Sintesi di Marco Ramazzotti Stockel: La storia dell`Africa e del
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Sintesi di Marco Ramazzotti Stockel: La storia dell`Africa e del
Sintesi di Marco Ramazzotti Stockel: La storia dell’Africa e del colonialismo italiano nei manuali di storia in uso nelle scuole superiori di Grazia De Michele I testi, e il loro approccio alla vicenda coloniale, non si evolvono nello stesso tempo né nello stesso modo e tanto meno sugli stessi temi. Se uno di essi, pubblicato in un certo periodo, propone una visione«di rottura», diversa dalle precedenti, non è detto che gli altri, pubblicati o riediti contemporaneamente facciano altrettanto, e, soprattutto non è detto che esso si riveli innovativo anche nella trattazione delle altre vicende coloniali. Va segnalata innanzitutto la sopravvivenza degli stereotipi e delle mitologie che hanno nutrito la propaganda coloniale di epoca liberale e fascista. Un fenomeno ravvisabile in misura maggiore nei testi pubblicati negli anni cinquanta e sessanta ma la cui persistenza, nei manuali più recenti, è il segnale di come il dibattito sulla storia e la storiografia del colonialismo italiano, non abbia ancora prodotto risultati significativi, tali da informare di sé la manualistica scolastica. Va detto che la retorica, la propaganda, i toni da epopea hanno fatto da cassa di risonanza per tutti i colonialismi ottocenteschi, consentendo di mettere in ombra le vere, realistiche ragioni della conquista coloniale e di raccogliere il consenso di un’opinione pubblica spesso abilmente conquistata da racconti di leggende esotiche e gesta d’eroi. Così come per la campagna di «fascistizzazione» del paese, la manualistica scolastica rivestì un ruolo di grande efficacia tra i mezzi di aggregazione intorno all’impresa etiopica, rivelatore di quali fossero i temi salienti della propaganda attraverso cui il regime perpetrava e rinsaldava se stesso. La lettura dei testi di storia pubblicati a ridosso del 1935 sottopone chi oggi la intraprenda ad un vero e proprio bombardamento di mistificazioni, falsità e forzature Così anche, il diritto di invadere l’Etiopia è sanzionato dalla storia e dal passato glorioso dell’Italia di cui, secondo la manualistica scolastica della seconda metà degli anni trenta, le imprese di esploratori e missionari nel Corno d’Africa - regione che gli ignavi governi liberali non erano stati capaci di accaparrarsi - facevano parte a pieno titolo L’insistenza su questi personaggi e soprattutto la loro strumentalizzazione non si esaurirono con la caduta del fascismo né con l’avvento della decolonizzazione, giacché i testi degli anni cinquanta e sessanta continuano ad esaltarli in modo retorico e acritico con sorprendenti tracce anche nella manualistica più recente Sino alla fine degli anni sessanta gli aggettivi maggiormente ricorrenti nei manuali e riferiti alle genti e ai luoghi incontrati dagli italiani sul loro cammino d’oltremare sono: barbaro, selvaggio, misterioso, fanatico, ostile, sospettoso, infido, primitivo, inesplorato. È a partire dagli anni settanta che si fa strada un approccio più neutro: l’aggettivazione immaginosa lascia il posto ad un timbro più pacato nella presentazione dei luoghi e delle popolazioni assoggettate, una presentazione che, tuttavia, non riesce ad andare oltre la citazione di qualche personalità e vaghi accenni a qualche istituzione locale; spesso viziati dal paragone con i loro omologhi, o presunti tali, europee. L’eurocentrismo che caratterizza, in misura più o meno evidente, questi testi è rilevabile anche da come pochissimi offrono una trattazione del colonialismo italiano che prescinda da limiti strettamente cronologici, ponendo nel giusto risalto la complessità e lo sviluppo del fenomeno attraverso una presentazione sistemica . Nemmeno le recenti innovazioni metodologiche apportate ai manuali scolastici, che propongono una scansione modulare, sono riuscite a trarre il colonialismo fuori dal mare magnum della storia nazionale in cui sembra inserito