Sintesi di Marco Ramazzotti Stockel: La storia dell`Africa e del

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Sintesi di Marco Ramazzotti Stockel: La storia dell`Africa e del
Sintesi di Marco Ramazzotti Stockel:
La storia dell’Africa e del colonialismo italiano nei manuali di storia in uso nelle scuole
superiori
di
Grazia De Michele
I testi, e il loro approccio alla vicenda coloniale, non si evolvono nello stesso tempo né nello
stesso modo e tanto meno sugli stessi temi. Se uno di essi, pubblicato in un certo periodo, propone
una visione«di rottura», diversa dalle precedenti, non è detto che gli altri, pubblicati o riediti
contemporaneamente facciano altrettanto, e, soprattutto non è detto che esso si riveli innovativo
anche nella trattazione delle altre vicende coloniali.
Va segnalata innanzitutto la sopravvivenza degli stereotipi e delle mitologie che hanno nutrito la
propaganda coloniale di epoca liberale e fascista. Un fenomeno ravvisabile in misura maggiore nei
testi pubblicati negli anni cinquanta e sessanta ma la cui persistenza, nei manuali più recenti, è il
segnale di come il dibattito sulla storia e la storiografia del colonialismo italiano, non abbia ancora
prodotto risultati significativi, tali da informare di sé la manualistica scolastica.
Va detto che la retorica, la propaganda, i toni da epopea hanno fatto da cassa di risonanza per tutti i
colonialismi ottocenteschi, consentendo di mettere in ombra le vere, realistiche ragioni della
conquista coloniale e di raccogliere il consenso di un’opinione pubblica spesso abilmente conquistata da racconti di leggende esotiche e gesta d’eroi.
Così come per la campagna di «fascistizzazione» del paese, la manualistica scolastica rivestì un
ruolo di grande efficacia tra i mezzi di aggregazione intorno all’impresa etiopica, rivelatore di quali
fossero i temi salienti della propaganda attraverso cui il regime perpetrava e rinsaldava se stesso. La
lettura dei testi di storia pubblicati a ridosso del 1935 sottopone chi oggi la intraprenda ad un vero e
proprio bombardamento di mistificazioni, falsità e forzature
Così anche, il diritto di invadere l’Etiopia è sanzionato dalla storia e dal passato glorioso dell’Italia
di cui, secondo la manualistica scolastica della seconda metà degli anni trenta, le imprese di
esploratori e missionari nel Corno d’Africa - regione che gli ignavi governi liberali non erano stati
capaci di accaparrarsi - facevano parte a pieno titolo
L’insistenza su questi personaggi e soprattutto la loro strumentalizzazione non si esaurirono con la
caduta del fascismo né con l’avvento della decolonizzazione, giacché i testi degli anni cinquanta e
sessanta continuano ad esaltarli in modo retorico e acritico con sorprendenti tracce anche
nella manualistica più recente
Sino alla fine degli anni sessanta gli aggettivi maggiormente ricorrenti nei manuali e riferiti alle
genti e ai luoghi incontrati dagli italiani sul loro cammino d’oltremare sono: barbaro, selvaggio,
misterioso, fanatico, ostile, sospettoso, infido, primitivo, inesplorato. È a partire dagli anni settanta
che si fa strada un approccio più neutro: l’aggettivazione immaginosa lascia il posto ad un timbro
più pacato nella presentazione dei luoghi e delle popolazioni assoggettate, una presentazione che,
tuttavia, non riesce ad andare oltre la citazione di qualche personalità e vaghi accenni a qualche
istituzione locale; spesso viziati dal paragone con i loro omologhi, o presunti tali, europee.
L’eurocentrismo che caratterizza, in misura più o meno evidente, questi testi è rilevabile anche da
come pochissimi offrono una trattazione del colonialismo italiano che prescinda da limiti
strettamente cronologici, ponendo nel giusto risalto la complessità e lo sviluppo del fenomeno
attraverso una presentazione sistemica . Nemmeno le recenti innovazioni metodologiche apportate
ai manuali scolastici, che propongono una scansione modulare, sono riuscite a trarre il colonialismo
fuori dal mare magnum della storia nazionale in cui sembra inserito a mò di appendice. Sotto questo
profilo gli ultimi venticinque anni hanno segnato un peggioramento man mano che i segni lasciati
dall’impaginazione fascista sono andati scomparendo. I testi del regime infatti erano strutturati in
modo da presentare le imprese coloniali - punto di forza della propaganda fascista - come
il compimento del destino dell’Italia «dominatrice».
