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1 ANNO I - MAGGIO 2004 Decantare: rendere “puro un sentimento, un’idea, uno stile, liberandoli da tutto quanto non è perfettamente fuso con essi... “ laboratorio della sinistra lucana euro 5.00 Po s t e I t a l i a n e S p A - S p e d . i n a . p. - 7 0 % Po t e n z a Benvenuto decanter A Fiat Melfi ll’inizio degli anni novanta, al tempo dell’ implosione del sistema politico che aveva governato l’Italia, la Basilicata sembrava avviata ad un inarrestabile declino. Autorevoli ipotesi (Fondazione Agnelli) ridisegnando realtà regionali che avessero un profilo autonomo, ne ipotizzavano lo smembramento. Se commisuriamo a queste premesse il sussulto democratico e diremmo anche identitario che ha percorso questo territorio in risposta alla designazione, per decreto del Governo, di Scanzano come sito unico per il deposito delle scorie nucleari, possiamo capire che molte cose sono mutate in quella zona ed in tutta la regione. Risorse precedentemente non sfruttate, insediamenti produttivi di grandi dimensioni, mutamento del quadro politico hanno immesso nella regione elementi di sviluppo e di vitalità del tutto inediti. Alcuni dei problemi attuali, come la tutela e la valorizzazione del territorio e di risorse naturali essenziali come l’acqua, sorgono da questo nuovo scenario, altri più antichi vanno comunque ricollocati entro un quadro non statico. Le difficoltà più volte richiamate anche dai operai alla riscossa articolo a pg. 3 segue in ultima Intervista a Filippo Bubbico “Le mie idee sulla Basilicata” Anna Maria Riviello p. 7 Scuola dell’obbligo e riforma Moratti Il ruolo della Regione Camilla Schiavo p. 44 La vicenda di Scanzano tra recupero dell’identità regionale e processi di globalizzazione Califano Nicoletti pp. 12-14 laboratorio della sinistra lucana Direzione Antonio Califano Anna Maria Riviello Redazione Davide Bubbico Simone Calice Fabrizio Caputo Eustachio Nicoletti Camilla Schiavo Hanno collaborato a questo numero Davide Bubbico Adriana Buffardi Simone Calice Antonio Califano Lucio Corvino Piero Di Siena Nicola Errico Vincenzo Fundone Eustachio Nicoletti Antonio Placido Antonio Petrocelli Anna Maria Riviello Vito Riviello Camilla Schiavo Progetto grafico e Art direction Palma Fuccella Foto di copertina di Vincenzo Fundone Melfi, 28 aprile 2004 Per abbonarsi a Decanter: rivolgersi a CALICE EDITORI via Taranto 20 - Rionero in Vulture (Pz) Tel/fax 0972 721126 > e-mail: [email protected] Garanzie di riservatezza per gli abbonati L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a Calice Editori. e-mail: [email protected] [email protected] DECANTER anno I numero 1 - maggio 2004 Edito da Calice Editori Aut. Trib. Melfi n. 2/2004 Direttore responsabile Piero Di Siena Rivista trimestrale Abbonamento sostenitore: � 50.00 Abbonamento annuo: � 15.00 Costo singola copia: � 5.00 Stampa Finiguerra Arti Grafiche - Lavello (Pz) Poste Italiane SpA Sped. in a. p. - 70% Potenza Copyright Calice Editori - Tutti i diritti di riproduzione degli articoli e delle immagini pubblicate sono riservati. p Lucania Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi, a chi scende per la stretta degli Alburni o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra, al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato, a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante la Lucania apre le sue lande, le sue valli dove i fiumi scorrono lenti come fiumi di polvere. Lo spirito del silenzio sta nei luoghi della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, sofistico e d’oro, problematico e sottile, divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati. Il sole sbieco sui lauri, il sole buono con le grandi corna, l’odorosa palato, il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! Ha il passo pigro del bue, e sull’erba sulle selci lascia le grandi chiazze zeppe di larve. Terra di mamme grasse, di padri scuri e lustri come scheletri, piena di galli e di cani, di boschi e di calcare, terra magra dove il grano cresce a stento (carosella, granturco, granofino) e il vino non è squillante (menta dell’Agri, basilico del Basento) e l’uliva ha il gusto dell’oblio, il sapore del pianto. In un’aria vulcanica, fortemente accensibile, gli alberi respirano con un palpito inconsueto; le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo. Cumuli di macerie restano intatte per secoli: nessuno rivolta una pietra per non inorridire. Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico. Solo un ragazzo può sporgersi agli orli dell’abisso per cogliere il nettare tra i cespi brulicanti di zanzare e di tarantole. Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse. tornerò senza colpe a battere il tamburo, a legare il mulo alla porta, a raccogliere lumache negli orti. Udrò fumare le stoppie, le sterpaie, le fosse, udrò il merlo cantare sotto i letti, udrò la gatta cantare sui sepolcri? Poesia scelta da Eustachio Nicoletti 2 la poesia Leonardo Sinisgalli p olitica e società Operai in libertà Fiat di Melfi, una lotta che scuote il paese ANTONIO CALIFANO Le lavoratrici e i lavoratori della Sata e dell’indotto protagonisti della lotta sindacale. A San Nicola nulla sarà più come prima. A questa fabbrica, la SATA di Melfi, la Basilicata ha offerto una nuova classe operaia, giovane, scarsamente sindacalizzata, disponibile, culturalmente molto collaborativa, forse la classe operaia più aziendalista che si potesse sperare, con una forte componente femminile che derogava anche ad alcune sue conquiste ed accettava i turni di notte. Dopo dieci anni e controllo degno dell’inizio del novecento. Il postfordismo ha mostrato il suo volto: più sfruttamento, meno salario. La lotta degli operai SATA di Melfi per migliorare le condizioni lavorative in fabbrica attraverso l’eliminazione della “doppia battuta”, il ripristino di condizioni lavorative adeguate, il recupero del differenziale salariale rispetto alle altre fabbri- non solo questa fabbrica non ha mantenuto le promesse, neanche quelle occupazionali, ma ha mostrato un altro volto, quello di un modello più raffinato di sfruttamento che ha fatto invecchiare precocemente con ritmi disumani e bassi salari quei giovani operai, istaurando un clima di repressione che Fiat dimostrano che un ciclo è finito e che se ne è aperto uno nuovo. Tramontato il sogno della fabbrica integrata, del “Just in time”, della fabbrica partecipata, rimane solo la realtà di un modello di organizzazione aziendale basato sulla mancanza di diritti, il super sfruttamento ed una com- Foto di Giacomo Silvano Una lotta dura e lunga che finisce con un buon accordo firmato unitariamente dai tre sindacati dei metalmeccanici che si erano scontrati, invece, sulla gestione delle lotte. Questo è l’esito finale della vertenza della Fiat di Melfi, un punto di svolta nel rapporto tra sindacati e imprese in tutta l’industria italiana. Questa fabbrica era nata all’indomani del terremoto che aveva sconvolto Basilicata ed Irpinia per dare il senso di un riscatto e di una ripresa , si proponeva come la più moderna fabbrica del gruppo Fiat in un momento cruciale di passaggio e di sviluppo del capitalismo italiano. L’obiettivo era quello di costruire un insediamento industriale che contribuisse in maniera decisiva allo sviluppo della regione e permettesse di combattere in maniera forte la disoccupazione, soprattutto quella giovanile. Il modello proposto inizialmente sembrava “rivoluzionario”: una fabbrica integrata nel territorio, un processo produttivo fortemente robotizzato, con macchine che riducevano la fatica, permettevano di raggiungere alti livelli di produttività e forte innovazione. Il superamento del modello fordista a favore di un nuovo modello, meno ripetitivo, basato su una forte partecipazione operaia, con unità lavorative in grado di intervenire collettivamente nella produzione per migliorala. 3 politica e società 4 Foto di Giacomo Silvano petitività che prescinde dall’ innovazione e poggia su un basso costo della forza lavoro. La lotta è stata eccezionale per durata e livelli di partecipazione, ha dimostrato una capacità di tenuta ed un livello di consapevolezza che non si è incrinata nonostante i reiterati tentativi di divisione, le provocazioni mediatiche, il rifiuto della Fiat ad aprire un tavolo delle trattative, la latitanza di un governo “scelbiano” che invece di svolgere una naturale opera di mediazione, necessaria in una trattativa difficile, ordina durissime cariche della celere contro operai inermi e assolutamente pacifici. Gli operai Sata hanno dato, nel corso della lotta, un importante esempio all’intero paese dimostrando, nonostante la trasformazione dei presidi in assemblea permanente, con l’alta partecipazione agli scioperi (confermata anche dai dati Fiat) ferma volontà e spirito democratico. In questo contesto va evidenziato anche il ruolo svolto dai gruppi dirigenti, locali e nazionali, della Fiom e della Cgil che hanno sviluppato una preziosa opera di presenza e di mediazione contribuendo generosamente, e sempre con il consenso della stragrande maggioranza degli operai, a mantenere una difficile protesta nell’ambito delle regole democratiche e del rifiuto di ogni scorciatoia avventuristica. Gli operai sono riusciti ad andare fino in fondo, fino a raggiungere un buon accordo, perché si sono resi conto che non era solo in discussione Melfi ma una visione del lavoro e dei rapporti tra fabbrica ed operai che ha implicazioni e valenze nazionali. Sia chiaro nessuno mette in discussione l’importanza della Sata nello sviluppo della regione, ne esistono tentazioni da “socialismo reazionario” che vedono nell’industrializzazione un processo completamente negativo da rigettare, si è solo legittimamente convinti che bisogna fare i conti con i diritti e la vita delle persone e che un modello di gestioni dei conflitti arrogante e da “padroni del vapore” come quello mostrato sino ad ora dalla dirigenza della Fiat è dannoso anche per il futuro della più grande industria italiana. p politica e società p Regione: centrosinistra al bivio Esaurita la spinta del sistema di cooptazione ʻpattiziaʼ. Verso una vera alternanza ANTONIO PLACIDO Alla vigilia della presentazione delle liste per le elezioni del 12 e 13 giugno il centro sinistra lucano appare diviso e senza bussola. È in atto un confronto difficile che non approda ad opzioni condivise su nessuna delle posizioni di vertice (le due province e la città capoluogo), essendo stata impostata tardi e male la discussione sull’alternanza alla guida della coalizione regionale.Un malessere profondo attraversa da tempo l’alleanza e si esprime in personalismi sfrenati, in un trasformismo che in periferia ha superato da tempo i limiti di guardia, in un conflitto permanente rivolto dagli alleati minori verso gli “azionisti di maggioranza” che logora la coalizione senza produrre risultati apprezzabili né sul piano dell’effettiva distribuzione dei poteri né sul quello della costruzione di equilibri politici più avanzati. La Margherita, con grande disinvoltura, ha scaricato sul Centro Sinistra tutto il peso delle sue contraddizioni: avvicendamenti alla Presidenza del Consiglio, defenestrazione di Assessori, liquidazione di un intero Consiglio Provinciale sono il prezzo pagato dall’alleanza alla faticosa costruzione dei suoi equilibri interni. Queste turbolenze, riversate sulle istituzioni, hanno prostrato la coalizione, facendola ripiegare su se stessa e rendendola incapace di raccogliere le sollecitazioni provenienti dalla comunità regionale. Non si può spiegare altrimenti una così rapida archiviazione della straordinaria mobilitazione per Scanzano e della domanda di nuova politica che essa aveva portato alla luce. Il Centro Sinistra lucano non può rinunciare a quella risorsa democratica, far rifluire quella spinta, deve piuttosto tentare di metterla a frutto, traendone lo slancio per ripartire. Il Presidente Bubbico ha ben diretto una battaglia difficile, che ha avuto successo, ma ora occorre che la coalizione sappia interpretare il senso di quella lotta in chiave di qualità ed orientamento dell’azione di governo. É dunque compito della sinistra fare in modo che il dibattito in corso in Consiglio Regionale sul nuovo statuto risenta di questo clima, sia investita da questa tensione. Occorre impedire che l’esame della bozza in discussione si trascini stancamente e che, nella generale distrazione, prenda corpo un’opzione seccamente presidenzialista, sposata in modo acritico, che indebolisce i poteri dell’assemblea e ne mortifica le prerogative, a partire dall’esercizio della funzione legislativa. Ma a ben vedere la sindrome che assale il centro sinistra lucano viene da più lontano e, rimanda ad altrettanti nodi irrisolti. A partire dalla crisi aperta a metà del 2002 dall’inchiesta della Magistratura, la coalizione è nella condizione di un pugile suonato. Essa ha portato alla ribalta prepotentemente una questione cruciale, che va ben oltre gli esiti della vicenda giudiziaria e che riguarda il modo in cui si ridefinisce il rapporto fra politica ed interessi organizzati nell’epoca del maggioritario, del primato del mercato, della personalizzazione della politica e dell’esaurimento del ruolo tradizionale dei partiti. Un tema di grande portata che attiene alla natura della rappresentanza politica, al grado di autonomia della società civile, alla qualità del tessuto democratico. Questioni che inscrivono a pieno titolo le vicissitudini regionali nel quadro più ampio della incompiuta transizione italiana e che non hanno mai formato oggetto di una esplicita riflessione nell’alleanza, pur essendo all’origine delle numerose e ripetute convulsioni che hanno punteggiato la legislatura. 5 politica e società I DS, e la sinistra nel suo insieme, hanno perso in questa fase una grande occasione per spostare più avanti gli equilibri interni all’alleanza. Hanno predicato la necessità di una svolta ed avviato un’imbarazzata autocritica, rinunciando però ad affondare i colpi in direzione del ventre molle della coalizione. Lo hanno fatto sperando che la bufera sarebbe passata e ritenendo di non dovere interferire, attraverso un confronto dialettico più spinto, col processo di costruzione dei gruppi dirigenti della Margherita in Basilicata. Una condotta prudente solo in apparenza che, nel tentativo di incardinare sui partners più forti il baricentro dell’alleanza, la ha in realtà destabilizzata, provocando continue fibrillazioni fra i minori ed alimentando, nella stessa Margherita, incertezze e frustrazioni, vagheggiamenti neocentristi, spirito di revanche. Occorre a questo punto probabilmente prendere atto che gli equilibri bipolari finora sperimentati non reggono più, che ovattare i conflitti non serve, che anche dentro l’alleanza bisogna reinnescare il circuito virtuoso di una dialettica aperta e serrata. Il centro sinistra soffre di litigiosità e di afasia, non certo degli effetti di un confronto politico e programmatico particolarmente vivace, è un conflitto che procede sotto traccia, non governato dai partiti alla luce del sole che investe direttamente le istituzioni con gli effetti di drammatizzazione e di opacità evidenziati dalla vicenda Straziuso. Si ha la sensazione che in questo scenario giunga ad esaurimento il ciclo politico retto da quel modello di relazioni “pattizio” che ha presieduto all’allargamento del centro sinistra per successive cooptazioni di segmenti di centro. Esso ha poggiato su di una sapiente mediazione operata dai DS che, spesso svolgendo un ruolo improprio, hanno catalizzato e smistato spinte, tensioni, appetiti, diventando di fatto architrave 6 di un equilibrio che ha retto per quasi un decennio ed ha assicurato successi elettorali, crescita e buona amministrazione. Questa impalcatura di rapporti avrebbe potuto governare una transizione tranquilla, la sostanziale riproduzione del sistema di relazioni politiche dato, garantendo ricambi generazionali ordinati ed avvicendamenti senza scosse. Il modello tuttavia entra in crisi esattamente nel momento in cui si compie la missione per cui era stato concepito: realizzare l’alternanza e legittimare una guida della sinistra ai vertici del governo regionale. La presidenza Bubbico infatti, per un insieme di ragioni, apre una legislatura costituente (federalismo, sussidiarietà, nuovo statuto e legge elettorale, nuova programmazione e fuoruscita dell’obiettivo 1) ed ai compiti straordinari che la attendono si aggiunge, in corso d’opera, un radicale mutamento di segno degli indicatori congiunturali e delle politiche economiche generali che avevano sorretto i lusinghieri risultati conseguiti dall’economia regionale. Mutano insomma completamente i dati strutturali di contesto e ne risulta spiazzata una coalizione attrezzata invece ad una navigazione in acque tranquille. Su tutti i temi cruciali che hanno segnato l’azione di governo dell’ultimo triennio (dall’uso delle risorse naturali alle scelte energetiche ed ambientali, dalla sanità alle politiche territoriali ed agli strumenti di programmazione), una linea convintamente modernizzatrice e “sviluppista”, incarnata dal Presidente, ha incontrato resistenze sorde e trasversali, mai limpidamente emerse in un esplicito confronto politico. L’avere molto consociato, probabilmente, ha garantito stabilità alla Regione, ma non ha giovato alla chiarezza di prospettiva ed alla selezione di una nuova ed autonoma leadership politica svincolata da ipoteche e retaggi del passato. Occorre spezzare questo involucro p che avvolge e paralizza la coalizione, anche a costo di abbandonare al proprio destino pezzi di ceto politico e di elettorato moderato.Questo tentativo non equivarrà ad un salto nel buio soltanto se sapremo mettere in campo una pressione forte dall’alto e dal basso cioè coniugare chiarezza negli obiettivi di cambiamento, costruzione dei luoghi nuovi della partecipazione democratica dei cittadini, crescita della autonomia reale dei soggetti sociali ed economici.Senza queste condizioni non ci saranno governatori illuminati che tengano ed ogni velleità innovativa sarà destinata ad impantanarsi nelle secche dell’inerzia e del moderatismo. Misurandosi con questi temi il centro sinistra di Basilicata può trovare le ragioni di una sua rifondazione, di un patto costituente da presentare al popolo lucano alla vigilia di una nuova stagione politica. Se rinunciasse a farlo dovrà rassegnarsi ad un lento esaurimento della sua funzione politica. politica e società p “Innovazione stella polare del riformismo” Intervista al Presidente Bubbico ANNA MARIA RIVIELLO I problemi attuali della Basilicata sono da inserire in un quadro tendenzialmente segnato da un forte dinamismo. Nuove risorse, insediamenti produttivi di grandi dimensioni e soprattutto il mutamento del quadro politico negli ultimi dieci anni hanno cambiato notevolmente la nostra regione. Uno degli obiettivi della nostra rivista è quello di contribuire a diffondere un rapporto attivo tra società e politica perché siamo consapevoli che questa regione eredita una situazione in cui la prima ha un atteggiamento passivo che sfocia spesso nell’ antipolitica e la seconda, attraverso il suo ceto politico ha svolto un ruolo di comando eccessivamente invasivo. È esattamente per preservare l’ idea del valore della funzione politica che è necessario riconoscerne limiti e distorsioni. I governi di centrosinistra hanno puntato più sul buongoverno che su di un impegno che a noi appare cruciale dello sviluppo del quadro democratico della regione. Su questo versante insomma hanno agito in continuità con i vecchi governi democristiani. Da questo punto di vista la vicenda di Scanzano può essere uno spartiacque. Una grande mobilitazione democratica, prima di tutto da parte dei cittadini di quella zona che volevano difendere la grande crescita di questi anni, soprattutto nel settore dell’ agricoltura, poi dell’opinione pubblica regionale percorsa da un sussulto di indignazione. C’è stata una vera e propria rivolta di massa. La Regione ed il suo Presidente hanno svolto un ruolo decisivo che ha impedito tentazioni localistiche, affiancandosi alle popolazioni in un’accorta ricerca di legami, di alleanze con le altre regioni del Sud e non solo, con il mondo scientifico, con l’ opinione pubblica. Ci è sembrato un modello riuscito insomma di mobilitazione democratica che sicuramente ha i caratteri dell’ eccezionalità ma che mostra una modalità di rapporti tra politica e società assolutamente corretta. Quasi un superamento del tradizionale rapporto che ha caratterizzato anche lo stile di governo del centrosinistra. Per queste ragioni abbiamo voluto discuterne con il principale protagonista del governo di centrosinistra della Basilicata, il Presidente Filippo Bubbico. Presidente, Scanzano può insomma essere un momento di svolta nella azione di governo della Regione? Le esperienze amministrative di centrosinistra si sono concentrate sulle performance amministrative, l’utilizzazione dei fondi comunitari, dei fondi nazionali, più che sui temi della partecipazione e quindi di un nuovo assetto, di un quadro di protagonismo che configuri anche un nuovo modello di partecipazione democratica. Non vedo questi due aspetti in contraddizione. Li vedo in termini fortemente complementari. Dovremmo ragionare un attimo su: buongoverno e buone performance amministrative. Sono convinto che noi abbiamo ancora tanta strada da fare, sull’uno e sull’altro versante, per praticare un principio secondo il quale i cittadini sono titolari di diritti e non destinatari di favori. Nel centrosinistra permane ancora un retaggio di questo modo di pensare, e non è decollata una propensione a guardare ai temi del consenso in termini di innovazione e in discontinuità di talune pratiche, che di fatto ci restituiscono una dimensione passiva o assistita dei soggetti sociali, dei soggetti economici della nostra regione. Quindi da questo punto di vista, bisogna agire, mantenere alta la tensione perché nuovi impegni pubblici possano essere apprezzati, possano proporsi, configurarsi. Sono quelli della trasparenza, delle pari opportunità, del rispetto delle regole. Tutto questo sono convinto ci aiuta molto sul versante della nuova qualità della democrazia partecipata. In questo senso forse noi come sinistra dobbiamo aprire un dibattito più consapevole, perché molte volte l’innovazione che punta a creare condizioni di migliore partecipazione o a diffondere le opportunità o a creare maggiore equità, realizzando interventi meno strutturati in antichi canali di relazione, 7 politica e società Intervista al Presidente Bubbico appare come troppo spinta sul versante della deregolazione, del nuovismo, del cedimento a culture liberiste. Qui dovremmo forse tutti concentrare la nostra attenzione per non correre il rischio di essere timorosi del nuovo e risultare in concreto conservatori. Ma l’alternativa non è tra conservazione e innovazione. L’ obiettivo è superare uno scambio politico ristretto che vede protagonisti sempre gli stessi attori e che mette la generalità dei cittadini nella condizione di questuanti di beni essenziali, lavoro, risorse pubbliche ecc. È la metodologia e non lo specifico che fa la differenza. In una qualche misura io vedo una logica clientelare non solo in relazione a ceti, a soggetti, a portatori di interessi. Il clientelismo funziona a pioggia, riguarda tutti. Ad esempio, oggi per la sinistra è un obbligo morale tutelare gli LSU (lavoratori socialmente utili). Ma chi sono i lavoratori socialmente utili? Sono per una parte residuale, non più del 5 – 10%, persone che avevano perso il lavoro. Questione che va tenuta separata dal resto. Il 90% sono disoccupati che sono entrati in progetti promossi dalle amministrazioni locali. Sono entrati in questi progetti non sulla base di un bando di evidenza pubblica, sulla base di un bisogno misurato, di un qualche criterio, ma solo in ragione di una relazione diretta con gli amministratori locali, su chi decideva sull’avvio del progetto o meno. Quindi un’operazione fortemente clientelare, molto discrezionale. Se noi pensiamo che gli LSU debbano rappresentare un segmento da tutelare per sempre, tanto da assumerli stabilmente come dipendenti pubblici, noi abbiamo legittimato un’operazione che è ineguale, discriminatoria, in conflitto con il criterio delle pari opportunità da proporre ai cittadini. Possiamo in ragione di ciò ignorare il problema delle LSU? No. E ce ne siamo occupati più di ogni altra regione meridionale, mettendo a disposizione risorse, strumenti. Ma questo non può 8 significare che alla scadenza, i progetti finanziati debbano essere riproposti integralmente. Da questo punto di vista all’ interno della maggioranza di centrosinistra, mi pare che in sintonia con questo modo di ragionare siano solo i democratici di sinistra. E nemmeno tutti. È improbabile infatti che la sinistra dei Ds possa essere del tutto d’accordo con te. Ti senti solo in questa azione? Paradossalmente accade che questo processo di spingere sul versante dell’innovazione, della competizione per liberare risorse materiali e intellettuali ci vede soli, perché è molto più comodo e molto più interessante anche dal punto di vista del mercato elettorale mantenere determinati assetti, determinati schemi, perché mantiene i soggetti sociali in una condizione di staticità. C’ è il problema di come decliniamo i diritti. Ma noi siamo in una qualche misura vittima di una sorta di “pudore” nel mettere in discussione i diritti acquisiti. È difficile mettere in discussione diritti acquisiti in un contesto che tende progressivamente a colpire i soggetti deboli ed anche i lavoratori. Se è questa l’innovazione... Non parlo di questo ma di strutture di controllo che fungono da freno... Vi faccio un altro esempio. Sono arrivato alla convinzione che i nemici peggiori del processo di re-industrializzazione della Val Basento sono i sindacati e il consorzio per lo sviluppo industriale di Matera. I sindacati, perché non c’è nulla che si possa muovere senza l’ assenso dei sindacalisti locali. Il consorzio, perché non c’è nulla che possa essere fatto da parte dell’imprenditore che non sia deciso dal consorzio industriale. Un imprenditore se deve comprare dei fiori deve andare al negozio che gli viene indicato dal consorzio industriale. Il punto è: rompere. Se in Val Basento il sindacato continua ad esercitare il ruolo che sta esercitando, noi non avremo nuovi investimenti in quell’area, ma non p perché gli imprenditori vogliano sentirsi liberi dal rispetto delle regole, semplicemente perché vogliono affrancarsi da pressioni indebite. Non è raro che spesso l’azione sindacale si concentra sull’indicazione di chi assumere o di chi promuovere. Molto spesso la tutela dei diritti fondamentali e sacrosanti dei lavoratori slitta in queste forme di controllo. Come si rompe questo assedio? Destrutturando e costruendo. Solo rompendo quelle incrostazioni si può costruire su un terreno nuovo una nuova consapevolezza, una nuova coscienza, un nuovo progetto anche in grado di aggregare. Da questo punto di vista Scanzano può dirci qualcosa. Come potenzialità. Io sono convinto che Scanzano ci dice che in questa regione vivono persone che si sentono cittadini o ambiscono ad esserlo, nel senso di essere protagonisti responsabili, titolari di diritti.. Che questo sia poi, concretamente, è tema che riguarderà sempre di più la politica. I partiti dopo Scanzano dovrebbero ripensare se stessi, ripensare il loro impianto politico e programmatico . Questa è una tua riflessione personale o è condivisa con le forze politiche della maggioranza? Vedo che questa riflessione è presente nei DS. Con maggiori o minori accentuazioni. Nella altre forze di centrosinistra è meno matura. Ciascuno punta a cogliere da questi fatti un aspetto. Rifondazione è tutta concentrata sulla dimensione antisistema. I Verdi coltivano la dimensione ambientale, la Margherita vive un disagio rispetto alla politica che recupera abbondantemente sul piano della vivificazione delle reti di relazioni… E queste reti di relazioni sono anch’esse da innovare? Direi, da rompere. Il pericolo che io vedo è che mentre noi della sinistra che esercitiamo una funzione di governo, magari stiamo a “radiografare” le nostre azioni per misurarne il tasso di progressismo, se è più o meno di sini- politica e società p Foto di Giacomo Silvano Intervista al Presidente Bubbico stra un’azione che mettiamo in campo, non apprezzando a sufficienza la fatica e l’impegno necessari a rompere certi modelli, consuetudini, relazioni, la Margherita e altre componenti della nostra coalizione continuano a enfatizzare il loro lavoro attribuendosene tutti i meriti. A me ha fatto riflettere una cosa. Ho assunto una decisione che molti attribuiscono alla mia astinenza dal fumo… quella di rimuovere un assessore. Ho visto preoccupati di questa mia decisione non solo componenti significative della Margherita, ma anche componenti importanti della sinistra, di una sinistra che vede venir meno delle certezze, nostalgica dei vecchi tempi di quando i mulini erano bianchi e c’erano il PCI e la DC. Quando tutti avevano la coscienza tranquilla: si predicava il rigore, il “non ci sporchiamo le mani”, si era intransigenti nei principi salvo poi vedere come si poteva sistemare qualcosa sul piano