestri, Palermo 1882-1893 (rist. con premessa di E. Mazzarese Fardella, Palermo 1982),
pp. 617-618, doc. DCXC (la cui edizione, però, trascrivendo integralmente i Regg. 53 e
54, omette sempre l’indicazione dei fogli). Citano ancora il documento F. De Bofarull y
Sans, Antigua marina catalana, Barcelona 1898, p. 66, doc. 5, e R. P. L. Fullana [Mira], La
Casa de Lauria en el Reino de Valencia, in III Congreso de historia de Corona de Aragón. Dedicado al
periodo comprendido entre la muerte de Jaime I y la procamación del Rey Don Fernando de Antequera,
Valencia 1923, p. 87, nota n. 1 (ma trascrizione parziale e con errore nell’indicazione del
Registro e del foglio), mentre un traslato è in La Mantia, Codice diplomatico dei re aragonesi,
I, p. 545, doc. CCXXII, corretto rispetto a A. De Huici, Las cuentas de Roger di Lauria,
«Revista del Centro de Estudios historicos de Granata y su Reino» 4, 1914, pp. 57-66,
149-156, 261-268, 369-372 (volume anche in edizione fac-simile, Granada 1992): pp. 5758, e più convincente sulla lezione similiter concedimus per scilicet concedimus dello stesso
Carini, nel De rebus Regni Siciliae.
22
ACA, RC, Reg. 65, ff. 1r-1v (Maiorca, 25 novembre 1285; due documenti sul
foglio e con lacune ai margini restaurati). Il primo dei due documenti è in parte trascritto
in Fullana, La Casa de Lauria en el Reino de Valencia, p. 87, nota n. 2, ma con indicazione
erronea del Registro. Dell’agosto 1287, è poi anche la carta in cui Alfonso III conferma
il Regno di Sicilia all’infante Giacomo e nella quale Ruggero di Lauria è nominato
ammiraglio d’Aragona e di Sicilia: ACA, RC, Pergaminos (e da ora P) di Alfonso II/III,
carpeta (= crp.) 120, n. 151 (con rubrica al verso). La prassi amministrativa prevede però
la designazione di vice-ammiragli che assolvono funzioni ad interim in Catalogna, durante
cioè l’assenza del Lauria: ACA, RC, Reg. 78, f. 4r (12 luglio 1288).
23
Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXI, pp. 348-349, indica come luogo del
convegno Velletri. Sull’incontro, anche il Chronicon Siculum, c. LIII, pp. 163-164. A riportare
Valmontone come luogo dell’appuntamento è invece Kiesewetter, Lauria, p. 101.
128
Rosanna Lamboglia
patrocinio nella designazione regale di Federico, Ruggero contribuì di
suo a implementare l’ambivalenza del proprio ruolo per la quale egli
ritornava ad essere al servizio di due padroni e signori, così come lo era
stato una prima volta già ai tempi del regno di Alfonso III d’Aragona
e dell’infante Giacomo, re di Sicilia. Nel primo trimestre del 1296, con
Giacomo II, re d’Aragona e Federico III, re di Sicilia, restavano infatti
immutati tanto la magistratura di ammiraglio, quanto pure i possedimenti
al di là e al di qua dell’isola di Sicilia e nel Regno di Valenza.
Né minore ambivalenza del resto c’era in Giacomo II, mantenendo
egli le due Corone – quella aragonese e quella siciliana – e agendo, assunto
il trono maggiore, sempre più in qualità di re d’Aragona e sempre meno
come re di Sicilia24. Nel frangente particolare, Giacomo era soprattutto
un re che si cimentava, a casa propria, nella campagna per la ri-conquista
del Regno di Murcia (1296-1304)25. Strette tra il Regno di Valenza a nord
ed il Regno di Granada a sud, le terre murciane erano dal 1243 distretto
giurisdizionale e territoriale della Corona di Castiglia-León per le vicende
pregresse della reconquista e poi anche grazie all’aiuto catalano-aragonese
dell’infante Pietro d’Aragona nella cosiddetta guerra di Murcia (12651266). La decisione di Giacomo II di iniziare una nuova campagna,
convinto in principio di avere il Regno murciano senza troppa fatica
in cambio del sostegno che egli poteva offrire al candidato usurpatore
Alfonso de la Cerda26, portò la Corona d’Aragona a un duro e lungo
confronto con la Castiglia, per il quale vennero mobilitate tutte le forze
della compagine catalano-aragonese27.
24
Cfr., in proposito, Tramontana, Soluzione catalana del Vespro, in Id., Gli anni del
Vespro. L’immaginario, la cronaca, la storia, Bari 1989, pp. 183-228: 212-218.
25
In merito, si rimanda al conciso capitolo di M. T. Ferrer Mallol, La guerra con
Castilla de 1296-1304. La conquista del Reino de Murcia por Jaime II, in Ead., Entre la paz y
la guerra. La Corona catalano-aragonesa y Castilla en la baja Etad Media, Barcelona 2005, pp.
27-160. Sul frangente, si veda, altresì, il capitolo di A. Masiá De Ros, Jaime II y Fernando
IV, in Id., Relación castellano-aragonesa desde Jaime II a Pedro el Ceremonioso, Barcelona 1994,
I, pp. 53-188: 53-126.
26
Qualche anno prima, in Castiglia-León, la morte del re Sancho IV aveva creato
una situazione di vacanza del trono per via della minorità dell’infante, poi futuro
Fernando IV di Castiglia (1295-1312), considerato illegittimo. A Jaca, nel settembre del
1288, Alfonso III di Aragona aveva infatti organizzato la proclamazione di Alfonso de
la Cerda a re di Castiglia, portando già a quell’epoca i due Regni di Castiglia-León e di
Aragona ad una guerra di frontiera, con diverse battaglie tra il 1289, il 1290 e il 1291.
27
In proposito, si vedano: L. Klüpfel, El règim de la Confederaciò catalano-aragonesa a
finals del segle XIII, «Revista Juridica de Cataluña» 35, 1929, e 36, 1939, rispettivamente,
pp. 34-40, 195-226, 289-327 e pp. 18-37, 97-135, 298-311; J. Lalinde Abadia, Las
Aspetti della guerra del vespro
129
Ruggero di Lauria non era all’oscuro delle operazioni di guerra
avviate da Giacomo nella penisola iberica, ma rimanendo di stanza
in Sicilia non partecipava di persona alla campagna murciana. Egli
non faceva però mancare, da buon vassallo e da buon ufficiale, il suo
appoggio, che fu opportunamente garantito dal procuratore di Ruggero,
Giacomo di Guardia28, preposto alla cura degli interessi nel Regno
di Valenza e, in generale, a tutte le faccende a cui il Lauria, assorbito
dalle campagne militari siciliane, non poteva provvedere. A Giacomo
di Guardia, Giacomo II, impegnato nell’assedio di Oriola, chiese infatti
un primo aiuto secondo quanto stabilito precedentemente nei fogli di
contribuzione – sostanzialmente l’invio degli uomini di Cocentaina
e di tutti gli altri castelli e terre dell’Ammiraglio29 – e successivamente
anche una serie di richieste di vettovagliamento per la conduzione delle
operazioni di guerra murciane30.
institutiones de la Corona d’Aragon en el Mediterraneo del “Vespro” (1276-1337), in La società
mediterranea all’epoca del Vespro, I, Palermo 1983, pp. 143-166; L. Gonzales Anton, Las
Uniones Aragonesas y las Cortes del Reino (1283-1301), Zaragoza 1975, I, o anche, in più agile
volumetto, Id., Las Cortes de Aragon, Zaragoza 1978, pp. 43-93; P. Corrao, Stati regionali
e apparati burocratici nella Corona d’Aragona (secc. XIV-XV), in XVIII Congrés Internacional
d’Història de la Corona d’Aragó: La Mediterrània de la Corona d’Aragó. Segles XIII-XVI & VII
Centenari de la Sentència Arbitral de Torrellas, 1304-2004 (València, 9-14 setembre 2004), I,
València 2005, pp. 99-144, e Id., Celebrazione dinastica e costruzione del consenso nella Corona
d’Aragona, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Relazioni tenute al
convegno internazionale organizzato dal Comitato di Studi storici di Trieste, dall’École
française de Rome e dal Dipartimento di storia dell’Università degli studi di Trieste
(Trieste, 2-5 marzo 1993), cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 133-156: 137-142 e
152-155.
28
Su Giacomo di Guardia, amministratore dei beni di Ruggero di Lauria, si rimanda
alla tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria.
29
ACA, RC, Reg. 340, f. 20r (6 maggio 1296). Altra convocazione, fatta ancora a
Giacomo de Guardia, è al f. 224v.
30
Qui, a titolo esemplare, alcuni documenti delle richieste reali al procuratore di
Ruggero di Lauria, Giacomo di Guardia, estratti dal Registro 340 del regno di Giacomo
II, un registro tematico aperto dalla Cancelleria reale per la campagna di Murcia e che
raccoglie la quasi totalità dei dispacci e della documentazione emessa nel 1296 e nel
periodo compreso tra il 1304 e il 1323: ACA, RC, Reg. 340, f. 44r; f. 51r (28 aprile 1296; sul
foglio due documenti: il primo, inviato a Giacomo di Santa Croce, il secondo all’alcalde
del castello di Alicante, Raimondo di Urgio; concernono entrambi il trasferimento di
alcuni modii di grano nel castello di Alicante); f. 51v (27 aprile 1296: documento relativo
alla richiesta di invio di altri viveri); f. 53v (11 maggio 1296: direttive relative ad un
quantitativo di mucche); f. 70r (16 maggio 1296, ma data al precedente f. 69v: documento
concernente comunicazioni varie).
130
Rosanna Lamboglia
L’acclamazione di Federico d’Aragona e la successiva coronazione
cadevano dunque proprio nel mezzo della campagna murciana e con
Giacomo lontano dalla Sicilia. È legittimo pertanto pensare che tanto
Ruggero di Lauria, quanto gli ambienti siciliani, sia vicini alla corte
sia municipali, si sentissero investiti di un ruolo politico almeno nelle
faccende che ancora li coinvolgevano con gli Angioini31. Probabilmente
è la consapevolezza di questo ruolo politico a far prevalere la soluzione
del tutto interna all’Isola di opporsi fermamente a un ritorno sotto i
Napoletani. A riguardo, molto esplicito è l’Anonimo autore del Chronicon
Siculum, il quale mette ben in evidenza come l’Infante si presentasse
quale interprete delle aspirazioni siciliane di autonomia. Tale è infatti
il senso dei due inserti documentari che al frangente si riferiscono: il
primo, concernente la lettera che la città di Palermo aveva inviato a
Federico e nella quale si sconsigliava recisamente che l’Infante si recasse
al colloquio richiesto da Bonifacio VIII32; il secondo relativo, invece, alla
lettera che l’Infante stesso aveva fatto pervenire all’universitas di Paternò,
circa l’elezione dei sindaci che avrebbero preso parte al generale colloquium
di Catania33.
Un peso non secondario deve poi aver avuto anche la considerazione
della perdita di tutte le terre continentali conquistate qualora vi fosse
stato un ritorno sotto gli Angioini, né meno giustificato era il timore
della reazione francese che ancora avrebbero dovuto aspettarsi i
Siciliani34. Questa stessa consapevolezza di esercitare un ruolo politico
nella guerra siciliana deve pertanto aver indotto tanto Ruggero di Lauria,
31
Questo è quanto lascia intuire il cronista Nicolò Speciale nel capitolo conclusivo
del II libro della sua Historia, relativo all’arringa di Blasco d’Alagona agli altri Catalani
rimasti in Sicilia. Ancor più chiaramente che nei capitoli precedenti, viene ribadita la
legittimità di Federico III, il quale è dichiarato heres per testamentum in Regno Sicilie substitutus.
Più oltre, è quindi esplicitamente affermato: «quod Jacobus Rex Aragonum in hac parte
[sc. Regno Sicilie] non tangitur; quia constat, ex quo testamento patris consentiens
Aragonum sceptra suscepit, nihil ad eum de Regno Sicilie pertinere, ac etiam, si quod
ius habeat in illo, iam Karolo Regi ex tractatu pacis, quam inter eos apostolica sedes
composuit, publice renuisse», in Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXV, pp. 352353. La stessa linea ribadisce l’Anonimo palermitano per il quale Giacomo II è: «Regnum
et dominium dicti Regni et insulae Siciliae, quod tenebat, et ipsam Insulam dimisit, et
cessit Romanae Ecclesiae», in Chronicon Siculum, c. LI, p. 162.
32
Ivi, c. LIII, pp. 165-168; cfr. anche Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXI,
pp. 348-349.
33
Chronicon Siculum, c. LIV, pp. 168-171.
34
Amari, La guerra del Vespro, I, p. 505.
Aspetti della guerra del vespro
131
quanto i Siciliani a non considerare la nuova elezione come dissonante
e dissenziente rispetto alla politica di Giacomo dell’accordo di Anagni.
A riguardo, infatti, molto diversa era la prospettiva del Sovrano, la
stessa cioè che aveva portato alle trattative di pace, mediante un processo
lento e graduale, ma in buona misura maturato anche all’interno delle
scelte politiche della Corona d’Aragona35. In una prospettiva che guardava
ormai non più solamente alla Sicilia, bensì a tutti i Regni della Corona36,
il trattato costituiva una svolta nella politica mediterranea di Giacomo, in
quanto apriva nuovi spazi d’azione nel Mediterraneo occidentale e creava
al medesimo tempo un avvicinamento decisivo tra il Sovrano e Bonifacio
VIII37: avvicinamento peraltro ritenuto necessario anche per la felice
conduzione delle operazioni nella penisola iberica. In secondo luogo, la
Sardegna e la Corsica potevano ben costituire una congrua contropartita
per la cessione della Sicilia38. L’elezione dell’infante Federico pertanto
scompaginava soprattutto la politica di Giacomo, oltre che una delle
principali clausole di Anagni.
In proposito, il resoconto delle cronache sia siciliane, sia catalane
non riferisce di un Giacomo particolarmente propenso all’elezione di
Federico. Né sembra totalmente convincente l’opinione storiografica
che, sulla base delle vicende successive, ha individuato una sorta di
connivenza di Giacomo con Federico e per la quale il primo finiva col
sostenere il fratello dilazionando quanto più possibile la campagna
militare promessa a papa Bonifacio39 e nonostante vi fosse stata
l’investitura di gonfaloniere e capitano generale della Chiesa40. Alcune
35
L’importanza della pace fu immediatamente evidente agli storici catalani, i quali,
ancora prima dello studio di V. Salavert y Roca (vd. supra, nota n. 13), avevano cominciato
a considerarla anche da un punto di vista dei risvolti economici per la mercatura catalana.
Cfr. A. De Capmany, Memorias historicas sobre la marina, commercio y artes de la antigua ciudad de
Barcelona, Madrid 1779-1792 (ma si cita dalla rist. Barcelona 2001), IV, pp. 21-25.
36
Su questo punto anche Tramontana, Soluzione catalana del Vespro, pp. 212-218.
37
In proposito, cfr. Salavert y Roca, El tratado de Anagni, pp. 210, 275-276 e 278.
38
Sulla questione, già F. Giunta, Ferrer de Abella e i rapporti tra Giacomo II e Giovanni
XXII, in Studi medievali in onore di Antonino De Stefano, Palermo 1956, pp. 231-262: 231
(rist. in Id., Uomini e cose del Medioevo mediterraneo, Palermo 1964, pp. 167-220), M. Del
Treppo, L’espansione catalano-aragonese nel Mediterraneo, in Nuove questioni di storia medievale,
Milano 1964, pp. 259-300: 270, e Tramontana, Soluzione catalana del Vespro, pp. 213-214.
39
Su questi aspetti della guerra del Vespro, si veda l’introduzione a Acta SiculoAragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, cur. F. Giunta
- A. Giuffrida, Palermo 1972, pp. 9-13.
40
ACA, Butlles, lligall 20, n. 2. Bolla papale Redemptor mundi del 20 gennaio 1297, già
in A. Potthast, Regesta pontificum Romanorum inde ab anno post Christum natum 1198 ad annum
132
Rosanna Lamboglia
evidenze documentali che mettono in relazione il contesto siciliano con
le riprese del conflitto murciano sembrano infatti offrire ulteriori e più
concreti motivi di plausibilità all’atteggiamento di Giacomo41.
Nella prospettiva politica della Corona d’Aragona e con Federico re,
era dunque necessario distrarre Ruggero di Lauria dal partito dei Siciliani.
In questa direzione, va sicuramente intesa la lettera di rassicurazione
che Giacomo II fa pervenire a Carlo II d’Angiò e nella quale è riferito
dell’invio di un certo Galcerán di Monteliu a Ruggero per portarlo
dalla loro parte42. In questo senso, più previdente di Giacomo era stato
papa Bonifacio, il quale da Anagni, già l’11 agosto del 1295 – e quindi
immediatamente dopo la firma del trattato – tramite il frate Bonifacio di
Calamandrano, aveva formalmente insignito Ruggero delle isole di Gerba
e di Cercina (Kerkennah) sia pure prevedendo il pagamento di un censo
annuo alla Santa Sede43 e nonostante quelle fossero terre di conquista,
che il Lauria aveva precedentemente ottenuto dai sovrani aragonesi44.
Di fatto né prima, né dopo la designazione di Federico, i rapporti
di Ruggero di Lauria con Giacomo avevano subito incrinature, poiché a
metà del 1296 continuavano ancora i traffici delle salme di frumento e
il trasporto su navi che l’Ammiraglio faceva tra la Sicilia e la Catalogna,
come rifornimento e aiuto nella campagna di guerra murciana45. Né per
tutto il periodo a cominciare dall’elezione di Federico, Ruggero di Lauria
aveva cessato di essere anche l’ufficiale di Giacomo, poiché proprio alla
Corona maggiore l’Ammiraglio, il 24 settembre 1296, presentò i conti
dell’armata coinvolta nelle operazioni militari siciliane46.
1304, Berolini 1974-1875, II, p. 1957, doc. 24460. In merito, però, cfr. anche ACA, RC,
Reg. 24, f. 97v, e Les Registres de Boniface VIII (1294-1303), edd. G. Digard - M. Faucon - A.
Thomas - R. Fawtier, Paris 1884-1939 (da ora in poi RB), I, p. 926, doc. 2337.
41
Cfr. in proposito R. Lamboglia, Aspetti della guerra del Vespro: la svolta del 1300 nella
prospettiva di Giacomo II d’Aragona e di Ruggero di Lauria, in «Bullettino dell’Istituto storico
italiano per il medio evo», in corso di stampa.
42
ACA, Reg. 340, f. 138v (9 giugno 1296).
43
RB, I, doc. n. 811, pp. 272-273, ma il documento è trascritto anche in C. Tutini,
Discorso de’ Sette Offici o’ vero de Sette Grandi del Regno di Napoli, Roma 1666, p. 89, con data
al fondo indicante il 30 agosto 1295, forse come esito di confusione tra idus e nonae. Per il
frangente, si veda Amari, La guerra del Vespro, I, p. 475-477 e anche Kiesewetter, Lauria,
p. 101.
44
In proposito, si rimanda ancora alla tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria.
45
ACA, Reg. 340, f. 157v-158r (14 giugno 1296).
46
Archivo de la Catedral de Valencia (e da ora ACV), Pergaminos (e da ora P), n.
737. Precedenti rendicontazioni il Lauria le aveva presentate il 7 novembre 1294 (ACV,
P, n. 738), l’11 marzo 1291 (ACV, P, n. 1253), il 14 luglio 1288 (ACV, P, n. 9411) e il 27
luglio 1284 (ACV, P, n. 713). Le valutazioni che dalle carte di conti si possono dedurre
Aspetti della guerra del vespro
133
Già a metà dello stesso anno, principiarono invece i motivi di
dissenso tra re Federico e Ruggero di Lauria, il quale – secondo il
racconto cronachistico – era pur stato tra i principali sostenitori del nuovo
sovrano. Non si conoscono, a riguardo, gli elementi reali del contrasto se
non appunto quanto emerge dalla cronaca di Nicolò Speciale, ma si può
ipotizzare che questi fossero in qualche misura legati al ruolo di Ruggero
stesso, o meglio al ruolo che quest’ultimo sperava di poter esercitare in
relazione alla politica di Federico. Probabilmente, l’Ammiraglio riteneva
di poterla influenzare e dirigere secondo i propri piani, secondo cioè la
comprensione che egli aveva della situazione siciliana ma all’interno di
un contesto che non poteva non considerare anche la Corona d’Aragona.
Federico, al contrario, mostrò una più decisa volontà politica e la
ferma intenzione di emanciparsi dai consiglieri che aveva avuto accanto
sino a quel momento. A riguardo e con riferimento a vicende politicomilitari specifiche, la cronaca di Nicolò Speciale riferisce del ruolo
sempre più comprimario di Blasco d’Alagona, un nobile catalano, che
aveva conseguito una certa preminenza nel corso del 129147 e titolare
in Calabria dei beni sottratti a Enrico Ruffo di Sinopoli dopo la rivolta
antiangioina di Catanzaro e la spartizione dei beni patrimoniali appartenuti
ai Ruffo48. L’Alagona era stato quindi richiamato da Giacomo in
Catalogna49, ma era poi dal 1293 rientrato in Sicilia dove, ancora secondo
il cronista Speciale, risiedeva50. Proprio Blasco d’Alagona, in quegli anni,
si era posto alla testa del baronaggio catalano-aragonese in Sicilia51,
fomentando non poche discordie tra gli altri feudatari, ma al contempo
per ciò che concerne la proficuità o meno della guerra sono ancora in Lamboglia,
Ruggero di Lauria. Poiché la maggior parte delle pergamene valenzane relative al Lauria
sono poco note o note solo in parte dai regesti di E. Olmos y Canalda, Pergaminos de la
Catedral de Valencia, Valencia 1965, si ringrazia il direttore dell’Archivio della Cattedrale di
Valenza, prof. Vicente Pons i Alós, per la cortesia che ha manifestato nella consultazione
e digitalizzazione delle pergamene citate.
47
Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XVIII, p. 346.
48
Sull’attività di Blasco d’Alagona, si legga S. Fodale, La Calabria angioino-aragonese,
in Storia della Calabria medievale. I quadri generali, cur. A. Placanica, Roma 2001, pp. 185262: 201.
49
Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XVIII, p. 346.
50
Ivi, l. II, c. XXV, p. 352.
51
Sul baronaggio siciliano, si vedano F. Giunta, La presenza catalano-aragonese in
Sicilia, in XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona: La Corona d’Aragona in Italia (secc.
XIII-XVIII), Sassari - Alghero 19-24 maggio 1990, Relazioni, I, Sassari 1993, pp. 89111, V. D’Alessandro, Politica e società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963, P. Corrao,
L’aristocrazia militare del primo Trecento: fra dominio e politica, in Federico III d’Aragona, re di
Sicilia, pp. 81-108 (ma anche con variante del titolo: Fra dominio e politica: l’aristocrazia
134
Rosanna Lamboglia
salendo in considerazione agli occhi di Federico e molto probabilmente
superando lo stesso Ruggero di Lauria negli affari di corte e – come si
vedrà – anche di guerra52.
Ciononostante e fino al principio dell’estate del 1296, l’Ammiraglio
è comunque di supporto alla campagna di Federico III. Questi infatti
aveva ordinato al Lauria l’equipaggiamento della flotta e, dai primi di
maggio, si era mosso alla volta di Reggio come risposta al trattato di
Anagni e alla richiesta di Giacomo agli ufficiali aragonesi di consegnare
le terre conquistate nella propaggine continentale del Regno53. In
proposito, vi è da rimarcare però come Federico agisse con risolutezza
anche ut ab agendis future invasionis hostium pro reintegrandis Regni finibus
operam admoveret54. L’intervento dell’esercito aveva infatti prioritariamente
lo scopo di mantenere salda la presenza siculo-aragonese in Calabria e di
difenderla da future azioni nemiche. Nella circostanza, si optò per una
strategia militare fatta prevalentemente di assedi via terra a cui l’armata
guidata da Ruggero di Lauria offriva opportuno rinforzo. Sebbene la
campagna militare avesse ottenuto un discreto successo poiché la città
di Reggio votò subito la sua fedeltà a Federico e quella di Squillace lo
fece dopo l’assedio da parte di Blasco d’Alagona e Matteo di Termini55,
da quel punto in poi più incerta diventava l’impresa per la vicina contea
di Catanzaro, controllata dal conte Pietro Ruffo. Il grosso dell’esercito
siciliano di Federico, accampato nella località di Roccella di Squillace –
luogo non molto distante da Catanzaro – aveva dunque due possibilità:
o continuare a muovere l’assedio a Crotone, dove già vi era un reparto
alla guida di Blasco d’Alagona, o muovere l’assalto a Catanzaro56.
Circa la seconda opzione, il racconto di Nicolò Speciale mette bene in
evidenza il parere contrario di Ruggero di Lauria, il quale espone una
considerazione propria della strategia militare al consiglio di guerra
che doveva deliberare in proposito. Per Ruggero, infatti, sarebbe stato
meglio avanzare su Crotone, meno agguerrita e inespugnabile all’assalto,
siciliana del XIV secolo), e E. I. Mineo, Nobiltà di stato. Famiglie e identità aristocratiche nel tardo
medioevo. La Sicilia, Roma 2001.