a mò di appendice. Sotto questo profilo gli ultimi venticinque anni hanno segnato un peggioramento man mano che i segni lasciati dall’impaginazione fascista sono andati scomparendo. I testi del regime infatti erano strutturati in modo da presentare le imprese coloniali - punto di forza della propaganda fascista - come il compimento del destino dell’Italia «dominatrice». I testi editi nei primi quindici anni del dopoguerra ancora riservano al colonialismo interi paragrafi intitolati, ad esempio: «L’espansione coloniale italiana. La questione di Tunisi.», «La Colonia Eritrea», «La Somalia», «La guerra d’Etiopia e le sue conseguenze»; e ancora «La prima impresa coloniale: Massaua», «Il massacro di Dogali», «La ripresa africana e il disastro di Adua», «L’impresa libica».Tra la metà degli anni sessanta e i primi settanta, titoli e trattazioni di questo genere scompaiono e le vicende coloniali finiscono confinate in poche, sbrigative righe, a margine della trattazione della politica dei governi Crispi, Giolitti e Mussolini. In questi stessi anni, i manuali cominciano a rendere ragione degli studi e delle riletture sull’età dell’imperialismo, conclusasi da poco e dunque terreno di coltura assai fecondo per la ricerca storica: l’argomento è infatti affrontato quasi sempre in maniera abbastanza esauriente, rinnovata e critica nei confronti delle imprese europee. Gli imperialismi inglese, francese,tedesco, belga vengono analizzati secondo le peculiarità proprie di ciascuno ma anche, comparativamente, nei punti di contatto con gli altri, mettendone bene in evidenza la portata storica. Nell’ampio spazio guadagnato dalla trattazione del fenomeno imperialista, non trova posto una più ampia e critica analisi del colonialismo italiano che, collocato separatamente e privato di un’analisi delle sue specificità, viene fatto apparire come diverso e meno importante. Il colonialismo italiano è anomalo e marginale anche per gli autori che ne offrono una visione critica. La prospettiva su cui queste considerazioni poggiano non tiene conto della caratteristica fondamentale che accomuna tutte le dominazioni coloniali: il rapporto di sudditanza, sfruttamento e violenza del colonizzatore nei confronti del colonizzato che non solo ha provocato danni incalcolabili in termini di vite umane, perdita della libertà e depauperamento delle risorse dei territori che ne sono stati oggetto, ma ha condizionato anche la storia successiva alla fine della colonizzazione. Un elemento, i cui effetti non sembrano adeguatamente «pesati» dai manuali nel bilancio della penetrazione europea in quei continenti che oggi rappresentano il cosiddetto sud del mondo. Una valutazione sostanzialmente assolutoria del colonialismo trapela anche dal testo curato nel 1988 da Giardina, Sabatucci e Vidotto dove si legge che le conquiste coloniali, pur «segnate dall’uso sistematico e indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene», avrebbero sortito «alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti» in termini di sviluppo delle tecniche agricole, di industrializzazione e introduzione di «migliori ordinamenti amministrativi e finanziari»: sarebbe stato, dunque, messo in moto «un processo di sviluppo», anche se in funzione degli interessi dei colonizzatori. Nella sfera delle attenuanti del colonialismo, si inserisce per quanto riguarda quello italiano anche la considerazione che, essendo stato di entità minore rispetto agli altri, avrebbe prodotto meno danni. Una interpretazione che contribuisce ancora oggi a mantenere in vita un altro dei «refrain» classici della propaganda coloniale di epoca liberale e fascista, quello del «colonialismo diverso»: un presunto carattere distintivo che veniva fatto discendere, da un lato, dal mito del «bono italiano» e, dall’altro, da un presunto diritto italiano all’espansione derivante dall’eccedenza di popolazione e dalla scarsità di risorse del paese. Un’argomentazione utilizzata dai governi liberali prima e dal fascismo poi, se non altro per spiegare perché, invece