il prete educatore - Diocesi di Verona

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il prete educatore - Diocesi di Verona
Daniele Loro
IL PRETE EDUCATORE
Aspetto pedagogico e antropologico
Casa s. Maria, Colpi di Folgaria (TN), 14 giugno 2011
Premessa
• Obiettivo della riflessione: decostruire il rapporto tra essere prete ed essere educatore, per
poi ricostruirlo su basi più consapevoli e razionalmente giustificate.
• Articolazione della riflessione:
1. Problematizzazione del tema: partendo dall’esperienza, il prete è educatore?
2. Approfondimento pedagogico: quali questioni educative sono sottese alle difficoltà
incontrate?
3. Prospettive formative: quali direzioni si possono percorrere per avviare un
percorso auto-formativo personale?
1. IL PRETE È EDUCATORE? SÌ, NO, FORSE
1.1. Le ragioni a favore della correlazione tra l’essere “prete” ed essere “educatore”
•
•
•
La domanda potrebbe sembrare del tutto superflua, se non errata, per almeno tre ordini di
ragioni: ragioni di fatto, ragioni pastorali e ragioni teologiche.
Ragioni di fatto, legate all’esperienza. Di fatto il sacerdote, specie se parroco o
cappellano, è educatore perché nel suo operare quotidiano, insegna, testimonia, accoglie,
ascolta, consiglia, si prende cura, rassicura, incoraggia, rimprovera, esorta, accompagna,
organizza corsi (es. per fidanzati, genitori, giovani, adulti, anziani), coordina, forma altri
operatori, ecc. Tutto questo dura tanti anni quanti sono gli anni di permanenza nella
stessa parrocchia, quindi vi è anche l’aspetto evolutivo dei rapporti, che si rafforzano e si
approfondiscono nel tempo. In fondo, si potrebbe dire che il lavoro pastorale non è altro
che “lavoro educativo”, svolto in un contesto particolare, quello della comunità credente.
In questo senso, nello svolgimento del suo compito essenziale (l’annuncio del Vangelo, la
celebrazione liturgica e il servizio alla comunità), il presbitero incrocia realmente la
dimensione educativa (v. relazione di D. Laiti) in virtù dell’esercizio del proprio ruolo.
Ragioni pastorali, legate al ruolo di presbitero. Essendo tra i suoi doveri, il prete non può
non elaborare ed organizzare il complesso servizio comunitario della “educazione alla
fede”, nei suoi diversi momenti e aspetti. Si potrebbe dire che l’esperienza educativa del
prete coincide in gran parte con la sua esperienza di pastorale e di catechesi, anche se
l’aspetto educativo è vissuto anche in altri contesti, non solo catechistici o liturgici, vale a
dire nel vivo dell’incontro con le persone di tutte le età.
Settimana residenziale per presbiteri, Colpi di Folgaria, 12-17 giugno 2011 2
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•
Ragioni teologiche: se Gesù è «il maestro»1 che insegna con la sua parola e con i suoi
gesti ed educa con la sua vita; e se anche la chiesa, in quanto «madre e maestra»2 è
chiamata ad educare, da ciò sembra derivare, con tutta evidenza, che ogni sacerdote non
possa non essere anch’egli maestro ed educatore, con la sua parola, i suoi gesti e con il
suo modo di vivere.
1.2. Le ragioni che mettono in discussione tale correlazione e le loro implicazioni
Come poteva essere pensata in passato la relazione tra sacerdozio ed educazione.
• Il fatto che un prete svolga, di fatto, una funzione educativa, non significa che l’essere
prete coincida automaticamente con l’essere educatore: si può essere sacerdoti, infatti,
senza essere educatori o – al limite – potendo essere anche pessimi educatori. Le due
realtà non sono coincidenti né sovrapponibili, quindi non si possono identificare
automaticamente. La funzione sacerdotale non presuppone costitutivamente di essere
anche “educatori”, né si richiede che un candidato al sacerdozio abbia necessariamente
delle doti educative. Lo conferma indirettamente il fatto che il compito educativo del
sacerdote – anche per gli aspetti catechistici e pastorali – non è giustificato a partire da
questioni educative, ma dal mandato ecclesiale, quindi da motivazioni teologiche ed
ecclesiologiche.
