ArNoS. Archivio normanno-svevo. 3 (2011/2012)
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ArNoS. Archivio normanno-svevo. 3 (2011/2012)
ArNoS ARCHIVIO NORMANNO-SVEVO Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII del Centro Europeo di Studi Normanni Texts and Studies in Euro-Mediterranean World during XIth-XIIIth Centuries of Centro Europeo di Studi Normanni 3 2011/2012 Miscellanea Claudio Leonardi Centro Europeo di Studi Normanni Ariano Irpino ArNoS ARCHIVIO NORMANNO-SVEVO Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII del Centro Europeo di Studi Normanni COMITATO SCIENTIFICO G. Arnaldi, Th. Asbridge, P. Bouet, M. Caravale, G. Coppola, F. Delle Donne, M. D’Onofrio, H. Enzensberger, S. Fodale, C.D. Fonseca, J. France, G. Galasso, V. Gazeau, E.C. van Houts, Th. Kölzer, C. Leonardi (†), O. Limone, G.A. Loud, J.M. Martin, E. Mazzarese Fardella, F. Neveux, M. Oldoni, F. Panarelli, A. Paravicini Bagliani, A. Romano, V. Sivo, W. Stürner, A.L. Trombetti, H. Takayama, S. Tramontana SEGRETERIA DI REDAZIONE L. Russo, T. De Angelis COMITATO DI DIREZIONE A. Cernigliaro, E. Cuozzo, E. D’Angelo, O. Zecchino © 2012 Centro Europeo di Studi Normanni ISSN: 2036-7759 ISBN: 978-88-98028-00-9 ArNoS 3 (2012) SOMMARIO Fulvio Delle Donne, Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa 7 Francesco Panarelli, Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera e la famiglia di Maione di Bari 19 Barbara Visentin, Identità signorili e sistemi di gestione tra IX e XII secolo. Le terre del Castrum Iufuni e la Trinità di Cava 33 Lamia Hadda, Il bassorilievo di Mahdiya. Vicende storico-artistiche tra Ziridi e Normanni nel Mediterraneo medievale (XI-XII sec.) 59 Mario R. Zecchino, Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 69 Benoît Grévin, Un dictator peut en cacher un autre… À propos de la lettre «Expectantes expectavimus-noscitis emanasse» et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 89 Teofilo De Angelis, Note propedeutiche all’edizione del libro VI del cosiddetto Epistolario di Pier della Vigna 105 Fulvio Delle Donne, Su un codice stravagante del cosiddetto Epistolario di Pier della Vigna: Innsbruck, Universitäts-bibliothek, 400 113 Rosanna Lamboglia, Aspetti della guerra del Vespro: il biennio 12961298 nella prospettiva di Federico III, re di Sicilia, e di Ruggero di Lauria 121 Giovanni Coppola - Carmine Megna, Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 153 Recensioni e schede 179 LE ISCRIZIONI DEL MAUSOLEO DI BOEMONDO D’ALTAVILLA A CANOSA Fulvio Delle Donne Il mausoleo di Boemondo d’Altavilla († 1111), a Canosa, rivela elementi di sicuro interesse per la storia artistica e culturale del Mezzogiorno normanno1. Esso gli fu dedicato probabilmente dalla madre Alberada, e, addossato alla cattedrale di San Sabino, presenta un tamburo ottagonale, decorato con colonnine e marmi. Particolare attenzione qui verrà riservata all’iscrizione in versi posta sia sul tamburo che sulle porte bronzee del mausoleo, che si presenta piuttosto problematica, e per questo va analizzata attentamente. 1 Sulla vita di Boemondo cfr. soprattutto R.B. Yewdale, Bohemund I, Prince of Antioch, Princeton 1924; R. Manselli, Boemondo d’Altavilla alla prima Crociata, «Japigia» 11, 1940, pp. 45-79 e 154-184 (poi in Id., Italia e Italiani alla prima Crociata, Roma 1992, pp. 37-110); D. Girgensohn, Boemondo I, in Dizionario Biografico degli Italiani, 11, Roma 1969, pp. 117-124; F. Panarelli, Il Concilio di Bari: Boemondo e la Prima Crociata, in Il Concilio di Bari del 1098. Atti del convegno storico internaz. e celebrazioni del IX centenario del Concilio, cur. S. Palese e G. Locatelli, Bari 1999, pp. 145-167; R. Hiestand, Boemondo I e la prima Crociata, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. Atti delle XIV Giornate normanno-sveve, Bari 17-20 ottobre 2000, cur. G. Musca, Bari 2002, pp. 65-94; J. Flori, Bohémond d’Antioche. Chevalier d’aventure, Paris 2007; L. Russo, Boemondo. Figlio del Guiscardo e principe di Antiochia, Avellino 2009. Sul mausoleo, sulle sue decorazioni e sulle sue porte basti, qui, rinviare, per un quadro complessivo e per alcuni principali riferimenti bibliografici a M. Falla Castelfranchi, Il Mausoleo di Boemondo a Canosa, in I Normanni popolo d’Europa. 1030-1200, Catalogo della mostra (Roma, gennaio-aprile 1994), cur. M. D’Onofrio, Venezia 1994, pp. 327-330. All’argomento è stato recentemente dedicato anche il convegno Boemondo I di Altavilla, un normanno tra Occidente e Oriente, Canosa 5-7 maggio 2011, in corso di stampa, in margine al quale le presenti riflessioni sono scaturite. 8 Fulvio Delle Donne Fig. 1. Canosa, tamburo del mausoleo di Boemondo (le foto sono di Luisa Derosa) La parte collocata sul tamburo è incisa in caratteri capitali di tipo romanico, senza abbreviazioni2, su lastre di marmo, e, trascritta “criticamente”, è questa: Magnanimus Sirie iacet hoc sub tegmine princeps, quo nullus melior nascetur in orbe deinceps. Grecia victa quater, pars maxima Partia mundi ingenium et vires sensere diu Buamundi. 5 Hic acie in dena vicit virtutis abena agmina millena, quod et urbs sapit Anthiocena3. I sei esametri sono incisi sui cinque lati disponibili del tamburo ottagonale: i primi quattro sono ciascuno su un lato; gli ultimi due, 2 Per una descrizione paleografica ed epigrafica di queste iscrizioni cfr. F. Magistrale, Forme e funzioni delle scritte esposte nella Puglia normanna, «Scrittura e civiltà» 16, 1992, pp. 5-75, spec. pp. 27-41. 3 «Sotto questa copertura giace il magnanimo principe della Siria, migliore del quale non nascerà più alcuno al mondo. La Grecia vinta quattro volte, la Partia, grandissima parte del mondo, ebbero a lungo prova dell’ingegno e delle forze di Boemondo. Costui in dieci battaglie sottomise alle redini della sua virtù schiere di migliaia di uomini: cosa che sa anche la città di Antiochia». Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa 9 Figg. 2-5. Canosa, i versi dell’iscrizione sul tamburo del mausoleo di Boemondo invece, che sono anche leonini, cioè con rima anche tra le ultime lettere dei due emistichi, sono messi assieme e disposti su due linee di scrittura, di cui la prima finisce, senza rispettare la scansione dell’esametro, con millena, ovvero con la fine rimata del primo emistichio. Questa, tuttavia, non è l’unica stranezza, poiché anche nel quarto verso il verbo sensere viene diviso, lasciando molto spazio tra la terza e la quarta lettera. Ma è soprattutto la prima parola del primo verso a presentare complicazioni: infatti, essa non è magnanimus, ma è agnanimis. La mancanza della prima lettera, la m, è solo apparente, perché, evidentemente, è coperta dal capitello di una delle colonnette che intercalano i lati del tamburo; invece, l’errore morfologico, cioè un incomprensibile dativo o ablativo plurale invece del corretto nominativo singolare, fa pensare senza dubbio a un errore di trascrizione. Bisogna, però, capire come si sia generato: su questo torneremo fra poco. Proseguiamo, intanto, con la lettura dei versi incisi a bulino sulla porta di bronzo, o meglio su una sua anta, del medesimo mausoleo. In 10 Fulvio Delle Donne Fig. 6. Canosa, le porte di bronzo del mausoleo di Boemondo Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa 11 Fig. 7. Canosa, vv. 1-6 dell’iscrizione sulla porta di bronzo del mausoleo di Boemondo alto, si legge un primo gruppo di sei versi, ovvero di tre coppie di distici elegiaci, che, trascritti “criticamente”, sono i seguenti: Unde boat mundus, quanti fuerit Boamundus: Grecia testatur, Syria dinumerat. Hanc expugnavit, illam protexit ab hoste; hinc rident Greci, Syria, dampna tua. 5 Quod Grecus ridet, quod Syrus luget, uterque iuste, vera tibi sit, Boamunde, salus4. Poi, dopo un grande fregio circolare, si leggono, sempre incisi con simile tecnica ma con dimensione più ridotta, altre due coppie di distici (vv. 7-10): Vicit opes regum Boamundus opusque potentum et meruit dici nomine iure suo intonuit terris. Cui cum succumberet orbis, 10 non hominem possum dicere, nolo deum5. 4 «Per questo il mondo rimbomba di quanto sia stato Boemondo: la Grecia lo testimonia, la Siria lo enumera. Egli espugnò questa, protesse quella dal nemico; così i Greci ridono dei tuoi danni, o Siria. Ciò di cui ride il Greco, ciò di cui piange il Siro, l’uno e l’altro giustamente, sono per te vera salvezza, o Boemondo». Non è sintatticamente corretto, come talvolta viene fatto, rendere interrogative «Quod Grecus ridet? Quod Syrus luget?». È vero, come segnala Magistrale, Forme, p. 38, che alla fine di questo verso si vede un punto sovrastato da un breve tratto obliquo: ma mi pare sorprendente che all’inizio del XII secolo – se pure è vero che tali incisioni risalgono a quell’epoca – si avesse una coscienza ortografica tanto sviluppata, soprattutto riguardo ai segni di interpunzione. Pertanto, quel segno potrebbe semplicemente indicare una pausa di senso, solo leggermente variato rispetto a quelli usati negli altri versi. 5 «Boemondo vinse la potenza dei re e l’opera dei potenti e a buon diritto meritò che dal suo nome si dicesse che tuonò nelle terre. E, dal momento che il mondo soccombette a lui, non posso chiamarlo uomo, ma non voglio chiamarlo dio». 12 Fulvio Delle Donne Fig. 7. Canosa, vv. 7-14 dell’iscrizione sulla porta di bronzo del mausoleo di Boemondo Poi, ancora, lasciando alcuni centimetri di spazio, seguono altri quattro versi (11-14), con caratteri di dimensione all’incirca uguale a quella dei precedenti quattro, ma questa volta tutti esametri: Qui vivens studuit, ut pro Christo moreretur, promeruit, quod ei morienti vita daretur. Hoc ergo Christi clementia conferat isti, militet ut celis suus hic adleta fidelis6. E, dopo un altro grande fregio circolare, seguono altri due esametri (vv. 15-16), che presentano un modulo grafico più grande: 15 Intrans cerne fores; videas, quid scribitur; ores, ut celo detur Boamundus ibique locetur7. Tutti i versi sono incisi in maniera tale da occupare ciascuno un intero rigo di scrittura, ma come si è detto, i moduli grafici appaiono di dimensione differente. Francesco Magistrale, che ha analizzato l’iscrizione, sia quella del tamburo, sia quella della porta bronzea, ha 6 «Chi vivendo si adoprò a morire per Cristo, meritò che a lui morente venisse data la vita. Dunque, la clemenza di Cristo gli conceda questo, che questo suo fedele atleta faccia il soldato in cielo». 7 «Tu che entri osserva la porta; guarda ciò che è scritto; prega che Boemondo sia dato al cielo e che lì venga collocato». Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa 13 rilevato talvolta difformità nel modo di tracciare alcune lettere, ma ha lasciato intendere che essa è unitaria, ovvero attribuibile a una stessa mano dell’inizio del XII secolo, e che le diverse dimensioni delle scritte, maggiori nella parte alta e in quella bassa della porta, sono state, evidentemente, studiate per agevolare la lettura; e concludeva che l’analisi condotta, «rivelando una ricca varietà di forme scrittorie accanto ad una molteplice articolazione nel disegno delle lettere, dimostra che l’ideatore della scritta sulla valva sinistra del mausoleo, oltre a perseguire manifesti propositi encomiastici della figura di Boemondo I, ha consapevolmente organizzato una pagina di scrittura esposta, assumendo liberamente quali modelli sia la coeva scrittura epigrafica romanica sia il complesso di lettere maiuscole, minuscole ed onciali, di modulo ingrandito, adoperate con funzione distintiva in numerose testimonianze documentarie e librarie della stessa età»8. In effetti, stabilire la datazione delle iscrizioni permetterebbe di capirne la funzione. Se, infatti, esse sono tutte dello stesso autore, e se sono riconducibili a una data immediatamente posteriore alla morte di Boemondo, si potrebbe desumere un tentativo di legittimazione politica del principe antiocheno9, la cui memoria – a quanto pare – non trovò, almeno nell’immediato, molto spazio, né godette di grande favore nella produzione letteraria riconducibile all’Italia centro-meridionale, ovvero a quell’area di dominazione normanna che faceva capo alla linea dinastica di Ruggero Borsa, preferito al primogenito Boemondo dal padre Roberto il Guiscardo10. Accanto a tale questione, poi, si pone quella non meno importante degli eventuali rimaneggiamenti del manufatto artistico. Riguardo a questo secondo problema, si cede il campo a più specifici e competenti studi; non prima, però, di aver detto che l’iscrizione su lastre marmoree posta sul tamburo del mausoleo è da considerarsi di fattura sicuramente assai tarda, confermando quanto l’analisi di un capitello già 8 Magistrale, Forme, p. 38. Su questi problemi cfr. H. Houben, Da Venosa a Monreale. I luoghi della memoria dei Normanni del Sud, in Memoria. Ricordare e dimenticare nella cultura del Medioevo – Memoria. Erinnern und Vergessen in der Kultur des Mittelalters, cur. M. Borgolte, C. D. Fonseca, H. Houben, Bologna 2005, pp. 51-60; nonché A. Cadei, La porta del mausoleo di Boemondo a Canosa tra Oriente e Occidente, in Le porte del Paradiso. Arte e tecnologia bizantina tra Italia e Mediterraneo, cur. A. Iacobini, Roma 2009, pp. 429-469; Flori, Bohémond, pp. 293-300; Russo, Boemondo, pp. 202-203. 10 Ruggero Borsa nacque dal secondo matrimonio con Sichelgaita, principessa longobarda, che poteva offrire al Guiscardo maggiori opportunità di penetrazione nel sistema di dominio territoriale. 9 14 Fulvio Delle Donne lascia supporre11. Innanzitutto, infatti, si ricorderà che l’errore magnanimis invece di magnanimus, nel primo verso, l’avevamo classificato come un errore di “trascrizione”: una trascrizione che ha anche un terminus post quem. Infatti, Cesare Baronio (1538-1607), nell’ultimo volume dei suoi Annales ecclesiastici, mandati a stampa poco dopo la sua morte, descrivendo il mausoleo di Canosa, diceva che le iscrizioni sul tamburo erano «in tabulis aereis»12: quindi, nel 1607, o poco prima, i sei esametri del tamburo erano incisi su lastre di bronzo, non di marmo13. Questo dimostra con sufficiente certezza che in epoca moderna c’è stato non solo il rimaneggiamento della struttura architettonica e decorativa del tamburo del mausoleo, confermato senz’altro dal fatto che ancora alla fine del XVIII secolo aveva un tetto piramidale e non sferico, come ora14; ma anche il tentativo di imitare – forse si potrebbe addirittura dire “falsificare” – il modulo grafico “romanico” dell’iscrizione, prendendo a modello altre iscrizioni, forse anche alcune di quelle sulla porta di bronzo, che pure, tuttavia, presentano aspetti dubbi. Infatti, si sarà certamente notato che la parte di iscrizione collocata sulla porta di bronzo, in alto, comincia con problematico unde, da intendere, certamente, come conseguenza di ciò che è detto nei versi incisi sul tamburo, piuttosto che come prolessi del pentametro successivo «Grecia testatur, Syria dinumerat» (v. 2 della porta): questa seconda ipotesi, infatti, sembra contraddetta non tanto dalla costruzione sintattica – già caratterizzata dal prezioso uso del genitivo di stima quanti –, ma piuttosto dalla circostanza che il verso sembra una citazione abbastanza precisa, se non una rielaborazione, della parte finale di un componimento dedicato a Boemondo da Marbodo di Rennes. Marbodo di Rennes, probabilmente nel 1106, cioè in connessione con un viaggio compiuto in Francia da Boemondo15, racchiuse in 30 esametri leonini una rappresentazione ampiamente elogiativa dell’eroe 11 Specificamente dedicata alla questione è stata la relazione presentata al menzionato convegno canosino del maggio 2011 da Luisa Derosa, dal cui confronto sono scaturite le presenti riflessioni sull’iscrizione canosina dedicata a Boemondo. 12 C. Baronio, Annales ecclesiastici, XII, Romae 1607, p. 89. 13 Detto per inciso, nel primo verso, così come è riportato da Baronio, si legge magnanimus e non magnanimis. 14 Cfr. J.C. Richard de Saint Non, Voyage pittoresque ou description des Royames de Naples et de Sicile, III, Paris 1783, p. 34 e relativa incisione. 15 Sul viaggio in Francia, in particolare, cfr. L. Russo, Il viaggio di Boemondo d’Altavilla in Francia (1106), «Archivio storico italiano» 163, 2005, pp. 3-42. Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa 15 normanno16. Fin dal primo verso, egli è elevato al di sopra di tutti gli altri uomini: «In toto mundo non est homo par Boemundo». Anche in seguito sono celebrate le sue eccelse virtù non solo come condottiero, ma anche come signore, verso cui, come a un biblico re davidico, tutti guardano con rispetto: Syria servit ei, mittunt nova dona Sabaei, Parthus, Arabs, Medus cupiunt sibi iungere foedus, mulcet eum donis rex magnificus Babylonis soldanus, Perses pavet, et fugit illius enses, Africa formidat, devotaque munus ei dat17. Il finale del componimento di Marbodo, con un’esplosione allitterante, porta al parossismo la celebrazione (vv. 28-30): Istis de causis pro tot et talibus ausis per totum mundum fert fama boans Boemundum, et reboet mundus quia tanta facit Boemundus18. Come nel componimento di Marbodo, anche nella prima parte dell’iscrizione canosina, dopo aver ricordato le imprese belliche del Normanno, si fa discendere il gioco etimologico sul nome di Boemondo dall’effetto di una constatazione («unde...» nell’iscrizione; «istis de causis...» nel componimento di Marbodo), così da rendere l’esaltazione di Boemondo una naturale e logica conclusione, derivante dall’assunzione di un dato di fatto: essa è imposta non solo dalle imprese compiute, ma è implicita addirittura nello stesso nome, che, come una evidente 16 Marbodus Redonensis episcopus, Carmina varia, XXXVIII, Commendatio Jerosolymitanae expeditionis, in Patrologia Latina, ed. J. P. Migne, 171, Parisiis 1854, col. 1672 A-C. Cfr. anche V. G. Spreckelmeyer, Das Kreuzzugslied des lateinischen Mittelalters, München 1974, pp. 192-198. Inoltre, cfr. V. Sivo, Il Mezzogiorno e le Crociate in alcuni testi letterari, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, pp. 355-377, spec. pp. 364-368: questo saggio offre un esaustivo quadro complessivo sui testi letterari dedicati a Boemondo. 17 Marbodus, Commendatio cit., vv. 14-18; si segnala che è stato corretto in Perses il sicuramente errato Persas presente nell’edizione: «la Siria lo serve, nuovi doni gli inviano i Sabei, il Parto, l’Arabo, il Medio desiderano stringere patti con lui, il sultano di Babilonia, magnifico re, lo blandisce con regali, ha timore il Persiano e fugge le sue spade, l’Africa ha paura e, devota, gli concede tributi». 18 Ibid., vv. 28-30: «per queste cause, per tante e tali audacie, la fama porta rimbombando per tutto il mondo il nome di Boemondo, e il mondo riecheggi, perché tanto grandi cose fa Boemondo». 16 Fulvio Delle Donne consequentia rerum, racchiude etimologicamente la natura e il destino dell’eroe, che riempie il mondo col suo suono assordante. Il fatto che l’iscrizione sulla porta sia da interpretare come una prosecuzione di quella sul tamburo ci dovrebbe spingere a ritenere che esse siano state concepite unitariamente, oppure che quella sulla porta sia successiva. Tuttavia, l’analisi metrica dei versi rivela alcune incongruenze. Infatti, degli esametri incisi sul tamburo, i primi quattro sono accoppiati in rima, mentre gli ultimi due, oltre alla rima finale, hanno anche quella leonina in cesura. Inoltre, se i primi cinque versi sono prosodicamente regolari, l’ultimo presenta un forzato – pur se ammesso – allungamento in cesura della a finale di millena, che, altrimenti, dovrebbe essere breve. Insomma, quei sei versi, nella parte conclusiva, presentano non solo una diversa struttura metrica, ma anche un problema prosodico: proprio in coincidenza con la loro “irrazionale” collocazione accoppiata sull’ultimo lato del tamburo. A parte questo, poi, lascia perplessi anche il richiamo – non assolutamente anomalo, ma di certo abbastanza insolito per l’inizio del XII secolo19 – alla virtù della magnanimitas, in posizione privilegiata, tra l’altro, all’interno di un esametro che presenta un andamento “aureo”. Verrebbe quasi da pensare che quei versi non solo siano stati nuovamente incisi su marmo posteriormente al 1607, ma anche che siano stati composti in un’imprecisabile epoca non poco posteriore alla morte di Boemondo; pur se, di contro, si potrebbe ribattere che in un testo “falso”, ma artatamente creato per avere una facies autentica, un errore di trascrizione (magnanimis per magnanimus) sarebbe davvero strano. D’altra parte, i versi sul tamburo sono strutturalmente molto diversi da quelli incisi sulla porta. Infatti, i primi sei versi della porta, incisi sulla sua parte alta, sono distici: ovvero, pur proseguendo con unde quanto sarebbe iniziato sul tamburo, cambiano radicalmente forma e andamento. E non solo: sorprende, innanzitutto, la grafia diversa usata per il nome del celebrato (Boamundus, laddove sul tamburo è Buamundus, che, in ogni caso, non permette il gioco verbale etimologico col verbo boo), nonché per quello della regione da lui sottomessa (Syria, mentre sul tamburo è Siria). E se queste differenze nelle abitudini ortografiche potrebbero anche dipendere dalla successiva trascrizione dell’iscrizione 19 Cfr., ad es., L. K. Born, The perfect prince according to the latin panegyrists, «The american journal of philology» 55, 1934, pp. 20-35; nonché F. Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione: letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce 2005, da cui si può ricavare ulteriore bibliografia. Le iscrizioni del mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa 17 sul tamburo, più difficilmente spiegabile è la differenza nel computo prosodico di Siria, ovvero Syria e Syrus: sul tamburo (v. 1) la prima sillaba è, correttamente, breve; sulla porta di bronzo (vv. 2, 4 e 5 della porta) essa è sempre lunga. A parte ciò, in questi versi si riscontrano anche altri problemi prosodici: come l’allungamento – teoricamente ammissibile – in cesura della sillaba finale di expugnavit nel secondo esametro e quello – teoricamente inammissibile – della sillaba finale di tibi nell’ultimo pentametro. Insomma, sembra davvero difficile pensare che i versi del tamburo (o almeno i primi quattro) e i primi sei versi della porta siano dello stesso autore. Quei versi scritti sulla parte alta della porta, che, come si ricorderà, avevano anche un modulo grafico più ampio rispetto ai seguenti, insomma, sembrano essere posteriori a quelli del tamburo, dei quali, come si è detto, già è dubbia la datazione. Essi, inoltre, sembrano dipendere dal citato componimento di Marbodo, che, tuttavia, data la sua chiara natura d’occasione, potrebbe essere giunto assai presto in Italia meridionale, portato dall’elogiato o dalla sua moglie francese, la figlia del re di Francia Filippo I. In ogni caso, però, sembrano anche essere una ripetizione amplificata dei quattro versi (sempre distici) successivi (vv. 7-10 della porta), in cui, similmente, si ricordano le imprese di Boemondo – con rima leonina in cesura e gioco di parole opes / opus nel primo esametro – e si allude, sia pure in maniera meno evidente, al gioco etimologico sul nome con l’espressione «intonuit terris»: quindi, non risulta improbabile che i primi sei versi incisi sulla porta siano posteriori anche a quelli successivi, posti su una parte più centrale dell’anta, cioè in posizione più idonea. La quartina ancora successiva (ovvero i vv. 11-14 della porta), anche se presenta lo stesso modulo grafico della precedente, è, invece, tutta in esametri piuttosto regolari: si segnala solo l’allungamento – consentito – in cesura della finale di studuit. Il cambio di metro, tuttavia, non disturba: preannunciato dallo spazio che separa questa quartina dalla precedente, trova giustificazione nel cambio di tema e di tono. Infatti, si passa dall’esaltazione delle imprese terrene del celebrato alla preghiera per la sua sorte ultramondana. Di questa quartina, i primi due versi sono in rima, mentre gli ultimi due sono leonini. Così come sono leonini anche gli ultimi due esametri (vv. 15-16), quelli che, con prosodia regolare, sono iscritti nella parte bassa della porta: anch’essi presuppongono la presenza di altri versi già incisi sulla porta, ma non è possibile stabilire se, pur presentando un modulo grafico maggiore rispetto agli otto versi 18 Fulvio Delle Donne precedenti, siano stati concepiti assieme a quelli, o se sono stati aggiunti posteriormente. Insomma, concludendo l’esame dell’iscrizione canosina, si può avanzare, non senza motivo, l’ipotesi che i versi posti nella parte centrale della porta di bronzo, essendo i meno dubbi, siano anche i più antichi: a quando risalgano, tuttavia, non è possibile dirlo. In ogni caso, quelli maggiormente celebrativi, più chiaramente interpretabili in funzione di rivendicazione politica del “diseredato” figlio del Guiscardo, cioè quelli sul tamburo e sulla parte alta dell’anta di bronzo, sono proprio i più dubbi. E questo ci rende consapevoli che, sul territorio, la legittimazione di Boemondo non fu, probabilmente, immediata, e che l’esplicita esaltazione in chiave eroica del personaggio fu frutto di una più tarda rielaborazione della sua memoria. LE ORIGINI DEL MONASTERO FEMMINILE DELLE SS. LUCIA E AGATA A MATERA E LA FAMIGLIA DI MAIONE DI BARI Francesco Panarelli Nel febbraio del 1160 il magister Gaugellus della città di Matera si presentò di fronte ai giudici Michele e Maraldicio della stessa città e al magister Marco per esprimere la sua volontà di donare se stesso e tutti suoi beni alla chiesa di S. Agata, nelle mani del sacerdote Ursone, in quel momento eiusdem ecclesie prior. Il donatore ritenne però necessario aggiungere che la sua donazione avveniva voluntate et precepto domini Melie Sclavide regiy comestabulis dominorum amiratorum sororiy et benefactoris magnifici, qui eandem suam ecclesiam ad laudem et gloriam divini nominis suis opibus ordinavit. Apprendiamo quindi che la donazione era avvenuta su espressa sollecitazione di Melia (o Melo) Sclavide (o de Sclavo), a sua volta fondatore della chiesa di S. Agata, istituzione destinataria della nuova donazione. Il documento, oggi perduto, fu pubblicato – con le incertezze ortografiche che lo caratterizzano – sin dal 1904 da Vincenzo Federici in una raccolta miscellanea di documenti meridionali con firme in versi1, ma ha ricevuto scarsa attenzione sia da parte di coloro che si sono occupati della vicenda della chiesa e del monastero delle SS. Agata e Lucia in Matera, sia da parte di coloro che si sono occupati della vicenda di Maione di Bari e della sua famiglia. Cominciamo con le osservazioni relative alla chiesa di S. Agata. La chiesa fondata da Melia o Melo de Sclavo all’interno della città di Matera va sicuramente identificata con la chiesa che, almeno dalla fine del XII secolo, ospitò un’importante comunità monastica femminile benedettina e aggiunse nella seconda metà del XIII secolo la titolazione a 1 V. Federici, Carte medievali con firme in versi, «Archivio storico della R. Società Romana di Storia Patria» 27, 1904, pp. 503-513, a pp. 510-511. 20 Francesco Panarelli S. Lucia, assieme a quella a S. Agata; si tratta di una delle due fondazioni monastiche femminili che caratterizzano la storia della Matera bassomedievale. A essa si affiancò infatti la comunità femminile di S. Maria la Nova, poi intitolata alla SS. Annunziata, legata originariamente a una piccola congregazione di penitenti con sede principale a S. Giovanni d’Acri e introdotta a Matera nel 1230 per volontà dell’arcivescovo acheruntino Andrea; la comunità seguiva la regola di Agostino e non casualmente agli inizi del XV secolo passò a far parte dell’ordine domenicano2. La fondazione dedicata alle sante Lucia e Agata non è stata, invece, ancora oggetto di uno studio esauriente, a parte un primo e recente intervento di Hubert Houben3, nel quale lo studioso tedesco mette a frutto una parte della non disprezzabile documentazione superstite proveniente da questo istituto, che comincia dal 1208. Il fondo documentario del monastero è andato perduto, ma si sono salvate le trascrizioni di età moderna di una buona parte delle pergamene originali e questo contribuisce a sanare una parte almeno delle lacune. Abbiamo in corso l’edizione dei documenti di SS. Agata e Lucia, all’interno del progetto volto a rendere fruibile il “Codice Diplomatico Materano”, la raccolta di documenti materani ideata e avviata da Giustino Fortunato agli inizi del XX secolo, senza che trovasse una realizzazione editoriale4. Ovviamente il lavoro di trascrizione dei documenti non può prescindere anche da una riconsiderazione della storia dell’istituzione che ha prodotto e conservato la documentazione e questo intervento si propone come prima riflessione sulla vicenda iniziale della comunità benedettina femminile materana. La storiografia locale nel complesso ha fornito indicazioni incerte e lacunose sulla origine della comunità monastica, sulle quali mi riservo di 2 Su questa comunità femminile ci permettiamo un rimando a F. Panarelli, Il Fondo Annunziata (1237-1493). Codice Diplomatico di Matera I, Galatina 2008 (Università degli studi di Lecce, Dip. dei Beni delle Arti della Storia, Fonti Medievali e moderne, XIII), e F. Panarelli (ed.), Da Accon a Matera: Santa Maria la Nova, un monastero femminile tra dimensione mediterranea e identità urbana (XIII - XVI secolo), Münster 2012 (Vita Regularis 50). 3 H. Houben, I monasteri benedettini femminili autonomi: i casi di S. Giovanni Evangelista di Lecce e delle SS. Lucia e Agata di Matera, in Il monachesimo femminile tra Puglia e Basilicata. Atti del Convegno di studi promosso dall’Abbazia benedettina barese di Santa Scolastica (Bari 3-5 dicembre 2005), cur. C.D. Fonseca, Edipuglia, Bari 2008, pp. 45-59. D’obbligo, per una prima sintesi della vicenda del monastero, il rimando alla scheda da Hubert Houben curata in Monasticon Italiae, III, Puglia e Basilicata, cur. G. Lunardi - H. Houben - G. Spinelli, Cesena 1986, n. 41 p. 187., 4 Sul progetto di edizione, che utilizza le trascrizioni fatte realizzare da Giustino Fortunato a inizio del ‘900 e che ci hanno trasmesso il testo di documenti andati poi bruciati nell’incendio di Villa Belsito, cfr. l’Introduzione a Panarelli, Il Fondo Annunziata. Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera 21 tornare in sede di edizione dei documenti. Qui ricordo soltanto che alla metà del XVIII secolo il canonico Domenico Nelli sosteneva, sulla base della mera presenza di una data su un architrave emerso durante lavori nei pressi delle fabbriche monastiche, che il monastero sarebbe esistito già a partire dall’8705. Nonostante l’epigrafe non sia conservata e l’interpretazione appaia del tutto incongrua, la possibile datazione si trova spesso ripetuta nella storiografia locale, così come quella che anticipa al 1092 l’esistenza della comunità monastica. In questo caso esiste un riferimento apparentemente più preciso, proveniente dall’opera di Lupo Protospatario, l’enigmatico cronista pugliese, forse di origine materana, che nella sua opera annota per il settembre 1093 (quindi 1092, dal momento che Lupo utilizza lo stile bizantino) anche la morte della badessa Eugenia sancti Benedicti monasterii Materiensis6. La badessa Eugenia gode anche di un culto a livello locale, come beata, ma non è possibile rinvenire alcun documento o notizia sulla sua persona oltre quanto riportato da Lupo7, e a maggior ragione risulta priva di fondamento l’ipotesi secondo la quale il monastero benedettino di cui Eugenia era badessa dovrebbe coincidere proprio con quello di S. Agata, attestato oltre un secolo più tardi8. Bisogna per il momento rassegnarsi e ammettere che non sappia5 Il Nelli riferisce che nel 1577 «essendo cascate alcune officine antiche dentro esso monastero si trovò in quelle rovine un gran pezzo di pietra lunga palmi sette, largo due, il quale scorgeva ch’era stato architrave d’un camino seù focolare e nel medesimo pezzo di pietra vi stava la seguente iscrizione … all’uso romano = DCCCLXX», in N.D. Nelli, Descrizione della città di Matera, della sua origine e denominazione, Matera 1751, ms. Matera, Museo Nazionale Domenico Ridola, Fondo Gattini, cap. 35, parag. 1; riprod. presso la Biblioteca Provinciale T. Stigliani di Matera. 6 Lupus Protospatarius, Annales 885-1102, ed. G.H. Pertz, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores 5, Hannover 1844, pp. 52-63, qui p. 62 (ad a. 1093): «Obiit abbatissa Eugenia Sancti Benedicti monasterii Materiensis mense octobris, et in eodem mense ipsius anni Urbanus papa venit in Materiem, et applicuit coenobium sancti Eustachii cum grandi plebe hominum suorum». Cfr. H. Houben, Urbano II e i Normanni (con un’appendice sull’itinerario del papa nel Sud), in Id., Mezzogiorno normanno-svevo. Monastero e castelli, ebrei e musulmani, Napoli 1996 (Nuovo Medioevo 52), pp. 115-143, qui p. 127. Su Lupo cfr. E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003, pp. 198-215; e F. Delle Donne, Lupus Apulus Protospatharius, in Encyclopedia of the Medieval Chronicle, cur. R.G. Dunphy, Leiden 2010, p. 1051. 7 Da Lupo hanno attinto gli storici materani, anche se è solo la tradizione locale a tramandare memoria della morte in odore di santità e della sepoltura di Eugenia nella cripta del monastero di S. Eustachio: cfr. da ultimo M. Morelli, Storia di Matera, Matera 1963, pp. 136-137. 8 Sulla base dei documenti allora disponibili anche Houben tende a dare credibilità all’ipotesi della coincidenza tra i due istituti, sulla base del legame sia di Eugenia, sia della 22 Francesco Panarelli mo null’altro del monastero femminile intitolato a S. Benedetto di cui Eugenia era badessa prima del 1092. Il documento citato in apertura permette invece di fare chiarezza sulla situazione della chiesa di S. Agata. Si dice infatti in maniera esplicita che alla metà del XII secolo la chiesa di S. Agata non ospitava alcuna comunità monastica, né maschile, né tantomeno femminile, ma costituiva una chiesa di fondazione privata, edificata e dotata per volontà di Melia di Sclavo, personaggio sul quale ci soffermeremo nel seguito. Come vedremo ancora, il dubbio lecito che la chiesa di S. Agata del 1160 non sia necessariamente identica con il monastero femminile può essere fugato sia dalla continuità dei rapporti della famiglia del fondatore con la stessa chiesa, poi divenuta sede monastica, nel XIII secolo, sia dalla mancanza di qualsiasi attestazione relativa a due luoghi di culto distinti dedicati entrambi a S. Agata nel circuito urbano di Matera, comprensivo tanto della Civita, quanto dei due Sassi, nel XII secolo. Possiamo essere certi che la chiesa del 1160 coincide con l’edificio utilizzato inizialmente dalla comunità monastica femminile, e tuttora esistente; la chiesa, ora dedicata alle SS. Lucia e Agata, è sita nel Sasso Caveoso, in prossimità dello strapiombo sul torrente Gravina, in una località denominata nelle fonti Malve o Pianelle. L’edificio attuale è costituito da una chiesa ipogea caratterizzata da una struttura piuttosto irregolare a tre navate, che ha subìto numerosi rimaneggiamenti e testimonia di vicende costruttive piuttosto complesse, che lasciano ipotizzare la fusione di due luoghi di culto originariamente distinti. Una serie di grotte nella zona sinistra è generalmente interpretata come parte integrante del complesso monastico e destinata all’uso delle monache. Questo edificio fu parzialmente abbandonato nel corso del XIV secolo dalle monache, che gli avrebbero preferito una nuova sistemazione sullo sperone terminale della Civita, a strapiombo sul dirupo sul fiume Gravina9. La dinamica, la cronologia e le ragioni di questo primo spostamento non risultano però ancora del tutto chiare, mentre meglio documentato è l’ultimo spostamento della comunità monastica avvenuto alla fine del XVIII secolo sul comunità di S. Agata con l’importante monastero benedettino urbano di S. Eustachio; Houben, I monasteri benedettini femminili autonomi, p. 51. 9 Per una prima descrizione delle vicende edilizie della comunità monastica cfr. B. Lafratta, Matera. Il monastero di SS. Lucia e Agata, in Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, cur. L. Bubbico - F. Caputo - A. Maurano, II, Matera 1996, pp. 122-130, a p.123; alla fine del ‘700 le monache si trasferirono ancora sul piano della Fontana, area di espansione della città moderna, nell’attuale piazza Vittorio Veneto, ove sono visibili gli imponenti edifici claustrali moderni. Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera 23 piano della Civita, nell’ampio edificio moderno che delimita con la sua mole l’attuale piazza Vittorio Veneto. La vicenda iniziale di S. Agata, con l’insediamento di una comunità religiosa femminile in una chiesa preesistente, sembra anticipare di qualche decennio quanto si realizzò anche a S. Maria la Nova: anche qui abbiamo notizia nel 1204 della esistenza di una chiesa, retta da un prete, con un probabile legame con la famiglia de Ulmis, senza alcuna menzione di comunità monastiche, mentre nel 1230 si realizzò la trasformazione della chiesa in monastero femminile10. Non mancarono anche per S. Maria la Nova due spostamenti della comunità femminile, prima presso la Cattedrale, nella Civita, e poi sul Piano della Fontana, nella stessa piazza Vittorio Veneto ove si trasferirono in età moderna le monache di SS. Lucia e Agata. A ogni modo il documento ci fa sapere che la chiesa di S. Agata era stata edificata per volontà di Melia de Sclavo in un anno non precisato avanti il 1160. Se non ci è stato possibile individuare ulteriori informazioni in relazione al magister Gaugellus che operò la donazione nel 1160, conosciamo almeno una parte dell’attività di colui che non solo approva la donazione, ma anche viene indicato come il benefattore che dotò originariamente la chiesa, cioè Melia di Sclavo. Le informazioni su Melia provengono esclusivamente da atti privati e, quindi, permettono una ricostruzione parziale della sua carriera, legata essenzialmente a vicende patrimoniali. Il padre di Melia era Stefano, figlio di Melia detto Sclavo, il quale nel 1099 aveva ricevuto un prestito da Petrizzi di Erasmo ponendo a garanzia una casa e delle vigne in Bari11. Nel 1104 sempre Stefano aveva concesso un prestito di quattordici marche d’argento a Bonfiglio di Roma e Giovanni di Tolosa, con l’interesse di cinque denari lucchesi per ogni marca d’argento; sul verso dello stesso documento venne registrato l’atto del 1108 con il quale sempre Stefano metteva temporaneamente il documento di prestito nelle mani di Eustachio, abate di S. Nicola, affinché recuperasse la sua quota di credito da Bonfiglio, per poi restituire il documento a Stefano perché anch’egli potesse recuperare il credito da Giovanni di Tolosa12. Si trattava quindi di una prima operazione di cre10 Per quanto riguarda la comunità di S. Maria la Nova rimandiamo a Panarelli, Il Fondo Annunziata, e Panarelli (ed.), Da Accon a Matera. 11 Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo normanno (1075-1194), ed. F. Nitti di Vito, Bari 1902 (Codice Diplomatico Barese V, d’ora in poi CDB V), n. 29, p. 49, dove la datazione al 1099 è comunque ipotesi dell’editore. 12 CDB V, n. 38, p. 66. 24 Francesco Panarelli dito abbastanza complessa, alla quale aveva partecipato anche il rettore della Basilica nicolaiana, con il che si lascia intravedere un giro di rapporti ampio e socialmente elevato da parte di Stefano. Nel 1144 compare ormai il figlio di Stefano, Melia. Kiri Melia f. domini Stefani qui et de sclavi aveva rilevato in quell’anno un debito insoluto da Epifana di Petracca, acquistando in tal modo i beni a suo tempo posti in pegno13. Nello stesso anno Petracca chroni figlia di Giovanni alienò una vigna nei pressi di Bari che deteneva per vicariationem da kiri Melia f. domini Stefani qui et de sclavi14. Nell’insieme queste notizie confermano una continuità di azione tra Stefano e il figlio Melia, con operazioni legate ad attività feneratizie, anche se non sempre è chiarissimo il ruolo da essi svolto. Un accostamento ancora al mondo del prestiti non manca anche in un documento proveniente da altra tradizione e che arricchisce notevolmente il profilo di Melia. Nel luglio 1143 Giacomo abate monasterii puellarum s. Salvatoris de Monticlo riceveva da Petracco detto Orsengaro, figlio di Rodi e residente in Bari, la donazione dei diritti che questi aveva su una casa nella città di Bari, casa che – ancora una volta - gli era stata data in pegno per un debito di ventiquattro schifati aurei da Niceforo figlio di Petracco di Antranica; ad accompagnare l’abate Giacomo vi era il suo avvocato Kirye Melia de Sclavo15. Come abbiamo mostrato in altra sede, l’abate Giacomo, destinatario della donazione di Orsengaro, era il superiore del monastero di S. Salvatore al Goleto, nei pressi Nusco in Irpinia; il monastero era stato fondato un decennio prima da Guglielmo da Vercelli, già reduce dalla esperienza di fondazione di S. Maria di Montevergine, e ora impegnato nella guida di una comunità monastica femminile. Alla sua morte, avvenuta nel giugno del 1142, gli successe l’abate Giacomo, unico (per 13 CDB V, n. 97, p. 165, marzo 1144: Epifana di Petracca, vedova di Rodostamo, prende possesso di una vigna e oliveto che Alfarana figlia di Petracca di Mira e vedova di Leone aveva dato in pegno al suo defunto marito per un prestito di ottocento ducali rimasto insoluto; Melia de Sclavo interviene a questo punto «pro protimissy» e versa gli ottocento ducali a Epifana, con l’aggiunta di altri trentadue per le migliorie apportate sulla terra (probabilmente gli interessi per il prestito) e acquista con ciò la terra. 14 CDB V, n. 96, p. 164, settembre 1144. 15 Il documento in questione fa parte del Fondo Fusco acquisito e conservato presso la Società Napoletana di Storia Patria a Napoli; il regesto è pubblicato in Elenco delle pergamene già appartenenti alla famiglia Fusco, «Archivio storico per le Province Napoletane» 8, 1883, pp. 1153-161, 332-338, 775-787, alle pp. 333-4, mentre un’edizione integrale del documento si trova in F. Panarelli, Tre documenti sugli esordi della comunità di S. Salvatore al Goleto, in Mediterraneo, Mezzogiorno, Europa. Studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, Bari 2004, pp. 799-815, alle pp. 811-812. Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera 25 quanto noto) superiore maschile della comunità femminile del Goleto, dopo la morte di Guglielmo da Vercelli, e al quale si deve con molta probabilità la committenza della prima parte del testo agiografico dedicato dai discepoli goletani al fondatore Guglielmo16. Guglielmo da Vercelli aveva intrattenuto rapporti intensi con l’area barese, testimoniati tanto dal testo agiografico, dove di parla ripetutamente dei viaggi compiuti da Guglielmo a Bari, dove avrebbe anche acquistato libri e arredi liturgici per la prima comunità monastica di Montevergine17, quanto anche da alcuni atti documentari superstiti18; Guglielmo aveva anzi ricevuto già in vita la donazione di una chiesa nell’immediato suburbio di Bari, intitolata a S. Giorgio19. La donazione effettuata nel 1143 si colloca quindi in continuità con i rapporti e di Guglielmo da Vercelli e della comunità femminile del Goleto con la città di Bari. Ci interessa però qui, in maniera particolare, rilevare la presenza di Melia de Sclavo quale avvocato dell’abate goletano, a testimonianza di un rapporto fiduciario tra la giovane comunità irpina e lo stesso Melia. Non conosciamo le vie attraverso cui Melia giunse a questo ruolo, ma si tratta di un affiancamento che proietta comunque Melia in una dimensione già più ampia rispetto al solo ambito urbano barese e soprattutto lo pone in diretta relazione con una delle più interessanti esperienze di monachesimo riformato nella Apulia del XII secolo, quella legata a Guglielmo da Vercelli, e alle sue fondazioni di S. Maria di Montevergine e di S. Salvatore di Goleto. Non possiamo sapere se vi fossero più stringenti ragioni economiche, vista la natura da credito della donazione, ma neppure si deve escludere un coinvolgimento diretto di Melia nel consolidamento della giovane comunità irpina e delle sue dipendenze in area barese. 16 Rimandiamo per la questione della composizione e della committenza del testo agiografico su Guglielmo, nonché per la bibliografia precedente, a quanto detto nella Introduzione in F. Panarelli, Scrittura agiografica nel Mezzogiorno normanno. La Vita di san Guglielmo da Vercelli, Galatina 2004 (Università degli studi di Lecce, Dip. dei Beni delle Arti della Storia, Fonti Medievali e moderne, VI). 17 Cfr. Panarelli, Vita di San Guglielmo, p. 14. 18 In particolare in un documento del 1162 si discute dell’affidamento fatto prima del 1142 a Guglielmo di ben trecento capi di bestiame da parte del cittadino barese Giovanni detto Scannamanna; documento edito in Panarelli, Tre documenti, pp. 813-815. 19 Cfr. Panarelli, Vita di San Guglielmo, p. 26; la dipendenza della chiesa di S. Giorgio dal monastero del Goleto è documentata a partire dal 1162; cfr. Panarelli, Tre documenti, p. 813. Sulla chiesa e su quanto resta degli edifici cfr. L. Derosa - M. Triggiani, S. Giorgio martire: un esempio di chiesa rurale alle porte di Bari, «Studi Bitontini» 80, 2005 pp. 5-26. 26 Francesco Panarelli Merita a questo punto di essere segnalata la puntuale presenza in tutti gli atti compiuti da Melia de Sclavo del giudice barese Leone de Rayza, che agisce in coppia con l’altro giudice barese Costa nel luglio del 1143 e nel marzo 114420, mentre è presente da solo nel settembre 114421, e ancora presenzia a un acquisto effettuato ancora dall’abate Giacomo nel novembre 114422. Leone de Rayza godeva di una posizione di prestigio nella società barese della prima metà del XII secolo in virtù della carica di giudice che ricoprì per qualche decennio; più precisamente egli compare come giudice barese tra il 1119 e il 1135, giudice regio nel 1141 e regalis iudex o protoiudex tra il 1142 e il 1147, per morire prima dell’aprile del 115523. Ma egli era anche il padre del ben più celebre Maione di Bari, che proprio negli anni intorno al 1145, cominciava il brillante cursus amministrativo e politico che lo avrebbe condotto a una posizione di massimo potere nei primi anni di regno di Guglielmo I. Già a partire dall’ottobre 1144 compare come scriniarius, ed è costantemente attestato presso la curia palermitana negli anni successivi, tanto che nel 1149 venne nominato vicecancellarius, un ufficio che sembra sia stato creato appositamente per lui e che segnò il passaggio a vere responsabilità di governo. Con la scomparsa di Roberto di Selby, nel 1152, Maione fu promosso all’ufficio di cancelliere e poco dopo l’incoronazione di Guglielmo I d’Altavilla, nell’aprile del 1154, egli ottenne il titolo di magnus ammiratus ammiratorum, denominazione che intendeva tradurre 20 Entrambi i giudici sono ampiamente presenti nelle carte baresi: cfr. CDB V n. 97, p. 165 (marzo 1144), n. 99, p. 169 (novembre 1146), dove sono attestati i due giudici insieme; Leone de Rayza è più ampiamente attestato in CDB I, n. 40, p. 78 (settembre 1119) CDB V n. 79, p. 136 (agosto 1130), cfr. anche nn. 84 (a. 1135), 86 (a. 1135), 94 (a. 1141), 95 (a. 1142), 96 (a. 1144), 97, 99, 101 (a. 1147), mentre è già defunto nell’aprile 1155 («iuxta sententiam domni Leonis de reiza bone memorie regalis barensium protoiudicis») n. 112, p. 190. Su Leone cfr. H. Houben, Il “Libro del capitolo” del monastero della SS. Trinità di Venosa (cod. cas. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina 1984, pp. 143 e 158-159. 21 CDB V, n 96, p. 164, settembre 1144. 22 Regesto in Elenco delle pergamene, cit. p. 334; parziale edizione in Panarelli, Tre documenti, p. 804. In questo frangente l’abate Giacomo è accompagnato da un diverso avvocato, Pandolfo. 23 CDB vol. V, n. 112 (5 aprile 1155); «sententiam domni Leonis de Reiza bone memorie». Il suo obito e quello della moglie Curaza vennero inseriti nel Necrologio venosino: H. Houben, Il “Libro del capitolo” del monastero della SS. Trinità di Venosa (cod. cas. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina 1984, pp. 143 e 158-159. La moglie Kuraza sarebbe morta qualche anno dopo, se è corretta la data con cui è inserita nel Necrologio di S. Matteo di Salerno: C.A. Garufi, Necrologio del Liber confratrum di S. Matteo di Salerno, Roma 1922, p. 102. Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera 27 i poteri straordinari che gli aveva accordato il nuovo sovrano, mentre anche suo fratello Stefano ascendeva alla carica di ammiratus, con compiti più legati alla conduzione della flotta. La figura di Maione di Bari resta indelebilmente segnata dalla descrizione che ne ha imposto lo pseudo-Falcando24 e con difficoltà la storiografia contemporanea ha cercato di disincagliarlo dalla visione fosca, malvagia e corruttrice che ne disegna il cronista, rischiando spesso, per contrappasso, di fare in maniera impropria di Maione una sorta di eroe ante-litteram delle forze “nazionali” contro la corte feudale e straniera degli Altavilla25. Un profilo meno sbilanciato di Maione stenta ancora a delinearsi, anche se non mancano più equilibrati interventi recenti26, e parallelamente si pongono meglio in evidenza anche gli aspetti culturali, spirituali e religiosi della sua personalità. Il riferimento è tanto alla committenza di testi e traduzioni, quanto soprattutto alla produzione diretta di testi religiosi da parte di Maione, in primo luogo il Commentario del Padre nostro27, senza dimenticare che a lui si attribuisce anche, tradizional24 Utilizzo ancora la forma pseudo-Falcando per questo enigmatico autore, per il quale sono state proposte molte identificazioni; l’ultima in ordine di tempo e anche abbastanza convincente è quella di R. Köhn, Noch einmal zur Identität des “Hugo Falcandus”, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 67, 2011, pp. 499-541, alla quale rimando anche per la bibliografia precedente; la tesi sostenuta, non del tutto nuova, comporta l’identificazione dell’autore del Liber con Ugo Faucon, abate di Saint-Denis (1186-1197). 25 In fondo questa linea tiene ancora insieme le riletture del personaggio Maione che si succedono da M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 2003 (ed. or. 1872), III, pp. 240, 222-223, per poi proseguire in O. Hartwig, Re Guglielmo I e il suo grande ammiraglio Maione da Bari, «Archivio Storico per le Province Napoletane» 8, 1883, pp. 397-485, che pure valorizza e ripubblica nuove fonti su Maione e in G. B. Siragusa, Il Regno di Guglielmo I in Sicilia, Palermo 1885, che lo esalta quale campione della Sicilia e quindi dello stato-guida per il “movimento nazionale italiano” e che, come è stato rilevato da Donald Matthew, nella seconda edizione della sua opera nel 1929 si lanciava in un ardito parallelo celebrativo tra la figura di Maione e quella di Benito Mussolini; o ancora nel coevo lavoro di A. Gabrieli, Un grande statista barese del secolo XII, vittima dell’odio feudale, Trani 1899, che soggiace alla stessa tentazione risorgimentale, ma aggiunge notizie interessanti sulla famiglia e sul personaggio. 26 Cfr. A. Ancora, Alcuni aspetti della politica di Maione da Bari, in Studi Storici in onore di Gabriele Pepe, Bari 1969, pp. 301-316; B. Pio, Maione di Bari, in Dizionario Biografico degli Italiani, 67, Roma 2006, pp. 632-635. 27 Il primo a dare adeguato rilievo a questi aspetti fu Hartwig, che ripubblicò in coda al suo articolo del 1883 i testi già noti dei Prologhi alle traduzioni del Menone e del Fedone e soprattutto la Expositio orationis dominicae a Maioni amirati edita, alle pp. 461-485; più recente lo studio su quest’ultimo testo da parte di D. Matthew, Maio of Bari’s Commentary on the Lord’s Prayer, in Intellectual Life in the Middle Ages. Essays Presented to Margaret Gibson, cur. L. Smith - B. Word, London - Rio Grande 1982, pp. 119-144, che comincia anche a dare 28 Francesco Panarelli mente, la fondazione della chiesa di S. Cataldo a Palermo28: personaggio quindi assolutamente non così cinico e immorale come viene dipinto dallo pseudo-Falcando, e pure circondato da un clan familiare che non dipendeva esclusivamente dalla sua fortuna e che non si estinse con la sua caduta, come ha dimostrato pochi anni or sono Norbert Kamp29. La parabola del potere di Maione di Bari era al suo culmine nei primi mesi del 1160, quando ancora, nonostante le violenze che avevano segnato i primi anni di governo di Guglielmo e del suo fidato ministro, non si poteva prevedere il tragico epilogo che di lì a breve, nel novembre dello stesso anno, avrebbe travolto lo stesso Maione e una parte del suo entourage. Nel febbraio del 1160, quindi, nel momento in cui Gaugello operava la sua donazione a favore della fondazione di Melia de Sclavo, questi per la prima e unica volta nella documentazione superstite si veste della carica di regio comestabile e proclama con pompa e compiacimento il suo stato di cognato di Stefano e di Maione, avendone evidentemente sposato una sorella, come l’aggettivo sororius lascia intendere. Acquista così anche un significato differente la costante presenza negli atti in cui è attivo Melia, di Leone de Rayza, suocero da una data imprecisata dello stesso Melia. Non sappiamo se il legame di parentela fosse già definito nel 1143-44, ma vi erano evidenti basi di contiguità di interessi tra i due personaggi così spesso affiancati e l’ascesa di Maione dovette rendere sempre più orgoglioso Melia di questi legami. Non conosciamo purtroppo il nome della consorte di Melia, sorella dell’ammiraglio e personaggio di intersezione tra i due gruppi familiari, così come non conosciamo il nome dell’altra sorella di Maione che era andata in sposa al siniscalco Simone30. Non è certo da escludere che anche la carica di comestabile per Melia fosse stata favorita dalla sua parentela con il potente cognato e che egli sia stato solo per breve tempo in carica, travolto anche lui dall’onda che sommerse Maione; non è stato infatti contezza della distribuzione non irrisoria dei testimoni manoscritti di questo testo, alla cui nuova edizione critica sta ora lavorando Valeria De Fraja. 28 Ugo Falcando, La Historia o Liber de Regno Sicilie e la epistola ad Petrum Panormitane urbis thesaurarium, ed. G.B. Siragusa, Roma 1897 (Fonti per la Storia d’Italia 22), p. 44, nota. 29 N. Kamp, Su un nipote di Maione di Bari, che fu giustiziere di Federico II, in Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, cur. G. Rossetti - G. Vitolo, I, Napoli 2000, pp. 283-300; una indicazione di massima sulla sostituzione del cognome “de Raiza” con quella “de Ammirato” per i discendenti di Maione si trova già in Gabrieli, Un grande statista, p. 19, anche se poi non vengono fornite indicazioni precise sui discendenti. 30 Kamp, Su un nipote di Maione di Bari, p. 284 Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera 29 possibile trovare altre attestazioni della sua attività come comestabile, prima o dopo il 1160, a indicare probabilmente la scarsa incidenza del suo operato. Per il resto sappiamo ben poco. Lo pseudo-Falcando, dopo l’eccidio del novembre 1160, si sofferma solo sull’arresto del figlio Stefano e del fratello Stefano, entrambi con il titolo di ammirato, mentre tace sulla sorte degli altri congiunti di Maione; Romualdo Salernitano estende la cerchia degli arrestati a filios, sorores et fratrem di Maione, lasciando intendere che tutti i parenti più stretti vennero fatti prigionieri e furono oggetto di confisca dei beni, includendo implicitamente anche la moglie di Melia31. Non abbiamo comunque possibilità di verificare quanto riportato, alquanto genericamente, da Romualdo e quindi non conosciamo la sorte della moglie di Melia. Entrambi i coniugi non compaiono comunque nella documentazione successiva. L’unica sorella di Maione ad avere un nome ci riconduce ancora una volta al mondo monastico femminile. La terza sorella di Maione, Eustochia, era badessa del monastero femminile di S. Scolastica a Bari nel 116032 e probabilmente lo era ancora nel 1200, se si presta fede alla relazione sulla traslazione di una reliquia dell’apostolo Matteo a Bari da Spica nel 120633. Il monastero di S. Scolastica rappresenta una delle fondazioni religiose più significative della Bari medievale, la cui creazione, lungi dal risalire all’età carolingia, molto più verosimilmente si deve all’opera dell’infaticabile abate Elia alla fine dell’XI secolo, come da ultimo ha mostrato Cosimo Damiano Fonseca34. Il monastero, beneficiato dal principe di Bari Grimoaldo e riorganizzato radicalmente sotto la badessa 31 Ugo Falcando, La Historia o Liber de Regno Sicilie, p. 45. Romualdus SalernitaChronicon, ed. C.A. Garufi, in Rerum Italicarum scriptores, VII/1, Città di Castello - Bologna 1909-1935, p. 246; cfr. anche l’edizione con traduzione italiana a fronte curata da C. Bonetti, Cava de Tirreni 2001, pp. 176-178. 32 La presenza di Eustochia alla guida della comunità monastica sin dal 1160 è attestata in un documento trascritto da Francesco Lombardi intorno al 1730, in una sua opera manoscritta, pubblicata solo in età contemporanea: F. Lombardi, Dell’Historia del monasterio di S. Scolastica della Città di Bari dell’Ordine cassinese, cur. F. Zippitelli, Bari 1981, p. 16; il documento è anche pubblicato da Gabrieli, Un grande statista, alle pp. 28-33. Si tratta di una donazione parziale effettuata da Giovanni Pironti di crediti che egli vantava da Donniza, figlia di Pacifico e vedova di Gregorio Carolilli, e dal di lei fratello Stefanizzo. 33 Lombardi, Dell’Historia del monasterio di S. Scolastica, p. 17. Kamp, Su un nipote, p. 284; Gabrieli, Un grande statista, p. 38. 34 C.D. Fonseca, Il monastero barese di Santa Scolastica tra storia e storiografia, in Il monachesimo femminile, pp. 11-21; per il contesto generale della città cfr. R. Iorio, Sotto i due Guglielmi, in Storia di Bari dalla conquista di Bari al Ducato Sforzesco, Bari 1990, pp. 62-68; per la bibliografia precedente cfr. voce di G. Lunardi, S. Scolastica, in Monasticon, n. 35, p. 35. nus, 30 Francesco Panarelli Guisanda Sebasta agli inizi del XII secolo, ebbe a soffrire delle violenze e distruzioni seguite alla rivolta e alla repressione del 1155-56, ma nel 1160 era sicuramente nuovamente abitato e guidato dalla nuova badessa Eustochia, sorella dell’ammiraglio Maione35. Bisogna supporre che l’elevazione di Eustochia a badessa sia avvenuta prima del novembre del 1160 e dell’assassinio del fratello, e che Eustochia abbia mantenuto la sua carica anche dopo il fatto di sangue per almeno quaranta anni. Il legame della famiglia di Maione con comunità religiose femminili non si fermò al solo monastero barese di S. Scolastica, ma ebbe anche un ulteriore sviluppo nella chiesa materana fondata da Melia de Sclavo. Anche se non abbiamo documenti relativi alla situazione di questa istituzione dopo il 1160, possiamo essere certi che in una data imprecisata tra il 1160 e il 1200 la chiesa divenne sede di una comunità monastica femminile, già consolidata nel 1208. Nel marzo di quell’anno infatti Mathia Baronissa, figlia di Roberto de Bartinico, decise di donare un vasto tenimento denominato Castellum novum e collocato tra Minervino, Montemilone e Spinazzola nelle mani domine Eugenie monache eiusdem monasteri e alla presenza dell’avvocato del monastero giudice Maraldicio36. La proprietà, che faceva parte dei beni dotali di Mathia e comunque proveniva dalla sua famiglia (pertinens mihi iure paterno), rappresentò nei secoli successivi la principale fonte di reddito per le monache di SS. Lucia e Agata. Nel documento si racconta anche del ruolo assunto da Mathia per la comunità. Si dice infatti che Mathia, subito dopo la donazione, prese l’abito monacale e per mandato del Cardinale Gregorio di S. Teodoro, legato pontificio in Puglia, e di Simone, abate di S. Eustachio di Matera, venne nominata badessa del monastero. L’assenso espresso dai due personaggi rivela ancora una volta l’importanza che la scelta di Mathia evidentemente rivestiva: il monastero di S. Eustachio rappresentava agli inizi del XIII secolo sicuramente l’istituzione religiosa più importante e significativa della città di Matera, mentre la presenza del cardinale legato 35 La notizia in Fonseca, rimanda a Lombardi, Dell’historia del monastero di S. Scolastica, pp. 18-19; i passi riguardanti S. Scolastica erano già in estratto in Gabrieli, Un grande statista, p. 38. 