La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -‐ ISSN 2282-‐3808

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 La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 1 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale N.8 – Settembre 2015 ISSN 2282-­‐3808 Direttore responsabile: Alfonso Marino Redazione: Carlo Verdino Luogo di pubblicazione: Napoli/Italia -­‐ Editore e proprietà: Associazione Transeuropa Piazza Carolina 10, 80132 Napoli (IT) Presidente: Marcello Chessa INDICE Lello Lopez. Italian Style – Ibraim ………….…………………………….………... pag. 3 Samir Amin. La traiettoria del capitalismo storico e la vocazione tricontinentale del marxismo ……………………..…….….……….……….…....... pag. 4 Pasquale Stanziale. Soggetti, media e godimenti nell’età del biocapitalismo………..………………….…………………………….…..……………….......... pag. 16 Damiano Palano. L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser ................ pag. 41 Lello Lopez. Alcune foto tratte da: Italian Style ........................................ pag. 43 2 Italian Style di Lello Lopez Questo progetto nasce da una riflessione su un breve racconto che scrissi nel 2005 su un venditore ambulante di nome Ibrahim, che incontrai per caso, e che m’incantò col suo italiano. Materialmente è costituito da trenta collage e tecnica mista su fotografie realizzati nel 2013 di cm25x35 circa. Ibrahim Gira instancabile tra il bar, l’emporio-­‐tabacchi e la macelleria cercando di vendere la sua merce. Le persone, non molto interessate alla qualità della mercanzia, si dedicano soprattutto a fissarlo. Non comprano niente ma in compenso non smettono di guardarlo. Lo trovano simpatico e persino originale: mette allegria quando si avvicina, e non infastidisce più di tanto. Sembra quasi ammaestrato e poi, quando giocano a carte, in quella saletta maleodorante, lui non vi mette piede: sa bene che non lo vogliono troppo intorno. Opportunamente si adegua, anche se vorrebbe raccontare che viene da un paese bellissimo, che è istruito (più di loro), che è quasi laureato in ingegneria e che, se non avesse avuto i fratelli piccoli da mantenere, ora starebbe in Africa, a vivere un altro tempo e un’altra storia. Quando è stanco si siede nel giardinetto di palme di fronte al bar. E pensa lontano. Un giorno le nuvole passavano veloci sul caseggiato e una fastidiosa polvere si sollevava con insistenza. Le solite voci precedevano l’arrivo del bus che riportava a casa gli uomini. Osservava incantato le piante piegarsi con gentilezza. C’erano i fratelli, gli animali, le grasse zie, il nonno con la pipa. E i soldati. E pensa lontano. Lontano c’è un muro squarciato e le piante rosse che spuntano dal cuore di sua madre. (Foto di copertina e altre foto alla fine del volume) L’intera gallery è visibile all’indirizzo http://www.lasinistrarivista.org/ La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 3 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino La traiettoria del capitalismo storico e la vocazione tricontinentale del marxismo di Samir Amin Samir Amin è direttore del Terzo World Forum a Dakar, Senegal. I suoi libri pubblicati da Monthly Review sono The Liberal Virus, The World We Wish to See, The Law of Worldwide Value, and, most recently, The Implosion of Contemporary Capitalism. da Monthly Review, Volume 62, Numero 09 Febbraio 2011 La lunga ascesa del capitalismo La lunga storia del capitalismo si compone di tre fasi distinte e successive: (1) una lunga preparazione -­‐ la transizione dal modo tributario [*], la forma consueta di organizzazione delle società pre-­‐moderne -­‐ che durò otto secoli, dal 1000 al 1800; (2) un breve periodo di maturità (XIX secolo), durante il quale l’ “Occidente” ha affermato il proprio dominio, (3) il lungo “declino” causato dal “Risveglio del Sud” (per usare il titolo del mio libro, pubblicato nel 2007) in cui i popoli ed i loro Stati hanno riguadagnato l’iniziativa nella trasformazione del mondo e la cui prima ondata ha avuto luogo nel XX secolo. Questa lotta contro un ordine imperialista, che è inseparabile dalla espansione globale del capitalismo, è di per sé il potenziale fattore operante nel lungo cammino di transizione, oltre il capitalismo, verso il socialismo. Nel XXI secolo, assistiamo ora agli inizi di una seconda ondata di iniziative indipendenti da parte dei popoli e degli Stati del Sud. Le contraddizioni interne che erano caratteristiche di tutte le società avanzate nel mondo pre-­‐
moderno -­‐ e non solo quelle specifiche dell’Europa “feudale” -­‐ spiegano quelle successive ondate di innovazione socio-­‐tecnologica che avrebbero costituito la modernità capitalistica. L’ ondata più antica è giunta dalla Cina, dove i cambiamenti cominciarono nell’era Sung (XI secolo) con ulteriori sviluppi nelle epoche Ming e Qing, che diedero alla Cina un vantaggio in termini di creatività tecnologica e produttività sociale del lavoro collettivo -­‐ che l’Europa non supererà fino al XIX secolo. L’onda “cinese” doveva essere seguita da una “mediorientale”, che ha avuto luogo nel califfato arabo-­‐persiano e poi, attraverso le Crociate e le loro conseguenze, nelle città dell’Italia. L’ultima ondata riguarda la lunga transizione dell’antico mondo tributario a quello capitalista moderno. Questo è iniziato in modo esplicito nella parte atlantica dell’Europa in seguito alla conquista/scoperta delle Americhe, e per tre secoli (1500-­‐
1800) ha preso la forma del mercantilismo. Il capitalismo, che gradualmente è giunto a dominare il mondo, è il prodotto di quest’ultima ondata di innovazione socio-­‐tecnologica. La forma europea (“occidentale”) di capitalismo storico che è emersa nell’Europa centrale e atlantica, nella sua derivazione statunitense e, più tardi, in Giappone, ha sviluppato le proprie caratteristiche, in particolare un modo di accumulazione basato sulla spoliazione, in primo luogo, dei contadini e dei popoli delle periferie, che sono stati integrati come dipendenti nel quadro del suo sistema globale. Questa forma storica è dunque inseparabile dalla contraddizione centro/periferia, che essa crea all’infinito, riproducendola e approfondendola. 4 Il capitalismo storico ha assunto la sua forma definitiva alla fine del XVIII secolo con la Rivoluzione industriale inglese che ha inventato la nuova “industria meccanizzata” (insieme con la creazione del nuovo proletariato industriale) e la Rivoluzione francese che ha dato luogo alla politica moderna. Il capitalismo maturo si è sviluppato nel corso del breve periodo che ha segnato l’apogeo di questo sistema nel XIX secolo. L’accumulazione di capitale poi ha preso la sua forma definitiva diventando legge fondamentale che governa la società. Fin dall’inizio, questa forma di accumulazione è stata sia costruttiva (ha consentito una prodigiosa e continua accelerazione della produttività del lavoro sociale) che, allo stesso tempo, distruttiva. Marx osservò che l’accumulazione distrugge le due basi della ricchezza: l’essere umano (vittima dell’alienazione della merce) e la natura. Nella mia analisi del capitalismo storico ho sottolineato in particolare una terza dimensione della distruttività dell’accumulazione: l’espropriazione materiale e culturale dei popoli dominati della periferia, che Marx ha in qualche modo trascurato. Non ci sono dubbi in questo senso perché, nel breve periodo in cui Marx stava concependo le sue opere, l’Europa sembrava quasi esclusivamente dedicata alle esigenze di accumulazione interna. Marx così circoscrisse questa espropriazione a una fase temporanea di “accumulazione primitiva” che io, al contrario, ho descritto come permanente. Resta il fatto che durante il suo breve periodo di maturità, il capitalismo ha innegabilmente assolto funzioni progressive. Ha creato le condizioni che hanno reso possibile e necessario il suo superamento da parte del socialismo/comunismo, sia sul piano materiale che su quello della nuova coscienza politica e culturale che lo accompagnava. Il socialismo (e ancora di più, il comunismo) non va concepito, come alcuni hanno pensato, come un superiore “modo di produzione” perché capace di accelerare lo sviluppo delle forze produttive e di associarle a una “equa” distribuzione del reddito. Il socialismo è qualcosa d’altro ancora: un superiore stadio di sviluppo della civiltà umana. Non è dunque un caso che il movimento operaio abbia messo radici nella popolazione sfruttata e impegnata nella lotta per il socialismo, come verificatosi nell’Europa del XIX secolo e spiegato nel Manifesto del Partito Comunista del 1848. Né è un caso che questo scontro abbia preso la forma della prima rivoluzione socialista della storia: la Comune di Parigi del 1871. Capitalismo monopolistico: l’inizio del lungo declino Alla fine del XIX secolo, il capitalismo è entrato nel suo lungo periodo di declino. Voglio dire con questo che la dimensione distruttiva dell’accumulazione ha prevalso, con ritmo crescente, sulla sua dimensione progressiva costruttiva. Questa trasformazione qualitativa del capitalismo ha preso forma con la costituzione di nuovi monopoli di produzione (non più solo nei settori del commercio e della conquista coloniale, come nel periodo mercantilista) alla fine del XIX secolo. Ciò avveniva in risposta alla prima lunga crisi strutturale del capitalismo iniziata nel decennio 1870, poco dopo la sconfitta della Comune di Parigi. L’emergere del capitalismo monopolistico (come superbamente evidenziato da Hilferding e Hobson) ha dimostrato che il capitalismo classico, il capitalismo della libera concorrenza aveva, di per se stesso, “fatto il suo tempo” ed era diventato “obsoleto”. Suonò la campana della necessaria e possibile espropriazione degli espropriatori. Questo declino ha trovato la sua espressione nella prima ondata di guerre e rivoluzioni che hanno segnato la storia del XX secolo. Lenin aveva quindi ragione nel descrivere il capitalismo monopolistico come la “fase suprema del capitalismo”. Ma Lenin pensava, ottimisticamente, che questa prima lunga crisi sarebbe stata l’ultima, con la rivoluzione socialista all’ordine del giorno. La storia ha poi dimostrato che il capitalismo era in grado di superare questa crisi, al costo di due guerre mondiali, ed è stato anche in grado di adattarsi alla sconfitta inflittale dalle La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 5 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino rivoluzioni russa e cinese e da quelle di liberazione nazionale in Asia e in Africa. Ma dopo il breve periodo di rinascita del monopolio capitalista (1945-­‐1975), seguì una seconda, lunga crisi strutturale del sistema, a partire dal 1970. Il capitale reagì a questa rinnovata sfida per mezzo di una trasformazione qualitativamente nuova che prese la forma di quello che ho descritto come “capitalismo monopolistico generalizzato”. Una serie di domande importanti scaturiscono da questa interpretazione del “lungo declino” del capitalismo, che riguardano la natura della “rivoluzione” che era all’ordine del giorno. Potrebbe il “lungo declino” del capitalismo monopolistico storico essere sinonimo di una “lunga transizione” al socialismo/comunismo? A quali condizioni? Dal 1500 (inizio della forma mercantilistica atlantica della transizione al capitalismo maturo) al 1900 (inizio della sfida alla logica unilaterale di accumulazione), gli occidentali (europei, nordamericani e più tardi giapponesi) sono rimasti i padroni del gioco. Solo loro diedero forma alle strutture del nuovo mondo del capitalismo storico. I popoli e le nazioni della periferia, che erano state conquistate e dominate hanno ovviamente resistito come meglio potevano, ma alla fine sono state sempre sconfitte e costrette ad adeguarsi al loro status subordinato. La dominazione del mondo euro-­‐atlantico è stata accompagnata dalla sua esplosione demografica: gli europei, che costituivano il 18% della popolazione del pianeta nel 1500, passavano al 36% nel 1900 – aumento costituito dai discendenti degli emigrati verso le Americhe e l’Australia. Senza questa massiccia emigrazione, il modello di accumulazione del capitalismo storico, basato sulla scomparsa accelerata del mondo contadino, sarebbe stato semplicemente impossibile. Ecco perché il modello non può essere riprodotto nelle periferie del sistema, che non hanno “Americhe” da conquistare. “Rimettersi al passo” col sistema è impossibile, i popoli delle periferie non hanno altra possibilità che optare per un percorso di sviluppo diverso. L’iniziativa passa ai popoli e alle nazioni della periferia Nel 1871 la Comune di Parigi che, come detto, è stata la prima rivoluzione socialista, fu anche l’ultima a svolgersi in un paese che era parte del centro capitalista. Il XX secolo ha inaugurato -­‐ con il “risveglio dei popoli delle periferie” -­‐ un nuovo capitolo nella storia. Le sue prime manifestazioni sono state le rivoluzioni in Iran (1907), in Messico (1910-­‐1920), Cina (1911), e nella “semi-­‐periferica” Russia nel 1905. Questo risveglio dei popoli e delle nazioni della periferia è stato portato avanti nella Rivoluzione del 1917, nel Rinascimento (Nahda) arabo-­‐musulmano, nella costituzione del movimento dei Giovani Turchi (1908), nella Rivoluzione egiziana del 1919 e nella formazione del Congresso indiano (1885). In reazione alla prima lunga crisi del capitalismo storico (1875-­‐1950), i popoli della periferia cominciarono a liberarsi intorno al 1914-­‐1917, mobilitandosi sotto le bandiere del socialismo (Russia, Cina, Vietnam, Cuba) o della liberazione nazionale (India, Algeria) a gradi diversi e con riforme sociali progressiste. Hanno preso la via dell’industrializzazione, fino ad allora vietata dalla dominazione del (vecchio) imperialismo “classico”, costringendo quest’ultimo ad “adattarsi” a questa prima ondata di iniziative indipendenti dei popoli, nazioni e degli stati delle periferie. Dal 1917 al tempo in cui il “progetto Bandung” (1955-­‐1980) esaurì le forze ed il sovietismo cadde nel 1990, queste sono state le iniziative che hanno dominato la scena. Non vedo le due lunghe crisi di invecchiamento del capitalismo monopolistico, in termini di lunghi cicli di Kondratieff [**], ma come due tappe sia nel declino del capitalismo globalizzato storico che nella possibile transizione al socialismo. Neppure vedo il periodo 1914-­‐1945 esclusivamente come “guerra dei 30 anni” 6 per la successione alla “egemonia britannica”. Intendo questo periodo anche come lunga guerra condotta dai centri imperialisti contro il primo risveglio delle periferie (Est e Sud). Questa prima ondata del risveglio dei popoli della periferia si è esaurito per molte ragioni, tra cui i suoi limiti e contraddizioni interne, e il successo dell’imperialismo nel trovare nuovi modi di dominare il sistema mondiale (attraverso il controllo dell’innovazione tecnologica, l’accesso alle risorse, il sistema finanziario globalizzato, le tecnologie della comunicazione e informazione, le armi di distruzione di massa). Tuttavia, il capitalismo ha subito una seconda lunga crisi, iniziata nel 1970, esattamente 100 anni dopo la prima. Le reazioni del capitale a questa crisi sono le stesse avute nella precedente: la concentrazione potenziata, che ha dato origine al capitalismo monopolistico generalizzato, la globalizzazione (“liberale”), e la finanziarizzazione. Ma il momento del trionfo -­‐ la seconda “belle époque”, dal 1990 al 2008 facendo eco alla prima del 1890-­‐1914 -­‐ del nuovo imperialismo collettivo della Triade (Stati Uniti, Europa e Giappone) è stato davvero breve. Una nuova epoca di caos, guerre e rivoluzioni è sorta. In questa situazione, la seconda ondata del risveglio dei popoli della periferia (che era già iniziata), è ora negata per consentire all’imperialismo collettivo della Triade di mantenere le proprie posizioni dominanti, se non attraverso il controllo militare del pianeta. L’establishment di Washington, dando priorità a questo obiettivo strategico, dimostra che è perfettamente consapevole dei problemi reali in gioco nelle lotte e nei conflitti decisivi della nostra epoca, in contrapposizione alla visione ingenua delle correnti occidentali in maggioranza “altermondiste”. È il capitalismo monopolistico generalizzato l’ultima fase del capitalismo? Lenin descrisse l’imperialismo dei monopoli come la “fase suprema del capitalismo”. Io ho descritto l’imperialismo come “fase permanente del capitalismo”, nel senso che il capitalismo storico globalizzato ha costruito, e mai cessa di riprodurre e rendere più profonda, la polarizzazione centro/periferia. La prima ondata di costituzione dei monopoli, alla fine del XIX secolo, certamente ha comportato una trasformazione qualitativa delle strutture fondamentali del modo di produzione capitalistico. Lenin ne ha dedotto che la rivoluzione socialista fosse all’ordine del giorno e Rosa Luxemburg riteneva che l’alternativa fosse ormai tra “socialismo o barbarie”. Lenin era certamente troppo ottimista, avendo sottostimato gli effetti devastanti della rendita imperialista -­‐ e il trasferimento ad essa associato -­‐ sulla rivoluzione da Occidente (centro) a Oriente (periferia). La seconda ondata di centralizzazione del capitale, che ha avuto luogo nell’ultimo terzo del XX secolo, costituiva una seconda trasformazione qualitativa del sistema, che ho descritto come dei “monopoli generalizzati”. Da allora in poi, non solo hanno guidato i vertici della moderna economia, ma sono anche riusciti a imporre il loro controllo diretto sull’intero sistema di produzione. Le piccole e medie imprese (e anche quelle di grandi dimensioni fuori dai monopoli), come quelle agricole, sono state letteralmente espropriate, ridotte alla condizione di sub-­‐appaltatrici, con attività a monte e a valle del ciclo produttivo, e sottoposte a rigido controllo da parte dei monopoli. In questa fase più elevata della centralizzazione del capitale, i suoi legami con un corpo organico vivente -­‐ la borghesia – sono rotti. Si tratta di un cambiamento di enorme portata: la borghesia storica, costituita da famiglie radicate localmente, ha ceduto il passo a una oligarchia/plutocrazia anonima che controlla i monopoli, nonostante la dispersione dei titoli di proprietà del loro capitale. La gamma di operazioni finanziarie inventate negli ultimi decenni testimonia questa suprema forma di alienazione: lo speculatore può vendere ciò che nemmeno possiede, in modo tale che il principio di proprietà è ridotto a uno stato poco meno che irrisorio. La funzione sociale del lavoro produttivo è scomparsa. L’alto grado di alienazione aveva già attribuito una virtù produttiva al denaro (“denaro genera denaro”). Ora l’alienazione ha raggiunto nuove vette: è tempo (“il tempo è denaro”) che la sua virtù da sola “produca profitto”. La nuova classe La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 7 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino borghese che risponde alle esigenze di riproduzione del sistema è stata ridotta al rango di “dipendenti salariati”(anche precari), anche quando sono, in quanto membri dei settori superiori delle classi medie, persone privilegiate lautamente pagate per il loro “lavoro”. Stando così le cose, non si dovrebbe concludere che il capitalismo ha fatto il suo tempo? Non c’è altra risposta possibile alla sfida: i monopoli devono essere nazionalizzati. Questo è un primo, inevitabile passo verso una possibile socializzazione della loro gestione da parte dei lavoratori e dei cittadini. Solo in questo modo sarà possibile progredire nella lunga strada verso il socialismo. Allo stesso tempo, sarà l’unico modo di sviluppare una nuova macroeconomia che ripristini un vero spazio all’operare delle piccole e medie imprese. Se questo non verrà fatto, la logica di dominio del capitale astratto non produrrà altro che il declino della democrazia e della civiltà, un “apartheid generalizzato” a livello mondiale. Vocazione tricontinentale del marxismo La mia interpretazione del capitalismo storico dà rilievo alla polarizzazione del mondo (la contraddizione centro/periferia) prodotta dalla forma storica dell’accumulazione del capitale. Questa prospettiva pone in discussione la visione della “rivoluzione socialista” e, più in generale, della transizione al socialismo sviluppata dal marxismo storico. La “rivoluzione”, o transizione , che ci attende non è necessariamente quella su cui tali visioni storiche si sono basate, né lo sono le strategie per il superamento del capitalismo stesso. Va riconosciuto che la sfida lanciata dalle più importanti lotte politiche e sociali del XX secolo è stata diretta non tanto contro il capitalismo in sé, quanto contro la dimensione imperialista permanente del capitalismo realmente esistente. La questione è dunque se questo trasferimento del centro di gravità delle lotte metta di conseguenza nuovamente in discussione il capitalismo, almeno potenzialmente. Il pensiero di Marx associa a una chiarezza “scientifica” nell’analisi della realtà, l’azione sociale e politica (la lotta di classe nel suo senso più ampio) rivolta a “cambiare il mondo”. In questa lotta, l’esame dei fondamenti, ovvero la scoperta della fonte reale del plusvalore prodotto dallo sfruttamento del lavoro sociale da parte del capitale, è indispensabile. Se questo fondamentale e lucido contributo di Marx viene abbandonato, il risultato è inevitabilmente un doppio fallimento. Qualsiasi abbandono della teoria dello sfruttamento (legge del valore) riduce l’analisi della realtà a quella della sola apparenza, un modo di pensare limitato dall’abietta sottomissione alle esigenze della mercificazione, generata essa stessa dal sistema. Allo stesso modo, un tale abbandono della critica del sistema del lavoro basato sul valore annienta l’efficacia delle strategie e delle lotte per cambiare il mondo, che sono così concepite all’interno di questo quadro alienante e le cui pretese di “scientificità” non hanno alcuna base reale. Tuttavia, non basta aggrapparsi alla lucida analisi formulata da Marx. Questo perché non soltanto la “realtà” si trasforma, includendo sempre “nuovi” elementi da considerare nello sviluppo della critica del mondo reale iniziata con Marx, ma essenzialmente perché, come è noto, le analisi che Marx discusse nel Capitale sono rimaste incompiute. Nel previsto (e mai scritto) VI volume dell’opera, Marx si ripropose di trattare la globalizzazione del capitalismo. Questo tema deve ora essere svolto da altri, motivo per cui ho osato sostenere la formulazione della “legge del valore globalizzato”, ripristinando il campo dello sviluppo ineguale (attraverso la polarizzazione centro/periferia) che è inseparabile dall’espansione globale del capitalismo storico. In questa formulazione, “la rendita imperialista” è inserita nell’intero processo di produzione e circolazione del capitale e di distribuzione del plusvalore. Tale rendita è all’origine del confronto: tiene conto del perché la lotta per il socialismo nei centri imperialisti sia sfumata, e sottolinea le dimensioni antimperialiste delle lotte nelle periferie contro il sistema della globalizzazione capitalista/imperialista. 8 Non tornerò qui a discutere di ciò che l’esegesi dei testi di Marx sulla questione suggerirebbe. Marx, che fu nientemeno che un gigante, con il suo acume critico e l’incredibile finezza del pensiero, deve aver avuto almeno un’intuizione del fatto che a questo riguardo si trovava di fronte ad un punto importante. Ciò è suggerito dalle sue osservazioni sugli effetti disastrosi dell’allineamento della classe operaia inglese sullo sciovinismo collegato allo sfruttamento coloniale dell’Irlanda. Marx non si sorprese dunque del fatto che fu la Francia -­‐ meno sviluppata economicamente dell’Inghilterra, ma più avanzata sul piano della coscienza politica – il primo paese in cui la rivoluzione socialista prese piede. Egli, come Engels, sperava inoltre che “l’arretratezza” della Germania avrebbe potuto permettere una originale forma di avanzamento del processo, fondendo insieme le rivoluzioni borghese e socialista. Lenin andò ancora oltre. Sottolineò la trasformazione qualitativa racchiusa nel passaggio al capitalismo monopolista, traendone la necessaria conclusione che il capitalismo aveva cessato di essere una necessaria fase storica progressiva ed era diventato ormai “putrefatto” (espressione di Lenin). In altre parole, era diventato “obsoleto” e “senile” (termini miei), e che dunque il passaggio al socialismo era all’ordine del giorno, passaggio sia necessario che possibile. Ha ideato e realizzato una rivoluzione che ha avuto inizio nella periferia (Russia, “l’anello debole”). Poi, vedendo frustrate le sue speranze di una rivoluzione europea, concepì il trasferimento della rivoluzione in Oriente, dove vide che la fusione degli obiettivi della lotta antimperialista con quelli della lotta contro il capitalismo era diventata possibile. Ma fu Mao a formulare rigorosamente la natura complessa e contraddittoria degli obiettivi nella transizione al socialismo che in queste condizioni andavano perseguiti. Il “marxismo” (o più esattamente il marxismo storico) si trovò di fronte a una nuova sfida, che non esisteva nel pensiero politico più cosciente del XIX secolo, ma che sorse a causa del trasferimento dell’iniziativa per la trasformazione del mondo ai popoli, nazioni e stati della periferia. La rendita imperialista non beneficiò “solamente” dei monopoli dei centri dominanti (sotto forma di superprofitti), ma fu anche la base della riproduzione della società nel suo complesso, nonostante la sua evidente struttura di classe e lo sfruttamento dei propri lavoratori. Questo è quel che Perry Anderson ha analizzato chiaramente come “marxismo occidentale”, descritto come “il prodotto della sconfitta” (l’abbandono della prospettiva socialista), e che qui ci interessa. Questo marxismo venne successivamente condannato, avendo rinunciato a “cambiare il mondo” ed essendosi impegnato negli studi “accademici” senza impatto politico. La deriva liberale della socialdemocrazia e la sua marcia verso l’ideologia statunitense del “consensus” e l’atlantismo al servizio del dominio imperialista del mondo, furono le conseguenze. “Un altro mondo” (espressione molto vaga per indicare un mondo impegnato nella lunga strada verso il socialismo) è ovviamente impossibile a meno che non si dia soluzione ai problemi dei popoli della periferia, soltanto l’80% della popolazione mondiale! “Cambiare il mondo” significa dunque cambiare le condizioni di vita di questa maggioranza. Il marxismo, che analizza la realtà del mondo al fine di rendere le forze che agiscono per il cambiamento il più efficaci possibili, guadagna necessariamente una decisa vocazione tricontinentale (Africa, Asia, America Latina). Com’è legato ciò al terreno di lotta che ci sta di fronte? Quel che mi propongo, in risposta a questa questione, è un’analisi della trasformazione del capitalismo monopolista imperialista (“senile”) nel capitalismo monopolista generalizzato (per questa ragione ancora più senile). Questa è una trasformazione qualitativa in risposta alla seconda lunga crisi del sistema iniziata negli anni 1970, e che non è ancora stata risolta. Da questa analisi traggo due conclusioni principali: (1) Il sistema imperialista si è trasformato nell’imperialismo collettivo della Triade, in risposta all’industrializzazione delle periferie imposta dalle vittorie ottenute nella prima ondata del loro “risveglio”. [2] Questo avviene assieme alla messa in campo da La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 9 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino parte del nuovo imperialismo di nuovi strumenti di controllo del sistema mondiale, basati sul controllo militare del pianeta e delle sue risorse, la super-­‐protezione del possesso esclusivo della tecnologia da parte degli oligopoli e il loro controllo sul sistema finanziario mondiale. Vi è una conseguente trasformazione delle strutture di classe del capitalismo contemporaneo che vede l’emergere di una oligarchia dominante esclusiva. Il “marxismo occidentale” ha ignorato la trasformazione decisiva rappresentata dall’emergere del capitalismo monopolista generalizzato. Gli intellettuali della nuova sinistra radicale occidentale rifiutano di considerare gli effetti decisivi della concentrazione degli oligopoli che ora dominano l’intero sistema di produzione, allo stesso modo in cui dominano la vita politica, sociale, culturale e ideologica. Avendo eliminato il termine “socialismo” (e, a fortiori, “comunismo”) dal loro linguaggio, non riescono più a figurarsi la necessaria espropriazione degli espropriatori, ma solo un impossibile “altro capitalismo” che loro chiamano dal “volto umano”. La deriva dei discorsi “post” (post-­‐modernismo, post-­‐marxismo, ecc.) è una conseguenza inevitabile. Negri ad esempio, non dice una parola riguardo a questa trasformazione decisiva che, a mio avviso, sta alla base delle questioni del nostro tempo. Il neolinguaggio di queste folli farneticazioni andrebbe inteso nel senso letterale del termine, ovvero come un illusorio immaginario del tutto slegato dalla realtà. In francese, le peuple (e meglio ancora les classes populaires), come nello spagnolo el pueblo (los clases populares), non è sinonimo di “tutti”. Si riferisce alle classi dominate e sfruttate e rimanda quindi anche alla loro diversità (nel rapporto che queste hanno con il capitale), il che rende possibile l’effettiva realizzazione di strategie concrete e di trasformarli in agenti attivi del cambiamento. Questo è in contrasto con l’equivalente inglese: people non ha questo significato, essendo sinonimo di les gens (tutti) e, in spagnolo, la gente. Il neolinguaggio non riconosce questi concetti (indicati dal marxismo e formulati in francese o spagnolo) sostituendoli con termini vaghi come la “moltitudine” di Negri. E’ un delirio filosofico attribuire a questa parola (che nulla aggiunge ma molto sottrae) un presunto potere analitico, invocando un suo utilizzo da parte di Spinoza, che visse in un epoca e in condizioni che nulla avevano a che fare con le nostre. Il pensiero politico di moda nella nuova sinistra radicale occidentale ignora anche il carattere imperialista del dominio dei monopoli generalizzati, sostituendolo con il termine vago di “Impero” (Negri). Questo centralismo occidentale, portato all’estremo, omette qualsiasi riflessione sulla rendita imperialista senza la quale né il meccanismo della riproduzione sociale né la sfida che esso in tal modo costituisce, possono essere compresi. Al contrario, Mao offrì una visione che era sia profondamente rivoluzionaria che “realistica” (scientifica, nitida) riguardo i termini nei quali tale sfida doveva essere analizzata, rendendo possibile la deduzione di strategie efficaci per avanzamenti successivi sulla lunga strada della transizione al socialismo. Per questa ragione, Mao distingue e mette in rapporto le tre dimensioni della realtà: i popoli, le nazioni, gli stati. Il popolo (le classi popolari) “vuole la rivoluzione”. Questo significa che è possibile costruire un blocco egemonico che metta insieme le diverse classi dominate e sfruttate, in opposizione a quello che permette la riproduzione del sistema di dominio del capitalismo imperialista, esercitato attraverso il blocco dell'egemonia compradora e lo stato al suo servizio. Il riferimento alle nazioni sta nel fatto che il dominio imperialista nega la dignità delle “nazioni” (chiamatele come volete), forgiata nella storia delle società delle periferie. Tale dominio ha sistematicamente distrutto tutto quello che rende originali le nazioni, in nome della “occidentalizzazione” e della proliferazione di spazzatura a basso costo. La liberazione dei popoli è dunque inseparabile da quella delle nazioni alle quali essi appartengono. E questa è la ragione per cui il maoismo sostituì il breve motto “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” con uno più esteso “Lavoratori di tutti i paesi, popoli oppressi, unitevi!”