• Se le due realtà non coincidono strutturalmente, che cosa le ha tenute unite fino ad ora, al
punto tale da considerare tale legame come naturale? Si potrebbe dire – almeno come
ipotesi, che andrebbe verificata – che forse le ha tenute insieme un certo modo di pensare,
fondato sulla convinzione che la dimensione educativa del lavoro sacerdotale, in fondo
non era da considerarsi come una realtà necessaria ma distinta (e quindi da coltivare in
modo specifico), ma discendeva direttamente dalla verità dei contenuti di fede insegnati,
considerati essenziali per l’uomo e dunque da accogliere e da mettere in pratica in nome
del loro valore veritativo, da cui discende anche la loro forza educativa. In altri termini: è
la Parola di Dio che educa e chi la accoglie non può che impegnarsi a viverla in nome
della sua verità.
• Secondo questo modo di pensare, la capacità educativa del prete si misura anzitutto dalla
profondità della sua conoscenza della Scrittura: più la conosce e più sa, non solo
insegnarla ma anche viverla in prima persona, e sa educare altri ad incarnarla nella propria
vita. Dunque, se la dimensione educativa è nascosta o dissolta all’interno della dimensione
religiosa, della quale è un semplice corollario, ne consegue che l’essere educatore
discende “naturalmente” dall’essere prete. Dunque: più si comunica (si insegna?) la
Parola di Dio e più si educa; l’autorevolezza educativa appare strettamente legata alle
competenze relative al “ruolo” di sacerdote e, di riflesso, anche al suo prestigio sociale.
1
2
Educare alla vita buona del Vangelo, nn. 16-18.
Idem, nn. 20-21.
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Prima ragione di crisi: la non identificazione o sovrapposizione delle due funzioni.
• Questo modo di pensare il rapporto tra funzione presbiterale ed educazione è messo
seriamente in discussione nel momento in cui la continuità tra i due momenti non appare
più così immediata e lineare. La conferma della sostanziale differenza tra i due momenti è
data dalle “fatiche” o dalle “difficoltà” che si incontrano. Alcuni esempi, puramente
indicativi:
o La fatica di comunicare ciò in cui si crede e si ritiene importante, ma che sembra
non interessare chi ascolta; si comunica una verità che non incontra più l’altro
perché questi non ne capisce più il senso o non lo considera più importante per la
propria vita. Si può tentare di cambiare linguaggio o modo di comunicare, ma il
risultato finale spesso non cambia. Perché non cambia? Che cosa è venuto meno: il
valore della Parola o il fatto che il rapporto tra prete e fedeli (e tra la Parola e la
vita) non è più pensabile in termini di linearità e immediatezza comunicativa?
o La fatica di vedere concretizzato lo sforzo pastorale: perché, nonostante l’impegno
profuso, i risultati appaiono deludenti, se non fallimentari? Perché non si vedono i
frutti del proprio lavoro? Dove si sbaglia? Ancora una volta: si sbaglia a
comunicare la Parola o il fatto di comunicarla, in assenza di altre attenzioni, non è
più sufficiente?
o La fatica di avere collaboratori adulti nel lavoro educativo, oltre che pastorale:
in particolare, perché si riesce con molta fatica a coinvolgere le famiglie nel lavoro
educativo verso i più giovani? Il paradosso del prete: doversi prendere cura dei
figli degli altri, quando i loro genitori non se e occupano. Perché questi non se ne
occupano o se ne occupano per certi aspetti e non per altri, in certi modi e non in
altri? Per cattiveria, per irresponsabilità o perché anche loro si trovano di fronte al
medesimo problema: come si educano i figli?