36 Il documento è stato pubblicato per ben tre volte. Una prima volta D. Vendola, Un capitolo di storia del monastero di Sant’Agata e Santa Lucia di Matera, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania» 6, 1936, pp. 63-79, a pp. 77-79; questa edizione è stata poi riproposta in P. Dalena, Da Matera a Casalrotto. Civiltà delle grotte e popolamento rupestre (secc. X-XV), Galatina 1990, pp. 59-60; da una copia del documento originale proviene invece l’edizione in Codice Diplomatico Barlettano, IV, ed. S. Santeramo, Barletta 1962, pp. 1-2. Le origini del monastero femminile delle SS. Lucia e Agata a Matera 31 di Innocenzo III garantiva anche una sanzione politica di più ampio respiro alla scelta di Mathia37. Non ci soffermiamo in questa sede né sulle vicende del tenimento di Castelnuovo, né sulle questioni, tuttavia molto interessanti, legate alla identificazione della famiglia di Mathia, che sono oggetto autonomo di indagine da parte nostra e che sembrano ricondurre anche Mathia alla discendenza di Maione di Bari; si tratta comunque di una pista ancora da verificare compiutamente. Per concludere e riassumere. La chiesa di S. Agata di Matera venne fondata poco prima del 1160 da Melia de Sclavo, personaggio molto attivo nella società barese nella prima metà del XII secolo, che fu in rapporti probabilmente con san Guglielmo da Vercelli e sicuramente con la comunità femminile di S. Salvatore al Goleto e che in una data imprecisata prima del 1160 sposò una sorella dell’ammiraglio Maione. Dopo il 1160 la chiesa materana divenne sede di una comunità monastica femminile, che mantenne probabilmente il suo legame con la famiglia del fondatore, e accrebbe la sua importanza tanto che, nel 1208, Mathia Baronissa de Partinico operò una ricca donazione a favore della comunità, divenendone contemporaneamente anche badessa; il rilievo dell’operazione implicò sia una sanzione a livello locale per il tramite dell’abate di S. Eustachio di Matera, sia a livello politico più ampio, con il consenso del cardinale legato di Innocenzo III. 37 Gregorio cardinale di S. Teodoro almeno dal 1208 (dal documento materano si desume che lo fosse già da marzo di quell’anno) era legato pontificio per l’Apulia; cfr. su di lui W. Stürner, Federico II e l’apogeo del’Impero, Roma 2009, p. 177; soprattutto W. Maleczek, Papst und Kardinalskolleg von 1191 bis 1216. Die Kardinäle unter Coelestin III. und Innocenz III., Wien 1984, pp.151-153. Per il monastero materano cfr. H. Houben, S. Eustachio, in Monasticon Italiae, III, n. 40, p. 187. IDENTITÀ SIGNORILI E SISTEMI DI GESTIONE TRA ETÀ LONGOBARDA E NORMANNA. LE TERRE DEL CASTRUM IUFUNI E LA TRINITÀ DI CAVA Barbara Visentin L’abbazia di Cava, con le trasformazioni avvenute soprattutto in età normanna, offre una prospettiva forse periferica, ma senz’altro significativa per la ricostruzione del processo di dissoluzione dell’ordinamento pubblico carolingio, che rappresenta uno dei temi più rilevanti del dibattito storiografico. Nel corso della metà del IX secolo, in quasi tutte le regioni dell’Europa occidentale, comprese nei confini della grande costruzione carolingia, si evidenziano difficoltà di conduzione dell’apparato statale, di gestione delle forme di successione ereditaria e di esercizio del controllo e della difesa militare sulle terre imperiali. Cambiamenti evidenti segnano la crisi dalla quale prende forma la creazione di un mondo nuovo, dotato di grande dinamismo e caratterizzato da una propria specificità, nel quale il cardine degli assetti politico-istituzionali, socio-economici e insediativi diviene la signoria rurale1. Nuclei di potere autonomi a carattere locale, variamente indicati dalle fonti come dominatus, potestas, consuetudo, districtus, traggono vigore dallo scardinamento dell’ordinamento pubblico ed esercitano il potere attraverso la disponibilità di un consistente contingente militare e di un cospicuo patrimonio fondiario2. La profonda trasformazione giunge a compimento nella seconda metà dell’XI secolo, determinando in molti 1 Per una panoramica generale sulla nascita della signoria si veda la lezione di S. Carocci, Signori, castelli, feudi in Storia Medievale, Roma 1999, pp. 247-267 e la bibliografia citata. 2 Cfr. G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino 1976, pp. 189-206. 34 Barbara Visentin casi un’evoluzione del grande patrimonio fondiario secondo un percorso insieme economico e politico che, dalla semplice signoria fondiaria, lo converte in quella comunemente definita signoria di ‘banno’3. In questo quadro s’inseriscono le vicende dell’antico Ducato di Benevento, dove il primo sentore di tale frammentazione appare manifesto nella spartizione della contea di Capua che i discendenti del gastaldoconte Landolfo mettono in campo, arrivando perfino, tra l’879 e l’882, a sancire una duplicazione della sede vescovile della città4. Nel Mezzogiorno longobardo del IX secolo munirsi di una fortezza significa dichiarare apertamente la propria volontà di autonomia, mostrare di possedere i mezzi militari per conquistarla e dare prova di essere politicamente accorti per amministrarla. Beni fondiari, nuclei abitati, eserciti si organizzano intorno a castra già esistenti o di nuova fondazione, permettendo ad ognuno dei beneficiari di dar vita alla propria ‘signoria territoriale’, la cui salvaguardia mina talvolta i principi di sopravvivenza della propria gens5. Frutto di questo stesso processo di evoluzione delle istituzioni pubbliche è la vicenda del dominatus loci di Giffoni che, inserito nel panorama complesso del Principato di Salerno, presenta tempi e modi differenti di affermazione, ricoprendo un ruolo importante nel cambiamento radicale della scena politica tra XI e XII secolo. 3 Nel primo caso il dominus era chiamato ad esercitare un possesso esclusivamente circoscritto alla terra, mentre nel secondo il dominio del signore, relativo questa volta ad un distretto ben definito nei suoi confini, prevedeva anche il diritto di coercizione e di comando nei confronti dei subiecti e costituiva, dunque, un potere fortemente territorializzato. Nel secolo X definire ‘bannale’ un potere significava essenzialmente voler sottolineare il carattere pubblico di alcune emergenti forze locali al fine di legittimarle. Cfr. A. Barbero - C. Frugoni, Dizionario del Medioevo, Bari 2008, pp. 26-27. 4 Cfr. Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, ed. G. Waitz in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannover 1964, pp. 231-264, cc. 40, 46, pp. 250, 254. 5 Cfr. N. Cilento, Le origini della Signoria capuana nella Langobardia minore, Roma 1966, p. 26, si veda anche Tabacco, Egemonie sociali, pp. 171-179. Per approfondire il contesto capuano si rimanda a B. Visentin, Strategie politiche nella Capua longobarda: la difficile divisione della sede vescovile, «Nuova Rivista Storica» 91/2, 2007, pp. 447-458; Id., La nuova Capua longobarda. Identità etnica e coscienza civica nel Mezzogiorno altomedievale, Manduria - Bari - Roma 2012. Di parere differente sono M. Del Treppo, Medioevo e Mezzogiorno: appunti per un bilancio storiografico, proposte per un’interpretazione, in Istituzioni e società nella storia d’Italia. Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, cur. G. Rossetti, Bologna 1977, pp. 265-268, e V. Lorè, Uno spazio instabile. Capua e i suoi conti nella seconda metà del IX secolo, in Les élites et leurs espaces. Mobilité, rayonnement, nomination (du VI au XI siècle), cur. P. Depreux - F. Bougard - R. Le Jan, Turnhout 2007, pp. 341-359. Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 35 Nella primavera del 1052 Guaimario IV e suo fratello Paldolfo cadono vittime di una violenta congiura, aprendo ufficialmente la crisi politica del Principato e rendendo necessaria una sostanziale ristrutturazione degli ambiti territoriali gravitanti immediatamente intorno alla capitale. Qualche anno prima Guaimario aveva intrapreso la divisione del patrimonio familiare, mettendo fine all’unità patrimoniale, quale elemento fondante della solidarietà e dell’unità dinastica, promuovendo un’articolazione familiare del potere principesco e, di fatto, autorizzando le comunità monastiche esistenti ad impegnarsi in operazioni di concentrazione dei loro patrimoni fondiari6. Il tentativo, però, di affermare la propria autorità attraverso la presenza di membri illustri della familia, ai quali sono destinate porzioni consistenti del patrimonio fondiario del principe o importanti funzioni pubbliche, ha vita breve e l’esperienza longobarda si avvia inesorabilmente al tramonto7. I contesti di Capaccio e Giffoni consentono, tuttavia, di rintracciare gli eventi che segnano la vita di due rami della famiglia principesca, capaci di affermare la loro presenza, ben oltre la conquista normanna, all’interno di importanti centri fortificati, posti a controllo delle terre orientali dell’antico Principato longobardo8. La loro sopravvivenza segna la nascita di importanti signorie locali, gravitanti attorno ad un castello dove, al riparo di una cinta fortificata, vivono la familia del dominus, i suoi fideles e gli homines subiecti, ai quali risultano concesse le terre circostanti. Il potenziamento della fisionomia locale del potere, fondato su un controllo efficace del territorio e dei suoi abitanti, coincide con la fondazione di una delle più estese signorie fondiarie, l’abbazia della SS. Trinità di Cava, e con il momento di massimo ampliamento dell’orizzonte 6 Cfr. H. Taviani Carozzi, La principauté lombarde de Salerne (IXe-XIe siècle). Pouvoir et société en Italie lombarde méridionale, II, Roma 1991 [Collection de l’École Française de Rome, CLII], pp. 857-865; 1079. 7 V. Lorè, L’aristocrazia salernitana nell’XI secolo in Salerno nel XII secolo. Istituzioni, società, cultura, Atti del Convegno Internazionale Raito di Vietri sul Mare, Auditorium di Villa Guariglia 16-20 giugno 1999, cur. P. Delogu e P. Peduto, Salerno 2004, pp. 61-102, in particolare pp. 74-76, e Id, Monasteri, principi, aristocrazie. La Trinità di Cava nei secoli XI e XII, Spoleto 2008, p. 25. 8 Per una storia più dettagliata dell’insediamento di Capaccio vecchia si rimanda a P. Delogu, Storia del sito, in Caputaquis Medievale, I, Salerno 1976, pp. 23-32 e per le relazioni con la SS. Trinità di Cava al recente saggio di B. Visentin, Poteri territoriali e affermazioni monastiche tra XI e XIII secolo: il dominatus loci di Capaccio e la SS. Trinità di Cava, «Rassegna Storica Salernitana» 57, giugno 2012, pp. 45-78. 36 Barbara Visentin patrimoniale della neonata comunità. Nel 1025 il principe di Salerno Guaimario III e suo figlio Guaimario IV danno vita all’atto di nascita del patrimonio monastico cavense, concedendo un ampio territorio, ricadente nella valle Metelliana e gravitante attorno alla grotta Arsicia, al fondatore della Trinità, Alferio principi eiusdem civitatis in magna familiaritate coniunctus est9. Tra la seconda metà dell’XI e per tutto il XII secolo i monaci di Cava si mostrano capaci di tessere le fila di rapporti nuovi, ridisegnando gli orientamenti della loro strategia di affermazione, per inserirsi negli spazi che la conquista normanna crea. Questa alternanza costante tra adesione al vertice dell’ordinamento pubblico ed effettiva autonomia del monastero diventerà uno dei caratteri distintivi della storia della Trinità10. La dilatazione degli ambiti territoriali apre dinanzi all’abbazia cavense nuovi e fecondi orizzonti economici, culturali e spirituali dando vita, tra il 1070 e il 1180, ad un’intensa attività patrimoniale. Chiese, monasteri e possedimenti vari entrano nella proprietà monastica e consegnano la Trinità di Cava al rango di signoria fondiaria, a capo della quale siede l’abate, entrato definitivamente nella società del potere. Egli offre protezione e tutela agli uomini che abitano le sue terre, è un dominus a tutti gli effetti, capace di conciliare le esigenze dell’anima con quelle della sicurezza della propria persona e dei propri beni. Il patrimonio acquisito proviene, nella maggior parte dei casi, da donazioni di principi longobardi, prima, di duchi e conti normanni, dopo, scaturite dall’esigenza di rimediare ad una vita peccaminosa e allo smarrimento che il mistero della morte provoca o determinate dalla necessità di assicurare l’ufficio liturgico nelle chiese rurali e di ottemperare al principio riformatore che i laici non dispongano delle res ecclesiae11. Non man9 Si vedano le Vitae Quatuor Priorum Abbatum Cavensium, ed. L. Mattei Cerasoli, Bologna 1941 (Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, parte V), p. 5 e Codex Diplomaticus Cavensis, edd.. M. Morcaldi - M. Schiani - S. De Stefano - P. Piazzi, Milano - Pisa - Napoli 1873-1936, V, doc. 764, da questo momento citato come CDC. Per la rapida espansione cavense si rimanda anche al lavoro di P. Guillaume, Essai historique sur l’abbaye de Cava d’après des documents inédits, Badia di Cava 1877, pp. 50-52, da questo momento citato come Guillaume, Essai; G. Vitolo, Insediamenti cavensi in Puglia, Galatina 1984; B. Visentin, Il monachesimo dei grandi spazi aperti. I Cavensi in Lucania, Puglia e Calabria (secc. XI-XII), in Riforma della Chiesa, esperienze monastiche e poteri locali. La Badia di Cava e le sue dipendenze nel Mezzogiorno dei secoli XI-XII, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Badia di Cava dei Tirreni (SA), 15-17 settembre 2011, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, Firenze, in corso di stampa. 10 Lorè, Monasteri, principi, aristocrazie, p. 24. 11 Cfr. Vitolo, Insediamenti cavensi, pp. 12-14. Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 37 cano, inoltre, carte di concessione di vescovi e arcivescovi, come di privati cittadini laici ed ecclesiastici, e privilegi illustri di sovrani e pontefici. La costruzione di questo complesso edificio patrimoniale appare, nel suo realizzarsi, quasi un ininterrotto lavoro di sperimentazione, innestato nel solco della corrente riformatrice e segnato dall’esperienza cluniacense come dalle difficili contingenze politiche di questi anni12. L’autorità principesca mostra con chiarezza i segni di una crisi pesante e irreversibile, segnata dalla perdita progressiva delle sue prerogative pubbliche, mentre il monastero cavense assume i caratteri di una signoria fondiaria, affrancandosi da qualsiasi controllo e giocando un ruolo politico autonomo13. Un’assoluta uniformità di gestione s’instaura in tutta la congregazione, priori provenienti direttamente da Cava subentrano alla morte degli abati in carica nei monasteri assorbiti14 e ad essi spetta l’amministrazione dei beni del priorato, condotta secondo le direttive ricevute dall’abate, il quale interviene personalmente nella vita delle dipendenze, «visita i fratelli e li invita con paterne ammonizioni ad operare meglio», come aveva scritto l’abate cluniacense Odilone. Il rapido sviluppo che la Trinità conosce in questi anni si muove, tuttavia, su due binari, da un lato il vuoto di potere che segna il passaggio dal dominio longobardo all’età normanna, dall’altro, le spinte innovative che provengono dall’ascesa delle identità signorili, legate all’universo politico locale all’interno del quale si muovono le acquisizioni cavensi. Un dominatus loci nelle terre del Picentino La prima notizia dell’esistenza di un insediamento fortificato nel territorio di Giffoni si legge in una carta del 976, che ricorda l’appartenenza di alcune porzioni delle cappelle di San Giorgio, in finibus Stricturie, e di Santa Maria, que edificata est intus castello de Iufuni, alla chiesa salernitana dei Santi apostoli Matteo e Tommaso15. I ruderi del castello, che ancora dominano il borgo di Terravecchia16, rivelano chiaramente la posizio12 Cfr. quanto ha scritto G. M. Cantarella, I monaci di Cluny, Torino 1993, pp. 179-255. 13 Lorè, Monasteri, principi, aristocrazie, pp. 36-37. 14 Emblematica la vicenda della chiesa salernitana di San Massimo, cfr. B. Ruggiero, Principi, nobiltà e Chiesa nel Mezzogiorno longobardo. L’esempio di san Massimo di Salerno, Napoli 1973. 15 CDC, VIII, p. 51, a. 1057. 16 Il complesso fortificato comprende una prima cinta muraria, relativa alla difesa del solo fortilizio, databile al XIII secolo e munita di merlature, feritoie e torrette, e una 38 Barbara Visentin ne strategica della fortificazione, sorta a controllo dei percorsi viari che consentono, a nord, l’accesso alla valle del fiume Sabato, in direzione dei centri di Avellino e Benevento, mentre a sud, aprono l’ingresso alla città di Salerno e lo sbocco sul mare. Un castrum strategico, dunque, che risulta dotato anche di una cappella intitolata alla Vergine, in virtù della quale l’immagine della fortezza sembra coniugarsi con quella di un castello di popolamento, un receptum destinato a proteggere gli homines che abitano le terre circostanti e ad immagazzinare riserve alimentari per il sostentamento della corte salernitana17. A commissionare la costruzione della chiesa dei SS. Matteo e Tommaso era stato il conte Pietro, figlio di un certo Landolfo, la cappella privata era sorta intorno al 970, nel quartiere dell’Orto Magno, un’area piuttosto estesa posta all’estremità orientale della città di Salerno, non lontano dall’insula episcopalis. La fondazione aveva occupato terre confinanti con altri beni della famiglia, incamerati dal nonno di Pietro, il conte Alfano, attraverso una donazione che il principe Gisulfo I aveva indirizzato a suo favore. È probabile allora che la carta del 976 rappresenti il completamento della dotazione di cui Pietro correda la sua cappella, il San Giorgio di Stricturia, posto ai piedi del castello di Giffoni, e la cappella di Santa Maria, edificata all’interno della rocca castri, dovevano essere rientrate a pieno titolo nel patrimonio della famiglia comitale, ma nel 976 le divisioni ereditarie le presentano già frazionate in diverse sortiones. Il terreno su cui Pietro edifica la sua chiesa all’interno della città gli appartiene, lo ha probabilmente ereditato insieme agli altri possedimenti fondiari che erano toccati al padre Landolfo, tra i quali potrebbero riconoscersi anche le proprietà situate fuori dalle mura urbiche, nel ricco contado salernitano, in loco Stricturia. Il vecchio conte Alfano sarebbe così il fondatore delle cappelle di San Giorgio e di Santa Maria che, al momento della sua morte, avvenuta nell’anno 971, sarebbero state ripartite tra i tre figli Alfano, Pietro e Landolfo. Il conte avrebbe edificato due seconda cortina di mura, destinata a proteggere il borgo antico e dotata di 12 torri circolari con base scarpata, tipiche delle fortificazioni di età angioina. Cfr. M. R. D’Ambrosi, Terravecchia di Giffoni V. Piana storia e immagine architettonica di un borgo fortificato, «Progetto» 3, dicembre 1991, pp. 61-64. 17 P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, cur. G. Sergi, Torino 1995, pp. 37-39. Seguendo la proposta di Pierre Toubert, i modelli di fortificazioni presenti in quegli anni appaiono sostanzialmente tre: il castrum di popolamento, i castelli strategici e recepta, le strutture fortificate con duplice funzione, difensiva ed economica. Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 39 chiese nell’ambito di pertinenza di una fortificazione, atto che necessariamente va ricondotto ad una concessione dell’autorità principesca18. È ipotizzabile allora che lo stesso castrum di Giffoni gli fosse stato affidato da Gisulfo I e, a tale riguardo, sembra non trascurabile una notizia riportata da Alessandro Di Meo circa la concessione che il giovane principe avrebbe fatto, nell’anno 943, ad un non meglio precisato conte di Giffoni, del gastaldato di Sanseverino, unitamente alle piazzeforti di Montoro e Serino19. Non è compito agevole stabilire se il conte ricordato dall’erudito del Settecento possa identificarsi con Alfano o tantomeno risalire al lignaggio a cui Alfano appartiene20, non vi è dubbio però sul rilievo singolare della figura del conte, uomo capace e fidato, vicino al principe e a lui particolarmente devoto, al quale non è improbabile che Gisulfo I abbia deciso di assegnare il castello di Giffoni e, successivamente, il controllo di uno dei gastaldati più importanti del Principato, punto nevralgico delle comunicazioni lungo l’asse Benevento-Avellino-Salerno21. Dopo il 976 un lungo periodo di silenzio delle fonti non consente di rintracciare notizie ulteriori sulla roccaforte quod Iufuni dicitur, fino a quando nel 1097 Guaimario (II), filius benigne recordationis domni Guaimari, qui fuerat filius domni Guidonis ducis, filii domni Guaimarii principis, non dona al monastero della SS. Trinità di Cava buona parte dei suoi possedimenti 18 Cfr. F. Cusin, Per la storia del castello medievale, «Rivista Storica Italiana» serie V, 4, 1939, pp. 491-542. Sulle tesi degli storici del diritto italiani di questo periodo si veda la discussione di Toubert, Dalla terra ai castelli, pp. 27-30. 19 A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli nella mezzana età, V, Napoli 1785, n. 5. Il Di Meo potrebbe aver mutuato l’informazione da quello che lui spesso indica come l’Annalista salernitano, da non confondere con l’Anonimo salernitano autore del Chronicon, ma da riconoscere in Francesco Maria Pratilli (1689-1763) che Nicola Cilento definiva:«il falsario della storia dei longobardi meridionali». La mancata menzione della fonte, però, da cui il Di Meo trae la notizia, che qualora si tratti del Pratilli viene nella maggior parte dei casi indicata, lascia aperto qualche spiraglio che lo storico abbia derivato l’informazione dalla lettura di un documento forse oggi perduto e che, dunque, la si possa ritenere autentica. 20 Un gran numero di conti con lo stesso nome si rintracciano a Salerno sul finire del secolo X, anche il padre della principessa Gemma, sposa di Gisulfo I, si chiamava Alfano. Cfr. M. Schipa, Storia del Principato longobardo di Salerno in F. Hirsch - M. Schipa, La Longobardia meridionale (570-1077), Roma 1968, p. 168, e Taviani Carozzi, La principauté, p. 764. 21 Si potrebbe riconoscere nel conte di Giffoni, ricordato da Di Meo nell’anno 943, il conte Alfano. La già menzionata donazione ad Alfano di un terreno all’interno delle mura salernitane, nel quartiere dell’Orto Magno, potrebbe costituire un indizio del rapporto intercorso tra il principe Gisulfo ed Alfano. 40 Barbara Visentin in loco Stricturie22. Tra le diverse pertinenze elencate dal notaio, si fa riferimento anche ad una via que ducit ad castellum nostrum quod Iufuni dicitur e ad un’ecclesia Sancti Georgii, que constructa est in pede de ipso nostro castello Iufuni. L’atto non lascia dubbi, il castellum appartiene alla famiglia del giovane Guaimario, discendenza diretta del principe salernitano Guaimario III del quale Guido, conte di Conza e duca di Sorrento, è figlio cadetto. Il nome del duca Guidone richiama alla memoria gli anni difficili che il Principato di Salerno attraversa tra il 1047 ed il 1052, durante i quali Guaimario IV procede alla divisione del patrimonio familiare con i suoi due fratelli e, nel 1052, cade vittima di una violenta congiura, che punta ad azzerare i vertici della gens principesca di Salerno. Nei quattro istrumenti di divisione che si conservano Guaimario IV, Paldolfo e Guido si spartiscono i territori in finibus Lucaniae, in loco Muntoro, de loco Rota, in loco Felecta, de loco Propiciano, de loco Tusciano23, non menzionando in alcun modo il castrum Iufuni e le terre del locus Stricturia24. Rientrano nel patrimonio di Guaimario IV soltanto terreni localizzati nella parte nord-occidentale del territorio del Picentino, concernenti i distretti di San Cipriano, Filetta e Prepezzano, lasciando immaginare che Giffoni e il suo castello appartenessero ancora alla famiglia del conte Alfano. L’unità dinastica sembra ulteriormente minacciata da una simile divisione, tuttavia il frazionamento del patrimonio doveva presentarsi come l’ultima speranza di tenere sotto controllo l’evolversi degli avvenimenti25, consentendo una gestione più efficace del territorio. Indizi interessanti si rintracciano, inoltre, in una carta del 1091, quando Guaimarius (I) qui vocor de Iufuni, filius bone recordationis domni Guidonis ducis, stanco di una vita fatta di violente lotte fratricide, offre al monastero cavense una parte considerevole dei suoi possedimenti, chiedendo in cambio di vestire l’abito monastico e di ricevere sepoltura nello stesso cenobio, per sé e per suo figlio26. Il signore di Giffoni, mosso da un bisogno di spiritualità che non trova spazio nella confusione della società salernitana della fine dell’XI secolo27, si mostra particolarmente generoso, trasferendo nel patrimonio della Trinità alcune terre nelle località di Passiano e Balnearia, nei pressi dell’abbazia, e le sue quote di un 22 Archivio della Badia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni (da ora in avanti citato come AC), D 9: gennaio 1096 e 13: marzo 1097. 23 Cfr. quanto riporta Taviani Carozzi, La principauté, pp. 857-861. 24 Cfr. CDC, VII, pp. 102 e ss.; pp. 94 e ss. 25 Cfr. Taviani Carozzi, La principauté, pp. 861-865. 26 AC, C 29. 27 A. Vauchez, La spiritualità dell’Occidente medievale, Milano 19932, pp. 49-55. Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 41 sesto delle chiese salernitane di San Massimo, Sant’Andrea e Santa Maria de domno28, del monastero di Sant’Andrea, sorto a super porta Radeprandi, e della chiesa rurale di San Nicola de Laneo. Guaimario (I) è, quindi, il signore di quelle terre che, almeno fino al 1049, sono appartenute presumibilmente agli eredi del conte Alfano, i quali figurano tra i promotori della congiura contro il principe Guaimario IV. Traspare in controluce, a questo punto, l’ipotesi di un trasferimento di poteri sul territorio di Giffoni, dalla famiglia di Alfano a quella del conte Guido, padre di Guaimario (I), cronologicamente riferibile al quarantennio che intercorre tra il 1049, anno delle ultime due spartizioni fondiarie del patrimonio principesco, e il 1091, data della prima attestazione di Guaimario a Giffoni. Tutta la vicenda pare ruotare intorno al fatidico 1052, trucidati gli autori della congiura, i loro beni risultano probabilmente confiscati e non sono estranee a questa sorte anche le terre, le cappelle ed il castello posseduti in loco Stricturia dai discendenti di Alfano. In questo momento di grande disordine generale sarebbe avvenuta l’assegnazione del futuro dominatus loci di Giffoni a Guido, l’unico sopravvissuto alla furia omicida dei congiurati. La famiglia del conte Alfano, dimostratasi per il passato fermamente legata alla prima dinastia principesca salernitana, doveva essersi lasciata irretire da pericolose ambizioni di grandezza, delle quali pare cominciasse ad avere sentore già Guaimario III. Se si considera, infatti, il numero consistente di chiese private che il principe edifica ai margini del territorio di Stricturia29, sembra potersi cogliere in esse un primo tentativo di controllo del potentato di Giffoni. L’assenza di attestazioni non permette di conoscere in quali termini il locus Stricturia viene affidato a Guido, si tratta con ogni probabilità del frutto di un accordo preventivo, intercorso tra il conte di Conza e i Normanni, grazie al quale l’ultimo principe longobardo di Salerno, Gisulfo II, ottiene il controllo del Principato. Alla metà dell’XI secolo un ramo della famiglia principesca salernitana si avvia ad assumere atteggiamenti di tipo signorile, controllando un territorio altamente produttivo, circondato su tre lati da alture che lo dotano di importanti difese naturali e protetto, in direzione della fascia 28 La S. Maria inter muro et muricino, poi S. Maria de domno, fondata dalla seconda dinastia principesca poco dopo l’insediamento del capostipite Giovanni nel 983. Su S. Maria cfr. P. Delogu, Mito di una città meridionale, Napoli 1977, pp. 144-147, e Taviani Carozzi, La principauté, passim. 29 Si tratta delle fondazioni principesche di S. Giovanni nel casale Pariti di Filetta, di S. Cipriano nel cuore dell’omonimo centro tra i monti Picentini e di S. Vito nel distretto del locus Tuscianus. 42 Barbara Visentin pianeggiante, dal fortilizio del monte Castello. Giffoni offre così tutti i presupposti per dar vita ad una dominazione territoriale, al castrum si uniscono la solida base fondiaria, la popolazione numerosa che ne abita le terre e il riconoscimento di dominus fatto a Guido30. La descrizione puntuale dei confini, riportata nella carta del 1097, consente di indicare a grandi linee l’ambito di influenza del potentato. Le terre in esame si estendono a destra e a sinistra del medio corso del fiume Picentino, dall’altura dell’Arenella, il pede dearenola ubi ad crucem dicitur, al Rio Secco, il ribum quod Constantii dicitur, lungo il quale veris tempus aqua decurrit. L’estremo limite settentrionale è segnato dalla colla que dicitur badumaiore, il Varco della Colla, che ancora oggi si eleva quale confine naturale della Stricturia, nel cuore dei Monti Picentini, mentre a Mezzogiorno, propinquo flubio Calabra, l’attuale corso d’acqua del Calàuro, abbondano le coltivazioni di olivo. I declivi collinari e le aree pianeggianti ospitano vigneti pregiati, cereali e variegati arbores fructiferi31, menzionati in loco Calabra, a suptus ecclesie Sancti Georgii32, e ubi ad Sanctam Mariam et Derrupata dicitur, le Ripe del Salvatore, fino a raggiungere la strada diretta alle chiese di San Giorgio e di San Liberatore, a super valle de Calabrano, in prossimità della quale correre il limite meridionale33. Una miriade di insediamenti sparsi caratterizza la geografia di queste terre, una fitta rete economico-politico-religiosa ne controlla gli homines subiecti, trovando i suoi principali punti di riferimento in un sistema di ecclesiae propriae, legate al diffondersi dei poteri signorili34. Nel dominatus 30 Cfr. AC, D 9: gennaio 1096 e 13: marzo 1097: «… termino quod olim suprascriptus dominus Guido, abus meus figere iusserat». 31 Si veda B. Visentin, Destrutturazione tardo antica e riorganizzazione altomedievale nelle terre del Picentino (secc. VI-XI), «Schola Salernitana. Annali», 3-4, 1998-1999, pp. 243-249. 32 Non lontano dalla stessa località va collocata anche la zona ubi ad Arcu dicitur, nei documenti della seconda metà del XII secolo, infatti, le terre sulle quali sorge la chiesa di S. Giorgio vengono dette in contrada Arco. Cfr. A. Balducci, L’archivio diocesano di Salerno, Salerno 1959-1960, p. 22, n. 59; p. 30, n. 90. Il toponimo ad arcu potrebbe conservare il ricordo di un antico edificio di età romana legato, con molta probabilità, al vicino insediamento di piazza Umberto I; i resti di tale struttura dovevano risultare ancora visibili tra XI e XII secolo. 33 Per una ricostruzione di quelli che probabilmente furono, tra X ed XI secolo, i limiti del distretto amministrativo del locus Stricturia si rimanda a Visentin, Destrutturazione tardo antica, pp. 226-237. 34 Per tali considerazioni si veda in generale G. Tabacco, L’Alto medioevo, in G. Tabacco - G. G. Merlo, Medioevo, Bologna 1989, pp. 214-215. Il risultato è quello di una sostanziale patrimonializzazione della giurisdizione, che rende ormai del tutto insufficiente definire tali forme di potere semplici ‘signorie rurali’ e guadagna loro il titolo Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 43 loci di Giffoni si contano in questa fase almeno tre ‘chiese private’, luoghi di culto e di assistenza religiosa di proprietà del conte, attraverso i quali la cura animarum viene strettamente controllata. Ciascuna cappella è dotata di un ampio beneficium, al cui interno spesso ricadono altre fondazioni religiose indicate con il titolo di obedientiae. È in questo complicato sistema che andrà ben presto ad inserirsi la SS. Trinità di Cava, alla quale i signori di Giffoni e le donne della famiglia rivolgeranno la loro generosa attenzione, offrendo tra il 1091 e il 1148 buona parte delle chiese rientranti nel loro patrimonio. Nella stessa traditio del 1097 è riportata l’attestazione di un’oleara pertinens hominibus iufunensibus … subiectis e di un’ecclesia Sancti Adiutoris, obedientia prefate ecclesie Sancti Michaelis, quam iufunensi homines a nobo fundamine construxerant35, segni evidenti della natura eterogenea tipica delle signorie di ‘banno’. In un’età in cui mulini, forni, frantoi e palmenta per il vino sono proprietà del dominus e rappresentano costruzioni di grande interesse economico, sulle quali vengono imposti canoni salati36, Guaimario (II) non sembra rivendicare alcun tipo di censo sull’oleara di Giffoni, mostrando forse l’avvenuta redazione di una qualche convenzione con gli homines iufunenses, volta a sancire la riduzione degli oneri signorili. Nel 1114, infine, Guaimario (II) muore senza eredi e nel suo lascito testamentario sembra identificarsi un’altra traccia del rapporto che il dominus ha instaurato con i suoi sudditi e della presenza, tra la popolazione rurale, di gruppi sociali privilegiati, capaci di contenere il potere signorile. Il conte stabilisce che la grande abbazia cavense ottenga il casale cilentano di Selifone e all’arcivescovo di Conza spetta l’intero castello di Oliveto, con tutti i suoi uomini, stabilendo che questi ultimi conservino la condizione di liberi37. La scomparsa di Guaimario segna l’estinzione più complesso di ‘signorie territoriali di banno’. Sulle questioni inerenti i poteri di banno si veda in generale G. Sergi, Villaggi e curtis come basi economico-territoriali per lo sviluppo del banno, in Curtis e signoria rurale: interferenze fra due strutture medievali, cur. G. Sergi, Torino 1993, pp. 17-20. 35 Per quanto concerne la localizzazione della cappella di Sant’Adiutore non è possibile fornire alcun tipo di indicazioni, se non che doveva trovarsi nella parte centrosettentrionale del dominatus. L’edificio, comunque, non pare essersi conservato e quella dell’anno 1097 rimane l’unica menzione della chiesa. 36 Tabacco, L’Alto medioevo, p. 211. 37 Inserto del 1114 in AC, F 28: 1125. Sul documento pesa un sospetto di falsità per il quale si veda M. Galante, Un esempio di diplomatica signorile: i documenti dei Sanseverino in Civiltà del Mezzogiorno d’Italia, pp. 291-292, nota n. 52. Sulla gestione di torchi, palmenta, mulini e altro si rimanda a Tabacco, L’Alto medioevo, p. 211. 44 Barbara Visentin della linea maschile della famiglia, da questo momento Giffoni ricade sotto il controllo dei signori di Eboli e, in un inserto del 1116, viene ricordato un tale visconte di Roberto, signore di Eboli, che presiede al castrum di Giffoni, acquisito probabilmente dal dominus delle terre ebolitane per via ereditaria, avendo preso in moglie Mabilia, sorella di Guaimario (II)38. Le dipendenze cavensi di San Michele e di San Vincenzo: episodi differenti di gestione fondiaria. La trasformazione dell’aristocrazia longobarda, mostrata nel contesto particolare della signoria di Giffoni, offre con chiarezza l’immagine di una società in rapida evoluzione. A caratterizzarla è un atteggiamento costantemente in bilico tra il senso di appartenenza cittadina, che la gens del conte Guido sente forte per il suo legame diretto con il principe di Salerno, e la nascita di un’identità signorile, tra proprietà della terra e dominio sugli uomini, quest’ultimo del tutto assente nelle concessioni che i signori di Giffoni effettuano sullo scorcio dell’XI secolo39. Questo mescolarsi complesso di elementi tradizionali e spinte nuove, nate dalla dissoluzione del dominio longobardo, facilita e accelera l’ascesa di vescovati ed enti monastici, ai quali viene concesso un numero sempre più consistente di diritti e beni fondiari, fino a farne importanti centri di potere40. Le fasi di questo processo appaiono ben delineate nella fortunata parabola di vita che interessa l’abbazia della SS. Trinità di Cava, tra la seconda metà dell’XI e per tutto il XII secolo il monastero si dimostra capace di incamerare un territorio molto ampio e di costruire un articolato network fatto di chiese, terre e comunità monastiche latine ed italo-greche, all’interno del quale i rapporti tra ‘centro’ e ‘periferia’, la loro capacità di comunicare e di interagire, le interferenze delle diverse componenti esogene, divengono fondamentali41. 38 AC, XXII 4: 1125. Il castrum di Capaccio presenta un’evoluzione assai simile a quella evidenziata per il centro di Giffoni, per un approfondimento dell’ingresso cavense sulle terre del dominatus caputaquensis si rimanda Visentin, Poteri territoriali, pp. 45-78. 40 Cfr. Lorè, Monasteri, Principi, Aristocrazie, p. 38 e le indicazioni bibliografiche contenute nelle note, che sottolineano il ruolo analogo svolto dai monasteri dell’Italia centro-settentrionale tra X-XI secolo. 41 Zentrum und Netzwerk. Kirchliche Kommunikationem und Raumstrukturen im Mittelalter, cur. G. Drossbach - J. Schmidt, Berlin 2008 (Scrinium Friburgense 22). In questa direzione si muovono le ricerche di Gert Melville e della sua scuola, cfr. G. Melville, Razionalità del sistema e successo dei domenicani nell’Europa medievale, in La memoria ritrovata. 39 Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 45 Uno straordinario cammino di irradiazione del sistema cavense, nel quale si contano almeno quattro momenti significativi, il primo riferibile agli anni tra il 1025 e il 1078, nel corso dei quali l’abbazia guadagna una parte considerevole dei beni che il palatium salernitano possiede nel Cilento, mentre sullo sfondo matura l’indebolimento del potere principesco e l’azione riformatrice della Chiesa entra nella fase del suo maggior vigore42. Il 1079 inaugura il secondo momento dell’espansione cavense e fino al 1123 la Trinità accoglie nel proprio patrimonio circa 100 dipendenze disseminate in tutta l’Italia meridionale43. Si precisano i termini dell’appartenenza a Cava di alcune importanti comunità monastiche, quali quelle di Sant’Arcangelo di Perdifumo e di San Magno44, nel Cilento, mentre Roberto il Guiscardo e sua moglie Sichelgaita stabiliscono pubblicamente che gli uomini dipendenti dai cenobi cavensi del Cilento siano in tutto soggetti all’abate della Trinità45. L’interesse manifestato dal ceto dirigente, longobardo prima e normanno poi, nei riguardi della Trinità di Cava permette all’abbazia di acquisire aree di controllo lungo alcune precise vie di comunicazione, attraversate da percorsi viari importanti e impreziosite da piccoli ancoraggi alle foci dei fiumi46. Ai monaci della Trinità non sfugge il valore Pietro Geremia e le carte della storia, cur. F. Migliorino - L. Giordano, Catania 2006, pp. 15-58; F. Cygler - J. Oberste - G. Melville, Aspekte zur Verbindung von Organisation und Schriftlichkeit im Ordenswesen. Ein Vergleich zwischen den Zisterziensern und Cluniazensern des 12.-13. Jahrhunderts, in Viva vox und ratio scripta. Mündliche und schriftliche Kommunikationsformen im Mönchtum des Mittelalters, cur. C. M. Kasper, Münster 1997 (Vita regularis 5), pp. 205-280, e C. Andenna, Le forme della comunicazione negli ordini religiosi del XII e XIII secolo: periferia, sottocentri e filiazioni, in Die Ordnung dei Kommunikation und die Kommunikation dei Ordnungen im mittelalterlichen Europa, I, Netzwerke: Klöster und Orden im 12. und 13. Jahrhundert, cur. C. Andenna - K. Herbers - G. Melville (Aurora 1), in corso di pubblicazione. 42 Si veda a tale riguardo Taviani Carozzi, La principauté lombarde de Salerne, pp. 10541059, e CDC, IX, nn. 126 e 127, pp. 369-374. 43 Si veda il lavoro di Guillaume, Essai, pp. 50-52. 44 La copiosa documentazione conservatasi per i due monasteri, infatti, ricorda la presenza di un priore a Sant’Arcangelo a partire dal 1082, cfr. AC, XIII, 119 e XV, 70, 82: Disideo, presbiter et prior del monastero dal 1082 al 1096, mentre, negli stessi anni, l’abbazia di S. Magno trasforma il titolo del proprio abate Abalsamus in quello di priore, cfr. AC, XIII, 63: marzo 1079; 70: dicembre 1078; 71, 72, 73: aprile 1079/1082; 84: novembre 1079; XIV, 5: aprile 1084. Si veda anche il privilegio pontificio di Urbano II AC, C, 35 bis: settembre 1089 e 21: ottobre 1089. 45 AC, B, 13: 1080; 33: 1083. Sul monastero di San Magno si rimanda al lavoro di G. Vitolo, Il monastero in Mille anni di storia San Mango Cilento, cur. F. Volpe, Napoli 1994, pp. 55-67. 46 Cfr. quanto ha scritto circa i vari fronti dell’espansione cluniacense Cantarella, I monaci di Cluny, pp. 179-255, e anche Id., È esistito un «modello cluniacense»?, in Dinamiche 46 Barbara Visentin politico-economico che il controllo di questi snodi territoriali esprime e la rete dei priorati sembra articolarsi proprio lungo strategici canali di comunicazione, attraverso i quali l’abbazia si apre a proficue relazioni commerciali e culturali. Si prediligono le vie d’acqua dell’Agri e del Sinni, del Tanagro e del Calore cilentano, le valli fluviali del Mingardo e dell’Alento così come quelle, più prossime a Salerno, del Tusciano e del Picentino. In questi anni in cui Cava è un ‘castello del cielo’ in rapida costruzione, Guaimario (I) di Giffoni provvede alla stipula della sua prima cartula offertionis a favore della Trinità. L’autunno del 1091 inaugura la presenza cavense sul territorio di Stricturia, costituendo la prima testimonianza esplicita di un dominio signorile sul territorio di Giffoni47. Tra il 1124 e il 1171 l’abbazia entra nella terza fase della sua irradiazione patrimoniale, la curva delle acquisizioni si mantiene alta e l’esigenza di esercitare una tutela più efficace sui numerosi piccoli insediamenti, monastici e non, sorti lontano dalla Trinità, caratterizza in questi anni la gestione delle proprietà, improntata ad una maggiore centralizzazione dell’assetto organizzativo48. L’ultimo periodo della grande espansione cavense si attesta tra il 1172 e il 1194, dando avvio ad una brusca fase calante delle acquisizioni, destinate ad arrestarsi quasi completamente nel corso del XIII secolo, per lasciare il posto ad un’attività di consolidamento e difesa della proprietà. In questa rete ampia di possedimenti si rintracciano alcuni contesti che presentano particolari elementi di problematicità e criteri di evoluzione propri, consentendo di individuare le differenti modalità di gestione adottate da Cava. Il caso della chiesa di San Michele Arcangelo di Giffoni è, a tale riguardo, un esempio chiaro dei rapporti che la SS. Trinità di Cava intrattenne con i poteri territoriali locali affermatisi nell’area meridionale dell’antico principato di Salerno, essendo direttamente legata alle vicende che interessarono l’avamposto militare del castrum Iufuni. Nel 1092 Guaimario (II), presente l’anno prima accanto al padre nella cartula offertionis con la quale i due avevano chiesto di vestire l’abito monastico e di essere sepolti nell’abbazia cavense, conferma alla Trinità la concessione della sua quota del patrimonio principesco nel Cilento49. Cinque anni più tardi, nel gennaio del 1097, un’altra donazione istituzionali delle reti monastiche e canonicali nell’Italia dei secoli X-XII, Atti del XXVIII Convegno del Centro di Studi Avellaniti, Fonte Avellana 29-31 agosto 2006, cur. N. D’Acunto, Verona 2007, pp. 61-85, e Id., I monaci di Cluny, Torino 1993. 47 AC, C 29. 48 Cfr. Vitolo, Il monastero in Mille anni di storia San Mango, pp. 65-66. 49 AC, C 32. Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 47 non meno importante delle precedenti porta nel patrimonio monastico la dipendenza cilentana di San Matteo ad duo flumina50, edificata nel punto di confluenza dei fiumi Alento e Palistro, alle cui foci erano sorti due dei tre antichi porti di Velia, e una serie di chiese poste all’interno della signoria di Giffoni51. Guaimario (II), filius benigne recordationis domni Guaimarii, pro salute anime, consegna nelle mani del venerabilis abbas Pietro l’ecclesiam Sancti Michaelis, sorta in loco Stricturie, ubi Padudiccle dicitur, in pede montis quod Oraturus dicitur52. La chiesa è accompagnata da omnibus ipsis rebus in quibus constructa est e da tutte le sostanze che, in eadem ecclesia, il suprascriptus genitor suus aveva offerto, ovvero il beneficium destinato alla chiesa da Guaimario (I), probabilmente al momento della fondazione. L’acquisizione della dipendenza di San Michele rappresenta una fase significativa nel potenziamento del patrimonio cavense, la chiesa porta con sé una consistente dotazione fondiaria, concentrata nella parte settentrionale del dominatus, 50 Agostino Venereo la ricorda come l’ecclesia parrochialis S. Mathaei ad duo flumina in Lucania … matrix oppidi Casalicii, olim matrix casalis S. Mathaei ad duo flumina, cum monasterio sub titulo prioratus et custodiae, cfr. A. Venereo, Dictionarium Archivii Cavensis, manoscritto, vol. II, pp. 231, 434, da ora in avanti citato come Venereo, Dict., che talvolta la confonde con la cappella di S. Matteo sub arce di Capaccio, cfr. Venereo, Dict., vol. I, p. 183; vol. II, pp. 434, 491. Sulla scia di Venereo anche G. Talamo Atenolfi, I testi medievali degli atti di S. Matteo l’Evangelista, Roma 1958, p. 49 confonde le due cappelle di S. Matteo, scrivendo: «La chiesa (nella quale il monaco Atanasio pose la reliquia di san Matteo nel 954) era nella contrada «ad duo flumina» così chiamata per la vicina confluenza del Palistro con l’Alento, sulla riva destra di quest’ultimo nella pianura sotto Velia detta la «subarce», e si trovava poco lontana dai possessi del Sacro Palazzo recentemente concessi all’Ordine di san Benedetto in persona dell’abate Giovanni, forse lo stesso di cui è parola nella ‘translatio’, là dove sorse più tardi l’abbazia di S. Maria di Torricella (CDC, I, 232). Dal racconto della ‘traslatio’ parrebbe che la chiesa della deposizione fosse stata affidata al monaco Atanasio dal vescovo pestano Giovanni, dal quale la chiesa dipendeva, sì che questi direttamente vi si reca e vi convoca il rettore. Ancora alla diocesi pestana apparteneva la chiesa nel 1054, quando il vescovo Amato rinunziò per 5 libbre d’argento ai diritti della curia in favore di Teodora di Tuscolo, figlia di Gregorio console e duce dei Romani, e nipote di papa Benedetto IX. Questa, vedova di Pandolfo di Salerno, conte di Capaccio e signore di quei luoghi, aveva ricostruito la chiesa stessa … col centenario del ritrovamento … Circa due anni più tardi, nell’aprile 1072, per disposizione di Gisulfo II … la chiesa col circostante territorio fu donata alla congregazione … cavense che vi costituì l’abbazia di san Matteo ad duo flumina … Poco lungi è la marina, detta ora di Casalvelino». 51 AC, D 9: gennaio 1096 e 13: marzo 1097. 52 La cappella di S. Michele potrebbe essere sorta ai piedi del colle Menaturo, a nord-est del castello di Terravecchia, ipotizzando la derivazione dell’attuale toponimo dall’antico mons quod Oraturus dicitur. 48 Barbara Visentin non lontano da quello che il giovane Guaimario definisce castellum nostrum quod Iufuni dicitur. Alle terre si aggiungono, inoltre, altre tre fondazioni religiose, l’ecclesia Sancti Adiutoris, edificata dagli stessi iufunensi homines … ubi Oraturum dicitur e indicata quale obedientia prefate ecclesie Sancti Michaelis53, l’antica chiesa di San Giorgio, sorta ai piedi del castello e ricordata tra i beni dei domini di Giffoni già nel 97654, e quella di San Liberatore, que edificata est a super valle de Calabrano, ciascuna cum omnibus ad eam pertinentibus55. La Trinità ha incamerato in una sola volta un importante circuito di chiese rurali gravitante attorno alla dipendenza dell’Arcangelo e legato al controllo di un territorio ricco di ulivi, vigne, alberi da frutto, castagni e uomini, con i quali i monaci instaurano vincoli spirituali ed economici. Il punto di convergenza di questa ‘rete’ sembra rimanere, almeno nei primi anni del XII secolo, la chiesa di San Michele, l’unica menzionata tra le dipendenze, apud oppidum Geffuni, che il pontefice Pasquale II conferma al monastero cavense nell’agosto del 110056. Ad essa si affianca nella bolla di Eugenio III, emessa nella primavera del 1149, la chiesa di San Gior53 Cfr. anche Venereo, Dict., vol. I, p. 15v. Sulla gestione di torchi, palmenta, mulini e altro si rimanda a Tabacco, L’Alto medioevo, p. 211. 54 Cfr. Per la chiesa di San Giorgio si conserva ancora il toponimo ‘San Giorgio Vecchio’ alle falde del versante orientale del monte Castello, dove oggi sorge la nuova chiesa di San Giorgio. In questa zona si scorgono anche i ruderi di un edificio quadrangolare dalle modeste dimensioni, nelle cui murature si leggono almeno due fasi costruttive: la prima, poggiante direttamente sulla roccia, è costituita da pietre di fiume, malta, tufi grigi di provenienza locale e laterizi; la seconda, invece, interessa quello che rimane dell’elevato e consente di riconoscere una copertura realizzata con una volta a crociera, sostenuta da quattro colonnine inserite negli angoli dell’edificio. All’interno dell’ambiente, inoltre, sono visibili lacerti di affreschi, forse trecenteschi, che possono essere messi in relazione con la seconda fase costruttiva. Lo spessore delle murature poggianti direttamente sulla roccia, la pianta perfettamente quadrata dell’edificio ed il punto in cui i ruderi sorgono, lascerebbero pensare ad una torre del castello, posta a guardia della pianura circostante e delle vie di comunicazione che dovevano solcarla, in particolare la via que ducit ad castellum nostrum, quod Iufuni dicitur nei pressi della località ubi ad arcu dicitur dove appunto sorge la chiesa di San Giorgio. L’esistenza di affreschi sulle pareti interne, però, non si concilia con una simile ipotesi ma sembrerebbe favorire l’idea della presenza di una chiesa, potrebbe darsi, allora, che le strutture dell’ambiente dopo una prima destinazione, siano state restaurate per essere adattate ad un nuovo uso. 55 Per l’ubicazione delle cappelle e l’identificazione dei toponimi ricordati nel documento si rimanda ancora a Visentin, Destrutturazione tardo antica, pp. 268-270, e alla tavola IV, p. 278. 56 AC, D 26, 29 e P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, Italia Pontificia, 10 voll., VIII, 324, nr. 19, da questo momento citato come Kehr, IP. Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 49 gio57 e, nel gennaio del 1168, il privilegio di Alessandro III riporta per la prima volta l’indicazione di un’ecclesiam Sancti Georgii e di un monasterium Sancti Michaelis58. È probabile che l’abbazia abbia potenziato, nel corso del XII secolo, il numero dei monaci presenti sul territorio del castrum Iufuni, arrivando a costituire una piccola comunità monastica attorno alla chiesa di San Michele59, nucleo di centralizzazione degli interessi cavensi sul territorio, e conferendo alla chiesa di San Giorgio una dignità maggiore rispetto alle altre soggette al monastero dell’Arcangelo60. Nell’agosto del 1169, infatti, la vendita di una terra in loco Stricturia, ubi proprie curtis dicitur, viene curata dal monaco Alferius, praepositus monasterii Sancti Michaelis Archangeli de Gifono … et ecclesiae Sancti Georgii, così come la permuta di due terreni nella stessa località e la concessione del diritto di passaggio per i monachi et alii homines, qui in ipse ecclesia fuerint, fatta a Cava dai coniugi Florio e Gemma, nella primavera del 117161. Alferio è, dunque, il preposito del monastero di San Michele e della chiesa di San Giorgio, almeno fino al 1173 quando, in una cartula venditionis, risulta menzionato semplicemente quale monachus ecclesiae Sancti Michaelis Archangeli, lasciando immaginare che nel frattempo la prepositura della chiesa di San Giorgio sia stata separata da quella del monastero di San Michele e magari assegnata ad un altro confratello62. Il beneficium della chiesa dell’Arcangelo rientra nel patrimonio cavense fino al 1548, data in cui il Venereo ricorda per l’ultima volta la dipendenza, riportandone la concessione in fitto, mentre per le obbedienze che da essa dipendono l’unica notizia che si rintraccia, prima del XVI secolo, risale al luglio del 1225, quando la chiesa di San Giorgio in pertinentiis castri Gifoni, in casali 57 AC, H 7: maggio del 1149, e Kehr, IP, VIII, 325, nr. 23. AC, H 50 falso e P 24: transunto del marzo 1399 – H 51: transunto – I 1: transunto e Kehr, IP, VIII, 326, nr. 26. 59 Cfr. anche Venereo, Dict., vol. I, p. 42r. che la indica con la qualifica di ecclesia cum monasterio sub titulo prioratus. 60 Il Venereo la cita con la qualifica di ecclesia S. Georgii de Gifono, in casali Valle, … cum monasterio sub titulo prioratus, cfr. Venereo, Dict., vol. II, pp. 222v-223r. 61 Cfr. AC, XXXIII 33; 35: agosto 1169; 103: maggio 1171. 62 AC, XXXIV 73: agosto 1173, nella vendita di una terra il monaco Alferio, precedentemente indicato come prepositus monasterii S. Michaelis Archangeli e, contemporaneamente, della cappella di S. Giorgio, viene semplicemente menzionato quale monachus ecclesiae S. Michaelis Archangeli. 58 50 Barbara Visentin quod la Valle dicitur, viene concessa per 29 anni al chierico Gualterio de Salerno63. L’afflusso cospicuo di ricchezze nei già consistenti patrimoni di cui erano dotate le chiese ed i monasteri salernitani può, dunque, facilmente inquadrarsi nel contesto di trasformazione generale che seguì all’indomani della conquista normanna. Per ciò che concerne, invece, i destinatari di tali donazioni, va detto che fin dagli ultimi anni del secolo X si era dato inizio ad un processo di progressiva acquisizione di capitali, soprattutto fondiari, da parte di alcuni enti ecclesiastici salernitani particolarmente interessati alle terre del Picentino. È questo il caso delle chiese urbane di fondazione principesca come Santa Maria de domno e S. Massimo64, dei monasteri intitolati ai Santi Angelo e Sofia65, a San Nicola de palma66 e a San Giorgio67, e delle cappelle private dedicate a San Martino ulter flubio 63 AC, LII 108. CDC, I, p. 176. La notizia più antica che si possiede a tale proposito risale al 919 ed interessa il locus Pulianus, all’interno del quale il presbitero Valperto dona tutti i beni di sua proprietà alla chiesa salernitana di S. Massimo. Per più di un secolo, poi, non si rintracciano altre testimonianze, fino a quando nel 1034 l’abate di S. Massimo non è chiamato a definire i confini dei suoi possedimenti con un tale Disio di Propiciano, attestando tra le terre di pertinenza della chiesa salernitana anche zone site nell’attuale Comune di Prepezzano. CDC, VI, p. 6. Si fermano a queste le indicazioni che le fonti documentarie, comprese tra X ed XI secolo, forniscono per la fondazione principesca di S. Massimo, una simile esiguità di informazioni non permette, dunque, un discorso molto articolato sulla disposizione delle proprietà della chiesa nella valle del Picentino. 65 Delogu, Mito di una città meridionale, p. 141, note n. 120 e n. 121; in proposito si veda anche Taviani Carozzi, La principautè, pp. 742-746. A cominciare dall’anno 1023 il monastero di S. Sofia si trova citato in qualità di possessore di alcune terre site in loco Campiliano CDC, IV, p. 10. Altre terre possedute in Campiliano dai monasteri salernitani di S. Angelo e S. Sofia sono attestate negli anni 1041, 1044, 1049 e 1058; CDC, VI, p. 160; p. 161; p. 254; VII, p. 117; L. Cassese, Pergamene del monastero benedettino di San Giorgio (1038-1698), Salerno 1950, p. 11 da adesso citato come P.S.G.; CDC, VIII, p. 62; p. 81. e in loco Silia cfr. CDC, V, p. 179, a. 1023; p. 157, a. 1028; p. 166, a. 1029; VII, p. 173, a. 1052. e fino al 1040 non si rinviene associato a quello di S. Angelo. Nel 1049 i due conventi posseggono terre a Bespanicus CDC, VII, p. 118. mentre quasi dieci anni più tardi un certo Bonifacio restituisce a Maraldo, abate di S. Sofia, tutte le sue proprietà in loco Iufuni ubi Segeti dicitur CDC, VIII, p. 81. 66 CDC, IX, p. 243. 67 Cassese, P.S.G., p. XXXI. Il monastero femminile di S. Giorgio di Salerno prope muros veteris palatii, doveva possedere un consistente numero di terre a Faiano, come attestano due atti rispettivamente degli anni 1037, cfr. L. Pennacchini, Pergamene Salernitane, Salerno 1941, p. 23, a. 1008, per la ridatazione di questo documento al 1037 si veda M. Galante, Per la datazione dei documenti salernitani di epoca longobarda. Note ed osservazioni, «Ras64 Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 51 Lirino68 e agli apostoli Matteo e Tommaso, sul limite orientale della città di Salerno69. Illuminante sembra essere, allora, il caso della fondazione principesca salernitana di Santa Maria de domno che, realizzata sul finire del X secolo inter murum et muricinum, conosce nel corso dell’XI una massiccia acquisizione di terre, a potenziamento delle cospicue sostanze di cui è stata dotata fin dall’inizio dal principe Giovanni. Nell’anno 994 Dumnellus presbiter et abbas ecclesie Sancte Marie, quem ... domnus Iohannes princeps et domna Sichelgaita principissa uxor sua ... construsserunt ... inter muro et muricino, si industria per scambiare alcune terre in locum Bespanicum, erga flubio Pecentino, con altre nella stessa località ma coniuntum cum rebus nostra, al fine di costruirvi un mulino70. Da questo momento in poi l’abate di Santa Maria de domno diviene una figura ricorrente nelle transazioni concernenti il territorio in esame, nel 997 è ancora Dumnello a fare le veci della chiesa nella quale officia e a ricevere, da Amatus presbiter et notarius, ... inclita sortione ... de ecclesia Sancti Symeonis et casis in locum Martorano, Stricturie finibus71. La chiesa di San Simeone doveva costituire un donativo di particolare importanza, se Santa Maria de domno fu così interessata a percepirne il pieno possesso e, a distanza di appena due anni, lo stesso Dumnello compare dinanzi al giudice Adenolfus per riceverne la restante metà, insieme a pannos, munimen, ferrum, siricum, aurum et argentum72. Le pertinenze della cappella di Santa Maria all’interno del distretto di Stricturia si presentano, così, piuttosto estese e ben documentate, in segna degli Archivi di Stato» 2-3, pp. 370-372, e 1042, cfr. M. Galante, Nuove pergamene del monastero femminile di S. Giorgio di Salerno. I (993-1256 ), Altavilla Silentina 1984, p. 9. 68 La chiesa intitolata a S. Martino, localizzata fuori dalle mura della città di Salerno, ulter flubio Lirino, era stata dotata, invece, di un patrimonio che comprendeva alcune pertinenze all’interno della città di Salerno ma che per la maggior parte si estendeva tra i territori degli attuali Comuni di Giffoni e di Montecorvino Rovella; la chiesa viene, infatti, menzionata per la prima volta in tre carte dell’anno 986 come dominus di terre situate in loco Campiliano, Taviani Carozzi, La principautè, p. 738. CDC, II, p. 229; p. 231; p. 232. La chiesa di S. Martino sull’Irno è ricordata ancora in qualità di dominus per terre in Campiliano nell’anno 1010, cfr. CDC, IV, p. 173. 69 Taviani Carozzi, La principautè, p. 764. CDC, VIII, pp. 51, 297: In un lungo istrumento del 1064, infine, che definisce una serie di scambi di terre, alla cappella vengono riconosciute proprietà in loco Propiciano, ubi Monte de Spelengaru dicitur, in loco Selecta (Felecta) ed in loco sancto Cipriano. 70 CDC, III, p. 20. 71 Ivi, p. 76. 72 Ivi, p. 98. 