concreto, pratico. Abituati al tatticismo e alla subalternità. Mi pare che in questa parte della sinistra, come del resto in tutta la coalizione, non è presente la consapevolezza della posta in gioco. Non mi sembra del tutto fondata l’idea che hai di una parte della sinistra. E anche il fatto che si possa dare l’impressione che l’alleanza con la Margherita possa essere interpretata come una sorta di continuazione del consocia- tivismo tra PCI e DC. Ma perché questa impostazione “giacobina”? Scanzano non dimostra che si può avere fiducia in un’opinione pubblica che sta rapidamente maturando? Sento di avere il consenso di una parte importante dell’opinione pubblica. Ma non vedo schierati nettamente sul fronte dell’innovazione tutti coloro che dovrebbero naturalmente essere alleati in questa battaglia. Molte volte costituiscono un elemento di freno. Questo impegno di governo, questa tensione innovativa, come si traduce nel nuovo Statuto regionale? Nello Statuto dobbiamo cercare di rompere anche sul piano istituzionale vecchi meccanismi. Non mi sono occupato direttamente dello Statuto, ma ritengo che dovremmo poter produrre meccanismi che rompano certi modelli consociativi. Non dobbiamo temere che poi la destra, se dovesse diventare maggioranza, possa fare scempio delle nostre realizzazioni… Ma qual è questo modello consociativo da superare? Faccio l’esempio delle comunità montane. Le giunte delle comunità montane sono il frutto di elezioni di secondo grado e i comuni facenti parte della comunità montana esprimono sia la maggioranza che la minoranza. Significa che un comune può esprimere nella comunità montana un assessore che pur è all’opposizione nel proprio comune. Quell’assessore lavorerà per realizzare il programma in sede locale per agevolarlo, o per impedirne la realizzazione? Tutto ciò crea una forte confusione. È più logico che la comunità montana diventi un’associazione di comuni. Alla comunità montana partecipano le amministrazioni comunali, gli esecutivi di ciascun comune. Il sindaco o l’assessore. In questo modo si smetterà di vivere in uno stato di perenne confusione. L’ambiente soprattutto in Basilicata è una risorsa primaria che non può essere svenduta. C’è una forte polemica sull’insediamento di villaggi turistici sulla costa ionica. La cultura ambientalista oggi è patrimonio rivendicato dai Verdi, da Legambiente, dalla LIPU come se fosse cosa loro, quando invece dovrebbe essere bene condiviso da più parti. Questo porta a una visione acritica dei problemi ambientali che produce esiti negativi. LIPU, WWF, Legambiente ci dicono che avalliamo un processo di cementificazione della costa ionica. La cosa grave è che lo dicono anche alcuni nostri compagni, dimostrando una subalternità totale a posizioni altrui. È un errore proprio dal punto di vista dell’uso del termine. “Cementificazione” nel dibattito politico e culturale di questo paese significa abusi- 9 politica e società Intervista al Presidente Bubbico vismo, realizzare porcherie… Siamo di fronte a questo? Riportiamo le cose nelle giuste dimensioni. Questi villaggi sono conformi o difformi rispetto al piano paesistico di aria vasta del Metapontino? Sono conformi. Sono interventi che si realizzano nel rispetto di strumenti urbanistici, di strumenti di tutela ambientale che noi abbiamo voluto e noi abbiamo contribuito dall’opposizione a definire Chi li realizza questi villaggi? Sono forze locali? No, non tutte. Ma vi sono anche forze locali... C’è tuttavia chi sostiene che questo tipo di insediamenti turistici sia incompatibile con lo sviluppo agricolo. Non creano alcun problema all’agricoltura. Ci sono molte invenzioni e strumentalizzazioni su questo. Tempo fa ho querelato chi sul “Corriere della Sera” scriveva cose che non stanno né in cielo né in terra, si sono inventati pure che vi sono stati incendi dolosi per poter costruire su aree fino ad ora indisponibili... Guarda che c’è chi dell’ambientalismo ha fatto un mestiere. Ciò fa venir meno l’approccio critico necessario e produce una miscela dannosa fatta di strumentalizzazioni e mancanza di una cultura di governo. Tu parli di rispetto dei piani urbanistici e di salvaguardia ambientale. Ma questi piani non possono essere sbagliati? Ma in questi termini sono io che ho posto il problema. Se qualcuno ha elementi per sostenere che quel piano paesistico che consente la realizzazione di quei villaggi turistici merita di essere aggiornato, anche alla luce anche di una nuova sensibilità ambientale e di nuovi elementi, lo dica. E con misura e equilibrio apportiamo i cambiamenti che si riveleranno necessari. Ammesso che siano necessari. Bisogna governare i processi con misura e senso critico. Non c’è niente che di per sé sia ecocompatibile a prescindere dai modi in cui lo si realizza e dal contesto. Guardiamo alle questioni energetiche. Secondo Legambiente dovrei dire che 10 l’eolico è “bello” a prescindere perché ha interessi in quel campo? Non lo dirò mai. Eolico, turbogas, solare sono energie rinnovabili e perciostesso accettabili in ogni situazione e in ogni dimensione. Ma copriamo di pannelli solari una città e segnaliamo tutte le vette con pale dell’eolico, e vediamo qual è il risultato che conseguiamo dal punto di vista della tutela ambientale. Sarebbe un disastro. Perciò il problema è sembre quello della misura e della compatibilità, sia per interventi che sono percepiti come ambientalmente corretti che per quelli considerati potenzialmente lesivi dell’equilibrio ambientale. Quali sono i progetti che la Regione ha per il Metapontino? Continuo a pensare che la prospettiva di sviluppo del Metapontino debba essere legata all’agricoltura e al turismo. C’è chi pensa che debba avere un’altra destinazione? Lo dica. Ma se pensiamo che il turismo debba avere un ruolo in questa regione per garantire civiltà, occupazione, ricchezza, opportunità, allora bisogna creare condizioni di massa critica, bisogna ospitare un numero relativamente elevato di persone. A ciò debbono servire i villaggi della costa ionica. Oppure veramente pensiamo che nell’agriturismo della Camastra possa venire gente direttamente dall’America o dal nord Europa se la Basilicata non è percepita come regione in grado di rispondere a un’offerta turistica qualificata e di massa? Perciò bisogna aver un certo numero di villaggi turistici, perché possano alimentare flussi turistici che ti consentono poi di amplificare l’offerta turistica, di proporre il turismo di qualità, il turismo culturale, ambientale. I nostri critici avrebbero ragione se noi pensassimo di fare villaggi turistici… punto. Allora sarebbe vero che avremmo una visione consumistica, molto gretta, molto settoriale. Io invece sono convinto, siamo convinti, che i villaggi turistici debbano servire innanzitutto un volano per tutto il settore, mettendo poi in p gioco le aree interne, i centri storici, i paese albergo, gli agriturismi, ecc. In questo senso oggi noi ci cimentiamo con uno strumento nuovo, che ci consenta d’andare oltre una visione consumistica del territorio. Ci stiamo cimentando col tema della creazione di un parco di sviluppo integrato sostenibile del territorio ionico. Cioè, com’è possibile fare qualità nell’arco ionico guardando al turismo e all’agricoltura? Sapendo che l’agricoltura ha una grande valenza ambientale, positiva ma anche negativa. Infatti, un’agricoltura intensiva che utilizza fitofarmaci e concimi al di fuori di qualunque regola produce effetti devastanti e alla lunga danneggia il turismo. Quindi stiamo lavorando per mettere a punto strumenti più avanzati per il governo di questi processi nel quadro di una iniziativa che ha l’ambizione di fare un passo avanti rispetto al processo che abbiamo avviato in Val d’Agri. Puntiamo cioè a una certificazione ambientale di qualità, nel quadro di un progetto territoriale di eccellenza. Questa iniziativa vuole verificare quanto proficua possa essere l’idea parco, non nell’accezione di museo ma in quella di una forte caratterizzazione degli interventi sul versante delle qualità delle attività antropiche, dei sistemi urbani, delle attività produttive nell’area interessata. Questo che vuol dire? Vuol dire: villaggi turistici basta. Non ne facciamo più. Ma le organizzazioni cosiddette ambientaliste la devono finire con questa filastrocca della cementificazione della costa ionica. Perché – lo dico alla sinistra in particolare – se si parla di cementificazione della costa ionica, mi si vuole dire che cosa bisogna dire della Calabria, della Sicilia? In questa vicenda c’è anche un elemento di mala fede. Vedo un nesso tra la denuncia all’Unione europea della Basilicata per violazione delle diret- p politica e società Intervista al Presidente Bubbico tive in materia ambientale e l’attacco diffamatorio lanciato sul “Corriere della Sera” nei miei confronti, il quale diceva in buona sostanza che Bubbico fa fare i villaggi turistici perché li progetta il fratello. Premesso che ove fosse accaduto non ci sarebbe nulla di illegale, si tratta di un’illazione del tutto infondata. Ma la cosa più strana è un’altra. Questi movimenti fanno una denuncia all’Unione europea per infrazione di direttiva comunitaria, e dicono che lungo la costa ionica si sta devastando l’ecosistema, perché la Regione Puglia a Castellaneta ha autorizzato un villaggio, che a Policoro “Qualche volta il sindacato la Regione Basilicata ha fatto così la Regione Caè una lobby. altrettanto, labria a Villapiana. Verrebbe da Difendo le scelte pensare che la Puglia, la Basilisul Metapontino ma ora cata, la Calabria siano denunciabasta villaggi. te all’Unione europea. E invece non è così, è solo la Basilicata ad Il fondamentalismo è ne- esserlo. Qualcuno mi sa spiegare mico dell’ambiente” il perché? Ma questa denuncia ha un qualche fondamento nel merito? No, ho fatto fare tutte le verifiche dagli uffici regionali. Le direttive europee non le abbiamo violate. Siamo tranquilli. La vicenda del sito unico a Scanzano ci ricorda che noi abbiamo già un problema di messa in sicurezza che riguarda la Trisaia. Su Trisaia stiamo sviluppando un’attività di vigilanza molto, molto alta. Perché rispetto al processo di messa in sicurezza dei rifiuti liquidi lì presenti, 2700 litri di rifiuti liquidi radioattivi, noi non ci sentiamo tranquilli, avendo visto la SOGIN all’opera. Prima l’ITREC era titolarità ENEA. Con l’ordinanza Berlusconi l’ITREC è passato alla SOGIN.. Verificata l’assoluta inaffidabilità della SOGIN siamo piuttosto preoccupati, e stiamo monitorando le attività che si sviluppano in Trisaia per la messa in sicurezza dei rifiuti liquidi. Dopo i giorni di lotta contro il decreto del governo Berlusconi, ho letto una posizione della destra che dice che Bubbico sapeva... Sì, l’attacco della destra è: Bubbico sapeva e non ha denunciato per tempo quello che stava accadendo. È come se qualcuno potesse denunciare il Ministro degli Interni perché non ha arrestato il giorno prima un tale che avrebbe ucciso tre persone. La mia colpa sarebbe di non aver impedito al governo di fare una cosa illegale. Perché il decreto Scanzano è illegale. Però non è solo la destra a dire assurdità. Si tiene un convegno organizzato dalla CGIL a Roma. Viene fatto un resoconto da un certo Giovanni Paolo Ferrari, membro del comitato “Scansiamo le scorie”, che è controllato da rifondazione e dai no global, il quale scrive che è intervenuto il Presidente della Regione Basilicata che è sembrato alquanto sollevato dall’assenza di Paolo Togni, dirigente generale dell’ambiente, che in dichiarazioni precedenti aveva annunciato di essere in possesso di informazioni riservate che avrebbero testimoniato il fatto che Bubbico sapeva tutto su Scanzano fin dal principio, finanche prima della pubblicazione del decreto 314 del 13 novembre scorso. Osserva la sottolineatura: “finanche prima”. Se lo sapevo prima ero dunque complice, perché dopo la pubblicazione avevo il dovere di saperlo. Poi: “è apparso alquanto sollevato”… ma da che? Questo Togni aveva annunciato alla “Nuova Basilicata” che avrebbe presentato carte per inchiodare Bubbico alle sue responsabilità. Non se ne è vista una. Ma pensiamo veramente che, se questi signori del ministero dell’ambiente e di Alleanza Nazionale avessero avuto un solo documento per inchiodare Bubbico alle sue responsabilità, non l’avrebbero già utilizzato? Ma andiamo! 11 politica e società Scanzano mon amour p ANTONIO CALIFANO La rivolta di un’intera regione contro il progetto del governo di destra di fare del Metapontino il cimitero nazionale delle scorie nucleari. Solo pochi mesi fa la grande manifestazione di Scanzano, con un popolo in piazza a coronamento di settimane di blocchi, iniziative, lotte, sanciva una vittoria importante non solo per un’intera regione ma per l’intero paese. Una vittoria contro l’ubicazione di un deposito di scorie nucleari, uno sporco affare di cui ancora oggi non si conoscono tutti gli oscuri risvolti, ancora più importante perché di una regione decisamente “tranquilla” e a partire da una zona a forte presenza politica del centrodestra. Forse una delle poche volte in cui si è percepita una identità collettiva spesso persa, un orgoglio di appartenenza da altri tempi, un positivo rapporto tra istituzioni, organizzazioni spontanee, movimenti, sindacato, soggettività varie. E poi Scanzano veniva alla fine, e quasi a coronamento, di una densa stagione politica per questa regione che ha visto un importante movimento della pace affacciarsi sulla nostra scena politica, il blocco dei treni della morte, con una mobilitazione inconsueta per una città come Potenza, la grande lotta della Sata di Melfi con il blocco ai cancelli insieme agli operai di Termini Imerese. Per chi non l’avesse capito in questa regione c’è ancora voglia e possibilità di politica, fiducia nelle capacità di avviare attraverso la lotta e la partecipazione processi di trasformazione collettiva, la “politica”, i partiti, la sinistra hanno il dovere etico e sociale di dare forma, organizzazione, sbocchi a tutto questo. Ma Scanzano in questo contesto è stato anche altro e va letto in una chiave un po’ più complessa. Innanzitutto la scelta di insediare lì e proprio lì un deposito di scorie nucleari di dimensioni non giustificabili con l’attuale necessità del paese lascia intravedere una strategia ben più pericolosa della necessità di far fronte ad una “semplice” emergenza. I meccanismi attraverso cui tale decisione è stata presa mostrano un modello di governo del territorio assolutamente autoritario (presidenzialista?) che prefigura un’idea della democrazia estremamente preoccupante e che , tra le varie follie di questo governo, rappresenta la sua vera costante qualifi- 12 cativa e comunque completamente coerente con le tendenze neoliberiste dei mercati e i processi di mondializzazione. Ma in tutto questo ci troviamo di fronte anche a importanti novità: è stata forse la prima volta, per lo meno nelle proporzioni, che si è tentato di sperimentare “una violenza” così forte ed in una zona tanto vasta in Italia e non nel terzo mondo. C’è dietro questa scelta un’idea precisa del mezzogiorno, si è abbracciata una politica economica che ha abbandonato ogni interesse a promuovere un armonico sviluppo delle zone del paese tradizionalmente in difficoltà. È questo probabilmente il posto che al Sud d’Italia qualcuno vorrebbe attribuire all’interno dei processi di mondializzazione. Ma, qui, si aprono una serie di contraddizioni: in maniera paradossale il governo mondiale della globalizzazione imponendo i propri standards e le proprie regole a tutti i paesi, omologandoli in un unico mercato governato dal liberismo più sfrenato sta accentuando le differenze tra sviluppo e sottosviluppo avendo rinunciato per sempre all’idea che la ricchezza possa essere in parte ridistribuita, costruendo in tale modo le condizioni per la nascita di una forte opposizione, con l’irrompere di nuovi soggetti sociali (la moltitudine?) e di nuove forme di lotta. La lettura, anche, delle piccole realtà deve passare attraverso questa lente, bisogna assumere sempre più l’ottica dei grandi processi per leggere le specificità dei piccoli territori perché è in questo spazio che si costruisce la trama della lotta e dell’opposizione alla mondializzazione. Questo vale anche per lo specifico, per il qui, per il Sud, per una piccola realtà come la Basilicata che vive la presenza delle multinazionali ed il dramma della disoccupazione,che riproduce in piccolo, attraverso una toponomastica dello sviluppo fatta a macchie di leopardo, una rappresentazione del mercato mondiale. La Basilicata è mezzogiorno, ma è anche Corea o Est Asiatico e nello stesso tempo è un’entità non riducibile e non separabile dalle proprie specificità. p È Nord del Sud ma anche Sud del Sud. Non è indifferente che tutto questo, in questa regione avvenga in un quadro politico che la vede unica regione del Sud, con la Campania, amministrata dal centrosinistra e che in questo momento si assista anche ad una profonda crisi del governo stesso del centrosinistra. Per questo dobbiamo interrogarci in maniera seria su cosa è e cosa significa un governo della sinistra, entro quali compatibilità esso debba e possa muoversi, quali sono i limiti che ne possono snaturare completamente la fisionomia e quale significato ha un governo “di sinistra” dei processi. In questa regione come nel resto d’Europa l’unificazione dei mercati è anche saccheggio delle risorse e l’Europa è ancora e solo l’Europa delle banche e dei profitti. Riguardo alla gestione del territorio e delle risorse non può certo bastare ottenere royalties maggiori sullo sfruttamento del petrolio o condizioni migliori sull’utilizzo dell’acqua, il problema è un altro, bisogna cominciare ad interrogarsi sull’utilità di certi processi, sulla loro ricaduta, su quale sia il quadro entro cui si collochino. È, di converso, ormai ampiamente diffusa la consapevolezza della necessità di ripensare l’economia in termini compatibili con i sistemi naturali, della integrazione delle politiche ambientali nella politica economica e nella definizione delle azioni di riassetto del territorio. Si profila una competitività sempre più legata alla capacità dei singoli territori di coniugare tutela e valorizzazione delle risorse naturali, conservazione del patrimonio paesaggistico e sviluppo legato alle risorse endogene. Per questo Scanzano è stata una grande lotta che si colloca tutta all’interno della opposizione ai processi di mondializzazione dell’economia, e questo non perché le migliaia di cittadini che sono scesi in piazza ne avessero coscienza ideologica, per usare una desueta ma precisa terminologia fossero già classe per sé, politica e società ma perché obiettivamente non è diversa dalle tante lotte che la gente comune sta combattendo nel mondo per garantirsi la propria sopravvivenza e il futuro dei propri figli. Ma Scanzano ci ha dato anche altro e ci offre altri elementi di riflessione, perché in qualche modo ha manifestato a tutti in maniera esplicita anche i limiti e la debolezza della politica in questa regione. Il protagonismo dei cittadini, le capacità dei sindacati, delle istituzioni, del Presidente della Regione, in primo luogo, non possono impedire di vedere la debolezza dei partiti, la crisi , a mio modo di vedere irreversibile, delle vec- forme della democrazia e dei suoi strumenti, un percorso che non riguarda naturalmente solo la Basilicata ma che per la Basilicata necessita di una particolare accelerazione perché il blocco delle forze politiche, dei partiti, di maggioranza ed opposizione, appare particolarmente incrostato in vicende e storie del passato mentre la drammaticità dei problemi, la gestione del territorio, il degrado generale della gestione della cosa pubblica impongono radicali cambiamenti e nuove coraggiose sperimentazioni. Per questo a partire da Scanzano ed oltre Scanzano, Scanzano Mon Amour. chie forme di organizzazione della politica che anche dopo Scanzano, e quindi indipendentemente da esso, continuano imperterrite ad agire nella gestione della cosa pubblica con le logiche del passato, a rapportarsi alle istituzioni senza più alcun rispetto per chi li ha eletti. Anche la crisi a due tempi alla Regione Basilicata, dimostra questa disarmante inadeguatezza, questo scollamento che rischia di alimentare una pericolosa deriva populista e qualunquista. Oggi bisogna avviare un grande processo di ricostruzione di una nuova classe dirigente, intorno ad un grande progetto culturale e politico che comprenda anche un ripensamento delle Foto di Giacomo Silvano 13 politica e società Cronache dal nucleare p Scuola, territorio e democrazia diretta EUSTACHIO NICOLETTI Dall’esperienza di Scanzano un nuovo modello di mobilitazione coinvolgente. Il racconto di un’occasione didattica innovativa Il movimento di lotta contro il deposito di scorie radioattive a Scanzano è stato un evento dirompente; ha rappresentato una frattura, una sorta di viaggio di non ritorno, una nuova coscienza meridionalista ai tempi della globalizzazione. Storicamente il suo più grande merito sarà quello di aver riportato al centro della discussione nazionale la tematica del nucleare, delle sue conseguenze sociali, economiche e ambientali e dello stretto rapporto con militarizzazione del territorio. Nella Provincia di Matera il percorso parte dalla Trisaia di Rotondella, nei primi anni ’60 e dalle basi missilistiche in provincia di Matera, in cui c’erano testate nucleari poste in direzione dell’Unione Sovietica. (Durante lo scontro Usa-Urss per la questione cubana nei primi anni ’60). Il filo rosso del nucleare collega i percorsi successivi che delineano, ad oggi, una occupazione militare del territorio: dall’Alta Murgia con poligoni di tiro ad Altamura (Ba) e depositi di esplosivi nei pressi di Poggiorsini (Ba), si passa a Gioia del Colle (base Nato da dove nell’ultima guerra in Bosnia decollavano gli F16 carichi di bombe), a Brindisi con l’ipotesi di attracco per sommergibili nucleari, fino al porto di Taranto, futura 14 base militare americana e attraccaggio per i sommergibili nucleari. Quindi la destinazione del territorio, dalla murgia fino a Taranto e da qui verso Rotondella, costituisce un’area residuale rispetto ai percorsi di movimento civili ed economici: una zona al sevizio degli interessi strategici nel Mediterraneo, un’area, dal punto di vista geopolitico, strategica per il controllo del Mediterraneo. È sulla base di queste ragioni di fondo che a Scanzano è nata una forma nuova di attenzione al territorio e di sperimentazione di democrazia diretta. Una forma di lotta totalmente nuova: pluricentrica, in qualche modo legata, nei piccoli Paesi della Provincia, al recupero della municipalità. Vi è stato un ritorno al senso di appartenenza e conseguente attaccamento allo stendardo, che poi è quello che si è verificato nella grande manifestazione dei 100.000 del 23 novembre 2003. È stata la popolazione a trascinare le forze politiche sulla strada, nelle assemblee, nelle prese di posizione più radicali ed efficaci. Municipalità e democrazia diretta probabilmente hanno rappresentato la forma più intelligente di risposta ai processi distruttivi della globalizzazione, esattamente opposta al leghismo che invece rappresenta la chiusura del proprio territorio all’esterno. In questo caso si sono sperimentate nuove modalità di democrazia ricollegandosi alle proprie radici: il sentirsi legati al luogo e alla terra si sono manifestati in un progetto per il futuro, un progetto aperto, solidale, in grado di dialogare con il mondo. Un esempio di questa apertura è il consenso che la forma di lotta partecipata di Scanzano è riuscita a trovare a livello nazionale; infatti si parla ormai di un “modello Scanzano” per tutte le forme di lotta dei territori che resistono alla devastazione ambientale, alla distruzione dello stato sociale, alla cancellazione dei diritti di cittadinanza tanto da porsi all’attenzione del Social Forum Mondiale tenutosi a Bombay (India). Se queste possono considerarsi le ragioni di fondo che hanno reso possibile, in una zona del Sud d’Italia, una forma di lotta del tutto inusuale ed inaspettata nel mondo globalizzato, i meccanismi socio–politici-culturali ed organizzativi meriterebbero ulteriori approfondimenti. Una forma di lotta coinvolgente tutta la popolazione attraverso gruppi spontanei e forme organizzate (parti sociali, ordini professionali, parrocchie, partiti, associazioni culturali e del volontariato, istituzioni), necessitava di “collanti” affinchè le numerose iniziative settoriali p programmate e realizzate potessero, comunque, avere un comune denominatore e, contestualmente, potessero evitare che le spinte rabbiose soggettive e collettive potessero sfociare in forme di violenze, in provocazioni mass-mediatiche, in possibili distorsioni politiche che, in qualche modo, potevano mettere a repentaglio la finalità principale della contestazione. Vi è stato un alto livello di coscienza popolare diffusa che ha portato alla costruzione di un nuovo sapere collettivo: il movimento popolare ha creato da sé nuove competenze e conoscenze scientifiche legate ai processi in atto. Per questo sono state utilizzate tutte le forme di comunicazione e di scambio: dalle scuole alle reti universitarie, dalle assemblee partecipate ad internet. Una collettiva controinformazione è stata messa in atto spontaneamente, con l’attivazione di reti di solidarietà nazionali ed internazionali. Senza ombra di dubbio la scuola democratica, utilizzando gli organismi collegiali e i momenti assembleari, ha realizzato un approfondito confronto teso alla costruzione di una informazione pedagogicamente e scientificamente strutturata in tutta la popolazione scolastica. I Collegi dei docenti si sono riuniti in forma straordinaria e permanente per approvare formali documenti di dissenso dell’iniziativa del Governo di insediare il sito nazionale a Scanzano Jonico e per decidere le iniziative da intraprendere per sostenere la contestazione. Nella maggior parte dei casi i Collegi dei docenti decidevano di attivarsi su alcune direttrici: 1. attività didattiche tese all’approfondimento degli aspetti scientifici, economici, ambientali, militari e sociali; 2. partecipazione diretta ai blocchi stradali; 3. contributo con le professionalità presenti nella scuola agli incontri pubblici. Per circa venti giorni, la scuola mate- politica e società rana ha realizzato un enorme intervento didattico rivolto agli alunni di tutti gli ordini di scuola (dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado) e teso all’approfondimento delle problematiche legate all’insediamento delle scorie nucleari a Scanzano. Se nelle scuole dell’infanzia ed elementare i bambini, attraverso l’utilizzo prevalente della cartelonnistica, lavoravano prevalentemente sulla raffigurazione degli aspetti salienti del problema del nucleare, nelle scuole secondarie ed in particolare in quella di secondo grado, oltre alle lezioni tenute dagli insegnanti interni, si aggiungevano le assemblee tese, non solo agli ulteriori approfondimenti teorici realizzati in molti casi con l’aiuto di esperti esterni, ma anche alla definizione di iniziative operative. Insegnanti e studenti hanno contribuito direttamente all’attivazione ed al mantenimento dei blocchi stradali e ferroviari che altrimenti rischiavano di essere asfittici soprattutto nelle ore notturne. A parte il blocco di Terzo Cavone (sito individuato per l’insediamento delle scorie nucleari) che vedeva una partecipazione plurima delle categorie di popolazione, quello realizzato alla Stazione ferroviaria di Metaponto si reggeva soprattutto sulla presenza degli studenti delle Scuole Superiori di Bernalda integrata da alcune presenze di Matera. Gli studenti frequentanti la Città di Matera si attivavano per il blocco sulla SS 99 (Matera - Bari) e quelli dei paesi di Pisticci, Ferrandina e Garaguso - Grassano - Tricarico, invece contribuivano a realizzare i blocchi stradali lungo la superstrada Basentana. Le professionalità tecnico – scientifiche degli insegnanti, oltre agli interventi didattici rivolti agli alunni, si sono rivelate utili anche nelle Assemblee, Incontri, Conferenze, Riunioni spontanee, Posti di blocco, ecc. perché non rimanessero esclusivamente atto di denuncia, ma permettessero che la riflessione si dotas- se di contenuti scientifici. Numerose le manifestazioni spontanee organizzate dagli studenti degli istituti superiori, mentre quelle significative (per intensità e partecipazione) si realizzavano a Policoro e Scanzano, che coinvolgeva studenti, insegnanti, personale scolastico e genitori, a Matera in due occasioni: la prima promossa dalla Consulta degli Studenti alcuni giorni dopo l’emanazione del Decreto e la seconda a fine Novembre che vedeva la partecipazione in forma organizzata delle scolaresche di tutti gli ordini di scuola (materna, elementare, media e superiore). Infine rilevante anche la manifestazione organizzata dalla comunità di Pisticci – Marconia che mobilitava in modo massiccio il mondo scolastico (studenti, insegnanti, personale ATA, genitori, dirigenti) di tutti gli ordini di scuola e nelle forme diverse (classi, gruppi, individuali, ecc.). Ancora una volta la scuola pubblica e statale, che quotidianamente ci appare sonnolenta e distratta, apatica e distante, nell’evento di Scanzano, ha dimostrato di non aver disperso le fondamenta che, dal dopoguerra ad oggi, l’hanno sostenuta nella realizzazione del ruolo fondamentale assegnatole dalla Costituzione Italiana: la crescita del popolo italiano. Contro l’insediamento delle scorie nucleari, la scuola democratica, delle pari opportunità, solidaristica, unificante (proprio quella che qualcuno oggi vuole destrutturare), ha dimostrato quella vitalità necessaria per continuare a sperare. 