I testi editi nei primi quindici anni del dopoguerra ancora riservano al colonialismo interi paragrafi
intitolati, ad esempio: «L’espansione coloniale italiana. La questione di Tunisi.», «La Colonia
Eritrea», «La Somalia», «La guerra d’Etiopia e le sue conseguenze»; e ancora «La prima impresa
coloniale: Massaua», «Il massacro di Dogali», «La ripresa africana e il disastro di Adua», «L’impresa
libica».Tra la metà degli anni sessanta e i primi settanta, titoli e trattazioni di questo genere
scompaiono e le vicende coloniali finiscono confinate in poche, sbrigative righe, a margine della
trattazione della politica dei governi Crispi, Giolitti e Mussolini.
In questi stessi anni, i manuali cominciano a rendere ragione degli studi e delle riletture sull’età
dell’imperialismo, conclusasi da poco e dunque terreno di coltura assai fecondo per la ricerca
storica: l’argomento è infatti affrontato quasi sempre in maniera abbastanza esauriente, rinnovata e
critica nei confronti delle imprese europee. Gli imperialismi inglese, francese,tedesco, belga
vengono analizzati secondo le peculiarità proprie di ciascuno ma anche, comparativamente, nei
punti di contatto con gli altri, mettendone bene in evidenza la portata storica. Nell’ampio spazio
guadagnato dalla trattazione del fenomeno imperialista, non trova posto una più ampia e critica
analisi del colonialismo italiano che, collocato separatamente e privato di un’analisi delle
sue specificità, viene fatto apparire come diverso e meno importante.
Il colonialismo italiano è anomalo e marginale anche per gli autori che ne offrono una visione
critica.
La prospettiva su cui queste considerazioni poggiano non tiene conto della caratteristica
fondamentale che accomuna tutte le dominazioni coloniali: il rapporto di sudditanza, sfruttamento e
violenza del colonizzatore nei confronti del colonizzato che non solo ha provocato danni
incalcolabili in termini di vite umane, perdita della libertà e depauperamento delle risorse dei
territori che ne sono stati oggetto, ma ha condizionato anche la storia successiva alla fine della
colonizzazione. Un elemento, i cui effetti non sembrano adeguatamente «pesati» dai manuali nel
bilancio della penetrazione europea in quei continenti che oggi rappresentano il cosiddetto sud del
mondo. Una valutazione sostanzialmente assolutoria del colonialismo trapela anche dal testo curato
nel 1988 da Giardina, Sabatucci e Vidotto dove si legge che le conquiste coloniali, pur «segnate
dall’uso sistematico e indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene», avrebbero sortito
«alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti» in termini di sviluppo delle tecniche
agricole, di industrializzazione e introduzione di «migliori ordinamenti amministrativi e finanziari»:
sarebbe stato, dunque, messo in moto «un processo di sviluppo», anche se in funzione degli
interessi dei colonizzatori.
Nella sfera delle attenuanti del colonialismo, si inserisce per quanto riguarda quello italiano anche
la considerazione che, essendo stato di entità minore rispetto agli altri, avrebbe prodotto meno danni.
Una interpretazione che contribuisce ancora oggi a mantenere in vita un altro dei «refrain» classici
della propaganda coloniale di epoca liberale e fascista, quello del «colonialismo diverso»: un
presunto carattere distintivo che veniva fatto discendere, da un lato, dal mito del «bono italiano» e,
dall’altro, da un presunto diritto italiano all’espansione derivante dall’eccedenza di popolazione e
dalla scarsità di risorse del paese. Un’argomentazione utilizzata dai governi liberali prima e dal
fascismo poi, se non altro per spiegare perché, invece di concentrare energie e risorse sul
Mezzogiorno d’Italia, ci si imbarcava in avventure d’oltremare nemmeno troppo fortunate.