di concentrare energie e risorse sul Mezzogiorno d’Italia, ci si imbarcava in avventure d’oltremare nemmeno troppo fortunate. Eppure fino alla metà degli anni settanta le motivazioni addotte nei manuali scolastici per spiegare la politica coloniale sono sempre le stesse: Italia, paese povero, con popolazione in rapido aumento, che non trovava risorse sufficienti per la vita, né le nascenti industrie le materie prime necessarie. Solo nei primi anni settanta cominciano ad affacciarsi nei manuali di storia motivazioni più realistiche: Crispi e quegli intellettuali e uomini politici specialmente meridionali che allora si fecero fautori di una simile prospettiva imperialistica, intendevano così orientare verso l’esterno la grave tensione sociale esistente nelle campagne.[Il fascismo] fu indotto a ricercare nelle conquiste coloniali un rimedio alla depressione e alla stagnazione economica e un motivo di prestigio e di consolidamento interno e internazionale. L’espansionismo coloniale era ormai una necessità per il nuovo capitalismo italiano che aveva bisogno di nuovi mercati e nuove fonti di approvvigionamento delle materie prime. L’Italia si inserì quindi in quel vasto processo di spartizione dell’Africa tra le grandi potenze che portò alla formazione dei grandi imperi coloniali. Negli anni novanta è possibile rintracciare in qualche manuale un’interpretazione complessiva del colonialismo italiano demistificata e coerente.Il testo di Capra, Chittolini e Della Peruta, ad esempio, segnala le «ragioni di prestigio internazionale» che spinsero l’Italia a lanciarsi nella gara imperialistica, nonostante «[le] ambizioni non [fossero] sorrette da un adeguato potenziale economico». Una caratteristica che, a giudizio degli autori, si accompagna all’assunzione di «un aspetto letterario e demagogico con la retorica rivendicazione dell’eredità imperiale romana e della missione italiana nel mondo» (Pascoli, D'Annunzio) E sono sempre i manuali più recenti a denunciare le responsabilità del colonialismo, non solo italiano, sia per quanto riguarda le violenze e le privazioni cui furono sottoposte le popolazioni autoctone sia per quanto riguarda le conseguenze economiche, sociali e politiche che ancora oggi gravano sul continente africano. Tuttavia spesso i tentativi di ricercare le ragioni dell’attuale sottosviluppo anche nella storia precoloniale dell’Africa svelano la povertà di conoscenze degli autori sulla storia e la realtà del continente di cui sembrano loro sconosciute le peculiarità e al quale applicano coordinate interpretative che, se possono attagliarsi perfettamente alla storia del continente europeo, con quella dell’Africa hanno poco a che vedere. Non si riesce a liberarsi dal peso dell’eurocentrismo - che certo la tardiva decolonizzazione dei nostri studi sull’Africa non ha contribuito a corrodere - e di una visione ancora evoluzionistica e unilineare della storia, in virtù della quale le cosiddette «società senza stato» sono necessariamente più deboli, insanguinate da lotte intestine, «tribali» e accecate da «pseudoreligioni» Va riconosciuto, dunque, ai testi pubblicati negli ultimi quindici anni il merito di non aver occultato la ferocia e le pesanti responsabilità degli europei. Tuttavia molta è la strada da fare ancora per portare sui banchi di scuola la conoscenza e lo studio della storia del colonialismo italiano e quella dell’Africa - anche antecedente alla seconda metà dell’Ottocento- secondo più appropriate coordinate storico-antropologiche che sono ormai considerate parte integrante del metodo storico. Indubbiamente si tratta di analisi molto diverse da quelle risalenti a trenta o quarant’anni fa, quando non era nemmeno immaginabile la possibilità di muovere critiche all’imperialismo, di cui si continuavano a tessere le lodi per il suo contributo alla diffusione della «civiltà». Un esempio significativo del senso di confusione e disarticolazione che possono dare solo i giudizi espressi su questioni di cui si ignora forse anche l’esistenza è il testo di