gravidanza ad alto rischio - IRCCS Burlo Garofolo

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gravidanza ad alto rischio - IRCCS Burlo Garofolo
BURLO
ISTITUTO DI RICOVERO E CURA
A C A R A T T E R E S C I E N T I F I CO
B U R L O
G A R O F O L O
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO
Management in assenza di EBM
A cura di
Salvatore Alberico, Uri Wiesenfeld
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO...
Management in assenza di EBM
A cura di
Salvatore Alberico, Uri Wiesenfeld
La foto di copertina è di Furio Casali
Direttore responsabile: S. Alberico
Comitato di Redazione: S. Alberico, M. Bernardon, P. Bogatti, M. Costantini, F. De Seta, S. Inglese, G.P. Maso,
M Piccoli, N. Santangelo, A. Sartore,V. Soini, R.Tercolo, M.Vessella, U. Wiesenfeld
Unità Operativa Complessa di Patologia Ostetrica e Ginecologica, IRCCS Burlo Garofolo di Trieste
Editing: Gaia Tamaro, Luca Pagan
Grafica e impaginazione: Ekipeventi - Trieste
Stampa: Arti Grafiche Riva - Trieste
Il presente volume è stato pubblicato in occasione del Congresso
“GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO... Management in assenza di EBM”
che si è tenuto a Trieste il 29-30 novembre 2005
Presidente del Corso: Secondo Guaschino - Direttore del Corso: Salvatore Alberico
Dedico questo lavoro alla Memoria del mio Amico Marco Luchetta,
caduto a Mostar il 28 gennaio 1994
salvatore alberico
L’organizzazione di un Convegno scientifico prevede anche l’onere della stampa degli atti
del convegno. Per il secondo anno consecutivo abbiamo cercato di assolvere questo onere, in
una forma diversa da quella consueta, organizzando un comitato di redazione costituito da
Medici del nostro Dipartimento, che hanno lavorato per un anno con il supporto dei Relatori
invitati ed a Tutti va il mio personale ringraziamento.
Lo scopo di questo metodo era quello di dare un’impostazione omogenea a ciascun
capitolo e nello stesso tempo fornire una serie di indicazioni pratiche di procedura
diagnostico-terapeutica per ciascuna delle patologie trattate durante il convegno.
Non abbiamo ovviamente la presunzione di proporre questo testo come una Linea Guida
per ciascun capitolo, ma da Medici che ogni giorno ci confrontiamo con patologie per le
quali non sempre le linee guida di gestione sono disponibili e delineate, pensiamo
pragmaticamente che lo studio della letteratura disponibile, sostenuto dalla esperienza
maturata nella nostra quotidianità ci possa consentire di delineare flow-charts di gestione
clinica, non sempre disponibili in Letteratura!
… e questo senza alcuna presunzione cattedratica!
Riteniamo in merito più che necessario cercare punti di incontro condivisi da ostetrici
esperti in ciascuna delle patologie trattate in questo meeting, perché oggi il ricorso a
riferimenti dettati dalla Evidence Based Medicine è un criterio molto corretto per compiere
scelte cliniche, ma lì dove questo metodo di verifica della correttezza procedurale non è
disponibile, ciò non deve trasformarsi in un handicap per chi è comunque chiamato a
decidere, con ripercussioni non sempre positive sul paziente.
Il successo ottenuto dal testo stampato lo scorso anno, sul tema del “Taglio cesareo”, che
ancora ci viene richiesto da più parti e non solo da Ostetrici, ci fa quindi ben sperare sulla
validità di questa scelta, non solo alfine di indicare procedure diagnostico-terapeutiche ma
anche per supportare determinate scelte compiute secondo scienza e coscienza, ma
contestate in ambito medico-legale, in caso di esito avverso derivante dalla nostra
operatività.
L’augurio che ci facciamo e che lo sforzo compiuto trovi un riscontro favorevole e soddisfi
le attese di quanti avranno avuto la cortesia e la bontà di leggerci.
S. A.
INDICE
DIABETE IN GRAVIDANZA
1. Screening e diagnosi del diabete gestazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .11
2. Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .25
3. Induzione del travaglio versus expectant management in GDM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .42
4. Distocia di spalla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .55
5. L’ecografia nelle gravidanze diabetiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .75
6. Terapia insulinica del diabete in gravidanza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .84
GRANDE PRETERMINE
7. Il parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .86
8. Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .94
9. L’esito a distanza nei neonati <1500 grammi:
che cosa ha importanza oltre l’età gestazionale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .110
10. La gestione della minaccia del parto pretermine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .114
TAVOLA ROTONDA
11. Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico . . . . . . . .130
12. Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico . . . . . . . .146
13. Quel confine sottile tra speranza e illusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .155
14. Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .177
PRE-ECLAMPSIA
15. Pre-eclampsia: a multi system disorder . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .190
16. Pre-eclampsia: solfato di magnesio sì o no? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .194
17. Ruolo della plasmaferesi nella tossiemia gravidica severa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .209
18. Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .215
19. Obesità e gravidanza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .224
20. La pre-eclampsia: un disordine multisistemico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .241
PATOLOGIA AUTOIMMUNE
21. Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .280
22. LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno-fetale e timing del parto . .296
23. Il neonato da madre con patologia autoimmune: danni da malattia o da farmaci? . . . . . . . . . . .309
24. Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .314
25. Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .326
TROMBOEMBOLIA E COAGULOPATIE
26. Coagulazione, fibrinolisi e stati trombofilici nella gravida . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .380
27. Emergenze trombotiche in gravidanza: eparinizzazione/trombolisi e timing del parto . . . . . . .395
28. Gestione multidisciplinare della CID . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .403
29. Tromboembolismo venoso: farmaci e complicanze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .421
30. Cosa cercare ecograficamente nella gravidanza con patologia trombotico-emorragica . . . . . .435
DIABETE IN GRAVIDANZA
SCREENING E DIAGNOSI
DEL DIABETE GESTAZIONALE
1
A. Lapolla, M.G. Dalfrà, M. Masin, D. Fedele
Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Cattedra di Malattie del Metabolismo, Università degli Studi di Padova
Introduzione
Il Diabete Gestazionale (GDM), è classicamente definito come una condizione di “intolleranza ai carboidrati, di gravità variabile, ad esordio o primo riconoscimento nel corso della
gravidanza, indipendentemente dal tipo di trattamento e dal fatto che la condizione possa persistere dopo il parto”.
Questa patologia complica la gravidanza con una frequenza che varia dall’1 al 14%; tale
variabilità è legata ai diversi criteri diagnostici utilizzati ed alle diverse popolazioni valutate1,2.
Recentemente, inoltre, è stato segnalato un aumento della frequenza di Diabete Gestazionale
dal 2.8% al 8.8%, nel corso degli ultimi 20 anni, nei paesi in via di sviluppo e soprattutto nelle popolazioni immigrate da paesi sottosviluppati a paesi ricchi3.
Negli ultimi anni l’eziologia e la patogenesi del GDM sono state riviste4 e il GDM è stato
considerato, come il diabete di tipo 2, un insieme di condizioni morbose con momenti patogenetici diversi. Raramente il GDM è il momento dell’esordio di un diabete tipo 1, come dimostrato dalla frequenza piuttosto bassa, anche se variabile a seconda delle varie casistiche
esaminate, dei markers immunologici predittivi di diabete tipo 1, quali gli ICA, gli IAAs gli anti GAD5,6. Più frequentemente, invece, quello che caratterizza il GDM è una ridotta secrezione di insulina accompagnata da un aumento dell’insulino resistenza periferica, due condizioni
tipiche del diabete tipo 2. Infatti, secondo alcuni Autori, le due condizioni sono in realtà la
stessa malattia7,8, come dimostrato anche dal fatto che esse riconoscono gli stessi fattori di rischio quali la familiarità di diabete tipo 2, la razza non bianca, l’obesità, l’età avanzata, la presenza di ipertensione e/o dislipidemia.
Nelle donne con Diabete Gestazionale la secrezione insulinica non è in grado di compensare l’insulino resistenza caratteristica della gravidanza; la perdita della prima fase di secrezione insulinica determina, in queste pazienti, iperglicemia post-prandiale, mentre la ridotta soppressione della produzione epatica di glucosio è responsabile dell’iperglicemia a digiuno9.
La resistenza alla insulina è stata dimostrata a livello del tessuto adiposo e muscolare e
può essere ricondotta agli stessi meccanismi fisiopatologici che determinano la comparsa del
diabete di tipo 2: modificazioni del recettore insulinico e del trasporto ed utilizzazione del
glucosio nelle cellule insulino-sensibili10; riduzione dell’attività del substrato del recettore insuGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
11
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
linico: è stato infatti messo in evidenza che la fosforilazione tirosinica insulino-indotta dell’IRS1 è ridotta nelle donne affette da GDM rispetto alle gravide normali11. L’aumento del TNF-alfa, correlato alla riduzione della sensibilità insulinica12, e la riduzione del contenuto del trasportatore del glucosio Glut 413 potrebbero giocare, inoltre, ruoli importanti.
La ridotta azione dell’insulina, nella gravida con GDM, determina un eccessivo incremento nel sangue di nutrienti, quali il glucosio, i lipidi, gli aminoacidi, che passando attraverso la
placenta (passaggio facilitato dalle loro concentrazioni più basse nel feto) determinano un iperinsulinismo in grado di favorire, a sua volta, un aumento del tessuto adiposo con organomegalia e macrosomia.
I meccanismi fisiopatologici che determinano il Diabete Gestazionale danno ragione dell’elevata frequenza di sviluppo di diabete tipo 2 dopo il parto, frequenza che varia a seconda
delle casistiche esaminate e che è condizionata dalle modalità di diagnosi del GDM, dal periodo di follow up preso in considerazione, dalla presenza di obesità, dai gruppi etnici esaminati. In questo contesto, recentemente, Kim e coll. hanno verificato la relazione tra GDM e
diabete di tipo 2 analizzando gli studi presenti su PubMed dal 1965 al 200114. Da tale analisi
emerge come vi sia una grossa variabilità nell’incidenza cumulativa di diabete di tipo 2, nelle
donne con precedente GDM, e questo è dovuto alla diversa lunghezza del follow up considerato nei vari studi, ai differenti criteri utilizzati per la diagnosi di malattia, alla diversa etnia
delle popolazioni esaminate.
Il tasso di progressione della incidenza di diabete, nelle pazienti con pregresso GDM, aumenta soprattutto nei primi 5 anni dopo il parto e poi presenta un andamento a plateau, con
una frequenza cumulativa che varia dal 2.6 al 70% in studi di follow up tra 6 settimane e 28
anni. Livelli glicemici a digiuno elevati in corso di gravidanza sono, inoltre, forti predittori di
sviluppo futuro di diabete.
Sulla base di tali riscontri gli Autori concludono che nonostante lo screening universale
per il GDM non sia eseguito ovunque, le conoscenze attuali relative alla possibile prevenzione del diabete di tipo 2 inducono a promuovere tale screening.
Oltre alla iperglicemia a digiuno in corso di gravidanza, gli altri fattori di rischio associati,
in queste pazienti, allo sviluppo successivo di diabete di tipo 2 sono la alterata tolleranza ai
carboidrati dopo il parto, la familiarità per diabete tipo 2, la razza non bianca, l’obesità, la diagnosi di GDM in una fase precoce di gravidanza, la necessità di terapia insulinica in corso di
gravidanza, la ridotta funzione beta-cellulare15,16.
Occorre sottolineare che oltre ad un’aumentata frequenza di sviluppo di diabete di tipo
2, le pazienti con pregresso GDM presentano anche un maggior rischio di sviluppo di ipertensione, iperlipemia e sindrome plurimetabolica, condizione quest’ultima da non sottovalutare visto il maggior rischio di malattia cardiovascolare cui si associa17,18.
Se però l’associazione Diabete Gestazionale sviluppo di diabete di tipo 2 è ben validata,
recentemente l’associazione Diabete Gestazionale aumento delle complicanze a breve ter12
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
mine della madre e del nato, quali la macrosomia, la distocia di spalla, la Sindrome da Distress
Respiratorio, l’ipoglicemia, l’iperbilirubinemia, la policitemia, l’ipocalcemia, la preeclampsia è stata messa in dubbio. In questo contesto la US Preventive Services Task Force ha preso in considerazione gli articoli sullo screening del GDM pubblicati su PubMed dal 1994 al 200219.
Dall’analisi degli articoli emerge come non vi siano studi randomizzati e controllati che mettano in evidenza un reale beneficio derivante dallo screening del GDM. Anche se la terapia
insulinica riduce la frequenza di macrosomia nelle donne affette da GDM con gradi severi di
iperglicemia, non vi è evidenza che ci sia un reale beneficio conseguente al trattamento delle pazienti con GDM che mostrano gradi lievi di iperglicemia, che sono la maggior parte. La
US Preventive Services Task Force conclude che è necessaria ed urgente la messa a punto di
uno studio randomizzato e controllato per verificare la reale importanza di screenare e diagnosticare il Diabete Gestazionale.
Per definire il Diabete Gestazionale una reale entità clinica è necessario che vi siano la evidenza di una deviazione dalla normale fisiologia, la dimostrazione che essa determina in gravidanza outcome avversi, la verifica, infine, che il trattamento di tale patologia è in grado di ridurre tali eventi avversi. A questi quesiti in gran parte rispondono Langher e coll. in un recente studio che ha valutato l’outcome materno e fetale in 555 pazienti con GDM non trattate, 1110 pazienti con GDM trattate, con terapia dietetica ed insulinica quando necessario,
e 110 gravide non diabetiche scelte come controlli20.
Prendendo in considerazione un “indice totale” di outcome neonatale, che comprende la
mortalità neonatale, la macrosomia, l’ipoglicemia, l’iperbilirubinemia, la policitemia, un “outcome totale negativo” è stato evidenziato nel 59% delle GDM non trattate, nel 18% delle GDM
trattate e nel 11% dei controlli non diabetici. Sulla base di tali risultati gli Autori concludono
che il Diabete Gestazionale non sottoposto a trattamento si accompagna ad una aumentata
morbilità fetale, morbilità che può essere drasticamente ridotta se tale condizione viene seguita e trattata adeguatamente.
In questo contesto bisogna sottolineare che lo studio che sicuramente darà una risposta
definitiva a tali quesiti è l’HAPO Study (Hyperglicemia and Adverse Pregnancy Outcomes)21, uno
studio multicentrico che coinvolgerà 25.000 gravide di varie etnie. Gli endpoints di tale studio sono quelli di rilevare la relazione tra iperglicemia materna e frequenza di taglio cesareo,
macrosomia, iperinsulinemia fetale, morbilità neonatale (distocia di spalla, ipoglicemia, policitemia, iperbilirubinemia, di stress respiratorio).
È auspicabile quindi che nel giro di 2-3 anni siano disponibili i risultati finali dello studio
che sicuramente stabilirà a livello internazionale quale è il livello di iperglicemia materna associato ad un rischio misurabile per il feto; a quale livello di iperglicemia materna si deve intervenire per ridurre la morbilità materna e fetale, quale è il range di normalità da tenere in
considerazione per la curva da carico orale di glucosio con 75 grammi di zucchero, la possibilità di utilizzare l’OGTT con 75 g per la diagnosi in un’unica fase del GDM.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
13
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
Screening del GDM
I presupposti per lo screening di una condizione morbosa sono stati codificati sin dal 1975
da Sackett22 e sono i seguenti: la malattia deve costituire un importante problema sanitario
per prevalenza nella popolazione generale.
È necessaria una buona conoscenza della storia naturale della malattia, che deve risultare
associata a rilevante morbilità, immediata ed a distanza. Deve essere disponibile un test diagnostico codificato, affidabile, e riproducibile considerato il “Gold standard”.
Alla diagnosi deve poter seguire una terapia efficace nel prevenire o contenere gli effetti
della malattia. Il test di screening deve avere sensibilità e specificità, rapidità e semplicità di esecuzione, costo contenuto.
Deve essere previsto, infine, un rapporto costi/benefici favorevole.
In questo contesto, la considerazione che la presenza di fattori di rischio per lo sviluppo
di GDM consente di sottoporre ad un programma diagnostico per tale malattia solo il 50%
delle gravide e la consapevolezza della necessità di una diagnosi precoce di una patologia con
importanti conseguenze per la madre ed il nato, hanno fatto sì che il “Second International
Workshop Conference on Gestational Diabetes” decidesse di consigliare di sottoporre a screening per il GDM tutte le donne gravide, indipendentemente dalla presenza o meno di fattori di rischio per tale patologia, alla 24a-28a settimana di gravidanza, (screening universale)23.
Quale test di screening la Consensus consigliava il “minicarico di glucosio”, che consiste
nella somministrazione di 50 g di glucosio e nella valutazione della glicemia plasmatica un’ora
dopo. Il test viene considerato positivo quando la glicemia è ≤ 140mg/dl; la positività del test
è una indicazione ad eseguire un test diagnostico, costituito in tal caso dalla curva da carico
orale di glucosio (OGTT).
Il Gruppo di Studio SID Diabete e Gravidanza, per consentire una diagnosi più precoce,
in accordo con altri autori, ha consigliato l’anticipazione dello screening alla 14a-16a settimana di gravidanza in presenza di fattori di rischio per GDM (Tabella 1)24,25.
Tabella 1. Fattori di rischio per Diabete Gestazionale (Linee guida SID)
Anamnestici Maggiori
Anamnestici Minori
1 solo criterio
14
Almeno 2 criteri
Pregresso GDM o IGT
Sovrappeso
Familiarità di 1°grado per diabete
Età >30 anni
Obesità (BMI>28)
Pregressa macrosomia
(≥ 4kg) o LGA (>90°C)
Mortalità perinatale da causa ignota
Ipertensione arteriosa
Due o più aborti
Poliidramnios
Gestosi
Attuali
1 solo criterio
Incremento ponderale
>1,2 kg nel 1° trimestre
e/o 400 gr/settimana nel 2°-3° trimestre
Ricorrente glicosuria a digiuno
Poliidramnios
Crescita fetale accelerata e dismorfica
Elevata parità
Parti pre-termine
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
Recentemente il gruppo di esperti dell’ADA, che ha proposto i nuovi criteri di classificazione e diagnosi del diabete ha proposto anche nuove indicazioni all’esecuzione dello screening26. Su tali indicazioni si è allineata anche la “Fourth Consensus Conference on GDM”27, che
ha distinto le gravide in pazienti a rischio basso, medio ed elevato (Tabella II). Secondo tali
esperti nelle gravide che presentino età <25 anni, peso corporeo normale, assenza di familiarità per diabete, e che non appartengano a gruppi etnici ad alta prevalenza di diabete, non
è necessario eseguire lo screening per la bassa prevalenza in esse di GDM.
Tabella II. Criteri ADA per la valutazione del grado di rischio per GDM
Basso rischio
Medio
Screening non indicato
Appartenenza a gruppo etnico
con bassa prevalenza GDM
Familiarità negativa
per diabete mellito
Anamnesi ostetrica
priva di esiti sfavorevoli
Nessun precedente di anormale
tolleranza al glucosio
Età inferiore a 25 aa
Screening fra 24a -28a s.g.
Caratteristiche intermedie
tra basso e alto rischio
Normopeso
Alto
Screening appena possibile
Familiarità positiva
per diabete in parenti di 1° grado
Pregresso riscontro di intolleranza glucidica
Pregresso riscontro di intolleranza glucidica
Obesità
Glicosuria marcata
nella gravidanza in corso
Le gravide ad elevato rischio, quelle cioé che presentano marcata obesità, familiarità di primo grado per diabete, pregresso GDM, o IGT, glicosuria, devono essere sottoposte a screening il più precocemente possibile; lo screening se negativo, andrà poi ripetuto alla 24a-28a
settimana di gravidanza.
Le pazienti a rischio medio, quelle in cui manca almeno una delle caratteristiche che identificano il basso rischio ma non rientrano nelle classi ad alto rischio, devono essere sottoposte a screening alla 24a-28a settimana di gravidanza.
Le etnie considerate a rischio sono quelle che presentano una elevata prevalenza di diabete di tipo 2 e cioè quelle latino-americana, africana, americana (nativi), Sud Est-asiatica, australiana (indigena), isole del Pacifico.
Dopo il IV Workshop una serie di punti sono stati messi in discussione in relazione allo
screening del GDM, tra i quali l’estensione dello screening, la definizione del cut-off più adeguato per il test di screening, il possibile utilizzo di metodi alternativi al minicarico di glucosio,
il possibile utilizzo dei glucometri nella procedura di screening.
Per quanto riguarda l’estensione dello screening, Moses e coll.28 hanno valutato la prevalenza di GDM tra le gravide considerate a basso rischio dall’ADA ed hanno evidenziato come in esse la prevalenza del GDM è del 2.8% non sottovalutabile, e che tali gravide hanno gli
stessi outcomes delle altre GDM.
Lavori più recenti di Di Cianni e coll.29 evidenziano che nella nostra realtà solo il 5% delGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
15
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
le donne che intraprendono una gravidanza hanno un basso rischio quindi il risparmio di risorse non è elevato; tuttavia non sottoporre a screening queste pazienti non permette di diagnosticare un 2% di GDM, ed inoltre si rischia di non diagnosticare le pazienti con diabete di
tipo 1 che la gravidanza può mettere in evidenza e che necessitano di stretta sorveglianza.
Alle stesse conclusioni giungono anche Corcoy e coll. in un recente studio che ha analizzato
la frequenza delle donne a basso rischio in 1635 pazienti affette da GDM30.
Lo screening, secondo le raccomandazioni della Consensus Conference27, può essere eseguito indipendentemente dai pasti; dobbiamo però sottolineare che il pasto determina un’iperinsulinemia che riduce il livello della glicemia, perciò in tal caso il valore soglia del test è di
130 mg/dl31. In considerazione, quindi, di tale variabilità è consigliabile comunque l’esecuzione
del test a digiuno tenendo come valore soglia di glicemia i 140 mg/dl.
Sul valore soglia studi di Bonomo et al.32 segnalano il possibile uso di cut-off differenziati
in funzione del livello di alterazione diagnostica che si vuole identificare Diabete Gestazionale
o alterazioni minori della tolleranza ai carboidrati. Su tale problema comunque la “Fourth
Consensus Conference on Gestational Diabetes”27 si è espressa a favore dei 140mg/dl: tale valore presenta una specificità del 87% ed una sensibilità del 79% che sono da considerarsi più
che accettabili per un test di screening (Tabella III).
Tabella III. Minicarico di glucosio: criteri di interpretazione secondo le raccomandazioni ADA.
Cutoff (mg/dl)
130
135
140
Sensibilità
100%
98%
79%
Specificità
78%
80%
87%
Sulla possibilità di utilizzare i fattori di rischio anamnestici come metodo di screening recentemente alcuni autori hanno proposto un modello basato su 5 indicatori di rischio (familiarità per diabete, pregressa macrosomia, pregresso GDM, BMI pre-gravidico > di 27, glicosuria)33, la sensibilità del test dell’80.6% è simile a quella del minicarico di glucosio, purtroppo
la specificità è bassa cioè del 64.5%.
Diversi cut-off sono stati proposti nel considerare la glicemia a digiuno quale test di screening, ma come evidente dalla Tabella IV vi è una grande variabilità nei livelli di sensibilità e specificità dovuti alle differenti popolazioni valutate, ai differenti metodi di analisi utilizzati34-37.
Tabella IV. Glicemia a digiuno utilizzata quale metodo di screening del GDM
Autore
Cut-off
Sensibilità
Agarwl (2000)
Atilano (1999)
Perrucchini (1999)
Reichelt (1998)
16
mmol/l (mg/dl)
5.3 (95.4)
5.8 (104.4)
4.8 (86.4)
4.9 (88.2)
(%)
79
20.2
81
88
Specificità
(%)
91
99.7
76
78
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
Anche la possibilità di utilizzare il dosaggio dell’HbA1c quale test di screening è stata recentemente rivalutata, considerando quale soglia diagnostica un valore di HbA1c ≥ a 5.5%: la
sensibilità è risultata del 72.8% e la specificità del 66%, più basse di quelle del minicarico di
glucosio38.
Infine, i glucometri vengono periodicamente riproposti a tale proposito perché permettono di avere un risultato immediato, a costo minore, con possibilità di abbreviare il successivo percorso diagnostico. Nonostante il miglioramento delle prestazioni diagnostiche ottenute con l’evoluzione tecnologica di tali strumenti39, essi mostrano ancora una variabilità non
compatibile con il loro utilizzo né nelle procedure di screening né in quelle di diagnosi ed attualmente non sono approvati per tale utilizzo dalle società nazionale ed internazionali.
Diagnosi del GDM
La positività del test di screening è indicazione all’esecuzione di un test diagnostico costituito, in questo caso, dalla curva da carico orale di glucosio.
La diagnosi del GDM ancora oggi è un argomento controverso; nonostante 4 workshop
internazionali e prese di posizioni più o meno ufficiali da parte delle varie società scientifiche
internazionali, non vi è ancora univocità nelle indicazioni riguardanti l’utilizzo della curva da
carico orale di glucosio con 100 g (secondo O’Sullivan) o con 75 g (secondo l’OMS).
O’Sullivan e coll40 hanno valutato 752 donne, non selezionate, sottoposte ad OGTT con
100 grammi di glucosio e dosaggio della glicemia su sangue intero ogni ora per tre ore.
I limiti diagnostici (Tabella V) sono stati stabiliti utilizzando il criterio statistico delle 2 deviazioni standard oltre la media sulla base del loro valore predittivo nei confronti di una successiva comparsa di diabete nella madre.
La diagnosi di GDM è stata stabilita sulla base della presenza di due valori uguali o superiori al livello soglia. La prevalenza del GDM, con tali criteri, è risultata del 2%. Dobbiamo sottolineare che la validazione di questi criteri diagnostici è stata fatta sulla base della successiva
evoluzione della madre verso un diabete e non sull’esito negativo ostetrico e/o perinatale della gravidanza.
Questi criteri sono stati adottati nel 1978 dall’American College of Obstetricians and
Gynecologists (ACOG)41 e poi dal NDDG42. In tale occasione è stata apportata una modifica
ai limiti diagnostici, infatti in considerazione del passaggio del dosaggio della glicemia su sangue intero a quello su plasma i singoli cut-off sono stati aumentati del 15% (Tabella V).
Una successiva modifica è stata, poi apportata da Carpenter e Coustan43, che in considerazione del passaggio dal metodo di Somogy-Nelson ai metodi enzimatici più specifici per il
dosaggio della glicemia, hanno operato una riduzione di 5 mg/dl ai valori di riferimento
dell’OGTT (Tabella V). Questi criteri, sicuramente metodologicamente più corretti sono stati
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
17
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
adottati dalla SID già dal 199444, tuttavia sino a poco tempo fa sia l’ACOG sia l’ADA sia altre
importanti istituzioni scientifiche internazionali hanno continuato ad adottare i criteri del
NDDG.
Tabella V. Criteri diagnostici per l’OGTT con 100 gr in gravidanza
O’Sullivan 1964
NDDG 1979
Glucosio mg/dl
Glucosio mg/dl
Sangue venoso
Plasma venoso
0’
90
105
1h
165
190
2h
145
165
3h
125
145
Diagnosi GDM: 2 o più valori > a quelli indicati
Carpenter 1982
Glucosio mg/dl
Plasma venoso
95
180
155
140
In questo contesto la Fourth International Consensus Conference on GDM27 ha tentato di
omologare i test utilizzati per la diagnosi del GDM ribadendo la necessità di utilizzare quale
test diagnostico l’OGTT con 100 grammi di glucosio (Tabella VI), interpretato secondo i criteri di Carpenter e Coustan (Tabella VII)43. L’adozione dei nuovi criteri diagnostici, meno elevati e più restrittivi, determina una maggiore prevalenza di GDM, prevalenza che in due studi eseguiti su casistiche molto ampie, è stata calcolata intorno al 5%45,46. In particolare dallo
studio di Magee e coll44 è emerso che utilizzando tali nuovi criteri è possibile identificare un
ulteriore 50% di donne affette da GDM; queste donne presentano fattori di rischio di GDM,
ed una frequenza di macrosomia e morbilità neonatale simile a quella delle pazienti identificate con i vecchi criteri.
Tabella VI. Criteri diagnostici secondo le raccomandazioni ADA per l’OGTT in gravidanza con 100 g e 75 g di glucosio
plasma venoso
OGTT
OGTT
mg/dl
100g
75g
0’
95
95
1h
180
180
2h
155
155
3h
140
Diagnosi GDM:2 o più valori > a quelli indicati
Tabella VII. Modalità di esecuzione dell’OGTT (100 g e 75 g)
Dieta
Almeno 150 g CHO/die per 3 gg
Orario
Al mattino dopo 8-14 ore di digiuno
75 g o 100 g glucosio disciolti in acqua 400 ml ,da ingerire in 5’
Carico
Venoso basale, poi ogni ora per 2-3 ore
Prelievo
Dosaggio
Su plasma con metodo enzimatico
Comportamento
Durante il test posizione seduta, non fumare
18
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
Anche sull’approccio da adottare per la diagnosi del GDM, in due fasi con minicarico di
glucosio ed OGTT, o in unica fase con solo OGTT, non vi è consenso; infatti, mentre l’ADA
e l’ACOG consigliano il procedimento in due fasi, l’OMS già nel 1985 ha proposto di utilizzare un unico test cioè l’OGTT con 75 grammi di glucosio, con prelievi a digiuno e dopo 2
ore, interpretato secondo i criteri utilizzati nella popolazione generale47, (Tabella VIII). Questa
posizione è stata ribadita anche recentemente, recependo, però i nuovi livelli diagnostici a digiuno, proposti dall’Expert Committeee dell’ADA26. Adottando questo criterio un valore di glicemia 2 ore dopo OGTT superiore o uguale a 140 mg/dl è diagnostico per IGT in gravidanza, condizione che andrebbe trattata come il GDM. Il limite dell’adozione di questi criteri sta
nella non validazione del test in gravidanza; inoltre con gli stessi si ha un netto incremento
della frequenza di GDM, come dimostrato da alcuni studi48,49.
Tabella VIII. Criteri per la diagnosi di diabete mellito non in gravidanza.
Normoglicemia
FPG <110mg/dl
2h PG<mg/dl
IFG (Impaired Fasting Glucose)
FPG ≥ 110<126 mg/dl
IGT (Impaired Glucose Tolerance)
2hPG≥ 140mg <200mg/dl
Diabete mellito
>o=126mg/dl
2hPG>200 mg/dl
sintomi
glicemia random≥ 200mg/dl
FPG= glicemia a digiuno
2hPG = glicemia 2 ore dopo carico di glucosio
L’adozione dei criteri di Carpenter e Coustan non prevede di considerare la condizione
di IGT in gravidanza, tutavia una serie di studi ha messo in evidenza come le pazienti affette
da alterazioni minori delle tolleranza ai carboidrati (un solo valore dell’OGTT alterato) presentano una frequenza di morbilità materna e fetale (macrosomia, taglio cesareo) più elevata rispetto alle gravide normali50,51. Perciò sarebbe utile, come suggerito da Ramus e Kitzmiller52,
monitorare tali pazienti e ripetere l’OGTT dopo 4 settimane per valutare l’eventuale evoluzione verso il GDM.
In questo contesto la Fourth International Consensus Conference on GDM27 ha cercato una
posizione di intermediazione indicando la possibilità di utilizzare l’OGTT con 75 g di glucosio e prelievi ogni ora per due ore, come per il soggetto non in gravidanza, ma in considerazione del fatto che i livelli soglia dell’OGTT con 75 g non sono stati validati, la Consensus
consiglia di usare anche per l’OGTT con 75 g gli stessi livelli soglia dell’OGTT con100 g.
Infine, la Consensus ha indicato la possibilità di utilizzare sia un procedimento in due fasi,
minicarico più OGTT, sia un procedimento in fase unica che prevede l’esecuzione del solo
OGTT.
Le ultime raccomandazioni dell’ADA53 e dell’ACOG54 sono allineate su questa posizione,
in particolare, tenendo conto della presenza di fattori di rischio, essa consiglia l’esecuzione
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
19
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
dell’OGTT, senza il preventivo screening, nelle pazienti a rischio elevato e che appartengano
a popolazioni con alto rischio di diabete, e l’esecuzione dello screening seguito, in caso di positività dello stesso, da un OGTT con 100 g di glucosio interpretato secondo i criteri di
Carpenter e Coustan, in tutti gli altri casi. In alternativa è possibile usare l’OGTT con 75 g di
glucosio, bisogna tener presente però che non è ancora validata.
Come ribadito anche dall’ADA53, il riscontro, anche nella donna in gravidanza, di una glicemia plasmatica a digiuno ≥ a 126 mg/dl e/o di una glicemia plasmatica non a digiuno ≥ a
200mg/dl, se confermate in una successiva occasione, permettono già di fare diagnosi di diabete, senza ricorrere a test di screening e di diagnosi. Una serie di studi hanno poi indicato
la possibilità di riconoscere un risultato del minicarico di glucosio da considerare diagnostico
di GDM. Carpenter e Coustan43 hanno individuato la soglia dei 182 mg/dl superata la quale
l’OGTT risultava positivo nel 95% dei casi. Anche su questo punto manca un consenso internazionale, in attesa di dati validati comunque è giustificata una soglia di sicurezza diagnostica
quale quella individuata da Ramus e Kitzmiller52 di 198 mg/dl.
Il Gruppo di Studio Diabete e Gravidanza della SID, in attesa dei risultati dell’HAPO Study
si è allineato su una posizione per così dire conservativa consigliando perciò di continuare ad
eseguire lo screening universale, utilizzando il procedimento in due fasi.
Lo screening con minicarico di glucosio da eseguirsi a digiuno va fatto perciò a tutte le
gravide tra la 24a e la 28a settimana di gravidanza, se la donna non è a rischio, al più presto
se presenta fattori di rischio per GDM; il cut off da considerare è 140 mg/dl. Il test diagnostico da utilizzare è l’OGTT con 100 gr di glucosio interpretato secondo i criteri di Carpenter
e Coustan, come evidenziato nella Figura 1.
Figura 1. Screening e diagnosi del GDM. Linee guida SID
Fra la 24a-28a settimana gestazionale o appena possibile in presenza di fattori di rischio
GLICEMIA
≥
126 a digiuno
200 random
<
CGT
50 gr
<140
Normale
20
≥140
≥198
OGTT
100 gr
GDM
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
Monitoraggio
Dopo aver fatto diagnosi di GDM la gravida va monitorata attentamente dal punto di vista metabolico ed ostetrico per ridurre al massimo le complicanze materne e fetali legate a
tale patologia.
Ad ogni visita di controllo, di solito con frequenza quindicinale, la paziente deve essere
sottoposta a valutazione della glicemia plasmatica e della chetonuria, a monitoraggio dell’andamento del peso e della PAO; i livelli di HbA1c verranno valutati mensilmente.
La paziente deve anche essere educata all’esecuzione dell’autocontrollo domiciliare delle
glicemie, secondo uno schema settimanale a scacchiera che comprenderà la valutazione sia
delle glicemie a digiuno sia di quelle pre e post-prandiali. Poiché il GDM è caratterizzato da
una importante aumento delle glicemie dopo i pasti e visti i risultati del lavoro di DeVeciana
e coll55, che ha messo in evidenza che il monitoraggio delle glicemie un’ora post-prandiale e
l’instaurazione della terapia insulinica sulla base di tali glicemie sono in grado di ridurre, nelle
GDM, la frequenza della macrosomia e dei tagli cesarei, sarebbe utile valutare le glicemie
un’ora dopo i pasti, in accordo anche con quanto raccomandato recentemente dall’ADA56. I
valori di glicemia a digiuno e post-prandiali che si devono ottenere nelle pazienti con GDM
sono a digiuno inferiori a 95 mg/dl, un’ora dopo i pasti inferiori a 140 mg/dl e due ore dopo
i pasti inferiore a 120 mg/dl. I valori dell’HbA1c devono essere entro il range di normalità.
La valutazione della chetonuria, al mattino a digiuno, è importante perché permette di verificare eventuali errori dietetici,quali un basso apporto di carboidrati, una eccessiva riduzione delle calorie totali, un digiuno prolungato.
Il trattamento iniziale del GDM è quello basato sulla dieta e sulla moderata attività fisica.
Quando con la terapia dietetica non è possibile raggiungere gli obiettivi glicemici prefissati vi è l’indicazione ad iniziare, nella paziente con GDM, la terapia insulinica.
La recente disponibilità di analoghi dell’insulina a rapido inizio di azione e con maggiore
capacità di ridurre il picco iperglicemico post-prandiale offre un’arma efficace nel GDM, quando vi sia iperglicemia post-prandiale. Studi recenti, infatti, hanno evidenziato come la terapia
con tali insuline, nelle donne con GDM, è efficace nel ridurre la glicemia post-prandiale e le
ipoglicemie tra un pasto ed il successivo, senza aumentare il rischio di immunogenicità ed essere accompagnata da passaggio transplacentare57.
Gli ipoglicemizzanti orali, che attraversano la barriera placentare, sono sconsigliati in corso di gravidanza; tuttavia Langer, in un recente studio58, riporta che l’uso della gliburide, in pazienti con GDM, non determina complicanze materne e fetali con frequenza maggiore di quelle riscontrate nelle pazienti con GDM trattate con insulina. È comunque opportuno, come
sottolineato anche recentemente dall’ADA53, che vengano condotti ulteriori studi per verificare la reale possibilità di usare gli ipoglicemizzanti orali in corso di gravidanza.
Per quanto riguarda il monitoraggio ostetrico, esso non si discosta molto da quello che
viene eseguito nelle pazienti con diabete pregravidico.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
21
Screening e diagnosi del diabete gestazionale
Follow-up post-parto
La tolleranza ai carboidrati deve essere rivalutata dopo il parto: l’ADA, anche nelle recentissime raccomandazioni53, consiglia una prima rivalutazione dopo sei settimane dal parto o a
termine dell’allattamento; in caso venga diagnosticata una ridotta tolleranza ai carboidrati
(IGT) o una alterata glicemia a digiuno (IFG), (Tabella VIII) le rivalutazioni andranno eseguite
annualmente; nei casi in cui la tolleranza ai carboidrati risulti normale le rivalutazioni dovrebbero essere eseguite ad intervalli non superiori a tre anni.
Le donne con pregresso GDM e soprattutto quelle cui sia stato diagnosticato un IFG o
un IGT dopo la gravidanza, devono essere a conoscenza dell’elevato rischio che hanno di sviluppare un diabete e dell’importanza sia di monitorare la tolleranza ai carboidrati sia di correggere gli altri fattori di rischio eventualmente presenti (obesità, dislipidemie, ipertensione
arteriosa); le stesse devono inoltre conoscere i sintomi acuti di insorgenza di diabete in modo che possano rivolgersi subito al proprio medico curante.
I nati da madre con GDM hanno un significativo maggiore rischio di sviluppare obesità e
diabete di tipo 2 nel corso dell’adolescenza e questo potrebbe spiegare almeno in parte l’aumento di tale patologia in età pediatrica osservata negli ultimi anni59.
Conclusioni
Dalle considerazioni su esposte emerge come persista nel campo dello screening e della
diagnosi del Diabete Gestazionale una situazione di non univocità. In attesa di risultati degli
studi in corso che consentiranno di operare scelte chiare sulle questioni ancora in sospeso il
Gruppo di Studio Diabete e Gravidanza della SID ritiene di non modificare, per il momento
i criteri di screening e diagnosi del GDM, criteri riassunti nella Figura 1.
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24
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
DIABETE IN GRAVIDANZA
SCREENING DEL DIABETE
GESTAZIONALE:
SELETTIVO O UNIVERSALE?
2
S. Alberico, M. Bernardon, M. Costantini, P. Lanza, R.Tercolo, GP. Maso
Dipartimento Ostetricia e Ginecologia IRCCS Burlo Garofolo,Trieste
Il diabete, patologia complessa, riveste particolare importanza in gravidanza, poiché è di
osservazione non rara e comporta un aumento dell’infertilità, della morbidità e della mortalità sia materna che feto-neonatale. La gravidanza a sua volta rappresenta una condizione di
stress diabetogeno e può quindi rendere manifesta un’alterazione del metabolismo glucidico
prima assente. Per tale motivo una delle problematiche connesse alla gestione del diabete gestazionale (GDM), inteso come un’intolleranza ai carboidrati di severità variabile, ad inizio, per
la prima volta nel corso della gravidanza, riguarda proprio il precoce riconoscimento della sua
insorgenza, con test sensibili e possibilmente di basso costo, applicati alla popolazione generale di donne gravide oppure a quelle gestanti, che presentano dei fattori di rischio specifico
per questa malattia. È bene premettere che il GDM non è di raro riscontro, la sua incidenza,
infatti, oscilla negli Stati Uniti tra l’1.1% ed il 14.3% a seconda delle componenti etniche delle popolazioni studiate e dei criteri diagnostici applicati per la sua identificazione1, in Canada
invece questa incidenza è del 6.5%2.
Il dibattito aperto in letteratura non riguarda quindi l’aumentata frequenza di un’alterazione del metabolismo glucidico in gravidanza, che è accertata, quanto l’opportunità di eseguire
un test di screening universale o selettivo e la modalità di esecuzione dello stesso.
Ora sebbene una correlazione tra un’iperglicemia materna e un peggioramento dell’outcome neonatale sia stata da più, parti riportata3-6, non esistono evidenze conclusive che la diagnosi e il trattamento del diabete gestazionale costituiscano di fatto un beneficio per la gravidanza in termini di miglioramento della mortalità perinatale, frequenza della macrosomia e
della distocia di spalla, di traumi da parto, di incidenza di tagli cesarei, di pre-eclampsia e di effetti a breve e lungo termine sul metabolismo glucidico del neonato.
Sino al 1994 era opinione diffusa e stabilizzata tra gli Ostetrici che il test di screening per
il diabete gestazionale dovesse essere rivolto a tutte le gravide, con l’esecuzione tra la 24a e
la 28a settimana di un test da carico con 50 g di glucosio definito Glucose Challange Test (GCT)7.
Da quell’anno è iniziato un dibattito concretizzatosi nelle direttive dell’A.D.A. del 19978
che prevedevano l’esclusione dallo screening di gravide non obese, di età inferiore ai 25 anni, con familiarità negativa per patologia diabetica e non appartenenti a gruppi razziali a riGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
25
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
schio. Tale proposta ribadita nel marzo 1998 al IV° IW-Conference on Gestational Diabetes di
Chicago non ha però riscontrato consensi unanimi in letteratura9. Coustan e coll. già in passato avevano verificato che utilizzando i fattori di rischio specifico per il diabete gestazionale
come indicatori per lo screening di questa malattia, era necessario eseguire il test in una quota significativa della popolazione, circa il 50%, mancando poi la diagnosi in circa 1/3 dei casi di
diabete10.
Più recentemente in uno studio ben strutturato, Moses e coll.11 rilevarono una percentuale di diabete gestazionale nel 2.8% di gravide definite a basso rischio e la mancanza di alcun
fattore di rischio specifico nell’8.7% dei casi di diabete gestazionale. Quest’Autore rilevava poi
che l’attuazione del test solo a soggetti a rischio per diabete comportava in ogni modo l’esecuzione dello stesso nell’80% della popolazione generale, perdendo comunque una quota del
10% di gestanti con GDM.
Poi altri elementi di valutazione della condizione di rischio per lo sviluppo di un GDM sono entrati a far parte dei criteri di selezione delle donne in gravidanza. Uno di questi è stata
la valutazione del Body Mass Index (BMI), calcolo del rapporto tra il peso del soggetto, diviso per il quadrato dell’altezza. Secondo alcuni Autori il riscontro di un indice di BMI maggiore di 27 costituisce un elemento di indirizzo della paziente ai test di screening per il GDM12.
Di recente in un suo News Release anche l’ACOG ha incluso questo criterio di valutazione tra i fattori di rischio per GDM, indicando però un indice di cut-off superiore a 2513.
Lungi dall’essere risolto il dibattito sul metodo di screening più corretto da utilizzare in
gravidanza, si è arricchito negli ultimi anni di nuovi aspetti di discussione. Si è, infatti, instaurato in alcuni Autori il convincimento che l’applicazione di uno screening universale per il GDM,
non solo non apporti reali miglioramenti sull’outcome materno e feto-neonatale, ma altresì
contribuisca in maniera significativa all’aumento artefatto di diagnosi di GDM falsamente positive14. Molto spesso poi la conseguenza di una tale procedura si concretizzerebbe in un aumento, non sempre giustificato, dei costi di monitoraggio di queste gravidanze e di una maggiore operatività, intesa in un aumento della frequenza di tagli cesarei.
A conclusioni diametralmente opposte giungono altri Autori, che ritengono invece giustificato rivolgere a tutta la popolazione di gravide, un test di screening per il diabete, per identificare una patologia che comporta un peggioramento significativo dell’outcome sia materno
che fetale a breve e lungo termine15,16.
Nella stessa direzione spingono poi coloro che giustificano l’esecuzione di uno screening
universale, considerando il rischio di ricorrenza del GDM nelle gravidanze successive e dopo
la gravidanza, nella terza età17-19.
Un’ulteriore considerazione è posta da altri ricercatori, che hanno valutato di fatto quante pazienti, giudicate a basso rischio, secondo i criteri dello screening selettivo risparmierebbero l’esecuzione del test da carico breve. Particolarmente esauriente è in questo senso
l’esperienza riportata da Williams e coll. che hanno calcolato sulla propria popolazione che
26
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
circa il 90% della popolazione generale dovrebbe comunque eseguire il test, presentando comunque uno dei fattori di rischio indicati per GDM.Tale procedura porterebbe inoltre ad una
quota del 4% di GDM non diagnosticati20.
Le controversie presenti in Letteratura riguardano anche la modalità di esecuzione del test,
la quantità del carico di glucosio da somministrare e il cut-off da considerare. Nella Tabella
successiva sono riassunte le raccomandazioni suggerite da alcune Linee-guida disponibili.
Linee Guida GDM 1992 - 2005
Società
Screening Suggerito
Canadian Task Force
Evidenze insufficienti
on the Periodic Health
per raccomandare
Examination21,1992
lo screening
SOGC22,1992
Universale
IV° Inter. Wokshopselettivo
Conference on GDM23,
1997
CDA24, 1998
selettivo
selettivo
ADA25, 1998
ACOG26 2001
ACOG
ADA
CDA
NDDG
GCT
OGCT
Universal or Selective
Test di Screening
//
Test Diagnostico
//
50 g GCT
2 Opzioni:
a) GCT e OGCT limite
130 mg e/o 140 mg
50 g GCT
50 g GCT limite 130 mg
100 g OGCT
75 g o 100 g, curva
di Carpenter-Coustan
50 g GCT limite
130 mg e/o 140 mg
American College Obstetrics and Gynaecologist
American Diabetes Association
Canadian Diabetes Association
National Diabetes Data Group
Glucose Challange Test
Oral Glucose Challange Test
come sopra
100 g OGTT
secondo NDDG
100 g OGCT
Come si può notare non è raro che il cut-off indicato per la curva breve non sia unico.
Secondo il IV° International Workshop-Conference on GDM del 1997 e secondo il Bollettino
ACOG del 2001 questo valore può oscillare da 7.2 mm/L (130 mg/dL) che è in grado di identificare il 90% dei casi di GDM, ma con un 20-25% di donne screenate, che necessitano poi
di una OGCT con carico da 100 g per completare il protocollo e 7.8 mmol/L (140 mg/dL)
che possiede una sensibilità dell’80%, ma che necessita di un prosieguo dell’indagine solo nel
14-18% dei casi.
Secondo qualche Autore il differente cut-off può essere utilizzato in base al livello di rischio della popolazione screenata, abbassando il cut-off quando si tratta di popolazione ad alto rischio27.
Noi crediamo che questo tipo di differenziazione sia troppo complesso e nella nostra
esperienza utilizziamo per il GCT un unico cut-off a 140 mg/dL.
Si ritiene quindi opportuno riportare una sintesi delle raccomandazioni suggerite dal U.S.
Preventive Service Task Force, pubblicate nel febbraio 2003, ove si ritiene che le evidenze riportate in letteratura non sono sufficienti per esprimere un parere a favore o contro l’esecuzioGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
27
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
ne di uno screening per il diabete gestazionale. Successivamente affermano che è disponibile una buona evidenza che lo screening associato ad una dieta corretta e alla terapia insulinica è in grado di ridurre il rate di macrosomia in donne con diabete gestazionale. Lo stesso
gruppo afferma comunque che le evidenze non sono sufficienti per affermare che l’attuazione dello screening sia in grado di produrre importanti effetti di riduzione di eventi avversi per
la madre o il neonato, in termini di frequenza di tagli cesarei, danni perinatali, mortalità perinatale28.
Lo scopo di questo articolo è quello di confrontare le evidenze disponibili in Letteratura
su una linea guida da seguire nella gestione di una popolazione ostetrica in riferimento alla
opportunità di esecuzione o meno di uno screening universale o selettivo dl GDM e per dare una risposta a questo quesito ci serviremo anche dei risultati di uno studio condotto presso Il Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’IRCCS Burlo Garofolo di Trieste e pubblicato nel 200429. Questo studio ha verificato la frequenza del diabete gestazionale e la validità di un programma di screening cosiddetto “universale” (indirizzato cioè a tutte le gravide,
indipendentemente dalla presenza di fattori di rischio specifico), correlando i risultati con le
caratteristiche cliniche ed epidemiologiche della madre e l’outcome della gravidanza e feto
neonatale. Un secondo end-point è stato quello di verificare la frequenza dei tagli cesarei nella popolazione di gravide con diagnosi di GDM.
Un ultimo target di questo lavoro è stato quello di valutare i costi dell’applicazione di un
simile programma. Lo studio è stato condotto retrospettivamente sulla popolazione di gravide, abbracciando il periodo compreso tra giugno 1997 e marzo 2000.
Esponiamo brevemente alcuni dei risultati più significativi al fine di giungere poi ad una flow
chart operativa, che suggeriamo nell’attuazione di uno screening del diabete gestazionale.
Si sono identificate 856 pazienti che hanno eseguito una Curva Breve (GCT) con un carico di glucosio di 50 g, tra la 24a e la 28a settimana di gestazione. Le pazienti che presentavano una GCT alterata (glicemia a 60 minuti dal carico orale superiore o uguale a 140 mg/dl)
hanno quindi eseguito una OGTT (oral glucose test tollerance, con un carico di 100 g di glucosio) e sono state diagnosticate come diabetiche in base a 2 criteri: la positività di quest’ultimo test secondo i cut-off proposti da Carpenter e Coustan10 (95, 180, 155, 140 mg/dl rispettivamente a digiuno, a 1, 2 e 3 ore dal carico orale. Il test si considerava positivo con il
contemporaneo riscontro di almeno 2 valori alterati mediante dosaggio enzimatico su plasma) e in questo caso scattava la diagnosi di Diabete Gestazionale, questa diagnosi era determinata anche dal riscontro di una GCT superiore o uguale a 185 mg/dl (10.3 mmol/L)10.
Bisogna dire che questo criterio di definizione del GDM è di fatto quello più applicato a livello internazionale, ma non è raro trovare altri limiti di glicemia per indicare la stessa diagnosi, in accordo con parametri indicati dalle linee guida di alcuni paesi (vedi Canada, ove è necessario che siano superati 2 dei 3 seguenti valori glicemici: 95 mg, 190 mg, 160 mg, dopo un
carico con 75 g di glucosio)24.
28
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Nel caso di un riscontro patologico della OGCT, le pazienti venivano invitate ad eseguire
un profilo glicemico di 24 ore in ospedale, con valutazioni ogni 3 ore, a dieta controllata, ipoglucidica, normocalorica. Si considerava patologico un profilo con una media glicemica superiore a 100 mg/dl e con valori post-prandiali, ad 1 ora, superiori a 140 mg/dl. Il riscontro per
due giorni consecutivi di un profilo glicemico alterato comportava l’instaurazione di una terapia insulinica, con boli pre-prandiali di insulina rapida o, ove necessario, di insulina intermedia prima del riposo notturno e nei casi più severi al mattino. Questo schema diagnostico descritto costituisce il protocollo operativo attuale del nostro Dipartimento ed è riportato nella flow chart finale, che si propone come modello da seguire (in questo protocollo abbiamo
sostituito il carico da 100 g della OGCT con un carico da 75 g, per rendere più breve il test,
che si sviluppa per due ore su tre punti di valutazione, che sono gli stessi proposti allo stesso tempo dalla curva, di Coustan e Carpenter sopra riportata: 95 mg, 180 mg, 155 mg).
Sulle 856 gravide che hanno eseguito la GCT si sono identificati 209 (24.4%) casi con valore glicemico ad un’ora superiore a 140 mg/dl. Di queste 22 (2.6%) avevano una glicemia
superiore a 185mg ed acquisivano quindi direttamente la diagnosi di diabete gestazionale. Le
restanti 187 (glicemia tra 140 mg e 184 mg) venivano quindi invitate ad attuare una curva
glicemica standard, 143 di queste la eseguivano ed i risultati erano superiori al cut-off stabilito in 34 casi (23.8%), che costituiscono il 4.0% della popolazione generale screenata, con acquisizione di un’analoga diagnosi (GDM). Complessivamente si aveva quindi una diagnosi di
diabete gestazionale nel 6.6% della popolazione inizialmente valutata.
Si invitavano quindi queste pazienti ad effettuare un profilo glicemico nictemerale.Tale programma veniva fatto da 13 gravide su 22 del primo gruppo e da 21 su 34 del secondo. Il profilo risultava alterato nel 61.5% dei casi delle gravide selezionate per GCT>=185 mg e nel
47.6% di quelle con curva standard patologica (Tabella 1). Nella stessa Tabella è riportata la
distribuzione di tutta la popolazione osservata per classi di età.
Tabella I
Classi di età
<19
19-24
25-29
≥
n
%
“GCT”
n
3
0,4
<140 mg
647
63
7,4
140-184 mg 187
242
28,3
≥185 mg
22
548
64,0
856
856
n
%
GCT≥185mg 22
2,6
OGTT posit. 34
4,0
Profilo glicemico negativo
GCT≥185 mg
5
38,5
11
52,4
OGTT posit.
16
47,1
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
%
75,6
21,8
2,6
“OGTT”
negativo
positivo
n
109/856
34/856
%
12,7
4,0
“GDM”
143/856
n
56
%
6,6
Profilo glicemico positivo
8
61,5
10
47,6
18
52,9
13
21
34
29
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Nella Tabella II è illustrata la modalità del parto nei due gruppi di pazienti con diagnosi di
GDM e con profilo glicemico alterato, con una distinzione tra i parti insorti spontaneamente e quelli indotti.
Tabella II
Parto spontaneo
Parto indotto
Taglio cesareo
Ventosa
Forcipe
n
31
9
14
2
0
56
GDM
%
55,4
16,1
25,0
3,6
95% CI
(41,56%-68,42%)
(8,05%-28,83%)
(14,8-38,65%)
(0,62%-13,38%)
100%
n
10
3
5
0
0
18
Prof. glic. positivo
%
55,6%
16,7%
27,8%
95% CI
31,34%-77,6%)
(4,41%-42,26%)
(10,71%-53,59%)
100%
La prevalenza di parti indotti è intorno al 16% in entrambi i gruppi, rispettivamente 16.1%
per GDM positive e 16.7% per profilo glicemico positivo.Tale percentuale è superiore a quella della nostra popolazione generale, che oscilla intorno al 5%.
Per quanto riguarda la frequenza di tagli cesarei registrata nei due gruppi (rispettivamente 25% e 27.8%) osserviamo in termini assoluti un valore superiore a quello della nostra popolazione, che oscilla intorno al 19% circa, ma in termini statistici tale differenza non è significativa. Nella Tabella III abbiamo distribuito la popolazione reclutata per classi di età e per parità, confrontando i due gruppi per la presenza di valori patologici o meno delle prove da carico. Si sono ottenuti dei valori percentuali assolutamente sovrapponibili.
Tabella III
Classi di età
<20 anni
20-39 anni
>40 anni
Para
Nullipara
I Para
>I Para
n
1
202
6
209
n
123
73
13
209
GCT≥140mg/dl
%
95% CI
0,5%
(0,03%-3,05%)
96,7%
(92,94%-98,52%)
2,9%
(1,17%-6,44%)
100,0%
GCT≥140 mg/dl
%
58,9%
34,9%
6,2%
100,0%
95% CI
(51,83%-65,53%)
(28,56%-41,85%)
(3,5%-10,64%)
n
5
626
16
647
n
402
198
47
647
non patologiche
%
95% CI
0,8%
(0,28%-1,9%)
96,8%
(95%-97,93%)
2,5%
(1,46%-4,07%)
100,0%
non patologiche
%
62,1%
30,6%
7,3%
100,0%
95% CI
(58,26%-65,86%)
(27,1%-34,34%)
(5,44%-9,61%)
Abbiamo quindi analizzato i fattori di rischio specifico per malattia diabetica presenti in
tutta la popolazione osservata e abbiamo verificato le percentuali di comparsa di ciascun fattore per gruppi di pazienti, secondo i vari gradi di alterazione del metabolismo glucidico
(Tabella IV).
30
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Tabella IV
Fattori di Rischio
Familiarità n.22
M.E.U. n.4
Alt. Met. Gluc. n.3
Aum. Ponder. n.3
Poliabortività n.4
Aum. ponder. n.7
Glicosuria n.2
Iperglicemia n.12
Acc. Cresc. fet. n.8
Obesità
GCT≥185 n.22
6
27.3%
1
4.5%
0
1
4.5%
1
4.5%
3
13.6%
0
7
31.8%
4
18.2%
1
4.5%
OGTT+n.34
16
32.6%
4
8.2%
2
4.1%
3
6.1%
3
6.1%
3
6.1%
2
4.1%
7
14.3%
5
10.2%
2
5.9%
Riga 1,2,3,4,5: anamnestica familiare ed ostetrica - Riga 6,7,8,9: gravidanza attuale
GDM n.56
20
32.3%
4
6.4%
2
3.2%
3
4.8%
4
6.4%
6
8.7%
2
3.2%
11
17.7%
8
12.9%
3
5.4%
Profilo+n.23
10
41.7%
1
4.2%
2
8.3%
3
12.5%
3
12.5%
4
16.7%
2
3.2%
8
33.3%
4
16.7%
1
4.3%
I fattori indicati in Tabella potevano ovviamente comparire in associazione nella stessa paziente, abbiamo allora verificato nei due gruppi di gravide (con GCT alterato, n=209 casi, e
con diagnosi di GDM n=56 casi) quante volte compariva almeno un fattore di rischio specifico, che avrebbe potuto in ipotesi suggerire l’opportunità di eseguire un test da carico nell’applicazione di un programma di screening “selettivo”.
Tabella V
Fattori di Rischio
Almeno 1 fatt. di rischio
Nessun fatt. di rischio
Fattori di Rischio
Almeno 1 fatt. di rischio
Nessun fatt. di rischio
n
102
545
647
n
102
545
647
non patologiche
%
95% CI
15,8% (13,09%-18,86%)
84,2% (81,14%-86,91%)
100,0%
209
non patologiche
%
95% CI
15,8% (13,09%-18,86%)
84,2% (81,14%-86,91%)
100,0%
56
n
55
154
100,0%
n
21
35
100,0%
GCT≥140 mg/dl
%
95% CI
26,3% (20,59%-32,93%)
73,7% (67,07%-79,4%)
GDM
%
95% CI
37,5% (25,23%-51,48%)
62,5% (48,52%-74,77%)
Come illustrato nella Tabella V nel 73.7% dei casi con curva breve alterata e nel 62.5% dei
casi di GDM non si è rilevato alcun fattore di rischio anamnestico o attuale per patologia diabetica.
Non si può fare a meno di notare inoltre che nel 15.8% dei casi di donne con curva glicemica normale era presente un fattore di rischio.
Le frequenze di prove da carico o di profili glicemici alterati sono ovviamente più alte se
presente un fattore di rischio per patologia diabetica, ma come si può vedere esiste una consistente percentuale di gravide con alterazione di questi parametri, senza rischio anamnestico o attuale specifico.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
31
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Tabella VI
Presenza di fattore di rischio per GDM
Parto Spontaneo
GCT>140mg 48
29
60%
GCT>185mg
7
3
42.8%
GDM
21
9
47.4%
Profilo +
10
5
40%
TOTALE
86
46
53.5%
Ventosa Ostet
-
Taglio Cesareo
15 31.7%
3
42.8%
8
31.6%
3
30%
29 33.7%
Parto Indotto
4
8.3%
1 14.4%
4
21%
2
30%
11 12.8%
Assenza di Fattore di Rischio per GDM
Parto Spontaneo
GCT>140mg 139
109
78.7%
GCT>185mg 15
10
66.6%
GDM
35
22
62.8%
Profilo +
13
8
61.5%
TOTALE
202
149
73.8%
Ventosa Ostet.
4
2.9%
2
5.7%
6
3%
Taglio Cesareo
17
12%
2
13.4%
6
17.2%
4
30.8%
29 14.3%
Parto Indotto
9
6.4%
3
20%
5 14,3%
1
7,7%
18 8.9%
Nella Tabella VI abbiamo correlato la modalità di espletamento del parto nei due gruppi
di gravide con rischio presente o assente, distribuito per ciascun tipo di prova da carico alterata.
Un dato emerge in maniera evidente e riguarda la maggior frequenza di tagli cesarei, nei
casi in cui è presente uno dei fattori di rischio per diabete gestazionale, indipendentemente
dalla diagnosi di GDM o di una macrosomia fetale (33.7% versus 14.3%).Tale differenza è statisticamente confermata dal test del Chi quadro (Tabella VII).
Nessuna significatività presenta invece la differenza di frequenza dei parti indotti (ma questo fattore riconosce una indicazione clinica precisa e non casuale). Quindi ad aumentare la
frequenza di TC non è la malattia (GDM) ma la presenza del fattore di rischio.
Tabella VII
Pres. Fatt. di rischio
Ass. Fatt. di rischio
Totale
Taglio cesareo
95% CI
Parto spontaneo
95% CI
29
50,00% (36,73%-63,26%)
46
23,59% (17,95%-30,30%)
29
50,00% (36,73%-63,26%)
149
76,41% (69,70%-82,05%)
58
100,00%
195
100,00%
Pres. Fatt. di rischio
Ass. Fatt. di rischio
Totale
Parto indotto
95% CI
Parto spontaneo
95% CI
11
37,93% (21,30%-57,63%)
46
23,59% (17,95%-30,30%)
149
76,41% (69,70%-82,05%)
62,07% (42,36%-76,39%)
18
29
100,00%
195
100,00%
Chi-Squares 14,95 (p<0,000)
Chi-Squares 2,74 (p=0,098)
32
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Tabella VIII. Prevalenza macrosomia
Popolazione GCT<140mg
n
%
n
%
macrosomi
67 7,8%
45 7,0%
negativi
789 92,2%
602 93,0%
856 100,0%
647 100,0%
GCT>140mg
n
%
17 9,1%
170 90,9%
187 100,0%
GCT>185mg
n
%
5 22,7%
17 77,3%
22 100,0%
OGTT +
n
%
16 28,6%
40 71,4%
56 100,0%
Prof. patolog. +
n
%
3 13,0%
20 87,0%
23 100,0%
La prevalenza della macrosomia, intesa come un peso alla nascita superiore al 90° su una
griglia di pesi di neonati della provincia di Trieste, è risultata complessivamente del 7.8%.
Considerando come casi di controllo la parte di popolazione con CGT negativa (prevalenza di macrosomia pari al 7.0%), sia nel gruppo di gravide che avevano avuto una GCT con
valori superiori a 185 mg che nel gruppo OGTT+ essa risulta significativamente più elevata
(rispettivamente: test esatto di Fisher p value = 0.02 e odds ratio 5.35 CI 95% (2.64<OR
<10.77).
In merito è interessante sottolineare un ulteriore dato emerso dallo studio: se si considerano i nati con peso alla nascita superiore ai 4.000 g, le cui madri avevano presentato un’alterazione di uno qualsiasi dei test o del profilo glicemico, su 34 nati, si aveva una frequenza
di tagli cesarei dell’8.8%.
Riprendendo il nostro discorso sull’opportunità o meno di attuare uno screening del diabete gestazionale possiamo dire che la sua attuazione garantisce una buona sensibilità di identificazione della patologia, ma comporta anche un costo sia in termini economici che di impegno di strutture sanitarie ed anche di tempo per le donne gravide. È quindi logico verificare se esiste un fattore di valida selezione delle pazienti portatrici di GDM, per limitare ad una
popolazione realmente a rischio lo screening oppure in senso opposto, se un programma universale, così impegnativo, non trovi giustificazione anche nell’opportunità di riconoscere in gravidanza quei soggetti che in età successiva potrebbero sviluppare un diabete franco o altre
patologie metaboliche.
Un’analisi critica della letteratura consente di identificare una serie di fattori di rischio per
diabete gestazionale più ampia dei quattro indicati dall’ADA.
Nella Tabella successiva ripresa dal bollettino della Società di Ostetrici e Ginecologi del
Canada (SOGC) si evidenzia come esista una soggettività di valutazioni nell’identificare fattori, che in qualche modo possano indirizzare verso la diagnosi di GDM. Nell’ipotesi che si utilizzasse una selezione simile a quella di seguito indicata è presumibile che solo un piccola percentuale di gravide sfuggirebbe all’indicazione ad eseguire uno screening dl GDM.
Fattori di rischio per GDM secondo SOGC, Clinical Practice Guidelines, n.121, Nov.2002
1.
2.
Anamnesi positiva per GDM o intolleranza glucidica
Familiarità per diabete
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
33
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Precedente macrosomia (>4000 g)
Precedente morte endouterina inspiegata
Precedente ipoglicemia, ipocalcemia, iperbilirubiemia neonatale
Età materna avanzata
Obesità
Ripetuta glicosuria in gravidanza
Polidramnios
Sospetta macrosomia
Cerchiamo allora attraverso un’analisi dei dati emersi dalla nostra esperienza di trovare
una risposta a questo quesito, che come è noto non trova ancora in letteratura un trial in
grado di rispondere in maniera esaustiva, analizzando alcuni dei fattori di selezione del rischio
indicati nella griglia proposta dall’ADA nel 19989.
Uno dei primi criteri di selezione suggeriti riguarda il limite di età, giudicando a basso rischio le donne con età inferiore ai 25 anni. Tale limite comporterebbe nella nostra popolazione l’esclusione dallo screening di una quota di gravide del 7.7%.Tale percentuale è più bassa rispetto ad analoghi studi riportati in letteratura, che mostrano frequenze che variano dal
17.8% al 24.8% (12-30). Peraltro nei paesi occidentali l’età media della prima gravidanza si
sposta sempre più in avanti. In merito bisogna aggiungere che forse il limite dei 25 aa, stabilito dall’ADA, non trova in Letteratura una evidente giustificazione statistica, consistente in un
deciso viraggio del rischio intorno a questo limite di età.
Distinguendo per fasce di età risulta infatti che popolazioni di gravide con età inferiore a
25 anni presentano ancora una prevalenza di GDM significativa, basti in merito citare il lavoro di M.L. Khine e coll.12, che su una popolazione di gravide con età compresa tra i 19 ed i 24
anni hanno trovato una frequenza di GDM del 3.4%, rispetto al 4.8% della popolazione generale e che solo al di sotto dei 19 anni tale rischio si riduceva in maniera evidente (1.7%),
comunque senza azzerarsi.
Una valutazione analoga condotta da altri Autori30 portava però a risultati diversi, con una
percentuale di casi di GDM per età <25 aa dell’1.6%; questa quota di donne con diagnosi di
GDM, costituiva comunque il 9.6% dei casi di GDM identificati nella popolazione studiata.
Una conferma ulteriore sullo scarso significato selettivo del fattore età per il rischio di
GDM, viene data dai valori riportati nella Tabella III, ove si può notare che le percentuali di
donne appartenenti a diverse classi di età, distribuite nei due gruppi, non patologiche o con
diagnosi di GDM, sono assolutamente sovrapponibili.
Il nostro studio ha indicato una quota di test positivi dopo esecuzione di curva breve del
24.4% dei casi ed il completamento della procedura diagnostica, con l’esecuzione della curva
da carico con 100 g di glucosio, portava ad una diagnosi di GDM nel 6.6% delle gravide sottoposte allo screening.
34
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Tabella IX
Autore
RG Moses, 199811
SR Carr, 199831
L Wong, 200115
X Xiong, 200132
K. Shamsuddin, 200116
CV Kyle, 200133
F. Corrado, 199934
ML Khine, 199912
% GDM
2.8%
4.8%
8.2%
2.5%
24.5%
5.6%-12.4%
4.6%
4.8%
Tipo Test screening
GCT carico 50 g - selettivo
GCT carico 50 g - universale
GCT carico 50 g - universale
GCT carico 50 g - selettivo
Glicemia 2h post-prandiale
WHO e NZSSD criteria
GCT carico 50 g - universale
GCT carico 50 g - selettivo
Area geografica
Australia
Rhode Island, U.S.
Singapore
Quebec, Canada
Kuala L.,Malaysia
Auckland, New Zealand
Messina, Italia
Connecticut, U.S.
Tale frequenza si pone in posizione intermedia rispetto a valori desunti da esperienze analoghe riportate in Letteratura e di cui si propone un piccolo esempio nella precedente Tabella
IX.Tale Tabella presenta un ulteriore ed interessante spunto di dibattito, indicato nella sua terza colonna, e si riferisce al tipo di screening attuato dagli Autori citati. Come è facile desumere e già in precedenza stigmatizzato, non solo esistono differenze di selezione delle gravide
da sottoporre allo screening, ma anche differenze di carico di glucosio da utilizzare, di tempi
di esecuzione del prelievo, di range di normalità adottati, quando addirittura il carico non consista nella somministrazione di un pasto, con tutte le variabili immaginabili, sia in termini di
qualità e quantità del cibo, che di individualità di assorbimento.
Nella Tabella II ove vengono riportati i risultati relativi alla modalità di espletamento del
parto delle gravide con diagnosi di GDM, emergono due evidenze: una quota maggiore sia di
parti indotti che di tagli cesarei, rispetto alla popolazione generale. Per il primo dato precisiamo che la percentuale complessiva di induzioni di travaglio nella nostra popolazione generale non supera il 5% dei casi. Nella popolazione descritta però noi accettiamo questa percentuale tripla, in considerazione della scelta fatta di indurre il travaglio di parto a 38 settimane,
sia nei casi di accelerazione della crescita fetale, per ridurre il rischio di distocie, che nei casi
in cui sia necessario iniziare nelle ultime settimane di gestazione un trattamento insulinico, per
un profilo tendente alla iperglicemia.
La maggior prevalenza di tagli cesarei non risulta comunque statisticamente significativa sia
nei casi di GDM che di profilo glicemico positivo, poiché i valori percentuali cadono all’interno del range di oscillazione.Tale dato trova una ulteriore ed originale conferma nelle Tabelle
VI e VII, ove risulta che ad indurre un aumento della frequenza dei tagli cesarei non è stata né
la diagnosi di GDM, frutto dello screening attuato, né il grado di alterazione del metabolismo,
rappresentato dal grado del test risultato positivo, quanto piuttosto la presenza o meno del
fattore di rischio anamnestico per patologia diabetica.
Tale dato, a nostra conoscenza, non trova analoghi corrispettivi in Letteratura e possiede
una sua valenza di razionalità, poiché il fattore di rischio assume importanza non per una eventuale popolazione a rischio da screenare, quanto piuttosto per una maggior probabilità di una
operatività nell’espletamento del parto.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
35
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Un altro dato di particolare interesse che emerge riguarda i nati macrosomi, che, su un
campione ridotto di 34 casi, presentano una percentuale di tagli cesarei dell’8.8%. Tale dato
può spiegarsi con il fatto che presumibilmente nella gestione di un feto con caratteristiche
ecografiche di accelerata crescita, sia stato impegnato personale ostetrico con maggior esperienza e disponibilità ad accettare i rischi connessi ad un espletamento vaginale del parto.Tale
osservazione sembra quindi in disaccordo con la tesi sostenuta da K Remseberg35, che ha osservato come la diagnosi di GDM comporti da sola un aumento della frequenza di tagli cesarei, indipendentemente dalla reale presenza di una condizione di macrosomia. Il Tri-Hospital
Study condotto a Toronto indica in merito una situazione analoga, ove nella popolazione di
donne con diagnosi di GDM si rileva un aumento della quota di tagli cesarei, che raggiunge il
33% vs il 20% della popolazione generale36. La Cochrane Data Base Review valutando l’effetto
del trattamento dietetico nell’evoluzione delle gravidanze complicate da intolleranza glucidica non rileva alcun effetto di aumento della frequenza di tagli cesarei in questa popolazione
(odds ratio 0.97, 95% confidence interval 0.65.1.44)37.
Le Tabelle III e IV e soprattutto V esprimono la difficoltà di compiere una selezione delle
gravide da sottoporre allo screening del GDM, utilizzando fattori di rischio specifico. Come
riportato infatti nella Tabella V la percentuale di casi che presenta una curva da carico breve
o standard alterati, senza presentare fattori di rischio specifico (rispettivamente 73.7% e
62.5%) è troppo alta per selezionare criteri indicativi per uno screening selettivo. Queste percentuali sono più alte rispetto ad evidenze analoghe riportate in letteratura e sono presumibilmente legate a caratteriste epidemiologiche della popolazione studiata, caratterizzata da gestanti appartenenti ad un bacino metropolitano, con una buona educazione sanitaria e condizioni socio-economiche prevalentemente discrete. Sono comunque disponibili in letteratura reports che indicano percentuali comunque significative di soggetti con GDM, diagnosticati in gravidanza e privi di fattori di rischio per questa patologia. Un esempio è rappresentato
dal 23.1% di gravide con queste caratteristiche riportate in uno studio di Balutaviciene e coll.38
Peraltro la percentuale di casi veri positivi, per la presenza di un fattore di rischio presente ed un test positivo (rispettivamente 26.3% e 37.5%) è troppo bassa per costituire da sola un indicatore all’esecuzione del test di screening per diabete gestazionale.Tale percentuale è più alta rispetto ad altre riportate in Letteratura, che oscillano dallo 0.9% all’11.5%.39-42.
Tabella X. Costo dello screening per caso di GDM diagnosticato.
Autore
Costo dello screening
Costo per caso di GDM diagnosticato
$ 173.00
Swinker43
$ 10.00
Lavin40
$ 4.75
$ 328.96
Marquette et al.41
$ 2.45
$ 191.27
Coustan et al.42
$ 2.45
$ 250.00
$ 722.31
Neilson et al.44
$ 17.75
Alberico et al.
€ 2.53
€ 57.60
36
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
Nella Tabella X abbiamo inserito dei dati necessari a compiere delle valutazioni comparate sul costo di un programma di screening del diabete gestazionale. Il costo del test da carico breve (GCT) è presso il nostro laboratorio di analisi di € 2,53. Considerando che in Italia
si hanno ogni anno circa 500.000 nascite, l’applicazione di uno screening universale del diabete gestazionale comporterebbe un onere per il Sistema Sanitario Nazionale di € 1.265.000
per anno. Assumendo valori di CGT patologici analoghi a quelli da noi riscontrati, il 24% di
questa popolazione dovrebbe eseguire successivamente un OGTT, con un’ulteriore spesa di
€ 636.000 (120.000 x € 5.30). Se la prevalenza del GDM nel nostro Paese fosse analoga alla nostra (6.6%), si identificherebbero ogni anno 33.000 casi di GDM, con un costo quindi per
ciascun caso diagnosticato di € 57.60, inferiore a quello riferito alle realtà sanitarie riportate
dagli Autori citati nella Tabella.
Resta in conclusione il dibattito sull’opportunità o meno di eseguire uno screening selettivo del diabete gestazionale. La nostra esperienza suggerisce di non selezionare gruppi a rischio per l’esecuzione del test, anche perché la quota di gravide da escludere sarebbe sulla
nostra popolazione comunque piccola. In merito siamo in accordo con una conclusione analoga posta dalla C.B. Williams20, che ha calcolato che un’applicazione selettiva dello screening
sulla propria popolazione comporterebbe comunque l’esecuzione del test nel 90% della popolazione di gravide, perdendo peraltro un 4% di casi di GDM, che non presentando fattori
di rischio specifico, non sarebbero inclusi nel depistage della patologia metabolica.
Un’ultima considerazione va fatta a sostegno della tesi dell’esecuzione di uno screening
universale del diabete gestazionale. La gravidanza costituisce nella donna un’opportunità per
identificare il rischio di sviluppo di disordini metabolici in età successive. Citiamo in merito
due studi: il primo di Dal Fra e coll.18 che indica che nel 20.4% di donne con GDM si ha a 5
anni di distanza l’esordio di un diabete di tipo 2 nel 20.4% dei casi ed il secondo di Bian e
coll.18, che indica a distanza analoga una quota del 33.3% di diabete conclamato nei casi di
GDM, ma anche una percentuale del 9.7% nelle gravide, che avevano mostrato soltanto una
intolleranza glucidica in gravidanza. Queste percentuali risentono comunque fortemente delle caratteristiche etniche delle popolazioni studiate. Tali valori infatti giungono addirittura al
70% dei casi in donne aborigene canadesi45.
La presenza di una positività significativamente aumentata per anticorpi anti-cellule insulari (ICA) e anti-decarbossilasi acido glutammica (GAD) nelle gravide con GDM costituisce
un ulteriore campo di osservazione per comprendere le correlazioni con lo sviluppo di patologie successive alla gravidanza, come la celiachia46,47. Anche in quest’ottica l’identificazione
di pazienti con tali caratteristiche genetiche costituisce un vantaggio derivante dall’applicazione di uno screening di questa patologia in gravidanza.
In conclusione noi riteniamo che sia oggi opportuno rivolgere a tutta la popolazione di
gravide l’esecuzione di un test di screening in gravidanza. La riduzione di questo programma
ad una popolazione a rischio specifico per patologia diabetica porterebbe, nella nostra espeGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
37
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
rienza, alla perdita di una quota di diagnosi di GDM del 62.5%, per mancanza in questi casi di
un rischio anamnestico od attuale.
Una risposta definitiva su questo importante aspetto potrà giungere dal completamento
di un ampio trial multicentrico, con una potenza di reclutamento di popolazione di gravide
adeguato, quale quello dell’HAPO STUDY48, attualmente in corso.
In merito bisogna ricordare che il disegno dell’HAPO Study prevede l’esecuzione di un
unico test di screening con un carico da 75 g di glucosio, intorno alla 28a settimana, con limiti di cut-off analoghi ai primi 3 valori indicati nella curva proposta da Coustan e Carpenter,
sopra citata. Riportiamo di seguito l’ultimo aggiornamento sull’andamento di questo studio,
presentato dal prof. M. Hod a Padova nel maggio 2005.
Aggiornamento al 1 maggio ’05
Reclutate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .26.988 gravidanze
Valutati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .19.343 neonati
Tagli cesarei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .15.5%
Tagli cesarei ripetuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7.7%
Mortalità perinatale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.5/mille
Nuova Time Line . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .31.3.2006
Risultati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .31.3.2007
Frequenza valori glicemici superiori al cut-off a: 0 - 60’ - 120’
> 90 mg / 5 mmol . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .12.2%
> 160 mg / 8.9 mmol . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .20.7%
> 140 mg / 7.8 mmol . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .11.6%
Queste frequenze, se confermate nella loro entità alla fine dello studio, si commentano da
sole, in direzione della opportunità di eseguire a livello universale lo screening per il diabete
gestazionale.
Nel nostro Dipartimento abbiamo recepito questo aspetto dell’HAPO Study e si è deciso di applicare come test di diagnosi di GDM, dopo una curva breve alterata, questo carico,
da 75 grammi di glucosio, per rendere meno gravoso il test per la paziente.
È personale convinzione, ma questo non è un dato supportato da EBM sino alla pubblicazione dei risultati dell’HAPO Study, che in futuro si concorderà sull’attuazione di un unico
test di screening universale, con l’esecuzione di una curva da carico con 75 g a 28 settimane
di gestazione e dei cut-off che saranno indicati proprio dallo studio di cui sopra.
Riteniamo corretto anche riportare quanto la SOGC suggerisce agli Ostetrici canadesi, in
una forma che si potrebbe definire pilatesca. Tale Società infatti ritiene che in attesa di risultati di studi in grado di dirimere questo dubbio con forti evidenze, è corretto che ciascuno
si comporti come ha fatto sino ad oggi, applicando quindi il protocollo adottato presso il proprio centro.
Un ultimo aspetto riguarda il rapporto costo-beneficio di un simile programma universale
38
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
SCREENING E DIAGNOSI DEL DIABETE GESTAZIONALE
GCT 50g
a tutte le gravide
tra 24 e 28 settimane
<140 mg/dl
STOP
a 14 settimane se ad alto rischio
>140 mg/dl
(>185 mg)
Curva standard 75g
negativa
Monitoraggio gravidanza
normale
si ripete a 4 settimane
profilo glicemico
V.N. Curva standard: 95mg, 180mg, 155mg. Posit. se 2 valori superiori cut-off
positiva:
Diagnosi di GDM
Profilo glicemico 24h
positivo x 48h
Inizio Terapia Insulinica Gravide con Diagnosi di Diabete gestazionale devono effettuare
una Curva da Carico con 75 g di glucosio a 12 settimane dal parto
di screening, che a nostro avviso è giustificato dall’alta sensibilità di tale test nell’identificare la
patologia, che. prontamente identificata, consente un monitoraggio attento dello stato di benessere materno e fetale ed in caso di accelerazione della sua crescita un’induzione precoce
a 38 settimane del travaglio di parto. Tale procedura è in grado di ridurre la frequenza della
distocia di spalla, che costituisce ancora oggi la sua complicanza più frequente49. La diagnosi di
GDM può costituire a sua volta un’informazione utile per la vita futura della paziente.
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in gestational diabetes.” Diabetes Care Vol.21 Suppl.2:B113, Aug. 1998.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
41
234
DIABETE IN GRAVIDANZA
INDUZIONE DEL TRAVAGLIO
VERSUS EXPECTANT
MANAGEMENT IN GDM
S. Alberico, GP. Maso, M. Bernardon, M. Costantini,V. Soini, M. Pignat, A. Candiotto
Centro di Riferimento Regione Friuli Venezia Giulia per HIV in Gravidanza e per la Gravidanza ad Alto Rischio.
IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
La nascita di un neonato con un peso maggiore di 4000 grammi, definito megalosomia o
macrosomia costituisce oggi spesso una sfida tra il desiderio di avere un’evoluzione spontanea del parto per via vaginale e il rischio di incorrere in una distocia con conseguente danno temporaneo o permanente per il neonato.
Bisogna dire che il miglioramento delle condizioni socio-economiche del mondo occidentale ha portato come conseguenza una maggior incidenza di obesità materna da un lato e di
nati con peso alla nascita maggiore. Questo fenomeno è stato ben documentato da un gruppo di studiosi danesi che in un arco di tempo di soli 10 anni hanno documentato un aumento significativo delle medie dei pesi alla nascita dei loro neonati su una popolazione di oltre
43mila donne studiate, ma soprattutto un aumento della frequenza di nati con peso maggiore ai 4000 g, che sono passati dal 13.7% al 16.1% e di nati con peso maggiore ai 4450 g che
hanno incrementato la loro frequenza dal 3% al 4%1.
Nella gravidanza con diabete gestazionale la nascita di neonati con peso superiore al 90°
percentile o superiore ai 4000 g o di 2 deviazioni maggiori rispetto alla media della popolazione si presenta con una frequenza aumentata rispetto alla quota del 10% circa della popolazione generale2. Il parto in questi casi presenta un’aumentata incidenza di distocie con il rischio di lesioni neonatali, che in alcuni casi si trasformano in esiti permanenti e di emorragie
del post-partum. Per estendere il concetto di rischio di queste gravidanze specifichiamo che
le complicanze materne vanno dalla maggior frequenza di lacerazioni perineali, cervico-vaginali, sfinteriali alla rottura d’utero, alla maggior frequenza di dover ricorrere ad un taglio cesareo d’emergenza, (che come è noto è gravato da maggiori complicanze in post-operatorio)
alla atonia uterina per giungere alla già citata emorragia severa del post-partum.
Non meno complesso è il rischio feto-neonatale sostenuto dai macrosomi, che oltre alla
già citata distocia di spalla presentano una maggior incidenza di fratture ossee e di episodi di
severità variabile di asfissia intra-partum (per intenderci quella in cui il contenzioso medicolegale con maggior facilità trova nell’Ostetrico il “logico” responsabile dell’evento).
Per ovviare a questi inconvenienti e alle ripercussioni medico-legali conseguenti, aumenta
42
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Screening del diabete gestazionale: selettivo o universale
quindi da parte degli Ostetrici il ricorso al taglio cesareo con una conseguente aumentata incidenza di questi interventi3. La particolare caratteristica dei neonati da madre diabetica, con
un accrescimento più accentuato della massa del tronco, rispetto alla circonferenza cranica,
porta a difficoltà di disimpegno della spalla, con lo stiramento del plesso brachiale e la realizzazione di un quadro clinico rappresentato appunto dalla sindrome di Erb.Tale evento si presenta con una frequenza che oscilla tra lo 0.2% - 2.8%4 nella popolazione generale, ma sale
sino al 10% in caso di gravidanza complicata da diabete gestazionale e sino al 25% - 50% dei
casi quando è presente in queste gravidanze una macrosomia fetale2. Evidenziato quindi un
diabete gestazionale l’intervento ostetrico dovrà concretizzarsi nell’attuazione di una tempestiva terapia insulinica, ove necessaria, su indicazione del profilo glicemico materno, per prevenire un eccessivo accrescimento fetale. La terapia insulinica talvolta non è in grado di prevenire tale dinamica di crescita e si pone quindi per l’Ostetrico la scelta tra un management
d’attesa dell’insorgenza del travaglio, con una maggior probabilità di avere una bambino di peso maggiore alla nascita o viceversa l’induzione del travaglio di parto, in epoca di certa maturità fetale (38a settimana). Tale condotta può essere suggerita dalla necessità di ottenere
maggiori probabilità dell’espletamento vaginale del parto senza conseguenze patologiche per
il neonato, tenendo conto che in questo periodo l’aumento ponderale settimanale del feto si
aggira intorno ai 280 g, che in condizione di diabete possono arrivare sino ai 400 grammi settimanali.
In merito è interessante citare uno studio epidemiologico condotto da Remsberg e coll.
su un vasta popolazione di 42.071 gravide, con dati dedotti dai codici delle schede di dimissione dello stato del South Carolina, U.S.A. In questo studio si è notato che la diagnosi di
Diabete precedente alla gestazione, comportava una frequenza di taglio cesareo del 51.3%
dei casi, con un OR di 6.20 (95% CI), rispetto al 34.4% di TC nei casi di GDM, con un OR di
1.71, confrontati con il 22.4% dei TC della popolazione generale.
Un dato ancora più forte era costituito dal fatto che nell’85% dei casi di diabete precedente alla gravidanza, l’unica indicazione rilevata ad eseguire un TC era semplicemente lo stato diabetico. Questa evenienza si presentava a sua volta nel 45% dei casi di GDM.
Ancora più interessante risulta la conclusione a cui giunge l’analisi di Remsberg e coll.: uno
dei fattori che condizionavano maggiormente la probabilità di eseguire un taglio cesareo nella loro popolazione era costituto dal fatto che la gravida con GDM fosse stata seguita presso un centro di gestione di gravidanze ad alto rischio5.
In Letteratura è disponibile un altro studio effettuato da Ehremberg e coll. su una ampia
coorte di gravide (12.303 gravide seguite presso un Centro di III° livello di Cleveland, Ohio,
U.S.A.), finalizzato a valutare la correlazione esistente tra stato di obesità in gravidanza, diabete gestazionale e frequenza di tagli cesarei. I risultati ottenuti dagli Autori indicarono che se
l’obesità costituiva un importante fattore di incremento dei tagli cesarei (13.8% vs 7.7% con
OR=2.4) lo stato di diabete gestazionale non comportava aumentata frequenza di tagli ceGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
43
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
sarei, a meno che non fosse stato necessario ricorrere a trattamento insulinico in gravidanza
(A2GDM). In questo caso infatti la frequenza dei TC era del 24.7% vs il 9.5% con un OR=
2.96. Alcune esperienze pubblicate indicano l’efficacia dell’induzione del travaglio in questi casi
per ridurre l’incidenza di patologie perinatali e dei tagli cesarei. In tal senso indirizzano i risultati di SL Kjos, (Tabella 1) che, randomizzando in 200 gravide con GDM l’induzione elettiva del
travaglio di parto, rispetto ad un management di attesa, osservò nel gruppo indotto un’incidenza del 25% di TC rispetto al 31% del gruppo non indotto. La media dei pesi alla nascita risultò inoltre inferiore nel gruppo indotto, come anche la frequenza dei nati con peso superiore ai 4000 grammi, ai 4500 grammi e Large for gestational Age (LGA). Nel gruppo indotto non
si registrò alcun caso di distocia di spalla rispetto ai 3 casi del gruppo di controllo7.
Tabella I
Media Pesi
Insorg. Spont.Trav.
Parto vaginale
TC
Macrosomia
Shoulder Distocia
100 INDUZIONE
(oxytocin o PgE2)
3446
22%
75%
25%
1%
0%
100 EXPECTANT
3672
44%
69%
31%
3%
3%
Maggiore prevalenza LGA, Distocia di spalla e TC nel gruppo Expectant Management;
J.K.Kjos, Los Angeles, AJOG 1993, 169:611
In un lavoro successivo, su una popolazione più ampia di GDM, D. Conway rilevò una minor incidenza di distocia di spalla, in un’analoga popolazione di gravide, inducendo il travaglio
di parto in caso di accelerazione della crescita fetale, valutata ecograficamente ed eseguendo
un taglio cesareo elettivo in caso di una stima del peso maggiore di 4250 g. Il confronto riguardava due diverse procedure attuate in diversi periodi. Il management attivo portò anche
ad una riduzione di frequenza di nati macrosomi, avendo però un corrispettivo aumento del
rate di tagli cesarei (dal 21.7% al 25.1%). Complessivamente l’incremento di tagli cesarei, dovuto a tale protocollo, comportò nella casistica dell’Autrice l’aumento solo dello 0.8% della
frequenza dei TC su tutta la popolazione generale (Tabella 2)2.
Tabella II
TC
Settimane
Macrosomia
LGA >90°
Distocia spalla
Distocia in Macrosomi
Expectant’90-92
25.1%
39.3
11.6%
18.9%
2.8%
18.8%
Induzione’93-95
TC 21.7%
39.2
8.9%
17.1%
1.5%
7.4%
p<0.04
NS
>0.04
NS
OR 1.9
OR 2.9
La stima del peso fetale consente una modulazione del management ostetrico, (eventuale induzione) con una riduzione di esiti
neonatali da distocie di spalla. DL Conway, AJOG,1998; 178:982; S.Antonio,Texas
44
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
Un risultato ancora più convincente con una procedura di attiva induzione del travaglio
in caso di accelerazione della crescita nel GDM è quello descritto da Hod e coll. che confrontando un periodo in cui si osservava presso il loro centro un management di attesa, rispetto ad uno di induzione in caso di accelerazione della crescita fetale, rilevarono una riduzione significativa di tagli cesarei, di distocie di spalla e di neonati macrosomi nel secondo gruppo di gravidanze8 (Tabella III).
Tabella III
Periodo
T.C. per pesi
Insul.Terapia
Media settim.
Macros >4000
Macros >4500
LGA
Taglio Cesareo
Morte Perin.
Distocia Sp.
Induz.travag.
a) ’80-’89
42a sett.
>4500
>5.8 mol
39
17.9%
1.2%
23.6%
20.6%
8‰
1.5%
1.5%
b) ’90-’92
Induz 40a sett.
>4500
>5.8 mol
39
14.9%
1.4%
21%
18.4%
3‰
1.2%
1.7%
c) ’93-’95
Induz.38a sett.
>4000
>5.3 mol
38
8.8%
1.3%
11.7%
16.2%
//
0.6%
35%
controlli
>4500
39
6.1%
0.9%
0.7%
15.5%
//
0.3%
10%
La Macrosomia è prevenibile con Insulinoterapia “DECISA” e con l’Induzione del Travaglio a “38 settimane!
M.Hod,Tel Aviv, Diab.Care 21,1998
In tal senso recita anche una recente review della Cochrane Library, che indica una ridotta
incidenza di nati macrosomi nei casi di GDM in cui si attua l’induzione elettiva del travaglio di
parto a 38 settimane di gestazione, senza un significativo incremento di tagli cesarei9. (Figura 1).
Figura 1. Review: Elective delivery in diabetic pregnant woman
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
45
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
Un recente lavoro di Y.Yogev e coll. ha fornito ulteriori spunti di discussione in questo particolare aspetto della gestione del travaglio in GDM. Questi Autori hanno infatti riscontrato
una frequenza di TC del 18.2% in gravide con GDM, indotte a 38 settimane per accelerazione della crescita fetale, rispetto al 14.8% di frequenza riscontrato in gravide con induzione del
travaglio di parto e in assenza di alcuna patologia. In questa popolazione di GDM la frequenza di operatività vaginale è stata del 7.1%. L’analisi dei loro dati ha consentito a questi autori
di indicare la nulliparità, presente nel 31.6% dei casi del gruppo di studio, come un fattore di
rischio aumentato per TC, con un OR=4.5610.
Un ruolo significativo nel determinare un aumento della frequenza di TC da parte della
nulliparità era stato indicato da altri Autori e in merito si cita il lavoro di H Cammu, pubblicato nel 200211.
Emerge quindi l’ipotesi che sia opportuno indurre il travaglio di parto nelle gravide con
diabete gestazionale o pregravidico in caso di accelerazione della crescita fetale, documentata ecograficamente, alfine di ridurre la frequenza di tagli cesarei e delle complicanze che il travaglio di parto può produrre in caso di macrosomia fetale.
In riferimento alla stima del peso fetale si precisa che l’induzione del travaglio viene suggerita nella procedura da noi di seguito proposta in caso di “accelerazione della crescita fetale”, indipendentemente dal peso stimato ecograficamente. Questa puntualizzazione è a nostro avviso obbligatoria alla luce della scarsa precisione della valutazione del peso reale neonatale, che questa metodica oggi consente.
Stimare correttamente il peso fetale in epoca prenatale infatti non è semplice: i metodi
clinici e strumentali di cui l’Ostetrico dispone sono infatti altamente imprecisi. Una valutazione clinica della stima del peso fetale è effettuata correntemente utilizzando le manovre di
Leopold e la misurazione della distanza tra la sinfisi pubica ed il fondo uterino. La misurazione ultrasonografica rappresenta un valido supporto alla diagnosi clinica, tuttavia, come riportato dall’ACOG nel 2001, come fattore predittivo essa non possiede maggior accuratezza rispetto alle manovre di Leopold12.
Rouse e coll., in una metanalisi di 13 pubblicazioni dal 1985 al 1995, riportavano che nonostante le evidenti differenze nel metodo di studio (quali scelta della popolazione in oggetto, cut-off considerato nella definizione della macrosomia, formula adottata), la stima peso fetale ultrasonografica dimostrava in maniera concorde una bassa sensibilità (attorno al 60%),
ma una più alta specificità (attorno al 90%)13.
Gonen e coll. In uno studio del 1997 riportarono che il valore predittivo positivo della stima del peso fetale ultrasonografica è risultato pari al 56,7%. Furono effettuate inoltre una sovrastima ed una sottostima del peso fetale rispettivamente nel 70,1% e 28,4% dei casi, con
un errore assoluto pari a 6,0 +/-4,7%. Gli Autori sottolinearono che tali valori si correlavano
adeguatamente con quelli riportati in letteratura3.
Haroush e coll hanno descritto in una recente pubblicazione i dati di uno studio condot46
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
to a Tel Aviv su 840 donne al fine di valutare l’accuratezza della stima del peso fetale ecografica effettuata a pochi giorni di distanza dal parto. La precisione della valutazione ultrasonografica risultò strettamente correlata al peso fetale stesso, in maniera inversamente proporzionale14.
In accordo con la letteratura, non emerge una significativa differenza nella percentuale di
errore assoluto tra i nati da madri diabetiche rispetto ai controlli15. Gli Autori concordarono
con i dati della letteratura riportando una bassa sensibilità, basso valore predittivo positivo,
relativamente alta specificità ed alto valore predittivo negativo.Tali caratteristiche della misurazione ultrasonografica sono condivise dall’ACOG16.
Riportiamo di seguito uno studio, in corso di stampa, condotto presso il nostro
Dipartimento, sul tema della validità dell’induzione del travaglio di parto in caso di gravidanza con diabete gestazionale ed accelerazione della crescita fetale.
Lo scopo dello studio è stato quello di verificare se l’attuazione di un’induzione del travaglio a 38 settimane, nelle gravidanza sopra indicate, porti ad un incremento della frequenza
di tagli cesarei.
Secondo end-point è stato quello di verificare la distribuzione dei nati con peso alla nascita superiore ai 4000 grammi nei due gruppi, costituiti da gravide con induzione del travaglio e gravide con expectant management.
Si è trattato di uno studio osservazionale su gravide con diagnosi di GDM, che afferivano
al Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’IRCCS Burlo Garofolo di Trieste in un periodo di 8 anni, dal 1996 al 2004.
Il nostro è un Centro nascita di III° livello, con una media di circa 1800 parti/anno e serve una popolazione a prevalente insediamento urbano. La frequenza del taglio cesareo sulla
nostra popolazione generale è stata nel 2004 del 23%.
Nella grande maggioranza dei casi le gravidanze erano seguite da Ostetrici dello stesso
Dipartimento. La diagnosi di GDM proveniva da uno screening universale, rivolto a tutta la
popolazione di gravide, con curva da carico con 50 g di glucosio (GCT) eseguita tra la 24° e
la 28a settimana di gestazione (cut-off a 140 mg/dl). In caso di valore ad 1 ora superiore a
185 mg/dl si eseguiva direttamente un profilo glicemico nictemerale. Nei casi invece di valore compreso tra 140 e 184 mg/dl si eseguiva una curva glicemica standard, con carico orale
di 75 g di glucosio. Il test si considerava positivo se si aveva un superamento del range di normalità in 2 punti su 3 secondo Carpenter e Coustan17. Queste due condizioni portavano quindi alla diagnosi di GDM ed in caso di profilo glicemico patologico, (media dei valori superiore a 100 mg/dl e valutazioni post-prandiali ad 1 ora maggiori di 140 mg/dl) si provvedeva ad
instaurare una terapia insulinica. Se il profilo glicemico nictemerale risultava nella norma, si invitava la gravida ad eseguire una dieta ipoglucidica-normocalorica e si rivalutava la condizione clinica a distanza di 4 settimane. Il monitoraggio della crescita fetale si basava su valutazioni biometriche mensili a partire dalla 28a settimana, con un riferimento preciso di epoca geGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
47
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
stazionale ottenuto con una misurazione del CRL fetale a 12 settimane di gestazione.
In presenza di un’accelerazione della crescita fetale, intesa come un superamento dei valori della circonferenza addominale di due deviazioni standard rispetto alla curva della popolazione generale, si induceva il travaglio di parto a 38 settimane di gestazione, con prostaglandine PgE2 (*Prepidil) cervicali per un Bishop score ≤5 e vaginali per un BS superiore a tale
valore. Le prostaglandine venivano quindi riapplicate per tre volte sino alla insorgenza del travaglio di parto.
In assenza invece di specifiche indicazioni ostetriche, in caso di regolare crescita fetale o
per rifiuto della gravida ad accettare l’induzione del travaglio, pur in presenza di un’accelerazione della crescita fetale, si attendeva l’insorgenza spontanea del travaglio di parto. Questo
gruppo di donne hanno di fatto costituito il gruppo di controllo nel nostro studio
Con l’applicazione del protocollo di screening sopra indicato l’incidenza del GDM nella
nostra popolazione è stata del 6.6%. Nel periodo indicato sono giunte alla nostra osservazione 172 gravide con diagnosi di GDM, nelle quali non era stato necessario attuare terapia insulinica e che non avevano avuto un’insorgenza spontanea del travaglio di parto in epoca precedente alla 38a settimana.
La media di età dell’intera popolazione era di 33 anni, senza differenze significative nei due
gruppi di gravide con parto indotto o ad insorgenza spontanea. Nella Tabella IV riportiamo
le caratteristiche della popolazione esaminata, indicando la parità, le classi di peso neonatali e
la modalità di espletamento del parto, le caratteristiche di BMI delle donne ed il numero di
casi in cui si è osservata un’accelerazione della crescita fetale che avrebbe potuto costituire
indicazione all’induzione del travaglio.
Si è avuto quindi l’espletamento del parto per via vaginale in quasi il 70% dei casi.
L’accelerazione della crescita fetale si è registrata in circa il 50% della popolazione e questo valore raggiunge il 62.9% dei casi nel gruppo di gravide che hanno accettato l’induzione
farmacologica del travaglio di parto.
Tabella IV
GDM n.172 casi
Nullipare
106
61.6%
Peso grammi
<4000 91.8%
Parto vaginale
120
69.8%
BMI= 27.4%
≤20 20%
Accelerazione crescita fetale n.85 = 49.4%
Non Indotte
41.8%
(46/110)
Pluripare
21-30
66
4000/4500 8.1%
38.4%
52
64.3%
30.2%
>30
Indotte
62.9%
>4500 1.1%
15.7%
(39/62)
La Tabella successiva indica la distribuzione delle nullipare e la modalità di espletamento
del parto nei due gruppi di donne che hanno atteso un’insorgenza spontanea del travaglio o
che sono state invece indotte.
48
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
Tabella V
Nullipare 106
Parto vaginale
Taglio Cesareo
TC+Acc. Crescita Fetale
Expectant n.110
63
57.3%
81
73.6%
29
26.4%
14/46
30.4%
64%
Induction n.62
43
69.3%
39
63%
23
37%
11/39
28.2%
36%
Come si può vedere si è osservata una frequenza di nulliparità del 61.6%, che nel gruppo di gravide il cui travaglio è stato indotto giunge al 69.3%. Il taglio cesareo ha presentato
una maggior frequenza nel gruppo in cui si è indotto il travaglio di parto (37% versus 26.4%).
In considerazione del fatto che molto spesso alcune variabili legate a patologie associate
alla gravidanza possono comportare l’esecuzione di un espletamento addominale del parto
(basti pensare che l’incidenza della pre-eclampsia in questa popolazione è stata del 21.5%),
abbiamo selezionato nei due gruppi le gravide che presentavano un’accelerazione della crescita fetale e che non fossero state sottoposte a taglio cesareo per un’indicazione elettiva (podice, placenta previa, indicazione materna, ecc.). Si sono così identificate 46 gravide del gruppo in cui il travaglio non era stato indotto e 39 con induzione del travaglio. Questa volta la
frequenza del taglio cesareo è risultata inferiore nel gruppo indotto (28.2% versus 30.4%).
La Tabella successiva illustra la correlazione esistente tra modalità di espletamento del parto (parto vaginale versus TC) nei due gruppi (expectant versus induction) dei casi con BMI superiore a 30.
Tabella VI
BMI >30
24/77 31.2%
P.V.: 81
TC: 29
Expectant: 8/110
7.3%%
3/81
3.7%
5/29
17.2%
Induction: 16/62
25.8%
10/39
25.6%
6/23
26.1%
P.V. 39
T.C. 23
Come si può notare una paziente su quattro nel gruppo delle indotte presentava un chiaro stato di obesità. La correlazione esistente tra nulliparità distribuita per modalità di espletamento del parto nei due gruppi di travagli indotti o di attesa è rappresentata nella Tabella VII.
Tabella VII
Nullipare: 106/172
61.6%
P.V.: 81
TC: 29
Expectant: 63/110
57.3%
48/81
59.2%
15/29
51.7%
Induction: 43/62
69.3%
24/39
61.5%
19/23
82.6%
P.V. 39
T.C. 23
La frequenza di nati macrosomi intesi per peso superiore a 4000 g è stata del 9.3%
(16/172) e si è distribuita nel modo di seguito indicato nei quattro gruppi di expectant/induction correlati con parto vaginale versus TC.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
49
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
Tabella VIII
Macrosomi: 16/172
>4000g
9.3%
P.V.: 81
TC: 29
5/81
5/29
Expectant: 10/110
9.1%
6.2%
17.2%
4/39
2/23
Induction: 6/62
9.7%
10.2%
P.V. 39
8.7%%
T.C. 23
Il parto è stato assistito per via vaginale con ventosa ostetrica 5 volte nel caso di gravide,
il cui travaglio non era stato indotto e 1 volta in caso di induzione. È stato utilizzato il forcipe per parto operativo in un solo caso, in travaglio insorto spontaneamente. La frequenza
complessiva di operatività vaginale è stata quindi del 4.06% sull’intera popolazione e rispettivamente del 5.4% nel gruppo expectant verso l’1.6% nel gruppo di parti indotti.
Nell’ultima Tabella indichiamo la frequenza di casi con Apgar neonatale inferiore a 7 al primo minuto ed inferiore a 8 al quinto, distribuita nei due gruppi di gravide con management
di attesa dell’insorgenza del travaglio o con induzione.
Tabella VII
Apgar I° <7
Apgar V° <8
Non Indotti n.110
14.5%
4.5%
Indotti n. 62
9.7%
//
Discussione e conclusioni
La valutazione dei dati esposti consente di esprimere alcune considerazioni. Le prime riguardano le caratteristiche epidemiologiche delle gravide reclutate, in cui si rilevava una quota del 15.7% di donne con BMI superiore a 30 e quindi da considerare francamente obese.
È bene sottolineare che in questa particolare popolazione tale frequenza è tre volte superiore alla quota di obese che abbiamo registrato nella nostra popolazione generale e corrisponde al 4.5%11. È noto che questa condizione costituisce un fattore di rischio aumentato per taglio cesareo (OR=2.4)6. Una quota ancora più rappresentativa del campione studiato era costituito da nullipare, che raggiungevano il 61.6% della popolazione complessiva. Anche questa
è una condizione in grado di incidere fortemente nel determinare un aumento della frequenza di tagli cesarei, con un OR=4.9, riscontrato in uno dei lavori citati6. Non va poi trascurato
che il tasso di gravide che avevano presentato un’accelerazione della crescita fetale, suggestiva per la nascita di un neonato di peso presumibilmente superiore alla media è stato del
49.4%. Queste caratteristiche, associate al fatto che queste donne erano accomunate da una
condizione di GDM portano a definire questa popolazione ad alto rischio per aumento di
frequenza del parto addominale, che complessivamente è stato del 30.2%, sicuramente superiore alla quota della nostra popolazione generale, che come detto partorisce per via addominale nel 23% dei casi: questa percentuale costituisce una delle frequenze più basse del50
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
la realtà geografica nella quale operiamo. È giusto constatare che attualmente non è disponibile in letteratura un trial che per potenza e significatività statistica sia in grado di indicare con
criteri di evidence based medicine, quale sia la condotta più corretta da seguire nella gestione della gravidanza con diabete gestazionale, in riferimento all’opportunità o meno di indurre il travaglio di parto in caso di accelerazione della crescita fetale.
A fronte di questo dato oggettivo sono disponibili numerosi lavori, di cui solo 2 randomizzati (Conway e Kjos...) che confrontano gruppi di gravide con travagli indotti rispetto a
gruppi in cui è stata mantenuta una condotta di vigile attesa ostetrica.
La domanda che legittimamente possiamo ora porci è: fino a quale limite di stima peso
fetale è corretto indurre il travaglio di parto in caso di GDM? o per essere più chiari: quale
è il limite di stima del peso fetale che in queste gravidanze comporta l’esecuzione di un taglio cesareo elettivo? Per rispondere a questo quesito riportiamo quì di seguito un brano del
testo “Taglio cesareo... dal caso clinico alle Linee guida” di S. Alberico, Ed Regione Friuli Venezia
Giulia pg.73 Trieste, 2004.
Diversi Autori sono concordi nel sostenere che il rischio di distocia delle spalle aumenta in misura significativa se il peso dei neonati supera i 4000-4250 g nelle madri diabetiche3,18,19,20,21.
Tuttavia esiste tutt’ora tra i vari Autori una diversità di vedute riguardo alla scelta del cut-off di stima peso al quale proporre l’esecuzione di un taglio cesareo elettivo.
Mentre alcuni raccomandano l’esecuzione di un taglio cesareo in caso di stima peso superiore ai 4000 grammi22, altri consigliano piuttosto un cut-off di 4500 grammi19,23, per ridurre l’eccessivo interventismo, in considerazione dell’imprecisione dell’esame ultrasonografico.
Langer e Coll, nel loro studio osservazionale texano, affermano che utilizzando un cut-off di
4250 grammi, nelle donne diabetiche si preverrebbero il 76% dei casi di distocia di spalla, con un
aumento del rate di tagli cesarei soltanto dello 0.26%. Viceversa, con una soglia di 4000 grammi
l’aumento dei tagli cesarei salirebbe allo 0.52%, mentre con un cut-off di 4500 l’incremento dei
tagli cesarei sarebbe minore, ma non eviterebbe il 40% dei casi di distocia di spalla20.
Altri Autori condividono l’indicazione al taglio cesareo per pesi fetali stimati superiori ai 4250
grammi2,24-26.
Rouse e coll. nel 1996 stimarono che per evitare un singolo caso di paralisi permanente del
plesso brachiale sarebbero necessari nelle donne diabetiche 443 e 489 tagli cesarei aggiuntivi adottando come cut-off di stima peso fetale ecografica rispettivamente i 4500 ed i 4000 grammi13. I
suddetti Autori concludono affermando che una politica che preveda l’esecuzione di un taglio cesareo elettivo in caso di sospetta macrosomia fetale appare giustificata, seppure discutibile, nelle
gravidanze complicate da diabete; viceversa nelle donne non diabetiche un tale approccio ostetrico risulta economicamente e medicalmente inappropriato. Sulla base delle suddette evidenze
l’ACOG raccomanda nelle gravidanze complicate da diabete l’esecuzione di un taglio cesareo elettivo in caso di stima del peso fetale superiore ai 4000 grammi16.
