film discussi insieme 2002
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film discussi insieme 2002
FILM DISCUSSI INSIEME 2002 Premio S. Fedele 2002 di ERMANN FILM DISCUSSI INSIEME 2002 Centro Culturale San Fedele - Milano O OLMI Centro Culturale San Fedele P.za San Fedele, 4 - Milano Film discussi insieme 2002 Volume 42° con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali FILM DISCUSSI INSIEME 2002 a cura di EUGENIO BRUNO S.I. coordinamento redazionale: RAFFAELLA GIANCRISTOFARO hanno collaborato per: “manifesti”: MIRELLA POGGIALINI “la storia”: LUISA ALBERINI collaborazione alla redazione: MARÌ ALBERIONE redazione: CENTRO CULTURALE SAN FEDELE P.zza San Fedele 4 20121 Milano (Mi) stampa: ARTI GRAFICHE COLOMBO Cusano Milanino (Mi) Ci scusiamo con i soci del fatto che non è stato possibile pubblicare, integralmente o in parte, tutti i commenti pervenuti. 2 FILM DISCUSSI INSIEME Questo volume, che contiene la documentazione del Cine-referendum San Fedele 2001-2002, è offerto: - agli spettatori del Cine-referendum che, hanno voluto esprimere, con attenzione e responsabilità, la propria opinione su quanto, in idee e in stili, produttori e registi hanno fatto circolare nella società con alcuni dei loro recenti film; - a quegli autori cinematografici che, professando un sincero rispetto per il pubblico, sono attenti anche alle ragioni più profonde della sorte dei loro film, considerando gli spettatori più esigenti come i loro interlocutori preferiti; - ai critici cinematografici che cercano, mediante le recensioni sulla stampa, di provocare negli spettatori una più vivace sensibilità e un gusto più maturo, sperando di intrecciare con essi un fruttuoso dialogo; - a quegli esercenti delle sale cinematografiche che desiderano conoscere, non solo in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi le risposte del pubblico alle loro proposte; - a quegli operatori culturali che credono nel cinema come occasione di crescita umana e culturale, e si sforzano di creare occasioni di incontro, approfondimento, scambio; - a tutti coloro che vogliono confrontarsi con una varietà di giudizi, opinioni e riflessioni su e a partire da i film. FILM DISCUSSI INSIEME 3 INTRODUZIONE Il Cinereferendum per il Premio San Fedele è un’iniziativa che vuole promuovere un’attenzione al cinema come mezzo di comunicazione culturale ma anche creare un momento di educazione per abituare alla convivenza delle diverse opinioni. Un’atmosfera di rispetto, di attenzione e di simpatia che produce il frutto del Premio assegnato al film apparso alla maggioranza come il più riuscito. Il Ministero dei Beni e delle Attività culturali attraverso il Patrocinio concesso a questo Premio dà al pubblico di questa edizione - e a quelli che hanno dato vita alle 45 precedenti - un segno di stima e di ringraziamento. Risulta significativo, dal punto di vista della storia del Premio, che il riconoscimento vada a un regista autorevole e che fa onore alla storia del cinema italiano come Ermanno Olmi, già premiato nel 1958 per Il tempo si è fermato e nel 1979 per L’albero degli zoccoli. I valori di Il mestiere delle armi, come degli altri film in concorso, sono presentati in questo volume soprattutto grazie ai commenti degli spettatori, scelti tra i molti scritti durante l’anno. Siamo convinti d’altra parte che proprio questa sia la specificità del Premio San Fedele: creare un contatto tra un pubblico attento ed esigente e gli autori dei film, offrire agli spettatori la possibilità di rispondere ai registi, di raggiungere il loro cuore e l’intimo delle loro riflessioni. p. Eugenio Bruno S.I. Grazie ai soci che hanno scritto e ai redattori che hanno lavorato per questo volume. Sono stata particolarmente felice di accogliere la richiesta di Padre Bruno di scrivere questa breve prefazione, perché desidero contribuire a testimoniare l’elevata qualità del Centro Culturale San Fedele e l’entusiasmo di quanti concorrono a realizzare questa iniziativa. Scorrendo il programma delle proiezioni realizzate dal Centro San Fedele, mi è passato davanti agli occhi un anno di Cinema, un anno di Cinema di qualità: ho rivissuto le emozioni, le suggestioni e gli interrogativi, che ognuno di questi film, ottimamente selezionati, ha suscitato in me. E ho pensato al pubblico che ha avuto la possibilità di vedere e “discutere insieme” questi film. Proprio in questo “discutere insieme” risiede, a mio avviso, il significato più alto e la vera peculiarità di questa iniziativa. Il Centro San Fedele ha sollecitato lo scambio e il confronto proponendo un dibattito, un cine-referendum, coinvolgendo pubblico, autori e operatori del settore. Non conosco il pubblico che ha assistito alle proiezioni e animato il successivo dibattito, spero ne facciano parte molti giovani. È importante proporre ai giovani un Cinema di qualità, abituarli e farli innamorare della complessità del linguaggio cinematografico, è importante condividere con loro e confrontarsi su temi importanti, è importante che abbiano la possibilità di dialogare con chi questo buon Cinema concorre a realizzarlo per far comprendere loro quanto sia affascinante, e nello stesso tempo complesso, immaginare e comporre le immagini che passano sullo schermo, sul grande schermo. Per concludere, vorrei salutare e ringraziare tutti coloro che hanno lavorato, e continuano a lavorare, per rendere possibile tutto ciò, salutare e ringraziare il pubblico delle proiezioni del Centro San Fedele, destinatario e anima di questo progetto, infine salutare e ringraziare, per il suo Cinema e la sua intelligenza, il Maestro Ermanno Olmi, vincitore del Premio San Fedele 2002. Rossana Rummo Ministero per i Beni e le Attività Culturali FILM DISCUSSI INSIEME 5 Gli oltre 500 spettatori del Cinereferendum San Fedele, dopo aver visionato settimanalmente, in un anno, trenta film della stagione hanno assegnato, dopo ballottaggio tra i primi due film, il 46° PREMIO SAN FEDELE al regista ERMANNO OLMI per il film IL MESTIERE DELLE ARMI Il DIPLOMA DI MERITO viene assegnato a MIKADO (Roma) per aver distribuito il film premiato MENZIONI valori umani Pauline e Paulette Per averci condotto, con la severa struggente bellezza delle immagini, sceneggiatura su gelidi campi di battaglia che sono paesaggi dell’anima fotografia e poi al capezzale di Giovanni, giovane guerriero figura Christi, regia tradito e sacrificato sull’altare della politica. manifesto Per aver ritratto non tanto un eroe del passato, Il mestiere delle armi ma la verità esistenziale di un uomo che si trova ad affrontare in solitudine sonoro l’agone più impegnativo della sua vita. Monsoon Wedding Per aver restituito, attraverso una struttura narrativa e figurativa recitazione che coniuga visionarietà e realismo, allucinazione e ricordo, A Beautiful Mind la contradditorietà e drammaticità del mistero del vivere ma anche la difficoltà e ineluttabilità del confronto con la morte. Per averci posto, con intonazione sapienziale, di fronte alla grandezza e alla miseria di ogni persona, sospesa tra la riduzione a una funzione, un ruolo, una corazza esteriore e la consapevolezza della propria responsabilità personale e della propria dignità spirituale. Per aver ritrovato nella filigrana di questa storia di ieri l’attualità di un’inquietudine giovanile che corteggia la morte, la denuncia della violenza della guerra e della pericolosità delle armi, la constatazione dell’inaffidabilità dei politici. Per aver trasmesso attraverso gli occhi di un bambino, testimone degli eventi e figura dello spettatore, sentimenti di stupore, paura e candore controbilanciando con questa promessa di vita lo spegnersi del protagonista. 6 FILM DISCUSSI INSIEME FILM DISCUSSI INSIEME 7 Film discussi insieme 2002 La storia del Premio San Fedele per il cinema PREMIO SAN FEDELE PER IL CINEMA È stato creato nel 1956 come riconoscimento per le opere cinematografiche valide e animate da motivi spirituali, scelte tra la produzione italiana da una giuria composta da esponenti del mondo artistico e culturale (il premio consiste in una statua del martire Fedele, opera dello scultore Lucio Fontana). 1956 a Vittorio De Sica per Il tetto 1957 a Federico Fellini per Le notti di Cabiria 1958 a Pietro Germi per L’uomo di paglia 1959 a Alberto Lattuada per La tempesta 1960 a Ermanno Olmi per Il tempo si è fermato 1961 a Gillo Pontecorvo per Kapò 1962 a Francesco Rosi per Salvatore Giuliano 1963 a Federico Fellini per Otto e mezzo 1964 a Luigi Comencini per La ragazza di Bube 1965 a Carlo Ludovico Ragghianti per Michelangelo 1966 a Carlo Lizzani per Svegliati e uccidi 1967 a Elio Petri per A ciascuno il suo Dal 1968 il Premio fu soppresso. Dal 1964 si chiese al pubblico di indicare il film migliore per assegnargli la “Scheda d’oro” e furono ammessi anche film stranieri. 1964 a Luigi Comencini per La ragazza di Bube 1965 a Pier Paolo Pasolini per Il Vangelo secondo Matteo 1966 a Alessandro Blasetti per Io, io, io e... gli altri 1967 a Claude Lelouch per Un uomo una donna 1968 a Fred Zinnemann per Un uomo per tutte le stagioni 1969 a Nelo Risi per Diario di una schizofrenica 1970 a Damiano Damiani per La moglie più bella 1971 a Damiano Damiani per Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica 1972 a Francesco Rosi per Il caso Mattei 1973 a Jan Kadar per Nuda dal fiume Dal 1974 il Premio San Fedele fu ripreso e affidato al pubblico che d’ora in poi dovrà assegnarlo “al film che assurgendo a dignità artistica, attua, con i mezzi propri del linguaggio cinematografico, una comunicazione sincera ed efficace dei valori umani”. FILM DISCUSSI INSIEME 11 1974 a Ingmar Bergman per il film Sussurri e grida “per avere felicemente proseguito e approfondito con linguaggio essenziale e trasparente, accomunando passato e presente nell’unitaria interiorità dei personaggi, il dramma della solitudine di chi, vittima del proprio disfacimento morale, cade nell’isolamento più disperato e crudele in contrasto con la serena comprensiva disponibilità di chi invece, in un’autentica fiducia in Dio, trova forza di soffrire e di avvicinarsi pietosamente al dolore altrui”. 1975 a Dalton Trumbo per il film E Johnny prese il fucile che “con immediatezza e aderenza psicologica, attraverso la commossa descrizione di un caso limite rivissuto in una drammatica costruzione narrativa articolata su efficaci contrasti di toni e di temi, conduce lo spettatore fino alla più appassionata protesta non solo contro i conflitti armati ma anche contro ogni forma di sopraffazione dell’uomo, indicando ancora una volta l’amore comprensivo e generoso come il primo valore fondamentale dell’umanità”. 1976 a Milos Forman per il film Qualcuno volò sul nido del cuculo “per aver affermato, attraverso la trasfigurata ricostruzione di un ambiente, nel quale i rapporti umani spesso sono più repressi che stimolati, riuscendo a fondere in un suggestivo spettacolo elementi drammatici e momenti di arguto sarcasmo, il diritto fondamentale di ogni uomo alla autodeterminazione sostenuta da un senso di fraternità universale”. 1977 a Akira Kurosawa per il film Dersu Uzala che “con mirabili immagini e un ritmo maestoso di sequenze tematicamente dense e toccanti, propone un personaggio d’altri tempi unito alla natura come al suo primario elemento vitale, affascinante nel suo rispetto generoso verso ogni creatura, indicando nella corresponsabilità cosmica l’anima di un umanesimo migliore”. 12 FILM DISCUSSI INSIEME 1978 a Emili Lotjanu per il film I lautari che “in uno scenario affascinante di una natura incontaminata percorsa da un folklore popolare ricco di sensibilità musicale e di aspirazioni alla giustizia e alla libertà, racconta con freschezza fotografica e unità di stile a metà tra il sogno e la realtà vista malinconicamente ma non senza speranza, il peregrinare di un suonatore di violino alla ricerca di un bene assoluto ripetendo gli eterni problemi della vita di ogni uomo chiamato a liberarsi dalle cose per incontrare l’Amore”. 1979 a Ermanno Olmi per il film L’albero degli zoccoli che “nella soffusa luminosità della campagna bergamasca, resa solenne da un maestoso adagio musicale, rappresentando con sguardo devoto e lirico un passato appena trascorso, ritmato dal pacato susseguirsi delle stagioni, la vita semplice dilatata in una celebrazione rituale della terra e della fatica all’insegna del pudore e della dignità, ammirando in essa la forza della famiglia unita, la solidarietà creata dal dolore, l’obbediente fiducia in Dio cardine della vita umana, denunziando con sottile efficacia il peso dell’ingiustizia sociale, invita a proseguire sulla strada della storia con il coraggio della gioia e della libertà”. 1980 a Robert Benton per il film Kramer contro Kramer che “con una sceneggiatura sorretta da una motivata analisi del nostro tessuto sociale e costruita con tocchi delicati di situazioni e sentimenti spesso solo sfiorati e tutta da intuire, ha saputo raccontare in modo certamente scaltro e accattivante ma altrettanto puntuale e preciso col determinante apporto di attori la cui efficace espressione ha dato volto spontaneo all’interiorità dei personaggi, il percorso doloroso di un’esistenza vicina a tutti e di tutti i giorni senza invettive né odio né patetiche lusinghe dove il più bisognoso di amicizia diventa cardine per la riscoperta dell’amore come dono consapevole del proprio sacrificio”. 1981 a Akira Kurosawa per il film Kagemusha che “con un denso impianto narrativo affidato a immagini suggestive per plasticità di forme e di riflessi cromatici, montato su ritmi ora lenti ora convulsi con lo sguardo al comportamento delle persone e sul magico agitarsi delle masse esaltate dal tragico rituale delle battaglie, ha efficacemente illuminato con altissima voce nel silenzio delle ipocrisie, in una maestosa ricostruzione dell’epopea nipponica cinquecentesca la trasfigurazione morale di chi, chiamato dalla sorte a nascondere insinceramente la morte di un uomo nobile e valoroso, alla fine preferisce seguirlo nella realtà di un eroico sacrificio”. 1982 ex-aequo a Istvàn Szabó per il film Mephisto che “con la straordinaria recitazione di un attore capace di percorrere mirabilmente la vasta gamma delle espressioni drammatiche – con una sontuosa e affascinante sceneggiatura dai toni di raffinata narrazione teatrale – producendo una suggestiva atmosfera di profonda tensione, affidata anche all’incalzare dei dialoghi e alla robusta tenuta spettacolare, riesce a esprimere la costituzionale ambiguità di un personaggio che, per salvare la propria immagine di attore per l’arte e quella minacciosamente esigita da altri di attore per il partito, gradualmente vive la penosa esperienza del proprio vuoto dietro una maschera scenica che diventa smorfia e disprezzo, nella quale è lecito leggere l’emblematicità storica della disumanizzazione disperata e allucinante di quando la sopraffazione del potere nega l’autenticità creatrice”. e a John Badham per il film Di chi è la mia vita? che “ambientato in un luogo di dolore, dalla perfetta organizzazione tecnica, nel quale si muovono personaggi spesso standardizzati nel loro comportamento estraneo al vero problema del malato – con una narrazione dal ritmo svelto e scabro fino a una voluta parsimonia spettacolare – dando convincimento alla dialettica incalzante, proposta con chiarezza ed equilibrio, riesce a esprimere il diritto alla libertà di ogni uomo, anche quando è privato della sua efficienza fisica, contro l’aggressione ipocritamente filantropica di chi vorrebbe ridurlo a semplice oggetto da gestire per il proprio successo fino alla mostruosità che la natura stessa con le sue leggi non contempla – rivelando l’intimo sguardo dell’oppresso morente verso quall’artistica Mano che dà la vita nel cui cavo è raccolto l’ultimo istante del racconto e l’anelito di ogni esistenza umana”. 1983 a Richard Attenborough per il film Gandhi che “con una sceneggiatura sempre incalzante, una convincente interpretazione del protagonista e una accuratissima e calibrata regia, è riuscito a rievocare la rigorosa ascesi spirituale del Mahatma Gandhi in dialogo con l’immensità dei problemi morali e politici, spesso contraddittori, di un’India dalla miseria avvilente e dalle tenaci speranze, invitando tutti alla conversione della coscienza per affermare la morale rivoluzionaria della non violenza in una resistenza passiva che con l’insistente disarmata protesta porta alla condanna unanime dei fautori dell’ingiustizia”. 1984 ex-aequo a Ingmar Bergman per il film Fanny e Alexander che “attraverso lo sguardo di due candidi ragazzi, con linguaggio limpido, inciso e raffinato nell’esatto rigore di una rivelazione poetica e nella cruda e appassionata aderenza al dramma dell’uomo in cerca di assoluto, riassume, ricavandoli da uno scavo autoanalitico, antichi ricordi affettuosamente accarezzati con voluttuosa nostalgia di interrogativi cruciali del suo noto patrimonio artistico e morale con il suo rifiuto di un mondo malvagio e ipocrita incalzato dall’angosciante silenzio di Dio tentato dall’effimero godimento del quotidiano insufficiente a dare luce e colore al futuro dell’uomo sempre in attesa della vita”. e a Murray Lerner per il film Da Mao a Mozart che “è riuscito con immediatezza creativa e delicatezza di impostazione narrativa apparentemente svagata a trasformaFILM DISCUSSI INSIEME 13 re il documentario di un viaggio in un trattato di vita e di umanesimo accantonando ogni dimensione semplicemente politica e a indicare nell’arte più pura l’occasione efficace per l’incontro di mondi lontani che si confrontano nella tendenza alla perfezione di una tecnica e di un sentire musicale risposta fervida e totale dello spirito all’universale richiamo di serenità e di reciproca comprensione”. 1985 a Roland Joffé per il film Urla del silenzio che “al suo debutto cinematografico, con uno stile documentaristico efficacemente ritmato, sostenuto da un commento appropriato e dall’impeccabile recitazione dei due protagonisti nel quadro di un’agghiacciante subdola e disumana lotta fratricida che non conosce pietà ma solo cieca rabbia vendicativa, denuncia il genocidio consumato in Cambogia ponendolo in contrasto con il valore di un’amicizia che trova nella solidarietà totale per una sopravvivenza costruttiva la soluzione dei conflitti più radicali”. 1986. Il pubblico del Cine-referendum non si è trovato concorde sul film da premiare. Pertanto il Premio San Fedele non viene assegnato. Si segnalano però i tre film relativamente più votati: Dietro la maschera di Peter Bogdanovich “per la dimostrazione drammatica ma soave del valore della persona come fonte di amicizia profonda”; Ran di Akira Kurosawa “per il tenace rifiuto della violenza come follia della prepotenza in un racconto dalle forti emozioni spettacolari”; La mia Africa di Sidney Pollack “per l’affascinante ricostruzione di un paesaggio africano primitivo e accogliente che fa da ampio sfondo a una vicenda tenera e coraggiosa”. 1987 a Ettore Scola per il film La famiglia che “con delicata sensibilità tra il divertito e il malinconico e la collaborazione di magistrali interpreti, raccontando ottant’anni di vita trascorsi da persone comuni in uno stesso appartamento dalla ridotta quotidianità, conferma il senso e 14 FILM DISCUSSI INSIEME il valore della famiglia che pur mutando per vicende interne ed esterne rimane il cardine della nostra vita alla ricerca di nuovi autentici affetti”. 1988 a Richard Attenborough per il film Grido di libertà che “con una splendida fotografia e una solida regia, capace di manovrare con ritmo esasperante scene di massa e momenti di tensione interiore, ha saputo coinvolgere, con appassionante partecipazione, nella sofferenza di un popolo represso e nella condanna di un’insostenibile segregazione razziale”. 1989 a Gabriel Axel per il film Il pranzo di Babette “per aver raccontato con un’intensità plastica e cromatica fino ai vertici della poesia e della commozione, unendo con tocco sapiente e sottile umorismo l’austero rigorismo scandinavo a una aperta vitalità latina, la generosa semplicità e l’orgoglio professionale della cuoca Babette nel tentativo di riappacificare gli animi in un sereno incontro aperto alla felicità”. 1990 ex-aequo a Jerry Schatzberg per il film L’amico ritrovato “per aver narrato a ritroso, con immagini brevi dai colori caldi e dal fluire insinuante proprio dei ricordi, un viaggio alla ricerca di un’identità spezzata, in un clima attuale che ancora impone reciproca incomprensione, per affermare quanto sia deleteria per la dignità dell’uomo ogni forma di piccola o grande demagogia”. 1990 ex-aequo a Giuseppe Tornatore per il film Nuovo Cinema Paradiso “per aver narrato gli anni d’oro del cinema di provincia, unico rifugio delle folle per sognare una felicità negata dalla vita di ogni giorno, affidando al commovente rapporto tra l’anziano operatore, fiero del proprio potere di elargire sogni, e il piccolo spettatore smanioso di crescere, il segno di una nostalgia che è invito a conservare l’ingenuità dei semplici”. 1991 a Kevin Costner per il film Balla coi lupi che “con un senso arioso del racconto e uno stile suadente e discorsivo ricco di simpatiche annotazioni, solidamente strutturato in tempi ben calibrati, con immagini di grande suggestione in un meraviglioso spettacolo cinematografico, ambientato in una affascinante sconfinata prateria, presenta senza accenti retorici una seria e severa rivalutazione della fiera civiltà di alcune tribù indiane d’America all’arrivo degli europei”. 1992 a Zhang Yimou per il film Lanterne rosse che “con un’impeccabile partitura fotografica, esaltata da raffinati effetti cromatici, da scenografie allusive e stilizzate, affascinanti e misteriose, con un racconto dall’intenso rigore narrativo scandito dal succedersi delle stagioni, con la significativa esclusione della primavera simbolo di giovinezza, esprime il dramma delle donne e di tutti coloro che, per affermare la dignità della persona umana, si lasciano sospingere verso la pazzia dalla paura e dalla devastante discesa nel gorgo dei compromessi piuttosto che sottomettere la propria volontà a un potere infido e nascosto”. 1993 a Maurizio Zaccaro per il film La valle di pietra “per aver costruito un elegante racconto cinematografico, avvincente per il ritmo pacato, la felice scelta degli attori e la fotografia dai toni caldi che trasforma volti e oggetti in altrettante occasioni di incontri emozionanti, valorizzando il continuo affiorare di ricordi ambientati nell’incanto di pesaggi dalla malinconica bellezza, per esaltare l’amicizia come reciproca comprensione piena di pudore e di delicate attenzioni fino alla generosità nel sacrificio”. 1994 a Steven Spielberg per il film Schindler’s List che “con un montaggio teso e incalzante, una fotografia in bianco e nero dal sapore realistico, bilanciata da appassionati accenni di colore, una ricostruzione fedele e agghiacciante delle prigioni e delle torture, una regia scrupolosamente attenta a non deviare dallo scopo umanitario e ad avvicinare, senza retorica, alla realtà del dramma vissuto dagli ebrei nell’ultimo conflitto mondiale ha comunicato il valore di ogni persona, della sua dignità e del suo diritto alla libertà, indicando nella progressiva decisione del protagonista di salvare degli innocenti – di cui mirabile esempio è il contabile che lo assiste – l’urgenza che si riaffermi il coraggio della coerenza nel reagire sempre e dovunque all’onda devastatrice dell’odio, sotto qualunque simbolo si presenti, per dare all’umanità oggi e domani giustizia e pace”. 1995 a Michael Radford per il film Il postino che “attraverso la sofferta e coinvolgente interpretazione del compianto Massimo Troisi, sempre candido nella sua francescana umiltà, in uno scenario arioso di luce al quale il mare e il paesaggio dell’isola donano genuini sapori di vitalità e di essenzialità, narra con stile garbato come in un giovane semplice e deluso il graduale sviluppo del senso della poesia lo porti alla scoperta del vero modo di vivere la realtà, di confrontare la natura con i propri sentimenti senza dimenticare le questioni sociali e politiche, costruendo una storia di amicizia filtrata dal piacere rivelatorio della metafora come segreto del conoscere e del comunicare”. 1996 a Theo Angelopoulos per il film Lo sguardo di Ulisse che “con un ritmo lento, meditativo e ricco di fascino, costruito su un percorso aperto alla realtà e alla storia, costellato di testimonianze, colmo di metafore, con scene dallo stile incisivo e spesso ermetico ma che, con vigore espressivo, parlano alla mente e al cuore, raccontando un vivere tra interiorità e circostanze esterne nell’annullamento del tempo, fa coesistere eventi tragici della recente storia dei Balcani con quelli altrettanto drammatici dell’uomo di sempre, riflettendo una visione pessimistica del mondo privo di certezze, ma disperatamente alla ricerca di un possibile riscatto dal male per ritrovare l’innocenza, nel segno della fratellanza e della pace”. FILM DISCUSSI INSIEME 15 1997 a Francesco Rosi per il film La tregua che “accostando emozioni, pathos, coscienza civile, storica e politica a momenti di ironia, bonarietà e umanissima vitalità, ha saputo raccontare l’intensità della tragedia dei deportati che evolve in commedia quando ci si riappropria della vita attraverso un faticoso ritorno a casa, come se il protagonista e gli altri scampati ritrovassero la vita perduta, un pezzo alla volta, tra ricordi del passato che non danno tregua e una rinata voglia di sorridere al domani, costruendo nel dolore e nella speranza l’epica di un moderno Ulisse che torna a essere un uomo senza odiare i carnefici ma senza dimenticare le loro atrocità, anzi avvalorando i sentimenti di amicizia e solidarietà e il dovere della cultura e della testimonianza di fronte alle colpe, alle omissioni, alle viltà e agli orrori di cui gli uomini sono responsabili. asciutti eppure avvicenti e con sguardo lucido e insieme partecipe, a far emergere la verità di un particolare contesto socio-culturale e l’universalità di una vicenda umana esemplare che parte dalla durezza dei rapporti e dell’esistenza, dall’aridità della terra e dei cuori, per rimettere in moto l’affettività e la tenerezza sopite, per ritrovare le radici e i sentimenti perduti, per riaffermare l’importanza e la bellezza di amare e di essere amati, riconquistando con ciò la dignità perduta e il diritto a sperare nel futuro”. 1998 a Roberto Benigni per il film La vita è bella che “attraverso il miracolo dell’amore coniugale e paterno dichiara la sua fede nella bellezza della vita facendo prevalere le ragioni dell’amore e dell’utopia su quelle della morte e della realtà, attraverso il valore attribuito alla finzione e alla favola trasforma in un gioco – e in un giogo lieve – gli aspetti più dolorosi di una vicenda di orrore, attraverso una comicità che si attenua nel sorriso – un sorriso reso amaro dalla malinconia – dona una sorprendente profondità al messaggio di speranza e di fede dell’uomo. 2000 a Pedro Almódovar per il film Tutto su mia madre “perché disegnando con mano sicura e sensibile personaggi insoliti ma autentici, che riflettono il ritratto di un’umanità fatta di peccatori santi, si tuffa nel mistero profondo della vita animato da uno spirito di “comprensione” che abbraccia gli opposti della realtà e del sogno, del riso e del pianto, dell’essere e dell’apparire, rivelando la legge del dolore come quella del desiderio, i segreti nascosti nelle esperienze più amare e quelli rivelati nelle rappresentazioni più intense, la forza dirompente di Eros e quella devastante di Thanatos, riletti in chiave di invenzione della sessualità e di elaborazione del lutto, per mostrarci la radice di bellezza, varietà e ricchezza dell’animo femminile ed erigere un altare per la Madre riconoscendo in questa figura archetipica la matrice di un’attitudine sacrale e religiosa, l’emblema di una compassione e di una vocazione sacrificale a farsi carico dei mali del mondo ma anche il modello di una disposizione fecondativa e rigenerativa della vita”. 1999 a Walter Salles per il film Central do Brasil che “attraverso il racconto dell’evoluzione del rapporto e del lungo viaggio verso la conoscenza di sé e del mondo di una donna di mezza età e un bambino rimasto orfano, due diverse eppure complementari solitudini – incarnate da interpreti spontanei e sinceri – sullo sfondo di un Brasile che vive di tensioni contrastanti, mette a confronto il disincanto e la speranza, la paura e il desiderio, la vecchiezza e l’infanzia sentimentali prima che anagrafiche riuscendo, con toni 2001 a Marco Tullio Giordana per il film I cento passi “per aver riproposto all’attenzione di tutti la vicenda di Peppino Impastato, la sua storia di coerenza, di amore per la libertà e per la propria bellissima terra, facendone non solo lo specchio dello scontro generazionale e politico che caratterizzò il periodo storico degli anni Settanta, ma anche una parabola sul valore della trasgressione alle leggi del branco, sulla disponibilità alla testimonianza fino al sacrificio, sulla coscienza e sensibilità che riscaldano il cuore della meglio 16 FILM DISCUSSI INSIEME gioventù; per aver costruito una storia stratificata in cui si leggono i valori universali della lotta all’ingiustizia e della speranza di un mondo nuovo regolato dall’armonia, dalla verità, dalla bellezza ma anche riferimenti storici precisi, e precise denunce di omertà e indifferenza anche da parte di istituzioni che dovrebbero far rispettare la legge e onorare la verità; per aver dato vita a un conflitto tragico tra un figlio e un padre, emblemi di orizzonti etici e stili di vita antitetici – il mortificante quieto vivere contro l’inquietudine vitale – ma anche per aver riproposto la lezione creativa e morale del comico e del satirico che castiga ridendo i costumi e combatte il potere greve e opaco della mafia, come conferma la verve radiofonica del protagonista a cui ridà vita uno splendido giovane attore”. FILM DISCUSSI INSIEME 17 Film discussi insieme 2002 Tabelle e manifesti dei film 19 GRADUATORIA la percentuale indica quanti, tra coloro che hanno visto il film, lo reputano da premio. % da premio ballottaggio 49,55 55,9 1. Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi (Mikado) 2. A Beautiful Mind 13,11 12,91 9. Il tempo dei cavalli ubriachi 2,6 10. Viaggio a Kandahar 2,47 11. L’infedele 1,1 12. I vestiti nuovi dell’imperatore 0,88 13. Le biciclette di Pechino 0,19 0,17 di Stephen Frears (Bim) 0,16 di Ken Loach (Bim) 28. Ritorno a casa di Alan Taylor (Mikado) 0,2 di Steven Soderbergh (Columbia) 27. Paul, Mick e gli altri di Liv Ullmann (Mikado) 0,29 di Ridley Scott (Columbia) 26. Liam di Mohsen Makhmalbaf (Bim) 0,31 di Eric Rohmer (Bim) 25. Traffic di Bahman Ghobadi (Lucky Red) 0,34 di Giuseppe Piccioni (01 Distribuzione) 24. Black Hawk Down di Robert Altman (Medusa) 0,44 di Babak Payami (Istituto Luce) 23. La nobildonna e il duca 2,71 0,52 di Laurent Cantet (Mikado) 22. Luce dei miei occhi 2,92 0,56 di Daniele Gaglianone (Pablo) 21. Il voto è segreto 6,0 di Jean-Pierre Jeunet (Bim) 8. Gosford Park 0,66 di Manoel De Oliveira (Mikado) 20. A tempo pieno 10,13 di Mira Nair (Keyfilms) 7. Il favoloso mondo di Amélie 17. Tornando a casa 19. I nostri anni di Nanni Moretti (Sacher) 6. Monsoon Wedding 33,15 18. Parole e utopia 12,97 di Marco Bechis (Medusa) 5. La stanza del figlio 0,75 di Vincenzo Marra (Sacher) di Danis Tanovic (01 Distribuzione) 4. Figli / Hijos 16. La maledizione dello scorpione di giada di Woody Allen (Medusa) di Ron Howard (Uip) 3. No Man’s Land % da premio 0,83 di Manoel De Oliveira (Mikado) 0,825 29. Chiedimi se sono felice 0,15 di Xiaoshuai Wang (Teodora) 14. Pauline e Paulette gradimento di Lieven Debrauwer (Bim) 15. In the Bedroom di Todd Field (Medusa) -- 44,10 di Aldo Giovanni e Giacomo e M. Venier (Medusa) 0,822 30. Gocce d’acqua su pietre roventi -- 24,47 di François Ozon (Keyfilms) TABELLE 21 CRITICI CINEMATOGRAFICI DI MILANO A tempo pieno A Beautiful Mind Black Hawk Down Le biciclette di Pechino Chiedimi se sono felice Il favoloso mondo di Amélie Figli / Hijos Gocce d’acqua su pietre rov. Gosford Park L’infedele In the Bedroom Liam Luce dei miei occhi La malediz.dello scorpione... Il mestiere delle armi Monsoon Wedding La nobildonna e il duca No Man’s Land I nostri anni Parole e utopia Pauline e Paulette Paul, Mick e gli altri Ritorno a casa La stanza del figlio Il tempo dei cavalli ubriachi Tornando a casa Traffic I vestiti nuovi dell’imperat. Viaggio a Kandahar Il voto è segreto 22 TABELLE ALBERIONE EZIO AUTERA LEONARDO BACCI MARCO CANOVA GIANNI DANESE SILVIO ESCOBAR ROBERTO FITTANTE ALDO LASTRUCCI MASSIMO duel Lumière Max duel Il Giorno Il Sole 24 Ore Film Tv Ciak MARTINI EMANUELA Film Tv = FILM GRADITI MEREGHETTI PAOLO MORANDINI MORANDO Corriere della Sera Dizionario dei film = FILM PREMIATO NEPOTI ROBERTO PELLIZZARI LORENZO PEZZOTTA ALBERTO La Repubblica Cineforum ViviMilano POGGIALINI MIRELLA PORRO MAURIZIO radio BluSat2000 Corriere della Sera TASSI FABRIZIO VIGANO DARIO EDOARDO Cineforum Itinerari Mediali graduatoria Premio S. F. = FILM VISTI 20 2 24 13 29 7 4 30 8 11 15 26 22 16 1 6 23 3 19 18 14 27 28 5 9 17 25 12 10 21 TABELLE 23 IL CINEMA DEI MANIFESTI I giudizi dei soci sui manifesti dei film ✩ ✩ ✩ ✩ ✩ : ottimo ✩ ✩ ✩ ✩ : buono ✩ ✩ ✩ : discreto ✩ ✩ : mediocre ✩ : insufficiente È l’impatto emotivo che domina, nei manifesti di questa annata cinematografica 2001/2: con un’attenzione particolare e positiva per la semplificazione delle composizioni e per l’essenzialità del messaggio, condensato in segni e figure che hanno il compito di comunicare e non di commentare. Prevalgono di gran lunga nell’insieme i manifesti senza margine, in cui la figura emerge con forza dal contesto che la circonda e si impone senza mediazioni allo sguardo. Prevalgono, nelle immagini fotografiche, i volti in primo piano, di forte presenza, che instaurano un diretto rapporto con chi osservi. Ma sono pochi i manifesti elaborati graficamente, che dimostrino il coraggio di una ricerca più complessa: anche se va detto che, quando ci sono, sono di grande qualità. A parere di chi scrive sono ben pochi i manifesti degni di esser conservati e ricordati, autonomi insomma per la loro pregnanza e per l’originalità della composizione. Dato comune di questi è la ricerca dell’essenzialità, del rigore compositivo, dell’aderenza non solo fattuale al film che propongono. Gli altri, salvo uno o due casi, sono tuttavia decorosi e apprezzabili, rivelano un’attenzione non casuale in chi li presenta, e la comprensione della funzione simbolica che il manifesto assume, una volta per tutte, in rapporto al film che rappresenta e che dall’immagine trae riconoscibilità a priori. Mirella Poggialini MANIFESTI 25 A tempo pieno di Laurent Cantet ✩✩ Il manifesto, curato da “Interno zero”, non teme la pagina vuota, si appropria dello spazio in funzione dialettica: e la pagina bianca senza marginature vede la figura – elaborazione grafica di una fotografia del protagonista – emergere dal basso, dall’esiguo spazio scuro che racchiude il cast, definito in orizzontale a piccole lettere bianche. Spostata sulla sinistra del foglio, l’immagine di un uomo intento a leggere, con il volto a metà ombreggiato, occupa i due terzi dello spazio in verticale. Al di sopra, dopo un intervallo bianco, campeggia il titolo in grandi lettere rosse, mentre il logo della mostra di Venezia – “Leone dell’anno” è visibile a destra, come tratto d’unione con l’immagine. Che è proposta con un colore sporco – l’azzurro del maglione – e con un’accentuazione delle ombre sul viso che indicano un’inquietudine, una tensione: anche se null’altro appare che possa far intuire il dramma dell’uomo concentrato sui suoi fogli. La luce che investe la figura da destra si assimila al candore della pagina, ne diventa parte: il manifesto riguarda evidentemente un uomo e la sua storia, il rapporto fra il titolo e i fogli fra le mani del protagonista potrebbe alludere al lavoro. L’osservante si accontenti: il messaggio è volutamente evasivo. 26 MANIFESTI A Beautiful Mind di Ron Howard ✩✩✩✩ Non un manifesto sul film, ma un richiamo incentrato sull’interprete, con un curioso “ritardo” nella citazione, in alto, dei quattro Golden Globe ottenuti dal film, anziché la citazione degli Oscar ottenuti in seguito. Su sfondo nero, illuminato da sinistra, il volto dell’uomo emerge dal buio con un sorriso emozionato. Di profilo, il viso è come racchiuso nell’abbraccio di una figura femminile che resta nell’ombra, in secondo piano: dominano la parte inferiore del foglio le tre mani intrecciate in un abbraccio che esprime dolcezza, così come tenera appare l’espressione del protagonista. Due anelli nuziali, che si notano nelle mani in primo piano, offrono una chiave di lettura: e il film viene così presentato come una tenera storia di amore coniugale, tralasciando le implicazioni drammatiche che, a film visto, si possono cogliere nella vicenda. Il nome dell’attore, in caratteri gialli, precede il titolo, in identiche lettere bianche, posto in scansione sfalsata ad apertura del manifesto. È evidente che la proposta è riduttiva, pur se forte quanto a impatto emotivo: la popolarità dell’attore è il punto di forza del richiamo, il personaggio che egli interpreta passa in qualche modo in secondo piano. Così che chi osserva coglie di questa figura armoniosa composta nella metà inferiore della pagina, il messaggio sentimentale: e la complessità esistenziale della sua esperienza straordinaria viene del tutto trascurata. Così che il manifesto appare forzatamente generico anche se seduttivo. MANIFESTI 27 Black Hawk Down di Ridley Scott ✩✩✩ Precipita in picchiata, cioè nella diagonale dell’impostazione di pagina, il manifesto del film reso uniforme dal colore bruno risolto in varie sfumature: per indicare il movimento del velivolo, segnato con risalto dalla linea inclinata dell’arma impugnata, dall’alto verso il basso, da un giovane dal viso sanguinante. Il che dice subito, con i dettagli della carlinga imbullonata, che si tratta di un film di guerra e che vien descritto il divenire di un’azione cruenta. Un piccolo elicottero, visibile appena in basso a sinistra, fa da logo e da spiegazione sintetica: alcune epigrafi, in caratteri neri, sulla destra a metà del foglio e poi nella parte inferiore, sopra i credits, chiariscono: “Dal produttore di / “Nemico pubblico” / e / dal regista de / “Il gladiatore”, enuncia la prima, e “Non abbandonare nessuno al suo destino”, ammonisce la seconda. Il che non è poi tanto chiaro: ma intende rendere un clima di tensione e di dramma, evidente anche nell’espressione tesa del giovane raffigurato che appare preso da una sua personale angoscia. Il titolo appare in rosso, in basso, e viene spiegata dalla traduzione posta in nero al di sotto: “Black Hawk abbattuto”, non del tutto chiara neppure questa tuttavia per chi non coglie il riferimento a un determinato tipo di elicotteri. Con l’aggiunta, in fondo, dell’indicazione del sito Internet relativo, il cast si allinea in fitti caratteri poco leggibili, e il nome del regista, il vero richiamo, appare due volte ma in posizione poco evidente. Il carattere della composizione è dato dalla diagonale, dal gioco delle sfumature sul monocromo, dal senso di un precipitare che suggerisce un’attesa, in un’immagine che emerge dalla pagina con immediatezza, senza marginature. 28 MANIFESTI Le biciclette di Pechino di Xiaoshuai Wang ✩✩ Semplice nella composizione, riquadrato di rosso su fondo bianco, il manifesto riporta sulla parte destra, in verticale, l’immagine fotografica tratta dal film con un giovane in bicicletta: camicia bianca aperta sul collo, piglio spavaldo, cravatta rossa svolazzante. L’espressione del viso è ambigua, potrebbe essere un sorriso ma anche una smorfia di disappunto, quella che appare sul volto, fortemente illuminato. Il titolo, invece, si allinea su quattro righe, in caratteri rossi, a metà della pagina, in corrispondenza al volto del giovane, e in rosso è scandito il copioso cast articolato in verticale a sinistra, sopra e sotto il titolo. La pagina si apre con l’indicazione relativa al festival di Berlino 2001 – Gran premio della giuria, Orso d’argento per i migliori attori esordienti – ma il richiamo si affida tutto all’immagine, che trasmette un senso di vitalità e giovinezza, pur nell’esiguità degli elementi presentati. Altrettanto significativi appaiono il contrasto vivido dei colori, lo sfondo grigio chiaro che riflette la luce, la presenza del rosso nei dettagli. E la figura, che sembra uscire dal foglio a destra, offre una sensazione dinamica che corrisponde al titolo e all’argomento del film. MANIFESTI 29 Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni e Giacomo, Massimo Venier ✩ Impostare un messaggio “di allegria” non è facile, se le immagini sono fotografiche e non c’è elaborazione grafica. Invece in questo manifesto – che indica “Ph: Marina Alessi PhotoMovie – Progettazione grafica: Michele Conte” – già l’accostamento di colori vivi crea un contrasto piacevole, unendo con una striscia azzurra verticale altrettante strisce in arancio, alle due estremità del foglio contornato di rosso su bianco. E disposti sui quattro punti cardinali i volti degli interpreti, pronti a far da richiamo in virtù della loro popolarità: con la figura femminile al centro, nella parte inferiore, a equilibrare e a sintetizzare la storia. Che si intravede in volti ilari ed espressioni corrucciate, nel titolo posto di fianco, in alto, su tre righe in caratteri blu che fanno da pendant ai nomi del trio, il vero appello: con un andamento verticale, sottolineato anche dalla disposizione dei credits nella parte inferiore, che costringe l’occhio, per la tripartizione della composizione, a percorrere su e giù la pagina e costruire con lo sguardo il legame fra i personaggi rappresentati. È una costruzione semplice e insieme composita, che trasmette i giusti accenni per far sì che il genere del film sia suggerito senza nulla dire: e il tono del titolo e le espressioni degli attori si propongono come sciarada dalla chiara interpretazione. 30 MANIFESTI Il favoloso mondo di Amélie di Jean-Pierre Jeunet ✩✩✩ Tutto affidato agli occhi grandi e luminosi di Audrey Tautou, la protagonista del film, il manifesto si propone con un taglio imperativo, quasi incombendo su chi osserva con una decisione evidente. Il primo piano della protagonista, su sfondo verde vivo e abito rosso, proietta la sua sorridente immagine con immediatezza. Sottolineata, questa, dalla mancanza di cornici che “stacchino” la figura e dalla dimensione – fatte salve le proporzioni – di un volto che domina la pagina e cattura inevitabilmente lo sguardo. Espressione allusiva e sorridente, Amélie sembra lanciare un enigmatico messaggio: la centralità del sorriso a bocca chiusa. Che si propone esattamente a metà del foglio, è una sorta di interrogativo nel quale si condensano le caratteristiche del film. Sottilmente ambiguo, anche nella disposizione: colori vivi e chiari nella parte superiore del foglio, che si scuriscono sino al nero della parte inferiore, sulla quale il titolo si snoda variato in caratteri fantasia di un vivido giallo, il manifesto rivela un attento studio dei rapporti fra pieno e vuoto. L’autore è forse indicato da un indirizzo e.mail posto a margine, a sinistra ([email protected]) e si impone per sua sobria essenzialità che non concede nulla al “grazioso”. Il nome del regista è in alto a destra, bianco su nero: a metà del foglio un’epigrafe spiega: “questa ragazza / cambierà / la vostra vita”. MANIFESTI 31 Figli/Hijos di Marco Bechis ✩✩✩ Il titolo, bianco su nero, campeggia in grandi lettere nella parte superiore del foglio, con la traduzione posta al di sotto di una sorta di riga di frazione, “Hijos”, per indicare, probabilmente, la duplice localizzazione della vicenda, che si snoda tra Italia e Spagna e si rifà ad avvenimenti accaduti in Argentina. Subito al di sotto, l’indicazione “un film di / Marco Bechis” serve da richiamo: così come i nomi degli interpreti dovrebbero suggerire un riconoscimento, che in Italia riguarda soltanto il terzo nome, nella serie scandita a caratteri bianchi: quello di Stefania Sandrelli. Né molto di più suggeriscono i volti dei due giovani nella fotografia che domina la parte centrale del manifesto: lei vista di profilo a sinistra, come allontanandosi, lui lontano a destra, con espressione corrucciata. Fra di loro, la piatta distesa di una spiaggia brulla, di alcuni edifici lontani: l’andamento orizzontale delle scansioni accentua una certa malinconia già espressa dalla scelta dei colori, dal nero dominante anche nella parte inferiore sulla quale si allinea il cast, dalla mestizia che traspare nell’atteggiamento e nei volti dei due giovani ritratti. Curiosamente, il sito internet citato in basso, al centro – www.garageolimpo.it - può far da richiamo per i cinefili attenti, che vi riconosceranno il precedente film del regista, che ragionava attorno allo stesso tema. Ma comunque il messaggio che il manifesto esprime è triste e accorato: un silenzio segreto sembra dominare l’immagine e la composizione. 32 MANIFESTI Gocce d’acqua su pietre roventi di François Ozon ✩✩ Sofisticato nella composizione e nel colore, il manifesto gioca con la ripartizione dello spazio, diviso in verticale secondo una scansione in quattro parti. Sullo sfondo arancio senza marginature, con un colore che si intensifica dall’alto verso il basso, si scorgono quattro nicchie o finestre, indicate da rettangoli di color giallo, davanti alle quali si stagliano figurine controluce di giovani ragazzi e ragazze intenti a danzare. Al di sopra, allineati con spazi ampi e regolari, i nomi di quattro interpreti. Chiude la parte superiore del foglio in orizzontale il titolo, proposto a lettere bianche in caratteri fantasia (l’iniziale ha un ampio svolazzo) che alternano anche la dimensione. La partizione orizzontale, subito al di sotto, è segnata dalla estensione del cast a lettere nere, che insiste nel creare una divisione fra le due sezioni. In quella inferiore, caratterizzata da un colore arancio che si scurisce verso il fondo, appare l’elaborazione di immagini fotografiche che allinea quattro personaggi (un uomo di profilo, due giovani donne dai capelli lunghi, una delle quali coperta della sola biancheria) e un’altra figura maschile di tre quarti. La luce che investe frontalmente i volti li pietrifica in una fissità in cui si coglie la paura nello sguardo della seconda donna: in primissimo piano le mani dei due uomini si incontrano sulle ginocchia della ragazza svestita, come in un gesto di possesso. Diviso in sezioni orizzontali, il manifesto segue tuttavia un percorso verticale dall’alto verso il basso nel definire sempre più chiaramente i personaggi e l’ambiente, e lo sguardo di chi osserva, passando dalle figure indistinte al titolo e al cast ricade alla fine sulle figure e sui dettagli (gli sguardi e le mani) che indicano emozioni. MANIFESTI 33 Gosford Park di Robert Altman ✩✩✩ Tripartizione verticale, scansione orizzontale a metà del foglio: il manifesto corrisponde, nella complessità della costruzione, alla storia corale e composita raccontata dal film. In verticale, la figura colta a metà di un uomo in abito da cerimonia, con lo sparato bianco, divide in tre sezioni – nero, bianco, nero – tutta la parte superiore del foglio. A tre quarti della pagina, invece, un elaborato vassoio d’argento inciso, con un biglietto e una penna stilografica, è sorretto da due mani guantate di bianco, e come inclinato verso chi osserva. Il titolo del film, in lettere rosse su avorio, si legge di sbieco sul biglietto. Al di sotto l’abito nero è ora al centro, e ai due lati si vedono lussureggianti rose rosse. Al di sotto del vassoio, sul nero, risalta il nome del regista, il vero richiamo, mentre, con civetteria, di lato a destra, su quattro linee intervallate dal fregio di sette statuette dorate, si indica la candidatura a sette premi Oscar, in eleganti caratteri corsivi. Diviso quindi in funzione dinamica fra slancio verticale e “dichiarazione” orizzontale, il manifesto ostenta una ricercatezza raffinata anche negli elementi figurativi, per suggerire un’atmosfera corrispondente al tono della vicenda e alla sua ambientazione, ed è caratterizzato da un attento equilibrio fra gli elementi. 34 MANIFESTI L’infedele di Liv Ullmann ✩✩ Sceglie il tono evocativo, il compilatore del manifesto. Che si apre con l’indicazione “Selezione ufficiale Festival di Cannes 2000” posta in alto su uno sfondo grigio rarefatto, che scompone i due piani dell’immagine. E se la tonalità grigia è quella prevalente, in funzione allegorico-allusiva, la sfumatura chiara dello sfondo al centro, in cui si intravedono due figure, un uomo e una donna, al di là di una finestra chiusa da sbarre, contrasta con il grigio più scuro dell’immagine in primo piano, che sembra salire dalla parte inferiore del foglio: un vecchio e una giovane donna, seduti e distanti, che si fronteggiano con espressione grave. A unirli – o a separarli – il titolo, scritto in caratteri rossi ben delineati da una sottile marginatura bianca: sotto il quale, in lettere bianche, l’indicazione “Un film di Liv Ullmann scritto da Ingmar Bergman” offre a chi osserva gli elementi per porre il richiamo nella sua giusta dimensione. E a questo corrisponde anche il volto dell’uomo, riconoscibile a chi legga il cast, scandito nella parte inferiore del foglio, in lettere bianche su sfondo nero: uno sfondo che sembra schiarirsi verso l’alto conducendo l’occhio in un percorso verticale che si conclude in una chiarità indistinta. E ugualmente scandiscono in verticale lo spazio le sbarre della figura centrale, pur se in grigio su grigio: creando un diagramma dialettico con l’ideale tensione orizzontale in cui le due figure sedute sembrano respingersi dilatando lo spazio che si frappone fra di loro. Tensioni e dramma, insomma, e ricordo e malinconia: il manifesto evoca e richiama, con efficace complessità. MANIFESTI 35 In the Bedroom di Todd Field ✩✩ Sembra non aver fiducia nell’immagine, l’estensore di questo manifesto (che si firma “RedDot Grafica”) e che anima la composizione su un tradizionale sfondo bianco marginato di rosso, con molti dati riferiti alle candidature agli Oscar. Che appaiono nella parte superiore, con l’imperativa dizione “Candidato a 5 premi Oscar” a guidare lo sguardo in orizzontale, con citazioni e nomi: e che riappaiono nella parte inferiore, al di sotto del titolo in lettere rosse scandite fortemente su due righe prima del cast, piuttosto disordinato, schierato in nero con differenti dimensioni dei caratteri. L’immagine posta nella sezione centrale del foglio segue l’andamento orizzontale impresso alla visione: ma si divide in due parti, dal primo piano delle due figure sovrapposte a sinistra, all’indefinita lontananza dell’immagine di una casa (da cui esce una figura maschile) che compare in grigio sfumato alla destra. I due volti, acceso d’ira quello dell’uomo, perso in una sua dolente malinconia quello della donna, indicano un’atmosfera drammatica, su un misurato sfondo grigio; la figura a fianco, con i toni che scolorano verso un orizzonte sfumato, accentua il senso di un’azione, di un’attesa. Un manifesto vecchio stile, in cui si condensano con elaborazione e sovrapposizione delle immagini alcuni elementi di richiamo: la composizione conta soltanto in funzione accessoria. La dialettica non sta nelle figure, ma nell’opporsi delle indicazioni fra la parte superiore, che allude all’Oscar, e quella inferiore, in cui si vanta (e il logo della statuetta fa da punto fermo) il premio già conquistato: “Vincitore Golden Globe”, come indica una scritta a lettere scandite. 36 MANIFESTI Liam di Stephen Frears ✩✩✩ È nella dimensione e nelle proporzioni che il manifesto gioca il suo potere di richiamo: diviso il foglio in due sezioni verticali, più stretta quella a sinistra, nera, e assai più dilatata quella di destra, con il volto di un bambino intento a riflettere. Tagliata a vivo l’immagine, il volto emerge con forte impatto, con colori soffusi, con una sua enigmatica fissità che sembra interrogare chi osserva. E il richiamo si affida anche al nome del regista, ripetuto due volte sulla sinistra, in alto fra le prime indicazioni – dopo l’epigrafe “57° Mostra del Cinema di Venezia” – e in basso, sempre a sinistra, in grandi lettere bianche che sovrastano il titolo, posto a caratteri rossi ben visibili ma poco significativo per chi legge. Privo di marginature, il manifesto lascia emergere il volto del bambino con forte evidenza, non spiega ma impone, come dilatando la figura in una dimensione ancor maggiore di quella reale in virtù del rapporto con lo sfondo scuro. La verticale della composizione è quindi solo apparente, perché il viso sembra allargarsi a riempire tutto il foglio, ad uscire persino dalla pagina: tutto il richiamo è affidato al piccolo protagonista, il suo invito è tassativo, anche se il suo sguardo si perde lontano, al di sopra degli occhi di chi osserva, in un inquietante silenzio. MANIFESTI 37 Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni ✩✩✩ Due volti affiancati, uno in dimensione maggiore, sono l’unico apporto che lo “Studio Grafite” ha offerto al manifesto di un film che forse avrebbe meritato un’elaborazione più attenta. Fondo bianco, sottile marginatura rossa, come il titolo posto su due righe nella parte inferiore della pagina, su un cast variamente distribuito in lettere blu chiaro: e, al di sopra, un volto di donna, a sinistra, si sovrappone all’immagine più grande del viso di un uomo, a destra. Li accomuna l’espressione triste, il colore bruno degli abiti che si scorgono appena, l’effusione di una luce grigia che contorna le figure e insieme le lega. Le indicazioni poste in testa al foglio – a sinistra, in blu, i dati sulla produzione; al centro, in bianco, la citazione “Sezione /Venezia 58 / in Concorso”, sotto il logo della mostra veneziana – non aiutano l’osservante a cogliere lo spirito del film, ad indovinarne la storia: che si intuisce drammatica, considerata l’espressione dei due volti, ma che nulla aiuta a collocare in un ambito più preciso, per la mancanza di riferimenti efficaci. 38 MANIFESTI La maledizione dello scorpione di giada di Woody Allen ✩✩✩ È uno dei rari manifesti che quest’anno presentano un’elaborazione grafica anziché un’immagine fotografica: e curioso è anche l’impiego del colore viola, in tutta la pagina, sovrastato al centro da un alone giallo vivo, sul quale risalta in viola il disegno di una mano che tiene fra due dita un filo al quale è appeso uno scorpione verde. Ombre chiare e scure animano lo sfondo, stringendosi a spirale anche dietro al cerchio giallo, come si intravede: una scritta su due righe, in diagonale, a lettere verde-giallo, riporta il lungo titolo. Al di sotto, bianco su viola, il cast: che è tuttavia indicato, per i riferimenti principali, dalle indicazioni poste a fianco della figura centrale: il nome del regista campeggia a sinistra, dall’altra parte del filo viola stanno in colonna i nomi degli interpreti, dominati da quello del regista-attore. Elegante e sofisticato, stilizzato nel tratto e semplice nella proposta, il manifesto ha un forte impatto visivo e coglie lo spirito del film al quale si riferisce, offrendo un’immagine originale in cui si coglie il senso vivace della commedia nelle spezzature del tratto, nella posa della mano, nel contrasto vivace e trasgressivo fra i colori. MANIFESTI 39 Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi ✩✩✩✩✩ Ha una sua efficacia addirittura violenta, questo bel manifesto elaborato con sapiente semplicità: oltre al pregio non trascurabile di corrispondere allo spirito del film al quale intende invitare. Più che di un invito, anzi, si tratta di una sintesi: espressa nella testa di guerriero coperta da un elmo dalla celata serrata, con un occhio che fissa l’osservante con sguardo fermo e diretto. Non si vede il viso, non ci sono altri elementi che accendano una possibilità di comprensione dei fatti. Ma l’uomo dalla celata esprime un tempo e un ambiente, una situazione e un clima. Anche il color grigio ferrigno con ombreggiature azzurrastre, giocato in più sfumature dallo sfondo all’immagine in primo piano, rende evidente un’intonazione, esclude compiacimenti ed effetti, mentre il primo piano ravvicinato – il manifesto è privo di marginature – impone l’immagine icasticamente. Diviso in verticale, il foglio è occupato per tre quarti dalla figura, e ha la libertà di un vuoto, sulla sinistra, che accentua il rilievo. In alto, l’indicazione di rito, a lettere bianche: “In concorso al festival di Cannes 2001”. Nella parte inferiore, uno spazio nero è sede del titolo, in agili caratteri rossi elaborati e disposti su due righe: il nome del regista è proposto in caratteri modesti al di sopra, in bianco, e il tono sommesso delle indicazioni contrasta ancor più con la misteriosa e forte presenza della figura nascosta di uno sguardo che fissa lontano. 40 MANIFESTI Monsoon Wedding di Mira Nair ✩✩✩ Ancora un manifesto senza riquadratura, che esprime con il suo solare color giallo vivo l’allegria vivace del film. In un disordine efficace, le immagini, l’elaborazione grafica, il disegno, la scrittura, i diversi caratteri e la forza di richiamo del dato fotografico propongono un messaggio volutamente bizzarro, sintetizzano un’atmosfera senza indulgere in folklorismi di maniera. Così la “indianità” si coglie negli occhi fortemente bistrati e luminosi il cui dettaglio fa da centro della composizione, nella parte superiore del foglio, celando il volto in un’allusiva segretezza: mentre le due figure di donna che danzano nella parte inferiore della pagina, a destra (segnando una verticale asimmetrica che anima la struttura orizzontale della composizione) non sono connotate, e le vesti rosse e gialle che si muovono attorno a loro non indicano una provenienza precisa. Molte parole disposte in modo che il loro allineamento costituisca una costruzione: in alto, l’indicazione “la Biennale di Venezia / Leone d’Oro / 58. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica”, in caratteri neri su giallo ocra. Sotto l’immagine fotografica, il titolo in bianco e rossiccio, con la prima “o” elaborata come una spirale che lega la prima alla seconda parola (sulla terza riga, in caratteri più piccoli spostati a destra in un andamento che segna un percorso visivo, “matrimonio indiano”). Il cast, in caratteri bruno rossicci, a righe sfalsate sulla sinistra: per dar risalto alle due figure che affiancano le scritte, a destra, proiettando un ombra giallo chiara dietro di sé. Il manifesto esprime un’atmosfera: sufficientemente enigmatico per interessare, e abbastanza esplicito per indicare un genere. MANIFESTI 41 La nobildonna e il duca di Eric Rohmer ✩✩✩ Suggestiva la contrapposizione fra il richiamo all’ambiente e all’epoca (dato dalla grande scena corale che fa da sfondo) e la citazione dei personaggi, ottenuta con l’immagine della protagonista, in primo piano a destra, e la silhouette grigio monocroma di un volto d’uomo di profilo. Se acconciatura della donna e pettinatura dell’uomo indicano il secolo, meno facile è localizzare le quinte laterali di palazzi che fiancheggiano al centro del foglio un lungo mare di folla. Illuminato da sinistra, il volto della donna, nella parte inferiore del foglio non marginato, pare concentrato in uno sconforto indecifrabile: il tono luminoso dell’abito, che si unisce ai toni dorati degli edifici lungo la prospettiva centrale, suggerisce un senso di attesa. Il cielo rosso sopra la folla scolora in un grigio cupo, nella parte superiore della pagina. L’occhio segue un percorso complesso, costretto com’è dal rastremarsi delle case-quinta verso il centro della pagina, ma anche spinto ad allargare la visione in orizzontale, verso l’immagine femminile, e in verticale, in direzione del volto-silhouette. Firmato “Eugenia”, il manifesto corrisponde allo spirito del film, che dilata una storia personale in ambito corale. La funzione di richiamo è affidata al nome del regista, che appare tre volte: in alto con la scritta “Eric Rohmer / Leone d’oro alla carriera / 58° mostra internazionale del cinema di Venezia” – a lettere bianche su nero. Poi sopra il titolo, a lettere evidenti, nella parte inferiore del foglio, ancora in bianco su nero. Infine, a piccoli caratteri, in testa ai credits, sulla marginatura inferiore color bronzo, che riprende con civetteria la “e” di raccordo fra le due parole del titolo, simile a un elegante svolazzo. 42 MANIFESTI No Man’s Land di Danis Tanovic ✩✩✩ Gridano invocazioni di aiuto o gesticolano per allegria, i due uomini in primo piano che si volgono le spalle, agitandosi su un prato e scuotendo fazzoletti o bende bianche? Il cielo azzurro solcato da grosse nuvole bianche, sullo sfondo, potrebbe suggerire la seconda ipotesi: chi osserva, prima di vedere il film, può cogliere dal manifesto un gioco di ombre grigio chiaro che appena si rilevano contro le nubi, soldati che imbracciano fucili puntati e li alzano al cielo. Un film di guerra, dunque: e le piccole figure grigio scuro che si rilevano sopra la massa rettangolare dei dati – i credits, ma anche una sorta di incastro che blocca le figure nella parte inferiore sinistra e conclude la scena – sono uomini in divisa posti accanto a un cannone. Il titolo vistoso, posto in alto a grandi lettere rosse su due righe che dominano in orizzontale la parte superiore del foglio, potrebbe accentuare il senso di una vivacità da commedia. Enigmatico nella proposta, quindi, anche se fedele allo spirito della storia e alla sua drammatica ironia. Il nome del regista, posto a metà della pagina, sullo sfondo azzurro, non è di particolare richiamo: lo è di più, in apertura, l’indicazione “Premio per la miglior sceneggiatura Cannes 2001” in lettere giallo oro. Ma il messaggio, con il contrasto fra gli accenni alla guerra e l’incomprensibile agitarsi dei due, ha in sé gli elementi della storia narrata, che lo spettatore riconoscerà a posteriori. MANIFESTI 43 I nostri anni di Daniele Gaglianone ✩✩✩ Firmato “redDot Grafica”, il manifesto si propone in un bianco e nero misurato, che imposta su vari toni intermedi un richiamo fortemente drammatico in cui la pagina, marginata di rosso, appare divisa in tre sezioni verticali. A destra il tronco rugoso di una pianta, più chiara del contesto, ospita in verticale il titolo, in caratteri dattilografici sfrangiati e in color grigio-sabbia. L’occhio percorre quindi un primo passaggio dal basso verso l’alto per inseguire le lettere: e poi torna verso il basso per “leggere” la parte centrale, in cui il viso contorto e sofferto di un uomo, vistosamente ferito in fronte, si nasconde dietro il tronco come guardando un pericolo. La metà sinistra è invece da sfondo: il titolo, in lettere bianche, riappare in orizzontale nella parte inferiore del foglio, seguito dalla irregolare scansione delle righe dei credits più sotto. Al di sopra, su uno sfondo indefinito di ombre, altri dati in caratteri neri e l’indicazione d’apertura in lettere modulate quanto a carattere, e parzialmente riquadrate: “Festival di Cannes 2001 / Quinzaine des Réalisateurs / Director’s Fortnight”. Ma non sono i dati a prevalere, nel forte impatto emotivo prodotto dall’immagine dell’uomo, resa con nitidezza e perciò più accattivante per la sua evidenza drammatica. Lo sguardo dell’uomo incrocia quello di chi osserva con voluta insistenza, il grigio sfuma con vibrazioni varie, le ombre descrivono un discorso implicito ma chiaro, che comunica una sensazione di allarme e di pena. 44 MANIFESTI Parole e utopia di Manoel De Oliveira ✩✩ Composito e lussureggiante di immagini e di simboli, il manifesto corrisponde magistralmente allo spirito del film: dominato com’è, al centro, da una croce nera sulla quale si stagliano il titolo – al centro, in un color ocra che richiama l’oro – i dati (in lato, “57° festival di Venezia”) e, in avvicendamento verticale, i volti dei tre protagonisti, il vecchio, l’uomo adulto, il giovane, che emergono dal nero con il piglio di ritratti secenteschi. Ai quattro lati, le sezioni rettangolari laterali riportano come dei bassorilievi in monocromo, dal seppia al bruno, densi di figure che compongono un “retablo” di citazioni: le figure lussuosamente abbigliate che si affacciano a una balaustra, a sinistra in alto, fronteggiano un’immagine religiosa dall’aureola dorata, sulla destra. Che tiene in mano un libro aperto: “Ad maiorem Dei gloriam”. Nella parte inferiore due schiere di indios corrispondono a una duplice immagine, a destra, in cui putti dorati sovrastano l’immagine di una semplice costruzione bianca davanti alla quale si affollano figure biancovestite. Ispirato a un polittico, il manifesto rende il senso di un’epoca e sollecita a costruire una storia. Il nome del regista, che precede il titolo in lettere bianche, è l’unico riferimento comprensibile, perché il fitto cast che sovrasta le figure nella parte inferiore della pagina è scarsamente leggibile. Ma c’è, nel messaggio complesso, una evidente suggestione drammatica, un rimando storico non equivocabile: la croce dilata in senso verticale il messaggio che si compone a mosaico con icastica provocazione. MANIFESTI 45 Pauline e Paulette di Lieven Debrauwer ✩✩✩✩ Gradevole e originale l’elaborazione grafica, firmata “Sestito”, che caratterizza un manifesto arguto e intelligente, in cui il colore rosa, proprio delle scenografie del film, appare in varie tonalità e sfumature. Rosa intenso lo sfondo della pagina, senza marginature; rosa i dettagli – le rose dei fregi, le labbra delle due figure femminili disegnate in alto – e, solo tocco in contrasto, alcune foglie verde vivo che si scorgono fra le corolle, tracciate con un rilevato segno rosa carico. Il titolo in lettere bianche contornate di rosa appare su due righe a metà del foglio e lo divide in orizzontale: al di sopra i due volti femminili si sovrappongono nel segno, a indicare una stretta vicinanza sottolineata da una tonalità più forte del pallido rosa indicante le epidermidi, con un tocco bianco a far da chioma, sulla sinistra, e un trionfo di grandi rose aperte ad aprire la pagina, sovrastata dalla originale scritta in bianco “54° Festival di Cannes – Premio del Pubblico”. Ancora grandi rose nella parte inferiore, in cui il cast occupa soltanto alcune righe a lettere fitte di color bianco: con una lieve inclinazione del disegno dall’alto verso il basso che movimenta una composizione di per sé già vivace. Così che chi osserva potrebbe a tutta prima veder nel manifesto un messaggio d’allegria: se non fosse per il taglio stretto degli occhi, nei due volti disegnati nella parte superiore, che comunica un’assorta malinconia. 46 MANIFESTI Paul, Mick e gli altri di Ken Loach ✩✩ Corrisponde allo spirito realistico del film il manifesto che, senza marginature, propone una foto di scena in cui si allineano, con andamento orizzontale, i cinque protagonisti della storia. Un vivido colore arancio domina nelle tute degli operai, appoggiati alla superficie gialla di una vettura: più in basso, in una prospettiva ribaltata, sassi e traversine scendono sino alla parte inferiore della pagina, dove il titolo, in grosse lettere bianche scandite su tre righe, tempera l’andamento verticale dell’immagine e la fissa in una sorta di dichiarazione, sottolineata dai dettagli della massicciata proposti in primo piano davanti a chi osservi. Espressioni spavalde e insieme concentrate, gli uomini non rivelano le loro storie: la figura offre un’impressione interlocutoria, che definisce ambiente e personaggi ma non va oltre. Più evidente per il cinefilo l’indicazione del nome del regista, in chiare lettere bianche al di sopra delle figure. E una striscia arancio, che apre la composizione, riporta come prima indicazione “58° mostra del cinema di Venezia / in concorso”. Nella nitidezza della fotografia, nel suo andamento prospettico, nella vivacità del colore risede il vero appello del manifesto. MANIFESTI 47 Ritorno a casa di Manoel De Oliveira ✩✩ È un gioco delle parti quello sul quale punta la compilazione di questo manifesto di forte impatto: per l’espressione del volto del protagonista, che domina la parte inferiore del foglio, a destra, emergendo da uno sfondo scuro reso più immediato dalla mancanza di marginature. E, al di sopra, in diagonale, in alto a sinistra, ecco lo stesso personaggio, in un’immagine meno visibile, abbigliato con gli abiti di scena, a indicare una doppia apparenza, un recita. Fra le due facce, il titolo in caratteri bianchi fa da cesura, seguito dall’indicazione più discreta sul nome dell’autore: e l’abbondanza di parole scritte, a riempire tutta la parte sinistra del foglio nella metà inferiore del manifesto, ha una funzione grafica, colma uno spazio e lo scandisce sfalsando le righe e giocando sul corpo delle lettere, più o meno leggibili. Il che fa risaltare, come un’indicazione precisa, l’espressione del volto a destra, chiuso in un suo corruccio dolente. Una generale tonalità grigia, più o meno intensa, esprime un clima, una sensazione malinconica: il messaggio non chiarisce ma dichiara, una sensazione di attesa emerge dal silenzio di quel volto. 48 MANIFESTI La stanza del figlio di Nanni Moretti ✩✩✩✩ Fa parte della personalità dell’autore evitare ogni commozione dichiarata, trattenere gli slanci ed evitare le facili compromissioni affettive. Così anche il manifesto del suo film punta sulla misura e sul ritegno, evita di catturare l’osservante con accenni che alludano al dramma narrato nel film: e solo a posteriori chi lo ha visto può cogliere il richiamo straziante del momento felice posto come emblema di una storia che descrive una perdita e un dolore. Su fondo bianco, riquadrato con la consueta cornicina rossa, spicca a metà pagina la fotografia che ritrae due dei protagonisti in un momento denso di vita, intenti a una corsa sullo sfondo di un viale ombroso. Il contrasto vivace fra i due maglioni, rosso e azzurro intenso, le espressioni serene dei volti, il piglio agile delle figure sembrano condensare uno slancio gioioso, e l’immagine si stende in orizzontale fino ad occupare idealmente assai più dello spazio relativo che le è stato assegnato. Perché il cast, diligentemente scandito in chiare lettere nere su bianco e proposto su quattro colonne, occupa gran parte della zona inferiore del foglio e sembra voler ottenere una rarefazione, un rallentamento dello sguardo di chi legge, sino al logo celebre, di Moretti sulla Vespa, preceduto dall’indicazione “Sacher”, che chiude l’elenco come una firma in fondo a destra. Il titolo è posto in alto, in caratteri rossi scanditi che risaltano sul fondo bianco e sono seguiti dal riferimento al regista, poco vistoso, al di sotto. Un messaggio misurato e trattenuto, che esprime senza dichiarare, come un accenno che esita a formularsi. MANIFESTI 49 Il tempo dei cavalli ubriachi di Bahman Ghobadi ✩✩✩ Come molti dei manifesti di quest’anno, anche questo manca di ogni sottolineatura a margine. Esce senza cornice – cioè senza stacco che crea distanza emotiva – l’immagine significativa del giovane protagonista con il fratellino sulle spalle, intento a tirar la cavezza del mulo e fermo davanti a un rotolo emblematico di filo spinato. Il fondo bianco-celeste immerge la figura in un non-luogo, in un non-tempo indefinito e perciò più urgente e aggressivo: il ragazzo, con la sua smorfia di dolore, si impone come immagine emblematica, metafora espressiva di un male immediatamente percepibile. La verticale della fotografia, sfalsata sulla sinistra della pagina, si alza come un cuneo sulla restante parte dello spazio, sembra trafiggere l’opacità dello sfondo e proiettarsi su chi osserva: e l’amalgama di toni bruni, la mescolanza di colori scuri che non consente risalto dei dettagli, se non il cappuccio giallo del bimbo sulle spalle del ragazzo, rende ancora più forte l’impatto visivo, impedendo una frammentazione che sarebbe in certo senso liberatoria. Il ragazzo soffre e si presenta davanti a noi, separati da lui da quel filo spinato che dice guerra: non servono parole per illustrare il richiamo. Il titolo, posto in alto su due righe a caratteri rossi, è opportunamente preceduto dall’avvertenza “Vincitore della Camera d’or al festival di Cannes 2000”. Nulla comunica il nome del regista, così come il cast posto in calce al foglio su sfondo bianco. Il richiamo è dato dalla figura del giovane protagonista, in cui si condensa il messaggio del manifesto. 