52 Barbara Visentin due carte rispettivamente del 99873 e del 99974 vengono addirittura menzionate sei diverse località, purtroppo oggi non tutte rintracciabili, che contengono terre appartenenti alla chiesa salernitana. I possedimenti si concentrano, in modo particolare, tra i casali di Martoranus ad est e di Correianus ad ovest, entrambi compresi in finibus Stricturie, interessando anche l’Aqua Argenza, l’attuale corso d’acqua del Rienna, nei pressi del quale sorge la chiesa di San Vincenzo, dipendenza di Santa Maria de domno nel 1141 e, successivamente, obbedienza cavense. Non mancano attestazioni di terre appartenenti a Santa Maria anche in altri punti del territorio indagato, è il caso di un atto risalente all’anno 1000, nel quale Lisoprando, filius quondam Iannelgari, commuta delle proprietà con Dumnello, presbiteri et abbati pro pars ecclesie Sancte Marie, in locum Propiciano75, mentre nell’anno 1002 è ancora un contratto di pastinato a fornire indicazioni circa due pecie de terra campensis che la chiesa di Santa Maria de domno possiede in locum Bespanicum ulter flubio Pecentino76. Il caso della chiesa di San Vincenzo, però, rientrante nelle terre di pertinenza del castrum Iufuni, offre la possibilità di mettere a fuoco un contesto particolare, segnato dalla presenza di una cella vulturnense fin dai primi anni del IX secolo, transitata nel patrimonio fondiario della cappella principesca di Santa Maria de domno e, solo alla metà del XII secolo, confluita nella congregazione cavense. La stessa situazione documentaria caratterizza in modo diverso le vicende della chiesa di San Vincenzo, le carte superstiti si presentano infatti piuttosto dettagliate per ciò che riguarda le vicende anteriori all’ingresso nel raggio d’azione della Trinità, ma purtroppo assai carenti per il periodo in cui la cappella rientra tra le dipendenze di Cava. La prima menzione della chiesa risale all’anno 819 e si rintraccia in una conferma dell’imperatore Ludovico I al monastero di San Vincenzo al Volturno, nella quale vengono ricordate, tra le altre, la cellam Sancti Georgii infra Salernitanam civitatem, la cellam Sancti Vincencii in fluvio Tusciano, la cellam Sancti Vincencii in fluvio Tensa e la cellam Sancti Valentini in fluvio Bisentino, nella quale sembra potersi riconoscere quella che diventerà la 73 Ivi, p. 89. Ivi, p. 90. 75 CDC, III, p. 105. 76 CDC, IV, p. 7; VI, p. 139: 1040. Terre site nelle località di Bespanicus e di Giffoni sono, anche, ricordate in un inserto del 1041, riportato in un documento più tardo del 1054, cfr. CDC, VII, p. 223. La chiesa di S. Maria de domno possedeva, inoltre, terre a Campiliano, a tal proposito cfr. CDC, IX, p. 62, a. 1066. 74 Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 53 chiesa di San Vincenzo77. Bisogna aspettare l’anno 962 per avere ancora notizia della cella Sancti Valentini in fluvio Vixentino78, il diploma è emanato da Ottone I e va ad inserirsi in quel clima di ristrutturazione generale che interessa il cenobio di San Vincenzo al Volturno tra il 940 e il 960. L’imperatore ribadisce nuovamente la giurisdizione del cenobio sulle celle del Tusciano e del Tensa, nonché su quelle di San Giorgio di Salerno e di San Valentino sul Picentino, tuttavia, nel 983, l’abate vulturnense torna a chiedere la ratifica imperiale per il possesso di alcuni beni, tra i quali compaiono ancora la cappella et cella infra Salernitanam civitatem in honore Santi Georgii constructam, la cellam Sancti Vincencii in fluvio Vixentino, la cellam Sancti Vincencii in fluvio Tusciano e la cellam Sancti Vincencii in fluvio Tensa79. Il diploma indica, per la prima volta, la cella sul Picentino come dedicata a San Vincenzo e la nuova attestazione lascia pensare ad una corruzione del nome da parte del copista oppure ad una nuova dedicazione del complesso, avvenuta nel corso dei ventun’anni che intercorrono tra l’ultima notizia della presenza di una cella di San Valentino lungo il Picentino e la prima indicazione della stessa intitolata a San Vincenzo. A distanza di alcuni anni, nel giugno del 1141, si rintraccia la descrizione dettagliata delle terre all’interno delle quali sorge l’ecclesia Sancti Vincentii, nel frattempo passata tra le pertinenze della chiesa salernitana di Santa Maria de domno80. L’occasione è data dalla composizione di una lite, intercorsa tra un tale Soldanus e Iohannes, presbiter ecclesie Sancte Marie que dicitur de domno, circa i limiti di alcuni possessi fondiari, all’interno dei quali era stata edificata la chiesa di San Vincenzo. Le indicazioni toponomastiche fornite nell’atto dal notaio Pietro rimandano alle località di San Vincenzo e Cellara, nell’attuale Comune di Giffoni Valle Piana, dove il torrente Rienna incontra il fiume Picentino, incipiendo a coniunctione posteriore nominati rivi cum flumine, e dove i resti dell’antica chiesa sembrano potersi riconoscere inglobati in una masseria del XVIII secolo81. I contadini del posto chiamano questa zona la cappella vecchia di San Vincenzo, di fronte alla quale, su una piccola altura, ricordano la presenza dell’aia 77 Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, ed. V. Federici, I, Roma 1925 (Fonti per la storia d’Italia, LVIII), p. 232, da adesso citato come Chron. Vult. 78 Chron. Vult., II, p. 127. 79 Chron. Vult., II, p. 247. 80 AC, XXV 21. 81 Nella fabbrica attuale si nota un semplice arco molto interrato che conserva ancora un affresco, probabilmente settecentesco, raffigurante l’Annunciazione con in primo piano l’Angelo e la Vergine Maria e sul fondo la figura di un santo monaco, san Vincenzo, con la Palma del martirio nella mano destra. 54 Barbara Visentin di San Vincenzo e, non molto distante, anche una fontana porta il nome del santo. La breve distanza, poi, che intercorre tra la cappella vecchia di San Vincenzo e la chiesa di Sant’Ambrogio, nel Comune di Montecorvino Rovella, il cui ciclo pittorico presenta analogie con gli affreschi realizzati nel monastero alle fonti del Volturno, alla metà del IX secolo82, estende alle terre sulle quali sorge il Sant’Ambrogio l’area di dominio della chiesa di San Vincenzo sul Picentino. Possedimenti piuttosto vasti che si sviluppano dalla cella di San Vincenzo alla chiesa di Sant’Ambrogio, sulle sponde del Rienna, per un estensione di due chilometri circa, comprendendo zone particolarmente fertili e ricche di corsi d’acqua, confluite prima tra le pertinenze della chiesa principesca di Santa Maria de domno e successivamente, tra il 1149 e il 1168, nel vasto patrimonio dell’abbazia cavense. Nel maggio del 1149, infatti, la bolla pontificia di Eugenio III cita, tra le numerose dipendenze confermate alla SS. Trinità, solo l’ecclesia Sancte Marie de domno83, mentre vent’anni più tardi Alessandro III, nel gennaio del 1168, riporta nuovamente la conferma e l’esenzione da ogni autorità secolare e religiosa per la chiesa salernitana, ma in questa occasione Santa Maria de domno è ricordata cum cellis suis, tra le quali ci sarebbe la cella/chiesa di San Vincenzo84. L’ipotesi verrebbe confermata anche dal Venereo, il quale nel suo Dictionarium Archivii Cavensis riporta che la chiesa venne concessa a Cava, confirmata et exempta da Alessandro III nel gennaio del 1168, ricordando inoltre che il beneficium della stessa rientra nel patrimonio abbaziale fino al 154885. 82 Per l’architettura, il ciclo di affreschi e la datazione della chiesa di S. Ambrogio si vedano i saggi di P. Peduto - D. Mauro, Il Sant’Ambrogio di Montecorvino Rovella, «Rassegna storica salernitana» 7, 1990, pp. 15-23; Pace, La pittura medievale in Campania, p. 245, e B. Visentin, Salerno ed il Tusciano in età longobarda: quattro esempi di pittura altomedievale, «Schola Salernitana. annali» 5-6, 2000-2001, pp. 157-195. Per le decorazioni pittoriche del San Vincenzo Maggiore si rimanda a R. Hodges - F. Marazzi - J. Mitchell, Il San Vincenzo Maggiore di IX secolo, in R. Hodges et alii, San Vincenzo al Volturno, scavi 1994. La scoperta del San Vincenzo Maggiore, «Archeologia Medievale» 22, 1995, pp. 59-67; J. Mitchell, The display of script and uses of painting in longobard Italy in Testo ed immagine nell’Alto medioevo, Settimana del Cisam XLI, Spoleto 1994, pp. 940-945. 83 AC, H 7 e Kehr, IP, VIII, 325, nr. 23. 84 AC, H 50 falso e P 24: transunto del marzo 1399 – H 51: transunto – I 1: transunto e Kehr, IP, VIII, 326, nr. 26. 85 Venereo, Dict., vol. II, p. 222v. Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 55 L’epilogo La crisi politica del Principato di Salerno e la conseguente ristrutturazione degli ambiti territoriali rappresentano i due parametri di fondo sui quali maturano e si muovono, da un lato, l’esperienza del dominatus loci di Giffoni, dall’altro, la nascita e la rapida espansione della grande abbazia cavense. Alla metà dell’XI secolo mentre un ramo cadetto della famiglia principesca salernitana, sopravvissuto alla furia omicida del 1052, assume atteggiamenti di tipo signorile, controllando un territorio strategico e ricco, la SS. Trinità di Cava, guidata dal venerabilis abbas Pietro, mette a punto un sistema accentrato, sul modello di quello cluniacense, assicurando protezione efficace a tante piccole comunità locali che, diversamente, avrebbero incontrato maggiori difficoltà di sopravvivenza. In entrambi i casi si tratta di importanti signorie locali, la prima gravitante attorno ad un castellum, nel quale vivono il dominus e i suoi fideles, e al quale fanno riferimento gli homines subiecti che popolano le terre circostanti; la seconda legata alla santa societas dei monaci, a capo della quale siede l’abate, divenuto ineludibile protagonista della società del potere, capace di conciliare le esigenze dell’anima con quelle del mondo. Cava e Giffoni svolgono un ruolo per nulla marginale nel cambiamento della scena politica meridionale tra XI e XII secolo, il conte di Conza, Guido, riceve il territorio di Stricturia, ben consapevole delle potenzialità che un castello come quello di Giffoni nasconde e inaugura un ricompattamento di ambiti micro-territoriali, forte del titolo di dominus che ha guadagnato86. Cuore e fulcro del territorio del Picentino, Giffoni diviene la sede di un vasto e complesso dominatus loci, all’interno del quale sorgono le chiese private di San Michele Arcangelo e di San Liberatore che, insieme a quelle di San Giorgio e di Santa Maria nel castello, permettono un confronto con le cappelle delle signorie territoriali incastellate87. Una presenza così numerosa di chiese appartenenti al dominus loci rappresenta, però, un caso singolare, segno di quell’incremento demografico che in86 L’esistenza di una famiglia comitale a Giffoni viene ulteriormente confermata da un atto del 1301 nel quale si legge: terra Gifoni ... fuit olim per celebris quippe quae ab ipso Longobardorum tempore suos comites habuit. Cfr. Syllabus membranarum ad Regiae Siclae Archivum pertinentium, II, Neapoli 1845, p. 60. 87 Cfr. C. Violante, Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale (secoli V-X) in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’Alto medioeve: espansione e resistenze, Settimane di studio del Cisam, Spoleto 1980, p. 1149. 56 Barbara Visentin teressa l’ultima età longobarda e tutta l’età normanna e, probabilmente, determina nei casali di Giffoni una concentrazione di individui notevole, rendendo necessaria l’edificazione di più cappelle che provvedano alla cura animarum e insieme ad un controllo puntuale degli homines. La complessità dei diritti signorili esercitati da Guido e dai suoi eredi sulle terre di Giffoni si mostra con chiarezza nella menzione della chiesa di Sant’Adiutore e dell’oleara, pertinentes hominibus iufunensibus, ai quali non sembra richiesto alcun censo per l’utilizzo del frantoio88. I caratteri originari di queste presenze, apparentemente inspiegabili, vanno forse ricercati in quella che da sempre fu la natura degli arimanni longobardi, uomini liberi anche nel rapporto con il loro dominus, al quale li lega un giuramento di fedeltà e mai una sottomissione di tipo servile. Simili concetti sono alla base della gens longobarda e fanno parte di quel bagaglio di tradizioni che ha costituito il nerbo vitale della loro idea di popolo, elementi fondamentali per i quali difendere la propria dignità di uomo e l’unità della stirpe89. Nella società meridionale del Mezzogiorno medievale alla SS. Trinità di Cava spetta un ruolo assai più multiforme, dal quale emerge una presenza cavense poderosa e consistente. L’abbazia pone problemi di carattere istituzionale e organizzativo, quali il peso ricoperto nell’ambito della riforma della Chiesa e i rapporti intercorsi tra il monastero e i vescovi; problemi di ordine più strettamente religioso, legati all’incidenza che i monaci ebbero nell’organizzazione della cura animarum, e problemi di carattere politico-sociale, come le relazioni che la Trinità intrattenne con le aristocrazie territoriali. La documentazione presa in esame fornisce una messe copiosa di dati, notizie, elementi, capaci di attestare il ruolo essenziale svolto dai monaci e la fortuna toccata alla congregazione cavense tra la fine dell’XI e l’intero XII secolo. Questo straordinario cammino di irradiazione del sistema cavense sembra dettato da fattori molteplici90, il calcolo politico è uno di questi ma ad esso vanno aggiunte le condizioni 88 AC, D 9. Per un inquadramento generale sulla natura e sul valore delle tradizioni del popolo longobardo si veda S. Gasparri, La cultura tradizionale dei Longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane, Spoleto 1983. 90 A proposito dell’infondatezza di un antagonismo tra il monachesimo latino e quello greco nel Mezzogiorno monastico medioevale e del desiderio di latinizzazione perseguito dai Normanni si veda anche lo studio di G. Vitolo, La latinizzazione dei monasteri italo-greci del Mezzogiorno medievale. L’esempio di S. Nicola di Gallocanta presso Salerno in S. Leone - G. Vitolo, Minima Cavensia. Studi in margine al IX volume del Codex Diplomaticus Cavensis, Salerno 1983, pp. 75-92. 89 Identità signorili e sistemi di gestione tra età longobarda e normanna 57 in cui versano la vita religiosa e le istituzioni ecclesiastiche di base, la necessità di garantire il regolare svolgimento della liturgia nelle chiese, l’azione riformatrice condotta da vescovi e pontefici nelle terre del Mezzogiorno, il modello di profonda spiritualità offerto dagli abati cavensi e la forza della preghiera di cui i monaci si fanno promotori. IL BASSORILIEVO DI MAHDIYA VICENDE STORICO-ARTISTICHE TRA ZIRIDI E NORMANNI NEL MEDITERRANEO MEDIEVALE (XI-XII SEC.) Lamia Hadda La vicenda mediterranea tra gli Ziridi della Tunisia medievale (Ifriqiya) e tra i Normanni d’Italia meridionale s’inquadra in un panorama politico la cui lettura anche se estremamente complessa e articolata può essere brevemente sintetizzata. È bene ricordare che il Canale di Sicilia nel suo punto più stretto non supera i centocinquanta chilometri di larghezza. È logico quindi pensare che chi governava la Sicilia non poteva non tener conto di quello che accadeva sulla sponda opposta del Mediterraneo. Nel 973, il quarto califfo fatimide al-Mu‘izz ibn al-Mansūr (953-973) trasferì la sede del potere in Egitto appena conquistato. In seguito i Fatimidi riuscirono ad impossessarsi della vecchia capitale egiziana al-Fustat e a fondare una nuova città palatina a qualche chilometro più a Nord, sede dell’amministrazione centrale del reame fatimida, che dapprima prese il nome di al-Mansuriyya, come la vecchia capitale ifriqiyena, per poi essere ribattezzata con il nome di al-Qahira (Il Cairo). Quest’ultima, in poco tempo, diventò una delle metropoli più ricche e più importanti del mondo islamico. Per circa due secoli, la dinastia sciita fatimide che aveva regnato per circa due secoli sull’Egitto e sul Nordafrica divenne la principale potenza mediterranea1. Tutto ciò aveva comportato una frammentazione politica del Maghreb che venne governata per la prima volta dopo la conquista araba da 1 E. J. Grube, Il periodo fatimide in Egitto dal 297/909 al 567/1171, in Eredità dell’Islam, arte islamica in Italia, cur. G. Curatola, Catalogo della mostra, Venezia, Palazzo ducale 30 ottobre 1993-30 aprile 1994, Milano 1993, pp. 133-139; H. Halm, L’histoire d’une brillante dynastie, in Trésors fatimides du Caire, Catalogue de l’exposition de l’Institut du monde arabe, 28 avril-30 août 1998, Paris 1998, pp. 44-51; A. Fuad al-Sayyid, Les Fatimides en Egypte, Beyrout 2000; R. Ettinghausen, O. Grabar, M. Jenkins-Madina, Islamic Art and Architecture 650-1250, London 2001, pp. 190-213. 60 Lamia Hadda tribù berbere di Sanhagia: gli Ziridi e gli Hammaditi2. Dopo lo strappo, praticato da queste tribù nei confronti del potere sciita del Cairo, che coincise con la scelta di sottomettersi al califfo sunnita di Bagdad, i Fatimidi spinsero le tribù nomadi dei Banu Hilal e Banu Sulaym provenienti dall’Alto Egitto a punire la defezione degli Ziridi. La crisi politico-economica che ne seguì fu grave tanto che si formarono delle piccole entità autonome che si sostituirono allo stato di generale anarchia derivante da un potere centrale ormai inesistente. Gli Ziridi intanto trasferirono la loro capitale da Kairouan a Mahdiya che rimase tale fino alla conquista normanna del 11483. Prima di questa data però i Normanni avevano assicurato un appoggio agli Ziridi che esercitavano una sorta di stato cuscinetto tra i Fatimiti e gli Almoravidi e in seguito tra i Fatimiti e gli Almohadi, due dinastie berbere provenienti dal Sud del Marocco, al fine di garantire una certa stabilità territoriale, seppure con evidenti limiti, e di conseguenza garantire più sicurezza alle navi commerciali che solcavano il Mediterraneo i cui guadagni erano lucrosi per la Sicilia. Per quanto esistesse una tregua siglata nel 1075 tra i Normanni e gli Ziriti, continui erano stati gli scontri terresti e navali tra Cristiani e Musulmani. Presupposto di un vero e proprio attacco in Africa del Nord, fu l’assalto almoravide di Nicotera sulla costa calabrese nella primavera del 1122, ritenuto da Ruggero II opera di Hasan ibn Alì e conseguenza di un’alleanza tra Ziriti e Almoravidi, considerata, come abbiamo già detto, pericolosa per la navigazione normanna4. C’è da sottolineare che la Sicilia e la Tunisia avevano però instaurato uno stabile e fruttuoso traffico commerciale marittimo dovuto soprattutto alla vicinanza delle due coste: il viaggio era abbastanza celere per l’época poiché non si impiegava più di una settimana tra Palermo e Mahdiya5. Il progetto di assicurarsi una base stabile sul territorio africano nasceva sempre più dall’idea di garantire sicurezza ai traffici su una rotta già 2 Sugli avvenimenti storici delle due dinastie berbere regionali si veda per tutti: H. R. Idris, La Berbérie orientale sous les Zirides (Xe-XIIe s.), I, Paris 1962; A. Dhouib, L’époque ziride, in Histoire générale de la Tunisie. Le Moyen Age (27-982 H./647-1574), II, Tunis 2005, pp. 269-321. 3 A. Ibn Khaldūn, Histoire des Berbères, trad. De Slane, II, Paris 1999, pp. 4-29. 4 Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, trad. M. Amari e riveduta da U. Rizzitano, II, Firenze 1997, pp. 361-363; Dhouib, L’époque ziride, pp. 313-318. 5 A. Aziz, La Sicile islamique, Paris 1990, pp. 59-61; G. Jehel, L’Italie et le Maghreb au Moyen Age. Conflits et échanges du VIIe au XVe siècle, Paris 2001, pp. 51-53. Il bassorilievo di Mahdiya 61 esistente ma pericolosa allo stesso tempo di prelevare ingenti quantitativi di oro da utilizzare per la fabbricazione dei tarì nelle zecche di Sicilia e di Salerno e nella stessa città di Mahdiya dove probabilmente era attiva una produzione per la fabbricazione delle monete. Per di più la scelta della città di Mahdiya, quale possibile prima conquista sul territorio africano, è presto spiegata dal fatto che per la sua importanza tra le città del Maghreb e per la sua particolare posizione sul mare era diventata il terminale delle rotte carovaniere dell’oro transhariano6. In tutti i modi il primo scontro tra Normanni di Sicilia e ifriqiyeni di Mahdiya avvenne nell’agosto del 1123. L’autore arabo Ibn Hamdis descrisse enfaticamente e in ogni dettaglio la disfatta normanna, avvenuta sia presso la fortezza che nell’isolotto di al-Ahāsī situato proprio di fronte al castello di Ras al-Dimas posto sul mare a circa una decina di chilometri a Nord di Mahdiya7. Il silenzio che seguì i primi attacchi costieri da parte dei cronisti italomeridionali, sono facilmente spiegabili alla luce degli evidenti insuccessi militari che seguirono le prime spedizioni sul suolo africano. L’unico a segnalare, anche con una certa mancanza di precisazioni cronologiche, la sconfitta e il definitivo abbandono normanno dell’Ifriqiya fu Ugo Falcando8. Solo due cronisti francesi si sono interessati delle vicende normanne durante la fase successiva dell’occupazione costiera africana, Guglielmo di Nangis e Roberto di Torigny9. 6 Sulla conquista nordafricana, si consulti: F. Gabrieli, La politique arabe des Normands de Sicile, «Studia islamica» 9, 1958, pp. 83-96; K. Belkhodja, Les Normands de Sicile en Ifriqiya, «Les Cahiers de Tunisie» 12, 1964, pp. 37-40; M. Brett, The City-State in Mediaeval Ifriqiya; the Case of Tripoli, «Les Cahiers de Tunisie» 34, 1986, pp. 69-94; E. Caspar, Ruggero II e la fondazione della monarchia normanna di Sicilia, Roma - Bari 1999, pp. 43-47, 152-154, 382-390; H. Houben, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, Roma - Bari 1999, pp. 100-110; A. De Simone, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Islam Africano, in Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo, Atti delle XIII giornate normanno-sveve, Bari 21-24 ottobre 1997, Bari 1999, pp. 261-263; A. De Simone, Ruggero II e l’Africa islamica, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le crociate, Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 2000, Bari 2002, pp. 95-129. 7 M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, ed. U. Rizzitano, III, Firenze 1998, pp. 724-731; A. Borruso, La battaglia di Capo Dīmās nei versi di Ibn Hamdīs poeta arabo di Sicilia, «Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani» 13, 1977, pp. 5-19. 8 Ugo Falcando, La Historia o Liber de regno Sicilie e la Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie thesaurium, ed. G.B. Siragusa, Roma 1897, pp. 24-28. 9 Guglielmo di Nangis, Chronique latine, ed. H. Geraud, I, Paris 1843, p. 45; Roberto di Torigny, Monumenta Germaniae Historica, SS, VI, p. 473. 62 Lamia Hadda Le fonti arabe che descrivono la presa di Mahdiya, successive agli avvenimenti, si rifanno tutte alla cronaca perduta di ibn Shaddad testimone oculare della presa della città: Tijani, Ibn al-Athir, Ibn Khaldun e Ibn Abi Dinar10. La spedizione navale salpata da Marsala tra il 27 giugno e il 26 luglio del 1123 era formata da circa trecento navi che trasportavano trentamila uomini e un migliaio di cavalli11. Alla disfatta contribuirono numerosi fattori. Una tempesta fece affondare molti vascelli mentre altri si riparavano a Pantelleria. Il vento contrario che costrinse la flotta di Ruggero a fermarsi nell’isoletta (Jazīrat) di al-Ahasī e avanzare a remi. I due ammiragli, Giorgio e Abd alRahmān il Cristiano, posero il campo sull’isola e seguirono le mura della città di Mahdiya fino alla vicina città di Zawīla, impressionandosi sui numerosi soldati che erano presenti sugli spalti. Nel frattempo al-Ahasī era stata presa dagli Arabi e il tentativo di sorpresa di attaccare Mahdiya fallito. Inoltre, tre giorni dopo, la presa della fortezza di al-Dīmās si rivelò uno scacco per le truppe normanne. I cento soldati normanni che erano riusciti ad introdursi all’interno del fortilizio per corruzione vi rimasero intrappolati e vennero in seguito trucidati in un tentativo di sortita avvenuto per fame nella prima settimana dell’agosto del 1123. Le truppe normanne non potendo soccorrerli levarono l’ancora alla volta della Sicilia. La sconfitta ifriqiyena da parte di Ruggero aveva arrecato un danno d’immagine di non poco conto al non ancora re di Sicilia12. Dopo la sconfitta si dice che alla corte di Palermo “uno dei franchi” probabilmente Giorgio d’Antiochia13, l’ammiraglio di Ruggero II dalla barba lunga giurava di tagliarsela solo dopo essersi vendicato della sconfitta subita14. Infatti, con una menzogna la flotta normanna giunse 10 Al-Tijani, Biblioteca arabo-sicula, II, pp. 506-510; Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, II, pp. 369-373; Ibn Khaldoun, Biblioteca arabo-sicula, II, pp. 605-608; Ibn Abi Dinar, Biblioteca arabo-sicula, III, pp. 660-662. 11 Ibi Abi Dinar, Biblioteca arabo-sicula, III, p. 660. 12 Sulla sconfitta normanna di al-Dimas: Idris, La Berbérie orientale, pp. 334-338; sulla dettagliata narrazione degli avvenimenti: Al-Tijani, Biblioteca arabo-sicula, pp. 502-506. 13 Sul personaggio si veda: L.-R. Ménager, Amiratus, L’Emirat et les origines de l’Amirauté (XIe-XIIe), Paris 1960, pp. 44-54. 14 Ibn Idhari, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 479. Ibn Idhari, pensando probabilmente all’ammiraglio Giorgio d’Antiochia, riporta testualmente ciò che probabilmente aveva udito da qualche testimone oculare dopo la clamorosa sconfitta di al-Dimas raccontare alla corte di Ruggero II, cioè che: «un Franco molto barbuto, si strizzava con la mano la punta della barba, giurando per gli evangeli di non tagliarne un sol pelo prima di pigliare vendetta sopra il popolo di al-Mahdiyah». Il bassorilievo di Mahdiya 63 davanti l’imprendibile città di al-Mahdiya, capitale dell’ormai traballante stato Ziride. Ruggero II essendosi inserito negli affari d’Ifriqiya e reclamando i mancati pagamenti per i rifornimenti di grano a seguito dei debiti accumulati da al-Hasan prese il pretesto per l’attacco15. Dopo la conquista dell’isola di Djerba (1135)16 e delle isole di Kerkenna (1145-1146)17 in Tunisia e della città di Tripoli (1146) in Libia18, nell’estate del 1148 Giorgio l’antiocheno giunge davanti al porto di Mahdiya in Tunisia con duecentocinquanta-trecento galere e lascia la città per due ore al saccheggio di tutte le sue ricchezze19. Subito dopo vengono prese altre due importanti città del litorale tunisino senza grossi problemi: Susa e Sfax (1148)20. Dopo solo qualche anno i Normanni avevano conquistato la costa nordafricana da Tripoli a Bona concedendo ai musulmani di praticare la loro religione. Nel settembre del 1148 il papa Eugenio III (1145-1153) consacrò a Brescia il vescovo d’Africa cioè d’Ifriqiya (ovvero della Tunisia medievale)21 e in quello stesso anno probabilmente venne realizzata l’epigrafe funeraria quadrilingue (latino, ebraico, greco, arabo), conservata a Palermo presso il Palazzo della Zisa, dove Ruggero viene indicato come malik d’Italia, Longobardia, Calabria, Sicilia e Ifriqiya22. Ormai l’espansione degli Almohadi, tribù come abbiamo già detto provenienti dal Marocco, erano alle porte e non potevano essere contenute a lungo tanto è che subito dopo la morte di Ruggero II (Palermo, 26 febbraio 1154) tutte le conquiste siciliane nel Nordafrica vennero perse e il sogno dell’Impero d’Africa svanì definitivamente23. Una delle tante testimonianze materiale delle conquiste normanne in Africa settentrionale resta molto probabilmente il bassorilievo in marmo bianco, conosciuto con il nome di “lastra di Mahdiya” (53 × 36 15 Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 365. Ibn Abi Dinar, Biblioteca arabo-sicula, III, pp. 660-661. 17 Idrisi, Biblioteca arabo-sicula, I, p. 105. 18 An-Nuwayri, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 561. 19 Al-Tijani, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 508. 20 Ibn al-Athir, Biblioteca arabo-sicula, II, p. 373. 21 H. Bresc, Le royaume normand d’Afrique et l’archevêché de Mahdiyya, in Le partage du monde échanges et colonisation dans la Méditerranée médiévale, sous la direction de M. Balard et A. Ducellier, Paris 1998, pp. 347-366. 22 La scritta in arabo è la seguente: Mālikah Itāliyah wa-Ankubardhah wa-Qillawriyah wa-Siqilliyyah wa-Ifriqiyah. Sull’epigrafe funeraria quadrilingue: M. Amari, Le epigrafi arabiche di Sicilia, cur. F. Gabrieli, Palermo 1971, pp. 201-212, tav. IX, fig. 2; B. Lagumina, Nota sulla iscrizione quadrilingue esistente nel Museo Nazionale di Palermo, «Archivio Storico Siciliano» 15, 1890, pp. 108-110. 23 A. De Simone, Ruggero II e l’Africa islamica, pp. 124-125. 16 64 Lamia Hadda Fig. 1. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo, lastra di Mahdiya, XII secolo cm). L’elemento marmoreo scolpito, attualmente conservato all’interno della sezione islamica del museo Nazionale del Bardo di Tunisi, venne scoperto sulle rovine del palazzo di al-Qa‘im bi-Amer Allah (934-946) a Mahdiya. Di recente il bassorilievo è stato oggetto di un’attenta analisi archeologica e artistica da parte di Faouzi Mahfoudh24. Lo studioso ha ripercorso le vicende che hanno accompagnato il bassorilievo a partire dalla sua fortuita scoperta avvenuta alla metà del XX secolo. Questa importante lastra è stata segnalata nel corso dei secoli da numerosi storici dell’arte islamica anche se nessuno ha mai avanzato ipotesi circa la sua datazione25. A Mahfoudh va il merito di aver per primo cercato di contestualizzare questo esemplare che assume un grande valore artistico per la sua testimonianza archeologica poiché rappresenta l’unico elemento 24 F. Mahfoudh, Bāyna al-Mahdiya wa Siqilliya. Tahlil lī mashhād manhūt, «Africa» 20, 2004, pp. 5-33. 25 G. Marçais, L’art musulman du XIe siècle en Tunisie d’après quelques trouvailles récentes, «Revue de l’art ancien et moderne» 44, 1923, pp. 161-173; H. H. Abdul-Wahab, Warakat, c an al-hdhāra al-carabiya bi Ifriqiya, II, Tunisi 1965-1972, pp. 203-206; M. S. Zbiss, Les sujets animés dans le décor musulman d’Ifriqiya (Tunisie), in Actes du 79èmecongrès national des sociétés savantes Alger 1954, Paris 1957, pp. 297-325, in particolare si consulti la pagina 302; M. Yacoub, Pièces maîtresses des musées de Tunisie, Tunis 1994, pp. 130-133. Il bassorilievo di Mahdiya 65 materiale oggi conosciuto del passaggio dei condottieri normanni sul territorio africano26. La scultura rappresenta un re seduto su un piccolo scranno e con i piedi incrociati. Il monarca reca sul capo una corona a tre punte, due laterali e una più larga centrale, coperto da una tunica decorata da una fascia ornata da una greca che corre sulle maniche del vestito (tirāz). Una cintura decorata con cerchietti lascia pendere al centro un ulteriore elemento che si allunga di poco verso il basso. Il sovrano regge nella mano destra un calice mentre alla sua sinistra è rappresentato un musico nell’atto di suonare il flauto. Data la successione degli avvenimenti storici del contesto archeologico in cui è stato trovato il bassorilievo, la sua attribuzione non è immediata. Di certo si conosce la datazione delle rovine del palazzo del X secolo, ma sappiamo anche che tale residenza venne abitata sia dai principi ziridi nell’XI secolo che da quelli normanni, dopo la loro conquista avvenuta durante le campagne belliche condotte da Ruggero II nella metà del XII secolo sul litorale mediterraneo come è stato già descritto all’inizio di questo studio. Nel 1148, a seguito della conquista della città di Mahdiya, i Normanni utilizzarono le residenze palaziali fatimidi come alloggio e trasformarono la Grande moschea in chiesa cristiana al fine di praticare la loro religione27. Inutile aggiungere che alcuni pezzi di notevole valore venivano scambiati come regali e questa era un’abitudine molto diffusa nel mondo mediterraneo tra i nobili dell’epoca28. Un’ulteriore considerazione porta ad affermare che molti elementi tratti dal repertorio figurativo umano erano ben presenti nell’arte fatimide del Cairo anche se nelle loro variegate raffigurazioni di sovrani e principi musulmani, il copricapo non è rappresentato da una corona bensì da un turbante29. 26 Mahfoudh, Bāyna al-Mahdiya wa Siqilliya, pp. 32-33. Bresc, Le royaume normand d’Afrique et l’archevêché de Mahdiyya, pp. 347-366. 28 Jehel, L’Italie et le Maghreb, pp. 52-53. 29 G. Marçais, Les figures d’hommes et de bêtes dans les bois sculptés d’époque fâtimide conservés au Musée arabe du Caire, in Mélanges d’Histoire et d’Archéologie de l’Occident musulman, I, Alger 1954, pp. 81-92; J.M. Bloom, L’iconographie figurative dans les arts décoratifs, in Egypte, l’âge d’or des Fatimides, Dossiers d’archéologie, 233, Paris 1998, pp. 58-65; A. Contadini, Des arts décoratifs florissant, in Trésors fatimides du Caire, pp. 74-84; A. Papadopoulo, L’Islam e l’arte musulmana, Milano 2000, pp. 70-75, fig. 20; G. Curatola - G. Scarcia, Le arti nell’Islam, Roma 2001, pp. 264-265; J. Kröger - M. Najjar, L’arte figurativa, in Alla scoperta dell’arte islamica nel Mediterraneo, Roma 2007, pp. 51-58. 27 66 Lamia Hadda Fig. 2. Palermo, Cappella Palatina, dettaglio del soffitto dipinto, XII secolo È bene rilevare che sul soffitto dipinto della Cappella Palatina a Palermo figurano molte scene in cui un personaggio regale seduto nella stessa maniera che sul nostro bassorilievo, con una corona a tre punte, mentre regge nella mano destra un calice30. Anch’egli è coperto da una leggera tunica decorata con una fascia sulle maniche. Sui lati trovano posto nel pannello ligneo due monaci incappucciati. Lo stesso tema dei bevitori è trattato sul soffitto dipinto della cattedrale di Cefalù dove ricorrono numerose scene di personaggi che recano in mano un calice31. Le stringenti affinità con l’arte arabo-normanna del XII secolo e i rapporti frequenti di incontro-scontro tra queste popolazioni hanno portato lo storico dell’arte tunisino a supporre per la prima volta che la lastra potrebbe essere attribuita all’epoca normanna ovvero al tempo della conquista ifriqiyena di Ruggero II. In tal caso la lastra raffigurereb30 31 F. Gabrieli - U. Scerrato, Gli Arabi in Italia, Milano 1993, pp. 359-396, figg. 40-96. Aurigemma, Il cielo stellato di Ruggero II, pp. 132-136. Il bassorilievo di Mahdiya 67 Fig. 3. Il Cairo, Museo d’Arte Islamica, frammento di affresco proveniente dal bagno pubblico di Fustat, XI secolo Fig. 4. Berlino, Museo di Arte Islamica, pannello in avorio proveniente dall’Egitto, XII secolo be il sovrano normanno nell’atto di festeggiare a suggello dell’annessione dei nuovi territori dell’Africa del Nord32. Del resto, in alcune titolazioni tratte da documenti normanni a Ruggero vengono attribuiti in arabo titoli del tipo: «al-malik al-mu‘azzam Rujār al-mu‘tazz bi‘llāh, al-muqtadir bi-qudratihi, malik Siqilliyya waItāliyya wa-Ankubarda wa-qillawriyya, imām Rûmiyya al-nāsir li ‘l-milla al-nasrāniyya», ovvero «il re sublime, il potente per grazia di Dio, il possente attraverso la sua onnipotenza, re di Sicilia, d’Italia, di Longobardia e di Calabria, difensore del papa di Roma, protettore della religione cristiana»33. In un’epigrafe sepolcrale di un importante chierico della cor32 33 Mahfoudh, Bāyna al-Mahdiya wa Siqilliya, pp. 31-33. De Simone, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Islam africano, p. 270. 68 Lamia Hadda Fig. 5. Il Cairo, Museo di Arte Islamica, piatto di ceramica a lustro metallico, X secolo te normanna posta nella chiesa di S. Michele Arcangelo in Puglia oltre ai titoli consueti appare anche quello di malik d’Ifriqiya34. Non è un caso se il mantello di Ruggero II conservato nella Schatzkammer del Kunsthistorisches Museum di Vienna, la cui copia fedele all’originale è anch’essa conservata presso il Museo normanno di Ariano Irpino, è delimitato da un gallone che reca una iscrizione cufica ricamata in oro35. 34 Amari, Le epigrafi arabe, pp. 212-214. Poiché l’originale del mantello conservato a Vienna era inamovibile (3.45 × 1.46 m), una copia adeguata per fedeltà e qualità venne realizzata dalla impresa Ratti nel 1993 dal Centro Europeo di Studi Normanni durante la mostra curata da M. D’Onofrio dal titolo “I Normanni popolo d’Europa” e tenutasi a Roma presso il Palazzo Venezia tra il 28 gennaio e il 30 aprile 1994. Il mantello originale è costituito da un tessuto in seta, ricamato con oro con applicazioni di smalti e riccamente decorato con una moltitudine di perle di fiume. 35 RECENTI RITROVAMENTI DI MONETE MEDIEVALI IN IRPINIA Mario R. Zecchino Le monete, specialmente per il Medioevo avaro d’altri reperti, costituiscono documenti preziosi, capaci di testimoniare politica, economia, diritto, cultura, vita sociale, lingua, arte e religione di un determinato contesto politico-territoriale. Le possiamo considerare «uno dei monumenti antichi più piccoli, ma maggiormente carico di informazioni, che sia a disposizione per decifrare la nostra storia»1. L’iconografia monetaria, in particolare, ha avuto funzioni molto importanti, tra le quali quella di identificare l’autorità emittente, di rendere comprensibile il rapporto Stato-sudditi-cittadini ed il contesto politico, economico, religioso e culturale. La moneta infine ha assolto quasi sempre funzioni di simbolo e propaganda per il detentore del potere. I frequenti ritrovamenti monetali sporadici rischiano quasi sempre di restare occultati – soprattutto a causa delle rigidità della legislazione italiana che non lascia margini ai privati possessori – con comprensibile danno non solo per gli studi numismatici, ma anche per la più generale conoscenza storica. Si è già detto che le monete sono testimoni, spesso solitari, di eventi e contesti altrimenti inconoscibili, ma esse, in funzione dei luoghi di ritrovamento, spesso risultano anche segnali importanti di transiti e traffici, in grado di aprirci importanti scenari di itinerari e relazioni di varia natura. È questo il caso del notevole materiale rinvenuto in tempi recenti in Irpinia, regione montuosa tra Puglia e Campania, che in particolare a partire dal X secolo ha giocato un ruolo importante nella geopolitica dell’Italia meridionale peninsulare, essendo terra di frontiera tra il ducato longobardo di Benevento, i domini bizantini di Puglia e le città-Stato 1 F. Barello, Archeologia della moneta. Produzione e utilizzo nell’antichità, Roma 2009, p. 11. 70 Mario R. Zecchino della Campania costiera. Ciò comportò una particolare intensità, in essa, del fenomeno dell’incastellamento (oggi si contano 54 tracce di strutture castellari, molte delle quali restaurate), che la mise al centro delle prime vicende dell’insediamento normanno in Italia del sud, fino poi alla costituzione del Regno di Sicilia, nel 1130-1140, da parte di Ruggero II d’Altavilla. 1. Rinvenimenti in Ariano Irpino Particolarmente espressivo di questa condizione dell’Irpinia è il territorio del Comune di Ariano Irpino (prov. Avellino) che, con i suoi 18 mila ettari, è tra i grandi Comuni italiani per estensione. Esso presenta testimonianze stratificate di varie epoche storiche, a partire dal neolitico. Collocandosi al confine tra Puglia e Campania, Ariano sin dall’antichità è stata snodo viario nel percorso da Roma alle coste pugliesi. Il suo territorio, infatti, è lambito da due importanti vie romane: la Traiana (costruita tra il 108 e il 110 d. C.) e la Herculea (realizzata nel III secolo da Diocleziano come appendice della Via Traiana per i collegamenti con la Lucania)2. Nel Medioevo ha continuato a rivestire il ruolo di principale snodo viario per i pellegrini che si dirigevano al Santuario di San Michele sul Gargano o diretti in Terra Santa. Il suo castello, una grande fortezza di origine longobarda, costruita in cima ad un colle di oltre 800 metri di altezza sul l/m, rivestì un ruolo rilevante soprattutto in età normanna. Dalla documentazione d’archivio (atti di compravendita)3, si evince come la circolazione monetaria avesse subito un’apprezzabile regressione con la caduta dell’impero romano, fino all’arrivo dei Normanni e che fosse sempre più frequente il ricorso al baratto. Nella documentazione superstite4 sono comunque menzionati solidi bizantini, tarì d’oro – forse utilizzati come moneta di conto – e denari in argento coniati dalle zecche francesi, i provesini di Provins e dell’Italia settentrionale. L’avvento dei Normanni, destinato a segnare la vita del Mezzogiorno, segnò una svolta anche nelle vicende di Ariano. Come è noto, giunti in Italia meridionale a piccoli gruppi – grazie alle loro capacità politiche e alle sviluppate at- 2 P. Dalena, Dagli Itinera ai percorsi. Viaggiare nel Mezzogiorno medievale, Bari 2003. J. M. Martin, Ariano nella documentazione altomedievale (secoli VIII-XII), in Ariano tra feudalità e demanio, Atti del Convegno, Ariano Irpino, 17-18 ottobre 2003, cur. Centro Europeo di Studi Normanni, in attesa di pubblicazione. 4 Ibid. 3 Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia L’Italia meridionale prima dell’arrivo dei Normanni 71 72 Mario R. Zecchino titudini guerriere – divennero protagonisti nelle tante guerre locali che affliggevano l’Italia meridionale. Il cronista Amato di Montecassino5 narra le vicende di Melo di Bari, un esponente di spicco dell’aristocrazia longobarda pugliese che domandò il loro aiuto per combattere i Bizantini: «Costoro vennero in aiuto di Melo ed entrarono con lui nella terra di Puglia. E cominciarono a combattere contro i Greci, e videro che erano come femmine. E abbattono i loro nemici esamini nei campi arenosi di Puglia. E per la morte di questi si produsse grande tristezza (e l’imperatore di Bisanzio) più ne rimandò a combattere. E quando sentì dire che la sua terra era assalita dall’ardimento dei cavalieri, mandò contro i Normanni gli uomini più forti che potè trovare. E quando questi altri furono arrivati, dispongono una seconda battaglia. Ma i Greci persero e i Normanni erano sempre saldi. E di questo ebbe gran dolore l’Imperatore. E mandò grande moltitudine di gente e ordinò la terza battaglia, e la quarta e la quinta. E tutte le vinsero i Normanni. E così per la forza dei Normanni, Melo salì al trono dell’onore»6. Nuovi documenti e una rivisitazione di quelli già a disposizione permettono ad Errico Cuozzo di ipotizzare che la contea di Ariano, e non quella di Aversa (fondata nel 1030 dal conte Rainulfo Drengot Quarrel), sia stato il primo organismo politico realizzato dai Normanni nel Mezzogiorno. Furono proprio i Normanni che combatterono al seguito di Melo contro i Bizantini a dar vita ad Ariano, tra il 1017 ed il 1019, alla prima contea normanna in Italia meridionale con il conte Ubberto7. I primi Normanni giunti sul suolo italiano erano gruppi di mercenari, incapaci di imporre proprie leggi e tanto meno proprie monete. Si adeguarono ai sistemi vigenti al loro arrivo e continuarono ad utilizzare le monete già circolanti sul territorio. Prima del loro arrivo, la circolazione monetaria nell’Italia meridionale era molto diversificata: circolavano monete bizantine, longobarde e tardo imperiali (prevalentemente solidi d’oro e folles di rame) nell’area pugliese e lucana, mentre in Sicilia e le zone costiere tirreniche circolavano monete arabe (dinar d’oro e dirhem 5 Monaco benedettino dell’abbazia di Montecassino, autore di una “Chronica” sulle vicende dei Normanni in Italia meridionale tra il 1016 e il 1078. 6 Amatus Casinensis, Storia de’ Normanni di Amato di Montecassino volgarizzata in antico francese, ed. V. de Bartholomaeis, Roma 1935, I, 21, pp. 27-28; questa è l’edizione critica usata anche in Amato di Montecassino, Storia dei Normanni, introduzione di G. Sperduti, traduzione di A. Tamburrini, Cassino 1999, pp. 56-58. 7 E. Cuozzo, Intorno alla prima contea normanna nell’Italia meridionale in Cavalieri alla conquista del Sud. Studi sull’Italia normanna in memoria di Leon-Robert Menager. cur. E. Cuozzo - J. M. Martin, Bari 1998, pp. 171 ss. Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 73 Il Regno di Sicilia nel 1154 d’argento)8. Le monete in uso in Italia meridionale erano quindi in rame, argento ed oro. La conquista normanna della Sicilia e della Calabria da parte di Roberto il Guiscardo e di suo fratello Ruggero non rivoluzionò l’assetto monetario preesistente. Ruggero II, successore del padre Ruggero I nella contea di Sicilia strappata agli Arabi, dimostrò presto grande dinamismo e vocazioni espansioniste, inizialmente rivolte al nord Africa e successivamente al 8 L. Travaini, La monetazione nell’Italia normanna, Roma 1995, pp. 99-100: «Nel X secolo il sistema monetario siciliano era quello fatimita, basato sul dinar d’oro e sul dirhem d’argento, ma le monete effettivamente usate erano soltanto il quarto di dinar, detto ruba’i, di circa un grammo (il dinar legale era di 4,25 grammi e il suo quarto teorico era di 1,06 grammi) ed una piccola frazione d’argento detta kharruba». 74 Mario R. Zecchino Mezzogiorno d’Italia. Dopo varie vicissitudini riuscì ad unificare la Sicilia all’Italia meridionale per proclamarsi, nel 1130 a Palermo, re di Sicilia. A sanzionare l’effettività del Regno, Ruggero volle promulgare un corpo di leggi a validità generale per l’intero territorio a lui sottomesso, per regolare gli aspetti fondamentali della vita istituzionale e sociale del neonato Regno, senza con ciò abrogare consuetudini e diritti locali che non fossero in contrasto con le nuove disposizioni generali. La promulgazione avvenne nel corso di un’assemblea dei grandi del Regno convocata in Ariano nel settembre del 11409 in cui emanò anche un’ importante riforma monetaria. A sancire il rilievo di Ariano nel neonato Regno, va ricordato che nel 1142 Ruggero vi tenne una seconda grande assemblea generale di tutti i feudatari laici ed ecclesiastici del Regno (si noti che quella del 1140 e del 1142 sono le uniche assemblee note del regno di Ruggero) per trattare affari inerenti all’organizzazione militare. Con l’instaurazione del Regno, la circolazione monetale (sulla base dei rinvenimenti) in Ariano sembra normalizzarsi, tornando ai livelli del periodo romano-imperiale (come potremo vedere, sono pochi i rinvenimenti di monete bizantine, del tutto assenti le monete longobarde, nonostante la vicinanza della città al ducato di Benevento, e abbondanti i ritrovamenti di monete normanne e dei successivi regnanti). Altro dato da porre in evidenza è l’assenza, nel campione preso in esame, di monete della vicina zecca di Salerno10 (che avrebbe dovuto fornire il circolante anche nell’entroterra peninsulare). Viceversa, è possibile constatare la presenza di numerose monete (follari) della zecca di Messina. I rinvenimenti monetali sporadici in Ariano hanno consentito di catalogare circa 370 monete. Di queste, circa la metà risalgono al periodo romano imperiale, circa 50 all’età moderna, le restanti al periodo medievale. Tra le medievali, si segnala la presenza di: 2 follis ribattuti; 1 follis di Romano I (920-944) e Costantino VII della zecca di Costantinopoli; 3 aspron trachy di rame bizantini, concavi, probabilmente di Alessio III; 15 follari normanni; 1 tarì d’oro di Ruggero II; 24 denari svevi; 7 denari angioini; 4 denari tornese; 3 denari enriciani di Lucca; 2 denari “piccoli” della zecca di Verona; 1 denaro della zecca di Ancona; 1 obolo della zec9 Le Assise di Ariano 1984, ed. O. Zecchino, Cava dei Tirreni 1984. Con la riorganizzazione amministrativa del Regno adoperata da Ruggero II nel 1140, divenne l’unica zecca regia dell’Italia peninsulare (le altre due zecche regie attive erano quelle di Palermo e Messina). La zecca di Salerno, chiusa definitivamente da Enrico VI, fu attiva dal IX secolo fino alla fine del XII secolo. 10 Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 75 ca di Tebe11 (ducato di Atene) di Guglielmo I de la Roche (1280-1287); 1 quartaro di Genova del III tipo (1139-1339); 1 obolo della zecca di Venezia o Verona; 43 denari aragonesi [5 di Federico III (1296-1337) della zecca di Messina; 2 di Ludovico (1342-1355) della zecca di Messina; 11 di Federico IV “il semplice” (1355-1377) della zecca di Palermo; 2 di Maria e Martino (1392-1402) della zecca di Messina; 1 di Alfonso (1416-1458) della zecca di Messina; 3 di Giovanni (1458-1479) della zecca di Messina; 15 denari aragonesi non meglio classificabili perché molto consunti (tra cui un denaro con al rovescio l’aquila volta a sinistra invece che a destra); 2 denari di Alfonso I (1442-1458) o Ferdinando (14581494) della zecca di Napoli; 1 mezzo carlino o “giustino” (1459-1460) di Ferdinando d’Aragona; 12 monete, un cavallo, di Ferdinando d’Aragona (1458-1494) – quasi tutte in pessimo stato di conservazione – 1 mezzo tarì d’argento tosato della zecca di Messina di Ferdinando II il Cattolico (1479-1516)]. A seguire una descrizione più dettagliata delle monete normanne e sveve (i disegni delle monete, con relativa numerazione, sono ripresi da L. Travaini, La monetazione nell’Italia normanna, Roma 1995): • Quindici follari normanni attribuibili: Quattro a Ruggero II: Zecca di Messina, anno Egira 540 (1145-6). Riferimenti: Spahr 1976 n. 79; Travaini 1995 n. 245-246; Grierson - Travaini 1998 n. 221-225. Dritto: ottagono al centro di una croce, con leggenda cufica nei quarti: bi-amr almalik Rujar al-mu’azzam (per ordine del re Ruggero il grande). Rovescio: forma stellata a sei raggi, con globetto al centro; leggenda cufica a sei raggi, leggenda cufica sui raggi e negli spazi: duriba bi-Masina sanat (coniato a Messina l’anno quarantesimo cinquecentesimo). 11 Era una colonia genovese. Sulla moneta è raffigurato al dritto il castello genovese e in leggenda THEBE CIVIS; al rovescio un fiore di giglio e in leggenda G DVX ATENES. 76 Mario R. Zecchino Otto a Guglielmo I: Zecca di Messina, anno Egira 550 (1155-6). Riferimenti: Spahr 1976 n. 99; Travaini 1995 n. 302; Grierson - Travaini 1998 n. 286-289. Dritto: su due righe nel campo REX/ W leggenda circolare araba: duriba Masini sanat 550 (battuto a Messina nell’anno 550). Rovescio: busto della Vergine con il Bambino; a sinistra, MP ΘY Tre a Guglielmo II: o Due follari della zecca di Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 118; Travaini 1995 n. 371; Grierson - Travaini 1998 n. 432-437 Dritto: testa di leone. Rovescio: nel campo, al malik / Ghulyalim / al-thani (re Guglielmo il secondo). o Un follaro della zecca di Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 119; Travaini 1995 n. 368; Grierson - Travaini 1998 n. 401-409 Dritto: nel campo, al-malik / Ghulyalim / al-thani; leggenda circolare: duriba bi-amr al-malik al-mu’azzam al-musta’izz bi-llah (coniato per ordine del Re magnifico bramoso di essere esaltato da Dio). Rovescio: nel campo, REX W / SCDS (Re Guglielmo il secondo); leggenda circolare: + OPERATA IN URBE MESSANE (battuta nella città di Messina). Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 77 • Un tarì di Ruggero II (rinvenuto in un vaso di terracotta e attualmente conservato nel Museo della Civiltà Normanna di Ariano Irpino). Riferimenti: Spahr 1976 n. 55-60; Travaini 1995 n. 182-190; Grierson - Travaini 1998 n. 176-177. Dritto: su tre righe nel campo: al-mu’tazz bi-llah / al-malik Rujar / al-mu’azzam (Esaltato da Dio / Re Ruggero / ridottato). Giro di esterno, formula di zecca e data. Rovescio: IC XC NI KA (Cristo vince) nei quarti di una croce. Giro esterno, formula di zecca e data. Questi tarì, emessi a Palermo e Messina probabilmente tra il 11301140, sarebbero i primi tarì siciliani ad avere un carattere marcatamente “cristiano” essendovi raffigurata, su un verso delle monete, una croce patente. Da notare che proprio in questo periodo (1139), secondo Falcone Beneventano, Ruggero II era intento a combattere l’omonimo conte di Ariano Ruggero: «Lontano quattro miglia dalla città stava il conte Ruggero d’Ariano, con settecento cavalieri pronti ormai a battersi sino alla morte […] e lui [Ruggero], con il duca suo figlio ed il loro esercito congiunto, si portò contro la città di Ariano, feudo del conte Ruggero; immediatamente il re assediò la città e fece costruire delle macchine di legno per poterla espugnare. Ma i cittadini e i cavalieri che erano con loro, non avevano affatto paura delle cose che si andavano approntando; infatti in città erano entrati duecento cavalieri e quasi ventimila uomini d’arme. Il re allora, vedendola così ben fortificata e così pronta, diede ordine di spostare l’accampamento e, imbestialito, ordinò di abbattere e devastare le vigne, gli ulivi, gli alberi e i campi che si potevano trovare; e così, si trattenne due giorni da quelle parti»12. Ariano fu conquistata da Ruggero II un anno dopo, divenendo città demaniale e sede dell’assemblea generale dei vassalli in cui furono promulgate le Assise (1140). • Ventitre denari svevi, invece, vengono così classificati: 5 di Federico II; 3 di Corrado I; 3 di Corrado II e 13 di Manfredi. 12 Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum. Città e feudi nell’Italia dei Normanni, ed. E. D’Angelo, Firenze 1998, p. 219. 78 Mario R. Zecchino Tra i cinque denari di Federico II si segnalano: o Due denari del 1244, XV emissione, della zecca di Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 133; Travaini 1993 n. 39; Grierson - Travaini 1998 n. 559a; Colucci 2010 n. 43. Dritto: aquila coronata a destra. In leggenda + F ROM IMP SEP AVG Rovescio: croce patente. In leggenda + R IERSL ET SICIL’ o Due denari del 1245, XVI emissione, della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 135; Travaini 1993 n. 40; Grierson - Travaini 1998 n. 560-561; Colucci 2010 n. 45. Dritto: IPR con doppia omega. In leggenda + F ROMANORVM Rovescio: croce patente con crescente in ogni quarto. In leggenda + IERSL ET SICIL R °° Un denaro del 1246, XVII emissione, della zecca di Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 137; Travaini 1993 n. 41; Grierson - Travaini 1998 n. 562; Colucci 2010 n. 50. Dritto: + . F . ROMANORVM intorno a IP con omega e apex basale entro cerchio rigato. Rovescio: + . R . IERL’ET . SICL’ . intorno a croce patente entro cerchio rigato. Da un testo recentemente edito, che ha per titolo Narratio qualiter imperator Federicus reaquisivit regnum sibi rebellatum quando accessit ad aquirendum Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia L’itinerario compiuto da Federico nel 1229-1230 (da F. Delle Donne, Federico II: la condanna della memoria. Metamorfosi di un mito, Roma 2012, p. 131) 79 80 Mario R. Zecchino Jerusalem et sepulcrum Christi13, si è potuto definire l’itinerario percorso da Federico II, di rientro dalla sesta crociata, per riconquistare il suo Regno (dopo l’invasione dell’esercito papale) e sottomettere le città ribelli. Dal testo si apprende che, dopo essere approdato a Brindisi verso la fine di maggio del 1229, l’imperatore si recò, per ristabilire la propria autorità, in molte città ribelli tra Puglia e Terra di Lavoro e, tra queste, Ariano verso la fine di agosto. “Ariano, come veniamo a sapere, era una “camera imperiale”, ossia un arsenale di armi e un centro di manifattura di stoffe. Poiché Ariano non gli volle aprire le porte, Federico, pensando che per aver ragione delle sue difese naturali e delle sue fortificazioni avrebbe avuto bisogno di troppo tempo, decise di proseguire per Benevento, che fu espugnata e di cui furono abbattute le mura”14. Nel lasciare Ariano Federico le avrebbe rivolto questi versi: Ara dei Jani, que camera nostra fuisti, nunc hostis effecta, nostra legata fugisti. Andria tua soror te multo prudentius egit: que leta venit ad nos non nostra poemata legit. Propter hoc incolumis remansit ultima nobis. Quod tibi non erit multis implicita globis quod fugiunt homines aliena pericula docent. Sed tu seva petis que tantum pessima nocent. Certe tibi Barolum bene poterit esse magister ni tibi quod Deus est propter lata sinister. Credo quod confidis montis stabilita per altum. Non tibi plura loquor, aliis intentus agendis. Monstrabit reditus quid sit offensio grandis15. Tre denari di Corrado I, della zecca di Messina, tutti della stessa tipologia. Riferimenti: Spahr 1976 n. 155; Travaini 1993 n. 52; Grierson - Travaini 1998 n. 585-589. 13 F. Delle Donne, Città e Monarchia nel Regno svevo di Sicilia. L’itinerario di Federico II di anonimo pugliese, Salerno 1998. 14 Ibid., p. 77. 15 Ibid., pp. 107-108; nonché Id., Federico II: la condanna della memoria. Metamorfosi di un mito, Roma 2012, p. 170; E. D’Angelo, Federico II scrittore, Avellino 2006, pp. 80-81. Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 81 Dritto: croce patente con un rombo nel primo e quarto spazio della croce. In leggenda + CONRADVS Rovescio: al centro RX. In leggenda + IERL’ET SICIL’ Tre denari di Corrado II, della zecca di Brindisi, tutti della stessa tipologia. Riferimenti: Spahr 1976 n. 166; Travaini 1993 n. 56; Grierson - Travaini 1998 n. 590. Dritto: aquila coronata con testa a sinistra. In leggenda + C SECVNDVS Rovescio: croce patente con globetti nel secondo e terzo quarto. In leggenda + IER ET SICIL’ R Dodici denari di Manfredi, invece, sono di diverse tipologie ma quasi tutti delle zecche di Brindisi o Manfredonia. o tre denari della zecca di Brindisi o Manfredonia: Riferimenti: Spahr 1976 n. 195; Travaini 1993 n. 66. Dritto: AP in monogramma tra tre globetti. In leggenda + MAYNFRIDVS Rovescio: Croce patente con quattro cunei negli angoli. In leggenda + REX SICILIE o Un denaro della zecca di Brindisi o Manfredonia. Riferimenti: Spahr 1976 n. 206; Travaini 1993 n. 73; Grierson - Travaini 1998 n. 613. 82 Mario R. Zecchino Dritto: M gotica al centro. In leggenda + AYNFR’ REX Rovescio: Croce patente. In leggenda + SICILIE o Due denari alla zecca di Brindisi o Manfredonia. Riferimenti: Spahr 1976 n. 214; Travaini 1993 n. 80. Dritto: M gotica tra due globetti in alto e in basso. In leggenda + MAYNFRIDVS Rovescio: croce. In leggenda + REX SICILIE o Un denaro della zecca di Brindisi o Manfredonia. Riferimenti: Spahr 1976 n. 200; Travaini 1993 n. 71; Grierson - Travaini 1998 n. 610. Dritto: nel campo, MyA (iniziale di Manfredi). In leggenda + NFRIDVS REX Rovescio: croce a tutto campo e in leggenda + SI CI LI E o Un denaro della zecca di Brindisi o Manfredonia di forma ottagonale. Riferimenti: Spahr 1976 n. 217; Travaini 1993 n. 82; Grierson - Travaini 1998 n. 621. Dritto: m gotica sormontata da omega. In leggenda + DEI GRACR’ Rovescio: croce patente con Quattro globetti agli angoli. In leggenda + SICILIE Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 83 o Un denaro della zecca di Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 211; Travaini 1993 n. 78; Grierson - Travaini 1998 n. 614. Dritto: + MAYNR intorno a T stilizzato a mo’di foglia fra tre globetti (in monogramma Trinacria) Rovescio: + SICILIE intorno a croce o Un denaro della zecca di Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 198; Travaini 1993 n. 69; Grierson - Travaini 1998 n. 604. Dritto: croce patente. In leggenda + MAYNFRID Rovescio: S fra due globetti. In leggenda + REX SICILIE o Due denari probabilmente di Manfredi (rispettano peso e dimensioni, oltre alla croce, molto simili ad altri denari del re svevo) ma non meglio classificabili perché molto consunti. Sette denari angioini sono stati catalogati come segue: due di Carlo I d’Angiò, due di Carlo II d’Angiò e tre di Roberto d’Angiò. Tra le monete rinvenute di maggiore interesse storico rientra sicuramente il mezzo carlino, o giustina, di Ferdinando I d’Aragona. La moneta, molto rara, fu battuta probabilmente dalla zecca di Napoli e riporta in leggenda al rovescio la dicitura latina IUSTICIA E FORTITUDO MEA: la giustizia è la mia forza (la leggenda si riferisce ai problemi incontrati da Ferdinando I d’Aragona per farsi incoronare re)16. 16 D. Fabrizi, Monete Italiane Regionali. Napoli, Lecce 2010, p. 12. 84 Mario R. Zecchino Sempre ad Ariano, dagli scavi condotti dal Prof. Marcello Rotili all’inizio degli anni ’90 all’interno del castello, sono state rinvenute 7 monete: un denaro tornese della zecca di Tebe (ducato di Atene) di Guglielmo I de la Roche (1280-1287), un denaro della zecca di Napoli di Roberto d’Angiò, un denaro della zecca di Napoli di Giovanna I d’Angiò (13431381), tre monete, un cavallo, di Ferdinando I d’Aragona (1458-1494, due della zecca di Napoli ed uno della zecca dell’Aquila), un sestino di Giovanna la pazza con il figlio Carlo della zecca di Napoli (1516-1519). Al Museo Archeologico “Antiquarium” di Ariano Irpino sono conservate oltre ad alcune monete romane (prevalentemente antoniniani), anche un denaro della zecca di Ancona del XIII sec., un denaro emesso dalla zecca di Napoli a nome di Roberto d’Angiò e un’ interessante bolla pontificia, in buona conservazione, di papa Giovanni XXII17 (del peso di 56,71 gr. e diametro di 40 mm.). Tutti rinvenuti durante una campagna di scavo nella zona Camporeale/Starza di Ariano Irpino. Di particolare interesse la bolla plumbea rappresentante gli apostoli Pietro e Paolo da un verso e il nome del pontefice dall’altro. Queste bolle, o sigilli, erano utilizzate per convalidare le comunicazioni ufficiali emanate dalla Curia Romana (i primi esempi di bolle pontificie, attualmente conosciute, risalgono al VI secolo). 