Il settimo capitolo

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Il settimo capitolo
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Morgana
Per l’ateo il cimitero è un luogo di morte,
assurdo e di cattivo gusto, in ultima analisi
insensato; per il credente è un luogo di
domande e di risposte terribili.
Stephen L. Carter
L’imperatore di Ocean Park
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IX
Virginio grida qualcosa restando ai piedi delle
scale. Forse dice che va a fare un giro. Vada
pure, non ho neppure voglia di rispondergli.
Accendo la piccola televisione che c’è qui in
camera da letto e comincio fissare le immagini
distrattamente. Dopo dieci minuti scendo a
prendere la bottiglia di vino rimasta in tavola, il
libro di Pirandello e torno sotto le coperte.
Accarezzo la copertina e cerco di trattenere il
più a lungo possibile ogni sensazione positiva
che arriva dai ricordi di quei giorni di dissennata trasgressione. Ed è proprio il contatto con la
carta che mi consente di fare questo. Il contatto
con quella carta su cui sono scritte le parole di
Pirandello, terribili complici della mia unione
fisica con le persona che le recitava e dalla cui
nostalgia oggi paradossalmente traggo un po’
di forza e di speranza. Mentre, anni fa, vivevo
tutto questo, percepivo che presto o tardi ne
avrei capito il senso. Sapevo che non accadeva
per caso. Apro, e immediatamente, tra le poche
pagine, trovo il pezzo che cerco. Si tratta del
punto più drammatico della storia, quello in cui
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l’uomo dal fiore in bocca spiega all’avventore
che dovrà morire. Ogni sera quando lo osservavo immedesimarsi alla perfezione in quella
parte, non potevo trattenere le lacrime e impedirmi di desiderarlo. Bevo un sorso di vino e
comincio a leggere. Se la morte, signor mio,
fosse uno di quegli insetti strani, schifosi, che
qualcuno inopinatamente ci scopre addosso…
Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: “Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso.” E con quelle due
dita protese, la piglia e butta via… Sarebbe
magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a
ciò che faranno domani e doman l’altro. Ora
io, caro signore, ecco… venga qua, qua sotto
questo lampione…venga le faccio vedere una
cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua,
vede che tubero violaceo? Sa come si chiama
questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce
d’una caramella: Epitelioma, si chiama.
Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma…
La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato
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questo fiore in bocca, e m’ha detto: “Tienilo
caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!”
Avverto gonfiore agli occhi e ripetuti fremiti mi
costringono a coprirmi con un altro panno.
Appoggio il bicchiere sul comodino, vedo la
chiave e la prendo. Mi torna alla mente quanto
sia stato insolito il comportamento di Virginio
nell’attimo in cui gli ho comunicato che con
tutta probabilità avevo tradotto il messaggio di
Omar. In effetti era un messaggio diretto a lui e
non un giochino qualunque proposto a caso. Se
Omar ha chiesto all’avvocato di consegnarla
personalmente nelle mani dell’erede non ci
possono essere dubbi.
In guardo profondissima tra queste piante il
suon di lei. Perché lasciare un messaggio così
complicato se si vuole comunicare qualcosa a
qualcuno? Non era detto che si riuscisse a tradurlo a meno di un grosso colpo di fortuna o di
una serie di circostanze che poi in effetti si sono
verificate. Forse era proprio questa la chiave
della chiave. Non doveva essere un messaggio
facilmente comprensibile. Poteva essere capito
solo ed esclusivamente se ci si applicava, se si
studiava. In poche parole, per interpretarlo,
doveva essere volutamente sviscerato. Le mie
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sono solo supposizioni campate in aria e prive
di ogni fondamento. In guardo profondissima
tra queste piante il suon di lei. Bevo altre due
dita di vino e sento il mio stomaco e la mia testa
protestare vivamente. Il suon di lei, il suon di
lei. Si potrebbe presupporre che tutta la frase
giri intorno a questa lei. Quante lei ci possono
essere state nella vita di Omar a parte la
moglie? Un’amante? Una figlia della quale
nessuno è a conoscenza? Impossibile saperlo. Il
mio cervello si è messo a lavorare più velocemente che mai, ma non si tratta di uno dei soliti attacchi; e se anche lo fosse, non sarei in
grado di accorgermene, fino a quando tutto non
sarà finito; come l’ultima volta quando ho perduto i sensi. Visto che non posso controllare
questi stati di improvvisa eccitazione tanto vale
la pena continuare. Guardo l’ora e vedo che
sono le undici. Con il cellulare in mano, vado
in biblioteca e frugo tra le carte di Virginio in
cerca del biglietto da visita dell’avvocato che ci
ha consegnato la casa. Finalmente lo trovo e
compongo il numero.
