p - decanter

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p - decanter
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ANNO I - MAGGIO 2004
Decantare: rendere
“puro
un sentimento,
un’idea, uno stile,
liberandoli da tutto
quanto non è
perfettamente fuso
con essi...
“
laboratorio della sinistra lucana
euro 5.00
Po s t e I t a l i a n e S p A - S p e d . i n a . p. - 7 0 % Po t e n z a
Benvenuto
decanter
A
Fiat Melfi
ll’inizio degli anni novanta, al tempo dell’ implosione del sistema politico
che aveva governato l’Italia,
la Basilicata sembrava avviata ad un inarrestabile declino.
Autorevoli ipotesi (Fondazione Agnelli) ridisegnando
realtà regionali che avessero
un profilo autonomo, ne ipotizzavano lo smembramento.
Se commisuriamo a queste
premesse il sussulto democratico e diremmo anche
identitario che ha percorso
questo territorio in risposta alla
designazione, per decreto del
Governo, di Scanzano come
sito unico per il deposito delle
scorie nucleari, possiamo capire che molte cose sono mutate
in quella zona ed in tutta la
regione.
Risorse precedentemente
non sfruttate, insediamenti
produttivi di grandi dimensioni, mutamento del quadro
politico hanno immesso
nella regione elementi di
sviluppo e di vitalità del tutto
inediti. Alcuni dei problemi
attuali, come la tutela e la
valorizzazione del territorio
e di risorse naturali essenziali
come l’acqua, sorgono da
questo nuovo scenario, altri
più antichi vanno comunque
ricollocati entro un quadro
non statico. Le difficoltà più
volte richiamate anche dai
operai
alla riscossa
articolo a pg. 3
segue in ultima
Intervista a
Filippo Bubbico
“Le mie idee
sulla Basilicata”
Anna Maria Riviello p. 7
Scuola dell’obbligo
e riforma
Moratti
Il ruolo della Regione
Camilla Schiavo p. 44
La vicenda di Scanzano
tra recupero dell’identità
regionale e processi
di globalizzazione
Califano Nicoletti pp. 12-14
laboratorio della sinistra lucana
Direzione
Antonio Califano
Anna Maria Riviello
Redazione
Davide Bubbico
Simone Calice
Fabrizio Caputo
Eustachio Nicoletti
Camilla Schiavo
Hanno collaborato a questo numero
Davide Bubbico
Adriana Buffardi
Simone Calice
Antonio Califano
Lucio Corvino
Piero Di Siena
Nicola Errico
Vincenzo Fundone
Eustachio Nicoletti
Antonio Placido
Antonio Petrocelli
Anna Maria Riviello
Vito Riviello
Camilla Schiavo
Progetto grafico e Art direction
Palma Fuccella
Foto di copertina di Vincenzo Fundone
Melfi, 28 aprile 2004
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DECANTER
anno I numero 1 - maggio 2004
Edito da Calice Editori
Aut. Trib. Melfi n. 2/2004
Direttore responsabile
Piero Di Siena
Rivista trimestrale
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Lucania
Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.
Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.
Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l’odorosa palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull’erba
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.
Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.
In un’aria vulcanica, fortemente accensibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatte per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell’abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.
Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse.
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Udrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?
Poesia scelta da Eustachio Nicoletti
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la poesia
Leonardo Sinisgalli
p olitica e società
Operai in libertà
Fiat di Melfi, una lotta che scuote il paese
ANTONIO CALIFANO
Le lavoratrici e i lavoratori della Sata e dell’indotto protagonisti della
lotta sindacale. A San Nicola nulla sarà più come prima.
A questa fabbrica, la SATA di Melfi,
la Basilicata ha offerto una nuova classe
operaia, giovane, scarsamente sindacalizzata, disponibile, culturalmente molto
collaborativa, forse la classe operaia più
aziendalista che si potesse sperare, con
una forte componente femminile che derogava anche ad alcune sue conquiste ed
accettava i turni di notte. Dopo dieci anni
e controllo degno dell’inizio del novecento. Il postfordismo ha mostrato il suo volto: più sfruttamento, meno salario.
La lotta degli operai SATA di Melfi
per migliorare le condizioni lavorative in
fabbrica attraverso l’eliminazione della
“doppia battuta”, il ripristino di condizioni
lavorative adeguate, il recupero del differenziale salariale rispetto alle altre fabbri-
non solo questa fabbrica non ha mantenuto
le promesse, neanche quelle occupazionali, ma ha mostrato un altro volto, quello di
un modello più raffinato di sfruttamento
che ha fatto invecchiare precocemente con
ritmi disumani e bassi salari quei giovani
operai, istaurando un clima di repressione
che Fiat dimostrano che un ciclo è finito e
che se ne è aperto uno nuovo. Tramontato
il sogno della fabbrica integrata, del “Just
in time”, della fabbrica partecipata, rimane
solo la realtà di un modello di organizzazione aziendale basato sulla mancanza di
diritti, il super sfruttamento ed una com-
Foto di Giacomo Silvano
Una lotta dura e lunga che finisce con
un buon accordo firmato unitariamente
dai tre sindacati dei metalmeccanici che
si erano scontrati, invece, sulla gestione
delle lotte. Questo è l’esito finale della
vertenza della Fiat di Melfi, un punto di
svolta nel rapporto tra sindacati e imprese in tutta l’industria italiana.
Questa fabbrica era nata all’indomani del terremoto che aveva sconvolto
Basilicata ed Irpinia per dare il senso
di un riscatto e di una ripresa , si proponeva come la più moderna fabbrica del
gruppo Fiat in un momento cruciale di
passaggio e di sviluppo del capitalismo
italiano. L’obiettivo era quello di costruire un insediamento industriale che
contribuisse in maniera decisiva allo
sviluppo della regione e permettesse di
combattere in maniera forte la disoccupazione, soprattutto quella giovanile.
Il modello proposto inizialmente
sembrava “rivoluzionario”: una fabbrica integrata nel territorio, un processo
produttivo fortemente robotizzato, con
macchine che riducevano la fatica,
permettevano di raggiungere alti livelli di produttività e forte innovazione.
Il superamento del modello fordista a
favore di un nuovo modello, meno ripetitivo, basato su una forte partecipazione
operaia, con unità lavorative in grado di
intervenire collettivamente nella produzione per migliorala.
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politica e società
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Foto di Giacomo Silvano
petitività che prescinde dall’ innovazione e
poggia su un basso costo della forza lavoro. La lotta è stata eccezionale per durata e
livelli di partecipazione, ha dimostrato una
capacità di tenuta ed un livello di consapevolezza che non si è incrinata nonostante
i reiterati tentativi di divisione, le provocazioni mediatiche, il rifiuto della Fiat ad
aprire un tavolo delle trattative, la latitanza
di un governo “scelbiano” che invece di
svolgere una naturale opera di mediazione,
necessaria in una trattativa difficile, ordina
durissime cariche della celere contro operai inermi e assolutamente pacifici.
Gli operai Sata hanno dato, nel corso
della lotta, un importante esempio all’intero paese dimostrando, nonostante la
trasformazione dei presidi in assemblea
permanente, con l’alta partecipazione agli
scioperi (confermata anche dai dati Fiat)
ferma volontà e spirito democratico. In
questo contesto va evidenziato anche il
ruolo svolto dai gruppi dirigenti, locali e
nazionali, della Fiom e della Cgil che hanno sviluppato una preziosa opera di presenza e di mediazione contribuendo generosamente, e sempre con il consenso della
stragrande maggioranza degli operai, a
mantenere una difficile protesta nell’ambito delle regole democratiche e del rifiuto di
ogni scorciatoia avventuristica. Gli operai
sono riusciti ad andare fino in fondo, fino
a raggiungere un buon accordo, perché si
sono resi conto che non era solo in discussione Melfi ma una visione del lavoro e dei
rapporti tra fabbrica ed operai che ha implicazioni e valenze nazionali. Sia chiaro
nessuno mette in discussione l’importanza
della Sata nello sviluppo della regione, ne
esistono tentazioni da “socialismo reazionario” che vedono nell’industrializzazione
un processo completamente negativo da
rigettare, si è solo legittimamente convinti
che bisogna fare i conti con i diritti e la vita
delle persone e che un modello di gestioni
dei conflitti arrogante e da “padroni del
vapore” come quello mostrato sino ad ora
dalla dirigenza della Fiat è dannoso anche
per il futuro della più grande industria
italiana.
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politica e società
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Regione:
centrosinistra al
bivio
Esaurita la spinta del sistema di cooptazione ʻpattiziaʼ.
Verso una vera alternanza
ANTONIO PLACIDO
Alla vigilia della presentazione delle
liste per le elezioni del 12 e 13 giugno
il centro sinistra lucano appare diviso e
senza bussola.
È in atto un confronto difficile che
non approda ad opzioni condivise su
nessuna delle posizioni di vertice (le
due province e la città capoluogo), essendo stata impostata tardi e male la
discussione sull’alternanza alla guida
della coalizione regionale.Un malessere
profondo attraversa da tempo l’alleanza
e si esprime in personalismi sfrenati, in
un trasformismo che in periferia ha superato da tempo i limiti di guardia, in un
conflitto permanente rivolto dagli alleati
minori verso gli “azionisti di maggioranza” che logora la coalizione senza produrre risultati apprezzabili né sul piano
dell’effettiva distribuzione dei poteri né
sul quello della costruzione di equilibri
politici più avanzati.
La Margherita, con grande disinvoltura, ha scaricato sul Centro Sinistra
tutto il peso delle sue contraddizioni:
avvicendamenti alla Presidenza del
Consiglio, defenestrazione di Assessori,
liquidazione di un intero Consiglio Provinciale sono il prezzo pagato dall’alleanza alla faticosa costruzione dei suoi
equilibri interni.
Queste turbolenze, riversate sulle
istituzioni, hanno prostrato la coalizione, facendola ripiegare su se stessa
e rendendola incapace di raccogliere
le sollecitazioni provenienti dalla comunità regionale. Non si può spiegare
altrimenti una così rapida archiviazione
della straordinaria mobilitazione per
Scanzano e della domanda di nuova
politica che essa aveva portato alla
luce. Il Centro Sinistra lucano non può
rinunciare a quella risorsa democratica,
far rifluire quella spinta, deve piuttosto
tentare di metterla a frutto, traendone lo
slancio per ripartire.
Il Presidente Bubbico ha ben diretto
una battaglia difficile, che ha avuto successo, ma ora occorre che la coalizione
sappia interpretare il senso di quella lotta
in chiave di qualità ed orientamento dell’azione di governo.
É dunque compito della sinistra fare
in modo che il dibattito in corso in
Consiglio Regionale sul nuovo statuto
risenta di questo clima, sia investita da
questa tensione. Occorre impedire che
l’esame della bozza in discussione si
trascini stancamente e che, nella generale distrazione, prenda corpo un’opzione
seccamente presidenzialista, sposata in
modo acritico, che indebolisce i poteri
dell’assemblea e ne mortifica le prerogative, a partire dall’esercizio della
funzione legislativa.
Ma a ben vedere la sindrome che assale il centro sinistra lucano viene da più
lontano e, rimanda ad altrettanti nodi irrisolti. A partire dalla crisi aperta a metà
del 2002 dall’inchiesta della Magistratura, la coalizione è nella condizione di un
pugile suonato.
Essa ha portato alla ribalta prepotentemente una questione cruciale, che va ben
oltre gli esiti della vicenda giudiziaria e
che riguarda il modo in cui si ridefinisce
il rapporto fra politica ed interessi organizzati nell’epoca del maggioritario, del
primato del mercato, della personalizzazione della politica e dell’esaurimento
del ruolo tradizionale dei partiti.
Un tema di grande portata che attiene
alla natura della rappresentanza politica,
al grado di autonomia della società civile, alla qualità del tessuto democratico.
Questioni che inscrivono a pieno titolo le vicissitudini regionali nel quadro
più ampio della incompiuta transizione
italiana e che non hanno mai formato
oggetto di una esplicita riflessione nell’alleanza, pur essendo all’origine delle
numerose e ripetute convulsioni che
hanno punteggiato la legislatura.
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politica e società
I DS, e la sinistra nel suo insieme,
hanno perso in questa fase una grande
occasione per spostare più avanti gli
equilibri interni all’alleanza. Hanno
predicato la necessità di una svolta ed
avviato un’imbarazzata autocritica, rinunciando però ad affondare i colpi in
direzione del ventre molle della coalizione. Lo hanno fatto sperando che la
bufera sarebbe passata e ritenendo di
non dovere interferire, attraverso un
confronto dialettico più spinto, col processo di costruzione dei gruppi dirigenti
della Margherita in Basilicata.
Una condotta prudente solo in apparenza che, nel tentativo di incardinare
sui partners più forti il baricentro dell’alleanza, la ha in realtà destabilizzata,
provocando continue fibrillazioni fra
i minori ed alimentando, nella stessa
Margherita, incertezze e frustrazioni,
vagheggiamenti neocentristi, spirito di
revanche.
Occorre a questo punto probabilmente prendere atto che gli equilibri bipolari
finora sperimentati non reggono più, che
ovattare i conflitti non serve, che anche
dentro l’alleanza bisogna reinnescare il
circuito virtuoso di una dialettica aperta
e serrata.
Il centro sinistra soffre di litigiosità
e di afasia, non certo degli effetti di
un confronto politico e programmatico
particolarmente vivace, è un conflitto
che procede sotto traccia, non governato
dai partiti alla luce del sole che investe
direttamente le istituzioni con gli effetti
di drammatizzazione e di opacità evidenziati dalla vicenda Straziuso.
Si ha la sensazione che in questo scenario giunga ad esaurimento il ciclo politico retto da quel modello di relazioni
“pattizio” che ha presieduto all’allargamento del centro sinistra per successive
cooptazioni di segmenti di centro.
Esso ha poggiato su di una sapiente
mediazione operata dai DS che, spesso
svolgendo un ruolo improprio, hanno
catalizzato e smistato spinte, tensioni,
appetiti, diventando di fatto architrave
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di un equilibrio che ha retto per quasi
un decennio ed ha assicurato successi
elettorali, crescita e buona amministrazione.
Questa impalcatura di rapporti avrebbe potuto governare una transizione
tranquilla, la sostanziale riproduzione
del sistema di relazioni politiche dato,
garantendo ricambi generazionali ordinati ed avvicendamenti senza scosse.
Il modello tuttavia entra in crisi esattamente nel momento in cui si compie
la missione per cui era stato concepito:
realizzare l’alternanza e legittimare una
guida della sinistra ai vertici del governo
regionale.
La presidenza Bubbico infatti, per un
insieme di ragioni, apre una legislatura
costituente (federalismo, sussidiarietà,
nuovo statuto e legge elettorale, nuova
programmazione e fuoruscita dell’obiettivo 1) ed ai compiti straordinari che la
attendono si aggiunge, in corso d’opera,
un radicale mutamento di segno degli
indicatori congiunturali e delle politiche economiche generali che avevano
sorretto i lusinghieri risultati conseguiti
dall’economia regionale.
Mutano insomma completamente i
dati strutturali di contesto e ne risulta
spiazzata una coalizione attrezzata invece ad una navigazione in acque tranquille. Su tutti i temi cruciali che hanno
segnato l’azione di governo dell’ultimo
triennio (dall’uso delle risorse naturali
alle scelte energetiche ed ambientali,
dalla sanità alle politiche territoriali ed
agli strumenti di programmazione), una
linea convintamente modernizzatrice e
“sviluppista”, incarnata dal Presidente,
ha incontrato resistenze sorde e trasversali, mai limpidamente emerse in un
esplicito confronto politico.
L’avere molto consociato, probabilmente, ha garantito stabilità alla Regione, ma non ha giovato alla chiarezza di
prospettiva ed alla selezione di una nuova ed autonoma leadership politica svincolata da ipoteche e retaggi del passato.
Occorre spezzare questo involucro
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che avvolge e paralizza la coalizione,
anche a costo di abbandonare al proprio
destino pezzi di ceto politico e di elettorato moderato.Questo tentativo non
equivarrà ad un salto nel buio soltanto
se sapremo mettere in campo una pressione forte dall’alto e dal basso cioè coniugare chiarezza negli obiettivi di cambiamento, costruzione dei luoghi nuovi
della partecipazione democratica dei
cittadini, crescita della autonomia reale
dei soggetti sociali ed economici.Senza
queste condizioni non ci saranno governatori illuminati che tengano ed ogni
velleità innovativa sarà destinata ad
impantanarsi nelle secche dell’inerzia e
del moderatismo.
Misurandosi con questi temi il centro sinistra di Basilicata può trovare le
ragioni di una sua rifondazione, di un
patto costituente da presentare al popolo
lucano alla vigilia di una nuova stagione
politica. Se rinunciasse a farlo dovrà
rassegnarsi ad un lento esaurimento della sua funzione politica.
politica e società
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“Innovazione
stella polare del riformismo”
Intervista al Presidente Bubbico
ANNA MARIA RIVIELLO
I problemi attuali della Basilicata sono da inserire in un
quadro tendenzialmente segnato da un forte dinamismo.
Nuove risorse, insediamenti produttivi di grandi dimensioni e
soprattutto il mutamento del quadro politico negli ultimi dieci
anni hanno cambiato notevolmente la nostra regione.
Uno degli obiettivi della nostra rivista è quello di contribuire a diffondere un rapporto attivo tra società e politica perché
siamo consapevoli che questa regione eredita una situazione
in cui la prima ha un atteggiamento passivo che sfocia spesso
nell’ antipolitica e la seconda, attraverso il suo ceto politico ha
svolto un ruolo di comando eccessivamente invasivo. È esattamente per preservare l’ idea del valore della funzione politica
che è necessario riconoscerne limiti e distorsioni.
I governi di centrosinistra hanno puntato più sul buongoverno
che su di un impegno che a noi appare cruciale dello sviluppo del
quadro democratico della regione. Su questo versante insomma
hanno agito in continuità con i vecchi governi democristiani.
Da questo punto di vista la vicenda di Scanzano può essere
uno spartiacque. Una grande mobilitazione democratica, prima di tutto da parte dei cittadini di quella zona che volevano
difendere la grande crescita di questi anni, soprattutto nel
settore dell’ agricoltura, poi dell’opinione pubblica regionale
percorsa da un sussulto di indignazione. C’è stata una vera e
propria rivolta di massa.
La Regione ed il suo Presidente hanno svolto un ruolo decisivo che ha impedito tentazioni localistiche, affiancandosi alle
popolazioni in un’accorta ricerca di legami, di alleanze con le
altre regioni del Sud e non solo, con il mondo scientifico, con
l’ opinione pubblica. Ci è sembrato un modello riuscito insomma di mobilitazione democratica che sicuramente ha i caratteri
dell’ eccezionalità ma che mostra una modalità di rapporti tra
politica e società assolutamente corretta. Quasi un superamento del tradizionale rapporto che ha caratterizzato anche lo stile
di governo del centrosinistra.
Per queste ragioni abbiamo voluto discuterne con il principale protagonista del governo di centrosinistra della Basilicata, il Presidente Filippo Bubbico.
Presidente, Scanzano può insomma essere un momento di
svolta nella azione di governo della Regione?
Le esperienze amministrative di centrosinistra si sono concentrate sulle performance amministrative, l’utilizzazione dei
fondi comunitari, dei fondi nazionali, più che sui temi della
partecipazione e quindi di un nuovo assetto, di un quadro
di protagonismo che configuri anche un nuovo modello di
partecipazione democratica. Non vedo questi due aspetti in
contraddizione. Li vedo in termini fortemente complementari. Dovremmo ragionare un attimo su: buongoverno e buone
performance amministrative. Sono convinto che noi abbiamo
ancora tanta strada da fare, sull’uno e sull’altro versante, per
praticare un principio secondo il quale i cittadini sono titolari
di diritti e non destinatari di favori.
Nel centrosinistra permane ancora un retaggio di questo
modo di pensare, e non è decollata una propensione a guardare ai temi del consenso in termini di innovazione e in discontinuità di talune pratiche, che di fatto ci restituiscono una
dimensione passiva o assistita dei soggetti sociali, dei soggetti
economici della nostra regione.
Quindi da questo punto di vista, bisogna agire, mantenere
alta la tensione perché nuovi impegni pubblici possano essere
apprezzati, possano proporsi, configurarsi. Sono quelli della
trasparenza, delle pari opportunità, del rispetto delle regole.
Tutto questo sono convinto ci aiuta molto sul versante della
nuova qualità della democrazia partecipata.
In questo senso forse noi come sinistra dobbiamo aprire un
dibattito più consapevole, perché molte volte l’innovazione
che punta a creare condizioni di migliore partecipazione o a
diffondere le opportunità o a creare maggiore equità, realizzando interventi meno strutturati in antichi canali di relazione,
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politica e società
Intervista al Presidente Bubbico
appare come troppo spinta sul versante
della deregolazione, del nuovismo, del
cedimento a culture liberiste. Qui dovremmo forse tutti concentrare la nostra
attenzione per non correre il rischio di
essere timorosi del nuovo e risultare in
concreto conservatori.
Ma l’alternativa non è tra conservazione e innovazione. L’ obiettivo è superare uno scambio politico ristretto che
vede protagonisti sempre gli stessi attori
e che mette la generalità dei cittadini
nella condizione di questuanti di beni
essenziali, lavoro, risorse pubbliche ecc.
È la metodologia e non lo specifico
che fa la differenza. In una qualche misura io vedo una logica clientelare non
solo in relazione a ceti, a soggetti, a portatori di interessi. Il clientelismo funziona a pioggia, riguarda tutti. Ad esempio,
oggi per la sinistra è un obbligo morale
tutelare gli LSU (lavoratori socialmente
utili). Ma chi sono i lavoratori socialmente utili? Sono per una parte residuale, non più del 5 – 10%, persone che
avevano perso il lavoro. Questione che
va tenuta separata dal resto. Il 90% sono
disoccupati che sono entrati in progetti
promossi dalle amministrazioni locali.
Sono entrati in questi progetti non sulla
base di un bando di evidenza pubblica,
sulla base di un bisogno misurato, di un
qualche criterio, ma solo in ragione di
una relazione diretta con gli amministratori locali, su chi decideva sull’avvio del
progetto o meno. Quindi un’operazione
fortemente clientelare, molto discrezionale. Se noi pensiamo che gli LSU
debbano rappresentare un segmento da
tutelare per sempre, tanto da assumerli
stabilmente come dipendenti pubblici,
noi abbiamo legittimato un’operazione
che è ineguale, discriminatoria, in conflitto con il criterio delle pari opportunità
da proporre ai cittadini.
Possiamo in ragione di ciò ignorare
il problema delle LSU? No. E ce ne
siamo occupati più di ogni altra regione
meridionale, mettendo a disposizione
risorse, strumenti. Ma questo non può
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significare che alla scadenza, i progetti
finanziati debbano essere riproposti integralmente.
Da questo punto di vista all’ interno
della maggioranza di centrosinistra, mi
pare che in sintonia con questo modo di
ragionare siano solo i democratici di
sinistra. E nemmeno tutti. È improbabile
infatti che la sinistra dei Ds possa essere
del tutto d’accordo con te. Ti senti solo
in questa azione?
Paradossalmente accade che questo
processo di spingere sul versante dell’innovazione, della competizione per
liberare risorse materiali e intellettuali
ci vede soli, perché è molto più comodo
e molto più interessante anche dal punto
di vista del mercato elettorale mantenere
determinati assetti, determinati schemi,
perché mantiene i soggetti sociali in una
condizione di staticità.
C’ è il problema di come decliniamo i
diritti. Ma noi siamo in una qualche misura vittima di una sorta di “pudore” nel
mettere in discussione i diritti acquisiti.
È difficile mettere in discussione
diritti acquisiti in un contesto che tende
progressivamente a colpire i soggetti
deboli ed anche i lavoratori. Se è questa
l’innovazione...
Non parlo di questo ma di strutture di
controllo che fungono da freno... Vi faccio un altro esempio. Sono arrivato alla
convinzione che i nemici peggiori del
processo di re-industrializzazione della
Val Basento sono i sindacati e il consorzio per lo sviluppo industriale di Matera.
I sindacati, perché non c’è nulla che si
possa muovere senza l’ assenso dei sindacalisti locali. Il consorzio, perché non
c’è nulla che possa essere fatto da parte
dell’imprenditore che non sia deciso dal
consorzio industriale. Un imprenditore
se deve comprare dei fiori deve andare al
negozio che gli viene indicato dal consorzio industriale.
Il punto è: rompere. Se in Val Basento
il sindacato continua ad esercitare il ruolo che sta esercitando, noi non avremo
nuovi investimenti in quell’area, ma non
p
perché gli imprenditori vogliano sentirsi
liberi dal rispetto delle regole, semplicemente perché vogliono affrancarsi
da pressioni indebite. Non è raro che
spesso l’azione sindacale si concentra
sull’indicazione di chi assumere o di chi
promuovere.
Molto spesso la tutela dei diritti fondamentali e sacrosanti dei lavoratori
slitta in queste forme di controllo. Come
si rompe questo assedio? Destrutturando
e costruendo. Solo rompendo quelle incrostazioni si può costruire su un terreno
nuovo una nuova consapevolezza, una
nuova coscienza, un nuovo progetto anche in grado di aggregare.
Da questo punto di vista Scanzano
può dirci qualcosa. Come potenzialità.
Io sono convinto che Scanzano ci dice
che in questa regione vivono persone
che si sentono cittadini o ambiscono ad
esserlo, nel senso di essere protagonisti
responsabili, titolari di diritti.. Che questo sia poi, concretamente, è tema che
riguarderà sempre di più la politica. I
partiti dopo Scanzano dovrebbero ripensare se stessi, ripensare il loro impianto
politico e programmatico .
Questa è una tua riflessione personale
o è condivisa con le forze politiche della
maggioranza?
Vedo che questa riflessione è presente
nei DS. Con maggiori o minori accentuazioni. Nella altre forze di centrosinistra è
meno matura. Ciascuno punta a cogliere
da questi fatti un aspetto. Rifondazione è
tutta concentrata sulla dimensione antisistema. I Verdi coltivano la dimensione
ambientale, la Margherita vive un disagio rispetto alla politica che recupera
abbondantemente sul piano della vivificazione delle reti di relazioni…
E queste reti di relazioni sono anch’esse da innovare?
Direi, da rompere. Il pericolo che
io vedo è che mentre noi della sinistra
che esercitiamo una funzione di governo, magari stiamo a “radiografare” le
nostre azioni per misurarne il tasso di
progressismo, se è più o meno di sini-
politica e società
p
Foto di Giacomo Silvano
Intervista al Presidente Bubbico
stra un’azione che mettiamo in campo,
non apprezzando a sufficienza la fatica
e l’impegno necessari a rompere certi
modelli, consuetudini, relazioni, la Margherita e altre componenti della nostra
coalizione continuano a enfatizzare il
loro lavoro attribuendosene tutti i meriti. A me ha fatto riflettere una cosa. Ho
assunto una decisione che molti attribuiscono alla mia astinenza dal fumo…
quella di rimuovere un assessore. Ho
visto preoccupati di questa mia decisione non solo componenti significative
della Margherita, ma anche componenti
importanti della sinistra, di una sinistra
che vede venir meno delle certezze,
nostalgica dei vecchi tempi di quando i
mulini erano bianchi e c’erano il PCI e la
DC. Quando tutti avevano la coscienza
tranquilla: si predicava il rigore, il “non
ci sporchiamo le mani”, si era intransigenti nei principi salvo poi vedere come
si poteva sistemare qualcosa sul piano
concreto, pratico. Abituati al tatticismo
e alla subalternità. Mi pare che in questa
parte della sinistra, come del resto in
tutta la coalizione, non è presente la consapevolezza della posta in gioco.
Non mi sembra del tutto fondata
l’idea che hai di una parte della sinistra. E anche il fatto che si possa dare
l’impressione che l’alleanza con la Margherita possa essere interpretata come
una sorta di continuazione del consocia-
tivismo tra PCI e DC. Ma perché questa
impostazione “giacobina”? Scanzano
non dimostra che si può avere fiducia
in un’opinione pubblica che sta rapidamente maturando?
Sento di avere il consenso di una
parte importante dell’opinione pubblica.
Ma non vedo schierati nettamente sul
fronte dell’innovazione tutti coloro che
dovrebbero naturalmente essere alleati
in questa battaglia. Molte volte costituiscono un elemento di freno.
Questo impegno di governo, questa
tensione innovativa, come si traduce nel
nuovo Statuto regionale?
Nello Statuto dobbiamo cercare di
rompere anche sul piano istituzionale
vecchi meccanismi. Non mi sono occupato direttamente dello Statuto, ma
ritengo che dovremmo poter produrre
meccanismi che rompano certi modelli
consociativi. Non dobbiamo temere
che poi la destra, se dovesse diventare
maggioranza, possa fare scempio delle
nostre realizzazioni…
Ma qual è questo modello consociativo da superare?
Faccio l’esempio delle comunità
montane. Le giunte delle comunità
montane sono il frutto di elezioni di
secondo grado e i comuni facenti parte
della comunità montana esprimono sia
la maggioranza che la minoranza. Significa che un comune può esprimere nella
comunità montana un assessore che pur
è all’opposizione nel proprio comune.
Quell’assessore lavorerà per realizzare
il programma in sede locale per agevolarlo, o per impedirne la realizzazione?
Tutto ciò crea una forte confusione. È
più logico che la comunità montana
diventi un’associazione di comuni. Alla
comunità montana partecipano le amministrazioni comunali, gli esecutivi di
ciascun comune. Il sindaco o l’assessore.
In questo modo si smetterà di vivere in
uno stato di perenne confusione.
L’ambiente soprattutto in Basilicata è
una risorsa primaria che non può essere
svenduta. C’è una forte polemica sull’insediamento di villaggi turistici sulla
costa ionica.