. Le nazioni vogliono la loro “liberazione”, intesa in modo complementare alla lotta dei popoli e non conflittuale ad essa. La liberazione in questione non è dunque la restaurazione del passato, illusione indotta da un attaccamento culturalista al passato, ma invenzione del futuro. Questo 10 si fonda sulla trasformazione radicale del patrimonio storico delle nazioni, piuttosto che sull’importazione artificiale di una falsa “modernità”. La cultura che viene ereditata e sottoposta alla prova della trasformazione è qui intesa come cultura politica, avendo cura di non usare il termine indistinto di “cultura” (che comprende la forma “religiosa” ed innumerevoli altre), il quale non significa nulla poiché la vera cultura non è astratta, né una costante storica. Il riferimento allo stato è posto nel necessario riconoscimento della relativa autonomia del suo potere nel rapporto con il blocco egemonico alla base della sua legittimità, anche se questo è popolare e nazionale. Questa relativa autonomia non può essere ignorata fintanto che esiste lo stato, ovvero almeno per tutta la durata della transizione al comunismo. Solo dopo è possibile pensare alla “società senza stato”, non prima. Questo non solo perché gli avanzamenti popolari e nazionali devono essere protetti dall’aggressione permanente dell’imperialismo, che ancora domina il mondo, ma anche, e forse soprattutto, perché “avanzare nella lunga transizione” richiede anche di “sviluppare le forze produttive”. In altre parole, l’obiettivo è di realizzare nei paesi della periferia ciò che l’imperialismo ha cercato di impedire, e di eliminare il retaggio della polarizzazione mondiale, elemento inseparabile dell’espansione mondiale del capitalismo storico. Il proposito non è quello del “recupero” per imitazione del capitalismo centrale, un recupero che per inciso è impossibile e soprattutto indesiderabile. Si impone una concezione differente della “modernizzazione/industrializzazione”, basata sulla partecipazione genuina delle classi popolari al processo di realizzazione, con benefici immediati ad ogni fase del suo avanzamento. Dobbiamo dunque respingere il ragionamento dominante che richiede al popolo un’attesa indefinita fino a che lo sviluppo delle forze produttive abbiano finalmente creato le condizioni per un passaggio “necessario” al socialismo. Queste forze devono essere sviluppate fin dall’inizio con la prospettiva di costruire il socialismo. Il potere dello stato è evidentemente il cuore del conflitto tra queste esigenze contraddittore di “sviluppo” e “socialismo”. “Gli stati vogliono l’indipendenza”. Questo deve essere visto come un duplice obiettivo: indipendenza (forma estrema di autonomia) dalle classi popolari; indipendenza dalle pressioni del sistema mondiale capitalista. La “borghesia” (in senso lato, la classe dirigente nelle posizioni dominanti dello stato, le cui ambizioni tendono sempre verso un’evoluzione borghese) è sia nazionale che compradora. Se le circostanze le permettono di ampliare la propria autonomia nei confronti dell’imperialismo dominante, essa sceglie di “difendere l’interesse nazionale”. Ma se le circostanze non lo permettono, opterà invece per la sottomissione “compradora” alle esigenze dell’imperialismo. La “nuova classe dominante” (o “gruppo dominante”) è ancora in una posizione ambigua, anche quando si poggia su un blocco popolare, e ciò deriva dal fatto che essa è animata, almeno in parte, da tendenze “borghesi”. La corretta articolazione della realtà a questi tre livelli -­‐ popoli, nazioni e stati -­‐ condiziona il buon esito dell’avanzata sulla lunga strada della transizione. Si tratta di potenziare le complementarietà degli avanzamenti del popolo, della liberazione della nazione, e dei risultati ottenuti dal potere dello stato. Ma se alle contraddizioni tra l’agente-­‐popolo e l’agente-­‐stato è consentito di svilupparsi, ogni avanzamento sarà definitivamente precluso. Ci sarà un’impasse se uno di questi livelli non va ad articolarsi con gli altri. La nozione astratta di “popolo” essendo l’unica entità che conta, e la tesi dell’astratto “movimento”, capace di trasformare il mondo senza preoccuparsi della presa del potere, sono semplicemente naif. L’idea della liberazione nazionale, “a tutti i costi” -­‐ vista come indipendente dal soggetto sociale del blocco egemonico -­‐ porta all’illusione culturale di un irrimediabile attaccamento al passato (islam politico, induismo, buddismo ne sono alcuni esempi) ed è, di fatto, impotente. Questo genera un’idea di potere, concepito come capacità di “raggiungere degli obiettivi” per il popolo, ma che è, di fatto, esercitato senza di esso. Questo porta dunque a una deriva verso l’autoritarismo e la cristallizzazione di una nuova borghesia. La deviazione del La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 11 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino sovietismo, evolutosi da un “capitalismo senza capitalisti” (capitalismo di stato) a un “capitalismo con capitalisti”, è l’esempio più tragico di ciò. Dal momento che i popoli, le nazioni e gli stati della periferia non accettano il sistema imperialista, il “Sud” è “zona di tempesta”, luogo di sollevazioni e rivolte permanenti. A partire dal 1917, la storia è consisita principalmente di tali rivolte e iniziative indipendenti (nel senso di indipendenza dalle tendenze che dominano il sistema capitalista imperialista esistente) dei popoli, nazioni e stati delle periferie. Sono queste iniziative, nonostante le loro limitazioni e contraddizioni, ad aver dato forma alle trasformazioni maggiormente decisive del mondo contemporaneo, molto più del progresso delle forze produttive e dei relativamente lievi adeguamenti sociali che lo hanno accompagnato nel cuore del sistema. La seconda ondata di iniziative indipendenti dei paesi del Sud è iniziata. I paesi “emergenti” e gli altri, come i loro popoli, sono in lotta contro i modi in cui l’imperialismo collettivo della Triade sta cercando di perpetuare il proprio dominio. Gli interventi militari di Washington e dei suoi alleati subalterni della NATO si sono anch’essi dimostrati un fallimento. Il sistema finanziario mondiale sta collassando e, al suo posto, sistemi regionali autonomi sono in via di formazione. Il monopolio tecnologico degli oligopoli è stato frustrato. Riprendere il controllo delle risorse naturali è l’ordine del giorno attuale. Le nazioni andine, vittime del colonialismo interno, che è succeduto a quello straniero, si stanno facendo sentire a livello politico. Le organizzazioni popolari e i partiti della sinistra radicale in lotta hanno già sconfitto alcuni programmi liberali (in America Latina) o sono sulla strada di farlo. Queste iniziative, che innanzitutto sono fondamentalmente antimperialiste, sono potenzialmente in grado di impegnarsi sulla lunga strada della transizione socialista. Come si relazionano questi due futuri possibili l’uno con l’altro? “L’altro mondo” in costruzione è sempre ambiguo: porta con sé il peggio ed il meglio, entrambi “possibili” (non ci sono leggi storiche che possano darci un’indicazione prima che la storia stessa si svolga). Una prima ondata di iniziative da parte dei popoli, nazioni e stati della periferia prese piede nel XX secolo, fino al 1980. Qualsiasi analisi dei suoi componenti non ha senso a meno che non tenga conto della complementarietà e dei conflitti relativi al modo in cui questi tre livelli si relazionano tra loro. Una seconda ondata di iniziative nella periferia è già iniziata. Sarà più efficace? Potrà spingersi più in là rispetto alla precedente? Terminare la crisi del capitalismo? Le oligarchie al potere del sistema capitalista contemporaneo stanno cercando di restaurare il sistema com’era anteriormente alla crisi finanziaria del 2008. Per far questo, hanno bisogno di convincere la gente creando un “ consensus “ che non metta in discussione il loro potere supremo. Per riuscire in ciò, sono disposte a concessioni retoriche riguardo la sfida ecologica (in particolare la questione del clima), rendendo “verde” il loro dominio, e persino lasciando intendere di effettuare riforme sociali (“guerra alla povertà”) e politiche (“buona governance”). Prendere parte a questo gioco, convincere il popolo del bisogno di modellare un nuovo consenso seppure stabilito in termini chiaramente migliori, porterà al fallimento. Peggio ancora, prolungherà illusioni deleterie. Questo perché la risposta alla minaccia sollevata dalla crisi del sistema globale necessita in primo luogo della trasformazione dei rapporti di potere a beneficio dei lavoratori, come pure di relazioni internazionali favorevoli ai popoli delle periferie. Le Nazioni Unite hanno organizzato una serie di conferenze globali che, come ci si poteva aspettare, non hanno prodotto alcunché. La storia ha dimostrato che questo è un requisito necessario. La risposta alla prima lunga crisi del capitalismo decadente avvenne tra il 1914 e il 1950, principalmente attraverso i conflitti che opposero i 12 popoli delle periferie alla dominazione del potere imperiale e, in misura diversa, attraverso i rapporti sociali interni di cui godevano le classi popolari. In questo modo, hanno preparato il terreno per i tre sistemi del secondo dopoguerra: i socialismi realmente esistenti dell’epoca, i regimi nazionali e popolari di Bandung, e il compromesso socialdemocratico nei paesi del Nord, resosi particolarmente necessario a causa delle iniziative indipendenti dei popoli delle periferie. Nel 2008 la seconda lunga crisi del capitalismo è entrata in una nuova fase. I conflitti internazionali violenti sono già iniziati e sono visibili: sfideranno il dominio dei monopoli generalizzati, sulla base di posizioni antimperialiste? Come si rapporteranno alle lotte sociali delle vittime delle politiche di austerità perseguite dalle classi dominanti in risposta alla crisi? In altre parole, utilizzeranno i popoli della periferia una strategia di disincagliamento da un capitalismo in crisi, invece di quella mirante a far uscire il sistema dalla sua crisi, come perseguito invece dal potere costituito? Gli ideologi al servizio del potere stanno affannandosi in vuote considerazioni circa il “mondo dopo la crisi”. La CIA può soltanto concepire la restaurazione del sistema, dando una maggiore partecipazione ai “mercati emergenti” nella globalizzazione liberale a scapito dell’Europa, piuttosto che degli Stati Uniti. E’ incapace di riconoscere che la crisi sempre più profonda non sarà “superata”, se non attraverso violenti conflitti internazionali e sociali. Nessuno sa come andrà a finire: forse in meglio (progresso in direzione del socialismo) oppure in peggio (apartheid mondiale). La radicalizzazione politica delle lotte sociali è la condizione per scavalcare le frammentazioni politiche e la strategia esclusivamente difensiva (“salvaguardare i benefici sociali”). Solo questo renderà possibile l’identificazione degli obiettivi necessari a intraprendere la lunga strada verso il socialismo. Solo questo permetterà ai “movimenti” di generare un reale avanzamento. Il rafforzamento dei movimenti ha bisogno di un quadro di condizioni macro-­‐politiche e macro-­‐economiche che rendano concretamente praticabili i loro progetti. Come creare queste condizioni? Arriviamo qui alla questione centrale del potere dello stato. Sarebbe in grado uno stato rinnovato, effettivamente popolare e democratico, di mettere in atto politiche efficaci nelle condizioni globalizzate del mondo contemporaneo? Una immediata risposta negativa ha portato, a sinistra, alla richiesta di iniziative per raggiungere un consensus globale minimo, sulla base dei cambiamenti politici universali, eludendo lo stato. Questa risposta e il suo corollario si stanno dimostrando infruttuosi. Non c’è altra soluzione che far nascere avanzamenti a livello nazionale, possibilmente rinforzato da azioni appropriate a livello regionale. Occorre puntare a smantellare il sistema mondiale (“sconnettere”) prima dell’eventuale ricostruzione su basi sociali differenti e con la prospettiva di andare oltre il capitalismo. Il principio è valido sia per i paesi del Sud, i quali incidentalmente hanno iniziato a muoversi in questa direzione in Asia e in America Latina, sia per i paesi del Nord dove, purtroppo, la necessità dello smantellamento delle istituzioni europee (e quella dell’euro) non è ancora avvertita, neppure dalla sinistra radicale. L’indispensabile internazionalismo dei lavoratori e dei popoli I limiti degli avanzamenti compiuti dal Sud nel risveglio del XX secolo e l’esasperazione delle contraddizioni che lo hanno prodotto, sono state le cause della perdita di slancio della prima ondata di liberazione. Ciò è stato fortemente potenziato dall’ostilità permanente degli stati del centro imperialista, che sono arrivati a condurre una guerra aperta che -­‐ va detto -­‐ è stata appoggiata, o almeno accettata, dai popoli del Nord. I benefici della rendita imperialista sono stati certamente un fattore importante nel rifiuto dell’internazionalismo da parte delle forze popolari del Nord. Le minoranze comuniste, che hanno adottato un altro atteggiamento, a volte molto forte, fallirono tuttavia nella costruzione attorno a loro di adeguati La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 13 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino blocchi alternativi. Ed il passaggio in massa dei partiti socialisti al campo “anticomunista” ha largamente contribuito al successo delle potenze capitaliste nel campo imperialista. Questi partiti non sono stati tuttavia “premiati”, visto che già il giorno successivo al collasso della prima ondata di lotte del XX secolo, il capitalismo monopolista si liberava della loro alleanza. Non hanno imparato la lezione della sconfitta radicalizzandosi: al contrario, hanno scelto di capitolare slittando sulle posizioni “social-­‐liberali” che conosciamo. Questa è la prova, se ce ne fosse stato bisogno, del ruolo decisivo della rendita imperialista nella riproduzione delle società nel Nord. Così, la seconda capitolazione non è tanto una tragedia quanto una farsa. La sconfitta dell’internazionalismo condivide parte della responsabilità per la deriva autocratica nelle esperienze socialiste del secolo passato. Il manifestarsi di originali espressioni di democrazia nel corso delle Rivoluzioni russa e cinese, smentisce il giudizio troppo disinvolto riguardo la non “maturità” di questi paesi per la democrazia. L’ostilità dei paesi imperialisti, agevolata dal supporto dei loro popoli, ha largamente contribuito a rendere il perseguimento del socialismo democratico ancora più difficile in una condizione che già lo era, a causa del retaggio del capitalismo periferico. Così, la seconda ondata del risveglio dei popoli, delle nazioni e degli stati delle periferie del XXI secolo parte in condizioni che non sono affatto migliori, anzi ancora più difficili. La cosiddetta caratteristica ideologica statunitense del “consensus” (che significa sottomissione alle richieste del potere del capitalismo monopolista generalizzato); l’adozione di regimi politici “presidenziali” che distruggono l’efficacia del potenziale anti-­‐istituzionale della democrazia; l’elogio indiscriminato di un individualismo falso e manipolato, assieme alla disuguaglianza (vista come virtù); la raccolta dei paesi subalterni della NATO intorno alle strategie sviluppate dall’establishment di Washington -­‐ tutto ciò procede rapidamente nell’Unione Europea, che in queste condizioni altro non può essere se non quello che è, ovvero un blocco costitutivo della globalizzazione imperialista. In tale situazione, il collasso di questo progetto militare diventa la prima necessità e la condizione preliminare per il successo della seconda ondata di liberazione avviata attraverso le lotte dei popoli, nazioni e stati dei tre continenti. Finché ciò non accadrà, i loro avanzamenti presenti e futuri rimarranno vulnerabili. Un possibile rifacimento del XX secolo non può, dunque, essere escluso anche se, ovviamente, le condizioni della nostra epoca sono piuttosto diverse da quelle del secolo scorso. Questo scenario tragico non è tuttavia l’unico possibile. L’offensiva del capitale contro i lavoratori è già in corso negli stessi centri del sistema. Questa è la prova, se ce ne fosse bisogno, che il capitale, se rafforzato dalle sue vittorie contro i popoli della periferia, si dimostra poi abile ad attaccare frontalmente le posizioni delle classi lavoratrici nei centri del sistema. In questa situazione, non è più impossibile immaginare una radicalizzazione delle lotte. Il patrimonio delle culture politiche europee non è ancora perduto, e dovrebbe facilitare la rinascita di una coscienza internazionale adeguata alle esigenze della globalizzazione. Un’evoluzione in questa direzione, tuttavia, si scontra con l’ostacolo della rendita imperialista. Questa è non solo un’importante fonte di profitti eccezionali per i monopoli, ma condiziona anche la riproduzione della società nel suo complesso. Ed infine, grazie al supporto indiretto di quegli elementi popolari che cercano di preservare a tutti i costi l’esistente modello di “democrazia” (per quanto sia in realtà antidemocratico), il peso delle classi medie può con ogni probabilità distruggere la forza potenziale derivante dalla radicalizzazione delle classi popolari. In virtù di ciò, è probabile che il progresso nel Sud tricontinentale continuerà ad essere alla ribalta, come nel secolo passato. Ciononostante, non appena gli avanzamenti avranno prodotto i loro effetti e pesantemente limitato l’estensione della rendita imperialista, i popoli del Nord dovrebbero essere in una posizione migliore per capire il fallimento delle strategie che si sottomettono alle richieste dei monopoli imperialisti generalizzati. Le forze politiche e ideologiche della 14 sinistra radicale dovrebbero quindi prendere parte a questo grande movimento di liberazione, costruito sulla solidarietà dei popoli e dei lavoratori. La battaglia ideologica e culturale è decisiva per questo rinascimento, che ho riassunto nell’obiettivo strategico della costruzione di una Quinta Internazionale dei lavoratori e dei popoli. Note [*] Il modo di produzione tributario è contraddistinto dal carattere “esterno”, cioè fiscale e militare, del potere politico nelle formazioni economico-­‐sociali non occidentali. (Cfr. Samir Amin “Lo sviluppo ineguale” 1977) [**] Le Onde di Kondratiev sono cicli regolari sinusoidali nel moderno mondo economico capitalistico. Lunghi da 50 a 70 anni, i cicli consistono alternativamente di una fase ascendente ed una discendente. Alla fase ascendente corrispondono periodi di crescita veloce e specializzata, mentre alla fase discendente periodi di depressione. (Wikipedia) La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 15 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Soggetti, media e godimenti nell’età del biocapitalismo di Pasquale Stanziale 1. Scene e scenari spettacolari 2. Condannati al godimento 3. Elogio della retorica 4. La felicità è una gabbia mediale 5. Il totalitarismo dell’outlet 6. L’estasi del comsumAttore «II biocapitalismo è la forma più avanzata di evoluzione del modello economico capitalistico. Una forma che si caratterizza per il suo crescente intreccio con le vite degli esseri umani. In precedenza, il capitalismo faceva principalmente ricorso alle funzioni di trasformazione delle materie prime svolte dai macchinari e dai corpi dei lavoratori. Il biocapitalismo invece produce valore estraendolo, oltre che dal corpo operante come strumento materiale di lavoro, anche dal corpo inteso nella sua globalità. Dunque agisce su tutte le componenti biologiche e sulle dimensioni mentali, relazionali e affettive degli individui. Ne consegue che 16 deve presentarsi agli esseri umani in modo nuovo rispetto al passato, evidenziando un volto umano accattivante.» (V. CODELUPPI 2008:7) 1-­‐ Scene e scenari spettacolari 1.1 Una ricerca sul biocapitalismo non può iniziare senza chiamare in causa la Società dello Spettacolo di G. Debord (G. Debord 2002), un’analisi che rimane, a nostro avviso, una riferimento imprescindibile per comprendere gli esiti strumentalistico-­‐spettacolari del biocapitalismo. -­‐La società dello spettacolo costituisce lo sfondo sul quale, ieri come oggi, prendono forma le dinamiche e i processi relativi al desiderio, alconsumo delle immagini, all’immaginario ed alla fiction economy. -­‐Gran parte di quello che è successo sulla scena sociale, politica, comunicativa ed anche urbanistica degli ultimi cinquant’anni era profeticamente presente nelle intuizioni di Debord e dei suoi amicisituazionisti come opportunamente ha sostenuto Agamben (1988.) -­‐Per Debord «Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale» (G. Debord 2002:58), compreso la merce-­‐spettacolo umana. -­‐La società dello spettacolo, nella sua ideologia di fondo, si presenta come quell’Ordine (l’Immaginario) in grado di generare consenso collettivo (S. Žižek 2004). 1.2 La società dello spettacolo (SdS) di Debord rappresenta inconfutabilmente un punto di non ritorno nell’ambito di una teoria critica della società pure nell’assetto biocapitalistico, critica, nel senso che sarà sempre della Sds che occorrerà tener conto per comprendere correttamente le strategie di autoriproduzione e accumulazione capitalistiche. Proposte di analisi come quelle contenute nei concetti di accesso rifkiniano, di new economy, di alienazione biotecnologica, dieconomia finzionale, viste in una loro collocazione critica, non possono non essere La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 17 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino ricondotte alle concezioni di fondo della Sds, unitamente alle analisi di R. Vaneigem e degli altri situazionisti ortodossi e non. La Sds corrisponde, ad una fase storica di ristrutturazione del capitale – nella seconda metà del ‘900 – che consolida talune strategie di dominio nell’ambito produttivo e dà origine a nuove direttrici di consumo relative al passaggio all’avere e al baudrillardiano simulare. Per Debord, inoltre, il divenire immagine del capitale si realizza nella metamorfosi della merce in generale che tende a perdere il suo valore d’uso acquistando valore a partire dall’immaginario sociale. 1.3 È possibile inoltre verificare come vi sia una corrispondenza tra elementi teorici debordiani ed alcuni significativi ambiti analitici contemporanei. In particolare la distinzione debordiana tra società in cui lo spettacolo si presenta concentrato, diffuso o integrato (Sds eCommentari del 1997) viene, per molti aspetti ad avere un riscontro con le fasi dello sviluppo del capitalismo dei consumi esaminate da Lipovetsky (2007) ovvero: 1) la fase della nascita dei mercati di massa, 2) la fase del ciclo storico che inizia negli anni ’50 caratterizzata dalle società del consumo di massa-­‐ e che richiama ampiamente lo spettacolare diffuso debordiano, 3) la fase infine che va oltre lo standing ed è caratterizzata daiconsumi emotivi ed è pertinente alla organizzazione economica post-­‐fordista e al turbo-­‐consumerismo, segnando il destino felice dell’homo consumericus. Questa fase è strettamente connessa, nell’ambito biocapitalistico, a quello che Codeluppi (2008) chiama “processo di astrazione della società” in cui il capitale tende a smaterializzarsi nel credito e nella finanza ed il lavoro stesso si trasforma nel quadro di una produzione industriale reticolare propria del post-­‐fordismo. Questa ultima fase, infine, corrisponde, per moltissimi aspetti a quella dello spettacolo integrato nel suo senso ultimo, quando la spettacolarità partecipa pienamente alle dinamiche proprie del biocapitalismo, una spettacolarità che «si è mescolata ad ogni realtà…. perché l’esperienza pratica del compimento sfrenato della volontà della ragione mercantile mostra, rapidamente e senza eccezioni, che il divenir-­‐mondo della falsificazione era (è) anche un divenir-­‐falsificazione del mondo» (G. Debord 1997:194). 1.4 Le 72 tesi dei primi tre capitoli della Sds tracciano un percorso organico, partendo dal concetto di separazione – che riprende in una prospettiva innovativa sia il concetto di alienazione (sulla linea Hegel, Feuerbach, Marx) che il concetto di scissione (del Lukàcs della Teoria del romanzo) – per giungere al concetto di falsa unità che informa di sé tutta la realtà spettacolare. La separazione che si compie per Debord (con riferimento anche all’eccesso di metafisica lukàcsiano) sembra portare a compimento quel processo di scissione tra il soggetto e se stesso originato dalla rottura dell’unità presente nel mondo greco. 18 1.5 Debord tratta del dominio proprio di una società che è dello spettacolo i cui «all’affermazione dell’apparire corrisponde unaseparazione dalla vita» (G. Debord 2002:64). Lo spettacolo, quindi, si fa rapporto sociale e visualizza in modo totalizzante e pervasivo il suo essere capitale ovvero biocapitale in cui i soggetti sono assunti come merce spettacolare di consumo. Sono presenti in questi assunti del primo capitolo rielaborazioni tratte dal giovane Marx, quando scrive dell’alienazione nella società borghese, mentre il secondo capitolo riprende il concetto di feticismo della merce sulla linea Marx-­‐Lukàcs. Debord afferma che il predominio dello spettacolo si attua attraverso l’occupazione della vita sociale da parte della merce. A ciò corrisponde la vittoria del valore di scambio sul valore d’uso in una società che sancisce la vittoria dell’economia autonoma. Ma è nel rapporto tra economia e società che Debord individua una possibile forma di riscatto là dove, infine, l’economia finirebbe col dipendere pur sempre dalla società e dalla lotta di classe. Parafrasando Freud, Debord afferma che l’Io deve situarsi là dove c’era l’es economico e, politicamente, che «il desiderio della coscienza e la coscienza del desiderio» costituiscono un unico progetto mirante all’abolizione delle classi (G. Debord 2002:155). 1.6 È inevitabile, a questo punto, affrontare quell’importante nodo teorico riguardante il rapporto indissolubile tra economia, spettacolo eimmaginario: un ambito strategicamente significativo dell’ambito del biocapitalismo. Nodo borromeo che si fa struttura divenendo un nucleo dialettico in grado di articolare in modo evolutivo le intuizioni debordiane. Questa struttura traduce fondamentalmente il significato e il significante della merce ovvero l’immagine-­‐merce, il feticcio-­‐merce, il soggetto-­‐merce, ovvero fascinazione, illusione, scambio, consumo. Ciò in una fase di evoluzione strutturale dell’economia verso una evidente ed affermata sua autonomia che può essere ben correlata alle marxiane due astrazioni/alienazioni (A. Jappe 1999) ovvero lo Stato e il Denaro riguardanti il divenire membro di una comunità e l’accesso al mondo del lavoro. L’ipostatizzazione di queste astrazioni/alienazioni si concreta nello spettacolo da intendersi come ideologia materializzata (G. Debord 2002 cit.), ambito che vedremo in seguito in una prospettiva diversa. Questi riferimenti che attualizzano, attraverso Debord, le istanze del giovane Marx vengono riaffermate-­‐ come giustamente sottolinea Jappe – nel Capitale che individua nell’astrazione la forma-­‐