«Pronto» mi dice una voce fortunatamente non
troppo assonnata.
«Mi scusi l’orario avvocato, sono la signora
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Patà.»
«Oh, la bella signora Patà. Come posso aiutarla in questa fredda e triste nottata piacentina?»
Non sono nelle condizioni per cercare una battuta di circostanza, così vado subito al punto.
«Le potrà sembrare una sciocchezza, ma ero
curiosa di sapere una cosa. Come è morta la
moglie di Omar?»
Qualche istante di silenzio di troppo mi fa capire che c’è qualcosa che non va.
«Pensavo lo sapeste. Omar e sua moglie sono
morti nello stesso identico modo: si sono tolti
la vita.»
Mi devo sedere per non cadere e tento di capire in quale mano stringo il telefono.
«Omar si è suicidato? Ma mio marito mi ha
detto che era morto nel sonno.»
«In un certo senso, è così. Ha ingurgitato una
cinquantina di pillole assortite, si è infilato
sotto le coperte e ha atteso che la signora vestita di nero venisse a prenderlo. Ma non li leggete i giornali? Ne hanno parlato, per giorni e
giorni.»
«La ringrazio e scusi se l’ho disturbata.»
«Di nulla. Allora, quando potrò venire a mangiare nel…»
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Chiudo la comunicazione e afferro il bicchiere.
Virginio mi ha mentito, ma sono certa che
ancora una volta l’ha fatto per proteggermi.
Torno in camera e la sola vista del letto mi dà
la nausea. Con tutta probabilità è proprio questo il letto in cui è spirato il vecchio. Non ne
posso più di tanta morte e sofferenza.
Dobbiamo trovare il modo di uscire da questa
ormai sterminata valle di lacrime. Devo compiere ogni sforzo possibile per raggiungere e
alimentare il barlume di speranza che ho percepito in me. Sono stata una stupida egoista e lo
sono da tre anni. Ho impiegato un sacco di
tempo per pensare solo a me stessa e per piangermi addosso. Non mi sono mai preoccupata
di Virginio e del suo dolore. Il tenermi nascosta
la verità sulla morte di Omar, dell’uomo che ha
sempre considerato come un padre, è la prova
ulteriore di quanto sia grande il suo amore per
me.
Piccola stupida cieca che sono. La stanchezza
sta per mettermi al tappeto, devo trovare la
forza per un’ultima cosa. Faccio il numero di
Virginio. Dopo pochi squilli si inserisce la
segreteria. Lascio un messaggio e mi infilo a
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letto sperando di sentirlo al suo ritorno per
poterlo abbracciare.
Appena apro un occhio, mi rendo immediatamente conto di quanto sarà duro questo risveglio. Le tempie mi pulsano e una lancinante
fitta alla nuca mi stringe come in una morsa
impedendomi anche di essere triste.
Ricomporre con precisione tutti i tasselli della
serata risulta subito un compito difficile.
Decido di procedere per gradi e giro lentamente gli occhi, non senza provare un’ulteriore fitta
di dolore. La sveglia mi comunica un preoccupante otto e trenta. Ma ancora più preoccupante è la sensazione di vuoto quando provo ad
allungare la gamba e non trovo il corpo caldo di
Virginio. Invio anche un braccio alla ricerca di
mio marito, ma ottengo solo la conferma della
sua assenza.
