Memoria e storia pubblica: Resistenza in Italia e in Francia
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Memoria e storia pubblica: Resistenza in Italia e in Francia
Memoria e storia pubblica: Resistenza in Italia e in Francia di Patrizia Dogliani 1. Premessa In un breve intervento all’inizio degli anni novanta, prendendo spunto dalla pubblicazione dell’ormai fondamentale lavoro di Claudio Pavone, Una guerra civile (Torino 1991), Paul Ginsborg introduceva un interessante confronto tra l’Italia e la Francia sul periodo 1943-481. Il principale tema di discussione era altro rispetto a quello qui affrontato, ma alcune domande finali sollevate da Ginsborg appaiono egualmente utili, anche perché sul piano comparato non sono state riprese in maniera compiuta neppure in occasione del sessantesimo anniversario italiano della Liberazione. Ginsborg si soffermava essenzialmente sull’ultima fase della guerra, e poi sui primi anni chiave della ricostruzione politica e sociale dei due Paesi. Per condurre una comparazione fra i due Paesi, era una scelta cronologica obbligata. Sino al 1943, infatti, i destini di Italia e Francia erano stati diversi, come diverse saranno su alcuni temi le memorie: la lunga occupazione del Terzo Reich in Francia dal giugno 1940 avrebbe costituito un nucleo di memorie ben più complesso del corrispettivo italiano (una occupazione tedesca essenzialmente militare, feroce ma poco stanziale, e in alcune zone del Sud neppure esistente). Si tratta di memorie che negli ultimi anni hanno affrontato il tema della coesistenza tra popolazione civile francese e occupante tedesco toccando questioni delicate quali il rapporto tra donne francesi e uomini tedeschi, la nascita di figli da questo incontro, e la interazione sul piano culturale ed artistico tra uomini e imprese 1 P. Ginsborg, Resistenza e riforma in Italia e in Francia, 1943-48, in «Ventesimo secolo», 5-6, 1992, pp. 297-319. 74 Filo rosso dello spettacolo e dell’editoria francesi e tedesche. Ben più estese furono in Francia la persecuzione e la deportazione degli ebrei, come conseguenza di un diverso, autoctono e profondo antisemitismo (da cui prese origine ed ispirazione il regime di Vichy), ma anche della presenza di una comunità ebraica (non solo francese ma di tutta la diaspora europea) molto più ampia e stratificata che in Italia. Altri inoltre furono le modalità di trattamento, i tempi e i destini della deportazione e della reclusione in Germania di francesi, sia come prigionieri militari che come lavoratori civili per l’industria tedesca. Altra differenza con il caso italiano fu la precocità della Resistenza armata in Francia, peraltro composta in maniera eterogenea da molte componenti nazionali di immigrati e di rifugiati (dando anche in questo caso avvio ad una serie di querelles e affaires creati dalla difficile convivenza tra quest’ultimi e la Resistenza francese). Occupazione tedesca e azione di Resistenza si mescolano quindi indistintamente nella memoria francese in un periodo assai più lungo, dall’estate 1940 a quella di quattro anni dopo, mentre in Italia la Resistenza costituisce un importante, ma breve stagione di venti mesi, tra il settembre 1943 e l’aprile 1945. A partire essenzialmente dal 1944 è però possibile condurre un confronto serio, soprattutto per quanto riguarda gli esiti democratici della lotta di liberazione nei due Paesi. Ginsborg rende merito all’Italia di avere con «l’opera istituzionale dell’Assemblea costituente, combinata con una cultura antifascista profondamente radicata nel Centro e nel Nord», gettato le basi per un periodo senza interruzioni di democrazia e di stabilità politica del Paese. Al contrario, la blanda riforma istituzionale che traghettò la Francia dalla Terza alla Quarta Repubblica ipotecò la democrazia francese mettendola alla prova con la guerra d’Algeria, portandola sull’orlo di una guerra civile risolta solamente da un difficile e complesso passaggio al regime repubblicano presidenziale della Quinta Repubblica. Tuttavia, lo storico inglese sostiene che il processo resistenziale italiano abbia fallito rispetto a quello francese non nei termini di democrazia formale, bensì nei suoi contenuti e soprattutto dal punto di vista delle molteplici forme di cittadinanza (civile, politica e sociale): «la mia tesi è che per quanto riguarda la cittadinanza, nel periodo 1944-46, i francesi abbiano fatto più strada, e più in fretta degli italiani»2. E qui inserisce tre aspetti di diversità tra i due Dogliani, Memoria e storia pubblica Paesi, sul tema della democrazia, utili anche per quanto riguarda la nostra analisi sulla memoria pubblica della guerra e della lotta antifascista. Il primo elemento di diversità costituisce una specie di premessa: la scrittura di un progetto politico e di riforme indispensabili per «l’instaurazione di un’effettiva democrazia economica e sociale» e per la modernizzazione del Paese fatta dalle forze politiche della Resistenza francese, raggruppate nel Conseil national de la Résistance, con la cosiddetta «carta del Cnr» del marzo 1944. Al contrario il Cln italiano raggiunse un’unità di azione ma non produsse nessuna dichiarazione né tantomeno un programma autonomo d’intenti. In Italia ogni decisione di riforma fu rinviata semplicemente alla fine della guerra e alla Costituente, quando invece, come sostiene anche Ginsborg, il primo governo Bonomi nel giugno 1944 aveva possibilità di intervenire con pieni poteri legislativi e, aggiungiamo noi, in un clima internazionale ancora favorevole (con l’amministrazione americana Roosevelt) ad un’azione autonoma italiana. Tutte le importanti riforme francesi furono realizzate fra l’agosto del 1944 e il settembre 1946, allorché «il governo De Gaulle aveva poteri molto ampi, e le Assemblee costituenti francesi godevano di poteri legislativi, al contrario di quella italiana, la cui maggiore funzione fu quella di preparare la Costituzione»3. Il progetto di riforma francese comportò una profonda trasformazione e modernizzazione dell’amministrazione pubblica, con un ricambio delle élites dirigenziali in settori chiave dell’amministrazione centrale dello Stato; cosa che in Italia non accadde4. Quando si parla di epurazione nei due Paesi, occorre trattare del ricambio avvenuto nelle amministrazioni pubbliche non solo con l’individuazione ad personam di responsabilità politiche e penali, e dello sradicamento ideologico del fascismo, ma anche nel complesso di una trasformazione di mentalità dell’intero quadro dirigenziale, e della sua modernizzazione, cioè della sua messa a regime con tempi e bisogni nuovi di ricostruzione. Ginsborg ricordava a giusto titolo un’osservazione molto pertinente dello storico François Bédarida, a conclusione di un lavoro comparato sulle élites in Francia e in Italia: se nella Resistenza Ivi, p. 317. Su questo tema si vedano le riflessioni condotte, mai poi non più riprese, dagli interventi in Le élites in Francia e in Italia negli anni quaranta, numero monografico di «Italia contemporanea», 153, 1983. 3 4 2 Ivi, p. 303. 75 76 Filo rosso Dogliani, Memoria e storia pubblica 77 esisteva un’é l i t e «nel senso originale del termine, cioè una élite in senso etico [...] della bravura, del coraggio, del valore morale» (quella studiata da Pavone che non a caso sottotitola il suo libro «saggio storico sulla moralità nella Resistenza»), al momento della ricostruzione «la pietra di paragone non è più il valore personale o morale, ma la capacità tecnica e la competenza»5. Gli studi successivi di Gérald Noiriel e di Jean-Olivier Baruch6 sull’amministrazione centrale francese hanno mostrato che i passaggi tra la Terza Repubblica e Vichy e tra Vichy e la Quarta Repubblica sono stati molto complessi, contaminando il secondo e il terzo regime con le caratteristiche politiche, ideologiche ed istituzionali dei precedenti. Se oggi abbiamo la convinzione che non vi sia stata una rottura netta tra la Quarta Repubblica e le precedenti, sembrano comunque confermate le differenze della Francia rispetto all’Italia circa le volontà e i tempi di attuazione delle riforme, e soprattutto per l’enfasi messa dal gruppo dirigente francese sulle istituzioni statali come sedi di insediamento del nuovo potere anziché, come avviene in Italia, sulla creazione di un nuovo sistema partitico. La seconda diversità risiede dunque nei tempi: da parte dei francesi, è evidente l’urgenza non solo di condurre riforme, ma anche di insediare una memoria unica, diremmo «monolitica» e pertanto incontestabile della Resistenza all’occupazione tedesca del 1940-44. In Italia, invece, tutto si muove più a rilento, ma soprattutto in ordine sparso tra le diverse memorie delle forze politiche e militari che avevano operato nel Paese portando, come nella Costituente, alla creazione di una memoria nazionale di compromesso, che supera indenne le difficoltà del 1947-48, e l’entrata nella guerra fredda, le divisioni organizzative tra le associazioni partigiane, dei «volontari per la libertà», ma che poi naufraga decenni dopo, all’inizio degli anni novanta, con la conclusione del sistema partitocratico che sorreggeva tale memoria di compromesso. Una memoria che non diviene mai realmente una memoria nazionale forte ed indiscutibile, a differenza di quella francese forgiata immediatamente da De Gaulle, poi contestata ma mai demolita. È sufficiente quindi che in Italia vengano meno i partiti garanti di questa memoria che un capo di governo estraneo a tale tradizione come Silvio Berlusconi proponga, nel 1995, l’abolizione del 25 aprile come festa nazionale. Terzo fattore di diversità rilevato da Ginsborg è la geografia: Ivi, p. 250. G. Noiriel, Les origines républicaines de Vichy, Paris 1999; J.-O. Baruch, Servir l’Etat français. L’administration en France de 1940 à 1944, Prefazione di J.P. Azéma, Paris 1996; O. Wieviorka, Les orphelins de la république. Destinées des députés et sénateurs français 1940-1945, Paris 2001. Ginsborg, Resistenza e riforma cit., pp. 312-3. Lo studio di M. Lazar, Maisons rouges, Paris 1992 era già presente a Ginsborg. Segnaliamo anche uno dei pochi validi lavori comparati sul periodo: F. D’Almeida, Histoire et politique, en France et en Italie: l’exemple des socialistes, 1945-1983, Roma 1998. 5 6 in Italia la Resistenza fu combattuta nelle regioni più industrializzate del paese, mentre la presenza degli Alleati nel Mezzogiorno, e soprattutto il carattere conservatore del Regno del Sud, facevano sì che le zone più arretrate del paese risentissero molto meno del cambiamento. In Francia, al contrario, i Maquis erano forti proprio al Centro e al Sud, e la loro influenza ebbe necessariamente riflessi sulle prime elezioni nazionali, del 21 ottobre 1945, per l’Assemblea costituente. I comunisti, che avevano sempre avuto una base tradizionale nella Francia mediterranea, allora si affermarono anche in lontane aree rurali del Centro7. Possiamo inoltre aggiungere che a lungo Roma, come città capitale dello Stato nazionale, non ha condotto un ruolo trainante e omogeneizzante per una memoria nazionale, come invece ha mostrato di fare Parigi sin dalla sua liberazione nell’agosto 1944. Il compito di costruire una memoria della seconda guerra mondiale è stato quindi delegato alle aree locali, comunali come regionali. Ricerche successive hanno modificato il panorama evocato da Ginsborg e lo hanno maggiormente problematizzato, ma senza stravolgerlo. Ad esempio, in Italia lo studio delle componenti dell’esercito del Sud, e l’appartenenza ad esso di uomini prevalentemente di provenienza centrale e meridionale, ha rivelato la costituzione di un altro tipo di memoria patriottica, forse afascista, ma certamente costituente una più generale memoria nazionale. Oppure lo studio più attento della geografia delle sinistre, in Italia come in Francia, come quello compiuto da Marc Lazar, ha rivelato una complessità di passaggi politici nei primi anni del dopoguerra, insospettabile sino a poco tempo fa. Per la Francia, è ora chiaro che il notabilato locale ha costituito l’ossatura non solo delle scelte politiche elettorali ma anche della successiva articolazione delle memorie sul territorio8. L’assunto genera7 8 78 Filo rosso le di Ginsborg rimane quindi valido. Inoltre, la sensazione diffusa nel Sud d’Italia di essere stati liberati (o, per alcuni, di essere stati occupati) dagli angloamericani, e non di essersi liberati dai nazifascismi con lotte, volontà e sacrifici, come si avverte al Centro-nord, modifica profondamente l’insediamento della memoria pubblica, dei rituali civili, della monumentalistica, e in ultima istanza la formazione della democrazia e della nuova cittadinanza partecipativa repubblicana. Per avviare nuove ricerche e riflessioni credo che sia opportuno ricorrere ad approcci comparati, per far risaltare sia le similitudini che le profonde differenze e per meglio mettere a fuoco le «vie nazionali». Inoltre, proprio sul piano comparato, l’Italia risulta sovente assente. Tra le più serie ragioni di questa assenza, naturalmente, v’è la mancata conoscenza linguistica dell’italiano, e quindi la difficoltà da parte di storici stranieri non «italianisti» d’accesso alla nostra storiografia (non tradotta) e ancor di più alle fonti. La storia contemporanea italiana continua ad essere analizzata, all’estero, in base ai tre maggiori temi ritenuti di interesse internazionale: il Risorgimento, il fascismo, l’Italia del secondo dopoguerra, con uno spiccato interesse, alcuni anni fa, circa l’«anomalia» del Partito comunista e delle sue radici gramsciane. Mentre oggi tramonta quest’ultimo tema, ne emerge un quarto, più generale, quella nostra religione civile, al momento del B u i l d i n g della nazione unitaria, ma anche nella rinascita repubblicana9. L’Italia rimane però trascurata, quasi assente, dall’analisi comparata di grandi eventi, movimenti e fenomeni sociali, politici e delle mentalità collettive dell’Europa contemporanea. Essa è quasi sempre esclusa dagli studi comparati sulla prima e seconda guerra mondiale, e sui dopoguerra; studi oggi ancor più necessari per comprendere i fenomeni e percorsi della integrazione europea tra Otto e Novecento. Facciamo un esempio per tutti, apparentemente marginale rispetto alle grandi storie sulla seconda guerra mondiale e sulle sue conseguenze, ma significativo per quanto andiamo qui scrivendo: il libro di Pieter Lagrou sulla memoria patriottica in alcune ricostruzioni nazionali10. Si tratta di una ricerca esemplare perché, oltre a studiare la 9 Tra le migliori riflessioni su quest’ultimo tema, segnalo l’articolo di S. Gundle, The ‘civic religion’ of the Resistence in post-war Italy, in «Modern Italy», 5, november 2000, pp. 113-32. 