Eppure fino alla metà degli anni settanta le motivazioni addotte nei manuali scolastici per spiegare
la politica coloniale sono sempre le stesse: Italia, paese povero, con popolazione in rapido aumento,
che non trovava risorse sufficienti per la vita, né le nascenti industrie le materie prime necessarie.
Solo nei primi anni settanta cominciano ad affacciarsi nei manuali di storia motivazioni più
realistiche: Crispi e quegli intellettuali e uomini politici specialmente meridionali che allora si
fecero fautori di una simile prospettiva imperialistica, intendevano così orientare verso l’esterno la
grave tensione sociale esistente nelle campagne.[Il fascismo] fu indotto a ricercare nelle conquiste
coloniali un rimedio alla depressione e alla stagnazione economica e un motivo di prestigio e di
consolidamento interno e internazionale. L’espansionismo coloniale era ormai una necessità per
il nuovo capitalismo italiano che aveva bisogno di nuovi mercati e nuove fonti
di approvvigionamento delle materie prime. L’Italia si inserì quindi in quel vasto processo di spartizione
dell’Africa tra le grandi potenze che portò alla formazione dei grandi imperi coloniali.
Negli anni novanta è possibile rintracciare in qualche manuale un’interpretazione complessiva del
colonialismo italiano demistificata e coerente.Il testo di Capra, Chittolini e Della Peruta, ad esempio,
segnala le «ragioni di prestigio internazionale» che spinsero l’Italia a lanciarsi nella gara
imperialistica, nonostante «[le] ambizioni non [fossero] sorrette da un adeguato potenziale
economico». Una caratteristica che, a giudizio degli autori, si accompagna all’assunzione di «un
aspetto letterario e demagogico con la retorica rivendicazione dell’eredità imperiale romana e della
missione italiana nel mondo» (Pascoli, D'Annunzio)
E sono sempre i manuali più recenti a denunciare le responsabilità del colonialismo, non solo
italiano, sia per quanto riguarda le violenze e le privazioni cui furono sottoposte le popolazioni
autoctone sia per quanto riguarda le conseguenze economiche, sociali e politiche che ancora oggi
gravano sul continente africano. Tuttavia spesso i tentativi di ricercare le ragioni dell’attuale
sottosviluppo anche nella storia precoloniale dell’Africa svelano la povertà di conoscenze degli
autori sulla storia e la realtà del continente di cui sembrano loro sconosciute le peculiarità e al quale
applicano coordinate interpretative che, se possono attagliarsi perfettamente alla storia del
continente europeo, con quella dell’Africa hanno poco a che vedere.
Non si riesce a liberarsi dal peso dell’eurocentrismo - che certo la tardiva decolonizzazione dei
nostri studi sull’Africa non ha contribuito a corrodere - e di una visione ancora evoluzionistica e
unilineare della storia, in virtù della quale le cosiddette «società senza stato» sono necessariamente
più deboli, insanguinate da lotte intestine, «tribali» e accecate da «pseudoreligioni»
Va riconosciuto, dunque, ai testi pubblicati negli ultimi quindici anni il merito di non aver occultato
la ferocia e le pesanti responsabilità degli europei. Tuttavia molta è la strada da fare ancora per
portare sui banchi di scuola la conoscenza e lo studio della storia del colonialismo italiano e quella
dell’Africa - anche antecedente alla seconda metà dell’Ottocento- secondo più appropriate
coordinate storico-antropologiche che sono ormai considerate parte integrante del metodo storico.
Indubbiamente si tratta di analisi molto diverse da quelle risalenti a trenta o quarant’anni fa, quando
non era nemmeno immaginabile la possibilità di muovere critiche all’imperialismo, di cui
si continuavano a tessere le lodi per il suo contributo alla diffusione della «civiltà».