Dalla disposizione della coperta e dal rigonfiamento panciuto del suo morbido cuscino, capisco che non è neppure venuto a letto. Porto
tutte e due le mani prima sugli occhi e poi sulla
testa mentendo a me stessa che non toccherò
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mai più una goccia di alcool per il resto dei
miei giorni. Con un sforzo immenso mi alzo,
vado in bagno e faccio scorrere l’acqua della
doccia. Mi siedo sulla tazza con la faccia sprofondata nelle mani. Percepisco l’odore della
mia pelle, acido e fastidioso dopo ore passate
senza lavarmi. E’ una cosa che ho imparato ad
accettare e archiviare tra i tanti disagi portati
dal passare degli anni. Dopo essermi spogliata,
getto mutande e pigiama nel cesto dei panni
sporchi. Infilo un piede sotto l’acqua, sento che
è ancora fredda, così decido di lavarmi i denti,
aspettando che s’intiepidisca. A causa dell’esaurimento che mi affligge, non mi accorgo
che il tappo dello scarico è chiuso; il lavandino
si riempie quasi subito di acqua sulla cui superficie comincia a galleggiare la schiuma del dentifricio impastato con la saliva. Ed è proprio tra
le piccole bolle che posso scorgere la terrificante, ma non più così inaspettata, immagine. Le
mie guance sono solcate da tagli talmente profondi da lasciare intravedere l’osso della
mascella. Piccole gocce di sangue cadono nell’acqua colorandola lentamente di un rosso
cupo e penetrante. Sta accadendo ancora. E
ancora una volta, in mezzo all’orrore, riesco a
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riconoscere solo i miei occhi e il loro azzurro
oramai appannato. Non perdo la testa, sento
solo di avere il respiro un po’ affannato, i nervi
sono ancora saldi. Forse sono i medicinali ad
aiutarmi. Cerco velocemente nella mia memoria i consigli medici. Ne trovo subito uno, il più
semplice, il più banale: Morgana, è solo il frutto della tua fantasia. Tu non sei morta e soprattutto non stai per morire. E’ il tuo cervello che
cerca di ingannarti, ma ricorda che sei tu a
comandarlo e puoi fargli fare quello che vuoi.
Il tuo cervello sei tu Morgana, il tuo cervello
sei tu. Resisto all’impulso di chiudere gli occhi
per paura che nel momento in cui li riaprirò ci
sarà un orrore ancora più grande ad aspettarmi.
Allungo una mano nell’acqua rossa e comincio
a muoverla lentamente, per cancellare piano
piano il mostro che vi è rispecchiato, evitando
movimenti bruschi che potrebbero farlo arrabbiare. Lui non si arrabbia, ma resta sempre lì
con le gote a brandelli. Inizio a percepire la
paura che si arrampica dentro. Metto la punta
dell’indice nel centro del lavandino e sempre
con molta delicatezza inizio a disegnare una
spirale. Attraverso le onde nell’acqua vedo il
mostro che sorride e che si prende gioco di me,
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aprendo la bocca in una satanica risata che non
posso udire. Ora la paura si trasforma in rabbia,
in una rabbia talmente carica di cattiveria che
potrebbe farmi fare qualunque cosa. Sento che
potrebbe indurmi a gesti estremi, pur di porre
fine a questa terribile ossessione. Immergo tutta
la mano dentro l’acqua e tento di tirare il tappo
che non si smuove di un millimetro. Mentre
faccio questo, alzo di scatto la testa e mi vedo
riflessa nel grande specchio antico posto sopra
il lavandino. Sono tornata. Quella di sempre,
quella dall’espressione sconvolta. Mi tocco le
guance, il collo, il seno e le gambe per controllare se ci sono danni. Sembra che tutto sia a
posto. Tolgo il tappo che non oppone più resistenza e lascio che l’acqua scorra via. Sotto alla
doccia, mi abbandono in un pianto silenzioso e
tormentato.
Venti minuti più tardi, sono nella cucina del
ristorante a prepararmi il caffè. Prendo due
pastiglie per il mal di testa e spengo la sete del
mio corpo con un’intera bottiglia d’acqua.