10 Cfr. la versione francese di P. Lagrou, Mémoires patriotiques et l’occupation nazie, Bruxelles-Paris 2003, apparsa l’anno precedente presso Cambridge University Press con il titolo The Legacy of Nazi Persecution. Patriotic Memory and National Recovery in Western Europe, 1945-1965. Dogliani, Memoria e storia pubblica 79 diversità di memorie resistenziali nelle regioni francofone e fiamminghe osserva anche i portatori di tali memorie, quindi non solo l’oggetto, il tema della memoria pubblica, ma anche i soggetti collettivi che contribuiscono a crearla: essenzialmente le associazioni di ex combattenti, deportati, internati militari e civili. L’autore esclude dal confronto l’Italia ritenendo l’esperienza della doppia guerra (fascista e poi antifascista) troppo anomala per essere inclusa a pieno titolo tra quelle di Paesi occupati. Credo però che sia possibile reintrodurre l’Italia in tale comparazione non per l’esperienza di guerra, ma per quanto riguarda i soggetti collettivi operanti nel dopoguerra. Poco è stato fatto sino ad ora per ricostruire l’organizzazione, la presenza e l’impatto sulla vita politica italiana del dopoguerra, e sulla memoria nazionale, proprio delle associazioni partigiane, della massa di internati militari e dei deportati nei campi di concentramento ritornati in patria nel dopoguerra; ad un silenzio dello Stato italiano nell’immediato dopoguerra, ha fatto essenzialmente seguito un silenzio storiografico, rotto solo negli anni ottanta. Tento qui di seguito di abbozzare un primo confronto tra le due politiche della memorie costruitesi nei due Paesi, consapevole della maggiore diffusione, ma anche della mia maggiore conoscenza personale, degli studi sul caso francese11. Le due cronologie nazionali percorrono binari pressoché paralleli sino agli anni ottanta. Nella mia descrizione ho privilegiato, perché più dettagliata nei singoli passaggi ed anche più consolidata dalla storiografia, la cronologia francese, confrontandola, per l’Italia, con una scansione individuata sia da studi precedenti sia dal recente lavoro di Filippo Focardi12. 2. L’insediamento di una memoria nazionale L’insediamento di una memoria nazionale, tra il 1944 e il 1947, presenta molte analogie fra Italia e Francia. In entram11 Sul caso francese mi sono dilungata in un altro contributo in corso di pubblicazione negli atti di un convegno internazionale sulla memoria della seconda guerra mondiale tenutosi a Trento nel dicembre 2004: La Seconda guerra mondiale in Francia: complessità e ambiguità delle memorie, delle rappresentazioni e del dibattito dal 1945 ad oggi. Alcune parti di questo intervento sono qui riprese. 12 F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Bari-Roma 2005, individua prima degli anni ottanta quattro fasi distinte: le origini, 1943-44; la crisi di un’interpretazione egemonica o monolitica, nel 1948-53; il rilancio di una narrazione tra il 1953 e il 1960; il confronto tra più interpretazioni, essenzialmente patriottica e «rossa» tra il 1961 e il 1978, passando per il 1968. 80 Filo rosso bi i Paesi inizia con il giugno 1944, corrispondente alla liberazione di Roma e allo sbarco in Normandia due giorni più tardi e si protrae sino al 1947, all’uscita dei due principali partiti comunisti occidentali, il Pci e il Pcf, dai governi espressi dalle forze resistenziali all’indomani della guerra. In Italia questa svolta coincide essenzialmente con la frattura tra partiti di sinistra e partiti centristi aventi come baricentro la Dc; analogamente in Francia tra le due anime principali della Resistenza e portatrici di memoria: la gaullista e le sinistre, costituite dai comunisti del Pcf (che da solo nell’immediato dopoguerra ottiene il sostegno di più di un quarto dell’elettorato) e dai socialisti della Sfio (Sezione francese dell’Internazionale operaia). Questo blocco disomogeneo ma ancora idealmente unito riceve alle elezioni del 1946 più del 75% delle preferenze, ma non riesce a costruire «un partito della Resistenza» che fosse espressione di quello che era stato il Mln (Movimento di Liberazione Nazionale), direzione politica del movimento resistenziale, e l’anno dopo anch’esso, nel clima di guerra fredda, si dissolve. Come le forze politiche, anche le memorie iniziano a dividersi: da un lato comincia a tratteggiarsi una memorialistica comunista, del «partito dei 75.000 fucilati», e dall’altro quella gaullista, essenzialmente legata alle azioni militari all’estero e all’interno del Paese. Si esprimono però ancora alcune voci non schierate di protagonisti della lotta clandestina. Nasce nel contempo anche una «storiografia della epurazione» che cerca di accreditare il giudizio che la Resistenza in quanto tale sia stata solo un bagno di sangue e una resa dei conti tra francesi posti ideologicamente su opposti fronti; polemica rinviata in Italia agli anni novanta. Tale strumentalizzazione è una delle conseguenze della intensa se pur breve fase di punizione pubblica di individui, uomini e donne, che avevano intrattenuto rapporti sia affettivi che di affari con l’occupante tedesco (uomini trascinati ed insultati nelle strade, donne rapate nelle piazze e sulla soglia di casa) e soprattutto dell’epurazione di «collaborazionisti». Ma è stato calcolato che solo il 4% dei sottoposti a processo per collaborazionismo (circa 160.000 istruttorie conclusesi nel dicembre 1948) siano stati condannati a morte, quasi tutti tra il giugno 1944 e l’inizio del 194513. Rioux già nel 1980 osserva13 Cfr. J.-P. Rioux, La France de la Quatrième République, vol. I, 19441 9 5 2, Paris 1980, p. 56. Si veda anche Une poignée de misérables. L’épuration de la société française après la Seconde guerre mondiale, a cura di J.-O. Baruch, Paris 2003. Dogliani, Memoria e storia pubblica 81 va che le epurazioni collettive in settori economici e dell’amministrazione centrale, periferica e nelle colonie furono un fallimento, mentre solo il mondo della stampa e della cultura fu effettivamente colpito con alcuni casi esemplari, grazie anche ad una campagna condotta esplicitamente dalle organizzazioni di Resistenza. Alcuni intellettuali ed artisti compromessi con l’occupante tedesco e con Vichy, in particolare nella propaganda nazista e antisemita, vengono condannati. Il processo più famoso fu quello che si svolse nei confronti di Robert Brasillach, giovane (nato nel 1909) e brillante normalista, divenuto portaparola della destra fascista negli anni di Fronte popolare e poi dal 1937 redattore del giornale antisemita «Je suis partout», giornale che si mostrò critico persino nei riguardi di una politica considerata troppo moderata del regime di Vichy nei confronti degli ebrei e dei democratici. Brasillach fu condannato a morte in un processo durato poche ore il 19 gennaio 1945 e, nonostante che molti intellettuali resistenti avessero firmato un appello lanciato da François Mauriac per sostenere la concessione della grazia da parte di De Gaulle, che la rifiutò decisamente, fu giustiziato il 6 febbraio14. La storica statunitense Alice Kaplan ha recentemente ricostruito tale processo, superando una serie di difficoltà relative al reperimento delle fonti processuali. Due elementi risaltano dalla sua puntuale ricerca: il fatto che Brasillach fosse stato giudicato colpevole in base alla sua azione di «intelligence avec l’ennemi», quindi di alto tradimento nei confronti dello Stato francese sulla base dell’art. 75 dell’allora vigente codice penale. La collaborazione del singolo con il nemico veniva immediatamente trattata come crimine mentre ancora la giustizia francese mostrava ambiguità e perplessità nei confronti della natura del servizio svolto da molti per lo Stato di Vichy. Inoltre, l’antisemitismo propagandato con convinzione ed entusiasmo da Brasillach non venne mai menzionato come capo d’accusa, proprio perché i primi processi d’epurazione non si interessarono alla questione della Shoah; la Francia avrebbe atteso il 1964 per ratificare i principi sanciti a Londra nel 1945 sulla natura di crimini «contro l’umanità» e proceduto solo negli anni ottanta e novanta ad allestire processi esemplari contro cittadini tedeschi 14 P. Assouline, L’épuration des intellectuels, Bruxelles 1985; A. Kaplan, Intelligence avec l’ennemi. Le procès Brasillach, Paris 2001 (ed. inglese The Collaborator, Chicago 2002). 82 Filo rosso e francesi macchiatisi di tali crimini (Klaus Barbie, Paul To uvier, Maurice Papon). Interessante inoltre la ricostruzione fatta da Kaplan dei nomi di intellettuali che firmarono ma soprattutto che non firmarono l’appello alla clemenza proposto da François Mauriac: insieme a letterati ed accademici antifascisti e resistenti (Jean Paulhan, Albert Camus, Gustave Cohen, Jean-Jacques Bernard), tra i firmatari troviamo alcuni che a quel tempo temevano di essere loro stessi sottoposti a processo per azioni minori di compromissione con il nemico (Arthur Honegger, Marcel Ayné, Jean Cocteau); tra coloro che rifiutarono di firmare (con convinzione Pablo Picasso e André Gide) individuiamo anche alcuni che avrebbero nei decenni successivi animato discussioni in proposito, tra questi Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir. Studi recenti mostrano che anche in Italia si svolse una prima epurazione; ma alla memoria dei più, in un confronto con la Francia, appare blanda, meno tempestiva e quindi meno efficace soprattutto negli apparati dello Stato. In realtà, essa fu solamente meno esemplare di quella francese (senza nomi di spicco), e soprattutto la giustizia fu resa vana molto presto dall’amnistia nei confronti degli italiani concessa dell’allora ministro della Giustizia Palmiro Togliatti il 22 giugno 194615, seguita dai decreti di grazia firmati dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi tra il febbraio e il maggio 1951 nei confronti di militari tedeschi resisi colpevoli di crimini di guerra contro soldati e civili italiani16. Questi atti insediarono nella memoria democratica la convinzione di una debolezza nell’esercizio della giustizia da parte della Repubblica italiana. Questa convinzione è durata a lungo, sino a far emergere negli ultimi anni opinioni antitetiche: che l’epurazione sia stata sostituita da una «resa dei conti», da un bagno di sangue indiscriminato ed illegale (tesi rinforzata recentemente dalle ricostruzioni storiche romanzate di Giampaolo Pansa), oppure dalla cancellazione delle responsabilità individuali grazie ad un compromesso tra le parti trovato da Togliatti per giungere ad una «concordia nazionale». Analoga tesi, questa volta storiografica, è emersa circa 15 Si vedano H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 19451 9 4 8, Bologna 1997 (ed. tedesca del 1996) che aggiorna ma dissente dalle critiche espresse, anche nel titolo italiano, dal libro di R.P. Domenico, Processo ai f a s c i s t i, Milano 1996 (ed. americana del 1991). Sempre sull’amnistia si veda anche il recente lavoro di M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano 2006. 16 Nel 1951 rimanevano in carcere in Italia solo Herbert Kappler, condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine e Walter Reder, per quello di Marzabotto. Dogliani, Memoria e storia pubblica 83 l’amnistia concessa a soldati tedeschi dalle autorità militari italiane: amnistiare i tedeschi significava evitare di «guardare in casa», di esplorare la vastità di crimini di guerra perpetrati anche da altri eserciti durante la seconda guerra mondiale, compreso quello italiano che aveva operato in area balcanica e nell’Egeo, evitando così di aprire pericolosi contenziosi con nazioni con le quali stavano insorgendo frizioni politiche, ideologiche e sui territori, come con la Jugoslavia17. Al contrario, è consuetudine nella Francia moderna attuare l’estirpazione delle radici di passati regimi attraverso processi esemplari. Vichy allestì, con quello che si ebbe a Riom tra il febbraio e l’aprile 1942, il tribunale per coloro che erano stati considerati responsabili della sconfitta del 1940: Blum e Daladier. A sua volta la Quarta Repubblica portò sotto processo il maresciallo Pétain nel 1945, difeso dallo stesso avvocato di Brasillach (Isorni), e come lui condannato a morte, ma senza esecuzione immediata (Pétain sarebbe morto di vecchiaia in cattività nel 1951). Il corso generale delle epurazioni e delle condanne non fu però dissimile da quello italiano. In Francia l’amnistia fu concessa in più tappe, ma si concluse come in Italia nel 1953: l’estensione dell’amnistia ai condannati in contumacia fu concessa in novembre, mentre in Francia il suo iter legislativo si chiuse in agosto. A differenza dell’Italia, però, l’amnistia fu contestata duramente, soprattutto nella sua ultima fase tra il 1951 e il 1952 da circoli di resistenti, e per ragioni innanzitutto di principio, poiché interessavano oramai l’1% dei condannati. Già nell’aprile 1946 infatti era stata emanata una prima amnistia generale per reati minori (mercato nero, propaganda), nella quale nei due anni successivi vennero inclusi tutti coloro che avevano meno di 21 anni d’età al momento degli atti (quindi molti giovani arruolati nelle organizzazioni di Vichy che non si erano macchiati di particolari atti di sangue), con il risultato che a seguito di una grande campagna nazionale per l’amnistia nel 1948 furono liberati circa il 70% dei condannati e di quanti erano in attesa di giudizio. In seguito le corti di giustizia per tali crimini furono sciolte all’inizio del 1951, in una fase di campagna elettorale, durante la quale le destre avevano messo esplicitamente in programma il completamento degli atti di amnistia. Estrema17 Cfr. F. Focardi, La memoria della guerra e il mito del “bravo italiano”. Origine e affermazione di un autoritratto collettivo, in «Italia contemporanea», settembre-dicembre 2000, pp. 393-9. 84 Filo rosso mente problematica per l’elaborazione della memoria collettiva fu l’inclusione tra le categorie di amnistiati anche degli alsaziani e dei loreni che erano stati arruolati nelle file dell’esercito e di reparti speciali del Terzo Reich. A loro fu riconosciuta, con la legge del 15 settembre 1948, l’attenuante della responsabilità collettiva e non individuale alla «collaborazione»; in sostanza non furono sottoposti a processo per tradimento ma furono considerati collaboratori contro la loro volontà (e da allora chiamati i malgré-nous). Questo comportò, come vedremo in seguito, un profondo e duraturo scontro tra lo Stato francese e la comunità locale di Oradour, nel quale venne compiuto il più grande massacro di civili in Francia, il 10 giugno 1944 (642 trucidati) ad opera di reparti tedeschi dove prestavano servizio molti malgrén o us18. Un’ultima strenua opposizione all’amnistia fu condotta da alcuni noti intellettuali, tra i quali Jean Cassou (18971986), che nel 1953 pubblicò La mémoire courte nelle Editions de Minuit, in reazione all’amnistia a collaborazionisti concessa dal primo ministro Antoine Pinay (primo capo di governo non emerso dall’esperienza resistenziale e che quindi segna la fine di un’epoca, nel marzo 1952) e come risposta a distanza ad un altro intellettuale, Jean Paulhan, che con le Lettres aux directeurs de la résistance, apparse presso la stessa casa editrice nel 1949, aveva chiesto, tra i primi, una sorta di «pace sociale» tra resistenti e vichynisti19. L’atto pubblico di Jean Cassou, che nel 1949 era uscito dal Pcf contestando l’allineamento filosovietico preso dal partito nei confronti del titoismo, anticipa due nuovi aspetti del dibattito pubblico: il distaccarsi di molti intellettuali dalla linea egemonica del Pcf (nel 1946 proprio Cassou era stato eletto presidente del Comitato nazionale degli scrittori nato dalla Resistenza, a quel tempo molto influenzato dal Pcf) e la nascita di una saggistica storica e letteraria a forti valenze morali oltre che politiche e centrata sull’analisi dei diversi aspetti della Francia nella seconda guerra mondiale; una letteratura capace di indignarsi, controbattere, difendere il ricordo e soprattutto i principi morali, politici, ideali della Resistenza. La ritroveremo soprattutto negli anni ottanta ad esaminare i numerosi Per il complesso iter si legga S. Gacon, L’amnistie. De la Commune à la guerre d’Algérie, Paris 2002. 