La cultura ambientalista oggi è patrimonio rivendicato dai Verdi, da Legambiente, dalla LIPU come se fosse
cosa loro, quando invece dovrebbe essere bene condiviso da più parti. Questo
porta a una visione acritica dei problemi
ambientali che produce esiti negativi.
LIPU, WWF, Legambiente ci dicono che
avalliamo un processo di cementificazione della costa ionica. La cosa grave è che
lo dicono anche alcuni nostri compagni,
dimostrando una subalternità totale a
posizioni altrui. È un errore proprio dal
punto di vista dell’uso del termine. “Cementificazione” nel dibattito politico e
culturale di questo paese significa abusi-
9
politica e società
Intervista al Presidente Bubbico
vismo, realizzare porcherie… Siamo di
fronte a questo? Riportiamo le cose nelle
giuste dimensioni. Questi villaggi sono
conformi o difformi rispetto al piano
paesistico di aria vasta del Metapontino?
Sono conformi. Sono interventi che si
realizzano nel rispetto di strumenti urbanistici, di strumenti di tutela ambientale
che noi abbiamo voluto e noi abbiamo
contribuito dall’opposizione a definire
Chi li realizza questi villaggi? Sono
forze locali?
No, non tutte. Ma vi sono anche forze
locali...
C’è tuttavia chi sostiene che questo
tipo di insediamenti turistici sia incompatibile con lo sviluppo agricolo.
Non creano alcun problema all’agricoltura. Ci sono molte invenzioni e strumentalizzazioni su questo. Tempo fa ho
querelato chi sul “Corriere della Sera”
scriveva cose che non stanno né in cielo né
in terra, si sono inventati pure che vi sono
stati incendi dolosi per poter costruire su
aree fino ad ora indisponibili... Guarda che
c’è chi dell’ambientalismo ha fatto un mestiere. Ciò fa venir meno l’approccio critico
necessario e produce una miscela dannosa
fatta di strumentalizzazioni e mancanza di
una cultura di governo.
Tu parli di rispetto dei piani urbanistici
e di salvaguardia ambientale. Ma questi
piani non possono essere sbagliati?
Ma in questi termini sono io che
ho posto il problema. Se qualcuno ha
elementi per sostenere che quel piano
paesistico che consente la realizzazione
di quei villaggi turistici merita di essere
aggiornato, anche alla luce anche di una
nuova sensibilità ambientale e di nuovi
elementi, lo dica. E con misura e equilibrio apportiamo i cambiamenti che si riveleranno necessari. Ammesso che siano
necessari. Bisogna governare i processi
con misura e senso critico.
Non c’è niente che di per sé sia
ecocompatibile a prescindere dai modi
in cui lo si realizza e dal contesto.
Guardiamo alle questioni energetiche.
Secondo Legambiente dovrei dire che
10
l’eolico è “bello” a prescindere perché
ha interessi in quel campo? Non lo dirò
mai. Eolico, turbogas, solare sono energie rinnovabili e perciostesso accettabili
in ogni situazione e in ogni dimensione.
Ma copriamo di pannelli solari una città e segnaliamo tutte le vette con pale
dell’eolico, e vediamo qual è il risultato
che conseguiamo dal punto di vista della
tutela ambientale. Sarebbe un disastro.
Perciò il problema è sembre quello
della misura e della compatibilità, sia
per interventi che sono percepiti come
ambientalmente corretti che per quelli
considerati potenzialmente lesivi dell’equilibrio ambientale.
Quali sono i progetti che la Regione
ha per il Metapontino?
Continuo a pensare che la prospettiva di sviluppo del Metapontino debba
essere legata all’agricoltura e al turismo.
C’è chi pensa che debba avere un’altra
destinazione? Lo dica. Ma se pensiamo
che il turismo debba avere un ruolo
in questa regione per garantire civiltà,
occupazione, ricchezza, opportunità,
allora bisogna creare condizioni di massa critica, bisogna ospitare un numero
relativamente elevato di persone. A ciò
debbono servire i villaggi della costa
ionica. Oppure veramente pensiamo che
nell’agriturismo della Camastra possa
venire gente direttamente dall’America
o dal nord Europa se la Basilicata non
è percepita come regione in grado di
rispondere a un’offerta turistica qualificata e di massa? Perciò bisogna aver un
certo numero di villaggi turistici, perché
possano alimentare flussi turistici che ti
consentono poi di amplificare l’offerta
turistica, di proporre il turismo di qualità, il turismo culturale, ambientale. I
nostri critici avrebbero ragione se noi
pensassimo di fare villaggi turistici…
punto. Allora sarebbe vero che avremmo
una visione consumistica, molto gretta,
molto settoriale. Io invece sono convinto, siamo convinti, che i villaggi turistici
debbano servire innanzitutto un volano per tutto il settore, mettendo poi in
p
gioco le aree interne, i centri storici, i
paese albergo, gli agriturismi, ecc.
In questo senso oggi noi ci cimentiamo con uno strumento nuovo, che
ci consenta d’andare oltre una visione
consumistica del territorio. Ci stiamo
cimentando col tema della creazione di
un parco di sviluppo integrato sostenibile del territorio ionico. Cioè, com’è
possibile fare qualità nell’arco ionico
guardando al turismo e all’agricoltura? Sapendo che l’agricoltura ha una
grande valenza ambientale, positiva
ma anche negativa. Infatti, un’agricoltura intensiva che utilizza fitofarmaci
e concimi al di fuori di qualunque regola produce effetti devastanti e alla
lunga danneggia il turismo. Quindi
stiamo lavorando per mettere a punto
strumenti più avanzati per il governo
di questi processi nel quadro di una
iniziativa che ha l’ambizione di fare
un passo avanti rispetto al processo
che abbiamo avviato in Val d’Agri.
Puntiamo cioè a una certificazione
ambientale di qualità, nel quadro di
un progetto territoriale di eccellenza.
Questa iniziativa vuole verificare
quanto proficua possa essere l’idea
parco, non nell’accezione di museo
ma in quella di una forte caratterizzazione degli interventi sul versante
delle qualità delle attività antropiche,
dei sistemi urbani, delle attività produttive nell’area interessata.
Questo che vuol dire?
Vuol dire: villaggi turistici basta.
Non ne facciamo più. Ma le organizzazioni cosiddette ambientaliste la
devono finire con questa filastrocca
della cementificazione della costa
ionica. Perché – lo dico alla sinistra
in particolare – se si parla di cementificazione della costa ionica, mi si
vuole dire che cosa bisogna dire della
Calabria, della Sicilia?
In questa vicenda c’è anche un elemento di mala fede. Vedo un nesso tra
la denuncia all’Unione europea della
Basilicata per violazione delle diret-
p
politica e società
Intervista al Presidente Bubbico
tive in materia ambientale e l’attacco
diffamatorio lanciato sul “Corriere
della Sera” nei miei confronti, il quale
diceva in buona sostanza che Bubbico fa fare i villaggi turistici perché li
progetta il fratello. Premesso che ove
fosse accaduto non ci sarebbe nulla di
illegale, si tratta di un’illazione del
tutto infondata. Ma la cosa più strana
è un’altra. Questi movimenti fanno
una denuncia all’Unione europea per
infrazione di direttiva comunitaria, e
dicono che lungo la costa ionica si sta
devastando l’ecosistema, perché la Regione Puglia a Castellaneta ha autorizzato un villaggio, che a Policoro
“Qualche volta il sindacato la Regione Basilicata ha fatto
così la Regione Caè una lobby. altrettanto,
labria a Villapiana. Verrebbe da
Difendo le scelte pensare che la Puglia, la Basilisul Metapontino ma ora cata, la Calabria siano denunciabasta villaggi. te all’Unione europea. E invece
non è così, è solo la Basilicata ad
Il fondamentalismo è ne- esserlo. Qualcuno mi sa spiegare
mico dell’ambiente” il perché?
Ma questa denuncia ha un
qualche fondamento nel merito?
No, ho fatto fare tutte le verifiche
dagli uffici regionali. Le direttive europee non le abbiamo violate. Siamo
tranquilli.
La vicenda del sito unico a Scanzano ci ricorda che noi abbiamo già
un problema di messa in sicurezza che
riguarda la Trisaia.
Su Trisaia stiamo sviluppando
un’attività di vigilanza molto, molto
alta. Perché rispetto al processo di
messa in sicurezza dei rifiuti liquidi
lì presenti, 2700 litri di rifiuti liquidi radioattivi, noi non ci sentiamo
tranquilli, avendo visto la SOGIN
all’opera. Prima l’ITREC era titolarità
ENEA. Con l’ordinanza Berlusconi
l’ITREC è passato alla SOGIN.. Verificata l’assoluta inaffidabilità della
SOGIN siamo piuttosto preoccupati,
e stiamo monitorando le attività che si
sviluppano in Trisaia per la messa in
sicurezza dei rifiuti liquidi.
Dopo i giorni di lotta contro il
decreto del governo Berlusconi, ho
letto una posizione della destra che
dice che Bubbico sapeva...
Sì, l’attacco della destra è: Bubbico sapeva e non ha denunciato per
tempo quello che stava accadendo. È
come se qualcuno potesse denunciare
il Ministro degli Interni perché non
ha arrestato il giorno prima un tale
che avrebbe ucciso tre persone. La
mia colpa sarebbe di non aver impedito al governo di fare una cosa
illegale. Perché il decreto Scanzano
è illegale.
Però non è solo la destra a dire assurdità. Si tiene un convegno organizzato dalla CGIL a Roma. Viene fatto
un resoconto da un certo Giovanni
Paolo Ferrari, membro del comitato
“Scansiamo le scorie”, che è controllato da rifondazione e dai no global,
il quale scrive che è intervenuto il
Presidente della Regione Basilicata
che è sembrato alquanto sollevato
dall’assenza di Paolo Togni, dirigente
generale dell’ambiente, che in dichiarazioni precedenti aveva annunciato
di essere in possesso di informazioni
riservate che avrebbero testimoniato
il fatto che Bubbico sapeva tutto su
Scanzano fin dal principio, finanche
prima della pubblicazione del decreto
314 del 13 novembre scorso.
Osserva la sottolineatura: “finanche
prima”. Se lo sapevo prima ero dunque
complice, perché dopo la pubblicazione avevo il dovere di saperlo. Poi: “è
apparso alquanto sollevato”… ma da
che? Questo Togni aveva annunciato
alla “Nuova Basilicata” che avrebbe
presentato carte per inchiodare Bubbico alle sue responsabilità. Non se ne
è vista una. Ma pensiamo veramente
che, se questi signori del ministero
dell’ambiente e di Alleanza Nazionale
avessero avuto un solo documento per
inchiodare Bubbico alle sue responsabilità, non l’avrebbero già utilizzato?
Ma andiamo!
11
politica e società
Scanzano
mon amour
p
ANTONIO CALIFANO
La rivolta di un’intera regione contro il progetto del governo di destra
di fare del Metapontino il cimitero nazionale delle scorie nucleari.
Solo pochi mesi fa la grande manifestazione di Scanzano,
con un popolo in piazza a coronamento di settimane di blocchi, iniziative, lotte, sanciva una vittoria importante non solo
per un’intera regione ma per l’intero paese. Una vittoria contro
l’ubicazione di un deposito di scorie nucleari, uno sporco affare di cui ancora oggi non si conoscono tutti gli oscuri risvolti,
ancora più importante perché di una regione decisamente
“tranquilla” e a partire da una zona a forte presenza politica del
centrodestra. Forse una delle poche volte in cui si è percepita
una identità collettiva spesso persa, un orgoglio di appartenenza
da altri tempi, un positivo rapporto tra istituzioni, organizzazioni spontanee, movimenti, sindacato, soggettività varie. E poi
Scanzano veniva alla fine, e quasi a coronamento, di una densa
stagione politica per questa regione che ha visto un importante
movimento della pace affacciarsi sulla nostra scena politica, il
blocco dei treni della morte, con una mobilitazione inconsueta
per una città come Potenza, la grande lotta della Sata di Melfi
con il blocco ai cancelli insieme agli operai di Termini Imerese.
Per chi non l’avesse capito in questa regione c’è ancora voglia e
possibilità di politica, fiducia nelle capacità di avviare attraverso
la lotta e la partecipazione processi di trasformazione collettiva,
la “politica”, i partiti, la sinistra hanno il dovere etico e sociale
di dare forma, organizzazione, sbocchi a tutto questo.
Ma Scanzano in questo contesto è stato anche altro e va letto in
una chiave un po’ più complessa.
Innanzitutto la scelta di insediare lì e proprio lì un deposito
di scorie nucleari di dimensioni non giustificabili con l’attuale
necessità del paese lascia intravedere una strategia ben più pericolosa della necessità di far fronte ad una “semplice” emergenza. I meccanismi attraverso cui tale decisione è stata presa
mostrano un modello di governo del territorio assolutamente
autoritario (presidenzialista?) che prefigura un’idea della democrazia estremamente preoccupante e che , tra le varie follie
di questo governo, rappresenta la sua vera costante qualifi-
12
cativa e comunque completamente coerente con le tendenze
neoliberiste dei mercati e i processi di mondializzazione. Ma
in tutto questo ci troviamo di fronte anche a importanti novità:
è stata forse la prima volta, per lo meno nelle proporzioni, che
si è tentato di sperimentare “una violenza” così forte ed in una
zona tanto vasta in Italia e non nel terzo mondo. C’è dietro
questa scelta un’idea precisa del mezzogiorno, si è abbracciata
una politica economica che ha abbandonato ogni interesse a
promuovere un armonico sviluppo delle zone del paese tradizionalmente in difficoltà. È questo probabilmente il posto
che al Sud d’Italia qualcuno vorrebbe attribuire all’interno dei
processi di mondializzazione. Ma, qui, si aprono una serie di
contraddizioni: in maniera paradossale il governo mondiale
della globalizzazione imponendo i propri standards e le proprie regole a tutti i paesi, omologandoli in un unico mercato
governato dal liberismo più sfrenato sta accentuando le differenze tra sviluppo e sottosviluppo avendo rinunciato per sempre all’idea che la ricchezza possa essere in parte ridistribuita,
costruendo in tale modo le condizioni per la nascita di una
forte opposizione, con l’irrompere di nuovi soggetti sociali (la
moltitudine?) e di nuove forme di lotta.
La lettura, anche, delle piccole realtà deve passare attraverso questa lente, bisogna assumere sempre più l’ottica dei
grandi processi per leggere le specificità dei piccoli territori
perché è in questo spazio che si costruisce la trama della lotta
e dell’opposizione alla mondializzazione.
Questo vale anche per lo specifico, per il qui, per il Sud, per
una piccola realtà come la Basilicata che vive la presenza delle
multinazionali ed il dramma della disoccupazione,che riproduce in piccolo, attraverso una toponomastica dello sviluppo
fatta a macchie di leopardo, una rappresentazione del mercato
mondiale. La Basilicata è mezzogiorno, ma è anche Corea o
Est Asiatico e nello stesso tempo è un’entità non riducibile e
non separabile dalle proprie specificità.
p
È Nord del Sud ma anche Sud del
Sud. Non è indifferente che tutto questo,
in questa regione avvenga in un quadro
politico che la vede unica regione del
Sud, con la Campania, amministrata dal
centrosinistra e che in questo momento
si assista anche ad una profonda crisi del
governo stesso del centrosinistra.
Per questo dobbiamo interrogarci in
maniera seria su cosa è e cosa significa
un governo della sinistra, entro quali
compatibilità esso debba e possa muoversi, quali sono i limiti che ne possono
snaturare completamente la fisionomia e
quale significato ha un governo “di sinistra” dei processi.
In questa regione come nel resto
d’Europa l’unificazione dei mercati è
anche saccheggio delle risorse e l’Europa è ancora e solo l’Europa delle banche
e dei profitti. Riguardo alla gestione del
territorio e delle risorse non può certo
bastare ottenere royalties maggiori sullo
sfruttamento del petrolio o condizioni
migliori sull’utilizzo dell’acqua, il problema è un altro, bisogna cominciare ad
interrogarsi sull’utilità di certi processi,
sulla loro ricaduta, su quale sia il quadro
entro cui si collochino.
È, di converso, ormai ampiamente
diffusa la consapevolezza della necessità di ripensare l’economia in termini
compatibili con i sistemi naturali, della
integrazione delle politiche ambientali
nella politica economica e nella definizione delle azioni di riassetto del territorio. Si profila una competitività sempre
più legata alla capacità dei singoli territori di coniugare tutela e valorizzazione
delle risorse naturali, conservazione del
patrimonio paesaggistico e sviluppo legato alle risorse endogene. Per questo
Scanzano è stata una grande lotta che
si colloca tutta all’interno della opposizione ai processi di mondializzazione
dell’economia, e questo non perché le
migliaia di cittadini che sono scesi in
piazza ne avessero coscienza ideologica, per usare una desueta ma precisa
terminologia fossero già classe per sé,
politica e società
ma perché obiettivamente non è diversa
dalle tante lotte che la gente comune sta
combattendo nel mondo per garantirsi
la propria sopravvivenza e il futuro dei
propri figli.
Ma Scanzano ci ha dato anche altro
e ci offre altri elementi di riflessione,
perché in qualche modo ha manifestato
a tutti in maniera esplicita anche i limiti
e la debolezza della politica in questa
regione. Il protagonismo dei cittadini, le
capacità dei sindacati, delle istituzioni,
del Presidente della Regione, in primo
luogo, non possono impedire di vedere
la debolezza dei partiti, la crisi , a mio
modo di vedere irreversibile, delle vec-
forme della democrazia e dei suoi strumenti, un percorso che non riguarda naturalmente solo la Basilicata ma che per
la Basilicata necessita di una particolare
accelerazione perché il blocco delle forze politiche, dei partiti, di maggioranza
ed opposizione, appare particolarmente
incrostato in vicende e storie del passato
mentre la drammaticità dei problemi, la
gestione del territorio, il degrado generale della gestione della cosa pubblica impongono radicali cambiamenti e nuove
coraggiose sperimentazioni.
Per questo a partire da Scanzano ed
oltre Scanzano, Scanzano Mon Amour.
chie forme di organizzazione della politica che anche dopo Scanzano, e quindi
indipendentemente da esso, continuano
imperterrite ad agire nella gestione della
cosa pubblica con le logiche del passato,
a rapportarsi alle istituzioni senza più alcun rispetto per chi li ha eletti. Anche la
crisi a due tempi alla Regione Basilicata,
dimostra questa disarmante inadeguatezza, questo scollamento che rischia di
alimentare una pericolosa deriva populista e qualunquista. Oggi bisogna avviare
un grande processo di ricostruzione di
una nuova classe dirigente, intorno ad un
grande progetto culturale e politico che
comprenda anche un ripensamento delle
Foto di Giacomo Silvano
13
politica e società
Cronache
dal
nucleare
p
Scuola, territorio e democrazia diretta
EUSTACHIO NICOLETTI
Dall’esperienza di Scanzano un nuovo modello di mobilitazione coinvolgente.
Il racconto di un’occasione didattica innovativa
Il movimento di lotta contro il deposito di scorie radioattive a Scanzano è stato
un evento dirompente; ha rappresentato
una frattura, una sorta di viaggio di non
ritorno, una nuova coscienza meridionalista ai tempi della globalizzazione.
Storicamente il suo più grande merito
sarà quello di aver riportato al centro
della discussione nazionale la tematica
del nucleare, delle sue conseguenze sociali, economiche e ambientali e dello
stretto rapporto con militarizzazione del
territorio.
Nella Provincia di Matera il percorso
parte dalla Trisaia di Rotondella, nei
primi anni ’60 e dalle basi missilistiche
in provincia di Matera, in cui c’erano
testate nucleari poste in direzione dell’Unione Sovietica. (Durante lo scontro
Usa-Urss per la questione cubana nei
primi anni ’60).
Il filo rosso del nucleare collega i percorsi successivi che delineano, ad oggi,
una occupazione militare del territorio:
dall’Alta Murgia con poligoni di tiro ad
Altamura (Ba) e depositi di esplosivi
nei pressi di Poggiorsini (Ba), si passa a
Gioia del Colle (base Nato da dove nell’ultima guerra in Bosnia decollavano
gli F16 carichi di bombe), a Brindisi con
l’ipotesi di attracco per sommergibili
nucleari, fino al porto di Taranto, futura
14
base militare americana e attraccaggio
per i sommergibili nucleari. Quindi la
destinazione del territorio, dalla murgia
fino a Taranto e da qui verso Rotondella,
costituisce un’area residuale rispetto ai
percorsi di movimento civili ed economici: una zona al sevizio degli interessi
strategici nel Mediterraneo, un’area, dal
punto di vista geopolitico, strategica per
il controllo del Mediterraneo.
È sulla base di queste ragioni di fondo
che a Scanzano è nata una forma nuova
di attenzione al territorio e di sperimentazione di democrazia diretta. Una forma
di lotta totalmente nuova: pluricentrica,
in qualche modo legata, nei piccoli
Paesi della Provincia, al recupero della
municipalità. Vi è stato un ritorno al
senso di appartenenza e conseguente
attaccamento allo stendardo, che poi è
quello che si è verificato nella grande
manifestazione dei 100.000 del 23 novembre 2003. È stata la popolazione a
trascinare le forze politiche sulla strada,
nelle assemblee, nelle prese di posizione
più radicali ed efficaci. Municipalità e
democrazia diretta probabilmente hanno
rappresentato la forma più intelligente
di risposta ai processi distruttivi della
globalizzazione, esattamente opposta al
leghismo che invece rappresenta la chiusura del proprio territorio all’esterno. In
questo caso si sono sperimentate nuove
modalità di democrazia ricollegandosi
alle proprie radici: il sentirsi legati al
luogo e alla terra si sono manifestati in
un progetto per il futuro, un progetto
aperto, solidale, in grado di dialogare
con il mondo. Un esempio di questa
apertura è il consenso che la forma di
lotta partecipata di Scanzano è riuscita
a trovare a livello nazionale; infatti si
parla ormai di un “modello Scanzano”
per tutte le forme di lotta dei territori che
resistono alla devastazione ambientale,
alla distruzione dello stato sociale, alla
cancellazione dei diritti di cittadinanza
tanto da porsi all’attenzione del Social
Forum Mondiale tenutosi a Bombay
(India).
Se queste possono considerarsi le ragioni di fondo che hanno reso possibile,
in una zona del Sud d’Italia, una forma
di lotta del tutto inusuale ed inaspettata
nel mondo globalizzato, i meccanismi
socio–politici-culturali ed organizzativi
meriterebbero ulteriori approfondimenti.
Una forma di lotta coinvolgente tutta
la popolazione attraverso gruppi spontanei e forme organizzate (parti sociali,
ordini professionali, parrocchie, partiti,
associazioni culturali e del volontariato,
istituzioni), necessitava di “collanti”
affinchè le numerose iniziative settoriali
p
programmate e realizzate potessero, comunque, avere un comune denominatore
e, contestualmente, potessero evitare che
le spinte rabbiose soggettive e collettive
potessero sfociare in forme di violenze, in provocazioni mass-mediatiche,
in possibili distorsioni politiche che,
in qualche modo, potevano mettere a
repentaglio la finalità principale della
contestazione.
Vi è stato un alto livello di coscienza popolare diffusa che ha portato alla
costruzione di un nuovo sapere collettivo: il movimento popolare ha creato
da sé nuove competenze e conoscenze
scientifiche legate ai processi in atto.
Per questo sono state utilizzate tutte le
forme di comunicazione e di scambio:
dalle scuole alle reti universitarie, dalle
assemblee partecipate ad internet. Una
collettiva controinformazione è stata
messa in atto spontaneamente, con l’attivazione di reti di solidarietà nazionali ed
internazionali.
Senza ombra di dubbio la scuola
democratica, utilizzando gli organismi
collegiali e i momenti assembleari, ha
realizzato un approfondito confronto
teso alla costruzione di una informazione pedagogicamente e scientificamente
strutturata in tutta la popolazione scolastica.
I Collegi dei docenti si sono riuniti
in forma straordinaria e permanente per
approvare formali documenti di dissenso
dell’iniziativa del Governo di insediare
il sito nazionale a Scanzano Jonico e per
decidere le iniziative da intraprendere
per sostenere la contestazione.
Nella maggior parte dei casi i Collegi
dei docenti decidevano di attivarsi su
alcune direttrici:
1. attività didattiche tese all’approfondimento degli aspetti scientifici, economici, ambientali, militari e sociali;
2. partecipazione diretta ai blocchi
stradali;
3. contributo con le professionalità presenti nella scuola agli incontri pubblici.
Per circa venti giorni, la scuola mate-
politica e società
rana ha realizzato un enorme intervento
didattico rivolto agli alunni di tutti gli
ordini di scuola (dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo
grado) e teso all’approfondimento delle
problematiche legate all’insediamento
delle scorie nucleari a Scanzano.
Se nelle scuole dell’infanzia ed elementare i bambini, attraverso l’utilizzo
prevalente della cartelonnistica, lavoravano prevalentemente sulla raffigurazione degli aspetti salienti del problema del
nucleare, nelle scuole secondarie ed in
particolare in quella di secondo grado,
oltre alle lezioni tenute dagli insegnanti
interni, si aggiungevano le assemblee
tese, non solo agli ulteriori approfondimenti teorici realizzati in molti casi con
l’aiuto di esperti esterni, ma anche alla
definizione di iniziative operative.
Insegnanti e studenti hanno contribuito direttamente all’attivazione ed
al mantenimento dei blocchi stradali
e ferroviari che altrimenti rischiavano
di essere asfittici soprattutto nelle ore
notturne.
A parte il blocco di Terzo Cavone
(sito individuato per l’insediamento
delle scorie nucleari) che vedeva una
partecipazione plurima delle categorie
di popolazione, quello realizzato alla
Stazione ferroviaria di Metaponto si reggeva soprattutto sulla presenza degli studenti delle Scuole Superiori di Bernalda
integrata da alcune presenze di Matera.
Gli studenti frequentanti la Città di
Matera si attivavano per il blocco sulla
SS 99 (Matera - Bari) e quelli dei paesi di
Pisticci, Ferrandina e Garaguso - Grassano
- Tricarico, invece contribuivano a realizzare i blocchi stradali lungo la superstrada
Basentana.
Le professionalità tecnico – scientifiche degli insegnanti, oltre agli interventi
didattici rivolti agli alunni, si sono rivelate utili anche nelle Assemblee, Incontri, Conferenze, Riunioni spontanee,
Posti di blocco, ecc. perché non rimanessero esclusivamente atto di denuncia, ma
permettessero che la riflessione si dotas-
se di contenuti scientifici.
Numerose le manifestazioni spontanee organizzate dagli studenti degli
istituti superiori, mentre quelle significative (per intensità e partecipazione)
si realizzavano a Policoro e Scanzano,
che coinvolgeva studenti, insegnanti,
personale scolastico e genitori, a Matera in due occasioni: la prima promossa
dalla Consulta degli Studenti alcuni
giorni dopo l’emanazione del Decreto e
la seconda a fine Novembre che vedeva
la partecipazione in forma organizzata
delle scolaresche di tutti gli ordini di
scuola (materna, elementare, media e
superiore). Infine rilevante anche la manifestazione organizzata dalla comunità
di Pisticci – Marconia che mobilitava
in modo massiccio il mondo scolastico
(studenti, insegnanti, personale ATA,
genitori, dirigenti) di tutti gli ordini di
scuola e nelle forme diverse (classi,
gruppi, individuali, ecc.).
Ancora una volta la scuola pubblica
e statale, che quotidianamente ci appare
sonnolenta e distratta, apatica e distante,
nell’evento di Scanzano, ha dimostrato
di non aver disperso le fondamenta
che, dal dopoguerra ad oggi, l’hanno
sostenuta nella realizzazione del ruolo
fondamentale assegnatole dalla Costituzione Italiana: la crescita del popolo
italiano. Contro l’insediamento delle
scorie nucleari, la scuola democratica,
delle pari opportunità, solidaristica,
unificante (proprio quella che qualcuno
oggi vuole destrutturare), ha dimostrato
quella vitalità necessaria per continuare
a sperare.
15
politica e società
Industria in Val Basento
Un’altra “falsa partenza”?
p
DAVIDE BUBBICO
Dopo la crisi del polo chimico tanti progetti e tanti fallimenti.
Tutte le insidie di un’esperienza di programmazione negoziata.
Nonostante gli sforzi intrapresi dalla Regione Basilicata,
negli ultimi anni, per favorire lo sviluppo industriale, attraverso l’attivazione di numerosi strumenti della programmazione
negoziata (Contratto d’Area, Patti Territoriali, ecc.) i risultati
finora raggiunti non sono particolarmente incoraggianti, tra
questi quelli che dovevano derivare dall’ultimo bando per la
reindustrializzazione della Val Basento.
Quando alcuni anni fa, attraverso l’utilizzo di 212 miliardi
di lire provenienti dall’Accordo tra ENI, Regione Basilicata
e Governo, che consentiva il riutilizzo dei finanziamenti non
spesi, favorito anche dall’altro Accordo sulle estrazioni petrolifere in Val d’Agri, si pensò nuovamente alla reindustrializzazione dell’area, la programmazione regionale ha dimostrato
forse di non comprendere appieno quali erano le scelte da
mettere in atto circa i criteri di selezione delle imprese e i comparti merceologici da privilegiare. Tuttavia, prima di avanzare
qualsiasi valutazione è bene ripercorrere le fasi che hanno preceduto e successivamente portato alla stesura del bando per la
reindustrializzazione dell’area, a cominciare dall’Accordo di
Programma del 1987.
L’Accordo di Programma del 1987
Il primo tentativo di rilancio, dopo la pesante crisi del
comparto chimico, maturata tra gli anni ’70 e ’80, è quello
dell’Accordo di Programma del 1987, un progetto rivelatosi
fallimentare per il progressivo disimpegno dell’ENI, che di
quell’Accordo era l’attore principale. Come sostiene Fernado
Mega, responsabile della Filcea Cgil della provincia di Matera, “la presenza industriale nell’area ha subito una metamorfosi strutturale dall’inizio degli anni ’80. Negli anni ’90 è scomparsa del tutto la grande industria e con questa il polo chimico,
per il quale l’intera area era stata infrastruttura. Di fatto con le
dismissione dell’ENI, con l’Accordo di Programma puntualmente disatteso, sono venute meno tutte le attese di sviluppo.