Quali possono essere le conclusioni che possiamo trarre dopo una discussione condotta
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
51
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
su questo tema e che possa costituire un procedura di riferimento per affrontare la gestione
di questi casi?
Il problema dell’accelerazione della crescita fetale, con caratteristiche sproporzionate tra
testa e tronco fetale in corso di GDM è presente e documentata, come documentata è l’evidenza che in condizioni generali queste gravidanze comportino una maggior incidenza di distocie nell’espletamento del parto e quindi di danni neonatali. Il riscontro poi alla nascita di
un peso neonatale superiore alla media, associato al danno subito dal neonato, innesca immediatamente la domanda del perché in quel determinato caso l’Ostetrico non ha prudentemente deciso di eseguire un taglio cesareo elettivo.Tale domanda viene ovviamente posta
“a posteriori” non solo dai parenti del bambino, ma anche da figure professionali (magistrati
o medici legali) culturalmente lontani dal “clima e dal vissuto” di una sala parto e dal pathos
che quell’Ostetrico ha affrontato, in scienza e coscienza, nell’accettare la responsabilità di un
espletamento vaginale di quel parto. Riconosciamo in merito che la frequenza di una distocia di spalla in un neonato di peso >4000 g è di circa 12 volte superiore a quella di un neonato con peso compreso tra 2500 g e 3999 g, non va però dimenticato che di fatto l’40%
delle distocie di spalla che si hanno sono appannaggio di neonati con peso inferiore a 4000
g e da calcoli statistici compiuti è dimostrato che solo il 20% dei casi di distocie di spalla potrebbero essere prevenuti eseguendo un taglio cesareo elettivo in caso di stima peso fetale
superiore ai 4000 g. Resta quindi il dilemma della condotta più corretta da osservare nel restante 80% dei casi. Una quota di questa percentuale riguarda gravidanze con diabete gestazionale. I dati riportati e quanto disponibile oggi in Letteratura giustifica l’opportunità di “affrontare” attivamente questi casi con un’induzione del travaglio a 38 settimane. Questa scelta non dovrà quindi essere demonizzata in caso di evento avverso, se compiuta con scienza
e coscienza da parte dell’Ostetrico, nel rispetto di alcuni fondamentali requisiti di garanzia per
la gravida ed il nascituro, che di seguito elenchiamo:
1. corretto timing della gravidanza, con correzione dell’epoca gestazionale effettuata con misurazione della lunghezza cranio-caudale fetale a 38 settimane;
2. induzione del travaglio a 38 settimane settimane solo in caso di accelerazione della crescita fetale;
3. chiara ed attenta spiegazione alla gravida delle indicazioni all’induzione e piena disponibilità della stessa ad affrontarla;
4. consenso informato;
5. taglio cesareo elettivo in caso di stima peso fetale > di 4250g, (pur con i limiti della stima
ecografica dinanzi esposti)
6. gestione dell’induzione da parte di un esperto consultant e pronta reperibilità dello stesso in corso di periodo espulsivo (in ospedale e non reperibile a domicilio). Disponibilità
in ospedale di una guardia anestesiologica;
7. astensione da qualsiasi assistenza operativa vaginale;
52
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Induzione del travaglio versus expectant management in GDM
8. team ostetrico partecipe e concorde sull’applicazione di un simile protocollo;
9. comunicazione alla Direzione Sanitaria dell’ospedale del protocollo sull’induzione del travaglio di parto in caso di diabete gestazionale;
10. l’attivazione di una commissione interna all’ospedale per la gestione di qualsiasi contenzioso possa nascere da esito materno-fetale avverso.
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54
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
DIABETE IN GRAVIDANZA
DISTOCIA DI SPALLA
4
M. Piccoli, S. Inglese, M.Vessella, M. Bernardon,V. Soini, C. Businelli, GP Maso
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
Definizione ed incidenza
La distocia di spalla rappresenta, come ben espresso da Langer, “...l’infrequente, non anticipato ed imprevedibile incubo dell’ostetrico...”. Tale evento si verifica quando alla fuoriuscita dell’estremo cefalico del neonato non fa seguito quella delle spalle, nè queste vengono espulse
dopo moderata trazione della testa verso il basso.
Una definizione più standardizzata è stata proposta da Spong, che ha suggerito di identificare come casi di distocia di spalla quelli in cui l’intervallo tra fuoriuscita dell’estremo cefalico fetale e completamento del parto sia maggiore di 60 secondi e/o quelli che richiedano
l’intervento di manovre ancillari per permettere la fuoriuscita delle spalle.
La diagnosi di distocia di spalla è in effetti per molti versi soggettiva, dipendendo dalla percezione di difficoltà nell’estrazione da parte dell’operatore. Tale soggettività nell’identificazione dell’evento, in combinazione con la sua incostante documentazione, rende conto dell’ampio range nei dati di incidenza riportati in Letteratura, variabilità d’altra parte strettamente
correlata anche alle differenze nelle caratteristiche delle popolazioni studiate. La frequenza di
distocia di spalla si attesta infatti nelle casistiche disponibili tra lo 0.2% ed il 2% di tutti i parti vaginali.Tale incidenza potrebbe in effetti essere una sottostima dei dati reali che, utilizzando la definizione proposta da Spong per la diagnosi, si attesterebbero secondo tale Autore
intorno al 10%.
La distocia di spalla è quindi evento poco comune, ma non raro, tanto che chiunque si
trovi ad operare in sala parto sarà chiamato periodicamente a fronteggiarne casi di variabile
severità. Le complicanze materne sono fortunatamente limitate e la morte perinatale rara.
Più elevata è invece la morbidità perinatale conseguente all’evento, ed è proprio per questa
ragione che la distocia di spalla ha assunto negli anni più recenti crescente rilievo in ambito
clinico e, purtroppo, medico-legale.
Meccanismi
Rapporti feto-pelvici
Al fine di comprendere il meccanismo per cui la distocia di spalla si verifica e, di conseguenza, il rationale alla base delle manovre utilizzate per farvi fronte, è necessario richiamare
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
55
Distocia di spalla
alla mente alcuni concetti basilari relativi alle relazioni anatomiche che si stabiliscono normalmente tra il feto e la pelvi materna durante la fase espulsiva del travaglio. A livello dello stretto superiore, il diametro pelvico antero-posteriore, più breve, è quello meno favorevole al
passaggio del feto. Normalmente quindi, tanto l’estremo cefalico quanto le spalle fetali si impegnano sfruttando il diametro più ampio dell’ingresso pelvico, che è quello obliquo. L’estremo
cefalico attraversa quindi il canale del parto, mentre la spalla posteriore discende nella concavità sacrale e quella anteriore si accomoda a livello di forame otturatorio. Nel feto a termine, il diametro bisacromiale è più ampio dei diametri cefalici ed è quindi la flessibilità delle
spalle a permettere la loro rotazione e discesa nella pelvi.
La combinazione peggiore per il verificarsi di una distocia di spalla è quella che vede un
diametro bisacromiale più ampio della norma impegnarsi allo stretto superiore secondo il diametro meno favorevole, cioè l’antero-posteriore. Quando questa situazione si verifica, più comunemente la spalla posteriore scende al di sotto del promontorio sacrale, mentre quella anteriore impatta e si arresta al di sopra della sinfisi pubica.
Fortunatamente molto rara è l’evenienza in cui entrambe le spalle rimangono al di sopra
dell’ingresso pelvico (distocia di spalla bilaterale), situazione in cui nella maggior parte dei casi falliscono tutte le manovre disponibili per far fronte a tale emergenza.
Molto più frequente è invece il verificarsi di una condizione definibile come “difficoltà nella fuoriuscita delle spalle fetali”, in cui, pur avendo entrambe le spalle superato l’ingresso pelvico, esse faticano a ruotare a livello dello scavo medio. Quasi invariabilmente tale condizione, di gravità decisamente minore ed a prognosi favorevole, si verifica in presenza di feti macrosomi “asimmetrici” e/o di obesità materna, fattori che aumentano entrambi, verosimilmente con un meccanismo di attrito, la resistenza alla rotazione nel canale del parto.
Complicanze
Le complicanze associate al verificarsi di una distocia di spalla possono interessare tanto
la madre quanto il nascituro.
Complicanze neonatali
- La più comune complicanza a carico del neonato è la frattura della clavicola, che si verifica in circa il 15% dei casi. Molto meno comune è invece la frattura dell’omero (<1%).
Entrambi tali eventi, per quanto non desiderabili e spesso fastidiosi per l’operatore coinvolto nell’assistenza al parto, hanno comunque prognosi favorevole, essendo destinati invariabilmente, quando prontamente riconosciuti e trattati, alla guarigione senza sequele a
lungo termine.
- La frattura e/o dislocazione del tratto cervicale della colonna vertebrale è evenienza estre-
56
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Distocia di spalla
mamente rara, ma gravata da prognosi disastrosa. Essa è spesso il risultato di manovre improprie e disperate di torsione e trazione sull’estremo cefalico e sul collo fetale.
- Il danno a carico del plesso brachiale è una delle complicanze più temute, verificandosi
con frequenza non trascurabile (5-15% dei casi di distocia di spalla) ed essendo gravato
dalla possibilità di sequele permanenti. Nella maggior parte dei casi si verifica una lesione
parziale del plesso, che coinvolge le radici nervose C5 e C6 e si manifesta clinicamente
con una paralisi del tipo Erb-Duchenne. Molto più raramente è coinvolto l’intero plesso
brachiale, con conseguente paralisi di tutto l’arto coinvolto (paralisi tipo Klumpke).
Fortunatamente, il danno del plesso brachiale riscontrato alla nascita va incontro in un’alta percentuale di casi a risoluzione spontanea. La maggior parte delle casistiche disponibili in Letteratura riporta tassi di disabilità a lungo termine inferiori al 10%, anche se due
lavori recenti sull’argomento hanno riscontrato una disturbante persistenza di esiti fino al
50% dei casi. È tuttavia interessante notare come numerosi dati in Letteratura abbiano dimostrato il verificarsi di tale complicanza in assenza di distocia di spalla nel 34-47% dei casi. Un’incidenza del 4% di paralisi del plesso brachiale è stata inoltre riportata in neonati
partoriti con taglio cesareo non traumatico. Tali dati sembrerebbero supportare l’ipotesi
che il danno del plesso brachiale possa talora verificarsi durante il travaglio o, addirittura,
prima dell’inizio di questo, per effetto dell’azione di forze anomale e/o di posture sfavorevoli assunte dal feto in utero.
- Le complicanze più temibili sono comunque relative alla possibilità di danno cerebrale e
di morte perinatale. Si ritiene comunemente che entrambi siano per larga parte il risultato dell’insulto ipossico prolungato sul neonato. Dopo la fuoriuscita dell’estremo cefalico
l’apporto di ossigeno al feto si riduce infatti criticamente. Anche se naso e bocca si trovano all’esterno, il torace è comunque compresso e ciò rende impossibili gli sforzi respiratori.Va inoltre considerato che, all’espulsione della testa fetale, l’utero tende a contrarsi ulteriormente causando una riduzione o, addirittura, una cessazione del flusso ematico agli
spazi intervillosi. È stato dimostrato che dopo la fuoriuscita della testa la progressiva riduzione dell’ossigenazione fetale provoca un calo del pH pari a 0.04 unità al minuto. Partendo
da questo assunto, in un feto che si presenti al momento del parto in condizioni di normo-ossigenazione il tempo a nostra disposizione per risolvere una distocia di spalla prima
che un danno ipossico-ischemico si verifichi è verosimilmente intorno ai 4-5 minuti. Se tuttavia il feto si trova già in uno stato di ridotta ossigenazione, tale margine di sicurezza sarà verosimilmente ridotto, con la possibilità che il danno si istauri in tempi molto più brevi. Inoltre, un’analisi attenta dei casi esitati nella morte del neonato porta a supporre che
spesso un danno letale intervenga anche quando i tempi per l’estrazione rimangono entro i limiti di “sicurezza”. Il Confidential Enquiry into Stillbirths and Deaths in Infancy, raccogliendo i casi di morte perinatale ed infantile in Inghilterra, Galles ed Irlanda del Nord tra
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
57
Distocia di spalla
il 1994 ed il 1995, ha rinvenuto un’incidenza di distocia di spalla fatale pari a 0.025/1000
parti. Analizzando i 56 casi di distocia di spalla esitati in morte del neonato, l’intervallo tra
fuoriuscita dell’estremo cefalico ed estrazione del corpo risultava inferiore ai 5 minuti nel
47% dei casi, e solo nel 20% dei casi superiore ai 10 minuti. A spiegazione di tali dati inaspettati, gli Autori hanno ipotizzato che meccanismi alternativi a quello ipossico-ischemico possano essere responsabili dell’esito fatale, così come del danno cerebrale permanente. La compressione sul collo fetale, e la risultante ostruzione al deflusso venoso, un’eccessiva stimolazione vagale e la bradicardia a questa conseguente, combinate al ridotto apporto arterioso di ossigeno e, forse, a manovre di estrazione improprie, possono infatti
essere la causa di un deterioramento delle condizioni cliniche sproporzionato alla durata
dell’ipossia.
Complicanze materne
- Le lacerazioni del tratto genitale sono più frequenti come conseguenza dell’utilizzo più ampio dell’episiotomia e, soprattutto, del traumatismo associato alle manovre impiegate per
estrarre le spalle. Lacerazioni cervicali sono riportate nel 2% dei casi, mentre del 4% è l’incidenza riscontrata di lacerazioni di IV grado.
- L’emorragia post-partum, conseguente ad atonia uterina ed a trauma sul canale del parto, si verifica nell’11% circa dei casi.
- La rottura d’utero è evento raro. Essa si verifica più frequentemente per l’applicazione di
manovre improprie, quali l’eccessiva pressione sovrapubica e la pressione sul fondo dell’utero (manovra di Kristeller), nonchè come conseguenza del ricorso a tentativi estremi
di risoluzione della distocia di spalla, ed in particolare al riposizionamento cefalico (manovra di Zavanelli). In quest’ultimo caso, così come per il tentativo di “salvataggio addominale” del feto, risulta significativamente più elevato il rischio di emorragia e la necessità di ricorso all’isterectomia.
- Aumentato rispetto alla popolazione generale è inoltre il rischio di infezione e di atonia
vescicale in puerperio.
Fattori predisponenti
Numerose caratteristiche ante ed intra-partum sono state associate ad un aumento del
rischio di distocia di spalla (Tabella 1). La maggior parte di queste, come osservato da Dildy
e coll., presenta tuttavia solo una debole associazione con l’evento considerato, significativa
dal punto di vista statistico solo all’analisi univariata del campione.Tali caratteristiche, definibili come fattori di rischio minori, per quanto più frequentemente riscontrate nelle gestanti che
58
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Distocia di spalla
vanno incontro a distocia di spalla, sono infatti estremamente comuni anche nella popolazione generale, e presentano pertanto nei confronti del verificarsi di tale evento una predittività bassissima. Geary et al. hanno calcolato un valore predittivo positivo del 2% quando tali
fattori si riscontrino isolatamente, valore che sale tuttavia solo al 3% in caso si presentino in
combinazione.
Tabella 1. Distocia di spalla - Fattori di rischio minori
ANTEPARTUM
Obesità materna /eccessivo incremento
ponderale in gravidanza
Gravidanza protratta
Viziature pelviche
Pregresso neonato macrosoma
Pregressa distocia di spalla
Età materna avanzata
Bassa statura materna
Multiparità
INTRAPARTUM
Fase attiva protratta
Arresto secondario in I stadio
Rallentata progressione/arresto in II stadio
Parto precipitoso
Utilizzo di ossitocina
Fase attiva protratta
Arresto secondario in I stadio
Tre sono invece i fattori che presentano una più forte associazione con lo sviluppo di distocia di spalla, definibili come fattori di rischio maggiori:
1. peso neonatale
2. diabete materno
3. ricorso all’operatività vaginale
La macrosomia fetale ha dimostrato in tutti gli studi pubblicati sull’argomento una forte
associazione con il verificarsi di distocia di spalla. A seconda della definizione di macrosomia
considerata (peso neonatale >4000 g; peso neonatale >4500 g; peso neonatale >90° percentile per l’epoca gestazionale), il rischio di distocia di spalla nelle diverse casistiche risulta
aumentato da 8 a 21 volte rispetto alla popolazione di neonati non macrosomi. Come ben
rappresentato nella Tabella II, tale rischio è direttamente proporzionale al peso neonatale, aumentando parallelamente a quest’ultimo, tanto che l’incidenza dell’evento passa dal 5.2% nei
neonati con peso tra i 4000 ed i 4250 g al 21.1% nei neonati con peso tra i 4750 ed i 5000
gr. Uno studio svedese che ha preso in considerazione solo neonati “extremely large”, cioè
con peso alla nascita pari o superiore ai 5700 g, ha osservato un’incidenza di distocia di spalla del 40% nei 78 casi di parto vaginale esaminati.
Tabella II. Correlazione tra peso alla nascita ed incidenza di distocia di spalla
Peso neonatale
%distocia di spalla
4000-4250
5.2%
4250-4500
9.1%
14.3%
4500-4750
21.1%
4750-5000
da Nesbitt et al, AJOG 1998
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
59
Distocia di spalla
Dalle casistiche a nostra disposizione emerge che il 44-64% dei casi di distocia di spalla si
manifesta nei neonati di peso > ai 4000g. D’altra parte, un peso >4000 è riscontrabile nel 615% dei parti non complicati.
È chiaro quindi come il peso neonatale sia significativo fattore di rischio per lo sviluppo di
distocia di spalla e come l’incidenza di quest’ultima sia strettamente dipendente dal peso alla nascita. Dai dati sopra citati si evidenzia tuttavia chiaramente come circa il 50% di tutti i casi di distocia di spalla si verifichino comunque in neonati normopeso, e come l’incidenza di tale evento sia di molto inferiore al 50% anche nei neonati di categoria di peso più elevata. Una
percentuale non trascurabile della popolazione generale dà inoltre alla luce neonati macrosomi senza alcuna complicanza. Geary e coll. hanno stimato che il peso alla nascita >4000 gr
ha nei confronti della distocia di spalla un valore predittivo positivo comunque molto basso,
pari al 3.3%. Se poi andiamo a considerare gli outcomes che rivestono un reale interesse clinico e medico-legale, ovvero i casi di paralisi persistente del plesso brachiale e/o di danno
asfittico cerebrale, essi andranno ad interessare una percentuale ancora più bassa di neonati
macrosomi, dal momento che solo una piccola parte dei casi di distocia di spalla risulta gravata da tali sequele permanenti. A tali dati va aggiunta inoltre un’ultima, ma non meno importante considerazione relativa alla capacità di stimare correttamente il peso del neonato in epoca antenatale.
Tutti i dati di incidenza e di predittività di distocia di spalla in caso di macrosomia derivano infatti dalla conoscenza del peso del neonato alla nascita, mentre in epoca antenatale, quando il rilievo di una sospetta macrosomia potrebbe influenzare il management clinico, l’unico
dato a nostra disposizione è la stima ecografica e/o clinica del peso fetale. Gli innumerevoli
studi sulla performance dell’ecografia nel determinare il peso del neonato hanno tuttavia fornito dati assolutamente scoraggianti. L’indagine ecografica ha infatti mostrato nei confronti della diagnosi di macrosomia e della stima del peso alla nascita la stessa attendibilità della valutazione clinica effettuata tramite palpazione addominale. Una range di errore del 10-15% è
considerato normale nella valutazione ecografica del peso fetale, e tale errore peggiora per i
pesi neonatali più elevati. In un’analisi dei dati disponibili in Letteratura, Ben Haroush e coll
hanno osservato che la sensibilità dell’ecografia nel predire la macrosomia varia tra il 50 ed
il 100%, con una mediana intorno al 67%, mentre la specificità si attesta al 15-81% (mediana
62%).
Al pari della macrosomia neonatale, il diabete materno è stato identificato unanimamente come fattore di rischio maggiore per lo sviluppo di distocia di spalla. I neonati di donne
diabetiche sono infatti più predisposti allo sviluppo di macrosomia, e mostrano inoltre una
peculiare tendenza alla distribuzione del grasso in sede toraco - addominale, con caratteristiche antropometriche che vedono la prevalenza dei diametri addominale, toracico e scapolare su quello cefalico. È proprio questa differenza nella “conformazione fisica”, più che nel peso, a predisporre il neonato di madre diabetica al verificarsi di distocia di spalla alla nascita,
60
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Distocia di spalla
con un rischio stimato di 6 volte superiore a quello generale. Come è possibile osservare dalla Tabella III, a parità di peso alla nascita, in caso di diabete materno la probabilità che si verifichi una distocia di spalla è comunque più elevata.
Tabella III. Incidenza di distocia di spalla per classi di peso nelle donne con Diabete mellito e nella popolazione generale
Peso neonatale
no DM
DM
<4000
0.1-1.1%
0.6-3.7%
4000-4499
1.1-10%
4.9-23.1%
>4500
4.1-22.6%
20-50%
ACOG 1997
La macrosomia alla nascita in presenza di diabete materno sembra quindi costituire una
situazione ad alto rischio di sviluppo di distocia di spalla, anche se, dai dati a nostra disposizione, tale evento sembra interessare comunque meno del 50% dei neonati di madre diabetica per le classi di peso più elevate. Le due condizioni associate sono inoltre riscontrabili in
non più del 55% dei casi di distocia.
Il ricorso all’operatività vaginale è risultato anch’esso fortemente associato allo sviluppo di
distocia di spalla negli studi sull’argomento, con un rischio medio riportato da 4.6 a 28 volte
più elevato.Tale rischio sembra essere maggiore in caso di ricorso alla ventosa ostetrica che
al forcipe, ed è inoltre risultato strettamente correlato alla durata dell’operatività, con un’incidenza più elevata dell’evento per tempi di applicazione prolungati, superiori ai 6 minuti. La
combinazione di macrosomia neonatale, II stadio prolungato e ricorso all’operatività vaginale
a livello mediopelvico sembra essere particolarmente a rischio, come evidenziato da Benedetti
e coll., che hanno riportato un’incidenza di distocia di spalla del 21% ed un elevato tasso di
danno neonatale immediato in queste circostanze, tanto che l’ACOG, in un bollettino sulla
macrosomia fetale pubblicato nel 2000, raccomandava il ricorso al taglio cesareo in caso di
arresto/rallentata progressione in II stadio in feti con stima peso >4500 gr .
Numerosi sono quindi i fattori di rischio identificati per lo sviluppo di distocia di spalla.
Non è stato ancora descritto tuttavia un metodo che, basato sulla presenza di tali fattori, sia
risultato clinicamente utile nel predire con ragionevole accuratezza il verificarsi di tale evento ed ancor più delle sue sequele a lungo termine. Il limite principale dei fattori considerati è
che essi sono molto comuni nella popolazione ostetrica generale, mentre la distocia di spalla, outcome da predire, è relativamente rara.
I fattori di rischio minori hanno scarso valore predittivo positivo ed utilità clinica, quindi,
pressochè nulla. In presenza di fattori di rischio maggiori, che mostrano una più forte associazione con il verificarsi dell’outcome sfavorevole, resta comunque difficile decidere il management più appropriato. Non esiste attualmente un’evidenza certa, e, di conseguenza, un consenso unanime, sulla gestione ostetrica dei casi a rischio, in particolare dei casi di sospetta macrosomia fetale, isolata o associata a diabete materno. Le uniche certezze riguardano da un
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Distocia di spalla
lato il fatto che oltre il 50% delle distocie di spalla si verificano in neonati normopeso, dall’altro la ben nota inaccuratezza della stima peso ecografica, specie in caso di macrosomia.
Nella Tabella successiva presentiamo i casi di patologia neonatale attribuibile a difficoltà di
disimpegno delle spalle fetali, osservati presso il nostro dipartimento in un arco di tempo di
12 anni. Si sono avuti solo sei casi di paresi del plesso brachiale, con espletamento del parto
vaginale strumentale con ventosa in due casi; 4 di questi neonati presentavano un peso alla
nascita >4.000 g . È interessante sottolineare che di fatto ben il 96.6% della intera popolazione di nati aveva alla nascita un peso inferiore ai 4.000 g.
Tabella IV. Esiti Patologici Neonatali da Distocie di Spalla
Dipartimento Ostetrico - Ginecologico - IRCCS Burlo Garofolo 1990 - 2002. Casi n. 89// 11.000 parti 0.8%
Paresi
6 casi
4 PS
(4 su 6 con peso >4000 g)
2 V.O.
Torcicolli
79 casi
54 PS
(1 Caso GDM)
16 TC
8 V.O. + 1 F
Fratture cl
3 casi
3 PS
Stiramenti
1 caso
1 PS
Peso (g)<3000
3000-3500
3500-4000
4000-4500
>4500
>5000
21.3%
57.3%
18%
12.4%
2.1%
1.1%
96.6%
Due controverse misure profilattiche sono comunque state proposte, e sono tuttora oggetto di intenso dibattito, al fine di prevenire la distocia di spalla. La prima, che prevede l’induzione del travaglio in caso di sospetta macrosomia, è stata valutata per lo più in studi osservazionali di tipo retrospettivo, ed in due soli studi prospettici randomizzati. La meta-analisi Cochrane del 2002, che ha preso in considerazione i risultati dei due studi randomizzati per
un campione globale di 313 donne, non ha rilevato differenze significative in termini di morbidità perinatale e di operatività vaginale ed addominale. Il tasso di tagli cesarei nelle donne
sottoposte ad induzione è risultato invece significativamente più elevato nelle casistiche derivanti da studi retrospettivi, come evidenziato nella review pubblicata nel 2002 da RamosSanchez e coll.Va tuttavia sottolineato che tali dati, proprio perché retrospettivi, sono soggetti a bias difficilmente eliminabili. Essi non stratificano inoltre i risultati sulla base della parità della gestante, fattore che, secondo alcuni Autori, sembrerebbe influenzare sostanzialmente l’outcome. La meta-analisi del Cochrane conclude comunque che allo stato attuale delle nostre conoscenze non sono disponibili evidenze sufficienti a dimostrare che l’induzione per sospetta
macrosomia in gravide non diabetiche sia in grado di ridurre la morbidità materna e neonatale. In considerazione delle limitate informazioni disponibili per valutare questo intervento,
gli Autori ribadiscono la necessità di trial randomizzati più ampi.
Analogamente limitate sono le informazioni derivanti da trial randomizzati sull’utilità dell’induzione del travaglio per sospetta macrosomia in gestanti diabetiche. La meta-analisi pub62
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Distocia di spalla
blicata dal Cochrane nel 2002, che include un solo trial randomizzato per un totale di 200 gestanti, pur rilevando un’incidenza significativamente inferiore di macrosomia alla nascita e nessun caso di distocia di spalla nelle gestanti sottoposte ad induzione a fronte di 3 casi di distocia nel gruppo randomizzato per il management d’attesa, non mostra tuttavia differenze significative in termini di morbidità materna e neonatale. Il tasso di operatività addominale appare comparabile nei due gruppi. Anche in questo caso, la scarsa numerosità del campione analizzato non permette di trarre conclusioni sull’efficacia di tale intervento, nè di valutare il suo
effetto sulla mortalità perinatale.
La seconda misura proposta nel tentativo di prevenire il verificarsi di distocia di spalla è il
ricorso al taglio cesareo elettivo nei casi di sospetta macrosomia. Se consideriamo da un lato la bassa accuratezza della stima peso ecografica, dall’altro la percentuale comunque limitata di neonati macrosomi che va incontro a distocia di spalla e, ancor più, alle sue sequele permanenti, risulta evidente come una politica improntata al ricorso al taglio cesareo elettivo non
possa che comportare un incremento sproporzionato del tasso di interventi in rapporto alle distocie di spalla evitate. In un’analisi costo-beneficio pubblicata nel 1996 su Jama, Rouse e
coll hanno infatti calcolato come il ricorso al taglio cesareo per stime peso maggiori di 40004500 gr in donne non diabetiche porterebbe all’esecuzione di 2345-3645 interventi per ogni
caso di danno permanente evitato. Tale proporzione sarebbe più favorevole in presenza di
diabete materno, laddove, per i medesimi cut-off di peso stimato, 443-489 cesarei si renderebbero necessari a prevenire un caso di danno permanente. Per quanto non esista al momento un consenso su quale sia la soglia di interventi proponibile a tal fine, raccomandazioni al riguardo vengono comunque proposte. Nel bollettino 2002 sulla distocia di spalla
l’ACOG conclude che il taglio cesareo profilattico può essere preso in considerazione per stime peso superiori ai 5000 gr nelle gestanti non diabetiche e sopra i 4500 gr nelle diabetiche.
Nessuna certezza giunge quindi a sostegno della scelta clinica nei casi a rischio per il verificarsi di distocia di spalla.Tale scelta andrà quindi inquadrata nell’ambito di protocolli di management condivisi all’interno di ogni Istituto, ponderata sulla base delle caratteristiche proprie di ogni singolo caso e discussa con la paziente al fine di giungere ad una decisone condivisa e consapevole.
Management
Se quindi non siamo in grado di prevedere e prevenire la distocia di spalla, dobbiamo tuttavia evitare che il suo verificarsi ci colga impreparati. Innanzitutto, incapacità di predire il verificarsi di tale evento non significa ignorare la presenza di fattori di rischio. In tutti i casi in cui
ci si trovi di fronte, ad una donna in travaglio con supposto rischio clinico di distocia di spalla è opportuno allertare il personale più esperto e pensare anticipatamente alla sequenza di
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
63
Distocia di spalla
manovre da attuare qualora l’evento si verifichi.Alcuni Autori suggeriscono in questi casi l’adozione profilattica della posizione di Mc Roberts in espulsivo. Altrettanto importante risulta la
capacità di riconoscere prontamente i segni della distocia di spalla, che tipicamente è caratterizzata dall’affiorare di guance e mento alla rima vulvare, con successiva retrazione del mento e mancata rotazione esterna dell’estremo cefalico. Quest’ultimo, nei casi più severi, si ritira parzialmente in vagina dando esito al cosiddetto “segno della tartaruga”. E’ in questo contesto che le normali manovre di assistenza al disimpegno delle spalle falliscono ed è proprio
in questa situazione di emergenza che risulta fondamentale agire con calma, metodo ed organizzazione, e disporre di un piano d’azione non solo individuale, ma anche e soprattutto di
gruppo. Un’azione d’equipe ben concertata può talora fare la differenza.
Il primo passo da attuare consiste nel chiamare in aiuto il personale necessario a fronteggiare l’emergenza. Dovranno essere allertati il medico ostetrico e l’osterica più esperti nel team, il neonatologo e l’anestesista. Sarà inoltre necessaria la presenza di almeno due figure professionali di aiuto nell’attuazione delle manovre d’assistenza e nel controllo e registrazione di
tempi e sequenza delle manovre utilizzate. Il medico più esperto avrà il compito di dirigere il
team, mentre la gestante ed il partner andranno rapidamente informati su quanto si sta verificando e invitati alla collaborazione. È importante che la reazione al verificarsi della distocia
di spalla sia supportata dalla massima freddezza emotiva e improntata ad un’azione di tipo
contro-istintuale, che deve evitare l’impulso alla trazione eccessiva, alla torsione sull’estremo
cefalico ed alla pressione sul fondo dell’utero. Tali manovre sono infatti gravate da rischi più
elevati di traumatismo sulla madre e sul feto, e sono, dal punto di vista fisiopatologico, contrarie alla logica e pertanto spesso inefficaci. L’eccessiva trazione verso il basso esercitata sull’estremo cefalico sembra infatti essere la causa più comune di danno iatrogeno a carico del
plesso brachiale. Allo stesso modo la pressione fundica (manovra di Kristeller) è risultata nel
77% dei casi causa di complicanze, non solo materne, ma anche fetali, specie di tipo neurologico ed ortopedico. Più efficace sembra invece essere l’applicazione della forza in modo graduale e continuo.
Le manovre utilizzate per risolvere la distocia di spalla si fondano essenzialmente su tre
principi d’azione. Alcune inducono un aumento delle dimensioni funzionali della pelvi (manovra di Mc Roberts, manovra di Gaskin), altre si basano sulla capacità di ridurre il diametro bisacromiale del feto attraverso il movimento di adduzione della spalla verso il torace (manovre di Rubin I e II) o di modificare il rapporto tra diametro bisacromiale e pelvi ossea (manovre di rotazione interna), nel tentativo di ruotare le spalle spostandole dal diametro antero-posteriore dell’ingresso pelvico a quello obliquo, più favorevole. Nessuna di tali manovre
ha dimostrato un’efficacia significativamente superiore alle altre. La sequenza con cui queste
verranno applicate dipende pertanto dalla scelta e dalle abitudini dell’operatore, nonchè dai
protocolli d’azione stabiliti da ogni singolo Istituto, possibilmente sperimentati in periodiche
simulazioni dell’emergenza in questione. È invece importante che le manovre vengano ese64
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Distocia di spalla
guite in modo appropriato ed efficiente, evitando di persistere troppo a lungo su una singola manovra quando questa si riveli inefficace. Il giudizio clinico guiderà la progressione delle
procedure usate.
Analizziamo brevemente le manovre disponibili per risolvere la distocia di spalla.
Manovra di Mc Roberts (Figura 1)
Consiste nell’iperflessione, extrarotazione ed abduzione delle cosce della paziente, che deve trovarsi in posizione supina su superficie piana.Tale manovra determina la rotazione della
sinfisi pubica verso l’alto e l’appianamento del tratto lombo-sacrale della colonna vertebrale,
facilitando la discesa della spalla posteriore sotto il promontorio sacrale. La conseguente flessione della colonna vertebrale fetale verso la spalla anteriore può aiutare a liberare quest’ultima dall’impatto contro la sinfisi pubica. Inoltre, la riduzione dell’angolo di inclinazione della
pelvi determina uno spostamento del piano di ingresso pelvico che diventa perpendicolare a
quello delle forze espulsive. Studi sperimentali hanno dimostrato che in questo modo si riduce la forza applicata per estrarre le spalle ed è minore lo stiramento a carico dl plesso brachiale. Proprio tali studi hanno inoltre dimostrato che l’applicazione lenta e graduale della forza permette di contenere il danno rispetto a trazioni di pari entità applicate in modo rapido
e brusco.
I tassi di successo descritti per questa manovra variano tra il 39 ed il 42% quando utilizzata come unico presidio, salendo al 54 - 58% quando combinata con la pressione sovrapubica. Per la semplicità di esecuzione, la bassa traumaticità sulla madre e sul feto e la buona efficacia nel risolvere i casi lievi-moderati di distocia di spalla, la manovra di Mc Roberts è dalla maggior parte degli Autori utilizzata e raccomandata come primo presidio terapeutico.
Figura 1. Manovra di Mc Roberts
Pressione sovrapubica
Comunemente utilizzata in combinazione con la manovra di Mc Roberts al fine di aumentarne l’efficacia, l’applicazione di pressione in sede sovrapubica può essere utile a dislocare la
spalla anteriore impattata contro la sinfisi materna.Tale pressione può essere applicata in direzione antero-posteriore (tecnica di Mazzanti) o laterale (tecnica di Rubin), quest’ultima da
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Distocia di spalla
preferire per la sua capacità di provocare l’adduzione, e quindi la riduzione, del diametro bisacromiale. La tecnica di Rubin prevede una preliminare valutazione della posizione del dorso fetale, e quindi l’applicazione della pressione sul lato posteriore della spalla anteriore del
feto, con un movimento del polso dell’operatore laterale e verso il basso, in tutto simile al ciclo compressione/rilascio utilizzato durante il massaggio cardiaco (Figura 2).
Figura 2. Pressione sovrapubica (manovra di Rubin I)
Manovre di rotazione interna
Comunemente successivo al tentativo di risoluzione della distocia di spalla con le manovre esterne, minimamente traumatiche, sopra descritte, è il ricorso a manovre di rotazione
interna. In questo contesto può rendersi necessaria l’esecuzione di un’episiotomia, che, per
quanto inefficace nel risolvere la distocia, può essere tuttavia utile presidio nel garantire all’operatore un maggiore spazio di manovra. Anche per le manovre di rotazione interna, non
esiste un ordine preferenziale di esecuzione, dipendendo quest’ultimo dalla valutazione “in fieri” da parte dell’operatore.
Manovra di Rubin II
Consiste nell’applicazione di una pressione diretta sulla spalla anteriore del feto per mezzo di due dita dell’operatore poste in vagina a raggiungere il lato posteriore della spalla, che
in questo modo viene ruotata, con un movimento di adduzione, verso il torace fetale (Figura
3). Si riduce così il diametro bisacromiale e, allo stesso tempo, ruotando le spalle verso il diametro obliquo dell’ingresso pelvico, si favorisce il loro impegno.Tale manovra, per quanto logica sul piano fisiopatologico, risulta tuttavia spesso tecnicamente difficoltosa per la ristrettezza degli spazi a disposizione e l’impossibilità di raggiungere la spalla anteriore, che si trova al
di sopra della sinfisi pubica.
Figura 3. Manovra di Rubin II
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Distocia di spalla
Manovra di Woods (Woods screw manouvre)
Nel 1943 Woods, utilizzando per lo studio dei rapporti tra le spalle fetali ed il bacino materno un modello in legno, formulò l’ipotesi che un meccanismo analogo a quello dell’avvitamento potesse regolare la discesa delle spalle del neonato nella pelvi. Queste ultime, pur non
riuscendo a discendere per semplice trazione o spinta dall’alto, potevano infatti essere agevolmente ruotate di 180° con un movimento di “svitamento” tale da permettere l’attraversamento della pelvi senza trauma. Su queste basi Woods sviluppò la sua tecnica di estrazione, per cui, ponendo due dita in vagina ed esercitando una pressione sul lato anteriore della
spalla posteriore, questa viene ruotata ed estratta una volta raggiunto il diametro obliquo o
dopo rotazione completa di 180° (Figura 4). In questo ultimo caso, la spalla posteriore si porta sotto la sinfisi pubica ed il movimento di rotazione si accompagna alla sua discesa ed estrazione agevole, cui segue quella della spalla anteriore, ora divenuta posteriore, precedentemente bloccata al di sopra della sinfisi e discesa al di sotto di questa durante il movimento di “avvitamento” delle spalle fetali.
Figura 4. Manovra di Woods
Tale manovra causa tuttavia l’abduzione della spalla fetale posteriore, provocando un indesiderato ampliamento del diametro bisacromiale. Per tale ragione Rubin ha proposto, a modifica della tecnica di Woods, la cosiddetta “manovra di Woods inversa”, in cui la pressione
viene esercitata sul lato posteriore, anzichè anteriore, della spalla posteriore, portando all’adduzione della spalla stessa con riduzione del diametro bisacromiale (Figura 5).
Figura 5. Manovra di Woods inversa
Estrazione del braccio posteriore (manovra di Jacquemier)
Ammesso che la spalla posteriore sia discesa nella concavità sacrale, è usualmente possibile procedere all’estrazione del braccio posteriore. A tal fine, la mano dell’operatore viene
inserita profondamente in vagina lungo la concavità sacrale, raggiungendo la spalla e l’omero
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Distocia di spalla
del braccio posteriore del feto, che viene seguito fino a livello del gomito. Quest’ultimo viene quindi flesso, consentendo di afferrare l’avambraccio e, se possibile, la mano, che vengono
trascinati all’esterno scivolando lungo il torace ed il viso del feto (Figura 6). Dopo la fuoriuscita del braccio posteriore, la spalla anteriore può diventare accessibile per l’estrazione. In
caso contrario, sostenendo la testa ed il tronco del neonato, si procede alla loro rotazione di
180°, che porta alla discesa della spalla anteriore al di sotto dell’ingresso pelvico, fino alla concavità sacrale, dove diventa accessibile per l’estrazione.Tali manovre possono essere associate alla frattura dell’omero e della clavicola, danni che tuttavia si risolvono senza sequele.
Figura 6. Manovra di Jacquemier (estrazione del braccio posteriore)
Cambiamento di posizione: Manovra di Gaskin (posizione carponi)
La posizione carponi, da sempre adottata durante il travaglio ed il periodo espulsivo, è stata suggerita come utile misura atta a risolvere la distocia di spalla grazie all’esperienza di
un’ostetrica statunitense che ne aveva osservato l’utilizzo da parte delle ostetriche indigene
guatemalteche.
Le basi teoriche a supporto dell’efficacia di tale manovra si fondano sulla sua capacità di
ampliare di 1-2 cm il diametro sagittale dell’ingresso pelvico sfruttando la flessibilità dell’articolazione sacro-iliaca, al contrario di quanto si verifica per la posizione litotomica in cui la mobilità posteriore del sacro risulta limitata. Allo stesso tempo, essa è in grado di sfruttare al meglio la forza di gravità, che promuove in questa posizione la discesa della spalla posteriore al
di sotto del promontorio sacrale. Proprio la spalla posteriore fuoriesce in questo caso per
prima, dopo modesta trazione sull’estremo cefalico fetale. È inoltre possibile in questa posizione mettere in atto tutte le manovre già descritte di rotazione interna ed estrazione del
braccio posteriore fetale.
Una casistica relativa all’analisi di 82 casi così trattati ha dimostrato un successo dell’83%,
con un tempo medio di 2-3 minuti per l’espletamento del parto.
Il tasso di complicanze materne e neonatali si è rivelato in questi casi estremamente basso (1.2% e 4.9% rispettivamente). La relativa “innocuità” di tale intervento ed il suo elevato
tasso di successo ne suggeriscono la sua applicazione in caso di fallimento delle tecniche di
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Distocia di spalla
uso più comune, benchè l’esperienza relativa all’utilizzo di questa tecnica sia al momento limitata.
Figura 7. Manovra di Gaskin
Manovre di “ultimo ricorso”
Quando le manovre precedentemente descritte, eseguite in modo appropriato, falliscono, la situazione si fa critica. In questi casi il tipo di distocia di spalla che l’operatore si trova
ad affrontare è infatti di grado severo, spesso caratterizzato dalla mancata discesa al di sotto
dell’ingresso pelvico di entrambe le spalle, che risultano pertanto non raggiungibili da parte
dell’operatore, con conseguente impossibilità di attuazione di tutte le manovre interne. Sono
state proposte, nel tentativo di risolvere queste circostanze disperate, alcune manovre altrettanto estreme, la più nota ed utilizzata delle quali è la manovra di Zavanelli.
Riposizionamento cefalico (manovra di Zavanelli)
Una sequenza inversa a quella fisiologica di espulsione della testa fetale viene messa in atto dall’operatore al fine di riposizionare in vagina l’estremo cefalico. A tal fine, quest’ultimo
viene afferrato, intraruotato, flesso e quindi risospinto in vagina, anche se talora la testa tende, una volta ruotata, a ritirarsi spontaneamente all’interno del canale del parto (Figura 8). A
tale riposizionamento fa seguito l’estrazione del neonato mediante taglio cesareo. Alcuni
Autori consigliano l’utilizzo di tocolisi o di miorilassanti durante la manovra. Per quanto considerato da molti un approccio eccessivamente radicale alla distocia di spalla, la manovra di
Zavanelli ha tuttavia dimostrato nelle casistiche disponibili in letteratura una buona performance. L’analisi di Sandeberg su un’esperienza maturata in 12 anni ha infatti rilevato un tasso di successo del 92%. Nel 70% dei casi la manovra, per lo più effettuata da operatori senza precedente esperienza, veniva descritta come agevole. Se il riposizionamento avviene in
tempi rapidi, l’ossigenazione fetale sembra inoltre mantenersi soddisfacente per tempi variabili dai 30 ai 70 minuti, con Apgar buoni alla nascita. Similmente, O’Leary e coll. hanno riportato, su 59 casi di applicazione della manovra di Zavanelli, un tasso di successo molto alto (solo 6 casi andati incontro a fallimento), per lo più senza eccessiva morbidità materno-fetale.
Tuttavia, nei pochi casi andati incontro a complicanze, queste sono risultate severe, includendo, 3 morti perinatali, 4 casi di convulsioni neonatali, 5 di paralisi permanente del plesso brachiale e 3 casi di isterectomia post-partum conseguente a rottura d’utero. Descritti in letteGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Distocia di spalla
ratura sono inoltre il possibile verificarsi di danni cerebrali permanenti, un aumentato rischio
di emorragia materna severa e di infezioni post-operatorie.
Nonostante i rischi ed i dubbi relativi al ricorso a questa manovra, esperienze crescenti e
pareri autorevoli sembrano comunque suggerire che essa possa essere presa in considerazione, come “ultima spiaggia”, nei casi refrattari all’applicazione delle manovre tradizionali, ricorrendovi comunque tempestivamente, in modo da evitare tempi di latenza troppo prolungati e tentativi eccessivamente traumatici di estrazione vaginale. In caso di fallimento del tentativo di rotazione interna ed estrazione delle spalle fetali, quando all’esame clinico la spalla
posteriore non sia discesa al di sotto del promontorio sacrale, il ricorso al riposizionamento
cefalico può forse essere l’unica ed ultima risorsa disponibile.
Figura 8. Manovra di Zavanelli
Cleidotomia
Numerose review sull’approccio alla distocia di spalla annoverano tra le misure possibili il
ricorso alla frattura intenzionale della clavicola del feto. Non sono tuttavia disponibili casistiche relative alla performance di tale intervento. Nonostante la frattura della clavicola si verifichi accidentalmente in alcuni casi di distocia di spalla, è tuttavia nella pratica difficile riuscire
deliberatamente a realizzarla. È inoltre presente in tale circostanza un potenziale rischio di
trauma a carico del sottostante fascio vascolare succlavio, nonchè di creazione di un pneumotorace iatrogeno.Tale manovra andrebbe pertanto riservata solo ai casi in cui la morte del
feto sia già sopraggiunta o quando questo presenti anomalie malformative incompatibili con
la vita.
Salvataggio addominale
Un approccio alternativo è stato descritto per i casi, fortunatamente rari, in cui tutte le
manovre, inclusa quella di Zavanelli, falliscono. Si tratta del ricorso al taglio cesareo, che consente alla spalla anteriore di “saltare fuori” attraverso l’incisione trasversale sull’utero e di essere successivamente ruotata in direzione del diametro obliquo della pelvi. Ciò permette di
ampliare lo spazio disponibile alle manovre di estrazione del braccio posteriore, che viene
trascinato all’esterno per via vaginale, con successiva espulsione attraverso il canale del parto dell’intero corpo fetale.
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Distocia di spalla
Sinfisiotomia
Tal procedura, in grado di ampliare del 25% le dimensioni del bacino e largamente in uso
in alcuni Paesi in via di sviluppo per casi selezionati di sproporzione feto-pelvica, è stata proposta come possibile soluzione a casi estremi di distocia di spalla. Tuttavia, non vi sono casistiche sufficientemente ampie che analizzino il ricorso a tale intervento a questo fine. I pochi
dati disponibili derivanti da tentativi di utilizzo della sinfisiotomia in Paesi industrializzati riportano inoltre complicanze severe sia materne che neonatali. Considerata la scarsa familiarità
nell’esecuzione di tale intervento, sembra comunque impossibile proporre il ricorso alla sinfisiotomia nel mondo occidentale.
Sequenza d’azione
Per quanto, come già precedentemente accennato, non esista una sequenza d’applicazione delle manovre sopra descritte significativamente più efficace, numerosi sono tuttavia gli approcci sistematici proposti per risolvere la distocia di spalla. Questi pur differenziandosi per
l’ordine temporale in cui le singole manovre vengono applicate, si riconducono tutti alla prima e fondamentale necessità di agire sulla base di una sequenza logica codificata e condivisa
dal team, mantenendo nell’emergenza una sufficiente dose di calma e razionalità. Sono di seguito riportati alcuni esempi di approccio sequenziale proposti a questo scopo, descritti nel
testo edito dal Royal College of Obstetrics and Gynaecology britannico sul management dell’emergenza ostetrica.
L’Advanced Life Support in Obstetrics (ALSO) utilizza un acronimo facilmente memorizzabile per guidare il management clinico in tale situazione:
HELPERR
H - Help: chiamare aiuto
E - Evaluate for episiotomy: valutare l’opportunità di un’episiotomia
L - Legs: manovra di Mc Roberts
P - Pressure: pressione sovrapubica
E - Enter: ricorso alle manovre di rotazione interna
R - Remove the posterior arm: estrazione del braccio posteriore
R - Roll: adottare la posizione carponi
Un simile approccio mnemonico viene proposto da Magowan:
PALE SISTER
P - Prepare - have a plan: prepararsi all’evento e disporre di un piano d’azione
A - Assistance: chiamare assistenza
L - Legs: manovra di Mc Roberts
E - Evaluate for episiotomy: valutare l’opportunità di un’episiotomia
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Distocia di spalla
S - Suprapubic pressure: pressione sovrapubica
I - Internal rotation: manovra di Woods
S - Screw: manovra di Woods inversa
T - Try recovering postetrior arm: estrazione del braccio posteriore
E - Extreme measure: misure estreme (Zavanelli, salvataggio addominale)
R - Repair, record and relax
Di fondamentale importanza è, al termine dell’accaduto, la corretta documentazione, che
deve riportare tempi d’azione e manovre utilizzate, nonché un elenco del personale presente e, possibilmente, la valutazione del pH fetale eseguita sul funicolo alla nascita.
Sarà inoltre opportuno dedicare il tempo necessario a rivedere con i genitori quanto verificatosi e a discutere con essi la prognosi del neonato.
Conclusioni
Risulta evidente come la distocia di spalla sia una di quelle situazioni d’emergenza ostetrica in cui mancano evidenze certe sulla capacità di predizione, sui mezzi di prevenzione e sul
management più appropriato. Le raccomandazioni possibili in questo campo sono quindi basate sull’esperienza e su dati derivanti da studi osservazionali. Alcuni principi consistenti emergono tuttavia da tali dati. In primo luogo, non esistono fattori sufficientemente sensibili e specifici da poter essere utilizzati nella pratica clinica per predire e prevenire il verificarsi di tale
evento. La presenza di fattori di rischio cumulativi può tuttavia giustificare, in casi selezionati,
il ricorso al taglio cesareo elettivo o all’induzione profilattica del travaglio di parto.
In secondo luogo, proprio perché la distocia di spalla si verifica in modo imprevedibile, è
necessario disporre di un piano d’azione logico e condiviso all’interno di ogni Istituto, che permetta di essere preparati a far fronte all’emergenza nel migliore dei modi. A tal fine sembra
raccomandabile l’organizzazione di periodiche sedute teorico-pratiche di training del personale di sala parto, con simulazione della situazione d’emergenza, al fine di testare la risposta
del team a quest’ultima, mantenendo il necessario “allenamento mentale” dei comportamenti da tenere quando essa si presenta.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
DIABETE IN GRAVIDANZA
254
L’ECOGRAFIA NELLE GRAVIDANZE
DIABETICHE
G. D’Ottavio, M. Bernardon, S. Inglese,T. Stampalja, M.Vessella, G. Rizza, A. Candiotto
Unità di diagnosi prenatale ed ecografia, Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
È stato stimato che circa l’1% della popolazione generale delle donne in età riproduttiva,
ha un diabete manifesto e che circa in un quarto dei casi si tratta di diabete insulino dipendente (IDDM). Inoltre il 2-5% delle donne non diabetiche, sviluppa in gravidanza una forma
temporanea di diabete, chiamata diabete gestazionale: le donne maggiormente a rischio sono le obese o quelle di età superiore ai 35 anni, con storia familiare di diabete e/o che abbiano già avuto un figlio di peso superiore ai 4000 grammi alla nascita. Questa forma di diabete, generalmente regredisce dopo la gravidanza, anche se il 30-40% di queste donne svilupperà un diabete di tipo 2 dopo 5-10 anni (specialmente in caso di obesità)1.
Il diabete materno causa problemi fetali a vari livelli, e l’ecografia riveste un ruolo significativo nella diagnosi e nella gestione clinica della fetopatia diabetica nelle sue varie forme:
-
malformazioni congenite
macrosomia fetale
mortalità perinatale
alto rischio per distress respiratorio
ritardo di crescita intrauterino, nelle pazienti diabetiche con vasculopatia.
Il contributo dell’ecografia è dunque essenziale nella:
- Stima dell’epoca gestazionale
- Valutazione delle malformazioni congenite
- Valutazione della crescita
- Diagnosi e monitoraggio del polidramnios
- Valutazione dello stato di salute fetale.
Stima dell’epoca gestazionale
Il vantaggio di una stima accurata dell’epoca gestazionale è evidente per ciascuna gravidanza, ma diventa cruciale nelle gravidanze diabetiche, al fine della corretta interpretazione
dei test biochimici di screening, della valutazione dei pattern di crescita, del timing degli eventuali esami invasivi e del parto.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
75
L’ecografia nelle gravidanze diabetiche
I parametri biometrici utilizzati variano a seconda dell’epoca gestazionale, con la regola che
quanto più è precoce la valutazione tanto più accurata è la datazione2.
Il diametro medio del sacco gestazionale è utilizzabile dalla 5a alla 7a settimana con una
accuratezza di ± 3,5 giorni (95° CL).
La lunghezza cranio-caudale (CRL), misura più ampiamente documentata in letteratura, ha
una accuratezza di ± 3-5 giorni e viene generalmente utilizzata dalla 7a alla 12a settimana3.
Il diametro biparietale è il parametro biometrico di datazione a partire dalla 12a settimana praticamente fino a termine, con sensibili variazioni di accuratezza rispetto all’epoca di valutazione, poiché le dimensioni della testa sono prevalentemente determinate dallo sviluppo
del cervello, e meno risentono dei processi responsabili di un eventuale ritardo di accrescimento.
La sua predittività infatti passa da ± 1,1 settimane tra la 14a e la 20a settimana, a ± 1,6 settimane tra 20-26 settimane, a ± 2,4 settimane a 26-30 settimane ed è di ± 3-4 settimane dopo la 30a settimana. Combinando al DBP, l’occipito-frontale (OFD) si ottiene, mediante formula, la circonferenza cranica (CC), che risente meno del DBP della forma della testa e quindi risulta un parametro leggermente più accurato di datazione, soprattutto dopo la 20a settimana.
L’accuratezza della lunghezza del femore (FL) è paragonabile a quella del DPB, dalla 14a
alla 20a settimana, successivamente il suo valore si riduce in quanto risente maggiormente delle variazioni di crescita intrauterina.
Ricapitolando:
Accuratezza per epoca gestazionale
EPOCA
5a-7a sett
7a-13° sett
M DMSG
± 3, 5 gg
I
± 3 - 5 gg
S CRL
U DBP/CC
R
A FL
14a-20a sett
20a- 26a sett
26a-30a sett
± 1,1 sett
± 1,1 sett
± 1,6 sett
± 2,4 sett
Valutazione delle malformazioni congenite
Nella popolazione generale, la frequenza di anomalie congenite maggiori è dell’1-3% dei
nati vivi. Nelle donne con diabete conclamato e controllo glicemico subottimale prima della gravidanza, la probabilità di anomalie strutturali è aumentata di 4-8 volte.
La presenza di malformazioni congenite è la causa principale di mortalità e morbilità perinatale delle gravidanze diabetiche. È stato ipotizzato che il controllo del diabete nelle prime 7 settimane di vita intrauterina sia cruciale per la prevenzione di queste anomalie strutturali, poiché questo è il periodo dell’organogenesi4.
76
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
L’ecografia nelle gravidanze diabetiche
La maggior parte delle lesioni riguarda il sistema nervoso centrale e l’apparato cardiovascolare. Il fatto che non vi sia un aumento di difetti congeniti in figli di padri diabetici, donne prediabetiche, e donne che svilupperanno diabete gestazionale dopo il primo trimestre
è importante per poter affermare che il controllo glicemico periconcezionale sia il fattore
principale nella genesi dei difetti congeniti correlati al diabete5.
Quando la frequenza delle anomalie congenite viene correlata al tasso dell’emoglobina
glicosilata, nei casi in cui è normale o non superiore all’8.5% il tasso di malformazioni non
eccede il 3.4%, mentre nelle pazienti con cattivo controllo glicemico nel periodo periconcezionale (HbA1C >8.5%) il tasso sale fino a 22.4%. Un tasso generale di 13.3% è stato riportato in 105 pazienti diabetiche, ma la probabilità di partorire un figlio con malformazioni congenite è comparabile a quello delle gravidanze normali, quando la concentrazione di HbA1C
era inferiore al 7%6.
È importante pertanto stabilire un controllo alimentare e metabolico in fase preconfezionale, poiché i difetti congeniti vengono determinati nelle prime 3-6 settimane dopo il concepimento.Trials clinici di metabolic care, hanno dimostrato che un normale tasso di malformazioni può essere ottenuto, con un attento controllo glicemico periconcezionale7.
ANOMALIE CARDIACHE
L’incidenza di malformazioni cardiache è più alta nel gruppo della madri in trattamento
insulinico all’epoca del concepimento. I nati da madri diabetiche sviluppano spesso problemi respiratori che devono essere differenziati dai problemi cardiovascolari, che possono frequentemente avere (anomalie strutturali e cardiomiopatia ipertrofica) e dallo scarso adattamento alla vita extrauterina di cui spesso soffrono8.
1. Anomalie strutturali
Il 5% dei nati da madri diabetiche presentano una malformazione cardiaca. Il rischio relativo più elevato si ha se la madre ha un diabete gestazionale e sviluppa insulino-resistenza
nel III trimestre.
Alcuni studi hanno dimostrato, usando i valori di HBA1c come indicatore del controllo
diabetico materno, che non esiste una correlazione significativa tra le malformazioni ed il controllo diabetico, benché si pensi che proprio l’alterazione metabolica materna sia responsabile del tasso più elevato di queste malformazioni.
I difetti cardiaci più frequentemente riscontrati includono: i difetti del setto interventricolare, la trasposizione dei grossi vasi e la stenosi aortica. Relativamente frequenti sono pure il truncus arteriosus e il ventricolo destro a doppia uscita.
2. Cardiomiopatia ipertrofica
Mentre una cardiomiopatia ipertrofica sintomatica si riscontra nel 12,1% dei nati di maGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
77
L’ecografia nelle gravidanze diabetiche
dre diabetica, se cercata routinariamente con ecocardiografia, viene rilevata nel 30% dei casi. La massa e la contrattilità del ventricolo sinistro sono aumentati, e c’è una ostruzione al
tratto di efflusso sinistro con apposizione del lembo anteriore della mitrale al setto interventricolare, durante la sistole. L’output cardiaco è significativamente ridotto, secondariamente alla riduzione del volume di eiezione ed è direttamente proporzionale al grado di ipertrofia del setto.
Questo ingrossamento asimmetrico, con un setto sproporzionatamente ipertrofico all’apice, è il risultato anabolico dell’iperinsulinemia fetale, determinato dall’iperglicemia materna
durante il III trimestre. L’ipertrofia del setto è correlata con i livelli di emoglobina glicosilata
materna, piuttosto che con la microsomia fetale.
Considerato che la frequenza delle malformazioni cardiache è del 5% nei feti di madre
diabetica e poiché una ecocardiografia fetale mirata è in grado teoricamente di diagnosticare il 90% delle cardiopatie congenite maggiori, il diabete rappresenta una delle indicazioni
principali all’ecografia di secondo livello alla 20a e alla 32a settimana di gravidanza9.
MALFORMAZIONI SCHELETRICHE E DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE
I feti di madre diabetica sono a rischio aumentato per i difetti del tubo neurale (DTN);
infatti l’incidenza riportata di DTN nelle diabetiche è di 20:1000 contro 1-2:1000 nella popolazione generale. In particolare l’anencefalia si riscontra in 1:200 feti di madre diabetica,
che è tre volte la prevalenza nella popolazione delle non-diabetiche10.
La sindrome da regressione caudale o embriopatia diabetica focomelica, avviene in 2-5:
1000 gravidanze diabetiche, con un tasso che è 200 volte superiore a quello che si riscontra nella popolazione generale. Si ritiene che un difetto nel mesoderma embrionario nella
4a settimana di gestazione sia responsabile dell’ipoplasia o assenza delle strutture caudali.Tra
le anomalie encefaliche descritte vi è anche la microcefalia, benchè il meccanismo non sia
noto.
ANOMALIE RENALI
È descritta una incidenza aumentata di duplicazione ureterale, agenesia renale, ureterocele ed idronefrosi. L’agenesia renale con la relativa sequenza malformativa, è responsabile
della significativa mortalità in questa classe di anomalie11.
ANOMALIE GASTROINTESTINALI
Le anomalie fetali più frequentemente rilevate nelle gravidanze diabetiche sono: l’imperforazione anale, le atresie dell’intestino tenue, la sindrome del piccolo colon sinistro e l’atresia duodenale.Tra le anomalie minori ricordiamo, il situs viscerum inversum e l’arteria ombelicale singola12.
78
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
L’ecografia nelle gravidanze diabetiche
Valutazione della crescita fetale
Il rischio più consistente per il figlio di madre diabetica è comunque una alterazione della
crescita, la macrosomia soprattutto o il ritardo di crescita intrauterino, in particolari situazioni.
La macrosomia fetale è definita come peso alla nascita superiore ai 4500 grammi o superiore al 90° percentile per una determinata epoca gestazionale. Il vecchio limite dei 4000 g è
stato superato visto l’incremento degli ultimi anni dei pesi alla nascita fisiologici13.
Si pensa che l’eziologia della macrosomia sia determinata dall’iperinsulinemia fetale secondaria all’iperglicemia materna. Quest’ultima stimola il pancreas fetale ad aumentare la produzione e la secrezione di insulina. La macrosomia fetale diabetica è caratterizzata da una disparità del tasso di accrescimento dei vari tessuti. Il cervello non è sensibile all’iperinsulinismo e
quindi non mostra la caratteristica accelerazione della crescita del tronco. Il tronco fetale tende ad essere più grande della norma sia per la crescita dei visceri che per la deposizione di
tessuto adiposo. Anche gli arti mostrano una deposizione di tessuto adiposo. Proprio queste
sono le caratteristiche biometriche per una diagnosi ecografica di macrosomia fetale14. Il biparietale infatti non è significativamente più grande di quello dei feti di madre non diabetica, e la
diagnosi ecografica si basa soprattutto sulla misurazione della circonferenza addominale.
Circa il 50% dei feti di madre diabetica, mostrano una circonferenza addominale (misurata
a livello del dotto venoso), al di sopra della seconda deviazione standard tra la 28a e la 39a settimana, indicativa di una accelerazione dell’accrescimento fetale. Usando una ROC curve è stato stabilito che il cut off per definire l’eccessiva crescita è di 1,2cm/per settimana tra la 32a e
la 39a settimana. La misura quindi della sola circonferenza addominale può aiutare nel porre la
diagnosi di macrosomia fetale. Gilby et al. hanno dimostrato che se la CA è inferiore a 35 cm,
il rischio per un feto di avere un peso superiore a 4500 g è inferiore all’1%. D’altra parte se la
circonferenza è di 38 cm o più, il rischio e del 37%, e più del 50% di questi feti sono stai così
identificati15.
Esistono numerose formule ed indici, per la previsione del peso fetale, e quelle più semplici danno risultati paragonabili a quelle più complesse, per quanto la maggior accuratezza si ottenga includendo anche la CA e la lunghezza del femore (FL)16.
L’errore medio di stima del peso fetale è superiore nei feti macrosomi, aggirandosi, a termine, intorno al 15%, se lo confrontiamo con circa il 10% per i feti di peso normale. La presenza di diabete non cambia l’accuratezza della predittività. Field et al.17 hanno trovato che, indipendentemente dal peso della madre, quasi la metà delle previsioni di peso erano nell’ambito del 5% rispetto al peso attuale18. Circa il 50-70% dei pesi stimati cadeva entro il 10% del
peso attuale, superando il cut off di 4000 g nel 95% dei casi in cui la stima era uguale o superiore ai 4000 g. La ripetizione delle misure, non sembra accrescere l’accuratezza, a differenza
della presenza del polidramnios. Sohaey18 ha riportato che il 28% dei feti con polidramnios
presenta un peso alla nascita superiore al 90° percentile, mentre l’oligoamnios, virtualmente
esclude la macrosomia19.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
79
L’ecografia nelle gravidanze diabetiche
Considerato che l’obesità fetale nelle diabetiche colpisce soprattutto il tronco, la distocia
di spalle è la principale complicanza di questi feti, con un aumento dell’incidenza di questa patologia di 1,5 fino a 4 volte in tutti i sottogruppi di peso alla nascita tra i 4000 e i 5000 g20.
Tuttavia 40-50% dei casi di distocia di spalla complicano la nascita di feti non-macrosomi,
e 30-50% di tutti i casi di danni al plesso brachiale, avvengono senza distocia di spalla e in feti non-macrosomi.
L’ecografia non è considerata abbastanza specifica nel predire la distocia di spalla, la sensibilità e la specificità non superano il 40 e il 75% rispettivamente, il che indicherebbe la necessità di eseguire il taglio cesareo nel 25% delle pazienti per evitare soltanto il 40% delle distocie di spalla21.
Ci sono altre caratteristiche morfologiche che possono essere utilizzate per la diagnosi
ecografica di macrosomia fetale come l’eccessivo deposito di grasso sottocutaneo e la visceromegalia22 (fegato in particolare).Tra le misurazioni proposte ricordiamo quella del tessuto
sottocutaneo omerale, ed il diametro guancia-guancia23. Al momento nessuna di esse sembra
particolarmente convincente o sufficientemente validata su ampie casistiche24.
Ancora oggi, la maggior parte degli studi conclude però che la valutazione clinica è paragonabile all’ecografia nel predire il peso alla nascita a termine, specialmente quando è al di
sopra dei 4500 g25.
A differenza della macrosomia, il ritardo di crescita non è molto comune nella gravidanza
diabetica; quando è presente è dovuto all’insufficienza utero-placentare secondario ad una situazione di vasculopatia. È stato postulato che il ridotto trasferimento dei nutrienti secondario alla vasculopatia e la diminuzione della risposta dei tessuti all’insulina siano tra le cause della ridotta crescita in alcune gravidanze diabetiche.
Polidramnios
Il polidramnios complica il 25% delle gravidanze in pazienti diabetiche manifeste, e il 13,4%
di quelle con diabete gestazionale. Il polidramnios si instaura più frequentemente nelle pazienti con cattivo controllo glicemico. La poliuria fetale, secondaria all’iperglicemia, sembra contribuire all’istaurarsi del polidramnios26.
Monitoraggio del benessere fetale
Numerosi studi sull’utilizzo del Doppler per lo screening e la diagnosi delle complicanze
fetali nelle gravidanze diabetiche hanno portato alle seguenti conclusioni:
80
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
L’ecografia nelle gravidanze diabetiche
1. Le resistenze al flusso nelle arterie uterine e nelle arterie ombelicali non sono correlate
al controllo glicemico materno né a breve né a lungo termine27.
2. L’impedenza al flusso nelle arterie uterine è normale anche nelle pazienti con nefropatia
o vasculopatia. Tuttavia un aumento delle resistenze, come nelle pazienti non diabetiche,
identifica un gruppo ad alto rischio per gestosi e/o ritardo di crescita intrauterina28.
3. L’aumento delle resistenze nelle arterie ombelicali è associato alla gestosi e/o al ritardo di
crescita. Le evidenze sono contraddittorie rispetto al possibile aumento di impedenza nelle gravidanze con vasculopatia29.
4. Non vi è evidenza di redistribuzione nella circolazione fetale con riduzione del PI nella arteria cerebrale media e aumento di PI nell’aorta discendente. Ciò dipende presumibilmente dal fatto che nel diabete, ci possono essere fluttuazioni acute nel pH fetale, poiché quest’ultimo dipende dalla concentrazione del glucosio materno. Inoltre, a differenza dei ritardi di accrescimento, gli squilibri metabolici possono produrre nel feto acidemia senza ipossemia.
Perciò, la classica ridistribuzione (brain sparing) osservata nell’ipossemia da insufficienza utero-placentare, può non essere evidente anche in feti fortemente compromessi. È importante quindi non farsi ingannare da un reperto normale flussimetrico nella valutazione dello stato di salute del feto di madre diabetica.
In conclusione
La mortalità perinatale nelle gravidanze complicate da diabete è diminuita sensibilmente
negli ultimi anni. L’outcome in genere, è migliore quando il controllo glicemico è ottenuto in
fase preconcezionale ed in assenza di malattie vascolari materne.
Quindi il monitoraggio della gravidanza inizia molto precocemente e tutte le tappe dei
controlli clinico-strumentali sono ormai assolutamente validate e riconosciute dalle maggiori
società scientifiche di ostetricia e ginecologia31.
Per quello che riguarda l’ecografia lo schema proposto, mediato dalle evidenze della letteratura, ha dimostrato anche nella nostra esperienza di coniugare l’efficacia dell’intervento
con una ragionevole frequenza dei controlli.
Valutazione fetale
- Screening su siero materno (sindrome di Down e Difetti tubo neurale)
- Ecografia I trimestre (datazione)
- Ecografia 18-22 settimane (malformazioni, ecocardiografia)
- Ecografie dalla 28a settimana (crescita)
- Dalla 28a settimana monitoraggio biofisico (Doppler- CTG...)
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
81
L’ecografia nelle gravidanze diabetiche
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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264
DIABETE IN GRAVIDANZA
TERAPIA INSULINICA
DEL DIABETE IN GRAVIDANZA
L. Cattin
Servizio di Diabetologia e Malattie Metaboliche - S.C. III Medica, Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti di Trieste”
Dobbiamo distinguere 2 condizioni: il diabete che precede la gravidanza e il diabete gestazionale vero e proprio, in cui la diagnosi viene posta per la prima volta durante la gravidanza.
Oltre al diabete vero e proprio si debbono includere altre 2 condizioni rappresentate dall’intolleranza agli idrati di carbonio (IGT) e dall’alterata glicemia a digiuno (IFG). In ogni caso, qualunque ne sia il tipo vi è generale consenso sul fatto di mantenere la glicemia entro variazioni
molto strette rappresentate da un glicemia a digiuno inferiore a 95 mg% con variazioni postprandiali non superiori a 120 mg%. Questi obiettivi non si possono raggiungere se non con
il fine bilanciamento di dieta, attività fisica e insulina. La dieta dovrebbe includere 3 pasti principali e 3 snack in modo da somministrare circa 30 kcal/kg di peso distribuite in 40-50% circa
di carboidrati, 15-20% di proteine e 30-35% di grassi. L’insulina diviene necessaria quando lo
stile di vita non è in grado di mantenere le glicemie giornaliere entro i limiti indicati.
Terapia insulinica
L’insulina regolare è stata e continua ad essere la terapia di riferimento per ridurre le escursioni glicemiche postprandiali. Presenta tuttavia il difetto di non riuscire a controllare in modo adeguato il picco iperglicemico postprandiale, anche quando sia somministrata almeno 40’
prima, e il rischio di ipoglicemia 2-3 ore dopo i pasti.
Recentemente sono stati impiegati i cosiddetti analoghi dell’insulina, come lyspro o aspart,
che offrono il vantaggio di un picco insulinemico rapido e di breve durata. Le preoccupazioni iniziali di aggravamento della retinopatia e di aumentato rischio di teratogenicità sono cadute alla luce degli studi più recenti che hanno analizzato casistiche sufficientemente ampie.
Le insuline ad azione intermedia, come l’insulina NPH, formano il cosiddetto fondo insulinemico che consente di mantenere costante la glicemia tra i pasti, la glicemia notturne e quella del cosiddetto “effetto alba”, che si manifesta con un aumento tra le 6 e le 9 am.
La dose giornaliera di insulina viene determinata sulla base del peso corporeo aggirandosi attorno a 0.5 U/kg nel primo trimestre, 0.75 U/kg nel secondo e 1.0 U/kg nel terzo trimestre. Si tratta evidentemente di dosi soltanto indicative, essendo la dose giornaliera di insulina strettamente individuale, definita sulla base del fabbisogno reale.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Terapia insulinica del diabete in gravidanza
Un’alternativa efficace per donne con diabete di tipo 1 è rappresentata dall’infusione continua sottocutanea di insulina mediante pompa di infusione. Questo modo di somministrare
l’insulina in gravidanza rappresenta probabilmente il mezzo che più si avvicina alla secrezione
fisiologica con una riduzione significativa delle ipoglicemie giornaliere e il miglior controllo della glicemia postprandiale e dell’effetto alba.Tra gli svantaggi vanno tenuti presenti, oltre al costo elevato dello strumento, il rischio di chetoacidosi per interruzione dell’infusione e le infezioni nel sito di inserzione dell’ago.
La chetoacidosi rappresenta probabilmente la complicanza acuta più grave del diabete in
gravidanza. Oltre alla somministrazione di adeguati volumi di liquidi e di elettroliti, per ridurre i tempi di recupero è indicata l’infusione endovenosa di insulina partendo da un bolo di
10 U, seguito dall’infusione costante di 0.15 U/kg/ora. La quantità di insulina infusa viene quindi aggiustata sulla base delle glicemie orarie. Una volta ottenuto il controllo glicemico con regressione della chetonemia, si passa all’infusione sottocutanea di insulina regolare ogni 4 ore
seguita dal ritorno alla terapia abituale.
La gestione della glicemia durante il parto non si discosta da quella suggerita durante qualunque intervento chirurgico. È importante mantenere la glicemia stabilmente al di sotto di
100mg%, evitando episodi di ipo e/o iperglicemia materni, per minimizzare il rischio di ipoglicemia neonatale. Per questo si preferisce ricorrere all’infusione continua di insulina certamente più agevole e sicura.
Riassumendo
Le gravidanze complicate dal diabete dovrebbero essere gestite da un team multidisciplinare comprendente il diabetologo con il compito di individualizzare la dieta e la somministrazione insulinica. La combinazione di insulina ad azione rapida e di insulina ad azione intermedia è quella che meglio ricalca la secrezione fisiologica di insulina. La pompa ad infusione rappresenta un’eccellente alternativa in diabetiche ben motivate ed addestrate. In ogni caso è indispensabile mantenere la glicemia entro variazioni molto strette rappresentate da valori a
digiuno inferiori a 95 mg% e postprandiali non superiori a 120 mg%.
Letture consigliate
1. Gonzales JL: Management of diabetes in pregnancy. Clin Obstet Gynecol 2002; 45: 165-169.
2. Gamson K, Chia S and Jovanovic L:The safety and efficacy of insulin analogs in pregnancy. J Matern Fetal Neonatal Med
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
85
7
GRANDE PRETERMINE
PARTO PRETERMINE.
IL RUOLO DELL’AMNIOCENTESI
M.T. Gervasi, S. Qualizza, M. Zannol, G. Bracalente, G. Favalli
Unita’ Operativa di Ostetricia e Ginecologia, Ospedale “Ca’ Foncello”Treviso
Introduzione
Molte evidenze della letteratura indicano la presenza di un’associazione tra invasione microbica della cavità amniotica, travaglio e parto pretermine1. L’infezione della cavità amniotica
è stata infatti descritta nel 21.6% delle pazienti con membrane integre e parto pretermine2.
Essa è spesso di natura subclinica: infatti, i classici segni clinici di infezione quali febbre, dolenzia uterina, perdite vaginali maleodoranti, tachicardia fetale e leucocitosi materna si verificano
di frequente tardivamente e sono presenti solo nel 12% dei casi2.
Gli studi microbiologici sul liquido amniotico possono pertanto rivelarsi fondamentali per
la diagnosi.
L’identificazione precoce di un’infezione intrauterina è un obiettivo clinico certamente desiderabile poiché è noto che i nati da madri con infezione intra-amniotica sono a più alto rischio di complicanze infettive e non2-5. Inoltre le pazienti con infezione hanno un rischio più
elevato di sviluppare corionamnioniti cliniche, rottura delle membrane ed endometriti puerperali e di non rispondere alla terapia tocolitica1.
Fasi dell’infezione intrauterina
Normalmente la cavità amniotica è sterile, perciò l’isolamento di microorganismi dal liquido amniotico costituisce l’evidenza di una invasione microbica. I microorganismi possono raggiungere la cavità amniotica e il feto attraverso una delle seguenti vie:
1. risalita dalla vagina e dalla cervice;
2. diffusione ematica attraverso la placenta (infezione transplacentare);
3. diffusione retrograda dalla cavità peritoneale attraverso le tube di Falloppio;
4. introduzione accidentale nel corso di procedure invasive quali amniocentesi, villocentesi, ecc.
La via più comune di infezione intrauterina è quella ascendente2,6.
È stato proposto un processo a quattro stadi per le infezioni intrauterine6.
Il primo stadio consiste in un eccessivo sviluppo di microorganismi normalmente presenti nella vagina o nella presenza di microorganismi patologici (es. Neisseria gonorrhoeae) nella
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi
vagina, nella cervice od in ambedue. La vaginosi batterica potrebbe costituire una manifestazione precoce del primo stadio.
Una volta raggiunta la cavità intrauterina, i microorganismi colonizzano la decidua (Stadio
II). Una reazione infiammatoria localizzata porta alla deciduite e un’ulteriore estensione della
stessa determina la corionite.
L’infezione potrebbe poi interessare i vasi fetali (coriovasculite) o proseguire attraverso
l’amnios (amnionite) in cavità amniotica, portando all’invasione della cavità amniotica (stadio
III). La rottura delle membrane non costituisce un prerequisito per questo fenomeno, dal momento che è stato dimostrato che i microorganismi sono in grado di attraversare le membrane integre.
Una volta raggiunta la cavità amniotica, i batteri potrebbero raggiungere il feto (stadio IV)
tramite differenti vie d’accesso. L’aspirazione di liquido infetto da parte del feto potrebbe portare alla polmonite congenita. Otiti, congiuntiviti e onfaliti sono infezioni localizzate che si verificano per diretta diffusione dei microorganismi dal liquido amniotico infetto. Una loro diffusione alla circolazione fetale potrebbe infine portare alla batteriemia ed alla sepsi.
Frequenza e microbiologia dell’infezione intrauterina
La frequenza delle infezioni della cavità amniotica è diversa a seconda della presenza di
travaglio, di dilatazione cervicale e dello stato delle membrane fetali.Varia dallo 0.4% delle pazienti nel II trimestre di gravidanza al 51.5% delle pazienti con incompetenza cervicale2,7.
I batteri più comunemente isolati dalla cavità amniotica, nelle donne con minaccia di parto pretermine e membrane integre ed in quelle con rottura prematura delle membrane sono U. Urealyticum, Fusobacterium spp e M. hominis1-3,7,8.
Altri microrganismi individuati nel liquido amniotico sono Streptococcus Agalactiae,
Peptostreptococcus spp, Staphylococcus aureus, Gardnerella vaginalis, Streptococcus viridans e
Bacteroides spp. Occasionalmente sono stati riscontrati Lactobacillus spp., Escherichia coli,
Enterococcus faecalis, N. gonorrhoeae e Peptococcus spp. Sono stati raramente identificati
Haemophilus influenzae, Capnocytophaga spp. e Clostridium spp.
Nel 50% delle pazienti con invasione microbica è stato isolato più di un microorganismo
contemporaneamente. La carica batterica varia in maniera considerevole e nel 71% dei casi
sono state riscontrate più di 100.000 UFC/ml.
Il ruolo della Chlamydia Trachomatis come agente patogeno intrauterino non è stato ancora chiaramente delineato, probabilmente per la difficoltà di isolarlo dal liquido amniotico
utilizzando le tecniche di coltura standard.
L’uso della PCR per identificare specifiche sequenze del microorganismo potrebbe risultare utile alla soluzione di questo problema.Tale microorganismo è una causa importante di
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
87
Parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi
cerviciti ed è stato isolato dal liquido amniotico. Un case report di polmonite congenita causata dalla C.Trachomatis suggerisce che questo microrganismo potrebbe essere implicato nell’infezione ascendente intra-amniotica.
Il ruolo dei virus nell’eziologia delle corionamnioniti subcliniche e cliniche rimane non conosciuto. Al momento attuale non vi è sufficiente evidenza clinica e/o epidemiologica che le
infezioni virali intrauterine siano implicate nella genesi del parto pretermine.
Infezione batterica della cavità amniotica nelle pazienti con minaccia di parto
pretermine e membrane integre
Secondo i dati derivanti da una revisione della letterattura che ha preso in esame 33 studi, la percentuale di colture di liquido amniotico risultate positive per microorganismi, nelle
pazienti con minaccia di parto pretermine e membrane integre è del 12.8% (379/2963).
Generalmente le donne con coltura positiva non hanno evidenza clinica di infezione al momento dell’osservazione.Tuttavia sono più a rischio di sviluppare corionamnioniti clinicamente evidenti (37.5% vs. 9%), di insuccesso della terapia tocolitica (85.3% vs. 16.3%) e di rottura spontanea delle membrane (40% vs. 3.8%) rispetto alle donne con coltura di liquido amniotico negativa.
Molti studi hanno dimostrato che la quota di complicanze neonatali è superiore nei nati
da donne con un’infezione batterica della cavità amniotica; inoltre, tanto più precoce è l’epoca gestazionale al momento del parto, tanto più frequente è la presenza di infezione batterica della cavità amniotica.
Infezione batterica della cavità amniotica nelle pazienti con PROM
Nelle pazienti con rottura prematura delle membrane la percentuale di colture di liquido
amniotico positive per microrganismi è all’incirca del 32%.
Le corionamnioniti clinicamente evidenti sono presenti nel 30% delle pazienti con un’infezione batterica accertata; tale percentuale è probabilmente sottostimata.Vi è evidenza che
le donne con PROM associato a oligoamnios abbiano una elevata incidenza di infezione intra-amniotica.
Negli studi effettuati sulla infezione intrauterina associata a PROM una possibile fonte di
errore potrebbe derivare dal fatto che le donne con oligoamnios sono meno frequentemente sottoposte ad amniocentesi; inoltre le donne con PROM valutate in corso di travaglio non
effettuano solitamente l’amniocentesi ed hanno una percentuale più alta di infezione della cavità amniotica rispetto a quelle con PROM fuori travaglio (39% vs.25%).
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi
Infezione batterica della cavità amniotica in pazienti
con “incompetenza cervicale acuta”
Le donne che prima della 24a settimana presentano una dilatazione della cervice con
membrane integre e sporadiche contrazioni hanno, per definizione, una incompetenza cervicale. Il 51% di queste pazienti risulta con coltura di liquido amniotico positiva e successivamente sviluppa complicanze quali rottura di membrane, corionamnioniti clinicamente evidenti o perdita della gravidanza. Inoltre, l’infezione è frequentemente associata ad una incompetenza cervicale acuta.Tuttavia non è dimostrabile se l’infezione intra-amniotica sia la causa o
la conseguenza della dilatazione cervicale. È possibile che una dilatazione cervicale clinicamente silente, con protrusione delle membrane in vagina, conduca secondariamente ad un’infezione intrauterina.
Diagnosi di infezione intrauterina mediante lo studio del liquido amniotico
Raccolta del liquido amniotico
La modalità di raccolta del liquido amniotico per effettuare analisi microbiologiche è molto importante. Le tecniche utilizzate sono l’amniocentesi transaddominale ed il prelievo transcervicale, che comporta la necessità di pungere le membrane o di aspirare attraverso un catetere intrauterino. La raccolta di liquido amniotico transcervicale si associa ad un inaccettabile rischio di contaminazione con la flora vaginale ed è controindicata in caso di travaglio
pretermine e nelle pazienti non in travaglio con PROM. L’analisi del liquido amniotico costituisce un metodo rapido per identificare uno stato infiammatorio intrauterino. Prelievi di liquido amniotico sotto guida ecografica sono virtualmente possibili in tutte le pazienti con travaglio pretermine con membrane integre ed in più del 90% delle pazienti con PROM.
L’amniocentesi transaddominale rappresenta quindi il metodo di scelta per ottenere liquido
amniotico da queste pazienti.
Tests per la diagnosi di infezione della cavità amniotica
La coltura di liquido amniotico rappresenta certamente il gold standard per la diagnosi di
infezione intrauterina.Tuttavia, anche in presenza di infezione intrauterina, la coltura può risultare falsamente negativa, ad esempio in caso di infezione virale. Inoltre i risultati delle colture
microbiche possono richiedere giorni e non permettono di conseguenza decisioni rapide ed
importanti sul piano clinico.
L’ecografia consente di effettuare prelievi di liquido amniotico potenzialmente in tutte le
pazienti. L’identificazione della flogosi intrauterina può essere rapida e precisa mediante la determinazione della concentrazione di glucosio e citochine e la conta dei globuli bianchi nel liquido amniotico.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi
Colorazione di Gram
La colorazione di Gram è il test di diagnosi rapida più frequentemente usato per l’individuazione delle infezioni intraamniotiche ed è stato ampiamente utilizzato per prendere decisioni cliniche nelle pazienti a rischio per tali infezioni.
Alcuni aspetti tecnici dovrebbero essere presi in considerazione per ottenere risultati ottimali con questo test. Lo striscio dovrebbe essere preparato con il liquido ottenuto direttamente dalla siringa poiché il tampone assorbe sia il liquido che le cellule riducendo quindi la
probabilità di osservare organismi in uno striscio o in coltura. L’uso di una citocentrifuga migliora la concentrazione dei batteri nel sedimento e probabilmente permette una più facile
identificazione dei microrganismi.
La colorazione di Gram, utilizzata come mezzo diagnostico per la ricerca di infezione della cavità amniotica, mostra una sensibilità del 49.5% (196/396), una specificità del 97.5 %
(1388/ 1423), un valore predittivo positivo del 79.4% (196/247) e un valore predittivo negativo dell’87.4% (1387/1587)2-5,8,9. La sensibilità aumenta significativamente utilizzando un cutoff più elevato (>100.000 UFC/ml). È importante sottolineare come il Mycoplasma, frequentemente isolato nel liquido amniotico di pazienti con travaglio pretermine con membrane integre o con PROM, non sia evidenziabile all’osservazione con colorazione di Gram.
Leucometria
Nel liquido amniotico delle donne fuori travaglio si trovano raramente granulociti neutrofili. La loro presenza indica l’esistenza di una reazione infiammatoria, solitamente causata dall’invasione microbica della cavità amniotica. Numerosi studi hanno esaminato la capacità della leucometria del liquido amniotico di identificare l’invasione microbica della cavità amniotica in pazienti con travaglio pretermine e membrane integre e in pazienti con PROM.7,10,11. In
uno studio di 195 casi di minaccia di parto pretermine e membrane integre, sottoposti ad
amniocentesi per stabilire lo stato microbiologico della cavità amniotica, il riscontro di una leucometria superiore o uguale a 50 cellule/mm3 ha individuato una coltura positiva con una sensibilità dell’80% e una specificità dell’87.6%10. Sebbene la sensibilità sia più elevata rispetto alla colorazione Gram (80% vs 48%, p < 0.05), la specificità è risultata inferiore (87.6% vs 98.8%,
p <0.05); infatti, il numero di falsi positivi è piuttosto elevato (12.45%). Le pazienti con leucometria superiore o uguale a 50 cell/mm3 ma con coltura negativa sono comunque a rischio
di parto pretermine. Perciò, indipendentemente dai risultati delle colture, un’elevata leucometria nel liquido amniotico identifica un sottogruppo di pazienti a rischio di mancata risposta
alla tocolisi e candidate ad un parto pretermine. Queste pazienti possono avere un’infezione
della cavità amniotica che sfugge alla diagnosi con tecniche microbiologiche standard, oppure un processo non infettivo può aver causato un reclutamento di neutrofili nella cavità amniotica. È stato proposto un diverso cut-off per la diagnosi di invasione microbica della cavità amniotica nelle pazienti con PROM (30 cellule/mm3)4.
90
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi
Concentrazione di glucosio nel liquido amniotico
Il dosaggio del glucosio è stato largamente utilizzato nella diagnosi d’infezione in altri fluidi corporei (ad esempio nel liquido cerebrospinale, pleurico, sinoviale, ecc.)11. Questo dosaggio non richiede un’interpretazione sofisticata da parte di personale particolarmente esperto.
La concentrazione di glucosio nel liquido amniotico è significativamente più bassa in pazienti con infezione della cavità amniotica (identificata attraverso una coltura positiva di liquido amniotico o per la presenza di segni clinici d’infezione) e in pazienti con PROM che sviluppano un’infezione clinica4,5,9.
Non è noto il meccanismo responsabile dell’abbassamento della concentrazione di glucosio in presenza di infezione; probabilmente è in relazione all’utilizzo di glucosio sia da parte
dei microorganismi sia da parte dei leucociti9.
La sensibilità e la specificità della concentrazione di glucosio per la diagnosi di infezione intraamniotica variano rispettivamente dal 57% all’87% e dal 51% al 100% a seconda del cutoff
utilizzato in vari lavori clinici.
Come nel caso della leucometria, il tasso di falsi positivi è piuttosto alto (dall’8% al 48%).
Concentrazione di IL-6 nel liquido amniotico
Appare sempre più evidente che il parto pretermine, in caso d’infezione, è associato a
drammatiche alterazioni nel liquido amniotico della concentrazione di numerose citochine,
compresa l’IL-6.12 L’interleuchina-6 (IL-6) è uno dei maggiori mediatori implicati nella risposta all’infezione e nel danno tissutale. Questa citochina è una glicoproteina prodotta da un
gran numero di cellule, ed in particolare fibroblasti, monociti/macrofagi, cellule endoteliali, cheratinociti e cellule stromali endometriali. L’espressione dell’IL-6 è indotta da diverse citochine
associate alla flogosi, tra cui IL-1, Tumor Necrosis Factor, interferoni, prodotti batterici, virus e
secondi messaggeri (diacilglicerolo, AMP ciclico e calcio) che attivano uno dei tre maggiori
percorsi di trasmissione del segnale.
L’IL-6 provoca importanti cambiamenti nello stato immunologico, biochimico e fisiologico
dell’ospite, tra cui la risposta delle proteine plasmatiche della fase acuta, l’attivazione dei linfociti T e Natural Killer, la stimolazione e l’aumento della produzione di immunoglobuline da
parte dei linfociti B. Questo induce la produzione di proteina C reattiva (PCR).Tale fatto può
essere importante nel contesto dell’infezione intraamniotica poiché studi clinici hanno indicato come nelle pazienti con PROM un aumento della PCR nel siero materno spesso precede
lo sviluppo di una corioamnionite clinica e l’insorgenza di un travaglio pretermine. Inoltre è
stato dimostrato che l’IL-6 stimola la produzione di prostaglandine da parte dell’amnios umano e delle cellule stromali in colture primarie13.
L’IL-6 è stata studiata come test rapido per l’individuazione di invasione microbica della
cavità amniotica4.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
91
Parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi
Le pazienti con coltura di liquido amniotico positiva hanno concentrazioni amniotiche di
IL-6 significativamente più elevate delle pazienti con coltura negativa.
Nelle pazienti con minaccia di parto pretermine e membrane integre una IL-6 di 11.3
ng/ml ha una sensibilità del 100% e una specificità del 82.6% nell’individuazione dell’infezione
intraamniotica12.
Tra le pazienti con PROM un cutoff di 7.9 ng/ml ha una sensibilità di 80.9% e una specificità di 75%.4 Inoltre un IL-6 elevata rappresenta un fattore di rischio indipendente per la comparsa di complicanze neonatali4.
È stato suggerito un altro importante ruolo clinico dell’IL-6 nelle pazienti sottoposte ad
amniocentesi nel secondo trimestre. Le concentrazioni di IL-6 nel liquido amniotico risultano
infatti significativamente più elevate nelle pazienti che andranno incontro ad un aborto rispetto alle pazienti con esito normale della gravidanza. Una concentrazione di IL-6 maggiore o
uguale a 2.8 ng/ml è stata associata ad una Odds Ratio di 8.1 (95%, CI 1.9-36.3) di aborto14.
Un preesistente processo infiammatorio subclinico potrebbe quindi rappresentare un importante fattore di rischio per l’interruzione della gravidanza dopo amniocentesi del secondo trimestre e questo è di notevole rilevanza clinica oltreché medico-legale.
Comparazione fra i test utilizzati sul liquido amniotico per la diagnosi di infezione
Sono state comparate le potenzialità diagnostiche del dosaggio di IL-6, della concentrazione di glucosio, della leucometria e della colorazione di Gram nelle pazienti con minaccia
di parto pretermine e membrane integre e nelle donne con PROM.
Nelle pazienti con minaccia di parto pretermine e membrane integre l’IL-6 è risultato il
test più sensibile nell’individuazione delle infezioni di liquido amniotico (100%), seguita dalla
concentrazione di glucosio (81.8%), dalla leucometria e dalla colorazione Gram (entrambe
63.6%). Il test più specifico è risultato la colorazione Gram (99.1%), seguita dalla leucometria
(94.5%), dall’IL-6 (82.6%) e dal glucosio (81.6%).
Nelle pazienti con PROM il dosaggio di IL-6 si è dimostrato il test più sensibile nel riconoscimento di infezione endoamniotica (80.9%) seguito dalla leucometria, dal dosaggio del
glucosio (57.1%) e dalla colorazione Gram (23.8%). La colorazione Gram si è dimostrata il
test più specifico (98.5%) seguita dalla leucometria (77.9%), dal dosaggio di IL-6 (75%) e dal
dosaggio del glucosio (73.5%)4. Il dosaggio di IL-6 è risultato l’unico test a mostrare una correlazione indipendente tra intervallo amniocentesi-parto e probabilità di complicanze neonatali.
Sono stati fatti significativi progressi nello sviluppo di test rapidi per la diagnosi di infezione endoamniotica. Sebbene la determinazione dell’IL-6 nel liquido amniotico sembri essere
superiore a qualsiasi altro metodo di diagnosi, l’uso della colorazione Gram, della leucometria e della concentrazione di glucosio rimangono a tutt’oggi elementi importanti di valutazione e utili ai fini delle decisioni cliniche.
92
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Parto pretermine: il ruolo dell’amniocentesi
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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LO SCREENING INFETTIVO
NELLA PREVENZIONE
DEL PARTO PRETERMINE
GRANDE PRETERMINE
F. De Seta, E. Bianchini, S. Sacco, S. Smiroldo, A. Candiotto,V. Soini
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
Il parto pretermine (PP) è la principale causa di morbilità e mortalità perinatale nei paesi industrializzati. Si stima che più dell’85% delle morti neonatali precoci, non causate da anomalie congenite letali, siano legate alla prematurità. Per quanto varie e disparate siano le ragioni di tal evento, la letteratura riconosce alle infezioni del tratto genitale un ruolo patogenetico sempre maggiore. Le infezioni acquisite in gravidanza, in grado di determinare effetti
dannosi sul feto e sul neonato rappresentano perciò uno dei problemi principali dell’ostetricia moderna. La molteplicità delle interazioni tra difesa immunitaria materna ed agente patogeno, la non completa conoscenza dei meccanismi patogenetici di alcune infezioni, le diverse
modalità di trasmissione verticale ed il progressivo sviluppo del sistema immunitario fetale
spiegano l’ampia varietà di manifestazioni dell’insulto infettivo. Pur di fronte ad agenti patogeni conosciuti, la valutazione del rischio fetale legato sia al processo infettivo in sé che alla possibile tossicità del trattamento farmacologico, limita il campo d’azione dell’ostetrico.
In particolare, i microrganismi coinvolti nell’etiologia del PP possono raggiungere e colonizzare la cavità amniotica ed il feto attraverso le seguenti vie:
1. ascendente dal tratto cervico-vaginale;
2. ematica con passaggio transplacentare;
3. transtubarica;
4. in maniera accidentale dopo amniocentesi, funicolocentesi o villocentesi.
I batteri giocano un ruolo fondamentale nei meccanismi alla base di tale patologia. Essi
possono, direttamente o indirettamente, determinare la conversione del nativo acido arachidonico, presente a livello amniotico, a prostaglandina E (PGE2) tramite la produzione di fosfolipasi A2 e determinare di conseguenza l’insorgenza delle contrazioni uterine.Tra le diverse specie batteriche colonizzanti la vagina, infatti, il Bacteroides fragilis, Peptostreptococcus, il
Fusobacterium, e lo Streptococcus viridans hanno, a differenza del Lactobacillus che ne è privo,
la più alta attività fosfolipasica.
Secondo recenti studi, potrebbe esistere una via alternativa nella genesi della contrazione
uterina. Il processo infettivo avrebbe un ruolo determinante nella produzione di endotossine
(lipopolisaccaridi batterici) in alte concentrazioni.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
Le endotossine sono infatti capaci di stimolare la produzione amniocoriale di prostaglandine E2 (PGE2) seppur in maniera non sufficiente a determinare una regolare attività contrattile. Probabilmente, si pensa che interverrebbe l’interleuchina-1 (IL-1), una monochina prodotta dalle cellule mononucleari in risposta alle endotossine e ad altri prodotti di degradazione batterica, a stimolare una ulteriore produzione prostaglandinica deciduale.
L’importanza clinica dell’evento infettivo è però sempre determinata dall’interazione dell’agente patogeno (carica infettiva, sufficiente patogenicità) con la risposta immunitaria dell’ospite. Scarse e frammentarie sono, allo stato dell’arte, le conoscenze riguardo le difese immunitarie locali nella donna e le eventuali connessioni con le difese sistemiche. Certamente,
in gravidanza, a fronte di una sorta di “tolleranza immunologica” evocata negli anni da diversi Autori, è oramai certo che esistono delle proprietà antibatteriche immunologiche locali. In
particolare, il liquido amniotico esplica le sue proprietà antimicrobiche, specie verso funghi e
batteri anaerobi, tramite la produzione di diverse sostanze: lisozima, sistema zinco-fosfato, beta-lisina, peptidi cationici, transferrina, perossidasi, spermina, immunoglobuline.
Risulta oggi provato che un’attivazione della rete immunitaria, citochino-mediata, è responsabile, forse in misura maggiore dell’attività lesiva microbica, dell’innesco di un meccanismo “a
cascata” che porta al travaglio inevitabile, anche quando la causa scatenante (ad es. l’infezione) viene eliminata. Elevati livelli di IL ad azione proinfiammatoria sono infatti osservabili tanto nel liquido amniotico, quanto nelle secrezioni cervicovaginali delle pazienti andate incontro a travaglio di PP, e tali livelli sono ancor più elevati in presenza di una concomitante infezione intra-amniotica.
In relazione a questa evidenza, ed in considerazione del fatto che spesso l’aumento di concentrazione delle citochine si associa ad insorgenza imminente del parto anche in assenza di
un isolamento colturale positivo all’amniocentesi, numerosi Autori hanno suggerito che elevati livelli di alcune IL (IL-6, -8, -1) sia nel liquido amniotico che in vagina siano un marker
estremamente affidabile dell’inevitabilità del parto.Tali sostanze avrebbero una probabilità maggiore di predire tale evento di quella fornita dall’isolamento colturale dei microrganismi all’interno del sacco gestazionale. Da ciò consegue che la risposta dell’ospite avrebbe il ruolo principale nel processo che conduce al parto, molto più della colonizzazione microbica.
Quest’ultima, infatti, ha la possibilità (ma non la certezza) di dare il via ad un meccanismo che,
una volta innescato, diventa difficilmente arrestabile.
Tanto la presenza dei microrganismi, quanto l’azione delle sostanze da questi prodotte (ad
es. l’endotossina) stimolano infatti la produzione di citochine e chemochine ad azione proinfiammatoria, quali IL-1 (alfa e beta), IL-6, IL-8, TNFalfa, e molte altre, probabilmente con un
ruolo minore. La cascata citochinica crea una situazione di autoamplificazione che difficilmente è possibile frenare. Sembra verosimile infatti che la produzione di endotossina sia in grado di indurre un’attivazione macrofagica sia a livello amniocoriale e deciduale, che a carico
della cervice uterina. I macrofagi attivati elaborano citochine (in particolare TNFalfa ed IL-1)
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
che, agendo in modo paracrino, inducono la produzione di IL-6 a livello deciduale e di IL-8 a
livello cervicale. L’IL-6, a sua volta, in associazione con l’IL-1 stimola l’attività fosfolipasica e ciclossigenasica deciduale ed amniocoriale, con liberazione di PGE2 e PGF2a, in grado di generare l’attività contrattile uterina. L’IL-1beta è in questo senso capace tanto di incrementare la
produzione di PGE2, quanto di inibire la down-regulation dei recettori per questa sostanza
(recettori EP1), causandone un’iperespressione.
L’IL-8, invece, svolge a livello cervicale un’azione chemiotattica e attivatrice nei confronti
dei neutrofili, provocandone la degranulazione, cui segue la liberazione di sostanze ad attività
proteasica e collagenasica che degradano la matrice extracellulare. Un’attivazione dei neutrofili è presente anche durante il travaglio di PP, ed è responsabile della dilatazione cervicale,
provocata appunto dalla degradazione delle proteine strutturali della matrice.Vi sono evidenze che l’aumento dell’IL-8 nel segmento uterino inferiore durante il parto può essere indotto dalla presenza di IL-1beta e che proprio l’endotossina batterica stimolando la produzione
di IL-1ß a livello cervicovaginale, può essere quindi indirettamente responsabile del “ripening”
cervicale e del parto che a questo consegue.
Normalmente, nel corso della gravidanza, si assiste ad un continuo riarrangiamento della
matrice extracellulare, che deve resistere, ma anche adattarsi a pressioni e volumi crescenti
all’interno del sacco gestazionale. Un continuo bilancio tra attività proteasica (metalloproteasica) ed antiproteasica (inibitori delle metalloproteasi) garantisce l’adattamento delle membrane amniocoriali al procedere della gravidanza. In prossimità del termine, in risposta a segnali fisiologici (PG, PAF, endoteline, IL-1beta), si assiste ad un prevalere dell’attività litica su
quella inibitoria, in vista di una morte cellulare programmata e di una degradazione orchestrata della matrice che consentono l’espletamento del parto.Tale attività, in corso di infezione, è ugualmente stimolata dalla presenza di IL-1beta.Tale sostanza, oltre che a livello cervicale, è prodotta quindi in abbondanza anche dalle membrane amniocoriali ed i suoi livelli intraamniotici si sono dimostrati un ottimo marker nel valutare la presenza di corioamnionite
e di un conseguente parto imminente.
La citochina che si è dimostrata essere maggiormente correlata a tale evento, indice della progressione inarrestabile verso il parto, è tuttavia l’Il-6. Essa è rinvenibile in elevate concentrazioni tanto nel travaglio a termine che pretermine, e raggiunge livelli ancora superiori
in corso di infezione intraamniotica. Anche l’IL-8 e il TNFalfa si sono dimostrati utili in questo
senso. Anche l’IL-6 aumenterebbe in corso di infezione, diversi studi ne avrebbero proposto
il dosaggio dalle secrezioni cervicovaginali nel sospetto di una corioamnionite occulta (forse
per lo stimolo batterico in vagina, forse per una produzione generalizzata da parte di tutto il
tratto genitale, forse per un danneggiamento delle membrane amniocoriali con conseguente
rilascio a livello intravaginale della sostanza) anche a livello del tratto genitale inferiore.
È interessante notare come Romero et al. abbiano ripetutamente posto l’accento sulla partecipazione fetale alla risposta infiammatoria, tanto che secondo tali Autori, la produzione di
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
sostanze citochiniche ad azione parto-inducente da parte del feto avrebbe un ruolo finalistico di difesa da un ambiente divenuto ostile. Il feto, attraverso la partecipazione al network citochinico, mette in moto i meccanismi necessari ad allontanarsi da tale ambiente e a preservare il proprio benessere.
Molteplici dati hanno dimostrato un’associazione statisticamente significativa tra infezioni
genitali ed outcomes sfavorevoli della gravidanza. Purtroppo deficitari o metodologicamente
non corretti sono la maggior parte degli studi eseguiti sulla nostra popolazione. Ciò non è di
poco conto, se si pensa che la razza ed il livello socio-economico rappresentano fattori di rischio nell’acquisizione di molti agenti infettivi. Di conseguenza, i risultati di trials clinici, specie
statunitensi, non sono sempre applicabili e sovrapponibili alla nostra popolazione.
COLONIZZAZIONE BATTERICA CORIO-DECIDUALE
(esotossine-endotossine)
RISPOSTA SI MATERNO
RISPOSTA TESSUTI FETALI
Feto
Secrezione di ACTH
Produzione di cortisolo
Membrane amniocoriali
e placenta
Diminuita produzione
di prostaglandino
deidrogenasi corionica
Aumentata produzione
prostaglandine
Decidua
Rilascio di citochine
e chemochine
Infiltrazione neutrofila
Aumento
metallo-proteasi
Contrazioni uterine
Indebolimento e rottura
delle mebrane
Dilatazione della cervice
uterina
PARTO PRETERMINE
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
Screening per la vaginosi batterica (VB)
Numerosi studi hanno evidenziato negli anni più recenti una significativa correlazione della VB con outcomes ostetrici sfavorevoli ed in particolare con un aumentato rischio di PP,
Prom, corioamnionite, endometrite post-partum ed infezioni post-cesareo. Anche gli outcome neonatali sono apparsi peggiori in presenza di VB, in quanto l’infezione sembra in grado
di causare un ritardo di crescita intrauterina (IUGR) del feto e la nascita di neonati di basso
peso (LBW).
Nel 1984, Eschenbach et al. per primi evidenziarono, in uno studio caso-controllo, l’associazione tra VB e LBW, verificando che l’outcome neonatale era significativamente peggiore
nelle donne che risultavano affette da tale infezione (49% di LBW e PP rispetto al 25% nella popolazione di controllo, OR 3,1).
Nel 1995 sono stati pubblicati i risultati statunitensi di The vaginal Infection and prematurity study group ottenuti dalla valutazione di 10.397 gestanti, arruolate per lo studio tra la 23a
e la 26a settimana di gravidanza. La presenza di VB in quest’epoca gestazionale si è dimostrata significativamente correlata con la nascita pretermine di LBW (OR=1,4). Sono stati confermati come fattori di rischio ulteriori per tale complicanza il fumo (OR=1,4), precedenti
aborti spontanei (OR=1,7) e soprattutto, precedenti parti pretermine associati a LBW
(OR=6,2).Tra le donne con VB inoltre, il rischio più alto di PP e LBW si associa alla presenza di Mycoplasma hominis e bacteroides (OR=2,1).
Un ulteriore aspetto del problema riguarda la correlazione tra l’insorgenza di PP e l’epoca gestazionale in cui la VB viene diagnosticata. In uno studio longitudinale teso a valutare la
presenza di VB in relazione all’epoca di gravidanza, Platz-Christiensen et al. hanno osservato
che l’infezione è diagnosticabile più frequentemente nei mesi iniziali, con una elevata tendenza alla regressione con il progredire della gestazione. La VB è infatti risultata presente nel 16%
delle donne esaminate al primo trimestre e di queste, il 58% ha dimostrato la scomparsa dell’infezione al secondo controllo, effettuato al terzo trimestre. Gli Autori hanno inoltre osservato che nessuna delle pazienti risultate negative al primo esame manifestava la comparsa dell’infezione al secondo controllo.Tali osservazioni suggeriscono quindi l’esistenza di condizioni
sfavorevoli allo sviluppo di VB in epoca gestazionale avanzata, probabilmente in relazione al fisiologico aumento dei lactobacilli che si verifica progressivamente nel corso della gravidanza
in relazione all’incremento dei livelli ormonali.
Al contrario, Hillier et al. avevano precedentemente osservato la persistenza dell’infezione nell’88% della popolazione esaminata. La prima valutazione microbiologica, era stata tuttavia effettuata in questo caso tra le 23 e le 26 settimane e cioè in un’epoca gestazionale già
abbastanza avanzata.
È interessante notare come contemporaneamente a tali osservazioni emergeva l’evidenza di una stretta associazione tra la presenza di VB nel corso del primo trimestre e l’insorgenza di PP. Kurki et al., infatti, per primi avevano associato l’outcome sfavorevole della gravi98
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
danza con la diagnosi di VB in epoca precoce (8-17 settimane). Essi suggerivano che la presenza di infezione in questo periodo poteva essere predittiva di Prom e PP (OR=6,9 e 7,3
rispettivamente), con una sensibilità del 41-67% ed una specificità del 79%.
Nonostante l’elevato valore predittivo negativo (VPN) (96-99%), tale da permettere di
escludere, almeno in parte, la possibilità di insorgenza di queste complicanze in presenza di
infezione, la VB risultava avere tuttavia un basso valore predittivo positivo (VPP) (4-11%) e
quindi una capacità pressoché nulla di stabilire, da sola, il reale rischio di comparsa di un outcome ostetrico sfavorevole. Nel 1993, inoltre, Riduan et al. avevano osservato che il rischio
di PP nelle donne che presentano l’infezione tra la 16a e la 20a settimana era due volte maggiore rispetto a quello delle gestanti in cui la diagnosi veniva effettuata tra la 28a e la 32a settimana, e che l’associazione con un outcome ostetrico sfavorevole era significativa solamente per la VB diagnosticata precocemente nel secondo trimestre (OR = 2,0).
Riduan suggeriva, come possibile spiegazione del fenomeno, che il PP potesse essere mediato da un’infezione ascendente del liquido amniotico da parte dei microrganismi VB associati, infezione che si verifica con maggiore frequenza proprio nel corso dei primi mesi di gravidanza. In questo modo si rafforzava l’evidenza dell’opportunità di una diagnosi precoce e di
un trattamento tempestivo dell’infezione, prima cioè che si vengano a creare le condizioni per
una progressione irreversibile verso il PP. A tal proposito, Gratacos et al. hanno recentemente osservato che la remissione spontanea della VB nel corso della gravidanza non si associa
ad una diminuzione del rischio di Prom e PP.
Gli Autori hanno chiamato in causa, per spiegare tale osservazione, la possibilità che la VB
si presenti in modo intermittente, così come si può verificare durante il ciclo mestruale, anche nel corso della gravidanza e che l’assenza dell’infezione al secondo controllo sia in realtà
solo temporanea.
In alternativa, si può pensare che al momento della diagnosi i microrganismi possano essere già ascesi a livello cervicale e che quindi la catena di eventi che porta al PP si verifichi
automaticamente ed indipendentemente dalla normalizzazione della flora a livello vaginale.
Questo spiega perché il trattamento locale con clindamicina risulti, come vedremo, inefficace
nel prevenire le complicanze ostetriche della VB, mentre la terapia orale sistemica, agendo anche su microrganismi eventualmente presenti a livello endouterino, è in grado di migliorare
l’outcome della gravidanza.
Appare dunque evidente alla luce dei numerosi lavori pubblicati lungo tutto l’ultimo decennio, l’esistenza di un’associazione tra la VB ed alcune complicanze ostetriche (PP, Prom, ed
infezione/infiammazione delle membrane amniocoriali).
