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APPLICABILE L’AGGRAVANTE DEL “METODO MAFIOSO”
AI DELITTI PUNIBILI IN ASTRATTO CON L’ERGASTOLO
dott. Vito Andrea Auletta
Con sentenza n. 337/2009, le Sezioni Unite penali hanno dato risposta al quesito se sia «applicabile
la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152/1991 (L. n. 203/1991) ai delitti punibili in
astratto con la pena dell’ergastolo, quando venga inflitta, in concreto, una pena detentiva diversa
dall’ergastolo”: sul punto, infatti, ancora non esiste un orientamento giurisprudenziale uniforme.
I termini del contrasto. Secondo un primo indirizzo, in verità rimasto minoritario, l’aggravante del
“metodo mafioso” non è applicabile ai delitti per i quali sia prevista in astratto la pena edittale
dell’ergastolo, essendo irrilevante l’entità della sanzione comminata in concreto (in tal senso si è in
precedenza espressa la prima sezione della Suprema Corte con sentenza n. 28418/2002). Tale
impostazione si basa su un’interpretazione letterale, avulsa dalla ratio legislativa, dell’art. 7 d.l. n.
152,nella parte in cui prevede che per l’operatività dell’aggravante è necessario che siano
configurabili “delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo”: infatti, il legislatore avrebbe usato il
termine “puniti” e non “punibili” se avesse ritenuto applicabile l’aggravante de quo anche ai delitti
per i quali l’ergastolo sia astrattamente applicabile (ma che, in concreto, vengono sanzionati con
pena diversa).
L’opposto e prevalente orientamento, invece, sostiene che l’aggravante del metodo mafioso può
essere applicata anche con riferimento ad un delitto astrattamente punibile con l’ergastolo, fermo
restando che essa potrà in concreto operare solo se, di fatto, venga inflitta una pena detentiva
diversa dall’ergastolo (cfr. Cass., Sez. I, sentenza n. 20499/2002 e Cass., Sez. V, sentenza n.
32555/2008).
La soluzione proposta dalle Sezioni Unite penali. Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite
hanno suggellato la tesi da ultimo indicata, attraverso un’analisi logico-sistematica della ratio
aggravatrice insita nella ex art. 7 del decreto n. 152/1991.
Innanzitutto, il Supremo Collegio sottolinea come, al di là dell’ambiguità lessicale del termine
“punibili”, la norma in questione sia diretta sostanzialmente a quantificare l’aumento di pena
applicabile alla detenzione temporanea concretamente irrogata in presenza dell’aggravante speciale.
Ciò che conta, quindi, ai fini dell’applicazione di tale circostanza aggravante, è che la pena in
concreto comminata sia diversa da quella perpetua, essendo irrilevante che il delitto sia punibile in
astratto con l’ergastolo.
Inoltre, in ossequio all’intento del Legislatore di utilizzare una strategia ampia ed articolata per
contrastare il fenomeno della criminalità organizzata, si deve ritenere che il «metodo mafioso», in
qualità di aggravante, esplichi una molteplicità di effetti giuridici - oltre a quello dell’aumento di
pena - che vanno dalla disciplina delle indagini preliminari a quella dei termini massimi di custodia
cautelare, del trattamento penitenziario e della confisca. Ne deriva che, optando per il divieto di
contestazione dell’aggravante speciale ai reati astrattamente punibili con ergastolo, verrebbe tradita
la volontà legislativa della normativa, che risulterebbe svuotata di quegli strumenti giuridici, a
carattere deterrente e repressivo, idonei a fronteggiare il fenomeno mafioso.
Rapporto con altre circostanze aggravanti. Altra questione di particolare rilievo affrontata nella
sentenza in oggetto è quella relativa al rapporto tra la circostanza aggravante speciale di cui all’art.
7 d.l. n. 152/1991 e quella comune del motivo abietto (art. 61, n. 1, c.p.)
Infatti, attesa l’ampiezza della nozione di “motivo abietto”, una parte della giurisprudenza ha
ritenuto che tale aggravante sussista anche quando l’azione sia finalizzata a favorire o consolidare
un’associazione di stampo mafioso. Sul punto i Giudici di Piazza Cavour hanno opportunamente
precisato che vi è un concorso apparente di norme tra le due circostanze aggravanti solo se e quando
la ragione che integra il motivo abietto sia interamente sussumibile nell’ambito dell’ipotesi speciale.
Tale situazione, quindi, si configurerà quando l’azione criminosa sia sorretta dal solo intento di
rafforzare, consolidare o favorire il consorzio mafioso, senza che il motivo abietto risulti
caratterizzato da un quid pluris rispetto alle suddette finalità. E, in tal caso, dato il principio di
specialità, l’aggravante comune resterebbe assorbita da quella speciale.
Al contrario, qualora il motivo abietto abbia una autonoma caratterizzazione, le due aggravanti
potranno e dovranno operare contestualmente.
Conclusioni. In definitiva, va senz’altro accolta con favore la soluzione proposta dalle Sezioni
Unite, in quanto rispondente sia alla ratio legis - che è quella di contrastare in maniera più decisa
chi utilizza metodi mafiosi nella commissione dei delitti - sia alla finalità di adeguare la pena al
disvalore del fatto posto concretamente in essere. Inoltre, la bontà della tesi accolta è anche
avvalorata da un’ulteriore considerazione stigmatizzata dalla stessa Corte: ritenendo l’aggravante in
oggetto non contestabile per i delitti astrattamente sanzionati con l’ergastolo, l’art. 7 del decreto n.
152 potrebbe presentare profili di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. E infatti
potrebbe accadere che per delitti aggravati dal metodo mafioso, ma punibili solo con pena edittale
diversa dall’ergastolo, venga irrogata una sanzione più grave rispetto a quella comminata per altri (e
magari anche più gravi) delitti, sempre commessi avvalendosi del “metodo mafioso” e punibili
astrattamente con l’ergastolo: ciò a causa della presenza di circostanze aggravanti equivalenti o
comunque non prevalenti rispetto alle attenuanti concomitanti.
Il segnale lanciato dalle Sezioni Unite, dunque, è quello della rigidità assoluta nei confronti della
criminalità organizzata, indispensabile per contrastare il fenomeno mafioso.