Un esempio significativo del senso di confusione e disarticolazione che possono dare solo i giudizi
espressi su questioni di cui si ignora forse anche l’esistenza è il testo di A. Rossi, del 1967:
“Il fenomeno dell’espansione coloniale appartiene soprattutto alla storia europea, perché, anche se
si svolse in terre geograficamente lontane dalla sede dei popoli che lo promossero, fu intimamente
connesso con la civiltà del nostro continente. Le conquiste che diedero luogo alla formazione degli
imperi coloniali, pur avendo avuto inizio nell’epoca dei grandi viaggi e delle grandi scoperte, si
sono politicamente consolidate nel XIX secolo, seguendo di pari passo l’evoluzione politica
ed economica delle grandi potenze. A queste infatti si rese sempre più necessario reperire fuori dal
territorio metropolitano un’area destinata a dar sfogo all’industria e ai traffici e ad incrementare la
reputazione nazionale.È d’altronde vero che le suddette potenze non mancarono di compiere
un’opera civilizzatrice a favore dei popoli arretrati, ma appare altrettanto palese che esse hanno in
pari tempo curato preminenti interessi economici e di prestigio, che avevano ben poco a che fare
con lo spirito umanitario. Purtroppo le colonie sono sempre state causa di gelosie, di rivalità e di
guerre: ciò rende evidente che la missione civilizzatrice non ha mai operato come movente
predominante.
Ciononostante i domini coloniali ricevettero un impulso evolutivo rispondente all’importanza
civilizzatrice lasciata dai conquistatori, perché questi ultimi trasportarono nelle terre occupate la
cultura, le costumanze, la lingua, le istituzioni e le leggi delle loro patrie, trasformando le
preesistenti condizioni di vita.
Bisogna però aggiungere che il sistema coloniale ha ricevuto una decisiva condanna dall’attuale
civiltà. Pertanto, il processo di liberazione che ne è scaturito si manifesta come un fenomeno
irreversibile, anche se contrasta, almeno in parte, gli interessi europei.”
Le argomentazioni addotte dall’autore - ammesso che tali si possano definire - per rendere ragione
di un fenomeno storico estremamente complesso e dibattuto quale quello coloniale sono improntate
ad un banale pietismo lontano anni luce da qualsiasi criterio di scientificità.
In quegli anni la parola «neocolonialismo» era già stata coniata per dare nome alla perpretazione dei
soprusi e dello sfruttamento dei potenti ai danni dei più deboli, ma l’autore del manuale definisce le
nazioni nate dalle macerie del colonialismo pienamente emancipate e libere grazie all’opera di
civilizzazione dei dominatori. Il dato sconcertante è che tali tesi non compaiono in un articolo di
giornale, un pamphlet o un libro qualsiasi ma in un manuale scolastico, uno degli strumenti didattici
e pedagogici di fatto più importanti, cui è affidata la formazione anche civile - ancor più quando si
tratta di manuali di storia - delle giovani generazioni. Coerenti con una visione così assolutoria sono
i bilanci sull’operato italiano proposti in altri manuali, pubblicati sul finire degli anni sessanta, che
spesso ricalcano il taglio spiccatamente autocelebrativo, tipico delle formulazioni dei decenni
precedenti. I manuali continuano a proporre un messaggio intrinsecamente razzista, discriminatorio.
Fino alla fine degli anni sessanta, i manuali non subiscono sostanziali rinnovamenti
nell’impaginazione e nei contenuti rispetto all’epoca fascista. Il fenomeno non riguarda soltanto la
trattazione del colonialismo italiano ma dell’intera storia contemporanea: l’aggiunta di capitoli e
appendici sul fascismo, la II guerra mondiale, la Resistenza, l’avvento della democrazia nel nostro
paese, non aiuta a bilanciare la mancata riflessione sugliavvenimenti precedenti. Così
l’aggiornamento dei testi risulta svuotato di significato sia perché non promuove alcun
cambiamento di prospettiva da cui guardare al passato sia perché esso sembra guidato dal proposito
di riproporre vecchie categorie di pensiero e di giudizio, mistificando la realtà storica invece che
aderirvi il più possibile. Un fenomeno che sembra dettato dal clima generale di rimozione della
dittatura fascista e dalle molteplici spaccature - sul piano politico, sociale, culturale, individuale che avevanosegnato gli anni della seconda guerra mondiale. In realtà, una seria riflessione su
questioni così delicate e strettamente connesse ai mutamenti epocali verificatisi in Italia a partire dal
1945, per quanto difficile, avrebbe potuto aprire la strada ad un nuovo modo di percepire
l’appartenenza alla comunità nazionale, i cui valori fondamentali vengono trasmessi anche
attraverso l’insegnamento della storia. Pur non mancando, negli anni cinquanta e sessanta, accesi
dibattiti, questi restano circoscritti al mondo intellettuale, alla sfera ristretta della cultura «alta».