Non è ancora stato completamente chiarito su quali meccanismi si fondi tale correlazione. In particolare, in che modo i batteri o i loro prodotti enzimatici guadagnino l’accesso alla
cavità uterina e a che livello del tratto genitale essi diano l’avvio e mantengano i processi che
conducono al travaglio ed al parto.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
Comunque stiano le cose, il risultato finale dipende da un’interazione complessa tra fattori di virulenza dei microrganismi ed i meccanismi di difesa, specifici ed aspecifici, dell’ospite
che possono contribuire, con un meccanismo autotossico o immunomediato, all’insorgenza
del PP. McGregor ha infatti dimostrato un’elevata produzione da parte dei batteri VB associati di sostanze ad attività enzimatica quali mucinasi e sialidasi. Esse sarebbero in grado, secondo l’Autore, di favorire l’ascesa dei batteri, normalmente presenti in vagina in corso di VB, verso il tratto genitale superiore; di facilitare l’adesione e l’invasione delle mucose e delle membrane amniocoriali da parte dei microrganismi stessi che a loro volta sarebbero in grado di
causarne il danneggiamento mediante un’azione lesiva diretta (attraverso la produzione di altri enzimi e sostanze tossiche) o indiretta.
Qualunque sia il loro meccanismo d’azione, tali sostanze sono state comunque osservate
in concentrazione molto più elevata nelle pazienti affette da VB che nelle donne sane, tanto
che la valutazione della loro presenza ad alti livelli nelle secrezioni vaginali, è stata proposta
come metodo di diagnosi.
Di particolare interesse risulta la recente osservazione dell’esistenza, tra le pazienti ginecologiche affette da VB, di due sottogruppi a differente pattern immunitario. La sottopopolazione IgA-minus, che si caratterizza per la presenza di bassi livelli anticorporali in sede mucosale genitale e di alta attività sialidasica Ig-degradante nelle secrezioni vaginali, potrebbe infatti risultare, se presente anche in gravidanza, quella a maggior rischio di outcomes ostetrici sfavorevoli.
La dimostrazione dell’esistenza nelle gestanti VB positive di post-partum pattern immunitari simili a quelli osservati al di fuori della gravidanza e la valutazione della correlazione tra
lo stato immune-minus e l’aumentato rischio di PP potrebbe permettere di comprendere almeno una parte dei meccanismi ancora oscuri che rendono alcune donne più “suscettibili”
all’evenienza di un PP “idiopatico”.
La possibilità di definire l’esistenza di una popolazione ad alto rischio di complicanze ostetriche associate alla VB, potrebbe quindi consentire un’identificazione precoce ed una terapia
efficace di tali pazienti.
A tutt’oggi non è possibile proporre su basi razionali, una politica di screening di massa
delle gestanti per individuare e trattare un’eventuale VB, poiché non sono disponibili trials clinici randomizzati e controllati che ne dimostrino l’utilità. Ulteriori ricerche sono necessarie
per confermare l’efficacia preventiva del trattamento della VB nelle gestanti asintomatiche a
“basso rischio” di prematurità. Inoltre, solo una limitata percentuale delle donne affette da vaginosi senza una storia precedente di gravidanze pretermine va incontro a tale complicanza.
La comprensione dei meccanismi e dei fattori individuali responsabili dell’evoluzione negativa dell’infezione in alcune pazienti, potrà fornire utili informazioni che permettano di riconoscere la popolazione effettivamente ad alto rischio, indipendentemente da un’anamnesi ostetrica di precedente prematurità.
100
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
Screening per Chlamydia Trachomatis (Ct)
L’infezione da Chlamydia Trachomatis rappresenta la più comune malattia a trasmissione sessuale negli Stati Uniti. Nel 2002 sono stati riportati dal CDC (Center for Desease Control and
Prevention) di Atlanta ben 834.555 nuovi casi/anno d’ infezione da Chlamydia. Si stima infatti
che nella popolazione americana le donne affette da tale infezione siano attualmente 455 ogni
100.000 abitanti. Da dati recenti emersi da studi effettuati su cliniche prenatali americane sembrerebbe esservi una prevalenza dell’infezione che si aggira attorno al 7.4% (range 1.5- 14.4%).
La Chlamydia T. è un battere Gram negativo immobile delle dimensioni di circa 0.3 micron
dotato di un peculiare trofismo per gli epiteli congiuntivali e genitali umani, essendo responsabile di quadri patologici quali il tracoma ed alcune affezioni del tratto genitali tra cui uretriti, cerviciti ed epididimiti. È attualmente dibattuto se il carriage materno di Chlamydia trachomatis sia associato ad un avverso outcome della gravidanza (travaglio e PP, IUGR, Prom).
I motivi che rendono incerto il ruolo patogenetico della Chlamydia sono ascrivibili a diversi fattori, non concordanti, nei diversi studi: l’epoca gestazionale della diagnosi d’infezione,
la metodologia diagnostica utilizzata, la dimensione del campione screenato, la suddivisione
della popolazione in gruppi ad alto ed a basso rischio d’infezione (fattori clinici ed anamnestici), la coesistenza di altri patogeni cervico vaginali.
L’interesse per l’infezione neonatale fu suscitato sin dal 1990 da Halbertstaedter che, per
primo, descrisse un caso di congiuntivite da corpi inclusi. Attualmente è noto che l’infezione
fetale da Ct è presente nel 2-6% dei neonati e che le manifestazioni più frequenti sono rappresentate dalla congiuntivite da inclusi e dalla polmonite interstiziale. La congiuntivite da inclusi o oftalmoblenorrea, è presente nell’1,1-4,4% dei nati vivi e si manifesta entro 7-14 giorni dal parto, colpendo, in media, il 30-40% dei nati infetti. La congiuntivite neonatale si realizza nel parto tramite il contatto fra la mucosa cervicale infetta e la mucosa congiuntivale del
neonato. Il periodo di incubazione varia dal 2° al 14° giorno di vita postnatale e, se non trattata, tale patologia può persistere per 3-12 mesi. La polmonite interstiziale da Ct, nel neonato e nel lattante, viene invece riferita prevalentemente in soggetti maschi dal 1° al 3° mese
di vita, si associa nel 20-25% dei casi a simultanea infezione da Cytomegalovirus, Pneumocystis
carinii o Ureaplasma urealyticum, e può comparire tra le 6 settimane ed i 6 mesi dopo la nascita. Sono state anche segnalate localizzazioni all’orecchio medio ed al nasofaringe. I neonati affetti, inoltre, presentano spesso un basso peso alla nascita ed un rischio di mortalità perinatale 10 volte superiore alla norma.
In genere l’infezione da Ct nel neonato presenta un diverso quadro clinico a seconda dell’epoca di insorgenza e dell’età del bambino. Più sono precoci queste condizioni maggiore è
la gravità del quadro clinico.
L’incidenza di infezioni genitali causate da Ct in gravidanza è stata calcolata tra il 2 ed il
30% con valori medi di poco inferiori al 10%. La trasmissione verticale di Ct dalla madre al
prodotto del concepimento è una evenienza frequente e gravata, talora, da severe conseguenGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
ze per il neonato. La frequenza con cui l’infezione materna presenta un decorso pauci o asintomatico (fino all’85% delle gravide infette) accresce il rischio di trasmissione verticale e sottolinea l’importanza di programmi di screening per questo patogeno, a buon diritto inserito
fra gli agenti del complesso TORCH. La frequenza di trasmissione verticale appare, anzi, la più
elevata fra i patogeni TORCH, valutabile intorno al 40-60% dei casi. L’infezione contratta in
gravidanza risulta spesso causa di aborto, Prom e PP. In generale i dati sulla prevalenza dell’infezione da Ct in gravidanza sono differenti per popolazioni diverse e per tipo di gruppo di
pazienti.
La possibile associazione tra Ct e PP è stata più volte postulata da diversi studi che hanno dimostrato:
1. l’abilità della Chlamydia a proliferare nelle cellule amniocoriali sino a causarne la morte;
2. l’associazione della Ct con un processo infiammatorio mucopurulento, endocervicale, teoricamente responsabile del danno amniocoriale.
Da diversi studi retrospettivi condotti su gravide con colture cervicali positive per Ct, è
emerso che il trattamento antibiotico può certamente ridurre, in maniera statisticamente significativa, l’incidenza di Prom e/o di PP, con un incremento del peso neonatale, senza tuttavia migliorare l’outcome neonatale.
In virtù della frequenza dell’infezione e delle importanti complicanze ostetriche e neonatali, molti autorevoli Autori si sono chiesti se sia giustificato attuare un programma di screening in gravidanza. Da analisi costo beneficio è emersa l’importanza di ricercare la Chlamydia
laddove la prevalenza dell’infezione sia maggiore al 5% e nelle gravidanze considerate “a rischio” ovvero in caso di:
- Storia di outcome ostetrico sfavorevole
- Situazione socio economica precaria
- Età materna < 25 anni
- Perdite ematiche durante il I-II trimestre di gravidanza (8% delle gravidanze)
L’isolamento della Chlamydia in coltura cellulare da prelievi endocervicali ed uretrali è considerato il test di riferimento standard (sensibilità stimata 90%, specificità 100%). L’isolamento
colturale della Chlamydia richiede laboratori altamente specializzati, in grado di garantire la
qualità dell’indagine. Le nuove tecniche di biologia molecolare (PCR, LCR) possono rendere
la diagnosi più rapida, meno costosa e maggiormente affidabile in termini di specificità e sensibilità.
Lo screening per la batteriuria asintomatica
Le infezioni delle vie urinarie rappresentano una delle complicanze più frequenti della gravidanza, seconde solo all’anemia, potendo essere riscontrate nel 2- 10% delle gestanti; tra quel102
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
le negative allo screening iniziale l’1-2% diventerà positiva per la ricerca dei microrganismi nelle urine nel corso della gestazione. È stato riportato un aumento della prevalenza della batteriuria asintomatica (circa 10-20%) nelle donne diabetiche ed in donne portatrici di anemia
falciforme. Si definisce una batteriuria asintomatica la presenza di una conta batterica significativa (maggiore o uguale a 105 microrganismi/mL) nelle urine di una persona priva di sintomi. In gravidanza infatti il rischio di un’infezione ascendente è aumentato in virtù della dilatazione ureterale dovuta in parte all’effetto del progesterone e in parte alla compressione da
parte dell’ utero gravido.
Recentemente, tra i fattori predisponenti, è stata sottolineata l’importanza dell’adesività
batterica all’urotelio. Le difese naturali contro tale citoadesione sono affidate sia alla risposta
anticorpale mediata principalmente dalle IgA secretorie, che alla produzione uroteliale di sostanze glicoproteiche con funzione lubrificante e di protezione.
In gravidanza e durante l’allattamento aumentano tali glicoproteine, ma vi può essere una
depressione della risposta anticorpale. Dalla interazione di questi fattori possono instaurarsi
i meccanismi di adesione batterica che costituiscono veri e propri caratteri di virulenza. Le
complicanze della batteriuria asintomatica non trattata possono riflettersi sulla madre e sul
prodotto del concepimento.
In gravidanza il 13-27% delle donne con batteriuria asintomatica non trattata va incontro
a pielonefriti, che di solito richiedono il ricovero per la terapia. La batteriuria, durante la gravidanza, aumenta di 1,5-2 volte la probabilità di partorire prima del termine, di avere un feto di basso peso alla nascita e può anche causare un aumento del rischio di mortalità fetale
e perinatale. L’esame più accurato per diagnosticare la batteriura è l’urinocoltura, ma le spese di laboratorio possono rendere questo esame troppo costoso affinché sia utilizzato come
screening nelle popolazioni con bassa prevalenza di tale infezione. L’American College of
Obstetricians and Gynecologists (ACOG) raccomanda quindi di eseguire l’analisi delle urine
comprensiva di esame microscopico e screening per le infezioni (TORCH) alla prima visita
prenatale ed in seguito con cadenza mensile/bimensile. Ulteriori indagini di laboratorio quali
l’urinocoltura andrebbero effettuate qualora giustificate da reperti rilevati dall’anamnesi e dall’esame obiettivo della gestante.
Lo screening per lo streptococco di gruppo B
Lo streptococco beta emolitico di gruppo B (GBS) rappresenta circa il 30% della flora saprofitica vaginale. È uno dei più importanti agenti di infezione neonatale, con un rischio stimato attorno al 3% delle nascite e, unitamente all’Escherichia coli, è riconosciuto come uno
degli agenti più comuni delle batteriemie e delle meningiti nei primi 2 mesi di vita.
A seconda del periodo di manifestazione dell’infezione si riconoscono 2 malattie neonaGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
103
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
tali: la Early Onset (ad esordio precoce) e la Late Onset (ad esordio tardivo).
La early onset che colpisce l’1-3% dei nati vivi, può determinare un tasso di mortalità del
50-60%. Caratterizzata prevalentemente da setticemia, riconosce come momento patogenetico la trasmissione verticale madre-figlio ed è associata frequentemente a Prom, prematurità, parti distocici e febbre intra e post-partum.
La malattia neonatale late onset, di minore gravità si manifesta dopo la prima settimana di
vita, ha una prevalenza di 1,7 per 1000 nati vivi, non è dovuta a trasmissione verticale, ma
orizzontale (prevalentemente nosocomiale) e non si associa a complicazioni ostetriche materne.
La colonizzazione cervicovaginale in donne asintomatiche varia tra il 10 ed il 30%, con una
prevalenza di infezione neonatale compresa tra il 38 ed il 70%, ma solo l’1-2% dei nati sviluppa la malattia. Nella madre lo Streptococco di gruppo B può causare infezione delle vie urinarie, corionamnioniti, batteriemie, morti endouterine, incrementando il rischio di PP. Nei casi di corionamnionite, l’esame culturale segnala la presenza di una flora polimicrobica sebbene, nel 15% dei casi sia possibile reperire la presenza dello Streptoccocco di gruppo B come
microbiota prevalente. In corso di batteriemia (incluse le pielonefriti) il microrganismo più comunemente isolato è il GBS. Sfortunatamente, a differenza di quanto si osserva per altri batteri, i quali, se presenti in vagina permangono per tutta la gravidanza, il GBS è incostante.
Gestanti positive nel corso della gravidanza possono negativizzarsi al momento del parto, altre negative durante l’intero decorso della gravidanza divengono positive al parto; altre ancora, infine, possono ricolonizzarsi dopo un trattamento antibiotico.
In Letteratura tuttavia vi sono autorevoli studi che non ritengono la colonizzazione del
basso tratto genitale femminile un fattore di rischio per il Parto Pretermine, ascrivendo piuttosto tale ruolo alla batteriuria asintomatica da GBS.Tale condizione, indipendentemente dall’epoca gestazionale deve essere trattata con terapia antibiotica al fine di scongiurare una possibile colonizzazione a livello genitale.
Secondo la politica d’azione del CDC di Atlanta il parto pretermine rientra tra i fattori di
rischio clinici per l’infezione neonatale da GBS, pertanto tutte le gestanti a rischio devono essere sottoposte ad antibiotico terapia.
Nel 1996 il CDC proponeva di agire attivamente contro l’infezione da GBS proponendo
una strategia basata sia sull’utilizzo delle colture vaginale e rettale come primo determinante
fattore di rischio che la strategia basata su fattori di rischio clinici, qui elencati:
104
Parto pretermine (< 37 settimane gestazionali);
pPROM (rottura pretermine e prematura delle membrane);
rottura delle membrane da più di 18 ore;
febbre intrapartum >38°;
precedente nato con infezione da GBS.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
Purtroppo, ad oggi, non esiste un protocollo universalmente riconosciuto e applicato e
neanche trials clinici che comparino i due atteggiamenti.
Il nostro comportamento si propone di instaurare una terapia antibiotica per la prevenzione dell’infezione neonatale da GBS sia attraverso l’esame colturale che attraverso la valutazione del rischio clinico.
Colonizzazione retto-vaginale da GBS (positività microbiologica tra le 35-37 sett.)
Infezione neonatale in una gravidanza precedente
Batteriuria da GBS nell’attuale gravidanza
Stato microbiologico non noto, ma: EG <37 sett., PROM>18h, febbre >38°
Paziente non allergica
Paziente allergica alla penicillina
Penicillina G 5 milioniU ev, poi 2.5 ogni 4 ore fino al parto
Ampicillina 2 gr ev, poi 1 ogni 4 ore fino al parto
A basso rischio di anafilassi
Cefazolina
Ad alto rischio di anafilassi
2g ev, poi 1 ogni 4 ore fino al parto
GBS resistente
GBS sensibile
Clindamicina 900 mg ev ogni 8 ore
Eritromicina 500 mg ev ogni 6 ore
Vancomicina
1 g ogni 12 ore
Lo screening per la sifilide
La sifilide dovrebbe rappresentare, alle soglie del 2006, una reminiscenza del passato, una
curiosità della letteratura. Nella realtà attuale ciò non si realizza, dai dati della WHO ogni anno la sifilide sarebbe responsabile di circa 460.000 aborti/morti endouterine, di circa 270.000
casi di sifilide connatale e della nascita di circa 270.000 low-birth-weight/pretermine. Outcome
ostetrici sfavorevoli sono 12 volte più frequenti in donne portatrici dell’infezione rispetto a
donne sieronegative. Si calcola che nell’Africa sub-Sahariana circa 2 milioni o più di donne con
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
105
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
sifilide attiva vadano incontro, ogni anno, ad una gravidanza di cui circa 1.640.000 misconosciuta. In alcune zone rurali dell’Est Europa e dell’Asia centrale si sta assistendo ad uno spaventoso incremento dell’infezione fino a percentuali di sieropositività attorno al 3-18%. Nei
paesi sviluppati la sieroprevalenza dell’infezione, nelle gestanti è solitamente bassa, varia tra lo
0,025 in Europa fino al 4,5% in alcune aree degli Stati Uniti.
La sifilide è un’infezione batterica, causata dal Treponema pallidum, trasmessa per via sessuale o per via materno-fetale. La sifilide primaria causa ulcere a livello genitale, faringeo o
rettale, mentre la forma secondaria è caratterizzata dalla presenza di lesioni cutanee contagiose, linfoadenopatia e condilomi.
La disseminazione sistemica, compresa l’invasione del sistema nervoso centrale, avviene
anche in fasi precoci di malattia e può divenire sintomatica a qualsiasi stadio della malattia. La
patologia quindi evolve in una fase latente, clinicamente asintomatica, ma, se non trattata, in
più di un terzo dei pazienti dà luogo a gravi gomme tardive e severe complicanze neurologiche (meningite, neuropatia periferica, tabe dorsale, lesioni cerebrali meningovascolari e patologia psichiatrica) e cardiovascolari (principalmente patologia aortica: insufficienza, aneurismi,
aortite).
Nel nostro paese l’infezione è spesso rappresentata da casi di importazione (prostituzione, immigrazione) e, data la severità degli outcomes ostetrici, secondo le raccomandazioni
dell’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) e del Center for Disease Control
and Prevention si ritiene opportuno effettuare la sierologia, per la ricerca dell’infezione da
Treponema pallidum, a tutte le donne durante la prima visita in gravidanza. Nelle gravidanze a
“rischio” (tossicodipendenza, prostituzione, giovane età,…) i test sierologici dovrebbero essere ripetuti durante il terzo trimestre di gravidanza e, di nuovo, al momento del parto.
I test sierologici si classificano in esami non treponemici (VDRL-RPR) e treponemici. Gli
esami non treponemici sono utilizzati per ricercare nei pazienti la presenza di reagine anticorpali aspecifiche che appaiono e aumentano di titolo dopo il contagio. Benché la VDRL
(Veneral Disease Research Laboratory) e la RPR (Rapid Plasma Reagin) siano gli esami non treponemici più frequentemente utilizzati, essi non sono gli unici esistenti.
La sensibilità di questi test varia a seconda del livello di anticorpi raggiunto nelle varie fasi di malattia: nelle fasi precoci della sifilide primaria, quando il titolo anticorpale può essere
così basso da non essere individuabile, il test può essere negativo e la sensibilità del metodo
è del 62-76%. I livelli di anticorpi aumentano col progredire della malattia e il titolo di solito
raggiunge il picco durante la sifilide secondaria, quando la sensibilità dei test non treponemici si avvicina al 100%.
Nella sifilide tardiva il titolo diminuisce e il 25% dei pazienti reattivi divengono non reattivi; nella sifilide tardiva non trattata la sensibilità del test è circa del 70%. Dato che i test sierodiagnostici non treponemici possono risultare falsamente positivi, è necessario confermare
tutti i risultati positivi, nelle persone asintomatiche, con i più specifici test treponemici come
106
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
l’assorbimento anticorpale treponemico in fluorescenza (FTA-ABS) che ha una sensibilità
dell’84% nella sifilide primaria e di circa del 100% negli altri stadi, con una specificità del 96%.
Esistono altri due test di conferma meno costosi e più facili da effettuare: l’emoagglutinazione per gli anticorpi contro il Treponema pallidum (TPHA) e il test di emoagglutinazione treponemica per la sifilide (HATTS).
I test treponemici non dovrebbero essere utilizzati per lo screening iniziale nei pazienti
asintomatici, essendo decisamente più costosi e rimanendo positivi in pazienti che sono stati trattati per una pregressa infezione. Utilizzati in combinazione con i test non treponemici,
tuttavia, hanno un valore predittivo positivo alto e risultati positivi sono probabilmente indicativi di un’infezione reale. I test treponemici possono anche essere utili nei pazienti in cui si
sospetta una sifilide tardiva non positiva ai test non treponemici, dato che la diminuzione dei
titoli anticorpali è in grado di produrre dei falsi negativi.Tutti i risultati degli esami dovrebbero essere sempre valutati alla luce dell’anamnesi e della diagnosi clinica.
Lo screening per la gonorrea
Prematurità, Prom, rottura prolungata di membrane, febbre materna intrapartum sono associati alla presenza della Neisseria gonorrhoeae a livello della cervice materna, o nell’aspirato
gastrico neonatale, al momento del parto. I pochi dati disponibili inerenti a tale infezione, sono quasi esclusivamente statunitensi. Infatti, dati sull’Europa, specie relativamente ai paesi anglosassoni, riportano prevalenze di infezione del tutto irrilevanti. Nella maggior parte dei casi l’infezione gonococcica in gravidanza decorre in maniera del tutto asintomatica. Quando
presente, la sintomatologia include usualmente disuria e leucorrea. All’esame speculare può
evidenziarsi una modica cervicite con eritema e perdite muco-purulente.
La forma più comune d’infezione in gravidanza, specie nel secondo e nel terzo trimestre
è l’infezione gonococcica disseminata (DGI).Tale forma presenta due stadi clinici: uno stadio
batteriemico precoce (febbre, lesioni cutanee ecc.) ed una fase settica artritica (effusioni sinoviali purulente). Manifestazione addizionale dell’infezione è rappresentata dalla “sindrome
da infezione amniotica”, caratterizzata da Prom, PP e da un’alta percentuale di morbilità infantile.
Diversi studi hanno inoltre dimostrato una stretta associazione tra endocervicite materna gonococcica non trattata e complicazioni perinatali quali PP, corioamnioniti, sepsi neonatali e sepsi materne post-partum. Probabilmente solo nelle popolazioni ove la prevalenza di
infezione è ancora oggi significativa, sarebbe auspicabile uno screening antepartum nell’ottica
di prevenire la morbilità perinatale associata a questo microrganismo.
L’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) raccomanda di effettuare
l’esame delle colture della cervice uterina in tutte le donne in gravidanza durante la prima viGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
107
Lo screening infettivo nella prevenzione del parto pretermine
sita prenatale solo se fanno parte delle categorie ad alto rischio per la gonorrea; l’ACOG e i
CDC consigliano inoltre di ripetere il test nel terzo trimestre nelle donne ad alto rischio.
Per categorie ad alto rischio si intende:
- prostitute;
- donne con pregressi episodi di gonorrea;
- giovani donne (età<25 anni che hanno avuto 2 o più partners sessuali durante l’ultimo
anno);
- donne che, all’esame ostetrico, presentano segni di infezione cervicale (leucorrea mucopurulenta, eritema e/o sanguinamento cervicale).
L’esame più sensibile e specifico per far diagnosi di infezione gonococcica nelle persone
asintomatiche è la coltura diretta delle sedi d’esposizione (uretra, endocervice, gola, retto). In
condizioni controllate la sensibilità dell’esame è alta per la forma genitale e faringea in entrambi i sessi: si stima che nelle donne un singolo tampone a livello endocervicale abbia una
sensibilità dell’80-95%. Gli esami sierologici non sono né abbastanza sensibili né sufficientemente specifici per essere utilizzati nello screening; nessuno dei test non colturali fornisce informazioni sulla suscettibilità dei microrganismi agli antibiotici.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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9
GRANDE PRETERMINE
L’ESITO A DISTANZA
NEI NEONATI <1500 GRAMMI.
CHE COSA HA IMPORTANZA
OLTRE L’ETÀ GESTAZIONALE?
S. Demarini
U.O. Neonatologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
È del tutto ovvio ricordare che al diminuire dell’età gestazionale, aumentano mortalità,
complicanze e handicap nei sopravvissuti. Nondimeno, ad ogni età gestazionale, vi sono neonati che diverranno bambini normali ed altri che non avranno questa fortuna. Scopo di questa relazione è cercare di riassumere quanto è attualmente noto sui fattori che condizionano l’esito a distanza dei neonati di peso <1500 grammi.
Patologia cerebrale
Tra le patologie cerebrali acquisite tipiche dei neonati pretermine, vi sono l’emorragia peri-intraventricolare e la leucomalacia periventricolare.
Le emorragie intraventricolari gravi (3° e 4° grado) si sono notevolmente ridotte di frequenza nel corso degli anni, dal 35-50% all’attuale 15%1. Anche nei neonati più piccoli (<1000
grammi), la frequenza di emorragie gravi è attualmente del 6% circa2. Purtroppo, anche se la
frequenza è bassa, l’impatto sull’outcome è considerevole. Per quanto riguarda il QI a 72 mesi di età, la frequenza di un QI<70 è dell’8% in neonati senza emorragie, ma è del 67% in
neonati con emorragie gravi. Inoltre la frequenza di paralisi cerebrale è del 3% in neonati senza emorragie, ma sale al 44% in caso di emorragie gravi3.
La leucomalacia periventricolare cistica è l’esito di un infarto bilaterale della sostanza bianca, localizzato solitamente all’area parieto-occipitale. La diagnosi viene comunemente effettuata mediante ecografie cerebrali seriate. Antecedenti associati a questa patologia sono infezioni fetali ed ipotensione neonatale. Anche in questo caso la frequenza è piuttosto bassa
(5% circa)2. Purtroppo anche in questo caso, l’esito a distanza è pesante: dal 27% al 100% dei
neonati andranno incontro ad una paralisi cerebrale, a seconda dell’estensione e delle dimensioni delle cisti1,4. Nei casi più gravi possono coesistere problemi visivi e cognitivi5.
La maggioranza delle lesioni della sostanza bianca peraltro, sono diffuse e non evolvono
110
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
L’esito a distanza nei neonati <1.500 grammi. Che cosa ha importanza oltre l’età gestazionale
in cisti periventricolari visibili.Tali lesioni sono visibili solo con una RMN. Il correlato ecografico delle forme più gravi, è una dilatazione progressiva, non post-emorragica, dei ventricoli laterali. Spesso ciò è visibile solo dopo il primo mese di vita.
La dilatazione ventricolare non post-emorragica non è un evento frequente: è diagnosticata ecograficamente in circa il 5% dei neonati <1250 grammi6. I neonati con ventricolomegalia isolata a 40 settimane post-concezionali sono a rischio sia di deficit cognitivi7 sia di paralisi cerebrale.
Patologia polmonare
Molti neonati, non avendo un’autonomia respiratoria sufficiente, sopravvivono grazie alla
ventilazione meccanica. La maggioranza verrà svezzata dalla ventilazione abbastanza rapidamente e senza complicanze. Una minoranza però rimarrà dipendente dalla ventilazione artificiale e svilupperà una malattia polmonare cronica (Displasia Broncopolmonare o BPD). Sia
la durata della ventilazione meccanica sia lo sviluppo della BPD sono fattori di rischio per un
outcome neurologico sfavorevole. Mentre il rapporto tra BPD e handicap era già noto da
tempo, quello con la ventilazione è stato quantificato recentemente. In 5364 neonati <1000
grammi, la durata media dela ventilazione meccanica è stata 23 giorni. Dei neonati ventilati
per >60 giorni, il 24% sopravvive senza handicap. La frequenza scende al 7% in neonati ventilati >90 giorni e diviene 0% in neonati ventilati >120 giorni8. Naturalmente, una ventilazione protratta può non essere la causa diretta di un outcome negativo, ma solo un marker di
gravità. I dati esistenti indicano una correlazione, non necessariamente un rapporto causa effetto. Nondimeno, la prognosi per neonati che richiedono una ventilazione artificiale protratta rimane scadente.
Terapie
Cortisone
Nel tentativo di limitare la durata della ventilazione meccanica e di ridurre la frequenza di
BPD, il cortisone è stato estesamente impiegato in neonati pretermine ventilati.
Il cortisonico più frequentemente impiegato è stato il Dexametasone. Le meta-analisi hanno dimostrato un certo effetto nel ridurre l’outcome combinato mortalità/sopravvivenza con
BPD9,10. Sfortunatamente l’uso del cortisone ha aumentato significativamente anche il rischio
di handicap a distanza. L’impiego attuale dovrebbe essere ristretto a studi controllati o a situazioni cliniche molto gravi11. Non è al momento noto se l’influenza sull’handicap è propria
di tutti i cortisonici o del solo Dexametasone.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
111
L’esito a distanza nei neonati <1.500 grammi. Che cosa ha importanza oltre l’età gestazionale
Indometacina
L’Indometacina, farmaco usato per la chiusura farmacologica del dotto di Botallo, è in grado di ridurre sia la frequenza che la gravità delle emorragie cerebrali in neonati di peso <1250
grammi. Ciò peraltro non si è tradotto in un beneficio significativo nell’outcome a 18 mesi di
età corretta12. Rimane quindi perlomeno dubbia l’efficacia generale di tale strategia. Non è
escluso peraltro che vi possano essere benefici in alcuni sottogruppi di questa popolazione.
I maschi dimostrano sia una frequenza dimezzata di emorragie cerebrali, che una minore frequenza di QI<7013.
Genetica
Al di là dell’ovvia connessione tra malattie metaboliche e degenerative e handicap, ben
poco è noto sulle influenze genetiche sull’esito a distanza di neonati pretermine. Uno studio
svolto su 96 ex-pretermine con paralisi cerebrale e 118 controlli, ha cercato una possibile
correlazione tra la paralisi cerebrale e dei polimorfismi genetici che riguardano la coagulazione e la risposta infiammatoria14. Una correlazione è stata stabilita tra paralisi cerebrale e polimorfismi che riguardano la NO sintetasi endoteliale, la linfotossina A e l’inibitore dell’attivazione del plasminogeno. Come per tutti gli studi di questo tipo, sarà importante replicare l’associazione tra genetica e clinica, cosa che non accade molto frequentemente in letteratura.
Gemellarità
Le tecniche di riproduzione assistita (ART) hanno certamente fatto un’enorme differenza per le coppie sterili. Peraltro, è in gran parte a queste tecniche che si deve l’aumento di
gravidanze gemellari o plurime e di neonati pretermine. Non vi è al momento evidenza che
queste tecniche comportino dei rischi aggiuntivi per madri e neonati. Ma è probabilmente
bene tener presente che il rischio relativo di paralisi aumenta di 6 volte in neonati bigemini
e di 23 volte in neonati trigemini15.
Conclusioni
Negli anni ottanta e novanta la medicina perinatale ha ottenuto uno spettacolare aumento nella sopravvivenza dei neonati. Ulteriori miglioramenti nella sopravvivenza sono possibili,
ma, riguardando i neonati più piccoli, non possono non essere accompagnati anche da un aumento degli esiti a distanza16,17.
112
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
L’esito a distanza nei neonati <1.500 grammi. Che cosa ha importanza oltre l’età gestazionale
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
113
10
GRANDE PRETERMINE
LA GESTIONE DELLA MINACCIA
DEL PARTO PRETERMINE
G.C. Di Renzo, A. Cutuli, R. Luzietti, A. Mattei*, S. Gerli
Centro di Medicina Perinatale e della Riproduzione, S.C . di Clinica Ostetrica e Ginecologica, Università degli Studi di Perugia
*Casa di Cura S. Chiara di Firenze
Premessa
Il parto pretermine complica il 6-7% delle gravidanze e la sua incidenza è rimasta sostanzialmente immutata negli ultimi 30 anni ad evidenziare come gli sforzi fino ad ora eseguiti per
cercare di prevenirlo abbiano modificato solo in minima parte la sua occorrenza.
Il parto pretermine costituisce da solo una causa preponderante di morbidità e mortalità perinatale. Le sue implicazioni sono di grande importanza. Il 75% delle morti neonatali,
escludendo la patologia malformativa, sono dovute alla prematurità. La possibilità di sopravvivenza aumenta da meno del 5% prima della 23a settimana a più del 95% dopo la 32a settimana. Il rischio di handicap grave tra i neonati sopravvissuti dopo parto pretermine è ugualmente strettamente legato all’epoca gestazionale al parto essendo di circa il 65% per quelli
nati prima delle 23 settimane a meno del 10% dopo la 30a settimana.
Una premessa fondamentale risiede nella necessità di approfondire i molteplici meccanismi patogenetici alla base di tale sindrome in maniera tale da attuare una terapia eziologica.
A fronte, dunque , di una eziopatogenesi multifattoriale, non risulta giustificabile né individuabile un trattamento unico per tutte le gestanti. È necessario, invece, riconoscere, modificare
ed eliminare i fattori di rischio che sottendono tale sindrome nonché identificare e trattare
precocemente le pazienti ad alto rischio. All’uopo distinguiamo varie fasi attraverso le quali
attuare un protocollo di management del PP (parto pretermine) a seconda anche delle varie epoche gestazionali alle quali si manifesta una minaccia di parto pretermine (età gestazionale compresa tra 24 e 36 settimane, presenza di almeno 4 contrazioni uterine regolari della durata di 30 sec. in un intervallo di 30 min., dilatazione cervicale di 1-3 cm ed appianamento almeno del 50%) e/o si verifichino determinate condizioni richiedenti un intervento terapeutico.
Individuare le condizioni causali e i fattori di rischio
Il parto pretermine può essere considerato una sindrome che può essere secondaria a
varie cause che giungono ad una via comune data dalla sequenza contrazioni uterine, modi114
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La gestione della minaccia di parto pretermine
ficazioni della cervice e attivazione dell’interfaccia amniocorio-deciduale.
Per quanto le cause del parto pretermine queste sono spesso difficili da riconoscere.
Schematicamente possiamo dividerle in due gruppi:
1. Cause secondarie a patologia infiammatoria-infettiva
Rappresentano circa il 25-40% delle cause come documentato da studi microbiologici sul
liquido amniotico e istologici sulla placenta e le membrane. La via di infezione è in genere
ascendente dalla vagina attraverso la cervice all’interfaccia amniocoriale. In condizioni particolari (sepsi materna) l’infezione può essere per via ematogena. I germi più frequentemente
causa dell’infezione sono i micoplasmi, ureoplasmi e i batteri patogeni della flora vaginale.
L’infezione determina la produzione da parte dei macrofagi e dei linfociti presenti nell’interfaccia amniocoriale di citochine che innescano una reazione a catena che esita nella produzione di prostaglandine e leucotrieni con conseguente stimolazione dell’attività contrattile, e
l’attivazione di metalloproteinasi con funzione enzimatiche di elastasi e collagenasi che causano modificazioni a livello della cervice (maturazione o “ripening”) e la rottura delle membrane amniocoriali.
2. Su base non infiammatoria. A sua volta riconosce varie cause:
a. Sovradistensione uterina. È il caso delle gravidanza multiple o del polidramnios. La sovradistensione può di per se causare una attivazione delle interfaccia amniocoriale con
la produzione di citochine che a loro volta possono innescare la reazione a catena sovraesposta
b. Patologia della cervice. Possono essere secondarie a disturbi congeniti (es. cervice ipoplastica primaria o secondaria ad esposizione in utero a dietilstilbestrolo) o acquisiti da
trauma chirurgico (conizzazione per lesioni della cervice uterina o dilatazioni strumentali della cervice per aborti ripetuti). La conseguenza è definita come “incompetenza
cervico-istmica” che determina una prematura dilatazione e maturazione della cervice. Ciò può determinare o una rottura prematura delle membrane amniocoriali o una
più facile infezione ascendente dalla vagina con conseguente scatenamento del parto
pretermine.
c. Ischemia o emorragia uteroplacentare. Studi istologici hanno dimostrato come in gravidanze con parto pretermine esiste una maggiore incidenza di anomalie della angiogenesi che avviene all’inizio della gravidanza a livello delle arterie spirali con conseguente
maggior incidenza di aterosi e trombosi. L’ischemia che si determina e i fenomeni emorragici conseguenti sono in grado di attivare l’interfaccia amniocoriale con insorgenza del
parto pretermine. Anche il distacco intempestivo di palecenta o le emorragie all’interfaccia amnio-corio-deciduale, attraverso l’aumento della trombina, possono attivare la
cascata di produzione delle prostaglandine e determinare parto pretermine.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
115
La gestione della minaccia di parto pretermine
d. Autoimmune. La possibilità dell’unità fetoplacentare di svilupparsi nell’organismo materno rappresenta un modello unico di adattamento dell’organismo a degli antigeni estranei di origine paterna espressi dal feto. Anormalità in questo meccanismo di adattamento possono portare alla comparsa di abortività ripetuta o parto pretermine.
e. Patologia allergica. L’utero contiene un gran numero di mastociti; l’istamina rilasciata da
queste cellule causa contrazioni uterine ed una certa percentuale di gestanti con parto pretermine presentano nel liquido amniotico un alto numero di eosinofili.
Purtuttavia, in oltre un terzo dei parti pretermine non si è in grado di identificare nessuna delle cause sovraesposte.
La distinzione eziologica tra cause infettive e non infettive ha un notevole riflesso clinico
in quanto la prognosi dei casi secondari ad infezione è sensibilmente peggiore. Infatti in presenza di infezione il rischio relativo di non rispondere alla terapia e partorire entro 48 ore è
aumentato di 14 volte con conseguente aumento della mortalità e morbosità perinatale rispettivamente di 6 e 22 volte.
La valutazione del rischio, basata su fattori clinici, ha una sensibilità del 20-60% nel predire il parto pretermine. I più importanti fattori di rischio sono: la gravidanza multipla (rischio
relativo superiore da 5 a 6 volte), storia positiva per parti pretermine (rischio relativo aumentato da 3 a 4 volte), sanguinamenti vaginali (rischio relativo 3 volte superiore). Di questi, i pregressi parti pretermine sono i più importanti. Un terzo dei parti pretermine tra 22 e 32 settimane di gestazione si verificano in donne con un pregresso parto pretermine. Più precoce
è stato il primo parto pretermine, maggiore è la probabilità che si verifichi di nuovo.
MANAGEMENT PRENATALE
Mira alla valutazione, riconoscimento e modificazione dei fattori di rischio. Gestanti a rischio per lo stile di vita vanno sicuramente inquadrate in questa fase di management. A tal
proposito sono previsti una serie di accorgimenti, definiti come interventi di supporto, miranti ad alleviare quelle condizioni di rischio con le quali le gestanti spesso interagiscono:
- aiuto domestico;
- aiuto in famiglia;
- ostetriche/infermiere a domicilio;
- assegnazione di assistenti sociali;
- corsi di controllo dello stress;
Altri consigli si rendono necessari per completare la fase di prevenzione:
- riduzione e/o sospensione dell’attività sessuale;
- riposo a letto;
- evitare climi caldo-umidi;
116
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La gestione della minaccia di parto pretermine
- miglioramento della nutrizione (omega 3 e PUFA attraverso l’aumento delle diete con pesce di mare);
- riduzione dell’attività lavorativa;
- riduzione dei lavori domestici e della cura dei bambini;
- riduzione del fumo;
- riduzione dello stress;
- riduzione di viaggi, pendolarismo e trasferimenti.
Eventuali patologie materne vanno considerate in questa fase e tra queste vanno annoverate la patologia infettiva del tratto genitale inferiore e l’incontinenza cervico-istmica. A tal
proposito si rendono necessarie:
- valutazione cervicale: la maturazione cervicale è un processo metabolico attivo a carico della matrice extracellulare la cui espressione clinica è rappresentata dal raccorciamento e dalla dilatazione della cervice all’esplorazione vaginale ( esame digitale e valutazione ecografica
per eventuale cerchiaggio profilattico);
- screening microbiologico cervico-vaginale e pH vaginale: risulta ben evidente la correlazione tra
la presenza di microorganismi nel tratto genitale inferiore ed infezioni genito-urinarie, rappresentate soprattutto da vaginosi batterica, pielonefrite e batteriuria.
Si rendono responsabili di tali patologie lo Streptococco di gruppo B, l’Ureaplasma urealyticum, la Chlamydia trachomatis, il Bacteroides, la Gardnerella vaginalis e l’Escherichia coli. Nelle gestanti spesso si determinano infiammazioni ascendenti dell’alto tratto genitale con partenza
da infezioni del basso tratto riproduttivo e conseguenti complicanze gestazionali, rappresentate appunto dalla Rottura Prematura delle Membrane (RPM) e dal Parto Pretermine (PP).
I mediatori attraverso i quali tali microorganismi si rendono responsabili delle complicanze
sopra citate sono rappresentati dalle IL (interleuchine) 1a-1beta-4-6-8-10,TNFalfa e TGFbeta,
prodotte dall’amniocorion, dalla decidua e/o dal sistema monocita macrofago a loro volta responsabili della produzione di PGF2a e PGF2, le prostaglandine che intervengono nello scatenamento del travaglio di parto.
Le nostre strategie preventive devono mirare ad interrompere e/o impedire la sopra descritta cascata di eventi che, da infezioni genitali ascendenti, conduce dunque ad un processo
infiammatorio endoamniotico con successive contrazioni uterine e rottura prematura delle
membrane;
- test biochimici per il dosaggio dei mediatori della risposta infiammatoria (IL-6 o IL-8,TNF±,
PCR) e ricerca di enzimi di derivazione e/o attivazione batterica (sialidasi, metalloproteinasi)
e glicoproteine di membrana (fibronectina fetale);
- profilassi antibiotica precoce: il trattamento antibiotico in gestanti con minaccia di parto pretermine e membrane integre non determina un prolungamento della gravidanza, non riduce
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
117
La gestione della minaccia di parto pretermine
il rischio di parto pretermine e non migliora l’outcome perinatale se adottato in epoca tardiva di gestazione (il trattamento che interrompe il nesso di causa-effetto, rappresentato dalla cascata di citochine che modula l’attività uterina, va effettuato in epoca precoce e/o in fase preconcezionale);
- profilassi con glucocorticosteroidi (GC) per la prevenzione dell’immaturità polmonare: risultano
idonei al trattamento con glucocorticoidi tutti i feti tra 24 e 34 settimane a rischio di parto
pretermine e possono essere somministrati alle pazienti candidate alla tocolisi.
In assenza di corionamnionite, il loro uso in epoca antenatale è raccomandato nella rottura
pretermine prolungata delle membrane di feti a 30-32 settimane e in assenza di effetti collaterali materni.
Le potenziali conseguenze a lungo termine dell’esposizione prenatale ai GC sullo sviluppo cerebrale così come i meccanismi fisiopatologici sottesi costituiscono un campo di ricerca in rapida espansione. I loro effetti non si limitano alla modificazione della concentrazione dei neurotrasmettitori e del numero dei recettori, ma includono anche modificazioni della struttura
cerebrale. È probabile che le modificazioni indotte dai GC sull’ippocampo durante lo sviluppo cerebrale abbiano conseguenze a lungo termine sul comportamento e sul sistema neuroendocrino.
È stato accertato l’effetto vantaggioso sul neonato pretermine del trattamento prenatale
con GC, ma gli effetti collaterali sul feto potrebbero manifestarsi tardivamente, e solo durante la vita adulta.
I dati indicano, al momento, cautela nell’uso di cicli ripetuti di GC in epoca antenatale, i cui
rischi sono rappresentati da alterata tolleranza al glucosio, osteoporosi, inibizione del surrene, alterata crescita ed alterata mielinizzazione.
-
È bene, dunque, procedere adottando alcuni precisi criteri:
usare un solo ciclo di betametasone
evitare “profilassi” inutili
provare ad utilizzare una combinazione di farmaci, specialmente in epoche di gestazione
molto pretermine
usare il farmaco tocolitico appropriato e per un periodo limitato
considerare sempre la possibile eziologia del parto pretermine
Data, dunque, la stretta associazione tra la presenza di patogeni cervicali e vaginali e la minaccia di parto pretermine, occorre identificare, con attenzione, le gestanti a rischio ed indagare il più precocemente possibile sulla presenza di microorganismi in queste pazienti.
L’uso di test semplici e rapidi, quali il tampone vaginale e/o la valutazione del pH vaginale, così come il tempestivo e preciso trattamento delle infezioni vaginali e cervicali, è dirimente nel ridurre le alte mortalità e morbosità perinatali, dovute all’associazione tra patogeni e
parto pretermine.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La gestione della minaccia di parto pretermine
“Identificazione” della minaccia di parto pretermine
La minaccia di parto pretermine si identifica in base alla presenza di contrazioni uterine
persistenti associate a dilatazione e/o raccorciamento della cervice. Si può definire il travaglio
di parto pretermine in diversi modi ma, quello più usuale è la presenza di contrazioni uterine tra la 22a e la 36a settimana di gestazione ad un ritmo di 4 ogni 20 minuti o 8 in un’ora
associate ad almeno uno dei seguenti elementi: progressive modificazioni del collo uterino o
dilatazione cervicale ≥2 cm.
Gestione clinica della minaccia di parto pretermine
Il management clinico della minaccia di parto pretermine si basa sulla valutazione dei rischi materno-fetali in caso di proseguimento della gravidanza e in caso di parto. La prima cosa da fare è ricercare le cause del travaglio di parto pretermine e valutare il benessere fetale. La causa che determina il parto pretermine può anche compromettere la salute fetale (per
esempio: distacco di placenta, oligoidramnios ecc.). Se la causa è un fatto infettivo o ischemico, il rischio di morbosità perinatale aumenta rispetto al parto pretermine in cui non si trovino cause. La scelta di proseguire la gravidanza deve essere giustificata da una normale crescita fetale e da un buono stato di salute fetale. Occorre, inoltre considerare l’età gestazionale: più precoce è l’età gestazionale, maggiore è il rischio di complicanze della prematurità, per
il neonato. Tutti questi fattori condizionano la scelta di ritardare o meno il parto ma vanno
sempre valutati unitamente allo stato di salute materna.
I sintomi del travaglio di parto pretermine sono spesso aspecifici e non necessariamente
sono gli stessi di un travaglio a termine. Per questo motivo, l’incidenza registrata di minacce
di parto pretermine risulta superiore a quella dei parti pretermine veri e propri.
In gestanti sintomatiche, i migliori segni clinici di parto pretermine entro una settimana dall’esordio sono: dilatazione cervicale ≥ 3 cm o raccorciamento ≥ 80%, perdite ematiche vaginali, rottura delle membrane. La frequenza delle contrazioni uterine, considerata singolarmente come criterio diagnostico, ≥ 4/ora ha una bassa sensibilità ed un basso valore predittivo
positivo per il parto pretermine entro 7-14 giorni dall’esordio.
La somministrazione di farmaci tocolitici per la frequenza delle contrazioni in assenza di
altri elementi diagnostici, risulta inutile poiché non sussiste un reale travaglio di parto. Quindi,
le gestanti con sintomi di travaglio di parto pretermine con dilatazione cervicale < 2 cm e/o
raccorciamento < 80% rappresentano un dilemma diagnostico.
Per migliorare l’accuratezza della diagnosi di travaglio di parto pretermine e ridurre il numero dei falsi positivi, sono stati proposti due metodi: l’ecografia transvaginale e la ricerca della fibronectina fetale nelle secrezioni cervicovaginali. L’ecografia transvaginale consente di misurare la lunghezza del canale cervicale.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
119
La gestione della minaccia di parto pretermine
Diversi studi hanno dimostrato la superiorità diagnostica di questo metodo rispetto all’esame digitale nel predire il parto pretermine in gestanti con sintomatologia acuta. Una lunghezza cervicale ≥ 30 mm ha un alto valore predittivo negativo per parto pretermine in donne sintomatiche. L’attivazione dell’interfaccia amnio-coriale come già ricordato si associa con
la liberazione di varie sostanze che possono essere evidenziate e dosate nei secreti cervicovaginali. Tra queste particolare significato assumono i dosaggi della fibronectina fetale (fFN).
Una ricerca positiva per fFN in una paziente con contrazioni e dilatazione cervicale < 3 cm
ha maggiore sensibilità (90%) e valore predittivo negativo (97%) per il parto entro 7-14 giorni rispetto ai markers clinici standard ma il valore predittivo positivo per il parto pretermine
entro 7-14 giorni è inferiore al 20% nella maggior parte degli studi. Questo test è quindi migliore per escludere un parto pretermine piuttosto che identificarlo.
Il trattamento
La tocolisi è il primo approccio terapeutico nel trattamento del parto pretermine insieme ai corticosteroidi che inducono e/o migliorano la maturità polmonare e agli antibiotici
somministrati spesso a scopo profilattico.
Tabella I. Controindicazioni all’inibizione tocolitica del parto pretermine
Controindicazioni assolute
Ipertensione severa indotta dalla gravidanza
Grave sanguinamento indipendentemente dalla causa
Corioamnionite
Morte fetale
Anomalie fetali incompatibili con la vita
Grave difetto di crescita fetale
Controindicazioni relative
Ipertensione cronica lieve
Placenta previa stabile
Malattie cardiache materne
Ipertiroidismo
Diabete mellito non controllato
Distress fetale
Anomalie fetali
Lieve difetto di crescita fetale
Dilatazione cervicale > 5 cm
Molte di queste rappresentano delle controindicazioni relative per le quali si può tentare un trattamento tocolitico qualora i rischi di una nascita pretermine e la morbosità e la
mortalità ad essa associate siano alti e sia necessario un monitoraggio materno-fetale intensivo. Condizioni materne mediche come, per esempio, il diabete mellito, potrebbero essere
influenzate negativamente da alcuni agenti tocolitici come i beta-mimetici.
Alcuni farmaci tocolitici possono essere utilizzati nel caso in cui sia possibile effettuare,
nell’immediato, un controllo glicemico. Piccoli sanguinamenti vaginali o spotting si associano
spesso al parto pretermine dovuto a modificazioni cervicali ma potrebbero anche essere
espressione di un parziale distacco di placenta. In questi casi, se non vi è distress fetale e il
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La gestione della minaccia di parto pretermine
tono uterino è normale si può tentare un trattamento tocolitico, sotto stretta e continua
osservazione.
Se la cervice presenta una dilatazione superiore a 4-5 cm a trattamento tocolitico già iniziato, si ha una scarsa probabilità che la gravidanza prosegua per un periodo significativo.
Comunque, questo tipo di pazienti viene osservato occasionalmente e la loro attività uterina è molto sensibile al trattamento iniziale. Se la gravidanza è tra 22-26 settimane, un prolungamento di 1-2 settimane potrebbe influenzare significativamente l’outcome perinatale e l’uso
dei tocolitici viene preso in considerazione soprattutto nelle gravidanze gemellari. Quindi, prima di decidere di inibire il travaglio di parto pretermine, occorre considerare la gravità dell’eventuale malattia associata, la personalizzazione dell’assistenza e gli agenti tocolitici disponibili.
I farmaci tocolitici sono stati considerati il pilastro del management farmacologico primario del travaglio pretermine, sia come terapia d’attacco (bloccando le contrazioni uterine), sia
come terapia di mantenimento (mantenendo la quiescenza uterina). La valenza di questi farmaci, purtroppo, è attenuata da molteplici potenziali effetti collaterali materno-fetali e neonatali.
Gli agenti farmacologici tocolitici attualmente in uso sono:
- solfato di magnesio
- inibitori della sintesi di prostaglandine
- calcio-antagonisti
- agonisti beta-adrenergici
- donatori di ossido nitrico
- antagonisti dell’ossitocina
SOLFATO DI MAGNESIO
Diversi meccanismi d’azione sono stati supposti. Alte concentrazioni di magnesio hanno
un effetto centrale inibitorio, interferiscono con la liberazione di acetilcolina e quindi con la
trasmissione nervosa. Il magnesio sopprime anche l’attività contrattile di strisce miometriali
isolate, in vitro, in modo dose-dipendente, dimostrando un’azione cellulare diretta. Inoltre, è
stato osservato che il magnesio esercita il suo effetto attraverso un incremento dell’AMP ciclico. Esso svolge anche un ruolo di antagonista competitivo del calcio: riduce il calcio intracellulare, elemento necessario nell’interazione actina-miosina per la contrattilità della muscolatura liscia.
La contrattilità miometriale è inibita per livelli materni sierici di magnesio di 5-8 mg/dl. Per
concentrazioni di 9-13 mg/dl si possono perdere i riflessi tendinei profondi e per livelli superiori a 14 si ha depressione respiratoria. Il magnesio viene escreto perlopiù dal rene, con almeno il 75% della dose infusa (per il trattamento della pre-eclampsia) escreta durante l’infusione e almeno il 90% escreto entro le 24 ore.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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La gestione della minaccia di parto pretermine
La dose iniziale d’infusione raccomandata è di 4-6 g, somministrata endovena in più di 20
minuti seguita da una dose di mantenimento di 1-4 g/ora. La relazione tra la concentrazione
sierica di magnesio e il successo della tocolisi non è ancora nota. Si raccomanda fortemente
la titolazione individuale in relazione alla risposta e agli effetti collaterali per valori superiori a
8 mg/dl. La terapia endovenosa va continuata per circa 12 ore fino a che non si ha una riduzione delle contrazioni al di sotto di 4-6 all’ora.
Poiché il trattamento con magnesio può causare edema polmonare, è importante un’attenta osservazione dell’apporto e dell’escrezione e, forse, ridurre l’introito totale di liquidi, come per i ß-mimetici, al di sotto di 1500-2500 ml al giorno. Si raccomanda un costante controllo dei riflessi tendinei ed un attento monitoraggio dei livelli sierici di calcio e magnesio per
evitare gli effetti tossici. Nel caso in cui si manifestino effetti tossici da ipermagnesiemia, occorre somministrare prontamente il calcio gluconato (almeno 10 mg).
INIBITORI DELLA SINTESI DI PROSTAGLANDINE
Gli inibitori della prostaglandino-sinteasi, agiscono inibendo la conversione dell’acido arachidonico a prostaglandine o bloccando l’azione della prostaglandine sugli organi bersaglio, e
sono rappresentati soprattutto da indometacina, ketoprofone, sulindac e celocoxib.
Uno dei maggiori problemi legati all’inibizione delle prostaglandine è la possibilita di gravi
effetti avversi sul feto, in particolare la chiusura del dotto arterioso fetale di Botallo, l’ipertensione polmonare neonatale, l’emorragia intraventricolare e la riduzione del flusso renale e l’oligoidramnios. Fortunatamente l’effetto fetale avverso risulta dose ed età gestazionale dipendente (>30 settimane).
Diversi studi suggeriscono di limitare l’uso dell’indometacina entro le 32 settimane di gestazione e, inoltre, l’ecocardiografia fetale potrebbe essere d’aiuto nel valutare l’eventuale restringimento del dotto arterioso in caso di trattamento con indometacina superiore alle 4872 ore.
La maggior parte degli studi ha utilizzato sia 50 mg o 100 mg per supposta rettale d’indometacina o 50 mg per os come dose d’attacco seguita da 25-50 mg per os ogni 6 ore in base alla risposta.
La tocolisi con indometacina deve essere limitata nelle donne prima delle 32 settimane di
gestazione, senza difetto di crescita fetale e con liquido amniotico normale. La maggior parte
degli Ostetrici la utilizza solo per 48-72 ore. Se si prosegue il trattamento per un tempo superiore, si raccomanda la valutazione del volume del liquido amniotico e del dotto arterioso.
CALCIO-ANTAGONISTI
I più recenti calcio-antagonisti sono stati presi in considerazione per un uso tocolitico, per
l’importante ruolo che il calcio libero citoplasmatico riveste nella contrattilità della muscolatura liscia.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La gestione della minaccia di parto pretermine
Farmaci come la nifedipina si pensa agiscano inibendo il flusso di ioni calcio attraverso la
membrana cellulare, soprattutto interferendo con i canali voltaggio-dipendenti per il calcio.
Come agenti tocolitici sono state studiate sia la nifedipina che la nicardipina. La nifedipina
raggiunge il picco plasmatico dopo 30-60 minuti dalla somministrazione orale e, in meno tempo, dopo somministrazione sublinguale. L’emivita è di 1-2 ore e viene eliminata attraverso il
rene e l’intestino. Il blocco dei canali del calcio è reversibile con l’interruzione della terapia. Si
è visto che la nifedipina attraversa la placenta ma la cinetica del trasporto e il metabolismo
nel feto non sono noti. Si somministra una prima dose di 10 o 20 mg di nifedipina per via
orale, da ripetersi dopo 20 minuti se le contrazioni persistono. La somministrazione sublinguale non viene utilizzata per il potenziale effetto ipotensivo.
La terapia orale viene eseguita per 10-20 minuti ogni 4-6 ore. La durata del trattamento
non è prestabilita. Sono stati riportati tuttavia diversi effetti avversi dei calcio antagonisti sia
sulla gestante (cefalea, ipotensione, edema polmonare), che sul feto (morte improvvisa, brachicardia, alterazioni eterodinamiche cerebrali, acidosi).
AGONISTI beta-ADRENERGICI
Gli agonisti beta-adrenergici, utilizzati come tocolitici da trent’anni, comprendono: isoxuprina, isaxu, esoprenalina, fenoterolo, orciprenalina, ritodrina, salbutamolo, terbutalina. La loro
azione è mediata dall’adenosina monofosfato ciclico che inibisce la kinasi delle catene leggere della miosina impedendo, quindi, la contrazione della miocellula uterina. Sebbene abbiano
massimi effetti a livello uterino e minimi a livello extrauterino, gli agenti beta-adrenergici possono influenzare, in maniera significativa, la fisiologia cardiovascolare e metabolica materna (effetto B1). La Tabella sotto riportata riassume le risposte dei vari tessuti ai farmaci beta-adrenergici, risposte che costituiscono la base dei potenziali effetti collaterali materni.
v n
n n
v v v
v
n n
n n
Tabella II. Risposta dei tessuti alla stimolazione beta-adrenergica
Risposta beta1-adrenergica
Risposta beta2-adrenergica
CUORE
MUSCOLATURA LISCIA
forza
tono vascolare
volume di eiezione
attività uterina
tono bronchiolare
INTESTINO
RENE
motilità
renina
output urinario
METABOLISMO
METABOLISMO
lipolisi
glicogenolisi
K+ intracellulare
rilascio di insulina
Il più frequente e grave effetto collaterale è l’edema polmonare. Questo regredisce abbastanza prontamente con la sospensione del tocolitico e la somministrazione appropriata di
diuretici.Talvolta però è stato associato a morte materna.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
123
La gestione della minaccia di parto pretermine
Con l’uso degli agenti beta-adrenergici si ha un aumento della glicogenolisi epatica ed iperglicemia materna. Con l’iperglicemia, si sviluppa ipokaliemia. I farmaci ß-adrenergici possono
essere somministrati per via endovenosa, intramuscolo, sotto cute o per bocca. Il trattamento con ritodrina o terbutalina può essere iniziato con un’infusione endovena mediante l’uso
di una pompa di infusione calibrata, o per via intramuscolo con la ritodrina o sottocute con
la terbutalina. Prima del trattamento, la paziente deve essere posizionata in decubito laterale
per evitare l’ipotensione. Vanno registrati l’apporto e l’eliminazione di liquidi e l’apporto totale raccomandato è di 1500-2500 ml. Occorre auscultare il torace ogni 4-8 ore per diagnosticare precocemente l’eventuale edema polmonare.
La ritodrina viene somministrata, inizialmente, per via endovenosa in quantità di 0.05-0.10
mg/min e viene aumentata di 0.05 mg/min ad intervalli di 10-30 minuti fino ad una potenziale dose massima di 0.350 mg/min.
Per la corretta utilizzazione di tali farmaci, si riportano parti del testo della Gazzetta
Ufficiale G.U.R.I. n.166, 19 Luglio 2003: “Specialità medicinali beta2 stimolanti ad azione tocolitica a base di ritodrina e isoxsuprina nelle forme farmaceutiche iniettabili”
Una volta ottenuto l’arresto delle contrazioni uterine è possibile proseguire il trattamento d’attacco per 12-48 ore in modo da consentire l’attuazione di altre misure che potrebbero migliorare lo stato di salute del nascituro.
Controindicazioni:
L’impiego di ritodrina o isoxsuprina (RCI) è controindicato prima della 20a settimana di
gravidanza e nei casi in cui il prolungamento della gravidanza può essere pericoloso per la
madre o per il feto. Inoltre è controindicato nei seguenti casi: emorragie vaginali, eclampsia
conclamata e grave pre-eclampsia, malattie cardiovascolari, ipertensione polmonare, ipertiroidismo, diabete mellito, distacco placentare, preesistenti condizioni cliniche nelle quali influirebbe negativamente un beta-mimetico, morte intrauterina del feto, corionamnionite.
Il trattamento con RoI dovrebbe essere effettuato esclusivamente in strutture attrezzate
per il monitoraggio continuo delle condizioni di salute sia della madre sia del feto e dovrebbe essere sempre preceduto da un’accurata valutazione dei rischi e dei benefici. Prima di decidere se intraprendere la terapia bisognerà attentamente vagliare la presenza di potenziali
problemi cardiovascolari. Si richiede, infatti, un più attento monitoraggio per quei pazienti in
cui si sospetti una cardiopatia. “Nome prodotto” non dovrebbe essere somministrato a pazienti con pre-eclampsia, ipertensione o ipertiroidismo, a meno che il medico non ritenga che
i benefici siano tali da giustificare i rischi. Durante il trattamento con RoI è necessario controllare la pressione sanguigna ed il battito cardiaco materno e fetale, inizialmente ogni 5-15
min. ed in seguito, quando le condizioni della paziente si siano stabilizzate, ad intervalli sempre più distanziati (15-60 min); inoltre dovrebbe essere eseguito l’esame del torace e dovrebbero essere monitorati glicemia, urea ed elettroliti. Le donne con diabete necessitano di ag124
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La gestione della minaccia di parto pretermine
giustamenti dei livelli ematici di glucosio e devono quindi essere monitorate con particolare
attenzione. La somministrazione di “nome prodotto” può aumentare la frequenza del battito
cardiaco materno in maniera progressiva, a volte fino a determinare l’insorgenza di palpitazioni. L’insorgenza di una tachicardia materna di grado elevato può essere controllata mediante la riduzione della dose o tramite la cessazione della somministrazione del farmaco; bisogna valutare caso per caso se l’entità della tachicardia possa essere considerata accettabile,
ma di regola si raccomanda di non lasciare che nei soggetti sani la frequenza cardiaca superi
i 140 b/min. Per ridurre al minimo il rischio di ipotensione associato alla terapia con RoI durante l’infusione, la paziente dovrebbe rimanere coricata in decubito laterale sinistro, in modo da evitare la compressione della vena cava. Sono stati segnalati casi di edema polmonare
in pazienti trattate con beta-stimolanti, particolarmente se sottoposte nel contempo a terapia cortisonica. Un attento monitoraggio dello stato di idratazione della paziente è essenziale; inoltre il volume dei liquidi somministrati dovrebbe essere mantenuto entro i livelli minimi. In caso di edema polmonare, interrompere il trattamento ed istituire idonee misure terapeutiche. Sono stati segnalati casi di edema polmonare della madre trattata contemporaneamente con beta-mimetici e cortisonici.
- Gli effetti collaterali più frequentemente segnalati o riportati nella letteratura internazionale sono: tachicardia, ipotensione arteriosa, tremore, nausea, vomito, senso di calore, cefalea ed eritema.
- Occasionalmente sono stati segnalati: palpitazioni, nervosismo, agitazione, irrequietezza, labilità emotiva, ansietà, vertigine, sudorazione, arrossamento cutaneo, febbre, rush o malessere generale.
- Sono stati descritti diversi casi di edema polmonare in corso di terapia con ß-mimetici
particolarmente se associati a terapia corticosteroidea.
- Altri effetti collaterali, meno frequenti, ma a volte gravi, sono: effetti cardiovascolari quali
angina pectoris, ischemia miocardica o senso di oppressione toracica (con o senza alterazioni ECGgrafiche o aritmie.
A carico del feto si possono verificare effetti indesiderati cardiovascolari (tachicardia, aumento della gittata cardiaca, ischemia e necrosi del miocardio) e metabolici (ipoglicemia ed
idrope).
ANTAGONISTI DELL’OSSITOCINA
Gli antagonisti dell’ossitocina sono i farmaci emergenti in grado di inibire il duplice effetto dell’ossitocina stessa: l’effetto diretto stimolante la contrazione del miometrio legata all’attivazione dei canali del calcio e quello indiretto di stimolare la produzione delle prostaglandine a livello della decidua e delle membrane fetali.
Il più promettente antagonista è l’atosiban, un analogo dell’ossitocina endogena in grado
di bloccare sia i recettori miometriali che quelli deciduali. L’atosiban è specificamente indicaGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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La gestione della minaccia di parto pretermine
to per ritardare il parto pretermine e dovrebbe essere somministrato immediatamente dopo la diagnosi e gestito da uno specialista esperto. Gli effetti collaterali materni dell’atosiban
possono essere: nausea, mal di testa, vertigini, tachicardia, ipertensione, iperglicemia, reazioni
allergiche. Gli effetti a carico del feto non sono significativi.
DONATORI DELL’OSSIDO NITRICO
L’ossido nitrico è un potente miorilassante che agisce a livello vasale, intestinale e uterino.
La nitroglicerina è un esempio di farmaco donatore di ossido nitrico. La somministrazione di
patches di nitroglicerina sembra efficace nel trattare il parto pretermine ma va fatta particolare attenzione agli effetti ipotensivi materni. L’NO diffonde alle cellule bersaglio legandosi al
gruppo eme della guanilato ciclasi citosolica, aumenta la conversione della guanosina trifosfato a guanosina monofosfato ciclica. L’aumento dei livelli di cGMP causa un rilassamento della
muscolatura liscia vascolare accelerando il legame intracellulare del calcio libero e inibisce l’aggregazione piastrinica e l’adesione all’endotelio. Gli effetti collaterali materni della somministrazione di donatori di NO sono: cefalea, nausea, vomito, tachicardia, ipotensione ortostatica, rush cutanei. Gli effetti avversi fetali, perlopiù ipotetici, sono determinati dalle variazioni di
flusso fetale a livello placentare successive alla vasodilatazione materna. Il trattamento acuto
consigliato è di un patch transdermico da 10 mg per 12 ore da rimuovere poi per 6 ore e
rimpiazzare con un altro patch per 12 ore. Il trattamento conservativo è di un patch transdermico da 5 mg per 12 ore ogni giorno.
Protocollo di management
1. Esame pelvico, con utilizzazione di materiale sterile in caso di rottura prematura delle
membrane, e PROM test;
2. riposo a letto in decubito laterale sinistro (trattamento frequentemente utilizzato ma privo di evidenti benefici reali);
3. idratazione (almeno 500 ml) (non evidenti benefici);
4. US per valutazione della posizione fetale, cervicometria e possibilmente stima del peso e
determinazione dell’età gestazionale;
5. monitoraggio FCF (frequenza cardiaca fetale) ed attività uterina;
6. colture cervico-vaginali per ricerca di Streptococco di gruppo B, Chlamydia trachomatis,
Mycoplasmi, vaginosi batterica, Anaerobi;
7. esami ematochimici (emocromo con formula leucocitaria, conta piastrine, glicemia, VES,
PCR, uricemia, creatininemia, azotemia, transaminasi bilirubina, PT, PTT);
8. esami urine e urinocultura;
9. ECG;
10. visita anestesiologica e/o cardiologica;
11. eventuale trasferimento presso un centro di riferimento previo inizio di tocolisi.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La gestione della minaccia di parto pretermine
Management della minaccia di parto pretermine con RPM
1. Esame con speculum sterile per la valutazione della cervice uterina ed eventuale perdita
di liquido dalla vagina, evitando l’esplorazione digitale; valutazione del pH vaginale; prelievo colturale del secreto cervico-vaginale (prima e dopo la terapia locale antibiotica, dapprima empirica poi mirata).
2. Controllo clinico di eventuale insorgenza di corionamnionite mediante valutazione della
FCF, del polso e della temperatura materna ogni 4 ore. Effettuazione della conta leucocitaria e della formula ogni 48 ore e dosaggio della Proteina C Reattiva ogni 24-48 ore.
3. Valutazione ecografica per confermare l’epoca gestazionale, identificare la parte presentata e quantificare il volume di liquido amniotico. Profilo biofisico fetale e velocimetria
Doppler materno-fetale ogni 48 ore.
4. Se l’epoca gestazionale risulta inferiore alla 34° settimana e non sussistono altre indicazioni materne o fetali all’espletamento del parto, la gestante viene attentamente controllata
per ogni segno di travaglio, infezione o rischio fetale.
5. Se l’epoca gestazionale risulta superiore alla 34° settimana e se il travaglio non è iniziato
spontaneamente entro 12 ore, il travaglio viene indotto mediante infusione ev di ossitocina. La presentazione podalica e la situazione trasversa costituiscono una controindicazione all’induzione.
6. Profilassi corticosteroidea per la maturazione polmonare fetale (betametasone 12 mg/24h
per 2 giorni).
7. Antibioticoterapia da iniziare entro 24 ore con antibiotico ad ampio spettro (compresi
Gram negativi) e/o metronidazolo (500mg x 2/24h ev) associati a terapia vaginale locale
con clindamicina (crema vaginale 1 applicazione/die per 7 giorni) e sertaconazolo (1 ovulo in unica somministrazione).
8. Amniocentesi per testare la maturità polmonare fetale (rapporto L/S, corpi lamellari) e/o
amnioinfusione in caso di liquido marcatamente ridotto (in casi limitati).
9. L’espletamento del parto è finalizzato alla riduzione del rischio di ipossia, acidosi e/o infezione neonatale.
L’intervento farmacologico prevede dunque l’uso di:
- antibiotici (in caso di RPM associata) -ampicillina- 1 gr x 4/die ev;
- corticosteroidi -betametasone- 12 mg/24h per 48h
- atosiban, dose bolo di 6,75 mg in 0,9 ml (7.5 mg/ml) seguita da infusione continua di una
dose elevata (18 mg/h = 24 ml/h) per 3 ore ed infusione successiva (6 mg/h = 8 ml/h) fino ad un massimo di 48 h;
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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La gestione della minaccia di parto pretermine
- inibitori della prostaglandino-sintetasi-indometacina- 50 mg per via rettale, continuando
con 1 somministrazione/die;
- trinitrato di glicerina- 5 mg ev in bolo e successivamente patch di nitroglicerina 10 mg/24h.
L’ossido nitrico è un potente miorilassante endogeno, attivo a livello vasale, intestinale ed
uterino. La nitroglicerina, donatore di ossido nitrico, sembra efficace nel trattare il parto pretermine ma espone a notevole ipotensione materna. I beta-agonisti (isossisuprina, salbutamolo, terbutalina, ritodrina), legandosi ai recettori beta-adrenergici presenti sulla membrana cellulare della muscolatura liscia, attivano l’AMP ciclico con riduzione del calcio intracellulare. I
recettori beta-agonisti sono presenti a livello del cuore, piccolo intestino e tessuto adiposo
sotto forma di beta1, mentre sotto forma di beta2 si repertano a livello dell’utero, vasi sanguigni, diaframma e bronchi.
Il management da adottare in fase di travaglio e di parto imminente (fase 4), prevede un approccio interdisciplinare, una accurata distinzione del trattamento a seconda delle varie epoche gestazionali (< o > 26 settimane), accurato colloquio con i genitori in relazione alla prognosi, scelta della via di espletamento del parto in presenza di un neonatologo, monitoraggio
continuo della FCF, uso di antibiotici per ridurre il rischio infettivo materno-fetale ed utilizzo
prevalente di analgesia regionale.
In fase postnatale (fase 5), poi, è necessario incoraggiare l’allattamento al seno, fornire adeguate informazioni riguardanti il neonato, permettere il continuo accesso alla terapia intensiva
neonatale, ricercare le cause-fattori precipitanti stabilendo una strategia per le successive gravidanze.
In conclusione, dunque, spesso le principali e più comuni cause di travaglio e parto pretermine possono essere rilevate e magari eliminate all’inizio della gestazione, o addirittura prima del concepimento. Le strategie di prevenzione secondaria, come la tocolisi, risultano maggiormente efficaci qualora il principale processo fisiopatologico venga identificato precocemente ed in modo specifico. Gli approcci di “esame, cura, prevenzione” adottatati all’inizio della gravidanza, o in fase preconcezionale, potrebbero aumentare la reale efficacia del trattamento tocolitico, riuscendo così nell’intento di diminuire drasticamente tale patologia.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
129
11
DECISIONI ETICHE
NELLA GESTIONE
DEL GRANDE PRETERMINE
TAVOLA ROTONDA
Il punto di vista dell’ostetrico
U. Wiesenfeld, S. Inglese, M. Bernardon, E. Bianchini, M. Piccoli, GP. Maso, A. Candiotto
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
Il dibattito relativo alla prematurità ed alle sue implicazioni rappresenta un’area di intersezione tra ostetricia e neonatologia.
Il miglioramento della sopravvivenza neonatale e perinatale ha portato i Clinici a ridefinire continuamente i limiti di sopravvivenza. Pertanto in epoche sempre più precoci di gravidanza i feti vengono considerati in grado di sopravvivere e quindi candidati ad un management ostetrico attivo, manovre rianimatorie e terapie intensive.Tuttavia, la prognosi dei grandi pretermine può ancora essere molto severa. Il grande numero di lavori pubblicati su questo tema riflette la vastità e la serietà delle questioni etiche che i clinici ed in generale la comunità scientifica devono affrontare riguardo il management dei grandi pretermine. È interessante osservare che questi temi sono in genere sollevati da team ostetrico-pediatrici
(Morrison, 1997; Doron, 1998; American Academy of Pediatrics, 1995; Fetus and Newborn
Committee, Canadian Paediatric Society, 1994; Norup, 1998) da pediatri e molto raramente da
solo ostetrici (Amon, Shyken e Sibai, 1992; Reuss e Gordon, 1995; Chervenak e McCullough,
1997). Eppure, gli ostetrici prendono decisioni che hanno importanti conseguenze per i bambini e le famiglie. La nascita prematura si inserisce traumaticamente nella vita reale e mentale della donna. Può avvenire in modo del tutto imprevisto ed inaspettato e provocare uno
shock emotivo fortissimo. Più la settimana di gestazione è bassa, più la donna è terrorizzata
dalla paura di un parto che si colloca al limite con l’aborto e che mette fortemente in dubbio la possibilità di sopravvivenza del nascituro. Boyle e Kattwinkel (1999) riportano tre casi
emblematici:
1. Una donna con età gestazionale di 23 settimane si presenta presso il servizio di ostetricia con rottura delle membrane. Si decide di trattarla con corticosteroidi e di tenerla sotto controllo. L’ecografia conferma un’età gestazionale di 22-23 settimane.
Lo staff ostetrico discute con la donna la probabilità stimata di sopravvivenza e di handicap fetali e l’eventualità di un taglio cesareo in caso di sofferenza fetale. La coppia viene
quindi messa in contatto coi neonatologi ricevendo ulteriori informazioni sulle possibilità
del nascituro.
130
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
I genitori sono favorevoli ad una gestione non aggressiva per timore che il bambino sopravviva disabile.
2. Una paziente si presenta presso il pronto soccorso ostetrico con contrazioni uterine a
circa 23-24 settimane di età gestazionale (confermate da un’ecografia eseguita immediatamente). Si tratta di un travaglio prematuro con parto atteso entro 2-3 ore. La donna,
avendo letto molto a proposito della prognosi dei nati prematuri, non desidera che il bambino sia rianimato.
3. Una donna arriva in ospedale con travaglio pretermine spontaneo. L’ecografia mostra un
feto di 22 settimane. Essendo la paziente quintigravida, nullipara, i genitori vogliono che si
faccia tutto il possibile per salvare il bambino.
Questi tre esempi mettono in luce le principali questioni che sorgono in questi casi:
- Quale è l’attuale limite di sopravvivenza?
- Quale deve essere il ruolo dell’ostetrico?
- Quale deve essere il ruolo del neonatologo?
- Quale deve essere il ruolo dei genitori nella decisione se rianimare o meno il bambino?
- Cosa dovrebbe succedere se i sanitari non fossero d’accordo con i genitori?
L’attuale limite di sopravvivenza
Lo sviluppo delle tecniche di terapia intensiva neonatale con conseguente miglioramento
degli outcome, ha portato a ridefinire il “limite inferiore di sopravvivenza”.
Nel 1988, il Report sulla sopravvivenza fetale extrauterina della Task Force on Life and Law
dello Stato di New York, affermava che le evidenze epidemiologiche e biologiche allora disponibili ponevano il limite inferiore di sopravvivenza a 23-24 settimane di età gestazionale.
Fra gli studi più significativi sull’argomento si possono citare quelli del National Institute of Child
Health and Human Development (NICHD) (Fanaroff et al, 1995) ed il Vermont-Oxford
Network (Bernstein et al, 2000; Horbar et al, 2001) che hanno riportato la sopravvivenza e
lo sviluppo neurologico a breve termine degli istituti partecipanti. Il NICHD ha riportato che,
nell’era post surfactante la sopravvivenza dei neonati di 23 settimane è di circa 20%; 47% per
quelli nati a 24 settimane e 68% per quelli nati a 25 settimane. I dati del Vermont-Oxford
Network sono molto simili.
Un altro importante studio, pubblicato da Hack e Fanaroff nel 1999 riportava dei range
di sopravvivenza tra 2% e 35% per i nati a 23 settimane, tra 17% e 58% per quelli di 24 settimane e tra 35% e 85% per i neonati di 25 settimane. Queste ampie variazioni sono state
riportate sia all’interno che tra i paesi sviluppati.
In Giappone, dove la rianimazione è obbligatoria anche a 22 settimane, si è osservato che
la sopravvivenza in tale epoca non è impossibile; comunque la probabilità per i sopravvissuti
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
131
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
di essere dimessi dall’ospedale era inferiore al 10% (Nishida et al, 1992). Un’altra prospettiva
proviene da uno studio effettuato nei paesi in via di sviluppo, dove la maggioranza dei centri
neonatologici considera come età di sopravvivenza le 28 settimane (Straughn et al, 2003).
Si potrebbe dedurre che la sopravvivenza sia un limite biologico, ma anche una realtà socio-economica; e in un mondo con risorse non illimitate, questo aspetto va attentamente considerato.
In caso di nascita estremamente prematura, oltre all’elevata mortalità, specialmente nei nati a 23-24 settimane, esiste un elevato rischio di danni neurologici e cognitivi. Lo studio del
NICHD relativo ai bambini nati negli Anni ’90, mostrava un’incidenza di uno o più handicap
neurologici maggiori (paralisi cerebrale, ritardo mentale, cecità o sordità) pari al 49% in bambini nati con peso compreso tra i 500 g ed i 1000 g (Vohr et al, 2000).
Dati importanti si possono anche ricavare da reports di istituzioni che avevano iniziato
una politica di rianimazione di bambini di età gestazionale estremamente bassa e, dopo aver
valutato i risultati, hanno modificato il loro atteggiamento (Sheldon, 2001; Sweet et al, 2003).
A Leiden, in Olanda, si è osservato che la politica di resuscitare neonati con meno di 25 settimane ha portato ad un’inaccettabile elevata mortalità e morbilità (Sheldon, 2001). L’altro
studio si basa su un’esperienza di 4 anni (1994-98) in un centro della California, dove si praticava una rianimazione aggressiva a tutti i neonati con peso ≥ 450 gr o età gestazionale ≥ 22
settimane (Sweet et al, 2003). I dati su mortalità e morbilità hanno portato gli operatori di
quest’ultimo centro a rivedere la loro politica e quindi a offrire la rianimazione solo ai neonati ≥ 500 gr o ≥ 24 settimane. Sotto questi limiti, la rianimazione veniva considerata solo in
casi eccezionali. Andrebbe quindi considerata, nel disegnare politiche future in questo ambito, la possibilità di sperimentare nuove politiche, valutarle e successivamente rivederle.
Il ruolo dell’ostetrico
Il primo problema che deve affrontare l’ostetrico è quello della determinazione il più possibile accurata dell’età gestazionale, in quanto è considerata decisiva nelle scelte riguardanti il
management. Prima della 28a settimana essa riveste un ruolo fondamentale sia riguardo la probabilità di sopravvivenza che riguardo l’incidenza di sequele neurologiche (Keirse, 1995). Il rischio di mortalità neonatale rimane infatti molto elevato fino alla 27a settimana, decrescendo
gradualmente dalla 28a alla 34a, per quindi diminuire bruscamente e divenire paragonabile a
quello della popolazione dei nati a termine.
Numerosi studi mettono in relazione critica l’età gestazionale con mortalità e morbilità
(Allen et al, 1993; Hack et al, 1996; Holtrop et al, 1994; Hagan et al, 1996; Kilpartick et al, 1997;
O’Shea et al, 1997). Le opinioni più contrastanti sono relative alla gamma tra le 23 e le 27
settimane, la cosiddetta prematurità estrema. Poiché il numero di nati tra 23 e 27 settimane
132
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
è basso, Morrison e Rennie (1997) hanno valutato la casistica riportata da vari autori, concludendo che la sopravvivenza aumenta di circa il 3% al giorno dalle 23 alle 24 settimane e
successivamente dall’1% al 2% al giorno fino alle 27 settimane. Pertanto risulta molto importante prolungare la gravidanza, anche di un solo giorno, in epoca così precoce. I dati più recenti mostrano sopravvivenze variabili da 10% a 30% a 23 settimane, da 38% a 62% a 24 settimane, da 55% a 74% a 25 settimane e da 76% a 83% a 26 settimane (Hack et al, 1996;
Kilpartick et al, 1997; O’Shea et al, 1997).
Tuttavia, l’età gestazionale è incerta nel 20-40% delle gravidanze. Motivi di incertezza sono: irregolarità del ciclo mestruale, assunzione di estroprogestinici nei mesi precedenti la mancata mestruazione, perdite ematiche nel corso del primo trimestre, ricordo impreciso della
data dell’ultima mestruazione (Campbell et al, 1985).Talora, anche quando la data dell’ultima
mestruazione sembra riferita in modo sicuro, l’età gestazionale può non essere accurata
(Geirsson et al, 1991). Naturalmente, un’ecografia al primo trimestre fornisce informazioni importanti.
A volte, però, l’ostetrico affronta pazienti che non hanno eseguito visite e/o esami prenatali oppure presentano dati inaffidabili. Una misura del diametro biparietale fetale effettuata
tra 13 e 20 settimane definisce l’età gestazionale con una variabilità di +/- 8,7 giorni, ovvero
+/- 1-1,5 settimane (Todros et al, 1991). Dopo le 23 settimane, invece, la predizione della data del parto tramite ecografia peggiora.
Secondo l’American Academy of Pediatrics e l’American College of Obstetricians and
Gynecologists (1995), l’esame ecografico eseguito al terzo trimestre per la datazione della gravidanza ha un’approssimazione di +/- 2 settimane. Queste 2 settimane possono fare la differenza nel valutare i dati di mortalità e morbilità e quindi nel prendere le conseguenti decisioni. Dopo l’età gestazionale, il peso alla nascita è il fattore più importante che determina la sopravvivenza. Le stime ecografiche del peso fetale presentano anch’esse dei problemi. Nel range tra 400 e 1000 grammi l’aumento di peso alla nascita si associa ad una netta diminuzione
della mortalità (Hagan et al, 1996; Morrison e Rennie, 1997).Tuttavia, la stima del peso fetale non è così accurata da permettere una sufficiente differenziazione, in tale ambito stretto di
potenziali pesi, che fa variare il rischio di mortalità dal 30% al 60% (Boyle e Kattwinkel, 1999).
Non vanno sottovalutate da parte dell’ostetrico le possibili complicanze materne associate al trattamento della minaccia o del travaglio di parto pretermine tra le 23 e le 27 settimane. In quest’epoca gestazionale, il parto non presenta alcun pericolo per la donna, tuttavia le
misure messe in atto per migliorare l’outcome del feto, sia prolungando la gravidanza (terapia tocolitica) sia intervenendo chirurgicamente (anestesia e taglio cesareo) sono direttamente correlate alla mortalità materna nel Regno Unito (Morrison e Rennie, 1997).
I rischi materni legati al parto pretermine sono quindi legati al trattamento utilizzato che
è innanzitutto quello tocolitico. Il farmaco maggiormente impiegato è la ritodrina, un farmaco beta-simpaticomimetico. In uno dei primi studi multicentrici americani sull’uso della ritoGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
drina nel travaglio di parto pretermine, i risultati sembravano incoraggianti in termini di epoca gestazionale al parto, peso alla nascita, distress respiratorio e mortalità perinatale (Merkatz
et al, 1980). Studi più recenti (Leveno et al, 1986; Canadian preterm labor investigation group,
1992) hanno tuttavia dimostrato che il trattamento con ritodrina posticipa il parto di 24-48
ore, senza diminuire l’incidenza di mortalità perinatale o di severe complicanze respiratorie
neonatali. Inoltre sono noti diversi e severi effetti collaterali materni legati alla ritodrina, tra
cui: tachicardia, ipotensione, edema polmonare, iperglicemia, iperinsulinemia, chetoacidosi
(Canadian preterm labor investigation group, 1992). L’edema polmonare è responsabile anche
dei 25 casi di morte materna riportati in seguito all’assunzione di farmaci beta-agonisti (Price
PH, 1992).
Attualmente, come evidenziato da una meta-analisi di 16 trial (King et al, 1998), il miglior
vantaggio di tale terapia tocolitica sembra essere il guadagno di tempo sufficiente per la profilassi della maturità polmonare fetale. La terapia tocolitica di mantenimento dopo il trattamento di un episodio acuto non riduce l’incidenza di recidive di travaglio pretermine e non
migliora l’esito perinatale (Sanchez-Ramos et al, 1999).
Per quanto riguarda l’espletamento del parto, preliminari report consigliavano l’esecuzione del taglio cesareo al fine di evitare travaglio e parto ritenuti a maggior rischio, nel pretermine, di emorragia intraventricolare neonatale.A conferma di ciò, un’indagine di Amon e Moyn
(1992) presso i membri della SPO (Società di ostetricia Perinatale) aveva dimostrato un raddoppio nell’arco di 5 anni dei tagli cesarei elettivi in bambini nati tra le 24 e le 28 settimane
di gestazione.
La letteratura ha proposto diversi lavori, soprattutto di tipo retrospettivo, volti ad indagare quale fosse la modalità di parto più indicata nel prematuro. Alcuni di questi lavori appaiono degni di nota perché propongono delle analisi statistiche multivariate.
Kitchen e coll. (1992) ad esempio osservarono l’outcome a 2 anni dalla nascita di 577 neonati con peso tra i 500 e i 999 grammi, nati tra il 1977 e il 1987. Dall’analisi statistica, mediante regressione logistica, dedussero che la modalità del parto non influenzava l’incidenza di paralisi cerebrale e di disturbi mentali. Allo stesso modo, molte variabili quali: l’Apgar, la temperatura rettale, il primo valore di pH arterioso, la durata della ventilazione assistita ed altre ancora, non erano associate al tipo di parto. Malloy et al. (1994) invece riportarono i dati della
mortalità e dell’incidenza di emorragia intraventricolare di 1.765 neonati con peso minore di
1.500 g, raccolti in 7 centri. Da una prima analisi il taglio cesareo appariva la scelta terapeutica più indicata per questi neonati di bassissimo peso. La successiva correzione per variabili
confondenti (età gestazionale, presentazione fetale, travaglio prima del taglio cesareo, preeclampsia) dimostrava, anche in questo caso, che il taglio cesareo non comportava alcun vantaggio rispetto al parto vaginale in quanto non era associato ad un minor rischio di emorragia intraventricolare e ad una minore mortalità.
Gli studi randomizzati proposti, d’altra parte, hanno dato scarsi risultati. Grant e coll. nel
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
1996 hanno pubblicato una review che raccoglieva tutti i lavori prospettici fino ad allora prodotti, in cui venivano confrontati i risultati di una politica di taglio cesareo elettivo rispetto ad
una di taglio cesareo selettivo. Le ridotte dimensioni del campione non avevano permesso di
evidenziare dati significativi sui benefici neonatali attribuibili al taglio cesareo, ma era stato possibile dimostrare che le complicazioni neonatali erano maggiormente associate alle presentazioni podaliche e che il taglio cesareo era il principale responsabile della morbilità materna.
In conclusione, affermavano gli Autori, la sola cosa che si potesse raccomandare sulle modalità del parto era una decisione su base individuale caso per caso, tenendo conto delle preferenze dei genitori.
Il taglio cesareo infatti, in quanto intervento chirurgico ha dei rischi maggiori rispetto al
parto vaginale L’esecuzione del taglio cesareo in epoca così precoce è però maggiormente
problematica, in quanto l’utero è di minori dimensioni ed il segmento uterino inferiore non
è ancora ben formato. Pertanto aumenta il ricorso all’incisione uterina classica, cioè corporale e ciò comporta un significativo aumento della morbilità materna: emorragie intraoperatorie, infezioni e rischio di deiscenza o rottura nel corso di una gravidanza successiva.
Per quanto riguarda l’outcome di questi nati pretermine, numerosi studi hanno mostrato
che gli ostetrici hanno una visione più pessimistica rispetto ai neonatologi ed ai pediatri. Da
questi lavori risulta che gli ostetrici tendono a sottostimare significativamente anche di 25-30
punti percentuali - rispetto ai dati della Letteratura - i tassi di sopravvivenza ed assenza di
handicap nei nati tra le 23 e le 29 settimane di gestazione (Goldsmith et al, 1996; Haywood
et al, 1994; Reuss e Gordon, 1995).
Secondo Haywood et al. sarebbe diffusa la preoccupazione che, per questa sottostima delle possibilità di sopravvivenza dei neonati prematuri, gli ostetrici possano offrire cure non del
tutto adeguate a questi bambini e/o alle loro madri. A tale proposito, gli Autori hanno elaborato un questionario postale, che ha coinvolto 244 medici che assistevano ai parti, e hanno
chiesto loro quale percentuale di neonati tra le 23 e le 36 settimane di età gestazionale può
sopravvivere, nascendo in un centro perinatale attrezzato. I medici dovevano inoltre stimare
la percentuale di neonati sopravvissuti che non avrebbero avuto gravi handicap. Infine, sono
state confrontate le stime dei soggetti con le statistiche nazionali di sopravvivenza. In effetti,
Haywood et al. hanno riscontrato che i medici del campione sottostimavano i tassi di sopravvivenza e di assenza di handicap in maniera statisticamente significativa per ogni settimana di
età gestazionale considerata. In particolare, solo la metà dei soggetti sarebbe intervenuto con
un taglio cesareo per sofferenza fetale a 25 settimane di gestazione.
Naturalmente, se è possibile stabilire con certezza che i medici ostetrici tendono a sottostimare le possibilità di sopravvivenza ed outcome positivo dei neonati pretermine, ciò
avrebbe importanti implicazioni per le decisioni etiche in ostetricia, nel senso che ci sarebbe
un rischio di eccessivo astensionismo per neonati di età gestazionale molto bassa.
In conclusione, l’ostetrico dovrebbe fornire ai genitori le informazioni su:
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
- rischi immediati del proseguimento della gravidanza per la madre;
- rischi immediati ed a lungo termine per la madre a seconda del trattamento tocolitico e
delle diverse modalità del parto.
A tale riguardo, l’American College of Obstetrics and Gynecology (ACOG) nelle sue linee
guida del Settembre 2002 afferma, come evidenza di livello A: “I neonati nati prima delle 24
settimane di gestazione hanno poche possibilità di sopravvivenza e quelli che ci riescono non
hanno probabilità di sopravvivere intatti”.
Il ruolo del Neonatologo
Il neonatologo si trova sempre più spesso di fronte al dilemma etico nei confronti di atti
assistenziali che si potrebbero configurare nell’accanimento terapeutico, soprattutto nei casi
in cui questo venga osteggiato dai genitori.
Il management neonatale di questi bambini ad oggi pone pesanti quesiti diagnostici e terapeutici. Non è facile infatti stabilire quando un bambino piccolo è “troppo piccolo”. Non si
conosce e spesso non si vede dove sia il confine da non oltrepassare con manovre di rianimazione, non si dispone di cure efficaci e non si conoscono le evidenze delle strategie in uso.
Con l’introduzione di nuove terapie (corticosteroidi antenatali e surfactans), con il miglioramento della tecnologia medica e dell’esperienza nel management dei neonati prematuri
ELBW (Extremely Low Birth Weight), la loro sopravvivenza sembra migliorare (Fanaroff et al,
1995; Stevenson et al,1998;Lemons et al, 2001).
Questo determina una maggiore tendenza da parte di alcuni centri specializzati e inevitabilmente delle famiglie a voler abbassare la soglia di terapia intensiva al di sotto delle 24 settimane e con meno di 500 gr di peso alla nascita. Sono necessarie pertanto delle chiare considerazioni in merito sia etiche che mediche. Se da una parte, infatti, è diminuito il tasso di
mortalità dei neonati ELBW dal 1988 al 2000 passando dal 23% al 14% e migliorando la sopravvivenza al momento della dimissione, vuoi dei neonati di peso compreso tra i 500-750,
vuoi dei neonati fino ai 1000 gr, dall’altra sono rimaste invariate le percentuali di incidenza
delle principali complicanze perinatali (scompenso polmonare cronico/displasia broncopolmonare, enterocoliti necrotizzanti, emorragia intraventricolare di II e III grado) e non si è modificata quindi la sopravvivenza a lungo termine priva di complicanze (Fanaroff et al 2003).
Dal punto di vista neonatale è indubbio che il maggior fattore limitante la sopravvivenza
fetale sia la maturità polmonare e quindi la capacità dell’apparato respiratorio di assolvere alla sua funzione di “scambiatore di gas”. È noto che gli elementi vascolari deputati allo scambio dei gas si sviluppano dopo le 21 settimane, mentre una adeguata superficie di diffusione
gassosa è presente dalle 23 settimane di gestazione (Barbett et al, 1988; Di Maio et al 1989).
In questo ambito certamente l’utilizzo di surfactans e ventilatori neonatali insieme all’avven136
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
to dei corticosteroidi antenatali hanno supportato e spesso garantito una buona funzione polmonare. Tuttavia è difficile, in assenza di una placenta artificiale associata a ECMO (extracorporeal membrane oxigenator), che la rianimazione di un neonato a 22 settimane possa essere
efficace.
Per quanto riguarda la sopravvivenza dei neonati ELBW, recentemente il National Institute
of Child Health and Human Development NICHD ha pubblicato i dati relativi alla sopravvivenza e allo sviluppo intellettivo a breve termine, dei neonati compresi fra i 501-1500 gr provenienti da 15 centri neonatologici statunitensi che partecipavano alla ricerca. Il tasso di sopravvivenza varia con l’epoca gestazionale e si attesta attorno al 3,5% per i nati a 22 settimane,
passando al 21% a 23 settimane e al 46% a 24 settimane fino a salire al 66% con il compimento della 25° settimana. Nello studio vengono paragonati inoltre i risultati ottenuti in termini di sopravvivenza prima e dopo l’avvento della terapia con surfactans (1991), con corticosteroidi antenatali (1990) e con sofisticate strategie di ventilazione, giungendo alla conclusione che nessuna di queste novità terapeutiche è in grado di migliorare la sopravvivenza dei
neonati al di sotto delle 23 settimane (Fanaroff et al 2003).
In merito a questi risultati enti professionali quali la NY State Task Force on Life and Law, la
Società di Pediatria Canadese, la British Association of Perinatal Medicine, la American Academy
of Pediatrics hanno affermato che il trattamento attivo dei neonati a 22 settimane di gestazione non è indicato salvo casi eccezionali in accordo anche con l’International Guidelines for
Neonatal Resuscitation che non considera appropriata la rianimazione di neonati al di sotto
delle 23 settimane di gestazione o al di sotto dei 400 gr di peso (Niermeyer et al 2000).
Un altro parametro fondamentale da tenere in considerazione per un corretto management dei neonati ELBW riguarda lo sviluppo neuropsichico dei sopravvissuti a breve e a lungo termine. Numerosi studi in letteratura si sono occupati di questo problema ponendo l’attenzione sulla qualità di vita che può essere assicurata a questi neonati e, di riflesso, alle loro
famiglie, con un’analisi dei quozienti intellettivi tra 0-3 anni e oltre i 5 anni. I dati più consistenti arrivano comunque dal NICHD che basandosi sui parametri della Bayley Scales of Infant
Development-II Mental Development Index (MDI) dimostra come i due terzi (66%) dei bambini sopravvissuti sviluppino un QI < 85 (sotto la normalità), e un terzo (37%) un QI <70, compreso nel range del ritardo mentale entro i tre anni. Inoltre l’incidenza di paralisi cerebrale si
attesta intorno al 17% e l’incidenza di un handicap mentale grave (paralisi cerebrale, ritardo
mentale, sordità o cecità) è di circa 49% per i neonati con peso alla nascita compreso fra i
500 e i 1000 gr (Vohr et al 2000). Andando ad osservare gli stessi bambini dopo i 5 anni,
Whitfield ha dimostrato che i neonati con peso alla nascita <800g che avessero raggiunto un
QI normale (>=85) entro i tre anni dimostravano comunque minori capacità di controllo motorio fine, di controllo motorio visivo, di memoria visiva di scrittura, lettura e aritmetica, avendo nel complesso un’incidenza circa tre volte maggiore di difficoltà di apprendimento rispetto a bambini sani. In conclusione solo il 12% dei maschi e il 35% delle femmine si potevano
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
considerare normali. (Ment 2003; Peterson 2003). Nonostante non ci siano in Letteratura dati a conferma di una correlazione tra deficit cognitivi e iposviluppo di precise aree corticali, è
ammissibile supporre che lo sviluppo cerebrale di questi bambini risenta di fattori noti e poco noti legati alla loro fragilità e alla denutrizione
È stato sostenuto che le decisioni prese dai neonatologi possono essere legate a:
1. opinioni personali riguardanti la qualità rispetto alla santità della vita;
2. indifferenza al peso che un bambino disabile rappresenta per i genitori;
3. paura di fallire (cioè morte del bambino);
4. paura di problemi medico-legali;
5. curiosità di fare esperimenti su esseri umani (Alecson, 1995).
Il ruolo dei genitori
I genitori sono normalmente considerati i “decision makers” per i propri figli. Questo ruolo ha aspetti sociali, legali ed etici, talvolta potenzialmente in conflitto tra di loro. Molti dei difficili dilemmi che sorgono in caso di parto prematuro riguardano le decisioni dei genitori ed
il conflitto con i medici.
Di solito, si ritiene che rientri nei poteri decisionali dei genitori la scelta se continuare o
interrompere la terapia, compresa la rianimazione.Tuttavia, questa responsabilità non è assoluta ed inevitabilmente, sorgeranno conflitti tra i genitori che prendono decisioni ed i sanitari che hanno visioni differenti riguardo l’interesse del neonato.
Può essere utile, a questo proposito, ricordare il caso “Baby Doe”, un bambino, nato il 9
aprile 1982 a Bloomington (USA), affetto da sindrome di Down e con complicazioni all’esofago che richiedevano un intervento chirurgico per ristabilirne la funzionalità. Il dottor Owens,
l’ostetrico che aveva fatto nascere il bambino, propose ai genitori, che acconsentirono, di non
intervenire chirurgicamente per ripristinare la funzionalità dell’esofago e di somministrare al
neonato dei medicinali che gli impedissero di sentire dolore. In tal modo, secondo il medico,
il neonato sarebbe morto in pochi giorni. La Direzione dell’Ospedale chiese al giudice della
contea di stabilire la liceità di questa condotta, che venne approvata in nome del fatto che i
genitori di un minore hanno il diritto di scegliere la condotta medica che reputano migliore.
Poiché il caso divenne pubblico, suscitando reazioni indignate, il pubblico ministero della stessa contea si appellò alla Corte Suprema dell’Indiana perché modificasse la prima sentenza, ma
il ricorso venne respinto. Ci si appellò allora alla Corte Suprema di Washington ma, nel frattempo, privo di alimentazione, Baby Doe morì (Boyle e Kattwinkel, 1999).
Un altro caso discusso in letteratura è quello del Dr. Messenger, un medico americano accusato di omicidio per avere staccato il figlio di 25 settimane dal respiratore che ne garantiva la sopravvivenza (Clark, 1996; Paris 1996). La moglie aveva un edema polmonare in con138
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
seguenza della terapia tocolitica a cui era stata sottoposta per bloccare il parto prematuro.
La tocolisi fu pertanto sospesa, quindi ripresero le contrazioni e fu partorito un bimbo di 790
grammi. I genitori dissero chiaramente che non volevano fosse fatto alcuno sforzo da parte
dello staff rianimatorio, in quanto avevano compreso che la prognosi era estremamente sfavorevole.
Contrariamente a quanto richiesto dalla coppia, il bimbo fu rianimato e quindi ricoverato
presso il reparto di terapia intensiva neonatale. Poco dopo la nascita i genitori si recarono a
visitare il bimbo e chiesero di essere lasciati soli con lui.A questo punto il marito staccò i macchinari ed il bimbo morì.
Al termine del processo, il Dr. Messenger fu assolto dalla giuria. Dopo questi casi, il diritto e la responsabilità dei genitori sono stati oggetto di molte analisi e commenti (Pinkerton
et al, 1997;Tyson et al, 1996). Le posizioni estreme, cioè da un lato “nessuno, nemmeno i genitori, deve prendere queste decisioni” e dall’altro “i genitori hanno l’assoluto diritto di prendere decisioni mediche”, sono state riconosciute come irrealistiche e semplicistiche. I genitori andrebbero considerati come guardiani del benessere del loro bambino, non come proprietari ed il loro ruolo andrebbe visto più come dovere che come diritto. Inoltre, prendere
decisioni per un altro individuo non è la stessa cosa che prenderle per sé stessi.
Una valida decisione basata sul consenso informato richiede che chi la prende sia in grado di vagliare le informazioni necessarie.
Benché gran parte dei genitori siano legalmente ed intellettualmente competenti, la loro
capacità di prendere decisioni può essere influenzata negativamente dagli eventi che circondano la nascita di un bambino “compromesso”. Stizza, depressione, angoscia e paura possono interferire. Inoltre, prendere una valida decisione richiede che i genitori ricevano e comprendano le informazioni necessarie per tale decisione. Gran parte dei genitori sanno poco
della situazione che stanno affrontando. In poco tempo, sentiranno un gran numero di informazioni, talora contrastanti, senza avere la possibilità di riflettere adeguatamente (Boyle e
Kattwinkel, 1999; Pinkerton et al, 1997). L’ostetrico è in rapporto coi due pazienti, madre e
feto, e le decisioni per l’uno potrebbero influenzare l’altro. Una decisione della madre di rifiutare la terapia tocolitica o di non volersi sottoporre ad una taglio cesareo per l’estrema prematurità dovrebbe essere rispettata, ma non influenza necessariamente le decisioni a proposito della rianimazione del neonato (Pinkerton et al, 1997).
L’ambito in cui il “decision making” è più difficile è quello dei neonati con età gestazionale tra le 22 e le 25 settimane. A tale proposito, la forte differenza di sopravvivenza specialmente tra la 22a e la 24a settimana di gestazione ha indotto alcuni Autori a parlare di limite
di vivibilità da usare eventualmente quale criterio di rinuncia all’assistenza di neonati al di sotto di tale limite (Hack e Fanaroff, 1999).
Nel 1993, Allen e coll. concludevano che una terapia rianimatoria aggressiva era indicata
per bambini nati a 25 settimane, ma non per quelli nati a 22 settimane in quanto i risultati
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
erano scoraggianti. I neonati di 23 e 24 settimane venivano lasciati dagli autori in una “zona
grigia” che necessitava di ulteriori discussioni da parte di “genitori, sanitari e società”. I report
pubblicati, suggeriscono comunque che gran parte dei neonatologi tengono conto dei desideri dei genitori quando devono prendere decisioni su neonati di 23 settimane (Sanders e
coll., 1998; Partridge e coll., 2001).Tuttavia, quando l’età gestazionale aumenta dalle 24 alle 26
settimane, i neonatologi si sentono più a disagio di fronte a decisioni a priori di “non resuscitare” (Cummings e coll, 2002). Comunque, il sapere che, una continua rivalutazione dei benefici del proseguimento della terapia intensiva dopo la rianimazione può riaprire la discussione con i genitori, potrebbe confortare alcuni neonatologi che sono indecisi se iniziare una
terapia intensiva in alcuni casi.
Nel 1995, in un documento congiunto, l’American Academy of Pediatrics e l’American College
of Obstetricians and Gynecologists, discutendo il problema dell’elevata mortalità e morbilità dei
bambini nati tra 23 e 25 settimane di gestazione affrontarono il problema del ruolo dei genitori concludendo che devono essere parte integrante del processo decisionale fin dall’inizio e che alla loro decisione informata va dato un gran peso. In questo documento, tuttavia,
non vengono date specifiche raccomandazioni sulla rianimazione. La Canadian Paediatric
Society e la Society of Obstetricians and Gynaecologists of Canada (1994) hanno invece dato indicazioni piuttosto specifiche. A 22 settimane complete di gestazione viene suggerito di “iniziare il trattamento solo su richiesta di genitori pienamente informati oppure se l’età gestazionale appare sottostimata”. A 23-24 settimane complete si enfatizza il ruolo del parere dei
genitori, in quanto “è necessaria flessibilità nel decidere se iniziare o rifiutare la rianimazione,
in base alle condizioni del bambino alla nascita”. Infine, dopo le 25 settimane, affermano che
“la rianimazione va tentata in tutti i casi che non presentino anomalie mortali”.
Il ruolo dei genitori è stato affrontato anche dal Comitato di Bioetica dell’American
Academy of Pediatrics (1994). Secondo tale Comitato, il pediatra ha il dovere etico e legale
nei confronti del bambino di fornirgli il trattamento medico adeguato, indipendentemente dai
desideri dei genitori.Va anche considerata la possibilità che l’ostetrico ed i genitori decidano
di non iniziare la rianimazione neonatale. In tale caso, negli Stati Uniti, possono firmare un accordo prima della nascita in base al quale il pediatra non verrà chiamato in sala parto e così
si garantisce la morte del bambino dopo il parto (Yellin e Fleischmann, 1995). Questa opzione rientra nel diritto dei genitori di scegliere i medici la cui filosofia coincide con la loro per
quanto riguarda la terapia medica ai limiti della vivibilità. Le critiche a questa scelta si basano:
1. sul fatto che l’ostetrico ha un obbligo sia verso la madre che verso il feto e qui si creerebbe un conflitto;
2. sul fatto che le condizioni del bimbo alla nascita possono essere molto diverse da quelle
previste in precedenza;
3. sul fatto che sospendere il trattamento successivamente può essere meglio che non iniziarlo.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista dell’ostetrico
Disaccordo tra genitori e sanitari
Qualora i familiari e i medici non riescano a trovare una soluzione concorde sul management di questi neonati, deve essere richiesta una consulenza etica o una formale rivalutazione del caso da parte di un collegio multidisciplinare di medici neonatologi, ostetrici e pediatri dopo aver informato la famiglia.
Un’altra possibilità è di portare la questione davanti al giudice, ma bisogna riflettere attentamente sul fatto che una questione legale è più semplice da aprire che da portare avanti e
che le decisioni prese nell’aula giudiziaria possono non soddisfare entrambi i contendenti.
Ma a chi spetta la decisione definitiva se valga la pena iniziare le pesanti terapie rianimatorie in un determinato caso? Ecco un elenco di possibili final decision makers proposti, con i
loro pro e contro:
1. Storicamente, i pareri legali hanno favorito il diritto dei parenti a decidere, ma la non completa conoscenza da parte dei familiari dei problemi neonatologici e degli outcome, non
crea le condizioni ideali per il consenso informato.
2. Il dialogo tra genitori e medici sarebbe sempre il modo migliore per ottenere un consenso informato, specialmente per terapie potenzialmente pesanti. Tuttavia, ogni caso richiede un’ampia revisione delle evidenze disponibili fino a quel momento e questo richiede
un certo tempo che non sempre si ha a disposizione.
3. Politica o protocollo istituzionale: fornisce un approccio equo ma concede scarsa autonomia sia ai genitori che ai medici. Inoltre, varie istituzioni hanno politiche diverse e questo
può generare confusione ed aumentare il rischio di contenziosi medico-legali.
4. Linee guida sociali: forniscono un approccio equilibrato che tiene conto anche dei fattori
socio-economici ed offrono una cornice nella quale le situazioni individuali possono essere inquadrate al meglio.Tale approccio viene impiegato in Canada ed in alcuni Stati degli
USA. La limitazione dell’autonomia dei genitori è talvolta il prezzo da pagare con questo
tipo di approccio.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
145
12
DECISIONI ETICHE
NELLA GESTIONE
DEL GRANDE PRETERMINE
TAVOLA ROTONDA
Il punto di vista del bioetico
M. Mori
Docente di Bioetica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Torino
1. È opportuno iniziare precisando in via preliminare lo scopo di questo mio intervento. Il mio
obiettivo non è scodellare soluzioni già pronte e preconfezionate, né dare precetti precisi da
seguire più o meno pedissequamente, ma è quello di esaminare le ragioni che sostengono le
varie soluzioni, in modo che il lettore abbia gli strumenti concettuali per farsi una propria posizione ragionata.