• Certamente si potrebbero approfondire le singole difficoltà e per ciascuna individuare
cause specifiche, ma la questione di fondo dello stato di crisi, potrebbe essere questa:
o Sembra essere venuto meno il rapporto diretto tra ciò che si comunica (la sfera dei
significati, in senso lato) e la realtà esistenziale dei destinatari, qualcosa si è rotto
o, per dirla in un altro modo, è apparsa evidente una frattura che forse esisteva da
sempre, ma di cui non si era consapevoli. Questo venir meno, non è dovuto alla
perdita di verità dei valori in sé (in primis la Parola di Dio), ma alla scomparsa di
un terreno comune di incontro tra gli interlocutori; questa scomparsa ha le sue
giustificazioni ultime nel mutato clima culturale, che Papa Benedetto XVI pone a
fondamento della attuale situazione di “emergenza educativa”3, e le sue ragioni più
prossime nella incomprensione tra gli individui, che si trovano a comunicare da
punti di vista esistenziali profondamente diversi, se non opposti. Dove prima vi era
3
BENEDETTO XVI, Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente di dell’educazione (21
gennaio 2008),
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una strada ben definita da percorrere in un senso come nell’altro, ora vi è aperto un
fossato (un baratro?).
o Prima di chiedersi come si affronta il fossato, bisognerebbe capire che cosa
significa questo apparire di uno “spazio intermedio” tra valori e persone, e se lo si
debba considerare sempre e solo come un ostacolo. Potrebbe voler dire che tra la
sfera dei significati che si vuole comunicare e i soggetti cui sono destinati vi è
necessità di un elemento “terzo”, mediano: la cultura (a livello generale), la
comunicazione (a livello sociale), ma anche l’educazione, quando si tratta di
relazione interpersonale finalizzata alla realizzazione. In questo caso saremmo di
fronte alla dilatazione dello spazio di incontro e di mediazione, che al tempo
stesso, e paradossalmente, dapprima allontana per poi ricercare la correlazione.
Seconda ragione di crisi: la mancanza di una preparazione pedagogica specifica
• Che l’educazione, almeno in passato, non sia stata parte costitutiva della realtà
sacerdotale, ma solo una sua componente implicita, potrebbe essere provata dal fatto che
il sacerdote non ha mai avuto, nel corso della sua formazione al ministero, una
preparazione pedagogica specifica. Il sacerdote, oggi, si ritrova nella stessa situazione dei
genitori e degli insegnanti: dover svolgere un compito educativo, inerente al ruolo che si
riveste, senza avere una preparazione pedagogica specifica. Come i genitori e gli
insegnanti, anche il prete finisce per fare affidamento sul proprio buon senso, sulla propria
capacità di auto formazione e, soprattutto, sui modelli del passato, salvo il fatto di doversi
accorgere che tali modelli spesso non sono proponibili automaticamente nell’oggi e che
richiedono di essere interpretati prima di essere attualizzati.
• Nella mancanza di preparazione specifica, e nella conseguente formazione fondata solo
sull’esperienza, è nascosto il pericolo del “riduttivismo”, ossia di cogliere alcuni elementi
particolari, che caratterizzano l’attività educativa, e di assumerli come elementi generali.
In altri termini, si attua un grande processo di semplificazione, secondo cui si “riduce” il
tutto ad una sua parte, poi si scambia la parte per il tutto. Ad esempio, per il prete, il
riduttivismo può assumere la forma della “riduzione” dell’intero discorso educativo alla
sola dimensione morale e religiosa o, peggio ancora, alla sola dimensione psicologica, per
cui si ritiene che il buon prete debba essere anche un po’ psicologo, cioè conoscitore delle
dinamiche evolutive pensando con ciò che la conoscenza di queste dinamiche sia motivo
sufficiente per sapere “come” intervenire positivamente su di esse.
• La mancanza di una preparazione pedagogica specifica, potrebbe essere anch’essa frutto
di un certo modo di pensare (paradigma di pensiero), secondo cui il compito educativo è
connaturato al ruolo, dunque, quando si esercita quel ruolo e si fa (o si dice) ciò per cui
quel ruolo esiste, per ciò stesso anche si educa, esattamente come poteva pensare
l’insegnante di un tempo per il quale poteva bastare il fatto di essere un buon insegnante
(culturalmente parlando) per essere anche un buon educatore dei suoi alunni; o come può
continuare a pensare un genitore quando ritiene di essere un buon educatore perché non fa
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•
mancare niente ai figli (tranne la sua presenza e la sua capacità di ascolto e di
comprensione, perché ritiene che il suo compito sia quello di lavorare per il benessere
della famiglia).