A. Rossi, del 1967: “Il fenomeno dell’espansione coloniale appartiene soprattutto alla storia europea, perché, anche se si svolse in terre geograficamente lontane dalla sede dei popoli che lo promossero, fu intimamente connesso con la civiltà del nostro continente. Le conquiste che diedero luogo alla formazione degli imperi coloniali, pur avendo avuto inizio nell’epoca dei grandi viaggi e delle grandi scoperte, si sono politicamente consolidate nel XIX secolo, seguendo di pari passo l’evoluzione politica ed economica delle grandi potenze. A queste infatti si rese sempre più necessario reperire fuori dal territorio metropolitano un’area destinata a dar sfogo all’industria e ai traffici e ad incrementare la reputazione nazionale.È d’altronde vero che le suddette potenze non mancarono di compiere un’opera civilizzatrice a favore dei popoli arretrati, ma appare altrettanto palese che esse hanno in pari tempo curato preminenti interessi economici e di prestigio, che avevano ben poco a che fare con lo spirito umanitario. Purtroppo le colonie sono sempre state causa di gelosie, di rivalità e di guerre: ciò rende evidente che la missione civilizzatrice non ha mai operato come movente predominante. Ciononostante i domini coloniali ricevettero un impulso evolutivo rispondente all’importanza civilizzatrice lasciata dai conquistatori, perché questi ultimi trasportarono nelle terre occupate la cultura, le costumanze, la lingua, le istituzioni e le leggi delle loro patrie, trasformando le preesistenti condizioni di vita. Bisogna però aggiungere che il sistema coloniale ha ricevuto una decisiva condanna dall’attuale civiltà. Pertanto, il processo di liberazione che ne è scaturito si manifesta come un fenomeno irreversibile, anche se contrasta, almeno in parte, gli interessi europei.” Le argomentazioni addotte dall’autore - ammesso che tali si possano definire - per rendere ragione di un fenomeno storico estremamente complesso e dibattuto quale quello coloniale sono improntate ad un banale pietismo lontano anni luce da qualsiasi criterio di scientificità. In quegli anni la parola «neocolonialismo» era già stata coniata per dare nome alla perpretazione dei soprusi e dello sfruttamento dei potenti ai danni dei più deboli, ma l’autore del manuale definisce le nazioni nate dalle macerie del colonialismo pienamente emancipate e libere grazie all’opera di civilizzazione dei dominatori. Il dato sconcertante è che tali tesi non compaiono in un articolo di giornale, un pamphlet o un libro qualsiasi ma in un manuale scolastico, uno degli strumenti didattici e pedagogici di fatto più importanti, cui è affidata la formazione anche civile - ancor più quando si tratta di manuali di storia - delle giovani generazioni. Coerenti con una visione così assolutoria sono i bilanci sull’operato italiano proposti in altri manuali, pubblicati sul finire degli anni sessanta, che spesso ricalcano il taglio spiccatamente autocelebrativo, tipico delle formulazioni dei decenni precedenti. I manuali continuano a proporre un messaggio intrinsecamente razzista, discriminatorio. Fino alla fine degli anni sessanta, i manuali non subiscono sostanziali rinnovamenti nell’impaginazione e nei contenuti rispetto all’epoca fascista. Il fenomeno non riguarda soltanto la trattazione del colonialismo italiano ma dell’intera storia contemporanea: l’aggiunta di capitoli e appendici sul fascismo, la II guerra mondiale, la Resistenza, l’avvento della democrazia nel nostro paese, non aiuta a bilanciare la mancata riflessione sugliavvenimenti precedenti. Così l’aggiornamento dei testi risulta svuotato di significato sia perché non promuove alcun cambiamento di prospettiva da cui guardare al passato sia perché esso sembra guidato dal proposito di riproporre vecchie categorie di pensiero e di giudizio, mistificando la realtà storica invece che aderirvi il più possibile. Un fenomeno che sembra dettato dal clima generale di rimozione della dittatura fascista e dalle molteplici spaccature - sul piano politico, sociale, culturale, individuale