Memoria e storia pubblica: Resistenza in Italia e in Francia

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Memoria e storia pubblica: Resistenza in Italia e in Francia
Memoria e storia pubblica:
Resistenza in Italia e in Francia
di Patrizia Dogliani
1. Premessa
In un breve intervento all’inizio degli anni novanta, prendendo spunto dalla pubblicazione dell’ormai fondamentale
lavoro di Claudio Pavone, Una guerra civile (Torino 1991),
Paul Ginsborg introduceva un interessante confronto tra
l’Italia e la Francia sul periodo 1943-481. Il principale tema di
discussione era altro rispetto a quello qui affrontato, ma alcune domande finali sollevate da Ginsborg appaiono egualmente utili, anche perché sul piano comparato non sono state riprese in maniera compiuta neppure in occasione del sessantesimo anniversario italiano della Liberazione.
Ginsborg si soffermava essenzialmente sull’ultima fase
della guerra, e poi sui primi anni chiave della ricostruzione
politica e sociale dei due Paesi. Per condurre una comparazione fra i due Paesi, era una scelta cronologica obbligata.
Sino al 1943, infatti, i destini di Italia e Francia erano stati diversi, come diverse saranno su alcuni temi le memorie: la
lunga occupazione del Terzo Reich in Francia dal giugno
1940 avrebbe costituito un nucleo di memorie ben più complesso del corrispettivo italiano (una occupazione tedesca
essenzialmente militare, feroce ma poco stanziale, e in alcune zone del Sud neppure esistente). Si tratta di memorie che
negli ultimi anni hanno affrontato il tema della coesistenza
tra popolazione civile francese e occupante tedesco toccando
questioni delicate quali il rapporto tra donne francesi e uomini tedeschi, la nascita di figli da questo incontro, e la interazione sul piano culturale ed artistico tra uomini e imprese
1
P. Ginsborg, Resistenza e riforma in Italia e in Francia, 1943-48, in «Ventesimo secolo», 5-6, 1992, pp. 297-319.
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dello spettacolo e dell’editoria francesi e tedesche. Ben più
estese furono in Francia la persecuzione e la deportazione
degli ebrei, come conseguenza di un diverso, autoctono e
profondo antisemitismo (da cui prese origine ed ispirazione
il regime di Vichy), ma anche della presenza di una comunità ebraica (non solo francese ma di tutta la diaspora europea) molto più ampia e stratificata che in Italia.
Altri inoltre furono le modalità di trattamento, i tempi e i
destini della deportazione e della reclusione in Germania di
francesi, sia come prigionieri militari che come lavoratori civili per l’industria tedesca. Altra differenza con il caso italiano
fu la precocità della Resistenza armata in Francia, peraltro
composta in maniera eterogenea da molte componenti nazionali di immigrati e di rifugiati (dando anche in questo caso avvio ad una serie di querelles e affaires creati dalla difficile convivenza tra quest’ultimi e la Resistenza francese). Occupazione tedesca e azione di Resistenza si mescolano quindi indistintamente nella memoria francese in un periodo assai più
lungo, dall’estate 1940 a quella di quattro anni dopo, mentre
in Italia la Resistenza costituisce un importante, ma breve stagione di venti mesi, tra il settembre 1943 e l’aprile 1945.
A partire essenzialmente dal 1944 è però possibile condurre un confronto serio, soprattutto per quanto riguarda
gli esiti democratici della lotta di liberazione nei due Paesi.
Ginsborg rende merito all’Italia di avere con «l’opera istituzionale dell’Assemblea costituente, combinata con una cultura antifascista profondamente radicata nel Centro e nel
Nord», gettato le basi per un periodo senza interruzioni di
democrazia e di stabilità politica del Paese. Al contrario, la
blanda riforma istituzionale che traghettò la Francia dalla
Terza alla Quarta Repubblica ipotecò la democrazia francese
mettendola alla prova con la guerra d’Algeria, portandola
sull’orlo di una guerra civile risolta solamente da un difficile
e complesso passaggio al regime repubblicano presidenziale
della Quinta Repubblica. Tuttavia, lo storico inglese sostiene
che il processo resistenziale italiano abbia fallito rispetto a
quello francese non nei termini di democrazia formale, bensì
nei suoi contenuti e soprattutto dal punto di vista delle molteplici forme di cittadinanza (civile, politica e sociale): «la
mia tesi è che per quanto riguarda la cittadinanza, nel periodo 1944-46, i francesi abbiano fatto più strada, e più in fretta
degli italiani»2. E qui inserisce tre aspetti di diversità tra i due
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Paesi, sul tema della democrazia, utili anche per quanto riguarda la nostra analisi sulla memoria pubblica della guerra
e della lotta antifascista.
Il primo elemento di diversità costituisce una specie di
premessa: la scrittura di un progetto politico e di riforme indispensabili per «l’instaurazione di un’effettiva democrazia
economica e sociale» e per la modernizzazione del Paese fatta dalle forze politiche della Resistenza francese, raggruppate nel Conseil national de la Résistance, con la cosiddetta
«carta del Cnr» del marzo 1944. Al contrario il Cln italiano
raggiunse un’unità di azione ma non produsse nessuna dichiarazione né tantomeno un programma autonomo d’intenti. In Italia ogni decisione di riforma fu rinviata semplicemente alla fine della guerra e alla Costituente, quando invece, come sostiene anche Ginsborg, il primo governo Bonomi
nel giugno 1944 aveva possibilità di intervenire con pieni
poteri legislativi e, aggiungiamo noi, in un clima internazionale ancora favorevole (con l’amministrazione americana
Roosevelt) ad un’azione autonoma italiana. Tutte le importanti riforme francesi furono realizzate fra l’agosto del 1944
e il settembre 1946, allorché «il governo De Gaulle aveva
poteri molto ampi, e le Assemblee costituenti francesi godevano di poteri legislativi, al contrario di quella italiana, la cui
maggiore funzione fu quella di preparare la Costituzione»3.
Il progetto di riforma francese comportò una profonda trasformazione e modernizzazione dell’amministrazione pubblica, con un ricambio delle élites dirigenziali in settori chiave dell’amministrazione centrale dello Stato; cosa che in Italia non accadde4. Quando si parla di epurazione nei due Paesi, occorre trattare del ricambio avvenuto nelle amministrazioni pubbliche non solo con l’individuazione ad personam
di responsabilità politiche e penali, e dello sradicamento
ideologico del fascismo, ma anche nel complesso di una trasformazione di mentalità dell’intero quadro dirigenziale, e
della sua modernizzazione, cioè della sua messa a regime
con tempi e bisogni nuovi di ricostruzione. Ginsborg ricordava a giusto titolo un’osservazione molto pertinente dello
storico François Bédarida, a conclusione di un lavoro comparato sulle élites in Francia e in Italia: se nella Resistenza
Ivi, p. 317.
Su questo tema si vedano le riflessioni condotte, mai poi non più riprese,
dagli interventi in Le élites in Francia e in Italia negli anni quaranta, numero
monografico di «Italia contemporanea», 153, 1983.
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Ivi, p. 303.
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esisteva un’é l i t e «nel senso originale del termine, cioè una
élite in senso etico [...] della bravura, del coraggio, del valore
morale» (quella studiata da Pavone che non a caso sottotitola il suo libro «saggio storico sulla moralità nella Resistenza»), al momento della ricostruzione «la pietra di paragone
non è più il valore personale o morale, ma la capacità tecnica
e la competenza»5.
Gli studi successivi di Gérald Noiriel e di Jean-Olivier
Baruch6 sull’amministrazione centrale francese hanno mostrato che i passaggi tra la Terza Repubblica e Vichy e tra Vichy e la Quarta Repubblica sono stati molto complessi, contaminando il secondo e il terzo regime con le caratteristiche
politiche, ideologiche ed istituzionali dei precedenti. Se oggi
abbiamo la convinzione che non vi sia stata una rottura netta tra la Quarta Repubblica e le precedenti, sembrano comunque confermate le differenze della Francia rispetto
all’Italia circa le volontà e i tempi di attuazione delle riforme, e soprattutto per l’enfasi messa dal gruppo dirigente
francese sulle istituzioni statali come sedi di insediamento
del nuovo potere anziché, come avviene in Italia, sulla creazione di un nuovo sistema partitico.
La seconda diversità risiede dunque nei tempi: da parte
dei francesi, è evidente l’urgenza non solo di condurre riforme, ma anche di insediare una memoria unica, diremmo
«monolitica» e pertanto incontestabile della Resistenza
all’occupazione tedesca del 1940-44. In Italia, invece, tutto si
muove più a rilento, ma soprattutto in ordine sparso tra le
diverse memorie delle forze politiche e militari che avevano
operato nel Paese portando, come nella Costituente, alla
creazione di una memoria nazionale di compromesso, che
supera indenne le difficoltà del 1947-48, e l’entrata nella
guerra fredda, le divisioni organizzative tra le associazioni
partigiane, dei «volontari per la libertà», ma che poi naufraga decenni dopo, all’inizio degli anni novanta, con la conclusione del sistema partitocratico che sorreggeva tale memoria
di compromesso. Una memoria che non diviene mai realmente una memoria nazionale forte ed indiscutibile, a differenza di quella francese forgiata immediatamente da De
Gaulle, poi contestata ma mai demolita. È sufficiente quindi
che in Italia vengano meno i partiti garanti di questa memoria che un capo di governo estraneo a tale tradizione come
Silvio Berlusconi proponga, nel 1995, l’abolizione del 25
aprile come festa nazionale.
Terzo fattore di diversità rilevato da Ginsborg è la geografia:
Ivi, p. 250.
G. Noiriel, Les origines républicaines de Vichy, Paris 1999; J.-O. Baruch,
Servir l’Etat français. L’administration en France de 1940 à 1944, Prefazione di
J.P. Azéma, Paris 1996; O. Wieviorka, Les orphelins de la république. Destinées
des députés et sénateurs français 1940-1945, Paris 2001.
Ginsborg, Resistenza e riforma cit., pp. 312-3.
Lo studio di M. Lazar, Maisons rouges, Paris 1992 era già presente a Ginsborg. Segnaliamo anche uno dei pochi validi lavori comparati sul periodo: F.
D’Almeida, Histoire et politique, en France et en Italie: l’exemple des socialistes,
1945-1983, Roma 1998.
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in Italia la Resistenza fu combattuta nelle regioni più industrializzate del paese, mentre la presenza degli Alleati nel Mezzogiorno, e
soprattutto il carattere conservatore del Regno del Sud, facevano sì
che le zone più arretrate del paese risentissero molto meno del
cambiamento. In Francia, al contrario, i Maquis erano forti proprio al Centro e al Sud, e la loro influenza ebbe necessariamente riflessi sulle prime elezioni nazionali, del 21 ottobre 1945, per l’Assemblea costituente. I comunisti, che avevano sempre avuto una
base tradizionale nella Francia mediterranea, allora si affermarono
anche in lontane aree rurali del Centro7.
Possiamo inoltre aggiungere che a lungo Roma, come
città capitale dello Stato nazionale, non ha condotto un ruolo trainante e omogeneizzante per una memoria nazionale,
come invece ha mostrato di fare Parigi sin dalla sua liberazione nell’agosto 1944. Il compito di costruire una memoria
della seconda guerra mondiale è stato quindi delegato alle
aree locali, comunali come regionali.
Ricerche successive hanno modificato il panorama evocato da Ginsborg e lo hanno maggiormente problematizzato,
ma senza stravolgerlo. Ad esempio, in Italia lo studio delle
componenti dell’esercito del Sud, e l’appartenenza ad esso di
uomini prevalentemente di provenienza centrale e meridionale, ha rivelato la costituzione di un altro tipo di memoria
patriottica, forse afascista, ma certamente costituente una
più generale memoria nazionale. Oppure lo studio più attento della geografia delle sinistre, in Italia come in Francia,
come quello compiuto da Marc Lazar, ha rivelato una complessità di passaggi politici nei primi anni del dopoguerra,
insospettabile sino a poco tempo fa. Per la Francia, è ora
chiaro che il notabilato locale ha costituito l’ossatura non
solo delle scelte politiche elettorali ma anche della successiva
articolazione delle memorie sul territorio8. L’assunto genera7
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le di Ginsborg rimane quindi valido. Inoltre, la sensazione
diffusa nel Sud d’Italia di essere stati liberati (o, per alcuni, di
essere stati occupati) dagli angloamericani, e non di essersi
liberati dai nazifascismi con lotte, volontà e sacrifici, come si
avverte al Centro-nord, modifica profondamente l’insediamento della memoria pubblica, dei rituali civili, della monumentalistica, e in ultima istanza la formazione della democrazia e della nuova cittadinanza partecipativa repubblicana.
Per avviare nuove ricerche e riflessioni credo che sia opportuno ricorrere ad approcci comparati, per far risaltare sia
le similitudini che le profonde differenze e per meglio mettere a fuoco le «vie nazionali». Inoltre, proprio sul piano
comparato, l’Italia risulta sovente assente. Tra le più serie ragioni di questa assenza, naturalmente, v’è la mancata conoscenza linguistica dell’italiano, e quindi la difficoltà da parte
di storici stranieri non «italianisti» d’accesso alla nostra storiografia (non tradotta) e ancor di più alle fonti. La storia
contemporanea italiana continua ad essere analizzata,
all’estero, in base ai tre maggiori temi ritenuti di interesse internazionale: il Risorgimento, il fascismo, l’Italia del secondo dopoguerra, con uno spiccato interesse, alcuni anni fa,
circa l’«anomalia» del Partito comunista e delle sue radici
gramsciane. Mentre oggi tramonta quest’ultimo tema, ne
emerge un quarto, più generale, quella nostra religione civile, al momento del B u i l d i n g della nazione unitaria, ma anche
nella rinascita repubblicana9. L’Italia rimane però trascurata,
quasi assente, dall’analisi comparata di grandi eventi, movimenti e fenomeni sociali, politici e delle mentalità collettive
dell’Europa contemporanea. Essa è quasi sempre esclusa dagli studi comparati sulla prima e seconda guerra mondiale, e
sui dopoguerra; studi oggi ancor più necessari per comprendere i fenomeni e percorsi della integrazione europea tra Otto e Novecento. Facciamo un esempio per tutti, apparentemente marginale rispetto alle grandi storie sulla seconda
guerra mondiale e sulle sue conseguenze, ma significativo
per quanto andiamo qui scrivendo: il libro di Pieter Lagrou
sulla memoria patriottica in alcune ricostruzioni nazionali10.
Si tratta di una ricerca esemplare perché, oltre a studiare la
9
Tra le migliori riflessioni su quest’ultimo tema, segnalo l’articolo di S.
Gundle, The ‘civic religion’ of the Resistence in post-war Italy, in «Modern
Italy», 5, november 2000, pp. 113-32.
10
Cfr. la versione francese di P. Lagrou, Mémoires patriotiques et
l’occupation nazie, Bruxelles-Paris 2003, apparsa l’anno precedente presso
Cambridge University Press con il titolo The Legacy of Nazi Persecution.
Patriotic Memory and National Recovery in Western Europe, 1945-1965.
