dorno - appunti storici

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Dino Laboranti
DORNO - APPUNTI STORICI
Comune di Dorno
Biblioteca Comunale
2° EDIZIONE 2001
1ˆ parte - Dalle origini ai giorni nostri
Dalle origini ai giorni nostri
LA LOMELLINA
La "Mondina" simbolo della Lomellina
La Lomellina è delimitata da grandi fiumi: il Po, nel tratto meridionale, il Sesia a ponente e dal
Ticino a levante; è rigata nel bel mezzo dall'Agogna con altri corsi d'acqua naturali, come l'Arbogna
e il Terdoppio, o artificiali, come i diramatori del canale Cavour e una grandissima quantità di rogge
e fontanili che sgorgano qua e là sotto forma di risorgive, che si intrecciano sino a lambire i più
remoti angoli del terreno.
La Lomellina è una creazione dell'uomo e dell'acqua che qui hanno unito la loro feconda attività;
non è fertile per spontaneo dono della natura.
Se potessimo spingere all'indietro lo sguardo di qualche millennio, vedremmo una disordinata
sterpaglia e un mareggiare di piante frammiste ad acquitrini, stagni e paludi.
Ci sono voluti secoli di paziente lavoro per livellare, spianare, risanare la plaga con fossi di scolo,
incanalare il disordinato e ribelle corso dei fiumi, diboscare, debellare la malaria e la miseria.
Come terra di fiumi, per le sue caratteristiche geologiche di terra alluvionale, la Lomellina si
inserisce in quel largo tratto della Valle Padana che va dal Sesia al Mincio: la cosiddetta Bassa
Lombardia.
Di questa ripete alcuni aspetti colturali: le colture foraggiere, le colture cerealicole, le marcite, tipica
pratica introdotta e insegnata dai monaci cistercensi.
Le condizioni climatiche non sono ottimali: il clima è subcontinentale, caratterizzato da estati calde
e da inverni rigidi, con forti escursioni, abbondanti precipitazioni nevose e formazione di nebbia.
Da quando la Lomellina, nella foschia dei tempi preromani, era una landa scarsamente abitata, una
pianura aperta alle invasioni galliche, sino allo stabilirsi di importanti stazioni romane sulle due
grandi vie di comunicazione verso le regioni transalpine (la via Pavia-Lomello-Cozzo per il
Moncenisio e la via Pavia-Lomello per Aosta) è un susseguirsi di avvenimenti che rispecchiano
l'importanza di questa terra come zona di transito.
Man mano che si entra nel periodo più luminoso della storia romana, si colgono i segni più precisi
di insediamenti stabili; si tracciano più nettamente le grandi vie di comunicazione; si delineano con
più evidenza i fatti che attestano l'aumentata importanza strategica della zona: la battaglia del
Ticino del 218 a.C. tra Annibale e Scipione, la battaglia tra Mario e i Cimbri del 101 a.C. presso
Robbio e la costruzione del centro fortificato di Lomello (IV secolo d.C.).
Dorno sorge sulla serie di modesti dossi che fronteggiano la vallata del Ticino.
L'altezza media di queste piccole alture si aggira sui 90 metri sul livello del mare e la loro
formazione è di origine eolico-alluvionale in cui strati ben evidenziati di argilla sedimentaria si
alternano alla massa compatta della sabbia silicea, strati che richiamano chiaramente le remote
alluvioni cui hanno concorso il Ticino, il Po e i suoi vicini affluenti.
E' quindi possibile dedurre che le popolazioni, per sottrarsi all'insidia di questi disastrosi ricorsi,
abbiano dovuto attestarsi sulle posizioni più elevate.
Gli scavi archeologici hanno fornito materiale che riflette uno spazio temporale molto esteso.
Si tratta di grosse parti di olle di ceramica rozza e di impasto grossolano, di vasi a calotta sferica e
biconici che presentano una notevole affinità formale e decorativa con altri reperti documentati a
Mulino di Ledro, affinità che riconduce alla comune matrice palafitticola.
Gli scavi condotti nel nostro territorio hanno messo in luce fondi di capanne, forni, focolari,
pavimentazioni in argilla pressata con residui vegetali e grandi cumuli di rifiuti, conglobati con
materia nera, quale appunto può derivare dalla contemporanea presenza di ceneri e rifiuti organici.
Il materiale fittile e metallico rinvenuto in questi strati è da riferire al periodo della civiltà di
Golasecca, per cui si potrebbe anche formulare l'ipotesi che i portatori di quella civiltà, e pertanto i
primi abitatori della nostra zona, siano qui pervenuti scendendo il corso del Ticino.
Completano il materiale archeologico rinvenuto manufatti di comune uso domestico e artigianale:
ciotole, lame, asce, mazze, punte di freccia, spilloni, fibule, ninnoli, anelli, cuspidi di giavellotto,
bicchieri, fiasche, brocche, contrappesi per telai, fuseruole, rocchetti, dischetti, palline, macine,
lisciatoi, coti, ecc...
DALLA PREISTORIA ALL'EPOCA ROMANA
La nostra zona, come tutta la Lomellina, cominciò ad essere popolata solo nell'età del Quaternario
recente alluvionale (o Neozoico, la più recente delle suddivisioni della storia della Terra,
caratterizzata dalla stabilizzazione delle terre e dei mari che tendono a raggiungere le condizioni
attuali e dalla comparsa dell'uomo), poiché durante il Quaternario glaciale il rigore del clima e la
presenza di vasti ghiacciai impedirono ogni forma di vita umana sulla terra.
Durante il Quaternario alluvionale la temperatura si alzò sensibilmente; i ghiacciai si restrinsero
verso le zone alpine e la vita vegetale e animale divenne sempre più complessa.
L'aspetto della nostra zona cambiò e fu caratterizzato dall'abbondanza di selve, laghi, acquitrini
paludi, essendo ancora il corso dei fiumi irregolare ed incerto.
I primi stanziamenti umani nel territorio di Dorno, documentati da rinvenimenti archeologici,
risalgono all'età del bronzo.
Infatti nelle zone: Montalbano, Batterra, S. Materno, cascina S. Maria, alcuni anni fa (1975) furono
rinvenute asce, ceramiche, coppe, tazze, spilloni, ecc., reperti conservati nel museo civico di Pavia e
nel museo preistorico "Pigorini" di Roma.
Questi trovamenti, portano a considerare un commercio di
oggetti nella valle padana e l'esistenza di una rete di
distribuzione e di comunicazione che si sviluppa in direzione
sud-est.
Nell'età del Bronzo medio (1600-1300 a.C.) vengono a
diffondersi nuove forme vascolari e un nuovo stile decorativo
della ceramica caratterizzato da scanalature, tratteggi,
incisioni, ecc..
Queste nuove tipologie e queste nuove forme sono evidenti
nei reperti dell'età del bronzo rinvenuti presso la cascina S.Maria, alla Rissolina, in zona
Montalbano e a Scaldasole (proprietà Cozzi, Salvadeo).
Il dott. Paolo Padova, in un articolo pubblicato sul "Bollettino della Società Pavese di Storia Patria"
(fascicolo I - IV 1976 - 1977, pag. 335) dà notizia di alcuni trovamenti che per quanto modesti,
meritano di essere resi noti per il loro valore di documenti di uno sviluppo culturale non ancora
ricostruibile nel suo intero svolgimento.
Nel 1973, durante i lavori di pulitura del cavo Dassi (Cascina Nuova) furono scoperti un pozzo e
una pavimentazione di mattoni sesquipedali di età romana. Nel 1975, durante i lavori per la
costruzione dell'oleodotto, a 200 metri di distanza dai ritrovamenti appena citati, è stato messo in
luce un muretto a secco della stessa epoca, lungo m. 3,50.
A Dorno fu rinvenuto l'esemplare fittile (cioè fatto di argilla) più antico dell'Età del Bronzo (2000 1000 a.C.): una tazza munita di ansa ad ascia (ansa: appendice ricurva del vaso o della tazza, con
funzione di manico).
L'ultimo reperto riferibile all'ultima fase dell'Età del Bronzo (9° secolo a.C.) é lo spillone rinvenuto,
sempre a Dorno (1976); dopo di che si riscontra il vuoto culturale che si protrae fino al 5° secolo
a.C..
Nel 5° secolo a.C., con il rinvenimento di una brocchetta etrusca bronzea si ha la testimonianza di
un risveglio determinato dall'espansione commerciale etrusca nell'Italia settentrionale; questo
popolo raffinato esporta prodotti di lusso, come vasellame bronzeo, vasetti di pasta vitrea, ceramica
attica a figure nere e rosse.
Questi oggetti, destinati all'aristocrazia celtica dei paesi transalpini, specialmente della attuale
Germania e della Francia orientale, sono da mettere in connessione col commercio del vino; si
tratta, infatti, di servizi da tavola che stanno a dimostrare l'adesione da parte della aristocrazia
celtica e delle genti della civiltà di Golasecca al costume e al gusto etrusco.
A partire dal 2° secolo a.C. é rilevabile un notevole insediamento nella zona Batterra, documentato
da una copiosa serie di vasi a trottola, di ceramica decorata a bugnette e da incisioni a stecca.
Sempre nella zona Batterra é stato possibile rintracciare tutto un campionario della produzione di
statuette d'argilla tipica del mondo romano, soprattutto nel 1° secolo d.C..
Anche nella zona di S. Materno si può parlare di continuità di stanziamento in epoca tardo-celtica e
romana; infatti, accanto a vasi a trottola, tipici del periodo celtico, sono state rinvenute le
caratteristiche ornamentazioni dei letti funebri, cioè le "appliques" fittili con profili umani e
zoomorfi che documentano il completo assorbimento della cultura romana nel 1° secolo d.C..
LE ORIGINI
I primi abitatori della Lomellina furono, quasi con certezza, i Liguri, uno dei popoli più antichi
d'Italia, di provenienza incerta, che abitavano tra i fiumi Vara e Magra, lungo la dorsale appenninica
e su ambedue i versanti delle Alpi Occidentali. I Liguri, divisi in tribù, erano frugali, laboriosi,
lontani dalle mollezze; si moltiplicarono tanto rapidamente da sentire il bisogno di spingersi a
cercare altrove nuove terre che rispondessero alle aumentate esigenze di vita.
Difatti, scendendo dai monti vicini e dividendosi in varie stirpi, giunsero al Ticino.
Una di queste tribù, distinta col nome di Levi, si crede sia stata la prima stabile e storicamente
conosciuta gente di Lomellina. Queste migrazioni primitive, come attesta Tito Livio, avvennero tra
il 16° e 15° secolo prima di Cristo.
Queste antiche tribù subirono l'influenza degli Etruschi, altro popolo di discussa origine che dal
1000 a.C. al IV secolo a.C. si impadronì di buona parte dell'Italia, trapiantandovi la propria cultura.
Dal sesto secolo a.C. in Lomellina si stanziarono i Galli o Celti provenienti dalla Gallia (odierna
Francia).
Poco resta della cultura gallica e difficile, di conseguenza, appare il tentativo di fare emergere i
caratteri essenziali non soltanto dalla storia, ma anche dalla vita quotidiana di un popolo che pure
per secoli ebbe una rilevanza assoluta in tutta l'Italia settentrionale e in particolare nella nostra zona.
Per di più, i pochi dati sui Galli che ci sono pervenuti sono stati trasmessi dalla memoria dei
vincitori romani, i quali avevano ricordi spiacevoli da cancellare con la loro storiografia: prima la
sconfitta subita ad opera di Brenno (390 a.C.), poi l'alleanza tra i Galli ribelli e Annibale al tempo
della seconda guerra punica. I Galli (secondo l'appellativo romano, Celti in lingua greca), erano
popolazioni di origine indoeuropea, stanziatisi intorno al VI secolo a.C. nelle terre comprese tra
Francia e Danubio e spinti in seguito dai Germani prima verso la Spagna e poi nella pianura padana.
I primi a giungervi furono i Galli Senoni che avevano fondato la città di Mediolanum (Milano), che
in celtico significa in mezzo alla pianura. I Galli non avevano un'organizzazione sociale, né una
civiltà nazionale; rimasero legati alla tradizione tribale, di larga partecipazione assembleare; non
avevano storia, affidavano la memoria del loro passato alla tradizione orale, custodita dai Druidi
(sacerdoti del popolo che avevano eletto a luoghi d'incontro le foreste e che praticavano durante i
riti anche sacrifici umani).
A questo popolo si sovrapposero i Romani, i quali gli imposero le loro leggi e la loro lingua.
La Lomellina, soggetta a Roma, venne così a far parte integrante dell'agro romano; lì si trasferirono
nuclei di legionari-coloni con le famiglie e gli indigeni vennero gradualmente assorbiti. La
Lomellina è sempre stata punto d'incontro di piste e di vie, fluviali e terrestri, fin dalla più remota
antichità e ha conosciuto di conseguenza un continuo susseguirsi di insediamenti di popoli che
hanno lasciato ciascuno la propria impronta e il proprio ricordo. Distinguere i vari apporti, le varie
fasi non è facile, tanto più che la romanità ha sovrapposto a tutto la propria cultura unificante.
Il processo di romanizzazione fondato anche sulle massicce immigrazioni di coloni dal centro e dal
sud della penisola, ha significato, anche per la Lomellina, come per tutta l'Italia settentrionale, un
grande innalzamento della vita civile perché i Romani trasformarono in meglio regole e usi della
vita associata.
IL NOME : DORNO
L'"Itinerararium Burdigalense o Hierosolomytanum" (anno
333 d.C.) segna in Lomellina e precisamente tra
"Laumellum" e "Ticinum",
a 9 miglia dall'uno e a 12 dall'altro, la "mutatio Duriis" (in un
codice "Dunis") da identificare con la moderna località di
Dorno, esattamente ancor oggi collocata, alle distanze
segnate dall'"Itinerarium", sull'asse stradale Pavia - Lomello
chiaramente rintracciato, proprio nel suo percorso attraverso
il territorio dornese, da P. Fraccaro.
Dorno, come detto in altro capitolo, è certamente quello che Ammiano Marcellino chiama "locum
duabus columnis insignem" e dove l'Imperatore Costanzo II, figlio di Costantino Magno, si congedò
dal cugino Giuliano Cesare, il 10 dicembre del 355 d.C.. Giuliano (che i Cristiani bolleranno come
l'Apostata) era in partenza per le Gallie in rivolta e pochi giorni prima aveva sposato, a Milano, sede
dell'Impero in questo tempo, Elena, sorella di Costanzo.
Del tutto fantasiosa l'idea che in nome Dorno derivi da Horn, capo degli Etruschi.
Sull'etimologia del nome Dorno (secondo la ricerca del Cerri) si possono avanzare alcune ipotesi:
1) - potrebbe essere derivato dal gentilizio romano Durius;
2) - potrebbe essere di origine gallica; una delle radici antiche meglio ricostruibili è "dur" = acqua.
Questa radice compare spesso nei nomi dei fiumi, quali: Dur (fiume irlandese), Duero (Spagna e
Portogallo), Duria (Dora Baltea, Dora Riparia), ecc. .
Provato con tanti esempi che la radice "dur" corrisponde ad "acqua", si tenga presente che Dorno è
ubicata su un terreno indubbiamente alluvionale, inciso poco ad ovest del paese dal torrente
Terdoppio che attraversa il territorio del Comune e che era valicato dalla via consolare romana
"Ticinum - Laumellum" in località "Selvatica". La via Piave, che porta al Terdoppio in direzione
della "Selvatica", era denominata, fino a qualche decennio fa: "via di Lomello", dizione ancora viva
nell'uso parlato dei vecchi del paese. Per spiegare la comparsa del gruppo consonantico rn nel nome
medioevale è da supporre un'alternanza in età romana tra "Duriae" a "Durinae": con la caduta della
vocale atona i il nome si ridusse facilmente a "Durnae".
E' facile, quindi, vedere raffigurare nel Duriae dell'Itinerarium Burdigalense la radice "dur" =
"acqua"; il nome verrebbe a significare "luogo costruito su un corso d'acqua" (il Terdoppio). Lo
stesso significato ha la forma "Durinae". Il nome "Durnae" è attestato costantemente nel Medioevo.
Documenti che risalgono ai secoli 12°, 13°, 14° (Archivi di Stato di Milano e di Pavia) riportano
varie grafie del nome: "Durni, Durniensium, De Durno, Durne, Durna, Durnus, Durnum, Durnae".
"Durnae" può anche essere accostato alla radicale, ancora viva nei luoghi celtici "durno", "durna" =
"mano, pugno, dorso della mano, dosso", che potrebbe alludere alla configurazione del terreno
ondulato su cui Dorno fu costruita, oppure al gallico "duros", "duron" = "sodo, duro", che anche
allora già indica "luogo forte, luogo munito": già in epoca gallica, e poi gallo - romana, la località
rivestiva un'importanza, oltre che viaria, militare; verrebbero a spiegarsi così i trovamenti di armi,
insegne guerriere, monete.
Per concludere, il nome Dorno potrebbe anche derivare da certe parlate celtiche di età moderna
"durna" = pugno, nel senso di "curva, piega, ansa" per indicare "luogo costruito in prossimità di una
stretta ansa di un corso d'acqua", del Terdoppio, cioè che si snoda con stretti meandri per tutto il
territorio di Dorno e traccia una grande curva proprio nel punto in cui la via romana lo passava (val
dricia).
Anche da questa ultima ipotesi è comunque confermata l'importanza che il corso d'acqua ebbe per la
nascita e lo sviluppo della futura "mutatio" (luogo dove si cambiavano i cavalli), fissata dove
l'acqua abbondava e per la collocazione strategica.
Concludendo: le soluzioni più accettabili del problema toponomastico e le ipotesi formulate portano
a collocare la nascita di Dorno e la sua denominazione in epoca preromana e gallica e il nome,
certamente celtico, allude alla vicinanza a un corso d'acqua o alla importanza militare della località.
DALL'EPOCA ROMANA AL MEDIOEVO
Nell'epoca romana Dorno fu luogo di posta per i cavalli ("mutatio Duriae") sulla via "TicinumAugusta Taurinorum" (Pavia-Torino) come risulta dall'Itinerarium Hierosolomytanum, nel quale fu
segnalata quasi esattamente la distanza che attualmente Dorno ha da Lomello, cioè dodici miglia
romane.
Dorno si identifica probabilmente con quel luogo che Ammiano Marcellino ricorda nella sua Storia
- Rerum gestorum (15° - 8) - dicendolo "locum duabus columnis insignem qui Laumellum interiacet
et Ticinum" a proposito dell'importante episodio della vita degli imperatori Costanzo II e Giuliano,
su cui riteniamo necessario soffermarci.
Il 1° dicembre del 335 d.C. Flavio Claudio Giuliano muoveva da Milano verso "Ticinum" (Pavia)
per raggiungere la Gallia con il compito di riportarvi l'ordine.
Il percorso è stato così ricostruito: egli seguì la via "Ticinum-Laumellum-Cottiae-Rigomagus =
Augusta Taurinorum", poi passò in Gallia attraverso probabilmente, il valico del Monginevro
"Alpes Cottias".
Il testo di Ammiano Marcellino (l'ultimo grande storico di Roma, nato attorno al 330-335 d.C. ad
Antiochia e morto a Roma verso il 400 d.C., fu autore, come si è già ricordato, dell'opera "Rerum
gestarum", importante per la narrazione degli avvenimenti di cui egli ebbe conoscenza diretta e che
si eleva sulla modesta storiografia dell'epoca per serietà di metodo e per imparzialità e obiettività),
pone subito un problema di topografia: a quale località moderna corrisponde il "locus duabus
columnis insignis" e, in sottordine, che cosa significa quella espressione ?
Si ritiene di dover subito sgombrare il campo da un equivoco in cui caddero alcuni storici che
dedussero dal testo ammianeo l'esistenza di una località chiamata "ad duas columnas" e "ad binas
columnas".
E' ben vero che alcune località poste sulle vie consolari portavano il nome "columna", o "Ad
Columnam", "Ad Columellas", derivati evidentemente dalla presenza di una colonna (o più di una),
qualunque fosse il carattere di essa e l'occasione della sua posa in opera; nel passo di Ammiano
però, non c'è nessuna traccia di una determinazione di questo tipo; evidentemente, per lo storico, era
più importante indicare con l'espressione "duabus columnis insignis" una caratteristica del luogo e
non il toponimo che, per essere la località piccola e di minore importanza, egli rese riconoscibile
con la citazione di due precisi termini geografici: "qui Laumellum interiacet et Ticinum".
Nulla di sicuro si può dire, poi, sull'origine e sul carattere di quelle "due columnae"; qualcuno ha
pensato ai miliari (pietre che infisse nel terreno lungo le vie a m. 1470 circa di distanza l'una
dall'altra, segnavano il progredire del tracciato stradale), ma Ammiano usa il termine "lapis" per
indicare il cippo contamiglia.
Forse Ammiano voleva riferirsi a due elementi architettonici non comuni in una regione povera di
monumenti di una certa importanza quale fu la Lomellina romana.
E' difficile definire la tipologia e l'origine di queste due colonne; è noto che lungo le strade ed in
vicinanza di esse c'erano frequentemente colonne (ed anche "lapides terminales") su cui insistevano
statue cultuali, specialmente di divinità protettrici dei viaggi: Mercurio, Apollo, Bacco, Ercole,
Giove.
Altre colonne avevano carattere commemorativo di fatti e personaggi storici o funerario.
E' anche necessario rilevare che le due colonne dovevano essere isolate e non far parte di un
monumento vero e proprio; ora, é singolare che proprio a Dorno Lomellina, che come vedremo, con
tutta probabilità è il "locus" ammianeo, sia visibile nella Chiesa Parrocchiale una base di colonna
facente da supporto alla vasca del fonte battesimale, che ha una tipologia e una decorazione vicina
all'età flavia, non in funzione propriamente architettonica, ma decorativa.
Uno studioso cui si accennerà più sotto (cfr. il capitolo sul Battistero) ha sostenuto che essa é
certamente importata perché altrimenti si dovrebbe supporre per la località un livello civile quale i
modesti ritrovamenti non lasciano sospettare e che non é comprovato da alcun altro pezzo
architettonico; al che il Prof. Cerri ribatte che proprio la singolarità e l'eccezionalità dell'indicazione
di Ammiano, che costituisce una testimonianza storica e architettonica inoppugnabile, fanno
pensare che al contrario esistesse nella romana "Duriae o Durnae" un "unicum" particolarmente
interessante. La questione circa la determinazione topologica del "locus" dove sorge Dorno ha
suscitato in passato l'interesse degli storici; il "locus" fu identificato con Gambolò, Vigevano,
Zinasco ("Binas columnas"). Al Mommsen non sfuggì la corrispondenza tra l'espressione di
Ammiano "qui Laumellum interiacet et Ticinum" la quasi equidistanza assegnata dall'"Itinerarium
Burdigalense" a "Duriae - Durnae" da "Ticinum" e "Laumellum" e il luogo in cui sorge Dorno
moderna, per cui concluse che il "locus" ammianeo si riferiva a Dorno ("hodie ei nomen est
Dorno").
Si ritiene interessante addurre altre prove a conferma di questa interpretazione, basandoci sulla
cronologia e sulle necessità politiche e militari che determinarono il viaggio di Giuliano.
Questo viaggio dovette svolgersi in tappe di lunghezza normale; Giuliano era accompagnato da una
scorta d'onore di trecentosessanta tra fanti e cavalieri, sicché egli dovette per forza adeguarsi alla
velocità di marcia di essi, non superiore allo "iustum iter" (20 o 25 miglia al giorno).
Sul percorso "Ticinum" - "Laumellum" (due "mansiones") l'unica "mutatio" era senz'altro "Duriae";
a Duriae dunque Costanzo si congedò da Cesare, e certamente lì, perché solo lì era possibile
procedere alla "mutatio" degli animali da aggiogare ai carri e da cavalcare.
Esistono tracce di altre strade che portano ai valichi del Po verso Pieve del Cairo, a sud di Lomello;
se volessimo far passare per una di esse il corteo imperiale dovremmo supporre, visto il preciso
riferimento di Ammiano, un giro vizioso, inspiegabile.
Nel territorio di Dorno dovevano esistere altre strade, ma tutte sussidiarie della grande via per
Dorno-Lomello; essa é da considerarsi il cardine della rete viaria Lomellina in età romana e tale
continuò ad essere nel Medioevo, quando conservò il nome di "strata maior".
La "Strada Maggiore" o la "via alle Gallie" aveva inizio a Pavia, sfiorava la frazione Sabbioni,
proseguiva per Carbonara al Ticino e a S. Spirito di Gropello Cairoli si sviluppava in due itinerari
diretti a due differenti valichi transalpini: uno di essi, detto "via Francisca o Romea" puntava verso
Aosta per Garlasco, Mortara, Robbio, Vercelli, Ivrea; l'altra verso Torino e il Moncenisio per
Dorno, Lomello, Cozzo e Chivasso.
Nel disegno della viabilità dell'impero romano, a partire dal 4° secolo d.C., la Lomellina ebbe
comunque una posizione di primaria importanza. Per completezza va aggiunto che nel Medio Evo,
ma non in età romana, che conosceva solo la via "Mediolanum - Ticinum - Laumellum - Cottiae"
ecc, la via romana: Ticinum-Augusta Taurinorum = iniziava a Pavia, superava il Ticino sull'antico
ponte, quindi saliva sul terrazzo destro del Ticino, puntava decisamente verso occidente attraverso
Dorno ("Duriae: mutatio"), Lomello ("Laumellum: mansio"), Cozzo ("Cuttiae: mutatio"). Quindi
varcava il Sesia e, mantenendosi sul terrazzo sinistro del Po, raggiungeva Torino (Augusta
Taurinorum). Questa antica strada romana, ancora ampiamente in uso nel settecento, (ed ancora ben
riportata nelle carte topografiche militari), é quasi del tutto abbandonata e percorribile solo a tratti
(Pavia, Carbonara, S. Spirito, cascina Malpensata, Dorno, via Piave, Cascina Volpina, Lomello).
Una seconda via romana (di minore importanza) interessava Dorno: Mediolanum (Milano)-via
consolare Emilia; partiva da Milano, Binasco, Bereguardo, varco del Ticino, Bozzole, Cascina
Miradolo, Dorno (via B. Canevari, via Conte Cesare Bonacossa, via Marconi, via Cairoli, via
Scaldasole), cascina Rossa, cascina Provvidenza, Sannazzaro, Cornale, Casei Gerola, Pontecurone.
Rimangono nella nostra zona tratti superstiti di queste antiche vie ridotte a semplici carrarecce a
volte intransitabili.
DAL MEDIO EVO ALL'ETÀ MODERNA
Con la caduta dell'impero romano, la Lomellina, come zona indifesa e pingue, fu percorsa dai
conquistatori Eruli e Goti, popolazioni di stirpe germanica, rozze e spietate.
Le tragiche condizioni della Lomellina furono più tardi aggravate dalla invasione dei Longobardi,
originari della penisola scandinava e provenienti dalla Pannonia (regione a nord della Dalmazia e
estesa fino al Danubio); erano guidati da re Alboino (568) che elesse Pavia capitale del regno
longobardo.
Solo con la raccolta di leggi del re Longobardo Rotari (643), con la conversione al cattolicesimo
della regina Teodolinda e l'opera del papa Gregorio Magno, le condizioni della nostra gente
migliorarono. Nel 774 cadeva sotto i colpi dei Franchi la dinastia dei Longobardi. Con Carlo Magno
si pose fine all'età delle invasioni barbariche e nacque la legislazione che ha regolamentato la vita
associata dell'Occidente, destinata a rimanere per secoli in vigore nelle sue linee fondamentali,
unitamente alle prime originali manifestazioni di una nuova cultura medioevale in sostituzione della
morta civiltà del mondo antico.
Sorvolando sui secoli più bui delle dominazioni barbariche dell'alto Medio Evo, nel corso dei quali
anche la memoria di luoghi più importanti di Dorno risulta sommersa nell'ombra più cupa, si giunge
con le notizie più antiche al secolo IX, che trova Dorno facente parte del feudo di Lomello, di cui si
hanno notizie fino dall'834, anno in cui Lotario 1° nominò conte di Lomello Manfredi di Orleans.
L'imperatore Enrico II nel 1019 indicò col nome di "Lomellina" la regione su cui Lomello aveva
giurisdizione.
Tra il 1140 e il 1144, i conti di Lomello vinti dal Comune di Pavia, si insediarono nelle più
importanti terre della Lomellina e, pur conservando il titolo generico di "conti palatini di Lomello",
diedero origine a molti rami che assunsero il titolo specifico dei luoghi in cui dimoravano
abitualmente: conti di Mede, di Albonese, di Gambarana, di Olevano, di Dorno, ecc..
In un diploma del 1190 dell'imperatore Enrico IV è citato il nome del più antico signore di Dorno
che si conosca: Roberto, della famiglia dei conti palatini di Lomello.
Verso il 1266 Dorno partecipò alle lotte tra le fazioni dei Marcabotti e dei Fallabrini (nomi che
indicavano rispettivamente i ghibellini e i guelfi di Pavia) insieme a Gropello e Garlasco.
Il castello di Dorno fu valido presidio dei Marcabotti.
In un decreto conservato a Pavia (Repertorio Diplomatico Visconteo) é riportato esattamente
l'antico nome del nostro comune: Durna.
Un certo Gabriele da "Durna", in un atto del 3 giugno 1254, é citato come notaio del Comune di
Pavia.
In un altro documento del 25 dicembre 1427 (conservato nell'Archivio Visconteo di Milano) si
legge il decreto col quale Filippo Maria Visconti concede al giureconsulto Raffaele Adorno di
origine pavese il feudo di Dorno (Diocesi di Pavia).
Quando Francesco I Sforza si impadronì del ducato di Milano tolse agli Adorno il feudo e concesse
Dorno ad Antonio Crivelli.
Antonio Crivelli, della nobile famiglia milanese, quando lo Sforza mosse contro la Repubblica
Ambrosiana, comandava la fortezza di Pizzighettone, rocca formidabile per quei tempi e caposaldo
repubblicano considerato imprendibile.
Allettato dalle promesse dello Sforza, che segretamente si era impegnato a concedergli cospicui
privilegi, il Crivelli consegnò la fortezza al fortunato condottiero che gli concesse in feudo le terre
di Lomello e di Garlasco con la rendita di 1000 scudi e ampi privilegi di immunità nelle persone e
nei beni per sè e per i suoi successori, come si legge nella convenzione stipulata il 27 agosto 1449
(Registro ducale, 22-3-1450, Archivio di Stato di Milano).
L'anno seguente, il 22 marzo 1450 (come si legge nel Registro Ducale S n°49, c.9 conservato
nell'Archivio di Stato di Milano) il duca Francesco modificò la convenzione del 1449 e concesse il
castello e la terra di Lomello, nonché il castello di Dorno, ad Antonio Crivelli, figlio di Giovanni,
podestà di Pavia.
Morto Antonio Crivelli, primo conte di Lomello e di Dorno successero a lui prima Bartolomeo, poi
Antonio quindi Alessandro, il quale, dopo la morte della moglie Margherita Scarampi, fu fatto
cardinale da Pio IV (12 marzo 1565).
Quando nel 1499 Luigi XII, re di Francia, s'impadronì del ducato di Milano, mentre Ludovico il
Moro fuggiva a Innsbruck, le proprietà dei Crivelli furono divise tra i cortigiani del re.
Dorno fu dato al presidente del Delfinato (regione ed antica provincia della Francia sudorientale
compresa tra l'Italia e la Valle del Rodano).
Nel 1525, Carlo V, re di Spagna sconfigge Francesco I, re di Francia, nella battaglia di Pavia; ha
inizio così il dominio spagnolo nel ducato di Milano.
Si apre un'epoca tra le più difficili e infelici della storia lombarda e d'Italia.
Le condizioni di Dorno diventano pietose.
Il fiscalismo spagnolo pesa sull'economia; alla tassazione della quasi totalità dei generi di consumo
fa riscontro il collasso del sistema economico.
Entra così in crisi il settore laniero, della seta, della tintura e della maiolica. S'estende il latifondo e
ha incremento la violenza organizzata delle bande dei "bravi" al servizio dei signorotti.
Sono documentate alcune suppliche della comunità dornese (Archivio di Stato di Milano) per
ottenere dilazioni nel pagamento dei tributi.
Nel 1537 il governo spagnolo, tramite il cardinal Caracciolo, luogotenente di Carlo V nello Stato di
Milano, vendeva al signor Giovanni Domenico Lavoranti, del fu Agostino, abitante in Dorno, che
stipulava anche in nome dei signori Guglielmo Bassi, Angelina De Fabis, Agostino Svotti, Michele
Gabbi, Domenico Perotti e Gian Giacomo Canevari, tutti di Dorno, il diritto di non pagare in
perpetuo la tassa sui cavalli, per il prezzo di ben 333 lire e soldi imperiali 6.
Era questo un modo di far danaro da parte del governo spagnolo e da parte degli interessati un
mezzo per sottrarsi ai continui aumenti delle imposte; ma era anche una vana illusione in quanto il
governo spagnolo trovò poco dopo il modo di togliere ogni valore al contratto.