15 politica e società Industria in Val Basento Un’altra “falsa partenza”? p DAVIDE BUBBICO Dopo la crisi del polo chimico tanti progetti e tanti fallimenti. Tutte le insidie di un’esperienza di programmazione negoziata. Nonostante gli sforzi intrapresi dalla Regione Basilicata, negli ultimi anni, per favorire lo sviluppo industriale, attraverso l’attivazione di numerosi strumenti della programmazione negoziata (Contratto d’Area, Patti Territoriali, ecc.) i risultati finora raggiunti non sono particolarmente incoraggianti, tra questi quelli che dovevano derivare dall’ultimo bando per la reindustrializzazione della Val Basento. Quando alcuni anni fa, attraverso l’utilizzo di 212 miliardi di lire provenienti dall’Accordo tra ENI, Regione Basilicata e Governo, che consentiva il riutilizzo dei finanziamenti non spesi, favorito anche dall’altro Accordo sulle estrazioni petrolifere in Val d’Agri, si pensò nuovamente alla reindustrializzazione dell’area, la programmazione regionale ha dimostrato forse di non comprendere appieno quali erano le scelte da mettere in atto circa i criteri di selezione delle imprese e i comparti merceologici da privilegiare. Tuttavia, prima di avanzare qualsiasi valutazione è bene ripercorrere le fasi che hanno preceduto e successivamente portato alla stesura del bando per la reindustrializzazione dell’area, a cominciare dall’Accordo di Programma del 1987. L’Accordo di Programma del 1987 Il primo tentativo di rilancio, dopo la pesante crisi del comparto chimico, maturata tra gli anni ’70 e ’80, è quello dell’Accordo di Programma del 1987, un progetto rivelatosi fallimentare per il progressivo disimpegno dell’ENI, che di quell’Accordo era l’attore principale. Come sostiene Fernado Mega, responsabile della Filcea Cgil della provincia di Matera, “la presenza industriale nell’area ha subito una metamorfosi strutturale dall’inizio degli anni ’80. Negli anni ’90 è scomparsa del tutto la grande industria e con questa il polo chimico, per il quale l’intera area era stata infrastruttura. Di fatto con le dismissione dell’ENI, con l’Accordo di Programma puntualmente disatteso, sono venute meno tutte le attese di sviluppo. 16 L’unico insediamento derivante da quell’Accordo, all’inizio degli anni ’90, ancora oggi esistente, è quello dell’ERGOM, azienda torinese della componentistica auto che decide la sua localizzazione in Val Basento dopo che la Fiat aveva realizzato di costruire il nuovo stabilimento di Melfi”1. Tuttavia nel 2002, in seguito alla crisi del gruppo torinese, lo stabilimento di Pisticci è stato interessato da un piano di ristrutturazione, in seguito ad una contrazione delle commesse che ha determinato la mobilità per 60 dei circa 180 dipendenti (quelli più anziani che provenivano in gran parte dal bacino dell’Enichem e che avrebbero raggiunto a breve l’età di pensionamento). A questa decisione si giunge anche dopo aver valutato la presenza d’amianto in uno dei capannoni dello stabilimento di Pisticci, anche se Fernando Mega afferma che “ci furono delle prescrizioni logistiche fatte dall’ASL e dal Comune di Pisticci, ma quest’aspetto fu utilizzato in modo strumentale rispetto a quello più evidente della riduzione di commesse da parte della Fiat”. Di fatto l’Ergom ha trasferito alcune produzioni allo stabilimento di Melfi, limitando in questo modo l’incidenza dei costi di trasporto. Lo stabilimento, che attualmente produce sempre componenti in plastica per l’auto (le pedaliere per i modelli Nuova Punto e Nuova Lancia Y, cruscotto per Nuova Punto e Stilo), occupa circa 145 dipendenti, parte dei quali assunti inizialmente con contratto di formazione e lavoro. L’Accordo di Programma tra Eni, Regione Basilicata e Governo, del 31 dicembre 1987 rappresenta, come scritto precedentemente, il primo progetto di reindustrializzazione, che prevede il reinsediamento industriale dell’ENI o di altre industrie per tramite di sue società e la nascita del Parco Tecnologico e con esso di Tecnoparco. L’Enichem dovrebbe assicurare la presenza in diversi comparti: chimica, polimeri tecnici, fibre, tessile, manifattura e agroindustria, anche se le prospettive di sviluppo prevalenti sono individuate nella chimica derivata. L’Accordo prevede l’utilizzo di 538,89 miliardi di lire (410 per la reindustrializzazione e 226, che p comprendono altri finanziamenti come quelli della legge 64/1986, per la nascita del Parco Tecnologico). L’occupazione complessiva prevista è di 2.100 unità più altre 800 che servono a ristabilire l’equilibrio occupazionale degli stabilimenti di Pisticci e Ferrandina. L’Accordo che deve conseguire i suoi risultati entro 5 anni, otterrà poi diverse proroghe fino al 30 aprile 1996. Tutte queste fasi sono state accuratamente descritte nel documento della Commissione d’inchiesta sulla Val Basento istituita dalla Regione Basilicata, documento redatto dal prof. Salvatore Casillo, consulente della Commissione2. A distanza di anni tuttavia, come ha avuto modo di rilevare la Commissione d’Inchiesta i risultati raggiunti dall’Accordo di Programma sono stati quasi tutti disattesi, tranne quelli di impiego delle risorse a suo tempo rese disponibili. Come è fatto notare nel documento redatto dal prof. Casillo, l’allora Presidente del Comitato di Coordinamento per l’applicazione dell’Accordo, Ing. Biagioni, in un documento del 1992, addebitava le difficoltà per i mancati risultati dell’Accordo del 1987 alle incertezze connesse al rifinanziamento della legge 64 (responsabilità del Governo), al ritardo nella realizzazione dei servizi previsti dal progetto del Parco Tecnologico (responsabili la Regione e il Consorzio ASI di Matera) e solo in ultimo alle attività promozionali dell’Eni, che però veniva in qualche modo assolta per la fase congiunturale negativa del comparto3. A fronte dei ritardi che si registrano sui risultati che l’Accordo di Programma dovrebbe produrre, la Regione Basilicata promuove anche un’indagine conoscitiva, svolta dalla Seconda Commissione Consiliare Permanente, che nel maggio del 1993 evidenzia come manchino all’appello ancora 1.500 addetti rispetto ai 2.900 previsti e che l’evoluzione della situazione tenda solo al peggioramento. Nel frattempo, come si evince dal documento della Commissione, il 18 marzo politica e società 1994 si registra una nuova intesa tra gli attori del precedente Accordo, intesa approvata dal CIPE nella delibera del 22 novembre del 1994. Tuttavia alla fine del periodo di validità dell’Accordo, che come abbiamo visto è prorogato fino al 30 aprile 1996, non si ha traccia di una relazione finale da parte del Presidente del Comitato che presiede l’Accordo, nonostante il Presidente e gli altri componenti del Comitato, con esclusione del direttore dell’Asi e dell’Assessore Chiurazzi, abbiano percepito nel frattempo ingenti compensi. Di fronte alle sollecitazioni della Commissione che indaga proprio sull’esito negativo dell’Accordo, il responsabile dell’Enichem risponderà in merito a diversi punti sollevati dalla Commissione d’inchiesta, che l’Enichem nei documenti di rifasatura dell’Accordo del 1987, assicurava solo impegni di spesa e che i posti di lavori indicati erano solo una mera previsione; che con la rifasatura dell’accordo nel 1987, gli impegni dell’Enichem non erano più per investimenti diretti a creare occupazione, ma di promozione e supporto alle iniziative di terzi. Neppure i dati relativi alla situazione del personale Valbasento al 31.12.1992 non risultano essere veritieri. Come si può leggere dal documento della Commissione, in relazione ad un allegato che accompagnava la rifasatura dell’Accordo “si evinceva che erano in servizio [al 31.12.1992] 1.552 persone (756 in EniChem, 465 nel Gruppo SNIA e 331 in “altre” società), erano in cassa integrazione 1.062 persone (848 dell’Enichem e 214 di “altre” società) e, quindi il personale in organico risultava essere di 2.614 unità (1.604 in EniChem, 465 nel Gruppo SNIA e 545 in “altre” società). Leggendo nella sostanza i dati, invece, e considerando sia lo stato di chiusura delle aziende (con l’utilizzazione della cassa integrazione al solo fine della manutenzione e della sorveglianza degli impianti) e le persone “in mobilità”, il quadro reale era dato da: 1.400 persone realmente in servizio (606 in EniChem, 465 in quello SNIA e 329 in “altre”); 1.106 persone in cassa integrazione e/o in mobilità (892 in EniChem e 214 in “altre” società”); 1.144 posti di lavoro erano, di fatto, andati perduti (928 in EniChem e 216 in “altre” società)4”. Da quanto riportato si desume che la scarsa chiarezza in merito agli investimenti effettuati è stato uno dei tratti caratterizzanti dell’Accordo, soprattutto considerando che l’Enichem ottiene finanziamenti per 15 imprese di sua proprietà, anche se solo 8 sono quelle in attività. Nel consuntivo sull’occupazione al 30.04.1996 si fanno apparire in vita aziende cessate o pronte a divenirlo (EniChem Fibre, Nuova Chimica Ferrandina, Blucover, Italcompositi, Fileteni e Carbon Valley), alcune delle quali hanno assunto personale Enichem e usufruito di finanziamenti per poi chiudere. Ancora negli ultimi documenti si fa riferimento sull’attività di promozione dell’Enichem al fine dell’insediamento di nuove imprese; come quella di 71 imprese [di cui 25 ammesse dopo selezione] che avrebbero potuto investire 1.250 miliardi circa di lire per 5 mila addetti, ma di questa l’unica realtà è quella dell’Ergom, poiché come si legge ancora nella relazione della Commissione d’inchiesta, sorgono più domande sui reali rapporti tra l’Eni e le 71 aziende, se si considera che non sono poche le aziende tra le 25 selezionate “che non hanno completato l’istruttoria con le banche o non hanno fornito garanzie sufficienti per essere ammesse ai benefici delle leggi agevolative”5. In realtà ciò che si determina è il progressivo disimpegno dell’Enichem dalla Val Basento, a partire dalla dismissione delle sue produzioni a favore del gruppo SNIA. All’inizio degli anni ’90, infatti, la grande illusione è rappresentata proprio dall’insediamento della SNIA, che nel sito di Pisticci avrebbe come obiettivo di concentrare tutta la produzione del Mezzogiorno di filo poliamminico. Per questo istituisce anche un centro di ricer- 17 politica e società ca che impiega circa 80 unità. Inoltre, attraverso la controllata CAFFARO, acquisisce la produzione del film di imballaggio per uso alimentare. Nel corso degli anni ’90, anche a seguito della crisi mondiale delle fibre, la SNIA con la sua controllata NYLSTAR, avvia una joint venture con la francese Rounc Poulenc ma senza particolare successo. Ha inizio, infine, una politica di dismissione continua e progressiva verso i paesi dell’Est Europa, in particolare Polonia e Slovacchia, insieme a politiche d’acquisizione in altri settori che alla lunga si rivelano fallimentari sul piano economico. In Italia, nel giro di pochi anni, la SNIA passa da 3 mila a 220 dipendenti, “senza colpo ferire” (Mega), chiudendo tutto quello che c’era da chiudere al Nord, Cesano Laghetto e Vareo (Milano) e depotenziando ulteriormente gli impianti di Pisticci. In quest’ultimo caso approfitta poi del bacino di lavoratori provenienti dall’Enichem, molti dei quali in possesso dei requisiti per agganciarsi alla pensione, per fare ricorso alla mobilità. La lunga agonia arriva fino ai mesi recenti quando si decide la chiusura dello stabilimento Nylstar 1 di Pisticci (113 addetti), mantenendo in vita solo lo stabilimento Nylstar 2. In Nylstar 1 era prodotto un tipo di filo definito speciale (sempre per uso tessile), a più alto valore aggiunto, che comunque già negli ultimi anni aveva visto ridimensionate le sue capacità produttive in uno scenario di forte criticità per il settore. 18 p Lo stato delle aree industriali di Pisticci e Ferrandina Attualmente tra le due aree industriali di Ferrandina e Pisticci sono localizzate circa 50 aziende per un’occupazione complessiva di circa 1.500 addetti. L’area di Pisticci ospita in prevalenza aziende del comparto chimico, mentre quella di Ferrandina ospita aziende di comparti diversi come il metalmeccanico. In verità sembra che tutte e due le aree, ma questo vale in particolare per Pisticci, stiano perdendo la loro vocazione di polo industriale di alto valore per diventare sempre di più delle semplici aree manifatturiere. Come afferma di nuovo Mega, “quest’area industriale, pur essendo tra quelle meglio infrastrutturate, si sta trasformando in una zona PAIP, un po’ come tutta l’Italia. Un’area destinata ad ospitare la media e la grande industria, ad alto valore aggiunto, si è trasformata in un’area che ospita industrie povere, di tipo manifatturiero, dove l’unico elemento di convenienza era divenuto già negli ultimi anni il costo del lavoro, ora neppure sufficiente perché con le delocalizzazioni in atto nei paesi dell’Est Europa e del Sud Est Asiatico, o si ripensa in grande o altrimenti ci sarà un decadimento lento quanto inesorabile”. La situazione attuale, dunque, sul piano occupazionale e sul numero delle imprese presenti, non è certamente quella che si immaginava solo qualche anno fa. Di fatto, l’intera area ha perso negli anni la sua vocazione industriale per divenire nel p migliore dei casi un’area manifatturiera tradizionale, priva cioè di altre funzioni come quelle di ricerca, dove pure non mancano i casi d’impresa che hanno effettuato investimenti e per questo garantito sviluppo e tenuta dell’occupazione. Tra queste alcune aziende che si sono insediate alla fine degli anni ‘80, le quali hanno effettuato investimenti e si sono consolidate, una tra tutte la multinazionale Politex, leader nella produzione del tessuto non tessuto per uso industriale e stradale, che sta ampliando lo stabilimento con un investimento di circa 145 miliardi delle vecchie lire e che occupa attualmente 120 addetti, cui se ne dovrebbero aggiungere altri 30-40. In questo caso, bisogna anche sottolineare che un grosso contributo all’investimento è venuto proprio dai fondi non utilizzati nell’ambito dell’ultimo bando Val Basento, attraverso una delibera specifica della Regione Basilicata. L’altro caso degno di segnalazione, anche perché la società in questione non ha ottenuto alcun finanziamento pubblico, è la Nais Matshuscita, una multinazionale giapponese che opera nel campo dell’elettronica e che di recente ha avviato nello stabilimento di Pisticci una nuova linea di produzione per laminato d’uso elettronico. Sempre nel comparto chimico le situazioni più o meno positive, che non presentano cioè problemi nell’immediato, sono quelle delle società C.F.P. Flexible Packagink, ex SNIA (che riunisce di fatto la Caffaro s.p.a., la FAPAK e la Embleme Future), ora di proprietà di un fondo comune d’investimento inglese. Lo stabilimento, che ha sede anch’esso nell’area di Pisticci, produce film per imballaggi ed ha un organico di circa 120 addetti. Altre aziende che risultano al momento piuttosto solide, non solo sul piano dell’occupazione, ma su quello delle commesse sono la Coopbox (vassoi per suo alimentare) e la Pactive (materiale d’imballaggio). L’ultima azienda che ha in qualche modo avviato la produzione è la piemontese LAES, che opera nelle produzioni dei profilati in plexigass. L’azienda si è insediata in alcuni capannoni della ex INCA (ex Dow Chemical) e di recente ha lanciato un bando di formazione per 15 unità. Le crisi aziendali più recenti Negli ultimi anni il sito di Pisticci è stato investito nuovamente da crisi aziendali spesso destinate a tramutarsi in chiusura definitiva delle attività. Il problema non è tuttavia rappresentato da una crisi delle produzioni chimiche, o non interamente, quanto dall’effetto delle delocalizzazioni verso l’estero di queste produzioni, Cina e paesi dell’Est Europa in particolare, paesi nei quali il costo del lavoro è oggi infinitamente più basso. “La Nylstar ci mostrò prima della chiusura dello stabilimento come a fronte di 20 Euro ora per un lavoratore in Italia, lo stesso costo fosse di 0,9 Euro in Cina” (Mega). politica e società Il destino degli stabilimenti presenti in Val Basento è, inoltre, strettamente legato alle scelte che si profilano a livello di gruppo, trovandosi in quest’area perlopiù unità decentrate che dipendono interamente da società nazionali o estere. Bisogna poi considerare ciò che è avvenuto a livello industriale negli ultimi anni, poiché nel caso della chimica italiana si può forse parlare più direttamente della scomparsa del comparto più che del suo declino. In questo modo, la SNIA ha dimesso in Val Basento quelli che considerava i suoi settori marginali, ha così venduto ad un Fondo Comune d’Investimento la Caffaro, adesso C.F.B. (produzione film d’imballaggio). Quest’ultima vorrebbe effettuare nuovi investimenti in Lombardia e ad Ottana, sfruttando l’Accordo di Programma che le ha consentito di chiudere un reparto importante ad Acerra e il vecchio stabilimento in Sardegna. La Filcea CGIL ritiene invece che questi investimenti potrebbero realizzarsi anche in Basilicata, poiché come la Sardegna è regione dell’Obiettivo 1. In assenza di questi investimenti, per stessa ammissione della Filcea, la situazione dello stabilimento C.F.B. di Pisticci diventerebbe critica, fino al rischio della chiusura. Nel frattempo è andata via anche la Dow Chemical, con la chiusura dell’ultima grossa polimerizzazione presente nel sito, quella del pet (polimelo teftalato per bottiglie) con ripercussioni molto negative per la società Tecnoparco, che forniva le utilities, in quanto gli impianti di polimerizzazione presuppongono un utilizzo elevato di energia e di vapore. In questo modo, la SNIA che nel 1993 aveva ancora in Val Basento un organico di 630 dipendenti (quelli delle società Nylstar, Caffaro, Snia Ricerche, FAPCA, Embleme) è oggi quasi completamente scomparsa. I segnali più evidenti sono cominciati a maturare dal 1996 quando l’Eni ha dismesso una serie di produzioni di Nylstar, ha ridotto l’impiego di ricercatori presso il centro ricerche ed ha ceduto l’INCA alla Down Chemical, che a sua volta ha chiuso nel 20026. La SNIA Ricerche, acquisita di recente dal Gruppo Ergom ha avviato un piano di ristrutturazione che ha portato all’uscita di un folto numero di ricercatori, tanto che ad oggi il centro ha un organico che non supera le 20 unità. Di chiusura si deve parlare anche per la P.N.T ex Pirelli7 di Ferrandina, con la collocazione in cassa integrazione straordinaria e in mobilità di tutti gli 80 dipendenti, e che il recente acquisto dello stabilimento, per 5 miliardi di lire, da parte di un imprenditore locale, tale Marella, non sembra essere avvenuto nella prospettiva di un rilancio dell’azienda, vista anche l’attività di dismissione degli impianti di produzione. Anche tra le aziende ancora oggi attive non sono mancati piani di collocazione in mobilità di parte della manodopera. Così l’ERGOM ha collocato in mobilità 60 dipendenti e dopo 19 politica e società averla acquisita ha chiuso anche la SAFIPLAST (manufatti in resine rinforzate), la stessa NICE ne ha collocati altri 50, pur assumendone dei nuovi, ed infine Tecnoparco, circa 40. Critica anche la situazione della DROP 3 - Novatex Italia (produzione filo cucirino da fibra) che ha collocato tutta la manodopera in mobilità. A queste espulsioni recenti si deve poi aggiungere il bacino storico degli ex lavoratori Enichem, circa 450, alcuni dei quali sono in mobilità ormai da 20 anni dopo lunghi anni di ricorso alla cassa integrazione straordinaria, e molti dei quali con età superiore ai 50 anni. I rapporti con il distretto del materano Lo sviluppo del distretto del mobile imbottito non ha determinato effetti allocativi nelle aree industriali di Pisticci e Ferrandina. Per ciò che riguarda le produzioni e le lavorazioni dell’indotto (produzione di poliuretano espanso ed altri prodotti di materia plastica; trattamento e lavorazione delle pelli), le aziende coinvolte sono solo due. La più nota è probabilmente la Calbe Sud, che nasce inizialmente per il trattamento pelli e che di recente ha riconvertito la sua produzione a favore della pelletteria e poi nuovamente per il settore dell’imbottito ma con riferimento ad aziende statunitensi del settore. Nata nel 2001 da una joint venture tra il Gruppo Mastrotto e quello Calia, per la lavorazione delle pelli da divano, l’azienda è stata rilevata di recente completamente dal Gruppo Mastrotto. Se l’azienda nasce per rifornire il mercato locale dell’imbottito del distretto, i volumi non hanno dato ragione dell’investimento poiché questi si sono collocati sempre al di sotto della capacità produttiva, anche considerando che il Gruppo Natuzzi ha proprie concerie. Come sostiene Girasole, responsabile di zona della Filcea, “inizialmente si era pensato ad una riconversione, per arrivare a certi volumi, ma l’azienda, 20 ad un certo punto, era arrivata sull’orlo della chiusura. Poi l’azienda con l’aiuto della società Pragma di Matera è riuscita a rendere l’organizzazione più efficiente, ed oggi Mastrotto dopo aver registrato alcuni problemi in alcuni stabilimenti del Veneto (di natura ambientale ma dovuti all’obsolescenza degli impianti) trasferirà qui una conceria che lavorerà per il mercato americano, stando all’accordo commerciale con un gruppo statunitense, che dovrebbe garantire 4 milioni di piedi quadri di pelle, a fronte di un milione di piedi prodotti dalla Calbe”. La seconda azienda che opera nell’ambito delle produzioni del comparto chimico è la Pactiv, circa 30 dipendenti, dedita alla produzione di film a bollo per uso imballaggio utilizzato dalle aziende del mobile per l’impacchettamento dei divani. L’altra azienda del comparto chimico collegata al distretto materano è la SIP (Società Italia Poliuretani) del Gruppo Orsa con circa 40 addetti, produttrice di poliuretano per alcune aziende del distretto, localizzata però nell’area industriale di Iesce (Matera), il cui insediamento è stato favorito dalla convenienza ad avere localizzata una produzione che per i volumi finisce per incidere molto sui costi di trasporto. Il bando di reindustrializzazione La reindustrializzazione della Val Basento è uno dei capitoli inseriti nell’intesa istituzionale di programma siglata tra la Regione Basilicata e il Governo Nazionale il 5 gennaio 2000. L’intesa oltre a fare riferimento all’Accordo di Programma del 1987, fa riferimento anche alla delibera del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) del 30 giugno 1999, con la quale le risorse non utilizzate nell’ambito dell’Accordo sono state messe a disposizione della nuova intesa (per complessivi 226 miliardi, di cui 14 per il varo dell’interporto di Ferrandina). All’epoca dell’intesa, l’Assessore regionale all’industria in carica, Carlo Chiurazzi, p politica e società p affermava che “lo sforzo della Regione in questo momento è finalizzato a proseguire un allargamento dei vantaggi. Perciò sono stati chiamati in causa gli istituti di credito del territorio e Sviluppo Italia, ma anche i sindacati per creare forme di flessibilità compatibili. Non secondario il ruolo assunto dal Consorzio Industriale, che dopo aver raddoppiato la capacità della centrale elettrica per fornire elettricità a costi ancora più allettanti sta ammodernando l’area”8. Il bando che si profila all’orizzonte prevede per le aziende aggiudicatrici dei finanziamenti, il riassorbimento di una quota dei lavoratori posti in mobilità, allora il riferimento era ad un bacino di 400 unità. A tal proposito sempre Chiurazzi affermava, nell’articolo prima richiamato, che “è necessario che si sviluppi una ricetta occupazionale che superi almeno le mille unità. Stiamo lavorando per mettere a punto criteri e parametri che stimolino l’insediamento di quelle imprese che producono maggiore occupazione”, ma tenendo conto anche della qualità delle attività e di quelle finalizzate al rafforzamento delle filiere già esistenti sul territorio (chimica, meccanica e salotto). In questi mesi l’allora Presidente del Consorzio, Nicola Savino, si Calanchi lungo la valle del Basento muove alla ricerca delle nuove imprese da insediare nell’area. Il Ministero del Tesoro afferma però che i fondi saranno resi riutilizzabili solo con l’intesa di programma e con bando pubblico e non solo per le imprese individuate dal Consorzio Asi di Matera. In realtà è forse proprio in questa fase che le scelte si rivelano errate, soprattutto quando si decide di abbandonare la strada che puntava a favorire un progetto di reindustrializzazione basato sulla specializzazione produttiva propria dell’area, a favore di una generica attrazione di quelle imprese che presentano investimenti di più facile e immediata realizzazione. In una prima fase - sostiene Giannino Romaniello, Segretario Regionale della Cgil - “si era pensato di sviluppare una politica insediativa comune per il Contratto d’Area della provincia di Potenza e il bando Val Basento, che puntasse a privilegiare la logica delle filiere produttive. Poi questa direzione è stata lasciata e ci è dovuti confrontare con i singoli progetti d’impresa che erano pervenuti poiché qualcosa non ha funzionato nell’attivià di marketing da parte degli organismi preposti. Si era pensato anche per il bando della Val Basento a quelle aziende che avrebbero potuto completa- re il settore dell’arredamento più vicino a quello del mobile imbottito. Alla fine ci si è confrontrati con l’esistente e questo era composto in parte di aziende che offrivano servizi alle imprese, molte delle quali attraverso call center”. La pubblicazione del bando avviene nell’Aprile del 2000. Il bando prevede finanziamenti per investimenti non inferiori a 6 miliardi, finalizzati alla costruzione di nuovi impianti produttivi e per gli interventi di ampliamento, ammodernamento, ristrutturazione, riconversione e riattivazione di impianti già esistenti. Per l’attuazione del bando è costituito un Comitato di gestione composto dal presidente, da un rappresentante del ministero del Tesoro e dal presidente, o suo delegato, del Consorzio ASI. Delle venti e passa aziende che sarebbero dovute entrare in produzione o che avrebbero perlomeno dovuto terminare le opere di fabbricato, le uniche finora entrate in produzione sono la Orsa Sud, la Main e la Bripla Sud. Altre come Biosearch, OR.MA., Informa, Med.Net e Soften in fase di realizzazione. Tutte le altre hanno conosciuto o la revoca del finanziamento o il preavviso di revoca, tra queste quelle che 21 politica e società prevedevano l’attivazione di call center. Questa situazione è stata denunciata di recente dallo stesso Consorzio ASI di Matera, che con una conferenza stampa ha illustrato i dati delle aziende che effettivamente hanno investito. Angelo Minieri, Presidente del Consorzio, nella conferenza stampa di presentazione dei dati ha affermato che “andare avanti così è completamente inutile, in queste condizioni ci vuole solo un becchino per seppellire definitivamente le speranze di ripresa industriale dell’area”. La Orsa Sud, dell’imprenditore lombardo Gorla, lavora da molti anni nel campo della componentistica auto, motivo che lo ha condotto per la vicinanza degli stabilimenti Fiat ad insediarsi in Val Basento. L’azienda che produce tessuto gommato per rivestimenti interni, dopo un breve periodo è stata risucchiata dalla crisi del gruppo Fiat, azienda dalla quale riceveva e riceve le uniche commesse, anche se le sue produzioni sono dirette all’indotto dell’Alfa di Pomigliano. Ha così lavorato negli ultimi mesi impiegando poche unità e a giorni alterni, collocando tutto il resto della manodopera in cassa integrazione. L’azienda che prevedeva a regime nel 2002 l’occupazione di 39 unità ha raggiunto i 78 addetti, un numero di addetti superiore alle reali necessità produttive. Oggi il bilancio della società, il cui responsabile locale è un ex dirigente Fiat, è in rosso. Il personale è stato assunto per metà con contratto di formazione e lavoro e per l’altra metà a tempo indeterminato e tra questi una piccola quota di lavoratori iscritti alle liste di mobilità. L’azienda che si trova nella nuova zona industriale di Pisticci, fuori dall’area Enichem, ha dichiarato di recente alle organizzazioni sindacali che l’organico ideale è quello di 39 unità, ovvero quello previsto inizialmente dal bando. L’esubero di personale sarebbe ricollocato in una nuova iniziativa che la Orsa starebbe realizzando con la MAIN, con la quale ha costituito una società paritetica denominata OR.MA. 22 Si tratterebbe quindi nient’altro che di un travaso di manodopera che oggi è in larga parte inutilizzata. Tramite la Pragma Consult di Matera la stessa azienda starebbe inoltre per acquisire un ruolo per insediare in società con la ex Calbe Sud ora Apelle un’azienda dedita al taglio e alla lavorazione delle pelli per il settore automobilistico, una produzione ad alto valore aggiunto molto vicina a quella della pelletteria. La OR.MA. s.r.l. che nel mese