Non è di per sé sbagliato, pensare che l’elemento educativo sia legato al ruolo, ma questo
è solo una parte di verità. Le difficoltà che si incontrano dimostrano che si può essere
tecnicamente competenti nel ruolo, ma non essere per questo dei buoni educatori
(potrebbe accadere anche il contrario: essere buoni educatori, senza avere particolari
competenze di ruolo). Questo accade forse perché la dimensione propriamente
“educativa” non è legata al ruolo in quanto tale, ma alla persona che incarna quel ruolo,
anzi alle persone, in quanto devono essere due perché ci sia educazione: educatore ed
educando!
La distinzione tra ruolo e persona comporta la distinzione tra “catechesi” ed “educazione”.
• Se si educa mediante la propria persona e non attraverso il ruolo che si esercita, ne deriva
per il sacerdote che la distinzione tra ruolo e persona apre la via ad una duplice
fondamentale distinzione:
o tra catechesi ed educazione (assunta la prima come simbolo di tutto ciò che attiene
all’educazione alla fede, quindi anche le attività pastorali);
o tra istruzione ed educazione.
• Infatti, attraverso il ruolo, il sacerdote parla, agisce, compie gesti che sono dovuti e che i
fedeli si aspettano da lui; a sua volta si attende che i fedeli si comportino secondo il loro
ruolo, per l’appunto quello di “fedeli”, appartenenti alla comunità. Nel fare tutto questo il
prete certamente “insegna”, ossia “rimarca”, richiama l’attenzione, mette in evidenza
(mette “in alto” come si fa con il signum, l’insegna, il vessillo, la bandiera), ma non è
detto che per ciò stesso egli educhi, perché l’educazione ha a che fare con le persone, non
con quanto le persone sono obbligate a dire o fare in nome del ruolo che esercitano; infatti
chi è destinatario del loro dire o fare può a sua volta rispondere in relazione al ruolo che
anch’essi ricoprono, ma non sentirsi per questo coinvolti direttamente come persone!
• Perché ci sia educazione, occorre il coinvolgimento diretto di entrambe le persone della
relazione che si viene a creare. L’esercizio del ruolo può essere il pretesto, la condizione e
il contesto in cui avviene la relazione educativa, ma l’esperienza educativa avviene al di
sotto del contesto di ruolo. Il rapporto tra ruolo ed educazione potrebbe essere pensato
non solo come biunivoco, ma anche asimmetrico:
o perché si possa educare è necessario un contesto relazionale, che può essere dato
dai ruoli, ma l’educazione non avviene grazie ai ruoli perché avviene nell’incontro
tra le persone;
o perché l’esercizio del ruolo sia davvero efficace, è necessario che al suo interno
avvenga – specie in determinati contesti (es. famiglia, scuola, parrocchia, ecc.),
un’esperienza di carattere educativo, cioè di carattere interpersonale; in assenza di
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•
tale esperienza, anche il valore realizzativo del ruolo viene fortemente
ridimensionato.
Se vi è armonia e compenetrazione profonda tra ruolo e persona (aspetto antropologico),
è possibile che vi sia sintonia tra istruzione ed educazione (aspetto pedagogico) e vi sia
fusione tra catechesi ed educazione (aspetto pastorale). La possibilità di realizzazione
della condizione antropologica (armonia tra ruolo e persona), dipende non dal ruolo ma
dalla persona; così è per l’aspetto pedagogico: se la persona educa, può anche insegnare
qualcosa, mentre il contrario è molto più difficile, e in certi casi impossibile. Se tutto
questo è vero, ne deriverebbe che solo se il prete sa educare, può anche fare catechesi; il
contrario sarebbe molto più difficile e con esiti forse aleatori se non fallimentari.
2. APPROFONDIMENTO
COINVOLTE
PEDAGOGICO:
LE
TEMATICHE
EDUCATIVE
Premessa
• A partire dalla riflessione sui problemi e sulle difficoltà che si incontrano, si può cercare
di intuire quali tematiche educative vi sono coinvolte o sono richiamate, ossia che cosa sta
“sotto” le fatiche e gli insuccessi. Questo, perché al fondo dei problemi, anche educativi,
una volta che siano compresi, è possibile trovare gli elementi necessari per la loro
soluzione.