I due consoli dornesi Giovanni Stefano Gatto e Bernardo Basso, non essendo la popolazione
dornese in grado di pagare le tasse, furono imprigionati nel castello-prigione di Pizzighettone; le
donne dornesi offrirono i loro oggetti d'oro per la liberazione dei prigionieri e il parroco Passerini,
presidente del capitolo parrocchiale, contribuì con ventimila lire imperiali (cinquecento scudi d'oro).
Nel 1655 Dorno fu sede di un consiglio di guerra presieduto dal cardinale Gillo D'Alborno per far
fronte alla lega antispagnola formata dalla Francia e dal ducato di Savoia e Parma.
Il 7 settembre 1706, in seguito alla vittoria del principe Eugenio nella battaglia di Torino, cessava la
signoria spagnola e subentrava quella austriaca.
Nel 1707 l'Austria consegnava ai Savoia la Lomellina.
Con il passaggio della Lomellina sotto Casa Savoia, fu iniziata la misurazione generale delle terre
con il conseguente riparto dei tributi.
In ogni Comune furono inviati un cancelliere ed un geometra che, con l'aiuto di "indicatori" locali,
riconoscessero lo stato e la condizione dei beni.
In Lomellina si adottò come unità di misura la "giornata", misura del Piemonte pari a mq. 3800,45
(circa sei pertiche attuali).
Dai registri catastali formati in quelle misurazioni risulta questa immagine relativa al possesso
fondiario nella sua distribuzione:
proprietà nobiliare a Dorno 37,05 %
proprietà non nobiliare 46,42 %
proprietà della Chiesa di Dorno 10,42 %
proprietà di altri enti 4,89 %
L'Ospedale S. Matteo di Pavia era padrone a Dorno di 469 giornate di terreno, Luigi Dassi ne
deteneva 1084 (in zona "Campo del prete"). Undici erano i nobili proprietari, in Dorno, di terreni:
sei avevano piccole proprietà, tre medie proprietà, uno possedeva quasi quanto tutti gli altri messi
insieme.
Nel 1796 Napoleone Bonaparte scese in Italia portando le idee della Rivoluzione francese; idee che
trovarono terreno fertile in questa nostra terra; ma l'entusiasmo fu limitato, anche perché le truppe
francesi avevano continuato nelle spogliazioni, dissanguando la zona.
Nel maggio 1799, mentre Napoleone era impegnato in Egitto, l'esercito austro - ungarico si insediò
in Lomellina; parte dell'esercito (al comando del generale Rossemberg e del principe Costantino)
era accampato nelle vicinanze di Dorno e usò tali violenze da provocare una rivolta dei contadini
dei cascinali insofferenti della tracotanza prolungata.
Questo fu un periodo di grande crisi; ai furti della truppa russa si aggiunsero quelli delle bande di
ladri; seguì una grande moria per pellagra: la farina si faceva coi fagioli e la si univa a quella di
segale per fare il pane.
A tutte queste calamità si aggiunse la grande siccità dell'anno seguente e la mortalità del bestiame.
L'occupazione austro - ungarica termina con la vittoria di Napoleone a Marengo il 14 giugno 1800 e
Dorno viene incorporata nella Repubblica Cisalpina.
RISORGIMENTO
Dopo la caduta di Napoleone, le nazioni vincitrici convocarono il Congresso di Vienna (4 ottobre
1814), nel quale vennero divise le spoglie dell'impero napoleonico e ristabiliti i governi anteriori
alla Rivoluzione francese.
Dorno ritorna a far parte del Regno Sardo-Piemontese, Provincia di Lomellina, con capoluogo
Mortara.
Dorno era soggetta al Piemonte; per recarsi a Pavia occorreva il passaporto.
A metà marzo 1848, Carlo Alberto passò da Dorno diretto al Ticino per combattere contro l'Austria.
A Dorno Carlo Alberto incontrò il figlio Vittorio Emanuele II. Alla sera Carlo Alberto riposò in
paese, l'esercito si sistemò nei campi nella zona detta "San Maurizio" (via per Gropello).
Qualche giorno prima della battaglia della Sforzesca (Vigevano), il 21 marzo 1849, le preponderanti
forze austriache, varcato il Ticino, e avuto ragione della resistenza degli uomini di Luciano Manara,
iniziarono l'occupazione della Lomellina puntando su Mortara da tre direzioni; una colonna
austriaca passò da Dorno provenendo da Cava, Zinasco e dirigendosi per S. Giorgio e Cergnago a
Mortara dove fu combattuta la sfortunata battaglia, che fu premessa a quella decisiva di Novara.
Durante la 2° guerra d'indipendenza, dal 24 aprile 1859 alla fine di maggio, Dorno fu un posto di
sosta per l'esercito austriaco in marcia.
Il 24 aprile gli Austriaci entrarono in Dorno provenendo da S. Spirito (Gropello).
Il giorno prima il Sindaco Catelli fece ritirare le chiavi dei campanili delle tre chiese di Dorno, per
impedire che il popolo al suono delle campane si sollevasse (la rappresaglia austriaca era
notoriamente pesante).
Le truppe austriache, formate da 30.000 uomini, avevano il compito di attaccare l'esercito
piemontese prima che i Francesi, guidati da Napoleone III, venissero in aiuto.
Davanti all'esercito austriaco era schierata l'avanguardia a cavallo, gli ufficiali indossavano una
giacca di panno bianco; i soldati portavano sempre al braccio il fucile perché erano a conoscenza
che i dornesi erano stanchi della dura dominazione austriaca ed erano pronti ad atti di sabotaggio.
A capo dell'esercito austriaco era il Maresciallo Giulay; le truppe, assetate e affamate, diedero
l'assalto alle case e alle botteghe, facendo man bassa di tutto.
In via Vittorio Veneto esisteva allora un'osteria gestita dalla famiglia di Giovanni Cerri che aveva in
moglie Rosa Grossi e tre figli: Domenico, Francesco e Angelo.
Alcuni soldati austriaci sfondarono la porta di accesso che era stata barricata e si impadronirono di
tutto, rompendo stoviglie e altre suppellettili.
Entrati in cantina, con le baionette forarono le botti e si ubriacarono.
Alla sera, il Maresciallo Giulay entrò nell'osteria con lo Stato Maggiore.
L'oste si spaventò e il Maresciallo, al corrente del danno provocato dai suoi soldati, fece pagare
tutto fino all'ultimo centesimo.
Il 25 aprile i cappellani austriaci al seguito dell'esercito celebrarono la messa nella Chiesa
Parrocchiale che si stava ricostruendo.
Per ordine del Comando Militare Austriaco furono requisiti tutte le armi, i fucili da caccia, i cavalli,
i carri e molti Dornesi dovettero trasportare il materiale da un paese all'altro.
La truppa austriaca era accampata in diverse località: nella zona detta "Colombera", in "via de'
Dossi", nel "Campo del Frate", in via Zinasco, dove era stato allestito il macello ( bestiame
requisito: 5 buoi per quintali 28,04 ), in via Gabba.
VITA NEL SECOLO XIX
All'inizio del secolo XIX la popolazione di Dorno era di circa 4500 abitanti. Il borgo si presentava
come un paese eminentemente agricolo.
Le strade erano a ciottoli, con fossetti per le acque luride e piovane che sfociavano nel vecchio
colatore comunale che partiva dall'incontro tra la via Conte Cesare Bonacossa e Lazzaretto e,
costeggiando la via Vittorio Veneto, via Strada Nuova, via Zinasco e zona Valle, terminava nel
Terdoppio vicino a Batterra.
Le case erano generalmente costruite con mattoni in creta essiccata al sole e avevano pavimenti di
terra battuta e paglia tritata, tranne le poche case signorili.
Alle finestre i vetri erano spesso sostituiti da carta oleata.
Scalette di legno ripide portavano al piano superiore attraverso un'anta a botola (uscèra).
I soffitti erano a vista delle tegole.
I letti, al posto delle reti metalliche, avevano assicelle appoggiate a panche; il materasso era
imbottito di foglie di granoturco e a volte di piume.
Il pollaio era vicino all'uscio di casa; il gabinetto era ubicato nell'orto ed era chiuso con fascine,
spesso senza tetto, con due mattoni sui quali appoggiare i piedi.
In inverno, per scaldarsi, si andava nelle stalle dove le giovani cucivano, le mamme e le nonne
filavano il lino con rocca e fuso allo scopo di preparare il filato da portare al tessitore che avrebbe
ricavato tela per lenzuola e biancheria.
I vecchi raccontavano fiabe che suscitavano fantasie, facevano sognare e creavano incubi nei più
piccoli.
L'illuminazione delle case e delle stalle era fornita dai lumi alimentati con olio o con grasso di
maiale.
Le donne portavano ai piedi gli zoccoli di legno; gli uomini, zoccoloni guarniti di chiodature.
Quello degli zoccoli era un artigianato dornese fiorente; uno squadratore di zoccolo riusciva a
squadrarne circa duecento paia al giorno, a mano, con la sola accetta, lavorando dodici ore.
Le scarpe: chi le possedeva le riservava per le occasioni particolari, ed erano segno di distinzione.
Del resto, in genere, si camminava per sette o otto mesi all'anno a piedi nudi.
Le stalle erano numerose anche nel centro del paese.
Si lavorava nei campi dodici o quattordici ore al giorno ( da un'Ave Maria all'altra ) e i contadini si
recavano al lavoro, naturalmente, a piedi.
Al mattino si vedevano i braccianti che si radunavano nei vari punti periferici del paese per poi
partire a gruppi verso le cascine.
L'alimentazione era sobria; il piatto forte era la minestra o la polenta.
Si cucinava nel camino con la legna raccolta in campagna dopo il lavoro.
Molti braccianti tornavano dalle cascine alla sera con una fascina di legna in spalla.
Sulla tavola, con la polenta o con la minestra, c'erano di solito latte, salacche, fagioli, merluzzo,
gorgonzola e uova; formaggio, carne, polli e vino comparivano solo nelle festività o in caso di
malattie.
Lavori in Risaia
La campagna di Dorno, nota per la sua fertilità, produceva riso, frumento, meliga, avena, segale,
fieno, canapa, lino, pioppi da opera o da zoccoli, gelsi per l' alimentazione dei bachi da seta, fichi,
pere, pesche, noci, uva e castagne.
Le malattie venivano curate anche da mediconi dai quali si andava a "farsi segnare".
I falegnami e i fabbri, dalle caratteristiche mani robuste, erano richiesti per le slogature.
Il grasso del maiale ("sönsa") si conservava per lenire i dolori artritici, il mal di schiena e le
contusioni.
La polmonite si curava con cataplasmi di farina di lino.
L'olio di ricino era il purgante base.
Per scongiurare la grandine, durante i temporali estivi si mettevano in cortile molle e palette da
fuoco, incrociate con un rametto di ulivo benedetto.
La diligenza a cavallo della famiglia Cuzzoni con sede all'inizio di via Cairoli, diretta a Pavia, per il
mercato e l'ospedale, partiva tre volte la settimana.
I ragazzi dai sei agli otto anni portavano le oche al pascolo; di sera all'osteria gli uomini giocavano
alla morra e alle carte, il paese era illuminato da fanali ad olio che venivano spenti a mezzanotte e
non venivano accesi in tempo di luna piena. L'energia elettrica per illuminazione arrivò a Dorno nel
1910.
Le cascine, come nel Medio Evo, possedevano una loro amministrazione economica quasi
autosufficiente: casa padronale, case per i salariati, falegname, maniscalco, fabbro, lattaio, il forno,
spesso il mulino, il caseificio con allevamento di suini; grande stalla per le mucche circondata da
porticato che serviva da ricovero per i carri e per proteggere la stalla dai raggi del sole; stalla per i
cavalli, stalla per i buoi, stalla per le manze.
I contadini che vivevano nelle cascine erano detti "ubbligà" o "súggit", retaggio della servitù della
gleba.
A padre e madre i figli si rivolgevano con il "voi".
I salariati erano obbligati ad abitare nella cascina, verso il 1870, avevano una paga di £ 500 circa
all'anno, in denaro e in generi di natura.
Un cavallante, ad esempio, riceveva in denaro £ 120 annue, più sette sacchi di meliga, un sacco e
mezzo di riso bianco, due sacchi di crusca, 500 fascine di legna, casa e orto.
Un fattore arrivava a £ 1200 l'anno.
Le donne percepivano £ 1,50 al giorno, le ragazze di età inferiori ai sedici anni, £ 0,70 al giorno:
questo in estate, perché in inverno le paghe erano più basse.
L'alleggerimento della mano d'opera in campo agricolo dovuto alla lavorazione delle filande
permise alla classe bracciantile, sino allora oppressa dalla necessità, di organizzarsi nei primi
movimenti contadini del 1893, cui seguirono gli scioperi economici e politici del 1901 e 1907 che
paralizzarono grandi zone della Lomellina.
La più grande conquista fu l'attuazione delle otto ore applicata per la prima volta nelle zone risicole.
La macchina a vapore fece il suo ingresso anche nelle aziende agricole ai primi del '900 per
azionare le trebbiatrici e le seghe a nastro, sostituendo così il duro lavoro dei "rasgót" che
scendevano dai monti del Bergamasco e dell'Appennino pavese. Ebbe termine così la corrente
immigratoria, mentre continuò sino alla prima guerra mondiale l'emigrazione verso l'America.
Con l'avvento della macchina a vapore, seguita da quella a petrolio e dall'energia elettrica e dal
conseguente processo di meccanizzazione dell'agricoltura, molte cose si modificarono.
Scomparvero gradatamente i buoi e poi i cavalli, quindi i bifolchi e i cavallanti.
L'esodo della mano d'opera che si verificò in modo particolare nel dopoguerra (1945-1950),
provocò con urgenza la necessità di innovazioni aziendali.
Le case delle cascine, pur risanate, più tardi vennero abbandonate dai contadini che preferiscono
vivere in paese, sia perché nelle cascine esistevano difficoltà per mandare i figli a scuola, sia per il
desiderio di lasciare occupazioni considerate degradanti.
Le attività agricole abbandonate dai dornesi vennero accudite da famiglie provenienti dal Veneto e
dal Sud.
Dalle origini ai giorni nostri
1° GUERRA MONDIALE 1915-1918
Durante la prima guerra mondiale ogni famiglia era provvista di tessera per la razione di generi
alimentari.
In
piazza
Bonacossa,
sotto
i
portici,
c'era
lo
spaccio
comunale.
L'edificio scolastico fu trasformato in caserma per l'84° Reggimento fanteria.
Ogni mattina i soldati si recavano nei dossi della cascina S. Maria per le
esercitazioni.
Nel 1916 le Scuole furono adattate ad ospedale militare e così il ricovero dei
vecchi (odierna Casa di riposo S. Giuseppe).
Sotto i portici di piazza Bonacossa c'era la "Casa del Soldato", dove i soldati
analfabeti potevano seguire un corso per imparare a leggere e scrivere e far di
conto.
Più tardi sorse l'ufficio corrispondenza per le comunicazioni con i prigionieri.
Due dornesi furono decorati con medaglia d'argento al valor militare:
il sergente maggiore De Paoli Paolo dell'89° Regg. fanteria, capo pezzo
mitraglieri, distintosi sul Monte Nero, sull'altipiano di Asiago e nella presa di
Gorizia (maggio 1918); essendo il primo dornese decorato al valor militare, ebbe come regalia dal
conte Primo Bonacossa £. 5.000; il sergente maggiore Ricotti Ippolito del 17° Regg. bersaglieri, per
azione di guerra sul Carso.
Cinque furono i decorati con medaglia di bronzo:
il sergente Gennari Giuseppe, 3° Regg. artiglieria alpina;
il caporal maggiore Serafini Giovanni, 22° Regg. fanteria;
i soldati Invernizzi Giuseppe, Nicola Giovanni, Mangiarotti Giuseppe.
Un encomio solenne fu conferito al serg. magg. del genio Laboranti Paolo Battista.
Settantaquattro dornesi caddero in azioni di guerra e quattro decedettero per ferite riportate.
IL VENTENNIO FASCISTA
L'Italia, benché uscita vittoriosa dalla Prima Guerra Mondiale, cadde in preda a una profonda crisi
politica e sociale.
Le sofferenze della guerra e la crisi economica del dopoguerra avevano contribuito a diffondere nel
popolo un grave disagio del quale si fecero interpreti i partiti.
Si scatenarono allora ondate di scioperi e di agitazioni accompagnate da deprecabili atti di violenza.
A Dorno in quegli anni la situazione politica era caratterizzata da una forte presenza del Partito
Socialista e dal sorgere del Partito Popolare Italiano, che rappresentava il riavvicinamento dei
cattolici alla vita politica.
Si ricorda di quegli anni uno scontro avvenuto tra le due fazioni una domenica pomeriggio, all'ora
dei vespri, quando un gruppo di socialisti con bandiera rossa fu fermato sul sagrato della chiesa
parrocchiale dal prevosto Mons. Maroi con le parole rimaste famose "non fate sangue"; si ricordano
pure scioperi ad oltranza, incendi in alcune cascine, tagli di filari di vite nelle vigne, maltrattamenti
al bestiame di stalla, ecc..
Risale al 1919 il sorgere in Dorno, ad opera del Dott. Carlo Sottotetti, veterinario comunale, delle
"Leghe Bianche" dei contadini e delle filandiere, organizzazioni che operavano per la difesa dei
diritti dei lavoratori
Per iniziativa di queste leghe di ispirazione cattolica, si frazionarono in Dorno quattromila pertiche
di terra tra cinquanta famiglie di contadini e piccoli affittuari.
Il disordine in cui andava sempre più precipitando l'Italia provocò ben presto una violenta ondata
reazionaria.
Si costituirono a Milano (1919) i "Fasci di combattimento", con lo scopo di combattere i partiti e di
conquistare il potere.
Mussolini, nello spazio di tre anni, mediante le cosiddette "squadre d'azione", andò decisamente
affermandosi, specialmente in Lombardia.
Nella nostra zona percorsa da violenti sussulti dovuti alla grave crisi occupazionale imperversò con
accanimento lo squadrismo fascista; anzi proprio in Lomellina nacque uno degli uomini forti del
Fascismo: Cesare Forni, uno squadrista che si mise, in seguito, in antitesi a Mussolini, capeggiando
nelle elezioni del 1921 una lista di dissidenti fascisti.
Nell'anno 1922 il Comune di Dorno aderiva all'organizzazione dei Comuni fascisti.
Il Comune non ebbe più il Consiglio Comunale e i podestà furono nominati dai prefetti.
Con l'emanazione della "Carta del lavoro", che aveva lo scopo di conciliare gli interessi dei datori di
lavoro e dei lavoratori in nome delle supreme esigenze della nazione, scomparvero anche i sindacati
e le leghe bianche.
Dall'asilo all'università, i giovani erano inquadrati in diverse organizzazioni: Figli della Lupa,
Balilla, Piccole Italiane, Avanguardisti, Giovani Fascisti, Camicie Nere, ecc..
Al 18° anno di età i maschi dovevano frequentare i corsi premilitari che a Dorno erano tenuti il
sabato pomeriggio nei locali dell'ex palazzo comunale in piazza XI Febbraio.
Vi si impartivano lezioni di dottrina del fascismo e si imparava l'uso del moschetto. Gli assenti
dovevano pagare multe salate. In estate, era allestito nella valle del Terdoppio, (in fondo alla via
Piave), la colonia elioterapica frequentata dagli alunni della scuola elementare.
Nella scuola era tenuto in grande considerazione l'insegnamento dell'educazione fisica; al termine
dell'anno scolastico si svolgeva il saggio ginnico finale e i migliori allievi partecipavano a Roma al
"Campo Dux" per la qualifica di istruttori.
All'Epifania era organizzata la Befana fascista; ad ogni alunno delle nostre scuole era offerto un
pacco con dolci, cibarie e vestiti.
Alle finestre, nelle tante solennità nazionali, c'era l'obbligo dell'esposizione della bandiera tricolore;
i due vigili urbani (detti: campagnóu: Mini e Cucagna) controllavano e riferivano i nomi degli
inadempienti al Podestà.
Monumento ai Caduti nella originale
collocazione
GUERRA 1940 - 1945
Il 10 giugno 1940 un potente altoparlante piazzato sul balcone del Municipio diffondeva il discorso
del Duce in cui si lanciava la sfida alle "nazioni plutocratiche e reazionarie", era la guerra ; in quei
giorni il Messo Comunale cominciò a girare per le case a portare le prime cartoline precetto per i
richiamati dalla classe 1911 in avanti.
La settimana dopo transitarono per Garlasco i reparti dell'"Armata Po" diretti al fronte occidentale
al comando del Principe di Piemonte.
La locale sezione del Partito Fascista per l'occasione aveva inviato a Garlasco una rappresentanza di
Balilla e Avanguardisti. Giovani di leva e richiamati furono mandati sui diversi fronti: l'occidentale,
l'orientale, in Africa, in Albania.
Presto iniziò il razionamento, cioè fu introdotta la tessera per generi alimentari, vestiario, scarpe,
ecc.; molti in paese avevano costruito nascondigli dove riporre quanto era possibile.
I salami fatti in casa con la carne del maiale allevato quasi in ogni famiglia venivano conservati
nella sugna in damigiane opportunamente tagliate o in olle di terracotta, accuratamente nascoste:
così pure la meliga, il riso e il frumento. Il pane che si poteva acquistare con la tessera (200 grammi
al giorno) era pessimo. Chi poteva lo faceva in casa, il caffè era sostituito da ceci, cicoria, grano,
orzo, vinaccioli tostati.
Le nostre donne avevano ripreso a filare con rocca e fusi.
Si allevavano conigli di angora, si conciavano pelli di conigli, di talpe, di gatti per fare copricapi e
guanti.
Il tabacco era strettamente tesserato; si coltivava abusivamente negli orti e si dava la concia nei
modi più strani: con vino, grappa, miele; opportunamente tritato, veniva fumato nella pipa o si
confezionavano sigarette a mano con le cartine.
Gli agricoltori dovevano consegnare periodicamente al "raduno del bestiame" determinati quintali
di capi da stalla che venivano macellati e venduti sotto controllo del Comune in base al
tesseramento.
Chi possedeva un apparecchio radio ascoltava la voce di Radio Londra a basso volume e con
circospezione.
Alla sera l'oscuramento era assoluto per evitare le bombe e il mitragliamento di "Pippo", come era
stato battezzato l'aereo alleato che sorvolava la Lomellina ogni notte.
Le automobili ed i mezzi di trasporto pubblici erano azionati col gas prodotto dal carbone di legna
(gasogeno).
Prosperò la "borsa nera" (mercato clandestino di ogni genere) diretto alle città di Milano, Pavia,
Genova e che si praticava con le astuzie più impensate.
I NOSTRI CADUTI
L'8 SETTEMBRE
L'8 settembre, con la caduta del governo fascista, trovò tanti nostri concittadini sparsi un po'
dovunque sui vari fronti.
Molti furono fatti prigionieri e finirono nei campi di concentramento alleati dove poterono anche
lavorare.
Alcuni invece furono deportati in Germania dove ebbero a subire trattamenti inumani.
Altri fecero ritorno a Dorno a piedi o con mezzi di fortuna da ogni parte d'Italia dopo molte e
drammatiche peripezie.
LA RESISTENZA
Il bando del Generale Graziani ordinava, il 4 novembre 1943, ai giovani delle classi 1924, 1925,
1926 e agli sbandati di presentarsi per l'arruolamento nelle file dell'esercito della Repubblica
Sociale Italiana. Molti giovani si nascosero in soffitte, in case di parenti, in cascinali o in ricoveri di
fortuna, quali le "casotte" nella zona dei "dossi". Altri ubbidirono al bando, considerando questa
soluzione la meno pericolosa o come qualcosa di inevitabile.
La Guardia Nazionale Repubblicana iniziò i rastrellamenti anche a Dorno; suoi reparti setacciarono
il paese.
Furono portati e trattenuti presso il distretto militare di Pavia alcuni papà di renitenti al bando di
reclutamento; essi furono rilasciati quando si presentarono i figli che erano riusciti ad eclissarsi
prima del rastrellamento.
Furono sequestrati alcuni apparecchi radio con le quali era possibile ricevere le emittenti straniere
(Radio Londra). Continuò il coprifuoco, la conseguente chiusura serale dei locali pubblici e la
sospensione di tutte le licenze di caccia.
Nella bassa Lomellina nella primavera del 1944, nacquero le prime squadre armate che furono
inquadrate, in seguito, nella 169° Brigata S.A.P. (Squadre Armate Partigiane); a Dorno e a Gropello
gli isolati che da tempo agivano nella zona costituirono il gruppo "Cairoli" del quale era
comandante il dott. Onnig Avakian, medico di Dorno. Il gruppo contava venti uomini e quattro
ufficiali. L'attività di questo gruppo iniziò il 14 settembre 1943 con la rimozione di un tratto di
binario della ferrovia tra Villanova d'Ardenghi e S. Spririto (linea Pavia - Mortara) per impedire il
passaggio alle tradotte dei deportati dirette in Germania. Seguirono pure tentativi di asportare dal
Municipio di Gropello le armi (fucili da caccia sequestrati).
Cadde il 27 aprile 1945, sotto un mitragliamento aereo sulla provinciale Pavia - Alessandria, nei
pressi di Pieve Albignola, il partigiano Riccardo Rossi di Dorno, facente parte del gruppo "Cairoli".
Al suo nome fu dedicata una via.
Il 25 aprile, in mattinata, un'automobile scoperta americana con tre soldati a bordo (uno era di
colore), si fermò davanti al Municipio: la guerra era finita.
A Dorno, come in tutti i paesi della zona, si installò il "Comitato di Liberazione Nazionale" (CLN).
Venne nominato come primo sindaco il dott. Avakian e quindi il democristiano Giuseppe Laboranti.
Gradualmente si ritornò alla normalità, tornarono i nostri reduci con il loro carico di sofferenze; la
vita riprese.
Nell'immediato dopoguerra rimase famoso uno sciopero durato più di cinquanta giorni: tutti i lavori
agricoli nelle cascine e nelle stalle si fermarono; la mungitura del bestiame da stalla fu in qualche
modo assicurata dai "crumiri", lavoratori che non aderivano allo sciopero, dai proprietari, dai
parenti o amici di questi.
La gente in sciopero si ritrovava nei vari punti del paese o alla Cooperativa (Piazza XI Febbraio, ex
Palazzo Comunale) ad ascoltare il capo lega dei lavoratori: Giovanni Perotti (Giuan Sètpèl) o
qualche attivista della Federazione Comunista di Pavia.
Qualcuno ricorda ancora l'infuocato comizio tenuto in piazza davanti al Municipio da un esponente
del mondo politico pavese e la scena del carabiniere disarmato del moschetto: l'arma fu
ripetutamente sbattuta sui ciottoli della piazza.
LO STEMMA DEL COMUNE
Nel 1957, con decreto del Presidente della Repubblica A. Segni, su proposta del Capo del Governo
A. Fanfani, fu riconosciuto a Dorno il diritto al gonfalone caricato dell'Arma Comunale.
Lo stemma araldico è a forma di scudo ed è diviso in due parti. La parte superiore è azzurra, nel
centro il sole con dodici raggi d'oro, ai lati due colonne di marmo al naturale.
La parte inferiore è di colore rosso con tre gigli d'oro.
La prima parte dello scudo con la figura del sole vuole ricordare che il nostro Comune fa parte della
Lomellina, simboleggiata appunto dal sole con dodici raggi per la sua fertilità, mentre le due
colonne stanno a ricordare l'origine romana della località "ad duas columnas", posta sulla via
romana militare per Torino e le Gallie.
La seconda parte dello scudo vuole rendere omaggio alla memoria delle antiche famiglie dornesi:
Dassi e Strada che tanto operarono a favore della prosperità del paese, traendo dallo stemma
gentilizio di esse l'elemento essenziale: i gigli.
Dino Laboranti
DORNO -APPUNTI STORICI
Comune di Dorno
Biblioteca Comunale
2° EDIZIONE 2001
2ˆ parte - Il territorio, la casa, il lavoro
IL TERRITORIO, LA CASA, IL LAVORO
STRUTTURA URBANISTICA
La struttura urbanistica del comune di Dorno risente di due diverse origini.
La copia della mappa tratta dal catasto di Maria Teresa d'Austria evidenzia due diverse
sistemazioni: una che avrebbe origini romane e l'altra di pretta origine medioevale.
Ricordando che per Dorno passava la via "ad Cottias", che in occasionali scavi eseguiti furono
rintracciati resti di un antico selciato stradale, e facendo riferimento al nome rimasto alla strada, si
può affermare, sempre con riferimento alla citata mappa, che le vie "Contrada detta di Pavia Piazza Grande - Contrada di S. Martino e poi via Lomello" corrispondono al percorso della via "ad
Cottias" (provinciale Gropello - Dorno - via V. Veneto - piazza Dante - via Roma - via Piave guado del Terdoppio).
Questa strada è tagliata perpendicolarmente dalla strada "Contrada di Garlasco - piazza Grande contrada della Piazza e contrada dei Nuvolai" (provinciale Vigevano - Voghera - via Conte. C.
Bonacossa - via Marconi - via Cairoli - via Scaldasole).
Il tracciato di queste due strade porta facilmente a pensare al decumano romano (disposizione delle
vie rettilinee che attraversavano l'accampamento romano).
In contrapposto a questa si nota, dalla disposizione delle case e
delle vie, un primo anello abbracciante la prima zona del
paese, ove era il castello; nella vecchia mappa, si vede segnato
ancora il fossato.
L'origine di questo anello è facilmente spiegabile, data la
gerarchia medioevale e la necessità degli abitanti di stringersi
sotto la protezione del luogo fortificato (piazza S. Rocco,
primo tratto della via Passerini, via P. Bonacossa, tratto di via
S. Bonacossa, tratto di via Marconi).
Un secondo anello si collega al primo e di questo fatto è facile
spiegare le origini. La strada corre infatti nei punti più bassi, circondando un'isola lievemente più
elevata che presenta una pendenza da nord a sud.
Da questi anelli dipartono le strade che collegano Dorno con Gropello e Zinasco.
L'abitato di Dorno si trova in posizione depressa rispetto alla campagna circostante e questo fatto
porta ad un grave inconveniente dovuto alla presenza in prossimità della superficie di acque
freatiche. Questo inconveniente è molto grave, tanto che a Dorno fino alla costruzione
dell'imponente fognatura maestra (1935, da via Conte Cesare Bonacossa al Terdoppio) non
esistevano cantine sotterranee asciutte.
Caratteristica peculiare della casa dornese fino a mezzo secolo fa erano infatti finestre
incredibilmente piccole e limitate di numero, vani bassi, mancanza di servizi igienici, stalla a
ridosso delle abitazioni, portici per fieno a contatto, cortili trascurati, pareti malamente intonacate,
sempre di colore indefinibile, chiazze di umidità.
La casa a Dorno non era oggetto di particolari cure; si preferiva investire i risparmi in terreni.
IL TERDOPPIO
Col nome di Terdoppio s'intende indicare quel torrente che in origine certamente costituiva
un unico corso d'acqua, ma che da secoli risulta suddiviso in due distinti tronchi tra loro non
più collegati, ed esattamente il Terdoppio Novarese, dalle sorgenti all'immissione nella roggia
di Cerano o "Cerana", e il Terdoppio Lomellino, dai vari fontanili che lo riformano (Senella,
Refreddo, ecc.) alla confluenza nel Po presso Zinasco (tra Mezzana Rabattone e il Gerone).
Si tratta di un corso d'acqua naturale, il quale, oltre alla sua specifica funzione di colatore di
gran parte dei territori attraversati, assolve importanti funzioni irrigue, non solo per mezzo
delle numerose derivazioni che alimenta, ma altresì come vettore di acque d'irrigazione di
diversa origine che si immettono a tale scopo nel suo alveo.
Si è dunque in presenza di un'arteria naturale che da
secoli, unitamente ad altre vie d'acqua, ha costituito
l'ossatura dell'intero sistema irriguo dell'agro lomellino
prima dell'avvento del canale Cavour e dell'apertura dei
suoi principali diramatori (canali Sella, Vigevano, ecc.).
Il Terdoppio Novarese nasce dai capofondi situati nei
rilievi collinari di Divignano e Agrate Conturbia e scende a
lambire Novara sul lato di levante.
Poco a sud della città, nei pressi di Sozzago, il corso del
torrente è in parte deviato in quello della roggia Cerana le
cui acque irrigano le campagne di Cerano, disperdendosi in una fitta rete capillare di vasi
irrigatori, l'altro si immette nel sistema idrografico della roggia Mora, a servizio della
irrigazione dei territori di Cassolnovo e Vigevano.
La portata massima di piena del Terdoppio a Novara è di mc/s 130.
Il Terdoppio Lomellino, lungo km 65, inizia a sud di Sozzago con le acque di alcune fontane
che chiaramente hanno origine dal subalveo dell'abbandonato antico percorso naturale del
preesistente unico Terdoppio, e prosegue quindi fino al Po con prevalenti funzioni irrigue e di
colo, sfociando nel grande fiume in territorio di Zinasco; esso bagna i Comuni di Cassolnovo,
Gravellona, Vigevano, Gambolò, Tromello, Garlasco, Alagna, Dorno, Pieve Albignola e
Zinasco.