Manca nel Paese un progetto politico finalizzato al coinvolgimento delle masse nell’opera di
ricostruzione dell’identità italiana, declinata nelle nuove istituzioni repubblicane. L’obiettivo principale
da perseguire appare il superamento dei traumi causati dal fascismo, dalla guerra disastrosa in cui
aveva trascinato il paese, dalla sconfitta e dalla lotta di liberazione che sembrava aver lacerato le
coscienza collettiva degli italiani.
Il desiderio di normalizzare la vita della nazione e di guardare al futuro condiziona la ricostruzione
del passato, resa pacifica, rassicurante, capace «di allineare in soporifera convivenza gli elementi
più opposti», come sottolineano, nel 1964, i curatori dell’indagine sui manuali di storia pubblicata
sulla rivista dell’INSMLI. Il taglio con cui viene affrontato il colonialismo non è migliore. Il
razzismo, le distorsioni propagandistiche della realtà storica, la retorica e gli stereotipi di epoca
liberale e fascista sono più nascosti, più subdoli ma contribuiscono ancora a giustificare l’operato
italiano in Africa e ad impedirne una più corretta rilettura
Per meglio chiarire quanto si sta dicendo, è utile confrontare due o più edizioni di uno stesso testo,
l’una pubblicata durante il fascismo e le altre apparse nei primi due decenni del dopoguerra.
I manuali di Alfonso Manaresi. Il mito di Dogali e la guerra italo-turca
Un caso esemplare è quello rappresentato dai testi di Alfonso Manaresi, tra i più diffusi, longevi ed
esemplificativi della manualistica scolastica relativa alla storia, almeno fino alla seconda metà degli
anni sessanta.
La battaglia di Dogali rappresenta uno dei capisaldi della propaganda colonialista italiana liberale e
fascista: Angelo Del Boca, che ha cercato di ricostruirne il reale svolgimento, sostiene che “con
Dogali siamo all’eroismo di massa. Con Dogali tocchiamo le più alte vette della retorica, dell’invenzione e del delirio patriottardo”.
L’edizione del 1936 del manuale di Manaresi ripropone due dei topoi classici della mitologia
liberale e poi fascista su Dogali: i corpi straziati dei caduti e De Cristoforis patriota sino all’ultimo.
Nel definire «fiacca» l’Italia liberale e «indecorosa» l’inesperienza del governo Depretis,
ridicolizzato per via di «crisi e crisette», Manaresi dà voce al «rifiuto [tipico della propaganda
fascista] dell’ordine liberal-democratico degli anni successivi all’unità d’Italia, come deviazione
rispetto alla vera vocazione del paese», quella imperiale, cui le classi dirigenti pre-fasciste
«rinunciatarie» e «agnostiche» non avevano saputo dare corpo.
L’edizione del testo successiva alla seconda guerra mondiale se risulta emendata degli eccessi della
propaganda di regime in realtà non rielabora la presentazione dei fatti su Dogali alla luce della
riacquistata libertà di espressione e delle esperienze e riflessioni maturate nel frattempo. Se gli
slogan e le parole del Duce vengono cancellati, la valutazione storica di sessant’anni di
espansionismo non cambia, infarcita ancora dagli stessi stereotipi e preconcetti e impregnata del
razzismo e dell’ideologia coloniale di marca sia liberale che fascista.
La riproposizione di giudizi acriticamente ereditati da un’edizione all’altra e la scelta di una
terminologia particolarmente denigratoria soprattutto nei riguardi dell’Altro (barbare tribù,
disordine e anarchia, orde, ecc.) contribuiscono efficacemente a perpetrare ricostruzioni ancora
fortemente colonialiste e di parte, che sfiorano palesemente il falso nella presentazionedella
campagna di Libia del 1911, il cui iniziale ed eroico successo sarebbe stato funestato dalla fiducia
riposta nell’arabo «infido» e traditore.