• Ipotesi: le problematiche educative evidenziate nelle pagine precedenti richiamano almeno
tre grandi tematiche educative:
o il punto di partenza dell’educazione (in relazione al problema perché non interessa
quello che si dice), cui segue la scelta di diventare educatore;
o cosa si vive nell’educazione (in relazione alle difficoltà e all’apparente
l’insuccesso dell’azione educativa);
o il fine dell’educazione e il suo incontro con la funzione sacerdotale (in relazione
alla necessità di giustificare la sintesi).
2.1. Il punto di partenza dell’educazione: abitare la distanza e operare una scelta
Il tema della distanza è costitutivo dell’educazione, perché ne pone l’esigenza.
• Si è abituati a relazionarsi pensando di trovarsi con persone che condividono il medesimo
orizzonte esistenziale, fatto di linguaggio, significati e valori. Il fatto del “non interesse”,
sembra indicare che non si appartiene al medesimo orizzonte; da qui la consapevolezza
che esiste una “distanza” che divide o che è simbolo della divisione.
• Se la “distanza” in questo caso può apparire ed essere vissuta come fattore negativo, nel
caso dell’educazione essa appare come un elemento di fondamentale importanza, perché è
dalla consapevolezza della distanza che si giustifica l’avviarsi dell’azione educativa.
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•
La questione educativa nasce, infatti, quando ci si rende conto dell’esistenza di una
“distanza”: ad es. tra il mondo degli adulti e quello delle nuove generazioni, tra ciò che si
sa (o non si sa) e ciò che si dovrebbe sapere per essere in grado di affrontare la realtà in
cui si vive; tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere per essere se stessi. Può essere
anche la distanza esistente tra modi di vivere, di pensare e di agire (ad esempio tra adulti);
può essere la distanza segnata dalle esperienze che segnano la vita di ciascuno. In
definitiva, se non ci fosse distanza, non si porrebbe nemmeno la necessità di educare.
La distanza non può essere negata, al contrario deve essere “abitata”.
• La distanza non può essere negata, pena la non comprensione delle difficoltà che si
incontrano; né può essere affrontata in modo riduttivo e semplicistico, ad esempio
accentuando in modo esagerato certi elementi di vicinanza, pensando che possano servire
per colmare la distanza. È forse da questa convinzione che nasce l’idea di certi genitori di
poter essere “amici” dei figli, pensando così di annullare la distanza mentre in realtà
annullano la loro capacità educativa in quanto genitori); o l’idea del prete di dover seguire
e assecondare di continuo gli interessi dei giovani della propria parrocchia, sperando così
che questi possano a loro volta accogliere spontaneamente la proposta formativa più
impegnativa, salvo poi essere smentito, perché quel passaggio di livello molti giovani non
lo fanno, fino a che lui continua ad inseguirli sul loro terreno.
• Un rischio di riduttivismo e semplicismo in cui può cadere un parroco è quello di pensare
che il discorso educativo si debba concentrare esclusivamente sui giovani; da qui, ad
esempio, il suo passare l’estate prima ad organizzare e poi ad andare ai campi scuola per
bambini, ragazzi, adolescenti e giovani. Nel fare ciò dimentica, ad esempio:
o che la capacità educativa verso i giovani è di tutta la comunità nelle sue varie
espressioni, non è lui il solo educatore della comunità;
o che anche gli adulti e gli anziani hanno diritto a momenti di educazione (ad es.
perché non pensare a corsi formativi per animatori dei gruppi, catechisti e membri
del Consiglio pastorale).
• La distanza va accettata e compresa per ciò che essa richiede, se si vuole educare. Si
potrebbe dire che educare significa vivere un’esperienza di superamento graduale della
distanza, che avviene attraverso l’incontro e la scoperta progressiva della condivisione di
una stessa identità, degli stessi significati e delle stesse finalità. Ciò che si crede dover
essere il punto di partenza, appare così come il punto d’arrivo dell’educazione!