19 Il testo è stato riedito recentemente, con una postfazione di J.-O. Baruch e J. Cassou, La mémoire courte, Paris 2001. 18 Dogliani, Memoria e storia pubblica 85 affaires, casi e scandali, di revisionismo storico e persino di negazionismo; tra i più impegnati, un accademico d’origine ebraica, studioso dell’antichità: Pierre Vidal-Naquet20. Mentre Brasillach veniva considerato, breve tempo dopo la condanna, un «martire» per la destra e una «icona» per i revisionisti francesi, si preannunciava con analoga rapidità una letteratura negazionista «semiclandestina». Essa inizia a circolare in Francia come in altri Paesi europei e negli Stati Uniti (grazie al precoce Institut for Historical Review), per poi contrassegnare almeno quattro fasi di diffusione e propaganda, così come sono state tracciate da un recente lavoro di Valerie Igounet 21: l’immediato dopoguerra, gli anni sessanta e settanta con l’articolarsi delle tesi negazioniste; poi la terza e pubblica fase tra il 1878 e il 1986; e poi l’ultima ed ancora vivace. Occorre però aggiungere per introdurre il secondo periodo preso in esame (quello del 1947-58) che parallelamente al profilarsi in maniera semiclandestina di una teoria negazionista in Francia, i lavori sulla deportazione e lo sterminio, in Francia e altrove, erano estremamente scarsi. Se i primi lavori (tra testimonianza ed anticipazione di studi e di riflessioni) di ebrei francesi sopravvissuti alla Shoah escono nell’immediato dopoguerra per conto di un nascente Centre de documentation juive, quale il lavoro di Georges Wellers, De Drancy à Auschwitz (apparso a Parigi nel 1946), essi rimangono senza continuità. Come senza seguito per anni, almeno in un ventennio di indifferenza sul tema, sono il libro di Léon Poliakov, Le bréviare de la haine: le IIIe Reich et le j u i f s, del 1951 (tradotto in Italia da Einaudi nel 1955) e i lavori apparsi in Gran Bretagna di Gerard Reitlinger, The Final Solution, del 1953 (tradotto nel 1962 da Il Saggiatore), e in Usa di Joseph Tanenbaum, Race and Reich (1956). Sarà poi soprattutto Raul Hilberg, ricercatore ebreo d’origine austriaca naturalizzato statunitense, con il suo imponente lavoro tracciato tra il 1948 e il 1955, ma pubblicato solamente nel 1961 per le grandi difficoltà incontrate dal giovane storico sia nell’accademia che nel mondo ebraico statunitense e israeliano, ad aprire la strada a ricerche più puntuali non solo sul sistema concentrazionario e di stermi20 P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. «Un Eichmann de papier» et autres essais sur le révisionisme, Paris 1987. Sul tema degli affaires si faccia riferimento anche a P. Dogliani, Tra guerre e pace. Memorie e rappresentazioni dei conflitti e dell’Olocausto nell’Occidente contemporaneo, Milano 2001. 21 V. Igounet, Histoire du négationnisme en France, Paris 2000. 86 Filo rosso nio nazista, ma anche sulla memoria collettiva22. Hilberg era stato allievo a New York di Franz Neumann ed aveva raccolto dal maestro il grande insegnamento sulla struttura burocratica e disarticolata del mostruoso B e h e m o t h: lo Stato nazista. Esemplare è l’autobiografia scritta da Hilberg, nella quale egli descrive le difficoltà incontrate nell’approccio alle fonti, consultate negli archivi federali statunitensi, per la loro massa ed anche per la loro complessità, rispetto a quelle consultate solo pochi anni prima dai suoi predecessori Poliakov e Reitlinger che si basarono essenzialmente sui verbali dei processi a Norimberga. Ciononostante Hilberg fu criticato per essersi attenuto essenzialmente alla documentazione tedesca, quindi a quella prodotta dai carnefici, e non dalle vittime; tale critica aprì una pluriennale discussione sulla complessa natura delle fonti utilizzabili per la ricostruzione del genocidio degli ebrei23. L’Italia rimane per lungo tempo alla periferia di questo dibattito di ricostruzione storica e memorialistica, come delle correnti revisioniste. Ciò che circola è essenzialmente una memoria interna «antagonista e rancorosa del neofascismo» che riflette sul tradimento della monarchia, sul valore e la fedeltà dell’esercito italiano nell’ambito dell’asse italo-tedesco e che inizia a costruire una memoria alternativa su Salò24. Un altro confronto può essere condotto per questo periodo sulla letteratura. Come in Italia tra il 1945 e il 1947, occorre anche notare negli stessi anni in Francia la diffusione di una letteratura resistenziale, che però oltralpe ha radici precedenti, nei romanzi e nei documenti letterari che circolavano clandestini sotto l’occupazione, come il noto racconto Le silence de la mer, scritto nel 1941 da Vercors, pseudonimo di Jean Bruller (classe 1902). Altro noto esempio sono le lettere di Albert Camus, Lettres à un ami allemand, scritte per la «Revue libre» e i «Cahiers de la Liberté» tra il 1943 e l’inizio del 1944 e ripubblicate dall’editore Gallimard alla Liberazione, nelle quali non solo si analizza il complesso rapporto con l’occupante, come d’altronde aveva fatto Ve rcors, ma anche i rapporti storici tra Francia e Germania e si ipotizza quali essi sarebbero stati tra i due Paesi e tra Francia Il libro di R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, fu arricchito e riedito in inglese nel 1985 e tradotto in italiano da Einaudi dieci anni dopo. 23 Id., The Politics of Memory. Experiences of a Holocaust Researcher, 1994 (da me consultato nell’ed. francese: La politique de la mémoire, Paris 1996). 24 Cfr. Focardi, La guerra della memoria cit., p. 19 e soprattutto F. Germinaro, L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Torino 1999. 22 Dogliani, Memoria e storia pubblica 87 ed Europa nell’immediato dopoguerra. Occorre invece notare che in Italia la narrativa resistenziale apparve solo dopo l’aprile 1945 in una breve stagione nella quale giovani scrittori che avevano fatto la Resistenza (Italo Calvino primo tra tutti, e poi Beppe Fenoglio) compiono i primi passi partendo dalla loro esperienza giovanile o altri, come il gruppo bolognese attorno a Renata Viganò (l’autrice de L’Agnese va a morire) sperimentano una «letteratura resistenziale» in circoli letterari localizzati in alcune realtà urbane (Bologna come Roma o Firenze) e di breve durata. Poco studiata sino ai giorni più recenti, la letteratura italiana ha spiccate identità regionali, come ha recentemente osservato Gabriele Pedullà offrendoci una bella antologia di brani divisi per aree di esperienza e di scrittura, dove naturalmente spiccano le regioni Liguria, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e città come la Milano di Vittorini e la Roma di Moravia25. Ci pare di capire che la letteratura italiana appaia ancora più esistenziale e generazionale di quella francese, quest’ultima con pretese di riscatto nazional-patriottico ed anche di respiro europeo, con il suo costante confronto con il nemico occupante. Di grande interesse e auspice di futuri approfondimenti anche storiografici è il tentativo di classificazione dei narratori partigiani fatto da Pedullà: gli scrittori dell’«io», quelli che interpretano la Resistenza come educazione civile e fase di passaggio individuale; gli scrittori del «noi» per i quali la Resistenza, scrive Pedullà, «coincide innanzitutto con la scoperta del gruppo» sia come comunità di eguali, che come progetto collettivo di rifondazione della società. Infine gli scrittori del loro: «quanti, negli anni del dopoguerra, hanno vissuto e scritto costantemente sotto lo sguardo [...] dei compagni morti». Soprattutto per questo terzo gruppo, Pedullà fornisce alcuni spunti non solo per una revisione di una recente «memoria condivisa», per la quale l’offerta di una vita, soprattutto se giovane, dovrebbe far dimenticare i motivi e le aspirazioni di tale sacrificio e rendere tutto indistinto e in ultima istanza patriottico, ma suggerisce implicitamente elementi di differenziazione per quanto andremo scrivendo sul caso francese. Comunanza con i defunti non vuol dire affatto ideologia della bella morte: tutt’altro […] Consapevoli di ciò, i partigiani scrittori si sono posti molto presto il problema di evitare che il ricordo di coloro che non ce l’hanno fatta si tramutasse in un’astratta celebra25 Si vedano i Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Torino 2005. 88 Filo rosso zione del pro patria mori. Solo oggi, forse ci rendiamo conto della giustezza anche politica di questa scelta di fronte alla tendenza di un certo revisionismo di destra di equiparare i caduti di Salò ai partigiani in nome di un’etica (e di un’estetica) della bella morte26. In Francia la letteratura è prima clandestina, nei quattro anni di lunga occupazione del Paese, e poi post-resistenziale e si esprime in un arco temporale molto più vasto. Sempre in Francia inoltre i due schieramenti profascista e vichysta e quello antifascista e gaullista integrarono al loro interno molti intellettuali e operatori nel mondo della comunicazione giornalistica e letteraria, dell’arte e dello spettacolo. Quest’ultimo settore era in grande fermento a Parigi, dove teatri, luoghi di ritrovo, persino la produzione cinematografica rimasero operanti, aperti ad un pubblico francese come germanico, pur se sottoposti a controllo e partecipazione anche finanziaria tedesca. All’indomani della guerra, due figure quasi antitetiche ma ambedue d’ispirazione antifascista animarono la discussione tra gli intellettuali e gli scrittori: il cattolico Mauriac sulle pagine de «Le Figaro» e il laico e pacifista Albert Camus, redattore capo di «Combat» divenuto al momento della Liberazione uno dei quotidiani parigini più influenti. Sulle pagine del suo giornale Camus sostiene alla fine del 1944 che «la memoria delle vittime esclude il perdono [come] la giustizia proibisce ogni debolezza» e propugna una rivoluzione prima di tutto morale, repubblicana e socialista che concili giustizia e libertà nella Francia del dopoguerra. Camus tende a generalizzare, ad universalizzare, l’esperienza resistenziale, tenendosi a distanza dalle memorie ingessate comunista e gaullista, nella sua produzione letteraria a partire dal romanzo La peste (1945)27. Questo primo periodo è inoltre caratterizzato in Italia da una prima ondata di monumenti alla Resistenza: statue, cippi, lapidi voluti e realizzati in maniera autonoma dalle comunità locali e soprattutto dalle associazioni partigiane. Solo in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, nel 1961, lo Stato interviene direttamente nel discorso resistenziale, senza però interferire nella promozione locale, che riprende con impeto in occasione del trentennale dalla Liberazione, con l’intervento delle regioni e soprattutto grazie ad un nuovo discorso che limita il numero di nuovi monumenti e progetta invece parchi della pace e luoghi ricreativi dedicati alla 26 27 Ivi, p. XXI. Camus et la politique, a cura di J. Guérin, Paris 1987. Dogliani, Memoria e storia pubblica 89 Resistenza28. Apparentemente analoga è la situazione francese, dove sono i cippi e i monumenti comunali della grande guerra ad accogliere le prime cerimonie e le prime lapidi di ricordo dei caduti della Resistenza. Alcune grandi città si assumono in proprio l’iniziativa memoriale, come la capitale, Parigi, che in occasione del primo decennale della sua liberazione, nel 1954, segnala con lapidi i luoghi dei combattimenti, e in essi i nomi dei caduti, nelle giornate dell’agosto 1944. Si nota però una svolta, rispetto all’Italia, nell’intervento sia centrale che periferico negli anni sessanta (corrispondente al ritorno al potere di De Gaulle) e poi negli anni ottanta e novanta con la realizzazione e in alcuni casi l’ampliamento (a Mont-Mouchet in Auvergne e soprattutto a Mont Valérien, considerato il sito più importante della Resistenza nazionale perché fu il principale luogo di esecuzione della condanna a morte di resistenti dell’area parigina) di memoriali e di musei della Resistenza. 3. Francia 1947-58 Un secondo periodo, tra il 1947-58, è tutto francese, e corrisponde all’uscita dalla direzione politica del Paese dei due principali fondatori della memoria pubblica: il Pcf prima, nel 1947, e poi De Gaulle e i suoi più stretti collaboratori. Vengono così a crearsi memorie separate, sia nelle celebrazioni che nelle pubblicazioni. Da una parte quella che è stata chiamata da François Bédarida la «mémoire bunker, ossifiée et surcodée» del Pcf, veicolata dalla stampa comunista che vede in alcune pagine della autobiografia del segretario Maurice Thorez, Fils du peuple (apparsa quasi simultaneamente nel 1950 nelle Éditions sociales a Parigi e nelle Edizioni di cultura sociale di Roma) l’interpretazione di un partito che da solo ha sostenuto ampia parte della Resistenza interna offrendo il maggior numero di martiri. Dall’altra la memoria gaullista (il colonnello Passy, Jacques 28 Si vedano: L. Galmozzi, Monumenti alla libertà. Antifascismo, Resistenza e pace nei monumenti italiani dal 1945 al 1985, Milano 1986; P. Dogliani, I monumenti e le lapidi come fonti, in Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e fonti, a cura di C. Pavone, vol. II, Istituti, musei e monumenti, bibliografia e periodici, associazioni, finanziamenti per la ricerca, pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 87, Roma 2006, pp. 261-75; Monumenti alla Resistenza. Bologna e il suo territorio, saggio introduttivo a La premiata Resistenza. Concorsi d’arte nel dopoguerra in Emilia-Romagna, a cura di O. Piraccini, G. Serpe e A. Sibilia (introduzione di E. Raimondi), Bologna 1995, pp. 21-38. 