Al di là di questa ricostruzione palesemente giustificazionista nei riguardi dell’intervento
«civilizzatore» italiano, le vicende di politica interna relative all’Etiopia - ossia di quella non
strettamente legata all’espansionismo europeo - dopo di allora non avranno più alcun posto nei
manuali scolastici italiani: delle colonie africane - e non solo di quelle italiane -verrà soltanto citato
il nome senza fornire agli studenti alcuno spunto per approfondire la conoscenza dei territori e delle
popolazioni assoggettate, e così privandoli della possibilità di comprendere quale influenza vi
abbia esercitato il colonialismo e quanto complessa sia stata, successivamente, la decolonizzazione.
La narrazione degli avvenimenti riguardanti la spartizione coloniale risulterà ridotta ad una
cronistoria priva di qualsiasi forma di problematizzazione. Un’impostazione che
indurrà ulteriormente nel lettore la sensazione di «immobilità» della storia dei popoli africani,
storia che sembra iniziare solo quando interseca quella dei colonizzatori, emergendo allora da un
abisso di presunta astoricità unicamente per l’intervento di forze esterne.
L’ambiguità del giudizio di Manaresi sull’impresa del 1935-36 - e più in generale sull’intero
espansionismo italiano - rispecchia la forte influenza che le consolidate giustificazioni
propagandistiche esercitano ancora sull’opinione pubblica e l’atteggiamento della classe dirigente
repubblicana che continua ad alimentarla. In sintonia con il clima dell’epoca l’autore non prende le
distanze da quella che definisce riduttivamente «una modesta guerra coloniale» la cui responsabilità
viene fatta ricadere sull’Etiopia e sul «suo governo schiavista». Canfora sottolinea come il
riduzionismo da parte degli storici del dopoguerra nei confronti di quello che definisce «il genocidio
dimenticato», compiuto «ai danni della popolazione etiopica durante e dopo l’aggressione italiana»
e declassato a guerra coloniale, abbia attenuato il giudizio sul regime fascista, presentato come
antidemocratico e autoritario ma meno efferato di altri. Se Manaresi, seppure nel modo che abbiamo
appena visto, non si sottrae al compito - sancito dai programmi ministeriali solo a partire dal 1960di occuparsi della storia più recente, altri autori scelgono, all’opposto, di chiudere le loro trattazioni
con il primo dopoguerra omettendo temi come il fascismo, il nazismo, la seconda guerra mondiale,
l’antifascismo, la Resistenza e rendendo dunque manifesta, anche solo scorrendo l’indice dei
capitoli, l’assenza di una qualsiasi rilettura, che la riflessione su tali argomenti avrebbe potuto
ispirare, anche delle parti precedenti. Il testo di Pietro Silva destinato all’ultima classe dei licei e
pubblicato nel 1952 ne costituisce un valido esempio. Nell’escludere la storia contemporanea
successiva al 1918, il manuale di Silva risponde ai programmi ministeriali dell’epoca i quali
avallano, finoal 1960, una disposizione «provvisoria» del governo Badoglio, che prescriveva
l’eliminazione di qualsiasi celebrazione del fascismo dai manuali. A monte di questa decisione
sembra esserci stata la preoccupazione da parte dei primi governi repubblicani di placare gli animi e
costruire per il paese, appena uscito dalla guerra civile, un clima di operosa collaborazione. Tuttavia
il silenzio su anni cruciali, che avevano così profondamente condizionato e trasformato la coscienza
civile degli italiani, finiva col negare alla storia una delle funzioni sociali che le è universalmente
riconosciuta, quella della formazione dei cittadini, nel caso italiano ispirata agli ideali di democrazia
e libertà che avevano sovvertito l’assetto statuale precedente. Nella relazione presentata al
«Convegno sull’insegnamento della storia», organizzato nel 1952 dall’Associazione per la Difesa
della Scuola Nazionale, Ernesto Ragionieri denuncia non solo che «in questa omissione dei
programmi, nel non aver saputo cioè con una concreta spiegazione degli avvenimenti dell’ultimo
trentennio rendere noti i fatti che erano stati artificialmente tenuti nascosti e combattere le false
affermazioni che il fascismo aveva fatto penetrare nel bagaglio culturale, e fin nel senso comune di
numerosi settori della piccola e media borghesia, debba essere rintracciato uno dei motivi che hanno
consentito quella rapida diffusione del neofascismo tra i giovanissimi studenti che oggi constatiamo
e deprechiamo» ma anche che tra gli autori dei manuali «non manca chi si avvale del silenzio dei
programmi per compiere opera di falsificazione e di aperta propaganda politica». Tra questi spiccano i
nomi di Alfonso Manaresi e Pietro Silva. Quest’ultimo, come rileva Ragionieri, pur nel pressapochismo
con cui passa in rassegna le clausule del Trattato di pace riguardanti l’Italia non manca di definire la
spedizione di Fiume del 1919 un «provvidenziale e trionfale» sussulto della «coscienza
della Nazione», il «primo movimentodi protesta contro le iniquità dei Trattati di pace».