merce dell’economia moderna. 1.7 Come nota, poi, M. Pezzella (1996:78) il potere economico richiama immediatamente un immaginario inseparabile dal desiderio (come vedremo in seguito), un immaginario che va oltre il valore d’uso realizzando il valore di scambio. Si tratta qui di individuare «l’economia nella sua cultura» (W. Benjamin 1986:595 in Pezzella 1996:79) che mostra come economia e immaginario siano termini legati da un indissolubile legame funzionale nell’ambito di quellaeconomia libidinale di cui parla Lyotard (1978). La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 19 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Per quanto riguarda lo spettacolo esso non è una sovrastruttura -­‐ nel tradizionale linguaggio marxista – e neanche una simulazione (J. Baudrillard 1979). Esso, nel contesto della Sds, è allo stesso tempo: una figurazione dell’immaginario (la fantasy/fiction žižekiana), una tecnica di produzione e un motore della circolazione del capitale ma anche lo sfruttamento, come vedremo, del biocapitale. 1.8 Nel terzo capitolo della Sds Debord mostra come nella sua unità fittizia, lo spettacolo tenda a mascherare le contraddizioni e le lacerazioni della società e dei poteri che la dominano. La banalizzazione, la vedette specializzata nel vissuto apparente, le finte lotte spettacolari e, aggiungiamo noi, le situazioni concentrazionario-­‐spettacolari entro cui i soggetti sono chiamati miticamente a mostrare tutti gli aspetti della loro soggettività spettacolarizzata: tutto ciò rappresenta un artificiale che traduce nello spettacolare la falsificazione della vita sociale. Uno spettacolare che si presenta sullo scenario globale come concentrato o diffuso a seconda della miseria che smentisce o mantiene. 1.9 Per quanto riguarda le risposte invertite alle domande debordiane troviamo che queste sono fatte proprie dal marketing di aziende (Negozi Hollister ecc. – M. D’Ambrosio 2008), la deriva debordiana è sperimentata e istituzionalizzata da Facoltà di Architettura romane e torinesi ed è presente in alcuni format TV nei quali vengono costruitesituazioni emozionanti da attraversare. Il gruppo Luther Blisset (oggi Wu Ming), anche, ha fatto la sua parte (P. Stanziale 1998) con le relative denigrazioni e con critiche di cui qualcuna, a nostro avviso, fondata. Che dire poi di quel gigantesco dètournement pervasivo che prende il nome di postmoderno, figurazioni che assemblano stili precedenti secondo un progetto ludico, partecipando ad uno spettacolo globale, ad un immenso “simulacro immaginifico” (F. Jameson 1994) trastereotipizzazioni e nostalgie. 1.9.1-­‐ La narrazione situazionista ebbe indubbiamente successo (G. Debord G. Sanguinetti 1999 P. Virno 1999 P. Stanziale 2008) ma la sua spinta si infranse contro la massiccia affermazione del dominio capitalista in espansione, vittoria e sconfitta dunque-­‐ come affermato da molti-­‐ ma anche lo stabilizzarsi di un nucleo di teoria critica di riferimento come tappa importante di un itinerario che, partito da lontano, deve essere ripreso e organicamente integrato con nuovi e più incisivi strumenti di analisi a fronte di scenari contemporanei stagliati sullo sfondo di reticoli schizoidi in cui il soggetto biocapitalistico è frammentato, risucchiato tra forme di estetizzazione di massa e mercificazioni edonistiche, tra godimenti autoritari, esaltazioni narcisistiche ed esplosioni nichilistiche. Il tutto costituendo le nuove frontiere dello spettacolo che tende in modo sempre più pressante a saturare quella totalità che R. Vaneigem (1994) inBanalità di base (Tesi 24) intende come «la realtà oggettiva nel cui movimento la soggettività può inserirsi sotto forma di realizzazione» e «là dove non vi è realizzazione vi è lo spettacolo». 1.10 20 Il concetto di società dello spettacolo rappresenta quindi un riduttore di complessità contribuendo ad un comprensione critica dell’universo socio-­‐politico biocapitalistico attuale. Questo perché lo spettacolo-­‐ come abbiamo già visto-­‐ ha assunto un valore strutturale con tutto ciò che ne deriva sia per l’economia del soggetto che per l’ambito sociale e politico. Il passaggio dalla società post-­‐industriale alla società del dominio spettacolare ha avuto una duplice conseguenza:l’emergere di una diversa strategia di potere basata su parametri, che sono andati a modificare vari ambiti tra cui quelli biologici, politici e comunicativi, e il fatto che tutto questo è avvenuto nel cuore stesso del sociale che il potere ha potuto ristrutturare secondo i sui nuovi indirizzi. Lo spettacolare integrato debordiano è stato il risultato di questo stato di cose, riuscendo ad imporsi in modo autonomo e articolato divenendo una funzione vitale costitutiva della volontà individuale. 1.11 Secondo J-­‐L Nancy (2001), infine, la critica dell’attuale globalizzazione capitalistica, passa per la critica del radicalismo filosofico situazionista alla società dello spettacolo, intesa (quest’ultima) come il compimento della «mercificazione generale dei feticci […] con la produzione e il consumo di beni materiali e simbolici (tra cui, in primo luogo, l’ordinamento del diritto democratico) che hanno tutti il carattere d’immagine, d’inganno o di sembiante» (J-­‐L. Nancy 2001:98). La società dello spettacolo è, in ultima analisi, quella «che porta a compimento pieno l’alienazione, grazie ad un’appropriazione immaginaria dell’appropriazione reale. Il segreto dell’inganno è questo: l’appropriazione reale non è altro che una libera immaginazione creatrice di sé, indissolubilmente individuale e collettiva ma la merce spettacolare, in tutte le sue forme, non è a sua volta altro che un immaginario venduto al posto di questa immaginazione autentica» (J-­‐L. Nancy 2001:121). Nancy partendo da queste analisi ritiene che la critica situazionista sia inficiata dalla metafisica dicotomia tra una verità dell’essere vs una fallace apparenza: «il limite della critica situazionista consisterebbe nel non aver compreso appieno ciò che rendeva manifesto, ossia la costitutiva dimensione simbolico-­‐spettacolare del legame sociale […] la questione [è quella] di capire se lo spettacolo non sia, in un modo o nell’altro, una dimensione costitutiva della società: in altri termini, se ciò che chiamiamo il legame sociale possa essere pensato al di fuori di un ordine simbolico e se quest’ultimo possa a sua volta essere concepito al di fuori di un registro dell’immaginazione o dellafigurazione, che sembrerebbe necessario, a questo punto, ripensare daccapo […] può darsi che il fenomeno dello spettacolo generalizzato, con la dimensione, diciamo tele-­‐mondiale, che non soltanto lo accompagna, ma che gli è consustanziale, riveli tutt’altro, se ci sforziamo di decifrarlo altrimenti» (J-­‐L. Nancy 2001:132). Ci sembra opportuno a questo punto considerare che: -­‐effettivamente è necessario ripensare il rapporto tra legame sociale e ordine simbolico; La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 21 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino -­‐se in linea di principio vi possono essere fondamenti validi per una critica al situazionismo ciò non toglie che lo spettacolismo biocapitalistico nelle società occidentali tende sempre più ad estremizzarsi giungendo alla negazione ed allo sfruttamento spettacolare del soggetto attraverso forme sempre più esasperate di espropriazione, come in certa spettacolarità mediale; in tale ambito ilcon-­‐essere e la com-­‐parizione di cui parla Nancy nel suo Essere singolare plurale (2001) divengono partecipi di una omologazione generalizzata che elude ogni autenticità; -­‐certamente l’ontologia della com-­‐parizione è da considerarsi il primo e fondamentale passo di un pensiero critico rinnovato ma bisogna fare ancora i conti con tutta una serie di modalità attraverso cui la società dello spettacolo partecipa a forme evidenti di patologia nella dimensione dell’essere sociale. E in questo ambito di valutazioni ci sembra pertinente citare Robert Kurz «[Le idee di Debord] sono perfino più attuali che mai. Debord, nel suo tempo, tenne in vista principalmente il mezzo spettacolaretelevisivo constatando uno sviluppo del moderno feticismo giunto a un grado di accumulazione del capitale in cui esso diventa immaginee sostituisce interamente il mondo sensoriale con una selezione delle immagini. Ciò naturalmente non si riferisce solo alla semplice tecnologia mediale ma a una nuova qualità della sussunzione reale al capitale (Marx), una sussunzione non solo dei processi di produzione, ma della totalità della vita e della totalità dell’esperienza, a una feticizzazione di tutte le relazioni fino all’intimità, come [sopra] ho già suggerito, come soggezione di tutte le sfere della vita alla astrazione reale del valore e come liberazione dell’individuo astratto. A ciò corrisponde una medializzazione del quotidiano in cui i mezzi tecnici di comunicazione non si autonomizzano per sé, ma nel loro carattere inscritto nella merce e, in un certo modo, duplicano il feticismo della forma merce. Questo sviluppo si è drammaticamente intensificato con le nuove tecnologie della comunicazione della terza rivoluzione industriale. Ora, non si tratta appena di cruda tecnica, ma di unavirtualizzazione generale del mondo della vita, come si può vedere nell’onnipresenza del telemobile, SMS etc. e soprattutto di Internet. Ciò va di pari passo con la virtualità del nuovo capitalismo finanziario, che si è staccato dall’accumulazione reale del capitale, come fenomeno di crisi. Nel virtualismo del pensiero postmoderno, tutto questo processo fu ideologizzato e parzialmente compreso male come emancipazione. Ma non é altro se non un’espressione della crisi del soggetto, nella quale si riproduce come fenomeno della coscienza il limite interno del moderno sistema produttore di merci» (2006). 22 2-­‐ Condannati al godimento 2.1 Il concetto di godimento, in tempi recenti è venuto prepotentemente alla ribalta attraverso quel potente apparato teorico che partendo da J. Lacan ha trovato in autori come S. Žižek una maturazione in grado di far luce in modo sistematico su meccanismi, tendenze e cristallizzazioni del biocapitalismo attuale. In particolare la teoria dei tre registri del soggetto e la teoria dei quattro discorsi 2.2 Estrapoliano dal contesto delle teorie lacaniane (J. Lacan 1974 1982), relativamente all’Immaginario, che: -­‐esso è la struttura dell’Io (Moi), -­‐la funzione immaginaria è subordinata alle determinazioni del Simbolico, -­‐l’Immaginario e il Simbolico si distinguono in funzione delle loro relazioni col Reale, -­‐la funzione immaginaria presiede all’investimento narcisisticodell’oggetto. Per quanto riguarda il Simbolico (che Lacan mutua dall’antropologia strutturale di C. Lévi-­‐Strauss): -­‐esso è costituente per il soggetto, -­‐esso non copre e spiega tutto, – esso annoda e snoda l’Immaginario col Reale (J. Lacan 1974). E quindi il Reale è l’impossibile, esso sussiste al di fuori della simbolizzazione, è l’inconscio in quanto indicibile. Il Reale è il luogo che accoglie ciò che è rifiutato dal Simbolico ed è connesso colgodimento (jouissance) (S. Žižek 2004) La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 23 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino 2.3-­‐ È nel quadro che stiamo delineando che emerge il contributo importante offerto dalla psicoanalisi lacaniana all’economia dell’immaginario con il concetto di godimento. Questa jouissanceriguarda ciò che va al di là del principio del piacere ed è connessa con il Reale lacaniano. Questo perché l’approccio psicoanalitico all’ideologia di dominio-­‐ nei suoi rapporti con la cultura di massa-­‐ si presenta abbastanza esplicativo nella direzione di una visione politica dell’immaginario contemporaneo connesso con l’universo spettacolare (M. Senaldi 2008). 2.4 Le relazioni tra i registri (RSI) e l’economia si possono visualizzare, nello schema seguente. L’economia risulta qui connessa con i tre registri di cui l’Ordine simbolico annoda e snoda il Reale e l’Immaginario. Essa è partecipe, in vario modo, delle logiche di occlusione, collusione, invasione egodimento che regolano i tre registri. In particolare l’immaginario, come abbiamo visto, fornisce all’economia abbastanza materiale da usare, ma anche il simbolico, con i suoi trend e con i suoi significantirappresenta una fonte di acquisizione per i processi di valorizzazione. In questa schematizzazione c’è anche del godimento connesso con il Reale tenuto a bada dall’immaginario e dal simbolico ma che è prodotto come plus. 24 Lo schema seguente invece (P. Stanziale 2006) integra lo schema precedente e cerca di definire il sistema circolare di relazioni che legano il Capitale, l’industria culturale e il soggetto con riferimento alla centralità strategica dell’immaginario (vedi anche punto 5.7). Lo schema rivela anche una situazione strutturale che, ad un livello più profondo, richiama alcuni fattori propri delle tendenze del biocapitalismo. 2.4.1-­‐ Il concetto di godimento trova la sua centralità in Žižek (2001 2004) che lo intende, con riferimento alla psicoanalisi lacaniana (Lust im Unlust), come oscuro supplemento superegoico, come dato proprio dell’ideologia, riscontrabile come la segreta oscenità presente nell’esercizio del potere-­‐ e delle relative forme di linguaggio, nei risvolti della cultura di massa e, quindi, nell’ambito dello spettacolare contemporaneo. Tenendo presente quanto scrive Žižek: «quand’è che io incontro l’altro nel Reale del suo essere… solo quando incontro l’altro nel suo momento di jouissance, cioè quando scopro in lui/lei un piccolo dettaglio-­‐ un gesto compulsivo, una eccessiva espressione del volto, un tic-­‐ che segnala l’intensità della realtà della sua jouissance …l’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso» (S. Žižek 1999:32). Seguendo la metodologia žižekiana, troviamo, ad esempio, come il potere spettacolista televisivo si tradisca comegodimento nel ghigno-­‐sorriso involontario che appare in alcuni momenti-­‐clou spettacolari sul volto di una ideatrice-­‐conduttrice di format d’intrattenimento pomeridiani. Personaggio proprio della videocrazia contemporanea, esperta nell’organizzare artificiali cortocircuiti emozionali tra persone e nella spettacolarizzazione di continui outing di adolescenti che saranno famosi. Questo emergere del godimento, nella teoria lacaniana dei quattro discorsi (J. Lacan 1982 M. Recalcati 1995) è proprio del discorso La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 25 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino del maître in cui unsignificante-­‐padrone (la presentatrice iscritta nell’ordine simbolico come espressione del potere) agendo nell’alterità spettacolare (espressione di un sapere), rimuove sia laproduzione di godimento (objet petit a)-­‐ che però affiora-­‐ che la sua verità di soggetto barrato (mancanza a essere). Questa dinamica introduce la dimensione del godimento nella dimensione mediocratica della società dello spettacolo ma anche apre, in Žižek, al rapporto tra cultura di massa e Ordine Simbolico. Sullo sfondo della società dello spettacolo tale rapporto si presenta nel quadro di una complessa processualità nella quale la cultura di massa rappresenta l’immaginario del Simbolico che, nel suo farsi godimento, tradisce il Reale del Simbolico mostrandone le oscenità di fondo (S. Žižek 1999). Il godimento allora, come reale del Simbolico rivela l’altro lato di questo, le modalità di mascheramento del suo vuoto costitutivo. 2.4.1.a-­‐ S. Žižek (1999) nota anche, riferendosi a Lacan (1983), come nell’epoca del biocapitalismo si verifichi una inversione nella struttura superegoica freudiana per cui se prima l’individuo era portato a reprimere il piacere e il godimento nel rispettare le leggi del sociale, l’attuale soggetto post-­‐storico è all’inverso condannato all’eccesso, a dover godere. Il super-­‐io non solo pone divieti ma costringe anche al godimento: «Niente costringe qualcuno a godere, tranne il super-­‐io. Il super-­‐io è l’imperativo del godimento -­‐Godi!» (J. Lacan 1983:85). 2.4.2-­‐ A completamento di questa parte relativa al godimento non possiamo non richiamarci alla lacaniana teoria dei quattro discorsi (J. Lacan 1982) accennando al discorso della civiltà e del capitalista (J. Lacan 19878:40) tralasciando i discorsi dell’isterico, dell’università e dell’analista. La teoria dei quattro discorsi è un classico della psicoanalisi lacaniana. Premesso che il discorso-­‐ sulla linea Althusser-­‐Lacan-­‐ è una determinazione dell’ordine simbolico, abbiamo con questa teoria l’inclusione del soggetto nella struttura. Si stabiliscono quindi rapporti tra significante e godimento e tra simbolico e reale: tutto secondo i principi di una topica, di una dinamica e di una economia in quantoc’e, come direbbe Lacan, della produzione, di un più-­‐di-­‐godimento(collegabile ad un plusvalore) (M. Recalcati 1995). Premesso che nel matema lacaniano dei discorsi i posti sono: e che S1 = significante padrone, S2 = il sapere, S/ = soggetto barrato (mancanza-­‐a-­‐essere), 26 a = oggetto “piccolo a”, godimento, — = barra di rimozione. abbiamo il matema del discorso della Civiltà (o del Padrone) e del Capitalista in cui è rilevabile, nel primo matema, il freudiano disagio della civiltà:rimozione del soggetto barrato (nel posto della verità) da parte di un (agente) significante padrone, con il sapere nel posto dell’Altro e con la produzione di godimento (il marxiano plus-­‐valore può essere connesso, come accennato in precedenza, con il plus-­‐godere) (S. Žižek 2004). Nel secondo matema, troviamo una inversione per cui in azione è il soggetto barrato (agente) che rimuove il suo esseresignificante-­‐padrone (verità) nel rivolgersi ad un sapere/Altro e producendo, anche in questo caso, plus-­‐di-­‐godimento (J. Lacan 1978 A. Soueix 1995 M. Recalcati 1995 2010). 2.4.3-­‐ Quest’ultimo matema è particolarmente interessante dato che costituisce una intersezione tra psicoanalisi, filosofia, economia e politica. Si osserva ulteriormente: a) che il capitalista ha sembiante di padrone, è sganciato da un rimosso Significante-­‐causa, la parvenza determina la verità; b) che l’unica verità è la propria, è il soggetto che detiene il potere; c) che si tratta di una posizione tipica del capitalismo contemporaneo in cui non esiste conflitto tra ideale e godimento; La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 27 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino d) che il circuito discorsivo è veloce e circolare secondo l’andamento delle frecce e giocato sul godimento, ovvero si ha una circolarità del consumo senza limiti con una soddisfazione illusoria; e) che il soggetto si rivolge al sapere (scientifico) per produrre oggetti-­‐gadget per consumo e godimento. In tale ambito il biocapitalismo trova una sua dimensione pregnante dato che, in date aree, il soggetto stesso tende ad essere totalmente gadgettizzato in una spettacolarizzazione continua. f) Lacan ritiene la macchina capitalistica veloce nel consumo fino allaconsunzione (J. Lacan 1978), ovvero consumando la macchina capitalisticasi consuma e il suo consumarsi comprende la sintomatologia contemporanea delle tossicodipendenze, delle anoressie dello shopping compulsivo ecc.. 3-­‐ Elogio della retorica 3.1-­‐ La pubblicità come comunicazione, con la sua funzione ideologica, è una delle forme culturali particolarmente dominanti nel biocapitalismo. Nota Baudrillard che «la pubblicità e la propaganda acquistano tutto il loro vigore a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla crisi mondiale del ’29. Entrambe sono linguaggi di massa, nati dalla produzione di massa delle idee o delle merci, i cui registri, prima separati, tendono progressivamente a ravvicinarsi»(J. Baudrillard 1994:101). E che «ciò che stiamo vivendo è l’assorbimento di tutti i modi virtuali d’espressione in quello della pubblicità. Tutte le forme culturali originali, tutti i linguaggi specifici sprofondano nel modo d’espressione della pubblicità, poiché esso è senza profondità, istantaneo e istantaneamente dimenticato. Trionfo della forma superficiale, minimo comun denominatore di ogni significazione, grado zero del senso, trionfo dell’entropia su tutti i tropi possibili. Forma più debole di energia del segno. Questa forma inarticolata, istantanea, senza 28 passato, senza avvenire, senza metamorfosi possibile, poiché è l’ultima e ha potere su tutte le altre. Tutte le forme attuali d’attività tendono verso la pubblicità, e la maggior parte di esse vi si esaurisce. Non si tratta necessariamente della pubblicità nominale, quella che si produce come tale – ma della forma pubblicitaria, quella di un modo operativo semplificato, vagamente seduttivo, vagamente consensuale (tutte le modalità vi sono mescolate, ma in un modo attenuato, indebolito). Più generalmente, la forma pubblicitaria è quella dove tutti i contenuti particolari si annullano nel momento stesso in cui possono trascriversi gli uni negli altri, laddove la caratteristica degli enunciati “pesanti” e delle forme articolate del senso (o dello stile) è di non potersi tradurre reciprocamente, così come le regole di un gioco» (J. Baudrillard 1994:103). 3.2 – La pubblicità fornisce continuamente supporti alla metonimia del desiderio il quale è preda di opportune e strumentali strategie estetico-­‐spettacolari (R. Sassatelli 2004), tutto in una spirale senza fine. La pubblicità traduce i beni in immagini, in simboli che, a loro volta richiamano la merce con un continuo gioco di rimandi (W. Gibson 2005 e F. Carmagnola 2006). Questi beni simbolici partecipano ad un universo sociale e retorico (A. Appadurai 1996) in cui il marxiano rapporto tra struttura e sovrastruttura diviene fluido nel quadro di una economia culturale globale basata su disgiunturerelative a flussi culturali tra cui il mediorama relativo a «’mondi immaginati’, cioè mondi multipli che sono costituiti dalle immaginazioni storicamente situate di persone e gruppi sparsi intorno al globo… forme che caratterizzano il capitale internazionale» (A. Appadurai 1996:109). 3.3-­‐ La pubblicità sembra anche operare attraverso una relazione triangolare connessa col desiderio mimetico (vedi punto 2.3.d.a) di cui parla R. Girard (1999). Il triangolo riguarda il soggetto desiderante, l’oggetto e il modello che si interpone, come mediatore-­‐attrattore, tra il soggetto e l’oggetto. In questo circuito la relazione fondante è quella tra il soggetto e il mediatore-­‐attrattore lasciando quasi in secondo piano l’oggetto. 3.4 Homo videns, homo consumericus, homo felix, homo sucker infine (S. Žižek 2002), sono figurazioni biocapitalistiche che riguardano lospossessamento, il desiderio, il consumo, la merce, il godimento e, infine, l’utopia della felicità (G. Lipovetsky 2006). In quest’ultimo universo si inserisce anche l’homo ludens, quello dell’espressività edonistica, il quarto uomo (P. Dell’Aquila 1995) quello che è statopost-­‐
materialista negli anni ’80 ed è il neo-­‐materialista degli anni ’90: quello dell’affermazione ultima dell’Io narcisista che è però diverso dall’Io narcisista post-­‐industriale. Tutte queste dinamiche rispecchiano le strategie di marketing ma sono inequivocabilmente sempre riconducibili all’economia, allo spettacolo, al feticismo della merce (nella sua evoluzione dal feticismo tradizionale delle merci al feticismo in cui la merce tende a perdere la sua consistenza materiale assumendo la consistenza di entità virtuale – S. Žižek 2004), La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 29 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino 4-­‐ La felicità è una gabbia mediale 4.1 Per quanto riguarda i media come universo comunicativo nell’era del biocapitalismo vediamo che il flusso delle immagini travolge ormai senza lasciare tempo alla riflessione, prescindendo completamente da ciò che il soggetto può capire e pensare. In questa esperienza concreta di sottomissione, che è permanente, si trova la radice psicologica dell’adesione generale a ciò che è presente e che ci rimanda direttamente al flusso delle immagini televisive, al primato delle immagini nella comunicazione globalizzata (A. Drinceanu 2005). Tale flusso produce «il prevalere del visibile sull’intelligibile che porta ad un vedere senza capire» (G. Sartori 2000:21). È il prevalere del consumo delle immagini rispetto alla conoscenza razionale, la televisione stabilizza il potere dell’immagine rispetto alla comunicazione scritta e parlata e struttura spazi di immaginarioattraverso la ripetizione (vedi punto 6.6.c), producendo stereotipi, modelli di comportamento, consenso (V. Codeluppi 2009). L’immaginario collettivo, però, come spazio in cui comunicazione e desiderio si intersecano, tende ad impoverirsi nella misura in cui i flussi mediali di immagini diventano eccessivi, la saturazione della visione non lascia immaginare più nulla. 4.1.a-­‐ Nel mondo rovesciato dello spettacolare integrato biocapitalistico (G. Debord 1997) lo spettacolo–