52
Sull’avanzamento di posizioni di Blasco d’Alagona, si veda ancora il quadro
riassuntivo-esplicativo in Fodale, La Calabria angioino-aragonese, p. 201.
53
Ramon Muntaner, Crònica, c. 184, p. 832.
54
Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. IV, p. 357. Tuttavia, già al termine del
c. II, p. 356, si definisce l’azione militare contro Carlo II come bellum de restaurandis Regni
finibus.
55
Alle operazioni militari aveva preso parte anche Ruggero di Lauria, che per ordine
di Federico sopraggiunse sul luogo ad assedio già in corso. Cfr. ivi, l. III, c. V, p. 358.
56
Ivi, l. III, cc. VI-VII, pp. 359-363.
Aspetti della guerra del vespro
135
piuttosto che affrontare Pietro Ruffo assuetus bellis et strenuus57 e le sue
truppe.
Alla fine, prevalse la linea dell’assedio a Catanzaro patrocinata invece
dagli altri consiglieri di Federico III58. Essi infatti ritenevano cosa assai
agevole espugnare il castello della città e per volgere il Sovrano al proprio
partito non esitarono a condire la scelta strategica di Ruggero di Lauria
di motivi personali e di parte, essendo l’Ammiraglio imparentato col
conte Ruffo. Persuaso dunque da costoro, Federico ordinò l’assedio a
Catanzaro e Ruggero di Lauria ubbidì ancora, assaltando le truppe di
Pietro Ruffo, nella parte più accessibile della città – il castello – protetta
unicamente da un fossato.
Il passo della cronaca di Nicolò Speciale, a riguardo, è molto enfatico
e mette in evidenza il ruolo di Ruggero di Lauria nella successiva stipula
della tregua col Conte, costretto ad una resa sulla carta, qualora egli non
avesse ricevuto nel termine ultimo di quaranta giorni aiuti militari da
Carlo II. Gli attesi rinforzi non sopraggiunsero e Federico, senza colpo
ferire, ottenne la resa dell’avversario e, al contempo, dopo l’insediamento
a Catanzaro, anche un avanzamento significativo delle posizioni sul
fronte settentrionale mediante la conquista dei centri di Santa Severina
e Rossano. Intanto, Ruggero di Lauria partecipava con una parte della
flotta, insieme al frate Arnaldo da Pons, ad una rapida incursione
in soccorso di Rocca Imperiale59, assediata nel luglio, da Giovanni di
Montfort60, capitano generale di Carlo II.
Ruggero di Lauria seppe del mancato rispetto della tregua da lui
precedentemente stipulata con Pietro Ruffo, avendo – pare – re Federico
approfittato di una scaramuccia tra Angioini e Crotronesi, per rinnovare
le ostilità e prendere manu militari la città61. Se però, al momento, la
faccenda lo aveva oltremodo indispettito, tanto da indurlo a rassegnare
57
Ivi, l. III, c. VI, p. 359.
In proposito, Nicolò Speciale lascia intuire che non si tratta di volontà unanime
del consiglio, bensì del parere prioritario di alcuni che possiamo ritenere particolarmente
vicini a Federico, ai quali però non obiettano gli altri. Essa è pertanto solo apparentemente
unanime: «Aliqui vero tacite mussitantes, immurmurant, veruntamen in contrarium non
prorumpunt. Optant omnes Catanczarium attentari, sed verentur, ne si eorum consilio
in contrarium ageretur, neque contingeret de civitate victoria, mordax ispius admirati
iactantia contra universum consilium suo more garriret», ivi, l. III, c. VI, pp. 359-360.
59
Ivi, l. III, c. VII, pp. 362-362. Dopo aver marciato su Crotone, proseguendo lungo
il versante ionico, il grosso dell’esercito si trovava a Rocca Imperiale, a Nord di Porta
Roseto, il tradizionale confine della Calabria amministrativa.
60
Ivi, l. III, cc. VII e IX, rispettivamente, pp. 362-363: 362 e p. 367.
61
Ivi, l. III, c. VIII, pp. 363-367: 364.
58
136
Rosanna Lamboglia
– racconta ancora enfaticamente il Cronista – le dimissioni dal proprio
incarico di ammiraglio62, egli mosse tuttavia insieme a Federico alla volta
della già menzionata conquista di Rocca Imperiale63, cui si aggiunsero –
come si diceva – anche quelle di Santa Severina64, di Rossano e delle terre
limitrofe del Val di Crati65. Con la resa di Catanzaro e degli altri territori,
a cui fece seguito anche la minaccia di Giacomo e la scomunica papale, la
campagna di Federico in Calabria terminò, preferendo questi tornarsene
in Sicilia e lasciare Blasco d’Alagona come proprio luogotenente citra
farum66. Su ordine di Federico, anche Ruggero di Lauria faceva ritorno in
Sicilia67, ma solo dopo essersi spinto con parte della flotta in Adriatico,
dove prima fece incursioni notturne nell’entroterra leccese sino ad
Otranto68 e poi, a nord, tenne una fortunata azione intimidatoria nel
porto di Brindisi69.
Indubbiamente il solco che si stava cominciando a scavare tra Ruggero
di Lauria e Federico III venne implementato dal rifiuto di quest’ultimo
di partecipare al consesso voluto da Giacomo II – e patrocinato dalla
Santa Sede70 –, nella primavera del successivo 1297 ad Ischia71, allo
scopo di individuare una soluzione diplomatica alla defezione che in
Sicilia si era determinata con l’elezione dell’Infante. Ruggero di Lauria
era particolarmente propenso a che Federico partecipasse all’incontro,
spinto – aggiunge significativamente il cronista Speciale – proprio
dall’emissario di Giacomo72. In effetti, dopo l’ordine di far immediato
62
Ivi, l. III, c. VIII, p. 365.
Ivi, l. III, c. IX, p. 367.
64
Ivi, l. III, c. X, pp. 367-368.
65
Ivi, l. III, c. XI, p. 368. Il racconto cronachistico lascia intendere che a nessuna di
queste conquiste avesse preso parte Ruggero di Lauria, impegnato invece nel soccorso a
Rocca Imperiale. In proposito, cfr. ancora ivi, l. III, c. XV, pp. 370-371: 370.
66
Ivi, l. III, c. XIV, p. 370.
67
Ivi, l. III, c. XVII, pp. 373-377: 373.
68
Ivi, l. III, c. XV, pp. 370-371.
69
Ivi, l. III, c. XVI, pp. 371-373.
70
In merito, vale la pena ricordare che sin dal gennaio 1296 papa Bonifacio premeva
Giacomo affinché revocasse Federico da tutti i possedimenti continentali ed insulari del
Regno: RB, I, pp. 289-290, docc. 856-857.
71
ACA, RC, Reg. 321, f. 59r (13 aprile 1297), ma trascritto anche in Acta Aragonensia.
Quellen zur deutschen, italienischen, französischen, spanischen, zur Kirchen- und Kulturgeschicte aus
der diplomatischen Korrespondenz Jaymes II. (1291-1327), ed. H. Finke, Berlin - Leipzig 19081922 (continuazione in «Spanische Forschungen» 4, 1933, e 8, 1938), I, p. 34, doc. 26.
Ma, in proposito, cfr. anche Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. XII, p. 369.
72
Ivi, l. III, c. XVII, p. 374.
63
Aspetti della guerra del vespro
137
rientro in Sicilia, l’Ammiraglio molto si era adoperato per far mutare
opinione a Federico e agli ambienti di corte poco favorevoli ad una
trattativa con Giacomo II. A riguardo, difficile è determinare il giusto
peso da dare alle parole del Cronista, altrettanto complesso è voler
leggere tra le righe. Tuttavia, non è neppure lecito mettere in dubbio il
passo, soprattutto se si presuppone quella implicazione di ruoli di cui
era investito Ruggero di Lauria e per la quale il passo stesso troverebbe
una sua fondata plausibilità. Occorre infatti considerare che l’idea di una
Sicilia separata dalla Corona aragonese è soprattutto un’acquisizione
storiografica mutuata sulla misura degli eventi successivi, piuttosto che
una consapevolezza irrevocabile di coloro che agivano e vivevano il
1297. Pertanto si può ragionevolmente ritenere che Ruggero di Lauria
non immaginasse ancora la Sicilia come definitivamente separata dalla
Corona d’Aragona o a questa antagonista, così come per l’interferenza
di ruoli fuorviante sarebbe pure porre la questione se dalla coronazione
di Federico in poi e per tutto il tempo in cui, sino ad allora, l’Ammiraglio
era stato alla testa della flotta egli avesse combattuto per l’Aragona o per
la Sicilia.
Il racconto cronachistico di Nicolò Speciale non lascia adito
a dubbio circa i dissensi tra Ruggero di Lauria e Federico III, ma
consente di intendere anche una loro progressiva incrinatura, culminata
nella fin troppo nota e pittoresca scena della pubblica ricusazione del
Sovrano dell’omaggio feudale di Ruggero73. In particolare, nella intera
narrazione risulta evidente una dinamica per la quale il dissenso relativo
alle operazioni militari fosse rientrato, poi, via via, ritorni accentuato,
fino a culminare nella più ampia divergenza del consesso di Ischia,
evidentemente manifesta agli ambienti di corte74.
Quali che ne siano stati i motivi, i rapporti tra Ruggero di Lauria e
re Federico rimasero tesi per ciò che ormai rimaneva del 1296, mentre
sempre più rumorose si diffondevano alla corte siciliana le voci di un già
avvenuto tradimento di Ruggero. Nella fattispecie, però, sia che quanto
circolasse sul conto del Lauria fosse mera diceria, sia che si trattasse
di notizia ufficiosa con fondo di verità per una scelta di campo già
maturata, devono in ogni caso essere state incalzanti per Ruggero tanto
la minaccia di Giacomo del 7 gennaio 1297 di revocargli tutti i feudi
73
Ivi, l. III, c. XIX, pp. 378-379: 378.
Ivi, l. III, c. XVII, p. 374. In merito, cfr. anche Amari, La guerra del Vespro siciliano,
I, p. 511, e A. Placanica, Storia della Calabria dall’Antichità ai nostri giorni, Roma 1999 (1a
ed., Catanzaro 1993), p. 150
74
138
Rosanna Lamboglia
nel Regno di Valenza75, quanto pure la convocazione del 16 gennaio
1297 a Roma, ritenuta – questa – oltremodo necessaria proprio da
Giacomo76. Entrambe bastarono infatti sia a fomentare le dicerie stesse,
sia a far pendere l’ago della bilancia circa l’opportunità di prendere parte
all’incontro di Ischia e a determinare – come si vedrà – la partenza dalla
Sicilia.
Questa, però, non è da intendersi ancora come insanabile ed
inderogabile rottura con Federico, poiché – a detta del cronista Speciale
– Ruggero si offriva di curare gli interessi della Corona siciliana una
volta giunto al cospetto di Giacomo, a Roma: «Rogerius ire desiderans,
se curaturum Regis Friderici negotia offerebat»77. Tuttavia, il Lauria
si preoccupava anche di munire il castrum Laurie, Badulati, et alia castra
stipendiis, armis, frugibus, et alia rebus ad futura, que pronosticabantur bella,
necessariis78, oltre che di designare il nipote Giovanni amministratore dei
beni siciliani. Queste operazioni, che nella prospettiva di Ruggero di
Lauria potevano essere intese come una ragionevole contromisura ad un
incontro che l’Ammiraglio stesso poteva giudicare come foriero di nulla
di buono, insospettirono invece Federico più del dovuto. Questi infatti
– secondo ancora Nicolò Speciale – non poteva che intenderli come
delle spie preliminari di un passaggio di Ruggero al fronte nemico79. Ciò
spiegherebbe in maniera anche più congrua e plausibile il già accennato
episodio cronachistico della ricusazione dell’omaggio feudale di re
Federico a Ruggero di Lauria80.
A margine del vivace racconto della cronaca, si può ancora
ragionevolmente ritenere che l’Ammiraglio eseguisse nel frangente
le direttive di Giacomo per quella interferenza di ruoli più volte in
queste pagine ribadita, che si apprestasse pertanto a condurre la
regina Costanza dalla Sicilia a Roma per finalizzare una delle clausole
di Anagni81 e, nel frattempo, attendesse l’evolversi della situazione. Il
75
Lauria.
Kiesewetter, Lauria, p. 102, ma anche tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di
76
ACA, RC, Reg. 321, f. 26v (16 gennaio 1297), ma trascritto in Acta Aragonensia, I,
pp. 31-32, doc. 23. Il documento è datato «Romae XVII kalendas februarii anno Domini
MCCXCVI». Su queste vicende, benché privo di data, è sempre utile il rimando al passo
corrispondente in Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. XVIII, pp. 377-378: 377.
77
Ibid.
78
Ivi, l. III, c. XVIII, p. 378.
79
Ivi, l. III, c. XIX, pp. 378-379: 378.
80
Ibid.
81
La regina Costanza doveva infatti condurre a nozze la figlia Iolanda a Roma,
secondo appunto quanto stabilito da uno dei capitoli della pace di Anagni, ma al contempo
Aspetti della guerra del vespro
139
contrasto con Federico si sarebbe infatti potuto accomodare in futuro
anche in considerazione degli sviluppi di una politica che, all’esterno, era
solo marginalmente isolana. A sostegno di tale tesi vi è l’affermazione
di Nicolò Speciale per la quale Ruggero bellum non movet82, sebbene nec
quicquam de impetranda pace molitur83 e nonostante fosse stato dichiarato
da Federico pubblico nemico84. Si può aggiungere a ciò anche il fatto
che la destituzione di Ruggero di Lauria dai beni feudali in Sicilia e in
Calabria avviene in seguito alla ribellione di Giovanni di Lauria a re
Federico, quando cioè Ruggero è già da qualche settimana lontano dai
possedimenti siciliani e, a rivolta in corso, è ancora sulla rotta di ritorno,
alla volta della Sicilia85. Si può pertanto concludere che è solo in rapporto
al confronto diretto con le linee della politica di Giacomo, che matura
definitivamente il nuovo atteggiamento di Ruggero di Lauria nei riguardi
della questione siciliana. La serie documentale che segue mostra tuttavia
le tappe di un graduale processo, per il quale l’atteggiamento stesso è
veicolato e preparato, sia prima, sia dopo.
Alla questione, infatti, non era rimasto estraneo Bonifacio VIII86, il
quale il 3 gennaio del 1297 – dunque appena qualche settimana prima
dell’ordine di Giacomo a Ruggero di recarsi a Roma – aveva inviato al
Lauria una comunicazione dal contenuto assai significativo per il giro di
il viaggio le sarebbe valso come occasione propizia per rientrare nella benevolenza di
papa Bonifacio e della Chiesa dopo la minaccia di gravi pene spirituali, sopraggiunta a
seguito dell’incoronazione di Federico. Cfr. Amari, La guerra del Vespro siciliano, I, pp. 512513; Runciman, I vespri siciliani, p. 354, e L. Sciascia, Dalla Sicilia a Roma: il pellegrinaggio
mancato, «Quaderni Medievali» 51, 2001, pp. 47-56.
82
Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. XIX, p. 379.
83
Ibid.
84
Idid. e ivi, l. III, c. XXII, pp. 381-382: 381.
85
Amari, La guerra del Vespro siciliano, I, p. 517. Di parere opposto è il cronista Nicolò
Speciale, il quale istituisce un legame diretto tra la ribellione nei feudi dell’Ammiraglio
e il ritorno di Ruggero di Lauria in Sicilia. A riguardo, è tuttavia opportuno sottolineare
come poi nella narrazione non si dica nulla di più circostanziato se non il fatto che in
prossimità delle isole Eolie il Lauria era caduto in un’imboscata (cfr. Nicolaus Specialis,
Historia Sicula, l. III, c. XXII, pp. 381-382: 381), mentre a rivolta in corso si dice più
esplicitamente che Ruggero era ancora molto lontano in mare (cfr. ivi, l. III, c. XXII, p.
382).
86
Sulla pervicacia di papa Bonifacio relativa al recupero della Sicilia, oltre a quanto
già citato nelle precedenti note ed anche rispetto al superato studio di H. R. Rodhe, Der
Kampf um Sizilien in der Jahren 1291-1302, Berlin-Leipzig 1913, pp. 127-152, si vedano
ora A. Kiesewetter, Die Anfänge der Regierung König Karls II. von Anjou (1278-1295). Das
Königreich Neapel, die Grafschaft Provence und der Mittelmeerraum zu Ausgang des 13. Jahrhunderts,
Husum 1999, pp. 277-297, e Id., Bonifacio VIII e gli Angioini, in Bonifacio VIII, pp. 171-214.
140
Rosanna Lamboglia
date. Nella bolla, infatti, papa Bonifacio aveva espresso tutto il suo gaudio
per le notizie che un rapporto fidato gli aveva trasmesso e che riferiva
come Ruggero di Lauria si stesse adoperando per la costituzione di
un’armata da condurre col principio dell’estate contro i “ribelli siciliani”.
Aveva auspicato poi parimenti che ogni iniziativa di Ruggero potesse
proseguire di bene in meglio e che il Lauria stesso potesse esortare
Giacomo alla costituzione dell’armata: «exhortamur [sc. Rogerium de
Lauria] quatinus huiusmodi laudabiles actus tuos de bono in melius
prosequaris et carissimum in Christo filium nostrorum Jacobum Aragonie,
Sardinie et Corsice regem illustrem ad prosequendum efficaciter ipsius
armate negotium diligenter animes et prudenter inducas»87. Il contenuto
della bolla consente anche di rilevare come Bonifacio a questa data non
avesse ancora la certezza del fattivo impegno del Lauria, tuttavia lo
aveva considerato più che attendibile tanto da annunciare a Ruggero la
futura benevolenza papale: «Nec tuam filii volumus litere noticiam sed
pro certo tenere quod ea que modernis temporibus in predictis et aliis
egisti et facis ac exercere te confidimus in futurum sic mentem nostram
gratificant, sic contentant quod in petitis et petendis a te gratiam nostram,
in quantum honeste poterimus, favorabilem tibi exhibere proponimus et
benignam»88.
Intanto anche Giacomo era in viaggio alla volta di Roma,
per l’investitura del Regno di Sardegna e di Corsica, in cambio
dell’assoggettamento della Sicilia89 e dell’allestimento, con onere quasi
interamente papale90, di un contingente militare deputato all’impresa col
sopraggiungere appunto dell’estate del 1297. Qualora Giacomo avesse
trovato Ruggero di Lauria a Roma e costui disposto al suo servizio91,
era infatti sua ferma intenzione investirlo nuovamente della carica di
ammiraglio dell’armata di cui Ruggero nel frattempo era stato privato e
87
ACV, P, n. 1391 (3 gennaio 1297). Un regesto della pergamena è in Olmos y
Canalda, Pergaminos, p. 102, doc. n. 828. In questa sede, il documento viene pubblicizzato
parzialmente, in quanto tutte le pergamene valenzane citate in questo breve saggio sono
oggetto di separata pubblicazione.
88
Ibid.
89
RB, I, pp. 849-854, doc. 2188 (18 dicembre 1296).
90
RB, I, p. 634, doc. 1679 (28 febbraio 1297) e prima ancora, p. 658, doc. 1738 (22
febbraio 1297); p. 588, doc. 1573 (18 marzo 1296).
91
ACA, RC, Reg. 321, f. 53r (5 aprile 1297), ma trascritto in Acta Aragonensia, I, p.
32, doc. 24, tuttavia con errore nell’indicazione del foglio.
Aspetti della guerra del vespro
141
insignito invece il catalano Bernardo di Sarriano92. Il giorno successivo
dell’arrivo del Sovrano a Roma (2 aprile 1297)93, Ruggero di Lauria è,
dunque, reintegrato nella magistratura di ammiraglio omnium regnorum
nostrorum et comitatum, vale a dire di Catalogna, Aragona e Valenza: il che
non è pura faccenda nominale, giacché dalla titolarità di Giacomo era
amputata et Sicilie94.
Con Giacomo II e Ruggero di Lauria a Roma, papa Bonifacio
perseguiva per un verso il guadagno e il consolidamento del Lauria alla
causa guelfo-angioina e, per l’altro, preparava un terreno che molto poco
aveva a che fare con gli auspici di Carlo II e che, al contempo, di Giacomo
si serviva95. È significativo, infatti, che il 5 aprile 1297 Bonifacio VIII
emanasse una bolla in cui proponeva ai Siciliani la pace con la Chiesa.
In rapporto al contesto che qui si discute, il documento è dunque di
particolare interesse per la data di emanazione, per i termini del perdono
in esso contenuti e per la rubrica al verso della pergamena96. Qualora
infatti i Siciliani avessero accettato la proposta entro il primo settembre
92
Ibid. In nome della causa guelfa, la magistratura veniva tolta a Bernardo di Sarriano,
personaggio fin troppo noto a Ruggero di Lauria per una serie di contrasti personali e
per i quali una ricostruzione è nella tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria. Come
il Lauria, anche Bernardo di Sarriano (Bernat de Sarriá) era ammiraglio; nelle vicende del
Vespro, in particolare, aveva condotto appena un anno prima una fortunata spedizione
nel Golfo di Napoli, lungo la costiera amalfitana. Egli era però anche un alto dignitario di
corte, successivamente molto vicino alla figura di Giacomo II, re d’Aragona: già tesoriere
e ammiraglio della Corona aragonese, Giacomo gli affiderà poi anche il governo del
Regno di Murcia. Il Sarriano recupererà invece la carica di ammiraglio solo alla morte di
Ruggero di Lauria, nel 1305. Sul personaggio si veda M. T. Ferrer Mallol, Organització
i defensa d’un territori fronterer. La Governació d’Oriola en el segle XIV, Barcelona 1990. pp.
23-48, sebbene il profilo consideri Bernardo di Sarriano specialmente dall’incarico di
governatore del Regno murciano.
93
ACA, RC, Reg. 195, ff. 8r-10r (3 aprile 1297), trascritto nella misura inferiore ad
un terzo in Fullana, La Casa de Lauria en el Reino de Valencia, p. 87, nota n. 3.
94
Rispetto al documento catalano, occorre tuttavia precisare che il traslato della
concessione di Giacomo, in I Registri della Cancelleria angioina, ricostruiti da Riccardo
Filangieri con la collaborazione degli archivisti napoletani (= RCA), Napoli 1950-, vol.
XXXI, pp. 189-193, n. 127, mantiene la qualifica di Regnorum Aragonum, Sicilie, Valencie,
Maioricarum et comitatus Barchinone amiratus. In effetti, la documentazione continuerà ad
inserire ancora la menzione dei regni Aragonum et Sicilie insieme, anche per effetto della
successiva disposizione di Carlo II (infra, nota n. 109).
95
In proposito, si vedano F. P. Tocco, Bonifacio VIII e Carlo II d’Angiò: analisi di un
rapporto politico ed umano, in Bonifacio VIII, pp. 221-239, e B. Roigé, Bonifacio VIII y los reinos
hispanicos, ancora in Bonifacio VIII, pp. 293-323.
96
ACV, P, n. 5568 (5 aprile 1297). Un regesto della pergamena è in Olmos y
Canalda, Pergaminos, p. 103, doc. n. 837.
142
Rosanna Lamboglia
dell’anno corrente, papa Bonifacio si sarebbe impegnato a garantire un
regime di autonomia di quindici anni all’Isola e alle sue città, alle terre e
agli abitanti. Tale autonomia si sarebbe concretizzata con la presenza di
ufficiali, castellani e tesorieri unicamente italici o latini, ai Siciliani non
sospetti, tanto nelle terre ultra farum quanto in quelle citra farum. Altra
misura concreta di autonomia sarebbe stata un’esazione ordinaria non
gravosa, secondo quanto stabilito precedentemente da papa Onorio
IV97. Trascorso il temine di quindici anni, l’Isola e i Siciliani sarebbero
passati sotto l’autorità di Roberto, duca di Calabria98, il quale avrebbe
garantito a propria volta la presenza di ufficiali italici e latini, i Siciliani
liberi da franchigie, la restituzione delle terre confiscate sin dai tempi
di Pietro III e la contumacia delle offese perpetrate durante gli anni di
guerra99: qui, compendiosamente, a voler enunciare i vari punti di una
bolla, nota non tanto nella forma del presente documento, bensì nella
riproposizione dei contenuti che Bonifacio VIII riterrà di fare all’incirca
due anni più tardi, in varie lettere di curia del 1299100.
Rispetto a queste, la pergamena valenzana consente infatti di
retrodatare i termini del perdono al 1297 e nella rubrica al verso – Diversos
actes y privilegis faents per en Roger de Lluria quondam admirant de Aragó101
y de Cecilia y capità general en la conquesta de Napols – offre una ipotesi di
spiegazione plausibile di un documento che appare poco coerente con gli
accordi di pace del 1295 a voler proporre, dopo un regime di autonomia,
la cessione del Regno di Sicilia citra e ultra farum al figlio di Carlo II,
anziché a lui medesimo. In proposito, va altresì rilevato che non vi è
97
Ibid.