Il Terdoppio, raccogliendo gli scarichi di parte del territorio fortemente industrializzato,
risulta alquanto inquinato e la utilizzazione a scopo ittico delle sue acque, una volta note per
la loro purezza e freschezza, è molto compromessa. Lo sviluppo del Terdoppio da Divignano
al Po è di circa km. 86. Il grave problema che interessa il Terdoppio è quello degli scarichi
nocivi provenienti dalle industrie e dalle fognature urbane. La soluzione di un inconveniente
di così preminente interesse pubblico è stato affrontato dai comuni interessati che stanno
adottando interventi per depurare le acque che vengono immesse.
LA ROGGIA DI BATTERRA
La Roggia di Batterra fu costruita dal conte Crivelli di Dorno nel 1600; è lunga 7 chilometri e porta
l'acqua derivata dal Terdoppio alla cascina Batterra.
Questa importante opera ha segnato l'inizio del diboscamento
e del risanamento del territorio tra Dorno e Zinasco Nuovo; è
appunto in questo periodo che sono sorti i vari cascinali della
zona, una volta incolta e adibita soltanto a pascolo o a magre
colture di segale e a vigneto.
L'atto di vendita dell'acqua del Terdoppio di proprietà della
Comunità Garlaschese fu stipulato a Garlasco "in una casa
vicino al campanile" nell'anno 1602 davanti al Pretore, al
Notaio, al Podestà, ai due Consoli e al Conte Crivelli.
Il Conte dichiarò di voler usare l'acqua per l'irrigazione dei
campi dornesi mediante la costruzione di una diga di sbarramento sul torrente Terdoppio e lo scavo
di una roggia, della portata di 20 moduli e della lunghezza di 7 km.
Il Conte, dopo che il Podestà di Garlasco aveva fatto suonare le campane dal "pubblico servo" sulla
torre civica, sborsò mille scudi d'oro al Municipio e sessanta ai poveri.
Il Conte di impegnava:
- a costruire presso la diga un ponticello per il passaggio di pedoni e animali,
- a non trarre troppa acqua onde non far soffrire la sete al bestiame al pascolo,
- a non lasciare all'asciutto certe valli che servivano per mettere a bagno il lino,
- a non danneggiare le piantagioni,
- a rispettare il diritto di pesca dei garlaschesi,
- a permettere alle donne di lavare i panni.
La diga vecchia, iniziata nel 1604, fu fatta e rifatta più volte; ha una lunghezza di 16 metri, una
larghezza di 1,40 metri e un'altezza di 2 metri; è di granito e robuste aste di ferro.
A valle ci sono sei salti di cemento armato e di cotto.
La diga nuova fu costruita nel 1928, è in cemento armato e venne a costare cinquecentomila lire; è
lunga 15,25 metri, larga 3 metri, alta 2,45 metri; ha una portata di cento metri cubi al minuto.
Le dighe e la roggia sono di proprietà per la metà degli eredi dell'avvocato Gennari, per l'altra metà
dal Consorzio di Batterra formato da piccoli proprietari.
Questo importantissimo corso d'acqua è per i Dornesi "la Roggia" per eccellenza (la rusa).
ECONOMIA DORNESE
Nei tempi lontani, come già si è detto, il terreno della nostra zona era nella massima parte incolto e
paludoso.
La bonifica compiuta dai singoli o dalle comunità religiose, con le relative opere di canalizzazione e
di impianto di prati marcitori, pose le fondamenta dell'attuale ricchezza. Intelligenti e attive famiglie
ottennero in enfiteusi (affitto in perpetuo o a lungo tempo) terre da bonificare e al termine del
contratto, divennero proprietari.
Le necessità derivanti dall'irrigazione e dall'organizzazione del lavoro determinarono la
unificazione di determinate superfici del territorio di Dorno: sorsero così le cascine che fanno
corona al territorio comunale e che si allineano di preferenza sulle rive del Terdoppio.
Paese rurale, saldamente legato alla sua terra, resa fertile mercé l'opera secolare dell'uomo, Dorno
presenta tuttora una proprietà fondiaria che, a fianco di grandi cascinali, presenta una massa
grandissima di piccoli proprietari, fino a qualche decennio fa conduttori diretti della loro terra: i
cosiddetti "perdapé", proprietari della casa dove vivevano, della stalla con qualche mucca, di un
cavallo o di un asino, di una vigna; provvedevano, aiutati anche dai familiari, a tutte le attività
connesse alla piccola azienda agricola: dalla mungitura due volte al giorno alla pulizia della stalla,
dal trasporto nei campi del letame al taglio d'erba giornaliero per il bestiame, dalla semina alla
concimazione, dalla zappatura alla rincalzatura, dalla irrigazione alla falciatura, dalla essiccazione
al trasporto dei vari prodotti dei campi a volte lontani, raggiungibili coi carretti (tumaré) attraverso
strade vicinali, quasi impraticabili in inverno.
La vendita dei prodotti della stalla e dei campi non compensava, a volte, l'impegno profuso dal
"perdapé" che, se malauguratamente era costretto a vendere al macellaio (bichè) il cavallo o una
mucca, veniva a trovarsi in difficoltà per sostituirli ( "al ciapiva i sold cun i man dadré dal cü).
Uno dei punti di riferimento in questi casi era il commerciante Pietro Nicrosini, con deposito di
granaglie, sementi e concimi in via Altino, sempre discretamente presente e disponibile per prestiti
immediati sulla parola.
Questo fenomeno della preminenza della piccola proprietà costituiva il fulcro intorno al quale si
muoveva tutta la economia dornese.
Il numero dei piccoli proprietari è tuttora grandissimo e la terra fortemente suddivisa; basta pensare
che esistono ben 645 intestazioni di proprietà per una superficie minore di un ettaro, vale a dire di
15 pertiche circa (pertiche milanesi 15,27).
Per risolvere il complesso problema dell'irrigazione si sono venuti costituendo nel passato numerosi
Consorzi irrigui, sia tra piccoli che tra grandi proprietari.
Questi Consorzi hanno avuto origine, nella maggior parte dei casi, dalla divisione di grandi
proprietà dotate di diritti d'acqua, di cavi e di impianti per la presa e la derivazione di essa.
Il più importante Consorzio irriguo di Dorno è proprietario di due dighe di sbarramento sul
Terdoppio e della roggia di Batterra, cavo della portata di circa 20 moduli.
AGRICOLTURA
Il territorio di Dorno si sviluppa su un'area di 3060 ettari, includendo i cascinali che lo circondano.
L'agricoltura, da sempre, è basata essenzialmente sui seminativi, che, da soli, costituiscono il 75%
dell'intera superficie agraria.
Tutte le altre colture sono ripartite in boschi e culture legnose specializzate.
Attraverso il tempo queste colture hanno subito trasformazioni a favore e a scapito di altre.
Il granoturco ha avuto in questi ultimi anni un enorme sviluppo, per cui la sua produzione è pari o
addirittura superiore a quella del riso: sviluppo dovuto in modo particolare all'industria dei
mangimi.
Decisamente modesta la coltura del frumento che una volta occupava il primo posto tra i cereali (nel
1955 ql. 18.000 contro ql. 5.200 di granoturco).
LA CASCINA
Le prime
cascine sono
attestate
nelle
campagne
della
Lomellina
fino dal
decimo secolo. Si trattava di ricoveri temporanei per persone
o attrezzi, costruiti e sparsi nei campi, generalmente di paglia o argilla e sfruttati in modo saltuario
dai conduttori dei fondi.
Soltanto nel XII secolo si diffusero le "cassine" con funzioni più articolate e complesse.
Nel XIII secolo la "cassina" indicava, oltre alla originaria cascina - ricovero, il nucleo centrale di
un complesso agricolo costituito da un insieme di edifici e terreni, la corte, l'aia e l'orto attiguo alla
casa.
Dal 12° al 18° secolo le cascine appartenevano quasi esclusivamente agli enti ecclesiastici oppure
a famiglie di estrazione mercantile.
Vediamo quale era la struttura. Ne parlerò al passato perché ormai la funzione della cascina e il
suo mondo sono finiti: sopravvivono i luoghi, ma la maggior parte di esse è deserta o abitata da
pochissime persone.
La cascina fino agli anni cinquanta non ha comunque subito modificazioni significative nel corso
dei secoli né dal punto di vista abitativo né dal punto di vista dei rapporti umani e sociali.
La "corte": (una o due), era generalmente quadrangolare con l'aia nel mezzo e attorno gli edifici
riuniti da un muro di cinta con uno o più passi carrai (qualcuno asserisce che il muro di cinta
servisse, oltre a impedire ai ladri di entrare, anche ai contadini di uscire).
La "casa padronale" aveva sul retro una corte privata (la "curtina"), con l'orto e il giardino; annessa
alla casa padronale c'era la "ca da bugà", la cantina e alcune rimesse.
Le case dei contadini ("i cà di paisan") erano privi di servizi igienici; il gabinetto era una buca in
un angolo dell'orto difeso da fascine; mancava il lavandino, per cui i piatti e i panni venivano
lavati all'aperto in un mastello di legno; quanto all'acqua, si andava a prenderla col secchio (al
sidél) alla pompa dell'acqua (la tromba) dove si abbeveravano anche gli animali.
Sotto la scala esterna che portava al piano superiore, dove si dormiva (al sulè), c'era il pollaio con
apposito buco per il passaggio delle galline (la busaroela).
Accanto alle case dei contadini vi era il forno a legna (al furan) di cui si serviva tutta la piccola
comunità per la cottura del pane due o tre volte la settimana.
LA VITA NELLA CASCINA
L'organizzazione del lavoro era basata su una struttura gerarchica precisa ed efficiente.
Al vertice di questa struttura stava il proprietario - conduttore del fondo o l'affittuario (fitaul) con
la famiglia (la fitaula o la padrona).
Subito dopo il vertice gerarchico venivano: "al fatù, al campè, e al campagnòu".
"Al fatù" (il fattore) era il capo dei contadini che trasmetteva gli ordini ricevuti dal padrone la sera,
in un incontro rituale.
"Al campè" (il camparo) era addetto ai corsi d'acqua e alla irrigazione dei campi.
"Al campagnòu", presente soltanto nei grandi fondi, sovrintendeva a tutto l'andamento della
cascina e del fondo.
Venivano poi i "capcavalant, sutcapcavalant, cavalant", addetti ai cavalli.
Il "capcavalant" era una figura che godeva del maggior prestigio per i suoi frequenti rapporti con
la famiglia padronale, di cui era il cocchiere e più tardi l'autista.
Il "capcavalant" alle quattro di ogni mattina schioccava la frusta nella corte per svegliare i
"cavalant", dopo aver dato il primo fieno ai cavalli.
I "capfamèi, famèi" erano addetti al governo delle mucche da latte (all'una di notte suonava la
"barloca" (il tamburo) per chiamare i famigli (mungitori) alla stalla.
Il "capfamèi" dormiva in stalla, nella "baita", un cassone di legno ripieno di paglia, appeso alle
travi del soffitto.
Il "capfamèi" era responsabile dell'andamento generale della stalla, della nascita dei vitelli, della
produzione, della misurazione e della consegna del latte al casaro (casè).
Il "mansulè" era l'addetto alle manze, allevate in apposita stalla.
"Al burc", il bifolco, era l'addetto ai buoi; "al casè" era l'addetto alla lavorazione del latte
(trasformazione in burro, stracchino, formaggio); "al general" era l'addetto alla cura dei maiali ai
quali finivano gli scarti della lavorazione del latte;
Tutti questi dipendenti erano detti "ubbligà", o "sudit", o "sugit".
Essi avevano diritto, oltre alla paga ("sgnada"), alla casa, al porcile, all'orto e a una piccola parte
della produzione del fondo: meliga, riso, paglia, legna, latte.
Vi erano poi i lavoratori giornalieri (i "paisan") che venivano assunti nel periodo di maggior
lavoro.
Oltre al lavoro individuale o di gruppo, si attendeva anche ad altri lavori facoltativi:
- coltivazione della meliga a "quinto" o a "quarto"; il proprietario del fondo assegnava a una
famiglia una parte di terreno da coltivare a meliga; il raccolto, secco, veniva così distribuito: tre
quarti al padrone e una al contadino (oppure quattro quinti al padrone e una al contadino);
- al "tupè" catturava le talpe e ne utilizzava il pellame;
- al "magnan" aggiustava pentole, padelle, mestoli;
- al "cadrighè" riparava le sedie;
- l' "umbralè" riparava gli ombrelli.
Le ferie non esistevano; c'era soltanto il riposo della domenica o delle feste di precetto; in quei
giorni i contadini venivano in paese a Messa, al cimitero, all'osteria o rimanevano nella corte della
cascina.
Il "vestire" contadino era caratterizzato dal "capé" e d'estate dalla "caplina" di paglia, dal "giaché"
(giacca), dai "calsou", dal mantello in inverno, dallo scialle per le donne; si camminava dalla
primavera all'autunno a piedi nudi e d'inverno con gli zoccoli o i "mucarè" (scarpe con la suola di
legno).
Periodicamente arrivava in cascina qualche venditore ambulante; tipico di costoro era il richiamo
pittoresco lanciato al loro ingresso in cascina.
Giungevano infine i "poveri": quasi sempre in un giorno fisso della settimana, uno dietro l'altro, a
distanza, mai in gruppo, chiedevano l'elemosina mormorando il rituale "fè la carità par l'amür di
Diü a una povra dona, o, a un povr om".
ATTREZZI
La storia degli attrezzi del lavoro é la storia della fatica contadina e
di tradizioni culturali trasmesse di padre in figlio.
Fino al '700 il sapere tecnico delle campagne é quasi
esclusivamente frutto di una cultura affinata e consolidata nel corso
dei secoli, attraverso un processo di imitazione e di emigrazione
che riesce a raccogliere certo consenso dopo aver vinto la radicata
resistenza dei tradizionali metodi culturali e degli strumenti di
lavoro impiegati da sempre.
Solo nella prima metà dell'800, pur accolta con sospetto dai lavoratori, inizierà a diffondersi nelle
nostre campagne una nuova pratica colturale attraverso macchinari e attrezzi funzionali che hanno
comportato un progresso della produzione.
Le cascine, tracce inconfondibili del nostro passato, restano oggi a documentare attività, tradizioni,
usi e costumi di un mondo contadino ormai lontano; sono l'immagine di una esistenza scandita dai
ritmi lenti delle stagioni, di gente operosa che tanto ha contribuito a determinare la storia e la
cultura della nostra zona.
La meccanizzazione agricola, succeduta al secondo conflitto mondiale, ha trasformato la vita dei
campi ed é venuto meno quel ruolo di aggregazione sociale che la cascina e il lavoro dei campi
avevano assolto per secoli.
Ora che sulle grandi aie é sceso il silenzio, la cascina rimane, tuttavia, a testimoniare una civiltà di
alto valore culturale che ancora molto ci può insegnare.
TECNICHE CONTADINE TRADIZIONALI
Le colture : aratro ed erpice erano gli strumenti con cui si
effettuavano i lavori che precedono la semina: aratura,
sminuzzamento del terreno e ripulitura delle erbe nocive.
Generalmente i buoi trainavano l'aratro, data la loro maggior
forza e resistenza alla fatica; i cavalli, oltre all'aratro,
trainavano l'erpice.
Inizialmente l'aratro era di legno, con l'estremità del vomere
rafforzata in ferro.
Nel 1861 fu introdotto un tipo di aratro di ferro che
consentiva una lavorazione più profonda del terreno;
La semina : era eseguita tradizionalmente con l'antichissima tecnica dello spargimento a mano, la
cui riuscita dipendeva esclusivamente dalla abilità di chi seminava.
Il seminatore camminava con passo cadenzato e sempre uguale, così che gettava a semicerchio una
manciata di semente ogni due passi.
Una buona semina dipendeva dalla uguale lunghezza dei passi e dalla uguale quantità di seme di
ogni manciata.
La mietitura : era effettuata con la falce messoria (amsura); si trattava di un lavoro faticoso, perché
l'impiego della piccola falce a manico corto obbligava il contadino a stare continuamente curvo.
La trebbiatura : l'operazione di separare i chicchi dalla paglia veniva svolta, per cereali in genere,
col sistema del correggiato.
Si impiegava un utensile costituito da due bastoni di legno riuniti cima a cima con una correggia di
cuoio snodabile in ogni verso.
Il legno più lungo fungeva da manico , quello più corto serviva per battere i covoni (fasce di
spighe). Qualche volta si usava far correre sulle spighe un rullo (burlou) trainato da cavalli, muli o
asini. Infine, per separare i chicchi dalla pula si adoperava il vaglio (val) o un setaccio dalle grandi
dimensioni appeso ad un trespolo.
IL TERRITORIO, LA CASA, IL LAVORO
LE MONDINE
A Dorno, come in genere nella Lomellina, si comincia a
preparare i terreni per la coltivazione del riso non appena
cedono i geli, alternati alle brinate, cui fa seguito, da
maggio ad ottobre, il non meno pittoresco velo della
rugiada. Nelle risaie si ara dai primi di marzo. In aprile
inizia la semina, una volta operazione riservata al capo
contadino che con un canestro infilato al braccio sinistro,
a passo a passo, spargeva a manciate regolari nell'acqua i
semi delle diverse qualità di riso.
Seguivano giovani a cavallo che trascinavano sul terreno l'erpice per spingere i semi sotto il fango.
Da quel momento la risaia era pronta per essere definitivamente sommersa da una coltre d'acqua
alta fino a venti centimetri.
Nella risaia, si moltiplicano tante erbe infestanti ed ecco l'inizio della "monda", che durava da
maggio a luglio ed era affidata alle donne, alle mondine.
Poiché, oltre alla manodopera femminile locale, c'era una forte e costante immigrazione stagionale
proveniente da zone limitrofe, o anche abbastanza lontane (l' Oltrepo, il Mantovano) queste
mondine "forestiere" avevano accolto la regolamentazione del loro lavoro attraverso assunzioni e
trasporti collettivi, assegnazioni di posti di lavoro disciplinati da capisquadra e di una certa tutela
sanitaria.
Così, alla fine di maggio, arrivavano le squadre di mondine che si insediavano, nelle cascine per
iniziare la loro non difficile, ma pesante fatica giornaliera.
A schiena curva, sotto la sferza del sole, immerse nell'acqua fangosa, a gambe nude, quando ancora
non si usavano calzature protettive, esse andavano via via mutando il colore del volto, pur sotto le
ampie "capline" fatte di paglia.
La stanchezza veniva ingannata con canti che si ripetevano e rinnovavano di anno in anno.
A sera le mondine, dopo essersi rinfrescate nell'acqua di qualche fosso e dopo la cena, riposavano
sulle brandine nella camerata; dal paese, a volte, arrivavano in bicicletta i giovanotti; allora la
stanchezza passava, qualche coppia si allontanava, ma a una data ora bisognava essere presenti in
camerata per il discreto controllo della capo-mondina che doveva farsi garante del rendimento del
lavoro del giorno successivo.
Fiorivano avventure galanti stagionali che, a volte, si trasformavano in legami che sfociavano in
matrimoni.
Il periodo della monda durava una quarantina di giorni.
Fino al 1918 le ore giornaliere di lavoro erano dieci per sei
giorni la settimana e fino al 1946 all'azienda agricola
veniva assegnato il "chinino di Stato" per la profilassi
antimalarica delle mondine.
Il conduttore del fondo doveva fornire alla cuciniera
alimenti di buona qualità, oltre ad acqua buona raffreddata
con ghiaccio naturale (ghiaccio preparato in inverno
allagando apposito terreno e immagazzinato nelle
ghiacciaie ("giasèr") scavate nella terra e posizionate verso
il nord sotto un traliccio a forma di cono coperto di paglia).
Quest'acqua veniva portata alle mondine durante il lavoro nella risaia da speciali portatori nel
"barlat", botticella di legno fornita di un rubinetto che permetteva di bere anche a garganella.
Durante il lavoro il padrone, sempre presente sull'argine, appoggiato al bastone o al badile, curava
che il lavoro si svolgesse bene e senza distrazioni.
Ogni tanto risuonava il suo incitamento: "forsa don, sgagièv, fèg a mént al pábi".
Nella risaia si aveva l'impressione di vivere in tempo di festa, si cantava molto, i canti erano per lo
più vecchie canzoni, lente come il muoversi delle mondine nell'acqua, motivi nostalgici che
parlavano di spazzacamini, di soldati, di emigranti lontani; in quelle canzoni si intuiva l'anima, la
storia della nostra gente in lotta contro l'indigenza, la difficoltà del vivere, e l'attesa di una vita
migliore.
L'ultima sera si faceva festa d'addio nell'aia con canti e danze, senza badare all'orario; poi, al
mattino, la partenza con il prezioso gruzzolo guadagnato onestamente con sudore e fatica, i saluti e
qualche lacrima.
Il mondo pittoresco delle mondine e delle loro brevi avventure amorose è stato tramandato
visivamente in due film che costituiscono perciò anche una testimonianza storica dal vivo: uno era
il famoso "Riso amaro" di G. De Santis (1949) con V. Gassman e S. Mangano; l'altro si intitolava
"La risaia", il regista era R. Matarazzo e fu girato in Lomellina nel 1956. Per la gioia dei nostalgici
delle caratteristiche paesane, ricorderemo la pesca e il commercio delle rane che nella nostra plaga,
da sempre, hanno trovato l'ambiente più adatto.
Le risaie sommerse diventano infatti un vivaio naturale. Le rane si mangiano nei mesi con la erre e
la pesca si fa nei mesi di primavera e autunno.
I modi più usuali per cucinare le rane sono tuttora: la minestra di riso con brodo di rane, la frittata di
rane, rane fritte e panate; ma il modo più genuino e forse il più saporito è il celebre "guazzetto":
rane buttate nell'olio e burro con prezzemolo e pomodoro.
La pesca della rana si faceva con caratteristiche particolari: i ranaioli professionisti le raccoglievano
di notte sulle rive e sugli argini delle risaie, abbagliandole con le luci della lanterna a carburo,
catturandole a mano, indi riponendole nel cestino di vimini che portavano a tracolla.
La pesca delle rane si fa oggi come allora anche con la lenza, legandovi al posto dell'amo un
"ranei", un piccolo ranocchio a richiamo; in tal caso la preda viene colta al volo con la mano dopo
che l'animale si é attaccato vorace all'innocente consanguineo.
LE MARCITE
Da uno studio sul nostro territorio fatto nel 1950, a Dorno esistevano 153 ettari di marcite, che
ebbero tanta parte nello sviluppo zootecnico della nostra zona. Le marcite sono prati costantemente
irrigati in inverno e in estate con acque dalla temperatura mai inferiore ai dieci gradi , sui quali sono
possibili fino a otto tagli d'erba all'anno.
L'origine di questa pratica colturale risale alla venuta in Italia, e precisamente nel Milanese
nell'anno 1135, dei monaci di S. Bernardo di Clairvaux, il santo fondatore della famosa abbazia di
Chiaravalle. Questi monaci, seguendo la regola del loro Ordine, dovevano lavorare la terra; siccome
i terreni attorno al monastero milanese erano acquitrinosi e malsani, ne affrontarono la bonifica,
promuovendo la pratica dell'irrigazione, allora poco nota. Ma era un'opera immane, superiore alle
loro forze, per cui rispolverarono un antichissimo sistema colturale, sfruttando le acque stagnanti o
sorgive (i fontanili) per formare il "pratum marcium" o marcita permanente.
ALTRE ATTIVITA'
Molte attività in questi ultimi decenni si sono perse, come l'allevamento del baco da seta e la
lavorazione dei bozzoli, primo tentativo di industrializzazione del nostro paese iniziato dai conti
Bonacossa: questo lavoro costituì per Dorno un momento di floridezza. Ma si praticavano anche la
coltivazione della canapa e del lino, la coltura del tabacco che ebbe termine nel 1960 a causa della
"peronospora tabacina" che, distruggendo i raccolti, determinò la chiusura del Magazzino
Lavorazione Tabacchi ove lavoravano stagionalmente centinaia di persone. Prosperavano i piccoli
allevamenti familiari che tanta importanza ebbero nell'economia di questa nostra comunità basata
essenzialmente sulla terra e su quanto da essa era possibile ricavare.
Ora alla grande fatica si è sostituita la macchina, al letame i concimi chimici, ai buoi e ai cavalli i
trattori, alle vanghe, alle zappe e ai badili i motocoltivatori, il passato non è comunque morto, anzi
da esso c'è ancora molto da imparare: soprattutto che la bonifica non ha mai fine. La nostra terra
riscattata dalle acque, diventata fertile nel corso dei secoli grazie all'immane lavoro dell'uomo, è
ancora in pericolo se non si affronteranno i lavori di bonifica degli inquinamenti idrici, atmosferici e
chimici che tutto avvelenano, compresi i campi che stanno già accusando i primi sintomi di
isterilimento.
I DOSSI E LE VIGNE
All'inizio del Quaternario , circa un milione e ottocentomila anni fa, la pianura padana era un
immenso golfo, un'estrema propaggine a nord ovest dell'attuale Mar Adriatico.
L' "homo sapiens" non aveva ancora fatto la sua comparsa sulla terra; sarebbero passati altre
migliaia di anni prima che i nostri progenitori arrivassero in Europa dalle savane africane.
Nel corso dei millenni il livello del mare tendeva ad abbassarsi e la temperatura media saliva, le
estati si facevano più lunghe e dai ghiacciai delle Alpi e degli Appennini scendevano fiumi
impetuosi, carichi di materiali in sospensione che decantavano nel "golfo padano". Quei materiali
costituiscono il terreno che attualmente troviamo nella pianura padana.
Ma l'azione di deposito non fu omogenea; in alcune zone si accumulò più materiale di consistenza
sabbiosa, in formazioni paragonabili alle dune.
Nei millenni successivi il vento le ha rimaneggiate, la vegetazione ha coperto queste dune che sono
giunte fino ai nostri giorni.
Sono questi i nostri dossi che si estendevano verso Alagna, Valeggio, Gropello, Zinasco e
Scaldasole.
Di questi caratteristici ambienti rimangono oggi tracce assai limitate e profondamente manomesse
che, solo qualche volta riescono a svelare la loro remota origine. Questo perché nel dopoguerra
l'estendersi della coltivazione del pioppo e i livellamenti effettuati con mezzi prima sconosciuti
hanno determinato la distruzione di tanta parte di queste caratteristiche testimonianze geografiche.
I dossi ci appaiono come modesti rilievi ondulati (non si elevano in media più di uno o due metri sul
livello dei campi circostanti) e sono ricoperti in modo assai irregolare da vegetazione erbacea in cui
spiccano cespi di corinefono (barba ad crava) o da vegetazione arbustiva costituita da rovi, robinie,
ecc..
Nei dossi della zona di S. Materno, verso Batterra, negli anni 30 fu costruito dall'Aereo Club d'Italia
un poligono di tiro e di lancio per aeroplani dove si allenavano i piloti di stanza presso l'aeroporto
militare di Taliedo (No).
La scelta di questa zona, osteggiata dai proprietari, fu dovuta alla sezione dornese dell'Aereo Club
che annoverava tra i fondatori il cav. Ubaldo Torre, direttore della locale filanda "Bonacossa", il
magg. pilota Lucio Bosisio podestà di Dorno e il prevosto mons. G. Maroi.
L'attività del poligono, che attraeva nel corso delle esercitazioni folle di ragazzi e di curiosi, cessò
nel 1938.
Negli anni del primo dopoguerra, a Dorno, 115 ettari (pertiche 1750), il 15% del territorio, era
vigneto. Quasi ogni famiglia aveva in proprietà o in affitto una vigna che coltivava nelle ore libere.
Il vino che si produceva, chiaro e leggero, costituiva un risparmio per la famiglia.
Fino ai primi anni del secolo a Dorno vigeva una curiosa consuetudine: la "cria", la "grida" =
decreto emanato dal Sindaco e portato a conoscenza del pubblico dal banditore ai crocicchi delle
strade; la "cria" regolava e stabiliva i tempi della vendemmia nella zona "dossi" onde evitare i
diverbi e i litigi causati dal passaggio tra le varie proprietà dei carri per il trasporto delle uve.
Sull'importanza, e sulla diffusione della produzione vitivinicola della nostra zona si hanno
testimonianze sicure; lo storico greco Polibio (II secolo a.C.), lo storico e geografo greco Strabone
(I secolo a.C. - I secolo d.C.), il grande storico romano Tito Livio (contemporaneo di Strabone),
esaltarono la straordinaria ricchezza e fertilità di questa terra, ponendo il vino , insieme con il
frumento, l'orzo, il miglio, le ghiande, le rape fra i principali prodotti; nelle messi ravvisarono
addirittura una delle ragioni che avevano sollecitato i Galli a superare le Alpi e a insediarsi in Italia.
Testimonianze archeologiche contribuiscono pure a localizzare qui la coltura della vite; in una
tomba di età augustea - tiberiana scoperta nella campagna di scavi 1976-77 è stata rinvenuta una
statuetta di argilla alta cm. 14, con manto e cappuccio, roncolo nella mano destra e un grappolo
d'uva nella sinistra. Questo reperto indica che sul suolo alluvionale in cui sorge Dorno, in un'area
ricca di testimonianze galliche e romane, all'inizio dell'impero, era praticata la coltivazione della
vite, oggi quasi completamente scomparsa. Comunque fino agli anni '50 a Dorno la coltivazione
della vite ha avuto il suo peso nell'economia locale.
Accanto alle vigne si ergevano maestosi i castagneti (31 ettari) che costituivano sicuro rifugio per
tante specie di uccelli, oltre naturalmente ad offrire saporiti frutti per le lunghe serate autunnali.
LA COLTIVAZIONE DEL LINO
Alla fine del XII secolo a Pavia era sorto il Paratico (corporazione) dei Linaiuoli, o lavoratori del
lino, i quali traevano la materia prima dalla colture della confinante Lomellina, pagando dazio di
importazione.
Questo lino lomellino era particolarmente pregiato perché presentava filo sottile, lungo e assai forte.
Anche a Dorno, dal Medio Evo fino alla metà dell'Ottocento, si coltivava e si lavorava il lino sia per
ottenerne la fibra usata per la fabbricazione di biancheria di alta qualità, sia per ricavarne l'olio
mediante spremitura dei semi, olio che era richiesto dall'industria e impiegato in medicina.
L'attuale via Cairoli era chiamata "via Nuvolai" perché lì erano sorti molti laboratori di lino; il nome
"stra ad nuvlai" deriva da "növla" = fuso: arnese per filare il lino.
La coltura di questa pianta cessò in seguito alla espansione risicola del 19° secolo.
LE FILANDE
I fratelli Bonacossa diedero vita a Dorno ad una iniziativa imprenditoriale di certo interesse, una
delle prime in provincia di Pavia.
Facendo leva sulle esperienze della antica lavorazione della seta, nel 1868, essi impiantarono a
Dorno e a Vigevano due filande per la lavorazione della seta.
L'opificio di Dorno sorgeva in via Rossi e vi si esercitava la "trattura" della seta, che significa "cavar
la seta dai bozzoli", cioè la trasformazione del filo di bava serico in filo di seta greggio.
Il ciclo produttivo era interamente manuale, vi era una sola caldaia a vapore per 120 bacinelle.
Nella filanda i bozzoli venivano immersi in acqua calda; seguiva il dipanamento, la torcitura e si
otteneva la seta greggia che veniva trasferita alle industrie manifatturiere.
Vi lavoravano dall'alba al tramonto ("da un'Ave Maria all'altra") 250 operaie. Le ragazze iniziavano
il lavoro nella filanda a dodici anni; ogni filatrice produceva in media 600 grammi di seta al giorno,
si lavorava dieci ore in inverno e undici in estate; la paga, nel 1910, era di una lira e mezza al giorno;
le più esperte arrivavano a due lire e sette soldi.
La filanda rimaneva chiusa solamente durante il periodo della monda del riso.
A mezzogiorno, una vera processione di ragazzini portava il pentolino con la minestra ai parenti che
vi lavoravano. Un'altra filanda più piccola era attiva in via Altino; era proprietà dei signori
Montanari. Più tardi fu trasferita a Sannazzaro de Burgondi.
Un magazzino per la raccolta dei bozzoli era sistemato in via Gabba (Cichinou), e in fondo alla via
Altino la famiglia Passerini (Faldou) provvedeva alla selezione del seme dei bachi che, acquistati dai
nostri contadini, venivano poi allevati su appositi telai (stuoie); qui venivano nutriti con foglie
fresche di gelso.
Il seme veniva comperato ad oncia (l'oncia é l'unità di misura equivalente a circa 30 grammi) e gli
allevamenti dei bachi si trovavano generalmente nelle povere stanze da letto; speciali stuoie di canne
palustri, raccolte sulle sponde del Terdoppio venivano ricoperte da una apposita carta rossa protettiva
dei raggi infrarossi sui quali si disponevano i bachi per lo sviluppo e la crescita.
L'allevamento dei bachi, unitamente alla monda del riso, era la risorsa fondamentale dell'esiguo
bilancio delle nostre famiglie e consentiva di provvedere al corredo delle figlie e all'affitto della casa.
Era una attività casalinga: si andava a "far la foglia", cioè a cogliere le foglie del gelso, in quantità
sempre maggiore man mano che i bachi crescevano.