90 Filo rosso Soustelle) sintetizzata dalle Mémoires de guerre (1954) del generale stesso che rende la Resistenza un fatto militare guidato da coloro che avevano seguito il suo appello londinese del 18 giugno 1940 per una France libre. In mezzo a loro una memorialistica «indipendente» poco appariscente e rappresentativa, mentre, come nel caso italiano di Roberto Battaglia (che pubblica da Einaudi nel 1953 il primo lavoro di ricostruzione storica dei mesi della Resistenza), inizia timidamente a fare i primi passi una prima ricostruzione storiografica guidata a Henri Michel. Michel, militante socialista e resistente del Var, segretario della Commissione di storia dell’occupazione e della Liberazione creata il 20 ottobre 1944, è destinato a divenire «la figura dominante» della storiografia della Resistenza almeno sino all’inizio degli anni settanta. Altrettanto timidamente la Quarta Repubblica tenta una sua celebrazione moderata e poco militante della Resistenza, che culmina con l’anno 1953: l’anno dell’amnistia definitiva ma anche della legge che indice l’8 maggio festa nazionale. Vi è una netta differenza con il nostro 25 aprile. La festa italiana si impone sin dal 1946, grazie al governo De Gasperi, su proposta del comunista allora sottosegretario alla presidenza Giovanni Amendola, come «festa della nazione democratica ricondotta non all’anniversario della cessazione della guerra – il 2 maggio – ma al ricordo dell’insurrezione generale proclamata dal Comitato di Liberazione nazionale», e pertanto festa democratica ed antifascista – ancor prima della istituzione della festa del 2 giugno, il 25 aprile si poneva come festa fondante il nuovo Stato, con l’auspicio che potesse «per ampiezza e tradizioni ricord[a r e] il 14 luglio francese»29. L’8 maggio francese ricevette invece diverse interpretazioni ed ebbe un percorso assai complesso. Immediatamente De Gaulle diede della capitolazione tedesca in tale data una lettura di vittoria dell’esercito francese, inter pares tra quelli alleati, che pone termine ad una guerra durata trent’anni (1914-44) contro l’esercito tedesco. Per questo De Gaulle nel 1945 continuò a privilegiare la vittoria più completa e meno contraddittoria come festa nazionale: quella dell’11 novembre (1918) rispetto a quella dell’8 maggio (1945). La Quarta Repubblica potenzia invece una lettura «democratico cristiana» e trasforma il concetto di capitolazione in quello di armistizio. La legge del 20 marzo 1953 che 29 M. Ridolfi, Le feste nazionali, Bologna 2003, pp. 200 sgg. Dogliani, Memoria e storia pubblica 91 trasforma l’8 maggio in giornata festiva nazionale «costituisce il versante ricordo di una politica di perdono elaborata tra il 1952 e il 1954» sfociata nella legge del 24 luglio 1953 sull’amnistia dei collaboratori. Una terza e duplice lettura interviene negli anni settanta: il presidente Valéry Giscard d’Estaing, nel 1975, cancella l’8 maggio dal calendario delle festività in nome della costruzione di un avvenire europeo attorno all’asse franco-tedesco; al contrario, andato al potere il socialista Mitterrand nel 1981, l’8 maggio ritorna ad essere giornata festiva con forte enfasi sui valori di pace, di coesistenza, dei diritti umani30. È interessante notare, sempre nell’ambito del nostro confronto, che sebbene richiesta a più riprese dalle associazioni di combattenti e di deportati in Francia non sia mai stata instaurata una giornata specifica dedicata alla Resistenza. In un primo momento sembrò emergere la data del 18 giugno, nella quale, nel 1940, De Gaulle aveva chiamato i francesi a resistere all’occupazione. In effetti tale data fu fastosamente celebrata dal 1960, per tutto quel decennio gaullista, al Mémorial de la France combattente sul monte Valérien, ma eclissò come l’homme du 18 juin con il 1968. Come prima del 1958, nuovamente la festa della Resistenza ritorna a disperdersi attorno a decine di luoghi e di date che ricordano in provincia fatti d’arme, deportazioni ed eccidi, e attorno a memorie che ancora recano divisioni, conflitti, riti ed ideologie diverse. A riprova, è stato notato che la Resistenza non ha trovato ospitalità come «luogo» reale o immaginario nei volumi su Les lieux de mémoire dedicati alla Francia da Pierre Nora tra il 1984 e il 1993, a differenza di quanto è avvenuto nei volumi italiani curati da Mario Isnenghi31. Notiamo anche un’altra coincidenza per l’anno 1953 tra Francia ed Italia: in ambedue i Paesi questo anno, oltre al completamento dell’iter delle amnistie, segna il momento più critico e «basso» nella memoria pubblica della Resistenza. A differenza di quella francese, però, tra il 1948 e il 1953 la Resistenza italiana viene addirittura messa in stato di accusa e criminalizzata, con procedimenti e processi a carico di ex partigiani. In ambedue i Paesi, comunque, il discorso celebrativo perde fiato, si orienta sulla concordia nazionale, 30 Si vedano di S. Barcellini: La commémoration du 8 mai 1945, un combat entre Histoire et Mémoire, in «Historiens et Géographes», 348, pp. 1995 e la voce 8 mai 1945, in Dictionnaire historique de la Résistance, Paris 2006, pp. 995-6. 31 A. Ballone, La Resistenza, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 401-38. 92 Filo rosso viene gestito dai partiti centristi; in Italia essenzialmente dalla Democrazia cristiana che cerca di neutralizzare il potenziale «sovversivo» della memoria resistenziale delle sinistre, in nome di valori morali e genericamente patriottici, del ricordo da coltivare essenzialmente negli animi e nel silenzio delle coscienze ed anche di un appello più generale alla «pacificazione» tra italiani32. 4. De Gaulle e la memoria della Resistenza Il ritorno di De Gaulle al potere impone in Francia un terzo periodo: 1958-69. La memoria pubblica torna ad essere egemonizzata dai gaullisti, e contrastata dalla sola memoria comunista, sempre più chiusa negli ambienti interni al partito e ai militanti. Sul piano storiografico, la Resistenza diviene tema di ricerche universitarie, ma anche in questo ambiente fortemente influenzate dalle tesi gaulliste che vedono la Resistenza francese essenzialmente diretta e subordinata alla direzione di Londra. Simili visioni si esprimono, ad esempio, nella prima these d’état sull’argomento, sostenuta da Henri Michel alla Sorbona nel 1962 in presenza di molti autorevoli protagonisti della Resistenza: Les courants de pensée de la Résistance; riassunta poi dal primo «Que sais-je» (collana di ampia diffusione) sulla «France libre» del 1963 e dal volume Jean Moulin l’unificateur sempre di Michel del 1964. Al confronto, il Pcf mantiene salde la sua memoria «alternativa» e, come è stata successivamente definita, una sua militante datcha storiografica comunista. Escono in questi anni le memorie di Jacques Duclos e soprattutto l’opera collettiva Le Parti communiste français dans la Résistance (Paris 1967). Sempre in quegli anni i gaullisti procedono ad una operazione di grande valore simbolico: la ricerca di un nome che rappresenti tutti gli eroi caduti per la Liberazione. Al contrario della prima guerra mondiale, per la quale il sacrificio di centinaia di migliaia di caduti veniva sintetizzato negli onori portati al corpo di soldat inconnu, la lotta di Resistenza, per la quale sono stati tutti identificati e selezionati i combattenti, ha bisogno di un altrettanto conosciuto e riconosciuto personaggio che li rappresenti. Tale héros éponyme viene identificato dai gaullisti, e da storici accorsi in loro aiu32 Sul periodo 1948-53 considerato di «crisi della ‘‘narrazione egemonica’’ antifascista» ancora Focardi, La guerra della memoria cit., pp. 19-32. Dogliani, Memoria e storia pubblica 93 to, come Michel, in Jean Moulin. La figura di Jean Moulin emerge come la più adatta a rappresentare nel luogo più sacro della religione civile della nazione, dove vengono conservati, onorati ed esposti i corpi dei personaggi più illustri: il Panthéon, l’intero esercito dei martiri della Resistenza. In un primo momento quattro resistenti erano stati evidenziati da una attenta selezione, tra i quali Pierre Brossolette, il resistente di formazione umanistica e normaliana che aveva costruito, da Londra, il primo discorso epico (pronunciato il 18 giugno 1943) sul sacrificio per la patria e per la liberazione del Paese, per poi cadere anch’egli pochi mesi dopo, nel marzo 1944: «si potrebbe dire che il resistente Brossolette ha identificato con il suo sangue l’oratore Brossolette»33. Moulin viene però meglio identificato come l’uomo sintesi della Resistenza, non il capo bensì il primus inter pares: l’uomo di De Gaulle, l’uomo delle istituzioni della Terza Repubblica che non si piegano al collaborazionismo (era stato giovane e brillante prefetto), l’uomo della organizzazione e della lotta clandestine, l’uomo e il mediatore politico, infine il torturato e il trucidato dopo la cattura da parte dei nazisti. Il 19 dicembre 1964 il suo corpo viene traslato al Panthéon, seguito idealmente da un popolo di ombre che ottiene con lui la resurrezione, grazie all’onore che tributa loro la nazione e alla luce sotto la quale il ricordo e la riconoscenza dei francesi li pone. A Moulin, Andrè Malraux dedica il più importante dei suoi discorsi tenuti come ministro della Cultura, riprendendo ed ampliando la retorica resistenziale inaugurata e praticata durante la guerra da Brossolette. La traslazione di Jean Moulin assume quindi molteplici significati grazie anche alla sapiente regia di Malraux, ministro ma anche tra i più noti scrittori francesi del tempo, precocemente antifascista negli anni del Fronte popolare, volontario nella guerra civile spagnola, poi divenuto compagnon e fedele collaboratore di De Gaulle. Alcuni sostengono (tra questi ancora L. Douzou)34 che l’orazione per Moulin abbia valso anni dopo, nel 1996, allo stesso Malraux l’onore di essere sepolto a suo 33 L. Douzou, La Résistance française: une histoire périlleuse. Essai d ’ h i s t o r i o g r a p h i e, Paris 2005, p. 29. Il libro contiene anche un’ampia bibliografia finale alla quale si rinvia per i riferimenti storiografici qui fatti, ma non riportati in nota. 34 Id., La Résistance française en quête d’un héros éponyme (1942-1996), in La France démocratique (combats, mentalités, symboles). Mélanges offerts à Maurice Agulhon par Ch. Charle, J. Lalouette, M. Pigenet, A.-M. Sohn, Paris 1998; Id., Les morts de la Résistance, in Autour des morts. Mémoire et identité, a cura di O. Dumoulin e F. Thelamon, Rouen 2001, pp. 409-17. 94 Filo rosso turno al Panthéon proprio da quel presidente della Repubblica che più aspirava a competere e a superare De Gaulle nel suo rapporto con la storia: François Mitterrand, che a sua volta nel celebrare Malraux tentava di ricelebrare Moulin e la Resistenza alla quale aveva in una seconda fase della guerra anch’egli partecipato, con le molte ambiguità che sarebbero emerse nel corso dei suoi due settennati (1981-95). Jean Moulin, nelle parole di François Bédarida: simbolo della simbiosi tra resistenza esterna e resistenza interna, con la sua panthéonisation nel 1964 questo capo tardivamente scoperto dei resistenti viene eretto ad eroe eponimo definitivo come rappresentante del generale De Gaulle. Tutto nella cerimonia è fatto per sottolineare la subordinazione dei combattenti clandestini alla France combattante35. L’operazione mostra immediatamente una contraddizione di fondo: il termine «resistente» in Francia ha compreso una molteplice varietà di soggetti, molto più ampia di quella italiana, relegata essenzialmente ai combattenti delle formazioni partigiane: erano i combattenti all’interno del Paese e all’estero, in formazioni politiche e militari, ma anche deportati per motivi politici e razziali, ex prigionieri di guerra, riconosciuti negli anni immediatamente successivi alla guerra dal segretariato di Stato agli Anciens combattants, nato con la grande guerra. I resistenti si riuniscono in Associations e Amicales, essenzialmente organizzate a livello dipartimentale. L’attribuzione del titolo di Cvr (Combattant volontaire de la Résistance) venne fatta in maniera generosa almeno sino al ritorno di De Gaulle che la sospende e nel contempo attua un coinvolgimento dei Cvr nelle grandi manifestazioni in occasione degli anniversari per i quarantesimi nel 1960, 1964 e nel 1965. Allo stesso tempo De Gaulle, nel 1961, ripropone nella data simbolica del 18 giugno una élite di eroi della Resistenza: 1.038 persone tra civili e militari, tra le quali solo 6 donne, che avevano lottato per la liberazione della Francia nel periodo che intercorre non a caso tra il 18 giugno 1940, data del suo appello londinese a tous les Français, e l’8 maggio 1945. Essi erano stati scelti nel corso della guerra, dal novembre 1940 sino al gennaio 1946, ed era stato conferito loro, viventi o caduti, il titolo di compagnons de l’Ordre de la Libération. Si trattava di un vero e proprio ordine cavalleresco, che attribuiva un titolo rilasciato dalla Grande Chancellerie de l’Or35 F. Bédarida, Histoire, critique et responsabilité, Bruxelles-Paris 2003, p. 178. Dogliani, Memoria e storia pubblica 95 dre de la Libération, e preferito da De Gaulle sin dal suo ritorno al potere, al Grand Cordon de la Légion d’Honneur. Ad esso erano iscritti, «nell’ordine della morte, senza distinzione alcuna» più di trecento compagnons fucilati, torturati, deportati, caduti in combattimento. Dal 1958, De Gaulle si mette alla ricerca di un eroe che li rappresentasse pubblicamente tutti, qualcuno che costituisse una sintesi dei resistenti, e che potesse avere il carisma per guidare quelle anime ad uscire dall’ombra nella quale la belle morte (il kalos thanatos dell’Iliade, l’atto eroico compiuto come sacrificio per il proprio Paese) li aveva colti nella clandestinità, in prigioni e in luoghi solitari di fucilazione e tortura. Non ritroviamo nessuna operazione simile per quanto riguarda l’Italia, dove, come nella letteratura, la cultura eroica e mitologica della «bella morte» non viene coltivata dai resistenti, bensì in maniera sotterranea, sino ai più recenti tempi, dai «ragazzi di Salò»36. Occorre inoltre osservare che, a differenza del caso italiano, ai riti resistenziali francesi contribuisce in maniera decisiva l’esercito, l’Armée nationale, con la sua tradizione militare e i suoi simboli eterni. La politica memoriale del generale De Gaulle incrementa questo innesto tra valori patriottici e valori militari, tra l’altro in un momento di estrema debolezza dell’esercito stesso dopo la sconfitta in Indocina e le operazioni di polizia in Algeria, vivificando una tradizione nazionale che va ben oltre l’istituzione repubblicana, rifacendosi anche al culto cristiano di Giovanna d’Arco e al suo sacrificio per liberare la Francia dagli invasori. Nessun capo della Resistenza italiana ebbe il profilo e la formazione politico-militare di De Gaulle e nessuno tentò di riabilitare l’esercito italiano come forza di riscatto nazionale, almeno sino agli ultimi presidenti della Repubblica legati alla stagione resistenziale (Pertini, Scalfaro e Ciampi), e al loro impegno nella ricostruzione di una memoria patriottica partendo da Cefalonia, e da altri tragici fatti di resistenza ai tedeschi nell’Egeo del settembre 1943. Inoltre, i pochi lavori italiani, essenzialmente articoli ed anticipazioni di corposi saggi ancora da venire37, mostrano le difficoltà se non Cfr. C. Mazzantini, A cercar la bella morte, Venezia 1995. Cfr. i saggi in Le memorie della Repubblica, a cura di L. Paggi, Firenze 1999 e soprattutto G. Schwarz, Dal Vittoriano alle Ardeatine: la commemorazione patriottica alle origini della Repubblica, in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, vol. XXXVI, Torino 2002, pp. 305-33. 