2. Rinvenimenti in Sant’Angelo dei Lombardi In altri scavi, condotti nel castello di Sant’Angelo dei Lombardi (1987-96) sempre dal Prof. Marcello Rotili18, sono state rinvenute 17 monete (di cui 9 illeggibili). Tra queste, è stata rinvenuta una moneta che ho potuto classificare come denaro della zecca di Maguelonne19 del XIIXIII secolo (moneta con iconografia e leggenda immobilizzata, coniata dal X secolo ed utilizzata fino al XIII secolo soprattutto a Montpellier). 17 Fu papa dal 1316 al 1334 e stabilì la sua residenza ad Avignone. Introdusse la processione del Corpus Domini e la festa della Santissima Trinità e istituì il Tribunale della Sacra Rota. Dante lo colloca all’inferno. 18 M. Rotili, Sant’Angelo dei Lombardi. Ricerche nel castello (1987-96), Napoli 2002, p. 274. 19 Sulla moneta da un verso è raffigurata una croce composta da un fascio e da due stendardi con in leggenda RAMVNDS; dall’altro lato è presente una croce formata da quattro anelletti con in leggenda NAIDONA (degenerazione di Narbona, ovvero Narbonne). Questa leggenda potrebbe trarre in inganno perché in realtà queste monete non venivano coniate a Narbona ma furono copiate da quelle di Raimondo I di Narbonne (966-1023). Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 85 Altro rinvenimento da segnalare è quello di un denaro tornese battuto a Lepanto da Filippo di Taranto dopo il 1294. La presenza di queste monete “straniere” è indice di una circolazione monetaria variegata, dovuta probabilmente anche alle dominazioni francesi in Italia meridionale (il principato di Acaia apparteneva agli Angiò dal 1267). Frequenti sono infatti i rinvenimenti, in Italia meridionale, di denari francesi (della zecca di Maguelonne, di Rouen, di Tours, di Provins ecc..) e di denari tornesi della Grecia franca (della zecca di Lepanto, di Chiarenza, di Tebe, di Corfù). Denaro della zecca di Maguelonne. Denaro tornese battuto a Lepanto da Filippo di Taranto. Dritto: Croce patente. In leggenda + PhS.P.TAR DESP Rovescio: Castello tornese. In leggenda NEPATNI CIVIS. 3. Rinvenimenti in Montella Gli scavi di Montella, condotti sempre dal Prof. Marcello Rotili hanno restituito il maggior numero di monete. Tra queste vanno segnalate: un follis di Teofilo della zecca di Costantinopoli (829-842); un follis di Basilio I della zecca di Costantinopoli (867-886); tre follis di Costantino VII (913-959) a nome di Romano I della zecca di Costantinopoli (920-944); un follis anonimo classe K dell’XI secolo con il busto frontale del Cristo e la Vergine a mezzo corpo;un follaro di Roberto il Guiscardo della zecca di Salerno con al rovescio XC·RE/XC·IM[P] (Christus regnat, 86 Mario R. Zecchino Christus imperat). Ribattuto su follis anonimo (1077-1085). Riferimenti: Travaini 1995 n. 32; Grierson - Travaini 1998 n. 75-82. Ernst Kantorowicz, nel suo studio sulle Laudes Regiae20, pone in rilievo il problema della diffusione della leggenda Christus vincit sulle monete. Secondo lo studioso, questa leggenda si sarebbe diffusa principalmente sulle monete francesi, per poi essere utilizzata anche sulle monete circolanti in altri territori, tra il XIII e il XIV secolo. È da segnalare la presenza di questo motto in due diverse versioni (IhSUS XPISTUS NICA e IC XC NI KA) anche su monete bizantine. Il motto è rinvenibile con varianti anche presso i Normanni dell’Italia meridionale (sia prima che dopo la fondazione del Regno): IC XC NI KA (che compare anche sui tarì Svevi) e XRS VNC XR REG XRS I21. Un follaro di Ruggero II della zecca di Salerno22 (1127-1130). Riferimenti: Travaini 1995 n. 177; Grierson - Travaini 1998 n. 170-171; quattro denari di Enrico VI con Costanza d’Altavilla della zecca di Brindisi con AP. Riferimenti: Spahr 1976 n. 30; Travaini 1993 n. 6; Grierson - Travaini 1998 n. 485-487; un mezzo denaro di Federico II del 1239 della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 122; Travaini 1993 n. 31; Grierson - Travaini 1998 n. 549; un mezzo denaro di Federico II del 1243 della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 129; Travaini 1993 n. 35a; Grierson - Travaini 1998 n. 558; un denaro di Federico II del 1243 della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 128; Travaini 1993 n. 35; Grierson - Travaini 1998 n. 555; un mezzo denaro di Federico II del 1245 della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 136; Travaini 1993 n. 40; Grierson - Travaini 1998 n. 560; 20 E. Kantorowicz, Laudes Regiae. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo, Milano 2006 (ed. or. Berkeley - Los Angeles 1946), pp. 215-225. 21 Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera. 22 Questo è uno dei primi follari che riporta il titolo di duca che Ruggero II aveva assunto nel 1127: D/ + ROGERIVS DVX testa di ¾ a destra con capelli inanellati; R/ IC XC ai lati di una croce con base ad ancora. Il follaro rinvenuto, dal peso di 2,4 grammi ed un diametro di 17 mm., non leggibile ai lati (non è visibile la leggenda), potrebbe essere una variante del tipo conosciuto in quanto il volto rappresentato riporta la testa completamente avvolta da capelli inanellati e non è presente la leggenda ROGERIVS DVX (forse perché non rientrata nel conio della moneta). Recenti ritrovamenti di monete medievali in Irpinia 87 due denari di Federico II del 1247 della zecca di Brindisi o Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 143; Travaini 1993 n. 44; Grierson - Travaini 1998 n. 565; cinque denari di Federico II del 1249 della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 148; Travaini 1993 n. 48; Grierson - Travaini 1998 n. 570; un denaro di Corrado I di Svevia della zecca di Messina. Riferimenti: Spahr 1976 n. 158, Travaini 1993 n. 54, Grierson - Travaini 1998 n. 577; un denaro di Carlo I d’Angiò della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 43; Travaini 1993 n. 100; Grierson - Travaini 1998 n. 647; un denaro di Carlo I d’Angiò della zecca di Brindisi. Riferimenti: Spahr 1976 n. 41; Travaini 1993 n. 98; Grierson - Travaini 1998 n. 644; un denaro tornese di Guglielmo I de la Roche (1280-1287) della zecca di Tebe (ducato di Atene); un denaro gherardino di Carlo II d’Angiò della zecca di Napoli (1285-1309). Rifermenti: Grierson - Travaini 1998 n. 693; un denaro tornese di Isabella di Villehardouin, Chiarenza, principato di Acaia (1297-1301); due denari tornesi di Filippo di Savoia, Chiarenza, principato di Acaia (1301-1307); due denari tornesi di Chiarenza di incerta attribuzione; un denaro di Roberto II d’Angiò della zecca di Napoli (13091343). Riferimenti: Grierson - Travaini 1998 n. 718-719; quattro denari di Giovanna I d’Angiò della zecca di Napoli (1343-1381); un denaro di Ludovico e Giovanna I di Taranto della zecca di Napoli (1343-1347); due denari di Carlo III di Durazzo della zecca di Napoli (13821386). Riferimenti: Grierson - Travaini 1998 n.725; due denari di Ladislao di Durazzo della zecca di Napoli (13861390). Riferimenti: Grierson - Travaini 1998 n. 728; un denaro di Alfonso I d’Aragona della zecca di Napoli (1442-1458); un cavallo di Ferdinando d’Aragona della zecca di Napoli (1458-1494). 88 Mario R. Zecchino BIBLIOGRAFIA Amato di Montecassino, Storia dei Normanni, introduzione di G. Sperduti, traduzione di A. Tamburrini, Cassino 1999 Amatus Casinensis, Storia de’ Normanni di Amato di Montecassino volgarizzata in antico francese, ed. V. de Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la storia d’Italia pubblicate dall’Istituto storico italiano, 76) Barello F., Archeologia della moneta. 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Le principe de compilation et de sélection des textes de tout genre regroupés dans ces sommes a en particulier pu être éclairé à la lumière des 1 Sur les diverses collections des Lettres de Pierre de la Vigne, cfr. essentiellement H. M. Schaller, Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993 (MGH Schriften, 38), pp. 225-282; H. M. Schaller, Handschriftenverzeichnis zur Briefsammlung des Petrus de Vinea, Hannover 2002 (MGH Hilfsmittel, 18); B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XIVe siècle), Rome 2008 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 339); F. Delle Donne, Le consolationes del IV libro dell’epistolario di Pier delle Vigne, «Vichiana», Ser. III, 4, 1993, pp. 268-290; Nicola da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003 (Edizione nazionale dei testi mediolatini, 9), Introduzione; F. Delle Donne, Una ‘costellazione’ di epistolari del XIII secolo: Tommaso da Capua, Pier della Vigna, Nicola da Rocca, «Filologia mediolatina», 11, 2004, pp. 143-159; Dall’ars dictaminis al preumanesimo? Per un profilo letterario del secolo XIII, cur. F. Delle Donne, Firenze (SISMEL), sous presse (incluant plusieurs communications sur la collection des Lettres de Pierre de la Vigne). Une édition de la grande collection en six livres est en cours par les soins de K. Borchardt dans le cadre du programme des Monumenta Germaniae Historica. Une édition collective de la petite collection en six livres est en cours pour le Centro Europeo di Studi Normanni (volumes concernant les livres II, IV et V sous presse, avec pour éditeurs respectifs A. Boccia, F. Delle Donne et E. D’Angelo). 90 Benoît Grévin nouvelles tendances de l’histoire textuelle médiévale. Ce qui apparaissait aux chercheurs du dix-neuvième siècle comme un processus chaotique et presque aberrant de sélection documentaire2 est désormais mieux compris: les lettrés responsables de l’organisation de ces summae dictaminis ont entrepris un travail de mémorialisation qui intégrait plusieurs paramètres parfois contradictoires, ce qui explique en partie certaines caractéristiques déroutantes de ces collections textuelles. Devant résumer l’activité d’écriture d’un milieu très particulier – celui des dictatores gravitant autour de la chancellerie de Frédéric II, Conrad IV et Manfred, mais aussi servir d’instruments de travail aux futurs notaires, les collections de dictamina dites de Pierre de la Vigne furent organisées en plusieurs étapes, en fonction de critères pratiques (classement thématique), mais aussi mémoriels (regroupements partiels par incipit3), voire esthétiques. Miroirs rhétoriques reflétant l’activité d’un milieu professionnel tout comme la complexité de réseaux familiaux et amicaux centrés autour de dictatores prestigieux, ces sommes étaient placées sous l’autorité du représentant le plus prestigieux de ce milieu, Pierre de la Vigne, tout en contenant de nombreux documents rédigés par d’autre lettrés gravitant dans l’orbite de la cour sicilienne, soit de son vivant, soit après sa chute en 12494. En fait, les diverses collections des Lettres contiennent un ensemble de documents dont le statut originel était extraordinairement varié. Certaines lettres font partie de ce que la recherche traditionnelle n’aurait pas hésité à qualifier de “correspondance familiale” ou “privée”, qu’elle concerne Pierre de la Vigne ou d’autres dictatores. D’autres relèvent de l’activité normale (mandats, privilèges) ou extraordinaire (propagande politique) de la chancellerie sicilienne, et peuvent avoir été aussi bien rédigées directement par Pierre, que supervisées, ou simplement visées par celui-ci dans le cas où la date (postulée ou prouvée) de leur rédaction initiale se place avant février 1249. Enfin, nombre de ces dictamina ont été sûrement ou peut-être remaniés par une chaîne d’un ou plusieurs 2 Cfr. J. L. A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne ministre de l’empereur Frédéric II avec une étude sur le mouvement réformiste au XIIIe siècle, Paris 1864, p. 21: «On doit aussi s’étonner de la persistance avec laquelle les auteurs des manuscrits, se copiant les uns les autres sans plus ample examen, ont attribué le tout au principal ministre de l’Empereur et se sont servis de son nom comme d’une étiquette pour faire valoir un mélange composé sans ordre, sans goût et sans discernement…». 3 Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 48-49. 4 Sur la répartition des lettres entre la période 1220-1249 et la période 1249-1254 (les dictamina antérieurs à 1220 et postérieurs à 1254 sont rarissimes dans les collections ordonnées), cfr. Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 45-106. À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 91 dictatores entre le moment de leur rédaction initiale, et leur “mémorialisation” dans l’une ou l’autre des versions des Lettres. Ce dernier point explique que certains textes contenus dans ces collections posent des problèmes de datation quasi-insolubles en apparence. Ils ont en fait pu être réutilisés sous une forme différente de leur première apparition (par exemple sous Conrad IV), ou retravaillés entre leur première rédaction “frédéricienne” et l’époque de leur(s) compilation(s)5. L’extraordinaire complexité de ce mouvement de compilation – à la mesure d’instruments textuels reflétant non la vie d’un homme, mais celle d’un milieu-socioprofessionnel – explique que la plus grande partie des dictamina inclus dans les Lettres qui reflètent des correspondances “privées”, échangées entre amis ou familiers, reste difficile à interpréter. L’absence, la réduction à l’initiale ou la mutilation des noms propres qui accompagne généralement le processus de réduction des lettres à l’état de modèle rhétorique inhérent à ces pratiques de compilation, tout comme la suppression des dates et autres éléments adventices, obligent dans bien des cas l’historien à se contenter des indices contenus dans le corps du document pour tenter d’établir l’identité du rédacteur, du correspondant, la date de la rédaction, voire le caractère réel ou fictif de l’échange analysé. On aboutit parfois au paradoxe suivant: la richesse des allusions rhétoriques, et des détails en tout genre contenus dans un document ayant pour rédacteur ou pour destinataire supposé tel ou tel dictator et traitant de telle intrigue de cour, ou de tel argument familial complexe, tout en donnant une idée très concrète de l’atmosphère, des préoccupations et des intrigues de ce milieu des techniciens du dictamen gravitant dans l’orbite de la cour sicilienne, ne permet pourtant pas de préciser de quel épisode particulier le texte parle. L’analyse de ces dictamina peut servir d’appui à une histoire culturelle ou sociale du milieu des praticiens du dictamen issus de la Terra Laboris au XIIIe siècle: elle peine à reconstituer le détail des parcours individuels. L’effet de brouillage créé par les différentes étapes de gestation des collections et par leur structure textuelle se répercute donc sur les documents, pris isolément. De même que l’autorité de Pierre de la Vigne – rédacteur initial d’une partie de leurs textes – cache l’autorité seconde du ou des organisateurs des premiers prototypes des collections, vraisemblablement entre 1254 au plus tôt et 1268 au plus tard, de même certains 5 Sur ce dernier point, cfr. en particulier R. Gamberini, Le epistole di Pier della Vigna per Federico II: tradizioni manoscritte a confronto, sous presse dans Dall’ars dictaminis al preumanesimo?. 92 Benoît Grévin dictamina traditionnellement attribués à Pierre de la Vigne, ou mis en rapport avec lui, sont susceptibles de se rapporter plutôt à l’activité des lettrés qui se sont couverts de son autorité pour élaborer l’une ou l’autre des formes les plus anciennes des Lettres de Pierre de la Vigne. Parmi les lettrés appartenant à ce que l’on pourrait qualifier de “seconde génération” de l’école campanienne d’ars dictaminis6, et qui auraient pu avoir une responsabilité de premier plan dans le processus de mémorialisation à l’origine de la constitution des Lettres, une partie de la recherche a mis en avant le nom de Nicola da Rocca senior, disciple favori de Pierre durant les années qui précédèrent sa chute, continuateur et transmetteur de la tradition d’écriture campanienne pendant le règne de Conrad IV et Manfred, et rédacteur avéré ou probable de certains des documents contenus dans les quatre collections ordonnés7. Il est ainsi remarquable qu’au centre symbolique et matériel de la collection classique des Lettres, des Laudes Petri de Vinea écrites par Nicola fassent pendant aux Laudes Friderici secundi écrites par Pierre de la Vigne, comme si le disciple avait voulu, tout en s’effaçant derrière son maître, souligner son rôle-clé dans le processus de transmission des dictamina ayant convergé 6 Sur le problème de l’école campanienne (ou capouane) d’ars dictaminis, cfr. Die kampanische Briefsammlung (Paris lat. 11867), ed. S. Tuczek, Hannover 2010 (MGH Briefe des spätmittelalters, 2), pp. 37-42; Nicola da Rocca, Epistolae, pp. XXVII-XXXI; Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo, ed. F. Delle Donne, Firenze 2007 (Edizione nazionale dei testi mediolatini 19), pp. XLIII-LIX; F. Delle Donne, La cultura e gli insegnamenti retorici latini nell’Alta Terra di Lavoro, in ‘Suavis Terra inexpugnabile castrum’. L’Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angionina, cur. F. Delle Donne, Arce 2007 (Testis Temporum. Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia centrale e Meridionale, 3), pp. 133-157; Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 267-270, et B. Grévin, La collection campanienne (Paris, BnF, lat. 11867). Réflexions sur la méthodologie d’édition des proses rythmées de la fin du Moyen Âge, «Archivum Latinitatis Medii Aevi», 69, 2011, pp. 231-255, pp. 232-238. La Campanie est l’un des berceaux de l’Ars dictaminis, qui prend naissance au Mont-Cassin dès la fin du XIe siècle, mais les discussions sur l’existence et la cohérence d’une école capouane ou campanienne se focalisent principalement sur les années 1190-1280, avec la génération de Thomas de Capoue et Pierre de la Vigne (tous deux originaires de Capoue), celle de Nicola da Rocca senior, et celle des épigones Henri d’Isernia, Nicola da Rocca junior et autres dictatores en transition entre les mondes souabe et angevin. La reconstitution des phases de gestation des collections de lettres dites de Pierre de la Vigne est l’un des éléments susceptibles de nous faire mieux comprendre les caractéristiques de ce milieu socioprofessionnel des praticiens du dictamen campaniens du XIIIe siècle, ses pratiques et son idéologie. 7 Sur Nicola da Rocca senior, sa famille et son réseau épistolaire, cfr. Nicola da Rocca, Epistolae, Introduzione. Sur son rôle possible dans le regroupement et les premières compilations des collections dites de Pierre de la Vigne, cfr. Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 65-103. À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 93 dans les sommes8. S’il est difficile de mesurer dans quelles proportions Nicola da Rocca s’est couvert de l’autorité de Pierre pour insérer des compositions personnelles – dont certaines ont d’ailleurs pu être créées sous la supervision de Pierre – dans l’un ou l’autre des prototypes des lettres, il est tentant de penser qu’une partie du matériel réuni dans les quatre collections ordonnées reflète cette dialectique du maître et du disciple. Un corollaire de cette hypothèse, est que certains documents traditionnellement considérés comme se rapportant à l’activité de Pierre sont susceptibles de refléter aussi bien celle de Nicola. C’est en particulier le cas de l’une des “lettres familiales” de la grande collection en six livres qui servent traditionnellement à reconstituer les premières étapes – les plus mal connues et les plus embrouillées par la légende – de la carrière de Pierre de la Vigne. Cette lettre a été incluse par Huillard-Bréholles parmi les pièces justificatives de sa Vie et Correspondance de Pierre de la Vigne9. Elle pourrait en fait également être interprétée comme concernant la jeunesse de son disciple, Nicola da Rocca: la confusion entre les deux figures opérée dans la création de la somme se retrouverait alors dans le traitement des informations par l’éditeur-historien. 2. La jeunesse réinventée de Pierre de la Vigne (vers 1200-1220) Les débuts de Pierre de la Vigne sont obscurs et quasi légendaires. En passant au crible de son érudition l’ensemble des clichés sur l’élévation du fameux rhéteur à partir d’un statut relativement humble, que véhiculent les lettres d’Henri d’Isernia, et dont l’astrologue Guido Bonatti se fait l’écho fantaisiste 10, Huillard-Bréholles avait jadis débrouillé l’histoire prosaïque du rejeton d’un rameau d’une famille patricienne mais probablement peu argentée de Capoue, né dans une fourchette sans doute comprise entre 1185 et 120011. Ses déductions ont été récemment 8 Ces deux textes sont répertoriés comme PdV III, 44 et 45 (lettres 44 et 45 du troisième livre de la collection classique (petite collection en six livres). 9 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4, pp. 292-298: (Expectantes expectavimus/materia noscitis emanasse), sous la rubrique «Lettre d’un anonyme (probablement d’un ex-juge de la grande cour) à Pierre de la Vigne, pour lui rappeler que, puissant maintenant, il doit oublier les anciens torts de sa famille envers lui». 10 Cfr. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, p. 8, citant Guido Bonatti, Astrologia, Pars I, Consideratio 141: «Fuit similiter quidam de regno Apuliae, natione vilis, nomine Petrus de Vinea, qui cum esset scholaris Bononiae mendicabat nec habebat quod comederet, et postea effectus est notarius, deinde protonotarius Friderici secundi». 11 Ibid., pp. 3-11. 94 Benoît Grévin confirmées et précisées par une note érudite de Fulvio Delle Donne. Il y édite un acte ôtant toute ambiguïté sur le nom du père de Pierre de la Vigne, Angelo de Capoue, lui-même juge, et frère d’un abbé Taddée, ce qui exclut que la famille de Vinea n’ait pas fait partie, au moins à la marge, des potentes et maiores de la cité12. Le problème qui se pose à l’historien est de reconstituer les étapes de la formation de Pierre avant son entrée à la cour impériale (vers 1221). Les forts liens ultérieurement entretenus avec le chapitre de Capoue et l’archevêque Jacques (12271242) conduisent à postuler qu’il a pu étudier une partie de son enfance ou de sa prime jeunesse sous la direction de ce dernier, dont la carrière est toutefois difficile à retracer à cette époque13. La lettre censée donner les renseignements les plus circonstanciés sur les difficultés essuyées par Pierre dans sa jeunesse fait partie des dictamina qui ont été recueillis dans le rameau des collections de Pierre de la Vigne dit “grande collection en six livres”, pour être ensuite écartés des petites collections en six livres, les plus diffusées durant le reste du Moyen Âge. Comme nombre de ces dictamina propres à la grande collection en six livres se rapportent à la famille de Pierre et à ses activités personnelles, il est tentant de supposer que ce document concerne le puissant conseiller de Frédéric II. Huillard-Bréholles a donc exploité son contenu pour tenter d’y voir plus clair dans ce qui reste la question majeure du parcours initial de Pierre de la Vigne: son séjour à Bologne, tradition répercutée par de nombreux chroniqueurs médiévaux et savants modernes14. On peut résumer le contenu de la lettre de la manière suivante. C’est une suite de reproches qu’un ami, apparemment déjà vieux, adresse à un homme plus jeune, parvenu récemment à une certaine faveur à la cour15, et peut-être pressenti pour des succès ultérieurs. Ce jeune “parvenu” 12 Sur l’origine de Pierre de la Vigne, cfr. L. Mattei-Cerasoli, I genitori di Pier della Vigna, «Archivio storico per le province napoletane»», 49, 1924, pp. 321-330, F. Delle Donne, Nobiltà minore e amministrazione nel regno di Federico II. Sulle origini e sui genitori di Pier della Vigna, «Archivio storico per le province napoletane», 116, 1998, pp. 1-9, et H. M. Schaller, Pier della Vigna, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp. 501-507. 13 Sur Jacques de Capoue, cfr. N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, Abruzzen und Campanien, München 1973, p. 121-128. 14 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 7-9. Cfr. également W. Stürner, Friedrich II. Der Kaiser 1220-1250, Darmstadt 2000, p. 42: «Vermutlich hatte er in Bologna studiert, ehe er zu Beginn der zwanziger Jahre, offenbar auf Empfehlung des Erzbischofs Berard von Palermo, eine Notarstelle in der kaiserlichen Kanzlei erlangte». 15 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4, pp. 292-293: «Expectantes expectavimus diu (…) tardeque nobis comparuit veniens dies illa quae gratam afferret cum À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 95 tient apparemment rigueur à un cercle composé de sa famille et de cet ami de l’avoir délaissé au temps de sa misère, alors qu’il errait dans des contrés reculées16, où il avait accumulé un savoir remarquable17. Ce long exil a laissé une trace d’amertume dans le dictator désormais bien en cour. Il s’en venge par ses dédains sur ses parents, et le rédacteur de la lettre anticipe dans sa missive les reproches que son correspondant lui adresserait s’il était présent: Vous direz peut-être – lui fait dire le rédacteur anonyme – voulant couper court à nos objections: ‘vous, mes parents et mes proches, qui vous dressez en face de moi avec de telles instances pour accuser mon innocence et couvrir votre négligence: celui-là même que, alors qu’il errait dans l’abjection et le mépris depuis son jeune âge dans de lointaines régions, sans avoir aucune part à vos biens et à l’héritage paternel, vous dédaignâtes de rechercher, c’est avec une belle audace, une belle impudence, que vous l’assaillez à présent de vos mordants reproches18. L’ami explique ensuite que, situés à la frontière du royaume, ni lui ni les parents du destinataire n’osent la franchir (apparemment pour le rejoindre à la cour dans un de ses voyages en Italie du nord?), de crainte de tomber sous le coup de l’édit de l’empereur qui interdisait toute communication entre les frontaliers du Patrimonium Petri et ce dernier19. Dans la suite de ce long texte, le seul indice concret sur l’origine du rédacteur celebritate laeticiam, ut de vestrorum jocunditate successum sitientis animo votiva refunderet libamina gaudiorum». 16 Ibid., p. 293: «Factum est mirifice Salvatoris arbitrio qui de remotis mundi partibus velut a ventre ceti vos ad patriae limina reduxit incolumes, votisque propiciatus orantium cum apud vos amici vestri favore censerentur indigni, sustinere non voluit ut nostris ultra possetis aspectibus elongari». 17 Ibid., pp. 293-294: «Recte namque videtur a celesti majestate provisum ut scientia vestra tot occultata temporibus tantis laboribus acquisita, dignis non esset caritura profectibus, sed locum sortiretur in culmine ubi lucerna super candelabrum posita omnibus propatulo foret sui luminis radios expansura». 18 Ibid., pp. 294-295: «Dicetis autem nostris forte volentes objectionibus subinferre: ‘vos parentes et proximi qui taliter adversus me objurgando consurgitis, culpantes innocentiam meam vestramque negligentiam palliantes, cum eum quem velut abjectum et contemptibilem a primaevo in longis regionibus oberrantem, bonorum vestrorum et totius paternae facultatis expertem requirere neglexistis, nunc tam audacter et impudenter verbis mordacibus increpatis’». 19 Ibid., p. 295: «Nos enim qui velut ad sagittam in confinio positi, ventorum omnium impulsione concutimur, sic a serpentum morsibus exterriti sumus quod et lacertarum tactus effugimus, nec audaces esse possumus quia de personis et rebus nostris libertatis arbitrium non habemus. Cum igitur propter edictum Cesaris super hoc generaliter promulgatum, 96 Benoît Grévin est l’indication que le rédacteur, qui dit avoir aidé le destinataire à se former dans son jeune âge, est lui-même retiré de la cour, mais a un fils que César-Frédéric a honoré de l’office de prothojudicatus (juge de la grande cour?), et qui peut donc l’entretenir20. Huillard-Bréholles a supposé – en soulignant la fragilité de l’attribution – que la lettre était destinée à Pierre de la Vigne. Les errances dans des régions lointaines, des parties du monde reculées, correspondraient donc aux études de Pierre à Bologne, sans doute dans la décennie 12101220, et les allusions à la relative pauvreté de la famille, mais aussi à sa noblesse, confirmeraient que Pierre provenait d’un rameau d’une famille patricienne de Capoue désargentée. L’érudit a par ailleurs proposé de dater la missive de 1239, année de promulgation de l’édit de Frédéric II interdisant la sortie du royaume en direction du patrimoine de saint Pierre dont il semble être question dans la lettre, et a avancé une identification du rédacteur avec un maître Theodinus dont le fils, Pierre de San Germano, était devenu juge de la grande cour en 1237 et y est attesté jusqu’en 124121. Il ne pouvait être question du neveu de Pierre de la Vigne, Guillaume. Cela reviendrait à faire du rédacteur de la lettre le frère de Pierre, ce que le choix des expressions employées semble exclure. Il s’agirait donc d’un ami, peut-être apparenté à Pierre, qui parlerait au nom de sa famille pour l’exhorter à la relever22: Que Dieu même vous accompagne et dirige vos actes, qu’il vous assure une carrière pleine de grâces pour votre félicité, afin que votre bonté nous profite, à moi et à tous les vôtres, que la noblesse de votre maison, que votre absence a sans aucun doute abaissé, reverdisse sous votre cum papa criminis suspicionem quam leviter possemus incurrere, regni fines non audemus sine speciali licentia pertransire». 20 Ibid., p. 297: «Possum quoque de Dei munificentia gloriari quod gratum paravit mee senectuti remedium. Habeo namque familiam de filiabus et filiis, et jam filiorum filios videre inivi in quibus delectatur spiritus meus super omnes divitias quas habere possumus; et in eis fiducialiter requiesco, quibus existentibus etsi viam perennem ingrediar, totaliter non peribo; maxime cum unus sit mihi specialis et primogenitus filius in litteratura et bonitate provectus, potens in legibus, quem Cesar in prothojudicatus officio substituit, qui re pariter et nomine inter convicinos et compatriotas laudabiliter eminet et tam in regimine ac sustentatione familiae quam in amicorum et dominorum obsequiis vires meas sufficienter implere poterit et congrue sustinere». 21 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 5-7, et note 1 pour l’attribution possible à Theodinus. 22 Ibid., n° 4, p. 298. À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 97 patronage, comme il est de bonne mémoire qu’elle a fleuri, dans son état ancien, au temps mémorable de nos prédécesseurs23. Tout cela est plausible, mais un certain nombre de points laissent perplexe. Comment se fait-il que la famille (éloignée?) de Pierre se réveille en 1239 pour demander un certain nombre de faveurs, et le féliciter de son accession à de hautes charges (non spécifiées), à un moment où le juge avait commencé la partie la plus prestigieuse de sa carrière depuis longtemps? Il entre vraisemblablement à la cour en 1221, est attesté comme juge une première fois en 1225, et son activité commence à être régulièrement documentée à partir de 1230. En 1232, il participe aux négociations avec la papauté sur l’expédition contre les Romains, et à partir de ce moment, il ne cesse de prendre part aux ambassades les plus importantes, comme la double ambassade en Angleterre de 1234-1235 qui lui vaut une pension du roi d’Angleterre24, une ambassade auprès du pape, et bien d’autres missions. L’épisode célèbre du discours politique de Frédéric, prononcé par Pierre, le dimanche suivant l’excommunication de l’empereur du 20 mars 1239 à Padoue, le montre déjà occupant les fonctions de fait de logothète et porte-parole principal du souverain, et le registre de 1239/1240 le voit installé au centre d’une administration dont il prend dès lors rapidement la première place25. En revanche, la promotion dont la lettre pourrait se faire l’écho reste mystérieuse. Ce n’est qu’en 1244, bien tard pour une lettre rappelant avec une telle insistance ses pérégrinations et ses origines26, et parlant en termes relativement mesurés de succès qui doivent entraîner des succès 23 «Ipse [Deus] vos comitetur et dirigat actus vestros gratumque prebeat in vestra felicitate profectum ut mihi et vestris omnibus bonitas vestra proficiat, et domus vestre nobilitas quam vestra sine dubio depressit absentia, in statu pristino quo memorandis predecessorum nostrorum temporibus floruisse recolitur, vestro patrocinio revirescat. 24 E. H. Kantorowicz, Petrus de Vinea in England, «Mitteilungen des Österreichischen Instituts für Geschichtsforschung», 51, 1937, pp. 43-88. 25 Sur ces différentes étapes de sa carrière, cf. la toujours valable dissertation de Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 11-36 (de son entrée à la chancellerie jusqu’en 1241), à compléter par H. M. Schaller, Della Vigna, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, 37, Roma 1989, pp. 776-784, et H. M. Schaller, Pier della Vigna, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp. 501-507. 26 Cfr. également Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4, p. 294: «Habemus etiam contra vos impetrata venia justam satis et rationabilem conquerendi materiam, quia cum vos ad partes istas clemens prout dictum est fortuna reduxerit, vos fastu quodam contentionis vel arrogantie dedignati estis adventus vestri nobis communicare materiam, nec certitudinem aliquam de vobis obtinere meruimus, nisi quod rumor publicus attulit et generalis opinio confirmavit». 98 Benoît Grévin ultérieurs27, que Pierre se voit promu aux fonctions de logothète et de protonotaire, alors flottantes, et qui correspondaient apparemment plus à une volonté de l’empereur d’entériner la position désormais éminente de son ministre sans lui donner le titre de chancelier que celle de renforcer précisément ses attributions28. Le ton de la lettre convient-il d’ailleurs à une époque (1239) où la faveur de Pierre était déjà très haute, et où l’on attendrait au moins une allusion à son rôle auprès de César-Frédéric, ou aux fatigues de sa charge? 3. La jeunesse reconstituée de Nicola da Rocca (vers 1225-1245?) L’histoire des premiers temps de Nicola da Rocca et de sa famille a été longtemps enveloppée dans une obscurité assez semblable à celle de la jeunesse de Pierre, avant qu’une source inattendue ne lui donne un peu plus de consistance29. Issu d’une famille sans doute noble originaire de Rocca Guillelma, bourg proche du Mont-Cassin, dont on ignore malheureusement les rapports avec la noblesse de cette partie occidentale de la Terra Laboris, Nicola, après des études qui auraient pu avoir été faites à Naples, mais aussi ailleurs, a eu un début (?) de carrière notariale fort original, puisqu’il a été très probablement le notarius Nicolaus da Rocca, notaire personnel de Richard Filangieri, représentant de Frédéric II dans le royaume de Jérusalem entre 1231 et 1242, sans qu’on sache s’il a rempli ces fonctions pendant toute la période concernée30. Rentré en Italie, peut-être dans le sillage de Richard qui perdit en 1242 ses derniers appuis 27 Ibid.: «Tamen est quod spe alimur et fiducia confortamur, sperantes jugiter et confidentes in Domino quod ipse qui bonum paravit initium, gratum in antea pro sua clementia largietur eventum, et sicut vigiliarum praecedentia signa libavimus, sic favente Altissimo de vestre promotionis augmento votivae jocunditatis tripudia sentiemus». Peuton parler de l’initium de la carrière de Pierre en 1239, après ses multiples ambassades, alors qu’il avait déjà le rôle de secrétaire particulier de Frédéric depuis plusieurs années? 28 Ibid., pp. 49-50. 29 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae, Introduzione, pp. XII-XVIII, corrigeant H. M. Schaller, Die Kanzlei Kaiser II. Ihr Personal und ihr Sprachstil, «Archiv für Diplomatik, Siegel- und Wappenkunde», 3, 1957, n° 55 pp. 275-276, et H. E. Mayer, Die Kanzlei der lateinischen Könige von Jerusalem, Hannover 1996 (MGH Schriften, 40), pp. 763-781. Les principales corrections portent sur les confusions entre Nicola da Rocca senior et Nicola da Rocca junior, que Delle Donne a nettement séparés, alors que Schaller et Mayer attribuaient la carrière du second dans le sillage de la Curie romaine au premier. 30 Mayer, Die Kanzlei, pp. 763-781, et H. E. Mayer, Einwanderer in der Kanzlei und am Hof der Kreuzfahrerkönige von Jerusalem, in Kreuzfahrerstaaten als multikulturelle Gesellschaft. Einwanderer und Minderheiten im 12. und 13. Jahrhundert, cur. H. E. Mayer - E. Müller-Luckner, München 1997 (Schriften des historischen Kollegs. Kolloquien, 37), pp. 25-42. À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 99 politiques en Syrie, peut-être auparavant, Nicola intégra dans les mois ou les années qui suivirent la chancellerie impériale où il est employé, peutêtre dès 1244-1245, et avança rapidement dans la faveur de Pierre de la Vigne dans les mois qui précédèrent sa chute en février 124931. 4. Parcours de jeunesse de Pierre, ou parcours de jeunesse de Nicola? ‘Illazioni’ autour d’une lettre de la grande collection en six livres Cette petite digression était nécessaire pour entamer une brève relecture des extraits de la lettre sur la “jeunesse de Pierre de la Vigne” dont le contenu vient d’être évoqué. Comment se fait-il qu’un ami de Pierre de la Vigne s’adresse à lui en 1239 au plus tôt32, alors qu’il était déjà puissant depuis des années et qu’il ne ménageait pas sa faveur à ses proches, pour lui parler de relever sa famille “qu’a abaissé une longue absence, dans des parties éloignées de l’univers, où son savoir était caché?” Et que la famille en liens étroits avec le rédacteur de la lettre ait été placée dans une situation politique délicate, aux confins de la Terra Laboris et de l’État papal, à un jet de flèche de la frontière? En effet – dit le rédacteur de la lettre – nous qui sommes placés aux confins, comme à une portée de flèche (de la frontière), nous sommes ébranlés par le souffle du moindre vent, et nous ne pouvons payer d’audace car nous n’avons notre libre arbitre, ni pour nos biens, ni pour nos personnes33. La famille proche ou lointaine de Pierre entretenait des liens apparemment exclusifs avec Capoue, l’un des centres névralgiques du 31 Sur l’entrée en fonction de Nicola à la chancellerie, on peut s’appuyer avec prudence sur les documents où P. Zinsmaier, Die Reichskanzlei unter Friedrich II., in Probleme um Friedrich II., cur. J. Fleckenstein, Sigmaringen, 1974, pp. 135-166 (Vorträge und Forschungen, 16), a reconnu sa main (à partir de septembre 1245), et souligner que dans une demande de promotion adressée à Pierre, il dit avoir été depuis un an simple registrator, ce qui ferait remonter les débuts de son activité au plus tard à 1244. Si le notaire est revenu avec Riccardo Filangieri et non avant (ce qui n’est pas certain), il est tentant de penser qu’il était entré à la chancellerie comme registrator dans la foulée de son retour. 32 L’inexistence de l’édit impérial interdisant aux habitants de la frontière du royaume les allers-et-venues en direction du Patrimonium Petri avant l’excommunication de 1239 rend impossible une datation antérieure, cfr. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, p. 6. 33 «Nos enim – dit le rédacteur – qui velut ad sagittam in confinio positi, ventorum omnium impulsione concutimur (…), nec audaces esse possumus quia de personis et rebus nostris libertatis arbitrium non habemus». 100 Benoît Grévin royaume. Cette ville se trouvait encore à bien des lieues de la frontière34, dont la séparaient de nombreuses cités mineures et places fortes, même s’il est vrai que c’était la plus septentrionale des “capitales” de Frédéric II, donc la plus exposée aux attaques ennemies, et qu’elle assumait de ce fait le rôle d’une place forte couvrant les confins nord-ouest du royaume. Rocca Guglielma, la cité d’origine de Nicola, et Pontecorvo, où il avait des biens, sont, elles, littéralement à deux pas de la frontière médiévale entre le royaume de Sicile et l’État pontifical, puisqu’elles se trouvent un peu à l’ouest du Mont-Cassin, et très près de San Germano (qui est la ville dépendante du monastère), à une dizaine de kilomètres de l’État pontifical. Ce sont autant d’arguments pour voir dans le destinataire de la lettre un Nicola da Rocca quelque peu aigri contre sa famille. Celle-ci l’aurait laissé sans argent et sans nouvelles outre-mer pendant la longue période (une décennie entière? Ou un peu moins de temps?) de son service notarial auprès de Richard Filangieri. Une fois rentré, Nicola aurait trouvé rapidement l’accès de la cour impériale, contre les attentes de ses relations qui l’avaient oublié, et aurait opposé à leurs sollicitations un dédain glacé. Le ton de la lettre est mesuré. Elle ne semble guère s’adresser à un ministre tout puissant, mais plutôt à un homme nouvellement promu, et pouvant espérer des promotions plus grandes. La différence d’âge entre un interlocuteur qui souligne avoir aidé le destinataire dans sa prime jeunesse et son correspondant en ferait un homme sans doute très vieux s’il avait été d’une génération antérieure à Pierre de la Vigne, dont on postule généralement qu’il avait entre cinquante et soixante ans à l’époque de sa mort35. Le rédacteur serait simplement vieux dans le cas de Nicola, sans doute né vers 1210. Tous ces éléments concourent pour faire de Nicola un destinataire possible de la lettre, que l’on pourrait imaginer avoir été écrite à la première promotion significative (de registrator comme notaire?36) après son retour de la Terre Sainte, entre 1239 et 1248 (?), ou pour être plus précis, entre 1239 et 1241 d’une part, et 1243-48 d’autre part, puisque la mention de l’édit impérial semble exclure le temps de la vacance entre Grégoire IX et Innocent IV. Reste le problème du rédacteur dont le fils 34 A peu près quatre-vingt kilomètres. Un problème impossible à résoudre en l’absence de tout témoignage sérieux, à moins de dix ans près. Pierre de la Vigne dut avoir vingt ans quelque part entre 1205 et 1220, mais nous ne pouvons guère en savoir plus. 36 Sur cette promotion, cfr. Nicola da Rocca, Epistolae, p. XIV. 35 À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 101 est juge à la grande cour. Huillard-Bréholles avait tenté de le résoudre par une identification du juge fils de celui-ci avec Pierre de San Germano, par déduction, en cherchant un juge actif en 1239, dont le père, Theodinus pourrait avoir été en contact avec Pierre, parce qu’il avait déduit de la mention de l’édit impérial de 1239 que la lettre remontait à cette date précise37. Mais l’interdiction de franchir la frontière sans ordre impérial et plus généralement la surveillance de la frontière a été valable sans interruption à partir de 1239 jusqu’en 1250 (peut-être avec un certain relâchement pendant la vacance d’août 1241 à juin 1243), et il n’y a guère de raison de se laisser impressionner par ce choix de datation qui n’indique qu’un terminus ante quem. A partir de ce moment, supposer un lien entre le père d’un des juges en activité en 1239-1241 ou 1243-44, possessionné ou en liaison avec une famille installée aux frontières de l’état papal, qu’il s’agisse de Pierre de San Germano (attesté seulement jusqu’en 1241) ou de Roffrido de San Germano (attesté jusqu’en 1246), et Nicolas da Rocca, n’est guère plus gratuit que le faire pour Pierre. Restent deux arguments, pour et contre, à faire valoir. Contre: la lettre est incluse dans la grande collection en six livres entre deux séries de lettres qui semblent plutôt en rapport avec Pierre de la Vigne qu’avec Nicola da Rocca38. Cet argument est de poids. Il est quelque peu affaibli par le fait qu’il ne s’agit pas de lettres privées, et par la place immédiate de la lettre dans la collection, certes précédée d’une lettre datant de 1239 (PdV I, 31), mais suivie par la seule lettre du premier livre attribuable à Manfred, datée de 1264, et qui a donc de fortes chances d’avoir été rédigée par Nicola39. 5. La preuve par la baleine? L’autre argument, en faveur de l’identification du destinataire avec Nicola, est d’une nature bien différente. Il repose en effet sur l’interprétation des techniques de rédaction de la lettre, dont les métaphores sont comme l’ensemble des dictamina de la chancellerie sicilienne très 37 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, p. 6 note 1. Cfr. à présent sur Theodinus C. Friedl, Studien zur Beamtenschaft Kaiser Friedrichs II. im Königreich Sizilien (1220-1250), Wien 2005 (Österreichische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Denkschriften, 337), pp. 153, 171, 179 et surtout 182. 38 Cfr. Schaller, Stauferzeit, p. 232. 39 Cfr. sur ce point Grévin, Rhétorique du pouvoir, p. 65. 102 Benoît Grévin fortement influencées par la bible et son exégèse40. Or dans le premier passage évoquant le retour du dictator, il est question du “libre choix du Sauveur qui vous a reconduit indemne au seuil de la patrie, depuis les parties les plus lointaines de l’univers, comme du ventre de la baleine41“. Cette image de l’homme recraché sur le rivage par la baleine sur intervention divine, extraite du livre de Jonas, concorde bien avec la crainte légitime que les hommes du Moyen Âge pouvaient éprouver à l’encontre du long et dangereux voyage outre-mer42. Elle s’applique bien à un retour de Terre Sainte en Italie, bien peu en revanche à un retour de Bologne en Campanie. Est-il besoin de rappeler qu’à l’époque où la lettre a probablement été rédigée (1239-1250, et si l’hypothèse Nicola da Rocca est correcte, sans doute plutôt 1242-1246), la cour impériale résidait souvent à Crémone? Même en faisant abstraction de ce fait, la cité émilienne pouvait difficilement passer pour une remota pars universi pour un Campanien, à moins d’une véritable exagération rhétorique. Même si les liens entre le père d’un des juges de la cour, les environs du MontCassin et la famille de Nicola restent à éclaircir, c’est peut-être plutôt à Nicola-Jonas qu’à Pierre que s’adresse le vieillard anonyme de la lettre. À moins que cette allusion ne s’appliquât plutôt aux voyages de Pierre en Angleterre et en Allemagne pour le compte ou à la suite de l’empereur dans les années 1235-1240, ou à quelque voyage mystérieux – et tombé dans l’oubli – de sa jeunesse43? Il ne s’agit pas ici, pour une fois, de trancher la question. La possibilité d’une oscillation dans l’attribution de cette lettre entre Pierre, l’autorité officielle des collections, et Nicola, compilateur possible de leur archétype44, illustre la manière dont la rhétorique allusive des lettres privées, fussent-elles familiales, peut obliger l’historien à un surcroît 40 Sur la question des techniques métaphoriques utilisées par les dictatores de la cour impériale, cfr. Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 200-220. 41 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4 p. 293: «Salvatoris arbitrio qui de remotis mundi partibus velut a ventre ceti vos ad patriae limina reduxit incolumes». 42 Sur les aléas rencontrés dans la navigation outre-mer au XIIIe siècle, même par les plus grands personnages, lire les péripéties du voyage de retour de Louis IX après la croisade de 1249, cfr. le témoignage de la Vie de saint Louis de Joinville, § 618-630 (ed. Jacques Monfrin, Paris 1998, pp 306-315). 43 Si l’on privilégiait la vieille interprétation, qui fait du destinataire de la lettre Pierre, on pourrait imaginer à partir de ces expressions que le jeune Pierre ne s’était pas limité à faire des études à Bologne, mais qu’il avait poussé plus loin, par exemple vers Paris, ce qui correspondrait mieux, vu du Mezzogiorno, à une remota pars universi… 44 Cf. sur cette question supra, note 7. À propos d’une lettre et de la jeunesse de Pierre de la Vigne 103 d’hypothèses, nécessitant un véritable décodage rhétorique, pour tirer de documents extrêmement denses, en dépit de leur réputation de pauvreté événementielle, mais tout aussi allusifs, des faits positifs sur la position relative, et même sur l’identité de leurs rédacteurs et destinataires. Dans le cas de la lettre Expectantes expectavimus-noscitis emanasse, la fusion des correspondances officielles de Pierre et Nicola au sein des collections de lettres de Pierre de la Vigne a peut-être créé une confusion, facilitée par le caractère vague et anonyme de la rubrique retranscrite par Huillard-Bréholles45. Et c’est ainsi que l’argument – encore bien fragile, de son aveu même46 – le plus solide mis en avant par Huillard-Bréholles en faveur de la pauvreté initiale de Pierre dans sa jeunesse et de ses longues études en Italie du nord repose peut-être sur un malentendu typique de l’histoire des Lettres: la confusion entre des lettres écrites par Pierre et Nicola. 6. Conclusion: l’analyse des dictamina et ses paramètres L’argument “par la baleine” qui a été utilisé dans cette tentative de “recontextualisation” invite enfin à réfléchir sur la possibilité d’améliorer la méthodologie d’analyse des ces dictamina sud-italiens du treizième siècle. En apparence, la “preuve par la baleine” n’est pas si éloignée des déductions opérées à partir de la mention par le rédacteur de liens avec un grand-juge. Dans un cas comme dans l’autre, l’on a tenté de jauger si les indices textuels correspondaient mieux au peu que l’on sait de la carrière de Pierre de la Vigne ou de celle de Nicola da Rocca. Pourtant, l’assimilation du destinataire à Jonas recraché par la baleine ne saurait être mise sur le même plan que la mention d’une parenté avec un grand-juge de la cour impériale. Avec l’utilisation de la comparaison biblique, nous entrons dans le domaine de la métaphorisation des parcours individuels, de la recherche par le lettré d’une équivalence entre l’épisode commenté, et un topos identifiant – généralement, mais pas uniquement, d’origine biblique – qui lui fournit une référence et une explication topique. L’on se trouve donc à l’intérieur du périmètre de la transumptio, cet ensemble de techniques de métaphorisation du discours dont l’armature théorique a été empruntée à la théologie par le dictamen à la fin du XIIe siècle, et 45 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, n° 4 p. 292: «Verba ludibria ad amicum congratulando sibi». 46 Ibid., p. 7: «Si cette lettre fut réellement adressée à Pierre de la Vigne (et nous avons la ferme confiance que sur ce point quelque autre manuscrit viendra confirmer notre opinion)…». 104 Benoît Grévin qui conditionne en grande partie la pensée de l’ars dictaminis, en Italie du nord comme du sud, au cours du XIIIe siècle47. La possibilité de recourir à l’analyse de ces voilements métaphoriques pour faire progresser l’interprétation du texte, là où la critique positive reste en défaut ou en suspens, souligne à quel point l’étude des dictamina du milieu frédéricien et post-frédéricien est dépendante d’une méthodologie particulière, adaptée aux techniques de rédaction des lettres contenues dans les diverses collections qui reflètent la richesse de ce milieu culturel, aussi bien qu’à leur mode de transmission particulier. Il s’agit en quelque sorte de trouver le point d’équilibre où une interprétation inspirée de l’herméneutique biblique peut être utilisée comme auxiliaire d’une critique d’attribution/authenticité reposant par définition sur des logiques d’un autre type. Non que les deux démarches soient strictement incompatibles. Il ne faut pas considérer que les historiens positivistes du XIXe siècle, souvent dotés d’une excellente culture biblique, outre leur culture classique, fussent incapables de se servir de ces indices rhétoriques pour préciser le contexte de rédaction ou la signification d’un document. La lecture de la Vie et correspondance de Pierre de la Vigne prouve en maint passage le contraire48. Nos prédécesseurs étaient néanmoins nécessairement limités dans cet exercice par leur connaissance encore embryonnaire des logiques de transmission et de compilation à l’origine des collections textuelles du type des Lettres de Pierre de la Vigne. Et à l’heure où des travaux d’édition de ces sommes répondant à des critères scientifiques modernes portent enfin, après bien des avatars, leurs premiers fruits49, il est sans doute possible de repartir de l’analyse des collections, pour examiner à nouveaux frais le statut des textes isolés, susceptibles d’être réinterprétés en fonction de ce que nous savons du principe d’autorité multiple qui a présidé à la sélection de ces textes. 47 Sur la transumptio comme concept rhétorique dans l’Italie du XIIIe siècle, cfr. F. Forti, La ‘Transumptio’ nei dettatori bolognesi e in Dante, in Dante e Bologna nei tempi di Dante, Bologna 1967, pp. 127-149, et Grévin, Rhétorique du pouvoir, pp. 200-220. 48 Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 119-120, traduction-commentaire de la lettre éditée ibid., n° 60 p. 355 (Cum omni devotione-audiero procuratum), correspondance entre Pierre et Bérard de Palerme se servant de transumptiones pour parler cryptiquement de personnages de la cour. 49 Cf. supra, note 1. NOTE PROPEDEUTICHE ALL’EDIZIONE DEL LIBRO VI DEL COSIDDETTO EPISTOLARIO DI PIER DELLA VIGNA Teofilo De Angelis L’edizione critica del cosiddetto Epistolario di Pier della Vigna (in seguito indicato con PdV) è un progetto di fronte al quale ogni filologo, credo, possa essere colto da scoramento e senso di inadeguatezza, tante e tali sono le difficoltà. Questo compito è stato affidato al prof. Edoardo D’Angelo che, su continuo incoraggiamento del Centro Europeo di Studi Normanni, e avvalendosi della collaborazione di Fulvio Delle Donne, che da molti anni si occupa dell’argomento, ha avuto il compito di individuare i membri che avrebbero costituito il team di lavoro, al quale ho la fortuna di appartenere, insieme a Alessandro Boccia e Roberto Gamberini. L’edizione del VI libro dell’Epistolario di PdV1, alla quale sto lavorando2, altro non è che un tassello dell’edizione dell’Epistolario stesso inteso nella sua totalità; tale edizione rappresenterà, con tutta probabilità, un notevole passo in avanti nella conoscenza dell’epoca sveva del XIII secolo e della scrittura epistolare di quel periodo (1194-1266). Il fatto che ancora oggi non esista a conti fatti una sua edizione critica testimonia l’enorme difficoltà che un lavoro del genere ha sempre 1 Per le informazioni biografiche cfr. J.L.A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865; H.M. Schaller, Della Vigna Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXVII, Roma 1989, pp. 776-784; F. Delle Donne, Nobiltà minore e amministrazione nel Regno di Federico II. Sulle origini e i genitori di Pier della Vigna, «Archivio Storico per le Province Napoletane» 116, 1998, pp. 1-9. 2 È doveroso, da parte mia, un ringraziamento in primis al prof. Edoardo D’Angelo che, in qualità di direttore e responsabile del progetto, ha ritenuto che io fossi in grado di cimentarmi con un lavoro tanto difficile quanto prestigioso, in secundis al prof. Francesco Santi che, in qualità di tutor di dottorato, mi seguirà guidandomi con i suoi preziosi consigli. 106 Teofilo De Angelis comportato e comporta, nonostante l’impegno anche da parte dei MGH di mettere in calendario, sin dalla loro fondazione, questo lavoro; oggi si conservano “solo” (ma preziosi) studi preparatori, soprattutto di H.M. Schaller3. Le difficoltà di questo tipo di edizione consistono essenzialmente nella grande diffusione dell’opera, nella sua tradizione particolarmente “attiva”4 e, quindi, di fatto nell’impossibilità di ricostruzione di uno stemma codicum di tipo in qualche modo lachmanniano della raccolta di PdV; ma procediamo per ordine. L’epistolario di Pier della Vigna, contenente circa 550 dictamina, databili tra il 1198 ed 1264 e tramandato da più di 250 manoscritti, ha goduto – così come ci suggeriscono questi numeri – di una enorme fortuna; tanto grande da indurre spesso a tramandare sotto il nome del dictator capuano anche testi non suoi; infatti, poiché sappiamo che entrò a far parte della cancelleria fredericiana nel 1220 e che morì all’inizio del 1249, tutti i dictamina anteriori al 1220 e posteriori al 1249 non possono essere a lui attribuiti. L’enorme diffusione, provata dal numero di testimoni con le relative differenze anche “contenutistiche”, inoltre, deriva dal fatto che i suoi scritti, data la sua celeberrima fama di dictator, finirono per perdere il proprio contenuto contingente e per divenire exempla da utilizzare nei vari ambiti, da quelli scolastici a quelli notarili e cancellereschi5. 3 Per le edizioni critiche di alcune epistole cfr. J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici Secundi, 6 voll., Parigi 1852-1861; E. Marténe - U. Durand, Veterum scriptorum et monumentorum historicorum, dogmaticorum, moralium amplissima collectio, II, Paris 1724; E. Winkelmann, Acta imperii inedita, 2 voll., Innsbruck 1880; J.F. Böhmer, Acta imperii selecta, Innsbruck 1870; Nicola da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003; F. Delle Donne, Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo. I dictamina provenienti dall’Italia meridionale del ms. Paris, Bibl. Nat., Lat. 8567, Firenze 2007; F. Delle Donne, «Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum». Storia dello Studium di Napoli in età sveva, Bari 2010, che ripubblica con qualche aggiunta l’articolo in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo» 111, 2009, pp. 101-225; cfr. inoltre, H.M. Schaller, L’epistolario di Pier della Vigna, in Politica e cultura nell’età di Federico II, cur. S. Gensini, Pisa 1986, pp. 95-111; H.M. Schaller, Zur Entstehung der sogenannten Briefsammlung des Petrus de Vinea, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 12, 1956, pp. 114-159 (ristampato in Id., Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993, pp. 225-270). 4 Sull’uso dell’espressione in questo contesto cfr. F. Delle Donne, Autori, redazioni, trasmissioni, Ricezione. I problemi editoriali delle raccolte di dictamina di epoca sveva e dell’epistolario di Pier della Vigna, in Archivio normanno-svevo. Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII, II, Napoli 2009, pp. 7-28, qui in part. p. 24. 5 Cfr. ivi, pp. 24-28. Note propedeutiche all’edizione del libro VI dell’epistolario di Pier della Vigna 107 L’epistolario è tramandato, nello specifico, da circa 125 codici che raccolgono il materiale in maniera sistematica e altri 30 che contengono frammenti e florilegi, sempre tratti da raccolte sistematiche; poi ci sono circa 110 manoscritti che tramandano una tradizione “stravagante”, cioè di lettere spesso non comprese nelle raccolte sistematiche; infine circa 50 manoscritti sono andati dispersi o distrutti. Un problema legato alla tradizione sistematica è dato dalla questione da chi e dove sia partita la raccolta e la sistemazione del cosiddetto Epistolario di PdV. Schaller ipotizza che essa sia avvenuta presso la curia papale, spinta non tanto dalla volontà di studiare e rispondere alla propaganda imperiale, quanto piuttosto per il suo valore altamente retorico; Delle Donne, in merito, avanza l’ipotesi che il compilatore e assemblatore della raccolta possa essere stato il cardinale Giordano di Terracina, amico di Nicola da Rocca, che pure svolse un ruolo di primaria importanza nello snodo della tradizione dell’epistolario6. Tale lavoro, però, non dovette essere fatto in maniera univoca e sotto un’unica guida se oggi abbiamo una redazione non definitiva e che anzi si presenta in ben quattro tipologie principali: M6: «grande in sei libri» (11 codici e 477 epp.); P6: «piccola in sei libri» (95 codici e 366 epp.); M5: «grande in cinque libri» (7 codici e 279 epp.); P5: «piccola in cinque libri» (3 codici e 133 epp.). Nella raccolta in sei libri, le lettere sono così suddivise: il I libro contiene quelle scritte in occasione dello scontro con il papa; il II quelle che narrano battaglie e vittorie; il III quelle di argomento privato, commercio epistolare, etc; il IV quelle consolatorie; il V quelle scritte per problemi amministrativi; il VI quelle che trattano di privilegi. Mentre nelle raccolte in cinque libri il terzo ed il quarto libro risultano, sostanzialmente, accorpati, nella raccolta in sei libri, invece, il quarto libro, dedicato alle consolationes, è a sé stante, forse sul modello dell’epistolario di Tommaso di Capua7. L’edizione del VI libro, in linea e in piena sintonia con il progetto più generale, tenderà a ricostruire il testo della P6, cioè della raccolta che ebbe maggiore diffusione con i suoi 95 codici. 