16
L’unico insediamento derivante da quell’Accordo, all’inizio
degli anni ’90, ancora oggi esistente, è quello dell’ERGOM,
azienda torinese della componentistica auto che decide la sua
localizzazione in Val Basento dopo che la Fiat aveva realizzato di costruire il nuovo stabilimento di Melfi”1. Tuttavia nel
2002, in seguito alla crisi del gruppo torinese, lo stabilimento
di Pisticci è stato interessato da un piano di ristrutturazione,
in seguito ad una contrazione delle commesse che ha determinato la mobilità per 60 dei circa 180 dipendenti (quelli più
anziani che provenivano in gran parte dal bacino dell’Enichem
e che avrebbero raggiunto a breve l’età di pensionamento). A
questa decisione si giunge anche dopo aver valutato la presenza d’amianto in uno dei capannoni dello stabilimento di
Pisticci, anche se Fernando Mega afferma che “ci furono delle
prescrizioni logistiche fatte dall’ASL e dal Comune di Pisticci,
ma quest’aspetto fu utilizzato in modo strumentale rispetto a
quello più evidente della riduzione di commesse da parte della
Fiat”. Di fatto l’Ergom ha trasferito alcune produzioni allo stabilimento di Melfi, limitando in questo modo l’incidenza dei
costi di trasporto. Lo stabilimento, che attualmente produce
sempre componenti in plastica per l’auto (le pedaliere per i
modelli Nuova Punto e Nuova Lancia Y, cruscotto per Nuova
Punto e Stilo), occupa circa 145 dipendenti, parte dei quali
assunti inizialmente con contratto di formazione e lavoro.
L’Accordo di Programma tra Eni, Regione Basilicata e
Governo, del 31 dicembre 1987 rappresenta, come scritto
precedentemente, il primo progetto di reindustrializzazione,
che prevede il reinsediamento industriale dell’ENI o di altre industrie per tramite di sue società e la nascita del Parco
Tecnologico e con esso di Tecnoparco. L’Enichem dovrebbe
assicurare la presenza in diversi comparti: chimica, polimeri
tecnici, fibre, tessile, manifattura e agroindustria, anche se
le prospettive di sviluppo prevalenti sono individuate nella
chimica derivata. L’Accordo prevede l’utilizzo di 538,89
miliardi di lire (410 per la reindustrializzazione e 226, che
p
comprendono altri finanziamenti come
quelli della legge 64/1986, per la nascita
del Parco Tecnologico). L’occupazione
complessiva prevista è di 2.100 unità più
altre 800 che servono a ristabilire l’equilibrio occupazionale degli stabilimenti
di Pisticci e Ferrandina. L’Accordo che
deve conseguire i suoi risultati entro 5
anni, otterrà poi diverse proroghe fino
al 30 aprile 1996. Tutte queste fasi
sono state accuratamente descritte nel
documento della Commissione d’inchiesta sulla Val Basento istituita dalla
Regione Basilicata, documento redatto
dal prof. Salvatore Casillo, consulente
della Commissione2. A distanza di anni
tuttavia, come ha avuto modo di rilevare
la Commissione d’Inchiesta i risultati
raggiunti dall’Accordo di Programma
sono stati quasi tutti disattesi, tranne
quelli di impiego delle risorse a suo tempo rese disponibili. Come è fatto notare
nel documento redatto dal prof. Casillo,
l’allora Presidente del Comitato di Coordinamento per l’applicazione dell’Accordo, Ing. Biagioni, in un documento
del 1992, addebitava le difficoltà per i
mancati risultati dell’Accordo del 1987
alle incertezze connesse al rifinanziamento della legge 64 (responsabilità del
Governo), al ritardo nella realizzazione
dei servizi previsti dal progetto del Parco
Tecnologico (responsabili la Regione e
il Consorzio ASI di Matera) e solo in ultimo alle attività promozionali dell’Eni,
che però veniva in qualche modo assolta
per la fase congiunturale negativa del
comparto3.
A fronte dei ritardi che si registrano
sui risultati che l’Accordo di Programma
dovrebbe produrre, la Regione Basilicata promuove anche un’indagine conoscitiva, svolta dalla Seconda Commissione
Consiliare Permanente, che nel maggio
del 1993 evidenzia come manchino all’appello ancora 1.500 addetti rispetto ai
2.900 previsti e che l’evoluzione della
situazione tenda solo al peggioramento.
Nel frattempo, come si evince dal documento della Commissione, il 18 marzo
politica e società
1994 si registra una nuova intesa tra gli
attori del precedente Accordo, intesa
approvata dal CIPE nella delibera del
22 novembre del 1994. Tuttavia alla fine
del periodo di validità dell’Accordo, che
come abbiamo visto è prorogato fino al
30 aprile 1996, non si ha traccia di una
relazione finale da parte del Presidente
del Comitato che presiede l’Accordo,
nonostante il Presidente e gli altri componenti del Comitato, con esclusione
del direttore dell’Asi e dell’Assessore
Chiurazzi, abbiano percepito nel frattempo ingenti compensi. Di fronte alle
sollecitazioni della Commissione che
indaga proprio sull’esito negativo dell’Accordo, il responsabile dell’Enichem
risponderà in merito a diversi punti sollevati dalla Commissione d’inchiesta, che
l’Enichem nei documenti di rifasatura
dell’Accordo del 1987, assicurava solo
impegni di spesa e che i posti di lavori
indicati erano solo una mera previsione;
che con la rifasatura dell’accordo nel
1987, gli impegni dell’Enichem non erano più per investimenti diretti a creare
occupazione, ma di promozione e supporto alle iniziative di terzi. Neppure i
dati relativi alla situazione del personale
Valbasento al 31.12.1992 non risultano
essere veritieri. Come si può leggere dal
documento della Commissione, in relazione ad un allegato che accompagnava
la rifasatura dell’Accordo “si evinceva
che erano in servizio [al 31.12.1992]
1.552 persone (756 in EniChem, 465 nel
Gruppo SNIA e 331 in “altre” società),
erano in cassa integrazione 1.062 persone (848 dell’Enichem e 214 di “altre”
società) e, quindi il personale in organico risultava essere di 2.614 unità (1.604
in EniChem, 465 nel Gruppo SNIA e
545 in “altre” società). Leggendo nella
sostanza i dati, invece, e considerando
sia lo stato di chiusura delle aziende
(con l’utilizzazione della cassa integrazione al solo fine della manutenzione e
della sorveglianza degli impianti) e le
persone “in mobilità”, il quadro reale
era dato da: 1.400 persone realmente in
servizio (606 in EniChem, 465 in quello
SNIA e 329 in “altre”); 1.106 persone in
cassa integrazione e/o in mobilità (892
in EniChem e 214 in “altre” società”);
1.144 posti di lavoro erano, di fatto,
andati perduti (928 in EniChem e 216
in “altre” società)4”. Da quanto riportato si desume che la scarsa chiarezza
in merito agli investimenti effettuati è
stato uno dei tratti caratterizzanti dell’Accordo, soprattutto considerando che
l’Enichem ottiene finanziamenti per 15
imprese di sua proprietà, anche se solo
8 sono quelle in attività. Nel consuntivo
sull’occupazione al 30.04.1996 si fanno
apparire in vita aziende cessate o pronte
a divenirlo (EniChem Fibre, Nuova Chimica Ferrandina, Blucover, Italcompositi, Fileteni e Carbon Valley), alcune delle
quali hanno assunto personale Enichem
e usufruito di finanziamenti per poi chiudere. Ancora negli ultimi documenti si fa
riferimento sull’attività di promozione
dell’Enichem al fine dell’insediamento
di nuove imprese; come quella di 71
imprese [di cui 25 ammesse dopo selezione] che avrebbero potuto investire
1.250 miliardi circa di lire per 5 mila addetti, ma di questa l’unica realtà è quella
dell’Ergom, poiché come si legge ancora
nella relazione della Commissione d’inchiesta, sorgono più domande sui reali
rapporti tra l’Eni e le 71 aziende, se si
considera che non sono poche le aziende tra le 25 selezionate “che non hanno
completato l’istruttoria con le banche o
non hanno fornito garanzie sufficienti
per essere ammesse ai benefici delle
leggi agevolative”5.
In realtà ciò che si determina è il progressivo disimpegno dell’Enichem dalla
Val Basento, a partire dalla dismissione
delle sue produzioni a favore del gruppo
SNIA. All’inizio degli anni ’90, infatti,
la grande illusione è rappresentata proprio dall’insediamento della SNIA, che
nel sito di Pisticci avrebbe come obiettivo di concentrare tutta la produzione del
Mezzogiorno di filo poliamminico. Per
questo istituisce anche un centro di ricer-
17
politica e società
ca che impiega circa 80 unità. Inoltre, attraverso la controllata
CAFFARO, acquisisce la produzione del film di imballaggio
per uso alimentare. Nel corso degli anni ’90, anche a seguito
della crisi mondiale delle fibre, la SNIA con la sua controllata
NYLSTAR, avvia una joint venture con la francese Rounc
Poulenc ma senza particolare successo. Ha inizio, infine, una
politica di dismissione continua e progressiva verso i paesi
dell’Est Europa, in particolare Polonia e Slovacchia, insieme a
politiche d’acquisizione in altri settori che alla lunga si rivelano fallimentari sul piano economico.
In Italia, nel giro di pochi anni, la SNIA passa da 3 mila
a 220 dipendenti, “senza colpo ferire” (Mega), chiudendo
tutto quello che c’era da chiudere al Nord, Cesano Laghetto e Vareo (Milano) e depotenziando ulteriormente gli
impianti di Pisticci. In quest’ultimo caso approfitta poi del
bacino di lavoratori provenienti dall’Enichem, molti dei
quali in possesso dei requisiti per agganciarsi alla pensione, per fare ricorso alla mobilità. La lunga agonia arriva
fino ai mesi recenti quando si decide la chiusura dello
stabilimento Nylstar 1 di Pisticci (113 addetti), mantenendo in vita solo lo stabilimento Nylstar 2. In Nylstar 1 era
prodotto un tipo di filo definito speciale (sempre per uso
tessile), a più alto valore aggiunto, che comunque già negli
ultimi anni aveva visto ridimensionate le sue capacità produttive in uno scenario di forte criticità per il settore.
18
p
Lo stato delle aree industriali di Pisticci e Ferrandina
Attualmente tra le due aree industriali di Ferrandina e Pisticci sono localizzate circa 50 aziende per un’occupazione
complessiva di circa 1.500 addetti. L’area di Pisticci ospita
in prevalenza aziende del comparto chimico, mentre quella di Ferrandina ospita aziende di comparti diversi come il
metalmeccanico. In verità sembra che tutte e due le aree, ma
questo vale in particolare per Pisticci, stiano perdendo la loro
vocazione di polo industriale di alto valore per diventare sempre di più delle semplici aree manifatturiere. Come afferma di
nuovo Mega, “quest’area industriale, pur essendo tra quelle
meglio infrastrutturate, si sta trasformando in una zona PAIP,
un po’ come tutta l’Italia. Un’area destinata ad ospitare la
media e la grande industria, ad alto valore aggiunto, si è trasformata in un’area che ospita industrie povere, di tipo manifatturiero, dove l’unico elemento di convenienza era divenuto
già negli ultimi anni il costo del lavoro, ora neppure sufficiente
perché con le delocalizzazioni in atto nei paesi dell’Est Europa
e del Sud Est Asiatico, o si ripensa in grande o altrimenti ci
sarà un decadimento lento quanto inesorabile”.
La situazione attuale, dunque, sul piano occupazionale e sul
numero delle imprese presenti, non è certamente quella che
si immaginava solo qualche anno fa. Di fatto, l’intera area ha
perso negli anni la sua vocazione industriale per divenire nel
p
migliore dei casi un’area manifatturiera tradizionale, priva
cioè di altre funzioni come quelle di ricerca, dove pure non
mancano i casi d’impresa che hanno effettuato investimenti e
per questo garantito sviluppo e tenuta dell’occupazione. Tra
queste alcune aziende che si sono insediate alla fine degli anni
‘80, le quali hanno effettuato investimenti e si sono consolidate, una tra tutte la multinazionale Politex, leader nella produzione del tessuto non tessuto per uso industriale e stradale, che
sta ampliando lo stabilimento con un investimento di circa 145
miliardi delle vecchie lire e che occupa attualmente 120 addetti, cui se ne dovrebbero aggiungere altri 30-40. In questo caso,
bisogna anche sottolineare che un grosso contributo all’investimento è venuto proprio dai fondi non utilizzati nell’ambito
dell’ultimo bando Val Basento, attraverso una delibera specifica della Regione Basilicata. L’altro caso degno di segnalazione, anche perché la società in questione non ha ottenuto alcun
finanziamento pubblico, è la Nais Matshuscita, una multinazionale giapponese che opera nel campo dell’elettronica e che
di recente ha avviato nello stabilimento di Pisticci una nuova
linea di produzione per laminato d’uso elettronico.
Sempre nel comparto chimico le situazioni più o meno
positive, che non presentano cioè problemi nell’immediato,
sono quelle delle società C.F.P. Flexible Packagink, ex SNIA
(che riunisce di fatto la Caffaro s.p.a., la FAPAK e la Embleme
Future), ora di proprietà di un fondo comune d’investimento
inglese. Lo stabilimento, che ha sede anch’esso nell’area di
Pisticci, produce film per imballaggi ed ha un organico di circa
120 addetti. Altre aziende che risultano al momento piuttosto
solide, non solo sul piano dell’occupazione, ma su quello delle
commesse sono la Coopbox (vassoi per suo alimentare) e la
Pactive (materiale d’imballaggio). L’ultima azienda che ha in
qualche modo avviato la produzione è la piemontese LAES,
che opera nelle produzioni dei profilati in plexigass. L’azienda si è insediata in alcuni capannoni della ex INCA (ex Dow
Chemical) e di recente ha lanciato un bando di formazione per
15 unità.
Le crisi aziendali più recenti
Negli ultimi anni il sito di Pisticci è stato investito nuovamente da crisi aziendali spesso destinate a tramutarsi in
chiusura definitiva delle attività. Il problema non è tuttavia
rappresentato da una crisi delle produzioni chimiche, o non
interamente, quanto dall’effetto delle delocalizzazioni verso
l’estero di queste produzioni, Cina e paesi dell’Est Europa in
particolare, paesi nei quali il costo del lavoro è oggi infinitamente più basso. “La Nylstar ci mostrò prima della chiusura
dello stabilimento come a fronte di 20 Euro ora per un lavoratore in Italia, lo stesso costo fosse di 0,9 Euro in Cina” (Mega).
politica e società
Il destino degli stabilimenti presenti in Val Basento è, inoltre,
strettamente legato alle scelte che si profilano a livello di
gruppo, trovandosi in quest’area perlopiù unità decentrate che
dipendono interamente da società nazionali o estere. Bisogna
poi considerare ciò che è avvenuto a livello industriale negli
ultimi anni, poiché nel caso della chimica italiana si può forse
parlare più direttamente della scomparsa del comparto più che
del suo declino.
In questo modo, la SNIA ha dimesso in Val Basento quelli
che considerava i suoi settori marginali, ha così venduto ad
un Fondo Comune d’Investimento la Caffaro, adesso C.F.B.
(produzione film d’imballaggio). Quest’ultima vorrebbe effettuare nuovi investimenti in Lombardia e ad Ottana, sfruttando
l’Accordo di Programma che le ha consentito di chiudere un
reparto importante ad Acerra e il vecchio stabilimento in Sardegna. La Filcea CGIL ritiene invece che questi investimenti
potrebbero realizzarsi anche in Basilicata, poiché come la
Sardegna è regione dell’Obiettivo 1. In assenza di questi investimenti, per stessa ammissione della Filcea, la situazione
dello stabilimento C.F.B. di Pisticci diventerebbe critica, fino
al rischio della chiusura.
Nel frattempo è andata via anche la Dow Chemical, con
la chiusura dell’ultima grossa polimerizzazione presente nel
sito, quella del pet (polimelo teftalato per bottiglie) con ripercussioni molto negative per la società Tecnoparco, che forniva
le utilities, in quanto gli impianti di polimerizzazione presuppongono un utilizzo elevato di energia e di vapore. In questo
modo, la SNIA che nel 1993 aveva ancora in Val Basento un
organico di 630 dipendenti (quelli delle società Nylstar, Caffaro, Snia Ricerche, FAPCA, Embleme) è oggi quasi completamente scomparsa. I segnali più evidenti sono cominciati a
maturare dal 1996 quando l’Eni ha dismesso una serie di produzioni di Nylstar, ha ridotto l’impiego di ricercatori presso il
centro ricerche ed ha ceduto l’INCA alla Down Chemical, che
a sua volta ha chiuso nel 20026.
La SNIA Ricerche, acquisita di recente dal Gruppo Ergom
ha avviato un piano di ristrutturazione che ha portato all’uscita
di un folto numero di ricercatori, tanto che ad oggi il centro
ha un organico che non supera le 20 unità. Di chiusura si deve
parlare anche per la P.N.T ex Pirelli7 di Ferrandina, con la
collocazione in cassa integrazione straordinaria e in mobilità
di tutti gli 80 dipendenti, e che il recente acquisto dello stabilimento, per 5 miliardi di lire, da parte di un imprenditore locale, tale Marella, non sembra essere avvenuto nella prospettiva
di un rilancio dell’azienda, vista anche l’attività di dismissione
degli impianti di produzione.
Anche tra le aziende ancora oggi attive non sono mancati
piani di collocazione in mobilità di parte della manodopera.
Così l’ERGOM ha collocato in mobilità 60 dipendenti e dopo
19
politica e società
averla acquisita ha chiuso anche la SAFIPLAST (manufatti in resine rinforzate), la stessa NICE ne ha collocati altri
50, pur assumendone dei nuovi, ed infine Tecnoparco, circa 40. Critica anche la
situazione della DROP 3 - Novatex Italia
(produzione filo cucirino da fibra) che ha
collocato tutta la manodopera in mobilità. A queste espulsioni recenti si deve
poi aggiungere il bacino storico degli ex
lavoratori Enichem, circa 450, alcuni dei
quali sono in mobilità ormai da 20 anni
dopo lunghi anni di ricorso alla cassa
integrazione straordinaria, e molti dei
quali con età superiore ai 50 anni.
I rapporti con il distretto
del materano
Lo sviluppo del distretto del mobile
imbottito non ha determinato effetti allocativi nelle aree industriali di Pisticci
e Ferrandina. Per ciò che riguarda le
produzioni e le lavorazioni dell’indotto (produzione di poliuretano espanso
ed altri prodotti di materia plastica;
trattamento e lavorazione delle pelli),
le aziende coinvolte sono solo due. La
più nota è probabilmente la Calbe Sud,
che nasce inizialmente per il trattamento
pelli e che di recente ha riconvertito la
sua produzione a favore della pelletteria
e poi nuovamente per il settore dell’imbottito ma con riferimento ad aziende
statunitensi del settore. Nata nel 2001 da
una joint venture tra il Gruppo Mastrotto
e quello Calia, per la lavorazione delle
pelli da divano, l’azienda è stata rilevata
di recente completamente dal Gruppo
Mastrotto. Se l’azienda nasce per rifornire il mercato locale dell’imbottito
del distretto, i volumi non hanno dato
ragione dell’investimento poiché questi
si sono collocati sempre al di sotto della
capacità produttiva, anche considerando
che il Gruppo Natuzzi ha proprie concerie. Come sostiene Girasole, responsabile di zona della Filcea, “inizialmente
si era pensato ad una riconversione, per
arrivare a certi volumi, ma l’azienda,
20
ad un certo punto, era arrivata sull’orlo
della chiusura. Poi l’azienda con l’aiuto
della società Pragma di Matera è riuscita
a rendere l’organizzazione più efficiente,
ed oggi Mastrotto dopo aver registrato
alcuni problemi in alcuni stabilimenti
del Veneto (di natura ambientale ma dovuti all’obsolescenza degli impianti) trasferirà qui una conceria che lavorerà per
il mercato americano, stando all’accordo
commerciale con un gruppo statunitense,
che dovrebbe garantire 4 milioni di piedi
quadri di pelle, a fronte di un milione di
piedi prodotti dalla Calbe”.
La seconda azienda che opera nell’ambito delle produzioni del comparto
chimico è la Pactiv, circa 30 dipendenti,
dedita alla produzione di film a bollo per
uso imballaggio utilizzato dalle aziende
del mobile per l’impacchettamento dei
divani. L’altra azienda del comparto chimico collegata al distretto materano è la
SIP (Società Italia Poliuretani) del Gruppo Orsa con circa 40 addetti, produttrice
di poliuretano per alcune aziende del
distretto, localizzata però nell’area industriale di Iesce (Matera), il cui insediamento è stato favorito dalla convenienza
ad avere localizzata una produzione che
per i volumi finisce per incidere molto
sui costi di trasporto.
Il bando di reindustrializzazione
La reindustrializzazione della Val Basento è uno dei capitoli inseriti nell’intesa
istituzionale di programma siglata tra la
Regione Basilicata e il Governo Nazionale il 5 gennaio 2000. L’intesa oltre a fare
riferimento all’Accordo di Programma del
1987, fa riferimento anche alla delibera
del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) del 30
giugno 1999, con la quale le risorse non
utilizzate nell’ambito dell’Accordo sono
state messe a disposizione della nuova
intesa (per complessivi 226 miliardi, di cui
14 per il varo dell’interporto di Ferrandina).
All’epoca dell’intesa, l’Assessore regionale all’industria in carica, Carlo Chiurazzi,
p
politica e società
p
affermava che “lo sforzo della Regione in
questo momento è finalizzato a proseguire
un allargamento dei vantaggi. Perciò sono
stati chiamati in causa gli istituti di credito
del territorio e Sviluppo Italia, ma anche
i sindacati per creare forme di flessibilità
compatibili. Non secondario il ruolo assunto dal Consorzio Industriale, che dopo
aver raddoppiato la capacità della centrale
elettrica per fornire elettricità a costi ancora
più allettanti sta ammodernando l’area”8.
Il bando che si profila all’orizzonte
prevede per le aziende aggiudicatrici dei
finanziamenti, il riassorbimento di una
quota dei lavoratori posti in mobilità, allora il riferimento era ad un bacino di 400
unità. A tal proposito sempre Chiurazzi
affermava, nell’articolo prima richiamato,
che “è necessario che si sviluppi una ricetta occupazionale che superi almeno le
mille unità. Stiamo lavorando per mettere
a punto criteri e parametri che stimolino
l’insediamento di quelle imprese che producono maggiore occupazione”, ma tenendo conto anche della qualità delle attività e
di quelle finalizzate al rafforzamento delle
filiere già esistenti sul territorio (chimica,
meccanica e salotto). In questi mesi l’allora
Presidente del Consorzio, Nicola Savino, si
Calanchi lungo la valle del Basento
muove alla ricerca delle nuove imprese da
insediare nell’area. Il Ministero del Tesoro
afferma però che i fondi saranno resi riutilizzabili solo con l’intesa di programma e
con bando pubblico e non solo per le imprese individuate dal Consorzio Asi di Matera. In realtà è forse proprio in questa fase
che le scelte si rivelano errate, soprattutto
quando si decide di abbandonare la strada
che puntava a favorire un progetto di reindustrializzazione basato sulla specializzazione produttiva propria dell’area, a favore
di una generica attrazione di quelle imprese
che presentano investimenti di più facile e
immediata realizzazione. In una prima fase
- sostiene Giannino Romaniello, Segretario
Regionale della Cgil - “si era pensato di sviluppare una politica insediativa comune
per il Contratto d’Area della provincia di
Potenza e il bando Val Basento, che puntasse a privilegiare la logica delle filiere
produttive. Poi questa direzione è stata
lasciata e ci è dovuti confrontare con i
singoli progetti d’impresa che erano pervenuti poiché qualcosa non ha funzionato nell’attivià di marketing da parte degli
organismi preposti. Si era pensato anche
per il bando della Val Basento a quelle
aziende che avrebbero potuto completa-
re il settore dell’arredamento più vicino
a quello del mobile imbottito. Alla fine
ci si è confrontrati con l’esistente e
questo era composto in parte di aziende
che offrivano servizi alle imprese, molte
delle quali attraverso call center”.
La pubblicazione del bando avviene
nell’Aprile del 2000. Il bando prevede
finanziamenti per investimenti non inferiori a 6 miliardi, finalizzati alla costruzione di nuovi impianti produttivi e per
gli interventi di ampliamento, ammodernamento, ristrutturazione, riconversione
e riattivazione di impianti già esistenti.
Per l’attuazione del bando è costituito
un Comitato di gestione composto dal
presidente, da un rappresentante del ministero del Tesoro e dal presidente, o suo
delegato, del Consorzio ASI. Delle venti
e passa aziende che sarebbero dovute
entrare in produzione o che avrebbero
perlomeno dovuto terminare le opere
di fabbricato, le uniche finora entrate in
produzione sono la Orsa Sud, la Main
e la Bripla Sud. Altre come Biosearch,
OR.MA., Informa, Med.Net e Soften in
fase di realizzazione. Tutte le altre hanno
conosciuto o la revoca del finanziamento o
il preavviso di revoca, tra queste quelle che
21
politica e società
prevedevano l’attivazione di call center.
Questa situazione è stata denunciata di
recente dallo stesso Consorzio ASI di
Matera, che con una conferenza stampa ha illustrato i dati delle aziende che
effettivamente hanno investito. Angelo
Minieri, Presidente del Consorzio, nella
conferenza stampa di presentazione dei
dati ha affermato che “andare avanti
così è completamente inutile, in queste
condizioni ci vuole solo un becchino per
seppellire definitivamente le speranze di
ripresa industriale dell’area”.
La Orsa Sud, dell’imprenditore lombardo Gorla, lavora da molti anni nel
campo della componentistica auto, motivo che lo ha condotto per la vicinanza
degli stabilimenti Fiat ad insediarsi in Val
Basento. L’azienda che produce tessuto
gommato per rivestimenti interni, dopo
un breve periodo è stata risucchiata dalla
crisi del gruppo Fiat, azienda dalla quale
riceveva e riceve le uniche commesse,
anche se le sue produzioni sono dirette
all’indotto dell’Alfa di Pomigliano. Ha
così lavorato negli ultimi mesi impiegando poche unità e a giorni alterni, collocando tutto il resto della manodopera
in cassa integrazione. L’azienda che prevedeva a regime nel 2002 l’occupazione
di 39 unità ha raggiunto i 78 addetti, un
numero di addetti superiore alle reali necessità produttive. Oggi il bilancio della
società, il cui responsabile locale è un ex
dirigente Fiat, è in rosso. Il personale è
stato assunto per metà con contratto di
formazione e lavoro e per l’altra metà
a tempo indeterminato e tra questi una
piccola quota di lavoratori iscritti alle
liste di mobilità. L’azienda che si trova
nella nuova zona industriale di Pisticci,
fuori dall’area Enichem, ha dichiarato di
recente alle organizzazioni sindacali che
l’organico ideale è quello di 39 unità,
ovvero quello previsto inizialmente dal
bando. L’esubero di personale sarebbe
ricollocato in una nuova iniziativa che
la Orsa starebbe realizzando con la
MAIN, con la quale ha costituito una
società paritetica denominata OR.MA.
22
Si tratterebbe quindi nient’altro che di
un travaso di manodopera che oggi è in
larga parte inutilizzata. Tramite la Pragma Consult di Matera la stessa azienda
starebbe inoltre per acquisire un ruolo
per insediare in società con la ex Calbe
Sud ora Apelle un’azienda dedita al taglio e alla lavorazione delle pelli per il
settore automobilistico, una produzione
ad alto valore aggiunto molto vicina a
quella della pelletteria.
La OR.MA. s.r.l. che nel mese di marzo era nella fase di start up produrrà la
stessa tipologia di prodotto della MAIN
(tessuto non tessuto per uso sanitario
tipo pannolini, assorbenti, altro materiale ospedaliero, ecc.) ma con una tecnologia differente, ancora a più alto valore
aggiunto, rispetto alla MAIN. L’azienda
ha cominciato già ad effettuare le prime
assunzioni, tra queste 3 dei 5 manutentori della Nylstar 1 e dovrebbe assumerne
nel complesso circa 40.
Notevolmente diversa è la situazione
della Main S.p.a. (tessuto non tessuto per
uso sanitario), poiché questa rappresenta
una realtà abbastanza solida, dove sono
occupate all’incirca 50 addetti. L’azienda lavora molto su prodotti specialistici,
in quelle che sono nicchie di mercato
del settore sanitario. Lo stabilimento è
caratterizzato dalla presenza d’impianti
molto automatizzati che lavorano su
ciclo continuo per 6 giorni la settimana.
Anche in questo caso l’assunzione del
personale, tra cui molti tecnici qualificati, è avvenuto per metà con contratto
di formazione e per metà con contratti a
tempo indeterminato.
La Biosearch s.p.a. nasce da un gruppo di ex dirigenti della Dow Chemical di
Pisticci. Si tratta di un’industria farmaceutica la cui produzione, un principio
attivo per un antibiotico, servirà soprattutto a rifornire il mercato statunitense,
dopo l’accordo intervenuto tra questa
società e un gruppo americano. Secondo
Girasole si tratta di un impianto chimico
a tutti gli effetti e di dimensioni piuttosto
rilevanti. Da circa due anni il personale
p
più specializzato che l’azienda ha già
assunto sta lavorando presso i laboratori
della Tecnoparco per mettere a punto
una serie di analisi (tra questi qualche
laureato in regione, ma molti, provenienti da fuori e laureati perlopiù in
chimica e tecnologia farmaceutica). Per
il personale che dovrà condurre gli impianti l’azienda ha invece predisposto un
bando di formazione per 15 unità anche
se quelli assunti saranno solo 8. Complessivamente lo stabilimento occuperà
circa 50 unità. Lo start up è previsto per
metà aprile a conclusione dei lavori di
costruzione dell’impianto previsti per
fine marzo.