50 MANIFESTI Tornando a casa di Vincenzo Marra ✩✩✩ Il monocromo nero ha di per sé una funzione evocativa, in questo manifesto che impone una sua impostazione rigorosa e austera. Costruito con essenzialità su un’immagine fotografica fortemente contrastata – il volto di un giovane uomo, illuminato da destra, che si staglia sulla parte sinistra della pagina, al centro del foglio – il manifesto propone anche, al di sotto del viso, ridotto a profilo dal contrasto luce-ombra, un dettaglio-chiave di lettura non facile. Una grossa gomena infatti appare nella parte inferiore della pagina, e descrive una sorta di arco che si può interpretare anche come metafora, dopo la visione, del film. Non c’è indicazione di tempo o di luogo, anche l’azione è taciuta nella semplicità del richiamo, che propone una fisionomia non nota. Titolo e cast si susseguono nella parte superiore del foglio, in caratteri bianchi digradanti: così che l’insieme delle parole forma come un cuneo visivo, un triangolo rovesciato, che sembra attirare lo sguardo di chi osserva verso il volto del giovane, posto al di sotto. Tutto il messaggio, quasi per sfida, è affidato soltanto al profilo illuminato e alla grossa corda che sembra concludere la composizione: non ci sono nomi celebri, epigrafi illustrative, e la marginatura inferiore è insolitamente priva di segni e indicazioni, salvo il logo della Sacher che fa da firma a destra, in un piccolo rettangolo bianco. MANIFESTI 51 Traffic di Steven Soderbergh ✩✩ Affollato e complesso, il manifesto riesce tuttavia a proporre un diagramma di riferimenti che possono richiamare il genere cui il film appartiene. Ma domina la molteplicità dei nomi degli interpreti, noti, e allineati in alto tutti e cinque, in giallo pallido su sfondo nero. E subito al di sotto, in un allineamento che si incurva da sinistra verso destra, ecco i cinque volti illuminati da una fonte luminosa che proviene da sinistra e drammatizza le espressioni. Lo sfondo, come racchiuso da una spessa cornice nera, è dato da una carta geografica appena leggibile, color paglierino: sopra la quale appaiono immagini pallide e appena decifrabili: automobili a fari accesi, al centro; un gruppo di armati che alza i fucili, a sinistra, una figura nera che si rivela essere un uomo colpito e quasi riverso, con un’arma impugnata. Con tutti questi dati, distribuiti con intelligente rarefazione fra pieni e vuoti, chi osserva certamente trae la conclusione circa il tema del film, d’altra parte spiegato dal titolo che campeggia in basso a grosse lettere bianche come impolverate da tracce di sabbia. Il cast è serrato al di sotto, sullo sfondo nero: i siti internet citati sono addirittura due, al centro del foglio: mentre in apertura, nella parte superiore, non manca l’indicazione dei due Golden Globe conquistati dal film. Di tutto e di più, ma con equilibrio e chiarezza: e un accattivante movimento che guida lo sguardo e racconta con efficacia. 52 MANIFESTI I vestiti nuovi dell’imperatore di Alan Taylor ✩✩✩ Appare come una tela dipinta da un pittore divisionista, l’immagine firmata da Lorenzo Mattotti, e affida al colore screziato, che si propone senza marginature, il compito di suscitare la prima impressione, quella di un ambiente sospeso fra cielo venato di rosa e terra con alberi verdi lontani. La figura emerge da destra, vista di spalle: e la mancanza di un volto, neppure visto di profilo, dà alla composizione un tocco enigmatico di attesa. La mano tesa dell’uomo regge un melone, evidente del dettaglio e dominante al centro della pagina, con le sue venature giallo-verdi: è tutto quanto il manifesto concede, lasciando che sia l’osservante a colmare le lacune e a immaginare risposte. Il tempo è dato dal tricorno sul capo dell’uomo, il che suggerisce un’epoca: ma null’altro chiarisce il senso del titolo che campeggia in alto su due righe, sfalsando dimensioni e colori delle lettere – nero e bruno – in un gioco elegante. Sono la raffinatezza della composizione, la gradevolezza dell’immagine, le sfumature dei toni, l’originalità del taglio verticale – in cui la mano con il melone pone una sorta di pausa interrogativa nel suo gesto di offerta – a colpire e a sedurre: è un manifesto provocatorio con misura, suggestivo con grazia, che resta nella memoria e che si spiega, dopo la visione del film, come un’ironica sintesi senza acrimonia. MANIFESTI 53 Viaggio a Kandahar di Moshen Makhmalbaf ✩✩✩✩ È il colore suadente e morbido, un caldo color giallopesca che sfuma a seconda delle zone del foglio, a creare la principale magia del manifesto: che trova tuttavia il suo punto di forza nel volto bellissimo di una giovane donna dagli occhi chiari e sognanti che, con un’acconciatura evidentemente orientale, appare in basso a sinistra, nella pagina senza marginature. Dissolvendo, il suo velo fa trasparire, sulla destra, l’immagine di un edificio sormontato da tre cupole a cipolla accanto a una torre snella: l’ambientazione orientale risulta evidente, anche per le onde di sabbia che, al di sopra delle figure, modulano lo spazio verso la parte superiore. La quale è tagliata in una rigida linea orizzontale dalla visione di un multicolore corteo femminile, in cui non si scorgono volti ma soltanto fluidi abiti che ricoprono anche i visi: e, procedendo verso l’alto, lo sguardo incontra il titolo, indicato su due righe da visibili lettere bianche contornate di nero. Sopra ancora, in apertura, l’indicazione “Festival di Cannes 2001 / in concorso”. Rosa e arancio, sabbia e bruno si mescolano con calore in una visione che partendo dal basso – il richiamo diretto del volto femminile con la sua espressione intenta e la sua bellezza – si trasforma in invito corale: e un’atmosfera particolare, calda e misteriosa, che colore e linee orizzontali accentuano in funzione narrativa. Il nome del regista, che sigilla la parte centrale della pagina, a destra, disposto su due righe in caratteri neri, appare come firma e indicazione per l’occhio di chi osserva, che tuttavia è già stato catturato dall’armonia del richiamo e dalla morbidezza dei toni. 54 MANIFESTI Il voto è segreto di Babak Payami ✩✩✩ Piacevole e originale composizione articolata con agile inventiva e segno grafico sintetico, ben sottolineato da contorni neri che rilevano il disegno sul fondo bianco, privo di marginature. Firmato “Interno zero”, il manifesto equilibra slancio verticale – evidente sulla sinistra del foglio, con l’alternarsi dei dati dal titolo giù verso il cast, che si ripete poi in due esigue righe a fondo pagina, seguite da una serie di simboli e logo dall’efficace effetto decorativo – e il piglio orizzontale della scena disegnata, con chiaro effetto narrativo. La giovane donna in abito orientale bruno e nero si avvia con passo deciso verso destra, con la sua scatola bianco-azzurra, e l’abito le svolazza attorno. Accanto a lei, sulla sinistra, una jeep con un guidatore di cui non si intuisce il volto, rivolto verso una serie di alture brune stilizzate che si levano oltre una sorta di brulla pianura. A destra, al di là della figura femminile, l’incongrua presenza di un semaforo rosso: e rossi sono i fanali della vettura, in rosso è la parola “segreto” che completa il titolo, in alto a sinistra. Una composizione fresca e ariosa, che non teme lo spazio vuoto e ne valorizza la funzione dinamica. Aperto dall’indicazione “La Biennale di Venezia – 58. mostra internazionale d’arte cinematografica – Premio speciale per la regia”, il manifesto si snoda gradevolmente fra caratteri e segni, con un raro equilibrio: e l’immagine trasmette una sensazione di serenità coerente al film. MANIFESTI 55 Film discussi insieme 2002 I film A tempo pieno titolo originale: L’emploi du temps CAST&CREDITS regia: Laurent Cantet origine: Francia, 2001 sceneggiatura: Laurent Cantet, Robin Campillo fotografia: Pierre Milon montaggio: Robin Campillo interpreti: Aurélien Recoing (Vincent), Karin Viard (Muriel), Serge Livrozet (Jean Michel), Jean Pierre Mangeot (il padre), Monique Mangeot (la madre) durata: 2h13’ distribuzione: Mikado IL REGISTA Nato a Melle, in Francia, nel 1961, Laurent Cantet ha realizzato numerosi cortometraggi che hanno immediatamente segnalato il suo talento. Tous à la manif e Jeux de Plage hanno vinto diversi premi nei vari festival in cui sono stati presentati. Dopo il mediometraggio Les Sanguinaires, girato nel 1997 per la serie “Il 2000 visto da”, Laurent Cantet ha preparato per la Sept ARTE un secondo film, Risorse umane, dedicato a un conflitto generazionale e di classe tra padre e figlio, operaio e dirigente della stessa fabbrica. Con A tempo pieno torna a occuparsi, ispirandosi a un fatto di cronaca, del lavoro (che non c’è): in questo caso il protagonista è un manager che ha perso il lavoro, ma nasconde la cosa alla famiglia. Il film ha vinto il nuovo premio istituito a Venezia 2001: il “Leone dell’anno” per il miglior film nella sezione “Cinema del presente”. IL FILM «Laurent Cantet, regista e sceneggiatore, lo abbiamo conosciuto e apprezzato per la sua opera prima, Risorse umane, premiata non solo in Francia ma nel ‘99, anche in molti festival. Adesso ci si propone con la sua opera seconda, A tempo pieno (premiata l’estate scorsa a Venezia per la sezione “Cinema del presente”) che, rivisitando liberamente un terribile fatto di cronaca da cui in Francia anni fa ci si ritrasse con orrore, ribalta totalmente la situazione dell’altro film. In quello, il problema era il lavoro e quanto, anche drammaticamente, vi accadeva al suo interno. Qui non è il lavoro perché Vincent, il protagonista, dopo aver esercitato per anni e con successo le funzioni di consulente in una azienda, è licenziato, con una reazione, però, così insolita da sembrare irrazionale. Non dice cioè niente in famiglia – ha una moglie, dei figli e due genitori premurosi – si inventa di aver ottenuto a Ginevra un importante incarico in certi uffici dell’Onu, e, per far soldi in modo tale da avallare la sua menzogna, si dà a organizzare una fitta serie di truffe ad amici e parenti da cui ottiene forti somme con l’illusoria promessa di farle lautamente fruttare grazie a speculazioni A TEMPO PIENO 59 1 del tutto immaginarie motivate da qual suo fantomatico impiego a Ginevra che lo metterebbe in grado di ricevere informazioni preziose nel campo degli affari. I nodi, però, non tarderanno a venire al pettine, sia perché qualcuno, avendo scoperto i suoi trucchi, sarebbe pronto a servirsi delle sue innegabili doti consentendogli di guadagnare senza più vere truffe, sia perché Vincent, che è stato metodico quando operava legittimamente nel suo primo incarico, comincia a turbarsi di fronte alla rovina cui ha esposto alcuni amici e alle frodi con cui ha vessato i suoi stessi genitori. Come conseguenza, nel fatto di cronaca cui Cantet si è ispirato, uccideva tutti, familiari e creditori, nel film, invece, messo alle strette, umiliato e pentito si rassegna a tornare a un lavoro onesto, anche se, a priori, non gli consentirà più nessun volo. La storia, nerissima nella realtà, anche così, però, sottintende un dramma, una frustrazione e un dolore cui Cantet ci fa arrivare con modi asciutti, privilegiando cifre quasi gelide anche quando il protagonista comincia a pentirsi. Vi presta, del resto, la sua maschera segnata un attore, Aurélien Recoing, più noto in teatro che non al cinema, ma che qui riesce a dare prova di un notevole spessore drammatico. Convincendo anche nei momenti in cui il film esita, incespica e perde di rigore». (GIAN LUIGI RONDI, Il Tempo, 19 ottobre 2001). LA STORIA È trascorso più di un anno da quando Vincent, consulente aziendale, è stato licenziato dalla società presso cui ha lavorava, ma non lo ha ancora detto alla moglie. Anzi, per non creare sospetti, da quel giorno esce e in macchina si fa vivo al telefono per fornire notizie dei suoi ipotetici impegni. La moglie, Muriel, insegnante, bada alla bella casa e ai tre figli. Un giorno, di fronte a qualche amico e ai suoi genitori, Vincent ammette di essersi licenziato. Per tutti è la conferma che ha ormai trattative in corso per un nuovo impiego. La moglie è all’oscuro di tutto, e quel silenzio non le piace. Ma Vincent è abilissimo nel raccontarle che non c’è nessun 60 A TEMPO PIENO motivo di cui preoccuparsi. E riparte verso Ginevra, dove si intrufola nel palazzo di vetro dell’Onu, dal quale viene cacciato. Di nuovo a casa, circondato dai genitori, che vorrebbero sapere qualcosa di più del suo misterioso nuovo incarico, chiede al padre un prestito di 200.000 franchi per la caparra di un appartamento. Una richiesta inaspettata, ma Muriel riesce a far rientrare i dubbi e l’ottiene. Poi Vincent si rimette in viaggio, riprende contatti con un vecchio amico a Grenoble e si procura altri soldi. Intende proporgli un investimento redditizio con fondi presso banche di paesi dell’Est. L’amico si presenta, in quello stesso albergo dove si erano incontrati, il lunedì dopo per la consegna del denaro. Vincent non si accorge che a seguire a distanza quei loro colloqui c’è uno strano tipo. Un certo Jean-Michel, con un anno di carcere alle spalle, e che traffica in marchi contraffatti. Ha bisogno di ampliare la sua rete di vendita e ha capito che Vincent potrebbe diventare uno dei suoi. Con i soldi avuti, e che avrebbe dovuto investire, Vincent compra un fuoristrada e raggiunge un altro vecchio amico che ha saputo dei suoi affari e che insiste per affidargli i propri, pochi risparmi. Ma la lunga serie di bugie sta diventando insostenibile e alla moglie Vincent inizia ad ammettere che tutto non va come aveva sperato, ha paura di deludere, si sente stanco. Muriel gli fa coraggio. Ad approfittare di queste difficoltà è Jean-Michel, che non lo ha mai perso di vista e gli chiede come conti di restituire un giorno i soldi avuti in gestione. Vincent crolla e si trasforma in contrabbandiere di merce falsificata. Nel frattempo i genitori vorrebbero vedere l’appartamento di Ginevra. Muriel, che non si è mai del tutto accontentata delle sue parole, precisa: «Vincent mi ha promesso una vacanza in Svizzera». E parte. All’areoporto trova ad aspettarla Vincent, con una giacca a vento nel bagagliaio e in testa un programma a sorpresa. Quando gli chiede dove stanno dirigendosi, lui non risponde. Vanno in montagna, in un rifugio in mezzo alla neve. Di nuovo vicino a Jean-Michel, Vincent comincia a rendersi conto dei rischi della loro attività, ma anche Muriel ha bisogno di veder chiaro. Un giorno, quando il marito le porta a casa quel l’uomo, lei avverte un certo malessere. Una reazione che la porta ad ammettere di aver parlato con Jeffrey, un vecchio collega, al corrente di tutto. Vincent torna in quell’albergo dove aveva trovato la complicità di Jean-Michel e si libera di tutta la merce che avrebbe dovuto vendere, poi passa da un amico che gli aveva dato i pochi risparmi, glieli restituisce, e torna a casa. Qui lo aspetta la ribellione del figlio, che gli rimprovera bugie e assenze. Non è più neanche in grado di sostenere la vista del padre che era andato a salutarlo, e se ne va in piena notte, insensibile anche alla telefonata della moglie preoccupata. Un velocissimo stacco e cambia tutto. Vincent è sotto lo sguardo di chi gli sta proponendo un lavoro importante, che richiede responsabilità e voglia di moltivazione: è stato il padre che ancora una volta è intervenuto a dargli una mano. E lui accetta. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA È un film da vedere, bello, attuale, intelligente. È un ideale seguito di Risorse umane, in cui Laurent Cantet dimostra – ispirandosi alla storia vera di un uomo che perde il lavoro e mentendo si inventa una pericolosa doppia vita – la resistibile discesa di un manager. Non solo l’operaia ma anche la classe borghese non andrà in Paradiso. Cantet pone in A tempo pieno molti problemi (il tempo libero, la pratica della menzogna, i legami di famiglia, il sottile confine della legalità), ma ha la mano ferma nelle psicologie, entra sottopelle ai personaggi, anche i più patologici, manovra questo teatrino di alienazioni reciproche con gusto del dramma sociale ma privo di retorica. Aiutato da un magnifico ed inedito attore, Aurélien Recoing, che con una maschera impassibile subisce le onde del destino in un mondo comandato dal Dollaro. Rispetto alla realtà, Cantet ha preferito un finale non certo felice ma non truculento (la vera storia finiva con un eccidio in famiglia, come in un film di Claude Chabrol), lasciandoci un originale film seminato di fertili dubbi, fra cui quello della nostra identificazione con il lavoro, che, dice il regista, è diritto ma non sempre un dovere. (MAURIZIO PORRO, Il Corriere della Sera, 20 ottobre 2001) Se le frasi idiomatiche potessero essere scambiate indifferentemente l’una con l’altra, A tempo pieno, titolo scelto dai distributori italiani per il film più recente di Laurent Cantet, corrisponderebbe al titolo originale: L’emploi du temps. Ma così non è. Attento ai problemi del mondo del lavoro, il regista francese si sofferma nei suoi film su operai alla catena di montaggio, colloqui per selezionare le assunzioni, assemblee sindacali, appuntamenti di affari, riunioni di consigli di amministrazione... In ogni occasione egli mette l’accento sull’alienazione, dura realtà che si cela sotto il gioco delle false apparenze, facendo affiorare i rapporti di forza e la violenza di fondo che caratterizzano la ripartizione del lavoro nel mondo contemporaneo. [...] Dietro il film si intravede l’ombra di un orrendo fatto di cronaca, l’affaire Romand, che ha scosso tempo fa l’opinione pubblica francese. Un falso medico, di fronte allo smascheramento della menzogna sulla quale si basava la sua vita, ha perso la testa e ha sterminato l’intera famiglia. Anche il protagonista del film Shining (1980) di Stanley Kubrick si illude di essere un grande scrittore fino al momento in cui sua moglie scopre che nel voluminoso dattiloscritto al quale lavora giorno e notte non c’è che un frase insignificante, ripetuta all’infinito. A questo punto l’uomo impazzisce e sparge attorno a sé il terrore. Ciò non accade, per fortuna, a Vincent, il quale, recuperato l’affetto dei suoi cari, troverà un nuovo impiego grazie a una raccomandazione di papà. Il suo tentativo di ribellione si conclude con una resa, ma non è certo che si tratti di un happy end. (VIRGILIO FANTUZZI, La Civiltà Cattolica 3637, 5 gennaio 2002, pp. 105-6). Per avere diretto con Risorse umane uno dei pochissimi film contemporanei sul lavoro in fabbrica, il francese Laurent Cantet fu salutato come il nuovo Ken Loach. Con A tempo pieno, [...] Cantet torna al mondo del lavoro, ma per una via più esistenziale che politica. Che cosa sono diventati gli individui, si chiede, in una società dove ciascuno sta chiuso nel A TEMPO PIENO 61 suo lavoro come in una cella; è etichettato solo in base a quello; se lo perde, diventa nessuno? Vincent, consulente finanziario sulla quarantina, viene licenziato. anziché dirlo alla moglie s’inventa una nuova occupazione come funzionario Onu a Ginevra; il suo tempo, invece, lo impiega a viaggiare e a spillare soldi agli amici, vantando immaginari investimenti. Sa che prima o poi gli verrà chiesto conto del denaro affidatogli ma continua a dir bugie per assicurare il tenore di vita di sempre a moglie e figli. c’è qualcosa di psicologicamente più profondo, tuttavia, nel suo atteggiamento: malgrado i sensi di colpa Vincent sembra trovare nella truffa quella parte di sé che, nel lavoro regolare, non era mai riuscito a tirar fuori. Centrando uno dei temi-chiave delle società occidentali di oggi, Cantet suddivide anche l’entourage del suo protagonista tra chi è in deficit cronico di tempo (sua moglie, divisa tra il lavoro, la casa e i bambini) e chi dispone di una quantità di tempo (suo padre), ma che non sa che farsene. Realistico, attento ai particolarti quotidiani, interpretato da facce autentiche, A tempo pieno è un film più complesso delle sue apparenze: lo attraversa una disperazione oscura, il rimpianto, più che il senso di rivolta, per il modo in cui abbiamo stravolto le nostre vite cedendo tutte le nostre energie al lavoro. E risulta ancora più convincente perché non si sceglie un eroe anarchico, ma un uomo perfettamente normale; però così espressivo, nel suo male di vivere, che le ultime inquadrature sul suo volto restano tatuate nella memoria. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 21 ottobre 2001) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Iris Valenti - Fin dal primo momento la musica, che sottolinea ed enfatizza con molta efficacia l’atmosfera drammatica della storia, ci coinvolge emotivamente dando voce ai sentimenti di un uomo che, in contraddizione con la maturità d’anni, si trova completamente impreparato alle difficoltà della vita, incapace di affrontare giudizi, pregiudizi e re62 A TEMPO PIENO sponsabilità. Preferisce scappatoie facili anziché cercare le cause dei propri fallimenti per rimuoverle e ricostruire un’esistenza dignitosa. Fa da sfondo al racconto un paesaggio squallido e desolante, pur se con qualche fugace squarcio di luce, in perfetta sintonia con lo stato d’animo del protagonista che trova rifugio solo nel sonno, quasi in un’illusoria speranza di miracoloso risveglio, come quello di alcuni animali che nel letargo annullano gli stimoli della fame e i rigori del freddo. Per l’uomo non è così. Ci vuole fede e fiducia, in se stessi e in quanti ci hanno sempre dimostrato il loro amore. Forse troppo, perché a volte alla fine genera fragilità e insicurezza. Marcello Napolitano - È un film molto bello e coraggioso. Coraggioso perché affronta un problema sociale importante: nella Francia, unica nazione in Europa dall’economia virtuosa, sono molti i casi di clochards provenienti dalle classi medie, piccoli imprenditori, middle managers, etc.: è un fenomeno nuovo che coinvolge classi finora considerate immuni e forse meno agguerrite nell’affrontarlo. Mi sembra che stia diventando importante anche in Italia, ma il nostro cinema, anche migliore (per es. Luce dei miei occhi), non riesce a raccontare la realtà. Il soggetto è tratto da un caso reale, finito in tragedia. Il tema poi è affrontato con abilissima introspezione del protagonista Vincent, un uomo forse debole, schiacciato tra una famiglia d’origine solida, invadente ma solidale, e una famiglia propria che domanda cure, sostegno anche economico, attenzione (la moglie si lamenta della scuola, che certo l’affatica, ma ne dimentica la sicurezza come datore di lavoro). Viene licenziato perché non è più all’altezza della sua mansione (la concorrenza globale richiede una continua evoluzione, una continua corsa) e prende una decisione sbagliata, forse pensa di poter recuperare in breve tempo; essenzialmente non vuole uscire dal branco; i complimenti per il nuovo lavoro all’Onu (alla festa della scuola) sono il negativo di quello che direbbero se sapessero che lui è un senza lavoro; non si può uscire impunemente dal branco o anche solo retrocedere di rango se questo rango è fatto dal consumo, case, auto, abiti, viaggi e basta. Ve- diamo Vincent per la prima volta che ha già smesso di lottare in quel mondo, preferisce darsi agli espedienti. Bellissime le scene iniziali, il risveglio in auto, con una luce livida che è un’ouverture di tutto il dramma; la gara con il treno, vecchiotto ma solido, simbolo della vecchia società francese, semplice ma solida, bottegai, travet, agricoltori, contro il nuovo dei consulenti e della finanza, rappresentato dall’automobile che trasporta le pene del protagonista; una corsa verso nessun luogo solo per essere chiusi in una piccola bolla, la cabina dell’auto, dove nessuno, né famiglia, né lavoro, può entrare. Il regista insiste su quest’aspetto supertecnologico della società: belle strade, belle auto, cellulari squillanti e luminosi, tutto pulito, lindo, funzionale, anche la casa del protagonista e la scuola della moglie, ma tutto un po’ freddo, senz’anima, come sono falsi i rapporti del protagonista con la famiglia, com’è falso il suo gergo del lavoro, quando tenta di spiegarlo ad altri. Infatti subito dopo il risveglio Vincent telefona alla moglie, prima di una lunga serie di telefonate sempre concluse con un “ti amo” che non ha nessun senso, se non riesce a parlare delle cose veramente importanti. Tra le sequenze di grande efficacia mi hanno colpito quella della visita agli uffici di Ginevra: la macchina da presa riprende lo sguardo del protagonista sugli impiegati, tra ironico e nostalgico, di chi era dei loro ma ora è distante, molto distante; e la sequenza dell’incontro con l’ex collega inglese al grande magazzino: la moglie, ripresa di spalle, guarda i due uomini allontanarsi uscendo dal fuoco dell’obiettivo, come se il regista ci volesse dire che quell’uomo è per lei uno sconosciuto. A mio avviso, il film è riuscitissimo per quanto riguarda il protagonista, credibilissimo e sofferto; meno credibili sono le vicende che lo circondano, la moglie troppo credula, il padre invadente, il contrabbandiere buono che gli dà una mano e quasi gli indica la via del riscatto sociale, l’ex collega di scuola che si è dato a inseguire il suo sogno di musicista ed è l’unico a vivere in una dimensione umana (anche qui: melodrammatica la scena di Vincent che lo spia dalla finestra, riscattata dall’intensità dello sguardo dell’attore) sono personaggi che forse avrebbero richiesto maggiore spazio per raccontarsi meglio e rendersi più credibili. Più vero di tutti i coprotagonisti risulta il figlio Julien, che già risente del richiamo del suo branco, da cui ha assorbito i parametri per giudicare il mondo e la durezza per affrontarlo. Anche il finale, credo, sia un compromesso con il botteghino: la dissolvenza della figura del protagonista nella notte, verso chissà quale destino, è per me il vero finale, carico di ambiguità e di tragedia; c’è poi l’aggiunta un’improbabile intervista di lavoro, gravata dall’ombra del padre, condotta da un intervistatore distratto (se attento, avrebbe scartato subito l’intervistato con quella faccia da cane bastonato): scena che è sostenuta drammaticamente solo dalla recitazione del protagonista, come sempre intensa. OTTIMO Michele Zaurino - Un film lucido, intenso, analitico, che ha come tema principale il senso di inadeguatezza e la paura di deludere. Il mondo del lavoro è un pretesto per descrivere l’esistenza di Vincent, che per nascondere alla famiglia la perdita del posto costruisce un castello di bugie inventandosi un fantomatico posto di funzionario Onu a Ginevra. La trama si dipana attraverso lunghi e solitari percorsi nella protettiva auto, nella desolazione di parcheggi semivuoti, nei lunghi silenzi interrotti da brevi telefonate. In molte inquadrature il mondo familiare e quello del lavoro vengono visti dal buio esterno attraverso le finestre illuminate a sottolineare l’estraneità di Vincent e il buio che comincia a pervadere la sua mente. Ci si avvia al finale con una sensazione di tragedia imminente. L’ultima scena sorprende tutti con un finale apparentemente consolatorio, ma l’espressione vacua del protagonista di fronte a un’ottima offerta di lavoro è agghiacciante alla maniera di Kubrick. Bravo Cantet! Caterina Parmigiani - Vincent è un debole, un uomo senza storia, come tutti coloro che sono incapaci di amare. Evidentemente è stato educato non ai valori autentici, ma all’ambizione, alla mancanza di scrupoli, alla falsità, all’atA TEMPO PIENO 63 taccamento alle apparenze. Non sapendo né conseguire quel prestigio che la famiglia si aspetta da lui né conservare il lavoro, forse poco gratificante ma ben remunerato, inizia a mentire. La prima bugia dà inizio a un processo a catena, che non viene interrotto per incapacità a compiere scelte precise, tuttavia da una serie di atti di inerzia scaturisce l’unica vera decisione: scomparire, suicidarsi. Ma Vincent, proprio perché sa che anche per suicidarsi occorre almeno un po’ di coraggio e di determinazione, per un attimo pensa, seppure con poca convinzione, di lasciarsi condurre ancora dall’inerzia perché prima o poi ci sarà un intervento salvifico da parte di suo padre. Film interessante interpretato da un ottimo attore, che sa calarsi con maestria nel ruolo dell’uomo fallito, solo, privo di sentimenti. Marisa Florio - Film di straordinario interesse, in cui è delineato con profondità di analisi il percorso psicologico di chi vive una realtà di disoccupazione. Il sistema di valori connaturato nell’ambiente del protagonista lo porta a vedere come umiliante qualunque situazione di ripiego che implichi l’abbassamento del tenore di vita. La moglie e gli altri familiari non rientrano in quel sistema. La moglie potrebbe aiutarlo, l’amico anche, ma lui ragiona da manager di multinazionale, per lui insegnare ai bambini vuol dire non essersi realizzati. Diverso è il modo di ragionare del suo amico disoccupato: non si fa problemi a richiedere il sussidio e ad avere la moglie che lavora e questa umiltà gli permette di non raggiungere l’abiezione toccata dal protagonista. Oltre che all’aspetto interiore, il pensiero va alla disoccupazione come dramma sociale, frutto sempre di egoismo, di scarsa attenzione all’altro. Di particolare pregio la recitazione dei due coniugi, il film ha anche una notevole capacità di attrazione pur non ricorrendo agli artifici della tensione, ma facendo del cinema verità. Lucia Fossati - Film sottilmente angosciante, nella tradizione del miglior Polanski: l’horror quotidiano che ti penetra nel cervello senza darti tregua. Film dalla struttura onirica perché potrebbe essere interpretato come prodotto dell’im64 A TEMPO PIENO maginazione del protagonista che, nell’inquadratura iniziale, è ripreso di notte, in macchina, affranto dopo il licenziamento. Sfuggire alla realtà inventandosi un’occupazione prestigiosa, lontano da casa, con la possibilità di viaggiare, con momenti distensivi in un isolato chalet di montagna, fuori dal mondo, procurarsi danaro promettendo investimenti facili, a spese degli amici… Ma se finisse in qualche racket? Se i familiari lo scoprissero e lo giudicassero? Non resterebbe che il suicidio o il perdersi nel nulla… meglio allora l’impatto con l’odiosa realtà. La scena finale, fortemente in contrasto con tutto il film, potrebbe essere il risveglio brutale da un sogno. Dura lezione di questo regista: come agli operai di Risorse umane, così anche ai “colletti bianchi” la nostra società impone il tempo pieno: l’assillo del lavoro riempie la vita senza scampo. Riccardo Valente - Questo film di Cantet è migliore del precedente Risorse umane soprattutto sotto l’aspetto umano. Nei commenti degli spettatori, mi pare che mediamente sia soprattutto emerso un giudizio sul personaggio interpretato dallo straordinario Recoing: un fallito, un bugiardo, un irresponsabile, un uomo fuori dalla realtà, un matto, diciamolo pure. Tutto questo è probabilmente vero, soprattutto pensando alla storia vera a cui il film è ispirato. Ciò che invece non è emerso è il motivo, secondo me fortissimo, della “pazzia” del protagonista, e non è emerso il sottile ma devastante legame che esiste tra l’ambiente di lavoro, l’azienda per cui si lavora e la vita affettiva e familiare. Non mi stupisco, perché chi non ci è passato in mezzo queste cose non le sa. Non parlo naturalmente delle piccole o grosse aziende familiari a cui siamo abituati in Italia: parlo delle grosse aziende, multinazionali o no, delle Public Companies, organizzazioni impersonali in cui tutti o quasi tutti lavorano non per il pubblico – cioè per produrre beni o servizi di cui la società ha bisogno – e neppure per il famoso profitto – per far guadagnare l’azienda da cui dipendono (magari!) – ma solo ed esclusivamente per il proprio potere e tornaconto personale. In un ambiente simile, chi non ha le spalle coperte e non ha la stoffa del mercenario – perché è questo che si dovrebbe diventare per sopravvivere – e soprattutto chi ha offerto degli ostaggi al destino, sotto forma di moglie e figli molto amati, bella casa, bella macchina, bella vita, e sa di poter perdere tutto per il capriccio di un superiore, per lo sgambetto di un collega, può benissimo fare la fine del povero Vincent. BUONO Anna Colnaghi - A tempo pieno ovvero Un uomo senza qualità. Un bel film capace di indagare stati psicologici tanto quotidiani quanto sottili e inavvertibili. Più volte si sente la tragedia come nascosta dietro le quinte, ma la morte si consuma dentro le persone. I genitori inconsapevoli, la moglie un po’ distratta, l’amico rassegnato a vivere d’espedienti, i bambini delusi e infine Vincent, non vincente (sembra un’ironia), ma incapace a costruirsi uno spazio personale. Adeguato solo al nulla che è l’abitacolo della sua vettura: piccolo spazio dove può anche cantare… Adelaide Cavallo - Qual è il colore delle bugie? Chiaro? Scuro? È un chiaro-scuro di cui non si delineano i contorni, ragion per cui, nell’incertezza che ne deriva, tende a svanire il carattere degli esseri? È questo il profilo del protagonista di A tempo pieno; il profilo di un uomo che in attenta e persuasiva narrativa riesce a rivelarsi bugia di se stesso. E questo perché ho “visto” Vincent come l’uomo delle paure o meglio “della” Paura, cioè di quella specie di padrona che c’è in noi che pare avere, in certe situazioni, un fluido ipnotico che erode via via la chiarezza di cui si abbisogna, e produce come in Vincent, quella alterazione d’animo cagionata da pusillanimità. Dopo di ciò succede (può succedere) di tutto. Non ci meravigliano quindi i passi di Vincent, manager liquidato, verso il futuro che intraprende. Un cammino che non è né in discesa né in salita. Un cammino che non è un cammino, ma un salto, a tempo pieno, nel vuoto (dell’inconsistenza). Donatella Greco - Il conflitto tra l’essere e l’apparire è il tema centrale di questo film: il protagonista non ha la forza di mostrare ai familiari la sua vera natura, cioè quella di un perdente in una società in cui i valori che contano sono il denaro e il successo professionale; da ciò la necessità di inventarsi un incarico di prestigio e altamente redditizio. Significativo è il personaggio del figlio maggiore che non mostra particolare entusiasmo per i guadagni e il nuovo lavoro del padre, che vorrebbe invece più vicino nei momenti importanti della sua vita come le gare sportive e che, quando ne scopre la doppiezza, gli rimprovera la slealtà (“Hai mentito”), non l’insuccesso professionale. Rimane il messaggio di speranza che le nuove generazioni riscoprano valori oggi troppo trascurati. Lidia Giglio - Ritratto di “un uomo a metà”, diviso tra passato e presente, coinvolto in una crisi esistenziale di cui forse non è del tutto consapevole. Il grande amore per la famiglia, che vuol mantenere nell’elevato livello di vita, lo spinge, dopo il licenziamento a mentire, inventando un nuovo lavoro e procurandosi il denaro con compromessi, bugie, stratagemmi. D’altra parte c’è in lui anche un’aspirazione alla semplicità (ritrovarsi con la moglie in una cascina diroccata a lume di candela), un desiderio di fuga e di annientamento (le lunghe corse in automobile, senza una meta). Alla fine, è costretto ad arrendersi a una realtà che non lo convince ed è, lo si vede dall’espressione del suo volto, quasi un suicidio. Il regista ha reso con efficacia lo sconvolgimento provocato dal mutare dei tempi e dei valori. Nel viso apparentemente impassibile del protagonista ha rispecchiato la solitudine di un uomo che, nel mondo in cui vive, non sa trovare risposte. Paolo Cipelletti - Questo film è una storia di alienazione, che è anche una parabola di certi aspetti del nostro tempo. Il protagonista non ha mai amato il suo lavoro (pur essendo rimasto ben 11 anni nella stessa ditta) e alla fine si è messo nella condizione di essere cacciato. Tuttavia non sa rinunciare agli agi e ai tiepidi affetti familiari, e stolidamente si “infila” in una situazione insostenibile, fino alla catarsi finale. Il finale secondo me è persino più triste di un suicidio o della violenza A TEMPO PIENO 65 verso i familiari: è la rassegnata resa a un sistema di vita che non piace e per il quale il protagonista non si sente all’altezza. Vittoriangela Bisogni - Anziché condividere le sue pene con coloro che lo amano, Vincent preferisce portare alle estreme conseguenze il teatrino delle menzogne patetiche, giungendo anche a truffare gli amici. E come un bambino, rifiuta di ammettere l’evidenza dell’insostenibilità di tale gioco. Il film è infatti la perfetta analisi di un uomo/bambino, meno maturo dei suoi figli, che alla fine gli stanno dinanzi come giudici severi e silenziosi. Questo tipo di maschio orgoglioso, disperatamente sognatore, irresponsabile, non è infrequente. Perciò considero molto valido questo tipo di film che sa porcene un ritratto così attento. Il regista ha lavorato con sensibilità e abilità: il film è un po’ lungo ma perfettamente strutturato ed è ricco di dettagli di gran pregio e significatività, fino al gran colpo d’ala del finale, che rifugge dalla logica conclusione del suicidio per proporci una situazione aperta, e proprio per questo più stimolante alla riflessione. Gabriella Rampi - Un film sull’incomunicabilità soprattutto tra persone che si amano: Vincent non riesce a parlare del suo problema, né con la moglie, né con i genitori, pur così disponibili a dargli credito: forse per orgoglio, per non metterli a parte del proprio fallimento, forse per l’ambizione di riuscire a crearsi un futuro più appagante. Resta invece la solitudine di un uomo che macina chilometri rinchiuso nella sua auto come in una corazza, che custodisce le sue illusioni e tiene lontana la realtà. La scena della nebbia in cui lui non riesce più a vedere la moglie rende bene questo senso di spaesamento. Il finale fa presumere un lieto fine, che forse sarà vero, se quest’uomo “senza qualità” riuscirà a trovare una sua personalità, al di fuori degli schemi preconcetti in cui lo ha imprigionato la società. Cinzia Maggioni - Il finale, forse, è più drammatico del nostro immaginario! Ritornare nello stereotipo che ci vien quotidianamente richiesto – di fare cioé i “superman” ad 66 A TEMPO PIENO ogni costo, di esibire una macchina sempre più grande, mentre, dentro di noi, spesso, urla l’essere umano che bisogno solo della pace di una montagna. Rirprova che oggi, quindi, è tanto difficile essere normali. DISCRETO Carla Testorelli - La storia diventa il pretesto per mettere in luce lo squallore della new economy e dei suoi valori fasulli. Gli ambienti asettici delle holding, cui il protagonista finge ancora di appartenere, si alternano ai paesaggi di una montagna innevata, unica passione, insieme al fuoristrada, del nostro molto poco “eroe”. Certo l’aspirazione fallita di appartenere a una “squadra” nell’ambito di attività troppo spesso fumose, crea nel protagonista un senso di frustrazione, accresciuto anche dalle aspettative paterne. Il protagonista è certo un mediocre, ma anche la società in cui vive e i valori che gli sono stati inculcati non lo aiutano a crescere. Monica Pietropoli - Una lentezza infinita del ritmo della storia che trasmette un’angoscia notevole, forse quella interiore del protagonista nel momento in cui si deve confrontare con la realtà. In questo caso non si può dire che la regia non sia riuscita, ma nell’insieme il film dà l’impressione di non essere organico e arriva a un finale per niente convincente. Alcuni personaggi ben riusciti lasciano comunque allo spettatore dei temi di riflessione da sviscerare. MEDIOCRE Ugo Pedaci - C’erano forse tutte le premesse per mettere insieme un buon film: un racconto avvincente per lo spettatore desideroso di vedere come sarebbe andata a finire, un bravo protagonista che ha reso bene la sua parte, una discreta fotografia. Certo è mancato qualcosa, quel “tocco” che può rendere apprezzabile un film che ha rischiato invece di an- noiare, troppo lungo e, soprattutto, privo della benché minima motivazione. Perché un individuo quarantenne che si è conquistato una buona posizione come consulente finanziario, con una discreta famiglia, una bella casa e dei genitori che gli vogliono bene (forse un po’ troppo) si riduca in quello stato è, per esempio, una delle cose che nessuno ci spiega o ci lascia intravedere. E quella mancanza di onestà che lo porta a ingannare amici che sembrano anche sinceri? Perché, sull’orlo del baratro, non riesce ad accettare la mano che gli viene tesa dal commerciante di oggetti “taroccati”? Infine, perché quel finale che non c’entra proprio nulla con la personalità dell’individuo che abbiamo conosciuto? Ho cercato con buona volontà di “leggere” questo film con attenzione ma, anche se non mi sono sfuggiti alcuni temi essenziali quali la solitudine interiore, la disperazione, il rammarico per come a volte si spende la vita, non sono riuscito ad apprezzare questo lavoro. E pensare che sarebbe bastato poco per farcelo apprezzare. A TEMPO PIENO 67 A Beautiful Mind CAST&CREDITS regia: Ron Howard origine: Usa, 2002 soggetto e sceneggiatura: Akiva Goldsman, dal libro omonimo di Sylvia Nasar fotografia: Roger Deakins montaggio: Mike Hill, Dan Hanley musica: James Horner interpreti: Russell Crowe (John Nash), Ed Harris (Parcher), Jennifer Connelly (Alicia Nash), Christopher Plummer (dottor Rosen), Paul Bettany (Charles), Adam Goldberg (Sol), Josh Lucas (Hansen), Vivien Cardone (Marcee) durata: 2h16’ distribuzione: Uip IL REGISTA Ron Howard nasce in una famiglia di attori a Duncan, Oklahoma, il 1 marzo 1954. Ha cominciato a recitare da piccolo e infatti è universalmente noto come attore molto prima che come regista, per aver interpretato, durante gli anni Settanta, la famosissima serie televisiva americana Happy Days (dove interpretava lo studente Richie Cunningham). Nel 1976 ha ricevuto la nomination per il Golden Globe per la sua interpretazione in The Shootist, ma già da allora il suo sogno era quello di dirigere film. L’incontro con Roger Corman è stato fondamentale per realizzare le prime prove di regia (Eat My Dust, 1976, e Grand Theft Auto, 1977). Dopo svariate apparizioni televisive e cinematografiche (tra cui quella in American Graffiti di George Lucas nel 1973), è proprio la televisione ad aprirgli le porte come regista (e in seguito, anche sceneggiatore e produttore). Tra i suoi lungometraggi, ricordiamo Splash, una sirena a Manhattan (1984), la favola fantascientifica Cocoon (1985), Gung Ho (1986), mentre di pari passo prosegue la sua attività di regista e produttore televisivo. Negli anni Novanta dirige grandi produzioni all star come Fuoco assassino (1991), Cuori ribelli (1992). Con Apollo 13 (1995, due Oscar su nove nomination), gli si aprono le porte per il regno di Hollywood. Seguono il thriller Ransom - Il riscatto (1996) il rivelatore EDTv (1999) che anticipa di poco il fenomeno “Grande fratello” e la sottovalutatissima favola natalizia Il Grinch (2000). A Beautiful Mind (2001), nominato ad otto premi Oscar, ne ha ricevuti quattro: a Jennifer Connelly come migliore attrice protagonista, a Russell Crowe come miglior attore protagonista, a Ron Howard e Brian Grazer come miglior film e ad Akiva Goldsman per la miglior sceneggiatura. Il film ha inoltre ottenuto quattro Golden Globes. IL FILM Davvero una “magnifica mente”, quella di John Forbes Nash jr., che a vent’anni elaborò la teoria dei giochi e rivoluzionò le basi dell'economia moderna. Era il 1948 e Nash stava a Princeton con la più ambita delle borse di studio; ma non era della razza classica degli studenti che da generaA BEAUTIFUL MIND 69 2 zioni hanno l'università nel sangue e nei modi. Piccolo borghese, un po’ sciattone, testa nelle nuvole (sempre a inseguire un’idea brillante e veramente originale), molto scontroso, per nulla avvezzo ai riti giovanili, molto invidiato e perciò un po’ perseguitato per la fama, appunto, di mente magnifica che l’ha preceduto. Eppure, bastano una sconfitta al “Go” (antico gioco da tavolo al quale si sfidano gli studenti di Princeton) e una serata al bar a osservare i meccanismi di squadra innescati tra i suoi compagni dalla presenza di una bionda esplosiva per accendere nel suo cervello la scintilla dell’invenzione. Si fa fatica a immaginare il “gladiatore” Russell Crowe nei panni di questo genio ombroso e travolto dalla schizofrenia, che arriva al Nobel nel 1994 grazie a quella sua teoria giovanile. Ma basta ricordare il borghese ostinato di Insider per ritrovare sulla faccia di Crowe quell’espressione decisa e aggrottata che qui gli fa voltare le spalle, con sofferenza, alle immagini della sua malattia. Probabilmente Crowe non vincerà un secondo Oscar in due anni, ma per questo film lo meriterebbe davvero. E, al suo fianco, lo meriterebbe anche Jennifer Connelly, cresciuta in misura, fascino e tenerezza da quando, ragazzina, ballava “Amapola” e si lasciava guardare da Noodles in C’era una volta in America. A Beautiful Mind è un film dalle cadenze classiche e impreviste. Nasconde con abilità i risvolti misteriosi della sceneggiatura e con senso sotterraneo del suspense centellina dubbi e rivelazioni, quasi la consapevolezza degli spettatori dovesse andare di pari passo con quella del protagonista. Non esita davanti all’esasperazione e non si vergogna della commozione. Ron Howard cresce sempre di più come regista e, se non inventa, certamente ama raccontare (EMANUELA MARTINI, Film TV, 26 febbraio 2002). LA STORIA «Noi oggi affidiamo il futuro dell’America nelle vostre mani. Benvenuti a Princeton, signori». È l’anno 1947, e John Nash è tra quegli studenti laureati in matematica, ammessi ad un corso post lauream, con una borsa di studio. 70 A BEAUTIFUL MIND John si dedica a quegli studi con un impegno che Charles, il compagno di stanza al college, ritiene eccessivo. Osserva le cose che ha davanti come se fosse alla continua ricerca della legge che ne provoca il movimento. È ossessionato dalle dinamiche dominanti. Trascriverne la formula sui vetri della sua stanza è una specie di incubo da cui non riesce a staccarsi. E si sente in ritardo. Gli altri hanno già pubblicato i loro lavori, mentre lui è ancora alla ricerca dell’idea originale. Ma l’idea arriva ed è quella che fa dire al suo professore «Con una scoperta di questa portata sono convinto che otterrai qualsiasi collocamento che desideri». Cinque anni più tardi, nel 1953, John viene convocato al Pentagono. Il prestigioso incarico che ricopre all’Istituto Wheeler lo ha già reso celebre. Gli si chiede di decifrare un codice che il sistema non riconosce, intercettato da trasmissioni radio in arrivo da Mosca. Davanti a quella moltitudine di numeri elaborati dal computer, Nash individua una traccia allarmante. Gli viene allora assegnato un compito che lo porta a chiedersi: «Adesso che cosa sono: una spia?». William Parcher, un agente della Difesa che non deve perderlo di vista, lo mette di fronte alle responsabilità di segretezza. Non se ne libererà più. A Princeton si fa avanti una ragazza, Alicia, e John se ne innamora. Ne parla a quel suo vecchio compagno di università, Charles, che rincontra per caso con la sua nipotina, e gli confida la voglia e la paura di sposarsi. Si sposa, e poco dopo è bersaglio di un’intercettazione che lo sconvolge. William Parcher, che lo protegge, cerca anche di rassicurarlo, gli dice di essere ragionevole ma lui risponde che non credeva di trovarsi in quella situazione e che poi le circostanze sono cambiate. La moglie aspetta un bambino. E intende rinunciare al lavoro. La crisi arriva violenta il giorno di una lezione all’università di Harward. Viene fermato dallo psichiatra e ricoverato, ma le ragioni con cui cerca di spiegarsi sono respinte. La moglie che chiede al medico che abbia il marito si sente dire che è schizofrenico e paranoico. Lei timidamente risponde che quello di cui parla è il suo lavoro, e che ha a che fare con delle cospirazioni. Si sente rispondere che nell’ambiente di John quei comportamenti sono da considerare accettabili. Ma poi lo psichiatra aggiunge che la schizo- frenia risale a molti anni prima e precisa come si sia manifestata. Alicia non accetta quelle parole e vuole controllare da sola. Si reca all’Istituto Wheeler e entra nell’ufficio del marito. Il tavolo e le pareti sono tappezzate di articoli di giornali. Ne esce sconvolta. Torna e lui fa l’ultimo tentativo per convincerla della pericolosità dei segreti di cui è in possesso. Ma Alicia lo interrompe: «Non c’è nessuna cospirazione. Tutto è solo nella tua mente. Amore, sei malato». Per John il colloquio con la moglie lo porta ad un gesto disperato, che obbligherà i medici a sottoporlo alla prova più dura: l’elettrochoc. Quando ritorna a casa quelle allucinazioni si ripresentano, e non lo abbandoneranno più, ma è proprio la moglie che lo aiuta ad accettarle. Per tutti e due vale la convinzione che solo un reinserimento a Princeton sia la cura giusta per poter evitare un altro ricovero. E a Princeton, proprio mentre riprende il lavoro di ricerca, John scopre una nuova vocazione: quella di insegnante. Ottobre 1994: John Nash è candidato al premio Nobel. «La sua teoria dell’equilibrio negli ultimi anni è diventata una pietra miliare dell’economia moderna» gli dice Thomas King, quando va a comunicargli che il suo nome è stato preso in considerazione per il celebre riconoscimento. Il Nobel gli viene assegnato nel dicembre dello stesso anno. Tra gli applausi John dichiara: «Ho sempre creduto nei numeri, nelle equazioni e nella logica che conduce al ragionamento. Ma dopo una vita condotta nell’ambito di questi studi, io mi chiedo che cosa è veramente la logica. Chi decide la ragione? La più importante scoperta della mia carriera e della mia vita è che è solo nelle misteriose equazioni dell’amore si può trovare ogni ragione logica». E, rivolgendosi alla moglie, «Io sono qui stasera solo grazie a te. Tu sei la ragione per cui io esisto». Finita la cerimonia, a ricondurre padre e madre a casa c’è anche il figlio, ormai studente universitario a Harward. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Prima ancora che un film senza difetti, una storia, vera quasi immaginaria che si insinua sotto pelle. Anche se sono da ricordare almeno Ed Harris e l'emergente Paul Bettany, molto si deve alla performance di Russell Crowe, la cui interpretazione supera di slancio ogni abitudine. Dipingendo, con piccoli tocchi stupefatti, Nash come un eccentrico che sfida il mondo e ne è vinto, Crowe vola al di là del consueto e annulla i confini rigidi tra normalità e follia. Di Nash non sapremo mai dove finisce una certa quotidiana dissociazione e dove comincia la vera malattia mentale. Crowe non ce lo vuole dire e fa bene. Ecco la storia tortuosa di una mente, nonostante tutto, stupenda. Cioè semplicemente umana. (PIERA DETASSIS, Ciak, 1 febbraio 2002) Supercandidato agli Oscar, un dramma ispirato a fatti reali che racconta quarantasette anni della vita di John Forbes Nash jr., matematico di genio insignito del Nobel. Tra l’ingresso di John all’università di Princeton (1947) e la consegna del premio (1994), A Beautiful Mind racconta le gioie e i dolori di un uomo eccentrico, anticonformista, irriducibile a un concetto di “umanità” intesa come mera omologazione. Studiando le reazioni ormonali dei suoi compagni alla vista di una bella bionda, Nash formula una teoria che analizza i principi matematici della competizione, influenzando profondamente l’economia degli anni 50. Poi s’innamora di Alicia (Jennifer Connolly), bella e dotata studentessa di fisica, e la sposa. Ma siamo in piena guerra fredda e il brillante matematico è implicato in un affare di spionaggio. Nash vede pericoli ovunque, ma nessuno gli crede: la diagnosi è schizofrenia paranoide. La buona idea del film consiste nell’installare il dubbio nella mente dello spettatore, che resta incerto tra una versione soggettiva e una oggettiva dei fatti. Peccato che il bel gioco duri poco; perché Ron Howard, preoccupato di rendere il senso degli avvenimenti accessibile a tutti, banalizza i dubbi chiarendo che si tratta di ossessioni del protagonista. Va bene risparmiare al pubblico dei noniniziati le complesse teorie matematiche; meno bene trattarlo come una massa di scolaretti, spiegandogli ogni cosa puntigliosamente e concludendo con una tirata benpensante sui miracoli dell’amore coniugale. Così, se la prima parte è coinvolgente e appassiona, la seconda diventa didascalica e un A BEAUTIFUL MIND 71 po’ noiosa. Privato delle seduzioni dell’ambiguità (vedi anche la scelta di tacerne l'omosessualità), Nash finisce per somigliare a una forma evoluta del matto che si prende per Napoleone. Fortuna che c’è Russell Crowe a suggerirne la complessità offrendogli un paradigma di gesti al confine con orgoglio e vulnerabilità, goffaggine e genio, ambizione e incapacità di trovare un proprio posto nel mondo. È tanto bravo, Crowe, da non risultare mai ridicolo; neppure alla fine, quando ritira il Nobel truccato in modo da somigliare al vecchio Henry Fonda. E il suo “carattere” di anti-eroe è di quelli per cui i giurati dell'Oscar stravedono. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 24 febbraio 2002). Si può fare un bel film che nello stesso tempo è una stupidaggine? Nei remoti anni ‘30, prima che se ne impadronissero gli intellettuali, il cinema era proprio quel fenomeno ingenuo e furbo che ritroviamo in A Beautiful Mind, dove la storia vera diventa romanzo d'appendice. Insomma, se vi interessa l'autentica odissea del protagonista leggete il libro di Sylvia Nasar Il genio dei numeri. Storia di John Nash, matematico e folle (Rizzoli), che ripercorre la vicenda di uno studioso volta a volta definito scontroso, riservato, arrogante, distaccato. Dopo essersi fatto un nome con una tesi di sole 27 pagine, Nash precipitò nell’abisso della schizofrenia dal quale tuttavia si riscattò al punto da ricevere nel 1994 il Nobel. Dal libro apprendiamo particolari imbarazzanti che il film tralascia: lo stravagante professore ebbe esperienze omosessuali, un’amante tenuta segreta perché non considerata all’altezza, un figlio naturale di cui non si occupò. Nel corso della lunga malattia si separò dalla moglie (Jennifer Connelly nel film), con la quale il rapporto non fu certo un idillio e produsse un figlio disadattato. L’uomo-orchestra Russell Crowe (il Paul Muni del 2000, supercandidato all’Oscar, in grado di raffigurare con palpitante convinzione il personaggio dai 19 ai 66 anni), sembra fin dall’inizio un mattoide malmostoso e imbranato che scrive formule matematiche sui vetri delle finestre. A Princeton si ritrova uno strano compagno di stanza, Paul Bettany, che gli butta la scrivania dalla finestra; e si presenterà più avanti in compa72 A BEAUTIFUL MIND gnia di un’inquietante nipotina. Ma l’evento fatale sarebbe avvenuto nel 1953, quando il matematico viene segretamente convocato al Pentagono dove decifra con successo un codice sovietico riguardante la Bomba. Dal momento in cui gli fanno un tatuaggio sul braccio con un numero d’ordine, Nash diventa un agente al servizio dello spione capo Ed Harris; e il film si trasforma in una specie di avventura apocrifa di 007. Attenzione, però. Lo sceneggiatore Akiva Goldsman ha inventato quello che non vi aspettate, insomma, non fidatevi delle apparenze. Nel partire dal realismo per approdare altrove, la trovata (che non svelo) è una sconcertante prova di abilità, ma non è da prendersi alla lettera. Leggo che Nash e signora, ormai risposati, hanno assistito con il regista Howard alla proiezione della pellicola e mi piacerebbe sapere che cos’è passato nella mente del fantabiografato, restaurata ma forse messa troppo a dura prova. Pare che lo abbia colpito soprattutto la sequenza dell’elettrochoc (gliene praticarono una cinquantina). Spiegazione dell'iperazionale scienziato: «Nel corso del trattamento sei incosciente e questo è dunque l’unico capitolo della mia vita che posso affermare di non aver vissuto». Troppo buono, direi, nei confronti di un film che le spara ben più grosse. (TULLIO KEZICH, Corriere della Sera, 23 febbraio 2002). Guardando A Beautiful Mind si può pensare che Ron Howard si sia fatto un giro per dipartimenti di matematica con lo spirito di un safari in Africa. Il film è spesso una collezione di topoi sul soggetto “matematici e loro peculiarità”, alcuni dei quali erano trite macchiette ai tempi di mia nonna (il matematico come «macchina per trasformare caffeina in teoremi» che passeggia gesticolando, vestito malem con una collezione di biro nel taschino). Altre idee sono interessanti e meno banali: una visione di A Beautiful Mind può rendere ben chiaro quanto la matematica sia, come tutte le altre arti, anche la visione di un altro mondo. Godfrey Hardy diceva che «il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme»; i momenti migliori di A Beautiful Mind sono quelli in cui si cerca di far vedere, in soggettiva, le forme che Nash crea, in un mondo parallelo a quello degli altri. Gli altri ve- dono una bella ragazza in un pub; Nash vede il gioco attorno alla bellezza. Probabilmente, vede la bellezza; perché in questo mondo parallelo l’estetica gioca un ruolo non secondario (l’espressione “teorema elegante” è usata comunemente). Fin qui tutto bene, anche la scelta di un sex symbol per il ruolo del genio; fa un po’ effetto vedere l’ex Richie Cunningham che gira sequenze quasi allucinate, ma fa anche molto piacere che qualcuno sappia che la matematica non è la rottura di scatole delle tabelline, ma è più simile a una sostanza psicotropa poco legale («Alcuni assumono la matica come fosse una droga») - forse dà anche dipendenza: chi ha vissuto due mondi difficilmente torna a vederne uno solo. Il film, come Nash, entra però in crisi nel momento in cui si tratta dell’applicare le belle idee a cose concrete; quando appare la dicotomia della matematica presa tra la splendida astrazione più reale del reale (sono note le posizioni di Platone in proposito) e «l’ingiustificata efficineza della matematica» (parole del fisico Eugene Wigner) A Beautiful Mind gira a vuoto. Da un lato la questione non sarà certo risulta in quattro battute, dall’altro il mio stomaco sta tanto meglio quanto meno sento battute sul tono «l’Amore è l’unica cosa certa» (ma perché la bella Alicia lascia la matematica per la pittura? la donna salvifica si deve dedicare a femminili attività umanistiche?), quanto più si evitano grandi scene madri in stile “datemi l’Oscar” e sottintesi tipo “la teoria dei giochi è usata da tutti gli economisti e fa vincere il Nobel, ergo vale tanto”. Dov’è finito l’incanto di fronte alla visione dipinta sui vetri attraverso cui Nash guardava i suoi mondi all’inizio? E poi, non fai matematica solo perché è utile. La studi perché è bella. E non fai i film solo per... o sì? (MARTA MARIA CASETTI, Duel 94, febbraio 2002, p. 15) È spesso pervaso da uno spirito “classicista” il cinema di Ron Howard. La sua opera è al tempo stesso nostalgica nell’intenzione di far riemergere i generi cinematografici classici (quindi anche nostalgica verso le modalità produttive di Hollywood tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta) ma è al tempo stesso modernista nel lasciare emergere l’inquietudine che si nasconde dietro una struttura narrativa apparentemente lineare. La forma “biopic” di A Beautiful Mind è in questo senso ingannevole, Dietro la biografia di John Nash, che ricopre un arco di tempo che va dal 1947 (anno in cui ha cominciato a frequentare il corso post laurea a Princeton) al 1994 (quando riceve il Premio Nobel a Stoccolma), si nasconde invece un fantathriller che si combina con la dimensione mélo sempre così pulsante nei film di Ron Howard. Quella di John Nash non è la vicenda di un brillante matematico poi costretto all’emarginazione accademica a causa della sua schizofrenia. È soprattutto la struggente e appassionante solitudine di un “alieno” in cerca d’amore ma incapace di comunicarlo [...] Attraverso questo corpo estraneo, Howard penetra davvero con disinvoltura dentro l’epoca della Guerra Fredda, senza mai mostrare nulla. Ciò che si avverte incredibilmente in A Beautiful Mind è invece quel clima di oppressione, quelle tracce dark così claustrofobiche in cui le inquadrature di Howard sono sempre così avvolgenti, non delimitate (soprattutto nelle direzioni verticali) che portano progressivamente John Nash dentro abissi sempre più profondi. [...] Ma, ancora, A Beautiful Mind potrebbe idealmente considerarsi come il punto conclusivo di una “trilogia sul diverso” [...] iniziata da EDTv e proseguita con Il Grinch. ed Pekurny, il commesso di una videoteca che accetta di essere ripreso in diretta televisiva 24 ore al giorno di EDTv o il mostro verde che ha la sua abitazione in cima a un monte separata dagli altri abitanti di Kinonsò in Il Grinch vivono, con John Nash, in una realtà parallela, onirica e/o “ricostruita”, in cui viene drammaticamente accentuata la loro impermeabilità verso l’esterno. per il protagonista di EDTv questa è ricostruita dal set televisivo, per Il Grinch dalla distanza (spaziale ed emotiva) dalle altre persone e dall’inaccessibilità della sua casa. Per John Nash invece gli oggetti limitanti sono soprattutto il vetro e le porte. Sul vetro della sua stanza a Princeton il protagonista di A Beautiful Mind ipotizza le formule di un modello matematico assoluto, ma al tempo stesso autopreclude la propria vista sull’esterno. Le porte sono invece quelle chiuse della stanza del proprio ufficio (in cui i segni della sua presenza sono evidenziati da A BEAUTIFUL MIND 73 pagine dei giornali attaccate sulle pareti) e soprattutto quelle dell’istituto psichiatrico che sembra come partorire un individuo doppio, uguale e contrario a se stesso. Nash si chiude all’interno del proprio territorio, si auto/separa, occultando volontariamente il proprio sguardo. isolamento, come quello del Grinch, doloroso e volontario, che accentua il senso di estraneità di un alieno il cui peso specifico del make-up è tutto sul corpo di un grande Russell Crowe, interprete trasformista come in Insider - Dietro la verità che però mantiene anche la dinamicità nella propria fisicità come in Il gladiatore e Rapimento e riscatto. Trucco che lo appesantisce “nel corso del tempo”, nelle consistenti ellissi temporali, e che si evidenzia in un volto sempre più ricostruito e nei movimenti (soprattutto la camminata) dove convivono insieme creatore e creatura (sorta di Frankestein generato da se stesso), dove diventa insieme soggetto e oggetto di una maschera/doppio immortale perché da sempre senza vita. Ma ancora. Questi alieni del cinema di Ron Howard sono entità che si sentono “gli occhi addosso”, che vedono i propri movimenti come osservati. [...] A Beautiful Mind è stato accusato, da una parte della critica, di aver volontariamente omesso episodi riguardanti il vero John Nash: la sua presunta omosessualità, l’episodio di un’altra donna e un altro figlio (entrambi abbandonati alla povertà) che hanno fatto parte della vita di Nash prima dell’incontro con Alicia. In realtà l’opera di Ron Howard lavora di sottrazione, dissolvendo fatti e personaggi, per materializzare visivamente le proiezioni mentali di Nash. In questo senso A Beautiful Mind è autentico film visionario, l’estensione al punto limite di uno sguardo-cinema che crea, da solo, i propri personaggi, e le loro storie. [...] Howard, dietro la sua apparente e depistante “compostezza formale” è in realtà un autore sperimentale e visionario capace di far vedere i segni della malattia e della follia. A Beautiful Mind unisce miracolosamente la logica commerciale con i segni riconoscibili di un autore tra i più significativi del cinema hollywoodiano degli ultimi vent’anni, troppo frequentemente considerato solo come un ottimo professionista. (SIMONE EMILIANI, Cineforum 413, aprile 2002, pp. 28-30). 74 A BEAUTIFUL MIND I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Lidia Giglio - Più che una biografia, un affascinante itinerario nel labirinto di una mente, quella di un “genio”, in cui si scontrano la lucida certezza di verità matematiche, di intuizioni folgoranti, e la presenza conturbante di voci e di volti solo immaginati e spesso ostili: il risultato è un uomo indifeso, anche ingenuo, incapace di vivere la quotidianità. Ma poi la consapevolezza della malattia, l’amore della moglie, l’aiuto degli amici, riescono a dargli la forza di combattere, respingendole le sue allucinazioni, di ritrovarsi “uomo” tra gli uomini, e dichiarare convinto (nel suo discorso al conferimento del Nobel) che l’unica logica possibile è l’amore. Conclusione inaspettata e commovente di un film, magistralmente condotto e interpretato, che ci offre, dopo lo sconvolgimento degli avvenimenti (anche noi confusi tra realtà e allucinazioni) una confortante prospettiva. Paolo Stefanotti - Ottimo film non solo per la magistrale interpretazione dei protagonisti, ma anche per regia e sceneggiatura. A prima vista può sembrare un film poco credibile, studiato per piacere al grande pubblico, tra colpi di scena, un po’ di retorica e buonismo di stampo americano. Al contrario ha il grandissimo pregio di calare lo spettatore, avvincendolo, nel dramma della malattia mentale, facendolo partecipare dal di dentro alla lotta quotidiana di questo straordinario personaggio che è John Nash, per dominare la malattia con intelligenza, tanta sofferenza e anche un po’ di umorismo, aiutato dal grande amore della sua compagna. Tante piccole pennellate sono inserite in maniera mirabile per farci meglio comprendere questo terribile dramma che coinvolge ogni aspetto della vita: affetti, famiglia, lavoro. Maria Teresa Rizzi - Il film mi è piaciuto tantissimo, sia per il contenuto di grande valore umano, civile, spirituale, sia per l’interpretazione dei due personaggi principali. Mi ha coinvolto “di testa”, lasciandomi comunque sempre lucida e criti- ca nei confronti delle immagini. Il regista ci fa entrare nella mente sconvolta e dissociata del matematico con grande rispetto e amore di fronte al mistero di una mente sconvolta, ma nello stesso tempo i nostri occhi, sentimenti, apprensioni, stupore, sono quelli della moglie, figura impagabile nell’affrontare con coraggio, sensibilità e intelligenza il dramma che sconvolge la sua vita. Lei possiede una delle più belle qualità umane: l’empatia. La capacità di entrare nell’altro e quindi di sforzarsi di capire. Ma la vita è anche questo, non fuggire dai problemi ma affrontarli con disponibilità e coraggio. Vittorio Zecca - Un film costruito a regola d’arte, con tutti i fondamentali miscelati in un meccanismo perfetto. Dalla storia alla regia, dall’ambientazione alla recitazione: è come se qualcuno avesse deciso di ricordare a tutti che un film, per essere veramente al massimo livello, deve percorrere un tragitto completo, rispettare regole rigorose e fra loro bilanciate. Ne risulta un film quasi troppo ricco, ma dove temi fondamentali della nostra essenza di umani, quali la forza dell’amore, la capacità che c’è in ognuno di noi di trovare delle soluzioni e la sottile linea che separa genio e follia sono resi con una forza non comune. OTTIMO Gino Bergmann - Il confine tra genio e follia è molto intrigante e il regista lo descrive con mano felice e sorprendente vivacità. Delicata la scena di quanta importanza ha l’amore per una mente non “malata” ma debole di fronte alla realtà della vita. Magistrale la descrizione dell’ambiente dei campus universitari, importanti anche i diversi comportamenti degli amici di Nash. Ottima la regia, che fa apparire come vere e reali le allucinazioni del protagonista. Cristina Bruni - Per tutto il film mi sono interrogata su dove finiva la realtà e dove iniziava la finzione costruita nella mente del protagonista e alimentata dal suo egotismo patologico. Il regista ha trasformato in alcune parti l'opera in th- riller, volutamente spettacolarizzando ciò che in realtà aveva origine e sviluppo solo nella mente dissociata di Nash: le sue allucinazioni visive che in un primo tempo mi erano parse rese dal regista in modo naïf e semplicistico, sono risultate alla fine, quando tutto era più chiaro, un ottimo escamotage per decrivere al meglio la patologia del matematico. In questo senso credo che il regista abbia raggiunto lo scopo che si era prefissato. Ho qualche perplessità solo sul finale: sono d’accordo sul fatto che non sia possibile trasporre in film i contenuti di ricerche scientifiche e di teorie complesse, ma da lì a far fare una dichiarazione d’amore in sede di consegna del Nobel ce ne passa! (salvo, e non ho elementi al riguardo, che ciò sia davvero accaduto). Gabriella Rampi - Fin dove può arrivare l’intelligenza umana nella sua ricerca di assoluto, senza che il contrasto con le ambiguità, le meschinità e le paure del quotidiano lacerino l’uomo nella sua identità? Questo è il dramma di Nash: e solo la condivisione della sua sofferenza, anche al di là della comprensione, da parte della moglie riescono a portarlo a una forma di pacificazione con se stesso e con il mondo. Un film molto interessante, con ottimi attori. Giulio Manfredi - Le scansioni temporali danno unità al vissuto di una storia reale che ci dà la dimensione della complessità del cervello umano. La logica matematica esasperata sconfina nella follia, applicata alle relazioni interpersonali genera aridità, ma ecco che l’amore con la a maiuscola riscatta ogni difficoltà nel rapporto umano. La sofferenza di questo iter viene vissuta da entrambi i bravi interpreti in modo coinvolgente per lo spettatore. Le allucinazioni confuse con la realtà spiazzano anche noi. Comunque la genialità del professor Nash ha dato i suoi frutti ed è un peccato che le applicazioni dei suoi teoremi non siano state approfondite lasciando invece troppo spazio ai suoi fantasmi. Caterina Parmigiani - Eccellenti attori interpretano in modo mirabile una drammatica storia vera a lieto fine, che il regista sottolinea romanticamente con la pubblica ammisA BEAUTIFUL MIND 75 sione che “l’unica idea geniale della vita” è l’amore. Un grande uomo ha sempre accanto a sé una grande donna: John Nash non sfugge al detto. Il geniale matematico ammaliato e travolto dalla magia dei numeri ha la fortuna di amare e di essere ricambiato da una donna affascinante e intelligente, che unisce sensibilità a tenacia, dolcezza a coraggio. Quindi a beautiful mind non è solo quella del genio ma anche quella equilibrata della moglie Alicia. Adelaide Cavallo - Il film di Howard apre un velo ai più sui mali della mente (così come spesso ignorati nella loro tremenda consistenza), e ci mostra come la schizofrenia sia un autentico flagello per il cervello umano. Il cinema traduce in immagini la vita di John Nash, ne narra i traumi di una dissociazione intellettuale che se colpisce, annienta; ne riporta l’abisso in cui la mente è sprofondata, ne descrive la rinascita. Nel film, di questa mente malata di un uomo superiore, della sua genialità, delle sue sofferenze, delle intuizioni matematiche che lo eleveranno anche agli onori della contemporaneità, superba e memorabile l’interpretazione di Russell Crowe nel dar vita al travaglio umano di una mirabile, magnifica intelligenza. Film di grande richiamo, accolto con giusto consenso dal pubblico, ottimo anche per quel merito che ha nel farci intendere come i numeri, con o senza follia di chi più li vive, aprono la strada a più ampie conoscenze umane. Paolo Berti Arnoaldi - Un film in cui la figura del genio John Nash è resa in modo sensazionalmente impressionante, per la bravura dell’interprete il cui viso, pieno di tic e di attonite espressioni rimarrà a lungo nella memoria dello spettatore. Ho seguito con continua tensione il cammino di allucinazioni, che nel loro lato spettacolare sono cinematograficamente molto avvincenti. Ma tutto il film ruota attorno all’amore di una bravissima Alicia che riesce a vincere sulla sregolatezza del genio. Ottimo film, con qualche concessione alla retorica, ma commovente e coinvolgente. L’ambientazione delle scuole universitarie, la rappresentazione della vita dei giovani e dello stralunato professore sono per76 A BEAUTIFUL MIND fette. E il finale è di un’umanità che suscita commozione. Per una volta, i premi e gli Oscar sono meritatissimi. Anna Lucia Pavolini Demontis - Il film gioca molto sui sentimenti e sugli effetti di grande impatto emotivo. Secondo me lo spettatore viene coinvolto nell’atmosfera allucinante che vive il protagonista. E il regista ne approfitta, ma non poteva fare altrimenti. Come avrebbe potuto trattare un argomento così grave? Da una parte c’è la grande mente e dall’altra il grande male. È pur vero che dopo due ore di angoscia il regista cade nel finale “all’americana”: il grazie dei colleghi e le penne sul tavolo davanti al genio! Giuseppe Gario - Metafora della guerra fredda e della vita, per la ricchezza dei contenuti e la perizia del racconto meriterebbe un premio speciale, trattandosi di un film che “parla americano” ma affronta le questioni universali del male e del bene, dell’apparenza e della realtà, del senso della vita e della ricerca dell’assoluto. Con una specie di happy end che non è tale, bensì un riconoscere che tra le persone esiste anche la solidarietà e non solo l’ambizione. BUONO Lucia Fossati - Classico film che propone una storia vera (naturalmente depurata da fatti non coerenti con il tono voluto dal regista, come l’omosessualità di Nash da studente e come il divorzio e l’internamento voluto dalla moglie che successivamente lo risposò) di un uomo geniale, ancora vivente, uscito dalla follia con l’aiuto della moglie, storia ottimamente interpretata, costruita per piacere agli spettatori e per commuovere, con un lieto fine che inesorabilmente strappa una lacrima e un applauso: ma sto forse parlando di Shine? Vittoriangela Bisogni - Il genio è un fardello pesante e non di rado l’abbiamo visto andare a braccetto con la follia: ne sono esempio artisti come Schumann o Van Gogh; e al cinema avevamo seguito la vicenda del pianista David Helfgott, finito povero demente in manicomio e poi faticosamente e miracolosamente risalito alla ribalta del successo, come il nostro professor Nash. Inoltre, in Rain Man, avevamo visto un altro uomo anormale ma padrone prodigioso del mondo dei numeri. Questo film ci conferma una simile dolorosa storia in cui il superdotato può risultare altrettanto disadattato dell’ipodotato. Quanto alla realizzazione del film, essa mi pare di tutto rispetto: la narrazione procede con una sceneggiatura agile e attenta alle sfumature, capace di reggere egregiamente il brusco scossone, quando da un probabile ambiente spionistico-poliziesco si piomba nel mondo della malattia mentale, e poi anche capace di mantenere vivo a lungo l’equivoco tra le due realtà. La recitazione è eccellente. Forse nel finale si potrebbe rilevare la pecca di un calcar la mano in senso buonista e mélo. Bruna Teli - Ho apprezzato questo film che ricostruisce la drammatica storia di John Nash dalla giovinezza fino alla vecchiaia non tanto nella prima parte dove, a mio parere, c’è una eccessiva spettacolarizzazione della malattia che porta a situazioni da poliziesco, quanto nella seconda, dove il dramma è più intimamente sofferto e dove risalta l’importanza dell’amore della moglie. Tale sentimento non viene mai meno e contribuisce a fargli ritrovare in tarda età un certo equilibrio, nonostante il persistere della malattia. Il regista dimostra quindi di aver compreso tutta la sofferenza dei malati di mente e dei loro familiari, che i farmaci da soli riescono a lenire in parte, mentre importantissimo è l’amore. Il suo messaggio viene trasmesso allo spettatore, specie nella seconda parte del film come ho già detto, grazie all’ottima interpretazione di Russell Crowe e di Jennifer Connelly. Bona Schmid - Alla premiazione per gli Oscar 2002 era presente in sala John Nash con famiglia, e tutto il mondo ha potuto osservare il suo viso pallido, profondamente segnato e teso: una maschera dolorosa per la totale assenza di partecipazione emotiva all’evento che rendeva di pubblico dominio il suo sofferto vissuto di genio. Ho provato un senso di disagio per lui. Perché l’ha fatto? Era necessario che si esibisse in pubblico? Forse sì, perché c’è sempre una componente narci- sistica in queste menti geniali clinicamente disturbate. Il film di Ron Howard, pur lasciando con la bocca amara, ha una sua innegabile potenza evocativa. Russell Crowe si impone per la sua arte raffinata nel rendere anche con la gestualità acconcia l’immagine di quest’uomo braccato dai suoi fantasmi ma che riesce ad inseguire, fino ad esito positivo, le sue rivoluzionarie intuizioni matematiche. Un uomo inerme di fronte alla banalità del vivere quotidiano, ma profondamente consapevole della forza innovativa delle sue idee geniali e non teoriche, ma di applicazione pratica. Il film non ci spiega invece l’importanza delle teorie di John Nash e la vera entità della sua malattia, che neanche la totale dedizione della moglie ha potuto sconfiggere completamente. Alessandra Cantù - Confrontando il bel film diretto da Gus Van Sant e interpretato da Matt Damon, Will Hunting. Genio ribelle, questa mente matematica si è persa per strada. Non si può credere a una vicenda di malattia psichica che sfocia in un premio Nobel, senza presentarci entrambe le facce dell’individuo protagonista. Per tre quarti il film ci tiene in sospeso, ma non arriva la giustificazione e il finale sentimentale strappa l’applauso, ma non basta. A me è risultato anche molto triste accorgermi che gli abiti e l’ambiente degli anni 50-60, gli anni della mia giovinezza, richiedono ormai un film in costume. MEDIOCRE Carla Testorelli - L’eccezionale bravura di Russell Crowe e l’ottima prova di Jennifer Connelly non riescono a riscattare un filmone americano, confezionato da ottimi mestieranti che vogliono strappare a tutti i costi lacrime consolatorie. Dopo un inizio dignitoso (buona la descrizione del campus universitario), il film precipita nel drammore pieno di retorica e di buonismo. Fra l’altro non spiega neppure se la schizofrenia del protagonista sia una malattia endogena o la conseguenza degli agghiaccianti trattamenti psichiatrici (siringhe minacciose e raccapriccianti elettroshock) a cui lo scienziato viene sottoposto. A BEAUTIFUL MIND 77 Le biciclette di Pechino titolo originale: Shi Qi Sui De Dan Che CAST&CREDITS regia: Wang Xiaoshuai (Cina/Francia, 2001) soggetto e sceneggiatura: Wang Xiaoshuai, Tang Danian, Peggy Chiao fotografia: Liu Jie montaggio: Liao Ching-Song musica: Wang Feng interpreti: Cui Lin (Guei), Li Bin (Jian), Zhou Xun (Qin), Gao Yuanyuan (Xiao), Li Shuang (Da Huan), Zhao Yiwei (il padre di Jian), Pang Yan (la madre di Jian) durata: 1h53’ distribuzione: Teodora Film IL REGISTA «Questo Shiqi sui de dan che, produzione Cina/Taiwan/ Francia, prodotto “no global”, potrebbe diventare il “Chievo del box-office” festivo, il campione d’inverno di un fine d’anno così drammatico. Dunque attenzione. È il primo film, tra quelli scritti e diretti dal “braccio armato della sesta generazione”, di Wang Xiaoshuai (il cognome è Wang) a conquistare il grande pubblico internazionale dopo l’Orso d’argento vinto alla Berlinale 2001. [...] Certo è la meno ostica e introversa delle performance di mister Wang: Mama scritto da lui ma poi diretto da Zhang Yuan, era addirittura un documento catatonico sul manicomio; poi il roadmovie autobiografico The days del ‘93, un affresco sgocciolante, in nero e bianco, che urlava dolore come un Munch e proprio di due giovani pittori trattava; poi Suicidi del ’94 e il più barocco omaggio a Stelarc, Frozen (1996), sempre su un body artista estremo che delinea un tragitto di avvicinamento al suicidio in quattro tappe, concepite per rendere omaggio ai quattro elementi, l’acqua, il fuoco, la terra e l’aria, ma che forse finirà al di là del grande sì nietzschiano alla vita. Certo, dopo era arrivata anche una commedia per il grande pubblico (mai distribuita, comunque, in Cina). E infine Le biciclette di Pechino che, grazie alla recitazione (Orso d’oro a Berlino) di Lin Cui e Li Bin, capaci di urlare se muti e di ammutolirti, se urlano (anche Wang è attore, ha recitato in Il violino rosso); alle musiche non di arredamento di Wang Feng («voglio che arrivino sempre un po’ dopo l’azione, sfasate, a commentarla, a criticarla» ci spiega il regista) e alle luci implacabili ma affettuose di Liu Jie – è davvero glamour questa Pechino che massacra e umilia, arricchisce molto i pochi e sub-umanizza gli altri – deve aver irritato oltremodo i censori cinesi (ancora un no alla distribuzione), specialisti, come Braschi e Cesari, nel punire i falli di mano perfidi e intenzionali. Cioè queste istantanee davvero insostenibili di un mago dell’immaginario crudele che racconta le avventure del suo corpo (il regista è un po’ Guei un po’ Jian), come candido grimaldello realista che invita gli altri corpi a dire di no, a disertare, a non accettare la LE BICICLETTE DI PECHINO 79 3 scatola cinese dei ruoli sempre più alienanti a poco a poco che si cresce nella gerarchia del Lavoro. (ROBERTO SILVESTRI, il Manifesto, 5 dicembre 2001) memoria è la rappresentazione di una Pechino senza cittadini adulti, impregnata di una fisicità e di una violenza sempre latente che lasciano una strana sensazione di disagio. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 9 dicembre 2001) IL FILM LA STORIA Il sedicenne Guei lascia il villaggio di campagna in cui è nato per tentare la fortuna nella grande città di Pechino. Dopo molte ricerche infruttuose, trova infine lavoro in un’agenzia di consegne, che deve necessariamente fare percorrendo le strade in sella a una bicicletta per un compenso di dieci yuan a corsa. Di yuan, il ragazzo vorrebbe economizzarne seicento; ma viene derubato del velocipede e lo cerca disperatamente nei quartieri dell'immensa città. Lo ritrova montato da Jian, uno studente suo coetaneo che afferma di avere comprato la dueruote al mercato delle pulci. Tra il ragazzo di campagna e il ragazzo di città s’innesca un conflitto destinato a trasformarsi in una profonda amicizia. Film vincitore a Berlino del “Gran premio della giuria” e di quello per i migliori attori esordienti, Le biciclette di Pechino è un Ladri di biciclette riambientato nella Cina d’oggi e rivisitato in uno stile che, a tratti, evoca i lavori di Won KarWai. Vederlo, ti fa intuire quello che dovettero provare, tanti anni fa, gli spettatori del nostro neorealismo e in particolare del film diretto da Vittorio De Sica, che Le biciclette di Pechino evoca sia nel titolo sia nella trama: un'impressione di verità e di semplicità che, malgrado i risvolti drammatici, è anche senso di leggerezza di fronte all’artificiosità della stragrande maggioranza del cinema. Non può essere che questo il motivo per cui Wang Xiaoshuai, regista tra i più dotati della “sesta generazione” dei cineasti cinesi, è incorso in parecchie grane con la censura del suo Paese, malgrado non sia né un oppositore né un severo giudice del regime comunista. La semplicità e il rigore etico con cui ci mostra la vera Pechino, i suoi vecchi quartieri minacciati dalla modernizzazione, la sua gente autentica, che cerca come può di vivere e di sognare, ha qualcosa di intrinsecamente rivoluzionario. E la cosa che sedimenta di più nella 80 LE BICICLETTE DI PECHINO Per un ragazzo che vive a Pechino la bicicletta o è uno status symbol o è un mezzo di sostentamento. Per Guei, sedici anni, che a Pechino ci è arrivato dalla campagna in cerca di lavoro, la bicicletta che affidatagli dalla ditta di pony express da cui è appena stato assunto, rappresenta l’una e l’altra cosa. Guei capisce subito che si tratta di una bicicletta bellissima. Una mountain bike veloce, di un metallo speciale, con un cambio che la rende leggera anche in salita. Sa che lavorando molto e guadagnando potrà essere sua. E per possederla non perde neanche un minuto. Ma un giorno, dopo il ritiro di un pacco di documenti di un cliente, la bicicletta, appoggiata ai cancelli accanto a decine di altre, non c’è più. Guei non si dà pace. La cerca fino a sera e dimentica così la busta da consegnare. Il direttore non glielo perdona, e lo licenzia. Guei, che in quel momento ha perso tutto, gli chiede ancora un’ultima chance. Gli propone di essere riassunto se ritroverà la bicicletta. La proposta è folle, ma il direttore, di fronte a tanta cocciutaggine, gli dà la sua parola d’onore. «Vai pure a cercarla. Se sei in grado di ritrovarla resterai con noi». E a questo punto si inserisce il secondo ragazzo che ha per la bicicletta un’identica passione. Jian, stessa età di Guei, ma studente, innamorato della bicicletta che per lui rappresenta il mezzo per fare bella figura con la ragazzina della sua stessa scuola e che gli piace. Jian, che non appartiene a una famiglia ricca, si è comprato la bicicletta al mercato dell’usato, sottraendo i soldi a suo padre. Anche per Jian quella bicicletta è un oggetto prezioso, da non perdere di vista. Così si accorge subito quando, seppur in un momento di tenerezza con la ragazzina, un tipo si avvicina e gliela porta vita. Quel tipo è Guei, indirizzato sulle tracce del presunto ladro dal suo amico, che gliela aveva segnalata, e adesso ha tutte le intenzioni di riprendersela. Se ne impossessa e scappa. Ma per poco, perché a vegliare sull’ambita bicicletta non c’è solo Jian, ma tutti i suoi amici che lo riacciuffano, lo trattano come il peggiore dei ladri e se la riprendono. Comincia così tra i due ragazzi una sfida segreta. Guei ha ormai capito dove abita Jian e dove ripone di notte la bicicletta e va a riprendersela e questa volta per ripresentarsi al direttore della società di pony express e riottenere il lavoro, che naturalmente gli viene riaffidato. Ma anche Jian, che ha pagato quella bicicletta 500 yuan, non ha intenzione di mollare. E con gli amici, a cui non era sfuggito il lavoro di pony express di Guei, va a cercarla e torna ad impossessarsene. A questo punto per Guei è facilissimo tornare a casa di Jian e far intervenire il padre, che non trova più parole per difendere il figlio e che ritiene invece giusto restituire la bicicletta al ragazzo che dice di esserne proprietario. Per Jian è crisi nera. Non lo capisce la ragazzina, che ci mette tutta la sua buona volontà per spiegargli che una bicicletta non vale quella pena, e non lo capiscono più neanche i suoi amici, che però vanno ancora in suo aiuto. E si ricomincia da capo. Fino a quando Guei e Jian raggiungono un compromesso: si divideranno la bicicletta a metà. Un giorno la terrà uno, il giorno dopo toccherà all’altro. Sembra la soluzione giusta. Ogni sera la bicicletta passa di mano con perfetta puntualità. Ma Jian adesso ha un altro problema da affrontare: riprendersi la ragazzina, corteggiata da un tipo che esibisce la sua abilità in bicicletta con giochi di tutti i tipi, e che ormai gli si dimostra indifferente. Non ci riesce, anzi deve subire il gesto provocatorio dell’altro e perde il controllo. Stravolto dalla gelosia, prende un sasso e lo colpisce. Poi torna da Guei e gli consegna definitivamente la bicicletta. Guei monta la bicicletta e tenta di andarsene. Ma contro di loro si scatena a pugni e calci la banda di chi vuole vendetta. Anche Guei, che si trova intrappolato in quei vicoli, viene sopraffatto da quei ragazzi che non conosce e finisce a terra annientato. Ma quando vede uno di loro che si accanisce per distruggere la sua bicicletta, recupera le ultime forze, stacca un mattone da un muro e glielo scaglia contro. Poi alzatala sulle spalle, anche se ormai semi distrutta, se la por- ta via attraverso le strade piene di traffico di Pechino e l’indifferenza della gente. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Due ragazzi e una bicicletta. Guei viene dalla campagna. È solo. Cerca di sbarcare il lunario come può nella grande Pechino. Jian è figlio di operai che si sacrificano per farlo studiare. Bisognerebbe precisare, a questo proposito, che i genitori di Jian sono due vedovi (lui con un figlio, lei con una figlia) che sono stati “accasati” nell’ambito della pianificazione familiare adottata in Cina nei decenni passati. Si verifica così la stessa situazione di disagio psicologico che si verificava in Diciassette anni. Sono argomenti delicati, che i registi trattano con mano leggera, più per allusioni che per riferimenti diretti. Non c’è da meravigliarsi che le autorità governative preposte alla censura dei film si mostrino allarmate quando i registi mettono il dito su certe piaghe della società, che a loro avviso è meglio rimangano nascoste. È un po’ come accadeva da noi quando, sul finire degli anni Quaranta, i registi “impegnati” parlavano di infanzia abbandonata, disoccupazione e vecchiaia privata di dignità. La vita del popolo cinese, come proclamavano ad alta voce i film realizzati, durante la Rivoluzione culturale, da registi che appartenevano alla quarta generazione, dev’essere in ogni caso raggiante e gioiosa. Nella Cina di oggi si fa strada l’economia di mercato. Il campagnolo Guei trova lavoro presso una ditta di pony express. Il padrone (dopo la doccia e il taglio di capelli) gli fa indossare una divisa e gli mette a disposizione una mountain bike tutta nuova. Gli tratterrà l’80% dello stipendio fin quando la bicicletta diventerà la sua. In seguito, gli tratterrà solo il 50%. Guei, che ha 16 anni, si sente realizzato, mentre inforca la bici e diventa tutt’uno con essa. Quando, dopo giorni e giorni di estenuante fatica, la bicicletta sta per diventare sua, gliela rubano. Licenziato dalla ditta, si fa promettere dal padrone che, se riuscirà a ritrovare il velocipede, riavrà il posto di lavoro. L’impresa è impossibile, come quelle di cui si parla nelle faLE BICICLETTE DI PECHINO 81 vole. Ma nulla può scoraggiare la tenacia di Guei. La bicicletta, nel frattempo, è finita tra le mani di Jian, coetaneo cittadino del campagnolo Guei. Egli, per acquistarla al mercato dell’usato, ha rubato il gruzzolo che suo padre teneva gelosamente nascosto. Un unico oggetto di desiderio unisce ormai indissolubilmente i due ragazzi. Essi si incontreranno, si scontreranno, litigheranno a morte, faranno la pace, decideranno di usare alternativamente la stessa bicicletta, che diventa così il trait d’union tra due vite diverse, ma profondamente segnate dal disagio che attraversa l’attuale società cinese, sostanzialmente tradizionale, ma insidiata dai fremiti di una modernizzazione incalzante, che oggi si manifesta nelle forme brutali del paleocapitalismo [...] e domani si evolverà, probabilmente, nelle forme più sofisticate del neocapitalismo. (VIRGILIO FANTUZZI, La Civiltà Cattolica 3640, 16 febbraio 2002, pp. 423-4) Wang ha già diretto cinque film (ma questo è il primo che viene distribuito in Italia). Più che i grandi affreschi storici o sociologici cui ci ha abituato certo cinema cinese (quello di Zhang Yimou o Chen Chaige), al centro dei suoi film ci sono i tempi “proibiti” della corruzione giovanile e del disadattamento, della rivolta e della rabbia. L’insegnamento maoista e l’influenza della rivoluzione culturale sono lontani, le contraddizioni di una società che si vorrebbe ancora comunista ma che tollera atteggiamenti capitalistici sono esperienze quotidiane che il cinema di Wang non può evitare di vedere e di filmare. È per questo che la censura si accanisce contro queste opere (Le biciclette di Pechino ha subito ostracismo in patria), ma è proprio per questo che da un film così si esce convinti di aver aperto un po’ più gli occhi su quel mondo lontano. (PAOLO MEREGHETTI, Il Corriere della Sera, 8 dicembre 2001). Ci concentreremo tutti sulla peripezia del sedicenne Guei a cui viene rubata la bicicletta come al disoccupato del capolavoro di De Sica, ma la lotta per riaverla è meno importante dello sfondo sociale dell’avventura, i quartieri di Pechino, la casa di Guei, la banda dei ragazzini, la campagna che raggiunge la città. La “nuova” Cina ha proibito la distribuzione del film. Nella semplice affabulazione di un furto, perfino un po’ pedissequa nell’ambizione di trasfigurare il suo mitico referente, quello che si vede deve essere molto, molto importante per le autorità che pretendono il controllo dell’immagine nazionale. simbolo del pauperismo e dell’instancabile meccanica dell’evoluzione collettiva, per anni mezzo di trasporto di un popolo senza mezzi, la bici è in realtà anche il primo, inalienabile effetto personale del cittadino. Il temuto emblema della proprietà. Che non è un furto. Già censurato per So Close To Paradise, il regista Wang Xiaoshuai racconta nel finale il bisogno di condivisione tra il proprietario e il ladro. Non è contraddittorio che questo messaggio sociale sia sfuggito ai comunisti? (SILVIO DANESE, Il Giorno, 7 dicembre 2001) Due adolescenti si contendono il possesso di una bicicletta: il quinto film di Wang Xiaoshuai (autore degli ultimi Frozen, su un performance artist che si uccide congelandosi in un happening estremo, e So Close To Paradise, sull’amicizia tra un gangster e un contadino) è straordinariamente semplice e familiare. Semplice, come le azioni a senso unico dei due protagonisti, guidate dal solo imperativo della sopravvivenza, materiale o psicologica. e familiare, per quell’eco del neorealista Ladri di biciclette che suona come una dichiarazione d’intenti, tutta compresa nel rigore morale di uno sguardo. Guei e Jian, entrambi ai margini (della città, della comunità e del mondo), sono due poli di un’entropia sociale ingiusta e squilibrata: tutto ciò che l’uno guadagna l’altro perde, come in un circolo vizioso che imprigiona la sofferenza all’interno di un’unica classe. [...] Simmetrie del dolore, insomma, che possiedono sia la crudezza del documento (come da manifesto per un regista della stessa generazione di Zhang Yuan, che si sente “urbana, realistica, oggettiva”), sia la densità del simbolo, che fa dell’adolescenza l’età sospesa della Cina contemporanea, tra residui dell’ortodossia arcaica e ultime mode del consumismo. [...] Un’iniziazione alla barbarie della civiltà e alle Esponente della cosiddetta “sesta generazione” di cineasti, 82 LE BICICLETTE DI PECHINO profonde contraddizioni del moderno: non è un’immagine pacificata quella di Guei con la bici sconquassata sulle spalle, nel traffico, improvvisamente lento, della metropoli. il bellissimo ralenti che lo fa sparire nella folla di Pechino è l’unica nota lirica che si concede Xiaoshuai (diplomato all’Istituto di cinema della capitale nell’89, proprio a ridosso dei fatti di Tien-An-Men); per il resto, sceglie uno stile asciutto e a tratti concettuale, particolarmente influenzato, si direbbe, dalla modernità francese.[...] La profondità di campo, ugualmente sfruttata a fini rivelatori, si alterna però al documentarismo metropolitano di un moderato teleobiettivo, che allinea vicoli e grattacieli, garage e radure, botteghe e sale giochi, evitando l’eccitazione dello sguardo di molto cinema hongkonghese: la Cina di oggi sta ancora cercando il linguaggio giusto per raccontarsi. E forse lo cerca nella vecchia Europa. (BARBARA GRESPI, Segnocinema 114, marzo/aprile 2002, pp. 58-9). rere la strada in modo trasversale concludono nell’ultima immagine il film. I COMMENTI DEL PUBBLICO Caterina Parmigiani - In una Cina che sta perdendo i valori tradizionali della civiltà orientale per assumere i difetti peggiori di quella occidentale – consumismo, falsità, violenza – la bicicletta può essere ancora un mezzo di riscatto sociale per due ragazzi poveri. L’ottima regia ci mostra con grande efficacia come la lotta drammatica e spesso cruenta per il possesso della bicicletta scandisca il difficile e doloroso percorso di formazione attraverso il quale gli adolescenti maturano: Cui Lin, impacciato e timido, acquista dignità e sicurezza; Li Bin, egoista e presuntuoso, mette in dubbio le sue certezze e si apre all’amicizia. Soltanto la folla non cambia, rimane indifferente ed estranea, interessata esclusivamente al suo particulare. DA PREMIO Carla Altamura - Due modi di vivere l’utilità di un mezzo quale la bicicletta: strumento di lavoro oppure simbolo di libertà e stato sociale. Per noi, uomini del duemila, in una società tecnologica, questa storia potrebbe essere ambientata nel secolo scorso; al contrario, in Cina, accadono ancora vicende del genere. Troviamo l’adolescente contadino con gli occhi spalancati sul mondo della città. Non più lo studente idealista di piazza Tienanmen, ma il futuro manager con tutte le pulsioni di un arrivista. I genitori non sanno fronteggiare la giustizia del loro operato tanta è la debolezza e l’amore per i figli. Il film è avvincente ed evidenzia che, alla fin fine, ancora esiste il filo sottile della solidarietà tra i ragazzi per qualcosa da difendere, come la dignità perduta dopo una lotta impari tra giovani, in un vicolo cieco alla periferia della città. La bicicletta rotta, portata in spalla come una croce, le macchine ferme al semaforo, il percor- OTTIMO Vincenzo Novi - Ciò che ha rilievo in questa storia semplice è lo stile della comunicazione. I fidanzatini si incontrano e si lasciano nel silenzio. La sorellina seduta sui gradini della scala di casa, con lo sguardo sul libro, all’arrivo del fratello che ha turbato il clima della famiglia, alza appena il capo. Un gesto minimo che acquista acutezza ed evidenza per entrambi. Così pure il silenzio del ragazzo ingiustamente accusato... Il fascino delle culture orientali, che si coglie anche in questo film, sta nella capacità di usare il silenzio come traguardo segreto di un messaggio. Uno stile a cui la cultura occidentale ha dedicato poco spazio, privilegiando le modalità del “cosa”, alle modalità del “come”. Arturo Cucchi - La Cina ormai avviata sulla strada del capitalismo, in una Pechino americanizzata dove si rispecchia, prematuramente, tutto il cammino evolutivo di questo popolo, se da una parte deve affrontare le leggi del consumismo e del griffismo occidentale e quindi dell’evoluzionismo, dall’altra deve far fronte alla lacerata tradizione e allo scotto LE BICICLETTE DI PECHINO 83 di quanto la democrazia, con i suoi pregi e i suoi difetti, porta sia ai poveri che ai ricchi. Interessante come il regista per tutta la durata del film sappia svelarci queste contraddizioni assieme agli abissi di solitudine del suo mondo, agli scontri tra cittadini e contadini e a farci percepire le loro bramosie, le loro voglie, le loro ansie. Di sicuro il mondo che circonda questi adolescenti e questi giovani, fatto di violenze, bugie, meschinità, sfruttamento, corruzione, non li aiuta a uscire e a crescere, anzi, nel buco in cui ora si sono messi, riusciranno solo a diventare vittime della loro stessa condizione e ostinazione. Tuttavia, alla fine, ci si può anche affezionare a questi ragazzi, soprattutto per certe loro delicatezze e, istintivamente, anche quando la violenza appare in tutta la sua drammaticità, quando il teppista si ostina a picchiare o a sfasciare, con la speranza di poterli aiutare a superare le loro vulnerabilità e a infondere loro aspirazioni più nobili e più grandi. BUONO Claudia Ruggerini - Film interessante perché rappresenta una Cina autentica, in una fase di difficile trasformazione sociale, dove in una Pechino caotica e dai quartieri degradati emerge una gioventù che tende molto a omologarsi a modelli “globali”, dove il branco detta i comportamenti, dove le motivazioni sono povere e banali e dove l’ideologia (qualsiasi ideologia e religione) è in sbaraccamento. E una trasformazione sociale faticosa il cui sbocco non fa intravedere ideali e valori positivi. Tutto sommato è un film sincero ma malinconico. Claudia Cardinali - Accanto a vecchi e poveri quartieri una Pechino americanizzata: grattacieli, alberghi di lusso, strade larghe percorse non solo da una marea di biciclette, ma anche di automobili. In questa babele emergono problemi quali l’inurbamento, la disoccupazione, la violenza. Il regista mette in luce uno spaccato giovanile in cui emerge Guei che arriva dalla campagna, la cui bicicletta datagli 84 LE BICICLETTE DI PECHINO dal datore di lavoro è l’unico modo per sopravvivere, per affrancarsi dalla libertà. Guei commuove per l’incredibile ingenuità, la caparbietà nel rintracciare il bene più prezioso rubatogli da uno studentello arrogante, bugiardo, violento, spalleggiatodalla banda di amici a lui simili. Ecco la bici che da strumento di lavoro diventa in mano allo studente mezzo di divertimento. Scene di inaudita violenza per approppriarsi di un bene che è quasi uno status symbol, scene che ormai appartengono alla gioventù di tutto il mondo. E purtroppo in mezzo a tanta cattiveria anche il mite Guei colpisce l’avversario! Non vedo un messaggio di speranza per queste generazioni. Ottima la recitazione. Film bello, nuovo, forse un po’ ripetitivo, che purtroppo non dà un messaggio di speranza. Iris Valenti - Mi ripugna la violenza dei giovani, ma ancor più mi ha sconvolto e disturbato la totale estraneità e indifferenza dei vecchi, insensibili e freddi come una qualsiasi pietra a loro accanto, chiusi nel loro piccolissimo Io, ormai incapaci di qualsiasi sentimento e solo attenti a non essere coinvolti negli eventi esterni. Sono già morti. Nella violenza dei giovani, per quanto riprovevole c’è vita, difesa – male – in nome dell’amicizia e dell’amore. Un quadro comunque desolante di una città, Pechino, dove benessere e degrado convivono perfettamente mantenendo distanze abissali che non consentono neppure l’idea di integrazione. Gli attori esprimono con molta bravura il disagio giovanile, la difficoltà del passaggio dall’adolescenza alla maturità, l’insicurezza e la povertà di chi è privo di lavoro e di affetti. Non basta essere i primi della classe per affermare i valori della vita, ma anche l’estrema ingenuità non concede spazi alla sopravvivenza. A volte, specie nella prima parte, il film è lento, ma riesce sempre a interessare e a far riflettere. Cristina Bruni - Il fallimento dell’utopia rappresentata dal socialismo reale in cui la proprietà privata è un furto. Questo è il primo messaggio che il regista fa trapelare attraverso la descrizione della lotta tra due ragazzi che sono i portavoce di due differenti realtà, quella urbana e quella rurale. Ma il film, attraverso il compromesso raggiunto tra i due protagonisti, ottimo esempio di condivisione, forse velatamente inneggia a un comunismo vero. Sullo sfondo la ferocia adolescenziale di modello e stampo americano, la competizione fra giovani, il desiderio di apparire e non di essere (penso anche alla donna di servizio che ruba i vestiti della sua signora), i grattacieli che soppiantano le umili case, porta a meditare sugli effetti del consumismo occidentale. Giulio Manfredi - Nella prima, emblematica scena del film, ruote di bicicletta si inseguono insieme ad una carrellata di giovani volti che esprimono il desiderio di una sistemazione onesta fuori dagli schemi della vita di campagna. Tutto il film si sviluppa su questo concetto di antagonismo tra un’ambiziosa cultura scolastica acquisita in città, ma che non ha trasmesso valori profondi, e l’onesta aspirazione di un ragazzo di campagna che vede nel lavoro cittadino il proprio riscatto. Una stretta di mano tra i due ragazzi sembra essere il superamento di questa conflittualità. Ma per un fragile sentimento di amore perduto, la violenza ha il sopravvento e il film ci lascia con la perplessità per il lungo cammino di maturazione che i giovani devono ancora percorrere per migliorare se stessi. Il film non manca di momenti delicati di intimismo ed è girato con attenzione e cura, anche nella colonna sonora. Lucia Fossati - Uno dei motivi per cui amo il cinema è che questo è una finestra sul mondo e contribuisce a farlo conoscere e capire. Questo film è appunto una finestra sulla Cina di oggi, rappresentata dalla sua città più significativa. Il regista impietosamente ci dice che la Nuova Cina del post-comunismo è sempre più simile alla vecchia Europa e alla vecchia America. La proprietà privata, un tempo tanto demonizzata (e qui simboleggiata dalla bicicletta) è ormai indispensabile per inserirsi e contare in questa società di diseguali, in cui l’avere conta più delle persone, che lottano per il possesso e che le strutture pubbliche lasciano a se stesse. Il film, inizialmente lento, con teni quasi da commedia, rivela nel drammatico finale una sorprendente capacità di denuncia. Donatella Grieco - Un film che mostra gli effetti negativi della globalizzazione sui giovani: nelle grandi metropoli, a New York come a Londra e adesso anche a Pechino, prevale la cultura del branco, che non crea solidarietà e amicizia, ma violenza e prevaricazione del gruppo sul singolo e affermazione del predominio dell’avere sull’essere, che privilegia il possesso di beni materiali rispetto a valori etici e qualità interiori. Sorprende che i giovani di Pechino abbiano assimilato così presto gli aspetti meno nobili della cultura occidentale, come se tanti anni di indottrinamento maoista non avessero lasciato traccia: forse questo è il motivo per cui la censura cinese ha bloccato il film, trascurando che il regista parteggia apertamente per il giovane di campagna che, nonostante alcuni tratti di ingenuità, con caparbietà non comune e spirito di sacrificio riesce a vincere la sua battaglia contro il giovane studente superficiale ed egoista, che tanto assomiglia a certi modelli occidentali. Simonetta Testero - È un film che lascia sgomenti per l’universale violenza delle baby gang e l’indifferenza totale del mondo adulto circostante. Annamaria De’ Cenzo - In un mondo da cui sembrano assenti i sentimenti, i valori sono gli oggetti, caricati fino all’esasperazione di valenze simboliche. Il paesaggio urbano è ostile, caratterizzato da un traffico ossessivo, in cui non c’è spazio per l’altro. Le ragazze, truccate e vestite con accuratezza, non rappresentano però una nota gentile. Mancano di dolcezza, sono aride, dure, come la cameriera, attenta solo a se stessa, che passa il tempo ad indossare gli abiti delle padrone, e la studentessa, su cui fanno colpo solo le acrobazie compiute dai ragazzi sulle biciclette. O sussiegose e saccenti, come la sorellina dello studente. All’improvviso, però, attraverso i gesti di generosità dello studente che lascia al pony express la bicicletta, e del pony che resta accanto al giovane aggredito, assistiamo alla nascita di un’amicizia. Ciò che prevale, però, è l’angoscia di vite senza senso. Bona Schmid - È comprensibile che questo film non abbia LE BICICLETTE DI PECHINO 85 libera circolazione in Cina. Da diverse angolature affiora il disagio delle nuove generazioni in una megalopoli in preda a un grande sconvolgimento del suo tessuto urbano e socioculturale. In questa situazione magmatica cercano di sopravvivere, con vari espedienti, le masse di recente inurbazione, come il protagonista del film, e la manovalanza dei colletti bianchi con un futuro incerto e mille aspirazioni ad un benessere consumistico di stampo occidentale. Per chi vive baraccato, il possesso di una bicicletta moderna come la mountain bike è l’elemento distintivo e connotativo in quella marea di emarginati che cercano uno spazio vitale al margine dei grandi viali lungo i quali scorrono veloci le macchine dei nuovi ricchi. DISCRETO Gino Alberto Bergmann - Il regista ci mostra con bella fotografia e buona sceneggiatura il contrasto tra la Pechino dei grattacieli, grandi alberghi e uffici, quasi occidentalizzata e quella di tuguri e catapecchie e povertà. Così come il contrasto della bicicletta che è mezzo di lavoro e sussistenza per il povero campagnolo, mentre è mezzo di conquista della ragazza e di partecipazione alla banda dei ragazzi “bene” per lo studentello squattrinato. Inutili tante scene di violenza all’americana che svalutano il film, già appesantito dai lunghi silenzi. lenza, l’insistenza sugli scontri tra i due gruppi di ragazzi socialmente differenti, le difficoltà di trovare un finale (ce ne sono due o tre possibili) creano nello spettatore un’insofferenza e addirittura un fastidio fisico. MEDIOCRE Carla Testorelli - Il film racconta in modo scorrevole una storia che non dice nulla di nuovo; ha il solo pregio di mostrarci con belle immagini sia la Pechino sovrapopolata dei centri commerciali, sia i luoghi romantici, come il fiume, dove si può ancora sognare. Protagonista del film è una bicicletta che, rubata a un giovane ragazzo di campagna per cui rappresenta lo strumento per sopravvivere nella metropoli, finisce fra le mani di uno studente che la utilizza come status symbol, come segno di appartenenza a un “gruppo”, come mezzo per corteggiare le ragazze. Nella storia s’inserisce anche il “gruppo avversario”, capitanato da un giovane bullo con i capelli colorati, che affascina le ragazze perché usa la bicicletta come un acrobata. Come si vede, niente di nuovo sotto il sole... Un racconto standard, popolato da personaggi che sono “cliché” senza spessore umano. Il film si riscatta soltanto perché scorre via gradevolmente, senza troppo annoiare. INSUFFICIENTE Marco Sicuri - Il regista ci conduce nel complesso mondo pechinese del giorno d’oggi, creando un’atmosfera da cui traspaiono i segni di un passaggio nevralgico, forse avvenuto troppo in fretta, allo stile di vita moderno figlio dell’Occidente. Il cambiamento non ha perciò lasciato il tempo a tutti, specie al protagonista, venuto dalle campagne, di superare le antiche tradizioni castali cinesi, chiudendolo in se stesso, in quella che ci appare un’ottusa incomunicabilità. Maria Carla Ferrante - L’ottima prima parte viene purtroppo cancellata dalla seconda, dove le scene ripetitive di vio86 LE BICICLETTE DI PECHINO Pierfranco Steffenini - Film di insolita rozzezza, e non mi riferisco ovviamente alle scene di violenza, tra l’altro vistosamente simulate, ma alla cifra stilistica. Per di più male assistito da un dialogo in volgare italiota/romanesco così poco congruente con i personaggi e gli ambienti esotici. Non basta la fama di proscrizione a fare di un regista un buon regista. Le biciclette di Pechino mi ha ricordato Cyclo, altro ineffabile prodotto dell’Oriente, a suo tempo premiato a Venezia e ormai giustamente seppellito nell’oblio. Altro che Ladri di biciclette! Black Hawk Down CAST&CREDITS regia: Ridley Scott (Usa, 2001) sceneggiatura: Ken Nolan fotografia: Slawomir Idziak montaggio: Pietro Scalia musica: Hans Zimmer interpreti: Josh Hartnett (Eversmann), Ewan McGregor (Grimes), Tom Sizemore (McKnight), Eric Bana (Hoot), William Fochtner (Sanderson), Ewen Bremner (Nelson), Sam Shepard (Garrison), Gabriel Casseus (Kurth), Kim Coates (Wex), Hugh Dancy (Schmid) durata: 2h23’ distribuzione: Columbia Tristar sua filmografia a venire. Dopo Legend (1985), Chi protegge il testimone (1987) e Pioggia sporca (1989), un film ormai proverbiale come Thelma & Louise (1991), road movie al femminile. segue 1492: conquista del Paradiso (1992), L’albatross - Oltre la tempesta (1996) e Soldato Jane (1997), tutti caratterizzati da un’enfasi spettacolare e cromatica. Il 2000 è l’anno del fortunatissimo Il gladiatore (dodici nomination all’Oscar 2001, cinque statuette ottenute) che consacre la fama di Russell Crowe, cui seguono Hannibal (1001), il seguito molto discusso de Il silenzio degli innocenti, e Black Hawk Down, premiato dall’Academy Award nel 2002 con la statuetta per il miglior montaggio a Pietro Scalia. IL FILM IL REGISTA Ridley Scott è nato il 30 novembre 1937 a South Shields, Tyne and Wear, Inghilterra. Il suo nome è indissolubilmente legato al film di culto Blade Runner (1982), che ha segnato un passaggio cruciale nella storia della fantascienza cinematografica. Fratello del regista Tony Scott, ha ricevuto un’educazione di impronta artistica a Londra, e ha iniziato la sua carriera di regista alla BBC come set designer (...) per la serie Tv Doctor Who alla metà degli anni Sessanta. Dopo la regia di alcune serie Tv, arriva il primo lungometraggio: I duellanti (1977), seguito da un altro film di grande successo, Alien (1979), il primo film di fantascienza con protagonista una donna volitiva (Sigourney Weaver), presenza ricorrente della Il 3 ottobre del 1993 un gruppo di Rangers e di specialisti della Delta Force riceve l’ordine di catturare i luogotenenti del generale Aidid, riuniti nel cuore di Mogadiscio, all’interno dell’area ostile alle truppe americane di stanza in Somalia insieme alle forze di pace dell’Onu. La missione deve durare pochi minuti; invece si prolunga per diciotto ore di ferro e fuoco. Due degli elicotteri Black Hawk vengono abbattuti e i superstiti vanno tratti in salvo. Non è la loro guerra (degli americani), ma si sa che, al cinema, la guerra è guerra, che si combatte soprattutto per lo spirito di corpo e che il codice dei Rangers impegna a non abbandonare mai un compagno nelle mani del nemico. Materiale scottante, questo episodio di storia recente; soprattutto affidato a un produttore come BLACK HAWK DOWN 87 4 Jerry Bruckheimer, che non ha la mano leggera con la retorica militarista (e nemmeno con quella cinematografica). Ma il solido militarismo britannico di Ridley Scott e la sua grande energia spettacolare salvano Black Hawk Down. Elementare sul piano ideologico (ma spesso i film di guerra lo sono, o addirittura devono esserlo), ha il merito di concentrarsi per due ore piene e incessanti sull’azione militare, che è dura, frenetica, immersa nel sangue, nella polvere, nel pericolo, nelle esplosioni. Dopo una Pearl Harbor in chiave soap e le smandolinate alla Corelli, un film di guerra che non si concede respiro, né alibi. (EMANUELA MARTINI, Film TV, 12 febbraio 2002). LA STORIA “Da un fatto realmente accaduto”. Così iniziano i titoli di testa del film. Le prime immagini ci introducono a quella che poi sarà ricordata come la battaglia di Mogadiscio: “Somalia, Africa orientale 1992. Anni di guerra tra clan rivali hanno portato ad una carestia di proporzioni bibliche. Trecentomila civili muoiono di fame. Haidid, il più potente dei signori della guerra, domina la capitale Mogadiscio. Haidid si appropria degli aiuti alimentari internazionali nei porti. Usa la fame come arma. Il mondo reagisce con una forza di 20.000 marines Usa. I viveri vengono distribuiti e l’ordine ristabilito. Aprile 1993. Haidid aspetta che i marines si ritirino e poi dichiara guerra alle forze di terra dell’Onu rimaste sul posto. In giugno le milizie di Haidid catturano e massacrano 20.000 soldati pakistani e iniziano a bersagliare il personale americano. Ad agosto inoltrato truppe specializzate americane i Rangers e la Delta Force vengono mandate a Mogadiscio per rimuovere Haidid e ristabilire l’ordine. La missione doveva durare tre settimane, ma dopo sei settimane Washington cominciò a spazientirsi”. È il 2 ottobre 1993 quando il Centro di distribuzione della Croce Rossa, dove i somali si sono radunati intorno a un camion carico di viveri, diventa bersaglio di fuoco. Con un megafono un miliziano grida: «Questi viveri sono di proprietà di Haidid, tornate al88 BLACK HAWK DOWN le vostre case». Poco dopo uno degli uomini di fiducia di Haidid dice al generale Garrison, a cui è stato affidato il comando americano, che quella è una loro guerra, una guerra civile, e che non dovevano andare. La risposta di Garrison, «Più di trecentomila morti. Questo è un genocidio», non cambia le cose. I Rangers e i Delta Force stanno ormai mettendo a punto i preparativi finali. È però necessario aspettare l’occasione giusta, che è una riunione di gabinetto del generale somalo a cui dovrebbero essere presenti due dei suoi uomini. Luogo dell’incontro, una palazzina al mercato, tra i quartieri più popolati di Mogadiscio. Garrison annuncia alle sue truppe che, secondo informazioni raccolte, tale riunione dovrebbe tenersi alle ore 15. È dunque arrivato il giorno tanto atteso. Davanti ad una piantina topografica si definiscono spostamenti sul terreno e in aria, si calcolano i tempi, si precisa minuto per minuto la strategia. Tempo dell’operazione: trenta minuti, non oltre. A fornire la copertura aerea, gli elicotteri Black Hawk. Garrison saluta i suoi soldati e fa loro una raccomandazione: «Nessuno deve essere abbandonato». Si aspetta solo il segnale definitivo: un’auto civetta sul posto deve dare il via. Ma. come si alzano in volo gli elicotteri, i somali di vedetta danno l’allarme. E incomincia la loro controffensiva. I Rangers riescono a raggiungere il mercato, arrivano e a catturare gli uomini da fare prigionieri, ma sono ormai sotto il fuoco dei miliziani. E a questo punto si verifica l’errore che comprometterà l’intera operazione. Uno dei soldati, mentre sta calandosi con una corda dall’elicottero, perde la presa e precipita. E resta a terra. La situazione si fa subito seria. Soccorrere quell’uomo che ha bisogno di essere allontanato diventa un’operazione quasi proibitiva. Le strade sono ormai in mano a chi spara, e si spara anche dai tetti. Uno degli elicotteri pronto a intervenire è colpito e precipita: «Black Hawk Down», va giù, va giù. In pochi minuti, sul luogo dell’impatto è il caos. Garrison nel suo ufficio dice: «Abbiamo perso l'iniziativa»: I soldati intrappolati in strada restano praticamente soli sotto il fuoco dei somali: impossibile far intervenire i mezzi di soccorso, le strade sono ormai impraticabili. Occorre chiedere alla Decima Divisione di montagna l’intervento dei carri armati blindati per ripor- tare i soldati in zona sicura. Ma ci vuole tempo, tutta la notte. Al mattino, nel rientro alla base tra due ali di somali che li applaudono, si contano i morti allineati al Pakistan Stadium e i feriti portati in infermeria. Per chi è tornato vivo c’è un bicchiere d’acqua fresca servita su un vassoio. Per i feriti, un augurio di pronta guarigione. Qualcuno si lascia andare ad una riflessione. «Ogni tanto c’è chi mi chiede “chi te lo fa fare: perché vai? Non è che per te la guerra è una droga?”. Io non rispondo. Non capirebbero. Non possono capire che si tratta di compagni». Un altro soldato: «Un mio amico mi ha chiesto, quando stavamo per imbarcarci: “ma perché andate a combattere una guerra altrove? Credete forse di essere degli eroi? Non ho saputo rispondergli. Ma se me lo chiedesse adesso direi di no, che nessuno chiede di diventare un eroe. Solo che le cose vanno così a volte». È lunedì. Un soldato osserva «È cominciata una settimana nuova di zecca». Si ricomincia. Scorrono i nomi dei soldati morti quel giorno: sono diciannove. I somali che hanno perso la vita sono un migliaio. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA «Solo i morti hanno visto la fine della guerra»: questa citazione, da Platone, apre con caratteri bianchi su un fondo nerissimo Black Hawk Down (“Black Hawk abbattuto”), l'ultimo film di Ridley Scott che ha messo in grave allarme i rappresentati della comunità somala degli Stati Uniti, dove sta avendo un grande successo. Perché sono in allarme? Forse perché nel film i somali che danno la caccia ai marines nella città di Mogadiscio, emanano la stessa umanità delle bande di Himmler che davano la caccia agli ebrei nelle città dei paesi dell'est. [...] È impressionante come un artista raffinato, un vero esteta del visivo come Ridley Scott, possa affidarsi a dialoghi così banali. Ma non è la prima volta che gli succede. Tutta la prima parte di preparazione e descrizione della truppa, respira il clima di propaganda e il fatalismo ricattatorio dei film di guerra americani degli anni quaranta: se qualcuno tira fuori una fotografia dei suoi o una lettera prima della battaglia, puoi star sicuro che rimarrà sul campo. Sul campo, tuttavia, Ridley Scott, sa condurre la battaglia come si deve. Il regista del Gladiatore conosce bene l’arena. Per più di due ore (il film dura 143 minuti), tra colonne di fumo di copertoni bruciati e frammenti di mura sbreccati da raffiche di proiettile e lancia missili, descrive l’angoscia e il panico crescente con i quali, come topi in un labirinto, i soldati americani finiscono inredibilmente in un agguato folle e invincibile. Pur di non lasciare i compagni a terra al nemico, anche se deceduti, presidiano le aree di impatto degli elicotteri. Ma più si impegnano in questo compito, più perdono uomini: una spirale mortale e perversa in cui la morale del guerriero coincide con l’ossessione della psicosi. L’alto comando, impersonato da Sam Shepard nella divisa del generale Garrison, che fu davvero a capo della missione, segue ogni cosa dai monitor delle telecamere. Lui, più di qualsiasi altro, ha la visione del labirinto, dall’alto, e sa quanto inermi siano i topi che comanda, braccati per ogni via, ogni balcone, ogni carro blindato. Scott conduce la battaglia con superba energia, il dominio di sterminati affreschi bellici con cieli che grondano di elicotteri e muezzin al tramonto è perfettamente miscelato con l’incalzare inesausto di una guerra da videogame: in ogni angolo, in ogni crocevia, si può aprire una porta o una finestra da cui sbuca qualcuno con un uzi che i ranger devono uccidere per non essere uccisi. Come alla playstation. Nel film non c’è niente di radicalmente nuovo, ma tutto è usato al massimo del volume. Scott usa lo stesso effetto stroboscopico delle sequenze del Gladiatore, Hans Zimmer ricicla i bei temi che aveva usato nella musica della Sottile linea rossa e Tom Sizemore è quella bella figura di soldato coriaceo, manesco, affidabile che avevamo già visto in Salvate il soldato Ryan. Ma la cosa più interessante del film è un’altra. Benchè non c’entri nulla con quanto accaduto al World Trade Center, è davvero il primo film in cui la sindrome del “dopo 11 settembre” si mostri in tutta la sua sfolgorante angoscia. L’idea che ci sia non solo qualcuno che non ami l’America, ma che esista qualcosa che la odii a tal punto da desiderare di distruggerla, si respira a pieni polmoni per le strade di Mogadiscio che BLACK HAWK DOWN 89 Scott ha trasformato in un blockbuster rumorosissimo, militarista e potente come un elicottero militare. Insomma, i somali fanno bene a prendersela con lui, perchè vengono presentati in maniera inqualificabile. E il cartello finale che ci informa della reale proporzione delle perdite (19 americani morti contro mille somali uccisi) non è un risarcimento sufficiente. Ma, come spesso accade al cinema d’azione, allo spettacolo, quando affonda le sue radici nella coscienza popolare, Black Hawk Down, dice più cose di quello che voglia e una di queste in maniera molto chiara, alla coscienza americana. E fin quando non si accetteranno o comprenderanno le ragioni, ciò che dice è destinato a scuotere gli abissi più profondi di questa coscienza: «C’è qualcuno, là fuori, che ci odia» (MARIO SESTI, Kwcinema) In Black Hawk Down [...] Ridley Scott - proprio lui che ha attraversato ogni territorio del romanzesco cinematografico con risultati spesso eccellenti - ha trasformato un documento su un episodio bellico in un fattore di moderna drammaturgia. Come fece da noi Francesco Rosi con Salvatore Giuliano e Il caso Mattei e negli Stati Uniti Oliver Stone (Salvador, JFK, Gli intrighi del potere - Nixon). Allo stesso modo di quei registi ricostruisce con una tensione che va man mano crescendo una vicenda che i telegiornali del tempo trattarono in pochi minuti. [...] Ridley Scott non ha romanzato nulla di quanto avvenne a Mogadiscio il 3 e il 4 ottobre 1993. Si è valso della rigorosa documentazione raccolta dal giornalista Mark Bowden in Falco nero pubblicato da Rizzoli. Con il massimo di fedeltà e totale verosimiglianza, con un “crescendo” di indubbio effetto, ha illustrato ogni fase della missione: la complessa preparazione, l’euforia iniziale, un incidente, la cattura dei miliziani e la reazione degli uomini appostati sui tetti, lo smarrimento e la resistenza degli americani, lo sconcerto dell’alto comando, i feriti e i morti. [...] Questa attenzione alle varie componenti del crudele gioco della guerra [...], questa intelligenza narrativa, di natura non solamente tecnica ma direi morale, favoriscono il formarsi di un discorso pacifista, sempre implicito nel reportage e sottolineato nella sequenza simbolica dell’esodo 90 BLACK HAWK DOWN dei militari con la folla immobile e minacciosa e la danza dei ragazzini (non unicamente la constatazione di una sconfitta ma quasi la promessa di una futura riconciliazione). (FRANCESCO BOLZONI, Avvenire, 8 febbraio 2002) «La battaglia di Mogadiscio è un evento che l’America ha preferito dimenticare». Lo afferma Mark Bowden nel suo libro Black Hawk Down (Signet Book), falsariga dell’omonimo film di Ridley Scott, che in assenza di documenti ufficiali del Pentagono ha pazientemente rievocato sulle testimonianze la battaglia per le strade della capitale somala del 3 ottobre 1993. Progettata come un colpo di mano della durata di tre quarti d’ora, nel corso dei quali un gruppo di Rangers al battesimo del fuoco e veterani delle Delta Forces dovevano catturare un paio di luogotenenti del dittatore Aidid, l’operazione prese una piega sbagliata quando prima un elicottero del tipo Black Hawk e poi un secondo furono abbattuti dai guerriglieri. Andò a finire che gli americani restarono intrappolati quasi un’intera giornata nel cuore del mercato Bakara, nido dei ribelli, con un atroce bilancio di 18 morti, alcuni dei quali torturati e mutilati dalla folla in delirio, per tacere delle centinaia di somali uccisi. Fu lo scontro più duro affrontato dagli Usa dai tempi del Vietnam. A botta calda i giornali si chiesero se il gioco valeva la candela e se c’erano stati errori, ma la pronta decisione del presidente Clinton di ritirare le truppe dall’Africa soffocò le polemiche. Nota Bowden: «A Washington ogni sospetto di fiasco provoca una completa amnesia». Non a caso neppure nel film, scritto da Ken Nolan e Steve Zaillan, si parla di politica o alta strategia, ma si mettono in fila i fatti confidando che parlino da sé. In un riverberare di effetti speciali spiccano i valori delle scenografie di Arthur Max (che ha ricostruito Mogadiscio in Marocco), della fotografia di Slawomir Idzdiak (l’operatore del Decalogo di Kieslowski) e dell’allucinante montaggio di Pietro Scalia. Fra botti, ordini e contrordini, invocazioni di vendetta e grida di dolore sono 144 minuti d’inferno destinati a togliere ogni illusione a chi crede ancora che la guerra sia una gloriosa avventura. Scott si fa un punto d’onore di evitare tutti i luoghi comuni dei film di propaganda, ma se non c’è l’esaltazione manca anche la condanna. Ciò che affiora dai rapporti fra i commilitoni è semmai il cameratismo, il valore della lealtà, l’osservanza del motto “Leave no man behind” (Non si lascia indietro nessuno, morto o ferito), al punto che proprio questo finisce per apparire un abbellimento di una realtà che alcuni film sul Viet hanno presentato in maniera più critica. Quanto agli interpreti, è facile confonderli l’uno con l’altro tra i furori della mischia; spicca solitario Sam Shepard nella parte del discusso generale William F. Garrison, che segue gli eventi sul video e prende le decisioni supreme. Anche lui, però, troppo ambiguo per assumere la dignità e lo spessore che avevano comandanti attanagliati dai sensi di colpa come Clark Gable in Suprema decisione o Gregory Peck in Cielo di fuoco. (TULLIO KEZICH, Il Corriere della Sera, 9 febbraio 2002) Alcuni titoli della più recente filmografia statunitense di genere bellico, traendo il materiale narrativo dagli episodi delle ultime campagne militari americane (Three Kings, Il coraggio della verità e la guerra del Golfo, Behind Enemy Lines e la Bosnia, Black Hawk Down e la Somalia), prendono le distanze tanto dal filone epico-avventuroso incentrato sui fatti della Seconda Guerra Mondiale, sia dal filone criticoespressivo legato alla disfatta del Vietnam, pur relazionandosi strutturalmente all’uno e all’altro. Black Hawk Down, una produzione Scott-Bruckheimer che sembra solleticare il senso della lotta del primo non meno che il tendenziale bellicismo del secondo, esce durante la mobilitazione generale contro il terrorismo islamico e viene da taluni commentatori europei assimilato alla più cinica propaganda. Forse vale la pena iniziare col dire che Black Hawk Down non è Berretti verdi, e che proprio il soggetto prescelto (una sconfitta) non alimenta autocelebrazioni né pulsioni da “giustizia infinita” ma semmai sposta il discorso sul nudo gesto, relegando le motivazioni sullo sfondo senza per questo avvallare quella che Marcuse ha chiamato sintassi dell’abbreviazione riduttiva, cui si devono formule d’uso comune come “bomba intelligente”, “guerra chirurgica”, “contingente di pace”. Per tentare un approccio al film che rifiuti ugualmente l’adesione a riduzioni di segno opposto (il film violento, ideologizzato, guerrafondaio), si può intanto guardare all’articolazione del racconto, per annotare che il tambureggiante war-movie di Ridley Scott ha un prologo fitto di didascalie alternate a inquadrature altamente suggestive, costruite con un’attenzione speciale per la selezione cromatica (blu dominante) e obbedienti alla geometria rettilinea del carrello orizzontale, in una singolare fusione di intenti descrittivi e drammatici che producono un effetto di raccoglimento non dissimile dall’incipit del Il gladiatore. Segue un lungo blocco destinato all’introduzione dei personaggi [...] Il casting muove da un criterio di intercambiabilità, di caratterizzazione fisionomica sfumata il cui effetto più evidente [...] è nello sviluppo continuo di un’azione in cui il gesto in sé prevale sul personaggio. [...] La proposizione “perché combattiamo” (Frank Capra e il cinema di propaganda), volta in interrogativa (“perché combattiamo?”) da Kubrick - Cimino - Stone - Malick, con Ridley Scott perde l’avverbio dandosi al presente dell’urgenza (“combattiamo”). (LUCA BANDIRALI, Segnocinema 48, marzo/aprile 2002, pp- 47-8) I COMMENTI DEL PUBBLICO OTTIMO Marcello Napolitano - Il film rappresenta lo scontro di culture, Africa nera, nerissima, contro mondo occidentale: scontro ben sintetizzato dal carceriere somalo che dice al prigioniero una frase del tipo: “questa è la nostra guerra, non la vostra”. Gli occidentali si scandalizzano che gli aiuti alimentari siano usati dal signore della guerra come arma verso il suo popolo, che vengano sottratti agli affamati anche con disumana ferocia; ma paragonare la nostra morale pubblica a quella di un paese di tale povertà è forse moralmente gratificante ma non realistico. Il film è anche un ripensamento di tutto l’impegno militare americano all’estero, lontano dalla loro patria e spesso dai loro interessi, quella politica che noi deprechiamo solitamente come imperialismo yankee, salvo BLACK HAWK DOWN 91 poi invocarla quando vogliamo evitare che vadano a morire i nostri figli; in questo senso è anche un ripensamento della guerra del Vietnam: una poderosa macchina bellica, un generale che calcola le operazioni al millimetro (per pudore non dice: “sincronizziamo gli orologi”‚ ma ci va molto vicino) vengono sconfitti da milizie raccogliticce e male armate ma profondamente radicate nel territorio. Numericamente gli americani lasciano sul campo circa 20 morti, contro gli oltre 500 della parte avversa, ma quanto vale un morto americano per la sua patria, in termini di industria dell’informazione, in termini di sensibilità sociale e quindi di ritorno politico? Il signore della guerra può invece mandare allo sbaraglio armate intere senza che nessuno protesti perché la vita in certi paesi vale poco (notare all’inizio del film il soldato che parla del risarcimento dovuto alla famiglia di un assassinato). Il film è stato anche giudicato uno spot pro esercito Usa: non mi pare; la conclusione è pessimistica; l’esercito pakistano sotto bandiera Onu che deve raccogliere i cocci lasciati sul campo dal generale va piuttosto paragonato al finale di Moby Dick, che al 13° cavalleria di Ford. Il film è stato accusato di vedere la guerra dalla parte dei ricchi, degli americani, ma credo sia corretto così: in un paese povero il soldato è uno che ha una posizione sociale solida, che mangia ogni giorno, guadagna anche qualcosa; la morte in combattimento è solo un incerto del mestiere (probabilisticamente non molto più frequente della morte per cosiddette cause naturali); del resto per secoli lo stesso è avvenuto in Europa, dove il sottoproletario urbano o contadino si arruolava per sfuggire a una situazione disperata. Bene ha fatto quindi il regista a guardare nella nostra situazione di occidentali e non nell’animo dei somali, certo non meno nobile di quello occidentale, ma occupato da ben altre preoccupazioni. A riprova del diverso valore della vita nei paesi poveri, si ricordino gli immigrati illegali che rischiano la vita su imbarcazioni pericolosissime, in container frigoriferi, attaccati all’asse di un autotreno. L’altro messaggio immediato del film è che la guerra, per quanto si abbiano a disposizione i più sofisticati mezzi bellici, è sempre sofferenza estrema e inenarrabile dolore individuale. Il regista ha saputo narrare con rigore, senza impor92 BLACK HAWK DOWN tanti sbavature, tutta la vicenda: il dolore degli uomini, la loro sorpresa nel vedersi calati da una situazione di orgoglio, dietro lo scudo della potente macchina bellica, della tecnologia, della superiorità‚ anche culturale, verso i somali, in una situazione in cui sono ridotti a lottare per la loro sopravvivenza, esattamente come i loro nemici debbono fare in ogni momento della giornata: la guerra annulla le distanze culturali, sociali, tutti diventano uguali, purtroppo a un gradino basso dello sviluppo dell’umanità. Come spettacolo è un film molto ben fatto: la crudezza della descrizione, l’intensità dell’azione, sottolineata dal montaggio, ne fanno un film mozzafiato nonostante la durata considerevole; a parte qualche piccola sfumatura retorica (gli episodi di altruismo, di generosità: onestamente non posso dire cosa capiti alla psicologia dell’uomo in situazioni di tale stress; sul piano dello spettacolo suonano retorici), mi sembra che la descrizione sia realistica; momenti di grande commozione, ma senza sdilinquimenti sono quelli della madre che si stringe ai suoi figli nella tempesta della battaglia, l’uomo che porta il corpo del bambino incurante della sua sicurezza personale; gli stessi soldati sono quasi sempre mostrati nella loro umanità‚ di esseri in balia di eventi che non riescono a controllare, che non capiscono, spinti solo dall’istinto di sopravvivenza. Né le scene di esultanza dei somali sui cadaveri e sui relitti americani mi sembrano esagerate: direi normali dopo una situazione di tensione come quella appena superata. In altri termini direi che il regista ha descritto dei caratteri e delle situazioni psicologicamente misurati, sia pur in condizioni di estrema tensione. L’unica situazione irrisolta sul piano dello spettacolo è quella del generale che, alla fine dell’azione, nell’infermeria, con un panno pulisce il sangue di un ferito sul pavimento: un gesto simbolico di scusa e purificazione dei suoi peccati? Cristina Bruni - Dietro la patina autocelebrativa che inneggia al coraggio e alla solidarietà militare (riecheggia in tutto il film la frase, che mi ha molto colpito, “non si abbandona nessuno”, cui seguono sbalorditivi e forse assurdi recuperi di soldati morti a rischio e spese dell'incolumità dei vivi) dell’esercito americano, s’intravede forse una critica all’in- terventismo delle forze occidentali e alla reale sensatezza della loro presenza in certe parti del globo. In fondo quella in Somalia era una guerra civile, potrebbe osservare qualcuno. Ma nessuno può omettere di considerare che non si possono evitare gli effetti della globalizzazione che sopprime spazi geografici e storico culturali e che impone coinvolgimenti inevitabili. Senza dimenticare che gli Stati Uniti hanno spesso nel corso della storia sacrificato proprie vite umane in nome di principi democratici e umanitari che sono imprescindibili nella società moderna, quanto meno e sempre nell'ottica occidentale. Ulteriore critica sulla scia di No Man’s Land mi pare sia rivolta ai contigenti Onu che nulla possono a difesa dei massacri civili. La fotografia e il montaggio sono a dir poco eccezionali. Gino Boriosi - A volte il commento di un critico autorevole può fuorviare la lettura di un film. Roberto Nepoti, su La Repubblica, definisce il film di Ridley Scott uno spot pubblicitario per le forze armate americane, confondendolo con un western, in cui il nemico è “un branco senza individualità”. Per questo, come altri spettatori, ero venuto con molti pregiudizi a vederlo. In realtà, la chiave del film è nel dialogo allucinante tra i soldati sulla linea del fuoco, feriti, disorientati, sconvolti e il generale che assiste allo scempio dei suoi uomini dalla console operativa del comando, senza capire dalle immagini, che i video gli rimandano, la tragedia che si sta consumando. Isolato e ignaro delle forze in gioco, compie due errori di valutazione: non ha la dimensione della potenza numerica del nemico e non ne capisce la realtà sociale. Pensa di combattere un bandito e si ritrova addosso l’intera popolazione. Nel contrasto tra il soldato in prima linea che si comporta eroicamente, ma non sa per cosa combatte, e lo stato maggiore al di là del video, sta tutta l’estraniazione della politica militare degli Usa, forti della loro tecnologia, pronti a gettarsi a capofitto in una guerra “giusta”, ma totalmente inconsapevoli dell’umanità che combattono. La folla “senza individualità” è vista in “soggettiva” dal soldato americano assalito, ma indimenticabile è il volto della madre somala che stringe a sé i figli e la nobiltà del vecchio che attraversa la strada ai mezzi corazzati, portando tra le braccia il corpo straziato del bimbo. Mirabile metafora sull’inutilità (e l’ignoranza) della guerra. Anna Maienza - Black Hawk Down è senz’altro un bellissimo film di guerra: 144 minuti di combattimenti mozzafiato, montati con ritmo parossistico ed effetti speciali degni del grande cinema americano. Il film ha altresì il pregio di farci conoscere da vicino un recente episodio bellico con il coinvolgimento delle forze di pace americane e internazionali, anche oggi in azione in molte regioni del pianeta. Tuttavia, non sfugge allo spettatore lo spirito propagandista che anima l’opera di Ridley Scott: invero le motivazioni dell’intervento armato (di tutela della pace e dei più deboli, oppressi dal sanguinario regime di Aidid) non sono altro che un pretesto per sfoggiare la potente macchina da guerra americana che – purtroppo – si muove invece solo se spinta da interessi economici di parte. Il regista poi non è obiettivo e correct con le parti in guerra: troppo altruisti, pronti al sacrificio e mossi da alti ideali gli americani, schierati contro un nemico spersonalizzato, ridotto a una massa indistinta di individui violenti da abbattere. Insomma un film ambivalente: bellissimo sotto il profilo artistico, ben congegnato, recitato con passione, ma poco convincente per gli intenti di parte e guerrafondai. Caterina Parmigiani - Perché gli Usa devono ostinarsi a essere i paladini della democrazia in ogni angolo della terra? L’esercito americano con le sue due anime, quella ingenua e idealista dei soldati e quella arrogante e superficiale dei generali, specchio della sua società, deve imparare a essere pragmatico e smettere di voler aiutare tutti a tutti i costi. Questa, seppur cinica, è una delle possibili interpretazioni, forse indizio di un nuovo atteggiamento della middle class di fronte agli interventi di ingerenza umanitaria. Il film è ottimo: le immagini drammatiche sono rese ancor più crude da un montaggio efficace che con il suo ritmo incalzante coinvolge lo spettatore dal primo all'ultimo minuto. Luisa Alberini - Si dice che le guerre oggi non si vedano più BLACK HAWK DOWN 93 e vederle al cinema è il solo modo per conoscerle. In questo caso la distanza è ravvicinatissima, la guerra riesce a porre se stessa davanti agli occhi, al di là di ogni possibile mediazione. I mezzi usati per riprodurla, le consulenze originali a cui si è attenuto il regista per farne rivivere i protagonisti, stringono il contatto con la realtà e rappresentazione e sembrano escludere il dubbio di uno spettacolo e basta. Un film troppo lungo, è stato detto, ma lunga, troppo lunga, è comunque la guerra, perché è proprio nella lunghezza che diventano evidenti l’inutilità e l’inevitabilità. Ma non è un film che cede alla retorica, a meno che non si voglia escludere qualunque sentimento da parte di chi da soldato si trova a morire in un conflitto. Un film che usa sceneggiatura, montaggio, recitazone in modo affascinante e rigoroso. senso. In questo periodo, c’è poca differenza tra le immagini dei telegiornali e quelle di questo film. DISCRETO Luciana Biondi - Gran profusione di scene di guerra eclatanti, corpi dilaniati, folle urlanti di neri “cattivi”, ma nessun approfondimento psicologico sia dei personaggi che dei fatti. Se le azioni di guerra sono pensate così superficialmente, c’è poco da sperare... Ilario Boscolo - Un usuale film americano sulla guerra; gli ingredienti sono: epopea, sofferenze, eroismi e profondi sentimenti d’amicizia e volontariato. Ben fatto per scenografie e azione. Non molto di più che un buon film di cassetta, che si fa vedere anche volentieri. BUONO Rosa Luigia Malaspina - È un film denuncia sugli orrori delle guerre e forse ce n’è ancora bisogno per capire, nonostante quello che succede e abbiamo sotto gli occhi quotidianamente. Non c’è tregua dall’inizio alla fine. Si è proiettati in un incubo infernale, pochi gli spiragli di luce, pochi, per i protagonisti del film, i momenti per pensare, per guardare con affetto una foto, per ricordare una vita normale. Eppure l’uomo è così folle, di dura cervice, da continuare in questa corsa di guerra quasi in ogni angolo della terra. Che cosa ci potrà fermare e far riflettere? La storia come esperienza, ricordo, pare non serva a molto. Sara Boscolo - Sono venuta a vedere questo film preparata psicologicamente a un terribile film di guerra, genere che se posso evito. Sono uscita provata da due ore e mezzo di rumori assordanti e ansia però mi è piaciuto. È un film di guerra, sulla guerra, che non dà tregua, non fa nessuna concessione minimalista, non presenta, come succede di solito, situazioni di riposo per lo spettatore. Mi ha fatto vivere in modo assolutamente realistico quello che succede in varie parti del mondo dove abbondano le armi e manca il buon 94 BLACK HAWK DOWN MEDIOCRE Stefano Guglielmi - Un altro film di guerra; ma cosa aggiunge ai numerosi già visti? Mi sono sentito uno spettatore e non un protagonista. Vi ricordate La sottile linea rossa di Malick? Ottima la ricostruzione dell’accaduto, un bel documentario, ma i nemici dove sono? Cosa pensano? Che ne è del vero dramma della guerra? Il regista Ridley Scott in un’intervista disse di considerare i migliori film di guerra La battaglia di Algeri di Pontecorvo e Full Metal Jacket di Kubrick, ma ritengo sia rimasto molto indietro rispetto ai suoi modelli. Il succo del film si sostanzia in un confronto tra buoni e cattivi quale potremmo trovare in un film western anni Cinquanta. Vittoriangela Bisogni - Un kolossal sulla guerra condotta con le più strabilianti moderne tecnologie. A parte il riconoscimento dello sforzo produttivo e l’ammirazione per il livello degli effetti speciali, non trovo altro merito al film. Un’interminabile sequela di spettacolari sparatorie e atrocità; una sceneggiatura che assomma gli stereotipi più banali, fino ad un’enfasi quasi ridicola nel finale; una recitazione modesta; una Mogadiscio improbabile. Chiedimi se sono felice CAST&CREDITS regia: Aldo, Giovanni, Giacomo, Massimo Venier (Italia, 2000) sceneggiatura: Aldo, Giovanni, Giacomo, Massimo Venier, Paolo Cananzi, Walter Fontana, con la collaborazione di Graziano Ferrari fotografia: Arnaldo Catinari montaggio: Claudio Cormio musica: Samuele Bersani scenografia: Eleonora Ponzoni interpreti: Aldo Baglio (Aldo), Giovanni Storti (Giovanni), Giacomo Poretti (Giacomo), Marina Massironi (Marina), Silvana Fallisi (Silvana), Antonio Catania (il vigile urbano Antonio), Beppe Battiston (il ladro), Augusto Zucchi (il capocommesso), Saturno Brioschi (il vigile Brioschi), Paola Cortellesi (Dalia), Daniela Cristofori (Daniela), Cinzia Massironi (Francesca), Serena Michelotti (Caterina) durata: 1h40’ distribuzione: Medusa I REGISTI Cataldo (Aldo) Baglio nasce a Palermo il 29 settembre 1958. Prima di intraprendere la carriera di attore lavorava alla Sip. Giovanni Storti, nato a Milano il 20 febbraio 1957, viene dal mimo e ha insegnato acrobatica alla scuola civica Paolo Grassi di Milano. Aldo e Giovanni hanno mosso insieme i primi passi nel mondo dello spettacolo. Tra il 1978 e il 1980 si diplomano presso la scuo- la di mimodramma del Teatro Arsenale di Milano. In quegli anni producono spettacoli comici e di mimo musicale in città. Dal settembre 1982 sono in scena al Derby Club Cabaret di Milano, tuttora fucina di nuovi talenti cabarettistici. Dal 1982 al 1994 Giovanni insegna acrobazia teatrale alla Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano. L’attività teatrale si intensifica (soprattutto comica, allo Zelig) e i due cominciano anche ad apparire in Tv. Nel 1998 partecipano al film Kamikazen di Gabriele Salvatores e al film televisivo I promessi sposi. Il trio Aldo, Giovanni e Giacomo nasce nel 1991, grazie all’incontro co cabarettista Giacomo “Sugar” Poretti. Giacomo, nato a Villa Cortese il 26 aprile 1956 è di Legnano, ha conseguito svariati diplomi e praticato altrettanti mestieri, tra cui, per dieci anni, il caposala in ospedale. Dal 1992 si unisce al trio anche Marina Massironi (nata a Legnano il 16 maggio 1963, che già aveva fondato con Giacomo il duo Hansel e Strudel), con la quale continuano la loro attività teatrale. Nel 1995 sono tra i protagonisti di Il circo di Paolo Rossi e realizzano lo spettacolo I corti. Nel frattempo le apparizioni televisive si infittiscono (Su la testa, Cielito lindo), ma la grande notorietà arriva con le tre fortunate edizioni di Mai dire gol, tra il ‘94 e il ‘97. Il loro primo film, Tre uomini e una gamba (1997) anch’esso codiretto con Massimo Venier come i due a venire, ottiene uno straordinario successo di pubblico. Nel ‘98 hanno bissato con Così è la vita, e nel 1999 hanno partecipato al film Tutti gli uomini del deficiente di Paolo Costella. CHIEDIMI SE SONO FELICE 95 5 IL FILM Tre uomini e una gamba era il road-movie. Così è la vita il film sociale. Questa è la commedia d’educazione sentimentale. Si riconoscono ritornelli e motivi: la surreale parodia del quotidiano metropolitano, ancora il viaggio come esperienza risolutiva d’amicizia, la scena teatrale che evoca l’autobiografia artistica. Cabarettisti di qualità, ma dotati di un senso comune del ridicolo che è limite e segreto del successo, Aldo Giovanni e Giacomo cercano per la prima volta un centro di gravità permanente secondo le regole del cinema. Delusi dalle donne, provati dalle vicissitudini di Giovanni con Marina Massironi (costretta a rinunciare alla sua vis comica), decidono di inseguire il sogno di una messa in scena del Cyrano. Aldo, voce narrante in un flashback che inquadra la storia, è il primus inter pares e il deus ex machina di un finale siciliano troppo carico. Anzi, sono quattro i finali: l’exploit di palcoscenico in Sicilia, la chiusa dello spettacolo, la festa e la risoluzione del flashback . Un passo avanti. In 700 copie. (SILVIO DANESE, Il Giorno,16 dicembre 2000). LA STORIA Sono le cinque e un quarto della mattina del 15 settembre dell’anno 2000 e Giovanni è ancora sdraiato sul divano davanti alla televisione quando sente suonare il campanello. Fuori è buio. Va ad aprire e si trova davanti Giacomo. Richiude immediatamente. L’altro: «Non ci vediamo da tre anni e mi sbatti la porta in faccia?». «Tre anni prima», racconta la voce off di Aldo, «io, Giovanni e Giacomo eravamo amici». In comune avevano la solitudine e una certa passione per il teatro. Tutti e tre sognavano di fare gli attori veri. Ma il primo si accontentava di fare la comparsa, il secondo il manichino vivente ai grandi magazzini, il terzo il doppiatore di ruoli secondari. Decisero di mettersi insieme nel loft di Giovanni, il magazzino del caffè dei genitori, e di progettare un grande spettacolo teatrale, il Cyrano di Bergerac. Comincia così la storia di quell’amicizia. Aldo dichiara subito di avere 96 CHIEDIMI SE SONO FELICE un problema da risolvere e chiede aiuto. Vuole lasciare Silvana, la ragazza che gli si era attaccata un po’ troppo, per far posto a Dalia, un’altra, che gli piace di più. Giovanni non sa dirgli di no e si attiene tanto alle sue indicazioni da non accorgersi di aver contattato una ragazza diversa. Si tratta di Marina, hostess di professione, e vicina di casa di Silvana. Aldo si ritrova perciò nella rete di Silvana, che riesce persino a mettere le mani su un anello, naturalmente non destinato a lei. Ma Aldo torna all’attacco e allora riprova con Giacomo, per convincerlo a riuscire là dove Giovanni aveva fallito. Il compito di Giacomo è di persuadere Silvana ad allontanarsi definitivamente. Giacomo torna dalla missione con la notizia che Silvana vive con un’amica bellissima, e a questo punto chiede ad Aldo un favore: organizzare una cena e invitare le due amiche, che sono disposte a andare ad una sola condizione, che ci sia anche con loro una terza compagna, alla quale occorre trovare un uomo, e la scelta cade su Giovanni. E la terza ragazza è Marina, la hostess, di cui Giovanni finisce con l’innamorarsi, ricambiato. Per un po’ procede tutto bene. Aldo è riuscito a liberarsi di Silvana e Giacomo ha convinto gli amici a mettere in scena Cyrano. Ma le cose si complicano di nuovo: Francesca, l’attrice scelta per la parte della protagonista, scopre Aldo, che l’aveva ormai illusa con un’altra, e Marina, alla richiesta di Giovanni di metter su casa insieme, si lascia cogliere da troppi dubbi e preferisce allontanarsi. I consigli di Giacomo per rimediare al doppio problema si rivelano il disastro completo. Marina, che ha voglia di spiegarsi, si confiderà troppo con lui, fino a dargli un bacio, e Silvana, la sola che conosce la parte di Rossana, entra come protagonista dello spettacolo. Giovanni viene a sapere quello che è successo proprio alla vigilia del debutto. Reagisce malissimo, distrugge tutto quello che ha intorno e annulla ogni possibilità di andare in scena. È la fine: Giovanni si ritrova nel suo loft solo. Questo accadeva tre anni fa, e a questo ripensa adesso Giovanni, che sta viaggiando in treno da Milano verso la Sicilia, con Giacomo e Marina, alla ricerca di Aldo. E Aldo si fa trovare a letto, con una finta fasciatura alla testa, ultimo stratagemma inventato per poter ritrovare gli amici. Per tutti è anche l’occasione di mandare final- mente in scena quel Cyrano che un pubblico entusiasta applaude con la piena soddisfazione dei tre attori, o forse solo dei tre amici. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Terzo film natalizio del popolarissimo trio comico, Chiedimi se sono felice è più ambizioso dei precedenti. Piuttosto accurato nella regia, disloca la storia su piani temporali paralleli seguendo il racconto della voce narrante di Aldo. Come accade sovente ai comici migliori, Aldo Giovanni e Giacomo mettono in rappresentazione se stessi, rinunciando saggiamente alle maschere e alle pesanti caratterizzazioni di cui cinema e televisione nazionali traboccano. Parecchie gag sono azzeccate; alcune scene – come quella dei provini per la parte di Rossana nello spettacolo – francamente divertenti. Se si cerca soltanto questo (è Natale), il divertimento è assicurato. Quel che manca alla comicità del trio è una punta di cattiveria: proprio l’elemento che fa la differenza fra l’intrattenimento gradevole e la commedia che lascia il segno. Come già accadeva in Tre uomini e una gamba e Così è la vita, Aldo Giovanni e Giacomo sposano la tradizione buonista del nostro cinema, neorealismo incluso: quella unanimista e consolatoria la cui morale si riassume nella formula “volemose bene” (anche se da pronunciare, nel caso, con inflessioni lombarde e siciliane). Vedere, per credere, l’episodio in cui i tre amici e il vigile Antonio Catania giocano a basket usando come canestro l’aureola della statua del Santo. Alla fine rompono il naso all’immagine sacra; però sono così teneri e ingenui che nessuno si sognerà mai – ne siamo certi – di accusarli di iconoclastìa o vilipendio della religione. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 16 dicembre 2000). La società di produzione di Chiedimi se sono felice si chiama A.GI.DI, sigla che sta per “Abbiamo già dato”: e in un certo senso è proprio vero. Aldo, Giovanni e Giacomo hanno già dato in Così è la vita le storie d’amicizia e d’inimicizia che si ripetono nel loro terzo film [...] E commuovono, ogni tan- to, per la loro tenace sfortuna, la loro solitudine di fondo, la loro bruttezza banale. Chi li segue da tempo sa che il cinema è quanto Aldo, Giovanni e Giacomo fanno meno bene; che sullo schermo non raggiungono l’intensità e la concentrazione che li caratterizzano in palcoscenico; che hanno cominciato a interpretare film come usavano nel passato i De Filippo o altri attori di prosa, distrattamente, adoperando gli avanzi dei testi teatrali, lavorando d’estate a teatri chiusi. Chiedimi se sono felice segna un cambiamento: il film è più patinato, girato con maggiore attenzione, visivamente più accurato e inventato dei precedenti. Questo stile a volte contrasta con la materia del racconto, che risulta meno surreale e lunatica, più naturalista, però in sostanza non è mutata: e magari con qualche ragione, se si pensa agli altissimi incassi di Tre uomini e una gamba e di Così è la vita. Non si può dire che i tre si siano riconciliati o siano stati addomesticati, le loro risse esprimono tutte le segrete furie piccoloborghesi, la loro comicità quotidiana resta irrispettosa: ma in questo film parlano specialmente d’amore e l’amore, si sa, vince tutto. (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 14 dicembre 2000). Forse sono davvero bravi. Anzi, senza forse. Al terzo film Aldo, Giovanni e Giacomo fanno ancora centro. Tre su tre, ammetterete, è una bella media. Gli incassi [...] parlano già chiaro e non è difficile prevedere che Chiedimi se sono felice incasserà più di Tre uomini e una gamba, a sua volta travolto dal successivo Così è la vita. Col primo hanno portato a casa 44 miliardi, con il secondo 65. Questo potrebbe sfondare il muro degli ottanta. Cifre folli, coi tempi grandi che corrono per il povero (in tutti i sensi) cinema italiano. [...] Ora il sangue di Aldo, Giovanni e Giacomo si scioglie per la terza volta e a questo punto diventa un’inutile cattiveria prendere di mira il pubblico delle feste, accusandolo di essere di bocca troppo buona per distinguere il grano dal loglio. Chiedimi se sono felice è molto grazioso, ha un copione che non fa grinze nemmeno rigirandolo di continuo, come del resto fanno gli autori, ancora una volta in società con Massimo Venier, e ha quattro o cinque battute che non sfigureCHIEDIMI SE SONO FELICE 97 rebbero nel medagliere di Woody Allen. (MASSIMO BERTARELLI, Il Giornale, 19 dicembre 2000) Chiedimi se sono felice, a Milano. Tre amici, una città, le donne; tre amici senza internet, né cellulare o automobile. In bicicletta di sera contromano per via Pepe, tre comici metropolitani strimpellano lo spartito dell’amicizia e del cameratismo; dell’amore, quello dei rituali e delle convenzioni, e quello delle esplosioni improvvise, delle necessità nascoste che spaventano i puri e li costringono a confessare. [...] Intorno a loro si muove, visibile solo a tratti, la Milano che chiude il millennio, la città bigia e spietata che non vorremmo vedere al cinema e di cui per fortuna i protagonisti quasi non si accorgono, perennemente presi dalla loro maglia di sogni, pronti a riscattare le avversità quotidiane – le occupazioni svilenti – con l’umorismo e la beffa. La loro Milano un po’ irreale, si muove scanzonata su due ruote, e per una volta ci cattura con l’esibita ingenuità di una città – troppo vicina e troppo improbabile – di vigili un po’ minchioni e hostess dal cuore tenero. Aldo, Giovanni, Giacomo e Massimo Venier dopo la dimensione picaresca dell’attraversamento peninsulare rigorosamente unidirezionale di Tre uomini e una gamba, e quella meno perscrutabile e più tensiva di Così è la vita (in cui la rarefazione del paesaggio prepara progressivamente un finale magico e surreale), circoscrivono il loro peregrinare alla metropoli che solitamente serviva loro da trampolino; eliminano, poi, la gag e la spiccia citazione cinefila come sincopi diegetiche o ritmiche, dando finalmente compattezza e fluidità al racconto, con l’unico imbarazzo di una voce fuori campo invadente, tradizionale stampella del racconto cinematografico qui, spesso, superflua. Aldo, l’unico che prende seriamente il gioco della vita spingendo ogni situazione all’estremo – mentre gli altri giocano a prendere sul serio la ridicola interpretazione di ruoli imbarazzanti ed estranei – si rivela il collante di un’amicizia burlona e irrinunciabile, amabilmente cinica e spietatamente sincera; Aldo è il motore imprevedibile di vite luminose che si spengono d’un tratto nel livore del risentimento, nel naufragare del Teore98 CHIEDIMI SE SONO FELICE ma di Ferradini tra le pieghe imprevedibili del caso. Dopo tre anni Giacomo e Giovanni sembrano invecchiati di dieci. E sarà Aldo, lui sì attore e regista, sul palco e fuori, a ridonare loro spirito e coscienza attraverso un’inverosimile messa in scena, un colossale equivoco tra realtà e finzione architettato nella Sicilia natia (curiosamente le storie di Aldo, Giovanni e Giacomo si risolvono tutte verso sud), che porta indietro gli orologi e spinge a ricominciare da zero, anzi da tre. (PASQUALE MASCIA, Duel 85, dicembre 2000/ gennaio 2001, p. 20) Mentre scriviamo, il film di e con Aldo, Giovanni e Giacomo ha superato la soglia dei cinquanta miliardi di incasso in meno di due mesi di programmazione. Più che pensare a una recensione, varrebbe la pena di riflettere sui motivi di tanto successo. Non perché il film sia indegno di critica, intendiamoci, per quanto modesto e meno riuscito di Tre uomini e una gamba (1997) e Così è la vita (1998), Chiedimi se sono felice rimane un prodotto superiore alla media dei film italiani di Natale, letteralmente indecenti. Dei tre attori, poi, è quasi impossibile dire male: sono simpatici e comunicativi, fanno un cinema che non è mai volgare o irritante, e che recupera un genere di comicità fisica e semplice, lontana dalle sconcezze televisive. Dal trio emana sempre un senso di pulito, e in Italia oggi questo è un merito. Ciò detto, sarebbe scorretto negare che il film è poca cosa, benché stavolta traspaia un maggior sforzo di confezione (o forse, proprio per questo). La sceneggiatura è inesistente e appesantita da preziosismi di cui non si sentiva il bisogno. Cosa c’entrano i flahback, i movimenti di steadycam e le trovate intellettualistiche (il teatro nel teatro) con un film senza storia, statico e intimamente naif? I più generosi potranno anche leggervi dei frammenti di un discorso teorico, ma sarebbe una forzatura: se ci atteniamo alla lettera del testo, infatti, il film non vuol dirci che la vita è rappresentazione (chiave teorica, per quanto usurata) o che il talento non paga (chiave etico-esistenziale), ma che bisogna avere il coraggio dei propri sogni (chiave consolatorio-ottimista). Inoltre, si è parlato molto di comicità di situazione, ma al di là di qualche capitombolo, Chiedimi se sono felice è fin troppo dialogato: più che dalla slapstick, sta dalle parti della commedia annacquata, che non osa essere né farsesca né sofisticata. Di film come questo solitamente si dice che andrebbero studiati come documenti sociologici, ma anche così non si può non reagire con orrore a questo spaccato di vita cameratesco e adolescenziale, a questo mondo di quarantenni che fremono per un appuntamento galante e poi vanno tutti a giocare a basket in piazzetta. Un mondo dove le donne rovinano le amicizie, e alla fine devono pure sgobbare per rimettere le cose a posto. [...] Forse è più utile prescindere dalle considerazioni estetiche o sociologiche, e analizzare il film come caso di successo, mettendosi dalla parte della produzione. [...] Chiedimi se sono felice possiede una caratteristica fondamentale che lo accomuna a tutti i recenti campioni d’incasso italiani, da Salvatores al primo Tornatore a Pieraccioni all’ultimo Soldini: esso recupera un universo di temi e figure fortemente radicati nella cultura italiana tradizionale (il gruppo di vitelloni, il bambino, la casalinga) e poi finge di aggiornarli ambientandoli in un’Italia fuori dal tempo e dallo spazio. Un’Italia buona e placida, un’enorme, sconfinata provincia che sembra estranea ai rivolgimenti della modernità e della storia recente. [...] La Milano di Aldo, Giovanni e Giacomo, ad esempio, è rappresentata come in un film degli anni Trenta: il grande magazzino, la campagna circostante, i tram, le gite in bici. Come dire che la metropoli, la città di Tangentopoli, della moda e della new economy si può mostrare al cinema solo se sembra Gardaland. E non è semplice trasfigurazione fiabesca: è che tutto, nel nostro cinema, deve sembrare provincia. Eden, villaggio vacanze, villeggiatura. Certo, rimozione e consolazione sono requisiti essenziali dell’opera di successo, qualunque sia la sua nazionalità. Ma ciò che nei film italiani risulta in modo preoccupante, rispetto ai blockbuster americani, è la totale cancellazione del conflitto con forze o personaggi che minaccino dall’esterno quest’oasi, e che rappresentino altre prospettive, altri mondi, altre mentalità. La comicità di questi film, non a caso, è una truffa, perché non si scontra mai con l’estraneità del mondo e della società, ma rimane sempre chiusa su se stessa. (VINCENZO BUCCHERI, Segnocinema 108, marzo/aprile 2001, pp. 46-7) INCONTRO CON GIACOMO PORETTI E MASSIMO VENIER padre Bruno: Dopo l’inizio come attori siete passati dietro la macchina da presa. Com’è stata l’esperienza di lavorare tra amici? Giacomo: Veniamo dal cabaret, soprattutto dal teatro. Come spesso accade nella vita, per circostanze fortunose o forse perché avevamo riscosso un certo successo in Tv, ci è stato proposto di fare un film e non sapevamo da che parte cominciare. Abbiamo buttato giù delle idee, e l’ostacolo maggiore era capire come dirigere noi stessi. Perché, a torto o a ragione, abbiamo sempre pensato e realizzato noi le nostre cose. L’abbiamo scritto con altre persone e poi abbiamo chiesto una mano a Massimo Venier per dirigere il film. Spesso ci domandano perché il film è firmato a quattro mani: semplicemente perché ci si divide i compiti. Prima si disegna una specie di storyboard, il giorno delle riprese Massimo sta dietro la macchina da presa e noi recitiamo. CHIEDIMI SE SONO FELICE 99 padre Bruno: Vi capita di improvvisare? Giacomo: Sì, anche se questo accade molto più frequentemente per noi in televisione o a teatro. Al cinema ci sono anche delle preoccupazioni produttive: se si arriva sul set e si cambia scena o luogo, il produttore ti guarda male, invece, finché si tratta di cambiare le battute… padre Bruno: Il pericolo del film comico è che non faccia ridere. La difficoltà è nell’essere originali, nel non ripetersi. Vi è costata molta fatica questa sceneggiatura? Massimo Venier: Sì, la difficoltà maggiore nel raccontare una storia è che molto spesso si è costretti a rinunciare ad una battuta o ad una situazione che potenzialmente potrebbe far ridere, solo perché non va bene con la storia o la indirizzerebbe in una direzione sbagliata. Il problema è dover rinunciare, ogni tanto, a far ridere: è una sofferenza. Per rispettare di più la storia abbiamo cercato di farlo, già dal secondo film, (Così è la vita) e in questo forse siamo riusciti a trovare un equilibrio. padre Bruno: Potete dire qualcosa a proposito del manifesto del film? Giacomo: Che dire di questo manifesto imbarazzante? Non me ne assumo la responsabilità. Negli altri due film c’è stata un’idea grafica più precisa. In questo caso spero che il giudizio del pubblico non venga influenzato dalla qualità del manifesto. Qui c’è una linea divisoria tra i due nemici/contendenti (io e Giovanni) e in mezzo ci sono Aldo e Marina in campo azzurro che dovrebbero essere in qualche modo i risolutori della storia. Ma non voglio svelare niente di più. padre Bruno: La critica ha detto che per Natale questo è stato un film eccezionale. Come avete fatto ad intuire i gusti del pubblico, allontanandovi parecchio da un genere comico che non è riuscito a raggiungere i vostri numeri? 100 CHIEDIMI SE SONO FELICE Giacomo: Lo dico con sincerità, non badiamo mai ai gusti del pubblico ma cerchiamo di fare quello che ci interessa e che ci diverte. Poi, casualmente, coincide con i gusti del pubblico, o così sembra. Sia in teatro che al cinema. padre Bruno: Siete consapevoli del fatto che nel panorama italiano del film comico vi qualificate come originali e diversi? Per il buon gusto, per la serietà (anche se mi sembra che qui ci sia soprattutto l’amicizia in campo). intervento 1: Il film mi ha proprio divertito e ho trovato un ritmo particolare, una Milano molto ben ripresa, una colonna sonora molto interessante. Anche lo spirito è intelligente e c’è umorismo anche nei particolari, nel linguaggio. intervento 2: Ho rivisto il film e mi è piaciuto di più la seconda volta. Si colgono molte più sfumature. Ho notato il desiderio, la tendenza ad approfondire da un punto di vista sentimentale, intimistico, il tema dell’amicizia che, negli altri due film e nelle vostre gag teatrali, è sempre finalizzato a far ridere, semplicemente. Siete abilissimi a prendervi in giro tra di voi. Riuscite ad amalgamare l’aggressività e il saper stare al gioco, che è proprio tipico dei veri amici. Il fatto di far finta di offendersi ma poi tutto finisce bene perché vi stimate, vi volete bene. Volevo chiedere una cosa. In questo film si ride di meno e si coglie di più il sentimento. È l’inizio di un nuovo filone su cui volete continuare a lavorare? Giacomo: Per rassicurarla, il prossimo film farà sicuramente solo ridere. Rispondo così perché non ci poniamo degli obiettivi. Dipende tutto da quello che ci interessa in un dato momento e dal progetto che abbiamo sotto mano. È vero che questi primi tre film forse parlano dell’amicizia, ma siccome ci riteniamo soprattutto dei comici, affrontiamo quest’argomento, che ci è particolarmente caro, in maniera comica, ma in realtà non c’è quest’intenzione di scavare in un tema preciso. Non arriveremo a fare il remake del Settimo sigillo. intervento 3: Già in Così è la vita avevo notato un cambiamento. In quel film c’era una profondità associata alle risate. Questo film mi è piaciuto e mi ha fatto molto ridere. Non c’è mai una forzatura, che è sempre molto garbato, mai volgare. Ci prendete e vi prendete in giro sulle debolezze, il vivere quotidiano. Non ci sono delle situazioni di paradosso. Per fare un paragone, mi era piaciuto moltissimo il primo film di Pieraccioni, I laureati, perché era abbastanza vero, reale, mentre il resto no. Invece voi sotto questo punto di vista mi sembrate in crescendo. È vero che cercate di lanciare anche un messaggio profondo, oltre a far ridere? Massimo Venier: In realtà non cerchiamo un messaggio e non scriviamo un film perché abbiamo un messaggio da recapitare agli spettatori. È inevitabile che se si racconta una storia, vuol dire che quel tipo di storia ha un’urgenza. Poi, scrivendo un film con loro tre come protagonisti, è impossibile non parlare dei loro rapporti e quindi anche della loro amicizia. Non c’è una volontà di voler dire qualcosa a qualcuno sul tema. Anche se faremo dei film completamente diversi, saranno comunque sempre sul rapporto tra tre persone coetanee, e quindi in qualche modo sull’amicizia, per forza. padre Bruno: La sequenza che ha fatto un po’ tremare, quella del vigile che sembra chiami la mobile, e poi non lo fa, mi pare vada in direzione dell’amicizia… intervento 4: Il film mi è piaciuto, anch’io ho notato una notevole crescita rispetto al precedente, anche come qualità della regia e del montaggio. Ho molto apprezzato una “non caduta” di stile. La sceneggiatura nasce da un’idea o è cresciuta strada facendo? Giacomo: Credo sia abbastanza complicato partorire una sceneggiatura. Da anni lavoriamo in gruppo, e Massimo è come se fosse il quarto, e ad ogni film si aggiungono nuove persone (qui Paolo Cananzi, Walter Fontana). La- vorando in gruppo, nella fase iniziale si comincia col creare una struttura portante – la famosa storia che si può raccontare, in forma asciutta, in un minuto – per poi, quando questa struttura ha convinto e messo d’accordo tutti quanti, cominciare a scrivere la sceneggiatura, a riempirla scena per scena. In fase di scrittura, cerchiamo di costruire coralmente la scena, di recitarla a tavolino, si prendono degli appunti e si cerca di fissarla. Per noi è importantissimo metterci intorno ad un tavolo e tirare fuori un’idea. Questo è il lavoro più grosso e anche, credo, il più divertente. padre Bruno: Ci potete raccontare qualche scena o situazione che avreste voluto mettere nel film e che poi non avete incluso? Massimo Venier: Quando Aldo sta male (finge di stare male) e manda gli altri a prendere gli arancini, loro vanno in un bar, chiedono gli arancini (sul banco ci sono gli ultimi quattro), arrivano dei siciliani che li ordinano contemporaneamente a loro. Anche se gli amici di Aldo spiegano che sono per l’amico che sta male, agli altri sembra non importare niente: lei, Padre Bruno, vede l’amicizia ovunque, ma il mondo è anche un po’ cattivo. Allora decidono di giocarsela a biliardino, loro due contro i due siciliani. All’inizio litigano, ma alla fine vincono, si abbracciano e se ne vanno con gli arancini da Aldo. Questa scena l’abbiamo tolta perché ci sembrava stucchevole. padre Bruno: Scherzando, ma in questo film emerge il valore dell’amicizia. La gente è stanca di provocazioni epidermiche, quindi quando arriva un discorso “con la frutta candita”, ma serio, lo gradisce. Gli incassi sono un segnale che il pubblico sta uscendo dalla passività di certo cinema stupido italiano. All’estero il cinema è uscito? Giacomo: No, credo che ci siano delle difficoltà oggettive ad essere apprezzato in un paese diverso dal nostro, in cui un linguaggio, gergo e intonazione contano molto. CHIEDIMI SE SONO FELICE 101 I COMMENTI DEL PUBBLICO saperlo, però leggendole sulla scheda mi hanno grandemente impressionato. OTTIMO Adelaide Cavallo - Ricco di situazioni divertenti che sostengono una sceneggiatura che ha del nuovo per la più completa struttura narrativa rispetto ai film del passato, con questo Chiedimi se sono felice il trio abbandona l’aria scanzonata e vagamente teatrale del passato, proponendo sul tema dell’amicizia un film che può anche essere (e mi pare lo sia) di riflessione. Un film intelligente dunque, che sa combinare con occhio critico un ottimo risvolto comico in una storia che punta al serio (per come è giocata su forti valori umani), Aldo, Giovanni e Giacomo con il loro affrontare l’arte del vivere come una piccola armata brancaleone (con le speranze, le illusioni, gli amori e le gelosie, le insicurezze e le disillusioni che sono poi quelle di tutti) danno voce col loro gioioso intreccio di disavventure, al suggerimento di guardare all’amicizia come a un bene da conservare e difendere. Col suo valore massimo, quando l’amico ti chiederà se sei felice. Enzo Targia - Sereno, distensivo, riposante. Un invito a guardare la vita con serenità per superare qualsiasi ostacolo. Tullio Maragnoli - Film bello e rilassante, sorretto dalla ben nota bravura degli interpreti e da sceneggiatura e montaggio serrati e pertinenti. I due co-autori intervenuti hanno dimostrato verve, intelligenza e rara umiltà nel non voler caricare il loro “divertimento” di messaggi che pure c’erano: molto importante quello sull’amicizia che è sempre stato il filo conduttore di tutte le loro opere. Hanno così giustamente collocato il film in quello che, sin dalle origini, è stato lo scopo precipuo dell’invenzione cinematografica: far trascorrere qualche tempo agli spettatori in modo lieto e non banale. Approvo senza riserve, lasciando volentieri ai critici di professione il piacere di dissertare sulle sincopi diegetiche, sul narrativamente telefonato e, ancora, sulla musica extradiegetica che non so cosa siano, non mi interessa neppure 102 CHIEDIMI SE SONO FELICE Arturo Cucchi - Il divertentissimo trio di attori comici anche stavolta con il suo inconfondibile stile fatto di piccoli riferimenti satirici a tantissime nostre manie, risulta insuperabile. E se i film precedenti erano incentrati sull’amicizia, con Chiedimi se sono felice intervenendo e confrontandosi sull’amore-amicizia, tutto si complica e, nello stesso tempo, tutto si dilata in situazioni più elaborate, più entusiasmanti per le plateee, più vicine alla nostra mentalità e alla nostra commedia italiana. E fa capolino, come viatico alla vita, un po’ di malinconia e di amarezza. Tutto il film è girato in una Milano irreale ma che tocca il cuore per certi particolari suggestivi e perfetti. Sempre, però, riescono a tenerci allegri senza volgarità, senza riferimenti politici, con quella simpatia che attira e che è di famiglia. Ci invitano a divertirci come bambini, producendo una sorta di comicità fatta di ingenui scontri verbali, di litigi, di riappacificazioni, di sguardi furbi, di esclamazioni di grande meraviglia, conditi da una lieve malinconia che non turba ma che riempie di verità le situazioni e il vivere quotidiano. Gabriella Rampi - Ho trovato il film molto ben costruito, con un alternarsi di momenti comici ed altri in cui prevalgono i sentimenti, primo fra tutti l’amicizia. E mi è piaciuta la Milano fotografata in angoli nascosti e piazze sconosciute, sempre con molta abilità. Carlo Chiesa - Qual era lo scopo del film? Farci ridere (o almeno, sorridere). Secondo il mio personale senso dello humour, Aldo, Giovanni e Giacomo ci sono riusciti. Il resto sono chiacchiere. BUONO Miranda Manfredi - Una comicità costruita sui grandi temi della vita: amicizia, amore e lavoro. Anche la morte è ricon- ducibile alla rappresentazione della vita che è pur sempre commedia e tragedia. Il teatro è il filo conduttore che attraverso Rostand ci vuole dire che la commedia è sempre la stessa. Solo una tetra Milano notturna ci riporta alla realtà dei nostri tempi. Una Milano dal sapore antico ma partecipe del caos stradale e con la sua capacità di robotizzare l’uomo nella sua ansia di lavoro produttivo. I tre amici sono maturati e le ripetizioni fanno parte delle loro macchiette. Ma da Nord a Sud anche l’Italia si ripete. Non è una verità? Giulia Carioli - È il miglior film di Aldo, Giovanni e Giacomo. Più film, meno risate. È un film intelligente e mai volgare. Loro sono bravi, le gag sono molto intelligenti. Questa volta puntano sull’amarezza e la malinconia. È molto bello. Rosanna Radaelli - Io, nemica giurata di Aldo, Giovanni e Giacomo, allergica alla loro comicità, incredula davanti al successo corale dei loro film, devo riconoscere di essermi tanto divertita a questo loro ultimo exploit. Sicuramente ci sono delle differenze rispetto al passato: il ritmo del racconto e la comicità meno evanescente, più reale. Comunque c’è più cinema e rappresenta un salto di qualità. E se è vero che è più difficile riuscire nel genere comico che in quello drammatico, questo è un buon film. A quando il prossimo? Gioconda Colnago - Meno risate, più spessore realistico umano. Intelligente, garbato invito a imparare a riflettere, a valutare l’amicizia, a “chiedere” all’altro di occuparsi di ognuno, come esplicitamente contenuto nella frase propositiva, titolo del film. Felice Ghidoli - Lo spettabile e “premiato” trio AGG ritorna con rinnovato umorismo in un film spiritoso. Diviso in scenette racchiuse in una trama piena di battute esilaranti, dà spazio a una storia d’amicizia, solo appannata da un incidente amoroso, ricomposta da una nuova amena avventura che tiene legati i tre. Un gioco che esalta le doti comiche dell’intrattenimento, sfuma nel surreale e nel non senso con una punta di tenerezza, dove passato e presente si intrecciano e l’aggancio geografico unisce le etnie, mettendo in evidenza un cinema che è sogno. Lidia Giglio - Commedia dolce-amara, un’amicizia perduta, rimpianta e ritrovata. I tre protagonisti ci fanno sorridere e anche ridere con le loro battute, dietro cui nascondono reali debolezze, incapacità e un’ingenuità quasi infantile. In questo film ognuno può ritrovare una parte di sé. Apparentemente superficiali, i tre, simpatici e bravi, sanno bene dove e a chi vogliono arrivare. Sandro Vimercati - È un film gradevole e divertente, che ha il merito di riconciliare lo spettatore con lo spettacolo cinematografico. È un umorismo che non trascende nel volgare. DISCRETO Giulio Manfredi - Il film “impegnato” può farci sentire più riflessivi e partecipi, ma anche i nostri tre eroi ci possono provocare una riflessione più sapida e più “italiana”. Il “ghisa” che si affianca in un basket surreale nella Loggia dei Mercanti ci insegna che in Italia è permesso anche quello che è vietato. Tutto si accomoda in soluzioni forse poco serie ma che rendono la vita più leggera e accettabile. Ogni tragedia si annacqua nel folklore e ogni aspettativa si diluisce nella speranza. Filosofia più che accettabile. Comicità ormai collaudata nelle caratteristiche regionali di ognuno. Aldo, Giovanni e Giacomo difficilmente usciranno dai loro personaggi, ma in questo film manifestano una volontà di riflessione più metaforicamente profonda. Lucia Fossati - Non è il genere di film di mio gradimento, ma questa volta devo riconoscere che il trio AGG ha costruito un film più compatto rispetto agli altri due. Lidia Ranzini - Questi comici sono capaci di far ridere, e CHIEDIMI SE SONO FELICE 103 non è poco. Sono sempre sfiorati dalla malinconia, quindi a volte sanno commuovere, e anche questo è un bene. Il loro umorismo ricorda quello di Chaplin che si somma ai buoni sentimenti e alla poesia. Anche il dialogo, dati i tempi, è poco volgare. Mariateresa Scarlini - No, non chiedetemi se “sono felice” dopo questa proiezione che mi ha lasciato – chiedo scusa – del tutto indifferente. Sarà che non ne ho capita la comicità, o intelligenza, come vogliamo chiamarla. Qualche momento di noia ha preso il sopravvento su altri, dove un sorriso viene anche strappato. Sarà che non mi è mai stato congeniale questo terzetto, al quale comunque devo riconoscere un buon affiatamento e la mancanza di volgarità: grande pregio, questo, oggi. Vittoriangela Bisogni - I tre comici hanno unito alle loro gag il lato umano. Con risultato dubbio. Ho apprezzato le 104 CHIEDIMI SE SONO FELICE belle immagini di una Milano meno nota e qualche buona battuta. In ogni caso il lungometraggio è impresa ardua per i nostri, che danno il meglio in teatro, in scenette brevi, con soluzioni sceniche indubbiamente geniali, e avvalendosi dell’interazione col pubblico. INSUFFICIENTE Luisa Alberini - L’impressione finale è di aver visto passare un collage di generi: una volta si parlava di cabaret, oggi di palcoscenico televisivo, e poi di cinema leggero e anche di teatro. Ma un collage, o anche una specie di provino generale, che assegnerà, in un film da fare, il ruolo definitivo ai tre attori. Mi sembra che non ci sia complicità tra i tre, che ognuno porti avanti se stesso e che a rimediare il tutto restino le battute d’emergenza, quelle che fanno da collante al collage e che strappano qualche risata. Il favoloso mondo di Amélie titolo originale: Le fabuleux destin d’Amélie Poulain CAST&CREDITS regia: Jean-Pierre Jeunet (Francia/Germania, 2001) sceneggiatura: Jean-Pierre Jeunet, Guillame Laurent fotografia: Bruno Delbonnel montaggio: Hervé Schneid interpreti: Audrey Tautou (Amélie Poulain), Mathieu Kassovitz (Nino Quincampoix), Rufus (Raphael Poulain), Yolande Moreau (Madeleine Wallace), Arthus de Penguern (Hipolito, lo scrittore), Urban Cancelier (Collignon), Maurice Bénichou (Bretodeau), Dominiqe Pinon (Joseph), Claude Perron (Eva), Michel Robin (il vecchio Collignon), Isabelle Nanty (Georgette), Clotilde Mollet (Gina), Claire Maurier (Suzanne), durata: 2h distribuzione: Bim IL REGISTA Jean-Pierre Jeunet (3 marzo 1953) è nato a Roanne, in Francia. Sostanzialmente un autodidatta, e da sempre affascinato da un tipo di cinema fantastico che predilige gli aspetti formali, ha cominciato a lavorare come regista di video clip e pubblicità. A metà degli anni Ottanta incontra il disegnatore Marc Caro, che da quel momento in poi diventa il suo principale collaboratore. Insieme realizzano due cortome- traggi d’animazione (L’ évasion, del 1978, e Manège, del 1980, che vince un César come miglior cortometraggio). Da allora continuano a realizzare cortometraggi, premiati in Francia, ma poco conosciuti all’estero. Il salto arriva con il primo lungometraggio, Delicatessen (1991), che diventa subito un piccolo film di culto per le sue atmosfere artificiose e grottesche. La loro meticolosità del loro lavoro è nota, e infatti il film successivo arriva solo nel 1995, La cité des enfants perdus. Con Alien: resurrection (1997), il terzo capitolo della saga fantascientifica di Ridley Scott, la loro fama diventa universale. Il favoloso mondo di Amélie ha raccolto premi nei maggiori festival di tutto il mondo, è stato nominato come miglior film straniero agli Oscar 2002 e ha ottenuto quattro César in Francia: miglior film, regista, musica e scenografia. IL FILM Il film-fenomeno (otto milioni di spettatori in Francia, vincitore del Felix europeo, candidato all’Oscar, oggetto d’una speciale sfilata di Gaultier, gran successo ovunque) non è […] la fiaba rosa d’una buona fata, ma la favola nera d’un mondo di personaggi immaturi, inseguitori del sogno, patologicamente incapaci di accettare la realtà: abbastanza cinica, anche cattiva, come si poteva aspettarsi dal regista quarantasettenne di Delicatessen e de La cité des enfants perdus. Cinematograficamente, se non fosse così lungo il film sarebbe un incanto. Come in Mon oncle d’Amérique di Alain Resnais, citazioni da film o programmi tv, spesso in bianco nero, assuIL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE 105 6 mono funzioni esplicative, allusive, poetiche, molto efficaci e divertenti. Il lavoro di post-produzione digitale, condotto sino all’ultimo minuto, accentua la natura astratta o pittorica dei luoghi. Scelta e direzione degli attori caratteristi (protagonista compresa) sono perfette; i personaggi stereotipatamente parigini sono descritti con un’ironia rivolta non verso i personaggi ma verso gli stereotipi. Ogni tanto stucchevole o terribilmente pétillant, lo spettacolo è nel complesso piacevole. (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 26 gennaio 2002) LA STORIA Povera Amélie, non è stata un’infanzia felice la sua. Il padre, ex medico militare, era convinto che soffrisse di una anomalia cardiaca e le evitò ogni contatto con i bambini della sua età. Non la mandò neanche a scuola. A farle da maestra, la mamma, che maestra lo era davvero, e che avrebbe tanto voluto darle un fratellino. In attesa di quel bambino che non arrivava, l’unico amico di Amélie era un pesce rosso con tendenze suicide e il suo principale divertimento fotografare le nuvole. Un giorno, il dramma: una turista del Quebec si lascia cadere dall’altro delle guglie di Notre Dame proprio mentre Amélie e la sua mamma escono dopo aver acceso un cero davanti alla statua della Madonna. Amandine muore e Raphael Poulain, suo padre, si chiude in se stesso e si dedica alla costruzione di un mausoleo in miniatura all’interno del suo giardino per custodire le ceneri della moglie. Passano gli anni e Amélie lascia la sua casa. Ha trovato un posto di cameriera in un bar di Montmartre e condivide la vita della padrona, Susanne, ex ballerina equestre del circo, Georgette, alla cassa, malata immaginaria, Gina, cameriera come lei, pranoterapista, e gli avventori quasi sempre lì. Anche in quel posto è un’esistenza senza illusioni: fino alla sera del 30 agosto 1997, quella dopo la notte della morte di Lady Diana. Quella sera Amélie scopre, nascosta dietro una mattonella ai piedi della parete del bagno, una scatola di latta piena di piccoli giocattoli: senz’altro il tesoro di un bambino. Riconsegnare quella scatola diventa lo scopo della sua vita. Trovare quel 106 IL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE bambino, un dovere a cui dedicarsi con tutte le sue energie. Non è facile, ma Amélie non era certo il tipo che si lascia scoraggiare. E a metterla sulla buona strada è il vecchio Dufayel, l’uomo di vetro, costretto a non muoversi da casa per una malattia genetica che rende fragilissime le sue ossa e che passa il tempo osservando gli altri e dipingendo da vent’anni la Colazione dei canottieri di Renoir. Dufayel è per Amélie un punto di riferimento, e ridare la scatola al leggittimo proprietario, la rivelazione di un destino. La ragazza di ropromette di dedicarsi agli altri e di diventare la regina degli emarginati. Unico rimorso: aver lasciato solo suo padre a dipingere un nano di gesso, sempre più ripiegato sulla tomba della donna che non riusciva a dimenticare. Ma anche per lui ha in mente uno stratagemma per indurlo a desiderare di viaggiare. Le persone a cui dedicare attenzione e buone intenzioni, del resto, non mancano. C’è Georgette, molto infelice, che deve recuperare fiducia in se stessa; c’è anche il commesso del fruttivendolo, troppo strapazzato dal suo datore di lavoro, e che in qualche modo deve essere vendicato. Come però era successo con la scatola di latta, il destino pone Amélie davanti un altro oggetto perduto che deve essere restituito. Un album di fotografie, di strane fotografie: fototessere spesso rincollate, perché stracciate, e tra le quali compare a ripetizione un uomo misterioso. Quello strano collezionista lei lo aveva visto in ginocchio sotto quelle cabine dove si entra per una foto da fare al volo. Ma occorreva trovarlo, o meglio incontrarlo, perchè le buone azioni si fanno fino in fondo. Anche il collezionista, del resto, ha voglia di riavere il suo album e il modo per riottenerlo è lasciare un biglietto con il numero di telefono proprio sul luogo testimone della sua passione. Una mossa che Amélie raccoglie, ma con prudenza. Con quell’indirizzo in tasca, la ragazza inizia una specie di percorso da caccia al tesoro. Lui si chiama Nino, fa il commesso in un porno shop, ma anche il fantasma al luna park, e lei gli dà una serie di appuntamenti, senza mai completamente rivelarsi. Un giorno, però, il vecchio Dufayel le fa capire che il gioco sta durando troppo, e che il rischio che corre è quello di lasciare inaridire il suo cuore. Le dice: «Amélie, tu non hai le ossa di vetro, tu puoi scontrarti con la vita». In altre parole: “non lasciarti scappare que- sta occasione. Lanciàti”. Questo è proprio quello che che voleva sentirsi dire. Amélie apre la porta a Nino, che da tempo era sulle sue tracce, e lo accoglie tra le braccia. Adesso sono tutti e due felici. E il padre, a cui Amélie aveva fatto pervenire, con la complicità dell’amica hostess, inspiegabili foto con il nano da giardino ripreso accanto ai monumenti più celebri del mondo, fa la valigia e va a vedere quello che c’è oltre il giardino di casa. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Un film accattivante, edificante, nazionalpopolare, avvolgente, ruffiano. Ma anche intelligente, divertente, leggero, ben scritto, coinvolgente. Il cinema di intrattenimento di massa come dovrebbe essere. Al di là di qualche lungaggine (la fiaba e la simpatia della fanciulla hanno preso la mano anche agli autori) Il favoloso mondo di Amélie accompagna lo spettatore dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno, in un’immaginaria Montmartre vista come luogo fantastico lontanissimo dalla realtà “a luci rosse” dei dintorni. Un altrove dove non si incontra Bob il giocatore ma personaggi eccentrici, figurine allo zucchero filato, comunità in cerca di speranza e contentezza. È vero che i conflitti sono irrealisticamente disciolti negli occhi cristallini di Amélie, ma è altrettanto vero che Jeunet non inganna sulla sua scelta di campo estetica. (MAURO GERVASINI, Film TV, 29 gennaio 2002) Il mondo di Amélie, e dei tanti le cui vite s’intrecciano con la sua, non è il migliore tra i molti o i pochi possibili, ma ha l’aria d’esser vero. Vero o almeno verosimile – e terribile quasi quanto una foto formato tessera – è che Bretodeau abbia dimenticato e sepolto i suoi sogni in una scatola di latta insieme con una macchinina e un soldatino. Vero o verosimile – e certo ben più terribile di quella tale foto – è che il padre di Amélie non l’abbia mai abbracciata, da bambina, e che a lei il cuore andasse in tumulto quando lui, finalmente, le si avvicinava anche solo con uno stetoscopio. Veri e verosimili – forse terribili, forse splendidi – sono tutti gli uomini e tut- te le donne perduti nel tempo e nello spazio, smarriti dentro le proprie vite, di cui Jeunet e Laurant provano a inventarci un racconto, come se ognuno di loro fosse protagonista d’una sceneggiatura totale e d’un film smisurato. Di chi sono mai le loro vite? Di chi è in particolare la vita di Amélie, che ama far volare piccoli sassi sul pelo dell’acqua e che, prima d’incontrare Nino [...], trova che far l’amore non dia poi molta soddisfazione? La risposta più immediata è che non è sua, non è di Amélie, la sua vita, proprio come accade anche agli altri e alle loro vite. Non a Caso o forse per volontà del caso –, nelle prime immagini del film una mosca finisce spiaccicata sul selciato. Di chi sarà mai stata, quella vita ridotta in una poltiglia tanto tragica da esser comica? Ebbene, Amélie, la piccola Amélie di Jeunet e Laurant, è qui sullo schermo per convincerci del contrario. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2002). Inno alla gioia, ma al posto del coro esuberante di Beethoven c’è la plastica, novecentesca Parigi di Jeunet, che canta la storia di Amélie Poulain, sedotta dal piacere di risolvere le storture del mondo, come Dio e come Zorro, al quale ruba una zeta graffiata sullo schermo. Amélie è una tempesta di emozioni aperte all’inquietudine, all’incantesimo e all’assurdità della vita. Una narcisista che sogna il suo funerale di stato alla televisione, ricordando allo spettatore che ogni uomo e ogni donna del mondo lo meritano. Una romantica vigliacchetta, che sfugge all’amore (un ragazzo che raccoglie fototessera come frammenti d’umanità) perché minaccia la corroborante solitudine. Amélie è una mitomane della giustizia morale: con sotterfugi domestici sconnette l’egocentrico equilibrio di un crudele bottegaio; combina l’amore tra una tabaccaia grassa e un geloso di professione; per scuotere il padre, gli ruba il nanetto del giardino e chiede a un’amica hostess di fotografarlo in giro per il mondo. Capace di riconoscere le epifanie della vita (che tuttavia sembrano un po’ pronte tutte per lei), percepisce il dolore del mondo come equivoco d’infelicità. Gli animali, i quadri, le foto parlano perché il mondo è vivo. Gagliardamente truccato. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 26 gennaio 2002). IL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE 107 I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Vincenzo Novi - Un destino che si svela per appuntamenti precisi, puntuali, si direbbe... fatali. Una vita imprevedibile e serena. A renderla tale è la protagonista, che sa cogliere negli avvenimenti la scintilla del mistero che la riguarda. Uno sguardo che coinvolge e suggerisce che la vita la diverte perché ha imparato a coglierne i lati positivi. Il viaggio dentro il tunnel dà l’indicazione di quanto sia radicata in lei questa convinzione. Il ragazzo che coglie la vibrazione del suo animo sente nascere in sé una corrispondenza sulla stessa lunghezza d’onda. Un’opera cinematografica che sa dare emozione, come un dipinto riuscito o un pezzo musicale che tocca nel profondo. Marcello Napolitano - È certo una favola, con grande libertà dal principio di realtà; come favole sono taluni romanzi filosofici, una gloriosa tradizione in Francia. Il messaggio è che la solitudine pùò essere guarita mediante l’attenzione, l’affetto o addirittura l’amore. Infatti i personaggi mi sembrano tutti molto soli, benché immersi nella vita frettolosa, quando non frenetica, della grande città (fanno forse eccezione la padrona del bar e l’altra cameriera); anche Amélie è sola, ma con l’aiuto del caso trova la sua vocazione di missionaria e infine l’amore. Forse il messaggio è debole, ma certo il modo di presentarlo è molto divertente: la trama è un continuo susseguirsi di colpi di scena e di gag (la morte della madre, il fantasma delle fototessere che è poi il riparatore delle macchine, il lavoro di Nino nel pornoshop – sono forse vibratori gli oggetti che Nino, con indifferenza, etichetta e mette sullo scaffale mentre parla di Amelie con la collega? –, il nanetto viaggiatore, etc.) estremamente divertenti perché nuove o perlomeno dette con linguaggio nuovo; dalla presentazione dei personaggi attraverso i loro tic e le loro manie, alla precisione maniacale delle date e ore assolutamente indifferenti, agli inserti di false vecchie pellicole, alle citazioni di Truffaut (i 400 colpi del piccolo Bredeau108 IL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE teau) e della struggente voce di Piaf nella stazione del metrò, tutto è scelto con cura, dosato con gusto ma senza presunzione, con l’allegria di fare un buon prodotto e l’orgoglio di fare un prodotto intelligente nella migliore tradizione francese. Si potrebbe obiettare che nel film ci sono troppe storie, troppi riferimenti, troppi personaggi: credo però che tutto sia amalgamato perfettamente, come quell’eccesso di decorazione che si riscontra in certe architetture, specialmente d’oltralpe, ma che assorbono l’eccessività nell’armonia. Un pregio minore ma non trascurabile sta nella mancanza completa di pornografia, anche quando si rappresentano tutti gli amplessi contemporanei; e l’amplesso nel gabinetto del bar risulterebbe grossolano ma viene sublimato dall’ironia del tintinnio dei bicchieri e coperto dal rumore dello sfiatatore di vapore; bellissima poi la scena dell’abbraccio finale, in cui i due amanti si esplorano pudicamente senza quasi toccarsi; pudico ma anche molto erotico. Favoloso è soprattutto l’ambiente: la Parigi del piccolo quartiere del bar, quella della periferia dove abita il padre, anche la Parigi delle grandi stazioni, di Notre Dame, di Montmartre, tutta immersa in una luce netta, che elimina i chiaroscuri della vita di ogni giorno, giusto un’illustrazione di libro di favole; favolose le attività dei personaggi (scrittore senza editore, innamorato geloso, commesso di pornoshop): ogni personaggio è presentato in modo adatto a una favola, cioè non lo si riesce a immaginare come persona reale, con una sua vita fuori dal ruolo chiuso e limitato che gli assegna il regista, esattamente come nelle favole i re sono semplicemente chiamati a essere regali, a sposare principesse magari stregate, ma non hanno preoccupazioni di regno, di bilancio, di guerre, di lotte dinastiche etc.: sono cioè degli stereotipi. OTTIMO Anna Colnaghi - Un inizio travolgente per la velocità di regia e la fantasia recuperata a un mondo che ci accomuna nel tempo dell’infanzia. Poi qualche battuta d’arresto rende il film un po’ lungo: se non fosse per questo andrebbe rivisto per il piacere di essere coinvolti in un’atmosfera giocosa e intelligente che fa star bene nel momento in cui la si vive, come quando si gioca da bimbi o si ascolta una fiaba. Da grandi si gioca poco e questo magistrale recupero dell’arguzia e della divagazione coinvolge, stupisce, diverte. Una parentesi salutare... Poi si esce dal cinema e si ritorna al quotidiano. Carla Testorelli - Il favoloso mondo di Amélie è un film assolutamente innovativo e travolgente. È un susseguirsi di trovate geniali perfettamente orchestrate e filmate con una cinepresa rapida e pronta a capovolgere immagini e temi. Il mondo di Amélie non è in realtà “favoloso”: è un mondo sempre in bilico fra il sogno e la vocazione della ragazza “a fare del bene”, un trucco per sfuggire alla solitudine. Amélie si dedica a questa attività con candida malizia, organizzando memorabili scherzi ai cattivi (irresistibili quelli contro il fruttivendolo), incoraggiando relazioni impossibili, aiutando in maniera del tutto originale il padre a ritrovare una voglia di vivere che in realtà non ha mai posseduto. Poi, quando è sola, sogna e in questi sogni c’è spazio per citazioni e deformazioni della realtà (Spencer Tracy che, al volante di un’auto, guarda la sua compagna trascurando la strada, i funerali solenni di nonsochi che diventano nell’immaginazione della ragazza i suoi stessi funerali, perché lei è buona e sarà celebrata in eterno e così via). L’anima gemella, Amélie la incontra fin dall’inizio, ma la ragazza, che dell’amore ha paura, solo con l’aiuto dell’uomo dalle “ossa di vetro” riuscirà a superare i suoi timori e a entrare nel mondo reale. Trama e finale scontati, ma quanta abilità nel tenere insieme i molteplici piani del mondo di Amélie! Gian Piero Calza - Se non si vogliono considerare gli aspetti simbolici del film, pur presenti, dal momento che il plot è di carattere “favoloso”, ma ci si attiene a ciò che lo schermo ci “mostra”, occorre allora prestare particolare attenzione alla scenografia, che “ricostruisce” in maniera singolare il mondo in cui si muove Amélie. È un mondo de-naturalizzato e de-storicizzato, nel senso che sia gli esterni che gli in- terni non sono mai “realistici”, ma come sospesi in un tempo e in uno spazio irreali. Quegli interni domestici, del tutto improbabili anche in una città come Parigi, dove pure sopravvivono forme di residenzialità premoderna, ma difficilmente comparabili al kitsch degli arredi e dei colori che traboccano negli ambienti mostrati nel film; e quegli interni “ferroviari”, pur presenti nelle vecchie stazioni parigine, ma qui decontestualizzati e irrealmente fissati nelle loro strutture di ghisa o nei rivestimenti di bianca maiolica, quasi a voler evocare spazi di vita sopravvissuti ma appartenenti a un altro mondo. Lo spazio del presente, la città di oggi, è vista solo in qualche inquadratura come panorama, da lontano, quasi fosse una cartolina dentro la quale non c’è vita. Si vive, invece, o meglio si rivive, dentro la “copia” del quadro di Renoir, che il pittore – il quale non esce mai di casa – si ostina a ricostruire come una scena in cui si muovono personaggi che lui considera reali, con al centro la ragazza – il suo volto sembra quello di Amélie – che il pittore non sa se abbia a che fare con i suoi compagni di scena o con altri al di fuori del quadro. È lo stesso problema che ha anche Amélie: se agire in funzione delle persone che ha attorno oppure di quelle che le sono estranee. Perché Amélie è la ragazza del quadro, e quando lei stessa avrà risolto il suo “puzzle”, anche il pittore avrà compiuto il suo quadro. E così si risolveranno tutte le altre piccole storie apparentemente ostacolate da un destino contrario; piccole storie di amori mancati, incompiuti o impossibili vissute da personaggi il cui destino, come nelle favole, si capovolge grazie agli stratagemmi di Amélie. perché a lei appartiene il destino “favoloso” del titolo originario del film. BUONO Fiorella de Libero - Film accattivante, ma anche sofisticato sul piano formale, per merito di un montaggio dinamicissimo e di una grande modernità nella sceneggiatura e nel gusto cromatico. Il difetto è un eccesso di lunghezza e una certa ripetitività delle situazioni. Anche la tematica – il rapporIL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE 109 to del piano di realtà con quello della fantasia – è meno naïf di quello che sembra. Giocando sulla fisionomia della protagonista (un vero cartone animato vivente) mostra, in veste di fiaba, l’importanza e il valore dell’immaginazione che l’eccessivo razionalismo della società attuale sembra aver dimenticato. Mostra però anche che la fantasia deve andare al di là di un rifugio e di fuga dal reale, o di un gioco fine a se stesso per farsi strumento creativo per superare le difficoltà di vita sia altrui che proprie. Maria Ruffini - È un film senz’altro singolare, perché è singolare il personaggio: Amélie vive intensamente in modo molto originale una vita che tuttavia non ha una direttiva precisa, se non quella di assecondare il suo creativo estro. Questo mi sembra il limite del film che, al di là degli effetti speciali e della bellezza dei colori, fotografia, interpretazione, non ci sa dire di più; lo spettatore non è accompagnato più in là della piacevolezza di tutto questo mondo da sogno. Rosa Luigia Malaspina - Leggero, ironico, spumeggiante come bollicine di champagne. Con un po’ di fantasia e brio, si può rendere la vita più bella per sé e per gli altri. Bisogna prendere coscienza del punto in cui siamo e di cosa vogliamo fare della nostra vita, che va giocata, vissuta fino in fondo, attimo per attimo, se possibile con leggerezza e allegria. Lina Amman - Mi ha divertito il film, soprattutto all’inizio, veloce, imprevedibile, spiritoso. In alcune sequenze l’ho trovato un po’ sopratono, troppo insistito, urlato, con effetti sonori esagerati e gratuiti. Questi impediscono di godere la colonna sonora ricca di motivi deliziosi di vecchie e care canzoni. Anche il colore mi sembra troppo carico, con toni sempre tendenti al giallo e al rosso, senza toni leggeri e più sereni. I caratteri fisici delle persone sono esasperati, eccessivi nei difetti, quasi visti attraverso una lente deformante. Si salva la figura di Amélie con i suoi stupendi occhi. Andrea Vanini - Un affresco tipicamente francese che dice come qualsiasi quotidianità possa essere colorata di ottimi110 IL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE smo, di serenità. L’interprete deliziosa è parte fondamentale di tale pennellata di dolcezza. Ilario Boscolo - È un film in cui il regista ci ha messo del suo, c’è dell’invenzione sul piano filmico in termini di intreccio realtà-fumetto e quindi reale e fantasioso. È un film brillante e piacevole, proprio ben fatto. Però è troppo favola e il tema è anche scontato: la brava e pulita ragazzetta che incontra il principe azzurro, cioè un bravo e bel ragazzo che la ama tantissimo. Elisa Mariani Travi - Il film “buonista” mi fa venire in mente la tematica del testo di Cesare Zavattini Totò il buono, poi reinterpretato cinematograficamente in chiave favolistica e surreale da Miracolo a Milano di De Sica (1951). L’atmosfera e il sonoro retrò, le citazioni di film sono però soprattutto francesi. Dopo queste premesse, la “lievità” del film, il suo contenuto, la sua vis comica, l’ironia mi sono piaciuti abbastanza, nonostante l’insistenza un po’ pignola sui piccoli particolari da cui deriva anche l’eccessiva lunghezza del film. Grazia Agostoni - Un film piacevole, molto francese, una favola razionale, un divertimento intelligente, delicato, ironico. La fantasia del vecchio mondo occidentale ricompone e salva l’individuo in crisi: c’è ancora speranza, c’è possibilità di salvezza, attraverso l’amore, unendo immaginazione e ragione, presente e passato, e “inventando” (l’arte salva il mondo?), giocando argutamente per tornare a sorridere ed essere se stessi nell’incontro con gli altri, liberandosi dai condizionamenti tarpanti (il pesciolino), liberandosi dalla solitudine e indirizzando al meglio le proprie possibilità. Teresa Deiana - Favola bizzarra nella quale un’ex bambina molto sola, inventa un suo mondo di fantasia trasformandosi, secondo i casi, in fatina benefica o genietto dispettoso. Osserva il piccolo mondo che la circonda con occhi disincantati eppure ancora infantili. Così la si vede alle prese con buffe generosità e stravaganti vendette che forse aveva so- gnato ma che non si era potuta permettere da bambina. E dunque questo film un po’ surreale, molto colorato e fuori dai consueti schemi, descrive con umorismo le fantasie che più o meno larvatamente albergano talvolta anche tra le persone adulte. Nonostante non pochi lo abbiano giudicato sfavorevolmente, per quanto mi riguarda, pur notandone qualche eccessiva lungaggine, ne ho apprezzato tra l’altro, oltre al ritmo saltellante, le allusioni a Renoir e alcune esilaranti scene di puro surrealismo. protagonista di fare del bene è fine a se stesso. Amélie vuole sentirsi la coscienza tranquilla. Bona Schmid - Il film è piacevole nonostante alcune lungaggini e sbavature, non prive di un certo manierismo ammiccante. Il tutto, in un certo modo, reso più familiare da una Parigi da depliant turistico, con commento musicale da repertorio. Nella sua apparente semplicità è un film estremamente sofisticato e l’artificio si sente. Alessandra Cantù - Positivo solo negli episodi farseschi, primi tra tutti gli scherzi all’ortolano prepotente, è un film slegato e sconnesso negli altri episodi. Non c’è unità di comportamento nei diversi personaggi: la stessa Amélie è poco simpatica, come il pittore e la tabaccaia, il padre e la madre. Ben caratterizzati alcuni interpreti laterali: le bariste, la portinaia, l’aiuto ortolano, ma non bastano a dare impronta al film: né favola, né farsa, né commedia. Felice Ghidoli - Esistono ancora le favole, quelle vere, che parlano di umanità, che ti sollevano da terra. Le favole possono ancora raccontare la bellezza della vita e la bella Amélie ci riporta, da buona fatina dal sorriso luminoso, in un mondo dimenticato di serenità e di bontà, in un racconto dal ritmo sostenuto, dall’ambientazione romantica, dalla sceneggiatura inventiva, dal calore di una storia che sa ancora commuovere. DISCRETO Letizia Ragona - Film non originale ma abbastanza piacevole. Talvolta può ricordare (in brutta copia) La finestra sul cortile per il modo in cui Amélie controlla i movimenti dei vicini. A metà il film perde la tensione per cui diventa un po’ “soporifero”. Molto brava la protagonista che ricorda Audrey Hepburn. Si può dire che sia un film di favola per cui è giusta la traduzione italiana del titolo. Il desiderio della Caterina Parmigiani - Della vita di personaggi surreali, interpretati da ottimi attori, il regista ci presenta frammenti ironici e divertenti strutturati con compiaciuta scaltrezza attraverso parallelismi, effetti speciali, rimandi, ecc. Tuttavia il film risulta un puro esercizio di stile e come tale spesso è noioso. MEDIOCRE Vittoriangela Bisogni - Molto francese. A cominciare dal bel faccino della protagonista; e poi le splendide riprese fotografiche della città, dalle ardite inquadrature; e quegli interni un po’ retrò. La verve parigina si può sentire anche nel ritmo veloce dell’inizio, ma ben presto affoga nel mare di melassa. Questa ragazzina maghetta che coccola i buoni e tormenta i cattivi diventa presto un po’ stucchevole. Alla fine poi c’è un interminabile tira e molla nella manovre di agganciamento dell’anima gemella: un susseguirsi di audaci e fantasiosi (troppo!) appuntamenti seguiti da altrettante rinunce, peraltro incomprensibili in un tipetto così smaliziato. Ridondante anche la caratterizzazione dei personaggi di contorno. Lungi dal ritenere apprezzabile questo film, stento persino a inquadrare il genere cinematografico a cui appartiene. IL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE 111 Figli/Hijos CAST&CREDITS IL FILM regia: Marco Bechis (Argentina/Italia, 2001) sceneggiatura: Marco Bechis, Lara Fremder fotografia: Fabio Cianchetti montaggio: Jacopo Quadri interpreti: Carlos Echevarría (Javier Ramos), Júlia Sarano (Rosa Ruggeri), Stefania Sandrelli (Vittoria Ramos), Enrique Piñeyro (Raul Ramos) durata: 1h33’ distribuzione: Medusa Tra i drammi che affiorano dal recente passato dell’Argentina, accanto a quello dei desaparecidos c’è, dramma nel dramma, quello dei loro figli nati in carcere e affidati a coppie di genitori che ne facevano richiesta. Stime attendibili assicurano che, tra il 1976 e il 1982, sono spariti circa cinquecento neonati. I casi denunciati sono circa la metà. Durante quegli anni, tra i militari e i loro collaboratori, esistevano liste di attesa per avere un bambino partorito da una donna dal destino segnato. Oggi sono giovani tra i 20 e i 25 anni, cresciuti nella finzione, con genitori che, pur amandoli, nascondono un terribile segreto. Il regista Marco bechis, nato in Cile da padre italiano e madre cilena, vissuto a Buenos Aires fino all’età di 20 anni, espulso dall’Argentina per motivi politici al tempo della dittatura militare, si era già occupato dei desaparecidos nel suo film precedente, Garage Olimpo, realizzato nel 1999. Con Figli/Hijos, che narra la storia di Rosa e Javier, riprende il discorso dal punto di vista dei figli. (VIRGILIO FANTUZZI, La Civiltà Cattolica, 3641, 2 marzo 2002, p. 529) IL REGISTA Marco Bechis è nato a Santiago del Cile nel 1958 da madre franco cilena e padre italiano, ed è cresciuto a San Paolo e Buenos Aires. Espulso per motivi politici dall’Argentina a vent’anni, si è trasferito a Milano e ha vissuto negli anni Ottanta tra Parigi, New York e Los Angeles. Ha fatto l’insegnante a Buenos Aires, il fotografo e il videoartista a New York. Il suo primo lungometraggio, Alambrado (1991) ha girato i festival tra cui Locarno, Madrid e Bruxelles. Il suo secondo film, Garage Olimpo (1999), ha partecipato al festival di Cannes ed è stato apprezzato in tutto il mondo per aver portato alla luce l’orrenda pagina argentina delle torture e dei sequestri degli avversari del regime dittatoriale. Con Figli/Hijos (2001), realizzato tra Italia, Spagna e Argentina, completa il discorso intrapreso con il film precedente. LA STORIA Buenos Aires, 9 dicembre 1977. Le grida di una donna in un lettino d’ospedale annunciano la nascita di due gemelli. In attesa dei bimbi e con impazienza ci sono, al di là della porta, due uomini, poliziotti. Milano, 23 gennaio 2001. JaFIGLI/HIJOS 113 7 vier e la sua ragazza, a bordo di un piccolo aereo si scambiano un bacio, prima di lasciarsi andare all’emozione di un salto nel vuoto con il paracadute. In quello stesso pomeriggio Rosa arriva in città. Javier Ramos, ventitrè anni, ha incontrato Rosa, la sua stessa età, attraverso la posta di Internet, ma non sa niente di lei e soprattutto non sa che ha deciso di raggiungerlo. Quando la ragazza si presenta al cancello della villa dove abita con i genitori e lo chiama, il suo primo gesto è di stizza: «Che cosa fai qui?». Ma Rosa non sembra sorpresa da quella reazione. Gli chiede perché non le abbia mai scritto. E Javier risponde: «Non ho niente da dirti». Lei: «Sono venuta dall’Argentina per conoscerti». Lui: «Vuoi dei soldi?». Alla sera, di rientro a casa dopo una giornata trascorsa fuori con la famiglia, Javier trova Rosa ancora lì, dove l’aveva lasciata. C’è una cosa che vuole, che deve dirgli prima che lo inghiotta la cancellata della sua villa e glielo grida: «Siamo gemelli». E, mostrandogli una foto, «Questi sono i nostri genitori». Javier le risponde: «Tu sei pazza». Quel breve incontro sconvolge i due ragazzi. Rosa non accetta la porta in faccia che le ha sbattuto Javier e cerca conforto in una telefonata con la donna che l’ha vista nascere. Javier non riesce a dimenticare le parole di Rosa e ha bisogno di parlarne con la madre. I genitori di Javier sono impreparati alle domande del figlio. La madre chiede: «Ti senti bene?», il padre, «Come salta fuori questa storia?». Lui: «Una ragazza dice che non sono vostro figlio». Ma nessuno dei due riesce a dirgli qualcosa che lo aiuti a capire. Il padre lo minaccia, la madre lo stringe a sè con un mal nascosto tentativo di rassicurazione. E allora lui se ne va a cercare Rosa, che lo accoglie con tenerezza e lo convince a seguirla. Prendono un treno, e poi a Genova una nave traghetto per Barcellona, in cerca di Giulia Borman, l’ostetrica a cui Rosa ha telefonato e alla quale adesso chiede di raccontare anche a Javier quello che lei sa già. E la signora Borman rivela di aver assistito sua madre durante il parto e di aver avuto in consegna da lei, perché la nascondesse e così la salvasse, la seconda dei gemelli, sottraendola ai militari di guardia. Javier vuole la prova di quello che ha ascoltato: l’analisi del sangue che dimostri il legame tra loro. Intanto 114 FIGLI/HIJOS la madre, che del figlio non sa più niente, lo rintraccia attraverso il telefono cellulare e con il padre arriva a Barcellona. Ma di quelle telefonate si accorge anche Rosa, che vuole precedere Javier e raggiungere i Ramos per dire loro quello che lei è venuta a dire a Javier: che loro non sono i veri genitori, che sono assassini e che possono essere denunciati per appropriazione di minore. Poi, con una corsa ritorna da Javier per chiedergli di aspettare almeno il risultato delle analisi. E l’esito segna il crollo della sua attesa: la dottoressa che le consegna loro dice che non c’è alcun vincolo familiare. Rosa tenta di ribellarsi a quel risultato, Javier vuole tornare a casa. Allora lei gli grida la storia di un uomo, sua padre, pilota dell’areonautica militare e di sua moglie, italiana, che ha finto di essere incinta per poter uscire dalla clinica con un bambino appena nato, e che i Ramos sono assassini. I due ragazzi si separano. Javier è di nuovo a Milano, in famiglia, alla sua vita di prima. Fino a che, un pomeriggio, sale ancora su quell’aereo dal quale tante volte si era lanciato con il paracadute insieme alla sua ragazza. Salta nel vuoto, ma non apre il paracadute. 