6 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae, p. XX, e anche Delle Donne, Autori, redazioni, trasmissioni, pp. 10-11. 7 Cfr. F. Delle Donne, Le “consolationes” del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna, «Vichiana» 4, 1993, pp. 268-290; e cfr. Schaller, L’epistolario, p. 107. 108 Teofilo De Angelis Un’altra difficoltà, derivante dalla constatazione che molte delle “lettere” di questa collezione sicuramente non sono della mano di PdV, ci spinge inevitabilmente a una riflessione di natura ecdotica; dagli studi di Delle Donne è emerso, ad esempio, che vi sono molte differenze (e quindi errori-adattamenti), anche contenutistiche, tra la tradizione stravagante e quella sistematica8. Sarebbe, allora, necessario domandarsi a quale delle due tradizione dare credito; e pare che, almeno nei casi presi in esame dal Delle Donne, sia più attendibile la tradizione stravagante per ricostruire l’informazione originaria. Ciò, però, non deve spingerci ad affidarci unicamente alla tradizione “stravagante”, o credere che essa ci dia sempre la lezione esatta, perché – come sottolinea sempre Delle Donne – una valore oltremodo rilevante risiede proprio nella natura “retorico-letteraria” della stessa della “raccolta”. È doveroso, dunque, tentare di rispondere alla domanda se sia più opportuno seguire la tradizione stravagante, considerando le lettere come unità indipendenti e riuscendo così a recuperare meglio le corrette informazioni presenti nei documenti, o piuttosto quella sistematica, sacrificando da un lato la correttezza delle informazioni storiche ma rispettando il dato culturale rappresentato da una silloge siffatta, che nasce con scopi professionali e didattici, e non di conservazione del patrimonio documentario di una cancelleria e meno che mai di conservazione di dati e fatti storici9. Ha profonde motivazioni scientifiche, dunque, privilegiare questo secondo aspetto, ricostruendo il testo che ebbe maggiore diffusione (redazione P6), perché, viceversa, e siamo alla terza problematica, ci troveremmo a dover di volta in volta tentare la constitutio textus dei singoli dictamina, piuttosto che dell’Epistolario. 8 Cfr. F. Delle Donne, Un’inedita epistola sulla morte di Guglielmo de Luna, maestro presso lo Studium di Napoli, e le traduzioni prodotte alla corte di Manfredi di Svevia, «Recherches de Théologie et Philosophie Médiévales» 74, 2007, pp. 225-245; Delle Donne ha mostrato e dimostrato che, ad esempio, l’epistola III 67 annuncia ai maestri dello studium di Bologna l’invio di alcune traduzioni in latino di Aristotele. In tale lettera, riportata dalla P6, cioè dalla redazione che ebbe più fortuna e diffusione, si scrive che fu prodotta dalla cancelleria di Federico II; la stessa missiva è riportata anche in un manoscritto “stravagante” conservato a Parigi (Bibliothéque Nazionale Lat. 8567) e ci si accorge di alcune differenze: l’epistola fu redatta da Manfredi (figlio di Federico II) e il destinatario era l’università di Parigi. 9 Questa è la questione più ampiamente affrontata in Delle Donne, Autori, redazioni, trasmissioni, pp. 24-28. Note propedeutiche all’edizione del libro VI dell’epistolario di Pier della Vigna 109 Alla luce di quanto scritto, ne consegue che l’edizione del VI libro si baserà innanzitutto su un eccellente testimone della redazione P6: il manoscritto P (Paris, Bibliothèque Nationale, Lat., 8563), sia perché è il codice più antico10, sia perché è di origine avignonese, cioè di quell’ambiente presso il quale potrebbe aver avuto origine la raccolta dei dictamina di PdV. L’affidarsi a un unico manoscritto non implica la volontà di affidarsi al “metodo di Bédier” basato sul criterio del codex optimus, dato che, di fronte a luoghi evidentemente corrotti, si guarderanno altri testimoni, sempre scelti con il criterio della datazione, della geografia e della tipologia redazionale. Quello che a prima vista potrebbe sembrare una scelta “ossimorica”, in realtà non lo è se si pensa che il lavoro non ha alcuna presunzione di essere definitivo, quanto piuttosto intende offrire la possibilità di presentare un testo anzitutto leggibile e corretto nella forma. Ogni intenzione, per quanto nobile e meritoria, non può autolegittimarsi, ma necessita sempre di una giustificazione che, nel nostro caso, ci viene offerta da Giovanni Orlandi il quale, in merito al metodo lachmanniano, sostiene che, quando ci si trova di fronte ad una tradizione molto ampia, si può decidere di collazionare solo un numero limitato di manoscritti sulla base di «una scelta anche violenta e talora aprioristica»11. In particolare, per ciò che riguarda il VI libro, quanto scritto sinora in merito alla problematicità del progetto nel suo insieme, è cioè nella scelta di privilegiare il testo che avuto maggiore diffusione e non quello che fu “creato” dalla penna del dictator capuano, esso è testimone importante di tali criticità12, se si pensa che delle 33 “epistole” contenutevi, tra mandati e privilegi, non vi sono mai riferimenti diretti a PdV; e ci sono 10 Cfr. B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (xiiie-xve siècle), Rome 2008, p. 1023, in part. p. 27 dove scrive che la sua datazione è anteriore al 1318; cfr. anche Schaller, Zur Entstehung, p. 141. 11 G. Orlandi, Perché non possiamo non dirci lachmanniani, «Filologia Mediolatina» 2, 1995, pp. 1-42 (ristampato in Id., Scritti di filologia mediolatina, Firenze 2008, pp. 95-130), qui in part. p. 25. 12 Il presente lavoro di analisi dei “contenuti” del VI libro si basa sull’edizione dell’Iselius, Basileae 1740, e sui dati forniti da J.F. Böhmer - J. Ficker - E. Winkelmann, Die Regesten des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV., Friedrich II., Heinrich (VII.), Conrad IV., Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard 1198-1272, in Regesta Imperii, V, 1-3, Innsbruck 18811901, nonché dai Nachträge und Ergänzungen di P. Zinsmaier, in Regesta Imperii, V, 1-3, Köln - Wien 1983.. 110 Teofilo De Angelis invece ben 12 documenti che non possono essere stati scritti dal Capuano, perché successivi alla data della sua morte13. Ep. I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV Mittente Conradus IV Conradus IV Conradus IV Conradus IV Conradus IV Conradus IV Fridericus II Conradus IV Conradus IV --------Conradus IV --------Conradus IV Fridericus II Datazione 1253 1252 1252 1254 1252 1253 1231 1252 II 1254 --------1252 --------1252 1248 XV Fridericus II 1248? XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII Fridericus II Fridericus II Fridericus II Fridericus II Fridericus II Conradus IV Fridericus II, Conradus IV, Manfredus Fridericus II / Conradus IV Fridericus II Fridericus II, Conradus IV, Manfredus Fridericus II 1220-50 1220-1250 1220-50 1247? 1247? 1254… 1220-1266 XXIII XXIV XXV XXVI 13 Destinatario / Finalità Neapolitani Comes Acerrarum Aquinates T. de Otra Andrea de Equino Marchio De Haimburg Extranei Fridericus de Antiochia Ad Aquila construenda Comes Heinricus Ad restitutionem destituiti Judaei C. et O. Ut de concessione quarundam terrarum, facta Pisanis, filius non turbetur Exordium super gratiis faciendis T. de Curis A. de N. G. de Placentia Civitas Forlinii N. de N. N. de N. C. de N. 1239 / 1253 IX A. 1231-50 N. 1220-1266 N. 1245 Dux Austriae È il caso delle epp. II, III, V, VIII, XI e XIII, perché del 1252; delle epp. I e VI, perché del 1253; delle epp. IV, IX, XXI, del 1254; dell’ep. XXVII, perché di un arco temporale che va dal 1252 al 1266. Note propedeutiche all’edizione del libro VI dell’epistolario di Pier della Vigna XXVII Manfredus 1252-1266 XXVIII Fridericus II, Conradus IV, 1220-1266 Manfredus XXIX Fridericus II 1238 XXX Fridericus II 1224 III XXXI Fridericus II XXXII Fridericus II XXXIII Fridericus II 1240 VII 1231-1250 1240 111 Exordium super gratiis faciendis Exordium super gratiis faciendis C. de N. Quidam gentes ad catholicae fidei unitatem conversi Exordium super gratiis faciendis T. Tauriensis Heinricus, domorum Militiae praeceptor Un elemento molto indicativo che non può passare inosservato è il fatto che i destinatari, o i riferimenti a persone ed avvenimenti, sono indicati con sigle o lettere molto generiche (soprattutto «N»)14, le quali non facilitano il lavoro di ricognizione di un “definitivo” apparato storico; quest’aspetto che è certamente limitante ha, però, in sé un elemento caratterizzante ed esplicativo: chi, nel corso degli anni, raccoglie e tramanda nelle redazioni sistematiche non ha alcun interesse per il dato storico, ma vuole anzitutto raccogliere un modello di ars dictandi maxima; si potrebbe dire che chi ha organizzato la tradizione dell’Epistolario di PdV ha, però, “tradìto” l’aspetto storico-istituzionale, perché non ad esso interessato; ma tutto ciò poco importa se si tiene presente che «nelle lettere il rapporto con la realtà dei fatti è secondario rispetto all’esigenza ideologica, che produce – con l’ausilio appunto della retorica – enfatizzazioni, prolissità, manipolazioni»15. L’ideologia e la retorica, appunto, che non possono fermarsi dinanzi al tempo, ma anzi sanno adattarsi e superarlo semplicemente cambiando nome o anche acquisendo quello generico di «N». 14 Si pensi ai generici Exordia delle epp. XV, XXVII, XXVIII e XXXI; ancora ai destinatari indicati con «C. et O.» (ep. XIII), con «A. de N.» (ep. XVII), con «A.» (ep. XXIII), con «C. de N.» (epp. XXII, XXIX), con «N.» (epp. XXIV e XXV) oppure con «N. de N.» (epp. XX e XXI). 15 Cfr. A.Bartoli Langeli, Cancellierato e produzione epistolare, in Le riforme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 251-261. SU UN CODICE STRAVAGANTE DEL COSIDDETTO EPISTOLARIO DI PIER DELLA VIGNA: INNSBRUCK, UNIVERSITÄTS-BIBLIOTHEK, 400 Fulvio Delle Donne Il codice 400 della Biblioteca Universitaria di Innsbruck, sin da quando Josef Riedmann ne presentò la scoperta in un convegno in Tirolo nel 20051, ha destato sempre molto interesse, perché, oltre a contenere nuovi documenti sull’età di Corrado e Manfredi di Svevia, offre anche nuovi spunti di riflessione sull’organizzazione dell’epistolario di Pier della Vigna, uno dei più grossi rompicapo della filologia mediolatina. Non è il caso di spiegare nel dettaglio in cosa consista il cosiddetto «epistolario di Pier della Vigna»: ogni chiarimento è stato già offerto in questa stessa sede2. Basti ricordare che contiene circa 550 tra manifesti, mandati, epistole e documenti di vario genere risalenti al periodo che va dal 1198 al 1264: molti di essi, dunque, sicuramente non possono essere usciti dalla penna del dictator capuano Pier della Vigna, che dovette en1 Sul codice cfr. J. Riedmann, Unbekannte Schreiben Kaiser Friedrichs II. und Konrads IV. in einer Handschrift der Universtitätsbibliothek Innsbruck. Forschungsbericht und vorläufige Analyse, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 62, 2006, pp. 135-200. Josef Riedmann, che sta curando l’edizione del codice per i Monumenta Germaniae Historica, presentò la scoperta del codice nel convegno tenuto a Innbruck e Stams tra il 13 e il 16 aprile 2005: gli atti di quel convegno sono stati pubblicati solo alcuni anni dopo: L’eredità di Federico II. Dalla storia al mito, dalla Puglia al Tirolo – Das Erbe Friedrichs II. Von der Geschichte zum Mythos, von Apulien bis Tirol, cur. F. Delle Donne, A. Pagliardini, E. Perna, M. Siller, F. Violante, Bari 2010. Il presente saggio, invece, costituisce una rielaborazione della relazione presentata al convegno specificamente dedicato a quel convegno, Nuove fonti per la storia del tardo periodo svevo in Italia, tenutosi nella sede dell’Istituto storico italiano per il medio evo, Roma il 6 marzo 2008. 2 F. Delle Donne, Autori, redazioni, trasmissioni, ricezione. I problemi editoriali delle raccolte di dictamina di epoca sveva e dell’epistolario di Pier della Vigna, in Archivio normanno-svevo. Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII, II, Napoli 2009, pp. 7-33. 114 Fulvio Delle Donne trare a far parte della cancelleria federiciana intorno al 1220 e morì all’inizio del 1249. Inoltre, si può aggiungere che è tramandato da circa 250 codici: 120, circa, raccolgono il materiale in maniera sistematica sotto la forma di 4 principali redazioni (due in 5 libri e due in 6 libri), i restanti in maniera non sistematica o sotto forma di florilegi: quindi ebbe una circolazione decisamente ampia3. Il codice su cui, qui, si concentra l’attenzione può essere classificato tra quelli che raccolgono le lettere del cosiddetto «epistolario di Pier della Vigna» in maniera non sistematica, in quanto contiene 39 epistole che sono tràdite anche dalla redazione piccola in 6 libri dell’epistolario di Pier della Vigna, quella che ebbe maggiore diffusione, anche a stampa, e di cui ora sta per uscire una nuova edizione presso il Centro Europeo di Studi Normanni4. Questo è l’elenco delle lettere del codice, segnalate col numero assegnato da Josef Riedmann5 e dalla corrispondenza, tra parentesi, col numero della lettera dell’epistolario di Pier della Vigna (PdV) nella forma della redazione piccola in 6 libri: 12 (PdV I 23); 13 (PdV V 1); 14 (PdV II 35); 22 (PdV I 18); 25 (PdV II 51); 35 (PdV VI 14); 37 (PdV II 14); 45 (PdV II 42); 48 (PdV I 19 ?); 54 (PdV II 17); 58 (PdV III 15); 62 (PdV III 27); 71 (PdV II 32); 72 (PdV II 29); 74 (PdV II 30); 77 (PdV VI 1); 80 (PdV III 20); 84 (PdV III 34); 108 (PdV VI 9); 112 (PdV V 6); 114 (PdV V 20); 116 (PdV VI 22); 136 (PdV VI 16); 141 (PdV V 9); 169 (PdV IV 6); 170 (PdV IV 4); 175 (PdV IV 3); 177 (PdV IV 1); 178 (PdV IV 2); 179 (PdV IV 15); 180 (PdV I 20); 181 (PdV I 31); 182 (PdV I 34); 183 (PdV II 12); 184 (PdV II 18); 185 (PdV II 19); 206 (PdV II 8); 207 (PdV 3 Cfr. H. M. Schaller, Zur Entstehung der sogenannten Briefsammlung des Petrus de Vinea, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 12, 1956, pp. 114-59 (ristampato in H. M. Schaller, Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993, pp. 225-70); H. M. Schaller, L’epistolario di Pier della Vigna, in Politica e cultura nell’Italia di Federico II, cur. S. Gensini, Pisa 1986, pp. 95-111 (ristampato in tedesco in Schaller, Stauferzeit, pp. 463-78); H. M. Schaller, Handschriftenverzeichnis zur Briefsammlung des Petrus de Vinea, Hannover 2002. 4 L’edizione finora più consultata è quella curata da Johann Rudolf Iselin (Iselius), Basileae 1740. La nuova edizione (con traduzione italiana) in corso presso il Centro Europeo di Studi Normanni è coordinata da Edoardo D’Angelo, e stanno già per essere mandati a stampa alcuni libri: il II è curato da A. Boccia; il IV da chi scrive; il V da E. D’Angelo. 5 Riedmann, Unbekannte Schreiben, pp. 135-200. Su un codice stravagante dell’epistolario di Pier della Vigna 115 V 21); 208 (PdV V 22). Di queste, tre (le 170, 207 e 208) furono scritte, in realtà, da Nicola da Rocca6. Ci sono, poi, una lettera contenuta anche nella redazione grande in 6 libri dell’epistolario di Pier della Vigna (la nr. 75); dieci lettere tràdite anche da altri codici che contengono prevalentemente lettere di Pier della Vigna: 2, 6, 8, 44, arenga non numerata di c. 134r, 60, 86, 166, 168, 1767. Inoltre, quattro lettere presentano formule molto simili a quelle usate in lettere dell’epistolario di Pier della Vigna: arenga non numerata di c. 135r (PdV VI 15); 118 (PdV V 100); 120 (PdV V 100); 123 (PdV VI 24). Di queste soprattutto la prima (l’arenga non numerata di c. 135r) è per buona parte quasi identica a quella dell’epistolario di Pier della Vigna, pur essendo molto breve. Ho compiuto una collazione, sia pure sommaria e soltanto indicativa, tra il testo tràdito dal ms. 400 di Innsbruck e quello trasmesso dall’edizione Iselius dell’epistolario di Pier della Vigna, che, come già detto, riproduce la redazione piccola in 6 libri, da cui è emerso che nel ms. 400 è stato attuato un sistema di raccolta non univoco. In alcuni casi, soprattutto nella parte finale del codice, le lettere non presentano varianti degne di grande rilievo, né nell’intitulatio o nella rubrica, né nel contenuto (anche se a volte il nome del mittente, nel ms. 400, è ridotto a un idem, che non fa capire sempre chiaramente se sia riferito a Federico II o a Corrado IV): come nelle lettere 77 (PdV VI 1), 136 (PdV VI 16), 169 (PdV IV 6), 170 (PdV IV 4), 179 (PdV IV 15, ma nel ms. 400 viene lasciato dello spazio in bianco per la rubrica), 182 (PdV I 34), 183 (PdV II 12), 184 (PdV II 18), 185 (PdV II 19), dove l’intitulatio manca del tutto, così come la rubrica esplicativa del contenuto, e mancano talvolta anche i nomi presenti nella raccolta di Pier della Vigna (lettere 136, 169, 170), o sono incomplete (lettera 136); oppure nelle lettere 12 (PdV I 23), 14 (PdV II 35), 22 (PdV I 18), 37 (PdV II 14), 62 (PdV III 27), 84 (PdV III 34), 141 (PdV V 9), dove l’intitulatio appare, ma non c’è la rubrica, e in un caso (lettera 14) la lettera è incompleta. In qualche caso, il destinatario appare anche nell’intitulatio del ms. 400, mentre manca nella raccolta di Pier della Vigna, come per la lettera 6 Nicola da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003 (Edizione nazionale dei testi mediolatini 9), docc. 4, 26, 27. 7 Le lettere 44, 60 e 176 sono anche in Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo, ed. F. Delle Donne, Firenze 2007 (Edizione nazionale dei testi mediolatini 19), rispettivamente come i docc. 162, 168 e 170. L’ arenga non numerata di c. 134r è anche in Nicola da Rocca, Epistolae, doc. 41. Per un elenco dei manoscritti che contengono queste lettere cfr. Schaller, Handschriftenverzeichnis, ad ind. 116 Fulvio Delle Donne 175 (PdV IV 3), ma quel nome si ricava anche dal corpo della lettera, incompleto nel ms. 400; oppure è lo stesso, ma ci sono parti in più, come nella lettera 25 (PdV II 51), o compaiono nomi omessi nella raccolta di Pier della Vigna, come nella lettera 112 (PdV V 6). Talvolta, vengono fornite informazioni in più riguardo al destinatario della lettera, o vengono indicati nomi, omessi invece nella raccolta di Pier della Vigna: come nelle lettere 13 (PdV V 1), 35 (PdV VI 14), 45 (PdV II 42), 54 (PdV II 17), 71 (PdV II 32), 72 (PdV II 29), 114 (PdV V 20), 116 (PdV VI 22). Ma in alcuni casi, tali lettere sono incomplete, e tendono spesso a riassumere fortemente la parte dispositiva con formule molto sbrigative e non coincidenti con quelle usate nella raccolta di Pier della Vigna, come le 13, 45, 54, 72, 108, 116. Anche la lettera 48 riporta nell’intitulatio il nome del destinatario (il marchese di Hohenburg), ma sembra ampiamente incompleta, in quanto è costituita da due sole frasi: la prima è identica a PdV I 19, poi c’è un etc. e poi un’altra frase che non è presa dalla stessa lettera di PdV, per cui c’è il forte sospetto che siano state unite assieme due lettere. Le lettere 58 (PdV III 15), 74 (PdV II 30) e 80 (PdV III 20) portano destinatari e mittenti diversi da quelli della raccolta di Pier della Vigna: cosa, comunque, che non sorprende chi ha dimestichezza con tale tipo di raccolte epistolari. Quindi, da quanto abbiamo detto, si ricava che chi ha organizzato il ms. 400 di Innsbruck non ha preso le lettere dalla raccolta organizzata dell’epistolario di Pier della Vigna. Ma questo poteva anche risultare scontato se si pensa che le prime raccolte organizzate di quell’epistolario pare che abbiano avuto circolazione a partire da un periodo successivo a quello in cui sembra che sia stato esemplato il ms. 400. Questo, però, apre un altro problema: che tipo di testo offrono le lettere del ms. 400? Ovvero, derivano direttamente dai registri della cancelleria, o hanno subito qualche mediazione? In qualche caso, come per la lettera 108 (PdV VI 9), c’è l’escatocollo, che manca nella tradizione canonica delle lettere di Pier della Vigna; ma mancano l’intitulatio e i nomi di alcuni luoghi, che invece ci sono nella tradizione canonica delle lettere di Pier della Vigna. Per quanto riguarda la lettera V 20, in particolare, è interessante notare che il ms. di Innsbruck (c. 159r) scrive il nesso «votivis suspiriis fructus expectatur», così come i mss. della redazione piccola in 5 libri e quelli della grande in 6 libri (sono le due più antiche)8, laddove nell’edizione di Iselin (vol. 8 Questi mss., a dire il vero, presentano la forma «votivis suspiriis fructus expectant», ma la differenza è paleograficamente irrilevante. Per la maggiore antichità della Su un codice stravagante dell’epistolario di Pier della Vigna 117 II, p. 59, rr. 14-15), è scritto, invece, «commodum sperant», mentre è completamente omesso nel ms. di Paris, B. N. F., Lat. 8563, c. 75r, usato come base per la citata edizione in preparazione per il Centro Europeo di Studi Normanni. Quindi, in questi casi, si potrebbe pensare anche che il compilatore del ms. 400 abbia avuto presente un modello derivato direttamente dalla cancelleria, e che l’abbia tagliato nella maniera che più gli conveniva. Ma tale atteggiamento, come abbiamo visto, non è univoco. Risulta, invece, più semplice pensare che il ms. 400 sia stato organizzato come una personale raccolta di modelli epistolari da un notaio di qualche cancelleria (magari uno di quelli che esularono dopo la caduta del regime svevo, come Enrico di Isernia, Pietro da Prezza o, forse, anche Nicola da Rocca9), perché se ne potesse servire come una sorta di prontuario retorico ogni volta che ne sentiva la necessità. Magari, i documenti che conservano l’escatocollo possono essere stati scritti da un medesimo notaio, che conservava le minute dei propri scritti10. Del resto, spicca il fatto che alcune lettere siano raggruppate per argomento ovvero per tipologia (ad es. le consolationes ai nn. 166-179), per incipit (ad es. 40 e 41), o per destinatario (ad es. le lettere 20-21 indirizzate a Tommaso di Savoia, o le 3133 indirizzate a Pavia, o le 37-39, indirizzate a Tivoli). Tali raccolte non sono rare, anche perché venivano usate spesso come libri di testo – per dir così – nelle scuole di dictamen (praticamente propedeutiche alla professione notarile), sia quelle locali, sia quelle connesse con gli studia più organizzati: in pratica, i manoscritti che tramandano l’epistolario di Pier della Vigna, sia in forma organizzata sistematicamente, sia in forma non organizzata sistematicamente ebbero quasi sempre questo scopo. Del resto, dato il grande sviluppo che l’insegnamento del dictamen epistolare redazione piccola in 5 libri (e, poi, di quella grande in 6 libri) cfr. F. Delle Donne, Die Probleme der Überlieferung von Dictamina in der Zeit Friedrichs II., in Briefkultur im 13. und 14. Jahrhundert, in corso di stampa. 9 Su Enrico di Isernia cfr. soprattutto H.M. Schaller, Enrico Da Isernia (Henricus de Isernia), in Dizionario Biografico degli Italiani, 42, Roma 1993, pp. 743-746; K. Hampe, Beiträge zur Geschichte der letzten Staufer. Ungedruckte Briefe aus der Sammlung des Magisters Heinrich von Isernia, Leipzig 1910; su un suo trattato retorico e le sue fonti cfr. B. Schaller, Der Traktat des Heinrich von Isernia De coloribus rethoricis, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 49, 1993, pp. 113-154. Su Pietro da Prezza cfr. soprattutto E. Müller, Peter von Prezza, ein Publizist der Zeit des Interregnums, Heidelberg 1913; R.M. Kloos, Petrus de Prece und Konradin, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken» 34, 1954, pp. 88-108. Su Nicola da Rocca cfr. l’Introduzione a Nicola da Rocca, Epistolae. 10 Così, forse, è capitato con Nicola da Rocca nel ms. Paris, B. N. F., Lat. 8567, dove i dictamina conservano il nome dell’autore: cfr. l’Introduzione a Nicola da Rocca, Epistolae. 118 Fulvio Delle Donne ebbe, in quel periodo, nella zona dell’Italia centro-meridionale, a partire da Karl Hampe si è parlato di “scuola capuana”11, anche se il centro di quella scuola mi pare che sia più Montecassino che Capua12. A questa conclusione – ovvero che il ms. 400 sia una sorta di prontuario retorico – spingerebbe anche la constatazione che tre lettere del ms. 400 sono contenute anche nell’epistolario di Tommaso di Capua (TdC)13, e con una tradizione che spesso si interseca con quella di Pier della Vigna: le lettere 5 (TdC I 1), arenga non numerata di c. 133v (TdC VIII 49), arenga non numerata di c. 193v (TdC II 57). La nr. 11, invece, presenta solo un incipit simile a quello di TdC VII 115. E, come già segnalato da Josef Riedmann, poi, ventuno lettere sono tràdite anche dal cosiddetto epistolario di maestro Trasmondo (Trasm.)14: 186 (Trasm. 116), 187 (Trasm. 119), 188 (Trasm. 1), 189 (Trasm. 2), 190 (Trasm. 185), 11 Cfr. K. Hampe, Über eine Ausgabe der Capuaner Briefsammlung des Cod. lat. 11867 der Pariser Nationalbibliothek, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.» 1910, 8; K. Hampe, Mitteilungen aus der Capuaner Briefsammlung I, II, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.» 1910, 13; K. Hampe, Mitteilungen aus der Capuaner Briefsammlung III, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.» 1911, 13; K. Hampe - F. Baethgen, Mitteilungen aus der Capuaner Briefsammlung IV, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.» 1912, 14. 12 Cfr. F. Delle Donne, Le consolationes del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna, «Vichiana» s. III 4, 1993, pp. 287-290; F. Delle Donne, La cultura e gli insegnamenti retorici latini nell’Alta Terra di Lavoro, in ‘Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L’Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, a cura di F. Delle Donne, Arce 2007, pp. 133-157. 13 L’Ars dictandi è stata pubblicata da E. Heller, Die Ars dictandi des Thomas von Capua, «Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil.-hist. Klasse» 1928/29, 4. L’epistolario, invece, è ora in Die Briefsammlung des Thomas von Capua. Aus den nachgelassenen Unterlagen von Emmy Heller und Hans Martin Schaller, edd. M. Thumser - J. Frohmann, München 2011. Alcune lettere dell’epistolario, che è stato raccolto sistematicamente in 10 libri, erano già in S.F. Hahn, Collectio Monumentorum, I, Brunsvigae 1724, pp. 279-385, che pubblicava, in sostanza, solo i primi due libri dell’epistolario; 34 lettere erano pubblicate anche da J. Freiherr von Hormayr, Thomas a Capua Dictamina, «Archiv für Geographie, Historie, Staats- und Kriegskunst» 12, 1821, pp. 510 s., 513-16, 521-23, 527-30, 545-48, 549-53, 557-60, 585-88; altre lettere ancora erano pubblicate da E. Heller, Der kuriale Geschäftsgang in den Briefen des Thomas von Capua, «Archiv für Urkundenforschung» 13, 1935, pp. 198-318: 256-318; per l’edizione di altre lettere cfr. H. M. Schaller, Studien zur Briefsammlung des Kardinals Thomas von Capua, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 21, 1965, pp. 371-518, spec. 394-399. 14 S. Heathcote, The letter collections attributed to Master Transmundus, Papal Notary and Monk of Clairvaux in the Late Twelfth Century, «Analecta Cisterciensia» 21, 1965, pp. 35-109 e 167-238. Su un codice stravagante dell’epistolario di Pier della Vigna 119 191 (Trasm.27), 192 (Trasm. 28), 193 (Trasm. 35), 194 (Trasm. 1a), 195 (Trasm. 117), 196 (Trasm. 33), 197 (Trasm. 171), 198 (Trasm. 173), 199 (Trasm. 4), 200 (Trasm. 152), 201 (Trasm. 153), 202 (Trasm. 154), 203 (Trasm. 16), 204 (Trasm. 8), 205 (Trasm. 7). Del resto, la prima parte del codice contiene anche le Institutiones minores di Prisciano e la Summa dictaminum di Ludolfo di Hildesheim (morto nel 1256 circa). Tutto questo, ci farebbe pensare che al codice venisse attribuita una funzionalità di tipo grammaticale e retorico, e che conteneva modelli di dictamina. Tuttavia, non va sottovalutato un aspetto interessante del codice 400. Alcune lettere, non tutte, sembrano fornire una redazione per dir così primitiva rispetto a quella più diffusa e trasmessa dalle raccolte organizzate dell’epistolario di Pier della Vigna: insomma, forniscono una redazione che non è ancora passata attraverso tutti i filtri che ha subito la redazione organizzata sistematicamente dell’epistolario di Pier della Vigna, pur avendone subìto comunque qualcuno. Queste lettere, dunque, talvolta, forniscono alcune informazioni in più, utili a meglio contestualizzarle dal punto di vista storico. Ma, ad es., la lettera 58 nel ms. di Innsbruck è indirizzata al re d’Ungheria, mentre nella tradizione sistematica delle lettere di Pier della Vigna è indirizzata al re di Cipro: ma poiché nella lettera viene raccomandato un personaggio (frate Elia, il cui nome viene omesso nel ms. 400) che deve compiere un viaggio in partes transmarinas (espressione pure omessa nel ms. 400), le indicazioni offerte dalle raccolte sistematiche dell’epistolario di Pier della Vigna si adattano meglio, rispetto a quelle fornite nel ms. 400. Dunque, il ms. di Innsbruck, configurandosi come un codice che raccoglie lettere di Pier della Vigna non organizzate sistematicamente, può costituire una fonte importante per approfondire la conoscenza dell’epoca sveva: non solo quella storico-istituzionale, ma anche quella culturale. E, da questo punto di vista, il ms. 400 costituisce un’ulteriore attestazione dell’ampissima diffusione che ebbero le lettere attribuite a Pier della Vigna, che furono lette ed ammirate per secoli, e non solo in tutt’Italia e in Austria, ma anche in Inghilterra, in Spagna, in Boemia, in Germania, in Francia, dove furono prese a modello e addirittura riutilizzate per nuovi componimenti epistolari15. 15 Su tali questioni cfr., da ultimo, l’approfondito e preciso studio di B. Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen XIIIe-XIVe siècle, Rome 2008. ASPETTI DELLA GUERRA DEL VESPRO: IL BIENNIO 1296-1298 NELLA PROSPETTIVA DI FEDERICO III, RE DI SICILIA, E DI RUGGERO DI LAURIA Rosanna Lamboglia I vent’anni della guerra del Vespro siciliano (1282-1302) – esito estremo della frattura tra il potere regio e i ceti nobiliari isolani che si era andata prefigurando già alla fine del dominio svevo in Italia meridionale1 – rappresentano un periodo breve della storia del Mezzogiorno medievale e tuttavia estremamente significativo, soprattutto se si considera che dalla sollevazione palermitana si generarono conseguenze di carattere permanente, destinate a determinare, ben oltre la soluzione del conflitto, gli sviluppi politico-economici dell’intera area. Ciò che poteva sembrare una faccenda locale e marginale, sulla scala invece delle tendenze di durata secolare e dei bilanci a lungo termine, finiva col rivelarsi un punto di non ritorno nella storia del Mediterraneo, proprio per i suoi imprevedibili esiti. Infatti, a partire da quegli anni, la Corona d’Aragona si sarebbe imposta come uno dei maggiori protagonisti politici della scena mediterranea, ma anche come un tenace elemento perturbatore2. 1 Cfr. E. Pispisa, Nicolò di Jamsilla. Un intellettuale alla corte di Manfredi, Soveria Mannelli 1984, pp. 18-19, dove si approfondisce e amplia una tematica già affrontata in Id., Nicolò di Jamsilla tra cultura e politica, in La società mediterranea all’epoca del Vespro, Atti dell’XI Congresso di Storia della Corona d’Aragona (Palermo - Trapani - Erice 23-30 aprile 1982), IV, Palermo 1984, pp. 105-130. 2 In proposito, numerosi sono stati gli studi che hanno considerato la fase di espansione che caratterizzava da tempo l’Europa dal Mediterraneo al Baltico. Sull’area mediterranea catalano-aragonese, è ritornato recentemente P. Corrao, Mezzogiorno e Sicilia fra Mediterraneo ed Europa (secoli XI-XV), in P. Corrao - M. Gallina - C. Villa, L’Italia mediterranea e gli incontri di civiltà, Bari 2001, pp. 97-168: 135, e Id., Corona d’Aragona ed espansione catalano-aragonese: l’osservatorio siciliano, in Europa e Mediterraneo tra medioevo e prima età moderna: l’osservatorio italiano, cur. S. Gensini, Pisa 1992, pp. 255-280: 267. Tra le 122 Rosanna Lamboglia Allo stesso tempo, si sarebbe avviato quel processo storico conclusosi non solo con l’annessione dell’Isola alla Corona d’Aragona, bensì con la riduzione di tutto il Regno a Viceregno. Se però ci si attiene ad una prospettiva di medio termine, va parimenti rilevato come con l’incoronazione nella primavera del 1296 dell’infante Federico d’Aragona a re di Sicilia3 si apra un nuovo periodo di autonomia giuridica dell’Isola, che sarebbe poi continuato sotto i successori, fino almeno a tutto il regno di Federico IV (1355-1377) e, in parte, nel breve regno di Martino I, il Giovane (1402-1409). L’acclamazione a re di Federico in un parlamento, a Catania, già nel gennaio del 1296, è la soluzione di un complesso nodo politico secondo una prospettiva di parte – quella del cosiddetto partito dei “Siciliani” – che, sin dal 1293, si era opposta a qualsiasi trattativa di pace, volta a realizzare un ritorno dell’Isola sotto le insegne angioine4. In tal senso, la rilettura dei capitoli conclusivi dell’Historia Sicula di Bartolomeo di più recenti iniziative di studio sul tema, si segnalano L’exspansió catalana a la Mediterrània a la baixa Etad Mitjana, cur. M. T. Ferrer i Mallol - D. Coulon, Barcelona 1999, e La Corona catalanoaragonesa i el seu entorn mediterrani a la baixa Etad Mitjana, cur. M. T. Ferrer i Mallol - J. Mutgé i Vives - M. Sánchez Martínez, Barcelona 2005. Gli argomenti qui trattati prendono avvio dalla tesi di dottorato Ruggero di Lauria nel contesto del Mediterraneo bassomedievale, da me svolta sotto la guida del prof. Francesco Panarelli e discussa presso la Scuola di Dottorato dell’Università degli Studi della Basilicata nell’a. a. 2009/2010. 3 Sulla natura della titolazione da attribuire al nuovo sovrano e sulla sua significazione, cfr. E. Pispisa, Regnum Siciliae. La polemica sulla intitolazione, Palermo 1988, pp. 63-71. Sul regno di Federico III, re di Sicilia, si vedano, da ultimo, V. D’Alessandro, Un re per un nuovo Regno, in Federico III d’Aragona re di Sicilia (1296-1337), Convegno di studi (Palermo, 27 - 30 novembre 1996), cur. M. Ganci - V. D’Alessandro - R. Scaglione Guccione, Palermo 1997, pp. 21-45, e C. R. Backman, Declino e caduta della Sicilia medievale. Politica, religione ed economia nel regno di Federico III d’Aragona Rex Siciliae (1296-1337), ediz. it. cur. A. Musco, Palermo 2007 (ed. or. Cambridge 1995). 4 F. Giunta, Il Vespro e l’esperienza della «Communitas Siciliae». Il baronaggio e la soluzione catalano-aragonese dalla fine dell’indipendenza al Vicereregno spagnolo, in Storia della Sicilia, dir. R. Romeo, III, Napoli 1980, pp. 305-407: 324-331. La persistenza di un sentimento di autonomia dell’Isola rispetto alla Corona d’Aragona è tuttavia abbastanza precoce. Significativa è infatti la lettera del giugno 1286 che Ruggero di Lauria doveva consegnare a re Alfonso III d’Aragona e nella quale era espresso il parere contrario della regina Costanza e di Giacomo, re di Sicilia, a trattare una pace, qualora ad essi non fosse rimasta l’Isola: ACA, RC, Reg. 66, f. 125r (prima del 21 giugno 1286), ma trascritto anche in G. La Mantia, Codice diplomatico dei re aragonesi di Sicilia, I (Anni 1282-1290), ristampa anastatica, premessa di V. D’Alessandro, Palermo 1990 (1a ed. 1917), p. 320, doc. CXLVII (ma con errore nell’indicazione del Registro). Aspetti della guerra del vespro 123 Neocastro5 è assai eloquente di una precisa linea d’azione, maturata all’interno dell’osservatorio politico siciliano e relativa alle trattative di pace messe in campo dalla diplomazia di papa Niccolò IV. Ciò infatti è quanto emerge dal discorso, intriso di retorica, che il Cronista fa pronunciare a uno dei legati dell’ambasceria siciliana presso la corte aragonese, il messinese Pandolfo di Falcone. In un’arringa in cui è prevalente il motivo polemico nei confronti del re aragonese, Giacomo II, che si è lasciato troppo facilmente persuadere alla pace non considerando adeguatamente tanto l’inganno soggiacente alla pace stessa quanto pure la sorte dei Siciliani, Pandolfo di Falcone mette bene in evidenza come, in Sicilia, si fosse posto il problema del gioco politico di Giacomo. Salvaguardare l’autonomia dell’Isola e allo stesso tempo garantirne la difesa erano pertanto le due massime preoccupazioni che i Siciliani individuavano e che quindi esponevano nell’ambasceria6. La soluzione politica prospettata da Bartolomeo di Neocastro per bocca di Pandolfo di Falcone è molto chiara: essa prevede la designazione di Federico a re e la difesa militare della Sicilia, da affidare ancora così come lo era stato sino a quel momento all’ammiraglio della flotta siculocatalana, Ruggero di Lauria (1245/1250 ca - València 1305)7. Ad essere richiesti erano però anche l’intervento e il consenso di Giacomo; anzi, proprio costui doveva sentirsi in dovere di patrocinare la designazione regale di Federico sulla base di quella discendenza avita che dai Siciliani era parimenti riconosciuta, dopo di lui, anche all’Infante e che risaliva per mezzo di Costanza di Svevia alla famiglia dell’imperatore Federico II: tanto, dunque, i Siciliani – novelli figli dell’aquila8 – chiedevano e si aspettavano che Giacomo facesse a loro garanzia e tutela9. I resoconti delle cronache – è noto – non sono una completa testimonianza di verità, in quanto i cronisti scelgono i fatti che riportano e ne sono in primo luogo commentatori e giudici. Pertanto dietro l’immagine di un resoconto che viene presentato con un qualche gradiente 5 Bartholomaeus de Neocastro, Historia Sicula [A.A. 1250-1293], ed. G. Paladino, in Rerum Italicarum Scriptores, serie 2 (= R.I.S.2), XIII, Bologna 1921-1922, pp. 1-192. 6 Ivi, c. CXXIV, pp. 137-140. 7 Su Ruggero di Lauria, si veda A. Kiesewetter, Lauria, Ruggero di, in Dizionario biografico degli Italiani, 64, Roma 2005, pp. 98-103, nonché R. Lamboglia, Tessere documentali per l’identità dell’ammiraglio Ruggero di Lauria, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania» 77, 2011, pp. 15-54. 8 Bartholomaeus de Neocastro, Historia Sicula, c. CXXIV, p. 138. 9 Ivi, pp. 139-140. 124 Rosanna Lamboglia di ufficialità, c’è sempre il nesso tra fatti narrati e modo in cui vengono narrati: esso è in un certo qual modo rivelativo della parzialità della cronaca, almeno nella misura in cui questa veicola la cultura, l’inclinazione politica e il sentimento d’appartenenza propri di chi queste narrazioni ha redatto. Se dunque vale ancora il monito di Gina Fasoli secondo cui le cronache «a saperle leggere con quello che dicono e con quello che non dicono, raccontano moltissime cose»10, anche l’improbabilità dell’arringa di Pandolfo consente di cogliere gli aspetti propri del problema che una eventuale trattativa di pace avrebbe comportato per i Siciliani. E questo è tanto più prezioso, quanto più conciso ed essenziale è invece il resoconto che, relativamente alle stesse vicende, offre l’altro cronista sincrono, Nicolò Speciale11. Nella Historia Sicula di Nicolò Speciale, a prendere l’iniziativa dell’ambasceria alla corte catalana è la regina Costanza di Svevia che, dalla Sicilia e nel 1295, chiede al figlio Giacomo chiarimenti non più sulle trattative di pace di papa Niccolò, bensì su quelle che il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, aveva posto in essere con gli accordi di Anagni12. È in Nicolò Speciale, dunque, che l’elezione di Federico si determina come deroga e rifiuto della pace di fatto stipulata, nel giugno del 1295 ad Anagni13, tra Giacomo II, papa Bonifacio e l’angioino Carlo II; e tale 10 G. Fasoli, Cronache medievali di Sicilia. Note d’orientamento, cur. O. Capitani - F. Bocchi, Bologna 1995. p. 4; il saggio apparve dapprima in rivista col titolo Cronache medievali di Sicilia, «Siculorum Gymnasium» n. s. 2, 1949, pp. 186-241; poi come volume, Catania 1950. 11 Per un profilo biografico del Cronista, si rinvia a G. Ferraù, Nicolò Speciale. Storico del Regnum Siciliae, Palermo 1974, pp. 17-32 e a V. Labate, Un precursore siciliano dell’Umanesimo. Niccolò Speciale, Acireale 1898 [ma estratto dagli «Atti e Rendiconti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti degli Zelanti e PP. dello Studio di Acireale» 9, 1897-1898, pp. 1-22]. 12 Nicolaus Specialis, Historia Sicula ab anno MCCLXXXII ad annum MCCCXXXVII, in Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, ed. R. Gregorio, I, Palermo 1791, l. II, c. XXII, pp. 349-350: 350. 13 In proposito, cfr. V. Salavert y Roca, El tratado de Anagni y la expansión mediterránea de la Corona de Aragón, Zaragoza 1952 [ma estratto da «Estudios de Etad Media de la Corona de Aragón» 5, 1952, pp. 209-360], e Id., La pretendida ‘traición’ de Jaime II de Aragón contra Sicilia y los sicilianos, «Estudios de Edad Media de la Corona de Aragón» 7, 1962, pp. 599-622, nonché, da ultimo, P. Corrao, Il nodo mediterraneo: Corona d’Aragona e Sicilia nella politica di Bonifacio VIII, in Bonifacio VIII. Atti del XXXIX Convegno storico internazionale (Todi 13-16 ottobre 2002), Spoleto 2003, pp. 145-170. Per le vicende d’insieme e particolari della guerra del Vespro siciliano, si rinvia all’opera ancora oggi fondamentale di M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, cur. F. Giunta, Palermo 1969 (della quale esiste una nuova edizione con introduzione di M. Moretti, Roma 2003) e per Aspetti della guerra del vespro 125 determinazione il Cronista enuncia sempre più chiaramente dal XXII al XXV capitolo dell’Historia14. Nel mezzo – e, nella fattispecie, nel cap. XXIII – Nicolò Speciale riferisce che fu proprio Ruggero di Lauria insieme a Vinciguerra di Palizzi a veicolare in maniera determinante l’acclamazione di Federico a re di Sicilia, avvenuta all’interno di un generale colloquium, a Catania, il 15 gennaio 129615. La narrazione è anche ricca di particolari a riguardo, poiché afferma che alla designazione si procede al termine di un’orazione di Ruggero di Lauria, nella quale l’Ammiraglio, primum orans, prendendo cioè la parola per primo, aveva indicato la soluzione politica dell’incoronazione dell’Infante. E vi si procede “legittimamente”, in quanto Federico è detto substitutus ex testamento patris16 e dopo che chiari erano risultati gli intendimenti di Giacomo17. Nel prosieguo del racconto, sono ancora gli stessi Ruggero di Lauria, Vinciguerra di Palizzi e altri Siciliani a ricusare l’ambasceria che Bonifacio VIII aveva poi sollecitamente inviato in Sicilia per ricondurre tutti a più miti propositi18. Su questi fatti, una lettura integrata dei cronisti Bartolomeo di Neocastro e Nicolò Speciale mette ben in evidenza la prospettiva dei un quadro più generale a S. Runciman, I Vespri siciliani. Storia del mondo mediterraneo alla fine del tredicesimo secolo, Milano 1976 (ed. or. London 1958). 14 Cfr. più dettagliatamente infra, nelle pp. seguenti. 15 Sul passo, va però segnalato che a parlare di un intervento specifico di Ruggero di Lauria è solamente la cronaca di Nicolò Speciale. Diversamente accade nella cronaca del catalano Ramon Muntaner, dove il medesimo ruolo è assunto invece da Giovanni da Procida. In merito, cfr. Ramon Muntaner, Crònica, in Jaume I - Bernat Desclot - Ramon Muntaner - Pere III, Les quatre grans cròniques, ed. F. Soldevila, Barcelona 1971, pp. 665-1000: c. 185, pp. 832-833. Sulla data dell’incoronazione di Federico, tutti concordano su quella che, dopo i cronisti Nicolò Speciale (cfr. Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. I, pp. 354-355: 354) e il cosiddetto Anonimo palermitano del Chronicon Siculum (cfr. Chronicon Siculum, in Bibliotheca Scriptorum, II, c. LVI, pp. 168-171: 171), generalmente si indica (cfr. Amari, La guerra del Vespro, I, p. 491; Kiesewetter, Lauria, p. 101; D’Alessandro, Un re per un nuovo Regno, p. 21 et al.); solo il Runciman, I Vespri siciliani, p. 353, scrive che l’incoronazione avvenne il 12 dicembre, a Palermo. Quanto al Chronicon Siculum, c’è da aggiungere che è in fase di definizione l’edizione critica Cronica Sicilie, cur. P. Colletta, in Rerum Italicarum Scriptores, serie 3 (= R.I.S.3), di cui è stato però recentemente anticipato uno studio preparatorio: cfr. P. Colletta, Storia, cultura e propaganda nel Regno di Sicilia nella prima metà del XVI secolo: la Cronica Sicilie, Roma 2011. In attesa del nuovo testo, la Cronaca continuerà qui ed essere indicata ancora con il titolo e l’edizione licenziati da Rosario Gregorio. 16 Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXIII, p. 351. 17 Ivi, l. II, c. XXII, p. 350. 18 Ivi, l. II, c. XXIV, p. 352. 126 Rosanna Lamboglia Siciliani e fa comprendere anche più a fondo la serie di attestazioni documentali di cui si dirà in seguito. Ed è abbastanza singolare che per far ciò si scelga un protagonista della storia militare del Vespro, Ruggero di Lauria, che molto deve in termini negativi alla vulgata storiografica di matrice sicilianista e nella cui definizione molta parte hanno avuto anche le vicende che principiarono con l’acclamazione di Federico. La figura di Ruggero di Lauria e i documenti che a lui si riferiscono offrono infatti un’insolita chiave di lettura delle diverse linee politiche alla base dal trattato di Anagni. In particolare, sono i rapporti che l’Ammiraglio intrattiene nel biennio 1296-98 con Federico d’Aragona, Giacomo II e Bonifacio VIII a chiarire come un quadro politico assai nebuloso e ambiguo per l’interferenza dei ruoli mano a mano si dipani sotto i colpi dei vincoli vecchi e nuovi, che la politica riesce a cementare. Abbastanza nota è la vulgata storiografica attorno all’ammiraglio Ruggero di Lauria: essa ne ha fatto spesso una figura controversa e contraddittoria, in quanto al Lauria vengono parimenti attribuiti tanto la fama conquistata sul campo di battaglia, cui però fin da subito si legò una coloritura negativa – quella cioè di un personaggio sanguinario ed efferato – quanto l’abominio del tradimento di cui lo tacciava tutta una tradizione storiografica che dal cronista Speciale risaliva sino all’Amari, per il supposto cambiamento di fronte nella quaestio Siculorum19. In proposito, non si tratta di ripercorrere i termini di una vulgata che non ci porterebbe molto lontano lungo la strada sempre impervia delle contrapposizioni, bensì di considerare l’intero frangente dal punto di vista dell’implicazione dei ruoli. In tal senso, giova rilevare come la posizione di Ruggero di Lauria nelle vicende del Vespro sia più volte ambivalente: egli è infatti prima vassallo dei re aragonesi – Pietro il Grande, Alfonso il Liberale e Giacomo II, nel doppio ruolo di re d’Aragona e di Sicilia – in ragione di una signoria territoriale nel Regno di Valenza costituitasi a cominciare dai tempi di Giacomo I, ma è anche vassallo, oltre che di Giacomo II, pure dell’infante Federico nel periodo della luogotenenza e come re dal 1296, possedendo l’Ammiraglio castelli e terre, nel distretto di Messina20. Ruggero di Lauria è però anche comandante della flotta 19 R. Lamboglia, Sedimentazioni storiografiche a proposito della figura dell’ammiraglio Ruggero di Lauria, «Leukanikà. Rivista lucana di varia cultura» 7/4, 2007, pp. 44-50. 20 Documenti relativi all’epoca del Vespro, tratti dai manoscritti di Domenico Schiavo della Biblioteca Comunale di Palermo, cur. I. Mirazita, presentazione di F. Giunta, Palermo 1983, pp. 41-42, doc. 57. I possedimenti di Ruggero di Lauria, in Sicilia, si desumono oltre che dalle indicazioni isolate e sparse dei cronisti Bartolomeo di Neocastro e Nicolò Speciale anche da quanto il settecentesco Domenico Schiavo annotò nei volumi dei suoi “Diplomata”, che raccoglievano trascrizioni e transunti di documenti, frutto dei propri Aspetti della guerra del vespro 127 siculo-aragonese per la designazione di Pietro III21 del 1283, e continua ad esserlo, dopo la riconferma nel ruolo da parte di Alfonso III22, per tutto il periodo a seguire sino a buona parte del 1296, anche cioé nella Sicilia del nuovo re, Federico III. Alla luce di tale interferenza di ruoli, non è dunque secondario considerare la posizione di Ruggero di Lauria in relazione alla pace di Anagni. Certo è che prima che venisse stipulata, Ruggero aveva accompagnato Federico ad un convegno con papa Bonifacio presso Velletri23 il 30 maggio 1295 e a Bonifacio aveva dichiarato l’improponibilità della questione della restituzione della Sicilia alla Chiesa. Con il successivo interessi e ricerche. Per gli aspetti e le vicende dei feudi e dei castelli nel Regno di Valenza e in quello di Sicilia, per le attestazioni documentali e le vertenze giudiziarie relative, una ricostruzione è nella tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria (vd. supra, nota n. 2). 21 Archivo de la Corona d’Aragón (e da ora ACA), Real Cancillería, Registros (da ora RC, Reg.) 54, f. 227r (Messina, 20 aprile [1283]), ma molte sono le edizioni che trascrivono il documento. In merito, cfr. M. J. Quintana, Apendices a la vida de Roger de Lauria, in Id., Vidas de los españoles célebres, Madrid 1922, (1a ed. Madrid 1807-1833), I, pp. 201-215: 203-204, doc. I (senza però indicazione di Registro e di foglio) e il De rebus Regni Siciliae (9 settembre 1282-26 agosto 1283), Documenti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona e pubblicati dalla Sovrintendenza agli Archivi della Sicilia, cur. [I. Carini] - G. Silvestri, Palermo 1882-1893 (rist. con premessa di E. Mazzarese Fardella, Palermo 1982), pp. 617-618, doc. DCXC (la cui edizione, però, trascrivendo integralmente i Regg. 53 e 54, omette sempre l’indicazione dei fogli). Citano ancora il documento F. De Bofarull y Sans, Antigua marina catalana, Barcelona 1898, p. 66, doc. 5, e R. P. L. Fullana [Mira], La Casa de Lauria en el Reino de Valencia, in III Congreso de historia de Corona de Aragón. Dedicado al periodo comprendido entre la muerte de Jaime I y la procamación del Rey Don Fernando de Antequera, Valencia 1923, p. 87, nota n. 1 (ma trascrizione parziale e con errore nell’indicazione del Registro e del foglio), mentre un traslato è in La Mantia, Codice diplomatico dei re aragonesi, I, p. 545, doc. CCXXII, corretto rispetto a A. De Huici, Las cuentas de Roger di Lauria, «Revista del Centro de Estudios historicos de Granata y su Reino» 4, 1914, pp. 57-66, 149-156, 261-268, 369-372 (volume anche in edizione fac-simile, Granada 1992): pp. 5758, e più convincente sulla lezione similiter concedimus per scilicet concedimus dello stesso Carini, nel De rebus Regni Siciliae. 22 ACA, RC, Reg. 65, ff. 1r-1v (Maiorca, 25 novembre 1285; due documenti sul foglio e con lacune ai margini restaurati). Il primo dei due documenti è in parte trascritto in Fullana, La Casa de Lauria en el Reino de Valencia, p. 87, nota n. 2, ma con indicazione erronea del Registro. Dell’agosto 1287, è poi anche la carta in cui Alfonso III conferma il Regno di Sicilia all’infante Giacomo e nella quale Ruggero di Lauria è nominato ammiraglio d’Aragona e di Sicilia: ACA, RC, Pergaminos (e da ora P) di Alfonso II/III, carpeta (= crp.) 120, n. 151 (con rubrica al verso). La prassi amministrativa prevede però la designazione di vice-ammiragli che assolvono funzioni ad interim in Catalogna, durante cioè l’assenza del Lauria: ACA, RC, Reg. 78, f. 4r (12 luglio 1288). 23 Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXI, pp. 348-349, indica come luogo del convegno Velletri. Sull’incontro, anche il Chronicon Siculum, c. LIII, pp. 163-164. A riportare Valmontone come luogo dell’appuntamento è invece Kiesewetter, Lauria, p. 101. 128 Rosanna Lamboglia patrocinio nella designazione regale di Federico, Ruggero contribuì di suo a implementare l’ambivalenza del proprio ruolo per la quale egli ritornava ad essere al servizio di due padroni e signori, così come lo era stato una prima volta già ai tempi del regno di Alfonso III d’Aragona e dell’infante Giacomo, re di Sicilia. Nel primo trimestre del 1296, con Giacomo II, re d’Aragona e Federico III, re di Sicilia, restavano infatti immutati tanto la magistratura di ammiraglio, quanto pure i possedimenti al di là e al di qua dell’isola di Sicilia e nel Regno di Valenza. Né minore ambivalenza del resto c’era in Giacomo II, mantenendo egli le due Corone – quella aragonese e quella siciliana – e agendo, assunto il trono maggiore, sempre più in qualità di re d’Aragona e sempre meno come re di Sicilia24. Nel frangente particolare, Giacomo era soprattutto un re che si cimentava, a casa propria, nella campagna per la ri-conquista del Regno di Murcia (1296-1304)25. Strette tra il Regno di Valenza a nord ed il Regno di Granada a sud, le terre murciane erano dal 1243 distretto giurisdizionale e territoriale della Corona di Castiglia-León per le vicende pregresse della reconquista e poi anche grazie all’aiuto catalano-aragonese dell’infante Pietro d’Aragona nella cosiddetta guerra di Murcia (12651266). La decisione di Giacomo II di iniziare una nuova campagna, convinto in principio di avere il Regno murciano senza troppa fatica in cambio del sostegno che egli poteva offrire al candidato usurpatore Alfonso de la Cerda26, portò la Corona d’Aragona a un duro e lungo confronto con la Castiglia, per il quale vennero mobilitate tutte le forze della compagine catalano-aragonese27. 24 Cfr., in proposito, Tramontana, Soluzione catalana del Vespro, in Id., Gli anni del Vespro. L’immaginario, la cronaca, la storia, Bari 1989, pp. 183-228: 212-218. 25 In merito, si rimanda al conciso capitolo di M. T. Ferrer Mallol, La guerra con Castilla de 1296-1304. La conquista del Reino de Murcia por Jaime II, in Ead., Entre la paz y la guerra. La Corona catalano-aragonesa y Castilla en la baja Etad Media, Barcelona 2005, pp. 27-160. Sul frangente, si veda, altresì, il capitolo di A. Masiá De Ros, Jaime II y Fernando IV, in Id., Relación castellano-aragonesa desde Jaime II a Pedro el Ceremonioso, Barcelona 1994, I, pp. 53-188: 53-126. 26 Qualche anno prima, in Castiglia-León, la morte del re Sancho IV aveva creato una situazione di vacanza del trono per via della minorità dell’infante, poi futuro Fernando IV di Castiglia (1295-1312), considerato illegittimo. A Jaca, nel settembre del 1288, Alfonso III di Aragona aveva infatti organizzato la proclamazione di Alfonso de la Cerda a re di Castiglia, portando già a quell’epoca i due Regni di Castiglia-León e di Aragona ad una guerra di frontiera, con diverse battaglie tra il 1289, il 1290 e il 1291. 27 In proposito, si vedano: L. Klüpfel, El règim de la Confederaciò catalano-aragonesa a finals del segle XIII, «Revista Juridica de Cataluña» 35, 1929, e 36, 1939, rispettivamente, pp. 34-40, 195-226, 289-327 e pp. 18-37, 97-135, 298-311; J. Lalinde Abadia, Las Aspetti della guerra del vespro 129 Ruggero di Lauria non era all’oscuro delle operazioni di guerra avviate da Giacomo nella penisola iberica, ma rimanendo di stanza in Sicilia non partecipava di persona alla campagna murciana. Egli non faceva però mancare, da buon vassallo e da buon ufficiale, il suo appoggio, che fu opportunamente garantito dal procuratore di Ruggero, Giacomo di Guardia28, preposto alla cura degli interessi nel Regno di Valenza e, in generale, a tutte le faccende a cui il Lauria, assorbito dalle campagne militari siciliane, non poteva provvedere. A Giacomo di Guardia, Giacomo II, impegnato nell’assedio di Oriola, chiese infatti un primo aiuto secondo quanto stabilito precedentemente nei fogli di contribuzione – sostanzialmente l’invio degli uomini di Cocentaina e di tutti gli altri castelli e terre dell’Ammiraglio29 – e successivamente anche una serie di richieste di vettovagliamento per la conduzione delle operazioni di guerra murciane30. institutiones de la Corona d’Aragon en el Mediterraneo del “Vespro” (1276-1337), in La società mediterranea all’epoca del Vespro, I, Palermo 1983, pp. 143-166; L. Gonzales Anton, Las Uniones Aragonesas y las Cortes del Reino (1283-1301), Zaragoza 1975, I, o anche, in più agile volumetto, Id., Las Cortes de Aragon, Zaragoza 1978, pp. 43-93; P. Corrao, Stati regionali e apparati burocratici nella Corona d’Aragona (secc. XIV-XV), in XVIII Congrés Internacional d’Història de la Corona d’Aragó: La Mediterrània de la Corona d’Aragó. Segles XIII-XVI & VII Centenari de la Sentència Arbitral de Torrellas, 1304-2004 (València, 9-14 setembre 2004), I, València 2005, pp. 99-144, e Id., Celebrazione dinastica e costruzione del consenso nella Corona d’Aragona, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Relazioni tenute al convegno internazionale organizzato dal Comitato di Studi storici di Trieste, dall’École française de Rome e dal Dipartimento di storia dell’Università degli studi di Trieste (Trieste, 2-5 marzo 1993), cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 133-156: 137-142 e 152-155. 28 Su Giacomo di Guardia, amministratore dei beni di Ruggero di Lauria, si rimanda alla tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria. 29 ACA, RC, Reg. 340, f. 20r (6 maggio 1296). Altra convocazione, fatta ancora a Giacomo de Guardia, è al f. 224v. 30 Qui, a titolo esemplare, alcuni documenti delle richieste reali al procuratore di Ruggero di Lauria, Giacomo di Guardia, estratti dal Registro 340 del regno di Giacomo II, un registro tematico aperto dalla Cancelleria reale per la campagna di Murcia e che raccoglie la quasi totalità dei dispacci e della documentazione emessa nel 1296 e nel periodo compreso tra il 1304 e il 1323: ACA, RC, Reg. 340, f. 44r; f. 51r (28 aprile 1296; sul foglio due documenti: il primo, inviato a Giacomo di Santa Croce, il secondo all’alcalde del castello di Alicante, Raimondo di Urgio; concernono entrambi il trasferimento di alcuni modii di grano nel castello di Alicante); f. 51v (27 aprile 1296: documento relativo alla richiesta di invio di altri viveri); f. 53v (11 maggio 1296: direttive relative ad un quantitativo di mucche); f. 70r (16 maggio 1296, ma data al precedente f. 69v: documento concernente comunicazioni varie). 130 Rosanna Lamboglia L’acclamazione di Federico d’Aragona e la successiva coronazione cadevano dunque proprio nel mezzo della campagna murciana e con Giacomo lontano dalla Sicilia. È legittimo pertanto pensare che tanto Ruggero di Lauria, quanto gli ambienti siciliani, sia vicini alla corte sia municipali, si sentissero investiti di un ruolo politico almeno nelle faccende che ancora li coinvolgevano con gli Angioini31. Probabilmente è la consapevolezza di questo ruolo politico a far prevalere la soluzione del tutto interna all’Isola di opporsi fermamente a un ritorno sotto i Napoletani. A riguardo, molto esplicito è l’Anonimo autore del Chronicon Siculum, il quale mette ben in evidenza come l’Infante si presentasse quale interprete delle aspirazioni siciliane di autonomia. Tale è infatti il senso dei due inserti documentari che al frangente si riferiscono: il primo, concernente la lettera che la città di Palermo aveva inviato a Federico e nella quale si sconsigliava recisamente che l’Infante si recasse al colloquio richiesto da Bonifacio VIII32; il secondo relativo, invece, alla lettera che l’Infante stesso aveva fatto pervenire all’universitas di Paternò, circa l’elezione dei sindaci che avrebbero preso parte al generale colloquium di Catania33. Un peso non secondario deve poi aver avuto anche la considerazione della perdita di tutte le terre continentali conquistate qualora vi fosse stato un ritorno sotto gli Angioini, né meno giustificato era il timore della reazione francese che ancora avrebbero dovuto aspettarsi i Siciliani34. Questa stessa consapevolezza di esercitare un ruolo politico nella guerra siciliana deve pertanto aver indotto tanto Ruggero di Lauria, 31 Questo è quanto lascia intuire il cronista Nicolò Speciale nel capitolo conclusivo del II libro della sua Historia, relativo all’arringa di Blasco d’Alagona agli altri Catalani rimasti in Sicilia. Ancor più chiaramente che nei capitoli precedenti, viene ribadita la legittimità di Federico III, il quale è dichiarato heres per testamentum in Regno Sicilie substitutus. Più oltre, è quindi esplicitamente affermato: «quod Jacobus Rex Aragonum in hac parte [sc. Regno Sicilie] non tangitur; quia constat, ex quo testamento patris consentiens Aragonum sceptra suscepit, nihil ad eum de Regno Sicilie pertinere, ac etiam, si quod ius habeat in illo, iam Karolo Regi ex tractatu pacis, quam inter eos apostolica sedes composuit, publice renuisse», in Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXV, pp. 352353. La stessa linea ribadisce l’Anonimo palermitano per il quale Giacomo II è: «Regnum et dominium dicti Regni et insulae Siciliae, quod tenebat, et ipsam Insulam dimisit, et cessit Romanae Ecclesiae», in Chronicon Siculum, c. LI, p. 162. 