• “Stare” nella distanza obbliga a tenere presenti alcuni “passaggi” esistenziali, che
normalmente si danno per scontati, ma che non lo sono:
a) la distanza, perché permetta l’avvio di una relazione educativa, deve essere
“giusta”: se è eccessiva non vi è incontro e dialogo, se è minima, non avrebbe
senso educare. La “giusta distanza” è la sintesi di identità e differenza, estraneità e
familiarità, ed è il presupposto per l’incontro, tra soggetti che sono al tempo stesso
estranei e familiari, identici e differenti;
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b) il modo di marcare la giusta distanza è il riconoscimento dell’altro come un “tu”,
ossia come “persona” e non come un “esso”, cioè come un “oggetto” (Buber). La
strumentalizzazione educativa avviene ogni volta che l’educatore riduce l’altro
(l’educando) ad oggetto per i propri fini; per essere pienamente compiuto, il
riconoscimento deve essere reciproco, ma è indubbio che è assolutamente
prioritario che vi sia quello che parte dall’educatore;
c) una volta riconosciuto l’altro come un “tu”, si tratta di avviarne la “comprensione”,
sapendo che si parte sempre dalla sua pre-comprensione, che andrà aggiustandosi
man mano che la relazione si corregge; ciò significa che si inizia un’attività
conoscitiva non conoscendo realmente chi è l’educando, e che lo si conoscerà –
forse – solo alla fine; ciò non toglie che anche la precomprensione sia essenziale,
perché rappresenta l’avvio di quella relazione che diventerà sempre più educativa,
nella misura in cui si farà più profonda e autentica;
d) dall’esperienza di comprensione dell’altro, dovrebbe emergere – tra le altre cose –
la consapevolezza non solo dei suoi “bisogni” (da colmare), ma anche delle sue
“qualità”(da potenziare) e dei suoi “desideri” (da realizzare).
Dalla comprensione alla scelta di educare, cioè di farsi “compagno” di strada.
• La comprensione dell’altro, delle sue potenzialità, bisogni e desideri, non è ancora
sufficiente per dire di essere educatore. Si diventa educatore non solo perché si sente di
poter (e di voler) essere in grado di fare qualcosa perché l’altro colmi i suoi bisogni,
potenzi le sue qualità, realizzi i suoi desideri, ma anche perché si sceglie di farlo facendosi
“compagni di strada” dell’altro, decidendo così di percorrere un tratto di cammino
esistenziale assieme, condividendone le esperienze.
• In nome di che cosa si può fare questa scelta? In nome di almeno tre ragioni convergenti:
o in nome dell’altro, di cui si comprende e si coglie empaticamente lo stato di
necessità; è più facile “sentire” il bisogno dell’altro, se si fa memoria dei propri
bisogni e di qualcuno che ci ha aiutati a superarli;
o in nome dei significati di cui si è portatori, il cui valore si è convinti che possa
servire per arricchire e impreziosire la vita dell’altro;
o in nome di se stessi, nel senso che si comprende di vivere la propria generatività;
la scelta di diventare educatore appare più come una “risposta” che come una
iniziativa del tutto autonoma.
La specificità del modo di essere educatore da parte del prete.
• Il fatto che il prete scelga di essere educatore, non significa che assuma un altro ruolo, che
si somma a quello che già ha; se ciò accadesse, significherebbe crearsi un conflitto
identitario perché egli non è e non può essere un educatore di professione, né può fare
dell’educazione la sua attività principale.
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•
•
Tuttavia il prete può decedere di essere educatore perché questo gli permette di sostenere
il suo “ruolo” di “educatore alle fede” mediante la consapevolezza e la pratica di un
rapporto educativo che va oltre (o viene prima) del rapporto che nasce dal suo ministero
presbiterale; accettando la sua dimensione educativa il prete offre a quanti lo incontrano,
la possibilità di un doppio livello di presenza educativa: da “sacerdote” e da “adulto”,
che incontra dei “fedeli”, che possono essere a loro volta “bambini”, “giovani”, “adulti”,
“anziani”. Sullo sfondo rimane ben chiara la consapevolezza, da parte del sacerdote, di
essere una “persona” che incontra altre “persone”.
Si dilata in tal modo la visione antropologica di sé: ruolo, adultità e persona, cui
corrisponde un’analoga dilatazione della visione antropologica dei propri educandi.
2.2. Cosa si vive: l’educazione come “esperienza di relazione”, in vista del
“cambiamento”
Si vive anzitutto un’esperienza, che segna un prima e un poi nella propria vita.