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diversità di memorie resistenziali nelle regioni francofone e
fiamminghe osserva anche i portatori di tali memorie, quindi
non solo l’oggetto, il tema della memoria pubblica, ma anche i soggetti collettivi che contribuiscono a crearla: essenzialmente le associazioni di ex combattenti, deportati, internati militari e civili. L’autore esclude dal confronto l’Italia ritenendo l’esperienza della doppia guerra (fascista e poi antifascista) troppo anomala per essere inclusa a pieno titolo tra
quelle di Paesi occupati. Credo però che sia possibile reintrodurre l’Italia in tale comparazione non per l’esperienza di
guerra, ma per quanto riguarda i soggetti collettivi operanti
nel dopoguerra. Poco è stato fatto sino ad ora per ricostruire
l’organizzazione, la presenza e l’impatto sulla vita politica
italiana del dopoguerra, e sulla memoria nazionale, proprio
delle associazioni partigiane, della massa di internati militari
e dei deportati nei campi di concentramento ritornati in patria nel dopoguerra; ad un silenzio dello Stato italiano
nell’immediato dopoguerra, ha fatto essenzialmente seguito
un silenzio storiografico, rotto solo negli anni ottanta.
Tento qui di seguito di abbozzare un primo confronto tra
le due politiche della memorie costruitesi nei due Paesi, consapevole della maggiore diffusione, ma anche della mia maggiore conoscenza personale, degli studi sul caso francese11. Le
due cronologie nazionali percorrono binari pressoché paralleli sino agli anni ottanta. Nella mia descrizione ho privilegiato, perché più dettagliata nei singoli passaggi ed anche più
consolidata dalla storiografia, la cronologia francese, confrontandola, per l’Italia, con una scansione individuata sia da
studi precedenti sia dal recente lavoro di Filippo Focardi12.
2. L’insediamento di una memoria nazionale
L’insediamento di una memoria nazionale, tra il 1944 e il
1947, presenta molte analogie fra Italia e Francia. In entram11
Sul caso francese mi sono dilungata in un altro contributo in corso di pubblicazione negli atti di un convegno internazionale sulla memoria della seconda
guerra mondiale tenutosi a Trento nel dicembre 2004: La Seconda guerra mondiale in Francia: complessità e ambiguità delle memorie, delle rappresentazioni e
del dibattito dal 1945 ad oggi. Alcune parti di questo intervento sono qui riprese.
12
F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico
italiano dal 1945 a oggi, Bari-Roma 2005, individua prima degli anni ottanta
quattro fasi distinte: le origini, 1943-44; la crisi di un’interpretazione egemonica
o monolitica, nel 1948-53; il rilancio di una narrazione tra il 1953 e il 1960; il
confronto tra più interpretazioni, essenzialmente patriottica e «rossa» tra il
1961 e il 1978, passando per il 1968.
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bi i Paesi inizia con il giugno 1944, corrispondente alla liberazione di Roma e allo sbarco in Normandia due giorni più
tardi e si protrae sino al 1947, all’uscita dei due principali
partiti comunisti occidentali, il Pci e il Pcf, dai governi
espressi dalle forze resistenziali all’indomani della guerra. In
Italia questa svolta coincide essenzialmente con la frattura
tra partiti di sinistra e partiti centristi aventi come baricentro
la Dc; analogamente in Francia tra le due anime principali
della Resistenza e portatrici di memoria: la gaullista e le sinistre, costituite dai comunisti del Pcf (che da solo nell’immediato dopoguerra ottiene il sostegno di più di un quarto
dell’elettorato) e dai socialisti della Sfio (Sezione francese
dell’Internazionale operaia). Questo blocco disomogeneo
ma ancora idealmente unito riceve alle elezioni del 1946 più
del 75% delle preferenze, ma non riesce a costruire «un partito della Resistenza» che fosse espressione di quello che era
stato il Mln (Movimento di Liberazione Nazionale), direzione politica del movimento resistenziale, e l’anno dopo
anch’esso, nel clima di guerra fredda, si dissolve.
Come le forze politiche, anche le memorie iniziano a dividersi: da un lato comincia a tratteggiarsi una memorialistica comunista, del «partito dei 75.000 fucilati», e dall’altro
quella gaullista, essenzialmente legata alle azioni militari
all’estero e all’interno del Paese. Si esprimono però ancora
alcune voci non schierate di protagonisti della lotta clandestina. Nasce nel contempo anche una «storiografia della
epurazione» che cerca di accreditare il giudizio che la Resistenza in quanto tale sia stata solo un bagno di sangue e una
resa dei conti tra francesi posti ideologicamente su opposti
fronti; polemica rinviata in Italia agli anni novanta. Tale
strumentalizzazione è una delle conseguenze della intensa se
pur breve fase di punizione pubblica di individui, uomini e
donne, che avevano intrattenuto rapporti sia affettivi che di
affari con l’occupante tedesco (uomini trascinati ed insultati
nelle strade, donne rapate nelle piazze e sulla soglia di casa) e
soprattutto dell’epurazione di «collaborazionisti». Ma è stato calcolato che solo il 4% dei sottoposti a processo per collaborazionismo (circa 160.000 istruttorie conclusesi nel dicembre 1948) siano stati condannati a morte, quasi tutti tra il
giugno 1944 e l’inizio del 194513. Rioux già nel 1980 osserva13
Cfr. J.-P. Rioux, La France de la Quatrième République, vol. I, 19441 9 5 2, Paris 1980, p. 56. Si veda anche Une poignée de misérables. L’épuration
de la société française après la Seconde guerre mondiale, a cura di J.-O. Baruch,
Paris 2003.
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va che le epurazioni collettive in settori economici e dell’amministrazione centrale, periferica e nelle colonie furono un
fallimento, mentre solo il mondo della stampa e della cultura
fu effettivamente colpito con alcuni casi esemplari, grazie
anche ad una campagna condotta esplicitamente dalle organizzazioni di Resistenza. Alcuni intellettuali ed artisti compromessi con l’occupante tedesco e con Vichy, in particolare
nella propaganda nazista e antisemita, vengono condannati.
Il processo più famoso fu quello che si svolse nei confronti
di Robert Brasillach, giovane (nato nel 1909) e brillante normalista, divenuto portaparola della destra fascista negli anni
di Fronte popolare e poi dal 1937 redattore del giornale antisemita «Je suis partout», giornale che si mostrò critico persino nei riguardi di una politica considerata troppo moderata del regime di Vichy nei confronti degli ebrei e dei democratici. Brasillach fu condannato a morte in un processo durato poche ore il 19 gennaio 1945 e, nonostante che molti intellettuali resistenti avessero firmato un appello lanciato da
François Mauriac per sostenere la concessione della grazia
da parte di De Gaulle, che la rifiutò decisamente, fu giustiziato il 6 febbraio14.
La storica statunitense Alice Kaplan ha recentemente ricostruito tale processo, superando una serie di difficoltà relative al reperimento delle fonti processuali. Due elementi
risaltano dalla sua puntuale ricerca: il fatto che Brasillach
fosse stato giudicato colpevole in base alla sua azione di «intelligence avec l’ennemi», quindi di alto tradimento nei confronti dello Stato francese sulla base dell’art. 75 dell’allora
vigente codice penale. La collaborazione del singolo con il
nemico veniva immediatamente trattata come crimine mentre ancora la giustizia francese mostrava ambiguità e perplessità nei confronti della natura del servizio svolto da molti
per lo Stato di Vichy. Inoltre, l’antisemitismo propagandato
con convinzione ed entusiasmo da Brasillach non venne mai
menzionato come capo d’accusa, proprio perché i primi
processi d’epurazione non si interessarono alla questione
della Shoah; la Francia avrebbe atteso il 1964 per ratificare i
principi sanciti a Londra nel 1945 sulla natura di crimini
«contro l’umanità» e proceduto solo negli anni ottanta e novanta ad allestire processi esemplari contro cittadini tedeschi
14
P. Assouline, L’épuration des intellectuels, Bruxelles 1985; A. Kaplan,
Intelligence avec l’ennemi. Le procès Brasillach, Paris 2001 (ed. inglese The
Collaborator, Chicago 2002).
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e francesi macchiatisi di tali crimini (Klaus Barbie, Paul To uvier, Maurice Papon). Interessante inoltre la ricostruzione
fatta da Kaplan dei nomi di intellettuali che firmarono ma
soprattutto che non firmarono l’appello alla clemenza proposto da François Mauriac: insieme a letterati ed accademici
antifascisti e resistenti (Jean Paulhan, Albert Camus, Gustave Cohen, Jean-Jacques Bernard), tra i firmatari troviamo alcuni che a quel tempo temevano di essere loro stessi sottoposti a processo per azioni minori di compromissione con il
nemico (Arthur Honegger, Marcel Ayné, Jean Cocteau); tra
coloro che rifiutarono di firmare (con convinzione Pablo Picasso e André Gide) individuiamo anche alcuni che avrebbero nei decenni successivi animato discussioni in proposito,
tra questi Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir.
Studi recenti mostrano che anche in Italia si svolse una
prima epurazione; ma alla memoria dei più, in un confronto
con la Francia, appare blanda, meno tempestiva e quindi
meno efficace soprattutto negli apparati dello Stato. In
realtà, essa fu solamente meno esemplare di quella francese
(senza nomi di spicco), e soprattutto la giustizia fu resa vana
molto presto dall’amnistia nei confronti degli italiani concessa dell’allora ministro della Giustizia Palmiro Togliatti il
22 giugno 194615, seguita dai decreti di grazia firmati dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi tra il febbraio e il
maggio 1951 nei confronti di militari tedeschi resisi colpevoli di crimini di guerra contro soldati e civili italiani16. Questi
atti insediarono nella memoria democratica la convinzione
di una debolezza nell’esercizio della giustizia da parte della
Repubblica italiana. Questa convinzione è durata a lungo,
sino a far emergere negli ultimi anni opinioni antitetiche: che
l’epurazione sia stata sostituita da una «resa dei conti», da
un bagno di sangue indiscriminato ed illegale (tesi rinforzata
recentemente dalle ricostruzioni storiche romanzate di
Giampaolo Pansa), oppure dalla cancellazione delle responsabilità individuali grazie ad un compromesso tra le parti
trovato da Togliatti per giungere ad una «concordia nazionale». Analoga tesi, questa volta storiografica, è emersa circa
15
Si vedano H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 19451 9 4 8, Bologna 1997 (ed. tedesca del 1996) che aggiorna ma dissente dalle critiche espresse, anche nel titolo italiano, dal libro di R.P. Domenico, Processo ai
f a s c i s t i, Milano 1996 (ed. americana del 1991). Sempre sull’amnistia si veda anche il recente lavoro di M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, 22 giugno 1946.
Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano 2006.
16
Nel 1951 rimanevano in carcere in Italia solo Herbert Kappler, condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine e Walter Reder, per quello di Marzabotto.
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l’amnistia concessa a soldati tedeschi dalle autorità militari
italiane: amnistiare i tedeschi significava evitare di «guardare
in casa», di esplorare la vastità di crimini di guerra perpetrati
anche da altri eserciti durante la seconda guerra mondiale,
compreso quello italiano che aveva operato in area balcanica
e nell’Egeo, evitando così di aprire pericolosi contenziosi
con nazioni con le quali stavano insorgendo frizioni politiche, ideologiche e sui territori, come con la Jugoslavia17.
Al contrario, è consuetudine nella Francia moderna attuare l’estirpazione delle radici di passati regimi attraverso
processi esemplari. Vichy allestì, con quello che si ebbe a
Riom tra il febbraio e l’aprile 1942, il tribunale per coloro
che erano stati considerati responsabili della sconfitta del
1940: Blum e Daladier. A sua volta la Quarta Repubblica
portò sotto processo il maresciallo Pétain nel 1945, difeso
dallo stesso avvocato di Brasillach (Isorni), e come lui condannato a morte, ma senza esecuzione immediata (Pétain sarebbe morto di vecchiaia in cattività nel 1951). Il corso generale delle epurazioni e delle condanne non fu però dissimile
da quello italiano. In Francia l’amnistia fu concessa in più
tappe, ma si concluse come in Italia nel 1953: l’estensione
dell’amnistia ai condannati in contumacia fu concessa in novembre, mentre in Francia il suo iter legislativo si chiuse in
agosto. A differenza dell’Italia, però, l’amnistia fu contestata
duramente, soprattutto nella sua ultima fase tra il 1951 e il
1952 da circoli di resistenti, e per ragioni innanzitutto di
principio, poiché interessavano oramai l’1% dei condannati.
Già nell’aprile 1946 infatti era stata emanata una prima
amnistia generale per reati minori (mercato nero, propaganda), nella quale nei due anni successivi vennero inclusi tutti
coloro che avevano meno di 21 anni d’età al momento degli
atti (quindi molti giovani arruolati nelle organizzazioni di
Vichy che non si erano macchiati di particolari atti di sangue), con il risultato che a seguito di una grande campagna
nazionale per l’amnistia nel 1948 furono liberati circa il 70%
dei condannati e di quanti erano in attesa di giudizio. In seguito le corti di giustizia per tali crimini furono sciolte
all’inizio del 1951, in una fase di campagna elettorale, durante la quale le destre avevano messo esplicitamente in programma il completamento degli atti di amnistia. Estrema17
Cfr. F. Focardi, La memoria della guerra e il mito del “bravo italiano”.
Origine e affermazione di un autoritratto collettivo, in «Italia contemporanea»,
settembre-dicembre 2000, pp. 393-9.
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mente problematica per l’elaborazione della memoria collettiva fu l’inclusione tra le categorie di amnistiati anche degli
alsaziani e dei loreni che erano stati arruolati nelle file
dell’esercito e di reparti speciali del Terzo Reich. A loro fu
riconosciuta, con la legge del 15 settembre 1948, l’attenuante
della responsabilità collettiva e non individuale alla «collaborazione»; in sostanza non furono sottoposti a processo
per tradimento ma furono considerati collaboratori contro
la loro volontà (e da allora chiamati i malgré-nous). Questo
comportò, come vedremo in seguito, un profondo e duraturo scontro tra lo Stato francese e la comunità locale di Oradour, nel quale venne compiuto il più grande massacro di civili in Francia, il 10 giugno 1944 (642 trucidati) ad opera di
reparti tedeschi dove prestavano servizio molti malgrén o us18.
Un’ultima strenua opposizione all’amnistia fu condotta
da alcuni noti intellettuali, tra i quali Jean Cassou (18971986), che nel 1953 pubblicò La mémoire courte nelle Editions de Minuit, in reazione all’amnistia a collaborazionisti
concessa dal primo ministro Antoine Pinay (primo capo di
governo non emerso dall’esperienza resistenziale e che quindi segna la fine di un’epoca, nel marzo 1952) e come risposta
a distanza ad un altro intellettuale, Jean Paulhan, che con le
Lettres aux directeurs de la résistance, apparse presso la stessa casa editrice nel 1949, aveva chiesto, tra i primi, una sorta
di «pace sociale» tra resistenti e vichynisti19. L’atto pubblico
di Jean Cassou, che nel 1949 era uscito dal Pcf contestando
l’allineamento filosovietico preso dal partito nei confronti
del titoismo, anticipa due nuovi aspetti del dibattito pubblico: il distaccarsi di molti intellettuali dalla linea egemonica
del Pcf (nel 1946 proprio Cassou era stato eletto presidente
del Comitato nazionale degli scrittori nato dalla Resistenza,
a quel tempo molto influenzato dal Pcf) e la nascita di una
saggistica storica e letteraria a forti valenze morali oltre che
politiche e centrata sull’analisi dei diversi aspetti della Francia nella seconda guerra mondiale; una letteratura capace di
indignarsi, controbattere, difendere il ricordo e soprattutto i
principi morali, politici, ideali della Resistenza. La ritroveremo soprattutto negli anni ottanta ad esaminare i numerosi
Per il complesso iter si legga S. Gacon, L’amnistie. De la Commune à la
guerre d’Algérie, Paris 2002.