Prima di scendere ho aperto delicatamente la
porta della camera di Cristina e ho visto che
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stava ancora dormendo. Non ho avuto il coraggio di svegliarla sia per non doverla affrontare,
sia perché so che ha davanti a sé una giornata
di lavoro molto faticosa.
Virginio, con tutta probabilità, dopo una notte
sul divano, sarà già al mercato. Potrò parlargli
più tardi.
Non faccio particolari sforzi per cercare di
dimenticare quanto mi è accaduto pochi minuti
fa. Tra un’ora ho appuntamento con il dottor
Solari e voglio raccontargli tutto, per filo e per
segno. Se per affrontare questa situazione si
dovrà parlare di ricovero lo farò in tutta serenità. Devo mantenere fede a quanto mi sono
ripromessa nella giornata di ieri. Tanta fermezza e coraggio, in un momento così difficile,
sono forse il più forte segno di instabilità emotiva, ma almeno colmano in parte profonde
lacune nella mia coscienza.
Lascio un biglietto a Virginio per comunicargli
che sarò di ritorno per pranzo, nel pomeriggio
desidererei essere utile a svolgere qualche lavoro. Non me la sento di rimanere con le mani in
mano.
Esco di corsa e prima di andare dal medico
decido di fermarmi nel bar dove ieri ho regala147
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to il libro a Federica. Mi siedo al solito tavolino e lei arriva subito, con lo stesso meraviglioso sorriso.
«Buongiorno. Indovini perché ho queste
occhiaia?» domanda con il classico tono che
lascia trapelare tutto l’invidiabile entusiasmo
adolescenziale.
«Ieri sera hai fatto tardi con il tuo ragazzo» le
rispondo io, sentendo per la prima volta, da
quando mi sono svegliata, la mia voce.
«No» esclama ridacchiando e sedendosi sulla
sedia di fronte a me, non senza aver dato la
solita occhiata in giro per verificare di non
essere sotto il tiro di chi le paga lo stipendio.
«A quel deficiente ho detto che mi erano venute le mie cose e non avevo voglia di uscire.
Posso usare questa scusa anche tre volte al
mese, tanto non capisce niente quello lì. Invece
sa che ho fatto?»
«No, ma adesso sono curiosa.»
«Ho letto quasi metà del libro che mi ha dato.
E’ un viaggio fantastico e soprattutto un magnifico esercizio. Sa, non l’ho mai detto a nessuno
ma il mio sogno più grande è sempre stato
quello di scrivere una romanzo. Un giorno,
forse, ci riuscirò.»
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«Non ho il minimo dubbio. Sembri una ragazza in gamba. Vedrai che realizzerai i tuoi desideri.»
«Grazie, è davvero una persona molto gentile.
Mi sarebbe piaciuto avere una madre come
lei.»
Queste parole mi scuotono e visto come la
ragazzina ora mi osserva, devo avercelo scritto
in faccia.
«Che c’è? Non si sente bene? Ha un’aria così
stanca.»
Improvvisamente, una voce baritonale suona
da dietro il bancone e Federica scatta sull’attenti.
«Arrivo, arrivo. Che cosa le porto? Offro io.»
«Un caffè e…» faccio una pausa, come se
potesse cambiare il significato delle parole che
sto per dire.
«Anzi scusa, portami un bicchiere di vino bianco.»
«E così è successo di nuovo» esclama senza
troppo stupore il dottor Solari intrecciando le
mani sul petto e sprofondando ancora di più
nella sua poltrona di pelle nera.
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Durante il primo incontro non mi ero accorta di
quanto fosse affascinante. Lo studio rispecchia
tutta l’eleganza della persona e sono certa che
ogni sua espressione e ogni suo gesto abbiano
un significato ben preciso. Uno scopo ben preciso. Mi rendo conto solo ora che, quando
leggo qualche storia d’amore o qualche romanzetto da ombrellone, m’immagino il personaggio maschile con fattezze molto simili alle sue.
Non manca neppure la classica e perfetta pettinatura con la riga che sembra non scomporsi
mai.
«Sì, è successo ancora, questa mattina, ma è
stato diverso.»
«In che cosa?» domanda, scrivendo e guardandomi contemporaneamente.