Da circa un anno è poi entrata in
funzione la Bripla Sud (pannelli di poliuretano per uso isolamento termico)
che ha sede nell’area industriale di Ferrandina. L’azienda, originaria di Biella,
ha deciso di localizzarsi in Val Basento
per espandersi nel mercato meridionale,
anche perché il prodotto si presenta con
caratteristiche di voluminosità che incidono molto sui costi di trasporto. A fine
marzo occupava circa 30 dipendenti e
non presentava problemi produttivi o di
altra natura (la produzione è organizzata
su due turni). Le altre aziende che sono
in qualche modo legate al bando Val
Basento sono la ALEX s.p.a, indicata
nel bando come Benedetto Engineering
s.r.l.. L’azienda è nata su iniziativa di
un imprenditore di Bernalda, Bendetto,
la cui impresa produce componentistica
per serramenta. Si tratta di una piccola
azienda artigianale che nel giro di qualche anno si è ingrandita fino ad occupare
oggi 70 dipendenti più altri 70 distribuiti
in altre tre cooperative. Il suo mercato di riferimento è soprattutto estero
(Spagna, Francia, Inghilterra). L’iniziativa promossa in Val Basento riguarda
invece l’estrusione dell’alluminio per
la produzione dei profilati per finestre.
Il progetto nasce da una società con un
imprenditore del Nord, inizialmente con
una quota del 50% delle azioni e poi del
20%. Attualmente lo stabilimento, che
p
politica e società
sorge nella zona industriale di Pisticci,
occupa 13 addetti.
Dai finanziamenti non utilizzati
dalle prime imprese ammesse al bando ha attinto la SOFTEN, un’impresa
anche questa di Biella, che produce
tessuto non tessuto per pannelli impiegati nell’edilizia (controsoffittature
ed isolamento termico), ma lo stesso
materiale può essere utilizzato anche
per la produzione di trapunte. A fine
marzo occupava circa 10 unità.
Come abbiamo avuto modo di osservare, tra le aziende che non hanno
avviato nessuna attività ci sono quelle
che avrebbero dovuto realizzare dei
call center, a conferma delle perplessità che pure erano già emerse nella
fase iniziale di stesura del bando, circa l’organicità dei progetti
“...bisognava puntare ad presentati con le caratteriindustriali dell’area.
esempio sullo sviluppo del- stiche
Mega afferma che una
l’elettronica... Un discorso di parte del sindacato, “ha
filiere produttive e di spe- delle responsabilità, per
cializzazione che non è stato l’appiattimento sul gruppo
Snia. Il bando Val Basento
preso in considerazione.” nella prima edizione era
fortemente appiattito sulle
produzioni SNIA. Si trattava di attrarre la POMPEA CALZA, che avrebbe
assunto 200 unità, ma alla fine le cose
sono cambiate con la prospettiva degli investimenti nei paesi dell’est (…)
il discorso della filiera si è perso ed
allora è cominciato a prevalere quello
di non perdere comunque i soldi ma
senza fare marketing del territorio.
Basti solo pensare che manca l’Osservatorio chimico che doveva decollare
già 4 anni fa, perché non c’è la delibera della provincia di Matera”. Così
nell’edizione successiva del bando,
quella definitiva, il discorso della filiera è completamente scomparso. Secondo Mega, il bilancio è fallimentare
“perché questa è un’area dove non
potevi mettere l’azienda di servizio.
Quest’area ha bisogno di industrie,
bisognava puntare ad esempio sullo
sviluppo dell’elettronica, anche in seguito agli investimenti della Matshuscita. Un discorso di filiere produttive
e di specializzazione che non è stato
preso in considerazione. Gli investimenti da ammettere dovevano essere
mirati, non a pioggia, e quindi andavano delineati, le specificità e rispetto
a questo andava fatta la riconversione.
Nel centro Italia, ad esempio, si è delocalizzata la chimica farmaceutica, e
la Val Basento poteva rappresentare
un’area di forte attrazione. Ci sono
probabilmente anche responsabilità
della Regione, ma in primo luogo il
fatto vero è che sono mancate le imprese pronte ad investire e tra queste
soprattutto quelle locali”, pur considerando, come fa Romaniello, che forse
ha pesato anche “la condizione più
generale d’incertezza delle aziende ad
effettuare investimenti in questa fase”.
Eppure, per ritornare al maggior
limite indicato da Mega, sembra che
i programmatori regionali si siano
comunque accorti della necessità di
un indirizzo più qualificato delle iniziative che in Val Basento dovrebbero
insediarsi, se come si afferma nell’Addendum del DAPEF 2004-2006,
il programma di rilancio del polo industriale della Val Basento deve puntare, “sull’innovazione tecnologica e
l’evoluzione in chiave hi tech delle
vocazioni produttive locali, mediante
azioni di attrazione di investimenti
e sostegno allo start up di iniziative
ad alto profilo tecnologico, nel settore della biochimica, ingegneria
genetica e farmaceutica, mediante un
processo concertativo che coinvolga
tutti gli attori locali rilevanti, il più
possibile aderente alla metodologia
già sperimentata con il Programma
Val d’Agri”9. Osservazioni che hanno
preso proprio spunto dall’investimento
della società Biosearch nella zona industriale di Pisticci, attiva nella produzione di antibiotici e genetici (ingegneria
genetica e bio-farmaceutica).
23
politica e società
Il Consorzio Val Sud
Se la chiusura dell’Inca avviene piuttosto in sordina, senza cioè che i lavoratori si siano mobilitati per cercare strade
alternative alla chiusura – bisogna inoltre
considerare che la maggiore parte di essi
erano vicini al pensionamento – e con
l’azienda che interviene, in modo forte,
sul piano dell’indennizzo economico,
nel caso della Nylstar le vicende hanno
assunto un esito diverso. All’opposto
di quello che si verifica con l’INCA,
i lavoratori della Nylstar attuano blocchi, manifestazioni, in alcuni casi con
incidenti all’interno della fabbrica,
sollecitano l’opinione pubblica, chiedono il consiglio comunale aperto a
tutti i comuni dell’area, richiedono la
presenza del Presidente della Giunta,
tutto questo, come ricorda Mega, perché
il Ministero si attivi, come la Regione,
per trovare i finanziamenti per un nuovo
Contratto di Programma. Uno strumento
più snello che prevede la presentazione
del progetto da parte di un Consorzio e
non l’emanazione di un bando, per avere
una strada preferenziale per la delibera
CIPE. Del resto sempre Mega ricorda
che di recente la società Sviluppo Italia ha istituito un nuovo strumento per
attrarre aziende estere, come quelle farmaceutiche, che stanno avendo problemi
nelle loro delocalizzazioni nei paesi dell’Europa Centro Orientale.
L’idea del Consorzio Val Sud nasce,
dunque, dalle vertenze sindacali che si
sono aperte negli ultimi mesi in Val Basento e principalmente da quella Nylstar,
affinché il Ministero delle Attività Produttive e quello del Lavoro assumano
degli impegni chiari circa il futuro dell’area industriale in questione. Sempre
Girasole afferma, a questo proposito, che
“sono state messe insieme le vertenze e
l’impegno di tutti a portare avanti azioni
di marketing del territorio. Per prima si
è affacciata la Soften, che voleva entrare
nell’Accordo di Programma, ma per una
questione che non è ancora dato sapere
24
è successivamente rimasta esclusa. La
Soften era interessata ai capannoni della
Nylstar che considerava però sopravalutati, ma probabilmente il vero motivo era
quello che in quel periodo erano ancora
presenti i lavoratori che ancora erano
per una soluzione diversa della crisi, di
quella che poi ha condotto alla cigs e alla
mobilità per tutti quelli di Nylstar 1”10.
Oggi si deve registrare l’interessamento di due imprenditori veneti, uno
dei quali possiede la produzione di pannelli in pvc per il settore della nautica e
l’altro che ha rilevato il marchio “Ferri”
che vorrebbe aumentare la produzione
di materie plastiche per il settore dei
“casalinghi”. La prima azienda si dovrebbe insediare presso lo stabilimento
Nylstar con un organico di 100-120 unità, andrebbe cioè ad assorbire la platea
dei lavoratori collocati in cassa integrazione, mentre l’altra andrebbe presso
l’ex stabilimento dell’INCA con 50-60
dipendenti. In questo Consorzio si è inserita anche la Laes. La Soften è, invece,
rimasta fuori ma con l’opzione di poter
entrare in qualsiasi momento nel Consorzio. Il Consorzio dovrebbe presentare
entro il 30 aprile il progetto definitivo,
ed entro questa data il CIPE dovrebbe
deliberare l’apposito finanziamento. In
questo contesto, tuttavia, sarebbe auspicabile una nuova intesa quadro tra Governo e Regione, che anche sulla base
dei risultati finora conseguiti nell’ambito
della programmazione negoziata, sappia
individuare gli strumenti, le aree e i progetti imprenditoriali più funzionali allo
sviluppo regionale, per conseguire risultati migliori sul piano dello sviluppo e
dell’occupazione.
Note
1 L’ERGOM ha successivamente rilevato lo stabili-
mento Compla Sint dell’indotto di primo livello di
Melfi, sempre dedito alla produzione di componenti
in plastica dura per l’auto (parafanghi, cruscotti,
plance, ecc.).
2 Il documento dal titolo Documentazione e considerazioni finali sull’attuazione dell’Accordo di
Programma della Val Basento è stato pubblicato nel
p
Bollettino Ufficiale della Regione Basilicata del 28
marzo 2000, pp. 3069-3108.
3 Vedi in particolare p. 3081 del documento della
Commissione d’Inchiesta.
4 Vedi p. 3096.
5 Vedi p. 3100.
6 Lo stabilimento Dow Chemical di Pisticci dedito
alla produzione del polimero per uso bevande, si occupava anche della trasformazione in bottiglia della
materia prima da destinare alle aziende di imbottigliamento. Per abbattere i costi di trasporto la stessa
cominciò a incentivare l’acquisto degli impianti di
formatura alle aziende fornendo solo il polimero.
Successivamente, nell’ottica delle razionalizzazione,
anche la sola produzione di polimeri è cessata con
la chiusura sia dell’impianto di Pisticci sia di quello
di Ottana. Le unità collocate in mobilità sono state
circa 50 e con forti incentivi monetari da parte dell’Azienda, fattore che ha contribuito, e non poco, a
far passare sotto voce la chiusura dello stabilimento,
vista la volontà dell’azienda di non trovare soluzioni
alternative anche con il concorso delle organizzazioni sindacali.
7 L’investimento della Pirelli risale agli anni ’70.
Lo stabilimento sorto per produrre originariamente
pneumatici fu poi convertito alla produzione di nastri
trasportatori e fogli di gomma.
8 Da La Nuova Basilicata, “Val Basento, comincia il
futuro”, del 5 gennaio 2000.
9 Regione Basilicata, Giunta Regionale, Addenduma
al DAPEF 2004-2006, Gennaio 2004.
10 I dipendenti più giovani hanno usufruito della
cassa integrazione guadagni straordinari (cigs) per
1 anno, i più anziani, circa 40, della mobilità lunga.
Quelli più giovani hanno all’incirca meno di 35 anni
e alcuni dei quali sono stati assunti solo 4 anni fa,
molti per tramite del turnover, 24 mesi in contratto di
formazione e lavoro e successiva trasformazione del
contratto a tempo indeterminato.
Industria in
Val Basento
Unʼaltra
“falsa partenza”?
politica e società
p
Campania
il Reddito
di cittadinanza
ADRIANA BUFFARDI
Reddito di cittadinanza è un progetto ambizioso che presuppone una visione “ricca” del Welfare state nonché un impegno prioritario di risorse a livello nazionale, in un rapporto
corretto tra fiscalità generale e ridistribuzione della ricchezza
prodotta nel Paese. Ma le politiche del governo nazionale
hanno oggi altre finalità e tendenze sul piano fiscale, democratico e sociale, laddove per sociale si intende non interventi residuali assistenzialistici ma la garanzia all’esercizio di
diritti di base. Non a caso il Governo di Berlusconi riduce di
fatto le risorse destinate alle politiche sociali, e finora non ha
definito i liveas, cioè i livelli essenziali di assistenza validi
per tutto il territorio nazionale cui dovrebbe corrispondere
un adeguato riparto di risorse, mentre propone e pratica interventi “capricciosi” e decontestualizzati di anno in anno
diversi (mutuo per le case delle giovani coppie, sussidio per
il secondo nato ecc.) assegnando per giunta risibili risorse e
calpestando competenze di regioni ed enti locali.
Non solo, ma per le fasce a maggior disagio economico e
sociale il Governo ha cancellato il RMI, annunciato, meglio
evocato, un ambiguo reddito di ultima istanza (?), neppure
affrontato la ridefinizione dell’indennità di disoccupazione
come dell’insieme degli ammortizzatori sociali. In questa
situazione di stallo, la Giunta Regionale della Campania ha
rotto gli indugi e definito una proposta di legge sul reddito
di cittadinanza come avvio e sperimentazione approvata dal
Consiglio Regionale. Nella consapevolezza sia che dal livello regionale bisognerà passare a quello nazionale, sia che tale
misura dovrà riguardare una fascia di popolazione ben più
larga di quella che oggi possiamo coinvolgere in relazione a
risorse di bilancio regionale. Ma anche in una uguale consapevolezza che il disagio economico e sociale in una regione
come la Campania “non può attendere” e che le Istituzioni
pubbliche hanno da avviare delle risposte concrete.
La linea di sviluppo economico avviato in Regione produce degli effetti positivi in termini di crescita occupazionale.
Ma il gap enorme non può essere recuperato a breve e nella
nostra regione è evidente la relazione tra disoccupazione (o
occupazione a nero e precaria) – povertà – esclusione sociale.
Quindi reddito di cittadinanza partendo dalla fascia di maggiore esclusione sociale, e a più basso reddito. Compatibilità
di bilancio e anche valutazione di quanto pesi il circuito familiare hanno determinato due scelte: il riferimento al reddito familiare per definire la fascia che accede al beneficio, e il
tetto (350 euro mensili) per famiglia. Ma sono i componenti
della famiglia i richiedenti (anche più di uno per famiglia) e
sono rivolti agli individui gli interventi formativi e sociali.
Ecco un’altra novità del provvedimento: aver definito
“reddito di cittadinanza” l’erogazione monetaria e un pacchetto di servizi ed interventi: borse di studio per l’obbligo
scolastico e quello formativo, accesso prioritario a corsi di
formazione professionale o a misure per l’emersione dal lavoro nero, accesso gratuito ai servizi sociali e socio-sanitari,
agevolazione sui trasporti, gli affitti, per la partecipazione a
manifestazioni culturali.
Così come – in tanto dibattito tra famiglie “consacrate”
e di fatto – la legge assume l’indicazione netta per le famiglie anagrafiche, cioè i nuclei di convivenza scelti, mentre
riconosce pari diritto di accesso a residenti in Campania, da
cinque anni, sia italiani che extracomunitari.
Le risorse regionali stanziate ammontano per il primo
anno a 7.700 mila euro e quindi permetteranno a 20 mila
famiglie l’accesso al reddito, cioè all’erogazione monetaria
e al pacchetto di interventi e servizi che comunque fanno
riferimento ad altri capitoli di bilancio e quindi a risorse aggiuntive. Sono molte di più le famiglie in Campania collocate in quella fascia di reddito: il regolamento in approvazione
prevede per i beneficiari una selezione trasparente sulla base
della lettura del reddito (anche in relazione a indicatori di
consumo) e della composizione familiare.
La legge prevede anche l’istituzione di un osservatorio di
verifica e monitoraggio.
Infine la gestione del provvedimento è affidata ai comuni
nei piani di zona sociali. Questa opzione per il decentramento è stata certo dettata da esigenze di efficacia e “prossimità”,
25
politica e società
di trasparenza e controllo. Permette, tra
l’altro, di gestire in modo integrato
diversi interventi destinati ai componenti del nucleo familiare e favorisce
misure di accompagnamento a percorsi
di inclusione sociale. Ma è anche opzione prodotta dall’impegno grande
che abbiamo profuso in questi anni
come Regione nella programmazione
sociale in attuazione della legge quadro
sull’assistenza (la 328/2000) approvata
dall’ultimo Governo di centro/sinistra.
In Campania, infatti, abbiamo avviato l’attuazione della legge, all’indomani
stesso della firma di Ciampi nel maggio
2001, attraverso la definizione degli
ambiti territoriali, le linee di programmazione regionale, la pianificazione
territoriale, i criteri per l’accreditamento del privato sociale, una ridefinizione delle professioni sociali ecc. nella
finalità di costituire una rete integrata
di interventi e servizi. È stata una coraggiosa sfida, dato il divario forte in
termini di prestazioni e servizi sociali
della nostra regione rispetto ad altre e
tra zone della stessa regione. In un’assunzione di responsabilità (di obbligo)
26
p
del pubblico di garantire l’esercizio dei
servizi sociali abbiamo costruito una
grande sinergia tra Regione, Provincia
e Comuni, aprendo nello stesso tempo
alla co-progettazione con i sindacati e il
terzo settore.
I risultati ad oggi ci danno ragione,
sia per la crescita e diversificazione
dei servizi sul territorio, sia per la loro
qualità. Anche se il percorso avviato
presenta ovviamente criticità e zone
d’ombra, ma – ed è forse la cosa più
significativa – ha messo in moto potenzialità, disponibilità, risorse a livello
istituzionale e sociale. È a partire da
qui, come dall’impegno sulle politiche
educative, formative e del lavoro, che
vogliamo costruire nella nostra regione
un nuovo patto di cittadinanza.
Il provvedimento di sperimentazione
del Reddito di cittadinanza è parte decisiva di questo patto, proprio perché
determina/vuole determinare un percorso di inclusione sociale di chi è più
dispari e disuguale.
I Racconti
Un libro
mai scritto
VITO RIVIELLO
P
er un libro che non si deve o non si dovrebbe fare, un libro
ormai in ritardo inattuabile, inutile, un libro che non aggiungerebbe niente alla questione o se aggiungesse qualcosa apparirebbe come forma di nostalgia e di approssimazione sapienziale.
A questo punto potrei porre la penna nell’angolo delle penne che
iniziarono e terminarono anche una scrittura.
La persona che ha scritto queste poche parole a nome mio è
così gentile che spesso m’aiuta nei momenti in cui i miei affanni mi
impediscono letteralmente di scrivere o meglio di trascrivere, portando poi tutto il materiale verbale sull’ennesimo computer che
palpita muto. Sonoro in milioni di case del globo. Lei obbietta: «Io
non posso lasciare mai morire un libro, sono anch’io a scriverlo».
Sorriso accattivante.
Mi commuove come al solito il suo sguardo di ovvietà e le dico:«Lo
scriverò per te ma in forma molto ridotta, tanto sarà un libro fuori
commercio, titolo: il sud raccontato a Viviana».
Si compie un destino storico, si concludono forse in Europa i cicli
di emigrazione.
La frenesia del viaggio finisce con la contemplazione di un cimitero hippy.
Forse, “sud è questo orto di fiori sgargianti/ questo porto di mammole/ di cui non s’ode più il pianto”.
Le città fredde, inospitali, negatrici di valori che portano… Negano tutto, la rosa, il tempo, l’acqua. La salvezza sarebbe un elenco di
cose “eterne” da poter realizzare: il pane del forno a legna, il caffè
napoletano, l’acqua della fonte, il latte bovino, il senso dell’amicizia,
il culto dei vivi e dei morti, la memoria, una macchina umana senza
rivali.
Quanto costa il tempo perduto.
Anche per raggiungere l’amore ci vogliono sacrifici, si devono superare difficoltà quasi magiche. Il vizio è il serpente che distoglie
Orlando dalle vie praticabili del pieno sentimento: spesso l’amore si
nasconde nelle insidie, nell’inganno di visi gentili di venditrici di rose,
da vecchi calendari.
Ma il perno dell’amore è la virtù perché esso è reale come una
vigna, una casa e sopratutto nell’amore c’è come in una “matrioska”
russa altro amore, una catena d’amore che si consolida nel tempo
e non si spezza mai.
Un anello dietro l’altro, la serenata, la forte immaginazione notturna pari a un’evocazione, l’amore con gli occhi, un happening, che
neppure gli svedesi capiscono la passione, la tenacia, la tautologia
dell’amore.
Viviana è una ragazza di città, dipinge, va in discoteca, ha i suoi
miti come tanti giovani, però ha già una ritualità particolare che
abita tra la cultura raffinata e il viaggio mentale.
Lo sguardo con gli occhi di un passato non meglio identificato
da lei, perché non era nata all’epoca di una improbabile identificazione.
Le parlo: (lei era pronta ad ascoltarmi) «Tu non c’eri solo perché
non ti ho riconosciuta, ora posso dirti che c’eri».
Alle forme confuse e luminose della città il sud pur nella sua dispersione e depressione opponeva la tribù (il tribunale degli anziani,
le catene massoniche degli zii, le invincibili virago dette zitelle delle
prozie e delle cugine).
All’organizzazione del nord, il sud contrapponeva il vicinato, una
catena di braccia, cori di precisi rituali magici che si opponevano
al male tra odori di basilico e cipolla, sale sull’insalata, rosmarino
ecc…
Di quel sud non rimane niente.
Anche se tu avessi in altra immagine e con un’altra età
partecipato alle lotte per il risveglio della cultura meridionale e ti fossi innamorata, come accadeva in quei tempi tra
poeti, pittori, sociologi, del sud e le donne del nord di tutto il
mondo. Tu forse saresti ritornata col tuo uomo e coi tuoi figli,
alla ricerca di quei silenzi a rivedere quelle terre che avevi
dipinto in giorni indimenticabili e strani.
Avresti ritrovato solo cenere, polvere di storia con l’ondata migratoria.
Cosa rimane del sud? Il desiderio di solidarietà, il principio etico
27
r a c c o n t i
della socialità che smentisce uno dei tanti pregiudizi nei confronti
dell’uomo meridionale: esacerbato individualismo.
L’uomo meridionale non ha mai amato la solitudine, lo stile gotico del farsi astratto del concetto. Anzi per paura della solitudine,
consapevole d’una sua coatta marginalità, ha parlato con le cose.
La conoscenza delle cose, visibili e invisibili parte dalla necessità reale di conoscere il posto e la funzione delle cose: il chiodo, la vite, il filo
elettrico, il bagno con il lavandino che scorre, una scansia nuova…
La figura dell’amico è sempre viva; le storie di zio Ivo. Costruì un
ponte in una sola notte per permettere agli amici di raggiungere il
luogo della cena.
L’anima trabocca non essendo mai nell’uomo del sud al posto
giusto. Anima invadente, anima ch’esci da ogni dove, sali su tutti i
discorsi, ti posi nelle richieste, nelle suppliche.
Nel passato nel sud abbondava la chiacchiera, mentre negli uffici
del nord crepitavano battaglioni di macchine per scrivere, nel sud
s’alzava il coro possente ma sfrangiato della chiacchiera. Si sentiva
perfino il silenzio, “senti le nostre donne/ il silenzio che fanno…”
scrive Scotellaro che pure di chiacchiere “sonore” femminili ne sentiva ogni giorno, soprattutto da sindaco di Tricarico.
Adesso v’è una comunicazione viva.
Nei momenti di blak-out del discorso, quando i mass-media prevalgono su tutta la linea e perfino il vecchio caro libro viene relegato
in un angolo di casa, ecco una voce che cerca di rompere il silenzio
cibernetico dell’era atomica, un silenzio che va facendosi veramente
tale, asettico e spaziale. L’uomo del sud c’invita ad attaccarci alla
parola detta, viva, a un’oralità che sia la storia dell’uomo, mai do-mo
ma sempre in cerca del mistero, l’uomo della parola come segno
di vita.
Sono l’uomo che s’asciuga e si bagna/ per il tuo amore lascio
la pianura e vengo sulla montagna/ ho perso tutto/ il mio regno è
distrutto solo il mio cuore ha tanti denari/ per renderti i giorni meno
amari.
Viviana si era visibilmente commossa, non trattenendo la commozione pensava a quale epoca dovesse appartenere. Ora lo sapeva aveva scelto l’età del colore che è quella dell’amore.
Egon Schiele,
Ritratto dello scrittore Hans Flesch Brunningen,
disegno, 1914
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r a c c o n t i
Dizionario
VITO RIVIELLO
COMÒ
Il comò è un mobile moderno. I cassetti conservano i sogni di
una mamma: camicie stirate per il proprio uomo o figlio, antiche
lettere d’amore, una base di corredo prèt-a-portèr per un eventuale
matrimonio-lampo di una figlia, il risparmio estremo avvolto in un
foulard di sapore turistico.
Nei tempi passati il “figliol prodigo”, ovvero il “debosciato”, spesso di notte prendeva a scalare il comò per trarne qualche risorsa.
I “feuillettons” d’epoca narrano di una mamma che colpita dalla
furia omicida di un figlio degenere, scoperto nella flagranza di un
furto, si preoccupa, “vedi De Amicis”, del figlio assassino che fuggendo aveva sbattuto il ginocchio sul comò.
Oggi quel comò è stato spodestato dal troumò, perfino nell’Italia
Meridionale. In realtà il comò è migrato coi nostri emigranti verso
Amburgo, Torino Sidney e perfino Los Angeles o Denver, in Colorado.
Raccontava un emigrante in Australia che, ogni volta che osservava nel suo tinello il comò della nonna, cominciava a cantare
«partono i bastimenti».
Il comò oggi ha perso il suo carattere sacro e materno per diventare un ‘obgjet de memoire’. È diventato anche un oggetto d’arte
degno di Duchamp e di Dalì.
LO SGUARDO
Nella nostra civiltà dell’immagine, l’occhio ha perso la sua precipua funzione ‘privata’, ‘individualistica’, per diventare essenzialmente ‘sguardo’ o anche ‘punto di vista’.
In una provincia del centro-sud una donna fu accusata di ninfomania: «Perché non aveva occhi che per il marito di lei…». Si
accertò in seguito che la donna indicata alla pubblica ignominia era
pia e… miope. Ma la sua miopia le conferiva l’aria di Matha Hari.
Oggi l’occhio è computerizzato, non è più ‘a occhio nudo’.
È stato moltiplicato da plurime visioni sia interiori, metafisiche,
mistiche che da visioni esterne di tipo cibernetico e telematico.
TELEFONINO (al secolo cellulare)
Questo oggettino per le “posture italiche” che fa assumere al-
l’utente, più che con le telecomunicazioni ha a che fare con ‘l’aerobic
dance’.
All’inizio la postura archetipica del possessore di telefonino era a
dir poco triviale. E qui ci sovvengono dei celebri versi di Gioacchino
Belli quando scriveva: «Tuta io già lo sapevo/quello che all’omini/gle
sta tra li calzoni/quando li vedevo piscià pe li cantoni». In realtà la
posizione dei primi micro-telefonisti era buffa ed oscena.
All’improvviso si isolavano, si accartocciavano e sembravano dediti ad una minzione stradale crepuscolare. Poi si perdette gradualmente la ‘privacy’ delle posture, infatti pubblicamente si mimarono
cose da stanze in affitto, ammobiliate, di proprietà.
Uomini e donne che parlavano ai cellulari in pose da cucina, da
camera da letto, sbadigliando, grattandosi qua e là, muovendo gli
arti rimasti liberi, in una libertà incondizionata. Dopo tanto dinamismo, dopo tanto rimane gioendo e patendo, le posture dei parlanti
stradali si sono irrigidite in un solipsismo amaro, in una tetra solitudine burocratica. Si procede imperterriti dimenticando se stessi e
mai il cellulare attaccato all’orecchio. È il momento della postura
‘faraonica’ o ‘buddista’: estasi o ebetudine?
EXTRACOMUNITARIO
Per chi ha fatto il liceo Classico, una frase colpiva gli studenti,
una frase di qualche classico s’intende: ‘Extra moenia’. Qualche cosa
fuori le mura, fuori casa, fuori dal perimetro della propria esistenza.
Extra moemia significava la notte, la paura, il nemico, per cui la
parola extra per molti italici o italioti è rimasta come significato di
estraneità, di ‘altro da’.
Extracomunitario in effetti è un extra moenia senza però sapore
classico. È un fuori dal proprio sito o loco che sia. Qualcuno in lapsus irreversibili e incresciosi, diciamo vecchie zie malate di cefalee
circondariali, dice: «Un extraterrestre del Bangladesh».
L’AUTOMOBILE
L’automobile in Italia è nata come prolungamento del proprio
appartamento.
Le macchine attraversano piazze e strade, semafori e crocevie
come se fossero tinelli, salottini, saloni, studi e corridoi e perfino
29
r a c c o n t i
camere da letto.
I tassisti di Roma individuarono le stanze-macchine in una domenica di un x anno, chiamandole ‘domenicali’. Essi notarono come
provetti psicologi e sociologi le abitudini domestiche degli occupanti le automobili. Notarono, all’inizio con stupore,che gli ‘occupanti’ si
comportavano, a seconda dei momenti, come fossero in una qualsiasi stanza della loro abitazione.
Infatti ormai tutti conosciamo la ‘domenicalità’ del popolo degli
automobilisti. A tutti è dato scorgere nelle decappottabili, nelle monovolume, nelle coupé, la stessa vita familiare che si svolge nelle
case INA o popolari o nei quartieri residenziali.
Effusioni, dormiveglia, litigi, dialoghi, dichiarazioni, declamazioni,
articolazioni non meglio identificate. C’è sempre una frase che ribadisce il concetto sacro della macchina e che viene pronunciata
in ogni occasione festosa o di lavoro: «Scusate torno subito, vado a
spostare la macchina».