19
Il testo è stato riedito recentemente, con una postfazione di J.-O. Baruch
e J. Cassou, La mémoire courte, Paris 2001.
18
Dogliani, Memoria e storia pubblica
85
affaires, casi e scandali, di revisionismo storico e persino di
negazionismo; tra i più impegnati, un accademico d’origine
ebraica, studioso dell’antichità: Pierre Vidal-Naquet20.
Mentre Brasillach veniva considerato, breve tempo dopo
la condanna, un «martire» per la destra e una «icona» per i
revisionisti francesi, si preannunciava con analoga rapidità
una letteratura negazionista «semiclandestina». Essa inizia a
circolare in Francia come in altri Paesi europei e negli Stati
Uniti (grazie al precoce Institut for Historical Review), per
poi contrassegnare almeno quattro fasi di diffusione e
propaganda, così come sono state tracciate da un recente
lavoro di Valerie Igounet 21: l’immediato dopoguerra, gli anni
sessanta e settanta con l’articolarsi delle tesi negazioniste; poi
la terza e pubblica fase tra il 1878 e il 1986; e poi l’ultima ed
ancora vivace. Occorre però aggiungere per introdurre il
secondo periodo preso in esame (quello del 1947-58) che
parallelamente al profilarsi in maniera semiclandestina di una
teoria negazionista in Francia, i lavori sulla deportazione e lo
sterminio, in Francia e altrove, erano estremamente scarsi. Se
i primi lavori (tra testimonianza ed anticipazione di studi e di
riflessioni) di ebrei francesi sopravvissuti alla Shoah escono
nell’immediato dopoguerra per conto di un nascente Centre
de documentation juive, quale il lavoro di Georges Wellers,
De Drancy à Auschwitz (apparso a Parigi nel 1946), essi
rimangono senza continuità. Come senza seguito per anni,
almeno in un ventennio di indifferenza sul tema, sono il libro
di Léon Poliakov, Le bréviare de la haine: le IIIe Reich et le
j u i f s, del 1951 (tradotto in Italia da Einaudi nel 1955) e i
lavori apparsi in Gran Bretagna di Gerard Reitlinger, The
Final Solution, del 1953 (tradotto nel 1962 da Il Saggiatore), e
in Usa di Joseph Tanenbaum, Race and Reich (1956).
Sarà poi soprattutto Raul Hilberg, ricercatore ebreo
d’origine austriaca naturalizzato statunitense, con il suo imponente lavoro tracciato tra il 1948 e il 1955, ma pubblicato
solamente nel 1961 per le grandi difficoltà incontrate dal
giovane storico sia nell’accademia che nel mondo ebraico
statunitense e israeliano, ad aprire la strada a ricerche più
puntuali non solo sul sistema concentrazionario e di stermi20
P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. «Un Eichmann de papier»
et autres essais sur le révisionisme, Paris 1987. Sul tema degli affaires si faccia riferimento anche a P. Dogliani, Tra guerre e pace. Memorie e rappresentazioni
dei conflitti e dell’Olocausto nell’Occidente contemporaneo, Milano 2001.
21
V. Igounet, Histoire du négationnisme en France, Paris 2000.
86
Filo rosso
nio nazista, ma anche sulla memoria collettiva22. Hilberg era
stato allievo a New York di Franz Neumann ed aveva raccolto dal maestro il grande insegnamento sulla struttura burocratica e disarticolata del mostruoso B e h e m o t h: lo Stato
nazista. Esemplare è l’autobiografia scritta da Hilberg, nella
quale egli descrive le difficoltà incontrate nell’approccio alle
fonti, consultate negli archivi federali statunitensi, per la loro massa ed anche per la loro complessità, rispetto a quelle
consultate solo pochi anni prima dai suoi predecessori Poliakov e Reitlinger che si basarono essenzialmente sui verbali
dei processi a Norimberga. Ciononostante Hilberg fu criticato per essersi attenuto essenzialmente alla documentazione tedesca, quindi a quella prodotta dai carnefici, e non dalle
vittime; tale critica aprì una pluriennale discussione sulla
complessa natura delle fonti utilizzabili per la ricostruzione
del genocidio degli ebrei23. L’Italia rimane per lungo tempo
alla periferia di questo dibattito di ricostruzione storica e
memorialistica, come delle correnti revisioniste. Ciò che circola è essenzialmente una memoria interna «antagonista e
rancorosa del neofascismo» che riflette sul tradimento della
monarchia, sul valore e la fedeltà dell’esercito italiano
nell’ambito dell’asse italo-tedesco e che inizia a costruire
una memoria alternativa su Salò24.
Un altro confronto può essere condotto per questo periodo sulla letteratura. Come in Italia tra il 1945 e il 1947,
occorre anche notare negli stessi anni in Francia la diffusione di una letteratura resistenziale, che però oltralpe ha radici
precedenti, nei romanzi e nei documenti letterari che circolavano clandestini sotto l’occupazione, come il noto racconto Le silence de la mer, scritto nel 1941 da Vercors, pseudonimo di Jean Bruller (classe 1902). Altro noto esempio sono
le lettere di Albert Camus, Lettres à un ami allemand, scritte
per la «Revue libre» e i «Cahiers de la Liberté» tra il 1943 e
l’inizio del 1944 e ripubblicate dall’editore Gallimard alla
Liberazione, nelle quali non solo si analizza il complesso
rapporto con l’occupante, come d’altronde aveva fatto Ve rcors, ma anche i rapporti storici tra Francia e Germania e si
ipotizza quali essi sarebbero stati tra i due Paesi e tra Francia
Il libro di R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, fu arricchito e
riedito in inglese nel 1985 e tradotto in italiano da Einaudi dieci anni dopo.
23
Id., The Politics of Memory. Experiences of a Holocaust Researcher, 1994
(da me consultato nell’ed. francese: La politique de la mémoire, Paris 1996).
24
Cfr. Focardi, La guerra della memoria cit., p. 19 e soprattutto F. Germinaro, L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Torino 1999.
22
Dogliani, Memoria e storia pubblica
87
ed Europa nell’immediato dopoguerra. Occorre invece notare che in Italia la narrativa resistenziale apparve solo dopo
l’aprile 1945 in una breve stagione nella quale giovani scrittori che avevano fatto la Resistenza (Italo Calvino primo tra
tutti, e poi Beppe Fenoglio) compiono i primi passi partendo dalla loro esperienza giovanile o altri, come il gruppo bolognese attorno a Renata Viganò (l’autrice de L’Agnese va a
morire) sperimentano una «letteratura resistenziale» in circoli letterari localizzati in alcune realtà urbane (Bologna come Roma o Firenze) e di breve durata.
Poco studiata sino ai giorni più recenti, la letteratura italiana ha spiccate identità regionali, come ha recentemente
osservato Gabriele Pedullà offrendoci una bella antologia di
brani divisi per aree di esperienza e di scrittura, dove naturalmente spiccano le regioni Liguria, Piemonte, Veneto,
Emilia Romagna, Toscana e città come la Milano di Vittorini
e la Roma di Moravia25. Ci pare di capire che la letteratura
italiana appaia ancora più esistenziale e generazionale di
quella francese, quest’ultima con pretese di riscatto nazional-patriottico ed anche di respiro europeo, con il suo costante confronto con il nemico occupante. Di grande interesse e auspice di futuri approfondimenti anche storiografici
è il tentativo di classificazione dei narratori partigiani fatto
da Pedullà: gli scrittori dell’«io», quelli che interpretano la
Resistenza come educazione civile e fase di passaggio individuale; gli scrittori del «noi» per i quali la Resistenza, scrive
Pedullà, «coincide innanzitutto con la scoperta del gruppo»
sia come comunità di eguali, che come progetto collettivo di
rifondazione della società. Infine gli scrittori del loro:
«quanti, negli anni del dopoguerra, hanno vissuto e scritto
costantemente sotto lo sguardo [...] dei compagni morti».
Soprattutto per questo terzo gruppo, Pedullà fornisce alcuni
spunti non solo per una revisione di una recente «memoria
condivisa», per la quale l’offerta di una vita, soprattutto se
giovane, dovrebbe far dimenticare i motivi e le aspirazioni di
tale sacrificio e rendere tutto indistinto e in ultima istanza
patriottico, ma suggerisce implicitamente elementi di differenziazione per quanto andremo scrivendo sul caso francese.
Comunanza con i defunti non vuol dire affatto ideologia della
bella morte: tutt’altro […] Consapevoli di ciò, i partigiani scrittori
si sono posti molto presto il problema di evitare che il ricordo di
coloro che non ce l’hanno fatta si tramutasse in un’astratta celebra25
Si vedano i Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Torino 2005.
88
Filo rosso
zione del pro patria mori. Solo oggi, forse ci rendiamo conto della
giustezza anche politica di questa scelta di fronte alla tendenza di
un certo revisionismo di destra di equiparare i caduti di Salò ai
partigiani in nome di un’etica (e di un’estetica) della bella morte26.
In Francia la letteratura è prima clandestina, nei quattro
anni di lunga occupazione del Paese, e poi post-resistenziale
e si esprime in un arco temporale molto più vasto. Sempre in
Francia inoltre i due schieramenti profascista e vichysta e
quello antifascista e gaullista integrarono al loro interno
molti intellettuali e operatori nel mondo della comunicazione giornalistica e letteraria, dell’arte e dello spettacolo. Quest’ultimo settore era in grande fermento a Parigi, dove teatri,
luoghi di ritrovo, persino la produzione cinematografica rimasero operanti, aperti ad un pubblico francese come germanico, pur se sottoposti a controllo e partecipazione anche
finanziaria tedesca. All’indomani della guerra, due figure
quasi antitetiche ma ambedue d’ispirazione antifascista animarono la discussione tra gli intellettuali e gli scrittori: il cattolico Mauriac sulle pagine de «Le Figaro» e il laico e pacifista Albert Camus, redattore capo di «Combat» divenuto al
momento della Liberazione uno dei quotidiani parigini più
influenti. Sulle pagine del suo giornale Camus sostiene alla
fine del 1944 che «la memoria delle vittime esclude il perdono [come] la giustizia proibisce ogni debolezza» e propugna
una rivoluzione prima di tutto morale, repubblicana e socialista che concili giustizia e libertà nella Francia del dopoguerra. Camus tende a generalizzare, ad universalizzare,
l’esperienza resistenziale, tenendosi a distanza dalle memorie ingessate comunista e gaullista, nella sua produzione letteraria a partire dal romanzo La peste (1945)27.
Questo primo periodo è inoltre caratterizzato in Italia da
una prima ondata di monumenti alla Resistenza: statue, cippi, lapidi voluti e realizzati in maniera autonoma dalle comunità locali e soprattutto dalle associazioni partigiane. Solo
in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, nel 1961, lo
Stato interviene direttamente nel discorso resistenziale, senza però interferire nella promozione locale, che riprende con
impeto in occasione del trentennale dalla Liberazione, con
l’intervento delle regioni e soprattutto grazie ad un nuovo
discorso che limita il numero di nuovi monumenti e progetta invece parchi della pace e luoghi ricreativi dedicati alla
26
27
Ivi, p. XXI.
Camus et la politique, a cura di J. Guérin, Paris 1987.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
89
Resistenza28. Apparentemente analoga è la situazione francese, dove sono i cippi e i monumenti comunali della grande
guerra ad accogliere le prime cerimonie e le prime lapidi di
ricordo dei caduti della Resistenza. Alcune grandi città si assumono in proprio l’iniziativa memoriale, come la capitale,
Parigi, che in occasione del primo decennale della sua liberazione, nel 1954, segnala con lapidi i luoghi dei combattimenti, e in essi i nomi dei caduti, nelle giornate dell’agosto 1944.
Si nota però una svolta, rispetto all’Italia, nell’intervento sia
centrale che periferico negli anni sessanta (corrispondente al
ritorno al potere di De Gaulle) e poi negli anni ottanta e novanta con la realizzazione e in alcuni casi l’ampliamento (a
Mont-Mouchet in Auvergne e soprattutto a Mont Valérien,
considerato il sito più importante della Resistenza nazionale
perché fu il principale luogo di esecuzione della condanna a
morte di resistenti dell’area parigina) di memoriali e di musei della Resistenza.
3. Francia 1947-58
Un secondo periodo, tra il 1947-58, è tutto francese, e
corrisponde all’uscita dalla direzione politica del Paese dei
due principali fondatori della memoria pubblica: il Pcf prima, nel 1947, e poi De Gaulle e i suoi più stretti collaboratori. Vengono così a crearsi memorie separate, sia nelle celebrazioni che nelle pubblicazioni. Da una parte quella che è
stata chiamata da François Bédarida la «mémoire bunker,
ossifiée et surcodée» del Pcf, veicolata dalla stampa comunista che vede in alcune pagine della autobiografia del segretario Maurice Thorez, Fils du peuple (apparsa quasi simultaneamente nel 1950 nelle Éditions sociales a Parigi e
nelle Edizioni di cultura sociale di Roma) l’interpretazione
di un partito che da solo ha sostenuto ampia parte della Resistenza interna offrendo il maggior numero di martiri.
Dall’altra la memoria gaullista (il colonnello Passy, Jacques
28
Si vedano: L. Galmozzi, Monumenti alla libertà. Antifascismo, Resistenza
e pace nei monumenti italiani dal 1945 al 1985, Milano 1986; P. Dogliani, I monumenti e le lapidi come fonti, in Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti
e fonti, a cura di C. Pavone, vol. II, Istituti, musei e monumenti, bibliografia e
periodici, associazioni, finanziamenti per la ricerca, pubblicazioni degli Archivi
di Stato, Saggi 87, Roma 2006, pp. 261-75; Monumenti alla Resistenza. Bologna
e il suo territorio, saggio introduttivo a La premiata Resistenza. Concorsi d’arte
nel dopoguerra in Emilia-Romagna, a cura di O. Piraccini, G. Serpe e A. Sibilia
(introduzione di E. Raimondi), Bologna 1995, pp. 21-38.
90
Filo rosso
Soustelle) sintetizzata dalle Mémoires de guerre (1954) del
generale stesso che rende la Resistenza un fatto militare guidato da coloro che avevano seguito il suo appello londinese
del 18 giugno 1940 per una France libre. In mezzo a loro
una memorialistica «indipendente» poco appariscente e
rappresentativa, mentre, come nel caso italiano di Roberto
Battaglia (che pubblica da Einaudi nel 1953 il primo lavoro
di ricostruzione storica dei mesi della Resistenza), inizia timidamente a fare i primi passi una prima ricostruzione storiografica guidata a Henri Michel. Michel, militante socialista e resistente del Var, segretario della Commissione di storia dell’occupazione e della Liberazione creata il 20 ottobre
1944, è destinato a divenire «la figura dominante» della storiografia della Resistenza almeno sino all’inizio degli anni
settanta.
Altrettanto timidamente la Quarta Repubblica tenta una
sua celebrazione moderata e poco militante della Resistenza,
che culmina con l’anno 1953: l’anno dell’amnistia definitiva
ma anche della legge che indice l’8 maggio festa nazionale.