di marzo era nella fase di start up produrrà la stessa tipologia di prodotto della MAIN (tessuto non tessuto per uso sanitario tipo pannolini, assorbenti, altro materiale ospedaliero, ecc.) ma con una tecnologia differente, ancora a più alto valore aggiunto, rispetto alla MAIN. L’azienda ha cominciato già ad effettuare le prime assunzioni, tra queste 3 dei 5 manutentori della Nylstar 1 e dovrebbe assumerne nel complesso circa 40. Notevolmente diversa è la situazione della Main S.p.a. (tessuto non tessuto per uso sanitario), poiché questa rappresenta una realtà abbastanza solida, dove sono occupate all’incirca 50 addetti. L’azienda lavora molto su prodotti specialistici, in quelle che sono nicchie di mercato del settore sanitario. Lo stabilimento è caratterizzato dalla presenza d’impianti molto automatizzati che lavorano su ciclo continuo per 6 giorni la settimana. Anche in questo caso l’assunzione del personale, tra cui molti tecnici qualificati, è avvenuto per metà con contratto di formazione e per metà con contratti a tempo indeterminato. La Biosearch s.p.a. nasce da un gruppo di ex dirigenti della Dow Chemical di Pisticci. Si tratta di un’industria farmaceutica la cui produzione, un principio attivo per un antibiotico, servirà soprattutto a rifornire il mercato statunitense, dopo l’accordo intervenuto tra questa società e un gruppo americano. Secondo Girasole si tratta di un impianto chimico a tutti gli effetti e di dimensioni piuttosto rilevanti. Da circa due anni il personale p più specializzato che l’azienda ha già assunto sta lavorando presso i laboratori della Tecnoparco per mettere a punto una serie di analisi (tra questi qualche laureato in regione, ma molti, provenienti da fuori e laureati perlopiù in chimica e tecnologia farmaceutica). Per il personale che dovrà condurre gli impianti l’azienda ha invece predisposto un bando di formazione per 15 unità anche se quelli assunti saranno solo 8. Complessivamente lo stabilimento occuperà circa 50 unità. Lo start up è previsto per metà aprile a conclusione dei lavori di costruzione dell’impianto previsti per fine marzo. Da circa un anno è poi entrata in funzione la Bripla Sud (pannelli di poliuretano per uso isolamento termico) che ha sede nell’area industriale di Ferrandina. L’azienda, originaria di Biella, ha deciso di localizzarsi in Val Basento per espandersi nel mercato meridionale, anche perché il prodotto si presenta con caratteristiche di voluminosità che incidono molto sui costi di trasporto. A fine marzo occupava circa 30 dipendenti e non presentava problemi produttivi o di altra natura (la produzione è organizzata su due turni). Le altre aziende che sono in qualche modo legate al bando Val Basento sono la ALEX s.p.a, indicata nel bando come Benedetto Engineering s.r.l.. L’azienda è nata su iniziativa di un imprenditore di Bernalda, Bendetto, la cui impresa produce componentistica per serramenta. Si tratta di una piccola azienda artigianale che nel giro di qualche anno si è ingrandita fino ad occupare oggi 70 dipendenti più altri 70 distribuiti in altre tre cooperative. Il suo mercato di riferimento è soprattutto estero (Spagna, Francia, Inghilterra). L’iniziativa promossa in Val Basento riguarda invece l’estrusione dell’alluminio per la produzione dei profilati per finestre. Il progetto nasce da una società con un imprenditore del Nord, inizialmente con una quota del 50% delle azioni e poi del 20%. Attualmente lo stabilimento, che p politica e società sorge nella zona industriale di Pisticci, occupa 13 addetti. Dai finanziamenti non utilizzati dalle prime imprese ammesse al bando ha attinto la SOFTEN, un’impresa anche questa di Biella, che produce tessuto non tessuto per pannelli impiegati nell’edilizia (controsoffittature ed isolamento termico), ma lo stesso materiale può essere utilizzato anche per la produzione di trapunte. A fine marzo occupava circa 10 unità. Come abbiamo avuto modo di osservare, tra le aziende che non hanno avviato nessuna attività ci sono quelle che avrebbero dovuto realizzare dei call center, a conferma delle perplessità che pure erano già emerse nella fase iniziale di stesura del bando, circa l’organicità dei progetti “...bisognava puntare ad presentati con le caratteriindustriali dell’area. esempio sullo sviluppo del- stiche Mega afferma che una l’elettronica... Un discorso di parte del sindacato, “ha filiere produttive e di spe- delle responsabilità, per cializzazione che non è stato l’appiattimento sul gruppo Snia. Il bando Val Basento preso in considerazione.” nella prima edizione era fortemente appiattito sulle produzioni SNIA. Si trattava di attrarre la POMPEA CALZA, che avrebbe assunto 200 unità, ma alla fine le cose sono cambiate con la prospettiva degli investimenti nei paesi dell’est (…) il discorso della filiera si è perso ed allora è cominciato a prevalere quello di non perdere comunque i soldi ma senza fare marketing del territorio. Basti solo pensare che manca l’Osservatorio chimico che doveva decollare già 4 anni fa, perché non c’è la delibera della provincia di Matera”. Così nell’edizione successiva del bando, quella definitiva, il discorso della filiera è completamente scomparso. Secondo Mega, il bilancio è fallimentare “perché questa è un’area dove non potevi mettere l’azienda di servizio. Quest’area ha bisogno di industrie, bisognava puntare ad esempio sullo sviluppo dell’elettronica, anche in seguito agli investimenti della Matshuscita. Un discorso di filiere produttive e di specializzazione che non è stato preso in considerazione. Gli investimenti da ammettere dovevano essere mirati, non a pioggia, e quindi andavano delineati, le specificità e rispetto a questo andava fatta la riconversione. Nel centro Italia, ad esempio, si è delocalizzata la chimica farmaceutica, e la Val Basento poteva rappresentare un’area di forte attrazione. Ci sono probabilmente anche responsabilità della Regione, ma in primo luogo il fatto vero è che sono mancate le imprese pronte ad investire e tra queste soprattutto quelle locali”, pur considerando, come fa Romaniello, che forse ha pesato anche “la condizione più generale d’incertezza delle aziende ad effettuare investimenti in questa fase”. Eppure, per ritornare al maggior limite indicato da Mega, sembra che i programmatori regionali si siano comunque accorti della necessità di un indirizzo più qualificato delle iniziative che in Val Basento dovrebbero insediarsi, se come si afferma nell’Addendum del DAPEF 2004-2006, il programma di rilancio del polo industriale della Val Basento deve puntare, “sull’innovazione tecnologica e l’evoluzione in chiave hi tech delle vocazioni produttive locali, mediante azioni di attrazione di investimenti e sostegno allo start up di iniziative ad alto profilo tecnologico, nel settore della biochimica, ingegneria genetica e farmaceutica, mediante un processo concertativo che coinvolga tutti gli attori locali rilevanti, il più possibile aderente alla metodologia già sperimentata con il Programma Val d’Agri”9. Osservazioni che hanno preso proprio spunto dall’investimento della società Biosearch nella zona industriale di Pisticci, attiva nella produzione di antibiotici e genetici (ingegneria genetica e bio-farmaceutica). 23 politica e società Il Consorzio Val Sud Se la chiusura dell’Inca avviene piuttosto in sordina, senza cioè che i lavoratori si siano mobilitati per cercare strade alternative alla chiusura – bisogna inoltre considerare che la maggiore parte di essi erano vicini al pensionamento – e con l’azienda che interviene, in modo forte, sul piano dell’indennizzo economico, nel caso della Nylstar le vicende hanno assunto un esito diverso. All’opposto di quello che si verifica con l’INCA, i lavoratori della Nylstar attuano blocchi, manifestazioni, in alcuni casi con incidenti all’interno della fabbrica, sollecitano l’opinione pubblica, chiedono il consiglio comunale aperto a tutti i comuni dell’area, richiedono la presenza del Presidente della Giunta, tutto questo, come ricorda Mega, perché il Ministero si attivi, come la Regione, per trovare i finanziamenti per un nuovo Contratto di Programma. Uno strumento più snello che prevede la presentazione del progetto da parte di un Consorzio e non l’emanazione di un bando, per avere una strada preferenziale per la delibera CIPE. Del resto sempre Mega ricorda che di recente la società Sviluppo Italia ha istituito un nuovo strumento per attrarre aziende estere, come quelle farmaceutiche, che stanno avendo problemi nelle loro delocalizzazioni nei paesi dell’Europa Centro Orientale. L’idea del Consorzio Val Sud nasce, dunque, dalle vertenze sindacali che si sono aperte negli ultimi mesi in Val Basento e principalmente da quella Nylstar, affinché il Ministero delle Attività Produttive e quello del Lavoro assumano degli impegni chiari circa il futuro dell’area industriale in questione. Sempre Girasole afferma, a questo proposito, che “sono state messe insieme le vertenze e l’impegno di tutti a portare avanti azioni di marketing del territorio. Per prima si è affacciata la Soften, che voleva entrare nell’Accordo di Programma, ma per una questione che non è ancora dato sapere 24 è successivamente rimasta esclusa. La Soften era interessata ai capannoni della Nylstar che considerava però sopravalutati, ma probabilmente il vero motivo era quello che in quel periodo erano ancora presenti i lavoratori che ancora erano per una soluzione diversa della crisi, di quella che poi ha condotto alla cigs e alla mobilità per tutti quelli di Nylstar 1”10. Oggi si deve registrare l’interessamento di due imprenditori veneti, uno dei quali possiede la produzione di pannelli in pvc per il settore della nautica e l’altro che ha rilevato il marchio “Ferri” che vorrebbe aumentare la produzione di materie plastiche per il settore dei “casalinghi”. La prima azienda si dovrebbe insediare presso lo stabilimento Nylstar con un organico di 100-120 unità, andrebbe cioè ad assorbire la platea dei lavoratori collocati in cassa integrazione, mentre l’altra andrebbe presso l’ex stabilimento dell’INCA con 50-60 dipendenti. In questo Consorzio si è inserita anche la Laes. La Soften è, invece, rimasta fuori ma con l’opzione di poter entrare in qualsiasi momento nel Consorzio. Il Consorzio dovrebbe presentare entro il 30 aprile il progetto definitivo, ed entro questa data il CIPE dovrebbe deliberare l’apposito finanziamento. In questo contesto, tuttavia, sarebbe auspicabile una nuova intesa quadro tra Governo e Regione, che anche sulla base dei risultati finora conseguiti nell’ambito della programmazione negoziata, sappia individuare gli strumenti, le aree e i progetti imprenditoriali più funzionali allo sviluppo regionale, per conseguire risultati migliori sul piano dello sviluppo e dell’occupazione. Note 1 L’ERGOM ha successivamente rilevato lo stabili- mento Compla Sint dell’indotto di primo livello di Melfi, sempre dedito alla produzione di componenti in plastica dura per l’auto (parafanghi, cruscotti, plance, ecc.). 2 Il documento dal titolo Documentazione e considerazioni finali sull’attuazione dell’Accordo di Programma della Val Basento è stato pubblicato nel p Bollettino Ufficiale della Regione Basilicata del 28 marzo 2000, pp. 3069-3108. 3 Vedi in particolare p. 3081 del documento della Commissione d’Inchiesta. 4 Vedi p. 3096. 5 Vedi p. 3100. 6 Lo stabilimento Dow Chemical di Pisticci dedito alla produzione del polimero per uso bevande, si occupava anche della trasformazione in bottiglia della materia prima da destinare alle aziende di imbottigliamento. Per abbattere i costi di trasporto la stessa cominciò a incentivare l’acquisto degli impianti di formatura alle aziende fornendo solo il polimero. Successivamente, nell’ottica delle razionalizzazione, anche la sola produzione di polimeri è cessata con la chiusura sia dell’impianto di Pisticci sia di quello di Ottana. Le unità collocate in mobilità sono state circa 50 e con forti incentivi monetari da parte dell’Azienda, fattore che ha contribuito, e non poco, a far passare sotto voce la chiusura dello stabilimento, vista la volontà dell’azienda di non trovare soluzioni alternative anche con il concorso delle organizzazioni sindacali. 7 L’investimento della Pirelli risale agli anni ’70. Lo stabilimento sorto per produrre originariamente pneumatici fu poi convertito alla produzione di nastri trasportatori e fogli di gomma. 8 Da La Nuova Basilicata, “Val Basento, comincia il futuro”, del 5 gennaio 2000. 9 Regione Basilicata, Giunta Regionale, Addenduma al DAPEF 2004-2006, Gennaio 2004. 10 I dipendenti più giovani hanno usufruito della cassa integrazione guadagni straordinari (cigs) per 1 anno, i più anziani, circa 40, della mobilità lunga. Quelli più giovani hanno all’incirca meno di 35 anni e alcuni dei quali sono stati assunti solo 4 anni fa, molti per tramite del turnover, 24 mesi in contratto di formazione e lavoro e successiva trasformazione del contratto a tempo indeterminato. Industria in Val Basento Unʼaltra “falsa partenza”? politica e società p Campania il Reddito di cittadinanza ADRIANA BUFFARDI Reddito di cittadinanza è un progetto ambizioso che presuppone una visione “ricca” del Welfare state nonché un impegno prioritario di risorse a livello nazionale, in un rapporto corretto tra fiscalità generale e ridistribuzione della ricchezza prodotta nel Paese. Ma le politiche del governo nazionale hanno oggi altre finalità e tendenze sul piano fiscale, democratico e sociale, laddove per sociale si intende non interventi residuali assistenzialistici ma la garanzia all’esercizio di diritti di base. Non a caso il Governo di Berlusconi riduce di fatto le risorse destinate alle politiche sociali, e finora non ha definito i liveas, cioè i livelli essenziali di assistenza validi per tutto il territorio nazionale cui dovrebbe corrispondere un adeguato riparto di risorse, mentre propone e pratica interventi “capricciosi” e decontestualizzati di anno in anno diversi (mutuo per le case delle giovani coppie, sussidio per il secondo nato ecc.) assegnando per giunta risibili risorse e calpestando competenze di regioni ed enti locali. Non solo, ma per le fasce a maggior disagio economico e sociale il Governo ha cancellato il RMI, annunciato, meglio evocato, un ambiguo reddito di ultima istanza (?), neppure affrontato la ridefinizione dell’indennità di disoccupazione come dell’insieme degli ammortizzatori sociali. In questa situazione di stallo, la Giunta Regionale della Campania ha rotto gli indugi e definito una proposta di legge sul reddito di cittadinanza come avvio e sperimentazione approvata dal Consiglio Regionale. Nella consapevolezza sia che dal livello regionale bisognerà passare a quello nazionale, sia che tale misura dovrà riguardare una fascia di popolazione ben più larga di quella che oggi possiamo coinvolgere in relazione a risorse di bilancio regionale. Ma anche in una uguale consapevolezza che il disagio economico e sociale in una regione come la Campania “non può attendere” e che le Istituzioni pubbliche hanno da avviare delle risposte concrete. La linea di sviluppo economico avviato in Regione produce degli effetti positivi in termini di crescita occupazionale. Ma il gap enorme non può essere recuperato a breve e nella nostra regione è evidente la relazione tra disoccupazione (o occupazione a nero e precaria) – povertà – esclusione sociale. Quindi reddito di cittadinanza partendo dalla fascia di maggiore esclusione sociale, e a più basso reddito. Compatibilità di bilancio e anche valutazione di quanto pesi il circuito familiare hanno determinato due scelte: il riferimento al reddito familiare per definire la fascia che accede al beneficio, e il tetto (350 euro mensili) per famiglia. Ma sono i componenti della famiglia i richiedenti (anche più di uno per famiglia) e sono rivolti agli individui gli interventi formativi e sociali. Ecco un’altra novità del provvedimento: aver definito “reddito di cittadinanza” l’erogazione monetaria e un pacchetto di servizi ed interventi: borse di studio per l’obbligo scolastico e quello formativo, accesso prioritario a corsi di formazione professionale o a misure per l’emersione dal lavoro nero, accesso gratuito ai servizi sociali e socio-sanitari, agevolazione sui trasporti, gli affitti, per la partecipazione a manifestazioni culturali. Così come – in tanto dibattito tra famiglie “consacrate” e di fatto – la legge assume l’indicazione netta per le famiglie anagrafiche, cioè i nuclei di convivenza scelti, mentre riconosce pari diritto di accesso a residenti in Campania, da cinque anni, sia italiani che extracomunitari. Le risorse regionali stanziate ammontano per il primo anno a 7.700 mila euro e quindi permetteranno a 20 mila famiglie l’accesso al reddito, cioè all’erogazione monetaria e al pacchetto di interventi e servizi che comunque fanno riferimento ad altri capitoli di bilancio e quindi a risorse aggiuntive. Sono molte di più le famiglie in Campania collocate in quella fascia di reddito: il regolamento in approvazione prevede per i beneficiari una selezione trasparente sulla base della lettura del reddito (anche in relazione a indicatori di consumo) e della composizione familiare. La legge prevede anche l’istituzione di un osservatorio di verifica e monitoraggio. Infine la gestione del provvedimento è affidata ai comuni nei piani di zona sociali. Questa opzione per il decentramento è stata certo dettata da esigenze di efficacia e “prossimità”, 25 politica e società di trasparenza e controllo. Permette, tra l’altro, di gestire in modo integrato diversi interventi destinati ai componenti del nucleo familiare e favorisce misure di accompagnamento a percorsi di inclusione sociale. Ma è anche opzione prodotta dall’impegno grande che abbiamo profuso in questi anni come Regione nella programmazione sociale in attuazione della legge quadro sull’assistenza (la 328/2000) approvata dall’ultimo Governo di centro/sinistra. In Campania, infatti, abbiamo avviato l’attuazione della legge, all’indomani stesso della firma di Ciampi nel maggio 2001, attraverso la definizione degli ambiti territoriali, le linee di programmazione regionale, la pianificazione territoriale, i criteri per l’accreditamento del privato sociale, una ridefinizione delle professioni sociali ecc. nella finalità di costituire una rete integrata di interventi e servizi. È stata una coraggiosa sfida, dato il divario forte in termini di prestazioni e servizi sociali della nostra regione rispetto ad altre e tra zone della stessa regione. In un’assunzione di responsabilità (di obbligo) 26 p del pubblico di garantire l’esercizio dei servizi sociali abbiamo costruito una grande sinergia tra Regione, Provincia e Comuni, aprendo nello stesso tempo alla co-progettazione con i sindacati e il terzo settore. I risultati ad oggi ci danno ragione, sia per la crescita e diversificazione dei servizi sul territorio, sia per la loro qualità. Anche se il percorso avviato presenta ovviamente criticità e zone d’ombra, ma – ed è forse la cosa più significativa – ha messo in moto potenzialità, disponibilità, risorse a livello istituzionale e sociale. È a partire da qui, come dall’impegno sulle politiche educative, formative e del lavoro, che vogliamo costruire nella nostra regione un nuovo patto di cittadinanza. Il provvedimento di sperimentazione del Reddito di cittadinanza è parte decisiva di questo patto, proprio perché determina/vuole determinare un percorso di inclusione sociale di chi è più dispari e disuguale. I Racconti Un libro mai scritto VITO RIVIELLO P er un libro che non si deve o non si dovrebbe fare, un libro ormai in ritardo inattuabile, inutile, un libro che non aggiungerebbe niente alla questione o se aggiungesse qualcosa apparirebbe come forma di nostalgia e di approssimazione sapienziale. A questo punto potrei porre la penna nell’angolo delle penne che iniziarono e terminarono anche una scrittura. La persona che ha scritto queste poche parole a nome mio è così gentile che spesso m’aiuta nei momenti in cui i miei affanni mi impediscono letteralmente di scrivere o meglio di trascrivere, portando poi tutto il materiale verbale sull’ennesimo computer che palpita muto. Sonoro in milioni di case del globo. Lei obbietta: «Io non posso lasciare mai morire un libro, sono anch’io a scriverlo». Sorriso accattivante. Mi commuove come al solito il suo sguardo di ovvietà e le dico:«Lo scriverò per te ma in forma molto ridotta, tanto sarà un libro fuori commercio, titolo: il sud raccontato a Viviana». Si compie un destino storico, si concludono forse in Europa i cicli di emigrazione. La frenesia del viaggio finisce con la contemplazione di un cimitero hippy. Forse, “sud è questo orto di fiori sgargianti/ questo porto di mammole/ di cui non s’ode più il pianto”. Le città fredde, inospitali, negatrici di valori che portano… Negano tutto, la rosa, il tempo, l’acqua. La salvezza sarebbe un elenco di cose “eterne” da poter realizzare: il pane del forno a legna, il caffè napoletano, l’acqua della fonte, il latte bovino, il senso dell’amicizia, il culto dei vivi e dei morti, la memoria, una macchina umana senza rivali. Quanto costa il tempo perduto. Anche per raggiungere l’amore ci vogliono sacrifici, si devono superare difficoltà quasi magiche. Il vizio è il serpente che distoglie Orlando dalle vie praticabili del pieno sentimento: spesso l’amore si nasconde nelle insidie, nell’inganno di visi gentili di venditrici di rose, da vecchi calendari. Ma il perno dell’amore è la virtù perché esso è reale come una vigna, una casa e sopratutto nell’amore c’è come in una “matrioska” russa altro amore, una catena d’amore che si consolida nel tempo e non si spezza mai. Un anello dietro l’altro, la serenata, la forte immaginazione notturna pari a un’evocazione, l’amore con gli occhi, un happening, che neppure gli svedesi capiscono la passione, la tenacia, la tautologia dell’amore. Viviana è una ragazza di città, dipinge, va in discoteca, ha i suoi miti come tanti giovani, però ha già una ritualità particolare che abita tra la cultura raffinata e il viaggio mentale. Lo sguardo con gli occhi di un passato non meglio identificato da lei, perché non era nata all’epoca di una improbabile identificazione. Le parlo: (lei era pronta ad ascoltarmi) «Tu non c’eri solo perché non ti ho riconosciuta, ora posso dirti che c’eri». Alle forme confuse e luminose della città il sud pur nella sua dispersione e depressione opponeva la tribù (il tribunale degli anziani, le catene massoniche degli zii, le invincibili virago dette zitelle delle prozie e delle cugine). All’organizzazione del nord, il sud contrapponeva il vicinato, una catena di braccia, cori di precisi rituali magici che si opponevano al male tra odori di basilico e cipolla, sale sull’insalata, rosmarino ecc… Di quel sud non rimane niente. Anche se tu avessi in altra immagine e con un’altra età partecipato alle lotte per il risveglio della cultura meridionale e ti fossi innamorata, come accadeva in quei tempi tra poeti, pittori, sociologi, del sud e le donne del nord di tutto il mondo. Tu forse saresti ritornata col tuo uomo e coi tuoi figli, alla ricerca di quei silenzi a rivedere quelle terre che avevi dipinto in giorni indimenticabili e strani. Avresti ritrovato solo cenere, polvere di storia con l’ondata migratoria. Cosa rimane del sud? Il desiderio di solidarietà, il principio etico 27 r a c c o n t i della socialità che smentisce uno dei tanti pregiudizi nei confronti dell’uomo meridionale: esacerbato individualismo. L’uomo meridionale non ha mai amato la solitudine, lo stile gotico del farsi astratto del concetto. Anzi per paura della solitudine, consapevole d’una sua coatta marginalità, ha parlato con le cose. La conoscenza delle cose, visibili e invisibili parte dalla necessità reale di conoscere il posto e la funzione delle cose: il chiodo, la vite, il filo elettrico, il bagno con il lavandino che scorre, una scansia nuova… La figura dell’amico è sempre viva; le storie di zio Ivo. Costruì un ponte in una sola notte per permettere agli amici di raggiungere il luogo della cena. L’anima trabocca non essendo mai nell’uomo del sud al posto giusto. Anima invadente, anima ch’esci da ogni dove, sali su tutti i discorsi, ti posi nelle richieste, nelle suppliche. Nel passato nel sud abbondava la chiacchiera, mentre negli uffici del nord crepitavano battaglioni di macchine per scrivere, nel sud s’alzava il coro possente ma sfrangiato della chiacchiera. Si sentiva perfino il silenzio, “senti le nostre donne/ il silenzio che fanno…” scrive Scotellaro che pure di chiacchiere “sonore” femminili ne sentiva ogni giorno, soprattutto da sindaco di Tricarico. Adesso v’è una comunicazione viva. Nei momenti di blak-out del discorso, quando i mass-media prevalgono su tutta la linea e perfino il vecchio caro libro viene relegato in un angolo di casa, ecco una voce che cerca di rompere il silenzio cibernetico dell’era atomica, un silenzio che va facendosi veramente tale, asettico e spaziale. L’uomo del sud c’invita ad attaccarci alla parola detta, viva, a un’oralità che sia la storia dell’uomo, mai do-mo ma sempre in cerca del mistero, l’uomo della parola come segno di vita. Sono l’uomo che s’asciuga e si bagna/ per il tuo amore lascio la pianura e vengo sulla montagna/ ho perso tutto/ il mio regno è distrutto solo il mio cuore ha tanti denari/ per renderti i giorni meno amari. Viviana si era visibilmente commossa, non trattenendo la commozione pensava a quale epoca dovesse appartenere. Ora lo sapeva aveva scelto l’età del colore che è quella dell’amore. Egon Schiele, Ritratto dello scrittore Hans Flesch Brunningen, disegno, 1914 28 r a c c o n t i Dizionario VITO RIVIELLO COMÒ Il comò è un mobile moderno. I cassetti conservano i sogni di una mamma: camicie stirate per il proprio uomo o figlio, antiche lettere d’amore, una base di corredo prèt-a-portèr per un eventuale matrimonio-lampo di una figlia, il risparmio estremo avvolto in un foulard di sapore turistico. Nei tempi passati il “figliol prodigo”, ovvero il “debosciato”, spesso di notte prendeva a scalare il comò per trarne qualche risorsa. I “feuillettons” d’epoca narrano di una mamma che colpita dalla furia omicida di un figlio degenere, scoperto nella flagranza di un furto, si preoccupa, “vedi De Amicis”, del figlio assassino che fuggendo aveva sbattuto il ginocchio sul comò. Oggi quel comò è stato spodestato dal troumò, perfino nell’Italia Meridionale. In realtà il comò è migrato coi nostri emigranti verso Amburgo, Torino Sidney e perfino Los Angeles o Denver, in Colorado. Raccontava un emigrante in Australia che, ogni volta che osservava nel suo tinello il comò della nonna, cominciava a cantare «partono i bastimenti». Il comò oggi ha perso il suo carattere sacro e materno per diventare un ‘obgjet de memoire’. È diventato anche un oggetto d’arte degno di Duchamp e di Dalì. LO SGUARDO Nella nostra civiltà dell’immagine, l’occhio ha perso la sua precipua funzione ‘privata’, ‘individualistica’, per diventare essenzialmente ‘sguardo’ o anche ‘punto di vista’. In una provincia del centro-sud una donna fu accusata di ninfomania: «Perché non aveva occhi che per il marito di lei…». Si accertò in seguito che la donna indicata alla pubblica ignominia era pia e… miope. Ma la sua miopia le conferiva l’aria di Matha Hari. Oggi l’occhio è computerizzato, non è più ‘a occhio nudo’. È stato moltiplicato da plurime visioni sia interiori, metafisiche, mistiche che da visioni esterne di tipo cibernetico e telematico. TELEFONINO (al secolo cellulare) Questo oggettino per le “posture italiche” che fa assumere al- l’utente, più che con le telecomunicazioni ha a che fare con ‘l’aerobic dance’. All’inizio la postura archetipica del possessore di telefonino era a dir poco triviale. E qui ci sovvengono dei celebri versi di Gioacchino Belli quando scriveva: «Tuta io già lo sapevo/quello che all’omini/gle sta tra li calzoni/quando li vedevo piscià pe li cantoni». In realtà la posizione dei primi micro-telefonisti era buffa ed oscena. All’improvviso si isolavano, si accartocciavano e sembravano dediti ad una minzione stradale crepuscolare. Poi si perdette gradualmente la ‘privacy’ delle posture, infatti pubblicamente si mimarono cose da stanze in affitto, ammobiliate, di proprietà. Uomini e donne che parlavano ai cellulari in pose da cucina, da camera da letto, sbadigliando, grattandosi qua e là, muovendo gli arti rimasti liberi, in una libertà incondizionata. Dopo tanto dinamismo, dopo tanto rimane gioendo e patendo, le posture dei parlanti stradali si sono irrigidite in un solipsismo amaro, in una tetra solitudine burocratica. Si procede imperterriti dimenticando se stessi e mai il cellulare attaccato all’orecchio. È il momento della postura ‘faraonica’ o ‘buddista’: estasi o ebetudine? EXTRACOMUNITARIO Per chi ha fatto il liceo Classico, una frase colpiva gli studenti, una frase di qualche classico s’intende: ‘Extra moenia’. Qualche cosa fuori le mura, fuori casa, fuori dal perimetro della propria esistenza. Extra moemia significava la notte, la paura, il nemico, per cui la parola extra per molti italici o italioti è rimasta come significato di estraneità, di ‘altro da’. Extracomunitario in effetti è un extra moenia senza però sapore classico. È un fuori dal proprio sito o loco che sia. Qualcuno in lapsus irreversibili e incresciosi, diciamo vecchie zie malate di cefalee circondariali, dice: «Un extraterrestre del Bangladesh». L’AUTOMOBILE L’automobile in Italia è nata come prolungamento del proprio appartamento. Le macchine attraversano piazze e strade, semafori e crocevie come se fossero tinelli, salottini, saloni, studi e corridoi e perfino 29 r a c c o n t i camere da letto. I tassisti di Roma individuarono le stanze-macchine in una domenica di un x anno, chiamandole ‘domenicali’. Essi notarono come provetti psicologi e sociologi le abitudini domestiche degli occupanti le automobili. Notarono, all’inizio con stupore,che gli ‘occupanti’ si comportavano, a seconda dei momenti, come fossero in una qualsiasi stanza della loro abitazione. Infatti ormai tutti conosciamo la ‘domenicalità’ del popolo degli automobilisti. A tutti è dato scorgere nelle decappottabili, nelle monovolume, nelle coupé, la stessa vita familiare che si svolge nelle case INA o popolari o nei quartieri residenziali. Effusioni, dormiveglia, litigi, dialoghi, dichiarazioni, declamazioni, articolazioni non meglio identificate. C’è sempre una frase che ribadisce il concetto sacro della macchina e che viene pronunciata in ogni occasione festosa o di lavoro: «Scusate torno subito, vado a spostare la macchina». CAPRI Capri è una conchiglia che si può vendere sulle bancarelle. È il massimo esempio di natura minimalistica vivente. Il caprese Costanzo Uotto ha raccolto nelle sue foto gli eventi e le persone più straordinarie di Capri, riducendoli ad una dimensione estremamente familiare. La moglie Titina ha racchiuso tutta la mediterraneità di Capri in poche ricette gastronomiche. A Capri la storia si restringe in un fazzoletto di terra o di mare, nel sorriso che il principe ha elargito a Carmè, Carmè. La storia si personalizza in pochi metri quadri e in poche onde, c’è la tosse di Gorkyi, la bellezza di Greta Garbo, il piatto preferito di Gary Cooper, la storia di Dylan Thomas, le bizze peschereccie di Picasso. Tutta la grandezza dei grandi è raccolta nella piccolezza dell’isola. La sintesi del tutto è ‘l’insalata alla caprese, mozzarella e pomodoro e nel totano con le patate’. MANAGER Molti credono che la parola manager sia di origine lombardo-veneta, che significhi, più o meno, menare le cose, per il meglio, naturalmente. È certamente il manager un uomo che mena le pecore o il tracotante rivale o la sfortuna o la jella pura. Ma meno di gusto se incontra la sfiga. È la cosa peggiore che possa incontrare, anche se la incontra fa finta di non vederla. Perciò alcune signore ritengono anche che sia un tantino superbo e scostumato. In particolare la sfiga numero uno, che lui ha incontrato ad un defilè a Parigi. Donna molto affascinante, con una certa classe, ma anche senza una lira addosso. SIENA A Siena si può diventare senza diploma suonatori di pianoforte. A Piazza del Campo ci si sente bene soli perché si è in compagnia del tutto, l’urbanistica senese ha abolito nei canoni la promiscuità. Stare bene insieme per stare meglio soli, questo è il motto che si ricava a Siena. Passeggiando per i suoi vicoli-gonfaloni puoi conoscere la natura stessa del tuo intimismo: un felpato silenzio secolare, sovrapposizione di sogni e pulviscolo. 