merce oltre ad essere separazione è anche scissione all’interno del soggetto secondo quanto aveva già scritto Debord e secondo la teoria lacaniana del soggetto. Questa scissione, originata dal prevalere del vedere, come già accennato, a discapito delle altre forme sensoriali, delega la propria soggettività alla forma-­‐spettacolo in maniera irreversibile (R. Massari 2008), abdica se stessa a vantaggio della proiezione dei propri sogni nello spettacolo inteso come immaginario prodotto dal simbolico. 4.2.b-­‐ Su questo piano la televisione, attua quella che Sartori (2000:111) definisce una “mutazione antropogenetica”, producendo l’homo “videns” che a differenza dell’homo sapiens è limitato nel pensiero 30 razionale, difetta di capacità di astrazione e di capacità simbolica, ha difficoltà, infine, nel rappresentare attraverso il linguaggio. Si tratta del passaggio ad un “postpensiero a-­‐logico” senza capacità di connessioni, che ha immaginabili conseguenze negative e rischi per la democrazia. 4.2.c-­‐ B. Stiegler e J. Derrida nel quadro della loro critica radicale alla telecrazia così scrivono: «Solo davanti al mio televisore, posso sempre illudermi di comportarmi in maniera individuale, ma la verità è un’altra: sto facendo la stessa, identica cosa delle centinaia di migliaia di telespettatori che guardano lo stesso programma. Divenute oramai planetarie, le attività industriali tendono a realizzare gigantesche economie di scala, e quindi a controllare e omogeneizzare i comportamenti attraverso tecnologie appropriate: di questo si fanno carico le industrie dei programmi, attraverso gli oggetti temporali che acquistano e diffondono, finalizzati a captare il tempo delle coscienze – cioè l’audience che vendono agli inserzionisti. […] Un oggetto temporale – una melodia, un film, una trasmissione radiofonica – è costituito dal tempo del suo svolgimento – quello che Edmund Husserl chiama un flusso. È un oggetto che passa. Ed è costituito dal fatto stesso di scomparire man mano che compare, così come le coscienze che unisce. Con il sorgere delle trasmissioni radio civili (1920) e più tardi dei primi programmi televisivi (1947), le industrie dei programmi producono oggetti temporali il cui trascorrere coincide con il trascorrere del tempo delle coscienze di cui sono gli oggetti. Questa coincidenza consente alla coscienza di adottare il tempo dei suddetti oggetti temporali. Le industrie culturali contemporanee possono quindi far adottare alle masse degli spettatori il tempo del consumo del dentifricio, delle bevande gassate, delle scarpe, delle automobili ecc. Ed è quasi esclusivamente in questo modo che si finanzia l’industria culturale. […] Ora, una «coscienza» è essenzialmente la coscienza di sé: quella di un singolo. Se posso dire io, è solo perché io mi do il mio proprio tempo. In quanto enorme dispositivo di sincronizzazione, le industrie culturali, e in particolare la televisione, sono macchine adibite alla liquidazione di quel sé di cui Michel Foucault (1992), verso la fine della sua vita, studiava le tecniche. Quando decine di milioni, se non centinaia di milioni di telespettatori guardano simultaneamente lo stesso programma in diretta, quelle coscienze interiorizzano, in tutto il mondo, gli stessi oggetti temporali. E se questo stesso comportamento di consumo audiovisivo si ripete ogni giorno, alla stessa ora e con grande regolarità, è perché tutto concorre a spingere a questo comportamento; e queste coscienze finiscono per divenire quelle di una stessa persona – cioè di nessuno. L’incoscienza del gregge libera un fondo pulsionale che non è più legato da un desiderio, poiché quest’ultimo presuppone una singolarità» (B. Stiegler J. Derrida 1996:158). 4.2 Esito attuale della produzione di immaginario è la “spettacolarizzazione dell’interiorità” come scrive U. Galimberti (2008) e come scrive V. Codeluppi (2008) a proposito dei processi divetrinizzazione. La televisione, con la spettacolarizzazione dell’interiorità, ha fatto crollare quel diaframma che separava l’interiore dall’esteriore, l’intimo dalla sua spettacolarizzazione. Galimberti sottolinea il fatto che la “pubblicizzazione dell’intimo” è pertinente alla “mostra delle merci”, al mostrare in cui i soggetti esistono in quanto esibiscono la loro interiorità di là da ogni pudore. Nello spettacolo televisivo prevale l’apparire, un apparire che nel suo spettacolarizzare sentimenti e sensazioni contribuisce, tutto sommato, alla vittoria di un immaginario omologato in cui le soggettività sono completamente soggiogate. Si assiste poi al fatto che, La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 31 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino in certi format, persone in condizioni-­‐limite sono portate a spettacolarizzare non la loro normalità ma le loro “patologie” (U. Galimberti 2008 ma anche V. Codeluppi 2009). Si tratta della nuova frontiera della degradazione spettacolare che pure ha un suo nutrito pubblico il quale vede rispecchiate in questi format le proprie vicissitudini quotidiane anche le più banali. 4.3 Un ambito nel quale il biocapitalismo produce valore mettendo al lavoro gli individui con tutte le loro componenti biologiche, mentali e relazionali è quello dei reality-­‐show. In questi format il genere umano si spettacolarizza almeno in due articolazioni. Da una parte format che vedono personaggi dei vari ambiti spettacolari, in ribasso di notorietà, agire in situazioni estreme attivando una osmosi giocata tra persona e personaggio. Questi vengono così riciclati caricandosi di nuovo interesse da spendere poi in varie partecipazioni nei vari talk-­‐show successivi. Vi sono poi format in cui vi è gente comune usata nel quadro di sceneggiature rigorose in cui viene opportunamente strumentalizzata la spontaneità specifica dei soggetti, la loro immagine, la loro capacità relazionale. Questi format, dal costo contenuto e con materiale (umano) praticamente inesauribile, sonoformat-­‐specchio in cui viene delineata un’area simbolica nella quale può collocarsi l’esistenza, costruendo conoscenze individuali e collettive in rappresentazioni della realtà comprendenti ruoli e stili comportamentali. 4.4 Il biocapitalismo mediale trova un proprio indirizzo produttivo in un campo in cui si mixano esistenza e spettacolo nella dimensione del divertimento-­‐ o meglio dell’emotainement (emozione e trattenimento)-­‐ ove spesso si dissolve la dignità personale dei partecipanti ai format a vantaggio di una chiacchiera-­‐
spettacolo di consumo accettata pienamente da gran parte dei telespettatori. Studi appositi andrebbero fatti, quindi, in tale ambito evidenziando gli effetti culturali di cinquant’anni di televisione commerciale in Italia, ovvero: verificare secondo quali modalità le persone sono state influenzate da modelli culturali, relazionali e comportamentali tratti da modelli mediali. In particola dalla televisione, un media che sembra offrire a tutti l’accesso sulla strada del potere, della fama e della ricchezza. 4.5 Di fatto viene sfruttato il fatto che la televisione, come altri media, è produttrice di un tipo di cultura in grado di produrre elementi simbolici in grado di coniugarsi con il vissuto individuale in una ambito generale di significati e di percezione della realtà. Su tale piano il biocapitalismo si muove verso una occupazione totale degli spazi relativi ai modelli identificativi soggettivi riproducendosi senza soluzione di continuità. Ciò anche perché la medialità televisiva viene a collocarsi all’incrocio tra il voyeurismo generalizzato imperante ed ilnarcisismo proprio di una parte del pubblico che ormai tende a vivere come se fosse sotto l’occhio continuo delle telecamere. Il tutto nella proliferazione di mitologie spettacolari di cui il potere mediale ha continuamente bisogno per riprodursi. 32 5-­‐ Il totalitarismo dell’outlet 5.1 Il biocapitalismo sembra lasciare al soggetto poche vie di scampo. Si tratta di un tentativo di economicizzazione totale del soggetto come fonte del valore. L’essere umano diviene produttivo attraverso il suo corpo, attraverso la sua mente, attraverso il consumo. Come scrive V. Codeluppi (2008:37) questa tendenza si attua attraverso strategie comunicative e di consumo, personalizzando i prodotti come “riconoscimento di identità” e non come fornitura di merci e/o di servizi. È un nuovo livello di produzione di immaginario da parte del simbolico che tende a risucchiare strumentalmente tempo, energie e idee delle persone per proporre un consumo emotivo, affettivo, tonificante. Questo biocapitalismo, quindi, compendia gran parte dei processi e delle dinamiche che abbiamo esaminato in precedenza portando alcuni di essi ad un più alto livello di sofisticazione come ad esempio, il bio-­‐branding, il product placement e la vetrinizzazione. «Si tratta di un’economia anti-­‐libidica: soltanto ciò che è singolare, e in questo senso eccezionale, può essere desiderabile. Io desidero solo ciò che mi appare eccezionale. Non c’è desiderio per la banalità, bensì una coazione a ripetere che tende verso la banalità: la psiche è costituita da Eros e Thanatos, due tendenze che vengono incessantemente a patti tra loro. L’industria culturale e il marketing cercano di sviluppare il desiderio di consumare, ma di fatto rafforzano la pulsione di morte, nel loro sforzo per provocare e sfruttare il fenomeno coattivo della ripetizione; e in tal modo contrastano la pulsione di vita. In questo senso, dato che il desiderio è essenziale ai fini del consumo, questo processo è autodistruttivo, o come direbbe Jacques Derrida, autoimmunitario. Io non posso desiderare la singolarità di qualcosa, se non in quanto questa cosa è lo specchio di quella singolarità che sono io: una singolarità di cui non sono ancora consapevole, e che questa cosa mi rivela. Ma dal momento che il capitale punta a ipermassificare i comportamenti, deve ipermassificare anche i desideri La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 33 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino e rendere gli individui gregari. A quel punto, l’eccezione è ciò che va combattuto, come già Nietzsche aveva anticipato quando affermò che la democrazia industriale avrebbe fatalmente generato una società gregaria. Siamo in presenza di una vera aporia dell’economia politica industriale. Difatti, mettendo sotto controllo gli schermi di proiezione del desiderio d’eccezione si induce il predominio della tendenza thanatologica, o in altri termini, entropica. Thanatos vuol dire sottomettere l’ordine al disordine. In quanto Nirvana, Thanatos tende ad appiattire tutto: è la tendenza alla negazione di qualunque eccezione in quanto oggetto del desiderio» (B. Stiegler 2009:103). 5.2 Sembra realizzarsi, poi, anche il consolidamento di quella società del controllo come la intendono G. Deleuze (1990) e M. Foucault (1978 1997), ovvero una società in cui si stabilizza un paradigma di potere basato sulle macchine che colonizzano direttamente i cervelli (nei sistemi della comunicazione, nelle reti informatiche ecc.) e i corpi (nei sistemi del Welfare, del monitoraggio delle attività ecc.), dispositividirettamente connessi con la biopolitica. «Il concetto di dispositivo permette di comprendere come funziona una rete di pratiche eterogenee e trasversali. Esso permette di analizzare l’insieme eterogeneo dei discorsi (i pericoli, l’immigrazione, il nemico interno, l’integrazione…), delle istituzioni (agenzie pubbliche, governi, organismi internazionali…), delle infrastrutture architettoniche (aree di attesa degli aeroporti, circuiti Schengen di circolazione, progetti di nuove città dotate di reti elettroniche di sicurezza e di video-­‐sorveglianza integrate), delle leggi (sull’immigrazione, sul lavoro nero, sulla riforma del codice penale, sul terrorismo, sul crimine organizzato), delle misure amministrative (regolarizzazione dei clandestini, accordi transfrontalieri per il respingimento…). La nozione di dispositivo impedisce di vedere il campo come una configurazione di concatenamenti tecnici e giuridici monolitici, consentendo invece di vedere una configurazione di concatenamenti sociali mobili. Essa permette con ciò di distanziarsi dal fantasma della tecnica in senso stretto del termine (satelliti di sorveglianza, informatica, elettronica di spionaggio…), per ritrovare le tecnologie di addestramento del corpo all’obbedienza» (M. Foucault 1997:79). «La biopolitica governa corpi multipli, fissandoli su un supporto identitario stabile che ne garantisca il controllo anche quando estremamente mobile. La proliferazione di identità plurali, anche a livello somatico, nonché la scomparsa di una identità di genere unica, anche attraverso la manipolazione e trasformazione di elementi identitari (attraverso ad esempio la plastica facciale, l’abrasamento delle impronte digitali e in genere ogni intervento sul corpo in senso postumano), rendono più difficile individuare il confine di identità su cui esercitare la sorveglianza. La biometria cerca in qualche modo di ovviare a questo ostacolo, iscrivendo, incrociando e marcando segmenti diversi del corpo a sua volta con diversi confini codificati: sociali, giuridici, di genere, etnici» (L. Amoore 2006). «In questo modello di potere, lo stato non è più l’unico agente di controllo, ma gli individui e le comunità stesse partecipano al loro autocontrollo, autoscrutinio ed autodisciplina attraverso dispositivi di regolazione accettati in quanto tali, quali ad esempio la misurazione del livello etilico, l’assistenza comunitaria, le tecniche di contraccezione, le campagne di vaccinazione, le diete fai da te, l’esercizio 34 ginnico ed altre forme di tecnologie del sé (M. Foucault 1978). Queste ultime operano attraverso la strumentalizzazione di differenti tipi di libertà, […] in quanto parte e frammento di un processo di responsabilizzazione tramite cui gli individui si fanno carico della loro condotta, delle loro competenze, del loro perfezionamento, della loro sicurezza e del loro benessere» (B. Ajana 2005 cfr. anche N. Rose 1999:237). 6-­‐ L’estasi del consumAttore 6.1 Il soggetto al lavoro nel biocapitalismo si presenta con varie figurazioni, Tra queste il consumatore ha un posto centrale. Scriveva W. Benjamin nei Passages (ed. 2002:167): È qui che dimora l’ultimo dinosauro d’Europa, il consumatore. Sulle pareti di queste caverne la merce prolifera come una flora immemorabile, intrecciando come un tessuto ulcerato, i rapporti più sregolati. Un universo di affinità misteriose […] Queste vetrine sono un rebus.. (corsivo mio). Dal punto di vista del marketing, quindi, oggi abbiamo che «il consumatore che le aziende devono soddisfare oggi è un essere profondamente evoluto, mutato e complesso, alla continua ricerca non di meri prodotti ma di prodotti che arrechino esperienze, emozioni e coinvolgimento fattivo. La sua scelta di consumo è fatta di una gestalt ipercomplessa, intrisa di quotidianità, valori, cultura. Inoltre, il consumatore non è più tale solo nel momento della scelta, ma è profondamente legato, linkato ed embedded in uno o più network di persone che hanno punti di interessi e orientamenti in comune (ma che non sono esattamente coincidenti, altrimenti la teoria dei giochi sarebbe troppo facile!) e li condividono in maniera più o meno virtuale. Si passa dal vecchio consumatore individuale a quello collettivo. E non solo: il consumatore dialoga, consiglia, partecipa alla produzione (prosumer) e diventa così La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 35 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino partner dell’azienda. Leggasi ConsumATTORE, un essere non facile da gestire e con il quale relazionarsi. Sopratutto perché in altre fasi diventa ConsumAutore o ConsumatoRe» (C. Sangiorgi 2010). 6.2 Il consumatore come produttore rappresenta per Codeluppi (2008) un terzo fattore del biocapitalismo dopo il processo di astrazione della società e dopo la transizione dall’economia materiale all’economia della conoscenza. Il consumatore viene sempre più coinvolto in attività che si svolgevano in ambito imprenditoriale, acquisendo un ruolo strategico importante nell’ambito dei processi di valorizzazione, divenendo, infine, per l’impresa, l’elemento di partenza per l’attivazione dei processi produttivi (D. Cohen 2007 in V. Codeluppi 2008 e M. De Certeau 2001). Il consumatore quindi produce evalorizza. Il consumatore come produttore acquista le caratterizzazioni che seguono. .Il consumatore è colui che fa un lavoro di straforo (M. De Certeau 2001). .Il consumatore è un prosumer in relazione al tempo libero (A. Toffler 1989). .Il consumatore è attivo nel nuovo spazio della digitalizzazione delle merci. .Il consumatore è artefice di promozione/miglioramento dei prodotti(B. Cova 2003) .Il consumatore è attivo nel passaparola (V. Codeluppi 2008 cit.). .Il consumatore è partecipe della produzione di immaginario collettivo(V. Codeluppi 2010) .Il consumatore è attivo del quadro delle conquiste culturali(innovazione) (T. Frank 1997). .Il consumatore è attivo nell’appropriazione di processi e nellalimitazione del business (A Toffler 1987). .Il consumatore diviene ciò che consuma strutturando così la propria identità (J. Baudrillard 1979). Il consumatore, infine, come nota N. Barile (2004), è soggetto ad undouble bind batesoniano: la marca come una madre promette felicità ad una parte di soggetti targhettizzati ma blocca le aspettative del consumatore operando una selezione attraverso il prezzo ed altri ostacoli. In tal modo il consumatore è dipendente dalla cultura del consumo ma nello stesso tempo tenta di liberarsi di essa (V. Codeluppi 2010). 6.3 Il biocapitalismo, infine, oltre alle forme di occupazione/espropriazione della soggettività cui abbiamo accennato, comprende anche una deriva che tende a saturare ulteriormente spazi di effettiva libertà, approdando ad una contraddizione che mette in pericolo i fondamenti della società: il rapporto sbilanciato tra economia e cultura (J. Rifkin 2000 e V. Codeluppi 2008 ) per cui l’economia tende a fagocitare sempre di più l’ambito culturale da cui essa deriva. Un universo in cui vengono ad affermarsi sempre nuove servitù (A. Burgio 1994) – un ordine nel quale più i servi si sentono padroni più affermano la loro condizione servile. 36 Bibliografia generale e di riferimento 1942, S. C. PEPPER, Word hypotheses. A study in Evidence, Univ. of California Press, Berkeley. 1958-­‐59, J. LACAN, Le Désir et son interpretation, Sem. inedito, EPHE, Paris. 1958 C. LÉVI-­‐STRAUSS, Anthropologie structurale, Plon, Paris. 1965, R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano. 1968, J. LAPLANCHE J. B. PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari. 1968, A. J. GREIMAS, Semantica strutturale, Rizzoli, Milano. 1972, G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari. 1972, J. P. PALMIER, Lacan, le simbolique et l’imaginaire, Ed. Universitaries, Paris. 1973 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze. 1974, J. LACAN, Scritti, Einaudi, Torino. 1974, J. BAUDRILLARD, Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano. 1978, J. 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dellimmaginario.pdf 2012, P. STANZIALE, Ascoltare Lacan, E-­‐Bookwww.slideshare.net/geseleh 40 L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser di Damiano Palano In una famosa fotografia scattata all’inizio degli anni Sessanta, probabilmente nel settembre 1962, si trova fissato un frammento della vita dei «Quaderni rossi», una delle riviste che più ha inciso nella storia intellettuale italiana del secondo dopoguerra (e forse dell’intero Novecento). L’uno accanto all’altro, con le spalle rivolte al muro e gli occhi diretti verso un oggetto che rimane fuori dal campo, nella foto sono ritratti Gaspare De Caro, Raniero Panzieri, Toni Negri e Mario Tronti. Con l’eccezione di De Caro, che dopo aver fornito alcuni contributi importanti negli anni Sessanta preferì assumere una posizione più defilata, gli altri tre protagonisti dell’immagine sarebbero stati ricordati – e sono ancora oggi in gran parte considerati – come i principali esponenti del cosiddetto «operaismo» italiano. E una simile ricostruzione ha senza dubbio più di qualche fondamento, perché il contributo dei tre intellettuali – ognuno dei quali ha proceduto peraltro in direzioni politiche molto differenti – ha davvero impresso un’impronta indelebile a quella rilettura del marxismo in cui si può intravedere il tratto forse più originale della «Italian Theory» (sempre che una simile formula abbia davvero qualche utilità). Ma se si volesse ricostruire la genesi dell’operaismo, e se si volesse dar conto della sua ricchezza, sarebbe necessario riconoscere anche la pluralità di prospettive e di percorsi che convissero all’interno di un filone assai più eterogeneo di quanto le etichette facciano talvolta supporre. A dispetto del ruolo che Panzieri e Tronti ebbero nel definire le ipotesi iniziali, e degli sviluppi apportati da Negri tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, sarebbe per esempio indispensabile riconoscere che il concetto di «composizione di classe» – un concetto davvero centrale per l’operaismo – ebbe la sua genesi soprattutto nelle ipotesi e nelle ricerche condotte da Romano Alquati nella prima metà degli anni Sessanta, e che molte intuizioni di Sergio Bologna ebbero una funzione essenziale nell’indirizzare il suo sviluppo ulteriore, così come per la sua problematizzazione critica. Ma un quadro che volesse davvero restituire la complessità e la ricchezza dell’operaismo italiano non potrebbe neppure dimenticare il contributo di Vittorio Rieser. Nonostante il percorso teorico e politico di questo «intellettuale militante» si sia ben presto allontanato da quelle traiettorie che abitualmente sono considerate come una filiazione (più o meno diretta) dell’esperienza avviata dai «Quaderni rossi», Rieser mantenne infatti ben salde alcune delle idee maturate all’inizio degli anni Sessanta. E, soprattutto, non abbandonò mai la convinzione che l’«inchiesta», che Panzieri indicò come punto di partenza del lavoro dei «Qr», fosse lo strumento imprescindibile per avviare qualsiasi progetto politico. A pochi mesi dalla sua scomparsa – avvenuta il 22 maggio 2014 – un ricco volume curato da Matteo Gaddi offre l’occasione per ricostruire il percorso di Rieser, ripubblicando alcuni suoi interventi recenti, ma raccogliendo soprattutto le testimonianze di quanti ebbero occasione di lavorare con lui nel corso di più di mezzo secolo, come per esempio Goffredo Fofi, Giovanni Mottura, Francesco Ciafaloni, Liliana Lanzardo e Bianca Beccalli1. I contributi accolti nel volume non sono comunque interessanti solo perché forniscono una 1
M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser. Intellettuale militante di classe, Punto Rosso, Milano, 2015. La figura di Rieser è stata rievocata anche da B. Beccalli, Ricordo di Vittorio Rieser: un intellettuale dai molti talenti, in «il manifesto», 24 maggio 2014 [http://ilmanifesto.info/ricordo-­‐di-­‐vittorio-­‐rieser-­‐un-­‐intellettuale-­‐dai-­‐molti-­‐talenti/], A. d’Orsi, La flânerie di un rivoluzionario. Ricordo di Vittorio Rieser, «Micromega online», 26 maggio 2014 [http://temi.repubblica.it/micromega-­‐online/la-­‐flanerie-­‐di-­‐un-­‐
rivoluzionario-­‐ricordo-­‐di-­‐vittorio-­‐rieser/], G. Mottura, Vittorio Rieser e l’inchiesta, in «Inchiesta», 2014, n. 184 [http://www.inchiestaonline.it/lavoro-­‐e-­‐sindacato/giovanni-­‐mottura-­‐vittorio-­‐rieser-­‐e-­‐linchiesta/]. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 41 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino testimonianza umana, ma anche perché iniziano a offrire alcuni elementi preziosi per la ricostruzione dell’itinerario di quello che – con le parole di Fofi – può essere considerato come «uno dei più bei personaggi espressi dalla storia del movimento operaio nella seconda metà del Novecento»2. Un intellettuale militante Nato a Torino nel 1939, Rieser cominciò molto presto il suo impegno politico, già nella seconda metà degli anni Cinquanta, all’interno dell’Unione Socialisti Indipendenti (Usi), una piccola formazione antistalinista fondata nel 1951 da Valdo Magnani e Aldo Cucchi. La prima esperienza che avvicinò Rieser al metodo dell’inchiesta – uno strumento che sarebbe poi rimasto centrale – avvenne però in Sicilia, al seguito di Danilo Dolci, nel 1956. Alcuni giovani militanti torinesi che avranno poi un ruolo importante nella nascita dei «Quaderni rossi» – come Giovanni Mottura ed Emilio Soave – svolsero a Palermo e in alcuni piccoli centri siciliani un’inchiesta, cui Dolci fornì comunque una chiave molto diversa da quella in seguito adottata per le inchieste operaie3. Per Mottura la collaborazione con Dolci si sarebbe protratta ancora per alcuni anni, fino al 1959, ma per Rieser – che fra l’altro conobbe Fofi proprio in Sicilia – si concluse già nel 1956, e da quel momento le sue energie si indirizzarono prevalentemente verso la dimensione della fabbrica. Dopo la confluenza dell’Usi nel Psi, avvenuta al congresso del 1957, Rieser (sempre insieme a Mottura) aderì alla corrente che faceva capo a Lelio Basso e che avrebbe trovato una sede di dibattito teorico importante con la fondazione di «Problemi del socialismo». Proprio in questo periodo Rieser, Mottura e Pugliese iniziarono a «organizzare una presenza studentesca a supporto delle lotte operaie, con la Cgil torinese, quella di Garavini, Alasia, Pugno»4. E in quella stessa fase, Mottura ebbe anche modo di prendere parte all’inchiesta sugli operai della Fiat promossa da Giovanni Carocci e pubblicata su «Nuovi Argomenti»5. I primi contatti con la realtà sindacale – e in particolare con la Fiom – dovevano gradualmente consolidare un piccolo gruppo di giovanissimi militanti di provenienza eterogenea, ma accomunati da una forte avversione allo stalinismo, che affiancavano alla formazione teorica il contatto con la fabbrica e con le rivendicazioni dei lavoratori: «da un lato, uno studio di storia del movimento operaio, centrato in particolare sulla rivoluzione russa (e largamente ispirato – e direttamente guidato – da un’impostazione “eterodossa”, trozkista o anarchica); dall’altro, […] uno studio dei problemi sindacali, in cui i dirigenti della Cgil torinese, da Garavini ad Alasia a Pugno a Fernex, ci spiegavano i principali elementi della contrattazione e la situazione delle fabbriche»6. Il piccolo gruppo assunse un ruolo diretto in alcune vertenze contrattuali del 1959, anche perché l’azione di quel nucleo di studenti (per quanto non certo cospicuo) riusciva a compensare l’assenza del sindacato in molte realtà torinesi. In uno dei primi scritti di Rieser, apparso proprio su «Problemi del socialismo» e dedicato a uno sciopero alla Magnadyne di Torino (una fabbrica di televisori con una quota elevata di manodopera femminile), si può già ritrovare non solo una traccia significativa di quelle esperienze di intervento, ma anche l’anticipazione di motivi che, di lì a poco, diventeranno centrali per la riflessione dei «Qr». Stilando un bilancio delle mobilitazioni cominciate nel ’59, Rieser notava infatti che nel corso della vertenza erano emersi «non solo una generica combattività ‘spontanea’, ma un tipo di partecipazione politica organizzata in forme autonome (le assemblee di sciopero), e – entro certi limiti – una notevole capacità di decisione e di giudizio sulla linea dei sindacati»: elementi che addirittura 2