Vi è una netta differenza con il nostro 25 aprile. La festa italiana si impone sin dal 1946, grazie al governo De Gasperi,
su proposta del comunista allora sottosegretario alla presidenza Giovanni Amendola, come «festa della nazione democratica ricondotta non all’anniversario della cessazione
della guerra – il 2 maggio – ma al ricordo dell’insurrezione
generale proclamata dal Comitato di Liberazione nazionale», e pertanto festa democratica ed antifascista – ancor prima della istituzione della festa del 2 giugno, il 25 aprile si
poneva come festa fondante il nuovo Stato, con l’auspicio
che potesse «per ampiezza e tradizioni ricord[a r e] il 14 luglio francese»29. L’8 maggio francese ricevette invece diverse
interpretazioni ed ebbe un percorso assai complesso. Immediatamente De Gaulle diede della capitolazione tedesca in
tale data una lettura di vittoria dell’esercito francese, inter
pares tra quelli alleati, che pone termine ad una guerra durata trent’anni (1914-44) contro l’esercito tedesco. Per questo
De Gaulle nel 1945 continuò a privilegiare la vittoria più
completa e meno contraddittoria come festa nazionale: quella dell’11 novembre (1918) rispetto a quella dell’8 maggio
(1945). La Quarta Repubblica potenzia invece una lettura
«democratico cristiana» e trasforma il concetto di capitolazione in quello di armistizio. La legge del 20 marzo 1953 che
29
M. Ridolfi, Le feste nazionali, Bologna 2003, pp. 200 sgg.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
91
trasforma l’8 maggio in giornata festiva nazionale «costituisce il versante ricordo di una politica di perdono elaborata
tra il 1952 e il 1954» sfociata nella legge del 24 luglio 1953
sull’amnistia dei collaboratori. Una terza e duplice lettura
interviene negli anni settanta: il presidente Valéry Giscard
d’Estaing, nel 1975, cancella l’8 maggio dal calendario delle
festività in nome della costruzione di un avvenire europeo
attorno all’asse franco-tedesco; al contrario, andato al potere
il socialista Mitterrand nel 1981, l’8 maggio ritorna ad essere
giornata festiva con forte enfasi sui valori di pace, di coesistenza, dei diritti umani30.
È interessante notare, sempre nell’ambito del nostro confronto, che sebbene richiesta a più riprese dalle associazioni
di combattenti e di deportati in Francia non sia mai stata instaurata una giornata specifica dedicata alla Resistenza. In
un primo momento sembrò emergere la data del 18 giugno,
nella quale, nel 1940, De Gaulle aveva chiamato i francesi a
resistere all’occupazione. In effetti tale data fu fastosamente
celebrata dal 1960, per tutto quel decennio gaullista, al Mémorial de la France combattente sul monte Valérien, ma
eclissò come l’homme du 18 juin con il 1968. Come prima
del 1958, nuovamente la festa della Resistenza ritorna a disperdersi attorno a decine di luoghi e di date che ricordano
in provincia fatti d’arme, deportazioni ed eccidi, e attorno a
memorie che ancora recano divisioni, conflitti, riti ed ideologie diverse. A riprova, è stato notato che la Resistenza non
ha trovato ospitalità come «luogo» reale o immaginario nei
volumi su Les lieux de mémoire dedicati alla Francia da
Pierre Nora tra il 1984 e il 1993, a differenza di quanto è avvenuto nei volumi italiani curati da Mario Isnenghi31.
Notiamo anche un’altra coincidenza per l’anno 1953 tra
Francia ed Italia: in ambedue i Paesi questo anno, oltre al
completamento dell’iter delle amnistie, segna il momento
più critico e «basso» nella memoria pubblica della Resistenza. A differenza di quella francese, però, tra il 1948 e il 1953
la Resistenza italiana viene addirittura messa in stato di accusa e criminalizzata, con procedimenti e processi a carico di
ex partigiani. In ambedue i Paesi, comunque, il discorso celebrativo perde fiato, si orienta sulla concordia nazionale,
30
Si vedano di S. Barcellini: La commémoration du 8 mai 1945, un combat
entre Histoire et Mémoire, in «Historiens et Géographes», 348, pp. 1995 e la voce 8 mai 1945, in Dictionnaire historique de la Résistance, Paris 2006, pp. 995-6.
31
A. Ballone, La Resistenza, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi
dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 401-38.
92
Filo rosso
viene gestito dai partiti centristi; in Italia essenzialmente dalla Democrazia cristiana che cerca di neutralizzare il potenziale «sovversivo» della memoria resistenziale delle sinistre,
in nome di valori morali e genericamente patriottici, del ricordo da coltivare essenzialmente negli animi e nel silenzio
delle coscienze ed anche di un appello più generale alla «pacificazione» tra italiani32.
4. De Gaulle e la memoria della Resistenza
Il ritorno di De Gaulle al potere impone in Francia un
terzo periodo: 1958-69. La memoria pubblica torna ad essere
egemonizzata dai gaullisti, e contrastata dalla sola memoria
comunista, sempre più chiusa negli ambienti interni al partito
e ai militanti. Sul piano storiografico, la Resistenza diviene
tema di ricerche universitarie, ma anche in questo ambiente
fortemente influenzate dalle tesi gaulliste che vedono la
Resistenza francese essenzialmente diretta e subordinata alla
direzione di Londra. Simili visioni si esprimono, ad esempio,
nella prima these d’état sull’argomento, sostenuta da Henri
Michel alla Sorbona nel 1962 in presenza di molti autorevoli
protagonisti della Resistenza: Les courants de pensée de la
Résistance; riassunta poi dal primo «Que sais-je» (collana di
ampia diffusione) sulla «France libre» del 1963 e dal volume
Jean Moulin l’unificateur sempre di Michel del 1964. Al
confronto, il Pcf mantiene salde la sua memoria «alternativa»
e, come è stata successivamente definita, una sua militante
datcha storiografica comunista. Escono in questi anni le
memorie di Jacques Duclos e soprattutto l’opera collettiva
Le Parti communiste français dans la Résistance (Paris 1967).
Sempre in quegli anni i gaullisti procedono ad una operazione di grande valore simbolico: la ricerca di un nome che
rappresenti tutti gli eroi caduti per la Liberazione. Al contrario della prima guerra mondiale, per la quale il sacrificio
di centinaia di migliaia di caduti veniva sintetizzato negli
onori portati al corpo di soldat inconnu, la lotta di Resistenza, per la quale sono stati tutti identificati e selezionati i
combattenti, ha bisogno di un altrettanto conosciuto e riconosciuto personaggio che li rappresenti. Tale héros éponyme
viene identificato dai gaullisti, e da storici accorsi in loro aiu32
Sul periodo 1948-53 considerato di «crisi della ‘‘narrazione egemonica’’
antifascista» ancora Focardi, La guerra della memoria cit., pp. 19-32.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
93
to, come Michel, in Jean Moulin. La figura di Jean Moulin
emerge come la più adatta a rappresentare nel luogo più sacro della religione civile della nazione, dove vengono conservati, onorati ed esposti i corpi dei personaggi più illustri:
il Panthéon, l’intero esercito dei martiri della Resistenza. In
un primo momento quattro resistenti erano stati evidenziati
da una attenta selezione, tra i quali Pierre Brossolette, il resistente di formazione umanistica e normaliana che aveva costruito, da Londra, il primo discorso epico (pronunciato il
18 giugno 1943) sul sacrificio per la patria e per la liberazione del Paese, per poi cadere anch’egli pochi mesi dopo, nel
marzo 1944: «si potrebbe dire che il resistente Brossolette ha
identificato con il suo sangue l’oratore Brossolette»33. Moulin viene però meglio identificato come l’uomo sintesi della
Resistenza, non il capo bensì il primus inter pares: l’uomo di
De Gaulle, l’uomo delle istituzioni della Terza Repubblica
che non si piegano al collaborazionismo (era stato giovane e
brillante prefetto), l’uomo della organizzazione e della lotta
clandestine, l’uomo e il mediatore politico, infine il torturato
e il trucidato dopo la cattura da parte dei nazisti. Il 19 dicembre 1964 il suo corpo viene traslato al Panthéon, seguito
idealmente da un popolo di ombre che ottiene con lui la resurrezione, grazie all’onore che tributa loro la nazione e alla
luce sotto la quale il ricordo e la riconoscenza dei francesi li
pone. A Moulin, Andrè Malraux dedica il più importante
dei suoi discorsi tenuti come ministro della Cultura, riprendendo ed ampliando la retorica resistenziale inaugurata e
praticata durante la guerra da Brossolette. La traslazione di
Jean Moulin assume quindi molteplici significati grazie anche alla sapiente regia di Malraux, ministro ma anche tra i
più noti scrittori francesi del tempo, precocemente antifascista negli anni del Fronte popolare, volontario nella guerra
civile spagnola, poi divenuto compagnon e fedele collaboratore di De Gaulle. Alcuni sostengono (tra questi ancora L.
Douzou)34 che l’orazione per Moulin abbia valso anni dopo,
nel 1996, allo stesso Malraux l’onore di essere sepolto a suo
33
L. Douzou, La Résistance française: une histoire périlleuse. Essai
d ’ h i s t o r i o g r a p h i e, Paris 2005, p. 29. Il libro contiene anche un’ampia
bibliografia finale alla quale si rinvia per i riferimenti storiografici qui fatti, ma
non riportati in nota.
34
Id., La Résistance française en quête d’un héros éponyme (1942-1996), in
La France démocratique (combats, mentalités, symboles). Mélanges offerts à
Maurice Agulhon par Ch. Charle, J. Lalouette, M. Pigenet, A.-M. Sohn, Paris
1998; Id., Les morts de la Résistance, in Autour des morts. Mémoire et identité,
a cura di O. Dumoulin e F. Thelamon, Rouen 2001, pp. 409-17.
94
Filo rosso
turno al Panthéon proprio da quel presidente della Repubblica che più aspirava a competere e a superare De Gaulle nel
suo rapporto con la storia: François Mitterrand, che a sua
volta nel celebrare Malraux tentava di ricelebrare Moulin e la
Resistenza alla quale aveva in una seconda fase della guerra
anch’egli partecipato, con le molte ambiguità che sarebbero
emerse nel corso dei suoi due settennati (1981-95). Jean
Moulin, nelle parole di François Bédarida:
simbolo della simbiosi tra resistenza esterna e resistenza interna,
con la sua panthéonisation nel 1964 questo capo tardivamente scoperto dei resistenti viene eretto ad eroe eponimo definitivo come
rappresentante del generale De Gaulle. Tutto nella cerimonia è fatto per sottolineare la subordinazione dei combattenti clandestini
alla France combattante35.
L’operazione mostra immediatamente una contraddizione di fondo: il termine «resistente» in Francia ha compreso
una molteplice varietà di soggetti, molto più ampia di quella
italiana, relegata essenzialmente ai combattenti delle formazioni partigiane: erano i combattenti all’interno del Paese e
all’estero, in formazioni politiche e militari, ma anche deportati per motivi politici e razziali, ex prigionieri di guerra, riconosciuti negli anni immediatamente successivi alla guerra
dal segretariato di Stato agli Anciens combattants, nato con
la grande guerra. I resistenti si riuniscono in Associations e
Amicales, essenzialmente organizzate a livello dipartimentale. L’attribuzione del titolo di Cvr (Combattant volontaire
de la Résistance) venne fatta in maniera generosa almeno sino al ritorno di De Gaulle che la sospende e nel contempo
attua un coinvolgimento dei Cvr nelle grandi manifestazioni
in occasione degli anniversari per i quarantesimi nel 1960,
1964 e nel 1965.
Allo stesso tempo De Gaulle, nel 1961, ripropone nella
data simbolica del 18 giugno una élite di eroi della Resistenza: 1.038 persone tra civili e militari, tra le quali solo 6 donne,
che avevano lottato per la liberazione della Francia nel periodo che intercorre non a caso tra il 18 giugno 1940, data del
suo appello londinese a tous les Français, e l’8 maggio 1945.
Essi erano stati scelti nel corso della guerra, dal novembre
1940 sino al gennaio 1946, ed era stato conferito loro, viventi
o caduti, il titolo di compagnons de l’Ordre de la Libération.
Si trattava di un vero e proprio ordine cavalleresco, che attribuiva un titolo rilasciato dalla Grande Chancellerie de l’Or35
F. Bédarida, Histoire, critique et responsabilité, Bruxelles-Paris 2003, p. 178.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
95
dre de la Libération, e preferito da De Gaulle sin dal suo ritorno al potere, al Grand Cordon de la Légion d’Honneur.
Ad esso erano iscritti, «nell’ordine della morte, senza distinzione alcuna» più di trecento compagnons fucilati, torturati,
deportati, caduti in combattimento. Dal 1958, De Gaulle si
mette alla ricerca di un eroe che li rappresentasse pubblicamente tutti, qualcuno che costituisse una sintesi dei resistenti, e che potesse avere il carisma per guidare quelle anime ad
uscire dall’ombra nella quale la belle morte (il kalos thanatos
dell’Iliade, l’atto eroico compiuto come sacrificio per il proprio Paese) li aveva colti nella clandestinità, in prigioni e in
luoghi solitari di fucilazione e tortura.
Non ritroviamo nessuna operazione simile per quanto
riguarda l’Italia, dove, come nella letteratura, la cultura eroica e mitologica della «bella morte» non viene coltivata dai
resistenti, bensì in maniera sotterranea, sino ai più recenti
tempi, dai «ragazzi di Salò»36. Occorre inoltre osservare che,
a differenza del caso italiano, ai riti resistenziali francesi contribuisce in maniera decisiva l’esercito, l’Armée nationale,
con la sua tradizione militare e i suoi simboli eterni. La politica memoriale del generale De Gaulle incrementa questo innesto tra valori patriottici e valori militari, tra l’altro in un
momento di estrema debolezza dell’esercito stesso dopo la
sconfitta in Indocina e le operazioni di polizia in Algeria, vivificando una tradizione nazionale che va ben oltre l’istituzione repubblicana, rifacendosi anche al culto cristiano di
Giovanna d’Arco e al suo sacrificio per liberare la Francia
dagli invasori.
Nessun capo della Resistenza italiana ebbe il profilo e la
formazione politico-militare di De Gaulle e nessuno tentò
di riabilitare l’esercito italiano come forza di riscatto nazionale, almeno sino agli ultimi presidenti della Repubblica legati alla stagione resistenziale (Pertini, Scalfaro e Ciampi), e
al loro impegno nella ricostruzione di una memoria patriottica partendo da Cefalonia, e da altri tragici fatti di resistenza
ai tedeschi nell’Egeo del settembre 1943. Inoltre, i pochi lavori italiani, essenzialmente articoli ed anticipazioni di corposi saggi ancora da venire37, mostrano le difficoltà se non
Cfr. C. Mazzantini, A cercar la bella morte, Venezia 1995.
Cfr. i saggi in Le memorie della Repubblica, a cura di L. Paggi, Firenze
1999 e soprattutto G. Schwarz, Dal Vittoriano alle Ardeatine: la commemorazione patriottica alle origini della Repubblica, in Annali della Fondazione Luigi
Einaudi, vol. XXXVI, Torino 2002, pp. 305-33.
36
37
96
Filo rosso
l’impossibilità storica di individuare un luogo-culto ufficiale
e nazionale per la Resistenza italiana e i suoi caduti: né il
Vittoriano-Altare della Patria (assimilabile simbolicamente
all’Arco di trionfo a Parigi) né il Panteon romano e ancor
meno nuovi luoghi come le Fosse Ardeatine riescono a conciliare animi e organizzazioni già divise al momento della liberazione di Roma e mai conciliate da una operazione ufficiale dello Stato italiano. Bruno Tobia ricorda che solo a partire dal 1955 l’Altare della Patria viene scelto da capi dello
Stato per celebrare, con la deposizione di una corona, la ricorrenza del 25 aprile. E sottolinea che in occasione dell’avvio di tale rito, corrispondente al primo decennale dalla Liberazione, la situazione era alquanto complessa e certamente
non adatta a creare una memoria ufficiale e condivisa tra le
forze antifasciste: se dopo anni le diverse associazioni partigiane si trovarono nuovamente insieme per tale giornata, esse si confusero tra rappresentanze d’arma, di combattenti e
di reduci, tanto da far perdere la specificità resistenziale della
cerimonia, sottoposta tra l’altro ad atti provocatori di giovani neofascisti del Movimento sociale e presieduta non da un
presidente della Repubblica, bensì dal discusso presidente
del Consiglio di allora, Mario Scelba38.