che avevanosegnato gli anni della seconda guerra mondiale. In realtà, una seria riflessione su questioni così delicate e strettamente connesse ai mutamenti epocali verificatisi in Italia a partire dal 1945, per quanto difficile, avrebbe potuto aprire la strada ad un nuovo modo di percepire l’appartenenza alla comunità nazionale, i cui valori fondamentali vengono trasmessi anche attraverso l’insegnamento della storia. Pur non mancando, negli anni cinquanta e sessanta, accesi dibattiti, questi restano circoscritti al mondo intellettuale, alla sfera ristretta della cultura «alta». Manca nel Paese un progetto politico finalizzato al coinvolgimento delle masse nell’opera di ricostruzione dell’identità italiana, declinata nelle nuove istituzioni repubblicane. L’obiettivo principale da perseguire appare il superamento dei traumi causati dal fascismo, dalla guerra disastrosa in cui aveva trascinato il paese, dalla sconfitta e dalla lotta di liberazione che sembrava aver lacerato le coscienza collettiva degli italiani. Il desiderio di normalizzare la vita della nazione e di guardare al futuro condiziona la ricostruzione del passato, resa pacifica, rassicurante, capace «di allineare in soporifera convivenza gli elementi più opposti», come sottolineano, nel 1964, i curatori dell’indagine sui manuali di storia pubblicata sulla rivista dell’INSMLI. Il taglio con cui viene affrontato il colonialismo non è migliore. Il razzismo, le distorsioni propagandistiche della realtà storica, la retorica e gli stereotipi di epoca liberale e fascista sono più nascosti, più subdoli ma contribuiscono ancora a giustificare l’operato italiano in Africa e ad impedirne una più corretta rilettura Per meglio chiarire quanto si sta dicendo, è utile confrontare due o più edizioni di uno stesso testo, l’una pubblicata durante il fascismo e le altre apparse nei primi due decenni del dopoguerra. I manuali di Alfonso Manaresi. Il mito di Dogali e la guerra italo-turca Un caso esemplare è quello rappresentato dai testi di Alfonso Manaresi, tra i più diffusi, longevi ed esemplificativi della manualistica scolastica relativa alla storia, almeno fino alla seconda metà degli anni sessanta. La battaglia di Dogali rappresenta uno dei capisaldi della propaganda colonialista italiana liberale e fascista: Angelo Del Boca, che ha cercato di ricostruirne il reale svolgimento, sostiene che “con Dogali siamo all’eroismo di massa. Con Dogali tocchiamo le più alte vette della retorica, dell’invenzione e del delirio patriottardo”. L’edizione del 1936 del manuale di Manaresi ripropone due dei topoi classici della mitologia liberale e poi fascista su Dogali: i corpi straziati dei caduti e De Cristoforis patriota sino all’ultimo. Nel definire «fiacca» l’Italia liberale e «indecorosa» l’inesperienza del governo Depretis, ridicolizzato per via di «crisi e crisette», Manaresi dà voce al «rifiuto [tipico della propaganda fascista] dell’ordine liberal-democratico degli anni successivi all’unità d’Italia, come deviazione rispetto alla vera vocazione del paese», quella imperiale, cui le classi dirigenti pre-fasciste «rinunciatarie» e «agnostiche» non avevano saputo dare corpo. L’edizione del testo successiva alla seconda guerra mondiale se risulta emendata degli eccessi della propaganda di regime in realtà non rielabora la presentazione dei fatti su Dogali alla luce della riacquistata libertà di espressione e delle esperienze e riflessioni maturate nel frattempo. Se gli slogan e le parole del Duce vengono cancellati, la valutazione storica di sessant’anni di espansionismo non cambia, infarcita ancora dagli stessi stereotipi e preconcetti e impregnata del razzismo e dell’ideologia coloniale di marca sia liberale che fascista. La riproposizione di giudizi acriticamente ereditati da un’edizione all’altra e la scelta di una terminologia particolarmente denigratoria soprattutto nei riguardi dell’Altro (barbare tribù, disordine e anarchia, orde, ecc.) contribuiscono efficacemente a perpetrare ricostruzioni ancora fortemente