CAPRI
Capri è una conchiglia che si può vendere sulle bancarelle. È il
massimo esempio di natura minimalistica vivente.
Il caprese Costanzo Uotto ha raccolto nelle sue foto gli eventi e
le persone più straordinarie di Capri, riducendoli ad una dimensione estremamente familiare.
La moglie Titina ha racchiuso tutta la mediterraneità di Capri
in poche ricette gastronomiche. A Capri la storia si restringe in un
fazzoletto di terra o di mare, nel sorriso che il principe ha elargito
a Carmè, Carmè.
La storia si personalizza in pochi metri quadri e in poche onde,
c’è la tosse di Gorkyi, la bellezza di Greta Garbo, il piatto preferito di Gary Cooper, la storia di Dylan Thomas, le bizze peschereccie
di Picasso. Tutta la grandezza dei grandi è raccolta nella piccolezza
dell’isola. La sintesi del tutto è ‘l’insalata alla caprese, mozzarella e
pomodoro e nel totano con le patate’.
MANAGER
Molti credono che la parola manager sia di origine lombardo-veneta, che significhi, più o meno, menare le cose, per il meglio, naturalmente. È certamente il manager un uomo che mena le pecore o il
tracotante rivale o la sfortuna o la jella pura.
Ma meno di gusto se incontra la sfiga. È la cosa peggiore che
possa incontrare, anche se la incontra fa finta di non vederla. Perciò
alcune signore ritengono anche che sia un tantino superbo e scostumato. In particolare la sfiga numero uno, che lui ha incontrato ad un
defilè a Parigi. Donna molto affascinante, con una certa classe, ma
anche senza una lira addosso.
SIENA
A Siena si può diventare senza diploma suonatori di pianoforte.
A Piazza del Campo ci si sente bene soli perché si è in compagnia
del tutto, l’urbanistica senese ha abolito nei canoni la promiscuità.
Stare bene insieme per stare meglio soli, questo è il motto che si ricava a Siena. Passeggiando per i suoi vicoli-gonfaloni puoi conoscere
la natura stessa del tuo intimismo: un felpato silenzio secolare, sovrapposizione di sogni e pulviscolo.
30
Finestre che guardano da sole senza bisogno di chi stia a guardare. Mai finestra d’Italia ha goduto di tale autonomia, neppure nel
Rinascimento.
FREE-LANCE
Una condizione talmente libera che è sempre occupata. Perché il
senso di libertà se piegato o diretto o convertito a qualcosa, cambia
natura, si impiega, si occupa.
Non è dimesso intercalare. Free-lance fa rima con musicdance.
CHIAVI IN MANO
Simbolo ‘classico’ di potere: ‘ambo le chiavi del cor di Federico’.
A prescindere dalla chiave di violino, l’uomo è tranquillo quando
riesce ad avere perlomeno la chiave del problema. Un delizioso
cantante di un tempo, Peter Wanwood, forse perché olandese pretendeva in una canzone dalla sua bella di turno, di buttargli la
chiave.
Vi è chi poi, presuntuoso e saccente cerca le chiavi di ‘ogni cosa’.
Uno degli incubi per l’uomo medio, e non solo, è perdere le chiavi.
Non parliamo delle chiavi di casa, che se non ce l’hai resti chiuso
fuori, nel palazzo senza portiere.
Nell’Italia del boom i ragazzi nascevano con ‘le chiavi in mano’ e
per le lauree, i compleanni altoborghesi, in una mano si ritrovavano le
chiavi, appunto, e nell’altra o una fiat o giù di lì.
Oggi chi più di meno palpa le chiavi. Anche contro la iettatura.
Non lo dice nessuno ma all’estero molti ritengono la capitale d’Italia
a Chiavari.
LA BICICLETTA
La nostra bicicletta è un’arpa birmana. Corre anche in astratto e
nella nostra cultura non tramonta mai.
Perfino le nuove generazioni incoraggiano dicendoti ‘pedala’ o con
tono leggermente gnomico ‘hai voluto la bicicletta? Adesso pedala’.
Decaduta da una funzionalità corrente l’oggetto a due ruote ha
assunto un aspetto patetico quando è dovuta scendere nelle prime
domeniche anti-smog a difendere l’onore dei nostri polmoni nelle
piazze e nelle vie d’Italia.
La bicicletta è cara agli italiani quanto una cartolina illustrata di
un vecchio amico o di un vecchio amore. La cartolina si conserva
nelle nostre collezioni private, la bicicletta si appende al muro come
un trofeo. Molti anziani di oggi tra i piaceri più vivi nella loro vita
dichiarano quello di suonare il campanellino della bicicletta.
Qualcuno sostiene che i raggi X siano stati inventati dalla bicicletta.
r a c c o n t i
Come Ionio
da Montalbanodistrusse
ANTONIO PETROCELLI
il mostro di Scanzano
Favola semiseria per tenere alto il morale
del comitato antiscorie
O
r quando la masciara disse che le distruzioni dell’ultima
guerra avevano stretto in amicizia profonda il regno animale e vegetale, tutti quanti, increduli, sbarrarono occhi e
orecchie, ritenendo pressocché impossibile solidarietà e affetto, connubio chimico, tra bestie ed erbe. Eppure, a quei tempi, ci furono
molti innamoramenti strani. La masciara era pronta a giurare sul
libro della Eccelsa Alchimia di aver visto, proprio con i suoi occhi, la
capra amoreggiare con l’asparago, di aver spiato nelle notti di plenilunio il riccio far le fusa col carciofo morellino e la volpe accarezzare
teneramente, con la coda, l’affascinante biancospino. C’era di più:
il grande amore tra il regno animale e vegetale aveva prodotto
creature con una struttura molecolare complessa e sensibilissima.
Questi esseri straordinari covavano un’avversione profonda per tutto ciò che poteva distruggere e fare del male. Ionio uno di questi.
Trent’anni addietro, fu proprio la masciara a trovarlo sotto una macchia di lentischio. Era un bimbo strano, dai capelli ricci e verdi, frutto
dell’amore fra un cipressotto mediterraneo e una giovane fanciulla
che aveva perso il suo innamorato in una guerra senza senso e,
come sempre, inutile. Fu chiamato Ionio perché, da quel posto dove
il piccolo fu abbandonato, è possibile ancora oggi vedere il Mar Ionio
luccicare, spumeggiare e cambiare colore dall’alba al tramonto. Ionio,
seguendo il suo istinto arboreo, crebbe trascorrendo gran parte del
suo tempo nel grande bosco di Andriace. Passeggiando in lungo e in
largo tra le macchie profumate dove crescevano olivastri cerri, roveri,
farnie, frassini, olmi, ontani, pioppi, aceri, meli e peri selvatici, tamerici,
ginepri, corbezzoli, allori e oleandri. Osservando le geometrie aeree
dei predatori nobili e degli uccelli migratori, le corse a perdifiato dei
cinghiali e dei caprioli, le fughe furtive delle lepri, dei tassi e dei ricci.
Si riposava, in fine, al riparo dell’ardore dei raggi solari, sotto la grande quercia al centro del vacchericcio, là dove, tanto tempo addietro,
alcuni pastori trovarono un soldato saraceno morente, coperto da
un’armatura di seta e d’oro, completamente insanguinata. Stringeva
ancora nelle mani una strana spada di vetro infrangibile, ragione per
cui gli abitanti del villaggio lo credettero un santo. Ionio amava dissetarsi presso una fonte che sgorgava nel bosco: il sapore dell’acqua era
dolciastro e sapeva di zolfo. Ogni tanto bolliva e fumava. Gli abitanti
del villaggio avevano motivo di credere che fosse fonte divina e per
questo la chiamarono lerofolante, nome adatto alle fonti divine.
Le strane abitudini di Ionio erano oggetto di discussioni, mormorii e dicerie strambe. Mastrantonio lo scarparo diceva che solo un
pazzo poteva dormire sotto la quercia del saraceno, in compagnia
dei ramarri lucidi e delle serpi cervone; Spaccapiazza lo spazzino
sapeva con certezza che l’acqua di lerefolante aveva strane proprietà allucinogene; Dongiovanni lo spretato era certo che nel cervello di Ionio abitassero scorpioni; Ziociccio mangiafagioli sosteneva
che l’emisfero destro di Ionio fosse pieno di cellulosa e Ziopeppino II
chianchiere ripeteva in continuazione che nelle vene di Ionio scorreva poco sangue e molta clorofilla. Un giorno, dalle terre di Scanzano,
giunsero notizie mai udite da che il mappamondo esistesse: che un
mostro enorme e feroce, nella piana di Terzo Gavone, aveva distrutto aranceti, vigneti, pescheti, orti e maggesi e che i villaggi limitrofi,
da Sibari a Ginosa si svuotavano velocemente. Presso gli abitanti
di Montalbano, grande apprensione suscitava la triste notizia. Tutti
freneticamente discutevano su come sfuggire a tale minaccia. Solo
Ionio, con la sua arborea serenità, continuava a passeggiare tranquillo nel vacchericcio del grande bosco di Andriace. Ma appena vide le
prime carovane di paesani che, spinti dalla paura, abbandonavano
mestamente e in fila indiana le loro terre e si dirigevano al Nord, iI
suo cuore di resina si sciolse a tanto scempio e sofferenza e la pietà
si impadronì di lui. Fermava i fuggitivi per strada. Gli chiedeva notizie
del mostro. Pochi gli rispondevano (i lucani sono molto taciturni). Il
terrore del mostro aveva spalancato a dismisura i loro occhi levantini, che, sbiancati per lo spavento sembravano d’alabastro. - Per
la miseria - disse Ionio - se tutta questa gente continuerà a salire
31
r a c c o n t i
l’Italia si sbilancerà. Il peso di tutti questi esuli farà abbassare ancora di più la pianura del Po, Venezia si prosciugherà tutta, la laguna
inonderà Milano, il Cervino sprofonderà e la punta di S. Maria dì
Leuca salirà sempre più in alto. Lo stivale potrebbe addirittura capovolgersi col rischio di schiacciarci tutti a testa in giù contro le Alpi.
Mio figlio non può nascere in tutta questa confusione. Questo mostro va domato!-Fu così che Ionio fece intendere a tutti i paesani che
avrebbe cancellato dalla faccia della terra il mostro di Scanzano. Ad
udirlo parlare con tale determinazione, c’era quasi da crederlo, ma
i più dubitavano delle sue facoltà mentali, e per tutti gli abitanti
del villaggio, Ionio divenne semplicemente un povero pazzo. Molti,
pur credendolo assolutamente innocuo, suggerirono di rinchiuderlo,
per precauzione, in una Casa Famiglia di Recoleta, dove avrebbe
sicuramente dimenticato il suo folle proposito di sfidare il mostro di
Scanzano. Soltanto la masciara credeva a quello che Ionio andava
dicendo. La vecchia maga sapeva benissimo che nel tessuto molecolare di Ionio convivevano armonicamente linfa vegetale e animale.
Nel suo corpo, il singolare incrocio produceva ormoni, lipidi, neuroni
e globuli verdi in numero superiore a tutti gli altri esseri mortali.
In lui cresceva un’energia misteriosa, non traducibile in calorie, ma
paragonabile alla forza sconosciuta e invisibile che spinge il fiume
a sboccare nel mare. Ionio incominciò a lavorare alacremente nelle
spiazzo del vacchericcio compreso tra la quercia del saraceno e la
fonte lerofolante. Raccolse cento pelli di bue e le cucì con i tendini
di mille tacchini, ottenendo un enorme pallone sgonfio. Sulle cuciture
vi spalmò sugna di cinghiale e intrecciando giunco, ginestra e tamerici, costruì un solido zatterone che, con lunghe liane di agave, rovo
e gramigna fu ancorato all’enorme pallone. Per cinquanta giorni,
dall’alba al tramonto, viaggiò in lungo e in largo nel Metapontino, di
stalla in stalla, ripulendole tutte. Ogni giorno raccolse il letame delle
stalle del barone di Recoleta e dei grandi pascoli di Beriingieri. Ripulì
i colombai di Andriace, i pollai di Capolevata, le porcilaie di Carleo,
gli ovili di Cantalamessa e della Vedova Pecorelli, le conigliaie di
Camardi, Cerulli e Cugno di Corto. Raccolse ogni escremento dì tutti
gli esseri viventi nelle contrade di Marone, Pane e Vino, Frascarossa,
Ventomare, Petrolla, Quattro Colonne, Scianniniglio, Monte Soprano,
Luce, Terza Madonna, Pantano, Santalena e di tante altre contrade
campestri. Scaricò infine il tutto nell’enorme zatterone, fin quando
non fu stracolmo di stallatico fumante e fermentante. Poi, con canne
giganti di bambù, che crescevano a dismisura nelle pozze sulfuree
della sorgente lerofolante, costruì un lungo condotto che partiva
dalla fonte e raggiungeva l’enorme pallone sgonfio, su cui, con un
tronco di sughero affumicato, aveva scritto MAU, diminutivo di Maurizio, nome che avrebbe dato a suo figlio. E la gente lo guardava, lo
compativa e lo derideva, non riuscendo a capire quale disegno folle
abitasse il suo cervello vegetanimale. Aveva ormai terminato la sua
opera. Si sdraiò spossato sotto la quercia del saraceno e aspettò
che la fonte lerofolante cacciasse fumo e vapore acqueo. Quando
la sorgente incominciò a bollire, sprigionando zolfo, elio, azoto e altri
gas nobili, Ionio Invocò l’aiuto del vento Scirocco che con folate calde
spira dalla Siria, passando dal Marocco, là dove maturano le noci
di cocco. E il vento, soffiando e mugulando alla maniera islamica,
cominciò a spingere i gas della sorgente lerofolante attraverso il
lungo condotto di canne cave. Il pallone, piano piano, incominciò a
gonfiarsi e lentamente sollevò, nel cielo lustro di Montalbano, lo zat-
32
terone stracolmo di concio fumante. Bisognava vedere come strabuzzavano gli occhi gli increduli paesani, vedendo nuotare nell’aria
siffatto prodigio di scienza, tecnica e fantasia. Ionio se ne stava in
piedi, sullo zatterone e guardava il suolo allontanarsi. Rideva felice,
mentre il vento scompigliava i suoi riccioli verdi e il sole illuminava il
suo profilo levantino, che tanto lo faceva rassomigliare a sua madre.
E nel nome di suo figlio, che, un giorno, ne era certo, sarebbe nato.
Ionio si rivolse al vento che spira dalla Grecia e che per strana e mitologica coincidenza chiamasi grecale: - Se tu continuerai
a soffiare per tre giorni e per tre notti, certamente spingerai la
Navicella Mau lassù vicino al sole. Tutto questo è necessario per
sconfiggere il mostro di Scanzano che lapilli e morte scaglia contro
il genere umano, creando disordine e confusione. La gente scappa
via dal Sud e intanto il Nord si appesantisce. Nessuno abiterà più
queste terre e se un giorno un figlio mi nascerà, di certo non sarà
contento di ritrovarsi solo e senza amici. Non potrà conoscere Camilla facciasporca, Ninetta snellapallida, Franco capellilunghi, Giorgio bell’occhio, Antonio nasolungo, Marisa bellasciantosa, Nunzia la
principessa, Manuela allevacriceti, Rosa deliziosa, Donato senzasonno, Claudio succhiadolci, Ugo sugo e Tiratira. Sarebbe proprio un
brutto affare! Ti prego, aiutami a volare! -II Grecale, che è un vento
di poche parole, ma sensibile, incominciò a soffiare soffiare, senza
tregua, trascinando la navicella sempre più in alto e in direzione di
Scilla e Cariddi, che con la loro foga giovanile intorbidano le acque
e stordiscono i pesci. Per tre giorni e tre notti soffiò senza sosta
(si fermò solo cinque minuti per riprendere fiato e mandar giù un
panino). Cosicché Ionio, appollaiato sulla Navicella Mau, sorvolò il
tempio di Apollo Lido in Metaponto, il santuario di Anglona che in
splendida solitudine sfida i venti sulla collina, Eraclea piena di belle
donne, le terme di Sibari e Spezzano Albanese famose per le loro
acque purgative; dall’alto delle nuvole, Ionio riusci ad individuare il
porto di Trebbisacce che produce e vende in tutto il levante il caviale del Sud, novellame ghiotto e piccante dal sapore biblico; sorvolò
Crotone conosciuta in tutto il mondo perché è abitata dai crotonesi
e poi ancora Possano, dove Andrea suona la fisarmonica per addormentare le sue gemelline, e più giù ancora, Riace famosa per le sue
cipolle rosse. Poi, finalmente, apparve il triangolo di terra assediata
dal mare, che tutti chiamano Sicilia. La navicella sorvolò Catania,
dove parve sostare, indecisa su quale direzione prendere, poi fece
rotta verso l’interno, sorvolò Calascibetta e si diresse verso Enna,
puntando verso la Rocca di Cerere, dove quasi stava per posarsi, per
l’improvviso cessare del vento. Ma il vento prese di nuovo vigore e la
spinse deciso sulle chiese di Piazza Armerina, sulle case di Mineo la
magica, deviando su Pachino, e sul cielo nitido di Marzamemi dove
finalmente curvò, per ritornare diritto verso la lugubre e nera piana
di Scanzano. Come mai avesse fatto questo lungo giro, per tre giorni
e per tre notti, nessuno lo sapeva. Ma tant’è, la navicella giunse finalmente nella piana di Scanzano. Case distrutte, alberi in fiamme.
Il cielo era un’immensa nuvola nera. Non volava nessun uccello. Un
ruggito feroce e profondo scuoteva la terra. Come formichìne, apparivano gli esseri umani, che fuggivano disperati stringendo forte, al
petto, i loro piccoli. Gridavano e piangevano, correndo verso il Nord,
che, poverino, si appesantiva sempre di più.
r a c c o n t i
L’orrendo mostro di Scanzano apparve: aveva un naso enorme
e lucido, labbra strette e antipatiche, che contornavano un ghigno
satanico, larghissime orecchie viola. Da tutti i buchi del suo corpo
uscivano fetori saturnini, schizzavano fiamme malefiche, zampillavano liquidi inquinanti, esalavano radiazioni, fuoriuscivano pus, virus
pestiferi e bacilli antitutto. Basta. Ionio non si fece impressionare.
Pregò l’amico vento di fermarsi e questi, di buon grado, tirò un lungo
sospirone dì sollievo e lasciò finalmente riposare le sue gote che,
a furia di soffiare, erano indurite e sature di tossine. Non appena la navicella Mau si fermò, Ionio aprì le porte dello zatterone e
lasciò che tutto il letame del Metapontino sommergesse l’odioso
mostro di Comiso. Patapunfete. Ora, bisogna sapere che il letame
del Metapontino, a causa della lunga esposizione ai raggi ultravioletti, che si incontrano a migliala alle alte quote, nei tre lunghi giorni
di viaggio, aveva talmente fermentato e assorbito energia Gamma,
da trasformare completamente la sua catena chimica. In esso si
erano quindi formati enzimi caustici difficilmente rintracciabili nell’orbo terracqueo. Tali enzimi sprigionano un odore più pungente
dell’acqua ragia, varechina, solvente nitro e acqua di cavolo insieme e hanno il potere di sciogliere i metalli più refrattari. Persino le
pinne di pescecane. Se poi pensiamo che il previdente Ionio aveva
mischiato al letame cinque tonnellate di diavolicchi, ceraselle, mericanilli e peperoni di Senise, possiamo intuire quali poteri caustici
avesse acquistato il letame di tutte le stalle del Metapontino. Difatti, non appena il mostro ne fu investito, i suoi occhi, che erano di
fuoco, si spensero all’istante; al contatto con gli enzimi brucianti, le
sue squame si sciolsero e i vapori caustici gli strozzarono in gola
quel ruggito di morte che sembrava giungere dal centro della terra.
Cieco, senza squame e senza voce, il mostro, ormai ridotto ad un
lombricone nudo e indifeso, con la pelle invasa da piaghe perenni,
per trovare refrigerio, s’infilò sottoterra e da allora nessuno lo ha più
rivisto. Alcuni marinai riferiscono che sia stato visto per un attimo
presso un’oasi del deserto del Sahara, ma forse sarà stato solo un
miraggio. Un commerciante di prosciutti di tacchino sparse la voce
che il povero lombricone, a furia di scavare sottoterra, senza meta e
alla cieca, era finito in un lago della Scozia, dove ogni tanto appare,
di notte, quando la nebbia si confonde con tutto. Ma a noi, che fine
abbia fatto, non ce ne importa un fico secco. La prodezza di Ionio
fu conosciuta in tutto lo stivale e la notizia raggiunse, in un baleno,
le comitive di emigranti che, in fila indiana, risalivano luttuosamente
la penisola. Fecero tutti un rapido dietrofront e tornarono in breve
tempo nelle loro terre. L’Italia tornò ad essere bilanciata.
di Montepulciano, Malvasia, Aglianico e Cimicioso. Chi non aveva
vino, bevve birra e se la cavò lo stesso. Ora, nella piana di Scanzano, non c’è più nessun segno della trascorsa sciagura. L’arancio, il
pesco, il bergamotto, il pompelmo, il kiwi, il mapo, il mandarino, il
limone, il pesco e il cotogno sono ritornati a fiorire in una terra resa
ancora più fertile dall’enorme quantità di letame del Metapontino,
-Una botta e due fìcetole! -Diceva tutta contenta la masciara alla
gente del villaggio, mentre Mastrantonio lo scarparo, Spaccapiazza
lo spazzino, Dongiovanni lo spretato, Ziociccio mangiafagioli e Ziopeppino il chianchiere discutevano animatamente se, per le leggi
di Mende), anche Maurizio, il figlio di Ionio, avrebbe avuto clorofilla
al posto del sangue. La masciara, che ne aveva viste tante e fatte
ancor di più e che, nella sua lunga vita, aveva conosciuto Cristoforo
Colombo e Garibaldi, sapeva per certo che i frutti dell’amore tra il
mondo animale e vegetale, trasmettono la loro fibra ai figli, cosicché
mai, su tutta la terra, possa mancare colui che provi avversione
profonda per tutto ciò che può distruggere e far del male. Maurizio
uno di questi.
Ionio si adoperò a spiegare che se non ci fosse stato il contributo determinante delle stalle del Metapontino, lo sforzo sovrumano
dell’amico Grecale e la collaborazione decisiva dei raggi ultravioletti
che si incontrano a migliala alle alte quote, nessuno avrebbe potuto
sconfiggere il mostro di Scanzano. Ma poiché tutti insistevano nel
ringraziarlo, per aver restituito loro vita e speranza, Ionio volle spiegare che lo aveva fatto soprattutto per Maurizio, suo figlio prossimo
venturo: - In un mondo disordinato e sottosopra, pieno di violenza e
guerra, paura e sconforto, i bambini crescono poco e male...-Andava
ripetendo. Fu così che da Domodossola a Pachino tutti seppero che
Ionio aspettava un figlio e nel nome di Maurizio, si dettero alla pazza gioia scolando Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino, Nobile
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Biblioteca del Centro Annali
19 volumi sulle trasformazioni
culturali, politiche, economiche e
sociali del Mezzogiorno d’Italia negli
ultimi due secoli.
Piccola biblioteca meridionalista
Mezzogiorno, Stato e società italiana:
questo è sostanzialmente il tema che
unisce questi classici del pensiero
politico, economico, sociologico in
un lasso di tempo che va dalla fine
del 1800 alla fine del secolo scorso.
Qualitalia
Una collana per capire chi siamo,
che cosa vogliamo o dobbiamo fare:
dall’analisi delle contraddizioni
interne allo Stato, alla criminalità
organizzata, alla corruzione politica,
alla crisi dello Stato stesso.
Nuovo Mezzogiorno
Sociologi, politici, giornalisti, intellettuali
scrivono per questa collana per valutare
come siano intervenute sul tessuto sociale
le grandi trasformazioni dell’economia
e della politica in una realtà, come il
Mezzogiorno, forse non sempre pronta
a riceverle.
La Basilicata nella storia d’Italia
Il pensiero politico meridionale ha
costantemente posto non questioni marginali
seppure importanti, ma le questioni generali
dell’assetto dello Stato e dell’economia
nazionale. Ecco perché il processo di
formazione e costruzione di una coscienza
unitaria ha potuto permanentemente attingere
alle elaborazioni del meridionalismo classico.
I contributi e le esperienze di uomini come
Azimonti, Franchetti, Ciasca, Rossi Doria,
Jacoviello, De Martino costituiscono questa
collana.
Le mimose
La presenza della donna nella storia
della società moderna, attraverso
indagini e testimonianze dirette di
protagoniste e studiosi.
Altri titoli
Il riformismo della sinistra, inchieste su
territorio e ambiente, sulle realtà urbane,
sullo stato sociale e politico del Sud,
sull’identità regionale: questo ed altro
all’interno di una collana che va dal
romanzo al saggio al pamphlet.
I libri della memoria
Questa collana ricostruisce, attraverso
biografie, corrispondenze epistolari,
fonti documentarie, il ruolo che singole
persone o alcune significative famiglie
ebbero nella formazione e nello sviluppo
della nostra regione.
CALICEDITORI
Casa editrice fondata da Nino Calice nel 1992
Titoli in catalogo: 100 | Collane: 8
www.caliceditori.com
e-mail: [email protected]
C ultura
La storia bandita
Una terra tra memoria e futuro
ANNA MARIA RIVIELLO
Briganti e piemontesi nel cinespettacolo della Grancia.
Un’operazione culturale insidiosa ma di grande attrazione.
Il cinespettacolo della Grancia, “La storia bandita” è un evento
di grande suggestione e bellezza. Il luogo, la massa dei figuranti,
le luci, le belle voci degli attori, tutto concorre a coinvolgere totalmente gli spettatori nella storia narrata.
Si tratta, come avvertono gli autori , di una storia di banditi o meglio di una “storia bandita”, messa al bando, espulsa dagli storiografi
ufficiali, confinata negli archivi criminali della polizia di Stato.
Quando mi è accaduto di assistere allo spettacolo, ho avuto
la netta sensazione di trovarmi di fronte ad un evento culturale
e spettacolare di grande rilievo, capace di attrarre un vasto pubblico, di durare nel tempo. Mi pare che i fatti mi abbiano dato
ragione.
Lo spettacolo, inoltre, sembra sciogliere positivamente una
questione cruciale per la Basilicata: quella del continuo oscillare
tra provincialismo e spaesamento quando la regione si occupa di
se stessa. Per la stessa sapienza e la complessità delle tecniche
di rappresentazione esso si sottrae infatti alla tentazione, sempre
presente e ricorrente nella nostra regione, di ridurre la storia e la
memoria a sagra paesana, a un’ idea del passato contadino senza
consapevolezza, come accade di solito in alcune manifestazioni
di tipo locale. Ma nello stesso tempo, pur modernissima nella
forma, per il suo contenuto non rifugge dalle “radici” come
spesso accade nella fruizione di una cultura interamente prodotta
nei punti alti dello sviluppo dell’occidente e poi riproposta senza
mediazioni, a spettatori-consumatori che ne traggono la definitiva conclusione di essere in un altrove senza storia .
Ma proprio per questa grande capacità di attrazione, di suggestionare migliaia di persone, di fare “cartellone” per anni come
un grande spettacolo musicale americano, ci troviamo di fronte
a un’operazione insidiosa perché veicola verso ampi strati
di opinione pubblica un paradigma “revisionista” nell’interpretazione della nostra storia nazionale dal sapore francamente reazionario.
Anche da questo punto di vista “La storia bandita” resta
fedele al suo modello. Com’è noto il cinespettacolo della
Grancia è una forma d’ arte del tutto particolare. Una forma
di rappresentazione realizzata, per la prima volta, in Vandea
la celebre regione della Francia meridionale, chiamata dal
suo ideatore Philippe de Villiers, “Cinescenie”. Una specie
di grande film vivente con la presenza di 850 attori sulla
scena, che si svolge su una zona di circa 15 ettari e che,
come ci spiega il depliant illustrativo “ associa allo spettacolo in diretta, le tecniche più moderne (quadrifonia, laser,
elettronica, pirotecnica computerizzata, giganteschi schermi d’acqua, ecc.). Come nella “Storia bandita” c’è un rovesciamento del canone storiografico di interpretazione della
rivolta vandeana: non reazione alla rivoluzione giacobina
da cui derivano le moderne democrazie, ma espressione
delle buone ragioni dei contadini della campagna francese.
La vicenda narra la storia di povera gente che si incrocia
inevitabilmente con la grande storia del luogo, gli attori
sono tutti volontari, l’ azione si svolge a Puy du Fou, intorno ad uno stagno ai piedi del locale castello. L’ evento, che
si è svolto per la prima volta nel 1978, da allora ha attirato
milioni di spettatori .
L’ideatore del progetto della Grancia, Giampiero Perri,
giustamente ci ricorda questa fonte di ispirazione che naturalmente assume da noi sue caratteristiche peculiari e si avvale
35
c u l t u r a
di un lavoro altrettanto entusiasta di centinaia di volontari e di
un paesaggio ugualmente suggestivo. La “storia bandita” scritta,
come spiega Perri nella presentazione dell’ opera, con Oreste Lo
Pomo e con la consulenza di Tommaso Pedio “contiene richiami
a molteplici autori ed opere tra cui l’autobiografia di Camine Donatelli Crocco, il famigerato generale dei briganti, il diario di Josè
Borjes, fedele seguace della causa del trono e dell’altare,venuto in
Basilicata con l’intento di porsi a capo del brigantaggio per orientarlo in senso filo-borbonico, alle pagine suggestive ed appassionate di Carlo Alianello, agli studi di Rodolico, De Jaco, Molfese,
De Sivo e dello stesso Pedio per citarne alcuni”
È quindi un’operazione che ha grandi ambizioni sul piano
metodologico e storico. E il tema, tra l’altro, è di quelli che in
Basilicata diventa sempre più di attualità. Da tempo, infatti,
riemerge la figura del brigante, che esce dalle cronache giudiziarie per entrare nella fantasia delle generazioni più giovani.