Occorre inoltre sottolineare un importante fattore di differenziazione tra l’Italia e la Francia, che si evince da quanto
abbiamo sino a qui descritto. Non solo il titolo di resistente
vuole racchiudere in Francia più soggetti ed esperienze collettive: esso è anche riconosciuto e «protetto» ufficialmente
da un sottosegretariato divenuto poi ministero agli Anciens
combattants che lo attribuisce e che indirizza i cerimoniali,
accudisce cimiteri e luoghi di memoria e di culto laico, inserendo la memoria della seconda guerra mondiale in modo
meno controverso e nascosto di quanto abbia fatto l’Italia in
quella ancor più forte e patriottica della grande guerra39. Il
riconoscimento dello status di combattente per la patria vale
quindi, in Francia, sia per i vivi che per i morti. Il ricordato
sottosegretariato recuperò immediatamente i corpi dei resistenti morti, provvide alla loro traslazione in cimiteri civili e
soprattutto militari, e curò le loro tombe; invece l’Italia visse, come ha descritto Guri Schwarz, un’«anarchia funeraria»
B. Tobia, L’Altare della Patria, Bologna 1998, p. 112.
A questo proposito si leggano i diversi lavori di un dirigente di tale
ministero, il citato S. Barcellini, e in particolare il libro scritto con A.
Wieviorka, Passant, souviens-toi! Les lieux du souvenir de la Seconde Guerre
mondiale en France, Paris 1995.
38
39
Dogliani, Memoria e storia pubblica
97
tra il 1943 e il 1947, dove familiari, compagni di lotta, singole comunità si attivarono (in particolare nelle regioni dove la
lotta partigiana e i bombardamenti alleati furono intensi),
pur tra i tanti divieti per esumazioni e spostamenti di salme,
al triste ma dovuto recupero dei loro morti. Solo tra il 1947
e il 1948 il Commissariato generale onoranze ai caduti e la
presidenza del Consiglio iniziarono ad occuparsene con aiuti anche finanziari, senza però mai giungere ad un disegno di
realizzazione complessivo che introducesse queste morti in
una nuova e non contraddittoria fase di culto della patria40.
Vennero però esclusi nel maggio 1947 dai contributi alla traslazione i combattenti di Salò non considerati «caduti o deceduti in seguito a ferite o malattie contratte per causa di
servizio nella guerra 1940-45». Il tema del riconoscimento
ufficiale di questi ultimi da parte dello Stato italiano è stato
nuovamente aperto all’inizio del nuovo secolo dal governo
Berlusconi.
La creazione di un ministero analogo a quello francese
degli Anciens combattants in Italia naufragò rapidamente
dopo la conclusione del governo Parri, bloccando di fatto
la realizzazione di un associazionismo partigiano riconosciuto e protetto a livello pubblico non solo per quanto riguardava gli aspetti previdenziali, ma anche per metterlo al
riparo dagli scontri politici. In Italia, e questo ci riporta al
periodo precedente, vennero create dalla costola dell’Anpi,
rimasta a direzione comunista e socialista, all’inizio del
1948 la Federazione italiana volontari per la libertà, che
raccoglieva i partigiani delle formazioni autonome e cattoliche; e all’inizio del 1949, fu lo stesso Parri, dopo un ultimo tentativo di ricomporre le fila di un movimento nazionale, a fondare la Fiap (Federazione italiana associazioni
partigiane) che raccoglieva a sua volta le formazioni di
Giustizia e Libertà, le mazziniane ed alcune autonome41.
Mancano a tutt’oggi serie ricerche sul reducismo, nonostante che oramai vent’anni fa Claudio Pavone ne rilevasse
l’importanza42. La disarticolazione dell’associazionismo ha
40
Si veda G. Schwarz, La morte e la patria: l’Italia e i difficili lutti della Seconda guerra mondiale, in «Quaderni storici», 113, agosto 2003, pp. 551-87.
41
Anche in questo caso mancano studi puntuali sull’associazionismo partigiano al di là di alcune storie ufficiali prodotte dalle associazioni stesse. Si vedano le mie osservazioni ed una prima ricostruzione in P. Dogliani, La memoria
della guerra nell’associazionismo post-resistenziale, in La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, a cura di
G. Miccoli, G. Neppi Modona e P. Pombeni, Bologna 2001, pp. 527-56.
42
C. Pavone, Appunti sul problema dei reduci, in L’altro dopoguerra. Roma
e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Milano 1985, pp. 89-106.
98
Filo rosso
inoltre prodotto memorie separate ed emarginate, a circolazione ristretta tra reduci, che solo con molta fatica e tempo sono pervenute a storici in grado di esaminarle e di ricostruire il contesto storico più vasto dell’esperienza; è il
caso degli internati militari43. Non sono ancora stati affrontati direttamente i perché dell’abbandono dei reduci da
parte dei partiti resistenziali e della loro mancanza di sensibilità e d’attenzione ad un potenziale movimento civile ed
elettorale che invece in Francia, soprattutto con l’organizzazione degli internati e dei prigionieri di guerra voluto dai
primi governi gaullisti, costituì l’elemento di forza e di sostegno per successive carriere politiche, tra queste quella di
François Mitterrand44.
In Francia l’operazione Jean Moulin tese a costruire un
mito collettivo che si basava essenzialmente sulla figura del
combattente eroico. È stato inoltre sottolineato che la Resistenza in quegli anni è tutta improntata su una visione virile
della storia nazionale: la popolazione civile e in particolare la
componente femminile combattente, resistente, coadiuvante
la lotta in armi è pressoché assente dalle forme rappresentative come dalle celebrazioni e dai «luoghi» d’onore. Abbiamo scritto che solo sei donne entrano nel compagnonnage
ufficiale della Resistenza e vengono quindi insignite di croci
al merito; poche resistenti vengono inserite nel corteo ideale
dei caduti per la patria; né molti più tributi conferisce alle
donne il Partito comunista, nel quale domina una rappresentazione operaista e altrettanto virile della lotta di classe.
L’operazione mitizzazione negli anni sessanta sembra comunque funzionare. Come ha sottolineato François Bédarida, lo storico francese che più si è occupato del rapporto
storia e memoria nel temps présent, cioè nella storia a noi più
prossima (quella che ci raggiunge con l’esperienza vissuta
direttamente o dalla generazione a noi più vicina, dei nostri
padri e nonni; è la «storia immediata» e quindi ancora sog43
Non entriamo in merito a questa memorialistica, ampiamente oggi utilizzata da studiosi impegnati in una seria ricostruzione storica, in Italia G. Rochat tra i primi, L. Cajani e B. Mantelli; in Germania G. Schrieber e più recentemente G. Hammermann con Gli internati militari italiani in Germania
1943-1945, 2004 (ed. tedesca del 2002). Il tema e la sua complessità vengono
affrontati per la prima volta in un convegno tenutosi a Torino nel novembre
1987 i cui risultati appaiono in Istituto storico della Resistenza in Piemonte,
Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra
mondiale, Milano 1989.
44
Si veda P. Dogliani, Mitterrand e l’Histoire, in «Storica», 32, 2005, pp.
83-108.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
99
getta a trasformazioni nelle forme di ri-memorizzazione e di
rappresentazione): i miti del XX secolo sono miti veicolati
dalla memoria collettiva, essi assumono, come d’altronde nel
passato, una funzione sociale, attraverso di essi tutto un sistema simbolico entra in azione, grazie ad una costruzione
dinamica legata a un sistema di valori condivisi.
I miti contemporanei sono costruiti per esigenze storiche, e politiche, nel nostro caso la costruzione di un consenso popolare al momento della fondazione della Quinta Repubblica e nel superamento dei profondi scontri interni al
Paese dovuti alla crisi coloniale e soprattutto algerina; ma
come tali possono essere facilmente decostruiti e possono
altrettanto facilmente entrare in crisi e travolgere l’intero
impianto interpretativo del passato: grazie alla ricerca storica, all’emergere di memorie contraddittorie e sino a quel
momento nascoste, all’insorgere di nuove domande. È il caso del mito resistenziale dopo il 1968. Il termine Résistance
comincia ad aggettivarsi, diviene juive, étrangère e quindi ad
articolarsi. Lo stesso il concetto di Liberazione in una guerra
totale, assai diversa dalla grande guerra: chi libera chi? chi si
libera e chi è liberato? In Francia questa domanda scardina
un altro impianto interpretativo sempre gaullista: quello dei
francesi che si liberano dai loro occupanti (i tedeschi) e aiutano gli altri Alleati a liberare l’Europa, senza tenere conto
dell’esistenza di un collaborazionismo, di un fascismo e filonazismo autoctoni e aderenti ad un progetto d’Europa che
porta l’impronta del «nuovo ordine europeo» hitleriano.
Sempre Bédarida ha sostenuto che il termine memoria viene
caricato di equivoci semantici, psicologici, politici, affettivi.
La sua ambivalenza proviene da due sue distinte funzioni: la
funzione di restituzione e di preservazione del passato; la
funzione di trasmissione e d’applicazione nel presente. Rimemorizzare significa, sempre secondo Bédarida riscoprire
e vivificare il passato per salvaguardarlo. In tal modo il passato è attualizzato, richiamato nel presente e divenuto presente: il risultato è un corpus di rappresentazioni e di immagini più o meno strutturate: memoria nazionale, operaia, resistente ecc., derivanti ed inserite in più tradizioni.
5. Gli anni settanta: le memorie monolitiche si sgretolano
Con il 1968 si attua una decostruzione delle due memorie monolitiche e portanti della Resistenza: l’apparizione
100
Filo rosso
della biografia di Georges Marchais, allora segretario generale del Pcf, non resistente ma lavoratore «volontario» in
Germania durante la guerra, si scontra con la memoria comunista del partito dei «75.000 fucilati» e combattenti del
Maquis. L’impianto patriottico-militare gaullista viene a
sua volta messo in discussione dai movimenti studenteschi,
intellettuali e libertari del maggio francese, che, a differenza dell’Italia, della sua nuova sinistra e del movimento studentesco ed operaio nati nelle lotte del 1968-69 (e il confronto andrebbe ancora fatto con attenzione), non si rifà in
termini antiretorici ad un’«altra resistenza», la resistenza
armata, proletaria, di rivolta sociale, tradita dai partiti e
dalle istituzioni dell’immediato dopoguerra.
In Francia semplicemente il maggio e il dopo maggio
trascurano il passato resistenziale (d’altronde molto lontano da alcuni suoi maîtres-à-penser, come Sartre o Althusser) e si rivolgono piuttosto ai movimenti a loro contemporanei di liberazione dei popoli dal neocolonialismo e alla
lotta per i diritti civili. Nel corso di un decennio emergono
nuove testimonianze, entrano nel cono di luce attori resistenziali sino ad allora trascurati, viene soprattutto privilegiata la storia orale con nuovi metodi di intervista e di rilevazione.
In questo contesto spicca il lavoro compiuto da Henri
Noguères, in collaborazione con altri, che sfocia nella pubblicazione di cinque volumi di testimonianze, apparsi tra il
1967 e il 1981: Histoire de la Résistance en France de 1940
à 1945, editi da Laffont. Inoltre, la ricerca storica universitaria si rivolge all’analisi di specifiche realtà dipartimentali
e integra per la prima volta studiosi non francesi, essenzialmente inglesi e statunitensi. Alla fine degli anni settanta
viene discussa la tesi di dottorato di Pierre Laborie, seguita
nel decennio successivo dalla preparazione e discussione di
altre tesi sulla base di ricerche locali attente alla varietà di
fonti e di questioni nazionali, condotte da parte di coloro
che oggi guidano la ricerca francese in questo campo: JeanMarie Guillon per il dipartimento del Var (tesi discussa nel
1989), di Olivier Wieviorka (nel 1992 sulla Francia settentrionale) e di Laurent Douzou (nel 1993 sul lionese e il
Sud). Sempre negli anni settanta si avverte l’impatto in
Francia delle ricerche straniere; in particolare del secondo e
fondamentale studio di Robert Paxton sul periodo: il primo, del 1966, era concentrato sul destino del corpo di ufficiali francesi dopo la disfatta del giugno 1940; il secondo,
Dogliani, Memoria e storia pubblica
101
intitolato La France de Vichy, esce in Usa nel 1972 e immediatamente dopo, nel 1973, viene tradotto in francese45.
È stato anche sottolineato che la legge francese sul riordino e l’apertura degli archivi, emanata nel 1979, ha permesso
ai ricercatori, soprattutto ai più giovani universitari, l’accesso
ad una massa di documenti sino a quel momento inaccessibili, male inventariati, non considerati. Occorre però dire che
se la ricerca è facilitata dagli archivi, ancora di più essa viene
sollecitata da un nuovo approccio e da una nuova mentalità.
Sino agli anni settanta era senso comune che la clandestinità
durante la guerra non avesse favorito la produzione e la conservazione di documentazione scritta e che le fonti fossero
essenzialmente da ritrovare nei testimoni dell’epoca, in
quanto avevano rilasciato in racconti e documentazione dopo il 1944-45; tali testimoni erano poi veicolati se non individuati dalle due memorie nazionali dominanti. Una nuova
generazione di storici, libera da quei legami di compagnonnage, generazionali, politici e persino emotivi che avevano
legato i primi studiosi ai protagonisti della Resistenza, si poneva nuove domande che si interrogavano sul contesto sociale e geografico nel quale era nata la militanza, gli aspetti
civili e non solo militari della lotta, le strategie di potere
all’interno della rete resistenziale durante e dopo la Liberazione. Vi è anche da aggiungere che proprio alla fine di quel
decennio, con il 1980, la ricerca si libera da legami istituzionali. Tra il 1945 e il 1951 il Comitato di liberazione nazionale
aveva costituito la Commission d’histoire de l’occupation et
de la libération de la France; tra la fine del 1951 e il 1980 aveva invece operato un Comité d’Histoire de la Deuxième
Guerre Mondiale che aveva promosso ricerche, convegni,
rapporti internazionali ed aveva costituito uno spazio operativo per almeno due generazioni di storici in quanto era sostenuto ed amministrato dal Cnrs (l’analogo del nostro Comitato di ricerca nazionale, Cnr); era però rimasto essenzialmente un organismo patrocinato e controllato dal gabinetto
del primo ministro. Il Comité d’Histoire, come ha sottolineato Bédarida46, costituiva «una opera indubbiamente sapiente, ma ancora in linea con la memoria gloriosa del mondo resistente», quindi poco critica e libera di esprimere nuo45
R.O. Paxton, La France de Vichy, 1940-1944, Paris 1973; L’armée de
Vichy. Le corps des officiers français 1940-1944, Paris 2004, (ed. orig. Princeton
1966).
46
F. Bédarida, J.P. Azema, L’historisation de la Résistance, in «Esprit»,
janvier 1994, pp. 19-35.
102
Filo rosso
ve ricerche e soprattutto interpretazioni. Solo nel 1980 il Comité è stato liberato dal patronage politico e consegnato interamente al Cnrs per divenire l’Institut d’Histoire du temps
présent, laboratorio di ricerca storica allargato dalla guerra
alla storia del fascismo e del secondo dopoguerra.