Silva può permettersi di presentare così la politica colonialista di Francesco Crispi:
“Il sogno di Crispi era quello di un grande Impero coloniale italiano dal Mar Rosso all’Oceano
Indiano, che avviluppasse tutta l’Abissinia“.
Il nostro autore commenta, più in generale, il fenomeno coloniale:
Fra i caratteri più importanti e più ricchi di conseguenze nella storia del XIX secolo[dobbiamo
annoverare] l’allargamento della penetrazione della colonizzazione europea a tutte le parti del globo,
anche le più remote, impervie e selvagge: quali l’interno dell’Africa misteriosa, l’interno dell’Asia
centrale, le terre polari: dovuto ad esplorazioni audaci ed importanti tanto quanto erano state quelle
del sec. XVI e del sec. XVII
Dieci anni dopo la coloritura razzista e stereotipata, con l’eliminazionedi qualche aggettivo, si affina
ulteriormente: il paragrafo intitolato «L’espansione bianca nel mondo», quasi a voler sottolineare
l’importanza e il valore strategico, ai fini dell’espansione, del colore della pelle dei conquistatori, i
«bianchi», categoria da cui evidentemente vengono esclusi, ad esempio, i giapponesi, sebbene
protagonisti della spartizione dell’Asia tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo. Il
titolo del paragrafo, subdolamente, riconduce la questione dell’espansione europea a determinanti
razziali facendo leva sull’antinomia stereotipa bianco-nero, per cui se l’espansione è bianca e si
dirige verso i «selvaggi» questi ultimi saranno necessariamente neri.
La caratterizzazione spiccatamente razzista dell’eurocentrismo di Silva: l'apertura del canale di
Suez -«mezzo prezioso» per l’espansione europea, grazie al quale si «rese più intensa l’esplorazione
e la colonizzazione africana» - ci suggerisce a quale parte del mondo debbano riferirsi gli aggettivi
«remoto» e «selvaggio».
L’approccio generale al colonialismo da parte dell’autore è perfettamente coerente con quello più
specificamente dedicato all’esperienza italiana: la retorica del «mare nostrum» ispira anche
l’edizione del 1952.
Alla cosiddetta «delusione di Tunisi» viene dedicato un intero paragrafo che illustra, legittimandoli,
i motivi che avevano spinto l’Italia a reclamare il possesso di quel territorio.
Una cartina della Tunisia, allegata al paragrafo, in cui sono indicati «i nomi delle antiche province
romane” è il segno evidente che i temi e gli strumenti della propaganda fascista e coloniale non
abbiano esaurito il proprio corso
Nei testi di Silva c'é anche l’esaltazione dell’entusiasmo diffusosi al tempo della guerra di Libia,
presentata dalla propaganda nazionalista come la rivincita di Adua.