G. Fofi, Le albe torinesi, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 21. «L’impostazione ci lascia subito un po’ perplessi» – avrebbe infatti ricordato lo stesso Rieser molti anni più tardi, in un volume curato da Enzo Pugliese – «ad esempio, la domanda “Dio vuole che tu sia disoccupato?” crea imbarazzo sia in noi che la dobbiamo porre, sia in molti dei nostri interlocutori, che non ne capiscono il senso. Ma Danilo sostiene che è quella a cui sono state date “alcune delle più belle risposte” – e questo rivela il criterio che influirà anche sulla presentazione dei risultati: selezionare le risposte “più belle” letterariamente, più che analizzare/organizzare le risposte in modo da costruire un’analisi di come era vissuto il problema della disoccupazione (tema centrale dell’inchiesta). Malgrado questo, si tratta per noi di un’esperienza importante, di confronto con una realtà ben diversa da quella torinese (in particolare per Giovanni, che vedrà da vicino cos’è una cittadina della “provincia mafiosa”)». Cfr. V. Rieser, L’inchiesta nella fabbrica e nella società, in E. Pugliese (a cura di), L’inchiesta sociale in Italia, Carocci, Roma, 2008, ora disponibile anche online, sul sito di «L’ospite ingrato» [http://www.ospiteingrato.org/per-­‐vittorio-­‐rieser/]. 4
S. Dalmasso, Una militanza di classe, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 45. 5
Cfr. G. Carocci, Inchiesta alla Fiat, Parenti, Firenze, 1960. 6
V. Rieser, L’inchiesta nella fabbrica e nella società, cit. 3
42 sembravano suggerire che andasse emergendo l’«embrione di una nuova forma di organizzazione permanente»7. Rieser e i «Quaderni rossi» Una sollecitazione decisiva a ripensare le modalità di questo intervento giunse senza dubbio dall’incontro con Panzieri, che si era trasferito a Torino per lavorare all’Einaudi nel 1959 e che ben presto trovò in Rieser, Mottura e Pugliese un piccolo nucleo con cui impostare il lavoro da cui sarebbero poi scaturiti i «Qr», e da cui sarebbe nato anche il progetto di un’inchiesta sugli operai della Fiati. Come ricordava Rieser nel 2001: «Lì l’influenza di Panzieri è stata determinante, nel senso che noi lavoravamo in quel momento con il sindacato non sulla Fiat ma in altre fabbriche torinesi, sostanzialmente quelle dove c’erano già delle lotte, e dicevamo “continuiamo a fare il lavoro su queste cose, alla Fiat come si fa?”. Panzieri, invece, diceva: “no, dobbiamo affrontare la questione e il nodo della Fiat, e l’unico modo per farlo è lo strumento dell’inchiesta”. Quindi, a quel punto sull’inchiesta alla Fiat si coagularono tutti»8. Al gruppo dei giovani torinesi si aggiunsero anche altri elementi, destinati ad avere un ruolo fondamentale nella vita della rivista. Tra questi – oltre al gruppo romano, composto soprattutto da Tronti, Asor Rosa, De Caro, Rita Di Leo – non certo secondario fu l’apporto di Alquati, Emilio Soave e Romolo Gobbi, che provenivano da un percorso diverso rispetto a Rieser e Mottura, e che vissero peraltro la loro esperienza nella rivista con una certa estraneità. Sul primo numero dei «Qr», oltre al contributo molto evidente del mondo sindacale torinese e al fondamentale saggio di Panzieri sull’uso delle macchine nel neo-­‐capitalismo, spiccava senza dubbio un importante testo proprio di Alquati, nel quale si prefiguravano molti di quei tratti delle «forze nuove» della Fiat destinati a emergere negli anni seguenti9. Il saggio di Alquati era in realtà il testo di una relazione presentata a un convegno sulla Fiat organizzato dal Psi torinese, ed era dunque il frutto di un’elaborazione indipendente da quella del gruppo guidato da Panzieri. Ciò nondimeno, in un breve intervento apparso ancora prima dell’uscita del primo numero della rivista, Rieser non si lasciava sfuggire l’importanza delle osservazioni di Alquati, che intuiva – osservando i comportamenti dei nuovi operai – una disponibilità al conflitto tutt’altro che episodica, benché abissalmente distante da quella dei vecchi quadri. In particolare Rieser sottolineava, accanto alle «contraddizioni di fondo della condizione operaia alla Fiat», soprattutto «gli elementi che portavano questo conflitto a uno stadio cosciente», e cioè «il crollo dei ‘miti’, dei modelli di valori con cui la Fiat aveva tentato di integrare l’operaio nel sistema aziendale»10. Simili elementi non potevano certo indurre a generalizzazioni eccessivamente schematiche, ma dovevano piuttosto suggerire la necessità di ripensare l’azione sindacale, adeguandola al livello della soggettività operaia e utilizzando politicamente le contraddizioni nei modelli valoriali: «Così come i modelli di consumo sono strumentali per la direzione capitalistica, le loro contraddizioni vanno viste altrettanto strumentalmente dal movimento operaio. I modelli di valori ‘aziendali’ sono lo strumento dell’integrazione (basata su una mistificazione della condizione oggettiva dell’operaio nella produzione capitalistica); le loro contraddizioni devono essere uno strumento per rompere l’integrazione, e per giungere quindi a una coscienza dei problemi di fondo, cioè della struttura del potere capitalistico dentro e fuori la fabbrica».11 Benché la posizione di Rieser sembrasse convergere su molti punti con quella di Alquati, tra le due prospettive rimanevano però notevoli differenze, in parte ‘metodologiche’, ma soprattutto ‘politiche’, relative in particolare al modo stesso di intendere l’organizzazione ‘politica’. Nel primo numero dei «Qr» tali differenze erano però quasi invisibili, e sarebbero emerse solo più tardi, dinanzi peraltro a urgenze politiche. D’altronde, l’editoriale di apertura di Vittorio Foa sposava la visione che avrebbe contraddistinto la riflessione dei «Qr» e anche quei limiti che sarebbero stati in seguito spesso rimproverati all’operaismo 7
V. Rieser, Note sullo sciopero alla Magnadyne, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 1, p. 87. V. Rieser, Intervista (3 ottobre 2001), in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 190. L’intervista è apparsa originariamente nel Cd-­‐rom allegato a G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Derive Approdi, Roma, 2002. 9
R. Alquati, Relazione sulle «forze nuove». Convegno del Psi sulla Fiat, gennaio 1961, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, ora in Id., Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 27-­‐53. 10
V. Rieser, La politica della Fiom torinese, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 6, p. 675. 11
Ibi, p. 678. 8
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 43 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino degli anni Sessanta: limiti che consistevano innanzitutto nella convinzione che lo sviluppo economico dovesse rendere del tutto obsoleta anche la vecchia distinzione fra un Nord industriale e un Sud arretrato, e in secondo luogo nell’idea che la pianificazione dovesse accrescere sensibilmente il ruolo economico dello Stato (e che si dovesse persino imboccare la via di una gestione ‘autoritaria’ dello sviluppo)12. I contributi pubblicati da Rieser sui primi due numeri della rivista in realtà si concentravano sui criteri di definizione del settore e sulla classificazione del lavoro, e in buona parte sembravano applicare a questo tema la chiave fornita da Panzieri nel saggio sull’uso delle macchine13. Il settore andava infatti ridefinito «in rapporto agli obiettivi dell’azione sindacale, e non solo in rapporto a certi criteri tecnologici e produttivi che si riflettono nell’attuale spinta contrattuale», e ciò comportava anche che si potesse giungere a una definizione politica del settore, da intendere come «una possibilità obiettiva di connessione e generalizzazione di rivendicazioni, nuove in quanto investono aspetti del processo produttivo che finora non erano direttamente toccati, in modo organizzato, dall’antagonismo di classe»14. Sul secondo numero il discorso di Rieser si estendeva – adottando la medesima logica – alla classificazione del lavoro, e anche a questo proposito venivano indicati gli scopi che la classificazione sindacale avrebbe dovuto perseguire: «a) rompere l’“apparenza capitalistica” che tende a nascondere (progressivamente) l’importanza (progressiva) della forza-­‐lavoro. […] b) fornire “prezzi aggiuntivi” al prezzo di mercato della forza-­‐lavoro. […] c) opporsi alla disponibilità di manodopera»15. A chiarire quale fosse la prospettiva che Rieser adottava in questa fase è forse però un testo sulle mansioni apparso nel novembre 1961 in «Problemi del socialismo». Criticando la linea seguita a lungo dai partiti di sinistra sulle lotte sindacali, Rieser sottolineava invece come fosse indispensabile tornare alla condizione operaia, soprattutto per individuarvi «quei problemi che più direttamente si legano alla struttura del potere capitalistico nella fabbrica»16. La mansione doveva dunque essere considerata sotto il profilo del potere, e dunque come «complesso di decisioni direttamente o indirettamente inerenti alla produzione del prodotto»17. Secondo la lettura di Rieser, le trasformazioni produttive rendevano sempre più importanti le decisioni operaie, e ciò tendeva a profilare «una contraddizione potenziale fra la portata crescente delle decisioni ‘tecniche’ degli operai e la concentrazione crescente verso l’alto delle decisioni ‘politiche’»18. La contraddizione ‘potenziale’ non si traduceva necessariamente in risultati politici, ma richiedeva comunque un intervento adeguato da parte delle organizzazioni del movimento operaio: «non vi è un rapporto automatico fra questa contraddizione e determinate conseguenze di rottura nel sistema. La contraddizione ‘di per sé’ non giunge a queste conseguenze: essa, ad esempio, non impedisce di per sé il funzionamento della produzione e l’espansione dell’azienda; essa crea senza dubbio anche delle disfunzionalità sul piano tecnico-­‐produttivo, ma tutto ciò non porta a nessuna conseguenza automatica. Le conseguenze possono nascere se su questa contraddizione si inserisce un intervento cosciente delle organizzazioni operaie, che intenda sviluppare il contrasto su un piano politico, di lotta di classe nella fabbrica»19. Uno spirito simile emergeva, alcuni mesi dopo, anche da un testo dedicato al ruolo dei trasporti nell’integrazione della classe operaia, comparso sempre su «Problemi del socialismo». Al di là delle conclusioni provvisorie cui Rieser giungeva in quell’intervento, l’ottica era sostanzialmente la stessa che emergeva dal secondo numero dei «Qr», aperto dal famoso testo di Tronti su La fabbrica e la società e 12
Ed era in fondo proprio su questa visione che Foa chiudeva il suo intervento: «Questa tendenza porta alla necessità, sempre crescente, di una rigida programmazione della produzione e dei suoi sbocchi, di un sempre più forte condizionamento dei consumi, e quindi di una piena libertà, da parte dell’impresa, rispetto alle sue condizioni interne e rispetto alla vita della società. Ogni elemento di instabilità, per il periodo di ammortamento degli impianti, deve essere eliminato. […] Al limite dell’automazione le tregue saranno richieste per tutto il periodo dell’ammortamento. Ma a quel limite sarà di evidenza solare l’alternativa che già oggi travaglia il movimento operaio e sindacale nei paesi capitalistici avanzati. O tutto il potere sarà consolidato nelle imprese, con la perdita dell’autonomia operaia e sindacale […], oppure un potere di decisione e di controllo, sia pure transitoriamente in termini dualistici di antagonismo continuo, sarà conquistato dalla collettività dei lavoratori-­‐produttori, dallo Stato all’azienda» (V. Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 16-­‐17). 13
Cfr. R. Panzieri, L’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 53-­‐72, poi in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino, 1976, pp. 3-­‐50. 14
V. Rieser, Definizione del settore in una prospettiva politica, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 75-­‐76. 15
V. Rieser, Note sulla classificazione del lavoro, in «Quaderni rossi», 1962, n. 2, pp. 144-­‐164. 16
V. Rieser, La mansione aziendale come problema politico, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 11, p. 1132. 17
Ibi, p. 1135. 18
Ibi, p. 1139. 19
Ibi, pp. 1139-­‐1140. 44 contrassegnato dall’attenzione rivolta alla progressiva integrazione dei diversi momenti del ciclo produttivo (anche di quelli disseminati nella società, al di fuori del perimetro della «fabbrica empirica»). E così Rieser, proprio nelle prime righe, osservava che non si potevano comprendere le scelte di innovazione capitalistica senza considerare «la variabile integrazione della classe operaia nel sistema: cioè l’eliminazione di ogni comportamento disfunzionale al sistema da parte della forza-­‐lavoro; al limite, l’eliminazione di questi comportamenti ad opera della forza organizzata della classe operaia stessa»20. «Sociologi» ed «hegeliani» A dispetto delle convergenze su alcuni punti cardine della rilettura di Marx e dell’interpretazione delle logiche del neo-­‐capitalismo, alla fine del 1962 – quando veniva pubblicato l’articolo sui trasporti – la lacerazione tra le diverse anime dei «Qr» era ormai alle porte. Più che vere e proprie divergenze teoriche – che comunque esistevano, ma che per molti versi attraversavano trasversalmente i due fronti contrapposti – a determinare la frattura furono soprattutto i progetti politici differenti. In termini molto schematici, il punto discriminante stava nel progetto di dar vita a un giornale di fabbrica e conseguentemente a un’organizzazione politica vera e propria, contrapposta non solo ai due grandi partiti della sinistra italiana, ma anche esterna al sindacato. Se Rieser, Mottura, Dario e Liliana Lanzardo (cioè il primo gruppo che si era stretto attorno a Panzieri dopo il suo arrivo a Torino) espresse fin dall’inizio riserve notevoli, l’ipotesi del giornale di fabbrica – che poi sarebbe diventato «classe operaia» – ottenne invece un sostegno convinto da un gruppo in realtà piuttosto eterogeneo, composto fra l’altro da Alquati, dal gruppo romano di Tronti e Asor Rosa, dal gruppo veneto raccolto attorno a Negri (che però sino a quel momento aveva avuto un peso ridotto). E a dare alimento a quell’ipotesi stava soprattutto la convinzione che fossero ormai mature le condizioni per una nuova offensiva operaia. La cosiddetta «rivolta di Piazza Statuto» aveva d’altronde esercitato un’influenza non marginale su molti dei protagonisti dei «Qr». Accusato da alcuni ambienti torinesi di aver fomentato la rivolta, il gruppo prese ufficialmente le distanze dai disordini, che Panzieri in particolare valutò in termini estremamente negativi. Ma quella contestazione confermò comunque la determinazione di quei membri dei «Qr» che puntavano verso una ‘radicalizzazione’. Un tentativo di mediazione fu compiuto con il fascicolo delle «Cronache dei Quaderni rossi», uscito nel settembre 1962, nel quale venivano anche affrontati i fatti di piazza Statuto. Ad aprire il numero era proprio un lungo articolo di Rieser dedicato a La lotta operaia nella programmazione capitalistica (appunti sulla lotta contrattuale dei metalmeccanici), nel quale, pur sottolineando il grande peso della nuova spinta conflittuale, continuava a rimanere centrale il ruolo del sindacato. Rieser non esaminava puntualmente il corso della lotta, anche se forniva una valutazione negativa dei contratti. Ma soprattutto notava come i partiti della sinistra si fossero rivelati ormai pienamente integrati nella logica della programmazione, e come in questo modo le stesse lotte operaie fossero state utilizzate per rompere le resistenze, provenienti dai gruppi capitalistici più arretrati ai progetti di razionalizzazione dello sviluppo avanzati dal governo di centro-­‐sinistra. L’esito contrattuale, in special modo nel caso dell’accordo preliminare con l’Intersind, aveva infatti dimostrato come, grazie all’iniziativa pubblica, si fosse raggiunto l’obiettivo di «imprigionare l’iniziativa autonoma della classe operaia nel modo meno incerto possibile, cioè servendosi delle organizzazioni, sindacali o politiche, della classe operaia stessa»21. Dinanzi a questa situazione, e cioè privi di qualsiasi collegamento con le organizzazioni politiche, i conflitti operai avevano assunto i tratti di mobilitazioni ‘anarco-­‐sindacaliste’, ma proprio il sindacato (ossia la Cgil) aveva in questa occasione raggiunto un punto cardine: «l’affermazione dell’autonomia rivendicativa e di lotta del sindacato e della classe operaia, anche di fronte alla programmazione, può acquistare oggi, nel momento in cui concretamente e in modo massiccio si tenta di negare quest’autonomia, un grande valore di prospettiva per tutto il movimento operaio»22. E proprio questo punto poteva rappresentare «il nucleo di partenza di 20
V. Rieser, Il problema dei trasporti e l’integrazione della classe operaia, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 11, p. 989. V. Rieser, La lotta operaia nella programmazione capitalistica (appunti sulla lotta contrattuale dei metalmeccanici), in «Cronache dei Quaderni rossi», settembre 1962, p. 24 22
Ibi, p. 20. 21
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 45 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino una linea di lotta della classe operaia al nuovo livello politico creato dallo sviluppo capitalistico», oltre che «l’unica base reale da cui può partire la ricerca, faticosa e difficile, di una linea politica anti-­‐capitalistica»23. Il nodo emerso in occasione dei rinnovi contrattuali del 1962 era considerato da Rieser, in una prospettiva più ampia, anche in un articolo apparso sul terzo numero dei «Qr». Dal punto di vista teorico, il riferimento era rappresentato dall’idea secondo cui la pianificazione tendeva a integrare all’interno della logica dello sviluppo capitalistico anche le diverse organizzazioni politiche e sindacali, rendendone dunque l’azione funzionale alla logica dello sviluppo. Si trattava di una visione che discendeva dagli articoli di Tronti apparsi sulla rivista – e cioè La fabbrica e la società e Il piano del capitale24 – ma in generale dall’idea (condivisa dallo stesso Panzieri)25 secondo cui la dimensione del piano dovesse determinare la progressiva riduzione dell’autonomia di partiti e sindacati26. Pur condividendo questo quadro interpretativo – in cui però non era difficile ritrovare le tracce di una difficile mediazione tra posizioni ormai distanti – Rieser segnalava però i margini di autonomia che ancora la Cgil sembrava conservare. In altre parole, se Cisl e Uil sembravano ormai pienamente ‘integrate’ nella logica del piano, la Cgil tendeva a mostrare elementi contraddittori, e dunque la presenza contestuale di integrazione e di autonomia. In particolare, in relazione al rapporto fra incrementi della produttività e aumenti salariali, la Cgil mostrava nelle analisi sulle singole realtà aziendali posizioni ben differenti da quelle articolate a proposito del livello generale, in cui invece venivano adottate pienamente le esigenze di una pianificazione equilibrata dello sviluppo (in funzione della riduzione degli squilibri tra Nord e Sud e in vista dell’eliminazione del monopolio)27. Quando il terzo numero dei «Qr» uscì, la frattura si era ormai consumata, perché di fatto Tronti, Alquati e il gruppo veneto erano già impegnati a dar seguito al progetto di «classe operaia», il cui primo fascicolo fu pubblicato alcuni mesi dopo, all’inizio del 1964. Se a decidere la rottura con il gruppo di «classe operaia» fu lo stesso Panzieri28, in vista del dibattito interno la posizione contrapposta a quella di Tronti fu sintetizzata in una serie di Tesi stese da Rieser insieme a Michele Salvati e dedicate a Lotta operaia e prospettiva politica. Da quelle tesi certo non emergevano chiare indicazioni politiche, ma risultava comunque evidente una certa distanza rispetto alle posizioni di Tronti, soprattutto nel momento in cui veniva evocata l’eventualità di una rottura ‘rivoluzionaria’: «L’apertura di una possibilità rivoluzionaria», si leggeva infatti nelle Tesi, «è […] schematizzabile, in termini molto generali, come nascente dall’incontro tra una incapacità, in un momento storicamente determinato, del capitalismo a realizzare le misure di razionalizzazione che, eliminando certi costi contro cui la classe operaia si batte in quel momento, ne assorbirebbe temporaneamente la lotta, e un certo grado di coscienza politica e di organizzazione operaia, tale da portare quest’ultima a decidere una lotta globale per il rovesciamento del sistema». A dispetto dello stile burocratico con cui le Tesi erano redatte, ciò che spiccava di più – in relazione a ciò che sarebbe diventato l’operaismo italiano con l’esperienza di «classe operaia» – erano, innanzitutto, l’insistenza sul ruolo della «coscienza politica», e, in secondo luogo, una visione del ruolo dell’avanguardia e della strategia in linea con la tradizione leninista. Se infatti – con una celebre mossa – Tronti avrebbe tramutato il partito in «tattica», consegnando la «strategia» ai comportamenti della classe29, le Tesi assegnavano all’avanguardia la definizione della strategia, con espressioni da cui trapelava anche una certa infatuazione per l’illuminismo tecnocratico della programmazione. E infatti, al punto 3.7, Rieser e Salvati scrivevano: «Sul piano concettuale, l’elaborazione di una strategia rivoluzionaria ha le caratteristiche di un modello di previsione, articolato in due parti: a) previsione di tipi di sviluppo e di ‘contraddizioni’ oggettive (eliminabili) del sistema capitalistico, in vari ambiti; b) previsione di sviluppo delle lotte operaie in rapporto a essi, e dei 23
Ibidem. M. Tronti, La fabbrica e la società, in «Quaderni rossi», 1962, n. 2, pp. 1-­‐31, e M. Tronti, Il piano del capitale, in «Quaderni 2 rossi», 1963, n. 3, pp. 44-­‐73, poi in Id., Operai capitale, Einaudi, Torino, 1971 (I ed. 1966), rispettivamente alle pp. 39-­‐59, e pp. 60-­‐
85. 25
Cfr. R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del ‘Capitale’, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, poi in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit., pp. 51-­‐85. 26
Come si leggeva d’altronde sull’editoriale del terzo numero, «le lotte operaie – se non escono dai limiti del piano – possono anche essere utili per il capitalismo: ad esempio, nel momento in cui c’è bisogno di un incremento dei consumi per uno sviluppo capitalistico più avanzato, la lotta operaia può servire ad imporre aumenti salariali anche a quei padroni più ‘arretrati’ che vi si oppongono» (Quaderni rossi, Piano capitalistico e classe operaia, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, p. 12). 27
Cfr. V. Rieser, Salario e sviluppo nella politica della Cgil, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, pp. 211-­‐236. 28
Cfr. la testimonianza dello stesso Rieser, riportata in G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, pp. 760-­‐761. 29
Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, cit., pp. 256-­‐258. 24
46 tipi di organizzazione politica legati alle lotte. […] La verifica dei modelli di previsione formulati avviene nell’impostazione e realizzazione di lotte operaie che siano al tempo stesso, coerenti con tali modelli e coerenti con i criteri politici che si sono scelti. I margini di realizzabilità di lotte di questo tipo sono, ovviamente, variabili. In base alla verifica e falsificazione delle previsioni, operata dalle lotte operaie (sia da quelle impostate coerentemente con i criteri politici dello schema, sia dalle altre), si opereranno modifiche e sviluppi nel modello di previsione, da cui la strategia viene orientata» 30. Il tentativo di sanare la frattura con l’avvio di un giornale di fabbrica, «Cronache operaie», si rivelò un fallimento, e di quella pubblicazione uscì di fatto solo un numero, nell’autunno del 1963. La scissione del gruppo di «classe operaia» è stata rievocata in molte occasioni, e spesso – nelle ricostruzioni retrospettive – sono state sottolineate le divergenze teoriche tra Panzieri e la visione ‘hegeliana’ che emergeva dagli scritti Tronti31. Accanto a questa prima motivazione, si trovava però soprattutto un altro elemento di contrasto, che verteva direttamente sul profilo politico del gruppo, nonché sull’ipotesi di dar vita a un giornale che avrebbe sancito definitivamente la rottura con le formazioni ufficiali del movimento operaio. E, d’altronde, fu lo stesso Panzieri a indicare nella riunione in cui decise la rottura i termini della divergenza: la lettura di Tronti era «un riassunto affascinante di tutta una serie di errori che in questo momento può compiere una sinistra operaia», «una filosofia della storia, una filosofia della classe operaia»; mentre ciò cui i «Qr» potevano puntare era soltanto «un lavoro di formazione di un’avanguardia rivoluzionaria non di massa, le cui tesi politiche per un periodo prevedibilmente lungo non possono coincidere con il movimento reale, ma possono mirare solo in prospettiva a questa coincidenza»32. Il lavoro comune, anche solo limitato a una riflessione teorica, diventava per questo impossibile, almeno agli occhi di Panzieri. E così i due percorsi da quel momento si divaricarono nettamente. Dopo Panzieri Dopo la scissione della componente di «classe operaia», il percorso dei «Qr» fu messo a dura prova dall’improvvisa morte di Panzieri. Come ricorda oggi Liliana Lanzardo, Rieser rifiutò di sostituire ufficialmente Panzieri «nella continuità del lavoro della rivista e del gruppo»33, ma ciò nonostante non cessò di essere una delle sue colonne portanti. Nel quarto numero appariva d’altronde un suo lunghissimo articolo, dedicato a Sviluppo e congiuntura nel capitalismo italiano, nel quale svolgeva un’analisi ad ampio raggio delle prospettive dello sviluppo capitalismo in Italia e dunque dei margini che si aprivano per il conflitto di classe sul breve-­‐medio periodo34. E l’anno seguente, nell’aprile 1965, teneva una relazione al seminario dei «Qr» in cui, dopo un’analisi della situazione interna e internazionale, si delineavano alcuni possibili rapporti operativi non solo con «classe operaia», ma anche con alcune formazioni maoiste (e in particolare con le Edizioni Oriente)35. Già da questi elementi si potevano d’altronde riconoscere i segnali di un mutamento di sensibilità da parte dei «Qr»36. Un mutamento che certo non determinava l’abbandono delle ipotesi originarie, ma che tendeva a riflettersi in una maggiore attenzione verso la dimensione internazionale dello sviluppo e verso le proposte di revisione del marxismo che provenivano dalla «rivoluzione culturale» di Mao. Se il quinto numero della rivista era interamente dedicato al tema dell’inchiesta (con un importante contributo dello stesso Rieser su Informazioni, valori e comportamenti operai37, nell’ultimo fascicolo 30
Tesi Rieser-­‐Salvati, in G. Trotta -­‐ F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 303. Per esempio, si vedano le ricostruzioni di S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Dedalo, Bari, 1976, specie pp. 99-­‐125, F. Schenone, Fare l’inchiesta: i «Quaderni rossi», in «Classe», XI (1980), n. 17, pp. 173-­‐220, S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008, pp. 85-­‐89, oltre che i materiali raccolti in G. Trotta – F. Milana, (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit. 32