Su Roberto d’Angiò, cfr. R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze 1922
(rist. Bologna 2001).
99
ACV, P, n. 5568.
100
A riguardo, cfr. RB, III, p. 569, doc. 3394 (27 luglio 1299: garanzia della presenza
di ufficiali italici o citra farum, in ogni caso non gallici o ultramontani); pp. 571-572, doc.
3399 (27 luglio 1299: concessione alle città siciliane di un regime di autonomia per
quindici anni sotto la giurisdizione papale e di ufficiali italici o latini, non provinciali
o gallici o ultramontani); pp. 568-569, doc. 3393 (25 luglio 1299: revoca dell’interdetto
a Federico II e ai “ribelli siciliani”); pp. 569-570, doc. 3395 (27 luglio 1299: esenzione
degli ufficiali siciliani dal presentare i conti nel periodo della “ribellione” dell’Isola); p.
570, doc. 3396 (27 luglio 1299: restituzione dei beni dei “ribelli”); p. 570, doc. 3397 (27
luglio 1299: remissione delle colpe agli esuli siciliani); p. 572, doc. 3400 (30 luglio 1299:
concessione di garanzie e obbligazioni, tra quelle ritenute più idonee, ai “ribelli siciliani”)
e p. 573, doc. 3401 (30 luglio 1299: concessione di un regime di governo moderato, non
vessatorio, sotto Carlo II d’Angiò o il figlio Roberto, duca di Calabria).
101
Nella rubrica, parola sovrascritta.
98
Aspetti della guerra del vespro
143
nulla nella pergamena che menzioni Ruggero di Lauria o una qualche sua
sollecitazione, sicché la rubrica che attesta «Diversi atti e privilegi fatti
per intervento di Ruggero di Lauria, un tempo ammiraglio di Aragona e
di Sicilia e capitano generale nella conquista di Napoli» deve trovare altre
giustificazioni.
In merito, qualche elemento chiarificatore giunge da un esame
paleografico per il quale la nota al verso è sicuramente di epoca
posteriore al documento. Pertanto chiunque l’abbia apposta deve aver
ragionato sulla serie archivistica delle bolle di Bonifacio VIII conservate
presso l’Archivio della Cattedrale di Valenza. Per contenuto, la quasi
totalità delle bolle della serie è infatti legata alla figura dell’Ammiraglio o
a quella dei suoi eredi. A non citare Ruggero di Lauria sono unicamente
il documento di cui qui si discute e una seconda bolla emanata, come
la precedente, il 5 aprile 1297 e recante ancora i termini del perdono a
Federico: in questa seconda pergamena, in particolare, papa Bonifacio
propone al Sovrano le nozze con Caterina I di Courtenay, imperatrice
di Costantinopoli e gli offre il proprio aiuto per recuperare l’Impero
latino102. La sequenza archivistica descritta porta dunque a ipotizzare che
il primo documento datato il 5 aprile del 1297 sia stato tra le pergamene
che Ruggero trattenne per sé, insieme cioè alle bolle di Bonifacio che più
strettamente lo riguardavano. Nulla di più certo però si può affermare
a riguardo, poiché neppure le altre due rubriche presenti sul verso della
pergamena e coeve invece al documento – «Guillem de Sarrià de cúria»,
sul bordo in alto a sinistra, e «privilegium de reconciliacione insule
Cicilie», al centro della carta – forniscono ulteriori elementi chiarificatori.
Fatte però queste debite riflessioni di contestualizzazione, il perno della
discussione non è tanto l’ipotesi appena formulata, né la questione se vi
sia stato o meno l’intervento di Ruggero, quanto piuttosto comprendere
il perché della scelta di Roberto. Oltre infatti alle argomentazioni topiche
della mala signoria angioina e del regime a tratti vessatorio di Carlo II,
la risoluzione papale trova una pari plausibilità proprio considerando
l’esistenza di quel tenace partito dei Siciliani, affatto disposto a
ritornare sotto gli Angioini, ben manifesto in entrambe le narrazioni
cronachistiche di Bartolomeo di Neocastro e Nicolò Speciale e della cui
resistenza Bonifacio probabilmente veniva ora confermato e reso certo
102
ACV, P, n. 8212 (5 aprile 1297). Citato in forma di regesto in Olmos y Canalda,
Pergaminos, p. 103, doc. 838.
144
Rosanna Lamboglia
dai colloqui con Ruggero103 a Roma. Da qui, dunque, l’estensione di un
privilegio, che non avrà molta fortuna nella politica sia del 1297, sia in
quella successiva del 1299, ma che tuttavia ben vale a comprendere la
prospettiva del Pontefice: il riacquisto ad ogni costo dell’Isola104.
Il 7 aprile 1297, segue quindi una nuova bolla in cui papa Bonifacio
assolve Ruggero di Lauria e i suoi complici da tutti gli eccessi, gli incendi
di chiese e gli omicidi di religiosi, dal commercio di Saraceni, dalla rivolta
contro la Chiesa, perpetrati nel periodo precedente di guerra e dalla parte
del fronte siculo-catalano105. A distanza ancora di appena tre giorni,
Bonifacio VIII emana un altro documento in cui egli offre aiuto al Lauria
per l’approntamento dell’armata106.
Il 3 aprile 1297, Giacomo II aveva concesso invece a Ruggero
di Lauria il diritto di cavalcatura e di cattura dei nemici nel feudo già
dell’Ammiraglio relativo al castello e alla città di Cocentaina107, la cui
prerogativa evidentemente era rimasta all’Aragonese, non essendo
esplicitamente nominata nella concessione del 1291108.
Né in tutto il periodo a seguire fu estraneo Carlo II d’Angiò, poiché
questi, per proprio conto, il successivo 20 novembre del 1297, nominò
Ruggero di Lauria ammiraglio del Regno di Sicilia per parte angioina109 e
lo investì della baronia di Acerno110, nell’attuale Campania, e pare anche
103
Qualora invece si volesse dar peso alla rubrica, la stessa confermerebbe la notizia
del cronista Nicolò Speciale per la quale Ruggero di Lauria si era fatto in una qualche
misura portavoce degli interessi di Federico III presso la Curia romana.
104
Kiesewetter, Bonifacio VIII e gli Angioini, pp. 172-173.
105
ACV, P, n. 479 (7 aprile 1297). Citato in forma di regesto in Olmos y Canalda,
Pergaminos, p. 103, doc. 839.
106
ACV, P, n. 3915 (10 aprile 1297). Citato in forma di regesto in Olmos y Canalda,
Pergaminos, p. 104, doc. 840. Ruggero di Lauria fu quindi investito anche della carica
di vice-ammiraglio della Chiesa romana, come logica conseguenza della designazione
di Giacomo II a capitano ed ammiraglio generale della Chiesa, e anche del feudo di
Aci Castello, che apparteneva alla chiesa di Catania. Su questi aspetti, cfr. Kiesewetter,
Lauria, p. 102 e tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria.
107
ACA, RC, Reg. 287, f. 38v (3 aprile 1297).
108
ACA, RC, Reg. 192, ff. 4r-4v (11 settembre 1291). La conferma del feudo però
è anche in un altro diploma datato ancora al settembre 1291, ma contenuto nel Reg. 287,
ff. 39r-39v. Una copia del privilegio veniva invece trasferita a Valenza: cfr. Archivo del
Regne de Valencia (ARV), Libre IV de Enajenaciones, f. 101r, citato in Fullana, La Casa de
Lauria en el Reino de Valencia, p. 72, nota n. 2.
109
La magistratura verrà mantenuta da Ruggero di Lauria sino alla morte, quando
cioè Carlo II, saputo della dipartita di Ruggero, assegnerà la carica di ammiraglio a Sergio
Siginulfo di Napoli: RCA, vol. XXXI, pp. 232-233, n. 152.
110
Kiesewetter, Lauria, p. 102.
Aspetti della guerra del vespro
145
di alcune terre in Calabria111, come compensazione di quelle al Lauria
espropriate, in Sicilia, da Federico.
Da quanto sin qui esposto, si comprende bene come tra i
provvedimenti di Bonifacio e la concessione di Giacomo dell’aprile 1297
maturi, col principio dell’estate, anche la linea politica di Ruggero di
Lauria. Essa però è soprattutto determinazione successiva a quello che è
prioritariamente un cambiamento di fronte, in funzione guelfo-angioina,
della politica di Giacomo II. È, infatti, del luglio del 1297, una minuta
al verso di una carta di Giacomo, nella quale egli, da Leida, comunica a
Carlo II di aver ricevuto una lettera da Ruggero di Lauria contenente,
all’interno, fatti importanti che avrebbero molto interessato proprio
l’Angioino e che tuttavia l’Aragonese gli parteciperà diversamente, non
potendoglieli trasmettere per iscritto112. Una conferma ulteriore del fatto
che tra la primavera e il principio dell’estate del 1297 tanto Giacomo,
quanto Bonifacio avessero ottenuto Ruggero di Lauria alla causa guelfoangioina giunge da un documento del 17 agosto successivo nel quale
vi è l’ordine di Carlo II al secreto della contea di Principato e di Terra
di Lavoro di far rientrare, a spese della Curia angioina e nell’arsenale
di Napoli, e di qui custodire – garantendone, presumibilmente, anche
la manutenzione – le sette galee (o anche tarìde), lasciate nel porto dal
Lauria stesso113. Del passaggio di Ruggero di Lauria alla fazione nemica
era ormai certo anche Federico, poiché è significativo che una settimana
dopo egli provvedesse ad investire Blasco d’Alagona della baronia
siciliana di Ficarra, nel giustizierato di Castrogiovanni, in Val Demone e
111
La notizia viene ripetuta dagli storici cinque-seicenteschi sino a Ernesto Pontieri
e a Salvatore Fodale, che a propria volta riprende il Pontieri (cfr. Fodale, La Calabria
angioino-aragonese, p. 202). Tuttavia proprio il Pontieri che individua precisamente i
toponimi delle località in Nicotera, Mileto, Borrello, tutti nei pressi di Vibo Valenza, e in
Terranova, Grotteria, Badolato e Rocca Niceforo e dice essere le ultime due possedimenti
del conte Pietro Ruffo, non offre indicazioni bibliografiche di fonti (cfr. E. Pontieri,
Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, Napoli 1958, nota n. 9, pp. 226-227).
112
ACA, RC, Cartas Reales Diplomáticas (e da ora CRD) di Giacomo II, caja (e
da ora cj.) 2, n. 334v (25 luglio 1297). Citata solamente nel verso e brevemente riassunta
in Carte reali diplomatiche di Giacomo II d’Aragona riguardanti l’Italia (1291-1327), cur. M.
Scarlata, Palermo 1993, doc. 16, p. 58-61.
113
Documento trascritto in La guerra del Vespro nella frontiera del Principato, in Codice
diplomatico Salernitano del secolo XIII, cur. C. Carucci, II, Subiaco 1934, pp. 539-540, doc.
CDXXXVII.
146
Rosanna Lamboglia
Malacii (Milazzo), che era già di Ruggero, ma che dopo l’esproprio viene
concessa all’Alagona114.
È dunque grossomodo dal luglio del 1297 in poi che vediamo Ruggero
di Lauria votato interamente alla causa guelfo-angioina e impegnato al
fianco di Carlo II nei preparativi o anche già nell’assedio di Catanzaro.
Nell’estate del 1297 e con Giacomo nuovamente rientrato in Catalogna,
l’Angioino cercò infatti di riconquistare col supporto del Lauria proprio
la città di Catanzaro, la quale, tradizionalmente filo-aragonese, sulla
base delle nuove alleanze afferiva al partito siciliano di Federico115. Una
impresa non sufficientemente pianificata o, più verosimilmente, forze
militari inadeguate portarono però Ruggero di Lauria ad una sonora
sconfitta nel confronto con il manipolo guidato da Blasco d’Alagona;
anzi, pare che lo stesso Ruggero venisse ferito nello scontro e fosse
costretto a rifugiarsi a Badolato116.
A seguito della sconfitta, già nell’autunno 1297, l’Ammiraglio
fece vela per la Catalogna117, dove avrebbe dovuto prendere parte alle
operazioni per l’allestimento di quel contingente con il quale Giacomo II
aveva promesso di recuperare l’isola di Sicilia alla Santa Sede e per il quale
aveva già ricevuto numerose quietanze, sebbene egli le ritenesse sempre
insufficienti all’onere – e dunque anche un’ottima ragione pretestuosa
per non muovere guerra a Federico118 – e, all’opposto, da papa Bonifacio
– il quale, invece, per le stesse aveva impegnato le decime – fossero
considerate più che sufficienti, affinché non di dilazionasse oltre l’impresa.
Una minuta di lettera non inviata del 28 ottobre e nella quale Giacomo
114
ACA, RC, P di Giacomo II, n. 856 (27 agosto 1297), trascritto in Acta SiculoAragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, pp. 51-53,
doc. V.
115
Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. IV, c. I, pp. 383-386.
116
Ibid., p. 386. Sulle stesse vicende, cfr. anche Amari, La guerra del Vespro siciliano,
I, p. 520. Lo scontro delle truppe angioino-aragonesi del Lauria e di Goffredo di Milly
avvenne in una località detta Sicopotamo. La fazione siciliana, che stava arroccata nel
castello di Catanzaro, venne presto soccorsa dal sopraggiungere, dalla Sicilia, di Blasco
d’Alagona, Guglielmo Galcerán e Guglielmo Raimondo Moncada. Insieme a Ruggero di
Lauria anche l’ex nemico Enrico Ruffo fu ferito, mentre Galcerán de Moncada rientrava
in possesso di Catanzaro.
117
Qui si trova, infatti, poiché il 30 ottobre 1297, a Teruel, Ruggero di Lauria figura
tra i testes di una carta di privilegio che Giacomo II emanava in favore della moglie,
Bianca d’Angiò (cfr. ACA, RC, Reg. 195, ff. 93r-94v), e a Teruel è ancora il 2 novembre
successivo (cfr. ACA, RC, Reg. 195, ff. 96r-96v).
118
ACA, RC, CR, n. 10179 (28 marzo s. d. [ma 1298]), trascritta anche in Acta
Aragonensia, I, pp. 47-49, doc. 35.
Aspetti della guerra del vespro
147
II richiedeva a Ruggero di Lauria il supporto anche da parte delle forze
napoletane, lascerebbe intendere che il Sovrano contasse invece anche
sull’aiuto delle municipalità napoletane, in particolare, quelle di Salerno
e di Capua119. Ciononostante, sembra che l’allestimento dell’armata
procedesse, sia pure non con la solerzia invocata da Bonifacio.
Sicuramente Ruggero di Lauria è a Valenza il 4 dicembre del 1297,
poiché figura come testimone in una carta semipubblica120, ma qui egli
doveva essere arrivato già da qualche settimana, giacché il 2 dicembre
era stato insignito da Giacomo II del castello di Calp e di Altea, ancora
nel Regno valenzano, con tutti i diritti e le relative pertinenze121. La
concessione, anche in questo caso, non manca di sollevare qualche
sospetto, sia in relazione al consenso di Ruggero di Lauria che Giacomo
patrocinava in maniera sempre più salda, sia in riferimento a quella
faccenda del tutto privata per la quale quelle terre erano state oggetto di
contenzioso tra lo stesso Ruggero e Bernardo di Sarriano, e per la quale
lite il documento acquisterebbe, qui, il valore anche di una sanzione di
uno stato di fatto, esistente dalla disputa in poi a tutto favore del Lauria.
Appena due giorni dopo – il 4 dicembre – Giacomo II concede
ancora a Ruggero il privilegio speciale del potere esclusivo sulle terre già
infeudate di Cocentaina, di Alcoy, di Seta, di Calp, di Altea, di Navarrés
e nella località detta Podio di S. Maria Beselga (o Buselcam)122 e in
Castronovo (Castelnou), tutte ancora nel Regno di Valenza123.
Al dicembre 1297, poi, l’Ammiraglio è ancora tra i creditori personali
di Giacomo, se questi nello stesso giorno del precedente documento ne
redige un secondo nel quale afferma di dover restituire a Ruggero di
Lauria una somma per la compravendita del castello valenzano di Mont
Torres e stabilisce anche le relative clausole accessorie in caso di morte
di Ruggero o di mancato pagamento del debito residuo124. A Valenza
e per un lungo periodo, Ruggero di Lauria è dunque con Giacomo
119
ACA, RC, CR, cj. 1, n. 318 (28 ottobre 1297). Riassunta e trascritta, relativamente
alla nota al margine inferiore della minuta di circolare non inviata, in Carte reali diplomatiche
di Giacomo II d’Aragona riguardanti l’Italia (1291-1327), p. 59.
120
ACA, RC, Reg. 195, ff. 99v-100r (4 dicembre 1297), concernente la concessione
da parte di Giacomo II ad un certo Pietro di Claperio di un casale a mulino nel Regno
di Valenza.
121
ACA, RC, Reg. 195, ff. 100v-101r (2 dicembre 1297).
122
Diccionario de historia medieval del Reino de Valencia, cur. J. Hinojosa Montalvo,
València 2002, 4, p. 89.
123
ACA, RC, Reg. 195, f. 101r (4 dicembre 1297).
124
ACA, RC, Reg. 195, f. 101v (4 dicembre 1297).
148
Rosanna Lamboglia
II e la cosa non può non far ritenere che parte dell’allestimento della
flotta si realizzasse anche nei cantieri valenzani, oltre che negli arsenali
di Barcellona125. A breve e con una nuova flotta, l’Ammiraglio avrebbe
fatto nuovamente ritorno in Sicilia, ponendosi alla testa della campagna
militare che dal febbraio 1298 riprese le operazioni di guerra nel Regno
di Sicilia.
La nuova spedizione era infatti solo formalmente guidata da
Giacomo, poiché egli era rimasto nei domini della Corona d’Aragona,
dove era alle prese con la seconda campagna di Murcia (1298-1300),
come ben conferma un diploma emanato durante l’assedio del Castello
di Alhama, il 23 gennaio 1298, in cui rende, per istanza di Ruggero
di Lauria, franchi, liberi ed immuni da dazi e pedaggi gli abitanti di
Cocentaina e di Alcoy per tutto il regno di Murcia e per ogni singolo
luogo del Regno, sia per terra che per mare126. Giacomo II avrebbe
infatti raggiunto il resto dell’armata solamente in un secondo momento.
Egli aveva infatti previsto il ritorno nel Regno di Sicilia nella primavera
del 1298, secondo quanto affermava ancora in un documento del 23
gennaio dello stesso anno e nel quale ringraziava Guglielmo di Entença
del fatto di aver saputo tramite Ruggero di Lauria che anche l’Enteça
avrebbe fatto parte del contingente militare nell’imminente viaggio127,
insieme con altri accoliti128, non necessariamente nobili129.
Per la circostanza della campagna militare primaverile in Sicilia,
Giacomo aveva infatti dato ampio potere a Ruggero di Lauria sia per quanto
125
Il 9 gennaio 1298, Ruggero di Lauria è ancora a Valenza. Circa le localizzazioni
dell’Ammiraglio, i Regg. 195 e 196 forniscono un numero significativo di documenti
in cui egli figura tra i testes. Qui, valga solo la segnalazione, in quanto l’itinerario di
Ruggero sarà oggetto di un articolo separato con particolare riferimento al contesto
catalano-valenzano.
126
ACA, RC, Reg. 256, ff. 4v-5r (23 gennaio 1298). Il medesimo documento viene
inviato anche agli ufficiali incaricati della riscossione dei dazi e delle gabelle del Regno di
Murcia: ACA, RC, Reg. 256, f. 5r (23 gennaio 1298).
127
ACA, RC, Reg. 256, f. 2r (23 gennaio 1298).
128
ACA, RC, Reg. 117, ff. 161r-161v. Il documento datato 10 giugno 1300 (illeggibile
il luogo) riferisce di alcuni nomi che il procuratore di Ruggero di Lauria, Giacomo di
Guardia, deve risarcire per avere accompagnato Giacomo II nel viaggio in Sicilia. I nomi
di Rodrigo Jiménez [de Luna], Pietro [Jimènez di Aglos], Pietro Gerrerio di [Aglos],
Pietro di Luy, Bernardo Astorii si leggono con qualche difficoltà nella parte iniziale del
documento, mentre il restante contenuto è indecifrabile, anche in originale, nella parte
centrale e finale per deterioramento, dovuto a macchie da inchiostro a tinta ferruginosa.
129
ACA, RC, Reg. 256, f. 2r (il secondo di una serie di tre documenti sul foglio, tutti
relativi a Ruggero di Lauria e datati il 23 gennaio 1298).
Aspetti della guerra del vespro
149
riguardava il reclutamento di uomini e mezzi, sia per quanto competeva
l’esazione delle somme necessarie, come del resto bene attestano la
serie di tre documenti consecutivi che Giacomo, sempre il 23 gennaio,
emanava ancora dall’assedio di Alhama e nei quali ordinava, per esempio,
a tutti i marinai di Barcellona di seguire i comandi dell’Ammiraglio130 e a
tutti gli ufficiali del Regno, a cui perveniva la comunicazione, di essere al
Lauria di aiuto e di giovamento nelle operazioni volte all’approntamento
dell’armata131.
Le serie documentali qui esposte e l’interconnessione di queste con il
passo della cronaca di Bartolomeo di Neocastro da cui s’è principiato – e
nel quale è affermata la necessità di una difesa militare della Sicilia, da
affidare ancora a Ruggero di Lauria – fanno comprendere meglio e non
più unicamente su base cronachistica come proprio la determinazione del
Lauria di aderire al partito guelfo-angioino di Giacomo II comportasse
il necessario distacco da Federico. Agli occhi di Federico infatti Ruggero
non poté non risultare che responsabile de inlegalitate et prodicione quod ipse
abnegata fide et dominio nostris ruptoque homagio et violato sacramento quod nobis
tamquam vassallus naturalis domino ore et manibus prestitit et iuravit (…)132.
L’Ammiraglio pertanto ben meritava non solamente l’esproprio dei
possedimenti, bensì anche il processo per fellonia che, a partire dal
febbraio del 1298, proprio Federico gli mosse133.
Il documento col quale re Federico designò come suo procuratore il
catalano Ramon Folch nel processo contro Ruggero di Lauria consente
di conoscere il capo d’imputazione dell’accusa. Esso consiste nel reato
di alto tradimento e di lesa maestà per essere Ruggero venuto meno alla
fedeltà vassallatica cui era tenuto in quanto vassallo delle terre siciliane,
130
ACA, RC, Reg. 256, f. 2v (23 gennaio 1298).
ACA, RC, Reg. 256, f. 2v (il secondo di una serie di tre documenti sul foglio
relativi a Ruggero di Lauria e con la medesima data del 23 gennnaio 1298).
132
ACA, RC, P di Giacomo II, n. 1003 (Palermo, 9 febbraio, s. d. [ma 1298]),
trascritto anche in Acta Siculo-Aragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e
Giacomo II d’Aragona, pp. 58-59, doc. X. Trattasi però di un documento già noto a F.
Testa, De vita et rebus gestis Federici II Siciliae regis, Palermo 1775, p. 248, doc. XIII) e, in
regesto, a Domenico Schiavo: Documenti relativi all’epoca del Vespro, tratti dai manoscritti di
Domenico Schiavo, p. 51, doc. 74. L’accusa di tradimento tuttavia risaliva a qualche mese
prima, poiché era già espressa nella concessione del feudo di Ficarra a Blasco d’Alagona:
ACA, RC, P di Giacomo II, n. 854 (27 agosto 1297), trascritto anche in Acta SiculoAragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, pp. 52, doc. V.
133
ACA, RC, P di Giacomo II, n. 1003 (9 febbraio, s. d. [ma 1298]), ma trascritto
pure in Acta Siculo-Aragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II
d’Aragona, pp. 58-59, doc. X.
131
150
Rosanna Lamboglia
nonché nel reato di cospirazione ai danni della Corona siciliana, essendosi
il Lauria alleato con i nemici e per aver mosso guerra contro Federico e
la gente siciliana, al fine di procurare al Sovrano la perdita e dell’onore
e del Regno di Sicilia. Ciò era più che sufficiente a che Federico potesse
sfidare a duello Ruggero e dichiarargli guerra secundum usum Barchinone –
gli Usatica di Barcellona – seu forum et consuetudinis Aragonie134, secondo le
modalità cioè di una contrapposizione che è anche personale di Federico.
Non si conoscono gli esiti della vicenda per la quale il Folch fu
designato procuratore, tuttavia Ruggero di Lauria continuò per tutto
il 1298 a fare la spola tra la Sicilia, il Regno angioino di Napoli e la
Catalogna, sia per sovrintendere all’incarico dell’armata135, sia anche per
le molte vertenze che continuamente lo investivano e minacciavano nei
possedimenti valenzani e nelle isole di Gerba e di Cercina (Kerkennah)136.