• Decidere di accogliere in sé anche la dimensione educativa comporta il fatto di decidere di
vivere una grande “esperienza”. L’esperienza non è solo un’azione ripetuta nel tempo, di
cui si comprende gradualmente il significato, né è la semplice comprensione della
connessione tra causa ed effetto; essa è un vissuto di cui non si sa, prima, come si sarà
“dopo” averla vissuta, non solo come educandi ma anche come educatori. Vera
esperienza, secondo Gadamer, è vivere un processo al termine del quale, si comprende che
prima non si vedevano correttamente le cose, mentre «ora» sappiamo meglio come esse
stanno»4.
• L’esperienza autentica, dunque, ha un valore formativo che è insieme “trasformativo”;
dall’esperienza educativa, infatti, entrambi i protagonisti (educatore ed educando) escono
diversi da com’erano prima.
In educazione si vive un’esperienza congiunta di istruzione, educazione e formazione.
• Istruzione (sapere): è un’esperienza, in senso lato, in cui si insegna perché altri
apprendano e facciano proprie. L’istruzione ha a che fare con la comunicazione di
contenuti (il “che cosa”) dell’esperienza educativa. Il sacerdote si trova a vivere il
momento di istruzione legato al proprio ruolo ministeriale e si collega al ruolo
corrispettivo dei fedeli che accetta di apprendere tali contenuti. Non si tratta solo di
contenuti concettuali, ma ha una dimensione di istruzione (cioè di apprendimento del
linguaggio e delle pratiche) anche la liturgia, cui spesso sfugge ai fedeli il profondo valore
simbolico (e quindi anche formativo); elementi di apprendimento possono essere anche i
di comportamenti etici e le altre pratiche di fede, come ad esempio la conoscenza della
Bibbia.
4
GADAMER Hans-Georg, Verità e metodo, trad. dal tedesco, Milano, ed. Bompiani, 19907 (1983), pp. 408-409.
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•
Educazione (essere): è un’esperienza di incontro tra persone, non tra ruoli (anche se tale
incontro passa attraverso di essi), in cui l’una (educatore) aiuta l’altra (educando) a
colmare i bisogni, a potenziare le capacità e a realizzare i desideri che sono propri della
persona nella sua globalità e integralità, a prescindere dalle doti personali e dalla
posizione sociale.
Formazione (fare): è un’esperienza in cui la persona che cresce ed evolve nel tempo,
attraverso la progressiva fusione di ciò che apprende e di ciò che conosce
progressivamente di sé, è aiutata ad acquisire quella “forma” (visibile), che gli permette di
agire realizzando in tal modo la propria identità (interiore) attraverso l’esercizio del
proprio compito nella vita. È attorno alla sfera dei significati e della loro capacità di
incarnarsi nella vita concreta che ogni persona acquista una sua compiutezza.
Non sono tre momenti distinti, ma profondamente correlati. Il ruolo di sintesi della liturgia.
• Sono tre momenti contemporaneamente presenti, in cui di volta in volta uno di essi
emerge in primo piano e gli altri fanno da sfondo e rappresentano delle condizioni
necessarie, perché per insegnare e apprendere con efficacia occorre che ci sia prima
l’incontro tra le persone e che questo incontro apra un orizzonte realizzativo ulteriore.
• Nella comunità cristiana la sintesi di questi tre momenti della persona (sapere, essere e
fare) è data dalla liturgia, perché in essa l’insegnamento dei contenuti veritativi è posto in
relazione con la vita concreta e questa relazione di sintesi acquista un valore altamente
formativo.
• Per queste ragioni la liturgia è luogo di sintesi pedagogica formidabile tra fede, persona e
vita; pertanto qui è anche il vertice della dimensione pedagogica del sacerdote, nel suo
compito di educatore alla fede nei confronti della sua comunità. È per assolvere al meglio
questo compito che si pone per lui il problema della sua competenza educativa in quanto
tale, e non solo catechistica, pastorale o liturgica.
Il fine dell’educazione (il cambiamento) e la sua complessa dimensione esistenziale.
• Se è del tutto evidente che il fine dell’educazione è promuovere il cambiamento
dell’educando (ovviamente per il meglio), meno evidente è la conoscenza della sua
complessa dimensione esistenziale.