Dopo l'ultima muta, il baco si imboscava tra le frasche di rovere o pioppo e qui si costruiva il
bozzolo, la sua prigione, aiutandosi a disporre il filo di seta che usciva dalla bocca con il continuo
movimento della testa; da qui l'espressione tipica lomellina "tra la testa tam me un bigat".
A causa della umidità, in alcuni anni si verificavano vere e proprie stragi negli allevamenti; è rimasto
nel nostro dialetto anche un'altra espressione "ghé andai mal i bigat", per dire che é sfumato un affare
che stava a cuore.
La scoperta della seta artificiale nel 1928 segnò praticamente il crollo dell'industria della seta e delle
filande.
L'attività della filanda di Dorno termina verso gli anni Trenta (1933).
Del grande edificio, esempio di archeologia industriale della nostra provincia, rimane oggi un
fabbricato degradato di notevoli dimensioni che reca i segni di successivi interventi e ristrutturazioni;
difatti, verso gli anni Quaranta, fu adibito a manifattura tabacchi con sede e direzione a Tortona.
baco da seta = bigat
gelso = murou
bozzolo = galata
crisalide (stadio intermedio tra larva e insetto perfetto = bigatou
stuoia = stora di bigat
LA LAVORAZIONE DEL TABACCO
Nel fabbricato ormai abbandonato, dove fino al 1933 c'era la filanda Bonacossa (via R. Rossi),
verso la metà degli anni Trenta sorse la "tabachèra", azienda controllata dall' "Ente monopolio per
la lavorazione del tabacco" dove appunto venivano lavorate le foglie verdi del tabacco coltivato a
Dorno e nei paesi limitrofi.
È stata anche questa una importante esperienza del lavoro dornese e una grande risorsa per la nostra
modesta economia basata da sempre sull'agricoltura tradizionale.
A questa lavorazione stagionale erano addette duecento operaie.
I GELSI: UN PATRIMONIO SCOMPARSO
Ne sono rimasti pochi esemplari, non curati perché privi di quella importanza che avevano
soprattutto nel secolo scorso.
I gelsi erano alberi caratteristici della nostra campagna, erano piantati sulle ripe dei fossi e in lunghi
filari segnavano i confini dei vari appezzamenti.
Erano talmente numerosi che alla fine del '700 si pensò bene di censirli, imponendo su di loro anche
una tassa.
Ogni pianta di gelso garantiva oltre quaranta chilogrammi all'anno di foglia per bachi da seta.
Lo scarso reddito famigliare di allora poteva essere integrato con questo allevamento. Qualche
famiglia fece la dote alle figlie con la vendita dei bozzoli di due stagioni.
In estate questa pianta dava piccoli frutti (le more) commestibili, dolci, di color bianco o nero, di cui
i ragazzi facevano scorpacciate.
Oggi tutto questo é praticamente scomparso.
IL MAIALE
Per secoli il condimento principale, per non dire l'unico, usato dalle
nostre donne in cucina é stato il lardo che procurava il maiale: l'animale
di cui nulla viene buttato e per cui nulla si butta degli avanzi della
cucina.
Il maialino veniva comperato in inverno o anche in primavera (alla fiera
detta di "S. Giuseppe", che si teneva in "piazza della pesa"); veniva
sistemato al caldo nella stalla in un piccolo recinto fatto di balle di
paglia in compagnia degli altri animali: mucche, manze, vitelli, asini,
conigli.
Con l'arrivo del caldo si trasferiva nello "stabi" nel cortile.
Veniva nutrito, mattina e sera, con un pastone di crusca nell' "arbi".
Quando, dopo circa un anno, il maiale non mangiava più, si decideva di
macellarlo.
Di solito quest'epoca coincideva con gennaio, ("l'é in co tamme al pursé
a Nadal"), anche per il fatto che la mancanza di frigoriferi rendeva precaria e problematica la
conservazione della carne.
Il macellaio ("masular"), al mattino presto, dopo essersi accertato che l'acqua nel pentolone fosse
ben calda, con una forte mazzata sulla fronte uccideva la povera bestia, le toglieva il sangue con un
profondo taglio alla gola (il sangue veniva raccolto in un secchio pieno di pane tritato), poi la
scottava e col coltello le rasava le setole.
Il suino veniva poi appeso per i piedi posteriori tramite una "taioela" e sventrato; la carne, sezionata
e suddivisa con certo ordine, era posta da parte; i "cudi" (cotenne) venivano riservate per
confezionare i salami da cuocere.
Quindi la carne, separatamente , si passava nel tritatutto a mano.
Solamente le due pancette, le due coppe e le due mezzene di lardo venivano conservate
provvisoriamente da parte.
La carne, ben tritata era trasferita nelle conche di legno e condita con sale, vino, aglio e pepe; era
ben mescolata e poi infilata nella macchina per riempire il budello del maiale precedentemente
sgrassato e lavato con acqua e aceto.
Alla carne di maiale veniva aggiunta anche carne di manzo.
I salami venivano poi legati con lo spago e appesi al soffitto attrezzato con pertiche e chiodi e per
tre settimane lasciati ad asciugare.
Il fuoco del camino non doveva spegnersi e il soffitto della stanza dei salami doveva essere di
legno.
Per una ulteriore stagionatura i salami venivano quindi portati in cantina e sorvegliati perché non
prendessero la muffa.
Le coppe erano messe a bagno per dieci giorni in una infusione di vino e spezie e massaggiate e
rivoltate a giorni alterni, quindi immesse in un budello grosso e lasciate stagionare con altri salami.
Le pancette erano pure inumidite con vino e pepe, quindi arrotolate e le loro cotiche legate o cucite;
erano pronte per la primavera.
Le mezzene di lardo, appena asciutte, venivano sistemate nell' "ula" sotto sale.
Dopo qualche giorno le donne facevano bollire in una grossa padella di rame stagnato il grasso, con
salvia, rosmarino e alloro; quando il grasso era liquefatto, pescavano con la "casuléra" i "gratou"; il
grasso liquido ancora tiepido veniva versato in "l'ula" per coprire i salami che così si conservavano
morbidi per mesi.
La sera della macellazione del maiale in famiglia era festa con amici e parenti invitati a "purslatà",
con risotto, con pasta di salame, polenta e frittura, arrosto e bolliti, il tutto innaffiato dal vino
migliore.
NEL CORTILE
Una volta ad aprile incominciava l'epoca delle cove.
Si provvedeva a mettere a cova qualche gallina o qualche
tacchina al fine di procurarsi i pulcini da allevare,
provvedendo così al rinnovo del pollaio per soddisfare le
esigenze di carne e uova della famiglia.
Nei mesi estivi le aie e i cortili erano un brulicare di
pulcini dediti a beccare sotto il vigile controllo delle
chiocce.
La scelta delle uova era particolarmente curata. Si
riteneva che quelle grosse e tonde fossero feconde, mentre quelle dalla sagoma leggermente
allungata infeconde.
Il numero delle uova da mettere in cova doveva essere pari, se si preferiva ottenere nidiate con
prevalenza di pulcini di sesso femminile; dispari, se si volevano pulcini di sesso maschile.
Anche la luna si riteneva esercitasse la sua influenza sulla riuscita della covata.
Le fasi di luna crescente erano indicate come le più idonee per la cova, al contrario di quelle di luna
calante.
I pulcini si alimentavano in parte beccando sulle aie e nel cortile, ove erano messi a razzolare sin
dai primi giorni, piccoli insetti, semi e altre sostanze vegetali; in parte era il contadino a provvedere
a nutrirli somministrando pastoni di farina di crusca e erbe.
I galletti, le pollastre e le giovani anatre erano pronte per la cucina non prima della sagra di S. Anna,
cioè non prima di venti settimane.
Con i tempi che cambiano, con la tecnologia che incalza, muoiono queste antiche tradizioni, le
antiche credenze, le loro arcaiche origini.
IL FOCOLARE
In tutte le case, fino agli anni Cinquanta, c'era il focolare sul quale si cuocevano i cibi e accanto al
quale ci si riscaldava.
Attorno ad essi é passata la fatica di vivere delle vecchie generazioni; in quei camini, neri di
fuliggine, c'era qualcosa che veniva da tempi lontani; la brace e i ceppi sapevano di bosco, di siepi,
di ripe; lo stare lì con le mani tese al calore e gli occhi fissi al gioco sempre nuovo della fiamma e
delle scintille era un invito al sogno ed al ricordo.
Tutto nel focolare veniva dal tempo. La catena che scendeva dalla gola nera della cappa aveva
anelli e ganci che si adattavano a tutte le misure delle pentole, delle padelle, dei paioli.
C'erano i più svariati accessori per le più diverse esigenze e necessità: le molle, la paletta, il
paracenere, il treppiede, i bracieri, il soffietto, gli alari e una panchetta per sedersi intorno.
Il camino con il suo focolare era punto di incontro di vita in comune.
Era la scuola dei poveri: si raccontavano gli avvenimenti del giorno, si ascoltavano i racconti dei
vecchi, si parlava dei vivi, si ricordavano i morti.
MOVIMENTO DEMOGRAFICO
Nel periodo romano Dorno, posto sul percorso di una delle principali strade dell'epoca (la via delle
Gallie), doveva essere una delle località più popolose della Lomellina.
Dopo il buio delle invasioni barbariche, il nome Dorno ricompare nel Primo Medio Evo come
quello di un comune in lotta con i comuni limitrofi, stretto intorno al suo castello fortificato che
Luchino Dal Verme , condottiero al servizio dei Visconti, non riuscì ad occupare durante l'assedio
del 1359.
Non é stato possibile tracciare il movimento demografico del nostro paese fino al tardo Medio Evo.
I primi dati sicuri risalgono alla fine del XV secolo e precisamente al 1460: il canonico Amicus de
Fussulamis, in nome e per conto del Vescovo di Pavia Iacopo Ammannati, compì in quell'anno la
visita pastorale e a Dorno censì le case della parrocchia in numero di 150, con una popolazione di
600 anime.
Dopo il Concilio di Trento (1542 - 1563) i parroci cominciarono a tenere i registri dei battezzati, dei
matrimoni e dei morti.
I primi dati tramandati nei libri dell'Archivio Parrocchiale di Dorno risalgono al 1579.
La popolazione globale del paese in quell'epoca potrebbe essere stimata da 900 a 1100 individui,
cioè era un quarto della popolazione attuale, secondo la media della popolazione italiana di quel
secolo.
SECOLO XVII
Questo secolo fu caratterizzato dalla diffusione di una malattia contagiosa, "l'angina difterica", che
colpì soprattutto i piccoli, al punto che il Vescovo della vicina Alessandria ordinava anche nella
nostra Diocesi preghiere e processioni.. In questo secolo Dorno contava, in media, 1300 abitanti.
Nel 1630 Dorno fu colpito anche da un altro flagello: la peste bubbonica (quella descritta dal
Manzoni nei "Promessi Sposi"). A Dorno i morti per questo contagio furono 87.
In questo secolo la popolazione dornese si mantenne sui 1300 abitanti.
SECOLO XVIII
Caduto il dominio spagnolo, Dorno passa sotto Casa Savoia e la situazione demografica presenta un
saldo sempre più attivo grazie a un'era di tranquillità, alla ripresa dell'agricoltura e alla maggiore
cura dell'igiene pubblica.
Il Piemonte vieta nei suoi Stati la sepoltura nelle chiese e per arginare le epidemie istituisce il
cordone sanitario.
La popolazione a Dorno raggiunge alla fine del secolo 18° circa 2300 anime. (In questi secoli i
bambini, dalla nascita ai sette anni, morivano in proporzioni impressionanti: il cinquanta per cento
dei morti era costituito da essi. La durata media della vita non superava i 25 anni e concordava con
il dato statistico della intera popolazione italiana in quel periodo.)
SECOLO XIX
La popolazione in questo secolo andò lentamente aumentando, in conseguenza di una mortalità in
continua diminuzione.
La durata media della vita sale in questo secolo a 35 anni.
Dorno, a fine secolo, contava 4856 abitanti. Le ragioni di questa crescita si spiegano con:
1) le migliorate condizioni economiche: diffusione di una agricoltura estensiva e intensiva, aumento
e razionalizzazione capillare dell'irrigazione, introduzione dell' avvicendamento delle colture;
2) le più progredite condizioni sociali: imposizione dell'istruzione elementare obbligatoria, maggior
tutela delle libertà individuali, vigilanza sull'ordine costituito e conseguente scomparsa del
brigantaggio e dei reati contro il patrimonio e le persone, ripresa dei commerci;
3) netto balzo di qualità di condizioni igieniche generali: diffusione di una alimentazione più varia,
più sana, più corroborante, riduzione dell'orario di lavoro, maggior salubrità degli ambienti di
lavoro che delle abitazioni.
SECOLO
XX
Dorno negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale (1915-18) raggiunse ben 5174 abitanti; calò
gradualmente a poco a poco verso gli anni Ottanta a 4100; ciò fu dovuto alla diminuzione delle
nascite, alla emigrazione verso le città e centri vicini, nonostante l'immigrazione, nel Secondo
Dopoguerra, di famiglie provenienti dal Bresciano e dal Veneto.
POPOLAZIONE
Tra i decreti che sancivano l'organizzazione civile della
Repubblica Cisalpina creata da Napoleone, abbiamo trovato un
documento del Dipartimento dell'Agogna, da cui dipendeva
Dorno, nel quale si testifica che gli abitanti residenti nel nostro
Comune nell'anno 1800 erano 2530.
Nel 1838, secondo gli atti ufficiali della nostra Parrocchia, la
popolazione era salita a 3450 anime; nel 1848 a 4087, nel 1862 a
4243.
La punta massima dei presenti nel nostro Comune si riscontra nel
1920, anno in cui la popolazione raggiunse le 5143 unità ,
nonostante la forte emigrazione verso le Americhe.
Nel decennio seguente il numero si consolida attorno ai 5000
abitanti.
Negli anni tra il 1930 e il 1940 il fenomeno dell'inurbamento recò un duro colpo alle presenze nel
Comune, che vediamo ridotte nel 1940 a 4081 unità.
Una costante immigrazione di famiglie provenienti dal Veneto riportò, negli anni della Seconda
Guerra Mondiale e dell'immediato dopoguerra, la popolazione a 4300 abitanti.
Con il 1947 la fuga dalle campagne determinò in Dorno una forte diminuzione della popolazione,
tanto che, per la prima volta dopo oltre cento anni, gli abitanti di Dorno si ridussero a meno di
4000.
La diminuzione cominciò a stabilizzarsi attorno al 1955, in seguito a una politica che favoriva
l'insediamento di industrie nel nostro territorio.
Questa la consistenza della popolazione di Dorno nel 1982: 4147 residenti, di cui 2022 maschi e
2125 femmine, per un totale di 4147 abitanti e 1480 famiglie, saliti a 4181 nel 2001.
Dino Laboranti
DORNO -APPUNTI STORICI
Comune di Dorno
Biblioteca Comunale
2° EDIZIONE 2001
3 parte - I palazzi, le chiese, le opere
I PALAZZI, LE CHIESE, LE OPERE
IL PALAZZO COMUNALE DI PIAZZA XI FEBBRAIO
La costruzione di questo edificio risale agli ultimi decenni del 1800 allorché Dorno, dopo la 2°
guerra d'indipendenza e la legge 23 ottobre 1859 n°3702, entra a far parte della Provincia di Pavia,
circondario di Lomellina, una delle circoscrizioni politicoamministrative del Regno d'Italia.
Sorge sul punto più alto del paese, vicino alla Chiesa
parrocchiale,in Piazza XI Febbraio, allora Piazza Castello.
Qui ebbero sede gli uffici comunali e alcune classi di
scuola elementare fino all'anno 1908 quando, cioè, a Dorno
furono portati a termine i due grandi palazzi di Piazza
Bonacossa e l'edificio della scuola elementare in piazza
Curti.
Dal 1908 qui ebbero sede:
l'ufficio postale, l'ambulatorio, uno spaccio alimentare e
durante la 1° guerra mondiale l'ufficio assistenza per i richiamati alle armi dornesi e per i prigionieri
tedeschi e austriaci che lavoravano nelle cascine di Dorno.
Dal 1922, avendo Dorno aderito all'organizzazione dei comuni fascisti, il palazzo fu sede
dell'organizzazione del partito, di ufficio del lavoro, dell'opera nazionale fascista e dei corsi
premilitari del sabato pomeriggio, obbligatori per i giovani che avevano compiuto i 18 anni.
Durante la 2° guerra mondiale qui ebbero sede gli uffici per il contingentamento della carne e dei
prodotti agricoli destinati agli spacci alimentari, l'ufficio perle carte annonarie ( razionamento
viveri) e l'ufficio assistenza peri soldati al fronte.
Vi furono sistemate anche alcune famiglie di sfollati da alcuni centri colpiti dai bombardamenti.
Nell'aprile del 1945 e per qualche tempo fu sede del Comitato di liberazione dornese comandato dal
Dott. Avakian; un locale fu adibito a deposito di materiale sequestrato ( viveri e armi ).
Nel dopoguerra vi si insediarono la Camera del lavoro, il partito comunista e socialista, il partito
repubblicano e la sezione dei combattenti e reduci.
Qui ebbe sede fino al 1958 la cooperativa di consumo del popolo, nata nel 1945 e trasferita in
seguito in via Vittorio Veneto.
Anche il circolo ACLI, fino alla nuova sistemazione in piazza S.Rocco, ebbe a disposizione un
locale al pianterreno.
Per un decennio vi fu ubicata anche l'esattoria comunale.
Dopo una radicale ristrutturazione, nell'anno 1966, vi fu allogata la Biblioteca comunale e al piano
terra la Stipel ( ora Telecom ) che aveva iniziato l'impianto di teleselezione.
Nei due locali al pianterreno dopo i corsi del laboratorio linguistico, durati dieci anni, ebbero sede:
la Pro Loco Dornese, l'associazione pesca sportiva, il Patronato INCA, il comitato lomellino contro
la fame nel mondo, l'associazione cacciatori e altre organizzazioni.
L'edificio, pur non presentando particolare interesse architettonico, costituisce, pur sempre, la
testimonianza di un periodo storico non privo di ricordi e di riferimenti per la nostra comunità.
IL PALAZZO DEL COMUNE
I due palazzi, ("I Portici"), di piazza G. Bonacossa furono costruiti nel 1908 nello spazio antistante
la Chiesa Parrocchiale, dopo la demolizione di alcune case ed il taglio delle robinie all'ombra delle
quali si svolgeva "ab immemorabili" il mercato del lunedì e le fiere del bestiame di primavera e
d'autunno.
Progettista fu il Brioschi di Milano, l'architetto che, per conto dei Bonacossa, progettò anche l'Asilo
Infantile, la Casa di riposo e la facciata del Cimitero.
Nel 1910 gli uffici comunali furono trasferiti dalla vecchia sede di via XI Febbraio (ex Piazza
Castello) nel grande edificio che occupano attualmente.
Al piano terreno del Palazzo a nord, durante la Guerra
1915-18 furono allestiti uno spaccio comunale e la "Casa
del soldato" dove militari analfabeti feriti, ricoverati nelle
Scuole comunali e nella Casa di riposo, potevano seguire
un corso di prima alfabetizzazione; nel casamento aveva
sede anche un ufficio corrispondenza per i soldati
prigionieri.
Era parte integrante di questo ufficio anche il salone della
"Società di mutuo soccorso", adibito a cinema e a sala da
ballo (attualmente Ufficio Postale ed in parte magazzino
del Comune).
Gli uffici comunali furono sistemati al primo piano con accesso attraverso una rampa di scale
ricavata da uno spazio luminoso, decorato in parte dal nostro Biagio Canevari.
Degno di nota il salone del Consiglio comunale con ampio balcone verso la piazza; alle pareti
alcuni quadri del Canevari rappresentanti membri della famiglia Bonacossa e la grande tela,
considerata il capolavoro del pittore, dal titolo "Vecchia che prega".
Nella zona riservata al pubblico, sotto vetro, c'é il gonfalone del Comune dove é ben visibile lo
scudo araldico diviso in due parti: la parte superiore, azzurra, col sole al centro e le due colonne ai
lati; la parte inferiore, rossa, con i tre gigli desunti dagli stemmi gentilizi delle due famiglie che
bene operarono a favore della nostra Comunità: Dassi e Strada; il sole a ricordare la solatia e fertile
Lomellina e le due colonne ("ad duas columnas") a testimoniare l'origine romana di Dorno posta
sulla via consolare romana che portava alle Gallie.
Qui si riunisce periodicamente il Consiglio comunale.
Adiacenti al salone anno trovato posto: l'Ufficio del Sindaco, la saletta della Giunta, l'Ufficio del
Segretario comunale e altri uffici amministrativi. Alle pareti sono appesi i quadri vincitori dei nove
Concorsi di Pittura "Biagio Canevari" organizzati dalla Biblioteca comunale.
L'Ufficio Anagrafe, per la sua particolare funzione, da
qualche anno é stato sistemato al piano terra, unitamente
all'Ufficio dei Vigili.
Nell'atrio dell'Ufficio Anagrafico si trova l'albo pretorio,
dove vengono esposti al pubblico i verbali delle
deliberazioni del Consiglio e della Giunta comunale.
Il Palazzo dove ha sede il Municipio é di proprietà
comunale, in seguito ad acquisto dai Conti Bonacossa.
IL PARCO DELLA RIMEMBRANZA
Il Parco della Rimembranza di Dorno é la zona sacra al ricordo dei Caduti dornesi nelle guerre per
l'indipendenza nazionale.
Il terreno é stato ceduto dalla famiglia dei conti Bonacossa (proprietaria della cascina Boschetto) al
Comune di Dorno nel 1920, allorché fu deciso, come in tutti i Comuni d'Italia, di ricordare i Caduti
per l'Unità d'Italia.
Il Parco, che si estende per mq. 1000 oltre la copertura della roggia Batterra, e che fronteggia il
Cimitero comunale, fu suddiviso in aiuole e vi furono collocate piante sempreverdi a ricordo dei
Caduti dornesi ; non fu possibile, per le modeste dimensioni del Parco, dedicare una pianta a
ognuno dei Caduti dornesi.
Al centro del Parco fu posto il monumento di marmo bianco di Carrara che vi restò fino al 1979,
anno della nuova sistemazione della Piazza Dante: il monumento, in verità, secondo il desiderio
della popolazione, nel 1920 doveva essere sistemato al centro della piazza G. Bonacossa in una
aiuola davanti ai due Palazzi.
Dopo la nuova collocazione in piazza Dante, nel Parco della Rimembranza rimane il basamento del
monumento sormontato da una semplice croce di ferro e insignito dalla scritta: " Ai Caduti.".
IL CIMITERO
Anticamente il cimitero era posto fuori delle mura del
Castello a ridosso dell'antica Chiesa Parrocchiale. Nei
lavori di scavo per la costruzione della fognatura, furono
rinvenute tombe nella zona delimitata da Piazza Galassi,
via Passerini, Piazza Bonacossa e Piazza XI Febbraio.
L'attuale Cimitero è adiacente al Santuario della
Madonna del Boschetto: ha una monumentale facciata in
pietra rosa con fini cimase sopra finestroni in ferro
battuto, su disegno dell'architetto Brioschi (1908).
Fu ampliato nel 1951 e successivamente nel 1975. Vanta
alcuni monumenti funebri di pregevole valore artistico.
Dove ora è l'altare di granito per le Messe del giorno dei Defunti, passava il vecchio muro di cinta
che fu abbattuto per dar luogo al primo ampliamento; con il muro fu demolita anche la Cappella
cimiteriale che era ingentilita da due agili colonne di granito di ordine dorico e da un affresco del
Canevari che raffigurava una scena della Passione di Cristo. Così scomparve un ricordo di antica
pietà e una pregevole opera d'arte.
BIBLIOTECA COMUNALE
L'atto di nascita della Biblioteca Comunale di Dorno è la deliberazione n° 64 del Consiglio
Comunale del 5 dicembre 1963. Il Consiglio, accettando la donazione fatta dall'Ente nazionale
biblioteche di un fondo librario del valore di mezzo milione, mise a disposizione due locali nel
Palazzo di sua proprietà in Piazza XI Febbraio, impegnandosi altresì ad erogare annualmente una
cifra per l'incremento della dotazione libraria, oltre che per l'arredamento e il funzionamento.
L'incarico di Bibliotecario con il compito di procedere ai lavori di schedatura e di catalogazione dei
libri già pervenuti e di altri acquistati col contributo comunale fu affidato al maestro Dino
Laboranti, al quale, nel frattempo, era stato assegnato dal Provveditorato agli Studi di Pavia il
compito di dirigere il Centro di lettura, costituito da circa 600 volumi e da alcuni sussidi
audiovisivi.
Terminati i lavori di ristrutturazione del vecchio fabbricato comunale in Piazza XI Febbraio, il 1°
Gennaio 1966 ebbe inizio l'attività vera e propria con l'apertura al pubblico per il prestito e la
consultazione e lettura di libri.
Il 23 Febbraio 1976 il Consiglio comunale provvide alla stesura e alla approvazione del nuovo
Statuto per il funzionamento della Biblioteca Comunale, in linea con gli indirizzi e i criteri
informatori previsti dalla Legge Regionale del 1973.
La gestione e la direzione culturale della Biblioteca fu assegnata ad una Commissione di Biblioteca
formata da 12 membri così eletta: la metà per designazione da parte del Consiglio Comunale, di cui
due membri in rappresentanza della minoranza; l'altra metà eletta dal Consiglio in seguito alle
indicazioni fornite da Associazioni culturali e dagli utenti della Biblioteca.
La Biblioteca , oltre all'assistenza agli studenti di ogni ordine di scuola e al prestito di libri ha
attuato una notevole serie di attività che vengono brevemente compendiate qui di seguito:
- cinque corsi gratuiti di Scuola Media serale con la partecipazione di 137 allievi;
- cineforum (75 film con presentazione e dibattito);
- otto concorsi di pittura "Biagio Canevari";
- quattro "concorsi letterari per la fiaba" con pubblicazione delle fiabe vincenti e segnalate;
- cinque edizioni del "Maggio Musicale Dornese";
- visite guidate a musei e monumenti di particolare interesse;
- nove corsi di lingua inglese per alunni della Scuola Elementare;
- corsi di lingua inglese per adulti;
- partecipazione a spettacoli teatrali e lirici a Pavia e alla Scala di Milano;
- concerti per pianoforte;
- conferenze su temi vari;
- la Biblioteca si è resa disponibile per l'organizzazione di altre attività in collaborazione con
Enti e Associazione locali.
Attualmente, a seguito dei lavori di ristrutturazione del palazzo Comunale, è stata trasferita nella
nuova sede, con ingresso dalla Piazza Don Luigi Galassi. La dotazione libraria attuale ammonta a
circa 3.200 volumi.
LA SOCIETÀ DI MUTUO SOCCORSO
Il 7 Dicembre 1876 fu fondata a Dorno la Società di Mutuo Soccorso che ebbe la prima sede in via
S. Martino (ora via Roma).
Il verbale di fondazione, firmato dal primo presidente eletto, Pietro Bonacossa, fu letto in Piazza S.
Rocco alle ore 14 dal Notaio Grossi che in tale Piazza aveva dimora e studio.
Nel primo anno si iscrissero trentacinque soci; nel 1900 erano saliti a duecentosettanta. La prima
bandiera fu inaugurata nel 1877, ma non fu benedetta dal Parroco.
Dietro interessamento del notaio Grossi e dell'avvocato Mazzoleni, l'anno seguente 1878 il Vescovo
di Vigevano concesse al Parroco di benedire la bandiera della Società; la cerimonia avvenne in via
Guarna (via S. Bonacossa) nel cortile antistante il primitivo Asilo Bonacossa (cortile dell'Asilo
Vecchio di via S. Bonacossa, ora proprietà Sacco).
La bandiera portava i tre colori: verde, bianco, rosso; nella banda bianca c'era il dipinto - simbolo
delle Società di Mutuo Soccorso: due mani strette l'una all'altra, unite in segno di fratellanza e di
solidarietà (questa bandiera é conservata nell'Aula Consiliare del Palazzo Comunale).
La bandiera era presente durante le pubbliche manifestazioni e in occasione dei funerali dei soci.
Questa forma di associazione fu alle origini del Movimento Popolare; nel corso del suo sviluppo
favorì il sorgere delle prime strutture delle organizzazioni cooperativistiche e sindacali; concorse
inoltre, sembra, alla formazione dei partiti politici.
Sino a tutta l'età queste società rappresentarono uno dei capitoli più importanti della realtà italiana,
almeno per quel che concerne le classi popolari.
Il compito primario di questa società era naturalmente il "soccorso" economico per quei soci che, in
regola con i pagamenti, erano caduti in "invalidità temporanea" (malattia) oppure che si trovavano
disoccupati, purché questa condizione non fosse da addebitare alla loro volontà o non dipendesse da
sciopero.
Il socio ammalato o disoccupato riceveva di solito come sussidio dai 70 centesimi a una lira al
giorno, sino a un massimo di tre mesi; dal quarto al sesto mese il sussidio era dimezzato. Nel caso
di invalidità permanente o cronica, l'eventuale corrispettivo era stabilito dall'Amministrazione in
base a considerazioni economiche sull'andamento della società stessa e in base al giudizio morale
sul precedente comportamento del socio resosi invalido.
Tuttavia, più tardi, per coloro che avessero pagato i contributi per trent'anni e che avessero superato
il sessantesimo o il sessantacinquesimo anno di vita, furono istituiti assegni di vecchiaia regolati da
norme statuarie ben precise.
La Società di Mutuo Soccorso di Dorno assegnava ai parenti del socio defunto una cifra
proporzionale agli anni di versamento effettuato e un contributo per le spese funerarie.
Accanto ai fini propriamente economici, il sodalizio svolgeva anche un'attività sociale: ad esempio,
si interessò del problema dell' istruzione, istituendo un corso di scuola serale elementare gratuita
aperta a tutti i soci.
Nel 1894 venne costituita la banda musicale della Società, forte di sessanta elementi; detto
complesso si esibì in pubblici concerti e in occasione di manifestazioni patriottiche. Fu sciolta nel
1905.
Sul finire del secolo scorso, la Società iniziò una prima forma di cooperazione: si trattò di uno
spaccio alimentare riservato ai soli soci dove venivano smerciati prodotti non deperibili di prima
necessità; lo spaccio era ubicato all'inizio della via Altino.
Nel 1910 la sede della Società venne trasferita in un'ala del nuovo Palazzo donata dal suo
Presidente conte Aldo Bonacossa. La Società di Mutuo Soccorso godeva anche del diritto di cedere
in locazione il Salone del Cinema Sociale (ora di proprietà comunale) e il Saloncino Teatro in
Piazza Dante (ora proprietà del Sig. Crotti Lino) e, di incamerare e utilizzare i relativi proventi.
La Società é stata sciolta quando i sui beni sono passati alla Casa di Riposo S. Giuseppe.
ASILO INFANTILE BONACOSSA
L'Asilo Infantile fu fondato dal conte Pietro Bonacossa
nel 1867, con l'intento di provvedere all'educazione
intellettuale e morale dei fanciulli dai tre ai sei anni di età.
L'amministrazione era affidata a una commissione
composta da otto membri: il Sindaco, il Parroco e altre
persone elette dal Consiglio Comunale e dagli utenti.
Il vecchio edificio era posto in via S. Bonacossa (nel
cortile di proprietà Sacco).
Il 4 dicembre 1913 il comm. Pietro Bonacossa ( 18561956 ), ad onorare la memoria del fratello, ing. Secondo
Bonacossa, fece costruire e donò al paese natio il nuovo
attuale Asilo con il vincolo della reversibilità della donazione ai suoi eredi qualora l'assistenza e
l'educazione dei bambini dell'asilo sia affidata a personale che non sia costituito da suore.
L'attuale Asilo Bonacossa, al tempo della sua fondazione, era forse unico in Italia per la funzionalità
e il decoro. Fu progettato dall'architetto Diego Brioschi e abbellito nella parte anteriore
dall'aggraziato monumento di marmo, opera del Ravasco, e dal fregio ad affresco, dipinto dal nostro
Biagio Canevari, che vi raffigurò scene di vita dell'infanzia.
Nel 1979 ebbe inizio l'importante ristrutturazione del grande edificio in grazia dell'introito della
vendita di villette di proprietà dell'Asilo.
Adiacente all'Asilo è sorto il Micro - Asilo Nido Comunale, il Consultorio familiare e l'ambulatorio
pediatrico.
CASA DI RIPOSO "S. GIUSEPPE",
FONDAZIONE BISCALDI, LUNGHI, PANIGATTI.
La Casa di Riposo e l'adiacente Cappella dedicata al
Sacro Cuore furono fatte edificare dal comm. Primo
Bonacossa nel 1905. Riportiamo un breve passo della
storia di questa istituzione.
"Dall'antichissima e laboriosa Dorno, un gentiluomo di
stampo illustre e di carattere fantasioso, s'era portato a
Milano, ove la sagacia e gli affari gli avevano fatto
prosperare la potenza economica e le relazioni.
Viveva solo in un magnifico palazzo, guardando
l'avvenire con accorata malinconia, perché celibe e
scontento degli uomini.