32 Ivi, c. LIII, pp. 165-168; cfr. anche Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XXI, pp. 348-349. 33 Chronicon Siculum, c. LIV, pp. 168-171. 34 Amari, La guerra del Vespro, I, p. 505. Aspetti della guerra del vespro 131 quanto i Siciliani a non considerare la nuova elezione come dissonante e dissenziente rispetto alla politica di Giacomo dell’accordo di Anagni. A riguardo, infatti, molto diversa era la prospettiva del Sovrano, la stessa cioè che aveva portato alle trattative di pace, mediante un processo lento e graduale, ma in buona misura maturato anche all’interno delle scelte politiche della Corona d’Aragona35. In una prospettiva che guardava ormai non più solamente alla Sicilia, bensì a tutti i Regni della Corona36, il trattato costituiva una svolta nella politica mediterranea di Giacomo, in quanto apriva nuovi spazi d’azione nel Mediterraneo occidentale e creava al medesimo tempo un avvicinamento decisivo tra il Sovrano e Bonifacio VIII37: avvicinamento peraltro ritenuto necessario anche per la felice conduzione delle operazioni nella penisola iberica. In secondo luogo, la Sardegna e la Corsica potevano ben costituire una congrua contropartita per la cessione della Sicilia38. L’elezione dell’infante Federico pertanto scompaginava soprattutto la politica di Giacomo, oltre che una delle principali clausole di Anagni. In proposito, il resoconto delle cronache sia siciliane, sia catalane non riferisce di un Giacomo particolarmente propenso all’elezione di Federico. Né sembra totalmente convincente l’opinione storiografica che, sulla base delle vicende successive, ha individuato una sorta di connivenza di Giacomo con Federico e per la quale il primo finiva col sostenere il fratello dilazionando quanto più possibile la campagna militare promessa a papa Bonifacio39 e nonostante vi fosse stata l’investitura di gonfaloniere e capitano generale della Chiesa40. Alcune 35 L’importanza della pace fu immediatamente evidente agli storici catalani, i quali, ancora prima dello studio di V. Salavert y Roca (vd. supra, nota n. 13), avevano cominciato a considerarla anche da un punto di vista dei risvolti economici per la mercatura catalana. Cfr. A. De Capmany, Memorias historicas sobre la marina, commercio y artes de la antigua ciudad de Barcelona, Madrid 1779-1792 (ma si cita dalla rist. Barcelona 2001), IV, pp. 21-25. 36 Su questo punto anche Tramontana, Soluzione catalana del Vespro, pp. 212-218. 37 In proposito, cfr. Salavert y Roca, El tratado de Anagni, pp. 210, 275-276 e 278. 38 Sulla questione, già F. Giunta, Ferrer de Abella e i rapporti tra Giacomo II e Giovanni XXII, in Studi medievali in onore di Antonino De Stefano, Palermo 1956, pp. 231-262: 231 (rist. in Id., Uomini e cose del Medioevo mediterraneo, Palermo 1964, pp. 167-220), M. Del Treppo, L’espansione catalano-aragonese nel Mediterraneo, in Nuove questioni di storia medievale, Milano 1964, pp. 259-300: 270, e Tramontana, Soluzione catalana del Vespro, pp. 213-214. 39 Su questi aspetti della guerra del Vespro, si veda l’introduzione a Acta SiculoAragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, cur. F. Giunta - A. Giuffrida, Palermo 1972, pp. 9-13. 40 ACA, Butlles, lligall 20, n. 2. Bolla papale Redemptor mundi del 20 gennaio 1297, già in A. Potthast, Regesta pontificum Romanorum inde ab anno post Christum natum 1198 ad annum 132 Rosanna Lamboglia evidenze documentali che mettono in relazione il contesto siciliano con le riprese del conflitto murciano sembrano infatti offrire ulteriori e più concreti motivi di plausibilità all’atteggiamento di Giacomo41. Nella prospettiva politica della Corona d’Aragona e con Federico re, era dunque necessario distrarre Ruggero di Lauria dal partito dei Siciliani. In questa direzione, va sicuramente intesa la lettera di rassicurazione che Giacomo II fa pervenire a Carlo II d’Angiò e nella quale è riferito dell’invio di un certo Galcerán di Monteliu a Ruggero per portarlo dalla loro parte42. In questo senso, più previdente di Giacomo era stato papa Bonifacio, il quale da Anagni, già l’11 agosto del 1295 – e quindi immediatamente dopo la firma del trattato – tramite il frate Bonifacio di Calamandrano, aveva formalmente insignito Ruggero delle isole di Gerba e di Cercina (Kerkennah) sia pure prevedendo il pagamento di un censo annuo alla Santa Sede43 e nonostante quelle fossero terre di conquista, che il Lauria aveva precedentemente ottenuto dai sovrani aragonesi44. Di fatto né prima, né dopo la designazione di Federico, i rapporti di Ruggero di Lauria con Giacomo avevano subito incrinature, poiché a metà del 1296 continuavano ancora i traffici delle salme di frumento e il trasporto su navi che l’Ammiraglio faceva tra la Sicilia e la Catalogna, come rifornimento e aiuto nella campagna di guerra murciana45. Né per tutto il periodo a cominciare dall’elezione di Federico, Ruggero di Lauria aveva cessato di essere anche l’ufficiale di Giacomo, poiché proprio alla Corona maggiore l’Ammiraglio, il 24 settembre 1296, presentò i conti dell’armata coinvolta nelle operazioni militari siciliane46. 1304, Berolini 1974-1875, II, p. 1957, doc. 24460. In merito, però, cfr. anche ACA, RC, Reg. 24, f. 97v, e Les Registres de Boniface VIII (1294-1303), edd. G. Digard - M. Faucon - A. Thomas - R. Fawtier, Paris 1884-1939 (da ora in poi RB), I, p. 926, doc. 2337. 41 Cfr. in proposito R. Lamboglia, Aspetti della guerra del Vespro: la svolta del 1300 nella prospettiva di Giacomo II d’Aragona e di Ruggero di Lauria, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», in corso di stampa. 42 ACA, Reg. 340, f. 138v (9 giugno 1296). 43 RB, I, doc. n. 811, pp. 272-273, ma il documento è trascritto anche in C. Tutini, Discorso de’ Sette Offici o’ vero de Sette Grandi del Regno di Napoli, Roma 1666, p. 89, con data al fondo indicante il 30 agosto 1295, forse come esito di confusione tra idus e nonae. Per il frangente, si veda Amari, La guerra del Vespro, I, p. 475-477 e anche Kiesewetter, Lauria, p. 101. 44 In proposito, si rimanda ancora alla tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria. 45 ACA, Reg. 340, f. 157v-158r (14 giugno 1296). 46 Archivo de la Catedral de Valencia (e da ora ACV), Pergaminos (e da ora P), n. 737. Precedenti rendicontazioni il Lauria le aveva presentate il 7 novembre 1294 (ACV, P, n. 738), l’11 marzo 1291 (ACV, P, n. 1253), il 14 luglio 1288 (ACV, P, n. 9411) e il 27 luglio 1284 (ACV, P, n. 713). Le valutazioni che dalle carte di conti si possono dedurre Aspetti della guerra del vespro 133 Già a metà dello stesso anno, principiarono invece i motivi di dissenso tra re Federico e Ruggero di Lauria, il quale – secondo il racconto cronachistico – era pur stato tra i principali sostenitori del nuovo sovrano. Non si conoscono, a riguardo, gli elementi reali del contrasto se non appunto quanto emerge dalla cronaca di Nicolò Speciale, ma si può ipotizzare che questi fossero in qualche misura legati al ruolo di Ruggero stesso, o meglio al ruolo che quest’ultimo sperava di poter esercitare in relazione alla politica di Federico. Probabilmente, l’Ammiraglio riteneva di poterla influenzare e dirigere secondo i propri piani, secondo cioè la comprensione che egli aveva della situazione siciliana ma all’interno di un contesto che non poteva non considerare anche la Corona d’Aragona. Federico, al contrario, mostrò una più decisa volontà politica e la ferma intenzione di emanciparsi dai consiglieri che aveva avuto accanto sino a quel momento. A riguardo e con riferimento a vicende politicomilitari specifiche, la cronaca di Nicolò Speciale riferisce del ruolo sempre più comprimario di Blasco d’Alagona, un nobile catalano, che aveva conseguito una certa preminenza nel corso del 129147 e titolare in Calabria dei beni sottratti a Enrico Ruffo di Sinopoli dopo la rivolta antiangioina di Catanzaro e la spartizione dei beni patrimoniali appartenuti ai Ruffo48. L’Alagona era stato quindi richiamato da Giacomo in Catalogna49, ma era poi dal 1293 rientrato in Sicilia dove, ancora secondo il cronista Speciale, risiedeva50. Proprio Blasco d’Alagona, in quegli anni, si era posto alla testa del baronaggio catalano-aragonese in Sicilia51, fomentando non poche discordie tra gli altri feudatari, ma al contempo per ciò che concerne la proficuità o meno della guerra sono ancora in Lamboglia, Ruggero di Lauria. Poiché la maggior parte delle pergamene valenzane relative al Lauria sono poco note o note solo in parte dai regesti di E. Olmos y Canalda, Pergaminos de la Catedral de Valencia, Valencia 1965, si ringrazia il direttore dell’Archivio della Cattedrale di Valenza, prof. Vicente Pons i Alós, per la cortesia che ha manifestato nella consultazione e digitalizzazione delle pergamene citate. 47 Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XVIII, p. 346. 48 Sull’attività di Blasco d’Alagona, si legga S. Fodale, La Calabria angioino-aragonese, in Storia della Calabria medievale. I quadri generali, cur. A. Placanica, Roma 2001, pp. 185262: 201. 49 Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. II, c. XVIII, p. 346. 50 Ivi, l. II, c. XXV, p. 352. 51 Sul baronaggio siciliano, si vedano F. Giunta, La presenza catalano-aragonese in Sicilia, in XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona: La Corona d’Aragona in Italia (secc. XIII-XVIII), Sassari - Alghero 19-24 maggio 1990, Relazioni, I, Sassari 1993, pp. 89111, V. D’Alessandro, Politica e società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963, P. Corrao, L’aristocrazia militare del primo Trecento: fra dominio e politica, in Federico III d’Aragona, re di Sicilia, pp. 81-108 (ma anche con variante del titolo: Fra dominio e politica: l’aristocrazia 134 Rosanna Lamboglia salendo in considerazione agli occhi di Federico e molto probabilmente superando lo stesso Ruggero di Lauria negli affari di corte e – come si vedrà – anche di guerra52. Ciononostante e fino al principio dell’estate del 1296, l’Ammiraglio è comunque di supporto alla campagna di Federico III. Questi infatti aveva ordinato al Lauria l’equipaggiamento della flotta e, dai primi di maggio, si era mosso alla volta di Reggio come risposta al trattato di Anagni e alla richiesta di Giacomo agli ufficiali aragonesi di consegnare le terre conquistate nella propaggine continentale del Regno53. In proposito, vi è da rimarcare però come Federico agisse con risolutezza anche ut ab agendis future invasionis hostium pro reintegrandis Regni finibus operam admoveret54. L’intervento dell’esercito aveva infatti prioritariamente lo scopo di mantenere salda la presenza siculo-aragonese in Calabria e di difenderla da future azioni nemiche. Nella circostanza, si optò per una strategia militare fatta prevalentemente di assedi via terra a cui l’armata guidata da Ruggero di Lauria offriva opportuno rinforzo. Sebbene la campagna militare avesse ottenuto un discreto successo poiché la città di Reggio votò subito la sua fedeltà a Federico e quella di Squillace lo fece dopo l’assedio da parte di Blasco d’Alagona e Matteo di Termini55, da quel punto in poi più incerta diventava l’impresa per la vicina contea di Catanzaro, controllata dal conte Pietro Ruffo. Il grosso dell’esercito siciliano di Federico, accampato nella località di Roccella di Squillace – luogo non molto distante da Catanzaro – aveva dunque due possibilità: o continuare a muovere l’assedio a Crotone, dove già vi era un reparto alla guida di Blasco d’Alagona, o muovere l’assalto a Catanzaro56. Circa la seconda opzione, il racconto di Nicolò Speciale mette bene in evidenza il parere contrario di Ruggero di Lauria, il quale espone una considerazione propria della strategia militare al consiglio di guerra che doveva deliberare in proposito. Per Ruggero, infatti, sarebbe stato meglio avanzare su Crotone, meno agguerrita e inespugnabile all’assalto, siciliana del XIV secolo), e E. I. Mineo, Nobiltà di stato. Famiglie e identità aristocratiche nel tardo medioevo. La Sicilia, Roma 2001. 52 Sull’avanzamento di posizioni di Blasco d’Alagona, si veda ancora il quadro riassuntivo-esplicativo in Fodale, La Calabria angioino-aragonese, p. 201. 53 Ramon Muntaner, Crònica, c. 184, p. 832. 54 Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. IV, p. 357. Tuttavia, già al termine del c. II, p. 356, si definisce l’azione militare contro Carlo II come bellum de restaurandis Regni finibus. 55 Alle operazioni militari aveva preso parte anche Ruggero di Lauria, che per ordine di Federico sopraggiunse sul luogo ad assedio già in corso. Cfr. ivi, l. III, c. V, p. 358. 56 Ivi, l. III, cc. VI-VII, pp. 359-363. Aspetti della guerra del vespro 135 piuttosto che affrontare Pietro Ruffo assuetus bellis et strenuus57 e le sue truppe. Alla fine, prevalse la linea dell’assedio a Catanzaro patrocinata invece dagli altri consiglieri di Federico III58. Essi infatti ritenevano cosa assai agevole espugnare il castello della città e per volgere il Sovrano al proprio partito non esitarono a condire la scelta strategica di Ruggero di Lauria di motivi personali e di parte, essendo l’Ammiraglio imparentato col conte Ruffo. Persuaso dunque da costoro, Federico ordinò l’assedio a Catanzaro e Ruggero di Lauria ubbidì ancora, assaltando le truppe di Pietro Ruffo, nella parte più accessibile della città – il castello – protetta unicamente da un fossato. Il passo della cronaca di Nicolò Speciale, a riguardo, è molto enfatico e mette in evidenza il ruolo di Ruggero di Lauria nella successiva stipula della tregua col Conte, costretto ad una resa sulla carta, qualora egli non avesse ricevuto nel termine ultimo di quaranta giorni aiuti militari da Carlo II. Gli attesi rinforzi non sopraggiunsero e Federico, senza colpo ferire, ottenne la resa dell’avversario e, al contempo, dopo l’insediamento a Catanzaro, anche un avanzamento significativo delle posizioni sul fronte settentrionale mediante la conquista dei centri di Santa Severina e Rossano. Intanto, Ruggero di Lauria partecipava con una parte della flotta, insieme al frate Arnaldo da Pons, ad una rapida incursione in soccorso di Rocca Imperiale59, assediata nel luglio, da Giovanni di Montfort60, capitano generale di Carlo II. Ruggero di Lauria seppe del mancato rispetto della tregua da lui precedentemente stipulata con Pietro Ruffo, avendo – pare – re Federico approfittato di una scaramuccia tra Angioini e Crotronesi, per rinnovare le ostilità e prendere manu militari la città61. Se però, al momento, la faccenda lo aveva oltremodo indispettito, tanto da indurlo a rassegnare 57 Ivi, l. III, c. VI, p. 359. In proposito, Nicolò Speciale lascia intuire che non si tratta di volontà unanime del consiglio, bensì del parere prioritario di alcuni che possiamo ritenere particolarmente vicini a Federico, ai quali però non obiettano gli altri. Essa è pertanto solo apparentemente unanime: «Aliqui vero tacite mussitantes, immurmurant, veruntamen in contrarium non prorumpunt. Optant omnes Catanczarium attentari, sed verentur, ne si eorum consilio in contrarium ageretur, neque contingeret de civitate victoria, mordax ispius admirati iactantia contra universum consilium suo more garriret», ivi, l. III, c. VI, pp. 359-360. 59 Ivi, l. III, c. VII, pp. 362-362. Dopo aver marciato su Crotone, proseguendo lungo il versante ionico, il grosso dell’esercito si trovava a Rocca Imperiale, a Nord di Porta Roseto, il tradizionale confine della Calabria amministrativa. 60 Ivi, l. III, cc. VII e IX, rispettivamente, pp. 362-363: 362 e p. 367. 61 Ivi, l. III, c. VIII, pp. 363-367: 364. 58 136 Rosanna Lamboglia – racconta ancora enfaticamente il Cronista – le dimissioni dal proprio incarico di ammiraglio62, egli mosse tuttavia insieme a Federico alla volta della già menzionata conquista di Rocca Imperiale63, cui si aggiunsero – come si diceva – anche quelle di Santa Severina64, di Rossano e delle terre limitrofe del Val di Crati65. Con la resa di Catanzaro e degli altri territori, a cui fece seguito anche la minaccia di Giacomo e la scomunica papale, la campagna di Federico in Calabria terminò, preferendo questi tornarsene in Sicilia e lasciare Blasco d’Alagona come proprio luogotenente citra farum66. Su ordine di Federico, anche Ruggero di Lauria faceva ritorno in Sicilia67, ma solo dopo essersi spinto con parte della flotta in Adriatico, dove prima fece incursioni notturne nell’entroterra leccese sino ad Otranto68 e poi, a nord, tenne una fortunata azione intimidatoria nel porto di Brindisi69. Indubbiamente il solco che si stava cominciando a scavare tra Ruggero di Lauria e Federico III venne implementato dal rifiuto di quest’ultimo di partecipare al consesso voluto da Giacomo II – e patrocinato dalla Santa Sede70 –, nella primavera del successivo 1297 ad Ischia71, allo scopo di individuare una soluzione diplomatica alla defezione che in Sicilia si era determinata con l’elezione dell’Infante. Ruggero di Lauria era particolarmente propenso a che Federico partecipasse all’incontro, spinto – aggiunge significativamente il cronista Speciale – proprio dall’emissario di Giacomo72. In effetti, dopo l’ordine di far immediato 62 Ivi, l. III, c. VIII, p. 365. Ivi, l. III, c. IX, p. 367. 64 Ivi, l. III, c. X, pp. 367-368. 65 Ivi, l. III, c. XI, p. 368. Il racconto cronachistico lascia intendere che a nessuna di queste conquiste avesse preso parte Ruggero di Lauria, impegnato invece nel soccorso a Rocca Imperiale. In proposito, cfr. ancora ivi, l. III, c. XV, pp. 370-371: 370. 66 Ivi, l. III, c. XIV, p. 370. 67 Ivi, l. III, c. XVII, pp. 373-377: 373. 68 Ivi, l. III, c. XV, pp. 370-371. 69 Ivi, l. III, c. XVI, pp. 371-373. 70 In merito, vale la pena ricordare che sin dal gennaio 1296 papa Bonifacio premeva Giacomo affinché revocasse Federico da tutti i possedimenti continentali ed insulari del Regno: RB, I, pp. 289-290, docc. 856-857. 71 ACA, RC, Reg. 321, f. 59r (13 aprile 1297), ma trascritto anche in Acta Aragonensia. Quellen zur deutschen, italienischen, französischen, spanischen, zur Kirchen- und Kulturgeschicte aus der diplomatischen Korrespondenz Jaymes II. (1291-1327), ed. H. Finke, Berlin - Leipzig 19081922 (continuazione in «Spanische Forschungen» 4, 1933, e 8, 1938), I, p. 34, doc. 26. Ma, in proposito, cfr. anche Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. XII, p. 369. 72 Ivi, l. III, c. XVII, p. 374. 63 Aspetti della guerra del vespro 137 rientro in Sicilia, l’Ammiraglio molto si era adoperato per far mutare opinione a Federico e agli ambienti di corte poco favorevoli ad una trattativa con Giacomo II. A riguardo, difficile è determinare il giusto peso da dare alle parole del Cronista, altrettanto complesso è voler leggere tra le righe. Tuttavia, non è neppure lecito mettere in dubbio il passo, soprattutto se si presuppone quella implicazione di ruoli di cui era investito Ruggero di Lauria e per la quale il passo stesso troverebbe una sua fondata plausibilità. Occorre infatti considerare che l’idea di una Sicilia separata dalla Corona aragonese è soprattutto un’acquisizione storiografica mutuata sulla misura degli eventi successivi, piuttosto che una consapevolezza irrevocabile di coloro che agivano e vivevano il 1297. Pertanto si può ragionevolmente ritenere che Ruggero di Lauria non immaginasse ancora la Sicilia come definitivamente separata dalla Corona d’Aragona o a questa antagonista, così come per l’interferenza di ruoli fuorviante sarebbe pure porre la questione se dalla coronazione di Federico in poi e per tutto il tempo in cui, sino ad allora, l’Ammiraglio era stato alla testa della flotta egli avesse combattuto per l’Aragona o per la Sicilia. Il racconto cronachistico di Nicolò Speciale non lascia adito a dubbio circa i dissensi tra Ruggero di Lauria e Federico III, ma consente di intendere anche una loro progressiva incrinatura, culminata nella fin troppo nota e pittoresca scena della pubblica ricusazione del Sovrano dell’omaggio feudale di Ruggero73. In particolare, nella intera narrazione risulta evidente una dinamica per la quale il dissenso relativo alle operazioni militari fosse rientrato, poi, via via, ritorni accentuato, fino a culminare nella più ampia divergenza del consesso di Ischia, evidentemente manifesta agli ambienti di corte74. Quali che ne siano stati i motivi, i rapporti tra Ruggero di Lauria e re Federico rimasero tesi per ciò che ormai rimaneva del 1296, mentre sempre più rumorose si diffondevano alla corte siciliana le voci di un già avvenuto tradimento di Ruggero. Nella fattispecie, però, sia che quanto circolasse sul conto del Lauria fosse mera diceria, sia che si trattasse di notizia ufficiosa con fondo di verità per una scelta di campo già maturata, devono in ogni caso essere state incalzanti per Ruggero tanto la minaccia di Giacomo del 7 gennaio 1297 di revocargli tutti i feudi 73 Ivi, l. III, c. XIX, pp. 378-379: 378. Ivi, l. III, c. XVII, p. 374. In merito, cfr. anche Amari, La guerra del Vespro siciliano, I, p. 511, e A. Placanica, Storia della Calabria dall’Antichità ai nostri giorni, Roma 1999 (1a ed., Catanzaro 1993), p. 150 74 138 Rosanna Lamboglia nel Regno di Valenza75, quanto pure la convocazione del 16 gennaio 1297 a Roma, ritenuta – questa – oltremodo necessaria proprio da Giacomo76. Entrambe bastarono infatti sia a fomentare le dicerie stesse, sia a far pendere l’ago della bilancia circa l’opportunità di prendere parte all’incontro di Ischia e a determinare – come si vedrà – la partenza dalla Sicilia. Questa, però, non è da intendersi ancora come insanabile ed inderogabile rottura con Federico, poiché – a detta del cronista Speciale – Ruggero si offriva di curare gli interessi della Corona siciliana una volta giunto al cospetto di Giacomo, a Roma: «Rogerius ire desiderans, se curaturum Regis Friderici negotia offerebat»77. Tuttavia, il Lauria si preoccupava anche di munire il castrum Laurie, Badulati, et alia castra stipendiis, armis, frugibus, et alia rebus ad futura, que pronosticabantur bella, necessariis78, oltre che di designare il nipote Giovanni amministratore dei beni siciliani. Queste operazioni, che nella prospettiva di Ruggero di Lauria potevano essere intese come una ragionevole contromisura ad un incontro che l’Ammiraglio stesso poteva giudicare come foriero di nulla di buono, insospettirono invece Federico più del dovuto. Questi infatti – secondo ancora Nicolò Speciale – non poteva che intenderli come delle spie preliminari di un passaggio di Ruggero al fronte nemico79. Ciò spiegherebbe in maniera anche più congrua e plausibile il già accennato episodio cronachistico della ricusazione dell’omaggio feudale di re Federico a Ruggero di Lauria80. A margine del vivace racconto della cronaca, si può ancora ragionevolmente ritenere che l’Ammiraglio eseguisse nel frangente le direttive di Giacomo per quella interferenza di ruoli più volte in queste pagine ribadita, che si apprestasse pertanto a condurre la regina Costanza dalla Sicilia a Roma per finalizzare una delle clausole di Anagni81 e, nel frattempo, attendesse l’evolversi della situazione. Il 75 Lauria. Kiesewetter, Lauria, p. 102, ma anche tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di 76 ACA, RC, Reg. 321, f. 26v (16 gennaio 1297), ma trascritto in Acta Aragonensia, I, pp. 31-32, doc. 23. Il documento è datato «Romae XVII kalendas februarii anno Domini MCCXCVI». Su queste vicende, benché privo di data, è sempre utile il rimando al passo corrispondente in Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. XVIII, pp. 377-378: 377. 77 Ibid. 78 Ivi, l. III, c. XVIII, p. 378. 79 Ivi, l. III, c. XIX, pp. 378-379: 378. 80 Ibid. 81 La regina Costanza doveva infatti condurre a nozze la figlia Iolanda a Roma, secondo appunto quanto stabilito da uno dei capitoli della pace di Anagni, ma al contempo Aspetti della guerra del vespro 139 contrasto con Federico si sarebbe infatti potuto accomodare in futuro anche in considerazione degli sviluppi di una politica che, all’esterno, era solo marginalmente isolana. A sostegno di tale tesi vi è l’affermazione di Nicolò Speciale per la quale Ruggero bellum non movet82, sebbene nec quicquam de impetranda pace molitur83 e nonostante fosse stato dichiarato da Federico pubblico nemico84. Si può aggiungere a ciò anche il fatto che la destituzione di Ruggero di Lauria dai beni feudali in Sicilia e in Calabria avviene in seguito alla ribellione di Giovanni di Lauria a re Federico, quando cioè Ruggero è già da qualche settimana lontano dai possedimenti siciliani e, a rivolta in corso, è ancora sulla rotta di ritorno, alla volta della Sicilia85. Si può pertanto concludere che è solo in rapporto al confronto diretto con le linee della politica di Giacomo, che matura definitivamente il nuovo atteggiamento di Ruggero di Lauria nei riguardi della questione siciliana. La serie documentale che segue mostra tuttavia le tappe di un graduale processo, per il quale l’atteggiamento stesso è veicolato e preparato, sia prima, sia dopo. Alla questione, infatti, non era rimasto estraneo Bonifacio VIII86, il quale il 3 gennaio del 1297 – dunque appena qualche settimana prima dell’ordine di Giacomo a Ruggero di recarsi a Roma – aveva inviato al Lauria una comunicazione dal contenuto assai significativo per il giro di il viaggio le sarebbe valso come occasione propizia per rientrare nella benevolenza di papa Bonifacio e della Chiesa dopo la minaccia di gravi pene spirituali, sopraggiunta a seguito dell’incoronazione di Federico. Cfr. Amari, La guerra del Vespro siciliano, I, pp. 512513; Runciman, I vespri siciliani, p. 354, e L. Sciascia, Dalla Sicilia a Roma: il pellegrinaggio mancato, «Quaderni Medievali» 51, 2001, pp. 47-56. 82 Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. XIX, p. 379. 83 Ibid. 84 Idid. e ivi, l. III, c. XXII, pp. 381-382: 381. 85 Amari, La guerra del Vespro siciliano, I, p. 517. Di parere opposto è il cronista Nicolò Speciale, il quale istituisce un legame diretto tra la ribellione nei feudi dell’Ammiraglio e il ritorno di Ruggero di Lauria in Sicilia. A riguardo, è tuttavia opportuno sottolineare come poi nella narrazione non si dica nulla di più circostanziato se non il fatto che in prossimità delle isole Eolie il Lauria era caduto in un’imboscata (cfr. Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. III, c. XXII, pp. 381-382: 381), mentre a rivolta in corso si dice più esplicitamente che Ruggero era ancora molto lontano in mare (cfr. ivi, l. III, c. XXII, p. 382). 86 Sulla pervicacia di papa Bonifacio relativa al recupero della Sicilia, oltre a quanto già citato nelle precedenti note ed anche rispetto al superato studio di H. R. Rodhe, Der Kampf um Sizilien in der Jahren 1291-1302, Berlin-Leipzig 1913, pp. 127-152, si vedano ora A. Kiesewetter, Die Anfänge der Regierung König Karls II. von Anjou (1278-1295). Das Königreich Neapel, die Grafschaft Provence und der Mittelmeerraum zu Ausgang des 13. Jahrhunderts, Husum 1999, pp. 277-297, e Id., Bonifacio VIII e gli Angioini, in Bonifacio VIII, pp. 171-214. 140 Rosanna Lamboglia date. Nella bolla, infatti, papa Bonifacio aveva espresso tutto il suo gaudio per le notizie che un rapporto fidato gli aveva trasmesso e che riferiva come Ruggero di Lauria si stesse adoperando per la costituzione di un’armata da condurre col principio dell’estate contro i “ribelli siciliani”. Aveva auspicato poi parimenti che ogni iniziativa di Ruggero potesse proseguire di bene in meglio e che il Lauria stesso potesse esortare Giacomo alla costituzione dell’armata: «exhortamur [sc. Rogerium de Lauria] quatinus huiusmodi laudabiles actus tuos de bono in melius prosequaris et carissimum in Christo filium nostrorum Jacobum Aragonie, Sardinie et Corsice regem illustrem ad prosequendum efficaciter ipsius armate negotium diligenter animes et prudenter inducas»87. Il contenuto della bolla consente anche di rilevare come Bonifacio a questa data non avesse ancora la certezza del fattivo impegno del Lauria, tuttavia lo aveva considerato più che attendibile tanto da annunciare a Ruggero la futura benevolenza papale: «Nec tuam filii volumus litere noticiam sed pro certo tenere quod ea que modernis temporibus in predictis et aliis egisti et facis ac exercere te confidimus in futurum sic mentem nostram gratificant, sic contentant quod in petitis et petendis a te gratiam nostram, in quantum honeste poterimus, favorabilem tibi exhibere proponimus et benignam»88. Intanto anche Giacomo era in viaggio alla volta di Roma, per l’investitura del Regno di Sardegna e di Corsica, in cambio dell’assoggettamento della Sicilia89 e dell’allestimento, con onere quasi interamente papale90, di un contingente militare deputato all’impresa col sopraggiungere appunto dell’estate del 1297. Qualora Giacomo avesse trovato Ruggero di Lauria a Roma e costui disposto al suo servizio91, era infatti sua ferma intenzione investirlo nuovamente della carica di ammiraglio dell’armata di cui Ruggero nel frattempo era stato privato e 87 ACV, P, n. 1391 (3 gennaio 1297). Un regesto della pergamena è in Olmos y Canalda, Pergaminos, p. 102, doc. n. 828. In questa sede, il documento viene pubblicizzato parzialmente, in quanto tutte le pergamene valenzane citate in questo breve saggio sono oggetto di separata pubblicazione. 88 Ibid. 89 RB, I, pp. 849-854, doc. 2188 (18 dicembre 1296). 90 RB, I, p. 634, doc. 1679 (28 febbraio 1297) e prima ancora, p. 658, doc. 1738 (22 febbraio 1297); p. 588, doc. 1573 (18 marzo 1296). 91 ACA, RC, Reg. 321, f. 53r (5 aprile 1297), ma trascritto in Acta Aragonensia, I, p. 32, doc. 24, tuttavia con errore nell’indicazione del foglio. Aspetti della guerra del vespro 141 insignito invece il catalano Bernardo di Sarriano92. Il giorno successivo dell’arrivo del Sovrano a Roma (2 aprile 1297)93, Ruggero di Lauria è, dunque, reintegrato nella magistratura di ammiraglio omnium regnorum nostrorum et comitatum, vale a dire di Catalogna, Aragona e Valenza: il che non è pura faccenda nominale, giacché dalla titolarità di Giacomo era amputata et Sicilie94. Con Giacomo II e Ruggero di Lauria a Roma, papa Bonifacio perseguiva per un verso il guadagno e il consolidamento del Lauria alla causa guelfo-angioina e, per l’altro, preparava un terreno che molto poco aveva a che fare con gli auspici di Carlo II e che, al contempo, di Giacomo si serviva95. È significativo, infatti, che il 5 aprile 1297 Bonifacio VIII emanasse una bolla in cui proponeva ai Siciliani la pace con la Chiesa. In rapporto al contesto che qui si discute, il documento è dunque di particolare interesse per la data di emanazione, per i termini del perdono in esso contenuti e per la rubrica al verso della pergamena96. Qualora infatti i Siciliani avessero accettato la proposta entro il primo settembre 92 Ibid. In nome della causa guelfa, la magistratura veniva tolta a Bernardo di Sarriano, personaggio fin troppo noto a Ruggero di Lauria per una serie di contrasti personali e per i quali una ricostruzione è nella tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria. Come il Lauria, anche Bernardo di Sarriano (Bernat de Sarriá) era ammiraglio; nelle vicende del Vespro, in particolare, aveva condotto appena un anno prima una fortunata spedizione nel Golfo di Napoli, lungo la costiera amalfitana. Egli era però anche un alto dignitario di corte, successivamente molto vicino alla figura di Giacomo II, re d’Aragona: già tesoriere e ammiraglio della Corona aragonese, Giacomo gli affiderà poi anche il governo del Regno di Murcia. Il Sarriano recupererà invece la carica di ammiraglio solo alla morte di Ruggero di Lauria, nel 1305. Sul personaggio si veda M. T. Ferrer Mallol, Organització i defensa d’un territori fronterer. La Governació d’Oriola en el segle XIV, Barcelona 1990. pp. 23-48, sebbene il profilo consideri Bernardo di Sarriano specialmente dall’incarico di governatore del Regno murciano. 93 ACA, RC, Reg. 195, ff. 8r-10r (3 aprile 1297), trascritto nella misura inferiore ad un terzo in Fullana, La Casa de Lauria en el Reino de Valencia, p. 87, nota n. 3. 94 Rispetto al documento catalano, occorre tuttavia precisare che il traslato della concessione di Giacomo, in I Registri della Cancelleria angioina, ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli archivisti napoletani (= RCA), Napoli 1950-, vol. XXXI, pp. 189-193, n. 127, mantiene la qualifica di Regnorum Aragonum, Sicilie, Valencie, Maioricarum et comitatus Barchinone amiratus. In effetti, la documentazione continuerà ad inserire ancora la menzione dei regni Aragonum et Sicilie insieme, anche per effetto della successiva disposizione di Carlo II (infra, nota n. 109). 95 In proposito, si vedano F. P. Tocco, Bonifacio VIII e Carlo II d’Angiò: analisi di un rapporto politico ed umano, in Bonifacio VIII, pp. 221-239, e B. Roigé, Bonifacio VIII y los reinos hispanicos, ancora in Bonifacio VIII, pp. 293-323. 96 ACV, P, n. 5568 (5 aprile 1297). Un regesto della pergamena è in Olmos y Canalda, Pergaminos, p. 103, doc. n. 837. 142 Rosanna Lamboglia dell’anno corrente, papa Bonifacio si sarebbe impegnato a garantire un regime di autonomia di quindici anni all’Isola e alle sue città, alle terre e agli abitanti. Tale autonomia si sarebbe concretizzata con la presenza di ufficiali, castellani e tesorieri unicamente italici o latini, ai Siciliani non sospetti, tanto nelle terre ultra farum quanto in quelle citra farum. Altra misura concreta di autonomia sarebbe stata un’esazione ordinaria non gravosa, secondo quanto stabilito precedentemente da papa Onorio IV97. Trascorso il temine di quindici anni, l’Isola e i Siciliani sarebbero passati sotto l’autorità di Roberto, duca di Calabria98, il quale avrebbe garantito a propria volta la presenza di ufficiali italici e latini, i Siciliani liberi da franchigie, la restituzione delle terre confiscate sin dai tempi di Pietro III e la contumacia delle offese perpetrate durante gli anni di guerra99: qui, compendiosamente, a voler enunciare i vari punti di una bolla, nota non tanto nella forma del presente documento, bensì nella riproposizione dei contenuti che Bonifacio VIII riterrà di fare all’incirca due anni più tardi, in varie lettere di curia del 1299100. Rispetto a queste, la pergamena valenzana consente infatti di retrodatare i termini del perdono al 1297 e nella rubrica al verso – Diversos actes y privilegis faents per en Roger de Lluria quondam admirant de Aragó101 y de Cecilia y capità general en la conquesta de Napols – offre una ipotesi di spiegazione plausibile di un documento che appare poco coerente con gli accordi di pace del 1295 a voler proporre, dopo un regime di autonomia, la cessione del Regno di Sicilia citra e ultra farum al figlio di Carlo II, anziché a lui medesimo. In proposito, va altresì rilevato che non vi è 97 Ibid. Su Roberto d’Angiò, cfr. R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze 1922 (rist. Bologna 2001). 99 ACV, P, n. 5568. 100 A riguardo, cfr. RB, III, p. 569, doc. 3394 (27 luglio 1299: garanzia della presenza di ufficiali italici o citra farum, in ogni caso non gallici o ultramontani); pp. 571-572, doc. 3399 (27 luglio 1299: concessione alle città siciliane di un regime di autonomia per quindici anni sotto la giurisdizione papale e di ufficiali italici o latini, non provinciali o gallici o ultramontani); pp. 568-569, doc. 3393 (25 luglio 1299: revoca dell’interdetto a Federico II e ai “ribelli siciliani”); pp. 569-570, doc. 3395 (27 luglio 1299: esenzione degli ufficiali siciliani dal presentare i conti nel periodo della “ribellione” dell’Isola); p. 570, doc. 3396 (27 luglio 1299: restituzione dei beni dei “ribelli”); p. 570, doc. 3397 (27 luglio 1299: remissione delle colpe agli esuli siciliani); p. 572, doc. 3400 (30 luglio 1299: concessione di garanzie e obbligazioni, tra quelle ritenute più idonee, ai “ribelli siciliani”) e p. 573, doc. 3401 (30 luglio 1299: concessione di un regime di governo moderato, non vessatorio, sotto Carlo II d’Angiò o il figlio Roberto, duca di Calabria). 101 Nella rubrica, parola sovrascritta. 98 Aspetti della guerra del vespro 143 nulla nella pergamena che menzioni Ruggero di Lauria o una qualche sua sollecitazione, sicché la rubrica che attesta «Diversi atti e privilegi fatti per intervento di Ruggero di Lauria, un tempo ammiraglio di Aragona e di Sicilia e capitano generale nella conquista di Napoli» deve trovare altre giustificazioni. In merito, qualche elemento chiarificatore giunge da un esame paleografico per il quale la nota al verso è sicuramente di epoca posteriore al documento. Pertanto chiunque l’abbia apposta deve aver ragionato sulla serie archivistica delle bolle di Bonifacio VIII conservate presso l’Archivio della Cattedrale di Valenza. Per contenuto, la quasi totalità delle bolle della serie è infatti legata alla figura dell’Ammiraglio o a quella dei suoi eredi. A non citare Ruggero di Lauria sono unicamente il documento di cui qui si discute e una seconda bolla emanata, come la precedente, il 5 aprile 1297 e recante ancora i termini del perdono a Federico: in questa seconda pergamena, in particolare, papa Bonifacio propone al Sovrano le nozze con Caterina I di Courtenay, imperatrice di Costantinopoli e gli offre il proprio aiuto per recuperare l’Impero latino102. La sequenza archivistica descritta porta dunque a ipotizzare che il primo documento datato il 5 aprile del 1297 sia stato tra le pergamene che Ruggero trattenne per sé, insieme cioè alle bolle di Bonifacio che più strettamente lo riguardavano. Nulla di più certo però si può affermare a riguardo, poiché neppure le altre due rubriche presenti sul verso della pergamena e coeve invece al documento – «Guillem de Sarrià de cúria», sul bordo in alto a sinistra, e «privilegium de reconciliacione insule Cicilie», al centro della carta – forniscono ulteriori elementi chiarificatori. Fatte però queste debite riflessioni di contestualizzazione, il perno della discussione non è tanto l’ipotesi appena formulata, né la questione se vi sia stato o meno l’intervento di Ruggero, quanto piuttosto comprendere il perché della scelta di Roberto. Oltre infatti alle argomentazioni topiche della mala signoria angioina e del regime a tratti vessatorio di Carlo II, la risoluzione papale trova una pari plausibilità proprio considerando l’esistenza di quel tenace partito dei Siciliani, affatto disposto a ritornare sotto gli Angioini, ben manifesto in entrambe le narrazioni cronachistiche di Bartolomeo di Neocastro e Nicolò Speciale e della cui resistenza Bonifacio probabilmente veniva ora confermato e reso certo 102 ACV, P, n. 8212 (5 aprile 1297). Citato in forma di regesto in Olmos y Canalda, Pergaminos, p. 103, doc. 838. 144 Rosanna Lamboglia dai colloqui con Ruggero103 a Roma. Da qui, dunque, l’estensione di un privilegio, che non avrà molta fortuna nella politica sia del 1297, sia in quella successiva del 1299, ma che tuttavia ben vale a comprendere la prospettiva del Pontefice: il riacquisto ad ogni costo dell’Isola104. Il 7 aprile 1297, segue quindi una nuova bolla in cui papa Bonifacio assolve Ruggero di Lauria e i suoi complici da tutti gli eccessi, gli incendi di chiese e gli omicidi di religiosi, dal commercio di Saraceni, dalla rivolta contro la Chiesa, perpetrati nel periodo precedente di guerra e dalla parte del fronte siculo-catalano105. A distanza ancora di appena tre giorni, Bonifacio VIII emana un altro documento in cui egli offre aiuto al Lauria per l’approntamento dell’armata106. Il 3 aprile 1297, Giacomo II aveva concesso invece a Ruggero di Lauria il diritto di cavalcatura e di cattura dei nemici nel feudo già dell’Ammiraglio relativo al castello e alla città di Cocentaina107, la cui prerogativa evidentemente era rimasta all’Aragonese, non essendo esplicitamente nominata nella concessione del 1291108. Né in tutto il periodo a seguire fu estraneo Carlo II d’Angiò, poiché questi, per proprio conto, il successivo 20 novembre del 1297, nominò Ruggero di Lauria ammiraglio del Regno di Sicilia per parte angioina109 e lo investì della baronia di Acerno110, nell’attuale Campania, e pare anche 103 Qualora invece si volesse dar peso alla rubrica, la stessa confermerebbe la notizia del cronista Nicolò Speciale per la quale Ruggero di Lauria si era fatto in una qualche misura portavoce degli interessi di Federico III presso la Curia romana. 104 Kiesewetter, Bonifacio VIII e gli Angioini, pp. 172-173. 105 ACV, P, n. 479 (7 aprile 1297). Citato in forma di regesto in Olmos y Canalda, Pergaminos, p. 103, doc. 839. 106 ACV, P, n. 3915 (10 aprile 1297). Citato in forma di regesto in Olmos y Canalda, Pergaminos, p. 104, doc. 840. Ruggero di Lauria fu quindi investito anche della carica di vice-ammiraglio della Chiesa romana, come logica conseguenza della designazione di Giacomo II a capitano ed ammiraglio generale della Chiesa, e anche del feudo di Aci Castello, che apparteneva alla chiesa di Catania. Su questi aspetti, cfr. Kiesewetter, Lauria, p. 102 e tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria. 107 ACA, RC, Reg. 287, f. 38v (3 aprile 1297). 108 ACA, RC, Reg. 192, ff. 4r-4v (11 settembre 1291). La conferma del feudo però è anche in un altro diploma datato ancora al settembre 1291, ma contenuto nel Reg. 287, ff. 39r-39v. Una copia del privilegio veniva invece trasferita a Valenza: cfr. Archivo del Regne de Valencia (ARV), Libre IV de Enajenaciones, f. 101r, citato in Fullana, La Casa de Lauria en el Reino de Valencia, p. 72, nota n. 2. 109 La magistratura verrà mantenuta da Ruggero di Lauria sino alla morte, quando cioè Carlo II, saputo della dipartita di Ruggero, assegnerà la carica di ammiraglio a Sergio Siginulfo di Napoli: RCA, vol. XXXI, pp. 232-233, n. 152. 110 Kiesewetter, Lauria, p. 102. Aspetti della guerra del vespro 145 di alcune terre in Calabria111, come compensazione di quelle al Lauria espropriate, in Sicilia, da Federico. Da quanto sin qui esposto, si comprende bene come tra i provvedimenti di Bonifacio e la concessione di Giacomo dell’aprile 1297 maturi, col principio dell’estate, anche la linea politica di Ruggero di Lauria. Essa però è soprattutto determinazione successiva a quello che è prioritariamente un cambiamento di fronte, in funzione guelfo-angioina, della politica di Giacomo II. È, infatti, del luglio del 1297, una minuta al verso di una carta di Giacomo, nella quale egli, da Leida, comunica a Carlo II di aver ricevuto una lettera da Ruggero di Lauria contenente, all’interno, fatti importanti che avrebbero molto interessato proprio l’Angioino e che tuttavia l’Aragonese gli parteciperà diversamente, non potendoglieli trasmettere per iscritto112. Una conferma ulteriore del fatto che tra la primavera e il principio dell’estate del 1297 tanto Giacomo, quanto Bonifacio avessero ottenuto Ruggero di Lauria alla causa guelfoangioina giunge da un documento del 17 agosto successivo nel quale vi è l’ordine di Carlo II al secreto della contea di Principato e di Terra di Lavoro di far rientrare, a spese della Curia angioina e nell’arsenale di Napoli, e di qui custodire – garantendone, presumibilmente, anche la manutenzione – le sette galee (o anche tarìde), lasciate nel porto dal Lauria stesso113. Del passaggio di Ruggero di Lauria alla fazione nemica era ormai certo anche Federico, poiché è significativo che una settimana dopo egli provvedesse ad investire Blasco d’Alagona della baronia siciliana di Ficarra, nel giustizierato di Castrogiovanni, in Val Demone e 111 La notizia viene ripetuta dagli storici cinque-seicenteschi sino a Ernesto Pontieri e a Salvatore Fodale, che a propria volta riprende il Pontieri (cfr. Fodale, La Calabria angioino-aragonese, p. 202). Tuttavia proprio il Pontieri che individua precisamente i toponimi delle località in Nicotera, Mileto, Borrello, tutti nei pressi di Vibo Valenza, e in Terranova, Grotteria, Badolato e Rocca Niceforo e dice essere le ultime due possedimenti del conte Pietro Ruffo, non offre indicazioni bibliografiche di fonti (cfr. E. Pontieri, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, Napoli 1958, nota n. 9, pp. 226-227). 112 ACA, RC, Cartas Reales Diplomáticas (e da ora CRD) di Giacomo II, caja (e da ora cj.) 2, n. 334v (25 luglio 1297). Citata solamente nel verso e brevemente riassunta in Carte reali diplomatiche di Giacomo II d’Aragona riguardanti l’Italia (1291-1327), cur. M. Scarlata, Palermo 1993, doc. 16, p. 58-61. 113 Documento trascritto in La guerra del Vespro nella frontiera del Principato, in Codice diplomatico Salernitano del secolo XIII, cur. C. Carucci, II, Subiaco 1934, pp. 539-540, doc. CDXXXVII. 146 Rosanna Lamboglia Malacii (Milazzo), che era già di Ruggero, ma che dopo l’esproprio viene concessa all’Alagona114. È dunque grossomodo dal luglio del 1297 in poi che vediamo Ruggero di Lauria votato interamente alla causa guelfo-angioina e impegnato al fianco di Carlo II nei preparativi o anche già nell’assedio di Catanzaro. Nell’estate del 1297 e con Giacomo nuovamente rientrato in Catalogna, l’Angioino cercò infatti di riconquistare col supporto del Lauria proprio la città di Catanzaro, la quale, tradizionalmente filo-aragonese, sulla base delle nuove alleanze afferiva al partito siciliano di Federico115. Una impresa non sufficientemente pianificata o, più verosimilmente, forze militari inadeguate portarono però Ruggero di Lauria ad una sonora sconfitta nel confronto con il manipolo guidato da Blasco d’Alagona; anzi, pare che lo stesso Ruggero venisse ferito nello scontro e fosse costretto a rifugiarsi a Badolato116. A seguito della sconfitta, già nell’autunno 1297, l’Ammiraglio fece vela per la Catalogna117, dove avrebbe dovuto prendere parte alle operazioni per l’allestimento di quel contingente con il quale Giacomo II aveva promesso di recuperare l’isola di Sicilia alla Santa Sede e per il quale aveva già ricevuto numerose quietanze, sebbene egli le ritenesse sempre insufficienti all’onere – e dunque anche un’ottima ragione pretestuosa per non muovere guerra a Federico118 – e, all’opposto, da papa Bonifacio – il quale, invece, per le stesse aveva impegnato le decime – fossero considerate più che sufficienti, affinché non di dilazionasse oltre l’impresa. Una minuta di lettera non inviata del 28 ottobre e nella quale Giacomo 114 ACA, RC, P di Giacomo II, n. 856 (27 agosto 1297), trascritto in Acta SiculoAragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, pp. 51-53, doc. V. 115 Nicolaus Specialis, Historia Sicula, l. IV, c. I, pp. 383-386. 116 Ibid., p. 386. Sulle stesse vicende, cfr. anche Amari, La guerra del Vespro siciliano, I, p. 520. Lo scontro delle truppe angioino-aragonesi del Lauria e di Goffredo di Milly avvenne in una località detta Sicopotamo. La fazione siciliana, che stava arroccata nel castello di Catanzaro, venne presto soccorsa dal sopraggiungere, dalla Sicilia, di Blasco d’Alagona, Guglielmo Galcerán e Guglielmo Raimondo Moncada. Insieme a Ruggero di Lauria anche l’ex nemico Enrico Ruffo fu ferito, mentre Galcerán de Moncada rientrava in possesso di Catanzaro. 117 Qui si trova, infatti, poiché il 30 ottobre 1297, a Teruel, Ruggero di Lauria figura tra i testes di una carta di privilegio che Giacomo II emanava in favore della moglie, Bianca d’Angiò (cfr. ACA, RC, Reg. 195, ff. 93r-94v), e a Teruel è ancora il 2 novembre successivo (cfr. ACA, RC, Reg. 195, ff. 96r-96v). 118 ACA, RC, CR, n. 10179 (28 marzo s. d. [ma 1298]), trascritta anche in Acta Aragonensia, I, pp. 47-49, doc. 35. Aspetti della guerra del vespro 147 II richiedeva a Ruggero di Lauria il supporto anche da parte delle forze napoletane, lascerebbe intendere che il Sovrano contasse invece anche sull’aiuto delle municipalità napoletane, in particolare, quelle di Salerno e di Capua119. Ciononostante, sembra che l’allestimento dell’armata procedesse, sia pure non con la solerzia invocata da Bonifacio. Sicuramente Ruggero di Lauria è a Valenza il 4 dicembre del 1297, poiché figura come testimone in una carta semipubblica120, ma qui egli doveva essere arrivato già da qualche settimana, giacché il 2 dicembre era stato insignito da Giacomo II del castello di Calp e di Altea, ancora nel Regno valenzano, con tutti i diritti e le relative pertinenze121. La concessione, anche in questo caso, non manca di sollevare qualche sospetto, sia in relazione al consenso di Ruggero di Lauria che Giacomo patrocinava in maniera sempre più salda, sia in riferimento a quella faccenda del tutto privata per la quale quelle terre erano state oggetto di contenzioso tra lo stesso Ruggero e Bernardo di Sarriano, e per la quale lite il documento acquisterebbe, qui, il valore anche di una sanzione di uno stato di fatto, esistente dalla disputa in poi a tutto favore del Lauria. Appena due giorni dopo – il 4 dicembre – Giacomo II concede ancora a Ruggero il privilegio speciale del potere esclusivo sulle terre già infeudate di Cocentaina, di Alcoy, di Seta, di Calp, di Altea, di Navarrés e nella località detta Podio di S. Maria Beselga (o Buselcam)122 e in Castronovo (Castelnou), tutte ancora nel Regno di Valenza123. Al dicembre 1297, poi, l’Ammiraglio è ancora tra i creditori personali di Giacomo, se questi nello stesso giorno del precedente documento ne redige un secondo nel quale afferma di dover restituire a Ruggero di Lauria una somma per la compravendita del castello valenzano di Mont Torres e stabilisce anche le relative clausole accessorie in caso di morte di Ruggero o di mancato pagamento del debito residuo124. A Valenza e per un lungo periodo, Ruggero di Lauria è dunque con Giacomo 119 ACA, RC, CR, cj. 1, n. 318 (28 ottobre 1297). Riassunta e trascritta, relativamente alla nota al margine inferiore della minuta di circolare non inviata, in Carte reali diplomatiche di Giacomo II d’Aragona riguardanti l’Italia (1291-1327), p. 59. 120 ACA, RC, Reg. 195, ff. 99v-100r (4 dicembre 1297), concernente la concessione da parte di Giacomo II ad un certo Pietro di Claperio di un casale a mulino nel Regno di Valenza. 121 ACA, RC, Reg. 195, ff. 100v-101r (2 dicembre 1297). 122 Diccionario de historia medieval del Reino de Valencia, cur. J. Hinojosa Montalvo, València 2002, 4, p. 89. 123 ACA, RC, Reg. 195, f. 101r (4 dicembre 1297). 124 ACA, RC, Reg. 195, f. 101v (4 dicembre 1297). 148 Rosanna Lamboglia II e la cosa non può non far ritenere che parte dell’allestimento della flotta si realizzasse anche nei cantieri valenzani, oltre che negli arsenali di Barcellona125. A breve e con una nuova flotta, l’Ammiraglio avrebbe fatto nuovamente ritorno in Sicilia, ponendosi alla testa della campagna militare che dal febbraio 1298 riprese le operazioni di guerra nel Regno di Sicilia. La nuova spedizione era infatti solo formalmente guidata da Giacomo, poiché egli era rimasto nei domini della Corona d’Aragona, dove era alle prese con la seconda campagna di Murcia (1298-1300), come ben conferma un diploma emanato durante l’assedio del Castello di Alhama, il 23 gennaio 1298, in cui rende, per istanza di Ruggero di Lauria, franchi, liberi ed immuni da dazi e pedaggi gli abitanti di Cocentaina e di Alcoy per tutto il regno di Murcia e per ogni singolo luogo del Regno, sia per terra che per mare126. Giacomo II avrebbe infatti raggiunto il resto dell’armata solamente in un secondo momento. Egli aveva infatti previsto il ritorno nel Regno di Sicilia nella primavera del 1298, secondo quanto affermava ancora in un documento del 23 gennaio dello stesso anno e nel quale ringraziava Guglielmo di Entença del fatto di aver saputo tramite Ruggero di Lauria che anche l’Enteça avrebbe fatto parte del contingente militare nell’imminente viaggio127, insieme con altri accoliti128, non necessariamente nobili129. Per la circostanza della campagna militare primaverile in Sicilia, Giacomo aveva infatti dato ampio potere a Ruggero di Lauria sia per quanto 125 Il 9 gennaio 1298, Ruggero di Lauria è ancora a Valenza. Circa le localizzazioni dell’Ammiraglio, i Regg. 195 e 196 forniscono un numero significativo di documenti in cui egli figura tra i testes. Qui, valga solo la segnalazione, in quanto l’itinerario di Ruggero sarà oggetto di un articolo separato con particolare riferimento al contesto catalano-valenzano. 126 ACA, RC, Reg. 256, ff. 4v-5r (23 gennaio 1298). Il medesimo documento viene inviato anche agli ufficiali incaricati della riscossione dei dazi e delle gabelle del Regno di Murcia: ACA, RC, Reg. 256, f. 5r (23 gennaio 1298). 127 ACA, RC, Reg. 256, f. 2r (23 gennaio 1298). 128 ACA, RC, Reg. 117, ff. 161r-161v. Il documento datato 10 giugno 1300 (illeggibile il luogo) riferisce di alcuni nomi che il procuratore di Ruggero di Lauria, Giacomo di Guardia, deve risarcire per avere accompagnato Giacomo II nel viaggio in Sicilia. I nomi di Rodrigo Jiménez [de Luna], Pietro [Jimènez di Aglos], Pietro Gerrerio di [Aglos], Pietro di Luy, Bernardo Astorii si leggono con qualche difficoltà nella parte iniziale del documento, mentre il restante contenuto è indecifrabile, anche in originale, nella parte centrale e finale per deterioramento, dovuto a macchie da inchiostro a tinta ferruginosa. 129 ACA, RC, Reg. 256, f. 2r (il secondo di una serie di tre documenti sul foglio, tutti relativi a Ruggero di Lauria e datati il 23 gennaio 1298). Aspetti della guerra del vespro 149 riguardava il reclutamento di uomini e mezzi, sia per quanto competeva l’esazione delle somme necessarie, come del resto bene attestano la serie di tre documenti consecutivi che Giacomo, sempre il 23 gennaio, emanava ancora dall’assedio di Alhama e nei quali ordinava, per esempio, a tutti i marinai di Barcellona di seguire i comandi dell’Ammiraglio130 e a tutti gli ufficiali del Regno, a cui perveniva la comunicazione, di essere al Lauria di aiuto e di giovamento nelle operazioni volte all’approntamento dell’armata131. Le serie documentali qui esposte e l’interconnessione di queste con il passo della cronaca di Bartolomeo di Neocastro da cui s’è principiato – e nel quale è affermata la necessità di una difesa militare della Sicilia, da affidare ancora a Ruggero di Lauria – fanno comprendere meglio e non più unicamente su base cronachistica come proprio la determinazione del Lauria di aderire al partito guelfo-angioino di Giacomo II comportasse il necessario distacco da Federico. Agli occhi di Federico infatti Ruggero non poté non risultare che responsabile de inlegalitate et prodicione quod ipse abnegata fide et dominio nostris ruptoque homagio et violato sacramento quod nobis tamquam vassallus naturalis domino ore et manibus prestitit et iuravit (…)132. L’Ammiraglio pertanto ben meritava non solamente l’esproprio dei possedimenti, bensì anche il processo per fellonia che, a partire dal febbraio del 1298, proprio Federico gli mosse133. Il documento col quale re Federico designò come suo procuratore il catalano Ramon Folch nel processo contro Ruggero di Lauria consente di conoscere il capo d’imputazione dell’accusa. Esso consiste nel reato di alto tradimento e di lesa maestà per essere Ruggero venuto meno alla fedeltà vassallatica cui era tenuto in quanto vassallo delle terre siciliane, 130 ACA, RC, Reg. 256, f. 2v (23 gennaio 1298). ACA, RC, Reg. 256, f. 2v (il secondo di una serie di tre documenti sul foglio relativi a Ruggero di Lauria e con la medesima data del 23 gennnaio 1298). 132 ACA, RC, P di Giacomo II, n. 1003 (Palermo, 9 febbraio, s. d. [ma 1298]), trascritto anche in Acta Siculo-Aragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, pp. 58-59, doc. X. Trattasi però di un documento già noto a F. Testa, De vita et rebus gestis Federici II Siciliae regis, Palermo 1775, p. 248, doc. XIII) e, in regesto, a Domenico Schiavo: Documenti relativi all’epoca del Vespro, tratti dai manoscritti di Domenico Schiavo, p. 51, doc. 74. L’accusa di tradimento tuttavia risaliva a qualche mese prima, poiché era già espressa nella concessione del feudo di Ficarra a Blasco d’Alagona: ACA, RC, P di Giacomo II, n. 854 (27 agosto 1297), trascritto anche in Acta SiculoAragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, pp. 52, doc. V. 133 ACA, RC, P di Giacomo II, n. 1003 (9 febbraio, s. d. [ma 1298]), ma trascritto pure in Acta Siculo-Aragonensia, II, Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, pp. 58-59, doc. X. 131 150 Rosanna Lamboglia nonché nel reato di cospirazione ai danni della Corona siciliana, essendosi il Lauria alleato con i nemici e per aver mosso guerra contro Federico e la gente siciliana, al fine di procurare al Sovrano la perdita e dell’onore e del Regno di Sicilia. Ciò era più che sufficiente a che Federico potesse sfidare a duello Ruggero e dichiarargli guerra secundum usum Barchinone – gli Usatica di Barcellona – seu forum et consuetudinis Aragonie134, secondo le modalità cioè di una contrapposizione che è anche personale di Federico. Non si conoscono gli esiti della vicenda per la quale il Folch fu designato procuratore, tuttavia Ruggero di Lauria continuò per tutto il 1298 a fare la spola tra la Sicilia, il Regno angioino di Napoli e la Catalogna, sia per sovrintendere all’incarico dell’armata135, sia anche per le molte vertenze che continuamente lo investivano e minacciavano nei possedimenti valenzani e nelle isole di Gerba e di Cercina (Kerkennah)136. Sino infatti alla conclusione della guerra (1302) Ruggero di Lauria poté contare sull’appoggio incondizionato sia di Giacomo II, sia di Bonifacio, il quale con la tempestività con cui lo si è visto agire anche per ciò che concerne le relazioni con Ruggero, proprio ora le casse dell’Ammiraglio rimpinguava con una nuova bolla. Nel luglio del 1298, a Ruggero, ai suoi figli e ai suoi vassalli, il Pontefice concede infatti per un valore annuo pari a trecento libbre di denari barcellonesi o cento once d’oro le decime ecclesiastiche delle terre e dei possedimenti dell’Ammiraglio, nel Regno di Valenza, e quanto in queste solitamente riscosso in natura137. Insomma, la documentazione valenzana – in particolare, le bolle di Bonifacio VIII – conferma ancora una volta la conclusione – a cui si è già giunti altrove138 – che la guerra del Vespro siciliano divenne, dal 1295 in poi, sempre più una questione di prospettive differenti: la siciliana, l’aragonese, la guelfa e l’angioina. A queste si aggiungevano le molte 134 Ibid. Ruggero è infatti nuovamente a Valenza il 13 aprile del 1298, poiché figura tra i testes di una carta semipubblica: ACA, RC, Reg. 196, f. 196r. 136 In proposito, la vicenda è ricostruita nella tesi di dottorato Lamboglia, Ruggero di Lauria. 137 ACV, P, n. 714 (25 luglio 1298). Un regesto della pergamena è in Olmos y Canalda, Pergaminos, p. 107, doc. 868, mentre parte del contenuto si trova anche in RB, III, p. 451, doc. 3147 (25 luglio 1298). Quest’ultimo è però un documento differente, trattandosi di una lettera di curia inviata al vescovo Valentino affinché corrisponda, nel Regno di Valenza, l’importo annuo delle decime a Ruggero di Lauria. Nella lettera, sono poi indicate altre disposizioni a cui il vescovo Valentino e i suoi successori anche pro tempore si devono attenere nel mandare ad effetto la concessione. 138 Cfr. Lamboglia, Aspetti della guerra del Vespro. 