Sino infatti alla conclusione della guerra (1302) Ruggero di Lauria poté
contare sull’appoggio incondizionato sia di Giacomo II, sia di Bonifacio,
il quale con la tempestività con cui lo si è visto agire anche per ciò che
concerne le relazioni con Ruggero, proprio ora le casse dell’Ammiraglio
rimpinguava con una nuova bolla. Nel luglio del 1298, a Ruggero, ai suoi
figli e ai suoi vassalli, il Pontefice concede infatti per un valore annuo
pari a trecento libbre di denari barcellonesi o cento once d’oro le decime
ecclesiastiche delle terre e dei possedimenti dell’Ammiraglio, nel Regno
di Valenza, e quanto in queste solitamente riscosso in natura137.
Insomma, la documentazione valenzana – in particolare, le bolle di
Bonifacio VIII – conferma ancora una volta la conclusione – a cui si è
già giunti altrove138 – che la guerra del Vespro siciliano divenne, dal 1295
in poi, sempre più una questione di prospettive differenti: la siciliana,
l’aragonese, la guelfa e l’angioina. A queste si aggiungevano le molte
134
Ibid.
Ruggero è infatti nuovamente a Valenza il 13 aprile del 1298, poiché figura tra i
testes di una carta semipubblica: ACA, RC, Reg. 196, f. 196r.
136
In proposito, la vicenda è ricostruita nella tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero
di Lauria.
137
ACV, P, n. 714 (25 luglio 1298). Un regesto della pergamena è in Olmos y
Canalda, Pergaminos, p. 107, doc. 868, mentre parte del contenuto si trova anche in RB,
III, p. 451, doc. 3147 (25 luglio 1298). Quest’ultimo è però un documento differente,
trattandosi di una lettera di curia inviata al vescovo Valentino affinché corrisponda, nel
Regno di Valenza, l’importo annuo delle decime a Ruggero di Lauria. Nella lettera, sono
poi indicate altre disposizioni a cui il vescovo Valentino e i suoi successori anche pro
tempore si devono attenere nel mandare ad effetto la concessione.
138
Cfr. Lamboglia, Aspetti della guerra del Vespro.
135
Aspetti della guerra del vespro
151
prospettive personali all’interno e all’esterno dell’isola di Sicilia, delle
quali la vicenda di Ruggero di Lauria è esemplare. Ciascuna di esse aveva
una particolare e fondata ragion d’essere a seconda dell’osservatorio
politico: ciascuno dei protagonisti però era invariabilmente soggetto alle
leggi del contingente e dell’immediato, nonostante le vicende pregresse
della guerra li avessero in qualche misura vincolati gli uni agli altri.
DUE CASTELLI MEDIEVALI IN TERRA D’IRPINIA:
AVELLA E SUMMONTE*
Giovanni Coppola - Carmine Megna
1. Il castello di Avella: ricerche storico-architettoniche
1.1. Rapporti ambientali
Il castrum di Avella è ubicato a m 320 s.l.m. alla destra del fiume Clanis, su una delle propaggini collinari dell’Appennino campano che delimitano ad est la pianura di Napoli. La sua posizione riveste una notevole
importanza strategica per il controllo del territorio circostante e di una
via naturale che, attraverso il passo di Monteforte Irpino, mette in comunicazione la piana campana con la valle del Sabato e quindi con la Puglia.
Il primo insediamento fortificato longobardo dovrebbe risalire al
VII secolo quando Avella faceva parte del Ducato di Benevento1.
A seguito della Divisio Ducatus Beneventani (849), voluta dall’imperatore Ludovico II, Avella fu assegnata al principato di Salerno2 e la roccaforte si ritrovò ai confini del Ducato bizantino di Napoli, del Ducato
longobardo di Capua e del Principato longobardo di Benevento3.
All’epoca longobarda risale la cinta muraria più interna del sito, di
forma ellittica. Le mura erano guarnite da torri di varie forme, di cui
*
Giovanni Coppola ha scritto sul castello di Avella (pp. 155-167), Carmine Megna
sul maniero di Summonte (pp. 167-179). Il rilievo è di G. Coppola e C. Megna. Disegni
e fotografie sono di C. Megna.
1
H. Hirsh, Il ducato di Benevento, in H. Hirsh - M. Schipa, La longobardia meridionale
(570-1077), cur. N. Acocella, Roma 1968, pp. 53-60.
2
Il trattato di divisione del ducato di Benevento è pubblicato in MGH, Leges IV, ed.
H. Hoffmann, Hannover 1980, pp. 221-225.
3
Sulle vicende dell’epoca longobarda si veda Erchempertus, Historia Langobardorum
Beneventanorum, in MGH SS. rer. Lang. et Ital., ed. G. Waitz, pp. 231-265; inoltre, il testo
con traduzione italiana (che qui verrà seguito) Erchemperto, Historia Langobardorum (sec.
IX), cur. A. Carucci, Salerno 1995.
154
Giovanni Coppola - Carmine Megna
Fig. 1. Il recinto fortificato di Avella
nove parzialmente superstiti ed una decima, ancora visibile, inglobata
nell’angolo settentrionale della rocca. All’epoca normanna risale la realizzazione della seconda cinta muraria di forma poligonale, rafforzata da
nove torri con porta carraia a sud-est, e del donjon. Con il passar del tempo, ulteriori ristrutturazioni sia della cinta che delle torri furono operate
dagli Svevi. In epoca angioina fu realizzata la possente torre circolare su
base troncoconica annessa alla rocca. Nei secoli successivi l’impianto si
stratificò ulteriormente sino al definitivo abbandono avvenuto agli inizi
del XVII secolo in favore dell’area dell’antica città romana di Abella, collocata, rispetto alla collina del castello, sull’altra sponda del fiume Clanis
a m 210 s.l.m.
L’importanza strategica, così come l’ubicazione della cinta fortificata
con annesso castello, fu sicuramente il principale motivo a cui direttamente si collegano le numerose vicende storiche che verranno, sia pur
sommariamente, delineate di seguito.
1.2. Notizie storiche
Le prime fasi di vita dell’antica Abella, corrispondente all’attuale
centro di Avella, risalgono alla fine dell’VIII - inizi del VII secolo a.C.4
L’insediamento, localizzato lungo un itinerario naturale che metteva in
collegamento le città elleniche della costa campana con l’Irpinia, svolse
un ruolo di mediatore tra le civiltà e le culture dell’interno e del litorale.
4
T. Cinquantaquattro, Abella, un insediamento della mesogaia campana, «Annali dell’Istituto Orientale di Napoli» 7, 2000, pp. 61-85.
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
155
Fig. 2. Avella, vista parziale del castello
Il periodo di magnificenza dell’insediamento è da porre in un arco temporale compreso tra la fine del II secolo a.C. e il I secolo d.C. ed è altresì
probabile che la città ospitò una colonia all’epoca di Silla (I sec. a.C.).
Abella, munita in epoca sannitica di una rete viaria regolare e di un
sistema difensivo, in età tardo-repubblicana fu delimitata da una cinta
muraria, realizzata in opus incertum, di cui sono visibili alcuni tratti nella
zona dell’anfiteatro. Quest’ultimo fu edificato nel I secolo a.C., in opus
reticolatum, in luogo di precedenti abitazioni sannitiche. Attualmente l’anfiteatro è visitabile e si presenta in discrete condizioni conservative anche
se manchevole della summa cavea. L’abitato occupava una superficie di circa 25 ettari, era cinto da mura di difesa ed aveva ad oriente e ad occidente
due vaste aree di necropoli utilizzate senza soluzione di continuità fino
al periodo tardo-antico5.
Le molteplici campagne di scavo archeologico hanno portato alla
luce una ricca documentazione che abbraccia un ampio arco temporale.
Recentemente in località “Santissimo” la ricerca archeologica ha interessato un’area a destinazione pubblica di epoca imperiale, già parzialmente
scavata da Werner Johannowsky6. In particolare gli scavi, condotti tra il
2004 ed il 2005, sono stati finalizzati all’esplorazione del cosiddetto criptoportico. Si tratta di un ambiente interrato di forma rettangolare, orientato in senso NO-SE, avente larghezza di 2,40 m, lunghezza indagata di
5
T. Cinquantaquattro - D. Camardo - F. Basile, Il castello di Avella (AV): le indagini
archeologiche sulla rocca, in Atti III Congresso nazionale di Archeologia Medievale, Firenze 2003,
pp. 355-361.
6
W. Johannowsky, Archeologia, in Avella. Appunti e note, Avella 1979, pp. 17-28.
156
Giovanni Coppola - Carmine Megna
Fig. 3. Avella, planimetria generale del castello a quota + 15,00
13,00 m, altezza interna 3,00 m, le cui pareti conservano gli intonaci e la
volta a botte di copertura è realizzata con blocchi di tufo. La presenza
di depositi vulcanici risalenti alla cosiddetta eruzione di Pollena ha con-
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
157
sentito di stabilire, in analogia con quanto riscontrato in altre parti della
città, che il sito è stato abbandonato in età tardo antica7.
Lungo i limiti della necropoli occidentale, a breve distanza dal fiume
Clanis, tra il 2001 ed il 2003, è stato portato alla luce un sepolcreto utilizzato in un lungo arco temporale compreso tra la fine del V ed il II secolo
a.C. Si tratta di quaranta sepolture di cui solo tredici integre e cinque
parzialmente depredate da scavi clandestini. In particolare, sono state
rinvenute sepolture a fossa, tombe a cassa di tufo a copertura piana ed a
doppio spiovente, tombe a cassa di tegole ed alla cappuccina8.
Tra il 2003 ed il 2005, nella necropoli orientale, in località S. Paolino,
sono stati condotti scavi in tre distinti settori ubicati a poca distanza
dall’anfiteatro e dalle mura della città. In un caso sono state portate alla
luce cinquantasette sepolture del tipo a fossa ed a cassa di tufo, presumibilmente di età ellenistica (IV-III a.C.), purtroppo per la gran parte depredate. Il nucleo funerario risulta delimitato a sud da una strada in terra
battuta il cui orientamento è congruente con quello degli assi viari della
città romana. La strada, indagata per una lunghezza di circa 30 m, presenta una larghezza di 2,50 m ed è databile tra il I secolo a.C. e il I secolo
d.C. A sud dei summenzionati interventi, è stato individuato un ulteriore
frammento della necropoli monumentale che, tra l’età tardo ellenistica e
l’inizio dell’età imperiale, si è sviluppata lungo un asse stradale nord-sud
parallelo alla cinta fortificata romana. Sono state portate alla luce quattro
tombe a cassa di tufo che segnano il limite della necropoli sannitica e due
tombe a camera semipogee già depredate e prive della copertura9.
Il processo di disgregazione di Abella iniziò nel corso del IV secolo.
Infatti da un’iscrizione rinvenuta a Cimitile si ricava che Barbaro Pompeiano, consolare della Campania, nel 333 è celebrato per aver promosso
lavori di ricostruzione, estraendo i materiali dalle cave e non dai monumenti in stato di abbandono. Le scarse e sporadiche notizie riportate
dalle fonti fanno ritenere che l’abitato si sia ben presto disgregato in
piccoli nuclei interni all’attuale centro storico che hanno mantenuto una
continuità insediativa almeno sino al V secolo10.
7
Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, p. 355.
T. Cinquantaquattro - S. V. Iodice - A. Guarino, Alta-media Valle del Clanis, «Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento»
1, 2005, p. 23.
9
Cinquantaquattro - Iodice - Guarino, Alta-media Valle del Clanis, pp. 24-25.
10
Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, p. 355.
8
158
Giovanni Coppola - Carmine Megna
Le scorrerie compiute dai barbari di varia stirpe accentuarono il
processo di spopolamento del territorio, cui peraltro contribuirono gli
eventi vulcanici verificatisi tra la fine del V e l’inizio del VI secolo. L’esito
finale di questo lungo iter comportò il definitivo abbandono della città
romana in favore del nuovo insediamento sulla collina del castello, per la
quale, allo stato attuale della ricerca, è possibile ritenere che vi sia stato
un primo insediamento stanziale tra il V ed il IV secolo a.C.
Il sito medievale è stato oggetto di indagini archeologiche condotte
in tre distinte fasi dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle
province di Salerno, Avellino e Benevento11.
Un primo insediamento longobardo di carattere militare fu, probabilmente, edificato nel VII secolo come baluardo contro il Ducato bizantino di Napoli ed a controllo della strada per Avellino e Benevento. Le
prime notizie del castrum avellano, riportate nell’Historia Langobardorum di
Erchemperto risalgono alla seconda metà del IX secolo e sono relative
alle incursioni ed agli attacchi cui fu sottoposto, come quella compiuta
dagli Aghlabidi dell’Ifriqiya (Tunisia medievale) nell’883-88412. Nell’887
le truppe bizantine di Napoli, guidate da Atanasio, attaccarono e presero
Avella imprigionando Landolfo, gastaldo di Suessola, che era stato lasciato al comando del castello da Guamario I di Salerno13.
Nella Chronica monasterii Casinensis è riportata la notizia del saccheggio
del sito operato dagli Ungari nel 93714.
La cinta muraria più interna del sito di forma ellittica che ingloba
un’area di circa 10.000 mq è stata datata all’epoca longobarda. Le mura
erano guarnite da torri di varie forme, in parte rimaste. Sulla scorta delle
risultanze delle recenti campagne di scavo archeologico, è possibile asserire che il sito era dotato di una rocca di cui il muro in grossi blocchi
squadrati di materiale calcareo, posto a sud del muro nord-occidentale
11
Nel 1987, in occasione di lavori di restauro alla cinta muraria esterna, sono stati
condotti una serie di saggi esplorativi; tra il 2000 ed il 2001, sono state condotte campagne sistematiche sull’area del mastio; nel 2005 è stata intrapresa una campagna sia alla
rocca che alla cinta muraria longobarda. I risultati delle tre campagne di scavo sono stati
pubblicati rispettivamente in M. A. Iannelli, Per uno studio del castello di Avella: il contributo
della ricerca archeologica, in Il restauro dei castelli dell’Italia Meridionale, cur. R. Carafa, Caserta
1989, pp. 159-175; Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, pp. 355361; Cinquantaquattro - Iodice - Guarino, Alta-media Valle del Clanis, pp. 23-26.
12
Erchemperto, Historia Langobardorum, p. 64. Sull’arte e sull’architettura tunisina di
quel periodo si veda L. Hadda, Nella Tunisia medievale. Arte e architettura islamica (IX-XVI
secolo), Napoli 2008.
13
Erchemperto, Historia Langobardorum, p. 71.
14
Chronica monasterii Casinensis, in MGH, SS 34, ed. H. Hoffmann, Hannover 1980,
I, 55, pp. 140-141.
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
159
dell’attuale donjon, ne era parte. Tale struttura muraria, grazie alle indagini archeologiche, è stata datata tra la fine del X e l’inizio del XI secolo.
Alla stessa fase costruttiva sono da ascrivere una cisterna ubicata a breve
distanza ed un ambiente di forma trapezoidale addossato alla cortina
muraria15.
A seguito dell’avvento dei Normanni, nel secolo XI, iniziò la capitolazione degli stati della Longobardia meridionale. Il primo feudatario
normanno, di cui si ha notizia da un documento del 1087, è Aldoynus
francus comes de Abelle et unus ex militibus Abersano16.
Incerta è la discendenza di Aldoino dal cavaliere Turoldo Mosca,
giunto ad Aversa nella seconda metà dell’XI secolo. Tuttavia dalle fonti documentarie si rileva che nel 1129 il feudo non era più guidato da
Aldoino ma da Rainaldo, figlio di Riccardo detto Mosca. Dal Catalogus
Baronum17 apprendiamo che Rainaldo possedeva diciassette feudi tra cui
Avella. Il toponimo non è esplicitamente indicato, ma il feudo è stato
individuato dal Cuozzo e, successivamente, dal Colucci.
La famiglia Mosca ebbe il possesso del feudo per tutto il periodo
normanno e lo mantenne anche durante il periodo svevo18. Infatti da un
documento del 1237 si evince che Rainaldo III Mosca, indicato come
Raynaldus de Avella, è tra i baroni cui Federico II affidò in custodia dei
prigionieri dopo la battaglia di Cortenuova che segnò la sconfitta, nel
novembre 1237, della seconda Lega lombarda19.
I dati archeologici ricavati dalle indagini del 198720 fanno risalire all’epoca normanna (XI - XII secolo) l’impianto della cinta muraria esterna
di forma poligonale, guarnita con nove torri, che ingloba un’area di circa
21.000 mq ed evidenziato l’esistenza di interventi di ristrutturazione nel
corso del XIII secolo. Le successive indagini hanno consentito di datare
l’impianto dell’attuale donjon o mastio tra la metà del XII e l’inizio del
XIII secolo e inoltre di definire le varie fasi costruttive di tutta la parte
alta del complesso, dal X al XVII secolo. Naturalmente la veste attuale
15
P. Peduto, Torri e castelli longobardi in Italia Meridionale: una nuova proposta, in Castelli
storia e archeologia, Relazioni al convegno di Cuneo (8-10 dicembre 1981), cur. R. Comba A. Settia, Cuneo 1984, pp. 391-399.
16
Regii Neapolitani Archivi Monumenta edita ac illustrata, V, Napoli 1857, pp. 119-120.
17
Catalogus Baronum, ed. E. Jamison, Roma 1972.
18
G. Coppola - G. Muollo, Castelli medievali in Irpinia, Milano 1994, p. 18.
19
J. L. Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi, V, Paris 1857, p.
613. Per un approfondimento sulla guerra in età medievale, si veda: G. Settia, Rapine,
assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Roma - Bari 2002.
20
M. A. Iannelli, Per uno studio del castello di Avella: il contributo della ricerca archeologica,
in Il restauro dei castelli, pp. 159-175.
160
Giovanni Coppola - Carmine Megna
delle diverse cinte fortificate e del castello è il risultato della stratificazione dei vari interventi.
Con il passaggio del potere agli Angioini, il re Carlo I confermò il
possesso della contea alla famiglia de Avella nella persona di Rainaldo IV.
Quest’ultimo svolse importanti missioni diplomatiche per la corte ed ottenne, nel 1294, la nomina a grande ammiraglio del regno.21 Quando nel
1371 morì Francesca de Avella, ultima discendente della famiglia Mosca,
il feudo passò ad Amelio del Balzo, suo secondo marito.
La figlia di Amelio del Balzo, Giovanna, sposò Nicola Ianvilla al
quale portò in dote il feudo, il cui possesso fu confermato dalla regina
Giovanna I nel 1380.
Dai registri della Cancelleria angioina, studiati dal Filangieri, si evince
che durante il XIII secolo le mura ed il territorio ospitavano una comunità attiva ed attenta alla manutenzione del castello che risulta inserito in
una linea difensiva. E proprio al periodo angioino è da ascrivere la realizzazione del possente torrione circolare, su base leggermente scarpata,
collegato al mastio e funzionale per coprire l’ala nord-est, attuando una
difesa di fiancheggiamento che si aggiungeva a quella frontale esercitata
dalla rocca22.
Nel 1432 il possesso di Avella passò a Raimondo della famiglia Orsini, conti di Nola, che la tennero sino al 1529. Al capostipite successe il figlio naturale Felice, che nel 1459, avendo parteggiato per gli Angioini, fu
privato di tutti i suoi beni. Con gli Orsini iniziò la decadenza del castello,
che subì ingenti danni dovuti sia alle guerre interne che ai terremoti del
1456 e del 1466. Un documento spagnolo del 1529, conservato all’Archivio di Simancas, ricorda il sito fortificato come: «forteleza con una
21
F. Scandone, Rainaldo IV d’Avella grande ammiraglio di Carlo II d’Angiò e un celebre
processo politico del primo decennio della guerra dei Vespri Siciliani, «Rivista Storica del Sannio»
3, 1917, pp. 7-12; pp. 9-15.
22
La torre circolare, già presente in Francia e nell’Italia del Nord, fu introdotta
nel meridione d’Italia in età angioina e si diffuse rapidamente. Tra gli altri si vedano: J.
Mesqui, Châteaux et enceintes de la France médiévale, I, Paris 1991, p. 162-171; L. Santoro,
Castelli angioini e aragonesi nel regno di Napoli, Milano 1982, p. 45-52; R. Licinio, Castelli
medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo d’Angiò, Bari 1994, pp. 228246. Inoltre il passaggio del regno nelle mani degli angioini definirà in termini ancora più
complessi le attribuzioni e le competenze dei funzionari burocratici del settore castellare
introdotte da Federico II. Per un approfondimento si veda: E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo d’Angiò, cur. H. Houben, Bari 1995
(ed. or. Leipzig 1914).
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
161
terra iunta disabitata; sobre un monte sta el castello, maltratado dunque
antiquamente era bello y grande»23.
Dal 1530 al 1534 Avella fu tenuta da Girolamo Pellegrino, dal quale
passò ai Colonna. Questa famiglia contribuì all’abbandono del centro
medievale, edificando il palazzo baronale nel borgo interno al perimetro
della città antica.
Il feudo, dopo alcune compravendite, passò a Carlo Spinelli, conte
di Seminara24. Da un’epigrafe conservata nel Palazzo Ducale di Avella,
originariamente posta sulla facciata del castello, si apprende che Pietro
Spinelli, nel 1553, restaurò la fortezza. Tra gli interventi si segnala l’adeguamento della rocca alle nuove esigenze di difesa conseguenti all’utilizzo delle armi da fuoco, mediante la costruzione del bastione a punta
nell’angolo meridionale munito di basse terrazze protette da parapetti. È
altamente probabile che il bastione lanceolato inglobi una preesistente
torre quadrangolare, mentre dall’indagine archeologica è accertato che la
sua realizzazione ha comportato l’obliterazione di una porta attraverso
la quale erano in comunicazione il mastio e l’area interna alla prima cinta
muraria. Tuttavia l’intervento di restauro non comportò l’instaurarsi di
un consistente e duraturo insediamento, infatti nel 1603 si contano entro
le mura cento fuochi disabitati e distrutti.
Tra il 1578 ed il 1604 tenne il feudo Ottavio Cataneo, dal quale passò alla famiglia Doria del Carretto che lo tenne sino all’eversione della
feudalità (1806)25.
Da un apprezzo della terra di Avella, redatto nel 1603 da Alfonso Siviglia, apprendiamo che: «Vi è … sopra un monte dalla parte di occidente lo castello con la cittadella e palazzo … nel quale vi è una torre grande
con cartiglio. Una sala con otto camere in piano e molta altra comodità.
Questa cittadella è murata con dodici altre torrette attorno dette mura
per combattere e dentro vi sono da circa cento fochi distrutti e disabitati.
Vi è anco la Parrocchia e cisterna grandissima, … lo quale castello è fatto
23
F. Cordella, A guardia del territorio. Torri, castelli e fortezze. Il castello di Avella,
«Campania Felix» 9, 1997, p. 58.
24
G. Muollo - G. Coppola, I castelli, in Storia illustrata di Avellino e dell’Irpinia, II,
Pratola Serra 1996, p. 433.
25
Sulle leggi volute da Giuseppe Bonaparte per abolire la feudalità nel Regno di
Napoli, tra gli altri, si vedano: P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962; M.
Palumbo, I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità: feudi, università, comuni,
demani, Montecorvino Rovella - Cerignola 1910-1916.
162
Giovanni Coppola - Carmine Megna
con grande artificio con mura altissime e grossissima spesa … vi sta lo
castellano e vi si ponevano li carcerati di mala vita»26.
Non molto tempo dopo il castello fu definitivamente abbandonato:
una conferma in tal senso deriva dal rinvenimento, in occasione delle
indagini archeologiche27, di un deposito di cenere vulcanica ascrivibile
all’eruzione del Vesuvio del 1631.
1.3. Notizie architettoniche
Si giunge all’area del complesso fortificato procedendo lungo una
stradina carrabile, non asfaltata, denominata via dei Normanni.
Del sito fortificato restano due ordini di mura concentriche degradanti sul pendio della collina, il mastio posto sulla sommità della collina
con annesso torrione cilindrico ed ambienti interni alle mura.
Le due cinte murarie si articolano con cammini di ronda e sono collegate da torri. II circuito di mura più esterno, di forma poligonale, presenta uno sviluppo di circa 600 m ed ingloba un’area di circa 21.000 mq.
La cinta interna, di forma ellittica, ha uno sviluppo di circa 300 m ed
incorpora una superficie di circa 10.000 mq.
Le mura della cinta interna, di epoca longobarda, erano guarnite da
torri. Ne restano nove in parte superstiti, oltre a una decima, che come
già evidenziato, è inglobata nell’angolo settentrionale del mastio. Delle nove torri che si conservano, cinque sono di forma troncoconica e
quattro di aspetto troncopiramidale. La scarpata è molto accentuata e
spesso irregolare. La tessitura muraria della cinta e delle torri mostra una
particolare tecnica costruttiva omogenea, caratterizzata dall’utilizzo di
scaglie irregolari di pietra calcarea cavate dallo stesso colle e disposte in
maniera similare all’opus incertum. Dall’osservazione della tessitura si evince che sono stati impiegati sporadicamente anche materiali di spoglio,
come blocchi di tufo e pezzi di calcare sagomato. In ordine alla morfologia delle torri, si riporta un passo pubblicato da Paolo Peduto che recita
testualmente: «esaminandone in particolare una a base quadrata larga
metri 4,30 sporgente dalla cortina per circa metri 4,00, alta metri 6,00, si
nota l’inclinazione non costante della scarpa» e la mancanza «di saettiere o di vani che permettessero la difesa dall’interno». La rastremazione
della torre sembra più «utile ad una ricerca di stabilità statica che per
una difesa piombante di rimbalzo, d’altro canto impossibile data l’esigua
26
27
Coppola - Muollo, Castelli medievali in Irpinia, p. 18.
Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, p. 360.
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
163
altezza delle torri». In ultima analisi si tratta «di fortificazioni» adatte «per
una difesa passiva, per tenere» su una sentinella, «non per resistere ad
oltranza»28.
La cinta più esterna, d’impianto normanno e ad andamento poligonale, è stata oggetto di rimaneggiamenti in epoca sveva ed aragonese.
Presenta una porta carraia nell’angolo sud-orientale e nove torri di cui
otto quadrangolari ed una, posta nell’angolo sud-occidentale, di forma
pentagonale. Le torrette sono costituite da due livelli e munite di strette
fessure per la difesa. In alcune parti della cinta si riconoscono cammini
di ronda, parapetti e merlature. L’indagine archeologica del 1987 ha fissato al X-XI secolo la realizzazione, evidenziando altresì degli interventi
di ristrutturazione durante il XIII secolo. La cinta muraria presenta una
tessitura eseguita con l’uso di pietrame di grosse dimensioni spesso utilizzato ad opera incerta. I conci di pietra sono disposti secondo la pendenza del terreno. Anche le torri rispondono a questa logica, anche se in
esse i ricorsi di pietrame tendono a diventare regolari e ad essere disposti
orizzontalmente. Inoltre si nota un’alternanza di ricorsi realizzati con
pietrame di grossa dimensione e di ricorsi di regolarizzazione costituiti
da pietre di dimensioni inferiori, secondo una tecnica a cantieri. Sono
visibili tracce di intonaco. Il settore sud della cinta muraria è pressoché
realizzato secondo l’andamento di un’unica curva di livello. Nella parte
più elevata della cinta muraria occidentale è ubicata una torretta, verosimilmente rimaneggiata ed ornata da archetti pensili in età aragonese29.
La sommità della collina (320 s.l.m.) è occupata dall’imponente
mastio trapezoidale molto stratificato, di fondazione normanno-sveva
(metà XII – inizio XIII secolo) su preesistenze, con annesso torrione
cilindrico su base troncoconica di epoca angioina sul tipo di quello di
Summonte. Della rocca restano due possenti muri disposti ad angolo,
alla cui sommità si è mantenuto quasi intatto il cammino di ronda protetto dalla merlatura residua ed una serie di ambienti, poco conservati in
elevato, che si articolano intorno alla corte.
Il muro nord-occidentale, lungo circa 32,50 m ed alto circa 22,30 m,
termina con una torre a pianta rettangolare parzialmente conservata in
alzato. Lungo il prospetto interno si notano i fori di alloggiamento delle
28
P. Peduto, Il quadro della ricerca archeologica altomedievale nella regione dei principati di
Salerno e di Capua, in Mercato San Severino e la sua storia, Incontro di studi Fisciano-San
Severino (15-16 novembre 2001), cur. A. Musi, A. Settia, P. Peduto, L. Rossi, Salerno
2003, p. 18.
29
Coppola - Muollo, Castelli medievali in Irpinia, pp. 20-22.
164
Giovanni Coppola - Carmine Megna
travi dei solai e quattro aperture che davano luce al secondo livello degli
ambienti retrostanti non più esistenti. Una delle aperture è stata tamponata sul lato esterno prima dell’abbandono del sito.
Il fronte nord-est, lungo circa 21,00 m ed alto circa 20,50 m, presenta nei pressi del torrione, a circa 6,00 m dal piano di calpestio, la porta
principale del castello raggiungibile da un ponte levatoio scomparso. Il
dislivello con il piano stradale era superato, probabilmente, con una rampa o con un avancorpo ligneo.
Il torrione angioino, posto all’estremità meridionale del fronte nordorientale, è un alto cilindro con basamento troncoconico costituito da
cinque livelli più la copertura e si sviluppa per un’altezza di circa 29,50
m, con un diametro alla base della scarpa di circa 12,70 m ed un diametro della parte cilindrica di circa 10,30 m. Al livello inferiore si trova la
cisterna, mentre nei vani superiori sono allocati i servizi e gli ambienti
per la residenza caratterizzati dalla presenza dei camini. I vani, coperti a
volte, erano collegati da scale interne che mettevano in comunicazione
i vari livelli attraverso botole nel pavimento. La possente torre era coronata dalla merlatura sorretta da beccatelli e caditoie che permettevano la
difesa piombante.
Le murature del mastio e del torrione sono state costruite con una
tecnica simile a quella utilizzata per le torri della cinta muraria esterna,
ma i blocchi presentano dimensioni minori e sono visibili cospicue tracce di intonaco.
Lungo il fronte orientale della rocca, protetta dal torrione angioino,
si apre una seconda porta, raggiungibile tramite una rampa.
Nell’angolo sud del mastio vi è un bastione a punta di epoca rinascimentale, i cui lati sono di circa 18,00 m, munito di basse terrazze protette
da parapetti, funzionale alle mutate esigenze difensive conseguenti all’utilizzo delle armi da fuoco. La realizzazione di tale opera comportò la
tamponatura di una preesistente porta d’epoca normanna, che metteva
in collegamento la rocca con lo spazio interno alla cinta muraria longobarda, alla quale si addossò una scaletta di collegamento tra la corte e la
terrazza del bastione.
Il lato sud-occidentale del mastio è occupato da un ambiente di forma rettangolare allungata (all’incirca 28,0 m × 4,50 m), la cui volta di
copertura è in parte crollata e che si riconosce come stalla. Tale ambiente
riutilizzava, come limite occidentale, un muro in blocchi di tufo ascrivibile ad un precedente fortilizio di epoca longobarda (fine X - inizio XI
secolo). Nello stesso muro è ricavata una porta che mette in collegamento l’ambiente con la torre occidentale dell’impianto normanno. Alla fase
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
165
costruttiva longobarda sono da ascrivere, oltre a tale muro, anche una
cisterna ubicata in corrispondenza del limite occidentale della stalla ed
un ambiente di forma trapezoidale ubicato nelle immediate vicinanze a
ridosso della cortina. Quest’ultimo, all’atto della realizzazione del donjon
normanno, fu ristrutturato, suddiviso in due ambienti e trasformato in
cisterna.
Delle costruzioni che un tempo occupavano il versante meridionale
della collina, si notano i resti di numerosi ambienti. Tra questi, l’unico
edificio conservato in elevato è una cisterna a pianta rettangolare (circa
9,50 m × 8,30 m), coperta a volta (altezza all’estradosso circa 5,40 m),
ubicata all’interno della cinta muraria longobarda e che per tecnica costruttiva è ascrivibile all’epoca normanna.
2. Il castello di Summonte: ricerche storico-architettoniche
2.1. Rapporti ambientali
Il territorio di Summonte è adagiato sulle falde orientali del Partenio,
a circa 735 metri s. l. m. La genesi dei centri abitati della fascia pedemontana della cima (Mercogliano, Ospedaletto, Summonte, S. Angelo
a Scala, Pietrastornina, Pannarano, S. Martino Valle Caudina, Cervinara,
Rotondi, Paolisi, Forchia eccetera) può essere individuata nel periodo
altomedioevale, quando le popolazioni allontanatesi dai territori delle
antiche città di pianura, soggette a continue incursioni vandaliche, vi si
insediarono in piccoli nuclei sparsi collegati a costruzioni chiesastiche
di modeste dimensioni. In epoca longobarda, le strade di collegamento
erano solo in parte quelle di fondovalle, che risalivano al periodo romano. Di contro, si moltiplicarono gli itinerari collinari con percorsi spesso
impervi e con collegamenti di raccordo tra la valle e la montagna30.
Lo schema viario medievale del Partenio può interpretarsi come un
reticolo fortemente irregolare i cui tracciati si infittivano lungo la fascia
pedemontana e si sfoltivano al centro della Valle Caudina. Percorsi molto
frequentati si attestavano a mezza costa dove si localizzarono numerose
chiese, tra cui S. Maria del Preposito ubicata nel territorio di Summonte.
Ciascun centro era collegato alla strada pedemontana e, generalmente,
ad una o più vie che scendevano dalla montagna e si dirigevano verso il
30
C. Lepore, Le radici medievali del Partenio, in Storia di un territorio, cur. F. Bove, Roma
- Bari 1993, pp. 3-24.
166
Giovanni Coppola - Carmine Megna
Fig. 4. Summonte, il torrione di epoca angioina
fondovalle. Sul sistema viario vigilavano i castelli, che sorgevano numerosi ed opportunamente ubicati31.
Il castrum di Summonte, presumibilmente edificato in forma embrionale nel periodo longobardo ed oggetto di ristrutturazioni, ampliamenti e trasformazioni nelle successive epoche normanna, angioina e
rinascimentale, controllava una diramazione dell’antica via Campanina.
Quest’ultima da Mercogliano, attraverso Roccabascerana, si indirizzava a
S. Martino Valle Caudina, indi si biforcava ed un ramo si dirigeva verso
Montesarchio, mentre l’altro si collegava alla via Appia. Dunque il castrum
submontis, di cui si delineano di seguito le vicende storiche e gli aspetti
architettonici, per la sua particolare posizione controllava la viabilità tra
Avellino, la Valle Caudina, Napoli e Benevento32.
2.2. Notizie storiche
A seguito della penetrazione dei Longobardi nelle regioni interne
del Mezzogiorno (570-571) e della fondazione del ducato di Benevento,
l’Irpinia fu inglobata e divisa in gastaldati, cui fu preposto un funzionario, il gastaldo, al quale competevano funzioni amministrative, poteri
giurisdizionali e organizzazione militare. Se è accertato che il territorio di
Summonte ricadeva nel gastaldato di Avellino, le origini del borgo sono
31
F. Bove, La montagna urbanizzata: architettura dei centri abitati dal Medioevo ai nostri
giorni, in Storia di un territorio, pp. 183-245.
32
F. Scandone, Storia di Avellino, Avellino - Napoli 1947-1950, I/1, pp. 69-71, e
II/1, pp. 97-98.
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
167
Fig. 5. Summonte, vista parziale dei lati sud-ovest e sud-est del castello
incerte e negli anni vi si sono state diverse ipotesi avanzate da altrettanti studiosi. Francesco Scandone ritiene che la prima notizia storica di
Summonte risalga ad una donazione del 769 in cui il sito sarebbe stato
trascritto col nome di “Transmonte”, laddove si fa menzione di servi de
Abellino et de Transmonte33; Carmelo Lepore, di contro, rileva che in pergamene del Codice Diplomatico Verginiano34 relative all’ultimo decennio
del X secolo, l’ubicazione della chiesa di S. Maria del Preposito, cui si
riferiscono i documenti in questione, appare ancora indicata in maniera
indeterminata: ecclesia Sancte Marie de Monte Virginis finibus Abellino35.
È verosimile che in età altomedioevale si sia costituito un primo
nucleo, un semplice locus, vale a dire un piccolo casale, attestatosi nei
pressi della via Campanina. Ed è quantomeno ragionevole presumere
33
F. Scandone, Profili di storia feudale dei Comuni compresi nell’antica contea di Avellino,
Avellino 1951, p. 7.
34
Codice Diplomatico Verginiano, ed. P. M. Tropeano, I, Montevergine 1977, docc. 31,
37, 38, 61.
35
Lepore, Le radici medievali del Partenio, p. 25, n. 250.
168
Giovanni Coppola - Carmine Megna
Fig. 6. Summonte, torrione angioino
che nell’ambito del sistema difensivo del Ducato longobardo di Benevento, si sia sentita la necessità di realizzare un primo nucleo del castrum
submontis con funzioni di avvistamento e controllo del territorio. E’ bene
ricordare che le fortificazioni longobarde erano caratterizzate da piante
irregolari prive di una particolare disposizione planimetrica o una spe-
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
169
ciale cura nell’esecuzione dei manufatti e che, spesso, si adattavano alla
morfologia dei luoghi, già naturalmente difesi. E’ chiaro quindi che il
primo nucleo del castello di Summonte era stato eretto proprio sfruttando la morfologia del territorio che offriva una buona difesa rispetto alla
valle sottostante36.
Nella prima metà del IX secolo, le lotte intestine per la supremazia
del territorio tra Radelchi di Benevento e Siconolfo di Salerno culminarono nella Radelgisii et Siginoulfi divisio Ducatus Beneventani (849), voluta
dall’imperatore Ludovico II. A seguito del trattato37 il territorio venne
frazionato nei principati di Benevento e Salerno, inoltre si stabilirono
con grande precisione le frontiere tra i vari territori38. In questa fase il
fortilizio di Summonte acquisì una maggiore importanza strategica per il
controllo della viabilità prossima ai confini, poiché la serra montis virginis
fu assunta a limite territoriale tra il principato di Benevento e la signoria
di Capua, mentre a breve distanza dal borgo correvano i confini del Ducato bizantino di Napoli.
A seguito dell’avvento dei Normanni, iniziò la capitolazione degli
stati della Longobardia meridionale ed uno degli ultimi principi longobardi, Pandolfo IV di Benevento, morì nel 1073 nella Valle Caudina a
Montesarchio39. I Normanni, nell’ambito del processo di incastellamento, selezionarono e fortificarono quei siti che consentivano il controllo
strategico del territorio, spingendo la popolazione ad accentrarsi in essi.
La regola insediativa normanna fu applicata anche a Summonte, il borgo
fu murato e dotato di un castello adeguato alle nuove esigenze militari.
Nel 1094 troviamo un documento che cita un castellum qui dicitur
Submonte40.
Nel 1127 il castello e la terra di Summonte erano di proprietà di
Raone Malerba de Fraineta, un nobile di origine franca giunto in Irpinia
36
P. Peduto, Insediamenti longobardi nel Ducato di Benevento (secc. VI-VIII), in Langobardia, cur. S. Gasparri - P. Cammarosano, Udine 1990, pp. 307-373.
37
Il documento è pubblicato in MGH, Leges IV, ed. H. Hoffmann, Hannover 1980,
pp. 221-225.
38
Sulle problematiche delle frontiere longobarde si rimanda a S. Gasparri, La frontiera in Italia (sec. VI-VIII). Osservazioni su un tema controverso, in Città, castelli, campagne nei
territori di frontiera (sec. VI-VII), cur. G. P. Brogiolo, Mantova 1995, pp. 9-19; J. M. Martin,
Les problèmes de la frontière en Italie mèridionale (Vie-XIIe siècles): l’approche historique, in Frontière
et peuplement dans le monde mèditerranèen au Moyen Age, cur. J. M. Poisson, Rome - Madrid
1992, pp. 259-276.
39
Annales Beneventani, ed. O. Bertolini, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il
Medioevo e Archivio Muratoniano» 42, 1923, p. 143.
40
Codice Diplomatico Verginiano, I, doc. 89.
170
Giovanni Coppola - Carmine Megna
al seguito dei Normanni41, che vari documenti posteriori ci ricordano
come suffeudatario del conte di Avellino42.
Il 26 luglio del 1127 morì, senza eredi, il duca di Puglia Guglielmo.
Ruggero II conte di Sicilia, suo cugino, sbarcò a Salerno avanzando la
pretesa dell’eredità. Dagli eventi che seguirono scaturì una guerra lunghissima che si protrasse con alterne e cruente vicende dal 1127 a circa
il 1140 e portò all’unificazione politica dell’Italia meridionale. Il maggior
antagonista di Ruggero fu il cognato Rainulfo, conte di Avellino, che sin
dal dicembre del 1127 si schierò contro. Le devastazioni interessarono
città, campagne, fortificazioni, chiese e monasteri. Ruggero II si fece unilateralmente incoronare a Palermo re di Sicilia nel dicembre del 1130 e, a
vittoria ottenuta, nel 1140 convocò in Ariano Irpino una curia di baroni43
e di prelati, nella quale stabilì una serie di leggi, le cosiddette Assise di
Ariano, che costituiscono il fondamento del Regnum Siciliae44.
Le vicende relative all’unificazione del regno sono narrate, tra gli
altri, dalle cronache di Alessandro Telesino e di Falcone Beneventano. Il
primo è abate del monastero di San Salvatore nella Valle Telesina e la sua
Ystoria Rogerii regis Sicilie Calabrie atque Apulie è una biografia ufficiale di
Ruggero II richiesta dallo stesso per tramite della sorella Matilde45. Falcone, prima notaio e poi giudice a Benevento dal 1133, redige il Chronicon
Beneventanum, incentrato sulla città, e, a partire dal 1127, si occupa della
conquista ruggeriana46. Alcuni storici hanno visto in Falcone il porta41
L. R. Ménager, Inventaire des familles normandes et franques émigrées en Italie méridionale
et en Sicilie (XIe-XIIe siècles), in Roberto il Guiscardo e il suo tempo, Atti delle prime giornate
normanne-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Roma 1975, p. 398; G. Mongelli, Abbazia di
Montevergine. Regesto delle pergamene, I (secc. X-XII), Roma 1956, n. 168, p. 64 e n. 286, p. 96.
42
Scandone, Profili di storia feudale, pp.7-8, n. 4.
43
Il registro baronale è di fondamentale importanza per lo studio della struttura patrimoniale del regno. Sull’argomento si vedano Catalogus Baronum, ed. E. Jamison, Roma
1972, e Catalogus Baronum. Commentario, cur. E. Cuozzo, Roma 1984.
44
O. Zecchino, Le Assise di Ariano, Cava dei Tirreni 1984.
45
L’opera di Alessandro Telesino è una biografia di Ruggero II, con particolare
attenzione agli anni 1127-1136, vale a dire quelli della conquista dell’Apulia e della fondazione del regno. E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo,
Napoli 2003, pp. 30-31.
46
La cronaca di Falcone Beneventano è incentrata sulla città di Benevento passata
dall’indipendenza del ducato autonomo a una sorta di protettorato pontificio sotto la
continua minaccia normanna. A partire del 1127 il testo si occupa della conquista ruggeriana vista secondo un’ottica urbana e comunale. Falcone di Benevento, Chronicon
Beneventanum. Città e feudi nell’Italia dei Normanni, ed. E. D’Angelo, Firenze 1998, pp. VIIXIV; D’Angelo, Storiografi e cronologi, pp. 36-38.
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
171
voce dell’autonomia longobardo-beneventana antitetica ai conquistatori
normanni ma, come ha evidenziato Edoardo D’Angelo, non è possibile
definire la storiografia di Falcone antinormanna o antiruggeriana, in quanto
egli è più vicino alla tradizione cassinese, dal punto di vista contenutistico, per il carattere fortemente locale della sua trattazione e dal punto di
vista formale, per l’adozione della forma annalistica47.
Da Alessandro Telesino apprendiamo che «tota vallis Caudina cum
ejus omnibus infra manentibus oppidis»48 costituiva la dote della contessa Matilde, sorella di Ruggero e moglie di Rainulfo. La contesa tra i
cognati, dopo alterne vicende, si inasprì nel 1132, allorquando Ruggero
II tolse a Rainulfo la contea di Avellino, ospitò la moglie ed il figlio e gli
chiese la restituzione delle terre e dei castelli della Valle Caudina assegnati a Matilde in dote. Da Falcone apprendiamo che, nel 1134, Ruggero
mise in piedi un poderoso esercito, mosse contro Avellino e nel suo
cammino prese e mise a ferro e fuoco diversi manieri tra cui il castello di
Summonte49. Successivamente a tale evento il sito fortificato ed il castello, evidentemente, furono oggetto di lavori di ristrutturazione50.
Nel 1152 signore di Summonte è Boemondo Malerba figlio di Raone che risulta iscritto nei registri feudali come suffeudatario di Ruggero
de Aquila conte di Avellino. Dalle pergamene del Codice Diplomatico
Verginiano apprendiamo una serie di vicende relative alla vita del borgo
che vedono coinvolto Boemondo sino al 1178 e, da una di queste del
1163, apprendiamo che il re lo aveva armato cavaliere. La famiglia Malerba mantenne il possesso del suffeudo per tutto il periodo normanno
e risiedeva nel castello.
Da un documento del 1159 si ha conferma dell’esistenza del borgo
fortificato con il mastio, che, con il tempo, andò espandendosi con una
regola insediativa del tipo a cerchi concentrici. Come ha evidenziato Carmelo Lepore, ne è prova indiretta l’esistenza di un ulteriore documento
47
Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum, pp. XL-XLI.
Alexandri Telesini, De rebus gestis Rogerii Siciliane regis, ed. L. A. Muratori, in
Rerum Italicarum Scriptores, V, Mediolani 1724, p. 624.
49
Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum, p. 169.
50
Sulle modalità insediative e sulle caratteristiche costruttive delle architetture militari normanne, si veda: G. Coppola, Castelli e motte nell’Italia meridionale normanna (secoli
XI-XII secolo), in Studi in onore di Salvatore Tramontana, cur. E. Cuozzo, Salerno 2004, pp.
111-124; G. Coppola, L’architettura dell’italia meridionale in età normanna (secoli XI-XII), Napoli 2005, pp. 33-50.
48
172
Giovanni Coppola - Carmine Megna
Verginiano, una platea, che attesta l’esistenza di case lignee in posizione
esterna al castrum51.
In un documento del 1183 è citato per la prima volta, quale successore di Boemondo, Raone Malerba e la moglie Agnese. Da questi coniugi
nacque Nicola che in un atto del 1201 risulta indicato come signore di
Summonte52.
Durante il regno di Federico II di Svevia furono apportati notevoli
mutamenti all’ordinamento militare e i castelli furono oggetto di particolari leggi53. Infatti l’imperatore, nel 1220, ordinò la convocazione in
Capua di un Parlamento generale, che venne ricordato con il nome di Corte
Capuana ed in tale sede promulgò le sue assise contenute in 20 capitoli.
Fu ordinato così a tutti i baroni del regno di presentarsi e dimostrare le
concessioni e i privilegi dei castelli da loro tenuti con l’esclusione di quei
titoli che provenivano da concessioni fatte da Tancredi o da suo figlio; i
feudi ed i castelli riconosciuti da questi ultimi vennero confiscati e devoluti alla Regia Corte, mentre per le rocche e le fortezze fu emesso ordine
di demolizione54.
Alla Corte Capuana fu presentata l’assegnazione del borgo fortificato
di Summonte che restò ai Malerba nella persona di Roberto il quale, negli
anni, si vide assegnare importanti uffici da Federico II. Infatti nel 1233
era provvisore imperiale dei castelli di Principato55; nel 1239 fu nominato
giustiziere di Calabria56 e, da un documento del 1237, si evince che gli
venne affidato il cavaliere milanese Obertino de Mandello fatto prigioniero nella battaglia di Cortenuova per essere rinchiuso nel castello57.
Negli anni 1239-1240 Summonte dovette contribuire alle spese per la
riparazione del castello imperiale di Pietrastornina58
È verosimile che durante il periodo svevo il borgo fortificato con il
castello, svincolato da ogni soggezione feudale verso il conte di Avellino,
sia stato oggetto di rimaneggiamenti.
51
Lepore, Le radici medievali del Partenio, p. 25, n. 253.
Scandone, Profili di storia feudale, p. 9.
53
Per una disamina delle attribuzioni e delle competenze dei funzionari addetti al
settore castellare si veda Sthamer, L’amministrazione dei castelli.
54
Gli eventi del periodo federiciano sono narrati da Riccardo di S. Germano: Ryccardus de Sancto Germano, Chronica, ed. C. A. Garufi, in Rerum Italicarum Scriptores2,
7/2, Bologna 1936-1938.
55
Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi, IV, 1, Paris 1857, p. 427.
56
Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica, V, 1, p. 445.
57
Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica, V, 1, p. 616.
58
E. Winkelmann, Acta Imperii inedita saeculi XIII et XIV, I, Innsbruck 1881, p. 776.
52
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
173
Figlio e successore di Roberto Malerba fu Ruggiero che, a seguito
del passaggio del potere agli Angioini, fece atto di sottomissione a Carlo
I d’Angiò59. Nel 1271 il Malerba fu preposto alla forza armata posta a
guardia della strada di collegamento tra Atripalda e Grottaminarda60 e,
il 21 settembre 1277, fu annoverato tra i feudatari invitati a versare un
supplemento per le spese della costruzione di navi per la regia armata.
Successe a Ruggero il primogenito Nicola, che compare in un documento del 1295. Costui non ebbe vita lunga e gli succedette la figlia minorenne Francesca, sotto la tutela dello zio Roberto sino al 1305, quando
raggiunse la maggiore età. Roberto Malerba morì di morte violenta nel
1314; del misfatto fu accusato Giacomo de Molinis, signore della vicina
baronia di S. Angelo e Capriglia. Francesca ebbe tre mariti, l’ultimo dei
quali, Bulgaro da Tolentino, trapassò nel 1338; a seguito della sua dipartita e dell’assenza di eredi legittimi, la famiglia Malerba si estinse61.