I ragazzi “no scorie” nei giorni caldi della lotta di Scanzano
hanno cantato” siamo briganti e facciamo paura”, la canzone
di Eugenio Bennato. Di briganti aveva raccontato il bel libro
di Raffaele Nigro, Fuochi del Basento. Gente crudele, sporca,
bandita si riaffaccia alla sensibilità di giovani cresciuti a telefonini e computer.
I briganti erano stati contadini, parte essenziale della nostra
storia e di una civiltà ormai conclusa ma che perdura ben oltre
l’ unificazione del Regno d’Italia fin nel cuore del novecento.
Non è quindi lontanissima da noi.
Era una società giunta sostanzialmente immutata sino al periodo fascista, quando fu descritta e resa, più tardi, universalmente
nota da quel capolavoro letterario che è il “Cristo” di Levi che diede luogo ad un interesse, seppur diffuso, di tipo prevalentemente
antropologico. Ed è impressionante pensare che tra l’epoca del
brigantaggio “politico” e gli anni di Levi da queste terre fossero
partiti in decine di migliaia negli anni della “grande migrazione”
verso gli Stati Uniti che vide l’esodo di quattro milioni di italiani,
prevalentemente meridionali, tra il 1880 e il 1929.
Per capire il mondo in cui visse e prosperò il brigantaggio è
quindi necessaria un’ analisi dei rapporti di classe che si erano
sedimentati nel lungo periodo in una società di tipo semifeudale. Relazioni e gerarchie che saranno definitivamente mutate,
solo nell’Italia del secondo dopoguerra, dalla riforma agraria,
dalle lotte bracciantili per l’occupazione delle terre, storia relativamente recente quindi, cinquantanni non sono molti nella
storia di un Paese.
Si legga l’ autobiografia del generale dei briganti Carmine
Donatelli Crocco. Le prime pagine ci trasportano in un clima
di tragica classicità
La madre incinta perde il figlio e la ragione dopo essere
stata presa a calci da un signorotto. Costui infatti era furioso
perchè un altro figlio della donna, aveva ucciso un suo levriero
che aveva azzannato a morte un coniglio, raro bene della fami-
36
C
glia contadina. La madre fu colpita perché tentò di difendere il
bambino dalla furia dell’ uomo prepotente. Il padre verrà poi
ingiustamente accusato della morte violenta del signorotto, imprigionato e liberato solo in seguito alla confessione in punto
di morte del vero colpevole. Per completare questo quadro di
prepotenze e sopraffazioni , va qui ricordato che qualche anno
più tardi la sorella, ormai orfana, si troverà esposta a pesanti
tentativi di seduzione violenta da parte di un altro esponente
della classe padronale.
Questo è il vissuto di Crocco, che si accompagnava ad
un’idea di sé niente affatto corrispondente al luogo infimo
della società in cui volevano confinarlo. Una consapevolezza
della propria forza fisica e vigoria intellettuale che strideva col
destino di sottomissione che gli toccava per nascita. Questo mi
pare il nucleo della vicenda di questo brigante che per la sua
emblematicità e la sua importanza può servirci anche da solo,
a capire il mondo in cui visse.
Alcuni decenni prima degli avvenimenti narrati, l’abate
Parini in Lombardia, aveva scritto la sua celeberrima ode “La
vergine cuccia”, in cui pur senza spargimento di sangue, si
narra un’altra storia di normale ingiustizia, un calcio del servo
alla cagnetta della padrona, determina licenziamento, esecrazione sociale e quindi miseria per il servo e la sua famiglia.
Parini, nella illuminata Lombardia, di questo scrive per ammonire ed educare.
In Basilicata , non c’è chi in quel momento, se ne occupi.
È un’ingiustizia cui si risponde con cupa violenza, col sangue ed il rancore, non è ancora il momento della storia, non
è il momento dell’arte. Lo stesso Crocco ne è consapevole.
Racconta nella sua Autobiografia che a Stigliano, acquartierato a palazzo Colonna, mentre osserva la galleria dei quadri che
ritraggono scene di battaglia, le gesta dei padroni del castello,
si dice che nessuno immortalerà le sue gesta di “ladrone plebeo”. Mi sembra che qui lo stesso Crocco ci aiuti a definire il
brigantaggio, un movimento di rivolta senza la speranza di un
vero mutamento sociale in cui l’intreccio con le vicende della
politica appare abbastanza casuale ed estrinseco.
Come è noto, Crocco fu definito “generale” perché era a
capo di numerose bande che agivano appoggiate da forze
borboniche e si unirono poi al generale Borjes, nel tentativo
di reinsediare i Borboni sul trono di Napoli. Ma Crocco aveva, se possibile, dei Borboni, del loro esercito, della crudeltà
dei loro ufficiali, un giudizio ancora più duro e sprezzante di
quello che esprime in ogni occasione sui “melliflui liberali”. È
un ribelle che tenta di usare (è invece usato), le forze in campo
per difendersi, ma la sua vita precipiterà ineluttabilmente dalla
miseria all’ ergastolo. È un destino che appare segnato.
Queste osservazioni mi sono indispensabili per motivare le
mie riflessioni sul testo della “storia bandita”, quando le vicende che narra si intrecciano con la storia politica di quegli anni,
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Disegno di B. Madaudo
C
dal 1799 al 1864, in cui il brigantaggio appare come un movimento di “resistenza e reazione” a moti politici di provenienza
prima francese e giacobina poi sabauda e piemontese, legittimato dal fatto che si oppone a fenomeni entrambi estranei
alla realtà meridionale e perciò sostanzialmente distruttori di
un equilibrio identitario da conservare. Insomma i piemontesi
sono tout court gli “aggressori”.
Vedasi come è narrata la vicenda dello zio Martino che
aveva creduto ahimè nei giacobini senza Dio e ne era stato
profondamente deluso e poi tutta la vicenda di Crocco e la sua
partecipazione al movimento di reazione borbonica.
“Il desiderio di Crocco di sorgere a nuova vita, di riacquistare la libertà perduta, di ridare onore alla sua famiglia, si
intreccia ormai con le speranze di un intero popolo di riscattarsi... Insorti in nome dei Borboni, i contadini lucani danno
vita ad una lotta disperata.” Recita così la voce narrante della
“Storia bandita” che commenta l’ azione.
Dal testo è stato più recentemente tratto uno spettacolo
teatrale, ”Cafoni”, che viene rappresentato presso il Museo
provinciale tra le manifestazioni indette dal Polo della cultura
promosso dalla Amministrazione provinciale di Potenza. La
regista Maria Carmela Iannielli, spiega in un articolo apparso
sulla Gazzetta del Mezzogiorno (10 gennaio 2004) che “gli
spettatori saranno condotti lungo più di mezzo secolo di eventi
osservati dal punto di vista di chi quella guerra l’ha persa, i
cafoni appunto, i pastori che si sono improvvisati rivoluzionari
e per tale azioni furono etichettati briganti.”
Ma le cose stanno effettivamente così? Negli argomenti
della Iannielli avverto lo stesso slittamento di senso che ho
visto in tutta l’ opera della Grancia.Il brigantaggio non fu il
prodotto dell’intervento piemontese, contro cui i contadini
combatterono una guerra che hanno perduto. Fu il prodotto
della miseria endemica e di rapporti di classe plurisecolari
estremamente iniqui della società meridionale. Diventare
brigante era la forma normale attraverso cui nella società
meridionale dominata dal latifondo e dalla rendita si deviava
dalle relazioni sociali costituite. Che a metà dell’ottocento
questo fenomeno fosse usato dalla reazione borbonica è
altrettanto normale. Il miraggio era avere una possibilità di
uscita dalla propria condizione di fuorilegge. Ma affermare
che il brigantaggio fosse rivoluzione sociale, o addirittura
resistenza allo straniero, è storicamente infondato.
È certamente vero che i piemontesi disprezzavano le plebi
meridionali ed è vero che si può tranquillamente sostenere
che l’unificazione italiana fu “rivoluzione borghese”, che
essa ha avuto molti aspetti discutibili per cui il Mezzogiorno
ha pagato un prezzo molto alto, cosi come è vero che affrontare e risolvere i problemi gravissimi che affliggevano
la società meridionale, in primo luogo le masse rurali non
era nella mente della monarchia sabauda. Le stesse speranze
suscitate dai garibaldini vennero duramente e rapidamente
frustrate. Del resto di critiche a come si sia fatta l’unità d’Italia sono piene le pagine del meridionalismo. Dalla critica di
Dorso alla “conquista regia” alle dolenti pagine di Fortunato
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c u l t u r a
Disegno di P. Fuccella
sulla condizione del Mezzogiorno post-unitario fino alle discutibili teorie di Nitti sul fatto che il Mezzogiorno preunitario fosse più ricco di quello successivo all’unificazione. Non
c’è dubbio che la “questione meridionale” è figlia del modo
con cui è stata realizzata l’unità d’Italia.
Ma non per questo la storia di quei decenni è riconducibile
allo schema contadini, sanfedisti e filoborbonici alleati contro
l’invasore francese e piemontese, la cui principale colpa era
quella di essere portatore di una modernità organicamente
estranea al sud e alla Basilicata, e che tale doveva rimanere.
Insomma, progressisti uguali a invasori ed occupanti. La
storia della nostra regione è invece più complessa.
Vede in Basilicata figure come Mario Pagano e il vescovo
Serrao ed a Napoli dopo il 1799, l’eliminazione di un’intera
generazione colta, la cui soppressione violenta segnerà profondamente il destino del Regno di Napoli.
Non si può dire, come recita il testo della “Storia bandita”,
“alla violenza del nuovo Stato corrisponde la feroce resistenza
dei briganti”, perché resistenza evoca le ragioni di chi difende
una realtà preesistente e un’idea. I briganti da quella realtà
erano già stati messi fuori legge.
Più veritiere mi sembrano le ultime parole messe in bocca
a Crocco ormai prigioniero “molti, molti si illusero di poterci
usare per le loro rivoluzioni. Le loro rivoluzioni. Ma la libertà
non è cambiare padrone…”
Queste differenze di interpretazione non sono questioni
di poco conto. Ma riguardano l’identità della nostra regione.
Abbiamo bisogno di radici in questo tempo di spaesamento.
Ma proprio per questo, abbiamo bisogno in particolare di una
ricostruzione storica che sottragga il mondo contadino alla sua
apparente immobilità, che ce ne racconti passività e rivolte,
senza forzature ideologiche. Le generazioni oggi più anziane
hanno spesso rimosso il profondo legame del nostro presente
con quel mondo.
Non possiamo semplicemente sostituire alla rimozione la
nostalgia, solo una conoscenza critica della nostra storia può
rispondere pienamente alla giusta esigenza delle generazioni
più giovani di riappropriarsi del proprio passato.
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L’Età ridente...
Breviario per una generazione
SIMONE CALICE
C’è qualcosa che accomuna tutti i ragazzi e le ragazze che
scevichi di Lenin e i cinesi di piazza Tien an Men, giovani i
ho incontrato quando ho viaggiato tra i paesi di questa regione;
guerriglieri del Sud America e i praghesi davanti ai carri armaed è che hanno gli occhi stanchi.
ti sovietici. Certo non tutte le rivoluzioni sono uguali, cattive
Chi più, chi meno, vent’anni appena e già così...
o buone che siano, alcune inutili, altre pericolose, guidate da
Dagli occhi si capiscono molte cose, quando si vuole. La
nobili impulsi o da mortali ideologie, sono pur sempre il risulgioventù stessa è, in sostanza, rintracciabile nei nostri sguardi
tato dell’entusiasmo giovanile e della sua stupidità, che sono il
e in quelli che ci capita di incrociare, se solo facessimo più
lievito di qualsiasi trasformazione.
attenzione. Sono sguardi liberi, sorridenti, a volte stupidi, non
Ma tutte le gioventù, ogni gioventù, è quasi sempre la conancora disillusi, giovani appunto.
seguenza delle idee e dei progetti delle generazioni precedenti,
Non sempre però, non qui almeno...
alle quali i giovani accorrono a dare dinamismo e vigore, con
Sappiamo tutti che la gioventù non è un merito particolare,
risultati, onestamente, non sempre confortanti. Esiste, o deve
nè tanto meno un caso fortunato; anche chi non è
esistere, senza che se ne sottovaluti l’importanza,
“Qui i ragazzi
più giovane lo è stato un tempo ed è possibile che
un elemento di continuità, che eviti salti e scarti
ci sia pure chi non lo è stato mai o chi riesce ad
tra generazioni. Una buona politica dovrebbe far
e le ragazze
esserlo sempre. A parte le ovvie differenze di tipo
preparano la fuga, questo, perché una comunità è espressione della
fisico tra chi è ancora giovane e chi lo è meno, cosa
sua classe dirigente, e non il contrario, come molti
è che rende tanto attraente il mito della gioventù? che è fuga fisica credono. Non sempre però, non qui almeno...
Cosa la trasforma da una questione puramente bio- quando potranno e Qui, i ragazzi e le ragazze, preparano la fuga,
logica, in un fatto, se vogliamo, culturale? L’aspet- artificiale quando che è fuga fisica, quando potranno, e “artificiale”
to fondante di ogni gioventù, da quelle passate a
quando non possono.
non
possono
”
quelle che verranno, è il suo carattere di non-chiuIl peggior delitto che la politica possa commettere
sura, di apertura alla vita, di possibilità non ancora esaurite, di
sarebbe non accorgersi di queste fughe. Ad andare via non sono
aspirazioni non ancora pregiudicate.
più, come negli anni ’60, braccianti ed operai, che pure un vuoNon sempre però, non qui almeno...
to hanno lasciato, ma avvocati, professori, medici, economisti,
Quando si è giovani pensiamo che tutto sia possibile; poscioè quella che avrebbe dovuto essere la futura classe dirigente
siamo pensare di fare il medico, il killer, l’attore, il prete, il
di questa terra. E quelli che restano? Quelli che restano, sognamagnàccia, il poeta, il suonatore di jazz e quello che vi pare,
no. Sognano posti dove suonare, sognano luoghi dove inconnon perché ne possediamo realmente le capacità, ma semplitrarsi, sognano altri lavori, sognano di altri amori...
cemente perché si può; perché ancora non ci troviamo nelle
Delle possibilità concesse alla gioventù non si può consuristrette opportunità, che inevitabili arrivano col passare del
mare che solo una parte, il che spiega come mai tutti cadano
tempo. È per questo che i giovani rappresentano la fonte di
vittime dell’illusione di averla sprecata, pensando che avrebbe
energia di vari processi sociali.
potuto essere migliore.
Avete mai visto un “vecchio” fare le rivoluzioni?! Giovani
No, non poteva, non qui almeno, ma avrebbero voluto proerano i ragazzi di Parigi e di Berkeley nel ‘68, giovani i bolvarci.
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Il lavoro degli immigrati
nel Melfese e nell’Alto Bradano
DAVIDE BUBBICO
Una conversazione con Maria Santoro del Centro per l’Impiego di Melfi
e Gervasio Ungolo, assessore a Palazzo San Gervasio
Maria Santoro lavora dal 1979 al Centro per l’Impiego di
Melfi, un osservatorio privilegiato per conoscere i processi che
caratterizzano il mercato del lavoro dell’area nord occidentale
della regione. Dal 1974 al 1980 è stata anche sindaco del PCI
del comune di Ruvo del Monte, e tra la prime donne a rivestire
questa carica in Basilicata, che ha poi ricoperto nuovamente dal
1990 al 1994.
Il Centro per l’Impiego di Melfi, uno dei cinque della provincia di Potenza, comprende oltre al comune di Melfi, quello
di Rapone, San Fele, Atella, Rionero, Ripacandida, Ginestra,
Barile, Rapolla. Nell’insieme si tratta di un’area che ospita una
popolazione di circa 60 mila abitanti.
Gervasio Ungolo è Assessore all’Agricoltura al Comune di
Palazzo San Gervasio e componente del Comitato Regionale
di Rifondazione Comunista, da anni impegnato nella soluzione
dei problemi che annualmente si concentrano intorno al centro
di raccolta dei lavoratori immigrati che giungono a Palazzo San
Gervasio per la campagna di raccolta del pomodoro e di altri
prodotti orticoli.
Con loro cominciano un percorso di indagine sui lavoratori
immigrati presenti sul territorio regionale per comprenderne le
modalità di inserimento, i problemi e la loro collocazione nel
mercato del lavoro.
Negli ultimi anni il Vulture Melfese è sempre più un’area
di forte attrazione per gli immigrati che decidono di fermarsi
in Basilicata. Quali sono le nazionalità presenti in numero
maggiore e chi hai avuto modo di conoscere per i servizi offerti
dall’ufficio nel quale lavori?
M. SANTORO: Ci sono molto donne dell’Est che lavorano
notoriamente come badanti, poi ci sono i marocchini, che lavorano perlopiù in edilizia alle “dipendenze” di piccole ditte, i
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tunisini e gli albanesi, questi ultimi sia in edilizia sia in agricoltura, mentre gli indiani lavorano prevalentemente nelle stalle,
e ormai da una decina d’anni. L’area di Lavello, differisce da
quella di Melfi perché la presenza degli immigrati è più di carattere stagionale legata in particolare alla raccolta del pomodoro.
Sono invece poche le donne che provengono dall’America centrale e del sud, qualche cubana, altre da Santo Domingo, e che
trovano spesso lavoro nei locali come animatrici. Ci sono poi
gli immigrati che vengono dall’Argentina dopo la crisi che ha
investito il paese negli ultimi anni, perché hanno un parente, e
che in questa area risiedono soprattutto tra Ripacandida ed Atella, qualcuno anche a Rionero. Si tratta di interi nuclei familiari,
soprattutto giovani, ma che vivono perlopiù di lavori informali e
certamente non sufficienti a condurre un’esistenza serena.
La regolarizzazione del 2002, ha determinato un quadro più
chiaro della presenza straniera in Regione, anche se proprio le
regolarizzazioni hanno permesso a molti di lasciare la Basilicata per trasferirsi verso le regioni del centro nord, alla ricerca
di occupazioni diverse e meglio remunerate, ma lasciando così
spazio a una nuova ondata di immigrati, spesso irregolari.
M. SANTORO: Con la regolarizzazione del 2002, i lavoratori che hanno regolarizzato la loro posizione non hanno
provveduto ad inviare al Centro per l’Impiego la documentazione, per cui di quelli regolarizzati se non si sono licenziati o
non hanno cambiato lavoro il nostro ufficio non è più venuto
a conoscenza. Le badanti sono venute da noi solo perché si
sono licenziate e perché avevano bisogno della scheda anagrafica. A questo proposito, avevo ritenuto utile fare richiesta
alla Prefettura o alla Questura di avere almeno l’elenco dei
regolarizzati, in modo tale da poter verificare chi di questi era
venuto al centro.
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I marocchini che sono presenti, in questa area, sono già stati
regolarizzati a metà degli anni Novanta, mentre gli albanesi già
all’inizio degli anni novanta. Questi ultimi si sono stabilizzati
in particolar modo a Barile dove esiste una forte comunità
albanese rafforzatasi con i ricongiungimenti familiari sempre
più numerosi negli ultimi anni, un fenomeno che ultimamente
ha cominciato ad interessare anche gli immigrati provenienti
dall’Europa dell’Est. Richieste di ricongiungimento sono cominciate a venire anche da immigrati di altre nazionalità come
i tunisini, che sono presenti in particolare a Rapolla. Quelli che
non fanno richiesta di ricongiungimento sono gli indiani, anche
se negli ultimi anni sono cresciuti i matrimoni tra indiani e italiane, lo stesso dicasi per i marocchini e al contrario per le donne
dei paesi dell’Est visto che sono aumentate quelle che hanno
contratto matrimonio con uomini dei nostri comuni, risolvendo
così anche il problema del permesso.
In generale si può notare che gli immigrati con oltre 40-45
anni non vivono la prospettiva della permanenza futura in Italia,
perché interessati a fare rientro prima o poi nei loro paesi d’origine, mentre quelli più giovani sono maggiormente disponibili a
stabilirsi nella nostra regione o comunque in Italia.
Negli ultimi anni il centro di accoglienza di Palazzo San
Gervasio è divenuto l’emblema della condizione dei lavoratori
immigrati in provincia di Potenza. Puoi dirci come è cresciuta
la presenza di questi lavoratori nelle produzioni orticole di Lavello e dintorni?1
G. UNGOLO: I primi lavoratori immigrati che cominciano a
lavorare nella raccolta dei pomodori sono presenti già dalla seconda metà degli anni ’80. All’inizio nessuno credeva a questo
fenomeno, anche perché era forte la contrapposizione tra i lavoratori locali e i nuovi arrivati, in quanto i primi erano abituati a
lavorare a tariffa, mentre gli immigrati lavoravano a cottimo. Al
produttore conveniva lavorare con questi, perché impiegando
i lavoratori immigrati avrebbe avuto la certezza di riempire il
camion alla fine della giornata, mentre i lavoratori locali non
sarebbero andati oltre le 6 ore e 40 previste dal contratto di lavoro e quindi con la possibilità di lasciare i carichi incompleti.
A questo si è aggiunto negli anni successivi una maggiore indisponibilità dei lavoratori locali verso i livelli di remunerazione
e le condizioni di lavoro.
Si può tuttavia osservare che sta aumentando anche il numero di lavoratori che tendono a risiedere stabilmente nell’area,
ad esempio, nello stesso comune di Palazzo, puoi dirci di chi si
tratta?
G. UNGOLO: Gli immigrati stanziali lavorano perlopiù nel
settore del commercio, uno di questi ha aperto anche un negozio, ma il numero maggiore è quello delle donne ucraine e di
altri paesi dell’est, che lavorano come badanti. C’è anche un
gruppo di albanesi che fanno parte del gruppo arrivato in Puglia
all’inizio degli anni Novanta e che lavorano nei bar e in altri
servizi privati. Ci sono poi gli indiani e i pakistani che lavorano
negli allevamenti. I magrebini sono coinvolti nella raccolta del
pomodoro e sono il gruppo più numeroso tra i lavoratori stagionali. La stagionalità corre da metà agosto alla fine di ottobre,
anche se lo scorso anno la presenza nel Centro si è prolungata
fino alla fine di novembre, perché un gruppo, una quarantina
circa di lavoratori, si sono fermati anche per la raccolta delle olive, lavorando soprattutto nelle campagne di Melfi e Venosa. Da
alcuni anni stiamo, inoltre, assistendo alla presenza degli immigrati durante la stagione della piantagione del pomodoro, quindi
già dal mese di aprile. Si tratta di un lavoro che fino a qualche
anno fa era appannaggio dei braccianti agricoli pugliesi, provenienti in particolare da Andria e Altamura. Oggi, invece, anche
questo lavoro sta per essere progressivamente svolto dai lavoratori immigrati provenienti dalla Puglia e dalla Campania, dove
risultano essere residenti.
Uno dei problemi maggiori è sicuramente quello del permesso di soggiorno, dato che la legge Bossi-Fini è ispirata ad una
logica di repressione del tutto priva di un disegno programmatico e che considera gli immigrati come semplice forza lavoro.
M. SANTORO: Quanti lavorano nel settore dell’edilizia
sono assunti solo quando è prossimo il rinnovo del permesso.
Molti hanno avuto delle vere e proprie sorprese, perché le ditte,
molte quelle di Melfi, hanno spesso rilasciato assegni a vuoto,
perdendo in alcuni casi somme di 4-5 milioni. Si tratta nella
maggior parte dei casi di piccole ditte che lavorano perlopiù al
nord e quindi di lavoratori che sono costretti a lavorare fuori
regione, i cosiddetti trasfertisti. Queste ditte lavorano in particolare in Toscana e in Emilia-Romagna.
Oltre alle badanti e ai lavoratori che sono occupati nell’edilizia, quali sono gli altri settori dove è più facile che gli immigrati
trovino lavoro? Ci sono occupati nelle imprese manifatturiere,
escludendo la Fiat e le aziende dell’indotto?
M. SANTORO: L’altro settore che offre maggiori occasioni di impiego, anche se più precario degli altri, è quello del
commercio e spesso dell’ambulantato. Accanto ai tunisini e ai
marocchini sono ormai più numerosi i cinesi, molti su Melfi,
ma perlopiù in nero cioè non regolarizzati. A Ruvo c’era un
gruppo di cinesi composto di 12 persone che, però adesso si è
trasferito in Toscana, a Prato dove esiste il distretto del tessile.
I cinesi hanno poi delle modalità di convivenza molto strette e
tradizionali, nel senso che la partenza di un componente spinge
tutti gli altri nella stessa direzione. Si trattava in maggioranza di
ambulanti e due di loro hanno aperto due negozi, uno a Melfi e
uno a Rionero, e che sono gli unici rimasti. Posso tuttavia pensare che la loro è la comunità che si sta insediando in maggior
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numero. La loro presenza a Ruvo era spiegata dal minore costo
dell’affitto, il fattore che spiega la residenza di molti immigrati
nei piccoli comuni anche se poi lavorano in quelli più grandi,
come Melfi e Rionero. Nel settore industriale sono pochi i lavoratori immigrati e dove sono presenti si tratta di particolari
eccezioni. È il caso della SIL FLORA, un’azienda floricola di
Melfi dove sono occupati solo lavoratori immigrati, perlopiù
marocchini, ma perché l’ambiente è nocivo per l’uso di prodotti
chimici. Si tratta poi di lavoratori che dormono anche presso
l’azienda, e che vivono quindi una condizione di stretta dipendenza dalla società. Sempre a Melfi delle donne hanno trovato
lavoro in un’azienda di condizionamento di prodotti agricoli,
anzi si tratta in un caso di un’intera famiglia occupata in una di
queste aziende. Ma si tratta di eccezioni più che di una tendenza
diffusa, almeno fino ad oggi.
L’altro settore di principale impiego è, come dicevamo all’inizio, quelle delle collaboratrici domestiche, ma non tutte
sono regolarizzate. Nel caso di Ruvo, lo sono quelle che provengono dall’Ucraina e dalla Bielorussa, mentre negli ultimi
mesi sono arrivate rumene e polacche, che oggi si trovano
per la maggior parte in una situazione di irregolarità. Si tratta
di quelle che hanno preso il posto delle badanti che una volta
regolarizzate hanno lasciato la regione. Delle donne presenti a
Ruvo, qualcuna ha fatto venire clandestinamente i figli, anche
se la maggior parte lavora in Italia per mantenere i figli che sono
iscritti all’Università nel paese d’origine. In molti casi, quando
hanno un marito, questo è disoccupato, penso soprattutto alle
donne che vengono dalla Romania.
Il centro di raccolta degli immigrati a Palazzo ripropone
ogni anno il ritardo dei enti locali a livello provinciale e regionale circa l’organizzazione dell’intervento, considerando
che un comune piccolo come quello di Palazzo difficilmente
potrebbe farvi fronte da solo, ma quali sono gli altri problemi
che si verificano durante il periodo della raccolta, oltre quelli
legati all’accoglienza?
G. UNGOLO: Cominciamo col dire che la struttura dove
ormai convergono ad agosto i lavoratori per la raccolta è diventata di proprietà del comune dopo essere stato sequestrato alla
malavita organizzata, un terreno di alcuni ettari all’interno del
quale sorgeva in precedenza una fabbrica di laterizi. All’inizio i
lavoratori sostavano in un’area nei pressi della fontana del Fico
proprio per la presenza di una sorgente d’acqua e in condizioni
assolutamente precarie. All’interno della fabbrica c’è un capannone che può ospitare 150 persone, mentre la maggior parte è
alloggiata fuori con le tende. Il primo anno, se non sbaglio il
1998, riuscimmo a censire circa 1.200 immigrati, anche se furono molti quelli che non vollero essere registrati. Negli anni sono
stati apportati alcuni miglioramenti, anche grazie a 400 milioni,
non spesi però sempre per opere utili. Sono state istallate una
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trentina di docce calde, si sono costruiti dei bagni, per migliorare i servizi minimi di accoglienza. Bisogna poi considerare che
una parte di questi lavoratori, nei mesi agosto-settembre, tendono a risiedere nei casolari di campagna, soprattutto in quelle
aree che sono troppo distanti dal centro e che renderebbero
impraticabile la possibilità di essere presenti sul campo nelle
ore stabilite. Si tratta in molti casi dei senegalesi, che tendono a
rimanere separati dal resto dei lavoratori, tunisini, marocchini e
algerini che risiedono in maggior numero presso il centro.
Oggi esiste un progetto di ampliamento, ma il problema è che
i finanziamenti previsti da Regione e Provincia sono pochi e potrebbero addirittura venire a mancare per il 2004. Abbiamo anche
predisposto un piano di gestione del campo, ma si tratta di proposte che cadano spesso nell’indifferenza dei livelli amministrativi
superiori e questo è un problema che rende tutto più precario.
Eppure l’area è dal punto di vista agricolo molto importante
e tutti sanno che senza questi lavoratori sarebbe difficile effettuare la raccolta, vista anche l’indisponibilità della manodopera locale a quelle condizioni di lavoro e di salario.
G. UNGOLO: Solo a Palazzo ci sono mille ettari di coltivazioni orticole tra pomodori, peperoni e melanzane e una punta
massima di circa 2.500 lavoratori stagionali. La maggior parte
del pomodoro raccolto va verso il salernitano, perché ci sono
più ditte che lo ritirano, mentre il 30% della produzione locale
va verso il salsificio di Gaudiano, e non ne potrebbero andare di
più perché ciò andrebbe oltre la sua capacità produttiva. Questo
stabilimento come tutti i salsifici deve aprire e assicurarsi il
prodotto quanto prima possibile. Il pomodoro comincia a venire
dapprima dal casertano e dal foggiano e solo dopo dal lavellese.
Con il peperone ci sono più raccolte. È l’ultimo ortaggio che si
raccoglie ed anche il peperone va tutto nel salernitano, lo stesso
per le melanzane.