Per giungere a questo obiettivo credo sia importante collocare il problema del “grande
pretermine” da una parte per cogliere meglio i termini del problema stesso vedendolo in una
luce più completa, e dall’altra di vedere le diverse posizioni sul tema e quindi anche di avere
la capacità di valutare gli eventuali limiti o meriti della soluzione da me proposta.
La strada seguita comporta una seria difficoltà, ossia il fatto che si deve dire molto in poco. A volte, la concisione fa correre il rischio di operare semplificazioni eccessive e forse indebite. Questo intervento, comunque, è diretto ad “addetti ai lavori”, cioé a persone competenti che conoscono i problemi ed ai quali basta qualche riferimento per l’orientamento. È
preferibile affrontare il rischio di qualche semplificazione piuttosto che avere il danno certo
derivante dal lasciare la situazione nel vago facendo finta che i problemi non esistano. Intendo
affrontare e suscitare problemi, aprendo un eventuale dibattito e questo vuole essere un primo intervento.
2. Per porre il problema da trattare in un quadro teorico più generale, cominciamo con un’affermazione che può apparire banale e forse anche lo è: aggiornando le date a quanto detto
dal grande medico francese Jean Bernard negli anni ’80, la medicina ha compiuto più progressi negli ultimi 50 anni che nei precedenti 5.000. Ciò significa che oggi la medicina è radicalmente diversa dalla medicina dei tempi di Ippocrate e straordinariamente più potente. Grazie
a questi progressi, la medicina ha apportato all’umanità benefici enormi e straordinari.
Nonostante questo negli ultimi tempi proprio la medicina risulta essere oggetto di forti
riserve, tanto da essere spesso accusata di essere fonte di gravi disagi o addirittura pericolosa. Claudio Magris sembra muoversi in questa direzione quando afferma che la passione con
146
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
cui è stato vissuto il referendum sulla legge 40/2004 deriverebbe non da posizioni ragionate,
“bensì dall’oscura, irrazionale ma non infondata sensazione che l’umanità stia vivendo, in tempi incredibilmente e vertiginosamente veloci, una trasformazione radicale, avvertita - con angoscia e con ebbrezza - quasi come una mutazione … [così che si] teme l’avvio di interventi sulla vita che potrebbero mutare il volto dell’uomo così come lo conosciamo”.
In questa linea, altri rilevano che il progresso in campo scientifico e tecnologico “rischia di
travolgere l’ordine delle cose e opera manipolazioni che, ad esempio nel campo della procreatica, possono giungere a violare il limite invalicabile della sacralità della vita. … le tecnologie sono un “mezzo”, in grado quindi di offrire … positivi e significativi apporti al bene comune della società, ma anche mali altrettanto grandi, in caso di un uso distorto, talvolta anche strutturale”.
Dico subito che queste posizioni hanno in comune un errore. Nel primo caso esso sta
nel credere che la capacità di “mutare il volto dell’uomo così come lo conosciamo” sia una
sorta di immane e devastante profanazione: un atto gravissimo e da evitare. Ma per asserire
questo si deve presupporre che ci sia “il volto dell’uomo “- come dato naturale e immutabile; e che “il volto dell’uomo così come lo conosciamo” sia il migliore possibile: il vertice insuperabile della civiltà.
Entrambi questi assunti sono falsi. Lungi dall’essere un dato naturale e immutabile, “il volto dell’uomo così come lo conosciamo” è una costruzione storica e sociale, per cui il declino di un volto dell’uomo cede il passo ad un altro volto. L’idea che ci sia il volto dell’uomo è
frutto di una indebita ipostatizzazione di una particolare forma storica di un volto.
Se non esiste il volto dell’uomo come dato immutabile si deve discutere se la forma storica a noi nota sia davvero la migliore possibile. È vero che ciascuna epoca è portata a credere di avere raggiunto il vertice della civiltà, ma è altresì vero che ci si deve ricredere. La
scienza galileana ha contribuito a frantumare il volto dell’uomo aristocratico e favorito la diffusione del nuovo volto dell’uomo democratico - che noi riteniamo decisamente ‘migliore’ del
precedente, anche se forse è ancora pieno di difetti e manchevolezze.
Nell’altra formulazione l’analogo errore sta nel presupporre che ci sia uno specifico “ordine delle cose” che sia dato, naturale ed intrinseco alla stessa realtà, per cui le tecnologie che
difformi o contrarie a tale presunto “ordine” sarebbero mezzi strutturalmente distorti.
Esempio chiaro al riguardo sarebbero le tecnologie riproduttive, ma ciò accadrebbe ogni
qual volta gli interventi medici “possono giungere a violare il limite invalicabile della sacralità
della vita”. Invece di dare ragioni che dimostrino l’invalicabilità di un certo limite, si assume
che tale “limite invalicabile” ci sia, che sia dato e ben noto, ed in forza di questo assunto (surrettiziamente presupposto) si viene a condannare senz’appello ogni eventuale violazione o
difformità.
È importante far emerge l’errore sotteso a questi attacchi alla medicina perché essi dipendono tutti da una concezione errata e statica della moralità. La morale non è una istituGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
zione naturale (o divina) che ha carattere statico, per cui è data una volta per tutte, ma un’istituzione sociale (o storica) tesa a garantire l’ordine sociale e la autorealizzazione individuale.
In questo senso essa muta (e deve mutare) al variare delle circostanze storiche. Un esempio
può aiutarci a capire la situazione. D’inverno riteniamo sia giusto indossare pesanti cappotti,
mentre d’estate leggeri abiti di lino - e crediamo che sia sbagliato prescrivere il contrario.
Riteniamo anche che non sia una questione “soggettiva” - ossia che dipende dal punto di vista personale - ma che sia “obiettivamente giusto”.
Quanto detto ci offre un modello semplificato di discorso morale, che ci consente di vedere bene i punti di eventuale disaccordo. In primo luogo, la soluzione individuata è obiettivamente giusta solo a patto di voler perseguire il benessere e l’autorealizzazione di chi intende indossare il vestito nelle circostanze date. Se l’interessato volesse prendersi un malanno
(una polmonite o un colpo di calore), potrebbe anche fare il contrario. Possono esserci e ci
sono disaccordi ed errori circa i “valori” da perseguire.
Inoltre, non possiamo escludere che le nostre conoscenze al riguardo siano sbagliate, e
che l’abito di lino non sia quello più adatto ai climi caldi. Errori di questo tipo sono ben noti,
e non è il caso di soffermarsi su di essi in questa sede. La scienza come impresa conoscitiva
caratterizzata da criteri intersoggettivi e pubblici tende proprio ad eliminare questo tipo di
errori.
Resta comunque il fatto che le norme, i valori e gli atteggiamenti morali non sono assoluti e immutabili. Essi variano a seconda delle circostanze - e così deve essere. È sbagliato credere che si debba continuare a fare quel che si è sempre fatto perché questa è la tradizione.
Questa è una concezione statica dell’etica, e quindi errata.
Fornendoci nuove conoscenze e maggiori capacità d’intervento, scienza e tecnica consentono maggiore autorealizzazione e sono quindi prima facie buone. Questo non significa dire
che siano esenti da eventuali errori ed abusi, come tutte le cose umane è fallibile. Ma non la
pubblicità della scienza crea il correttivo. È l’unica strada che abbiamo - a meno di essere così presuntuosi da pretendere di avere la verità. Errori ed abusi sono comuni anche alla religione, al diritto, alle tradizioni, ecc.
Se ci sono abusi ed errori, essi vanno scovati e rimossi. Ma si tratta di sapere che cosa costituisce un “abuso” o un “errore”. Solo se si dà per presupposto che ci sia “l’ordine delle cose” o “il volto dell’uomo” si può concludere che scienza e tecnica sono mezzi strutturalmente distorti. Ma se abbandoniamo - come si deve - quegli assunti, cogliamo anche la radice dell’errore. Diventa infatti chiaro che scienza e tecnica sono fattori potenti di cambiamento delle circostanze storiche - forse tra i principali nella storia umana. Le maggiori conoscenze e le
nuove capacità di intervento hanno consentito a moltitudini - non si dimentichi che la scienza è universalista ed equalitaria - di programmare meglio la propria vita. In questo senso, esse operano cambiamenti analoghi a quelli tra l’inverno e l’estate, e ci costringono a mutare
gli atteggiamenti diffusi.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
Emerge così un punto decisivo che - per una sorta di pudore - non viene sottolineato a
sufficienza. I critici della scienza e della tecnica viste, come mezzi strutturalmente distorti che
metterebbero in pericolo la stessa umanità dell’uomo, non fanno altro che portare acqua alla tendenza antiscientifica ed antitecnica diffusasi in Occidente, che sembra essere una sorta
di neo-luddismo. Il luddismo è il movimento che propugna una netta ostilità verso l’industrializzazione. Luddisti non erano solo gli ignoranti tosatori di pecore che nei primi decenni del
XIX secolo in Gran Bretagna (ma non solo lì) distruggevano le macchine per difendere il posto di lavoro, ma anche quei molti pensatori che hanno sostenuto (e ancora sostengono) che
le macchine sono una disgrazia per la vita sociale: la lavatrice ha ucciso la pratica millenaria
del lavare al fosso o alla fontana, con grave detrimento per la socialità umana; ed analogamente il telefono cellulare distruggerebbe la “autentica” comunicazione, ecc. Invece di dirigere l’attacco alle macchine (che oggi non sembrano suscitare troppe difficoltà nel senso comune pur non mancando sacche di resistenza) il neo-luddismo fissa ora l’attenzione sulle tecniche
in campo biomedico. In nome di un presunto immutabile “ordine delle cose” o dell’idea che
ci sia il “volto dell’uomo” si viene a dire che gli interventi in campo biomedico sono strutturalmente distorti - posizione che sembra assumere una qualche plausibilità per via della tendenza a reificare le abitudini del passato credendo che esse siano “naturali”.
Se è vero che la medicina ha compiuto più progressi negli ultimi 50 anni che nei precedenti 5.000, e che come la rivoluzione industriale ha cambiato il nostro rapporto con la natura inorganica (nuovi mezzi di comunicazione, ecc.) così la rivoluzione biomedica sta cambiando il nostro rapporto con la natura organica, si deve riconoscere la radicale novità della
situazione: dobbiamo prendere atto che è come se, dopo un lungo inverno, cominciassimo a
sentire i primi tepori della primavera. Dobbiamo quindi sottoporre a vaglio critico gli atteggiamenti ricevuti, al fine di verificare se sono ancora validi. Dobbiamo inoltre avere la disponibilità di cambiarli ove risultassero inadeguati.
È vero che un eventuale cambiamento degli atteggiamenti comporta mutazioni della sfera emotiva, fatto che è più lento e faticoso del cambiamento di idee (che riguarda solo l’ambito intellettuale), ma non possiamo presumere che il bagaglio tradizionale sia di per sé valido. Si deve prestare attenzione a non confondere la moralità con i sentimenti invalsi, che a
volte non sono altro che sopravvivenze culturali o tabù.
3. Le considerazioni fatte circa la medicina in generale valgono anche per la medicina neonatale, un settore che ha compiuto negli ultimi anni progressi davvero straordinari. Non è mio
compito elencarli, ma basti qui ricordare che i prematuri avevano scarse possibilità di sopravvivenza, ed in generale il tasso di mortalità infantile è stato fino a pochi decenni fa così alto
da far credere che la selezione naturale o la Provvidenza avesse la mano pesante, tanto da
far dire che chi riusciva a raggiungere la maturità fosse davvero un “sopravvissuto”. Oggi fortunatamente, le cose sono cambiate - anche grazie ai progressi della medicina neonatale - e
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
questo è un fatto indubbiamente positivo. Questo risultato positivo è stato ottenuto grazie
all’impegno prioritario profuso dalla medicina nella lotta contro la morte. Il medico, si è detto, deve fare tutto il possibile (e anche l’impossibile) per sconfiggere la morte: questa consegna ha consentito di incassare il positivo risultato anche nel caso dei prematuri - il tema in
esame, per cui si deve continuare in questa direzione.
Eppure una delle poche certezze è che questa posizione è sicuramente difettosa. La rianimazione ha sicuramente consentito grandi cose ed è stata un notevole progresso, ma sbaglierebbe il rianimatore che ritenesse di dovere sempre fare tutto il possibile per sostenere
la vita. Questa è dottrina ormai comune dopo le acute osservazione fatte già nel 1957 da papa Pio XII - anche se a volte stentano a penetrare in certi circoli medici. Chi facesse sempre
tutto il possibile finirebbe per compiere accanimento terapeutico, che - diciamolo con chiarezza - è un crimine morale grave, se non anche un reato sul piano giuridico. Non possiamo
quindi accettare come valido e scontato il lascito della tradizione medica che ingiunge di fare sempre tutto il possibile per prolungare la vita e procrastinare la morte.
Data la situazione magmatica e di grande cambiamento in cui ci troviamo in medicina e
in medicina neonatale in modo specifico, per sapere che cosa è giusto fare dobbiamo individuare i diversi criteri generali che, nelle date circostanze, possono giustificare o avere giustificato l’intervento medico specifico. Non potendo avere indicazioni precise dalla tradizione,
che risulta poco affidabile per via del grande sconvolgimento delle circostanze, dobbiamo appellarci direttamente a tali criteri per avere le indicazioni operative richieste. Nel caso dei grandi prematuri sembra che i criteri possibili siano i seguenti:
- Si deve promuovere sempre la vita neonatale perché questo è sempre stato il compito
del medico.
- Si deve promuovere la vita neonatale perché ciò è stabilito dalla sacralità della vita rivelata dallo “ordine delle cose” circa la vita umana.
- Si deve promuovere la vita neonatale perché ciò è richiesto dal bene pubblico e dalle esigenze della società.
- Si deve promuovere la vita neonatale perché questo è voluto dai genitori ed è l’interesse dei genitori (ed eventualmente anche della società).
- Si deve promuovere la vita neonatale per il bene del neonato stesso.
Si tratta ora di esaminarli singolarmente al fine di stabilire quale sia plausibile, e debba essere assunto per stabilire il da farsi nel caso di un grande prematuro.
Il primo individua la risposta del vitalismo medico, secondo cui compito primario del medico è di essere sempre per la vita. Pur essendo la posizione trasmessa da gran parte della
tradizione medica, il vitalismo è oggi criticato pressoché da tutti, perché diventa dannoso per
le persone. Porta infatti all’accanimento terapeutico che è un vero e proprio crimine morale (se non anche giuridico), per le inutili sofferenze inflitte.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
Si può osservare che il vitalismo, forse, celava due diversi criteri che, nelle condizioni storiche del passato, potevano essere confusi con esso attribuendogli plausibilità e forza. Il primo di questi criteri individua la seconda risposta sopra elencata, ossia quella della sacralità
della vita umana. Questa prospettiva rimanda ad un articolato e complesso discorso sulla vita umana, la quale manifesterebbe finalismi specifici rivelatori di un particolare “ordine delle
cose” in base al quale stabilire ciò che è disponibile e ciò che non lo è (è sacro). Sacra non
è la vita umana in sé - aspetto che diventa palese dal fatto che la posizione consente le amputazioni, i trapianti, ecc., ossia interventi invasivi - ma sacro è il finalismo intrinseco del processo vitale - segnatamente quello riproduttivo (autoconservativo della specie) e autoconservativo dell’individuo. Questo finalismo, infatti, sarebbe il segno di un disegno cosmico sulla
vita umana, per cui la violazione di questo campo costituisce una indebita profanazione di tale disegno. In questo senso la dottrina della sacralità della vita umana rimanda ad una articolata dottrina metafisica che, in circostanze storiche in cui la vita era “mistero” e le capacità
d’intervento molto scarse, poteva anche apparire “razionale” e raccogliere ampi consensi.
Oggi, comunque, l’idea di un disegno sotteso allo “ordine delle cose” non sembra sia più proponibile sul piano razionale, anche se viene ancora sostenuto da alcune religioni.
Proprio perché dipende da un “ordine delle cose” ritenuto oggettivo e dato, il criterio sacralista può a volte essere confuso o scambiato con il terzo criterio da esaminare, quello olista che assume come prioritario il bene della società o l’interesse pubblico. Con olismo si indica la dottrina secondo cui “il tutto è più della somma delle parti”, per cui l’interesse della
società come tutto è maggiore dell’interesse dei singoli individui che la compongono ed ha
quindi la precedenza su questo. Quando si diceva che la forza e la prosperità di una nazione
erano date dal numero dei suoi abitanti, la vita neonatale doveva essere sempre promossa
perché questo è richiesto dal bene pubblico. È vero che questo criterio può giustificare soluzioni totalitarie poco rispettose dei diritti umani individuali, ma è altresì vero che a favore dell’olismo stanno i grandi vantaggi risultanti dalla cooperazione sociale - situazione in cui il bene pubblico è di gran lunga superiore alla somma dei beni individuali. In questo senso non si
può escludere che l’olismo abbia qualche plausibilità.
Il quarto criterio sopra elencato è quello del genitorismo ossia la prospettiva che - quando si tratta di valutare il da farsi circa la vita neonatale - considera come prioritario l’interesse dei genitori. Questi, di solito, hanno posto sul figlio un investimento parentale e questo investimento va rispettato. Il neonato necessita delle cure dei genitori, senza le quali quasi certamente morirebbe, e non può esprimere il proprio parere, per cui i genitori hanno titolo a
decidere per il neonato. Poiché di solito i genitori vogliono che il figlio viva, il criterio genitorista e quello olista spesso convergono pur rimanendo aperta la possibilità di una divergenza - soprattutto laddove i costi delle decisioni prese circa le situazioni neonatali ricadono poi
sull’assistenza pubblica. In questo caso, infatti, l’interesse dei genitori potrebbe confliggere con
l’interesse pubblico.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
L’ultimo criterio elencato è quello individualista, che considera come prioritario l’interesse del paziente. Si può osservare che questo è l’altro criterio di cui si può dire fosse nascosto nel vitalismo. In condizioni storiche caratterizzate da limitate capacità di intervento e da
morti premature, fare tutto il possibile era la soluzione favorevole al bene del paziente (l’individuo interessato). Questa priorità vale ormai (anche se da poco) nel caso dell’adulto che
può esprimere le proprie volontà, ma che dire nel caso del neonato che non ha né può esprimere alcuna opinione? Come valutare l’interesse del paziente in queste condizioni? E chi ha
titolo di farlo oltre alle incerte conoscenze nel campo, oltre alle conoscenze circa lo status
dell’infante, la sua capacità di soffrire? Non manca chi avanza argomenti per sostenere che la
persona va spostata, anche in vista di questi casi. Non posso affrontare il problema in questa
sede, e lascio da parte la questione metafisica.
4.Vediamo la questione considerando i problemi che si presentano alla luce di un caso concreto. Secondo gli standard invalsi sul piano internazionale il dovere di intervenire nel caso di
un prematuro è a 26 settimane di gestazione.Tuttavia sappiamo che, per varie ragioni, ci sono anche i “grandi prematuri”, ossia quei casi in cui il parto avviene tra la 22a settimana e la
26a settimana. Che fare in questi casi?
Si può dire che, quasi d’istinto, il neonatologo tenta tutto il possibile per evitare la morte.
Questa strategia è certamente prima facie positiva, perché essa ha salvato la vita a molti, consentendo loro di avere poi un’esistenza normale o pressoché normale: un risultato sicuramente encomiabile. Alcuni casi positivi erano davvero insperati, visto che le nostre conoscenze in
materia sono ancora abbastanza limitate. La frequenza statistica può offrire indicazioni generali di massima, ma difficilmente può essere assunta come fondamento del giudizio specifico.
Infatti, il problema e la eventuale decisione verte su questo caso, un caso singolo, che non è
assimilabile alla frequenza statistica.
In questo senso, una sana prudenza porta ad intervenire per non precludere eventuali possibilità e lasciare aperta una più oculata valutazione sul da farsi. Se infatti si lasciasse fare alla
natura il proprio corso, il grande prematuro certamente morirebbe, chiudendo ogni ulteriore possibilità. Ma la stessa prudenza deve far sì che neanche l’attuazione dell’intervento chiuda ogni ulteriore possibilità. L’intervento di sostegno vitale è prudente e saggio come mezzo
che consente l’acquisizione di nuovi dati per la valutazione, ma si deve prestare attenzione affinché non sia trasformato in un fine in sé, perché ciò comporterebbe un’implicita adesione
al criterio vitalista, criterio che - di quelli elencati - sappiamo essere l’unico sicuramente sbagliato ed inaccettabile. Fare questo sarebbe porre un macigno inamovibile che sbarra la strada a quelle ulteriori possibilità che si volevano mantenere aperte.
È quindi prima facie prudente intervenire per vedere quale sarà l’evoluzione clinica, avendo però ben presente che il giudizio su ciò che si deve fare è solamente rimandato e che esso dipende dai dati acquisiti concernenti la situazione clinica e dal criterio valutativo assunto.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
Per vedere come procede il discorso immaginiamo di esaminare due possibili casi limite.
Supponiamo che ci sia un grande pretermine di 23 settimane e che dopo due settimane
mostri di rispondere bene lasciando credere che la situazione clinica evolva per il meglio. I
genitori sono molto interessati al figlio e disposti ad accoglierlo comunque, per cui è positivo e benefico per tutti continuare.
Supponiamo ora di avere il caso diametralmente opposto sul piano clinico: ci sono danni
permanenti sul piano neurologico e altri seri scompensi di carattere organico.Tuttavia il pretermine potrebbe anche farcela e sopravvivere - sia pure in una situazione precaria. Che fare in questo caso? Si deve continuare il sostegno fino a quando il neonato può essere dimesso e mandato a casa? Si deve sospenderlo subito, e vedere che succede? Perché?
Considerato che il quadro clinico è noto e condiviso, eventuali risposte divergenti dipendono dal diverso criterio valutativo che è assunto. Tralasciando l’esame del criterio vitalista,
che è palesemente insostenibile, si tratta di vedere quali sono le indicazioni fornite dagli altri
criteri.
Il criterio sacralista può dire che nelle circostanze del caso specifico è lecita la sospensione delle terapie per lasciare che la natura faccia il proprio corso, ma che non è mai lecito intervenire attivamente per abbreviare la vita.Tuttavia, in circostanze in cui è esattamente prevedibile l’esito del “lasciar accadere”, la distinzione tra “fare” e “lasciare accadere” diventa una
mera questione di lana caprina, perché il “lasciare accadere” diventa un modo del “fare” - e
non serve mettere in campo la “intenzione” per tracciare una differenza, perché ciò non fa
altro che rendere più complicata la situazione. Proprio perché la distinzione è flebile, il più
delle volte il criterio sacralista, purtroppo, viene interpretato in senso vitalista, diventando insostenibile e provocando disastri. Se, invece, fosse inteso rettamente, risulterebbe moralmente inadeguato, perché il “lasciare accadere” comporta a volte eccessi di sofferenza che sarebbero evitati dal “fare”: una volta che si sia deciso di lasciare che la natura faccia il proprio corso per portare a morte il processo, non si vede perché non chiudere subito la partita.
Il criterio olista può richiedere che si sospenda l’intervento per evitare che si abbia un “fardello sociale”. In tempi di aziendalizzazione della assistenza sanitaria, questo criterio assume
un qualche peso e non nego che qualcuno ne ricordi la rilevanza.Tuttavia, credo debba essere lasciato da parte e neanche considerato, perché una società ricca come la nostra dovrebbe guardare nella direzione opposta ed essere protesa alla difesa dei diritti, evitando considerazioni di questo genere nella decisione circa il “grande prematuro”.
Più serio mi pare sia il criterio genitorialista, sia perché i genitori sono coloro che hanno
un interesse prioritario al figlio, sia perché essi sono coloro che lo devono crescere. Si deve
pertanto tenere in grande considerazione la volontà dei genitori, i quali sono chiamati a decidere al riguardo. Essi vanno quindi adeguatamente informati circa gli esiti previsti ed anche
sostenuti psicologicamente nella difficile scelta da compiere. Può darsi che i genitori abbiano
un atteggiamento ondeggiante, ed il più delle volte è facile ascoltino i suggerimenti proposti.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Decisioni etiche nella gestione del grande pretermine: il punto di vista del bioetico
Ma per chiarire la situazione consideriamo le due situazioni estreme: che abbiano un atteggiamento vitalista estremo, per cui - anche in condizioni palesemente disperate - chiedano si
faccia tutto il possibile. Oppure, che richiedano la perfezione e che - anche in presenza di
condizioni lievi - richiedano di chiudere la partita con questo figlio.
Queste due possibilità estreme sono interessanti perché mostrano che l’investimento parentale dei genitori deve essere sicuramente tenuto in considerazione, ma esso va bilanciato
con considerazioni derivanti dal criterio individualista che mette in campo il prevedibile interesse dell’interessato. Poiché il “grande pretermine”, per ovvie ragioni, non è in grado di far
sentire la propria voce, il medico ha il compito di fungere da “tutore”. Forse, sarebbe opportuna la formazione di una commissione apposita che valuti la situazione specifica e segua il
caso.
Quest’aspetto è tanto più importante se si considera che sono ormai frequenti le richieste di risarcimento per “danno da procreazione”, ossia per essere stati fatti nascere nelle situazioni di svantaggio. In questo senso, il genitorialismo non sembra più essere sufficiente, ma
neanche il vitalismo.
Viviamo in un’epoca di rapido cambiamento e dobbiamo accettare la situazione di chiaroscuro. L’unico errore da evitare è quello di continuare a credere che compito del medico
sia quello di sostenere la vita a tutti i costi, per cui si debba fare tutto il possibile per salvare
la vita lasciando poi i problemi sulla famiglia o sul contesto sociale.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
TAVOLA ROTONDA
QUEL CONFINE SOTTILE
TRA SPERANZA E ILLUSIONE
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Elaborazione del lutto e difficoltà dei genitori del prematuro
(e del personale pediatrico) nel gestire diversi tipi di perdita
A. Clarici, R. Giuliani#
Dipartimento di Scienze della Riproduzione e dello Sviluppo (DPRS), Università di Trieste
Struttura Complessa di Neonatologia e TIN, Ospedale Infantile “Burlo Garofolo”
# Centro Studi di Psicoterapia a Orientamento Psicoanalitico - Trieste
Il vertice psicoanalitico si rivolge alla realtà del percorso del lutto, un processo che permea ogni
attività all’interno di un reparto di Terapia Intensiva Neonatale, sia al mondo delle aspettative consce o inconsce delle persone (i genitori e il personale) coinvolte con il neonato prematuro. Un contesto psicoanalitico permette di riconoscere questo tipo di dolore, e fornisce l’opportunità di uno
spazio e un tempo, al momento della nascita, in cui i genitori possano essere aiutati innanzitutto
a riconoscere l’esistenza di questo doloroso “gap” tra le loro aspettative e la realtà attuale, e riuscire a parlarne e a integrarlo nella propria mente, e (fatto, ancora più importante ai fini preventivi), di seguito nella mente del bambino.
Vengono presentati tre casi clinici che sono qui distinti per la diversa natura del processo del
lutto. Il primo (a) è dato dal lutto per un bambino non nato, il secondo (b) per un bambino morto e il terzo (c) per una bambina con handicap perché nata con una sindrome genetica.
Introduzione
La spinta a pensare un progetto di questo tipo, da attuare all’interno di un reparto di neonatologia, nasce dall’esperienza di lavoro fatta in un ambito extra-ospedaliero territoriale con
bambini con handicap e con i loro genitori. Spesso l’handicap motorio, sensoriale e psichico
è legato, per diversi aspetti ad una nascita prematura. Nonostante il trascorrere degli anni, il
dolore legato al trauma di una nascita prematura è ancora molto presente nei genitori, nella
famiglia e nel bambino stesso anche dopo molto tempo, se non si sono compiuti dei passi
nel processo del lutto, di adattamento alla perdita.
Per lutto (Bowlby,1969), in questo contesto, intendiamo quelle costellazione di processi
mentali adattativi necessaria per elaborare e accettare una perdita riferibile alla realtà famigliare (che, può essere data dalla morte “effettiva” del bambino prematuro, ma anche dalla
perdita della speranza che il bambino guarisca da un deficit organico cronico), ma che può riGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Quel confine sottile tra speranza e illusione
ferirsi anche solo alla disillusione rispetto alle aspettative consce o inconsce delle persone
coinvolte (i genitori e il personale). La necessità di riuscire a riconoscere questo tipo di dolore, crea la necessità di uno spazio e un tempo, al momento della nascita, in cui i genitori
possano essere aiutati innanzitutto a riconoscere l’esistenza di questo doloroso “gap” tra le
loro aspettative e la realtà attuale, e riuscire a integrarlo nella propria mente e, di seguito, a
parlarne.
Sembra ormai accertato da ricerche cliniche (Bowlby,1969) e sperimentali (Mahler et al.,
1975) che le prime esperienze, le prime interazioni e, in particolare, la qualità di queste prime relazioni che si stabiliscono tra il bambino e i suoi genitori siano fondamentali per il suo
successivo sviluppo. Anche la psicoanalisi moderna poggia sempre più le sue basi su evidenze di carattere clinico (Kaplan-Solms & Solms, 2000) e sperimentale (Panksepp, 2001).
In estrema sintesi su che cosa poggia le sue basi cliniche la psicoanalisi moderna? La cornice metodologica e concettuale adottata dalla psicoanalisi contemporanea si concentra sullo studio delle relazioni oggettuali (rappresentazionali). Queste schemi di base modulano il
comportamento del bambino (e poi quello dell’adulto) in generale (Klein, 1958; Sandler &
Sandler, 1998). Il modo in cui un bambino o un individuo si relaziona nel presente è quindi
direttamente collegato con questi più precoci “elementi funzionali” della personalità, ossia da
“matrici” di memorie, da ricordi di relazioni soddisfacenti o traumatiche, o, si potrebbe dire,
usando una terminologia cognitivista, dalle memorie implicite del soggetto. Questi schemi relazionali si generano da modelli appresi dai rapporti precoci con le persone dalle quali il bambino dipende, fin dalla nascita, per il soddisfacimento dei bisogni fisiologici, psicologici e affettivi primari. Queste matrici mnesiche determinano il modo in cui il bambino percepisce le relazioni con le persone (o “oggetti” della relazione), e dalle reazioni evocate da queste relazioni nel soggetto nella loro globalità e attraverso tutto il corso del suo sviluppo. Questo fatto
ha una influenza diretta e predominante sul modo di relazionarsi con l’ambiente in genere:
possiamo supporre che esiste una coerenza costante (anche se dinamica e mutevole) tra:
a. il modo in cui il bambino percepisce e fa esperienza del suo mondo, di se stesso e degli
altri;
b. il modo in cui egli fa uso delle sue capacità e risorse nelle interazioni con altri individui
aventi caratteristiche diverse di personalità; e
c. il modo in cui si impegna nel gioco, nell’attività del tempo libero, negli interessi, negli svaghi, poi lavoro; infine e, fatto ancora più importante;
d. il modo in cui possono rimanere strutturate nella personalità particolari relazioni oggettuali, vissute come troppo “forti”, ovvero traumatiche.Tutte queste modalità di mettersi in
relazione con l’ambiente portano delle tracce dei modelli così profondamente radicati nelle prime e più primitive relazioni.
È su queste basi concettuali e lavorando con il bambino su questo modello che si è inte-
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Quel confine sottile tra speranza e illusione
so approfondire i problemi del lavoro all’interno del reparto di neonatologia e Day Hospital.
La moderna teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali (Sandler & Sandler, 1998) si riferisce quindi allo studio dell’insieme di comportamenti relazionali che avvengono tra il bambino e chi lo accudisce (care-giver) fin dai primi momenti della vita. Ma cosa accade, allora, quando un bambino e i genitori si incontrano prematuramente?
La nascita prematura, è per la sua natura più suscettibile a essere vissuta più come un trauma che come un’esperienza digeribile: essa disorienta i genitori che non possono essere ancora competenti e si sentono, a seguito dell’evento, ancora più impreparati alla nascita; sono
in difficoltà nel trovare un equilibrio tra ciò che investono nella relazione con il proprio bambino, di cui non conoscono le possibilità di evoluzione, e il bambino reale che vedono davanti a sé (Negri, 1994).
I diversi aspetti che può assumere il processo del lutto sono accomunati dalla necessità
da parte dei genitori all’uso di difese psichiche atte a proteggersi da vissuti eccessivamente
traumatici. Per questi motivi, anche persone del tutto equilibrate dal punto di vista psichico,
possono utilizzare temporaneamente delle modalità di negazione della realtà un po’ psicotiche. È quindi importante che vi sia qualcuno, in questa prima fase di avvio del processo di accettazione, che possa tollerare e “tenere a mente” quello che sta accadendo al bambino e ai
suoi genitori. In questo modo questa consapevolezza non andrà persa e potrà, a tempo debito, essere riutilizzata anche da tutta la famiglia, quando il dolore sarà diventato più sopportabile. Questo ruolo contenitivo può essere assunto da uno psicoterapeuta qualificato, anche
se più spesso ciò viene fatto da un medico o da un infermiere del reparto disponibili a reggere il contatto con le ansie dei genitori.Tale riconoscimento verrà discusso nei termini della fondamentale distinzione esistente tra “speranza” e “illusione”: la speranza è l’illusione sono ovviamente co-presenti nei genitori e nel personale che entra a contatto con il bambino
in misure diverse. Illudere significa fornire una versione eccessivamente rassicurante e confortante, tuttavia fondata su elementi distanti dalla realtà del momento; con l’illusione, sia i genitori che il personale, rischiano di perdere la fiducia nel poter riuscire a sopportare una perdita subita. L’esito dell’illusione in questo contesto non può che essere un fraintendimento
dello stato delle cose, e una successiva disillusione ad opera dei dati di realtà, che lascia i genitori (ma anche l’operatore) con un senso di impotenza, dove la propria capacità di capire
risulta colpita e mortificata. Aiutare a mantenere la speranza appare come un intervento conoscitivo e contenitivo rivitalizzante, che non esclude la realtà della perdita, ma prelude a un
suo superamento e al cambiamento.
La nuova situazione predispone i genitori a uno stato di insicurezza nelle proprie capacità di accudimento (Sandler, 1960), al disorientamento, a volte al panico, che spesso prelude a
un profondo stato depressivo legato ai vissuti di colpa. I genitori, come vedremo anche nei
casi clinici sotto riportati, immancabilmente sono costretti a riconsiderare quello che è la propria responsabilità nel determinarsi della vicenda clinica del loro piccolo bambino. Le domanGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Quel confine sottile tra speranza e illusione
de, che spesso rimangono inespresse sono: “Cosa ho fatto per causare tutto questo?”; oppure i genitori si chiedono “Se non avessi ..., forse questo non sarebbe successo...”. All’opposto,
un bambino prematuro crea un vissuto di impotenza nei genitori: il neonato infatti spesso è
sospeso tra la vita e la morte, e per sopravvivere è affidato a delle macchine. In questo contesto, i genitori, vivono di riflesso una condizione di eccessiva deresponsabilizzazione e un grande senso di inadeguatezza. In questo caso, essi si dicono: “Adesso non serviamo proprio più
a nulla”. Entrambi queste condizioni (quella di eccessivo senso di responsabilità, sia quello di
impotenza) non facilitano il rapporto comunicativo e interattivo dei genitori con il neonato:
spesso essi si trovano ad oscillare tra movimenti di avvicinamento al proprio figlio ad altri di
allontanamento di tipo difensivo, conseguenti alla paura di essere inadeguati, che provocano
quasi una fuga dal neonato.
Le prime relazioni all’interno di una Terapia Intensiva Neonatale (TIN) non possono essere quindi del tutto caratterizzate dallo stesso tipo di scambio, generalmente ricco e vario, come avviene tra la mamma e il bambino sano a termine al nido. La mamma è angosciata, il
bambino è poco disponibile al contatto, e il tutto viene spesso complicato dall’organizzazione intrinseca al buon funzionamento del reparto stesso.Al genitore non resta che sentire confermata tutta la sua incompetenza: al posto della pancia c’è l’incubatrice, al posto delle sue
mani ci sono quelle delle infermiere e sono le macchine che garantiscono al bambino la sicurezza e spesso la sopravvivenza.
Con questi presupposti, si è voluto finalizzare un progetto che permettesse di migliorare
la qualità della vita del bambino e dei suoi genitori mentre sono degenti nel reparto di Terapia
Intensiva Neonatale. Le moderne procedure assistenziali hanno ridotto la gravità delle patologie come viene confermato dai dati rilevati dai numerosi studi di follow-up. C’è però un
nuovo dato emergente e poco codificabile: le patologie a distanza, che apparentemente sembrano meno gravi ma che presentano un rischio psicopatologico evidente (Negri, 1994).
Questa ricercatrice chiama “segnali di allarme” tutti quegli indizi che si possono osservare precocemente nel comportamento di un bambino prematuro e che costituiscono solamente un
segnale di rischio di una compromissione psichica con un grande valore preventivo riguardo
alle psicopatologie precoci del bambino come: la fobia del bambino, i disturbi di alimentazione, le reazioni di instabilità e irrequietezza motoria, la difficoltà di regolarizzare i ritmi, i disturbi del sonno. Spesso i bambini piccoli “utilizzano” il corpo per manifestare un disagio psichico e lo fanno, a volte, attraverso i disturbi dell’alimentazione, del controllo sfinterico, attraverso l’asma o la dermatite. Non vanno infine sottovalutate le basi affettive di alcuni disturbi del
linguaggio e dell’apprendimento (Bion, 1962, 1963).
La finalità di questo progetto è quindi quella di lavorare sulla qualità delle cure da praticare al bambino strettamente collegata con la qualità delle cure che il reparto può offrire alla famiglia in senso più generale: accogliere, contenere, ascoltare i genitori praticando per loro una funzione genitoriale vicariante, creando un’atmosfera “sufficientemente buona”
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Quel confine sottile tra speranza e illusione
(Winnicott, 1987). È difficile e faticoso considerare le ansie dei genitori e pensare al bambino prematuro come ad un organismo che sente e che ha bisogno di essere rassicurato.
Considerare l’evoluzione psicologica dei genitori e del bambino, costituisce un elemento con
caratteristiche preventive rispetto ad un disagio futuro.
Descrizione del progetto
Seguendo i modelli teorici e i principi sopra indicati, è stato pensato e attuato un progetto di sostegno psicologico ai genitori e bambini nati prematuri, a rischio o con handicap.
Le modalità d’attuazione di questo progetto sono quindi date:
a. dalla creazione di uno “spazio d’ascolto” per i genitori con il loro bambino;
b. dall’osservazione e registrazione di alcune funzioni del bambino;
c. da incontri con il personale della neonatologia.
Ai genitori, in genere in presenza dei loro neonati prematuri verrà offerto uno spazio alla presenza di uno psicologo, in cui poter incontrarsi e parlare delle proprie paure e ansie. Lo
spazio fisico è costituito in una stanza apposita oppure, quando le condizioni del bambino non
lo permettono, accanto all’incubatrice. In un altro spazio, il personale interessato, avrà la possibilità di ripensare al proprio lavoro in gruppo con la supervisione di uno psicologo.
Pensato per l’Istituzione, il progetto dura un anno ma se si pensa ad un bambino nato prematuro e ai suoi genitori, questo progetto durerà per il tempo necessario a stabilire una relazione “sufficientemente buona”.
Pensando ad una nascita prematura con esiti infausti, il progetto potrebbe durare fino a
quando i genitori non riescano ad elaborare il lutto. Quando poi la nascita prematura determina un handicap nel bambino, allora il progetto potrebbe durare fino a quando il piccolo
non entri alla scuola materna. Riteniamo che un intervento precoce di sostegno ai genitori e
al bambino nato prematuro, possa prevenire sia un disagio psicologico e familiare che, in un
secondo momento, quella difficoltà di organizzazione e sostegno che le istituzioni saturano
con contributi economici più o meno adeguati quando il bambino e la famiglia entrano a far
parte della vita di comunità (scuola materna, elementare etc.).
Le motivazioni che ci hanno spinto a pensare e attuare un progetto di lavoro in un reparto di neonatologia, si possono ritrovare sia nel nostro percorso professionale che in quello
personale. Ormai dieci anni fa, partecipammo ad un seminario sul lavoro di una psicoterapeuta con i genitori di neonati prematuri; ciò che ascoltammo ci sembrò allora molto lontano da noi e dal nostro mondo lavorativo.
Nel corso degli anni successivi, le esperienze sia lavorative che quelle legate alla formazione, ci hanno portato a pensare concretamente ad un progetto da attuare presso la neonatologia dell’Ospedale Infantile “Burlo Garofolo” di Trieste. Il progetto rimasto a “decantare”
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Quel confine sottile tra speranza e illusione
nella nostra mente per qualche anno è stato poi condiviso con alcuni colleghi, e si articola in
tre tipi di intervento e offre uno spazio ai genitori, uno spazio al personale e uno spazio alla
ricerca. Il primo spazio, è quello di cui si occuperà quindi questo lavoro, mentre rimandiamo
a future pubblicazioni quello relativo agli altri due aspetti.
La collaborazione della psicoterapeuta infantile è volontaria e, settimanalmente si svolge
nel reparto per 8/10 ore. Le è stato permesso di conoscere il reparto, i suoi tempi, i suoi ritmi e il personale che vi lavora. La parola usata più spesso dagli infermieri, ogni volta che si è
presentata è stata “Finalmente!... Ci hanno ascoltato, l’abbiamo sempre chiesto uno psicologo”. Non ha mai detto loro che non l’ha cercata nessuno: l’autrice che si occupa di questo
aspetto (R.G.) ha sempre specificato che è stata lei a cercare loro.
Per diverse settimane ha cercato di capire come funzionasse il reparto e ha cercato di
sentire ciò che non solo si guarda con gli occhi. Ha fatto i conti con la realtà del reparto e il
progetto nella sua mente, stava cercando di calare in quella realtà qualcosa che aveva soltanto pensato.
Come è noto, all’interno della terapia intensiva neonatale (TIN) è obbligatorio indossare
sia il camice che i calzari ma è anche necessario entrare in quel reparto con un atteggiamento “in punta di piedi”. Durante i primi giorni le sembrava palpabile la distanza da tenere con
i genitori che incontrava e ai quali si presentava; ogni volta che si avvicinava ad una incubatrice intorno a cui c’erano medici e infermieri ha chiesto il permesso di poterlo fare misurando ogni passo. Si sono mostrati tutti disponibili a rispondere a qualche sua domanda relativa
ad un mondo medico a lei completamente sconosciuto e ha cominciato a riconoscere termini legati a patologie, strumenti e “protocolli”.Tra il personale medico, abituato ad intervenire per salvare la vita, ci sono alcuni neonatologi che riescono a vedere anche ciò che c’è oltre la patologia, alcuni invece soltanto apparentemente sembra che si occupino degli aspetti
essenzialmente medici del neonato. A volte più dei medici, sono gli infermieri coloro che ricevono con maggiore intensità l’impatto della situazione della famiglia del neonato, e riconoscono per primi (forse ancora prima delle madri) i bambini come individui unici.
Stupisce e meraviglia, ancora adesso a distanza di molti mesi dall’inizio del lavoro, sentire
le infermiere parlare con bambini che pesano 500 grammi riconoscendo le loro preferenze
riguardo ad una posizione particolare oppure a qualche manovra specifica, li consolano, li coccolano e li sgridano amorevolmente. In certi momenti tocca a loro intervenire per salvare la
vita. In quello spazio, sono talmente numerose e forti le emozioni che spesso manca lo spazio per i pensieri; a volte, quando capita di chiedere ad una infermiera “Come va?”, la risposta è riferita sempre al bambino che sta accudendo. Se si specifica che la domanda è rivolta
a lei, allora c’è sempre un sorriso che sottolinea il peso e la fatica emotiva legata soprattutto
ad un senso di impotenza nel sostenere i genitori oppure nel sentirsi aguzzini e persecutori
nei confronti dei bambini stessi.
Fin dall’inizio abbiamo scelto di non toccare i bambini come un atto di rispetto verso tut160
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Quel confine sottile tra speranza e illusione
ti, con il passare del tempo però abbiamo capito che la nostra scelta è legata ad una difesa:
cerchiamo di difenderci dal coinvolgimento emotivo per poter parlare con i genitori; ai neonati non si stringe la mano ma si accarezzano o gli si dà il ciuccio e questo presuppone un
contatto che, crediamo, potrebbe compromettere il nostro lavoro almeno per il momento.
Da quattro mesi incontriamo quotidianamente soprattutto le mamme, a volte insieme ai papà, dei bambini ricoverati e, una volta alla settimana, la psicoterapeuta incontra una coppia di
genitori con la loro bambina nata con una sindrome genetica e un problema cardiaco. La bambina è seguita con visite ravvicinate al Day Hospital da alcuni dei medici della neonatologia.
Lo scopo del nostro progetto è da ricercarsi essenzialmente nella prevenzione del disagio che nel futuro dei bambini e i loro genitori può essere determinato dall’angoscia di una
nascita prematura o che ha presentato delle difficoltà o patologie. Nel caso in cui l’angoscia
sia determinata da un handicap organico diagnosticato alla nascita, si tratta di prevenire ed
evitare un handicap secondario (Tustin, 1990; Sinason, 1992).
È difficile riassumere tutto quello che abbiamo vissuto in questi primi mesi dall’inizio del
progetto, ma quello a cui siamo stati più vicino è l’angoscia legata alla perdita e la perdita stessa. Abbiamo scelto quindi di presentare tre storie legate a tre tipi di lutto.
Ringraziamo particolarmente i genitori e il personale pediatrico: tutti quelli che abbiamo
incontrato nella TIN hanno dimostrato sempre di sapere, consapevolmente, a volte inconsapevolmente, tutta la difficoltà che è insita nell’impresa di questo percorso; li ringraziamo anche per averci perdonato quando abbiamo involontariamente ferito la loro sensibilità, disilludendoli, nel delicato passaggio dall’illusione alla speranza.Tutti i dati che potessero portare al
riconoscimento degli adulti e dei bambini inclusi nello studio sono stati modificati per proteggerne la privacy.
1. Lutto per un bambino mai nato: il caso dei gemelli Carlo e Giovanni
Carlo è ricoverato nella TIN, pesa 1 kg ed è in terapia intensiva da 8 settimane, da quando è nato alla 24a settimana con 500 gr. di peso. Ai primi incontri, una psicoterapeuta fra gli
autori (R.G.) incontra la mamma che sta facendo la “canguro terapia”.
Dopo la presentazione la mamma risponde: “Qui dentro ci vuole proprio uno psicologo... per
fortuna il momento più difficile è superato... con mio marito c’è una grande intesa e ci siamo sostenuti a vicenda... ho pianto tanto quando Giovanni è morto... perché erano due gemelli e purtroppo abbiamo dovuto fare un aborto perché rischiava la vita anche Carlo” La signora comincia a
piangere, dico che ricordare fa molto male e che se vuole può utilizzare, magari in un altro momento, uno spazio che ora viene offerto ai genitori per pensare a ciò che stanno vivendo. La lascio
tranquilla con il suo minuscolo bambino sul petto ed esco.
È avvertibile quanto la mamma sia in una situazione di equilibrio emotivo precario e, nonostante accolga l’offerta della psicoterapeuta, teme di non riuscire a sostenere l’angoscia che
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prova sia per il lutto non ancora elaborato sia per il timore che il suo bambino non riesca a
sopravvivere. Per due mesi ha avuto il sostegno del marito ed è a lui che pensa per sentirsi
sostenuta.
Dopo un mese, esattamente l’8 marzo, la mamma di Carlo chiede alla caposala di incontrarmi,
il bambino è uscito dalla T.I. ed è al Centro Immaturi. Non c’è ancora uno spazio concreto ma la caposala ci mette a disposizione il suo piccolo stanzino ricavato da una rientranza del corridoio.
Appena ci sediamo, molto vicine per la mancanza di spazio, comincia a piangere e dice che
non ce la fa più, da quando Carlo è uscito dalla T.I. Non fa che piangere e pensare all’altro gemello, Giovanni, morto prima di nascere. Racconta, piangendo accoratamente, che aveva chiesto di essere sedata durante il clampaggio ma non l’hanno fatto ed ora ha l’immagine del cuoricino che si
ferma sempre viva e presente. Dice che si sente in colpa. Dico che ora che Carlo sta meglio, si può
permettere di sentire il dolore per la perdita di Giovanni e chiedo cosa ricorda di lui. Tra le lacrime, interrompendosi solo per soffiarsi il naso (con un fazzoletto che le offro e, decido, da ora in
poi, che i fazzoletti di carta saranno uno strumento di lavoro concreto), racconta che ricorda tutti
i movimenti del bambino perché era in alto ed era il più grande. ...“Fino a 18 settimane, tutto bene, alla 20a: un disastro”. Sono andati a Milano per fare un intervento alla placenta ma non è andato bene e avrebbero potuto ripeterlo soltanto dopo 15 giorni ma sarebbe stato ormai troppo
tardi per i bambini. Le hanno proposto un clampaggio e il gemello destinato sarebbe stato Giovanni
perché, nonostante più grande, era il più sofferente, se fosse morto, avrebbe portato via anche l’altro. Il bambino è rimasto dentro e si sarebbe mummificato, sono tornati a casa ma dopo 10 giorni ha perso le acque e il parto è avvenuto dopo 2 o 3 giorni, prima è “uscito” Giovanni ma lei non
l’ha visto perché le hanno fatto fare solo due spinte e l’hanno sedata. Carlo ha pianto subito e pesava 513 gr. Ha avuto una necrosi alle dita della mano destra e ha perso 3/4 della falange dell’indice, mezza falange del medio e 1/3 della falange dell’anulare.
È molto difficile per i genitori elaborare il lutto per un bambino nato morto e, quando nasce un altro bambino, come in questo caso, il rischio è che il lutto non venga mai elaborato
ma che, in qualche modo resti sospeso e vada a influenzare le relazioni all’interno della famiglia e lo sviluppo emotivo dei bambini nati vivi. La psicoterapeuta chiedendo alla mamma di
ricordare il suo bambino morto prima della nascita, cerca di creare uno spazio, nella mente
della signora perché possa pensare alla perdita subita, perché possa avere dei ricordi sui quali potersi basare per elaborare il lutto. Quanto più il bambino morto avrà una reale identità,
tanto più facile sarà il rimpiangerlo.
Bourne e Lewis (1984a; 1984b) dimostrano come sia difficile elaborare il lutto per un bambino nato morto e quanto possa essere complicato per chi aiuta i genitori portarli a compiere questo processo; la morte del bambino viene vissuta come un non-evento e lascia un
senso di vuoto dentro di loro.
Solamente domenica scorsa, anche se il papà l’aveva visto più volte, alla vista delle dita, è an-
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dato in crisi ed ha avuto reazioni di rabbia prendendo a pugni una parete.
Dico che è sempre una mancanza, delle dita questa volta ma ora forse questa mancanza richiama la perdita di Giovanni.
Dice che vorrebbe che anche il marito venisse a parlare con me perché se ne ha bisogno, non
è come parlare con i parenti.
Dice che fino ad ora ha visto in Carlo anche Giovanni ma ha pensato che non è giusto per
Carlo “Perchè Carlo è Carlo e basta”. Dico che è una affermazione molto importante questa e soltanto pensando a Giovanni come Giovanni potrà accettare la sua morte e trovare un posticino
dentro di sé. ...
Comincia a delinearsi lo spazio tra i due bambini gemelli nella mente della mamma e questo processo potrà garantire la possibilità di aiutare Carlo a crescere senza confonderlo con
qualcuno che non è mai nato. La mamma comincia a percepire e riconoscere la confusione
nella sua mente rispetto ai due bambini.
Qualche giorno dopo, la signora mi dice che è molto preoccupata e si è spaventata perché il
marito, alla notizia della retinopatia di Carlo ha sfondato un armadio con un pugno. ... La cosa che
le ha fatto più male sono state le parole del marito “meglio se Carlo fosse morto almeno sarebbe finito tutto questo tormento”. La mamma dice che solo in quel momento, oltre a tutta la confusione che ha in testa dall’inizio della storia, ha sentito anche male al cuore, come una stretta, un
dolore fisico..... ora lui sta perdendo la calma e ha paura che ceda. Dico che forse si sente impotente e ora qualsiasi imprevisto riaccende ed esaspera il senso di impotenza, la rabbia diventa incontenibile e non riesce più a trattenerla...
...Incontro una volta i genitori di Carlo e mi sembrano una coppia molto affiatata, il papà ... è
una persona molto concreta ma schietta e “sanguigna”. È alto e magro, molto energico... Si pensa
insieme al forte senso di impotenza del papà e alla sua rabbia che esplode a volte in modo incontrollabile. Per questo si sente in colpa ma chiede comprensione e l’invito allora a comprenderla, lui per primo, la sua rabbia.
Il papà è stato sopraffatto dal sentimento di impotenza e dalla rabbia che ne consegue. Il
compito della psicoterapeuta è stato quello di aiutare i genitori a riconoscere la rabbia senza negarla o mascherarla; restituire al papà la possibilità di pensare la propria rabbia, ha aiutato la mamma a separare i contenuti della rabbia del marito dal loro bambino ed è servito
a tranquillizzarla.
...Racconta che la cosa più faticosa da sostenere è non permettersi di essere contenti perché
se solo si sente la gioia per una buona notizia, si teme con terrore che ne arrivi subito un’altra cattiva. Questo restare in sospeso per tanto tempo è molto stressante e alla fine si cede. Dico che
capisco cosa vuole dire e che dopo tanti mesi anche un semplice “intoppo” si vive con la stessa
intensità di una tensione accumulata in tanti mesi. Il papà cerca di rassicurare la moglie riguardo
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agli ultimi scatti d’ira e sa ora che li controllerà ma chiede comprensione.
Ci salutiamo e incontrerò ancora due volte soltanto la mamma prima che Carlo venga dimesso, alla fine di marzo.
Alle dimissioni, la mamma è eccitata e raggiante, anche il bambino è un po’ suscettibile e nervoso, sembra che senta l’evento tanto atteso e l’eccitazione che c’è in giro. I lineamenti di Carlo si
sono definiti ed assomiglia alla mamma, è nella fase in cui i bambini prematuri sembrano dei criceti. Succhia dal seno ma viene aiutato con il biberon, pesa più di 2 chili e mezzo. Mi incanto a
guardarlo mentre gioca con il capezzolo usando la piccola lingua e le labbra.
A metà maggio li incontro in D.H.; Carlo è cresciuto ma sembra un bambino di 3 mesi. La mamma dice che è un po’ sordo ma devono accertarlo, l’opereranno per le ernie inguinali. La mamma
mi dice che a volte le viene un po’ di tristezza pensando a Giovanni, sa che per un po’ sarà così
ma è sopportabile.
La frase detta dal papà e sottolineata anche dalla mamma riguarda proprio il confine tra
speranza e illusione. Negli incontri con i genitori di bambini molto prematuri, è molto frequente sentire spesso la stessa frase: “Non si può essere troppo contenti per le belle notizie
perché si teme che subito dopo ce ne siano di terribili”. Sembra che le cattive notizie portino la delusione e, in questo caso allora, la speranza viene persa perché sentita come una illusione che nega la realtà e rende tutto mortifero. La grande fatica che fanno questi e altri
genitori è quella di restare in equilibrio, a volte precario, tra speranza ed illusione.
2. Il lutto per un bambino morto: Enrico e Andrea
A causa di un inizio di gestosi e di una insufficienza placentare, sono nati due gemelli alla
27a settimana, Andrea di 500 gr ed Enrico di 900 gr. I bambini sono nati con un parto cesareo.
Mentre sto per uscire dal reparto, incontro il papà (i nuovi papà sono facilmente individuabili
dall’espressione in genere allucinata), appena mi presento mi risponde subito “Mi stavo chiedendo se ci fosse un sostegno psicologico in un reparto come questo, me lo aspettavo e sono contento che ci sia” dice che la mamma sta abbastanza bene ma è preparata e mi invita ad andare a
trovarla perché sa che le farebbe piacere. Lo ringrazio ma andrò il giorno dopo. Mentre l’aiuto a
vestirsi dice “Credo proprio che ci voglia un aiuto perché in queste situazioni la cosa più tremenda è quella di non potere abbracciare tuo figlio”. Rispondo che in questa frase ha riassunto proprio tutta quella che è la difficoltà di questi momenti, in questo reparto...
Questo papà sottolinea immediatamente quanto sia faticoso da sostenere quel gesto che
fa parte della normalità: l’abbraccio. Nel reparto, i genitori vengono aiutati e incoraggiati a toccare i propri bambini e a star loro vicini; questo contribuisce a favorire non soltanto la funzione dell’attaccamento ma evita nei genitori percezioni alterate rispetto al loro figlio.
Li incontro in corridoio, la mamma è sulla carrozzina con la flebo, è sorridente ed eccitata, è la
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seconda volta che vede i bambini ed io li guardo da una certa distanza mentre si avvicinano alle
incubatrici ma non li toccano, sono abbracciati e il papà sembra molto premuroso verso la mamma. Si allontanano dopo un paio di minuti e mi dicono che possiamo andare, loro sono pronti. Sono
sorpresa ma aggiungono che dai bambini tornano dopo, non possono fare molto per loro.Andiamo
in una stanza del Centro Immaturi che, per il momento, non è occupata da bambini. Mi raccontano la storia della nascita prematura e la mamma si chiede se ha qualche responsabilità per il fatto che ha lavorato fino al giorno prima di essere ricoverata; si risponde subito da sola che c’era
una insufficienza placentare e che fa un lavoro tranquillo. Dico che a volte non tutto dipende da
noi ma accade indipendentemente dalla nostra volontà e controllo.
La mamma dice che è ancora sulle nuvole e si rende conto che sono nati solo perché non ha
più la pancia.
È evidente quanto questi genitori sentano che il personale del reparto e le macchine siano più importanti di loro, sembra che si attacchino alla psicoterapeuta per cercare di comprendere quello che stanno vivendo. La nascita dei loro bambini non è ancora pensabile, la
mamma li sente dentro di sé e deve aiutarsi con lo sguardo per riuscire a comprendere l’evento. Cominciano ad affiorare i sensi di colpa e tutte le possibili spiegazioni arrivano a giustificare la realtà.
Dopo una settimana incontro i genitori in T.I. Sostengo il papà nel toccare Andrea e mi chiede
se penso che il bambino si accorga di lui, lo porto a pensare alle reazioni che hanno i bambini
quando arrivano i genitori e ricorda allora che è stato lui ad accorgersi delle macchie sul camice
della moglie quando lei ha visto per la prima volta i bambini ed ha avuto la montata lattea. Spesso
gli vengono le lacrime agli occhi e dice che è difficile mostrare agli altri i propri sentimenti perché
ci si imbarazza.
A scopo difensivo questi genitori, come altri, pensano di non essere riconosciuti dai loro
bambini; sperano di controllare i loro sentimenti verso i figli e di non attaccarsi troppo.
Mettono un po’ di distanza perché è presente una forte angoscia di morte. C’è anche una
forte identificazione con i loro bambini che sono tenuti in vita dalle macchine e fortemente
costretti in una situazione dolorosa; in questa situazione, per i genitori è utile pensare che i
loro bambini non soffrono e sono troppo piccoli per percepire la realtà.
Dopo una settimana il primario comunica ai genitori che i polmoni di Andrea sono irrimediabilmente danneggiati ed è stato fatto per lui tutto quanto possibile.
...Incontro la mamma accanto alle incubatrici. Le chiedo come sta, risponde che domenica è
stata dura e anche il marito era in difficoltà, erano giù di morale perché le condizioni di Andrea li
preoccupa molto ma se c’è anche una sola possibilità, lei vuole sperare....
L’aspetto dei bambini è molto diverso, Enrico è cresciuto e la sua fisionomia comincia a definirsi mentre Andrea non è molto cresciuto e soltanto i capelli sono diventati più folti e di un colo-
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re biondo rossiccio. Continua ad essere intubato e trasfuso mentre Enrico ha l’ossigeno ma non è
intubato. Mentre parlo con la mamma, l’infermiera deve intervenire più volte per stimolarlo a respirare. La mamma dice che è andata per qualche ora a casa ma non riesce a restarci, sente che
il suo posto è vicino ai bambini anche se a volte sente di non servire a niente se non per quel poco latte che si tira e che possono prendere.
Dico che si sente così perché ora le macchine sono indispensabili per la loro sopravvivenza ma
sa che anche i bambini, in qualche modo, sentono la sua presenza e questo li rassicura. Mi racconta allora che ieri, per la prima volta ha fatto un’ora e mezza di “canguro” con Enrico e questo
le è servito molto per il morale, le ha dato grande energia. Le manca molto non poterli prendere
in braccio, soprattutto Andrea....
La mamma non riesce a permettersi nessun momento di gioia con Enrico poiché per
Andrea sembra che non ci sia la possibilità di sopravvivere.
Il 20 aprile incontro entrambi i genitori in una stanza del Centro Immaturi. Mi ripetono che non
si fanno illusioni ma che se c’è una sola possibilità, loro vogliono crederci. Non si permettono neanche, dice il papà, di essere contenti se sembra che le cose vadano meglio perché si aspettano
che dopo ci sia qualcosa che non va ed è più difficile da sopportare. Sembra che gli altri non possano capire, a loro sembra che basta solo che i bambini crescano perché stiano bene ma non è
così.
La mamma dice che è incredibile pensare che sentano la loro presenza. A volte le vengono i
sensi di colpa per la nascita prematura e racconta nuovamente la storia. A volte pensa che avrebbe potuto fare di più, tenerli di più. Dico che capisco i suoi pensieri ma non si riesce a controllare
tutto prima che accada e che si deve fare i conti con questo limite. Magari si potesse dire alle
mamme cosa fare per non far nascere prima i bambini ma non si sa, questo non dipende da loro, le mamme possono solo permettere che nascano e lei è riuscita a far nascere i suoi bambini
facendosi seguire ed aiutare. Non si è risparmiata. Neanche ora si risparmia e sta sempre con loro. Dice di sì che è l’ultimo pensiero prima di addormentarsi e il primo quando si sveglia.
Mentre parliamo si tengono la mano e se l’accarezzano, il papà si asciuga con discrezione qualche lacrima....
Dico ...che sono coraggiosi ora insieme ad affrontare questa situazione difficile. Il papà dice che
non è coraggio ma che non possono fare altro. Chiedo: “Vi sentite allora un po’ incastrati?”,“No, ma
possiamo fare solo quello che facciamo”, “Certo ma potreste non riconoscere la realtà che c’è e
potreste farlo anche senza scappare fisicamente ma con la mente e tutto il resto invece siete a
contatto con i vostri bambini e con la loro situazione e questo aiuta tutti e io penso che sia anche un po’ coraggioso”. Sorridono e la mamma è molto dolce e sembra molto provata. Ci salutiamo e inaspettatamente la mamma mi bacia e abbraccia.
Sembra che la terapeuta abbia toccato alcuni aspetti dolorosi ma, nonostante la situazione, i genitori, come spesso accade, riescono ad essere riconoscenti e grati.
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Alla fine di aprile parlo con la mamma accanto all’incubatrice, sembra veramente molto stanca, parliamo dei bambini, dei polmoni di Andrea e delle apnee di Enrico. Commento alcuni movimenti buffi di Enrico i suoi capelli biondi, le manine grandi e il vizio di togliersi il sondino. Andrea è
più fermo, comincia ad avere il collo gonfio, da qualche giorno è meno reattivo a differenza dei primi giorni dalla nascita, quando le infermiere dicevano che era molto più competente del fratello e
cercava, trovandole, le posizioni più comode. La macchina che lo aiuta a respirare è un tormento
per il rumore ritmico continuo, il suo torace vibra continuamente, non socchiude più gli occhi curiosando verso chi lo guardava come faceva all’inizio ma li tiene chiusi.
A maggio la mamma mi dice che sanno che ormai per Andrea è solo questione di tempo ma
che lei non può fare a meno di essere mamma e una mamma non si può rassegnare.
Ora la mamma sa che sperare vorrebbe dire illudersi ma a volte se lo concede perché la
morte è già annunciata. L’illusione ora serve alla mamma per sostenere il tempo che ancora
deve passare.
Ad un mese dalla nascita, Andrea muore. Le infermiere raccontano che la mamma l’ha preso
in braccio per la prima volta e l’ha tenuto 45 minuti poi, con il papà sono andati via. Mi dicono
che Enrico, che fino ad allora era molto irrequieto, da quel momento si è tranquillizzato ed è diventato “un neonato da manuale”. Nei giorni precedenti avevo concordato con le infermiere di trasferire Enrico in un’altra stanza ed è stato fatto.
Una settimana dopo incontro la mamma nel corridoio, la saluto prendendole le braccia, dice
che è tornata in “casetta” e che il dolore è grande ma anche la gioia per Enrico è in un equilibrio
precario ma non ha potuto fare a meno di tornare a Trieste.
Il giorno dopo Enrico è al Centro Immaturi e passando in corridoio vedo il papà che, dalla stanza mi fa grandi gesti con un braccio. È la prima volta che l’incontro dopo la morte di Andrea. Entro,
la mamma è seduta su una sedia, il papà su una poltrona bassa e tiene Enrico in braccio. Stringersi
la mano sarebbe un gesto troppo usuale, scontato e quotidiano allora mi ritrovo a prendergli la testa tra le mani e lo saluto così. Gli vengono le lacrime agli occhi e dice che sono là, al Centro
Immaturi, Enrico sta bene, è commosso e dice che solo il tempo potrà aiutare, con il tempo passerà.
Enrico succhia dal seno, pesa kg 2350 ma ultimamente ha avuto due brutte apnee.Aspettano
che si stabilizzi per dimetterlo. Ora assomiglia decisamente alla mamma.
A volte la mamma accenna ai suoi due bambini ogni volta che arriva, in reparto, una nuova
coppia di gemelli ma i genitori non hanno più chiesto uno spazio per loro. Le infermiere notano
che la mamma, nei momenti di difficoltà si allontana per poi tornare ma sempre da sola oppure
con il marito.
Poter toccare e prendere in braccio il loro bambino morto aiuterà questi genitori ad elaborare il lutto. La psicoterapeuta a volte li ha aiutati a guardare Andrea, a riconoscerne alcune caratteristiche somatiche e a differenziarle da Enrico, ha cercato di riconoscere per loro
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alcuni atteggiamenti e preferenze; la speranza di chi scrive è che questi genitori abbiano alcuni ricordi del loro bambino morto e che riescano insieme ad elaborare il lutto per salvaguardare l’altro loro bambino da pericolose proiezioni.
3. Il lutto per un bambino nato con un handicap: Sara
Il concetto di stupidità, di solito annesso a una condizione di handicap, va descritto a partire dal suo significato etimologico. “Stupido” ha la stessa radice di stupor, e significa obnubilati, confuso dal dolore. È un termine che in medicina si usa per le persone in coma (stato
stuporoso) o per la condizione confusionale che caratterizza le persone traumatizzate psicologicamente. Crediamo in questo contesto che la condizione di stupidità sia sempre presente nella prima fase dello shock dopo una perdita. È la fase che precede la messa in moto delle difese atte alla protezione della coscienza (Sinason, 1992).
Su invito dei pediatri del Day Hospital che sono gli stessi della neonatologia, i genitori, con
la loro bambina di cinque mesi, hanno accettato di incontrare una psicoterapeuta (R.G.) una
volta alla settimana nella stanza nuova messa a disposizione dal reparto.
La mamma è casalinga e ha 25 anni, il papà ne ha 29 ed è impiegato. Vengono dal sud e
la mamma ha seguito il marito. Sono soli, hanno tutti i parenti in Campania, dicono di stare
bene a Trieste. La bambina è nata nella loro terra d’origine alla 35a settimana con un taglio
cesareo per sofferenza fetale ed hanno subito riscontrato un soffio al cuore che non sembrava niente di grave. Sara non è bellissima ma ha due occhi di un azzurro come quello delle
bambole, con le pagliuzze e il contorno più scuro, il suo sguardo si ferma attento solo per pochi secondi, ha le guance un po’ rilassate ed è veramente curiosa con i capelli castani non
troppo folti ma sproporzionatamente lunghi per la sua età, le arrivano a metà del collo. La
corporatura è proporzionata all’età. Sara è stata sempre presente ai nostri incontri e spesso
si addormentava perché stancata dalla fisioterapia appena fatta.
La mamma racconta “Appena ho visto mia figlia non riuscivo a trovare una corrispondenza...
devo dire che era brutta, aveva le guance pendule... poi è diventata più bella, sarà sempre bellissima per me perché è mia figlia”...
La “corrispondenza” di cui parla la mamma di Sara, è la possibilità di “rispecchiarsi” nel proprio bambino appena nato. Ogni donna tende a trovare riprodotto, nel suo bambino, il suo
io ideale, la sua capacità di allevare, di essere una brava madre; questa mamma, fin dalla nascita della sua bambina sente di non riuscire a rispecchiare nella sua creatura una sana immagine di sé. Riesce a raccontare alla psicoterapeuta il timore avvertito ma subito respinto verso qualcosa di imperfetto che potesse minacciare la sana immagine di sé.
...venuti a Trieste, la bambina ha fatto alcune indagini mediche e raccontano la comunicazione
della diagnosi fatta loro da un medico: “Ci ha dato un volantino dicendo - ecco la bambina è affetta da una sindrome genetica, leggete questo e se volete saperne di più contattate l’associazio-
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ne dei genitori - siamo rimasti interdetti”. Hanno fatto una ricerca su internet, hanno visto le foto
di alcuni bambini con la sindrome, hanno letto e si sono informati; hanno loro consigliato di trasferirsi dai parenti per avere un aiuto futuro ma non sanno cosa fare. Dico che possono prendersi ancora un po’ di tempo per pensare a questo ma la mamma non vorrebbe tornare in Campania
perché già qui si sente controllata dai nonni, è lei che pensa alla bambina e alla casa.
Tutte le paure e le angosce iniziali diventano reali quando il medico, con una modalità molto concreta, comunica la diagnosi. Il momento traumatico produce quella confusione a cui si
è già accennato e i genitori cercano da soli notizie e informazioni per riuscire a controllare
razionalmente qualcosa che sfugge alla loro mente. Il bambino tanto desiderato non corrisponde a quello della realtà. Ecco il conflitto con cui hanno a che fare e che determina in loro un forte senso di impotenza e di frustrazione; quel medico, troppo concreto e brusco, allora diventa il parafulmine per tutta la loro rabbia e dolore, diventa quasi il colpevole di un
evento incontrollabile.
La mamma comincia a raccontare che da quando è nata Sara tra loro è cambiato qualcosa
... il papà dice che quando discutono e l’occasione di scontro è la bambina con la sua sindrome,
lui si chiude a riccio e non parla ma lei lo provoca ed è peggio, non si sente capito. Dico che ora
la mamma sta dicendo e spiegando il motivo per cui attira la sua attenzione e che ha paura di
non essere guardata; l’attenzione ora non è sulla bambina ma sulla sindrome.
Il papà dice che non può sentire più quelle stupidaggini che dicono parenti e amici e la preoccupazione verso i propri figli per un po’ di alterazione “E noi cosa dovremmo dire? La gente non
capisce, chi sa che è nata la bimba chiede come sta ma io sento che vorrebbe sapere se c’è qualcosa che non va”: Dico che c’è qualcosa che è ancora nascosto, qualcosa da non dire, che spaventa e che forse gli altri avvertono.
Alla fine del primo incontro, la mamma mi chiede se possono parlarne dopo, a casa perché
“sono uscite fuori alcune cose...”, il papà dice che ha sentito qualcosa che non sapeva. Sono sorpresa e rispondo che possono fare ciò che ritengono opportuno ma penso che ci sia bisogno di
più spazio per parlare e pensare a quello che stanno vivendo.
La psicoterapeuta cerca di creare un po’ di spazio perché questi genitori riescano a pensare ciò che provano; sono terrorizzati e confusi, non riconoscono la loro bambina e avvertono
sensi di colpa per quello che provano.Vengono aiutati a considerare la possibilità di guardare
Sara e riconoscere la loro rabbia senza danneggiare l’amore che nutrono verso la loro bambina. Questi genitori hanno cominciato a prendere contatto con la loro “ferita narcisistica” prodotta dall’aver generato un figlio malato che non corrisponde al loro ideale di bambino.
... È stata fissata a maggio una visita a Roma in un centro specializzato per valutare i bambini con la sindrome di Sara, sono molto preoccupati. La mamma chiede al papà del perché non voglia più andare alle visite di controllo al Burlo, se è preoccupato perché possano dire “cose brut-
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te” sulla bambina; il papà ammette di sì e allora dico che sembra che solo in questo momento,
con un’altra persona, possano permettersi di parlare di alcuni aspetti e di ciò che provano.
Il papà dice che non riesce più a sopportare la tensione mentre aspetta ciò che i medici dicono, quando sente dire che qualcosa non va si sente crollare il mondo addosso. Dico che è comprensibile, ogni cosa che non rientra nella normalità lo spaventa. Osserva che questa parola fa fatica a tollerarla. Dico che quello che non tollera è il contrario di normalità e lui lo sa che c’è ma
oltre tutto questo c’è Sara e loro possono guardarla, solo lei potrà dare loro la misura della sua
normalità. Il papà dice che è vero e che a volte è Sara che gli fa dimenticare la sindrome, quando
ride alle sue coccole non ci pensa. La mamma conferma e chiede al papà se il giorno prima, quando l’ha visto fissarla poi “se n’è andato con la testa”, il papà lo riconosce.
Il papà sembra camminare sul sottile confine tra speranza e illusione; quando pensa alla
sindrome, guardando Sara, la speranza che la bambina sia sana si trasforma in illusione e il dolore per la perdita del bambino ideale diventa insostenibile. La mamma ha cominciato ad elaborare il lutto per il bambino sano ideale e riesce ora a guardare Sara oltre la sindrome.
Dico che sembra che per ora, ogni gioia che Sara dà loro sia accompagnata da un grande dolore. Il papà conferma e aggiunge che non può evitarlo ma la mamma dice che non sempre è così, che lei vede che la bambina cresce e che risponde sempre di più e meglio, si fa capire e lei la
capisce, all’inizio non era così, era difficile.
Quello che ora è forte, è la paura che a Roma dicano che ci sono problemi neurologici, c’è la
voglia che non si vedano gli effetti della sindrome, vorrebbero che i medici dicessero che la sindrome c’è ma è come se non ci fosse. Mi fanno molta tenerezza.
Ribadisco che ora hanno paura di informarsi e di sapere troppo sulla sindrome ma quello che
possono fare e stanno già facendo è guardare Sara come cresce, è lei che sarà il loro punto di riferimento sulla sindrome.
In una delle sedute successive il papà sembra sempre più angosciato dal pensiero della sindrome e mentre parla di questo spesso si ferma e, con lo sguardo nel vuoto dice “Boh?”. Chiedo
cosa vuol dire, cosa prova ma risponde che non lo sa, non sa più niente. La mamma interviene e
dice che lei alla sindrome non ci pensa più, c’è solo Sara, con lei sta bene ma è preoccupata per
il marito, non sa come aiutarlo, non lo vede sereno e a volte le sembra irraggiungibile. Chiedo come si sente e risponde che è triste, piange discretamente. Chiede se è cattiva a pensare che sarebbe stato meglio che nascesse sana. Le domando se le sembra strano che una mamma desideri che la propria figlia nasca sana. Dico che forse si sente in colpa perché non è avvenuto questo
e allora si sente come una madre che rifiuta il proprio figlio; dico che invece è stata brava, in sette mesi a fare in modo da capire la bambina e farsi capire. Dice che ora le risponde con versi e
gridolini. Il papà sembra svuotato e dice che sta bene solo quando è con Sara.
Mentre la mamma comincia a sentire la tristezza, un sentimento che accompagna il lutto,
il papà si sente annichilito dal forte dolore e spesso si ritira in una sorta di apatia.
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Alla fine di aprile la cardiologa informa i genitori che Sara ha un problema cardiaco “importante”. Fissa un incontro con un cardiologo del “Bambin Gesù” ospedale infantile di Roma in concomitanza con la visita per la sindrome .... il papà dice che ormai ha un pensiero fisso, non pensa
più alla sindrome ma ha paura che la bambina muoia. È stato detto loro che è a rischio di vita....
Nell’ultimo incontro prima della partenza per Roma, dicono che si sentono cattivi perché quando vengono a sapere di cose belle come l’arrivo di un nuovo nipotino, provano una grande rabbia.
Mi chiedono se è invidia ma si rispondono subito di no. Dico che toccano un dolore molto vivo. La
mamma dice che ultimamente sogna, nel vero e proprio senso della parola, di rifare il matrimonio
perché i parenti in lite l’hanno rovinato, anche la gravidanza e il battesimo, tutto è stato rovinato.
Dico che sta traducendo quello che sente, il suo dolore per come sono andate le cose, non può dire che vorrebbe che Sara non avesse la sindrome ma riesce solo a dire che il matrimonio che ha
avuto non è stato come quello sognato e le manca un matrimonio come le manca una bambina
senza la sindrome. Dice che è vero, che è proprio così e aggiunge “sono cattiva?”. Rispondo che è
sana perché sarebbe da matti desiderare che il proprio figlio nasca con una sindrome.
La psicoterapeuta aiuta i genitori a riconoscere i loro sentimenti al di là dei contenuti dei
loro pensieri, cerca di aiutarli a non temere ciò che provano ma a parlarne.
Alla fine di maggio partono per Roma, La sera del 1° giugno trovo un messaggio sulla segreteria del cellulare, è la mamma di Sara che mi dice che la bambina è morta e mi prega di telefonarle.
I genitori di Sara che avevano cominciato a elaborare il lutto per un bambino sano ideale, hanno accettato di incontrare ancora settimanalmente la psicoterapeuta per elaborare il
lutto per la morte della loro bambina reale.
Discussione
Abbiamo voluto riportare tre esperienze di perdita subite dalle famiglie di neonati degenti della Neonatologia e seguiti in Day Hospital. Nella prima, la perdita è stata essenzialmente
per un bambino mai nato, ossia per un bambino ancora, e solo, nella “mente della madre”
(Meltzer, 1994).
La seconda esperienza si riferisce a un bambino nato, per il quale i genitori hanno avviato un processo di attaccamento, ma che dopo poco è morto.
La terza si riferisce specificatamente alla situazione del lutto per un bambino con una sindrome genetica, ossia al lento processo di adattamento dei genitori alla perdita del bambino
sano tanto atteso e rispetto al gestire una situazione famigliare con un bambino con deficit
fisici e psichici.
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Quel confine sottile tra speranza e illusione
Le esperienze riportate sono state vissute all’interno del progetto di “Sostegno psicologico a genitori e bambini prematuri, a rischio o con handicap” avviato all’interno del reparto di
neonatologia e Day Hospital dell’Ospedale Infantile “Burlo Garofolo”.
Il progetto prevede che, attraverso l’osservazione attenta del bambino, in presenza di uno
psicologo psicoterapeuta infantile, i genitori siano sostenuti e aiutati a distinguere il loro bambino dalle proprie difficoltà emotive legate al vissuto angoscioso della nascita prematura, o
dagli esiti imprevisti.
Ai genitori dei bambini ricoverati sono offerti alcuni colloqui della durata di un’ora, effettuati in una stanza vicina al reparto, per pensare all’esperienza che stanno vivendo in uno spazio e in un tempo speciale per loro, distanti dal loro bambino.
Ai genitori dei bambini che sono morti viene offerto uno spazio per cominciare ad elaborare il lutto.
Ai genitori di bambini a cui è stato diagnosticato un handicap, sono offerti colloqui per favorire il processo di separazione e individuazione; attraverso l’osservazione del loro bambino vengono sostenuti e aiutati a trovare in lui quegli aspetti più vitali necessari a risvegliare
ciò che di più vivificante è in loro.
I bambini dimessi vengono incontrati durante il follow-up affinché, attraverso l’osservazione, sia possibile aggiungere qualche elemento per la valutazione della relazione madre-bambino. I genitori, ma soprattutto le madri dei neonati ricoverati per molte settimane, sono stati incontrati regolarmente; le madri dei grandi prematuri sono state aiutate a sopportare la
forte angoscia determinata dal rischio di vita del proprio bambino, sono state aiutate a pensare al trauma determinato da una nascita improvvisa e sono state aiutate a non temere i
propri sensi di colpa.
Essere aiutati a riconoscere l’angoscia legata all’incertezza del futuro e vissuta durante le
prime settimane dalla nascita del proprio bambino, può contribuire a prevenire quelle difficoltà che, a volte, si evidenziano nelle relazioni future e addirittura nello sviluppo evolutivo
del bambino stesso. Spesso diventa difficile e complicato sostenere i genitori sul sottile confine tra speranza e illusione cercando di fornire loro elementi perché possano trovare dentro se stessi la spinta vitale a mantenere la prima piuttosto che la seconda.
In queste esperienze, l’elemento che ci è sembrato più rilevante, presente in tutte le situazioni e che tutte le persone coinvolte dovevano considerare, è quello che abbiamo chiamato “la sottile distinzione tra la speranza e l’illusione”. Numerosi autori in ambito psicoanalitico, si sono occupati di questa distinzione. In particolare Winnicott (1958) distingueva nella
nascita psicologica del bambino l’importanza della:
a. percezione (intesa come un’attività conoscitiva, quell’operazione mediante la quale il soggetto prende contatto con l’oggetto esterno mediante le diverse sensorialità);
b. egli poi considerava l’appercezione (intesa come l’atto del prendere consapevolezza delle proprie percezioni e distinguere il soggetto percepente dall’oggetto percepito, o lo sta172
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Quel confine sottile tra speranza e illusione
dio finale della percezione in cui qualcosa viene chiaramente compreso e acquista così una
relativa preminenza nella coscienza);
c. distingueva queste funzioni dall’illusione.
Winnicott ipotizza che l’illusione sia dovuta all’esistenza nel mondo interno rappresentazionale del bambino piccolo, di una fase o di uno stato mentale intermedio tra la sua capacità di riconoscere la realtà come mera percezione (intesa quindi come fenomeno inconscio o
automatico) e la sua crescente capacità di farlo, acccettandola consapevolmente (appercezione). Nelle prime fasi dello sviluppo, la madre che Winnicott (1987) auspica essere “sufficientemente buona” permette al bambino questo adattamento attivo, un ruolo di “traghettatrice”, tra la sponda dell’onnipotenza infantile dominata dal pensiero magico e dall’illusione di
compiere ogni desiderio, come nel sogno, a quella dell’accettazione della reltà, con i limiti e
la dipendenza. In questo modello, quindi l’illusione grazie al ruolo mediatore di una madre
“sufficientemente buona”, lascia gradualmente il posto alla percezione della realtà, e parallelamente aumenta la capacità del bambino di accettarne i limiti e tollerare la frustrazione. La
madre viene definita da Winnicott “sufficientemente buona” perché non deve soddisfare in
nessuna fase dello sviluppo del bambino completamente i bisogni del bambino: solo un adattamento incompleto al bisogno rende gli oggetti reali e totali, odiati cioè, oltre che amati.
All’inizio, l’adattamento dovrà essere “quasi perfetto”; finché non sarà tale non sarà possibile
che nel bambino incominci a svilupparsi la capacità di sperimentare una relazione con la realtà esterna, o a formarsi un concetto della realtà esterna. La madre, all’inizio, con il suo “adattamento quasi perfetto” offre al bambino la possibilità di illudersi: il seno è parte del bambino stesso ed è, per così dire, sotto un controllo magico. Lo stesso si può dire delle cure che
il bambino riceve in generale, nei periodi di quiete tra due eccitamenti.Il compito finale della
madre è quello di deludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranza di successo
se non è riuscita ad offrire, all’inizio, sufficienti occasioni d’illusione.
Dopo l’offerta di illusioni, il compito principale della madre è la delusione che precede
lo svezzamento e continua come uno dei compiti dei genitori e degli educatori. La questione dell’illusione è qualcosa di strettamente inerente agli esseri umani e che nessun individuo
risolve definitivamente. Se tutto va bene, da questo graduale processo di delusione si sviluppa la fase delle frustrazioni che chiamiamo svezzamento. Se questo processo di illusione e
delusione graduale viene turbato il bambino non riesce a sperimentare un fatto così normale come lo svezzamento nè a reagire ad esso.
La semplice interruzione dell’allattamento al seno non è svezzamento: esso può avvenire proprio perché il processo illusione-delusione si è svolto adeguatamente. Questo processo di accettazione della realtà non è mai terminato: nessun essere umano si libera dallo sforzo di collegare la realtà interna con la realtà esterna, anche se tale sforzo viene alleviato da
un’area intermedia di esperienza che è indiscussa, quale è quella della fantasia e del gioco
del bambino.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Quel confine sottile tra speranza e illusione
Si può quindi affermare che per Winnicott, in un particolare periodo della vita evolutiva,
l’illusione ha un valore positivo, poi tuttavia lo perde: solo le esperienze, gli oggetti ed i fenomeni della prima infanzia appartengono al regno dell’illusione. Quest’area costituisce la maggior parte dell’esperienza del bambino piccolo - e viene in seguito sentita intensamente e conservata dall’adulto, solo in settori “specializzati”, quali quelli della vita immaginativa, dell’arte e
del lavoro scientifico creativo.
Il concetto di speranza invece ci appare come intrinsecamente legato ai concetti di riconoscimento maturo della realtà, che comprende l’esistenza dei sentimenti nelle altre persone, sentimenti che possono essere sia positivi che negativi rispetto alla dipendenza, e, in ultima analisi, una stima del valore nelle proprie capacità e di quelle altrui: è quindi un concetto
intrinsecamente legato alla fiducia in se stesso e negli altri. Questi elementi che sono intrinseci e fondamentali in ogni relazione umana matura, e risultano fondamentali quando si tratta di pensare a come aiutare i genitori a impegnarsi in un’elaborazione luttuosa.
La stima e la fiducia sono in funzione di uno sviluppo armonico. Al contrario, la disperazione e la mancanza di fiducia negli altri possono essere il prodotto della discrepanza esistente tra una rappresentazione interna di una relazione desiderata con il proprio bambino neonato e la realtà del bambino “vero” che i genitori vedono e toccano davanti a sé (Sandler,
1998). Ogni situazione di malattia, di stress o di trauma comporta una regressione della relazione oggettuale: in questo senso, l’individuo regredisce da una situazione di relazione oggettuale matura a quella propria del narcisismo secondario (Freud, 1914), dove il riconoscimento dell’oggetto è completamente “adombrato” dalla preoccupazione per sé (Sandler, 1960).
Crediamo che alla base dei sentimenti di inadeguatezza, colpa e angoscia che abbiamo osservato nei genitori (ma spesso condivisi anche dal personale della Neonatologia) vi sia una “immagine ideale”, ad esempio, di come dovrebbe essere il periodo postnatale di un bambino, di
come dovrebbe essere accudito e di come dovrebbe vivere questi primi attimi della sua vita. Per ovvi motivi questa immagine è messa in crisi dalle diverse vicissitudini che possono vivere, come abbiamo visto nei casi sopra riportati, i genitori e il neonato in Terapia Intensiva.
In questo modo, ossia dalla discrepanza che si genera dall’immagine “ideale” della vita del bambino e la sua condizione attuale, ne emergono tutta una serie di reazioni dolorose che portano spesso le caratteristiche della vergogna cocente per le proprie presunte inadempienze,
e della colpa che ne consegue.
Originariamente questi aspetti “ideali” si formano nell’individuo per soddisfare i bisogni fondamentali del bambino di fondersi con la madre, con l’oggetto primario di accudimento. Il “Sé
ideale” (Freud, 1914), si genera perché permette progressivamente all’individuo in via di sviluppo di trasferire la dipendenza e gli investimenti affettivi da un oggetto esterno a questa
potenziale fonte di benessere indipendente dalla rassicurazione e conferma esterne. È una
rappresentazione interna che rende quindi il bambino progressivamente sempre più resistente alle frustrazioni poiché egli può scegliere dei comportamenti che si accordano ai propri
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Quel confine sottile tra speranza e illusione
requisiti interni, e sempre meno alle richieste esterne. Quando questi comportamenti non
possono essere attualizzati i genitori possono così provare a fronte delle inevitabili frustrazioni presenti nella situazione del piccolo, vergogna o colpa. La vergogna in particolare è quella
particolare qualità di dolore mentale che si sperimenta ogni qual volta il soggetto riscontra
una discrepanza, un’incapacità a raggiungere (nel pensiero o con le proprie azioni) una corrispondenza tra il Sé attuale e il Sé ideale (Sandler, 1998). Come se il soggetto si dicesse: “Mi
sento male perché non riesco a percepirmi come desidererei essere (o come vorrei essere
visto dagli altri)”.
La colpa invece è quella particolare qualità di dolore mentale dovuto all’incongruenza tra
i propri ideali e quelli imposti dai propri oggetti interni: “non desidero percepirmi come dovrei e questo mi fa stare male”.
Sostanzialmente, e basandoci sugli autori citati, vogliamo individuare la fondamentale differenza tra l’illusione e la speranza. Nell’illusione siamo davanti a meccanismi di funzionamento primitivo, quelli del neonato e del bambino molto piccolo, basati sul controllo onnipotente (su fantasie magiche), e sul diniego. Questo può accadere proprio perché l’esistenza separata e indipendente dell’oggetto primario di accudimento (il care-giver, o la madre) non può
essere riconosciuta del tutto da una mente ancora immatura. Questo oggetto sarebbe stato
sempre trattato come se fosse una parte del nostro amato sé e, perciò, come se fosse sotto il nostro controllo onnipotente. Questa è la causa per cui la perdita di un oggetto di questo tipo è del tutto intollerabile. Essa abbatte completamente il nostro senso infantile di onnipotenza, costringendoci a riconoscere la realtà della nostra dipendenza dal mondo degli oggetti, lasciandoci perciò con un’ampia ferita aperta.
Con la speranza, al contrario, si mantiene la spinta vitale; si riconosce la realtà e la corrispondenza tra oggetti esterni e quelli del mondo interno. Sembra che, con la speranza, i genitori possano sostenere la realtà a volte tragica del loro bambino attingendo ai propri oggetti interni vitali.
Tutti coloro che operano nel reparto di neonatologia, compresi i due psicoterapeuti, si
trovano spesso in difficoltà quando devono restare sospesi per non cadere nell’illusione; continuamente, in ogni momento della giornata, tra gli operatori stessi e nel rapporto con i genitori dei bambini ricoverati, è presente la paura legata all’illusione quasi come se questa potesse scacciare e allontanare la speranza.Tutti, nel proprio ruolo, sono impegnati a sostenere
la speranza e a non sollecitare le illusioni nei genitori, e crediamo che si possa prevenire il disagio futuro delle famiglie che vivono un’esperienza traumatica alla nascita di un bambino riuscendo a conservare uno spazio dove i genitori possano pensare subito a quello che stanno
vivendo con l’aiuto di uno psicoterapeuta. Anche il personale del reparto può utilizzare uno
spazio per elaborare le esperienze particolarmente coinvolgenti per difendersi dall’illusione e
creare quella distanza necessaria che permette ad un professionista di operare controllando
il coinvolgimento emotivo personale.
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Press.
Per richieste sul lavoro o sul progetto:
dott. A. Clarici, medico psicoterapeuta psichiatra, ricercatore confermato, Dipartimento di Scienze della Riproduzione e dello Sviluppo (DPRS), Università di Trieste, Ospedale Infantile “Burlo Garofolo”, Struttura Complessa di Neonatologia e TIN,
34137 Trieste (TS) - Via Istria, 65/1; +39040-3785-371 (Neonatologia); +39040-3785-233 (Segreteria DPRS); +390403785362 (fax); [email protected]
dott.ssa R. Giuliani, psicologa psicoterapeuta, Centro Studi di Psicoterapia a Orientamento Psicoanalitico,Via Canova n° 2,
34129 Trieste.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
TAVOLA ROTONDA
RELAZIONE SU IMPLICAZIONI
ETICHE NELLA GESTIONE
DEL GRANDE PRETERMINE
14
A. Picciotto
Magistrato, Consigliere di Corte d’Appello, Giudice del Tribunale di Trieste
Quello che potrebbe sembrare un argomento del tutto astratto, più filosofico che giuridico, costituisce in realtà una tematica affatto ricorrente nelle aule di Giustizia; numerose sono le evenienze in cui occorre individuare i parametri - anche morali - alla luce dei quali valutare il comportamento di un medico: il vaglio delle regole di etica professionale non è esercizio retorico, ma un’analisi logico-fattuale dalle delicate implicazioni sociali e giuridiche.
Ma chi può dire cosa sia eticamente corretto, o a quali norme si debba ispirare l’operatore pratico: a quali riferimenti potrà fare richiamo il giudice per tentare di rendere concreto e giuridicamente apprezzabile qualcosa di tanto astratto?
Sembrava un dato di fatto acquisito, fino a qualche mese fa, che in una società multiculturale, tendenzialmente laica, comunque evoluta, come la nostra, non potesse essere individuata in campo medico un’etica unanimemente condivisa, radicata in valori comuni e quindi da
tutti accettati, sulla quale potere fondare scelte di riferimento da parte del legislatore: invece
la recente legge sulla procreazione assistita (legge n. 40 del 2004) sembra rappresentare - dopo oltre trent’anni dalla legge 194 del 1978, ed in un mutato quadro culturale - l’imposizione di una morale di Stato, fondata sull’indimostrato presupposto di una sua condivisione da
parte della collettività, quasi che il mandato politico sia anche un mandato etico, una delega
socio-culturale-religiosa.
Fino a ieri, e si spera anche domani, alla necessità di individuare i valori etici di riferimento di talune attività si ovviava con la cosiddetta normazione deontologica, intesa come la predisposizione di regole di comportamento da parte di taluni soggetti, appartenenti ad un gruppo sociale, la cui osservanza viene pretesa a fini sanzionatori e disciplinari, e la cui operatività vige sia nei rapporti interni della categoria, quanto nei riguardi dei cosiddetti utenti.
Come acutamente osservato1, questa tendenza si accentua con riguardo a quei settori professionali che più risentono, come appunto quello medico, dei progressi scientifici, con conseguente rafforzamento dell’esigenza di incanalare l’esercizio professionale entro argini rappresentati da valori etici, anche in reazione a quella che fino a ieri sembrava essere l’inerzia del
legislatore, inerzia - o meglio, scelta più o meno consapevole di non interventismo - che conseguiva alla cosciente “perdita di esclusività dello strumento legislativo e, più in generale, del traGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
dizionale sistema fondato sull’imposizione di regole dall’alto, a favore di meccanismi di regolamentazione che trovano la propria legittimazione nell’essere, appunto, frutto dell’autonomia di quei
gruppi, la cui attività risulta necessaria per la società”2.
In questo quadro si è verificata l’emersione della normativa deontologica, con la conseguente ritrazione della potestà normativa statuale a suo vantaggio. Proprio il riconoscimento
del valore della codificazione deontologica, da parte delle corti civili, penali ed amministrative, ha indotto a rivedere la tradizionale concezione di discontinuità e separazione tra regola
etica e regola di diritto, chiamando tutti ad una nuova considerazione del valore giuridico delle norme di autoregolamentazione.
Già trent’anni or sono la Suprema Corte di Cassazione3 insegnava che “al pari degli altri
Ordini, quello delle professioni sanitarie è, per antica tradizione, titolare di poteri di autarchia e di
autonomia, il cui esercizio realizza il principio dell’autogoverno della professione. E la manifestazione più elevata di questo è costituita dall’enunciazione e dalla conservazione delle regole di deontologia professionale, nonché, in un successivo e solo eventuale momento, dalla concreta applicazione delle regole stesse, secondo le forme e le garanzie della procedura disciplinare”.
Continuava “L’ordinamento riserva, quindi, alla categoria professionale ed agli organi che ne sono
espressione, poteri di autonomia in relazione all’individuazione delle regole di comportamento dei
professionisti e poteri di c.d. autocrinia in sede di applicazione delle regole stesse.” Aveva tuttavia
modo di precisare, limitando così l’innovatività del proprio insegnamento, che “Queste, però,
non assurgono a norme dell’ordinamento generale, ma operano quali regole interne della particolare categoria professionale cui si riferiscono”.
Solo successivamente il pensiero giuridico ha colto che la vera essenza della normazione
deontologica non era più soltanto quella di assolvere ad esigenze organizzatorie della singola categoria di associati, quanto piuttosto quella di tutelare i destinatari dell’attività professionale; quando sono state intuite le connotazioni di stampo pubblicistico insite nell’autoregolamentazione, quale strumento finalizzato al perseguimento di finalità d’interesse pubblico, allora sono mutati anche l’approccio e la considerazione della Giurisprudenza in ordine ai codici di autoregolamentazione, primo tra tutti quello medico. Sono poi arrivati anche i riconoscimenti legislativi a livello nazionale4 e comunitario5, e con essi la previsione di coordinamento tra i meccanismi giudiziari e quelli dell’autodisciplina, di cui veniva quindi, implicitamente,
operato il riconoscimento.
Solo incidentalmente conviene osservare che il grado di integrazione tra diritto statale e
disciplina di fonte autoregolamentare può toccare vari livelli, fino a quello massimo del rinvio
diretto da parte della legge: si veda per esempio l’art. 25 della legge 31 dicembre 1996, n.675,
sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, il quale
demanda alla stessa codificazione deontologica (ad opera del Consiglio Nazionale dell’Ordine
dei Giornalisti) l’adozione di “misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati”. Per rimanere alla nostra materia, è quanto recentemente successo in Francia, dove il codice di deonto178
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
logia medica è stato adottato con atto di valore normativo (décret n.95-1000 del 6 settembre 1995). In questo modo però, come ben posto in rilievo6, si rischia di snaturare i tratti peculiari della disciplina deontologica, riducendola da fonte autonoma e concorrente, a fonte
delegata e condizionata nei fini, oltre che nelle modalità del loro perseguimento.
Altro grado di integrazione, ritenuto dalla dottrina più rispettoso delle peculiarità del fenomeno, è quello apprestato dal legislatore con il riconoscimento, in capo agli organi rappresentativi di una certa categoria, del potere di elaborare principi di deontologia professionale.
È quanto avvenuto per la professione notarile7, e ciò proprio sul presupposto che l’elaborazione di principi deontologici da parte dell’organo di categoria rispondeva ad un preciso interesse della collettività.
Ma vediamo ora più da vicino come le regole deontologiche divengano rilevanti per l’ordinamento generale.
In primo luogo, esse costituiscono il riferimento del rinvio contenuto nell’art. 1176, comma 2, cod. civ., alla diligenza nell’esercizio dell’attività professionale, che costituisce la misura
per valutare l’adempimento dell’obbligazione da parte del medico; alla norma sono agganciate le previsioni che disciplinano la prestazione d’opera intellettuale, ed in particolare l’art. 2236
cod. civ. che regola la responsabilità del prestatore. Inoltre esse vengono a dare contenuto alle cd. clausole generali dell’ordinamento, cioè quelle previsioni generali ed astratte che si pongono alla base della risoluzione di conflitti: sono i principi cardine come l’ordine pubblico ed
il buon costume. Del resto, come detto poco sopra, le statuizioni dei codici deontologici sono proprio finalizzate alla tutela dei destinatari dell’attività professionale, ed è quindi logico
che le loro previsioni vengano utilizzate quando si debba formulare un giudizio di responsabilità professionale.
Ma oltre a riempire di contenuto il rapporto obbligatorio tra le parti, medico e paziente,
i doveri di correttezza professionale esplicitati nelle regole deontologiche, vengono ad operare anche in assenza di un preesistente vincolo obbligatorio, a garanzia di chiunque venga
raggiunto dall’attività professionale.
In una importante decisione8 si è poi ritenuto che le regole contenute nel codice di autodisciplina (nel caso di specie, dell’attività pubblicitaria) costituiscano parametri di valutazione della correttezza professionale, in quanto espressione dell’etica professionale consentendo “di adeguare i principi di correttezza professionale ... al costume eticamente inteso”, e quindi
saldando quei due universi (etica e diritto) in continua tensione e difficile contatto.
Sebbene i richiami alle regole di perizia, di prudenza e diligenza, esplicitati nei codici di autoregolamentazione in generale, ed in quello medico in particolare, siano maggiormente rilevanti nel settore penale, tuttavia anche nel campo dell’illecito civile contrattuale (chè contrattuale è il rapporto tra medico e paziente, anche nella struttura pubblica9), il rispetto della normazione deontolgica assume molta importanza. Si pensi che prima della ratifica della
Convenzione di Oviedo, sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, del 4 aprile 1997, da parte
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
della legge 28 marzo 2001, n.145, veniva fatto chiaro richiamo10, per accertare la responsabilità contrattuale del medico per omissione dell’informazione, proprio alla fonte autoregolamentare.
In ultima analisi, la regola deontologica viene a costituire il fondamento di prerogative e
pretese da parte dell’utente, tanto da essere invocata sempre più spesso nelle aule dei tribunali.
Ma rimaniamo aderenti al tema in oggetto.
Nell’evoluzione del codice di deontologia medica, tra i tanti, merita di essere colto l’aspetto del rapporto tra medico e quello che veniva - possiamo ormai usare un tempo passato chiamato il paziente. Analizzando la posizione del medico in questo particolare rapporto, la
definizione di “potestà professionale” è stata solo recentemente abbandonata, a vantaggio dell’espressione “indipendenza professionale” che meglio vale ad esprimere la nuova concezione della relazione medico-paziente: su ciò si tornerà di qui a poco.
L’atto medico è oggi il risultato della “alleanza fra due autonomie”11, è il frutto di una cooperazione all’impresa curativa, che - vedremo di qui a poco - deve passare attraverso una fase conoscitiva, essenziale per entrambi i protagonisti della cosiddetta alleanza terapeutica.
Proprio prendendo atto della asimmetria del rapporto tra medico e paziente e di quella
ovvia, naturale situazione di inferiorità in cui si viene a trovare il secondo nei rapporti con il
primo, il codice ha avuto il principale compito di ridurre tale squilibrio, formulando le norme
di comportamento a cui i sanitari si impegnano ad attenersi. In tempi ormai risalenti, era convincimento giuridico, oltre che sociale, che il mettersi nelle mani di un medico famoso comportasse la preventiva accettazione di quelle determinazioni che lo stesso medico avrebbe
poi preso, se ed in quanto necessario per la vita e la salute dell’ammalato, determinazioni che
proprio in quanto assunte dal medico - nella sua imperscrutabile discrezionalità - erano per
ciò stesso, assiomaticamente, conformi all’interesse del paziente.
Progressivamente il ruolo decisionale del paziente è cresciuto, e con esso il grado del dovere dell’informazione da parte del sanitario. Si osserva come questa evoluzione culturale12
sia passata dalla formulazione dell’art. 30 del codice deontologico del 1978, il quale prevedeva:“Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia”;
a quella dell’art. 40 del codice del 1989, secondo cui: “il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostico terapeutica senza il valido consenso del paziente, che se sostanzialmente implicito nel rapporto di fiducia, dev’essere invece consapevole ed esplicito allorché l’atto
medico comporta rischio o permanente diminuzione dell’integrità fisica”; alla statuizione della normativa deontologica del 1995, il cui art. 31 stabiliva che “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato”.
Il mutamento dei rapporti, influenzato proprio dalla presa di coscienza della classe medica, è stato rapido se non tumultuoso. Meritano di essere ricordate le parole del Presidente
della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri13, Aldo
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
Pagni, secondo cui “Per troppo tempo abbiamo creduto che la nostra missione fosse soltanto quella di salvare vite, alleviare sofferenze e guadagnare terreno alla morte, che sono poi gli scopi principali della medicina, senza preoccuparci delle profonde implicazioni sociali della nostra pratica,
nell’illusione che questa fosse fuori dai flussi della storia sulla base di un immutabile modello formativo ed operativo autoreferenziale” (Atti del Convegno di studio della F.N.O.M.C.e O., cit.,
pag. 8).
Uno degli aspetti applicativi di questa evoluzione è quello che riguarda l’amplissima tematica del consenso alla prestazione medica, all’interno del quale, a mio parere, deve trovare soluzione la problematica della scelta e dell’iniziativa terapeutica nel caso del grande pretermine.
Il momento decisionale nell’individuazione della scelta terapeutica, intesa in senso amplissimo, si sta spostando dalla competenza tecnica e professionale del medico alle esigenze personali del paziente, e quindi al pieno rispetto della sua libertà di autodeterminazione: ciò ha
fatto brillantemente dire14 che “il consenso informato mira a porre al centro dell’attenzione del
medico non tanto, o non soltanto la malattia , ma la persona bisognosa di cure”.
Nei documenti di approvazione dei piani sanitari nazionali si leggono con sempre maggiore evidenza i riferimenti alla possibilità di una scelta consapevole tra diverse opzioni diagnostiche e terapeutiche da parte dell’utente, e quindi all’esigenza che l’informazione divenga uno
degli aspetti decisivi nel rapporto tra il Sistema Sanitario Nazionale ed i cittadini, in una transizione da una concezione paternalistica ad una concezione democratica dell’assistenza sanitaria, che incontra ancora alcuni ostacoli. Possiamo quindi dire15 che “è, in definitiva, solo il titolare del diritto “individuale” che è legittimato a decidere il “se”, il “quando” e il “come” dell’accertamento e del trattamento sanitario anche se il medico ritenesse più utile per lui una soluzione
diversa: intervenire anziché soprassedere, intervenire tra un mese anziché tra un anno, con soluzione radicale anziché in modo più contenuto e così via”.
Oggi il dovere dell’informazione sussiste in ogni caso, non potendosi più discutere di una
implicita accettazione delle decisioni del medico riguardanti la persona del paziente senza la
previa informazione, e ciò ancorché non si prospetti alcun rischio di diminuzione della integrità fisica. Al riguardo, mentre nel codice del 1995 l’art. 29 statuiva: “la volontà del paziente,
liberamente e attualmente espressa, deve informare il comportamento del medico, entro i limiti
della potestà, della dignità e della libertà professionale”, in tal modo limitando l’autonomia del
paziente a vantaggio dalla “potestà” professionale del medico, e rievocando16, in certo qual
modo, la funzione autolegittimante a discapito della libertà del paziente; invece, l’art. 34 del
codice del 1998, prevede che “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e
dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona”. È evidente come alla “potestà” di curare del medico si sia sostituita la “indipendenza” professionale, con definitiva dismissione di qualsiasi potere vagamente coercitivo o funzionale e della relativa “soggezione” del paziente.
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
Lo stesso legislatore sembra pronto a prendere atto di questa evoluzione, se è vero che
in una delle tante proposte concernenti le disposizioni in materia di consenso informato e di
dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari17 si rinviene un articolato che prevede che “Ogni persona capace ha il diritto di prestare o negare il proprio consenso in relazione
ai trattamenti sanitari che stiano per essere eseguiti o che siano prevedibili nello sviluppo della patologia in atto... In caso di ricovero ospedaliero la dichiarazione di volontà di cui al comma I deve
essere annotata nella cartella clinica e sottoscritta dal paziente”. Viene ad essere esaltato, come
si legge nella Relazione illustrativa, “il principio di autodeterminazione nel campo delle cure mediche e la consapevolezza che ogni persona ha il diritto di essere protagonista delle scelte riguardanti la sua salute, sia nel senso di accettare sia nel senso di rifiutare l’intervento medico... Anche
la giurisprudenza italiana ha avuto modo di chiarire che il rifiuto di un trattamento da parte della persona interessata deve essere rispettato, indipendentemente dalla valutazione dell’operatore
sanitario in merito al “bene” del paziente... Appare evidente come il consenso o il rifiuto espresso
dalla persona nei confronti di un qualsiasi trattamento, sia diagnostico che terapeutico, possa rappresentare un autentico atto di autodeterminazione, libero e consapevole, solo se la persona riceve un’informazione completa e corretta della diagnosi, della prognosi e di ogni altro elemento che
concerna la scelta che la persona stessa è chiamata ad effettuare (cosiddetto “consenso informato”). Tuttavia nonostante il preciso dettato costituzionale e l’affermazione del principio di autodeterminazione recata dalle regole deontologiche mediche, la pratica clinica nel nostro paese continua ad essere permeata da una scarsa o sporadica informazione del paziente e dalla frequente
violazione della richiesta di consenso alle procedure diagnostiche o terapeutiche alle quali la persona malata è sottoposta... Il diritto di autodeterminazione della persona per quanto attiene alle
scelte relative alle cure incontra poi limitazioni assolute nelle circostanze in cui la persona venga
a perdere la capacità di decidere ovvero di comunicare le proprie decisioni...”.
Un rapido esame delle fonti regolamentari e normative in vigore impone il richiamo dell’art. 30 del codice deontologico, il quale prevede che “Il medico deve fornire al paziente la più
idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche”; e dell’art. 5 della Convenzione di Bioetica, secondo cui “Un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero e informato.Tale persona riceve preliminarmente informazioni adeguate sulla finalità e sulla natura del trattamento nonché sulle sue conseguenze e i suoi rischi”. In
particolare il “Rapporto Esplicativo” allegato alla Convenzione ad ulteriore chiarimento del
tenore dell’art. 5, aggiunge:“Il consenso del paziente non può essere libero e consapevole se non
è dato in seguito ad una informazione oggettiva del sanitario responsabile sia per quanto riguarda la natura che le conseguenze possibili dell’intervento programmato e delle sue alternative e in
mancanza di ogni pressione da parte di altri. L’art. 5, comma II, dichiara così gli elementi più im182
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
portanti riguardanti l’informazione che deve precedere l’intervento ma non si tratta di un elenco
completo: il consenso informato può implicare secondo le circostanze, ulteriori elementi. I pazienti
devono essere informati in particolare sui miglioramenti che possono derivare dal trattamento, sui
rischi che questo comporta (natura e grado di probabilità) e sul suo costo. Trattandosi dei rischi
dell’intervento o delle sue alternative, l’informazione dovrebbe riguardare non solo i rischi inerenti
al tipo di intervento mirato ma ugualmente i rischi che sono propri delle caratteristiche individuali di ogni persona, come l’età o la presenza di altre patologie. Si deve rispondere in modo adeguato alle richieste di informazione supplementare formulate dai pazienti”.