36 37 96 Filo rosso l’impossibilità storica di individuare un luogo-culto ufficiale e nazionale per la Resistenza italiana e i suoi caduti: né il Vittoriano-Altare della Patria (assimilabile simbolicamente all’Arco di trionfo a Parigi) né il Panteon romano e ancor meno nuovi luoghi come le Fosse Ardeatine riescono a conciliare animi e organizzazioni già divise al momento della liberazione di Roma e mai conciliate da una operazione ufficiale dello Stato italiano. Bruno Tobia ricorda che solo a partire dal 1955 l’Altare della Patria viene scelto da capi dello Stato per celebrare, con la deposizione di una corona, la ricorrenza del 25 aprile. E sottolinea che in occasione dell’avvio di tale rito, corrispondente al primo decennale dalla Liberazione, la situazione era alquanto complessa e certamente non adatta a creare una memoria ufficiale e condivisa tra le forze antifasciste: se dopo anni le diverse associazioni partigiane si trovarono nuovamente insieme per tale giornata, esse si confusero tra rappresentanze d’arma, di combattenti e di reduci, tanto da far perdere la specificità resistenziale della cerimonia, sottoposta tra l’altro ad atti provocatori di giovani neofascisti del Movimento sociale e presieduta non da un presidente della Repubblica, bensì dal discusso presidente del Consiglio di allora, Mario Scelba38. Occorre inoltre sottolineare un importante fattore di differenziazione tra l’Italia e la Francia, che si evince da quanto abbiamo sino a qui descritto. Non solo il titolo di resistente vuole racchiudere in Francia più soggetti ed esperienze collettive: esso è anche riconosciuto e «protetto» ufficialmente da un sottosegretariato divenuto poi ministero agli Anciens combattants che lo attribuisce e che indirizza i cerimoniali, accudisce cimiteri e luoghi di memoria e di culto laico, inserendo la memoria della seconda guerra mondiale in modo meno controverso e nascosto di quanto abbia fatto l’Italia in quella ancor più forte e patriottica della grande guerra39. Il riconoscimento dello status di combattente per la patria vale quindi, in Francia, sia per i vivi che per i morti. Il ricordato sottosegretariato recuperò immediatamente i corpi dei resistenti morti, provvide alla loro traslazione in cimiteri civili e soprattutto militari, e curò le loro tombe; invece l’Italia visse, come ha descritto Guri Schwarz, un’«anarchia funeraria» B. Tobia, L’Altare della Patria, Bologna 1998, p. 112. A questo proposito si leggano i diversi lavori di un dirigente di tale ministero, il citato S. Barcellini, e in particolare il libro scritto con A. Wieviorka, Passant, souviens-toi! Les lieux du souvenir de la Seconde Guerre mondiale en France, Paris 1995. 38 39 Dogliani, Memoria e storia pubblica 97 tra il 1943 e il 1947, dove familiari, compagni di lotta, singole comunità si attivarono (in particolare nelle regioni dove la lotta partigiana e i bombardamenti alleati furono intensi), pur tra i tanti divieti per esumazioni e spostamenti di salme, al triste ma dovuto recupero dei loro morti. Solo tra il 1947 e il 1948 il Commissariato generale onoranze ai caduti e la presidenza del Consiglio iniziarono ad occuparsene con aiuti anche finanziari, senza però mai giungere ad un disegno di realizzazione complessivo che introducesse queste morti in una nuova e non contraddittoria fase di culto della patria40. Vennero però esclusi nel maggio 1947 dai contributi alla traslazione i combattenti di Salò non considerati «caduti o deceduti in seguito a ferite o malattie contratte per causa di servizio nella guerra 1940-45». Il tema del riconoscimento ufficiale di questi ultimi da parte dello Stato italiano è stato nuovamente aperto all’inizio del nuovo secolo dal governo Berlusconi. La creazione di un ministero analogo a quello francese degli Anciens combattants in Italia naufragò rapidamente dopo la conclusione del governo Parri, bloccando di fatto la realizzazione di un associazionismo partigiano riconosciuto e protetto a livello pubblico non solo per quanto riguardava gli aspetti previdenziali, ma anche per metterlo al riparo dagli scontri politici. In Italia, e questo ci riporta al periodo precedente, vennero create dalla costola dell’Anpi, rimasta a direzione comunista e socialista, all’inizio del 1948 la Federazione italiana volontari per la libertà, che raccoglieva i partigiani delle formazioni autonome e cattoliche; e all’inizio del 1949, fu lo stesso Parri, dopo un ultimo tentativo di ricomporre le fila di un movimento nazionale, a fondare la Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane) che raccoglieva a sua volta le formazioni di Giustizia e Libertà, le mazziniane ed alcune autonome41. Mancano a tutt’oggi serie ricerche sul reducismo, nonostante che oramai vent’anni fa Claudio Pavone ne rilevasse l’importanza42. La disarticolazione dell’associazionismo ha 40 Si veda G. Schwarz, La morte e la patria: l’Italia e i difficili lutti della Seconda guerra mondiale, in «Quaderni storici», 113, agosto 2003, pp. 551-87. 41 Anche in questo caso mancano studi puntuali sull’associazionismo partigiano al di là di alcune storie ufficiali prodotte dalle associazioni stesse. Si vedano le mie osservazioni ed una prima ricostruzione in P. Dogliani, La memoria della guerra nell’associazionismo post-resistenziale, in La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, a cura di G. Miccoli, G. Neppi Modona e P. Pombeni, Bologna 2001, pp. 527-56. 42 C. Pavone, Appunti sul problema dei reduci, in L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Milano 1985, pp. 89-106. 98 Filo rosso inoltre prodotto memorie separate ed emarginate, a circolazione ristretta tra reduci, che solo con molta fatica e tempo sono pervenute a storici in grado di esaminarle e di ricostruire il contesto storico più vasto dell’esperienza; è il caso degli internati militari43. Non sono ancora stati affrontati direttamente i perché dell’abbandono dei reduci da parte dei partiti resistenziali e della loro mancanza di sensibilità e d’attenzione ad un potenziale movimento civile ed elettorale che invece in Francia, soprattutto con l’organizzazione degli internati e dei prigionieri di guerra voluto dai primi governi gaullisti, costituì l’elemento di forza e di sostegno per successive carriere politiche, tra queste quella di François Mitterrand44. In Francia l’operazione Jean Moulin tese a costruire un mito collettivo che si basava essenzialmente sulla figura del combattente eroico. È stato inoltre sottolineato che la Resistenza in quegli anni è tutta improntata su una visione virile della storia nazionale: la popolazione civile e in particolare la componente femminile combattente, resistente, coadiuvante la lotta in armi è pressoché assente dalle forme rappresentative come dalle celebrazioni e dai «luoghi» d’onore. Abbiamo scritto che solo sei donne entrano nel compagnonnage ufficiale della Resistenza e vengono quindi insignite di croci al merito; poche resistenti vengono inserite nel corteo ideale dei caduti per la patria; né molti più tributi conferisce alle donne il Partito comunista, nel quale domina una rappresentazione operaista e altrettanto virile della lotta di classe. L’operazione mitizzazione negli anni sessanta sembra comunque funzionare. Come ha sottolineato François Bédarida, lo storico francese che più si è occupato del rapporto storia e memoria nel temps présent, cioè nella storia a noi più prossima (quella che ci raggiunge con l’esperienza vissuta direttamente o dalla generazione a noi più vicina, dei nostri padri e nonni; è la «storia immediata» e quindi ancora sog43 Non entriamo in merito a questa memorialistica, ampiamente oggi utilizzata da studiosi impegnati in una seria ricostruzione storica, in Italia G. Rochat tra i primi, L. Cajani e B. Mantelli; in Germania G. Schrieber e più recentemente G. Hammermann con Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, 2004 (ed. tedesca del 2002). Il tema e la sua complessità vengono affrontati per la prima volta in un convegno tenutosi a Torino nel novembre 1987 i cui risultati appaiono in Istituto storico della Resistenza in Piemonte, Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Milano 1989. 44 Si veda P. Dogliani, Mitterrand e l’Histoire, in «Storica», 32, 2005, pp. 83-108. Dogliani, Memoria e storia pubblica 99 getta a trasformazioni nelle forme di ri-memorizzazione e di rappresentazione): i miti del XX secolo sono miti veicolati dalla memoria collettiva, essi assumono, come d’altronde nel passato, una funzione sociale, attraverso di essi tutto un sistema simbolico entra in azione, grazie ad una costruzione dinamica legata a un sistema di valori condivisi. I miti contemporanei sono costruiti per esigenze storiche, e politiche, nel nostro caso la costruzione di un consenso popolare al momento della fondazione della Quinta Repubblica e nel superamento dei profondi scontri interni al Paese dovuti alla crisi coloniale e soprattutto algerina; ma come tali possono essere facilmente decostruiti e possono altrettanto facilmente entrare in crisi e travolgere l’intero impianto interpretativo del passato: grazie alla ricerca storica, all’emergere di memorie contraddittorie e sino a quel momento nascoste, all’insorgere di nuove domande. È il caso del mito resistenziale dopo il 1968. Il termine Résistance comincia ad aggettivarsi, diviene juive, étrangère e quindi ad articolarsi. Lo stesso il concetto di Liberazione in una guerra totale, assai diversa dalla grande guerra: chi libera chi? chi si libera e chi è liberato? In Francia questa domanda scardina un altro impianto interpretativo sempre gaullista: quello dei francesi che si liberano dai loro occupanti (i tedeschi) e aiutano gli altri Alleati a liberare l’Europa, senza tenere conto dell’esistenza di un collaborazionismo, di un fascismo e filonazismo autoctoni e aderenti ad un progetto d’Europa che porta l’impronta del «nuovo ordine europeo» hitleriano. Sempre Bédarida ha sostenuto che il termine memoria viene caricato di equivoci semantici, psicologici, politici, affettivi. La sua ambivalenza proviene da due sue distinte funzioni: la funzione di restituzione e di preservazione del passato; la funzione di trasmissione e d’applicazione nel presente. Rimemorizzare significa, sempre secondo Bédarida riscoprire e vivificare il passato per salvaguardarlo. In tal modo il passato è attualizzato, richiamato nel presente e divenuto presente: il risultato è un corpus di rappresentazioni e di immagini più o meno strutturate: memoria nazionale, operaia, resistente ecc., derivanti ed inserite in più tradizioni. 5. Gli anni settanta: le memorie monolitiche si sgretolano Con il 1968 si attua una decostruzione delle due memorie monolitiche e portanti della Resistenza: l’apparizione 100 Filo rosso della biografia di Georges Marchais, allora segretario generale del Pcf, non resistente ma lavoratore «volontario» in Germania durante la guerra, si scontra con la memoria comunista del partito dei «75.000 fucilati» e combattenti del Maquis. L’impianto patriottico-militare gaullista viene a sua volta messo in discussione dai movimenti studenteschi, intellettuali e libertari del maggio francese, che, a differenza dell’Italia, della sua nuova sinistra e del movimento studentesco ed operaio nati nelle lotte del 1968-69 (e il confronto andrebbe ancora fatto con attenzione), non si rifà in termini antiretorici ad un’«altra resistenza», la resistenza armata, proletaria, di rivolta sociale, tradita dai partiti e dalle istituzioni dell’immediato dopoguerra. In Francia semplicemente il maggio e il dopo maggio trascurano il passato resistenziale (d’altronde molto lontano da alcuni suoi maîtres-à-penser, come Sartre o Althusser) e si rivolgono piuttosto ai movimenti a loro contemporanei di liberazione dei popoli dal neocolonialismo e alla lotta per i diritti civili. Nel corso di un decennio emergono nuove testimonianze, entrano nel cono di luce attori resistenziali sino ad allora trascurati, viene soprattutto privilegiata la storia orale con nuovi metodi di intervista e di rilevazione. In questo contesto spicca il lavoro compiuto da Henri Noguères, in collaborazione con altri, che sfocia nella pubblicazione di cinque volumi di testimonianze, apparsi tra il 1967 e il 1981: Histoire de la Résistance en France de 1940 à 1945, editi da Laffont. Inoltre, la ricerca storica universitaria si rivolge all’analisi di specifiche realtà dipartimentali e integra per la prima volta studiosi non francesi, essenzialmente inglesi e statunitensi. Alla fine degli anni settanta viene discussa la tesi di dottorato di Pierre Laborie, seguita nel decennio successivo dalla preparazione e discussione di altre tesi sulla base di ricerche locali attente alla varietà di fonti e di questioni nazionali, condotte da parte di coloro che oggi guidano la ricerca francese in questo campo: JeanMarie Guillon per il dipartimento del Var (tesi discussa nel 1989), di Olivier Wieviorka (nel 1992 sulla Francia settentrionale) e di Laurent Douzou (nel 1993 sul lionese e il Sud). Sempre negli anni settanta si avverte l’impatto in Francia delle ricerche straniere; in particolare del secondo e fondamentale studio di Robert Paxton sul periodo: il primo, del 1966, era concentrato sul destino del corpo di ufficiali francesi dopo la disfatta del giugno 1940; il secondo, Dogliani, Memoria e storia pubblica 101 intitolato La France de Vichy, esce in Usa nel 1972 e immediatamente dopo, nel 1973, viene tradotto in francese45. È stato anche sottolineato che la legge francese sul riordino e l’apertura degli archivi, emanata nel 1979, ha permesso ai ricercatori, soprattutto ai più giovani universitari, l’accesso ad una massa di documenti sino a quel momento inaccessibili, male inventariati, non considerati. Occorre però dire che se la ricerca è facilitata dagli archivi, ancora di più essa viene sollecitata da un nuovo approccio e da una nuova mentalità. Sino agli anni settanta era senso comune che la clandestinità durante la guerra non avesse favorito la produzione e la conservazione di documentazione scritta e che le fonti fossero essenzialmente da ritrovare nei testimoni dell’epoca, in quanto avevano rilasciato in racconti e documentazione dopo il 1944-45; tali testimoni erano poi veicolati se non individuati dalle due memorie nazionali dominanti. Una nuova generazione di storici, libera da quei legami di compagnonnage, generazionali, politici e persino emotivi che avevano legato i primi studiosi ai protagonisti della Resistenza, si poneva nuove domande che si interrogavano sul contesto sociale e geografico nel quale era nata la militanza, gli aspetti civili e non solo militari della lotta, le strategie di potere all’interno della rete resistenziale durante e dopo la Liberazione. Vi è anche da aggiungere che proprio alla fine di quel decennio, con il 1980, la ricerca si libera da legami istituzionali. Tra il 1945 e il 1951 il Comitato di liberazione nazionale aveva costituito la Commission d’histoire de l’occupation et de la libération de la France; tra la fine del 1951 e il 1980 aveva invece operato un Comité d’Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale che aveva promosso ricerche, convegni, rapporti internazionali ed aveva costituito uno spazio operativo per almeno due generazioni di storici in quanto era sostenuto ed amministrato dal Cnrs (l’analogo del nostro Comitato di ricerca nazionale, Cnr); era però rimasto essenzialmente un organismo patrocinato e controllato dal gabinetto del primo ministro. Il Comité d’Histoire, come ha sottolineato Bédarida46, costituiva «una opera indubbiamente sapiente, ma ancora in linea con la memoria gloriosa del mondo resistente», quindi poco critica e libera di esprimere nuo45 R.O. Paxton, La France de Vichy, 1940-1944, Paris 1973; L’armée de Vichy. Le corps des officiers français 1940-1944, Paris 2004, (ed. orig. Princeton 1966). 46 F. Bédarida, J.P. Azema, L’historisation de la Résistance, in «Esprit», janvier 1994, pp. 19-35. 