La Regia Corte assegnò nel 1340 il feudo alla casata francese de Lagonessa, il cui cognome negli anni divenne della Leonessa62.
L’intervento angioino si concretizzò a Summonte con il rifacimento
delle forme normanno-sveve, erigendo una torre cilindrica a base troncoconica, alta circa 18,00 m e simile nella forma a quella di molte altre
costruite nel Regnum Siciliae, tra cui quelle di Avella, Pontelandolfo, Velia,
Castelcivita, Castelnuovo Cilento, Rocca Cilento, eccetera63.
Il castello ospitò nel 1440 Renato d’Angiò, designato dalla regina
Giovanna di Durazzo quale erede al trono, durante la sua sfortunata
guerra contro Alfonso d’Aragona per il possesso del Regno di Napoli64.
La famiglia della Leonessa mantenne il possesso della terra di Summonte per circa due secoli e, nel 1459, il feudo passò in potere del milite
Troiano Spinello di Napoli grazie ad una donazione del re Ferdinando
I d’Aragona. A Troiano Spinello successe il primogenito Antonio che
ebbe l’investitura nel 1471. Poi la terra di Summonte passò al fratello Federico. A quest’ultimo successe nel 1498 il figlio Troiano, che fu
59
Scandone, Profili di storia feudale, p. 10.
F. Bove, La montagna urbanizzata: architettura dei centri abitati dal Medioevo ai nostri
giorni, in Storia di un territorio, pp. 192-202.
61
Scandone, Profili di storia feudale, p.10.
62
P. Durrieu, Les Archives Angevines de Naples. Étude sur les registres du roi Charles Ier,
II, Paris 1887, p. 326-327.
63
Sull’introduzione e la diffusione in Italia meridionale della torre circolare in età
angioina, già presente in Francia e nell’Italia del Nord, si rimanda a: Mesqui, Châteaux
et enceintes, I, pp. 162-171; Santoro, Castelli angioini e aragonesi, pp. 45-52; Licinio, Castelli
medievali, p. 228-246.
64
Scandone, Profili di storia feudale, p. 12, n. 37.
60
174
Giovanni Coppola - Carmine Megna
confermato dall’imperatore Carlo V con diploma del 15 marzo 151865.
Alla sua morte succedette il figlio Federico che, non avendo avuto figli,
istituì erede testamentaria Lucrezia Spinello moglie di Giovanni Antonio
Caracciolo conte di Oppido. Quando il Caracciolo prese possesso del
feudo, si oppose la Regia Corte. Dopo quattro anni di lite presso il Tribunale della Regia Camera della Sommaria, si venne ad una transazione
in forza della quale Lucrezia pagò al viceré Pietro de Toledo la somma di
ducati 2300 avendo in cambio l’investitura delle terre.
A Lucrezia successe la nipote Francesca Spinelli e, a partire da questa, iniziarono una serie di vendite del feudo. In occasione di uno dei
passaggi, ad istanza dei creditori di Ottavio Cattaneo, il Tribunale del
Sacro Regio Consiglio vendette a Giovanni Geronimo Salina la Baronia
di Avella e la terra di Summonte al prezzo di ducati 158.000. La Regia
Corte ebbe la prelazione in tale occasione e nell’anno 1604 assegnò tali
feudi a Giovanni Andrea Doria in cambio dello Stato di Finale ceduto al
Re Filippo II di Spagna66. I Doria rimasero feudatari di Summonte per
oltre duecento anni fino all’eversione della feudalità nel 180667.
Nella seconda metà del XVI secolo il borgo fortificato di origine
normanna fu ampliato con la realizzazione di una cinta muraria poligonale dotata di baluardi, capisaldi sagomati a bastione e probabilmente un
rivellino. Nella torre angioina fu ricavato un ridotto, aprendo nella base
due bocche di lupo per l’artiglieria. All’esterno della nuova cinta muraria,
lungo la strada di mezzacosta, fu costruito un nuovo quartiere di sedici
lotti organizzato su una rigida scacchiera68.
L’impianto cinquecentesco fu investito da profonde modificazioni
nel corso del XVIII secolo, ascrivibili sia alle spinte dei ceti emergenti sia
agli esiti dei terremoti del 1689 e del 1702. In questa fase venne ampliata
la chiesa dell’Annunziata e le unità edilizie di base furono accorpate in
case gentilizie cancellando gran parte del reticolo stradale ortogonale.
Fu completamente coperta di costruzioni la piazza extramuraria ubicata
innanzi alla porta di accesso al borgo medioevale, mentre restò isolato il
65
Scandone, Profili di storia feudale, pp. 11-12.
E. Ricca, Istoria dei feudi del Regno delle Due Sicilie, IV, Napoli 1869, p. 480.
67
Sulle leggi volute da Giuseppe Bonaparte per abolire la feudalità nel Regno di
Napoli, tra gli altri, si vedano: P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962; M.
Palumbo, I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità: feudi, università, comuni,
demani, Montecorvino Rovella - Cerignola 1910-1916.
68
Bove, La montagna urbanizzata, p. 225.
66
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
175
palazzo feudale dei Doria, edificato nel corso del XVII con il probabile
intento di creare un nuovo polo di attrazione69.
Nel corso del XVIII secolo iniziò la decadenza dell’insediamento
medievale, che ben presto fu definitivamente abbandonato70.
2.3. Notizie architettoniche
Si giunge al castello mediante un stradina carrabile con una discreta
pendenza che, passando al di sotto dell’arco San Nicola, si snoda all’interno dell’area del borgo fortificato e percorre via Arco San Nicola e
parte di via Castello. In alternativa vi si giunge mediante una rampa gradinata ubicata ai piedi della sommità collinare nell’angolo nord-orientale,
cui si accede da una strada del centro storico.
La torre cilindrica a base troncoconica di epoca angioina, che fino
ad alcuni anni fa si presentava allo stato di rudere71, è stata nel decennio
passato oggetto di un intervento di restauro e di riqualificazione dell’area
che ha previsto una sala conferenze ricavata in ambienti interni al maniero, un teatro all’aperto ubicato all’esterno del mastio ed alcuni ambienti
riservati a ristorante e servizi ubicati ad una quota inferiore nel vertice
nord-orientale del perimetro, raggiungibili con una rampa gradinata.
Del complesso fortificato che un tempo occupava l’intera altura collinare e che era pressappoco corrispondente alla zona che ha mantenuto
il toponimo castello, sono ancora leggibili solo alcune parti essendo le
restanti crollate od inglobate in costruzioni successive. La difesa era organizzata con due cinte murarie fortificate poste a quote diverse: quella
più interna, di epoca normanna con rimaneggiamenti in epoca sveva, era
di forma poligonale ed aveva probabilmente delle torri. Quella posta ad
una quota più bassa venne probabilmente realizzata nella seconda metà
del XVI secolo per ampliare il borgo e dotarlo di baluardi, capisaldi sagomati a bastione e presumibilmente un rivellino.
All’interno dell’area fortificata, immediatamente visibili per chi giunge da via Castello, vi sono tre pannelli di cui uno informa il visitatore
della torre angioina, mentre i restanti illustrano, con l’ausilio di grafici e
fotografie, intenti ed esiti degli interventi di restauro.
69
F. Matarazzo, Summonte, Avella 1990, p. 105.
Bove, La montagna urbanizzata, p. 240.
71
Per la descrizione dello stato dei luoghi precedente al restauro corredata da una
foto del torrione angioino, si veda G. Galasso, Torri e castelli in Irpinia, Atripalda 1990,
pp. 124-126.
70
176
Giovanni Coppola - Carmine Megna
Superato il cancello ubicato in prossimità del vertice nord-orientale
del castello, una comoda rampa consente di superare il salto di quota tra
la strada ed il piano di calpestio in prossimità della torre angioina. Lungo il percorso, in corrispondenza dei vertici settentrionale e meridionale
della sommità collinare, si notano dei resti di strutture murarie appena
affioranti dal terreno, portati alla luce a seguito di scavi archeologici. Si
tratta di strutture risalenti per lo più all’impianto normanno. Giunti in
prossimità della torre si nota un possente muro, parzialmente rifatto in
occasione degli interventi, che segna il limite del mastio che presentava
una forma quadrangolare e conteneva una superficie di poco superiore
ai 500 mq. Dall’osservazione della tessitura muraria si riconoscono le
parti di restauro rispetto ai tratti di muratura originaria. Infatti l’orditura
muraria antica presenta, oltre alla consunzione del tempo, una maggiore
ricerca di orizzontalità dei ricorsi, nonostante la presenza di pietrame di
pezzatura molto varia72.
Il torrione cilindrico a base troncoconica di certa datazione angioina
presenta le murature realizzate con conci di pietra calcarea sbozzati ed
allettati con malta a base di calce, sabbia mista a lapillo e pietra macinata.
Nella tessitura si notano inclusioni di arenaria e qualche laterizio. Originariamente il paramento era intonacato e sulla sommità della torre vi
erano beccatelli e caditoie. Tale manufatto è stato edificato a partire da
una preesistente costruzione normanna quadrangolare supportata da un
possente sperone che è stato lasciato a vista sul lato nord-occidentale.
Tale circostanza ha evidentemente influenzato la forma geometrica della
base scarpata, che risulta essere irregolare e tendente all’ellisse invece che
al cerchio.
La torre presenta un’altezza fuori terra, variabile con la quota del piano di calpestio, che si aggira intorno ai 18,00 m. La torre originariamente
era divisa internamente in quattro piani sovrapposti, oltre al terrazzo di
copertura e alla cisterna. L’originaria porta d’ingresso è ubicata al primo
piano del lato orientale ed è delimitata da un arco ribassato in scheggioni
di pietra calcarea. Vi si giunge mediante una stretta scala in pietra che
si snoda lungo parte della scarpata in aderenza alla stessa. Da tale piano, mediante collegamenti interni, si poteva scendere sia al piano terra,
coincidente con la parte basamentale, dove si conservavano le derrate
alimentari e si attingeva acqua tramite il pozzo dalla sottostante cisterna,
72
Sulle problematiche connesse alla conservazione e al restauro dei ruderi si veda:
L. Marino, Materiali per un atlante delle patologie presenti nelle aree archeologiche e negli edifici ridotti
allo stato di rudere, Firenze 2009.
Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte
177
sia ai due livelli superiori ed al lastrico di copertura. Lo spessore della
muratura varia al variare dell’altezza e, se nella base scarpata si riduce
progressivamente, nella parte cilindrica va rastremandosi con una serie
di riseghe. Infatti a quota + 0,90, dunque alla base, è di circa 3,80 m, a
quota + 4,25 m è pressappoco di 2,10 m, a quota + 11,90 è di circa 1,30
m, eccetera.
Sul fronte orientale del torrione, a destra dell’originaria porta di accesso, vi è una feritoia verticale incorniciata da conci di pietra, di taglio
quasi regolare, che ospita il canale di raccolta dell’acqua piovana proveniente dal terrazzo e collegato alla cisterna.
Nel corso del XVI secolo nella torre angioina fu ricavato un ridotto,
realizzando nella base a scarpa un piano intermedio con relativo vano
di accesso, ed aprendo due bocche di lupo per l’artiglieria ubicate verso
la strada per Ospedaletto e verso la montagna. In corrispondenza del
varco di accesso per tale piano intermedio, raggiungibile con una scala di
restauro ubicata sul lato meridionale della torre, è possibile osservare le
tracce murarie del mastio normanno-svevo inglobate nella costruzione
angioina. A seguito degli interventi di restauro in tale livello intermedio
è stata allestita un’esposizione di reperti archeologici.
Dall’osservazione delle murature si notano alcune feritoie ed aperture di varie epoche, nonché le integrazioni delle tessiture murarie realizzate per rifare parti crollate o fatiscenti e per tamponare alcune delle
aperture realizzate nel corso del XVI secolo. Il paramento murario originale, oltre a mostrare evidenti tracce di consunzione dovuta al tempo,
presenta una pezzatura media inferiore a quella di restauro73.
In occasione dei recenti interventi di ristrutturazione è stata realizzata una scala interna che mette in comunicazione i livelli dal primo piano
col terrazzo di copertura.
73
Sul restauro la conservazione dei castelli, tra gli altri, si vedano: P. Gazzola, La
conservazione ed il restauro dei Castelli alla luce della Carta di Venezia, «Castellum» 8, 1968, pp.
81-96; Il restauro dei castelli nell’Italia meridionale. Atti del Convegno (Caserta 10-11 marzo
1989), cur. R. Carafa, Caserta 1991; V. Foramitti, A. Quendolo, Restauro dei castelli: relazioni presentate agli incontri di studio sul restauro dei castelli (Udine 1998-2001), Udine 2008.
RECENSIONI E SCHEDE
Fulvio Delle Donne, Federico II: la condanna della memoria. Metamorfosi di un mito, Viella, Roma 2012 (I libri di Viella, 138), pp. 206, ISBN
9788883347610
L’idea della eccezionalità umana, culturale e politica di Federico II
ha trasformato storicamente e storiograficamente in mito la sua figura. Un mito che è stato assai precoce, alla cui edificazione posero mano
già i suoi contemporanei, con una tradizione di giudizî che a partire da
Dante è giunta sino a Ernst Kantorowicz, autore di una suggestiva monografia. Né quel mito ha cessato mai d’alimentarsi, se da ultimo neppure
Hubert Houben è riuscito a svicolare il tema, dedicando alcune pagine
della sua recente biografia alla ricezione moderna dell’immagine di Federico. Per altro verso, lo stesso tentativo non era riuscito pienamente
all’altro biografo di Federico, David Abulafia, il cui obiettivo ermeneutico di ridimensionamento del mito dell’Imperatore finiva con l’alludere
continuamente al mito stesso, sino al punto da indurre lo storico inglese
a dichiarare, proprio in capo al lavoro, che per quanto tutto ciò che si
riferisce solitamente alla figura di Federico non risponda a verità, già il
fatto stesso che lo Svevo fosse stato visto in quella luce e in quell’alone
mitico sarebbe bastato a farne oggetto d’attenzione degli scrittori e dei
lettori dei libri di storia.
Consapevole della difficoltà di individuare una sicura linea di confine
tra mito e storia a proposito dello Svevo, e di quanto il mito federiciano
abbia per se stesso un valore storico, nella misura in cui, nel mito, vi è
il riverbero che la personalità dell’Imperatore ebbe sui contemporanei e
sui posteri, Delle Donne offre un’analisi puntuale e rigorosa delle fonti
che hanno codificato l’emblematicità di Federico, sino alla sua trasfigurazione. L’attenta lettura delle fonti e del contesto in cui esse videro la
luce consente infatti di trattare un tema precedentemente affrontato in
180
Recensioni e schede
particolar modo dalla storiografia tedesca, ma riportandolo all’interno di
un discorso che recupera la filologia delle fonti.
Del metodo filologico l’autore dunque si serve per dare sostanza a
un discorso che ripercorre i passaggi vari e complessi che hanno trasformato Federico II da personaggio reale a simbolo. Nel caso dello Svevo
– rimarca Delle Donne – si tratta quasi di una damnatio più pervicace
dell’oblio, perché la memoria trasfigurata non è stata lungi dal seppellire
il personaggio storico sotto le concrezioni del proprio mito (p. 8). In
questo senso, il mito è sia rappresentazione sintetica nel suo significato
riassuntivo e allo stesso tempo globalizzante tale da rendere possibile
una sua riutilizzazione successiva, sia prodotto della storia che in quanto
tale deve essere indagato storiograficamente nella sua genesi, nella sua
evoluzione, nelle sue trasformazioni e nelle sue attualizzazioni. Pertanto
molto efficace e persuasiva è la struttura in tre parti che l’autore appronta
per illustrare il mito di Federico.
Nella prima parte, Delle Donne concentra la propria attenzione sulla
genesi del mito federiciano, ripercorrendo e analizzando le origini storiche della mitizzazione sotto le cifre significative della mitogonia e della
mitotrofia. La prima – la mitogonia – prende le mosse dall’osservazione
dei momenti cruciali della vita e del ruolo dell’Imperatore (pp. 13-38).
L’autore si sofferma sulla nascita di Federico II, che viene salutata immediatamente dai contemporanei come un evento eccezionale e allo stesso
tempo straordinario. Già nelle fonti coeve (Pietro da Eboli), essa fa dello
Svevo il precursore di un’imminente età dell’oro, in perfetta aderenza a
una temperie culturale pervasa di attese messianiche e di profezie gioachimite. Tuttavia, è lo scontro propagandistico con papa Gregorio IX a
fare di Federico il messia e l’anticristo allo stesso tempo. A far data dal
1239, lo scontro con i Comuni dell’Italia settentrionale costringe infatti
Federico a modificare i termini della propria concezione del potere, che
da universalistica pare trasformarsi in assolutistica e tendente sempre più
alla rivendicazione non solo temporale, ma anche spirituale del ruolo
dell’imperatore. La consapevolezza della propria funzione viene enunciata ancora una volta in un contesto in cui persistenti sono le attese
di un mondo che si percepisce come prossimo alla propria fine. L’hic et
nunc della morte di Federico infine, nella sua singolarità stupefacente – il
giorno di S. Lucia, a dicembre – e insieme inconsueta – l’assoluta insignificatività del luogo dell’exitus, Castel Fiorentino –, divenne, dopo la vita,
argomento di profezia (Saba Malaspina, Giovanni Villani).
Recensioni e schede
181
Lungo queste linee, dunque, l’autore passa a considerare come sia
stato Federico stesso, in buona parte e per fini propagandistici, il principale artefice della propria immagine leggendaria. Nel secondo capitolo – la mitotrofia – si mostra infatti come già nelle fonti coeve il mito di
Federico abbia generato altri miti, e come essi, del mito dell’Imperatore,
poi si siano autoalimentati nell’immaginario collettivo del XIII secolo,
particolarmente ben disposto ad accogliere voci e notizie fantastiche (pp.
39-64). Pertanto l’avvenimento storico, reale, concreto, già trasformato
in mito, accoglie ancora elementi immaginari o leggendari, quali sono
ben visibili nella sedimentazione delle leggende e delle profezie legate
alla veneranda età di Costanza d’Altavilla, novella Sara biblica, e dunque alla presunta illegittimità dello Svevo. Temi – questi – che vengono
ripercorsi dall’autore in parallelo alle fonti, da quelle anonime a quelle
dei cronisti più noti (Salimbene de Adam, Giovanni Villani), sino ai travasi di tradizione che si riscontrano negli storici del Regno di Napoli
(Pandolfo Collenuccio). Né alieni ai processi di arricchimento furono
gli stessi aspetti più innovatori della politica culturale dell’Imperatore, i
quali, per quanto avessero tratto origine da finalità di controllo politico e
propagandistico, potevano essere manipolati in funzione anti-imperiale,
sino a fare di Federico l’eretico per antonomasia. In quest’ultima facies il
processo di trasfigurazione dello Svevo è compiuto, offrendo il destro a
quella che si può anche definire valenza ancipite del mito di Federico, e
per la quale – sottolinea Delle Donne – il mito positivo dell’Imperatore
e quello negativo rappresentato dal suo contrario finiscono per diventare
due figure speculari (p. 62).
Dalle attestazioni storiche delle trasformazioni di un mito che si è
enormemente accresciuto autoalimentandosi e che ha ormai preso strade autonome, l’autore sposta l’attenzione del lettore su una seconda
parte (pp. 67-130), inversamente direzionata rispetto alla prima, in cui
si considera il processo di storicizzazione del mito, quel processo cioè
mediante cui il mito cerca fondamento nella storia. Ciò è stato possibile
mediante la letteratura, la quale ha fatto di Federico un oggetto di ulteriore adattamento. Tale infatti è stato il processo che ha reso Federico
II un personaggio letterario, protagonista di novelle (Novellino) o di leggende (quella di Cola Pesce), e che quindi può vivere in ogni epoca e in
ogni luogo, adattandosi solo alla fantasia creatrice del narratore (p. 70).
In proposito, però, ben viene sottolineato l’ulteriore slittamento proprio
di alcune elaborazioni letterarie relative allo Svevo, nelle quali è chiaramente visibile come il processo di mito-poiesis, che ha reso Federico un
182
Recensioni e schede
personaggio letterario, si sia poi sublimato in quello di mito-poësis, legittimando in definitiva la figura – chiaramente leggendaria – di un Federico
a propria volta produttore e autore di versi.
Ciò è quanto consente di prospettare l’analisi di una fonte d’autore
anonimo, ma di probabile origine pugliese, la Narratio qualiter imperator
Federicus reaquisivit regnum sibi rebellatum quando accessit ad aquirendum Ierusalem et sepulcrum Christi, copia più tarda di una fonte coeva nota agli antichi
eruditi del Regno di Napoli, che la lessero e la utilizzarono come propria
fonte col titolo sintetico di Itinerarium o Itinerario. Di essa si erano perse
del tutto le tracce sino al recente rinvenimento da parte dell’autore tra
il materiale appartenuto all’erudito cinque-seicentesco Camillo Tutini,
conservato nel fondo Brancacciano della Biblioteca Nazionale di Napoli. Contestualmente all’analisi del mito di Federico in rapporto a un’altra
fonte anonima – una Cronaca di Troia di un anonimo cappuccino, conservata nell’Archivio capitolare di Troia (Puglia) – l’Itinerarium costituisce
abbrivio per un non secondario recupero storiografico dei “blasoni popolari”, rimasti sino a oggi appannaggio di antropologi e studiosi locali,
per restituirli a una interpretazione complessiva, legata anche alla rigenerazione continua del mito di Federico. Non di meno, l’analisi da parte
dell’autore di questi stessi “blasoni popolari”, in molti casi assunti a simboli rappresentativi delle realtà pugliesi, ne rivela il carattere informativo,
mostrandone infine la loro utilizzabilità come fonte, utile cioè a svelare
il rapporto sempre ambiguo tra Federico II e le realtà cittadine pugliesi.
La rigenerazione continua del mito di Federico è dunque il traitd’union che riconnette il lettore alla terza parte del libro (pp. 136-155).
Essa prende impulso dai rapporti privilegiati che le città pugliesi hanno
sempre inteso avere con la figura di Federico, tanto da renderlo nel corso
del Novecento una sorta di mito-motore, un’icona identificativa, l’emblema
di una regione e di un popolo, una figura cioè capace di catalizzare non
soltanto un’inesausta attenzione, ma anche una serie di rappresentazioni
mentali in quelle oscure zone dello spirito in cui si formano i processi
di memoria collettiva, l’orgoglio identitario di una comunità, conferendo
non semplici suggestioni, bensì senso e profondità storica.
Completano il volume due appendici che riportano, rispettivamente,
l’edizione dell’Itinerarium di anonimo pugliese (pp. 162-173) e la Cronaca
di Troia dell’anonimo cappuccino (pp. 174-180).
Di gradevole leggibilità nella forma espositiva piana e consequenziale, propria del metodo storico-filologico cui l’autore si ispira, il testo
soddisfa le attese ermeneutiche del titolo e schiude al lettore ulteriori
Recensioni e schede
183
spunti di riflessione. Tali infatti essi giungono dalla originalità dei titoli di
alcuni capitoli: la mitotrofia (= la crescita esponenziale del mito), la mitopoësis (= la sublimazione del mito in capacità autorale), il chaos-mythos (=
la materia informe del mito alla base della fama letteraria), il mito-motore
(= la capacità auto-(ri)produttiva del mito nel tempo e nello spazio). Tali
espressioni sono, in buona parte, neo-logismi generati dalla capacità di
astrazione dell’autore, ma di assoluta efficacia linguistica.
L’attenta ridefinizione storiografica di alcuni attributi, come puer
Apuliae e Stupor mundi, dimostra che essi hanno connotazioni molto diverse e addirittura opposte rispetto a quelle che vengono loro solitamente attribuite. Ciò fa del libro di Delle Donne un importante contributo
agli studi specifici su Federico II. Ma, oltre a ciò, l’originale costruzione
del ragionamento e l’approfondita indagine sulle evoluzioni del mito e
sui suoi molteplici aspetti si mostrano capaci di aprire nuove prospettive
anche per studi relativi ad altri ambiti.
Rosanna Lamboglia
Pietro Colletta, Storia, cultura e propaganda nel Regno di Sicilia nella
prima metà del XVI secolo: la Cronica Sicilie, Istituto storico italiano per il
medio evo, Roma 2011 (Fonti per la storia dell’Italia medievale, Subsidia,
11), pp. 346, ISBN 978-88-89190-74-6
La terza serie dei Rerum Italicarum scriptores accoglierà a breve, a cura
di Pietro Colletta, l’edizione critica della cronaca convenzionalmente attribuita al cosiddetto Anonimo palermitano o maggiore (o anche siciliano) e solitamente rubricata, nei repertori di fonti, col titolo canonico di
Chronicon Siculum. Nello spazio che ancora vi intercorre, Colletta ha dato
alle stampe il presente studio, che costituisce una premessa all’edizione,
sulla scorta delle informazioni e dei confronti realizzati nelle fasi del lavoro propriamente ecdotico. La nuova e più esaustiva recensione dei codici offre non solamente numerosi spunti per l’analisi interpretativa del
testo dell’Anonimo, ma fornisce anche la conferma di quanto già Giacomo Ferraù, Gina Fasoli e Venanzio Todesco avevano evidenziato in
proposito, ovvero che l’opera sembrava solo apparentemente impegnata
a offrire scarne notizie prive di ogni intervento personale – il primo – e
che il testo della cronaca fosse originariamente più ampio di quello copiato nei codici pervenutici – i secondi.