colonialiste e di parte, che sfiorano palesemente il falso nella presentazionedella campagna di Libia del 1911, il cui iniziale ed eroico successo sarebbe stato funestato dalla fiducia riposta nell’arabo «infido» e traditore. Al di là di questa ricostruzione palesemente giustificazionista nei riguardi dell’intervento «civilizzatore» italiano, le vicende di politica interna relative all’Etiopia - ossia di quella non strettamente legata all’espansionismo europeo - dopo di allora non avranno più alcun posto nei manuali scolastici italiani: delle colonie africane - e non solo di quelle italiane -verrà soltanto citato il nome senza fornire agli studenti alcuno spunto per approfondire la conoscenza dei territori e delle popolazioni assoggettate, e così privandoli della possibilità di comprendere quale influenza vi abbia esercitato il colonialismo e quanto complessa sia stata, successivamente, la decolonizzazione. La narrazione degli avvenimenti riguardanti la spartizione coloniale risulterà ridotta ad una cronistoria priva di qualsiasi forma di problematizzazione. Un’impostazione che indurrà ulteriormente nel lettore la sensazione di «immobilità» della storia dei popoli africani, storia che sembra iniziare solo quando interseca quella dei colonizzatori, emergendo allora da un abisso di presunta astoricità unicamente per l’intervento di forze esterne. L’ambiguità del giudizio di Manaresi sull’impresa del 1935-36 - e più in generale sull’intero espansionismo italiano - rispecchia la forte influenza che le consolidate giustificazioni propagandistiche esercitano ancora sull’opinione pubblica e l’atteggiamento della classe dirigente repubblicana che continua ad alimentarla. In sintonia con il clima dell’epoca l’autore non prende le distanze da quella che definisce riduttivamente «una modesta guerra coloniale» la cui responsabilità viene fatta ricadere sull’Etiopia e sul «suo governo schiavista». Canfora sottolinea come il riduzionismo da parte degli storici del dopoguerra nei confronti di quello che definisce «il genocidio dimenticato», compiuto «ai danni della popolazione etiopica durante e dopo l’aggressione italiana» e declassato a guerra coloniale, abbia attenuato il giudizio sul regime fascista, presentato come antidemocratico e autoritario ma meno efferato di altri. Se Manaresi, seppure nel modo che abbiamo appena visto, non si sottrae al compito - sancito dai programmi ministeriali solo a partire dal 1960di occuparsi della storia più recente, altri autori scelgono, all’opposto, di chiudere le loro trattazioni con il primo dopoguerra omettendo temi come il fascismo, il nazismo, la seconda guerra mondiale, l’antifascismo, la Resistenza e rendendo dunque manifesta, anche solo scorrendo l’indice dei capitoli, l’assenza di una qualsiasi rilettura, che la riflessione su tali argomenti avrebbe potuto ispirare, anche delle parti precedenti. Il testo di Pietro Silva destinato all’ultima classe dei licei e pubblicato nel 1952 ne costituisce un valido esempio. Nell’escludere la storia contemporanea successiva al 1918, il manuale di Silva risponde ai programmi ministeriali dell’epoca i quali avallano, finoal 1960, una disposizione «provvisoria» del governo Badoglio, che prescriveva l’eliminazione di qualsiasi celebrazione del fascismo dai manuali. A monte di questa decisione sembra esserci stata la preoccupazione da parte dei primi governi repubblicani di placare gli animi e costruire per il paese, appena uscito dalla guerra civile, un clima di operosa collaborazione. Tuttavia il silenzio su anni cruciali, che avevano così profondamente condizionato e trasformato la coscienza civile degli italiani, finiva col negare alla storia una delle funzioni sociali che le è universalmente riconosciuta, quella della formazione dei cittadini, nel caso italiano ispirata agli ideali di democrazia e libertà che avevano sovvertito l’assetto statuale precedente. Nella relazione presentata al «Convegno sull’insegnamento della storia», organizzato nel 1952 dall’Associazione per la Difesa