Questa tendenza si potrebbe però invertire perché l’Organizzazione Professionale del Mediterraneo di Palazzo sta costruendo
uno stabilimento per portare un prodotto fresco sul mercato. C’è
insomma la volontà di fare la commercializzazione in proprio, per
evitare che tutta la materia prima sia lavorata e commercializzata
nel salernitano. Il comune sta costruendo, a questo proposito, la
sua zona industriale per puntare soprattutto sull’agroindustria,
anche se il neo distretto dell’agroindustria del Vulture Melfese
ha escluso proprio il comune di Palazzo San Gervasio e per i dati
forniti prima non riesco proprio a comprenderne il motivo.
Ci sono poi dei problemi che attengono specificatamente
all’organizzazione del lavoro durante la raccolta.
G. UNGOLO: Fino ad oggi il reclutamento della manodopera
avviene nel seguente modo: una squadra di lavoratori immigrati
arriva sul campo di lavoro e contratta il prezzo della giornata,
tenendo conto delle condizioni climatiche, della posizione del
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terreno, del tipo di piante e di altri aspetti. In questo modo si può
lavorare anche per 12 e più ore, ma al terzo giorno qualcuno cede
e rimane a riposo per due giorni. La riduzione dei lavoratori della
squadra può comportare problemi sulla tabella di raccolta e questo può determinare degli effetti disorganizzativi sui camion non
riempiti, sulle aziende che non si riescono a rifornire nelle quantità prestabilite. Ma i problemi cominciano anche prima quando si
tratta di stipulare i contratti di lavoro e sono problemi soprattutto
di natura burocratica. Il produttore che deve reclutare la manodopera deve scendere al centro e trovare la squadra disponibile,
una squadra che va dalle 20 alle 50 unità e qui deve impegnarsi a
riempire schede di diverse pagine, che è cosa piuttosto impegnativa. Poi molto spesso la documentazione in possesso dei lavoratori
non è sempre leggibile, perché lavorando nei campi, e sotto la
pioggia, portano con loro una fotocopia del permesso di soggiorno. Un modo per evitare tutto questo sarebbe quello dove il
produttore, tramite l’ufficio del lavoro, dichiara di quante persone
ha bisogno e l’ufficio del lavoro, dopo aver registrato le squadre,
si preoccupa di facilitare l’incontro tra domanda e offerta. Questo
percorso si è tentato nel 2003 con la presenza di un rappresentante dell’Ufficio del Lavoro, delle associazioni di categoria, ma il
problema è che non avendo un telefono, un computer e neanche
una scrivania, risultava difficile attrezzare un ufficio pronto per
espletare il minimo del lavoro necessario.
Presso i Centri dell’Impiego si ha modo di conoscere la
qualifica dei lavoratori, anche se tutti i lavoratori immigrati
finiscono per iscriversi come operai generici.
M. SANTORO: Gli immigrati che provengono dall’Est, sono
in generale quelli più qualificati, ad esempio i rumeni sono bravi come pavimentisti, altri lo sono come idraulici, mentre poco
qualificati sono gli albanesi, che sono poi anche quelli meno
secolarizzati. Tutte le donne dell’est sono diplomate o laureate
e in molti casi in possesso di un patrimonio professionale molto
elevato. È il caso di una donna ucraina che ho avuto modo di
conoscere meglio e che lavorava come medico internista in un
ospedale in Ucraina dove guadagnava però uno stipendio pari
a 70 euro mensili e che adesso fa la badante. Un altro lavoratore dell’Ucraina, che vive a Melfi con la famiglia, era prima
dipendente dell’Esercito. La sua pensione è di 27 euro ed oggi,
ultracinquantenne, lavora in edilizia, mentre uno dei tre figli,
avendo compiuto i 18 anni, ha dovuto lasciare la scuola per fare
l’apprendistato presso un idraulico ed in questo modo superare
il problema del permesso di soggiorno.
Possiamo affermare che quello dell’immigrazione è un fenomeno destinato a crescere e che sono molti i problemi che andranno affrontati e non certamente in un’ottica emergenziale?
M. SANTORO: Il fenomeno è stato un po’ drogato dalla regolarizzazione del 2002, tuttavia l’aumento si vede soprattutto
per le badanti, anche se adesso il problema è di quelle che sono
in una posizione di irregolarità. La nostra regione, forse per le
sue dimensioni, ha però la possibilità di sviluppare un modello
di accoglienza che può puntare realmente all’accoglienza e alla
predisposizione di soluzioni che altrove sono spesso difficili da
gestire per i numeri dell’immigrazione.
Per saperne di più della condizione degli immigrati in Basilicata vedi:
Nino Calice, Enzo Persichella (a cura di), Immigrare in Italia. Il
caso Basilicata, Calice Editori, Rionero in Vulture 1995.
Provincia di Potenza, Assessorato Provinciale alle Politiche
Sociali, Gruppo di lavoro sull’immigrazione, L’immigrazione
straniera in provincia di Potenza: dati, analisi e bisogni della
popolazione immigrata, Potenza, Marzo 2004.
Flai Cgil Potenza, L’immigrazione e la campagna del pomodoro a Palazzo San Gervasio, 2003.
CARITAS, Immigrazione, Dossier Statistico, 2002.
Note
1 Gli ettari complessivi coltivati a pomodoro sono 700. Il territorio interessato,
10 Km di raggio, è per lo più concentrato nelle zone di Genoano, Banzi, Venosa, Forenza, Maschito, Montemilone e Spinazzola.
Cittadini stranieri
dimoranti nei
comuni del
Vulture Alto Bradano
(Settembre 2003)
Melfi
221
Rionero
120
Barile
74
Atella
32
Rapolla
31
Pescopagano
21
San Fele
18
Ruvo del Monte
14
Ripacandida
9
Rapone
1
VULTURE
541
Lavello
182
Venosa
139
Palazzo San
Gervasio
79
Genzano
64
Forenza
47
Banzi
23
Montemilone
20
Maschito
10
Fonte:
Ginestra
Ufficio Immigrati,
Questura di Potenza. ALTO BRADANO
9
573
43
c u l t u r a
C
L’ISTRUZIONE
è ancora un
OBBLIGO?
La Regione
e la riforma Moratti
Le istituzioni locali nel campo della scuola.
Le caratteristiche di un sistema formativo
regionale integrato e la controriforma di destra.
Azzerare in fretta le leggi emanate dal precedente governo
di centrosinistra. Sembra essere proprio uno degli obiettivi
centrali del programma di governo di questa maggioranza, un
obiettivo in sé, piuttosto che un passaggio politicamente comprensibile, anche se non sempre giustificabile.
Una sorta di epurazione legislativa che si accanisce con
particolare spregiudicatezza nei confronti di settori importanti
e strategici della nostra società e del nostro Paese, come la
scuola, l’istruzione, la ricerca.
La legge N. 53 del 28 marzo 2003 (la Riforma Moratti)
non si limita a delegare al Governo la definizione delle norme
generali sull’istruzione e sulla formazione professionale, decisione di per sé gravissima e contraria ad ogni più elementare
principio democratico, poiché la scuola è una istituzione e un
bene collettivo, non parte di un bottino politico di cui disporre
a piacimento senza dibattito e contraddittorio, ma contiene
al suo interno delle abrogazioni pericolose che riguardano
l’elevamento dell’obbligo di istruzione sino al quindicesimo
anno di età, come imponeva la legge n. 9 del 9 gennaio 1999,
obbligo sostituito da un generico diritto-dovere all’istruzione
ed alla formazione per almeno dodici anni, da realizzarsi, altrettanto genericamente, nel sistema di istruzione ed in quello
di istruzione e formazione professionale.
In compenso è ancora in vigore, e per fortuna, la Costituzione con i suoi articoli 33 e 34 sulla scuola e sull’obbligo scolastico e la legge 144 del 1999 sull’obbligo formativo, mentre
nel frattempo la legge costituzionale del 2001 di modifica del
44
CAMILLA SCHIAVO
titolo V della Costituzione ha aperto diversi e più complessi
scenari, chiamando in causa nuovi attori e nuove competenze
legislative “concorrenti” in materia di istruzione e formazione,
le Regioni e gli Enti Locali.
In sostanza, si elimina l’obbligo scolastico, ma si mantiene
il complesso di norme che vincolano lo Stato e le Regioni nel
garantire l’attuazione dell’obbligo formativo per tutti quei
soggetti che non si iscrivono ad alcuna scuola superiore dopo
la terza media o fuoriescono dal sistema di istruzione superiore senza conseguire alcun diploma. Un pasticcio ed un vuoto
legislativo, aggravato dalla mancanza dei decreti destinati a
disegnare la struttura specifica del segmento secondario superiore del sistema scolastico italiano, con il rischio immediato
di un progressivo incontrollabile aumento dell’abbandono
scolastico, proprio nella fascia d’età tra i quattordici e i quindici anni, quando i ragazzi socialmente e culturalmente più
deboli meriterebbero invece cure e attenzioni più forti da parte
delle istituzioni e del sistema formativo.
Si è tentato di porre rimedio con l’Accordo quadro sancito
dalla Conferenza Unificata Stato Regioni di giugno 2003, a
partire dal quale le Regioni, di concerto con le parti sociali
e con il Ministero dell’Istruzione, possono avviare azioni
legislative volte a realizzare percorsi integrati di istruzione e
formazione professionale.
Appare chiaro, a questo punto, come la necessità di superare una situazione di emergenza nella emanazione delle
norme, riveli in realtà il suo carattere di precisa scelta politica,
indirizzata a creare le condizioni per un anticipo sperimentale
del doppio canale nel settore secondario superiore, delineato
c u l t u r a
C
dalla legge di riforma e fortemente voluto da questo governo
di centrodestra.
Se si aggiunge la considerazione che proprio la riforma della scuola superiore presenta qualche grosso serio interrogativo
anche per questa legislatura, pur intenzionata a cambiare la
scuola a colpi di maggioranza, risulta più evidente la volontà
politica di affidare da subito alle Regioni la gestione del canale
della formazione professionale, mantenendo in maniera incerta e fumosa in capo alle istituzioni scolastiche l’obbligo delle
certificazioni, con buona pace delle dichiarate nobili intenzioni di assicurare il passaggio da un sistema formativo all’altro
(le cosiddette “passerelle”).
Le Regioni in questi ultimi mesi si sono in qualche modo
attrezzate ed hanno emanato leggi e sottoscritto accordi di programma con gli Uffici Scolastici Regionali per dare corpo al
Sistema Formativo Integrato.
Alcune regioni, poche per la verità, soprattutto nel centro
– nord, un esempio tra tutti il Friuli, hanno scelto la linea della
permanenza obbligatoria dei ragazzi nelle scuole secondarie
superiori nel corso del primo anno, con la possibilità di frequentare percorsi integrati nella formazione professionale. Probabilmente i crescenti numeri dell’abbandono scolastico, già prima
del compimento dell’obbligo scolastico nelle scuole medie, nelle zone del mitico ricco Nord Est hanno spinto a riconsiderare
con maggiore oculatezza il problema dell’obbligo formativo e
del rapporto tra formazione di base e mercato del lavoro.
La gran parte delle regioni italiane ha piuttosto scelto la
soluzione della accentuazione del canale della formazione
professionale legata all’apprendistato ed ai bisogni specifici
territoriali.
Il federalismo scolastico vero e proprio sembra essere cominciato da qui.
La Regione Basilicata, nel dicembre 2003, ha varato le
proprie leggi ed i relativi accordi di programma, con i quali
assicurare l’assolvimento dell’obbligo formativo mediante
percorsi triennali di istruzione e formazione professionale.
La Legge Regionale denominata “Riordino del Sistema
Formativo Integrato” affronta le politiche di intervento in
materia di obbligo formativo, fissando criteri e paletti entro i
quali rendere operative le scelte effettuate.
Alcuni aspetti del provvedimento legislativo tuttavia non
convincono.
Non convince, in linea generale, la genericità con cui si
affronta la delicatissima questione dell’obbligo formativo.
Proprio in coincidenza con la drastica ed improvvida riduzione dell’obbligo scolastico ad opera di una legge dello Stato,
sarebbe stato più prudente, in prima battuta ed in una regione
peraltro amministrata dal centrosinistra, mantenere più ampio
e riconoscibile il riferimento al sistema di istruzione scolastico, l’unico, in questa fase, davvero in grado di identificare,
sia i soggetti a rischio di abbandono e dunque di inosservanza
dell’obbligo, sia i bisogni formativi ai quali provare a dare
risposte valide in termini quantitativi e qualitativi.
Invece la nostra Regione si propone di emanare “gli indirizzi pedagogici, gli ordinamenti didattici e gli standard minimi
per la certificazione delle qualifiche e delle specializzazioni
tenuto conto degli standard definiti ancora a livello nazionale”,
intendendo altresì favorire, sulla base di intese con l’amministrazione scolastica, i passaggi tra i due sistemi, di istruzione
scolastica e di formazione professionale. Con quali strutture
formative territoriali si intende rendere operativo in tempi ragionevolmente brevi questo obiettivo?
In realtà l’Accordo quadro nazionale per la realizzazione
nell’anno scolastico 2003-2004 di una offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale nelle more
dell’emanazione dei decreti legislativi legati alla legge di riforma Moratti, recepito dal Protocollo di Intesa fra Regione
Basilicata, Ministero dell’Istruzione e Ministero del Lavoro e
delle Politiche Sociali, nonché lo stesso Accordo conclusivo
di dicembre 2003 tra Regione ed Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata, prevedevano uno spazio ed un ruolo più
consistenti per le istituzioni scolastiche e per l’autonomia per
esse sancita da Decreto 275 del 1999 ancora in vigore sull’autonomia didattica,organizzativa e di ricerca. Ciò anche
nella considerazione della necessità di valutare con maggiore
cautela il processo di accreditamento delle Agenzie Formative
pubbliche e private presenti sui territori, cui affidare il grosso
della gestione dei percorsi formativi diversificati.
Si pensi poi alla crisi che sta investendo soprattutto gli
istituti professionali di Stato e, a seguire, gli istituti tecnici, in
bilico tra l’incertezza della nuova ma non compiuta appartenenza al sistema formativo regionalizzato e la necessità, ormai
non più rinviabile, di riformare ordinamenti e curricula per
renderli davvero coerenti con le trasformazioni sociali, economiche e culturali in atto.
E di certo un sistema scolastico indebolito nella sezione tecnico - professionale non può che accentuare il rischio che corre l’effettiva attuazione del diritto-dovere all’istruzione, visto
che sono proprio le fasce potenzialmente deboli dei giovani
quelle che poi si rivolgono, almeno inizialmente, agli indirizzi
di studio professionali.
Sarebbe allora importante che si tenesse conto di tutte
queste variabili, allorquando si progettano percorsi integrati
di istruzione e formazione professionale che abbiano come
finalità prioritaria quella di garantire ad un numero il più vasto
possibile di giovani e meno giovani una formazione professionalmente valida, ma anche culturalmente solida e spendibile
anche nel medio periodo.
Sicuramente rafforzare l’acquisizione delle competenze di
base, la parte resistente dell’apprendimento, le competenze
45
c u l t u r a
cosiddette durevoli e persistenti, quelle che consentono di
affrontare con minori incertezze la sfida (e il dramma) del
lavoro flessibile e tendenzialmente sempre più precarizzato,
dovrebbe rappresentare la cifra qualitativa di ogni progetto
formativo ancorchè integrato e professionalizzante. In tal senso, il patrimonio conoscitivo delle istituzioni scolastiche, non
soltanto di quelle superiori, potrebbe rivelarsi assai utile nella
progettazione di percorsi formativi professionali e le scuole
stesse potrebbero giocare un ruolo di protagoniste nel partenariato istituzionale che necessariamente deve vedere coinvolti
diversi soggetti e settori.
Stiamo invece assistendo ad un processo di costruzione di
un sistema formativo regionale integrato che, di fatto, conferendo alle scuole il ruolo di partners fruitori delle scelte di
politica scolastica compiute altrove, finisce per produrre insieme due conseguenze, entrambe dannose per il presente e per
il futuro dell’istruzione nel nostro Paese. Mentre si assesta un
ennesimo colpo all’autonomia scolastica, opportunità e risorsa
tanto decantata e richiamata in ogni articolato di legge ma mai
come in questi ultimi tempi così schiacciata e dimenticata, si
determina nel contempo un’accelerazione verso la divaricazione predeterminata dei canali di istruzione e formazione,
così come è nel disegno politico del Ministro Moratti.
Contrariamente a quel che accade a livello nazionale, sono
convinta che nel territorio regionale un confronto continuo,
aperto e costruttivo con il mondo della scuola debba e possa
caratterizzare l’avvio di una politica formativa seria, di lungo
respiro, capace di mettere insieme le esperienze e le competenze dei diversi soggetti e settori presenti sul territorio ed
autenticamente, non soltanto economicamente, interessati a
disegnare un futuro di cittadinanza attiva per le nostre ragazze
e per i nostri ragazzi, proprio per tutti, se ancora è possibile
“non uno di meno”.
La Conferenza Regionale sulla Scuola della Basilicata, avviata oltre un anno fa per fare il punto sullo stato dell’arte del
sistema di istruzione lucano e costruire ipotesi concrete di sviluppo e di cambiamento, ed oggi ancora in via di definizione,
potrebbe trarre buona linfa da questo dialogo.
Il sistema scolastico e formativo della nostra regione non
vuole restare immobile, ha però bisogno di essere conosciuto
davvero per poter essere cambiato.
46
C
LUCIO CORVINO
Dani SICILIANO
‹ Likes…› !K7 156CD - 2004
Il nome di Dani Siciliano dirà poco alla gran parte dei lettori, ma potrebbe mettere
in attenzione coloro che si siano interessati alle produzioni di house music ed all’elettronica in generale.
La Siciliano, californiana di nascita, italiana di origine e inglese d’adozione, cantante
di notevole talento naturale, mai invadente o eccessiva, si era già messa in evidenza in
alcuni brani di “Bodily Functions” di Matthew Herbert, uno degli artisti più singolari ed
importanti nel campo della acid house.
Il lavoro della Siciliano può ora essere meglio conosciuto ascoltando il suo
debutto solista “Likes…”, uscito per la K7, etichetta che da alcuni anni si sta
distinguendo per la cura e la qualità delle sue produzioni. Qui la splendida voce
di Dani gode ovviamente del più grande rilievo; intorno ad essa la musica si
costruisce nella relazione tra tecnologia, campionamenti e strumenti acustici. Da
questa relazione scaturiscono sapori e vapori di jazz, soul, punk, country, hip-hop,
naturalmente house ed elettronica.
L’ascoltatore che voglia godere a pieno di questi suoni deve concedersi ad
essi senza fretta alcuna, dedicando ripetuti ascolti; diversamente dalle tracce del
disco si evidenzieranno soprattutto i suoni più aspri e rumoristici, presenti nella
prima parte, a fronte di una voce pur sempre suadente ed accattivante. Il disco
ha inizio con le sonorità minimali di “Same” che si vanno a sommare una ad
una in un coinvolgente crescendo di oltre nove minuti in cui la voce della Siciliano
viene campionata, frammentata, sezionata ed analizzata anche nel respiro, fino
ad emergere in modo limpido fra suoni sempre più liquidi.
Segue “Come as You Are”, del non dimenticato Kurt Cobain profondamente
sentita quanto, probabilmente, irriconoscibile. Incedere lento, ritmato da percussioni e da un suono di contrabbasso su tappeti di sonorità elettroniche. Il corno
francese di Gabriel Olegavich in grande evidenza. Bellissima rilettura/riscrittura.
“Canes and Trains” e “Walk the Line” giocano con un cantato più pop, ma
nello stesso tempo i suoni di fanno acidi. Electro rallentata, ma non per questo
meno aliena.
La seguente “One String”, completamente strumentale, gira su una nota e
sul suono di un cordofono, contrastato da frequenze disturbanti. Ricorda alcune
sperimentazioni industrial fine ‘70.
“All thee above” è un sognante duetto canoro con l’islandese Ornelias Mugison, che qui e altrove suona anche la chitarra, suoni sintetici e frequenze strambe,
tra i quali si intromette la fisarmonica, trasformando la ballata in una specie di
stralunato ed improbabile tango.
In uno stile acid house piuttosto classico attacca “Extra Ordinary” e presto
vi porterà a lasciarvi andare in un lento ma sempre più coinvolgente ondeggiamento di spalle e bacino.
Dopo le atmosfere vellutate di “She Says Cliche” si passa a quelle quasi
cabarettiche di “Red”, ancora una volta pregnanti campionamenti, elettronica e
suoni naturali, questa volta un sax.
Suono di sax, ora baritono, che ritorna anche in “Collaboration”, su accordi di
semplice intensità.
La conclusiva “Remember to Forget”, con accenni di arrangiamento di jazz orchestrale e rimandi a Mingus e Wyatt, conferma la voce e le capacità creative/ produttive
di questa signora del vocalismo contemporaneo che speriamo di poter ancora incrociare nei nostri percorsi auspicando che in molti possano avvicinarsi alla sua musica e
prestarle l’ascolto che merita.
Per approfondire la conoscenza della voce di Dani Siciliano, consiglio l’ascolto
del già citato “Bodily Function”, 2001, !K7 di Herbert e, “Goodbye Swingtime”,
2003, Accidental, a firma Matthew Herbert Big Band.
c u l t u r a
C
“L’imbalsamatore“
di Matteo Garrone
L’attenzione che la critica di tutta Europa
rivolge in questi giorni al quinto lungometraggio
di Matteo Garrone, “Primo Amore”, non riguarda
solo il grande successo che il film ha riscontrato
al festival di Berlino. Mai come in questo caso,
Garrone è riuscito ad imporsi all’attenzione del
vasto pubblico riproponendo, con sempre più forza e vigore, i temi che hanno caratterizzato il suo
cinema fin dal suo esordio. I primi tre film: “Terra
di mezzo” del 96, “Ospiti” del 98 e “Estate romana” del 01, gettano le basi per la preparazione di
un evento, il suo quarto film, “L’Imbalsamatore”.
Il film, ambientato tra Caserta e Cremona,
narra le vicende, e le solitudini, di due uomini ed
una donna. Il loro incontro rappresenterà l’inizio
di un percorso fatto di perversione, di trasgressione, che si concluderà inevitabilmente con la
morte. Garrone, attraverso un uso inconsueto del
mezzo tecnico, riesce a raccontare una storia
semplice che rispecchia una realtà fatta di degrado, di violenza, di incomunicabilità. Il pubblico
è condotto in un mondo sotterraneo, dove le leggi
morali lasciano il posto all’istinto, dove gli uomini
sono paradossalmente carnefici e vittime, (paradosso visibile anche nella scelta dei due protagonisti maschili). Non esistono ancore di salvezza per i protagonisti del film, la loro immobilità
rispecchia l’immobilità del mondo, rispecchia la
volontà di vivere la loro incapacità di vivere, rispecchia l’attrazione verso un mondo perverso
fatto di autodistruzione. C’è tutta la storia del
cinema italiano in questo film: l’alienazione di Antonioni, l’immobilità e l’attrazione per il perverso
di Fellini, la pietà e la disperazione di De Sica,
la descrizione oggettiva della realtà di Rossellini. Finalmente un regista che riesce a guardare
Postdemocrazia
Colin Crough
Editori Laterza GLF, Novembre 2003.
Pg. 148- Euro 14,00
“In questi primi anni del XXI secolo la democrazia sta vivendo una fase
contrassegnata da paradossi notevoli.
Da una parte si potrebbe dire che abbia raggiunto un punto culminante nella
storia mondiale…Contemporaneamente, tuttavia, nelle democrazie consolidate
dell’Europa occidentale, del Giappone,
degli Stati Uniti d’America e in altre regioni del mondo industrializzato in cui la
democrazia è generalmente considerata
come acquisita, …., la situazione è meno
ottimistica“. L’incipit del libro ci porta subito al cuore del problema: alla massima
estensione delle forme di democrazia nel
mondo sta corrispondendo un processo
degenerativo di questa forma politica che
vede sempre più sostituire il concetto di
democrazia rappresentativa con una forma di governo della società in cui contano
le lobbies, i leaders populisti, il controllo
dei mass media , la televisione in primo
luogo, i sondaggi di opinione, il marketing.
Una forma di politica che si nutre dei limiti della democrazia e che Crough chiama
postdemocrazia, che non è totalitarismo
ma una evoluzione, una mutazione genetica delle idee di Locke e Rousseau.Questo
processo che sarebbe banale e fuorviante associare a forme di governo non democratiche, è particolarmente pericoloso
perché ancora non esistono le categorie
teoriche per interpretarlo e si coniuga con
un declino (presunto?) della classe operaia
e della sua centralità politica, economica e
sociale e la crisi delle teorie egualitaristiche che pure erano alla base del pensiero
liberale e democratico a partire dal 1700
in poi. Ridurre i mali della democrazia a un
problema di “fase” e attribuire la colpa di
tutto a particolari leader politici, al potere
dei mass media significa non capire che
si stanno verificando processi ben più profondi e che ci troviamo di fronte un ritorno
di élite privilegiate come accadeva prima
dell’avvento della democrazia. “In potenza,
tutti i componenti formali della democrazia
sopravvivono nella postdemocrazia…….La
globalizzazione degli interessi economici e
la frammentazione della restante popola-
la propria storia senza rinnegarla, a riproporre
i temi che hanno reso il nostro cinema il fulcro
di un contesto culturale, ancora oggi stimato ed
apprezzato in tutto il mondo. Un plauso va fatto
anche al produttore del film, Domenico Procacci della ”Fandango Film“, ragazzo capace di far
quadrare i bilanci promuovendo film di qualità,
dimostrando, a chi nutriva ancora dei dubbi, che il
buon cinema riesce sempre ad appagare tutte le
nostre esigenze: di tasca, di testa, di cuore.
NICOLA ERRICO
GERT
zione producono questo fenomeno, spostando l’asse politico da coloro che cercano
di limitare le disuguaglianze di ricchezza e
potere a favore di coloro che desiderano
riportarle ai livelli predemocratici”. Il più
importante, elemento che caratterizza la
postdemocrazia è costituito dal crescente
potere politico dell’azienda, dalla capacità
delle multinazionali di determinare le scelte politiche delle nazioni e dall’incapacità
dei governi e, in ultima analisi, della politica
di svolgere quella funzione di mediazione
degli interessi economici che è poi alla base
della democrazia. Il saggio rappresenta un
contributo interessante alla lettura della
contemporaneità con degli importanti elementi di ricerca che andrebbero articolati
nella lettura della situazione italiana.
47
S udPosizioni
Mezzogiorno
Duemila
Esiste ancora una
questione meridionale?
Meridionalismo storico e “nazione italiana”.
Il sud nell’età della globalizzazione
tra radici identitarie e modernizzazione.
È da quasi venti anni, da quando per la prima volta il
quesito fu posto dal gruppo di “Meridiana” promosso da
Carmine Donzelli e Piero Bevilacqua, che a sinistra ci si
interroga ricorrentemente se esista ancora una “questione
meridionale”. E la risposta è per lo più negativa. In verità
non erano mancati precedenti di una siffatta impostazione
in altri filoni culturali e politici. Si pensi solo al Censis e
all’idea di uno sviluppo a “macchia di leopardo” elaborata
da Giuseppe De Rita che del Censis è stato il creatore e il
principale animatore.
Tuttavia, in questo ventennio il divario tra Nord e Sud è
cresciuto pressoché ininterrottamente, sia sul piano materiale che su quello dello spirito pubblico, fino a tornare ad
essere, come aveva affermato Giustino Fortunato in alcune
tra le sue più pessimistiche valutazioni sulla condizione
dell’Italia meridionale, un vero e proprio scarto di “civiltà”. Appunto, “due Italie”.
Bisogna, perciò, capire le ragioni di queste dichiarazioni di morte pressoché unanimi della questione meridionale, nonostante la situazione di fatto che l’ha generata non
solo permanga ma anzi si sia aggravata. La verità è che
la questione meridionale è stata finora indissolubilmente
legata al contrastato percorso in cui l’Italia è diventata
nazione. Ha costituito contemporaneamente l’esempio
paradigmatico della debolezza di questo processo e un
fattore della sua realizzazione. Essa s’impone, a cavallo
tra ottocento e novecento attraverso l’azione di Fortunato
e Nitti innanzitutto, quale uno dei problemi costitutivi di
fondo della costruzione dello Stato unitario italiano. E
dopo che il fascismo opera, invece, una grande rimozione
48
PIERO DI SIENA
dei problemi del Mezzogiorno e la sua propaganda tende
a darli per risolti nell’ambito della politica del regime,
nel secondo dopoguerra la questione meridionale torna in
campo. Torna ad essere, cioè, una delle chiavi di volta di
quel processo definito da Franco De Felice di vera e propria ricostruzione della “nazione italiana”, rappresentato
dalla nascita e dallo sviluppo della Repubblica. Nel secondo dopoguerra, infatti, la sinistra e in particolare il partito
comunista tendono a presentarsi come gli eredi del meridionalismo classico, dandosi, anche per questa filiazione,
un profilo di forza nazionale, libera di ogni residua matrice
sovversiva e perciò impegnata nell’edificazione del nuovo
Stato democratico. La Democrazia cristiana e gli eredi del
meridionalismo democratico d’ispirazione laica, che pure
conducono un’aspra polemica con le pratiche clientelari
della Dc meridionale, sviluppano una reinterpretazione
della questione meridionale sostanzialmente convergente sul piano culturale. Le soluzioni al divario tra Nord e
Sud vengono cercate nel duplice incardinamento della
Repubblica nata dalla Resistenza, sul piano nazionale, in
una nuova forma di convivenza democratica tra le grandi
componenti politiche e ideali del paese e, su scala internazionale, nell’inserimento dell’Italia nel mercato aperto
egemonizzato dagli Stati Uniti. Ne deriva una particolare e
originale fusione tra alcune impostazioni ricavate da filoni
del meridionalismo democratico e dal nittismo e le teorie
sulle aree depresse di origine anglosassone e le strategie
dello sviluppo che da esse discendono. Da ciò scaturisce
l’esperienza dell’intervento straordinario, dalla legge
stralcio di riforma agraria alla costituzione della Cassa del
sudposizioni
S
Mezzogiorno. Il principale esponente
di questo orientamento è Pasquale
Saraceno, che per queste stesse ragioni
può definirsi, insieme a Manlio Rossi
Doria, l’ultimo rappresentante del meridionalismo.