102 Filo rosso ve ricerche e soprattutto interpretazioni. Solo nel 1980 il Comité è stato liberato dal patronage politico e consegnato interamente al Cnrs per divenire l’Institut d’Histoire du temps présent, laboratorio di ricerca storica allargato dalla guerra alla storia del fascismo e del secondo dopoguerra. Diversa è la storia dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, recentemente descritta da Gaetano Grassi47. L’Istituto nazionale nasce nel 1949 in maniera autonoma come volontà di serbare il ricordo, costruire una memoria e conservare la documentazione dei movimenti di Resistenza, su proposta di Ferruccio Parri, a Milano, quindi nella «capitale della Resistenza» e non nella capitale ufficiale del Paese, come espressione federativa dei primi istituti locali, quelli di Torino e di Genova creati nel 1947 e di altri istituti in costruzione. Al pari degli Archivi di Stato, a tali istituti viene riconosciuto il diritto di deposito dei documenti atti a «preparare il terreno al lavoro degli storici», che inizia di fatto negli anni cinquanta e si intensifica negli anni sessanta con l’entrata dell’Istituto, in corrispondenza con il centenario dell’Unità d’Italia, nella rete europea del Comité d’Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale. Solo nel 1967 però, sotto la presidenza dello storico torinese Guido Quazza (che con un libro-saggio apparso nel 1974 riaffermerà la centralità della Resistenza nella storia d’Italia, e anche le speranze resistenziali eluse dalla Repubblica), l’Istituto viene riconosciuto di natura pubblica e sostenuto finanziariamente e con distacchi d’insegnanti per una didattica della storia della Resistenza, della democrazia e dell’Italia contemporanea che diviene effettiva all’inizio degli anni ottanta. Gli anni di maggiore attività e presenza dell’Istituto nazionale e della sua rete locale (53 istituti nel 1988) sia nel campo della ricerca e produzione storiografica che nella promozione didattica e di formazione civica vanno dal 1972 al 1983. Dal 1984 sembra aprirsi a nuove tematiche relative al Novecento, a nuove fonti storiografiche e ad una nuova didattica (nel 1985 è creato a Bologna il Laboratorio per la didattica della storia). Se alcuni istituti locali, grazie al sostegno culturale e finanziario di amministrazioni pubbliche locali ancora fedeli per tradizione politiche allo spirito resistenziale (alcune re47 G. Grassi, L’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia e gli Istituti associati, in Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e fonti cit., pp. 114-61. Dogliani, Memoria e storia pubblica 103 gioni inseriscono negli anni settanta esplicitamente il riferimento alla Resistenza nei loro statuti), riescono a superare intatti gli anni novanta (e qualcuno, come l’Istituto di Torino, persino a potenziare i suoi servizi con la nascita anche di un museo della Resistenza), l’Istituto nazionale non passa indenne il ciclone distruttivo della memoria della Resistenza degli anni novanta, senza più la garanzia politica e il supporto culturale di una lunga generazione di politici e di uomini della cultura d’ideali antifascisti. La mole del lavoro di documentazione e delle pubblicazioni lasciateci dagli istituti è enorme, ma sembra sempre più assente con gli anni novanta una direzione scientifica e soprattutto un lavoro di sintesi necessario per affrontare una nuova fase politica e civile della memoria storica. La riscrittura generale della storia della Resistenza è condotta in solitaria (anche se con un legame ideale ed intellettuale con gli istituti) da Claudio Pavone in Una guerra civile. Non escono per anni, dopo l’ormai classico e costantemente riedito Battaglia, testi di divulgazione alta della storia resistenziale che si mettano al passo con una diversa percezione della sua memoria collettiva; bisogna attendere sino al 2004 l’uscita del libro di Santo Peli48. La complessa fase di transizione, non ancora finita, non è solo politica ed ideale ma è anche determinante per i contenuti, i metodi e i linguaggi della ricerca, e soprattutto per la sua divulgazione tra un vasto pubblico composto da studenti, insegnanti, cittadini. Le differenze con la realtà francese appaiono evidenti: se il percorso fatto dagli italiani ha garantito all’istituzione maggiore autonomia d’operato e d’interpretazione, al riparo da repentini scarti politici ed anche da spinose questioni morali oltre che storiografiche relative alla guerra, al collaborazionismo e all’antisemitismo, l’ha anche tenuta lontana da un mondo universitario della ricerca (nonostante molti universitari siano passati o si siano formati negli istituti) che avrebbe consentito maggiori finanziamenti e soprattutto avrebbe garantito la presenza, come al contrario è avvenuto in Francia grazie al Cnrs, di idee e di metodologie aggiornate grazie al reclutamento di ricercatori a tempo pieno in fasi formative come i dottorati, i postdottorati e nell’abilitazione all’insegnamento superiore della storia contemporanea. Restando alla Francia, notiamo che negli anni settanta emerge una memoria ebraica della Resistenza rimasta rinchiusa sino a quel momento nell’ambito ristretto della sua 48 S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino 2004. 104 Filo rosso comunità. Ci si interroga per la prima volta sul rapporto tra l’essere resistente e l’essere ebreo, sia francese che apolidenaturalizzato-rifugiato in Francia in quegli anni, oppure tra l’azione di resistenza antifascista e l’azione sionista. Non è però il solo ambito nel quale risultano pienamente, per la prima volta dalla fine della guerra, motivazioni e specificità non solo patriottiche e «franco-francesi» all’origine della militanza antifascista e resistenziale. Emergono altri protagonisti, altre comunità, d’origine non solo confessionale ma anche nazionale (polacchi ebrei e non ebrei, italiani, spagnoli, maghrebini), molti appartenuti alle organizzazioni resistenziali a sezione nazionale, principalmente alla Moi (Main-d’Oeuvre Immigrè, Manodopera Immigrata), e soprattutto riaffiorano le caratteristiche dei rapporti, non sempre facili né privi di traumi, intrattenuti con le organizzazioni della resistenza nazionale, e nel caso della Moi con la rete resistenziale del Pcf. A tal proposito occorre fare riferimento a una nuova generazione di storici che ha lavorato sul Pcf durante la guerra, in maniera distaccata se non spesso fortemente polemica con la precedente storiografia comunista ufficiale, in particolare a Stéphane Courtois e a Denis Peschanski49, quest’ultimo ancora oggi impegnato nello studio dei campi di concentrazione e di prigionia in Francia tra Terza Repubblica, Vichy e Quarta Repubblica. Tali dibattiti scolorano il mito resistenziale, rendono la stagione resistenziale più umana e pertanto controversa e sottolineano almeno due temi difficili e cruciali nel dibattito che si svilupperà nei due decenni che seguiranno. Si tratta di questioni che tendono a smontare le due memorie sino a quel momento ufficiali e solo apparentemente in contrasto tra loro, perché sia la gaullista che la comunista convergevano però nell’escludere altre ricostruzioni. Esse però non avevano mai sostenuto la tesi di una Francia compattamente combattente, al contrario, De Gaulle aveva sempre fatto la distinzione tra una minoranza, una élite eroica, e una Francia passiva, attesista, però comunque dotata di uno stato di spirito resistente, patriottica e contraria all’occupazione del territorio. Ed altri, certamente non gaullisti, avevano appoggiato, sin dalla prima ora, questa versione, come Sartre, che all’indomani della liberazione di Parigi, il 9 settembre 1944 pubblicava ne «Les Lettres françaises» un articolo dal titolo S. Courtois, D. Peschanski, A. Rayski, Le Sang de l’étranger. Les immigrés de la MOI dans la Résistance, Paris 1989. 49 Dogliani, Memoria e storia pubblica 105 La République du silence, un silenzio alla Vercors. Sartre impiegava il «noi» della collettività intera che usciva dall’incubo di quattro anni d’occupazione e concludeva: «Non parlo qui di quella élite alla quale appartennero i veri Resistenti, ma di tutti i Francesi che, ad ogni ora del giorno e della notte, per quattro anni, hanno detto n o». Da parte loro i militanti del Pcf avevano sempre combattuto la tesi che il loro partito fosse entrato nella Resistenza solo dopo l’attacco nazista all’Unione sovietica nel giugno 1941 e che avesse condotto la lotta di liberazione non per fini popolari e patriottici ma in funzione di una strategia internazionale funzionale all’Urss. Il primo tema di dibattito è relativo alle co-responsabilità del regime di Vichy, e del collaborazionismo dei francesi, e dunque delle istituzioni francesi, nella deportazione degli ebrei presenti in Francia e nella «soluzione finale» proposta ed attuata dal Terzo Reich; in definitiva il difficile tema dell’antisemitismo francese, dall’affaire Dreyfus di fine Ottocento alla Shoah degli anni quaranta. Il secondo tema verte sul trattamento riservato dalle forze di liberazione francesi ai resistenti non francesi; in definitiva sull’esprimersi di una xenofobia nella Resistenza, accompagnata da altri sentimenti quali l’antisemitismo e nel caso dei membri del Pcf anche di avversione nei confronti di quei gruppi di sinistra, quali coloro di fede trotskista ed anarcosindacalista, estranei o addirittura avversi alla Terza Internazionale e impegnati in Francia nella lotta al nazifascismo. Diversa ci pare la situazione italiana anche nei confronti della memoria. In un Paese di minore insediamento ebraico in età contemporanea (essenzialmente attraversato dalla fuga dalla persecuzione fascista, dalla diaspora, dalla ondate di alyià, e dal ritorno in Palestina/Israele tra il 1933 e il 1948), come ha sottolineato G. Schwarz, per lungo tempo proprio la Resistenza, e il mito nazionale elaborato attorno ad essa hanno rivestito un ruolo fondamentale nel confermare gli ebrei nel loro attaccamento all’Italia. L’immagine di un’Italia antifascista e di un fascismo parentesi, la celebrazione del momento eroico della rivolta, intesi a sottolineare che il fondamento etico della nuova Repubblica era l’antifascismo e che tale indirizzo politico ideologico era l’unico possibile inveramento dei valori risorgimentali, non poteva che trovare concorde, anzi direi entusiasta l’ebraismo italiano del secondo dopoguerra50. 50 G. Schwarz, Appunti per una storia degli ebrei in Italia dopo le persecuzioni (1945-1956), in Studi Storici», 3, 2000, p. 786. Si veda anche: Id., Gli ebrei italiani e la memoria della persecuzione fascista (1945-1955), in «Passato e presen- 106 Filo rosso In breve, se anche in Italia, come in Francia, la comunità ebraica ricostruisce la storia della deportazione e dello sterminio degli ebrei italiani e residenti in Italia dal 1943 e poi anche le responsabilità del fascismo italiano dalle leggi razziali del 1938, creando propri centri di documentazione e di ricerca (il primo a Venezia nel 1955, secondo un modello parigino, e poi a Milano), non apre mai un contenzioso né dispute riguardo a responsabilità morali e penali con lo Stato repubblicano italiano. Tornando alla Francia, nel contesto sopra ricordato interviene anche la cinematografia, recentemente studiata da Sylvie Lindeperg51. La produzione cinematografica segue di pari passo lo sviluppo della memoria celebrativa e della storiografia resistenziale: un’ampia ed interessante produzione cooperativa avviata da France Libre sia in campo dell’attualità cinematografica (i cinegiornali France Libre Actualités escono nelle sale cinematografiche di Parigi e delle aree liberate dal 5 settembre 1944) che in quella di lungometraggio documentario e di fiction. I prodotti più rappresentativi, grandi successi del 1946, sono La libération de Paris, montato con materiali girati al momento e subito dopo la liberazione della capitale nell’agosto 1944, e soprattutto La bataille du rail, epopea della lotta clandestina da parte dei ferrovieri francesi, ideato da René Clement nel 1944 e uscito nelle sale cinematografiche nel febbraio 1946. La spinta resistenziale data dal Comité de libération du cinéma français si spegne già nel 1946: l’ultimo film rappresentativo di questa breve stagione (che ha il suo parallelo con il neorealismo italiano e con la ripresa romana della produzione cinematografica, antifascista e di soggetto resistenziale, negli stessi anni, pur in condizioni materiali ed economiche e sotto controllo alleato più difficili) è Au cœur de l’orage (1944-48) che JeanPaul Le Chanois ha dedicato al Maquis del Vercors. Solo dieci anni dopo, con il ritorno di De Gaulle al potere, la rappresentazione filmica della guerra e della Resistenza riprende fiato e corrisponde alla memoria forgiata dal Generale e dai suoi compagni. La Francia resistenziale, gli eroi malgré te», 47, 1999, pp. 109-30 e Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la Seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, Firenze 1998. 51 S. Lindeperg, Les écrans de l’ombre. La Deuxième guerre mondiale dans le cinéma français (1944-1969), Paris 1997. Rinviamo anche al testo classico di A. Bazin, Le cinéma de l’occupation et de la résistance, préf. de François Truffaut, Paris 1975. Dogliani, Memoria e storia pubblica 107 eux, cioè l’uomo semplice che si trova a combattere per la nazione perché trascinato dalla storia e dal suo dovere. Pochi i film non conformisti, mentre il decennio gaullista si chiude nel 1969 con un film di un certo successo: L’armée des ombres di Jean-Paul Melville (lo stesso che aveva adattato per il grande schermo nel 1947-49 il racconto Le silence de la mer) che cerca di conciliare nelle vicende di questo film le due memorie inconciliabili: quella della resistenza interna al Paese con quella militare di France libre. Le due cinematografie italiane e francese vanno in un primo momento in parallelo. Il primo ciclo di film prodotti in Italia dallo spirito resistenziale va da Roma, città aperta di Rossellini a Achtung! Banditi di Carlo Lizzani nel 1951. Segue poi un lungo silenzio sino agli anni sessanta quando si afferma una interazione tra letteratura e cinema con la trasposizione cinematografica dei racconti ferraresi di Bassani e dei romanzi di Cassola, Vittorini, Carlo Levi, Moravia. Poco significativi quelli degli anni del dopo ’68 sino ad alcuni innovativi come La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani nel 1982. Poi ancora un silenzio, spezzato solo dalla documentaristica sulla Resistenza, il fascismo e la seconda guerra mondiale per il grande e piccolo schermo (La nascita di una dittatura ad esempio prodotto da Sergio Zavoli nel 1972), sino almeno alle soglie del 2000, in anni in cui si ritorna senza spirito critico, ma piuttosto per descrivere l’esperienza del rito di passaggio generazionale al fine di dare un esempio alle nuove generazioni dimentiche della Resistenza; sono essenzialmente le trasposizione cinematografica di racconti e di ambienti resistenziali come le Langhe de Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio e il Veneto dei Piccoli maestri di Meneghello52. Diversa appare la situazione in Francia dopo il 1968. Il primo film anticonformista che rompe schemi consolidati in Francia è Nom et prénom: Lacombe Lucien di Louis Malle nel 1974. Attraverso le vicende di un giovane contadino ignorante e disorientato che diviene, senza una prospettiva politica né un ideale, un collaboratore e un delatore per Vichy e i tedeschi, passa una profonda rilettura della Francia occupata e degli scontri sociali che la attraversano (Lucien, 52 Cfr. Aa.Vv., Cinema storia resistenza 1944-1985, Milano 1987, in particolare gli interventi di F. Cerea, G. De Luna e il confronto Italia-Francia condotto da P. Sorlin (pp. 17-73). E inoltre di G. Crainz, A. Farassino, E. Forcella, N. Gallerano, La Resistenza italiana nei programmi della Rai, Roma 1996. 