della Scuola Nazionale, Ernesto Ragionieri denuncia non solo che «in questa omissione dei programmi, nel non aver saputo cioè con una concreta spiegazione degli avvenimenti dell’ultimo trentennio rendere noti i fatti che erano stati artificialmente tenuti nascosti e combattere le false affermazioni che il fascismo aveva fatto penetrare nel bagaglio culturale, e fin nel senso comune di numerosi settori della piccola e media borghesia, debba essere rintracciato uno dei motivi che hanno consentito quella rapida diffusione del neofascismo tra i giovanissimi studenti che oggi constatiamo e deprechiamo» ma anche che tra gli autori dei manuali «non manca chi si avvale del silenzio dei programmi per compiere opera di falsificazione e di aperta propaganda politica». Tra questi spiccano i nomi di Alfonso Manaresi e Pietro Silva. Quest’ultimo, come rileva Ragionieri, pur nel pressapochismo con cui passa in rassegna le clausule del Trattato di pace riguardanti l’Italia non manca di definire la spedizione di Fiume del 1919 un «provvidenziale e trionfale» sussulto della «coscienza della Nazione», il «primo movimentodi protesta contro le iniquità dei Trattati di pace». Silva può permettersi di presentare così la politica colonialista di Francesco Crispi: “Il sogno di Crispi era quello di un grande Impero coloniale italiano dal Mar Rosso all’Oceano Indiano, che avviluppasse tutta l’Abissinia“. Il nostro autore commenta, più in generale, il fenomeno coloniale: Fra i caratteri più importanti e più ricchi di conseguenze nella storia del XIX secolo[dobbiamo annoverare] l’allargamento della penetrazione della colonizzazione europea a tutte le parti del globo, anche le più remote, impervie e selvagge: quali l’interno dell’Africa misteriosa, l’interno dell’Asia centrale, le terre polari: dovuto ad esplorazioni audaci ed importanti tanto quanto erano state quelle del sec. XVI e del sec. XVII Dieci anni dopo la coloritura razzista e stereotipata, con l’eliminazionedi qualche aggettivo, si affina ulteriormente: il paragrafo intitolato «L’espansione bianca nel mondo», quasi a voler sottolineare l’importanza e il valore strategico, ai fini dell’espansione, del colore della pelle dei conquistatori, i «bianchi», categoria da cui evidentemente vengono esclusi, ad esempio, i giapponesi, sebbene protagonisti della spartizione dell’Asia tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo. Il titolo del paragrafo, subdolamente, riconduce la questione dell’espansione europea a determinanti razziali facendo leva sull’antinomia stereotipa bianco-nero, per cui se l’espansione è bianca e si dirige verso i «selvaggi» questi ultimi saranno necessariamente neri. La caratterizzazione spiccatamente razzista dell’eurocentrismo di Silva: l'apertura del canale di Suez -«mezzo prezioso» per l’espansione europea, grazie al quale si «rese più intensa l’esplorazione e la colonizzazione africana» - ci suggerisce a quale parte del mondo debbano riferirsi gli aggettivi «remoto» e «selvaggio». L’approccio generale al colonialismo da parte dell’autore è perfettamente coerente con quello più specificamente dedicato all’esperienza italiana: la retorica del «mare nostrum» ispira anche l’edizione del 1952. Alla cosiddetta «delusione di Tunisi» viene dedicato un intero paragrafo che illustra, legittimandoli, i motivi che avevano spinto l’Italia a reclamare il possesso di quel territorio. Una cartina della Tunisia, allegata al paragrafo, in cui sono indicati «i nomi delle antiche province romane” è il segno evidente che i temi e gli strumenti della propaganda fascista e coloniale non abbiano esaurito il proprio corso Nei testi di Silva c'é anche l’esaltazione dell’entusiasmo diffusosi al tempo della guerra di Libia, presentata dalla propaganda nazionalista come la rivincita di Adua. La lettura dell’episodio di Adua, tuttavia, non è univoca in quegli anni. Alcuni testi, infatti, come lo Spini o il Saitta forniscono, sin dalle edizioni degli anni cinquanta e sessanta, un resoconto demistificato della sconfitta. La