30 Finestre che guardano da sole senza bisogno di chi stia a guardare. Mai finestra d’Italia ha goduto di tale autonomia, neppure nel Rinascimento. FREE-LANCE Una condizione talmente libera che è sempre occupata. Perché il senso di libertà se piegato o diretto o convertito a qualcosa, cambia natura, si impiega, si occupa. Non è dimesso intercalare. Free-lance fa rima con musicdance. CHIAVI IN MANO Simbolo ‘classico’ di potere: ‘ambo le chiavi del cor di Federico’. A prescindere dalla chiave di violino, l’uomo è tranquillo quando riesce ad avere perlomeno la chiave del problema. Un delizioso cantante di un tempo, Peter Wanwood, forse perché olandese pretendeva in una canzone dalla sua bella di turno, di buttargli la chiave. Vi è chi poi, presuntuoso e saccente cerca le chiavi di ‘ogni cosa’. Uno degli incubi per l’uomo medio, e non solo, è perdere le chiavi. Non parliamo delle chiavi di casa, che se non ce l’hai resti chiuso fuori, nel palazzo senza portiere. Nell’Italia del boom i ragazzi nascevano con ‘le chiavi in mano’ e per le lauree, i compleanni altoborghesi, in una mano si ritrovavano le chiavi, appunto, e nell’altra o una fiat o giù di lì. Oggi chi più di meno palpa le chiavi. Anche contro la iettatura. Non lo dice nessuno ma all’estero molti ritengono la capitale d’Italia a Chiavari. LA BICICLETTA La nostra bicicletta è un’arpa birmana. Corre anche in astratto e nella nostra cultura non tramonta mai. Perfino le nuove generazioni incoraggiano dicendoti ‘pedala’ o con tono leggermente gnomico ‘hai voluto la bicicletta? Adesso pedala’. Decaduta da una funzionalità corrente l’oggetto a due ruote ha assunto un aspetto patetico quando è dovuta scendere nelle prime domeniche anti-smog a difendere l’onore dei nostri polmoni nelle piazze e nelle vie d’Italia. La bicicletta è cara agli italiani quanto una cartolina illustrata di un vecchio amico o di un vecchio amore. La cartolina si conserva nelle nostre collezioni private, la bicicletta si appende al muro come un trofeo. Molti anziani di oggi tra i piaceri più vivi nella loro vita dichiarano quello di suonare il campanellino della bicicletta. Qualcuno sostiene che i raggi X siano stati inventati dalla bicicletta. r a c c o n t i Come Ionio da Montalbanodistrusse ANTONIO PETROCELLI il mostro di Scanzano Favola semiseria per tenere alto il morale del comitato antiscorie O r quando la masciara disse che le distruzioni dell’ultima guerra avevano stretto in amicizia profonda il regno animale e vegetale, tutti quanti, increduli, sbarrarono occhi e orecchie, ritenendo pressocché impossibile solidarietà e affetto, connubio chimico, tra bestie ed erbe. Eppure, a quei tempi, ci furono molti innamoramenti strani. La masciara era pronta a giurare sul libro della Eccelsa Alchimia di aver visto, proprio con i suoi occhi, la capra amoreggiare con l’asparago, di aver spiato nelle notti di plenilunio il riccio far le fusa col carciofo morellino e la volpe accarezzare teneramente, con la coda, l’affascinante biancospino. C’era di più: il grande amore tra il regno animale e vegetale aveva prodotto creature con una struttura molecolare complessa e sensibilissima. Questi esseri straordinari covavano un’avversione profonda per tutto ciò che poteva distruggere e fare del male. Ionio uno di questi. Trent’anni addietro, fu proprio la masciara a trovarlo sotto una macchia di lentischio. Era un bimbo strano, dai capelli ricci e verdi, frutto dell’amore fra un cipressotto mediterraneo e una giovane fanciulla che aveva perso il suo innamorato in una guerra senza senso e, come sempre, inutile. Fu chiamato Ionio perché, da quel posto dove il piccolo fu abbandonato, è possibile ancora oggi vedere il Mar Ionio luccicare, spumeggiare e cambiare colore dall’alba al tramonto. Ionio, seguendo il suo istinto arboreo, crebbe trascorrendo gran parte del suo tempo nel grande bosco di Andriace. Passeggiando in lungo e in largo tra le macchie profumate dove crescevano olivastri cerri, roveri, farnie, frassini, olmi, ontani, pioppi, aceri, meli e peri selvatici, tamerici, ginepri, corbezzoli, allori e oleandri. Osservando le geometrie aeree dei predatori nobili e degli uccelli migratori, le corse a perdifiato dei cinghiali e dei caprioli, le fughe furtive delle lepri, dei tassi e dei ricci. Si riposava, in fine, al riparo dell’ardore dei raggi solari, sotto la grande quercia al centro del vacchericcio, là dove, tanto tempo addietro, alcuni pastori trovarono un soldato saraceno morente, coperto da un’armatura di seta e d’oro, completamente insanguinata. Stringeva ancora nelle mani una strana spada di vetro infrangibile, ragione per cui gli abitanti del villaggio lo credettero un santo. Ionio amava dissetarsi presso una fonte che sgorgava nel bosco: il sapore dell’acqua era dolciastro e sapeva di zolfo. Ogni tanto bolliva e fumava. Gli abitanti del villaggio avevano motivo di credere che fosse fonte divina e per questo la chiamarono lerofolante, nome adatto alle fonti divine. Le strane abitudini di Ionio erano oggetto di discussioni, mormorii e dicerie strambe. Mastrantonio lo scarparo diceva che solo un pazzo poteva dormire sotto la quercia del saraceno, in compagnia dei ramarri lucidi e delle serpi cervone; Spaccapiazza lo spazzino sapeva con certezza che l’acqua di lerefolante aveva strane proprietà allucinogene; Dongiovanni lo spretato era certo che nel cervello di Ionio abitassero scorpioni; Ziociccio mangiafagioli sosteneva che l’emisfero destro di Ionio fosse pieno di cellulosa e Ziopeppino II chianchiere ripeteva in continuazione che nelle vene di Ionio scorreva poco sangue e molta clorofilla. Un giorno, dalle terre di Scanzano, giunsero notizie mai udite da che il mappamondo esistesse: che un mostro enorme e feroce, nella piana di Terzo Gavone, aveva distrutto aranceti, vigneti, pescheti, orti e maggesi e che i villaggi limitrofi, da Sibari a Ginosa si svuotavano velocemente. Presso gli abitanti di Montalbano, grande apprensione suscitava la triste notizia. Tutti freneticamente discutevano su come sfuggire a tale minaccia. Solo Ionio, con la sua arborea serenità, continuava a passeggiare tranquillo nel vacchericcio del grande bosco di Andriace. Ma appena vide le prime carovane di paesani che, spinti dalla paura, abbandonavano mestamente e in fila indiana le loro terre e si dirigevano al Nord, iI suo cuore di resina si sciolse a tanto scempio e sofferenza e la pietà si impadronì di lui. Fermava i fuggitivi per strada. Gli chiedeva notizie del mostro. Pochi gli rispondevano (i lucani sono molto taciturni). Il terrore del mostro aveva spalancato a dismisura i loro occhi levantini, che, sbiancati per lo spavento sembravano d’alabastro. - Per la miseria - disse Ionio - se tutta questa gente continuerà a salire 31 r a c c o n t i l’Italia si sbilancerà. Il peso di tutti questi esuli farà abbassare ancora di più la pianura del Po, Venezia si prosciugherà tutta, la laguna inonderà Milano, il Cervino sprofonderà e la punta di S. Maria dì Leuca salirà sempre più in alto. Lo stivale potrebbe addirittura capovolgersi col rischio di schiacciarci tutti a testa in giù contro le Alpi. Mio figlio non può nascere in tutta questa confusione. Questo mostro va domato!-Fu così che Ionio fece intendere a tutti i paesani che avrebbe cancellato dalla faccia della terra il mostro di Scanzano. Ad udirlo parlare con tale determinazione, c’era quasi da crederlo, ma i più dubitavano delle sue facoltà mentali, e per tutti gli abitanti del villaggio, Ionio divenne semplicemente un povero pazzo. Molti, pur credendolo assolutamente innocuo, suggerirono di rinchiuderlo, per precauzione, in una Casa Famiglia di Recoleta, dove avrebbe sicuramente dimenticato il suo folle proposito di sfidare il mostro di Scanzano. Soltanto la masciara credeva a quello che Ionio andava dicendo. La vecchia maga sapeva benissimo che nel tessuto molecolare di Ionio convivevano armonicamente linfa vegetale e animale. Nel suo corpo, il singolare incrocio produceva ormoni, lipidi, neuroni e globuli verdi in numero superiore a tutti gli altri esseri mortali. In lui cresceva un’energia misteriosa, non traducibile in calorie, ma paragonabile alla forza sconosciuta e invisibile che spinge il fiume a sboccare nel mare. Ionio incominciò a lavorare alacremente nelle spiazzo del vacchericcio compreso tra la quercia del saraceno e la fonte lerofolante. Raccolse cento pelli di bue e le cucì con i tendini di mille tacchini, ottenendo un enorme pallone sgonfio. Sulle cuciture vi spalmò sugna di cinghiale e intrecciando giunco, ginestra e tamerici, costruì un solido zatterone che, con lunghe liane di agave, rovo e gramigna fu ancorato all’enorme pallone. Per cinquanta giorni, dall’alba al tramonto, viaggiò in lungo e in largo nel Metapontino, di stalla in stalla, ripulendole tutte. Ogni giorno raccolse il letame delle stalle del barone di Recoleta e dei grandi pascoli di Beriingieri. Ripulì i colombai di Andriace, i pollai di Capolevata, le porcilaie di Carleo, gli ovili di Cantalamessa e della Vedova Pecorelli, le conigliaie di Camardi, Cerulli e Cugno di Corto. Raccolse ogni escremento dì tutti gli esseri viventi nelle contrade di Marone, Pane e Vino, Frascarossa, Ventomare, Petrolla, Quattro Colonne, Scianniniglio, Monte Soprano, Luce, Terza Madonna, Pantano, Santalena e di tante altre contrade campestri. Scaricò infine il tutto nell’enorme zatterone, fin quando non fu stracolmo di stallatico fumante e fermentante. Poi, con canne giganti di bambù, che crescevano a dismisura nelle pozze sulfuree della sorgente lerofolante, costruì un lungo condotto che partiva dalla fonte e raggiungeva l’enorme pallone sgonfio, su cui, con un tronco di sughero affumicato, aveva scritto MAU, diminutivo di Maurizio, nome che avrebbe dato a suo figlio. E la gente lo guardava, lo compativa e lo derideva, non riuscendo a capire quale disegno folle abitasse il suo cervello vegetanimale. Aveva ormai terminato la sua opera. Si sdraiò spossato sotto la quercia del saraceno e aspettò che la fonte lerofolante cacciasse fumo e vapore acqueo. Quando la sorgente incominciò a bollire, sprigionando zolfo, elio, azoto e altri gas nobili, Ionio Invocò l’aiuto del vento Scirocco che con folate calde spira dalla Siria, passando dal Marocco, là dove maturano le noci di cocco. E il vento, soffiando e mugulando alla maniera islamica, cominciò a spingere i gas della sorgente lerofolante attraverso il lungo condotto di canne cave. Il pallone, piano piano, incominciò a gonfiarsi e lentamente sollevò, nel cielo lustro di Montalbano, lo zat- 32 terone stracolmo di concio fumante. Bisognava vedere come strabuzzavano gli occhi gli increduli paesani, vedendo nuotare nell’aria siffatto prodigio di scienza, tecnica e fantasia. Ionio se ne stava in piedi, sullo zatterone e guardava il suolo allontanarsi. Rideva felice, mentre il vento scompigliava i suoi riccioli verdi e il sole illuminava il suo profilo levantino, che tanto lo faceva rassomigliare a sua madre. E nel nome di suo figlio, che, un giorno, ne era certo, sarebbe nato. Ionio si rivolse al vento che spira dalla Grecia e che per strana e mitologica coincidenza chiamasi grecale: - Se tu continuerai a soffiare per tre giorni e per tre notti, certamente spingerai la Navicella Mau lassù vicino al sole. Tutto questo è necessario per sconfiggere il mostro di Scanzano che lapilli e morte scaglia contro il genere umano, creando disordine e confusione. La gente scappa via dal Sud e intanto il Nord si appesantisce. Nessuno abiterà più queste terre e se un giorno un figlio mi nascerà, di certo non sarà contento di ritrovarsi solo e senza amici. Non potrà conoscere Camilla facciasporca, Ninetta snellapallida, Franco capellilunghi, Giorgio bell’occhio, Antonio nasolungo, Marisa bellasciantosa, Nunzia la principessa, Manuela allevacriceti, Rosa deliziosa, Donato senzasonno, Claudio succhiadolci, Ugo sugo e Tiratira. Sarebbe proprio un brutto affare! Ti prego, aiutami a volare! -II Grecale, che è un vento di poche parole, ma sensibile, incominciò a soffiare soffiare, senza tregua, trascinando la navicella sempre più in alto e in direzione di Scilla e Cariddi, che con la loro foga giovanile intorbidano le acque e stordiscono i pesci. Per tre giorni e tre notti soffiò senza sosta (si fermò solo cinque minuti per riprendere fiato e mandar giù un panino). Cosicché Ionio, appollaiato sulla Navicella Mau, sorvolò il tempio di Apollo Lido in Metaponto, il santuario di Anglona che in splendida solitudine sfida i venti sulla collina, Eraclea piena di belle donne, le terme di Sibari e Spezzano Albanese famose per le loro acque purgative; dall’alto delle nuvole, Ionio riusci ad individuare il porto di Trebbisacce che produce e vende in tutto il levante il caviale del Sud, novellame ghiotto e piccante dal sapore biblico; sorvolò Crotone conosciuta in tutto il mondo perché è abitata dai crotonesi e poi ancora Possano, dove Andrea suona la fisarmonica per addormentare le sue gemelline, e più giù ancora, Riace famosa per le sue cipolle rosse. Poi, finalmente, apparve il triangolo di terra assediata dal mare, che tutti chiamano Sicilia. La navicella sorvolò Catania, dove parve sostare, indecisa su quale direzione prendere, poi fece rotta verso l’interno, sorvolò Calascibetta e si diresse verso Enna, puntando verso la Rocca di Cerere, dove quasi stava per posarsi, per l’improvviso cessare del vento. Ma il vento prese di nuovo vigore e la spinse deciso sulle chiese di Piazza Armerina, sulle case di Mineo la magica, deviando su Pachino, e sul cielo nitido di Marzamemi dove finalmente curvò, per ritornare diritto verso la lugubre e nera piana di Scanzano. Come mai avesse fatto questo lungo giro, per tre giorni e per tre notti, nessuno lo sapeva. Ma tant’è, la navicella giunse finalmente nella piana di Scanzano. Case distrutte, alberi in fiamme. Il cielo era un’immensa nuvola nera. Non volava nessun uccello. Un ruggito feroce e profondo scuoteva la terra. Come formichìne, apparivano gli esseri umani, che fuggivano disperati stringendo forte, al petto, i loro piccoli. Gridavano e piangevano, correndo verso il Nord, che, poverino, si appesantiva sempre di più. r a c c o n t i L’orrendo mostro di Scanzano apparve: aveva un naso enorme e lucido, labbra strette e antipatiche, che contornavano un ghigno satanico, larghissime orecchie viola. Da tutti i buchi del suo corpo uscivano fetori saturnini, schizzavano fiamme malefiche, zampillavano liquidi inquinanti, esalavano radiazioni, fuoriuscivano pus, virus pestiferi e bacilli antitutto. Basta. Ionio non si fece impressionare. Pregò l’amico vento di fermarsi e questi, di buon grado, tirò un lungo sospirone dì sollievo e lasciò finalmente riposare le sue gote che, a furia di soffiare, erano indurite e sature di tossine. Non appena la navicella Mau si fermò, Ionio aprì le porte dello zatterone e lasciò che tutto il letame del Metapontino sommergesse l’odioso mostro di Comiso. Patapunfete. Ora, bisogna sapere che il letame del Metapontino, a causa della lunga esposizione ai raggi ultravioletti, che si incontrano a migliala alle alte quote, nei tre lunghi giorni di viaggio, aveva talmente fermentato e assorbito energia Gamma, da trasformare completamente la sua catena chimica. In esso si erano quindi formati enzimi caustici difficilmente rintracciabili nell’orbo terracqueo. Tali enzimi sprigionano un odore più pungente dell’acqua ragia, varechina, solvente nitro e acqua di cavolo insieme e hanno il potere di sciogliere i metalli più refrattari. Persino le pinne di pescecane. Se poi pensiamo che il previdente Ionio aveva mischiato al letame cinque tonnellate di diavolicchi, ceraselle, mericanilli e peperoni di Senise, possiamo intuire quali poteri caustici avesse acquistato il letame di tutte le stalle del Metapontino. Difatti, non appena il mostro ne fu investito, i suoi occhi, che erano di fuoco, si spensero all’istante; al contatto con gli enzimi brucianti, le sue squame si sciolsero e i vapori caustici gli strozzarono in gola quel ruggito di morte che sembrava giungere dal centro della terra. Cieco, senza squame e senza voce, il mostro, ormai ridotto ad un lombricone nudo e indifeso, con la pelle invasa da piaghe perenni, per trovare refrigerio, s’infilò sottoterra e da allora nessuno lo ha più rivisto. Alcuni marinai riferiscono che sia stato visto per un attimo presso un’oasi del deserto del Sahara, ma forse sarà stato solo un miraggio. Un commerciante di prosciutti di tacchino sparse la voce che il povero lombricone, a furia di scavare sottoterra, senza meta e alla cieca, era finito in un lago della Scozia, dove ogni tanto appare, di notte, quando la nebbia si confonde con tutto. Ma a noi, che fine abbia fatto, non ce ne importa un fico secco. La prodezza di Ionio fu conosciuta in tutto lo stivale e la notizia raggiunse, in un baleno, le comitive di emigranti che, in fila indiana, risalivano luttuosamente la penisola. Fecero tutti un rapido dietrofront e tornarono in breve tempo nelle loro terre. L’Italia tornò ad essere bilanciata. di Montepulciano, Malvasia, Aglianico e Cimicioso. Chi non aveva vino, bevve birra e se la cavò lo stesso. Ora, nella piana di Scanzano, non c’è più nessun segno della trascorsa sciagura. L’arancio, il pesco, il bergamotto, il pompelmo, il kiwi, il mapo, il mandarino, il limone, il pesco e il cotogno sono ritornati a fiorire in una terra resa ancora più fertile dall’enorme quantità di letame del Metapontino, -Una botta e due fìcetole! -Diceva tutta contenta la masciara alla gente del villaggio, mentre Mastrantonio lo scarparo, Spaccapiazza lo spazzino, Dongiovanni lo spretato, Ziociccio mangiafagioli e Ziopeppino il chianchiere discutevano animatamente se, per le leggi di Mende), anche Maurizio, il figlio di Ionio, avrebbe avuto clorofilla al posto del sangue. La masciara, che ne aveva viste tante e fatte ancor di più e che, nella sua lunga vita, aveva conosciuto Cristoforo Colombo e Garibaldi, sapeva per certo che i frutti dell’amore tra il mondo animale e vegetale, trasmettono la loro fibra ai figli, cosicché mai, su tutta la terra, possa mancare colui che provi avversione profonda per tutto ciò che può distruggere e far del male. Maurizio uno di questi. Ionio si adoperò a spiegare che se non ci fosse stato il contributo determinante delle stalle del Metapontino, lo sforzo sovrumano dell’amico Grecale e la collaborazione decisiva dei raggi ultravioletti che si incontrano a migliala alle alte quote, nessuno avrebbe potuto sconfiggere il mostro di Scanzano. Ma poiché tutti insistevano nel ringraziarlo, per aver restituito loro vita e speranza, Ionio volle spiegare che lo aveva fatto soprattutto per Maurizio, suo figlio prossimo venturo: - In un mondo disordinato e sottosopra, pieno di violenza e guerra, paura e sconforto, i bambini crescono poco e male...-Andava ripetendo. Fu così che da Domodossola a Pachino tutti seppero che Ionio aspettava un figlio e nel nome di Maurizio, si dettero alla pazza gioia scolando Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino, Nobile 33 Biblioteca del Centro Annali 19 volumi sulle trasformazioni culturali, politiche, economiche e sociali del Mezzogiorno d’Italia negli ultimi due secoli. Piccola biblioteca meridionalista Mezzogiorno, Stato e società italiana: questo è sostanzialmente il tema che unisce questi classici del pensiero politico, economico, sociologico in un lasso di tempo che va dalla fine del 1800 alla fine del secolo scorso. Qualitalia Una collana per capire chi siamo, che cosa vogliamo o dobbiamo fare: dall’analisi delle contraddizioni interne allo Stato, alla criminalità organizzata, alla corruzione politica, alla crisi dello Stato stesso. Nuovo Mezzogiorno Sociologi, politici, giornalisti, intellettuali scrivono per questa collana per valutare come siano intervenute sul tessuto sociale le grandi trasformazioni dell’economia e della politica in una realtà, come il Mezzogiorno, forse non sempre pronta a riceverle. La Basilicata nella storia d’Italia Il pensiero politico meridionale ha costantemente posto non questioni marginali seppure importanti, ma le questioni generali dell’assetto dello Stato e dell’economia nazionale. Ecco perché il processo di formazione e costruzione di una coscienza unitaria ha potuto permanentemente attingere alle elaborazioni del meridionalismo classico. I contributi e le esperienze di uomini come Azimonti, Franchetti, Ciasca, Rossi Doria, Jacoviello, De Martino costituiscono questa collana. Le mimose La presenza della donna nella storia della società moderna, attraverso indagini e testimonianze dirette di protagoniste e studiosi. Altri titoli Il riformismo della sinistra, inchieste su territorio e ambiente, sulle realtà urbane, sullo stato sociale e politico del Sud, sull’identità regionale: questo ed altro all’interno di una collana che va dal romanzo al saggio al pamphlet. I libri della memoria Questa collana ricostruisce, attraverso biografie, corrispondenze epistolari, fonti documentarie, il ruolo che singole persone o alcune significative famiglie ebbero nella formazione e nello sviluppo della nostra regione. CALICEDITORI Casa editrice fondata da Nino Calice nel 1992 Titoli in catalogo: 100 | Collane: 8 www.caliceditori.com e-mail: [email protected] C ultura La storia bandita Una terra tra memoria e futuro ANNA MARIA RIVIELLO Briganti e piemontesi nel cinespettacolo della Grancia. Un’operazione culturale insidiosa ma di grande attrazione. Il cinespettacolo della Grancia, “La storia bandita” è un evento di grande suggestione e bellezza. Il luogo, la massa dei figuranti, le luci, le belle voci degli attori, tutto concorre a coinvolgere totalmente gli spettatori nella storia narrata. Si tratta, come avvertono gli autori , di una storia di banditi o meglio di una “storia bandita”, messa al bando, espulsa dagli storiografi ufficiali, confinata negli archivi criminali della polizia di Stato. Quando mi è accaduto di assistere allo spettacolo, ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad un evento culturale e spettacolare di grande rilievo, capace di attrarre un vasto pubblico, di durare nel tempo. Mi pare che i fatti mi abbiano dato ragione. Lo spettacolo, inoltre, sembra sciogliere positivamente una questione cruciale per la Basilicata: quella del continuo oscillare tra provincialismo e spaesamento quando la regione si occupa di se stessa. Per la stessa sapienza e la complessità delle tecniche di rappresentazione esso si sottrae infatti alla tentazione, sempre presente e ricorrente nella nostra regione, di ridurre la storia e la memoria a sagra paesana, a un’ idea del passato contadino senza consapevolezza, come accade di solito in alcune manifestazioni di tipo locale. Ma nello stesso tempo, pur modernissima nella forma, per il suo contenuto non rifugge dalle “radici” come spesso accade nella fruizione di una cultura interamente prodotta nei punti alti dello sviluppo dell’occidente e poi riproposta senza mediazioni, a spettatori-consumatori che ne traggono la definitiva conclusione di essere in un altrove senza storia . Ma proprio per questa grande capacità di attrazione, di suggestionare migliaia di persone, di fare “cartellone” per anni come un grande spettacolo musicale americano, ci troviamo di fronte a un’operazione insidiosa perché veicola verso ampi strati di opinione pubblica un paradigma “revisionista” nell’interpretazione della nostra storia nazionale dal sapore francamente reazionario. Anche da questo punto di vista “La storia bandita” resta fedele al suo modello. Com’è noto il cinespettacolo della Grancia è una forma d’ arte del tutto particolare. Una forma di rappresentazione realizzata, per la prima volta, in Vandea la celebre regione della Francia meridionale, chiamata dal suo ideatore Philippe de Villiers, “Cinescenie”. Una specie di grande film vivente con la presenza di 850 attori sulla scena, che si svolge su una zona di circa 15 ettari e che, come ci spiega il depliant illustrativo “ associa allo spettacolo in diretta, le tecniche più moderne (quadrifonia, laser, elettronica, pirotecnica computerizzata, giganteschi schermi d’acqua, ecc.). Come nella “Storia bandita” c’è un rovesciamento del canone storiografico di interpretazione della rivolta vandeana: non reazione alla rivoluzione giacobina da cui derivano le moderne democrazie, ma espressione delle buone ragioni dei contadini della campagna francese. La vicenda narra la storia di povera gente che si incrocia inevitabilmente con la grande storia del luogo, gli attori sono tutti volontari, l’ azione si svolge a Puy du Fou, intorno ad uno stagno ai piedi del locale castello. L’ evento, che si è svolto per la prima volta nel 1978, da allora ha attirato milioni di spettatori . L’ideatore del progetto della Grancia, Giampiero Perri, giustamente ci ricorda questa fonte di ispirazione che naturalmente assume da noi sue caratteristiche peculiari e si avvale 35 c u l t u r a di un lavoro altrettanto entusiasta di centinaia di volontari e di un paesaggio ugualmente suggestivo. La “storia bandita” scritta, come spiega Perri nella presentazione dell’ opera, con Oreste Lo Pomo e con la consulenza di Tommaso Pedio “contiene richiami a molteplici autori ed opere tra cui l’autobiografia di Camine Donatelli Crocco, il famigerato generale dei briganti, il diario di Josè Borjes, fedele seguace della causa del trono e dell’altare,venuto in Basilicata con l’intento di porsi a capo del brigantaggio per orientarlo in senso filo-borbonico, alle pagine suggestive ed appassionate di Carlo Alianello, agli studi di Rodolico, De Jaco, Molfese, De Sivo e dello stesso Pedio per citarne alcuni” È quindi un’operazione che ha grandi ambizioni sul piano metodologico e storico. E il tema, tra l’altro, è di quelli che in Basilicata diventa sempre più di attualità. Da tempo, infatti, riemerge la figura del brigante, che esce dalle cronache giudiziarie per entrare nella fantasia delle generazioni più giovani. I ragazzi “no scorie” nei giorni caldi della lotta di Scanzano hanno cantato” siamo briganti e facciamo