«Prima di tutto non ho perso la calma. Sì, certo,
mi sono agitata e anche adesso ripensandoci mi
viene un po’ d’ansia, ma credo di essere riuscita a tenere la cosa sotto controllo.»
«Crede? E cos’altro?»
«Sempre riferito all’attacco?»
«Morgana, lei può raccontarmi quello che
vuole. Non voglio che possa avere l’impressione che io la spinga in una direzione se non è lei
a volerla prendere per prima. Mi segue?»
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«Sì, credo di sì.»
«Bene» conferma lui, aspettandosi chiaramente
che io ricominci a parlare.
«In effetti, il non aver perso la testa lo considero positivo. Ma non posso e non voglio nasconderle l’accaduto più grave.»
Il prolungato silenzio, dietro quell’espressione
così rassicurante, mi spinge ad aprirmi e abbandonare ogni tentativo di un improbabile linguaggio eccessivamente contorto solo per trasmettere una sicurezza che chiaramente non
c’è.
«Ecco, ho pensato ancora una volta al suicidio.»
Aspetto che succeda qualcosa, ma tutto nella
stanza, a parte l’eco dell’ultima parola, continua a tacere.
«Ma non nel senso che lei crede» mi affretto ad
aggiungere, quasi per impedirgli di alzare la
cornetta del telefono e chiamare due energumeni con l’ordine di incamiciarmi, farmi un’iniezione e trascinarmi via.
«Mi spieghi allora il suo, di senso.»
«Voglio lei sappia che io non accetto la morte,
dato che è la fine di tutto. Il mio più grande
desiderio, oggi, è riuscire a tornare a vivere una
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vita normale. Anche per mio figlio che non c’è
più. Mi sono convinta che stravolgere così
tanto la vita di chi è rimasto sia una mancanza
di rispetto per chi se ne è andato. Ma quando
sto male, come questa mattina, il mio timore di
morire si trasforma in desiderio.»
Dopo questa, le speranze di tornare a casa si
riducono a zero, ma sono qui per questo e per
aiutare me e Virginio, quindi devo andare avanti.
«La prego continui, non perda la concentrazione, sta arrivando ad un punto molto importante.
Che relazione crede ci sia tra il suo stare male
psichico con quello fisico?»
«Questo veramente credevo fosse il medico a
doverlo spiegare.»
La sua espressione muta. Forse non si aspettava questa resistenza.
«Faccia uno sforzo e provi a rispondermi. Si
prenda qualche secondo per pensare.»
Una domanda da un miliardo delle vecchie lire.
Non ho una risposta pronta e non l’avrei neanche stando qui un mese a ragionarci. Cerco di
ricostruire alcuni episodi che ho recentemente
vissuto, ma non vedo tra le loro pieghe elementi utili a rispondere.
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Lo psichiatra mi osserva, e dalla sua espressione mi rendo conto per la prima volta quanto sia
davvero importante questa fase della seduta.
Tento di dare il massimo e decido di spiegargli
ciò che mi è accaduto alcune settimane prima
del trasferimento a Piacenza.
«Ero in un piccolo parco a Roma, qualche
tempo fa. Camminavo ricordando quando percorrevo quegli stessi vialetti, spingendo Filippo
nel suo passeggino. All’epoca aveva circa due
anni e stringeva tra le manine il suo pupazzo
preferito. Eravamo in autunno inoltrato, proprio come adesso; la mia stagione preferita. O
meglio, quella che era la mia stagione preferita,
quando ancora riuscivo ad esprimere delle preferenze. Comunque, mentre passeggiavamo,
una foglia ingiallita si staccò da una pianta e
cadde in grembo a Filippo. Lui lasciò cadere il
pupazzo, la strinse tra le mani piccole e paffute
e se la portò alla bocca. Io preoccupata che la
potesse ingoiare gliela tolsi, ma lui mi fissò
incredulo e deluso. Lo strano sorriso del mio
piccolo mi colse impreparata. Dopo qualche
secondo che lo osservavo disse: “Bene a
mamma.” Il mio cuore non fu in grado di contenere tanto amore e scoppiai in un pianto
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incontrollabile, baciandolo e stringendolo
forte.»