Li aveva largamente beneficiati, spendendo patrimoni ingenti a sollievo dei poveri vecchi, soli
come lui, se non altrettanto fasciati di comodi. Per essi aveva aperto nel suo paese natio, Dorno, un
ricovero pieno di ogni bene di Dio, da sembrare dentro e fuori più una villa di riposo che un ospizio.
Bagni, docce, termosifoni, camerate ampie e comodissime, servizi sotterranei, parco, frutteto e una
cappellina che era un incanto di arte e di grazia. La direzione era affidata al Parroco e l'assistenza
alle suore benedettine. Una ventina di dornesi trascorrevano in pace gli ultimi anni della loro vita,
sereni. Ma le cose si guastarono d'improvviso per certi dissensi sorti tra il munifico benefattore e le
autorità locali, al punto da far decidere la soluzione estrema: la chiusura del ricovero, ed i vecchi
furono trasferiti presso l'Ospizio di S. Anna di Garlasco. Era l'anno 1929."
Il Prevosto mons. Maroi sollecitò padre Giovanni Balduzzi degli Oblati di Vigevano, famoso in
Lomellina per le sue doti oratorie e per le opere assistenziali, perché acquistasse per conto
dell'Ospizio S. Anna di Garlasco, la "Casa" di Dorno per sistemarvi i "suoi ragazzi" che
diventavano sempre più numerosi e nella sede di Garlasco venivano a trovarsi a disagio in mezzo ai
anziani.
La trattativa con Primo Bonacossa si concluse nel 1931 con la donazione all'Ospizio S. Anna di
Garlasco della "Casa" di Dorno.
Padre Balduzzi ne fece un reparto per fanciulli abbandonati, caratteriali, subnormali, reparto in
seguito trasformato in Scuola medico-psico-pedagogica con sette insegnanti specializzati, cinque
suore e una sessantina di ragazzi.. Soppressa la Scuola in quanto disposizioni ministeriali avevano
provveduto ad inserire i ragazzi tra i ragazzi della Scuola Elementare di Stato, l'immobile fu
acquistato dall'Opera Pia di Riposo S. Giuseppe di Dorno, ora Fondazione Biscaldi, Lunghi,
Panigatti, al prezzo di circa centocinquantamilioni e ciò mediante l'alienazione di parte
dell'originario patrimonio e utilizzando fondi saggiamente accantonati fin dal lontano 1949 quando
cominciò a vivere la "Casa di Riposo S. Giuseppe" in Piazza Dante per iniziativa di suor Ermanna
Patroni e di altri benefattori.
Il comitato promotore era costituito, oltre che dalla citata suora, anche dal Sindaco di allora geom.
Giovanni Biscaldi, dal dott. Angelo Lunghi e dal Prevosto don Giuseppe Panigatti.
Il riconoscimento ufficiale della Casa in istituzione pubblica di Assistenza e Beneficenza porta la
data del 2 Luglio 1975, decreto n. 697 della Regione Lombardia. L'assistenza di circa ottanta
ricoverati fu affidata alle suore benedettine di Voghera che tanta parte ebbero nella creazione della
benefica istituzione. L'edificio, di indubbio interesse architettonico , a motivo delle diverse
destinazioni che ha avuto dal tempo della sua costruzione, ha richiesto e richiede numerosi
interventi di adattamento e di restauro, finanziati con l'alienazione di tutto il patrimonio residuo
dell'Ente e con il concorso della Regione.
Nel 1992 è iniziato un imponente ampliamento delle strutture.
LA SOCIETÀ MUTUA OSPEDALIERA
La Società Mutua Ospedaliera di Dorno fu stata costituita l'8 febbraio 1950 con lo scopo di
contribuire alle spese per il ricovero in ospedale degli iscritti.
I promotori furono: Secondo Ansaldi, prof.. Giuseppe Crotti, Siro De Lorenzi, Davide Perotti,
Ernesto De martini, Andrea Coppa, Dr. Roberto Ferraris, Giovanni Milani, Pietro Savini, Carlo
Brocca, Ippolito Gambarani, Cornelio Lodola, Remo Sacchi, Pietro Ferri, Angelo Vai, Angelo
Bosini, Giovanni Carnevale, Secondo Longhi.
Il primo consiglio direttivo fu composto da: Ernesto De Martini (Presidente), prof. Giuseppe Crotti
(Vice Presidente), Giovanni Biscaldi, Secondo Ansaldi, Davide Perotti, Siro De Lorenzi, Dr.
Roberto Ferraris. Consiglieri revisori dei conti: Andrea Coppa, Giovanni Milani, Pietro Savini,
Francesco Pazzi, Carlo Brocca. Collegio arbitrale: Remo sacchi, Francesco Fagnani, Angelo Bosini,
Pietro Ferri.
La quota di iscrizione fu nel primo anno di lire 1500 e gli iscritti furono ottocentoottantacinque.
Nel primo anno, ai ricoverati in ospedale a carico della Mutua Ospedaliera venne corrisposto
l'ottanta per cento della retta dell'ospedale, il rimanente venti per cento fu a carico dell'iscritto.
Agli iscritti ricoverati in ospedale, ma a carico di altra mutua, veniva corrisposto il quaranta per
cento della retta.
LA CHIESA PARROCCHIALE
La Parrocchia di Dorno, sotto il titolo di Prepositura Collegiata di
Santa Maria Maggiore, é una delle più antiche della Lomellina.
La sua importanza é testimoniata da un documento conservato
nell'Archivio Storico di Milano: e riferibile all'anno 1187: in esso
è chiamata "Sancta. Maria Durnensium" e citata come matrice
delle Parrocchie di Gropello, Sannazzaro, Zerbolò, Alagna,
Scaldasole, Zinasco e Parasacco.
In antico questa nostra Chiesa aveva nove canonici, tanti quanti
erano i titoli prebendati della matrice; essi furono ridotti nel 1460
a tre a causa della contrazione dei beni di proprietà della Chiesa.
La Collegiata fu soppressa nel 1810.
La primitiva Chiesa si trovava circa sul posto dell'attuale che era
adiacente al Castello e al Cimitero; era di stile romanico, a tre
navate con possenti pilastri. Nel rifacimento del 16° secolo una
torre del Castello diventò il campanile.
Nelle visite pastorali del 1500 circa, sono elencati questi altari: S.
Giovanni Battista, SS Cosma e Damiano, S.S. Rocco e
Bernardino, S. Antonio, S. Caterina, S. Pietro, B. Vergine del Rosario.
Nel 1635 si aggiunsero l'attuale altare maggiore, l'altare di S. Francesco e del Sepolcro con relative
balaustre, opere marmoree di stile barocco
Da una relazione del prevosto Garbarini (1848) si rileva che la Chiesa che si progettava di demolire
perché ormai inadatta al forte incremento della popolazione aveva il coro a forma ovale con sedili
dove prendevano posto i sacerdoti e i laici che accompagnavano con il canto le cerimonie; aveva
pure il pavimento di mattoni, e il campanile con tre campane (il Comune provvedeva alle corde e
alla manutenzione). Il sacrestano era stipendiato dal Comune.
La demolizione della vecchia Chiesa fu cominciata nel 1848 e di questa antica costruzione ben poco
fu salvato.
Il Prevosto don Giacomo Garbarini, per portare a
compimento i lavori della struttura muraria, dovette
vendere il possedimento del Santuario della Madonna del
Boschetto in territorio di Pieve Albignola.
Notevole fu anche il contributo della popolazione che si
era impegnata, famiglia per famiglia, a versare a scadenze
fisse una certa quota; fece una cospicua donazione
Giovanni Dassi di Pavia (inumato nella cripta sotto l'altare
del Sepolcro).
L'appalto per la costruzione fu assegnato alla ditta del
capomastro Ermenegildo Bergonzi di Sannazzaro che si
impegnò ad assumere personale dornese; furono usati mattoni della fornace Pelli di Gropello
Cairoli.; ogni muratore aveva una paga giornaliera di £. 2,75, il manovale di £. 1,50, il contadino di
£.
1,25,
il
suolino
di
£.
3;
lo
stuccatore
di
£.
7,50.
L'attuale Chiesa ha forma di croce latina con grandiosa cupola (eretta nel 1854 su disegno dell'arch.
Varazzi, insegnante all'Accademia di Brera); é di ordine composito tendente allo stile Impero, é
lunga
m.
66
e
larga
m.
25,
a
tre
navate.
Fu consacrata il 1° Settembre 1889 dal Vescovo di Vigevano
De Gaudenzi, essendo Parroco don Luigi Galassi.
Ha undici altari: di S. Antonio, S. Giuseppe, S. Sepolcro, S.
Francesco, S. Cuore, S. Eufemia, Madonna, di S. Lucia, della
Natività, della Grotta di Lourdes, oltre all'altare maggiore di stile barocco, decorato con marmi
finissimi.
La volta dell'altare di S. Giuseppe é affrescata dal pittore dornese Biagio Canevari, così pure l'altare
di S. Francesco.
Nella Chiesa ci sono dipinti di Baldassarre Varazzi, del Garberini, del Mazzucchi; nell'altare della
Madonna c'è una pala di ottima fattura: la "Mater Amabilis", capolavoro di Roberto Fontana; sono
pure degne di nota le sculture del Ravasco e le vetrate del coro; nella lunetta sopra il monumentoricordo del prevosto Luigi Galassi un affresco del Canevari raffigura S. Carlo Borromeo tra gli
appestati nel Lazzaretto di Milano.
Un altro affresco ( 1938 ) degno di nota è visibile nella lunetta in alto sopra il confessionale dei
parroci, proprio dove fino agli anni trenta era il matroneo (piccolo loggiato interno, per antichissima
tradizione riservato alle donne); vi è raffigurato Sant'Ambrogio mentre vieta all'imperatore
Teodosio ( imperatore romano scomunicato nel 390 d.C. ) di entrare in chiesa perché colpevole
dell'eccidio di Tessalonica, l'odierna Salonicco.
L'unico avanzo prezioso della più antica chiesa é la base del battistero formata da un cippo
marmoreo lavorato a fogliami di acanto, databile all'età romana (augustea o flavia).
Fino al 1950 la Chiesa Parrocchiale era dedicata a S. Bartolomeo Apostolo, raffigurato insieme a S.
Materno nell'affresco dell'abside. Questo moderno affresco ha coperto l'affresco precedente del
nostro Biagio Canevari raffigurante la Sepoltura di Gesù.
Il 1° Novembre del 1950, alla chiusura dell'Anno Giubilare di fede, Papa Pio XII proclamò il
dogma dell'Assunta di Maria Vergine in Cielo e la Chiesa di Dorno fu dedicata a "Maria Assunta in
Cielo".
IL SACRO CUORE
Nella chiesa parrocchiale, il secondo altare a sinistra è dedicato al Sacro Cuore di Gesù.
Fino agli anni trenta questo era l'altare del Crocifisso; qui il prevosto don Panigatti trasferì la bella
statua del S.Cuore che prima era sotto il tempietto di marmo che sovrasta l'altare maggiore.Il grande
Crocifisso di legno fu collocato al posto del tempietto e della statua, poi più in alto, quindi
nell'altare del Sepolcro.
La particolare devozione dei dornesi al S.Cuore è altresì dimostrata dalla primigenia intitolazione
dell'attuale Casa di riposo per anziani di viale Papa Giovanni XXIII.
Venne costruita nel 1904 con la denominazione di Istituto Sacro Cuore
per
essere
subito
destinato
all'assistenza
dei
vecchi.
Chiuso nel 1929 per forti dissensi tra il munifico fondatore comm.
Primo Bonacossa e la Amministrazione comunale d'allora, venne
riaperto nel 1931 come opera di padre Balduzzi, per ospitare ragazzi
orfani.Nel 1962 fu trasformato in Scuola medico-pedagogica per
bambini caratteriali ed ipodotati, con sette insegnanti specializzati,
cinque suore e sessanta minori.
Nel 1974 l'Istituto assunse la denominazione "Casa di riposo San
Giuseppe", di cui è ancora sede.
IL CORPUS DOMINI
Il Corpus Domini è la festa dell'Eucaristia (Eucaristia: dal tardo latino e dal greco ecclesiastico:
riconoscenza, rendimento di grazie, gratitudine,).
La festività religiosa (fino a qualche decennio fa, anche civile) fu arricchita in seguito con la
processione del S.S. Sacramento; questo rituale, nel passato, era celebrato con festosità, si svolgeva
nella mattinata del giovedì (festivo) dopo la prima domenica di Pentecoste, i portoni dei cortili e le
finestre delle case erano addobbati con biancheria ricamata, tappeti, coperte, vasi di fiori, lumi; il
sacerdote con l'ostensorio procedeva lento sotto il baldacchino sorretto da quattro confratelli nella
loro bianca divisa, era preceduto dai chierichetti con turibolo e incenso, dai bambini che nella
domenica "in albis" avevano ricevuto la Prima Comunione che spargevano petali di rosa; ancora le
varie associazioni con i rispettivi preziosi stendardi; alti si levavano i canti religiosi inneggianti "al
Divin Eucaristico Re" tra rintocchi di campane delle chiese del paese.
Questa solennità fu introdotta nella Chiesa nel 1263 da Papa Urbano IV in seguito al miracolo di
Bolsena ove un prete boemo che nutriva dubbi sulla transustansazione mentre celebrava Messa vide
sgorgare sangue dall'ostia consacrata.
Questa festa ha grande importanza anche in seguito avvenuto a Torino nel 1453 allorché un mulo,
che portava nascosto in un sacco uno ostensorio con l'Ostia consacrata, rubata a Exilles (località
presso Torino), cade a terra e si vide l'Ostia levarsi in alto e risplendere in una gran luce.
Sull'area dove avvenne questo miracolo fu costruita nel 1609 la chiesa del "Corpus Domini" dal
severo interno barocco a marmi nero-azzurri.
Questo miracolo è ricordato anche a Dorno nel dipinto sulla parte destra del coro della Chiesa di S.
Rocco, affresco reso efficace dalle figure di alcuni personaggi dornesi del tempo ripresi dal nostro
pittore Biagio Canevari, tra questi il giovane Giuseppe Perotti (Pepù al mes), Michele Volpi,
(Michel al frè, fabbro ferrario e maniscalco di Piazza S. Rocco), Battista Nicola (Michè, fornaciaio
alla fornace di Cascina Moglia).
In piedi a destra l'autoritratto del pittore.
S.ANTONIO ABATE
Nella chiesa parrocchiale, nel transetto di destra è sito l'altare di S.Antonio Abate la cui festa ricorre
il 17 gennaio.
Il Santo è raffigurato in un buon dipinto d'autore ignoto della fine del secolo scorso.
S.Antonio, nato verso il 250 d.C. nel medio Egitto, era un anacoreta della Tebaide e fu il fondatore
della vita monastica in Oriente ( anacoreta, nel cristianesimo antico e medievale, era colui che si
ritirava nel deserto per dedicarsi alla contemplazione ed alla preghiera ).
Scrive S.Atanasio, suo biografo, che merito principale di S.Antonio fu l'aver organizzato la vita di
perfezione evangelica da una forma individuale (eremitica) ad un regime comunitario (cenobitico)
con pratiche comuni in piccole comunità.
E' celeberrimo per le tentazioni da lui superate (tentazioni che hanno eccitato la fantasia degli artisti
a cui si devono le più note rappresentazioni del Santo); anche nel dipinto di Dorno è raffigurato in
aspetto di vegliardo con il saio e una lunga barba bianca intento a pregare.
Alle spalle si notano alcune figure femminili (che simboleggiano le tentazioni diaboliche) scacciate
da un angelo; in basso un maialino (la lussuria) e una campanella interpretata come un mezzo per
fugare le tentazioni del demonio.
La devozione popolare del Medio-Evo cominciò ad evocarlo come protettore contro le malattie
contagiose sia per gli animali che per gli uomini. Il culto e la devozione a S.Antonio ed ai Santi, in
genere, fanno parte dell'eredità ricevuta dall'antichità.
Dalla fiducia nell'intercessione dei Santi scaturì l'idea di determinate competenze in vari campi.
La familiarità con cui l'uomo invoca i Santi rimane un tratto luminoso, un collegamento fecondo tra
cielo e terra. La devozione a S.Antonio è ancora molto diffusa tra le zone agricole.
Nelle poche stalle rimaste sovente non mancano quadretti o statuette raffiguranti il Santo davanti
alla quale in determinate circostanze viene acceso un lume.
Il 17 gennaio a Dorno, fino agli anni 50, si celebrava all'altare del Santo una Messa solenne; al
termine il Prevosto, al suono del campanone, si portava sul sagrato della chiesa per benedire gli
animali presenti (asini e cavalli) nella piazzetta.
Al pomeriggio e nei giorni seguenti, i sacerdoti passavano a benedire gli animali nelle stalle del
paese e delle cascine; a mezzogiorno dopo la messa; non mancava il tradizionale pranzo dei
coltivatori nelle trattorie.
IL BATTISTERO
Nella navata laterale sinistra della Chiesa Parrocchiale, chiuso da un cancello di ferro, si trova il
fonte battesimale di cui si hanno notizie fino dal 14° secolo.
Nella visita pastorale del 1555 si parla della cappella e dell'altare di S. Giovanni Battista con i
passimi del fonte battesimale.
Nell'attuale battistero é inserito un cippo costituito da una base decorata di foglie di acanto, usata
come sostegno del fonte battesimale stesso, che é una vasca di marmo del 1600.
Questo antico pezzo architettonico é isolato e non può riferirsi ad alcun antico monumento locale;
nulla é dato sapere circa la sua provenienza e come esso sia finito a far da sostegno alla vasca
battesimale.
Il cippo è di marmo greco, misura cm. 69 di altezza, e ha un diametro massimo é di cm. 43;
nell'utilizzazione come sostegno della fonte fu forato per permettere lo scolo dell'acqua.
Esso presenta alla base un toro rivestito di piatte foglie d' acanto, quindi il calice si erge con leggero
rigonfiamento nella parte inferiore per restringersi verso la sommità dove si rovesciano in fuori i
riccioli terminali delle lunghe e larghe foglie d'acanto perfettamente aderenti al nucleo e a contatto
fra loro con le punte terminali delle foglie; in corrispondenza di questa linea di unione delle foglie
vi é un solco verticale.
In sostanza, si vedono quattro grandi cespi di acanto sboccianti dalla base con toro e a contatto fra
loro; ciascuno é composto di una piatta nervatura mediana dalla quale simmetricamente escono ai
lati, una sopra l'altra, tre foglie e che termina con il ricciolo rovesciato; a riempire i vuoti alla base
sono sempre, a stretto contatto, una foglia per parte a fianco di ogni cespo.
Questo calice fogliaceo é in più parti abraso, ma nelle parti meglio conservate mostra una delicata
trattazione delle superfici, specie nella nervatura mediana e nell'adeguamento delle foglie al fondo;
l'intaglio é leggero e si limita a far risaltare i contorni appuntiti delle foglie senza scavare a fondo le
ombre nei vuoti.
Si nota una composta eleganza, non nervosa, che è tipica di famose decorazioni di età augustea e
flavia. Lo stile, sia pure in tono minore, non é lontano dall'età flavia.
L'importanza di questo pezzo non sta nel suo stile, ma proprio nella sua funzione. E' evidente che
questo calice d'acanto stava alla base di una colonna; si può pensare anche a una colonna non in
funzione propriamente architettonica ma decorativa, quale base di candelabro; il calice d'acanto é
comunque del tipo che é possibile riscontrare in alcuni esempi architettonici monumentali (il
motivo del giro delle foglie di acanto sembra nato in Egitto, da cui passò in Oriente e quindi nella
Gallia meridionale).
Il pezzo di Dorno é certamente importato, ma non si sa se già direttamente in antico (il che
presupporrebbe un livello civile quale i modesti trovamenti nel nostro paese non lasciano sospettare
e che non é comprovato da alcun altro pezzo architettonico), o in età moderna da altra località.
In antico il Battistero era fuori della Chiesa, secondo l'uso paleocristiano e dell'Alto Medio Evo
(esempio di Lomello e di numerose Cattedrali lombarde e emiliane). Quello di Dorno, che era un
vero e proprio edificio a se stante, di pianta rotonda o poligonale, fu abbandonato e scomparve, non
sappiamo quando. Ne esistevano i ruderi ancora all'inizio del seicento.
IL CAMPANILE
Nel 1899, sul campanile della nostra chiesa parrocchiale, che ha come
base parte della antica torre del Castello demolito nel 1848, veniva
installato il nuovo concerto di cinque campane "in do grave", fuse dalla
ditta Fratelli Bianchi di Varese.
Il campanile cuspide compresa è alto metri 38. Venne ristrutturato nel
periodo ricompreso settembre-dicembre 1998 da una impresa edile di
San Cipriano Po su progetto dell'Arch. Palmieri di Dorno.
Da documenti esistenti nell'Archivio Parrocchiale risulta che il prevosto
don Luigi Galassi, per far fronte alla spesa, indisse una sottoscrizione e
in un registro sono riportati i nomi degli oblatori che si erano impegnati
a versare una quota annua (da una lira a cinque lire) per tre anni;
provvedevano alla raccolta delle quote i "collettori" delle varie contrade
del paese.
Nella "bolletta" rilasciata dal pesatore, certo Boncompagni, il 29
dicembre 1899, risulta il peso totale delle
campane:(quintali 49,35) e del castello di ferro a sostegno: (quintali 43,28).
Le campane furono prelevate alla stazione ferroviaria di Gropello Cairoli. da
carri tirati da coppie di buoi dell'agricoltore Giuseppe Cuzzoni (Mistròu),
proprietario del podere in "contrada di Pavia" e furono issate fino alla cella
campanaria, a circa trenta metri, con una complessa operazione tramite
corde, catene e paranchi. Su ogni campana stava a cavalcioni un operaio
della fonderia Bianchi che dirigeva con la voce e coi gesti le varie operazioni
di sollevamento.
La fonderia di Varese, che aveva fuso le vecchie campane del peso di
quintali 25,09, ebbe in totale, dal curato e tesoriere don Secondo Passerini, il
21 luglio 1908, la somma di lire 9800,06.
Alla raccolta dei fondi contribuì con lire 3300 il Comune che così rinnovò il
diritto al suono delle campane in determinate circostanze: mezzogiorno,
scuola (la campana suonava alle 8,45 e alle 13,15), incendio (a martello),
vaccinazioni, orologio.
Da alcuni anni le campane vengono messe in movimento per mezzo di un congegno elettronico con
programmi prestabiliti.
Ogni campana aveva la sua funzione, un significato, un suo richiamo nella
vita della parrocchia. Il "campanone", la campana più grande, oltre a
segnare le ore, diffondeva i suoi rintocchi lenti e gravi per annunciare la
morte (ingunìa) e il funerale dei parrocchiani; il concerto delle cinque
campane (campanà) dominava in occasione di battesimi, matrimoni e feste
solenni. Seguiva in ordine di grandezza la "quarta" che suonava all'Ave
Maria del mattino, della sera e al mezzogiorno; la "terza" era la campana
che dava il segnale della scuola (ore 8,45 e 13,15) e della Messa feriale del
Prevosto; suonava a martello in occasione di incendi e durante la
benedizione del tempo nell'imminenza di temporali; la "seconda" suonava
per le messe feriali degli altri sacerdoti e l'ultima, la più piccola, per
chiamare al catechismo i bambini in determinati periodi dell'anno (Avvento
e Quaresima).
Su ogni campana c'é una iscrizione latina e una invocazione.
In occasione dei battesimi o funerali di bambini (un tempo ne morivano
tanti) il sacrestano saliva alla cella campanaria e suonava le cinque
campane battendo su una tastiera (la dina - dana).
Nella Settimana Santa, quando le campane rimanevano mute dal Giovedì
Santo al sabato mattina, le cerimonie venivano annunciate dal gracidio
della "trica e traca", un rudimentale strumento di legno messo in funzione
sul campanile dai chierichetti.
S. EUFEMIA
Nella Chiesa parrocchiale, nel terzo altare a sinistra, si venera il corpo di S. Eufemia, giovinetta
martirizzata nel IV secolo durante la persecuzione di Diocleziano.
L'urna della Santa é posta in fondo a una splendida cappella che è un vero trionfo di pitture e
sculture.
L'altare è di marmi preziosi, la vetrata porta l'immagine della
Martire, l'urna di bronzo e di cristallo é rinchiusa in un tempietto di
legno finemente scolpito e dorato.
S. Eufemia era una fanciulla di 14 o 15 anni; dopo il martirio il
corpo fu sepolto in un loculo nelle Catacombe di S. Ciriaco sulla
via Ostiense.
Qui rimase fino al 1665 quando passò in proprietà della antica e
nobile famiglia romana dei Principi Aldobrandini Pamphili.
Quattro anni dopo fu affidato ad Anna Pamphili , andata a sposa al
principe Doria di Genova ,e poi pervenne al monastero di S. Spirito
delle Suore Domenicane di clausura.
Nel 1925, aderendo alla richiesta del prevosto mons. Maroi, il
Vescovo di Vigevano mons. Scapardini, destinò le reliquie della
Santa alla parrocchia di Dorno dove si diede inizio alla
sistemazione dell'altare e dell'urna.
Le Suore Missionarie dell'Immacolata di Mortara prepararono gli
indumenti secondo modelli e disegni di stile romano - cristiano: la veste é di seta bianca arabescata,
il manto di damasco rosso bordato di ricami finissimi, il materassino e il cuscino di velluto rosso
con motivi a palme in oro.
La palma che la Santa tiene nella mano sinistra, come simbolo del martirio, e il diadema sono di oro
puro.
L'ampolla, racchiusa in un reliquiario d'argento, contiene terra intrisa di sangue.
Dall'esame del cranio, che si conserva quasi completo, si rilevò una larga spaccatura prodotta da un
colpo di mazza; per questo sulla maschera di cera della Santa é stata riprodotta la ferita sulla fronte.
Il 6 settembre 1927 l'urna di bronzo con il corpo di S. Eufemia fu trasportata a Dorno nel corso
delle trionfali cerimonie in occasione del Congresso Eucaristico Diocesano.
Ogni anno a metà Settembre si festeggia la Santa di Dorno.
LA CHIESA DEI S.S. ROCCO E BERNARDINO
La Chiesa di S. Rocco fu innalzata per voto popolare in tempo di peste nel secolo XVI.
Essa divide in due parti l'antica "Piazza Grande" che si stendeva davanti al Castello Medioevale, nel
punto più elevato del paese, dove attualmente sorge la Chiesa Parrocchiale.
La "Piazza Grande" è stata ridotta alle dimensioni attuali al principio del nostro secolo quando,
abbattute le vecchie robinie che la adornavano e la rendevano gradita ai vecchi e, ai ragazzi, furono
costruiti i Portici.
La Chiesa di S. Rocco risulta costruita in tre tempi diversi ed è di buona architettura, tendente allo
stile barocco.
La facciata verso la via Marconi è stata rifatta con materiale moderno nel 1930; anche il campanile
è
frutto
di
una
riedificazione
recente.
La Chiesa è divisa in due parti dall'altare maggiore; una
parte é riservata ai fedeli, l'altra, retrostante il
presbiterio, é occupata dal coro, notevole opera lignea
dell'epoca in cui fu eretta la Chiesa e che purtroppo si
trova in un deplorevole stato di abbandono. Nella
piccola navata di destra vi è l'altare della Beata Vergine
Maria della Redenzione degli Schiavi e a sinistra della
navata centrale è ubicato l'altare di S. Giuseppe.
Nelle due nicchie a muro, a fianco dell'altare maggiore,
sono collocate le statue dei due Santi compatroni: S.
Rocco, é rappresentato con gli attributi propri del
pellegrino: corta mantella, cappello a larghe falde,
conchiglia, zucca, bastone, e nell'atto di scoprire la gamba piagata; a lato un cane che reca una
forma di pane. Le statue sono portate in processione nelle feste a loro dedicate cioè, rispettivamente
il 10 Agosto e il 20 Maggio.
In questa Chiesa aveva sede la Confraternita del SS. Sacramento, una pia associazione di uomini,
nata per promuovere la vita cristiana con opere riguardanti il culto e l'esercizio della carità; i
confratelli attendevano all'officiatura nei giorni festivi; nel periodo invernale, all'alba, cantavano
l'ufficio funebre a suffragio dei Defunti; partecipavano, con una tunica bianca e cordone alla vita,
alle tante e pittoresche processioni religiose e seguivano con una pesante croce di legno i funerali.
Per i confratelli defunti venivano celebrate particolari cerimonie e recitate antiche preghiere e due
volte all'anno venivano messi all'incanto i prodotti della terra ricevuti i in offerta (fagioli e zucche);
il ricavato era destinato alla manutenzione della Chiesa.
Nell'incontro domenicale, dopo il canto dei Vespri, alle ore 14, i confratelli, sotto la guida del
Priore, dell'elemosiniere maestro dei novizi, trattavano i problemi della parrocchia proposti alla loro
riflessione dal Prevosto.
Nell'anno 1900 i confratelli erano trecento; con la laicizzazione dell'età contemporanea sono
praticamente scomparsi. Alla loro morte venivano deposti nella bara vestiti della bianca tunica.
Nel 1981 la chiesa di S. Rocco fu oggetto di importanti lavori di manutenzione, quali il rifacimento
del tetto e l'impianto di illuminazione, ma urgono interventi di restauro, oltre alle opere murarie e al
campanile, anche agli affreschi del coro minati dalla umidità: Essi sono opere del pittore dornese
Biagio Canevari e rappresentano "Il miracolo di Torino" e "Il martirio di S. Sebastiano"; l'affresco
dell'abside che raffigura "L'ultima cena" é opera del pittore Francesco Moruzzi di Tromello (1828 1916).
Particolare interesse riveste l'organo settecentesco, dall'inconfondibile timbro, che accompagnò per
secoli i confratelli, "i batù", salmodianti nelle caratteristiche cadenze, che furono una delle più
commoventi e significative espressioni del sentimento e della antica religiosità che da sempre ha
caratterizzato Dorno.
Dal maggio 2001, su progetto dell'Ing. Emilio Biscaldi e l'Arch. Antonella Palmieri, entrambi di
Dorno, sono iniziati importanti decisivi lavori di consolidamento delle mura portanti della
secentesca confraternita grazie al contributo del nostro Comune, della Diocesi di Vigevano e della
Regione Lombardia.
S. ROCCO
Di questo santo gli storici non sono ancora riusciti a fissare con indubitabile certezza le date di
nascita e di morte, tanto esse variano nelle fonti storiche. E' certo comunque che egli visse in pieno
secolo XIV, probabilmente nella seconda metà di esso.
Nato a Montpellier (Francia meridionale); all'età di 17 anni distribuì i suoi beni ai poveri e, vestito
l'abito del pellegrino, venne a Roma. Nel viaggio di ritorno, a Piacenza flagellata da una epidemia
di peste, compì miracoli di guarigione, finché non fu egli stesso colpito dal male e ne fu guarito,
secondo la tradizione, da un angelo che curò le sue piaghe; durante la malattia gli fu compagno un
cane che fedelmente gli procurava di che cibarsi.
Morì , con ogni probabilità, nella città natale.
S. Rocco viene normalmente rappresentato con gli attributi propri del pellegrino secondo la
tipologia già esaminata nella descrizione della statua venerata nella Chiesa a Lui dedicata a Dorno.
Il suo culto, che lo vide patrono contro la peste, insieme con S. Sebastiano, si sviluppò verso la fine
del XIV° secolo quando le Confraternite in Italia e in Francia si moltiplicarono.
La canonizzazione ufficiale avvenne nel secolo XVIII° a opera del papa Urbano VIII, quando il
culto di S. Rocco si era già diffusissimo da secoli e il Santo era invocato anche come protettore
contro le malattie infettive degli animali.
La devozione a S. Rocco si strutturò in forme associative di carattere assistenziale; le confraternite
fondavano proprie cappelle in chiese già esistenti, o erigevano, spesso per "ex voto" nuovi edifici
intitolati al Santo.
A Dorno ed in altri centri della Lomellina la devozione per il S. Pellegrino si divulgò prestissimo e
risulta molto diffusa, come testimoniano le moltissime chiese, oratori, cappelle nelle quali affreschi,
sculture, statue e stendardi raccontano episodi della sua vita.
Ancora oggi nella ricorrenza della festa di S. Rocco si tengono cerimonie e processioni con la statua
del Santo; anche a Dorno si snoda dalla Chiesa del Santo una processione molto frequentata.
S. BERNADINO DA SIENA
Il 20 maggio si commemora S. Bernardino da Siena al quale unitamente a S. Rocco è dedicata la
nostra vecchia chiesa con annessa Confraternita detta di S. Rocco.
Ogni anno in questo giorno viene celebrata la Santa Messa solenne a cui segue la tradizionale
processione con la statua del Santo.
S. Bernardino, oltre dalla statua nella nicchia a sinistra dell'altare maggiore, è ricordato anche da un
affresco sulla volta del coro.
S. Bernardino degli Albigeschi, detto da Siena, nacque a Massa Marittima nel 1383 e morì
all'Aquila nel 1444.
Fu canonizzato nel 1450 da Papa Nicolao.
Frate minore francescano, grande predicatore con particolare attenzione ai problemi concreti della
gente e scrittore di libri mistici, dalla cultura splendide audace, dalla parola irruente, colorita,
soffusa da profonda visione etica e religiosa, pronta a tutti gli ardimenti, fu pellegrino infaticabile
per le vie d'Italia ed Europa in un tempo ricco di fermenti e di risse politiche; fondò più di trecento
monasteri.