trattazione della vicenda di Adua proposta nei manuali di Spini e Saitta rappresenta, dunque, un’eccezione in un panorama di testi fedeli ancora all’approccio retorico della propaganda colonialista. Per Paola Tabet, il sistema di pensiero razzista fa parte della cultura della nostra società. Con l’arrivo in Italia degli immigrati dai paesi del ’terzo mondo’, in particolare dalla metà degli anni’80, questo sistema viene registrato e messo in moto, subisce un’accelerazione e si pone in modo più scoperto. [...] Questo sistema non nasce a un tratto quando arrivano in Italia degli immigrati. [...] Questo sistema si è formato ben prima, è un sistema di lunga costruzione» Quando, all’incirca vent’anni fa, il nostro paese si è trasformato in una delle tappe obbligate per il transito degli immigrati provenienti dai paesi in via di sviluppo e diretti in Europa, a fronte dell’incapacità delle istituzioni di provvedere ad un adeguamento dell’apparato legislativo in materia, si èfatto strada in buona parte dell’opinione pubblica un sentimento diffuso di disorientamento e insofferenza. Una reazione sicuramente amplificata dai media, le cui cause remote, tuttavia, sarebbero individuabili, secondo la Tabet ed altri, nella «rimozione, nella cultura del nostro paese, del fenomeno del colonialismo» e nella sopravvivenza, anche sotto il regime repubblicano, dei miti e delle leggende diffusi dalla propaganda colonialista.Le conclusioni che possono trarsi dall’analisi dei manuali scolastici, presentata in questo lavoro, confermano l’ipotesi avanzata dalla Tabet. Tra i testi esaminati, quelli risalenti al periodo che va dall’immediato dopoguerra alla metà degli anni settanta, hanno riproposto fedelmente buona parte dei luoghi comuni, delle mistificazioni e delle omissioni caratteristici dell’ideologia coloniale attraverso i quali le classi dirigenti liberali efasciste, promotrici dell’espansionismo italiano in Africa, hanno legittimato velleità di potenza e prestigio. Gli stilemi caratteristici dell’epopea coloniale italiana - la giustificazione demografica, l’eroismo e l’operosità del soldato-colono, la missione civilizzatrice, la bonomia degli italiani in colonia, le ricostruzioni arbitrarie degli avvenimenti hanno continuato ad essere presenti nei manuali dell’Italia repubblicana e democratica, contribuendo a diffondere tra le giovani generazioni, oltre che una versione adulterata dei fatti, una mentalità spiccatamente razzista. La mancata decolonizzazione della cultura e delle coscienze degli italiani si inserisce nel panorama più vasto di «continuità» delle istituzioni e della struttura economica e socio-culturale del paese. La caduta del regime, la Resistenza, la nascita della Repubblica non sono bastate da sole a recidere il legame con i tradizionali assetti del potere costituito. Una serie di motivazioni contingenti e storicamente determinabili hanno impedito che gli ideali dell’antifascismo, della libertà e della giustizia sociale ispirassero un processo di radicale rinnovamento della società italiana. Anche quando, dalla metà degli anni settanta, i manuali hanno cominciato a riportare una lettura finalmente demistificata del colonialismo italiano, l’assenza di una radicata ed autentica sensibilità alle questioni riguardanti il continente africano ha fatto sì che lo spazio dedicato alla trattazione della presenza italiana in Africa si andasse riducendo progressivamentee che anche le tematiche più recenti, come la decolonizzazione, la crisi del modello dello stato-nazione, le guerre civili, venissero affrontati in modo quasi sempre generico e superficiale. Uno spiraglio di cambiamento sembra provenire, tuttavia, dall’opera di diffusione dei valori della solidarietà e del rispetto per l’altro che gli insegnanti - di cui sono un esempio alcuni tra quelli intervistati per questo lavoro - spesso svolgono tra gli studenti. Se ne può concludere che le possibilità di progresso morale e civile degli italiani di domani sono, in assenza di altri referenti, più che mai nelle loro mani.