135 Aspetti della guerra del vespro 151 prospettive personali all’interno e all’esterno dell’isola di Sicilia, delle quali la vicenda di Ruggero di Lauria è esemplare. Ciascuna di esse aveva una particolare e fondata ragion d’essere a seconda dell’osservatorio politico: ciascuno dei protagonisti però era invariabilmente soggetto alle leggi del contingente e dell’immediato, nonostante le vicende pregresse della guerra li avessero in qualche misura vincolati gli uni agli altri. DUE CASTELLI MEDIEVALI IN TERRA D’IRPINIA: AVELLA E SUMMONTE* Giovanni Coppola - Carmine Megna 1. Il castello di Avella: ricerche storico-architettoniche 1.1. Rapporti ambientali Il castrum di Avella è ubicato a m 320 s.l.m. alla destra del fiume Clanis, su una delle propaggini collinari dell’Appennino campano che delimitano ad est la pianura di Napoli. La sua posizione riveste una notevole importanza strategica per il controllo del territorio circostante e di una via naturale che, attraverso il passo di Monteforte Irpino, mette in comunicazione la piana campana con la valle del Sabato e quindi con la Puglia. Il primo insediamento fortificato longobardo dovrebbe risalire al VII secolo quando Avella faceva parte del Ducato di Benevento1. A seguito della Divisio Ducatus Beneventani (849), voluta dall’imperatore Ludovico II, Avella fu assegnata al principato di Salerno2 e la roccaforte si ritrovò ai confini del Ducato bizantino di Napoli, del Ducato longobardo di Capua e del Principato longobardo di Benevento3. All’epoca longobarda risale la cinta muraria più interna del sito, di forma ellittica. Le mura erano guarnite da torri di varie forme, di cui * Giovanni Coppola ha scritto sul castello di Avella (pp. 155-167), Carmine Megna sul maniero di Summonte (pp. 167-179). Il rilievo è di G. Coppola e C. Megna. Disegni e fotografie sono di C. Megna. 1 H. Hirsh, Il ducato di Benevento, in H. Hirsh - M. Schipa, La longobardia meridionale (570-1077), cur. N. Acocella, Roma 1968, pp. 53-60. 2 Il trattato di divisione del ducato di Benevento è pubblicato in MGH, Leges IV, ed. H. Hoffmann, Hannover 1980, pp. 221-225. 3 Sulle vicende dell’epoca longobarda si veda Erchempertus, Historia Langobardorum Beneventanorum, in MGH SS. rer. Lang. et Ital., ed. G. Waitz, pp. 231-265; inoltre, il testo con traduzione italiana (che qui verrà seguito) Erchemperto, Historia Langobardorum (sec. IX), cur. A. Carucci, Salerno 1995. 154 Giovanni Coppola - Carmine Megna Fig. 1. Il recinto fortificato di Avella nove parzialmente superstiti ed una decima, ancora visibile, inglobata nell’angolo settentrionale della rocca. All’epoca normanna risale la realizzazione della seconda cinta muraria di forma poligonale, rafforzata da nove torri con porta carraia a sud-est, e del donjon. Con il passar del tempo, ulteriori ristrutturazioni sia della cinta che delle torri furono operate dagli Svevi. In epoca angioina fu realizzata la possente torre circolare su base troncoconica annessa alla rocca. Nei secoli successivi l’impianto si stratificò ulteriormente sino al definitivo abbandono avvenuto agli inizi del XVII secolo in favore dell’area dell’antica città romana di Abella, collocata, rispetto alla collina del castello, sull’altra sponda del fiume Clanis a m 210 s.l.m. L’importanza strategica, così come l’ubicazione della cinta fortificata con annesso castello, fu sicuramente il principale motivo a cui direttamente si collegano le numerose vicende storiche che verranno, sia pur sommariamente, delineate di seguito. 1.2. Notizie storiche Le prime fasi di vita dell’antica Abella, corrispondente all’attuale centro di Avella, risalgono alla fine dell’VIII - inizi del VII secolo a.C.4 L’insediamento, localizzato lungo un itinerario naturale che metteva in collegamento le città elleniche della costa campana con l’Irpinia, svolse un ruolo di mediatore tra le civiltà e le culture dell’interno e del litorale. 4 T. Cinquantaquattro, Abella, un insediamento della mesogaia campana, «Annali dell’Istituto Orientale di Napoli» 7, 2000, pp. 61-85. Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 155 Fig. 2. Avella, vista parziale del castello Il periodo di magnificenza dell’insediamento è da porre in un arco temporale compreso tra la fine del II secolo a.C. e il I secolo d.C. ed è altresì probabile che la città ospitò una colonia all’epoca di Silla (I sec. a.C.). Abella, munita in epoca sannitica di una rete viaria regolare e di un sistema difensivo, in età tardo-repubblicana fu delimitata da una cinta muraria, realizzata in opus incertum, di cui sono visibili alcuni tratti nella zona dell’anfiteatro. Quest’ultimo fu edificato nel I secolo a.C., in opus reticolatum, in luogo di precedenti abitazioni sannitiche. Attualmente l’anfiteatro è visitabile e si presenta in discrete condizioni conservative anche se manchevole della summa cavea. L’abitato occupava una superficie di circa 25 ettari, era cinto da mura di difesa ed aveva ad oriente e ad occidente due vaste aree di necropoli utilizzate senza soluzione di continuità fino al periodo tardo-antico5. Le molteplici campagne di scavo archeologico hanno portato alla luce una ricca documentazione che abbraccia un ampio arco temporale. Recentemente in località “Santissimo” la ricerca archeologica ha interessato un’area a destinazione pubblica di epoca imperiale, già parzialmente scavata da Werner Johannowsky6. In particolare gli scavi, condotti tra il 2004 ed il 2005, sono stati finalizzati all’esplorazione del cosiddetto criptoportico. Si tratta di un ambiente interrato di forma rettangolare, orientato in senso NO-SE, avente larghezza di 2,40 m, lunghezza indagata di 5 T. Cinquantaquattro - D. Camardo - F. Basile, Il castello di Avella (AV): le indagini archeologiche sulla rocca, in Atti III Congresso nazionale di Archeologia Medievale, Firenze 2003, pp. 355-361. 6 W. Johannowsky, Archeologia, in Avella. Appunti e note, Avella 1979, pp. 17-28. 156 Giovanni Coppola - Carmine Megna Fig. 3. Avella, planimetria generale del castello a quota + 15,00 13,00 m, altezza interna 3,00 m, le cui pareti conservano gli intonaci e la volta a botte di copertura è realizzata con blocchi di tufo. La presenza di depositi vulcanici risalenti alla cosiddetta eruzione di Pollena ha con- Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 157 sentito di stabilire, in analogia con quanto riscontrato in altre parti della città, che il sito è stato abbandonato in età tardo antica7. Lungo i limiti della necropoli occidentale, a breve distanza dal fiume Clanis, tra il 2001 ed il 2003, è stato portato alla luce un sepolcreto utilizzato in un lungo arco temporale compreso tra la fine del V ed il II secolo a.C. Si tratta di quaranta sepolture di cui solo tredici integre e cinque parzialmente depredate da scavi clandestini. In particolare, sono state rinvenute sepolture a fossa, tombe a cassa di tufo a copertura piana ed a doppio spiovente, tombe a cassa di tegole ed alla cappuccina8. Tra il 2003 ed il 2005, nella necropoli orientale, in località S. Paolino, sono stati condotti scavi in tre distinti settori ubicati a poca distanza dall’anfiteatro e dalle mura della città. In un caso sono state portate alla luce cinquantasette sepolture del tipo a fossa ed a cassa di tufo, presumibilmente di età ellenistica (IV-III a.C.), purtroppo per la gran parte depredate. Il nucleo funerario risulta delimitato a sud da una strada in terra battuta il cui orientamento è congruente con quello degli assi viari della città romana. La strada, indagata per una lunghezza di circa 30 m, presenta una larghezza di 2,50 m ed è databile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. A sud dei summenzionati interventi, è stato individuato un ulteriore frammento della necropoli monumentale che, tra l’età tardo ellenistica e l’inizio dell’età imperiale, si è sviluppata lungo un asse stradale nord-sud parallelo alla cinta fortificata romana. Sono state portate alla luce quattro tombe a cassa di tufo che segnano il limite della necropoli sannitica e due tombe a camera semipogee già depredate e prive della copertura9. Il processo di disgregazione di Abella iniziò nel corso del IV secolo. Infatti da un’iscrizione rinvenuta a Cimitile si ricava che Barbaro Pompeiano, consolare della Campania, nel 333 è celebrato per aver promosso lavori di ricostruzione, estraendo i materiali dalle cave e non dai monumenti in stato di abbandono. Le scarse e sporadiche notizie riportate dalle fonti fanno ritenere che l’abitato si sia ben presto disgregato in piccoli nuclei interni all’attuale centro storico che hanno mantenuto una continuità insediativa almeno sino al V secolo10. 7 Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, p. 355. T. Cinquantaquattro - S. V. Iodice - A. Guarino, Alta-media Valle del Clanis, «Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento» 1, 2005, p. 23. 9 Cinquantaquattro - Iodice - Guarino, Alta-media Valle del Clanis, pp. 24-25. 10 Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, p. 355. 8 158 Giovanni Coppola - Carmine Megna Le scorrerie compiute dai barbari di varia stirpe accentuarono il processo di spopolamento del territorio, cui peraltro contribuirono gli eventi vulcanici verificatisi tra la fine del V e l’inizio del VI secolo. L’esito finale di questo lungo iter comportò il definitivo abbandono della città romana in favore del nuovo insediamento sulla collina del castello, per la quale, allo stato attuale della ricerca, è possibile ritenere che vi sia stato un primo insediamento stanziale tra il V ed il IV secolo a.C. Il sito medievale è stato oggetto di indagini archeologiche condotte in tre distinte fasi dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Salerno, Avellino e Benevento11. Un primo insediamento longobardo di carattere militare fu, probabilmente, edificato nel VII secolo come baluardo contro il Ducato bizantino di Napoli ed a controllo della strada per Avellino e Benevento. Le prime notizie del castrum avellano, riportate nell’Historia Langobardorum di Erchemperto risalgono alla seconda metà del IX secolo e sono relative alle incursioni ed agli attacchi cui fu sottoposto, come quella compiuta dagli Aghlabidi dell’Ifriqiya (Tunisia medievale) nell’883-88412. Nell’887 le truppe bizantine di Napoli, guidate da Atanasio, attaccarono e presero Avella imprigionando Landolfo, gastaldo di Suessola, che era stato lasciato al comando del castello da Guamario I di Salerno13. Nella Chronica monasterii Casinensis è riportata la notizia del saccheggio del sito operato dagli Ungari nel 93714. La cinta muraria più interna del sito di forma ellittica che ingloba un’area di circa 10.000 mq è stata datata all’epoca longobarda. Le mura erano guarnite da torri di varie forme, in parte rimaste. Sulla scorta delle risultanze delle recenti campagne di scavo archeologico, è possibile asserire che il sito era dotato di una rocca di cui il muro in grossi blocchi squadrati di materiale calcareo, posto a sud del muro nord-occidentale 11 Nel 1987, in occasione di lavori di restauro alla cinta muraria esterna, sono stati condotti una serie di saggi esplorativi; tra il 2000 ed il 2001, sono state condotte campagne sistematiche sull’area del mastio; nel 2005 è stata intrapresa una campagna sia alla rocca che alla cinta muraria longobarda. I risultati delle tre campagne di scavo sono stati pubblicati rispettivamente in M. A. Iannelli, Per uno studio del castello di Avella: il contributo della ricerca archeologica, in Il restauro dei castelli dell’Italia Meridionale, cur. R. Carafa, Caserta 1989, pp. 159-175; Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, pp. 355361; Cinquantaquattro - Iodice - Guarino, Alta-media Valle del Clanis, pp. 23-26. 12 Erchemperto, Historia Langobardorum, p. 64. Sull’arte e sull’architettura tunisina di quel periodo si veda L. Hadda, Nella Tunisia medievale. Arte e architettura islamica (IX-XVI secolo), Napoli 2008. 13 Erchemperto, Historia Langobardorum, p. 71. 14 Chronica monasterii Casinensis, in MGH, SS 34, ed. H. Hoffmann, Hannover 1980, I, 55, pp. 140-141. Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 159 dell’attuale donjon, ne era parte. Tale struttura muraria, grazie alle indagini archeologiche, è stata datata tra la fine del X e l’inizio del XI secolo. Alla stessa fase costruttiva sono da ascrivere una cisterna ubicata a breve distanza ed un ambiente di forma trapezoidale addossato alla cortina muraria15. A seguito dell’avvento dei Normanni, nel secolo XI, iniziò la capitolazione degli stati della Longobardia meridionale. Il primo feudatario normanno, di cui si ha notizia da un documento del 1087, è Aldoynus francus comes de Abelle et unus ex militibus Abersano16. Incerta è la discendenza di Aldoino dal cavaliere Turoldo Mosca, giunto ad Aversa nella seconda metà dell’XI secolo. Tuttavia dalle fonti documentarie si rileva che nel 1129 il feudo non era più guidato da Aldoino ma da Rainaldo, figlio di Riccardo detto Mosca. Dal Catalogus Baronum17 apprendiamo che Rainaldo possedeva diciassette feudi tra cui Avella. Il toponimo non è esplicitamente indicato, ma il feudo è stato individuato dal Cuozzo e, successivamente, dal Colucci. La famiglia Mosca ebbe il possesso del feudo per tutto il periodo normanno e lo mantenne anche durante il periodo svevo18. Infatti da un documento del 1237 si evince che Rainaldo III Mosca, indicato come Raynaldus de Avella, è tra i baroni cui Federico II affidò in custodia dei prigionieri dopo la battaglia di Cortenuova che segnò la sconfitta, nel novembre 1237, della seconda Lega lombarda19. I dati archeologici ricavati dalle indagini del 198720 fanno risalire all’epoca normanna (XI - XII secolo) l’impianto della cinta muraria esterna di forma poligonale, guarnita con nove torri, che ingloba un’area di circa 21.000 mq ed evidenziato l’esistenza di interventi di ristrutturazione nel corso del XIII secolo. Le successive indagini hanno consentito di datare l’impianto dell’attuale donjon o mastio tra la metà del XII e l’inizio del XIII secolo e inoltre di definire le varie fasi costruttive di tutta la parte alta del complesso, dal X al XVII secolo. Naturalmente la veste attuale 15 P. Peduto, Torri e castelli longobardi in Italia Meridionale: una nuova proposta, in Castelli storia e archeologia, Relazioni al convegno di Cuneo (8-10 dicembre 1981), cur. R. Comba A. Settia, Cuneo 1984, pp. 391-399. 16 Regii Neapolitani Archivi Monumenta edita ac illustrata, V, Napoli 1857, pp. 119-120. 17 Catalogus Baronum, ed. E. Jamison, Roma 1972. 18 G. Coppola - G. Muollo, Castelli medievali in Irpinia, Milano 1994, p. 18. 19 J. L. Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi, V, Paris 1857, p. 613. Per un approfondimento sulla guerra in età medievale, si veda: G. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Roma - Bari 2002. 20 M. A. Iannelli, Per uno studio del castello di Avella: il contributo della ricerca archeologica, in Il restauro dei castelli, pp. 159-175. 160 Giovanni Coppola - Carmine Megna delle diverse cinte fortificate e del castello è il risultato della stratificazione dei vari interventi. Con il passaggio del potere agli Angioini, il re Carlo I confermò il possesso della contea alla famiglia de Avella nella persona di Rainaldo IV. Quest’ultimo svolse importanti missioni diplomatiche per la corte ed ottenne, nel 1294, la nomina a grande ammiraglio del regno.21 Quando nel 1371 morì Francesca de Avella, ultima discendente della famiglia Mosca, il feudo passò ad Amelio del Balzo, suo secondo marito. La figlia di Amelio del Balzo, Giovanna, sposò Nicola Ianvilla al quale portò in dote il feudo, il cui possesso fu confermato dalla regina Giovanna I nel 1380. Dai registri della Cancelleria angioina, studiati dal Filangieri, si evince che durante il XIII secolo le mura ed il territorio ospitavano una comunità attiva ed attenta alla manutenzione del castello che risulta inserito in una linea difensiva. E proprio al periodo angioino è da ascrivere la realizzazione del possente torrione circolare, su base leggermente scarpata, collegato al mastio e funzionale per coprire l’ala nord-est, attuando una difesa di fiancheggiamento che si aggiungeva a quella frontale esercitata dalla rocca22. Nel 1432 il possesso di Avella passò a Raimondo della famiglia Orsini, conti di Nola, che la tennero sino al 1529. Al capostipite successe il figlio naturale Felice, che nel 1459, avendo parteggiato per gli Angioini, fu privato di tutti i suoi beni. Con gli Orsini iniziò la decadenza del castello, che subì ingenti danni dovuti sia alle guerre interne che ai terremoti del 1456 e del 1466. Un documento spagnolo del 1529, conservato all’Archivio di Simancas, ricorda il sito fortificato come: «forteleza con una 21 F. Scandone, Rainaldo IV d’Avella grande ammiraglio di Carlo II d’Angiò e un celebre processo politico del primo decennio della guerra dei Vespri Siciliani, «Rivista Storica del Sannio» 3, 1917, pp. 7-12; pp. 9-15. 22 La torre circolare, già presente in Francia e nell’Italia del Nord, fu introdotta nel meridione d’Italia in età angioina e si diffuse rapidamente. Tra gli altri si vedano: J. Mesqui, Châteaux et enceintes de la France médiévale, I, Paris 1991, p. 162-171; L. Santoro, Castelli angioini e aragonesi nel regno di Napoli, Milano 1982, p. 45-52; R. Licinio, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo d’Angiò, Bari 1994, pp. 228246. Inoltre il passaggio del regno nelle mani degli angioini definirà in termini ancora più complessi le attribuzioni e le competenze dei funzionari burocratici del settore castellare introdotte da Federico II. Per un approfondimento si veda: E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo d’Angiò, cur. H. Houben, Bari 1995 (ed. or. Leipzig 1914). Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 161 terra iunta disabitata; sobre un monte sta el castello, maltratado dunque antiquamente era bello y grande»23. Dal 1530 al 1534 Avella fu tenuta da Girolamo Pellegrino, dal quale passò ai Colonna. Questa famiglia contribuì all’abbandono del centro medievale, edificando il palazzo baronale nel borgo interno al perimetro della città antica. Il feudo, dopo alcune compravendite, passò a Carlo Spinelli, conte di Seminara24. Da un’epigrafe conservata nel Palazzo Ducale di Avella, originariamente posta sulla facciata del castello, si apprende che Pietro Spinelli, nel 1553, restaurò la fortezza. Tra gli interventi si segnala l’adeguamento della rocca alle nuove esigenze di difesa conseguenti all’utilizzo delle armi da fuoco, mediante la costruzione del bastione a punta nell’angolo meridionale munito di basse terrazze protette da parapetti. È altamente probabile che il bastione lanceolato inglobi una preesistente torre quadrangolare, mentre dall’indagine archeologica è accertato che la sua realizzazione ha comportato l’obliterazione di una porta attraverso la quale erano in comunicazione il mastio e l’area interna alla prima cinta muraria. Tuttavia l’intervento di restauro non comportò l’instaurarsi di un consistente e duraturo insediamento, infatti nel 1603 si contano entro le mura cento fuochi disabitati e distrutti. Tra il 1578 ed il 1604 tenne il feudo Ottavio Cataneo, dal quale passò alla famiglia Doria del Carretto che lo tenne sino all’eversione della feudalità (1806)25. Da un apprezzo della terra di Avella, redatto nel 1603 da Alfonso Siviglia, apprendiamo che: «Vi è … sopra un monte dalla parte di occidente lo castello con la cittadella e palazzo … nel quale vi è una torre grande con cartiglio. Una sala con otto camere in piano e molta altra comodità. Questa cittadella è murata con dodici altre torrette attorno dette mura per combattere e dentro vi sono da circa cento fochi distrutti e disabitati. Vi è anco la Parrocchia e cisterna grandissima, … lo quale castello è fatto 23 F. Cordella, A guardia del territorio. Torri, castelli e fortezze. Il castello di Avella, «Campania Felix» 9, 1997, p. 58. 24 G. Muollo - G. Coppola, I castelli, in Storia illustrata di Avellino e dell’Irpinia, II, Pratola Serra 1996, p. 433. 25 Sulle leggi volute da Giuseppe Bonaparte per abolire la feudalità nel Regno di Napoli, tra gli altri, si vedano: P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962; M. Palumbo, I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità: feudi, università, comuni, demani, Montecorvino Rovella - Cerignola 1910-1916. 162 Giovanni Coppola - Carmine Megna con grande artificio con mura altissime e grossissima spesa … vi sta lo castellano e vi si ponevano li carcerati di mala vita»26. Non molto tempo dopo il castello fu definitivamente abbandonato: una conferma in tal senso deriva dal rinvenimento, in occasione delle indagini archeologiche27, di un deposito di cenere vulcanica ascrivibile all’eruzione del Vesuvio del 1631. 1.3. Notizie architettoniche Si giunge all’area del complesso fortificato procedendo lungo una stradina carrabile, non asfaltata, denominata via dei Normanni. Del sito fortificato restano due ordini di mura concentriche degradanti sul pendio della collina, il mastio posto sulla sommità della collina con annesso torrione cilindrico ed ambienti interni alle mura. Le due cinte murarie si articolano con cammini di ronda e sono collegate da torri. II circuito di mura più esterno, di forma poligonale, presenta uno sviluppo di circa 600 m ed ingloba un’area di circa 21.000 mq. La cinta interna, di forma ellittica, ha uno sviluppo di circa 300 m ed incorpora una superficie di circa 10.000 mq. Le mura della cinta interna, di epoca longobarda, erano guarnite da torri. Ne restano nove in parte superstiti, oltre a una decima, che come già evidenziato, è inglobata nell’angolo settentrionale del mastio. Delle nove torri che si conservano, cinque sono di forma troncoconica e quattro di aspetto troncopiramidale. La scarpata è molto accentuata e spesso irregolare. La tessitura muraria della cinta e delle torri mostra una particolare tecnica costruttiva omogenea, caratterizzata dall’utilizzo di scaglie irregolari di pietra calcarea cavate dallo stesso colle e disposte in maniera similare all’opus incertum. Dall’osservazione della tessitura si evince che sono stati impiegati sporadicamente anche materiali di spoglio, come blocchi di tufo e pezzi di calcare sagomato. In ordine alla morfologia delle torri, si riporta un passo pubblicato da Paolo Peduto che recita testualmente: «esaminandone in particolare una a base quadrata larga metri 4,30 sporgente dalla cortina per circa metri 4,00, alta metri 6,00, si nota l’inclinazione non costante della scarpa» e la mancanza «di saettiere o di vani che permettessero la difesa dall’interno». La rastremazione della torre sembra più «utile ad una ricerca di stabilità statica che per una difesa piombante di rimbalzo, d’altro canto impossibile data l’esigua 26 27 Coppola - Muollo, Castelli medievali in Irpinia, p. 18. Cinquantaquattro - Camardo - Basile, Il castello di Avella, p. 360. Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 163 altezza delle torri». In ultima analisi si tratta «di fortificazioni» adatte «per una difesa passiva, per tenere» su una sentinella, «non per resistere ad oltranza»28. La cinta più esterna, d’impianto normanno e ad andamento poligonale, è stata oggetto di rimaneggiamenti in epoca sveva ed aragonese. Presenta una porta carraia nell’angolo sud-orientale e nove torri di cui otto quadrangolari ed una, posta nell’angolo sud-occidentale, di forma pentagonale. Le torrette sono costituite da due livelli e munite di strette fessure per la difesa. In alcune parti della cinta si riconoscono cammini di ronda, parapetti e merlature. L’indagine archeologica del 1987 ha fissato al X-XI secolo la realizzazione, evidenziando altresì degli interventi di ristrutturazione durante il XIII secolo. La cinta muraria presenta una tessitura eseguita con l’uso di pietrame di grosse dimensioni spesso utilizzato ad opera incerta. I conci di pietra sono disposti secondo la pendenza del terreno. Anche le torri rispondono a questa logica, anche se in esse i ricorsi di pietrame tendono a diventare regolari e ad essere disposti orizzontalmente. Inoltre si nota un’alternanza di ricorsi realizzati con pietrame di grossa dimensione e di ricorsi di regolarizzazione costituiti da pietre di dimensioni inferiori, secondo una tecnica a cantieri. Sono visibili tracce di intonaco. Il settore sud della cinta muraria è pressoché realizzato secondo l’andamento di un’unica curva di livello. Nella parte più elevata della cinta muraria occidentale è ubicata una torretta, verosimilmente rimaneggiata ed ornata da archetti pensili in età aragonese29. La sommità della collina (320 s.l.m.) è occupata dall’imponente mastio trapezoidale molto stratificato, di fondazione normanno-sveva (metà XII – inizio XIII secolo) su preesistenze, con annesso torrione cilindrico su base troncoconica di epoca angioina sul tipo di quello di Summonte. Della rocca restano due possenti muri disposti ad angolo, alla cui sommità si è mantenuto quasi intatto il cammino di ronda protetto dalla merlatura residua ed una serie di ambienti, poco conservati in elevato, che si articolano intorno alla corte. Il muro nord-occidentale, lungo circa 32,50 m ed alto circa 22,30 m, termina con una torre a pianta rettangolare parzialmente conservata in alzato. Lungo il prospetto interno si notano i fori di alloggiamento delle 28 P. Peduto, Il quadro della ricerca archeologica altomedievale nella regione dei principati di Salerno e di Capua, in Mercato San Severino e la sua storia, Incontro di studi Fisciano-San Severino (15-16 novembre 2001), cur. A. Musi, A. Settia, P. Peduto, L. Rossi, Salerno 2003, p. 18. 29 Coppola - Muollo, Castelli medievali in Irpinia, pp. 20-22. 164 Giovanni Coppola - Carmine Megna travi dei solai e quattro aperture che davano luce al secondo livello degli ambienti retrostanti non più esistenti. Una delle aperture è stata tamponata sul lato esterno prima dell’abbandono del sito. Il fronte nord-est, lungo circa 21,00 m ed alto circa 20,50 m, presenta nei pressi del torrione, a circa 6,00 m dal piano di calpestio, la porta principale del castello raggiungibile da un ponte levatoio scomparso. Il dislivello con il piano stradale era superato, probabilmente, con una rampa o con un avancorpo ligneo. Il torrione angioino, posto all’estremità meridionale del fronte nordorientale, è un alto cilindro con basamento troncoconico costituito da cinque livelli più la copertura e si sviluppa per un’altezza di circa 29,50 m, con un diametro alla base della scarpa di circa 12,70 m ed un diametro della parte cilindrica di circa 10,30 m. Al livello inferiore si trova la cisterna, mentre nei vani superiori sono allocati i servizi e gli ambienti per la residenza caratterizzati dalla presenza dei camini. I vani, coperti a volte, erano collegati da scale interne che mettevano in comunicazione i vari livelli attraverso botole nel pavimento. La possente torre era coronata dalla merlatura sorretta da beccatelli e caditoie che permettevano la difesa piombante. Le murature del mastio e del torrione sono state costruite con una tecnica simile a quella utilizzata per le torri della cinta muraria esterna, ma i blocchi presentano dimensioni minori e sono visibili cospicue tracce di intonaco. Lungo il fronte orientale della rocca, protetta dal torrione angioino, si apre una seconda porta, raggiungibile tramite una rampa. Nell’angolo sud del mastio vi è un bastione a punta di epoca rinascimentale, i cui lati sono di circa 18,00 m, munito di basse terrazze protette da parapetti, funzionale alle mutate esigenze difensive conseguenti all’utilizzo delle armi da fuoco. La realizzazione di tale opera comportò la tamponatura di una preesistente porta d’epoca normanna, che metteva in collegamento la rocca con lo spazio interno alla cinta muraria longobarda, alla quale si addossò una scaletta di collegamento tra la corte e la terrazza del bastione. Il lato sud-occidentale del mastio è occupato da un ambiente di forma rettangolare allungata (all’incirca 28,0 m × 4,50 m), la cui volta di copertura è in parte crollata e che si riconosce come stalla. Tale ambiente riutilizzava, come limite occidentale, un muro in blocchi di tufo ascrivibile ad un precedente fortilizio di epoca longobarda (fine X - inizio XI secolo). Nello stesso muro è ricavata una porta che mette in collegamento l’ambiente con la torre occidentale dell’impianto normanno. Alla fase Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 165 costruttiva longobarda sono da ascrivere, oltre a tale muro, anche una cisterna ubicata in corrispondenza del limite occidentale della stalla ed un ambiente di forma trapezoidale ubicato nelle immediate vicinanze a ridosso della cortina. Quest’ultimo, all’atto della realizzazione del donjon normanno, fu ristrutturato, suddiviso in due ambienti e trasformato in cisterna. Delle costruzioni che un tempo occupavano il versante meridionale della collina, si notano i resti di numerosi ambienti. Tra questi, l’unico edificio conservato in elevato è una cisterna a pianta rettangolare (circa 9,50 m × 8,30 m), coperta a volta (altezza all’estradosso circa 5,40 m), ubicata all’interno della cinta muraria longobarda e che per tecnica costruttiva è ascrivibile all’epoca normanna. 2. Il castello di Summonte: ricerche storico-architettoniche 2.1. Rapporti ambientali Il territorio di Summonte è adagiato sulle falde orientali del Partenio, a circa 735 metri s. l. m. La genesi dei centri abitati della fascia pedemontana della cima (Mercogliano, Ospedaletto, Summonte, S. Angelo a Scala, Pietrastornina, Pannarano, S. Martino Valle Caudina, Cervinara, Rotondi, Paolisi, Forchia eccetera) può essere individuata nel periodo altomedioevale, quando le popolazioni allontanatesi dai territori delle antiche città di pianura, soggette a continue incursioni vandaliche, vi si insediarono in piccoli nuclei sparsi collegati a costruzioni chiesastiche di modeste dimensioni. In epoca longobarda, le strade di collegamento erano solo in parte quelle di fondovalle, che risalivano al periodo romano. Di contro, si moltiplicarono gli itinerari collinari con percorsi spesso impervi e con collegamenti di raccordo tra la valle e la montagna30. Lo schema viario medievale del Partenio può interpretarsi come un reticolo fortemente irregolare i cui tracciati si infittivano lungo la fascia pedemontana e si sfoltivano al centro della Valle Caudina. Percorsi molto frequentati si attestavano a mezza costa dove si localizzarono numerose chiese, tra cui S. Maria del Preposito ubicata nel territorio di Summonte. Ciascun centro era collegato alla strada pedemontana e, generalmente, ad una o più vie che scendevano dalla montagna e si dirigevano verso il 30 C. Lepore, Le radici medievali del Partenio, in Storia di un territorio, cur. F. Bove, Roma - Bari 1993, pp. 3-24. 166 Giovanni Coppola - Carmine Megna Fig. 4. Summonte, il torrione di epoca angioina fondovalle. Sul sistema viario vigilavano i castelli, che sorgevano numerosi ed opportunamente ubicati31. Il castrum di Summonte, presumibilmente edificato in forma embrionale nel periodo longobardo ed oggetto di ristrutturazioni, ampliamenti e trasformazioni nelle successive epoche normanna, angioina e rinascimentale, controllava una diramazione dell’antica via Campanina. Quest’ultima da Mercogliano, attraverso Roccabascerana, si indirizzava a S. Martino Valle Caudina, indi si biforcava ed un ramo si dirigeva verso Montesarchio, mentre l’altro si collegava alla via Appia. Dunque il castrum submontis, di cui si delineano di seguito le vicende storiche e gli aspetti architettonici, per la sua particolare posizione controllava la viabilità tra Avellino, la Valle Caudina, Napoli e Benevento32. 2.2. Notizie storiche A seguito della penetrazione dei Longobardi nelle regioni interne del Mezzogiorno (570-571) e della fondazione del ducato di Benevento, l’Irpinia fu inglobata e divisa in gastaldati, cui fu preposto un funzionario, il gastaldo, al quale competevano funzioni amministrative, poteri giurisdizionali e organizzazione militare. Se è accertato che il territorio di Summonte ricadeva nel gastaldato di Avellino, le origini del borgo sono 31 F. Bove, La montagna urbanizzata: architettura dei centri abitati dal Medioevo ai nostri giorni, in Storia di un territorio, pp. 183-245. 32 F. Scandone, Storia di Avellino, Avellino - Napoli 1947-1950, I/1, pp. 69-71, e II/1, pp. 97-98. Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 167 Fig. 5. Summonte, vista parziale dei lati sud-ovest e sud-est del castello incerte e negli anni vi si sono state diverse ipotesi avanzate da altrettanti studiosi. Francesco Scandone ritiene che la prima notizia storica di Summonte risalga ad una donazione del 769 in cui il sito sarebbe stato trascritto col nome di “Transmonte”, laddove si fa menzione di servi de Abellino et de Transmonte33; Carmelo Lepore, di contro, rileva che in pergamene del Codice Diplomatico Verginiano34 relative all’ultimo decennio del X secolo, l’ubicazione della chiesa di S. Maria del Preposito, cui si riferiscono i documenti in questione, appare ancora indicata in maniera indeterminata: ecclesia Sancte Marie de Monte Virginis finibus Abellino35. È verosimile che in età altomedioevale si sia costituito un primo nucleo, un semplice locus, vale a dire un piccolo casale, attestatosi nei pressi della via Campanina. Ed è quantomeno ragionevole presumere 33 F. Scandone, Profili di storia feudale dei Comuni compresi nell’antica contea di Avellino, Avellino 1951, p. 7. 34 Codice Diplomatico Verginiano, ed. P. M. Tropeano, I, Montevergine 1977, docc. 31, 37, 38, 61. 35 Lepore, Le radici medievali del Partenio, p. 25, n. 250. 168 Giovanni Coppola - Carmine Megna Fig. 6. Summonte, torrione angioino che nell’ambito del sistema difensivo del Ducato longobardo di Benevento, si sia sentita la necessità di realizzare un primo nucleo del castrum submontis con funzioni di avvistamento e controllo del territorio. E’ bene ricordare che le fortificazioni longobarde erano caratterizzate da piante irregolari prive di una particolare disposizione planimetrica o una spe- Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 169 ciale cura nell’esecuzione dei manufatti e che, spesso, si adattavano alla morfologia dei luoghi, già naturalmente difesi. E’ chiaro quindi che il primo nucleo del castello di Summonte era stato eretto proprio sfruttando la morfologia del territorio che offriva una buona difesa rispetto alla valle sottostante36. Nella prima metà del IX secolo, le lotte intestine per la supremazia del territorio tra Radelchi di Benevento e Siconolfo di Salerno culminarono nella Radelgisii et Siginoulfi divisio Ducatus Beneventani (849), voluta dall’imperatore Ludovico II. A seguito del trattato37 il territorio venne frazionato nei principati di Benevento e Salerno, inoltre si stabilirono con grande precisione le frontiere tra i vari territori38. In questa fase il fortilizio di Summonte acquisì una maggiore importanza strategica per il controllo della viabilità prossima ai confini, poiché la serra montis virginis fu assunta a limite territoriale tra il principato di Benevento e la signoria di Capua, mentre a breve distanza dal borgo correvano i confini del Ducato bizantino di Napoli. A seguito dell’avvento dei Normanni, iniziò la capitolazione degli stati della Longobardia meridionale ed uno degli ultimi principi longobardi, Pandolfo IV di Benevento, morì nel 1073 nella Valle Caudina a Montesarchio39. I Normanni, nell’ambito del processo di incastellamento, selezionarono e fortificarono quei siti che consentivano il controllo strategico del territorio, spingendo la popolazione ad accentrarsi in essi. La regola insediativa normanna fu applicata anche a Summonte, il borgo fu murato e dotato di un castello adeguato alle nuove esigenze militari. Nel 1094 troviamo un documento che cita un castellum qui dicitur Submonte40. Nel 1127 il castello e la terra di Summonte erano di proprietà di Raone Malerba de Fraineta, un nobile di origine franca giunto in Irpinia 36 P. Peduto, Insediamenti longobardi nel Ducato di Benevento (secc. VI-VIII), in Langobardia, cur. S. Gasparri - P. Cammarosano, Udine 1990, pp. 307-373. 37 Il documento è pubblicato in MGH, Leges IV, ed. H. Hoffmann, Hannover 1980, pp. 221-225. 38 Sulle problematiche delle frontiere longobarde si rimanda a S. Gasparri, La frontiera in Italia (sec. VI-VIII). Osservazioni su un tema controverso, in Città, castelli, campagne nei territori di frontiera (sec. VI-VII), cur. G. P. Brogiolo, Mantova 1995, pp. 9-19; J. M. Martin, Les problèmes de la frontière en Italie mèridionale (Vie-XIIe siècles): l’approche historique, in Frontière et peuplement dans le monde mèditerranèen au Moyen Age, cur. J. M. Poisson, Rome - Madrid 1992, pp. 259-276. 39 Annales Beneventani, ed. O. Bertolini, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoniano» 42, 1923, p. 143. 40 Codice Diplomatico Verginiano, I, doc. 89. 170 Giovanni Coppola - Carmine Megna al seguito dei Normanni41, che vari documenti posteriori ci ricordano come suffeudatario del conte di Avellino42. Il 26 luglio del 1127 morì, senza eredi, il duca di Puglia Guglielmo. Ruggero II conte di Sicilia, suo cugino, sbarcò a Salerno avanzando la pretesa dell’eredità. Dagli eventi che seguirono scaturì una guerra lunghissima che si protrasse con alterne e cruente vicende dal 1127 a circa il 1140 e portò all’unificazione politica dell’Italia meridionale. Il maggior antagonista di Ruggero fu il cognato Rainulfo, conte di Avellino, che sin dal dicembre del 1127 si schierò contro. Le devastazioni interessarono città, campagne, fortificazioni, chiese e monasteri. Ruggero II si fece unilateralmente incoronare a Palermo re di Sicilia nel dicembre del 1130 e, a vittoria ottenuta, nel 1140 convocò in Ariano Irpino una curia di baroni43 e di prelati, nella quale stabilì una serie di leggi, le cosiddette Assise di Ariano, che costituiscono il fondamento del Regnum Siciliae44. Le vicende relative all’unificazione del regno sono narrate, tra gli altri, dalle cronache di Alessandro Telesino e di Falcone Beneventano. Il primo è abate del monastero di San Salvatore nella Valle Telesina e la sua Ystoria Rogerii regis Sicilie Calabrie atque Apulie è una biografia ufficiale di Ruggero II richiesta dallo stesso per tramite della sorella Matilde45. Falcone, prima notaio e poi giudice a Benevento dal 1133, redige il Chronicon Beneventanum, incentrato sulla città, e, a partire dal 1127, si occupa della conquista ruggeriana46. Alcuni storici hanno visto in Falcone il porta41 L. R. Ménager, Inventaire des familles normandes et franques émigrées en Italie méridionale et en Sicilie (XIe-XIIe siècles), in Roberto il Guiscardo e il suo tempo, Atti delle prime giornate normanne-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Roma 1975, p. 398; G. Mongelli, Abbazia di Montevergine. Regesto delle pergamene, I (secc. X-XII), Roma 1956, n. 168, p. 64 e n. 286, p. 96. 42 Scandone, Profili di storia feudale, pp.7-8, n. 4. 43 Il registro baronale è di fondamentale importanza per lo studio della struttura patrimoniale del regno. Sull’argomento si vedano Catalogus Baronum, ed. E. Jamison, Roma 1972, e Catalogus Baronum. Commentario, cur. E. Cuozzo, Roma 1984. 44 O. Zecchino, Le Assise di Ariano, Cava dei Tirreni 1984. 45 L’opera di Alessandro Telesino è una biografia di Ruggero II, con particolare attenzione agli anni 1127-1136, vale a dire quelli della conquista dell’Apulia e della fondazione del regno. E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2003, pp. 30-31. 46 La cronaca di Falcone Beneventano è incentrata sulla città di Benevento passata dall’indipendenza del ducato autonomo a una sorta di protettorato pontificio sotto la continua minaccia normanna. A partire del 1127 il testo si occupa della conquista ruggeriana vista secondo un’ottica urbana e comunale. Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum. Città e feudi nell’Italia dei Normanni, ed. E. D’Angelo, Firenze 1998, pp. VIIXIV; D’Angelo, Storiografi e cronologi, pp. 36-38. Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 171 voce dell’autonomia longobardo-beneventana antitetica ai conquistatori normanni ma, come ha evidenziato Edoardo D’Angelo, non è possibile definire la storiografia di Falcone antinormanna o antiruggeriana, in quanto egli è più vicino alla tradizione cassinese, dal punto di vista contenutistico, per il carattere fortemente locale della sua trattazione e dal punto di vista formale, per l’adozione della forma annalistica47. Da Alessandro Telesino apprendiamo che «tota vallis Caudina cum ejus omnibus infra manentibus oppidis»48 costituiva la dote della contessa Matilde, sorella di Ruggero e moglie di Rainulfo. La contesa tra i cognati, dopo alterne vicende, si inasprì nel 1132, allorquando Ruggero II tolse a Rainulfo la contea di Avellino, ospitò la moglie ed il figlio e gli chiese la restituzione delle terre e dei castelli della Valle Caudina assegnati a Matilde in dote. Da Falcone apprendiamo che, nel 1134, Ruggero mise in piedi un poderoso esercito, mosse contro Avellino e nel suo cammino prese e mise a ferro e fuoco diversi manieri tra cui il castello di Summonte49. Successivamente a tale evento il sito fortificato ed il castello, evidentemente, furono oggetto di lavori di ristrutturazione50. Nel 1152 signore di Summonte è Boemondo Malerba figlio di Raone che risulta iscritto nei registri feudali come suffeudatario di Ruggero de Aquila conte di Avellino. Dalle pergamene del Codice Diplomatico Verginiano apprendiamo una serie di vicende relative alla vita del borgo che vedono coinvolto Boemondo sino al 1178 e, da una di queste del 1163, apprendiamo che il re lo aveva armato cavaliere. La famiglia Malerba mantenne il possesso del suffeudo per tutto il periodo normanno e risiedeva nel castello. Da un documento del 1159 si ha conferma dell’esistenza del borgo fortificato con il mastio, che, con il tempo, andò espandendosi con una regola insediativa del tipo a cerchi concentrici. Come ha evidenziato Carmelo Lepore, ne è prova indiretta l’esistenza di un ulteriore documento 47 Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum, pp. XL-XLI. Alexandri Telesini, De rebus gestis Rogerii Siciliane regis, ed. L. A. Muratori, in Rerum Italicarum Scriptores, V, Mediolani 1724, p. 624. 49 Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum, p. 169. 50 Sulle modalità insediative e sulle caratteristiche costruttive delle architetture militari normanne, si veda: G. Coppola, Castelli e motte nell’Italia meridionale normanna (secoli XI-XII secolo), in Studi in onore di Salvatore Tramontana, cur. E. Cuozzo, Salerno 2004, pp. 111-124; G. Coppola, L’architettura dell’italia meridionale in età normanna (secoli XI-XII), Napoli 2005, pp. 33-50. 48 172 Giovanni Coppola - Carmine Megna Verginiano, una platea, che attesta l’esistenza di case lignee in posizione esterna al castrum51. In un documento del 1183 è citato per la prima volta, quale successore di Boemondo, Raone Malerba e la moglie Agnese. Da questi coniugi nacque Nicola che in un atto del 1201 risulta indicato come signore di Summonte52. Durante il regno di Federico II di Svevia furono apportati notevoli mutamenti all’ordinamento militare e i castelli furono oggetto di particolari leggi53. Infatti l’imperatore, nel 1220, ordinò la convocazione in Capua di un Parlamento generale, che venne ricordato con il nome di Corte Capuana ed in tale sede promulgò le sue assise contenute in 20 capitoli. Fu ordinato così a tutti i baroni del regno di presentarsi e dimostrare le concessioni e i privilegi dei castelli da loro tenuti con l’esclusione di quei titoli che provenivano da concessioni fatte da Tancredi o da suo figlio; i feudi ed i castelli riconosciuti da questi ultimi vennero confiscati e devoluti alla Regia Corte, mentre per le rocche e le fortezze fu emesso ordine di demolizione54. Alla Corte Capuana fu presentata l’assegnazione del borgo fortificato di Summonte che restò ai Malerba nella persona di Roberto il quale, negli anni, si vide assegnare importanti uffici da Federico II. Infatti nel 1233 era provvisore imperiale dei castelli di Principato55; nel 1239 fu nominato giustiziere di Calabria56 e, da un documento del 1237, si evince che gli venne affidato il cavaliere milanese Obertino de Mandello fatto prigioniero nella battaglia di Cortenuova per essere rinchiuso nel castello57. Negli anni 1239-1240 Summonte dovette contribuire alle spese per la riparazione del castello imperiale di Pietrastornina58 È verosimile che durante il periodo svevo il borgo fortificato con il castello, svincolato da ogni soggezione feudale verso il conte di Avellino, sia stato oggetto di rimaneggiamenti. 51 Lepore, Le radici medievali del Partenio, p. 25, n. 253. Scandone, Profili di storia feudale, p. 9. 53 Per una disamina delle attribuzioni e delle competenze dei funzionari addetti al settore castellare si veda Sthamer, L’amministrazione dei castelli. 54 Gli eventi del periodo federiciano sono narrati da Riccardo di S. Germano: Ryccardus de Sancto Germano, Chronica, ed. C. A. Garufi, in Rerum Italicarum Scriptores2, 7/2, Bologna 1936-1938. 55 Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi, IV, 1, Paris 1857, p. 427. 56 Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica, V, 1, p. 445. 57 Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica, V, 1, p. 616. 58 E. Winkelmann, Acta Imperii inedita saeculi XIII et XIV, I, Innsbruck 1881, p. 776. 52 Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 173 Figlio e successore di Roberto Malerba fu Ruggiero che, a seguito del passaggio del potere agli Angioini, fece atto di sottomissione a Carlo I d’Angiò59. Nel 1271 il Malerba fu preposto alla forza armata posta a guardia della strada di collegamento tra Atripalda e Grottaminarda60 e, il 21 settembre 1277, fu annoverato tra i feudatari invitati a versare un supplemento per le spese della costruzione di navi per la regia armata. Successe a Ruggero il primogenito Nicola, che compare in un documento del 1295. Costui non ebbe vita lunga e gli succedette la figlia minorenne Francesca, sotto la tutela dello zio Roberto sino al 1305, quando raggiunse la maggiore età. Roberto Malerba morì di morte violenta nel 1314; del misfatto fu accusato Giacomo de Molinis, signore della vicina baronia di S. Angelo e Capriglia. Francesca ebbe tre mariti, l’ultimo dei quali, Bulgaro da Tolentino, trapassò nel 1338; a seguito della sua dipartita e dell’assenza di eredi legittimi, la famiglia Malerba si estinse61. La Regia Corte assegnò nel 1340 il feudo alla casata francese de Lagonessa, il cui cognome negli anni divenne della Leonessa62. L’intervento angioino si concretizzò a Summonte con il rifacimento delle forme normanno-sveve, erigendo una torre cilindrica a base troncoconica, alta circa 18,00 m e simile nella forma a quella di molte altre costruite nel Regnum Siciliae, tra cui quelle di Avella, Pontelandolfo, Velia, Castelcivita, Castelnuovo Cilento, Rocca Cilento, eccetera63. Il castello ospitò nel 1440 Renato d’Angiò, designato dalla regina Giovanna di Durazzo quale erede al trono, durante la sua sfortunata guerra contro Alfonso d’Aragona per il possesso del Regno di Napoli64. La famiglia della Leonessa mantenne il possesso della terra di Summonte per circa due secoli e, nel 1459, il feudo passò in potere del milite Troiano Spinello di Napoli grazie ad una donazione del re Ferdinando I d’Aragona. A Troiano Spinello successe il primogenito Antonio che ebbe l’investitura nel 1471. Poi la terra di Summonte passò al fratello Federico. A quest’ultimo successe nel 1498 il figlio Troiano, che fu 59 Scandone, Profili di storia feudale, p. 10. F. Bove, La montagna urbanizzata: architettura dei centri abitati dal Medioevo ai nostri giorni, in Storia di un territorio, pp. 192-202. 61 Scandone, Profili di storia feudale, p.10. 62 P. Durrieu, Les Archives Angevines de Naples. Étude sur les registres du roi Charles Ier, II, Paris 1887, p. 326-327. 63 Sull’introduzione e la diffusione in Italia meridionale della torre circolare in età angioina, già presente in Francia e nell’Italia del Nord, si rimanda a: Mesqui, Châteaux et enceintes, I, pp. 162-171; Santoro, Castelli angioini e aragonesi, pp. 45-52; Licinio, Castelli medievali, p. 228-246. 64 Scandone, Profili di storia feudale, p. 12, n. 37. 60 174 Giovanni Coppola - Carmine Megna confermato dall’imperatore Carlo V con diploma del 15 marzo 151865. Alla sua morte succedette il figlio Federico che, non avendo avuto figli, istituì erede testamentaria Lucrezia Spinello moglie di Giovanni Antonio Caracciolo conte di Oppido. Quando il Caracciolo prese possesso del feudo, si oppose la Regia Corte. Dopo quattro anni di lite presso il Tribunale della Regia Camera della Sommaria, si venne ad una transazione in forza della quale Lucrezia pagò al viceré Pietro de Toledo la somma di ducati 2300 avendo in cambio l’investitura delle terre. A Lucrezia successe la nipote Francesca Spinelli e, a partire da questa, iniziarono una serie di vendite del feudo. In occasione di uno dei passaggi, ad istanza dei creditori di Ottavio Cattaneo, il Tribunale del Sacro Regio Consiglio vendette a Giovanni Geronimo Salina la Baronia di Avella e la terra di Summonte al prezzo di ducati 158.000. La Regia Corte ebbe la prelazione in tale occasione e nell’anno 1604 assegnò tali feudi a Giovanni Andrea Doria in cambio dello Stato di Finale ceduto al Re Filippo II di Spagna66. I Doria rimasero feudatari di Summonte per oltre duecento anni fino all’eversione della feudalità nel 180667. Nella seconda metà del XVI secolo il borgo fortificato di origine normanna fu ampliato con la realizzazione di una cinta muraria poligonale dotata di baluardi, capisaldi sagomati a bastione e probabilmente un rivellino. Nella torre angioina fu ricavato un ridotto, aprendo nella base due bocche di lupo per l’artiglieria. All’esterno della nuova cinta muraria, lungo la strada di mezzacosta, fu costruito un nuovo quartiere di sedici lotti organizzato su una rigida scacchiera68. L’impianto cinquecentesco fu investito da profonde modificazioni nel corso del XVIII secolo, ascrivibili sia alle spinte dei ceti emergenti sia agli esiti dei terremoti del 1689 e del 1702. In questa fase venne ampliata la chiesa dell’Annunziata e le unità edilizie di base furono accorpate in case gentilizie cancellando gran parte del reticolo stradale ortogonale. Fu completamente coperta di costruzioni la piazza extramuraria ubicata innanzi alla porta di accesso al borgo medioevale, mentre restò isolato il 65 Scandone, Profili di storia feudale, pp. 11-12. E. Ricca, Istoria dei feudi del Regno delle Due Sicilie, IV, Napoli 1869, p. 480. 67 Sulle leggi volute da Giuseppe Bonaparte per abolire la feudalità nel Regno di Napoli, tra gli altri, si vedano: P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962; M. Palumbo, I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità: feudi, università, comuni, demani, Montecorvino Rovella - Cerignola 1910-1916. 68 Bove, La montagna urbanizzata, p. 225. 66 Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 175 palazzo feudale dei Doria, edificato nel corso del XVII con il probabile intento di creare un nuovo polo di attrazione69. Nel corso del XVIII secolo iniziò la decadenza dell’insediamento medievale, che ben presto fu definitivamente abbandonato70. 2.3. Notizie architettoniche Si giunge al castello mediante un stradina carrabile con una discreta pendenza che, passando al di sotto dell’arco San Nicola, si snoda all’interno dell’area del borgo fortificato e percorre via Arco San Nicola e parte di via Castello. In alternativa vi si giunge mediante una rampa gradinata ubicata ai piedi della sommità collinare nell’angolo nord-orientale, cui si accede da una strada del centro storico. La torre cilindrica a base troncoconica di epoca angioina, che fino ad alcuni anni fa si presentava allo stato di rudere71, è stata nel decennio passato oggetto di un intervento di restauro e di riqualificazione dell’area che ha previsto una sala conferenze ricavata in ambienti interni al maniero, un teatro all’aperto ubicato all’esterno del mastio ed alcuni ambienti riservati a ristorante e servizi ubicati ad una quota inferiore nel vertice nord-orientale del perimetro, raggiungibili con una rampa gradinata. Del complesso fortificato che un tempo occupava l’intera altura collinare e che era pressappoco corrispondente alla zona che ha mantenuto il toponimo castello, sono ancora leggibili solo alcune parti essendo le restanti crollate od inglobate in costruzioni successive. La difesa era organizzata con due cinte murarie fortificate poste a quote diverse: quella più interna, di epoca normanna con rimaneggiamenti in epoca sveva, era di forma poligonale ed aveva probabilmente delle torri. Quella posta ad una quota più bassa venne probabilmente realizzata nella seconda metà del XVI secolo per ampliare il borgo e dotarlo di baluardi, capisaldi sagomati a bastione e presumibilmente un rivellino. All’interno dell’area fortificata, immediatamente visibili per chi giunge da via Castello, vi sono tre pannelli di cui uno informa il visitatore della torre angioina, mentre i restanti illustrano, con l’ausilio di grafici e fotografie, intenti ed esiti degli interventi di restauro. 69 F. Matarazzo, Summonte, Avella 1990, p. 105. Bove, La montagna urbanizzata, p. 240. 71 Per la descrizione dello stato dei luoghi precedente al restauro corredata da una foto del torrione angioino, si veda G. Galasso, Torri e castelli in Irpinia, Atripalda 1990, pp. 124-126. 70 176 Giovanni Coppola - Carmine Megna Superato il cancello ubicato in prossimità del vertice nord-orientale del castello, una comoda rampa consente di superare il salto di quota tra la strada ed il piano di calpestio in prossimità della torre angioina. Lungo il percorso, in corrispondenza dei vertici settentrionale e meridionale della sommità collinare, si notano dei resti di strutture murarie appena affioranti dal terreno, portati alla luce a seguito di scavi archeologici. Si tratta di strutture risalenti per lo più all’impianto normanno. Giunti in prossimità della torre si nota un possente muro, parzialmente rifatto in occasione degli interventi, che segna il limite del mastio che presentava una forma quadrangolare e conteneva una superficie di poco superiore ai 500 mq. Dall’osservazione della tessitura muraria si riconoscono le parti di restauro rispetto ai tratti di muratura originaria. Infatti l’orditura muraria antica presenta, oltre alla consunzione del tempo, una maggiore ricerca di orizzontalità dei ricorsi, nonostante la presenza di pietrame di pezzatura molto varia72. Il torrione cilindrico a base troncoconica di certa datazione angioina presenta le murature realizzate con conci di pietra calcarea sbozzati ed allettati con malta a base di calce, sabbia mista a lapillo e pietra macinata. Nella tessitura si notano inclusioni di arenaria e qualche laterizio. Originariamente il paramento era intonacato e sulla sommità della torre vi erano beccatelli e caditoie. Tale manufatto è stato edificato a partire da una preesistente costruzione normanna quadrangolare supportata da un possente sperone che è stato lasciato a vista sul lato nord-occidentale. Tale circostanza ha evidentemente influenzato la forma geometrica della base scarpata, che risulta essere irregolare e tendente all’ellisse invece che al cerchio. La torre presenta un’altezza fuori terra, variabile con la quota del piano di calpestio, che si aggira intorno ai 18,00 m. La torre originariamente era divisa internamente in quattro piani sovrapposti, oltre al terrazzo di copertura e alla cisterna. L’originaria porta d’ingresso è ubicata al primo piano del lato orientale ed è delimitata da un arco ribassato in scheggioni di pietra calcarea. Vi si giunge mediante una stretta scala in pietra che si snoda lungo parte della scarpata in aderenza alla stessa. Da tale piano, mediante collegamenti interni, si poteva scendere sia al piano terra, coincidente con la parte basamentale, dove si conservavano le derrate alimentari e si attingeva acqua tramite il pozzo dalla sottostante cisterna, 72 Sulle problematiche connesse alla conservazione e al restauro dei ruderi si veda: L. Marino, Materiali per un atlante delle patologie presenti nelle aree archeologiche e negli edifici ridotti allo stato di rudere, Firenze 2009. Due castelli medievali in terra d’Irpinia: Avella e Summonte 177 sia ai due livelli superiori ed al lastrico di copertura. Lo spessore della muratura varia al variare dell’altezza e, se nella base scarpata si riduce progressivamente, nella parte cilindrica va rastremandosi con una serie di riseghe. Infatti a quota + 0,90, dunque alla base, è di circa 3,80 m, a quota + 4,25 m è pressappoco di 2,10 m, a quota + 11,90 è di circa 1,30 m, eccetera. Sul fronte orientale del torrione, a destra dell’originaria porta di accesso, vi è una feritoia verticale incorniciata da conci di pietra, di taglio quasi regolare, che ospita il canale di raccolta dell’acqua piovana proveniente dal terrazzo e collegato alla cisterna. Nel corso del XVI secolo nella torre angioina fu ricavato un ridotto, realizzando nella base a scarpa un piano intermedio con relativo vano di accesso, ed aprendo due bocche di lupo per l’artiglieria ubicate verso la strada per Ospedaletto e verso la montagna. In corrispondenza del varco di accesso per tale piano intermedio, raggiungibile con una scala di restauro ubicata sul lato meridionale della torre, è possibile osservare le tracce murarie del mastio normanno-svevo inglobate nella costruzione angioina. A seguito degli interventi di restauro in tale livello intermedio è stata allestita un’esposizione di reperti archeologici. Dall’osservazione delle murature si notano alcune feritoie ed aperture di varie epoche, nonché le integrazioni delle tessiture murarie realizzate per rifare parti crollate o fatiscenti e per tamponare alcune delle aperture realizzate nel corso del XVI secolo. Il paramento murario originale, oltre a mostrare evidenti tracce di consunzione dovuta al tempo, presenta una pezzatura media inferiore a quella di restauro73. In occasione dei recenti interventi di ristrutturazione è stata realizzata una scala interna che mette in comunicazione i livelli dal primo piano col terrazzo di copertura. 