108 Filo rosso giovane fascista proletario rancoroso contro la borghesia acculturata, francese o cosmopolita, resistenziale o ebrea), ma passa soprattutto il discorso di una Francia «profonda» collaborazionista, antisemita e xenofoba, tenuta sino a quel momento nascosta dalla memoria ufficiale ed egemone nei discorsi politici e storiografici. Una Francia poco eroica e segnata dagli eventi e da molteplici scelte individuali di fronte e di collaborazione, con l’occupante tedesco, con il governo di Pétain, con la France libre di De Gaulle, che hanno segnato il destino di molti giovani che avrebbero poi militato a sinistra, da Georges Marchais allo stesso presidente socialista François Mitterrand. Sempre Bédarida, nel saggio del 1994, ha sottolineato come al mito di una Francia ribelle e in piedi, in maggioranza rivolta contro l’occupante e contro Vichy, che ha dominato gli anni cinquanta e sessanta, ha risposto negli anni settanta un contro mito, quello di una Francia avvilita, egoista e debole, che vive in un ripiegamento di paura e di mediocrità e che si allinea alla Resistenza solo tardivamente e una volta che la vittoria alleata appare sicura. Lungo questo discorso, nella difesa oramai difficile del primo mito, Bédarida inserisce la proibizione da parte della direzione della televisione pubblica francese di inserire per anni nel loro palinsesto il film documentario di Marcel Ophuls, Le chagrin et la pitié, produzione svizzero-tedesca, pronto nel 1971 e sottotitolato Cronaca di una città francese sotto l’occupazione tedesca53. Negli anni settanta si annuncia anche un altro fenomeno, quello letterario, di una narrativa dedicata al periodo di Vichy che ha come suoi principali rappresentanti due autori nati dopo la fine della guerra: Patrick Modiano (classe 1945) e Pierre Assouline (classe 1953). Modiano, con origini ebraiche paterne, inizia con Gallimard a scrivere di deportazione, di guerra e di collaborazionismo, nel 1968 con La Place de l’étoile, seguito dalla sceneggiatura di Lacombe Lucien e da molti altri romanzi tra i quali spicca la vicenda della giovanissima deportata Dora Bruder (Paris 1997). Pierre Assoline, figlio di un franco-marocchino che aveva combattuto in Italia nel contingente di liberazione francese, inizia negli anni ottanta come biografo e saggista privilegiando alcuni intellettuali, come Georges Simenon, coinvolti con la collaborazione e poi con decisione si dedica al tema della memoria dell’occupazione e della collaborazione con 53 A questo proposito si veda nuovamente Dogliani, Tra guerre e pace cit. Dogliani, Memoria e storia pubblica 109 racconti e romanzi quali Le fleuve Combelle (sull’intellettuale collaborazionista Lucien Combelle, 1997), La cliente (Paris 1998, tradotto anche in italiano da Guanda), il recente Hôtel Lutetia (Paris 2005). Non troviamo in Italia figure analoghe, ossia scrittori del dopoguerra, non direttamente protagonisti bensì figli di testimoni di un epoca, che si siano così intensamente dedicati alla ricostruzione del periodo dell’occupazione e della Resistenza, e alla sua controversa memoria, tanto da metterle al centro del loro lavoro artistico, sostituendosi, spesso con grande efficacia e maggiore successo, agli storici della loro generazione. Meglio di molti saggi storiografici, interviste e film, Modiano rende l’atmosfera della Parigi delle grandi retate del 1942-43 in Dora Bruder54; e Assouline quella della delazione e della ricerca delle ragioni postume di tale atto compiuto da francesi nei confronti dei loro vicini ebrei in La cliente. Assouline cerca di spiegarlo in una pagina autobiografica: dopo molte letture romanzate e storiche incontra l’Histoire de Vichy di Robert Aron e la densità e l’intensità degli anni d’Occupazione mi colpirono più di ogni altra cosa: soprattutto l’idea secondo la quale questo era uno dei rari periodi che permettevano a ciascuno di trasformare la propria vita in destino. Sembrava che non fosse successo molto nel secolo prima e dopo, come per meglio permettere alla storia di concentrarsi in maniera inedita in un istante folgorante, oscuro e enigmatico. Ho letto il libro dalla prima all’ultima riga prima di commentarne i passaggi più ambigui con mio padre. Fu così che gli annunciai la mia intenzione di intraprendere non degli studi di legge come previsto, ma degli studi di storia. Da allora, ebbi la curiosa sensazione di essere nato nel 1940 e di essere morto nel 194555. 6. Affaires, processi e sindromi Nulla di tutto quanto appena descritto per la Francia ritroviamo, appunto, in Italia: la letteratura, il pubblico, il mercato editoriale non sembrano interessati alla Resistenza e neppure al complesso capitolo della «guerra civile» e di Salò (almeno editorialmente sino ai fortunati libri di Pansa). Nessuno scrittore di «seconda generazione» si cimenta né sperimenta come Modiano o Assouline un nuovo genere letterario. Nessun libro, come quello di Paxton, spezza il silenzio 54 Sull’opera di Modiano cfr. Paradigms of Memory. The occupation and other Hi/stories in the Novels of Patrick Modiano, a cura di M. Guyot-Bender e B.W. Vanderwolk, New York 1998. 55 P. Assouline, Le fleuve Combelle, Paris 1997, pp. 154-5. 110 Filo rosso Dogliani, Memoria e storia pubblica 111 su Salò. Qui ritroviamo invece un altro duplice fenomeno che si rivela negli anni ottanta. L’inizio di ricostruzione storica e memorialistica sulla Repubblica sociale italiana da parte delle due parti un tempo in lotta tra loro, grazie a due istituti contrapposti per tradizione e convinzioni ideali: la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (fondata dall’ex partigiano delle formazioni Garibaldi Micheletti) nata nel 1981, che in qualche maniera colma il vuoto sul tema lasciato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione di Milano (pur con esso collaborando) e si occupa della raccolta documentaria e dei primi studi e convegni su Salò, grazie anche alla realizzazione di Annali; e l’Istituto storico della Rsi costituito nel 1986 nella provincia di Arezzo, voluto da ex appartenenti alla Rsi stessa con lo scopo di «conservare e trasmettere la storia della Rsi e di attivare onoranze per i caduti e i dispersi delle Forze armate e per le vittime civili»56. Solo alla fine degli anni novanta, con i libri di Luigi Ganapini e di Dianella Gagliani, escono le prime opere mature sulla storia della Rsi e dei suoi apparati civili e militari. Sono piuttosto gli scrittori di «prima generazione» che riprendono il filo della memoria sulle vicende della seconda guerra mondiale e della Resistenza, e ne costituiscono in una qualche maniera un genere letterario basato per l’appunto essenzialmente sulla memoria. Citiamo solo tre autori di rilievo, due reduci dalla tragica campagna di Russia della quale avevano già scritto negli anni cinquanta e sessanta, Nuto Revelli (classe 1919) e Mario Rigoni Stern (classe 1921), e una donna partigiana ex deportata a Ravensbrück, Lidia Beccarla Rolfi (classe 1925). Nuto Revelli avvia un genere tutto particolare di raccolta orale ed epistolare nel 1971 con L’ultimo fronte della campagna in Russia; ma sono forse i suoi ultimi libri d’inchiesta e di ricostruzione del passato resistenziale che meglio testimoniano l’elaborazione letteraria e memoriale: Il disperso di Marburg (Torino 1994) e Il prete giusto (Torino 1998), tutti pubblicati da Einaudi. Rigoni Stern con Le stagioni di Giacomo (Torino 1995) e soprattutto con L’ultima partita a carte (Torino 2002) riesce a coniugare memorie personali, letteratura e un discorso nuovo diretto, diversamente dal suo primo Il sergente nella neve (Torino 1953), a generazioni che fascismo e guerra non hanno vissu- to, insistendo, come d’altronde Revelli, sulla scelta prima di tutto morale, dopo le prove della guerra fascista, che li conduce alla Resistenza. Uno tra i più bei libri sulla liberazione dei campi di sterminio e soprattutto sul difficile ritorno ed integrazione in patria (tra i primi a parlare interamente dell’esperienza italiana, se escludiamo i diversi accenni fatti da Primo Levi) è a mio parere quello scritto nei suoi ultimi anni di vita da Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria, 1945: un drammatico ritorno alla libertà (Torino 1996)57. In Francia, gli anni ottanta e la prima metà dei novanta, che vengono a coincidere singolarmente con i due settennati presidenziali di Mitterrand e con la sinistra al governo, da sola o in coabitazione, sono attraversati da una complessità di eventi, di «affari», di processi a persone e a memorie dimenticate, in un tentativo di prendere atto e di superare il passato. Contemporaneamente, lo abbiamo già accennato, la ricerca storica, arricchitasi di giovani storici distaccati da quelle che Pierre Nora, il principale studioso della memoria francese del Novecento, aveva chiamato «le due ali marcianti uscite dalla Resistenza», la gaullista appunto e la comunista, produce opere scientifiche di buon livello che tentano approfondimenti locali, quadri d’insieme e in definitiva di dare riposte storiografiche distaccate in un contesto che registra miti infranti, polemiche, rese di conti e soprattutto memorie che chiedono voce e legittimità dopo anni di silenzio. Tre sono i temi portanti e al centro del dibattito pubblico: Vichy, o almeno il rapporto intercorso tra la Francia e la storia di Vichy; il collaborazionismo con il nazismo, l’antisemitismo e il destino degli ebrei francesi o accolti in Francia negli anni della guerra. Nessun mito rimane integro, a partire da Jean Moulin, l’inconnu du Panthéon, come lo definiva Daniel Cordier nel dedicargli almeno dieci anni di studio (e quattro volumi ad esso consacrati, tra il 1989 e il 1993, edizioni J.-C. Lattès e Gallimard), nel tentativo di ricostruire la vita di colui che era stato il delegato della France combattante sul suolo metropolitano dal 1942, il primo presidente del Cnr, Consiglio nazionale della Resistenza, e che era morto sotto tortura nel luglio 1943. Il Moulin finalmente riconosciuto dalla storiografia diviene improvvisamente, nel 1993, uno sconosciuto dalla storia perché viene accusato da parte del pubbli- 56 Si veda sulla loro storia rispettivamente per il primo di P.P. Poggio e per il secondo di M. Di Giovanni sempre nel secondo volume a cura di Pavone, Storia d’Italia nel secolo ventesimo c i t ., pp. 163-8 e 169-72. 57 Su questo come su altri testi di «letteratura del ritorno» rinvio al capitolo Memoria e rappresentazione della Shoah in Europa, in Dogliani, Tra guerra e pace cit., pp. 193-222. 112 Filo rosso cista Thierry Walton (nel libro Le grand recrutement, Grasset editore), sulla base di presunte carte provenienti da Mosca, di essere un doppiogiochista, un «agente di Mosca» sin dagli anni trenta quando ricopriva la funzione di prefetto della Terza Repubblica. In sua difesa si schierano in molti, tra questi lo storico antichista Pierre Vidal-Naquet che in quegli anni si interessava già alla memoria francese in particolare relativa all’Olocausto58. Al di là dei tanti dibattiti e delle tante provocazioni, la questione principale rimaneva una: il livello di collaborazione che l’amministrazione francese (e quindi i funzionari di Vichy, ma anche quelli operanti direttamente sotto comando tedesco prima e dopo il novembre 1942), e la stessa popolazione francese avevano concessa all’occupante tedesco, non solo nolenti ma anche condividendo in tutto o in parte il progetto nazista, in particolare per quanto riguardava l’individuazione, la cattura e la deportazione degli ebrei. Il nucleo duro rimaneva e rimane ancora, nel dibattito pubblico, l’antisemitismo in Francia e in ultima istanza la Shoah. Tutto ciò in un clima nel quale il «negazionismo» prendeva piede in Francia. Abbiamo già ricordato che il rifiuto di accettare che il Terzo Reich e i suoi alleati militari ed ideologici europei avessero proceduto ad una operazione sistematica di genocidio degli ebrei risale in molti Paesi alla fine della guerra (in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, nella stessa Italia) in una generale indifferenza e dimenticanza dell’Olocausto che coinvolse non solo i Paesi occidentali riemersi dalla guerra (in Europa nelle Americhe) ma anche Israele59. Va l érie Igounet sottolinea che il termine negationisme sembra apparire in Francia solo nel 1967; sono quelli gli anni in cui fa pratica Robert Faurisson, il membro più rappresentativo della seconda generazione e tra i fondatori di una «ufficiale scuola negazionista» che mette le sue radici a Lione. Faurisson, classe 1929, compie, come altri, una visita ad Auschwitz alla ricerca di prove che gli consentano di asserire che le camere a gas non sono mai esistite, e sviluppa e diffonde le sue tesi all’inizio degli anni settanta. Esse cominciano a trovare ascolto alla fine di quel decennio non solo nell’estrema destra filonazista ed eversiva, in parte sfociata come lo stesso 58 Cfr. Les dossiers de Golias, Les faussaires de l’Histoire. Lyon, capitale du négationnisme, a cura di C. Terras, Villeurbanne 1999; P. Vidal-Naquet, Le trait empoisonné. Réflections sur l’affaire Jean Moulin, Paris 1993. 