R. Panzieri, Intervento alla riunione di redazione «Qr»-­‐«Cronache operaie», in Id., La ripresa del marxismo-­‐leninismo in Italia, a cura di D. Lanzaro, Sapere, Milano, 1972, pp. 301-­‐304. 33
L. Lanzardo, Per Vittorio, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 33. 34
Cfr. V. Rieser, Sviluppo e congiuntura nel capitalismo italiano, in «Quaderni rossi», 1964, n. 4, pp. 87-­‐211. 35
Relazione di Vittorio Rieser al seminario del 17-­‐18 aprile 1965 – Torino, Notizie e documenti di lavoro, aprile 1965. 36
Un bilancio del lavoro compiuto e un programma su quello da fare erano peraltro proposti nell’intervento di V. Rieser, I «Quaderni rossi», in «Rendiconti», 1965, n. 10, pp. 270-­‐288, 37
V. Rieser, Informazioni, valori e comportamenti operai, in «Quaderni rossi», 1965, n. 5, pp. 77-­‐106. 31
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 47 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino comparivano due articoli di Edoarda Masi dedicati rispettivamente agli Insegnamenti teorici del comunismo cinese e a Rivoluzione nel Viet-­‐nam e movimento operaio occidentale38. In quell’ultimo numero, Rieser tornava invece sulla congiuntura internazionale, nel tentativo di prevedere quali fossero i margini di azione negli anni successivi39. Ma si poteva intravedere anche in alcuni suoi contributi il fascino che sulla sua elaborazione esercitavano le posizioni cinesi. L’interesse nei confronti di Mao – del tutto assente invece presso la componente, peraltro eterogenea, che diede vita a «classe operaia» – era d’altronde già affiorato fin dal 1963, quando la prima «Lettera dei Quaderni rossi» presentava un testo di Edoarda Masi Su alcuni temi rilevanti nelle posizioni del Partito comunista cinese40, e sarebbe costantemente riemerso negli anni seguenti. Se lo stesso Rieser firmò alcune delle «Lettere», centrate sul sindacato e su momenti congressuali del Psi41, l’interesse per la lotta anti-­‐imperialista ricompariva infatti nel documento, firmato Quaderni rossi, Note per una discussione su «Problemi della lotta anti-­‐imperialista e situazione nel Medio Oriente», del giugno 196742, e nel testo I cinquant’anni della Rivoluzione d’Ottobre di Dario Lanzardo43, oltre che nel fascicolo monografico di «Quaderni piacentini» Imperialismo e rivoluzione in America Latina, realizzato in collaborazione con i «Qr» e con «Classe e Stato» (un fascicolo alla cui redazione partecipò lo stesso Rieser)44. L’esperienza della «rivoluzione culturale» avrebbe in effetti avuto per Rieser un valore centrale, e ancora nel 2001, ricostruendo le principali matrici teoriche del suo percorso, sarebbe tornato su questo aspetto: «rispetto ai grandi pensatori e leader politici del marxismo, io ho cominciato con Marx attraverso Panzieri, poi sono arrivato a Mao dopo, quando Raniero era già morto, diciamo all’epoca delle rivoluzione culturale, e da lì sono giunto anche a Lenin. Quindi, la risposta che do è di tipo maoista: la soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di costruito dall’avanguardia, dal partito. La soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e però molto spesso è disorganica, contraddittoria, che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa. Secondo me, dal punto di vista teorico l’impostazione maoista resta l’unica valida, perché in Lenin c’è un’accentuazione kautskiana molto forte sul ruolo dell’avanguardia, mentre la risposta di Mao è la più realistica»45. L’esplosione Dopo la conclusione delle attività dei «Quaderni rossi», Rieser – come si è d’altronde visto a proposito del numero sull’imperialismo in America Latina – si era avvicinato al gruppo dei «Quaderni piacentini», cui peraltro collaborava anche Goffredo Fofi. Dopo aver presentato sulla rivista alcuni testi inediti di Panzieri, tra cui la famosa relazione su Lotte operaie nello sviluppo capitalistico46, Rieser pubblicava per esempio un articolo in cui sintetizzava alcuni elementi di analisi sulle traiettorie del capitalismo europeo, già ampiamente trattati sul sesto numero dei «Qr». La congiuntura, secondo Rieser, tendeva a esasperare i margini di intensificazione del lavoro sugli impianti esistenti, senza al tempo stesso poter offrire contropartite rilevanti. Ma questo alimentava una forte risposta operaia, difficile da mediare. «L’attuale fase della razionalizzazione», scriveva per esempio, «stimola la reazione operaia proprio là dove il capitalismo è più vulnerabile anche dalle forme spontanee, meno organizzate, di lotta: cioè al livello 38
Cfr. E. Masi, Insegnamenti teorici del comunismo cinese, e Rivoluzione nel Viet-­‐nam e movimento operaio occidentale, in «Quaderni rossi», 1966, n. 6, pp. 351-­‐372, pp. 373-­‐ 389. 39
V. Rieser, Note sulla congiuntura capitalistica internazionale, in «Quaderni rossi», 1966, n. 6, pp. 180-­‐284. 40
E. Masi, Su alcuni temi rilevanti nelle posizioni del Partito comunista cinese, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 1, 20 novembre 1963. 41
Cfr. V. Rieser, Sulle attuali vicende del partito socialista italiano, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 2, 30 novembre 1963, Id., Le tesi della Fiom per il XIV Congresso, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 3, 1 gennaio 1964, Id., La lotta degli operai della Olivetti contro il sistema di cottimo, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 4, 20 gennaio 1964. Di poco successivo era anche Id., Problemi attuali della Cgil, in «Problemi del socialismo», 1965, n. 2. 42
Quaderni rossi, Note per una discussione su «Problemi della lotta anti-­‐imperialista e situazione nel Medio Oriente», giugno 1967. 43
D. Lanzardo, I cinquant’anni della Rivoluzione d’Ottobre, settembre 1967. 44
Cfr. Imperialismo e rivoluzione in America Latina, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 31. 45
V. Rieser, Intervista, cit., pp. 195-­‐196. Per un ulteriore approfondimento sulla valutazione della «rivoluzione culturale», cfr. V. Rieser, La classe operaia cinese e la lotta tra le due linee, in «Politica comunista», 1973, n. 5, e 1974, n. 8. 46
Cfr. R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 29, poi in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, a cura di S. Mancini, Einaudi, Torino, 1976, pp. 25-­‐50. 48 dell’organizzazione del lavoro»47. Ciò naturalmente non comportava una debolezza della controparte, ma certo consegnava margini notevoli all’azione operaia, che – nel quadro di una progressiva integrazione delle forze politiche e sindacali – si trovava priva di forme organizzate capaci di esercitare un ruolo di guida. Dinanzi a una simile situazione, pur prendendo le distanze dalle posizioni di «classe operaia», Rieser riteneva fosse indispensabile costruire margini di azione al di fuori delle organizzazioni consolidate: «è necessario cioè ripartire dalle radici della spontaneità operaia, con i problemi sindacali che ne vengono posti, e cercare di farle ripercorrere un cammino di crescente coscienza ed organizzazione politica»48. Inoltre, anche se ammetteva che le rivendicazioni puramente economiche assumevano un profilo direttamente ‘politico’, pensava però che la spontaneità non fosse sufficiente, e che fosse dunque comunque necessario cercare di costruire un’organizzazione più stabile, almeno tendenzialmente alternativa a quelle ufficiali. Pur consapevole delle enormi difficoltà, argomentava infatti la necessità di «iniziare un graduale e metodico lavoro di ‘ricollocamento’, che si sviluppi contemporaneamente in due direzioni: verso la creazione di forme organizzative operaie in fabbrica, capaci di cominciare a rispondere sindacalmente ai problemi creati dalla razionalizzazione capitalistica […], e verso la politicizzazione graduale degli elementi di reazione spontanea al sistema che esistono ora»49. Il terreno su cui praticare quel lavoro di sperimentazione era rappresentato dai giornali di fabbrica, di cui erano esempio «Il potere operaio» toscano, ma soprattutto la «Voce operaia», un foglio torinese realizzato direttamente da operai (cui Rieser aveva fornito un supporto importante). Ma ben presto i ritmi – che Rieser prevedeva piuttosto lenti – subirono un’improvvisa accelerazione, dovuta all’esplosione della contestazione studentesca, che in Italia ebbe un epicentro proprio a Torino. Rieser – che allora era assistente di Sociologia – giocò un ruolo significativo nel sostenere la necessità che gli studenti si volgessero verso la dimensione di fabbrica, per trovare un terreno su cui rilanciare il carattere della contestazione50. Il movimento torinese appariva invece nel suo complesso piuttosto lontano dalle posizioni di Rieser, se non altro perché per tutta la prima fase – dall’autunno 1967 fino alla primavera dell’anno seguente – il tema principale fu rappresentato dalla lotta contro l’«autoritarismo»51. Iniziative come quella della Lega Studenti-­‐
Operai ebbero dunque scarso impatto sulla gran parte del movimento torinese, almeno fino ai primi mesi del 196952. Proprio in quel periodo Rieser firmò insieme a Mario Volterra una lunga analisi, dedicata a Movimento studentesco, Pci e centro-­‐sinistra, nella quale si consideravano le diverse alternative che la contestazione universitaria si trovava di fronte. Se per un verso venivano ribadite le linee di interpretazione dello sviluppo capitalistico già svolte in precedenza, il dato più rilevante era in questo caso rappresentato dalla comparsa proprio di un soggetto come il movimento studentesco, che pareva offrire le condizioni di un’estensione del fronte antagonista. Come scrivevano Rieser e Volterra, «si aprono […] possibilità concrete di tradurre in pratica il potenziale allargamento dello schieramento rivoluzionario che – teoricamente – il processo di proletarizzazione dovrebbe produrre nelle società capitalistiche avanzate»53. Ma le potenzialità non equivalevano necessariamente a risultati politici, perché andavano già prendendo corpo tendenze che puntavano a ridimensionare la portata antagonista della protesta studentesca e a funzionalizzarne la spinta alle esigenze stesse delle pianificazione dello sviluppo. Ed era a questo proposito che, nell’analisi di Rieser e Volterra, faceva la comparsa il discorso ‘maoista’ sulla «linea di massa». In questo senso, in un passaggio cruciale, scrivevano infatti: «Per costruire un minimo di strategia e di organizzazione unitaria è necessario, ancora una volta, partire da una analisi delle classi nella società in cui agiamo: da una analisi delle classi nel senso maoista, cioè un’analisi politica che individui il tessuto di contraddizioni in cui le varie classi si situano nel momento attuale e la posizione in cui ciascuna di esse si colloca (o può collocarsi) rispetto a una linea rivoluzionaria. Quest’analisi è particolarmente possibile ora (o meglio, può dare ora risultati diversi e più precisi che nel recente passato) anche in seguito all’azione del Ms: che, portando alla luce, estendendo e 47
V. Rieser, Classe operaia e sviluppo capitalistico europeo, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 30, p. 35. Ibi, p. 39. 49
Ibi, p. 40. 50
Cfr. per esempio V. Rieser, Università e società, in «Problemi del socialismo», 1968, n. 35, pp. 341-­‐353. 51
Cfr. per esempio il testo di G. Viale, Contro l’Università, in «Quaderni piacentini», 1968, n. 33, poi in Id., S’avanza uno strano soldato, Edizioni Lotta continua, Roma, 1973, 19-­‐48. 52
Si veda su questi tentativi, F. Ciafaloni, Le lotte operaie alla Fiat e il movimento studentesco, in «Quaderni piacentini», 1968, n. 35, pp. 73-­‐80. 53
V. Rieser – M. Volterra, Movimento studentesco, Pci e centro-­‐sinistra, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 37, p. 19. 48
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 49 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino intensificando i conflitti esistenti nella società, spinge via via strati sociali (finora passivi o in posizione ambigua) a prendere posizione – in toto o spaccandosi all’interno o per ora in loro parti minoritarie – schierarsi nella lotta da una parte o dall’altra. Proprio per questo collegamento oggettivo esistente tra l’azione del movimento e l’attuale configurazione dello schieramento di classe, il Ms può effettuare quest’analisi partendo da un’analisi della natura e delle ragioni della ragioni della ‘disponibilità politica’ mostrata dai vari strati sociali rispetto all’azione del Ms (senza ovviamente far poi di questo l’unico criterio di misura della più generale ‘disponibilità rivoluzionaria’ di ciascun strato)»54. Benché in queste argomentazioni fossero evidenti le influenze maoiste, in realtà per Rieser l’enfasi sull’analisi della realtà di classe equivaleva, ancora una volta, alla riaffermazione della centralità dell’inchiesta, come strumento attraverso cui pervenire alla definizione della linea politica e delle modalità organizzative. Se Rieser e Volterra indicavano al movimento studentesco la necessità di rinnovare il proprio repertorio di azione e soprattutto di trovare una connessione con le lotte operaie, gli eventi dei mesi successivi sancirono in effetti una almeno parziale saldatura di queste due componenti, attorno alle lotte Fiat. E, sul numero successivo dei «Quaderni piacentini», lo stesso Rieser poteva riassumere, in una lunga intervista, le sequenze del conflitto, destinato a conoscere una prima vetta negli scontri di corso Traiano, il 3 luglio 196955. In quella fase, alle porte della Fiat erano ormai arrivati molti dei frammenti della galassia operaista, e iniziava a prendere avvio la divaricazione tra quelle due anime da cui, di lì a poco, sarebbero nati tanto Potere operaio quanto Lotta continua. Forse fu lo stesso Rieser, insieme a Mario Dalmaviva, a coniare la formula «La Lotta continua», firmando con questa sigla i volantini dell’assemblea operai-­‐
studenti56. Nonostante alcuni elementi di vicinanza (tra cui una certa sensibilità ai temi della «rivoluzione culturale»), Rieser non aderì mai al gruppo di Sofri. E naturalmente conservò una distanza ancora maggiore da «La classe», il giornale che di lì a poco si sarebbe trasformato in «Potere operaio». Rispetto alle impostazioni di quest’ultimo gruppo, Rieser esprimeva chiaramente il proprio dissenso già nell’estate 1969, nonostante riconoscesse a «La classe» il merito di aver compreso la centralità delle rivendicazioni salariali. La distanza di Rieser stava però tutta nel giudizio di «spontaneismo» che dava del gruppo che faceva capo a Negri e Bologna, e – più precisamente – che fosse necessario lavorare per costruire delle avanguardie capaci di dare continuità alle rivendicazioni. In particolare, Rieser riteneva cruciale costruire «avanguardie di massa», costituite sui luoghi di lavoro da elementi che fossero in grado di operare «una certa unificazione delle parole d’ordine», di «svolgere un’azione di collegamento», di «creare embrioni di organizzazione che abbiano certe possibilità di durata in fabbrica»57. Ma, oltre a questo, era anche necessario pensare a vere e proprie «avanguardie politiche», in fondo molto simili alle avanguardie della tradizione marxista-­‐leninista: «Non possiamo assolutamente rinviare il processo di formazione e di chiarificazione interna di una avanguardia politica composta da studenti e da operai che, senza illudersi di poter prevedere e pianificare il futuro in misura troppo elevata, sappia però valutare giorno per giorno e con un minimo di anticipo tutti i problemi e le decisioni di lotta a cui ci si trova di fronte, che sappia estrarne il significato politico più profondo e proporlo a livello nazionale, e che sappia vedere quali sono le indicazioni di prospettiva che tutta quest’esperienza di lotta dà, da un lato per la formazione del partito, e dall’altro in indicazioni di strategia, di azione di questo partito»58. 54
Ibi, p. 25. Cfr. V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 38, pp. 2-­‐29. 56
Su questa paternità, si esprimeva lo stesso Rieser: «c’era la fase dell’assemblea studenti-­‐operai, la nascita della sigla Lotta Continua, che inizialmente è nata non come sigla di un gruppo: mi ricordava Mario Dalmaviva che, a quanto pare, l’abbiamo inventata io e lui perché ogni giorno si faceva un volantino e, siccome le lotte si estendevano, una volta l’abbiamo titolato La Lotta Continua, dunque era un titolo descrittivo che poi è rimasto. Sofri poi si è impadronito di questo, ha rotto l’unità molto confusa dell’assemblea studenti-­‐operai, ha costruito il suo gruppo e a quel punto io non l’ho seguito nel suo progetto» (V. Rieser, Intervista, cit., in Borio, pp. 199-­‐200). Una versione analoga è stata rievocata anche dallo stesso Dalmaviva: «Gennaio-­‐febbraio 1969. Con Vittorio Rieser e con un operaio che lavorava alla Meccanica di Mirafiori, un militante politico dei gruppi, cominciammo a discutere della situazione alla Fiat, ad andare alle porte e a tenere delle riunioni con pochi compagni che erano interessati a un discorso sulla condizione operaia. […] Decidemmi di fare un volantino […] legandolo alle solite tematiche salariali […] La Lega studenti-­‐operai praticamente non c’era più e dovevamo risolvere il problema della firma. Noi eravamo fondamentalmente studenti o militanti dei gruppi e ci presentavamo senza firma politica. Al primo volantino discutemmo con Vittorio come firmarli. Mica potevamo distribuirlo anonimo. Lui propose “La Lotta continua”, ma il “La” non piaceva e fu cancellato. La nascita di Lotta continua. Eravamo davvero quattro gatti. Vittorio, Dario e Liliana, Ottavio un operaio di Mirafiori, e qualche studente del gruppo di Sociologia» (testimonianza in A. Grandi, Insurrezione armata, Rizzoli, Milano, 2005, pp. 129-­‐130). 57
V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 38, p. 26. 58
Ibidem. 55
50 I problemi sollevati da Rieser non erano molto diversi da quelli che, di lì a pochi mesi, avrebbero affrontato anche Lotta continua e Potere operaio, perché in effetti i motivi teorici della loro divaricazione furono proprio relativi al modo in cui concepire l’«avanguardia» su cui costruire l’organizzazione59. Nella realtà la divaricazione aveva naturalmente anche altre motivazioni, ma entrambe le formazioni – con qualche rilevante differenza – ritennero che l’organizzazione dovesse essere costruita a partire dalle avanguardie ‘interne’, e cioè le avanguardie emerse nelle diverse situazioni conflittuali. La posizione di Rieser, pur riconoscendo la centralità delle avanguardie ‘interne’ (che definiva come «avanguardie di massa»), riaffermava però la necessità di un altro livello di avanguardia, caratterizzato anche da una preparazione teorica e da una militanza specifica al di fuori del luogo di lavoro e dentro un’organizzazione specificamente politica60. E proprio una simile convinzione doveva progressivamente allontanare Rieser dalle componenti dell’operaismo (e del futuro «post-­‐operaismo»), per spingerlo verso un recupero più esplicito del leninismo e, qualche anno più tardi, verso l’approdo a una formazione come Avanguardia operaia, che a Milano aveva in qualche misura combinato alcune dimensioni in senso lato ‘operaiste’ con un’impostazione marxista-­‐leninista (contrassegnata peraltro da un marcato antistalinismo)61. Il lavoro di porta La militanza a tempo pieno di Rieser – che aveva abbandonato l’attività di assistente all’Università di Torino per insegnare alla scuola serale, proprio per poter continuare il ‘lavoro di porta’ alla Fiat – si scontrò però, dopo l’esplosione conflittuale del ’69, con una nuova difficoltà. Sebbene Rieser avesse avuto un ruolo significativo nelle attività dell’Assemblea operai-­‐studenti, la sua decisione di non entrare nei due principali gruppi che presero forma dalle lotte alla Fiat – Potere operaio e soprattutto Lotta continua – fece sì che per un periodo la sua militanza assumesse il profilo di un lavoro di inchiesta quasi individuale62. Il piccolissimo gruppo raccolto attorno a Rieser, che tentava di introdurre nelle lotte di fabbrica alcune tematiche maoiste, si incontrò con il percorso del Collettivo Lenin, una formazione che a Torino conobbe un certo sviluppo tra il 1969 e il 1973, quando confluì in Avanguardia operaia63. Nel Collettivo (che era nato da un precedente collettivo di formazione cattolica, approdato allo studio di Lenin e Mao), Rieser trovò il potenziale su cui costruire quell’«avanguardia politica» che a suo avviso risultava tanto importante per poter sfuggire ai rischi di un riassorbimento dell’ondata conflittuale. Ma, se per un verso la formazione teorica rimaneva fondamentale per la costruzione di un’«avanguardia politica», per l’altro era ancora più importante consolidare ciò che aveva definito come un’«avanguardia di massa», e cioè uno strato di militanti direttamente operativi negli ambiti lavorativi (e non necessariamente emanazione dell’organizzazione strettamente politica)64. In effetti, uno degli obiettivi fu proprio la costruzione dei Cub, i Comitati Unitari di Base, che – a differenza di quanto era avvenuto a Milano, dove erano nati come organismi ‘spontanei’ già nel 1968 – ebbero uno sviluppo piuttosto tardivo, e anche per questo il Collettivo Lenin riconobbe la 59
Cfr. per esempio, A. Sofri, Relazione introduttiva, in «Giovane critica», n. 19, 1969, ora in R. Massari (a cura di), Adriano Sofri, il ’68 e il Potere operaio pisano, Massari, Bolsena (Vt), 1998, pp. 305-­‐324, ma anche cfr. L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano, 1989 (II edizione), e D. Giachetti, La carovana di Lotta Continua e l’«eterno» problema dell’organizzazione, nel bollettino del Cipec «Storia cultura politica», s.d., pp. 5-­‐14. 60
A proposito della questione dell’organizzazione, Rieser partecipò anche a una dicussione condotta sulla rivista delle Edizioni Oriente «Vento dell’Est» nel 1968 (dal n. 7 al n. 10), e, qualche tempo dopo, sviluppò anche una critica alle posizioni ‘maoiste’ de «il Manifesto», per cui si veda A proposito dell' articolo di M. Salvadori e della tematica de «il manifesto», in «Vento dell’Est», V (1970), n. 17, poi ripreso in M.L. Salvadori – V. Rieser, Rätesystem und Maoismus, Merve, Berlin, 1972. 61
Cfr. S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., e D. Giachetti, Vittorio negli anni dei Comitati Unitari di Base, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 69-­‐76. 62
Cfr. 1969/1977. Lotte operaie a Torino. L’esperienza dei Cub, Comitato Unitari di Base, Punto Rosso, Milano, 2009, pp. 66-­‐67. 63
«Nato dall’esperienza della Lega studenti-­‐operai che tenta di legare il movimento studentesco, nella sua fase di maggiore espansione, con le lotte operaie» scrive Sergio Dalmasso, «il piccolo movimento politico ha il merito di cercare una solida formazione dei militanti (Marx, Lenin, Mao, un comunismo non staliniano ne sono le basi) e di avere il proprio centro nell’esperienza dei Cub di fabbrica, certo meno radicati e noti di quelli milanesi, ma esperienza significativa e capace di formare quadri politici centrali nelle lotte operaie e nella loro proiezione politica» (S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., p. 47). 64
Come ricorda in questo senso Riccardo Barbero, l’influenza maoista di Rieser, «tesa a superare vecchie concezioni sul rapporto tra le diverse forme di organizzazione politica e di lotta sindacale», orientò «la discussione sugli organismi politici di base». Cfr. R. Barbero, Vittorio Rieser e il Collettivo Lenin, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 65. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 51 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino necessità di operare all’interno dei consigli di fabbrica e di riconoscere anche la legittimità dei delegati (e dunque la necessità di interagire con le strutture sindacali)65. Se questi erano gli obiettivi, non è difficile riconoscere nello stile di lavoro del Collettivo la forte impronta che derivava a Rieser dall’esperienza dei «Qr» e che si traduceva, ancora una volta, nella centralità dell’inchiesta, riletta ora nella chiave maoista della «linea di massa», e considerata – si leggeva per esempio in un documento del 1972 – come l’«unica maniera per conoscere bene quali sono le esigenze e le idee degli operai» e come il solo strumento per «stabilire un corretto rapporto con le masse»66. Il radicamento dei Cub nella realtà torinese, avvenuto soprattutto tra il 1972 il 1973, indusse il Collettivo Lenin a ricercare un coordinamento nazionale con altre formazioni che portassero avanti una linea analoga, e una simile sponda venne trovata soprattutto in Avanguardia operaia, che a Milano aveva in effetti sostenuto i Cub fin dal loro apparire. Da questo avvicinamento, scaturì nel 1974 la vera e propria confluenza del Collettivo Lenin in Avanguardia operaia, nella cui organizzazione Rieser assunse un ruolo di primo piano. Dopo aver partecipato nel 1975 alle elezioni amministrative a Torino, sostenendo una lista denominata «Democrazia operaia», in vista delle elezioni politiche del giugno 1976 Ao diede vita – insieme a Lotta continua e Pdup – al cartello elettorale «Democrazia proletaria», che aveva come obiettivo il sostegno a un governo di sinistra (alternativo alla linea del «compromesso storico»), ma la cui avventura si risolse in una clamorosa sconfitta67. Dopo le elezioni del 20 giugno 1976 Lotta continua avviò il processo di scioglimento, sancito alcuni mesi dopo dal congresso tenuto a Rimini, ma anche Avanguardia Operaia – seppure più lentamente – iniziò a incamminarsi verso quel processo che avrebbe condotto alla fusione col Pdud e alla formazione di Democrazia proletaria (non più cartello elettorale, ma vero e proprio partito), nel 1978. Al dibattito post-­‐elettorale prese parte ovviamente anche Rieser, che inizialmente considerò la sconfitta come «profondamente salutare» per le forze della sinistra radicale68. In realtà, la discussione interna si sarebbe ben presto rivelata lacerante, anche perché – in vista della fusione col Pdup – venne da alcune componenti messa in radicale discussione la stessa esperienza dei Cub. In questa fase di dibattito, protrattasi per più di un anno, Rieser – che faceva parte del Comitato Centrale di Ao – si schierò contro il segretario Aurelio Ciampi, che aveva avviato un processo parallelo di unificazione con la componente del Pdup che faceva capo a Lucio Magri69. Nel marzo 1977, in occasione del suo quinto congresso, Avanguardia Operaia decise comunque lo scioglimento, finalizzato alla costruzione di un’organizzazione più ampia, che divenne l’anno seguente Democrazia proletaria70. Rieser – che peraltro dopo l’ingresso in Ao, anche per le necessità del suo ruolo politico, si era trasferito all’Università di Modena, lasciando Torino e la scuola serale – entrò nella nuova formazione, senza però assumere mai incarichi direttivi. Dentro le trasformazioni La fine dell’esperienza di Avanguardia Operaia coincise per molti versi con la conclusione dell’attività politica diretta di Rieser (che comunque, verso la fine degli anni Ottanta, si iscrisse al Pci e poi, nel decennio seguente, a Rifondazione comunista, senza però mai assumere ruoli ufficiali). Ciò nondimeno, la ricerca ‘militante’ non si arrestò, e Rieser di fatto proseguì il lavoro di inchiesta soprattutto partecipando, fin dai primi anni Ottanta, all’Ires-­‐Cgil di Torino, presso il quale trascorse anche un lungo periodo di distacco sindacale, dal 1989 fino al 199971. Tra le numerose indagini di questa fase spiccano ricerche sui delegati sindacali, sulle trasformazioni del mondo operaio e, ancora una volta, sugli stabilimenti Fiat, radicalmente 65
Cfr. D. Giachetti, Vittorio negli anni dei Comitati Unitari di Base, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 69-­‐76. Documento del Cub Fiat Mirafiori, 13 settembre 1972, citato in 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., p. 96. 67