Non possiamo spingerci oltre nell’esame dell’evoluzione dell’istituto del consenso informato, se non per riportare le recenti osservazioni di un apprezzato medico legale18 per il quale: “Se noi parliamo ai medici del consenso informato, di solito questi pensano a un modulo sotto
il quale mettere una firma. È un termine che fa scomparire il concetto di informazione, collocandolo come una sorta di appendice, come aggettivo attaccato al consenso, che diventa quindi la cosa più importante. Ciò che conta è che prima di entrare in sala operatoria si faccia firmare un modulo: questo è il “consenso informato”. Questa osservazione piuttosto amara ha però aperto nel consesso in cui fu esternata - le porte del dibattito ad una attenta analisi sulla necessità
di distinguere il concetto di informazione da quello di consenso, individuando nel primo “il
momento principale”, quale processo che, in un contesto di valida comunicazione interpersonale, si conclude, eventualmente, con il consenso (oppure con il rifiuto, a questo punto pienamente legittimo).
Queste considerazioni mi introducono alla formulare le mie considerazioni su quale potrebbe essere un sistema di costruzione del consenso positivamente apprezzabile da parte
di un giudice, nel caso di contenzioso sulla scelta terapeutica in evenienza di grande pretermine.
Proprio seguendo le linee evolutive della tematica del consenso, che non va più inteso
quale un passe-partout verso l’immunità disciplinare e sanzionatoria, buono per tutte le stagioni, ma quale momento finale di un processo formativo ed informativo del paziente, ritengo che dobbiamo essere pronti a scindere la figura del medico operatore da quella dell’informatore, garantendo al primo la partecipazione al processo, ma sottraendogli il monopolio dell’informazione. Il miglior medico potrebbe essere infatti una persona poco adatta alla discussione, incapace di percepire particolari problematiche psicologiche, non dotato di uno specifico bagaglio che gli consenta di comprendere la personalità del suo interlocutore.
Per queste ragioni, come so essere accaduto in alcuni centri medici, penso che risponderebbe ai canoni della miglior diligenza professionale la scelta, da parte dei responsabili della
struttura ospedaliera, o delle singole unità operative, di mettere a disposizione del paziente
un pool di specialisti per un approccio multidirezionale alla costruzione del consenso informato.
Questa potrebbe essere la chiave di volta per approntare, di fronte a problemi scientifiGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
camente insolubili, la migliore risposta possibile. Mi sembra infatti intuitivo che quanto più è
chiara la prospettiva medico-scientifica del caso clinico, positiva o negativa che sia, tanto più
prendono immediato e definitivo sopravvento, nella mente del paziente, fattori istintivi che
selezionano automaticamente i canali di formazione del convincimento. Ma dove si tratta di
esplorare un’incognita e di costruire una scelta senza evidenza clinica, come nel caso del grande pretermine, diviene essenziale apprestare per il paziente un valido bagaglio culturale, scientifico, psicologico, non senza una pragmatica costs-benefits analisys, per garantirgli la possibilità di risolversi a quella che, in quel momento drammatico, sia per lui la miglior scelta possibile.
Immaginerei ad esempio una equipe composta, ovviamente, dallo psicologo, specializzato
in rapporti di famiglia; ma anche da una persona dalle specifiche competenze amministrative
per una lettura socio-economica delle possibili implicazioni della scelta: sapere quali presidi
siano offerti dal sistema sanitario nazionale, quali possibili prospettive vi siano per i lavoratori, quali ripercussioni sui redditi, può ricoprire un’importanza - al momento della scelta terapeutica - difficilmente contestabile. In caso di forte motivazione religiosa, penso sia il caso di
garantire la presenza di un credente in grado di comprendere - per specifica cultura scientifica - le implicazioni mediche delle scelte etiche.
Un caso straordinario, come la gestione di un parto pretermine con incertezza assoluta
sugli esiti, richiede uno straordinario sforzo per consentire alla paziente di determinarsi autonomamente ad una scelta che cambierà la sua vita, e non solo lo stato della sua salute.
Vi è poi da esaminare un altro argomento, giuridicamente pregnante.
È noto - infatti - che salvo il caso di grave pericolo di vita per la donna, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la gestante può esercitare il diritto all’aborto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6 e 7 comma terzo legge 22 maggio 1978 n.194, solo in presenza di
due condizioni positive concernenti la propria salute (e cioé: che sussista un processo patologico, fisico o psichico, anche indotto da accertate malformazioni del feto, in atto per la madre; e che sussista il pericolo, da accertare con valutazione “ex ante”, che tale processo patologico degeneri recando un danno grave alla salute della madre), e di una negativa, costituita dall’insussistenza di possibilità di vita autonoma per il feto. Proprio quest’ultimo aspetto, e
cioè cosa debba intendersi per “possibilità di vita autonoma del feto” rimarrebbe da approfondire nel caso di gestione del grande pretermine: penso che non sia possibile fare riferimento al concetto, utilizzato sovente dalla Giurisprudenza19, di “un certo grado di maturità
del feto” che gli consenta, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e
di completare il suo processo di formazione anche fuori dall’ambiente materno. Difatti, qualora sia possibile sapere che il feto è in grado di completare il suo processo evolutivo extrauterino, non si dovrebbe a rigore più discutere di gestione decisionale del grande pretermine,
ma si dovrebbe obbligatoriamente avviare la donna al parto, per non incorrere in responsabilità per avere cagionato un aborto fuori dai casi previsti dalla legge.
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
È poi da vagliare la responsabilità dei genitori (in realtà della madre, con il possibile concorso morale del padre) i quali decidano di non fare praticare le cure necessarie per ottenere la nascita di un neonato vitale (pur con prognosi quoad valitudinem estremamente critica), malgrado il parere fornito dai sanitari e la completezza dell’informazione. Quale scenario
si presenta per l’ipotesi in cui la madre decida di non consentire cure per il feto al fine di ottenere quindi una nascita che, essendo più prococe, riduca la possibilità di sopravvivenza del
nascituro?
È chiaro che qualora la scelta determini l’insorgenza di lesioni evitabili, o l’aggravamento
di lesioni che possano qualitativamente incidere in modo significativo sulla vita del neonato, i
genitori potrebbero incorrere nel delitto di lesioni volontarie. L’accertamento del delitto sarà oltremodo difficile, atteso che manca - per definizione - quella certezza medica e clinica
che, fotografata al momento della scelta (e non - ovviamente - dopo la nascita), costituirebbe la necessaria chiave di lettura nel giudizio prognostico secondo le regole della causalità
adeguata. Se però si fosse in grado di selezionare la tipologia di lesioni (o del loro aggravamento) con un margine di certezza apprezzabile, allora il reato di lesioni potrebbe essere materialmente concretato. Si dovrebbe poi affrontare il problema dell’accertamento dell’elemento psicologico del reato, in quanto per poter discutere di lesioni volontarie si deve essere in
presenza di un dolo diretto, o al più eventuale, altrimenti si dovrebbe parlare di lesioni colpose. Occorre al riguardo distinguere, infatti, tra due figure piuttosto astratte e che costituiscono una vera e propria palestra per gli esercizi di tecnica giuridica: si tratta del dolo eventuale e della colpa cosciente. Il dato differenziale tra le due ipotesi va rinvenuto nella previsione dell’evento (nel nostro caso, morte o lesioni): tale previsione, nel dolo eventuale, si propone non come incerta, ma come concretamente possibile e l’agente, nel volere la condotta attiva od omissiva, ne accetta il rischio, così che la volontà investe anche l’evento rappresentato. Nella colpa cosciente, invece, la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta che
nella coscienza del soggetto non viene concepita come concretamente realizzabile e, pertanto, non è in alcun modo voluta20.
È chiaro che, ancora una volta, la chiave di selezione sarà la metodologia di costruzione
dell’informazione finalizzata al consenso: quanto infatti maggiori saranno la completezza del
panorama fornito, il grado di accuratezza nell’analisi dei fattori individuanti la patologia, le prospettive di risolutività delle cure al feto, tanto maggiore sarà l’accettazione concreta del rischio
in capo alla gestante che decida di omettere le cure necessarie. Rimarrà pur sempre possibile, però, dimostrare processualmente il cd. omnimodo facturus, e cioè la circostanza che comunque il neonato sarebbe morto, che certe lesioni si sarebbero in ogni caso verificate. Ma
la rigidità della giurisprudenza, in tema di danno alla qualità concreta della vita, costituisce un
indirizzo dogmatico difficilmente sovvertibile.
Facendo nuovamente un passo indietro in ordine all’analisi causale (oltremodo complessa in casi del genere), si osserva che normalmente, in presenza della complessa situazione paGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
tologica (come quella che verosimilmente affetterà il grande pretermine), e dunque in costanza di una pluralità di fatti coevi (ma anche succedentisi nel tempo, come quelli indotti dalla
mancanza di cure per accelerare la nascita), ad ognuno di essi deve essere riconosciuta un’efficacia causativa del danno, qualora abbiano determinato una situazione tale che senza l’uno
o l’altro di essi l’evento non si sarebbe verificato (cd. causalità materiale, concetto che però
non è di aiuto per selezionare i fattori causali giuridicamente rilevanti). Deve invece attribuirsi il rango di causa efficiente esclusiva ad uno solo dei fatti imputabili quando, inserendosi questo quale causa sopravvenuta nella serie causale, venga a spezzare il nesso eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti; ovvero quando, esaurendo sin dall’origine e per forza propria la serie causale, riveli l’inesistenza, negli altri fatti, del valore di concausa e li releghi al rango di occasioni estranee21. Ma secondo la giurisprudenza di legittimità22, qualora si discuta della lesione del bene “vita”, al fine di escludere la rilevanza causale di un evento è necessario che esso non solo non abbia causato l’evento di danno, ma non l’abbia neppure minimamente accelerato.
Questo nesso di causalità tra fatto (omissione di cure al feto) e l’accelerazione dell’evento morte dovrà essere valutato secondo i principi della regolarità causale: sebbene il fatto illecito non sarà esso direttamente causa della morte in termini assoluti, tuttavia sarà comunque cagione di “quella” morte, in quei termini temporali anticipati.
Il medico non potrà che rimanere spettatore di questa triste situazione, nella quale, proprio per l’enorme margine di incertezza sull’esito della gravidanza, sulla fondatezza dei presupposti e la prevedibilità delle conseguenze, sulla risolutività delle pratiche terapeutiche, nessuno potrà esprimersi con un apprezzabile grado di sicurezza prima della nascita. Non si tratta di un campo di indagine giuridica, un po’ come accaduto in un contesto temporale non
lontano, quando le aule di tanti Tribunali, anche in Trieste, costituirono l’ultimo approdo per
persone senza ormai altra speranza, se non quella offerta dalla disinformazione mediatica sulla cd. cura Di Bella. Allora, in mancanza di una seria letteratura scientifica, di anni di sperimentazione “a doppio cieco”, non doveva essere logicamente e giuridicamente possibile per il giudice obbligare il S.S.N. a prestare gratuitamente farmaci di nessuna comprovata valenza. Non
era possibile allora, come non lo sarebbe in questo caso, attribuire ad un consulente il compito di colmare le lacune esistenti nella conoscenza scientifica, anche perché nel tempo necessario per espletare la consulenza il parto si sarà verosimilmente già verificato.
Non mi sembra vi siano, quindi, spazi per impedire ai coniugi - i quali beninteso se ne assumeranno la responsabilità - di omettere le cure al feto, neanche qualora si ravvisino gli estremi dell’incapacità della gestante, nei cui confronti si potrebbe addivenire ad un T.S.O., ma non
ad una cura diretta del feto, neanche prospettando una sospensione o la decadenza dalla potestà del genitore. Infatti l’intervento terapeutico, per quanto diretto al feto, avviene sempre
“attraverso” la persona della madre.
L’estremizzazione del consenso alla terapia, per cui non è mai possibile intervenire in ca186
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
so di paziente lucido e consapevole che rifiuti la prestazione, impedisce al medico di prestare la propria attività: qualora il pubblico ufficiale ritenga sia stato commesso un reato di lesioni o di soppressione del feto, potrà e dovrà presentare denunzia alla Procura della Repubblica.
Dobbiamo però chiederci se ancora oggi certe conclusioni, in particolare quelle sulla mancanza di diritti del feto ad ottenere le cure necessarie, siano ancora valide.
La Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite il 20 novembre del 1959 con il n.1386, garantisce cure mediche e protezioni sociali adeguate “specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita”; il Preambolo della
Convenzione sui diritti dell’infanzia statuisce la necessità di una protezione legale appropriata “sia prima che dopo la nascita”. Eppure non mancano giuristi23 secondo cui il riconoscimento di una capacità al concepito comporterebbe che “nel medesimo corpo (della madre) vi
sarebbero poi due titolari di diritti: la madre e l’embrione”, quasi rievocando l’antica definizione per cui il frutto del concepimento sarebbe “mulieris portio vel viscerum”.
Sappiamo che l’art. 1 della legge n. 194/1978, sull’interruzione volontaria della gravidanza,
stabilisce che “lo Stato (…) tutela la vita umana dal suo inizio”. Su questo minimo impianto
la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975, nel dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 546 cod. pen. (reato di procurato aborto), aveva statuito il fondamento costituzionale
della tutela del concepito, riportando la sua situazione giuridica tra i diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost.: questo diritto era quindi denominato tout court diritto alla vita,
oggetto di tutela proprio come il diritto alla vita ed alla salute della donna gestante.
Nell’insegnamento della Corte Costituzionale, l’equilibrio tra tali diritti “quando siano entrambi esposti a pericolo, si trova nella salvaguardia della vita e della salute della madre, dovendosi peraltro operare in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto”.
In seguito la stessa Corte Costituzionale, nel negare l’ammissibilità di un referendum abrogativo della legge 194 del 1978, con la sentenza n. 35 del 1997, e nel ribadire “il diritto del concepito alla vita”, ulteriormente precisava che esso “può essere sacrificato solo nel confronto con
quello - pure costituzionalmente tutelato e da iscriversi tra i diritti inviolabili - della madre alla salute e alla vita”.
Venendo ai giorni nostri, ed andando con la memoria a quella contestatissima legge di cui
in esordio aveva fatto cenno, e cioè la legge n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente
assistita, molto è stato scritto da raffinati giuristi sull’infelice norma dell’art. 1, per il quale la
legge “assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.
Ancora una volta, come osservato in dottrina24 il problema è “quello della individuazione
dei diritti dei quali il concepito sia titolare, dovendosi peraltro escludere... che egli possegga una capacità giuridica generale”. Soccorrono anche qui le decisioni della Corte Costituzionale sopra
riportate, secondo cui il concepito ha un diritto alla vita, tutelato penalmente, destinato a cedere solo di fronte al concorrente diritto fondamentale alla vita ed alla salute della madre.
Ma tra i diritti che spettano all’individuo assume particolare rilievo il diritto alla salute, di
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
cui all’art. 32, I comma, Cost., che viene proprio indicato come “fondamentale diritto dell’individuo”. Questo termine “individuo” costituisce un “apax legomenon”, cioé è stato utilizzato una
sola volta nella stesura del testo costituzionale; ad esso ha attinto la Suprema Corte di
Cassazione25 per sanzionare civilmente la responsabilità della struttura medica per avere omesso le prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita evitandogli - nei
limiti consentiti dalla scienza - qualsiasi possibile danno. Tuttavia, e questo è appunto il limite
che appare ancora oggi invalicabile, questo diritto al risarcimento può essere riconosciuto al
soggetto solo dopo la nascita, al momento dell’acquisto della capacità giuridica26.
Osserviamo ancora che il diritto alla tutela delle propria dignità ed identità, statuito dalla
Convenzione di Oviedo, sembra sicuramente spettare anche al concepito, tanto che la
Convenzione è citata nella sentenza della Corte Costituzionale n.45/2005, che anche su di
essa ha fondato27 l’inammissibilità del referendum sull’abrogazione integrale della legge n.
40/2004.
Infine, rammentiamo tutti il principio contenuto nel secondo comma dell’art. 31 della
Carta Costituzionale, secondo cui la Repubblica “protegge la maternità…, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”: per quanto il precetto non contenga un chiaro riconoscimento di
soggettività nel concepito, esso esprime28 una tutela assoluta ed oggettiva per un istituto che
non si identifica per intero nè con la madre, nè con il figlio, anche se non può evitare di presupporre l’esistenza di entrambi.
Ancora, dal disposto dell’art. 30 della Carta secondo cui “è dovere... dei genitori mantenere... i figli, anche se nati fuori del matrimonio”, attenta dottrina29 fa discendere non solo il dovere di mantenere in vita i figli, inclusa la fase di vita pre-natale, e quindi di agevolarne e non
impedirne la nascita; ma soprattutto la convinzione che a questo dovere debba essere necessariamente “correlato, ed anzi contrapposto, in ogni figlio il corrispondente diritto, indipendentemente da analisi eleganti o da raffinate e sottili disquisizioni sullo stato giuridico del nascituro
già concepito, sul momento della comparsa del fascio neurale o della stria primitiva, sulla data
di inizio e sulla durata della vita intrauterina, sulla problematica distinzione tra feti maturi ed immaturi”.
Ma il giurista pratico, quello chiamato ad applicare le leggi ed a verificare l’esistenza e la
praticabilità dei diritti, non può che constatare come - allo stato dell’arte - il concepito non
sia titolare di una capacità giuridica generale, ma solo di una certa soggettività giuridica, che
preclude una sua tutela piena, assoluta; essa è di fatto condizionata in parte alla nascita, mentre per altra e più importante parte deve scontare la sua stessa peculiarità, e cioè il fatto
che la sua concreta e materiale individuazione sia ancora ricavata per esclusione, cioè con
riferimento alle posizioni soggettive degli altri soggetti con i quali entra in relazione, primi
tra tutti i genitori.
Il concepito, il feto, il nascituro, al di fuori delle specifiche ed individuate ipotesi normative, non può essere tutelato - ancora oggi - contro i propri genitori o senza di essi.
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Relazione su implicazioni etiche nella gestione del grande pretermine
Bibliografia
1. Quadri E., Il codice deontologico medico ed i rapporti tra etica e diritto, in Resp. Civ. e prev., 2002, 925 ss.
2. Quadri E., Il codice deontologico cit.
3. Cass., sez. un., 24 maggio 1975, n.2104
4. Si veda l’art.8 del d.lgs. 25 gennaio 1992, n.74 in tema di autotutela e pubblicità ingannevole.
5. Ad esempio la direttiva 84/450/CEE.
6. Quadri, Il codice deontologico, cit.
7. Ad opera dell’art.16 della legge 27 giugno 1991, n.220 che ha attribuito nuove prerogative al Consiglio nazionale del notariato.
8. Cass. 15 febbraio 1999, n.1259.
9. Cass. civ., sez. 3, sent. n.6386 del 8.5.2001.
10. Cass. Civ., sez. 3, sent. n.7027 del 23.5.2001.
11. Barni M., Il rischio in medicina oggi e la responsabilità professionale, Atti del Convegno di Studio della F.N.O.M.C. e O.
del 26.6.1999, pag. 125.
12. Bilancetti M., Il Consenso informato: contenuto, forma e requisiti di validità, relazione tenuta all’incontro di studi del
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responsabilità ed etica.
13. In apertura del convegno Il rischio in medicina oggi e la responsabilità professionale, tenutosi in Roma il 26.6.1999, Atti
del Convegno di studioa cura della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Milano,
2000, pag.8.
14. Giunta F., Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv.it.dir. proc.
pen.2001, 378.
15. Bilancetti M., Il Consenso informato, cit.
16. Bilancetti M., Il Consenso informato, cit.
17. Proposta di legge n. 5673 presentata alla Camera dei Deputati dagli on.li Griffagnini, Bracco + 17.
18. Le parole sono di Paolo Benciolini, Professore ordinario di Medicina Legale, presso l’Università degli Studi di Padova, relatore in occasione del recente incontro su “Testamento biologico direttive anticipate di trattamento”, tenutosi a Trieste il
6.4.2005, ed organizzato dalla Associazione Goffredo de Banfield, sull’argomento “Aspetti medico legali delle direttive anticipate”; in atti del convegno, pag. 18.
19. Cass. civ., sez. 3, sent. n.6735 del 10.5.2002.
20. Cass. pen. sez. I, 8 novembre 1995, n. 832.
21. In ipotesi ordinarie, e non di lesioni mortali, Cass. 19 settembre 1996, n. 8348
22. Cass., sez. 3, sent. n. 5962 del 10.5.2000.
23. Alpa, Lo statuto dell’embrione tra libertà, responsabilità, divieti, in AA. VV., La fecondazione assistita. Riflessioni di otto
grandi giuristi, Milano, 2005, 164. L’osservazione della contrapposizione di queste ed altre teorie è di Grossi, Alcune considerazioni in merito al problema della tutela giuridica del concepito, Relazione tenuta nel corso del convegno “Procreazione
assistita: problemi e prospettive”, Roma, 31.1.2005, atti pubblicati su http://www.laprocreazioneassistita.it.
24. Pepanti-Pellettier, Il problema della qualificazione soggettiva del concepito, Relazione tenuta nel corso del convegno
“Procreazione assistita: problemi e prospettive”, Roma, 31.1.2005, atti pubblicati su http://www.laprocreazioneassistita.it.
25. Cass., sez. 3, sent. n. 11503 del 22.11.1993, cui fa riferimento Pepanti-Pellettier, in Il problema della qualificazione cit..
26. Conforme Cass., sez. 3, sent. n. 5881 del 9.5.2000, secondo cui è risarcibile, subordinatamente all’evento della nascita, il
danno alla salute subito per imperizia del medico durante la vita prenatale.
27. L’osservazione è di Pepanti-Pellettier, in Il problema della qualificazione cit..
28. Grossi, Alcune considerazioni in merito, cit.
29. Grossi, Alcune considerazioni in merito, cit.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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15
PRE-ECLAMPSIA:
A MULTI SYSTEM DISORDER
PRE-ECLAMPSIA
E. Chandraharan, S.Arulkumaran
Division of Obstetrics & Gynaecology, St. George’s Hospital Medical School, University of London
Pre-eclampsia is defined as ‘raised blood pressure of >140/90 mmHg (or a rise in systolic and diastolic BP of 30 and 15 mmHg respectively) associated with proteinuria after 20th
week of gestation, on at least 2 occasions 4-6 hours apart’. Usually it disappears after delivery i.e. removal of the placenta. It is an important cause of maternal and fetal morbidity and
mortality worldwide. It is a disease of theories and the following have been postulated; Uterorenal reflex; Cortisone hormone imbalance; Hypoproteinaemia, calcium, lipoproteins, and vitamin deficiency; Coagulation system activation;Altered Prostaglandin Metabolism; Diminution
in spontaneous lymphocytic transformation; Increased Endothelin-1 gene expression in placental villous tissue; Simple recessive trait; Perturbed Steroid hormone-micronutrient; Larger
placental mass.
The primary pathology is non-invasion by cyto-trophoblasts during normal implantation.
The first wave of trophoblastic invasion is in the first trimester into the decidua when it erodes into the spiral and basal arteries. The second wave of trophoblastic invasion is from1620 weeks when it involves the arcuate arteries in the myometrium. Pre-eclampsia is commoner when there is failure of the second wave of trophoblastic invasion and it may be due to
genetic or immunological reasons.The failure of spiral arterioles to be converted to thin-walled utero-placental vessels with high flow and low resistance leads to an ‘ischaemic’ placenta.
This is believed to promote the production of hitherto unknown factor (Factor X) by the
ischaemic placenta.This factor X can cause vasospasm leading to hypertension and hypoxicorgan damage. It can lead to increased capillary permeability leading to edema: generalised,
cerebral, pulmonary, ascites and proteinuria. It can also cause wide spread capillary damage
causing oliguria, renal failure, eclampsia, DIC, HELLP Syndrome, Placental Abruption and ARDS.
Pre-eclampsia commences as a local disease in the placental-decidual interphase but progressively causes widespread endothelial damage. All the maternal organ systems are affected resulting in morbidity and mortality. Involvement of the placenta leads to Intra-uterine growth
restriction (IUGR), Abruptio Placentae, Fetal Distress and Fetal Death. Direct marker for endothelial cell damage is yet to be detected. The pathophysiology appears to be vasospasm
leading to ishaemic pathological changes. Endothelial damage and dysfunction activates the
coagulation system leading to DIC. Perturbations in hormonal and autacoid systems relates
190
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: a multi system disorder
to volume and blood pressure control (Renin-Angiotensin-Aldosterone Axis / Prostaglandin
Metabolism). Oxidative stress can lead to inflammatory-like responses.The end result is a multi-system disorder.
In the Renal system - Glomerular Endotheliosis takes place - Hallmark (‘Bloodless Glomeruli’
due to gross endothelial swelling). GFR and renal blood flow decrease leading to hyperuricemia; impaired sodium excretion. Oliguria (<30 ml/hr for 2 consecutive hours) is not that uncommon but progress to renal failure is rare. Proteinuria appears late in clinical course.
Hypocalciuria tends to occur due to alterations in calcium regulatory hormones.There is suppression of Renin - Angiotensin – Aldosterone axis. Acute Tubular Necrosis is rare and should
it occur the recovery is rapid. Renal Cortical Necrosis is rare but should it occur it may lead
to permanent renal failure.
In the Cardiovascular system - Hypertension is the commonest ‘detectable’ manifestation.
Usually it disappears after the delivery of the placenta but sometimes it may persist during
the puerperium in which case it may be chronic hypertension.The heart is generally unaffected; cardiac decompensation may occur in the presence of pre-existing heart disease.There
is debate whether there is reduced cardiac output. In severe hypertension heart failure may
occur.There is an increased incidence of peripartum cardiomyopathy in those who had preeclampsia.
In the Central nervous system - Eclampsia is the convulsive phase of pre-eclampsia. This may
be due to cerebral edema (endothelial damage, loss of cerebro-vascular auto-regulation) cerebral vasospasm or haemorrhage secondary to hypertensive encephalopathy. Amaurosis
(Temporary Loss of Vision) takes place in 1-3 % of pre-eclamptics and is related to retinal vascular or Occipital lobe injuries. Cerebral irritation gives rise to exaggerated reflexes. Small
haemorrhages can lead to drowsiness / flashes of light. If it progresses it can lead to focal neurological deficits. If the bleeding is extensive it can lead to hemiplegia or rapidly progressing
coma.
Involvement of the liver leads to abnormal liver function tests and is related to endothelial damage, alterations in perfusion and congestion. HELLP Syndrome occurs in 4-12 % preeclamptics. It is twice more common in multi-gravidae. Acute liver failure may occur. Rarely
hepatic rupture occurs and women present with Hypo-volumic shock and the mortality can
be up to 60 %.
When the haematologic system is involved thrombocytopenia is seen in up to 50 % of patients.The mechanism may be peripheral platelet destruction secondary to vaso-spasm. Microangiopathic haemolytic anaemia is seen. Haemoconcentration with raised hematocrit leads to
increased pre-disposition to VTE. They also have low antithrombin III and higher fibronectin
and acute or chronic DIC can occur.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
191
Pre-eclampsia: a multi system disorder
The respiratory system can get affected and up to 2% of patients may present with pulmonary oedema. Majority of these (80%) occur in the postpartum period and it may be iatrogenic. ARDS is rare but is associated with high mortality and needs management in an ‘Intensive
Care’ setting. Laryngeal oedema may pose difficulties with GA at the time of intubation and
may precipitate a ‘Hypertensive Crisis’ due to activation of sympathetic system.
Endothelial cell dysfunction is difficult to measure and hence surrogate markers are used.
Increase in circulating markers of endothelial activation in pre-eclampsia are - vWf, cellular fibronectin, thrombomodulin, endothelin and vascular cell adhesion molecule. Recent findings
indicate elevation of asymmetric dimethylarginine (endogenous inhibitor of endothelial nitric
oxide synthetase) and soluble fms-like tyrosine 1 kinase (antagonist of VEGF). Placental ischaemia may lead to release of lipid peroxides, cytokines, leptin and VEGF that may lead to damage of maternal vascular endothelium thereby reducing the production of prostacyclin (PG I
2) and nitric oxide and increase in endothelin resulting in systemic vasospasm. An alternate
pathway is through platelet aggregation that results in release of thromboxane A2, PDGF and
serotonin resulting in increase in thrombin and systemic vasospasm.
The aim of investigations is to assess multi-organ function and the following tests are useful:
- Full Blood Count: PCV/Platelet Count
- Blood Urea & Serum Electrolytes
- Quantification of proteinuria (>0.3 g/24 hr)
- Liver Function Tests
- Coagulation Profile
- Serum Uric acid –may reflect disease severity
Other tests may be directed towards the identified problem e.g. In HELLP Syndrome evidence of haemolysis is sought by performing a blood smear which may suggest microangiopathic haemolytic anaemia (Schistocytes and Burr cells), elevated Lactate Dehydrogenase, evidence of DIC and increase in Fibrin ‘D-Dimer’. In cases of fetal problems serial growth scans,
amniotic fluid volume, Doppler assessment of fetal vessels and CTG would be useful.
Management - In the absence of unknown aetiology, the definitive treatment is DELIVERY. When, where and how to deliver depends on: Severity of hypertension and degree of
multi-organ involvement - i.e. the degree of maternal compromise; Fetal Well-being; Age of
gestation and availability of neonatal care and favourability of the cervix.
Anti-hypertensives are recommended to prolong pregnancy to achieve fetal maturity or
to control acute severe hypertension. It helps to prevent or reduce complications of hypertension such as hypertensive encephalopathy, cardiac failure with pulmonary oedema and hypertensive renal failure. Medications are indicated in moderate to severe hypertension: SBP
>160 / DBP > 100 or MABG > 125 mmHg.They are not effective in preventing other com192
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: a multi system disorder
plications of pre-eclampsia that are caused by endothelial dysfunction.The anti-hypertensives
used to prolong pregnancy are alpha methyl dopa, nifedipine, hydralazine and labetolol.
The control of acute severe hypertension is achieved by intravenous hydralazine 5-10
mg/infusion, Labetolol, Sodium Nitroprusside and in some situations with Sub-lingual
Nifedipine.
Eclampsia and impending eclampsia are managed by attention to ABC, prevention of aspiration / injuries, Magnesium Sulphate i.v. or i.m. regime. Recurrent convulsions are managed
by i.v. bolus of Magnesium sulphate. Status Eclampticus is managed by i.v. Diazepam 10 mg /
infusion, Intensive care with IPPV and early delivery.
DIC is managed by platelet transfusion if platelet count is <20,000. If Caesarean Section
is planned it is better to keep the count >50,000 and ideally around 80,000. If fibrinogen <100
mg/dl then transfusion of FFP and/or cryoprecipitate is advised. Role for heparin in early stages of DIC is debatable.
HELLP syndrome should prompt the need for delivery with correction of coagulation abnormalities. Multi-disciplinary approach provides the best results. Dexamethasone 10mg/10
mg/5mg/5 mg regime may be helpful. HELLP may recur in subsequent pregnancies.
The diagnosis of pulmonary edoema should be confirmed by CXR. Pulse Oximetry and
ABG would be useful. Management consists of administration of oxygen and fluid restriction.
In Severe cases - Pulmonary Artery Catheter is useful to differentiate fluid overload, LV dysfunction & vascular bed inflammation based on which the following can be recommended:
- Frusemide 10 -40 mg i.v. (Max 80 mg) - Fluid overload
- Pre-load Reduction - i.v. Nitroglycerine
- After-load Reduction i.v. hydralazine - LVF
Conclusion
Pre-eclampsia is a ‘Multi-System Disorder’ of unknown aetiology and causes significant maternal and fetal morbidity and mortality. Abnormal trophoblastic invasion results in placental
ischaemia that leads to a cascade of events, culminating in systemic vasospasm and widespread endothelial dysfunction. Hypertension is an easily detectable surrogate marker of systemic
vascular resistance. Further research is needed to identify markers for endothelial dysfunction
that can be used in clinical practice.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
193
16
PRE-ECLAMPSIA
PRE-ECLAMPSIA:
SOLFATO DI MAGNESIO SÌ O NO?
G. Maso, M. Costantini,V. Soini, C. Businelli, R.Tercolo, M. Piccoli, S. Alberico
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia. Istituto per l’Infanzia “Burlo Garofolo”- I.R.C.C .S.- Trieste
Introduzione
Per eclampsia si intende la comparsa di convulsioni nel corso di una sindrome pre-eclamptica. Mentre la pre-eclampsia complica circa il 2-8% delle gravidanze1, l’eclampsia, fortunatamente, è un evenienza più rara, presentandosi in circa 1 su 2.000 gravidanze nei paesi occidentali, ed in 1 su 100 - 1 su 1.700 casi nei paesi in via di sviluppo.
Ogni anno circa mezzo milione di donne muoiono per cause connesse alla gravidanza, e
di queste il 99% riguarda paesi in via di sviluppo: si valuta che la mortalità correlata alla gravidanza sia 100-200 volte più alta nel Terzo Mondo, rispetto ad Europa e Nord America2,3.
Sebbene sia una sindrome rara, l’eclampsia è causa di 50.000 morti materne/anno nel
Mondo4.
Agli inizi del XX secolo emersero 2 metodi per trattare la sindrome eclamptica: sedazione profonda per stabilizzare la donna e impedire lo sviluppo di crisi convulsive subentranti da
una parte e l’espletamento del parto dall’altra.
Uno dei primi farmaci ad essere usati fu il magnesio solfato, il cui utilizzo fu introdotto in
Europa5 e Stati Uniti negli Anni ’20. Attualmente tale composto è il farmaco di scelta negli
Stati Uniti6 e nei paesi anglosassoni, dove viene utilizzato anche nella prevenzione delle convulsioni in caso di pre-eclampsia severa, mentre altri Paesi preferiscono l’uso di altri anticonvulsivanti, quali il diazepam e la fenitoina.
Parte dello scetticismo che circonda il trattamento delle convulsioni con solfato di magnesio deriva dal fatto che non sia ancora del tutto chiaro quale sia il meccanismo d’azione.
Fra i meccanismi d’azione proposti, i più accreditati sono riconducibili alla vasodilatazione7 a
livello della muscolaris arteriolare cerebrale, con conseguente riduzione dell’ischemia cerebrale e alla funzione di blocco dei recettori cerebrali per NMDA (N-methyl-D-aspartate), i
quali, attivati in risposta all’ipossia, liberano calcio, che risulta essere alla base del danno neuronale8,9.
Anche per quanto riguarda l’outcome neonatale in seguito all’esposizione in utero al solfato di magnesio, in letteratura si sono susseguite opinioni contrastanti o possibili effetti sui
neonati di peso inferiore ai 1500 g10-11: per alcuni ridurrebbe la frequenza di comparsa di paralisi cerebrale, mentre per altri vi potrebbe essere un aumentato rischio di mortalità asso194
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
ciato all’utilizzo di tale farmaco12. Tuttavia trial recenti hanno definitivamente dimostrato un
miglioramento dell’outcome neonatale, seppur di modesta entità, in questo gruppo di neonati pretermine.
Al fine di chiarire il ruolo del solfato di magnesio nella profilassi della crisi eclamptica e nel
trattamento anticonvulsivo in tale ambito, negli ultimi anni sono stati condotti studi randomizzati- controllati13,14. I risultati pubblicati nel 2002 sul British Medical Journal15 affermano la validità del magnesio solfato come farmaco di scelta per la prevenzione ed il trattamento dell’eclampsia.
Ma alcuni dubbi rimangono leciti. Consolidato ed ampiamente dimostrato che il MgSO4 è
il farmaco di prima scelta nel trattamento e profilassi delle convulsioni ricorrenti della sindrome eclamptica, la domanda che ci si pone è se tale farmaco, non scevro di effetti collaterali,
alcuni dei quali potenzialmente fatali, debba essere utilizzato indiscriminatamente nella profilassi delle convulsioni in caso di pre-eclampsia lieve o severa, oppure se tale prevenzione sia
da riservare alle popolazioni ad elevata prevalenza di tale patologia.
Ruolo del magnesio solfato nella prevenzione della comparsa dell’eclampsia
La domanda che ci si deve porre riguardo l’utilizzo preventivo del MgSO4 è se effettivamente riduce il rischio di eclampsia, considerando inoltre altre variabili di outcome maternoneonatale sfavorevole correlate alla pre-eclampsia.
Dalla letteratura si evince che sono stati condotti 9 trials che comparano il magnesio solfato con placebo o altri anticonvulsivanti (fenitoina e nimodipina) (Tabella 1, Figure 1, 2)16.
I risultati maggiormente significativi dal punto di vista clinico in termini di outcome materno-neonatale sono stati evidenziati dai trias riguardanti il MgSO4 versus placebo. Rispetto al
placebo (6 trials) il MgSO4 riduce di circa il 50% il rischio di comparsa di eclampsia, nonché i
tassi di distacco di placenta.
La frequenza di mortalità materna è ridotta nel gruppo trattato con Magnesio Solfato, anche se tale esito non appare statisticamente significativo. Un aumento significativo del tasso
di Tagli Cesarei (5%) è stato riscontrato nel gruppo trattato, mentre non sono state riscontrate differenze significative per quanto concerne le frequenze di emorragia post-partum e
secondamento manuale (cfr. effetto tocolitico del farmaco).
Nessuna differenza significativa è stata riscontrata nelle variabili di mortalità/morbidità neonatale. Gli effetti collaterali minori (flushing, reazione a livello della sede di iniezione intramuscolare), presenti nell’25% dei casi , sono stati riscontrati più frequentemente nel gruppo trattato. La tossicità del farmaco, riguardante soprattutto la variabile depressione respiratoria (1%),
è stata osservata, seppur come evenienza rara, più frequentemente nel gruppo sottoposto a
trattamento (RR 1,98)17.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
195
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
TRIAL
METODI
PARTECIPANTI
TERAPIE
Magpie Trial 2002
(n= 10.141)
175 centri in 33 paesi,
85% delle donne da Paesi
a reddito medio-basso
MgSO4: 4g IV in bolo, poi
1g/h in infusione o 10 mg IM
seguiti da 5g ogni 4 ore.
Terapia per 24h.
2 centri hanno usato 5g IM,
poi 2.5g ogni 4 ore.
Placebo: regime identico.
Dosi dimezzate in caso di
oliguria.
South Africa 1998
(n= 822)
Buste chiuse opache contenenti la lettera A o B.
Carte numerate consecutivamente. Gruppi di 20,
equamente distribuiti fra
A e B. Identità di A e B
cambiata periodicamente.
137 donne escluse (17%)
dopo la randomizzazione
Incertezza su uso MgSO4
prima della nascita o 24h
dopo il parto. P. diastolica ≥
90, p. sistolica ≥140 mmHg in
2 misurazioni a 30-60 min di
distanza, proteinuria≥1+.
Criteri di esclusione: ipersensibilità al Mg, coma epatico
con rischio di insuf. renale,
miastenia grave.
Pre-eclampsia severa: ≥ 2 fra
p. diastolica di 110mmHg,
proteinuria, sintomi di imminente eclampsia; età >16
anni, non precedenti anticonvulsivanti.
MgSO4: 4g IV in 200 ml in
20’, poi 1g/h fino a 24h dal
parto.
Controllo: placebo con lo
stesso regime.
Entrambi i gruppi hanno
ricevuto clonazepam all’ingresso.
South Africa 1994
(n= 228)
Buste opache sigillate
numerate consecutivamente
P. diastolica di 110 mmHg
per 4-6 ore+ proteine e
parto pianificato. Esclusione
se precedente anticonvulsivante (eccetto fenobarbital)
MgSO4: 4g IV in 20 min, 10 g
IM, poi 5g IM ogni 4 ore per
24h.
Controllo: alcun anticonvulsivante
Età gestazionale ≥37 settimane con recente insorgenza di
pre-eclampsia ( p/a 140/90
mmHg e proteinuria di
300mg in 24h).
Esclusione per pre-eclampsia
severa, presentazione fetale
anomala, anomalie congenite,
CTG non rassicurante.
MgSO4: 6g IV in bolo in 1520 minuti, poi infusione di
2g/h, continuata fino a 12h
post partum.
Controllo: fisiologica allo
stesso regime
Anticonvulsivante vs placebo
Taiwan 1995
(n= 64)
Pressione arteriosa di
150/100 mmHg e ≥1 + segni
di pre-eclampsia. Escluse se
morti endouterine o ipertensioni croniche.
Randomizzato
Memphis, USA 1997
(n= 135)
Buste opache numerate
sequenzialmente e sigillate
Tennessee, USA 2000
(n= 222)
Trial randomizzato controllato
Magnesio vs fenitolina
Texas, USA 1995
(n= 2138)
196
Buste opache numerate
MgSO4: 4g IV in 10 min, poi
1g/h fino a 24h dopo il
parto.
Controllo: alcun anticonvulsivante.
222 donne con lieve preeclampsia in travaglio.
Criteri di esclusione: preeclampsia severa ed ipertensione cronica
MgSO4: 6g IV, poi infusione di
2g/h.
Placebo: regime simile
P/a 140/90 mmHg.
Esclusione: post partum,
parto imminente o epilessia
MgSO4: 10g IM, poi 5g ogni
4h.
Se severa pre-eclampsia, 4g
i.v.prima della prima dose IM.
Fenitoina: 1000 mg IV in 1
ora, 10 ore dopo 500 mg
per os
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
TRIAL
METODI
PARTECIPANTI
TERAPIE
Alabama, USA 1995
(n= 54)
Tabelle numeriche random
generate dal computer
Gravidanza singola, induzione per ipertensione indotta
dalla gravidanza, cervice non
favorevole
MgSO4: 4g IV, poi infusione
2g/h.
Fenitoina: 15 mg/Kg in 2 ore,
poi 200 mg IV ogni 8 ore
Maryland, USA 1993
(n= 115)
Buste opache sigillate.
12 esclusioni dopo l’ingresso nel trial
P/a 140/90 o aumenti della
sistolica di 30mmHg o della
diastolica di 15 mmHg.
Esclusione se precedente
uso di MgSO4 o attacco
convulsivo
MgSO4: 6g IV, poi infusione
di 2g/h per 24 ore.
Fenitoina: 1000-1500mg a
seconda del peso. Livelli sierici per determinare le dosi
successive, per 24 ore.
>28 settimane, pressione
sistolica di 150 mmHg, diastolica di 110 mmHg, proteinuria: almeno un sintomo.
No epilessia.
MgSO4: 4 g IV in 15 min, poi
1g/h in infusione.
Diazepam: 30 mg in 500 ml
di glucosata al 5% a 60
microgrammi/h
P. diastolica di 110 mmHg+
proteinuria
MgSO4: regime di Pritchards
Diazepam: non specificato
Buste opache sigillate.
Blocchi di 6
Severa pre-eclampsia antepartum e mai terapia in precedenza. P/a 140/90 mmHg,
≥1+ proteinuria, ≥1 segno o
sintomo di eclampsia imminente
MgSO4: 6g IV e 2 g/h oppure
4g IV e 1g/h.
Nimodipina: 60 mg ogni 4 ore
per os.
Continuato per 24ore dal
parto
Buste chiuse opache, sigillate.
2 esclusioni dal gruppo del
MgSO4
Nullipare, gravidanza singola e
p/a 140/90 mmHg in 2 misurazioni in 3 ore.
Esclusione: ipertensione preesistente, patologia cardiaca o
renale, p/a > 180/120 mmHg
dopo idralaazina.
MgCI2: 80 mmol IV in 24
ore, 40 mmol nelle successive 24 ore, poi 15 mmol al
giorno di MgOH2 per os
fino a 3 giorni dopo il parto
Metildopa: 250 mgx/die.
Dopo il parto riduzione a
250 mg/die
Magnesio vs diazepam
Mexico,1992
(n= 38)
Malaysia,1994
(n= 28)
Buste opache numerate
Buste sigillate
Magnesio vs nimodipina
Nimodipine Study Group
2003
(n=1750)
Magnesio vs metildopa
Denmark, 2000
(n= 33)
Tabella I. Trials riguardanti i la terapia anticonvulsivante in donne con pre-eclampsia
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
197
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
Figure 1 e 2. Pre-eclampsia: MgSO4 vs placebo. Effetto sull’eclampsia e sull’outcome neonatale (mortalità)25.
Ruolo del magnesio solfato nel controllo degli attacchi convulsivi
e nella prevenzione della ricorrenza dell’eclampsia
Quando una donna ha un attacco eclamptico il primo problema è come controllare tale
sintomatologia ed il secondo come evitare che si instaurino ulteriori convulsioni.
La terapia che attualmente viene seguita consiste nel somministrare una dose da carico
di anticonvulsivante e poi instaurare una terapia di mantenimento per le 24 ore successive
alla crisi convulsiva o per 24 ore dopo il parto. La scelta del farmaco da utilizzare è sempre
stata controversa, ma, due trials multicentrici randomizzati, il Collaborative Eclampsia Trial (1.687
donne in 27 ospedali di 9 paesi), ed il Magpie Trial (10141 donne in 175 ospedali in 33 paesi), hanno evidenziato che il magnesio solfato è il farmaco di scelta per controllare e prevenire le convulsioni eclamptiche.
198
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
TRIAL
METODI
PARTECIPANTI
TERAPIE
Pacchetti di trattamento identici, sigillati, numerati consecutivamente.
5 donne escluse.
Eclampsia. 54% delle donne
trattate con MgSO4 avevano
ricevuto anticonvulsivanti prima dell’ingresso, come il 50%
di quelle trattate con diazepam. 30% randomizzate dopo
il parto
MgSO4: 4/5 g IV in 5 min. Poi o 10g IM
e 5g ogni 4 ore per 24 ore oppure 1g/h
per 24h. Per attacchi subentranti, 2g IV.
Diazepam: 10 mg IV in bolo, poi 40
mg/500 ml per 24h, 20 mg in 500 ml
nelle successive 24h. Per attacchi subentranti: 10 mg IV
Magnesio vs diazepam
Collaborative Trial 1995
(n= 910)
India, 2001
(n= 100)
Distribuzione randomizzata
Eclampsia. 70 primigravide e
79 reclutate dopo il parto
Malaysia, 1994
(n= 11)
Buste chiuse
Eclampsia
Zimbabwe, 1990
(n= 51)
Eclampsia antepartum, ≥28
Buste chiuse numerate sett. Feto vitale. 67% avevano
ricevuto diazepam prima delconsecutivamente.
l’ingresso, 71% di quelle trattaBlocchi di 6; alcuna
te con MgSO4 e 63% con diastratificazione
zepam
MgSO4: 4g in 25% MgSO4 in 10 min.5g
IM ogni 4 ore fino a 24 ore dopo il parto, o per 24 ore se randomizzate nel
post partum.
Diazepam: 10 mg IV in bolo, 40mg/500
ml IV per 24h e 20mg/500ml per ulteriori 24h. Poi 10 mg IM, passate a somministrazione per os se possibile. Per attacchi subentranti 10 mg IV
MgSO4: Pritchard regimen
Diazepam: non specificato
MgSO4: 4g IV in 3-5 min e 10 g IM. Poi
5 g ogni 4 ore per 24h. Per attacchi subentranti: 2g IV.
Diazepam: 10ng IV in bolo, poi 80 mg in
1 litro per 24h. 40 mgin 1 litro nelle
successive 24h. Per attacchi subentranti:
10 mg IV
Buste chiuse sigillate
MgSO4:
a)4/5g IV in 5 min e 10 g IM, poi 5g IM
ogni 4 ore per 24h.
Eclampsia.
40% delle donne avevano già b) 4/5 g IV in 5 min, poi 1g/h per 24h.
ricevuto un anticonvulsivante e 2g IV per attacchi subentranti.
Diazepam: 10mg IV in bolo. Poi infusioil 43% aveva già partorito.
ne di 40mg/500ml per 24h, 20
mg/500ml nelle successive 24h. 10mg IV
per attacchi subentranti.
Collaborative Trial, 1995
(n= 777)
Buste numerate consecutivamente.
2 donne perse al follow-up
Eclampsia. 76% delle pz trattate con MgSO4 avevano ricevuto anticonvulsivanti prima di
entrare, e 80% di quelle trattate con fenitoina, 19% post partum.
Centri in Sud Africa ed India
India, 1999
(n= 50)
MgSO4: 4G IV e 8g IM, poi 4g IV ogni 4g,
fino a 24h dal parto.
29 donne avevano Fentoina: 15mg/Kg inizialmente, poi 5
Buste chiuse. Sequenza Eclampsia.
ricevuto
un
anticonvulsivante mg/kg nelle 2 ore successive. 500 mg IV
generata dal computer prima dell’ingresso.
nelle 12 ore dopo. Poi 250mg IV o per
os ogni 12h per 4 dosi.Tutte le donne:
10mg diazepam IV per attacchi, 5mg di
nifedipina all’ingresso
Zimbabwe, 1998
(n= 69)
Magnesio vs fenitoina
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
MgSO4: 4/5 g IV in 5 min, poi o 10 g IM
e 5 g ogni 4 ore per 24h oppure 1g/h
per 24h. Per attacchi subentranti: 2g IV.
Fenitoina: 1g IV in 20 min, poi 100mg
ogni 6h per 24h. Per attacchi: diazepam
10 mg
199
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
TRIAL
METODI
PARTECIPANTI
TERAPIE
South Africa, 1990
(n=22)
Tabella random
MgSO4: 4g IV in 20-30 min, poi 12g/h per 24h.
Antepartrum eclampsia
Fenitoina: 500-1000mg IV al massiNo precedenti anticonvulsi- mo a 50mg/min. Poi 500 mg in 4h
vanti
e 12h dopo, 500 mg in 4h.
Tutte hanno ricevuto donazepam
all’ingresso
South Africa, 1996
(n=24)
Numerazione random
da computer
Ecalmpsia
MgSO4: 4g IV e 10 g IM.
Fenitoina: 1g in 200 ml in 15-20
min.
Descritte solo le dosi da carico
Maryland, USA 1993
(n=2)
Buste opache sigillate
Antepartum eclampsia (103
con pre eclampsia, incluse
nella review della pre
eclampsia)
MgSO4: 6g IV in bolo, poi infusione
di 2g/h.
Fenitoina: infusione di 1000mg,
1250mg o 1500mg
Randomizzazione
Eclampsia. 9 donne trattate
con MgSO4 e 5 con fenitoina, avevano ricevuto
MgSO4 prima di entrare nel
trial.
79% non ha partorito
MgSO4: 6g IV in 15 min, poi 2g/h
per ottenere livelli sierici di 4.8-9.6
mg/dl.
Fenitoina: 1.0-1.5g IV. Dosi aggiuntive per raggiungere livelli sierici di
10-230 microgrammi
Eclasmpsia
MgSO4: 4g IV+ 8g IM, poi ogni 4
ore, fino a 24h dopo il parto. Per
attacchi: 1.5g IV
Cocktail litico: petidina, prometazina e clopromazina come descritto
da Menon.
Memphis, USA 1995
(n=24)
Magnesio vs cocktail litico
India, 1994
(n=91)
India, 1995
(n=108)
Buste chiuse sigillate a
pacchetti di 8. Una
donna esclusa
Randomizzazione
Eclampsia
Tabella II. Trials riguardanti il ruolo degli anticonvulsivanti nell’eclampsia
200
MgSO4: 4g IV+ 10g IM, poi 5g ogni
4h fino a 24h dal parto.
Cocktail: 100mg di petidina+ 25mg
di clorpromazina IV e 50mg di clopromazina+25 mg di prometazina
IM. 100 mg petidina IV in 24h,
25mg di prometazina ogni 4h +
50 mg di clorpromazina ogni 8 ore
per 48h IM
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
Revisioni sistematiche hanno comparato anche l’uso del magnesio solfato con il diazepam
(7 studi)19, la fenitoina (6 trials)20 e un cocktail litico formato da clorpromazina, prometazina
e petidina (2 studi)21. Senza entrare nel dettaglio della metodologia delle reviews, tale valutazione ha considerato disegni di studio differenti soprattutto riguardo il timing della somministrazione e il tipo di anticonvulsivante utlizzato (Tabella II).
Per quanto riguarda il confronto con diazepam, 7 trials hanno dimostrato che il magnesio
solfato riduce il rischio di mortalità materna (RR 0.59), e di ricorrenza di episodi convulsivi:
in definitiva per 7 donne trattate con MgSO4 rispetto al Diazepam, vi è la prevenzione di crisi convulsive in 1 caso. Per quanto riguarda l’outcome neonatale, l’utilizzo del magnesio solfato è associato ad una riduzione del rischio di Apgar score <7 al 5’ minuto e ad una minor
permanenza in terapia intensiva neonatale.
Rispetto alla fenitoina, il MgSO4 presenta una minor frequenza di ricomparsa delle convulsioni, un minor rischio di mortalità materna, minore incidenza di polmoniti, ricorso alla ventilazione meccanica e ricovero in terapia intensiva, sia per la madre, che per il neonato.
Rispetto al cocktail litico (clopromazina, prometazina, petidina) il solfato di magnesio risulta sostanzialmente migliore nella prevenzione di crisi subentranti, mortalità materna e depresione respiratoria.
In questi trials, le donne trattate con magnesio solfato hanno ricevuto una dose da carico di 4 g i.v. e poi iniezioni intramuscolo o infusione endovenosa di 1g/h, per 24h, con monitoraggio clinico intensivo.Vi è evidenza che la somministrazione per via endovenosa è preferibile, considerata la minor frequenza di effetti collaterali a livello del sito di iniezione.
Dall’analisi degli studi presenti in letteratura emerge che una corretta formazione del personale medico ed ostetrico è necessaria al fine di ottimizzare la somministrazione ed il monitoraggio clinico della terapia con questo farmaco. Il basso costo e l’efficacia dovrebbero far sì
che tale presidio farmacologico venga utilizzato come terapia di prima scelta, soprattutto nei
paesi in via di sviluppo ad elevata prevalenza di pre-eclampsia/eclampsia22.
Discussione
Dai trials randomizzati, e quindi da “Evidence Based Medicine”, potremmo quindi concludere che il MgSO4 sarebbe da utilizzarsi nelle profilassi delle convulsioni in caso di pre-eclampsia severa e nel trattamento/prevenzione delle crisi ricorrenti. Preso atto che attualmente
non vi sono sufficienti risultati per supportarne l’utilizzo nei casi di pre-eclamspia lieve, l’analisi dei risultati nell’utilizzo del farmaco nella prevenzione della crisi eclamptica è meritevole
di alcune considerazioni. Sibai, in una review, pubblicata recentemente sull’American Journal of
Obstetrics and Gynecology18, sottolinea alcune limitazioni metodologiche nel disegno dello studio Magpie Trial13, il più rappresentativo in termini di casistica esaminata. In particolare, il camGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
201
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
pione poco omogeneo, una scarsa definizione delle caratteristiche cliniche al momento della
randomizzazione, l’evidenza che circa il 50% delle pazienti abbia ricevuto anti-ipertensivi o altri anticonvulsivanti prima della randomizzazione, potrebbero essere potenziali bias nell’esito
dei risultati.
Anche se emerge una significativa riduzione del tasso di eclampsia nelle donne trattate
con MgSO4, tale beneficio è identificabile soprattutto nei paesi in via di sviluppo, mentre tale
evidenza non è valida per i paesi occidentali.
I trials più significativi inoltre hanno utilizzato differenti dosi d’attacco (4 - 6 gr) e di mantenimento (1-2 gr/h per 24 ore). Inoltre nel disegno di studio sono stati inclusi i casi in cui alla dose d’attacco i.v. è seguita la dose di mantenimento intramuscolo.
Secondo Sibai18 inoltre, gli effetti della profilassi con MgSO4 in caso di pre-eclampsia severa sulla mortalità-morbidità materna non sono evidenti, essendoci solo una significativa riduzione dei distacchi di placenta, senza rilevare una riduzione dell’incidenza di mortalità perinatale, ma con un aumento dei tassi di depressione respiratoria. Se utilizzato su larga scala, l’ effetto tossico del farmaco potrebbe rappresentare, soprattutto nelle strutture prive di adeguato training, l’effetto paradosso secondo il quale il beneficio è inferiore al rischio dell’assunzione del farmaco.
La severità e la prevalenza della patologia (pre-eclampsia severa) risultano fondamentali
nel processo decisionale se utilizzare il farmaco nella prevenzione: è stato calcolato che sarebbe necessario trattare (number needed to treat - NNT) 71 donne per prevenire 1 caso di
eclampsia, mentre solo 36 in caso di eclampsia imminente.
Nei paesi occidentali il numero di donne da trattare necessario per prevenire 1 caso di
eclampsia sarebbe di 385. Tali dati inducono a concludere che l’uso di questo farmaco dovrebbe essere riservato alla profilassi dell’eclampsia solo nelle donne con uno stato pre-eclamptico severo o con eclampsia imminente e nei paesi ad elevata prevalenza del fenomeno.
È indubbio che il Magnesio Solfato sia il farmaco di prima scelta nel trattamento delle convulsioni e nella profilassi delle crisi ricorrenti, tuttavia alcuni punti sono da chiarire ed in particolare:
1.
2.
3.
4.
Qual è la minima dose efficace
Quali sono il timing e le condizioni ottimali per iniziare il trattamento
L’utilizzo nella prevenzione è “cost-effective”?
Quali sono le conseguenze materne-neonatali a lungo termine che derivano dall’assunzione.
Ulteriori studi sono necessari per definire queste problematiche. Nell’attesa che altri anticonvulsivanti vengano proposti e confrontati con il MgSO4 in trials su ampia scala, appare
comunque fondamentale definire linee guida dipartimentali per il management della preeclampsia severa ed eclampsia, per far sì di ridurre il rischio e/o prevenire le complicanze di
questi quadri clinici talora fatali.
202
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
APPENDICE
Per quanto riguarda il management della pre-eclampsia/eclampsia, basata sul livello di evidenza, ci sembra utile, in questa sede, esporre il protocollo anglosassone redatto nel 2002 dal
“North-West Pre-eclampsia Care Group”, che sarà aggiornato nel novembre del 200523, integrato alle linee guida del Royal College Of Obstetricians and Gyencologists, rivisitate nel luglio
del 200524.
Risulta essere fondamentale, per una corretta gestione del caso, operare una stratificazione di gravità clinica:
1. Eclampsia
2. Pre-Eclampsia
a. Ipertensione severa: pressione sistolica > 170 mmHg o diastolica > 110 mmHg (pressione arteriosa media di 120-130 mmHg), con proteinuria + o di 1g su un test semiquantitativo.
b. Ipertensione moderata: pressione sistolica > 140 mmHg o diastolica > 90mmHg (pressione arteriosa media >110 mmHg) con proteinuria ++ o di 3g su un test semiquantitativo e almeno la presenza di uno o più dei seguenti segni:
- Cefalea severa, con alterazioni visive
- Dolore epigastrico
- Clonus
- Papilledema
- Dolore in regione epatica
- Conta piastrinica < 100x109/l
- ALT> 50 IU/l
L’approccio multidisciplinare è fondamentale: l’ostetrico e l’anestesista più esperti dovrebbero stilare le linee guida gestionali del caso affetto da pre-eclampsia severa /eclampsia. (Good
Practice Point)
Quali sono le indagini di base?
a. Emocromo
b. Prove emogeniche
c. Emogruppo /Rh
d. Elettroliti ed esami della funzionalità epatica
Tutti questi test devono essere richiesti quotidianamente o più frequentemente se la situazione lo richiede. (livello C).
Quale monitoraggio?
a. Il trend pressorio può essere valutato con il Dinamap (livello B), ma i valori pressori di riferimento devono essere valutati con lo sfigmomanometro, individuando nel V tono di
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
203
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
b.
c.
d.
e.
f.
g.
h.
KarotKov il valore diastolico (livello A). La rilevazione deve avvenire almeno ogni 15 minuti fino a che la situazione non si sia stabilizzata, ed in seguito ogni 30 minuti.
Deve essere inserito un catetere urinario e la diuresi deve essere monitorata ogni ora durante l’infusione di liquidi, analizzando con attenzione il bilancio idrico (Good Practice Point).
La saturazione arteriosa di ossigeno va misurata continuativamente: se scende sotto il 95%
il quadro clinico deve essere rivalutato.
La frequenza respiratoria deve essere valutata ogni ora.
La temperatura va monitorata ogni 4 ore.
Valutare la pressione venosa centrale.
Il benessere fetale può essere tenuto sotto stretto controllo tramite la cardiotocografia,
anche se la biometria, con doppler dell’ombelicale e valutazione del liquido amniotico danno una miglior valutazione di tale stato (livello B).
In caso di immobilità deve essere considerata l’elastocompressione degli arti inferiori e/o
la terapia eparinica per la profilassi della TVP/EP.
Antepartum/intrapartum management
Controllo pressorio: lo scopo è di ridurre e mantenere la pressione a valori ≤160/110 mmHg;
i trattamenti utilizzabili sono (livello C):
- Prima scelta: Nifedipina per os (10 mg) o labetalolo (livello A).
Se tollerata, una dose iniziale di labetalolo per os di 200 mg potrebbe essere utilizzata.Tale presidio dovrebbe ridurre la pressione arteriosa entro 30 minuti. Una seconda
dose orale può essere somministrata se necessario. Se la somministrazione orale non
ottiene risultati o se non è tollerata, deve essere sostituita con boli ev seguiti da infusione di labetalolo. Il bolo è costituito da 50 mg (10 ml di soluzione fisiologica contenenti 5 mg/ml di labetalolo) somministrati in 5 minuti; l’effetto si ottiene in 10 minuti;
se la diastolica non dovesse scendere sotto i 160/105 mmHg, l’operazione può essere ripetuta con 10 minuti di intervallo fino ad una dose complessiva di 200 mg.
Dopo ciò, può essere iniziata un’infusione con labetalolo: 5 mg/ml con tasso d’infusione pari a 4 ml/h (20 mg/h): la velocità di infusione può essere raddoppiata ogni mezz’ora fino ad arrivare a 32 ml/h (160 mg/h).
Controindicazioni: asma severo, donne con patologie cardiache preesistenti.
- Seconda scelta: idralazina (non commercializzato in Italia). Infusione di 10-20 mg in 1020 minuti, monitorando la pressione arteriosa ogni 5 minuti; successivamente si può
attuare un’infusione di 40 mg di idralazina in 40 ml di fisiologica, infondendo 1-5 ml/h
(1-5 mg/h).
204
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
Somministrazione di liquidi: bisogna evitare il sovraccarico idrico; limitare le entrate a 80 ml/h
o 1 ml/Kg/h di cristalloidi. Usare ossitocina a dosi concentrate (30I U in 500 ml). In caso d’oliguria espletare al più presto il parto (livello C).
Espletamento del parto
Il parto deve essere attentamente programmato. Il timing è fondamentale per l’outcome
materno e fetale. Se la madre è instabile, l’espletamento del parto è rischioso: bisogna innanzitutto stabilizzare la situazione, con antiipertensivi e anticonvulsivanti, se necessario. Se le convulsioni sono assenti e la situazione è stabile, è possibile un management d’attesa nella prospettiva di migliorare l’outcome della gravidanza pretermine, mantenendo comunque uno
stretto monitoraggio materno fetale. Se la gravidanza può essere protratta per oltre 48h è
utile la profilassi corticosteroidea (Betametasone 12 mg x 2) della RDS neonatale e comunque tale strategia va iniziata anche se il parto dovesse avvenire entro 24h (livello A).
Non è necessario l’espletamento del parto attraverso un taglio cesareo: se l’epoca gestazionale è inferiore a 32 settimane esso è preferibile, ma oltre le 34 settimane può essere considerato anche il parto per via vaginale, con travaglio indotto da prostaglandine o spontaneo,
ponendo attenzione ad evitare un prolungamento della seconda fase del travaglio (15-30 min),
utilizzando, quando necessario, tecniche operative (livello C). Nella terza fase del travaglio, nella profilassi dell’emorragia post-partum sono da proscrivere l’utilizzo degli ergometrinici ed è
da utlizzarsi il Syntocinon 5 U i.v. (Good Practice Point).
L’analgesia epidurale in queste pazienti non presenta controindicazioni (cfr conta piastrinica), mentre l’anestesia generale può condurre ad aumenti della pressione e della frequenza cardiaca, e per questo deve essere evitata, quando possibile.
Il monitoraggio della pressione venosa centrale può essere indicato, qualora vi sia il sospetto di edema polmonare o in caso di emorragia ante/post partum o in caso di taglio cesareo.
Terapia anticovulsivante, management dell’eclampsia
È appropriato profilassare pazienti con pre-eclampsia severa con magnesio solfato (livello A).
a. Contattare il personale specializzato
b. Dose da carico di solfato di magnesio: 4 g iv in 5-10 min e iniziare terapia infusionale di
mantenimento (1-1,5 gr/h per le successive 24 h).
c. L’infusione di magnesio può essere incrementata a 1.5 g/h o utilizzo di Tiopentone o
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
205
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
Diazepam (5-10 mg iv) possono essere considerati se gli attacchi non recedono. In tali casi sono da considerare altre possibili cause di crisi convulsiva: è opportuno eseguire una
TAC una volta raggiunta la stabilizzazione.
d. Una volta stabilizzata, la donna può espletare il parto.
e. Valutare la saturazione d’ossigeno.
Figura 3. Effetto degli anticonvulsivanti nella prevenzione delle crisi ricorrenti25
Protocollo per il magnesio solfato
- Dose da carico, seguita da terapia infusionale per 24h dall’ultima crisi convulsiva o per 24h
dopo il parto
- Loading dose: 4 g iv in 5-10 min
- Dose di mantenimento: 1 g/h
- Attenta osservazione del paziente ed ogni ora eseguire: ossimetria, ECG, bilancio idrico,
frequenza respiratoria, valutazione riflessi tendinei (ogni 4 ore)
- Effetti collaterali (rarissimi con i dosaggi sovraesposti): paralisi motoria, ipo/areflessia (assenza del rilflesso del bicipite), depressione respiratoria (FR <12/min), aritmia cardiaca (rischio
minimo di comparsa se il magnesio è amministrato con cautela e sotto osservazione)
- Modifica della posologia in caso di oliguria (il 95% del MgSO4 viene escreto con le urine)
ed eventuale dosaggio della magnesemia
- Antidoto: 10 ml di calcio gluconato al 10% somministrato lentamente per iv (in 10’) se rischio di depressione respiratoria.
206
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Pre-eclampsia: solfato di magnesio: sì o no
Management dei liquidi nel postpartum
Dopo il parto la diuresi dovrebbe riprendere normalmente e ciò nella maggior parte dei
casi entro 36-48h. Bisogna somministrare cristalloidi con una velocità di 80 ml/h.
La diuresi deve essere monitorata ogni ora e sommata e riportata in cartella ogni 4 ore.
Se la diuresi è inferiore a 80 ml in due periodi di 4h considera:
Se le entrate sono superiori alle uscite per più di 750 ml nelle ultime 24h, somministrare
20 mg iv di furosemide. In seguito somministrare colloidi se si verifica una diuresi >200 ml
nell’ora successiva
oppure
- Se le entrate eccedono le uscite per meno di 750 ml nelle ultime 24h, somministrare 250
ml di colloidi, in 20 minuti. La diuresi va poi monitorata per le successive 4 ore, e se l’output fosse ancora ridotto, è da considerare la somministrazione di 20 mg iv di furosemide.
Se nell’ora successiva si ottiene una diuresi >200 ml, aggiungere 250 ml di gelofusine in
1h alla terapia reidratante.
- Se la diuresi non dovesse rispondere alla furosemide, consultare il nefrologo.
Esempio di preparazione del MgSO4
Loading dose: 4g i.v. in 5-10 minuti
Riempire 6 siringhe da 50 mL ognuna delle quali con 8 mL di MgSO4 al 50% (4g) e 22
mL di destrosio al 5% per un totale di 30 mL. Somministrare la dose in pompa-siringa in 10’
con un tasso di infusione di 180 mL/h
Dose di mantenimento: 4 g i.v. in 4h (1g/h)
Riempire 6 siringhe da 50 mL ognuna delle quali con 8 mL di MgSO4 al 50% (4g). Portare
il totale a 50 mL con destrosio al 5%. Siglare la siringa con il valore del contenuto (4g)
Somministrare la dose in pompa siringa con tasso di infusione 1g/h pari a 12,5 mL /h. Ricordare
che il composto è stabile per 24h.
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208
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
PRE-ECLAMPSIA
RUOLO DELLA PLASMAFERESI
NELLA TOSSIEMIA
GRAVIDICA SEVERA
17
E.Vincenti
U.O. di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica, ULSS 13 del Veneto, Dolo, Venezia
Il plasma exchange, più comunemente denominato plasmaferesi, anche se impropriamente, venne impiegato nella pre-eclampsia tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. In realtà
non si trattava di casi caratterizzati da sola pre-eclampsia, ma da pre-eclamspia severa associata ad almeno un’altra patologia grave, come insufficienza renale (d’Apice et al, 1980), porpora trombotica trombocitopenica, emolisi e trombocitopenia, sindrome uremica emolitica
postpartum e/o malattie autoimmuni. Il trattamento aferetico veniva inizialmente effettuato
solo in corso di gravidanza fino al raggiungimento di una sufficiente maturità polmonare fetale, allo scopo, quindi, di offrire un’alternativa all’interruzione di gravidanza.
In seguito il plasma-exchange, soprattutto per merito di Martin et al e di Schwartz e
Brenner, ma anche di Vincenti et al, è entrato nei protocolli di trattamento della pre-eclampsia severa come condizione morbosa a sé stante, indipendentemente dall’associazione con
altra patologia concomitante; inoltre il plasma exchange è stato sempre più impiegato nel
post-partum per accelerare la restitutio ad integrum della puerpera.
La pre-eclampsia, nelle sue manifestazioni più severe, assume i connotati di una multi organ failure (MOF) sui generis. Nella sua classica accezione, la MOF può essere definita come
il risultato di un processo infiammatorio, eccessivo e generalizzato, di tutto l’organismo e considerata come l’epifenomeno conseguente ad un debito tessutale di ossigeno accumulato e
mai pagato, o pagato solo in parte o troppo tardivamente. Di norma, trauma, infezione, sepsi e insufficienza d’organo sono fenomeni dinamici che intervengono in una drammatica sequenza definita da Bihari “sindrome del pendio scivoloso” (slippery slope syndrome), alla cui
estremità si assiste ai deleteri effetti di una flogosi generalizzata a carico di un organismo che
ha dato fondo a tutte le riserve funzionali disponibili. Dunque la MOF può essere vista come l’ultima e più impegnativa tappa di un percorso che prende l’avvio dalla sindrome determinata dalla risposta all’infiammazione sistemica (systemic inflammatory response syndrome o
SIRS) e progredisce nella sindrome da disfunzione multi-organo (multiple organi dysfunction syndrome o MODS) prima del definitivo arrivo all’insufficienza multi-organo vera e propria (MOF).
La SIRS e la MODS sono oggi considerate l’espressione di una risposta infiammatoria inappropriata e generalizzata a stimoli infiammatori particolarmente intensi per gravità e durata,
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
209
Ruolo della plasmaferesi nella tossiemia gravidica severa
di natura batterica e non batterica. Le reazioni infiammatorie conseguenti ad endotossiemia
possono sopraffare i sistemi difensivi d’organo: la risultante disfunzione renale o epatica deprime l’escrezione dell’endotossina e delle citochine e potenzia le modificazioni infiammatorie. In queste circostanze la plasmaferesi può essere efficace nel migliorare le condizioni cliniche del paziente, rimuovendo l’endotossina ed i mediatori dell’infiammazione. È stato dimostrato che la plasmaferesi migliora l’encefalopatia dovuta ad insufficienza epatocellulare acuta, probabilmente per la rimozione di sostanze tossiche come l’ammoniaca, falsi neurotrasmettitori ed aminoacidi aromatici in eccesso. La rimozione delle tossine e la normalizzazione degli aminoacidi plasmatici possono risultare benefiche in pazienti setticemici in condizioni critiche, anche e soprattutto per il recupero della funzione renale. Infatti l’impiego della plasmaferesi in soggetti settici in cui si era sviluppata una MOF, ha consentito di osservare spesso
miglioramenti drammatici nei parametri cardiorespiratori, neurologici, emocoagulativi, renali
ed epatici.
Ora, la MOF che può complicare alcuni casi di gestosi severa rappresenta davvero un’evenienza del tutto particolare, in quanto al drammatico e rapido peggioramento della funzionalità di vari organi si accompagna una concreta possibilità di restitutio ad integrum completa
a breve-medio termine, a condizione che la rimozione dei molteplici fattori tossici extra-batterici sia effettuata precocemente e senza indecisioni. Infatti, nell’insufficienza multi-organo di
talune pazienti con pre-eclampsia severa, risultata refrattaria al convenzionale trattamento farmacologico, l’impiego della plasmaferesi, attuata subito dopo il taglio cesareo, ha permesso di
ottenere brillanti risultati, compendiabili in facilitato controllo dell’ipertensione, miglioramento qualitativo e quantitativo della diuresi, aumento delle piastrine. L’emodialisi e l’emofiltrazione, da sole, non sono altrettanto efficaci, né nella gestosi, né, del resto, nella setticemia.
Il plasma-exchange nella MOF da pre-eclampsia severa
La procedura definita con il termine “plasma-exchange” consiste nel prelievo di una certa quantità di sangue, con reinfusione della parte corpuscolata e di una parte uguale di plasma omologo e/o albumina in sostituzione della quota plasmatica rimossa. Fu praticata per la
prima volta nel 1914 come modificazione dell’antichissimo salasso e fu chiamata plasmaferesi, in quanto il plasma veniva completamente rimosso e solo la parte corpuscolata restituita.
Oggi il plasma viene sostituito ed è perciò più corretto parlare di “plasma-exchange”. Per comodità d’uso e per tradizione, però, di norma si parla di plasmaferesi anche nel caso di plasma-exchange.
L’impiego del plasma-exchange è razionale in situazioni patologiche caratterizzate dalla presenza di fattori tossici circolanti, proteine anomale, immunocomplessi, alterata viscosità ematica, discoagulopatie. I fluidi infusi in sostituzione del plasma devono poter ripristinare la vole210
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Ruolo della plasmaferesi nella tossiemia gravidica severa
mia e la pressione oncotica. Con il plasma, tuttavia, vengono rimossi anche tutti gli altri elementi che esso contiene, come proteine, fattori della coagulazione, immunoglobuline. Il liquido di reinfusione ideale è perciò il plasma fresco congelato omologo, mentre le soluzioni di
albumina soddisfano soltanto in parte queste richieste. Sono ciononostante usate insieme al
plasma per la maggiore facilità con cui sono reperibili e conservabili, e per l’assenza di rischi
infettivi.
Nell’ipertensione gestosica sono coinvolti vari meccanismi: aumentate risposte riflesse a
stimoli ipertensivi, aumentata sensibilità a sostanze vasopressorie, riduzione di oppioidi midollari, diminuita filtrazione glomerulare e produzione da parte della placenta di sostanze ipertensive. Infatti nelle pazienti pre-eclamptiche esiste una produzione autogena di sostanze ad
azione vasocostrittrice, come è stato a suo tempo dimostrato da Tatum e Mulè mediante autotrasfusione di sangue prelevato a pazienti gestosiche prima del parto e reinfuso nel puerperio dopo normalizzazione spontanea della situazione pressoria. In tali pazienti si osservò, a
seguito della reinfusione del proprio sangue, un transitorio ma significativo aumento della pressione arteriosa, sia sistolica che diastolica. Al contrario, un gruppo corrispondente di pazienti
gestosiche che aveva ricevuto nel puerperio sangue proveniente da donatori sani non manifestò alcuna significativa modificazione della pressione arteriosa. Inoltre, sperimentalmente, già
Hunter e Howard avevano del resto inequivocabilmente dimostrato che la somministrazione ev al gatto nefrectomizzato e anestetizzato di piccole aliquote di plasma bollito, proveniente dal sangue dell’arteria radiale di pazienti pre-eclamptiche, sortiva spiccati effetti vasocostrittivi.
Vi sono dunque prove sperimentali e cliniche a sostegno della presenza di sostanze ipertensive seriche in corso di gestosi: sono queste sostanze che la plasmaferesi può allontanare.
In realtà la plasmaferesi non elimina solo sostanze ipertensive, ma anche fattori che alterano
la coagulazione e compromettono la funzionalità renale. Se si considera la pre-eclampsia come una vera e propria tossiemia, non v’è nulla di più razionale, per il suo trattamento, che la
rimozione “fisica” di questi fattori tossici, che sono alla base dell’insufficienza acuta multi-organo. Se è ben vero che la cessazione della gravidanza rappresenta la conditio sine qua non
per il recupero dello stato di salute quo ante, è altrettanto dimostrato che nei casi particolarmente severi non si può attendere che l’organismo della puerpera elimini spontaneamente in tempi ragionevoli alte concentrazioni di sostanze tossiche. Infatti gli ipotetici meccanismi
d’azione correlati all’uso del plasma-exchange coinvolgono tanto la clearance degli immunocomplessi quanto quella di sostanze di produzione trofoblastica e di tossine endogene di natura sconosciuta.
Sembra dunque lecito affermare che il plasma-exchange rappresenta la terapia più appropriata in rapporto allo stato di intossicazione endogena, definito in modo assai proprio dal
termine di “tossiemia gravidica”. Questa definizione, un po’ caduta in disuso, connota invece
in modo fisiopatologicamente più corretto la sindrome definita “pre-eclamptica”, la quale letGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
211
Ruolo della plasmaferesi nella tossiemia gravidica severa
teralmente si rapporta ad una condizione clinica potenzialmente a rischio di eclampsia vera
e propria, ma che non fa riferimento ad aspetti patogenetici.
La pratica della plasmaferesi
Dal punto di vista pratico, una seduta standard di plasma-exchange comporta l’allontanamento di circa il 50% della quota plasmatica e, quindi, corrispondentemente, di una pari percentuale di fattori tossici ivi presenti. Supponendo che non vi sia ulteriore produzione ex novo di tossici endogeni, come probabilmente avviene mano a mano che passano le ore e i giorni dal parto, dopo ogni seduta di plasma exchange se ne dimezza la quantità, ragion per cui,
ad esempio, dopo la seconda seduta l’eliminazione dovrebbe riguardare una quota pari al 75%
della quantità iniziale di fattori tossici e dopo la terza una quota pari in tutto all’87.5%. Nei
casi più fortunati è sufficiente attuare un’unica seduta di plasma-exchange, ma nei casi più refrattari, che potrebbero corrispondere a quelli con più elevate concentrazioni iniziali di sostanze tossiche, possono essere necessarie anche 6 o più sedute prima di conseguire tangibili effetti terapeutici. A fronte degli indubbi vantaggi che, a parità di condizioni, consentono
di ridurre drasticamente i tempi della restitutio ad integrum, sussistono inevitabilmente taluni svantaggi o limiti:
- Costi elevati
- Disponibilità dell’attrezzatura
- Necessità di adeguate quantità di albumina e plasma
- Presenza di staff medico e infermieristico preparato
- Esperienza nell’applicazione della metodica in corso di gestosi severa
- Assunzione di responsabilità da parte di chi deve decidere e superamento dei contrasti
interpersonali
Uno dei momenti critici in tema plasmaferesi nella pre-elampsia severa rimane la decisione di ricorrervi e il timing.
Non ci sono purtroppo consensi consolidati a tal proposito. Per questo vale soprattutto
il giudizio di chi ha più esperienza nel trattamento di questi casi ed è perciò in grado di ponderare benefici, rischi e costi. Posso solo concludere affermando che dopo circa 25 anni di
esperienza di plasmaferesi nel trattamento di casi di pazienti affette da tossiemia gravidica severa, resistente al convenzionale trattamento e palesante una tendenza al rapido deterioramento delle condizioni generali, non ho mai dovuto pentirmi di avere insistito per l’attuazione di una o più sedute di plasma-exchange. Anzi, il rapido e sensibile controllo dell’ipertensione arteriosa, il ripristino della diuresi, l’aumento delle piastrine e soprattutto il miglioramento del quadro clinico con il recupero di una soddisfacente cenestesi, hanno sempre avallato
la bontà della metodica aferetica.
212
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Ruolo della plasmaferesi nella tossiemia gravidica severa
Letture consigliate
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3:36
2. Caggiano V, Fernando LP, Schneider JM, Haesslein HC, Watson-Williams EJ. Thrombotic thrombocytopenic purpura: report of fourteen cases-occurrence during pregnancy and response to plasma exchange. J Clin Apher. 1983;1:71.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Ruolo della plasmaferesi nella tossiemia gravidica severa
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214
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
PRE-ECLAMPSIA
IMPIEGO DELLA PROSTACICLINA
NELLA TERAPIA
DELLA PRE-ECLAMPSIA SEVERA
18
S. Alberico, M. Piccoli,V. Soini, M. Zanette, GP. Maso, E.Vincenti*
Centro di Riferimento Regione Friuli Venezia Giulia per l’HIV e per la Gravidanza ad Alto Rischio
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo, Università di Trieste
* Anestesia Rianimazione, Ospedale di Dolo
La pre-eclampsia è una sindrome, caratterizzata da un aumento della pressione arteriosa,
con associazione di proteinuria, che complica il 3-5% di tutte le gravidanze, determinando alti tassi di mortalità materna e feto-neonatale1-3. La mortalità materna è strettamente correlata al grado di severità della sindrome stessa e trova come principale causa l’emorragia cerebrale4. I criteri di definizione più utilizzati sono quelli proposti dall’American College of
Obstetricians and Gynaecologists, che comportano una pressione sistolica >160 mmHg ed una
diastolica >100 mmHg, con una proteinuria superiore a 5g/24 ore ed una riduzione della concentrazione piastrinica <100.000/mmc5.
L’associarsi di una compromissione epatica, renale, ed emocoagulativa, configura una sindrome di maggior complicazione, definita con l’acronimo di HELLP, descritta nel 1982 da
Weinstein e coll.6.
In questo caso il quadro clinico è ulteriormente aggravato dall’insorgenza di un’oliguria severa (<40 ml/h), da un aumento delle transaminasi e della latticodeidrogenasi, da un’anemia
emolitica e dai segni d’edema polmonare. La sua incidenza in pazienti con pre-eclampsia, oscilla dal 4% al 12%7 e la mortalità materna giunge sino al 24% dei casi, quando questi casi sono gestiti in Centri non dotati d’unità di terapia intensiva8. La mortalità fetale, a sua volta, peggiora ulteriormente raggiungendo in alcune esperienze il 37% dei casi9,10.
Tabella 1. Mortalità e morbilità materna e neonatale
*Pre-eclampsia Severa
Mortalità Materna
BM. Sibai, 1990
0.4%
14%
O. Adetoro, 1989
C. Redman, 1994
1.8%
*HELLP Syndrome
Mortalità Materna
BM. Sibai, 1999
1.1%
(USA)
(Nigeria)
(U.K.)
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Mortalità Neonatale
JM. Alexander ,1999
5%
W.Visser, 1995
8.2%
BM. Sibai, 1999 <28a sett. 15.4%
Mortalità Neonatale
BM. Sibai,1999 <28a sett. 32%
BM. Sibai,1999
11%
215
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
La pre-eclampsia è una sindrome che riguarda due pazienti: la madre e il feto ed essendo
il parto il vero trattamento radicale, spesso esso è effettuato per via addominale, per preservare la salute materna, entro e non oltre le 48 ore dalla comparsa della sintomatologia preeclamptica (periodo necessario per attuare la profilassi corticosteroidea).
Tale interventismo per epoche inferiori alla 30a settimana non sempre è vantaggioso per
l’outcome neonatale, che com’è noto è correlato più con l’epoca gestazionale che non con
il grado di severità della pre-eclampsia11.
È quindi ancora oggi dibattuto se sia più opportuno giungere ad un espletamento del parto in tempi brevi nell’interesse della madre o attuare un management conservativo, finalizzato a raggiungere un’epoca gestazionale più avanzata e di maggiore maturità del feto, con
l’espletamento dello stesso per via vaginale, secondario ad un’induzione del travaglio.
Nell’ipotesi conservativa non è del tutto chiaro inoltre quale sia il miglior approccio terapeutico.
In merito, un lavoro di BM Sibai del 1990, indicava che attuando un management di attesa rispetto ad un atteggiamento aggressivo con un parto immediato in caso di pre-eclampsia
severa si otteneva un miglioramento dell’outcome neonatale, per il prolungamento di circa
due settimane della gestazione, un minor costo di gestione neonatale, per minor numero di
giorni in ICU ed alcun peggioramento dell’outcome materno11a.
Non va poi dimenticato che la diagnosi di pre-eclampsia è in alcuni paesi, come gli U.S.A.,
condizione patologica sufficiente per indurre un parto pretermine e tale atteggiamento è in
grado di condizionare non solo gli ostetrici nella loro pratica, ma anche eventuali giudizi legali nel caso di insorgenza di controversie per esiti neonatali non positivi.
Nella Tabella successiva vengono indicate le condizioni in cui secondo S. Friedman e coll.11b
è indicato espletare il parto in caso di pre-eclampsia severa.
Tabella II. Expectant management of severe Pre-Eclampsia remote from the term.
S. Friedman, BM. Sibai, Clin.Ob.Gyn. 42,3:470,1999.
Espletamento del Parto anche se presente uno solo dei seguenti fattori
MATERNI
FETALI
PA non controllata, Eclampsia,
Decelerazioni tardive ripetitive
Piastrine <100.000mmc,
Amniotic F.Index <2cm
AST o ALT x2, Edema Polmonare,
Peso stimato <5° percentile,
Creatininemia>1mg,
Reverse Flow
Distacco di Placenta
Prima di addentrarci nella disamina dei protocolli operativi da attuare per rispondere alla scelta di cui sopra, analizziamo brevemente alcuni degli aspetti etiopatogenetici della preeclampsia, al fine di meglio comprendere poi le procedure terapeutiche da adottare nel caso di una scelta “conservativa”.
216
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
L’etiopatogenesi della pre-eclampsia riconosce come causa un’alterazione della bilancia
trombossano-prostaciclina (TxA2/PgI2) con prevalenza del primo sulla seconda. La prostaciclina possiede, com’è noto, un’azione vasodilatante ed antiaggregante piastrinica. La sua diminuita concentrazione sarebbe alla base della vasocostrizione generalizzata, con aumento delle resistenze periferiche e dell’iperattività piastrinica e con la formazione di microaggregati piastrinici propri della pre-eclampsia12.
È noto inoltre che nelle donne che svilupperanno una pre-eclampsia si è realizzata un’anomala placentazione, con conservazione, a livello della porzione miometriale delle arterie spirali, della componente muscolo-elastica della parete e quindi della risposta catecolaminica, con
un conseguente stato d’ipercontrattilità vasale e d’ipoperfusione placentare13.
La conseguenza diretta di quest’anomalia è rappresentata dal fatto che la circolazione utero-placentare non assume le caratteristiche del sistema a bassa resistenza propria della gravidanza fisiologica.
In corso di pre-eclampsia è peraltro fortemente impegnato il sistema cardiovascolare, con
una condizione d’ipovolemia, ed il sistema renale, con un’insufficienza renale acuta, da causa
pre-renale (da ipovolemia e da insufficienza cardiaca) e renale (da necrosi tubulare acuta secondaria ad ischemia).
Questa lunga premessa lascia intendere come in caso di pre-eclampsia severa, nell’intento di attuare un management conservativo, sia necessario ricorrere ad un approccio terapeutico, finalizzato a rimuovere le cause patogenetiche della sindrome e non semplicemente le
manifestazioni sintomatologiche, di cui l’aspetto più manifesto è rappresentato dalla grave ipertensione arteriosa materna e dalla discoagulopatia.
Veniamo quindi alla scelta cruciale del management clinico che si identifica nelle tre ipotesi sopracitate e che per essere compiuta comporta la valutazione attenta di:
a. condizioni della madre e del margine di miglioramento della stessa dopo trattamento specifico;
b. epoca gestazionale, stato di benessere fetale e probabilità di sopravvivenza presso il proprio centro del neonato in assenza di handicap severi; (nella Tabella III, riportiamo i risultati dell’outcome neonatale, per nati con epoca gestazionale <30 settimane, del nostro
Dipartimento in un periodo di osservazione di dieci anni, 1990-2000);
c. capacità operative, culturali e decisionali dello staff d’operatori.
Tabella III. Outcome in una popolazione di nati con epoca gestazionale <30 sett. 1990-2000 n.65/8660 nati (0.75%)
Dipartimento Ostetrico-Ginecologico,Trieste
Parti Spontanei 23%
Tagli Cesarei 77%
SGA 12.3%
AGA 87.7%
Morti Neonatali <30 gg 7
nati 10.7%
Morti: media sett. 27.6 gg
g1150 0 SGA 7 AGA
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
217
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
Il maggior sostegno ad un approccio “aggressivo” della pre-eclampsia severa è stato dato
all’inizio degli anni ’90 da Sibai e coll.14. Questi Autori, infatti, proponevano un approccio terapeutico d’attesa, finalizzato ad ottenere una maturazione fetale, solo nei casi non complicati dalla presenza di segni suggestivi per un’evoluzione in HELLP ed ove non fosse ovviamente presente uno stato di sofferenza fetale acuta (vedi la Tabella II già citata). La comparsa della HELLP invece imponeva, a loro avviso, l’espletamento rapido del parto per l’elevato rischio
materno, che essa comportava.
Nello stesso periodo Visser e coll. dimostrarono che era invece possibile attuare un management conservativo in gravidanze con eclampsia severa, anche se complicate da una
HELLP S., senza pagare un maggior tributo in termini di morbilità e mortalità materna e perinatale. A tal fine gli Autori proponevano un approccio terapeutico di tipo intensivo, con una
riespansione del volume plasmatico delle pazienti, mediante infusione di plasma pasteurizzato, con un monitoraggio emodinamico centrale, associato alla convenzionale terapia ipotensiva15.
Esistono in merito in Letteratura solo due trials randomizzati che hanno confrontato il diverso outcome materno e neonatale per un approccio ”aggressivo” o “conservativo” alla preeclampsia.
Il primo studio di Odendaal e coll. evidenziava che era possibile avere, con ricoveri in terapia intensiva, un prolungamento della gestazione di un’epoca significativa (1 settimana e 6
giorni), con un conseguente miglior outcome neonatale, senza compromettere l’outcome materno. Nel gruppo di pazienti gestite con un “expectant management” si aveva inoltre una miglior media di peso neonatale (1420g vs 1272g), una minor mortalità neonatale (2 vs 5) ed
un minor numero di giorni di ricovero in NICU16.
Il secondo lavoro randomizzato di B.Sibai e coll. mostrava un simile risultato con un guadagno per il gruppo “expectant” di due settimane di gestazione, di circa di 400 grammi di media di peso neonatale, e di 15 giorni di ricovero in NICU. Nelle conclusioni però questo autorevole esperto sottolineava come alla base del reclutamento delle pazienti, si era provveduto ad un’accurata selezione delle stesse, inserendo nel trial solo quelle senza fattori di rischio associati ed in particolar modo senza i segni di una HELLP S17.
È ora interessante notare come questo stesso Autore in un successivo editoriale del 1999
affermava, riferendosi ai due trials citati, che: “...era importante sottolineare come i due ricercatori avessero mostrato nel corso degli anni un’evoluzione nell’approccio alla pre-eclampsia severa
in epoca precoce, con una nuova capacità di gestire con una terapia medica queste pazienti, ottenendo un miglior outcome neonatale, grazie anche alle migliorate capacità di gestione dei nati
VLBW, attualmente disponibili.”18. Nello stesso studio l’Autore proponeva comunque delle linee guida di selezione per il protocollo di attesa particolarmente “restrittive”, che consentivano un prosieguo della gravidanza solo in casi estremamente selezionati e comunque in assenza di HELLP S.
218
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
Tra le due posizioni (taglio cesareo in tempi brevi e management di attesa con idonea terapia) esiste una terza scelta terapeutica, che consiste nell’induzione del travaglio di parto, per
ottenere un espletamento dello stesso per via vaginale. In quest’ottica, ove le condizioni materne lo consentano, è indispensabile che lo stato fetale sia valutato, con esito positivo, mediante ripetuti “no stressed tests”, con una valutazione del profilo biometrico, con una stima
del peso fetale e del liquido amniotico, del profilo biofisico e della flussimetria fetale con
Doppler.
È opportuno anche determinare lo stato di maturità polmonare (spesso presente in questi feti, che a causa del rallentamento della crescita, hanno una produzione endogena di ormoni corticosurrenali); ove questo non fosse stato raggiunto, è allora indicato attuare una profilassi corticosteroidea per 48 ore.
In merito Alexander e coll.19 nel 1999 hanno pubblicato un interessante lavoro randomizzato in gravide con pre-eclampsia severa e nati very low birth weight, disegnato per valutare le
differenze dell’outcome neonatale tra due gruppi, distribuiti tra induzione del travaglio di parto e taglio cesareo elettivo. Si ebbe nel gruppo indotto il 34% di parti per via vaginale, con
nessuna differenza statisticamente significativa rispetto ai nati da taglio cesareo per distress
respiratorio neonatale (TC 56% versus P.V. 52%), sepsi (TC 9% vs P.V. 4%), emorragia intraventricolare (TC 7% vs P.V.6%), morti neonatali (TC 4% vs P.V.6%).
Nello studio sopracitato erano state reclutate in un 1 anno 278 gravidanze con le caratteristiche descritte, su una popolazione di gravide estremamente vasta.Tale numero però non
consentiva delle valutazioni statisticamente significative per la rarità degli eventi patologici da
studiare e l’Autore faceva notare nelle conclusioni che per dare una risposta esaustiva scientificamente sarebbe stato necessario condurre lo studio in un arco di tempo di 40 anni.
Questo è ovviamente un forte limite che determina l’impossibilità di avere una risposta definitiva sull’opportunità o meno di indurre il travaglio in queste pazienti.
Esiste la possibilità quindi di attuare un management conservativo della pre-eclampsia severa e della HELLP S. La nostra risposta è affermativa, purché, selezionate le pazienti idonee,
si attui, presso centri specialistici di III livello una terapia, che non sia solo sintomatica, ma nei
limiti del possibile, punti a rimuovere le cause, che hanno determinato lo squilibrio volemico
e discoagulativo. A tal fine due presidi terapeutici sembrano rispondere a questa esigenza: la
prostaciclina e la plasmaferesi o plasma exchange.
Dagli Anni ’80 numerosi Autori hanno verificato l’efficacia della prostaciclina nella terapia
dell’ipertensione severa in gravidanza20,21. Grazie al già citato effetto ipotensivo ed antiaggregante essa trova particolare applicazione nei casi di pre-eclampsia, ove sia più accentuata la
trombocitopenia.
Nell’esperienza di Walker e coll. si è ottenuto, in corso di HELLP S., un’interruzione dell’emolisi, un miglioramento del flusso renale e la concentrazione piastrinica iniziava ad aumentare già 12 ore dopo la prima infusione21.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
219
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
Nella Tabella IV abbiamo riportato gli Autori che hanno pubblicato in letteratura trials con
impiego della prostaciclina.
Tabella IV. La Prostaciclina in Letteratura
J. Fidler, Lancet 1980:
1 caso pre-eclampsia severa: 27 sett. Esito: OK!
P. Lewis, Lancet 1981:
1 caso pre-eclamsia severa. Esito: Madre OK! MEU.
J. Belch, Cl.Ex.Hyper. ’85:
5 casi di pre-eclampsia. Severa. Esito: 1 MEU.
J. Fox, BrJOG 1991:
1 caso di HELLP S. in puerperio. Esito: OK!
J. Moodley, BrJOG 1992:
Pre-eclampsia severa:
22 casi PGI2 ...Vs...20 Casi Idralazina » Esiti:Tutti OK!
» PGI2 maggior effetto Ipotensivo, minor effetti collaterali.
A. de Bedler, Lancet 1992:
1 caso di pre-eclampsia severa. Esito Mat. OK!+MEU
W. Huber, Lancet 1994:
1 caso HELLP S. con PGI2+ plasma exchange. Esito: OK
M.Toppozada, 1983-92:
Numerosi casi di pre-eclampsia sev. trattati con “PA1”
Totale: 32 casi trattati, con esito materno sempre favorevole e 2 MEU
*Dal 1999 5 casi segnalati in letteratura di trattamento con prostaciclina per ipertensione polmonare primitiva in gravidanza
Si tratta di un farmaco di complesso impiego, che va quindi somministrato solo in centri
dotati di unità di terapia intensiva ove siano presenti dei criteri di accettabilità e le condizioni permittenti per un expectant management, rappresentate nella Tabella successiva.
Tabella V. Condizioni permittenti
- Disponibilità di una ICU Ostetrico-Anestesiologica
- Staff Medico-Infermieristico esperto in questo settore
- Assenza di distress fetale acuto
- Assenza di imminente pericolo di scompenso materno
- Epoca gestazionale >23° <28°
- Consenso informato della paziente
La dose di somministrazione va modulata in relazione alla gravità della sindrome ipertensiva, iniziando con un dosaggio di 1-2 ng/kg/min, potendo giungere nei casi più severi sino a
10 ng. La somministrazione va effettuata per un arco di tempo di circa 2-3 ore con un attento monitoraggio della pressione arteriosa della paziente, per il rischio di un eccessivo effetto
vasodilatante del farmaco.
Per la sua azione irritativa a livello venoso è necessario ricorrere in caso di trattamenti
prolungati ad una somministrazione per via venosa centrale.
La gestione della pre-eclampsia severa e della HELLP S. nel protocollo del nostro
Dipartimento comporta l’associazione della terapia con prostaciclina con cicli di pasma exchange. Questo ultimo trattamento è oggetto di discussione in un altro capitolo di questo testo a cui si rimanda, segnalando in bibliografia i lavori che trattano in letteratura questo specifico approccio terapeutico22-24.
220
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
Il protocollo del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’IRCCS “Burlo Garofolo” di
Trieste prevede quindi per epoca gestazionale inferiore alla 29a settimana, un intervento di
espletamento del parto con un taglio cesareo elettivo in caso di pre-eclampsia severa o di
HELLP syndrome solo in presenza di segni cardiotocografici suggestivi di uno stato di sofferenza fetale attuale o di altra indicazione elettiva per un parto addominale (podalico, metrorragia materna, ecc.), effettuando se le condizioni fetali lo consentono una profilassi corticosteroidea per 48 ore.
Nei casi in cui non siano presenti tali patologie si tenta sempre un approccio terapeutico
medico alle sindromi citate, trasferendo la paziente in unità di terapia intensiva in caso di ipertensione arteriosa severa non dominabile e/o comparsa di segni di discoagulopatia, (con consumo di antitrombina III e di piastrine) e/o di contrazione significativa della diuresi.
Tabella VI. Protocollo di Gestione della Pre-Eclampsia Severa - HELLP SYNDROME
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo, Università di Trieste
EPOCA GESTAZIONALE ≥28A SETTIMANA + PESO FETALE STIMATO >1000G
1. Quadro clinico materno evolutivo (piastrine <50.000, PAD>110 mmHg, discoagulopatia, oliguria)
Espletamento del Parto (Induzione?/TC Elettivo) dopo attuazione di profilassi corticosteroidea per 48 ore.
2. Segni di sofferenza fetale acuta (NST patologico)
Taglio Cesareo urgente
EPOCA GESTAZIONALE <28A SETTIMANA
1. Ipertensione arteriosa severa senza segni di trombocitopenia e discoagulopatia
»Terapia ipotensiva (calcioantagonista, labetalolo, urapidil)
Magnesio o.s.,Vit.K, Betametasone (12mg i.m./24h x 2), Ringer latt. con destrosio 5%
(x espansione volume plasmatico), Diazepam.
2. Comparsa di segni di discoagulopatia e progressione della trombocitopenia
Ricovero ICU: terapia con prostaciclina ed eventuale plasmaferesi, monitoraggio
Pressione venosa centrale, eventuale antitrombina III, terapia antibiotica.
La terapia prevede la somministrazione di prostaciclina per via venosa centrale a cicli quotidiani di 4-6 ore; di plasma exchange con sostituzione del 50% della quota plasmatica per ciclo e di infusione di antitrombina III per valori inferiori al 90%.
In un periodo di tre anni sono state sottoposte a tale protocollo terapeutico 7 pazienti
con HELLP S. di grado severo, di cui tre in immediato puerperio e 4 con gravidanza in corso, con epoca gestazionale di 29-30 settimane. Si è ottenuto un dilazionamento medio del
parto di 4.2 giorni (range 2-14) con outcome materno e neonatale privo di mortalità e di
morbidità permanente.
Vengono di seguito illustrati nella Tabella VII e VIII due tra i casi più esplicativi, in cui la somministrazione della prostaciclina, in un caso in gravidanza, l’altro in puerperio, si associa ad una
pronta risposta clinica, in termini di miglioramento sia dello stato pressorio, che della concentrazione piastrinica e degli altri parametri ematochimici valutati.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
221
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
Tabella VII. Caso 1
A.N. 24 aa, I Gr., 29a sett., HELLP S., - Feto: Flussim. Regolare, Stima peso 1300g
è Taglio cesareo: neonata femmina, 1380 g, Apgar 5-8, vivente e sana.
GIORNI
-3
-2
-1
T.C.
I
II
III
IV
V
P.A.
179/100
140/80
170/85
155/95
165/100
205/105 160/90 160/85 140/70
D. Dimero
4.9
8.2
4
4.5
5.9
5.1
3.3
GOT
90
45
24
13
38
23
GPT
88
91
42
27
52
160
Uricemia
5.9
7.6
5.9
PLT
46.000
58.000
90.000
113.000
48.000
79.000 200.000
AT III
87%
54%
104%
81%
89%
LDH
1064
430
333
604
Diuresi Olig/anuria Norm
Norm
Norm
Norm
Norm Norm
TERAPIA
“Flolan”
5 ml/h
5 ml/h
11.6ml/h
11.6ml/h
11.6ml/h
30ml/h 30ml/h 30ml/h 30ml/h
AT III
1000 ui
1000 ui
Decadron 12mg
12 mg
12mg
Tabella VIII. Caso 2
G.A. 36 aa, I Grav., 30a sett., Feto: IUGR severo, Stima peso: 1200 g, Flussim. è in Ombel.
Taglio Cesareo per: pre-eclampsia severa. Crisi eclamptica. Stato comatoso. CTG Patologico.
Neonato: maschio 1200 g, Apgar 5-10, vivente e sano.
GIORNI
0
I
II
III*
IV
V
P.A.
175/110
140/90
130/80
130/80
140/85
D. Dimero
2
1.5
1.5
2
5
2
PLT
34.000
30.000
51.000
114.000
127.000
175.000
AT III
60%
56%
61%
100%
80%
90%
GOT
818
397
70
36
41
GPT
448
305
68
81
79
Diuresi
Olig/anuria
Norm
Norm
Norm
Norm
Norm
TERAPIA
“Flolan”
2.5ml/h
2.8ml/h
2.8ml/h
2.8ml/h
2.8ml/h
Plasm.Exch.
Ia
Ia
AT III
500 ui
1000 ui
* Si alimenta in III Giornata
VI
2
In conclusione riteniamo che l’approccio alla pre-eclampsia severa ed alla HELLP S. vada
attuato in centri adeguatamente attrezzati e culturalmente preparati, specie quando queste
patologie si realizzano in epoche di particolare prematurità, quando non è a nostro avviso indicato espletare “semplicisticamente” un taglio cesareo elettivo (a meno che non vi siano le
assolute indicazioni di emergenza materna o fetale, indicate).
Esiste inoltre la possibilità di un approccio terapeutico, che tenga conto della patogenesi
della malattia e consenta quindi un “dilazionamento” della nascita con un risultato sicuramen222
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Impiego della prostaciclina nella terapia della pre-eclampsia severa
te più “garantito” per il neonato, in assenza di aumentata patologia materna. Tali conclusioni
sono sintetizzate nella nostra ultima Tabella.
Tabella IX
- Prostaciclina e Plasma-Exchange sono altamente efficaci nella terapia intensiva della Pre-eclampsia Severa e
della HELLP S.
- Altre patologie quali LES e Scompenso Congestizio Polmonare possono trarre beneficio da queste terapie.
- Le indicazioni al loro impiego sono altamente specifiche.
- Utilizzo solo presso Unità di Terapia Intensiva, con Personale Sanitario altamente specializzato e con una
piena armonia operativa e decisionale tra l’Ostetrico e l’Anestesista Rianimatore.
- Il rischio per la paziente è sicuramente accettabile.
- Sarebbe indicata una concentrazione di casi eleggibili presso Centri di III° livello per mantenere la capacità
operativa del Personale Sanitario.
- Il ruolo svolto dalla prostaciclina sul flusso placentare deve essere ulteriormente studiato.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
223
19
OBESITÀ E GRAVIDANZA
PRE-ECLAMPSIA
M. Bernardon, M. Costantini, R.Tercolo, GP. Maso, S. Alberico
Dipatimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo,Trieste
L’obesità rappresenta una condizione clinica che raggiunge proporzioni epidemiche nella
società occidentale. Si stima che nel Regno Unito circa il 10 % dei bambini ed il 20% degli
adulti presentino un BMI superiore a 30 kg/m2. Negli Stati Uniti le percentuali sono ancor più
allarmanti. In tutto il mondo si reputa che più di 300 milioni di persone siano clinicamente
obese1. È attualmente noto che l’obesità ed in particolare la distribuzione viscerale del tessuto adiposo, correlino negativamente con le funzioni metaboliche di base e predispongano ad
un elevato rischio di patologia cardiovascolare.
L’obesità determina una perturbazione del metabolismo lipidico caratterizzata da un rialzo dei trigliceridi totali, una riduzione dell’HDL-C, un aumento del VLDL-C, sebbene il colesterolo totale e l’LDL-C non risultino significativamente modificati. Risulta compromesso anche il metabolismo glucidico con iperinsulinemia (che raggiunge livelli circa 2 volte superiori
a quelli riscontrati nelle donne non obese), aumento della concentrazione delle leptine e della risposta infiammatoria, con salita della PCR e dell’IL-6.
È stato dimostrato inoltre che la PCR e l’insulinemia sono correlati inversamente alla risposta endoteliale microvascolare. Questo fattore, in concomitanza con la disfunzione della
muscolatura liscia vascolare tipica dell’obesità, è responsabile della riduzione della risposta vasodilatatoria1. Il complesso pattern di alterazioni neuroendocrine caratteristico della donna
obesa si configura clinicamente nella sindrome metabolica, che secondo l’American College of
Endocrinology si definisce per la presenza di 3 o più dei seguenti criteri: obesità addominale,
aumento dei trigliceridi totali, diminuzione delle HDL, aumento della pressione arteriosa ed
aumento della glicemia a digiuno2.
Le modificazioni molecolari che caratterizzano una donna in sovrappeso si ripercuotono
inevitabilmente sulla gravidanza, risultando in una pletora di anomalie metaboliche e vascolari che possono complessivamente esacerbare il rischio di complicanze materne e fetali. La gravidanza rappresenta una sfida metabolica per la donna obesa: le modificazioni ormonali che
ne stanno alla base (quali l’aumento di estrogeni, progesterone e lattogeno placentare) possono slatentizzare manifestazioni cliniche di severa entità. Dai dati della Letteratura emerge
in merito un aumento dell’incidenza di diabete mellito, disordini ipertensivi, complicanze tromboemboliche, complicanze intrapartum e postpartum, problemi anestesiologici, morbilità e
mortalità fetale, perinatale e morbidità a lungo termine, che verranno di seguito analizzati singolarmente. Un recente studio osservazionale è stato condotto presso il Dipartimento oste224
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Obesità e gravidanza
trico-ginecologico dell’ IRCCS Burlo Garofolo di Trieste su 1000 gestanti tra il 2002 ed il 2003
con i risultati di seguito riportati.
BMI
n = 905
GCT +
GDM
Pre-eclampsia
>4000 g
TC elettivo
AUMENTO PONDERALE kg
Microsomia fetale
>20
27.5 %
18.9 %
5.7%
5.7%
4%
10.8 %
<7
0
20-25
56.2%
23.9%
9.4%
14.4%
7.1%
12.9%
7 - 11
3.5%
25-30
11.8%
38.7%
17.4%
50%
15.7%
23%
11 - 16
9.1%
>30
4.5%
40%
33.3%
57.1%
17%
19.5%
16 - 20
> 20
11.4%
22%
P
<0.001
<0.001
<0.0001
<0.00081
<0.001
P
<0.00081
Le donne in sovrappeso rappresentano il 56.2%, l’obesità l’11,8% e l’obesità severa il 4.5%
della popolazione oggetto di studio. La prevalenza della pre-eclampsia aumenta progressivamente in relazione al BMI materno, analogamente al diabete gestazionale. Sono invece paragonabili l’incidenza di colestasi gravidica e infezioni delle vie urinarie nelle varie classi di peso.
In merito ai parametri ecografici risulta un netto incremento della percentuale di accelerazione della crescita fetale per madri con elevato BMI ed anche tra quelle con eccessivo incremento ponderale gravidico. Risultati analoghi si hanno per la macrosomia fetale, anche dopo
correzione per diabete gestazionale.
Riguardo alla modalità di espletamento del parto tra le donne obese e tra quelle con eccessivo incremento ponderale gravidico risulta nettamente aumentata l’incidenza di operatività vaginale e taglio cesareo, con una parallela diminuzione del rate di parti spontanei. A questi aggiungiamo un caso di distocia di spalla, due casi di isterectomia da atonia uterina grave
ed un caso di infezione della ferita chirurgica, rilevati nello stesso gruppo3.
Tra i parametri di misura dell’obesità il gold standard è rappresentato dal BMI4. Il Body Mass
Index è calcolato come il peso in chilogrammi diviso per il quadrato dell’altezza espressa in
metri. In accordo con l’Organizzazione Mondiale della Sanità si definisce sottopeso un individuo con BMI inferiore a 18,5 kg/m2, normopeso nel caso in cui il BMI sia compreso tra i 18,5
ed i 24,9 kg/m2, sovrappeso se il BMI è compreso tra i 25,0 ed i 29,9 kg/m2 ed obeso se il
BMI è uguale o superiore a 30 kg/m2(5). In gravidanza il BMI è calcolato usando il peso pregravidico o, se questo è sconosciuto, il peso misurato alla prima visita ostetrica.