Il dottore mi allunga una scatola di kleenex, ma
non toglie gli occhi dai miei, con il chiaro
scopo di non farmi fermare. Ricordando quell’abbraccio, senza accorgermene, ho incrociato
le mani sulle spalle.
«Ecco, mentre ero in quello stesso parco, un
mese fa, e mi guardavo intorno spaesata e confusa, potevo percepire la sensazione dei manici
del passeggino tra i polpastrelli. Ad un tratto
una foglia si è staccata e si è posata a terra, proprio tra i miei piedi. Io mi sono chinata, l’ho
raccolta e me la sono portata alla bocca e in
quel preciso istante dentro di me, più fulmineo
che mai, si è aperto un desiderio di morte talmente forte da non lasciare spazio alla paura.
Ma nello stesso tempo sapevo che non sarei
mai riuscita a togliermi la vita, neanche volendolo veramente, a meno che…»
Le parole mi si fermano in gola e fatico ad
andare avanti. C’è una brocca d’acqua ghiacciata sulla scrivania, me ne verso un bicchiere,
bevo avidamente.
«A meno che…» mi spinge ancora Solari.
«A meno che non fossi assolutamente certa di
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poter rinascere.»
Lo stress della seduta mi ha fatto tornare il mal
di testa che i due analgesici erano riusciti in
parte ad attenuare. Ficcarmi ancora dentro un
bar per bere qualcosa sarebbe davvero eccessivo. Su questo almeno sono certa: so di poter
mantenere il controllo totale.
Un conto è alzare il gomito, durante una cena,
per chiedere a tuo marito di mettere incinta
un’altra donna o per prendere un po’ di coraggio prima di confessare a un perfetto estraneo
che hai preso in considerazione di toglierti la
vita, un altro è utilizzare l’alcool come terapia
parallela o peggio, alternativa a quella prescritta dal medico. Scaccio ogni pensiero e mi dirigo verso il centro.
Le strade di Piacenza cominciano a diventare
sempre più familiari. Nonostante il costante e
tremendo stato d’animo, mi rendo conto che
negli sprazzi di assoluta lucidità trovo il tempo
per apprezzare ancora certe cose. Nei prossimi
giorni voglio concentrare questa energia positiva per legare di più con i luoghi che mi circondano.
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Arrivo di fronte al Duomo e percorro i piccoli
portici che fiancheggiano il lato sinistro della
piazza stracolma di gente intenta a frugare tra i
banchi del mercato. Sono piuttosto frastornata
e l’incessante brulicare del fiume di persone
all’interno del quale mi sembra di nuotare controcorrente, mi disorienta a tal punto da costringermi a trovare uno sbocco verso un pezzettino
di strada tutto mio. Riesco nell’intento e mi
porto verso il sud della piazza in quella che
leggo, è via Chiapponi. Qui tutto è più calmo.
Respiro molto meglio. Se considero quello che
è successo, dal momento in cui mi sono svegliata, fino ad ora, sono piuttosto fortunata nel
potermi ancora reggere in piedi senza eccessiva
fatica; è meglio non tirare troppo la corda.
Certamente sfogarmi con il medico ha contribuito a corroborare il mio spirito, ma mi piace
pensare sia anche merito della forza che mi
sono imposta da ieri. Mentre percorro la via,
sulla destra vedo una serie di vetrine; vi sono
appese pagine di quotidiani. Un ragazzo dall’aria robusta è intento a parlare al cellulare,
stando sulla porta di quelli che sembrano uffici.
Osservo meglio quei fogli appesi ad un filo,
come fossero panni stesi ad asciugare e mi
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rendo conto si essere di fronte alla redazione di
un quotidiano. In una delle pagine, in basso,
posso vedere la pubblicità della prossima apertura del Monroe. Virginio aveva accennato a
questa iniziativa. Leggere qualcosa che mi
riguarda, mentre sono in un luogo totalmente
estraneo, mi infonde un po’ di sicurezza. Il
ragazzo sulla porta parla sempre più forte e non
posso fare a meno di sentire alcune parole.