73 Sul restauro la conservazione dei castelli, tra gli altri, si vedano: P. Gazzola, La conservazione ed il restauro dei Castelli alla luce della Carta di Venezia, «Castellum» 8, 1968, pp. 81-96; Il restauro dei castelli nell’Italia meridionale. Atti del Convegno (Caserta 10-11 marzo 1989), cur. R. Carafa, Caserta 1991; V. Foramitti, A. Quendolo, Restauro dei castelli: relazioni presentate agli incontri di studio sul restauro dei castelli (Udine 1998-2001), Udine 2008. RECENSIONI E SCHEDE Fulvio Delle Donne, Federico II: la condanna della memoria. Metamorfosi di un mito, Viella, Roma 2012 (I libri di Viella, 138), pp. 206, ISBN 9788883347610 L’idea della eccezionalità umana, culturale e politica di Federico II ha trasformato storicamente e storiograficamente in mito la sua figura. Un mito che è stato assai precoce, alla cui edificazione posero mano già i suoi contemporanei, con una tradizione di giudizî che a partire da Dante è giunta sino a Ernst Kantorowicz, autore di una suggestiva monografia. Né quel mito ha cessato mai d’alimentarsi, se da ultimo neppure Hubert Houben è riuscito a svicolare il tema, dedicando alcune pagine della sua recente biografia alla ricezione moderna dell’immagine di Federico. Per altro verso, lo stesso tentativo non era riuscito pienamente all’altro biografo di Federico, David Abulafia, il cui obiettivo ermeneutico di ridimensionamento del mito dell’Imperatore finiva con l’alludere continuamente al mito stesso, sino al punto da indurre lo storico inglese a dichiarare, proprio in capo al lavoro, che per quanto tutto ciò che si riferisce solitamente alla figura di Federico non risponda a verità, già il fatto stesso che lo Svevo fosse stato visto in quella luce e in quell’alone mitico sarebbe bastato a farne oggetto d’attenzione degli scrittori e dei lettori dei libri di storia. Consapevole della difficoltà di individuare una sicura linea di confine tra mito e storia a proposito dello Svevo, e di quanto il mito federiciano abbia per se stesso un valore storico, nella misura in cui, nel mito, vi è il riverbero che la personalità dell’Imperatore ebbe sui contemporanei e sui posteri, Delle Donne offre un’analisi puntuale e rigorosa delle fonti che hanno codificato l’emblematicità di Federico, sino alla sua trasfigurazione. L’attenta lettura delle fonti e del contesto in cui esse videro la luce consente infatti di trattare un tema precedentemente affrontato in 180 Recensioni e schede particolar modo dalla storiografia tedesca, ma riportandolo all’interno di un discorso che recupera la filologia delle fonti. Del metodo filologico l’autore dunque si serve per dare sostanza a un discorso che ripercorre i passaggi vari e complessi che hanno trasformato Federico II da personaggio reale a simbolo. Nel caso dello Svevo – rimarca Delle Donne – si tratta quasi di una damnatio più pervicace dell’oblio, perché la memoria trasfigurata non è stata lungi dal seppellire il personaggio storico sotto le concrezioni del proprio mito (p. 8). In questo senso, il mito è sia rappresentazione sintetica nel suo significato riassuntivo e allo stesso tempo globalizzante tale da rendere possibile una sua riutilizzazione successiva, sia prodotto della storia che in quanto tale deve essere indagato storiograficamente nella sua genesi, nella sua evoluzione, nelle sue trasformazioni e nelle sue attualizzazioni. Pertanto molto efficace e persuasiva è la struttura in tre parti che l’autore appronta per illustrare il mito di Federico. Nella prima parte, Delle Donne concentra la propria attenzione sulla genesi del mito federiciano, ripercorrendo e analizzando le origini storiche della mitizzazione sotto le cifre significative della mitogonia e della mitotrofia. La prima – la mitogonia – prende le mosse dall’osservazione dei momenti cruciali della vita e del ruolo dell’Imperatore (pp. 13-38). L’autore si sofferma sulla nascita di Federico II, che viene salutata immediatamente dai contemporanei come un evento eccezionale e allo stesso tempo straordinario. Già nelle fonti coeve (Pietro da Eboli), essa fa dello Svevo il precursore di un’imminente età dell’oro, in perfetta aderenza a una temperie culturale pervasa di attese messianiche e di profezie gioachimite. Tuttavia, è lo scontro propagandistico con papa Gregorio IX a fare di Federico il messia e l’anticristo allo stesso tempo. A far data dal 1239, lo scontro con i Comuni dell’Italia settentrionale costringe infatti Federico a modificare i termini della propria concezione del potere, che da universalistica pare trasformarsi in assolutistica e tendente sempre più alla rivendicazione non solo temporale, ma anche spirituale del ruolo dell’imperatore. La consapevolezza della propria funzione viene enunciata ancora una volta in un contesto in cui persistenti sono le attese di un mondo che si percepisce come prossimo alla propria fine. L’hic et nunc della morte di Federico infine, nella sua singolarità stupefacente – il giorno di S. Lucia, a dicembre – e insieme inconsueta – l’assoluta insignificatività del luogo dell’exitus, Castel Fiorentino –, divenne, dopo la vita, argomento di profezia (Saba Malaspina, Giovanni Villani). Recensioni e schede 181 Lungo queste linee, dunque, l’autore passa a considerare come sia stato Federico stesso, in buona parte e per fini propagandistici, il principale artefice della propria immagine leggendaria. Nel secondo capitolo – la mitotrofia – si mostra infatti come già nelle fonti coeve il mito di Federico abbia generato altri miti, e come essi, del mito dell’Imperatore, poi si siano autoalimentati nell’immaginario collettivo del XIII secolo, particolarmente ben disposto ad accogliere voci e notizie fantastiche (pp. 39-64). Pertanto l’avvenimento storico, reale, concreto, già trasformato in mito, accoglie ancora elementi immaginari o leggendari, quali sono ben visibili nella sedimentazione delle leggende e delle profezie legate alla veneranda età di Costanza d’Altavilla, novella Sara biblica, e dunque alla presunta illegittimità dello Svevo. Temi – questi – che vengono ripercorsi dall’autore in parallelo alle fonti, da quelle anonime a quelle dei cronisti più noti (Salimbene de Adam, Giovanni Villani), sino ai travasi di tradizione che si riscontrano negli storici del Regno di Napoli (Pandolfo Collenuccio). Né alieni ai processi di arricchimento furono gli stessi aspetti più innovatori della politica culturale dell’Imperatore, i quali, per quanto avessero tratto origine da finalità di controllo politico e propagandistico, potevano essere manipolati in funzione anti-imperiale, sino a fare di Federico l’eretico per antonomasia. In quest’ultima facies il processo di trasfigurazione dello Svevo è compiuto, offrendo il destro a quella che si può anche definire valenza ancipite del mito di Federico, e per la quale – sottolinea Delle Donne – il mito positivo dell’Imperatore e quello negativo rappresentato dal suo contrario finiscono per diventare due figure speculari (p. 62). Dalle attestazioni storiche delle trasformazioni di un mito che si è enormemente accresciuto autoalimentandosi e che ha ormai preso strade autonome, l’autore sposta l’attenzione del lettore su una seconda parte (pp. 67-130), inversamente direzionata rispetto alla prima, in cui si considera il processo di storicizzazione del mito, quel processo cioè mediante cui il mito cerca fondamento nella storia. Ciò è stato possibile mediante la letteratura, la quale ha fatto di Federico un oggetto di ulteriore adattamento. Tale infatti è stato il processo che ha reso Federico II un personaggio letterario, protagonista di novelle (Novellino) o di leggende (quella di Cola Pesce), e che quindi può vivere in ogni epoca e in ogni luogo, adattandosi solo alla fantasia creatrice del narratore (p. 70). In proposito, però, ben viene sottolineato l’ulteriore slittamento proprio di alcune elaborazioni letterarie relative allo Svevo, nelle quali è chiaramente visibile come il processo di mito-poiesis, che ha reso Federico un 182 Recensioni e schede personaggio letterario, si sia poi sublimato in quello di mito-poësis, legittimando in definitiva la figura – chiaramente leggendaria – di un Federico a propria volta produttore e autore di versi. Ciò è quanto consente di prospettare l’analisi di una fonte d’autore anonimo, ma di probabile origine pugliese, la Narratio qualiter imperator Federicus reaquisivit regnum sibi rebellatum quando accessit ad aquirendum Ierusalem et sepulcrum Christi, copia più tarda di una fonte coeva nota agli antichi eruditi del Regno di Napoli, che la lessero e la utilizzarono come propria fonte col titolo sintetico di Itinerarium o Itinerario. Di essa si erano perse del tutto le tracce sino al recente rinvenimento da parte dell’autore tra il materiale appartenuto all’erudito cinque-seicentesco Camillo Tutini, conservato nel fondo Brancacciano della Biblioteca Nazionale di Napoli. Contestualmente all’analisi del mito di Federico in rapporto a un’altra fonte anonima – una Cronaca di Troia di un anonimo cappuccino, conservata nell’Archivio capitolare di Troia (Puglia) – l’Itinerarium costituisce abbrivio per un non secondario recupero storiografico dei “blasoni popolari”, rimasti sino a oggi appannaggio di antropologi e studiosi locali, per restituirli a una interpretazione complessiva, legata anche alla rigenerazione continua del mito di Federico. Non di meno, l’analisi da parte dell’autore di questi stessi “blasoni popolari”, in molti casi assunti a simboli rappresentativi delle realtà pugliesi, ne rivela il carattere informativo, mostrandone infine la loro utilizzabilità come fonte, utile cioè a svelare il rapporto sempre ambiguo tra Federico II e le realtà cittadine pugliesi. La rigenerazione continua del mito di Federico è dunque il traitd’union che riconnette il lettore alla terza parte del libro (pp. 136-155). Essa prende impulso dai rapporti privilegiati che le città pugliesi hanno sempre inteso avere con la figura di Federico, tanto da renderlo nel corso del Novecento una sorta di mito-motore, un’icona identificativa, l’emblema di una regione e di un popolo, una figura cioè capace di catalizzare non soltanto un’inesausta attenzione, ma anche una serie di rappresentazioni mentali in quelle oscure zone dello spirito in cui si formano i processi di memoria collettiva, l’orgoglio identitario di una comunità, conferendo non semplici suggestioni, bensì senso e profondità storica. Completano il volume due appendici che riportano, rispettivamente, l’edizione dell’Itinerarium di anonimo pugliese (pp. 162-173) e la Cronaca di Troia dell’anonimo cappuccino (pp. 174-180). Di gradevole leggibilità nella forma espositiva piana e consequenziale, propria del metodo storico-filologico cui l’autore si ispira, il testo soddisfa le attese ermeneutiche del titolo e schiude al lettore ulteriori Recensioni e schede 183 spunti di riflessione. Tali infatti essi giungono dalla originalità dei titoli di alcuni capitoli: la mitotrofia (= la crescita esponenziale del mito), la mitopoësis (= la sublimazione del mito in capacità autorale), il chaos-mythos (= la materia informe del mito alla base della fama letteraria), il mito-motore (= la capacità auto-(ri)produttiva del mito nel tempo e nello spazio). Tali espressioni sono, in buona parte, neo-logismi generati dalla capacità di astrazione dell’autore, ma di assoluta efficacia linguistica. L’attenta ridefinizione storiografica di alcuni attributi, come puer Apuliae e Stupor mundi, dimostra che essi hanno connotazioni molto diverse e addirittura opposte rispetto a quelle che vengono loro solitamente attribuite. Ciò fa del libro di Delle Donne un importante contributo agli studi specifici su Federico II. Ma, oltre a ciò, l’originale costruzione del ragionamento e l’approfondita indagine sulle evoluzioni del mito e sui suoi molteplici aspetti si mostrano capaci di aprire nuove prospettive anche per studi relativi ad altri ambiti. Rosanna Lamboglia Pietro Colletta, Storia, cultura e propaganda nel Regno di Sicilia nella prima metà del XVI secolo: la Cronica Sicilie, Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 2011 (Fonti per la storia dell’Italia medievale, Subsidia, 11), pp. 346, ISBN 978-88-89190-74-6 La terza serie dei Rerum Italicarum scriptores accoglierà a breve, a cura di Pietro Colletta, l’edizione critica della cronaca convenzionalmente attribuita al cosiddetto Anonimo palermitano o maggiore (o anche siciliano) e solitamente rubricata, nei repertori di fonti, col titolo canonico di Chronicon Siculum. Nello spazio che ancora vi intercorre, Colletta ha dato alle stampe il presente studio, che costituisce una premessa all’edizione, sulla scorta delle informazioni e dei confronti realizzati nelle fasi del lavoro propriamente ecdotico. La nuova e più esaustiva recensione dei codici offre non solamente numerosi spunti per l’analisi interpretativa del testo dell’Anonimo, ma fornisce anche la conferma di quanto già Giacomo Ferraù, Gina Fasoli e Venanzio Todesco avevano evidenziato in proposito, ovvero che l’opera sembrava solo apparentemente impegnata a offrire scarne notizie prive di ogni intervento personale – il primo – e che il testo della cronaca fosse originariamente più ampio di quello copiato nei codici pervenutici – i secondi. 184 Recensioni e schede L’analisi ecdotica ha dunque consentito all’autore di procedere nell’una come nell’altra direzione, con l’intento precipuo di offrire uno studio specifico sul testo che ne indagasse le problematiche fondamentali, quali la formazione culturale e le motivazioni ideologiche dell’Anonimo, la datazione e le circostanze di redazione, le caratteristiche compositive, le modalità di trasmissione e la fortuna dell’opera (p. 11). Il prodotto finale è indubbiamente un lavoro scientifico più che apprezzabile, soprattutto nella misura in cui è adeguatamente sviluppato il rapporto tra la narrazione e i documenti presenti nella cronaca (pp. 131-211) e l’approfondimento dei contenuti anche nel confronto con altre fonti narrative e documentarie dell’epoca (pp. 235-252). Ne risulta pertanto un’informativa più circostanziata rispetto alle pur puntuali pagine che riferiscono del testo dell’Anonimo nell’ambito di trattazioni di carattere generale sulla cronachistica medievale o rispetto anche ai lemmi dei repertori – l’ultimo dei quali all’interno della recente Encyclopedia of the Medieval Chronicle (2010). Tanto le une quanto gli altri, di necessità, hanno dovuto prendere in considerazione il testo della cronaca pubblicato da Rosario Gregorio nel secondo volume della sua Bibliotheca scriptorium qui res sub imperio Aragonum gestas retulere (1791), che ancora costituisce il testo di riferimento, in attesa della nuova edizione critica promessa. Rispetto alla versione del Gregorio, accresciuta rispetto a quella di L. A. Muratori (Rerum Italicarum scriptores, X, Mediolani, 1727, coll. 809-904) e all’editio princeps di E. Marténe e U. Durand (Thesaurus Novus Anecdotorum, III, Lutetiae Parisiorum, 1717, coll. 5-100; la stessa poi ristampata anche da J. G. Graeve e P. Burmann, Thesaurus antiquitatum et historiarum Siciliae, Lugduni Batavarum, 1723, coll. 1-84), il Colletta propone, sulla base della collazione dei mss., un testo ancora più ampliato e un nuovo titolo. Ne consegue che il testo dell’Anonimo si comporrebbe ora di 125 capp. secondo la redazione del ms. Barcellona, Bibl. de Catalunya, 488, che continua la narrazione sino al diffondersi dell’epidemia di peste del 1347-1348. Quanto al titolo, nella nuova edizione, esso dovrebbe essere più congruamente Cronica Sicilie, secondo appunto ciò che la tradizione manoscritta concordemente restituisce, sia pure con varianti grafiche (coronica) o con ampliamento del titulum (come per es. nel ms. Barcellona, Bibl. de Catalunya, 488: Cronica processuum in regno et insula Sicilie). Entrambe le questioni muovono da una informazione dettagliata e ben condotta; nondimeno la strutturazione dell’argomentazione risente, nell’uno come nell’altro punto, di ipostasi a latere del ragionamento, per le quali, per esempio, per quanto concerne il titolo, si esclude recisamente Recensioni e schede 185 che in Sicilia nel XIV secolo il termine cronica fosse sentito come neutro plurale (p. 26, nota n. 23). Analogamente, si dà per scontata la paternità di un medesimo anonimo autore per tutte e tre le redazioni della cronaca (I redazione: ms. Palermo, Bibl. Com., 4QqD47; ms. Napoli, Bibl. Naz. VG29; ms. perduto dell’editio princeps; II redazione: ms. Bibl. Apost. Vaticana, Vat. Lat. 3972; III redazione: il già citato ms. Barcellona, Bibl. de Catalunya, 488) e si ammette unicamente la rielaborazione della parte finale del ms. catalano da parte del copista (pp. 57-70), oltre a una serie di omissioni, interpolazioni e modifiche significative nella prima parte (p. 72). Il Colletta, infatti, pur avanzando l’ipotesi – o il dubbio – che i capitoli aggiunti, presenti nel ms. catalano, siano successivi all’Anonimo, in ultimo la ricusa, affermando che fra le parti della cronaca non vi sono elementi di divergenza o di discontinuità. Al contrario, rileva una rigorosa coerenza nell’impostazione ideologica, nel metodo di lavoro, nella tecnica compositiva e in quella narrativa, e così pure nella lingua e nello stile (p. 72). Pertanto – forse in maniera troppo perentoria – il Colletta conclude che il pensare a più di un autore sarebbe congettura non solo improbabile, ma anche superflua (p. 72). Rilevati questi punti, il primo capitolo (La genesi della cronaca: fra città e corona, pp. 15-75) offre una utile caratterizzazione della cronaca: Colletta ne considera la datazione e le fasi di redazione, la semplicità espositiva delle parti narrative, la presenza di 61 trascrizioni di documenti del tempo, la precisione dei riferimenti cronologici, la buona informazione che mostra in particolare sugli avvenimenti di Palermo e della Sicilia occidentale con ricchezza di dettagli, a volte non altrimenti nota (pp. 57-75). Alcuni paragrafi sono dedicati al profilo ipotetico dell’Anonimo e del committente, al pubblico destinatario implicito ed esplicito, interno ed esterno (pp. 28-57): tutti questi elementi vengono correlati alla corte e alla cancelleria siciliana. In proposito, proprio il confronto con un altro ms. contenente molte delle epistole utilizzate nella cronaca, il codice Fitalia, Società Siciliana di Storia Patria, I B 25, consente al Colletta di avanzare l’ipotesi secondo cui l’ambiente dell’Anonimo possa essere quello relativo al giudice palermitano Filippo Carastono e alla sua famiglia, abbastanza nota anche per avere avuto tra i suoi componenti un numero significativo di giudici, notai e pubblici ufficiali (pp. 34-35). Con tale congettura, che giustamente può essere solo avanzata, è congrua anche l’ipotesi, secondo la quale anche il ms. Fitalia confermi l’esistenza di una cultura giuridica affermatasi a Palermo nei decenni successivi al Vespro e che forniva alla 186 Recensioni e schede monarchia il personale, gli strumenti e le competenze per l’elaborazione e la diffusione di un preciso messaggio di propaganda (p. 37). A questo punto, però, occorre soffermare l’attenzione sull’idea costante e soggiacente a tutto il lavoro del Colletta: fin dal titolo, egli indica, quale carattere peculiare della cronaca, l’intento propagandistico (p. 15) e ufficiale (p. 16, pp. 40-41, 57), ovvero un progetto storiografico completo e consapevole (p. 40) con motivazioni ideologiche che fanno della cronaca un veicolo di propaganda filo-aragonese, un messaggio di fedeltà alla Corona siciliana di Federico III d’Aragona e dei suoi successori. L’affermazione si basa sulla constatazione che la Cronica Sicilie possiede tutte le caratteristiche – volontà esplicita dell’autore di comunicare messaggi di parte, rapporto dell’autore con un’istituzione, riverbero sul pubblico – che fanno di una ricostruzione storica uno strumento di propaganda (p. 19). A ciò, il Colletta aggiunge che non è da escludere un’influenza da parte della Corona e dell’ambiente di corte nella composizione della Cronica (pp. 39, 41), anzi, ne viene avanzata l’ipotesi del patrocinio ben oltre la morte di Pietro II (p. 71). Per quanto vada rimarcato come Colletta stesso avverta che questo non è stato il punto di partenza, bensì un punto d’arrivo, in quanto non vi è nella cronaca nessuna dichiarazione o commento in proposito, parimenti vi è da osservare che alcune affermazioni appaiono ancora una volta non pienamente giustificate né chiarite; soprattutto al concetto di “ufficialità” vengono attribuiti valori semantici troppo ampi. Nel ragionamento messo in campo, non si avanza, del resto, alcun’altra possibilità di spiegazione della difesa della legittimità filo-aragonese con argomentazioni giuridico-dinastiche o schiettamente propagandistiche (p. 31), se non quella della sua elaborazione presso la Corte (p. 245). In altre parole, non si approfondisce in alcun modo l’ipotesi che lo strumento di polemica politica di cui è testimone la Cronica (p. 47) possa essersi generato – tanto per fare un esempio – all’interno stesso del ceto professionale cancelleresco, e non per induzione esclusiva della Corona e dell’ambiente di corte. E che, al contrario, della continuità di lungo periodo delle esperienze politico-istituzionali, realizzate a dispetto dei cambi di dinastia proprio dalle successioni al trono, l’Anonimo si serva per rivendicare un diritto all’esser-ci di ceti, di città, di identità giuridica ormai costituita, al cui apice s’individuava, dai fatti del Vespro in poi, la casa d’Aragona. L’ipotesi non viene adeguatamente perseguita da Colletta, perché egli, forse, si attiene a una tendenza storiografica che ha sfumato i toni di una lettura “sicilianista” troppo ideologizzata (pp. 185-186). Tuttavia, la stessa ipotesi di una presa di coscienza autonoma Recensioni e schede 187 poteva essere quantomeno formulata sulla base della presenza di alcune lettere scambiate tra le città, all’interno della cronaca. Ancora in connessione con ciò, pare legittimo anche chiedersi se l’Anonimo, combinando parti narrative con documenti di vario tenore, utilizzati come fonti, e che indubbiamente costituivano testimonianza significativa di quella che doveva essere la pubblica opinione nel rapporto tra Corona siciliana, Regno angioino e Corona d’Aragona, rappresenti solo un modello (p. 150) per le cronache dinastico-giuridiche della età dei Martini, o piuttosto si ponga in una fase intermedia della elaborazione storiografica siciliana, costituendo una sorta di trait d’union tra quest’ultime e la storiografia isolana precedente. In un contesto ormai cambiato rispetto a quello dell’autore della Cronica Sicilie, le cronache “minori” siciliane della fine del Trecento e della prima metà del Quattrocento continueranno a elaborare il principio della legittimità, vincolandolo sia alla discendenza sveva di memoria manfrediana, sia alla dimostrazione, mediante genealogie, dell’assenza di una soluzione di continuità nelle successioni al trono siciliano degli esponenti della dinastia catalano-aragonese prima e aragonese poi, ma appunto nei termini di un ulteriore slittamento, eliminando cioè il rapporto tra documentazione e narrazione che si ha, invece, nell’Anonimo. Il secondo capitolo (La costruzione della cronaca: genere letterario e caratteristiche compositive, pp. 77-130) considera la cronaca secondo la tipologia storiografica, ovvero se essa debba essere considerata historia, chronica o compilazione annalistica, e conclude che la Cronica Sicilie vada inclusa opportunamente nel genere ibrido e relativamente poco studiato delle cronache con documenti (p. 85). In proposito, l’ampio excursus sull’origine del genere storiografico – sempre che di genere possa parlarsi per testi dai connotati molto differenti – delle cosiddette cronache-cartulario (o cronache a doppio binario o chronica roborata) inserisce il testo dell’Anonimo nel quadro più ampio della produzione europea del tempo. Rispetto a questa produzione, se ne evidenziano le affinità, ma anche le divergenze (pp. 86-93), cosa che dà agio a Colletta di passare a spiegare la funzione degli inserti documentari della cronaca, suddivisi per aree tematiche (pp. 95-102). Gli stessi poi sono messi a confronto con i dictamina, ovvero con i modelli retorici raccolti nel già citato Codice Fitalia. Proprio quest’ultimo raffronto documentale offre la possibilità di prendere le distanze dalla lettura, a dire il vero poco perspicua, di Claudia Villa, la quale ha intravisto nel ms. Fitalia un embrione di cronaca. Una riflessione, quindi, il Colletta dedica anche agli squilibri tra le parti della cronaca, ma in proposito è ribadito il concetto per il quale l’Anonimo 188 Recensioni e schede intende realizzare, con lucido distacco e con la coerenza metodologica di un progetto compositivo unitario (p. 252), una storia completa della Sicilia (p. 81), senza tuttavia approdare agli esiti di una cronaca universale (p. 214), come pure senza ispirarsi ad alcun precedente diretto (p. 90). Il terzo capitolo (Le “sezioni” della cronaca fra storia e propaganda: note di lettura, pp. 131-211) è una disamina dettagliata delle diverse sezioni dell’opera tra parti propriamente narrative e inserti documentali, a cominciare dalle frammentarie notizie proemiali di un improbabile Menelao, re d’Italia, sino a quelle via via sempre più dettagliate e precise dell’epoca di attività dell’Anonimo. La progressione della narrazione, che si fa sempre più circostanziata mano a mano che l’Anonimo si avvicina alla propria contemporaneità, è cifra di un interesse che si fa anche più stringente, oltre che indice di una maggiore disponibilità di fonti: anzi sembra che le due possibilità vadano di pari passo. E per quanto l’autore tenga costantemente presente che le proprie sono ipotesi per una cronaca che non offre molti richiami incontrovertibili, va rilevato che egli non mette mai in discussione l’autenticità degli inserti documentari. Su di essi viene condotta un’analisi solamente contenutistica e non linguistico-formale secondo le tipicità del linguaggio retorico-cancelleresco – analisi, questa, forse non congruente con gli scopi del volume, ma comunque auspicabile ai fini dell’edizione critica della Cronica. Il tempo e lo spazio della cronaca, le sue dilatazioni e le sue contrazioni costituiscono invece gli argomenti del quarto capitolo (Percezione e rappresentazione del tempo e dello spazio, pp. 213-234). Il quinto capitolo (Posizione e ruolo nella tradizione storiografica del Regnum Sicilie, pp. 235-265) considera invece la Cronica Sicilie in rapporto alla cronachistica coeva siciliana, rispetto alla quale, sia pure nella minore ambizione letteraria, presenta tratti di maggiore ufficialità (p. 239). Altro confronto è quello del rapporto con le fonti precedenti, estremamente ridotto, se non addirittura assente, per quanto riguarda la storiografia di epoca normanno-sveva. Completano il lavoro una premessa (pp. 9-13), un’appendice recante le descrizioni e i regesti dei documenti contenuti nella cronaca (pp. 267-289), una ricca e informata bibliografia (pp. 291-323) e 4 indici (dei manoscritti, p. 327; degli autori e delle opere anonime, pp. 329-332; delle persone, pp. 333-339; dei luoghi e dei popoli, pp. 341-344). Nell’insieme, il volume si presenta come una ricognizione completa, dettagliata e documentata sulla cronaca esaminata, che viene avvalorata come una fonte di primaria importanza per la ricostruzione degli avve- Recensioni e schede 189 nimenti compresi tra lo scoppio della guerra del Vespro nel 1282 e il diffondersi dell’epidemia di peste del 1347-1348. Rosanna Lamboglia Benoît Grévin, Rhétorique du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XVe siècle), École Française de Rome, Rome 2008 (Bibliothèque des École Française d’Athènes et de Rome, 339), pp. XII – 1024, ISBN 9782728308088 L’interesse verso la retorica e l’ars dictaminis medievale è andato notevolmente crescendo in questi ultimi anni, così come risulta attestato anche dalla recente istituzione, all’interno della Società Internazionale per lo Studio del Medio Evo Latino (SISMEL), di una sezione dedicata proprio all’approfondimento di tale tematica, che prelude alla pubblicazione di nuove fonti e nuovi studi, dopo quelli già apparsi nella serie dell’Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini. A essere indagata è, tuttavia, non solo la trattatistica teorica, ma anche la sua applicazione, che si estrinseca nell’organizzazione più o meno sistematica di raccolte di lettere, che fungevano da “manuali” di bello stile per notai, maestri e studenti di retorica. In tale contesto, particolare attenzione ha ricevuto soprattutto la produzione epistolare sviluppata nella zona dell’Italia centro-meridionale che coincideva con la Terra di Lavoro, ovvero quella cosiddetta “scuola di Capua” che caratterizzò la prosa adottata specialmente nelle cancellerie papali e imperiali. E, una volta che si è cominciato ad analizzare tali testi con metodi e con prospettive nuove, si è riusciti finalmente a sradicare la convinzione, sopravvissuta troppo a lungo, che essi fossero il frutto di una cultura “pratica” e “subalterna”, e che, quindi, non meritavano di essere studiati approfonditamente e specificamente né dai filologi, perché privi di dignità letteraria, né dagli storici, perché esercizi fittizi che nessun legame, o quasi, avevano con la contingenza della realtà. Così, per un verso, si è riuscito a superare lo scoglio opposto soprattutto da chi osservava la letteratura mediolatina da una prospettiva “antichistica”, che difficilmente poteva accettare una – effettivamente incomparabile e anacronistica – assimilazione degli epistolari di Cicerone o di Plinio a quelli del XIII secolo, pur se questi ultimi costituirono uno degli ambiti di produzione maggiormente praticati dai più rinomati letterati di area italiana di quel periodo; e, per l’altro verso, si è dimostrato che quelle epistole, lungi dall’essere fittizie o puri esercizi stilistici, pur 190 Recensioni e schede avendo funzione retorica esemplare, sono l’effettivo prodotto del vigilato e accorto lavoro svolto nelle cancellerie, che soprattutto nel corso del Duecento, andarono mettendo a punto una sempre più complessa e precisa regolamentazione. In quest’ambito di rinnovamento degli studi si viene a porre l’impegnativo, approfondito e assai ben documentato volume di Benoît Grévin, che, impiegando – com’è opportuno in questi casi – i metodi e le acquisizioni sia filologici che storici, compie una complessiva ricognizione della “fortuna” europea della lingua attestata nel cosiddetto epistolario di Pier della Vigna, uno dei documenti più significativi – ma anche più problematici – del nostro Duecento, su cui si formarono tutti i più illustri letterati del tardo medioevo, Dante incluso. Il cosiddetto epistolario di Pier della Vigna, in effetti, come si sa soprattutto in seguito agli studi condotti da Hans Martin Schaller, raccoglie circa 550 testi prodotti tra il 1198 e il 1264, ovvero in un arco di tempo che non coincide con quello dell’attività del protonotaro e logoteta capuano, che entrò a far parte della cancelleria federiciana intorno al 1220 e morì all’inizio del 1249. Ma tali evidenti problemi di attribuzione non sono gli unici: altri sono connessi con le origini della sua compilazione e con le sue differenti tipologie di trasmissione, in 4 principali redazioni sistematiche e in svariate forme non sistematiche. Su tali questioni – che rendono urgente l’edizione critica dell’epistolario, su cui si sta lavorando, con differenti criteri, sia presso i “Monumenta Germaniae Historica”, sia presso il Centro di Studi Normanni – si concentra la prima delle cinque parti del volume in questione (pp. 17-120), in cui si fa un attento punto sulla questione relativa alla funzione retorica (definendo l’epistolario una “summa dictaminis pratica”) e su quella connessa con la tradizione manoscritta, e si sofferma sulla “tripla autorità” delle lettere: quella di Federico II (cioè colui che ufficialmente ha emanato i documenti), Pier della Vigna (colui a cui è attribuito l’epistolario) e Nicola da Rocca (a cui, rilanciando una ipotesi già avanzata da chi scrive, può fare capo una primitiva raccolta del materiale). La seconda parte (pp. 121-261), dedicata alle tecniche di creazione delle lettere, analizza i rapporti tra gli insegnamenti teorizzati nei manuali di ars dictaminis e le applicazioni pratiche, attraverso il riesame dei modelli stilistici (lo stylus curie Romane e quello Francigenus), dell’ornatus e dell’organizzazione medievale del sapere. La terza (pp. 263-417), poi, più specificamente tratta delle scuole campane di dictamen, ma non tanto dal punto di vista degli insegnamenti retorici, quanto da quello dell’ambiente Recensioni e schede 191 sociale, descritto attraverso le origini, la carriera e le ideologie dei suoi componenti. Se fin qui, con le prime tre parti, si sono indagate le vie della creazione, con la seconda sezione del volume vengono esplorate le vie della ricezione. La quarta parte (pp. 421-537), infatti, è riservata all’ambito della comunicazione politica del XIII secolo, e in essa i caratteri del genere epistolare vengono messi a confronto con quelli di altri generi, come le disputationes, i sermoni o la storiografia, per culminare, poi, in alcune riflessioni su alcuni rapporti tra complessità stilistica e guasti riconducibili alla trasmissione manoscritta. La quinta parte (pp. 539-873), infine, è quella più lunga, ma anche, indubbiamente, quella più innovativa e ricca di risultati, dal momento che, attraverso puntuali riscontri e confronti, indaga sulla diffusione europea, soprattutto nel XIV e XV secolo, dei moduli stilistici ravvisabili nel cosiddetto epistolario di Pier della Vigna. Partendo da considerazioni preliminari di tipo metodologico, sulla circolazione e sulle dinamiche di diffusione dei manoscritti, nonché sui loro copisti, possessori e luoghi di conservazione, si passa a indagare il riuso “classico”, delle lettere di età sveva nella cancelleria francese (che fa capo soprattutto a Jean de Caux e a Pierre d’Étampes), e quello “virtuoso” della cancelleria inglese del XIV secolo; nonché quello riscontrato presso la cancelleria imperiale, luogo d’elezione per quel tipo di testi, nelle corti e negli autori italiani, nelle restanti cancellerie d’Europa. Il lavoro di Grévin, che è completato dall’introduzione generale (pp. 1-14), dalla conclusione (pp. 875-888), nonché da un ricco apparato di concordanze, fonti manoscritte, bibliografia, elenco delle tavole e ben 8 indici (pp. 889-1010), attraverso l’analisi delle scritture prodotte dai detentori del potere, riflette, in sostanza, sulle forme di un linguaggio che, attraverso la sua diffusione, è riuscito a veicolare ben oltre i suoi limiti originari l’inscindibile interconnessione tra forma stilistica e contenuto politico presente nei documenti usciti dalla cancelleria sveva. Il volume si presenta, dunque, come un validissimo strumento di consultazione non solo per chi si occupa della storia e della cultura del XIII secolo, ma anche per chi intende studiare i linguaggi politici e le loro modalità di diffusione, impiego e trasformazione lungo tutto il basso medio-evo. Fulvio Delle Donne 192 Recensioni e schede Nascita di un regno. Poteri signorili, istituzioni feudali e strutture sociali nel Mezzogiorno normanno (1130-1194), cur. R. Licinio e F. Violante, Mario Adda, Bari 2008, pp. 440, ISBN 978880827740. Gli atti della diciassettesima giornata organizzata dal Centro di Studi Normanno-Svevi di Bari testimoniano il lungo impegno nel campo degli studi normanni dispiegato dall’istituzione pugliese [gli atti del primo convegno, Roberto il Guiscardo e il suo tempo, furono pubblicati nell’ormai lontano 1975], rappresentando il più articolato – ma soprattutto stabile – appuntamento nel corso del quale più di un centinaio di studiosi italiani e internazionali si sono venuti confrontando su tematiche connesse con il Mezzogiorno medievale nei secoli XI-XIII. Forniamo qui di seguito l’elenco dei contributi presenti nel volume (segnalando che mancano purtroppo le relazioni di Claudio Azzara e Jeremy Johns che non hanno fatto pervenire la versione scritta del loro intervento): Salvatore Tramontana, Nascita di un regno. Discorso di apertura, pp. 15-50; Pierre Bauduin, Les modéles anglo-normands en questions, pp. 51-97; Salvatore Fodale, Le prime codificazioni, pp. 99-114; Maria Giovanna Arcamone, Lessico feudale, pp. 115-130; Errico Cuozzo, Poteri signorili di vertice, pp. 131-142; Annkristin Schlichte, Chiesa e feudalesimo, pp. 143-176; Jean-Marie Martin, Les seigneuries monastiques, pp. 177-205; Vito Loré, Signorie locali e mondo rurale, pp. 207-237; Giovanni Cherubini, Centri demici e dinamiche economico-sociali, pp. 239-258; Giancarlo Andenna, Città e corona, pp. 259-294; Glauco M. Cantarella, La cultura di Corte, pp. 295-330; Fulvio Delle Donne, Liturgie del potere: le testimonianze letterarie, pp. 331-366; Pina Belli D’Elia, Liturgie del potere: i segni visivo-oggettuali, pp. 367-394; Cosimo Damiano Fonseca, La nascita di un regno: bilancio storiografico e percorso di ricerca, pp. 395-413. La semplice lettura dei contributi contenuti nel volume consente di apprezzare il fatto che il Comitato scientifico del Centro, nel momento di affrontare le vicende della nascita del regno normanno, abbia preferito adottare un taglio più fortemente concentrato sul versante giuridico-economico-sociale nonché sugli propagandistico-cortesi, piuttosto che concentrarsi sulla storia politica (la cosiddetta histoire événementielle, per ripren- Recensioni e schede 193 dere un’espressione cara al movimento delle Annales). Si tratta del resto di scelte che rispecchiano trend storiografici consolidati e rappresentano lo specchio fedele degli interessi oggi predominanti. Resta comunque sempre più prioritaria - a nostro avviso - la necessità di proporre lavoriquadro che sintetizzino e diano conto dei progressi degli studi normanni tenendo anche conto delle ricerche condotte a livello internazionale sulle altre realtà territoriali dominate dagli uomini del Nord. Non è del resto un caso che in questi ultimi anni si sia assistito alla doppia traduzione italiana della celeberrima Histoire de la domination Normanne in Italie et en Sicile di Ferdinand Chalandon (la cui prima edizione è degli anni 1906-1907), mentre da più parti assistiamo a un proliferare di studi di ogni genere e tipo, una tendenza del resto enfatizzata dall’esplosione del Web. «Non sono pochi i risvolti da approfondire e troppe domande, troppi dettagli rimangono ancora privi di documentazione per adeguate e convincenti risposte» (p. 412): così Cosimo Damiano Fonseca nella lezione conclusiva delle diciassettesime giornate e tale affermazione appare oggi quanto mai attuale per tutti gli storici impegnatisi in questi ultimi decenni a rinnovare un campo di studi così ricco di sfide e suggestioni. Luigi Russo Reginald Allen Brown, Storia dei normanni, Odoya, Bologna 2010, pp. 266, ISBN 9788862880626. La riproposizione del classico lavoro di Reginald Allen Brown (19241989), professore al King’s College di Londra nonché promotore degli Anglo-Norman Studies, pubblicato per la prima volta nel 1984 e tradotto in italiano nel 1998, permette di fare un bilancio del venticinquennio trascorso nel campo degli studi normanni, consentendoci di apprezzare con maggiore consapevolezza la direzione presa dagli studiosi cimentatisi in questo campo. Del resto, una sintesi ormai classica come questa mantiene ancora oggi – nonostante tutto – intatto il suo fascino e permette di apprezzare in pieno la verve di uno studioso che tanto ha influenzato i lavori successivi, e che traspare a più riprese nel libro, come quando nell’introduzione tuona contro «l’eccessiva specializzazione che è diventata la rovina della storia» (p. 9), oppure contro la «potente lobby di detrattori dei normanni» (p. 207). Certo il venticinquennio trascorso rende questa storia dei Normanni in più punti sorpassata: a esempio, quando ricorda la mancanza di «qualunque serio studio militare sui 194 Recensioni e schede normanni in Italia» (p. 142) [oggi, invece, possiamo fare affidamento su E. Cuozzo, «Quei maledetti normanni». Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989], o quando parla della nascita del ducato di Normandia (pp. 29-32) le cui vicende sono state rivisitate in maniera sostanziale [si veda P. Bauduin, La première Normandie (Xe-XIe siècles). Sur les frontières de la haute Normandie: identité et construction d’une principauté, Caen 2004]. Resta un’interpretazione complessiva della storia dei Normanni dell’XI secolo come un popolo che ecletticamente riuscì a imporsi sulla scena politica medievale («avevano probabilmente il dono dell’adattamento»: p. 21), conquistando ampi spazi nelle attuali regioni dell’Inghilterra, della Francia, dell’Italia e del Medioriente, ai danni delle popolazioni più disparate grazie anche agli accordi raggiunti con le più alte autorità religiose. L’elegante veste grafica, ricca di immagini, rende questa riedizione particolarmente meritoria da parte della casa editrice bolognese, se non fosse per alcune sviste presenti nel testo determinate dalla scarsa frequentazione con la traduzione di testi medievistici: ciò spiega la mancata resa in italiano di nomi come Raoul Glaber (= Rodolfo il Glabro), Aubrey (= Alberada), Cnut (= Canuto), Orderico Vitalis (= Orderico Vitale), Argyrus (= Argiro), e così via, o peggio i fraintendimenti per cui l’appellativo di Roberto il Guiscardo viene reso con l’aggettivo «cauto» (p. 126). Per di più la mancata segnalazione della traduzione di numerosi lavori citati in nota [su tutti M. Bloch, La società feudale, Torino varie edd.; M. De Boüard, Guglielmo il Conquistatore, Roma 1989; J.J. Norwich, Il regno nel sole. I normanni nel sud, Milano 1972; S. Runciman, Storia delle crociate, Torino 1966; L.T. White, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania 1984] rende il libro meno fruibile per il lettore italiano interessato ad approfondire gli aspetti della storia normanna trattati nel volume. Luigi Russo Rosa Canosa, Etnogenesi normanne e identità variabili. Il retroterra culturale dei Normanni d’Italia fra Scandinavia e Normandia, Silvio Zamorani, Torino 2009, pp. 189, ISBN 978-88-7158-170-5. La pubblicazione della tesi della dott.ssa Rosa Canosa (Università di Torino) dimostra che, nonostante tutto, oggi è ancora possibile formare giovani medievisti in grado di proporre ricerche stimolanti. Occorre subito notare che il lavoro della studiosa torinese adotta esplicitamente Recensioni e schede 195 le categorie interpretative elaborate nell’ambito della “scuola di Vienna”, resa celebre dalla monografia di Reinhard Wenskus, Stammesbildung und Vervassung. Das Werden der frühmittelalterlichen gentes (Köln 1961), riprese e approfondite dalle opere di Herwig Wolfram [di cui occorre ricordare la celebre Geschichte der Goten tradotta in italiano nel 1985 per i tipi della Salerno editrice] nonché da quelle di Walter Pohl, conosciuto dal pubblico italiano in seguito alla pubblicazione di una raccolta di saggi di grande successo [Le origini etniche dell’Europa: barbari e romani tra antichità e Medioevo, Roma 2000]. Si tratta di lavori che si sono occupati di analizzare le forme di creazione dell’identità etnica (= etnogenesi) delle popolazioni germaniche nei secoli altomedievali: l’autrice dimostra – con efficacia – la possibilità di estendere tale metodologia di ricerca alle fonti di epoca successiva partendo da alcune piste interpretative evidenziate, oltre trent’anni orsono, da Ovidio Capitani in un seminale contributo sulla storiografia normanna [Motivazioni peculiari e linee costanti della cronachistica normanna dell’Italia meridionale: secc. XI-XII, in «Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali. Rendiconti», 65 (1976-1977) fasc. I, pp. 59-91]. Nello specifico, il lavoro in questione analizza il tema dell’identità dei Normanni d’Italia e la loro memoria delle origini, stabilendo importanti punti di raccordo con quanto avvenuto in Normandia e Inghilterra; l’identità etnica normanna è dunque intesa dall’Autrice come una «espressione di strategie culturali di costruzione di un’origine legittimante ogni volta potenzialmente diversa» (p. 21), un filo conduttore del resto esplicitato sin dal titolo del volume. Chi scrive non può che sottolineare l’attenzione costante al binomio “memoria/oblio” nell’ambito della produzione storiografica analizzata (in particolare Dudone di San Quintino, Amato di Montecassino, Goffredo Malaterra e Guglielmo di Puglia), ma soprattutto apprezzare la fecondità di un approccio metodologico che, piuttosto che soffermarsi sull’enunciato delle fonti, privilegia l’indagine sul lessico delle fonti e sulla costruzione del mito (al riguardo si veda quanto detto alle pp. 154-155). Il quadro complessivo che emerge è quello di una differente etnogenesi tra i Normanni delle varie regioni europee nelle quali essi si stanziarono: mentre in Inghilterra la memoria delle origini nordiche venne utilizzata a titolo di legittimazione per i cavalieri guidati da Guglielmo il Conquistatore, ciò non avvenne nel caso italiano dove la famiglia degli Altavilla preferì riconnettersi alla Normandia da cui proveniva piuttosto che al mondo nordico (cfr. pp. 98 e ss.). Molto più impegnativa fu poi la 196 Recensioni e schede soluzione elaborata da Dudone nella sua storia dei duchi di Normandia: posto di fronte al problema di mascherare i rapporti esistenti tra i Normanni e i pirati vichinghi, lo storiografo si impegnò in «un’operazione di nascondimento» (p. 33) dell’identità nordica, privilegiando i fattori di integrazione nel mondo franco [un elemento questo sul quale oggi siamo molto meglio informati grazie alle ricerche di Pierre Bauduin] ed evidenziando l’avvenuta cristianizzazione degli esponenti della stirpe ducale. La conquista del Mezzogiorno italiano, della Normandia e dell’Inghilterra, rese necessaria per i Normanni l’elaborazione di un “discorso mitico” che da un lato chiarisse nessi e modalità delle loro conquiste, dall’altro le legittimasse: nella delucidazione dei punti qualificanti di tale discorso sta il pregio del lavoro di Rosa Canosa, la quale propone una griglia concettuale ampia della storiografia normanna dell’XI secolo, periodo in cui si concentra la parte preponderante della sua analisi che si auspica sia foriera di ulteriori sviluppi. Luigi Russo Alle origini del dualismo italiano. Regno di Sicilia e Italia centro-settentrionale dagli Altavilla agli Angiò (1100-1350), Convegno del Centro Europeo di Studi Normanni, Ariano Irpino (AV), BIOGEM, 12-14 settembre 2011. Il Centro Europeo di Studi Normanni di Ariano Irpino festeggia vent’anni di attività con un convegno che, nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, risulta di stringente attualità: “Alle origini del dualismo italiano. Regno di Sicilia e Italia centro-settentrionale dagli Altavilla agli Angiò (1100-1350)”. Obiettivo dell’incontro è quello di mettere in evidenza analogie e differenze tra nord e sud Italia durante il Basso Medioevo sul piano della storia economica. A David Abulafia è demandato di aprire i lavori con una relazione che ripercorra lo status quaestionis sull’argomento dalla stesura del suo The Two Italies. Economic relations between the Norman Kingdom of Sicily and the Northern communes (uscito a Cambridge nel 1977) fino alle più recenti tendenze interpretative e metodologiche della ricerca storiografica. Se da una parte sono stati avanzati dubbi (Steven A. Epstein) sui risultati di un approccio metodologico che interpreta i rapporti economici NordSud sulla base di un metro di giudizio moderno influenzato dal sistema capitalistico, dall’altra il relatore ha insistito sulla presenza oggettiva e innegabile di un “dualismo” italiano. Anche se questo concetto va usato, Recensioni e schede 197 per sua stessa ammissione, in maniera giudiziosa, tanto da essere interpretato non come uno schema fisso e rigido ma flessibile e adattabile a una situazione fluida in cui, in realtà, le “Italie” non solo solamente due ma molte (tanto da parlare di “pluri-“ o “micro-“ dualismo). Nella prima sessione si è voluto delineare in generale i rapporti economici Nord-Sud durante l’arco cronologico interessato dal convegno scandito secondo le principali cesure politico-istituzionali che hanno caratterizzato il Regno. Così Claudio Azzara ha parlato dei “precedenti prenormanni” insistendo sulla necessità di rivedere certi modelli che, in maniera troppo spesso meccanica, hanno forzato la realtà dei fatti secondo rigidi schemi preconcetti. Né con la conquista longobarda e neppure con quella franca si determinò una netta contrapposizione dualistica tra il nord e il sud dell’Italia e sarebbe un errore voler ritrovare già in questi eventi le origini della decadenza e della marginalità del Mezzogiorno. La realtà è, in verità, molto più complessa ed elaborata e, senza voler negare le differenze esistenti tra le due aree, il tutto va riconsiderato in maniera più fluida e sfumata. Errico Cuozzo si è dedicato ai “Normanni” insistendo sulla necessità di indagare la storia economica del Regno non in confronto alle città del centro e nord Italia ma tenendone in conto le specifiche peculiarità: anche alcune realtà urbane del Mezzogiorno ebbero una vivace attività finanziaria e mercantile (in alcuni casi favorita, addirittura, dalla monarchia stessa). Se una differenziazione tra le due aree è innegabile, ciò non è imputabile, come precedentemente la storiografia aveva ritenuto, alla Corona (alla quale, tra l’altro, era estraneo il concetto tipicamente moderno di politica economica) ma a specifiche cause interne alle singole città che devono essere indagate di volta in volta nelle loro peculiarità. Sulla stessa linea interpretativa si è posto Hubert Houben relativamente agli “Svevi”. Infatti anch’egli pone l’accento sulla necessità di sfumare una netta contrapposizione dualistica tra Nord e Sud e di analizzare le città del Mezzogiorno nel loro contesto e nelle loro specificità. Inoltre, se certamente sotto Federico II la pressione fiscale fu forte e le ricchezze del Regno furono utilizzate come mezzi per finanziare la politica internazionale e di respiro universale dello Svevo (che invece dimostrò disinteresse per le loro potenzialità mercantili ed economiche), anche per l’età sveva, così come per quella normanna, non fu la monarchia a rallentare lo sviluppo economico del Mezzogiorno. L’ultimo passaggio dinastico è affidato alla relazione di Francesco Paolo Tocco che tratta degli “Angiò”. Il relatore ha messo in evidenza 198 Recensioni e schede come durante il governo di questi regnanti la divisione Nord-Sud venne ad accentuarsi in maniera determinante: oltre allo sfruttamento delle risorse finanziare ed economiche da parte della Corona si registrò, a esempio, una sempre maggiore presenza di operatori commerciali provenienti dal Nord (soprattutto provenzali e toscani, in particolare fiorentini). D’altro canto, tutto questo non va necessariamente interpretato in termini negativi per il Mezzogiorno: Roberto il Saggio, pur mantenendo una politica assai dispendiosa dal punto di vista militare e culturale, riuscì a risanare le casse del Regno e ad alleggerire la pressione fiscale. Inappropriato dunque, a suo dire, il ricercare l’origine della moderna “questione meridionale” già nel Medioevo (e nello specifico nella monarchia angioina) perché ciò porta a interpretare secondo un rigido schema dualistico una realtà ben più elaborata e complessa che potrebbe essere definita pluri- o micro- dualistica e che non è riassumibile, secondo un’anacronistica logica “colonialistica”, in un mero rapporto di sfruttamento a senso unico delle terre del Sud da parte delle città comunali del Nord. La seconda sessione ci ha offerto, invece, il punto di vista di quelle entità politico-istituzionali che dall’esterno intervennero nelle vicende economiche del Mezzogiorno. Ermanno Orlando si è dedicato ai rapporti tra “Venezia e il Regno” durante l’età, così impongono le fonti, angioina. In genere la Serenissima intrecciava strette relazioni commerciali con il Sud (dovute anche agli interessi comuni di espansione verso Bisanzio delle due parti) e molti suoi operatori penetrarono, anche con la creazione di quartieri strettamente dipendenti dalla madre-patria, nei porti pugliesi e siciliani gestendone le esportazioni. Tale rapporto, però, non va visto in maniera esclusiva o privilegiata ma come parte di una ben più ampia e complessa attività economica dal respiro mediterraneo assolutamente non ascrivibile a un angusto modello dualistico. Gabriella Airaldi ci ha insegnato che “Genova e il Regno” già dal XII secolo erano “strutturalmente” legati da costanti relazioni di natura sia economica che politica. Ma, anche in questo caso, si deve sottolineare come il rapporto con il mezzogiorno d’Italia non sia stato assolutamente a senso unico, bensì incentrato su una collaborazione tra le parti dovuta a precipui interessi comuni e come tali relazioni rientrassero, in realtà, in una più variegata e complessa politica internazionale di natura mediterranea intessuta dalla città ligure. Se con l’età angioina si assistette a una destabilizzazione dei rapporti, ciò non va visto all’interno di un dualismo Nord-Sud ma di una più generale situazione politica a livello mediterraneo. Recensioni e schede 199 Giuliano Pinto ha delineato le relazioni tra “Toscana, toscani e Mezzogiorno” in età angioina ponendo, subito in apertura, l’attenzione sul fatto che, a differenza dei veneziani e dei genovesi, per questi l’azione nel Meridione fu un elemento importantissimo ed essenziale della loro politica economica. In particolare, l’interesse per attività di natura mercantile, finanziaria e creditizia portò alla formazione, soprattutto da parte dei fiorentini (che ebbero senz’altro la preminenza rispetto alle altre città toscane), di veri e propri monopoli e condizionò le scelte locali in materia. Certamente, tale situazione causò un forte sbilanciamento dei rapporti a favore del Nord, anche se la realtà dei fatti va rivista e fortemente sfumata perché non interpretabile in un senso così univoco come la storiografia aveva pensato. I sovrani angioini non furono poi così asserviti alla politica delle città toscane né la situazione interna al Regno può essere vista come un blocco unitario ma è da considerarsi alla luce delle sue variegate specificità. Insomma, concetti come quello di “colonialismo” o rigidi schemi dualistici di rapporto tra “dominanti e dominati” non possono essere applicati troppo frettolosamente. Se le cause delle due Italie vanno ricercate nel lungo periodo, forse più ai secoli successivi a quelli medievali dovrebbe indirizzarsi la ricerca e con una maggiore attenzione ai fattori interni piuttosto che agli esterni. Claudio Lo Jacono ci ha mostrato le relazioni politiche ed economiche intessute tra “Oriente Islamico e Mezzogiorno” prima della conquista normanna. Nello specifico ha ricostruito, per il X e parte dell’XI secolo, il vivace sistema di scambi economici e commerciali dell’area nord africana e mediterranea (con particolare attenzione all’Egitto del tempo) che vide come protagonisti sia i musulmani che i cristiani e di cui la Sicilia islamica era parte integrante grazie alla grande quantità e varietà di prodotti che riusciva a porre sul mercato. Una floridezza che segnerà il passo, facilitandone la conquista, proprio al momento dell’avvento dei Normanni. Con la III e la IV sezione il punto di vista torna interno al Regno ponendo l’accento su alcuni aspetti specifici delle attività economiche. JeanMarie Martin, a esempio, ha posto l’attenzione su “mercanti e classi mercantili” ammonendo che è necessario indagare la politica economica del Mezzogiorno per quella che è e non come un complemento di quella del nord Italia o in funzione della così detta questione meridionale. Ne risulta che, sebbene le innegabili diversità rispetto all’Italia centro-settentrionale, in realtà gli elementi di decadenza non furono poi così accentuati come era stato ritenuto e che il quadro generale fu caratterizzato da 200 Recensioni e schede una certa complessità di sfaccettature. Per il relatore, nel corso del XII secolo nel Sud si assistette a un forte sviluppo economico paragonabile a quello registrabile nel resto d’Europa e che venne meno solamente nel corso del XIII secolo quando nel Regno, carente di un vero e proprio ceto mercantile, l’attività commerciale fu presto abbandonata all’iniziativa di mercanti veneziani, genovesi e toscani a favore della gestione degli appalti monarchici. È in questo processo che si consumò il fallimento economico del Sud. Rosanna Alaggio ha invece affrontato il tema delle attività economiche (e soprattutto commerciali) delle città costiere pugliesi lungo “il versante adriatico e jonico” in età pre-normanna e normanno-sveva. Ne è emerso che la conquista delle terre del Sud da parte dei Normanni non ha costituito una vera e propria cesura perché fu solamente durante la dominazione sveva che si assistete a un processo di abbandono delle attività mercantili in favore dell’acquisizione di uffici, cariche e diritti di monopolio strettamente legati alla Corona e a un conseguente asservimento delle iniziative locali alla politica monarchica. Ma se ciò ha determinato il decadimento economico delle città del Mezzogiorno, in realtà, suggerisce la relatrice, questo fu solo uno dei fattori scatenanti e neppure il principale. Henry Bresc si è chiesto quando è iniziato il sottosviluppo della Sicilia e quali ragioni lo hanno causato. Per lui l’età normanna vide l’apice della potenza economica dell’isola grazie all’utilizzo, da parte dei conquistatori venuti dal nord, di una classe dirigente di origine musulmana e greca alla quale si aggiunsero gli operatori lombardi. È con gli Svevi (e la definitiva espulsione dei saraceni) e gli Aragonesi che si creò uno spopolamento e una decadenza del tessuto urbano che portò a un’organizzazione latifondistica la cui produzione fu generalmente indirizzata a mercati esterni e commercializzata da stranieri (secondo un modello di vera e propria “economia coloniale”). Con Pietro Dalena la verifica del dualismo italiano è avvenuta tramite il confronto tra “vie e mezzi di comunicazione” del nord e del sud della Penisola. I Normanni non svilupparono una vera e propria politica della viabilità delegando e lasciando l’iniziativa agli enti locali. Stesso processo si manifestò con gli Svevi: Federico II si occupò solamente delle grandi vie imperiali per fini militari tralasciando completamente il restante tessuto viario. Se con gli Angioini si manifestò una maggiore attenzione per le strade, le loro iniziative furono incentrate esclusivamente ai problemi della sicurezza lungo tali vie e forte restò ancora l’in- Recensioni e schede 201 tervento locale in un contesto, complessivamente, alquanto degradato. Manifestando una forte divaricazione tra le parti, completamente diversa si presenta la situazione nel Centro e nel Nord ove le città comunali pianificarono interventi in favore delle strade realizzando un impianto viario ben più efficiente. Aurelio Cernigliaro ha analizzato “il diritto dell’economia e del commercio” come mezzo per meglio comprendere il dualismo NordSud e le eventuali cesure causate dal passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva. Tra la formulazione teorica presente, a esempio, nel Liber Augustalis di Federico II e la gestione pratica degli aspetti economici esistette una forte discrepanza. Quindi lo scenario risulta molto più complesso e variabile di quanto è potuto sembrare e con fasi e momenti non assolutamente omogenei e perfettamente coerenti. Se nella politica federiciana di gestione e stretto controllo regio della fiscalità a discapito delle entità locali si è voluto vedere la causa dello strangolamento dell’economia del Sud, non è assolutamente detto che la realtà corrispondesse perfettamente alla teoria e, per forza di cose, qualsivoglia considerazione in merito deve essere suffragata da un puntuale confronto tra le parti. Compito di Nicola De Blasi è stato l’occuparsi di “dualismi e pluralismi culturali in Italia” ma, nello specifico, dedicandosi ad aspetti prettamente linguistici. Il relatore ha insistito sul fatto che, in verità, di dualismo si può parlare solamente per il rapporto tra latino e volgare mentre per quest’ultimo è più corretto pensare a un “pluralismo” linguistico (caratterizzato, comunque, da una sua omogeneità di base che permette di classificarlo come “italiano”). Dunque, da riconsiderarsi è la rigida e invalicabile divisione dei volgari secondo la ben nota linea La SpeziaRimini: la situazione era, nella realtà, molto più fluida e varia di quanto era stato schematizzato e i molteplici idiomi che da nord a sud caratterizzavano la nostra penisola si combinavano tra di loro influenzandosi a vicenda. Quella di Giuseppe Galasso, come lo stesso autore ha tenuto a sottolineare, non è stata una conclusione al convegno ma semplicemente la relazione che ne ha chiuso i lavori. Se certamente la cesura tra Nord e Sud non va necessariamente vista all’interno di un processo lineare ma che è caratterizzato da varie fasi e differenti sviluppi in continuo cambiamento e il Mezzogiorno stesso va considerato alla luce delle sue proprie specificità, lo studioso ha posto l’accento su “un dualismo di lunga durata” che, nato già con la discesa longobarda, si accentuò durante il Medioevo e soprattutto l’età moderna e contemporanea. Proprio 202 Recensioni e schede nella, già medievale, mancata partecipazione del Meridione alle crociate, conquista del Sud da parte dei Normanni (con la conseguente introduzione del sistema istituzionale che ne zavorrò lo sviluppo economico) e gestione sconsiderata delle sue risorse da parte della monarchia egli ha rintracciato le cause di questo processo. In definitiva, giornate dense quelle di Ariano e che, tra spunti e suggestioni per approfondimenti futuri, hanno messo in evidenza tutta la complessità della realtà economico-sociale del Regno e dell’Italia centrosettentrionale tra 1100 e 1350. Mirko Vagnoni