Diversa è la storia dell’Istituto nazionale per la storia del
movimento di Liberazione in Italia, recentemente descritta
da Gaetano Grassi47. L’Istituto nazionale nasce nel 1949 in
maniera autonoma come volontà di serbare il ricordo, costruire una memoria e conservare la documentazione dei
movimenti di Resistenza, su proposta di Ferruccio Parri, a
Milano, quindi nella «capitale della Resistenza» e non nella
capitale ufficiale del Paese, come espressione federativa dei
primi istituti locali, quelli di Torino e di Genova creati nel
1947 e di altri istituti in costruzione. Al pari degli Archivi di
Stato, a tali istituti viene riconosciuto il diritto di deposito
dei documenti atti a «preparare il terreno al lavoro degli storici», che inizia di fatto negli anni cinquanta e si intensifica
negli anni sessanta con l’entrata dell’Istituto, in corrispondenza con il centenario dell’Unità d’Italia, nella rete europea
del Comité d’Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale.
Solo nel 1967 però, sotto la presidenza dello storico torinese
Guido Quazza (che con un libro-saggio apparso nel 1974
riaffermerà la centralità della Resistenza nella storia d’Italia,
e anche le speranze resistenziali eluse dalla Repubblica),
l’Istituto viene riconosciuto di natura pubblica e sostenuto
finanziariamente e con distacchi d’insegnanti per una didattica della storia della Resistenza, della democrazia e dell’Italia contemporanea che diviene effettiva all’inizio degli anni
ottanta. Gli anni di maggiore attività e presenza dell’Istituto
nazionale e della sua rete locale (53 istituti nel 1988) sia nel
campo della ricerca e produzione storiografica che nella
promozione didattica e di formazione civica vanno dal 1972
al 1983. Dal 1984 sembra aprirsi a nuove tematiche relative
al Novecento, a nuove fonti storiografiche e ad una nuova
didattica (nel 1985 è creato a Bologna il Laboratorio per la
didattica della storia).
Se alcuni istituti locali, grazie al sostegno culturale e finanziario di amministrazioni pubbliche locali ancora fedeli
per tradizione politiche allo spirito resistenziale (alcune re47
G. Grassi, L’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia e gli Istituti associati, in Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e fonti cit., pp. 114-61.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
103
gioni inseriscono negli anni settanta esplicitamente il riferimento alla Resistenza nei loro statuti), riescono a superare
intatti gli anni novanta (e qualcuno, come l’Istituto di Torino, persino a potenziare i suoi servizi con la nascita anche di
un museo della Resistenza), l’Istituto nazionale non passa
indenne il ciclone distruttivo della memoria della Resistenza
degli anni novanta, senza più la garanzia politica e il supporto culturale di una lunga generazione di politici e di uomini
della cultura d’ideali antifascisti. La mole del lavoro di documentazione e delle pubblicazioni lasciateci dagli istituti è
enorme, ma sembra sempre più assente con gli anni novanta
una direzione scientifica e soprattutto un lavoro di sintesi
necessario per affrontare una nuova fase politica e civile della memoria storica. La riscrittura generale della storia della
Resistenza è condotta in solitaria (anche se con un legame
ideale ed intellettuale con gli istituti) da Claudio Pavone in
Una guerra civile. Non escono per anni, dopo l’ormai classico e costantemente riedito Battaglia, testi di divulgazione alta della storia resistenziale che si mettano al passo con una
diversa percezione della sua memoria collettiva; bisogna attendere sino al 2004 l’uscita del libro di Santo Peli48.
La complessa fase di transizione, non ancora finita, non è
solo politica ed ideale ma è anche determinante per i contenuti, i metodi e i linguaggi della ricerca, e soprattutto per la
sua divulgazione tra un vasto pubblico composto da studenti,
insegnanti, cittadini. Le differenze con la realtà francese appaiono evidenti: se il percorso fatto dagli italiani ha garantito
all’istituzione maggiore autonomia d’operato e d’interpretazione, al riparo da repentini scarti politici ed anche da spinose
questioni morali oltre che storiografiche relative alla guerra,
al collaborazionismo e all’antisemitismo, l’ha anche tenuta
lontana da un mondo universitario della ricerca (nonostante
molti universitari siano passati o si siano formati negli istituti)
che avrebbe consentito maggiori finanziamenti e soprattutto
avrebbe garantito la presenza, come al contrario è avvenuto
in Francia grazie al Cnrs, di idee e di metodologie aggiornate
grazie al reclutamento di ricercatori a tempo pieno in fasi formative come i dottorati, i postdottorati e nell’abilitazione
all’insegnamento superiore della storia contemporanea.
Restando alla Francia, notiamo che negli anni settanta
emerge una memoria ebraica della Resistenza rimasta rinchiusa sino a quel momento nell’ambito ristretto della sua
48
S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino 2004.
104
Filo rosso
comunità. Ci si interroga per la prima volta sul rapporto tra
l’essere resistente e l’essere ebreo, sia francese che apolidenaturalizzato-rifugiato in Francia in quegli anni, oppure tra
l’azione di resistenza antifascista e l’azione sionista. Non è
però il solo ambito nel quale risultano pienamente, per la
prima volta dalla fine della guerra, motivazioni e specificità
non solo patriottiche e «franco-francesi» all’origine della
militanza antifascista e resistenziale. Emergono altri protagonisti, altre comunità, d’origine non solo confessionale ma
anche nazionale (polacchi ebrei e non ebrei, italiani, spagnoli, maghrebini), molti appartenuti alle organizzazioni resistenziali a sezione nazionale, principalmente alla Moi
(Main-d’Oeuvre Immigrè, Manodopera Immigrata), e soprattutto riaffiorano le caratteristiche dei rapporti, non sempre facili né privi di traumi, intrattenuti con le organizzazioni della resistenza nazionale, e nel caso della Moi con la rete
resistenziale del Pcf. A tal proposito occorre fare riferimento a una nuova generazione di storici che ha lavorato sul Pcf
durante la guerra, in maniera distaccata se non spesso fortemente polemica con la precedente storiografia comunista ufficiale, in particolare a Stéphane Courtois e a Denis Peschanski49, quest’ultimo ancora oggi impegnato nello studio dei
campi di concentrazione e di prigionia in Francia tra Terza
Repubblica, Vichy e Quarta Repubblica.
Tali dibattiti scolorano il mito resistenziale, rendono la
stagione resistenziale più umana e pertanto controversa e
sottolineano almeno due temi difficili e cruciali nel dibattito
che si svilupperà nei due decenni che seguiranno. Si tratta di
questioni che tendono a smontare le due memorie sino a
quel momento ufficiali e solo apparentemente in contrasto
tra loro, perché sia la gaullista che la comunista convergevano però nell’escludere altre ricostruzioni. Esse però non
avevano mai sostenuto la tesi di una Francia compattamente
combattente, al contrario, De Gaulle aveva sempre fatto la
distinzione tra una minoranza, una élite eroica, e una Francia passiva, attesista, però comunque dotata di uno stato di
spirito resistente, patriottica e contraria all’occupazione del
territorio. Ed altri, certamente non gaullisti, avevano appoggiato, sin dalla prima ora, questa versione, come Sartre, che
all’indomani della liberazione di Parigi, il 9 settembre 1944
pubblicava ne «Les Lettres françaises» un articolo dal titolo
S. Courtois, D. Peschanski, A. Rayski, Le Sang de l’étranger. Les
immigrés de la MOI dans la Résistance, Paris 1989.
49
Dogliani, Memoria e storia pubblica
105
La République du silence, un silenzio alla Vercors. Sartre
impiegava il «noi» della collettività intera che usciva dall’incubo di quattro anni d’occupazione e concludeva: «Non
parlo qui di quella élite alla quale appartennero i veri Resistenti, ma di tutti i Francesi che, ad ogni ora del giorno e
della notte, per quattro anni, hanno detto n o». Da parte loro
i militanti del Pcf avevano sempre combattuto la tesi che il
loro partito fosse entrato nella Resistenza solo dopo l’attacco nazista all’Unione sovietica nel giugno 1941 e che avesse
condotto la lotta di liberazione non per fini popolari e patriottici ma in funzione di una strategia internazionale funzionale all’Urss.
Il primo tema di dibattito è relativo alle co-responsabilità
del regime di Vichy, e del collaborazionismo dei francesi, e
dunque delle istituzioni francesi, nella deportazione degli
ebrei presenti in Francia e nella «soluzione finale» proposta
ed attuata dal Terzo Reich; in definitiva il difficile tema
dell’antisemitismo francese, dall’affaire Dreyfus di fine Ottocento alla Shoah degli anni quaranta. Il secondo tema verte sul trattamento riservato dalle forze di liberazione francesi ai resistenti non francesi; in definitiva sull’esprimersi di
una xenofobia nella Resistenza, accompagnata da altri sentimenti quali l’antisemitismo e nel caso dei membri del Pcf
anche di avversione nei confronti di quei gruppi di sinistra,
quali coloro di fede trotskista ed anarcosindacalista, estranei
o addirittura avversi alla Terza Internazionale e impegnati in
Francia nella lotta al nazifascismo.
Diversa ci pare la situazione italiana anche nei confronti
della memoria. In un Paese di minore insediamento ebraico
in età contemporanea (essenzialmente attraversato dalla fuga
dalla persecuzione fascista, dalla diaspora, dalla ondate di
alyià, e dal ritorno in Palestina/Israele tra il 1933 e il 1948),
come ha sottolineato G. Schwarz, per lungo tempo
proprio la Resistenza, e il mito nazionale elaborato attorno ad essa
hanno rivestito un ruolo fondamentale nel confermare gli ebrei nel
loro attaccamento all’Italia. L’immagine di un’Italia antifascista e
di un fascismo parentesi, la celebrazione del momento eroico della
rivolta, intesi a sottolineare che il fondamento etico della nuova
Repubblica era l’antifascismo e che tale indirizzo politico ideologico era l’unico possibile inveramento dei valori risorgimentali, non
poteva che trovare concorde, anzi direi entusiasta l’ebraismo italiano del secondo dopoguerra50.
50
G. Schwarz, Appunti per una storia degli ebrei in Italia dopo le persecuzioni (1945-1956), in Studi Storici», 3, 2000, p. 786. Si veda anche: Id., Gli ebrei italiani e la memoria della persecuzione fascista (1945-1955), in «Passato e presen-
106
Filo rosso
In breve, se anche in Italia, come in Francia, la comunità
ebraica ricostruisce la storia della deportazione e dello sterminio degli ebrei italiani e residenti in Italia dal 1943 e poi
anche le responsabilità del fascismo italiano dalle leggi razziali del 1938, creando propri centri di documentazione e di
ricerca (il primo a Venezia nel 1955, secondo un modello parigino, e poi a Milano), non apre mai un contenzioso né dispute riguardo a responsabilità morali e penali con lo Stato
repubblicano italiano.
Tornando alla Francia, nel contesto sopra ricordato interviene anche la cinematografia, recentemente studiata da
Sylvie Lindeperg51. La produzione cinematografica segue di
pari passo lo sviluppo della memoria celebrativa e della storiografia resistenziale: un’ampia ed interessante produzione
cooperativa avviata da France Libre sia in campo dell’attualità cinematografica (i cinegiornali France Libre Actualités
escono nelle sale cinematografiche di Parigi e delle aree liberate dal 5 settembre 1944) che in quella di lungometraggio
documentario e di fiction. I prodotti più rappresentativi,
grandi successi del 1946, sono La libération de Paris, montato con materiali girati al momento e subito dopo la liberazione della capitale nell’agosto 1944, e soprattutto La bataille du rail, epopea della lotta clandestina da parte dei ferrovieri francesi, ideato da René Clement nel 1944 e uscito nelle
sale cinematografiche nel febbraio 1946. La spinta resistenziale data dal Comité de libération du cinéma français si spegne già nel 1946: l’ultimo film rappresentativo di questa breve stagione (che ha il suo parallelo con il neorealismo italiano e con la ripresa romana della produzione cinematografica, antifascista e di soggetto resistenziale, negli stessi anni,
pur in condizioni materiali ed economiche e sotto controllo
alleato più difficili) è Au cœur de l’orage (1944-48) che JeanPaul Le Chanois ha dedicato al Maquis del Vercors. Solo
dieci anni dopo, con il ritorno di De Gaulle al potere, la rappresentazione filmica della guerra e della Resistenza riprende fiato e corrisponde alla memoria forgiata dal Generale e
dai suoi compagni. La Francia resistenziale, gli eroi malgré
te», 47, 1999, pp. 109-30 e Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la Seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, Firenze 1998.
51
S. Lindeperg, Les écrans de l’ombre. La Deuxième guerre mondiale dans
le cinéma français (1944-1969), Paris 1997. Rinviamo anche al testo classico di
A. Bazin, Le cinéma de l’occupation et de la résistance, préf. de François Truffaut, Paris 1975.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
107
eux, cioè l’uomo semplice che si trova a combattere per la
nazione perché trascinato dalla storia e dal suo dovere. Pochi i film non conformisti, mentre il decennio gaullista si
chiude nel 1969 con un film di un certo successo: L’armée
des ombres di Jean-Paul Melville (lo stesso che aveva adattato per il grande schermo nel 1947-49 il racconto Le silence
de la mer) che cerca di conciliare nelle vicende di questo film
le due memorie inconciliabili: quella della resistenza interna
al Paese con quella militare di France libre.
Le due cinematografie italiane e francese vanno in un primo momento in parallelo. Il primo ciclo di film prodotti in
Italia dallo spirito resistenziale va da Roma, città aperta di
Rossellini a Achtung! Banditi di Carlo Lizzani nel 1951. Segue poi un lungo silenzio sino agli anni sessanta quando si
afferma una interazione tra letteratura e cinema con la trasposizione cinematografica dei racconti ferraresi di Bassani e
dei romanzi di Cassola, Vittorini, Carlo Levi, Moravia. Poco
significativi quelli degli anni del dopo ’68 sino ad alcuni innovativi come La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani
nel 1982. Poi ancora un silenzio, spezzato solo dalla documentaristica sulla Resistenza, il fascismo e la seconda guerra
mondiale per il grande e piccolo schermo (La nascita di una
dittatura ad esempio prodotto da Sergio Zavoli nel 1972), sino almeno alle soglie del 2000, in anni in cui si ritorna senza
spirito critico, ma piuttosto per descrivere l’esperienza del
rito di passaggio generazionale al fine di dare un esempio alle nuove generazioni dimentiche della Resistenza; sono essenzialmente le trasposizione cinematografica di racconti e
di ambienti resistenziali come le Langhe de Il partigiano
Johnny di Beppe Fenoglio e il Veneto dei Piccoli maestri di
Meneghello52.
Diversa appare la situazione in Francia dopo il 1968. Il
primo film anticonformista che rompe schemi consolidati in
Francia è Nom et prénom: Lacombe Lucien di Louis Malle
nel 1974. Attraverso le vicende di un giovane contadino
ignorante e disorientato che diviene, senza una prospettiva
politica né un ideale, un collaboratore e un delatore per Vichy e i tedeschi, passa una profonda rilettura della Francia
occupata e degli scontri sociali che la attraversano (Lucien,
52
Cfr. Aa.Vv., Cinema storia resistenza 1944-1985, Milano 1987, in particolare gli interventi di F. Cerea, G. De Luna e il confronto Italia-Francia condotto da P. Sorlin (pp. 17-73). E inoltre di G. Crainz, A. Farassino, E. Forcella, N. Gallerano, La Resistenza italiana nei programmi della Rai, Roma 1996.