Rileva, tutto incavolato con chi sta dall’altra
parte del telefono, come sia difficile oggi trovare un posto dove mangiare decentemente
rispettando il rapporto qualità prezzo. Poi fa il
nome di due o tre vini come se fosse del mestiere e chiude la telefonata col classico - “a più
tardi”. Mi avvicino e mi azzardo a porgergli un
bigliettino del nostro ristorante che Cristina mi
ha dato ieri pomeriggio fresco di tipografia.
«Mi scusi» accenno timidamente.
«Mi dica» ribatte con gentilezza ma senza sorridere.
«Ho involontariamente sentito la sua telefonata
e mi permetto di lasciarle l’indirizzo del ristorante di mio marito. Apriremo domani e spero
che vorrà farci visita.»
Il giovane prima mi guarda un po’ titubante, poi
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afferra il biglietto e comincia a studiarlo.
«Che tipo di cucina fate?»
«Le posso garantire che non rimarrà deluso. Lo
chef è veramente bravo.»
Se prima era titubante, con questa risposta,
scontata e banale, sono certa che non lo vedremo mai.
Ringrazia e mentre sta per rientrare nella redazione del giornale lo fermo.
«Mi perdoni, mi sa indicare il modo più veloce
per raggiungere il cimitero?»
Dopo la spiegazione puntuale ma complicata,
opto per un ben più comodo e tranquillo taxi.
Pago i quindici euro, ben investiti, all’autista e
scendo dalla macchina.
Il cimitero che mi si para davanti, paragonato al
Flaminio dove è sepolta mia madre, sembra
quello di un paesello di campagna.
Passo sotto il piccolo arco dell’ingresso principale e il rumore delle suole di cuoio sulla ghiaia fa voltare due persone impegnate in una educata chiacchierata a bassa voce. Chiedo loro
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dove posso trovare una pianta delle tombe e mi
indicano un ufficio con la porta nera a pochi
metri. Una donna piuttosto robusta, con la faccia unta e corrucciata e un paio di occhialini da
lettura sulla punta del naso a patata, comincia a
studiarmi da capo a piedi non appena varco la
soglia. Per il modo in cui mi osserva mi riesce
antipatica.
«Cerco la tomba dei coniugi Castagna» annuncio, nella speranza di ricevere una risposta
senza troppi problemi.
«Lei è una parente?» domanda con un tono certamente studiato, con lo scopo di farmi capire
che questo è il suo territorio e qui comanda lei.
«Fa qualche differenza?»
Non fiata e dopo avermi guardato ancora una
volta dall’alto in basso, si raddrizza gli occhiali con un movimento sgraziato e digita qualcosa sulla tastiera del computer che ha di fronte.
«Carmelo Castagna?» sempre nello stesso
tono.
«No, Omar Castagna» dico molto più gentilmente, dato che voglio uscire subito da questo
buco.
Ancora qualche secondo di ticchettio sui tasti e
poi torna a fissarmi.
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«Allora non doveva dire “la tomba dei coniugi”
Castagna. La moglie, Enrica Battelli in
Castagna si trova in un loculo differente.»
Incrocia le braccia sotto gli smisurati seni e con
un sorrisino sarcastico dipinto sulla bocca
attende la giustificazione per un errore così
grande.
«Che si trova…?» mi limito io.
Tira un profondo sospiro, quasi delusa di non
essere stata attaccata, e senza muovere un
muscolo fa semplicemente ruotare gli occhi
verso una porta sul fondo del locale, comunicando il prezioso dato: «Settore quattro, corridoio B5.»
Ringrazio e me ne vado.
Il cimitero sembrava tanto piccolo, ma impiego
quasi dieci minuti ad arrivare vicino al punto
esatto. Non è facile orientarsi in questi numerosi vialetti, così ricchi di vegetazione. Ad una
prima occhiata credo di intuire che in ogni settore sia stato piantato un tipo differente di albero. Infatti provengo da un viale di pioppi e sto
per entrare in uno di cipressi. Il tutto sembra
molto curato. Quasi in modo maniacale.
Proprio quando finalmente sono di fronte alla
tomba giusta, con mio grande imbarazzo
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comincia a suonare il cellulare nella borsetta.