paura”, la canzone di Eugenio Bennato. Di briganti aveva raccontato il bel libro di Raffaele Nigro, Fuochi del Basento. Gente crudele, sporca, bandita si riaffaccia alla sensibilità di giovani cresciuti a telefonini e computer. I briganti erano stati contadini, parte essenziale della nostra storia e di una civiltà ormai conclusa ma che perdura ben oltre l’ unificazione del Regno d’Italia fin nel cuore del novecento. Non è quindi lontanissima da noi. Era una società giunta sostanzialmente immutata sino al periodo fascista, quando fu descritta e resa, più tardi, universalmente nota da quel capolavoro letterario che è il “Cristo” di Levi che diede luogo ad un interesse, seppur diffuso, di tipo prevalentemente antropologico. Ed è impressionante pensare che tra l’epoca del brigantaggio “politico” e gli anni di Levi da queste terre fossero partiti in decine di migliaia negli anni della “grande migrazione” verso gli Stati Uniti che vide l’esodo di quattro milioni di italiani, prevalentemente meridionali, tra il 1880 e il 1929. Per capire il mondo in cui visse e prosperò il brigantaggio è quindi necessaria un’ analisi dei rapporti di classe che si erano sedimentati nel lungo periodo in una società di tipo semifeudale. Relazioni e gerarchie che saranno definitivamente mutate, solo nell’Italia del secondo dopoguerra, dalla riforma agraria, dalle lotte bracciantili per l’occupazione delle terre, storia relativamente recente quindi, cinquantanni non sono molti nella storia di un Paese. Si legga l’ autobiografia del generale dei briganti Carmine Donatelli Crocco. Le prime pagine ci trasportano in un clima di tragica classicità La madre incinta perde il figlio e la ragione dopo essere stata presa a calci da un signorotto. Costui infatti era furioso perchè un altro figlio della donna, aveva ucciso un suo levriero che aveva azzannato a morte un coniglio, raro bene della fami- 36 C glia contadina. La madre fu colpita perché tentò di difendere il bambino dalla furia dell’ uomo prepotente. Il padre verrà poi ingiustamente accusato della morte violenta del signorotto, imprigionato e liberato solo in seguito alla confessione in punto di morte del vero colpevole. Per completare questo quadro di prepotenze e sopraffazioni , va qui ricordato che qualche anno più tardi la sorella, ormai orfana, si troverà esposta a pesanti tentativi di seduzione violenta da parte di un altro esponente della classe padronale. Questo è il vissuto di Crocco, che si accompagnava ad un’idea di sé niente affatto corrispondente al luogo infimo della società in cui volevano confinarlo. Una consapevolezza della propria forza fisica e vigoria intellettuale che strideva col destino di sottomissione che gli toccava per nascita. Questo mi pare il nucleo della vicenda di questo brigante che per la sua emblematicità e la sua importanza può servirci anche da solo, a capire il mondo in cui visse. Alcuni decenni prima degli avvenimenti narrati, l’abate Parini in Lombardia, aveva scritto la sua celeberrima ode “La vergine cuccia”, in cui pur senza spargimento di sangue, si narra un’altra storia di normale ingiustizia, un calcio del servo alla cagnetta della padrona, determina licenziamento, esecrazione sociale e quindi miseria per il servo e la sua famiglia. Parini, nella illuminata Lombardia, di questo scrive per ammonire ed educare. In Basilicata , non c’è chi in quel momento, se ne occupi. È un’ingiustizia cui si risponde con cupa violenza, col sangue ed il rancore, non è ancora il momento della storia, non è il momento dell’arte. Lo stesso Crocco ne è consapevole. Racconta nella sua Autobiografia che a Stigliano, acquartierato a palazzo Colonna, mentre osserva la galleria dei quadri che ritraggono scene di battaglia, le gesta dei padroni del castello, si dice che nessuno immortalerà le sue gesta di “ladrone plebeo”. Mi sembra che qui lo stesso Crocco ci aiuti a definire il brigantaggio, un movimento di rivolta senza la speranza di un vero mutamento sociale in cui l’intreccio con le vicende della politica appare abbastanza casuale ed estrinseco. Come è noto, Crocco fu definito “generale” perché era a capo di numerose bande che agivano appoggiate da forze borboniche e si unirono poi al generale Borjes, nel tentativo di reinsediare i Borboni sul trono di Napoli. Ma Crocco aveva, se possibile, dei Borboni, del loro esercito, della crudeltà dei loro ufficiali, un giudizio ancora più duro e sprezzante di quello che esprime in ogni occasione sui “melliflui liberali”. È un ribelle che tenta di usare (è invece usato), le forze in campo per difendersi, ma la sua vita precipiterà ineluttabilmente dalla miseria all’ ergastolo. È un destino che appare segnato. Queste osservazioni mi sono indispensabili per motivare le mie riflessioni sul testo della “storia bandita”, quando le vicende che narra si intrecciano con la storia politica di quegli anni, c u l t u r a Disegno di B. Madaudo C dal 1799 al 1864, in cui il brigantaggio appare come un movimento di “resistenza e reazione” a moti politici di provenienza prima francese e giacobina poi sabauda e piemontese, legittimato dal fatto che si oppone a fenomeni entrambi estranei alla realtà meridionale e perciò sostanzialmente distruttori di un equilibrio identitario da conservare. Insomma i piemontesi sono tout court gli “aggressori”. Vedasi come è narrata la vicenda dello zio Martino che aveva creduto ahimè nei giacobini senza Dio e ne era stato profondamente deluso e poi tutta la vicenda di Crocco e la sua partecipazione al movimento di reazione borbonica. “Il desiderio di Crocco di sorgere a nuova vita, di riacquistare la libertà perduta, di ridare onore alla sua famiglia, si intreccia ormai con le speranze di un intero popolo di riscattarsi... Insorti in nome dei Borboni, i contadini lucani danno vita ad una lotta disperata.” Recita così la voce narrante della “Storia bandita” che commenta l’ azione. Dal testo è stato più recentemente tratto uno spettacolo teatrale, ”Cafoni”, che viene rappresentato presso il Museo provinciale tra le manifestazioni indette dal Polo della cultura promosso dalla Amministrazione provinciale di Potenza. La regista Maria Carmela Iannielli, spiega in un articolo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno (10 gennaio 2004) che “gli spettatori saranno condotti lungo più di mezzo secolo di eventi osservati dal punto di vista di chi quella guerra l’ha persa, i cafoni appunto, i pastori che si sono improvvisati rivoluzionari e per tale azioni furono etichettati briganti.” Ma le cose stanno effettivamente così? Negli argomenti della Iannielli avverto lo stesso slittamento di senso che ho visto in tutta l’ opera della Grancia.Il brigantaggio non fu il prodotto dell’intervento piemontese, contro cui i contadini combatterono una guerra che hanno perduto. Fu il prodotto della miseria endemica e di rapporti di classe plurisecolari estremamente iniqui della società meridionale. Diventare brigante era la forma normale attraverso cui nella società meridionale dominata dal latifondo e dalla rendita si deviava dalle relazioni sociali costituite. Che a metà dell’ottocento questo fenomeno fosse usato dalla reazione borbonica è altrettanto normale. Il miraggio era avere una possibilità di uscita dalla propria condizione di fuorilegge. Ma affermare che il brigantaggio fosse rivoluzione sociale, o addirittura resistenza allo straniero, è storicamente infondato. È certamente vero che i piemontesi disprezzavano le plebi meridionali ed è vero che si può tranquillamente sostenere che l’unificazione italiana fu “rivoluzione borghese”, che essa ha avuto molti aspetti discutibili per cui il Mezzogiorno ha pagato un prezzo molto alto, cosi come è vero che affrontare e risolvere i problemi gravissimi che affliggevano la società meridionale, in primo luogo le masse rurali non era nella mente della monarchia sabauda. Le stesse speranze suscitate dai garibaldini vennero duramente e rapidamente frustrate. Del resto di critiche a come si sia fatta l’unità d’Italia sono piene le pagine del meridionalismo. Dalla critica di Dorso alla “conquista regia” alle dolenti pagine di Fortunato 37 c u l t u r a Disegno di P. Fuccella sulla condizione del Mezzogiorno post-unitario fino alle discutibili teorie di Nitti sul fatto che il Mezzogiorno preunitario fosse più ricco di quello successivo all’unificazione. Non c’è dubbio che la “questione meridionale” è figlia del modo con cui è stata realizzata l’unità d’Italia. Ma non per questo la storia di quei decenni è riconducibile allo schema contadini, sanfedisti e filoborbonici alleati contro l’invasore francese e piemontese, la cui principale colpa era quella di essere portatore di una modernità organicamente estranea al sud e alla Basilicata, e che tale doveva rimanere. Insomma, progressisti uguali a invasori ed occupanti. La storia della nostra regione è invece più complessa. Vede in Basilicata figure come Mario Pagano e il vescovo Serrao ed a Napoli dopo il 1799, l’eliminazione di un’intera generazione colta, la cui soppressione violenta segnerà profondamente il destino del Regno di Napoli. Non si può dire, come recita il testo della “Storia bandita”, “alla violenza del nuovo Stato corrisponde la feroce resistenza dei briganti”, perché resistenza evoca le ragioni di chi difende una realtà preesistente e un’idea. I briganti da quella realtà erano già stati messi fuori legge. Più veritiere mi sembrano le ultime parole messe in bocca a Crocco ormai prigioniero “molti, molti si illusero di poterci usare per le loro rivoluzioni. Le loro rivoluzioni. Ma la libertà non è cambiare padrone…” Queste differenze di interpretazione non sono questioni di poco conto. Ma riguardano l’identità della nostra regione. Abbiamo bisogno di radici in questo tempo di spaesamento. Ma proprio per questo, abbiamo bisogno in particolare di una ricostruzione storica che sottragga il mondo contadino alla sua apparente immobilità, che ce ne racconti passività e rivolte, senza forzature ideologiche. Le generazioni oggi più anziane hanno spesso rimosso il profondo legame del nostro presente con quel mondo. Non possiamo semplicemente sostituire alla rimozione la nostalgia, solo una conoscenza critica della nostra storia può rispondere pienamente alla giusta esigenza delle generazioni più giovani di riappropriarsi del proprio passato. C 38 c u l t u r a C L’Età ridente... Breviario per una generazione SIMONE CALICE C’è qualcosa che accomuna tutti i ragazzi e le ragazze che scevichi di Lenin e i cinesi di piazza Tien an Men, giovani i ho incontrato quando ho viaggiato tra i paesi di questa regione; guerriglieri del Sud America e i praghesi davanti ai carri armaed è che hanno gli occhi stanchi. ti sovietici. Certo non tutte le rivoluzioni sono uguali, cattive Chi più, chi meno, vent’anni appena e già così... o buone che siano, alcune inutili, altre pericolose, guidate da Dagli occhi si capiscono molte cose, quando si vuole. La nobili impulsi o da mortali ideologie, sono pur sempre il risulgioventù stessa è, in sostanza, rintracciabile nei nostri sguardi tato dell’entusiasmo giovanile e della sua stupidità, che sono il e in quelli che ci capita di incrociare, se solo facessimo più lievito di qualsiasi trasformazione. attenzione. Sono sguardi liberi, sorridenti, a volte stupidi, non Ma tutte le gioventù, ogni gioventù, è quasi sempre la conancora disillusi, giovani appunto. seguenza delle idee e dei progetti delle generazioni precedenti, Non sempre però, non qui almeno... alle quali i giovani accorrono a dare dinamismo e vigore, con Sappiamo tutti che la gioventù non è un merito particolare, risultati, onestamente, non sempre confortanti. Esiste, o deve nè tanto meno un caso fortunato; anche chi non è esistere, senza che se ne sottovaluti l’importanza, “Qui i ragazzi più giovane lo è stato un tempo ed è possibile che un elemento di continuità, che eviti salti e scarti ci sia pure chi non lo è stato mai o chi riesce ad tra generazioni. Una buona politica dovrebbe far e le ragazze esserlo sempre. A parte le ovvie differenze di tipo preparano la fuga, questo, perché una comunità è espressione della fisico tra chi è ancora giovane e chi lo è meno, cosa sua classe dirigente, e non il contrario, come molti è che rende tanto attraente il mito della gioventù? che è fuga fisica credono. Non sempre però, non qui almeno... Cosa la trasforma da una questione puramente bio- quando potranno e Qui, i ragazzi e le ragazze, preparano la fuga, logica, in un fatto, se vogliamo, culturale? L’aspet- artificiale quando che è fuga fisica, quando potranno, e “artificiale” to fondante di ogni gioventù, da quelle passate a quando non possono. non possono ” quelle che verranno, è il suo carattere di non-chiuIl peggior delitto che la politica possa commettere sura, di apertura alla vita, di possibilità non ancora esaurite, di sarebbe non accorgersi di queste fughe. Ad andare via non sono aspirazioni non ancora pregiudicate. più, come negli anni ’60, braccianti ed operai, che pure un vuoNon sempre però, non qui almeno... to hanno lasciato, ma avvocati, professori, medici, economisti, Quando si è giovani pensiamo che tutto sia possibile; poscioè quella che avrebbe dovuto essere la futura classe dirigente siamo pensare di fare il medico, il killer, l’attore, il prete, il di questa terra. E quelli che restano? Quelli che restano, sognamagnàccia, il poeta, il suonatore di jazz e quello che vi pare, no. Sognano posti dove suonare, sognano luoghi dove inconnon perché ne possediamo realmente le capacità, ma semplitrarsi, sognano altri lavori, sognano di altri amori... cemente perché si può; perché ancora non ci troviamo nelle Delle possibilità concesse alla gioventù non si può consuristrette opportunità, che inevitabili arrivano col passare del mare che solo una parte, il che spiega come mai tutti cadano tempo. È per questo che i giovani rappresentano la fonte di vittime dell’illusione di averla sprecata, pensando che avrebbe energia di vari processi sociali. potuto essere migliore. Avete mai visto un “vecchio” fare le rivoluzioni?! Giovani No, non poteva, non qui almeno, ma avrebbero voluto proerano i ragazzi di Parigi e di Berkeley nel ‘68, giovani i bolvarci. 39 c u l t u r a C Il lavoro degli immigrati nel Melfese e nell’Alto Bradano DAVIDE BUBBICO Una conversazione con Maria Santoro del Centro per l’Impiego di Melfi e Gervasio Ungolo, assessore a Palazzo San Gervasio Maria Santoro lavora dal 1979 al Centro per l’Impiego di Melfi, un osservatorio privilegiato per conoscere i processi che caratterizzano il mercato del lavoro dell’area nord occidentale della regione. Dal 1974 al 1980 è stata anche sindaco del PCI del comune di Ruvo del Monte, e tra la prime donne a rivestire questa carica in Basilicata, che ha poi ricoperto nuovamente dal 1990 al 1994. Il Centro per l’Impiego di Melfi, uno dei cinque della provincia di Potenza, comprende oltre al comune di Melfi, quello di Rapone, San Fele, Atella, Rionero, Ripacandida, Ginestra, Barile, Rapolla. Nell’insieme si tratta di un’area che ospita una popolazione di circa 60 mila abitanti. Gervasio Ungolo è Assessore all’Agricoltura al Comune di Palazzo San Gervasio e componente del Comitato Regionale di Rifondazione Comunista, da anni impegnato nella soluzione dei problemi che annualmente si concentrano intorno al centro di raccolta dei lavoratori immigrati che giungono a Palazzo San Gervasio per la campagna di raccolta del pomodoro e di altri prodotti orticoli. Con loro cominciano un percorso di indagine sui lavoratori immigrati presenti sul territorio regionale per comprenderne le modalità di inserimento, i problemi e la loro collocazione nel mercato del lavoro. Negli ultimi anni il Vulture Melfese è sempre più un’area di forte attrazione per gli immigrati che decidono di fermarsi in Basilicata. Quali sono le nazionalità presenti in numero maggiore e chi hai avuto modo di conoscere per i servizi offerti dall’ufficio nel quale lavori? M. SANTORO: Ci sono molto donne dell’Est che lavorano notoriamente come badanti, poi ci sono i marocchini, che lavorano perlopiù in edilizia alle “dipendenze” di piccole ditte, i 40 tunisini e gli albanesi, questi ultimi sia in edilizia sia in agricoltura, mentre gli indiani lavorano prevalentemente nelle stalle, e ormai da una decina d’anni. L’area di Lavello, differisce da quella di Melfi perché la presenza degli immigrati è più di carattere stagionale legata in particolare alla raccolta del pomodoro. Sono invece poche le donne che provengono dall’America centrale e del sud, qualche cubana, altre da Santo Domingo, e che trovano spesso lavoro nei locali come animatrici. Ci sono poi gli immigrati che vengono dall’Argentina dopo la crisi che ha investito il paese negli ultimi anni, perché hanno un parente, e che in questa area risiedono soprattutto tra Ripacandida ed Atella, qualcuno anche a Rionero. Si tratta di interi nuclei familiari, soprattutto giovani, ma che vivono perlopiù di lavori informali e certamente non sufficienti a condurre un’esistenza serena. La regolarizzazione del 2002, ha determinato un quadro più chiaro della presenza straniera in Regione, anche se proprio le regolarizzazioni hanno permesso a molti di lasciare la Basilicata per trasferirsi verso le regioni del centro nord, alla ricerca di occupazioni diverse e meglio remunerate, ma lasciando così spazio a una nuova ondata di immigrati, spesso irregolari. M. SANTORO: Con la regolarizzazione del 2002, i lavoratori che hanno regolarizzato la loro posizione non hanno provveduto ad inviare al Centro per l’Impiego la documentazione, per cui di quelli regolarizzati se non si sono licenziati o non hanno cambiato lavoro il nostro ufficio non è più venuto a conoscenza. Le badanti sono venute da noi solo perché si sono licenziate e perché avevano bisogno della scheda anagrafica. A questo proposito, avevo ritenuto utile fare richiesta alla Prefettura o alla Questura di avere almeno l’elenco dei regolarizzati, in modo tale da poter verificare chi di questi era venuto al centro. c u l t u r a C I marocchini che sono presenti, in questa area, sono già stati regolarizzati a metà degli anni Novanta, mentre gli albanesi già all’inizio degli anni novanta. Questi ultimi si sono stabilizzati in particolar modo a Barile dove esiste una forte comunità albanese rafforzatasi con i ricongiungimenti familiari sempre più numerosi negli ultimi anni, un fenomeno che ultimamente ha cominciato ad interessare anche gli immigrati provenienti dall’Europa dell’Est. Richieste di ricongiungimento sono cominciate a venire anche da immigrati di altre nazionalità come i tunisini, che sono presenti in particolare a Rapolla. Quelli che non fanno richiesta di ricongiungimento sono gli indiani, anche se negli ultimi anni sono cresciuti i matrimoni tra indiani e italiane, lo stesso dicasi per i marocchini e al contrario per le donne dei paesi dell’Est visto che sono aumentate quelle che hanno contratto matrimonio con uomini dei nostri comuni, risolvendo così anche il problema del permesso. In generale si può notare che gli immigrati con oltre 40-45 anni non vivono la prospettiva della permanenza futura in Italia, perché interessati a fare rientro prima o poi nei loro paesi d’origine, mentre quelli più giovani sono maggiormente disponibili a stabilirsi nella nostra regione o comunque in Italia. Negli ultimi anni il centro di accoglienza di Palazzo San Gervasio è divenuto l’emblema della condizione dei lavoratori immigrati in provincia di Potenza. Puoi dirci come è cresciuta la presenza di questi lavoratori nelle produzioni orticole di Lavello e dintorni?1 G. UNGOLO: I primi lavoratori immigrati che cominciano a lavorare nella raccolta dei pomodori sono presenti già dalla seconda metà degli anni ’80. All’inizio nessuno credeva a questo fenomeno, anche perché era forte la contrapposizione tra i lavoratori locali e i nuovi arrivati, in quanto i primi erano abituati a lavorare a tariffa, mentre gli immigrati lavoravano a cottimo. Al produttore conveniva lavorare con questi, perché impiegando i lavoratori immigrati avrebbe avuto la certezza di riempire il camion alla fine della giornata, mentre i lavoratori locali non sarebbero andati oltre le 6 ore e 40 previste dal contratto di lavoro e quindi con la possibilità di lasciare i carichi incompleti. A questo si è aggiunto negli anni successivi una maggiore indisponibilità dei lavoratori locali verso i livelli di remunerazione e le condizioni di lavoro. Si può tuttavia osservare che sta aumentando anche il numero di lavoratori che tendono a risiedere stabilmente nell’area, ad esempio, nello stesso comune di Palazzo, puoi dirci di chi si tratta? G. UNGOLO: Gli immigrati stanziali lavorano perlopiù nel settore del commercio, uno di questi ha aperto anche un negozio, ma il numero maggiore è quello delle donne ucraine e di altri paesi dell’est, che lavorano come badanti. C’è anche un gruppo di albanesi che fanno parte del gruppo arrivato in Puglia all’inizio degli anni Novanta e che lavorano nei bar e in altri servizi privati. Ci sono poi gli indiani e i pakistani che lavorano negli allevamenti. I magrebini sono coinvolti nella raccolta del pomodoro e sono il gruppo più numeroso tra i lavoratori stagionali. La stagionalità corre da metà agosto alla fine di ottobre, anche se lo scorso anno la presenza nel Centro si è prolungata fino alla fine di novembre, perché un gruppo, una quarantina circa di lavoratori, si sono fermati anche per la raccolta delle olive, lavorando soprattutto nelle campagne di Melfi e Venosa. Da alcuni anni stiamo, inoltre, assistendo alla presenza degli immigrati durante la stagione della piantagione del pomodoro, quindi già dal mese di aprile. Si tratta di un lavoro che fino a qualche anno fa era appannaggio dei braccianti agricoli pugliesi, provenienti in particolare da Andria e Altamura. Oggi, invece, anche questo lavoro sta per essere progressivamente svolto dai lavoratori immigrati provenienti dalla Puglia e dalla Campania, dove risultano essere residenti. Uno dei problemi maggiori è sicuramente quello del permesso di soggiorno, dato che la legge Bossi-Fini è ispirata ad una logica di repressione del tutto priva di un disegno programmatico e che considera gli immigrati come semplice forza lavoro. M. SANTORO: Quanti lavorano nel settore dell’edilizia sono assunti solo quando è prossimo il rinnovo del permesso. Molti hanno avuto delle vere e proprie sorprese, perché le ditte, molte quelle di Melfi, hanno spesso rilasciato assegni a vuoto, perdendo in alcuni casi somme di 4-5 milioni. Si tratta nella maggior parte dei casi di piccole ditte che lavorano perlopiù al nord e quindi di lavoratori che sono costretti a lavorare fuori regione, i cosiddetti trasfertisti. Queste ditte lavorano in particolare in Toscana e in Emilia-Romagna. Oltre alle badanti e ai lavoratori che sono occupati nell’edilizia, quali sono gli altri settori dove è più facile che gli immigrati trovino lavoro? Ci sono occupati nelle imprese manifatturiere, escludendo la Fiat e le aziende dell’indotto? M. SANTORO: L’altro settore che offre maggiori occasioni di impiego, anche se più precario degli altri, è quello del commercio e spesso dell’ambulantato. Accanto ai tunisini e ai marocchini sono ormai più numerosi i cinesi, molti su Melfi, ma perlopiù in nero cioè non regolarizzati. A Ruvo c’era un gruppo di cinesi composto di 12 persone che, però adesso si è trasferito in Toscana, a Prato dove esiste il distretto del tessile. I cinesi hanno poi delle modalità di convivenza molto strette e tradizionali, nel senso che la partenza di un componente spinge tutti gli altri nella stessa direzione. Si trattava in maggioranza di ambulanti e due di loro hanno aperto due negozi, uno a Melfi e uno a Rionero, e che sono gli unici rimasti. Posso tuttavia pensare che la loro è la comunità che si sta insediando in maggior 41 c u l t u r a numero. La loro presenza a Ruvo era spiegata dal minore costo dell’affitto, il fattore che spiega la residenza di molti immigrati nei piccoli comuni anche se poi lavorano in quelli più grandi, come Melfi e Rionero. Nel settore industriale sono pochi i lavoratori immigrati e dove sono presenti si tratta di particolari eccezioni. È il caso della SIL FLORA, un’azienda floricola di Melfi dove sono occupati solo lavoratori immigrati, perlopiù marocchini, ma perché l’ambiente è nocivo per l’uso di prodotti chimici. Si tratta poi di lavoratori che dormono anche presso l’azienda, e che vivono quindi una condizione di stretta dipendenza dalla società. Sempre a Melfi delle donne hanno trovato lavoro in un’azienda di condizionamento di prodotti agricoli, anzi si tratta in un caso di un’intera famiglia occupata in una di queste aziende. Ma si tratta di eccezioni più che di una tendenza diffusa, almeno fino ad oggi. L’altro settore di principale impiego è, come dicevamo all’inizio, quelle delle collaboratrici domestiche, ma non tutte sono regolarizzate. Nel caso di Ruvo, lo sono quelle che provengono dall’Ucraina e dalla Bielorussa, mentre negli ultimi mesi sono arrivate rumene e polacche, che oggi si trovano per la maggior parte in una situazione di irregolarità. Si tratta di quelle che hanno preso il posto delle badanti che una volta regolarizzate hanno lasciato la regione. Delle donne presenti a Ruvo, qualcuna ha fatto venire clandestinamente i figli, anche se la maggior parte lavora in Italia per mantenere i figli che sono iscritti all’Università nel paese d’origine. In molti casi, quando hanno un marito, questo è disoccupato, penso soprattutto alle donne che vengono dalla Romania. Il centro di raccolta degli immigrati a Palazzo ripropone ogni anno il ritardo dei enti locali a livello provinciale e regionale circa l’organizzazione dell’intervento, considerando che un comune piccolo come quello di Palazzo difficilmente potrebbe farvi fronte da solo, ma quali sono gli altri problemi che si verificano durante il periodo della raccolta, oltre quelli legati all’accoglienza? G. UNGOLO: Cominciamo col dire che la struttura dove ormai convergono ad agosto i lavoratori per la raccolta è diventata di proprietà del comune dopo essere stato sequestrato alla malavita organizzata, un terreno di alcuni ettari all’interno del quale sorgeva in precedenza una fabbrica di laterizi. All’inizio i lavoratori sostavano in un’area nei pressi della fontana del Fico proprio per la presenza di una sorgente d’acqua e in condizioni assolutamente precarie. All’interno della fabbrica c’è un capannone che può ospitare 150 persone, mentre la maggior parte è alloggiata fuori con le tende. Il primo anno, se non sbaglio il 1998, riuscimmo a censire circa 1.200 immigrati, anche se furono molti quelli che non vollero essere registrati. Negli anni sono stati apportati alcuni miglioramenti, anche grazie a 400 milioni, non spesi però sempre per opere utili. Sono state istallate una 42 C trentina di docce calde, si sono costruiti dei bagni, per migliorare i servizi minimi di accoglienza. Bisogna poi considerare che una parte di questi lavoratori, nei mesi agosto-settembre, tendono a risiedere nei casolari di campagna, soprattutto in quelle aree che sono troppo distanti dal centro e che renderebbero impraticabile la possibilità di essere presenti sul campo nelle ore stabilite. Si tratta in molti casi dei senegalesi, che tendono a rimanere separati dal resto dei lavoratori, tunisini, marocchini e algerini che risiedono in maggior numero presso il centro. Oggi esiste un progetto di ampliamento, ma il problema è che i finanziamenti previsti da Regione e Provincia sono pochi e potrebbero addirittura venire a mancare per il 2004. Abbiamo anche predisposto un piano di gestione del campo, ma si tratta di proposte che cadano spesso nell’indifferenza dei livelli amministrativi superiori e questo è un problema che rende tutto più precario. Eppure l’area è dal punto di vista agricolo molto importante e tutti sanno che senza questi lavoratori sarebbe difficile effettuare la raccolta, vista anche l’indisponibilità della manodopera locale a quelle condizioni di lavoro e di salario. G. UNGOLO: Solo a Palazzo ci sono mille ettari di coltivazioni orticole tra pomodori, peperoni e melanzane e una punta massima di circa 2.500 lavoratori stagionali. La maggior parte del pomodoro raccolto va verso il salernitano, perché ci sono più ditte che lo ritirano, mentre il 30% della produzione locale va verso il salsificio di Gaudiano, e non ne potrebbero andare di più perché ciò andrebbe oltre la sua capacità produttiva. Questo stabilimento come tutti i salsifici deve aprire e assicurarsi il prodotto quanto prima possibile. Il pomodoro comincia a venire dapprima dal casertano e dal foggiano e solo dopo dal lavellese. Con il peperone ci sono più raccolte. È l’ultimo ortaggio che si raccoglie ed anche il peperone va tutto nel salernitano, lo stesso per le melanzane. Questa tendenza si potrebbe però invertire perché l’Organizzazione Professionale del Mediterraneo di Palazzo sta costruendo uno stabilimento per portare un prodotto fresco sul mercato. C’è insomma la volontà di fare la commercializzazione in proprio, per evitare che tutta la materia prima sia lavorata e commercializzata nel salernitano. Il comune sta costruendo, a questo proposito, la sua zona industriale per puntare soprattutto sull’agroindustria, anche