184
Recensioni e schede
L’analisi ecdotica ha dunque consentito all’autore di procedere nell’una come nell’altra direzione, con l’intento precipuo di offrire uno studio
specifico sul testo che ne indagasse le problematiche fondamentali, quali
la formazione culturale e le motivazioni ideologiche dell’Anonimo, la
datazione e le circostanze di redazione, le caratteristiche compositive, le
modalità di trasmissione e la fortuna dell’opera (p. 11). Il prodotto finale
è indubbiamente un lavoro scientifico più che apprezzabile, soprattutto
nella misura in cui è adeguatamente sviluppato il rapporto tra la narrazione e i documenti presenti nella cronaca (pp. 131-211) e l’approfondimento dei contenuti anche nel confronto con altre fonti narrative e documentarie dell’epoca (pp. 235-252). Ne risulta pertanto un’informativa
più circostanziata rispetto alle pur puntuali pagine che riferiscono del
testo dell’Anonimo nell’ambito di trattazioni di carattere generale sulla
cronachistica medievale o rispetto anche ai lemmi dei repertori – l’ultimo dei quali all’interno della recente Encyclopedia of the Medieval Chronicle
(2010). Tanto le une quanto gli altri, di necessità, hanno dovuto prendere
in considerazione il testo della cronaca pubblicato da Rosario Gregorio
nel secondo volume della sua Bibliotheca scriptorium qui res sub imperio Aragonum gestas retulere (1791), che ancora costituisce il testo di riferimento,
in attesa della nuova edizione critica promessa.
Rispetto alla versione del Gregorio, accresciuta rispetto a quella di L.
A. Muratori (Rerum Italicarum scriptores, X, Mediolani, 1727, coll. 809-904)
e all’editio princeps di E. Marténe e U. Durand (Thesaurus Novus Anecdotorum, III, Lutetiae Parisiorum, 1717, coll. 5-100; la stessa poi ristampata
anche da J. G. Graeve e P. Burmann, Thesaurus antiquitatum et historiarum
Siciliae, Lugduni Batavarum, 1723, coll. 1-84), il Colletta propone, sulla
base della collazione dei mss., un testo ancora più ampliato e un nuovo
titolo. Ne consegue che il testo dell’Anonimo si comporrebbe ora di 125
capp. secondo la redazione del ms. Barcellona, Bibl. de Catalunya, 488,
che continua la narrazione sino al diffondersi dell’epidemia di peste del
1347-1348. Quanto al titolo, nella nuova edizione, esso dovrebbe essere
più congruamente Cronica Sicilie, secondo appunto ciò che la tradizione
manoscritta concordemente restituisce, sia pure con varianti grafiche (coronica) o con ampliamento del titulum (come per es. nel ms. Barcellona,
Bibl. de Catalunya, 488: Cronica processuum in regno et insula Sicilie).
Entrambe le questioni muovono da una informazione dettagliata e
ben condotta; nondimeno la strutturazione dell’argomentazione risente,
nell’uno come nell’altro punto, di ipostasi a latere del ragionamento, per le
quali, per esempio, per quanto concerne il titolo, si esclude recisamente
Recensioni e schede
185
che in Sicilia nel XIV secolo il termine cronica fosse sentito come neutro
plurale (p. 26, nota n. 23). Analogamente, si dà per scontata la paternità
di un medesimo anonimo autore per tutte e tre le redazioni della cronaca (I redazione: ms. Palermo, Bibl. Com., 4QqD47; ms. Napoli, Bibl.
Naz. VG29; ms. perduto dell’editio princeps; II redazione: ms. Bibl. Apost.
Vaticana, Vat. Lat. 3972; III redazione: il già citato ms. Barcellona, Bibl.
de Catalunya, 488) e si ammette unicamente la rielaborazione della parte
finale del ms. catalano da parte del copista (pp. 57-70), oltre a una serie
di omissioni, interpolazioni e modifiche significative nella prima parte
(p. 72). Il Colletta, infatti, pur avanzando l’ipotesi – o il dubbio – che i
capitoli aggiunti, presenti nel ms. catalano, siano successivi all’Anonimo,
in ultimo la ricusa, affermando che fra le parti della cronaca non vi sono
elementi di divergenza o di discontinuità. Al contrario, rileva una rigorosa coerenza nell’impostazione ideologica, nel metodo di lavoro, nella
tecnica compositiva e in quella narrativa, e così pure nella lingua e nello
stile (p. 72). Pertanto – forse in maniera troppo perentoria – il Colletta
conclude che il pensare a più di un autore sarebbe congettura non solo
improbabile, ma anche superflua (p. 72).
Rilevati questi punti, il primo capitolo (La genesi della cronaca: fra città e
corona, pp. 15-75) offre una utile caratterizzazione della cronaca: Colletta
ne considera la datazione e le fasi di redazione, la semplicità espositiva
delle parti narrative, la presenza di 61 trascrizioni di documenti del tempo, la precisione dei riferimenti cronologici, la buona informazione che
mostra in particolare sugli avvenimenti di Palermo e della Sicilia occidentale con ricchezza di dettagli, a volte non altrimenti nota (pp. 57-75).
Alcuni paragrafi sono dedicati al profilo ipotetico dell’Anonimo e del
committente, al pubblico destinatario implicito ed esplicito, interno ed
esterno (pp. 28-57): tutti questi elementi vengono correlati alla corte e alla
cancelleria siciliana. In proposito, proprio il confronto con un altro ms.
contenente molte delle epistole utilizzate nella cronaca, il codice Fitalia,
Società Siciliana di Storia Patria, I B 25, consente al Colletta di avanzare
l’ipotesi secondo cui l’ambiente dell’Anonimo possa essere quello relativo
al giudice palermitano Filippo Carastono e alla sua famiglia, abbastanza
nota anche per avere avuto tra i suoi componenti un numero significativo
di giudici, notai e pubblici ufficiali (pp. 34-35). Con tale congettura, che
giustamente può essere solo avanzata, è congrua anche l’ipotesi, secondo
la quale anche il ms. Fitalia confermi l’esistenza di una cultura giuridica
affermatasi a Palermo nei decenni successivi al Vespro e che forniva alla
186
Recensioni e schede
monarchia il personale, gli strumenti e le competenze per l’elaborazione e
la diffusione di un preciso messaggio di propaganda (p. 37).
A questo punto, però, occorre soffermare l’attenzione sull’idea costante e soggiacente a tutto il lavoro del Colletta: fin dal titolo, egli indica,
quale carattere peculiare della cronaca, l’intento propagandistico (p. 15) e
ufficiale (p. 16, pp. 40-41, 57), ovvero un progetto storiografico completo e consapevole (p. 40) con motivazioni ideologiche che fanno della cronaca un veicolo di propaganda filo-aragonese, un messaggio di fedeltà
alla Corona siciliana di Federico III d’Aragona e dei suoi successori. L’affermazione si basa sulla constatazione che la Cronica Sicilie possiede tutte
le caratteristiche – volontà esplicita dell’autore di comunicare messaggi
di parte, rapporto dell’autore con un’istituzione, riverbero sul pubblico
– che fanno di una ricostruzione storica uno strumento di propaganda
(p. 19). A ciò, il Colletta aggiunge che non è da escludere un’influenza
da parte della Corona e dell’ambiente di corte nella composizione della
Cronica (pp. 39, 41), anzi, ne viene avanzata l’ipotesi del patrocinio ben
oltre la morte di Pietro II (p. 71). Per quanto vada rimarcato come Colletta stesso avverta che questo non è stato il punto di partenza, bensì un
punto d’arrivo, in quanto non vi è nella cronaca nessuna dichiarazione o
commento in proposito, parimenti vi è da osservare che alcune affermazioni appaiono ancora una volta non pienamente giustificate né chiarite;
soprattutto al concetto di “ufficialità” vengono attribuiti valori semantici troppo ampi. Nel ragionamento messo in campo, non si avanza, del
resto, alcun’altra possibilità di spiegazione della difesa della legittimità
filo-aragonese con argomentazioni giuridico-dinastiche o schiettamente
propagandistiche (p. 31), se non quella della sua elaborazione presso la
Corte (p. 245). In altre parole, non si approfondisce in alcun modo l’ipotesi che lo strumento di polemica politica di cui è testimone la Cronica
(p. 47) possa essersi generato – tanto per fare un esempio – all’interno
stesso del ceto professionale cancelleresco, e non per induzione esclusiva
della Corona e dell’ambiente di corte. E che, al contrario, della continuità
di lungo periodo delle esperienze politico-istituzionali, realizzate a dispetto dei cambi di dinastia proprio dalle successioni al trono, l’Anonimo
si serva per rivendicare un diritto all’esser-ci di ceti, di città, di identità
giuridica ormai costituita, al cui apice s’individuava, dai fatti del Vespro
in poi, la casa d’Aragona. L’ipotesi non viene adeguatamente perseguita
da Colletta, perché egli, forse, si attiene a una tendenza storiografica che
ha sfumato i toni di una lettura “sicilianista” troppo ideologizzata (pp.
185-186). Tuttavia, la stessa ipotesi di una presa di coscienza autonoma
Recensioni e schede
187
poteva essere quantomeno formulata sulla base della presenza di alcune
lettere scambiate tra le città, all’interno della cronaca. Ancora in connessione con ciò, pare legittimo anche chiedersi se l’Anonimo, combinando
parti narrative con documenti di vario tenore, utilizzati come fonti, e che
indubbiamente costituivano testimonianza significativa di quella che doveva essere la pubblica opinione nel rapporto tra Corona siciliana, Regno
angioino e Corona d’Aragona, rappresenti solo un modello (p. 150) per
le cronache dinastico-giuridiche della età dei Martini, o piuttosto si ponga in una fase intermedia della elaborazione storiografica siciliana, costituendo una sorta di trait d’union tra quest’ultime e la storiografia isolana
precedente. In un contesto ormai cambiato rispetto a quello dell’autore
della Cronica Sicilie, le cronache “minori” siciliane della fine del Trecento
e della prima metà del Quattrocento continueranno a elaborare il principio della legittimità, vincolandolo sia alla discendenza sveva di memoria
manfrediana, sia alla dimostrazione, mediante genealogie, dell’assenza
di una soluzione di continuità nelle successioni al trono siciliano degli
esponenti della dinastia catalano-aragonese prima e aragonese poi, ma
appunto nei termini di un ulteriore slittamento, eliminando cioè il rapporto tra documentazione e narrazione che si ha, invece, nell’Anonimo.
Il secondo capitolo (La costruzione della cronaca: genere letterario e caratteristiche compositive, pp. 77-130) considera la cronaca secondo la tipologia
storiografica, ovvero se essa debba essere considerata historia, chronica o
compilazione annalistica, e conclude che la Cronica Sicilie vada inclusa
opportunamente nel genere ibrido e relativamente poco studiato delle
cronache con documenti (p. 85). In proposito, l’ampio excursus sull’origine del genere storiografico – sempre che di genere possa parlarsi per
testi dai connotati molto differenti – delle cosiddette cronache-cartulario
(o cronache a doppio binario o chronica roborata) inserisce il testo dell’Anonimo nel quadro più ampio della produzione europea del tempo. Rispetto a questa produzione, se ne evidenziano le affinità, ma anche le
divergenze (pp. 86-93), cosa che dà agio a Colletta di passare a spiegare
la funzione degli inserti documentari della cronaca, suddivisi per aree
tematiche (pp. 95-102). Gli stessi poi sono messi a confronto con i dictamina, ovvero con i modelli retorici raccolti nel già citato Codice Fitalia.
Proprio quest’ultimo raffronto documentale offre la possibilità di prendere le distanze dalla lettura, a dire il vero poco perspicua, di Claudia
Villa, la quale ha intravisto nel ms. Fitalia un embrione di cronaca. Una
riflessione, quindi, il Colletta dedica anche agli squilibri tra le parti della
cronaca, ma in proposito è ribadito il concetto per il quale l’Anonimo
188
Recensioni e schede
intende realizzare, con lucido distacco e con la coerenza metodologica
di un progetto compositivo unitario (p. 252), una storia completa della
Sicilia (p. 81), senza tuttavia approdare agli esiti di una cronaca universale
(p. 214), come pure senza ispirarsi ad alcun precedente diretto (p. 90).
Il terzo capitolo (Le “sezioni” della cronaca fra storia e propaganda: note
di lettura, pp. 131-211) è una disamina dettagliata delle diverse sezioni
dell’opera tra parti propriamente narrative e inserti documentali, a cominciare dalle frammentarie notizie proemiali di un improbabile Menelao, re d’Italia, sino a quelle via via sempre più dettagliate e precise dell’epoca di attività dell’Anonimo. La progressione della narrazione, che si fa
sempre più circostanziata mano a mano che l’Anonimo si avvicina alla
propria contemporaneità, è cifra di un interesse che si fa anche più stringente, oltre che indice di una maggiore disponibilità di fonti: anzi sembra
che le due possibilità vadano di pari passo. E per quanto l’autore tenga
costantemente presente che le proprie sono ipotesi per una cronaca che
non offre molti richiami incontrovertibili, va rilevato che egli non mette
mai in discussione l’autenticità degli inserti documentari. Su di essi viene
condotta un’analisi solamente contenutistica e non linguistico-formale
secondo le tipicità del linguaggio retorico-cancelleresco – analisi, questa,
forse non congruente con gli scopi del volume, ma comunque auspicabile ai fini dell’edizione critica della Cronica. Il tempo e lo spazio della
cronaca, le sue dilatazioni e le sue contrazioni costituiscono invece gli
argomenti del quarto capitolo (Percezione e rappresentazione del tempo e dello
spazio, pp. 213-234).
Il quinto capitolo (Posizione e ruolo nella tradizione storiografica del Regnum Sicilie, pp. 235-265) considera invece la Cronica Sicilie in rapporto
alla cronachistica coeva siciliana, rispetto alla quale, sia pure nella minore
ambizione letteraria, presenta tratti di maggiore ufficialità (p. 239). Altro
confronto è quello del rapporto con le fonti precedenti, estremamente
ridotto, se non addirittura assente, per quanto riguarda la storiografia di
epoca normanno-sveva.
Completano il lavoro una premessa (pp. 9-13), un’appendice recante le descrizioni e i regesti dei documenti contenuti nella cronaca (pp.
267-289), una ricca e informata bibliografia (pp. 291-323) e 4 indici (dei
manoscritti, p. 327; degli autori e delle opere anonime, pp. 329-332; delle
persone, pp. 333-339; dei luoghi e dei popoli, pp. 341-344).
Nell’insieme, il volume si presenta come una ricognizione completa,
dettagliata e documentata sulla cronaca esaminata, che viene avvalorata
come una fonte di primaria importanza per la ricostruzione degli avve-
Recensioni e schede
189
nimenti compresi tra lo scoppio della guerra del Vespro nel 1282 e il
diffondersi dell’epidemia di peste del 1347-1348.
Rosanna Lamboglia
Benoît Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de
la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XVe siècle), École
Française de Rome, Rome 2008 (Bibliothèque des École Française
d’Athènes et de Rome, 339), pp. XII – 1024, ISBN 9782728308088
L’interesse verso la retorica e l’ars dictaminis medievale è andato notevolmente crescendo in questi ultimi anni, così come risulta attestato
anche dalla recente istituzione, all’interno della Società Internazionale
per lo Studio del Medio Evo Latino (SISMEL), di una sezione dedicata
proprio all’approfondimento di tale tematica, che prelude alla pubblicazione di nuove fonti e nuovi studi, dopo quelli già apparsi nella serie
dell’Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini. A essere indagata è, tuttavia, non solo la trattatistica teorica, ma anche la sua applicazione, che
si estrinseca nell’organizzazione più o meno sistematica di raccolte di
lettere, che fungevano da “manuali” di bello stile per notai, maestri e
studenti di retorica.
In tale contesto, particolare attenzione ha ricevuto soprattutto la
produzione epistolare sviluppata nella zona dell’Italia centro-meridionale che coincideva con la Terra di Lavoro, ovvero quella cosiddetta
“scuola di Capua” che caratterizzò la prosa adottata specialmente nelle
cancellerie papali e imperiali. E, una volta che si è cominciato ad analizzare tali testi con metodi e con prospettive nuove, si è riusciti finalmente a sradicare la convinzione, sopravvissuta troppo a lungo, che essi
fossero il frutto di una cultura “pratica” e “subalterna”, e che, quindi,
non meritavano di essere studiati approfonditamente e specificamente
né dai filologi, perché privi di dignità letteraria, né dagli storici, perché
esercizi fittizi che nessun legame, o quasi, avevano con la contingenza
della realtà. Così, per un verso, si è riuscito a superare lo scoglio opposto
soprattutto da chi osservava la letteratura mediolatina da una prospettiva
“antichistica”, che difficilmente poteva accettare una – effettivamente
incomparabile e anacronistica – assimilazione degli epistolari di Cicerone
o di Plinio a quelli del XIII secolo, pur se questi ultimi costituirono uno
degli ambiti di produzione maggiormente praticati dai più rinomati letterati di area italiana di quel periodo; e, per l’altro verso, si è dimostrato
che quelle epistole, lungi dall’essere fittizie o puri esercizi stilistici, pur
190
Recensioni e schede
avendo funzione retorica esemplare, sono l’effettivo prodotto del vigilato e accorto lavoro svolto nelle cancellerie, che soprattutto nel corso
del Duecento, andarono mettendo a punto una sempre più complessa e
precisa regolamentazione.
In quest’ambito di rinnovamento degli studi si viene a porre l’impegnativo, approfondito e assai ben documentato volume di Benoît
Grévin, che, impiegando – com’è opportuno in questi casi – i metodi e
le acquisizioni sia filologici che storici, compie una complessiva ricognizione della “fortuna” europea della lingua attestata nel cosiddetto epistolario di Pier della Vigna, uno dei documenti più significativi – ma anche
più problematici – del nostro Duecento, su cui si formarono tutti i più
illustri letterati del tardo medioevo, Dante incluso. Il cosiddetto epistolario di Pier della Vigna, in effetti, come si sa soprattutto in seguito agli
studi condotti da Hans Martin Schaller, raccoglie circa 550 testi prodotti
tra il 1198 e il 1264, ovvero in un arco di tempo che non coincide con
quello dell’attività del protonotaro e logoteta capuano, che entrò a far
parte della cancelleria federiciana intorno al 1220 e morì all’inizio del
1249. Ma tali evidenti problemi di attribuzione non sono gli unici: altri
sono connessi con le origini della sua compilazione e con le sue differenti tipologie di trasmissione, in 4 principali redazioni sistematiche e in
svariate forme non sistematiche. Su tali questioni – che rendono urgente
l’edizione critica dell’epistolario, su cui si sta lavorando, con differenti criteri, sia presso i “Monumenta Germaniae Historica”, sia presso il
Centro di Studi Normanni – si concentra la prima delle cinque parti del
volume in questione (pp. 17-120), in cui si fa un attento punto sulla questione relativa alla funzione retorica (definendo l’epistolario una “summa
dictaminis pratica”) e su quella connessa con la tradizione manoscritta, e
si sofferma sulla “tripla autorità” delle lettere: quella di Federico II (cioè
colui che ufficialmente ha emanato i documenti), Pier della Vigna (colui
a cui è attribuito l’epistolario) e Nicola da Rocca (a cui, rilanciando una
ipotesi già avanzata da chi scrive, può fare capo una primitiva raccolta
del materiale).
La seconda parte (pp. 121-261), dedicata alle tecniche di creazione
delle lettere, analizza i rapporti tra gli insegnamenti teorizzati nei manuali di ars dictaminis e le applicazioni pratiche, attraverso il riesame dei
modelli stilistici (lo stylus curie Romane e quello Francigenus), dell’ornatus e
dell’organizzazione medievale del sapere. La terza (pp. 263-417), poi, più
specificamente tratta delle scuole campane di dictamen, ma non tanto dal
punto di vista degli insegnamenti retorici, quanto da quello dell’ambiente
Recensioni e schede
191
sociale, descritto attraverso le origini, la carriera e le ideologie dei suoi
componenti.
Se fin qui, con le prime tre parti, si sono indagate le vie della creazione, con la seconda sezione del volume vengono esplorate le vie della
ricezione. La quarta parte (pp. 421-537), infatti, è riservata all’ambito della comunicazione politica del XIII secolo, e in essa i caratteri del genere
epistolare vengono messi a confronto con quelli di altri generi, come le
disputationes, i sermoni o la storiografia, per culminare, poi, in alcune riflessioni su alcuni rapporti tra complessità stilistica e guasti riconducibili
alla trasmissione manoscritta. La quinta parte (pp. 539-873), infine, è
quella più lunga, ma anche, indubbiamente, quella più innovativa e ricca
di risultati, dal momento che, attraverso puntuali riscontri e confronti,
indaga sulla diffusione europea, soprattutto nel XIV e XV secolo, dei
moduli stilistici ravvisabili nel cosiddetto epistolario di Pier della Vigna.
Partendo da considerazioni preliminari di tipo metodologico, sulla circolazione e sulle dinamiche di diffusione dei manoscritti, nonché sui loro
copisti, possessori e luoghi di conservazione, si passa a indagare il riuso
“classico”, delle lettere di età sveva nella cancelleria francese (che fa capo
soprattutto a Jean de Caux e a Pierre d’Étampes), e quello “virtuoso”
della cancelleria inglese del XIV secolo; nonché quello riscontrato presso
la cancelleria imperiale, luogo d’elezione per quel tipo di testi, nelle corti
e negli autori italiani, nelle restanti cancellerie d’Europa.
Il lavoro di Grévin, che è completato dall’introduzione generale (pp.
1-14), dalla conclusione (pp. 875-888), nonché da un ricco apparato di
concordanze, fonti manoscritte, bibliografia, elenco delle tavole e ben 8
indici (pp. 889-1010), attraverso l’analisi delle scritture prodotte dai detentori del potere, riflette, in sostanza, sulle forme di un linguaggio che,
attraverso la sua diffusione, è riuscito a veicolare ben oltre i suoi limiti
originari l’inscindibile interconnessione tra forma stilistica e contenuto
politico presente nei documenti usciti dalla cancelleria sveva. Il volume
si presenta, dunque, come un validissimo strumento di consultazione
non solo per chi si occupa della storia e della cultura del XIII secolo,
ma anche per chi intende studiare i linguaggi politici e le loro modalità
di diffusione, impiego e trasformazione lungo tutto il basso medio-evo.
Fulvio Delle Donne
192
Recensioni e schede
Nascita di un regno. Poteri signorili, istituzioni feudali e strutture sociali nel
Mezzogiorno normanno (1130-1194), cur. R. Licinio e F. Violante, Mario
Adda, Bari 2008, pp. 440, ISBN 978880827740.
Gli atti della diciassettesima giornata organizzata dal Centro di Studi
Normanno-Svevi di Bari testimoniano il lungo impegno nel campo degli studi normanni dispiegato dall’istituzione pugliese [gli atti del primo
convegno, Roberto il Guiscardo e il suo tempo, furono pubblicati nell’ormai
lontano 1975], rappresentando il più articolato – ma soprattutto stabile –
appuntamento nel corso del quale più di un centinaio di studiosi italiani
e internazionali si sono venuti confrontando su tematiche connesse con
il Mezzogiorno medievale nei secoli XI-XIII. Forniamo qui di seguito l’elenco dei contributi presenti nel volume (segnalando che mancano
purtroppo le relazioni di Claudio Azzara e Jeremy Johns che non hanno
fatto pervenire la versione scritta del loro intervento):
Salvatore Tramontana, Nascita di un regno. Discorso di apertura, pp.
15-50;
Pierre Bauduin, Les modéles anglo-normands en questions, pp. 51-97;
Salvatore Fodale, Le prime codificazioni, pp. 99-114;
Maria Giovanna Arcamone, Lessico feudale, pp. 115-130;
Errico Cuozzo, Poteri signorili di vertice, pp. 131-142;
Annkristin Schlichte, Chiesa e feudalesimo, pp. 143-176;
Jean-Marie Martin, Les seigneuries monastiques, pp. 177-205;
Vito Loré, Signorie locali e mondo rurale, pp. 207-237;
Giovanni Cherubini, Centri demici e dinamiche economico-sociali, pp.
239-258;
Giancarlo Andenna, Città e corona, pp. 259-294;
Glauco M. Cantarella, La cultura di Corte, pp. 295-330;
Fulvio Delle Donne, Liturgie del potere: le testimonianze letterarie, pp.
331-366;
Pina Belli D’Elia, Liturgie del potere: i segni visivo-oggettuali, pp. 367-394;
Cosimo Damiano Fonseca, La nascita di un regno: bilancio storiografico e
percorso di ricerca, pp. 395-413.