Provocò la riforma degli "Osservanti", religiosi di S. Francesco allo scopo di mantenere salda e
rigida "la Regola della Povertà".
Dedicò la sua missione alla devozione del Nome di Gesù e per rendere visibile la potenza di quel
Nome e per contrastare l'araldica del tempo che abusava della Croce inserendola tra gli altri
simboli, ideò uno stemma che indicasse la pienezza della sovranità di Gesù e avesse un'esplicito
richiamo alla carità del sole: fonte di bene e prosperità, lo stemma è attorniato da dodici raggi
maggiori (gli Apostoli) e da raggi minori (le otto beatitudini).
Al centro le lettere J.H.S. (Jesus Hominum Salvator) e abbreviazi9ne del nome greco di Gesù.
Questo stemma che S. Bernardino tiene nella mano destra è un particolare pittorico ricorrente nella
sua copiosa iconografia.
La dedicazione della nostra chiesa ai due Santi Rocco e Bernardino è dovuto al fatto che i due Santi
appartenevano all'"Ordine dei Disciplini": associazione di persone che per penitenza e per la
fortificazione nella pratica ascetica praticavano la flagellazione personale in pubblico e in privato.
IL SANTUARIO DELLA MADONNA DEL BOSCHETTO
La storia del Santuario della Madonna del Boschetto ci è tramandata tramite un esposto presentato
dal Marchese Luigi Crivelli Scarampi di Dorno al re di Spagna nel 1666.
Da questo esposto, di cui una copia è conservata nell'Archivio Parrocchiale, risulta che presso il
Palazzo di detto marchese e sopra i suoi beni esisteva una edicola in cui era dipinta l'immagine della
Beata Vergine detta del Boschetto, seduta in trono col Bambino tra le braccia.
In conseguenza del grande concorso di fedeli e delle grazie che tramite la
Madonna si ottenevano, con le offerte dei pellegrini che lì affluivano
anche dai paesi vicini, venne costruita una piccola chiesa alla cui
costruzione diede l'assenso anche il marchese Crivelli, senza pregiudizio
dei suoi diritti. In seguito, essendo le offerte dei fratelli arrivate a
costituire una ingente somma, questa venne affidata in custodia al
tesoriere, Cesare Padova; essa più tardi fu depositata presso il Monte di
Pietà di Pavia.
Da un documento d'archivio risulta che tale somma era di lire ventimila,
oltre ad oggetti d'oro, di argento e di vesti di seta; si era nel 1630.
Il Parroco d'allora decise di costruire una chiesa grande e chiese al
marchese il sedime su cui edificarla, che il marchese concesse , ma con la
clausola
"senza
pregiudizio
dei
suoi
diritti".
Quando la Chiesa fu costruita (anno 1666), il Marchese domando' per se'
e i suoi discendenti il diritto di "iuspatronatus" che comportava il privilegio di nominare il
Cappellano al quale si dovevano consegnare le offerte per la celebrazione delle Messe, anche di
quelle celebrate da altri sacerdoti. Il Parroco Magorio negò questo diritto, osservando che la Chiesa
era stata costruita con le offerte dei fedeli e che i "regolatori" della stessa (così si chiamavano allora
i componenti il consiglio di amministrazione), avevano la prerogativa di nominare il cappellano e di
amministrare le offerte. Questi "regolatori" venivano nominati dal Vescovo di Pavia su proposta del
Parroco di Dorno.
Di qui l'esposto del Marchese al Re di Spagna, in cui si accusa il Parroco di avere agito senza
chiedere il permesso del Vescovo, senza aver consultato Lui e senza averlo tenuto al corrente di
quanto stava operando sulla sua proprietà . Il Marchese Crivelli presentava al Re queste e altre
lagnanze, per cui chiedeva al sovrano di ingiungere al Senatore di Pavia e al Pretore di intervenire
presso il Vescovo perché non permettesse di venire spogliato dei propri diritti. Da un documento del
1666 risulta che vennero nominati "li regolatori della chiesa" e in questo consiglio fu incluso il
Cappellano del Marchese come semplice consigliere e senza altri diritti. Ma il giuspatronato non fu
concesso: si trattava, secondo il diritto canonico, del privilegio che spettava ai fondatori di chiese di
presentare alla autorità ecclesiastica un candidato a un beneficio ecclesiastico vacante.
Appena la Chiesa fu terminata, furono tante le Messe celebrate (ogni giorno si celebrarono dalle
dodici alle quattordici Messe), che questi "regolatori" poterono continuare nelle opere di
abbellimento; segno visibile del numero delle Messe celebrate all'altare della Madonna rimane
l'impronta dei piedi dei sacerdoti celebranti sulla pedana di legno dell'altare (esistente tutt'ora sotto
la pedana attuale).
Il magnifico altare della Madonna, costituito da marmi finissimi di un caldo colore rosato, è
descritto nel verbale della Visita Pastorale .
A proposito dell' altare, si racconta una graziosa leggenda. Un nobile
genovese, essendo addolorato per la fuga dalla casa paterna di un suo
figlio, fece voto alla Madonna che, se lo avesse ritrovato, avrebbe
fatto un dono alla chiesa del luogo dove avesse rintracciato il figlio.
Dice la leggenda che, giunto a Dorno, trovò il fuggitivo che dormiva
sotto il portichetto che fiancheggia il Santuario. Sapendo che la
Chiesa era dedicata alla Madonna, chiese al Parroco cosa vi
mancasse, e il Parroco gli mostrò che non vi esisteva un altare degno
di essa e della Madonna ivi venerata; il nobile genovese si impegnò a
procurare la somma di denaro occorrente a erigere il magnifico altare
che ammiriamo ancora oggi.
La Madonna del Boschetto, secondo un'altra pia tradizione, avrebbe
fatto parlare una piccola muta.
Della primitiva immagine che era stata trasportata nella nicchia del
nuovo altare erano rimaste solo le teste della Madonna e del Bambino; il dipinto fu completato con
vesti di seta ricamate, quasi ad atteggiare le figure.
La pietà dei Dornesi e dei pellegrini non venne mai meno e il Santuario divenne sempre più adorno.
Nel 1767 fu firmato il contratto con Andrea Luigi Serassi di Bergamo, famoso organaro, per la
costruzione dell'organo e l'anno seguente il falegname e intagliatore Franza Petraggiani costruì la
cantoria: la spesa pagata in quattro rate fu di lire 4750 e 17 soldi.
Nel 1764, dalla fonderia Bonavilla, vennero fuse le tre campane che furono issate sul campanile.
Nel 1732 venne posta in opera la balaustra dell'altare maggiore, lavoro del marmista Fossati di
Pavia e nel 1760 furono costruite le balaustre dei quattro altari laterali, dedicati allora
all'Immacolata, all'Addolorata, a S. Anna e a S. Antonio da Padova.
Nel 1794, per ordine regio, si mandarono a Torino numerosi "ex voto": tra questi un prezioso
turibolo d'argento con la relativa navicella, braccialetti d'oro, tovaglie finemente ricamate, controaltari di damasco finissimo, candelabri, campanelli, lampade e due calici.
Nel 1848 furono rifuse le attuali campane dalla ditta Barigozzi di Oleggio Castello.
Nel 1855 si riordinò la Chiesa e gli altari furono ristrutturati e dedicati a S. Anna,
all'Annunciazione, alla Visita della Madonna a S. Elisabetta ed alla Presentazione di Gesù al
Tempio.
Sempre nel 1855, venne costruita la gradinata di granito all'ingresso del santuario.
Questo fu consacrato il 12 luglio 1902 da Mons. Pio Giuseppe Passerini, Vescovo, Vicario
Apostolico dello Sciensì meridionale (Cina). Nel 1900 il Prevosto Mons. Maroi incaricò il pittore
dornese Biagio Canevari di ridipingere la Madonna col Bambino Gesù e il pittore si ispirò e riprese
l'immagine che si trova alla base di un ostensorio di rame sbalzato che porta anche lo stemma del
marchese Crivelli (l'ostensorio é conservato nella Casa Parrocchiale).
Nel 1940, il pittore Mazzucchi di Vigevano dipinse la Madonna e il Bambino su tela, ed é questo il
quadro che fu venerato fino al 1993, allorché fu rimosso per rimettere in evidenza il dipinto del
Canevari.
Nel 1955 fu posato il pavimento in mosaico del presbiterio e nel 1957 i pavimenti di marmo della
Chiesa tutta.
La facciata del Santuario é di stile rococò.
Di fianco all'altare maggiore vi é una cappellina dedicata alla Madonna del Rosario, e porta il titolo
di "Rosa mistica"; era in origine l'antica sacrestia ridotta a cappella del Suffragio e più tardi del
Rosario.
Sul lato sinistro della Chiesa sorgeva anche l'abitazione del custode; fu demolita, perché cadente e
disabitata, negli anni Cinquanta.
L'immagine della Madonna del Boschetto é stata incoronata, nel corso di una solenne cerimonia, il
25 aprile 1966, in occasione del terzo centenario della Chiesa attuale; eretta appunto nel 1666, come
attesta un documento dell'epoca, "ad onore di Maria Vergine, con l'elemosina dei fedeli, per le
grazie ivi dispensate da Dio, in onore di una Santa Immagine dipinta in un muro trovato in mezzo
un bosco".
La solenne cerimonia del 1966 é stata voluta dalla comunità dornese anche in segno di riparazione
per il sacrilego furto perpetrato il 28 febbraio 1963, quando ignoti ladri spogliarono la Sacra
Immagine dei preziosi offerti dai fedeli per grazie ricevute.
In questa occasione, sul capo della Madonna, venerata come "via veniae" (via del Perdono), é stata
posta una corona d'oro finemente cesellata e ornata di quaranta pietre preziose, opera della Scuola
d'Arte del Beato Angelico di Milano e offerta dalla comunità dornese.
Nello spiazzo erboso davanti al santuario una modesta croce di legno ricorda la Missione che si
tenne alla metà degli anni Trenta, animata dagli Oblati della Immacolata di Vigevano guidati da
Padre Balduzzi.
CHIESETTA DELLA MADONNA DEL BUON CONSIGLIO
Sorge in via Conte Cesare Bonacossa ed è adiacente al muro di cinta della villa del dottor T.
Padova; è una costruzione dell'inizio dell'800, con un piccolo pronao e una porta a inferriata. Vi si
venera una statua in gesso, che sostituì quella in legno rovinata dal tempo, della Madonna detta del
Buon Consiglio.
L'ubicazione di questa cappella all'inizio nord di Dorno e dell'altra piccola cappella, generalmente
detta di S. Zino al termine sud del paese, sono da ricollegarsi ad antichi luoghi di culto votivi,
celebrativi, funerari, che sorgevano ai lati delle vie romane nelle vicinanze di centri abitati di una
certa importanza.
Dalla via B. Canevari (una volta: via di Milano) proveniva appunto da Milano una antica via
Romana che portava all'Oltrepò.
S. ZINO O (S. ZENO)
E' una modesta cappella in via Zinasco sorta per devozione popolare alla fine del Settecento e
restaurata nel 1970.
La vecchia costruzione era costituita da una cappella con davanti un piccolo portico aperto, sorretto
da due pilastri.
Vi si venerava una piccola statua, detta di S. Zino, invocato come esorcista per allontanare gli spiriti
maligni, gli influssi nefasti e ogni sorta di maleficio. E' anche questa, come la Chiesa di San Rocco
e la cappella della Madonna del Buon Consiglio in via Conte Cesare Bonacossa, una testimonianza
di devozione popolare che non si configura per qualche particolare espressività,come opera degna di
considerazione critica, ma come semplice sviluppo di un tema devozionale che sta a sottolineare la
diffusione della pietà e di quei valori tanto più significativi se vengono considerati nel loro contesto,
collegati con la storia e la tradizione.
S. Zino, o S. Zeno, era forse di origine africana e fu vescovo di Verona dal 262 al 272. Celebre
esorcista, fu chiamato dall'Imperatore Gallieno perché gli guarisse la figlia indemoniata; gli inviati
dell'imperatore trovarono il Vescovo intento alla pesca sulle rive dell'Adige. Essendosi salvata la
città di Verona da una grave inondazione, gli abitanti ne attribuirono il merito a S. Zeno che
divenne così il patrono contro i danni provocati dell'acqua.
Sotto il portichetto antistante questa cappella, e nel retro, fino agli anni cinquanta, erano soliti
fermarsi per qualche giorno i girovaghi con le loro carovane tirate dai cavalli; la sosta era consentita
solamente per tre giorni, durante i quali i più piccoli della famiglia giravano per il paese per vendere
fettuccia, bottoni, palline di naftalina, ecc. Gli adulti si dedicavano ad attività non gradite alla nostra
gente, che li considerava vagabondi e non rispettosi della proprietà privata. Al termine del terzo
giorno di sosta, le due guardie comunali (i "campagnou" Mini e Cucagna), due colossi, intimavano
a questi girovaghi di sgomberare e di trasferirsi in altra località.
CHIESE SCOMPARSE
CHIESA DI SAN LODOVICO
Era una antica chiesa annessa al Castello, che sorgeva dove ora é l'attuale chiesa parrocchiale.
Era di patronato della nobile famiglia Crivelli, feudataria di Dorno, poi dei Calvi e da ultimo dei
Cazzani; era costituita da un unico altare e vi si celebrò la Messa festiva fino al 1821.
CHIESA DI SAN MAURIZIO
Chiesa molto antica, sorgeva nella zona detta appunto "san Muris", ora via San Maurizio; dipendeva
dal Monastero di Santa Maria delle Cacce di Pavia .
Fu abbattuta nel 1583 per usare le pietre nel restauro della vecchia Chiesa Parrocchiale.
Al suo posto, per decreto vescovile, doveva essere eretta una colonna con sopra una croce.
Fino agli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, questa zona era uno dei quattro punti del
paese dove sostava la processione detta delle "rogazioni", rito penitenziale costituito appunto da una
processione e da preghiere per ottenere da Dio benedizioni per la fertilità dei campi.
CHIERICATO DEI S.S. BIAGIO E SIRO
Chiesa antichissima, costruita a ricordo dell'influenza religiosa esercitata sulla Chiesa Pavese dal
primo vescovo di Pavia: San Siro.
Le era connesso un chiericato, cioè un beneficio ecclesiastico dotato di rendite.
L'ultimo accenno a questo chiericato risale al 1635; non é stato possibile individuare la zona dove
sorgeva la chiesa cui esso era legato.
CHIESA DELLA BEATA VERGINE ASSUNTA
Piccola cappella alla cascina Grande (strada per Alagna - Valeggio), vi si celebrava periodicamente
la Messa sull'unico altare dedicato alla Madonna Assunta in Cielo.
Fu chiusa e scomparve nel secolo scorso.
CHIESA DI SAN CARLO IN BATTERRA
Fu costruita per comodità delle numerose famiglie della cascina.
Questa modesta cappella fu ristrutturata dal marchese Crivelli nel 1760 e vi si celebrava la Messa
festiva a spese degli abitanti di detta cascina.
Fu chiusa nel 1814, quando la proprietà passò alla famiglia Magnaghi.
CHIESA E CONVENTO DEI FRATI FRANCESCANI
Era la Chiesa del Convento dei Frati Francescani Minori Conventuali, annesso alla cascina Angeli
(strada per Alagna - Valeggio).
Fu costruita nel 1450, aveva tre altari; fu ampliata nel XVII secolo da padre Francesco Suino da
Pieve Albignola, celebre predicatore che morì a Dorno nel 1768.
In questo Convento fece il noviziato il venerabile frate Lorenzo Galli da Revello che morì in
concetto di santità nel 1623 ed é sepolto nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Torino.
La Chiesa e il Convento furono soppressi nel 1810. Rimane il cascinale che ne tramanda il nome. I
vecchi di Dorno raccontano di un lungo sotterraneo che iniziava dal Castello e raggiungeva cascina
Angeli (passando sotto la Roggia e il Terdoppio), dove esisteva appunto fino dal 1450 il Convento
dei Frati.
CHIESA DI SAN MATERNO VESCOVO
Questa chiesetta campestre sorgeva in zona detta appunto "San Materno" , a S.E. di Dorno.
Era una Chiesa assai antica, dedicata a San Materno vescovo, il Santo compagno di predicazione di
San Siro, protovescovo di Pavia che portò la fede cristiana nel Pavese ed in
Lomellina.
Un documento del 1576 la descrive come cadente e per questo fu restaurata
dai dornesi.
All'interno, sull'unico altare, c'era un affresco raffigurante la Madonna col
Bambino Gesù tra i Santi Materno e Bartolomeo entro una bella cornice di
legno scolpito traslato nell'abside della chiesa parrocchiale nel 1950.
Vi era un basso campaniletto con due campane.
Si celebravano ogni anno due Messe in canto: una il 18 luglio per voto della
Comunità dornese, l'altra il 14 settembre, festa del titolare.
Altre messe, seguite da offerte di prodotti della terra, venivano celebrate in
occasione di periodi di siccità.
Verso la fine di febbraio del 1964 rovinò un pezzo di volta e nei giorni 3 marzo e seguenti questo
antico oratorio campestre fu abbattuto perché cadente e pericolante.
Nel 1970, nel corso di scavi intrapresi nella zona di San Materno dal Gruppo Archeologico Dornese
della Biblioteca Comunale, sotto le fondamenta dell'antica costruzione , ormai ridotta a un cumulo
di macerie, furono portati alla luce alcuni pezzi di marmo rosa facenti parte di una colonna e
mattoni romani.
Questa antica chiesetta sorgeva difatti ai lati di una strada romana di secondaria importanza che si
diramava dalla strada consolare delle Gallie che passava per Dorno e , oltrepassando il Po a
Cascinotto, si inoltrava nel Vogherese per raggiungere l'Appennino e quindi i valichi che portavano
al Mar Ligure.
Sullo stipite della porta di entrata della chiesetta era dipinta questa iscrizione latina:
"Hic Deus omnipotens sanctum pro plebe praecantem/ Maternum exaudit votaque plena facit./
Coeli cive praecante saluti redditur aeger/ Aridus et pluviis saepe redundat ager/.
Gaudeat hinc populus tanto protectus amico/ Confisus speret prospera cuncta sibi."
Nella zona di San Materno fu rinvenuta, nella primavera del 1973, una necropoli (luogo di sepoltura
con tombe romane a cremazione), a testimoniare stanziamenti umani d'epoca tardo celtica e romana
(I° a.C. - I° d.C.) con ornamenti di letti funebri, appliques con profili umani e zoomorfi, ceramiche,
vasi con incisioni a stecca decorati e verniciati, lacrimatoi, coppe, monete e reperti vitrei.
Dal fatto che certo a San Materno ci fu un insediamento romano nacque probabilmente la leggenda
tramandata dai vecchi del paese secondo cui la chiesetta fu costruita dove una volta era Dorno; la
leggenda riferisce inoltre che l'abitato fu distrutto dall'Imperatore Federico I° Barbarossa nel XII
secolo.
Nel 1996 è iniziato il rifacimento dell'antico oratorio con il recupero di alcune parti dell'originale
fondazione ad opera di un gruppo di volontari coordinato dall'Ing. Emilio Biscaldi che ne ha redatto
il progetto e guidati dal Geom. Battista Cucchi.
La riconsacrazione della nuova chiesetta campestre è stata
ufficiata da Sua Eccellenza Mons. Claudio Baggini Vescovo
di Vigevano il 23 settembre 2001.
Il 13 luglio 1996 erano iniziati i lavori per la ricostruzione
dell'antica chiesetta.
L'idea era stata promossa ed attuata dall'Associazione "La
Sorgente", nata nel 1994 da un gruppo di amici con lo scopo
di creare iniziative di volontariato senza fini di lucro a
favore di tutta la Comunità.
La ricostruzione ha avuto luogo sul perimetro dell'edificio
preesistente, del quale erano rimasti intatti solo alcuni monconi di muratura e i quattro piedi dei
pilastri d'angolo.
Proprio per rispettare tali piedi la nuova struttura è stata appoggiata su pilastri che si arretrano di un
paio di metri rispetto agli angoli stessi ed aggetta su di essi con struttura a sbalzo.
Su tutto il perimetro è stata pure creata una fascia orizzontale di vetro trasparente posta separazione
tra l'antica e nuova muratura.
Tale fascia, che ha funzione pratica di impedire la risalita di umidità lungo i muri, vuole avere
anche una duplice funzione simbolica: di mostrare che la Chiesa del terzo millennio poggia, pur
mediante una nuova "trasparenza" sulle fondamenta della Chiesa antica; di invitare i fedeli che si
raccoglieranno dentro le sue mura a guardare non solo verso l'alto ma anche in senso orizzontale
verso i propri fratelli e le bellezze naturali che il Creatore ci ha affidato.
I lavori sono stati portati avanti esclusivamente nei giorni di sabato e prefestivi; vi hanno
partecipato di volta in volta volontari di ogni età e, saltuariamente, alcune imprese del paese.
Nell'archivio parrocchiale è stata depositata una nutrita documentazione fotografica, attestante
l'avvenuta ultimazione dei lavori di costruzione benedetta il 23 settembre 2001 da Mons. Baggini e
con una celebrazione eucaristica ufficiata da Don Guido Bosini alla presenza di sacerdoti oriundi
dornesi.
L'altare è stato realizzato con una lastra di sasso sorretta da due ritti ricavati da un manufatto
idraulico utilizzato nei fossi per fermare e deviare l'acqua per l'irrigazione dei campi.
Il suo significato è immediato se si pensa che l'antica devozione popolare contadina di Dorno usava
rivolgersi a S. Materno quale protettore dei raccolti o quale propiziatore di pioggia dopo prolungati
periodi di siccità.
Il pavimento è costituito da pianelle in cotto recuperate da demolizioni di vecchie case del paese,
mentre le 14 pianelle immediatamente antistanti l'altare costituiscono tutto ciò che si è potuto
recuperare dal pavimento originario.
Le panche restaurate da un volontario con la passione per il legno provengono dalla Chiesa di S.
Rocco di cui sono in corso i lavori di consolidamento statico.
Il 19 luglio 2001 i coniugi Negri Gregorio e Quattrini Maria donano alla Parrocchia di Dorno il
terreno confinante a sud con la Chiesa di S. Materno, che gli stessi avevano acquistato all'inizio dei
lavori perché non sorgessero ostacoli di tipo urbanistico che si opponessero alla ricostruzione,
permettendo così di pensare per il futuro ad un programma di più ampio respiro che consenta un uso
attivo del luogo di culto e di meditazione.
S. MATERNO VESCOVO
In Germania, precisamente a Treviri, nel IX secolo è nata una singolare leggenda secondo la quale
S. Materno Vescovo sarebbe lì arrivato nel primo secolo dalla Palestina; è indicato pure come
discepolo di S. Pietro e da questi inviato ad annunciare il Vangelo nel mondo germanico.
Da qui le ragioni del culto popolare in Germania del Santo di cui danno testimonianza anche le
splendide vetrate del XIII secolo nella Cappella del Duomo di Cologna dedicata appunto a
S.Materno.
Il S.Materno della storia, invece, è un personaggio importante della Chiesa ormai libera per opera
dell'Imperatore Costantino, IV secolo, ma esposta al travaglio interno dei cristiani.
S. Materno, primo vescovo di Cologna, fu uno dei pacificatori chiamati dal Papa per appianare i
duri contrasti che travagliarono anche S.Agostino.
Dal catalogo dei vescovi S. Materno risulta essere il settimo Vescovo di Milano, diocesi
metropolitana con estensione anche nel Pavese e Lomellina.
Gli anni di episcopato di S. Materno vanno inserite tra queste due date: 316-343.
S. Materno assieme a S. Siro, protovescovo di Pavia, portò la fede cristiana anche in altre parti
dell'Italia settentrionale, come attestano antiche chiese a lui dedicate nelle diocesi di Milano,
Cremona e Bologna.
Le reliquie di questo Santo Vescovo furono oggetto di ricognizione da parte di S. Carlo Borromeo
nel 1571.
La più antica rappresentazione iconografica del Santo si trova in un mosaico della Basilica di S.
Vittore di in ciel d' oro del V secolo, attualmente incorporata nella Basilica di S.Ambrogio in
Milano in cui il Santo è raffigurato con la barba e vestito di una dalmatica tra i Santi Nabore e
Feliciano.
L'OSPEDALE
In un antico documento del 1576 é ricordato un piccolo
ospedale che dipendeva dal Capitolo della Cattedrale di
Pavia; fu adibito al ricovero degli ammalati di peste e di
altre epidemie fino al secolo 17°; scomparve senza
ulteriori memorie.
Si crede sorgesse nella zona ancora oggi denominata
"Lazzaretto", proprio nelle vicinanze dell'incrocio tra la
via consolare romana delle Gallie e un'altra strada
romana di secondaria importanza proveniente da
Mediolanum (Milano) e diretta all'Oltrepo.
AFFRESCHI NELLE STRADE
La secolare religiosità della Comunità dornese ci é trasmessa e documentata, oltre che dalla
grandiosa Chiesa Parrocchiale, dalla Chiesa della Confraternita di S. Rocco, dal Santuario della
Madonna del Boschetto e dalle altre Chiese scomparse, anche da numerosi affreschi che ancora
oggi si possono vedere sulle pareti di alcune case nelle vie del nostro paese.
Questi affreschi, attestano nella loro semplicità l'espressione della devozione popolare espressa
attraverso modalità culturali che, pur non avendo la pretesa di essere opere d'arte conservano una
loro valenza, perché raccontano ed esaltano pratiche devozionali legate alla schiettezza del
messaggio che vogliono tramandare.
Sono cioè espressione di un mondo formato di fede che va ricondotto a un preciso ambito di cultura
popolare, per cui costituisce elemento della nostra storia.
Sull'origine di questi affreschi non esiste documentazione scritta : i committenti o promotori sono
probabilmente gli stessi proprietari delle case o questi dipinti devozionali risalgono alla munificenza
di singoli o di gruppi di persone, o all' iniziativa degli Ecclesiastici che ressero la Parrocchia..
Alcuni potrebbero essere attribuiti al nostro B. Canevari, altri a pittori lomellini quali Santagostino,
Bialetti, Moruzzi. (Gesù nell'orto degli ulivi 1880).
Purtroppo il loro stato di conservazione é precario; se non si interverrà con sollecitudine, entro
breve tempo non saranno più leggibili e spariranno.
In genere si tratta di opere che risalgono alla fine del secolo scorso ed agli inizi del presente.
Davanti a questi affreschi che
rappresentano
Madonne
o
scene
evangeliche, fino agli anni Cinquanta, in
occasione di particolari ricorrenze
religiose, la gente si raccoglieva in
preghiera comune e canti corali e inni
sacri, dopo aver provveduto alla
illuminazione e all'addobbo floreale.
Questo pur modesto patrimonio culturale,
legato
alla
nostra
tradizione,
testimonianza di culto o devozione
popolare, è un patrimonio che merita di
essere
sottoposto
alla
riflessione
dell'intera Comunità , che dovrebbe
mostrarsi sensibile al suo recupero e alla
sua conservazione, nell'intento di
ritrovare, e magari riproporre, la sua funzione anche se non analoga a quella originaria.
MEMORIE RELIGIOSE
La storia di Dorno é tutta un riferimento alla vita religiosa che ne ha costituito il fulcro e
determinato la vita quotidiana .
Le testimonianze sono molte, si direbbe che non vi sia stata iniziativa proposta dalla Chiesa che a
Dorno non abbia trovato rispondenza e terreno fertile.
Risalendo nel tempo troviamo Congregazioni, Associazioni, Comitati che hanno caratterizzato
intere epoche.
CONSORZIO DELLA BEATA VERGINE DELLA MERCEDE
È una Pia Associazione della quale si conosce la data di fondazione: 26 febbraio 1676.
Aveva per scopo la devozione alla Madonna, nonché l'assistenza ai poveri in caso di infermità o di
particolare necessità.
Le iscritte a questa Associazione, non meno numerose delle "Figlie di Maria", di cui si dirà più
avanti, portavano una veste bianca, sul capo un manto bianco ed alla vita una fascia rosa, al collo la
medaglia della Madonna della Mercede appesa ad un nastro rosa.
Le associate si impegnavano a recitare quotidianamente particolari preghiere, a presenziare alle
Messe solenni in canto, ai Vespri ed alle solenni "Quarant'ore" alle quali partecipavano con
preghiere e canti le cui origini si perdevano nei secoli . La festa del sodalizio ricorreva il 24
settembre.
Come i Confratelli di S. Rocco, le iscritte alla loro morte venivano deposte nella bara con la loro
bianca veste.
ORFANOTROFIO FEMMINILE "GANDOLFI-BIANCHI"
Nell'anno 1906 venne aperto un piccolo orfanotrofio con dieci posti letto. Il fabbricato di proprietà
della famiglia Bonacossa, ubicato in Pizza Dante, angolo via Vittorio Veneto, venne offerto come
sede.
Fondatrice fu la nobildonna Maria Gandolfi
Bianchi; l'istituzione funzionò per 62 anni e vi
vennero cresciute, educate e formate centoventisei
bambine orfane.
L'orfanotrofio fu affidato alle Suore Benedettine di
Voghera e terminò la sua benefica opera nel 1968.
PIA UNIONE DELLE FIGLIE DI MARIA
Fu eretta con decreto vescovile in data 17 gennaio 1874.
Il 31 agosto 1874 nel Santuario della Madonna del Boschetto Mons. Giuseppe De Gaudenzi,
Vescovo di Vigevano, consegnò le medaglie alle prime socie.
La Pia Unione conobbe momenti di grande splendore fino a superare le cinquecento socie. Le
iscritte alla Pia Unione portavano una lunga veste bianca, alla vita una larga fascia azzurra, sul capo
un velo bianco e al collo la sacra medaglia appesa ad un nastro azzurro.
Così vestite e recando un imponente stendardo seguivano le processioni.
Si ricorda che in occasione del Giubileo del 1887, alla Esposizione Vaticana si poteva ammirare, tra
i doni della Diocesi di Vigevano, un camice ricamato, opera collettiva delle Figlie di Maria di
Dorno.
Gli ultimi verbali del sodalizio portano la data del 1946 e sono firmati dalla segretaria Teresa
Milanesi.
L'ultimo elenco delle associate é del 1967 e annovera ventisette socie. La solennità di questa
confraternita si celebra il 21 gennaio .
Anche le iscritte a questa Pia Unione alla loro morte venivano deposte nelle bare vestite di bianco.
TERZ'ORDINE FRANCESCANO
Fu istituito nel 1871. Raggiunse il numero di cinquecentocinquantanove iscritti. Vi aderivano
uomini e donne; queste ultime portavano nelle cerimonie un velo marrone e uno scapolare.
LE ROGAZIONI
A Dorno, e in Lomellina, fino agli anni Sessanta, erano ancora celebrate le Rogazioni, processioni
penitenziali istituite allo scopo di invocare la protezione e la benedizione divina sui campi, le
semine e i raccolti.
Si trattava di uno di quei rituali sacri che, pur trovando origine nel mondo pagano, pre-cristiano,
furono assorbiti dalla Chiesa fino dalla Sua nascita e entrarono a far parte delle liturgia ufficiale.
Le Rogazioni, con il canto delle Litanie dei Santi, sono la testimonianza storica che la Chiesa si
sforzò di sostituire al culto degli dei pagani quello dei Santi, affidando loro la protezione di
determinati settori delle attività lavorative del mondo contadino.
Le Rogazioni si svolgevano in due tempi: il 25 aprile (festività di S. Marco) e nei tre giorni
precedenti la festa dell'Ascensione.
Le Rogazioni, oggi, a causa di molteplici fattori, soprattutto della decadenza delle attività legate alla
terra e del mutamento delle abitudini sono pressoché cadute in disuso.
Lo svolgimento dei percorsi processionali risulta dai documenti e dalla tradizione orale essere molto
preciso, secondo un ordine ben definito.
La processione, formata dalle varie Confraternite e
Associazioni religiose e presieduta dal Prevosto, prima della
Messa, raggiungeva le cappelle e le croci poste ai punti
cardinali del paese: cappella del Buon Consiglio (via C.C.
Bonacossa), cappella di San Zino (via Zinasco), croce posta
all'incrocio tra via Vittorio Veneto e via Gabba, croce posta
oltre il ponte della Roggia in via Scaldasole, croce posta oltre
la Casa di riposo "San Giuseppe".
Il Prevosto aspergeva con l'acqua benedetta i campi circostanti
e deponeva due candeline legate, come una croce, nelle
cappelline o sulle croci, poi cantava per tre volte: "ut fructus
terrae dare et conservare digneris", i presenti rispondevano: "te rogamus audi nos".
Si ritornava poi nella Parrocchiale, sempre in processione, cantando le Litanie dei Santi, e dove
veniva celebrata la Messa, che costituiva parte integrante delle Rogazioni.
Un'altra liturgia propiziatoria, ancora oggi in vigore, é la "benedizione del tempo", quando, specie
in estate, si avvicinava il temporale; il sacerdote, al suono della campana, sul sagrato della Chiesa
Parrocchiale "benedice il tempo".