se il neo distretto dell’agroindustria del Vulture Melfese ha escluso proprio il comune di Palazzo San Gervasio e per i dati forniti prima non riesco proprio a comprenderne il motivo. Ci sono poi dei problemi che attengono specificatamente all’organizzazione del lavoro durante la raccolta. G. UNGOLO: Fino ad oggi il reclutamento della manodopera avviene nel seguente modo: una squadra di lavoratori immigrati arriva sul campo di lavoro e contratta il prezzo della giornata, tenendo conto delle condizioni climatiche, della posizione del c u l t u r a C terreno, del tipo di piante e di altri aspetti. In questo modo si può lavorare anche per 12 e più ore, ma al terzo giorno qualcuno cede e rimane a riposo per due giorni. La riduzione dei lavoratori della squadra può comportare problemi sulla tabella di raccolta e questo può determinare degli effetti disorganizzativi sui camion non riempiti, sulle aziende che non si riescono a rifornire nelle quantità prestabilite. Ma i problemi cominciano anche prima quando si tratta di stipulare i contratti di lavoro e sono problemi soprattutto di natura burocratica. Il produttore che deve reclutare la manodopera deve scendere al centro e trovare la squadra disponibile, una squadra che va dalle 20 alle 50 unità e qui deve impegnarsi a riempire schede di diverse pagine, che è cosa piuttosto impegnativa. Poi molto spesso la documentazione in possesso dei lavoratori non è sempre leggibile, perché lavorando nei campi, e sotto la pioggia, portano con loro una fotocopia del permesso di soggiorno. Un modo per evitare tutto questo sarebbe quello dove il produttore, tramite l’ufficio del lavoro, dichiara di quante persone ha bisogno e l’ufficio del lavoro, dopo aver registrato le squadre, si preoccupa di facilitare l’incontro tra domanda e offerta. Questo percorso si è tentato nel 2003 con la presenza di un rappresentante dell’Ufficio del Lavoro, delle associazioni di categoria, ma il problema è che non avendo un telefono, un computer e neanche una scrivania, risultava difficile attrezzare un ufficio pronto per espletare il minimo del lavoro necessario. Presso i Centri dell’Impiego si ha modo di conoscere la qualifica dei lavoratori, anche se tutti i lavoratori immigrati finiscono per iscriversi come operai generici. M. SANTORO: Gli immigrati che provengono dall’Est, sono in generale quelli più qualificati, ad esempio i rumeni sono bravi come pavimentisti, altri lo sono come idraulici, mentre poco qualificati sono gli albanesi, che sono poi anche quelli meno secolarizzati. Tutte le donne dell’est sono diplomate o laureate e in molti casi in possesso di un patrimonio professionale molto elevato. È il caso di una donna ucraina che ho avuto modo di conoscere meglio e che lavorava come medico internista in un ospedale in Ucraina dove guadagnava però uno stipendio pari a 70 euro mensili e che adesso fa la badante. Un altro lavoratore dell’Ucraina, che vive a Melfi con la famiglia, era prima dipendente dell’Esercito. La sua pensione è di 27 euro ed oggi, ultracinquantenne, lavora in edilizia, mentre uno dei tre figli, avendo compiuto i 18 anni, ha dovuto lasciare la scuola per fare l’apprendistato presso un idraulico ed in questo modo superare il problema del permesso di soggiorno. Possiamo affermare che quello dell’immigrazione è un fenomeno destinato a crescere e che sono molti i problemi che andranno affrontati e non certamente in un’ottica emergenziale? M. SANTORO: Il fenomeno è stato un po’ drogato dalla regolarizzazione del 2002, tuttavia l’aumento si vede soprattutto per le badanti, anche se adesso il problema è di quelle che sono in una posizione di irregolarità. La nostra regione, forse per le sue dimensioni, ha però la possibilità di sviluppare un modello di accoglienza che può puntare realmente all’accoglienza e alla predisposizione di soluzioni che altrove sono spesso difficili da gestire per i numeri dell’immigrazione. Per saperne di più della condizione degli immigrati in Basilicata vedi: Nino Calice, Enzo Persichella (a cura di), Immigrare in Italia. Il caso Basilicata, Calice Editori, Rionero in Vulture 1995. Provincia di Potenza, Assessorato Provinciale alle Politiche Sociali, Gruppo di lavoro sull’immigrazione, L’immigrazione straniera in provincia di Potenza: dati, analisi e bisogni della popolazione immigrata, Potenza, Marzo 2004. Flai Cgil Potenza, L’immigrazione e la campagna del pomodoro a Palazzo San Gervasio, 2003. CARITAS, Immigrazione, Dossier Statistico, 2002. Note 1 Gli ettari complessivi coltivati a pomodoro sono 700. Il territorio interessato, 10 Km di raggio, è per lo più concentrato nelle zone di Genoano, Banzi, Venosa, Forenza, Maschito, Montemilone e Spinazzola. Cittadini stranieri dimoranti nei comuni del Vulture Alto Bradano (Settembre 2003) Melfi 221 Rionero 120 Barile 74 Atella 32 Rapolla 31 Pescopagano 21 San Fele 18 Ruvo del Monte 14 Ripacandida 9 Rapone 1 VULTURE 541 Lavello 182 Venosa 139 Palazzo San Gervasio 79 Genzano 64 Forenza 47 Banzi 23 Montemilone 20 Maschito 10 Fonte: Ginestra Ufficio Immigrati, Questura di Potenza. ALTO BRADANO 9 573 43 c u l t u r a C L’ISTRUZIONE è ancora un OBBLIGO? La Regione e la riforma Moratti Le istituzioni locali nel campo della scuola. Le caratteristiche di un sistema formativo regionale integrato e la controriforma di destra. Azzerare in fretta le leggi emanate dal precedente governo di centrosinistra. Sembra essere proprio uno degli obiettivi centrali del programma di governo di questa maggioranza, un obiettivo in sé, piuttosto che un passaggio politicamente comprensibile, anche se non sempre giustificabile. Una sorta di epurazione legislativa che si accanisce con particolare spregiudicatezza nei confronti di settori importanti e strategici della nostra società e del nostro Paese, come la scuola, l’istruzione, la ricerca. La legge N. 53 del 28 marzo 2003 (la Riforma Moratti) non si limita a delegare al Governo la definizione delle norme generali sull’istruzione e sulla formazione professionale, decisione di per sé gravissima e contraria ad ogni più elementare principio democratico, poiché la scuola è una istituzione e un bene collettivo, non parte di un bottino politico di cui disporre a piacimento senza dibattito e contraddittorio, ma contiene al suo interno delle abrogazioni pericolose che riguardano l’elevamento dell’obbligo di istruzione sino al quindicesimo anno di età, come imponeva la legge n. 9 del 9 gennaio 1999, obbligo sostituito da un generico diritto-dovere all’istruzione ed alla formazione per almeno dodici anni, da realizzarsi, altrettanto genericamente, nel sistema di istruzione ed in quello di istruzione e formazione professionale. In compenso è ancora in vigore, e per fortuna, la Costituzione con i suoi articoli 33 e 34 sulla scuola e sull’obbligo scolastico e la legge 144 del 1999 sull’obbligo formativo, mentre nel frattempo la legge costituzionale del 2001 di modifica del 44 CAMILLA SCHIAVO titolo V della Costituzione ha aperto diversi e più complessi scenari, chiamando in causa nuovi attori e nuove competenze legislative “concorrenti” in materia di istruzione e formazione, le Regioni e gli Enti Locali. In sostanza, si elimina l’obbligo scolastico, ma si mantiene il complesso di norme che vincolano lo Stato e le Regioni nel garantire l’attuazione dell’obbligo formativo per tutti quei soggetti che non si iscrivono ad alcuna scuola superiore dopo la terza media o fuoriescono dal sistema di istruzione superiore senza conseguire alcun diploma. Un pasticcio ed un vuoto legislativo, aggravato dalla mancanza dei decreti destinati a disegnare la struttura specifica del segmento secondario superiore del sistema scolastico italiano, con il rischio immediato di un progressivo incontrollabile aumento dell’abbandono scolastico, proprio nella fascia d’età tra i quattordici e i quindici anni, quando i ragazzi socialmente e culturalmente più deboli meriterebbero invece cure e attenzioni più forti da parte delle istituzioni e del sistema formativo. Si è tentato di porre rimedio con l’Accordo quadro sancito dalla Conferenza Unificata Stato Regioni di giugno 2003, a partire dal quale le Regioni, di concerto con le parti sociali e con il Ministero dell’Istruzione, possono avviare azioni legislative volte a realizzare percorsi integrati di istruzione e formazione professionale. Appare chiaro, a questo punto, come la necessità di superare una situazione di emergenza nella emanazione delle norme, riveli in realtà il suo carattere di precisa scelta politica, indirizzata a creare le condizioni per un anticipo sperimentale del doppio canale nel settore secondario superiore, delineato c u l t u r a C dalla legge di riforma e fortemente voluto da questo governo di centrodestra. Se si aggiunge la considerazione che proprio la riforma della scuola superiore presenta qualche grosso serio interrogativo anche per questa legislatura, pur intenzionata a cambiare la scuola a colpi di maggioranza, risulta più evidente la volontà politica di affidare da subito alle Regioni la gestione del canale della formazione professionale, mantenendo in maniera incerta e fumosa in capo alle istituzioni scolastiche l’obbligo delle certificazioni, con buona pace delle dichiarate nobili intenzioni di assicurare il passaggio da un sistema formativo all’altro (le cosiddette “passerelle”). Le Regioni in questi ultimi mesi si sono in qualche modo attrezzate ed hanno emanato leggi e sottoscritto accordi di programma con gli Uffici Scolastici Regionali per dare corpo al Sistema Formativo Integrato. Alcune regioni, poche per la verità, soprattutto nel centro – nord, un esempio tra tutti il Friuli, hanno scelto la linea della permanenza obbligatoria dei ragazzi nelle scuole secondarie superiori nel corso del primo anno, con la possibilità di frequentare percorsi integrati nella formazione professionale. Probabilmente i crescenti numeri dell’abbandono scolastico, già prima del compimento dell’obbligo scolastico nelle scuole medie, nelle zone del mitico ricco Nord Est hanno spinto a riconsiderare con maggiore oculatezza il problema dell’obbligo formativo e del rapporto tra formazione di base e mercato del lavoro. La gran parte delle regioni italiane ha piuttosto scelto la soluzione della accentuazione del canale della formazione professionale legata all’apprendistato ed ai bisogni specifici territoriali. Il federalismo scolastico vero e proprio sembra essere cominciato da qui. La Regione Basilicata, nel dicembre 2003, ha varato le proprie leggi ed i relativi accordi di programma, con i quali assicurare l’assolvimento dell’obbligo formativo mediante percorsi triennali di istruzione e formazione professionale. La Legge Regionale denominata “Riordino del Sistema Formativo Integrato” affronta le politiche di intervento in materia di obbligo formativo, fissando criteri e paletti entro i quali rendere operative le scelte effettuate. Alcuni aspetti del provvedimento legislativo tuttavia non convincono. Non convince, in linea generale, la genericità con cui si affronta la delicatissima questione dell’obbligo formativo. Proprio in coincidenza con la drastica ed improvvida riduzione dell’obbligo scolastico ad opera di una legge dello Stato, sarebbe stato più prudente, in prima battuta ed in una regione peraltro amministrata dal centrosinistra, mantenere più ampio e riconoscibile il riferimento al sistema di istruzione scolastico, l’unico, in questa fase, davvero in grado di identificare, sia i soggetti a rischio di abbandono e dunque di inosservanza dell’obbligo, sia i bisogni formativi ai quali provare a dare risposte valide in termini quantitativi e qualitativi. Invece la nostra Regione si propone di emanare “gli indirizzi pedagogici, gli ordinamenti didattici e gli standard minimi per la certificazione delle qualifiche e delle specializzazioni tenuto conto degli standard definiti ancora a livello nazionale”, intendendo altresì favorire, sulla base di intese con l’amministrazione scolastica, i passaggi tra i due sistemi, di istruzione scolastica e di formazione professionale. Con quali strutture formative territoriali si intende rendere operativo in tempi ragionevolmente brevi questo obiettivo? In realtà l’Accordo quadro nazionale per la realizzazione nell’anno scolastico 2003-2004 di una offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale nelle more dell’emanazione dei decreti legislativi legati alla legge di riforma Moratti, recepito dal Protocollo di Intesa fra Regione Basilicata, Ministero dell’Istruzione e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nonché lo stesso Accordo conclusivo di dicembre 2003 tra Regione ed Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata, prevedevano uno spazio ed un ruolo più consistenti per le istituzioni scolastiche e per l’autonomia per esse sancita da Decreto 275 del 1999 ancora in vigore sull’autonomia didattica,organizzativa e di ricerca. Ciò anche nella considerazione della necessità di valutare con maggiore cautela il processo di accreditamento delle Agenzie Formative pubbliche e private presenti sui territori, cui affidare il grosso della gestione dei percorsi formativi diversificati. Si pensi poi alla crisi che sta investendo soprattutto gli istituti professionali di Stato e, a seguire, gli istituti tecnici, in bilico tra l’incertezza della nuova ma non compiuta appartenenza al sistema formativo regionalizzato e la necessità, ormai non più rinviabile, di riformare ordinamenti e curricula per renderli davvero coerenti con le trasformazioni sociali, economiche e culturali in atto. E di certo un sistema scolastico indebolito nella sezione tecnico - professionale non può che accentuare il rischio che corre l’effettiva attuazione del diritto-dovere all’istruzione, visto che sono proprio le fasce potenzialmente deboli dei giovani quelle che poi si rivolgono, almeno inizialmente, agli indirizzi di studio professionali. Sarebbe allora importante che si tenesse conto di tutte queste variabili, allorquando si progettano percorsi integrati di istruzione e formazione professionale che abbiano come finalità prioritaria quella di garantire ad un numero il più vasto possibile di giovani e meno giovani una formazione professionalmente valida, ma anche culturalmente solida e spendibile anche nel medio periodo. Sicuramente rafforzare l’acquisizione delle competenze di base, la parte resistente dell’apprendimento, le competenze 45 c u l t u r a cosiddette durevoli e persistenti, quelle che consentono di affrontare con minori incertezze la sfida (e il dramma) del lavoro flessibile e tendenzialmente sempre più precarizzato, dovrebbe rappresentare la cifra qualitativa di ogni progetto formativo ancorchè integrato e professionalizzante. In tal senso, il patrimonio conoscitivo delle istituzioni scolastiche, non soltanto di quelle superiori, potrebbe rivelarsi assai utile nella progettazione di percorsi formativi professionali e le scuole stesse potrebbero giocare un ruolo di protagoniste nel partenariato istituzionale che necessariamente deve vedere coinvolti diversi soggetti e settori. Stiamo invece assistendo ad un processo di costruzione di un sistema formativo regionale integrato che, di fatto, conferendo alle scuole il ruolo di partners fruitori delle scelte di politica scolastica compiute altrove, finisce per produrre insieme due conseguenze, entrambe dannose per il presente e per il futuro dell’istruzione nel nostro Paese. Mentre si assesta un ennesimo colpo all’autonomia scolastica, opportunità e risorsa tanto decantata e richiamata in ogni articolato di legge ma mai come in questi ultimi tempi così schiacciata e dimenticata, si determina nel contempo un’accelerazione verso la divaricazione predeterminata dei canali di istruzione e formazione, così come è nel disegno politico del Ministro Moratti. Contrariamente a quel che accade a livello nazionale, sono convinta che nel territorio regionale un confronto continuo, aperto e costruttivo con il mondo della scuola debba e possa caratterizzare l’avvio di una politica formativa seria, di lungo respiro, capace di mettere insieme le esperienze e le competenze dei diversi soggetti e settori presenti sul territorio ed autenticamente, non soltanto economicamente, interessati a disegnare un futuro di cittadinanza attiva per le nostre ragazze e per i nostri ragazzi, proprio per tutti, se ancora è possibile “non uno di meno”. La Conferenza Regionale sulla Scuola della Basilicata, avviata oltre un anno fa per fare il punto sullo stato dell’arte del sistema di istruzione lucano e costruire ipotesi concrete di sviluppo e di cambiamento, ed oggi ancora in via di definizione, potrebbe trarre buona linfa da questo dialogo. Il sistema scolastico e formativo della nostra regione non vuole restare immobile, ha però bisogno di essere conosciuto davvero per poter essere cambiato. 46 C LUCIO CORVINO Dani SICILIANO ‹ Likes…› !K7 156CD - 2004 Il nome di Dani Siciliano dirà poco alla gran parte dei lettori, ma potrebbe mettere in attenzione coloro che si siano interessati alle produzioni di house music ed all’elettronica in generale. La Siciliano, californiana di nascita, italiana di origine e inglese d’adozione, cantante di notevole talento naturale, mai invadente o eccessiva, si era già messa in evidenza in alcuni brani di “Bodily Functions” di Matthew Herbert, uno degli artisti più singolari ed importanti nel campo della acid house. Il lavoro della Siciliano può ora essere meglio conosciuto ascoltando il suo debutto solista “Likes…”, uscito per la K7, etichetta che da alcuni anni si sta distinguendo per la cura e la qualità delle sue produzioni. Qui la splendida voce di Dani gode ovviamente del più grande rilievo; intorno ad essa la musica si costruisce nella relazione tra tecnologia, campionamenti e strumenti acustici. Da questa relazione scaturiscono sapori e vapori di jazz, soul, punk, country, hip-hop, naturalmente house ed elettronica. L’ascoltatore che voglia godere a pieno di questi suoni deve concedersi ad essi senza fretta alcuna, dedicando ripetuti ascolti; diversamente dalle tracce del disco si evidenzieranno soprattutto i suoni più aspri e rumoristici, presenti nella prima parte, a fronte di una voce pur sempre suadente ed accattivante. Il disco ha inizio con le sonorità minimali di “Same” che si vanno a sommare una ad una in un coinvolgente crescendo di oltre nove minuti in cui la voce della Siciliano viene campionata, frammentata, sezionata ed analizzata anche nel respiro, fino ad emergere in modo limpido fra suoni sempre più liquidi. Segue “Come as You Are”, del non dimenticato Kurt Cobain profondamente sentita quanto, probabilmente, irriconoscibile. Incedere lento, ritmato da percussioni e da un suono di contrabbasso su tappeti di sonorità elettroniche. Il corno francese di Gabriel Olegavich in grande evidenza. Bellissima rilettura/riscrittura. “Canes and Trains” e “Walk the Line” giocano con un cantato più pop, ma nello stesso tempo i suoni di fanno acidi. Electro rallentata, ma non per questo meno aliena. La seguente “One String”, completamente strumentale, gira su una nota e sul suono di un cordofono, contrastato da frequenze disturbanti. Ricorda alcune sperimentazioni industrial fine ‘70. “All thee above” è un sognante duetto canoro con l’islandese Ornelias Mugison, che qui e altrove suona anche la chitarra, suoni sintetici e frequenze strambe, tra i quali si intromette la fisarmonica, trasformando la ballata in una specie di stralunato ed improbabile tango. In uno stile acid house piuttosto classico attacca “Extra Ordinary” e presto vi porterà a lasciarvi andare in un lento ma sempre più coinvolgente ondeggiamento di spalle e bacino. Dopo le atmosfere vellutate di “She Says Cliche” si passa a quelle quasi cabarettiche di “Red”, ancora una volta pregnanti campionamenti, elettronica e suoni naturali, questa volta un sax. Suono di sax, ora baritono, che ritorna anche in “Collaboration”, su accordi di semplice intensità. La conclusiva “Remember to Forget”, con accenni di arrangiamento di jazz orchestrale e rimandi a Mingus e Wyatt, conferma la voce e le capacità creative/ produttive di questa signora del vocalismo contemporaneo che speriamo di poter ancora incrociare nei nostri percorsi auspicando che in molti possano avvicinarsi alla sua musica e prestarle l’ascolto che merita. Per approfondire la conoscenza della voce di Dani Siciliano, consiglio l’ascolto del già citato “Bodily Function”, 2001, !K7 di Herbert e, “Goodbye Swingtime”, 2003, Accidental, a firma Matthew Herbert Big Band. c u l t u r a C “L’imbalsamatore“ di Matteo Garrone L’attenzione che la critica di tutta Europa rivolge in questi giorni al quinto lungometraggio di Matteo Garrone, “Primo Amore”, non riguarda solo il grande successo che il film ha riscontrato al festival di Berlino. Mai come in questo caso, Garrone è riuscito ad imporsi all’attenzione del vasto pubblico riproponendo, con sempre più forza e vigore, i temi che hanno caratterizzato il suo cinema fin dal suo esordio. I primi tre film: “Terra di mezzo” del 96, “Ospiti” del 98 e “Estate romana” del 01, gettano le basi per la preparazione di un evento, il suo quarto film, “L’Imbalsamatore”. Il film, ambientato tra Caserta e Cremona, narra le vicende, e le solitudini, di due uomini ed una donna. Il loro incontro rappresenterà l’inizio di un percorso fatto di perversione, di trasgressione, che si concluderà inevitabilmente con la morte. Garrone, attraverso un uso inconsueto del mezzo tecnico, riesce a raccontare una storia semplice che rispecchia una realtà fatta di degrado, di violenza, di incomunicabilità. Il pubblico è condotto in un mondo sotterraneo, dove le leggi morali lasciano il posto all’istinto, dove gli uomini sono paradossalmente carnefici e vittime, (paradosso visibile anche nella scelta dei due protagonisti maschili). Non esistono ancore di salvezza per i protagonisti del film, la loro immobilità rispecchia l’immobilità del mondo, rispecchia la volontà di vivere la loro incapacità di vivere, rispecchia l’attrazione verso un mondo perverso fatto di autodistruzione. C’è tutta la storia del cinema italiano in questo film: l’alienazione di Antonioni, l’immobilità e l’attrazione per il perverso di Fellini, la pietà e la disperazione di De Sica, la descrizione oggettiva della realtà di Rossellini. Finalmente un regista che riesce a guardare Postdemocrazia Colin Crough Editori Laterza GLF, Novembre 2003. Pg. 148- Euro 14,00 “In questi primi anni del XXI secolo la democrazia sta vivendo una fase contrassegnata da paradossi notevoli. Da una parte si potrebbe dire che abbia raggiunto un punto culminante nella storia mondiale…Contemporaneamente, tuttavia, nelle democrazie consolidate dell’Europa occidentale, del Giappone, degli Stati Uniti d’America e in altre regioni del mondo industrializzato in cui la democrazia è generalmente considerata come acquisita, …., la situazione è meno ottimistica“. L’incipit del libro ci porta subito al cuore del problema: alla massima estensione delle forme di democrazia nel mondo sta corrispondendo un processo degenerativo di questa forma politica che vede sempre più sostituire il concetto di democrazia rappresentativa con una forma di governo della società in cui contano le lobbies, i leaders populisti, il controllo dei mass media , la televisione in primo luogo, i sondaggi di opinione, il marketing. Una forma di politica che si nutre dei limiti della democrazia e che Crough chiama postdemocrazia, che non è totalitarismo ma una evoluzione, una mutazione genetica delle idee di Locke e Rousseau.Questo processo che sarebbe banale e fuorviante associare a forme di governo non democratiche, è particolarmente pericoloso perché ancora non esistono le categorie teoriche per interpretarlo e si coniuga con un declino (presunto?) della classe operaia e della sua centralità politica, economica e sociale e la crisi delle teorie egualitaristiche che pure erano alla base del pensiero liberale e democratico a partire dal 1700 in poi. Ridurre i mali della democrazia a un problema di “fase” e attribuire la colpa di tutto a particolari leader politici, al potere dei mass media significa non capire che si stanno verificando processi ben più profondi e che ci troviamo di fronte un ritorno di élite privilegiate come accadeva prima dell’avvento della democrazia. “In potenza, tutti i componenti formali della democrazia sopravvivono nella postdemocrazia…….La globalizzazione degli interessi economici e la frammentazione della restante popola- la propria storia senza rinnegarla, a riproporre i temi che hanno reso il nostro cinema il fulcro di un contesto culturale, ancora oggi stimato ed apprezzato in tutto il mondo. Un plauso va fatto anche al produttore del film, Domenico Procacci della ”Fandango Film“, ragazzo capace di far quadrare i bilanci promuovendo film di qualità, dimostrando, a chi nutriva ancora dei dubbi, che il buon cinema riesce sempre ad appagare tutte le nostre esigenze: di tasca, di testa, di cuore. NICOLA ERRICO GERT zione producono questo fenomeno, spostando l’asse politico da coloro che cercano di limitare le disuguaglianze di ricchezza e potere a favore di coloro che desiderano riportarle ai livelli predemocratici”. Il più importante, elemento che caratterizza la postdemocrazia è costituito dal crescente potere politico dell’azienda, dalla capacità delle multinazionali di determinare le scelte politiche delle nazioni e dall’incapacità dei governi e, in ultima analisi, della politica di svolgere quella funzione di mediazione degli interessi economici che è poi alla base della democrazia. Il saggio rappresenta un contributo interessante alla lettura della contemporaneità con degli importanti elementi di ricerca che andrebbero articolati nella lettura della situazione italiana. 