Complicanze in gravidanza
Disordini ipertensivi
Diversi studi dimostrano che l’obesità materna si associa ad un aumentato rischio di ipertensione in gravidanza5-9. Edward e coll. riportano un’incidenza significativa di ipertensione geGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
225
Obesità e gravidanza
stazionale tra le donne con BMI superiore a 29 kg/m2 rispetto al gruppo di controllo con un
OR di 3.4 (95% CI =2.0-5.7)9. I risultati non sono invece del tutto concordi nell’affermare che
l’elevato BMI materno rappresenti un fattore di rischio rilevante per lo sviluppo di pre-eclampsia. Diversi studi dimostrano una forte correlazione dell’obesità materna con la pre-eclampsia1,7,8,10,11, mentre altri denotano soltanto una lieve tendenza in questa direzione4,6.
In un lavoro condotto su 15.262 donne Thadani riporta una stretta correlazione tra il BMI
materno e lo sviluppo di ipertensione gestazionale e tra l’ipercolesterolemia materna e lo sviluppo di pre-eclampsia. Dallo studio emerge che nelle donne pre-eclamptiche il livello di lipidi sierici sia significativamente più elevato rispetto ai controlli (1.5 - 2 volte maggiore rispetto al normale incremento gravidico) e come i vasi placentari vadano incontro a modificazioni aterosclerotico-simili, inclusi la deposizione di materiale fibrinoide, foam cells e prodotti della perossidazione lipidica, che sottendono il danno endoteliale e la vasocostrizione4.
La patogenesi del danno vascolare che sottende la pre-eclampsia può altresì essere spiegata come manifestazione di una condizione di insulinoresistenza. In una riesamina sui fattori
di rischio ipertensivo nelle donne pluripare, Mostello afferma che la pre-eclampsia rappresenta una manifestazione clinica della sindrome da insulinoresistenza. Una condizione di iperinsulinismo, quale quella tipica dell’obesità, è in grado di alterare le pompe cationiche intracellulari che regolano il tono vascolare e la pressione arteriosa, stimolare il sistema nervoso simpatico ed indurre ipertrofia delle cellule muscolari lisce. Un aumentato livello di peptidi vasoattivi che si associa all’iperinsulinemia può inoltre contribuire al danno endoteliale che è caratteristico della pre-eclampsia, come della sindrome da insulinoresistenza11. La risposta vasodilatatoria risulta quindi sostanzialmente ridotta tramite meccanismi di disfunzione endoteliale da un lato e muscolare liscia dall’altro.
Nel confermare una stretta correlazione tra obesità e comparsa di pre-eclampsia Ramsay
e coll. ne hanno sottolineato una condizione comune: l’attivazione del sistema infiammatorio.
Il riscontro di elevate concentrazioni di IL-6 e PCR in donne gravide obese rappresenta un
punto-chiave nella condizione di infiammazione cronica tipica dell’obesità, che correla negativamente con la funzionalità dell’endotelio (dimostrata da una minor risposta vasodilatatoria
all’acetilcolina) e positivamente con i livelli di insulina a digiuno, dimostrando quindi una possibile implicazione anche nella patogenesi del diabete gestazionale1.
Da quanto riportato emerge come il quadro metabolico, infiammatorio e funzionale tipico delle donne obese possa predisporre ad una compromissione vascolare generale e contribuire quindi al meccanismo attraverso il quale l’adiposità materna risulta associata alla comparsa di pre-eclampsia.
Una review del 2003 condotta da O’Brien e coll. su 13 studi di coorte, con un totale di
1,4 milioni di donne, riporta che il rischio di pre-eclampsia risulta raddoppiato per ogni incremento di BMI pregravidico di 5-7 kg/m (10). I meccanismi patogenetici che sottendono tale
stretta correlazione sono molteplici: l’ipertrigliceridemia tipica della sindrome metabolica, di
2
226
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Obesità e gravidanza
cui l’obesità rappresenta la maggior espressione clinica, rappresenta un fattore di rischio per
la disfunzione endoteliale. L’iperlipidemia può alterare la regolazione prostaglandinica portando a vasocostrizione arteriolare. Altri marcatori dell’insulinoresistenza, come il PAI (inibitore
dell’attivatore del plasminogeno), la leptina ed il TNF (fattore di necrosi tumorale), appaiono
aumentati nelle donne con pre-eclampsia.
Dai dati raccolti presso il nostro Dipartimento emerge una prevalenza di pre-eclampsia
progressivamente maggiore in relazione al BMI materno, con il 5.6% tra le donne sottopeso,
il 13.4% tra le normopeso, il 50% tra le sovrappeso ed il 51% tra le obese.
L’obesità rappresenta infine il maggior fattore di rischio della sindrome da apnea notturna, condizione clinica comunemente riscontrata in gravidanza che si caratterizza non solo per
episodi di ipossia materna, ma anche per aumento della pressione arteriosa durante i periodi ostruttivi.
Diabete Gestazionale
L’obesità addominale è caratterizzata da un aumento di volume delle cellule adipose e da
più elevati livelli di lipolisi basale, che si traducono in un incremento del flusso portale di acidi grassi liberi. Questi ultimi creano i presupposti per l’iperinsulinemia, da un lato stimolando
la gluconeogenesi e la comparsa di iperglicemia e dall’altro interferendo con l’attività epatocellulare di degradazione insulinica. Elevate concentrazioni di insulina riducono il numero dei
recettori (down regulation) e con esso, l’effetto dell’insulina stessa. Il mantenimento di una
condizione di euglicemia richiede pertanto un incremento progressivo della secrezione insulinica. La gravidanza, che rappresenta una condizione di stress sul metabolismo glucidico, può
compromettere questo delicato equilibrio. Si ha quindi una riduzione della sensibilità della B
cellula, non più in grado di far fronte alle aumentate esigenze metaboliche e la comparsa di
diabete gestazionale (fase ipoinsulinemica). L’eccessivo incremento ponderale contribuisce ulteriormente a questo sbilanciamento e rende più difficoltoso il ritorno al peso pregravidico
dopo il parto8.
Molteplici studi documentano un incrementato rischio di diabete gestazionale tra le donne obese1,4,7,8,12-15. In uno recente, prospettico, multicentrico, condotto su 16.102 casi è stato
riscontrato un elevato rischio di diabete gestazionale tra le donne obese ed in particolare tra
quelle affette da obesità morbosa (BMI ≥ 35 kg/m ) rispetto al gruppo di controllo con un
OR di 2.6 (95% CI 2.1-3.4) e 4.0 (95% CI 3.15.2) rispettivamente14. Questi risultati concordano con quelli precedenti di altri autori, che riportano un’incidenza di GDM del 24,5% per
pazienti con BMI superiore a 40 rispetto al 2,2% in pazienti con BMI compreso tra 20 e 24,97.
Bianco denota la comparsa di GDM nel 14,2% di donne con BMI superiore a 35 rispetto al
4,3% in caso di BMI compreso tra 19 e 2712.
Dai dati dello studio dell’IRCCS Burlo Garofolo emerge come il diabete gestazionale, analogamente alla pre-eclampsia, presenti un andamento progressivo in termini di prevalenza in
2
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
227
Obesità e gravidanza
relazione all’aumento del BMI materno, con il 5.6%, 9.4%, 17.4% e 33% tra le donne sottopeso, normopeso, sovrappeso ed obese rispettivamente3.
Complicanze tromboemboliche
L’aumentato rischio tromboembolico nella gestante è stato documentato ampiamente in
Letteratura. Condizioni di ipercoagulabilità, stasi venosa e danno vascolare configurano la triade di Virchow tipicamente ben rappresentata in gravidanza e puerperio. In presenza di obesità materna queste alterazioni vascolari diventano tanto più marcate da incrementare il rischio tromboembolico venoso da cinque a sei volte16. Un danno marcato alla fibrinolisi con
incremento dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI) rappresenta alterazioni comuni alla gravidanza ed all’obesità. Il PAI infatti è il risultato di una aumentata produzione placentare da un lato17 e della sindrome da insulinoresistenza dall’altro18, con una stretta correlazione all’aumento del BMI. Anche la prolattina e la leptina sono aumentate nella gestante ed in
presenza di obesità materna, e rappresentano fattori di rischio elevato per tromboembolismo venoso nella misura in cui svolgono il ruolo di coattivatori dell’aggregazione piastrinica
ADP- dipendente. A tutto ciò vi si aggiunge anche la riduzione delle prostacicline19 e del monossido d’azoto (NO) nell’obesità e l’aumento del fibrinogeno e la diminuzione della proteina S gestazionali. Considerando tutto ciò non stupisce come innumerevoli studi citino l’obesità quale uno dei maggiori fattori di rischio per eventi tromboembolici in gravidanza16,17, 20-22.
Una precisa correlazione tra l’obesità e le possibili complicanze tromboemboliche non è
stata descritta in alcuno studio prospettico.
Da uno studio retrospettivo del 1996 condotto su 683 pazienti obese e altrettanti controlli emerge un rischio tromboembolico del 2,5% per le donne con BMI superiore a 29 kg/m
rispetto allo 0,6% delle donne normopeso9.
Nel report del 2001 del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists vengono descritti 31 casi di morte materna da tromboembolismo negli Stati Uniti tra il 1997 ed il 1999, tra
i quali si annoveravano 13 donne obese. In conclusione viene affermato che l’obesità è il più
comune fattore di rischio indipendente per tromboembolismo venoso23. Questo concetto viene enfatizzato anche in termini di profilassi in gravidanza e puerperio all’interno delle linee
guida comportamentali del RCOG del 2004. Viene consigliata una profilassi antenatale con
LMWH, anche in assenza di pregressi episodi tromboembolici anamnestici o trombofilia documentata, qualora il giudizio del Clinico denoti la presenza di uno o due fattori di rischio importanti nella donna gravida. La prosecuzione della profilassi eparinica nel periodo puerperale è indicata per 3 - 5 giorni qualora i fattori di rischio documentati siano due o più. L’obesità
estrema (BMI >35 kg/m ) è considerata una condizione clinica in grado di giustificare da sola la somministrazione eparinica a scopo profilattico24. Riteniamo che in caso di obesità materna con BMI inferiore a 35 kg/m la presenza di un unico fattore di rischio aggiuntivo giustifichi la profilassi con LMWH in gravidanza e puerperio.
2
2
2
228
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Obesità e gravidanza
Sistema epatobiliare
Tra le complicanze correlate all’obesità in gravidanza le ripercussioni sul sistema epatobiliare rappresentano un capitolo non meno importante.
Il fegato dell’obeso sintetizza una maggior quantità di colesterolo che viene ipersecreto
con la bile, dove risulta aumentato l’indice litogeno; quest’ultimo, in concomitanza con la ridotta motilità colecistica, indotta dal clima ormonale gravidico, si traduce in un aumento della prevalenza della calcolosi colesterinica. Questa condizione può ripercuotersi negativamente sul metabolismo epatobiliare sino alle forme cliniche di steatosi, fibrosi e necrosi epatocitaria.
Biochimicamente lo stress ossidativo e la perossidazione lipidica sono implicati nella patogenesi della epatosteatosi, probabilmente come risultato dell’accumulo di acidi grassi liberi all’interno dei mitocondri e l’induzione del citocromo P450 negli epatociti e nelle cellule
del Kupffer25.
Un recentissimo studio condotto su 3.254 donne ha valutato prospetticamente l’incidenza, la storia naturale ed i fattori di rischio coinvolti nella stasi biliare e calcolosi gravidica e postpartale. Dallo studio è emerso come il BMI pregravidico rappresenti un forte fattore predittivo nei confronti di patologie colecistiche ed epatobiliari (P < 0.001) e come la leptina
sierica costituisca un fattore di rischio indipendente per le suddette patologie (odds ratio per
aumento di 1 ng/dL: 1.05; 95% CI, 1.01, 1.11), anche dopo correzione per BMI26.
I risultati di questo studio concordano con quelli retrospettivi di Lindseth, che riportano
un BMI pregravidico significativamente più elevato nelle gestanti con colelitiasi rispetto ai controlli27.
L’attività fisica e le abitudini alimentari rivestono un ruolo fondamentale in termini di prevenzione nei confronti di patologie epatobiliari, in particolar modo nelle gestanti a rischio per
elevato BMI. In una review del 2004 si sottolinea che l’associazione di un elevato apporto di
colesterolo con la dieta e la comparsa di patologie della colecisti siano state documentate in
diversi studi e si afferma che un moderato consumo di alcol ed un apporto adeguato di fibre rappresentano dei fattori protettivi, mentre il consumo di zuccheri semplici e di grassi saturi aumentano il rischio28.
Complicanze fetali in termini di morbidità e mortalità
Macrosomia fetale
L’obesità si associa frequentemente ad un’accelerazione della crescita fetale, comportando una maggior incidenza di nati macrosomi4,7,8,12-15.
Da uno studio di coorte su 613 donne affette da obesità severa (BMI > 35 kg/m ) emerge che in queste ultime il rischio di partorire un neonato grande per età gestazionale è del
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Obesità e gravidanza
18,2%, rispetto all’11,2% delle donne normopeso, con un OR di 1.8 dopo correzione per diabete gestazionale e pregravidico12.
Nello studio prospettico multicentrico Newyorkese su 16.102 pazienti di cui 1.473 obese e 877 con obesità morbosa, viene riportato che le donne obese e quelle con obesità severa hanno un rischio significativamente più elevato delle normopeso di partorire un neonato con peso superiore ai 4.000 g (OR 1.7 ed 1.9 rispettivamente) ed anche ai 4.500 g (OR
2.0 e 2.4 rispettivamente)14.
Dai dati raccolti nel nostro studio, sopra citato, in merito all’accelerazione della crescita fetale emerge una prevalenza del 4.5% tra le donne normopeso, 9.2% tra le sovrappeso e 21.6%
tra le obese. Risultati analoghi si hanno per la macrosomia fetale anche dopo correzione per
diabete gestazionale (16% e 17% tra le donne sovrappeso ed obese, rispetto al 4% e 7% delle donne normopeso e sottopeso, con un OR di 1 per BMI<20, 1.85 per BMI 20-25, 4.66 per
BMI 25-30 e 4.96 per BMI>30)3.
L’aumento del peso fetale che si realizza in queste donne è proporzionale a due indipendenti fattori: il peso materno pregravidico e l’incremento di peso in gravidanza29. L’elevata concentrazione di acidi grassi liberi nel plasma materno durante la gravidanza favorisce la lipogenesi fetale. Ne risulta un aumento del deposito adiposo nel feto, con distribuzione prevalentemente viscerale8.
Una condizione di iperglicemia cronica materna si ripercuote inoltre a livello fetale, favorendo lo sviluppo di insulinoresistenza e rappresentando uno stimolo alla secrezione insulinica. Questa ultima ha un effetto anabolico e lipogenico e può essere considerata a tutti gli effetti l’ormone responsabile della macrosomia30.
Da questa condizione clinica derivano dei rischi intrapartali, di cui il principale è rappresentato dalla distocia di spalla, e postnatali, quale il possibile sviluppo di sindrome metabolica
infantile31.
Nella maggioranza degli studi condotti l’obesità materna non è stata identificata come fattore di rischio indipendente per la distocia di spalla. Essa tuttavia, come affermato in precedenza, predispone alla macrosomia fetale, che è considerata l’unico significativo fattore predittivo nei confronti di questa temibile complicanza ostetrica4.
C’è da aggiungere inoltre che un outcome non significativo di distocia di spalla tra le donne obese può essere ricondotto ad un management ostetrico particolarmente attento, con
il ricorso ad un taglio cesareo elettivo ogni qual volta sia presente un sospetto clinico di feto macrosoma.
I delicati equilibri metabolici che caratterizzano l’ambiente fetale in una gravida obesa non
sono scevri di rischi che si percuotono potenzialmente a lungo termine. Da uno studio longitudinale di coorte pubblicato quest’anno emerge che il rischio di sviluppo della sindrome
metabolica infantile risulta significativamente aumentato per i bambini LGA (large for gestational age) nati da madri obese, pur in assenza di diabete gestazionale31.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Obesità e gravidanza
IUGR, morte fetale tardiva e outcome neonatali
La possibile associazione tra l’obesità materna ed outcome fetali avversi è stata studiata
da diversi autori con risultati parzialmente contrastanti. Sebbene pochi studi citassero in passato un incremento del rate di feti Small for Gestational Age (SGA) tra le gestanti obese rispetto a quelle normopeso32, la quasi totalità degli stessi ha documentato l’assenza di una significatività statistica in merito4,7,12. Oltre a ciò è importante sottolineare che la più elevata
incidenza di IUGR notata in alcuni trials debba essere attribuita piuttosto ad una condizione
di ipertensione cronica o di vasculopatia diabetica materna sovrimposta7.
Alcuni Autori viceversa riportano che il tasso di SGA nelle madri obese appare significativamente ridotto13.
Il rischio di morte endouterina tardiva fetale tra le gestanti obese è stata studiata da alcuni autori riportando risultati significativi. In un recentissimo studio di coorte condotto su
24.505 gravidanze l’obesità materna risulta associata ad un rischio più che raddoppiato di
morte endouterina tardiva fetale (OR 2.8, 95% CI 1.5-5.3) e morte neonatale (OR 2.6, 95%
CI 1.2-5.8)19. Questi dati sono in accordo con quelli pubblicati nel 2001 da uno studio londinese che riportava tra le donne nullipare un’incidenza di MEU tardiva tanto maggiore all’aumentare del BMI, con un OR di 2.2 (95% CI 1.2-4.1) per le donne normopeso, 3.2 (95%
CI 1.6-6.2) per le sovrappeso e di 4.3 (95% CI 2.0-9.3) per le donne obese33.
La MEU nelle donne obese si presenta con frequenza maggiore verso il termine di gravidanza, se non successivamente alla nascita, con una causa più frequentemente inspiegata. È
stato riportato che generalmente si trattasse di SGA. Questo dato è sicuramente discutibile, considerando la possibilità di valutare il peso soltanto alla nascita e non alla data esatta
della morte ed al margine di errore ben noto della stima peso ecografica nel terzo trimestre di gravidanza.Tuttavia, con i dovuti limiti, l’associazione non appare tanto forzata considerando la disfunzione placentare che sottende entrambe le condizioni. L’obesità infatti è associata a disturbi del sistema endocrino, con possibile riduzione della secrezione di prostacicline ed aumento del trombossano, rischio di trombosi placentare ed ipoperfusione della
stessa. Questo rischio può inoltre aumentare in caso di insulinoresistenza, iperlipidemia e diminuzione dell’attività fibrinolitica.
L’aumentato rischio di morte endouterina tardiva può così essere attribuita ad una disfunzione dell’unità fetoplacentare, con comprosmissione del flusso ematico della stessa19.
Un ultimo accenno in termini di outcome fetale è doveroso. Da diversi studi emerge una
maggiore morbidità neonatale. Questo non stupisce se si considera che i nati di madri obese sono per lo più macrosomi e talvolta esposti ad un ambiente intrauterino alquanto sfavorevole.
Kumari riporta un tasso di ammissione alla terapia intensiva neonatale tra le donne obese del 16% vs 4% delle normopeso. Questi dati sono in accordo con quanto riportato da
Bongain e coll.8.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Obesità e gravidanza
Malformazioni congenite
Diversi studi in letteratura documentano un’associazione tra il peso materno pregravidico e la comparsa di malformazioni congenite embrionali a carico del sistema nervoso centrale. Waller e coll. riportano da uno studio caso controllo su 1.370 coppie madre- bambino
che le donne affette da obesità severa (BMI pregravidico >= 31 kg/m2) hanno un rischio significativamente aumentato di partorire un bambino affetto da anomalie del tubo neurale (OR
1,8; 95% CI = 1,1-3,0) e da altri tipi di malformazioni maggiori a carico del sistema nervoso
centrale34. Werler e coll. concordano con tali risultati riportando un RR per anomalie del tubo neurale aumentato a 1,9 (95% CI= 1,2-2,9) per donne con peso compreso tra 80 ed 89
kg ed a 4,0 (95% CI=1,6-9,9) per donne con peso superiore ai 110 kg rispetto ai controlli
con peso 50-59 kg35. Nello stesso studio sottolineano come un apporto dietetico giornaliero di 400 mg di acido folico riduca il rischio di malformazioni del tubo neurale del 40% solamente tra le donne con peso inferiore ai 70 kg, mentre tra quelle con peso superiore non
sia possibile riscontrare alcun beneficio in termini di prevenzione.
Un recentissimo studio caso-controllo stima la prevalenza di obesità materna e diabete
gestazionale tra le mamme di neonati affetti da diversi tipi di malformazioni a carico del sistema nervoso centrale e riporta che le donne obese presentano un rischio sostanzialmente aumentato di partorire un neonato affetto da anencefalia (OR 2,3; 95% CI=1,2-4,3), spina
bifida (OR 2,8; 1,7-4,5) o idrocefalo (OR 2,7; 1,5-5,0), mentre è possibile riscontrare un aumento del rischio di oloprosencefalia (OR 47; 9,5-230) ed idrocefalo (OR 12; 2,9-47) tra i
neonati di madri diabetiche tipo 1 e 2 e di oloprosencefalia isolata (OR 2,9; 1,0-8,4) in caso
di diabete gestazionale36. Dal medesimo studio emerge come l’OR aumenti con evidenza di
effetto moltiplicativo in caso di presenza combinata di obesità materna e diabete gestazionale. Questo ultimo dato concorda con quanto riportato da una recente valutazione prospettica condotta da Moore nel 2000, che sottolinea un rischio 3 volte aumentato di malformazioni fetali in caso di presenza combinata di diabete ed obesità materna, sebbene smentisca
una correlazione tra obesità isolata ed anomalie del tubo neurale37.
Tra gli studi rivolti alla valutazione del rischio malformativo fetale tra le donne obese emergono anche alcuni dati a favore di un aumentato rischio di anomalie congenite cardiache.
Watkins evidenzia un OR di 2,0 con 95% CI=1,2-3,438, mentre Mikhail riporta tra le donne
obese afro-americane un OR di 6,5 con 95% CI=1,2-34,9; (P = 0.025) dopo correzione per
diabete gestazionale39.
L’obesità ed il diabete sottendono anomalie metaboliche analoghe, tra le quali l’insulinoresistenza e l’iperinsulinemia rappresentano le maggiori espressioni biochimiche. L’aumentato
rischio malformativo congenito associato ad entrambe le condizioni può essere quindi espressione di una disfunzione metabolica sottostante comune presente già nelle prime settimane
di gestazione, durante la fase dell’embriogenesi. Questa ipotesi è supportata dall’osservazione che uno scarso controllo glicemico nelle fasi iniziali della gravidanza aumenta il rischio di
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Obesità e gravidanza
comparsa di anomalie embrio-fetali. In caso di diabete gestazionale infine si può dire che nonostante la forma clinica conclamata si renda nota in fasi più tardive della gravidanza, anomalie metaboliche latenti già presenti nel primo trimestre siano coinvolte in maniera più diretta
con l’eziopatogenesi della malformazione fetale36.
Parto pretemine
L’incidenza di parto pretermine tra le gestanti obese è stata analizzata da diversi autori in
Letteratura con conclusioni alquanto contrastanti.
In uno studio prospettico multicentrico condotto su 16.102 pazienti e pubblicato nel 2004
le donne affette da obesità severa (BMI > 35) presentano un rischio significativamente più
elevato rispetto ai controlli di partorire un neonato pretermine (OR 1.5 95% CI 1.1–2.1)14,40.
Alcuni trials viceversa riportano l’assenza di significatività statistica nei risultati41,42, altri ancora
si collocano in netta contrapposizione riportando un rischio di parto pretermine significativamente ridotto tra le gestanti con obesità severa (p< 0,001)7 e persino tra quelle definite
semplicemente obese (OR 0,57; 95% CI=0,39-0,83; p=0,003)43.
La variabilità nei risultati riscontrati nei diversi studi può essere ricondotta alle differenti
popolazioni analizzate, alle differenti definizioni di parto pretermine utilizzate, comprendenti
talora quello spontaneo, altre volte anche quello iatrogeno. Un chiaro esempio è rappresentato dalla preeclampsia, che non di rado complica la gravidanza di una donna obesa e può indurre l’Ostetrico ad un espletamento del parto per via addominale prima del termine.
L’analisi di Hendler43 ha il pregio, rispetto ad altri studi, di analizzare i dati in maniera prospettica e di correggerli per fattori confondenti associati al parto spontaneo pretermine.
Un’ultima considerazione riguarda l’epoca gestazionale: i parti spontanei verificatisi in epoche gestazionali precoci (<30 settimane) possono essere ricondotti più chiaramente ad un’infezione ed infiammazione intraamniotica43. L’obesità materna, com’è noto, si caratterizza per
un aumento della produzione di citochine sistemiche proinfiammatorie e può quindi contribuire all’innesco o alla progressione di quei meccanismi che sottendono la rottura prematura delle membrane in epoca precoce.Altrettanto non si può dire per epoche gestazionali successive, in cui la dimostrazione di una correlazione tra parto pretermine e malnutrizione (in
particolare carenza di proteine, calorie, vitamine e minerali) supporta la tesi a favore di un diminuito rischio di parto pretermine tra le donne obese43.
Complicanze intrapartum
Travaglio distocico, operatività vaginale e taglio cesareo
Diversi studi in letteratura documentano come le donne obese siano esposte ad un rischio più elevato di travaglio di parto disfunzionale rispetto alla popolazione generale, sebbeGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Obesità e gravidanza
ne soltanto pochi tra questi ed in maniera non del tutto uniforme ne delineino le caratteristiche. Nell’analisi condotta presso il nostro Dipartimento tra le donne obese e quelle con
eccessivo incremento ponderale gravidico risulta nettamente aumentata l’incidenza di operatività vaginale e taglio cesareo, con una parallela diminuzione del rate di parti spontanei3.
Uno studio retrospettivo su 4.285 donne riporta un maggior ricorso all’infusione ossitocica ed all’amnioressi precoce per le gestanti sovrappeso ed obese rispetto alle normopeso,
con valori statisticamente significativi. Anche il tasso di travagli disfunzionali primitivi ed il rischio di sproporzione cefalo-pelvica risulta maggiore tra le donne sovrappeso (35% e 3% rispettivamente), come pure tra le obese (44% e 6% rispettivamente) rispetto alle normopeso (25% ed 1% rispettivamente)44.
Il maggior ricorso all’induzione ed all’augmentatio ossitocica nelle donne obese non è condiviso da tutti gli autori: taluni infatti ne riportano un aumentato rate attribuibile ad un’inadeguata attività contrattile uterina durante la prima fase del travaglio8,44, mentre altri smentiscono tale dato, suggerendo una natura prevalentemente meccanica della distocia, correlata maggiormente ad un’anomala architettura pelvica12. Gli aumentati depositi nei tessuti molli della
pelvi materna determinano una restrizione del canale del parto, prolungando il travaglio, in
particolare nel secondo stadio. D’altro canto la presenza di un feto grande per età gestazionale, non di rado riscontrabile nelle donne obese, contribuisce alla più difficoltosa progressione della fase dilatante14,45.
Uno studio prospettico di recente pubblicazione condotto su 612 donne nullipare a termine riscontra una più lenta progressione del travaglio di parto tra le donne sovrappeso ed
obese rispetto ai controlli, attribuibile ad una più lenta dilatazione della cervice uterina, dai 4
ai 6 cm per le donne sovrappeso ed entro i 7 cm tra le obese45.
Queste patologiche condizioni ostetriche creano i presupposti per un parto operativo,
traumi neonatali intrapartali (distocia di spalla, lesioni del plesso brachiale, frattura della clavicola), traumi materni (lacerazioni vulvari o perineali) o per il ricorso ad un taglio cesareo d’urgenza in travaglio8,13.
Alcuni autori riportano anche un aumentato rate di parti operativi vaginali tra le donne
affette da obesità severa (OR 1,7 95% CI 1,2-2,2)14 o anche soltanto tra le donne obese
(p<0.001)13, sebbene non tutti gli studi concordino con questi risultati8.
Un netto aumento del tasso di tagli cesarei tra le donne obese è condiviso da gran parte degli autori in Letteratura8,14.
Le indicazioni andrebbero ricondotte non solo in maniera diretta all’obesità, con un maggior rate di sproporzione feto-pelvica, mancata dilatazione della cervice uterina, distress fetale e fallimento dell’induzione del travaglio di parto, ma anche alle complicanze ad essa correlate quali l’ipertensione gestazionale ed il diabete mellito7,8,13. In termini di aumentato rischio
di taglio cesareo correlato all’obesità alcuni autori prendono in considerazione non soltanto
il BMI pregravidico, bensì anche l’aumento di peso in gravidanza, che, assieme all’altezza ma234
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Obesità e gravidanza
terna ed il peso neonatale, rappresenta un fattore di rischio non meno significativo46.
In accordo con quanto riportato, nell’analisi da noi condotta sull’obesità emerge tra le donne con elevato BMI un’ incidenza di taglio cesareo elettivo maggiore rispetto alle normopeso, mentre tra quelle con eccessivo incremento ponderale è riscontrabile una maggior prevalenza di tagli cesarei d’urgenza in travaglio3.
Da uno studio multicentrico su una larga coorte di soggetti emerge che il rischio di taglio
cesareo risulta aumentato progressivamente all’aumento del BMI pregestazionale, con un OR
di 1.8 tra le donne obese (95% CI=1.6-2.2) ed un incremento del 7% per ogni aumento unitario del BMI pregravidico47. Ehrenberg e coll. riportano in una recente pubblicazione da uno
studio condotto su una larga coorte di soggetti che l’obesità pregravidica rappresenta un fattore di rischio indipendente nei confronti del parto cesareo, con un OR di 1,5 tra le sovrappeso (95% CI=1.3-1.8) e 2,4 tra le obese (95% CI=2.0-2.9), con P<0,0001 per entrambi i
gruppi48.
L’obesità rappresenta inoltre un fattore di rischio indipendente per fallimento del travaglio di prova in pazienti con pregresso taglio cesareo. Goodall e coll. riportano in un recentissimo studio retrospettivo su 725 pazienti un OR di 1,99 (95% CI=1,2-3,3) tra le donne
obese ed un OR di 2,22 (95% CI=1,11-4,44) nel gruppo delle donne con obesità severa, con
p = 0,0349. Risultati analoghi sono riportati anche da Durnwald e coll., che aggiungono una ulteriore considerazione: le donne con un BMI normale che aumentano di peso prima della seconda gravidanza hanno diminuite probabilità di partorire per via vaginale dopo pregresso taglio cesareo rispetto a quelle il cui BMI resta normale (56,6% verso 74,2%, P=0,006).Viceversa
le donne in sovrappeso che raggiungono un BMI normale prima della seconda gravidanza non
dimostrano un aumento del successo di parti vaginali dopo parto cesareo (64% verso 58,4%,
P=0,67)50.
Complicanze perioperatorie, puerperali ed a lungo termine
Svariate peculiarità anatomiche che caratterizzano una donna obesa rispetto ad una normopeso possono creare delle difficoltà in alcune procedure operative anche di semplice esecuzione. L’aumento del grasso sottocutaneo può determinare la perdita di comuni reperi anatomici e creare difficoltà nel trovare un accesso arterioso o venoso, posizionare un cateterino peridurale o spinale. La conformazione grossa del collo può determinare problemi nel controllo delle vie aeree, rendendo più difficile l’intubazione e la ventilazione, per cui talvolta risulta necessario l’ausilio di un broncoscopio4.
È stato dimostrato dalla pratica clinica, oltre che da diversi studi, che l’obesità può determinare un maggior rischio di perdita ematica peripartum intraoperatoria, aumento della durata dell’intervento chirurgico ed una maggior necessità di utilizzo di uterotonici4,14.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Obesità e gravidanza
L’obesità inoltre rappresenta un fattore di rischio significativo per l’insorgenza di emorragia nel postpartum4,14. Bongain riporta un rischio aumentato di due volte8, Castro stima il rischio globale attorno al 70%40.
Le complicanze postoperatorie più comuni sono rappresentate da infezioni, deiscenza della ferita chirurgica, endometriti puerperali e tromboembolismo venoso4,14,15. Myles e coll. riportano che l’obesità rappresenta un fattore di rischio indipendente per infezioni postcesareo (23,4% verso 8,5%, P<0,001, RR=3,3, 95% CI=1,6-6,8) ed endomiometriti (15,9% versus
5,0%, P<0,001 RR=3,3, 95% CI=1,6-6,8) anche in caso di elettività e profilassi antibiotica52.
Queste complicanze sono state evidenziate in puerperio anche in donne grandi obese non
sottoposte a taglio cesareo8,12.
In riferimento all’entità del rischio per la donna al momento del trattamento chirurgico
ed anestesiologico l’obesità moderata è classificata come ASA II, mentre l’obesità severa come ASA III.
Nonostante il frequente riscontro di tali complicanze non vi sono in Letteratura linee guida dell’evidence based medicine che indirizzino l’Ostetrico nella pratica clinica. Alcuni autori
tuttavia sostengono che la morbidità infettiva postoperatoria possa essere ridotta favorendo
il secondamento spontaneo, evitando la chiusura del peritoneo viscerale e posizionando un
drenaggio in aspirazione.Vi è largo consenso sulla somministrazione di antibiotici a scopo profilattico perioperatorio40,51, tuttavia non vi sono dati in Letteratura a favore dell’estensione della profilassi antibiotica anche al parto spontaneo.
Infine è doveroso anche per l’ostetrico non dimenticare le possibili ripercussioni a lungo
termine di una condizione clinica di obesità gravidica e di un eccessivo incremento di peso in
gravidanza. Un eccessivo incremento ponderale in gravidanza ed un mancato ritorno al peso
pregravidico entro i primi 6 mesi dopo il parto rappresentano importanti fattori predittivi dell’obesità a lungo termine e conseguentemente dei rischi ad essa correlati52.
Conclusioni
La gravidanza in una donna obesa, in relazione ai fattori di rischio correlati, deve essere
considerata certamente come ad alto rischio.
Un councelling preconcezionale risulta estremamente importante, finalizzato non solamente ad informare la coppia dei rischi materno-fetali derivanti dalla situazione clinica materna,
ma anche ad indirizzare la donna verso un programma di normalizzazione del peso corporeo. Nelle linee guida del National Institute of Health si raccomanda un calo del peso del 10%
in 6 mesi in periodo preconcezionale53. Un misura preventiva nei confronti della comparsa di
anomalie fetali del tubo neurale è rappresentata dall’integrazione dietetica materna con circa 7 mg/die di acido folico già dai 3 mesi precedenti al concepimento.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Obesità e gravidanza
Il management della gravidanza prevede i seguenti accorgimenti clinici:
- Una stretta osservazione dell’aumento di peso corporeo
L’Institute of Medicine, sottolineando la correlazione tra l’aumento di peso in gravidanza
ed il peso neonatale, raccomanda per le donne sovrappeso un aumento complessivo di 1525 pounds (7-11 kg circa) e per le obese di 15 pounds (7 kg circa) in gravidanza40. Il fabbisogno energetico giornaliero totale in una donna gravida è di 2500 - 2700 Kcal. Un apporto di
25 kcal/peso corporeo/die risulta adeguato in relazione al BMI, ed andrebbe ulteriormente
corretto per età materna e grado di aumento ponderale.
La dieta più opportuna prevede il consumo di carboidrati complessi, proteine, verdure,
cereali, frutta, lipidi in moderata quantità, evitando i grassi saturi e gli zuccheri semplici (ridotti al 35-40% delle calorie assunte). Una supplementazione alimentare con ferro ed acido ascorbico ed un moderato consumo di alcol sono risultati protettivi nei confronti della colelitiasi
gravidica27.
- Attività fisica
Va incoraggiato un moderato esercizio fisico di tipo aerobico costante e continuativo. Un
programma adeguato è rappresentato da 50 minuti di nuoto o di ciclette per 5 giorni alla
settimana, ma può essere adattato alle esigenze della singola paziente.
- Screening per intolleranza glucidica, diabete gestazionale e disordini ipertensivi
Diversi Autori concordano nel consigliare una curva glicemica breve in epoca preconcezionale e, qualora risulti negativa, una ripetizione a 26 settimane di gestazione40. La pressione
arteriosa va monitorata strettamente usando un appropriato bracciale ed invitando la paziente ad eseguire ripetute misurazioni domiciliari.
- Profilassi eparinica
In riferimento alle linee guida del Royal College of Obstetricians and Gynecologists del 200424
riteniamo opportuno effettuare uno screening del profilo trombofilico congenito ed acquisito precoce in gravidanza nella donna obesa, allo scopo di intraprendere una profilassi con
LMWE in gravidanza e nei primi giorni del puerperio in caso di positività dello stesso. Per
l’obesità severa consideriamo indicata la profilassi anche in assenza di trombofilia documentata.
- Screening ecografico per anomalie del tubo neurale ed altre possibili malformazioni fetali.
Nella review di Castro e coll. del 2002 si raccomanda nel primo trimestre una valutazione ecografica e biochimica del rischio di anomalie cromosomiche fetali, seguita da una valutazione morfologica a 18-22 settimane40.A tali indicazioni, in relazione all’elevato rischio di anomalie del tubo neurale nelle gestanti obese, aggiungiamo l’eventuale opportunità di eseguire
un’ecografia morfologica iniziale a 16 settimane di gestazione, seguita da una successiva di
completamento a 21 settimane, allo scopo di effettuare una diagnosi prenatale quanto più
precoce possibile.Viene consigliata inoltre una valutazione ecografica della crescita fetale agGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Obesità e gravidanza
giuntiva in prossimità del termine con eventuale stima peso fetale, sebbene sia noto possieda una scarsa accuratezza diagnostica4,40.
- Modalità di parto
In presenza di macrosomia fetale, in assenza di diabete gestazionale, appare opportuno
un taglio cesareo elettivo in caso di stima peso fetale superiore ai 4.500 g o 5.000 g, come
riportato da diversi autori40,54-58.
In presenza di diabete gestazionale materno, in accordo con le linee guida dell’ACOG e
con i risultati di diversi studi in Letteratura, l’esecuzione di un taglio cesareo elettivo è indicata in caso di stima peso fetale superiore ai 4000 g o 4250 g40, 59-62.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
PRE-ECLAMPSIA
LA PRE-ECLAMPSIA:
UN DISORDINE MULTISISTEMICO
20
S. Inglese, M. Zanette, M. Bernardon, R.Tercolo,V. Soini, E. Bianchini, GP. Maso
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
Introduzione
Storicamente, i disturbi ipertensivi in gravidanza, rappresentano una delle principali complicanze ostetriche: sebbene le definizioni e le conoscenze dei meccanismi fisiopatologici ed
eziopatogenetici siano cambiate nel tempo, la sindrome clinica che attualmente conosciamo
come pre-eclampsia costituisce, sin dal passato, un capitolo fondamentale della patologia ostetrica, essendo responsabile di un’elevata percentuale di morbilità e mortalità materne e fetali. Se nei paesi industrializzati le complicanze dell’ipertensione in gravidanza costituiscono una
delle due principali cause di mortalità materna1, si ritiene che nel mondo la pre-eclampsia, la
cui frequenza è del 2-7%2,3, continui a provocare circa 50.000 morti/anno4. Numerosi sono gli
aspetti che rendono peculiare questa condizione. Primo fra tutti, il fatto che la pre-eclampsia
è una sindrome specifica della gravidanza. Inoltre, la sua espressione clinica, lungi dall’essere
univoca, è caratterizzata da quella notevole variabilità che è propria delle sindromi multisistemiche. Infine, nonostante le sempre più accurate possibilità di studio, gli esatti meccanismi eziopatogenetici rimangono ignoti, precludendo, di conseguenza, la possibilità di un approccio causale a tale patologia.
Definizione
Il presupposto all’analisi dei vari aspetti della pre-eclampsia consiste nel fatto che, sul piano concettuale, la definizione di questa condizione non coincide con i criteri classicamente
utilizzati per fare la diagnosi. Mentre da un punto di vista diagnostico è sufficiente la presenza di ipertensione e proteinuria, la definizione di pre-eclampsia è quella di una patologia multisistemica che ha la potenzialità di coinvolgere tutti gli apparati. Fare la diagnosi di pre-eclampsia implica, quindi, dal punto di vista concettuale, la consapevolezza che tutti i sistemi possono essere coinvolti con una severità e una rapidità di progressione variabili e poco prevedibili.
Da un punto di vista pratico, è importante sottolineare che la pre-eclampsia non rappresenta l’unica forma di ipertensione in gravidanza: a fronte delle complicanze caratteristiche,
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
241
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
spesso gravi, di questa sindrome, occorre tenere presente che casi di ipertensione severa senza proteinuria possono essere associati ad una morbilità materna e perinatale più elevata rispetto alle forme di pre-eclampsia lieve5. Tali considerazioni hanno reso sempre più forte la
necessità di un inquadramento della pre-eclampsia nel contesto più ampio dei disordini ipertensivi in gravidanza.
A tale proposito sono state formulate diverse classificazioni, nessuna delle quali, tuttavia,
ha ottenuto un consenso unanime. Secondo quella proposta dall’ACOG6, l’ipertensione in gravidanza può essere suddivisa in:
- ipertensione cronica: pressione arteriosa >= a 140/90 mmHg prima delle 20 settimane di
gestazione o, se diagnosticata durante la gravidanza, persiste per sei mesi dopo il parto;
- pre-eclampsia/eclampsia: presenza di ipertensione (PA >= 140/90 mmHg dopo le 20 settimane di gravidanza, confermata mediante due diverse misurazioni, in una donna precedentemente normotesa) associata a proteinuria (valore superiore a 300 mg/l in un campione casuale di urina o un’escrezione superiore a 300 mg/24 ore).
- pre-eclampsia sovrapposta ad ipertensione cronica: comparsa di proteinuria in donne con
ipertensione preesistente, oppure improvviso aumento della pressione e della proteinuria o insorgenza di trombocitopenia, aumento degli enzimi epatocellulari in donne con
preesistente ipertensione e proteinuria.
- ipertensione gestazionale o transitoria: sviluppo di ipertensione nella seconda metà della gravidanza senza altri segni di pre-eclampsia.
Nonostante la proteinuria costituisca un segno diagnostico, e l’elemento di differenziazione da altre cause di ipertensione, la sua assenza suggerisce comunque la diagnosi di pre-eclampsia quando l’aumento pressorio è accompagnato da altri quadri sistemici tipici di questa sindrome, quali trombocitopenia, iperuricemia, alterazione della funzionalità epatica senza altra
causa, sintomi come cefalea severa, disturbi visivi, dolore epigastrico o in ipocondrio destro
associati a nausea e vomito.
La classificazione della Pre-eclampsia Community Guideline (PRECOG)7, supportata dal
RCOG risulta per lo più sovrapponibile, con la differenza che la diagnosi di ipertensione è
basata solo sulla pressione diastolica, considerando come valore soglia 90 mmHg.
Rispetto alla precedente definizione della gestosi trisintomatica, quindi, le nuove classificazioni escludono l’edema come parametro diagnostico. Inoltre non è più considerato applicabile il criterio basato sull’incremento di 30 mmHg della PA sistolica e di 15 mmHg della PA
diastolica qualora queste rimangano, in valore assoluto, inferiori a 140/90 mmHg: è ormai accertato che in questi casi l’outcome della gravidanza non risulta modificato.
La validità di queste classificazioni riconosce, tra i principali limiti, la difficoltà di individuare l’insorgenza della patologia in donne con preesistente proteinuria e/o ipertensione poichè
242
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
tali condizioni comportano un’alterazione di base dei parametri utilizzati per la diagnosi di
pre-ecampsia. Secondo la classificazione ACOG, la diagnosi di pre-eclampsia in tali circostanze può essere considerata solo altamente probabile6; in conclusione, i criteri tradizionali sono appropriati per confermare la diagnosi di pre-eclampsia nella maggior parte di nullipare in
assenza di patologie associate.
Dalla mancata invasione trofoblastica al disordine sistemico
L’evidenza che la pre-eclampsia si manifesta esclusivamente in gravidanza e si risolve con il
parto, ha storicamente suggerito come indiziato eziopatogenetico più probabile l’elemento più
caratteristico della gravidanza, la placenta. Risale a circa 50 anni fa la prima osservazione di ridotto flusso ematico nelle placente di donne ipertese:8 lo studio istologico di biopsie placentari ha fornito una giustificazione a tale fenomeno, dimostrando l’assenza delle modificazioni
vascolari, legate al fisiologico processo di placentazione, nei casi affetti da pre-eclampsia9-11.Tali
evidenze hanno suggerito che la mancata invasione trofoblastica delle pareti delle arterie spirali e la conseguente compromissione della perfusione placentare costituiscono eventi chiave nella eziopatogenesi di tale patologia.
Fisiologicamente, le modificazioni arteriose si verificano in step successivi che si concludono con la perdita della componente muscolare della parete vascolare e, quindi, della capacità di vasocostrizione. I precisi meccanismi che fisiologicamente regolano il processo di invasione trofoblastica sono ancora poco conosciuti: l’inevitabile conseguenza è una oggettiva difficoltà a comprendere quali alterazioni di tali processi comportino la ridotta perfusione placentare.
Dal punto di vista teorico, ciascuno dei meccanismi di rimodellamento vascolare, a partire dalle più precoci modificazioni trofoblasto-indipendenti, potrebbe essere deficitario nelle
donne destinate a sviluppare la pre-eclampsia. In realtà, si ritiene che il principale difetto interessi la fase di invasione citotrofoblastica endovascolare, mentre quella interstiziale si verificherebbe normalmente12. Nel complesso, si può speculare che l’invasione trofoblastica, paragonabile per certi versi all’invasione tumorale, si differenzia da quest’ultima per il fatto di essere un processo altamente controllato: infatti, l’acquisizione del fenotipo invasivo da parte
del trofoblasto deriva da una complessa regolazione spazio-temporale nella espressione di
molecole che conferiscono ad alcune cellule la peculiare capacità di invasione13,14. Tali fattori
sono molecole di adesione cellulare (CAMs), metalloproteinasi di matrice (MMPs) e i loro
inibitori tissutali (TIMPs), citochine, come TGF-beta ed i rispettivi recettori, tutti potenzialmente coinvolti nel fallimento del processo di incorporazione nella parete vascolare15. In particolare in placente di donne pre-eclamptiche è stata evidenziata la mancata espressione di molecole di adesione simil-endoteliali, normalmente presenti sulla superficie delle cellule del troGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
243
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
foblasto endovascolare16. Altre ipotesi patogenetiche riguardano una difettiva secrezione di
matrice fibrinoide, un’alterazione della regolazione del processo di apoptosi, dell’espressione
di molecole di riconoscimento immunitario (HLA-G), ed infine, l’aumento delle concentrazioni di ossigeno15. Nelle prime settimane di gravidanza, infatti, la condizione di ipossia fisiologica
conseguente alla presenza endovascolare del trofoblasto potrebbe rappresentare un preciso
meccanismo di regolazione genica; a conferma di questa ipotesi, alcuni studi hanno dimostrato l’associazione di outcome sfavorevoli con la presenza di flusso intervilloso nel I trimestre17.
Se la patogenesi della mancata invasione trofoblastica, sebbene ancora da definire, ha trovato una direzione interpretativa, l’eziologia rimane ad uno stadio puramente speculativo. Allo
stato attuale, una delle ipotesi più accreditate è quella immunitaria18,19, secondo la quale il riconoscimento immunitario materno del trofoblasto a livello della decidua, controlla la placentazione e, se deficitario, potrebbe causare un’alterazione di questo processo. L’invasione trofoblastica, infatti, comporta uno stretto contatto tissutale tra cellule allogeniche e, inevitabilmente, l’insorgenza di fenomeni di rigetto o tolleranza: a differenza di quanto si verifica nelle
classiche risposte immunitarie, tuttavia, i veri protagonisti di questi processi non sono i linfociti T, ma le cellule natural killer deciduali20. Tali cellule sono dotate di una classe di recettori
polimorfici, chiamata KIRs in grado di interagire con l’antigene HLA-C che rappresenta il principale antigene paterno polimorfo espresso dal trofoblasto. Ciascuna gravidanza, pertanto, è
caratterizzata da una diversa, specifica, combinazione di HLA-C fetale, di derivazione paterna, e recettori KIRs materni20: il mancato riconoscimento immunitario tra queste molecole potrebbe essere importante per lo sviluppo della pre-eclampsia21.
Un’altra ipotesi eziologica che desta particolare interesse è quella genetica: l’evidenza che
la familiarità costituisce un importante fattore di rischio, ha suggerito che la predisposizione
alla pre-eclampsia possa avere un substrato ereditario. Sono stati formulati diversi modelli di
trasmissione genica, da quella mendeliana di un singolo gene (a trasmissione recessiva o dominante con penetranza determinata dal fenotipo fetale o da fattori ambientali), ad una ereditarietà multigenica, imputabile agli effetti additivi o moltiplicativi di più geni, ciascuno con effetto individuale minimo22,23. In entrambi i casi, i geni responsabili di questa predisposizione,
potrebbero essere quelli coinvolti nei diversi processi fisiopatologici della pre-eclampsia quali la regolazione della pressione arteriosa, l’infiammazione, lo stress ossidativo, la coagulazione. Nonostante i risultati ottenuti dai vari studi siano notevolmente conflittuali, sono state riscontrate delle associazioni con specifici polimorfismi dei geni del sistema renina-angiotensina-aldosterone24, del gene del TNF-alfa25, della NO sintetasi26. I risultati di un ampio studio di
popolazione27 che prende in considerazione le mutazioni relative al fattore V Leiden, l’MTHRF
C677T, la protrombina G20210A, il PAI-1 4G-5G e il recettore piastrinico del collagene alfa2-beta1 C807T sembrano, invece, negare l’associazione con il genotipo protrombotico. La
review sistematica della letteratura condotta dagli stessi autori sembra supportare tale conclusione, anche se suggerisce che la malattia severa potrebbe essere associata al fattore V
244
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
Leiden e, in minor misura all’MTHFR: tali associazioni, inoltre, risultano significativamente evidenti in alcune popolazioni rispetto ad altre. Poiché la prevalenza della pre-eclampsia è più
elevata in donne con anamnesi positiva per trombosi, fattori di rischio protrombotici non ancora conosciuti potrebbero essere coinvolti nella eziopatogenesi.
L’alterazione del normale processo di placentazione costituisce il primum movens di una
serie di complessi meccanismi fisiopatologici capaci di coinvolgere virtualmente tutti i sistemi
materni. Occorre, a questo punto, definire come un fenomeno locale placentare possa tradursi in una condizione materna generalizzata. L’anello di congiunzione dovrebbe essere qualcosa che, presente a livello sistemico, possa essere influenzato dalle reazioni alla ridotta placentazione. Tale struttura è l’endotelio: lungi dall’essere una barriera inerte, esso costituisce
un apparato estremamente attivo che, mediante la sintesi di numerose molecole, rappresenta uno dei principali sistemi di regolazione delle resistenze vascolari, della coagulazione, della
permeabilità vascolare.
L’analisi delle lesioni istologiche presenti nei vari organi (Tabella 1) evidenzia, come denominatore comune, la presenza di emorragia e di necrosi: queste modificazioni non sono quelle imputabili all’ipertensione. Nonostante questa costituisca un aspetto chiave della pre-eclampsia, non rappresenta il meccanismo fisiopatologico mediante il quale si determina il coinvolgimento sistemico: al pari delle altre manifestazioni cliniche, anche l’ipertensione è una delle
espressioni della malattia sistemica. Le stesse modificazioni presenti a livello renale (rigonfiamento dei capillari glomerulari e del mesangio, inclusioni nella membrana basale capillare e
assenza di alterazioni dei podociti), che definiscono il quadro della glomeruloendoteliosi non
sono state descritte in nessuna altra forma di ipertensione.
Tabella 1. Lesioni istopatologiche nella pre-eclampsia
Organo Lesione istopatologica
Fegato
Emorragia e necrosi
Surreni Emorragia e necrosi
Cervello Emorragia petecchiale
Cuore
Necrosi subendocardica
Rene
Endoteliosi glomerulare
Le alterazioni presenti nei vari organi suggeriscono, invece, che il meccanismo fisiopatologico implicato, sia quello della ridotta perfusione d’organo: i processi endotelio-dipendenti di
vasocostrizione, attivazione della cascata coagulativa e riduzione del volume plasmatico, quadri costanti della pre-eclampsia, ne costituirebbero la giustificazione28.
Il possibile coinvolgimento della disfunzione endoteliale nella fisiopatologia della pre-eclampsia, è supportato dall’evidenza di numerose alterazioni dei parametri di funzionalità endoteliale non solo in donne che presentano la malattia conclamata ma anche in quelle in cui non
si è ancora palesata alcuna manifestazione clinica. Le donne che svilupperanno la pre-eclamGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
245
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
psia in fase più avanzata di gravidanza presentano, infatti, un’aumentata sensibilità ad agenti vasopressori, un ridotto volume plasmatico, un aumentato turnover piastrinico e valori pressori medi più elevati29,30.
Ma quali sono i processi responsabili dell’alterata funzione endoteliale? Recenti studi hanno dimostrato che, parallelamente alla presenza di indicatori di disfunzione endoteliale, l’insorgenza della pre-eclampsia è associata all’incremento dei markers di stress ossidativo placentare-sistemico e di esaltata attivazione infiammatoria31.Tali osservazioni hanno condotto a
formulare l’ipotesi che l’endotelio rappresenti il bersaglio, mentre lo stress ossidativo e la risposta infiammatoria aumentata i mezzi attraverso i quali l’alterazione della placenta si esprime con una malattia sistemica. Lo stress ossidativo e l’infiammazione cronica sono fenomeni
tra loro legati, in modo verosimilmente inevitabile. Una risposta infiammatoria genera lo stress
ossidativo. D’altra parte lo stress ossidativo è in grado di scatenare e amplificare una risposta
infiammatoria. Non deve, pertanto, sorprendere che in condizioni di infiammazione sistemica, quale è la pre-eclampsia, lo stress ossidativo non sia localizzato alla placenta ma disseminato nella circolazione materna. Ne risulta una sorta di circolo vizioso, capace di autoalimentarsi: quale dei due fenomeni si realizzi per primo, rimane tuttora ignoto.
Lo stress ossidativo
Lo stress ossidativo è l’espressione dello squilibrio tra le difese antiossidanti e la produzione di specie reattive dell’ossigeno: questi inducono un danno cellulare diretto attraverso la
rottura delle catene e l’alterazione delle basi del DNA, attivano la necrosi e l’apoptosi aumentando la concentrazione cellulare di calcio, ed infine determinano processi di perossidazione
lipidica con formazione di prodotti circolanti in grado di attivare cellule endoteliali secondo
un meccanismo ormai ben definito nell’aterosclerosi32. I lipidi ossidati stimolano un fattore di
trascrizione nucleare delle cellule endoteliali, fattore nucleare Kß, che induce l’espressione di
numerose citochine infiammatorie e molecole di adesione cellulare, ed inoltre aumenta la permeabilità3. Uno dei principali stimoli alla genesi di radicali liberi è rappresentato dall’ischemia
seguita dalla riperfusione: a livello placentare tale circostanza, capace di attivare il sistema della xantina ossidasi/deidrogenasi, potrebbe verificarsi come conseguenza del mantenimento della capacità di costrizione/dilatazione delle arterie spirali in risposta a stimoli materni per la
mancata invasione trofoblastica, oppure in seguito alla formazione di microtrombi nella circolazione uteroplacentare seguita dalla dissoluzione dei coaguli34. L’attendibilità dell’ipotesi che
la placenta rappresenti l’origine dello stress ossidativo nella pre-eclampsia, richiede dei modelli che giustifichino il passaggio dei radicali liberi verso la circolazione materna sistemica affinchè questi alterino la funzionalità endoteliale. A parte pochi prodotti stabili, come la malondialdeide e il 4-idrossi nonenolo, infatti, i radicali liberi hanno un’emivita troppo breve perché possano essere infusi direttamente nella circolazione materna: mediatori dell’amplificazione sistemica dello stress ossidativo placentare potrebbero essere i leucociti materni, che at246
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
tivati durante il passaggio attraverso la placenta non perfusa dalle citochine o lipidi perossidi
sintetizzati localmente35, e immessi nella circolazione materna, rilascerebbero prodotti ossidativi sulla superficie endoteliale. Inoltre, lo stress ossidativo placentare è responsabile della sintesi di citochine infiammatorie e, mediante l’aumentata apoptosi locale, dell’immissione nella
circolazione materna di particelle di microvilli placentari ricche di fosfolipidi ossidati: sia le citochine, sia le particelle di sfaldamento potrebbero attivare leucociti circolanti36 o interagire
direttamente con l’endotelio, che, pur costituendo il target ultimo dello stress ossidativo, rappresenta esso stesso una grande sorgente di radicali dell’ossigeno37.
Ammesso che la genesi di un eccesso di radicali liberi sia in grado di innescare il processo patologico della pre-eclampsia, non si può escludere che un deficit dei sistemi antiossidanti possa rappresentare un fattore di predisposizione alla malattia. Nelle fasi precoci di gravidanze normali, è stata riportata una upregulation di specie antiossidanti38. Queste svolgerebbero una sorta di compenso nei confronti del burst ossidativo che accompagna la perfusione pressocchè improvvisa durante il processo di placentazione. Il fallimento di questo meccanismo protettivo costituisce un substrato predisponente al successivo sviluppo della preeclampsia. In placente di donne pre-eclamptiche, è stata riportata una ridotta attività della glutatione per ossidasi, Cu/Mn superossido dismutasi39 e superossido dismutasi totale40. Studi di
genetica indicano che i polimorfismi dei geni coinvolti nella difesa antiossidante sono più frequenti in donne con pre-eclampsia41,42. La controprova del ruolo esercitato da questi sistemi
di difesa è rappresentata dall’osservazione di un aumentato rischio di pre-eclampsia in donne con minor apporto dietetico di antiossidanti43 e di una protezione esercitata dalla somministrazione di vitamina C ed E44. Il beneficio di tale supplementazione deriverebbe dal fatto
che alcuni antiossidanti, in particolare l’acido ascorbico, non solo sono in grado di fronteggiare i radicali liberi, ma hanno anche dirette capacità anti-infiammatorie.
La risposta infiammatoria
La gravidanza comporta, fisiologicamente, un’attivazione generalizzata del sistema immunitario innato che si realizza mediante leucocitosi ed attivazione leucocitaria, attivazione del
sistema emocoagulativo, del complemento e delle piastrine e dell’endotelio45,46. Sostenendo
l’ipotesi della pre-eclampsia come disfunzione endoteliale sistemica, due aspetti della precedente affermazione devono essere enfatizzati: il primo è il concetto che fisiologicamente la
gravidanza rappresenta uno stato di infiammazione sistemica. Il secondo riguarda l’endotelio
come parte integrante del sistema infiammatorio generalizzato. Le cellule endoteliali, infatti,
sono cellule immunitarie completamente funzionanti, in grado di interagire con le cellule del
sistema innato, di presentare l’antigene dopo un’appropriata stimolazione, di produrre una serie di citochine pro-infiammatorie.
Tali considerazioni consentono di ipotizzare che la risposta infiammatoria sistemica della
pre-eclampsia non sia intrinsecamente diversa da quella di una normale gravidanza, eccetto
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
247
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
per il fatto che è più severa: la pre-eclampsia si manifesta, pertanto, solo quando la risposta
infiammatoria diventa estrema e scompensata47.
Vi sono alcune condizioni in cui, anche se in linea teorica, l’amplificazione della reazione fisiologica, può trovare una giustificazione. Patologie quali l’obesità, il diabete, l’ipertensione cronica, che costituiscono condizioni predisponenti alla pre-eclampsia, rappresentano degli stati
di infiammazione sistemica. L’effetto di queste patologie è, verosimilmente, quello di generare uno stato di infiammazione sistemica di base su cui si inseriscono le modificazioni indotte
dalla gravidanza, con un abbassamento della soglia sufficiente perché si verifichi lo scompenso.
La disfunzione endoteliale
Il vero protagonista della fisiopatologia della pre-eclampsia è l’endotelio. Pur contribuendo direttamente alla genesi dello stress ossidativo e dell’infiammazione sistemica esso rappresenta il reale bersaglio di questi processi. Le citochine infiammatorie, i radicali liberi, i detriti
placentari infatti, comportano un’inappropriata attivazione che, se da un lato coinvolge l’endotelio ad alimentare il circolo vizioso della pre-eclampsia, dall’altro determina una profonda
compromissione funzionale di queste cellule nella delicata regolazione del tono e della permeabilità vascolare e dell’omeostasi coagulativa48.
Sul piano molecolare, markers circolanti di disfunzione endoteliale, che risultano aumentati nella pre-eclampsia, includono il fattore von Willebrand, la trombomodulina, la fibronectina cellulare, l’attivatore del plasminogeno tissutale e il PAI-1, l’endotelina149-51; inoltre è accentuata l’espressione di alcune molecole di adesione cellulare, come VCAM e fattori di crescita
come VEGF52,53.
Sul piano funzionale numerose sono le manifestazioni di una inappropriata attivazione endoteliale48,54, quali l’assenza della tipica stimolazione del sistema renina-angiotensina (nonostante la sostanziale ipovolemia); l’aumentata sensibilità vascolare all’angiotensina II e alla norepinefrina con successiva vasocostrizione ed ipertensione; l’aumentata permeabilità vascolare; infine la ridotta produzione di ossido nitrico e di prostaglandine vasodilatatorie, come la prostaciclina con conseguente sbilanciamento del rapporto trombossano A2/prostaciclina e compromissione del delicato equilibrio mediante il quale queste molecole regolano il tono vascolare e l’attivazione piastrinica55.
Il ruolo potenziale della dislipidemia
Un crescente numero di evidenze enfatizza il potenziale ruolo di disturbi lipidici nel danno vascolare della pre-eclampsia, prima fra tutte, l’accumulo di lipidi nelle sedi di danno endoteliale. La lesione classica della placenta pre-eclamptica è l’aterosi acuta, espressione dell’accumulo di macrofagi ripieni di lipidi circondati da aree di necrosi fibrinoide nelle arterie
spirali- figure affini all’aterogenesi in donne non gravide56. Similmente la lesione caratteristica
248
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
nel glomerulo -l’endoteliosi- consiste nell’accumulo di lipidi nelle cellule endoteliali glomerulari; infine depositi di lipidi si verificano anche a livello epatico, in modo particolarmente marcato nella sindrome HELLP che rappresenta una complicanza severa della pre-eclampsia.
Un secondo aspetto da sottolineare concerne il fatto che il profilo lipidico, già modificato
nella gravidanza fisiologica, risulta decisamente alterato nella pre-eclampsia. In particolare le
concentrazioni di trigliceridi (soprattutto nella forma di VLDL) sono significativamente più elevate e quelle di HDL sono significativamente più basse rispetto alla gravidanza fisiologica57. Le
differenze relative alle LDL, sono per lo più di ordine qualitativo: più che come concentrazione totale, infatti, è aumentata la frazione delle LDL III, piccole, dense dotate di un aumentato
potenziale ossidante e ridotto legame recettoriale58.
Il punto di partenza del quadro dislipidemico è rappresentato verosimilmente da un incremento di acidi grassi liberi (NEFA), le cui concentrazioni risultano aumentate ben prima
che le manifestazioni cliniche compaiano59. Non è noto quale sia l’evento scatenante l’eccesso di NEFA; tuttavia ipotesi valide sono rappresentate da una esaltata lipolisi a livello degli adipociti, conseguenza di uno stimolo placentare o di un’alterazione lipolitica preesistente (già
segnalata in soggetti obesi), oppure un ridotto catabolismo degli acid grassi (per anomala beta-ossidazione mitocondriale) o delle VLDL (ridotta attività della LPL adiposa/scheletrica).
Anche di fuori della gravidanza elevate concentrazioni di NEFA stimolano la sintesi epatica di trigliceridi che, a loro volta, inducono una riduzione di HDL e un incremento di LDL III.
Ne risulta un pattern lipidico con elevati livelli di NEFA, trigliceridi,VLDL, LDL-III piccole dense, altamente aterogeno in quanto legato a danno endoteliale.
Se è innegabile che l’aumentata concentrazione di citochine possa mediare alcune delle
modificazioni lipidiche descritte potrebbe essere vero anche il contrario, cioè l’aumentata lipolisi degli adipociti potrebbe rappresentare l’elemento chiave nella catena degli eventi che
portano al disturbo metabolico e alla fisiopatologia della pre-eclampsia. Sulla base di queste
considerazioni, la dislipidemia potrebbe rappresentare il precursore dell’infiammazione vascolare e gli adipociti i potenziali promotori della disfunzioni endoteliale attraverso la produzione di composti implicati nella fisiopatologia della pre-eclampsia, ma anche di altre patologie
croniche con insulto vascolare, quali il diabete, la patologia coronarica.
Conclusioni
A conclusione dell’analisi dei processi fisiopatologici della pre-eclampsia, e con il presupposto che l’esatta eziopatogenesi di questa condizione è ignota, è doveroso porsi alcuni quesiti. Innanzitutto ci si potrebbe chiedere se la ridotta perfusione placentare sia una condizione sufficiente a causare la pre-eclampsia.
L’evidenza che l’ipoperfusione placentare può essere presente in caso di restrizione di creGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
249
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
scita intrauterina non associata alla pre-eclampsia60, suggerisce che tale anomalia non inevitabilmente comporta la pre-eclampsia. Ad ulteriore conferma, occorre considerare che solo in
un terzo di donne con pre-eclampsia si verifica lo IUGR61 e che condizioni predisponenti alla pre-eclampsia, come il diabete gestazionale e l’obesità, sono associate, invece, ad una crescita fetale accelerata62.
Partendo da questo presupposto, il secondo quesito verte su quali condizioni intervengano nella patogenesi della pre-eclampsia.
Fattori genetici, comportamentali ed ambientali potrebbero condizionare la risposta materna alla ridotta perfusione placentare, facilitando la genesi dello stress ossidativo o incrementando la sensibilità materna a questa condizione. Epidemiologicamente, sono state individuate numerose situazioni meterne predisponenti alla pre-eclampsia (ipertensione, diabete, obesità, razza nera, iperomocisteinemia, aumentato rapporto vita-fianchi) molte delle quali costituiscono fattori di rischio per la patologia cardiovascolare in età avanzata: tale osservazione non deve sorprendere dal momento che molte delle modificazioni fisiopatologiche della pre-eclampsia (profilo lipidico, stress ossidativo e disfunzione endoteliale) sono sovrapponibili a quelle implicate nell’aterosclerosi.
È opportuno sottolineare che ciascun fattore materno non necessariamente rappresenta
la stessa condizione di rischio in tutte le donne. Pertanto, in alcuni casi la condizione predisponente potrebbe derivare dall’esposizione a fattori tossici, in alcuni da obesità, in altri dalla
insulino-resistenza. La possibilità di cause potenziali differenti è illustrata dai polimorfismi genetici. Il polimorfismo che condiziona la funzionalità della metilen-tetraidrofolato-reduttasi, enzima chiave nel metabolismo dell’omocisteina, è più comune in donne con pre-clampsia in
Italia63 e Giappone64 ma non in Finlandia65. Similmente la mutazione del fattore V Leiden è più
comune in donne con pre-eclampsia in Utah66 e Ungheria67 ma non in Giappone68.
Occorre, da ultimo, chiedersi se la ridotta perfusione è una condizione necessaria per lo
sviluppo della pre-eclampsia: il fatto che questa anomalia possa essere associata alla nascita di
“large infants” sembrerebbe negare tale affermazione. È stata proposta l’esistenza di due forme di pre-eclampsia, rispettivamente associata o indipendente dalla ridotta perfusione placentare69.Tale ipotesi rientra in una interpretazione della pre-eclampsia come espressione di
uno spettro di interazioni materno-fetali-placentari ed in particolare come risultato di una risposta materna anomala a specifici segnali fetali. L’anomala vascolarizzazione comporterebbe
la genesi di segnali placentari in grado di modificare il metabolismo e la fisiologia materna nel
tentativo di aumentare il rilascio di nutrienti al feto. In gran parte dei casi si verificherebbe un
compenso e la nascita di un neonato con peso normale nonostante la ridotta perfusione placentare, mentre l’assenza di questo segnale sarebbe responsabile di IUGR. L’insorgenza della
pre-eclampsia, potrebbe verificarsi, come conseguenza di un segnale fetale eccessivo o di una
esaltata sensibilità materna ad un segnale appropriato: l’estrapolazione di questo concetto potrebbe essere che in donne estremamente sensibili all’insulto, anche il minor grado di stress
250
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
ossidativo legato alla normale gravidanza possa non essere tollerato, generando la sindrome
materna. In conclusione si può affermare che nonostante la pre-eclampsia sia causata dalla
presenza della placenta o dalla risposta materna a questa, la scarsa placentazione non è la
causa della pre-eclampsia, quanto un potente fattore predisponente, che una volta stabilitosi,
può condurre alla sindrome materna, in base all’estensione dei segnali infiammatori che causa e dalla natura della risposta materna a tali segnali70.
Nella pratica clinica, probabilmente, la pre-eclampsia costituisce qualcosa di più esteso di
una singola malattia: è possibile che la patogenesi e la fisiopatologia del disordine che porta
alla comparsa prima delle 34 settimane associata a basso peso alla nascita e parto pretermine potrebbero differire da quelle implicate nella malattia che si sviluppa a termine, durante il
travaglio o nel postpartum senza un coinvolgimento fetale dimostrabile70.
La sindrome multisistemica
Il risvolto clinico di un processo fisiopatologico sistemico consiste nel fatto che tutti gli organi possono, potenzialmente, essere coinvolti. Caratteristica peculiare della pre-eclampsia è
infatti rappresentata dalla molteplicità dei quadri clinici, oltre che da una notevole variabilità
della severità, del momento di insorgenza e della rapidità di progressione con cui questi possono manifestarsi. A parte le lesioni dei singoli organi, potenzialmente responsabili delle principali complicanze, la pre-eclampsia si caratterizza per alcune modificazioni dei grossi sistemi
omeostatici che sebbene non siano specifiche, si differenziano da quelle indotte dalla normale gravidanza.
Il primo esempio è rappresentato dall’apparato cardiocircolatorio. La valutazione emodinamica longitudinale non invasiva mediante Doppler71 ha evidenziato, sin dalla fase preclinica,
un output cardiaco significativamente aumentato e resistenze vascolari normali in donne che
svilupperanno la pre-eclampsia rispetto a quelle che non la svilupperanno. L’insorgenza di una
qualsiasi forma di ipertensione, comporta un aumento delle resistenze vascolari, ma solo in
donne con pre-eclampsia questo processo si associa ad una riduzione dell’output cardiaco. Il
quadro emodinamico dopo l’insorgenza della sindrome clinica, valutato mediante la metodica invasiva, è rappresentato da normale pressione di riempimento ventricolare, elevate resistenze vascolari e funzione ventricolare iperdinamica72. Caratteristico della preeclampsia73 è,
inoltre, uno stato di emoconcentrazione legato all’aumentata permeabilità vascolare e alla fuoriuscita dei fluidi nello spazio interstiziale: tale ridistribuzione dei fluidi corporei, sebbene non
presenti ripercussioni rilevanti sull’omeostasi elettrolitica, contribuisce ad aumentare il rischio
tromboembolico.
Anche il sistema endocrino subisce delle particolari modificazioni: l’asse renina-angiotensina aldosterone, stimolato durante la normale gravidanza, è attivo a livelli non gravidici quanGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
251
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
do la gravidanza è complicata dall’insorgenza di ipertensione: ciononostante, le donne con preeclampsia presentano ritenzione di sodio74. Questo fenomeno potrebbe esser attribuito ai livelli abnormemente aumentati di deossicorticosterone, potente mineralcorticoide la cui produzione, ottenuta dalla conversione del progesterone plasmatico, è svincolata dalla delicata
regolazione della steroidogenesi surrenalica75. I livelli di vasopressina risultano normali nonostante la ridotta osmolarità plasmatica76, mentre il rilascio di peptide atriale natriuretico è superiore rispetto a quello che si verifica in una normale gravidanza77.
Infine modificazioni ematologiche, sebbene non costanti, sono particolarmente importanti in quanto possono rappresentare uno strumento di monitoraggio della progressione della
malattia e una spia dello sviluppo di complicanze: in particolare l’emolisi, l’alterazione dei parametri di coagulazione, e, prima fra tutte, la trombocitopenia.Tale condizione, la cui frequenza nei vari studi è decisamente variabile, è espressione del consumo piastrinico conseguente
all’attivazione nei siti di danno endoteliale o mediato da processi immunologici78. La valutazione della trombocitopenia ha un profondo significato clinico: a parte l’ovvia conseguenza sulla coagulazione, infatti, tale parametro riflette la severità del processo patologico. E’ stata descritta una relazione proporzionale tra il livello di piastrine, la morbilità e la mortalità materna e fetale: una trombocitopenia <100000 indica in genere una progressione verso la malattia severa79; infine, specie se associata all’emolisi può essere espressione di una sindrome
HELLP. La valutazione dei livelli di piastrine ha, quindi, un razionale nel monitoraggio clinico
della paziente pre-eclamptica. Meno frequente, anche in caso di pre-eclampsia severa è, invece, un deficit significativo dei fattori della coagulazione a meno che non sopraggiunga un ulteriore evento responsabile di coagulopatia da consumo (distacco di placenta, rottura di fegato). Nonostante i livelli di ATIII siano in genere più bassi rispetto a quelli di donne senza
pre-eclampsia, è stato evidenziato che la capacità di tale parametro di predire la successiva
evoluzione della malattia è del tutto insufficiente80.
La mortalità e la morbilità materne dovute alla pre-eclampsia/eclampsia nei paesi sviluppati si sono notevolmente ridotte, verosimilmente per merito dell’istituzione di unità di terapia intensive, ma anche per il fatto che la patologia pre-eclamptica viene individuata ad uno
stadio più precoce rispetto al passato. Il sospetto della possibile progressione della malattia,
tuttavia, non può prescindere dalla accurata conoscenza delle manifestazioni della forma severa e delle potenziali complicanze.
Pre-eclampsia severa: sebbene non vi sia una definizione accettata universalmente, i criteri generalmente presi in considerazione per la diagnosi di pre-eclampsia severa70 sono rappresentati dal riscontro di valori pressori >160/110 mmHg, o di una proteinuria > 5g/24, oppure dalla presenza di una delle seguenti condizioni in una donna in cui è stata effettuata la
diagnosi di pre-eclampsia:
- edema polmonare
- oliguria (<500 ml/24h)
252
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
-
convulsioni
sintomi cerebrali (cefalea, disturbi visivi iperreflessia)
rapida insorgenza di edema generalizzato (specialmente a livello del volto)
trombocitopenia <100 x 109/l
alterazione delle prove di funzionalità epatica associata a dolore epigastrico persistente o
dolore in ipocondrio destro
PRE-ECLAMPSIA
Valutazione delle condizioni materne infantili
- Epoca gestazionale >38 settimane
- Epoca gestazionale >34 settimane e:
Pre-eclampsia severa
Travaglio o pROM
Oligoanidramnios
Iugr severo
Condizioni fetali non rassicuranti
PARTO
Epoca gestazionale <34 settimane
Malattia lieve
Malattia severa
<22 settimane
Monitoraggio materno
e fetale
22-29 settimane
29-34 Settimane
- Peggioramento delle condizioni
- 38 settimane
- Travaglio
- Rottura delle membrane
- Ricovero in UTI
- Antidepressivi
- Steroidi
- Stretto monitoraggio
- Steroidi
PARTO
PARTO A 34 SETTIMANE
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
PARTO DOPO 34 ORE
253
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
Complicanze materne70, 81
- Distacco di placenta (frequenza 1-4%).
- Patologia renale: il rene rappresenta uno dei classici bersagli della pre-eclampsia, come indicato pressocchè costantemente della proteinuria sul piano clinico e dalla glomeruloendoteliosi su quello istologico.
Dal punto di vista funzionale, inoltre, contrariamente a quanto si verifica nella normale gravidanza, la pre-eclampsia si caratterizza per una riduzione della perfusione renale e della filtrazione glomerulare. Ciononostante, complicanze gravi, in particolare l’insufficienza renale acuta risultano relativamente poco frequenti (1-5%) e decisamente più probabili in caso di ipertensione cronica preesistente alla gravidanza. Più frequentemente l’insufficienza renale acuta
è l’espressione di necrosi tubulare acuta: questa, trattandosi di una lesione reversibile, guarisce senza compromissione renale a lungo termine. Al contrario, donne con pre-eclampsia
complicata da CID o distacco di placenta o in pazienti con un coinvolgimento renale pregravidico noto, sono più a rischio di necrosi corticale bilaterale che, oltre ad essere irreversibile, comporta un elevato rischio di morbilità e mortalità materna e fetale.
Un parametro utile di valutazione della funzionalità renale, oltre a quelli più classici, è rappresentato dalla osmolarità urinaria. Urine concentrate, riflettono un sistema renale capace di
mantenere l’omeostasi idro-elettrolitica e l’eventuale presenza di oliguria è imputabile alla ridotta perfusione. Urine non concentrate rappresentano, invece, un segnale di scompenso della funzionalità renale.
- Patologia epatica: test anomali di funzionalità epatica sono stati riportati nel 20-30% di gravidanze complicate da pre-eclampsia e riflettono, verosimilmente, una disfunzione secondaria
alla vasocostrizione. Le lesioni istologiche caratteristiche sono rappresentate da deposizione
di fibrina periportale, emorragia e necrosi epatocellulare.
Una forma più grave di coinvolgimento epatico è rappresentata dalla sindrome HELLP (24%) (hemolysis-elevated liver enzymes-low platelet): si tratta di una sindrome ad eziopatogenesi ignota che può verificarsi anche in assenza dei sintomi caratteristici della pre-eclampsia.
Le possibili complicazioni comprendono la coagulazione intravascolare, l’insufficienza renale
acuta, l’edema polmonare acuto, la rottura di fegato. Quest’ultima rappresenta la complicanza epatica più temibile in quanto associata ad una mortalità del 30%; si verifica soprattutto in
multipare di età avanzata come conseguenza di una pre-eclampsia severa o della sindrome
HELLP, ma la causa rimane ignota.
Le ipotesi eziopatogenetiche comprendono una cascata di eventi che cominciano con la disfunzione endoteliale e la deposizione intravascolare di fibrina, ostruzione sinusoidale, congestione venosa intraepatica, ematoma epatico sottocapsulare e infine rottura epatica.
L’emorragia può essere così estesa da causare la rottura della capsula dentro la cavità peritoneale.
254
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
- Patologia respiratoria: (2-5%) donne con pre-eclampsia possono sviluppare un’insufficienza
respiratoria acuta, la cui causa più probabile è rappresentata dall’edema polmonare acuto.Tale
complicanza solo nel 30% dei casi si verifica nel periodo antenatale e nella maggior parte di
questi, condizioni favorenti sono l’ipertensione cronica in associazione con età materna avanzata e multiparità. Il 70-80% dei casi di edema polmonare, invece, si verifica nel periodo del
postpartum: questi sono imputabili ad una eccessiva infusione di liquidi. Occorre tenere presente, infatti, che nonostante le pazienti con pre-eclampsia siano ipovolemiche, i loro tessuti
hanno un sovraccarico di fluidi e presentano una maggiore sensibilità alle variazioni di volume. Anche l’ARDS può essere causa di insufficienza respiratoria acuta in pazienti pre-eclamptiche. Il danno polmonare in questo caso è l’espressione dell’insulto endoteliale locale, con
sequestro di neutrofili nel polmone, aumentata permeabilità capillare polmonare, edema interstiziale ed alveolare, ed infine emorragia alveolare a cui consegue la deposizione di fibrina
e formazione di membrane ialine.
- Patologia cerebrale: la pre-eclampsia è associata ad un’aumentata pressione di perfusione cerebrale controbilanciata da un’aumentata resistenza cerebrovascolare per cui il flusso cerebrale complessivo non subisce alcuna modificazione. L’espressione più classica del coinvolgimento cerebrale, l’eclampsia, è il risultato della perdita dell’autoregolazione del flusso cerebrale, dovuta alla riduzione delle resistenze vascolari e iperperfusione. Le convulsioni costituiscono, tuttavia, solo una delle espressione del coinvolgimento del sistema nervoso centrale.
L’analisi anatomopatologica evidenzia diverse possibili alterazioni organiche: la prima, l’emorragia intracranica massiva, è spesso conseguenza di un’ipertensione non controllata o riflette
un trattamento ritardato o inadeguato con agenti antiipertensivi e rappresenta la causa singola principale di morte.
La seconda lesione, costante nell’eclampsia e variabilmente presente nella pre-eclampsia, è
rappresentata da lesioni più diffuse, raramente fatali, costituite da edema, iperemia, trombosi
e emorragia associate costantemente a modificazioni fibrinoidi delle pareti vascolari. La causa di tali alterazioni non è definita, ma potrebbe essere attribuita alla necrosi ischemica o alla iperperfusione. Segni neurologici prodromici e convulsioni possono esser imputabili a queste lesioni. Il terzo quadro cerebrale è dato dall’edema diffuso che si esprime con letargia,
confusione, fino al coma con possibilità di ernia cerebrale. Anche in questo caso la patogenesi può essere ischemica (citotossica) sia da iperperfusione (vasogenica).
Attualmente l’impiego di tecniche di imaging ha permesso di osservare tali lesioni in vivo suggerendo che le manifestazioni neurologiche costituiscono un continuum di diversi gradi di
coinvolgimento cerebrale: l’estensione e la localizzazione delle lesioni, differenti nei singoli casi, condizionano il quadro neurologico, dai disturbi visivi, all’eclampsia fino al coma.
- Disturbi visivi: questi sono relativamente frequenti nella pre-eclampsia severa, mentre più rara è la cecità. La maggior parte delle donne con vari gradi di amaurosi ha un’evidenza radioGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
255
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
logica di ipodensità nel lobo occipitale. Questa in genere si risolve completamente. Altre cause di disturbi visivi sono rappresentate dallo spasmo dell’arteria retinica o il distacco di retina.
- Coagulazione intravascolare disseminata (CID): considerando che la compromissione della regolazione dell’omeostasi da parte dell’endotelio costituisce una delle principali alterazioni fisiopatologiche della pre-eclampsia, non deve sorprendere che la CID costituisca un evento
relativamente frequente (10-20%). Lo spettro di possibili manifestazioni, tuttavia è ampio, partendo da uno stato compensato privo di espressione clinica ed evidenziabile solo su parametri di laboratorio fino ad una condizione di emorragia massiva incontrollabile. La CID è sempre un fenomeno secondario: in donne pre-eclamptiche, oltre a manifestarsi nelle forme severe di malattia, può essere conseguente alla sindome HELLP, all’emorragia antepartum dovuta a distacco di placenta o verificarsi in seguito ad una emorragia postpartum massiva: l’individuazione della causa sottostante è il requisito imprescindibile di un corretto management.
A conclusione di questa rassegna, occorre tener presente che l’ipertensione o la proteinuria possono essere assenti in percentuali relativamente elevate in caso di insorgenza di complicanze tipiche della pre-eclampsia, come nel 10-15% di donne che sviluppano HELLP82 e nel
38% di coloro che sviluppano l’eclampsia83.
Complicanze fetali70
Sono dovute prevalentemente all’ipoperfusione uteroplacentare
- Parto pretermine (15-67%)
- Restrizione di crescita fetale (10-25%)
- Ipossia-danno neurologico (<1%)
- Morte perinatale (1-2%)
L’approccio clinico
Più che per difficoltà di tipo diagnostico, l’approccio clinico alla pre-eclampsia può risultare complesso sia sul piano decisionale, poiché molte delle scelte gestionali di beneficio per la
madre possono non esserlo per il feto, sia su quello operativo, poiché se gran parte delle volte questa sindrome si presenta in forme graduali che consentono un adeguato margine temporale di azione, altre volte la progressione è rapida o ci si trova a dover affrontare delle situazioni misconosciute che rappresentano un’urgenza.
È ormai accertato che la morbilità materna e la mortalità fetale sono significativamente ridotte da un corretto management sin dalle fasi più precoci della gravidanza: le donne a cui
non viene fornita assistenza prenatale hanno un rischio di mortalità 7 volte superiore rispetto a quelle che la ricevono84. Il primo step di un corretto approccio clinico alla pre-eclampsia,
256
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
quindi, dovrebbe basarsi sulla identificazione precoce di donne a rischio affinché queste vengano sottoposte ad un monitoraggio adeguato che consenta di massimizzare la possibilità di
diagnosi precoce e di management appropriato.
L’ambulatorio ostetrico
Nonostante la pre-eclampsia si manifesti clinicamente nel II trimestre di gravidanza, i meccanismi eziopatogenetici si realizzano molto più precocemente. Allo stato attuale, non è stato ancora universalmente riconosciuto, né validato un test di screening in grado di quantificare in epoche gestazionali iniziali il rischio di sviluppo successivo di pre-eclampsia. Esistono,
tuttavia, una serie di fattori, per lo più anamnestici che consentono di sospettare la potenzialità della successiva insorgenza della pre-eclampsia. La caratterizzazione di questi fattori dovrebbe essere effettuata per ciascuna donna nelle fasi iniziali della gravidanza e in alcuni casi
in epoca preconcezionale: l’ambulatorio ostetrico, che costituisce la prima interfaccia con la
paziente ostetrica, dovrebbe rappresentare anche un filtro capace di selezionare le donne più
a rischio che necessitano di un monitoraggio più intensivo e specialistico7.
Fattori di rischio generali
1. Età>= 40 anni85.
2. Obesità86
Fattori di rischio ostetrici
3. Precedente pre-eclampsia: l’anamnesi ostetrica remota positiva per una pregressa preeclampsia è uno dei principali fattori predittivi, soprattutto se questa si era presentata
nella forma precoce moderata-severa con outcome neonatale sfavorevole per parto pretermine87: secondo alcuni Autori in questi casi dovrebbe essere effettuato lo screening
per la sindrome da anticorpi antifosfolipidi. Più controversa è la necessità di uno screening trombofilico88.
4. Nulliparità89.
5. Intervallo lungo tra le gravidanze: il rischio di pre-eclampsia nelle multipare è sovrapponibile a quello delle nullipare se sono trascorsi più di 10 anni dal parto precedente90.
6. Gravidanza multipla89, indipendentemente dalla corionicità e zigosità.
7. Storia familiare di pre-eclampsia91.
Condizioni cliniche attuali7
8. PAD>o=80 mmHg
9. Proteinuria ≥+ in più di un’occasione o ≥300 mg/24ore. In caso di proteinuria asintomatica, se persistente o confermata dalla raccolta nelle 24 ore, sarebbe opportuno escludere la possibilità di una nefropatia sottostante o altre condizioni.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
257
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
AMBULATORIO OSTETRICO
>20 Settimane
<20 Settimane
Presenza di uno di questi fattori:
- pre-eclampsia precedente
- gravidanza multipla
- ipertensione cronica
- diabete
- S. anticorpi antifosfolipidi
- LES
- nefropatia
Presenza di due di questi fattori:
- Età>40 anni
- Obesità
- Nulliparità
- Familiarità
- PAD>80 mmHg
- Proteinuria (+ allo stick o >300
mg/24ore)
- nuova ipertensione
- nuova proteinuria
- cefalea
- disturbi visivi
- dolore epigastrico
- ridotti MAF, SGA
ANTENATAL ASSESSMENT UNIT
VALUTAZIONE MATERNA
NST
ECOGRAFIA:
- liquido amniotico
- crescita fetale
- flussimetria doppler
- PA normale
- esami ematochimici normali
- PA>170/110
- PA>140/90 e proteinuria (2+ o>
300mg/24 ore)
- parametri ematochinici alterati
- cefalea, disturbi visivi
- dolore addominale
- necessità di terapia antipertensiva
- segni di compromissione fetale
AMBULATORIO
OSTETRICO
258
VALUTAZIONE FETALE
PA (almeno tre rilevazioni)
Conta piastrinica
Proteinuria
Uricemia
Creatininemia
Prove di funzionalità epatica
- Ipertensione
- esami ematochimici alterati
ANTENATAL DAY
ASSESSMENT UNIT
RICOVERO
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
Condizioni mediche predisponenti
10. Ipertensione cronica: il rischio di pre-eclampsia sovrimposta è associato al grado di ipertensione, risultando 46% in caso di ipertensione severa (diastolica >110 mmHg) e di circa il 14% in caso di ipertensione lieve92.
11. Diabete: le forme di diabete pre-esistente determinano una predisposizione maggiore rispetto al diabete gestazionale93. La severità del diabete rappresenta comunque un fattore fortemente condizionante il rischio di pre-eclampsia che risulta aumentato soprattutto in presenza di coinvolgimento microvascolare, e quindi di complicanze renali o retiniche94. Altri fattori di rischio per l’aumento del rischio di pre-eclampsia in donne con diabete tipo I includono la durata del diabete, l’ipertensione cronica e lo scarso controllo
glicemico prima delle 20 settimane di gravidanza94: esiste, infatti, una relazione diretta tra
i valori di emoglobina glicosilata e rischio di pre-eclampsia95.
12. Sindrome da anticorpi antifosfolipidi e LES: sebbene la sindrome da anticorpi antifosfolipidi costituisca una delle principali condizioni predisponesti di pre-eclampsia, ed in particolare della forma precoce severa, l’aumento del rischio varia sulla base delle caratteristiche della sindrome (3-51%), essendo minore nelle forme associate ad aborto ricorrente96 ed estremamente elevato nelle forme associate a LES, trombosi e precedente
morte endouterina97. Per quanto concerne il LES, il legame con la pre-eclampsia è attribuibile, più che alla malattia di per sé, ad alcune condizioni associate, come il coinvolgimento renale con o senza ipertensione, la presenza di anticorpi antifosfolipidi98: il rischio
è sovrapponibile a quello della popolazione generale in donne con LES non attivo, assenza di anticorpi antifosfolipidi, nefrite o ipertensione.
13. Nefropatia: la ridotta funzione renale qualsiasi sia la causa è associata ad un aumentato
rischio di pre-eclampsia, proporzionale al grado di compromissione funzionale: in particolare forme severe di nefropatia associate ad ipertensione spesso comportano l’insorgenza di pre-eclampsia severa precoce con restrizione di crescita marcata99.
In presenza di condizioni mediche predisponenti alla pre-eclampsia, sarebbe opportuno
un counselling preconcezionale che spieghi alla donna il significato della malattia sottostante
come fattore di rischio, ma soprattutto la possibilità che tale rischio possa essere modificato
dal controllo pregravidico del diabete, dell’ipertensione e dall’insorgenza della gravidanza in
una fase di stabilità o di remissione del LES o della nefropatia. È importante che queste pazienti vengano seguite da strutture adeguate e dotate di personale esperto: inoltre sono raccomandate misurazioni seriate della pressione arteriosa, della proteinuria, della funzione renale, uricemia e piastrinemia; in queste pazienti, infatti, al problema clinico gestionale si aggiunge quello diagnostico poichè alcune delle figure tipiche della pre-eclampsia possono essere
presenti prima della gravidanza o possono svilupparsi come complicanza della malattia sottostante.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
259
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
Tabella II. Rischio relativo di insorgenza dei pre-eclampsia, con corrispondente I. C.a, associato alle condizioni predisponenti elencate100
RR
CI
Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
9.72
4.34-21.75
Storia di pre-eclampsia
7.19
5.85-8.83
Diabete pregestazionale
3.56
2.54-4.99
Gravidanza multipla
2.93
2.04-4.21
Nulliparità
2.91
1.28-6.66
Storia familiare
2.90
1.70-4.93
Età >40 aa
Nullipara
1.68
1.23-2.29
Multipara
1.96
1.34-2.87
Obesità
1.55
1.28-1.88
Secondo le linee guida inglesi7, la presenza di una delle seguenti condizioni è sufficiente
per caratterizzare la donna a rischio aumentato di pre-eclampsia ed indirizzarla verso strutture di riferimento specialistico:
- pre-eclampsia precedente
- gravidanza multipla
- condizioni mediche predisponenti
- presenza contemporanea di due degli altri fattori di rischio elencati precedentemente.
In assenza dei fattori di rischio, invece, non c’è evidenza di un programma di assistenza
particolarmente raccomandabile rispetto ad altri101. Poiché la pre-eclampsia può insorgere anche in assenza condizioni predisponenti, dopo le 20 settimane si dovrebbe verificare la presenza di segni e sintomi caratteristici ad ogni visita ambulatoriale:
- ipertensione di recente insorgenza
- proteinuria di recente insorgenza
- sintomi di cefalea o disturbi visivi
- dolore epigastrico o vomito
- ridotti MAF, restrizione di crescita fetale
Le donne che presentano 2 di questi fattori dovrebbero essere inviate ad una struttura
di riferimento7.
Nella valutazione del rischio, occorre tenere presente che l’insorgenza di nuova ipertensione prima delle 32 settimane determina una probabilità del 50% di sviluppare la pre-eclampsia102, e a 24-28 settimane è predittiva di pre-eclampsia severa103; un aumento della pressione diastolica che non raggiunge 90 mmHg in qualunque epoca gestazionale, invece, non è associata a complicanze104.
260
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
Antenatal day assessment unit
Le donne a rischio prima delle 20 settimane o quelle sintomatiche dopo le 20 settimane,
dovrebbero essere sottoposte ad un monitoraggio più intensivo in una struttura di riferimento, definita dagli anglosassoni Day Antenatal Assessment Unit. Scopo di tale servizio è l’esecuzione di indagini più specialistiche e la valutazione dei risultati da parte di personale specializzato che fornisca un corretto inquadramento diagnostico e la programmazione della condotta clinica più adeguata al caso specifico.
Valutazione materna
- esami ematochimici:
emocromo
uricemia
creatininemia
prove di funzionalità epatica
- proteinuria nelle 24 ore
- pressione arteriosa (almeno 3 rilevazioni)
Valutazione fetale
- Ecografia
crescita fetale
liquido amniotico
flussimetria Doppler in a. ombelicale
- CTG
Al termine delle indagini effettuate, può risultare sufficiente rinviare la donna ai normali
controlli ambulatoriali qualora i valori pressori e gli altri parametri siano nel range di normalità, oppure può rendersi opportuno continuare un monitoraggio più intensivo presso la Day
Antenatal Assessment Unit105 nel caso in cui sia riscontrata la presenza di ipertensione o di un’alterazione degli altri esami effettuati; infine può risultare necessario il ricovero ospedaliero.
Motivi di ricovero sono rappresentati da:
- pressione arteriosa persistentemente >170/110 o persistentemente >140/90 o proteinuria 2+ allo stick urinario o > 300 mg/24 ore;
- alterazione degli esami ematochimici;
- sintomi significativi (cefalea, disturbi visivi, dolore addominale);
- necessità di terapia antiipertensiva;
- segni di compromissione fetale (anomalie della frequenza cardiaca, significativa restrizione
di crescita).
Il ricovero
Sebbene le pazienti ricoverate siano, per definizione, ad alto rischio, la progressione della
pre-eclampsia non è inevitabile e soprattutto poco prevedibile sul piano temporale.
Qualunque decisione venga presa in merito alla opportunità di proseguire la gravidanza o determinare l’espletamento del parto, è fondamentale la stabilizzazione della malattia materna
che consenta un’obiettiva valutazione materna e fetale e la possibilità di un eventuale intervento terapeutico in condizioni cliniche adeguate.Target della stabilizzazione sono il controlGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
261
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
lo della pressione arteriosa, ed in particolare dell’ipertensione severa, e la terapia delle convulsioni, quando presenti, o la loro prevenzione nei casi più a rischio di evolvere verso l’eclampsia.
Occorre precisare, inoltre che nei casi in cui è consigliabile il trasferimento presso un centro in grado di offrire un’assistenza più adeguata alla madre e al neonato (specie se pretermine), questo dovrebbe essere effettuato il più precocemente possibile.
Terapia antiipertensiva
Obiettivo della terapia dell’ipertensione acuta è costituito dalla prevenzione delle potenziali complicanze cerebrovascolari e cardiovascolari, che rappresentano la causa più frequente di mortalità e morbilità materna nei paesi sviluppati106. Nonostante sia ormai verificato che
l’uso di farmaci anti-ipertensivi nelle donne con pre-eclampsia e severo aumento della pressione arteriosa rappresentano una protezione nei confronti delle complicanze cerebrovascolari, tale terapia non modifica il decorso naturale della malattia in donne con pre-eclampsia
lieve107.
Secondo la review più recente del Cochrane, la terapia antiipertensiva riduce fino a dimezzare il rischio di ipertensione severa rispetto al placebo o all’assenza di terapia, ma vi è una
scarsa evidenza di una modificazione del rischio di pre-eclampsia, indipendentemente dal tipo di farmaco utilizzato108. Non sono stati riscontrati, inoltre, effetti significativi sul rischio di
morte perinatale, parto pretermine o neonati SGA. In conclusione è poco definito l’effettivo
beneficio che può derivare dalla terapia dell’ipertensione lieve-moderata durante la gravidanza. È stato addirittura segnalata la possibilità di un aumento di rischio di SGA in donne con
patologia lieve come conseguenza dell’abbassamento dalla pressione arteriosa109. La terapia
antiipertensiva è, invece, raccomandabile per valori di pressione sistolica > 160 mmHg e diastolica > 110 mmHg110. Dal momento che potenziali benefici potrebbero essere ottenuti anche per il trattamento di livelli pressori lievemente inferiori111, un compromesso accettabile
potrebbe essere la scelta di valori di pressione diastolica persistentemente superiori a 100
mmHg come soglia per intraprendere la terapia.
Non c’è consenso unanime su quale debba essere il trattamento di scelta: i maggiori dati
in letteratura riguardano l’utilizzo di idralazina, metildopa, labetalolo e nifedipina. Nonostante
l’idralazina per via parenterale sia la terapia raccomandata da molti Autori110,112, il suo impiego è stato associato ad un maggior numero di effetti collaterali ed outcome materni e perinatali peggiori rispetto alla somministrazione di labetalolo o nifedipina113. Studi prospettici sulla somministrazione di metildopa e isradipina nonostante abbiano mostrato un effetto significativo sull’abbassamento pressorio e della frequenza cardiaca materna, non hanno evidenziato alcun beneficio sulle alterazioni ematochimiche tipiche della pre-eclampsia, né tantomeno sul peso alla nascita e sull’outcome neonatale114,115. L’approccio terapeutico iniziale che gode di un consenso sempre più ampio, è rappresentato dalla somministrazione di labetalolo
262
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
per os o, in alternativa per via parenterale, qualora quella orale non comporti un’adeguata riduzione dei valori pressori. L’assenza, anche in questo caso, di un effetto ipotensivo, suggerisce l’opportunità di sostituire o supplementare la terapia con la nifedipina orale.
Prevenzione delle convulsioni
La somministrazione profilattica di magnesio solfato in pazienti con pre-eclampsia severa
è stato associato ad un tasso di eclampsia significativamente minore rispetto all’assenza di terapia, al placebo o all’utilizzo di nimodipina116; nessun beneficio, invece, è stato dimostrato riguardo alle complicanze materne gravi della pre-eclampsia severa, come l’edema polmonare,
l’ictus o l’insufficienza renale116. Sia in caso di pre-eclampsia severa, sia nelle forme lievi, comunque, l’utilizzo profilattico di magnesio solfato non ha mostrato alcun beneficio sull’outcome perinatale116,117. In conclusione, le evidenze disponibili suggeriscono che il magnesio solfato dovrebbe essere dato durante il travaglio e nell’immediato postpartum in alcune donne
con pre-eclampsia severa, mentre il beneficio in quelle con malattia lieve rimane poco chiaro.
Espansione del volume plasmatico
Lo stato di emoconcentrazione, legato alla riduzione del volume circolante, potrebbe rappresentare un’indicazione alla infusione di liquidi con l’obiettivo di migliorare la circolazione
materna sistemica e, di conseguenza, quella uteroplacentare. Sebbene i dati a disposizione siano scarsi, l’espansione del volume plasmatico non solo sembra privo di benefici, ma se non
associato ad un rigoroso controllo del bilancio idrico comporta un aumento del rischio di sovraccarico di volume fino all’edema cerebrale o polmonare118.
Corticosteroidi
La stabilizzazione delle condizioni materne deve procedere contemporaneamente all’induzione della maturazione polmonare fetale, nell’eventualità che si prospetti un successivo
espletamento del parto. L’uso di corticosteroidi in epoca gestazionale <34 settimane comporta una significativa riduzione nella frequenza di distress respiratorio e risulta anche associato a ridotti rischi neonatali di emorragia intraventricolare neonatale, infezione, morte neonatale119. L’osservazione che la somministrazione di corticosteroidi per la maturazione polmonare in gravidanze pretermine con sindrome HELLP era associata ad un miglioramento significativo, anche se temporaneo, della severità della malattia stessa120, ha suggerito l’ipotesi che
tale terapia potesse avere un’indicazione materna. Nonostante i meccanismi responsabili di
questi benefici siano ignoti, una diretta azione reologica o endoteliale, una ridotta adesività ed
il minore sequestro splenico delle piastrine potrebbero fornire una giustificazione121, e le ben
note proprietà antinfiammatorie ed immunosoppressive dei corticosteroidi, un razionale al
loro impiego come terapia. Risultati incoraggianti in proposito sono descritti da uno studio
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
263
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
prospettico randomizzato che ha evidenziato un significativo miglioramento dei parametri clinici e di laboratorio conseguenti alla somministrazione di desametazone 10 mg ogni 12 ore
per via endovenosa, un dosaggio decisamente superiore a quello sufficiente per la profilassi
del distress respiratorio neonatale121. Effetti sovrapponibili sono stati descritti anche in seguito alla somministrazione postpartum di desametazone (10 mg, 10 mg, 5 mg e 5 mg ev a distanza di 12 ore)122. Sulla base della considerazione che, in molti casi, la storia naturale della
sindrome HELLP prevede un processo di deterioramento nelle 24-36 ore successive al parto, la somministrazione di corticosteroidi potrebbe rappresentare un valido strumento per
accelerare la ripresa e ridurre la severità delle esacerbazioni postpartum.
In realtà, una recente meta-analisi dei dati disponibili in letteratura, pur confermando effetti favorevoli di un tale approccio sui parametri biochimici, ha evidenziato l’assenza di significative differenze relative agli outcome primari di morbilità e mortalità materna dovute a distacco di placenta, edema polmonare, ematoma o rottura di fegato, concludendo che allo stato attuale non vi sono sufficienti evidenze che supportino o rifiutino l’uso di steroidi in epoca antenatale e post partum nella sindrome HELLP per ridurre o aumentare la mortalità materna123.
Attesa o espletamento del parto?
Lo step successivo alla stabilizzazione delle condizioni cliniche della paziente è rappresentato dalla decisione del timing di espletamento del parto: questa costituisce una delle decisioni più importanti nella gestione clinica della pre-eclampsia, capace di influenzare pesantemente l’outcome della gravidanza. I parametri che, in merito a questa decisione, presentano
un maggior peso sono rappresentati dalla severità della malattia materna e dall’epoca gestazionale. Una diagnosi di pre-eclampsia severa o associata alla sindrome HELLP non consente
molte alternative all’immediato espletamento del parto in epoche gestazionali superiori alle
34 settimane70; tale discorso è valido anche per epoche gestazionali inferiori, qualora il quadro clinico materno sia evolutivo con trombocitopenia grave (PLT< 50000), segni di discoagulopatia, PA diastolica >110 mmHg oppure vi sia l’evidenza di una severa restrizione di crescita fetale o condizioni fetali non rassicuranti indipendentemente dalle condizioni materne70.
Il limite cronologico inferiore di epoca gestazionale per cui tali circostanze rappresentano
un’indicazione all’espletamento del parto è alquanto discutibile e non deve ignorare le possibilità dell’assistenza neonatologica a disposizione; in centri dotati di unità di terapia intensiva neonatale tale limite potrebbe essere quello di 29 settimane. In questi casi, è sempre consigliabile la profilassi corticosteroidea ed un’attesa di almeno 24 ore dall’ultima dose del cortisonico prima dell’espletamento del parto; naturalmente, l’insorgenza di segni di sofferenza
fetale acuta, impone l’immediata esecuzione di un taglio cesareo d’urgenza. Per epoche gestazionali inferiori alle 29 settimane, nonostante la presenza di una pre-eclampsia severa o
HELLP e la comparsa di discoagulopatia e trombocitopenia può essere opportuno il tentati264
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
vo di protrarre la gravidanza anche di poche settimane per consentire il raggiungimento di
epoche gestazionali con prognosi neonatale migliore. In questi casi, oltre ad essere mandatorio il ricovero della donna in un’unità di terapia intensiva, ed uno stretto monitoraggio di tutti i parametri vitali, può risultare di notevole beneficio la somministrazione di prostaciclina:
questa, verosimilmente, rappresenta una vera terapia causale in quanto in grado di correggere lo squilibrio TXA2/prostaciclina che rappresenta uno dei meccanismi eziopatogenetici dell’ipertensione e delle alterazioni coagulative nella pre-eclampsia. Si rimanda al capitolo specifico presente in questo volume per una trattazione dettagliata relativa alla somministrazione
di prostaciclina. Le forme severe di pre-eclampsia,in particolare quelle complicate da sindrome HELLP, che risultano refrattarie agli approcci terapeutici più “canonici”, possono trarre beneficio dalla plasmaferesi, anche se i dati relativi all’efficacia di tale metodica in epoca antepartale non sono concordi124,125, mentre vi sono diverse evidenze che testimoniano un miglioramento dell’outcome materno quando questa viene effettuata durante le esacerbazioni postpartum126.
Qualunque sia l’epoca gestazionale, l’attesa all’espletamento del parto è giustificata solo
per le poche ore necessarie alla stabilizzazione, all’eventuale trasferimento o alla preparazione di un’appropriata assistenza postatale nel caso in cui si siano già verificate le convulsioni.
Infatti, nel 15%-25% delle donne l’attacco eclamptico recidiva nonostante il trattamento ed il
rischio sia per la madre sia per il feto aumentano con il numero di episodi convulsivi. In questi casi è indicata l’esecuzione di un taglio cesareo, non appena le condizioni cliniche lo permettano.
La decisione di provocare l’espletamento del parto risulta molto più complessa quando
la pre-eclampsia si manifesta nelle forme più moderate oppure, pur in presenza della malattia severa le condizioni materne e fetali sono stabili. Nonostante la possibilità di un deterioramento più o meno rapido delle condizioni materno-fetali e la consapevolezza che il parto
costituisce la cura definitiva siano elementi a favore di una tempestiva interruzione della gravidanza, sono doverose alcune considerazioni: la prosecuzione della gravidanza, infatti, in gran
parte dei casi è di beneficio per il feto; inoltre, il parto non ha un effetto immediato sulla malattia materna. Infatti, la maggiore morbilità e mortalità materna si verificano nelle prime 48
ore dopo il parto: in una paziente non stabile un parto affrettato aumenta il rischio di esacerbazione post-partum. L’ingiustificata prosecuzione della gravidanza può essere, allo stesso
modo, deleteria: è importante che il parto avvenga non solo quando le condizioni materne
sono stabili ma quelle fetali non sono ancora scompensate.
Anche in questi casi, quindi, il primo elemento da prendere in considerazione è l’epoca
gestazionale: la soglia dei vari parametri utilizzati per la valutazione delle condizioni materne
e fetali che risulta accettabile per la prosecuzione della gravidanza è tanto più bassa quanto
più avanzata è l’epoca gestazionale. In genere, in caso di malattia lieve che si sviluppa a 38 settimane, o più, l’outcome è paragonabile a quello di gravidanze normali107: considerando che
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
265
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
la pre-eclampsia comunque può evolvere verso forme complicate, questi casi dovrebbero essere sottoposti all’induzione del travaglio70. Come detto precedentemente, indicazione all’espletamento del parto è anche la comparsa di malattia severa dopo le 34 settimane, nonostante le condizioni materne siano stabili70. Il management della pre-eclampsia severa prima delle 34 settimane è, invece, ancora dibattuto qualora i parametri materni siano stabili e
la condizione fetale rassicurante. Una review del Cochrane relativa al confronto dell’approccio interventista rispetto all’attesa sostiene che allo stato attuale, i dati a disposizione sono
troppo limitati per giungere ad una conclusione che supporti il beneficio di un parto elettivo precoce rispetto a quello ritardato, nonostante l’evidenza suggerisca che la morbilità a breve termine per il neonato potrebbe essere ridotta da una politica di attesa127.
La decisione di far proseguire la gravidanza, rende opportuno lo stretto monitoraggio delle condizioni materne e fetali che consenta un tempestivo intervento quando queste precipitano. I parametri da prendere in considerazione e la frequenza delle valutazioni dipendono
dall’epoca gestazionale, dalla severità delle condizioni materne e dalla presenza di restrizione
di crescita fetale. Tali indagini dovrebbero essere ripetute prontamente in caso di peggioramento delle condizioni materne o fetali.
Se l’epoca gestazionale è inferiore alle 34 settimane, qualora non si sia già provveduto, è
consigliabile effettuare la profilassi corticosteroidea per la maturazione polmonare fetale. Per
il massimo effetto, la gravidanza dovrebbe proseguire per altre 48 ore e per un massimo di
6 giorni. L’insorgenza di un deterioramento delle condizioni sia materne sia fetali è indicazione all’espletamento del parto anche se le 48 ore non sono trascorse.
Monitoraggio materno
Il monitoraggio delle condizioni materne si basa fondamentalmente su rilevazioni seriate
della pressione arteriosa, sull’attenta osservazione clinica volta ad individuare precocemente
l’insorgenza di sintomi e sulle rilevazioni di parametri ematochimici. Nel sospetto di una sindrome HELLP, suggerita dall’alterazione delle prove di funzionalità epatica e della conta piastrinica, può essere utile l’esecuzione di uno striscio di sangue in quanto il riscontro di frammenti di globuli rossi fornisce un sostegno a tale ipotesi diagnostica.
Monitoraggio fetale
In assenza di indicazioni materne, la decisione di espletamento del parto si basa fondamentalmente sulle condizioni fetali.Tale valutazione, tuttavia, riconosce come principale limite l’impossibilità di stabilire l’effettivo stato di benessere fetale in modo diretto, ma solo attraverso un insieme di segnali che rappresentano l’espressione probabile di una condizione
o di una imminente progressione verso lo stato di sofferenza.
Allo stato attuale i principali strumenti di sorveglianza della salute fetale sono rappresentati dalla cardiotocografia e dall’ecografia.