Perdura ancora oggi l'usanza, in caso di temporali estivi che minacciano grandine, di mettere in
cortile le molle e la paletta del focolare (moeia e barnas) stesi per terra a forma di croce.
Dino Laboranti
DORNO -APPUNTI STORICI
Comune di Dorno
Biblioteca Comunale
2° EDIZIONE 2001
4ˆ parte - I personaggi, i mestieri, i detti popolari
I PERSONAGGI, I MESTIERI, I DETTI POPOLARI
I SINDACI DALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA.
Da una lapide posta all'ingresso del Palazzo municipale, si può evincere l'elenco dei sindaci di
Dorno del Regno d'Italia alla seconda guerra mondiale.
I SINDACI DALLA LIBERAZIONE AI GIORNI NOSTRI
ELENCO DEI PREVOSTI
Da una lapide di marmo nero inserita nel basamento del primo pilastro a destra entrando nella
Chiesa Parrocchiale é stato possibile rilevare l'elenco (incompleto ) dei parroci di Dorno
PERSONAGGI DORNESI
Albonesi Teseo Ambrogio
Professore di diritto civile all'Università di Pavia; è ritenuto l'inventore dello strumento musicale
detto " fagotto".
Don Carlo Giuseppe Gabba
Professore di diritto canonico presso l'Università di Pavia.
Luigi Dessi
Discendente da antica e nobile famiglia; condusse acqua per irrigazione dal Novarese alla
Lomellina, costruendo un cavo che ancora oggi é chiamato "Cavo Dassi" e spendendo per
quell'opera la somma veramente imponente di lire cinquecentomila.
De Strada (o Strata)
Antica famiglia dornese, attuale proprietaria del castello di Scaldasole; risulta che possedeva terre e
abitazioni in Dorno fino dal 1247.
Illustre discendente da questa famiglia fu lo "spectabilis dominus Rainoldus", uno degli
ambasciatori pavesi che nel 1488 presentò al cardinale Ascanio Sforza il modello del nuovo duomo
di Pavia (un quadro del Faruffini nel Museo Civico di Pavia rappresenta la scena).
Don Luigi Galassi
Prevosto di Dorno continuò l'imponente opera di costruzione della Chiesa Parrocchiale iniziata dal
suo predecessore don Garbarini; fu brillante oratore, illuminato consigliere e sapiente direttore di
anime; morto in fama di santità ( gli fu eretto un monumento in Chiesa Parrocchiale e dedicata una
lapide in S. Rocco).
I Bonacossa
La famiglia Bonacossa ha legato il suo nome a una grande attività imprenditoriale a Dorno e in
Lomellina. Nel 1872 numerose filande nella zona furono assorbite dai grandi impianti dei fratelli
Bonacossa che davano lavoro a migliaia di operai e che cessarono la loro attività solo nel 1930,
quando comparvero sulla scena mondiale le prime fibre artificiali. Ai Bonacossa si deve anche la
realizzazione dello stabilimento "Cascami Seta" di Vigevano; in questo grande opificio, realizzato
dall'ing. Bonacossa, Deputato al Parlamento (1897-1903), si lavoravano i cascami della seta
(sottoprodotti dell'allevamento dei bachi, della trattura e della torcitura), che vi affluivano dalle
varie filande tramite un caratteristico gruppo di carrettieri. La famiglia Bonacossa, in seguito alla
cessazione delle attività e alla vendita delle vaste tenute agricole, ha investito il suo grosso
patrimonio nelle Terme di Montecatini e nell'editoria sportiva: ("La Gazzetta dello Sport" di
Milano).
Pietro Bonacossa
Era proprietario della filanda di via Cairoli per la trattura della seta (cavar la seta dai bozzoli);
l'opificio disponeva di una caldaia a vapore per centoventi bacinelle e occupava oltre
duecentocinquanta operaie; il ciclo produttivo era interamente manuale. La famiglia Bonacossa si
occupava anche dell'incannaggio della seta (avvolgere il filo sopra un rocchetto o pezzo di canna
tagliata tra due nodi successivi); anche questo secondo opificio occupava ottanta donne su ottocento
fusi per circa centocinquanta giorni all'anno. L'attività di questa industria terminò verso gli anni
Trenta. Pietro Bonacossa, nel 1867, fondò l'Asilo Infantile con l'intento di provvedere
all'educazione intellettuale e morale dei fanciulli dai tre ai sei anni di età; l'edificio era posto in via
Secondo Bonacossa (ora proprietà Sacco, nel cortile adiacente alla "Trattoria della Rosa').
Conte Cesare Bonacossa
Nel 1913 fece costruire su un terreno di sua proprietà in via Secondo Bonacossa
l'attuale Asilo Infantile con il vincolo della reversibilità della donazione ai suoi
eredi qualora l'assistenza e l'educazione dei bambini dell'asilo sia affidato a
persone che non siano suore, a qualunque ordine esse appartengano.
Di questa splendida istituzione, ancora oggi vanto di Dorno, si è già detto.
Comm. Primo Bonacossa
Nel 1905 fece edificare la "Casa di riposo" e l'annessa cappella dedicata al Sacro Cuore lungo il
viale del Cimitero (notizie su questa provvidenziale istituzione si possono trovare nell'apposito
capitolo).
Giuseppe Crotti
Sacerdote, nel 1777 fondava l'Opera di S. Giuseppe con il compito di distribuire l'elemosina ai
poveri, medicinali agli infermi e due doti annuali a fanciulle povere. A questo sacerdote é attribuita
l'istituzione della "minestra dei poveri", continuata dai Conti Bonacossa sino al 1930. La cucina era
sistemata in un grande locale al pianterreno del Palazzo ora occupato dal Bar Commercio nel lato
verso la Chiesa Parrocchiale. Si distribuivano fino a cento razioni calde al giorno.
Prevosto Passerini (1616-1618)
Per riscattare alcuni dornesi tenuti in ostaggio dagli spagnoli offrì tremila lire imperiali.
Prevosto Giacomo Garbarini (1840-1871)
Preso possesso della parrocchia di Dorno nel 1840, iniziò la costruzione dell'attuale grandiosa
Chiesa Parrocchiale.
Prevosto Luigi Galassi (1871-1892)
Nato a S. Giorgio Lomellina nel 1844; ordinato Sacerdote nel 1866 fu insegnate di filosofia e
teologia nel seminario di Vigevano. Alla morte del Parroco Don Giacomo
Garbarini nel 1871, a soli 27 anni, fu eletto Parroco di Dorno. Nel corso dei
21 anni di ministero nella nostra comunità, portò a termine le due navate
laterali con i relativi altari e la facciata. A lui si deve la costruzione del
Battistero usando come sostegno del fonte battesimale la base di marmo di cui
si è già detto. Sacerdote di esemplare modestie umiltà, rinunziò a posti
incarichi più alti affidatigli dal Vescovo Mons. De Gaudenti.
In una lettera ad un amico nel 1890 scriveva: "Io non ebbi alcun pensiero che
andasse oltre confini della mia Parrocchia, non ho mai aspirato ad altro
fuorché adempiere ai miei doveri di parroco e di terminare la mia Chiesa: la
lucciola sta bene in mezzo alle siepi".
Seguì con particolare cura le varie Associazioni Cattoliche locali, in modo particolare la
Confraternita di S. Rocco che lo volle ricordare con una lapide sulla colonna della Chiesa.
Morì santamente il 3 marzo del 1832.
La parrocchia gli dedicò un monumento nella Chiesa sul lato del campanile.
L'Amministrazione comunale gli intitolò la Piazzetta antistante la Chiesa Parrocchiale piazzetta
chiamata fino agli anni 60: Piazza Castello, in ricordo del castello, o casa-forte, demolito per far
posto alla chiesa attuale.
Prevosto Mons. Giuseppe Maroi (1892-1933)
Nato a Cava Manara il 21 dicembre 1860, compì gli studi ginnasiali nel Seminario di Vigevano
emergendo per pietà e ingegno; a Roma alla Università Gregoriana attese agli
studi di filosofia e teologia laureandosi a pieni voti. Ordinato sacerdote il 31
ottobre 1883, per le sue spiccate doti di intelligenza fu subito destinato prima
alla cattedra di lettere, poi anche a quella di filosofia nel nostro Seminario.
Nel 1892 fu nominato Prevosto Vicario Foraneo di Dorno e nel 1923 fu creato
Cameriere Segreto di Sua Santità. Modesto e umile di carattere, distinto nel
tratto, fu amato e stimato da tutti per i molteplici atti di carità compiuti in
silenzio.
Parroco per ben quarant'anni nella nostra Parrocchia curò con particolare
gusto il decoro della nuova Chiesa, provvedendo al pavimento di marmo e
dalla sistemazione di alcuni altari tra i quali quello della Madonna eretto a sue
personali spese (lì era conservato il Santissimo Sacramento).
Completò il concerto di campane, organizzò il Congresso Eucaristico
diocesano (8-11 settembre 1927) nel corso del quale recò a Dorno le reliquie
di S. Eufemia. Nel 1908 con la costruzione del salone dell'attuale Oratorio istituì a Dorno uno dei
primi Oratori della Diocesi. Durante la prima guerra mondiale si prodigò nell'opera di assistenza
alle famiglie dei chiamati alle armi e dai reduci nonché ai soldati austriaci prigionieri presenti a
Dorno e adibiti al lavoro dei campi. Oratore fecondo, rimasero memorabili nel tempo le sue
prediche, specie nel corso dei Quaresimali che vedevano la Chiesa gremita di fedeli. La sua
scomparsa avvenuta il 25 febbraio 1933, benché da tempo preannunciata da un male invincibile e
doloroso, segnò un grave lutto non solo per la nostra Parrocchia, segnò un grave lutto non solo per
la nostra Parrocchia ma per l'intera diocesi. Con Mons. Maroi venne a mancare una delle più alte e
venerate figure del nostro clero. A suo nome l'Amministrazione comunale, con delibera del
17/9/1981, ha intitolato una via.
Prevosto Giuseppe Panigatti (1933-1978)
Nacque a S. Giorgio Lomellina nel 1890, di umili origini, entrò tardi nel
Seminario di Vigevano dove ricevette l'ordinazione sacerdotale nel 1919.
Fu istruttore nell'Istituto Neuroni, quindi coadiutore a Frascarolo, dal 1921 al
1933 parroco ai piccolini di Vigevano tenendo nel contempo la cattedra di
lettere nel Seminario diocesano.
Nominato parroco e vicario foraneo di Dorno, fece il suo ingresso nella nostra
Parrocchia il 15 agosto 1933.
Sacerdote di grande cultura, modesto senza ostentazioni, largo nel sovvenire
alle più nascoste necessità, fu consigliere e predicatore sempre efficace.
In 34 anni di ministero vivificò e sorresse quanto di tradizionalmente valido era
in parrocchia; cultore di musica sacra costituì la prima "schola cantorum" che
diresse con gusto e competenza in tantissime occasioni anche fuori parrocchia, favorì il sorgere di
tutti i ramo dell'Azione Cattolica e ne seguì con affetto il lento ma robusto evolversi; terziario
francescano fondò in parrocchia il T.O.F.; aiutò la nascita del circolo A.C.L.I., locale e fu
fraternamente vicino al gruppo O.F.T.A.L., partecipò attivamente fino all'ultimo, nonostante le
precarie condizioni di salute, ai lavori delle associazioni e commissioni che si onoravano di
annoverarlo tra i loro membri, fu tra i fondatori del pensionato vecchio S. Giuseppe, sito nei locali
dell'ex Orfanotrofio femminile in Piazza Dante in cui visse gli ultimi dolorosi tre mesi della sua vita
dopo le dimissioni volutamente rassegnate per motivi di salute.
Al suo nome vanno legati la sistemazione dell'altare del S. Cuore, la decorazione dell'abside della
Chiesa Parrocchiale, il nuovo organo, la pavimentazione marmorea del Santuario della Madonna del
Boschetto e l'inizio del nuovo Oratorio per la gioventù di via Secondo Bonacossa.
Vogliano ricordare, tra le tante, due grandi manifestazioni religiose che stanno a testimoniare il suo
zelo pastorale e la sua attività: la solenne celebrazione per la "Madonna Pellegrina" ed il terzo
centenario dell'erezione del Santuario della Madonna del Boschetto con la incoronazione della
venerata effige mediante il prezioso diadema in oro e perle preziose.
Ma il Prevosto Don Panigatti sarà ricordato soprattutto per la sua umiltà, per la grande tolleranza,
per la profonda pietà, per le lunghe ore trascorse in chiesa davanti all'altar di Dio, per la continua e
sapiente presenza nel confessionale, per le visite agli ammalati e per certo suo modo arguto nel dire
che lo rendeva amabilissimo e apprezzato conversatore.
Nel periodo doloroso della sua vita, nella sofferenza fisica per il male che lo portò alla morte (2412-1967), ebbe la serenità e la rassegnazione dei forti. Per le sue benemerenze nel campo civile e
religioso, gli fu conferito dal presidente della Repubblica la croce di cavaliere e dalla
Amministrazione comunale di Dorno la medaglia d'oro e l'iscrizione dell'albo dei Cittadini
benemeriti. Nel 1981 gli fu dedicata una via.
Monsignor Pio Passerini
Nacque a Zinasco Vecchio il 6 gennaio 1866 dai coniugi Pietro e Francesca
Passerini, oriundi di Dorno. Passò la sua infanzia nel nostro paese e la
giovinezza nel Seminario di Vigevano. A vent'anni entrò nel Pontificio
Seminario dei S. Apostoli in Roma per consacrarsi alle Missioni, e, per
meglio prepararsi a questo difficile e complesso apostolato, oltre che a
sostenere una vita austera e santa, vi si dispose anche con lo studio,
frequentando l'Università Gregoriana e laureandosi con lode in Sacra
Teologia. Ordinato sacerdote nel 1888, partiva per la Cina, dove iniziava,
con l'entusiasmo che sempre lo distinse, un'intensa opera religiosa e sociale a
favore di quelle popolazioni.
A soli ventinove anni veniva eletto Vescovo e Vicario Apostolico di una
immensa provincia cinese: lo Scien-si meridionale. Anche elevato alla
dignità Episcopale non mutò il suo atteggiamento e tratto di semplice missionario; la bontà, l'umiltà
e la prudenza, unite alle opere di zelo e di carità, lo resero carissimo ai Cinesi, non solo ai già
Cristiani ma anche ai Pagani, e, tra questi, le stesse più alte autorità civili e militari si onoravano
della sua amicizia e a lui ricorrevano per consiglio.
Dopo una vita intensissima, addirittura febbrile, nel pieno di una attività pastorale che stava dando
copiosi frutti, veniva chiamato in Cielo nell'aprile del 1918 a soli cinquantadue anni.
Per ricordare questo benemerito figlio di Dorno, l'Amministrazione Comunale gli ha dedicato una
via del paese e nella Chiesa Parrocchiale gli é stato eretto un ricordo marmoreo che esibisce
degnissima iscrizione dettata dal Prevosto Mons. Maroi.
Biagio Canevari
Nacque a Dorno il 18 novembre 1864 da Antonio e da Perotti Giovanna; morì l'8 agosto 1925 nella
casa posta in via Asilo (ora via Secondo Bonacossa - ora proprietà Carelli).
Diplomatosi all'Accademia di Pittura di Brera, grazie al mecenatismo della famiglia dei conti
Bonacossa, si fece subito notare per le sue qualità d'artista, per la sua ottima conoscenza del
mestiere, per la sincera vena.
Espose a Milano, a Pavia, a Firenze.
In quest'ultima città, il suo quadro "Sfogliando riviste" fu ammirato e acquistato dal Re del Siam.
Fu soprattutto ritrattista, attento a cogliere lo spirito del soggetto con felice intuizione.
Nella vita fu modello di onestà, di operosità, assertore convinto dei suoi ideali e narratore sincero
dei sogni dell'artista.
Dotato di una tecnica originale, di intuito pronto, nemico della pedanteria anche in arte, ebbe il
merito di consacrare il meglio del suo impegno agli ideali della Religione, creando opere
ragguardevoli.
Schivo degli onori e altrettanto innamorato dell'arte, accettò riconoscimenti più per compiacere agli
amici e familiari che a sé.
Corretto nel disegno, più forte nel colore, profondo ed efficace nel chiaro-scuro, rivela nelle sue
opere tutta la misura di sé e del suo vivido ingegno.
Sue opere sono tutt'ora proprietà della figlia; altre si possono ammirare nel Palazzo del Comune di
Dorno, presso famiglie locali, nella Chiesa di S. Rocco e nella Parrocchiale.
Professor Pietro Curti
Nacque alla frazione Piccolini di Vigevano il 20 novembre 1853 da Eugenio e Giuseppina Scarlatti.
Giovane, perse il padre e si ritirò con la madre, i tre fratelli e la sorella a Mortara dove, con sacrifici
e studiando da privatista indefessamente, conseguì il diploma magistrale nel 1872.
Insegnò per qualche anno a Mortara: nel 1875 fu nominato insegnante nella Scuola Elementare di
Dorno e così iniziò la sua lunga carriera scolastica.
Pochi anni dopo, nel 1878, conseguì a Milano il diploma di professore di francese, nel 1882 quello
di insegnante di educazione fisica e nel 1896 quello di Direttore didattico. Gli fu affidato l'incarico
della direzione delle scuole di Dorno, carica che tenne sino al luglio 1915, quando si ritirò
dall'insegnamento date le precarie condizioni di salute: nel 1912 aveva perduto la figlia diletta
Giuseppina e il suo cuore aveva subito un duro colpo che lo portò alla morte nel 1918.
Si dedicò all'insegnamento con cuore di apostolo, curando ogni aspetto dell'attività scolastica.
Promosse l'istituzione della biblioteca scolastica; fondò in Dorno una fiorente sezione della
Mutualità scolastica, istituì corsi serali per gli adulti; donò alle scuole di Dorno un ricco museo di
minerali, di rare quantità di legno , di fossili, di fibre tessili, promosse e favorì la costruzione del
nuovo edificio scolastico.
Soprattutto, con l'esempio e con la parola insegnò l'amore per la Patria. Lasciò nei suoi alunni un
ricordo imperituro per la sua bontà, per il metodo d'insegnamento semplice, accessibile a tutti, così
da rendere facile l'apprendimento ai suoi scolari tutti.
Di lui si ricordano specialmente le lezioni di storia e di scienze. Nel 1915 all'inizio della Grande
Guerra, ritiratosi dall'insegnamento, si dedicò all'assistenza delle famiglie dei richiamati e con gli
scolari diventati soldati intrecciò sino alla fine della guerra, una corrispondenza affettuosa.
Le sue lettere erano conservate dai soldati con gelosa cura e spesso venivano ritrovate nello zaino di
soldati caduti; a Lui i cappellani comunicavano le luttuose notizie che egli trasmetteva, con dolore
infinito, ma con tanta comprensione e affetto alle famiglie colpite negli affetti più cari.
Fu insignito della medaglia di bronzo per i benemeriti della scuola e poi di quella d'oro per i
quarant'anni d'insegnamento.
Morì il 30 novembre 1918, lieto d'aver potuto vedere la vittoria dell'Italia per la quale aveva saputo
suscitare nei suoi molti alunni sentimenti di amore e di devozione.
Roberto Cordara
Roberto Cordara, nato a Cozzo Lomellina l'8 marzo 1925 e residente in Dorno alla cascina S.
Maria, appartenente al 2° battaglione del Genio Pionieri, fu fucilato il 27 marzo 1945 a Cavaion
Veronese in seguito a condanna per diserzione inflitta dal tribunale di guerra del Ministero della
Difesa della R.S.I..
La sentenza fu eseguita dopo la decimazione di quaranta giovani militari bloccati dai nazifascisti nel
corso di un rastrellamento nei pressi di Peschiera (lago di Garda).
La fucilazione avvenne alle 15,30 del 27 marzo 1945, martedì prima di Pasqua, in una giornata
sferzata da un vento gelido, in una vigna presso Cavaion.
Il parroco di Cavaion, don Tamellini, assistette alla esecuzione dopo aver inutilmente cercato con
ogni mezzo di salvare i quattro ragazzi estratti a sorte dal numero dei quaranta arrestati; li confessò,
ricevette le poche cose che ogni soldato custodiva e diede ad ognuno un bacio a nome delle loro
mamme.
Dopo l'esecuzione i corpi dei quattro ragazzi furono trasportati al camposanto di Cavaion e qualche
tempo dopo la Liberazione le salme furono traslate nei rispettivi luoghi di origine.
Il 15 luglio 1945, il Sindaco Giuseppe Laboranti, aderendo alla richiesta del Comitato di
Liberazione di Dorno, composto dal Dr. Avakian, da Lorini, Franchini, Ansaldi, Francalanza,
Passuello e Milani, con deliberazione n.47, intitolava al nome di Roberto Cordara l'antica via
Chiusa.
Giuseppe Picco
Di famiglia contadina, fu combattente della Guerra 1940-45. Nell'immediato dopoguerra si
interessò dell'assetto sociale di Dorno che stava lentamente muovendosi nel senso delle aspirazioni
e dei bisogni del proletariato rurale costituito da braccianti, salariati e obbligati che più avevano
sofferto e pagato nel periodo bellico.
In unione con un gruppo spontaneo non organizzato, diede vita alla "Cooperativa di consumo del
popolo" di Dorno, primo punto di incontro di uomini di fede socialista e comunista che, in
occasione della prima consultazione elettorale amministrativa del dopoguerra (14 Aprile 1946),
presentò una lista composta da candidati socialisti e comunisti.
La lista ottenne la maggioranza dei voti e Giuseppe Picco fu eletto Sindaco.
Il suo mandato fu caratterizzato da un forte impegno per la soluzione dei tanti problemi connessi
con la ripresa della vita democratica, dalla costante disponibilità per quanti si rivolgevano al
Comune e dalla capacità di equilibrio nella valutazione e nella interpretazione della difficile fase
amministrativa locale, cui diede un essenziale apporto efficace per la maturazione della coscienza
civica di Dorno.
Annibale Cerri
Segretario del Comune di Dorno per oltre trent'anni, fu uomo di grande rettitudine e di alto senso
del dovere.
Giuseppe Laboranti (Dorno 1895 - 1974)
Fu il primo Sindaco di Dorno dopo la Guerra 1940 - 1945; ricevette i poteri dal C.L.N. e
amministrò il Comune per un anno fino alle prime elezioni amministrative alle quali non si presentò
candidato.
Di antica famiglia di coltivatori diretti e di solide tradizioni cattoliche, assunse la carica di Sindaco
in un periodo di gravi tensioni ideologiche e sociali, riuscendo in forza del suo prestigio a
controllare la situazione ed evitando l'insorgere di estremismi.
La profonda fede religiosa e la capacità di stare al di sopra delle parti fu la base della sua azione tesa
alla ricostruzione morale e sociale del nostro paese.
Cesare Padova (Dorno 1875 - 1944)
Sindaco nel difficile periodo della Prima Guerra Mondiale (1915-1918), dimostrò doti di giustizia e
di umanità gestendo con imparzialità gli aiuti alle famiglie che avevano i familiari al fronte. Di fede
socialista, rappresentò validamente il popolo, sostenendolo nelle lotte per la giustizia e il progresso.
I PERSONAGGI, I MESTIERI, I DETTI POPOLARI
CITTADINI BENEMERITI
Gr. Uff. Prof. Eugenio Curti
Dornese di origine, insigne radiologo a cui il Ministero della Sanità ha conferito alta onorificenza in
riconoscimento dei suoi elevati meriti di studioso e dei sacrifici e dolorose mutilazioni subite
consciamente a profitto del progresso scientifico, che con tanta nobiltà d'animo e con stoico
sacrificio ha saputo e voluto dare il meglio di se stesso per il bene dell'umanità sofferente
(deliberazione del Consiglio comunale n° 56 del 26/09/1965).
Comm. Antonio Farina
Ha creato per primo nel dopoguerra una sua azienda industriale concorrendo ad alleviare le
preoccupazioni economiche di questa laboriosa popolazione, dando lavoro a 130 operai
(deliberazione del Consiglio comunale n° 56 del 26/09/1965).
Giorgio Riccagni
Industriale con il concorso anche degli altri membri della famiglia ha acquisito il merito di creare in
Dorno una delle più grandi industrie della Provincia occupando 400 unità lavorative con grande
apporto allo sviluppo economico della comunità (deliberazione del Consiglio comunale n° 56 del
26/09/1965).
Insegnante Irma Beccaria
Maestra elementare con oltre 40 anni di servizio di opera intensa, onesta e generosa data alla scuola
e alle organizzazioni che affiancavano la scuola, patronato scolastico, refezione scolastica e dalle
opere assistenziali comunali, comitati ECA e di beneficenza, dimostrando un particolare
attaccamento alle attività di formazione di una sana gioventù conscia del senso amore del proprio
dovere (deliberazione del Consiglio comunale n° 56 del 26/09/1965).
Cav. Don Giuseppe Panigatti
Prevosto Vicario Forano di Dorno che lasciò volontariamente l'incarico di parroco dopo 34 anni di
attività intensa ed operosa svolta nel Suo alto Ministero, e durante il quale ha sempre collaborato
con la civica Amministrazione negli eventi lieti e tristi ed in particolar modo per il buon
funzionamento degli Enti ed Istituti Assistenziali (deliberazione del Consiglio comunale n° 28 del
3/10/1967).
Suor Ermanna Patroni
Promotrice dell'Ente Morale Casa di Riposo San Giuseppe di Dorno conosciuta per spirito di
intraprendenza, sacrificio e dedizione evidenziato in più di 50 anni di operosa ed umana attività a
favore dei poveri fra i più derelitti. Le opere che essa ha lasciato sono la prova del suo operare tanto
più meritorio quanto più utile e silenzioso (deliberazione del Consiglio comunale n° 48 del
19/12/1975).
Geom. Comm. Giovanni Biscaldi
Integerrima figura dotata di alte qualità morali ed umane, di grande preparazione professionale
promotore e protagonista dello sviluppo sociale ed economico di Dorno. Sindaco del Comune di
Dorno per ben 19 anni (deliberazione del Consiglio comunale n° 16 del 23/03/1979).
Maestro Secondo Laboranti
Storico della realtà locale, bibliotecario per 35 anni instancabile educatore ha raccolto in sé le
migliori qualità di appassionato divulgatore di cultura, insignito di medaglia e pergamena
(deliberazione di Giunta comunale n° 136 del 30/11/1976).
Prof. Mario Romeo Viganò
Cardiochirurgo di fama mondiale pioniere dei trapianti di organi in Italia, svolgendo altresì
meritorie opere di assistenza con evidente e non trascurabile personale sacrificio ed impegno a
favore dei cardiopatici di Dorno e dell'Italia intera (deliberazione del Consiglio comunale n° 62 del
23/07/1984).
Dott. Angelo Lunghi
Ha svolto fattiva e disinteressata attività in seno alla Casa di Riposo San Giuseppe di Dorno
ininterrottamente dal 1949 (deliberazione del Consiglio comunale n° 110 del 27/07/1988).
Ignazio Di Sano
Industriale, che con intelligenza, ferma volontà e dedizione assoluta al lavoro, ha creato dal nulla,
e quindi sviluppato in Dorno, in un continuo crescendo, la prima azienda nazionale del settore. Il
riconoscimento per particolare e fondamentale apporto in 20 anni di presenza dato lo sviluppo
economico del nostro paese, assicurando direttamente l'occupazione di oltre 500 persone
(deliberazione del Consiglio comunale n° 75 del 10/12/1999).
Massimo Besostri
Imprenditore, ha portato in Italia e nel mondo il prodotto della genialità e operosità locali per
l'intelligente capacità imprenditoriale in una azienda quotata a livello internazione ed evidenziatasi
nel promuovere in oltre 20 anni di attività lo sviluppo economico nell'ambito della nostra
popolazione dando lavoro a 340 persone (deliberazione del Consiglio comunale n° 75 del
10/12/1999).
Dott. Battista Padova
Insignito di medaglia d'oro alla memoria in riconoscimento della dedizione con cui ha operato
nella comunità come medico condotto e della disponibilità con cui volontariamente ha sempre
prestato la sua opera di assistenza (deliberazione del Consiglio comunale n° 75 del 10/12/1999).
Estorti Eugenia
Insignita di medaglia d'oro alla memoria in riconoscimento dell'opera prestata in qualità di
ostetrica comunale e soprattutto per le sue doti umane che la rendevano sempre pronta ad
intervenire in favore di una nuova vita (deliberazione del Consiglio comunale n° 75 del
10/12/1999).
Rina Cerri
Insignita di medaglia d'oro alla memoria in riconoscimento dello spirito caritativo ed umanitario
che l'ha sempre resa presente e disponibile in modo silenzioso e prezioso a favore di chi era solo
ed in necessità (deliberazione del Consiglio comunale n° 75 del 10/12/1999).
Tutti i predetti benemeriti hanno costituito e costituiscono punti di riferimento per tutta la
cittadinanza.
CITTADINI ONORARI
Comando truppe alpine
Ex IV corpo d'armata alpina in ragione dell'attività svolta per onorare la nostra nazione con grande
intraprendenza e indomito coraggio, sempre tendendo a far prevalere sentimenti di solidarietà ed
amore per l'uomo, portatrici di pace e sicurezza là dove serviva (deliberazione del Giunta comunale
n° 209 del 18/07/1997).
Rosalino Cellamare in arte Ron
Notissimo cantautore, vincitore del Festivalbar, del Festival di Sanremo, autore di numerosissime
canzoni portate al successo anche da altri, di animo sensibile, conosciuto e apprezzato nel campo
della musica con oltre 30 anni di attività artistica. Notissimo altresì il suo impegno a favore dei più
deboli (deliberazione del Consiglio comunale n° 45 del 24/07/2001).
Marco Lodola
Artista della corrente neofuturismo, notissimo in tutto il mondo nativo di Dorno conosciuto ed
apprezzato nel campo della scultura di cui è attualmente uno dei massimi esponenti mondiali.
Apprezzato altresì per le sue collaborazioni con noti artisti della musica leggera, 883 e Timoria
(deliberazione del Consiglio comunale n° 45 del 24/07/2001).
CATEGORIA DEGLI AGRICOLTORI
Ricordati pubblicamente con pergamene nel dicembre del 2000 per l'incessante attività svolta a
tutela della natura e della collettività di Dorno.
LE A.C.L.I.
Nel 1954, nel periodo delle lotte sindacali, mentre il mondo cattolico sembrava estraneo ai problemi
del lavoro, a Dorno, grazie all'impegno del curato don Peppino Mezzadra e del geom. Walter
Damiani, nascevano le ACLI (Associazione Cattolica Lavoratori Italiani).
Sorto col sostegno del prevosto Don Panigatti e stimolato dall'entusiasmo di altri curati che si sono
succeduti in paese: (Don Ermete Rolandi, Don Franco Torrazza, Don Giuseppe Moro) , il Circolo
ACLI si distinse subito per il suo attivismo rivolto alla solidarietà tra i lavoratori.
Il Circolo, che raggiunse i cinquecento iscritti, divenne il fulcro della azione sociale e politica della
nostra Comunità e un riferimento per l'intera provincia.
La prima sede fu un locale comunale adiacente alla "Cooperativa di consumo del popolo" in Piazza
XI Febbraio; il bar era gestito dagli stessi soci.
Il Circolo ebbe un primo lancio in paese con il televisore avuto in dono dall'allora cardinale di
Milano mons. Montini, poi Papa Paolo VI. La televisione allora a Dorno fu una novità.
Nel 1957 il Circolo si trasferì nella nuova sede in Piazza San Rocco; la molteplice attività si
articolava in diversi settori: la gestione del Cinema Oratorio parrocchiale, la prima squadra di calcio
giovanile, l'organizzazione di dibattiti, i giochi popolari in piazza, le gite sociali, l'assistenza alle
mondariso forestiere, i corsi di formazione per muratori, il servizio di patronato, l'organizzazione
della prima "Festa del lavoro".
In ogni strada del paese vi era un attivista impegnato a seguire i problemi di ogni famiglia di
lavoratori.
Gli uomini delle ACLI erano presenti in tutti i momenti della vita comunitaria: dalla
Amministrazione comunale agli Enti e Associazioni esistenti in paese.
Molti aclisti di Dorno furono inseriti anche nelle alte cariche dirigenziali del movimento a livello
provinciale e regionale; per circa venti anni la storia delle ACLI di Dorno fu tutt'uno con quello
della nostra Comunità.
Delle molte testimonianze offerte dalle ACLI al nostro paese si ricorda l'azione di solidarietà offerta
alle famiglie arrivate a Dorno dopo la tragica alluvione del Polesine e l'impegno organizzativo per
portare i lavoratori di Dorno a Milano presso la Ditta Ricagni con la clausola , poi soddisfatta dal
titolare, di trasferire in Dorno la fabbrica.
Il circolo ACLI fu sciolto negli anni Settanta quando le dirigenze provinciali e nazionali scelsero
una strada che apparve non più coerente con la matrice ideale che li aveva ispirati.
CURIOSITÀ
via Campo del Frate
Antica denominazione di un vasto campo allora al confine del paese, verso Zinasco, una volta
proprietà Rossi, lottizzato nell'ultimo dopoguerra. La denominazione ricorda che qui, nel secolo
scorso, era solito sostare col suo cavallo e col carretto un frate francescano che periodicamente
passava da Dorno e in altri paesi della Lomellina per la questua: di meliga, frumento, fagioli, riso,
per la mensa dei poveri dei conventi di Varzi e di Alessandria.