59 Si veda ancora Dogliani, Tra guerra e pace cit., pp. 133-66. Dogliani, Memoria e storia pubblica 113 Faurisson nel Front national di Le Pen, ma anche in una nuova generazione (la quarta nel nostro computo) proveniente dall’estrema sinistra post-sessantottina, con posizioni antisemite, antisioniste ed anticomuniste. In uno slittamento del discorso che era passato attraverso il terzomondismo e il sostegno legittimo ai movimenti di liberazione dei popoli nei quali si erano inserite le rivendicazioni della nascita di uno Stato palestinese, Israele viene assimilata allo Stato nazista e la sua azione nei confronti dei palestinesi (in Israele come nei campi profughi del Libano e del Medio Oriente) ad un’opera di genocidio. I negazionisti di destra trovano a partire dal 1986-87 insperati, sino a quel momento, alleati e sostenitori. Gli anni 1985-87 sono di svolta. Nel 1985, in piena epoca Mitterrand, Claude Lanzmann fa uscire sui grandi schermi francesi, in due parti, il suo lungo film documentario Shoah sul genocidio degli ebrei in tutta Europa che scuote l’opinione pubblica francese ed anche mette in crisi i rapporti diplomatici della Francia con Paesi quali la Polonia ancora comunista, ma sempre più apertamente cattolica e interessata dal fenomeno Solidarnośc´, sostenendo la tesi di una collaborazione d’interessi tra popolazioni locali e occupanti nazisti nell’eliminazione delle comunità ebraiche. Nel 1987 esce sugli schermi un altro film di Louis Malle: Au revoir les enfants (e riceve il «Leone d’oro» al festival di Venezia); esso rievoca in termini di finzione un episodio effettivamente avvenuto: la deportazione di 41 bambini ebrei d’età oscillante tra i 3 e i 13 anni (e di cinque adulti) da un luogo, non lontano da Lione, dove erano stati nascosti da una comunità cattolica. Questo episodio insieme ad altri due resero possibile portare a giudizio per «crimini contro l’umanità», cioè per crimini che mai cadono in prescrizione, Klaus Barbie, l’ufficiale SS (classe 1913) che tra il novembre 1942 e l’agosto 1944, a capo della sezione IV nella città di Lione e nella regione circostante, si occupava di repressione della Resistenza e della «questione ebraica». Fu chiamato il «boia di Lione» perché fu calcolato che sotto il suo comando erano state uccise più di quattromila persone (tra le quali anche Jean Moulin), arrestate e torturate più di quattordicimila e deportati almeno 7.581 ebrei verso i campi di sterminio. Egli era stato identificato in Bolivia nel 1983 dai due «cacciatori di criminali nazisti» più conosciuti in Francia, i coniugi francesi ebrei Serge e Beate Klarsfeld, e dopo lunghe trattative estradato appunto nel 1987 in Francia per essere processato. La 114 Filo rosso ricerca, l’imputazione e condanna di Barbie erano stati aiutati anche da un film documentario (di 267 min.) prodotto ancora da Marcel Ophuls, uscito sugli schermi nel 1988: Hôtel Terminus, Vita e tempi di Klaus Barbie. Il processo, come altrove ho più lungamente descritto (e sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro in articoli di cronaca, saggi e libri), durò otto settimane e fu un evento per l’opinione pubblica francese e per gli storici. Ebbe soprattutto risvolti inaspettati perché Barbie subì un processo che poteva divenire per l’opinione pubblica francese un espediente per scagionare il collaborazionismo francese facendo ricadere ancora una volta tutte le responsabilità dell’Olocausto su esecutori nazisti come Barbie (in piccola scala un professionista della «soluzione finale» come era stato il suo superiore Adolf Eichmann, processato a Gerusalemme nel 1961). Il processo divenne teatro invece di una duplice condanna dei francesi e della Francia: dei molti francesi che durante l’occupazione avevano collaborato o semplicemente erano rimasti impassibili di fronte alla tragedia dei loro vicini di casa ebrei, e della Francia non solo vichynista ma anche retta da sistemi repubblicani democratici. La difesa di Barbie era stata infatti assunta dall’avvocato Jacques Vergès, terzomondista, d’origine franco-indocinese, coadiuvato da un collega africano e da un collega d’origine algerina. Essi nella difesa tesero a controaccusare la Francia ed altri Paesi, principalmente Israele e gli Stati Uniti, dove si erano svolti o si dovevano svolgere processi contro criminali nazisti, con una semplice ma efficace tesi che partiva dal negare all’Olocausto la natura di eccezionalità per inserirlo nella schiera dei tanti crimini contro l’umanità e dei tanti genocidi. Non si negava quindi la Shoah, essa era considerata un caso storico tra i tanti di razzismo e di genocidio dell’epoca contemporanea, che erano avvenuti prima ed anche dopo il 1945. Pertanto, sosteneva la difesa, quale diritto aveva un sistema giudiziario nazionale di isolare un solo caso senza sottoporne altri ad altrettanto giudizio? In breve, come poteva la Francia condannare Barbie quando non aveva ancora preso in esame quanto essa aveva fatto (in uccisioni, torture, imprigionamenti) nelle sue colonie, in Indocina e soprattutto in Algeria? Analogo discorso poteva essere rivolto agli Stati Uniti per quanto avevano fatto in Vietnam e ad Israele per quanto stava facendo nei confronti dei palestinesi. Il processo si concluse con una condanna di Barbie all’ergastolo, e produsse effetti di lunga durata, che in parte persi- Dogliani, Memoria e storia pubblica 115 stono ancora oggi60. Gli anni ottanta avevano definitivamente infranto il mito della Francia resistente imponendo un senso di colpa collettiva per la collaborazione voluta o subita da persone e da istituzioni nella Francia 1940-44 e soprattutto per la Shoah. Nei riguardi del ricordo della deportazione, prima la collettività ebraica, poi le istituzioni della Quinta Repubblica, poi ancora le due insieme cominciarono ad attivarsi. Si creano centri e luoghi di memoria, monumenti. Nel 1988 viene costituita l’associazione che dà vita alla MaisonMémorial d’Izieu. Nella casa collegio in località Izieu erano stati nascosti i bambini poi catturati e deportati da Barbie. Altri luoghi divengono a loro volta luoghi contesi e contraddittori di memorie e restituiti ad una memoria nazionale con molto travaglio e dopo una serie di processi legali e di processi alla storia; è il caso del menzionato villaggio di Oradour-sur-Glane (ricordato già negli anni cinquanta dalla stampa italiana come la «Marzabotto francese»). Dopo il 1954 si aprì un drammatico contenzioso tra il villaggio e lo Stato francese sia sulla mancata estradizione dalla Germania, per comparire davanti al tribunale di Bordeaux nel gennaio 1953, degli ufficiali comandanti i reparti che eseguirono il massacro, giustificata da una legge approvata dallo Stato francese, sia a causa della successiva amnistia concessa nel 1954 a 13 su 20 condannati come esecutori della strage in quanto malgré-nous, soldati d’origine alsaziana che vestivano la divisa tedesca. La popolazione locale e soprattutto i familiari dei caduti rifiutarono di conseguenza la presenza ufficiale dello Stato nelle cerimonie di commemorazione e nella costruzione di un ossario-luogo di rimembranza. Solo dopo aver perso parte del suo impatto emotivo, grazie alla ripresa dei rapporti locali con la Germania riunificata e con amministratori dell’Alsazia e Lorena, oltre che per la scomparsa di diversi sopravvissuti alla strage, anche il rapporto tra Stato francese e Oradour riprese negli anni novanta e si consolidò con l’inaugurazione di un Centro della memoria nel 1999, trovando come elemento comune una memoria europea di conciliazione dopo la seconda guerra mondiale, nell’ambito soprattutto della filiera delle città martiri61. 60 In quegli anni uscivano il libro di H. Rousso, La Syndrome de Vichy, Paris 1989 e successivamente con il giornalista E. Conan, Vichy un passé qui ne passe pas, Paris 1994. 61 Si vedano in proposito la ricostruzione fatta dall’americana S. Farmer, Oradour arrêt sur mémoire, Paris 1994 e J.-J. Fouché, Oradour: la politique de la justice, Saint-Paul 2004. 116 Filo rosso Molti centri di documentazione ed esposizioni-musei dedicati della Resistenza nati negli anni sessanta (a Grenoble, Lione, Besançon, nell’area di Parigi) ampliano le sezioni storico-museali e didattiche dedicate al tema dell’antisemitismo e della Shoah in Francia. Nell’ottobre 1992 viene ad esempio inaugurato il Centre d’Histoire de la Résistance et de la déportation di Lione nei locali restaurati della Scuola di medicina militare dove la Gestapo aveva posto il suo quartiere generale nel 1943-44. Vengono riconosciuti, studiati e riadattati a visita alcuni luoghi che avevano visto la presenza di campi di concentramento e di smistamento: Struthof in Alsazia (analizzato recentemente da Robert Steegmann) 62, Drancy e il Vélodrome d’Hiver nell’area parigina. È stato appurato che dal campo di Drancy, nella banlieue nord e operaia di Parigi, passarono più di settanta convogli di deportati diretti ad est, ai campi di sterminio tedeschi e polacchi, circa 67.000 persone delle 75.000 deportate dalla Francia, e di questi 17.000 adulti di cittadinanza francese (la metà di recente naturalizzazione) e ben 7.000 loro figli63. Il luogo viene riconosciuto ufficialmente luogo di memoria solo alla metà degli anni ottanta, dopo che Serge Klarsfeld aveva ricostruito in quattro volumi (apparsi tra il 1983 e il 2001) gli eventi e soprattutto i nomi delle vittime della Shoah in Francia. Klarsfeld aveva iniziato negli anni settanta (il primo suo lavoro di censimento pubblicato è del 1978) il delicato e complesso lavoro di identificazione dei deportati dalla Francia e da tempo, come abbiamo visto con Barbie, era impegnato nel rintracciare nel mondo ex nazisti che si erano macchiati di crimini in Francia; nel 1991 aveva rinvenuto intatto, e secondo la sua versione da molti condivisa, deliberatamente nascosto nei locali del segretariato di Stato agli ex combattenti, lo schedario di censimento degli ebrei francesi, in maggioranza residenti nella regione parigina. Questo schedario è oggi visibile all’interno del Mémorial du martyr juif inconnu, inaugurato il 30 ottobre 1956, nei cui locali era stato annesso il Centre de documentation juive contemporaine, rinnovato ed ampliato più volte e divenuto nel gennaio 2005 Mémorial de la Shoah. Musée, Centre de documentation juive contemporaine. Appare evidente che la memoria della Resistenza e dei tanti episodi legati all’occupazione tedesca, in particolare la R. Steegmann, Struthof. La nuée Bleue, Strasbourg 2005. M. Rajsfus, Drancy. Un camp de concentration très ordinaire, 1941-1944, Paris 1996. 62 63 Dogliani, Memoria e storia pubblica 117 deportazione, sia stata veicolata in Francia a partire essenzialmente dagli anni ottanta attraverso la realizzazione di musei. Oggi essi sono una settantina, di diversa importanza e grandezza, distribuiti sul territorio nazionale e corrispondono al raggiungimento di un compromesso tra storia pubblica nazionale e memorie che si erano moltiplicate e contese nel tempo, tra comunità locali e comunità religiose e gruppi di reduci, da un lato, e lo Stato centrale dall’altro; inoltre si trovano nelle diverse città che si consideravano «capitali» della Resistenza: Parigi, Grenoble, Lione, Tolosa ecc. Molto diversa invece la situazione italiana che non ha saputo esprimere un Museo nazionale della Resistenza, a Roma come a Milano, ma che ha invece visto moltiplicarsi senza coordinamento memoriale diversi musei locali, da quello oramai «modello» di Torino, alla rete dei musei dell’Emilia-Romagna che conserva musei e memoriali significativi a livello nazionale, come il Museo nazionale del deportato a Carpi, inaugurato nel 1973, Casa Cervi a Gattatico di Reggio Emilia divenuta museo nel 1975 oppure l’area commemorativa e museale e della scuola della Pace di Marbotto-Monte Sole sviluppatasi tra gli anni sessanta e novanta64. Per concludere il confronto, stando sempre a quanto esaminato e reso in sequenza cronologica da Focardi, la memoria della Resistenza in Italia appare essere, rispetto alla Francia, ampiamente condivisa dagli anni sessanta, allorché sembra divenire, a ridosso delle celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, un «mito di fondazione» dello Stato repubblicano. La Resistenza viene sì messa in discussione dai «figli del ’68», dalla sinistra non storica, perché considerata una occasione o una rivoluzione «mancate», ma in realtà è all’antifascismo che essi si appellano e non all’esperienza resistenziale in quanto tale, in nome di un «antifascismo esistenziale» che supera e contesta i rapporti formali della democrazia nata nel 1945. È infatti l’antifascismo in Italia che si aggettiva, in «militante», «tricolore», «rosso», «di classe», e in altro ancora, piuttosto che la Resistenza in quanto tale come in Francia65. 64 Si vedano i lavori di E. Alessandrini Perona, e in particolare La Resistenza italiana nei musei, in «Passato e presente», 45, 1998, pp. 135-48, e C. Silingardi, La Resistenza nei musei: l’esperienza dell’Emilia-Romagna, in «IBC», 2, aprile-giugno 2004, pp. 67-71. 65 Su questo aspetto cfr. Focardi, La guerra della memoria cit., pp. 48 sgg.; L. Ganapini, Antifascismo tricolore e antifascismo di classe, in «Problemi del socialismo», 7, 1986, pp. 95-195 e, per un’analisi complessiva, S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino 2004. 118 Filo rosso In definitiva la memoria resistenziale si basa, in Italia, su un grande equivoco: pensa di essere solida e inossidabile perché si basa sull’antifascismo interno e non su un mito nazionale che in Francia, grazie soprattutto ai gaullisti ma poi anche alla sinistra socialista, si consolida su valori europei ed universali. Apparentemente debole perché messa alla prova dalle grandi querelles degli anni ottanta, la memoria pubblica della seconda guerra mondiale in Francia esce rafforzata alla fine del secolo, perché oramai fortemente «condivisa» nelle sue diversità di esperienze etniche, razziali, confessionali, ideologiche e territoriali. Inoltre non entra in compromesso con la «memoria dei vinti»: le memorie della nuova destra francese sono altre, e spesso più estreme di quelle italiane nel tasso di antisemitismo e xenofobia espressi, e pertanto mai integrabili in un processo di pacificazione come quello tentato ad esempio dall’allora presidente della Camera Luciano Violante nel marzo 1998 nell’incontro con Gianfranco Fini a Trieste, o da un presidente della Repubblica di solida tradizione antifascista come Oscar Luigi Scalfaro, quando il 4 novembre 1996 rendeva omaggio ai caduti «di tutte le parti belligeranti», e quindi anche di Salò. Con la crisi dell’antifascismo entra pertanto in crisi a livello nazionale anche la memoria pubblica della Resistenza, lasciando soprattutto all’ultimo presidente della Repubblica del secolo scorso, Carlo Azeglio Ciampi, eletto nel 1999, il difficile compito di operare all’inverso rispetto a quanto era stato condotto sino a quel momento. Viene adottato, se vogliamo forzare il confronto, un «sistema francese» di nazionalizzazione della Resistenza trasformandola in un «patriottismo costituzionale» e in esso vengono inseriti soggetti rimasti ai margini della memoria costruita dai partiti antifascisti, come l’esercito in rotta, ma anche primo «resistente» a Cefalonia, e le diverse resistenze civili delle comunità locali, dal presidente ampiamente riconosciute con medaglie al valore in occasione delle cerimonie per il 25 aprile al Quirinale. Resistenza al plurale quindi che integra come prima non aveva fatto la memoria essenzialmente partigiana, la «Resistenza silenziosa delle gente» e la «Resistenza dolorosa dei prigionieri nei campi di concentramento, di chi si rifiutò di collaborare» (seguendo le parole di Ciampi stesso). In questa ampia operazione sembrano confluire diverse generazioni e soprattutto scuole di pensiero laico e cattolico che riflettono sulla patria, da Pietro Scoppola e Maurizio Viroli. In tal senso l’operazione Ciampi Dogliani, Memoria e storia pubblica 119 trascende l’ambito nazionale, rappresenta un momento cruciale di lotta per la democrazia e la libertà che accomuna l’Italia e gli italiani agli altri popoli d’Europa. In concomitanza con l’avvicinarsi di passaggi fondamentali del processo di unificazione europea […] il presidente ha accentuato i suoi riferimenti all’Europa, legando assieme in maniera sempre più stretta Risorgimento-Resistenza-Repubblica italiana-Unione europea66. Sembra un orizzonte più ampio di quello adottato dagli anni settanta-ottanta dai presidenti francesi in vista di un asse essenzialmente franco-tedesco alla guida dell’Europa. Potremmo ripartire da queste ultime riflessioni per approfondire il caso italiano in un contesto comparato sempre più europeo. 66 Focardi, La guerra della memoria cit., p. 105.