Per ricostruire gli obiettivi di quell’operazione, può essere utile rileggere V. Rieser, Conferenza stampa radiofonica, in «Quotidiano dei Lavoratori», 4 giugno 1976, citato parzialmente in S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., p. 48. 68
V. Rieser, Indicazioni per un bilancio critico, in «Quotidiano dei Lavoratori», 23 giugno 1976, citato in 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., p. 190. 69
Su questa fase, cfr. per esempio l’intervento sottoscritto da Roberto Biorcio, Vittorio Borelli, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Ripresa dell’iniziativa politica e problemi interni al partito, in «Quotidiano dei Lavoratori», 16-­‐17 gennaio 1977. Ma, per un quadro generale, cfr. 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., pp. 190-­‐193 70
Su questo processo, si veda W. Gambetta, Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Punto Rosso, Milano, 2010. 71
Un quadro molto ricco delle ricerche compiute in questo contesto è offerto da Gian Carlo Cerutti, Trasformazioni del lavoro e relazioni sindacali tra crisi del fordismo e post-­‐fordismo, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 93-­‐111. 66
52 modificati dalla ristrutturazione degli anni Ottanta72. Ma anche negli ultimi anni della sua vita – ormai in pensione e alle prese con i problemi di salute – Rieser tornò nuovamente sui temi che lo avevano accompagnato per più di mezzo secolo, confermando ancora una volta la centralità dell’inchiesta come strumento conoscitivo e come via preliminare alla definizione di ogni disegno progettuale, che fosse politico o sindacale, e che si distendesse sui tempi lunghi delle prospettive strategiche o rimanesse circoscritto sui tempi rapidi di un intervento puntuale. Nel 2010, introducendo Lotte operaie nella crisi, un volume di Matteo Gaddi dedicato all’analisi di alcune realtà aziendali del Nord colpite dalla crisi, Rieser tornava a ribadire la centralità dell’inchiesta come strumento su cui incardinare qualsiasi discorso politico e sindacale. L’iniziativa di Gaddi – che in qualche modo raccoglieva l’eredità di Rieser, seguendone anche le indicazioni di metodo – nasceva anche dalla presa d’atto che, con la scomparsa dalla geografia parlamentare italiana della sinistra radicale, fosse indispensabile tornare a ricostruire un progetto politico partendo dalle fondamenta, ossia proprio dalla dimensione del lavoro. Rispetto alle vecchie inchieste degli anni Sessanta e Settanta, naturalmente i materiali che Gaddi proponeva non potevano che registrare la realtà di un contesto completamente mutato, che presentava innanzitutto l’assenza quasi completa di quadri militanti in grado di poter fornire un anello di connessione materiale tra i ‘ricercatori’ e i lavoratori, e proprio per questo gli interlocutori erano soprattutto lavoratori iscritti al sindacato (dunque soggetti già relativamente ‘politicizzati’). Si trattava inoltre di quelle che Rieser definiva «inchieste lampo», ossia inchieste realizzate in tempi molto rapidi, con l’obiettivo di un intervento immediato in una situazione di emergenza, a cui dovevano seguire anche inchieste a più ampio raggio73. Il punto principale era però che si trattava di materiali di inchiesta dal profilo chiaramente ‘politico’, e cioè finalizzati non a ‘fotografare’ una situazione, ma a fornire strumenti conoscitivi in vista di un’azione in un contesto specifico, oltre che, in secondo luogo, a costruire uno strato intermedio di militanti, capaci di utilizzare l’inchiesta come strumento di lavoro principale74. Presentando una sezione della rivista «Progetto lavoro», in cui apparivano elementi di indagine raccolti soprattutto dallo stesso Gaddi75, Rieser scriveva d’altronde che lo strumento dell’inchiesta era necessario per fornire conoscenze ai lavoratori e ai militanti sindacali, ma sottolineava anche – in evidente polemica con molte interpretazioni provenienti dall’operaismo – come l’inchiesta dovesse essere il frutto tanto delle esperienze dei lavoratori, quanto – al tempo stesso – dei dati complessivi a disposizione degli «specialisti»: «Una conoscenza vera delle condizioni di lavoro nasce solo dall’esperienza-­‐conoscenza dei lavoratori; ma, al tempo stesso, va ‘completata’ con informazioni e dati sulla produzione, i suoi mercati, la situazione finanziaria, le leggi che agiscono sull’economia, che vanno ricavati da altre fonti. Noi quindi non crediamo in un ‘sapere operaio’ auto-­‐sufficiente, contrapposto alla ‘scienza borghese’, come hanno teorizzato alcuni settori dell’operaismo e alcune ideologie superficiali legate al movimento del ’68. Pensiamo […] che la conoscenza derivante dall’esperienza dei lavoratori vada integrata con il sapere tecnico derivante dalle 72
Tra le pagine di Rieser – disperse fra riviste, rapporti di ricerca e pubblicazioni occasionali – possono essere ricordati, per esempio, M. Franchi – V. Rieser, Esperienza e cultura dei delegati. Un’indagine nella realtà metalmeccanica modenese, Bonhoeffer Edizioni, Reggio Emilia, 1984, G. Cerutti – V. Rieser, Fiat: qualità totale e fabbrica integrata, Ediesse, Roma, 1991, G. Cerruti – F. Ciafaloni – F. Liso – V. Rieser, Professionalità in transizione, Ediesse, Roma, 1991, G. Cerruti – V. Rieser, L’imperfetta modernizzazione. Una ricerca sui quadri Fs in Piemonte, Ediesse, Roma, 1995, F. Perini – V. Rieser, Salute, sicurezza e condizioni di lavoro. Un’indagine tra le iscritte e gli iscritti della Cgil Piemonte, Ediesse, Roma, 2004, oltre che l’opuscolo Dentro il lavoro, l’Unità, Roma, 1989 (nel quale sono presentati alcuni primi risultati della ricerca commissionata dal Pci). Forse il testo più significativo di questa fase è però rappresentato da V. Rieser, Fabbrica oggi. Lo strano caso del dottor Weber e di mister Marx, Sisifo, Siena, 1992, parzialmente ripreso anche in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 206-­‐226. 73
Cfr. M. Gaddi, Lotte operaie nella crisi. Materiali di analisi e di inchiesta sociale, Punto Rosso, Milano, 2010. Si veda al proposito la lettura proposta in La società dentro la fabbrica. A proposito di alcune inchieste recenti, 18 maggio 2011 [http://www.damianopalano.com/2011/05/la-­‐societa-­‐dentro-­‐la-­‐fabbrica-­‐proposito.html], raccolto anche nell’e-­‐book Al termine della notte. Tracce nella decadenza italiana (2013). 74
V. Rieser, Prefazione, in M. Gaddi, Lotte operaie nella crisi, cit., pp. 5-­‐23. 75
Fra i casi considerati da Gaddi su «Progetto Lavoro», per esempio la cantieristica (n. 1, 2010), l’ex distretto tessile della Valseriana (n. 1, 2010), la Bassano Grimeca di Rovigo (n. 3, 2011), l’Elettrolux (n. 5, 2011), Ibm di Vimercate (n. 8, 2011), Invatec-­‐
Medtronic di Brescia (n. 10, 2012), CF Gomma di Passirano (n. 10, 2012), Memc di Merano (n. 11, 2012), Porto Marghera e Murano (n. 13, 2012). La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 53 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino conoscenze di specialisti ed esperti, e che solo da una sintesi, autonoma e critica, di questi due filoni di conoscenza possa derivare una base conoscitiva adeguata all’azione di classe»76. L’accenno polemico alle concezioni del «sapere operaio» sviluppate da «alcuni settori dell’operaismo» non era certo sorprendente per quanti conoscevano il percorso intellettuale e politico di Rieser, e d’altro canto anche il riferimento alle «conoscenze di specialisti ed esperti» sembrava riproporre proprio quella idea ‘neo-­‐illuministica’ delle scienze sociali che spesso venne rimproverata ai «Qr» dopo la rottura tra Panzieri e il gruppo composito che diede vita a «classe operaia». Se infatti molti critici – sviluppando le critiche già accennate dallo stesso Panzieri – avrebbero in seguito accusato Tronti di costruire una filosofia della storia idealistica77, gli esponenti dell’operaismo – o quantomeno dell’operaismo che prese forma con la «rivoluzione copernicana» proposta da Operai e capitale, avrebbero continuato a considerare negativamente la fiducia risposta da Rieser e dai «Qr» nella sociologia (e più specificamente nella «sociologia borghese»). Il più deciso in questa critica fu naturalmente Alquati, che fin dall’inizio aveva polemizzato con le concessioni eccessive alle scienze sociali di matrice statunitense fatte da Rieser e dagli altri giovani raccolti attorno a Panzieri (per questo definiti spesso, non senza un tono spregiativo, «sociologi»)78. E ancora oggi, d’altronde, nella completa ricostruzione della storia dell’operaismo italiano compiuta dallo studioso australiano Steve Wright, l’ultima fase dei «Qr» viene ricordata, seppur solo tangenzialmente, per l’«uso acritico della sociologia»79. In effetti negli scritti di Rieser degli anni Sessanta – almeno fino al momento in cui nel 1969, per seguire il «lavoro di porta» alla Fiat, non abbandonò l’università, dedicandosi quasi a tempo pieno all’attività politica – si poteva riconoscere l’influenza della sociologia italiana del periodo. E in particolare si poteva intravedere più di qualche eco del contributo di intellettuali come Luciano Gallino e Alessandro Pizzorno, che andavano introducendo in Italia molti temi della sociologia industriale statunitense. Quel contributo, che pure proveniva da intellettuali vicini alla sinistra, si era scontrato alla fine degli anni Cinquanta con la severa opposizione degli ambienti vicini al Pci, in cui erano ancora forti le resistenze alla sociologia della tradizione crociana. In un intervento scritto a quattro mani con Laura Balbo, Rieser nel 1962 faceva il punto del dibattito, sottolineando in particolare come spazi di dibattito significativi giungessero dalla riflessione della scuola dellavolpiana, e in particolare di Lucio Colletti e dello stesso Tronti, in cui – pur rimanendo un pregiudizio nei confronti delle scienze sociali – la rilettura non ideologica del marxismo poteva aprire direzioni di ricerca sociologica. Ma Balbo e Rieser riconoscevano soprattutto la validità di una prospettiva che integrasse il marxismo – come critica del capitalismo – con le tecniche della ricerca sociologica, e in questo senso per esempio scrivevano: «L’analisi dell’alienazione capitalistica, in particolare, della condizione operaia nella fabbrica, può valersi ora di strumenti ‘tecnici’ offerti dalla moderna sociologia e psicologia; di tali tecniche viene fatto spesso un uso ambiguo e ideologico; in un contesto marxista possono dare risultati nuovi e assai utili. Da un altro lato, è possibile – sul piano formale – una revisione della formulazione linguistica di certe ipotesi marxiane, che ne elimini ambiguità e contraddizioni. Un’operazione del genere può valersi ora di tecniche assai raffinate, e può dare risultati non trascurabili»80. La scelta dei temi che indicavano Balbo e Rieser al termine del loro articolo non era certo casuale, perché si trattava per molti versi dei nodi al centro della discussione dei «Qr». Leggendo oggi i carteggi dei protagonisti, è abbastanza evidente che i componenti del gruppo romano – e in particolare Tronti – nutrivano ben più di qualche riserva nei confronti dell’utilizzo che Rieser faceva delle tecniche sociologiche, ma è anche evidente che l’avversario forse più radicale dei «sociologi» era proprio Alquati, che rivendicò fin dal principio l’originalità della propria «conricerca», metodologicamente nettamente contrapposta 76
V. Rieser, Perché questa sezione della rivista, in «Progetto Lavoro», n. 1, p. 43. Questa visione dell’inchiesta ritorna, in modo piuttosto fedele, anche nel recente volumetto di Matteo Gaddi, Crisi industriale e classe operaia. Spunti per un lavoro di inchiesta, Punto Rosso, Milano, 2015, in particolare alle pp. 106-­‐130. Per alcune notizie, cfr. M. Gaddi, L’ultima fase dell’inchiesta, in Id., (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 172-­‐186. 77
Paradigmatico è in tal senso il vecchio articolo di R. Sbardella, La Nep di «Classe operaia», in «Classe», XI (1981), n. 17, pp. 239-­‐262, ma sulla stessa linea anche A. Mangano, Autocritica e politica di classe. Diario teorico degli anni Settanta, Ottaviano, Milano, 1978, specie pp. 79-­‐131. 78
Cfr. per esempio R. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità alternative, Torino, 1994, p. 145. Ma cfr. anche F. Schenone, Fare l’inchiesta, cit. 79
S. Wright, L’assalto al cielo, cit., p. 89. 80
L. Balbo – V. Rieser, La ‘sinistra’ e lo sviluppo della sociologia, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 3, p. 192. Su temi simili, cfr. anche V. Rieser, Sociologia industriale e sviluppo capitalistico, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 9-­‐10, pp. 901-­‐912, e Id., Lavoratori, sindacati e progresso tecnologico, in «Quaderni di sociologia», XII (1963), n. 1, pp. 58-­‐72. 54 all’«inchiesta» portata avanti dagli altri componenti dei «Qr», oltre che dallo stesso Panzieri. Su molte di queste divergenze Rieser sarebbe d’altronde ritornato in diverse occasioni, chiarendo in termini retrospettivi alcuni passaggi e soffermandosi anche sui limiti della visione dello stesso Panzieri, che pure rimase sempre un riferimento per l’intellettuale torinese. In un testo apparso alla metà degli anni Settanta, in cui rievocava tanto Panzieri quanto l’origine dei «Qr», ricordava certo gli apporti positivi della rivista, relativi in particolare all’analisi innovativa delle trasformazioni del capitalismo, al riconoscimento delle nuove forme in cui si esprimeva l’autonomia operaia, alla critica delle visioni del socialismo canonizzate dall’esperienza sovietica e infine alla riproposizione della questione della forma dell’organizzazione politica. Accanto a questi meriti, non nascondeva però i limiti, e in questa rassegna non era certo difficile riconoscere un riflesso delle polemiche che, in quegli anni, Ao andava conducendo sia contro le formazioni dell’estrema sinistra che si richiamavano all’eredità dell’operaismo, sia contro i teorici dell’«autonomia del politico» entrati nel Pci. Tra questi limiti, Rieser segnalava infatti «una sopravvalutazione degli aspetti programmati e razionalizzatori dello sviluppo capitalistico», «una critica tutta ideologica al riformismo del movimento operaio», «un’esaltazione ideologica, che attribuiva alla coscienza spontanea della classe operaia un livello politico e una sistematicità assai lontani da una realtà che era assai più complessa e contraddittoria», «teorizzazioni spontaneiste sul problema dell’organizzazione», «una visione schematica della realtà di classe, ridotta allo scontro tra classe operaia e classe capitalistica», «una sottovalutazione degli obiettivi democratici della lotta di classe in Italia», oltre che «una percezione unilaterale e deformata di molti aspetti dell’esperienza cinese»81. Benché salvasse Panzieri dall’accusa di «spontaneismo» – un’accusa che invece a suo avviso fondata per il gruppo di «classe operaia» – in realtà Rieser sottolineava come una simile tentazione fosse almeno in parte implicita nella stessa generalizzazione tratta dai «Qr» a proposito delle nuove forme di lotta operaia. «La stessa analisi unilaterale del capitalismo italiano», secondo Rieser portava infatti Panzieri «al tentativo di costruire una prospettiva strategica unicamente a partire dai contenuti impliciti nelle lotte di fabbrica: contenuti che egli non mitizza, che cerca di sottoporre a elaborazione; ma un’elaborazione che, proprio perché basata su una visione unilaterale della realtà, finisce per essere fortemente ideologica»82. Anche dopo gli anni Settanta la valutazione dell’esperienza dei «Qr» non si sarebbe modificata nelle sue coordinate, anche se naturalmente il mutare del clima politico avrebbe quantomeno indebolito la polemica contro lo «spontaneismo»83. Al di là della specifica visione del rapporto tra organizzazione politica e dimensione di massa, che Rieser formulava allora (e in qualche misura avrebbe continuato a formulare anche in seguito) in termini ‘maoisti’, c’erano però alcune differenze più sostanziali che separavano la sua ricerca da quella dell’operaismo (o quantomeno dell’operaismo nato da «classe operaia» e poi declinatosi in molteplici varianti). E queste differenze emersero per molti versi fin dai primi anni Sessanta, nella contrapposizione tra l’«inchiesta» e la «conricerca». Tanto Rieser quanto Alquati sarebbero tornati più voltre a ribadire le rispettive posizioni, e Rieser avrebbe anche riconosciuto come la «conricerca» – ossia una ricerca cui prendessero parte direttamente gli operai, e in cui dunque sparisse la distinzione tra ricercatore e operaio-­‐oggetto della ricerca – fosse senz’altro preferibile, ma richiedesse condizioni molto rare, spesso anzi del tutto assenti84. Una ricostruzione di parte, ma comunque indicativa, della contrapposizione era compiuta – solo alcuni anni dopo – dallo stesso Rieser, insieme a Dino De Palma e a Edda Salvadori, sul quinto numero dei «Qr». Ripercorrendo infatti le tappe di svolgimento dell’inchiesta alla Fiat del 1960-­‐61 – quella da cui erano partite tutte le ipotesi della rivista – i tre ricercatori tornavano sulla contrapposizione, che in parte rifletteva anche le residue ostilità verso la sociologia americana, individuando due diverse visioni dell’inchiesta: «Da un lato si sosteneva che la scelta dei problemi e degli strumenti con cui affrontarli doveva essere condotta sulla base dei nostri problemi politici, e che su quella 81
V. Rieser, Panzieri e i «Quaderni Rossi», in «Politica comunista», III (1975), n. 3, pp. 31-­‐32. Ibi, p. 35. 83
Valutazioni simili – anche se meno segnate dalla polemica politica contingente – vennero riproposte due decenni dopo, in un volume che ricordava Panzieri: cfr. la testimonianza di Rieser compresa in P. Ferrero (a cura di), Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Punto Rosso – Carta, Milano – Roma, 2006 (I edizione 2005), pp. 222-­‐239. 84
«La disputa era astratta», ricordava nel 2001, «perché quando hai la possibilità di fare conricerca è chiaro che è questo il metodo migliore, però se sei all’esterno di una situazione e l’inchiesta è il primo strumento di presa di conoscenza di quella realtà ovviamente devi ricorrere a metodi tradizionali, non nel senso di fare questionari quantitativi (quando puoi farli vanno bene anche quelli), ma devi usare con il dovuto senso critico dei metodi tradizionali di ricerca» (V. Rieser, Intervista, cit., pp. 193-­‐194). 82
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 55 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino base l’inchiesta doveva procedere in modo molto rigorosamente sociologico. Si potevano e si dovevano, naturalmente, utilizzare tutte le possibilità di contatto che l’inchiesta offriva per individuare eventuali quadri operai che avrebbero potuto assumere subito un ruolo politico più attivo (non escluso quello di ricercatori): ma l’impostazione dell’inchiesta dovevamo essere noi a darla, molto chiaramente, in partenza, e non poteva sorgere spontaneamente dal susseguirsi di contatti con gli operai»85. Al di là delle considerazioni dei protagonisti e dello stesso Alquati (che peraltro avrebbe lavorato per un’intera vita sulla precisazione di cosa si dovesse intendere per «conricerca»86), è molto probabile che la divergenza non fosse tanto ‘metodologica’, quanto di carattere strettamente ‘politico’. Per molti versi, infatti, il gruppo dei «sociologi» intendeva l’inchiesta come un lavoro di studio e ricerca sulla soggettività operaia del tutto ‘preliminare’ al lavoro politico e dunque alla costruzione (insieme al sindacato) di determinate linee di azione, anche se era scontato che proprio il lavoro di inchiesta dovesse stabilire o consolidare rapporti con operai che potevano rivestire un ruolo di ‘avanguardie’, o comunque di militanti. Al contrario, Alquati – in cui, almeno nei primi anni Sessanta, era piuttosto forte l’influenza di un certo ‘anarco-­‐sindacalismo’ di matrice francese e statunitense – pensava verosimilmente la «conricerca» come un lavoro direttamente ‘politico’, non tanto per la partecipazione diretta degli operai, quanto perché doveva puntare a ricostruire il processo produttivo ‘dal basso’ – dal «punto di vista operaio» – connettendo e organizzando quelle tracce di antagonismo che già esistevano. In una simile visione, ovviamente il ruolo dell’organizzazione strettamente ‘politica’ di fatto scompariva, assorbita interamente dall’azione diretta degli operai dentro il processo lavorativo e dentro il tessuto organizzativo che veniva a unificare i diversi punti che ‘bloccavano’ la razionalità del «piano». Ed era invece proprio questo aspetto che Rieser avrebbe severamente contestato, rimproverando tra l’altro a Panzieri il fatto che un simile spontaneismo fosse una conseguenza dell’interpretazione del neo-­‐capitalismo, in virtù della quale ogni fattore di blocco e resistenza poteva essere considerato come una ‘rottura’. In questo modo, però si tralasciava del tutto il problema dei valori e la questione della coscienza, nella convinzione che dai comportamenti operai scaturisse direttamente una rivendicazione di potere. Nelle premesse e nelle conseguenze del lavoro di inchiesta, sintetizzavano De Palma, Rieser e Salvadori, si nascondeva così una duplice ambiguità: «se da un lato la coscienza politica era vista come un obiettivo da raggiungere, in certa misura indispensabile per la stessa lotta sindacale, dall’altro essa compariva come già implicita nei comportamenti operai di conflitto e di protesta, anche nei loro aspetti più immediati», e proprio per questo la «coscienza politica» compariva «al tempo stesso come obiettivo e come premessa del nostro intervento»87. Anche sulla scorta di questo riesame critico dell’inchiesta del 1960-­‐61, Rieser – sempre sul quinto numero dei «Qr» – ebbe cura di chiarire come nel lavoro di indagine dovessero essere tenuti ben distinti i comportamenti dalle informazioni e soprattutto dai valori. Rieser – che peraltro non utilizzò mai il concetto di «composizione di classe» nel significato con cui venne inteso da «classe operaia», soprattutto grazie alla ridefinizione compiuta da Alquati – non negava l’importanza dei comportamenti, ma sottolineava anche come una loro analisi dovesse essere sempre affiancata dall’analisi delle informazioni e dei valori. E, più specificamente, riteneva che il riferimento a informazioni, valori e comportamenti fosse molto più utile e chiaro della contrapposizione tra «forza-­‐lavoro» e «classe operaia» introdotta soprattutto da Tronti, per indicare, rispettivamente, i lavoratori come strumento ‘passivo’ del processo di produzione e i lavoratori in quanto soggetto collettivo, capace di interrompere il processo lavorativo. Una simile contrapposizione rischiava per Rieser di diventare fuorviante, nel senso che suggeriva l’idea che i lavoratori fossero o totalmente integrati, oppure totalmente rivoluzionari, mentre la realtà era ovviamente più articolata, nel senso che – come scriveva – si presentavano «situazioni in cui informazioni, valori e comportamenti peculiari della classe operaia si accompagnano ad altri mutuati da gruppi sociali diversi, e in cui informazioni, valori e comportamenti conflittuali col sistema sociale esistente si accompagnano ad altri integrati nello stesso sistema»88. Tutto il discorso di Rieser puntava però a reintrodurre un nodo fortemente presente nella tradizione marxista-­‐leninista e invece fino a quel momento quasi del tutto assente nella riflessione dei «Qr», ossia il nodo della «coscienza di classe», perché a suo avviso proprio su questo elemento l’inchiesta doveva insistere, per poter costruire un progetto politico che andasse oltre 85
D. De Palma – V. Rieser – E. Salvadori, L’inchiesta alla Fiat nel 1960-­‐61, in «Quaderni rossi», 1965, n. 5, pp. 219-­‐220. Cfr. per esempio R. Alquati, Per fare conricerca, Calusca, Padova, 1993. 87
D. De Palma – V. Rieser – E. Salvadori, L’inchiesta alla Fiat nel 1960-­‐61, cit., p. 251. 88
V. Rieser, Informazioni, valori e comportamenti operai, cit., p. 87. 86
56 l’immediatezza dei comportamenti conflittuali. Se il modello di coscienza di classe da adottare indicava «il tipo di informazioni e di valori che si considerano adeguati ai nostri obiettivi politici, e indica i problemi a cui tali informazioni e valori si riferiscono», l’inchiesta doveva porsi l’obiettivo «anzitutto di fornire elementi di conoscenza utilizzabili per confrontare il grado attuale di coscienza operaia con quel modello, in secondo luogo di contribuire a creare strumenti di intervento che sviluppino nella coscienza operaia elementi coerenti al modello, in terzo luogo di stimolare direttamente, negli operai intervistati, una presa di posizione di fronte ai problemi contenuti nel modello»89. Anche se forse il risultato raggiunto nell’articolo del ’65 non era del tutto soddisfacente, Rieser non avrebbe mai abbandonato la convinzione che, nel lavoro di inchiesta, fosse sempre indispensabile considerare anche il livello della coscienza politica. Anche per questo avrebbe considerato sempre molto criticamente, oltre che la distinzione tra «forza-­‐lavoro» e «classe operaia», anche l’idea che da una determinata «composizione tecnica» della forza-­‐lavoro dovessero scaturire specifici comportamenti conflittuali, e dunque un’altrettanto determinata «composizione politica»90. In realtà non tutti i filoni dell’operaismo adottarono quella distinzione e soprattutto l’idea di una relazione necessaria fra la dimensione ‘tecnica’ e quella ‘politica’, perché per esempio Sergio Bologna – che pure ebbe un ruolo determinante tanto nel tratteggiare quello schema, quanto nel delineare la figura dell’«operaio massa» – già all’inizio degli anni Settanta imboccò una direzione piuttosto differente91. Ciò nondimeno, rimane vero che l’elemento della coscienza politica nei filoni operaisti – pur non essendo del tutto assente – rimane spesso su un piano secondario (o marginale), a fronte della centralità assegnata ai comportamenti operai e ai ‘residui’ conflittuali sedimentati nella struttura della composizione di classe. Ed era invece proprio sulla centralità della coscienza di classe che Rieser sarebbe tornato quasi costantemente, anche nei suoi ultimi interventi, adottando in questo caso lo schema proposto da Erik Olin Wright, che distingue tre differenti livelli: «la percezione delle alternative», «le teorie sulle conseguenze» e infine «le preferenze»92. Il velo dell’«apparenza» Il costante richiamo all’importanza della «coscienza di classe», la critica serrata contro lo ‘spontaneismo’ e la stessa polemica indirizzata alle visioni ‘operaiste’ del «sapere operaio» – motivi che ritornano nei suoi scritti, dagli anni Sessanta in poi – non deve però indurre l’impressione che il percorso di Rieser possa essere racchiuso entro le coordinate della tradizione marxista-­‐leninista, o dentro i confini del «marxismo ortodosso». Benché Rieser abbia in effetti considerato a lungo (forse sempre, o quantomeno a partire dalla fine degli anni Sessanta) come riferimenti cruciali gli scritti di Lenin e Mao, per comprendere pienamente il suo itinerario è importante ricordare come la sua concezione della «coscienza di classe» fosse molto distante da quella adottata dalle diverse varianti del leninismo, perché quella idea veniva declinata in una variante ben distante da quelle che erano ravvisabili nelle formazioni ‘filocinesi’ degli anni Sessanta. Per molti versi nella tradizione leninista (o meglio nelle principali varianti di questa tradizione), la coscienza di classe viene ad assumere due differenti profili, che si sovrappongono spesso ambiguamente l’uno sull’altro: innanzitutto, la coscienza di classe è, in termini politici, la coscienza della propria forza, del proprio ruolo, del proprio compito, che l’Arbeiterklasse conquista nel corso di una lunga stagione di conflitti, i quali – in linea tendenziale – conducono i singoli operai e le singole frazioni in cui è divisa la classe 89