108
Filo rosso
giovane fascista proletario rancoroso contro la borghesia acculturata, francese o cosmopolita, resistenziale o ebrea), ma
passa soprattutto il discorso di una Francia «profonda» collaborazionista, antisemita e xenofoba, tenuta sino a quel
momento nascosta dalla memoria ufficiale ed egemone nei
discorsi politici e storiografici. Una Francia poco eroica e segnata dagli eventi e da molteplici scelte individuali di fronte
e di collaborazione, con l’occupante tedesco, con il governo
di Pétain, con la France libre di De Gaulle, che hanno segnato il destino di molti giovani che avrebbero poi militato a sinistra, da Georges Marchais allo stesso presidente socialista
François Mitterrand. Sempre Bédarida, nel saggio del 1994,
ha sottolineato
come al mito di una Francia ribelle e in piedi, in maggioranza rivolta contro l’occupante e contro Vichy, che ha dominato gli anni cinquanta e sessanta, ha risposto negli anni settanta un contro mito,
quello di una Francia avvilita, egoista e debole, che vive in un ripiegamento di paura e di mediocrità e che si allinea alla Resistenza solo tardivamente e una volta che la vittoria alleata appare sicura.
Lungo questo discorso, nella difesa oramai difficile del
primo mito, Bédarida inserisce la proibizione da parte della
direzione della televisione pubblica francese di inserire per
anni nel loro palinsesto il film documentario di Marcel
Ophuls, Le chagrin et la pitié, produzione svizzero-tedesca,
pronto nel 1971 e sottotitolato Cronaca di una città francese
sotto l’occupazione tedesca53.
Negli anni settanta si annuncia anche un altro fenomeno,
quello letterario, di una narrativa dedicata al periodo di Vichy che ha come suoi principali rappresentanti due autori
nati dopo la fine della guerra: Patrick Modiano (classe 1945)
e Pierre Assouline (classe 1953). Modiano, con origini ebraiche paterne, inizia con Gallimard a scrivere di deportazione,
di guerra e di collaborazionismo, nel 1968 con La Place de
l’étoile, seguito dalla sceneggiatura di Lacombe Lucien e da
molti altri romanzi tra i quali spicca la vicenda della giovanissima deportata Dora Bruder (Paris 1997).
Pierre Assoline, figlio di un franco-marocchino che aveva combattuto in Italia nel contingente di liberazione francese, inizia negli anni ottanta come biografo e saggista privilegiando alcuni intellettuali, come Georges Simenon, coinvolti
con la collaborazione e poi con decisione si dedica al tema
della memoria dell’occupazione e della collaborazione con
53
A questo proposito si veda nuovamente Dogliani, Tra guerre e pace cit.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
109
racconti e romanzi quali Le fleuve Combelle (sull’intellettuale collaborazionista Lucien Combelle, 1997), La cliente
(Paris 1998, tradotto anche in italiano da Guanda), il recente
Hôtel Lutetia (Paris 2005). Non troviamo in Italia figure
analoghe, ossia scrittori del dopoguerra, non direttamente
protagonisti bensì figli di testimoni di un epoca, che si siano
così intensamente dedicati alla ricostruzione del periodo
dell’occupazione e della Resistenza, e alla sua controversa
memoria, tanto da metterle al centro del loro lavoro artistico,
sostituendosi, spesso con grande efficacia e maggiore successo, agli storici della loro generazione. Meglio di molti saggi
storiografici, interviste e film, Modiano rende l’atmosfera
della Parigi delle grandi retate del 1942-43 in Dora Bruder54;
e Assouline quella della delazione e della ricerca delle ragioni
postume di tale atto compiuto da francesi nei confronti dei
loro vicini ebrei in La cliente. Assouline cerca di spiegarlo in
una pagina autobiografica: dopo molte letture romanzate e
storiche incontra l’Histoire de Vichy di Robert Aron e
la densità e l’intensità degli anni d’Occupazione mi colpirono più
di ogni altra cosa: soprattutto l’idea secondo la quale questo era
uno dei rari periodi che permettevano a ciascuno di trasformare la
propria vita in destino. Sembrava che non fosse successo molto nel
secolo prima e dopo, come per meglio permettere alla storia di
concentrarsi in maniera inedita in un istante folgorante, oscuro e
enigmatico. Ho letto il libro dalla prima all’ultima riga prima di
commentarne i passaggi più ambigui con mio padre. Fu così che gli
annunciai la mia intenzione di intraprendere non degli studi di legge come previsto, ma degli studi di storia. Da allora, ebbi la curiosa
sensazione di essere nato nel 1940 e di essere morto nel 194555.
6. Affaires, processi e sindromi
Nulla di tutto quanto appena descritto per la Francia ritroviamo, appunto, in Italia: la letteratura, il pubblico, il
mercato editoriale non sembrano interessati alla Resistenza e
neppure al complesso capitolo della «guerra civile» e di Salò
(almeno editorialmente sino ai fortunati libri di Pansa). Nessuno scrittore di «seconda generazione» si cimenta né sperimenta come Modiano o Assouline un nuovo genere letterario. Nessun libro, come quello di Paxton, spezza il silenzio
54
Sull’opera di Modiano cfr. Paradigms of Memory. The occupation and
other Hi/stories in the Novels of Patrick Modiano, a cura di M. Guyot-Bender
e B.W. Vanderwolk, New York 1998.
55
P. Assouline, Le fleuve Combelle, Paris 1997, pp. 154-5.
110
Filo rosso
Dogliani, Memoria e storia pubblica
111
su Salò. Qui ritroviamo invece un altro duplice fenomeno
che si rivela negli anni ottanta. L’inizio di ricostruzione storica e memorialistica sulla Repubblica sociale italiana da parte delle due parti un tempo in lotta tra loro, grazie a due istituti contrapposti per tradizione e convinzioni ideali: la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (fondata dall’ex partigiano delle formazioni Garibaldi Micheletti) nata nel 1981, che
in qualche maniera colma il vuoto sul tema lasciato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione di
Milano (pur con esso collaborando) e si occupa della raccolta documentaria e dei primi studi e convegni su Salò, grazie
anche alla realizzazione di Annali; e l’Istituto storico della
Rsi costituito nel 1986 nella provincia di Arezzo, voluto da
ex appartenenti alla Rsi stessa con lo scopo di «conservare e
trasmettere la storia della Rsi e di attivare onoranze per i caduti e i dispersi delle Forze armate e per le vittime civili»56.
Solo alla fine degli anni novanta, con i libri di Luigi Ganapini e di Dianella Gagliani, escono le prime opere mature sulla
storia della Rsi e dei suoi apparati civili e militari.
Sono piuttosto gli scrittori di «prima generazione» che
riprendono il filo della memoria sulle vicende della seconda
guerra mondiale e della Resistenza, e ne costituiscono in una
qualche maniera un genere letterario basato per l’appunto
essenzialmente sulla memoria. Citiamo solo tre autori di rilievo, due reduci dalla tragica campagna di Russia della quale
avevano già scritto negli anni cinquanta e sessanta, Nuto Revelli (classe 1919) e Mario Rigoni Stern (classe 1921), e una
donna partigiana ex deportata a Ravensbrück, Lidia Beccarla
Rolfi (classe 1925). Nuto Revelli avvia un genere tutto particolare di raccolta orale ed epistolare nel 1971 con L’ultimo
fronte della campagna in Russia; ma sono forse i suoi ultimi
libri d’inchiesta e di ricostruzione del passato resistenziale
che meglio testimoniano l’elaborazione letteraria e memoriale: Il disperso di Marburg (Torino 1994) e Il prete giusto
(Torino 1998), tutti pubblicati da Einaudi. Rigoni Stern con
Le stagioni di Giacomo (Torino 1995) e soprattutto con
L’ultima partita a carte (Torino 2002) riesce a coniugare memorie personali, letteratura e un discorso nuovo diretto, diversamente dal suo primo Il sergente nella neve (Torino
1953), a generazioni che fascismo e guerra non hanno vissu-
to, insistendo, come d’altronde Revelli, sulla scelta prima di
tutto morale, dopo le prove della guerra fascista, che li conduce alla Resistenza. Uno tra i più bei libri sulla liberazione
dei campi di sterminio e soprattutto sul difficile ritorno ed
integrazione in patria (tra i primi a parlare interamente
dell’esperienza italiana, se escludiamo i diversi accenni fatti
da Primo Levi) è a mio parere quello scritto nei suoi ultimi
anni di vita da Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria,
1945: un drammatico ritorno alla libertà (Torino 1996)57.
In Francia, gli anni ottanta e la prima metà dei novanta,
che vengono a coincidere singolarmente con i due settennati
presidenziali di Mitterrand e con la sinistra al governo, da
sola o in coabitazione, sono attraversati da una complessità
di eventi, di «affari», di processi a persone e a memorie dimenticate, in un tentativo di prendere atto e di superare il
passato. Contemporaneamente, lo abbiamo già accennato, la
ricerca storica, arricchitasi di giovani storici distaccati da
quelle che Pierre Nora, il principale studioso della memoria
francese del Novecento, aveva chiamato «le due ali marcianti
uscite dalla Resistenza», la gaullista appunto e la comunista,
produce opere scientifiche di buon livello che tentano approfondimenti locali, quadri d’insieme e in definitiva di dare
riposte storiografiche distaccate in un contesto che registra
miti infranti, polemiche, rese di conti e soprattutto memorie
che chiedono voce e legittimità dopo anni di silenzio. Tre sono i temi portanti e al centro del dibattito pubblico: Vichy, o
almeno il rapporto intercorso tra la Francia e la storia di Vichy; il collaborazionismo con il nazismo, l’antisemitismo e il
destino degli ebrei francesi o accolti in Francia negli anni
della guerra. Nessun mito rimane integro, a partire da Jean
Moulin, l’inconnu du Panthéon, come lo definiva Daniel
Cordier nel dedicargli almeno dieci anni di studio (e quattro
volumi ad esso consacrati, tra il 1989 e il 1993, edizioni J.-C.
Lattès e Gallimard), nel tentativo di ricostruire la vita di colui che era stato il delegato della France combattante sul suolo metropolitano dal 1942, il primo presidente del Cnr, Consiglio nazionale della Resistenza, e che era morto sotto tortura nel luglio 1943. Il Moulin finalmente riconosciuto dalla
storiografia diviene improvvisamente, nel 1993, uno sconosciuto dalla storia perché viene accusato da parte del pubbli-
56
Si veda sulla loro storia rispettivamente per il primo di P.P. Poggio e per
il secondo di M. Di Giovanni sempre nel secondo volume a cura di Pavone,
Storia d’Italia nel secolo ventesimo c i t ., pp. 163-8 e 169-72.
57
Su questo come su altri testi di «letteratura del ritorno» rinvio al capitolo
Memoria e rappresentazione della Shoah in Europa, in Dogliani, Tra guerra e
pace cit., pp. 193-222.
112
Filo rosso
cista Thierry Walton (nel libro Le grand recrutement, Grasset editore), sulla base di presunte carte provenienti da Mosca, di essere un doppiogiochista, un «agente di Mosca» sin
dagli anni trenta quando ricopriva la funzione di prefetto
della Terza Repubblica. In sua difesa si schierano in molti,
tra questi lo storico antichista Pierre Vidal-Naquet che in
quegli anni si interessava già alla memoria francese in particolare relativa all’Olocausto58.
Al di là dei tanti dibattiti e delle tante provocazioni, la
questione principale rimaneva una: il livello di collaborazione che l’amministrazione francese (e quindi i funzionari di
Vichy, ma anche quelli operanti direttamente sotto comando
tedesco prima e dopo il novembre 1942), e la stessa popolazione francese avevano concessa all’occupante tedesco, non
solo nolenti ma anche condividendo in tutto o in parte il
progetto nazista, in particolare per quanto riguardava l’individuazione, la cattura e la deportazione degli ebrei. Il nucleo
duro rimaneva e rimane ancora, nel dibattito pubblico, l’antisemitismo in Francia e in ultima istanza la Shoah. Tutto ciò
in un clima nel quale il «negazionismo» prendeva piede in
Francia. Abbiamo già ricordato che il rifiuto di accettare che
il Terzo Reich e i suoi alleati militari ed ideologici europei
avessero proceduto ad una operazione sistematica di genocidio degli ebrei risale in molti Paesi alla fine della guerra (in
Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, nella stessa Italia) in una generale indifferenza e dimenticanza dell’Olocausto che coinvolse non solo i Paesi occidentali riemersi dalla
guerra (in Europa nelle Americhe) ma anche Israele59. Va l érie Igounet sottolinea che il termine negationisme sembra
apparire in Francia solo nel 1967; sono quelli gli anni in cui
fa pratica Robert Faurisson, il membro più rappresentativo
della seconda generazione e tra i fondatori di una «ufficiale
scuola negazionista» che mette le sue radici a Lione. Faurisson, classe 1929, compie, come altri, una visita ad Auschwitz
alla ricerca di prove che gli consentano di asserire che le camere a gas non sono mai esistite, e sviluppa e diffonde le sue
tesi all’inizio degli anni settanta. Esse cominciano a trovare
ascolto alla fine di quel decennio non solo nell’estrema destra filonazista ed eversiva, in parte sfociata come lo stesso
58
Cfr. Les dossiers de Golias, Les faussaires de l’Histoire. Lyon, capitale du
négationnisme, a cura di C. Terras, Villeurbanne 1999; P. Vidal-Naquet, Le
trait empoisonné. Réflections sur l’affaire Jean Moulin, Paris 1993.
59
Si veda ancora Dogliani, Tra guerra e pace cit., pp. 133-66.
Dogliani, Memoria e storia pubblica
113
Faurisson nel Front national di Le Pen, ma anche in una
nuova generazione (la quarta nel nostro computo) proveniente dall’estrema sinistra post-sessantottina, con posizioni
antisemite, antisioniste ed anticomuniste. In uno slittamento
del discorso che era passato attraverso il terzomondismo e il
sostegno legittimo ai movimenti di liberazione dei popoli
nei quali si erano inserite le rivendicazioni della nascita di
uno Stato palestinese, Israele viene assimilata allo Stato nazista e la sua azione nei confronti dei palestinesi (in Israele come nei campi profughi del Libano e del Medio Oriente) ad
un’opera di genocidio. I negazionisti di destra trovano a
partire dal 1986-87 insperati, sino a quel momento, alleati e
sostenitori.