È questo un orientamento che opera
sin nel cuore degli anni Sessanta, come
dimostrano i due convegni di San Pellegrino della Democrazia cristiana in
cui vengono elaborati i tratti essenziali
della cultura di governo del primo centrosinistra, in uno dei quali è lo stesso
Saraceno a tenere una delle relazioni di
base.
Dunque, si comprende facilmente
perché il meridionalismo entra in crisi
nel corso degli anni Settanta fino alla
messa in discussione, come abbiamo
detto anche a sinistra, dell’esistenza
stessa di una questione meridionale.
Essendosi essa affermata in un rapporto indissolubile con le tappe più significative della costituzione della “nazione
italiana”, entra in crisi quando (al pari
degli altri paesi economicamente avanzati) anche in Italia inizia sotto i colpi
della rivoluzione neoconservatrice e
neoliberista agli esordi il declino dello
“Stato-nazione”. Non è un caso che
tutti gli interventi che a partire dagli
anni Ottanta sono stati dedicati al Mezzogiorno - sia quelli ispirati a modelli
di sviluppo locale che sarebbero dovuti
succedere all’intervento straordinario,
che ha i suoi principali esponenti in
Meldolesi, Trigilia e Viesti, sia quelli
che rimettono in campo una identità
irriducibile del Mezzogiorno, in chiave
simbolica e antropologica come Cassano, in chiave comunitaria come Alcaro
- hanno esplicitamente escluso che il
Mezzogiorno possa essere interpretato
in rapporto al Nord e quindi entro una
dimensione nazionale.
Il problema è che, nell’uno e l’altro
caso, il Mezzogiorno rischia di essere
pensato in rapporto a nient’altro se
non a se stesso. L’interrogativo che
ci si pone oggi è invece se è possibile riformulare una “nuova questione
meridionale” oltre la dimensione dello Stato-nazione, in rapporto cioè ai
processi in corso di globalizzazione
dei mercati, della competitività, della
comunicazione.
Per rispondere a questa domanda
bisogna capire bene che cosa è successo in Italia meridionale nel corso
degli anni Novanta, ricostruire cioè
dal punto di vista del Mezzogiorno
il passaggio tra prima e seconda Repubblica, che costituisce l’epilogo di
quel processo che abbiamo definito
ricostituzione della “nazione italiana”.
Gli anni Novanta sono stati per il Sud
un periodo cruciale. Tutto si è trasformato nell’arco di un decennio. Con
la fine dell’intervento straordinario e
l’accelerazione del processo di privatizzazione dell’impresa pubblica è
cambiato il rapporto con lo Stato, e se
ne è stabilito uno nuovo con i programmi di spesa dell’Unione europea. Ne è
seguita una mutazione dal basso delle
classi dirigenti, soprattutto a partire
dalla riforma elettorale che stabilisce
l’elezione diretta dei sindaci. Si sono
accentuati gli squilibri interni e si è
verificata una sorta d’inversione tra la
“polpa” e l’”osso” (per usare i termini
di Manlio Rossi Doria) dell’economia
e del territorio meridionali. Ad eccezione della Calabria, le aree interne della
dorsale appenninica, tradizionalmente
più povere e sottoposte a un ulteriore
impoverimento fino agli anni Settanta,
a metà degli anni Novanta sono protagoniste di un inedito dinamismo. Le
grandi città, almeno dal punto di vista
49
sudposizioni
economico, restano al palo, mentre
la provincia di Avellino, la Basilicata
e il Molise sembrano marciare verso
la soglia che presto le avrebbe potute
portare fuori dal complesso delle aree
svantaggiate, dove da tempo si è già
collocato l’Abruzzo.
La lotta alla criminalità organizzata
lungo la scia dell’impegno del pool antimafia di Palermo, che culmina nel sacrificio di Falcone e Borsellino, diventa
agli inizi degli anni Novanta patrimonio
diffuso in tanta parte dell’opinione pubblica meridionale. Attraverso questa lotta viene vista la possibilità di realizzare
un riscatto civile e democratico della
società meridionale, vissuto come preliminare allo stesso miglioramento delle
condizioni sociali e economiche.
Tutto ciò è avvenuto, tuttavia, nel
quadro di un divario complessivo con
il centro-nord che è cresciuto. La forbice tra le due Italie si è allargata. E la
principale linea di demarcazione, quella che segna la differenza di sistema tra
le economie delle due parti del paese,
resta il differente tasso di disoccupazione. Una differenza quantitativa che
diventa qualitativa, quando uno dei due
poli è un’area di piena occupazione. Si
divaricano ulteriormente a quel punto
gli stili di vita, il modo di rapportarsi
al lavoro, la relazione che si stabilisce
tra tempo di lavoro e tempo libero, e la
stessa organizzazione di quest’ultimo.
Ma le differenze qualitative investono anche altri campi. Diventano più
forti nei trasporti e nei sistemi di comunicazione in genere. In alcuni si accentua la dipendenza. Si pensi ad esempio
a come, nel processo di privatizzazione
e riorganizzazione del sistema bancario, le banche meridionali siano state
assorbite da quelle del centro-nord. Si
guardi poi al sistema politico: la crisi
e la scomparsa dei vecchi partiti di
massa porta a una tendenziale regionalizzazione delle forze politiche e, di
conseguenza, a un’involuzione di tipo
provinciale dell’agire politico.
50
Nel corso degli anni Novanta l’Italia
declina il suo appuntamento con i processi di globalizzazione attraverso un
doppio e opposto movimento: il primo
è quello della svalutazione competitiva
che va dal settembre del ‘92 al ‘96, il
secondo è quello che segue alla decisione del governo Prodi di accelerare
il processo di risanamento del bilancio
pubblico in funzione dell’ingresso
dell’Italia nella moneta unica europea.
Quali possano essere gli effetti sul
Mezzogiorno di questa seconda scelta
(a parte quello generale di mantenere
il primo e principale punto di contatto
con il processo di integrazione europea) è presto per dire. Sono invece
del tutto chiari i risultati del
primo movimento. Anzi credo “La forbice tra le due
che si possa dire che ad essi
è possibile far risalire quella Italie si è allargata.
trasformazione del divario con E la principale linea di
il nord da prevalentemente demarcazione resta
quantitativo a qualitativo.
il differente tasso di
Intanto il Mezzogiorno è la
principale vittima della “cura disoccupazione”
da cavallo”, in termini di risanamento del bilancio pubblico, che nel
‘92 viene realizzata -contemporaneamente alla svalutazione della lira - dal
primo governo Amato. Il giro di vite
sulla spesa pubblica nel Mezzogiorno
non riguarda solo l’esaurimento dell’intervento straordinario che, in una
fase di contrazione della spesa ordinaria, si traduce in una perdita secca di
investimenti, ma in una vera e propria
insolvenza in termini di cassa da parte
dello Stato verso le imprese meridionali. La svalutazione della lira non ha
poi al sud quegli effetti benefici che
ha al nord, contribuendo a imporre sui
mercati internazionali quel fenomeno
di crescita che si era già ampiamente
manifestato nel nord-est. A differenza
del Veneto e delle Marche, e in generale delle altre regioni del centro-nord,
il Mezzogiorno non ha un’economia
pronta ad affrontare le sfide dell’export. Anche a causa della rilevanza
S
sudposizioni
S
Nella foto:
Francesco Saverio Nitti, Tommaso Pedio,
Nino Calice, Rocco Scotellaro, Manlio
Rossi Doria, la biblioteca di Palazzo
Fortunato.
della pubblica amministrazione nella
composizione relativa del suo sistema
economico, il mercato interno, in quegli anni depresso anche a causa della
tregua salariale e della politica dei
redditi concertata tra imprese governo
e sindacati a partire dal ‘93, resta la
sua principale risorsa. Con il lavoro dipendente il Mezzogiorno è la parte del
paese che più d’ogni altro ha pagato i
costi del risanamento.
Gli anni Novanta sono stati anche gli
anni in cui fervono una serie di misure
che puntano, in relazione anche ai nuovi flussi finanziari che provengono dall’Unione Europea, a un rinnovamento
totale degli strumenti di politica economica per il Sud (patti territoriali; contratti d’area; c’è chi parla addirittura di
“zone franche”). A ciò si accompagna
la speranza di un rinnovamento radicale delle classi dirigenti attraverso quella che è conosciuta come la “stagione
dei nuovi sindaci” eletti direttamente
dai cittadini. Ma alla prova dei fatti, la
cosiddetta contrattazione programmata
(contratti d’area e patti territoriali), che
doveva coniugare l’intervento dall’alto
con il protagonismo dal basso degli
attori istituzionali, economici e sociali,
non ha dato gran prova di sé.
Essa ha avuto il difetto di eludere
due questioni di fondo. La prima è che
non esistono scelte di politica attiva
che possano correggere o capovolgere
gli effetti di un andamento macroeconomico sfavorevole. Il Mezzogiorno è,
in sintesi, la principale vittima in Italia
del prevalere delle tendenze neoliberiste nel corso degli anni Novanta. La seconda, a questa strettamente connessa,
consiste nel fatto che le trasformazioni
di questo decennio sono state nel sud
produttrici di “passività”. E l’esperienza ci dice che il Mezzogiorno ha conosciuto veri e propri balzi in avanti solo
in presenza di forti movimenti sociali,
che hanno accompagnato il cambiamento, come nel caso del movimento
per la terra all’indomani della seconda
guerra mondiale, o che l’hanno persino
contrastato, come nel caso del brigantaggio agli albori dell’unità nazionale o
delle rivolte del ‘70 rispetto alla nascita
delle Regioni.
La sinistra meridionale, nel corso
degli anni Novanta, ha cercato di supplire a questa passività puntando sulla
51
sudposizioni
risorsa istituzionale dei nuovi amministratori locali, quale forza motrice della
nuova riforma che ricostruisse una prospettiva democratica dopo il fallimento del pentapartito e dell’intervento
straordinario. Il principale teorizzatore
di questo rinnovato ricorso alla concezione di Guido Dorso dei “cento uomini di ferro” come leva per il riscatto
meridionale, in esplicita soluzione di
continuità rispetto al meridionalismo
comunista che aveva puntato prevalentemente su una mobilitazione di strati
sociali profondi, è stato nel corso del
decennio Isaia Sales. La principale
esperienza politica che ha rappresentato questo orientamento è stata quella di
Antonio Bassolino a Napoli.
Ora qualunque sia il giudizio su
quella azione di supplenza e sulla sua
funzione riformatrice, sembra evidente
che essa abbia concluso con il nuovo
decennio il suo ciclo. Il rapporto poi
tra Ulivo al governo e questa presenza politica della sinistra nel Sud ha di
fatto riproposto un sistema di comando
dall’alto sulle politiche orientate al
Mezzogiorno. L’impresa e non il lavoro diventa per l’Ulivo l’unico potenziale soggetto innovativo nella realtà
meridionale. Tutto ciò smorza il dinamismo delle amministrazioni locali,
produce un effetto di passività su cui si
è innestata la rivincita, concretizzatasi
nelle elezioni politiche del 2001, delle
vecchie classi dirigenti meridionali
passate (ad eccezione della Basilicata
e della Campania) quasi per intero alla
Casa delle libertà.
A veder bene proprio in questa “passivizzazione” della società meridionale
prodotta dalle trasformazioni degli anni
Novanta sta la ragione della vittoria
elettorale della destra nel Mezzogiorno
nelle elezioni politiche del 2001. Gli
uomini di governo dell’Ulivo si sono
spesso stupiti del fatto che la sconfitta
della coalizione allora al governo sia
stata prodotta essenzialmente dal voto
52
dei meridionali, nonostante nei cinque
anni di governo di centrosinistra anche
grazie alla congiuntura internazionale
favorevole al Sud siano migliorate le
condizioni dell’occupazione e dell’economia in generale. Ora il paradosso è
che la destra al governo ha ricompensato il voto del Mezzogiorno eliminando
dall’orizzonte della sua azione politica
qualsiasi intervento orientato a favore
dell’economia meridionale. Tra i primi
atti di governo di Tremonti, a partire
dalla legge finanziaria per il 2002, vi
è stata infatti la cancellazione di tutti
quei provvedimenti del centrosinistra a
sostegno degli investimenti e dell’occupazione nel Mezzogiorno.
Ma la verità è anche un’altra. A
sinistra si è smarrita la percezione di
una questione di fondo. Non si comprende più che, se un’azione politica
non è in grado di suscitare, oltre che
risultati concreti, anche partecipazione
democratica e autonomizzazione della
società civile, alla lunga è il vecchio
ordine costituito a prevalere. È quello
che è accaduto nel Mezzogiorno. Naturalmente, nulla è perduto. Come è già
avvenuto in altri momenti della recente
storia d’Italia, il Sud potrà essere in
grado di esprimere un rapido cambio di
rotta, una ventata democratica capace
di tradursi anche in radicali mutamenti
dell’orientamento elettorale. I segnali
ci sono: dalla lotta di Scanzano a quella di Rapolla sul tracciato dell’elettrodotto alla rivolta degli operai della Fiat
di Melfi, alla marcia Gravina-Altamura
per la pace e contro i presidi militari,
alla grande manifestazione di Eboli
contro il condono degli abusi edilizi
voluto dal governo di centrodestra.
Il problema è come dare una prospettiva a questo risveglio incipiente
della società meridionale, evitare
che esso sia solo una parentesi senza durature conseguenze. Per questa
ragione è essenziale che la sinistra
si misuri con la necessità di mettere
in campo una “nuova questione me-
S
ridionale”, non solo con la creazione
di misure a sostegno dell’economia ma
con la definizione di un nuovo ruolo
complessivo del Mezzogiorno nella
soluzione delle grandi contraddizioni
del tempo presente. Di fronte alle sfide
che la globalizzazione pone all’Italia, si
tratta di ripensare il Mezzogiorno come
uno degli attori capaci di produrre culture, istituzioni, classi dirigenti, modelli
alternativi a quelli dominanti. Dal Sud ci
si aspetta un contributo a superare il declino del paese, accelerato dalla politica
di governo delle destre ma originato in
verità da processi di più lungo periodo.
Si tratta dello smantellamento progressivo, con la fine dell’industria di Stato,
dei settori industriali strategici, della
crisi della ricerca, della qualità della
vita democratica. Insomma, il quesito
tradizionale che ha caratterizzato tanta
parte della vecchia “questione meridionale” va rovesciato. Non si tratta di interrogarsi su che cosa il paese possa fare
per il Mezzogiorno ma viceversa. Le
stesse misure di politica pubblica, che
bisognerebbe rilanciare dopo anni di totale assenza, tese a irrobustire la fragile
armatura dell’economia e della società
meridionali debbono essere collocate
entro questo quadro generale, orientato
a liberare nel Mezzogiorno risorse capaci di contribuire alla costruzione di un
nuovo e alternativo modello di sviluppo
che strappi l’Italia dal declino. In questo
contesto, la questione meridionale o ritorna ad essere aspetto essenziale della
“questione democratica”, come è accaduto nei momenti più felici del rapporto
tra Mezzogiorno e storia nazionale, o
non è.
A questo scopo deve tornare nel
Mezzogiorno una discussione da tempo appannata sulle “forze motrici” del
cambiamento. Si può pensare che esso
avvenga per un impulso che viene solo
dall’alto? Quali sono le risorse di cui il
Mezzogiorno dispone nel suo seno per
partecipare ad un’inversione di tendenza
del corso delle cose?
sudposizioni
Foto di Giacomo Silvano
S
Dopo la lotta di Scanzano Fausto
Bertinotti ha parlato di una risorsa
“comunitaria” che può alimentare
una nuova stagione di movimento nel
Mezzogiorno. Il tratto identitario che
reagisce a un’intrusione esterna di un
processo di modernizzazione che alla
fine produce solo distruzione e devastazione riporta alla luce un legame
sociale che sembra mettere in secondo piano differenze di classe, diversi
orientamenti politici e culturali. Il
“pensiero meridiano” di Cassano e il
“comunitarismo” di Alcaro sembrano,
a partire da Scanzano, aver trovato le
gambe su cui camminare.
In effetti, le riflessioni sul Mezzogiorno ispirate a quello che Franco
Cassano ha battezzato con il nome
appunto di “pensiero meridiano” trovano la loro motivazione più profonda
proprio nella necessità di reagire alla
passività, la quale, secondo queste impostazioni, sarebbe originata proprio
dalla distruzione dei tratti identitari
del Sud da parte di una modernizzazione di basso profilo e senza qualità.
Questo mi pare il filo conduttore di declinazioni di pensiero per altri aspetti
molto lontane tra loro, che vanno dalla
nuova antropologia e dalla ideologia
della “lentezza” di Franco Cassano al
“comunitarismo” di Alcaro ai modi
in cui riaffronta il tema dei sistemi
locali il più recente Piero Bevilacqua.
Indipendentemente dalle intenzioni dei
protagonisti di queste riflessioni, esse
potrebbero effettivamente costituire,
come sembra pensare Bertinotti, il
punto di riferimento di una sorta di
“antagonismo meridionale” verso la
globalizzazione.
Queste posizioni hanno soprattutto
il merito di aver mantenuto rispetto
al Mezzogiorno un rapporto “critico”
con il moderno, in anni in cui anche
a sinistra la subalternità ideologica ai
processi di modernizzazione in atto era
apparsa soverchiante. E solo chi non
conosce a fondo il Mezzogiorno può
sottovalutare la funzione democratica
e partecipativa che, soprattutto nei
piccoli comuni, può avere la risorsa
“comunitaria” su cui si sofferma Alcaro, e oggi riscoperta dal segretario di
Rifondazione comunista.
Queste impostazioni, tuttavia, a mio
parere rischiano di essere infeconde, laddove la critica del moderno si
trasforma in un suo radicale e totale
“rifiuto”. E a questo pericolo rischia
di non sottrarsi nemmeno il segretario
di Rifondazione. Un nuovo progetto
riformatore nel Mezzogiorno ha bisogno certamente di una operazione che
definirei gramscianamente egemonica,
che sappia cioè ripensare complessivamente stili di vita, politica e economia,
dimensione simbolica e vita quotidiana. Ma tutto ciò non sarà possibile se
al Sud non si mette a tema un rinnovato
rapporto che dialettizzi e relazioni tradizione e innovazione, identità e trasformazione.
Il quesito, che finora non ha avuto
una risposta, è se questo sia possibile
senza che a costruire questa nuova prospettiva non partecipino soggetti che
siano figli dello stesso processo di modernizzazione distorto che ha investito
il Mezzogiorno e che in quanto tali
possono costituire una critica intrinseca, e perciò più efficace dal punto di
vista pratico, ad esso.
Per questo motivo, ormai quasi un
decennio fa, introducendo la prima
parte dell’inchiesta operaia alla Fiat
di Melfi condotta con Vittorio Rieser e
pubblicata in due numeri distinti sulla
rivista “Finesecolo”, ho avanzato l’ipotesi che uno di questi soggetti potesse
essere la nuova classe operaia meridionale, della grande e della piccola
impresa, metalmeccanici e lavoratori a
nero. Uomini e donne per lo più giovani a cui il sindacato da solo non riesce
per forza di cose da solo a dare identità
e funzione, giacché è del tutto evidente
che questo ruolo la nuova classe operaia
53
sudposizioni
meridionale potrà svolgerlo scoprendo
percorsi del tutto inediti nella formazione della propria coscienza di classe
rispetto ai modelli praticati nell’epoca
del fordismo. Si tratta, insomma, per
questo aspetto di esplorare strade nuove e soprattutto di saper cogliere la
grandissima novità che si è manifestata
a Melfi nel corso delle ultime lotte che
hanno - finalmente dopo un decennio coinvolto la grandissima maggioranza
dei lavoratori e delle lavoratrici della
Fiat e dell’indotto.
Ma quello che può valere per la
nuova classe operaia riguarda anche
le nuove generazioni figlie della scolarizzazione di massa, che sono costrette
all’inoccupazione cronica o a alimentare in modo sistematico un nuovo
flusso migratorio. Può riguardare le
donne, tra le quali più forte può essere
la consapevolezza della contraddizione
tra emancipazione e coscienza della
differenza di sesso ormai acquisita e
condizioni materiali di un vivere civile
fondato su vecchi stili e gerarchie.
L’orizzonte a cui debbono guardare
questi nuovi potenziali protagonisti
della lotta per il riscatto del Mezzogiorno, soggetti di un nuovo blocco
storico in formazione, è la nuova
Europa politica in costruzione. Oggi,
nell’epoca della globalizzazione,
l’Europa può essere per la questione
meridionale ciò che, fino alla metà del
secolo scorso, è stata la costituzione
dell’Italia come nazione. Il processo
di formazione dell’Europa politica è
il terreno elettivo su cui la sinistra
può costruire una propria alternativa
alla globalizzazione competitiva. E
il Mezzogiorno, come ci ricordano
da anni Amoroso e Barcellona, può
essere il ponte che nel Mediterraneo
costruisce un rapporto tra Europa e
mondi “altri”, prima che la dottrina e
la pratica della guerra preventiva riduca i due lati delle sponde a un cumulo
di macerie.
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I contenuti di una simile prospettiva
sono quelli di una politica che assegni
al Mezzogiorno un posto nei processi
di internazionalizzazione, nell’ambito
di una lotta e di un confronto - di cui il
Sud sia uno dei principali protagonisti
- teso a sostituire alla competizione
senza regole e senza confini del neoliberismo una nuova divisione internazionale del lavoro. È dentro questa
sfida che le risorse identitarie del Mezzogiorno saranno messe alla prova e le
sue energie rese feconde. I problemi
del differenziale di sviluppo e delle
contraddizioni a livello territoriale acquistano così nella dimensione europea
un ruolo costituente. La nuova Europa
non può fermarsi a Maastricht se vuole
coniugare unità politica e costruzione
di un nuovo originale modello di sviluppo che la strappi dalla lunga stagnazione che caratterizza le sue economie
nel quadro della competizione globale,
senza che necessariamente la sua “civilizzazione” sia travolta da un processo
di inarrestabile “americanizzazione”. Il
Mezzogiorno d’Italia saprà trovare un
suo ruolo in questa lotta? È difficile
dirlo, in un mondo che si rivela così
gravido di inquietanti incognite, ma
solo se questo dovesse accadere si potrebbe dire che, finalmente, è rinata una
“questione”.
Questo articolo costituisce lo sviluppo di
un precedente contributo apparso su “Critica
marxista”, 5, 2000.
S
Mezzogiorno
Duemila
Esiste ancora
una questione
meridionale?
e ditoriale
responsabili delle politiche regionali, sono
sotto gli occhi di tutti, semidesertificazione di
alcune zone, insufficiente offerta di servizi di
qualità da parte dei poli urbani esistenti,fragilità
del sistema imprenditoriale, disoccupazione diffusa, marcata emigrazione giovanile alla ricerca
di occupazione qualificata.
La storica debolezza dell’ economia, la sua
dipendenza dalla spesa pubblica hanno strutturato in modo gerarchico il rapporto tra potere
politico e società, affidando in modo esaustivo
al ceto politico il ruolo di classe dirigente, limitando di fatto l’ autonomia dei soggetti sociali e
dell’ insieme della cittadinanza in questo modo
limitando fortemente la capacità di sviluppo e di
autonomia della società civile.
È un modello ereditato dal recente passato che
continua a riproporsi se possibile, in modo ancora
più marcato per la crisi dei partiti ed altri corpi
intermedi che hanno caratterizzato il modo di essere della democrazia nel nostro Paese. La sinistra
lucana che è parte autorevole del sistema politico
regionale e del governo della Regione, a nostro
parere non può sperare di completare il percorso
di crescita e di mutamento della regione affidandosi
alle buone performance amministrative ed a una
gestione oculata delle risorse se non vi affianca il
compito di introdurre un processo di trasformazione
dello schema ristretto entro cui si è dipanata la vita
democratica della Basilicata.
È impensabile, se non ad improponibili e
nefandi despoti illuminati, attuare politiche di
equità senza una partecipazione attiva,che si
esprime sia con i diritti di cittadinanza che con
la rappresentanza, dell’ intero corpo sociale che
moderi gli appetiti dei gruppi più ricchi e più
organizzati. L’iniquità sociale d’altra parte come
avevano ben capito illustri economisti all’ inizio
del novecento e come vediamo in questi giorni
in Italia, deprime l’intero quadro economico,
blocca lo sviluppo del territorio in cui si determina. Il problema oggi è esattamente quello di
ridare alla politica quel ruolo di mediazione di
interessi opposti che collochi le scelte economiche e sociali in un regime di compatibilità con
interessi sociali e territoriali, per impedire quella
deriva che è parte strutturale dei processi di globalizzazione che vede le scelte politiche subordinate agli interessi delle multinazionali fino alle
estreme conseguenze e che stanno consegnando
due terzi del mondo all’indigenza e alla disperazione. È per questo che l’insieme dei nostri
problemi economici e sociali, non può essere
affrontato se non si pone al primo posto il tema
della democrazia e della sua promessa più matura: un rapporto non gerarchico ma dialettico tra
potere e società, tra governanti e governati.
La democrazia, nella cultura politica degli
USA e dell’ Europa (il nostro mondo), è considerato il bene supremo. L’azione degli USA in
segue dalla copertina
Irak, ispirata dall’idea eticamente aberrante della
guerra preventiva e con il pretesto di mai ritrovate armi di distruzioni di massa di cui avrebbe disposto Saddam, è ora giustificata dalla necessità
di portare la democrazia in un Paese angariato da
un tiranno sanguinario.
Anche in Italia l’ideale della democrazia è
continuamente riproposto come principio
ispiratore dell’ azione del Presidente del Consiglio che usa disinvoltamente ed erroneamente sul piano storico-politico, ma opportunamente sul piano ideologico il comunismo
come ombra minacciosa sul limpido cammino della democrazia e nello stesso tempo
quotidianamente attacca e cerca di indebolire
istituzioni autonome e di garanzia che della
invocata democrazia sono forza e sostanza.
C’è nel pensiero della destra italiana una tendenza ad interpretare in modo assolutistico il
mandato di maggioranza, in assoluta contraddizione con il pensiero liberale a cui dice di
ispirarsi che è invece tradizionalmente attento
alle prerogative dei poteri terzi e degli istituti
di garanzia e complessivamente diffidente
verso l’invasività del potere politico.
Il terreno su cui si muove, in particolare il
partito di Berlusconi è invece quello della democrazia plebiscitaria che, ed è qui la sua forza,
è l’esito prevedibile della crisi di rappresentanza
dei corpi politici intermedi, dei partiti e del sindacato.
Con questa crisi la sinistra italiana si è misurata, in maniera inadeguata cercando di cavalcare
l’opinione maggioritaria, con atteggiamenti a volte speculari a quelli della maggioranza al governo,
con insufficiente grado di autonomia, spesso con
sudditanza culturale ancorché politica e i cui risultati risultano incomprensibili ai più.
In questo quadro vanno anche letti i problemi
della nostra regione che risultano di difficile
soluzione. In un quadro complessivo,di dipendenza della società dalla politica, i partiti di
massa, fungevano da collante effettivamente
rappresentativo dei bisogni sociali, tra potere
politico e cittadini; in un quadro profondamente
mutato, altre modalità devono essere sperimentate e messe in campo.
Questo significa rivitalizzare i tradizionali
luoghi della politica e sperimentarne di nuovi,
far uscire la politica dal recinto della gestione e
della mediazione fine a se stessa, produrre una
nuova ‘mission’ che senza costruire fughe dal
presente si confronti col futuro a partire dai valori e dai progetti, trasformando quella attenzione
e voglia di partecipazione espressa nella vicenda
Scanzano in un progetto politico e sociale di alto
profilo. Una ricerca di cui con questa nostra rivista vogliamo semplicemente, e modestamente,
essere parte.
laboratorio della sinistra lucana
Editoriale
Benvenuto decanter
1
Politica e società
Operai in libertà.
Fiat di Melfi una lotta che scuote il paese
‹Antonio Califano›
3
Regione: centrosinistra al bivio
‹Antonio Placido›
5
Innovazione stella polare del riformismo.
Intervista al Presidente Bubbico
‹Anna Maria Riviello›
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Scanzano mon amour
‹Antonio Califano›
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Cronache dal nucleare.
Scuola, territorio e democrazia diretta
‹Eustachio Nicoletti›
14
Industria in Val Basento. Un’altra falsa partenza?
‹Davide Bubbico›
16
Il Reddito di Cittadinanza
‹Adriana Buffardi›
25
I racconti
Un libro mai scritto
Dizionario
‹Vito Riviello›
27
Come Ionio da Montalbano
distruse il mostro di Scanzano
‹Antonio Petrocelli›
31
Cultura
La storia bandita. Una terra tra memoria e futuro
‹Anna Maria Riviello›
35
L’età ridente
‹Simone Calice›
39
Il lavoro degli immigrati nel melfese
e nell’alto Bradano
‹Davide Bubbico›
40
L’istruzione è ancora un obbligo?
La Regione e la Riforma Moratti
‹Camilla Schiavo›
44
Musica, cinema, libri
‹Lucio Corvino|Nicola Errico|Gert›
SudPosizioni
Mezzogiorno duemila:
esiste ancora una questione meridionale?
‹Piero Di Siena›
29
46/47
48
La direzione
55
Fiat di Melfi
contributi sullo sviluppo della fabbrica “integrata”.
Speranze e delusioni di una giovane classe operaia
CALICEDITORI
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