266
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
- NST: nonostante il tracciato cardiotocografico costituisca uno dei parametri storicamente più utilizzati, la sua effettiva capacità di valutazione del benessere fetale è molto controversa; inoltre, il valore predittivo di questa metodica diviene ancora più opinabile se si considera che l’interpretazione del tracciato CTG in epoche gestazionali
precoci non è sovrapponibile a quella, per certi versi codificata, che si effettua in un
feto a termine e che le madri di feti pretermine con pre-eclampsia possono essere
esposte ad un numero di farmaci, come il solfato magnesio e gli steroidi, in grado di
influenzare la frequenza cardiaca fetale128,129. È stato riportato che la cardiotocografia,
quando utilizzata come unico elemento decisionale, è associata ad aumentata mortalità perinatale130. L’introduzione del CTG computerizzato ha rappresentato un notevole progresso, poiché ha consentito una valutazione oggettiva dei vari aspetti del tracciato, ed in particolare della variabilità a breve termine della frequenza cardiaca che risulta essere strettamente correlata con l’ossigenazione fetale131.
- Ecografia
- Profilo biofisico
- Doppler dell’arteria ombelicale
- Doppler della cerebrale media
- Doppler venoso
Il deterioramento delle condizioni fetali è un processo che avviene progressivamente, secondo la severità della compromissione placentare. È stata individuata una sequenza temporale del coinvolgimento dei parametri di valutazione fetale con la progressione del deterioramento della placenta132. La maggior parte dei dati, in realtà, derivano dallo studio del ritardo di crescita intrauterino che pur essendo una delle principali complicanze della pre-eclampsia, può insorgere indipendentemente da questa; inoltre, sebbene prevalentemente imputabile al deficit di perfusione placentare, il riscontro di IUGR impone una diagnosi differenziale
con le forme legate alle aneuploidie.
Nel complesso, l’alterazione dei flussi arteriosi costituisce il primo segnale di compromissione fetale, seguito dall’interessamento di quelli venosi ed infine del profilo biofisico. Le anomalie Doppler precoci coinvolgono gli indici di pulsatilità in arteria ombelicale e cerebrale
media, mentre quelle tardive, significativamente associate a morte perinatale, includono l’inversione del flusso diastolico, le anomalie del dotto venoso e del tratto di efflusso aortico e
polmonare133. Secondo uno schema di monitoraggio fetale che integri l’ecografia e la cardiotocografia134, la sequenza temporale del deterioramento delle condizioni fetali interessa inizialmente l’AFI e il PI dell’arteria ombelicale, successivamente la flussimetria in arteria cerebrale media e in aorta, la variabilità a breve termine all’NST, ed infine il dotto venoso e cava
inferiore.Tali evidenze suggeriscono che la valutazione del dotto venoso e la variabilità a breve termine della frequenza cardiaca possono essere molto utili dal punto di vista decisionaGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
267
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
le e che l’indicazione fetale all’espletamento del parto dovrebbe essere presa in considerazione se uno di questi parametri diviene persistentemente anormale. Nelle gravidanze più tardive, tra 34-36 settimane, il riscontro di assenza o inversione del flusso diastolico imputabili
all’insufficienza placentare è poco probabile. Quindi, a termine o presso il termine, la presenza di una flussimetria regolare in arteria ombelicale, non esclude il verificarsi di una redistribuzione emodinamica135. La valutazione dei flussi in arteria cerebrale può essere importante
per segnalare quei feti a rischio di eventi avversi perinatali e quindi può essere un parametro
utile per il management dei feti IUGR vicino il termine136.
Il protocollo richiesto per il monitoraggio ottimale fetale in caso di pre-eclampsia con insufficienza uteroplacentare è dibattuto. È stato suggerito che per uno IUGR precoce la strategia complessiva di monitoraggio fetale intensivo rappresenta una valida alternativa al parto
immediato137. In caso di flussimetria Doppler normale, questa dovrebbe essere valutata settimanalmente, mentre l’evidenza di una redistribuzione significativa del flusso cerebrale necessita di un controllo ogni 3 giorni. Feti con evidenza di modificazioni Doppler venose dovrebbero essere monitorizzati più intensamente. Complementari alla sorveglianza fetale intensiva
mediante i parametri flussimetrici sono la valutazione frequente del profilo biofisico e il monitoraggio cardiotocografico, in particolare computerizzato. In epoche gestazionali precoci, la
diagnosi IUGR severo con flusso diastolico assente dovrebbe portare alla considerazione di
somministrare steroidi. È stato evidenziato che gli steroidi comportano un miglioramento dei
flussi in arteria ombelicale transitoriamente in queste circostanze per 4-7 giorni138; d’altro canti i feti con restrizione di crescita sono a rischio di acidosi lattica e gli steroidi sembrano indurre acidosi in modelli animali139. Quindi in caso di IUGR con flusso ombelicale assente o invertito la somministrazione di steroidi prima delle 32 settimane dovrebbe essere seguita da
uno studio intensivo a breve termine con il Doppler sia per identificare una risposta positiva
favorevole del flusso diastolico sia per identificare la necessità del parto.
Il parto
Generalmente quando l’epoca gestazionale è inferiore alle 32 settimane, il parto dovrebbe espletarsi mediante taglio cesareo elettivo in quanto offre maggiori garanzie sul mantenimento e sul monitoraggio del benessere materno e fetale. Inoltre, il tentativo di induzione del
travaglio in queste epoche precoci si conclude in parto vaginale solo nel 35% dei casi140,141. È
preferibile che il taglio cesareo avvenga in anestesia perdurale o spinale, in quanto l’intubazione e l’estubazione necessari per l’anestesia generale possono provocare un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca142. Sia nel corso dell’intervento sia nel decorso post-operatorio è inoltre importante l’attenta regolazione del carico di liquidi per il rischio
di edema polmonare acuto.
268
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
In epoche gestazionali superiori alle 34 settimane, se le condizioni materne e fetali sono
stabili il parto vaginale è l’opzione preferibile: è opportuna l’induzione del travaglio di parto
previa valutazione della cervice. Un parto vaginale si realizza nel 65% dei casi di induzione,
soprattutto se si usano prostaglandine vaginali e le probabilità di successo sono maggiori quanto più elevata è l’epoca gestazionale140,141. Considerando che la modalità di parto preferibile
è quella per via vaginale e che la maggior parte dei feti non compromessi può affrontare un
travaglio di prova vaginale, tali affermazioni sono applicabili anche per la maggior parte dei
feti con restrizione di crescita se l’induzione al travaglio viene effettuata gradualmente e viene effettuato un monitoraggio continuo fetale per individuare precocemente segni di compromissione fetale.
Un feto con restrizione di crescita severa ed evidenza Doppler di redistribuzione del flusso cerebrale e oligoanidramnios, invece, non è probabilmente in grado di affrontare un travaglio per cui tali condizioni possono rappresentare un’indicazione al taglio cesareo. In questi casi, tuttavia uno stress test con ossitocina può essere di aiuto nel valutare la presenza di
una riserva placentare sufficiente per il feto di affrontare le contrazioni del travaglio.
Nel complesso, l’assistenza al travaglio di una paziente pre-eclamptica richiede comunque
un monitoraggio continuo della frequenza cardiaca fetale poiché la probabilità di insorgenza
di distress fetale è più frequente, a causa dell’insufficienza placentare141. La terapia antipertensiva può essere continuata per tutto il travaglio. È opportuno tenere presente che il taglio cesareo dovrebbe essere effettuato prontamente, ai primi segnali di compromissione materna o fetale se il travaglio è prolungato. Inoltre è indicato il parto strumentale se il secondo stadio del travaglio non procede rapidamente o se la PA diastolica supera i 100 mmHg.
Analgesia durante il travaglio
La pre-eclampsia non rappresenta una controindicazione all’analgesia epidurale: questa può
apportare dei benefici, in quanto il sollievo dal dolore ha un effetto benefico sul rialzo pressorio spesso associato con il travaglio143,144.
Il requisito indispensabile per l’applicazione del catetere epidurale è dato dalla conoscenza del controllo dei livelli piastrinici e delle prove emogeniche al momento dell’ammissione
in sala parto: valori di piastrine < 80 x 109/l controindicano il posizionamento del catetere,
mentre valori compresi tra 80 x 109/l e 100 x 109/l, consentono l’analgesia epidurale solo se
le prove emogeniche sono normali.
Considerando la ridistribuzione dei fluidi associata alla fisiopatologia della pre-eclampsia,
e degli effetti dell’analgesia epidurale sulla vasodilatazione, l’applicazione del catetere epidurale deve essere associata ad un giudizioso controllo del bilancio idrico. Inoltre occorre tenere presente l’eventualità che l’ipotensione conseguente vasodilatazione indotta dall’analgesia
epidurale faccia precipitare la già compromessa perfusione placentare determinando l’insorgenza di segni di sofferenza fetale.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
Coplicanze post-partum
Generalmente l’espulsione della placenta rappresenta la terapia della pre-eclampsia tuttavia le prime 48 ore dopo il parto costituiscono una fase “critica” in cui si possono manifestare molte delle complicanze70. Il principale rischio materno in questa fase è rappresentato dall’edema polmonare1; un monitoraggio invasivo in genere non è necessario145 specie considerando che nella pre-eclampsia, l’edema polmonare può verificarsi in presenza di una bassa
pressione venosa centrale a causa dell’aumento dei fluidi interstiziali. Utile, invece, è la continua valutazione ossimetrica, o in caso di sospetto di edema polmonare, l’esecuzione di
un’emogasanalisi.
Il coinvolgimento renale è un’altra possibile complicanza: una oliguria relativa è frequente,
realizzandosi in circa il 30% di donne con malattia severa146. Questa non richiede alcun intervento, perché in genere il volume di urine si ripristina spontaneamente in poche ore. Invece
una compromissione più severa e prolungata della diuresi, può comportare la ritenzione fino
al sovraccarico, che in genere incomincia 16 ore dopo il parto. In caso di bilancio idrico positivo, o di sospetto di edema polmonare, dovrebbero essere somministrati diuretici: tale approccio riduce la probabilità di edema polmonare, aumenta la saturazione di ossigeno, riduce l’edema cerebrale e migliora il controllo pressorio. Se l’edema polmonare insorge nonostante l’uso di diuretici, si deve prendere in considerazione la possibilità di un difetto della funzione ventricolare sinistra.
Altre possibili complicanze post partum sono rappresentate dalla sindrome HELLP, eclampsia postpartum e ictus70. In definitiva, dopo il parto, il management di donne con pre-eclampsia è fondamentalmente di supporto e richiede uno stretto monitoraggio della pressione arteriosa, dei sintomi, del bilancio di liquidi. Se è stato somministrato magnesio solfato, questo
dovrebbe essere continuato per almeno 24 ore dopo il parto. La necessità di terapia antiipertensiva spesso si riduce nelle prime 24 e, nelle successive 72 ore la dose somministrata
dovrebbe essere rivalutata poiché la pressione tende a diminuire. Comunque può essere necessario proseguire la terapia antiipertensiva per alcune settimane dopo il parto.
Lo screening della pre-eclampsia
E’ ormai nota da tempo l’associazione tra la patologia vascolare uteroplacentare e forme
anomale della velocità del flusso in arterie uterine147. Tale evidenza ha suggerito l’ipotesi che
il Doppler delle arterie uterine potesse avere un ruolo come screening non invasivo di placentazione difettiva in uno stadio della gravidanza sufficientemente precoce per identificare
donne a rischio di sviluppare IUGR e/o pre-eclampsia. A sostegno di questa ipotesi, è stato
riscontrato che le gravidanze in cui si evidenzi un’elevato indice di resistenza o un notch diastolico precoce (unilaterale o bilaterale) alla flussimetria doppler delle arterie uterine nel se270
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
condo trimestre sono associate ad un aumento pari sette volte della frequenza di pre-eclampsia148. In realtà, i dati in Letteratura sono piuttosto controversi: si può sostenere che tale metodica rappresenti un valido screening per quegli outcome avversi associati al difetto di placentazione che esitano in parto pretermine, quali pre-eclampsia severa e IUGR precoci, mentre è scarsa la capacità di predire pre-eclampsia e IUGR a termine149-151. Nel complesso, il valore predittivo positivo è del 6-40%, mentre la sensibilità varia dal 20 al 60%70, essendo maggiore quando tale metodica è applicata ad una popolazione più selezionata (storia di ipertensione, nefropatia, sindrome da anticorpi antifosfolipidi). Il periodo ottimale di esecuzione è
quello compreso tra 18-24 settimane151: nonostante il riconoscimento di un’alterazione flussimetrica in epoche gestazionali precoci avrebbe un maggiore beneficio in termini di tempestività di intervento profilattico, il numero di falsi positivi nel primo trimestre è molto elevato, verosimilmente perchè il processo di placentazione non è ancora completato. Sebbene
non vi sia accordo su quale aspetto della forma della velocità possa considerarsi il gold standard per valutare lo screeninig positivo, sembra che la combinazione di un elevato indice di
resistenza e la presenza di notch siano associati a sensibilità più elevata152. Infine, alcuni markers biochimici possono aumentare la sensibilità dello screening ecografico: in particolare livelli elevati di inibina A nel II trimestre, indicatore indipendente di invasione trofoblastica inadeguata153.
Sulla base delle specifiche anomalie fisiopatologiche associate alla pre-eclampsia (attivazione endoteliale e della coagulazione, infiammazione sistemica), numerose sostanze sono state proposte come indicatori del successivo sviluppo di questa condizione. Nonostante siano
state riportate concentrazioni materne di questi biomarcatori sia aumentate sia ridotte precocemente nelle donne che svilupperanno la pre-eclampsia, i dati sono inconsistenti e non
sono utilizzabili nella pratica clinica154,155.
Prevenzione della pre-eclampsia
La possibilità di definire un programma di prevenzione di una determinata patologia presuppone un’adeguata conoscenza della sua eziologia e fisiopatologia e l’esistenza di un test di
screening sufficientemente sensibile per identificare donne ad alto rischio in modo che vengano indirizzate verso una terapia profilattica. Per quanto concerne la pre-eclampsia, tali aspetti sono tutt’altro che ben definiti; inoltre l’eziologia multifattoriale e la natura eterogenea di
questa sindrome suggeriscono che un programma di prevenzione univoco potrebbe non essere efficace in tutti i casi di pre-eclampsia.
La prevenzione primaria, basata sulla identificazione e correzione dei fattori di rischio in
fase pregravidica, dovrebbe essere rivolta alla perdita di peso da parte di donne obese o in
soprappeso, al buon controllo glicemico in pazienti diabetiche, alla normalizzazione della presGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
271
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
sione arteriosa nelle forme di ipertensione cronica. La prevenzione terziaria, finalizzata a ridurre il rischio di insorgenza delle complicanze dopo che la malattia è clinicamente manifesta, consiste nella terapia. L’approccio più difficile riguarda, invece, la prevenzione secondaria,
cioè quella da attuare in donne asintomatiche per una diagnosi e un trattamento precoce.
I dati principali in letteratura riguardano la somministrazione di aspirina155: il razionale consiste nel tentativo di correggere lo sbilanciamento tra prostaciclina e trombossano A2, che
costituisce uno degli aspetti maggiormente coinvolti nella fisiopatologia della pre-eclampsia:
l’inibizione della sintesi piastrinica di TXA2 con basse dosi di aspirina migliorerebbe la vasocostrizione e l’aggregazione piastrinica e, in tal modo, potrebbe prevenire o ritardare la progressione della malattia. I diversi trials clinici in proposito, oltre ad essere spesso metodologicamente criticabili, sono caratterizzati da un’estrema variabilità dei criteri di selezione, di randomizzazione e delle dosi utilizzate.
Una meta-analisi di questi studi116, riporta una riduzione del rischio di pre-eclampsia del
15% conseguente alla somministrazione di antiaggreganti, sia nella popolazione ad alto rischio
(precedente pre-eclampsia severa, diabete, ipertensione cronica, nefropatia o malattia autoimmune) sia in quella a rischio moderato (prima gravidanza, lieve aumento pressorio senza proteinuria, roll-over test positivo, anomalia al Doppler delle arterie uterine, gravidanza multipla,
storia familiare di pre-eclampsia severa, teen-ager). Inoltre viene evidenziata una riduzione pari al 14% del rischio di morte neonatale nel gruppo trattato e di circa l’8% del rischio di parto pretermine prima delle 37 settimane, mentre non è riportata alcuna evidenza di una minore incidenza del parto prima delle 32 settimane. Tali dati suggeriscono che 89 donne dovrebbero essere trattate per prevenire 1 caso di pre-eclampsia e 250 donne dovrebbero ricevere la terapia antiaggregante per prevenire una morte neonatale: pertanto, nonostante la
somministrazione di aspirina sia statisticamente associata a diversi benefici, questa evidenza
non si è tradotta in un largo impiego nella pratica clinica, probabilmente perché numeri relativamente ampi di donne necessiterebbero di essere trattati per prevenire un singolo caso di
pre-eclampsia.
L’interesse è stato focalizzato, quindi, sull’efficacia dell’aspirina in donne identificate come
ad alto rischio dallo screening del Doppler delle arterie uterine. Una meta-analisi di 5 studi
randomizzati157 ha dimostrato una riduzione del 45% di pre-eclampsia nel gruppo trattato che,
in termini numerici, richiederebbe la somministrazione di aspirina a 16 donne con Doppler
alterato per prevenire un caso di pre-eclampsia, fornendo un supporto più plausibile alla terapia preventiva in un campione più selezionato.
Piuttosto dibattuti, sono il dosaggio ottimale e il timing del trattamento: la meta-analisi citata156 suggerisce maggiori benefici con dosi superiori a 75 mg e raccomanda l’inizio della terapia tra le 12 e le 20 settimane.
Studi osservazionali, sebbene piuttosto limitati158, riportano un outcome migliore quando
l’inizio della terapia antiaggregante avviene nel primo trimestre, sostenendo che questa po272
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
La pre-eclampsia: un disordine multisistemico
trebbe essere di beneficio per il processo di invasione del trofoblasto.
Numerosi studi sono stati effettuati per valutare il potenziale beneficio di altre sostanze
nel ridurre la frequenza e/o la severità della pre-eclampsia, quali la supplementazione di zinco, magnesio, olio di pesce, l’uso di diuretici, la restrizione di proteine o sale e, anche se i dati si basano su campioni limitati, hanno mostrato un beneficio da minimo a nullo70.
Risultati più incoraggianti riguardano, invece, la somministrazione di calcio, antiossidanti ed
eparina a popolazioni selezionate come a maggior rischio di sviluppare la pre-eclampsia.
La supplementazione di calcio, teoricamente, può ridurre la contrattilità delle cellule muscolari lisce sia riducendo il rilascio di paratormone e renina, sia per effetto indiretto attraverso l’aumento delle concentrazioni sieriche di magnesio159. Una meta-analisi del Cochrane
riporta che la supplementazione di calcio, pur non comportando alcun beneficio sulla mortalità perinatale, è associata, nel complesso, ad una riduzione del rischio di pre-eclampsia160:
questa, tuttavia, risulta significativa solo in donne ad alto rischio di ipertensione o con scarso
apporto di calcio con la dieta, suggerendo che tale approccio non abbia un reale significato
nei paesi sviluppati.
Per quanto concerne gli antiossidanti, sono stati riportati benefici conseguenti alla somministrazione di vitamina C ed E a donne definite a rischio di pre-eclampsia sulla base di anomalie Doppler delle arterie uterine a 18-22 settimane o di una precedente pre-eclampsia che
avesse richiesto il parto prima delle 37 settimane161. In questi casi, l’evidenza clinica di una riduzione significativa della pre-eclampsia nel gruppo trattato, viene riflessa, sul versante biochimico da una riduzione del rapporto PAI-1/PAI-2, significativamente aumentato nella preeclampsia rispetto ad una normale gravidanza. Infine, risultati di studi osservazionali riportano una minore ricorrenza della pre-eclampsia ricorrente in donne con trombofilia in seguito
alla profilassi con eparina162.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
279
21
PATOLOGIA AUTOIMMUNE
IMMUNITÀ E GRAVIDANZA.
ATTIVAZIONE O DEPRESSIONE:
ASPETTI CLINICI
E. Bianchini, M.Vessella, *R. Bulla, F .De Seta, A. Candiotto, S. Smiroldo, S. Sacco
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo
* Istituto Patologia generale - Università di Trieste
Il sistema immunitario del tratto genitale rappresenta una parte dell’esteso sistema di difesa che lambisce le membrane mucose del corpo umano. Sebbene esso, in tal sede, abbia
notevoli similarità con altre mucose dell’organismo, per molti aspetti risulta essere unico e
funzionalmente separato dalle difese immuni mucosali, come quelle del polmone o dell’intestino, per esempio. Tale specifico sistema, infatti, deve proteggere adeguatamente l’apparato
genitale ed essere in grado di rispondere ai patogeni sessualmente trasmissibili, alcuni dei quali potenzialmente letali come il virus HIV, il papilloma virus, ed altri che possono avere delle
conseguenze devastanti per quanto riguarda la capacità riproduttiva. Contemporaneamente,
però tale sistema deve poter garantire la tolleranza nei confronti di antigeni come le molecole presenti nello sperma e nei confronti del prodotto del concepimento.
Il sistema immunitario può essere distinto in due grandi compartimenti: l’immunità innata
e quella acquisita.
L’immunità innata rappresenta la prima risposta immunitaria agli stimoli e si estrinseca attraverso l’attivazione del complemento, la fagocitosi macrofagica, la lisi cellulare da parte delle cellule NK. Tale risposta è immediata e non-antigene specifica e si caratterizza per una limitata capacità di distinguere un microbo dall’altro, nonché una natura prettamente stereotipata; in altre parole, essa funziona sostanzialmente nella stessa maniera contro la maggior parte degli agenti infettivi; però risulta essere fondamentale perché non solo fornisce una prima
linea di difesa nei confronti dei microbi, ma gioca anche un ruolo molto importante nell’induzione delle risposte immuni specifiche. Provvede infatti a fornire una sorta di “segnale d’allarme” che stimola la generazione di tali risposte.Vi sono infatti anche dei meccanismi di difesa maggiormente evoluti, che vengono stimolati dall’esposizione agli agenti infettivi, e che
accrescono la loro intensità ed il loro potenziale difensivo ad ogni successiva esposizione ad
un determinato microbo.
Dato che questa forma di immunità evolve come risposta alle infezioni, essa viene denominata immunità acquisita o specifica. È in grado di rispondere in maniera diversa a microbi
differenti, ha una specificità per singole molecole ed ha la capacità di “ricordare”, ossia di ri280
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
spondere più intensamente ad esposizioni ripetute ad uno stesso agente patogeno. Le cellule coinvolte in tale tipo di risposte sono i linfociti T, divisi in TH1 e TH2 a seconda del recettore espresso sulla superficie cellulare, e i linfociti B.
Perché un antigene estraneo possa essere riconosciuto dai linfociti, deve essere degradato in piccoli peptici antigenici ed essere associato alle molecole del complesso maggiore di
istocompatibilità MHC di classe I, espresse sulla superficie della maggior parte delle cellule e
gli antigeni di istocompatibilità di classe II, presenti sulle cellule presentanti l’antigene. L’iniziale
incontro di un linfocita con un antigene induce una risposta primaria; in un successivo contatto con lo stesso patogeno l’organismo attiva una risposta di memoria caratterizzata da una
reattività immunitaria più rapida ed intensa finalizzata alla eliminazione del patogeno e alla prevenzione della malattia.
La specificità nei confronti dell’antigene è determinata, prima del contatto con l’antigene,
dal riarrangiamento casuale dei geni che codificano il recettore, che avviene durante la maturazione dei linfociti nel midollo osseo o nel timo. Durante questo processo le cellule autoreattive sono eliminate permettendo esclusivamente la sopravvivenza delle cellule T che riconoscono i tessuti non-self.
In gravidanza abbiamo una condizione molto particolare dal punto di vista immunologico.
Essa infatti si caratterizza per l’instaurarsi di un rapporto immune speciale tra madre e feto che consente al feto di resistere all’attacco del sistema immunitario materno, pur possedendo antigeni di istocompatibilità diversi da quelli della madre.
Allo sviluppo di questa situazione favorevole per il feto concorrono due fattori: l’instaurarsi di un processo di immunosoppressione locale a livello placentare e la formazione di una
barriera protettiva per il feto. Alla costituzione della barriera di demarcazione tra madre e feto contribuisce il trofoblasto il quale utilizza diversi sistemi per evadere l’attacco immune materno.
Confronto immunitario tra madre e feto
La placenta, l’organo neo-formato a livello uterino, svolge l’importante funzione di mantenere i contatti tra madre e feto. Alla formazione di questo tessuto contribuiscono strutture di origine materna e fetale: la decidua e il trofoblasto.
La placenta svolge l’importante compito di assicurare al prodotto del concepimento il nutrimento necessario al suo sviluppo con un continuo rifornimento di sangue materno, che
giunge attraverso le arterie uterine e spirali fin negli spazi intervillosi a ridosso dei villi coriali. Per evitare che questo rifornimento subisca interruzioni, le pareti dei vasi materni vanno incontro ad una completa trasformazione strutturale quando entrano in territorio placentare.
La principale trasformazione è la sostituzione dell’endotelio con il trofoblasto al fine di ridurGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
281
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
re al minimo il contributo delle cellule endoteliali nel determinare variazioni di flusso con il
rilascio di endoteline, prostaglandine ed altri radicali.
Il trofoblasto rappresenta la parte fetale della placenta. I villi corionici sono formati da due
strati di cellule, uno più profondo di citotrofoblasti mononucleati che aderiscono alla membrana basale dei villi ed uno più esterno di sinciziotrofoblasti multinucleati che derivano dalla fusione dei citotrofoblasti.
Il citotrofoblasto ed il sinciziotrofoblasto formano una barriera che protegge il prodotto
del concepimento da elementi potenzialmente dannosi quali i prodotti umorali e/o cellulari
della risposta immune materna nei confronti di alloantigeni fetali, i più importanti dei quali sono gli antigeni di istocompatibilità ereditati dal padre e quindi estranei, che impediscono l’ingresso di leucociti che potrebbero attaccare il feto con meccanismi citotossici o proinfiammatori.
A dispetto della funzione di barriera, è ormai noto, che il trofoblasto villoso non impedisce il passaggio transplacentare di cellule tra la madre ed il feto, per esempio, microchimerismo fetale è stato ritrovato nel sangue materno molti anni dopo la gravidanza ed è particolarmente presente nelle cellule T periferiche di donne con sclerodermia; ciò suggerisce l’implicazione delle cellule fetali nell’insorgenza della malattia.
Il trofoblasto non è presente esclusivamente a livello dei villi, ma cellule trofoblastiche sono presenti anche a livello della decidua dove prendono il nome di trofoblasto extravilloso
(EVT) o di trofoblasto interstiziale. La penetrazione della parete uterina da parte del trofoblasto extravilloso avviene con un meccanismo non ancora conosciuto ma il processo ricorda gli eventi coinvolti nella migrazione delle cellule metastatiche. Durante la migrazione alcuni trofoblasti interstiziali cambiano morfologia divenendo prima fusiformi, poi rotondeggianti
ed infine multinucleati quando raggiungono la porzione più profonda della decidua. Questi ultimi, noti come cellule giganti della placenta, rappresentano la tappa finale di trasformazione
dei trofoblasti extravillosi e sono privi di attività invasiva. Altri trofoblasti interstiziali, migrando in decidua tendono invece a localizzarsi di preferenza attorno alle arterie spirali. Durante
la sua progressione attraverso la decidua il trofoblasto è in grado di modificare il pattern di
molecole di adesione. Tali cellule perdono progressivamente l’integrina alfavbeta4 e la E-caderina tipiche delle cellule epiteliali per acquisire alfavbeta3, il alfa5beta1 (recettore per la fibronectina), la VE-caderina e PECAM-1, molecole più tipiche delle cellule endoteliali.
Vi sono poi delle cellule particolari del EVT, chiamate trofoblasto endovascolare che sono in grado di penetrare nelle arterie spirali, e di migrare in maniera retrograda all’interno
del lume vascolare andando a sostituire parzialmente il rivestimento endoteliale. Le arterie
spirali a seguito di questo rimodellamento vengono trasformate in ampi e tortuosi vasi ad alto flusso e bassa resistenza.
Sia l’invasione trofoblastica endovascolare che perivascolare sono fondamentali per la prosecuzione della gravidanza. Alterazioni di tale fenomeno sono infatti associati ad un outcome
282
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
ostetrico sfavorevole come la pre-eclampsia, la restrizione di crescita intrauterina (IUGR) e
l’aborto.
Vi sono poi altri fattori che contribuiscono al rimodellamento vascolare, in particolare, in
modelli murini un ruolo fondamentale sembrerebbero rivestire le cellule NK.
A livello placentare le relazioni intercellulari sono speculari a quelle intercorrenti tra le cellule tumorali, infatti il controllo regolatorio dell’inibizione da contatto tra cellula-cellula è temporaneamente bloccato durante l’invasione trofoblastica. Alcuni Autori sono giunti a definire
lo sviluppo placentare come un “processo pseudomaligno” enfatizzando il ruolo dei fattori di
crescita, dei proto-oncogeni e delle proteine di adesione nello sviluppo placentare.
Trofoblasto e risposta immune materna
Le cellule del trofoblasto sono continuamente esposte al sangue materno e, poichè possiedono antigeni di derivazione paterna, potrebbero costituire un facile bersaglio per i componenti umorali e cellulari del sistema immunitario materno, che riconosce questi antigeni come estranei. Per evitare che una eventuale distruzione immuno-mediata di questa barriera
protettiva apra la strada ad un massiccio attacco del feto da parte del sistema immunocompetente materno, il trofoblasto ha sviluppato sistemi di protezione molto efficienti.
Il sinciziotrofoblasto non possiede né antigeni MHC di classe I né antigeni MHC di classe
II per cui queste cellule non possono essere attaccate da linfociti citotossici, che riconoscono
il bersaglio antigenico soltanto in un contesto di restrizione imposto dagli antigeni HLA di classe I.
Anche il citotrofoblasto non esprime antigeni di istocompatibilità, al contrario i trofoblasti
extravillosi non esprimono antigeni MHC di classe I classici HLA-A e HLA-B (antigeni capaci
di stimolare una reazione graft versus host disease-like) ma esprimono solo l’HLA-C ed una
particolare molecola qualitativamente diversa da quella espressa dagli altri tessuti materni. Si
tratta, infatti, di un antigene MHC di classe I (o classe Ib) non classico denominato HLA-G
che, come una classica molecola di classe I è associata alla beta2 microglobulina ed è espressa oltre che dalla placenta, in pochi altri tessuti quali l’occhio, il fegato ed i linfociti.
L’HLA-G svolge un ruolo importante nella riproduzione poiché è coinvolta nella presentazione antigenica, infatti, i recettori CD8 possono legare l’HLA-G nello stesso modo in cui
si legano ad antigeni MHC di classe I classici, inoltre, l’HLA-G può interagire con le cellule
CD4 formando strutture simili a quelle di classe II. Quindi, una funzione dell’HLA-G potrebbe essere quella di presentare antigeni intracellulari estranei alle cellule T.
L’espressione di HLA-G serve anche a proteggere il trofoblasto in quanto inibisce la proliferazione dei linfociti T CD4+ e diminuisce la produzione da parte della decidua di TNF-alfa ed IFN-gamma.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
283
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
L’HLA-G, inoltre, è riconosciuta da specifici recettori espressi sulle cellule NK dell’utero,
compresi i recettore CD94/NKG2A e LIR-1 e protegge il trofoblasto dall’azione lesiva delle
cellule NK.
L’HLA-G è presente anche in forma solubile ed al contrario della forma legata alla membrana, stimola il rilascio di TNF-alfa e INF-gamma. L’aumento di queste citochine Th1 è accompagnata da un aumento di IL-10 che è in grado di contrastarne gli effetti abortivi. La rilevanza clinica di tale molecola appare evidente da studi condotti su RSA ed eclampsia (patologia caratterizzata da una scarsa invasione trofoblastica) dove la sua espressione trofoblastica ed i livelli materni circolanti sembrerebbero essere fortemente diminuiti.
Recenti studi condotti sulle gravidanze in vitro hanno dimostrato come sia lo stesso embrione sHLA-G (forma solubile dell’HLA-G; massima concentrazione rilevata 2-3 giorni dopo la fecondazione in vitro) a dimostrazione dell’importanza di fattore e dell’enorme potenzialità dell’embrione stesso, nell’impianto.
Sargent e coll. (Oxford Fertility Unit) hanno dimostrato come la percentuale di successo
dopo fecondazione in vitro era molto più elevata negli embrioni che producono elevate concentrazioni di tale molecola rispetto a quelli che non erano dotati di tale capacità. Questi studi, tutt’ora in corso, forniscono importanti implicazioni per la fecondazione in vitro, infatti, se
tali dati preliminari venissero confermati, sarebbe possibile selezionare gli embrioni “migliori”
non solo sulla base della morfologia, ma anche della capacità di produrre sHLA-G, comportando un maggior tasso di successi e non solo, ma anche la possibilità (ove la legge lo permettesse) di trasferire un solo embrione, evitando così i problemi legati alle gravidanze multiple.
I trofoblasti extravillosi esprimono inoltre l’HLA-E, che è in grado di interagire con i recettori CD94/NKG2 delle cellule NK ed inibire la loro attività citotossica.
In definitiva, le molecole MHC di classe I non classiche e l’HLA-C svolgono un importante ruolo nella soppressione dell’attività delle cellule T e NK nei confronti della placenta. Una
recente teoria, supportata da notevoli evidenze sperimentali, sostiene che l’espressione di
HLA-C-E-G avrebbe un ruolo protettivo verso la lisi NK, mediata grazie a due meccanismi,
uno diretto sulle cellule trofoblastiche, mirato a regolarne la secrezione citochimica, l’altro invece rivolto direttamente sulle cellule NK, mirato a regolare l’espressione recettoriale su tali cellule. Inoltre il legame di tali molecole alla superficie delle NK e dei macrofagi sarebbe in
grado di attivare il rilascio di citochine fondamentali per l’angiogenesi, il rimodellamento vascolare e l’impianto.
Una aberrante espressione di molecole MHC di classe II od una aumentata espressione
trofoblastica di MHC di classe I sarebbero in grado di stimolare una maggiore produzione di
IFN- gamma.Tale meccanismo potrebbe essere implicato nella patogenesi della poliabortività, in virtù del ruolo stimolatore della citotossicità T-mediata di tale molecola, sebbene al momento attuale non vi sia alcuna evidenza sperimentale.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
Significato funzionale
Protezione contro il killing da cellule NK
Protezione contro il killing C-mediato
Suscettibilità al killing da linfociti citotossici
v
n v
Tabella1. Rapporti tra trofoblasto e risposta immune materna
Trofoblasto
Modificazioni
Extravilloso
antigeni di classe I classici
antigeni HLA di classe I non classici
Espressione di inibitori del complemento
Villoso
Assente espressione di antigeni HLA di classe I
Trofoblasto e complemento
Il sistema del complemento ha un ruolo centrale nella funzione immunitaria. L’attivazione
del complemento coinvolge una cascata di reazioni enzimatiche che genera varie proteine
con attività biologiche che coinvolgono sia l’immunità innata sia quella acquisita che consistono nella lisi cellulare, l’opsonizzazione, l’attivazione della risposta infiammatoria e la rimozione degli immunocomplessi. La rapidità d’azione e la assenza di memoria, tipiche di tale sistema, lo rendono una componente importante del sistema immunitario innato. Durante la gravidanza la placenta rappresenta un’importante stimolo antigenico, tuttavia non si assiste ad alcuna attivazione complementare, grazie ad alcune proteine regolatrici. Fra queste il DAF/CD55
(Decay Accelerating Factor), il MCP/CD46 (Membrane Cofactor Protein) ed il CD59, nonché
l’espressione della proteina S o vitronectina, un inibitore del complesso terminale. Il trofoblasto villoso esprime MCP e CD59 ed un basso livello di DAF e ciò si spiega col fatto che queste cellule necessitano di una minore protezione nei confronti del complemento rispetto al
sinciziotrofoblasto, inoltre, DAF, MCP e CD59 sono stati ritrovati anche sull’EVT, sebbene queste cellule non siano esposte direttamente al sangue materno ad eccezione del trofoblasto
endovascolare. Studi condotti sul DAF, sembrerebbero dimostrare come polimorfismi genetici si associno ad emoglobinuria parossistica notturna e quindi non si può escludere che possano essere alla base di poliabortività inspiegata.
L’importanza del complemento durante la gravidanza viene testimoniata dalla sindrome
da anticorpi antifosfolipidi (APS). Essa è patologia autoimmune che ricorre in circa il 20% di
donne con storia di RSA e si caratterizza per la presenza di elevate concentrazioni sieriche
di anticorpi IgG rivolti verso una proteina anionica dei fosfolipidi di membrana che sono alla
base di modificazioni placentari capaci di compromettere l’esito della gravidanza (trombosi
arteriosa e/o venosa). Questi anticorpi sarebbero rivolti verso proteine espresse anche dalla
superficie dei trofoblasti, infatti studi eseguiti su topi gravidi hanno evidenziato come tale condizione si associ ad abortività e a ritardo di crescita intrauterina.Tali fenomeni sembrerebbero essere associati ad una massiva deposizione complementare, in particolar modo in assenza di proteine regolatrici. Infatti l’infusione, su modelli murini di proteine regolatrici è in grado di bloccare la necrosi cellulare complemento-mediata.
Anche nella specie umana (come dimostrato dalla attivazione anticorpo mediata della caGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
285
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
scata complementare in donne con storia di RSA) potrebbe associarsi a poliabortività.
Deposizione di componenti complementari è stata dimostrata in aree di necrosi fibrinoide
placentari tipiche di patologie quali la preeclampsia. Tuttavia tali componenti sono state rilevate anche in placente di donne con gravidanze fisiologiche ma con una estensione ridotta e
soprattutto non coinvolgente il sincizio/citotrofoblasto.
Cellule deciduali e loro ruolo nel rapporto immune materno-fetale
I componenti del sistema immune naturale ed acquisito presenti in decidua sono principalmente Natural Killer (NK), macrofagi, linfociti T e linfociti B.
Natural Killer
Le cellule natural killer (NK) rappresentano una distinta sottopopolazione linfocitaria che riveste un ruolo fondamentale nelle fasi iniziali della risposta immunitaria ai patogeni grazie alla
loro attività citotossica (secrezione di citochine e chemochine). Essi rappresentano il 5-20% dei
linfociti del sangue periferico mentre a livello della mucosa uterina (decidua basale, decidua parietale e in prossimità delle arterie spirali) rappresentano la sottopopolazione linfocitaria predominante (70% dei linfociti).
La funzione delle NK uterine non è ancora chiara, poichè, queste cellule, pur essendo in grado di esercitare un’attività citotossica nei confronti di cellule tumorali, al pari delle NK extrauterine, non hanno alcun effetto litico sul trofoblasto a meno che non siano attivate all’IL-2.
Alle NK uterine è stato attribuito un ruolo di controllo sull’impianto, la placentazione e la
diffusione del trofoblasto extravilloso nella parete uterina.Teorie supportate dall’evidenza che,
col procedere della gravidanza, il numero delle NK decresce progressivamente fino a divenire virtualmente assente a termine di gravidanza.
Tale ruolo di modulatori dell’invasione trofoblastica è stato confermato da studi di Hiby e
coll. che hanno trovato una significativa correlazione tra un polimorfismo genetico del recettore KIR espresso dai NK e la pre-eclampsia. Tale patologia, tipica del secondo trimestre del
5-10% delle gravidanze è infatti associata ad un incompleto processo di “remodelling” delle
arterie spirali. Inoltre tali cellule potrebbero esercitare una funzione di sorveglianza immunologica verso i virus controllandone un’eventuale trasmissione verticale oppure nei confronti
di tumori che potrebbero svilupparsi in corso di gravidanza.
Macrofagi
La componente macrofagica presente a livello deciduale riveste un ruolo fondamentale
per la difesa del prodotto del concepimento da possibili agenti patogeni, soprattutto fra la 23a
e la 36a settimana. Infatti microrganismi quali lo Streptococco di gruppo B, l’Escherichia coli,
286
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
la Neisseriae gonorreae e la Chlamydia trachomatis sono ben noti per essere fonte di corioamnioniti che possono anche essere letali per il feto. Il lipopolisaccaride (LPS) presente sulla
superficie cellulare di diversi patogeni, se introdotto all’interno della cavità amniotica, può infatti attivare i macrofagi e stimolarli a produrre fosfolipasi A2, citochine come IL-1,TNF-alfa e
IL-6 e ad incrementare la secrezione di Prostaglandina E2 e F2-alfa, responsabili di induzione
di attività contrattile uterina.Tali cellule non rivestirebbero però, solo un ruolo protettivo verso agenti esterni, forniscono anche un contributo importante nella regolazione dell’apoptosi
cellulare, critica per l’invasione e lo sviluppo embrionale, inoltre contribuiscono all’instaurarsi
della tolleranza immunologica verso antigeni fetali.
All’inizio della fase luteale del ciclo mestruale, a livello endometriale, è presente un gran
numero di macrofagi, ma la loro quantità tende a diminuire durante la fase secretoria; durante la gravidanza, i macrofagi sono distribuiti nella decidua in particolare nella zona di invasione trofoblastica. È stato dimostrato che i macrofagi placentari stimolano la crescita dei citotrofoblasti e la loro differenziazione in sinciziotrofoblasto; possiedono una notevole attività immunosoppressiva ed una più bassa capacità di produrre IL-1 a seguito di una stimolazione antigenica, rispetto ai monociti circolanti. Essi inoltre rappresentano una particolare classe di APC
(Antigen Presenting Cells) il loro contatto con le cellule effettrici del sistema citotossico ha, su
di esse, un effetto inibitorio, soprattutto nelle fasi più precoci della gravidanza fondamentale
per l’instaurarsi della tolleranza immunitaria verso il prodotto del concepimento
Linfociti T e linfociti B
Le cellule linfocitarie sono poco rappresentate, il numero di linfociti T è modesto e ancora meno rappresentati sono i linfociti B. I linfociti T, con i recettori alfa-beta e gamma-delta,
sono presenti durante tutta la gravidanza. Le cellule T alfa-beta che possono essere divise in
CD4+ e CD8+ possono interagire con gli antigeni di classe Ib oppure con altre cellule presentanti l’antigene presenti nella decidua per combattere contro le infezioni. Le cellule T CD4+
sono più numerose ed hanno attività immunosoppressiva.
Le cellule T alfa-beta sono presenti soprattutto nelle prime fasi della gravidanza, fino alla
dodicesima settimana, successivamente sono assenti. Esse non necessitano di una restrizione
MHC per la loro azione citotossica ed hanno un’attività antimicrobica.
Tabella II. Cellule deciduali e loro ruolo nel rapporto immuno materno-fetale
Cellule
Frequenza
Funzione
NK-simili (LGLs)
Elevata
Attività antivirale, antineoplastica, controllo
della diffusione trofoblastica
Macrofagi
Buona
Difesa ed immunosoppressione
Modesta
TH1Õ danno fetale
Linfociti T
TH2Õ protezione
Linfociti B
Scarsa
Ab bloccanti Õ protezione
Ab citotossiciÕ danno
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
287
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
Citochine e risposta immune materna
Le numerose e complesse interazioni cellulari presenti a livello dell’interfaccia maternofetale sono regolate da diversi fattori solubili quali citochine, prostaglandine, ed ormoni. Tali
molecole vengono prodotte dalle stesse cellule del sistema immunitario ma non solo, anche
dalla decidua, dal trofoblasto e dal corion. Queste molecole solubili sono in grado di agire con
diversi meccanismi: autocrino, paracrino ed endocrino secondo modalità complesse spesso
difficili da riprodurre su modelli umani.
Immunodistrofismo
Il paradigma noto come “immunodistrofismo” deriva dall’osservazione che il feto “semiallogenico” (antigeni paterni e materni) è in grado di evadere l’attacco del sistema immunitario materno, potenzialmente dannoso per la sua sopravvivenza.
Il sistema immunitario materno possiederebbe, infatti, degli effetti inibitori sul feto, aventi
tuttavia funzioni protettive. Infatti, sembrerebbero limitare l’invasione trofoblastica, come dimostrato da studi effettuati su gravidanze ectopiche, dove invece il trofoblasto avrebbe una
maggiore invasività.Tale evidenza sembra suggerire come in una gravidanza fisiologica fattori
locali prodotti dalla decidua e/o dall’endometrio stesso siano capaci di regolarne la proliferazione e l’aggressività.Tuttavia una eccessiva inibizione trofoblastica immuno-mediata è correlata con un insufficiente sviluppo placentare e può essere quindi correlato con un outcome
materno-fetale sfavorevole: aborto, IUGR, pre-eclampsia.
Da studi in vitro è emerso come citochine quali TNF-alfa-beta, IFN-gamma ed il CSF (colony stimulating factor) possano limitare non solo l’invasione trofoblastica ma anche quella di
linee cellulari derivanti da corioncarcinoma, ruolo svolto dall’inibizione diretta sulla sintesi proteica trofoblastica.Tali citochine sarebbero poi in grado di inibire la proliferazione delle cellule deciduali potendo quindi interrompere lo sviluppo embrionario, come dimostrato da studi effettuati su donne con storia di poliabortività.
Studi eseguiti sui roditori hanno dimostrato come la somministrazione sistemica di IL-1,
IL-2,TNF-alfa ed IFN-gamma possa indurre l’aborto. Sebbene i “livelli fisiologici” di queste citochine siano presenti durante una gravidanza fisiologica, in particolari condizioni come in caso di infezione ed ipossia, possono aumentare notevolmente implementando quindi il rischio
di aborto. A livello materno la produzione di questi fattori è ascrivibile a cellule NK, linfociti
T e macrofagi.
Immunosoppressione
Da diversi studi è emerso come vi siano citochine aventi attività immunosoppressiva in
grado di inibire il sistema immunitario materno. La produzione di tali fattori è deputata ad
una particolare popolazione di piccoli linfociti deciduali in grado di rilasciare un fattore solubile simile al TGF-beta2 (Transforming growth factorbeta2).Tale fattore è in grado di inibire l’at288
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
tivazione dei linfociti T citotossici e delle cellule NK (meccanismo mediato dal blocco dell’attività dell’IL-2); il deficit di tali cellule è associato sia nelle topine che nella specie umana ad
aborto. Anche il trofoblasto e la placenta sono in grado di produrre un fattore anch’esso simile al TGF-beta2 capace di inibire la proliferazione dei linfociti T e di bloccare l’attività litica
della cellule NK.Tale fattore di origine placentare sarebbe in grado di legarsi all’alfa-fetoproteina presente nel liquido amniotico spiegandone il ruolo immunosoppressivo.
Un’ulteriore citochina dotata di una notevole attività immunoregolatrice è l’IL-10, anch’essa di produzione trofoblastica, è capace di regolare in senso inibitorio la produzione di alcune citochine (IL-1, IFN-gamma,TNF-alfa). Anche l’IL-4 è dotata di tale capacità grazie alla soppressione dell’attivazione IL-2-mediata delle cellule NK.
Non solo le citochine sono dotate di attività immunosoppressiva, ma, in gravidanza, un ruolo fondamentale rivestono molecole come le prostaglandine, l’indolamina 2-3 diossigenasi
(IDO) e gli ormoni steroidei.
L’IDO è un fattore solubile di origine enzimatica prodotto dai macrofagi e da altre cellule del sistema immunitario in risposta all’IFN-gamma. Esso è capace di prevenire la proliferazione dei linfociti T deciduali grazie alla sua capacità di catabolizzare il triptofano, un aminoacido essenziale per la proliferazione dei linfociti. L’IDO viene prodotto dalla decidua basale
nel primo trimestre, a termine, invece, dalle cellule endoteliali dei villi coriali, a riprova del suo
ruolo protettivo nel mantenimento della gravidanza. In uno studio del 2002 Santoso et al. hanno rilevato una significativa diminuzione di tale enzima nel liquido amniotico derivante da gravidanze pre-eclamptiche rispetto ai controlli sani.Tale ruolo non è ancora stato studiato nell’aborto ricorrente.
Gli ormoni steroidei, estrogeni e progestinici, sono anch’essi dotati di una fondamentale
attività immunomodulatrice a livello dell’interfaccia materno-fetale. Il progesterone è in grado di attuare un’attività immunosoppressoria agendo su entrambe le braccia del sistema immune, umorale e cellulare. I linfociti T materni sono dotati di un peculiare recettore per il progesterone, che se stimolato induce la produzione di una potente molecola, capace di bloccare l’attività dei Natural Killer attivati.Tuttavia tali effetti sono raggiungibili solo a livello placentare dove le concentrazioni del progesterone sono molto più elevate rispetto al siero materno, preservando l’immunità sistemica da tale effetto.
Oltre a possedere un effetto immunosoppressore, ben noto è il suo ruolo “preparatore”
l’endometrio ad accogliere una gravidanza, nonché, una volta che questa si sia instaurata di
inibire l’insorgenza di attività contrattile uterina.
Gli estrogeni sono in grado di sopprimere la proliferazione dei linfociti T e le reazioni di
ipersensibilità ritardata sebbene alcuni Autori hanno postulato un possibile ruolo attivatorio
nella risposta anticorpale. Anche gli steroidi presentano concentrazioni lievemente aumentate in gravidanza il cui effetto immunosoppressivo è ben noto. In particolare l’1,25 diidrossivitamina D, presente in elevate quantità a livello placentare e deciduale è in grado di inibire la
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
produzione di Il-2 e IFN-gamma da parte dei linfociti T e di GM-CSF da parte dei macrofagi.
Un altro ormone che, da recenti studi, sembrerebbe rivestire un ruolo essenziale come
immunomodulatore, è il CRH (Corticotropin Releasing Hormone). È l’ormone di secrezione ipotalamica più importante per la produzione ipofisaria dell’ACTH ed è noto anche per il suo
ruolo chiave nella risposta infiammatoria, infatti può essere prodotto dal citotrofoblasto villoso ed extravilloso a dimostrazione delle sue elevate concentrazioni nel sangue materno.
Recentissimi studi condotti su specie murina hanno dimostrato il suo ruolo chiave nell’impianto della gravidanza. Sembrerebbe infatti agire con meccanismi diversi: sul trofoblasto controllandone l’invasività, sui linfociti T citotossici inducendone l’apoptosi ed inibendo la risposta immune adattativa. Sarebbe dotato poi di un ruolo proinfiammatorio stimolando la secrezione
citochinica mirata a favorire l’impianto, la vasodilatazione e la quiescenza uterina.
Studi tutt’ora in corso (Oxford Fertility Unit) evidenziano come anche lo stesso embrione
sia in grado di produrre CRH e possieda i recettori per quest’ultimo. La funzione di tale recettore su embrioni murini sembrerebbe essere quella di promuovere lo sviluppo della blastocisti.
Esiste poi una serie di sostanze strettamente legate alla gravidanza per le quali è stata postulata una funzione regolatrice della risposta immunitaria. Di questo gruppo di proteine fanno parte l’Early Pregnancy Factor (EPF), il Pregnancy Specific Beta-1 Glycopritein (SP-1), la
Pregnancy Zone Protein (PZP) e la Pregnancy Associated Plasma Protein (PAPP-A). Si tratta di
proteine di peso molecolare variabile tra 20.000 e 750.000 Daltons prodotte in larga parte
dal trofoblasto.
Tabella III. Regolatori della risposta immune materna a livello placentare
Funzione
Gruppo di regolatori
Protettiva
IL-4,IL-5,IL-10
Trofica
IL-3,GM-CSF,CSF-1
Citotossica
IFN-gamma,TNF-alfa
Immunosoppressiva
TGF-beta, PGE2, EPF, SP1, PZP, PAPP-A
Sorgente cellulare
Cellule deciduali
Linfociti T ed NK deciduali
Macrofagi,NK, trofoblasti
Linfociti T, NK,macrofagi,trofoblasti
Immunotrofismo
Diversamente dai concetti di immunodistrofismo ed immunosoppressione, vi sono, in letteratura, diverse evidenze sull’importanza della risposta immunitaria materna nei confronti di
antigeni del prodotto del concepimento. Esistono, infatti, diverse citochine di derivazione linfocitaria che possiederebbero un ruolo trofico sullo sviluppo placentare e sulle funzioni trofoblastiche contribuendo quindi alla sopravvivenza fetale. Tale concetto sviluppato da
Wegmann nel lontano 1984, prende il nome di immunotrofismo placentare.
Le principali citochine che svolgono questo fondamentale ruolo includono la famiglia delle CSF (Colony Stimulating Factor) di origine macrofagica, GM-CSF ed IL-3.Anche le stesse IFNalfa, IL-1-beta e TNF-alfa avrebbero funzioni immunotrofiche aumentando l’espressione, sul290
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
l’endotelio vascolare, di recettori per il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) durante il
primo trimestre.
Anche la risposta umorale materna nei confronti di antigeni fetali sembrerebbe essere protettiva. Tali anticorpi “bloccanti” epitopi antigenici fetali potrebbero prevenire la risposta immune materna cellulo-mediata, come testimonia la relazione fra la loro assenza e l’aborto
spontaneo.
Il riconoscimento materno degli antigeni fetali si realizza in un gran numero di gravidanze
evolutive, infatti, anticorpi leucocitotossici anti-fetali (anti-paterni) sono stati riscontrati dal 35%
al 65% nelle pluripare e nel 25% delle primipare. Si tratta di isotipi IgG e sono diretti contro
gli antigeni MHC paterni che, sebbene potenzialmente possano essere nocivi per il feto, non
danneggiano il trofoblasto e sono presenti in molte donne normali.
Il paradigma TH1-TH2
I linfociti T helper (CD4+) si dividono in due grandi categorie TH1 e TH2. Queste due
sottopopolazioni linfocitarie producono diversi tipi di citochine, responsabili del diverso ruolo di queste cellule nella risposta immune verso agenti patogeni. I linfociti TH1 sono in grado
di produrre IFN-gamma,TNF-beta, IL-2 e TNF-alfa. Quest’ultimo mediatore, il TNF-alfa, viene
prodotto ma in minore quantità, anche dai linfociti TH2, e dato il suo effetto citolitico a concentrazioni elevate, viene considerata una molecola tipica della risposta TH1.
Le molecole prodotte dai TH1 sono in grado di attivare i macrofagi e di innescare la risposta immunitaria cellulare CD8-mediata, fondamentale nella protezione da patogeni intracellulari, agenti citotossici e tipica delle reazioni di ipersensibilità.
I linfociti TH2, invece, producono IL-4, IL-5, IL-6, IL-10 ed IL-3, tutte molecole capaci di stimolare una vigorosa risposta anticorpale B-linfocitaria, fondamentale nella protezione di patogeni extracellulari.
Le molecole prodotte da queste due sottopopolazioni linfocitarie rivestono un ruolo reciprocamente inibitorio, IL-10 (TH2) inibisce il richiamo dei TH1 interagendo a livello delle
APC (Antigens Presenting Cells), mentre IFN-gamma (TH1) previene l’attivazione dei TH2. Studi
condotti su specie murine ed evidenze cliniche nella razza umana, certificano che la risposta
umorale durante la gestazione sia potenziata così come accade per l’attività delle cellule NK
(Natural Killer) e la risposta a patogeni intracellulari, anche le malattie autoimmuni avrebbero
un decorso più accelerato. Tutte le evidenze suggeriscono che in gravidanza vi sia una soppressione della reattività immunologia TH1 mediata a favore di un potenziamento della risposta TH2.
Si assisterebbe, quindi, ad una graduale diminuzione del rapporto TH1/TH2 come testimoniano innumerevoli studi compiuti sul ruolo del sistema immunitario nella poliabortività.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
Infatti, la risposta immunitaria materna può essere deleteria per lo sviluppo del prodotto del
concepimento come evidenzia l’elevata percentuale, circa il 31%, di aborto misconosciuto (subito dopo impianto). Si stima, infatti, che il 40-60% degli RSA (Recurrent Spontaneus Abortions)
definiti come tre o più aborti prima del compimento della ventesima settimana di gestazione, sono attribuiti a cause note (anomalie cromosomiche, endocrinologiche, anatomiche, infettive), mentre un 60% rimane ancora inspiegato. Proprio su queste cause “non note” si è focalizzata l’attenzione degli studiosi. Nel 1995 Hill e colleghi hanno dimostrato, in donne con
una storia di RSA, una maggiore responsività linfocitaria TH1 nei confronti di antigeni deciduo-coriali. Infatti, nel 66% di queste donne era possibile isolare una attività embriotossica
(IFN-gamma,TNF-beta e TNF-alfa).
Studi più recenti hanno confermato come, in gravidanze fisiologiche concentrazioni di IL4, IL-5, IL-6 ed IL-10 sono molto più alte alla fine del primo trimestre ed al momento del parto rispetto a donne con storia di RSA, dove citochine quali IL-2, INF-gamma,TNF-alfa rimangono costantemente elevate. Inoltre, nel siero dei 2/3 di queste donne sono state rilevate
consistenti concentrazioni di IL-12, potente induttrice della risposta TH1 mediata. In gravidanze fisiologiche Piccinni e coll., hanno dimostrato come le stesse cellule placentari siano in grado di sostenere lo shift TH2 in virtù della produzione di IL-10 ed Il-4, potenti induttrici della
risposta TH2.
L’IL-1 sembrerebbe essere infatti una citochina critica capace di mantenere l’equilibrio
TH1/TH2 interferendo con le APC, inibendo la produzione citochinica di TH1 ed inibendo
direttamente ed indirettamente le cellule NK. Citotrofoblasto e sinciziotrofoblasto producono tali citochine in funzione dell’epoca gestazionale.
Anche il progesterone sembrerebbe essere responsabile del mantenimento dello switch
TH1 Õ TH2 a livello dell’interfaccia materno-fetale. Esso, infatti, stimolerebbe i linfociti a secernere una molecola, il PIBF (Progesterone-induced blocking factor) capace di inibire l’attivazione dei linfociti TH1. A tale azione inibitoria sui TH1 si oppone la relaxina capace di attivare e
mantenere la risposta TH1-mediata, fondamentale per l’innescarsi del travaglio di parto. Una
alterazione dell’equilibrio tra questi due stimoli a vantaggio della relaxina sarebbe capace di
incrinare il ruolo dei TH2 favorendo l’azione dei TH1 e quindi un outcome ostetrico sfavorevole. Una alterazione dello switch TH1 Õ TH2 non sarebbe solo in grado di chiarire l’eziopatogenesi degli RSA inspiegati, ma da recenti studi sembrerebbe essere uno dei meccanismi
coinvolti nella genesi di altre complicanze ostetriche quali pre-eclampsia e parto pretermine.
LIF (Leucemia Inhibitory Factor) è un fattore prodotto dalle cellule endometriali, NK e, in
maggior quantità dai TH2, fondamentale per l’impianto e per lo sviluppo embrionale. In donne con storia di RSA tale fattore sarebbe deficitario proprio per l’alterato switch TH1 Õ TH2.
Dagli ultimi studi condotti nella specie murina emerge che il 70% delle topine con gravidanze fisiologiche presentano elevate concentrazioni di tale fattore contro solo il 10% delle topine con gravidanze ad alto rischio (RSA, PP, Eclampsia). Da queste recentissime evidenze di
292
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
laboratorio emerge il ruolo fondamentale di tale fattore soprattutto nel primo trimestre di
gravidanza.
Figura 1. L’aborto spontaneo ricorrente
RECURRENT SPONTANEOUS ABORTION
Frequenza: 25%
In conclusione
Eziologia:
- Malformazioni congenite
- Disordini endocrini
- Infezioni
- Alterazioni anatomiche
- CAUSE AUTOIMMUNI
- HLA-G non viene espresso dal trofoblasto
- Elevata attività NK citotossica
- Prevalenza TH1
- Elevati livelli di IL-2, IL-12, ed IFNα,TNFα,
- Ridotta produzione di IL-10
Per lungo tempo illustri studiosi hanno cercato di comprendere se la risposta immunologica materna venga soppressa o semplicemente alterata in gravidanza e con quale meccanismo, al fine di comprendere la tolleranza immunologica verso antigeni fetali di origine paterna. Diversi studi clinici hanno dimostrato, in vitro, come, in realtà, l’organismo materno gravido possieda una aumentata suscettibilità ad infezioni, soprattutto virali. Ciò sembrerebbe essere correlato ad una diminuzione della difesa cellulo-mediata e della relativa diminuzione della risposta TH1.Tuttavia ultimi studi non sembrerebbero confermare tali evidenze sperimentali, garantendo all’organismo materno una totale immunoefficienza.Tuttavia nonostante l’immunità sistemica non venga interessata dallo stato gravidico, il milieu immunologico uterino
viene radicalmente modificato. Studi condotti sia su specie murina che sulla specie umana hanno infatti dimostrato notevole discordanza tra i monociti circolanti nel sangue periferico e
quelli residenti a livello deciduale. Infatti questi ultimi sembrerebbero essere meno responsivi come dimostrato già nel 1987 dove l’infezione da Listeria monocytogenes indotta su utero
di topine gravide non riusciva ad essere debellata, come invece accadeva se l’infezione veniva indotta in organi quali il fegato o la milza.Tale fenomeno è correlato ad una diminuita resposività del sistema monocito-macrofagico locale.
Da allora tutti gli studi compiuti per caratterizzare e comprendere tali modifiche hanno
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Immunità e gravidanza. Attivazione o depressione: aspetti clinici
evidenziato come, in realtà non vi sia una sostanziale differenza funzionale del sistema immunitario fra una donna gravida e una donna fertile non gravida. Infatti alcuni studi suggeriscono che sia l’immunità T.mediata che la funzione NK sia diminuita ma nonostante ciò la risposta immune materna rimane inalterata come dimostrato dalla efficace risposta ai vaccini e alla persistenza della ipersensibilità ritardata verso determinati stimoli antigenici. Inoltre da studi sperimentali è emerso come, in gravidanza il trapianto di tessuti allogenici sia seguito da
una intensa reazione di rigetto immuno mediato.
Nonostante gli innumerevoli studi compiuti fino ad oggi, l’atteggiamento del sistema immunitario materno nei confronti del prodotto del concepimento, rimane, per molti versi ancora un enigma. La sua presenza e le sue modifiche a livello uterino durante l’impianto dell’embrione garantiscono la tolleranza nei confronti di antigeni allogenici fetali. L’instaurarsi di
una gravidanza e la sua prosecuzione sono il frutto di una complessa e, per molti versi, ancora oscura rete di interazioni cellulari e molecolari (citochine, chemochine, fattori di crescita,...)
La comprensione di tali meccanismi e delle loro alterazioni rappresenta, ad oggi, una delle
grandi sfide della scienza per riuscire a predire, e quindi, trattare precocemente eventi ostetrici sfavorevoli, che possono mettere a rischio la salute materna e fetale.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
295
22
PATOLOGIA AUTOIMMUNE
LES E SINDROME DA ANTICORPI
ANTIFOSFOLIPIDI:
SORVEGLIANZA MATERNO-FETALE
E TIMING DEL PARTO
S. De Carolis, A. Botta, S. Garofalo, G. Fatigante, C.Martino, F. Grimolizzi, A. Caruso.
Istituto di Ginecologia ed Ostetricia. Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Lupus eritematoso sistemico
Il lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia infiammatoria cronica idiopatica, ad
eziologia sconosciuta, caratterizzata dalla presenza di numerosi autoanticorpi che, in quanto
tali o in forma di immunocomplessi, sono responsabili di un danno tissutale multiorganico.Tale
danno può coinvolgere cute, articolazioni, reni, polmoni, membrane sierose, sistema nervoso,
fegato ed altri organi. Come per altre malattie autoimmuni, il decorso del LES è caratterizzato da periodi di remissione e recidive. Perché si possa fare diagnosi di LES è necessaria la coesistenza di almeno 4 dei 12 criteri, sia clinici che di laboratorio, previsti dalla classificazione
ARA1.
EFFETTO DELLA GRAVIDANZA SUL LES
Le pazienti affette da LES e i loro medici sono comprensibilmente preoccupati dai possibili effetti della gravidanza sul decorso della malattia. La maggiore preoccupazione riguarda
l’esacerbamento o “accensione” del LES.
Recenti studi hanno chiarito la relazione della gravidanza con la frequenza ed il tipo di riesacerbamento del LES. Complessivamente dal 15 al 60% delle donne hanno riattivazioni della malattia in gravidanza o nel post-partum2-4. È stato tuttavia accertato che, se la gravidanza
insorge dopo un periodo di remissione del LES, le possibilità che la gravidanza stessa possa
procedere senza complicanze sono superiori rispetto ad una gravidanza che insorge in una
donna in fase attiva di malattia. L’attività della malattia al concepimento si correla con il numero di perdite fetali.
Le pazienti gravide, con LES in remissione da almeno sei mesi, permangono in remissione
nei 2/3 dei casi; si verifica, invece, una ripresa della malattia in 1/3 dei casi e, di questi, solo il
10% si presenta in forma grave, ma comunque sempre reversibile. Al contrario, se il concepimento avviene quando il LES è in fase attiva, si assiste ad un peggioramento della malattia nella metà dei casi.
296
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
Nel 20% circa dei casi il LES può esordire per la prima volta in gravidanza o in puerperio.
Quando il LES insorge per la prima volta in gravidanza, la malattia è caratterizzata da un decorso particolarmente severo e richiede una terapia aggressiva.
Per quanto concerne la nefropatia lupica, le pazienti affette da LES che hanno avuto gravidanze, non sembrano subire a lungo termine una progressione della lesione rispetto a quanto atteso al di fuori dello stato gravidico. Si può verificare un deterioramento permanente nel
7% di tutte le gravidanze e un peggioramento transitorio nel 30% dei casi.
La remissione clinica, da almeno 6 mesi prima del concepimento, in presenza di una nefropatia lupica, si accompagna ad una buona prognosi fetale e ciò vale anche per le forme più
severe di nefropatia; mentre il concepimento in fase attiva della malattia nei 6 mesi precedenti predispone la paziente ad un deterioramento permanente o transitorio della funzionalità
renale, durante o dopo la gravidanza5.
Se la creatininemia si mantiene sui valori pari o inferiori a 1,5 mg/dl, è stata osservata una
buona percentuale di nati vivi a termine; al contrario, la percentuale dei nati vivi si riduce, se
i valori della creatininemia sono superiori a 1,5 mg/dl, con una percentuale di insuccessi ostetrici pari al 50%.
EFFETTO DEL LES SULLA GRAVIDANZA
Complicanze materne
- Ipertensione arteriosa e pre-eclampsia: Complessivamente il 20-30% delle gravidanze con LES
presenta complicanze legate all’insorgenza di ipertensione arteriosa6. Una storia di malattia
renale (MR) sembra essere il principale fattore predisponente.
Nello studio prospettico di Lockshin e coll.6 il 72% delle gravide lupiche con MR era affetto
da ipertensione contro il 22% delle pazienti con LES senza MR. L’ipertensione sistemica nel
lupus potrebbe avere multiple eziologie che includono la patologia renale parenchimale, la patologia nefrovascolare, alterazioni della espressione genetica del sistema renina-angiotensina,
ed il trattamento farmacologico con corticosteroidi.
La prevalenza di pre-eclampsia (PE) è più elevata nelle donne con LES. Delle donne con
LES e preesistente danno renale, è stato stimato che il 63% sviluppa PE contro il 14% delle
donne che non hanno un danno renale7.
In conclusione, il coinvolgimento renale nel LES è un importante fattore di rischio per
l’ipertensione, la pre-eclampsia e la riattivazione della malattia, ma non rappresenta una controindicazione assoluta alla gravidanza, come si riteneva in passato.
- Trombocitopenia: nella maggior parte dei casi si tratta di una trombocitopenia di grado medio-severo che riconosce quattro diversi momenti eziopatogenetici: presenza di anticorpi antifosfolipidi (aPL), presenza di LES in fase attiva, presenza di anticorpi antipiastrine, pre-eclampsia.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
297
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
- Patologia vascolare: la patologia vascolare arteriosa nel LES ha tra i meccanismi patogenetici: arteriti, coagulazione intravascolare e aterosclerosi, correlati solitamente alla positività di lupus anticoaugulant e di aPL.
Le pazienti affette da LES sono colpite precocemente da un processo di aterosclerosi accellerata, con un prevalente coinvolgimento del distretto coronarico. Sono stati identificati diversi fattori di rischio responsabili di tale prematura coronaropatia e tra questi i più importanti sono l’ipercolesterolemia e l’ipertensione, associati ad una serie di fattori di rischio minori, come obesità, terapia prolungata con corticosteroidi, durata della malattia ed anzianità.
- Tromboembolismo: gli aPL come anticorpi anticardiolipina (ACA), il lupus anticoagulant (LA)
e anti-b2 glicoproteina I giocano un ruolo molto importante nella patogenesi della trombosi
in pazienti con LES. C’è una forte correlazione fra alti titoli anticorpali e trombosi arteriose
e venose.
- Diabete gestazionale: spesso in queste pazienti insorge un diabete gestazionale, espressione
di un mancato adeguamento della funzione insulinica alla terapia cortisonica somministrata. Il
diabete gestazionale compare soprattutto in pazienti predisposte per familiarità, habitus costituzionale, età superiore ai 35 anni e precedente dato ostetrico.
Complicanze fetali
- Perdite fetali: diversi studi, sia prospettici che retrospettivi, hanno evidenziato nelle pazienti
lupiche una maggiore incidenza di perdite fetali rispetto alla popolazione generale. La frequenza di perdite fetali (aborti spontanei e morti endouterine) è stata stimata essere pari a 8-43%
secondo studi retrospettivi, e 11-24% secondo studi prospettici8-11.
I fattori di rischio, implicati nell’incremento delle perdite fetali nel LES, sono i seguenti: attività del lupus, danno renale, aPL e precedente storia con perdite fetali.
Anche l’attività della malattia e la presenza di malattia renale esercita un’influenza negativa nei riguardi dell’esito fetale. La malattia renale attiva è un predittore statisticamente significativo di perdita fetale (aborto spontaneo e natimortalità). Infatti in tale studio delle pazienti con malattia renale attiva il 13% ha avuto nati vivi, il 33% perdite fetali12.
Tutti gli ultimi studi condotti sul LES e gravidanza sono concordi nel ritenere che la presenza degli aPL sia il fattore di rischio più importante per il danno fetale. In particolare, gli
ACA di classe IgG e il LA hanno un’alta sensibilità e specificità nell’indicare il rischio di perdita fetale in corso di gravidanza con LES. La prevalenza media, nel LES, degli ACA è del 44%
e quella del LA è del 34%13. Un altro studio indica che la presenza di aPL ed una storia di perdite fetali predice oltre l’85% delle interruzioni delle gravidanze con LES14.
- Parti prematuri: l’incidenza del parto pretermine nelle donne affette da LES varia tra il 19%
ed il 49% contro il 7% circa della popolazione generale15,16. In queste gravidanze sono stati ri-
298
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
scontrati molteplici e potenziali fattori di rischio per il parto pretermine: attività del LES, malattia renale, terapia cortisonica, presenza di aPL, ipertensione, razza nera, bassi livelli sierici di
C3, livelli sierici degli anticorpi anti-DNA.
- Ritardo di crescita intrauterino (IUGR): è frequente nelle pazienti affette da LES riscontrare un
ritardo dell’accrescimento fetale. I dati migliori a riguardo sono quelli di uno studio condotto
da Mintz e coll.16 che hanno trovato su 86 gravidanze con LES, il 23% affette da IUGR contro il 4% nei controlli. Altre serie riportano una percentuale compresa fra il 12 e il 32% di
neonati con ritardo di crescita8,14,17. Kobayashi e coll. hanno dimostrato che livelli bassi dell’attività del complemento sierico sono significativamente associati ad una restrizione della crescita fetale18. Se l’esito avverso della gravidanza si riflette in bassi o decrescenti livelli sierici del
complemento, la placenta o il letto vascolare deciduale possono essere la sede di consumo
del complemento. Inoltre le gravidanze complicate da nefrite lupica, possono avere un rischio
più alto di ritardo di crescita intrauterino come riportato da Julkunen e coll19.
MONITORAGGIO DELLA GRAVIDANZA COMPLICATA DA LES
Le più importanti complicanze materne correlate al LES sono: i disordini ipertensivi legati alla gravidanza e la esacerbazione della malattia lupica20.
Circa il 20-30% di tutte le pazienti affette da LES svilupperà un disordine ipertensivo durante la gravidanza tra cui il più comunemente diagnosticato è rappresentato dalla pre-eclampsia (PE).Tale complicanza ricorre più frequentemente nelle donne con ipertensione cronica
(preesistente alla gravidanza) e in donne con insufficienza renale.
L’ipertensione gestazionale raramente insorge prima della 20a settimana. Pertanto nel corso del primo trimestre e delle prime settimane del secondo trimestre è possibile definire, in
una paziente affetta da LES, l’andamento pressorio di base e lo stato di funzionalità renale.
Sarebbe utile inoltre diagnosticare, nel corso del primo trimestre, la presenza di proteinuria
preesistente alla gravidanza attraverso la raccolta delle urine nelle 24h.
Dalla 20a settimana di gravidanza in poi particolare attenzione deve essere data al monitoraggio della pressione arteriosa ed alla ricerca di proteinuria nell’esame delle urine, da eseguire almeno una volta ogni due settimane.
Nelle pazienti ad alto rischio, ossia quelle con ipertensione cronica o insufficienza renale,
è indicato il monitoraggio della pressione arteriosa quotidiano poiché tali pazienti possono
sviluppare PE nel corso di pochi giorni. Sarebbe inoltre prudente istruire la paziente riguardo ai sintomi più comuni della PE quali cefalea, marcati disturbi visivi e neurologici, dolore epigastrico o dolore addominale a barra, emorragie retiniche, rapido incremento di peso.
I disordini ipertensivi in gravidanza specie l’ipertensione gestazionale e PE possono associarsi, oltre alle suddette manifestazioni cliniche, anche ad alterazioni ematologiche, renali ed
epatiche, che possono essere indagate con i test di laboratorio: piastrinopenia per consumo
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
299
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
da danno endoteliale, iperuricemia correlata con la severità della prognosi fetale, aumento di
AST, ALT, LDH per citolisi epatica, emoconcentrazione in assenza di emolisi grave, ipocalciuria, aumento della creatinina, anemia emolitica microangiopatica (schistociti e consumo di aptoglobina). I livelli di FDP, Fibrinogeno e PT e PTT sono normali o poco alterati tranne che in
presenza di CID, per lo più secondaria a complicanze ostetriche. L’ATIII invece è spesso ridotta a differenza di quanto si osserva nell’ipertensione cronica. Questi parametri sono utili nella diagnostica differenziale infatti piastrinopenia, emoconcentrazione, ipocalciuria, iperuricemia,
aumento di AST, ALT, LDH e riduzione di ATIII sono associate ad ipertensione gestazionale o
PE piuttosto che ad ipertensione cronica.
Il controllo periodico di questi parametri e di piastrine, LDH, aptoglobina, creatinina ed
esame urine consente invece di monitorizzare la gravità del processo ed è utile alla prognosi materno fetale.
Il coinvolgimento renale è sempre presente nella PE con manifestazioni variabili da proteinuria lieve fino all’insufficienza renale grave.
È utile in questi casi anche il controllo dei volumi, che può avvalersi della valutazione della diuresi e del peso corporeo.
La sindrome HELLP è definita dalla presenza di emolisi, aumento delle transaminasi, piastrinopenia ad esordio nel III trimestre o entro le prime settimane dopo il parto, in corso di
PE grave. Riportata nel 4-12% delle PE, è caratterizzata da elevata morbilità e mortalità materna e fetale. La presentazione clinica è sovrapponibile a quella della PE con epigastralgie,
dolore addominale a barra e talora con subittero.Tra le alterazioni comuni alla PE più specifiche di HELLP sono l’anemia emolitica microangiopatica, la piastrinopenia grave e la citolisi
epatica. Una CID è presente nel 30-40% dei casi. L’HELLP va dunque sospettata in presenza
di dolore a barra epigastrico o dolore all’ipocondrio destro, piastrinopenia, anemia emolitica
microangiopatica e citolisi epatica.
Posta la diagnosi di ipertensione l’ospedalizzazione ed il tipo di trattamento dipendono
dal grado di ipertensione, dalla presenza di proteinuria e dai sintomi: le raccomandazioni possono andare da limitazione delle attività e riposo a letto a domicilio, con controlli settimanali in day-hospital, a ricovero immediato con avvio del trattamento farmacologico. Il trattamento farmacologico consiste in farmaci di I scelta (metildopa), farmaci di II scelta (nifedipina, labetalolo e pindololo), farmaci di III scelta (clonidina, metildopa+farmaco di II scelta). I diuretici sono indicati solo in presenza di malattie cardiache o renali con sodiosensibilità. Da evitare gli Ace-inibitori e gli Antagonisti recettoriali dell’Angiotensina per la loro documentata tossicità sul rene fetale. Non ci sono evidenze di efficacia di farmaci o misure non farmacologiche nell’arrestare o evitare l’evoluzione della ipertensione gestazionale e della PE ma obiettivo del trattamento farmacologico è quello di mantenere la pressione arteriosa materna entro un accettabile range di sicurezza.
Una volta diagnosticata l’ipertensione gestazionale severa o la PE l’unica misura terapeu300
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
tica efficace è l’espletamento del parto. Nella PE grave prima della 28a settimana è indicato
indurre il parto dopo profilassi corticosteroidea dell’ARDS. Nella PE grave dopo la 34a settimana è indicata l’induzione del parto. Tra la 28a e la 34a settimana nelle PE non severe può
essere considerata una terapia conservativa sotto monitoraggio materno-fetale da interrompere in caso di aggravamento delle condizioni materno-fetali.
Nelle nefropatiche orientano verso un’anticipazione del parto il peggioramento della funzione renale, della proteinuria e della pressione arteriosa accanto ad un peggioramento dei
parametri fetali.
Le modalità del parto sono decise in base alle indicazioni ostetriche ed il parto va programmato in strutture adatte a fronteggiare complicanze materno-fetali (centri di III livello).
L’ipertensione gestazionale potrebbe peggiorare o persistere dopo il parto, per cui un attento monitoraggio clinico è suggerito in questa fase.
Per quanto concerne l’allattamento non ci sono controindicazioni durante il trattamento
materno con calcio-antagonisti, beta-bloccanti e alfa-bloccanti.
Alcuni studi hanno dimostrato che dal 15 al 60% delle donne affette possono avere una
esacerbazione del LES durante la gravidanza o nel postpartum.
L’Ostetrico dovrebbe essere attento a riconoscere i segni e i sintomi di una riaccensione
lupica. L’uso di una profilassi immunosoppressiva non è supportata da evidenze scientifiche e
rimane altamente controversa. Pertanto alcuni medici sostengono l’utilità di frequenti test di
laboratorio per riconoscere precocemente una riaccensione lupica, mentre altri ritengono sufficiente uno stretto monitoraggio clinico.
Scoprire una riaccensione durante la gravidanza può essere difficoltoso dato che le sue le
manifestazioni tipiche possono essere reperti normali in una donna gravida; inoltre, le comuni complicanze della gravidanza, come la PE, possono mimare la riattivazione lupica: entrambe le condizioni possono presentare proteinuria, ipertensione e disfunzione di più organi.
Potrebbero suggerire una diagnosi di PE i seguenti dati: abbassamento dei livelli di
Antitrombina III, ipocalciuria, aumento dei livelli di fibronectina cellulare e nel plasma totale21,
trombocitopenia ed incremento delle transaminasi. Al contrario in una paziente con riattivazione lupica, potremmo aspettarci di vedere una riduzione dei fattori C3 e C4 del complemento22, un aumento degli anticorpi anti-DNA e l’insorgenza di leucopenia.
Per quanto riguarda le complicanze fetali del LES è stata suggerita una forte associazione
tra alti livelli di aPL e perdita fetale. Si rende evidente dunque quanto sia importante “scrinare” le pazienti per il LA, gli ACA e gli anti-beta 2 Glicoproteina I. La prognosi fetale può infatti migliorare in seguito ad una diagnosi preconcezionale e ad una adeguata terapia in gravidanza.
Nelle pazienti lupiche le complicanze fetali sono correlate all’insufficienza placentare, condizione spesso associata all’ipertensione cronica e all’insufficienza renale materna. Le conseguenze dell’insufficienza placentare, dovute ad una restrizione della disponibilità di nutrienti e
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
301
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
ossigeno per il feto, sono rappresentate da iposviluppo fetale eventualmente associato ad oligoamnios ed insufficienza respiratoria che può portare dal distress fino alla morte fetale.
Sfortunatamente è impossibile nella maggior parte dei casi predire il grado o la severità
di insufficienza placentare che potrebbe svilupparsi, tuttavia è possibile sottoporre le pazienti ad un accurato monitoraggio delle condizioni fetali attraverso ecografie ostetriche seriate
(ogni 3-4 settimane a partire da 28-30 settimane) per diagnosticare restrizioni della crescita
fetale ed oligoamnios, e attraverso l’utilizzo della cardiotocografia e del profilo biofisico (“nonstress test”) per identificare segni di ipossia fetale.
Studi di velocimetria Doppler della circolazione utero-placentare e fetale hanno evidenziato che un’alta impedenza al flusso è associata al successivo sviluppo di pre-eclampsia, IUGR
e di complicazioni correlate23. La flussimetria Doppler è infatti un utile strumento nella predittività di complicanze ostetriche in tali gravidanze ad alto rischio, quando eseguita in un periodo ideale compreso tra 22 e 24 settimane.
Nel nostro centro abbiamo dimostrato che la flussimetria Doppler delle arterie uterine,
eseguita tra la 18ª e la 24ª settimana di gravidanza, può dare una buona previsione dell’esito
della gravidanza. Un aumento delle resistenze uterine, ovvero un indice di resistenza (RI) >90°
percentile, in particolar modo dell’arteria uterina migliore (quella identificata cioé dall’indice
di resistenza più basso), si associa ad un minor peso fetale alla nascita, ad un più basso percentile e ad una più bassa età gestazionale al parto.Viceversa un buon valore dell’indice di resistenza delle arterie uterine si correla ad una prognosi fetale migliore.
La presenza degli anticorpi anti-Ro/SSA e anti La/SSB, anticorpi rivolti verso antigeni nucleari estraibili (ENA), non influisce negativamente sull’esito della gravidanza nelle pazienti con
LES ma è un’importante fattore di rischio per il blocco congenito cardiaco neonatale, la manifestazione più severa del lupus eritematoso neonatale, dovuta ad un processo flogistico che
interessa il tessuto di conduzione cardiaco e che esita in una severa forma di miocardite fetale. Il tessuto cardiaco una volta danneggiato è sostituito da tessuto fibrotico con conseguente perdita della sua funzionalità24. I danni permanenti che ne conseguono, in alcuni casi, comportano la necessità del pacemaker al fine di garantire la sopravvivenza neonatale.
È stato dimostrato che la prevalenza del CHB nelle pazienti positive per gli anticorpi anti-Ro/SSA e anti La/SSB è del 1,7%, con un rischio di ricorrenza nelle successive gravidanze
del 19%24. È importante quindi effettuare in tutte le pazienti affette da LES la ricerca dei suddetti anticorpi e sottoporre tutte le pazienti risultate positive ad un’ecocardiografia fetale a
settimana a partire dalla 16° fino alla 26° settimana, e successivamente ad un’ecocardiografia
ogni due settimane fino alla 34° settimana. Nel caso di diagnosi di CHB si consiglia la somministrazione di un glucocorticoide che attraversi la placenta (ad esempio desametazone, alle
dosi di 4 mg/die) per limitare ulteriori danni immunologici e flogistici al cuore fetale.
Valutazioni seriate delle frazioni del complemento possono essere utili nella prognosi e
nel “management” delle gravidanze complicate da LES. I livelli di C3 e C4 che sono o torna302
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
no nel range di normalità durante la gravidanza si associano con una maggior percentuale di
nati vivi, la maggior parte dei quali sono di peso adeguato per l’epoca. Al contrario, bassi livelli o livelli decrescenti di C3 precedono tutti gli aborti spontanei e i parti prematuri. I livelli di C4 risultano bassi in tutti i casi di aborto spontaneo, ma solo nella metà dei parti prematuri. Se l’esito avverso della gravidanza si riflette in bassi o decrescenti dei livelli sierici del
complemento, la placenta o il letto vascolare deciduale possono essere la sede di consumo
del complemento.
Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
Il termine “Sindrome da Anticorpi Antifosfoflipidi” (APS) è stato per la prima volta coniato nel 1956 per denotare l’associazione clinica fra gli anticorpi antifosfolipidi e una sindrome
di ipercoagulabilità, caratterizzata da una storia ostetrica di aborti ricorrenti e morti intrauterine, e da un’aumentata incidenza di trombosi arteriose o venose, infarti cerebrali, ipertensione polmonare e piastrinopenia.
Gli anticorpi antifosfolipidi (aPL) sono una eterogenea famiglia di autoanticorpi che esibiscono un largo spettro di “target” specifici, costituiti da varie combinazioni di fosfolipidi, proteine leganti fosfolipidi o entrambi.
Gli aPL più comunemente studiati sono: anticorpi lupus anticoagulant (LA), anticorpi anticardiolipina (aCL) e anticorpi anti beta2- glicoproteina I.
I dati della letteratura sono oggi concordi nel ritenere che la presenza di aPL sia associata a patologia ostetrica. In effetti, sin dalla sua prima identificazione il LA è stato descritto come un prolungamento dei test di coagulazione fosfolipido-dipendenti in pazienti con storia di
ripetuti aborti del 2° trimestre di gravidanza, associato o meno a fatti trombotici, spesso nell’ambito di malattie sistemiche come il lupus eritematoso sistemico25. D’altra parte, negli Anni
’80, l’introduzione del test aCL ha confermato come altamente significativa l’associazione con
la patologia abortiva, sia nell’ambito della malattia lupica che in donne altrimenti sane26.
Gli aPL sono associati dunque ad un ampio spettro di esiti avversi della gravidanza dagli
aborti del primo trimestre, alle perdite fetali del secondo trimestre, alla PE, al ritardo di crescita intrauterina, al parto prematuro e al distacco di placenta. L’alterazione dell’impianto placentare ed un quadro di vasculopatia deciduale rappresentano il tratto comune a tutte queste
condizioni. Anche se genericamente il meccanismo patogenetico degli aPL viene ricondotto alla trombofilia, è risultato chiaro nel corso degli anni che i fenomeni trombotici non sono sufficienti a giustificare la particolare influenza di questi anticorpi sullo sviluppo della gravidanza.
È stata infatti suggerita la possibilità di un danno diretto sul trofoblasto villoso ed extravilloso da parte degli aPL attraverso il riconoscimento di epitopi quali la fosfatidilserina esposta
nel corso della formazione del sincizio.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
303
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
Studi condotti nei nostri laboratori hanno confermato questi dati e dimostrato, attraverso sieri ottenuti da donne con aPL e frazioni immunoglobuliniche di classe IgG, l’effetto funzionale degli anticorpi su culture di trofoblasto primario in termini di riduzione della fusione
intercitotrofoblastica, della secrezione pulsatile di gonadotropina (hCG) e di invasività del trofoblasto27-29.
È peraltro noto come un’alterata angiogenesi nella fase iniziale della gravidanza contribuisca all’incompleto rimodellamento delle arteriole spirali e all’insufficiente vascolarizzazione placentare.
Durante l’8° Simposio Internazionale sugli aPL, tenutosi a Sapporo in Giappone nell’ottobre 1998, è stato raggiunto un accordo internazionale sui criteri di classificazione per l’APS.
Lo scopo di questo sforzo è stato quello di fornire dei requisiti rigidi e inconfutabili per poter creare dei gruppi di pazienti assolutamente omogenei, adatti anche ad un’elaborazione di
studi controllati (Tabella I).
Un paziente con APS deve avere almeno uno dei due criteri clinici (trombosi vascolare o
complicanze della gravidanza) e almeno uno dei due criteri di laboratorio (positività per gli
ACA IgG o IgM o per il LA). Una diagnosi di APS primaria (PAPS) può essere formulata se il
paziente soddisfa i criteri classificativi della APS e se può essere esclusa la contemporanea
presenza di una malattia autoimmune sistemica. L’APS si definisce secondaria (SAPS) quando
associata ad un’altra malattia reumatica. La stragrande maggioranza delle forme secondarie
sono è stata riportata in corso di LES conclamato.
Quando la patologia sistemica associata non può essere formalmente classificabile come
tale a causa della mancanza di un numero sufficiente di criteri classificativi, la maggior parte
degli autori parla di sindromi lupus-like.
EFFETTO DEGLI APL SULLA GRAVIDANZA
È stata ben documentata l’associazione tra la presenza degli aPL e storia ostetrica di aborti ripetuti e morti intrauterine, tale per cui, in mancanza di specifico trattamento medico, il rischio di perdita fetale si aggira intorno all’80-98%.
Le donne positive per aPL hanno un’alta prevalenza di perdite ostetriche entro il periodo fetale (10 o più settimane di gestazione). Contrariamente, in donne non selezionate con
sporadici o ricorrenti aborti le perdite ostetriche si verificano più frequentemente nel periodo preembrionale (meno di 6 settimane di gestazione) o nel periodo embrionale (da 6 a 9
settimane di gestazione). Comunque studi più recenti hanno esteso gli effetti deleteri degli
aPL a donne con ricorrenti perdite embrionali e preembrionali, fra le quali il 10-20% ha positività per gli aPL senza altre manifestazioni cliniche.
Oltre agli aborti spontanei e alle perdite fetali del 2° e 3° trimestre, numerose complicanze ostetriche materno-fetali sono associate alla sindrome: la PE-HELLP, l’insufficienza uteroplacentare, lo IUGR (intrauterine growth retardation) ed il parto pretermine30.
304
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
In questo ambito, il rapporto tra aPL e pre-eclampsia è uno degli argomenti più dibattuti. Infatti numerosi studi hanno sottolineato come l’incidenza di PE sia particolarmente elevata in pazienti con la classica forma di APS, sia primaria che secondaria31. D’altra parte, anche
nella popolazione ostetrica con PE è stata osservata una elevata frequenza di pazienti con
aPL32, anche se non in modo univoco.
Peraltro, uno studio recente33, che esamina 317 pazienti gravide con storia ostetrica di preeclampsia e quindi ritenute ad alto rischio di recidive, concludeva che aPL di classe IgG non
classici (anti-fosfatidilserina) erano associati con la pre-eclampsia severa, gli aCL di classe IgG
erano associati con lo IUGR, ma entrambi i test avevano uno scarso valore predittivo per le
citate complicazioni.
D’altra parte, anche per quanto riguarda la frequenza dello IUGR o la predittività degli
aPL verso questa complicanza ostetrica, si ricavano dalla analisi della letteratura voci contrastanti. In effetti lo IUGR è riportato con frequenze che variano dal 30 al 12% in una serie di
studi che comunque concordano almeno su un significativo aumento di prevalenza34, contrariamente ad altri che non la confermano affatto35.
Una certa responsabilità nel creare risultati discordanti è probabilmente attribuibile alla
non sempre rigorosa classificazione degli esiti sfavorevoli della gravidanza. Inoltre in questa ottica è necessario non dimenticare un esame attento delle metodologie applicate dai singoli
studi alla determinazione degli aPL.
Altra complicanza ostetrica nelle pazienti affette da APS è il parto pretermine la cui prevalenza è stata stimata attorno al 30%. Fortunatamente però, la grave prematurità è oggi infrequente e comunque i mezzi e la capacità raggiunte nei reparti di terapia intensiva neonatale trasformano queste nascite pretermine in esiti globalmente favorevoli nella larga maggioranza dei casi.
Infine non si può trascurare, tra i problemi clinici delle gravidanze in pazienti con APS, la
possibilità di un evento tromboembolico.Va al riguardo sottolineata la potenziale sinergia tra
il rischio trombofilico proprio della gravidanza e/o del puerperio e quello rappresentato dagli aPL.
MONITORAGGIO DELLA GRAVIDANZA COMPLICATA DA APS
Una storia ostetrica di ricorrenti perdite fetali, la presenza di una positività ad alto titolo
degli aPL al momento del concepimento sono tutti fattori che correlano con un esito infausto della gravidanza, in termini di probabilità che possa ripetersi la perdita fetale o che si abbia un peso più basso alla nascita.
Il management ostetrico delle pazienti con APS è sostanzialmente sovrapponibile a quello che abbiamo delineato a proposito delle pazienti affette da LES.
Anche qui il più importante rischio ostetrico materno è rappresentato dall’insorgenza di
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
305
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
ipertensione gestazionale e/o PE. L’ipertensione preesistente alla gravidanza non è infrequente in queste pazienti, probabilmente per la tendenza alla microangiopatia renale.
Anche le complicanze fetali nelle pazienti con APS sono simili a quelle riscontrate nelle
pazienti affette da LES, ma l’insufficienza placentare, soprattutto quella severa, è molto più
frequente.
A partire dalla 20° settimana è indicato un intensivo monitoraggio delle condizioni fetali mediante ecografie ostetriche seriate, al fine di identificare disturbi della crescita fetale ed
oligoamnios. Inoltre sarebbe utile ricorrere precocemente (a partire da 28 settimane) al
“nonstress test” per valutare il benessere fetale.
Anche nelle gravidanze complicate da APS è importante sottolineare il ruolo predittivo
svolto dalla Flussimetria Doppler utero-placentare, quando eseguita nel periodo ideale compreso tra 22 e 24 settimane.
La presenza di vasculopatia nelle arterie del letto placentare è supportata dagli studi di
velocimetria Doppler delle arterie uterine nel secondo trimestre di gravidanza. L’associazione
degli aPL con un alto indice di resistenza e/o del notch prediastolico dell’onda Doppler è
generalmente predittiva di un successivo sviluppo di pre-eclampsia, parto prematuro e basso peso alla nascita.
Importante nelle pazienti affette da APS è il monitoraggio delle piastrine e, nel caso di
insorgenza di trombocitopenia, differenziarne le diverse forme correlate o all’insorgenza di
PE, o alla presenza di aPL o al trattamento con eparina. Quando la trombocitopenia è associata ad episodi trombotici dovrebbe essere sospettata una APS catastrofica ossia una forma accelerata di malattia che esita in un grave danno multiorgano (più di 3 organi, sistemi,
o tessuti interessati) ed in cui vi sia l’evidenza istopatologica di un occlusione diffusa di piccoli vasi.
Studi recenti hanno enfatizzato un aspetto molto importante nel management delle pazienti affette da APS in gravidanza, il solo su cui vi è accordo comune: tali pazienti devono
essere sottoposte ad un intensivo monitoraggio materno e fetale mediante un ben coordinato approccio multidisciplinare da parte di dell’ostetrico, dell’internista, del reumatologo e
dell’ematologo.
In effetti, senza togliere nulla ai benefici dei trattamenti applicati, è necessario ricordare
che in questo particolare settore è determinante una sorveglianza ostetrica attenta che, tramite le metodologie diagnostiche a disposizione (ecografia ostetrica, flussimetria Doppler,
cardiotocografia) finalizzate a valutare il benessere del feto, stabilisca il momento più favorevole per espletare il parto.
Tale condotta unita ai progressi compiuti nel campo della neonatologia, che permette una
buona sopravvivenza con ridotta incidenza di handicap a distanza anche in feti prematuri, è
stata e continuerà ad essere determinante nel migliorare la prognosi ostetrica delle pazienti affette da APS.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
LES e sindrome da anticorpi antifosfolipidi: sorveglianza materno fetale e timing del parto
Tabella I. Criteri per la diagnosi di Anticorpi Antifosfolipidi
Criteri clinici
1. Trombosi vascolari: uno o più episodi di trombosi arteriose, venose o dei piccoli vasi, in qualsiasi organo o tessuto, confermate da tecniche di imaging, doppler o dall’istopatologia
2. Patologia ostetrica:
a) Una o più morti fetali dopo la 10a settimana;
b) Uno o più parti prima della 34a settimana, accompagnati da pre-eclampsia o severa insufficienza placentare;
c) Tre o più aborti prima della 10a settimana.
Criteri laboratoristici
1. Anticorpi anticardiolipina (aCL) di classe IgG e/o IgM a titolo medio-alto, misurati con metodiche ELISA standardizzata in due o più occasioni a meno di 6 settimane di intervallo.
2. Lupus Anticoagulant (LAC) positivo in due o più rilevazioni a meno di sei settimane di intervallo, in accordo
con le linee guida della Società Internazionale sulla Trombosi ed Emostasi
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308
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
PATOLOGIA AUTOIMMUNE
IL NEONATO DA MADRE
CON PATOLOGIA AUTOIMMUNE:
DANNI DA MALATTIA
O DA FARMACI?
23
L.A. Ramenghi, M. Fumagalli, F. Mosca
U.O. di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale. Ospedali Mangiagalli, Regina Elena Policlinico IRCCS Fondazione
Scientifica, Milano, Università di Milano
Le prime segnalazioni indicavano che l”autoimmunità” presente in una sindrome ben definita, come il Lupus Eritematoso Sistemico, o rappresentata dalla produzione di sottoclassi di
autoanticorpi, potesse interferire con le capacità riproduttive della donna. In realtà la fertilità
sembra non essere così significativamente compromessa, ma, in tempi successivi è emersa una
preoccupazione prevalentemente rivolta ai potenziali effetti di tali patologie autoimmuni sul
feto, in riferimento al rischio di prematurità ed allo scarso accrescimento.
Rimane ancora difficile avere una esatta cognizione epidemiologica di quanto le malattie
autoimmunitarie, nel loro complesso, siano di per se dannose per il feto; ancor più difficile è
valutare quanto questo eventuale danno derivi dai farmaci che vengono utilizzati nella madre
per lo specifico trattamento. La cura di queste malattie è sensibilmente migliorata ed inoltre
esiste una certa variabilità di effetti tra le diverse malattie autoimmunitarie sul feto, in aggiunta alla diversa gravità della malattia stessa che spesso però non incide sul rischio che corre il
feto (vedi oltre). Questa variabilità esiste anche per i diversi trattamenti farmacologici che non
solo dipendono dai diversi agenti che possono essere utilizzati (si intendono in prevalenza gli
steroidi), ma anche dalla diversa suscettibilità individuale (madre e poi feto) ai farmaci stessi.
Molte patologie autoimmuni non sembrano comportare particolari danni per il feto e pertanto ci riferiremo soltanto ad alcuni esempi paradigmatici di patologie che comportano rischi, anche subdoli, di coinvolgere la maturazione di importanti organi fetali, quali ad esempio
l’encefalo o il cuore. Si analizzeranno, inoltre, i dati di quei farmaci maggiormente utilizzati nella cura delle problematiche autoimmuni, quali gli agenti steroidei.
Ipotiroidismo
L’ipotiroidismo grave comporta difficoltà nel concepimento e, pertanto, è molto raro durante la gravidanza. Forme meno gravi, se non trattate, portano ad un aumentato rischio di
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Il neonato da madre con patologia autoimmune: danni da malattia o da farmaci?
aborti e di nascite con feti morti attraverso meccanismi ancor oggi non ben chiariti. La diagnosi di ipotiroidismo eseguita durante la gravidanza è comunque rara, ed infatti la maggioranza delle donne con questo problema sono già in terapia con tiroxina (T4) da prima della
gravidanza. C’è però, secondo alcuni studi, uno specifico ipotiroidismo gravidico (autoimmunitario o anche da assunzione subottimale di iodio) che si presenta in circa il 2.5% delle gravidanze e che può accompagnarsi ad un ridotto sviluppo neuropsicologico del neonato e del
bambino, oltre ad essere responsabile di un aumento di complicanze ostetriche.
La disfunzione tiroidea postpartum ha una frequenza piuttosto elevata (5-9%) ed è associata con il riscontro, nel 10% dei casi, degli anticorpi anti tiroide-perossidasi (antiTPO per gli
autori anglosassoni). Lo screening delle eventuali disfunzioni tiroidee dovrebbe essere eseguito, attraverso le misurazioni di T4 e TSH circolanti. Nel caso di ipotiroidismo la levotiroxina
dovrebbe essere somministrata in quanto il T4 è di essenziale importanza per la maturazione del sistema nervoso centrale del feto. Così pure, particolare attenzione va riferita alla assunzione giornaliera di iodio, che dovrebbe essere di 200 mg al giorno.
Gli effetti di un ipotiroidismo anche subclinico possono essere particolarmente deleteri
fin dalle fasi iniziali della gravidanza, infatti il riscontro a 12 settimane di gestazione o della positività anticorpale TPO o di un T4 libero basso si accompagna ad un significativo rischio di
deficit neurologico nel nascituro. Da queste considerazioni derivano importanti implicazioni
sulla eventuale necessità di screening durante la gravidanza.
La sindrome antifosfolipidi (APS)
La sindrome da antifosfolipidi si caratterizza per una combinazione di caratteristiche cliniche che consistono di eventi trombotici o di altri correlati specificatamente al periodo della
gravidanza. Nel 1998 (International Consensus Preliminary Criteria) si sono definiti criteri più articolati che prevedono la coesistenza di specifici eventi clinici insieme alla positività dei test di
laboratorio. Gli anticorpi antifosfolipidi maggiormente implicati nel determinismo di eventi
trombotici sono soprattutto gli anti-betaGP1 e gli anti-protrombina, ma i meccanismi di patogenesi rimangono ancora incerti. Il danno endoteliale che conduce poi alla trombosi sembrerebbe derivare da una azione sinergica tra attivazione del complemento ed anticorpi antifosfolipidi. Aborti spontanei ripetuti, prematurità e pre-eclampsie aumentate, rappresentano
note complicanze della condizione di APS.
La sindrome da antifosfolipidi e rischio di danno cerebrale nel neonato
Sebbene esistano segnalazioni di lesioni cerebrali ischemiche legate alla sola condizione di
310
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Il neonato da madre con patologia autoimmune: danni da malattia o da farmaci?
APS, ci sembra di poter affermare che questa forma di trombofilia acquisita e transitoria rappresenta, grazie ad alcuni studi, un rischio piuttosto basso per lesioni a tipo stroke e trombosi venosa cerebrale. Il discorso si modifica sensibilmente se si considerano in aggiunta alla APS
condizioni di trombofilia congenita.
La più convincente analisi deriva da uno studio multicentrico capitanato dal gruppo di
Ulrike Nowak-Gottl. In questo studio si evidenzia come circa il 70% dei neonati con uno stroke clinicamente identificabile presenti almeno un fattore di rischio protrombotico, in confronto ad una popolazione controllo. Fattori “trigger” aggiuntivi come l’asfissia, la setticemia, il diabete materno, ed una trombosi renale venosa acquisita venivano segnalati nel 54% dei casi.
In questo studio si evince l’origine multifattoriale dello stroke neonatale che comprende fattori di rischio protrombotico, condizioni acquisite o una combinazione di condizioni acquisite e gentiche. Questi autorevoli Autori ritengono che uno studio di screening comprensivo
dei vari fattori protrombotici sia raccomandabile in quei bambini che hanno subito insulti vascolari sintomatici quali lo stroke.
Il nato da madre con anticorpi Anti-Ro/SSA,Anti-La/SSB
Si può arrivare ad avere anche la morte del feto quando sono presenti nel sangue materno anticorpi Anti-Ro/SSA, isolati, o insieme ad anticorpi Anti-La/SSB.Viceversa, la presenza di
una patologia cardiaca non strutturale con “blocco completo” nel secondo trimestre di gravidanza comporta che almeno l’85% delle gestanti con tali feti presenti le già citate anomalie
anticorpali.
La gamma delle differenti anomalie cardiache fetali vanno da una miocardite fetale, ad un
blocco atrioventricolare e all’idrope fetale, prima di esitare nel decesso del feto. È interessante notare che il rischio per il feto è assolutamente indipendente dal fatto che ci sia un Lupus
conclamato oppure no; in altre parole è sufficiente che vi sia la presenza anticorpale. L’aspetto
più interessante però risiede nel rischio che è esclusivo del feto. Nelle gestanti con tale profilo anticorpale non è mai stata riscontrata una patologia cardiaca, suggerendo che questi anticorpi presentano una specifica capacità di “infiammare” il cuore fetale che è in via di sviluppo, ma non un cuore adulto.
La sindrome da “blocco completo congenito” comporta un rischio sostanziale di mortalità (che si aggira intorno al 20%) e di morbilità, con più del 60% dei neonati affetti sopravvissuti che necessitano di pacemakers per il resto dei loro giorni. Con il miglioramento della
ecocardiografia fetale, blocchi di primo e di secondo grado vengono diagnosticati in utero,
aprendo pertanto una finestra di opportunità in merito al potenziale trattamento. Il registro
neonatale del Lupus ha permesso di verificare che il blocco incompleto Atrio Ventricolare può
progredire in età neonatale nonostante l’eventuale rimozione degli anticorpi materni dalla cirGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
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Il neonato da madre con patologia autoimmune: danni da malattia o da farmaci?
colazione neonatale. La sfida culturale maggiore rimane quella della conoscenza dei vari passaggi che iniziano dalla sola presenza di anticorpi, esitando poi in una irreversibile fibrosi del
tessuto cardiaco. Nonostante a livello molecolare si ipotizza che uno dei meccanismi di danno risieda nella apoptosi di alcune linee cellulari cardiache (e che quindi alcuni target possano essere intracellulari) rimane da chiarire come mai la maggioranza dei neonati da madri
con gli specifici anticorpi rimanga clinicamente silente e non presenti alcun blocco AV.
Lupus neonatale
IL Lupus Neonatale è una non comune malattia autoimmunitaria di tipo “passivo”, nel senso che vi è passaggio transplacentare di antiRo/SSA e/o antiLa/SSB. Tra le caratteristiche cliniche vi sono le malattie cardiache, il blocco di branca congenito, lesioni cutanee, e problematiche di ordine ematologico citopenico.
Nel corso degli ultimi anni si è evidenziato come una malattia epato-biliare possa rappresentare una manifestazione del Lupus Neonatale Eritematoso. Poiche la malattia è per definizione data dal passaggio di anticorpi materni non è difficile immaginare che sia uno stato patologico transitorio e non permanente. Purtroppo però la forma cardiaca può essere fatale
oppure invalidante per tutta la vita.
Farmaci/steroidi
Durante la gravidanza, la farmacocinetica dei cortisteroidi cambia, ma è noto che i corticosteroidi non sono teratogeni. Diffuse esperienze cliniche suggeriscono una assenza di anomalie in quei neonati da madri trattate con usuali dosi di prednisone e prednisolone durante tutta la gravidanza, sebbene, tali farmaci, siano stati imputati dell’aumento del numero di
rotture premature delle membrane e di neonati di basso peso. Betametasone e dexametasone sono utilizzati per trattare il feto.
Nel complesso la terapia con corticosteroidi durante la gravidanza viene considerata appropriata per controllare malattie materne di tipo autoimmune; per trattare una cardite fetale da Lupus e per indurre maturazione polmonare fetale al di sotto delle 34-32 settimane di
gravidanza. Molti studiosi del settore ritengono che gli effetti negativi delle già citate malattie
immunitarie sulla crescita fetale e sullo sviluppo in genere, siano altamente più dannosi dell’eventuale danno da somministrazione di farmaci nella madre.
Pur se esula dalle finalità di questo breve trattato è noto che l’uso di ripetute dose di steroidi prenatali, al fine di promuovere la maturazione polmonare, comporta elevati rischi di
compromissione del normale sviluppo dell’encefalo.
312
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Il neonato da madre con patologia autoimmune: danni da malattia o da farmaci?
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
313
24
PATOLOGIA AUTOIMMUNE
ASPETTI ECOGRAFICI FETALI
NELLE PATOLOGIE AUTOIMMUNI
R. Natale,T. Stampalja, M. Zanette, S. Inglese, M.Vessella, R.Tercolo
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
Introduzione
Le patologie autoimmunitarie, definite anche malattie da immunocomplessi, comprendono un gruppo di patologie non organo specifiche che possono causare un quadro clinico generalizzato. La caratteristica principale di tali patologie è la presenza di autoanticorpi che determinano alterazioni immunopatologiche soprattutto del tessuto connettivo e vascolare. Ne
consegue un’infiammazione “sterile” dei tessuti colpiti come reni, vasi, articolazioni e cute. Gli
autoanticorpi provocano distruzione dei tessuti sia con meccanismo diretto, citotossico, sia
mediante la deposizione di immuno-complessi, situazione in cui il complesso antigene-anticorpo stesso attacca il tessuto suscettibile.
È caratteristica delle patologie autoimmuni la predominanza di soggetti di sesso femminile tra i malati adulti (ratio donna/uomo 8-10:1), che decresce tra gli anziani (ratio donna/uomo 5-7:1); da ciò si evince come la donna in età fertile rappresenti circa il 70-75% dei casi
affetti1. La donna con patologia autoimmune, quindi, si trova a voler pianificare o ad iniziare la
gravidanza e la patologia di base rappresenta un rischio oggettivo per gli effetti che può avere direttamente sul feto. Fino a qualche anno fa in questi casi si sconsigliava alla donna di intraprendere la gravidanza e si proponeva addirittura l’aborto “terapeutico”, nei casi in cui questa fosse già iniziata. I progressi compiuti nella conoscenza dei meccanismi patogenetici di tali eventi morbosi, insieme al perfezionamento delle metodiche diagnostiche, ma soprattutto
lo sforzo multidisciplinare nella gestione di queste gravidanze, permettono oggi di portare a
termine la gravidanza con successo in numerosi casi.
Non è chiaro se queste patologie subiscano sempre un peggioramento durante la gravidanza, ma il drastico incremento ormonale tipico di tale condizione certamente influenza
l’espressione e la progressione di tali patologie. Wegmann ha suggerito che l’unità feto-placentare indirizza il sistema immunitario materno verso una risposta umorale mediata da citochine e altri mediatori dell’infiammazione quali per esempio le prostaglandine; gli ormoni,
soprattutto il progesterone ed il 17-beta-estradiolo, sono stati studiati come mediatori capaci di modulare squilibri tra cellule Th1/Th2 contro citochine anti-infiammatorie durante la gravidanza2.