Gli anni 1985-87 sono di svolta. Nel 1985, in piena epoca
Mitterrand, Claude Lanzmann fa uscire sui grandi schermi
francesi, in due parti, il suo lungo film documentario Shoah
sul genocidio degli ebrei in tutta Europa che scuote l’opinione pubblica francese ed anche mette in crisi i rapporti diplomatici della Francia con Paesi quali la Polonia ancora comunista, ma sempre più apertamente cattolica e interessata dal
fenomeno Solidarnośc´, sostenendo la tesi di una collaborazione d’interessi tra popolazioni locali e occupanti nazisti
nell’eliminazione delle comunità ebraiche. Nel 1987 esce sugli schermi un altro film di Louis Malle: Au revoir les enfants (e riceve il «Leone d’oro» al festival di Venezia); esso
rievoca in termini di finzione un episodio effettivamente avvenuto: la deportazione di 41 bambini ebrei d’età oscillante
tra i 3 e i 13 anni (e di cinque adulti) da un luogo, non lontano da Lione, dove erano stati nascosti da una comunità cattolica. Questo episodio insieme ad altri due resero possibile
portare a giudizio per «crimini contro l’umanità», cioè per
crimini che mai cadono in prescrizione, Klaus Barbie, l’ufficiale SS (classe 1913) che tra il novembre 1942 e l’agosto
1944, a capo della sezione IV nella città di Lione e nella regione circostante, si occupava di repressione della Resistenza
e della «questione ebraica». Fu chiamato il «boia di Lione»
perché fu calcolato che sotto il suo comando erano state uccise più di quattromila persone (tra le quali anche Jean Moulin), arrestate e torturate più di quattordicimila e deportati
almeno 7.581 ebrei verso i campi di sterminio. Egli era stato
identificato in Bolivia nel 1983 dai due «cacciatori di criminali nazisti» più conosciuti in Francia, i coniugi francesi
ebrei Serge e Beate Klarsfeld, e dopo lunghe trattative estradato appunto nel 1987 in Francia per essere processato. La
114
Filo rosso
ricerca, l’imputazione e condanna di Barbie erano stati aiutati anche da un film documentario (di 267 min.) prodotto
ancora da Marcel Ophuls, uscito sugli schermi nel 1988:
Hôtel Terminus, Vita e tempi di Klaus Barbie. Il processo,
come altrove ho più lungamente descritto (e sul quale sono
stati versati fiumi d’inchiostro in articoli di cronaca, saggi e
libri), durò otto settimane e fu un evento per l’opinione
pubblica francese e per gli storici. Ebbe soprattutto risvolti
inaspettati perché Barbie subì un processo che poteva divenire per l’opinione pubblica francese un espediente per scagionare il collaborazionismo francese facendo ricadere ancora una volta tutte le responsabilità dell’Olocausto su esecutori nazisti come Barbie (in piccola scala un professionista
della «soluzione finale» come era stato il suo superiore
Adolf Eichmann, processato a Gerusalemme nel 1961).
Il processo divenne teatro invece di una duplice condanna dei francesi e della Francia: dei molti francesi che durante
l’occupazione avevano collaborato o semplicemente erano
rimasti impassibili di fronte alla tragedia dei loro vicini di
casa ebrei, e della Francia non solo vichynista ma anche retta
da sistemi repubblicani democratici. La difesa di Barbie era
stata infatti assunta dall’avvocato Jacques Vergès, terzomondista, d’origine franco-indocinese, coadiuvato da un collega
africano e da un collega d’origine algerina. Essi nella difesa
tesero a controaccusare la Francia ed altri Paesi, principalmente Israele e gli Stati Uniti, dove si erano svolti o si dovevano svolgere processi contro criminali nazisti, con una
semplice ma efficace tesi che partiva dal negare all’Olocausto
la natura di eccezionalità per inserirlo nella schiera dei tanti
crimini contro l’umanità e dei tanti genocidi. Non si negava
quindi la Shoah, essa era considerata un caso storico tra i
tanti di razzismo e di genocidio dell’epoca contemporanea,
che erano avvenuti prima ed anche dopo il 1945. Pertanto,
sosteneva la difesa, quale diritto aveva un sistema giudiziario
nazionale di isolare un solo caso senza sottoporne altri ad altrettanto giudizio? In breve, come poteva la Francia condannare Barbie quando non aveva ancora preso in esame quanto
essa aveva fatto (in uccisioni, torture, imprigionamenti) nelle
sue colonie, in Indocina e soprattutto in Algeria? Analogo
discorso poteva essere rivolto agli Stati Uniti per quanto
avevano fatto in Vietnam e ad Israele per quanto stava facendo nei confronti dei palestinesi.
Il processo si concluse con una condanna di Barbie all’ergastolo, e produsse effetti di lunga durata, che in parte persi-
Dogliani, Memoria e storia pubblica
115
stono ancora oggi60. Gli anni ottanta avevano definitivamente
infranto il mito della Francia resistente imponendo un senso
di colpa collettiva per la collaborazione voluta o subita da
persone e da istituzioni nella Francia 1940-44 e soprattutto
per la Shoah. Nei riguardi del ricordo della deportazione,
prima la collettività ebraica, poi le istituzioni della Quinta
Repubblica, poi ancora le due insieme cominciarono ad attivarsi. Si creano centri e luoghi di memoria, monumenti. Nel
1988 viene costituita l’associazione che dà vita alla MaisonMémorial d’Izieu. Nella casa collegio in località Izieu erano
stati nascosti i bambini poi catturati e deportati da Barbie.
Altri luoghi divengono a loro volta luoghi contesi e contraddittori di memorie e restituiti ad una memoria nazionale con
molto travaglio e dopo una serie di processi legali e di processi alla storia; è il caso del menzionato villaggio di Oradour-sur-Glane (ricordato già negli anni cinquanta dalla
stampa italiana come la «Marzabotto francese»). Dopo il
1954 si aprì un drammatico contenzioso tra il villaggio e lo
Stato francese sia sulla mancata estradizione dalla Germania,
per comparire davanti al tribunale di Bordeaux nel gennaio
1953, degli ufficiali comandanti i reparti che eseguirono il
massacro, giustificata da una legge approvata dallo Stato
francese, sia a causa della successiva amnistia concessa nel
1954 a 13 su 20 condannati come esecutori della strage in
quanto malgré-nous, soldati d’origine alsaziana che vestivano la divisa tedesca. La popolazione locale e soprattutto i familiari dei caduti rifiutarono di conseguenza la presenza ufficiale dello Stato nelle cerimonie di commemorazione e nella costruzione di un ossario-luogo di rimembranza. Solo dopo aver perso parte del suo impatto emotivo, grazie alla ripresa dei rapporti locali con la Germania riunificata e con
amministratori dell’Alsazia e Lorena, oltre che per la scomparsa di diversi sopravvissuti alla strage, anche il rapporto tra
Stato francese e Oradour riprese negli anni novanta e si consolidò con l’inaugurazione di un Centro della memoria nel
1999, trovando come elemento comune una memoria europea di conciliazione dopo la seconda guerra mondiale,
nell’ambito soprattutto della filiera delle città martiri61.
60
In quegli anni uscivano il libro di H. Rousso, La Syndrome de Vichy, Paris 1989 e successivamente con il giornalista E. Conan, Vichy un passé qui ne
passe pas, Paris 1994.
61
Si vedano in proposito la ricostruzione fatta dall’americana S. Farmer,
Oradour arrêt sur mémoire, Paris 1994 e J.-J. Fouché, Oradour: la politique de
la justice, Saint-Paul 2004.
116
Filo rosso
Molti centri di documentazione ed esposizioni-musei dedicati della Resistenza nati negli anni sessanta (a Grenoble,
Lione, Besançon, nell’area di Parigi) ampliano le sezioni storico-museali e didattiche dedicate al tema dell’antisemitismo
e della Shoah in Francia. Nell’ottobre 1992 viene ad esempio
inaugurato il Centre d’Histoire de la Résistance et de la déportation di Lione nei locali restaurati della Scuola di medicina militare dove la Gestapo aveva posto il suo quartiere
generale nel 1943-44. Vengono riconosciuti, studiati e riadattati a visita alcuni luoghi che avevano visto la presenza di
campi di concentramento e di smistamento: Struthof in Alsazia (analizzato recentemente da Robert Steegmann) 62,
Drancy e il Vélodrome d’Hiver nell’area parigina. È stato
appurato che dal campo di Drancy, nella banlieue nord e
operaia di Parigi, passarono più di settanta convogli di deportati diretti ad est, ai campi di sterminio tedeschi e polacchi, circa 67.000 persone delle 75.000 deportate dalla Francia, e di questi 17.000 adulti di cittadinanza francese (la metà
di recente naturalizzazione) e ben 7.000 loro figli63. Il luogo
viene riconosciuto ufficialmente luogo di memoria solo alla
metà degli anni ottanta, dopo che Serge Klarsfeld aveva ricostruito in quattro volumi (apparsi tra il 1983 e il 2001) gli
eventi e soprattutto i nomi delle vittime della Shoah in Francia. Klarsfeld aveva iniziato negli anni settanta (il primo suo
lavoro di censimento pubblicato è del 1978) il delicato e
complesso lavoro di identificazione dei deportati dalla Francia e da tempo, come abbiamo visto con Barbie, era impegnato nel rintracciare nel mondo ex nazisti che si erano macchiati di crimini in Francia; nel 1991 aveva rinvenuto intatto,
e secondo la sua versione da molti condivisa, deliberatamente nascosto nei locali del segretariato di Stato agli ex combattenti, lo schedario di censimento degli ebrei francesi, in maggioranza residenti nella regione parigina. Questo schedario è
oggi visibile all’interno del Mémorial du martyr juif inconnu, inaugurato il 30 ottobre 1956, nei cui locali era stato annesso il Centre de documentation juive contemporaine, rinnovato ed ampliato più volte e divenuto nel gennaio 2005
Mémorial de la Shoah. Musée, Centre de documentation juive contemporaine.
Appare evidente che la memoria della Resistenza e dei
tanti episodi legati all’occupazione tedesca, in particolare la
R. Steegmann, Struthof. La nuée Bleue, Strasbourg 2005.
M. Rajsfus, Drancy. Un camp de concentration très ordinaire, 1941-1944,
Paris 1996.
62
63
Dogliani, Memoria e storia pubblica
117
deportazione, sia stata veicolata in Francia a partire essenzialmente dagli anni ottanta attraverso la realizzazione di
musei. Oggi essi sono una settantina, di diversa importanza
e grandezza, distribuiti sul territorio nazionale e corrispondono al raggiungimento di un compromesso tra storia pubblica nazionale e memorie che si erano moltiplicate e contese
nel tempo, tra comunità locali e comunità religiose e gruppi
di reduci, da un lato, e lo Stato centrale dall’altro; inoltre si
trovano nelle diverse città che si consideravano «capitali»
della Resistenza: Parigi, Grenoble, Lione, Tolosa ecc. Molto
diversa invece la situazione italiana che non ha saputo esprimere un Museo nazionale della Resistenza, a Roma come a
Milano, ma che ha invece visto moltiplicarsi senza coordinamento memoriale diversi musei locali, da quello oramai
«modello» di Torino, alla rete dei musei dell’Emilia-Romagna che conserva musei e memoriali significativi a livello nazionale, come il Museo nazionale del deportato a Carpi,
inaugurato nel 1973, Casa Cervi a Gattatico di Reggio Emilia divenuta museo nel 1975 oppure l’area commemorativa e
museale e della scuola della Pace di Marbotto-Monte Sole
sviluppatasi tra gli anni sessanta e novanta64.
Per concludere il confronto, stando sempre a quanto esaminato e reso in sequenza cronologica da Focardi, la memoria della Resistenza in Italia appare essere, rispetto alla Francia, ampiamente condivisa dagli anni sessanta, allorché sembra divenire, a ridosso delle celebrazioni del centenario
dell’Unità d’Italia, un «mito di fondazione» dello Stato repubblicano. La Resistenza viene sì messa in discussione dai
«figli del ’68», dalla sinistra non storica, perché considerata
una occasione o una rivoluzione «mancate», ma in realtà è
all’antifascismo che essi si appellano e non all’esperienza resistenziale in quanto tale, in nome di un «antifascismo esistenziale» che supera e contesta i rapporti formali della democrazia nata nel 1945. È infatti l’antifascismo in Italia che
si aggettiva, in «militante», «tricolore», «rosso», «di classe»,
e in altro ancora, piuttosto che la Resistenza in quanto tale
come in Francia65.
64
Si vedano i lavori di E. Alessandrini Perona, e in particolare La Resistenza italiana nei musei, in «Passato e presente», 45, 1998, pp. 135-48, e C. Silingardi, La Resistenza nei musei: l’esperienza dell’Emilia-Romagna, in «IBC», 2,
aprile-giugno 2004, pp. 67-71.
65
Su questo aspetto cfr. Focardi, La guerra della memoria cit., pp. 48 sgg.;
L. Ganapini, Antifascismo tricolore e antifascismo di classe, in «Problemi del socialismo», 7, 1986, pp. 95-195 e, per un’analisi complessiva, S. Luzzatto, La crisi
dell’antifascismo, Torino 2004.
118
Filo rosso
In definitiva la memoria resistenziale si basa, in Italia, su
un grande equivoco: pensa di essere solida e inossidabile
perché si basa sull’antifascismo interno e non su un mito nazionale che in Francia, grazie soprattutto ai gaullisti ma poi
anche alla sinistra socialista, si consolida su valori europei ed
universali. Apparentemente debole perché messa alla prova
dalle grandi querelles degli anni ottanta, la memoria pubblica della seconda guerra mondiale in Francia esce rafforzata
alla fine del secolo, perché oramai fortemente «condivisa»
nelle sue diversità di esperienze etniche, razziali, confessionali, ideologiche e territoriali. Inoltre non entra in compromesso con la «memoria dei vinti»: le memorie della nuova
destra francese sono altre, e spesso più estreme di quelle italiane nel tasso di antisemitismo e xenofobia espressi, e pertanto mai integrabili in un processo di pacificazione come
quello tentato ad esempio dall’allora presidente della Camera Luciano Violante nel marzo 1998 nell’incontro con Gianfranco Fini a Trieste, o da un presidente della Repubblica di
solida tradizione antifascista come Oscar Luigi Scalfaro,
quando il 4 novembre 1996 rendeva omaggio ai caduti «di
tutte le parti belligeranti», e quindi anche di Salò. Con la crisi dell’antifascismo entra pertanto in crisi a livello nazionale
anche la memoria pubblica della Resistenza, lasciando soprattutto all’ultimo presidente della Repubblica del secolo
scorso, Carlo Azeglio Ciampi, eletto nel 1999, il difficile
compito di operare all’inverso rispetto a quanto era stato
condotto sino a quel momento. Viene adottato, se vogliamo
forzare il confronto, un «sistema francese» di nazionalizzazione della Resistenza trasformandola in un «patriottismo
costituzionale» e in esso vengono inseriti soggetti rimasti ai
margini della memoria costruita dai partiti antifascisti, come
l’esercito in rotta, ma anche primo «resistente» a Cefalonia,
e le diverse resistenze civili delle comunità locali, dal presidente ampiamente riconosciute con medaglie al valore in occasione delle cerimonie per il 25 aprile al Quirinale. Resistenza al plurale quindi che integra come prima non aveva
fatto la memoria essenzialmente partigiana, la «Resistenza
silenziosa delle gente» e la «Resistenza dolorosa dei prigionieri nei campi di concentramento, di chi si rifiutò di collaborare» (seguendo le parole di Ciampi stesso). In questa ampia operazione sembrano confluire diverse generazioni e soprattutto scuole di pensiero laico e cattolico che riflettono
sulla patria, da Pietro Scoppola e Maurizio Viroli. In tal senso l’operazione Ciampi
Dogliani, Memoria e storia pubblica
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trascende l’ambito nazionale, rappresenta un momento cruciale di
lotta per la democrazia e la libertà che accomuna l’Italia e gli italiani agli altri popoli d’Europa. In concomitanza con l’avvicinarsi di
passaggi fondamentali del processo di unificazione europea […] il
presidente ha accentuato i suoi riferimenti all’Europa, legando assieme in maniera sempre più stretta Risorgimento-Resistenza-Repubblica italiana-Unione europea66.
Sembra un orizzonte più ampio di quello adottato dagli
anni settanta-ottanta dai presidenti francesi in vista di un asse essenzialmente franco-tedesco alla guida dell’Europa. Potremmo ripartire da queste ultime riflessioni per approfondire il caso italiano in un contesto comparato sempre più europeo.
66
Focardi, La guerra della memoria cit., p. 105.