La lettura dell’episodio di Adua, tuttavia, non è univoca in quegli anni. Alcuni testi, infatti, come lo
Spini o il Saitta forniscono, sin dalle edizioni degli anni cinquanta e sessanta, un resoconto
demistificato della sconfitta. La trattazione della vicenda di Adua proposta nei manuali di Spini e
Saitta rappresenta, dunque, un’eccezione in un panorama di testi fedeli ancora all’approccio retorico
della propaganda colonialista.
Per Paola Tabet, il sistema di pensiero razzista fa parte della cultura della nostra società. Con
l’arrivo in Italia degli immigrati dai paesi del ’terzo mondo’, in particolare dalla metà degli anni’80,
questo sistema viene registrato e messo in moto, subisce un’accelerazione e si pone in modo più
scoperto. [...] Questo sistema non nasce a un tratto quando arrivano in Italia degli immigrati. [...]
Questo sistema si è formato ben prima, è un sistema di lunga costruzione»
Quando, all’incirca vent’anni fa, il nostro paese si è trasformato in una delle tappe obbligate per
il transito degli immigrati provenienti dai paesi in via di sviluppo e diretti in Europa, a fronte
dell’incapacità delle istituzioni di provvedere ad un adeguamento dell’apparato legislativo in
materia, si èfatto strada in buona parte dell’opinione pubblica un sentimento diffuso di
disorientamento e insofferenza. Una reazione sicuramente amplificata dai media, le cui cause
remote, tuttavia, sarebbero individuabili, secondo la Tabet ed altri, nella «rimozione, nella cultura
del nostro paese, del fenomeno del colonialismo» e nella sopravvivenza, anche sotto il regime
repubblicano, dei miti e delle leggende diffusi dalla propaganda colonialista.Le conclusioni che
possono trarsi dall’analisi dei manuali scolastici, presentata in questo lavoro, confermano l’ipotesi
avanzata dalla Tabet. Tra i testi esaminati, quelli risalenti al periodo che va dall’immediato
dopoguerra alla metà degli anni settanta, hanno riproposto fedelmente buona parte dei luoghi
comuni, delle mistificazioni e delle omissioni caratteristici dell’ideologia coloniale attraverso i quali
le classi dirigenti liberali efasciste, promotrici dell’espansionismo italiano in Africa,
hanno legittimato velleità di potenza e prestigio. Gli stilemi caratteristici dell’epopea coloniale
italiana - la giustificazione demografica, l’eroismo e l’operosità del soldato-colono, la missione
civilizzatrice, la bonomia degli italiani in colonia, le ricostruzioni arbitrarie degli avvenimenti hanno continuato ad essere presenti nei manuali dell’Italia repubblicana e democratica, contribuendo a diffondere tra le giovani generazioni, oltre che una versione adulterata dei fatti, una
mentalità spiccatamente razzista. La mancata decolonizzazione della cultura e delle coscienze degli
italiani si inserisce nel panorama più vasto di «continuità» delle istituzioni e della struttura
economica e socio-culturale del paese. La caduta del regime, la Resistenza, la nascita della
Repubblica non sono bastate da sole a recidere il legame con i tradizionali assetti del potere
costituito. Una serie di motivazioni contingenti e storicamente determinabili hanno impedito che gli
ideali dell’antifascismo, della libertà e della giustizia sociale ispirassero un processo di radicale
rinnovamento della società italiana. Anche quando, dalla metà degli anni settanta, i manuali
hanno cominciato a riportare una lettura finalmente demistificata del colonialismo italiano, l’assenza
di una radicata ed autentica sensibilità alle questioni riguardanti il continente africano ha fatto sì che
lo spazio dedicato alla trattazione della presenza italiana in Africa si andasse riducendo
progressivamentee che anche le tematiche più recenti, come la decolonizzazione, la crisi del
modello dello stato-nazione, le guerre civili, venissero affrontati in modo quasi sempre generico e
superficiale. Uno spiraglio di cambiamento sembra provenire, tuttavia, dall’opera di diffusione dei
valori della solidarietà e del rispetto per l’altro che gli insegnanti - di cui sono un esempio alcuni tra
quelli intervistati per questo lavoro - spesso svolgono tra gli studenti. Se ne può concludere che le
possibilità di progresso morale e civile degli italiani di domani sono, in assenza di altri referenti, più
che mai nelle loro mani.