Centro Diocesano di Pastorale Familiare
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Centro Diocesano di Pastorale Familiare Terza Domenica di Quaresima a cura di don Francesco Pilloni Tra l’uomo nella lotta della tentazione e del peccato, e l’Uomo rivestito della gloria di una carne luminosa e partecipe di Dio, si snoda il cammino della Quaresima. Le prime due domeniche ci hanno arricchito della contemplazione della nostra verità e della speranza della gloria. E hanno messo al cuore del mistero Colui che vi abita: Gesù risorto, verso il quale camminiamo. Le domeniche che si aprono dinanzi a noi snodano tre figure battesimali: l’acqua, la luce, la vita. Con la donna di Samaria - apparentemente sconfitta da una visione riduttiva di Dio e dal cammino della sua vita che si è svolta come una moltiplicazione dell’amore, senza raggiungere la meta - incontriamo Gesù al pozzo (vangelo). E’ mezzogiorno e Gesù siede «sul pozzo» secondo la narrazione che ne fa il vangelo di Giovanni, identificandosi con esso. L’immagine che trovate qui a fianco, tolta da un mosaico di Padre Marko Ivan Rupnik, lo pone in giusta evidenza: la veste di Gesù sconfina nel pozzo e il pozzo sconfina in Gesù, contro ogni legge dell’ottica. Gesù e il pozzo sono una cosa sola, e serve una vista che va oltre il nostro vedere per accorgersene: la visione della fede, che Gesù suscita pazientemente nella Samaritana, con divina pedagogia. Fede che è incontro, scoperta e risposta. L’incontro rivela infatti la persona di Gesù, il suo mistero, quello cioè che sfugge all’osservazione indifferente o alla semplice ricerca anche «religiosa» e pia. Apre alla scoperta del suo essere pozzo di acque vive. L’umanità trova nel deserto (prima lettura) o l’aridità o pozzi che custodiscono la memoria dell’acqua, ma non l’acqua viva: essa sgorga solo nel Verbo che il Padre ha generato nel suo seno e nell’Amore in cui ci ha creati. E il Verbo fatto carne è dinanzi a noi, come dinanzi alla Samaritana e si offre come autentica sorgente dell’amore di Dio (in effetti san Giovanni parla di «sorgente» e non di «pozzo»): la sorgente stessa della vita, della luce e dell’acqua, circoscritta nella nostra umanità, con essa identificata e in essa offerta. La sorgente che la nostra sete cerca, errando nel deserto alla ricerca di una vita e di un amore che abbiano la qualità di Dio (vita «eterna») e non la fragilità dell’uomo. Assistiamo - e lo vediamo guardando l’immagine qui riprodotta - ad uno scambio di sete e di brocche: la nostra cade a terra e quella del Signore rimane nelle sue mani: offerta. Dio rivela così la sete che ha di noi e ci offre l’acqua per compierla: lo Spirito Santo. Non la possiamo conquistare da noi stessi, ma essa è dono di Gesù, sgorga da Lui al quale siamo identificati con tutta la nostra vita. Ecco il segno (sacramentum) del nostro battesimo: ci lasciamo avvolgere e travolgere (guardiamo ancora l’immagine) da quest’acqua, che ci fa morire a ciò che siamo e ci fa nascere di nuovo, da acqua e da spirito. Muore Adamo, risorge Cristo in noi: ecco la Pasqua. La nostra o quella di Cristo? La nostra in Lui e la sua in noi. «Chi si unisce infatti al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 7,16) e questa vita che viviamo nella carne la viviamo nella fede in lui, così che non più noi viviamo, ma lui vive in noi (cfr. Gal 2,20). Sono queste le Nozze di amore tra Dio e l’umanità, Nozze dello Spirito e della carne. Per questo alla scoperta segue la risposta. Il vostro amore di sposi contiene la promessa della creazione ed essa canta in voi. E’ un canto ferito e sepolto, una sete della pienezza dell’amore. E’ con questa che la coppia di sposi si rivolge al Signore, immergendo in lui non solo la vita personale, ma quella di coppia, quella relazionale e la famiglia che da essa scaturisce. La vita di coppia è per ogni persona un divenire del sacramento ricevuto in dono: è una esistenza di «due in una carne» che si svolge come sacramento. Che bellezza e grazia! E quale gratitudine per la nostra fragilità e povertà accolta da Dio nella carne del suo Figlio. E’ così che la coppia diviene sposa di Cristo e simbolo della Chiesa, senza cessare di essere sposo e sposa sul piano della propria umanità. Scambiarsi l’acqua dello Spirito Santo che nel sacramento ci è stato dato in dono, lasciarsi imbevere da essa come un terreno assetato, umile e grato. Scoprire ogni gesto normale come un dono colmato di grazia. Guardarsi con gli occhi illuminati dallo Spirito, farsi uno con carne grata ricolma di dono e bellezza, dare vita a figli chiamati un divenire di bellezza e di unità con Dio dentro questo amore: figli non solo nostri, ma della Chiesa; figli del Padre nel Figlio. Guardare a chi soffre con amore illuminato e misericordioso, condividere la bellezza ordinaria, ma pure così straordinaria del proprio amore con altri sposi, altre famiglie; avvicinare umilmente chi vive una condizione di fragilità e di povertà proprio nelle relazioni familiari: l’esule, l’immigrato, la persona rimasta sola come quella abbandonata. Un amore così pacificato, riempito di uno sguardo contemplativo, è una luce che giunge al cuore di tutti e che dice: «siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. … E’ in lui che abbiamo accesso a questa grazia». Di questo «ci vantiamo» perché un amore che origina e completa il nostro è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (seconda lettura).