La semplice lettura dei contributi contenuti nel volume consente di
apprezzare il fatto che il Comitato scientifico del Centro, nel momento
di affrontare le vicende della nascita del regno normanno, abbia preferito
adottare un taglio più fortemente concentrato sul versante giuridico-economico-sociale nonché sugli propagandistico-cortesi, piuttosto che concentrarsi sulla storia politica (la cosiddetta histoire événementielle, per ripren-
Recensioni e schede
193
dere un’espressione cara al movimento delle Annales). Si tratta del resto
di scelte che rispecchiano trend storiografici consolidati e rappresentano
lo specchio fedele degli interessi oggi predominanti. Resta comunque
sempre più prioritaria - a nostro avviso - la necessità di proporre lavoriquadro che sintetizzino e diano conto dei progressi degli studi normanni
tenendo anche conto delle ricerche condotte a livello internazionale sulle
altre realtà territoriali dominate dagli uomini del Nord. Non è del resto
un caso che in questi ultimi anni si sia assistito alla doppia traduzione italiana della celeberrima Histoire de la domination Normanne in Italie et en Sicile
di Ferdinand Chalandon (la cui prima edizione è degli anni 1906-1907),
mentre da più parti assistiamo a un proliferare di studi di ogni genere e
tipo, una tendenza del resto enfatizzata dall’esplosione del Web.
«Non sono pochi i risvolti da approfondire e troppe domande, troppi dettagli rimangono ancora privi di documentazione per adeguate e
convincenti risposte» (p. 412): così Cosimo Damiano Fonseca nella lezione conclusiva delle diciassettesime giornate e tale affermazione appare oggi quanto mai attuale per tutti gli storici impegnatisi in questi ultimi
decenni a rinnovare un campo di studi così ricco di sfide e suggestioni.
Luigi Russo
Reginald Allen Brown, Storia dei normanni, Odoya, Bologna 2010,
pp. 266, ISBN 9788862880626.
La riproposizione del classico lavoro di Reginald Allen Brown (19241989), professore al King’s College di Londra nonché promotore degli
Anglo-Norman Studies, pubblicato per la prima volta nel 1984 e tradotto
in italiano nel 1998, permette di fare un bilancio del venticinquennio
trascorso nel campo degli studi normanni, consentendoci di apprezzare
con maggiore consapevolezza la direzione presa dagli studiosi cimentatisi in questo campo. Del resto, una sintesi ormai classica come questa mantiene ancora oggi – nonostante tutto – intatto il suo fascino e
permette di apprezzare in pieno la verve di uno studioso che tanto ha
influenzato i lavori successivi, e che traspare a più riprese nel libro, come
quando nell’introduzione tuona contro «l’eccessiva specializzazione che
è diventata la rovina della storia» (p. 9), oppure contro la «potente lobby
di detrattori dei normanni» (p. 207). Certo il venticinquennio trascorso rende questa storia dei Normanni in più punti sorpassata: a esempio, quando ricorda la mancanza di «qualunque serio studio militare sui
194
Recensioni e schede
normanni in Italia» (p. 142) [oggi, invece, possiamo fare affidamento
su E. Cuozzo, «Quei maledetti normanni». Cavalieri e organizzazione militare
nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989], o quando parla della nascita del
ducato di Normandia (pp. 29-32) le cui vicende sono state rivisitate in
maniera sostanziale [si veda P. Bauduin, La première Normandie (Xe-XIe
siècles). Sur les frontières de la haute Normandie: identité et construction d’une principauté, Caen 2004]. Resta un’interpretazione complessiva della storia dei
Normanni dell’XI secolo come un popolo che ecletticamente riuscì a
imporsi sulla scena politica medievale («avevano probabilmente il dono
dell’adattamento»: p. 21), conquistando ampi spazi nelle attuali regioni
dell’Inghilterra, della Francia, dell’Italia e del Medioriente, ai danni delle
popolazioni più disparate grazie anche agli accordi raggiunti con le più
alte autorità religiose.
L’elegante veste grafica, ricca di immagini, rende questa riedizione
particolarmente meritoria da parte della casa editrice bolognese, se non
fosse per alcune sviste presenti nel testo determinate dalla scarsa frequentazione con la traduzione di testi medievistici: ciò spiega la mancata resa in italiano di nomi come Raoul Glaber (= Rodolfo il Glabro),
Aubrey (= Alberada), Cnut (= Canuto), Orderico Vitalis (= Orderico
Vitale), Argyrus (= Argiro), e così via, o peggio i fraintendimenti per cui
l’appellativo di Roberto il Guiscardo viene reso con l’aggettivo «cauto»
(p. 126). Per di più la mancata segnalazione della traduzione di numerosi
lavori citati in nota [su tutti M. Bloch, La società feudale, Torino varie edd.;
M. De Boüard, Guglielmo il Conquistatore, Roma 1989; J.J. Norwich, Il regno
nel sole. I normanni nel sud, Milano 1972; S. Runciman, Storia delle crociate,
Torino 1966; L.T. White, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania 1984] rende il libro meno fruibile per il lettore italiano interessato ad
approfondire gli aspetti della storia normanna trattati nel volume.
Luigi Russo
Rosa Canosa, Etnogenesi normanne e identità variabili. Il retroterra culturale
dei Normanni d’Italia fra Scandinavia e Normandia, Silvio Zamorani, Torino
2009, pp. 189, ISBN 978-88-7158-170-5.
La pubblicazione della tesi della dott.ssa Rosa Canosa (Università di
Torino) dimostra che, nonostante tutto, oggi è ancora possibile formare giovani medievisti in grado di proporre ricerche stimolanti. Occorre
subito notare che il lavoro della studiosa torinese adotta esplicitamente
Recensioni e schede
195
le categorie interpretative elaborate nell’ambito della “scuola di Vienna”,
resa celebre dalla monografia di Reinhard Wenskus, Stammesbildung und
Vervassung. Das Werden der frühmittelalterlichen gentes (Köln 1961), riprese e
approfondite dalle opere di Herwig Wolfram [di cui occorre ricordare la
celebre Geschichte der Goten tradotta in italiano nel 1985 per i tipi della Salerno editrice] nonché da quelle di Walter Pohl, conosciuto dal pubblico
italiano in seguito alla pubblicazione di una raccolta di saggi di grande
successo [Le origini etniche dell’Europa: barbari e romani tra antichità e Medioevo, Roma 2000]. Si tratta di lavori che si sono occupati di analizzare le
forme di creazione dell’identità etnica (= etnogenesi) delle popolazioni
germaniche nei secoli altomedievali: l’autrice dimostra – con efficacia
– la possibilità di estendere tale metodologia di ricerca alle fonti di epoca successiva partendo da alcune piste interpretative evidenziate, oltre
trent’anni orsono, da Ovidio Capitani in un seminale contributo sulla
storiografia normanna [Motivazioni peculiari e linee costanti della cronachistica
normanna dell’Italia meridionale: secc. XI-XII, in «Atti della Accademia delle
Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali. Rendiconti»,
65 (1976-1977) fasc. I, pp. 59-91].
Nello specifico, il lavoro in questione analizza il tema dell’identità
dei Normanni d’Italia e la loro memoria delle origini, stabilendo importanti punti di raccordo con quanto avvenuto in Normandia e Inghilterra; l’identità etnica normanna è dunque intesa dall’Autrice come una
«espressione di strategie culturali di costruzione di un’origine legittimante ogni volta potenzialmente diversa» (p. 21), un filo conduttore del resto
esplicitato sin dal titolo del volume. Chi scrive non può che sottolineare
l’attenzione costante al binomio “memoria/oblio” nell’ambito della produzione storiografica analizzata (in particolare Dudone di San Quintino,
Amato di Montecassino, Goffredo Malaterra e Guglielmo di Puglia), ma
soprattutto apprezzare la fecondità di un approccio metodologico che,
piuttosto che soffermarsi sull’enunciato delle fonti, privilegia l’indagine
sul lessico delle fonti e sulla costruzione del mito (al riguardo si veda
quanto detto alle pp. 154-155).
Il quadro complessivo che emerge è quello di una differente etnogenesi tra i Normanni delle varie regioni europee nelle quali essi si stanziarono: mentre in Inghilterra la memoria delle origini nordiche venne
utilizzata a titolo di legittimazione per i cavalieri guidati da Guglielmo il
Conquistatore, ciò non avvenne nel caso italiano dove la famiglia degli
Altavilla preferì riconnettersi alla Normandia da cui proveniva piuttosto
che al mondo nordico (cfr. pp. 98 e ss.). Molto più impegnativa fu poi la
196
Recensioni e schede
soluzione elaborata da Dudone nella sua storia dei duchi di Normandia:
posto di fronte al problema di mascherare i rapporti esistenti tra i Normanni e i pirati vichinghi, lo storiografo si impegnò in «un’operazione
di nascondimento» (p. 33) dell’identità nordica, privilegiando i fattori di
integrazione nel mondo franco [un elemento questo sul quale oggi siamo
molto meglio informati grazie alle ricerche di Pierre Bauduin] ed evidenziando l’avvenuta cristianizzazione degli esponenti della stirpe ducale. La
conquista del Mezzogiorno italiano, della Normandia e dell’Inghilterra,
rese necessaria per i Normanni l’elaborazione di un “discorso mitico”
che da un lato chiarisse nessi e modalità delle loro conquiste, dall’altro
le legittimasse: nella delucidazione dei punti qualificanti di tale discorso
sta il pregio del lavoro di Rosa Canosa, la quale propone una griglia
concettuale ampia della storiografia normanna dell’XI secolo, periodo in
cui si concentra la parte preponderante della sua analisi che si auspica sia
foriera di ulteriori sviluppi.
Luigi Russo
Alle origini del dualismo italiano. Regno di Sicilia e Italia centro-settentrionale
dagli Altavilla agli Angiò (1100-1350), Convegno del Centro Europeo di
Studi Normanni, Ariano Irpino (AV), BIOGEM, 12-14 settembre 2011.
Il Centro Europeo di Studi Normanni di Ariano Irpino festeggia
vent’anni di attività con un convegno che, nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, risulta di stringente attualità: “Alle origini del dualismo italiano. Regno di Sicilia e Italia centro-settentrionale dagli Altavilla agli Angiò (1100-1350)”. Obiettivo dell’incontro è quello di mettere in evidenza
analogie e differenze tra nord e sud Italia durante il Basso Medioevo sul
piano della storia economica.
A David Abulafia è demandato di aprire i lavori con una relazione
che ripercorra lo status quaestionis sull’argomento dalla stesura del suo
The Two Italies. Economic relations between the Norman Kingdom of Sicily and
the Northern communes (uscito a Cambridge nel 1977) fino alle più recenti
tendenze interpretative e metodologiche della ricerca storiografica. Se
da una parte sono stati avanzati dubbi (Steven A. Epstein) sui risultati di
un approccio metodologico che interpreta i rapporti economici NordSud sulla base di un metro di giudizio moderno influenzato dal sistema
capitalistico, dall’altra il relatore ha insistito sulla presenza oggettiva e
innegabile di un “dualismo” italiano. Anche se questo concetto va usato,
Recensioni e schede
197
per sua stessa ammissione, in maniera giudiziosa, tanto da essere interpretato non come uno schema fisso e rigido ma flessibile e adattabile a
una situazione fluida in cui, in realtà, le “Italie” non solo solamente due
ma molte (tanto da parlare di “pluri-“ o “micro-“ dualismo).
Nella prima sessione si è voluto delineare in generale i rapporti economici Nord-Sud durante l’arco cronologico interessato dal convegno
scandito secondo le principali cesure politico-istituzionali che hanno caratterizzato il Regno. Così Claudio Azzara ha parlato dei “precedenti
prenormanni” insistendo sulla necessità di rivedere certi modelli che, in
maniera troppo spesso meccanica, hanno forzato la realtà dei fatti secondo rigidi schemi preconcetti. Né con la conquista longobarda e neppure
con quella franca si determinò una netta contrapposizione dualistica tra
il nord e il sud dell’Italia e sarebbe un errore voler ritrovare già in questi
eventi le origini della decadenza e della marginalità del Mezzogiorno. La
realtà è, in verità, molto più complessa ed elaborata e, senza voler negare
le differenze esistenti tra le due aree, il tutto va riconsiderato in maniera
più fluida e sfumata.
Errico Cuozzo si è dedicato ai “Normanni” insistendo sulla necessità di indagare la storia economica del Regno non in confronto alle città
del centro e nord Italia ma tenendone in conto le specifiche peculiarità:
anche alcune realtà urbane del Mezzogiorno ebbero una vivace attività
finanziaria e mercantile (in alcuni casi favorita, addirittura, dalla monarchia stessa). Se una differenziazione tra le due aree è innegabile, ciò non
è imputabile, come precedentemente la storiografia aveva ritenuto, alla
Corona (alla quale, tra l’altro, era estraneo il concetto tipicamente moderno di politica economica) ma a specifiche cause interne alle singole
città che devono essere indagate di volta in volta nelle loro peculiarità.
Sulla stessa linea interpretativa si è posto Hubert Houben relativamente agli “Svevi”. Infatti anch’egli pone l’accento sulla necessità di sfumare una netta contrapposizione dualistica tra Nord e Sud e di analizzare
le città del Mezzogiorno nel loro contesto e nelle loro specificità. Inoltre,
se certamente sotto Federico II la pressione fiscale fu forte e le ricchezze
del Regno furono utilizzate come mezzi per finanziare la politica internazionale e di respiro universale dello Svevo (che invece dimostrò disinteresse per le loro potenzialità mercantili ed economiche), anche per l’età
sveva, così come per quella normanna, non fu la monarchia a rallentare
lo sviluppo economico del Mezzogiorno.
L’ultimo passaggio dinastico è affidato alla relazione di Francesco
Paolo Tocco che tratta degli “Angiò”. Il relatore ha messo in evidenza
198
Recensioni e schede
come durante il governo di questi regnanti la divisione Nord-Sud venne ad accentuarsi in maniera determinante: oltre allo sfruttamento delle risorse finanziare ed economiche da parte della Corona si registrò, a
esempio, una sempre maggiore presenza di operatori commerciali provenienti dal Nord (soprattutto provenzali e toscani, in particolare fiorentini). D’altro canto, tutto questo non va necessariamente interpretato in
termini negativi per il Mezzogiorno: Roberto il Saggio, pur mantenendo
una politica assai dispendiosa dal punto di vista militare e culturale, riuscì
a risanare le casse del Regno e ad alleggerire la pressione fiscale. Inappropriato dunque, a suo dire, il ricercare l’origine della moderna “questione
meridionale” già nel Medioevo (e nello specifico nella monarchia angioina) perché ciò porta a interpretare secondo un rigido schema dualistico
una realtà ben più elaborata e complessa che potrebbe essere definita
pluri- o micro- dualistica e che non è riassumibile, secondo un’anacronistica logica “colonialistica”, in un mero rapporto di sfruttamento a senso
unico delle terre del Sud da parte delle città comunali del Nord.
La seconda sessione ci ha offerto, invece, il punto di vista di quelle
entità politico-istituzionali che dall’esterno intervennero nelle vicende
economiche del Mezzogiorno. Ermanno Orlando si è dedicato ai rapporti tra “Venezia e il Regno” durante l’età, così impongono le fonti,
angioina. In genere la Serenissima intrecciava strette relazioni commerciali con il Sud (dovute anche agli interessi comuni di espansione verso
Bisanzio delle due parti) e molti suoi operatori penetrarono, anche con
la creazione di quartieri strettamente dipendenti dalla madre-patria, nei
porti pugliesi e siciliani gestendone le esportazioni. Tale rapporto, però,
non va visto in maniera esclusiva o privilegiata ma come parte di una
ben più ampia e complessa attività economica dal respiro mediterraneo
assolutamente non ascrivibile a un angusto modello dualistico.
Gabriella Airaldi ci ha insegnato che “Genova e il Regno” già dal
XII secolo erano “strutturalmente” legati da costanti relazioni di natura
sia economica che politica. Ma, anche in questo caso, si deve sottolineare
come il rapporto con il mezzogiorno d’Italia non sia stato assolutamente
a senso unico, bensì incentrato su una collaborazione tra le parti dovuta
a precipui interessi comuni e come tali relazioni rientrassero, in realtà,
in una più variegata e complessa politica internazionale di natura mediterranea intessuta dalla città ligure. Se con l’età angioina si assistette
a una destabilizzazione dei rapporti, ciò non va visto all’interno di un
dualismo Nord-Sud ma di una più generale situazione politica a livello
mediterraneo.
Recensioni e schede
199
Giuliano Pinto ha delineato le relazioni tra “Toscana, toscani e Mezzogiorno” in età angioina ponendo, subito in apertura, l’attenzione sul
fatto che, a differenza dei veneziani e dei genovesi, per questi l’azione nel
Meridione fu un elemento importantissimo ed essenziale della loro politica economica. In particolare, l’interesse per attività di natura mercantile, finanziaria e creditizia portò alla formazione, soprattutto da parte dei
fiorentini (che ebbero senz’altro la preminenza rispetto alle altre città toscane), di veri e propri monopoli e condizionò le scelte locali in materia.
Certamente, tale situazione causò un forte sbilanciamento dei rapporti
a favore del Nord, anche se la realtà dei fatti va rivista e fortemente sfumata perché non interpretabile in un senso così univoco come la storiografia aveva pensato. I sovrani angioini non furono poi così asserviti alla
politica delle città toscane né la situazione interna al Regno può essere
vista come un blocco unitario ma è da considerarsi alla luce delle sue
variegate specificità. Insomma, concetti come quello di “colonialismo” o
rigidi schemi dualistici di rapporto tra “dominanti e dominati” non possono essere applicati troppo frettolosamente. Se le cause delle due Italie
vanno ricercate nel lungo periodo, forse più ai secoli successivi a quelli
medievali dovrebbe indirizzarsi la ricerca e con una maggiore attenzione
ai fattori interni piuttosto che agli esterni.
Claudio Lo Jacono ci ha mostrato le relazioni politiche ed economiche intessute tra “Oriente Islamico e Mezzogiorno” prima della conquista normanna. Nello specifico ha ricostruito, per il X e parte dell’XI
secolo, il vivace sistema di scambi economici e commerciali dell’area
nord africana e mediterranea (con particolare attenzione all’Egitto del
tempo) che vide come protagonisti sia i musulmani che i cristiani e di cui
la Sicilia islamica era parte integrante grazie alla grande quantità e varietà
di prodotti che riusciva a porre sul mercato. Una floridezza che segnerà
il passo, facilitandone la conquista, proprio al momento dell’avvento dei
Normanni.
Con la III e la IV sezione il punto di vista torna interno al Regno ponendo l’accento su alcuni aspetti specifici delle attività economiche. JeanMarie Martin, a esempio, ha posto l’attenzione su “mercanti e classi
mercantili” ammonendo che è necessario indagare la politica economica
del Mezzogiorno per quella che è e non come un complemento di quella
del nord Italia o in funzione della così detta questione meridionale. Ne
risulta che, sebbene le innegabili diversità rispetto all’Italia centro-settentrionale, in realtà gli elementi di decadenza non furono poi così accentuati come era stato ritenuto e che il quadro generale fu caratterizzato da
200
Recensioni e schede
una certa complessità di sfaccettature. Per il relatore, nel corso del XII
secolo nel Sud si assistette a un forte sviluppo economico paragonabile
a quello registrabile nel resto d’Europa e che venne meno solamente nel
corso del XIII secolo quando nel Regno, carente di un vero e proprio
ceto mercantile, l’attività commerciale fu presto abbandonata all’iniziativa di mercanti veneziani, genovesi e toscani a favore della gestione degli
appalti monarchici. È in questo processo che si consumò il fallimento
economico del Sud.
Rosanna Alaggio ha invece affrontato il tema delle attività economiche (e soprattutto commerciali) delle città costiere pugliesi lungo “il
versante adriatico e jonico” in età pre-normanna e normanno-sveva. Ne
è emerso che la conquista delle terre del Sud da parte dei Normanni non
ha costituito una vera e propria cesura perché fu solamente durante la
dominazione sveva che si assistete a un processo di abbandono delle
attività mercantili in favore dell’acquisizione di uffici, cariche e diritti di
monopolio strettamente legati alla Corona e a un conseguente asservimento delle iniziative locali alla politica monarchica. Ma se ciò ha determinato il decadimento economico delle città del Mezzogiorno, in realtà,
suggerisce la relatrice, questo fu solo uno dei fattori scatenanti e neppure
il principale.
Henry Bresc si è chiesto quando è iniziato il sottosviluppo della Sicilia e quali ragioni lo hanno causato. Per lui l’età normanna vide l’apice
della potenza economica dell’isola grazie all’utilizzo, da parte dei conquistatori venuti dal nord, di una classe dirigente di origine musulmana
e greca alla quale si aggiunsero gli operatori lombardi. È con gli Svevi
(e la definitiva espulsione dei saraceni) e gli Aragonesi che si creò uno
spopolamento e una decadenza del tessuto urbano che portò a un’organizzazione latifondistica la cui produzione fu generalmente indirizzata a
mercati esterni e commercializzata da stranieri (secondo un modello di
vera e propria “economia coloniale”).
Con Pietro Dalena la verifica del dualismo italiano è avvenuta tramite il confronto tra “vie e mezzi di comunicazione” del nord e del sud
della Penisola. I Normanni non svilupparono una vera e propria politica della viabilità delegando e lasciando l’iniziativa agli enti locali. Stesso
processo si manifestò con gli Svevi: Federico II si occupò solamente
delle grandi vie imperiali per fini militari tralasciando completamente
il restante tessuto viario. Se con gli Angioini si manifestò una maggiore
attenzione per le strade, le loro iniziative furono incentrate esclusivamente ai problemi della sicurezza lungo tali vie e forte restò ancora l’in-
Recensioni e schede
201
tervento locale in un contesto, complessivamente, alquanto degradato.
Manifestando una forte divaricazione tra le parti, completamente diversa
si presenta la situazione nel Centro e nel Nord ove le città comunali
pianificarono interventi in favore delle strade realizzando un impianto
viario ben più efficiente.
Aurelio Cernigliaro ha analizzato “il diritto dell’economia e del
commercio” come mezzo per meglio comprendere il dualismo NordSud e le eventuali cesure causate dal passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva. Tra la formulazione teorica presente, a esempio,
nel Liber Augustalis di Federico II e la gestione pratica degli aspetti economici esistette una forte discrepanza. Quindi lo scenario risulta molto più
complesso e variabile di quanto è potuto sembrare e con fasi e momenti
non assolutamente omogenei e perfettamente coerenti. Se nella politica
federiciana di gestione e stretto controllo regio della fiscalità a discapito
delle entità locali si è voluto vedere la causa dello strangolamento dell’economia del Sud, non è assolutamente detto che la realtà corrispondesse
perfettamente alla teoria e, per forza di cose, qualsivoglia considerazione
in merito deve essere suffragata da un puntuale confronto tra le parti.
Compito di Nicola De Blasi è stato l’occuparsi di “dualismi e pluralismi culturali in Italia” ma, nello specifico, dedicandosi ad aspetti prettamente linguistici. Il relatore ha insistito sul fatto che, in verità, di dualismo si può parlare solamente per il rapporto tra latino e volgare mentre
per quest’ultimo è più corretto pensare a un “pluralismo” linguistico
(caratterizzato, comunque, da una sua omogeneità di base che permette
di classificarlo come “italiano”). Dunque, da riconsiderarsi è la rigida e
invalicabile divisione dei volgari secondo la ben nota linea La SpeziaRimini: la situazione era, nella realtà, molto più fluida e varia di quanto
era stato schematizzato e i molteplici idiomi che da nord a sud caratterizzavano la nostra penisola si combinavano tra di loro influenzandosi a
vicenda.
Quella di Giuseppe Galasso, come lo stesso autore ha tenuto a sottolineare, non è stata una conclusione al convegno ma semplicemente
la relazione che ne ha chiuso i lavori. Se certamente la cesura tra Nord
e Sud non va necessariamente vista all’interno di un processo lineare
ma che è caratterizzato da varie fasi e differenti sviluppi in continuo
cambiamento e il Mezzogiorno stesso va considerato alla luce delle sue
proprie specificità, lo studioso ha posto l’accento su “un dualismo di
lunga durata” che, nato già con la discesa longobarda, si accentuò durante il Medioevo e soprattutto l’età moderna e contemporanea. Proprio
202
Recensioni e schede
nella, già medievale, mancata partecipazione del Meridione alle crociate,
conquista del Sud da parte dei Normanni (con la conseguente introduzione del sistema istituzionale che ne zavorrò lo sviluppo economico) e
gestione sconsiderata delle sue risorse da parte della monarchia egli ha
rintracciato le cause di questo processo.
In definitiva, giornate dense quelle di Ariano e che, tra spunti e suggestioni per approfondimenti futuri, hanno messo in evidenza tutta la
complessità della realtà economico-sociale del Regno e dell’Italia centrosettentrionale tra 1100 e 1350.
Mirko Vagnoni