La raccolta del "nitro" (salnitro)
Un curioso dato storico su un'impensata attività industriale di Dorno lo abbiamo trovato su un
vecchio annuario, il quale indicava la raccolta del "nitro" come un attività particolarmente fiorente
nel nostro paese .
Quel documento riporta infatti che il "nitro" si può considerare come il principale prodotto minerale
della Lomellina, ottenendosi in grande quantità abradendo i vecchi muri, specialmente nelle cantine
e nelle stalle.
Dalla scopatura e dalla raschiatura dei muri, nel 1843, si ottenne una tale quantità di salnitro che
dalla Lomellina ne furono mandati a Torino ben 2000 rubbi (un rubbo = circa 19 chilogrammi).
Tale sostanza era usata per la produzione di concimi ed esplosivi.
Antiche misure locali per aridi
Nomi di monete
Lavatoi
Il Comune di Dorno fino agli anni Cinquanta provvide a mantenere efficienti gli antichi lavatoi
pubblici ubicati sulla sponda della Roggia, in tre punti del paese: in via Scaldasole, in via Roggia e
in Piazza Curti. A questi lavatoi (i guà ad la rusa) le donne portavano con la carriola i panni da
lavare o solo da sciacquare (arsintà i pagn).
Durante il periodo dell'asciutta della Roggia, per l'annuale pulizia, verso la metà di marzo, erano
molti i ragazzi che, già a piedi nudi, cercavano nelle pozzanghere pesci, in verità piccoli, ma
gustosissimi perché provenienti dalle limpide acque del Terdoppio.
Auto e moto
La prima automobile posseduta da un Dornese fu l'Augusta acquistata da Paiè (Pagliari), mediatore
di granaglie, abitante in via Marconi.
Altre automobili erano di proprietà del Sig. Cecchi, fittabile della cascina Boschetto, dal Sig.
Vittadini, fittabile della cascina Taccona.
La prima motocicletta fu acquistata dal Geom. Mario Cervio.
Il bucato
I panni sporchi venivano posti in grandi mastelli, quindi coperti con uno spesso telo che sosteneva
uno strato di cenere di legna, soda e saponina; infine vi si versava sopra acqua bollente. Dopo
alcune ore, il bucato, su apposite carriole, veniva portato a sciacquare nell'acqua della Roggia, nei
guadi ricavati in via Roggia, Piazza Curti e via Cairoli.
Lunedì dell'Angelo – Pasquetta
Il Lunedì di Pasqua si faceva l'annuale pellegrinaggio al Santuario della Madonna delle Bozzole di
Garlasco. Carretti attrezzati con panche e sedie, tirati da cavalli, portavano al Santuario intere
famiglie che, dopo la visita alla Madonna, comperavano per i piccoli i "brusadè", ciambelle infilate
intorno a uno spago, e per i grandi i "filou", castagne cotte al forno cucite insieme con molta abilità.
ALCUNE DATE
Mercati e fiere
Al lunedì da tempo immemorabile si tiene il mercato.
La fiera di merci e bestiami si svolgeva fino al 1954 in Piazza Dante; il penultimo lunedì di marzo e
il 2 novembre (questa era detta "la fiera dei morti").
Sagra di S. Anna: il 26 luglio o la domenica seguente.
Festa Patronale: la seconda domenica di ottobre.
Il gioco della "lipa"
Il tempo della "lipa" era l'autunno; si preparava un pezzo di legno lungo circa mezzo metro e un
pezzetto più corto lungo una spanna; a quest'ultimo si facevano due punte e il gioco era pronto. Il
gioco richiedeva uno spazio abbastanza esteso per evitare di colpire i vetri delle finestre o i passanti.
Si tracciava un cerchio, si metteva la "lipa" nel mezzo, si batteva col bastone sulla punta e la "lipa"
saltava; mentre essa era aria bisognava colpirla al volo e lanciarla più lontano possibile. Se l'altro
giocatore, appostato a una certa distanza, non riusciva a prenderla con le mani al volo, si contavano
i passi fino ad arrivare dove era caduta. Se invece l'avversario riusciva a prenderla al volo, doveva
tirarla nel cerchio e quello che l'aveva lanciata doveva parare col bastone.
Quando la "lipa" colpiva qualche finestra, in un secondo tutti i bambini si eclissavano nei cortili
vicini.
La "pocla" "sciatéla" "alt e bas"
Un gioco pressoché uguale era il gioco della "pocla", costituito da una biglia di legno; come nella
"lipa" era colpita con un bastone e scagliata lontano. Il punteggio veniva calcolato in base alla
distanza misurata con il bastone; vinceva il giocatore che riusciva a prenderla al volo.
Altro gioco, in autunno, era la "sciatéla": si ponevano a una certa distanza i noccioli di pesca (in
ogni vigna c'erano peschi dai frutti piccoli e saporiti) che venivano centrati da lontano da due dischi
ricavati dalle estremità tagliate via dell'anguria.
In inverno poi, quando l'acqua gelava nella cunetta della strada (non esistendo fognatura, le acque
piovane e di scarico defluivano sulla pubblica via, e da qui nel colatore comunale all'aperto), i
ragazzi si cimentavano in gare di velocità su queste improvvisate piste ghiacciate: la scivolata si
chiamava "la sghiarola". I più fortunati possedevano una "slita" o " slitei".
Altri giochi: saseta, quic e quac, burei, topa, alt e bas.
Elenco dei mestieri
Gente che lavorava in cascina
Divertimenti
Anteriormente alla Prima Guerra Mondiale le feste danzanti erano organizzate nella saletta della
Società di Mutuo Soccorso in Piazza Dante (ora proprietà Lino Crotti). Nei mesi estivi, invece, si
ballava nelle aie con l'organetto o con la fisarmonica, oppure, in occasione delle due sagre del
paese (S. Anna, la seconda domenica di ottobre) nel "ballo pubblico" in Piazza Dante, in Piazza
Bonacossa o in quella di San Rocco; si trattava di una pista circolare di legno coperta da un
tendone variopinto.
Negli anni Venti fu adibito a sala da ballo anche il salone di Piazza Bonacossa incorporato nel
Palazzo che ospita il Municipio (ora sede dell'Ufficio Postale). In questa sala, composta da un
atrio, da una platea e da una balconata, si proiettarono i primi film muti.
Nel salone parrocchiale, adiacente all'Oratorio, voluto dal prevosto Mons. Maroi, si tenevano
spettacoli teatrali interpretati da attori dilettanti dornesi; in seguito questo locale divenne sala
cinematografica.
Con l'avvento del cinema scomparvero gli spettacoli teatrali portati sulle piazze dei nostri paesi da
famiglie girovaghe che presentavano drammi o commedie per il grosso pubblico; si trattava di
opere in tre o quattro atti conclusi da una farsa finale.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nelle sere estive si ballava nelle "balere" al suono di
orchestrine e, a volte, anche di importanti complessi, quali le Orchestre Angelini, Barzizza,
Moietta, Zuccheri.
La prima balera fu organizzata davanti alla Trattoria Cerri in via Roma; poi si danzò al "Verde
Luna" in via Cairoli, infine all'"Arlecchino" in Piazza Bonacossa.
Il vecchio
"peso pubblico"
Personaggi, i Mestieri, i Detti Popolari
MESTIERI SCOMPARSI
Strasè
Passava settimanalmente con il carretto e acquistava da privati stracci, ossi, rottame di ferro. Pagava
generalmente con pezzi di sapone, olio, candeggina, stoviglie.
L'attività, nonostante l'apparenza dimessa di coloro che la svolgevano, era piuttosto lucrosa.
Magnan
Era un artigiano ambulante che girava in paese a raccogliere pentole e attrezzi da cucina da riparare
e da stagnare. Lo stagno, che è un metallo malleabile, veniva fuso con facilità al fuoco acceso dal
"magnan" sotto il portone di qualche cortile ospitale o a ridosso della chiesa di San Rocco.
Umbralè
Venivano quasi tutti dalla zona del Lago Maggiore, riparavano ombrelli; dormivano nei fienili o
nelle stalle.
Anche questo mestiere, umile, ma prezioso, é ora scomparso.
Mulita
Era un artigiano di grande utilità. Erano numerosi fino agli anni dell'immediato dopoguerra; sono
andati via via scomparendo, scacciati dal "boom" economico che ha prodotto coltelli a buon
mercato.
Oggi qualcuno è tornato a gridare per le nostre strade "mulita, mulita" ed è dotato di attrezzature più
complesse.
Murné
Mugnaio, passava un paio di volte la settimana con il carretto trainato dal cavallo, ritirava i sacchetti
di meliga o di frumento da macinare nei due mulini di via Roggia o della Folla, in prossimità della
cascina Menocca.
Inciuè
Venditore di acciughe e salacche essiccate, indossava sempre tipici pantaloni di fustagno verde,
passava tirando un carrettino carico di mezze botticelle di pesce dall'inconfondibile odore
stuzzicante.
Maiè
Magliaio, passava nei cortili sorreggendo con robuste bretelle due grosse ceste di vimini, una
davanti, l'altra dietro, vendeva biancheria intima di lana e di cotone.
Sminsè
Venditore di sementi, portava sulle spalle due sacchi contenenti tanti piccoli sacchetti di svariate
sementi da piantare negli orti.
Cadrighè
Si fermava a Dorno generalmente il lunedì, giorno di mercato; passava per le strade, raccoglieva le
sedie da impagliare e riparare, sedeva all'ombra, in un angolo fresco all'inizio di via Cairoli , e, con
destrezza ed abilità straordinarie, con pochi attrezzi, portava a termine il suo lavoro.
L'attuale Piazza Dante Alighieri
SOPRANNOMI
Molte persone, specie nel passato, erano chiamate spesso più con il loro soprannome che con il loro
cognome.
L'uso dei soprannomi si perde nella notte dei tempi e non è altro che il perpetuarsi dell'antichissima
soluzione trovata alla necessità di dare un nome: ciò accadde quando gli uomini cominciarono a
vivere in rapporto tra di loro.
Molti di questi appellativi sono poi diventati cognomi.
Il soprannome è passato a volte anche agli altri membri della famiglia e agli eredi, individui magari
del tutto privi delle caratteristiche da esso indicate, o che ne hanno addirittura di opposte. Qualche
volta il soprannome è poco dignitoso, ironico, ridicolo, a volte offensivo.
L'identificare una famiglia o una persona tramite il soprannome è ancora in uso a Dorno solamente
nell'ambito delle famiglie che vantano le più lontane origini dornesi.
L'uso del soprannome sta comunque scomparendo dalla nostra parlata.
ANTICHI SOPRANNOMI DORNESI
LA FESTA PATRONALE
Fino alla metà del secolo scorso la festa patronale cadeva il 24 agosto, San Bartolomeo, il Santo
Apostolo cui era dedicata la nostra Chiesa Parrocchiale. (S. Bartolomeo con S. Materno sono
rappresentati difatti nell'affresco dell'altare maggiore della chiesa parrocchiale)
Era questo un periodo di scarso lavoro nei campi, di attesa del raccolto della meliga, del riso, delle
castagne e dell'uva; era soprattutto il tempo in cui si aspettava di far vendemmia, in seguito anche
all'esaurirsi della scorta di vino nostrano che ogni famiglia manteneva al fresco della cantina.
Fu allora avanzata da più parti la proposta di spostare la data della festa patronale, onde avere a
disposizione oltre il vino nuovo, indispensabile per rallegrare la tavolata del giorno di festa e per
accompagnare le castagne, altro prodotto tipico di Dorno.
La data venne fissata allora, e permane tuttora, alla seconda domenica di ottobre.
LA SAGRA DI SANT'ANNA
La sagra di Dorno, detta di Sant'Anna, ricorre alla fine di luglio; la Chiesa, difatti, il 26 luglio
ricorda S. Anna, il cui matrimonio con S. Gioacchino fu allietato, in età avanzata, dalla nascita di
Maria, la Madre del Signore.
Il suo culto ebbe inizio in Oriente nel secolo VI e nel 1548 fu esteso a tutta la Chiesa Cattolica.
S. Anna é venerata come protettrice delle gestanti e partorienti; é stata cantata nella antica poesia
popolare ed é rappresentata nelle immagini e nei dipinti nell'atto di insegnare a leggere alla
Madonna.
Nel Santuario della Madonna del Boschetto, nel 2° altare di destra, si può ammirare un affresco che
raffigura S. Anna e la Madonna nella S. Casa di Nazaret; davanti a questo altare le mamme in attesa
accendono lumi e offrono fiori.
La sagra di S. Anna é nata, probabilmente, per ricordare la fondazione o la consacrazione del nostro
bel Santuario.
La festa, che fino agli anni Cinquanta era limitata alla domenica e al lunedì con il ballo pubblico in
piazza, qualche bancarella, un'altalena e il tiro al bersaglio, é via via andata assumendo una
dimensione che ha superato gli angusti confini locali, poiché è entrata nell'ambito delle
manifestazioni del "Luglio Dornese", organizzate dall'Amministrazione comunale con la
collaborazione di Enti e Associazioni.
Prima della Guerra 1915 -1918, per la sagra di S. Anna, anche il viale che porta al Cimitero ed il
piazzale davanti al Santuario erano meta degli ambulanti che esibivano le loro bancarelle di
dolciumi e di giocattoli.
RE FASULEI
Nel corso delle annuali manifestazioni in occasione del Carnevale dornese, organizzato dalla "Pro
loco", al termine della sfilata dei carri allegorici e del corteo regale, "Re fasulei" si affaccia al balcone
del Palazzo del Comune e legge il tradizionale proclama in cui vengono commentati in chiave
umoristica fatti salienti accaduti nel corso dell'anno nell'ambito della Comunità.
Il proclama é steso in dialetto e la sua lettura suscita sempre ilarità.
"Fasulei" era chiamato all'inizio del secolo un foglio scritto a mano da un bello spirito dornese, e che
periodicamente veniva affisso al portone di legno che dà accesso ad un cortile di piazza Bonacossa
(cortile Boiocchi, Cremona, Torti, Cerri) con notizie, indiscrezioni, commenti, pettegolezzi sulla vita
di compaesani e su avvenimenti locali.
In paese allora si diceva "roba da fasulei" per indicare notizie non sempre attendibili, malignità, ecc.
"Re fasulei", assurto a maschera locale, vorrebbe riallacciarsi a questo foglio - notizie, espressione di
uno degli aspetti tipici della nostra gente.
"Fasulei" (fagiolino dell'occhio) é un piccolo legume che si coltiva nei terreni aridi, tipici delle nostre
vigne e dei nostri dossi. Questo fagiolino era usato nei risotti e nelle insalate, unitamente alla cipolla;
era simbolo di cosa semplice, piccola, ma particolarmente sapida, gustosa.
SPORT A DORNO
Nel 1931, per iniziativa del Podestà L. Bosisio, iniziò la sua attività il primo sodalizio sportivo che
prese il nome di: "Associazione Calcio - Dorno". I giocatori portavano calzoncini neri, maglietta
bianca con uno scudo azzurro sul petto.
Il primo campo sportivo sorse in via Garlasco, in un terreno davanti al garage - autorimessa Cuzzoni
e Gilona.
Nel 1940 il campo sportivo fu trasferito in via Zinasco, dopo la proprietà Prandelli; la Società si
chiamò "Unione Sportiva - Dorno". I giocatori portavano calzoncini neri e maglia a strisce nero azzurre.
Nel 1945 il campo sportivo subì un altro trasferimento sulla provinciale per Gropello, in un terreno di
proprietà Cuzzoni; dopo qualche anno trovò posto in via Roggia, quindi fu definitivamente allestito in
via De Gasperi (1965), è intitolato al nome del noto sportivo dornese Angelo Lunghi che dello sport,
e del calcio in particolare, fece la ragione della sua vita.
Sempre rimanendo in ambito sportivo, dobbiamo ricordare che Dorno ebbe una squadra di
pallacanestro che nel 1935 vinse il campionato provinciale battendo le formazioni del Pavia, del
Vigevano, del Voghera e del Mortara.
Il campo di pallacanestro era situato nel cortile della Scuola elementare.
ASSOCIAZIONI
AVIS - Associazione Volontari Italiani del Sangue
AIDO - Associazione Italiana Donatori di Organi
L'AVIS di Dorno è nata il 12 settembre 1969 per iniziativa di un gruppo di donatori di sangue che ha
proceduto alla nomina del primo Consiglio direttivo composto da Davide Perotti Presidente, Davide
Signorelli, Laboranti Gian Maria, Polizza G.P. e Crotti M. Segretario, dando inizio anche in paese
alla lunga serie di giornate per la raccolta del sangue.
Nel 1978 con il rinnovo del Direttivo è subentrato alla presidenza E. Augelli e nel 1981 il dott.
Teresio Repossi che nel 1985 ha voluto consociare AVIS e AIDO in un'unica associazione poiché
solo chi dona generosamente il proprio sangue può intuire il valore di donare anche i propri organi
per la salvezza di chi solo in questo modo può riavere la vita.
PRO LOCO DORNESE
Costituita nel 1976 è una associazione apolitica, avente lo scopo di promuovere la conoscenza, la
tutela , la valorizzazione delle risorse ambientali, storiche, culturali, l'organizzazione di attività
ricreative, fiere, turismo, iniziative atte a potenziare lo sviluppo sociale e la partecipazione alla vita
comunitaria del paese.
Il Primo Consiglio direttivo fu costituito da:
Signorelli Pietro. Presidente;
Dott. Cucchi A. vice presidente;
Orti G. e da una decina di consiglieri a cui segui dopo alcuni anni quello fornito da:
Signorelli P.
Perotti G.
Del Bò L.
Respighi L.
Attualmente è presieduta da Balzi Paolo, con un folto e attivo gruppo di collaboratori.
Degni di memoria le manifestazioni in occasione del Carnevale con carri allegorici e sfilate in
costume, le serate gastronomiche, la Sagra di Sant'Anna con l'importante fiera di merci e l'esposizione
e l'uso di vecchie macchine agricole e antichi attrezzi contadini, la gestione della balera "Verde Luna"
e il conferimento di targhe di riconoscimento a cittadini che si sono distinti nella Comunità.
LA SORGENTE
LA SORGENTE è il nome attribuito ad una libera associazione, regolarmente costituitasi in Dorno l'8
maggio 1993, per volontà di 14 soci fondatori, ai quali negli anni successivi si sono aggiunti altri soci
ordinari, interessati agli scopi ed alle attività del gruppo.
L'associazione è retta dall'assemblea dei soci e da un consiglio direttivo, alla Presidenza B. Cucchi, E.
Biscaldi, Tesoriere Francalanza Angelo.
Gli scopi dell'associazione sono ben dettagliati nello statuto e si possono così sintetizzare:
difesa del territorio, del suo ambiente e della salute umana;
sostegno di progetti di sviluppo con particolare riferimento all'utilizzo compatibile del territorio;
iniziative per il tempo libero/turismo;
attività culturali e valorizzazione della storia e dei valori locali,
informazione ed educazione civica.
Dalla sua costituzione, la Sorgente ha attivato diverse iniziative in proprio od in collaborazione con
altre realtà locali e con proposte avanzate al Comune di Dorno estese, in alcuni casi di interesse
territoriale più ampio, anche alle Municipalità della zona.
Concretamente, oltre alla ricostruzione della chiesa di S. Materno, si sono sviluppati diversi progetti
di valorizzazione della valle del Terdoppio, nella quale è stato realizzato un primo "percorso vita
naturalistico".
Altre azioni a carattere sociale hanno riguardato la sensibilizzazione per salvaguardare la salute e
l'ambiente o da altri interessi a favore dei cittadini.
GRUPPO ALPINI
Costituito per iniziativa di un gruppo di ex alpini in congedo, nel febbraio del 1987, sono entrati così
a far parte della grande famiglia della "Associazione Nazionale Alpini" come ventesimo gruppo della
sezione di Pavia.
Il primo consiglio direttivo: Pavanello A., Presidente, Lodola S., Segretario, Maiolani A., Tesoriere, e
quattro Consiglieri.
Il motto dell'Associazione è "onorare i morti per servire i vivi"; la solidarietà è la sua filosofia.
Attraverso le numerose iniziative si sono raccolti i fondi per l'UNICEF, AIPD, ANFAS, Banco
Alimentare e altri Enti a carattere umanitario; inoltre fondi e materiali per le popolazioni colpite da
calamità e guerre.
Le iniziative più note in Dorno sono state: "la festa Tricolore", con la donazione delle bandiere alle
Scuole Elementari e Medie nel 1988;
nel 1995 l'apertura della sede alpini in Via Marconi;
nel 1997 l'inaugurazione del monumento dell'Alpino d'Italia in via Papa Giovanni XXIII, giornata
storica con la presenza della fanfara della Brigata Taurinense; in tale manifestazione
l'Amministrazione comunale ha conferito la cittadinanza onoraria al Comando truppe alpine.
Tutti gli anni il gruppo alpini organizza la "giornata incontro" con gli ospiti delle case di riposo;
attraverso le "castagnate" in ottobre novembre e dicembre, offre un pacco dono per natale ai bambini
dell'asilo, delle scuole materne ed elementari ed agli anziani, in collaborazione con l'Amministrazione
comunale.
Il gruppo ha costituito anche un circolo estivo dando così spazio a serate gastronomiche e danzanti;
il gruppo ha anche in allestimento un piccolo museo di reperti bellici e militari della prima e seconda
guerra mondiale.
Attualmente i soci alpini sono 71, gli aggregati 43.
ALCUNE DATE E AVVENIMENTI DA RICORDARE
Anno 1902 - Nel grande spazio erboso, intervallato da piante di robinie, davanti alla Chiesa
Parrocchiale (oggi Piazza G. Bonacossa, Piazza Galassi), i conti Bonacossa danno inizio alla
costruzione dei due grandi Palazzi con i bei portici sorretti da colonne di granito di stile dorico
toscano.
Progettista è l'architetto Brioschi di Milano, lo stesso della graziosa villetta di proprietà parrocchiale
di piazza Galassi, dell'Asilo Infantile e della Casa di Riposo "S. Giuseppe".
Anno 1908 - Su un terreno di proprietà Bonacossa, sorge il nuovo edificio delle Scuole Elementari.
Viene così risolto definitivamente il problema dell'unica sede destinata all'adempimento dell'obbligo
scolastico, eliminando il decentramento delle aule nel Palazzo dell'ex Municipio, nell'Asilo, in
abitazioni private in via Cairoli, in Piazza Dante e in Piazza Galassi.
Anno 1936 - L'Amministrazione Comunale, retta dal podestà L. Bosisio, inizia la costruzione del
tronco principale della fognatura, che corre dall'incrocio tra la via Lazzaretto e via Conte Cesare.
Bonacossa per via Cairoli, via Marconi e via Scaldasole, fino allo sbocco nel Terdoppio. L'imponente
lavoro procura a risolvere il problema delle acque piovane che prima venivano smaltite solamente dal
vecchio colatore comunale, anche il risanamento degli scantinati, fino ad allora umidi e inservibili per
le perenni infiltrazioni d'acqua. In questa fognatura è stato possibile immettere gli ulteriori rami
secondari portati a termine nel Secondo Dopoguerra.
Anno 1958 - Primo pozzo dell'acquedotto comunale nel cortile della Scuola Elementare.
Anno 1960 - Nel cortile della Scuola Elementare viene trivellato il primo pozzo dell'Acquedotto
comunale che raggiunge la profondità di cento metri. Nel corso dei lavori vengono alla luce, alla
profondità di circa novantacinque metri, reperti fossili, testimonianza della antichissima fossa
adriatica padana.
Vengono gradualmente chiuse le vecchie pompe nei cortili e ha forte sviluppo l'installazione degli
impianti igienici nelle abitazioni.
Anno 1960 - Viene data in concessione la distribuzione del gas per uso domestico; la rete si estende
gradualmente a tutto il paese, eliminando così in parte la necessità, per le famiglie, di provvedere al
rifornimento annuale di legna da ardere.
Anno 1960 - La traversa principale del paese (via Conte Cesare Bonacossa, via Marconi, via Cairoli)
viene asfaltata.
Scompare così un primo tratto dell'acciottolato che si iniziò a porre in opera nel 1827 e che costò
50.000 lire di allora.
Anno 1960 - Hanno inizio i primi insediamenti industriali favoriti dall'Amministrazione Comunale:
calzaturificio A. Farina, fabbrica di componenti elettronici Ricagni .
Anno 1966 - Il Comune acquista dai conti Bonacossa uno dei Palazzi di Piazza Bonacossa con
annesso salone del Cinema Sociale di proprietà della Società di Mutuo Soccorso.
Anno 1966 - In via B. Canevari sorge la prima casa popolare; seguono nel 1968 quelle di via S. Zino
e via Strada Nuova, nel 1970 quella di via Valle Corta e l'ultima, del 1972 ,in via De Gasperi.
Anno 1970 - Secondo pozzo dell'acquedotto a via S. Zino.
Anno 1972 - E' portata a termine la circonvallazione, provvidenziale opera pubblica che ha risolto il
grave problema del traffico pesante che attraversa il paese, proveniente in particolare dalla raffineria
del Po di Sannazzaro de Burgondi.
Anno 1973 - Si inaugura la nuova Scuola Media in via Strada Nuova, moderna costruzione su
disegno dell'ing. Milani di Pavia. Vi è annessa la palestra e il campo di pallacanestro dove si svolgono
numerose attività sportive organizzate dalle varie Associazioni locali.
Anno 1979 - In piazza Dante, definitivamente sistemata su progetto dell'arch. Paolo Beltrami, viene
trasferito il monumento ai Caduti. L'inaugurazione avviene l'11 ottobre 1981.
Anno 1980-81 - In seguito all'acquisto da parte del Comune dell'area in cui sorgevano vecchi
fabbricati rurali in via Cairoli, alla loro demolizione e a una razionale sistemazione, Dorno viene a
disporre di un'altra piazza: la Piazza A. Moro. In essa si trasferisce il mercato settimanale del lunedì,
la pesa pubblica e il parco dei divertimenti. Dalla piazza, un ampio viale, superando la Roggia, porta
direttamente al nuovo campo sportivo in via De Gasperi, di cui si è già parlato.
Anno 1983 - Si iniziano i lavori per la copertura della Roggia di Batterra, da Piazza Curti alla Piazza
A. Moro.
Continuano i lavori della fognatura che risolverà definitivamente il problema dello smaltimento delle
acque piovane e degli scarichi urbani di una vasta zona del paese, da via Conte Cesare Bonacossa a
via Vittorio Veneto, costeggiando la circonvallazione fino al nuovo depuratore che sorge sulla sponda
sinistra del Terdoppio.
Anno 1992 - Viene realizzato il parco giochi Piazza Moro.
Anno 1994 - Viene inaugurata l'area sportiva via De Gasperi.
Anno 2001 - Viene completata la copertura Roggia Batterra in Viale Papa Giovanni XXIII.
amici al caffè
caffè in piazza
CUCINA DORNESE
Si è voluto riportare queste note sulla nostra cucina non solo per ricordare un tempo ormai lontano, e
perché il passato ci affascina, ma anche perché siamo convinti che per capire il passato, la nostra
identità, è necessario ritornare anche in cucina, per aspirare i profumi e delibare sapori di un tempo.
La cucina dornese é legata ai precetti di tempi lontani caratterizzati dal gusto delle cose umili;
presenta cibi che ricordano sudori e fatiche manuali, cibi cotti nel camino di un vasta cucina; è una
cucina povera , che risente dell'origine contadina dei nostri padri.
Alcune ricette
PREMESSA AL PICCOLO REPERTORIO ITALIANO - DIALETTO
I nostri dialetti nascono dalla crisi virtuale del latino cominciata alla fine del primo secolo a.C.
quando il latino viene chiamato ad un confronto con le lingue parlate a quel tempo in Italia.
La valle padana subì l'influsso di modelli gallici e diede vita ad un latino parlato che può essere
definito, a causa dei caratteri comuni, "gallo - italico".
Il dialetto dornese, come in genere il dialetto lombardo, è quindi un tipico dialetto "gallico - italico" e
cioè influenzato da tradizioni preromane e romane risalenti alla Gallia (perde le punte finali degli
infiniti: mangià; le vocali finali: om = uomo, nev = neve; accoglie la pronuncia ü chiusa: füm = fumo;
elimina le consonanti doppie: rut = rotto).
L'alterazione del latino è avvenuta attraverso i tanti latini corrispondenti alle pievi, alle piccole e
grandi unità rurali, ai proprietari delle piccole corti, all'interno delle quali si trasmetteva da una
generazione all'altra il povero vocabolario dell'agricoltore e dell'artigiano nei suoi momenti
elementari e del fedele in ascolto della spiegazione del Vangelo.
Il processo continua nel tempo determinato dall'ampliamento di orizzonti commerciali, economici,
disciplinari, religiosi, politici e di altre forze.
Con i repertori che seguono ci si è proposto di ricordare alcune definizioni ricche di significato,
altrimenti destinate ad essere dimenticate.
Il dialetto sul piano storico e culturale è il linguaggio di un mondo agricolo e contadino che va pian
piano sparendo; esso vanta un genuino patrimonio culturale in quanto unico mezzo di comunicazione
usato da larghi strati di popolazione, in particolare dal ceto popolare.
Oggi questo patrimonio é di pertinenza soprattutto dei vecchi i quali con l'uso abituale, nell'ambito
famigliare e sociale, conservano quelle sfumature di suono e quella particolare dizione che servono a
differenziare il nostro dialetto da quello dei paesi vicini.
I nostri giovani, pur a conoscenza che il dialetto e l'italiano si influenzano a vicenda, anche se il
secondo tende a soverchiare il primo, vi ricorrono solo nei rapporti informali tendendo ad introdurre
variazioni nella pronunzia.
Nel nostro tempo é evidente certo atteggiamento di diffidenza e addirittura di disprezzo nei confronti
del dialetto inteso come deformazione dell'italiano e indice di una cultura povera, dimenticando che
proprio nel dialetto si ravvisano le radici della nostra storia e del nostro essere.
Tra gli alunni della nostra Scuola l'uso del dialetto é parziale, sia perché nella Scuola ci si esprime
nella lingua nazionale, sia perché in famiglia viene contrastato, nel timore che l'uso di un dialetto
locale impedisca la comprensione di un contesto culturale e sociale più vasto.
I repertori proposti rappresentano un tentativo di raccogliere il lessico del linguaggio locale che si può
ancora oggi sentire sulla bocca di pochi.
Pronuncia e trascrizione
a, i, u suonano come in italiano
é chiusa: si pronuncia stretta, come: vént (vento), sera
è aperta: si pronuncia larga, come: l'èra (l'aia) bèl (bello);
ò si pronuncia larga, come: trag in cò (versare sopra) cotto, botte (le percosse)
eu = ö si pronuncia come l'eu francese: bö (bue) öv (uovo), stra noeuva = stra növa
ü si pronuncia come: dür (duro) üga (uva)
o si pronuncia chiusa come botte (recipiente) torta dolce
PICCOLO REPERTORIO: GLOSSARIO DIALETTO - ITALIANO
Corriera "Cuzzoni & Gilona"
PRESENTAZIONE DI MODI DI DIRE E PROVERBI
I proverbi ed i modi di dire sono frutto dell'esperienza, sono un concentrato di buon senso espresso
mediante battute e sentenze, portano in sé lo stampo ed il carattere del popolo e ne chiariscono gli usi,
i costumi, il modo di vivere, sentire, pensare, giudicare.
Ora sembra che si siano scordate le argute espressioni che un tempo fiorivano sulle labbra degli
anziani, sembra che siano uscite dalla nostra cultura condizionata com'è oggi anche da gruppi etnici
diversi; da qui l'opportunità di tramandarle, per quanto possibile, nell'intento di contribuire alla
rivalutazione critica di comportamenti e mentalità di coloro che ci hanno preceduti.
NOTA PER LA LETTURA
Le vocali chiuse sono contrassegnate dall'accento acuto:
furmént (fruménto), gént (génte), témp (témpo), dénc (dénte)
Le vocali aperte dall'accento grave:
l'umbrèla (l'ombrèllo), difèt (difètto), parchè (perchè)
La dieresi sulla ä le dà suono stretto (idem sulla ü)
padär (padre), cän (cane), dür (duro)
La dieresi sulla ö le dà il suono francese del dittongono eu:
raviö (ravioli), bröd (brodo), fiöla (figlia)
OPERE CONSULTATE RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI NOTE
L'autore non ha la pretesa di dare una guida bibliografica organica ed esauriente per lo studio su
Dorno, vuole solo sottolineare che alla stesura di queste note storiche ha attinto da molteplici fonti,
alle quali va il plauso e il merito di far rivivere, alla luce del passato, gli avvenimenti che
costituiscono il nostro presente.
La presente ricerca storica si è, via via, formata nel corso dei tanti anni d'insegnamento nella Scuola
Elementare, nell'ambito del programma e delle lezioni di educazione ambientale nelle classi del
2°ciclo, attraverso la lettura e la trascrizione di appunti e note riprese da libri, riviste, giornali
riguardanti la Lomellina ed in particolare Dorno.