Ibi, p. 88. In questo senso, nell’intervista del 2001 riportava per esempio un parere del sindacalista Gianni Marchetto: «Quando gli si chiede che esperienza ha avuto dell’operaio-­‐massa, lui risponde: “quando ero segretario della lega di Mirafiori ne ho conosciuti due: Massa Giacomo, che era della manutenzione e iscritto al sindacato, e Massa Giuseppe, che era uno combattivo delle carrozzerie non iscritto”. E poi da lì chiede: “come vi spiegate che a Mirafiori il turno A ha sempre scioperato meglio del turno B malgrado avessero ovviamente la stessa composizione di classe? Perché la soggettività del singolo operaio c’entra, perché in uno c’erano certi operai e nell’altro certi altri”. Questo è un contributo teoricamente importante per il rapporto tra composizione di classe e soggettività» (V Rieser, Intervista, cit., pp. 203-­‐204). 91
Sul percorso di Bologna, ho proposto uno schema di analisi in D. Palano, Nel cervello della crisi. La «storia militante» di Sergio Bologna fra passato e presente, in «tysm», vol. 6, n. 9, novembre 2013. 92
V. Rieser, Analisi di classe, inchiesta e costruzione strategica, in «Progetto Lavoro», 2011, n. 4, p. 53. Il riferimento era in particolare a E.O. Wright, Classes, Verso, London, 1985. 90
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 57 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino lavoratrice a riconoscere gli interessi comuni e a difenderli collettivamente; in secondo luogo, in termini ‘filosofici’, la coscienza di classe è invece la conoscenza non mistificata della società capitalistica, una conoscenza che consente di comprendere quale sia il ‘reale’ interesse della classe lavoratrice, non sulla base di un’identità politica comune, bensì sulla scorta di un’analisi di lungo periodo condotta con gli strumenti della teoria marxista da parte di un gruppo ristretto di individui, che – proprio perché dotati dei mezzi analitici adeguati e della «teoria rivoluzionaria» – possono assumere il ruolo politico di avanguardia. Benché questo schema sia evidentemente semplificato, esso riesce forse a cogliere un’ambiguità che percorre – più che semplicemente la tradizione leninista – l’intera traiettoria del marxismo. Ma, soprattutto, non è difficile ritrovare una formulazione nitida della connessione tra la centralità della teoria marxista e la legittimazione del ruolo dell’avanguardia politica nelle pagine leniniane di Che fare?, perché in questo caso la battaglia contro lo «spontaneismo» e il «tradeunionismo» è combattuta proprio in nome di una visione la cui superiorità politica si gioca sul terreno della capacità di visione (e previsione). E ciò significa che l’idea secondo cui «la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica»93 si può reggere solo sull’idea che quella coscienza politica – che può essere portata «dall’esterno» – sia in realtà il prodotto di una conoscenza non mistificata della realtà dello sviluppo capitalistico e delle sue tendenze, e che proprio per questo sia superiore scientificamente alle posizioni che assecondano le tendenze ‘spontanee’ al «tradeunionismo». Al di là della legittimità di una simile ricostruzione, il punto è che proprio distinguendo queste due differenti concezioni della «coscienza di classe» si può forse comprendere appieno il ‘leninismo’ (riletto in chiave ‘maoista’) di Rieser, e dunque cogliere senza deformazioni il significato del suo costante richiamo alla «coscienza di classe». In effetti, Rieser fu per molti versi ‘leninista’ nel rivendicare la centralità del ceto politico, ossia nell’affermare la necessità di quadri preparati teoricamente, in grado di influire «dall’esterno» sui lavoratori e sulle loro decisioni. Proprio per questo, polemizzò sempre contro lo ‘spontaneismo’, che esaltava l’azione ‘autonoma’ della classe operaia, trascurando tanto l’importanza dei livelli di mediazione politica e sindacale, quanto il peso della formazione teorica dei quadri. Al tempo stesso – e vale la pena sottolinearlo, perché si tratta di un aspetto forse non opportunamente segnalato – Rieser non condivise mai la convinzione ‘leninista’ secondo cui la teoria sarebbe l’unico strumento capace di squarciate il velo ideologico che occulta la realtà e di mostrarne dunque il volto non mistificato. E proprio per questo non concepì mai la «coscienza di classe» come una forma di conoscenza ‘non mistificata’ consentita dalla teoria, né tanto meno intese dunque l’avanguardia come la ristretta cerchia di dirigenti capaci di guidare le masse grazie alla superiorità del loro sapere. Per cogliere questo aspetto della riflessione di Rieser sono cruciali alcuni suoi scritti della metà degli anni Sessanta, in cui – in modo molto più organico di quanto avrebbe fatto in seguito – si concentrò su due concetti della teoria marxista e sulla loro utilizzabilità sotto il profilo dell’indagine sociologica. In un contributo apparso nel 1965 sui «Quaderni di Sociologia», Rieser si dedicava infatti a un esame puntale del concetto di «alienazione», svolgendo una breve rassegna sia dell’uso che ne aveva fatto Marx nei suoi scritti, sia delle interpretazioni che ne erano state date dai successivi autori marxisti e dalla sociologia. La tesi generale di Rieser era che il concetto di «alienazione» fosse eccessivamente pregno di densità filosofica, e che soprattutto – riferendosi all’espropriazione di un’«essenza» originaria che caratterizzerebbe l’essere umano – potesse essere applicato a molte realtà, col risultato di smarrire la specificità che l’alienazione presentava nel modo di produzione capitalistico. E proprio per questo, come d’altronde Rieser avrebbe fatto anche in seguito, la soluzione consisteva nell’intendere l’alienazione in relazione alla struttura di potere all’interno del quale il lavoratore si trova inserito, e dunque, in particolare, «alla sua esclusione da determinati poteri di decisione che sono prerogativa della direzione di fabbrica o – in un ambito più vasto – di una ‘élite di potere’»94. Nel corso della discussione, Rieser evocava anche il problema – che affiorava, pur sporadicamente, nelle pagine marxiane – del rapporto fra realtà ed 93
Lenin, Che fare (1903), Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 115. V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, in «Quaderni di Sociologia», XV (1965), n. 2, p. 166. Una soluzione simile era anche adottata, circa un quarto di secolo dopo, nelle note metodologiche per la ricerca sul lavoro commissionata dal Pci alla fine degli anni Ottanta, riportate sinteticamente in Dentro il lavoro, cit., e poi in V. Rieser, Fabbrica oggi, cit., dove si legge per esempio, a proposito della nozione di «alienazione»: «Si sceglie una definizione volutamente riduttiva e parziale: l’alienazione viene definita come mancanza di controllo, in un duplice riferimento: -­‐ al lavoro: mancanza di controllo sulle condizioni del proprio lavoro (immediate e/o più mediate o indirette); -­‐ al progetto: mancanza di controllo sulle condizioni realizzazione dei propri progetti che includono il lavoro» (ibi, p. 146). 94
58 apparenza: in altre parole, Marx rilevava che dalla condizione di alienazione degli operai all’interno della fabbrica non discendeva necessariamente un comportamento antagonista, perché il loro antagonismo poteva essere limitato dal fatto che avessero una conoscenza ‘mistificata’ della realtà. Dunque, per Marx sembra esistere «una struttura oggettiva con due facce, quella ‘reale’ e quella (altrettanto oggettiva della prima) ‘apparente’: il carattere ‘antagonistico’ o meno degli atteggiamenti operai dipende dal fatto che essi abbiano coscienza soltanto della faccia ‘apparente’ (mistificata) di tale struttura, o giungano alla coscienza di quella ‘reale’»95. Se in Marx la visione duplice della realtà sociale rimaneva in fondo marginale, in molti marxisti successivi doveva invece diventare fondamentale, ed era proprio per segnalare le implicazioni deleterie di questa operazione che Rieser attaccava forse l’espressione filosofica più elegante del Linkskommunismus degli anni Venti, ossia il György Lukáks di Storia e coscienza di classe, e in particolare la sezione dedicata alla «reificazione»96. Nel discorso di Lukáks – osservava Rieser – la reificazione appariva come «l’alienazione più la mistificazione di cui il capitalismo la riveste»97, ma l’ambiguità dei concetti comportava una serie di problemi, il principale dei quali consisteva nella difficoltà di comprendere in quale modo si potesse uscire dalla condizione di «reificazione»: quest’ultima, infatti, in parte appariva come un risultato ‘oggettivo’ del modo di produzione capitalistico, mentre dall’altro sembrava una condizione dalla quale il proletariato (e non la borghesia) poteva uscire, perché, come scriveva il filosofo ungherese, «il pensiero proletario ha per scopo il rovesciamento fondamentale dell’insieme della società». Per fondare questo passaggio, Lukáks tornava alla connessione tra alienazione e antagonismo del giovane Marx, una soluzione che – agli occhi di Rieser – comportava una serie di limiti: «la coscienza rivoluzionaria del proletariato e il successo dell’azione che ne consegue sembrano essere il prodotto necessario dello sviluppo storico, l’esito a cui inevitabilmente porta, attraverso un capovolgimento dialettico, proprio il raggiungimento della massima reificazione. L’ambiguità di tale posizione appare nel momento stesso in cui il fine pratico del proletariato (il rovesciamento del capitalismo) è considerato come un dato: il raggiungimento del grado di coscienza e di organizzazione necessario per realizzare tale fine diviene allora assai meno precario, perché la chiarezza e l’intensità del fine determina una progressiva selezione dei mezzi atti a raggiungerlo»98. Lo spunto polemico di Rieser contro il giovane Lukáks, e contro la concezione della «coscienza di classe» che emergeva dai suoi scritti degli anni Venti, non era affatto un motivo occasionale, e d’altronde veniva ulteriormente ripreso in un articolo di poco successivo, dedicato esplicitamente al nodo dell’«apparenza» nell’analisi marxiana99. In questo testo, altrettanto importante di quello sull’alienazione per la piena comprensione delle categorie interpretative adottate in seguito da Rieser, venivano ripercorse le differenti sequenze in cui Marx sviluppava l’idea secondo cui la totalità sociale si presenta con due facce, una reale e una mistificata, e soprattutto erano esplorate le tappe da toccare per superare l’«apparenza» (e per svelare la realtà che struttura le relazioni sociali). Se Marx aveva iniziato a svolgere la propria idea dell’«apparenza» in relazione alla critica dell’economia politica, mostrando come le categorie economiche occultassero la realtà dei rapporti sociali, questo schema era stato poi esteso anche alle modalità con cui le differenti classi concepiscono le dinamiche economiche, il salario o il mercato. In altre parole, a questo punto, il problema non era più quello di una spiegazione scientifica, incapace di cogliere le ‘leggi’ fondamentali del modo di produzione capitalistico, bensì quello della rappresentazione della società e dei suoi meccanismi da parte dei singoli lavoratori. Ancora una volta, Lukáks era indicato come il filosofo che con maggiore convinzione aveva sviluppato questa idea, già implicita in Marx, giungendo in particolare a formulare la nozione di «reificazione» (come sintetizzava Rieser, infatti, «reificazione = alienazione + apparenza»)100. Il punto era però che, per effetto di una simile operazione, la dimensione oggettiva della reificazione tendeva a confondersi, e a diventare non distinguibile, dalla dimensione soggettiva, ossia dalla concreta 95
V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, p. 138. Cfr. G. Lukáks, Storia e coscienza di classe (1923), SugarCo, Milano, 1991, pp. 107-­‐275. 97
V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, cit., p. 142. 98
Ibi, pp. 143-­‐144. 99
Su Lukáks e su Storia e coscienza di classe sono comunque da vedere anche le annotazioni svolte da Rieser in un seminario del 2006, organizzato da Riccardo Bellofiore, la cui trascrizione è ora riportata in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit. pp. 227-­‐
241. torna anche in u 100
V. Rieser, L’«apparenza» del capitalismo nell’analisi di Marx, in «Quaderni di Sociologia», XV (1966), n. 1, pp. 57-­‐88. 96
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 59 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino rappresentazione che i soggetti storici danno della realtà in cui sono inseriti. In sostanza, il fenomeno della reificazione discendeva da una logica oggettiva, ma in questo modo non poteva che essere teoricamente rimosso un altro processo cui pure Marx accennava in diversi punti, ossia il processo soggettivo grazie al quale i diversi soggetti sociali procedono – attraverso la propaganda, l’educazione, la manipolazione – a diffondere una determinata rappresentazione della realtà. E questo, di fatto, impediva anche di considerare la «coscienza di classe» come un prodotto storico, ossia come l’esito di dinamiche soggettive, dal momento che le sue caratteristiche venivano semplicemente derivate da ‘leggi’ oggettive. Come scriveva nitidamente Rieser: «nel rapporto tra ‘apparenza’ e ‘realtà’ che si istituisce nell’analisi marxiana, entrambi i termini del rapporto sono oggettivi. È oggettiva l’apparenza in cui i dati di una determinata realtà sociale si presentano tra loro non connessi, o connessi solo in modo parziale e deformato, come è oggettiva la legge che li connette nel loro rapporto reale. Ora, da ciò deriva anche la possibilità di sviluppare sistematicamente il rapporto tra ‘apparenza’ e coscienza di classe. Se l’apparenza avesse solo una dimensione soggettiva (consistesse cioè in una ‘visione della società’ o di parti di essa, che risulti ‘falsificabile’ in base a certi criteri), essa sarebbe osservabile soltanto attraverso una rilevazione empirica della ‘visione della società’ propria delle varie classi in una determinata situazione. Nell’impostazione marxiana invece essa è rilevabile a prescindere da quest’analisi empirica, e quest’ultima anzi è in certo modo deducibile dall’apparenza stessa, oggettivamente intesa»101. Memoria, identità e coscienza Molto probabilmente era anche per lo sguardo critico con cui si rivolgeva a Marx, e ai ‘residui’ filosofici del suo discorso, che Rieser poteva essere considerato negli anni Sessanta – dagli esponenti dell’operaismo di «classe operaia» – come il caposcuola dei «sociologi», ossia di una rilettura del marxismo troppo influenzata dalla sociologia statunitense e soprattutto dalle sue esigenze di aderenza al dato ‘empirico’. In effetti, la critica che Rieser muoveva ad alcune nozioni marxiane e alla lettura di Lukáks era orientata proprio dalla necessità di condurre indagini empiriche i cui risultati non fossero predeterminati da categorie come «alienazione» e «apparenza». Queste categorie finivano infatti con l’assumere come presupposto logico ciò che invece sarebbe dovuto emergere come esito dell’indagine (rendendo così persino superfluo quel lavoro di inchiesta che per Rieser era centrale). Più che essere il frutto di un’infatuazione per il metodo delle scienze sociali – un’infatuazione che, pur non essendo mai acritica, è riconoscibile negli scritti degli anni Sessanta, ma che in qualche misura sarebbe sempre rimasta un riferimento metodologico – quella critica alle componenti più filosofiche dell’armamentario concettuale marxiano si collocava al cuore di una visione della realtà del conflitto di classe in cui andavano innanzitutto comprese le concrete modalità storiche della coscienza di classe: modalità che non potevano essere interpretate né come conseguenze necessarie della struttura ‘oggettiva’ della società capitalistica, né tanto meno come un insieme di comportamenti soggettivi ‘determinati’ – come in alcune varianti schematiche dell’operaismo – dalla struttura ‘tecnica’ del processo lavorativo. Ed è in questa chiave che deve essere riletto un denso saggio apparso al principio degli anni Ottanta sulla nuova serie dei «Quaderni piacentini», dedicato alla memoria storica e alla coscienza di classe. Rileggendo oggi quel contributo è piuttosto evidente quali fossero i bersagli polemici contro i quali Rieser allora indirizzava le proprie considerazioni. Si trattava innanzitutto di quelle posizioni che, tentando di ridurre la portata della sconfitta politica sancita simbolicamente dal fallimento dell’occupazione della Fiat nel 1980, consideravano la «memoria» come un peso per l’articolazione dei nuovi percorsi politici, già sperimentati dai soggetti sociali emergenti102. Ma si trattava anche di quelle tendenze storiografiche che, alla ricerca di comportamenti antagonisti al di fuori della dimensione della fabbrica, giungevano a riscoprire nelle tradizioni del mondo contadino i segni – certo sbiaditi – di comportamenti antagonisti alla logica della modernizzazione capitalistica. Entrambe queste tendenze, insieme a ciò che rimaneva dell’operaismo e della «storia militante» degli anni Settanta, si erano incontrate al convegno su Memoria e nuova composizione di classe organizzato nell’ottobre 1981 a Mantova dall’Istituto Ernesto de Martino e 101
Ibi, p. 87. Emblematico era da questo punto di vista l’intervento di A. Negri (Erkenntnisstheorie. Elogio dell’assenza di memoria, in «Metropoli», n. 5, 1981, poi in Id., Fabbriche del soggetto, XXI Secolo, Livorno, 1987, pp. 159-­‐167 102
60 dall’Associazione Primo Maggio (senza peraltro trovare alcun punto di mediazione)103. E nonostante il convegno non venisse citato, era piuttosto chiaro che i suoi lavori costituivano il riferimento implicito dell’intervento di Rieser, che in effetti poneva al centro proprio il rapporto tra i «mutamenti nella composizione di classe» e gli «elementi di sconfitta politica del progetto di trasformazione emerso dal ’68 in poi». Tra i rischi che Rieser segnalava, a proposito della ricerca sulla memoria, stavano innanzitutto l’idealizzazione del passato e la convinzione ideologica che, «scavando nella memoria storica si possa arrivare a una sorta di ‘purezza originaria’ dell’identità e della coscienza di classe, non contaminate da stratificazioni successive e da sovrapposizioni esterne»104. Per evitare simili rischi sottolineava come in realtà il rapporto tra memoria e identità fosse spesso molto articolato, e non fosse riconducibile a uno schema binario, centrato sulle dimensioni della continuità e della discontinuità, come d’altronde mostravano i due tipi di identità (e di memoria) della classe operaia torinese e di quella emiliana. Ma era inevitabilmente al nodo della coscienza di classe che approdavano le considerazioni di Rieser. E in questo senso tornava a criticare – come d’altronde aveva fatto già negli anni Sessanta – i limiti di quella visione ‘operaista’, secondo cui «lo sviluppo della coscienza di classe come un processo che trae origine dalle condizioni di lavoro, più precisamente dall’esperienza del dispotismo di fabbrica, arriva alla coscienza della natura di classe di questo dispotismo e alle lotte conseguenti, attraverso l’esperienza di queste lotte […] si estende poi come coscienza di classe in senso pieno all’area della società e del potere politico»105. In una simile visione – di cui Rieser riconosceva comunque i meriti, soprattutto politici – la «memoria» in quanto tale aveva un peso secondario, nel senso che rientrava al massimo «in termini di esperienza di lotta». Ma dopo la metà degli anni Settanta l’emergere di un nuovo quadro, l’irrompere della frammentazione e il declino della ‘centralità operaia’ avevano incrinato la linearità dei questo schema, col risultato di far riemergere il nodo rimosso della memoria. Per ripensare la connessione tra memoria, identità e coscienza di classe secondo Rieser era invece necessario prendere atto dell’ambivalenza che il concetto di «coscienza di classe» aveva sempre avuto nella tradizione marxista: un’ambivalenza che certo rimandava alle ambiguità segnalate negli articoli sull’«alienazione» e sull’«apparenza» degli anni Sessanta, ma che in questo caso era riferita soprattutto al fatto che la coscienza di classe era stata concepita, per un verso, in relazione alla «contrapposizione tra classe operaia e classe capitalistica», mentre, per un altro, in rapporto al «problema politico della rivoluzione»106. In altre parole, la coscienza era stata intesa, da una parte, come l’identità collettiva della classe operaia, capace di sostenere il suo conflitto col capitale, mentre, dall’altra, era stata concepita – in termini vicini a quelli del giovane Lukáks, e in generale a quelli del marxismo-­‐
leninismo – come una conoscenza ‘scientifica’ delle leggi di sviluppo del capitalismo e, dunque, di una visione capace di individuare quale fosse il percorso da seguire (per procedere verso la ‘rivoluzione’ e per evitare le derive ‘tradeunionistiche’). Ma, in entrambe le declinazioni, una sola era la ‘vera’ coscienza di classe, mentre le altre potevano essere liquidate come varianti della ‘falsa coscienza’. E proprio questo rischio sembrava riaffiorare anche nelle discussioni sulla memoria, perché spesso pareva di assistere a una riproposizione surrettizia dell’idea che esista «un’‘unica vera coscienza possibile’, legata a una definizione e misurazione della coscienza di classe non solo in riferimento ai livelli di identità e contrapposizione di classe concretamente esistenti, ma a un modello strategico precostituito»107. Dinanzi a questo rompicapo teorico, la soluzione che Rieser proponeva non era però di rinunciare al concetto, bensì di registrarne la polisemia, e al tempo stesso di rinunciare all’idea che esista una connessione ‘necessaria’ tra i diversi piani. La «coscienza di classe», in sostanza, doveva essere riferita sia al «modo in cui la classe operaia si identifica, distinguendosi e contrapponendosi rispetto ad altre classi», sia col «‘progetto’, con le tendenze di mutamento che da questa identità-­‐contrapposizione scaturiscono», ma sempre senza dimenticare che non vi è mai «una connessione unilineare, un’unica connessione possibile»108. 103
Cfr. C. Bermani – F. Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione di classe. Problemi e metodi della storiografia sul proletariato, Maggioli, Rimini, 1986. 104
V. Rieser, A proposito di memoria storica e coscienza di classe, in «Quaderni piacentini», n.s., 1982, n. 4, pp. 17-­‐35. 105
Ibi, p. 29. 106
Ibi, p. 30. 107
Ibi, p. 31. 108
Ibi, p. 32. Tali considerazioni non riguardavano solo la storiografia, perché la frammentazione metteva in crisi anche la strategia seguita dal sindacato dalla fine degli anni Sessanta, una strategia che «consisteva nella costruzione di un blocco sociale La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 61 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino L’inchiesta in un mondo in frammenti I temi che sollevava Rieser all’inizio degli anni Ottanta ritornano anche in alcuni dei suoi contributi più recenti, talvolta stesi solo come appunti di discussione da far circolare tra i suoi contatti più stretti109. E forse proprio perché già allora coglievano nitidamente alcune tendenze (non solo economiche, ma propriamente ‘politiche’ e ‘culturali’), quelle pagine meriterebbero oggi di essere rilette, forse conducendo persino più a fondo le indicazioni critiche di Rieser. D’altro canto, le ambiguità del concetto di «coscienza di classe», il suo riferimento (più o meno implicito) alla capacità di squarciare il velo della mistificazione ideologica, così come la tentazione di poter discernere la coscienza ‘autentica’ da quella ‘falsa’, non possono che apparirci oggi sotto un profilo ancora diverso. Perché il tramonto di quella visione della «coscienza di classe» non è solo il frutto della dissoluzione della ‘tradizione marxista’ e della fine dell’illusione secondo cui solo una conoscenza stabilmente ancorata alla critica dell’economia politica può consentire di superare l’«apparenza» e di giungere alla realtà ‘oggettiva’. Il tramonto della visione della «coscienza di classe» è infatti anche il riflesso del crollo dell’immaginario progressista otto e novecentesco, nel quale si innestavano le ambizioni prometeiche del marxismo. Questa caduta implica soprattutto la rinuncia a pensare che ci sia un orizzonte, più o meno lontano, più o meno chiaramente percepibile, che possa davvero far quadrare il cerchio della complessità, e che dunque solo una visione ‘scientifica’ della realtà – quale che sia la scienza cui si guarda – possa ricomporre anche solo teoricamente i mille frammenti di una realtà composita. Il territorio così insidioso nel quale ci troviamo certo non rende meno utile il lavoro dell’inchiesta (e neppure l’importanza di una formazione teorica). Ma l’inchiesta viene oggi a collocarsi su un terreno completamente diverso da quello in cui era inserita negli anni Sessanta e Settanta, perché il compito dell’inchiesta oggi non può più essere quello di decifrare i bisogni, i comportamenti, le aspettative, le inclinazioni dei lavoratori e delle «masse», per poter poi collocare quegli elementi frammentari alla base di una riflessione tattica, ma dentro il quadro generale di una visione strategica, e dunque in un orizzonte dai tempi lunghi (spesso lunghissimi), il cui punto terminale appariva comunque definito e condiviso. Per chiunque osservi i conflitti del XXI secolo senza gli occhiali deformati del Novecento, non può più esistere infatti un obiettivo predeterminato di lungo periodo, e persino le linee di fondo di qualsiasi strategia non possono essere predeterminate, o ancorate a una teleologia implicita, se non a una teleologia – qualunque forma essa assuma – che sia costruita ‘politicamente’. Il terreno dei conflitti del XXI secolo è allora il terreno di una radicale completa contingenza, nel senso che le forme storiche della coscienza – di cui Rieser segnalava la complessità – si divaricano forse per sempre dall’orizzonte progettuale che per buona parte del Novecento avevano assunto come riferimento. E su proprio questo terreno si ripropone in forme nuove e più radicali il vecchio nodo – spesso frainteso – dell’«autonomia del ‘politico’». Un nodo in cui il ‘politico’ non è più semplicemente il campo in cui si gioca il conflitto per il controllo delle istituzioni, ma soprattutto la dimensione in cui una teoria può forse costruire un progetto capace di rammendare tutti i brandelli di una realtà frammentata. E, dunque, la dimensione in cui si possono tentare di comporre, in una visione inevitabilmente contingente, tutte le tessere che ogni volta restituisce quell’interminabile lavoro inchiesta di cui Vittorio Rieser, per più di mezzo secolo, non si stancò mai di ribadire la centralità. unitario estendendo e generalizzando l’esperienza di un settore (minoritario) trainante, nel caso specifico l’operaio comune della grande produzione di serie» (V. Rieser, Sindacato e composizione di classe, in «Laboratorio politico», 1981, n. 4, p. 68). 109
Alcuni di questi sono raccolti in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., in particolare 242-­‐288. 62 Alcune foto tratte da: Italian Style di Lello Lopez Questo progetto nasce da una riflessione su un breve racconto che scrissi nel 2005 su un venditore ambulante di nome Ibrahim, che incontrai per caso, e che m’incantò col suo italiano. Materialmente è costituito da trenta collage e tecnica mista su fotografie realizzati nel 2013 di cm25x35 circa. L’intera gallery è visibile all’indirizzo http://www.lasinistrarivista.org/ La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 63 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino 64 La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 65 N.8 Settembre 2015 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino 66