Il lupus eritematoso sistemico (LES) è una delle patologie autoimmuni multisistemiche più
314
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
comuni nella donna (rapporto donna/uomo 9:1) ed è spesso presente in associazione con la
sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS). Rappresenta, inoltre, la patologia autoimmune più
frequente in gravidanza ed è responsabile di outcome riproduttivo sfavorevole, soprattutto
quando associato ad APS, potendo causare aborto, morte endouterina, parto pre-termine,
blocco cardiaco atrio-ventricolare congenito e restrizione della crescita intrauterina (IUGR).
Non è stato ancora chiarito un nesso causale tra il peggioramento degli esiti feto-neonatali e
la fase più o meno attiva della malattia, ma di sicuro il meccanismo patogenetico della patologia autoimmunitaria (deposito di immunocomplessi con conseguente vasculopatie e vasculiti) è legato alla compromissione fetale.
La maggior parte delle malattie autoimmuni sono caratterizzate dalla presenza di autoanticorpi circolanti; alcune, come il LES, presentano un’ampia varietà di autoanticorpi (più di 100
tipi di complessi antigene - anticorpo ), altre, invece, sono caratterizzate dal singolo autoanticorpo marker3. Nelle pazienti affette dal LES gli anticorpi anti-nucleo sono presenti in oltre il
90%, Ac anti-DNA, Ac anti-istone e anti-eritrociti nel 60-70%, Ac anti-Sm e Ac anti-RNP nel
40%, Ac anti-Ro-SS-A nel 30% e Ac anti-La-SS-B nel 10% dei casi.Tra questi sono considerati responsabili diretti di outcome negativo gli Ac anti-Ro-SS-A e Ac anti-La-SS-B che determinano il blocco cardiaco feto-neonatale e gli Ac anti-fosfolipidi, in particolare lupus anti-coagulant, anti-cardiolipina e anti-beta-2 glicoproteina che causano trombosi venose e arteriose.
Il passaggio trans-placentare di anticorpi materni può causare una rara sindrome, il lupus
feto-neonatale, caratterizzata da blocco cardiaco atrio-ventricolare (BAV), lesioni cutanee e,
meno frequentemente, trombocitopenia, anemia e epatite. Da ricordare che se la maggior
parte di questi segni scompare nei primi sei mesi di vita, il BAV è irreversibile. L’origine del
BAV nelle patologie autoimmuni materne si fonda sul passaggio trans-placentare precoce di
anticorpi materni anti-Ro-SS-A e anti-La-SS-B, i cui antigeni bersaglio sono stati identificati in
tre proteine: 52KD Ro, 50 KD Ro e 48 KD La3.
La manifestazione clinica del LES materno non è un prerequisito per l’insorgenza del lupus feto-neonatale. Quest’ultimo rappresenta forse la forma più grave di malattia autoimmune acquisita che può insorgere in gravide positive per autoanticorpi circolanti (fase latente).
Similmente è stato osservato che nelle madri asintomatiche la positività per gli autoanticorpi aPLA, associati al LES, rappresenta il miglior fattore predittivo di insuccesso ostetrico4.
La sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi (APS) è caratterizzata da manifestazioni cliniche
diverse, legate a trombosi arteriose e venose e titolo elevato di anticorpi anti-fosfolipidi
(aPLA), un gruppo eterogeneo di anticorpi; in circa il 40% dei casi tale sindrome è presente
contemporaneamente nelle pazienti con LES. Criteri di classificazione clinici della APS includono trombosi vascolari e aborto ricorrente, che tipicamente avviene dopo la decima settimana di gravidanza, al contrario di ciò che avviene nella popolazione generale. La presenza di
anticorpi anti-cardiolipina (aCL) e la positività per lupus anti-coagulant (LAC) rappresentano,
invece, i criteri di classificazione di laboratorio della sindrome5.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
315
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
È stata provata la stretta associazione tra la presenza di questi anticorpi e la vasculopatia
deciduale, gli infarti placentari, lo IUGR, la pre-eclampsia e la perdita fetale ricorrente.
Altre malattie autoimmuni chiamate in causa meno frequentemente, ma con effetti patologici feto-neonatali simili, sono la sindrome di Sjogren, la tiroidite autoimmune, l’artrite reumatoide, la sclerosi sistemica progressiva e la sclerodermia.
Le premesse etiopatogenetiche sono necessarie a chiarire quali dei danni fetali, provocati dalle patologie autoimmuni materne, è possibile diagnosticare durante la vita intrauterina.
Blocco atrio-ventricolare (BAV)
L’incidenza del BAV è stimata in 1 su 15000-22000 nati vivi6,7.
Il rischio per il feto di avere un BAV, quando la madre presenta una patologia autoimmune, è di 1:60, ma aumenta a 1:20 se sono presenti in circolo anticorpi anti-Ro-SS-A17; il BAV
si riscontra nel 3.6% dei neonati da madri affette da LES, con una predilezione per il sesso
femminile8.
La mortalità complessiva dei feti con BAV associato alla presenza di autoanticorpi materni arriva 11-20%5,6,14,15,16,19.
Il rischio di ricorrenza di BAV dopo un primo figlio affetto è stato osservato da diversi
Autori in una percentuale compresa tra il 10% e il 40%9. Il rischio relativo (RR) per le madri
risultate positive per la presenza di autoanticorpi circolanti si aggira intorno allo 0.5%.
Embriologia
Il ritmo del cuore origina a livello del nodo seno-atriale, situato in atrio destro, che compare nella vita embriogenetica verso la sesta settimana di amenorrea; dalle cellule di tale struttura partono impulsi che si propagano all’atrio e al nodo atrio-ventricolare attraverso fasci di
tessuto specializzato, intorno all’ottava settimana. L’attivazione elettrica si trasmette attraverso il tronco comune del fascio di His alle branche destra e sinistra e, infine, alle fibre ventricolari cardiache. L’unione del nodo con il fascio di His si completa verso la decima settimana. Un’anomalia a livello di questa giunzione può generare BAV. Gli anticorpi materni danneggiano il miocardio provocando flogosi, fibrosi e un danno irreversibile, dato da calcificazioni
che sostituiscono il nodo atrio-ventricolare.
Il passaggio degli anticorpi materni avviene solitamente intorno alla sedicesima settimana
di gravidanza; questo è un periodo cruciale dal punto di vista embriologico, in quanto è il momento in cui il fascio atrio-ventricolare di His comincia l’azione di connessione funzionale; modelli sperimentali hanno scoperto che il trasferimento di anti-SS-A, con o senza anti-SS-B av316
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
viene per endocitosi a livello delle cellule trofoblastiche. Alterazioni della frequenza cardiaca
fetale sono associate nel 50% di gestanti con positività per anticorpi antifosfolipidi12.
Gli anticorpi fissati sugli antigeni del cuore fetale inducono citotossicità diretta con reazione infiammatoria linfocitaria. Parallelamente gli stessi anticorpi interferiscono con il trasporto
del calcio e del potassio, creando un’alterata ripolarizzazione ventricolare10. Recentemente è
stata dimostrata, mediante ibridizzazione con fluorescenza in situ (FISH) la presenza di cellule materne nel miocardio fetale11; tale dimostrazione proverebbe l’esistenza di una condizione di microchimerismo, cioè di contemporanea presenza in un organo, di linee cellulari geneticamente differenti, materne e fetali, fenomeno riscontrabile anche nelle trasfusioni ematiche
e nei trapianti d’organo.
In alcuni casi il BAV è associato fibroelastosi endocardica (EFE), una rara forma di fibrosi
del miocardio, ancora poco conosciuta che consiste in un’iperplasia del collagene e dell’elastina ed in un diffuso ispessimento dell’endocardio che spesso progredisce fino all’ultimo stadio dell’insufficienza cardiaca congestizia ed alla morte feto-neonatale. Sebbene il BAV può
essere associato ad EFE sono riportati casi in cui tale quadro era isolato ed associato ad anti-RO e anti-La materni in assenza di BAV13.
Diagnosi
La diagnosi di BAV viene posta in presenza di bradicardia fetale e dissociazione tra frequenza atriale e ventricolare, con quest’ultima inferiore rispetto a quella atriale.
La metodica diagnostica di scelta è rappresentata dall’ecocardiografia fetale.
Con la visualizzazione bidimensionale ad alta risoluzione, l’M-mode, il Doppler pulsato ed
il color Doppler è possibile precisare l’anomalia del ritmo e l’eventuale influenza emodinamica sul feto. Il ruolo dell’ecocardiografia nella diagnosi delle aritmie fetali è quindi quello di valutare le conseguenze emodinamiche del disturbo elettrofisiologico.
La valutazione ecocardiografica inizia con un completo studio bidimensionale del cuore
fetale per escludere l’eventuale presenza di anomalie cardiache strutturali. Partendo sempre
dalla scansione delle quattro camere cardiache, particolare attenzione deve essere data alla
posizione ed al diametro delle camere stesse, alla loro funzionalità, oltre che alla presenza o
assenza dell’idrope fetale. L’esame in M-mode deve sempre seguire l’esame bidimensionale. Il
cursore viene posizionato preferenzialmente sulle pareti atriale e ventricolare in modo da valutare simultaneamente la loro attività e di seguire accuratamente l’evoluzione temporale di
questi eventi. Nei feti con BAV si osserverà una dissociazione tra le contrazioni atriali e quelle ventricolari. La classificazione del BAV distingue I, II e II grado.
La diagnosi di BAV di I grado è puramente elettrocardiografica e, pertanto, può essere formulata solo dopo la nascita.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
317
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
Il BAV di II grado può essere diagnosticato anche in utero e consiste nella determinazione
di una frequenza atriale regolare e una conduzione ventricolare di 2:1, quindi una bradicardia
episodica.
Il BAV di III grado o completo, infine, consiste nella completa dissociazione tra le contrazioni atriali e ventricolari, con frequenza atriale regolare e bradicardia ventricolare18.
L’esame con il Doppler pulsato e color Doppler permette di valutare l’impatto dell’aritmia sull’emodinamica fetale. Quando il BAV è tale da compromettere la funzionalità cardiaca nonché l’emodinamica fetale, il feto può andare incontro ad uno scompenso cardiaco congestizio. Quest’ultimo si manifesta con una dilatazione delle camere cardiache ed una loro scarsa contrattilità, con reflusso atrio-ventricolare e si associa spesso con idrope fetale (versamento pleurico e pericardio, ascite, ispessimento della cute).
La diagnosi di cardiomegalia viene effettuata calcolando il rapporto tra la circonferenza
cardiaca (CC) e quella toracica (TC). Il normale rapporto CC/TC deve essere circa 0.5. Il versamento pericardico viene diagnosticato quando il cuore appare circondato da un anello ipoecogeno di almeno 2 mm di spessore.
Il reperto ecografico dell’EFE è quello della dilatazione del ventricolo (in genere sinistro),
con idrope fetale, mentre l’endocardio appare fortemente iperecogeno. Relativamente allo
spessore ed all’estensione del miocardio coinvolto, ecograficamente l’EFE può essere classificata di grado minimo, moderato e severo.
Secondo diversi Autori la prognosi per i feti con BAV dipende dalla frequenza atriale e
ventricolare, oltre che dall’eventuale presenza d’idrope fetale. I feti che hanno una frequenza
ventricolare >55 bpm e una frequenza atriale > 120 bpm, senza segni d’idrope, hanno prognosi favorevole14-16,19. Qualora la frequenza ventricolare scenda sotto 55 bpm si ha frequentemente l’insorgenza d’insufficienza cardiaca congestizia e d’idrope fetale20. Contrariamente,
in un recente lavoro21, Berg pur non osservando un’associazione tra l’abbassamento della frequenza ventricolare e l’insorgenza dell’idrope fetale con un outcome sfavorevole, concorda
con gli altri Autori che il rapporto CC/TC > 0.61 costituisca un segno prognostico sfavorevole.
Management e terapia
L’espressione clinica del BAV è ad ampio spettro, potendo mantenersi un compenso emodinamico e, quindi uno stato fetale stazionario, o svilupparsi un’insufficienza cardiaca congestizia. In alcune pazienti positive per anti-Ro-La è stata osservata nei feti la progressione da
una normale conduzione atrio-ventricolare ad un completo blocco cardiaco in meno di 11
giorni. Questo indica che nelle pazienti note per positività anticorpale, oltre ai controlli nel
primo trimestre ed una precoce valutazione ecocardiografica tra 14-16 settimane, il monito318
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
raggio ecocardiografico dovrebbe essere settimanale nel periodo di maggiore rischio (18-25
settimane di gestazione)22.
Il trattamento del BAV è un processo complesso che richiede un approccio multidisciplinare. Il trattamento di ciascun caso deve essere individualizzato, per soddisfare le necessità
del feto e della madre. Fino ad oggi vari tipi di terapie sono stati proposti nel trattamento di
BAV associato a malattia autoimmune: somministrazione di beta-agonisti (salbutamolo o isoprenalina) ad effetto isotropo e cronotropo positivo, digossina ad effetto isotropo positivo,
corticosteroidi e/o plasmaferesi per limitare la severità del processo infiammatorio e l’impianto del pacemaker fetale. Ma nessuno di questi protocolli è stato dimostrato essere inequivocabilmente efficace. Nella scelta del farmaco si deve tener conto anche dello stato emodinamico del feto ed in presenza di idrope fetale occorre essere più aggressivi e tentare di ottenere un risultato entro tempi brevi.
I dati della letteratura riportano l’utilizzo dei simpaticomimetici nel BAV secondo vari schemi con l’ottenimento nella maggior parte dei casi di un aumento della frequenza atriale e ventricolare fetale14,23,24, nonché la risoluzione dell’idrope in alcuni casi23,25 senza però ottenere un
miglioramento dell’outcome a lungo andare26. Questo effetto contraddittorio può essere spiegato con due motivazioni. In primo luogo bisogna essere consapevoli che l’aumento della frequenza atriale e ventricolare non ripristina la coordinazione della conduzione atrio-ventricolare dalla quale dipende un adeguato riempimento diastolico e la gittata cardiaca. In secondo
luogo è da considerare che alcuni studi prospettici hanno dimostrato che il BAV diagnosticato in utero può convertirsi spontaneamente senza l’ausilio terapeutico in ritmo sinusale o ad
un blocco di grado minore27. Di conseguenza la maggior parte degli Autori mette in dubbio
l’efficacia di tale gruppo di farmaci nel trattamento di BAV e ne consiglia l’utilizzo nei casi di
severa bradicardia fetale23. Non da trascurare sono anche gli effetti collaterali materni della
terapia a lungo termine con i beta-simpaticomimetici come l’ischemia miocardiaca e l’edema
polmonare28.
La digossina ha proprietà antiaritmiche e antiscompenso, potendo in alcuni casi determinare un miglioramento o la risoluzione del versamento pericardico29, ma non un miglioramento della frequenza ventricolare. Da sottolineare che la farmacodinamica della digitale in gravidanza è caratterizzata da un’eliminazione più rapida del farmaco. Nel corso della terapia materno-fetale con digitale occorrono controlli ripetuti della digossinemia e dell’ECG materni,
per sorvegliare l’effetto del farmaco.
Rimane ancora controverso l’utilizzo dei corticosteroidi nelle pazienti positive per anti-AAa-Ro e/o anti-SS-B-La. A scopo terapeutico o preventivo dello sviluppo del blocco cardiaco
vengono usati: prednisone, prednisolone, betametasone e desametasone. Il cortisolo materno viene convertito in cortisone da 11beta idrossi steroido deidrogenasi (11ß-HSD) per proteggere il feto da alte concentrazioni di steroidi materni30. Anche il prednisone e prednisolone vengono largamente convertiti in metaboliti inattivi da 11ß-HSD, cosi che solo circa 12%
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
319
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
del farmaco raggiunge la circolazione fetale nella sua forma attiva31. Il betametasone e desametasone somministrati alla madre vengono scarsamente metabolizzati dalla placenta e passano prontamente nella circolazione fetale32.
La somministrazione profilattica degli steroidi a partire dalle epoche gestazionali precoci
potrebbe prevenire il danno infiammatorio al sistema di conduzione cardiaco fetale causato
da anti-SS-A/Ro e/o anti SS-B/La.
L’utilizzo di prednisone e prednisolone a scopo preventivo è discutibile causa la bassa percentuale del farmaco che raggiunge nella sua forma attiva il feto. Nella recente rewiev di Breur
e coll. è stato analizzato il tasso di successo dell’utilizzo della terapia corticosteroidea a scopo preventivo. Di 43 feti 29 erano a rischio moderato (5% d’incidenza di blocco cardiaco nelle pazienti positive per anti-SS-A-Ro e/o anti-SSB-La) di cui 8/29 (28%) svilupparono il blocco cardiaco durante la gravidanza. Dei rimanenti 14 feti che erano ad alto rischio per il blocco cardiaco (16% d’incidenza di blocco cardiaco nella pazienti positive per anti-SS-A-Ro e/o
anti-SS-B-La con gravidanza precedente complicata dal blocco cardiaco) nessuno sviluppò il
blocco cardiaco totale. È da sottolineare che in 40 di questi feti è stato usato il prednisolone
o prednisone. Solo in 3 casi è stato usato il desametasone e nessuno di questi ha sviluppato
il blocco cardiaco33.
Nella stessa rewiev gli Autori concludono che nei feti in cui il blocco cardiaco si è già sviluppato, la somministrazione materna dei corticosteroidi è inefficace33. Il trattamento del blocco di minore entità ha ottenuto in alcuni casi un miglioramento del quadro clinico, anche se
tale miglioramento si potrebbe verificare anche in assenza di terapia. Questo suggerisce che
anche in questo gruppo di feti l’efficacia del trattamento corticosteroideo è discutibile33.
Contrariamente l’efficacia del trattamento con betametasone e/o desametasone è stata
provata nei casi con cardiomiopatia dilatativa, condizione ad alto rischio di mortalità associata al blocco cardiaco fetale34.
La somministrazione materna degli steroidi tuttavia non è priva di rischi per il feto. IUGR
e oligoamnios sono stati associati a tale terapia35,36. Studi sugli animali hanno inoltre dimostrato crescita cerebrale fetale ristretta, alterazioni dell’asse ipotalamo-pituitario-surrenalico e del
sistema immunitario, nonché alterazioni della morfologia placentare35,36.
Dai dati attualmente disponibili in letteratura si può dedurre che l’efficacia della terapia
steroidea materna non è stata provata nella prevenzione o trattamento del blocco cardiaco
fetale, comunque il suo utilizzo potrebbe essere considerato nella prevenzione o modulazione dell’infiammazione miocardica, mentre inefficacie nei casi di blocco completo (blocco di III
grado)22.
L’unica terapia reale è rappresentata dall’impianto post-natale di un pace-maker, sebbene
sia stato tentato il pacing trans-toracico durante la vita fetale. Il management generale dipende dall’età gestazionale e dalla maturità polmonare con possibilità di anticipare il parto per il
tempestivo impianto del pace-maker.
320
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
Alterazioni della placenta e del liquido amniotico
Uno dei target degli autoanticorpi materni, e soprattutto degli anticorpi antifosfoloipidi
(aPL), è la placenta. Nonostante l’esame istopatologico dipende anche dall’epoca gestazionale, le alterazioni placentari maggiori riscontrabili nelle pazienti positive per aPL sono: trombosi, arterosi acute, diminuito numero di membrane sincizio-vascolari, aumentato numero di nodi sinciziali e arteriopatia obliterativa. Queste lesioni non sono specifiche per la sindrome antifosfolipidi (aPL) e a volte non correlano con l’outcome fetale53.
Ecograficamente la placenta nella gravidanza con patologia autoimmune materna spesso
appare di dimensioni ridotte, con iperecogenicità diffuse o focali, accentuazione della lobatura e la presenza di lacune anecogene.Tali alterazioni ecografiche sono da imputare a modificazioni ischemiche ed ipossiche, vasculopatia deciduale e presenza di trombi37.
Oligoamnios è associato spesso alle altre complicanze ostetriche.
Minaccia di parto pre-termine
Nelle gravidanze complicate da LES in fase attiva l’incidenza di parti pretermine risulterebbe significativamente elevata, in modo particolare nelle gravide che assumono alte dosi di
prednisone38,39.
Da un punto di vista ecografico è ancora dibattuto il valore della misura della lunghezza
del canale cervicale (cervicometria), come segno precoce di parto pretermine, anche se il reperto ecografico di svasamento del canale (“funneling“) in pazienti ad alto rischio ha sicuramente un peso nella gestione clinica del caso.
Restrizione della crescita fetale (IUGR)
Una restrizione della crescita fetale intrauterina (IUGR) è comune in donne gravide affette da malattie autoimmunitarie riscontrandosi dal 12% al 32%. In due studi prospettici40,41 IUGR
è stato riscontrato rispettivamente nel 23% e 18% di gravidanze complicate da LES seguite a
partire dalla ventesima settimana, comparate con gruppi di controllo; i risultati di tali studi hanno evidenziato come un esame ultrasonografico eseguito entro le 5 settimane dal parto, prevede lo IUGR con buona accuratezza, definendo la restrizione della crescita fetale come circonferenza addominale AC < 10th percentile.
L’individuazione dei feti a rischio di sviluppare una restrizione di crescita rappresenta uno
dei maggiori obbiettivi della medicina perinatale: il percentile del peso alla nascita è inversamente correlato alla mortalità perinatale42,43 e la maggior quota di esiti neonatali sfavorevoli
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
321
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
si verifica nei feti con restrizione di crescita in utero e basso peso alla nascita44: morte neonatale, emorragia intraventricolare e leucomalacia peri-ventricolare ed altre lesioni neonatali
correlate all’eventuale prematurità.
Aspetti flussimetrici fetali delle malattie autoimmuni
Circa il 25% delle gravidanze in donne affette da LES è complicato da pre-eclampsia45. La
causa dell’aumentata incidenza di pre-eclampsia potrebbe essere legata alla sottostante patologia renale46. Distinguere tra un’esacerbazione del LES che coinvolge anche una nefrite attiva e la pre-eclampsia è difficile in quanto entrambi questi quadri si possono presentare con
proteinuria, ipertensione e l’evidenza di una disfunzione multi-organo.
Circa il 50% delle donne con la sindrome antifosfolipidi sviluppa la pre-eclampsia, che può
instaurarsi già a partire dalla 15a settimana, o un’ipertensione ingravescente47,48. In circa 10%
delle donne con l’instaurarsi precoce della pre-eclampsia (prima delle 34 settimane) si possono riscontrare anticorpi antifosfolipidi.
In entrambi i casi il quadro si può associare anche alla presenza di una restrizione di crescita fetale.
Nelle gravidanze complicate da LES materno, un aumento della resistenza nelle arterie
ombelicali è associato all’aumentato rischio di pre-eclampsia e IUGR. Kerslake et al. riportano che l’assenza del flusso diastolico nell’arteria ombelicale è un buon predittore della necessità di espletare il taglio cesareo nelle pazienti normotensive49. Non è ancora stato del tutto
chiarito se nelle pazienti con LES aumenta la resistenza al flusso nelle arterie uterine. Negli
studi di Weineret al. e Guzman et al. tale associazione non era statisticamente significativa50,51.
Gli Autori osservarono però che la presenza di resistenze aumentate nelle arterie uterine si
associava ad un’aumentata incidenza di restrizione di crescita e/o un outcome avverso.
La sindrome da anti-fosfolipidi è caratterizzata dalla trombosi dei vasi utero-placentari e
dall’infarcimento placentare.
Ci sono alcune evidenze che dimostrano che nelle gravidanze con sindrome anti-fosfolipidi un aumento dell’indice di resistenza (RI) nelle arterie uterine identifica i casi che successivamente svilupperanno pre-eclampsia e IUGR. Caruso et al. riportano che l’identificazione
di un aumento di RI delle arterie uterine tra 18 e 24 settimane di gravidanza rappresenta un
buon indice predittivo della pre-eclampsia e della restrizione della crescita fetale52. In questo
senso il quadro clinico dello studio con Doppler nelle gravidanze con anti-fosfolipidi potrebbe essere simile a quello che caratterizza l’insufficienza placentare, causata dall’inadeguata invasione trofoblastica delle arterie spirali. Similmente alla LES anche in questa sindrome lo sviluppo della pre-eclampsia e dello IUGR è nella maggior parte dei casi preceduto da un aumento delle resistenze nell’arteria ombelicale.
322
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Aspetti ecografici fetali nelle patologie autoimmuni
Conclusioni
La risposta alla domanda iniziale di cosa cercare ecograficamente nella gravidanza con patologia autoimmune, deve essere differenziata in due possibili evenienze: la prima riguarda la
donna nella quale si conosce la positività per gli autoanticorpi che inizia la gravidanza e che
dovrà pertanto essere monitorizzata cercando gli indizi delle molteplici alterazioni che la sua
patologia può provocare al feto. Una proposta di protocollo potrebbe pertanto prevedere:
8 settimane: verifica di vitalità embrionale (BCE)
12 settimane: conferma BCF e misurazione della
translucenza nucale (NT)
14-15 settimane: valutazione delle 4 camere e FHR
18-25 settimane: controllo settimanale di FHR
20-22 settimane: ecocardiografia
(M mode, Color e Pulsed Doppler)
flussimetria delle aa uterine
25 settimane: FHR/biometria/valutazione LA
flussimetria dei distretti fetali
flussimetria aa utrine
ogni 2 settimane: FHR/biometria/valutazione LA
flussimetria
34 settimane: FHR/biometria/flussimetria
profilo biofisico/CTG
fino a termine controllo settimanale:
FHR/biometria/flussimetria/profilo biofisico NST
aPS > poliabortività
nelle pazienti con LES sono riportati falsi
positivi al “triplo test” per s. di Down
diagnosi di BAV/EFE
periodo di maggior rischio per
l’insorgenza di BAV
diagnosi di BAV;
esclusione di anomalie strutturali cardiache
aumento di RI e/o notch in aa uterine
diagnosi o monitoraggio BAV
diagnosi IUGR precoce
Nel caso in cui la diagnosi di BAV venga fatta occasionalmente, in qualsiasi epoca di gravidanza, la paziente dovrà essere sottoposta ad indagini del pattern anticorpale, dovrà essere
rapidamente istaurata la terapia e programmati controlli ecografici molto ravvicinati (7-8 giorni), per il possibile peggioramento della bradicardia e la possibile insorgenza di segni di scompenso cardiaco, che possono anticipare l’espletamento del parto.
È raccomandabile che in caso di diagnosi di BAV la paziente sia inviata in un centro di riferimento, in cui sia possibile la gestione multidisciplinare del caso; solo la fusione delle competenze in ambito ostetrico, ecografico, cardiologico, neonatologico ed immunologico possono culminare in un esito favorevole della gravidanza.
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GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
325
25
PATOLOGIA AUTOIMMUNE
GESTIONE CLINICA
DELLA GRAVIDA
CON PATOLOGIA AUTOIMMUNE
N. Santangelo,V. Soini, S. Inglese, M.Vessella, E. Filippi, S. Smiroldo
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, IRCCS Burlo Garofolo - Trieste
I recenti progressi della scienza medica hanno trasformato sostanzialmente la gestione delle gravidanze complicate da malattie autoimmuni sistemiche; oggi le possibilità di iniziare e portare a termine con successo una gravidanza in donne con patologia autoimmune sono di gran
lunga maggiori che in passato. L’esito della gravidanza in queste pazienti è condizionato dai rischi particolari legati alle malattie stesse o dalle conseguenze sullo sviluppo del feto. In un passato non molto lontano era relativamente poco frequente che donne con malattia autoimmune sistemica pianificassero delle gravidanze. Lo sforzo di questi ultimi 20 anni è stato quello di identificare e, quando possibile, di prevenire, nell’ambito di questa patologia, le cause di
insuccesso ostetrico e cioè di aborto, morte endouterina del feto, prematurità e patologia
neonatale1.
L’elemento determinante per il buon esito della gravidanza in una donna con malattia autoimmune è uno stretto controllo della patologia, sia prima del concepimento che durante
l’intera gestazione, attraverso terapie adeguate e un’attenta valutazione della crescita e del
benessere fetale, programmando le modalità e i tempi del parto. È evidente che l’assistenza
alla donna debba essere fornita da un team multidisciplinare, che dovrebbe includere un’équipe ostetrica dedicata, un reumatologo esperto nel trattamento durante la gravidanza, un ematologo per la gestione delle possibili complicanze trombofiliche, un neonatologo e poi un pediatra che conosca e sappia affrontare i particolari problemi che possono insorgere in un neonato; un cardiologo pediatrico qualora insorgessero complicanze nel feto legate agli anticorpi anti-Ro.
Malattie autoimmuni che determinano una condizione di gravidanza a rischio
1. Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
2. Connettiviti
Artrite reumatoide
Lupus eritematoso sistemico
326
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Sclerosi sistemica diffusa e limitata
Sindrome di Sjögren
Connettivite mista (MCTD)
Connettivite indifferenziata (UCTD)
Polimiosite/dermatomiosite
Policondrite recidivante
3. Vasculiti
Arterite di Takayasu
Granulomatosi di Wegener
Poliarterite nodosa
Sindrome di Churg-Strauss
Poliangiite microscopica
Porpora di Henoch-Schönlein
Crioglobulinemia mista “essenziale”
Il monitoraggio delle malattie autoimmuni in gravidanza
Le pazienti gravide con malattie reumatiche autoimmuni necessitano di una particolare assistenza in gravidanza in quanto è necessario tenere sotto stretto controllo il loro stato di salute con un regime terapeutico che non sia dannoso per lo sviluppo del feto2.
La gestione di queste gravidanze va pertanto affidata ad un team di medici che mettono
insieme diverse competenze. Il reumatologo che si occupa di queste patologie deve lavorare al fianco di ostetrici che abbiano esperienza in gravidanze “ad alto rischio”. Dopo la nascita del bimbo è poi indispensabile la presenza di un pediatra con competenze specifiche, soprattutto in caso di parto pretermine, per garantire al bambino la migliore assistenza.
Alcune malattie autoimmuni si associano ad una maggiore frequenza di complicazioni gravidiche o neonatali. Rappresentano condizioni di rischio importante le malattie autoimmuni
con presenza di anticorpi antifosfolipidi o anticorpi anti Ro/SS-A. I primi si associano, nelle pazienti non trattate, ad un’elevata percentuale di aborti o perdite fetali, i secondi si associano,
in una percentuale molto bassa di casi, al “lupus neonatale”3, un quadro clinico generalmente
transitorio ma che può includere blocco cardiaco congenito. Alcuni tipi di malattie autoimmuni possono essere negativamente influenzate dalla gravidanza. Questo può essere il caso
del lupus eritematoso sistemico, quando non adeguatamente trattato e monitorato durante
la gestazione4.
Si può considerare a basso rischio una gravidanza con malattia in remissione stabile, in assenza di danno d’organo. La gravidanza è a rischio medio/alto se la malattia non è in remisGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
327
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
sione, in presenza di nefropatia proteinurica o insufficienza renale, in presenza di ipertensione significativa, di trombofilia o di precedente patologia ostetrica.
I principali rischi materni sono correlati a:
- Possibilità di riattivazione della malattia
- Ipertensione e sue conseguenze
- Aggravamento di nefropatia e insufficienza renale
- Trombofilia
I principali rischi fetali sono correlati a:
- Insufficienza placentare
- Danni da farmaci
In considerazione di questi rischi, un ambulatorio dedicato è fondamentale nella gestione
delle gravidanze complicate da malattie autoimmuni. Il counselling preconcezionale riveste in
questo campo una importanza decisiva sull’esito gravidico. La gravidanza andrebbe infatti programmata in fase di remissione della malattia da almeno 3 mesi. Compito del reumatologo è
di indicare alla donna il momento più opportuno per iniziare una gravidanza, e sconsigliarla o
procrastinarla ed eventualmente suggerire di ricorrere ad un valido metodo contraccettivo
quando la malattia è attiva o quando la paziente deve assumere farmaci per il controllo della malattia che potrebbero risultare teratogeni per il feto. I farmaci teratogeni vanno sostituiti almeno 3 mesi prima del concepimento, non semplicemente sospesi per il rischio di riattivazione della malattia. Nelle ipertese gli ACE inibitori vanno sostituiti con un’altra classe di
farmaci per il rischio di tossicità fetale. Nelle pazienti trattate con anticoagulanti orali questi
vanno sospesi appena noto lo stato gravidico, e comunque entro la 10a settimana. Le pazienti con artrite reumatoide, pur non essendo generalmente soggette a particolari rischi in gravidanza, assumono trattamenti spesso non compatibili con la gravidanza, per cui risulta necessario, prima del concepimento, un opportuno aggiustamento terapeutico.
Il calendario delle visite per le pazienti con malattie autoimmuni è abbastanza stretto, tuttavia ciò è reso necessario dalla complessità della patologia.
A scadenza mensile va effettuato un controllo:
- laboratoristico
- internistico/immunologico
- ostetrico.
Il controllo dei valori pressori va effettuato ogni 2 settimane, nei primi tre mesi, e dal 4
mese ogni settimana a domicilio, o quotidianamente se insorgono problemi. Il monitoraggio
ostetrico prevede la valutazione della crescita fetale, da effettuarsi mensilmente dalle 18-20
settimane, ed ogni 2 settimane dalla 32a settimana; inoltre l’identificazione di una condizione
328
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
di insufficienza placentare prevede l’esecuzione della velocimetria Doppler dell’arteria ombelicale dalle 20-24 settimane. La gestione ottimale prevederebbe che una paziente vista dal reumatologo abbia la possibilità, se lo richiede la sua situazione, di essere valutata, nella stessa occasione, anche dall’ostetrico e viceversa; nella stessa giornata è poi auspicabile che la paziente possa effettuare esami di laboratorio, inclusi quelli della coagulazione. Gli esami strumentali ostetrici, che di solito hanno un loro calendario, possono essere effettuati estemporaneamente, se ritenuti necessari al momento della visita.
Il monitoraggio delle pazienti non si esaurisce con il parto. L’ultima visita in ambulatorio
va effettuata circa un mese dopo la nascita, per escludere che non siano insorte complicazioni nel puerperio.
IL LABORATORIO NELLE MALATTIE AUTOIMMUNI
Durante la gravidanza le donne affette da malattie autoimmuni devono eseguire frequenti controlli laboratoristici. Gli esami fondamentali nelle malattie autoimmuni in gravidanza includono l’emocromo con formula per la ricerca di anemia, leucopenia e trombocitopenia, gli
indici di fase acuta (proteina C reattiva, ferritina, aptoglobina, ipergammaglobulinemia), gli indici di funzionalità renale ed epatica, oltre ad esami specifici per le singole malattie. Emocromo,
glicemia e prove di funzionalità renale andrebbero ripetuti mensilmente. In presenza di una
condizione di anemia il test di Coombs diretto e indiretto consente di individuare una anemia emolitica autoimmune che richiede spesso un potenziamento della terapia. Il complemento andrebbe monitorato periodicamente, e riduzioni progressive e costanti costituiscono un
segnale di allarme. In alcune pazienti è utile la ricerca di una condizione di trombofilia genetica, come iperomocisteinemia, deficit di ATIII, proteina C e proteina S, mutazione G20210A
della protrombina, fattore V Leiden.
La ricerca e la quantificazione di autoanticorpi è diventata una componente importante
nella diagnosi e nel trattamento di malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide, il LES, le
vasculiti sistemiche, la sclerodermia5. Ciascuna di queste malattie è associata alla presenza di
un particolare autoanticorpo o gruppo di autoanticorpi. L’impiego di questi autoanticorpi come test diagnostici presenta tuttavia numerose limitazioni: vanno usati come parte di un pannello diagnostico piuttosto che come marker indicativi di una particolare malattia. Molti di questi markers non hanno correlazione con l’attività della malattia, e possono essere riscontrati
anche in soggetti sani. Il loro utilizzo dovrebbe essere ristretto alla valutazione iniziale e non
ripetuto ad ogni controllo. Altri markers invece correlano con l’attività della malattia e possono essere utilizzati per monitorare l’attività della malattia. Ad esempio, gli anticorpi antidsDNA sono da controllare periodicamente, perché il loro aumento può indicare una riattivazione della malattia, viceversa gli ANA e gli ENA tendono a rimanere stabili nel tempo. La
determinazione degli anticorpi antifosfolipidi è essenziale per la valutazione e il monitoraggio
della gravidanza e del rischio ostetrico, in quanto tipicamente si associano ad aborti e perdiGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
329
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
te fetali. Qui di seguito è illustrato un pannello di esami utili per il monitoraggio laboratoristico delle malattie autoimmuni.
Tabella 1. Pannello di esami di laboratorio utili nelle malattie autoimmuni
Emocromo con formula e piastrine
Proteine totali ed elettroforesi
Sideremia e transferrina
IgG, IgM, IgA
Ferritina
Immunofissazione sierica
Aptoglobina
Complemento C3, C4
Test di Coombs (diretto/indiretto)
Fattore reumatoide
Anticorpi antipiastrine
Antinucleo (ANA)
LDH
Anti-dsDNA
VES (utilità limitata in gravidanza)
Anti ENA
Proteina C reattiva
Anticardiolipina
Glicemia
Anti beta2 glicoproteina
Creatinina
ANCA (PR3, MPO)
Uricemia
Crioglobuline
Na
Anticorpi antitessutali:
K
tiroidei (Tg,TPO)
Ca
mucosa gastrica
P
muscolo liscio
AST ALT
mitocondri
Fosfatasi alcalina
LKM
gammaGT
Anticorpi anti virali
Bilirubina totale e diretta
Virus epatite B
CK Aldolasi
Virus epatite C
Colesterolo, HDL,Trigliceridi
Virus HIV
Omocisteina
Anticorpi anti-Borrelia
Tempo di Quick (INR), APTT
Resistenza alla proteina C attivata
Esame urine completo
Fibrinogeno
Proteinuria (24 ore)
Proteina C Proteina S
Bence Jones urinaria
Anticoagulante lupico
Elettroforesi proteine urinarie
Fattore V (genetica)
Protrombina (genetica)
IL RUOLO DELL’IMMUNOLOGO/INTERNISTA
Dal punto di vista immunologico, la gravidanza rappresenta un periodo vulnerabile a causa delle ripercussioni sul sistema immunitario dell’adattamento materno al prodotto del concepimento. Il ruolo dell’immunologo nelle gravidanze complicate da malattie autoimmuni, consiste nell’individuazione, monitoraggio e terapia delle principali condizioni che configurano un
aumento di rischio gravidico. I principali fattori di rischio in queste gravidanze sono la presenza di malattia all’esordio o in fase attiva, la presenza di anticorpi antifosfolipidi, la presenza di
330
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
anticorpi anti-Ro/SS-A6. Compito dell’immunologo è anche stabilire il rischio teratologico dei
trattamenti farmacologici in corso e consigliarne la sospensione o la modificazione prima del
concepimento.
L’attività e il tipo di malattia
L’outcome gravidico è condizionato dal tipo di malattia autoimmune e dal grado di attività della malattia. È noto che alcune malattie autoimmuni rappresentano una condizione di
rischio significativo per la gravidanza (es. la sindrome da anticorpi antifosfolipidi), ed è anche
noto che la gravidanza determina un peggioramento di alcune malattie autoimmuni (es. il
LES) ma non interferisce o determina addirittura un miglioramento di altre (es. l’artrite reumatoide).
Esistono alcune condizioni preesistenti alla gravidanza che possono determinare un aumento del rischio gravidico, come la presenza di ipertensione, nefropatia e trombofilia.
L’ipertensione cronica complica frequentemente la gravidanza nel LES, nella sindrome da anticorpi antifosfolipidi e nelle vasculiti, ma può insorgere anche per la prima volta nel corso
della gestazione.
L’ipertensione compare nel 20-30% delle pazienti affette da LES, e può assumere le caratteristiche dell’ipertensione maligna nelle crisi renali della sclerodermia. Un’ipertensione gestazionale severa può avere sequele gravissime come stroke, insufficienza cardiaca, insufficienza renale, eclampsia o morte.
Alla base della condizione ipertensiva esiste spesso il danno renale. Le donne con insufficienza renale da moderata a severa hanno una elevata probabilità di sviluppare pre-eclampsia, che a sua volta può causare un peggioramento della funzionalità renale. In alcune pazienti la gravità della condizione rende necessario il ricorso alla emodialisi in gravidanza e all’espletamento immediato del parto.
Una condizione di trombofilia genetica può sovrapporsi ad una trombofilia acquisita e
creare una condizione di rischio gravissimo nelle donne affette.
La riattivazione della malattia autoimmune o “flare” è un possibile effetto della gravidanza sulla malattia. Le riattivazioni possono essere di gravità variabile, da lieve, nella maggioranza dei casi, a severa e pericolosa per la vita. Non esiste una profilassi efficace, pertanto l’immunologo deve avvalersi di un monitoraggio clinico intensivo e di alcuni test di laboratorio
per individuare precocemente una riattivazione.
Le malattie in remissione al momento del concepimento hanno un outcome migliore delle malattie in fase di attività. L’attività di una malattia autoimmune si stabilisce in base alla presenza o al peggioramento dei sintomi, all’impiego di cortisonici a dosaggi elevati o di farmaci immunosoppressori e in base ad alcuni dati di laboratorio.
Esistono molte scale per la valutazione del grado di attività delle malattie autoimmuni al
di fuori della gravidanza, ma stabilire il grado di attività di una malattia autoimmune in graviGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
331
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
danza non è altrettanto semplice, perché alcune fisiologiche modificazioni della gravidanza
possono mimare forme lievi di riesacerbazione delle malattie autoimmuni, e possono limitare la validità di alcuni riscontri clinici e biochimici. Pertanto l’impressione clinica globale dell’immunologo ha valore pari se non superiore a quello degli indici proposti per la valutazione dell’attività delle malattie autoimmuni7.
In Tabella II è illustrata la scala di attività LAI-P (Lupus Activity Index- Pregnancy), una delle
più utilizzate per la valutazione dell’attività del LES in gravidanza. Si parla di “flare” in caso di
aumento di 0.25 del punteggio8.
Tabella II. LAI-P score
Lupus Activity Index- Pregnancy (LAI-P) score
Gruppo I:
Febbre
manifestazioni cliniche minori
Rush
Artrite
Sierosite
Gruppo 2:
Neurologici
manifestazioni cliniche maggiori
Renali
Polmonari
Ematologici
Vasculite
Miosite
Gruppo 3:
Prednisone, FANS, idrossiclorochina
variazioni della terapia
Immunosoppressori
Gruppo 4:
Proteinuria
dati di laboratorio
Anti-dsDNA
C3, C4
LAI-P score= (a+b+c+d)/4
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
1
2
2 3
1 2 3
3
2 3
3
1 2 3
3
2
1 2 3
3
1 2 3
1 2
1 2
(a) media:
(b) massimo:
(c) media:
(d) media:
Gli anticorpi antifosfolipidi
Gli anticorpi antifosfolipidi sono una famiglia eterogenea di anticorpi diretti, per lo più,
verso proteine che legano i fosfolipidi, che in vivo si associano a ricorrenti episodi trombotici. Questi anticorpi includono il lupus anticoagulant, gli anticorpi anticardiolipina e gli anticorpi anti beta2-glicoproteina I.
La presenza di questi anticorpi costituisce un rischio concreto per la gravidanza indipendentemente dal contesto della malattia materna nella quale siano rilevati. Da quando questi anticorpi sono stati identificati la strategia terapeutica è di limitarne le conseguenze contrastandone l’effetto trombofilico con l’uso di farmaci anticoagulanti o antiaggreganti9. L’esito
della gravidanza, prima estremamente sfavorevole, è stato completamente sovvertito dopo
l’individuazione della sindrome.
Resta da stabilire quanto a questo cambiamento abbia contribuito la farmacoterapia e
quanto invece abbiano contribuito la sorveglianza ostetrica, il timing del parto e i progressi
della terapia intensiva neonatale10.
In Tabella III sono riassunte le principali indicazioni per la ricerca di questi anticorpi.
332
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Tabella III. Indicazioni per la ricerca degli anticorpi antifosfolipidi
Aborti spontanei ricorrenti
Morte fetale inspiegabile del secondo o del terzo trimestre
Pre-eclampsia severa ad insorgenza < 34 settimane
Trombosi venosa inspiegabile
Trombosi arteriosa inspiegabile
Stroke inspiegabile
TIA o amaurosi fugace inspiegabile
LES o altre malattie autoimmuni
Trombocitopenia autoimmune
Anemia emolitica autoimmune
Livedo reticularis
Chorea gravidarum
Falsa positività di un test sierologico per la sifilide
Inspiegabile prolungamento dei test di coagulazione
IUGR severo inspiegabile
Anticorpi anti Ro/SS-A
Nel counselling della paziente con patologia autoimmune che vuole intraprendere una gravidanza dovrebbe essere inclusa la ricerca degli anticorpi anti Ro/SS-A e anti La/SS-B. Questi
anticorpi, caratteristici del LES, della Sindrome di Sjögren e della connettivite indifferenziata
(UCTD), espongono il neonato al rischio di lupus neonatale11, una sindrome caratterizzata da
manifestazioni transitorie quali rush cutaneo fotosensibile, epatopatia colestatica, citopenia e
della temuta manifestazione permanente del blocco cardiaco congenito.
Il blocco cardiaco congenito è stato correlato alla presenza di anticorpi anti Ro/SS-A materni in base all’osservazione che la larghissima maggioranza delle madri di bambini affetti risulta positiva a questi anticorpi. Inoltre il periodo in cui il blocco diviene rilevabile in utero,
corrispondente ad un’epoca gestazionale compresa tra le 18 e le 22 settimane, coincide con
un periodo in cui comincia a verificarsi un consistente passaggio transplacentare di immunoglobuline materne. Per una paziente con malattia autoimmune anti Ro/SS-A positiva, il rischio
di avere bimbi affetti da blocco cardiaco congenito è di circa il 5%12.
L’antigene Ro consiste in proteine di 52 e 60 kDa. La presenza nella madre di anticorpi
diretti verso la componente 52 kDa dell’antigene Ro e/o verso l’antigene La conferisce un
maggior rischio di blocco cardiaco per il neonato13.
I trattamenti farmacologici
Molte malattie autoimmuni sono attive o si riattivano durante la gravidanza perciò le pazienti devono essere trattate. I dati sugli effetti dei farmaci sui bambini di donne con malattie
autoimmuni sono incompleti. Per ogni farmaco si devono considerare i possibili effetti sulla
progressione della gravidanza, la teratogenicità, la tossicità fetale/neonatale, gli effetti a lungo
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
333
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
termine sui bambini14,15. Nelle Tabelle seguenti sono illustrati i possibili rischi fetali e le controindicazioni in gravidanza ed allattamento per i principali analgesici, antireumatici ed immunosoppressori impiegati nelle malattie autoimmuni.
Tabella IV. Analgesici e antinfiammatori in gravidanza
Farmaco
Paracetamolo
Codeina
Impiego principale
nelle malattie
autoimmuni
Analgesico (lieve)
Analgesico
Aspirina
Anticoagulante
Ibuprofene
FANS lieve per
l’artrite reumatoide
e altre artriti
Indometacina
FANS potente
per la spondilite
Possibili rischi
per il feto
Controindicazioni
in gravidanza
Controindicazioni
nell’allattamento
Improbabili
Depressione respiratoria,
sindrome da astinenza
Rischio minimo con i bassi
dosaggi, ma emorragia
neonatale e ipertensione
polmonare con gli alti dosaggi
Anomalie renali
Chiusura prematura del dotto
arterioso, ipertensione
polmonare, aborti
No
No (cautela)
No
Cautela
No
(basse dosi)
No
(basse dosi)
Cautela in fase
preconcezionale,
nel primo e terzo
trimestre
No (basse dosi)
Aborti, malformazioni
congenite, prolungamento
della gestazione,
ipertensione polmonare
Si (utilizzare gli steroidi
in sostituzione)
Si (utilizzare gli steroidi
in sostituzione)
No, ma anomalie oculari
e auricolari con la clorochina
No
(basse dosi)
No
(basse dosi)
No
No (evitare gli alti
dosaggi)
No
(basse dosi)
Si
No
(basse dosi)
Si
No, cautela con
gli alti dosaggi
No, cautela con
gli alti dosaggi
No, cautela con
gli alti dosaggi
Cautela, dati
conflittuali
Ritardo di crescita
(non teratogeno
negli animali)
Anomalie facciali
e scheletriche
Cautela
(dati limitati)
Si
Si
Si
Anomalie facciali,
cutanee, degli arti
e viscerali
Si
Si
Tabella V. Farmaci antireumatici in gravidanza
Idrossiclorochina Lupus eritematoso
sistemico
(artrite reumatoide)
Sulfasalazina
Artrite reumatoide
Sali d’oro
Artrite reumatoide
Possibile kernicterus
(non confermato). Dare
supplementi di acido folico
per ridurre i rischi
Non confermati
D-penicillamina
Artrite reumatoide
Anomalie del tessuto connettivo
Prednisolone
Artrite reumatoide,
lupus eritematoso
sistemico, vasculiti
Lupus eritematoso
sistemico, artrite
reumatoide, vasculiti
Artrite reumatoide,
lupus eritematoso
sistemico, vasculiti
Artrite reumatoide,
lupus eritematoso
sistemico, psoriasi
Lupus eritematoso
sistemico,
vasculiti
Labio-palatoschisi, IUGR,
iposurrenalismo, natimortalità
con dosaggi >20 mg/die
Non definiti
Tabella VI. Farmaci immunosoppressivi in gravidanza
Azatioprina
Ciclosporina A
Metotrexate
Ciclofosfamide
334
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
IL RUOLO DELL’OSTETRICO
Il ruolo dell’ostetrico nelle gravidanze complicate da malattie autoimmuni, consiste nella
prevenzione e nel trattamento delle principali complicanze gravidiche.Tali complicanze sono
essenzialmente l’aborto, la morte endouterina del feto, la prematurità, la PROM, il ritardo di
crescita endouterino e la pre-eclampsia16.
È stato osservato che le gravidanze che decorrono in pazienti con lupus eritematoso sistemico registrano una percentuale di aborti e morti endouterine più alta che di norma17.
Il rischio è più elevato nelle pazienti con malattia attiva al concepimento e funzione renale compromessa, mentre le donne con malattia stabilizzata e funzione renale discretamente
conservata hanno una buona prognosi riproduttiva. Il rischio di perdita fetale è elevato anche
nelle vasculiti in fase attiva.
Il fattore predittivo più importante di perdita fetale è però la sindrome da anticorpi antifosfolipidi. La sindrome da anticorpi antifosfolipidi comporta anche un rischio aumentato di
IUGR, pre-eclampsia e parto prematuro.
Una significativa percentuale di aborti e soprattutto di parti pretermine sono segnalati nelle pazienti con sclerosi sistemica progressiva18.
Le gravidanze che insorgono nelle fasi precoci e di acuzie di questa malattia, con coinvolgimento renale o cardiaco, comportano un rischio elevato e andrebbero rimandate ad una
fase di stabilità della malattia.
Nella sclerodermia diffusa la percentuale di morte fetale è probabilmente del 2-5% quindi sembra opportuna una sorveglianza fetale intensiva.
A differenza di altre malattie autoimmuni, l’artrite reumatoide non richiede un monitoraggio ostetrico intensivo, la malattia presenta addirittura un miglioramento in gravidanza e l’outcome gravidico è favorevole nella grande maggioranza dei casi.
I principali rischi fetali nelle malattie autoimmuni sono correlati all’insufficienza placentare,
una condizione conseguente all’ipertensione cronica o gestazionale. Le conseguenze dell’insufficienza placentare sono correlate al ridotto rifornimento di ossigeno e nutrienti al feto, e
possono determinare un ritardo di crescita intrauterino, distress fetale e morte endouterina.
L’ostetrico che si occupa di queste gravidanze deve effettuare frequenti controlli della crescita e del benessere fetale attraverso valutazioni ecografiche seriate dalla 18a-20a settimana,
flussimetria delle arterie uterine e dell’arteria ombelicale, non stress test dalla 30a-32a settimana.
In Tabella VII sono sintetizzati i fattori di rischio nel LES per le principali complicanze gravidiche. Da questi dati si può osservare che i maggiori determinanti dell’outcome fetale in pazienti con malattia autoimmune sono il grado di attività della malattia al concepimento e la
presenza di anticorpi antifosfolipidi.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
335
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Tabella VII. Complicanze ostetriche e fattori di rischio nel LES
Complicanza
Fattori di rischio nel LES
Aborto
Ipertensione al concepimento
Quantità di steroidi assunti nell’anno precedente
Morte endouterina del feto
Numero di riesacerbazioni prima della gravidanza
Parto pretermine
Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
Alto titolo di anti-dsDNA
PROM
Score di attività del LES nei sei mesi precedenti la gravidanza
IUGR
Ipertensione al concepimento
Pre-eclampsia
LAC
Il monitoraggio ostetrico intensivo è finalizzato alla determinazione del migliore timing del
parto. Per pianificare il tipo di parto e per prevenire possibili complicanze è opportuno il coinvolgimento di un anestesista verso la 36a settimana di gestazione. La paziente affetta da malattie autoimmuni rappresenta spesso una sfida anche per l’anestesista a causa delle particolari caratteristiche delle singole malattie e degli effetti collaterali delle terapie. I principali problemi sono instabilità/anchilosi di segmenti scheletrici di interesse anestesiologico, come la colonna cervicale (importante per l’intubazione tracheale) o la colonna lombare (rilevante per
l’anestesia spinale), le anomalie delle vie aeree e/o la disfunzione dello sfintere esofageo superiore (dermatomiosite) che in pazienti che vanno sottoposte ad anestesia generale possono compromettere l’intubazione tracheale e/o la ventilazione o determinare aspirazione del
contenuto gastrico; disfunzioni dei sistemi cardiovascolare o respiratorio, che possono alterare la normale risposta agli anestetici o alla ventilazione meccanica; disfunzione renale; e alla fine alterazioni ematologiche dovute sia alla malattia (sindrome da anticorpi antifosfolipidi) o
ai farmaci utilizzati, come acido acetilsalicilico, FANS, corticosteroidi, eparina19.
Oggi è possibile giungere ad un outcome favorevole nella maggioranza delle malattie autoimmuni. Questo progresso è stato possibile solo attraverso un counselling attento e un monitoraggio intensivo e soprattutto grazie alla collaborazione di tutti gli specialisti coinvolti nella gestione di queste gravidanze ad alto rischio.
Lupus eritematoso sistemico
Il Lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia autoimmune in cui tessuti e cellule sono danneggiati da autoanticorpi e immunocomplessi diretti verso uno o più componenti del
nucleo cellulare.
Il LES si verifica in una donna su 1000 e nel 6% dei casi coesiste un’altra malattia autoimmune, come la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi secondaria (APS).
Il lupus è molto variabile nella sua presentazione clinica, decorso e outcome. Si riscontrano frequentemente malessere, febbre, artrite, mialgia, calo ponderale, rush cutaneo, fotosensibilità, pleuropericardite, anemia e disfunzioni cognitive. Almeno metà dei pazienti presentano coinvolgimento renale20.
336
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Diagnosi
I criteri della American Rheumatism Association (1997) per la diagnosi di LES sono elencati di seguito. La diagnosi di lupus richiede 4 o più criteri presenti serialmente o simultaneamente21.
Criteri della American Rheumatism Association (1997) per la diagnosi di LES.
Rush malare
Rush discoide
Fotosensibilità
Ulcere orali
Artrite (non erosiva, coinvolgente 2 o più articolazioni periferiche)
Sierosite (pleurite o pericardite)
Disordini renali (proteinuria > 0.5 g/die o cilindri)
Disordini neurologici (convulsioni o psicosi sine causa)
Disordini ematologici (anemia emolitica, leucopenia o linfopenia, trombocitopenia)
Disordini immunologici (anticorpi anti-dsDNA o anti-Sm,VDRL falsamente positiva, livelli anormali di anticorpi
anticardiolipina IgM o IgG o lupus anticoagulant)
Anticorpi antinucleo
I test sierologici immuni impiegati nella diagnosi di LES includono gli anticorpi antinucleo
(ANA), riscontrati in oltre il 90% dei casi ma non specifici per il lupus; gli anticorpi anti-DNA
a doppia elica (anti-dsDNA) trovati in quasi l’80% dei casi e gli anticorpi contro antigeni nucleari estraibili (ENA) trovati in circa il 30% dei casi. Gli ANA a basso titolo possono essere
presenti in individui normali, in altre malattie autoimmuni, in infezioni virali acute ed in processi infiammatori cronici, inoltre molti farmaci possono causare una positivizzazione della reazione. Gli anti-dsDNA sono specifici per il lupus e mostrano la migliore correlazione con l’attività della malattia. Gli ENA (extractable nuclear antigens) sono anticorpi diretti contro un
gruppo di antigeni nucleari estraibili con soluzione salina, sono dotati di bassa specificità e non
sono correlati con l’attività della malattia; essi comprendono gli anticorpi anti-Ro ed anti-La (i
più rilevanti dal punto di vista clinico), gli anticorpi anti-Sm e gli anticorpi anti-RNP. Gli anticorpi anti-Sm sono relativamente specifici per il lupus.
In Tabella VIII sono elencati i principali anticorpi riscontrabili nel LES e le loro associazioni
cliniche.
Tabella VIII.
Anticorpo
ANA
Anti-dsDNA
Anti-Sm
Anti-RNP
Anti-Ro (SS-A)
Anti-La (SS-B)
Incidenza
98
80
30
40
30
10
Associazioni cliniche
Associato a nefrite e attività clinica
Specifico per il lupus
Polimiosite, sclerodermia, lupus, connettivite mista
Sindrome di Sjögren, lupus cutaneo, lupus neonatale, lupus
ANA negativo, blocco cardiaco congenito
Sindrome di Sjögren
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
337
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Antiistone
Antifosfolipidi
Anti-eritrociti
Anti-piastrine
70
50
60
-
Comuni nel lupus indotto da farmaci
Lupus anticoagulant e anticardiolipina associati con trombosi,
perdita fetale, trombocitopenia
Trombocitopenia
Complicazioni del LES in gravidanza
Complicazioni materne
I principali fattori che incidono sull’outcome materno nelle gravidanze complicate dal LES
sono l’attività della malattia all’inizio della gravidanza, la coesistenza di altri disordini medici o
ostetrici, la presenza e il titolo degli autoanticorpi, la presenza di anticorpi antifosfolipidi e il
trattamento in corso22.
Non è ancora chiaro se la gravidanza e il puerperio predispongano alla riesacerbazione o
“flare” del LES23,24, in letteratura sono infatti descritte percentuali variabili tra il 15 e il 60%.
Quando si verifica un “flare”, nella maggior parte dei casi si tratta di manifestazioni cutanee
trattate facilmente con basse dosi di glucocorticoidi. In alcuni casi invece si tratta di riesacerbazioni gravi25. In Tabella IX sono riassunte tali caratteristiche.
L’ipertensione si sviluppa in circa il 20-30% delle gravidanze con LES, ed è frequentemente precoce e severa. La pre-eclampsia è favorita da una nefropatia severa, dall’ipertensione
preesistente, dalla sindrome da anticorpi antifosfolipidi, da un trattamento con corticosteroidi ad alte dosi. La nefropatia lupica tende a peggiorare in un quarto dei casi, ed in circa il 10%
dei casi questo danno renale è permanente.
Esiste una forte correlazione tra severità dell’insufficienza renale prima del concepimento
e rischio di peggioramento durante la gravidanza ed il post-partum. Le condizioni cliniche possono aggravarsi rapidamente e spesso senza avvertimenti clinici o biochimici. In alcuni casi il
LES può diventare pericoloso per la vita, a causa del coinvolgimento renale e cardiaco, della
comparsa di pre-eclampsia severa e delle complicanze correlate alla sindrome da anticorpi
antifosfolipidi.
Tabella IX. Caratteristiche delle riesacerbazioni del LES in gravidanza
Riesacerbazione lieve/moderata
Riesacerbazione severa
Comparsa o peggioramento della malattia cutanea Comparsa o peggioramento dei sintomi neurologici
Ulcere nasofaringee
Vasculite
Pleurite
Nefrite
Pericardite
Miosite
Artrite
Anemia emolitica
Febbre attribuita al LES
Trombocitopenia (< 60000/ml)
Aggiunta di FANS o idrossiclorochina
Aggiunta di ciclofosfamide, azatioprina, metotrexate
Aumento del prednisone > 0.5 mg/kg/die
Aumento di prednisone fino a 0.5 mg/kg/die
Ospedalizzazione per manifestazioni correlate al LES
338
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Complicazioni fetali e neonatali
Il LES è associato ad un aumento del numero di aborti, morti fetali endouterine e parti
pretermine17. Nelle pazienti con LES la frequenza delle perdite fetali che includono gli aborti
spontanei (prima della 10a settimana di gestazione) e le morti endouterine del feto (dopo la
10a settimana) varia dall’11 al 24%. La perdita della gravidanza è correlata ad attività della malattia, nefropatia severa e presenza di anticorpi antifosfolipidi. L’outcome gravidico è condizionato anche dalla significativa frequenza di parti pretermine (24-59%) e di ritardo di crescita
intrauterino (IUGR) (12-32%). Fattori di rischio per il parto pretermine sono l’attività della
malattia, l’utilizzo di una terapia con prednisone a dosaggi > 20 mg/die, la malattia renale e
l’ipertensione. I cortisonici aumentano anche il rischio di rottura prematura delle membrane.
Fattori di rischio per IUGR sono la malattia renale, la pre-eclampsia e la sindrome da anticorpi antifosfolipidi.
La presenza di anticorpi anti-Ro e, in grado minore, di anticorpi anti-La è associata con lo
sviluppo di sindromi lupiche fetali o neonatali in circa il 5-10% dei bambini26,27. La condizione
fetale e neonatale più seria è il blocco cardiaco congenito completo (CCHB) che si verifica
in circa il 2% dei feti e può essere identificato in utero dalla 18a settimana di gestazione come una bradicardia fetale persistente. Questa condizione è permanente e può risultare in insufficienza cardiaca fetale e morte endouterina. In questi casi è spesso inevitabile il parto pretermine a causa di insufficienza cardiaca fetale, e il 70% dei neonati sopravvissuti richiederà
l’applicazione di un pace-maker28. La ricorrenza di questa condizione in una successiva gravidanza è compresa tra il 16 e il 25%, aumentando al 50% con due precedenti gravidanze affette. Altri aspetti della sindrome lupica neonatale includono rush cutaneo, trombocitopenia,
epatite colestatica, polmoniti ed emolisi. Queste condizioni raramente richiedono un trattamento e sono transitorie, scomparendo entro alcune settimane di vita.
Donne con LES senza coinvolgimento renale, APS o anticorpi anti-Ro non hanno un rischio aumentato di complicazioni durante la gravidanza. Attualmente la gestione multidisciplinare di queste donne ha migliorato notevolmente l’outcome gestazionale: è possibile in centri specializzati raggiungere una percentuale di nati vivi superiore all’80%, di cui poco più del
20% pretermine, con una percentuale di morti endouterine del 5%.
Management
Management prenatale: monitoraggio della malattia materna
Prima di intraprendere la gravidanza, le donne con LES dovrebbero sottoporsi ad un counselling preconcezionale per la valutazione dei rischi medici ed ostetrici della gravidanza. In questa occasione si dovrebbero valutare la funzionalità renale ed i parametri ematologici. Il pannello di test consigliati include creatininemia, proteinuria delle 24 ore, clearance della creatinina ed emocromo con formula e piastrine, inoltre si dovrebbe effettuare la ricerca degli anGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
339
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
ticorpi antifosfolipidi. Prima del concepimento le pazienti affette da LES devono sospendere
FANS e farmaci citotossici. Alle donne con malattia attiva viene consigliato di posticipare la
gravidanza, poiché la riesacerbazione del LES è meno comune in donne che sono state in remissione o stabili con un trattamento minimo per oltre 6 mesi.
Complessivamente il rischio gravidico può essere stimato valutando diversi parametri:
- score di attività del LES al concepimento
- numero di “flare” nell’anno precedente il concepimento
- nefropatia concomitante
- corticosteroidi nell’anno precedente alla gravidanza (più o meno di 50 mg/settimana)
- ipertensione al momento del concepimento
- coesistenza di sindrome da anticorpi antifosfolipidi
- lupus anticoagulant
- anticorpi anticardiolipina
- anticorpi anti Ro/SS-A e anti La/SS-B
- anticorpi anti-dsDNA (alto titolo).
La paziente LES gravida dovrebbe essere visitata ogni due settimane nel corso del primo
e secondo trimestre e ogni settimana successivamente. È fondamentale la collaborazione tra
ostetrico e reumatologo. Ad ogni visita si devono valutare segni e sintomi di attività della malattia ed i valori pressori. Durante la gravidanza ed il puerperio vanno effettuate frequenti valutazioni ematologiche, poiché si possono sviluppare leucopenia, trombocitopenia ed emolisi, con test di Coombs positivo. La funzionalità renale va valutata con l’esame urine standard
e dosando urea ed elettroliti sierici materni, proteinuria delle 24 ore, clearance della creatinina e rapporto albumina/creatinina urinaria. È spesso difficile distinguere nefrite lupica e preeclampsia perché entrambe le condizioni si possono presentare con ipertensione, proteinuria, edema e trombocitopenia. La diagnosi differenziale tra nefrite lupica e pre-eclampsia è suggerita da parametri sierologici, come la diminuzione del complemento e l’aumento del titolo
di anti-dsDNA nel LES e il deficit di ATIII nella pre-eclampsia, da parametri ematologici, come
l’anemia emolitica Coombs positiva e la leucopenia nel LES e l’anemia emolitica microangiopatica nella pre-eclampsia, da parametri urinari, come la presenza di globuli rossi e cilindri cellulari nel LES e l’ipocalciuria nella pre-eclampsia, e da parametri epatici, come la ipertransaminasemia nella pre-eclampsia.
La diagnosi definitiva di nefrite lupica a volte è possibile solo con la biopsia renale, che però viene raramente effettuata in donne gravide. In molti casi la diagnosi è effettuata in modo
retrospettivo dopo la risposta ai farmaci steroidei o dopo il parto, quando la pre-eclampsia
si risolve, a differenza della nefrite lupica. Non è chiaro quali siano gli indici laboratoristici più
affidabili per identificare un peggioramento dell’attività del LES. Non è dimostrata infatti l’utilità di una diminuzione dei livelli del complemento o dell’aumento del titolo degli anticorpi
anti-DNA.
340
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
La terapia del LES include quattro categorie di farmaci: FANS, antimalarici, corticosteroidi
e citotossici. I farmaci anti-infiammatori non steroidei dovrebbero essere evitati in gravidanza, come anche i farmaci citotossici come ciclofosfamide e metotrexate.
I corticosteroidi sono considerati abbastanza sicuri in gravidanza. Quelli più impiegati nel
trattamento del LES sono l’idrocortisone, il prednisone e il prednisolone, che attraversano sono in minima parte la placenta. Gli effetti collaterali materni dei corticosteroidi includono
osteopenia, alterata tolleranza ai carboidrati, infezioni, ritenzione idrica ed ipertensione, inoltre i corticosteroidi aumentano il rischio di diabete gestazionale, pre-eclampsia, rottura prematura delle membrane e IUGR.
I vantaggi degli steroidi nelle donne affette da LES superano ampiamente questi rischi. Per
controllare i sintomi deve comunque essere impiegata la dose efficace più bassa. Nelle donne in trattamento con idrossiclorochina la sospensione di questo farmaco in gravidanza è controindicata perché può causare una riesacerbazione della malattia.
Le riattivazioni della malattia sono in genere lievi e vanno trattate con analgesici a base di
paracetamolo, corticosteroidi e idrossiclorochina. Una nefrite lupica severa può richiedere un
trattamento con azatioprina o anche ciclofosfamide a basse dosi.
I dettagli sul trattamento del LES in gravidanza sono illustrati nel capitolo “LES - complicanze severe materne: prevenzione e terapia”.
Management prenatale: sorveglianza fetale
A causa del rischio di insufficienza utero-placentare, l’esame ecografico del feto dovrebbe
essere compiuto ogni 4-6 settimane ad iniziare dalla 18a-20a settimana. La crescita fetale va
seguita attentamente, specialmente in caso di sviluppo di ipertensione materna, per individuare precocemente l’insorgenza di IUGR. Il monitoraggio fetale (conteggio MAF quotidiano, cardiotocografia e controllo del liquido amniotico settimanale) dovrebbe cominciare dalla 30a32a settimana. Nelle pazienti con sindrome da anticorpi antifosfolipidi secondaria può essere
giustificato il controllo del feto a partire dalla 24a-25a settimana.
Alcuni Autori raccomandano lo screening degli anticorpi anti Ro/SS-A e anti La/SS-B nel
LES in gravidanza. Nelle donne positive per questi anticorpi si effettua un esame ecografico
fetale dettagliato nel secondo trimestre con ecocardiografia fetale, e la frequenza cardiaca fetale è monitorata strettamente nella fase tardiva della gestazione. In alcuni casi il blocco cardiaco congenito può essere revertito in utero attraverso la somministrazione alla madre di
desametasone. È raccomandato che i feti affetti da CCHB siano seguiti in un centro di medicina fetale e il timing del parto dipenderà dal grado di compromissione cardiaca fetale.
Management intrapartum
Nei casi di LES non complicati, non è necessario indurre il travaglio. Nei casi con coinvolgimento renale la donna va trattata in base alla presenza di pre-eclampsia, prendendo in conGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
341
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
siderazione tutti i parametri materni e fetali per decidere il timing e il tipo di parto. Le donne con coesistente sindrome da anticorpi antifosfolipidi sono trattate in relazione all’anamnesi ostetrica (vedere il paragrafo sulla sindrome da anticorpi antifosfolipidi). Le donne che sono state trattate con prednisolone ≥10 mg/die per tre settimane prima del parto o più a lungo, devono ricevere idrocortisone endovena in travaglio in “dosi da stress”, ad esempio idrocortisone 100 mg ogni 8 ore per 3 volte durante il travaglio o un bolo di cortisone al momento del parto cesareo.
Figura 1. Algoritmo per il management del lupus eritematoso sistemico in gravidanza
Una donna con diagnosi di lupus eritematoso sistemico
desidera una gravidanza
Counselling preconcezionale con un ostetrico e un reumatologo: valutazione
dell’attività del LES (funzionalità renale e parametri ematologici) ricerca degli
anticorpi antifosfolipidi sospensione dei farmaci teratogeni
Ritardare la gravidanza finché il LES non è in remissione da almeno 6 mesi
GRAVIDANZA
342
Monitoraggio clinico
Test diagnostici
Visite prenatali ogni 2 settimane nel primo
e nel secondo trimestre, poi ogni settimana.
Controllo della pressione arteriosa
e dell’attività della malattia
Esame urine, emocromo e prove
di funzionalità renale ogni 2 settimane.
Screening degli Ab anti Ro e anti La.
Ecografia ostetrica ogni 4-6 settimane
dalla 18a-20a settimana
Visita reumatologica ogni 2-4 settimane.
Trattamento delle esacerbazioni del LES
Valutazione del benessere fetale
settimanalmente dalla 30a-32a settimana
o prima se indicato
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Management postnatale: malattia materna
Le riattivazioni post-partum sono comuni e dovrebbero essere trattate prontamente e in
modo aggressivo. Non è consigliabile l’impiego di steroidi nel puerperio a scopo profilattico,
poiché non prevengono le riattivazioni; invece le riattivazioni postnatali dovrebbero essere
trattate come nel periodo prenatale, con alcune cautele se la madre allatta.
Il prednisolone in dosi >30 mg/die è associato con soppressione della ghiandola surrenale neonatale, ed in questi casi può essere necessario sospendere l’allattamento al seno.
Sebbene precedentemente esistessero preoccupazioni riguardo alla soppressione immune
neonatale con l’azatioprina, evidenze crescenti sostengono che questo farmaco è sicuro durante l’allattamento.
Management postnatale: sorveglianza neonatale
Se il feto presenta un CCHB, il parto dovrebbe avvenire in un’unità con il servizio di cardiologia pediatrica. Sebbene non esistano controindicazioni al parto vaginale, la cardiotocografia intrapartum non è interpretabile ed in pratica la maggior parte dei bambini nascono
con taglio cesareo.Alcuni studi riportano un tasso di mortalità neonatale del 20-30% con questa condizione, ma per quei neonati che sopravvivono l’outcome a lungo termine è generalmente buono26,29.
Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
La sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS) è una condizione autoimmune caratterizzata dalla produzione di anticorpi antifosfolipidi e da una combinazione di caratteristiche cliniche che includono fenomeni trombotici arteriosi o venosi, trombocitopenia autoimmune e
aborti spontanei ricorrenti del primo trimestre (tre o più) o outcome gravidico avverso30,31.
La APS si distingue in primaria, se non si riconoscono altri disordini autoimmuni, o secondaria, se diagnosticata in soggetti con una malattia autoimmune nota.
Diagnosi
I criteri preliminari per la diagnosi di sindrome da anticorpi antifosfolipidi sono stati stabiliti nell’International Consensus Statement on Preliminaty Criteria for the Classification of the
Antiphospholipid Syndrome nel 199930.Tali criteri sono stati rivisti nel 10° International Congress
on Antiphospholipid Antibodies tenutosi a Taormina nel 2002.
Criteri per la diagnosi di sindrome da anticorpi antifosfolipidi
Criteri clinici
Criteri laboratoristici
Trombosi arteriosa o venosa
Lupus anticoagulant risultato positivo in due rilevazioni
a 6 o più settimane di intervallo
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
343
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Morbilità gravidica:
- 3 o più aborti consecutivi <10 settimane
- una o più morti fetali oltre la 10a settimana
- uno o più parti prima della 34a settimana,
accompagnati da pre-eclampsia o severa
insufficienza placentare
Anticorpi anticardiolipina (IgG o IgM) a titolo medio-alto,
misurati con metodiche ELISA standardizzata in due o più
occasioni ad almeno 6 settimane di intervallo.
Anticorpi anti beta2-glicoproteina I (IgG o IgM)
Per la diagnosi di sindrome da anticorpi antifosfolipidi sono richiesti 1 o più criteri clinici ed 1 o più criteri laboratoristici nello
stesso paziente.
I criteri laboratoristici per la diagnosi della sindrome consistono nella individuazione di specifici anticorpi antifosfolipidi. Gli anticorpi antifosfolipidi (aPL) sono anticorpi diretti contro fosfolipidi carichi negativamente. Possono essere presenti a basso titolo nel 2% della popolazione, particolarmente negli anziani, e possono essere indotti da infezione, neoplasia, stress e farmaci. Per la diagnosi di APS è raccomandato ripetere i test a intervalli di 8 settimane e solo
gli individui con titoli persistentemente alti di autoanticorpi possono essere considerati affetti dalla malattia.
Gli anticorpi aPL di significato clinico sono gli anticorpi anticardiolipina (aCLs), l’anticoagulante lupus (LA) e gli anticorpi anti beta2-glicoproteina I. Gli anticorpi anticardiolipina sono
individuati con un saggio ELISA, e sieri di riferimento isotipo-specifici hanno permesso la quantificazione delle concentrazioni di IgG ed IgM che sono espresse come unità di GPL e MPL.
Il LA è un anticorpo associato a trombosi in vivo e a prolungamento dei test di coagulazione in vitro; il dosaggio richiede un saggio relativamente complesso in tre stadi. Gli anticorpi
anti beta2-glicoproteina I sono diretti contro una proteina legante i fosfolipidi, la beta2-glicoproteina I, una proteina che inibisce in modo competitivo il legame dei fattori della coagulazione (specialmente il fattore XII e il complesso protrombinasi) alle superfici con fosfolipidi
carichi negativamente e previene in tal modo l’attivazione della cascata della coagulazione. La
beta2-glicoproteina I si trova ad alta concentrazione sulla superficie del sinciziotrofoblasto,
un’area critica in cui la perdita di beta2-glicoproteina I può prevenire l’impianto o risultare in
trombosi dello spazio intervilloso. Anticorpi antifosfolipidi “non classici” includono gli anticorpi anti-fosfatidilserina, anti-fosfatidilcolina, anti-piastrine, anti-protrombina e anti-annessina V. Gli
ultimi due sono associati a complicanze ostetriche.
Complicazioni della APS in gravidanza
Complicazioni materne
La APS è una trombofilia autoimmune acquisita. Poiché la gravidanza è uno stato ipercoagulativo, le donne con APS sono a rischio aumentato di trombosi a meno che non sia instaurata una adeguata tromboprofilassi o terapia anticoagulante32. La maggior parte degli eventi
trombotici (70%) sono venosi, ma non sono infrequenti trombosi arteriose e stroke. La trombosi venosa si verifica a carico degli arti inferiori e in un terzo delle pazienti si può verificare
embolia polmonare. Le trombosi arteriose si possono verificare in sedi atipiche come l’arte344
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
ria retinica, la succlavia, le arterie digitali, e possono causare amaurosi fugace, infarto del miocardio, TIA o stroke. Complessivamente la gravidanza ed il puerperio si associano ad un rischio di trombosi del 5-12%33,34. Altre complicazioni della sindrome includono anemia emolitica autoimmune, livedo reticularis, chorea gravidarum, mielite traversa, endocardite e valvulopatie, ulcere cutanee, danno renale, ipertensione polmonare. In donne con APS secondaria
si può osservare una esacerbazione della malattia autoimmune concomitante durante la gravidanza. Occasionalmente la APS ha un decorso fulminante con trombosi progressive e insufficienza multi-organo (“catastrophic” antiphospholipid syndrome), scatenata da infezioni, procedure chirurgiche, complicanze ostetriche o sospensione della terapia anticoagulante35. Questa
condizione è gravata da un tasso di mortalità di circa il 50% nonostante il trattamento.
Tabella X. Manifestazioni cliniche della APS
Organo/sistema
Manifestazioni cliniche
Arteriose
Trombosi dell’aorta o dell’arteria ascellare, carotidea, epatica, ileofemorale, mesenterica,
pancreatica, poplitea, splenica
Cardiache
Angina, infarto del miocardio, vegetazioni valvolari, anomalie valvolari, trombi intracardiaci,
endocardite trombotica non batterica (Libman-Sacks), embolizzazione periferica
o aterosclerosi
Cutanee
Tromboflebite superficiale, ischemia cutanea distale, ulcere cutanee, livedo reticularis,
anetoderma
Endocrine
Infarto o insufficienza surrenalica, necrosi o insufficienza ipofisaria
Gastrointestinali
Sindrome di Budd-Chiari, infarti epatici, intestinali o splenici, perforazione esofagea,
colite ischemica, pancreatite
Ematologiche
Trombocitopenia, anemia emolitica autoimmune
Neurologiche
TIA, accidenti cerebrovascolari (embolici o trombotici), chorea, epilessia, mielite trasversa,
emicrania, trombosi venosa cerebrale, mononeuriti multiple
Ossee
Osteonecrosi
Ostetriche
Aborto, morte endouterina del feto, IUGR, HELLP syndrome, insufficienza placentare,
pre-eclampsia
Oftalmologiche
Trombosi dell’arteria o della vena retinica, amaurosi fugace
Polmonari
Embolia polmonare, ipertensione polmonare, trombosi dell’arteria polmonare,
emorragia alveolare
Renali
Trombosi della vena o dell’arteria renale, infarto renale, ipertensione, insufficienza renale
acuta o cronica, proteinuria, ematuria o sindrome nefrosica
Venose
Trombosi venose profonde degli arti o della vena surrenalica, epatica, mesenterica,
portale, splenica o della cava inferiore
Complicazioni fetali
Oltre all’aborto, molti disordini ostetrici sono associati alla APS. Le gravidanze esitate in
nati vivi sono frequentemente complicate da pre-eclampsia-HELLP, IUGR, insufficienza placentare e parto pretermine. In assenza di trattamento si stima che la percentuale di gravidanze
portate a termine sia modesto e si attesti intorno al 10%.
L’associazione tra APS ed aborto ricorrente è chiaramente riconosciuta36,37 ed è anche comune l’aborto del secondo trimestre. Il tasso di perdita fetale prospettico nella APS primaria
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
345
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
è del 50-75%. In donne con LES ed APS secondaria alcuni studi suggeriscono una percentuale del 90%, sebbene questa sia probabilmente una stima eccessiva. È stato osservato che la
APS causa aborti nel periodo fetale, mentre l’associazione con aborti pre-embionali o embrionali non è significativa. Donne con aborti embrionali possono avere titoli bassi di anticorpi antifosfolipidi, ma non presentano generalmente le manifestazioni classiche della sindrome.
In gravidanze che non esitano in aborto o morte endouterina del feto, si osserva un’alta
incidenza di pre-eclampsia spesso severa e ad insorgenza precoce38.Tale associazione giustifica la ricerca di anticorpi antifosfolipidi in donne con pre-eclampsia grave <34 settimane. La
percentuale di restrizione della crescita fetale, anche in gravidanze trattate, oscilla tra il 12%
e il 30%; lo IUGR, la pre-eclampsia e le complicanze materne sono responsabili dell’aumentata incidenza di parto prematuro iatrogeno39. La frequenza di parti pretermine nella APS raggiunge il 30%.
Management
Management prenatale: malattia materna
Le donne con sindrome da anticorpi antifosfolipidi dovrebbero effettuare un counselling
preconcezionale per confermare la presenza degli anticorpi antifosfolipidi e per discutere dei
potenziali rischi per sé e per il feto, inclusi il rischio tromboembolico, il rischio di interruzione della gravidanza o di parto prematuro, di ipertensione gestazionale, pre-eclampsia e di
IUGR. Devono anche essere ricercati i segni e i sintomi di una malattia autoimmune misconosciuta. È consigliabile che il counselling preconcezionale sia effettuato da un team multidisciplinare comprendente ostetrico, reumatologo ed internista.
Il test di routine per gli anticorpi antifosfolipidi in gravidanza non è consigliabile poiché le
donne con test positivo senza le caratteristiche cliniche di APS non traggono profitto dal trattamento40. Il test è invece raccomandato in tutte le donne con una storia di precedente trombosi, aborto ricorrente o precedente outcome gravidico avverso, perché una adeguata tromboprofilassi materna, e quando necessario una terapia anticoagulante a dosaggio pieno, possono prevenire una trombosi ricorrente pericolosa per la vita.
La paziente gravida con sindrome da anticorpi antifosfolipidi dovrebbe essere visitata ogni
due settimane nella prima metà della gestazione e poi ogni settimana. La pre-eclampsia può
insorgere già dalla 15a-17a settimana. Nelle pazienti affette dalla sindrome si dovrebbe valutare la presenza di anemia, trombocitopenia e la funzionalità renale. Non è utile il dosaggio seriato degli anticorpi antifosfolipidi. Occorre ricordare che lo sviluppo di trombocitopenia in
una donna con APS può essere dovuto alla pre-eclampsia, alla sindrome stessa o all’utilizzo
di eparina. Quando la trombocitopenia è associata a trombosi può essere anche dovuta alla
“catastrophic” antiphospholipid syndrome, e va trattata di conseguenza.
Il trattamento ideale della sindrome da anticorpi antifosfolipidi in gravidanza dovrebbe mi346
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
gliorare l’outcome materno e fetale riducendo i rischi di perdita della gravidanza, pre-eclampsia, insufficienza placentare e parto pretermine e dovrebbe ridurre o eliminare il rischio trombotico materno. Le principali opzioni terapeutiche in gravidanza includono aspirina, eparina,
steroidi e warfarin41,42.
L’aspirina andrebbe iniziata in fase preconcezionale in donne con diagnosi di sindrome da
anticorpi antifosfolipidi. Si discute se proporre l’aspirina in monoterapia in caso di sola positività degli anticorpi antifosfolipidi a titolo medio-alto, in assenza di precedenti trombotici ed
ostetrici. Non è invece raccomandata alcuna terapia in donne con titolo basso di anticorpi
antifosfolipidi. Due studi randomizzati hanno confrontato l’aspirina da sola con aspirina più
eparina per il trattamento dell’aborto ricorrente correlato alla APS, ed entrambi hanno riportato outcome più favorevoli con l’aspirina in combinazione con l’eparina43,44.
L’eparina è attualmente considerata il trattamento di scelta nella APS. Di solito si utilizzano eparine a basso peso molecolare (LMWH), come la enoxaparina, la dalteparina e la nadroparina calcica, a causa dei minori effetti collaterali e della maggiore emivita. In donne con
anticorpi antifosfolipidi ed una storia di aborto ricorrente, l’eparina va utilizzata ad un dosaggio profilattico. Le donne con una storia di trombosi devono effettuare terapia eparinica a
dosaggio terapeutico per tutta la gravidanza ed il puerperio. Con eparina non frazionata si
deve ottenere un aumento del PTT di 1.5-2.5 volte la norma, mentre con le LMWH vanno
monitorati ogni trimestre i livelli di anti-fattore Xa. Il dosaggio ottimale di eparina in donne
con pregressa morte endouterina o neonatale a causa di una pre-eclampsia severa o di insufficienza placentare, ma senza precedenti tromboembolici, è controverso. Queste donne sono a rischio di malattia tromboembolica e dovrebbero ricevere una tromboprofilassi a dosaggio intermedio, solitamente una LMWH in monosomministrazione fino alla 16a settimana
e due somministrazioni successivamente.
L’eparina va iniziata dopo la conferma di un embrione vitale (tra la 5a e la 7a settimana) e
va continuata per 6 settimane dopo il parto. I possibili effetti collaterali dell’eparina includono sanguinamento, trombocitopenia e osteoporosi, che aumentano con l’aumentare del dosaggio. In donne che hanno episodi trombotici nonostante la tromboprofilassi eparinica, occorre anticoagulare con dosi terapeutiche di eparina o di warfarin. Il warfarin è potenzialmente teratogeno, producendo un’embriopatia caratteristica nel 2-4% dei feti, ma in casi particolari viene utilizzato dalla 14a alla 34a settimana di gestazione.
Un altro rischio è il sanguinamento intravascolare fetale che si può verificare in qualsiasi
momento della gestazione durante il periodo di somministrazione del warfarin alla madre.
Sembra esistere un’incidenza di complicazioni più elevata in donne gravide che assumono >5
mg/die.
Nel passato sono stati utilizzati anche i corticosteroidi a dosaggi medio-alti. Donne trattate con prednisone hanno un aumentato tasso di complicanze ostetriche come rottura prematura delle membrane, parto pretermine e pre-eclampsia, ed anche di diabete gestazionaGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
347
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
le ed ipertensione. Attualmente la terapia cortisonica viene prescritta solo in caso di APS associata a LES o nei casi poco frequenti di trombocitopenia autoimmune. Poiché eparina e aspirina a basse dosi hanno meno effetti collaterali, sono raccomandate come terapia di prima linea in donne con APS. I trattamenti con immunoglobuline i.v. sono riservati ai casi di fallimento della terapia eparinica o all’insorgenza di complicanze come una severa trombocitopenia.
Management prenatale: sorveglianza fetale
A causa dell’alta incidenza di aborto in questa popolazione, è raccomandata un’ecografia
precoce in gravidanza. Dopo la 17a-20a settimana l’esame ecografico del feto ogni 3-4 settimane consente di individuare i primi segni di ritardo di crescita e oligoamnios. La flussimetria
Doppler delle arterie uterine nel secondo trimestre può essere utile nell’identificazione delle donne con APS che possono sviluppare complicazioni in gravidanza. Il monitoraggio del benessere fetale (conteggio quotidiano dei MAF, cardiotocografia e controllo del liquido amniotico settimanale) andrebbe iniziato dalla 30a-32a settimana o anche prima (26a-28a settimana)
se si sospetta una condizione di insufficienza placentare. La cardiotocografia può mostrare decelerazioni spontanee già nel secondo trimestre in gravidanze complicate dalla APS. Uno stretto monitoraggio ostetrico è fondamentale per evitare complicanze e determinare il timing del
parto.
Management intrapartum
Le donne con una sfavorevole anamnesi ostetrica di solito sono indotte a 37-38 settimane di gestazione, ma molto spesso si deve ricorrere ad un parto pretermine iatrogeno. Le
donne che assumono dosi profilattiche di eparina dovrebbero interrompere il trattamento il
giorno dell’induzione o all’inizio del travaglio spontaneo. Nei casi in cui la donna riceva una
terapia anticoagulante a dosaggio pieno con warfarin, questo va sospeso circa 10 giorni prima del parto elettivo e va iniziata un’infusione endovenosa di eparina non frazionata o LMWH
in dosi terapeutiche sottocute. Questo consente un tempo sufficiente per la clearance del
warfarin sia dalla madre che dal feto. Dovrebbe essere fatto ogni tentativo per evitare una rapida reversione della terapia anticoagulante con warfarin con vitamina K al momento del parto, poiché questo rende difficile una successiva terapia anticoagulante nel periodo postnatale, ma ciò può essere necessario in casi imprevedibili come il distacco di placenta.
Management postnatale: malattia materna
In donne con anamnesi di aborti ricorrenti la profilassi eparinica va proseguita per 3-5 giorni post-partum. In donne con pregressa morte endouterina del feto o pre-eclampsia severa
e/o con un pregresso episodio trombotico, la terapia anticoagulante va proseguita per 6 settimane dopo il parto. La terapia anticoagulante postnatale può essere effettuata anche con il
warfarin, cominciando 2-3 giorni dopo il parto per minimizzare il rischio di emorragia secon348
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
daria del post-partum. Nel frattempo, dovrebbero essere usate dosi profilattiche di LMWH
o eparina non frazionata. Dopo il parto le donne con APS dovrebbero effettuare una consulenza reumatologica per valutare il rischio di complicanze non ostetriche, come la trombosi
e l’insorgenza di una malattia autoimmune. In donne con sindrome da anticorpi antifosfolipidi e un pregresso episodio trombotico che ha messo a rischio la vita, la terapia anticoagulante orale andrebbe proseguita per tutta la vita, ad un dosaggio terapeutico (INR ≥ 3).
Figura 2. Algoritmo per il management della sindrome da anticorpi antifosfolipidi in gravidanza (da Branch, 2003)
Una donna con diagnosi di sindrome da anticorpi antifosfolipidi
desidera una gravidanza
Counselling preconcezionale con un ostetrico e un reumatologo:
iniziare aspirina a basse dosi
Ecografia transvaginale per confermare la presenza di un embrione vitale
a 5.5-6.5 settimane gestazionali
Iniziare il trattamento eparinico
Monitoraggio clinico
Test diagnostici
Visite prenatali ogni 2-4 settimane fino a 20-24
settimane gestazionali poi ogni 1-2 settimane.
Monitoraggio per diagnosi precoce di morte
fetale, pre eclampsia e IUGR
Ecografia ostetrica ogni 3-4 settimane dalla
17a-20a settimana.
Valutare crescita fetale e volume del liquido
amniotico. Flussimetria delle arterie uterine a
20-24 settimane
Visita reumatologica ogni 2-4 settimane
Valutazione del benessere fetale
settimanalmente dalla 30a-32a settimana
o prima se si sospetta insufficienza placentare
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
349
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Management postnatale: complicazioni neonatali
Tra le complicazioni neonatali della APS, le più frequenti sono l’alta incidenza di prematurità e restrizione della crescita fetale, che richiedono un’adeguata assistenza neonatale. Sono
stati descritti rari casi di insorgenza di trombosi in neonati di madri affette da APS, specialmente trombosi arteriose nel distretto cerebrale, pertanto la ricerca di anticorpi antifosfolipidi andrebbe sempre eseguita in neonati di madri affette. È possibile un passaggio transplacentare di anticorpi dalla madre al feto, ma non è escludibile una sintesi de novo di alcuni autoanticorpi, anche perché spesso si riscontra una discrepanza tra madre e feto nei livelli e negli idiotipi degli autoanticorpi. Sono stati anche ipotizzati disordini dello sviluppo neurologico
nei neonati di madri con APS, come difficoltà dell’apprendimento, ma non è ancora chiaro se
tali disturbi siano semplicemente attribuibili alla prematurità o siano correlati alla sindrome45.
Artrite reumatoide
L’artrite reumatoide è una malattia infiammatoria cronica che colpisce prevalentemente
le articolazioni e si manifesta soprattutto tra i 35 e i 50 anni. L’aspetto caratteristico è la sinovite che coinvolge le articolazioni periferiche e può determinare distruzione della cartilagine, erosioni ossee e deformità articolari. Altre manifestazioni extraarticolari sono l’astenia,
la malattia pleurica, la pericardite, i noduli sottocutanei e la fibrosi polmonare46.
È stato osservato un effetto protettivo della gravidanza sullo sviluppo dell’artrite reumatoide.
Diagnosi
In accordo con la classificazione della American Rheumatism Association del 198747, per la
diagnosi di AR devono essere presenti almeno 4 dei 7 criteri elencati in Tabella. L’artrite deve essere presente per almeno 6 settimane.
Criteri della American Rheumatism Association (1987) per la diagnosi di AR
- Rigidità mattutina prolungata (oltre 1 ora)
- Artrite di >3 sedi articolari
- Artrite delle articolazioni tipiche delle mani
- Tumefazione simmetrica delle medesime sedi (destra e sinistra)
- Noduli reumatoidi
- Fattore Reumatoide (FR) serico
- Alterazioni radiologiche (erosioni o decalcificazione ossea iuxta-articolare)
Gli esami del sangue dimostrano spesso la positività del Fattore reumatoide (FR), anticorpi generalmente del tipo IgM diretti contro la porzione Fc delle immunoglobuline. La forma
350
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
IgM è presente nel 90% dei pazienti con artrite reumatoide. IgG, IgA e IgE sono presenti nel
65% dei casi. All’esordio dell’artrite reumatoide solo la metà dei pazienti, presenta il FR, e può
essere osservata positivizzazione in un ulteriore 20% nel corso del primo anno di malattia. Il
FR presenta elevata sensibilità, ma scarsa specificità per la diagnosi di artrite reumatoide. Esiste
correlazione tra una elevata concentrazione sierica del FR e sintomi sistemici, vasculite e decorso più severo della malattia, ma l’impiego del FR nel monitoraggio dell’attività della malattia e della risposta al trattamento resta controverso.
Recentemente sono stati studiati anche gli anticorpi anti-CCP (cyclic citrullinated peptide),
diretti contro residui di citrullina. Questi anticorpi presentano una elevata specificità (98%) e
una moderata sensibilità (68%) per l’artrite reumatoide. La concentrazione di questi anticorpi potrebbe essere utile insieme al fattore reumatoide come marker di prognosi o severità
della malattia48.
Complicazioni in gravidanza
Complicazioni materne
L’artrite reumatoide non influenza la fertilità. Durante la gravidanza il 70% delle pazienti
riferisce un miglioramento dei sintomi che inizia già nel primo trimestre e si protrae fino al
parto. Questo miglioramento consiste principalmente in una riduzione del dolore e della rigidità articolare, ed anche i noduli reumatoidi sottocutanei possono scomparire. In alcuni casi però l’artrite reumatoide si riacutizza nel post-partum49.
Alcuni Autori osservano solo una modesta riduzione obiettiva dell’attività dell’artrite reumatoide in gravidanza; solo il 16% delle pazienti ha una remissione completa, mentre almeno
il 25% non mostra miglioramento o presenta addirittura un peggioramento; nel post-partum
aumenta significativamente il numero delle articolazioni colpite50,51.
Sembra che la gravidanza influenzi poco la prognosi della malattia. Analogamente l’artrite
reumatoide non ha effetti negativi sul decorso della gravidanza.
La possibilità che l’artrite reumatoide esordisca in gravidanza è bassa, mentre è più frequente che compaia poco dopo il parto: la gravidanza ha un “effetto protettivo” sull’insorgenza della malattia, mentre la probabilità di insorgenza della malattia è 6 volte più elevata nei
primi tre mesi post-partum49.
Complicazioni fetali e neonatali
La percentuale di perdita della gravidanza sembra lievemente aumentata in donne affette
da artrite reumatoide o che svilupperanno la malattia in futuro, ma questo non preclude l’esito favorevole della gravidanza nella grande maggioranza di donne con artrite reumatoide.
Il rischio di pre-eclampsia, prematurità e ritardo di crescita fetale non sembra aumentare
nell’artrite reumatoide.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
351
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Management
La gravidanza non comporta rischi particolari per le donne affette da artrite reumatoide,
ma la questione fondamentale in gravidanza è ottenere un buon controllo della malattia con
una terapia farmacologica che riduca al minimo i rischi fetali con il più basso dosaggio terapeutico.
La gravidanza andrebbe programmata nel periodo di quiescenza della malattia. Il metotrexate va sospeso almeno 6 mesi prima del concepimento.
I FANS sono controindicati nel primo trimestre a causa del rischio di aborto e sono controindicati nelle ultime settimane di gravidanza per il rischio di chiusura precoce del dotto arterioso fetale.
Altri farmaci possono invece essere assunti in gravidanza con una ragionevole tranquillità
(cortisone, idrossiclorochina, ciclosporina). I sali d’oro sono stati impiegati in gravidanza, ma i
loro effetti sul feto sono in gran parte sconosciuti. Azatioprina e ciclofosfamide non sono comunemente impiegati in gravidanza.
Nel complesso le donne gravide con artrite reumatoide possono essere tranquillizzate
sull’outcome gravidico. Ogni paziente dovrebbe sottoporsi a visita medica ogni 2-4 settimane per tutto il tempo della gravidanza, soprattutto se la malattia non è in remissione. Il riposo è un aspetto importante del trattamento dell’artrite reumatoide ed anche la fisioterapia
può essere utile allo scopo di mantenere una buona mobilità articolare. Se necessario, durante la gravidanza si può ricorrere a infiltrazioni locali di steroidi. Il parto non richiede precauzioni particolari, a meno che una grave artrite deformante non costituisca un impedimento
meccanico al parto vaginale.
Se esiste un coinvolgimento del tratto cervicale del rachide si deve porre particolare attenzione perché la gravidanza predispone al rischio di sublussazione a causa della lassità articolare.
Nelle donne con malattia di lunga data o sintomi cervicali può essere utile una radiografia della colonna cervicale a collo flesso per escludere una sublussazione, e vanno evitate eccessive manipolazioni del collo durante l’anestesia generale.
L’interessamento dell’articolazione temporo-mandibolare e della laringe, comune anche
nelle pazienti giovani, può causare difficoltà all’intubazione se si deve ricorrere all’anestesia generale.
Sindrome di Sjögren
La Sindrome di Sjögren è una malattia autoimmune sistemica coinvolgente le ghiandole
esocrine, caratterizzata da un infiltrato linfoplasmacellulare che conduce alla perdita progressiva della funzionalità ghiandolare52. Si classifica in:
primaria: coinvolgimento delle ghiandole esocrine con o senza interessamento sistemico;
352
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
secondaria: in associazione con altre malattie autoimmuni (es. artrite reumatoide, LES, sclerodermia, vasculiti).
La prevalenza della Sindrome di Sjögren nella popolazione generale è di circa 0.3-1.5%.
La malattia si manifesta più frequentemente in donne di età compresa tra i 40 e 50 anni
(rapporto femmine: maschi di 9:1).
Le manifestazioni cliniche all’esordio possono essere aspecifiche e comparire molti anni
prima della diagnosi definitiva. Esse consistono in: secchezza oculare, secchezza delle fauci,
artralgie/artriti, fenomeno di Raynaud (35% dei pazienti), febbre, astenia, dispareunia, interessamento polmonare e renale.
Diagnosi
La diagnosi di sindrome di Sjögren richiede la presenza di 4 o più criteri dell’AmericanEuropean Consensus Group53.
Criteri della American-European Consensus Group Classification per la Sindrome di Sjögren
I Sintomi oculari: una risposta positiva ad almeno una delle seguenti domande
Ha una sensazione giornaliera e fastidiosa di secchezza oculare da almeno 3 mesi?
Ha una sensazione ricorrente di sabbia negli occhi?
Fa uso di lacrime artificiali più di tre volte al giorno?
II. Sintomi orali: una risposta positiva ad almeno una delle seguenti domande
Ha una sensazione giornaliera di secchezza orale da almeno 3 mesi?
Ha avuto in età adulta episodi ricorrenti e persistenti di tumefazione delle ghiandole salivari?
È costretto a bere frequentemente quando mangia cibi secchi?
III. Segni oculari: evidenza di impegno oculare documentato dalla positività di almeno uno dei seguenti test:
Test di Schirmer I (<5 mm in 5 min)
Test al Rosa Bengala (score >4 secondo van Bijsterveld)
IV. Istopatologia: un focus score >1 nelle ghiandole salivari minori:
V. Impegno delle ghiandole salivari: positività del flusso salivare non stimolato (<1.5 ml in 15 min)
VI. Presenza nel siero dei seguenti autoanticorpi: anti-Ro (SSA) o La (SSB), o entrambi
Criteri di esclusione: pazienti con pregressa radioterapia di capo e collo, epatite C, AIDS, linfoma preesistente, sarcoidosi, graft
versus host disease, uso di farmaci anticolinergici.
La sindrome di Sjögren è associata ad un ampio pattern di autoanticorpi, come anticorpi antitessutali, fattore reumatoide (20-30% dei pazienti) ed ANA, tra cui gli anticorpi antiRo (SSA) positivi nel 60-75% dei pazienti e gli anticorpi anti-La (SSB) positivi nel 40%.
Complicazioni in gravidanza
Mancano dati sugli effetti della gravidanza sulla sindrome di Sjögren, ma l’esperienza suggerisce che la prognosi è buona purché la malattia sia stabile al momento del concepimento.
Non si osserva un aumento di aborti spontanei o di complicanze materne. Può invece verificarsi un lupus neonatale con blocco cardiaco congenito.
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
353
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
Management
Management prenatale: monitoraggio della malattia materna
La malattia di Sjögren non controindica la gravidanza. Come con il lupus e le vasculiti, è
importante che la paziente continui la terapia con i farmaci appropriati come basse dosi di
steroidi, idrossiclorochina e/o azatioprina, ed eviti la gravidanza quando la malattia è attiva.
Sono utili il trattamento sintomatico della secchezza oculare e orale, e la prevenzione delle
complicanze attraverso una accurata igiene orale, visite oculistiche periodiche e l’umidificazione degli ambienti.
Management prenatale: sorveglianza fetale
Nella sindrome di Sjögren è raccomandano lo screening degli anticorpi anti Ro/SS-A e anti La/SS-B. Questi anticorpi possono attraversare la placenta e causare lesioni infiammatorie
del cuore, della cute e di altri organi fetali. Sono associati a blocco cardiaco congenito. Questa
complicanza è particolarmente frequente in pazienti con sindrome di Sjögren (1:20) per la
forte associazione con antigeni HLA-DR3 e anticorpi anti-Ro54.
È opportuno che le donne con sindrome di Sjögren eseguano controlli ecografici ostetrici ogni 2 settimane, a partire dalla 18a settimana e che la frequenza cardiaca fetale sia monitorata attentamente nella fase tardiva della gestazione.
Il trattamento del feto con desametasone somministrato alla madre può revertire il blocco congenito se iniziato in una fase precoce. Se il feto presenta un blocco cardiaco congenito, il parto dovrebbe avvenire in un’unità con il servizio di cardiologia pediatrica.
Sclerosi sistemica
È un disordine multisistemico ad etiologia sconosciuta, caratterizzato da fibrosi della pelle, dei vasi sanguigni e degli organi interni. Si distinguono due forme55:
- sclerosi sistemica limitata o sindrome CREST (calcificazioni della cute coinvolta, fenomeno di Raynaud, ipomotilità esofagea, sclerodattilia e teleangectasia);
- sclerosi sistemica diffusa (rapido sviluppo di ispessimento cutaneo simmetrico di estremità prossimali e distali, faccia e tronco, ad alto rischio di coinvolgimento viscerale precoce).
Alcuni studi hanno dimostrato che la presenza di cellule fetali chimeriche nei tessuti materni potrebbe in seguito predisporre alla sclerosi sistemica56. Comunque la persistenza di cellule fetali nella madre dopo la gravidanza (microchimerismo) non è ristretta a pazienti con la
sclerosi sistemica e può essere riscontrata in individui sani.
Diagnosi
La diagnosi di sclerodermia non presenta particolari difficoltà in presenza di un fenomeno di Raynaud associato a lesioni cutanee tipiche e ad interessamento viscerale.
La manifestazioni cliniche della sclerosi sistemica sono molteplici:
354
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
-
cutanee: edema seguito da fibrosi cutanea, teleangectasie, calcinosi, fenomeno di Raynaud
articolari: artralgie/artrite
gastroenteriche: ipomotilità esofagea, ipofunzione intestinale
polmonari: fibrosi polmonare interstiziale, ipertensione polmonare, alveolite
cardiache: pericardite, cardiomiopatia, alterazioni della conduzione
renali: ipertensione, crisi renale/insufficienza renale
Gli anticorpi ANA si riscontrano nel 95% dei pazienti, la metà presenta crioglobuline sieriche.Tra i pazienti con sclerodermia cutanea limitata e variante CREST sono comuni gli anticorpi anti-centromero. Il 20-40% dei pazienti possiede anticorpi anti-scl-70, diretti contro la
DNA topoisomerasi I. I pazienti con questi anticorpi sono generalmente più giovani dei pazienti con anticorpi anti-centromero, e sono spesso affetti da fibrosi polmonare.
Complicazioni in gravidanza
Complicazioni materne
L’outcome della gravidanza in donne affette da sclerosi sistemica è generalmente favorevole e la fertilità è sovrapponibile a quella della popolazione generale.
La sclerosi sistemica può comparire per la prima volta in gravidanza o nel post-partum,
ma solitamente non peggiora durante la gravidanza se la condizione è stabile al momento del
concepimento57. I sintomi della sclerodermia generalmente restano stabili o migliorano durante la gravidanza, ma possono riacutizzarsi nel post-partum.
Il fenomeno di Raynaud tende a migliorare, in particolare con l’aumento della gittata cardiaca nella seconda metà della gravidanza.Tendono invece a peggiorare o a comparire per la
prima volta il reflusso gastroesofageo e la disfagia, le aritmie cardiache, l’artrite. Si può osservare un deterioramento delle modificazioni sclerodermiche cutanee nella sclerosi sistemica
diffusa, specialmente nel post-partum.
Probabilmente la gravidanza è sicura nelle pazienti senza coinvolgimento renale, cardiaco
o polmonare. Le pazienti con coinvolgimento viscerale diffuso devono invece affrontare un
aumentato rischio di morbilità e mortalità.
Le principali complicanze della sclerosi sistemica sono le crisi renali, caratterizzate da ipertensione maligna e insufficienza renale progressiva. Lacerazioni di Mallory-Weiss si possono
verificare in donne con sclerosi sistemica con malattia esofagea e possono causare emorragie pericolose.
Le principali cause di morte in gravidanza in donne affette da sclerosi sistemica sono l’ipertensione, l’insufficienza renale o le complicanze cardio-polmonari.
Complicazioni fetali e neonatali
La sclerosi sistemica è stata storicamente associata con un’aumentata incidenza di aborti
prima e dopo l’insorgenza della malattia, comunque dati più recenti mostrano che solo le donGRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
355
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
ne con sclerodermia diffusa di lunga durata, spesso affette da malassorbimento o insufficienza renale, hanno un effettivo aumento della percentuale di aborti58. Il parto pretermine è la
complicanza ostetrica più frequente (circa 30% delle gravidanze), ma fino ad oggi resta inspiegabile.
Con il management attuale, l’incidenza di IUGR è solo lievemente aumentata, mentre la
mortalità perinatale è aumentata solo in pazienti con sclerosi sistemica diffusa tardiva. Come
con il LES, è importante che la malattia materna sia stabilizzata prima della gravidanza al fine
di ridurre i rischi di complicanze materne e fetali.
Management
Management prenatale: monitoraggio della malattia materna
Nelle donne affette da sclerosi sistemica il counselling preconcezionale è importante per
determinare la funzionalità renale, polmonare e cardiaca. Le donne vanno invitate ad affrontare la gravidanza solo quando la malattia è stabile da 3-5 anni. Sfortunatamente non esiste
un trattamento efficace per questa patologia. La terapia è sintomatica e diretta al danno dei
singoli organi.
Nella valutazione della paziente gravida si dovrebbero includere, oltre agli esami richiesti
per la maggioranza delle malattie autoimmuni, anche una consulenza pneumologica e cardiologica, includendo le prove di funzionalità respiratoria e l’ecocardiografia. Il polmone è un organo bersaglio di questa malattia e in alcune pazienti la progressiva fibrosi interstiziale polmonare determina fatica respiratoria anche per sforzi modesti e può instaurarsi una cardiopatia
secondaria all’ipertensione polmonare.
Il rischio maggiore in gravidanza per la madre e il feto deriva però dalle crisi renali; esse si
presentano con ipertensione severa ad insorgenza acuta, spesso con trombocitopenia e peggioramento quotidiano dei valori della creatinina sierica in donne con sclerodermia diffusa da
meno di 5 anni58. Le crisi renali devono essere distinte dalla pre-eclampsia. Un aumento giornaliero della creatinina sierica e l’assenza di proteinuria negli stadi precoci fanno propendere
per la crisi renale della sclerosi sistemica, mentre il peggioramento dei test di funzionalità epatica è presente solo nella pre-eclampsia. Gli ACE inibitori che non sono consigliati in gravidanza diventano essenziali nel controllo dell’ipertensione e delle crisi renali in pazienti gravide con sclerosi sistemica59. A differenza della pre-eclampsia, il parto non influenza il decorso
dell’ipertensione e della crisi renale.
In pazienti con malattia stabile e storia di una crisi renale prima della gravidanza è possibile mantenere il controllo pressorio con nifedipina, ma se la pressione o i valori di creatininemia cominciano a peggiorare dovrebbe essere ripreso un ACE inibitore dopo una appropriata discussione con la paziente. Con un management attento l’anamnesi di una pregressa
crisi renale non è una controindicazione per future gravidanze purché la malattia sia stata sta356
GRAVIDANZA AD ALTO RISCHIO Management in assenza di EBM
Gestione clinica della gravida con patologia autoimmune
bile per 3-5 anni prima della gravidanza. La nifedipina può essere somministrata per un fenomeno di Raynaud severo in gravidanza, ma i vasodilatatori dovrebbero essere sospesi in assenza di ipertensione. I corticosteroidi possono essere utili in casi selezionati.
Management prenatale: sorveglianza fetale
Il possibile rischio di ritardo di crescita e di morte fetale richiede controlli ecografici seriati. Alla 30a-32a settimana di gravidanza, o anche prima se la situazione lo richiede, si deve
iniziare il controllo del benessere fetale.
Management intrapartum
La sclerosi