E’ Virginio. Dopo una rapida occhiata a destra
e a sinistra, per controllare di essere sola,
rispondo.
«Si può sapere dove sei finita?» sono le sue
prime parole.
Opto per una risposta secca e rapida: «Sono
andata dal dottore e poi ho deciso di fare due
passi.»
«Con tutto quel che c’è da fare per domani? Lo
sai che ho bisogno del tuo aiuto, e poi Cristina
non è ancora riuscita a trovare qualcuno da
assumere su cui poter contare. Temo che dovremo arrangiarci da soli.»
E’ da ieri sera, dopo la nostra discussione, che
non gli parlo. Sentire adesso la sua voce così
bassa e stanca mi intenerisce.
«Hai ragione, scusami, tra poco arrivo.»
«Bene.»
«Bene.»
Chiudo la comunicazione e torno a guardare la
lapide, decisa a far presto. Si tratta di un grosso blocco di marmo nero, rettangolare, piazzato a terra. Un altro blocco più piccolo è posizionato in verticale sulla base. Il nome Enrica
Battelli in Castagna e le date di nascita e morte
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sono scritte con lettere in ottone oramai annerite dalle intemperie. Non c’è nessuna fotografia.
Speravo di poter vedere il volto della donna
nella cui casa ora abito, ma tra i pochissimi
effetti personali dei Castagna, non abbiamo trovato fotografie. Credo di aver visto Omar solo
un paio di volte, anche se dai numerosi racconti di Virginio mi sembra di conoscerlo da sempre, ma di Enrica Battelli non so nulla.
Comunque posso dirmi soddisfatta; pensavo
fosse giusto venire a far loro visita prima dell’apertura del locale e così ho fatto.
Evidentemente dovevano essere entrati davvero in sintonia con Piacenza se hanno deciso di
farsi tumulare qui e non nella loro città natale.
Mentre sono persa in questi forse inutili pensieri una folata di vento gelido mi penetra nelle
ossa e tremo. Osservandomi ancora bene attorno vedo che il vialetto in cui sono ora è protetto da tre grandi alberi carichi di foglie rosse.
Una di queste si stacca e si ferma tra i miei
capelli. E’ quasi dello stesso colore dei miei
folti riccioli. La tocco con la punta di un dito e
lascio che cada a terra, sperando intensamente
che nessun mostro venga a farmi visita.
Credevo di essere piuttosto rilassata, ma ho i
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pugni serrati e le unghie conficcate nei palmi
delle mani. Voglio andare via. Voglio tornare da
Virginio. Ma cosa diavolo sono venuta a fare
fin qui? Prendo ancora qualche istante per evitare che un movimento brusco possa causarmi
un capogiro. Intanto che lascio passare i secondi contandoli, noto con stupore una cosa a cui
prima non avevo fatto assolutamente caso.
Sotto il nome di Enrica Battelli, scolpito nel
granito scuro, c’è un piccolo angelo dalle ali
spiegate, con un grosso ombelico nel centro
della pancia e un flauto in bocca da cui escono
alcune note. Sento il cuore trasformarsi in un
piccolo grumo di ghiaccio. In guardo profondissima tra queste piante e il suon di lei.
All’improvviso tutto mi è così dannatamente
chiaro. Non c’era un’altra lei nella vita di
Omar: c’era solo la moglie. Che ora riposa
facendo da guardiano, tra queste piante, con un
angelo che suona per farle compagnia. Prendo
la chiave dalla borsetta e la infilo nell’ombelico dell’angelo. Uno scatto improvviso fa aprire
un piccolo cassetto a scomparsa proprio sotto le
date. Quelle che sono state messe lì per apparire solo decorazioni della lapide verticale,
sono in realtà le scanalature di un secretaire.
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Guardo ancora una volta attorno, tolgo le scarpe e chiedendo perdono a bassa voce salgo sul
blocco di marmo. Afferro quello che c’è nel
cassetto segreto, lo infilo velocemente nella
borsetta, e dopo essermi rimessa le scarpe incomincio a correre più velocemente che posso.
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