• Alcuni elementi, puramente indicativi, che richiamano questa complessità esistenziale:
o Cambiare comporta il distacco da ciò che si era prima; dunque il cambiamento è
fonte di smarrimento, sofferenza, disagio, nel senso che non si sa bene che cosa si
diventerà; il paradosso: si cambia per diventare se stessi, mentre in realtà si diventa
qualcun altro; cambiare è causa di dolore.
o Cambiare sembrerebbe un fenomeno visibile, mentre in realtà non si vede affatto
quando avviene il cambiamento, perché avviene nell’interiorità dell’educando: si
vede il “prima” e il “poi”, ma non il “come” e il “quando”! Al punto tale che non è
nemmeno detto che sia realmente visibile anche quando esso avviene, perché
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•
l’effetto dell’educazione potrebbe essere anche il solo rafforzamento delle
convinzioni già possedute.
o Il cambiamento è promosso mediante l’azione ed è sostenuto dalle “parole” che la
precedono o la seguono; in realtà esso avviene all’interno di un duplice silenzio:
dell’educatore, che si ritrae, dopo aver agito, per lasciare spazio all’educando;
dell’educando stesso, che necessita di ascolto di sé in relazione al nuovo che gli
viene proposto. Nel cristianesimo il simbolo per eccellenza del silenzio è il sabato
santo; per questa ragione può essere assunto anche come il tempo simbolico
dell’evento educativo).
Ciò che si ricava dall’analisi della dinamica educativa è che si tratta di una realtà non
deterministica, non quantificabile, né programmabile oltre un certo limite. Ciò può servire
ad affrontare il lavoro educativo con la consapevolezza che si tratta di un lavoro che non
può mai essere ritenuto inutile, sia quando se ne vedono i risultati, sia quando non se ne
vedono, perché in tutti i casi l’azione educativa può lasciare un segno, anche se non se ne
vedono le tracce o non si vedono subito.
2.3. Essere educatore per essere prete, non viceversa
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A questo punto è possibile chiudere il cerchio e riproporre la sintesi tra ministero
sacerdotale e dimensione educativa: si deve coltivare la dimensione educativa per rendere
più efficace l’esercizio della propria missione! È la presenza di una relazione tra persone
– che in alcuni casi può assumere il carattere di relazione educativa – a creare quel luogo
di incontro e di dialogo che permette (o almeno favorisce) il superamento della “distanza”
tra Parola e vita, o almeno l’abitare in essa valorizzandone il significato.
La funzione strumentale dell’educazione, a servizio dell’esperienza di fede, è possibile
solo a patto che se ne riconosca l’autonomia e se ne comprenda la dinamica interna. Da
qui la necessaria “competenza pedagogica” che dovrebbe accompagnare la formazione del
presbitero, non solo nella sua fase iniziale.
3. PROSPETTIVE FORMATIVE
3.1. Indicazioni teologiche: alcune tematiche da approfondire
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Ipotesi: tutto ciò che si vive nella comunità cristiana può essere vissuto, compreso e
valorizzato anche come momento educativo.
Alla scuola di Gesù “maestro” ed educatore, che può essere compreso meglio all’interno
della visione della Scrittura come testo in cui si manifesta la “pedagogia” di Dio.
Studiare i santi educatori, il loro rapporto con la realtà del loro tempo e l’elaborazione del
loro “stile educativo”.
Settimana residenziale per presbiteri, Colpi di Folgaria, 12-17 giugno 2011 12
Il prete educatore
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La comunità cristiana come ambiente educativo; la sua storia come storia di un percorso
formativo.
La liturgia quale centro e culmine dell’esperienza educativa dell’intera comunità.
3.2. Indicazioni pedagogiche: alcune tematiche da approfondire
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Imparare ad apprendere dalla propria esperienza educativa, sapendo ricavare il senso
dell’educare e le modalità per farlo a partire dalla riflessione sulla propria pratica.
Individuare e approfondire il significato di alcuni atteggiamenti educativi di fondo;
fedeltà alla realtà, ricerca dell’essenzialità, capacità di ascolto, ecc.
Sviluppare la propria competenza educativa e formativa in relazione a teorie, contenuti,
metodi, progettazione.
Conoscere le età della vita (in particolare, il mondo degli adulti) e la particolarità delle
loro esperienze esistenziali.
Alla ricerca del proprio “stile educativo”: da dove partire e come definirlo.