47 S udPosizioni Mezzogiorno Duemila Esiste ancora una questione meridionale? Meridionalismo storico e “nazione italiana”. Il sud nell’età della globalizzazione tra radici identitarie e modernizzazione. È da quasi venti anni, da quando per la prima volta il quesito fu posto dal gruppo di “Meridiana” promosso da Carmine Donzelli e Piero Bevilacqua, che a sinistra ci si interroga ricorrentemente se esista ancora una “questione meridionale”. E la risposta è per lo più negativa. In verità non erano mancati precedenti di una siffatta impostazione in altri filoni culturali e politici. Si pensi solo al Censis e all’idea di uno sviluppo a “macchia di leopardo” elaborata da Giuseppe De Rita che del Censis è stato il creatore e il principale animatore. Tuttavia, in questo ventennio il divario tra Nord e Sud è cresciuto pressoché ininterrottamente, sia sul piano materiale che su quello dello spirito pubblico, fino a tornare ad essere, come aveva affermato Giustino Fortunato in alcune tra le sue più pessimistiche valutazioni sulla condizione dell’Italia meridionale, un vero e proprio scarto di “civiltà”. Appunto, “due Italie”. Bisogna, perciò, capire le ragioni di queste dichiarazioni di morte pressoché unanimi della questione meridionale, nonostante la situazione di fatto che l’ha generata non solo permanga ma anzi si sia aggravata. La verità è che la questione meridionale è stata finora indissolubilmente legata al contrastato percorso in cui l’Italia è diventata nazione. Ha costituito contemporaneamente l’esempio paradigmatico della debolezza di questo processo e un fattore della sua realizzazione. Essa s’impone, a cavallo tra ottocento e novecento attraverso l’azione di Fortunato e Nitti innanzitutto, quale uno dei problemi costitutivi di fondo della costruzione dello Stato unitario italiano. E dopo che il fascismo opera, invece, una grande rimozione 48 PIERO DI SIENA dei problemi del Mezzogiorno e la sua propaganda tende a darli per risolti nell’ambito della politica del regime, nel secondo dopoguerra la questione meridionale torna in campo. Torna ad essere, cioè, una delle chiavi di volta di quel processo definito da Franco De Felice di vera e propria ricostruzione della “nazione italiana”, rappresentato dalla nascita e dallo sviluppo della Repubblica. Nel secondo dopoguerra, infatti, la sinistra e in particolare il partito comunista tendono a presentarsi come gli eredi del meridionalismo classico, dandosi, anche per questa filiazione, un profilo di forza nazionale, libera di ogni residua matrice sovversiva e perciò impegnata nell’edificazione del nuovo Stato democratico. La Democrazia cristiana e gli eredi del meridionalismo democratico d’ispirazione laica, che pure conducono un’aspra polemica con le pratiche clientelari della Dc meridionale, sviluppano una reinterpretazione della questione meridionale sostanzialmente convergente sul piano culturale. Le soluzioni al divario tra Nord e Sud vengono cercate nel duplice incardinamento della Repubblica nata dalla Resistenza, sul piano nazionale, in una nuova forma di convivenza democratica tra le grandi componenti politiche e ideali del paese e, su scala internazionale, nell’inserimento dell’Italia nel mercato aperto egemonizzato dagli Stati Uniti. Ne deriva una particolare e originale fusione tra alcune impostazioni ricavate da filoni del meridionalismo democratico e dal nittismo e le teorie sulle aree depresse di origine anglosassone e le strategie dello sviluppo che da esse discendono. Da ciò scaturisce l’esperienza dell’intervento straordinario, dalla legge stralcio di riforma agraria alla costituzione della Cassa del sudposizioni S Mezzogiorno. Il principale esponente di questo orientamento è Pasquale Saraceno, che per queste stesse ragioni può definirsi, insieme a Manlio Rossi Doria, l’ultimo rappresentante del meridionalismo. È questo un orientamento che opera sin nel cuore degli anni Sessanta, come dimostrano i due convegni di San Pellegrino della Democrazia cristiana in cui vengono elaborati i tratti essenziali della cultura di governo del primo centrosinistra, in uno dei quali è lo stesso Saraceno a tenere una delle relazioni di base. Dunque, si comprende facilmente perché il meridionalismo entra in crisi nel corso degli anni Settanta fino alla messa in discussione, come abbiamo detto anche a sinistra, dell’esistenza stessa di una questione meridionale. Essendosi essa affermata in un rapporto indissolubile con le tappe più significative della costituzione della “nazione italiana”, entra in crisi quando (al pari degli altri paesi economicamente avanzati) anche in Italia inizia sotto i colpi della rivoluzione neoconservatrice e neoliberista agli esordi il declino dello “Stato-nazione”. Non è un caso che tutti gli interventi che a partire dagli anni Ottanta sono stati dedicati al Mezzogiorno - sia quelli ispirati a modelli di sviluppo locale che sarebbero dovuti succedere all’intervento straordinario, che ha i suoi principali esponenti in Meldolesi, Trigilia e Viesti, sia quelli che rimettono in campo una identità irriducibile del Mezzogiorno, in chiave simbolica e antropologica come Cassano, in chiave comunitaria come Alcaro - hanno esplicitamente escluso che il Mezzogiorno possa essere interpretato in rapporto al Nord e quindi entro una dimensione nazionale. Il problema è che, nell’uno e l’altro caso, il Mezzogiorno rischia di essere pensato in rapporto a nient’altro se non a se stesso. L’interrogativo che ci si pone oggi è invece se è possibile riformulare una “nuova questione meridionale” oltre la dimensione dello Stato-nazione, in rapporto cioè ai processi in corso di globalizzazione dei mercati, della competitività, della comunicazione. Per rispondere a questa domanda bisogna capire bene che cosa è successo in Italia meridionale nel corso degli anni Novanta, ricostruire cioè dal punto di vista del Mezzogiorno il passaggio tra prima e seconda Repubblica, che costituisce l’epilogo di quel processo che abbiamo definito ricostituzione della “nazione italiana”. Gli anni Novanta sono stati per il Sud un periodo cruciale. Tutto si è trasformato nell’arco di un decennio. Con la fine dell’intervento straordinario e l’accelerazione del processo di privatizzazione dell’impresa pubblica è cambiato il rapporto con lo Stato, e se ne è stabilito uno nuovo con i programmi di spesa dell’Unione europea. Ne è seguita una mutazione dal basso delle classi dirigenti, soprattutto a partire dalla riforma elettorale che stabilisce l’elezione diretta dei sindaci. Si sono accentuati gli squilibri interni e si è verificata una sorta d’inversione tra la “polpa” e l’”osso” (per usare i termini di Manlio Rossi Doria) dell’economia e del territorio meridionali. Ad eccezione della Calabria, le aree interne della dorsale appenninica, tradizionalmente più povere e sottoposte a un ulteriore impoverimento fino agli anni Settanta, a metà degli anni Novanta sono protagoniste di un inedito dinamismo. Le grandi città, almeno dal punto di vista 49 sudposizioni economico, restano al palo, mentre la provincia di Avellino, la Basilicata e il Molise sembrano marciare verso la soglia che presto le avrebbe potute portare fuori dal complesso delle aree svantaggiate, dove da tempo si è già collocato l’Abruzzo. La lotta alla criminalità organizzata lungo la scia dell’impegno del pool antimafia di Palermo, che culmina nel sacrificio di Falcone e Borsellino, diventa agli inizi degli anni Novanta patrimonio diffuso in tanta parte dell’opinione pubblica meridionale. Attraverso questa lotta viene vista la possibilità di realizzare un riscatto civile e democratico della società meridionale, vissuto come preliminare allo stesso miglioramento delle condizioni sociali e economiche. Tutto ciò è avvenuto, tuttavia, nel quadro di un divario complessivo con il centro-nord che è cresciuto. La forbice tra le due Italie si è allargata. E la principale linea di demarcazione, quella che segna la differenza di sistema tra le economie delle due parti del paese, resta il differente tasso di disoccupazione. Una differenza quantitativa che diventa qualitativa, quando uno dei due poli è un’area di piena occupazione. Si divaricano ulteriormente a quel punto gli stili di vita, il modo di rapportarsi al lavoro, la relazione che si stabilisce tra tempo di lavoro e tempo libero, e la stessa organizzazione di quest’ultimo. Ma le differenze qualitative investono anche altri campi. Diventano più forti nei trasporti e nei sistemi di comunicazione in genere. In alcuni si accentua la dipendenza. Si pensi ad esempio a come, nel processo di privatizzazione e riorganizzazione del sistema bancario, le banche meridionali siano state assorbite da quelle del centro-nord. Si guardi poi al sistema politico: la crisi e la scomparsa dei vecchi partiti di massa porta a una tendenziale regionalizzazione delle forze politiche e, di conseguenza, a un’involuzione di tipo provinciale dell’agire politico. 50 Nel corso degli anni Novanta l’Italia declina il suo appuntamento con i processi di globalizzazione attraverso un doppio e opposto movimento: il primo è quello della svalutazione competitiva che va dal settembre del ‘92 al ‘96, il secondo è quello che segue alla decisione del governo Prodi di accelerare il processo di risanamento del bilancio pubblico in funzione dell’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea. Quali possano essere gli effetti sul Mezzogiorno di questa seconda scelta (a parte quello generale di mantenere il primo e principale punto di contatto con il processo di integrazione europea) è presto per dire. Sono invece del tutto chiari i risultati del primo movimento. Anzi credo “La forbice tra le due che si possa dire che ad essi è possibile far risalire quella Italie si è allargata. trasformazione del divario con E la principale linea di il nord da prevalentemente demarcazione resta quantitativo a qualitativo. il differente tasso di Intanto il Mezzogiorno è la principale vittima della “cura disoccupazione” da cavallo”, in termini di risanamento del bilancio pubblico, che nel ‘92 viene realizzata -contemporaneamente alla svalutazione della lira - dal primo governo Amato. Il giro di vite sulla spesa pubblica nel Mezzogiorno non riguarda solo l’esaurimento dell’intervento straordinario che, in una fase di contrazione della spesa ordinaria, si traduce in una perdita secca di investimenti, ma in una vera e propria insolvenza in termini di cassa da parte dello Stato verso le imprese meridionali. La svalutazione della lira non ha poi al sud quegli effetti benefici che ha al nord, contribuendo a imporre sui mercati internazionali quel fenomeno di crescita che si era già ampiamente manifestato nel nord-est. A differenza del Veneto e delle Marche, e in generale delle altre regioni del centro-nord, il Mezzogiorno non ha un’economia pronta ad affrontare le sfide dell’export. Anche a causa della rilevanza S sudposizioni S Nella foto: Francesco Saverio Nitti, Tommaso Pedio, Nino Calice, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria, la biblioteca di Palazzo Fortunato. della pubblica amministrazione nella composizione relativa del suo sistema economico, il mercato interno, in quegli anni depresso anche a causa della tregua salariale e della politica dei redditi concertata tra imprese governo e sindacati a partire dal ‘93, resta la sua principale risorsa. Con il lavoro dipendente il Mezzogiorno è la parte del paese che più d’ogni altro ha pagato i costi del risanamento. Gli anni Novanta sono stati anche gli anni in cui fervono una serie di misure che puntano, in relazione anche ai nuovi flussi finanziari che provengono dall’Unione Europea, a un rinnovamento totale degli strumenti di politica economica per il Sud (patti territoriali; contratti d’area; c’è chi parla addirittura di “zone franche”). A ciò si accompagna la speranza di un rinnovamento radicale delle classi dirigenti attraverso quella che è conosciuta come la “stagione dei nuovi sindaci” eletti direttamente dai cittadini. Ma alla prova dei fatti, la cosiddetta contrattazione programmata (contratti d’area e patti territoriali), che doveva coniugare l’intervento dall’alto con il protagonismo dal basso degli attori istituzionali, economici e sociali, non ha dato gran prova di sé. Essa ha avuto il difetto di eludere due questioni di fondo. La prima è che non esistono scelte di politica attiva che possano correggere o capovolgere gli effetti di un andamento macroeconomico sfavorevole. Il Mezzogiorno è, in sintesi, la principale vittima in Italia del prevalere delle tendenze neoliberiste nel corso degli anni Novanta. La seconda, a questa strettamente connessa, consiste nel fatto che le trasformazioni di questo decennio sono state nel sud produttrici di “passività”. E l’esperienza ci dice che il Mezzogiorno ha conosciuto veri e propri balzi in avanti solo in presenza di forti movimenti sociali, che hanno accompagnato il cambiamento, come nel caso del movimento per la terra all’indomani della seconda guerra mondiale, o che l’hanno persino contrastato, come nel caso del brigantaggio agli albori dell’unità nazionale o delle rivolte del ‘70 rispetto alla nascita delle Regioni. La sinistra meridionale, nel corso degli anni Novanta, ha cercato di supplire a questa passività puntando sulla 51 sudposizioni risorsa istituzionale dei nuovi amministratori locali, quale forza motrice della nuova riforma che ricostruisse una prospettiva democratica dopo il fallimento del pentapartito e dell’intervento straordinario. Il principale teorizzatore di questo rinnovato ricorso alla concezione di Guido Dorso dei “cento uomini di ferro” come leva per il riscatto meridionale, in esplicita soluzione di continuità rispetto al meridionalismo comunista che aveva puntato prevalentemente su una mobilitazione di strati sociali profondi, è stato nel corso del decennio Isaia Sales. La principale esperienza politica che ha rappresentato questo orientamento è stata quella di Antonio Bassolino a Napoli. Ora qualunque sia il giudizio su quella azione di supplenza e sulla sua funzione riformatrice, sembra evidente che essa abbia concluso con il nuovo decennio il suo ciclo. Il rapporto poi tra Ulivo al governo e questa presenza politica della sinistra nel Sud ha di fatto riproposto un sistema di comando dall’alto sulle politiche orientate al Mezzogiorno. L’impresa e non il lavoro diventa per l’Ulivo l’unico potenziale soggetto innovativo nella realtà meridionale. Tutto ciò smorza il dinamismo delle amministrazioni locali, produce un effetto di passività su cui si è innestata la rivincita, concretizzatasi nelle elezioni politiche del 2001, delle vecchie classi dirigenti meridionali passate (ad eccezione della Basilicata e della Campania) quasi per intero alla Casa delle libertà. A veder bene proprio in questa “passivizzazione” della società meridionale prodotta dalle trasformazioni degli anni Novanta sta la ragione della vittoria elettorale della destra nel Mezzogiorno nelle elezioni politiche del 2001. Gli uomini di governo dell’Ulivo si sono spesso stupiti del fatto che la sconfitta della coalizione allora al governo sia stata prodotta essenzialmente dal voto 52 dei meridionali, nonostante nei cinque anni di governo di centrosinistra anche grazie alla congiuntura internazionale favorevole al Sud siano migliorate le condizioni dell’occupazione e dell’economia in generale. Ora il paradosso è che la destra al governo ha ricompensato il voto del Mezzogiorno eliminando dall’orizzonte della sua azione politica qualsiasi intervento orientato a favore dell’economia meridionale. Tra i primi atti di governo di Tremonti, a partire dalla legge finanziaria per il 2002, vi è stata infatti la cancellazione di tutti quei provvedimenti del centrosinistra a sostegno degli investimenti e dell’occupazione nel Mezzogiorno. Ma la verità è anche un’altra. A sinistra si è smarrita la percezione di una questione di fondo. Non si comprende più che, se un’azione politica non è in grado di suscitare, oltre che risultati concreti, anche partecipazione democratica e autonomizzazione della società civile, alla lunga è il vecchio ordine costituito a prevalere. È quello che è accaduto nel Mezzogiorno. Naturalmente, nulla è perduto. Come è già avvenuto in altri momenti della recente storia d’Italia, il Sud potrà essere in grado di esprimere un rapido cambio di rotta, una ventata democratica capace di tradursi anche in radicali mutamenti dell’orientamento elettorale. I segnali ci sono: dalla lotta di Scanzano a quella di Rapolla sul tracciato dell’elettrodotto alla rivolta degli operai della Fiat di Melfi, alla marcia Gravina-Altamura per la pace e contro i presidi militari, alla grande manifestazione di Eboli contro il condono degli abusi edilizi voluto dal governo di centrodestra. Il problema è come dare una prospettiva a questo risveglio incipiente della società meridionale, evitare che esso sia solo una parentesi senza durature conseguenze. Per questa ragione è essenziale che la sinistra si misuri con la necessità di mettere in campo una “nuova questione me- S ridionale”, non solo con la creazione di misure a sostegno dell’economia ma con la definizione di un nuovo ruolo complessivo del Mezzogiorno nella soluzione delle grandi contraddizioni del tempo presente. Di fronte alle sfide che la globalizzazione pone all’Italia, si tratta di ripensare il Mezzogiorno come uno degli attori capaci di produrre culture, istituzioni, classi dirigenti, modelli alternativi a quelli dominanti. Dal Sud ci si aspetta un contributo a superare il declino del paese, accelerato dalla politica di governo delle destre ma originato in verità da processi di più lungo periodo. Si tratta dello smantellamento progressivo, con la fine dell’industria di Stato, dei settori industriali strategici, della crisi della ricerca, della qualità della vita democratica. Insomma, il quesito tradizionale che ha caratterizzato tanta parte della vecchia “questione meridionale” va rovesciato. Non si tratta di interrogarsi su che cosa il paese possa fare per il Mezzogiorno ma viceversa. Le stesse misure di politica pubblica, che bisognerebbe rilanciare dopo anni di totale assenza, tese a irrobustire la fragile armatura dell’economia e della società meridionali debbono essere collocate entro questo quadro generale, orientato a liberare nel Mezzogiorno risorse capaci di contribuire alla costruzione di un nuovo e alternativo modello di sviluppo che strappi l’Italia dal declino. In questo contesto, la questione meridionale o ritorna ad essere aspetto essenziale della “questione democratica”, come è accaduto nei momenti più felici del rapporto tra Mezzogiorno e storia nazionale, o non è. A questo scopo deve tornare nel Mezzogiorno una discussione da tempo appannata sulle “forze motrici” del cambiamento. Si può pensare che esso avvenga per un impulso che viene solo dall’alto? Quali sono le risorse di cui il Mezzogiorno dispone nel suo seno per partecipare ad un’inversione di tendenza del corso delle cose? sudposizioni Foto di Giacomo Silvano S Dopo la lotta di Scanzano Fausto Bertinotti ha parlato di una risorsa “comunitaria” che può alimentare una nuova stagione di movimento nel Mezzogiorno. Il tratto identitario che reagisce a un’intrusione esterna di un processo di modernizzazione che alla fine produce solo distruzione e devastazione riporta alla luce un legame sociale che sembra mettere in secondo piano differenze di classe, diversi orientamenti politici e culturali. Il “pensiero meridiano” di Cassano e il “comunitarismo” di Alcaro sembrano, a partire da Scanzano, aver trovato le gambe su cui camminare. In effetti, le riflessioni sul Mezzogiorno ispirate a quello che Franco Cassano ha battezzato con il nome appunto di “pensiero meridiano” trovano la loro motivazione più profonda proprio nella necessità di reagire alla passività, la quale, secondo queste impostazioni, sarebbe originata proprio dalla distruzione dei tratti identitari del Sud da parte di una modernizzazione di basso profilo e senza qualità. Questo mi pare il filo conduttore di declinazioni di pensiero per altri aspetti molto lontane tra loro, che vanno dalla nuova antropologia e dalla ideologia della “lentezza” di Franco Cassano al “comunitarismo” di Alcaro ai modi in cui riaffronta il tema dei sistemi locali il più recente Piero Bevilacqua. Indipendentemente dalle intenzioni dei protagonisti di queste riflessioni, esse potrebbero effettivamente costituire, come sembra pensare Bertinotti, il punto di riferimento di una sorta di “antagonismo meridionale” verso la globalizzazione. Queste posizioni hanno soprattutto il merito di aver mantenuto rispetto al Mezzogiorno un rapporto “critico” con il moderno, in anni in cui anche a sinistra la subalternità ideologica ai processi di modernizzazione in atto era apparsa soverchiante. E solo chi non conosce a fondo il Mezzogiorno può sottovalutare la funzione democratica e partecipativa che, soprattutto nei piccoli comuni, può avere la risorsa “comunitaria” su cui si sofferma Alcaro, e oggi riscoperta dal segretario di Rifondazione comunista. Queste impostazioni, tuttavia, a mio parere rischiano di essere infeconde, laddove la critica del moderno si trasforma in un suo radicale e totale “rifiuto”. E a questo pericolo rischia di non sottrarsi nemmeno il segretario di Rifondazione. Un nuovo progetto riformatore nel Mezzogiorno ha bisogno certamente di una operazione che definirei gramscianamente egemonica, che sappia cioè ripensare complessivamente stili di vita, politica e economia, dimensione simbolica e vita quotidiana. Ma tutto ciò non sarà possibile se al Sud non si mette a tema un rinnovato rapporto che dialettizzi e relazioni tradizione e innovazione, identità e trasformazione. Il quesito, che finora non ha avuto una risposta, è se questo sia possibile senza che a costruire questa nuova prospettiva non partecipino soggetti che siano figli dello stesso processo di modernizzazione distorto che ha investito il Mezzogiorno e che in quanto tali possono costituire una critica intrinseca, e perciò più efficace dal punto di vista pratico, ad esso. Per questo motivo, ormai quasi un decennio fa, introducendo la prima parte dell’inchiesta operaia alla Fiat di Melfi condotta con Vittorio Rieser e pubblicata in due numeri distinti sulla rivista “Finesecolo”, ho avanzato l’ipotesi che uno di questi soggetti potesse essere la nuova classe operaia meridionale, della grande e della piccola impresa, metalmeccanici e lavoratori a nero. Uomini e donne per lo più giovani a cui il sindacato da solo non riesce per forza di cose da solo a dare identità e funzione, giacché è del tutto evidente che questo ruolo la nuova classe operaia 53 sudposizioni meridionale potrà svolgerlo scoprendo percorsi del tutto inediti nella formazione della propria coscienza di classe rispetto ai modelli praticati nell’epoca del fordismo. Si tratta, insomma, per questo aspetto di esplorare strade nuove e soprattutto di saper cogliere la grandissima novità che si è manifestata a Melfi nel corso delle ultime lotte che hanno - finalmente dopo un decennio coinvolto la grandissima maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici della Fiat e dell’indotto. Ma quello che può valere per la nuova classe operaia riguarda anche le nuove generazioni figlie della scolarizzazione di massa, che sono costrette all’inoccupazione cronica o a alimentare in modo sistematico un nuovo flusso migratorio. Può riguardare le donne, tra le quali più forte può essere la consapevolezza della contraddizione tra emancipazione e coscienza della differenza di sesso ormai acquisita e condizioni materiali di un vivere civile fondato su vecchi stili e gerarchie. L’orizzonte a cui debbono guardare questi nuovi potenziali protagonisti della lotta per il riscatto del Mezzogiorno, soggetti di un nuovo blocco storico in formazione, è la nuova Europa politica in costruzione. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, l’Europa può essere per la questione meridionale ciò che, fino alla metà del secolo scorso, è stata la costituzione dell’Italia come nazione. Il processo di formazione dell’Europa politica è il terreno elettivo su cui la sinistra può costruire una propria alternativa alla globalizzazione competitiva. E il Mezzogiorno, come ci ricordano da anni Amoroso e Barcellona, può essere il ponte che nel Mediterraneo costruisce un rapporto tra Europa e mondi “altri”, prima che la dottrina e la pratica della guerra preventiva riduca i due lati delle sponde a un cumulo di macerie. 54 I contenuti di una simile prospettiva sono quelli di una politica che assegni al Mezzogiorno un posto nei processi di internazionalizzazione, nell’ambito di una lotta e di un confronto - di cui il Sud sia uno dei principali protagonisti - teso a sostituire alla competizione senza regole e senza confini del neoliberismo una nuova divisione internazionale del lavoro. È dentro questa sfida che le risorse identitarie del Mezzogiorno saranno messe alla prova e le sue energie rese feconde. I problemi del differenziale di sviluppo e delle contraddizioni a livello territoriale acquistano così nella dimensione europea un ruolo costituente. La nuova Europa non può fermarsi a Maastricht se vuole coniugare unità politica e costruzione di un nuovo originale modello di sviluppo che la strappi dalla lunga stagnazione che caratterizza le sue economie nel quadro della competizione globale, senza che necessariamente la sua “civilizzazione” sia travolta da un processo di inarrestabile “americanizzazione”. Il Mezzogiorno d’Italia saprà trovare un suo ruolo in questa lotta? È difficile dirlo, in un mondo che si rivela così gravido di inquietanti incognite, ma solo se questo dovesse accadere si potrebbe dire che, finalmente, è rinata una “questione”. Questo articolo costituisce lo sviluppo di un precedente contributo apparso su “Critica marxista”, 5, 2000. S Mezzogiorno Duemila Esiste ancora una questione meridionale? e ditoriale responsabili delle politiche regionali, sono sotto gli occhi di tutti, semidesertificazione di alcune zone, insufficiente offerta di servizi di qualità da parte dei poli urbani esistenti,fragilità del sistema imprenditoriale, disoccupazione diffusa, marcata emigrazione giovanile alla ricerca di occupazione qualificata. La storica debolezza dell’ economia, la sua dipendenza dalla spesa pubblica hanno strutturato in modo gerarchico il rapporto tra potere politico e società, affidando in modo esaustivo al ceto politico il ruolo di classe dirigente, limitando di fatto l’ autonomia dei soggetti sociali e dell’ insieme della cittadinanza in questo modo limitando fortemente la capacità di sviluppo e di autonomia della società civile. È un modello ereditato dal recente passato che continua a riproporsi se possibile, in modo ancora più marcato per la crisi dei partiti ed altri corpi intermedi che hanno caratterizzato il modo di essere della democrazia nel nostro Paese. La sinistra lucana che è parte autorevole del sistema politico regionale e del governo della Regione, a nostro parere non può sperare di completare il percorso di crescita e di mutamento della regione affidandosi alle buone performance amministrative ed a una gestione oculata delle risorse se non vi affianca il compito di introdurre un processo di trasformazione dello schema ristretto entro cui si è dipanata la vita democratica della Basilicata. È impensabile, se non ad improponibili e nefandi despoti illuminati, attuare politiche di equità senza una partecipazione attiva,che si esprime sia con i diritti di cittadinanza che con la rappresentanza, dell’ intero corpo sociale che moderi gli appetiti dei gruppi più ricchi e più organizzati. L’iniquità sociale d’altra parte come avevano ben capito illustri economisti all’ inizio del novecento e come vediamo in questi giorni in Italia, deprime l’intero quadro economico, blocca lo sviluppo del territorio in cui si determina. Il problema oggi è esattamente quello di ridare alla politica quel ruolo di mediazione di interessi opposti che collochi le scelte economiche e sociali in un regime di compatibilità con interessi sociali e territoriali, per impedire quella deriva che è parte strutturale dei processi di globalizzazione che vede le scelte politiche subordinate agli interessi delle multinazionali fino alle estreme conseguenze e che stanno consegnando due terzi del mondo all’indigenza e alla disperazione. È per questo che l’insieme dei nostri problemi economici e sociali, non può essere affrontato se non si pone al primo posto il tema della democrazia e della sua promessa più matura: un rapporto non gerarchico ma dialettico tra potere e società, tra governanti e governati. La democrazia, nella cultura politica degli USA e dell’ Europa (il nostro mondo), è considerato il bene supremo. L’azione degli USA in segue dalla copertina Irak, ispirata dall’idea eticamente aberrante della guerra preventiva e con il pretesto di mai ritrovate armi di distruzioni di massa di cui avrebbe disposto Saddam, è ora giustificata dalla necessità di portare la democrazia in un Paese angariato da un tiranno sanguinario. Anche in Italia l’ideale della democrazia è continuamente riproposto come principio ispiratore dell’ azione del Presidente del Consiglio che usa disinvoltamente ed erroneamente sul piano storico-politico, ma opportunamente sul piano ideologico il comunismo come ombra minacciosa sul limpido cammino della democrazia e nello stesso tempo quotidianamente attacca e cerca di indebolire istituzioni autonome e di garanzia che della invocata democrazia sono forza e sostanza. C’è nel pensiero della destra italiana una tendenza ad interpretare in modo assolutistico il mandato di maggioranza, in assoluta contraddizione con il pensiero liberale a cui dice di ispirarsi che è invece tradizionalmente attento alle prerogative dei poteri terzi e degli istituti di garanzia e complessivamente diffidente verso l’invasività del potere politico. Il terreno su cui si muove, in particolare il partito di Berlusconi è invece quello della democrazia plebiscitaria che, ed è qui la sua forza, è l’esito prevedibile della crisi di rappresentanza dei corpi politici intermedi, dei partiti e del sindacato. Con questa crisi la sinistra italiana si è misurata, in maniera inadeguata cercando di cavalcare l’opinione maggioritaria, con atteggiamenti a volte speculari a quelli della maggioranza al governo, con insufficiente grado di autonomia, spesso con sudditanza culturale ancorché politica e i cui risultati risultano incomprensibili ai più. In questo quadro vanno anche letti i problemi della nostra regione che risultano di difficile soluzione. In un quadro complessivo,di dipendenza della società dalla politica, i partiti di massa, fungevano da collante effettivamente rappresentativo dei bisogni sociali, tra potere politico e cittadini; in un quadro profondamente mutato, altre modalità devono essere sperimentate e messe in campo. Questo significa rivitalizzare i tradizionali luoghi della politica e sperimentarne di nuovi, far uscire la politica dal recinto della gestione e della mediazione fine a se stessa, produrre una nuova ‘mission’ che senza costruire fughe dal presente si confronti col futuro a partire dai valori e dai progetti, trasformando quella attenzione e voglia di partecipazione espressa nella vicenda Scanzano in un progetto politico e sociale di alto profilo. Una ricerca di cui con questa nostra rivista vogliamo semplicemente, e modestamente, essere parte. laboratorio della sinistra lucana Editoriale Benvenuto decanter 1 Politica e società Operai in libertà. Fiat di Melfi una lotta che scuote il paese ‹Antonio Califano› 3 Regione: centrosinistra al bivio ‹Antonio Placido› 5 Innovazione stella polare del riformismo. Intervista al Presidente Bubbico ‹Anna Maria Riviello› 7 Scanzano mon amour ‹Antonio Califano› 12 Cronache dal nucleare. Scuola, territorio e democrazia diretta ‹Eustachio Nicoletti› 14 Industria in Val Basento. Un’altra falsa partenza? ‹Davide Bubbico› 16 Il Reddito di Cittadinanza ‹Adriana Buffardi› 25 I racconti Un libro mai scritto Dizionario ‹Vito Riviello› 27 Come Ionio da Montalbano distruse il mostro di Scanzano ‹Antonio Petrocelli› 31 Cultura La storia bandita. Una terra tra memoria e futuro ‹Anna Maria Riviello› 35 L’età ridente ‹Simone Calice› 39 Il lavoro degli immigrati nel melfese e nell’alto Bradano ‹Davide Bubbico› 40 L’istruzione è ancora un obbligo? La Regione e la Riforma Moratti ‹Camilla Schiavo› 44 Musica, cinema, libri ‹Lucio Corvino|Nicola Errico|Gert› SudPosizioni Mezzogiorno duemila: esiste ancora una questione meridionale? ‹Piero Di Siena› 29 46/47 48 La direzione 55 Fiat di Melfi contributi sullo sviluppo della fabbrica “integrata”. Speranze e delusioni di una giovane classe operaia CALICEDITORI www.caliceditori.com e-mail: [email protected] [email protected]