25 marzo 2001: a Buenos Aires un corteo di ragazzi con tamburi e percussioni passa sotto le finestre di chi al tempo della dittatura di Vileda è stato tra gli autori di repressione, per costringerli ad allontanarsi da quelle case dove ancora vivono. Tra loro c’è Rosa, e accanto a lei, Javier. (LUISA ALBERINI). LA CRITICA Marco Bechis ha girato […] un dittico complementare e speculare (Ubulibri pubblica Argentina 1976-2001, ricco e illustrato libro con testi, sceneggiature e interviste), con la passione autobiografica di chi ha patito in prima persona questo dramma e lo considera estremamente attuale, con la consapevolezza di mostrare una tragedia collettiva mai espiata né rimossa e di cui i recenti eventi argentini sono, a suo parere, l’ultimo e logico anello. E se in Garage Olimpo c’erano sangue, torture, palpiti e sdegno, nel nuovo film il dolore è più storico, oscuro e composto (ma i lanci dei cadaveri dall’aereo sono agghiaccianti) e anche lo stile rinuncia al pathos per esplorare zone segrete dell’inconscio. […] Coraggioso Bechis che, espulso dall’Argentina per ragioni politiche, ci ritorna con la passione di un cinema che si riprende la sua funzione morale e denuncia l’orrore “normalizzato”, reso nel suo essere agghiacciante da una colonna sonora a percussioni che ciascuno riempie con il suo sgomento. Il film, che si potrebbe anche bunuelianamente chiamare I figli della violenza, è una finzione nata dalla verità e ha un cast di perfetta resa psicosomatica. Bechis ci convince che non c’è medicina né vaccinazione possibile contro le forze di un Male ancora radicato nella connivenza del tessuto sociale. Grave che non sia stata fatta giustizia, che ci sia stata impunità, dice Bechis. Così l’incubo si ripete, esplode, minaccia: il film, che non uscirà mai in Argentina, è fatto di ombre, dubbi, di inutili prove del DNA, degli sguardi di una Stefania Sandrelli come sempre bravissima a essere una finta madre che soffre però davvero. Ed è proprio cercando tra questi genitori bugiardi e colpevoli, ma che ormai amano il figlio acquisito, che il film sfiora la pietas e s’addentra nel terreno minato dei sentimenti contrapposti dell’odio-amore e nel doppio potere della memoria. (MAURIZIO PORRO, Il Corriere della Sera, 2 febbraio 2002) Il colpo di Stato militare in Argentina del marzo 1976 dette la presidenza della Repubblica al generale Videla e governò il Paese sino al 1982. In quegli anni di regime militarem caratterizzati da feroci repressioni e dal massacro degli oppositori, scomparvero circa 500 bambini, figli di militanti dei sindacati, della sinistra o della guerriglia. I genitori venivano uccisi, a volte lanciandoli in mare dall’alto di aerei. I piccoli venivano dati o venduti a famiglie vicine al governno, ai servizi o alla polizia, che non avevano figli e ne volevano. Questi bambini, detti “apropriados”, hanno oggi 20-25 anni: spesso non sanno chi sono, da dove vengono, chi erano i loro veri genitori “desaparecidos”. Secondo alcuni, dovrebbero essere mantenuti all’oscuro della loro origine; secondo altri sarebbe mostruoso non permette- re loro di fare i conti con vent’anni di menzogne. […] Il film conduce un’analisi profonda e complessa di questi personaggi, più che affrontare direttamente gli aspetti politico-sociali della vicenda: ed è molto efficace, molto riuscito. Il perenne movimento, e i tanti mezzi di trasporto […] danno il senso dell’inquietudine esistenziale. La frequente oscurità evoca l’abisso buio di quanto è accaduto. Il suono incalzante dei tamburi è quello delle manifestazioni argentine. Il montaggio di Jacopo Quadri trasforma il tormento interiore in azione; gli attori sono molto adeguati. C’è nel film una sequenza bellissima e significativa, che lascia capire il disprezzo dei militari per gli esseri umani e l’atmosfera argentina dell’epoca: in ospedale una donna partorisce due gemelli, con tutte le porte e le finestre spalancate, con le lenzuola insanguinate agitate dal vento, sotto lo sguardo annoiato dei poliziotti in borghese che fumano e passeggiano nei corridoi aspettando d’impossessarsi dei neonati. (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 2 febbraio 2002). Figli/Hijos è un film in cui nulla sembra lasciato al caso (a cominciare dall’elaborata composizione delle inquadrature, che tendono a includere nello stesso campo i due giovani e a separare i due Ramos). Né le percussioni che intervengono nella colonna sonora rievocando il suono delle pentole (le cacerolas) di Plaza de Mayo e anticipando quello dei grossi tamburi (i bombos) della manifestazione finale e nemmeno il fulmineo cameo del regista, lui così vigile, ancora una volta (come in Garage Olimpo) colto a dormire su un tram. Così come la sensazione di “gelo” si estende spesso alle condizioni atmosferiche (pioggia, vento, neve, nebbia, buio) che contrastano rare solarità; così come lo stesso “sogno” (in cui Javier “riconosce” i suoi veri genitori) pur discutibile nei moduli rappresentativi, serve a costituire un’esemplare svolta di racconto. Di un racconto che si concede, e ci concede, numerose pause di riflessione, da non confondere – una volta tanto – con pigrizie o indugi di regia. (LORENZO PELLIZZARI, Cineforum 413, aprile 2002, p. 17) FIGLI/HIJOS 115 INCONTRO CON IL REGISTA MARCO BECHIS padre Bruno: Il nome Bechis è legato a Garage Olimpo. È un problema di denuncia sociale, che vuole affrontare. Ha qualcosa da dire di personale, non sono cose che ha semplicemente letto sui libri, anche se si sarà ovviamente documentato. È un dramma interiore che lo fa soffrire, e che ha gridato al mondo fortemente con Garage Olimpo. Che senso ha il potere quando schiaccia l’opposizione? Perché il potere, quando diventa prepotenza, si suicida. Storicamente, in Argentina, questo militarismo cieco, da battaglia, che politica avevano questi militari nel trattare la gente in una maniera così orribile? Marco Bechis: Sarebbe lunghissimo ripercorrere la storia degli anni della dittatura. Si può dire che, anche se sembra qualcosa di molto crudele, fuori da qualsiasi tipo di logica, invece una logica ce l’aveva, e anche precisa. Era la logica degli eserciti latinoamericani e di tutto il continente, che dopo la rivoluzione cubana del 1959 si erano dati una nuova filosofia, quella del “nemico interno”. Nelle accademie militari americane, dove andavano a studiare ufficiali e sottufficiali, si insegnava che dopo la rivoluzione cubana bisognava riformulare completamente il concetto di esercito, che non si trovava più di fronte a un nemico oltre la frontiera, ma che si trovava dentro la società, e andava scovato. E così iniziò la guerra interna, la psicosi del sovversivo. Quindi le migliaia di desaparecidos in Argentina, Uruguay, Cile, Brasile, Bolivia erano il frutto di una meditatissima strategia continentale, già messa in opera dagli anni Sessanta, per imporre in tutto il continente un modello anche economico di neoliberismo selvaggio, che alla fine si è davvero imposto nell’Argentina dei nostri giorni. Quindi tutto questo è molto logico, purtroppo. padre Bruno: Perché ha intitolato il suo film “figli” e non “i figli”? Bechis: Hijos, il titolo originale, poi tradotto nell’equivalen116 FIGLI/HIJOS te italiano Figli, è il nome di un’organizzazione argentina di giovani, di ventidue-ventiquattro anni, che sta per “figli per l’identità e la giustizia” che sono i figli degli scomparsi. La nuova generazione che è sopravvissuta allo sterminio degli anni Settanta. Molti di loro hanno vissuto con nonne, parenti, e altri, cinquecento, di cui circa quattrocento non se ne sa ancora nulla, che sono stati rubati alle madri sul nascere nei campi di concentramento, poi eliminate, e date illegalmente in adozione a famiglie di militari che non potevano avere bambini. Questi ragazzi vivono senza sapere qual è la loro vera storia, e vivono con gente che è spesso responsabile diretta dei crimini contro i loro veri genitori. Nel film si vede anche una manifestazione dell’associazione. padre Bruno: Avrete notato che quasi all’inizio c’è la ripresa del mare dall’alto, tale e quale a un’immagine di Garage Olimpo, dove un aereo buttava a mare i condannati a morte. Alla fine, da un altro aereo si condanna ancora a morte un ragazzo che non ha retto la tragedia conseguente a questa specie di crudele sevizia, che non ha torturato il corpo ma l’anima. Il finale ha del documentario. Cosa succede in queste strade argentine? Bechis: Ho concepito questo finale non come qualcosa di separato dal resto, ma come il finale del racconto. Muore qualcosa, la sua vecchia identità, ma lui torna rinato in questa nuova veste in Argentina. La manifestazione è organizzata da questi ragazzi figli di scomparsi. In Argentina c’è stata un’amnistia delle migliaia di responsabili diretti dei crimini passati, a tutti i livelli, ora liberi cittadini, persone che hanno diritti civili. I ragazzi vanno sotto casa di questi signori, volantinano la zona, denunciano ai vicini chi abita lì. E fanno queste grandi manifestazioni sonore e pacifiche. La conseguenza è immediata: il quartiere reagisce alla presenza di queste persone, i commercianti si rifiutano di vendere, e piano piano vengono isolate e obbligate a trasferirsi da un’altra parte. E gli hijos le seguono da un domicilio all’altro. In qualche modo è una sostituzione alla giustizia che non c’è stata. Siccome c’è stata un’amnistia generalizzata, e giustizia non c’è mai stata, perché le forze di polizia sono sempre le stesse, e hanno portato alla tragedia degli ultimi mesi. intervento 1: Il film mi ha molto emozionato, come Garage Olimpo. L’immagine del suo film, questo lanciare i prigionieri a mare, è fortissima. Mi è piaciuto come lei ha creato la tensione, ha riportato quei momenti tragici che hanno segnato i destini di questi giovani riproducendo luci, momenti, atmosfere. Un sovrapporsi di passato e presente senza far vedere delle immagini, ma facendo delle citazioni che lo spettatore è stimolato a riconoscere. intervento 2: Questo film mi ha ricordato un film potente, Z - l’orgia del potere, un film sulla Grecia dei colonnelli, che aveva lo stesso taglio rigoroso, schematico, cronologico molto preciso, però ufficializzato. C’era in parallelo una figura umana e un’espressione di autorità, di potere. In questo caso invece si confronta un fatto storico gravissimo con le ripercussioni che hanno nell’animo e nella psiche delle persone. Indubbiamente questo confronto è di una profondità e di un’intimità sconvolgenti. Raramente ho assistito a una proiezione così intensa e così profonda e tagliente nel riprodurre sentimenti, sensazioni e storia insieme. intervento 3: Vorrei ricordare una scena bellissima, quella in cui i due ragazzi sono a letto e si guardano, si toccano, cercano di riconoscere qualcosa in comune, trovano un neo simile, si toccano addirittura i denti, come alla ricerca di una verità che vorrebbero essere tale. La figura della ragazza è molto intensa e commovente, una mina che arriva come sott’acqua a far esplodere un’esistenza tranquilla anche se basata sulla menzogna. E questa presa di coscienza lenta ma inesorabile del ragazzo che alla fine si uccide in modo emblematico e rinasce nella manifestazione, che trova la vera sorella. Avrei intitolato il film “fratelli”, perché i due ragazzi, in quanto figli della stessa tragedia, sono fratelli. Tutti questi figli sono fratelli. Considero il film anche formalmente eccezionale, perché è sempre molto essenziale, nelle riprese, nel ritmo e nella recitazione. intervento 4: Si sente che il regista “sente” questo film e non avrebbe potuto realizzarlo altrimenti. Gli viene dall’animo e lo ha fatto nell’unico modo possibile. Le cose le ha vissute, il film è molto diretto, autobiografico, c’è mestiere ma sentimento, la vita. C’è il senso della clandestinità della ragazza. Quello che significa una vita di dittatura, un mondo di sospetto e di crudeltà, che viene da ceti legati ad interessi molto reali. C’è una denuncia sociale ma anche un allarme sui pericoli della democrazia. intervento 5: Il film è bellissimo. Mi chiedo perché abbia sorvolato sul passato della ragazza. Bechis: Ho scelto di non girare nessuna scena in Argentina se non quella finale. In realtà nella sceneggiatura iniziale c’era tutto un preambolo, molto più classico, che illustrava la vita della ragazza a Buenos Aires, in piena estate. Poi ho deciso di non girarlo per aumentare lo spaesamento di tutti questi personaggi che circolavano tra una città e l’altra. Non credo che manchi l’informazione su di lei, perché nel film si racconta a sufficienza. intervento 6: Il film è bellissimo, e si presterebbe a tante considerazioni che qui non si possono fare solo per motivi di FIGLI/HIJOS 117 tempo. Rispetto alla tragedia argentina, sono rimasto colpito dal fatto che la parola desaparecido già esisteva nell’Ottocento. In una lettera di un’emigrata italiana in Argentina ai parenti si fa cenno alla scomparsa di un sostenitore dei diritti civili. Questo alone che grava su questo paese, che è un po' la caricatura dell’Europa. Dal suo film ho colto questa sensazione di inanità, che però leggo un po’ come una sconfitta. Una tragedia che si vede sotto gli occhi degli argentini oggi. intervento 7: Che significato ha cercato nella scena in cui il padre del ragazzo va a pesca col figlio, quando cerca di dare una giustificazione al proprio operato di ex militare? In quell’immagine, sfuggente, la canna da pesca del ragazzo è più alta di quella del padre e va a perdersi nella nebbia… Bechis: Il giorno che abbiamo girato quella scena c’era molto freddo, pioveva da giorni, ci muovevamo su dei tamburi di latta, e quelle sono le uniche scene che siamo riusciti a girare. Invece la battuta ipocrita “anche noi abbiamo sofferto” messa in bocca al padre era intenzionale, pensata. Vorrebbe raccontare come quel personaggio voglia ricomporre una normalità falsa. padre Bruno: L’accompagnamento musicale, queste percussioni rabbiose, sono l’anticipo del finale o sono il palpito interiore di rabbia dei due ragazzi. È un commento incisivo, non laterale. Bechis: Ci sono due commenti: quello più classico, che è dello stesso musicista di Garage Olimpo, e poi ci sono questi tamburi che anticipano il finale ma che anche sono posizionati come minaccia sui due presunti genitori e che continuano a nascondere la verità ai loro presunti figli. intervento 8: Che vita fanno i cento ragazzi che il regista ha nominato all’inizio? Bechis: Di questi cento solo quattro sono rimasti a vivere con i genitori che li hanno rapiti. Tutti gli altri, che sono 118 FIGLI/HIJOS stati “trovati” nell’arco degli ultimi dieci anni, hanno rotto con la famiglia d’adozione. Come mai? Io credo che in famiglie di questo tipo, nel quale è stato commesso un crimine primordiale su questi ragazzi, e dove si è mentito loro fin dall’inizio, non possa non essere filtrata la verità nell’animo dei ragazzi stessi. Credo che comunque la vita che questi ragazzi facevano prima fosse tormentata da qualcosa che non sapevano, abbastanza infelice. E che nel momento in cui sono entrati in contatto con la loro vera identità, si sono sentiti veramente liberati. intervento 9: Sullo sfondo della tragedia politica e sociale dell’Argentina, nel film è proprio molto ben colto il dramma adolescenziale di questi ragazzi, che non a caso adesso si muovono per trovare la propria identità. Per quanto riguarda il finale, anch’io l’ho letto come la salvezza del ragazzo. Si salva perché non è più solo, perché può condividere il suo dramma, prima con Rosa e poi con tutti gli altri. padre Bruno: Ho avuto la sensazione che la sceneggiatura, specialmente nel passaggio a Barcellona, fosse talvolta frammentaria. A lei non interessava per niente il percorso… Bechis: Mi interessava il fatto che se ne andassero da lì. Il viaggio è molto silenzioso, non si dicono niente, ma anche perché due che credono di essere fratelli e non si conoscono, sono in una situazione un po’ imbarazzante. Non potevo far durare il loro viaggio troppo a lungo nel totale silenzio. Normalmente i registi lottano coi produttori perché vogliono i film sempre più lunghi, mentre i produttori li vogliono accorciare. Io faccio il contrario. intervento 10: Ho trovato il film molto emozionante e volevo sapere se è prevista la distribuzione del film in Argentina. Qui in Italia ogni tanto leggiamo notizie sulla volontà di ridiscutere l’amnistia, e volevo capire se la società civile vuole parlare di quello che è stato fatto dai governi successivi alla dittatura, se ci sono i canali di comunicazione e la possibilità di farlo. Bechis: Il film uscirà in Argentina a maggio del 2002. Manco dal Paese da sei mesi quindi non ho un quadro molto chiaro di quello che sta succedendo, comunque credo che di certe cose si sia sempre parlato, ma in ambienti ristretti. Il concetto di solidarietà che noi conosciamo in Europa, è esistito poco negli ultimi decenni. I gruppi degli Hijos, delle Madres e delle nonne di Plaza de Mayo sono sparuti, le manifestazioni sono di cento persone e non di migliaia, come vorremmo. Perché negli ultimi quindici anni si è vissuti in una società dove l’economia ha venduto dei modelli culturali ispirati all’illusione di essere come in Europa, al consumo, che poi ha portato alla crisi attuale. Speriamo che la situazione cambi. padre Bruno: Da Garage Olimpo in poi, siamo abituati a sentir parlare dei crimini in Argentina. Ma oggi succedono anche altrove cose simili: torture, omicidi, sparizioni. Il merito di Bechis è di aver dato voce all’Argentina, ma restiamo in attesa che altri paesi facciano autocritica. Se il film è angosciante, è per dire che basta poco perché il potere si trasformi in sopruso. Bechis: Sono d’accordo. Anche se io ho sempre pensato che un film come Garage Olimpo e come questo li ho fatti pensando che dovessero raccontare anche tutte le altre storie. Ho deciso di girare Garage Olimpo dopo essere stato in Bosnia durante l’assedio di Sarajevo, quindi c’era molto dell’attualità di quel momento: per me i torturatori di quel campo di concentramento erano come i serbi che tiravano sui bambini e poi andavano a mangiare e a farsi una passeggiata. La decontestualizzazione dei miei film, il fatto che si accenna ad un’epoca ma non lo si approfondisce, dovrebbe dare l’impressione di vedere una storia purtroppo attuale. I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Ilario Boscolo - È un film denso, efficace, che commuove e lascia un segno. La tragedia dei desaparecidos con le sue infinite sofferenze e orrori umani si trasmette alla seconda generazione: si arriva all’acme con i figli (allevati amorevolmente) che scoprono di essere adottati dai carnefici dei loro veri genitori. Il regista è riuscito completamente a trasmettere la profondità della tragedia con il mezzo filmico: regia rigorosa, essenziale, mix equilibrato di profondi sentimenti umani (materni, di figlio e di fratelli) e altrettanto profonde sofferenze umane con primi piani insistiti, una scenografia scarna e dialoghi secchi e profondi in contrappunto a pochi momenti di alta dolcezza fraterna. La musica martellante nelle scene riferentisi ai carnefici e dolce nelle scene dell’incontro tra fratelli dà efficacia allo sviluppo del tema. I primi piani, le sequenze terribili del parto e della sparizione della madre, la vita tranquilla in villa con cani giocherelloni con i padroni e feroci con la ragazza e la colonna sonora sostituiscono efficacemente coro e disperazione della tragedia greca. Rosella Guarneri - Un capolavoro del non detto, che tanto più convince quanto meno si affida alle parole e privilegia la potenza espressiva delle immagini. Ma quando ci sono, le parole, sono vere, appassionate, spoglie di qualunque retorica: vere stilettate che vanno diritte al cuore! E i gesti, e l’indugiare della macchina da presa sui volti, soprattutto su quello fiero di Rosa (una figura che non dimenticheremo), e poi sulla pancia vuota e sinistra – per noi che abbiamo ancora vive nella mente le sequenze finali di Garage Olimpo – dell’aereo, che qui si sgrava di baldanzosi giovani paracadutisti, ma che altri corpi ci ricorda, scaraventati in mare. E i silenzi opprimenti e chiari come sentenze: la madre che tace al marito la provenienza della telefonata del figlio, conoscendo la vera natura dell’uomo che anni di benessere nella quiete ovattata di un lago italiano non possono aver cambiato e che esplode infatti in tutto il suo furore nella scena del bagno. Ci sono sequenze indimenticabili, dove non c’è la minima forzatura o nota stonata: soprattutto nel rapporto tra Javier e Rosa: quell’esplorarsi palmo palmo con pudico abbandono, quello spintonarsi rabbioso quando l’una non capisce o sollecita le reazioni dell’altro, quel ritrovarsi alla fine, fratelli non più carnali ma spiriFIGLI/HIJOS 119 tuali in mezzo a tanti hijos come loro, decisi a riappropriarsi delle loro storie e a rifiutare le menzogne nelle quali sono cresciuti. Tra le tante immagini anche tecnicamente perfette di cui è fatto il film (il volo col paracadute, per esempio), una in particolare vorrei ricordare per la sua dolorosa intensità: quella della partoriente che con l’aiuto dell’ostetrica sottrae un gemello ai lupi in attesa, e poi viene brutalmente prelevata dal lettino per essere portata al macello. Tutta la tragedia dei desaparecidos condensata in poche immagini. Gli attori sono scelti ottimamente: da Julia Sarano, splendida Rosa, a Enrique Piñeyro, vera epitome della crudeltà e del menzognero perbenismo dei militari argentini, per non parlare della Sandrelli che sa rendere ogni moto dell’animo con minimo dispendio di gesti, affidandosi spesso solo a lievi trasalimenti del volto. Angela Ceriotti - È un film coinvolgente, tragico, che dà un’emozione forte. Già da “subito” per l’accostamento delle immagini dell’acqua e degli aerei, che danno immediatamente una dimensione tragica che inizia a tritarti, strizzarti, sottolineata dalla musica dei tamburi che battono all’unisono con il cuore, suscitando una sensazione forte di minaccia e paura. Voce che stana e che urla dolore. Mario Piatti - Mi sono spesso chiesto se sia giusto giudicare questo tipo di film assieme ad altri che, pur essendo ugualmente validi, non possono provocare un coinvolgimento emotivo altrettanto profondo. Film come questo o Icento passi risvegliano i nostri ricordi, i nostri sentimenti, o, in qualche caso, risentimenti, condizionando inevitabilmente i nostri giudizi. Per questo mi sono sforzato di limitare la mia valutazione al valore del film in sè: si tratta di una pellicola essenziale, senza sbavature, con dialoghi ridotti al minimo che permettono alle immagini di esprimere sensazioni e situazioni meglio di qualsiasi parola. Il commento musicale accompagna l’evolversi della vicenda in un crescendo ritmato che culmina nel corteo finale di drammatica intensità. Il film è pieno di sequenze di grande efficacia: per tutte, la lama di luce che illumina progressivamente l’aereo, testimone impotente di lanci volontari e voluti. 120 FIGLI/HIJOS Vincenzo Novi - Il film è un’opera magistrale sull’esigenza della verità, condizione essenziale di serenità e di vita. Lo dice la storia di Javier, vittima ignara di una macchinazione oscura. L’incontro con la ragazza che vive lo stesso disagio gli dà la spinta per ricercare la causa del male che lo preme. È un fascio di luce che si dilata nella sofferenza e gli chiarisce l’orizzonte. Il lancio dall’aereo lungamente e inconsciamente eluso lo immerge nell’esperienza ultima della madre: un abbraccio nell’aria che segna una nuova nascita e il ritrovamento delle sorgenti del coraggio. Il film rivela lo spessore dell’ispirazione di Bechis. Un impegno di stile e di qualità artistica a cui è andato il plauso della platea. Piergiovanna Bruni - Un film emozionante nella sua realtà, con una musica martellante, come le pulsazioni e i battiti del cuore nei momenti culminanti delle vicende tragiche, che si susseguono con ritmo avvincente. Una delicata denuncia sugli apropriados che ci comunica le loro emozioni e la loro disperazione dinanzi a un bivio inaspettato della loro vita. E quello che più colpisce è che in questi “genitori abietti” non vi è senso di colpa, la consapevolezza di aver sbagliato e perciò l’intenzione di chiedere perdono, nemmeno negli sguardi. Perciò è giusto che il mondo sappia perché si tenti di far luce su questo periodo tormentato della storia argentina. Si sente la partecipazione emotiva del regista, che ci ha dato immagini che non hanno bisogno di parole. OTTIMO Melania Galliazzo - Con Figli Marco Bechis conferma la sua straordinaria abilità a narrare. Ci ripropone il racconto di una generazione di vittime e carnefici, attraverso i figli dei desaparecidos adottati in modo improprio. Questo film, pur non rivelando nulla di nuovo, regala un desiderio di giustizia, una ventata di trascinante passione per i diritti civili inducendoci emotivamente, ma sulla scia della consapevolezza, a un maggiore impegno sociale. Rosa dimostra una forza e una determinazione propria delle donne, e solamente quando sco- pre la mancanza di un legame parentale con Javier cede allo scoramento, ma si ha l’impressione che ben presto ricomincerà a investigare sulle proprie origini. Javier, più labile, quando consapevole della propria identità, elabora una sorta di morte civile per riuscire a impegnarsi con i compagni di sventura, forse per non sapere o volere affrontare una lacerazione profonda con il passato (una fuga?). Storie agghiaccianti eppur vere, caratterizzate da travagli e inquietudini di una tale violenza da lasciare tracce indelebili e profonde nei giovani che ne sono protagonisti. Bechis nel suo film riesce a descrivere tali “schizofrenie” con estrema raffinatezza e delicatezza. Si ha la sensazione che alcune soglie intime siano superate non dalla narrazione verbale, ma grazie alle pause e ai silenzi. Brandelli di tempo meditativi non-verbali oggi dimenticati, dato che la non-verbalità ha assunto significato di vuoto, e il vuoto di inefficienza, e l’inefficienza di inclinazione avariata. Emozioni e sentimenti ci sembrano veri solo quando resi visibili dalla loro verbalizzazione il più delle volte stentata e banale, di poco spessore e scevra da riflessioni personali. I “silenzi abitativi” permettono una rielaborazione delle emozioni. E quelle dei due giovani, in questo film, vengono raccontate attraverso le immagini: la solitudine della camera della pensione, il mare grigio dell’inverno, la pioggia, la carlinga vuota trafitta dalla luce del sole. Come se la macchina da presa, avvolta da un velo di privatezza, non volesse perforare l’intimità, ma la proiettasse all’esterno e lasciasse allo spettatore il compito di verbalizzare interiormente il tumulto sentimentale degli stati d’animo dei protagonisti per appropriarsene. Sicché‚ per descrivere l’assenza di dialogo dei due genitori adottivi, abbiamo le inquadrature degli asettici interni della villa, dell’albergo di Barcellona – significativo il muro divisorio tra le due stanze – e soprattutto della pioggia battente che sottolinea i momenti drammatici. Anche quelli suggestivi dell’ultima scena. Casualità. Forse. Eppure acquista un profondo significato. La pioggia, il cielo plumbeo e il sottofondo sonoro sottolineano l’inquietudine di questi strani orfani. Bechis racconta atrocità e miserie con tenerezza non comune, che ci permette di assaporare il coraggio di chi sa ancora indignarsi e desidera continuare a sapere pensare. Cristina Bruni - Difficilmente potrebbe immaginarsi una situazione più angosciante di quella rappresentata da Bechis in questo film. I figli dei desaparecidos sono comunque destinati a vivere la propria esistenza con grande sofferenza, sia che scelgano l’arduo cammino verso la ricerca della verità, poiché essa tanto dolorosa li porta a scoprire di aver vissuto la loro adolescenza con i carnefici dei loro veri genitori, sia che preferiscano rinnegare le proprie origini e continuare a vivere con la famiglia adottiva, perché in questo caso rimarrà loro l’onta di non avere quanto meno simbolicamente vendicato i veri genitori morti innocenti. Un dilemma che attanaglia lo spettatore e lo porta a immedesimarsi con i protagonisti e a interrogarsi su come è possibile che in un passato tanto recente e in un paese ritenuto civile siano potute accadere simili sciagure. Splendida la scena finale: il lancio con il paracadute, emozione estrema ma anche soluzione filmica che catapulta il protagonista nei cortei argentini, unica arma di fronte all’indifferenza dell’opinione pubblica, reiterazione di un lamento generazionale che è anche nuova vita per il protagonista. Rosa Luigia Malaspina - Film bellissimo, che riesce a tenere alto il livello di tensione e di emozione per tutta la durata. Immediato - si sente che viene dal cuore, dalla pancia, dal sentire del regista circa i problemi della mancanza di democrazia, di rispetto, di amore per l’altro, della fame di potere che porta all’annebbiamento del cervello e del cuore. Angelamaria Fossati - Ho apprezzato i silenzi di questo film; alcuni passi appena accennati senza concessione alla retorica o all’ovvietà, e, naturalmente, tutta l’impostazione del film. Un’opera magistrale. Michele Zaurino - Film sulla solitudine disperata di chi ha perso i riferimenti fin dalla nascita con la perdita dei genitori, soppressi da un regime militare incapace di ammettere qualsiasi opposizione. I dialoghi sono essenziali e ogni inquadratura di ambienti spesso desolatamente “svuotati” ha una funzione narrativa. L’incalzare delle percussioni ci conduce al finale in cui Javier, paracadutista acrobatico, dopo FIGLI/HIJOS 121 un lancio simbolicamente suicida, rinasce con una nuova personalità e marcia non più “solo”, con migliaia di altri ragazzi che manifestano contro le passate nefandezze di quel regime e le attuali connivenze politiche, anche internazionali. Finalmente un regista italiano che è capace di unire denuncia sociale, introspezione psicologica e sentimenti senza annoiare e con uno stile personale. BUONO Caterina Parmigiani - Potrebbe intitolarsi anche Il coraggio delle donne perché è la tenace forza femminile che muove la vicenda. Coraggiosa la madre che chiede all’ostetrica di nascondere la neonata per sottrarla a una turpe adozione; coraggiosa l’ostetrica che salva Rosa e che poi con delicatezza ma sincerità le racconterà la drammatica vicenda della sua nascita; coraggiosa Rosa che con ostinazione cerca il suo gemello, che con audacia affronta i coniugi Ramos e che con l’angoscia nel cuore ma con un forte senso di coerenza morale racconta a Javier le efferate violenze del regime e in particolare quelle di suo padre. Unica donna debole e fragile è la madre adottiva che riscatta con l’amore per il figlio l’infame scelleratezza che le ha permesso di diventare genitrice. Il film pregevole per la denuncia dei crimini della dittatura, ben recitato dagli attori, ha una caduta di tono nella frammentarietà di alcune sequenze e nel finale di ambigua lettura. Vittoriangela Bisogni - L’angolo di luce che progressivamente invade l’abitacolo dell’aereo da lancio è l’immagine che mi è rimasta più impressa e che giudico preziosa e significativa. La luce contro l’opacità del conformismo e dell’opportunismo. Pierfranco Steffenini - Difficile evitare il confronto con Garage Olimpo. Quasi impossibile dimenticare certe immagini potenti di quel capolavoro, in particolare l’ultima sequenza, atroce e rivelatrice. Forse l’unico limite del film è di far seguito all’altro e proprio il confronto può nuocergli. In qualche sequenza sembra emergere più il ricercato che lo spontaneo. Mi riferisco per esempio alla scena in cui i due fratelli studia122 FIGLI/HIJOS no le loro sembianze corporee alla ricerca di conferme di identità. Direi che Bechis è un regista di razza, ma bisogna attenderlo ad altre prove, possibilmente su temi diversi. DISCRETO Luisa Alberini - Già il titolo ci pone davanti alla continua ricerca che è il soggetto di questo film: chi sono questi ragazzi? Qual è la loro identità? Più stranieri o essenzialmente argentini? Domande a cui è chiamato a rispondere ognuno di noi. La storia è nella premessa di una tragedia che viene solo accennata. Le parole non aggiungono molto: quelle della ragazza si ripetono con rabbia, quelle della madre sono cariche di paura e di amore, quelle del figlio nascondono soprattutto confusione. Le immagini oscillano tra scorci di grande bellezza e primi piani di volti che non suscitano emozioni. Un film che lascia insomma troppe domande aperte. Alessandra Cantù - Malgrado il soggetto buono e le brave attrici (scarsi gli uomini), il film non avvince. C’è molta tensione emotiva, molte imprecisioni che rendono il film poco coerente: il risultato è un’opera scura, volutamente serale, non riuscita. Bona Schmid - Solo Arthur Koestler in Buio a mezzogiorno è riuscito a rendere altrettanto bene tutto l’orrore occulto delle carceri staliniane. Figli è un’opera cinematografica di grande stile e di compiaciuta abilità nel dominare il mezzo cinematografico, ma il pathos vibrante del film precedente è del tutto assente. Il taglio ellittico della sceneggiatura e i dialoghi essenziali rendono i personaggi sfuocati in una generica identità, in ruoli predeterminati. le molte zone d’ombra del tessuto narrativo vengono ulteriormente messe in discussione da un finale, con morte e trasfigurazione, abbastanza inaccettabile. MEDIOCRE Simonetta Testero - Film lento, spezzettato, poco coinvolgente nonostante la vicenda umana sia terribile. Figure appena accennate i genitori che avrebbero dovuto invece avere più spazio. Gocce d’acqua su pietre roventi titolo originale: Gouttes d’eau sur pierres brûlantes CAST&CREDITS regia e adattamento: François Ozon, dalla pièce Tröpfen auf heisse Steine di Rainer Werner Fassbinder (Francia, 2000) fotografia: Jeanne Lapoirie montaggio: Laurence Bawedin scenografia: Arnaud de Moléron interpreti: Bernard Giraudeau (Léopold), Malik Zidi (Franz), Ludivine Sagnier (Anna), Anna Thompson (Vera) durata: 1h30’ distribuzione: Key Films IL REGISTA François Ozon è nato il 15 novembre 1967 a Parigi. Dopo una lunga gavetta di cortometraggi, approda al primo lungo con Sitcom (1998), una satira familiare. Il suo secondo film, Les amants criminels (1999) viene snobbato dalla critica, che aveva incensato il film d’esordio. Gocce d’acqua su pietre roventi, tratto da un testo teatrale giovanile di Rainer Werner Fassbinder, è il suo terzo film, ma è stato distribuito in Italia solo dopo l’uscita di Sotto la sabbia (2001). Ozon, candidato all’Orso d’oro, ha poi vinto il Teddy Bear al festival di Berlino del 2000, mentre Malik Zidi è stato premiato nel 2001 con il César al miglior attore emergente. Ha poi realizzato Otto donne. IL FILM Non fatevi trarre in inganno dalle immagini “turistiche” di città tedesche sui titoli di testa: sono un collage di città diverse e compongono una Germania ideale e immaginaria, esattamente come quella ricreata dal francese François Ozon in questo Gocce d'acqua su pietre roventi. Film francesissimo, ma ispirato a un testo teatrale tedesco Rainer Wemer Fassbinder scrisse a 19 anni e non mise mai in scena. Fassbinder era un artista talmente bulimico e generoso che poteva “regalare” idee a tutti: a decenni di distanza, il giovane François Ozon (classe 1967) vi ha ritrovato «esattamente ciò che cercavo, un’analisi del potere all’interno dei rapporti amorosi, scritta con una precisione e una consapevolezza in tutto degne di un adulto». […] Tra i molti film di Fassbinder sul tema, Gocce d'acqua ricorda soprattutto Il diritto del più forte. Naturalmente, l’origine teatrale lo rende verboso e daustrofobico, ma è la chiave stilistica che Ozon sceglie consapevolmente: a parte le immagini iniziali, volutamente da cartolina, e le ironiche musichette tirolesi, la Germania non fa mai capolino in un dramma da camera (in tedesco: Kammerspiel) che potrebbe svolgersi ovunque. La fotografia di Jeanne Lapoirie esplora l’appartamento di Leopold con grande sapienza figurativa, Bernard Giraudeau e il giovane Malik Zidi sono molto bravi: il film è incredibilmente sofisticato, soprattutto considerando la giovane età del regista – che non sarà un teen-ager come Fassbinder all’epoca in cui scrisse il testo, ma ha girato Gocce d’acqua nel ’99, a 32 anni. Forse, fin troppo presto. Il film era in concorso a GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI 123 8 Berlino due anni fa: successivamente Ozon ha girato Sotto la sabbia, decisamente inferiore. (ALBERTO CRESPI, L’Unità, 9 novembre 2001) LA STORIA Primo atto. E ormai sera quando Franz, poco più di un ragazzo, varca la soglia dell’appartamento di Léopold, uomo maturo. Si siede sul divano. Léopold va in cucina, prende due bicchieri e poi accende lo stereo. Il ragazzo, molto teso, dice: «veramente non so perché sono venuto. Avevo già un appuntamento. Quanti anni hai?». «Quanti me me dai?». «Cinquanta». E un lungo interrogatorio quello che segue. Il primo a voler sapere tutto dell’altro è Leopold, e Franz non si sottrae alle domande che a sua volta rivolge con la stesa chiarezza. Franz racconta di essere atteso da Anna, la ragazza che intende sposare e a cui è legato da più di tre anni, anche se tra loro l’amore è ormai diventato abitudine. Poi dice di dare importanza ai libri, al teatro, all’arte; che vive da solo, figlio di genitori che si sono separati presto, è molto affezionato alla madre. Leopold dice di aver vissuto per sette anni con una donna, con la quale però c’è stato soprattutto sesso: «se parlavamo, cominciavamo a litigare subito». Ma a Leopold quelle risposte non bastano, vuole sapere di più di quel ragazzo da cui è stato immediatamente attratto, e gli chiede se non sia mai stato a letto con un uomo. Poi gli racconta le sue prime esperienze. Franz, anche un po’ confuso dall’alcol, cede al suo corteggiamento. E passano in camera. Secondo atto. Franz è ormai a suo agio a casa di Léopold, e ne attende con impazienza il ritorno dai viaggi di lavoro. Leopold rientra stanco e nervoso. Tutto sembra contrariarlo. Con il ragazzo si dimostra sempre più esigente. Per consolarlo gli dice però che tra di loro un’intesa sessuale che va sempre molto bene. A Franz basta, il suo ruolo in casa è quello di pulirla e tenerla in ordine. E nei momenti di tristezza, quello di 124 GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI ascoltare le confessioni di Léopold, e di aiutarlo a dimenticare nel solo modo che condividono. Sono trascorsi sei mesi dal loro primo incontro. Terzo atto. L’insofferenza di Léopold nei confronti di Franz è ormai al limite della sopportazione. Qualunque cosa il ragazzo dica non va bene, qualunque cosa faccia, è sbagliata. Stanco dell’ennesimo rimprovero, Franz se ne va. Leopold capisce che sta facendo sul serio, e prova a fermarlo. Ma Franz sembra determinato. Ripone le sue poche cose in una valigia, apre la porta e pochi secondi dopo è di nuovo di fronte a Léopold, quasi a chiedergli di essere trattenuto. L’altro si limita a dirgli che tutto il suo tempo lo dedica a al lavoro, e gli ricorda che in fondo potrebbe fare anche lui qualcosa per guadagnare un po’ di più. Ed è una proposta umiliante. Poi suona il telefono, è Anna. Ha bisogno di vedere Franz. Leopold riparte, come fa sempre il lunedì, senza dire quando ritornerà. Anna trova Franz in lacrime e lo raccoglie tra le braccia. Ma lui le dice subito che tra loro non c’è più niente. Spiega di aver conosciuto qualcosa che poteva chiamare felicità, ma che le cose poi sono cambiate. «Io amo Leopold, non ho altro da dirti». Lei prova a spiegargli di aver incontrato un uomo che intende sposarla, ma di non poterlo fare perché è innamorata di lui. E poi gli ricorda i progetti, i sogni fatti insieme, i bambini a cui avevano pensato. Lui si lascia andare, e fanno l’amore. Quarto atto. Anna ha convinto Franz ad abbandonare quell’appartamento e seguirla, ma a sorpresa rientra Leopold, che si avvicina ad Anna con parole piene di lusinghe. E tutto precipita nella situazione precedente. A non lasciare più via d’uscita a Franza arriva anche Vera, un transessuale, con cui Leopold aveva diviso una lunga storia e che adesso racconta di esrrsere stata lasciata dall’uomo che aveva vicino, dopo dieci anni. leopold è riuscito a tessere intorno a sé in pochi minuti una rete a cui non può sfuggire più nessuno, e spinge il suo gioco fino in fondo. Propone un’orgia, e il gioco diventa massacro. Franz, che non ha nascosto ad Anna di esssere innamorato davvero di Leopold, non regge a quel tradimento e prende delle pillole per morire. Poi chiama al telefono la madre e l’avverte che è troppo tardi perché lei possa soccorrerlo. Muore tra l’incredulità e l’indifferenza, lasciato solo proprio da chi aveva amato di più. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA «L’amore è più forte della morte»: così si legge sulla copertina d’un libro nella cui lettura è immerso Franz. Il suo rapporto con Léopold dura da sei mesi. Il diciannovenne ha assunto un ruolo subordinato, domestico e stanziale. Il cinquantenne ne tiene saldamente in pugno uno dominante. Siamo al secondo “atto” di Gocce d’acqua su pietre roventi. Nel primo, Léopold ha sedotto Franz. Alla lettera, lo ha conquistato: se ne è fatto padrone. Ora, innamorato di lui, Franz trova identità e felicità in quanto immagina e sogna d’essere riamato. Non è però una storia d’amore, o non lo è solo, quella raccontata da François Ozon. […] il regista francese racconta non tanto meccanismi dell’eros quanto meccanismi di dominio. Se si vuole: esplora il potere che è “a disposizione” nel desiderio […]. Di quale desiderio poi si tratti è evidente fin dalle prime inquadrature di Gocce d’acqua su pietre roventi. Il gioco di seduzione tra Léopold e Franz è squilibrato: da un lato c’è un’identità insicura e tuttavia aperta, pronta a cogliere la vita. Dall’altro ci sono, o sembrano esserci, una maturità e un’identità certe. Il primo desiderio, quello di Franz, è appunto “a disposizione” di chi sappia indicargli un modello, di chi sappia presentarsi egli stesso come modello. Il secondo, quello di Léopold, è – o sembra essere – compiutamente formato, definito in sé. Detto altrimenti: Franz desidera essere amato, desidera essere riconosciuto dall’amante come soggetto (amato), e in questo riconoscimento trova un’immagine di sé, un’identità non solo sessuale. Al contrario, Léopold orienta il proprio desiderio direttamente all’oggetto, esprime se stesso e la propria potenza seducendo, conquistando. Si direbbe appunto che non desideri esser riconosciuto come soggetto, e che solo desideri possedere. Ma così non è. Anche Léopold cerca in Franz, come in uno specchio, un’immagine di sé. Anche il suo desiderio tende all’altro per esserne riconosciuto. Solo che lo fa come se così non fosse. Il desiderio di Franz è ingenuo e aperto, non preoccupato di nascondere la propria debolezza. Quello di Léopold si nasconde, si finge e si mente per quel che non è. È insicuro, Léopold, lo è tanto da cercare conferma agli occhi d’un ragazzino. A Franz, appunto, l’uomo “maturo” magnifica la propria casa, la cui eleganza, assicura, è tutta opera sua (e poco conta che si tratti solo di una misera ricercatezza). A Franz, ancora, chiede conferma della propria immagine fisica. «Quanti anni ho?», gli domanda, e la sua risposta terribilmente esatta lo fa precipitare in uno scoramento patetico. Dopo aver conquistato (appunto) Franz, Léopold ha però ancora bisogno di riconoscimento. Così si spiega il piacere cinico con cui tormenta il suo amante. Non lo possiede veramente se non umiliandolo. La sua sconfitta, la sua morte morale iterata e “amministrata” nella quotidianità, è la misura del proprio trionfo. Così fa, sempre, il potente: amministra la morte dell’altro per sentirsi vivo. E in questo approfitta del desiderio dell’altro, del suo bisogno di specchiarsi in una (immaginata, sognata) autorità. Nella seconda metà del film, soprattutto nel quarto “atto”, tutto questo viene moltiplicato, ripetuto in altri due rapporti: con l’eterosessuale Anna e con la transessuale Vera. Nel chiuso della sua casa [...] Léopold è guidato, a sua volta posseduto da una passione: deve accumulare morti (morali) per sentirsi se stesso. Lo deve fare indefinitamente, senza limiti, ogni volta andando oltre, alla ricerca di un nuovo desiderio in cui specchiarsi umiliandolo. La misura del suo proprio desiderio, un desiderio che si finge e si mette per quello che non è, è infatti la dismisura. Attorno a esso, nella sua chiusura ossessiva, niente più resta davvero vivo. Ed è per questo che Franz [...] sceglie [...] di sottrarre la forza del suo vivo amore alla sterilità funerea del dominio. Almeno in questo, l’amore – la sua ingenua apertura all’altro che sappia restare fedele a se stessa – è più forte della morte. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2001) GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI 125 “L’amore non esiste. Esiste solo la possibilità dell’amore”. Sembra una frase da cioccolatino. E, probabilmente, quelli dei cioccolatini ci hanno già pensato a chiuderla dentro a un pezzo di stagnola. Comunque, c’è di più dietro a questo pensiero di speranzoso pessimismo fassbinderiano: più o meno – in mezzo a queste parole – c’è tutto Gocce d’acqua su pietre roventi. […] Se Fassbinder aveva scritto questa sofistica commedia sul dramma dei rapporti umani a soli diciannove anni, il regista Francois Ozon non è da meno: ha girato Gocce d’acqua su pietre roventi nel 1999, prima di Sotto la sabbia […], quando aveva soli trentadue anni. Pochi davvero, per aver masticato il rigore teorico, geometrico, fortemente teatrale di Fassbinder, fino a farne cinema. C’è riuscito innanzitutto chiudendo il mondo in un appartamento. Di più: un appartamento tedesco degli anni Settanta, con la carta da parati a stampe modulari, i divanetti arancione e la moquette ocra; un appartamento assurdo e minimale, dove la fredda sovrastruttura sociale della coppia entra facilmente in corto circuito, guardandosi nei giganteschi specchi o ballando un improbabile disco samba teutonica nel salotto. [Ma forse Fassbinder non avrebbe scelto lo stesso arredatore di Ozon, più ironico e portato a sdrammatizzare il pessimismo dell’autore tedesco…]. Inoltre Ozon rende omaggio alla rigida lucidità dell’opera di Fassbinder, creando un vero e proprio “cinema da camera”: un ossessivo uso delle inquadrature frontali, fissità della macchina da presa e una costruita lentezza d’azione fa di Gocce d’acqua su pietre roventi un film elegantemente distaccato, “disturbato” solo – e qui viene fuori un grande omaggio all’assurdo di Fassbinder! – dai protagonisti che guardano dritti in camera mentre ballano la samba tedesca. In direzione della teatralizzazione del cinema, Ozon divide il suo racconto in atti (una scelta, questa, che non sembra avere altra funzione se non quella di sottolineare quello che già è perfettamente espresso dalla messinscena, e che finisce dunque per apparire un po’ manierista). (GIOVANNI ROBERTINI, Itinerari mediali 1/2002, gennaio/febbraio 2002, pp. 40-42) non si è limitato a rendergli omaggio: ha addirittura affrontato, quasi come fosse un esorcismo stilistico, una mimesi con l’iconografia (l’ambientazione che evoca la Germania degli anni Settanta), le forme predilette di rappresentazione (gli interni claustrofobici) e i leitmotiv (l’amore come sopraffazione sadomasochistica) del cinema fassbinderiano, rileggendo la pièce alla luce di film come Martha e Il diritto del più forte, trovando nell’ottimo Bernard Giraudeau (un attore che in Francia ha legato il suo nome, oltre che a film d’autore, anche a personaggi di eroi d’azione, come Les spécialistes di Leconte) un equivalente francese di Karlheinz Böhm, che era stato strappato da Fassbinder all’immagine idealizzata del principe azzurro della serie di Sissi. Gocce d’acqua su pietre roventi è la storia di un plagio di un “vampiro” (Leopold) sulla carne e lo spirito delle sue vittime […]. Accentuando la differenza d’età tra i due personaggi maschili rispetto al testo del grande cineasta tedesco (dove Leopold aveva solo trentacinque anni) Ozon ha sottolineato il trionfo contronatura ottenuto da una “vecchiaia” coriacea sulla pelle di una fragile giovinezza, le cui pulsioni omoerotiche sono state rivelate, dal limbo onirico in cui giacevano, proprio dall’intervento seduttivo del “vampiro”. E la qualità dell’umorismo a segnare una distanza tra Fassbinder e il calco manierista di Ozon: l’humour dell’autore di Satansbraten cadeva plumbeo e greve, aveva un’eco così atroce da inibire qualsisasi ilarità, un suono così sinistro che la tragedia dei perdenti fassbinderiani usciva raddoppiata dall’inevitabile contrappunto umoristico della loro disfatta. In Ozon, invece, il sarcasmo assume forme spregiudicate e vivaci, adombra un’identificazione sadica più con il carnefice che con la vittima, mentre la disperazione dilegua dietro una divertita morbosità. (ROBERTO CHIESI, Segnocinema 109, maggio/giugno 2001, p. 54). I COMMENTI DEL PUBBLICO OTTIMO Ozon ammira Fassbinder, il suo cinema e la sua frenesia creativa ma, adattando una pièce scritta da questi a diciannove anni, 126 GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI Anna Colnaghi - Film assolutamente inquietante. Ozon ben interpretando Fassbinder descrive in un micromondo chiuso in un appartamento ciò che spesso avviene su larga scala nel grande mondo. Qui un personaggio senza particolari qualità ma determinato, riesce con metodi sottili alternati a comportamenti isterici a plagiare, strumento l’erotismo, persone la cui cifra comune è una fragile identità. Stupisce l’annullamento del giovane Franz e di Vera perché, non stupidi, capaci di amore e di umanità, esistono se il diabolico Léopold li fa esistere. Cosa manca loro per poter vibrare ed essere “felici” senza divenire oggetto? La giovane Anna sembra solo desiderosa di stordimento, meno vittima perché forse meno capace di emozioni. Comunque anche lei si lascia attrarre da un uomo quasi ridicolo per la sua pochezza umana. Nel grande mondo, uomini da poco, ridicoli visti oggettivamente, salgono su un podio o un balcone e con il potere seducono folle pronte a ondeggiare, marciare, cantare. Allora, felicità per molti è mettersi a disposizione del desiderio spesso nevrotico di pochi. Non esiste quindi l’altro mondo che Vera pensa sia oltre il vetro della finestra. La sola via d’uscita è forse la fatica personale di crescere, formare il proprio nucleo pensante per non subire le seduzioni più varie. Questa possibilità il regista non ce la mostra: coerente con Fassbinder, conclude con la morte vera come soluzione alla morte morale. portamento istericamente dominatore (la pietra rovente) che trae anche profitto dalla sua opera di malvagia seduzione. L’ambiente cupo e claustrofobico, da cui non c’è scampo una volta entratici (come la tela di un ragno) è la degna cornice di una fine resa ancora più tragicamente squallida dall’indifferenza che la circonda. Più teatro che cinema, l’opera si sostiene su un’attenta regia e soprattutto sulla bravura degli interpreti, in particolare il giovane dagli occhi dolci fortemente espressivi. Film molto amaro su una realtà che, purtroppo, dilaga sempre di più. Paolo Cipelletti - Attraversa tutto il film una presenza diabolica, che muove le vittime del protagonista prevaricatore come marionette (quello splendido balletto a quattro!), che si impone sulla loro vuotaggine, che soffoca ogni barlume di umanità, sullo sfondo di un ambiente gelido e claustrofobico. E alla fine conduce alla fine disperata il più umano di loro e distrugge la vita rassegnata degli altri. È un ottimo esempio di efficace utilizzo dei mezzi espressivi del cinema e del teatro. BUONO Luciana Biondi - Storia tragica dell’“incontro” tra una personalità non ancora ben definita, curiosa degli aspetti della vita, sotto certi aspetti ancora innocente per la giovane età (la goccia d’acqua) e un adulto ambiguo e corrotto dal com- Silvia Tavecchio - Il film è girato in modo impeccabile, dalla fotografia alla recitazione alla regia. Ho sempre seguito i film di Fassbinder e mi rammarico del fatto che sia morto prematuramente, perché avrebbe potuto donarci altri capolavori. Non ho letto in questo film messaggi riferiti all’aspetto “politico” del potere, come hanno visto altri. Ritengo invece che si parli della forte volontà del possesso dell’uno sull’altro, specie per quanto riguarda l’affetto e l’amore. Il dominio, così come espresso in questa sceneggiatura, mostra il suo volto totalmente dedicato al male, alla sicurezza che il malvagio cerca come sostentamento alla sua debolezza, per credersi potente. Lucia Fossati - Film disturbante perché riesce a svelare le pulsioni che si nascondono nell’animo delle persone dall’apparenza più comune. Il regista, con inquadrature fin troppo ricercate, costruisce un gioco di specchi nel quale ogni spettatore può riconoscersi, almeno in qualche particolare, e una gabbia di attrazione-repulsione dalla quale è impossibile sfuggire se non soccombendo. Proprio per la sua sgradevolezza è un film pienamente riuscito. Piergiovanna Bruni - Un repertorio completo sull’inquietudine e la vergogna umana. E un piccolo capolavoro di psicologia sessuale dove l’asservimento al male è la metafora GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI 127 della debolezza dimostrata dal popolo tedesco nei confronti del Nazismo. Le pareti di una stanza nascondono le intimità scandalose di individui trascinati da perversioni maniacali, inevitabilmente fino al punto del non ritorno. L’angoscia umana, la cecità dei sentimenti descritta dal giovanissimo Fassbinder non trovano riscatto se non nel suicidio. La musica dallo struggente tono mitteleuropeo e la stanza, irrecusabile simbolo di chiusura mentale, sono due elementi che sottolineano la metafora della “malattia morale” e della gregarietà di un popolo asservito. Rosa Luigia Malaspina - Difficile, impossibile amare l’altro per quello che è, lasciandolo libero e rimanendo liberi. Questo film ci prospetta tipici rapporti difficili, di dipendenza, sofferti fino all’estrema conclusione. Personaggi che sembrano muoversi in un girone infernale cieco. Ugo Pedaci - Al di là della scabrosità del racconto, indubbiamente pesante e difficile, ho trovato questo film interesante, direi intellettualmente affascinante. Ci dà molto da pensare e ci fa riflettere sui casi della vita, sulla natura dell’essere umano e sui comportamenti. Un’opera allegorica, nella quale il racconto, storia di sesso e di omosessualità, passa in secondo piano per farci aprire a considerazioni sul comportamento individuale delle persone, sul rapporto dominatore-dominato, sulla prevaricazione, sulle dipendenze. Carla Veronesi Righi - Film piuttosto scabroso ma non privo di interesse. Superato il disgusto per la situazione, generano orrore la malvagità e l’egoismo dell’uomo adulto e il morboso fascino che esercita su uomini e donne. DISCRETO Antonella Spinelli - Manca l’aria, come alla fine a Vera. Dramma opprimente con i protagonisti che giocano in trappola, che recitano, che ruotano intorno a Léopold come in un carillon. Carattere dominante, oppressivo, che esiste soltanto al momento della conquista: del potere. Non è vero amore, se non il dramma della perdita dell’amore, del lutto per la perdita, del mancato riconoscimento dell’identità del soggetto che si perde. Sono tutti creature di Léopold. Sono immagini frammentate, prigionieri di qualcosa (non a caso ci sono tanti specchi!). Vincenzo Novi - Gocce d’acqua su pietre roventi, un titolo quanto mai azzeccato, è una vicenda di prevaricazione e di plagio, ma anche di fragilità disperata. L’eclissi della madre segna l’inizio della vita del giovane. Il suo rifiuto di ascolto è forse il veleno che la chiude. Un gesto d’amore (l’unico?), lo riceve dalla donna che china su di lui, rinuncia a impossessarsi del mantello. Una protezione tardiva che si accompagna alla speranza di raggiungere il cielo. La confezione raffinata del film esalta in modo paradossale lo squallore di una vicenda oscura, che si chiude con la speranza sognata di un riscatto ultraterreno. Il resto è silenzio. 128 GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI Franca Sicuri - In un’atmosfera quasi insostenibile, data da una figura dominante e altre figure dominate, si sviluppa una storia sempre più tragica che porta la più fragile di queste alla totale dipendenza, all’annientamento di sé e infine alla sua morte fisica per suicidio. Mi ha disturbato proprio vedere la perversione di questo malinteso rapporto d’amore. Ovvero bisogno di possesso da una parte e ingenua illusione dall’altra, proposto con dovizia di dettagli anche crudeli. Caterina Parmigiani - Come le gocce d’acqua su pietre roventi evaporano, così l’innocenza a contatto con la dissolutezza svanisce e crea il vuoto nell’anima e nel cuore. Un titolo suggestivo per una squallida storia di sesso e di sopraffazione, con uno scontato epilogo di morte. Il regista, pur dando prova di grande capacità nelle studiate inquadrature, non supera il freddo intellettualismo. Cristina Bruni - Il film è molto ben recitato, e abbastanza manifesto il suo significato simbolico: la manipolazione dell’individuo e la sua finale reificazione attuata attraverso la gestione del potere. Il male ha tanti aspetti, tuttavia, non solo quello rappresentato dalle perversioni sessuali. Lidia Giglio - Piuttosto scostanti i personaggi, almeno per chi non riesce ad adeguarsi al loro modo di pensare e di vivere. Disorientano, nel contesto, parole come amore, fedeltà, umanità. Non si può d’altra parte non cogliere i meriti del regista, che con fotografia, dialoghi, ambientazione, ha saputo avvicinarsi a questa realtà, cogliendone anche l’atmosfera opprimente. Peter Bachschmid - Lo ritengo un film moralmente pericoloso, perché lo squallore di questo rapporto a due, poi allargato a quattro, viene rappresentato con una forza (la fotografia) splendida, e fa passare come normali questi rapporti deviati. Ci sono scene molto belle, come il balletto a queatrro, ma c’à un vuoto terribile. Cinzia Maggioni - La prevaricazione di alcuni individui nel rapporto di coppia, indipendentemente dal fatto che si tratti di uomo o donna. MEDIOCRE M. Luisa Felcher - Non riesco a trovare in questo film valori che possano servire alla partecipazione al premio S. Fedele. Argomento discutibile, scene non particolarmente oscene ma quasi. La mancanza di amore a ogni livello come se il sesso, fine a se stesso, non fosse neppure una possibilità di fuga dalla realtà. Solo l’interpretazione è abbastanza valida. Tutto il resto rende il giudizio mediocre. E comunque un film che non rivedrei mai e non consiglierei. Grazia Agostoni - Film squallido, veramente orribile: al di là del significato metaforico e della bravura del regista e – forse – della sua volontà di suscitare la condanna morale nello spettatore per il non-amore e per il potere fascinatore e sadico, il film non mi è piaciuto, mi è parso un gran povero film. Non bastano colori, musica, taglio della fotografia, ricostruzione dell’opera di Fassbinder e/o recitazione. Posso solo cogliere la tristezza del nulla che porta – appunto – al suicidio. INSUFFICIENTE Vittoriangela Bisogni - I quattro protagonisti non hanno problemi di comportamento sessuale, trascorrendo con naturalezza da un ruolo all’altro. Quindi la chiave drammatica del lavoro di Fassbinder sta nel personaggio del burattinaio, che si impadronisce delle coscienze e delle vite di chi cede al suo fascino. Ma proprio questa è l’inconsistenza del film (e del testo?): questo individuo non ha spessore, non “esce”, non è credibile, è un pomicione inespressivo. E allora il mondo che ruota intorno a lui perde significato e si limita alle apparenze esteriori: rapporti erotici che relegano lo spettatore al ruolo di voyeur annoiato. Bruna Teli - Film claustrofobico non solo perché si svolge tutto all’interno di un appartamento, ma anche perché Léo tiene prigionieri Franz e gli altri intendendo l’amore non come donazione, ma come dominio dell’altro. Ben presto si delinea un rapporto tra carnefice e vittima che genera un dramma culminante nel suicidio di Franz, di cui sembra aver pietà solo Vera, un transessuale pure lui vittima di Léo. Il regista rappresenta la scabrosa vicenda con un realismo esasperato, senza dare giudizi morali, ma i personaggi si condannano da sé, pur suscitando anche un po’ di pietà. Perfetto dal punto di vista formale per la regia, la recitazione e la colonna sonora, risulta tuttavia disgustoso per l’immoralità del contenuto. GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI 129 Gosford Park CAST&CREDITS regia e sceneggiatura: Robert Altman (Usa, 2001) fotografia: Andrew Dunn montaggio: Tim Squyres musica: Patrick Doyle interpreti: Michael Gambon (Sir William McCordle), Kristin Scott Thomas (lady Sylvia McCordle), Maggie Smith (Constance, contessa di Trentham), Jeremy Northam (Ivor Novello), Alan Bates (Jennings, il maggiordomo), Helen Mirren (Mrs. Wilson, la governante), Emily Watson (Elsie, la capocameriera) durata: 2h17’ distribuzione: Medusa tata in un ospedale di campo nella guerra di Corea, che diventa subito un film di culto. Autore prolifico, (soprattutto lungo gli anni Settanta, periodo in cui i suoi film hanno avuto esiti molto diseguali), si è provato in tanti generi diversi, ma la sua cifra è legata soprattutto ai racconti corali (da cui l’aggettivo “altmaniano”) fatti di storie incrociate. Ne sono un esempio Nashville (1975), grande affresco dell’ambiente della musica country, I protagonisti (1992), sul mondo del cinema hollywoodiano, Pret - a- Porter (1994), sulla moda e le sfilate, America oggi (1993) e anche il recente Dottor T & le donne (2000). Con Gosford Park Altman torna al giallo (già frequentato con Il lungo addio del 1973, tratto da Raymond Chandler), ottenendo ampi riconoscimenti critici e numerose nomination ai Golden Globes e agli Oscar. IL REGISTA Nato il 20 febbraio 1925 a Kansas City, Missouri, Usa, Robert Altman è considerato il cantore non allineato dell’altra America, quella provinciale e problematica, non così ossessionata dal nazionalismo. Dopo un’educazione di tipo cattolico, si iscrive all’Accademia militare. Nel ‘45 è copilota di B-24. A guerra finita, lavora nel settore pubblicità di un agrande azienda nazionale e lì comincia a imparare i rudimenti del mestiere di regista. Già nel ‘55 decide di intraprendere la via del cinema, e il suo debutto televisivo viene battezzato niente di meno che da Alfred Hitchcock. Dopo l’esperienza degli show televisivi, nel ‘69 gli viene offerto il soggetto di M.A.S.H. (1970), una commedia nera ambien- IL FILM La Nashville della società di caste britannica, negli anni ‘30. Altman al cuore dell'ibrido nascituro, il Novecento, con un film-girotondo in cui, per arrivare a ricostruire una storia, si passa dal labirinto di una trentina di personaggi “suonati” in una jazz-band drammaturgica senza un a-solo di spicco. Divisi tra servitù e nobiltà, popolano la dimora di Sir William McCordle nella campagna inglese dei primi anni '30, in un’atmosfera graffiata sulla tipologia dei film di James Ivory, ma eccitata e difforme, con la sottile ferocia di un affresco sulla promiscuità moderna delle classi: la servitù e i padroni, GOSFORD PARK 131 9 in un abilissimo su e giù dei piani, anche in senso architettonico (tra la cucina e i saloni), che ti fa sentire l'ingranaggio della vitalità dei ruoli mischiata alla subdola meschinità di rispettive ipocrisie, tra le quali, però, le più interessanti e umanamente illuminanti sono quelle dei poveri. L’omicidio arriva tra il tè e la battuta di caccia. Una certa meccanicità finisce per assimilare brandelli di fiction tv. Tra La regola del gioco di Renoir e il serial Upstairs, Downstairs. Da vedere. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 7 marzo 2002) LA STORIA E una giornata di pioggia insistente del novembre l932 quella in cui la vecchia contessa Constance Trentham e la sua giovane cameriera Mary si mettono in strada per raggiungere Gosford Park e la grande villa di Sir William McCordle nella campagna londinese. Ad aspettarle sulla porta, con il cagnetto in braccio, è il padrone di casa, pronto a dare il benvenuto ai suoi ospiti, invitati per una battuta di caccia. Dopo zia Constance arrivano gli altri: le due sorelle della moglie di Sir William, Sylvia McCordle, lady Louise con il marito lord Stockbridge e lady Lavinia con il marito Anthony Meredith, Freddy Nesbitt sposato a Mabel, ma più interessato a Isabel, la figlia di sir William. E altri personaggi, a cui in particolare va l’attenzione di tutti: sono il produttore cinematografico Morris Weissman e un attore, Ivor Novello, che però è anche cugino del padrone di casa. Assegnate le stanze agli ospiti, tocca sistemare cameriere e valletti. Nel rispetto di un ordine gerarchico inappuntabile, maggiordomo, governante e cuoca si dividono compiti e responsabilità, mentre i nuovi arrivati vengono collocati in base al loro grado di appartenenza. L’ora del tè in salotto è il momento della conversazione. Ivor Novello, che vive a Hollywood, racconta di aver avuto il permesso di portare Morris Weissman interessato per ragioni professionali ad un film di Charlie Chan, a seguire dal vero una caccia inglese. La contessa Trentham esprime tutte le sue perplessità sulla carriera non sempre fortunata di un attore. Sir William ne ap132 GOSFORD PARK profitta per corteggiare la sorella di sua moglie. Ai piani bassi anche le cameriere si scambiano confidenze e pettegolezzi. La vita di casa ai piani alti e quella ai piani bassi ruota intorno agli stessi interessi. Gli uni parlano degli altri e viceversa e a poco a poco tutti sapranno tutto di tutti. Ma c’è qualcuno a cui non bastano le parole. Il valletto del signor Weissman, Henry Danton, che in realtà è un attore, si muove come chi ha voglia di approfittare della situazione. Che si tratti di tener compagnia alla padrona di casa offrendosi in piena notte o di sorprendere la giovane cameriera della contessa, non fa molta differenza. Mentre c’è chi preferisce rinchiudersi nel silenzio ed evitare risposte a domande indiscrete. E il valletto di Sir Stockbridge, Robert Park, che porta con sé la foto della mamma morta e che dice di essere cresciuto in orfanotrofio, perché senza genitori. Chi invece non fa mistero di quello che sa è Elsie, la capo cameriera, che condivide le attenzioni del padrone di casa, e che più tardi, per aver pronunciato il suo nome in modo troppo confidenziale, sarà licenziata. E lei che racconta della fortuna accumulata da Sir William con le sue fabbriche, e che si è comprato il titolo nobiliare sposando lady Sylvia, che non lo ha mai nè amato nè stimato. Ai piani alti Ivor Novello, invitato a intrattenere gli ospiti, canta e suona, mentre si chiariscono le aspettative di chi è lì non certo per quella battuta di caccia. Arriva la mattina, e gli uomini con seguito si inoltrano in campagna. Il ritorno è trionfale: appese in bella vista all’asta del fuori strada le quaglie uccise. Poi pranzo e di nuovo a casa. E i primi tentativi di organizzare la serata. Ma sir William si alza e se ne va. Poco dopo, un urlo. Lady Louise lo trova piegato sulla scrivania della biblioteca, con un coltello nella schiena. Omicidio, senza nessuna traccia di sangue. A indagare sul caso è chiamato l’ispettore Thompson, accopagnato dall’agente Dexter. Ma sono le cameriere che mettono in giro i primi sospetti. Sir William, prima di essere accoltellato, era già stato ucciso dal veleno. Mrs. Croft, la cuoca, non esprime alcuna meraviglia su quella morte. E a chi le chiede di saperne di più precisa che «Sir William non era proprio Babbo Natale», anzi, che «Era un satanasso, libidinoso e crudele». Troppe volte si era approfit- tato delle operaie delle sue quattro fabbriche e tante dunque erano le persone che potevano avercela con lui. Un sospetto più che fondato. Ma a scoprire il colpevole, o meglio i colpevoli, è Mary, la più giovane delle cameriere. Mary, innamorata di Robert Park, riesce a farsi dire di essere figlio di Sir William e da lui abbandonato, subito dopo la nascita, in orfanotrofio. E stato dunque Robert Park ad accoltellare Sir William, ma ad ucciderlo con il veleno è stata sua madre, Mrs. Wilson, spinta da «quel senso dell’anticipazione che contraddistingue la brava cameriera». E così che la governante spiega a Mary, ostinata nel cercare il movente di quel delitto, di aver salvato suo figlio, che ha incontrato e perso nello stesso giorno. Mrs. Wilson ha avvelenato Sir William, per evitare che l’odio di suo figlio, per la prima volta davanti al padre, scatenasse in lui la vendetta che lo avrebbe definitivamente condannato. L’ispettore Thompson e l’agente Dexter lasciano la villa. Per loro la ricerca del colpevole deve ancora incominciare. La contessa Trentham e Mary tornano a casa. (LUISA ALBERINI) come una seconda pelle, che arrivi a scalfire un pezzetto di cuore o di coscienza. Solo il passato conta, quello che si è stati e che si è spesso dimenticato. Giocando su una sceneggiatura originale che mima una pièce teatrale, Altman si butta tra i suoi personaggi, li aggancia, li pedina, li costringe a rivelare, quasi sempre, il peggio di loro stessi. Chiuso nell’unità di luogo (la villa) e di tempo (due giorni), Gosford Park ricorda molto Un matrimonio, soprattutto nella prima parte, nei suoi saliscendi per la casa, a scoprire una taccia, un tradimento, una simpatia, a tessere la tela di un universoche pare intrappolato in se stesso com’era quello della famiglia Corelli. Per una volta, solo la gente di cinema (il divo Ivor Novello e il produttore di Hollywood) sembra possedere uno spiraglio di vitalità, e forse la capocameriera Elsie che, comunque, decide di provare a cambiar vita. Per gli altri, vale solo il gioco di superficie e l’odio profondo che regola la convivenza tra le classi e all’interno della stessa classe. Certo, non è l’Altman più grande, un po’ slabbrato soprattutto nella seconda parte; ma sono pochissimi gli autori che sanno guidare un set del genere con tanta leggerezza. (EMANUELA MARTINI, Film TV, 12 marzo 2002). LA CRITICA Trasferta britannica di Robert Altman, che porta la sua compagnia di giro a “Gosford Park”, una tenuta della campagna inglese, nel 1932, per un fine settimana di caccia, pranzi, colazioni, e piccoli intrighi. Questa volta i personaggi sono 36: 14 signori, ai piani alti, 20 domestici, ai piani bassi, più un ispettore e un poliziotto che a due terzi del film si presentano per indagare sull’inevitabile omicidio che, nella migliore tradizione del giallo britannico dell’epoca, ariva a far saltare l’equilibrio apparente dei rapporti. O almeno dovrebbe. Infatti, non solo il “whodunit” (chi è stato?) sembra importare pochisimo ad Altman (molto più affascinato dalla minuziosa osservazione delle relazioni sociali), ma anche i diretti interessati appaiono ben poco coinvolti. E la vita nella sua eterna finzione che continua a riprodursi, e non c’è incontro, d’amore, d’odio o di scherno che intacchi minimamente la maschera che ognuno indossa Da qualche parte dev’esserci un altro mondo, un posto meno crudele... Così canta Ivor Novello (Jeremy Northam). Seduto al piano, sta svagando gli ospiti di Sir William McCordle (Michael Gambon). Dalla parte “buia” della casa dalle cucine e dalle soffitte, a uno a uno le cuoche, le cameriere e i valletti sono confluiti fin nella parte “luminosa”. Silenziosi e commossi, adesso origliano dietro le porte del salotto. E questo un momento cruciale dello splendido Gosford Park (Usa, 2002, 137’). Robert Altman lo ha preparato con ironia e anzi con sarcasmo nella prima metà del film (girato come un poliziesco alla Agatha Christie, ma con un “ispettore” delizioso, a metà fra il Clouseau di Peter Sellers e l'Hulot di Jacques Tati). Ora, dunque, servi signori sono divisi e uniti: divisi nei ruoli, ma uniti dalle parole della star di Hollywood. Da qualche parte dev’esserci un altro mondo, un posto meno crudele... Poco prima, attorno all’eleganza d’una tavola imbandita, qualcosa aveva rotto l'incanto signorile, la GOSFORD PARK 133 messa in scena rituale della superiorità di classe. Lady Sylvia McCordle aveva urlato il suo odio al marito, e lo aveva accusato “in società”, senza freni d’ipocrisia, d’essere l’amante d’una serva. E lei, la serva, aveva reagito da pari a pari, con una dignità che aveva mandato in frantumi ogni pretesa distanza sociale. Sorprendente, fulmineo, il veleno aveva dunque finito per mostrarsi. E non si tratta dello stesso veleno che, da lì a poco, avrebbe ucciso Sir William e che Altman inquadra più volte, sparso un po’ ovunque, in bottiglie scure con la scritta minacciosa poison. Si tratta invece d’un rancoroso, feroce veleno dell’anima, verità profonda e volgare delle vite dei padroni di casa e dei loro sodali. Sono del tutto false, quelle vite. Niente le riempie, se non il vuoto della convenienza, sia sociale sia economica. Per quanto tutti stiano ben saldi nella comune identità di gruppo, tuttavia ognuno è disperatamente solo. Sir William lo è a tal punto che il suo (futuro) assassino potrebbe essere un qualunque dei suoi pari, o uno qualunque dei suoi servi. D’altra parte, i primi dipendono da lui e dal suo arbitrio come e forse più dei secondi. Attorno a quella tavola con le due forchette che l’etichetta impone d’usare per il pesce, e con lo snobismo acido di Sua Signoria Lady Constance (una perfetta Maggie Smith), attorno a quella tavola, dunque, l’ipocrisia e il formalismo per un attimo si squarciano. Non ci sono più servi e non ci sono più signori, ma solo uomini e donne che si odiano e che, ancora per convenienza, cercano poi di tornare alle loro identità di gruppo, come se il veleno non corresse nelle loro vene. In fondo, per tutto il film la regia e la sceneggiatura di Julian Fellowes (tratta da un’idea di Altman e Bob Balaban) questo fanno, con sistematicità: scavano nell’identità di gruppo dei signori, demolendola e portando in superficie le singolarità, le miserie d’ognuno ben nascoste nella prosopopea di tutti. Qualcosa di simile vale anche per il gruppo speculare, quello dei servi. Benché i signori non ne vedano l’alterità – ai valletti si impongono i nomi dei loro rispettivi padroni –, benché non ne distinguano neppure l’umanità “Lui non esiste”, dice uno di loro a proposito di Jennings (Alan Bates) –, tuttavia ne hanno bisogno proprio come d’uno specchio. Solo in quello specchio riconoscono l’immagine (rovesciata) di sé. 134 GOSFORD PARK Come potrebbe mai brillare la “luce” del loro salotto, se non a confronto dell’”ombra” di cantine e soffitte? E questo comporta che le singolarità dei servi debbano confondersi nell’identità del gruppo, suggello e conferma dell’identità dei signori. In quell’ombra e in quelle cantine e soffitte, tuttavia, sempre più Altman scopre le differenze, le ribellioni, le decisioni di non vivere vite d’altri. Insomma: scopre le biografie. E proprio in questo c’è il sarcasmo più radicale di Gosford Park: nel fatto che Sir William paghi con la morte non tanto le sue molte colpe, quanto la noncuranza sempre ostentata nei confronti di quelle biografie e differenze. I suo servi lo uccidono, tutti i suoi servi insieme, anche se solo con il desiderio. Ma ognuno di essi lo fa come singolo, con un odio e un risentimento che sono suoi nel profondo. D’altra parte, quanto al desiderio, anche i suoi pari sono suoi assassini. Quando il film si chiude e tutti s’allontanano dalla grande casa, ognuno colpevole e ognuno impunito, di nuovo si sente la canzone di Ivor Novello, divo di Hollywood. Ci dev’essere un altro mondo, ci dev’essere un posto meno crudele, da qualche parte... Siamo nel 1932. Da lì a poco la guerra li trascinerà nelle stesse tenebre, tutti e ognuno. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2002). Arrivato a 77 anni, con oltre 40 di attività e una filmografia intensissima, il cantore-cronista dell’America amara dal Vietnam in poi […] non esita a trasferirsi in Inghilterra e a gettarsi negli schemi di un genere consolidato e quesi immobile. Nell’unità di luogo e di azione, Altman ricama con finezza le schermaglie di uno scontro sociale, ma prima affettivo ed esistenziale. Le barriere di classe sono sempre meno solide, e il borghese americano arricchito con il cinema imprime una spallata forse decisiva. Il valletto del produttore è un attore. «Attore? Peggio di un assassino», si sente dire dopo la scoperta del cadavere. Il momento del delitto arriva dopo 80’, e poi ne passano altri 57’: ma non c’è colpevole, almeno per l’ispettore, non c’è soluzione “visibile”. I canoni del genere sono rovesciati. Intanto Altman è riuscito, ancora una volta, a disegnare un affresco storico di lucida razionalità e di nitido realismo. Tanti personaggi, nessun prota- gonista, tutti coinvolti, prigionieri di strane paure esistenziali. (COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM: accettabile/problematico) Subito dall’inizio si capisce che il film di Robert Altman (premio alla carriera all’ultimo festival di Berlino) Gosford Park (candidato agli Oscar) è di quelli irresistibili: 137 minuti che sembrano pochi, di interni opulenti, di abiti splendidi, di attori magnifici, ma anche di amori sventati e di conflitti sociali raccontati nel momento cruciale di una società al tramonto, gelida e snob, classista e razzista, arroccata nei privilegi di censo, prestigio, amoralità e bon ton, che sarà spazzato via pochi anni dopo dalla seconda guerra mondiale. C’è Agatha Christie, c’è Evelyn Waugh, c’è Kazuo Ishiguro, e i film tratti dai loro romanzi, una riunione con delitto di Dieci piccoli indiani (René Clair), l’ironica e amara descrizione della ricca società inglese di Il matrimonio di Lady Brenda (Charles Sturridge), il rapporto di imperio e sudditanza reciproca tra padroni e servitù di Quel che resta del giorno (James Ivory). C’è anche il ricordo di una magnifica serie televisiva inglese, Su e giù per le scale, che la Rai trasmise anni fa, […] Il film è troppo leggiadro per evocare il marxismo e le classi oppresse, troppo amaro per suscitare qualsiasi nostalgia di una società raffinata e stupida. Il nuovo, nel chiuso della impenetrabile casta, lo portano, temuti e ridicolizzati, l’America e il cinema, rappresentati dal produttore ebreo e omosessuale (Bob Balaban, anche produttore del film) e dal bell’attore e compositore Ivor Novello, un personaggio vero che recitò nei primi film di Alfred Hitchcock. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 11 marzo 2002) I COMMENTI DEL PUBBLICO OTTIMO Vincenzo Novi - Accattivante, curioso, ironico. Una giostra in movimento, una montagna per produrre un topolino. Mentre il fiume delle passioni e dei pregiudizi scorre indisturbato verso un brillante “niente” riassunto magistralmente nell’omicidio di un morto. Un ritratto d’epoca o l’allegoria di un mondo proteso alle apparenze e disattento alle cose reali? Di certo Altman non è personaggio dedito all’archeologia. Piergiovanna Bruni - Sceneggiatura insuperabile nel contrapporre due classi sociali e fonderle in quella comune idiozia che è purtroppo prerogativa dell'essere umano. Chiusi nello spazio limitato di una sontuosa magione di campagna inglese, i personaggi hanno un comportamento intrigante e prevaricatore. La regia ha un ritmo che avvince irresistibilmente per la sua originalità. La descrizione dei rapporti fra servitù e nobilità ricorda Quel che resta del giorno di Ivory che era superiore per realismo ma inferiore come spettacolarità. Recitazione impeccabile, colonna sonora brillante, ambientazione notevole, un Robert Altman che con la macchina da presa esegue un’introspezione per cercare uno spiraglio di speranza per il riscatto dell'individuo, sia aristocratico che servitore. Michele Zaurino - In questo impietoso e lucido affresco sulla meschinità e cupidigia umane, Altman ci descrive la declinante nobiltà britannica che cerca di non affondare aggrappandosi alle risorse economiche della nuova borghesia, rappresentata da Sir William così arrogante da voler comprare gli affetti e i silenzi sui suoi misfatti. L’omicidio del padrone di casa è solo un tassello del film e può essere letto in chiave simbolica e quasi ridicola. Netta anche se un po’ didascalica la contrapposizione tra padroni e servitù. Non mancano l’America, e il cinema, i cui personaggi appaiono dotati di una vitalità e sincerità che stridono al confronto con un mondo gelidamente regolato dalle convenzioni sociali e coperto dalla crosta dell’ipocrisia. La servitù riproduce al suo interno le dinamiche dell’alta società da cui dipende ed è costretta a occultare i propri sentimenti in questo gioco spietato in cui contano solo le apparenze. “Benvenuti a Gosford Park”. Grazie Robert, per averci ancora una volta fatto divertire e pensare al tempo stesso. GOSFORD PARK 135 Cristina Bruni - Bellissimo spaccato di una società marcia, corrotta e incapace di sentimenti autentici, qualsiasi sia la classe sociale di appartenza. Se davvero è questa la natura dell’uomo, c’è di che preoccuparsi. Altman come sempre e qui con ancor più classe e dovizia di particolari, ci racconta e descrive una vicenda di conflitti sociali oltre che interpersonali, dove non si salva nessuno dal nobile al servo. Tutti sono impregnati di ipocrisia, falsità, meschinità e rancori pur contenuti dietro il paravento della forma e della rigida gerarchia, che portano fino al culmine della furia omicida. Unica a salvarsi, la giovane cameriera della contessa che con la sua autenticità disarmante riesce a smacherarli tutti e viene a tal fine utilizzata dal regista quale filo conduttore per aiutarci a comprendere quest’intricata ragnatela di allarmanti relazioni sociali. Ce n’è proprio per tutti! postazione di rigide regole gerarchiche, che non lasciano spazio a contesti solidali di appartenenza meschini ed invidiosi, vedicativi e per certi versi, non dissimili dai loro referenti. Il film vuole forse fornire un giudizio critico nei confronti di un passato spesso beatificato per situazioni talvolta degenerative del presente, ma intende anche sottolineare che, nonostante il trascorrere del tempo, la natura umana risulta restia ai mutamenti, spesso arroccata nel mantenimento delle posizioni acquisite e di personale convenienza, indipendentemente dalla classe sociale d’appartenenza. Giudizio negativo, realisticamente condivisibile, in una società che all’apparenza si è molto trasformata, ma che nella sostanza spesso rimane la stessa. BUONO Carlo Chiesa - Credo che tutti gli estimatori delle opere di Agatha Christie non possano non apprezzare l’ottimo lavoro di Altman, che ha saputo ricreare con particolare cura e sensibilità psicologica ambienti e personaggi cari alla grande autrice. Nessuno dei classici ingredienti del giallo all’inglese è stato trascurato. Considero anti tradizionale la nota ironica rappresentata dall’ispettore di polizia “che più insulso non si può”. Edoardo Imoda - Ambientazione ottima, cinismo totale. Quattro parole per descrivere un ottimo film in cui Altman racchiude, fra l’apertura e la chiusura delle belle porte di una dimora gentilizia di campagna, tutto il suo spirito sarcastico. Bruno Bruni - Sicuramente tutto già visto, ma la regia di Altman, abile e attenta, fornisce alla vicenda uno spessore recitativo ed ambientale di notevole efficacia. Le caratterizzazoni sono molto realistiche. La chiave di lettura induce ad attente riflesioni. E un’analisi critica nei confronti della classe dominante nobile inglese, a cavallo fra le due guerre, cinica, prevaricatrice, che ostinatamente respinge ogni fenomeno innovativo; ma è un atto di accusa anche nei confronti della classe dipendente ugualmente classista, attraverso l'im136 GOSFORD PARK Lucia Fossati - Un film perfetto ma inutile. Come si può non dire perfetto un film nel quale ogni battuta è studiatamente significativa e ogni inquadratura volutamente ricercata? Un film con un cast di prime donne, una più brava dell’altra, e un regista che sembra divertirsi lui stesso nel prendere in giro l’etichetta dei cugini inglesi? Però è un film che non ci parla più oggi: sembra la rappresentazione di un entomologo che osserva un alveare, con le api operaie e i fuchi che le ronzano attorno. La data iniziale 1932 è significativa: un mondo sta per crollare, ma lì tutto è fermo all’età vittoriana. Riccardo Valente - Nel dibattito che ha fatto seguito a Gosford Park non mi pare che siano state prese in considerazione due circostanze fondamentali per giudicare il film. La prima è che Altman, durante tutta la sua carriera, è sempre stato un divertente anarcoide, fustigatore di costumi a volta bonario, a volta amaro – ma non ha mai fatto un film “serio”. La seconda è che, almeno per quanto mi risulta, non aveva mai girato prima un film di ambiente inglese. Vedendo Gosford Park viene subito in mente Quel che resta del giorno (quello sì un film “serio”!), e Altman immaginava, anzi si aspettava che il paragone sorgesse inevitabile. Quindi, secon- do me, Altman si è divertito a fare uno sberleffo proprio a quel film: descrivendo benissimo la landed gentry del 1932 nel mezzo di un giallo d’epoca, con l'ispettore snob e cretino e il poliziotto goffo ma intelligente. Qualcuno ha giustamente osservato che nel film non si scorgeva neppure l’ombra di una critica al sistema di casta padroni-servitori: mi sia consentito di rispondere che non era questo lo scopo del film (che altrimenti sarebbe stato un film “serio”) – e che in ogni modo, se c’è una notazione di carattere sociologico, è che i servitori vengono dipinti come molto più snob dei loro padroni. A mio avviso, il film è una perfetta presa in giro non di una classe o di un’epoca, ma della nostra percezione di quella classe e di quell’epoca. Tutto perfetto? No, mi sembra che il film sia troppo parlato e forse il motivo è che Altman si è innamorato della recitazione dei suoi attori; cosa comprensibile, accettabile, e anche godibile da parte di un pubblico anglofono, ma che a noi non dice molto. Marcello Napolitano - Altman è, come al solito, un maestro impareggiabile nel dirigere una folla di personaggi e nel raccontare tante storie senza far perdere l’orientamento allo spettatore, ma anzi mantenendo vivo l’interesse. Il film è pregevole per la fotografia, la scenografia, il dialogo vivacissimo e spiritosissimo, la recitazione di tanti bravi attori e qualche mostro sacro. I punti che mi sconcertano, proveniendo da un tale maestro, sono: a) il ricorso a un trucco così scoperto come quello della nostalgia dei bei tempi andati (intendo: vestiti, cacce, automobili, dimore, paesaggi..., non relazioni sociali): piuttosto una rivista patinata che una ricostruzione effettiva; b) la distanza tra padroni e servitù nell’Inghilterra pre-seconda guerra mondiale, con tutte le implicazioni sociali relative è una minestra riscaldata troppe volte e con almeno pari abilità descrittiva (per esempio da Quel che resta del giorno di Ivory); c) è anche discutibile, almeno per chi è nato prima del 1940, la commiserazione delle condizioni di povertà e nullità sociale della servitù dei nobili inglesi: a giudicare dai servizi materiali e dal trattamento personale di cui godono nel film, rapportati a quanto possa ricordare dalla mia gioventù, mi sembrano piutto- sto dei privilegiati; ma questo è certo un argomento molto secondario nel giudizio del film. E ancora: gli inglesi ci appaiono sprezzanti per natura, tra di loro prima che con gli “altri”: basta guardare i dibattiti tra Blair e il capo dell’opposizione in parlamento per averne la prova. Ma il vero punto importante, rispetto ai capolavori di Altman, è che questa volta il regista perde la sua neutralità‚ descrittiva, cioè non racconta più la realtà, sia pure secondo il suo punto di vista, ma aggiunge un giudizio morale esplicito, forse condivisibile, ma che altera la purezza del racconto e lo riduce a illustrazione moraleggiante. Come esempio di neutralità basta ricordarsi di Nashville e di America oggi‚ dove il giudizio morale era interamente lasciato allo spettatore. Gian Piero Calza - La “trovata” narrativa del film di Altman è il doppio delitto commesso sulla medesima vittima dai due colpevoli, uno all’oscuro dell’altro. Non solo: gli assassini sono madre e figlio (pur non conoscendosi fra di loro). E la vittima ne è rispettivamente amante occasionale e padre naturale. La circostanza per cui quest’ultimo sia il padrone di casa presso cui i primi due prestano servizio, consente al regista di ambientare la vicenda nel classico contesto della letteratura gialla inglese: la casa signorile inglese dove si muovono personaggi al di sopra di ogni sospetto (i padroni) e altri convenzionalmente oggetto di ogni sospetto (i servi). La prima novità introdotta da Altman in tale ambiente è la presenza dei due americani (e rispettivi “valletti”...) la cui approssimativa noblesse si rivela anche nel modo fatuo di considerare l’ambiente che li ospita come un’ovvia location di un film giallo, indipendentemente da ogni più profonda motivazione che un delitto, in quel contesto, possa eventualmente avere. E qui è la seconda e più importante novità della sceneggiatura di Altman, che introduce nell’intreccio di un giallo una dimensione drammatica non convenzionale: il delitto, cioè, non avviene come accidente superficiale all’interno del frivolo mondo snob di gentiluomini di campagna, ma come dramma familiare fra tre congiunti che in quello stesso mondo erano stati costretti a negarsi come tali e a vivere nel falso rapporto di servo-padrone. MascheraGOSFORD PARK 137 mento, questo, che Altman denuncia con raffinata presa di distanza dalla giallistica tradizionale, portando in superficie le realtà altrimenti nascoste da una certa letteraria fatuità e rendendo ancora più ridicola e grottesca la figura del regista americano che nel film “inglese” di Altman si muove come uno sprovveduto produttore di messe in scena commerciali. Figura dalla quale Altman è molto lontano, anche sul piano tecnico, nel suo uso della sequenza “non interrotta” in cui personaggi e dialoghi si sovrappongono senza soluzione di continuità, come se la vita scorresse nel suo intreccio intricato di sempre, davanti a una cinepresa impassibile. Franca Sicuri - Sembra divertirsi Robert Altman nel presentarci questa classe di ricchi aristocratici che non conoscono limiti nella propria autocelebrazione, con tutti i loro difetti e le loro meschinità, assolutamente impreparati ad affrontare le trasformazioni a cui invece stanno inevitabilmente andando incontro. E diverte anche il pubblico. zione di meticolosa eleganza british, assembla un parterre di godibili macchiette e di stereotipate caricature, strizza l’occhio ad Agatha Christie con un pretesto di datato intrigo giallo, ride da americano delle manie dell’alta società inglese, monta un’incruenta denuncia delle discriminazioni di classe, condisce il tutto in salsa grottesca e ne esce un film a tratti molto divertente, a tratti stiracchiato e scontato. Comunque un po’ troppo lungo. Caterina Parmigiani - Altman ha ricreato con efficace realismo e divertita ironia l'atmosfera inglese dei primi del ‘900 in un castello con aristocrazia e servitù, vizi privati e piccole virtù, amicizie e ostilità, raffinatezza e volgarità. Ma il film, seppure piacevole, elegante e ben caratterizzato nei personaggi – curiosi il produttore americano e il suo attore/cameriere – risulta troppo lungo e poco originale. MEDIOCRE Rosanna Radaelli - Definirei questo film di Altman buono, con due pregi: la non pretesa di atteggiarsi a capolavoro e la tenuta di stile e di espressione su una corda di sottile – ma forse non troppo – ironia. C’è sicuramente un grande mestiere che si fa sentire nella gestione corale di questa raccolta di persone, descritta in modo amaro ma sempre coerente e teso. DISCRETO Carla Casalini - Altman fa il verso a Ivory con un’ambienta- 138 GOSFORD PARK Lidia Ranzini - Il trionfo della noia in una pellicola troppo lunga. L’aver basato tutto sull’organizzazione di un week end mi ha ricordato un altro allestimento, quello di Il pranzo di Babette, ma di qualità decisamente inferiore. Privo di contenuti e di insegnamenti, si appiattisce sul pettegolezzo dei domestici. Poteva diventare un delitto alla Agatha Christie tra il serpeggiare di odi e di amori, tra melodramma e divertimento, invece con troppi personaggi è diventato oscuro e complicato. Banale film nostalgico con troppi attacchi a una società da tempo finita. L’infedele titolo originale: Trolösa CAST&CREDITS regia: Liv Ullmann (Svezia, 2000) soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman fotografia: Jörgen Persson montaggio: Sylvia Ingermarsson suono: Gabor Pasztor interpreti: Lena Endre (Marianne), Erland Josephson (Bergman), Krister Henriksson (David), Thomas Hanzon (Markus), Michelle Gylemo (Isabelle), Juni Dahr (Margareta) durata: 2h35’ distribuzione: Mikado LA REGISTA Liv Ullmann è universalmente nota come musa del regista svedese Ingmar Bergman, con il quale è stata anche sposata, e di cui ha interpretato diversi film: Persona (1966), L’ora del lupo (1967), La vergogna (1968), The Passion of Anna (1969), Sussurri e grida (1972), Scene da un matrimonio (1974), Immagine allo specchio (1975), L’uovo del serpente (1977) e Sinfonia d’autunno (1978). «Nata a Tokyo [il 16 dicembre 1939] da genitori norvegesi. Ha ricevuto la propria formazione di arte drammatica a Londra. La sua prima apparizione sul palcoscenico fu al Ro- galand Theatre di Stavanger (Norvegia) e il suo debutto cinematografico risale al 1957. [...] Ha ottenuto più volte la nomination all’Oscar come migliore attrice e ha vinto il premio della critica cinematografica americana per quattro anni di seguito. Sul palcoscenico ha interpretato molti ruoli di spicco in Norvegia, Svezia, Inghilterra (East End, Londra) e negli Stati Uniti (Los Angeles e Broadway). […] Negli ultimi anni ha abbandonato il palcoscenico e i ruoli cinematografici e si è concentrata sulla sua attività di sceneggiatrice e di regista. Liv Ullmann è stata ambasciatrice Unicef per 19 anni ed è Presidente dell’Irg, la fondazione internazionale costituita da Albert Einstein durante la Seconda guerra mondiale per aiutare i rifugiati. nel 1976 ha debuttato come scrittrice con il suo libro autobiografico Changing. Nel 1984 ha pubblicato un altro libro, Tide. Entrambi i libri sono stati tradotti in molte lingue. Nel 1996 ha iniziato la sua collaborazione con la Svt Drama dirigendo Conversazioni private, dalla sceneggiatura di Ingmar Bergman, che ha ricevuto molti premi internazionali» (dal pressbook del film). L’infedele è stato presentato in concorso al festival di Cannes 2000. IL FILM In tempi più alti, certo più complessi, esisteva il “teatro della crudeltà”, impietoso svelamento del male di vivere. Un lucido pessimismo che si addice al nord, dove il pensiero è più lucido e tagliente. Qui, un anziano regista, che vive esiL’INFEDELE 139 10 liato dal mondo, si serve di una giovane attrice per mettere in scena un tormento personale, una passione che ha come esito infausto il tradimento e la morte. Tutta finzione e tutta verità: perché l’anziano regista è Bergman stesso, autore di una storia catartica, ma senza redenzione, mentre Ullmann la regista è stata sua compagna, da lui tradita e umiliata. Crudeltà, appunto, ed estrema: Bergman offre stanchezza e nostalgia, Ullman sensibilità tenera e dolente, entrambi il senso di un dolore così vivo e tangibile, da risultare intollerabile. Lena Enore, bravissima, è l’incarnazione di un vuoto che resta incolmabile, e si fa arte. (STEFANO LUSARDI, Ciak, 1 maggio 2001) LA STORIA Solo, in una casa a pochi metri dal mare, dove gli alberi sembrano scolpiti dal vento e dalla finestra non si vede passare mai nessuno, il vecchio Ingmar Bergman scrive una storia che, forse, gli è appartenuta. Il personaggio principale è Marianne, quarant’anni, attrice di teatro, una bella faccia, adatta alla commedia e alla tragedia. E sposata a Markus, ebreo, direttore d’orchestra. Hanno una figlia, Isabelle, nove anni. La storia incomincia davvero quando un amico di tutti e due, David, regista di teatro, due matrimoni chiusi alle spalle e due figli, si accorge di aver bisogno di Marianne, e lei lo scopre come non le era mai capitato prima. Accadde una sera, dopo l’ultima rappresentazione di una pièce di cui lei è prima attrice e lui regista. All’uscita, David le confessa di star molto male. Marianne gli propone una cena da loro. Markus è fuori, ma avrebbe potuto rientrare da un momento all’altro e nessuno “sarebbe arrossito”. Tutto si svolge come sempre, come era sempre avvenuto tante volte prima. Poi, al momento di andare a dormire, con sorpresa Marianne si sente chiedere qualcosa a cui reagisce sorridendo: «Faresti l’amore con me?». David si rende subito conto di aver fatto un errore. Ma quell’offerta, così la chiama Marianne, continua a farla riflettere. E l’occasione per ripensarci arriva con una borsa di studio e un viaggio a Parigi, che 140 L’INFEDELE Marianne giustifica al marito, in quel periodo impegnato in concerti all’estero, con motivi di interesse professionale. Anche David è libero dal lavoro e interessato a prendere contatti a Parigi e la possibilità di incontrarsi trova agli occhi di Markus piena approvazione. Parigi realizza quell’incontro che Marianne voleva e David temeva. Trascorrono insieme, senza mai andare a teatro, quindici giorni, durante i quali Marianne si rende anche conto del carattere imprevedibile e pieno di contraddizioni di David. Al momento di rientrare, lui capisce che Marianne continuerà la vita di sempre, mentre lei, che non vuole anticipare decisioni, gli chiede «un po’ di tempo per riflettere». A casa con il marito e la figlia, che per ragioni di vicinanza con la scuola era stata mandata dalla nonna, la vita continua apparentemente serena. Dopo l’estate, con la ripresa dell’attività teatrale, Marianne e David si rincontrano e questa volta per caso. Ma lui ne approfitta per chiederle un colloquio e la loro relazione ricomincia con la stessa intensità e con i medesimi dubbi da parte di Marianne, che tuttavia è sicura di non aver mai dato sospetti al marito. Poi una sera, senza che niente lo lasci prevedere, Marianne e David si ritrovano davanti alla realtà. Markus li sorprende insieme e non esita a dir loro che sapeva tutto già da tempo, ma che ha taciuto solo con la speranza che, esaurita la passione, tutto sarebbe passato. Dice subito anche a Marianne che stava per accadere qualcosa di molto doloroso. Marianne dice alla figlia e che andrà dalla nonna e che suo padre per lavoro si deve recare all’estero per diversi mesi. Lei si trasferisce da David. Markus ha chiesto l’affidamento di Isabelle. E un avvocato ad informare Marianne, che le spiega anche di come il marito abbia rinunciato a tutti gli impegni di carattere internazionale. Il consiglio è quello di prepararsi alla visita dell’assistente sociale, che la interrogherà sulla sua vita con il nuovo compagno. L’estate trascorre in una vecchia casa di campagna. Isabelle ha raggiunto la madre e Marianne con David è felice quando sa di aspettare un bambino, di cui è opportuno non far sapere niente a Markus, almeno prima della discussione della causa. Ma alla causa non si arriverà mai. La sera prima della convocazione dal giudice, Markus chie- de alla moglie di incontrarla. Vuole trovare una soluzione per Isabelle e insiste per parlargliene da solo. Si incontrano la sera dopo e stanno insieme fino a tarda notte. Lui le promette l’affidamento di Isabelle in cambio di una notte d’amore. David, che ha tentato in tutti i modi di opporsi, adesso è pazzo di gelosia. Vuole sapere di più e Marianne confessa. Tra loro le cose non saranno più come prima. Marianne decide di abortire. Il giudice le affida Isabelle e Markus non si fa più vedere fino a una sera di molti mesi dopo, quando le chiede qualcosa che la spaventa. David parte per girare un film e sta via due mesi. Marianne riprende il suo lavoro in teatro ed è durante una prova che una telefonata la raggiunge, informandola che Markus si è tolto la vita. A scoprirlo è stata una signora, legata a lui da più di vent’anni. La lettera che il marito ha lasciato accenna a qualcosa di anche più terribile. Il suo piano era quello di morire insieme alla figlia. David, tornato a casa, racconta a Marianne di averla tradita con la prima attrice del suo film. Marianne lo caccia e muore. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Ingmar Bergman non fa più film. Però li scrive, lasciando ad altri di dirigerli, anche se, andando avanti negli anni, le sue storie diventano sempre più personali e autobiografiche. Nell’89, in Con le migliori intenzioni, aveva affidato a Billie August il compito di rappresentare la sua ricostruzione delle difficoltà che i suoi genitori avevano incontrato prima di sposarsi. Nel ‘96 si era rivolto alla sua fida Liv Ullmann perché portasse sullo schermo, come regista, la sceneggiatura che aveva tratto da un suo romanzo, Conversazioni private, su una crisi coniugale di una madre. oggi, sempre con la mediazione di Liv Ullmann, da cui ha avuto a suo tempo una figlia, mette totalmente a nudo sé stesso, rievocando il tradimento che aveva compiuto ai danni del suo migliore amico, portandogli via la moglie. Per farlo, però, ha scelto l’ottica di quella moglie che, nella solitudine della sua isola, facendosi impersonare da uno dei suoi attori preferiti, Erland Josephson, “evoca” di fronte a sé (anche se ormai è morta), facendole raccontare, per lui eper noi, quel dramma di ieri; in parte detto, in parte rivissuto una pagina dietro l’altra. Mentre Josephson, sempre più mesto perché partecipe dei rimorsi dell’autore cui dà volto, ascolta quasi muto. […] La struttura narrativa, nella sua forma insolita, è esmplare. Per un verso scaturisce dalla gestione che l’autore fa del suo passato e per un altro costituisce di fronte a noi tramite la rappresentazione che ce ne dà Marianne e soffrendolo. Con una progressione drammatica che, pur accettando esplosioni anche intense, non ultimi due suicidi, rifiuta strappi bruschi e scoperte increspature: per tenersi, anche nei momenti più lacerati, a una sorta di distacco con note alte solo quando i “personaggi” si confidano, feriti e colpevoli, all’Autore che, ascoltandoli, li ha ricreati: coinvolto nelle loro stesse colpe. La regia di Liv Ullmann, un occhio sempre al cinema di Bergman, ha fatto il resto, ora privilegiando i “primi piani”, esattamente come in Scene da un matrimonio, ora tenendosi, nei confronti e negli scontri fra i componenti quel trio, a delle cifre ben dosate di tensioni soprattutto represse, lasciando che solo in qualche momento si ceda al grido (e allora come nel teatro di Strindberg). (G IAN L UIGI RONDI , Il Tempo, 18 aprile 2001) Per Liv Ullmann, carismatica protagonista di ben nove film di Ingmar Bergman, quella che poteva apparire la velleità di mettersi occasionalmente dietro la macchina da presa è diventata una decisiva svolta professionale. Ne fa fede l’omaggio che le dedica proprio in questi giorni il Festival “Schermi d’amore” di Verona, mettendo in fila i quattro film da lei girati dal ’92 a oggi: Sofie, Kristin Lavransdatter, Conversazioni private e L’infedele che esce in sincrono nei cinema. Tre personaggi in cerca d’autore si presentano a un quarto personaggio chiamato Bergman nel suo rifugio dell’Isola di Faro. Non c’è bisogno di sottolineare il carattere autobiografico del copione che l’ultraottantenne Ingmar ha affidato alla regia della sua storica ispiratrice. Figli del rimorso, i personaggi del triangolo sono tutti definiti nel titolo origiL’INFEDELE 141 nale Infedeli: l’attrice Marianna (una stupenda Lena Endre) racconta allo scrittore di quando tradì il marito musicista Markus (Thomas Hanzon) con un amico di famiglia, il regista David (Krister Henriksson) impegnato a inscenare Il sogno di Strindberg; e come ne derivò, nel corso del divorzio, una lotta intessuta di colpi bassi per la custodia della bambina Isabella (Michelle Gylemo), la quale sente e capisce tutto. Fra confessioni in primo piano e frammenti di scene conflittuali, ricatti e minacce ahimè non vane di suicidio, si scopre ben presto che Marianna non è la maggiore colpevole perché in questa storia finita in tragedia nessuno può scagliare la prima pietra. Impersonato dal suo alter ego Erland Josephson, in una sorta di tormentosa espiazione letteraria Bergman lascia trapelare che nel personaggio di David ha rappresentato se stesso: e stavolta, più che in precedenti occasioni, l’autocritica si spinge a fondo. E evidentemente coinvolta anche lei in prima persona, la Ullmann si impegna a far affiorare sui volti la triplice verità dei personaggi, dei loro modelli reali e degli attori. Il risultato è una sorta di psicodramma collettivo, tenuto in pugno dalla regista con ammirevole fermezza d’animo e di stile. Ancora una volta l’archetipo è Danza di morte di Strindberg, trasformato in una sorta di documentario sull’anima: bergmaniano, certo, ma rinnovato da un accattivante trasferimento sul versante della sensibilità femminile. (TULLIO KEZICH, Il Corriere della Sera, 21 aprile 2001) L'infedele comincia come una storia d'amore (Parigi!) e diventa presto un’indagine, tempestosa e tremenda, del tutto bergmaniana, su come le passioni portino alla lacerazione e alla distruzione dell’amore che si andava cercando. Sensi di colpa, umiliazioni, giochi perversi, il furore e il sadismo, un destino funesto fino alla perdizione. Una grande regia, tesa e lucida, della Ullmann, la cui macchina da presa cerca una sua verità lungo impietosi piani sequenza e infine la trova nei primi piani, sui volti degli attori, con una Lena Endre che fa di Marianne una figura dolorosa e straziante in scene mozzafiato da tragico e fatale thriller d’anime: scorticate. (BRUNO FORNARA, Film TV, 24 aprile 2001). 142 L’INFEDELE Paradossalmente grazie a un tradimento si può esprimere una forma di fedeltà. Nel raccontare la vicenda dell’infedeltà coniugale di Marianne, Liv Ullmann infatti si conferma l’erede cinematografica del suo regista prediletto Ingmar Bergman. Non solo perché la sceneggiatura di L’infedele è scritta dal maestro svedese (e quindi ripropone temi e stilemi del suo cinema), ma perché, dalla direzione degli attori alla messinscena, tutto si dispone nell’ordine tipicamente bergmaniano dei corpi e degli spazi che disegnano destini e rivelano le disposizioni interiori dei personaggi, nella prospettiva di un cinema che è concepito come stratificazione di tempi e storie, sentimenti e coscienza. L’infedele è un trattato delle passioni e delle pulsioni, una disamina della fragilità umana e della forza del destino, un saggio sulla separazione degli amanti come rito di preparazione alla morte. Ma è anche un film che si sviluppa essenzialmente come composizione visiva, come immagine rinviante (all’interiorità dei personaggi, al loro passato e dunque alla prospettiva della fine che riguarda ogni cosa, ogni persona e anche ogni film). E che nasce come spettacolo mentale, come scena (in senso analitico e in senso teatrale), come luogo delle emergenze del vissuto e di confronto col fantasmatico (proprio come i film che amiamo di più). In questa prospettiva metacinematografica non è certo un caso che il triangolo sia composto da un’attrice, un regista e un direttore d’orchestra (con una figlia in funzione di coro, controcanto silente e tragico al mondo adulto). Ed è curioso che quello che sembra il “regista” si scopra poi protagonista della vicenda, mentre quella che sembra solamente l’“attrice” in realtà guidi il gioco (ma forse in ogni storia d’amore conduce il gioco proprio chi sembra semplicemente assecondarlo). In fondo lo stesso è accaduto a livello produttivo con lo scambio di ruolo tra un’attrice passata dietro alla macchina da presa e un regista che ha rinunciato a fare cinema, ma ancora lo scrive e usa il suo cognome per uno dei personaggi. Il cortocircuito tra l’autobiografia e il distacco (della Ullmann come di Bergman), tra il registaattore e l’attrice-regista, tra lo sviluppo di una vicenda e la sua natura metadiscorsiva rende questo film uno sguardo abissale e rivelatore sul cuore umano e sulle storie che prova- no a raccontarlo. «Certo, il cuore, chi gli dà retta ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto» (A. Manzoni). (EZIO ALBERIONE, Duel 87, marzo/aprile 2001, p. 15) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Gian Piero Calza - E un film compiutamente bergmaniano. Infatti: 1) i personaggi “centrali” sono quelli femminili: la protagonista e la figlia. Il mondo – l’interiorità femminile è l’unica che interessa Bergman (e il regista). Qui l’espediente drammaturgico è di sostituire al vero protagonista, David, l’io narrante femminile. L’universo maschile è assente, o insignificante, o mascolino e ridicolo. 2) La natura è completamente assente. I paesaggi sono indifferenti alle vicende umane. I veri paesaggi sono i volti dei personaggi, su cui si disegnano i sentimenti, le passioni, i drammi. 3) Grande cura degli interni che fanno da sfondo alle vicende personali. Lo studio – la casa – di David dove tutto è foderato di legno artificiale (anti-naturale). L’interno parigino è tutto rosso (citazione da Sussurri e grida) ed è l’epicentro del dramma. 4) Prevalgono i primi piani (lezione di Dreyer) perché i volti dei personaggi sono davvero lo specchio dell’anima. Grande ruolo della recitazione dunque, e della bellezza dei volti. Giancarlo Colonna - Un film di elevatissima qualità formale, recitato in modo straordinario con una trama inquietante e uno scavo tutto bergmaniano nella diversa psicologia dei personaggi. Il tutto sembra sospeso nel tempo e malgrado la frammentazione tra narrazione (Bergman, interprete straordinario con quel viso così espressivo) e flashback della vicenda, non ho sentito un attimo di stanchezza, malgrado la durata. Una menzione speciale a Lena Enore, davvero fantastica. Il binomio Ullmann-Bergman è miracolato per la evidente compenetrazione tra i due grandi artisti. Umberto Poletti - Il contenuto può essere giudicato superato e se, veramente, è autobiografico, lo si lascia alla sfera dell’esperienza esistenziale, che esula dal giudizio critico. Il valore filmico si fonda sul modo della narrazione: la scelta felicissima dell’anziano regista associato alla giovane donna, che agisce in tempo reale, quasi a voler fermare il tempo della memoria. Il passato e il presente: una fusione impossibile nel tempo, ma non nel ricordo, soprattutto se lacerante. Magistrali i primi piani, la sceneggiatura, la fotografia. Un appunto si può muovere alla recitazione, più confacente al palcoscenico che non alla macchina da presa. Ma questa potrebbe anche essere la voluta intenzione di Bergman e della regista (ex moglie, sua attrice e scolara); la vita è commedia e tragedia. La cinematografia vi si adegua, quando è gestita da grandi maestri. Stefano Guglielmi - Ognuno a suo modo è infedele, nel variegato mondo e dimensione dei sentimenti, siano essi di amore che di amicizia, con risvolti differenti e soprattutto con conseguenze differenti. Il film, seppur lungo, ben svolge la matassa della ricerca all’interno dei protagonisti, caratterizzandosi per una scenografia che ben si accosta agli stati d’animo del momento della narrazione e per una sceneggiatura che mantiene costantemente desta l’attenzione. Proponendosi come prodotto dalle molteplici chiavi interpretative, ricco di spunti di riflessione, riuscendo a trovare anche momenti che fanno sorridere, è senz’altro un ottimo film. OTTIMO Teresa Deiana - L’interno ovattato che si affaccia sul mare grigio è come un punto di passaggio, un limbo silente che già prelude al distacco definitivo. In una sorta di prospettiva rovesciata emerge il passato, si visualizzano momenti esaltanti e successive lacerazioni. Così i personaggi si affacciano, piano, a raccontare le loro verità come davanti a un giudice che dell’infedeltà sa comprendere le spensierate spinte iniL’INFEDELE 143 ziali e le conseguenze drammatiche. Lo spettatore è risucchiato dalla vicenda, trattata con mano delicata e dura allo stesso tempo dalla regista che interpreta con sensibilità e ottica femminile, le complesse tematiche bergmaniane. Le luci, i colori, gli ambienti e persino alcune situazioni – come la coperta che il vecchio porge più volte alla protagonista – hanno evidenti significati simbolici. Anche se con qualche indugiare di troppo sui primi piani e una dilatazione forse eccessiva dei tempi, il film è senza dubbio molto valido e particolarmente interessante. Caterina Parmigiani - Un inizio pirandelliano per il film di Liv Ullmann: come Pirandello si considera il “semplice” redattore delle storie che i personaggi, affollandosi nelle sua mente, gli narrano, così Bergman si limita a spronare il fantasma di Marianne, che si è presentato nel suo studio, evocato dal ricordo, perché racconti un episodio straziante della sua giovinezza. Un abile gioco di colori neutri e di paesaggi freddi sembra aver fermato il tempo: il presente e il passato si specchiano e si interrogano per conoscere la verità, che non è unica, ma triplice, perché tre sono i protagonisti di questa lacerante storia d’amore e di morte. Mario Foresta - Cinema di limpida purezza e impostazione di teatrale incisività si fondono in questo film di Liv Ullmann dando vita a un’opera di altissimo livello estetico in cui le drammatiche laceranti vicende personali dei protagonisti finiscono per assumere un valore del tutto universale. La splendida dolente interpretazione di Lena Enore nelle vesti di Marianne resta indimenticabile. Renata Pompas - Un’analisi dei meccanismi di coppia crudele e impietosa, ma anche molto lucida e profonda. Al desiderio di fusione che genera confessioni impudiche di sé, segue l’angoscia del possesso dell’altro e la distruttività. I due protagonisti sono egoisti ed egocentrici, la donna si abbandona ai propri desideri senza alcun senso di responsabilità. È uno strazio vedere cosa tre adulti sono capaci di fare alla bambina. 144 L’INFEDELE Cristina Bruni - Forse questo film, a tratti, soprattutto nel secondo tempo, è di maniera. Riesce tuttavia, con estrema nitidezza e soprattutto senza apparenti giudizi moralistici, a descrivere il dramma dell’infedeltà, il dolore, il senso di colpa, l’incompiutezza del tradimento coniugale. Il gioco delle parti iniziale, il fascino della seduzione proibita, l’assenza di progettualità obbligata cedono il passo all’incardinarsi in nuovi, ma non per questo meno squallidi, ruoli. Tutti noi, forse di fronte alla situazione vissuta dai protagonisti del film, pensiamo alla ragione, all’alibi delle loro reciproche infedeltà. Il regista, tuttavia, non cerca una risposta a riguardo: scopo del film è la denuncia del tradimento cioè momento di leggerezza, di sperimentazione delle proprie capacità di simulare contro la monotonia, cui conseguono sofferenza e distruzione, rivalse sessuali, strumentalizzazione dei figli. È un monito, privo di giudizio etico, un interrogativo del regista circa la reale natura umana: la monogamia è naturale o imposizione sociale? Lucia Fossati - Mi sembra che per Bergman la realtà non esista se non quando viene rappresentata in scena o sullo schermo. In questo film, con la sua sceneggiatura, Bergman descrive, con sincera spudoratezza, una vicenda personale che non gli fa certo onore, rimossa per anni, svelando così la propria vigliaccheria e debolezza di uomo. Arriva al punto di rappresentare se stesso vecchio che cerca di consolare il se stesso giovane angosciato e oppresso dal rimorso. Buon per noi che di questa triste vicenda Liv Ullmann sia riuscita a fare un grande film; servendosi della macchina da presa come di una lente di ingrandimento che scruta ogni minimo moto del viso di chi impersona il suo vecchio maestro e amante infedele; rappresentando con piani fissi, teatrali, in interni, la storia di tradimenti e umiliazioni fissata nel tempo, e invece, con lenti movimenti di macchina in esterno, i pochi momenti felici; e mettendoci anche molto di suo nel filmare l’annientamento di una donna, intensamente interpretato dalla grande attrice protagonista e nell’evidenziare nel dolore silente della bambina il culmine della tragedia e la causa principale di tanto rimorso. BUONO Carla Testorelli - Un Bergman spietato verso se stesso, capace, come al solito, di vivisezionare i mille e più risvolti dell’animo umano. Il film, diretto dall’attrice simbolo Liv Ullmann, racconta, alla maniera di Scene da un matrimonio, la storia di un triangolo amoroso. I tre protagonisti – un direttore d’orchestra, sua moglie e l’amico regista teatrale, coinvolti in un’apparentemente banale “storia di corna” (la moglie Marianne si concede una scappatella sentimentale con il regista) – vengono risucchiati in una sempre più inelluttabile spirale di amore-morte. Marianne diventa l’oggetto e la vittima delle passioni contorte e distorte dei due uomini che l’hanno amata. Passioni insane che spaziano dalla gelosia al desiderio di vendetta, passando attraverso la terribile arma del ricatto. Alla fine nessuno si salva: rimane solo il volto del vecchio Bergman-Josephson con il suo rimorso e il suo rimpianto: il maestro che si identifica nel film nella figura del regista, ha rovinato la vita della donna amata ed è stato incapace di costruire con lei un amore completo. Ci vuole una grande abilità per tenere lo spettatore incollato alla poltrona, utilizzando un modo di raccontare che si avvale principalmente dei primi piani; manca l’azione, mancano gli esterni, tutto si svolge all’interno dell’anima. Il sangue e lo sperma non si vedono, ma si respirano e si appiccicano alla pelle. Ottima l’interpretazione della protagonista. Unico difetto, un eccesso di accademismo e di autocompiacimento. Marcello Napolitano - Buono, soltanto e non ottimo, perché, Mereghetti docet, manca la dovuta distanza tra regista e spettatore: il regista, con la recitazione degli attori (es.: brevi interruzioni nella frase per mettere in risalto parole e concetti di assoluta evidenza e talvolta banalità); gli occhi di Josephson-Bergman sempre lucidi e sgranati, sul punto di scoppiare in lacrime (ma una persona di quella cultura e sensibilità, non poteva capire, prima della vecchiaia, gli effetti del suo comportamento? So bene che qualunque pentimento va rispettato, ma ho sempre diffidato di quelli tar- divi), continuamente sembra volerci dire: «guardate com’è importante questa rivelazione, guardate che drammi ci sono nelle coscienze delle persone!». Mi è poi parsa addirittura ridicola la Parigi delle strade con le scalette (lo faceva Duvivier sessanta anni fa) o le valigie con le etichette degli alberghi. Altro elemento di fastidio il ricatto dei sentimenti dei bambini tristi, che cantano tristi ritornelli, raccontano tristi favole, etc. Attori eccellenti (salvo Markus il musicista), fotografia eccellente, dialoghi interessanti, una pedissequa osservanza dello stile del Maestro, inclusi una profluvie di moduli bergmaniani (le donne in primo piano, la musica del Flauto magico [suo grande successo], lo stupro della moglie separata [Scene da un matrimonio],...) non riescono a ricreare quell’atmosfera cupa e oppressiva di molti capolavori di Bergman ma piuttosto creano una commedia di costume forse apprezzabile ma certamente scontata. Spero onestamente che il mio giudizio, relativamente negativo, non sia influenzato dal giudizio morale sulla vicenda del vecchio regista. Pierangela Chiesa - Un film coinvolgente. I tre protagonisti, che con le loro scelte fatali precipitano inconsciamente verso il luttuoso epilogo, hanno la drammaticità dei personaggi delle tragedie greche, ambientate però in un paesaggio nordico essenziale, quasi astratto. Come la figura della piccola Isabelle, spettatrice impotente di eventi che non può e non sa modificare. Peccato, tuttavia, che, soprattutto nella prima parte, il dialogo sia troppo prolisso e pregnante al punto da generare nello spettatore qualche momento di stanchezza. Ottima la recitazione, di Marianne in particolare. Paola Stefanotti - Non sento la vera ispirazione, trovo il film troppo studiato a tavolino anche nei minimi particolari. I sentimenti e i rapporti sono molto, troppo squallidi: l’amore non esiste, nemmeno quello materno. La chiave di lettura che può riscattarlo è l’espressione di una depressione e di un rimorso che, avvicinandosi il momento della morte, fa ripercorrere al protagonista in chiave solo negativa, il visL’INFEDELE 145 suto di quel periodo. Per me gli unici momenti di vero, autentico sentire sono la scena in cui Bergman accarezza la mano a se stesso giovane, in un gesto di compassione e quando, di fronte al dolore dei ricordi, urla, ma nessun suono esce dalla sua gola. Carlo Chiesa - Il capolavoro di Bergman, per me, è satto aver “concesso” alla fedele Liv di raccontare la sua biografia sentimentale (ma solo una parte!) senza aver l’aria di autoincensarsi o assolversi. La brava Liv, attenuando le sue convinzioni femministe, ha svolto il suo compito con grande professionalità e misura, facendo emergere la figura di un Bergman disperato e pentito ma, allo stesso tempo, ancora orgoglioso e cinico, anche con se stesso. Degna allieva di tanto maestro, ha rispettato – anche tecnicamente – le note scelte del mito (simbolismi, silenzi, espressivi primi piani) aggiungendo, di suo, una maggiore umanità (nel senso più lato). L’inserimento della figura della figlia è meramente pretestuoso. Nel loro egoismo, i due non l’hanno troppo considerata. Michele Zaurino - Si è spenta la lanterna magica, rimane solo la lanterna, cioè la capacità di osservare e approfondire la conoscenza dell’animo umano e dei rapporti interpersonali, insinuando dubbi e costringendo lo spettatore a interrogarsi. Liv Ullmann esegue perfettamente il suo esercizio di stile, rifacendosi in modo evidente a Scene da un matrimonio. Manca però l’incanto del cinema di Bergman, padrone non solo della parola, ma anche della poesia delle immagini, in un mirabile equilibrio tra cinema e teatro. L’infedele ci fa sicuramente riflettere su alcuni grandi temi della vita e si fa apprezzare per l’interessante gioco delle parti ma risulta privo di quel tocco che distingue l’opera di un bravo regista dal capolavoro di un grande maestro. DISCRETO Gabriella Rampi - Un film duro e spietato, che mette a nu146 L’INFEDELE do le debolezze dell’animo umano. Infedele la donna che con leggerezza e quasi per gioco rovina la sua vita: ben più “infedeli” i due uomini: il marito, che la tradisce fin dall’inizio del matrimonio e la umilia comprando un’ultima volta il suo corpo, con il ricatto per l’affido della figlia, e l’amante che la lascia sola nei momenti più difficili e la violenta psicologicamente con le sue morbose indagini. Sabrina Bergamasco - Più che a un film, mi è parso di assistere a una seduta psicanalitica. In effetti la vicenda narrata avrebbe potuto interessare a più di uno studioso, per lo spiccato masochismo della protagonista femminile e l’insulsaggine dei personaggi/antagonisti maschili. Ciò che rimane più impresso è la freddezza: degli ambienti, dei colori, ma anche degli animi dei protagonisti. MEDIOCRE Pierfranco Steffenini - Il film, quasi interamente girato in interni, è prezioso per soluzioni registiche ricercate, scavo psicologico dei personaggi, eccellente interpretazione. Ma è anche lento, oltre che inusualmente lungo. Giudizi che attengono alla forma, se si vuole. Sul piano dei contenuti, il film è completamente negativo. Salvo la figlioletta innocente, non c’è un personaggio positivo. Sotto la superficie dei rapporti educativi, disinvolti, si celano solo egoismo e disperazione. Una storia squallida, in una cornice intellettualistica. Cristina Casati - Film estremamente datato anni Sessanta/Settanta, con la sua enfatizzazione verbale (e purtroppo anche sostanziale) su un “privato” banale e scontato. Effetto perverso della psicanalisi, che non si rassegna a riconoscersi per quello che è realmente: un movimento culturale a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il mondo è fortunatamente un po’ più grande di quanto pensi Bergman (o la sua epigona). In the Bedroom CAST&CREDITS regia: Todd Field sceneggiatura: Robb Festinger, Todd Field, dal racconto Killing di Andre Dubus fotografia: Antonio Calvache montaggio: Frank Reynolds musica: Thomas Newman interpreti: Sissy Spacek (Ruth Fowler), Tom Wilkinson (Matt Fowler), Nick Stahl (Matt Fowler), William Mapother (Richard Strout), William Wise (Willis Grinnel), Celia Weston (Katie Grinnel), Marisa Tomei (Natalie Strout) origine: Usa, 2001 durata: 2h11’ distribuzione: Medusa IL REGISTA Todd Field è nato a Pomona (California, Usa) il 24 febbraio 1964. Ha cominciato a recitare dopo essersi diplomato a Portland, in Oregon. Musicista jazz per passione, si è trasferito a New York per studiare recitazione, e qui ha cominciato a lavorare con la compagnia dell’Ark Theatre sia come attore che come musicista. Ha ottenuto un ruolo in Radio Days di Woody Allen nel 1987 ed è stato premiato dal Sundance Film Festival nel 1993 per la sua interpretazione in Ruby’s Paradise di Vincent Nunez. È comparso anche in Parlando e sparlando di Nicole Holofcener (1996), vincendo per quel ruolo il gran premio della giuria al festival di cinema americano di Deauville. Il suo ruolo più noto è quello del misterioso Nick Nightingale, il musicista di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick (2000). Contemporaneamente Field lavora come sceneggiatore e regista: il suo primo film, When I Was A Boy, è del 1993, ed è stato mostrato al Moma di New York. Il successivo, Nonnie e Alex, (1995) è stato premiato dalla giuria al Sundance e ad Aspen. In the Bedroom, il suo lungometraggio d’esordio, ha ricevuto il plauso della critica internazionale e ha ricevuto cinque nomination agli Oscar 2002. IL FILM Una graziosa cittadina sulla costa del Maine. In una graziosa villetta vive una graziosa famiglia. Il padre, Matt, è medico, la madre, Ruth, musicista, dirige una corale di fanciulle, il figlio, Frank, studente di architettura, pur contrastato dalla madre, ha una relazione quasi coniugale con una giovane donna, separata da un marito violento da cui attende di divorziare. E da questo marito violento che cominciano i drammi, perché un giorno, geloso e furioso, uccide Frank. Segue un lutto che potrebbe ricordare quello della Stanza del figlio. Non solo quando il padre contempla muto, nella “bedroom” del titolo, e cioé nella camera da letto del defunto, il cuscino con ancora l’impronta della testa, ma quando, fra i due coniugi, cominciano dei fortissimi dissidi, l’uno rimproverando all’altra la responsabilità morale di quella IN THE BEDROOM 147 11 morte. Il lutto, però, allontanando definitivamente da un confronto con La stanza del figlio, si fa anche più doloroso e pesante quando la giustizia, non esssendoci stati testimoni all’omicidio, non solo libera dietro cauzione il responsabile, ma rischia di condannarlo a pochi anni di carcere. Da qui un finale che definire con un termine di moda in America “politicamente scorretto” sarebbe certamente troppo blando. Però, anche se non potrà lasciare a dir poco sconcertati, si deve riconoscere all’esordiente Todd Field [...] di esserci arrivato con una preparazione psicologica molto attenta. Prima con quel quadretto familiare che, pur ricordando gli antefatti dei vecchi film “catastrofici”, riesce a chiarire bene i reciproci rapporti dei tre [...]. Poi, dopo le pagine sul lutto, [...] quell’inatteso cambiamento di registro che vede farsi il padre in primo piano con una determinazione addirittura gelida, senza più possibilità di tornare sulle proprie decisioni. Un ribaltamento di climi che, appunto, sul piano morale desterà perplessità, costruito però almeno con una sua logica, narrativa e drammatica. (GIAN LUIGI RONDI, Il Tempo, 15 marzo 2002) LA STORIA Frank, studente alla vigilia dell’università, si è innamorato di Natalie, più grande di lui, divisa dal marito e con due figli da tirar grandi. Il padre, Matt Fowler, medico, e la madre, Ruth insegnante di musica, guardano a quella storia in modo diverso, tutti e due convinti che lo studio e lo spostamento a Boston finirà con l’allontanare il loro, unico figlio da quell’amore. Frank sembra però aver rimandato l’idea di prendere sul serio l’ingresso al college. Lavora come pescatore in una azienda del posto, nel Maine, e si è ormai affezionato anche a quei bambini che vedono in lui un quasi papà. Ma il papà vero, Richard, non ha nessuna intenzione di far posto allo studente e arriva a ricordare la sua presenza, proprio quando nessuno lo aspetta, anzi contravvenendo alle attese. Ruth esprime la sua preoccupazione al marito, e lui le risponde che secondo lui non fanno sul serio. Anche 148 IN THE BEDROOM Frank spera di convincerla, ricordandole le sue brevi storie precedenti. Ma un giorno Natalie trova a casa, seduto ad aspettarla, proprio Richard, che le dicedi star pensando a ritornare, e che la prega di poter riprovare. Natalie è stanca di quell’uomo e non crede a quelle parole, quindi lo manda via. A pagare quell’allontanamento è Frank, su cui Richard sfoga la sua vendetta. Ed è il padre che deve medicargli un occhio, conseguenza di quella che lui definisce soltanto una zuffa. Ruth è in allarme, vuol sapere dal figlio se ha chiamato la polizia. Il ragazzo non ha alcuna intenzione di farlo. Allora chiede aiuto al marito, che preferisce prender tempo. Ma Richard ormai è in preda all’odio e una telefonata del bambino più grande costringe Frank a intervenire ancora per tentare di allontanarlo da Natalie, che è spaventatissima. Richard questa volta oppone resistenza e ha già deciso cosa fare. Ha con sé un’arma e la punta al volto di Frank, che inutilmente cerca di parlargli. La morte del figlio scava tra il dottor Fowler e la moglie una distanza di cui tutti e due non sembrano prendere coscienza. Ruth dopo la scuola si chiude in casa, Matt, al contrario, dopo il suo lavoro ritrova gli amici e le partite di carte al bar. Da loro si sente chiedere del processo: «Ci andrai?» Risponde che lo deciderà Ruth e che comunque, dice il loro avvocato, si tratterà di una formalità. E si arriva alla prima udienza. Si discute la cauzione che consente a Richard di uscire, in attesa del giudizio che può essere rinviato di qualche mese. In aula c’è anche Natalie, chiamata a dare la sua testimonianza, e sono le sue parole che diventano per la difesa la prova che quel delitto può essere definito omicidio colposo. Natalie riferisce al giudice di aver sentito uno sparo, senza però averlo visto. I genitori di Richard danno in cauzione gran parte del loro patrimonio. L’avvocato dei Fowler spiega loro che quella è la legge. La condanna prevista in caso di omicidio colposo va dai cinque ai quindici anni. Per i Fowler la prospettiva che Richard possa cavarsela solo con pochi anni di carcere e che nell’attesa sia stato rimesso in libertà è inaccettabile. Matt vuole capire l’atteggiamento di Natalie che gli ripete di non aver mentito e tenta di trovare tra gli amici di Richard qualcuno che gli fornisca una testimonianza a cui appellarsi, senza però raccogliere alcuna disponibilità. Ruth cerca un po’ di pace tra i suoi ragazzi e poi nelle parole del prete, che va ad aspettarla al cimitero. Ma è la visione dell’assassino di suo figlio, che incontra sempre più spesso quando esce, a sconvolgerla. E la sera in cui il marito le chiede la ragione del suo ormai insostenibile silenzio, lei gli rovescia addosso con il suo dolore anche tutta la sua rabbia. Saltano fuori vecchi rancori, a cui Matt risponde con verità che fanno male a tutti e due. Un lungo sfogo crudele che viene interrotto dal suono del campanello: è una ragazza che vende cioccolato per beneficenza. E la pausa inattesa diventa per entrambi il tempo della riflessione e del pentimento. Quel tormentato chiarimento resta per il dottor Fowler un momento decisivo. Vuole evitare che sua moglie rincontri Richard. Vuole che non le capiti più di trovarselo davanti agli occhi. E studia un piano che intende portare a termine senza più esitazione. Matt ha saputo che Richard gestisce un bar. Con l’aiuto di un amico, in piena notte va ad aspettarlo quando chiude il locale. Lo obbliga a salire sulla sua auto, lo costringe ad andare a casa e fare una valigia. Gli dice: «Da oggi sei latitante. Prenderai un aereo e sparirai. Ho pensato a tutto. Noi non vogliamo il processo. Per mia moglie è una prova troppo dura. Non vogliamo più incontrarti». Parole che servono solo a tenere a bada la situazione. Nel buio della notte, il dottor Fowler spara a Richard. L’amico lo aiuta a sistemare il cadavere in un sacco e a farlo sparire nel bosco. Prima dell’alba ognuno è di nuovo a casa sua. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Parlando di In the Bedroom molti ricorderanno La stanza del figlio. Il nocciolo delle due storie è simile: l’afflizione che si impadronisce dei genitroi all’inaspettata morte di un figlio. Ma i film di Todd Field e Nanni Moretti [...] rispondono a prospettive diverse. Moretti, se si vuole, è un cattolico che ha perduto la fede e i suoi personaggi, dopo la prova del dolore, pervengono infine a una riappropriazione del reale. Field può definirsi un calvinista. Assecondando una linea minoritaria ma feconda nella letteratura e nel cinema nordamericano (si veda l’intenso Affliction di Paul Schrader), Field osserva con apparente distacco delle persone che sono attirate all’interno di una spirale negativa. Dei predestinati, dunque, alla perdizione. Intorno a loro la luce della Grazia andrà spegnendosi. Fino a metà del racconto sembra che Field voglia esaminare la costernazione che prende ciascuno di noi quando scopre che la giustizia degli uomini può non coincidere con un codice morale che, oltre al perdono, prevede la punizione del reo. Ma non è questa la sua intenzione. [...] Todd Field lavora sui particolari. Li seleziona, li stacca dal quadro, li inspessisce, li rende ossessivi. Sottolinea il rarefarsi del calore che pareva la forza della famiglia Fowler. Alla luce tiene dentro l’eclisse. E qui, [...], abbandonato il registro realistico, si apre a suggestioni calviniste, facendo dei due genitori – dei quali fin qui ha condiviso l’afflizione – dei predestinati alla perdizione. C’è un rimando esplicito a una colpa iniziale: dopo la nascita del prinogenito, Ruth ha sacrificato un secondo figlio (il marito era all’inizio della carriera...) e ha cresciuto Frank con severità, mai nulla perdonandogli. La disgrazia ne ha mutato il cuore. La donna allontana con durezza l’incolpevole Natalie che ha cercato un dialogo con lei, e convince il marito alla più atroce delle vendette: a prendere, suggerisce Field, il posto di Dio, eliminando l’uomo che ha ucciso Frank. Sissy Spacek coglie con duttilità le durezze di un personaggio che si nasconde sotto la dolcezza dei modi e Tom Wilkinson sottolinea perfettamente la debolezza del marito. Il lavoro sugli attori si accompagna a una ricerca tonale delle immagini, che colgono sapientemente il rarefarsi della luce in coincidenza dell’inardirsi degli animi. Un film, dunque, di robusta sostanza tematica e stilistica. (FRANCESCO BOLZONI, L’Avvenire, 15 marzo 2001). Immaginate che un vostro amico sia in preda a un solore senza soluzione. Immaginate di ascoltarlo per novanta minuti d’orologio mentre ripete una litania di lamentele sempre uguali con lo sguardo fisso sul vuoto. Al novantunesimo IN THE BEDROOM 149 minuto sentirete il bisogno di uscire a fumare, telefonare, fare una pausa. Verosimilmente, al vostro rientro l’amico sarebbe ancora nella stessa identica posizione di prima. Ma c’è la probabilità, per quanto scarsa, che abbia approfittato della vostra assenza per buttarsi dalla finestra o strozzare un malcapitato. Su questo margine di incertezza giocano i momenti migliori di In the Bedroom. Si intuisce che nella schiera di personaggi toccati dalla scomparsa di Frank qualcuno elaborerà il lutto in maniera molto più radicale. Chi però avrà l’onore di impazzire per primo? [...] Si vorrebbe subito la soluzione, e intanto si assiste allo spettacolo di un dolore noioso e interminabile. Ma se si cede alla voglia di uscire dalla stanza si rischia di perdere il mezzo minuto in cui cambia tutto. [...] Se la Stanza del figlio fosse stato un film americano lo avremmo definito ricattatorio? Su In the Bedroom verrà detto ben di peggio. Estenuante. Lento. Stravisto. Obiezioni per certi versi condivisibili, ma a Field va riconosciuto almeno un merito: porta la soglia di sopportazione del dolore molto oltre i limiti canonici del cinema medio, senza offrire in cambio lacrime o empatia, negando l’esistenza di una qualsiasi via d’uscita che non preveda un nuovo spargimento di sangue. Ci chiede di abbassare le armi di fronte alla morte. E, magari, di restare svegli ad aspettare il momento in cui entrerà in casa nostra. (VIOLETTA BELLOCCHIO, Duel 95, marzo/aprile 2000, pp. 14-5) In the Bedroom è un film che comincia come La stanza del figlio e finisce come Il giustiziere della notte. Anzi, come Un borghese piccolo piccolo. Finora ha goduto di un consenso degno di miglior causa. Cinque nominations ed elogi sperticati sia dai critici americani sia da quei giornalisti italiani che, liberi di scrivere di cinema tra una nota di costume e un fondo politico, lo hanno definito “un grande film, compatto, inesorabile, commovente”: una riflessione sull’elaborazione del lutto, sui limiti della giustizia terrena, sulla crudeltà del matrimonio. Troppa grazia. In realtà si tratta del tipico prodotto per spettatori di buone letture: ha dei protagonisti educati, un tema importante, dialoghi “in punta di penna”, gusto per i dettagli “carichi di significato”, una colonna so150 IN THE BEDROOM nora di scampanellii e cori balcanici. Ma poiché gli spettatori di buone letture spesso sanno leggere ma non sanno guardare, pochi si sono chiesti cosa contenga davvero questa confezione bergmaniana che simula rigore e pensosità. [...] Come nella Stanza del figlio, la tesi è che il dolore ferisce e allontana anche chi si vuole bene (ma la messinscena è più banale: sguardi nel vuoto, situazioni impostate: mai un momento di verità, il coraggio di essere piatti e diretti, di far piangere lo spettatore). E a questo punto però, che il film prende una piega inaccettabile: l’assassino viene lasciato libero e i genitori elaborano il dolore convertendolo in rabbia omicida. Per lo spettatore è un momento di catarsi (il cattivo che viene finalmente eliminato come nei western, l’alba che arriva, l’odore di caffé) ma insieme di vergogna: i coniugi Fowler sono dei giusti o dei mostri? Ed è giusto o mostruoso essersi identificati con loro? Ora, la chiave del film è più etica che esistenziale: la morte dell’innocente non fa prendere coscienza dell’insensatezza del tutto, ma porta a interrogarsi sulla colpa e sulla punizione. Lo spunto è legittimo, sia chiaro. È lo sviluppo ad essere inadeguato. Passi la rinuncia a una prospettiva metafisica. E passi questa voglia di dare un nome alle cose, di rendere tutto concreto e tangibile. Ma poi il Cattivo è davvero troppo cattivo, ed è vergognoso insinuare che la colpa del sangue sia tutta delle donne (è per accontentare la moglie anaffettiva che il povero padre di famiglia diventa assassino; e nel finale, dopo aver visto una foto in cui Natalie sorride abbracciata all’ex marito, gli viene pure il dubbio che la ragazza li abbia fregati tutti...). E questa sarebbe la profonda meditazione sulla morte e sul dolore? Siamo piuttosto all’ossessione americana di sempre: l’irruzione dello Straniero nel sacro spazio familiare, elevato a universo esclusivo, misura di tutte le cose. Se c’è una “morale”, anzi, è delle più castranti: mai ribellarsi alla legge dei padri (e delle madri), mai buttarsi via, mai regalare l’amore che non si è ricevuto, come fa Frank scegliendo Natalie in pacifica rivolta contro la violenza del mondo adulto (quella subdola dei genitori e quella esplicita del marito di Natalie). si finisce male, e ai genitori (che avevano previsto tutto...) tocca sporcarsi le mani per rimettere a posto questo mondo marcio. Insomma, a contestare sul serio quell’asfittico universo borghese Todd Field non ci pensa neppure. Non c’è nessuno sforzo di aprirsi agli altri, di immaginare una giustizia che non sia vendetta, e la tragedia come messa in discussione di sé, non una distribuzione di torti e ragioni, la conferma dei nostri valori più radicati (il Male sempre fuori di noi...). Che una simile visione del mondo non venga da un acrion-movie, ma da un film che ha l’ambizione e i ritmi del film d’essai è piuttosto triste. un tempo, una storia del genere avrebe scatenato un mare di polemiche (si pensi all’accoglienza riservata al film di Monicelli, che almeno era volutamente provocatorio). Oggi, evidentemente, ci sembra normale che un a tranquilla coppia middle-class si faccia giustizia da sé: lo spettatore gode dell’eliminazione del cattivo, poi cade in estasi davanti allo stile “compatto e inesorabile”, così attento ai dettagli e ai silenzi. Ma lo stile mon vale nulla senza un punto di vista, ed esiste una retorica della sottrazione che produce enfasi a buon mercato (si veda la manierata sequanza della morte di Frank [...]). In the bedroom non ha lo spessore, la solidità, l’ambiguità morale del classico, né la profondità e la scomoddità dell’autentico cinema d’autore. Non è neanche un brutto film, tra parentesi, ed è questo il guaio. (VINCENZO BUCCHERI, Segnocinema 115, maggio/giugno 2002, pp. 48-9) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Teresa Deiana - La distesa di villette bianche immerse nel verde che, nella ripresa dall’alto, suggerisce sensazioni di serenità e armonia, somiglia a quella vista in American Beauty. Come in quel film anche in questo, dietro le pareti immacolate che proteggono vite prevedibili e tranquille, divampa inaspettata la tragedia. Ma qui prevale il lutto, intimo e sofferto, di un uomo e una donna che vengono talmente lacerati dal dolore da far loro smarrire del tutto l’equilibrio che li univa “prima”. La vendetta appare dunque l’unica via per ritrovarlo e reagire a uno strazio dell’anima impossibile da sopportare. E proprio nell’esame di questa situazione che emerge il talento del regista, che con tratto asciutto ed efficace rende l’insostenibile tensione che opprime la coppia e che, con un crescendo continuo, porterà l’uomo all’assassinio. Avverrà la catarsi, o lo strazio rimarrà talmente vivo che neanche la vendetta ridarà tranquillità ai due? Sono i gesti quotidiani, le occhiate, gli atteggiamenti inconsci che descrivono i momenti drammatici e non, di questo ottimo film nel quale, quasi in sordina, viene rievocato un dramma che in mano meno felice avrebbe potuto avere il deprecabile taglio, spettacolare e cruento, verso il quale certo cinema va sempre più orientandosi. OTTIMO Rosa Luigia Malaspina - Anche a distanza di giorni riprovo le emozioni che mi ha dato questo film. Ho sentito il dolore lacerante per la vita rubata del figlio, rabbia per la mancanza di giustizia, per la giustizia dilatoria, inconcludente e soprattutto rimorso per la vendetta, per l’altra vita rubata. Ho percepito il gelo di Ruth quando ha chiesto “Tutto fatto?” e il malessere fisico di Matt. Il ricordo della foto della coppia che sorride felice di Natalie e l’ex marito turba, insinua dei dubbi: forse qualcosa ha saputo dare anche l’assassino. E comunque è giusto farsi giustizia da sé? Tutto cambia e prende contorni diversi, dopo. Stridente il contrasto tra il dramma interno e l’armonia del paesaggio ripreso nelle ultime scene. Pare sottolineare che il problema sta nell’animo, nel cuore dell’uomo. Piergiovanna Bruni - Una direzione geniale quella di Todd Field che ci presenta una storia toccante sul dolore per la tragica perdita di un figlio amato. Più che sul dolore il regista si sofferma sul sentimento di vendetta che si instaura nei genitori del ragazzo ucciso, quando la giustizia non è in grado di dare soddisfazione e genera di conseguenza sentimenti ossessivi. Ma la vendetta personale è solo una lacerazione ulIN THE BEDROOM 151 teriore. Ora al dolore si sovrapporrà il senso di colpa e il disagio di questa coppia sarà senza ritorno. Atmosfere tese in cui la tragica elaborazione del lutto si dilata dallo stato di angoscia di questa madre disperata, fino all’istigazione alla vendetta. E un’apparente liberazione colma di rancore che si può comprendere certo, ma che bisognerebbe evitare. Il cast degli attori è affiatato e spicca per bravura Sissy Spacek. Stefano Guglielmi - Quando la giustizia non disseta il desiderio di condanna del colpevole si sviluppa il gene della vendetta. Quanda il padre parla con l’avvocato sul marciapiede di lui si inquadrano gli occhi ansiosi di una risposta certa, dell’avvocato, rappresentante la giustizia, si inquadra solo la bocca, una voce senza volto, un’interfaccia generica, ma il suono delle parole viene coperto dal tintinnare delle monete agitate nella tasca: la risposta molte volte generica della giustizia a drammi differenti, le parole vuote non colmano il vuoto fisico e il dolore interiore. Alberta Zanuso - Non sono riuscita a trovare analogia tra questo film e quello di Moretti, se non nel fatto che in ambedue c’è la morte violenta di un figlio. Mi sto ancora chiedendo perché questo di Field mi abbia molto più coinvolto. Come cristiana mi spaventa il fatto che, proprio nel momento in cui questi genitori disperati decidono di vendicarsi, si prova un grande sollievo, una sorta di catarsi liberatoria. Ottimi gli attori: la madre nella sua straziante rigidità, la giovane donna involontaria colpevole della tragedia, e il padre, che, pur in un’apparente ottusità, riesce a farci partecipi del suo incontrollabile dolore. Rolando Silva - Più che la tragedia in sé, quello che ci tiene avvinti è il dramma psicologico di un dolore così sottile, che rimane presente e sottinteso per tutto il film. La regia è ottima, il filo essenziale del dolore si infiltra anche nelle scene serene che collegano paesaggi e ambienti. Paolo Berti Arnoaldi - In un paese da fiabe, Camden, mare, pesca, boschi, giardini fanno meravigliosamente fotografati, 152 IN THE BEDROOM da contorno a una vicenda amarissima. La poesia è a tratti eloquente, non solo per quel viso straordinario del compagno di gioco, ma anche nell’avvio d’amore nel campo di grano, nelle prove di canto, nelle riprese della pesca e nel bosco. La vendetta finale, che risolve tragicamente le ansie di giustizia dei due coniugi, è una soluzione esagerata che certamente porterà altro dolore e altri dissidi, quindi eticamente da condannare. Perciò per me il film è ottimo e non da premio come meriterebbe la splendida condotta cinematografica. BUONO Andrea Vanini - Mi è sembrato poco convincente, seppure comprensibile, il movente dell’atto di “giustizia” (è poi così vero che non era un omicidio colposo?). E poi così moralmente accettabile l’omicidio – questo sì! – premeditato che fatalmente rimane impunito affinché i coniugi – per un breve momento si spera – possano riappacificarsi? Carla Casalini - Estremamente coinvolgente, splendidamente recitato, il film ha una svolta verso un finale imprevisto, al quale non ci ha sufficientemente preparato. Il paragone comunque, più che con La stanza del figlio, mi pare si possa fare con Un borghese piccolo piccolo, dove, nell’evoluzione dei personaggi e soprattutto del padre, il desiderio e il gusto della vendetta si impongono con molta maggior coerenza. Carla Testorelli - Che bravo questo regista che con abili tocchi ci conduce, sequenza per sequenza, a indagare negli oscuri e complessi meandri dei rapporti di una coppia non più giovane toccata dalla morte violenta del figlio. L’azione si sviluppa in un contesto sociale molto ben delineato, dove i protagonisti vivono la loro apparentemente serena quotidianità. Nel villaggio di pescatori, dove il padre esercita la professione di medico, il mare e il molo sono i punti di riferimento della giornata, mentre le serate scorrono in una ta- verna fumosa dove gli amici, protagonista compreso, si incontrano per giocare “creativamente” a carte. Poi irrompe, accuratamente preparata, la tragedia: il figlio viene brutalmente freddato da un colpo di rivoltella. La vita della coppia è sconvolta, anche se i protagonisti cercano di mantenere rapporti civili. Ma appare ben evidente che ognuno vorrebbe elaborare il proprio lutto in solitudine. Soprattutto il padre: quanta rabbia contenuta in quel suo continuo tagliare l'erba del giardino, quanta straziante tenerezza nell'incontro con la ragazza, causa involontaria della tragedia, quasi un desiderio di recuperare una parte del figlio. Inevitabilmente arriva il confronto. Tutto il “non detto” nascosto nelle pieghe più profonde dell’anima affiora puntualmente sulle labbra dei protagonisti che si rinfacciano con feroce crudeltà le reciproche e insospettabili colpe. Non c’è più via d’uscita. Resta solo la vendetta, forse inevitabile, ma non consolatoria. Qui il film cambia improvvisamente registro e acquista il ritmo di un thriller. Si passa dall’introspezione all’azione, sfiorando purtroppo il mélo. niugi; il dolore, o meglio lo straniamento che il dolore provoca, la sensazione di non sapere più in che mondo si vive, con che scopo, la perdita di volontà di vivere, la routine come rifugio al senso di inutilità. Strano invece resta il salto psicologico del passaggio alla vendetta, con il buono che si trasforma in vendicatore e gli amici che gli danno una mano: la mente degli uomini è insondabile, ma il meccanismo psicologico che conduce alla vendetta mi sembra terribilmente discontinuo; capisco che si possa immaginare, ma passare alle vie di fatto è un altro discorso, stringere in mano una pistola e uccidere un essere umano non è cosa di poco conto; capita nei film western, dove la vendetta è sacra, ma in condizioni di legge a dir poco carenti. Qual è il messaggio del regista? Che sotto un leggero strato di vernice civilizzata restiamo tutti con le stesse passioni e pulsioni dei nostri antenati dediti alla pratica della vendetta? Che la vita moderna è solitudine? Certo ci sono questi messaggi, ma a mio avviso, la vicenda non li descrive in modo del tutto convincente. Marcello Napolitano - Film interessante, soprattutto se si considera il regista come un quasi esordiente, ma che si dimostra capace di manovrare una complessa macchina con disinvoltura. Il piccolo, lindo paese di fiaba, il buon dottore sempre disponibile, la mamma sensibile e angelica, i vecchi amici ecologisti e che non fanno male a un’aragosta (se al disotto delle dimensioni legali): tutto un mondo di ordine e tranquillità che esplode quando gli affetti sono gravemente feriti da un omicidio, spiegabile solo con la follia dell’orgoglio ferito e della gelosia. Il padre che si aggrappa al figlio per portare avanti le sue aspirazioni a una libertà di cui forse non ha goduto ai suoi anni, si ritrova con un cadavere tra le braccia e un’estranea nel letto. Il titolo allude a una delle numerose camere da letto del film; a mio avviso, la più importante è quella dei genitori, dove si consuma il dramma del dolore; genitori che come tronchi cui sia stata sottratta appunto la linfa vitale muoiono all’interno ma rimangono in piedi e fingono di essere ancora vivi. Molto ben descritta questa parte della tragedia: il dolore che allontana i due co- Cristina Bruni - Il film trasmette il forte senso di ingiustizia, con un’autocritica del sistema giudiziario anglosassone a tratti soprendente. Su un altro piano, privato, riflette il dramma di una famiglia che non c’è più, dove il poco amore rimasto tra i coniugi cede lentamente il passo a sensi di colpa, critiche reciproche, rimorsi e rimpianti che culminano nella vendetta consumata come un rituale di necessitata riappacificazione. In realtà è impensabile – e delude in questo senso la parte finale del film – che gente normale, ordinari cittadini, possano uccidere e poi vivere come se nulla fosse accaduto. Nell’ultima scena il protagonista guarda la propria mano ferita: la ferita si è rimarginata, ma nulla tornerà più come prima. P. G. Ottolino - La presa sullo spettatore mi è parsa più di tipo razionale che emotivo. In modo esemplare si è condotti a verificare come la “giustizia” privata non sia né liberatoria, né consolatrice, ma isoli chi la persegue, sia dai compagni di vita che dagli amici, togliendo senso alla vita stessa. IN THE BEDROOM 153 Anna Lucia Pavolini Demontis - Film svolto con accuratezza e molta delicatezza nella prima parte. Gli attori sono ben caratterizzati. Nella seconda parte la tensione si fa sempre più forte e coinvolgente. A parte il fatto che non condivido la soluzione della vicenda e che trovo frettolosa – come per concludere in qualche modo la storia – la scena finale è di una crudezza inaccettabile. Bruno Bruni - È un sentimento sempre più diffuso quello per cui le leggi non tutelino a sufficienza il cittadino e che le troppe attenuanti nei confronti di chi delinque riducano la gravità di questi avvenimenti. La conclusione del film è molto amara, spegne ogni speranza, perché all’appagamento iniziale della vendetta seguiranno col tempo angosce e rimorsi ancora più drammatici. Gino Bergman - Il parallelo con il film di Nanni Moretti è solo superficiale. Il film è buono, prende lo spettatore e lo porta a constatare come la vendetta (sia dell’autorità, sia privata) non porti a nulla, anzi, all’amarezza e al senso di vuoto. DISCRETO Maria Ruffini - E un film diretto con mano sicura e ben interpretato. Lascia tuttavia lo spettatore sgomento: sembra che tutto converga verso il “bisogno” di rivalsa e di vendetta. E questo non aiuta a farlo apprezzare: uno spunto di se- 154 IN THE BEDROOM renità, un lieve sorriso lo avrebbe aperto a una migliore accoglienza. MEDIOCRE Gian Piero Calza - Chi subisce un’offesa grave e ingiusta – ad esempio gli viene ucciso un figlio innocente – può farsi giustizia da solo? E la sua una “vendetta innocente”? La risposta di questo film è: sì. In tutti i film americani che abbiamo visto, in cui si affrontava il medesimo problema, sempre si è voluta legittimare l’azione extra legem di chi vendica un torto subito. Lo spettatore si identifica con il protagonista e parteggia per lui che cerca una giustizia al di là dei formalismi giuridici: è un meccanismo narrativo e drammatico che funziona sempre. Purtroppo nel film di Todd Field (che è un’opera prima) non c’è nessuna novità rispetto agli stereotipi del genere: la vittima è simpatica, priva di colpe, con un promettente futuro da architetto; l’assassino è antipatico e violento (ma ben poco ci viene detto di lui...); la famiglia è perbene e i bambini sono adorabili; la suocera è un po’ perfida, ma dirige un coro di voci bianche... Insomma tutto il contesto umano e ambientale in cui si muoveva la vittima, e nel quale si muove il vendicatore, rende assurdo l’omicidio, rende giustificabile il comportamento del padre della vittima – sostenuto anche dagli amici più cari – rende infine la vendetta (di fronte all’inerzia della legge) motivata e innocente. Il bene ha dunque trionfato sul male? L’ultima inquadratura del piccolo centro del Maine immerso nel verde, dove tutto è pulito e tranquillo, sembra dirci di sì. Liam CAST&CREDITS regia: Stephen Frears soggetto: dal libro The Back Crack Boy di Joseph McKeown sceneggiatura: Jimmy McGovern fotografia: Andrew Dunn montaggio: Kristina Hetherington musica: John Murphy interpreti: Ian Hart (Tom Sullivan), Claire Hackett (Mrs. Sullivan), Anthony Borrows (Liam Sullivan), Megan Burns (Teresa Sullivan), David Hart (Con Sullivan) origine: Uk/Germania/Italia, 2000; durata: 1h.31’ distribuzione: Bim/Columbia IL REGISTA Stephen Frears è nato a Leicester, Inghilterra, il 20 giugno 1941. Dopo la laurea in legge a Cambridge, nel 1966 lavora come assistente di Karel Reisz e conosce Lindsay Anderson, uno dei pionieri del free cinema inglese. Inizia un lungo periodo di regie televisive e di produzioni britanniche indipendenti. Nel 1984 con Il colpo, secondo film dopo Gumshoe, del 1971, attira l’attenzione della critica. L’anno seguente lavora con lo scrittore anglo-pakistano Haneif Kureishi a My Beautiful Laundrette. Nel 1987, sempre in collaborazione con Kureishi, esce Sammy e Rosie vanno a letto (sempre sulla comunità pakistana a Londra e sul declino della società british) e Prick Up - L’importanza di essere Joe, sul commediografo Joe Orton. Hollywood si accorge di lui, e gli offre Le relazioni pericolose (1988), che lo lancia nell’olimpo dei registi. Martin Scorsese produce il suo successivo Rischiose abitudini (1990), un noir che gli frutta una nomination all’Oscar. Seguono Eroe per caso (1992), The Snapper (1993), Mary Reilly (1996), The Van - Due sulla strada (1996), Hi-lo Country (1998), un western atipico, e il fortunatissimo Alta fedeltà (2000). Liam era in concorso al Festival di Venezia 2000, dove è stato premiato dall’OCIC. IL FILM Come può nascere (come è effettivamente nato, qua e là per il mondo) il fascismo in seno alla classe operaia? Il problema non è da poco e i dolorosi personaggi di Liam rappresentano un tentativo di illustrarlo nel quadro retrospettivo di un aspetto poco noto della storia britannica. Sulla falsariga di un copione di Jimmy McGovern, autore televisivo di qualità, il regista Stephen Frears ci trasporta nel quartiere degli immigrati irlandesi a Liverpool nei primi anni Trenta. E appunto l’epoca in cui Oswald Mosley fondò la famigerata British Union of Fascists, caratterizzata da un feroce antisemitismo. A questa vicenda starebbe bene un famoso titolo di De Sica e Zavattini, I bambini ci guardano, perché la catastrofe che le conseguenze della depressione economica provocano in una famigliola serena la vediamo attraverso gli occhi di Liam, un bimbo di sette anni. Mentre la sorella Teresa (Megan Burns, Premio Mastroianni per la migliore esordiente alla Mostra di Venezia) deve andare a servizio per aiutare la famiglia, quando il cantiere LIAM 155 12 navale chiude i battenti e papà si ritrova disoccupato. Obnubilato dalla smania di trovare i responsabili delle sue disgrazie, l’operaio se la prende con gli ebrei e indossa la camicia nera, subito disponibile a qualche folle sortita da bombarolo; e purtroppo quella in cui è andata a lavorare la meschina Teresa è proprio la villa in cui abita la famiglia dell’ebreo proprietario del cantiere... Liam si rivela molto riuscito finché resta nell’ambito di un trepido minimalismo, descrivendo fra l’altro i guasti che un fanatico insegnamento religioso provoca nella scuola elementare con tutti quei minacciosi discorsi sull’inferno che terrorizzano il bambino. Qualche dubbio suscita il finale, dove Frears tenta un po’ acrobaticamente di coniugare ideologia e melodramma. Però Ian Hart è un attore che non ha paura di affrontare la sgradevolezza in un ritratto molto duro e impietoso sul quale gli storici dovrebbero meditare; e il piccolo Anthony Borrows è il migliore avvocato del film. (TULLIO KEZICH, Il Corriere della Sera, 17 marzo 2001). LA STORIA Ultimo giorno dell’anno a Liverpool, Gran Bretagna, anni 1930. Il papà di Liam con la moglie, il figlio grande, parenti e vicini di casa, festeggia al pub bevendo birra scura. I due figli piccoli, Liam e Teresa, guardano i genitori che si divertono attraverso i vetri. Un poliziotto in strada li richiama. Vuole sapere chi sono. Il volto di Liam si concentra in uno sforzo ma il suo nome non riesce a dirlo: è un bambino balbuziente. Il papà di Liam è operaio ai cantieri navali, quello che guadagna è poco, e i cantieri sono in crisi. I giornali annunciano che file di disoccupati sono sempre più lunghe. Spetta alla moglie, una donna dura e irascibile, a far quadrare con i miseri soldi che arrivano a casa le necessità di tutta la famiglia. Teresa, ragazza appena adolescente, è costretta a cercare ad andare a servizio da una ricca famiglia di ebrei, gli Abernathy. Liam, sette anni, frequenta la scuola cattolica e il programma prevede prima comunione e naturalmente prima confessione. La maestra parla del peccato e delle terribili fiamme dell’inferno che avvolgono per l’eternità chi permette alla sua anima di macchiarsi. In suo 156 LIAM aiuto arriva anche Padre Ryan che spiega meglio, con immagini ancora più drammatiche, quello che la maestra ha appena detto. Un giorno il bambino torna con una triste notizia. Ha saputo che suo padre è stato licenziato. Da quel giorno sarà il testimone della fatica che il padre deve fare per trovare un posto, degli inutili compromessi con cui tenta di ingraziarsi il capo squadra e dell’umiliazione della madre alle prese con il padrone di casa che le sollecita l’affitto. Anche Teresa, che si è conquistata la stima e la simpatia degli Abernathy, si trova al centro di una vicenda poco chiara. La signora ha un amante che riceve in casa e naturalmente all’insaputa del marito. Teresa la protegge. In cambio viene ricompensata con soldi e vestiti. Ma sua madre pensa che dietro quei pochi soldi in più ci sia qualcosa d’altro. Si avvicina il tempo della prima confessione e per Liam e i suoi compagni si fanno ancora più minacciose le immagini con cui maestra e sacerdote descrivono l’anima macchiata dal peccato. Liam è terrorizzato e si rinchiude nel suo silenzio. La maestra gli dirà «Se non mentissi, Dio ti aiuterebbe a parlare». Poi ecco il giorno della grande celebrazione: le bambine in bianco, i maschietti camicia perfetta e vestito nuovo. Dal pulpito Padre Ryan, orgoglioso, fa notare ai genitori nei banchi la bellezza dei loro figli. E a quel punto il padre di Liam, esasperato dai sacrifici imposti alla famiglia per quel rito, si alza in piedi e a voce alta dice che cosa c’è dietro a quei vestiti, i debiti che sono costati, il denaro dato all’ebreo del banco dei pegni. ll gesto segna l’inizio della sua ribellione. La depressione economica ha portato i lavoratori disoccupati a cercare aggregazione in forme xenofobe e le manifestazioni di intolleranza verso chi non è inglese trovano in città sempre più sostenitori. Il padre di Liam decide di indossare la camicia nera e di unirsi ai simpatizzanti del movimento fascista. Ma a pagare nel modo più crudele la complessa situazione in cui le è capitato di trovarsi è Teresa. Ha confessato a Padre Ryan prima della comunione quello che ha visto della famiglia ebrea, e l’ordine che ha ricevuto è licenziarsi. Teresa non può fare altro. Accompagnata dal fratellino che l’aspetta fuori, si presenta a casa Abernathy e ammette quello che da parte della figlia è il sospetto sulla sua decisione: «è perché siamo ebrei?». E in quel momento una bottiglia incendiaria lanciata attraverso la fine- stra avvolge Teresa in una fiammata. Responsabile è involontariamente il padre, coinvolto in un’azione punitiva contro gli ebrei. Teresa si salva, ma il suo corpo ormai è segnato da quella bruciatura Eppure ha per il padre ancora parole di scusa. Liam le sta vicino, passandole dolcemente il pettine tra i capelli. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Dopo la brillante divagazione nella commedia di Alta fedeltà, Frears mette in immagini minimaliste un romanzo semiautobiografico di Jimmy McGovern, alternando con lodevole senso dell’equilibrio i toni allegri e quelli amari. Se i fatti sono tristi, dolorosi o addirittura disperati, il film (la produzione è Bbc e le inquadrature soffrono di una certa angustia televisiva) non rinuncia a una certa leggerezza di tocco, ottenuta filtrando gli eventi con gli occhi di un piccolo umorista senza saperlo. La sceneggiatura, scritta bene, articola la progressione degli eventi in un crescendo efficace; anche se scivola nel didascalismo quando s’impegna a dimostrare la genesi della paranoia del disoccupato. Tutto il cast è perfettamente all’altezza del compito: dal versatile Ian Hart alla giovanissima Megan Burns [...], a Claire Hackett a Anthony Borrows, bimbetto dalla faccia di gomma che inciampa nelle parole ma sa guardare la vita con l’ottica giusta. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 19 marzo 2001) Prodotto dalla BBC e diretto, a partire da romanzo di Jimmy McGovern, dal più letterario dei registi inglesi, Liam [...] sembrerebbe quasi il pilot di una serie televisiva sulle avventure di un bambino fotografato nel momento in cui si affaccia ai misteri della vita, in una comunità irlandese schiacciata sotto il tacco della Chiesa Cattolica sempre pronta a minacciare dannazione eterna e fuoco infernale. A guardare il mondo dal basso verso l’alto in questo piccolo, agrodolce e pungente film di Frears, c’è un ragazzino che a metà strada tra un eroe ritagliato dalle pagine di un libro di Dickens e un monello truffautiano osserva, senza rinunciare alla propria innocenza, l’inesorabile sgretolarsi della sua famiglia sotto i colpi della recessione economica. Se la lingua di Liam è frenata da quella balbuzie che lo rende irresistibile, il suo sguardo leggero e incantato vaga lesto alla ricerca di quei sottili legami che governano le cose degli adulti, un universo sezionato in quadri grotteschi, esilaranti, teneri e tragici al tempo stesso. Ma nelle vicende del bambino, raccontate con una narrazione minimale, è promta ad irrompere inesorabile la Storia con la nascita del fascismo in Inghilterra, capitolo oscuro rimosso sia dalla memoria colettiva che da quella cinematografica. L’analisi un po’ didascalica e meccanica dell’intolleranza proletaria resta il punto debole di un film che ha però il merito di riportare all’attenzione del grande pubblico quel delicato momento storico in cui le camicie nere vennero indossate per recuperare un ruolo sociale e i fantasmi agitati da Mosley, prima aristocratico socialista, poi feroce reazionario, contro ebrei e immigrati irlandesi attirarono le classi lavoratrici duramente colpite dalla crisi e coinvolsero anche i membri della famiglia reale. Fascisti e razzisti, i proletari di Frears, spinti da quei mostri creati dall’ignoranza e dalla miseria, restano però vittime tanto quanto quelli di Ken Loach, che tutta la vita passano a schivare pietre dal cielo in cerca di pane e rose. (ALESSANDRA DE LUCA, Segnocinema 109, maggio/giugno 2001 pp. 32-3) Infanzia e miseria, innocenza e povertà, privazioni e umorismo. [...] E Liam, che l’imprevedibile Stephen Frears ha tratto da un romanzo di Jimmy McGovern con mano svelta e stile semidocumentario. Di che dimenticare le bellurie in cui inciampava, su un soggetto simile, Le ceneri di Angela di Alan Parker. Produce la benemerita BBC, e difatti Liam ha tutte le tipiche qualità inglesi: ambientazione perfetta, taglio spedito, attori superlativi. [...] Avrà fatto film più originali, ma Frears ha il dono del racconto e ce lo ricorda ad ogni scena. (FABIO FERZETTI, Il Messaggero, 16 marzo 2001) Liam stesso – emblema, per la sua balbuzie, di un rapporto intermittente con l’ambiente – è inadeguato come strumento di coesione di un gruppo che ha perso più la forza che le ragioni dello stare insieme. La coincidenza tra la prospettiva del fanciullo e quella dello spettatore è comunque parziale e limitata LIAM 157 agli episodi più divertenti, a conferma della volontà di Frears di non creare adesione alla materia e ai personaggi. Perfino la collocazione temporale tradisce il distacco rispetto al narrato, mentre la sua contestualizzazione spuria – siamo a Liverpool, ma in un ambiente irish e cattolico – riporta il regista al tema dei suoi esordi: l’Inghilterra che da terra promessa diventa residenza amara per i gruppi “alieni” (qui gli irlandesi come i pakistani in My Beautiful Laundrette e Sammy e Rosie vanno a letto). Certo, Liam è opera onesta come poche, oggi, nel suo genere: non cerca il consenso, lascia gli slanci conciliatori ai cugini ruffiani (Billy Elliot su tutti), si guarda bene dal propinarci l’ennesima storia britannica di crescita, formazione e riscatto. E recupera episodi rimossi dagli inglesi, come la comparsa degli estremismi alle soglie del conflitto. Il limite principale del film è nel taglio: non bastano un (generoso) premio a Venezia – per Megan Burns nel ruolo della sorella di Liam – e la qualità di scrittura [...] per farci dimenticare la piattezza televisiva della confezione. (ENRICO DANESI, Duel 87, marzo/aprile 2001, p. 14) I COMMENTI DEL PUBBLICO ci ha magistralmente portato in un tempo e in un mondo che ora ci sembrano tanto lontani, per farci conoscere una situazione sociale, religiosa, umana delle più drammatiche; e tutto senza compiacimenti anzi, lo sentiamo piangere con noi: è questo il segreto che fa essere il racconto così toccante. Bruna Teli - Nonostante il film sia stato prodotto per la Tv, mi è sembrato ottimo sia come ricostruzione dell’Inghilterra proletaria degli anni ’30, sia come analisi di una crisi familiare e come denuncia degli errori commessi dal clero cattolico che non insegnava la legge dell’amore, ma terrorizzava soprattutto le coscienze dei piccoli. Al centro troviamo un bimbo balbuziente, ma sveglio e simpatico che osserva il mondo familiare e quello esterno e ci fa rivivere ora con umorismo, ora con angoscia le sue esperienze. Miseria, ignoranza, fanatismo disgregano il suo mondo familiare, all’inizio modesto ma sereno e portano alla tragedia sociale e all’odio contro i diversi. Senza dubbio i problemi sono solo accennati, ma colpiscono ugualmente lo spettatore che non può non temere che nel presente si verifichino di nuovo. Ciò contribuisce, insieme alla sensibilità del bimbo protagonista che è spettatore e vittima, a farci partecipare commossi alle vicende narrate. DA PREMIO Norina Bachschmid - Molto riuscita l’analisi di come un profondo senso di colpa e un’irreparabile negazione della vita e dell’amore possano venire inculcate in giovani personalità sane e predisposte, per natura, al positivo, da un deviante insegnamento religioso. Sembrano cose molto lontane nel tempo ma in realtà la fatica a lasciarsi risuonare dentro con fecondità le parole «Sarete giudicati per quanto avrete amato» non è di pochi ancora al giorno d’oggi. La recitazione è splendida ed eccezionale la forza di comunicazione e di coinvolgimento. Bella la fotografia e la ricostruzione del periodo storico. Margherita Tornaghi Tagliabue - Sembra ora incredibile che, anche allora, la religione fosse portata al fanatismo, creando nell’animo di un bambino una serie di dubbi sconvolgenti: comunque, il film è ottimo ed è capace di ricreare benissimo l’atmosfera di quell’epoca. OTTIMO Bruno Bruni - Gli avvenimenti sono numerosi, e si incrociano spesso. Gli adolescenti, testimoni incolpevoli, danno attraverso la naturalezza del loro comportamento, le reazioni più spontanee. Il piccolo Liam costituisce il riferimento ad un’infanzia povera ma serena che la società condiziona e mortifica ingiustamente ed egoisticamente. Le sue manifestzioni ci stupiscono, ci affascinano e ci commuovono, ma simboleggiano la speranza, nonostante tutto. Maria Ruffini - Un film molto triste e molto vero. Il regista A. Radice - Non conoscevo questo aspetto della storia bri- 158 LIAM tannica che fa da sfondo a un’opera estremamente delicata e sensibile. Stupito e impaurito dalle parole degli insegnanti di religione (ah, quelle fiamme dell’inferno che infarcivano le dottrinette degli anni Trenta...), Liam si rifugia nel tepore domestico, trovando conforto nel pettinare dolcemente i capelli delle sue donne. Bravissimo! BUONO Lidia Giglio - In una famiglia di irlandesi immigrati a Liverpool, che la disoccupazione del padre riduce all’estrema povertà con le sue conseguenze, tra cui la cruenta ribellione di lui, c’è Liam, il più piccolo, costretto a vedere e sentire cose troppo grandi tanto da non riuscire a tradurle in parole. Essenziale nella descrizione di ambienti e sentimenti, con una fotografia che quasi “psicologicamente” evidenzia i caratteri, avvalendosi di ottimi interpreti, il film alterna sorriso e amarezza. E forse una silenziosa offerta d’amore la dolcezza con cui il bambino cerca di consolare la madre e la sorella, pettinando delicatamente i loro capelli? Lucia Fossati - Per capire il film mi sembra necessario mettersi dalla parte del bambino, là dove il regista ci invita a porci con le ripetute inquadrature dal basso e con i primi piani sul volto di Liam. Il bambino non soffre per la depressione economica o la disoccupazione del padre o l’intolleranza del nascente fascismo (fattori sociali per lui indecifrabili) ma per il loro effetto disgregante sulla propria famiglia. Non mi sembra questo un film politico o di denuncia, ma un film di formazione che, pur nella sua drammaticità, riesce anche a essere ironico e a far sorridere. Luisa Alberini - Liam è il testimone più debole di una famiglia che soffre. E la sua è la sofferenza di un bambino che non può difendersi neanche con le parole. Forse perché non le conosce, soprattutto perché non riesce a dirle. Ma quello che vede, quello che capisce, quello che sente, lo racconta con lo sguardo. Sono gli occhi che ci segnalano il turbamen- to, il malessere che coglie negli avvenimenti della sua vita. Il film ci riporta immediatamente alla realtà con il rigore dei fatti che non pretendono di commuovere. Anche le innegabili esagerazioni dell’educazione religiosa dell’epoca sono storia di un passato ancora recente e difficile da smentire. Pierangela Chiesa - Il film ha un carattere discontinuo e frammentario. Alla bellissima figura del bimbo, infatti che con i suoi grandi occhi attoniti segue i terribili eventi che sconvolgono la sua città in primo luogo e la sua famiglia come immediata conseguenza, non fa riscontro un’altrettanto accurata e incisiva narrazione del dilagare dell’antisemitismo e del fascismo britannico. Rossella Guarneri - Dovevano essere davvero forti i bambini degli anni ’30 per non uscire distrutti da un’educazione come quella che “subisce” a scuola il povero Liam. Ma quelli erano tempi duri per tutti e Frears ben li racconta attraverso il microcosmo di una famiglia operaia e il punto di vista di un bambino, grazie al quale si permette qualche enfatica sottolineatura di caratteri e situazioni, che nulla toglie tuttavia all’onestà di fondo della ricostruzione storica. Biancamaria Giulini - Film complesso per la quantità di problemi che affronta: la disoccupazione, la miseria, la perdita degli affetti, la disgregazione della famiglia, la perdita di fiducia in se stessi e la degradazione della personalità, il contrasto tra la necessità di guadagno e il compromesso della coscienza. Il tutto sullo sfondo di una religione bigotta e severa che non dà consolazione, ma incute solo paura e gli occhi innocenti di un bambino, infelice e spaventato, che osserva queste complesse situazioni che lo affliggono al punto di impedirgli quasi di parlare. La molteplicità delle situazioni impediscono al regista di approfondirle, ma piuttosto le sfiora a volo d’uccello. La buona interpretazione degli artisti e la sceneggiatura indovinata ne fanno un buon spettacolo, abbastanza coinvolgente. Carla Righi Veronesi - Film che lascia dentro una grande tristezza. Ben recitato: ottima la prestazione della figlia, del paLIAM 159 dre e del piccolo Liam, che dà un tocco più leggero alla disperata vicenda. Ben rappresentata la tragica situazione del momento, l’incattivirsi crescente degli animi esasperati dalla discriminazione. Eccessivo, a mio avviso, l’ultimo episodio della bomba incendiaria che va a colpire proprio la ragazzina. Pierfranco Steffenini - Buono nella ricostruzione storica e ambientale, ottimo per l’interpretazione, asciutto e privo di ricatti sentimentali, il film lascia a desiderare, a mio parere, per certe insistenze o caratterizzazioni eccessive sia nelle situazioni che in certi personaggi. Sotto questo aspetto il film mi è parso troppo scopertamente “a tesi”. Maria Cossar - Il film mi ha emozionato e raccontato tante cose: lo sfascio di una modesta famiglia a causa della mancanza di lavoro; i rapporti familiari tra padre, madre e figli; il profilarsi del fascismo; ma soprattutto l’educazione religiosa sbagliata e terrorizzante, vista attraverso gli occhi di un bambino. Mi ha fatto molto riflettere sul rapporto adulti/bambini, e mi ha colpito come genitore e come insegnante. Quanta dolcezza sarebbe stata necessaria a togliere la paura da quegli occhi! La rassegnazione, la mitezza della sorella è una grande lezione agli adulti: ne esce un personaggio puro, silenzioso, ma importante per la storia narrata. DISCRETO Riccardo Valente - Film affascinante ma deplorevole. Affascinante perché recitato benissimo e ben diretto; deplorevole perché pericolosamente disinformativo nei contenuti. In primo luogo, le scene di oppressione pretesca non sono credibili, e fanno parte, semmai, di un vecchio luogo comune degli inglesi contro gli irlandesi: cioè gli irlandesi sono così arretrati perché sono cattolici, quello sì un peccato mortale per i fondamentalisti di Cromwell. In secondo luogo, non mi sembra che sia mai esistita una “British Union of Fascists”. Il movimento capeggiato da Mosley si chiamava “Bond of British Freemen” (sulla cui sigla BBF ironizzava Huxley, mi 160 LIAM sembra in Counterpoint, ribattezzandolo “British Bloody Fools”), che era un movimento molto elitario, certamente antisindacale (scioperi dei ferrovieri contrastati da ex ufficiali che andavano a guidare le locomotive e simili), ma non mi risulta che fosse antisemita. Mi sembra di poter escludere, comunque, che nel duro ambiente operaio di Liverpool potesse avere la minima possibilità di successo un comizietto animato da signorini isterici in completino nero-rivoluzione come quello che si vede nel film in una delle sue sequenze peggiori. Il bambino, d’accordo, è straordinario. Come Billy Elliot si esprimeva con la danza, lui si esprime col canto. Un’invenzione forse un po’ furbesca, ma sono proprio Liam, e la sua famiglia, a rendere visibile il film. Mario Piatti - Film in sé abbastanza banale, sia nei fatti raccontati, sia nel modo di raccontarli. Sappiamo ormai tutto su depressione economica, disoccupazione, conseguente disgregazione familiare... Il film non aggiunge nulla e il linguaggio cinematografico è quanto meno elementare; in particolare il finale mélo, con l’attentato e il rogo della figlia per mano del padre appare del tutto gratuito e ripreso maldestramente. La bocciatura è evitata solo grazie agli interpreti, tutti ottimi, nella tradizione del cinema inglese e, soprattutto, del piccolo protagonista di rara simpatia ed espressività. In questo particolare momento può acquistare interesse la sottolineatura delle evoluzioni negative che scaturiscono da condizioni di povertà e di mancanza di prospettive: fascismo, antisemitismo, razzismo della peggiore specie, quello tra poveri, non sono evidentemente una novità dei nostri giorni. Bona Schmid - A memoria storica di un popolo conviene ricordare che anche in Inghilterra nel breve arco di tempo di quattro anni (1932-36) è esistito un Partito fascista capeggiato da Sir Oswald Mosley che ha avuto un breve successo fra i disoccupati dell’industria britannica in crisi. Due occhi infantili attoniti e sgomenti registrano il dramma di una famiglia a causa della miseria, l’intolleranza religiosa e il razzismo aizzato da un clero cattolico bigotto e conservatore. Il tragico finale rende tutto più amaro e forse meno credibile. Luce dei miei occhi CAST&CREDITS regia: Giuseppe Piccioni (Italia, 2001) sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Umberto Contarello, Linda Ferri fotografia: Arnaldo Catinari montaggio: Esmeralda Calabria musica: Ludovico Einaudi interpreti: Luigi Lo Cascio (Antonio), Sandra Ceccarelli (Maria), Silvio Orlando (Saverio), Barbara Valente (Lisa), Toni Bertorelli (Mario), Paolo Pierobon (Carlo), Mauro Maurino (Franco), Isabella Martelli (assistente sociale), Ivano De Matteo (Ivano) durata: 1h54’ distribuzione: 01 Distribution IL REGISTA Giuseppe Piccioni (Ascoli Piceno, 2 luglio 1953) ha esordito nel cinema con Il grande Blek (1988), a cui hanno fatto seguito Chiedi la luna (1991), Condannato a nozze (1993) e Cuori al verde (1996). Il suo cinema, popolato di personaggi che sono sempre un po’ alla deriva e “fuori dal mondo”, è caratterizzato da un tono partecip, a tratti ironico e a tratti malinconico. Piccioni osserva: «Nella scelta delle storie che racconto parlo di persone che non sono all’onore del mondo [...]. Racconto persone che vivono sulla propria pelle lo smarrimento, il disagio che oggi è diventato quasi un insulto, perché ci sentiamo obbligati a esibire un’immagine di noi stessi forte ed efficace, dominante verso l’esterno. Come se il disagio fosse una debolezza impresentabile [...]. C’è una condizione diffusa dell’essere orfani, orfani non solo di padri e di madri, ma anche di significati, di risposte». (in Duel 70, aprile/maggio 1999, p. 40) IL FILM È probabile che questo film di Giuseppe Piccioni, Luce dei miei occhi, presentato in concorso a Venezia 2001, raggiunga lo spettatore prima con i suoi difetti che con le sue qualità: ma proprio per non ridurre il compito del recensore a quello di chi mette i voti e decide per la sufficienza o meno come un professore di liceo, è bene partire dalla seconde. Per evitare che i primi finiscano per nasconderle del tutto. Con il notevole Fuori dal mondo, questo regista di Ascoli Piceno che si è fatto largo con ostinazione e caparbietà attraverso gli oscuri anni Ottanta fino ad oggi, aveva raggiunto una messa a punto sorprendente del suo romanticismo. I suoi personaggi sono adottati e non solo raccontati, gli piace raggiungere con essi una intimità dolce e fraterna, che non è un bene secondario nel cinema di oggi. E non solo in quello italiano. Qualcosa del genere succede anche in Luce dei miei occhi. [...] Fragile, soave, notturno, il film ha la meglio quando riesce a liberarsi di una sceneggiatura didascalica e una musica ridondante, e purtroppo non succede spesso. I personaggi si confessano o pensano a voce alta invece di parlare e Piccioni non riesce a imprimere al film i cambi di ritmo dei quali una costruzione LUCE DEI MIEI OCCHI 161 13 narrativa così ambiziosa e interessante avrebbe bisogno. Invece di appesantire il racconto con la voce fuori campo di Lo Cascio che snocciola il racconto sin troppo allegorico di un alieno sulla terra che scopre di amare gli abitanti del pianeta per la loro capacità di provare affetti ed emozioni, il film avrebbe forse dovuto affidarsi più ai suoi attori come fa la macchina da presa nei suggestivi primi piani della Ceccarelli e di Lo Cascio, più efficaci della drammaturgia. Ma se il film non è all’altezza della sua storia, lo spettatore non esce a mani vuote: gli rimangono addosso la masochistica cortesia di Lo Cascio, il broncio doloroso della Ceccarelli e il cattivo irritato dai propri inconsapevoli sensi di colpa disegnato con pochi tratti sapienti da Silvio Orlando. (MARIO SESTI, Kwcinema) LA STORIA Viali, palazzi e automobili che percorrono le grandi strade di Roma in una notte tiepida. Improvvisa, lacerante, violenta una frenata. Il ragazzo alla guida di un auto di grossa cilindrata scende. Davanti a lui, la bambina che lo ha obbligato a quella brusca fermata gli spiega che è lì per cercare il suo gatto. Lui le dice che dovrebbe andare a dormire. Lei gli risponde che aspetta la mamma, che arriva poco dopo, in motorino, dal negozio dove lavora in fondo alla strada e vuole che quel giovane uomo l’aiuti a capire che cosa è successo. Lui è Antonio, di mestiere fa l’autista presso un garage che segue clienti importanti, ma preferisce osservare il mondo con gli occhi di Morgan, il personaggio di un libro di fantascienza. Anche Lisa, undici anni, è una bambina costretta a stare troppo sola. Sua madre, Maria, ha comprato, indebitandosi, un negozio di surgelati e lei la raggiunge tra i banconi frigoriferi appena la scuola è finita. Una situazione difficile, di cui la donna deve anche render conto all’assistente sociale, che periodicamente le fa presente l’opportunità di affidare la bambina ai nonni. Maria è una donna diffidente e scostante, ma Antonio ne rimane attratto e va a cercarla. Una sera, dopo una pizza a tre, lei lo invita con loro a casa, e messa a dormire Lisa, cede a un momento 162 LUCE DEI MIEI OCCHI d’amore. Per Antonio è la conferma a quella prima impressione. Per Maria forse solo un errore, quindi cerca subito un chiarimento. Si scusa, si assume tutta la responsabilità di quanto avvenuto e racconta di come il padre di sua figlia l’abbia lasciata sola quando la bimba aveva solo tre anni e della paura che le sia sottratta. Ma dopo averlo allontanato, lo richiama per chiedergli un favore. Deve assentarsi e ha bisogno che la sostituisca alla cassa. Antonio la accontenta, e viene al corrente del debito che Maria ha contratto per pagare il negozio e del nome della persona a cui deve ogni mese restituire il prestito, Saverio. Antonio lo affronta apertamente, e si offre di pagare lui parte delle rate. Saverio lo sottopone a un lungo interrogatorio e poi gli dice che può essergli utile in altro modo: riscuotere i soldi dell’affitto di un appartamento ceduto a dei bengalesi clandestini. Antonio non può rifiutare e accetta solo a patto che Maria non sappia nulla. La festa di Natale è per Antonio, Maria e Lisa una pausa di serenità. Per Antonio, anche l’occasione per raccontare a Maria la sua storia: la madre rimasta troppo presto sola, l’uomo, un rappresentante di biancheria, che si era innamorata di lei e che lo aveva curato negli anni in cui era un bambino molto malato, il ritorno di suo padre, quando ormai la madre era morta, il suo definitivo allontanamento da lui e soprattutto della sua vita da solo, o meglio vicino ai libri di fantascienza. Maria, dopo questa confessione, sente il bisogno di togliere ad Antonio qualunque illusione su un suo sentimento d’amore. Ma lui le dà ancora tempo. Saverio intanto ha capito come chiedere ad Antonio sempre di più e Antonio capisce di essere entrato in un gioco troppo rischioso di ricatti e di vendette, e se ne allontana definitivamente quando la persuasione è affidata ad una pistola. Anche Maria però continua a sottoporre Antonio a continue pretese, con l’aria di chi si sente sempre solo vittima, pronta solo ad attribuire all’altro la gratuità di un gesto di cui non vuole sentirsi complice. Sono parole dure che immediatamente ritrae, e che Antonio ascolta senza replicare. In realtà Maria, che ha appena lasciato l’uomo di cui era innamorata, sta facendo di tutto per recuperare con sua figlia la serenità che le è indispensabile, ma non ci riesce. Co- sì, dopo un nuovo scampato incidente, si rassegna a vederla andare dai nonni. In modo diverso, anche Antonio ha pagato questa situazione. Licenziato dal capo per le troppe e inspiegabili assenze, si trova ora a dover ricominciare. Quando, a sorpresa, Maria lo chiama, lui capisce che quella donna ha ancora bisogno di lui e lui una nuova possibilità per ritrovare una luce in cui credere. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Non riconciliati. Il titolo di un film di Jean-Marie Straub ben si addice al mai sopito conflitto fra critica e pubblico, riaccesosi dopo la presentazione di Luce dei miei occhi alla Mostra di Venezia. Se a platee assetate di emozioni è piaciuta la storia di Antonio e Maria perché vi hanno viste riflesse le loro preoccupazioni affeettive e lavorative, alla critica non è piaciuto il modo in cui la vicenda è stata raccontata. Non è piaciuto il suo tono letterario e un’articolazione che non riesce ad integrare due diverse strutture portanti: da una parte quella sentimentale; dall’altra quella sociale, che mette il dito in troppe piaghe (immigrazione clandestina, sfruttamento, figli sottratti ai genitori). Argomenti che appartengono a generi diversi. A loro volta “non riconciliati”. Ma, al botteghino, la logica del “paghi uno, prendi due” si dimostra più forte. (ENZO NATTA, Famiglia Cristiana, 30 settembre 2001). Non tutto funziona in questa ricognizione interiore d’un esilio dei cuori. C’è in primo luogo – e in platea ben presto la si soffre – un’insistita voce fuori campo, un racconto parallelo che spiega e giustifica quello che è già spiegato e giustificato dalle immagini e dai dialoghi. Pare quasi che gli sceneggiatori [...] non si siano fidati del loro pur egregio lavoro, e gli abbiano cercato un contrappunto letterario, un appoggio chiarificatore esterno. E c’è poi, tra i limiti del film, anche una sorta di monocromatica pesantezza emotiva. Pur meno di quanto già accadeva in Fuori dal mondo (1999), una programmatica tristezza dell’anima tende comunque a invadere ogni ambito umano e a catturare ogni rapporto, al di là del senso più vivo della vicenda, e anche al di là d’una vitale e ben evidente poetica d’autore. Insomma, il cinema di Piccioni – profondo, sincero, originale – meriterebbe più leggerezza, una più coraggiosa “scoperta” della meravigliosa complessità degli uomini e delle donne, le cui storie si nutrono di chiaroscuro: insieme di tristezza e di serenità, di memoria dolorante e di oblio. D’altra parte, se queste osservazioni hanno un senso, se si avverte la necessità (forse) l’utilità di proporle, è perché Luce dei miei occhi è appunto originale, sincero, profondo. E ancora perché ottimamente raccontato, oltre che spesso ottimamente recitato: più maturo, anche in questo, del pur intelligente e interessante Fuori dal mondo. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2001). Nell’insieme di pregi (la recitazione, il girato, la musica di Ludovico Einaudi, il calore freddo dei primi piani) il film ha un difetto che lo attraversa e lo determina. La programmaticità emotiva di fondo, quell’umore di perdita e impotenza, di scoramento e comprensione che, ben vero, è però già stabilito nel livello e nella misura, limitando le scoperte dello spettatore. Il quale, però, da parte sua, non dovrebbe commettere l’errore imperdonabile di evitare il film. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 5 settmbre 2001). INCONTRO COL REGISTA GIUSEPPE PICCIONI padre Bruno: Com’è andato il suo film precedente, Fuori dal mondo? Giuseppe Piccioni: Molto bene. In questi giorni è uscito in Germania, sotto Natale ha avuto un risultato forse migliore di quello italiano, a distanza di due anni dall’uscita da noi. padre Bruno: La critica su cosa si è soffermata di più? LUCE DEI MIEI OCCHI 163 Piccioni: Credo che la critica abbia apprezzato il fatto che nel film non ci sono clichés, non c’è l’idea di una suora stereotipata. C’è una donna, che è anche una suora. Che la storia parla anche d’altro. Tutti si sono ritrovati, pur venendo da scelte, non solo religiose, che non corrispondono a quelle dei protagonisti della storia. E credo che questa sia la cosa più interessante di un film che parla di modernità senza voler essere modernista, che vuole parlare dell’Italia ma senza essere italiano nel senso di voler compiacere il pubblico con un’immagine stereotipata, pittoresca, del Paese all’estero. padre Bruno: Questo filone, che lei sta percorrendo, quest’indagine sulla solitudine interiore, questa dimensione intimista come l’ha raggiunta in Luce dei miei occhi? C’è un collegamento col film precedente? Piccioni: Quando vedo Luce dei miei occhi mi convinco sempre più che sia il completamento necessario di Fuori dal mondo. Per certi versi può sembrare un film più pessimista, ma in realtà non è così. Non ricordo chi diceva “gli uomini mi infastidiscono e la solitudine mi opprime”. Questa è l’incertezza del mondo in cui viviamo. Un mondo di comunicazione, di fiction, di telefoni, ma la comunicazione reale tra le persone latita, soprattutto nelle grandi città. Ho raccontato la solitudine attraverso una storia, dei personaggi, una Roma curiosa, un po’ astratta. Mi sembrava che attraverso un lavoro di astrazione si potesse definire ancora di più lo stato d’animo dei personaggi e parlare di noi, anche se apparentemente il film è una storia d’amore. Ceccarelli, per cui le attrici che lavorano con me sono fortunate. padre Bruno: Nel manifesto la posizione dei due personaggi rivela una preferenza, se letto in un modo. Lui è in primo piano, lei sullo sfondo. Tutti e due fissano, ma non si guardano. Perché lui è più evidente? Piccioni: Quest’immagine dà l’idea del loro cercarsi, anche se da due mondi diversi. È vero che lui è in primo piano, ma è sfuocato. In realtà è come se fosse dietro di lei. Francamente ci piacevano le loro espressioni, e che insieme alla grafica del titolo rispecchiassero quello che c’è nel film. padre Bruno: Perché questo titolo? Piccioni: Il titolo cita in maniera ovvia un’espressione affettuosa che una madre può avere per una figlia, che una persona può avere per il proprio partner. Ma evoca anche l’idea di un progetto di felicità che è altrove, che dev’essere presente nella vita delle persone, così com’è presente in quei bengalesi, che la cercano a Roma. Si tratta di persone che non sono di Roma, che hanno perso dei riferimenti. “Luce dei miei occhi” può significare anche questo, che forse tutti dovremmo avere un’idea di un progetto, di un innamoramento, di qualcosa che può essere altrove e che cerchiamo. padre Bruno: Ha una predilezione per la psicologia femminile? intervento 1: È un film sui sentimenti, senza sfoggio, il contrario della spettacolarizzazione televisiva. Lei ha detto che non è un film pessimista. È vero che la metafora dell’autista dà una via d’uscita, però il protagonista è un alieno. C’è speranza di replicanti terrestri? Piccioni: Non è stata una cosa programmatica, intenzionale, quando ho cominciato a fare film, però è vero. Fondamentale in questo senso è stato l’incontro con Margherita Buy per i miei primi film. Mi ha aiutato a definire meglio il tipo di attenzione e d’interesse che avevo. In questo caso Fuori dal mondo ha portato fortuna a Margherita, questo a Sandra Piccioni: Il film è sicuramente più doloroso, più pessimista di Fuori dal mondo. Sebbene lì ci fosse un finale contrario alle aspettative (la suora che lascia l’abito e fugge via con un uomo), comunque c’era un incontro che era servito. Credo che questo amore non abbia a che fare con l’amore della fiction, ma più col suo aspetto doloroso, la difficoltà di amare 164 LUCE DEI MIEI OCCHI – nessuno dei personaggi dice “ti amo, saremo felici per tutta la vita”. Quindi anche il finale rivela piuttosto una tensione, una possibilità, un desiderio. Anche la bambina che compare all’improvviso, quasi ad ipotizzare un’idea di nuova famiglia possibile, che non è quella di sangue, può essere letta in questo senso. Da questo punto di vista è un film ottimista, perché cerca di guardare in faccia con coraggio la durezza e la difficoltà nei rapporti tra le persone. Per arrivare a questa speranza, io mi considero un ottimista, ho dovuto passare anche attraverso la durezza di alcuni momenti. Come le parole di Maria: “non mi sento perduta quando te ne vai, non mi batte il cuore quando ti vedo”. In generale, la compensazione viene sempre data in maniera facile in molti film. Per abitudine alla fiction, cerchiamo una chiave che ci dia la sensazione di tornare a casa alla fine di una storia con tranquillità. Questo film cerca di dare una speranza, ma non una tranquillità. Sono speranzoso, ma tenendo presente la difficoltà del nostro mondo. intervento 2: Per più della metà del film mi sono chiesto se ci fosse davvero la necessità dell’esistenza di Morgan, perché si può capire la situazione anche senza di lui. Poi però, quando ha incominciato a mancare un po’, mi sono accorto quanto fosse strettamente necessario, ma non tanto per i personaggi del film, ma per noi. Ci permette di capire cos’è la luce degli occhi. È la luce degli occhi di Morgan: dobbiamo averla dentro di noi per guardare il mondo da alieni. Siamo troppo immersi nella realtà per capirla, le passioni ci confondono. Gli occhi di Morgan ci permettono di vedere e di vivere i rapporti nel modo giusto. A poco a poco tutto l’insieme del film si porta alla conclusione: il fatto è che il protagonista riesce a far incontrare le due strade della propria realtà e del racconto che sta leggendo, fino ad arrivare a capire realmente, e al tempo stesso ci arriva anche la protagonista. Forse si sarebbero incontrati lo stesso, ma a noi Morgan è servito. Anche la protagonista, Sandra Ceccarelli, che avevo già visto in Tre storie, così come Luigi Lo Cascio, è perfettamente nella parte. Piccioni: Anch’io ho scoperto Sandra vedendo quel film, e l’ho subito contattata per lavorare con lei, tramite i registi, Piergiorgio Gay e Roberto Sanpietro. Con lei è iniziato un lavoro molto curioso e accurato, con la lettura della sceneggiatura. Non è stato facile, per me che avevo lavorato sempre con Margherita Buy, convincere i produttori a coinvolgerla, e per questo sono ancora più contento che sia stata premiata per questo film. intervento 3: Il suo ottimismo mi pare evidente, e testimoniato anche dalla figura del garagista, un ottimo attore e personaggio. Lo si capisce quando risponde alla solita domanda, “da dove si vede il bravo autista?”, con “da quando si inventa qualcosa, perché c’è sempre una via d’uscita”. Per me è questa la chiave di lettura del film: ci dà una possibilità d’uscita, non aspettata, ma invece operosa. In questo senso mi sembra molto più un film milanese che romano. Mi sono piaciute molto le immagini da fuori, quando si passa davanti alle vetrine dei ristoranti. Ho notato un’altra cosa molto bella: quando alla protagonista viene tolta la bambina, lei reagisce diventando una persona meno egoista di come il protagonista maschile l’aveva apostrofata in macchina. Quando sta per perdere tutto, capisce anche lei che deve cambiare, guardare più alle cose che ha piuttosto che a quelle che avendo, non guarda per sognare chissà cos’altro. Una curiosità. Perché Maria apre proprio un negozio di surgelati? Piccioni: Mi sembrava curioso che lei facesse una scelta sbagliata, quella di aprire un negozio di surgelati, che, com’è emerso da tutto il lavoro di preproduzione del film, dalle interviste di Giulia Gentile, erano in grande crisi per colpa dei supermercati. Poi certo, quell’ambiente suggerisce qualcosa di freddo che aggiunge al personaggio di Maria un disagio. Mentre la metafora dell’autista è molto ovvia (porta in giro gli altri ma non se stesso, si muove ma non ha una direzione, torna sempre alla stessa base, è una specie di viaggiatore inutile), la scelta del negozio è passata più come scelta mercantile sbagliata in quel momento che per la sua portata metaforica, anche se qualche critico ha voluto rintracciarla a tutti i costi e qualcun altro l’ha trovata fin troppo esplicita. LUCE DEI MIEI OCCHI 165 padre Bruno: Tutto il blocco narrativo legato agli immigrati, che lei si è preoccupato di proporci come a sé stante, l’ha inserito per dare attualità al tema dell’accoglienza dell’altro? Piccioni: La mia preoccupazione era di evitare il film “da talk show”, per intenderci, il rischio che aveva Fuori dal mondo rispetto al tema della vocazione. Non ho mai pensato che quella presenza dovesse dare un significato sociologico al film. Mi sembra anche che non venga fuori così. La cosa che mi interessa di più è che anche un personaggio come Antonio, corretto, che fa quel che deve, attraverso Saverio, si sporcasse le mani, entrasse nel mondo commettendo qualcosa di contrario alla propria morale. E poi ho trovato che questi personaggi facessero parte a pieno titolo di questo universo di estranei o di stranieri, ancora di più perché immigrati, senza patria, in attesa di qualcosa che hanno sicuramente perduto ma che non sanno di avere ancora di fronte a loro. Ho sempre cercato di evitare, sia attraverso Morgan che altri espedienti narrativi, che su questo film pesasse un giudizio di ordine sociologico, di attualità, di cronaca di derivazione giornalistica, perché pensavo che quest’astrazione mi desse la possibilità ancora di più di parlare dell’oggi, e quindi anche dell’immigrazione e di altri problemi di questo tipo. Così come, se avete fatto caso, tutta la recitazione è impostata sul sottotono. Non volevo che, come succede sempre in Tv, quando due litigano, “fanno la litigata”. Come i dialoghi, lontani dalla quotidianità. Mi sembrava che in questo modo queste frasi potessero paradossalmente essere ancora più vere. L’incontro con l’altro fa parte del film: c’è nel personaggio di Antonio, ma anche di Saverio, che ha una morale che sembra anche più concreta di quella di Antonio. Ma non è il cuore del film. La mia preoccupazione era far trovare Antonio in una situazione che non avrebbe mai scelto, che è contraria ai propri principi. E che, rispetto a Maria, è disposto, almeno fino a un certo punto, a fare qualcosa di contrario ai propri principi. Poi non lo fa, perché si mette in discussione tutto. padre Bruno: A Venezia ha avuto una conferenza stampa abbastanza accesa. Si ricorda com’è andata? 166 LUCE DEI MIEI OCCHI Piccioni: Per fortuna da Venezia ho preso una distanza che mi ha aiutato a vedere il film in maniera più serena. Posso solo dire che dovrebbe parlare il film al posto del regista. Quando si difende il proprio film, si appare inevitabilmente come vittime di una congiura. Mi sembra che a Venezia a volte si crei una situazione in cui i critici vedono tantissimi film in una sola giornata. Questo film è stato visto alle 22 e 30, era attesissimo dopo Fuori dal mondo. Sono giustificate e legittime tutte le recensioni negative e anche le stroncature, però mi è sembrato che ci sia stato un atteggiamento un po’ goliardico, poco edificante. Non ho avuto modo di avere dei suggerimenti al mio lavoro. La critica non è più critica, ma ha sempre più a che fare col giornalismo di colore. Quindi prevale il gusto per l’aggettivo, per il giudizio frettoloso, e non c’è più una vera attenzione nei confronti di chi legge. Ho risposto ai critici che avevano perso un’occasione, che in genere la critica sta sempre dietro alle cose che accadono, non le precede mai. In Italia non succede mai che un critico, come Bazin in Francia, crei qualcosa, lanci dei dibattiti. È una critica un po’ stanca, oziosa, di riporto, rituale, affaticata. Credo nel mio film perché credo di aver lavorato tanto, non invoco una clemenza. Lo affermo, spero che piaccia al pubblico, se a qualcuno non piace me ne dispiace, ma è il mio film. Non sono nemmeno un autore che cerca di dire la sua contro il pubblico, perché ho sempre cercato un rapporto con il pubblico, e neanche un autore che si nasconde, come qualcuno ha pensato che dovessi fare, dietro il successo di pubblico che ha avuto il film per sparare contro la critica. Anche perché a volte il pubblico ti segue, ma non sempre ha ragione, a volte segue delle cose orrende. Qualche volta succede anche che, grazie al cielo, esiste anche un pubblico per tanti film italiani, anche di qualità, a prescindere sia dalla critica sia dagli strombazzamenti mediatici. Qualche volta il successo non è solo mediatico. padre Bruno: Vorrei puntualizzare sull’eventuale pessimismo del film. Prima lei fa dire al capo garagista “quando l’autista si trova in difficoltà, cosa fa? Chiede aiuto”. E il pubblico si tranquillizza. La seconda volta l’autista non ri- sponde “chiedo aiuto”, ma sostiene che nella difficoltà si deve “inventare” una soluzione. Il processo di invenzione richiede tale capacità di emergere dal quotidiano, dagli schematismi, dai formalismi, dai condizionamenti, che quasi è eroico, o meglio, rivela una maturità tale per cui il film per me è pessimista, perché propone come soluzione a queste situazioni affettive, che hanno rasentato direi il cinismo, l’invenzione non facile di chi rimane solo con se stesso e le proprie energie. Piccioni: No, però in un mondo in cui esistono dei totem o degli idoli che ci riportano sempre al mercato, e rispetto al quale l’individuo si nasconde, mi sembra che questa solitudine sia anche un’infrazione alla quotidianità fatta di piccole viltà. Ognuno può fare qualcosa. C’è un film che mi colpì moltissimo quand’ero piccolo, Il mago Houdini, con Tony Curtis. Lui ogni volta che si faceva mettere delle trappole da cui liberarsi, diceva sempre “ci dev’essere un modo”. Una frase che mi è rimasta dentro, tant’è vero che l’ho inserita anche nel mio primo film, Il grande Blek, in cui un personaggio dice che ci dev’essere un modo per essere felici anche sposandosi, mettendo al mondo dei figli, perché per lui questa scelta di vita consisteva nella tomba. “Ci dev’essere un modo” per me è una specie di imperativo morale – io sono laico, non sono cattolico. Un imperativo quasi obbligatorio per fare delle cose diverse da quello che è “l’andazzo”. Perché se l’andazzo consiste nell’avere la casa al mare, l’amante, la moglie, una mediocrità quotidiana in cui non esiste nessun atto effettivamente liberatorio, allora credo che la nostra vita sarebbe ben poca cosa. In generale ai film chiedo di essere un po’ diversi da me. Se trovo un film in cui semplicemente mi riconosco, ho l’impressione di essere davanti alla fiction, mentre se trovo un film che è qualcosa di diverso da me, allora capisco che anch’io ho una piccola responsabilità rispetto a quello che guardo. Una volta si diceva che c’erano i film belli, i film d’intrattenimento, e i film “della vita”, quelli che ti portavi a casa, ci dormivi, ti accompagnavano, ti servivano. Credo a un cinema non ideologico, che non dà messaggi, ma che ti aiuti. I COMMENTI DEL PUBBLICO OTTIMO Bruno Bruni - Una storia dei nostri tempi dove i problemi vengono attenuati dalla bontà dei proponimenti e la fantasia ne riduce l’amarezza. Molta sensibilità in quest’ultima fatica di Piccioni in cui il protagonista che vive tra sogno e realtà è una sorta di missionario laico che cerca amore e per ottenerlo è disposto a sacrificarsi in maniera totale. E la rivincita dei sentimenti e dei valori perduti nei confronti di chi rivolge il proprio interesse soprattutto verso il bene materiale? Difficile è la risposta perché il comportamento di Antonio è ispirato da un alieno e anche lui sembra materializzarsi in un extraterrestre tanto appare ingenuo e disinteressato il modo di agire e di concepire le situazioni. Ma è un’ingenuità che piace, un disinteresse che riconcilia alla vita di cui si è perso il sapore e di cui spesso se ne risente il bisogno. Monica Pietropoli - Una voce suadente ci guida attraverso le sensazioni e gli sguardi dei protagonisti di una “storia semplice” dalla quale emerge una figura unica, “un eroe dei nostri tempi”, ma con la sua tenue tonalità ci accompagna a poter sperare in una normalità che non per tutti è sinonimo di monotonia. Complimenti al regista che colpisce con la semplicità di chi sa come raccontare una storia. Paolo Berti Arnoaldi - Antonio e Maria, due persone con grossi problemi di identità, conquistano una serenità amorosa maturata con sofferenza nelle quotidiane difficoltà esistenziali. Bravi Lo Cascio e la Ceccarelli, spontanei e mai retorici, bravissimo il regista Piccioni che ha girato la storia con felici intuizioni (le riprese della città, dei suoi negozi, dei ristornatini, la figura del proprietario garagista saggio e generoso, l’intensità espressiva dei volti di Antonio e Maria... ). Qual è “la luce dei miei occhi”? Certamente quella di Antonio e di Maria i cui primi piani rivelano emozioni non comuni. La vicenda è a mio avviso un’affermazione di fede nell’amore che viene a superare tutti gli ostacoli. LUCE DEI MIEI OCCHI 167 Marcello Napolitano - Ottimo film di Piccioni, sempre sul tema della solitudine; straordinaria la recitazione di Sandra Ceccarelli, ottima quella di Lo Cascio e della bambina, buona anche quella di Orlando, nonostante il ruolo abbastanza insolito e non molto credibile. Ottima la fotografia straniante‚ che ci consegna una Roma diversa, non solo negli aspetti ma anche nei suoi colori e nella sua luce. Il film è tutto scritto sul volto di Maria, donna con una brutta situazione alle spalle (pazzia?, droga?..), non specificata, e che la spinge a rapporti estremamente duri con tutti anche con la figlia che pure ama di un amore soprattutto egoistico. Maria è chiusa in una corazza, il suo passato, il suo duro presente di sopravvivenza, tiene fuori ogni sentimento; non è Antonio a penetrare questa corazza, ma sarà la fuga della figlia e il conseguente affidamento ai nonni: Maria forse capisce che si riceve nella misura in cui si dà‚ agli altri e forse si aprirà di più. Soprattutto nella seconda parte il film ha alcune lunghezze ingiustificate, scene che sembrano il vero finale e poi la vicenda riprende con qualche appesantimento nel ritmo drammatico, ma in complesso è molto ben fatto, avvincente, bello perché testimonia un’attenzione ai valori umani molto fuori dagli schemi del nostro cinema. Indicativo l’episodio dell’anziana cliente che perde una catenina tra i banchi del pesce: Maria forse intuisce la profondità di sentimenti feriti da quella perdita insignificante; solo una persona che ha ugualmente sofferto riesce a intuirli; ciononostante non riesce a superare la barriera della comunicazione, la comunicazione degli esseri umani, non quella dei ruoli appiccicati dalla società. Sorprendente, fuori dall’ordinario, il personaggio di Donati, il gangster filosofo, umanista, che dà un appuntamento di lavoro in libreria; è forse un ingranaggio essenziale del discorso, ma risulta più marziano del marziano Morgan, che è invece un essere umanissimo come appare dai suoi discorsi; anche Morgan è uno dei personaggi, è quasi la chiave in codice per la comunicazione tra gli altri personaggi (Antonio, Lisa, il garagista). Pierfranco Steffenini - Ancora una volta ci troviamo di fronte a personaggi insoliti, incapaci di affrontare le diffi168 LUCE DEI MIEI OCCHI coltà della vita, sconfitti. Come sono lontani i tempi delle certezze, dei solidi valori della società borghese. Eppure – ci dice il film – questi moderni emarginati riescono talvolta a trovare una via d’uscita in un proprio mondo fantastico o addirittura un ancoraggio reciproco e una prospettiva di vita migliore. Per Antonio lo sfogo è costituito dalla lettura di libri di fantascienza e il parallelismo che il film ci propone tra le sue vicende e quelle dell’astronauta Morgan disperso nello spazio è un’invenzione cinematografica particolarmente felice. Antonio trova anche il coraggio di ribellarsi al ruolo di complice cui lo costringe il vilain di turno, efficacemente impersonato in un ruolo di contorno dal bravo Silvio Orlando. Più sfuggente e complesso il personaggio di Maria, protesa nel difendere il suo ruolo di madre e sempre a rischio di perderlo. Il finale ci lascia intravvedere una conclusione lieta, di cui peraltro non si sa con certezza se si tratti di realtà o di immaginazione. Luce dei miei occhi è a mio avviso un film riuscito, che mantiene la sua compattezza narrativa, gioca col fantastico e sfiora il sentimentale senza cadere nel patetico. E ben interpretato, è diretto sobriamente ed accompaganto da un commento musicale quanto mai attraente e funzionale. BUONO Anna Maria de’ Cenzo - Il regista dimostra molta sensibilità e molta attenzione ai moti dell’animo, ma manca di quella chiarezza stilistica capace di sintetizzare il discorso in immagini e di operare per rimandi. Ne risulta un film toccante, ma slegato nella sua sintassi, con cadute di attenzione dovute alla lentezza e alla ripetitività. Il titolo penso sia stato posto in riferimento alle “tenebre” della solitudine, ma l’accostamento non è immediato e, come primo impatto, resta lì, sospeso, senza giustificazione apparente. Ottima la scelta del cast di attori le cui capacità espressive sono ben in sintonia con l’esigenza del regista di rappresentare un mondo interiore. Lucia Bodio Scalfi - Ciò che mi ha colpito di più di questo film è il senso di serenità e di positività che riesce a lasciare nello spettatore, a fronte di storie che finiscono tutte male. Mi sono chiesta se tale sensazione sia frutto della totale disponibilità nei confronti degli altri e dell’altruismo gratuito, che può sembrare irreale tanto siamo poco abituati, di Antonio. Ogni personaggio sembra ottenere, a causa delle proprie azioni, esattamente il contrario di ciò che vuole: la madre perde la figlia, la bambina viene affidata ai nonni e allontanata dalla madre, lo sfruttatore finisce nelle mani della polizia, l’autista modello perde il lavoro. E tutti sembrerebbero essere dei perdenti se il desiderio di aiutare chi è nel bisogno e il sapersi mettere a disposizione degli altri sempre e nonostante tutto di Antonio-Morgan non permettesse di colorare di affetto le vicende e i personaggi che ci vengono presentati. E tale “bontà d’animo” rende reale il finale del film, dove un uomo, una donna e una bambina sembrano un nucleo sereno. Maria Cristina Bruni - Raramente, dopo aver visto un film, mi capita di cambiare così spesso opinione sul valore dell’opera: eppure per Luce dei miei occhi è stato proprio così. Ho trovato dapprima il film eccessivo, soprattutto per lo spirito sacrificale e il senso di abnegazione del protagonista che si annulla, arrivando a infrangere persino le regole della legalità, prestandosi per un amore a senso unco verso una donna, allo strozzinaggio, in un processo autodistruttiuvo completo e in crescendo: mi è parso poco sostenibile, nonostante l’amore, a volte giustifichi tutto. Non ho poi compreso i continui rimandi a Morgan e alla fantascienza di bassa lega, i cui riferimenti anzi ho trovato persino nocivi e diseducativi se visti con gli occhi della bambina protagonista. Insomma inizialmente il film mi ha fatto ricordare certe opere di Von Trier come Le onde del destino, eccessive nella loro esasperazione autolesionistica e annichilente, nonostante i buoni propositi di base. Poi, ripensandoci, ho interpretato diversamente l’opera, rivalutando alla fine il messaggio del regista: forse Piccioni voleva proprio comunicarci l’alienità del protagonista e dei suoi valori, la sua sensibilità ormai rara in questo mondo materialistico ed egoista, la sua disponibilità estrema nei confronti dei colleghi e di tutti. E il conflitto con la realtà che porta Antonio alla fine a ribellarsi, a denunciare lo strozzino, ad allontanarsi da tutto e da tutti, simboleggia il suo grido disperatamente silenzioso perché siano gli altri a comprenderlo per una volta e a venirlo a cercare, anziché trarre vantaggio dal suo buonismo senza precedenti. Perché, in altre parole, ci sia maggiore comprensione reciproca e solidarietà e gli individui “sgelino” (penso al negozio di surgelati!) i propri sentimenti. Vincenzo Novi - È un film che non dà emozioni. L’infelicità è espressa con parole che vengono dal cervello ma non dal cuore. L’atteggiamento della ragazza comunica vuoto e paura. Le frasi escono a fatica dalla bocca contratta e gli occhi non sorridono. Il giovane invece è calmo e consapevole. Anche se la precarietà della sua vita gli darebbe motivo di dolersi, possiede una carica interiore che gli dà serenità e fiducia. Un sentimento che contagia solo in parte la ragazza. Mi sembra una bella favola sulla responsabilità di ciascuno nei riguardi di se stesso e di chi gli sta vicino. Prafrasando un motto latino, ognuno è artefice della propria felicità. Il film è uno sguardo sul mistero dell’anima. Vuole indicare una trascendenza in modo laico e politicamente corretto. Rimane celata da un velo che la oscura ma non la nasconde. Luisa Alberini - Fuga e ritorno: un viaggio all’interno di se stessi che spinge i due sempre più lontano, fino a perdersi. E perdere anche un po’ noi. Loro, Antonio e Maria, cercano una risposta alle domande che rendono inquieta la loro esisetnza nel comportamento dell’altra e dell’altro. Noi cerchiamo la spiegazione alla loro inquietudine in quel vagare così apparentemente illogico e pieno di contraddizioni. Ma le parole non bastano, la spiegazione, forse, la troviamo nei loro sguardi, che si intrecciano in silenzio, mossi dalla luce degli occhi. Piergiovanna Bruni - L’incontro ravvicinato di Antonio con la figlia della donna che amerà è ricco di presagi. Antonio è candido come pochi umani sono e sembra vagamente un alieno, messaggero di pace. LUCE DEI MIEI OCCHI 169 Matilde Aventi - Si dice così delle persone care. La bimba forse è la luce degli occhi dei due protagonisti. Il film dice chiaramente che non riusciamo a capirci e a capire quel che è bene per noi, e a districarci in questo difficile mondo. Forse in un altro, quello da cui viene Morgan, chissà... DISCRETO Lucia Fossati - Un uomo e una donna che vivono un po’ alla deriva si incontrano casualmente (c’è un bimbo o una bambina a fare da intermediario) e forse le loro vite si orienteranno nella giusta direzione. Su questa semplice trama era costruito anche Fuori dal mondo. Ma là il regista era riuscito a essere molto convincente grazie alla buona sceneggiatura e all’ottima prova non solo dei protagonisti, ma di tutti i comprimari; in questo film invece il risultato è deludente. I personaggi sono poco credibili, le loro vicende non coinvolgono, la voce fuori campo del protagonista che parla del suo eroe alieno è scollata dalla trama, che dovrebbe essere realistica, ambientata nella Roma di oggi, la musica è spesso fastidiosa. L’unico elemento positivo è l’interpretazione dei due attori protagonisti (specie la Ceccarelli) che riescono a rendere con naturalezza lo spaesamento mentale e psicologico dei loro personaggi. Lidia Giglio - Antonio, autista spaesato e appassionato di fantascienza, finisce con l’identificarsi in Morgan, un extraterrestre mandato in missione sulla terra, dove però non riesce a orientarsi. La “luce dei suoi occhi” vede cose che altri non vedono, intuisce tristezze, solitudini, disonestà, sorride a un desiderio di amore e comprensione. Solo lentamente riesce a incontrare altri occhi, a condividere con loro l’ansia e la precarietà del vivere. Questo, e forse anche altro, Piccio- 170 LUCE DEI MIEI OCCHI ni tenta di raccontarci. Ma ci confonde con l’alternanza e il contrasto dei sentimenti, col senso di ambiguità che aleggia in tutta l’atmosfera del film. La musica, da qualcuno giudicata “banale”, mi sembra si adegui bene a questa atmosfera. Gabriella Rampi - Un film sull’incomunicabilità dei sentimenti più profondi, sulla difficoltà per ogni persona di realizzarsi e di essere come si vorrebbe, perché ognuno è condizionato dal proprio vissuto. Il regista si ferma spesso sugli occhi degli attori, che sanno esprimere quello che le parole non dicono. La recitazione è ottima, il film troppo lungo. MEDIOCRE Teresa Deiana - In una società nella quale conta più l’avere che l’essere, chi si distaccasse dal costume corrente, dimostrandosi coi fatti disinteressato e altruista, non potrebbe che essere una creatura aliena. Questo l’assunto del film che, sviluppato in modo diverso, sarebbe potuto essere interessante e ricco di spunti di riflessione. Ma la lentezza del racconto, gli insistiti primi piani, i colori grigio-bluastri e la tristezza senza fine di cui è permeato, ne fanno nel complesso un’operina un po’ velleitaria e purtroppo soporifera. Caterina Parmigiani - Originale l’idea di un alieno, Morgan, che svolge il ruolo di alter ego del protagonista, altrettanto spaesato e smarrito, ma spesso la sua voce sovrasta quella di Antonio e risulta fastidiosa. L’azione è lenta, la vicenda presenta situazioni poco credibili (è possibile che un usuraio scaltro accetti come collaboratore un giovane timido e impacciato?), i personaggi sono inconcludenti e ben pochi guizzi di luce emettono i loro occhi. La bravura degli attori, in particolare Silvio Orlando, non basta a riscattare il film. La maledizione dello scorpione di giada titolo originale: The Curse of the Jade Scorpion CAST&CREDITS regia: Woody Allen (Usa, 2001) soggetto e sceneggiatura: Woody Allen fotografia: Zhao Fei montaggio: Alisa Lepselter scenografia: Santo Loquasto interpreti: Woody Allen (C.W. Briggs), Helen Hunt (Betty Ann Fitzgerald), Dan Akroyd (Chris Magruder), Elizabeth Berkley (Jill), Charlize Theron (Laura Kensington), Brian Markinson (Al), Wallace Shawn (George Bond) durata: 1h43’ distribuzione: Medusa IL REGISTA Nato a Brooklyn (New York), il primo dicembre del 1935, Woody Allen ha esordito dietro la macchina da presa nel 1969 con Prendi i soldi e scappa. Nonostante siano trascorsi oltre trent’anni da quel primo divertissement comico, l’instancabile umorista, sceneggiatore, attore, regista continua a sfornare circa un film all’anno, quasi sempre presente in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia. Il regista, che nella sua carriera ha alternato capolavori di delicata comicità a lavori di introspezione psicologica (Io e Annie, Manhattan, Broadway Danny Rose, Crimini e misfatti) è notoriamente più apprezzato dal pubblico europeo che da quello statunitense, che lo premia solo quando predilige la comicità tradizionale alla riflessione filosofica. Negli ultimi film, si ritaglia sempre più spesso il ruolo da protagonista. IL FILM Con uno Statson chiaro appoggiato sulla fronte e gli occhialini tondi di Zelig, Woody Allen attraversa il cinema anni ‘40 come casa sua, lancia Charlize Theron in seta bianca luccicante nella memoria di Lauren Bacall (versione platino) e riparla d’amore per interposto intreccio noir. Titolo marlowiano esemplare: La maledizione dello scorpione di giada, ieri passato fuori concorso alla Mostra di Venezia, con tanto di proiezione extra per la grande richiesta del pubblico. [...] Difficile comprendere perché gli americani abbiano svalutato il lungometraggio numero trentacinque di Woody, divertente, fantasioso, intonato a Radio Days e Pallottole su Broadway, migliorando nel gusto del revival del noir la commedia investigativa Misterioso omicidio a Manhattan. Allen è un artista ripetitivo, come nella musica Wim Mertens e nel teatro Bob Wilson. Bisogna guardare i suoi film come frammenti di una sola opera “work in progress”. Forse è appena invecchiato per reggere certi personaggi: qui è un detective assicurativo che, schiacciato dalla nuova dirigente in carriera Helen Hunt, resta intrappolato nella malia di un ipnotizzatore che lo pilota a compiere furti milionari di cui LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA 171 14 è inconsapevole, finendo per diventare ignaro cacciatore di se stesso. Nelle sfumature di citazioni e risonanze dal cinema di Hawks e Huston (ma si potrebbe cominciare dal Caligari di Wiene), negli ambienti che lo scenografo Loquasto ha disegnato da La donna del destino, Allen piazza le sue battute aforistiche, i suoi ritmi metropolitani e la sua morale d’amore: anche ipnotizzati, un uomo o una donna non eseguono scelte che non farebbero mai nella vita di coscienza, soprattutto in amore. Il finale ha un tocco di bacchetta shakespeariano, come c’era da aspettarsi dall’autore di Commedia sexy di una notte di mezza estate. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 2 settembre 2001) LA STORIA New York, anno 1940. Alla North Cost Fidelity, grossa società di assicurazioni, è arrivata da qualche mese una nuova dirigente con l’incarico di dare una svolta all’azienda. Miss Betty Ann Fitzgerald, donna molto determinata, anche avvenente, ben presto diventata amante del capo, Mr Magruder. La spiegazione è chiara per tutti: occorre sostenere il passo con i tempi, rimodernare gli uffici, cambiare metodo di lavoro. C.W. Briggs, uno degli impiegati più anziani, non è d’accordo. Per C.W., investigatore convinto del suo infallibile fiuto e della sua capacità organizzativa, il cambiamento non può essere accettato e l’arrivo di Miss Fitzgerald non va neanche preso in considerazione. Tra loro un tentativo di intesa si è subito rivelato un fallimento. Fitzgerald su un punto è stata irremovibile: la società ha bisogno di avvalersi anche della competenza di altri. Qualche giorno dopo, un festeggiamento raduna tutti i dipendenti della North Cost: il compleanno di Bond, un impiegato tranquillo che ha però come hobby piccoli giochi di magia. Attrazione della serata, che vede riuniti impiegati e dirigenti in un ristorante, è Voltan, mago ipnotizzatore che vanta i poteri dello scorpione di giada. L’esibizione del mago richiede la partecipazione di qualcuno del pubblico, e i due prescelti sono Miss Fitzgerald e C.W. Briggs. Prima l’una e poi l’altro, al co172 LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA mando impartito attraverso due parole chiave, Costantinopoli e Madagascar, cadono in trance e ubbidiscono agli ordini ricevuti fino a dichiararsi amore reciproco, scatenando la risata generale. Voltan è un abile truffatore, e si fa vivo nella notte, a festa ormai finita, con una telefonata a C.W. La parola che pronuncia per impadronirsi della sua volontà è “Costantinopoli” e l’ordine che gli impartisce è quello di dirigersi subito verso la cassaforte dei Kensington, rubare tutti i gioielli e portarli a casa sua. In trance, Briggs non può fare altro. La mattina successiva, e senza alcun ricordo di quanto avvenuto, è avvertito dell’incredibile rapina. Naturalmente il suo compito è quello di darsi da fare e scoprirne l’autore. Ma il danno per la società rischia di essere troppo alto, e Miss Fitzgerald non vuole perdere tempo: gli comunica che ha ormai dato in appalto l’investigazione a due agenti privati. Comincia così un doppio lavoro di indagine: da una parte C.W. Briggs e dall’altra i due fratelli Cooper. I primi indizi mettono subito in evidenza elementi che riportano a Briggs, e Briggs dal canto suo è convinto che le prove siano da cercare all’interno, prima dei Kensington, poi nell’ufficio di Fitzgerald. Ma ad un primo furto se ne aggiunge un altro, sempre ordinato da quel mago e impartito attraverso la parola “Costantinopoli”, e le cose si complicano. Briggs pensa che solo arrivando ai cassetti di Fitzgerald e poi rubando la chiave di casa dalla sua borsetta e penetrando nell’appartamento della donna, riuscirà ad ottenere quello che cerca. Intanto le prove raccolte sul suo conto dai Cooper sono ormai inconfutabili. La conferma, però, sui sospetti nutriti dai Cooper, la raccoglie Miss Fitzgerald, quando scopre a casa di Briggs i gioielli rubati. Briggs, a quel punto, deve essere consegnato alla polizia, ma ancora una volta una telefonata di Voltan lo fa cadere in trance e Fitzgerald, presente a quella chiamata, esprime a Magruder molte perplessità sulla personalità del sospettato, e lo fa arrestare. Dunque la polizia mette le manette ai polsi di C.W Briggs, ma ad aiutarlo a evadere interviene Laura Kensington, figlia della signora derubata, che è stata irresistibilmente attratta da lui dopo averlo trovato nella camera di sua madre. E libero, Briggs va a rifugiarsi nell’unico luogo dove nessuno lo cercherà mai: a casa di Miss Fitzgerald. Qui i ruoli si invertono. Adesso è lei a essere presa di mira da Voltan, con la solita telefonata e l’ordine impartito dalla parola “Madagascar” che le comanda di andare subito a rubare dei gioielli. Il cerchio si stringe. Tornato in ufficio per le sue indagini, C.W. Briggs racconta quello che ha visto ai colleghi e Bond, l’appassionato di magia, sentito tutto, ricorda gli esperimenti di Voltan la sera del suo compleanno. La spiegazione è ormai trovata, ed è anche subito messo in atto il modo di deprogrammare i due caduti nella trappola. Il finale porta finalmente giustizia e riserva anche una sorpresa: Miss Fitzgerald, ormai in procinto di sposare Magruder, cede invece al fascino di C.W. Briggs e con lui si avvia ad un futuro d’amore. Forse. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Il Woody Allen d’ordinanza arriva quest’anno al Lido preceduto da giudizi pesanti della stampa americana, che ha scritto che il regista e sceneggiatore si ripete continuamente nei suoi soggetti e ambientazioni e che l’ormai anziano attore non è credibile nei suoi rapporti, e nei suoi baci e abbracci, con donne giovani e belle. Al che si può rispondere: primo che non è vero e secondo chi se ne importa? Cosa importa se Woody ama riandare ancora una volta agli anni Quaranta della sua infanzia, del miglior jazz del secolo, di una società già moderna e tragica ma che conserva ancora antichi sapori e abitudini se in questo mondo il suo personaggio nuota come un pesce nell’acqua, nelle diverse varianti che egli sa inventargli? E questa volta, in La maledizione dello scorpione di giada, Allen è un detective di una compagnia d’assicurazione, capace di ritrovare rapidamente e con grande intuito un Picasso rubato anche se un po’ più lento a capire poi che quell’insieme di “cubi” era proprio la Donna con chitarra che cercava. E cosa importa se per rendere credibile una love story con una giovane donna bionda deve inventare una trama in cui c’entrano ipnotismo, furti commessi in stato di trance, doppie personalità, telefonate misteriose e sospetti incredibili, se questo gli consente di dar corpo in maniera ancora una volta piacevole alle sue fantasie ed eterne ossessioni? D’altra parte questo gli consente anche di declinare un motivo che egli ha spesso affrontato, quello del potere psicologico e delle forme di seduzione e in ogni caso, come si è visto in molti suoi film recenti, Woody Allen non esclude più il fantastico dal suo universo e qui egli lo sa integrare armoniosamente a un piccolo mondo impiegatizio e quotidiano che racconta con affettuosa ironia disegnando una serie di personaggi minori tutti efficaci e divertenti. Questo ambiente fa da sfondo e da ring per il lungo duetto fra il suo C.W. Briggs, il piccolo detective di poca scienza ma di grande istinto, che vive da solo in appartamentino pulcioso e frequenta bar pieni di fumo, e una giovane manager che è arrivata nell’ufficio con nuovi programmi di razionalizzazione e modernizzazione, laureata all’Università e non, come lui, “alla scuola guida”, e che subito comincia a odiare cordialmente non solo perché gli sposta i suoi archivi senza nemmeno avvisarlo e pensa di affidare il suo lavoro a qualche agenzia esterna ma soprattutto perché ha la battuta più pronta della sua e alla fine delle loro schermaglie fatte di fioriti e metaforici insulti è sempre lei ad avere l’ultima parola. Una parte, affidata alla brava Helen Hunt, che dimostra la generosità dell’autore Allen nel lasciare alla sua partner almeno la metà delle sue trovate verbali, anche se a volta il regista sembra voler spegnere un po’ la brillantezza dell’attrice e se, in ogni caso, una battuta detta da lui fa sempre più ridere di quelle messe in bocca a chiunque altro. Ma Woody non si accontenta di una partner sola e gioca con l’incredibilità – della quale dunque è perfettamente assurdo accusarlo – facendo infilare nel suo letto perfino uno schianto di bionda alla Veronica Lake (Charlize Theron, già in Celebrity) salvo poi, per colmo di snobismo, abbandonarla lì indispettita per andare a portare avanti un altro filo della trama. E per dimostrare di non essere più il pigliatutto che costruisce un film solo su stesso dà una parte, anche se un po’ scontata e non particolarmente stimolante, anche a Dan Aykroyd, che mai aveva lavorato con lui. Woody Allen è insomma proprio come il LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA 173 suo C.W. Briggs: lavora sulle vecchie abitudini, si affida al fiuto più che ai procedimenti scientifici, chiedendo aiuto se serve ai finti ciechi e ai piccoli delinquenti suoi amici; può sembrare all'inizio che questa volta sia destinato a fallire e che la sua stagione sia finita ma alla fine riesce sempre a risolvere il caso e a chiudere il film lasciando un senso di appagamento, quello di chi ha passato gradevolmente due ore in compagnia di vecchi e nuovi amici, in un locale non alla moda ma dove si beve bene e la musica è buona. (ALBERTO FARASSINO, Kwcinema). Allen attore è quasi più in forma di Allen regista e si regala gag, gesti, facce e giri verbali notevoli. I duetti-scontri feroci tra C.W. e Betty si ispirano, con rispetto e senza presunzione, a quelli straordinari, frizzanti e insuperabili tra Tracy e la Hepburn. Allen e Hunt sono tanto per cominciare molto più bruttini. Il cast, come sempre, mette insieme attori che sembrano già appagati di avere il proprio nome nei titoli di testa, senza pensare al peso del ruolo (la Theron è una boccoluta apparizione di secondo piano). Mentre ovunque impazza il restauro delle vecchie copie, Woody Allen mette a stagionare i suoi film. (ENRICO MAGRELLI, Film TV, 2 ottobre 2001) Il titolo sembra rubato a un romanzo giallo anni Cinquanta, il film invece è divertente come Criminali da strapazzo anche se, tra le sue pieghe, si fa avanti il consueto, ironico pessimismo di Woody Allen sulla possibilità che la felicità la si raggiunga solo nei sogni: come in Tutti dicono I Love You e in La rosa purpurea del Cairo. [...] Un gioco, sempre, ma anche una delizia. E sotto tutti gli aspetti. Intanto da un punto di vista strettamente cinematografico perché l’azione, ambientandosi a New York nel 1940, i film e le musiche di quegli anni li rilegge spesso con felicissimi effetti: con una vamp, Charlize Theron, che cita apertamente Lauren Bacall nel Grande sonno e un capufficio, Dan Akroyd, alle cui spalle si intravede il Fred Mc Murray di L’appartamento. Quindi, dal punto di vista dei ritmi, perché il racconto, snodandosi fra un contrattempo, un equivoco, un incidente e una 174 LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA sorpresa, sempre con il jazz di fondo, fila via senza mai una sosta, anzi, con gioiosa frenesia persino nei momenti più tesi. Mentre, come sempre, lo ingemmano di dialoghi scintillanti d’umorismo ad ogni battuta. La firma, anche qui, di Woody Allen maestro del comico. (GIAN LUIGI RONDI, Il Tempo, 27 settembre 2001) E [...] il plot ad essere protagonista del film di Allen, in cui l’intreccio a sfondo noir privilegia l’impianto narrativo a scapito della consueta – e a volte un po’ frusta – autocommiserazione intellettuale e sessuale. Anche nella Maledizione le battute piovono come le ciliegie, ma nel delineare la storia dello sfigato investigatore assicurativo C.W. Briggs, Allen prende a modello – nella sua infinita galleria di scoppiati – un looser bonario e accattivante com’era il Danny di Broadway Danny Rose, rivisitato alla luce di una coppia regina degli incontri-scontri quale fu l’unione tra Spencer Tracy e Katherine Hepburn. [...] Come si può ben immaginare, nell’happy end che il cinema concede ai perdenti nati (almeno lì), la chiave di tutto è la parola magica. E allora illudiamoci che la vita un avolta tanto sia come il cinema, che le favole abbiano un lieto fine, magari con qualche parola incantata – Costantinopoli, Madagascar – pronunciata ogni mattina, col caffé. Anche perché alla fine potremmo scoprire che non tutto è frutto di magia e che ognuno dipsone di una risorsa assai meno affascinante, ma più umana: nel dilemma tra testa e stomaco, tra cervello e sangue, il buon vecchio Woody non ha dubbi, sta coi secondi. Da perdente, forse, ma con classe e ironia. (MICHELE G OTTARDI , Segnocinema 112, novembre/dicembre 2001, pp.47-8) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Miranda Manfredi - Comicità intelligente e garbata come solo Woody Allen sa fare. Anzi, gli anni che passano lascia- no sempre più spazio all’autoironia sulla sua scarsa avvenenza. Ogni suo film ha anche un contenuto di fustigazione dei costumi. In Criminali da strapazzo era la categoria degli arricchiti che non aveva scampo dalle sue taglienti battute, in questo film è il rapporto di coppia, nato in ufficio, che deve risentire della magia per poter funzionare. La donna manager rigorosa e aggressiva nasconde la sua sensibilità, sommersa dall’arrivismo e paga con l’alcolismo l’insoddisfazione sentimentale. I valori umani sono molto più profondi di quanto appaiono a una lettura superficiale e considero Woody Allen da premio per la sua capacità di coinvolgerci con ironia nei problemi che sono suoi ma possono essere anche nostri. La sceneggiatura anni Quaranta è accuratissima e caratterizza la psicologia dei protagonisti che si affacciano ai tempi che cambiano, soprattutto riguardo all’emisfero femminile. OTTIMO Grazia Masi Cipelletti - Secondo alcuni, ciò che differenzia il comportamento umano da quello di altri animali è la capacità di ridere. E suscitare il riso, riflettendo sulle vicende umane, è senza dubbio molto più difficile che non proporne letture tragiche o eroiche. Con questo suo bellissimo film Woody Allen ci ha regalato un piccolo capolavoro di humour, di autoironia graffiante, ma anche benevolmente ammiccante al doppio che c’è in ognuno di noi di fronte alle scelte bene/male. Elisabetta Benzi Venturi - Ho trovato assolutamente geniale la sofisticata trovata della mafia che attraverso l’impiego persuasivo di espressioni geografiche tipicamente “esotiche” negli anni Quaranta porta a superare, nel bene e nel male, i limiti della personalità che ai protagonisti sono dati dai freni inibitori. Che dire di Woody Allen e di Helen Hunt se non che sono assolutamente perfetti nelle rispettive parti recitate con maestria? Senza aggiungere che non credo davvero che si tratti solo di farsa. Non è perché ci siamo divertiti e ab- biamo goduto di un’ottima recitazione in un contesto sotto ogni profilo ineccepibile che non abbiamo riflettuto, comunque, sui messaggi che, con ironia, Woody Allen ha inteso trasmetterci. Vittorio Zecca - Woody Allen per ritornare a fare un buon film dopo le ultime prove non certamente esaltanti ha dovuto riscoprire i suoi grandi amori: il cinema e la musica degli anni ’40-’50. Ne esce un film gioiello che, pur nella semplicità della trama, custodisce tutti i temi e il fascino che hanno fatto mitica la cinematografia americana proprio di quegli anni. Un tuffo nel passato, ricco di memoria ma, anche, dove la recitazione, i costumi, la scenografia e la meravigliosa musica continuamente stimolano il piacere di chi ama il cinema come uno dei modi più intelligenti per leggere la nostra vita. Vincenzo Novi - È un film divertente che unisce l’intelligenza e l’ironia. Da situazioni di normalità nasce un caleidoscopio di trovate spinte fino al paradosso. Il senso dell’umorismo e della misura che si mescolano nella personalità di Woody Allen, costituisce il perno su cui gira il film. Il finale presenta una conclusione in chiave comica che non nasconde l’intenzione di sbeffeggiare ridendo un andazzo di costume. Mario Piatti - Un film che restituisce il piacere di andare al cinema, una lezione esemplare di come anche una storia, in sé di modesto rilievo, può essere raccontata con gusto e intelligenza, utilizzando tutte le risorse del mezzo espressivo. Woody Allen ha il grande pregio di inventarsi le sue storie, di sceneggiarsele, di interpretarsele, di scegliersi le musiche e di dirigere se stesso e gli attori che chiama a fargli da comprimari. Ne risulta un prodotto senza sbavature, dove tutto e tutti sono collocati nella giusta dimensione per ricostruire un ricordo, una situazione. Anche qui non mancano la consueta ironia e le citazioni care ad Allen, il commento musicale è di qualità eccezionale, tale da portarci all’epoca rappresentata sin dallo scorrere dei titoli di testa, le immagini LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA 175 fanno, poi, il resto. È un vero peccato che i film cosiddetti comici siano ritenuti da molti una forma inferiore di cinema, facendo un solo fascio della comicità intelligente e di quella insulsa e pecoreccia che purtroppo da anni affligge le produzioni italiane del genere. Annamaria Paracchini - Film divertentissimo, spassoso, battute brillanti, attori bravissimi. Non sarà “grande” cinema, ma è puro intrattenimento, grazie alla fantasia, all’ironia intelligente di Woody Allen. Un esempio di come si può divertire il pubblico senza volgarità e oscenità. Paola Almagioni - Riconosco sempre qualcosa di me nel personaggio di Woody Allen, pur essendo Allen un po’ sopra le righe. Il suo sense of humour è sempre presente, anzi, è persino migliorato con gli anni. Mi domando perché non mi capiti mai di rispecchiarmi nei personaggi dei film italiani. O sono troppo tristi e depressi, o sono stupidi e volgari. Stiamo vivendo tempi difficili, lo so, ma l’umorismo non dovrebbe mai abbandonarci. Alberta Zanuso - Pur essendo il solito Woody, un po’ nevrotico, autoironico, indifeso ed esilarante, ho notato che con gli anni la sua recitazione ha raggiunto un livello veramente ottimale. Grazia Agostoni - Bentornato Woody Allen! Non solo per intelligenza, dialogo, invenzione, ricostruzione di un’epoca, presentazione scherzosa di problemi suoi e di tutti, ma anche per la ritrovata autoironia, che rende la visione del film un vero divertimento garbato, un piacere raro nel panorama generale dei film commedia degli ultimi anni. Donatella Napolitano - Vedere i film di Woody Allen è come essere invitati nel suo salotto periodicamente a continuare una conversazione iniziata tanto tempo fa. che bello passare due ore in sua compagnia e scoprire ogni volta il suo humour intelligente, che ti fa sorridere e pensare. 176 LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA Piergiovanna Bruni - Ho sempre pensato che i film di Allen fossero dei sogni irrealizzati che scaturiscono dal profondo come meccanismi di difesa personali; molto autocritici, forse troppo. Al punto di far ritenere Allen un perdente. Ora invece penso che ci si possa divertire e ridersi addosso minimizzando le tragedie del mondo, e far ridere anche gli altri perché l’umanità possa ravvedersi o per lo meno migliorarsi. Sogno irrealizzabile anche questo? Il pessimismo acuto del nostro Woody è presa di coscienza della pochezza che ci circonda. Nessuno escluso. Pierangela Chiesa - Un film intellignete e divertente. Perfetta la ricostruzione degli anni Quaranta, dai costumi alla tipizzazione dei personaggi, che, tuttavia, non diventano mai stereotipi. Ottima la recitazione di Allen che in Briggs mette a nudo se stesso, con i suoi dubbi, le sue paure, la mancanza di autostima. Sono proprio queste sue debolezze che lo spingono all’amore – che si manifesta con un astio profondo – verso Miss Fitzgerald, la personificazione della sicurezza e della determinazione che lui vorrebbe avere. E lo stregone – malfattore che risolve l’ingarbugliato gioco psicologico sembra voler dimostrare che, di fronte a un sentimento vero, gli spigoli si smussano e i conflitti si annullano. Un saggio proverbio non dice forse “Gli estremi si toccano”? Arturo Cucchi - Allen racconta una storia che è un piccolo gioiello di umorismo e di autoironia, mescolando al meglio i suoi ingredienti preferiti. Al regista il merito di aver creato una litania di situazioni comiche, trattate con stile leggero ma mai banale. E, come sempre, non mancano una recitazione ben calibrata e una musica piacevole. Pierfranco Steffenini - Un film che ha l’effervescenza delicata di una coppa di champagne. Allen si allontana sempre più dai tormenti psicologici di certi suoi film del passato e accentua il gusto per le storie brillanti e disimpegnate. Dico la mia opinione, forse controcorrente: io lo preferisco così. Non tutti i film del nuovo corso sono riusciti così bene. Uno che ricordo con particolare simpatia è Tutti dicono I love You, un musical divertente come pochi. Quest’ultimo film si fa amare per l’incredibile fuoco di fila di battute fulminee e per la sapiente riproduzione dell’atmosfera anni Quaranta, attraverso le citazioni, i costumi, la scenografia del bravo Loquasto. Unica riserva: gli anni passano anche per lui, e l’interprete Woody Allen è sempre meno adatto, fisicamente, ai ruoli da giovane amoroso che si ritaglia. Anche se è difficile immaginare un film di Woody Allen senza Woody Allen. Ilario Boscolo - Un tipico film di Woody Allen: divertente, simpatico, con battute fulminanti, e leggero nella descrizione, anche se con un contenuto forte, credibilmente autobiografico, d’introspezione dell’animo umano. Mi ha trasmesso tristezza. Allen presenta le paturnie dell’uomo che arriva alla vecchiaia: ha gloria, rispetto, amici, conoscenze della vita, ma è un po’ passato ed un po’ ipocondriaco. C’è una certa aria di tristezza per la perdita della freschezza e dell’appeal. BUONO Teresa Deiana - È del tutto inutile decidere di introdurre una rigorosa razionalizzazione nei meandri del proprio ufficio (o della propria vita...) perché potrebbe esserci in agguato il Caso, o qualcuno dai poteri occulti, pronto a capovolgere ogni programma. Che Woody Allen abbia voluto, con questo film, alludere anche alle sue personali vicende? Certamente è piacevole immergersi nell’atmosfera degli anni Quaranta, con le tappezzerie a fiori, gli uffici senza pretese e un mondo, in qualche modo, ancora familiare. Ci sono tutti i personaggi del giallo di allora, ma ognuno stravolto da note grottesche: il detective che si trova a indagare su se stesso, il boss che bamboleggia con la segretaria, le parolette magiche che fruttano bottini milionari. Favola e realtà si mescolano allegramente, mentre il dialogo si mantiene su toni arguti e frizzanti. La musica e la fotografia, magicamente evocatrici, completano bene quest’altro indovinato e piacevole film. Gian Piero Calza - Al di sotto della patina brillante dei film di Woody Allen che ci procura in genere un autentico divertimento, c’è una considerazione non superficiale delle difficoltà che si incontrano nel rapporto uomo-donna. Difficoltà psicologiche, intellettuali, sentimentali, sessuali che vengono descritte sempre con molto humour ma anche con un fondo di sofferta verità. Siamo infatti portati a riferire le difficoltà psicologiche del personaggio e dell’autore Woody Allen alle difficoltà fisiche, umane del piccolo e fragile uomo che egli interpreta. Questa condizione esistenziale di svantaggio fisico e psicologico nei confronti della realtà è in parte comune a molta cultura ebraica, così come la tendenza a trarne effetti comici (si pensi al grande Chaplin). Ma il gioco è anche letterario: il meccanismo con il quale il regista in questo film rende possibili i rapporti sentimentali tra un uomo e una donna (che nella realtà sono rapporti conflittuali) è quello tradizionale dello sdoppiamento di personalità. Come nelle favole, e nel teatro degli equivoci, il personaggio ottiene nella finzione – per qualche sortilegio – ciò che non riesce a ottenere nella realtà. Sicché il personaggio sdoppiato riesce a essere più autentico nella dimensione irreale che in quella reale. Questo espediente narrativo può provocare effetti comici, come in questo caso, oppure tragici. Ma rimane un espediente narrativo, tanto più godibile quanto più sostenuto dall’intelligenza della messa in scena, dell’eleganza dei personaggi, della brillantezza del linguaggio. Doti, queste, precipue dell’autore Woody Allen e qui applicate a un altro espediente narrativo: quello indiziario, del detective che cerca il colpevole e non sa, questa volta, di trovarlo in se stesso e nella sua odiata-amata complice. Che tutto ciò sia ambientato nell’America del 1940 – non negli anni Quaranata – prima del trauma di Pearl Harbor (l’equivalente del trauma più recente delle torri gemelle), ma anche prima dell’America televisiva, dei computer, della tecnologia e dei consumi, è un altro espediente di carattere favolistico per creare un contesto sosciale e ambientale – l’infanzia di Woody Allen – in cui i rapporti umani tra uomo e donna, nel cinema come nella realtà, erano ancora possibili. LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA 177 Bona Schmid - Il Woody Allen di questa annata non è da annoverarsi tra quelli di più alto pregio inventivo, ma è sempre godibilissimo. Puntuale, questo regista, offre al suo pubblcio di fedelissimi, raffinati spettacoli all’insegna della nostalgia della grande stagione cinematografica americana. I miti degli anni Quaranta hanno lasciato un’impronta indelebile nella memoria collettiva di una generazione che si sta avvicinando al crepuscolo della vita: la settantina. Ricco di inventiva, ambientando le gesta dei suoi antieroi in una New York onirica, il regista-attore ci ripropone tutti gli archetipi della cinematografia di quegli anni. Il detective privato con la vocazione alla Arsenio Lupin, i miliardari cafoni, gli impiegati “travet”, le maliarde in cerca di evasioni sessuali e, infine, i maghi che realizzano i desideri inconsci di chi sa ancora sognare. Bella fotografia d’epoca e struggente musica che asseconda le nostre aspirazioni escapistiche. Questo è cinema. 178 LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA DISCRETO Umberto Poletti - Film divertente, ma ormai Woody Allen sta invecchiando e ripetendosi: le gag sulla società statunitense, i tipi sclerotizzati (la manager efficiente, i poliziotti privati anni Trenta...), le battute prevedibili non incantano più. Rifare il verso alla cinematografia del passato non sempre paga. Anche Stanlio e Ollio, a un certo punto della loro carriera, tirarono i remi in barca. Le fotocopie non sono mai originali. MEDIOCRE Renata Pompas - Mi sembra che ormai Woody Allen non abbia più niente da dire e sia diventato la macchietta di se stesso. Il mestiere delle armi CAST&CREDITS regia: Ermanno Olmi (Italia/Francia/Germania 2001) soggetto e sceneggiatura: Ermanno Olmi fotografia: Fabio Olmi montaggio: Paolo Cottignola musica: Fabio Vacchi scenografia: Luigi Marchione costumi: Francesca Sartori interpreti: Hristo Jivkov (Joanni de’ Medici), Sergio Grammatico (Federico Gonzaga, marchese di Mantova), Dimitar Ratchkov (Luc’Antonio Cuppano), Fabio Giubbani (Matteo Cusastro), Sasa Vulicevic (Pietro Aretino) durata: 1h45’ distribuzione: Mikado IL REGISTA Ermanno Olmi è nato a Bergamo il 24 luglio 1931. Dopo il liceo scientifico a Milano, si iscrive a una scuola di recitazione (il suo sogno era fare l’attore) ma poi si impiega presso la Edisonvolta, dove il suo interesse per la cinematografia viene assecondato. Gira alcuni filmati industriali, incentrati sui problemi e i cantieri dell’azienda: nel 1954 nasce la sezione cinema, grazie alla quale Olmi gira una quarantina di documentari. Uno di questi, Il tempo si è fermato (1959), si trasforma durante le riprese in un film a soggetto, che viene presentato nella sezione informativa della Mostra di Venezia e apprezzato dalla critica. Nel 1961 realizza Il posto (storia di due giovani milanesi che cercano una sistemazione nell’Italia del boom) con cui si impone all’attenzione del pubblico. Anch’esso passa per Venezia e raccoglie numerosi premi internazionali. Del 1963 è I fidanzati, storia di un operaio lombardo costretto a trasferirsi in Sicilia: in concorso al festival di Cannes, ottiene il premio OCIC (assegnato dall’ufficio cattolico internazionale del cinema) e numerosi altri riconoscimenti. Seguono ...E venne un uomo (1965), biografia di Giovanni XXIII, Un certo giorno (1968), I recuperanti (1969), Durante l’estate (1971), La circostanza (1974). Il successo internazionale ritorna con L’albero degli zoccoli (1977), premiato a Cannes con la Palma d’oro. Dopo Cammina cammina (1982) segue un periodo di silenzio. Il rientro è nel 1987, con Lunga vita alla signora!, Leone d’argento a Venezia, e La leggenda del santo bevitore (1988), Leone d’oro l’anno successivo. Dopo il documentario Lungo il fiume (1992) arriva La leggenda del bosco vecchio (1993). Il mestiere delle armi è stato nominato per la Palma d’oro a Cannes e ha vinto nove David di Donatello nel 2002. Per il regista questo è il terzo Premio San Fedele per il cinema: lo ha già vinto nel 1960 con Il tempo si è fermato e nel 1979 con L’albero degli zoccoli. IL FILM Le grandi opere artistiche – letterarie, musicali, cinematografiche o di qualsiasi altro genere – hanno spesso un effetto ritardato, come certi farmaci particolarmente efficaci. IL MESTIERE DELLE ARMI 179 15 All’inizio possono sconcertare e disorientare, destare perplessità e perfino disagio o irritazione; talvolta non si sa come prenderle, non si capisce bene cosa vogliano dire, si si sente imbarazzati o spiazzati. Spesso questo è proprio il segno della loro grandezza, che le porta a imboccare nuove strade (sempre scomode, almeno la prima volta, per chi non le ha mai percorse o ne ignorava l’esistenza), a turbare schemi e modelli, a non soddisfare le attese consuete, a non dare ciò che ci si aspetta a priori da esse, bensì a dare qualcosa d’altro e di inedito, almeno parzialmente. Questa trasgressione delle consuetudini non s’identifica necessariamente con innovazioni eclatanti, ma può affidarsi pure a un linguaggio classico, apparentemente limpido e ordinato ma altrettanto sconvolgente. Anche Il mestiere delle armi, il recente capolavoro cinematografico di Ermanno Olmi, può destare un simile impatto iniziale. Appena finita la proiezione, si resta quasi storditi dall’intensità del film, travolti dalla sua potenza espressiva e confusi da quelle errabonde vicende che sembrano disperdersi, frantumarsi in momenti ed episodi non connessi in una storia lineare. Ci si chiede chi è, cosa vuole, cosa significa Giovanni dalle Bande Nere, con la sua ferita, il suo eros, la sua furia, la sua morte. Kafka diceva che un vero libro – ogni vera opera d’arte, possiamo aggiungere – deve colpire come un pugno. Il film di Olmi sferra questo pugno e lo spettatore accusa il colpo. Poi, a poco a poco e in un crescendo sempre più irresistibile, quella storia e quelle grandiose immagini si depositano nella nostra mente, s’impossessano del nostro cuore. Comprendiamo l’assolutezza, la sacralità, la violenza di quelle scene in cui ogni particolare dell’esistenza – il desiderio, l’ira, la paura, la fame, il freddo, il calare della sera – è posto faccia a faccia con l’estrema caducità della vita e insieme con l’eternità dell’istante in cui si ama, si fugge, si soffre, si muore. Ogni dettaglio, l’ansimare di una fuga o il guizzare di una candela, sembra messo direttamente davanti all’occhio di Dio. Così è la vita, che viviamo, giochiamo e perdiamo in ogni attimo; così doveva essere quell’età di ferro, in cui anche la Storia – le guerre, il Sacco di Roma – assomiglia alla caccia, agli agguati, agli accoppiamenti, alle 180 IL MESTIERE DELLE ARMI agonie di un animale nella foresta. Alle opere mediocri accade il contrario: quando le si leggono, vedono o ascoltano, in genere piacciono, perché si tratta di prodotti ben confezionati, gradevolmente consumabili, che gratificano il lettore o lo spettatore, lusingato di capire tutto e subito, magari già prima di leggere il libro o di vedere il film. Il mestiere delle armi, invece – come tutte le opere magistrali – continua a crescere dentro di noi, a invaderci con intensità imbarazzante, a farci sentire quanto poco tutti noi – anche i grandi creatori, grandi proprio per questo – sappiamo e comprendiamo del vivere e del morire. (CLAUDIO MAGRIS, Il Corriere della Sera, 26 giugno 2001) LA STORIA E l’ultimo giorno di novembre del 1526 quando Pietro Aretino annuncia la morte di Giovanni de’ Medici, nobile e valoroso capitano dell’esercito pontificio di sua santità Clemente VII, «nel momento in cui si aveva più bisogno di lui». Il suo corpo è stato composto sul lettino da campo, secondo i suoi desideri, nel castello di Loiso Gonzaga. La ferita che lo ha portarlo alla morte a soli ventotto anni era stata inferta cinque giorni prima da un colpo di artiglieria ad una gamba. E il racconto dell’Aretino prosegue. Gli alemanni dell’imperatore Carlo V sono calati in Italia attratti dall’idea di impossessarsi di alcune città, con un esercito di 18.000 uomini, ma senza artiglieria. Per sbarrargli il passo si è mosso il generale Francesco Maria della Roverê duca d’Urbino, comandante dell’esercito pontificio, con 800 fanti e 600 lance, preceduto dal signor Giovanni de’ Medici con 600 uomini d’armi e cavalleggeri e archibugi di pari numero. L’intento è quello di ostacolare con operazioni a sorpresa di giorno e di notte l’avanzata dei lanzichenecchi. Nessuno sa dove gli alemanni passeranno il Po, ma si è provveduto a sciogliere tutte le barche sul fiume. Nei disegno di Georg von Frundsberg, anziano generale che guida l’esercito avversario, c’è di raggiungere Roma al più presto per sterminare i preti e saccheggiare le ricchezze della Chiesa. Il cappio d’oro appeso al suo carro sta ad indicare l’arma con cui intende impiccare il pontefice. Il capitano de’ Medici avverte subito l’insidia di uno scontro, sa come l’esercito alemanno sia difficile da fronteggiare, anche se non dispone di artiglieria e decide di colpire nelle retrovie i carri dei rifornimenti. Ma a compromettere l’operazione sono Alfonso d’Este duca di Ferrara e Federico Gonzaga duca di Mantova, entrambi preoccupati dell’arrivo di quei temibili alemanni e del danno che avrebbero arrecato sul loro territorio. Il primo possiede le potenti armi da fuoco, i piccoli cannoni capaci di sparare a distanza e colpire senza essere visti, e decide di metterli a disposizione degli alemanni in cambio dell’onorevolissima investitura da parte dell’imperatore Carlo V e del matrimonio del suo primogenito con la di lui figlia Margherita d’Austria. Il secondo offrirà loro un passaggio privilegiato, abbassando il ponte levatoio di Curtatone e favorendo lo scorrere veloce verso la strada di Roma. L’inverno è rigido, la campagna è piena di neve, il giovane capitano è preoccupato per i suoi uomini stremati e ancora in attesa della paga che Roma tarda ad inviare. Ma non vuole perdere tempo. Quando arriva sotto la porta di Curtatone e trova il ponte alzato, chiede disperatamente che venga abbassato, senza ricevere alcuna risposta. Federico Gonzaga è abilissimo nel girare la colpa al vicario: «E fatto così e anche il papa lo sa». Intanto gli alemanni, dopo aver caricato sulle barche i falconetti, hanno raggiunto la riva del Po presso Mantova e si sono appostati in luogo appartato per sorprendere sul ponte di Ostilia Giovanni. E lo scontro avviene sull’argine. Dapprima entrano in azione le lance, poi gli archibugi, ma di fronte all’intervento dei cannoni dell’artiglieria, il capitano de’ Medici dà ai suoi soldati l’ordine di ritirarsi, ma viene ferito ad una gamba. Il generale della Rovere vuole spiegazioni. Manda un dispaccio al duca Federico Gonzaga per informarlo che il capitano de’ Medici è stato raggiunto da un colpo di artiglieria e che il fatto è inspiegabile, non avendo il generale Frundsberg armi da fuoco: la difesa è pronta, della sua non responsabilità ha già informato il pontefice. A quanto invece gli è dato di sapere, sarebbe stato il duca d’Este ad aver inviato agli alemanni i suoi falconetti con le barche del sale. A quel punto, il generale della Rovere esprime tutte le sue preoccupazioni sulla sorte della guerra. Giovanni, gravemente ferito, chiede ospitalità a Loiso Gonzaga, che è onorato di mettergli a disposizione la sua casa e di far arrivare su interessamento del conte Federico il maestro Cerusico, medico insigne. Ma ormai è tardi, e anche l’estrema decisione di tagliargli la gamba è un sacrificio inutile. Sul letto di morte, il pensiero del giovane uomo va alle donne che ha amato e al figlio ancora piccolo. Al prete che recita il De profundis dichiara «In questi anni della mia vita sono sempre vissuto come un soldato, allo stesso modo sarei vissuto secondo il costume dei religiosi se avessi vestito l’abito che voi portate». (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Nel finale di Il mestiere delle armi – quasi un commento alle esequie di un soldato valoroso a cui abbiamo appena assistito – una voce fuori campo ricorda che, dopo il “sacco di Roma” dei lanzichenecchi del cristianissimo Carlo V, si annunciò la messa al bando delle armi da fuoco a cominciare dall’artiglieria. Una promessa non mantenuta, sottolinea Ermanno Olmi che, guardando indietro nel passato, si conferma assai poco fiducioso nel futuro. nel suo bellissimo film, di forte emotività narrativa e di inconsueto splendore figurativo, Olmi ci descrive un paesaggio morto prima di uan battaglia di continuo evocata e di continuo rinviata. Nelle terre che circondano il Po, sommerse nella neve e nella nebbia, un capitano coraggioso, Giovanni delle Bande Nere, cerca di ostacolare l’esercito dei “barbari” che hanno in programma la distruzione di Roma, sede dei Papi. Quasi fosse impossibile l’unificazione morale prima ancora che la politica dell’Europa, tutto è abbandonato alla violenza della guerra e al trionfo del mercato. Non esiste più spazio per un “cuore paladino”. Giovanni de’ Medici, educato a una nobile visione dell’ “arte della guerra”, viene abbattuto con il tradimento. Non gli resta che il coraggio fisico e il sentimento dell’unità familiare. Il suo codice caIL MESTIERE DELLE ARMI 181 valleresco – il confronto diretto, il guardare negli occhi l’avversario – è tutt’altra cosa che uccidere qualcuno senza volto e voce. Così muoiono la comprensione della sofferenza altrui, il residuo di pietà cari agli antichi paladini: motivi che hanno ispirato i poeti fin dall’antichità e che Olmi considera sentimenti autentici. La realtà è adesso riassunta dai tradimenti, dallo sparare nel mucchio, dal darsi giustificazioni per passare da una parte all’altra, da un doppio e triplo gioco che conduce, come qui, all’annientamento del corpo, al taglio della gamba del comandante colpito a morte. Nonostante la suggestiva, sempre credibile, rappresentazione degli agguati, degli scontri, degli spostamenti dei reparti, della furiosa ricerca del cibo e di un riparo per la notte, il cuore di Il mestiere delle armi va cercato altrove. Vive nel dialogo a distanza fra l’uomo educato all’“ingrata arte della guerra” e la moglie e la figlia. Olmi, e non è da oggi, è un maestro nelle annotazioni minute, nel dar rilievo a particolari in apparenza da nulla (la richiesta a casa di calze pesanti, gli indumenti stesi ad asciugare, il raggomitolarsi per il fresso nel letto, etc.). E qui, in una storia che lo porta lontano dai terreni finora da lui percorsi, rimane fedele alla sua natura di personalissimo narratore. (FRANCESCO BOLZONI, L’Avvenire, 11 maggio 2001) Olmi disegna un solenne e struggente poema visuale non solo sulla fine di un uomo e di un soldato, ma anche sul tramonto di un mondo, di un codice d’onore, di un modo di intendere e di praticare la guerra. Nello stesso tempo, tuttavia, proprio nella misura in cui si fa racconto di un morire, Il mestiere delle armi finisce per essere anche la radiografia di un personaggio che solo nella morte trova e definisce la propria identità. Non a caso, il film inizia con il primo piano di un elmo dietro cui il protagonista nasconde il proprio volto e lo rende anonimo, e finisce con un analogo primo piano in cui lo stesso protagonista mostra il proprio viso scoperto, mentre piange incrociando nel controcampo lo sguardo di un bimbo che lo osserva dietro le sbarre di un’inferriata. Come dire: è solo morendo, solo affrontando quel momento di crisi in cui il tempo si ferma definitivamente, che Giovanni dalle Bande 182 IL MESTIERE DELLE ARMI Nere nasce compiutamente come personaggio e riesce a offrirsi sullo schermo, rossellinianamente, nella fragile e precaria consapevolezza della propria identità. Inizio e fine si incrociano: il morire è sempre anche un rinascere, così come il nascere (di un uomo, di un personaggio) implica il suo morire come ruolo stereotipato (cioè, in questo caso, in quanto elmo, armatura brunita, corazza vuota). Insomma: [...] una sorta di requiem non tanto sulla guerra (e su un certo modo di intenderla e di combatterla), quanto sull’inevitabile precarietà di ogni esistenza. Fatto di ellissi e di buchi, di addensamenti e di rarefazioni narrative, di ricordi struggenti (il torneo cavalleresco a Mantova) e di visioni deliranti (le soggettive di Giovanni morente sugli affreschi di Palazzo Tè), è un film che procede per inquadrature frontali, immagini fisse e pose statuarie: quasi una “sacra rappresentazione”, o una via crucis che accompagna la cronaca di un martirio. (GIANNI CANOVA, Segnocinema 110, luglio-agosto 2001, pp. 27-28) È l’uccidere il mestiere di Joanni. La morte è in gran parte la sua vita. C’è qui un paradosso che non riguarda solo lui, ma che – come suggerisce Tibullo nella citazione che apre il film – ci riguarda tutti, in quanto uomini. Cioè: in quanto esseri che vivono di morte, indotti alla violenza e alle armi dall’urgenza di sopperire a un’intrinseca debolezza, a una tragica inadeguatezza a campare fino al giorno dopo (a difendersi dalle belve, scrive Tibullo). E poi però anche tanto folli da usare la stessa violenza contro la vita. Il vivere di Joanni si nutre d’una morte amministrata con attenzione, progettata fin nei dettagli delle corazze, brunite affinché non rilucano nel buio della notte. Questa prossimità con il sangue è poi “raddoppiata” per il fatto che egli stesso, in ogni momento del suo mestiere, è esposto al rischio di morire. Nella sua immagine del mondo, l’essere uccisi non è un’eventualità lontana, di cui si debba o anche solo si possa inorridire, ma qualcosa di familiare e necessario. Joanni vive pronto a uccidere e pronto a morire. [...] Reso uguale a ogni altro soldato dall’acciaio che lo ricopre e imprigiona, uniformato a loro dalla funzione di dar la morte e di riceverla, potrebbe chiudersi e imprigionarsi anche in una anestesia dell’anima. Ma così non accade. Joanni sta ben dentro il proprio “mestiere”, ma certo consapevole del paradosso della condizione umana. Un paradosso che – come dirà sul letto di morte – vivrebbe con identico “coraggio” tragico anche se, invece che soldato, gli fosse capitato d’essere prete. In ogni caso, per lui non c’è conforto né estasi, negli agguati tesi al nemico e nelle geometrie astute dei combattimenti. Non c’è gioia nello spettacolo dei corpi dilaniati. Al contrario, c’è lo stupore annichilito che Olmi scopre negli occhi di un bambino, di fronte a un grande albero da cui pendono uomini e donne impiccati [...]. Mentre Joanni percorre la pianura inseguendo il nemico, fantasma che riempie la sua mente e la occupa più d’ogni affetto, dalla terra (della fusione) emerge e prende forma il cannone che lo ucciderà (un falconetto, a retrocarica). L’immagine è splendida: concreta come la carnalità immediata e sconcia del morire, inevitabile come il fato che gli esseri umani si costruiscono da sé nella materia. Ben più del tradimento degli amici, ben più dell’insidia del nemico, è questo artificio mortale che lo attende e lo condanna. Quando arriva anche per lui la morte – una morte annunciata fin dalle prime inquadrature, e “vissuta” immagine dopo immagine –, pare che Joanni la accolga come una via d’uscita dal paradosso e dall’angoscia. E Olmi la racconta con la solennità agghiacciata e lo stupore sospeso che impone agli occhi la sua terribile corporeità: la cancrena che invade e demolisce il corpo, gli strumenti del chirurgo, l’incidere nella carne e nell’osso... Intanto, dipinta sul soffitto, una maschera lo guarda mostruosa e sarcastica. Come può la guerra allietare l’animo? Non c’è illusione, in Joanni che muore. Non ce n’è più di quanta ce ne fosse nel suo vivere. C’è invece una tragica, assurda, sacra coscienza del paradosso per cui gli esseri umani riempiono il vuoto delle loro vite con il niente della morte. Ben presto, di lui non ci sarà che un corpo mutilato, inutilmente ricomposto su un feretro, tra due ali di soldati in ami. E a noi è dato di vedere solo quel che resta d’un uomo, imprigionato per sempre nel lutto d’una corazza brunita. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2001) INCONTRO COL REGISTA ERMANNO OLMI Ermanno Olmi: È difficilissimo introdurre con parole tutto ciò che abbiamo cercato di fare con immagini, quindi quello che posso dire con estrema franchezza è che l’autore di questo film non è soltanto quello che noi normalmente chiamiamo regista, ma soprattutto la materia che ha voluto plasmarsi così. Con questo film mi sono reso conto definitivamente che esiste un filo che lega una certa realtà con ciascuno di noi. Questo legame suscita un sentimento, ed è questo sentimento che ti guida. Quando ho cominciato a organizzare la materia narrativa in funzione di inquadrature e sequenze, non mi sono affatto vincolato ad un progetto cinematografico. Vi assicuro, è la materia che “sentendosi voluta bene” da noi, ci suggerisce la soluzione. Per darvi un’idea, è come il compositore che, con le mani sulla tastiera del pianoforte, non può avere un progetto musicale già composto nel pentagramma, perché poi sono la sonorità del pianoforte e il suo stato d’animo che messi insieme determinano quelle che saranno le note definitive. In questo film, in modo particolare, mi sono sentito guidato dalla materia, dalle tensioni che erano nella mia scoperta di que- IL MESTIERE DELLE ARMI 183 sti personaggi fatta attraverso documenti e lettere: era come se ogni personaggio dettasse le proprie esigenze. Abbiamo girato qualcosa in più, ed è proprio nel momento del montaggio che questa materia si plasma da sola. Dobbiamo solo assecondarla. Avviene un po’ così anche quando ci innamoriamo: il nostro innamoramento ha delle premesse – vorremmo incontrare una persona con caratteristiche particolari, che corrisponda alle nostre aspirazioni – ma quando la incontriamo, è nell’incontro di due anime che si plasma e si definisce l’amore. Guai se lo precostituissimo. Tutto quello che trovate nel film è merito della materia, e se noi abbiamo una qualche felice responsabilità risolta, è perché abbiamo ascoltato queste tensioni interne alla materia stessa. padre Bruno: Non accade lo stesso nello spettatore, al quale non è data la materia dai manoscritti e dai reperti, ma dal film, che non si deve subire passivamente, ma va accolto, come nel fidanzamento. Ed è per questo che il suo film ha creato tanti film quanti sono gli spettatori. Maurizio Porro: Essendo un’opera d’arte riuscita, arriva, viene intuita e “consumata” dallo spettatore, perché, come diceva Olmi, c’è qualcosa che poi sfugge, che va al di là di qualsiasi preordinata sceneggiatura e intenzione. E di questa miracolosa sintonia di cui sono fatte le cose che riescono, il film di questa sera è pieno. A partire dal fatto che, non si sa come, è un film nello stesso tempo realistico in una maniera quasi maniacale, ma anche astratto, che a un certo punto prende il volo, si alza. Non è vero che bisogna sapere tutto sulle casate del Rinascimento per entrare nel film, come qualcuno dice, a parte le didascalie iniziali, subito dopo le quali si capisce che il film è altrove. È una strana sintesi, da una parte dell’analisi specifica delle cose e dall’altra di astrazione, che hanno i film riusciti, e che aveva L’albero degli zoccoli. È un senso in più, che non è solo la somma di tutte le cose che abbiamo visto, intuito, apprezzato, dal punto di vista anche morale. In un cinema di effetti speciali come quello di oggi, la fiducia nella moralità del cinema sono pochissimi ad averla ancora, e Olmi è uno di questi. Non solo è bel184 IL MESTIERE DELLE ARMI lo il film, ma è bello il modo di guardare il cinema che questo film esprime. intervento 1: L’opera ha una sua dinamica addirittura oltre l’artista che la forma, sicché qualche volta l’artista non è il più adatto a interpretarla, perché ha una sua verità, che viene interpretata dagli spettatori in molti modi diversi. Il sigillo dell’opera d’arte è appunto avere molti significati e una sua vita indipendente che forza la mano dell’artista, da un certo momento in poi. Questo mi sembra ci abbia detto il regista. Questo lavoro è uno dei più bei film che io conosca, e direi superiore ad altri film che possono lontanamente paragonarsi ad esso, come quelli di Bresson e Kurosawa. Ha un suo linguaggio più profondo per me per due aspetti: il realismo quotidiano trasferito in un altro tempo, che non mi pare sia raggiunto da altri film simili, perché qui viviamo la fame, il freddo, gli stenti, la paura di morire, uno per uno, il mestiere della guerra, e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno in questi giorni in cui la guerra di altre persone sarà combattuta sulle montagne, adagio adagio, con una progressione di orrore come quella che abbiamo vissuto nel film. Oltre a questo valore di quotidianità di un ambiente storico così lontano, c’è il valore dell’interiorizzazione. Cioè l’approssimarsi della morte. Spesso si sente un ritmare del tempo, e si capisce, perché il film parte dalla morte, che tutto procede verso quell’epilogo, che la guerra non può che portare alla morte. E la morte non è un’epopea, ma una sofferenza, un’identificazione ultima con se stessi, la scomparsa della vita con l’amore, la trasgressione, la famiglia e tutto il resto. È difficile indicare le scene migliori: quella del crocifisso di legno è di una bellezza straordinaria, e basterebbe ad esprimere il film, così come certe scene “orizzontali” sul fiume. Il rapporto fra il paziente, Giovanni, e il soffitto, i muri, con quel Rinascimento tardivo, un po’ pesante, alla Giulio Romano, è di una poesia altissima. Questi due aspetti mi hanno commosso, per me merita il premio San Fedele. intervento 2: Mi hanno colpito, nella visione della scena della battaglia, i particolari: il fumo, il fiato dei cavalli, delle persone, la realtà della neve e del freddo. Se lo si confronta con la scene del Gladiatore, tutto effetti speciali, c’è un abisso. Qui c’è la morale di una guerra, combattuta con una certa etica, tanto che alla fine il personaggio, confessandosi, può dire “ho vissuto come un soldato, ma avrei potuto vivere, se avessi cambiato abito, la vita del monaco”. C’è addirittura, e questo torna ad essere di grande attualità, la petizione di tutti gli altri comandanti, lo sdegno di chi lo vede ferito all’idea che ci sia stata un’imboscata e che sia stata usata un’arma terribile. Quindi anche un’etica della guerra che è costituita dal limite della persona: si fa la guerra alla pari, deve vincere il migliore. Quando arriva l’aiuto di qualcos’altro, è la fine dell’etica della guerra. Ho apprezzato molto l’osservazione del regista sulla materia che si plasma da sé. Volevo chiederle se la ricerca di quegli ambienti (mi riferisco in particolare al soffitto con cui si relaziona durante la degenza) è stata voluta o è avvenuta casualmente. Perché mi sembra che il guardare di Giovanni a quei volti dipinti diventi per il film molto funzionale all’espressione dei suoi pensieri. Olmi: Quando ho scritto la sceneggiatura ho tenuto conto soprattutto delle documentazioni. Anzi, la sceneggiatura è un’estrapolazione di segmenti della documentazione d’epoca: testimonianze, lettere. In pratica non ho fatto altro che combinare questo minestrone, prelevando un po’ di tutti i sapori dell’orto, per dargli un sapore. Nel fare la scelta dei testi che mi hanno sostenuto nella costruzione, nella strutturazione drammaturgica del film e nella stesura dei dialoghi, ho anche approfondito la conoscenza degli ambienti. Nello specifico, nel soffitto della stanza di Giovanni, ho fatto riferimento da un lato a Palazzo Te, che però viene appena dopo i fatti, e dall’altro ad altre iconografie tipiche nelle decorazioni cinquecentesche, fine Quattrocento, degli ambienti. E si ritrovano i temi tipici di quell’epoca, di una vitalità molto carnale, esplicita, a disposizione di tutti. E cosa c’è di meglio del cibo, del sesso, per esprimerla? Nella decorazione di questi ambienti sono elementi ricorrenti. Tant’è vero che quando abbiamo trovato la stanza dove sarebbe morto Giovanni, un palazzo a Torre Pallavicina, a Bergamo, in quella camera esistono quelle raffigurazioni: quindi un po’ le ho volute, e un po’ le ho trovate. Le dirò di più: quella camera da letto è così carica di simboli erotici che una nonna, della famiglia che possiede il palazzo, ha graffiato tutte le parti intime dei personaggi, perché i nipoti non vedessero quelle che per lei sono delle sconcezze. Il sesso della donna che si vede in zoomata, paradossalmente, con questo danno si vede ancora di più. Nel momento in cui constatiamo che in una certa epoca esistono alcune cose che ci interessano, basta guardarsi intorno e le troviamo, perché vengono restituite. intervento 3: Mi viene da chiedermi cosa possiamo volere di più dal cinema. Molte volte vediamo film in cui è già tutto preordinato, dalla storia, ai personaggi alle emozioni. In questo film è addirittura difficile far decantare subito tutte le cose che nascono dentro per poterne parlare. Il primo dato che mi ha fatto riflettere è la solitudine di questi personaggi: non esiste un vero protagonista, e neanche Giovanni lo è, è tutto l’insieme. Giovanni è quello che ha l’intuizione, e si lega all’universale perché va verso la morte e ne ha la consapevolezza. Ognuno è solo, e i paesaggi aiutano molto ad esprimerlo. La fotografia è bellissima e funzionale. In secondo luogo, riallacciandomi al titolo, ci sono i politici che “giocano” alla guerra, mentre qui i personaggi hanno dentro il senso del fare le cose. Giovanni combatte da vero professionista, ha una dignità e un senso del dovere. In terzo luogo, ho notato i bambini, che ci danno la coscienza e l’oggettivazione dell’assurdità della guerra. Nella scena in cui i gruppi opposti si radunano sulle rive del fiume, lo sguardo dei bambini mi sembra sottolinei proprio questo. Un film che ha tantissimi spunti su cui meditare, per far maturare delle riflessioni che spesso ci sfuggono. intervento 4: Trovo il film un documento di un’Italia rinascimentale molto poco conosciuta. In quanto film di cultura, forse, pochi lo potranno accogliere e apprezzare. Ho apprezzato molto la freddezza della neve, il gelo della morte. E la cura dei particolari, sia nella ricostruzione storica che nei costumi. IL MESTIERE DELLE ARMI 185 padre Bruno: Cos’è successo durante la lavorazione del film? Dov’è stato girato? Olmi: Ho girato tutta la parte degli esterni del Po in Bulgaria, sul Danubio, perché in Italia il Po non ha più la fisionomia primigenia: non solo è devastato negli argini, ma anche snaturato nelle campagne adiacenti, dove ci sono ormai solo colture industrializzate, e manca quindi la naturalezza del paesaggio. Un’altra ragione importante è che da noi non c’era una quantità necessaria di cavalieri e cavalli. Poi anche per motivi meteorologici: nel Cinquecento normalmente a metà novembre nella pianura padana c’era mezzo metro di neve. La neve era importante perché in quel specifico contesto Frusberg vuole a tutti i costi attraversare il Po, congiungersi ai Borboni che venivano da Milano, e calare su Roma per impiccare il Papa. La neve costituiva una grossa difficoltà per gli eserciti, non fosse altro perché i cavalli non avevano il pascolo e si doveva saccheggiare il fieno. Normalmente quindi, a fine ottobre le guerre si sospendevano e riprendevano in primavera, perché si ricreavano le condizioni per mantenere gli eserciti. Ma il Frusberg ha capito che se si fosse fermato, non sarebbe più arrivato a Roma perché era malato, si sentiva già vecchio. Vuole attraversare velocemente il Po e calare al Sud per trovare un clima migliore, e quella coda di autunno-estate per difendersi dalle intemperie e trovare sussistenza. Giovanni ha intuito benissimo il suo piano, e cerca di fermare il Frusberg, perché se ci riesce per quindici giorni, lui non arriva più a Roma. Machiavelli l’ha capito benissimo. Il generale della Rovere, dica d’Urbino, capiva che strategicamente Giovanni era molto più capace di lui. Avevo quindi bisogno della neve. E finché si fa la neve nel cortile di casa, si può fare anche scenograficamente, ma con quegli esterni rischia veramente di essere fasulla. Invece la Bulgaria d’inverno ci garantiva molte probabilità di buona neve. Infatti abbiamo costruito le scenografie del piccolo villaggio e le fornaci dove avviene l’ultima battaglia in zone vicine al fiume, e puntualmente a Natale è nevicato: mezzo metro di neve e ventiquattro sotto zero. Noi della troupe eravamo ben equipaggiati, un po’ meno gli attori in 186 IL MESTIERE DELLE ARMI armatura di ferro. Pensate a che uomini dovevano essere quelli che davvero combattevano così. Due settimane dopo, quindi già a lavorazione avanzata, con scene importanti da girare, ha cominciato a levarsi il vento. La neve ghiacciata è come sabbia, è sale: un vento fortissimo ha spazzato via la neve e cominciavano a venire fuori le zolle, con nostra grande preoccupazione. Dopo tre giorni, siamo passati da ventiquattro gradi sotto zero a diciotto sopra: ci siamo trovati in mezzo al fango fino alle ginocchia. Allora abbiamo dovuto chiamare gli autocarri dell’esercito bulgaro a sei ruote motrici per far caricare la neve residua e farla portare e stendere dove avremmo girato le altre scene. Sparita anche quella neve, passavo tutte le notti insonni, per alzarmi ogni quindici minuti alla finestra per vedere se stesse nevicando. Avevamo lì milleduecento uomini, più la troupe: a lavorazione avviata, interrompere il film sarebbe stata una catastrofe economica. Ci siamo dovuti rivolgere alla neve artificiale, quella dei nostri effetti speciali era inadeguata, soprattutto aveva una componente chimica che il governo bulgaro non avrebbe mai permesso che fosse sparpagliata sul suo territorio. Abbiamo rintracciato a Londra una qualità di neve ecologica, compatibile, perché ricavata dalla cellulosa, che si recupera dalla carta da macero. Impacchettata in una maniera strettissima, e che con una macchina apposita veniva sparata fuori come neve, e oltretutto non dannosa ma benefica alla terra. Tutte le scene dell’ultima battaglia alla fornace sono fatte con neve finta, ma dovevamo creare le condizioni per equipararla all’altra, perché avendo già girato con la neve vera, credetemi, si può notare che il colore è diverso, è un altro tipo di bianco. La mattina che abbiamo distribuito la neve, poi, ha cominciato a nevicare. Ma è durato poco. Non solo. Nevicava fino a due chilometri prima, a causa dell’effetto dell’acqua del Danubio, che abbassava la temperatura, mentre sul set pioveva. Il Danubio che avete visto col ghiaccio apparteneva ai giorni dei ventiquattro gradi sotto zero. Abbiamo faticato molto per realizzare le scene con la neve finta. Anche perché essendo cellulosa, tutte le volte che c’era un passaggio di cavalleria, col fango diventava subito marrone. Al di là di questo, la troupe è stata eroica, ha lavorato in condizioni da ritirata di Russia. I ragazzi bulgari che facevano i soldati, le comparse, molti dei quali appartenenti all’esercito, ma anche vecchi del paese, stavano sdraiati nella neve a temperature rigidissime. intervento 5: Un film perfetto, che evoca gli autori fiamminghi. L’ultima frase del film è abbastanza insolita rispetto al resto del film. Durante la storia dell’uomo, come in 2001: odissea nello spazio, vediamo come il genere umano inizi a combattere con un osso, fino ad arrivare all’escalation del progresso nella capacità umana di dare la morte ai propri simili, con l’ultima variante degli uomini che diventano bombe contro i grattacieli. Un progresso senza freno. Nell’ultima frase lei dice che i capitani, che sono quelli che stanno sul campo, hanno una nobiltà e un’onestà che non appartiene alle alte sfere. Questi capitani si auspicano che le armi da fuoco non vengano più usate verso gli uomini. Ha inserito questa frase con una volontà ironica, grottesca? Olmi: La frase finale, che ha una sua retorica, è autentica, non l’ho inventata io. Appartiene ad una testimonianza di un cancelliere che ha partecipato alle onoranze funebri del giovane de’ Medici. È una segnalazione, non è solo una frase retorica che auspica un miglior comportamento tra gli uomini in campo di battaglia. Tenga presente che all’epoca la guerra era considerata “nobile arte della guerra”. Con l’intervento dell’arma da fuoco, la qualità del cavaliere, che si basava sull’abilità dell’uso dell’arma bianca, viene sconfitta dalla stupidità dell’archibugio. Tant’è vero che alcuni capitani sostennero che fosse disonorevole l’uso di queste armi contro la nobile arte del combattere, perché un imbecille qualsiasi e un vile nascosto avrebbe combattuto e potuto uccidere un nobile capitano. È la denuncia di un’arma diabolica, ma soprattutto della fine di un’epoca. Un’altra considerazione su questa frase vorrei che venisse fatta accostandola a un’altra frase che dice l’Aretino, all’inizio, sotto la tenda, quando al capitano Cuppano viene data la palla d’archibugio appiccicata alla corazza di Giovanni. “Come una palanca, il compenso per noi soldati”. L’Aretino risponde: “caro capitano, le armi da fuoco cambiano le guerre, ma sono le guerre che cambiano il mondo”. Quando qualcuno vuol cambiare il mondo, tenta tutte le vie, poi usa la guerra. Oggi c’è puzza di bruciato intorno a noi. Pensate alle orribili notizie di questi giorni sulle speculazioni in Borsa sui fatti dell’11 settembre. intervento 6: Il suo è un film storico? E se lo è, di che tipo? Che relazione ha questo film con gli approcci di Rossellini e Pasolini, che hanno avuto la stessa intenzione di essere realistici rispetto alla ricerca storica? Mi sembra che il suo film possa essere considerato storico in senso quasi esclusivamente figurativo, perché, com’è stato rilevato, le luci, la scenografia, i costumi, l’iconografia stessa dei personaggi riprendono la figuratività cinquecentesca o manieristica. Olmi: Non mi sono posto tutti i ragionamenti che ha esposto lei, perché probabilmente non avrei fatto il film. Quando si fa riferimento al passato, che sia un passato recente o lontano, non si vuole ricostruirlo con pedanteria filologica. Si prende spunto da un avvenimento storico per poi evocare il passato. Le sue domande, legittime per lei, mi spiazzano completamente, perché non c’entrano niente con i presupposti per cui ho realizzato il film. Per me il dato storico è nell’evocazione di un’epoca: infatti nella pittura un’epoca viene evocata, non riprodotta. Persino nella fotografia, che usa l’obiettivo, tra la realtà storica dell’oggetto e la sua riproduzione c’è di mezzo il fotografo, che ne ha fatto un’interpretazione. Se fossi stato uno storico e avessi preteso che questo film fosse l’immagine riprodotta di quell’epoca, allora lei con queste domande mi avrebbe messo in imbarazzo. I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Cristina Bruni - Sarebbe riduttivo definire il capolavoro di Olmi solo un film. E infatti molto di più: una poesia, un afIL MESTIERE DELLE ARMI 187 fresco, una sinfonia. Dai campi di battaglia alle scene più intimistiche, Olmi descrive magistralmente un’epoca in cui il territorio italiano era conteso da più parti e in cui i liberi stati nazionali apparivano disgregati e nemici tra loro. Il ritratto del protagonista è un tributo a Giovanni dalle Bande Nere, l’ultimo condottiero dei liberi stati e dell’età rinascimentale, l’unico capitano di ventura che, secondo Machiavelli, era in grado di liberare l’Italia dal predominio straniero. Il regista ne evidenzia la valenza e l’intransigenza dettate dal suo ruolo di soldato tutto d’un pezzo, ma ciò che più mi ha colpito è la sensazione di effimero di tutte le opere umane e quindi di tutte le apparenti conquiste o mete militari, come ben fatto osservare dall’anziano frate che apostrofa i soldati in marcia come vuoti simulacri di questa transitoria ed evanescente esistenza umana. Lucia Fossati - Questo è uno di quei rari film che mi hanno lasciata annichilita ed esaltata. Annichilita dalla solennità e incisività delle immagini, esaltata perché è un’opera d’arte che, come tanti capolavori artistici, riesce con una piccola storia a farti pensare alla grandezza e alla miseria dell’uomo e del suo destino, cioè a condurti dal particolare all’universale. Mi ha affascinata la potenza espressiva delle immagini che, anche da sole, trasmettono quello che l’autore vuole comunicare, sostenute da una fotografia straordinaria e da un sapientissimo montaggio. Grazie a Olmi per quest’opera che fa amare il cinema e che resterà, credo, nella storia di quest’arte, accanto ai capolavori di Dreyer e Bresson. Carla Casalini - Lo straordinario fascino della ricostruzione storica e ambientale, la struggente evidenza del messaggio, la bellezza delle immagini ne fanno un film grandissimo, tra i più notevoli del cinema italiano (e non) degli ultimi anni: così compiutamente “da premio” da farmi sentire un po’ incauto lo stesso voto espresso in precedenti schede. Pierfranco Steffenini - Come tutti i film che hanno qualcosa da dire, anche questo si presta a essere analizzato da più angolazioni. Può essere considerato come la storia di un uo188 IL MESTIERE DELLE ARMI mo straordinario, collocata nel suo contesto storico. Sospetto che la figura di Giovanni dalle Bande Nere quale scaturisce dalla ricerca di Olmi sia alquanto idealizzata. Se non mi sbaglio, egli non fu tanto diverso da altri capitani di ventura, tutti protesi a ottenere ingaggi per le loro compagnie e a tempo debito il pagamento del compenso pattuito, senza molto riguardo per la coerenza nelle scelte di campo. Certo Giovanni fu oltremodo coraggioso sia nel battersi contro forza soverchianti, sia nel sopportare il dolore fisico. Come che sia, il ritratto che ce ne dà Olmi raffigura un personaggio eccezionale per coerenza, umanità, lealtà, specie se messo a confronto con le ambiguità di altri personaggi del racconto. Ma al di là della vicenda individuale, il film si offre anche come una summa di valori universali, quali la dignità nell’adempimento del proprio dovere professionale, anche quando questo comporti il dare o il ricevere la morte, la fedeltà, lo spirito religioso. Valori che non hanno bisogno di essere enunciati, ma sono poeticamente suggeriti da un breve gesto, uno sguardo, una parola. Tuttavia il film è anche spettacolo di immagini e suoni. Alcune scene restano nella memoria, come quella delle allucinazioni suscitate nel protagonista moribondo dalla visione delle figure grottesche raffigurate sulle pareti della stanza. Le scenografie e i costumi sono preziosi, mai rutilanti. Le azioni di guerra sono scarne ma efficaci. Il parlato con le sue espressioni antiquate ha un profumo di credibilità. Liana Senaldi - Non ho parole per spiegare l’emozione procuratami da questo meraviglioso film. Piero Rosa - Uno dei più bei film degli ultimi anni, la ricercatezza dei particolari ricorda il miglior Visconti. Meraviglioso. Maria Cossar - Nell’era degli effetti speciali, questo lavoro è splendido per il suo linguaggio profondo, vero realismo tarsferito in un altro tempo: si vive il freddo, la fame, la guerra con una progressione di orrore che ci riporta ai giorni nostri. Attraverso gli occhi dei bambini il regista ci trasmette lo stu- pore, la paura, il candore che fanno da filtro alla parte migliore dell’uomo. Carla Cattaneo - Un capolavoro. Per il realismo, la raffinatezza e soprattutto la poesia che lo permea, nei sentimenti, nell’eroismo, nel patire. Maria Ruffini - Un film bellissimo: è vero che sugli avvenimenti storici si sofferma così poco da renderne difficoltosa la comprensione (e questo è l’unico limite che gli riconosco), in compenso “il mestiere delle armi” ce lo fa conoscere in modo eccezionale. Il ritmo pacato della narrazione, la fotografia così attenta a valorizzare paesaggio e personaggi danno incisività agli avvenimenti, che esercitano sullo spettatore un grande fascino, nonostante le sofferenze che portano con sé. Germana Leone - Non è certamente un film di cassetta, ma a me è sembrato perfetto. Mi ha conivolto profondamente per lo spessore umano della figura del protagonista, per la sobrietà e la cura con cui sono ricostruiti gli ambienti, per la bellezza della fotografia, per i dialoghi in italiano arcaico, per la regia senza sbavature, infine perché è un film denso di significati. Ci mette di fronte alle contraddizioni della vita, per cui un animo nobile e retto può vivere situazioni di compromesso e ci fa meditare sul mistero della morte, che sempre ci accompagna. OTTIMO Bona Schmid - È un film raggelante perché con una logica inoppugnabile ci mostra l’aspetto più primordiale dell’istinto belluino di annientamento che è geneticamente connaturato nella natura umana. Se nell’epica guerriera veniamo coinvolti nel duello tra Ettore e Achille e la morte eroica del Troiano – nelle parole di Omero – suscita commozione profonda, la storia tragica di Giovanni dalle Bande Nere ci lascia sgomenti di fronte a tanta determinazione senza pathos. E Olmi, con una pietas tutta sua, ci racconta il dramma di un uomo che trova la sua ragion d’essere nel seminare e ricevere morte. La ricostruzione ambientale è perfetta. È il tramonto degli splendori del Rinascimento. Il Sacco di Roma aprirà le porte all’inevitabile decadenza politica di questo Paese, considerato la culla della civiltà occidentale. Il mestiere delle armi non basta per vincere una guerra. È un film di una sconcertante attualità, la nostra civiltà è di nuovo minacciata da chi esercita il mestiere delle armi, con un furore iconoclasta. Mario Piatti - Olmi ci presenta un affresco storico di qualità cinematografica superiore. La guerra è mostrata in tutto il suo orrore, in tutta la sua miseria; pare che dallo schermo venga direttamente a coinvolgerci lo squallore delle campagne devastate, delle misere case distrutte. Riusciamo quasi a percepire il gelo nelle notti d’addiaccio, il freddo delle grandi stanze dei castelli nelle quali, intabarrati e guantati, i “signori” pronunciano sommessamente parole di tradimento che si condensano in vapore. Il “nobile mestiere delle armi” si risolve in un giovane corpo che, inesorabilmente, si corrompe. Al di là della perfezione formale, la tesi etica di Olmi, pur non nuova, è di indubbio e attuale interesse: la stupida inutilità della guerra è evidenziata dall’impossibilità di difesa da armi sempre più potenti e più subdole. Come l’eroe Achille che, forte della sua invulnerabilità, è trafitto nell’unico punto debole dalla freccia scagliata dall’alto delle mura di Troia, così il padre Giovanni, pur difeso dalla pesante armatura, è colpito dal proiettile esploso dal falconetto. A questo tutti dovremmo riflettere in tempi in cui, mentre si discute di improbabili scudi spaziali, si può essere colpiti, e con quale gravità, da singoli uomini armati di un coltellino. Caterina Parmigiani - La solitudine caratterizza la vita di Giovanni de’ Medici, come avviene spesso per i capi: egli è solo nel decidere perché la responsabilità è sua, è lui lo stratega; si deve guardare sia dai nemici sia dagli amici, perché la guerra rende traditori molti; non ha forti legami sentimentali perché antepone a tutto il suo “mestiere delle armi”; IL MESTIERE DELLE ARMI 189 è solo davanti alla morte che affronta con il coraggio e la determinazione con cui ha sempre affrontato gli avversari. Questo tema è sottolineato con maestria da molti e suggestivi primi piani e da lunghi silenzi in un paesaggio esterno di desolante gelo invernale e interno di affreschi evocatori di immagini terrifiche. Film di grande valore artistico che sa avvincere lo spettatore. Carla Testorelli - Olmi costruisce un film rigoroso e lineare, utilizzando l’immagine e la sua scansione per raccontare le vicende di Giovanni de’ Medici, che, al “soldo” di papa Clemente VII, combatte e muore nel tentativo di ostacolare la calata dei Lanzichenecchi su Roma. La macchina da presa, utilizzata con eccezionale maestria, è capace di ricostruire complesse operazioni di guerra o di soffermarsi su di un particolare: un oggetto, un volto, uno sguardo, una lacrima. Il dialogo è quasi assente, parlano le inquadrature: basti pensare anche a episodi minori come la scena in cui la nobildonna mantovana viene umiliata dal marito davanti alla figlia e ai domestici. Immagini sontuose descrivono il delirio di Giovanni morente nei cui occhi si riflettono i particolari degli affreschi dipinti alle pareti che si mescolano alle apparizioni e alle rivelazioni delle due donne della sua vita, intrise di dolorosa sensualità. Giovanni è un professionista della guerra e sa che la morte è implicita nel “mestiere delle armi”. Le nuove armi (i falconetti) cambiano la guerra, ma è la guerra che, ora come allora, cambia gli equilibri del mondo. non entrare tutta nel fotogramma. Il focus è sull’elmo, compatto, scuro, di duro metallo, avvolgente, impenetrabile, freddo e minaccioso. Ma dalla stretta feritoia orizzontale si intravvede, misterioso ed inquietante, un occhio. Questa immagine così pregnante riunisce in sé i significati del “mestiere” di uccidere, di cui l’armatura è la divisa, come il saio per il sacerdote. L’armatura in sé è “vuoto simulacro”, orrendo e inanimato strumento di guerra, spersonalizzato come un robot. Ma dentro quell’almo Olmi ha posto il suo Giovanni de’ Medici. Quell’occhio è vita e appartiene a un uomo d’eccezione. Nel film vediamo poi emergere nella sua pienezza fisica e psicologica quella vita soltanto – paradossalmente – nella morte, o meglio, nell’attesa della morte. Un’attesa umiliante e allo stesso tempo di grande dignità, in cui al coraggio per la sofferenza della carne si affianca lo strazio dello spirito. Si affollano ricordi e rimpianti, pensieri e immagini, e per chi si era fatto portatore di odio, sorge la scoperta dell’amore uamno - oltre che divino. «Vogliatemi bene quando sarò morto»: questa è la richiesta fatta all’amico che offriva in aiuto le sue inutili e vane risorse di potere e ricchezza. Giancarlo Colonna - Un film ineccepibile per ambientazione, ricostruzione storica, analisi politio-psicologica dei personaggi. Forse questa sommatoria di connotazioni positive penalizza il ritmo narrativo, per cui il film non è molto scorrevole. Ha un pregio “didattico” dei film di Rossellini come La presa del potere di Luigi XIV. Umberto Belotti - Il film pone estrema attenzione ai piccoli particolari, rendendoli tuttavia pregni di significato. La musica e i silenzi sono particolarmente espressivi, singolare cura viene dedicata alle atmosfere, più che alle situazioni. Insomma, un capolavoro. Franca Sicuri - Considero quest’opera di Olmi grande cinema perché, cogliendo un episodio di storia italiana, fotografa con attenzione intrighi, momenti psicologici di aggressività, rimpianti e passioni utilizzando la cinepresa con grande senso artistico. Fiorella de Libero - Qualche considerazione in margine a questo splendido lavoro di Olmi merita lo straordinario manifesto che inquadra unicamente un primo piano ravvicinato e tronco di un’armatura medievale, così incombente da Claudia Cardinali - Campi soffusi di luce, neve abbagliante, rumori di armature, corpi dilaniati, grida di dolore, grandi silenzi. È la guerra. Una guerra d’altri tempi, dove contava l’onore, l’arte del guerreggiare, la lealtà impersonate da Gio- 190 IL MESTIERE DELLE ARMI vanni dalle Bande Nere, che morirà per il tradimento di uomini disonesti. Non una spada, non una lancia lo feriranno, ma un “falconetto” nascosto tra il verde. Finisce così un modo di praticare la guerra, le qualità del guerriero vengono sconfitte da quest’arma nuova. Si auspica che il fuoco non sia mai rivolto all’uomo. Purtroppo quello era solo l’inizio. Splendide le scene, ottima la recitazione. Delia Zangelmi - Intelligente, colto, raffinato. Grazie per onorare noi, la nostra mente, il nostro cuore con opere di tanta classe. BUONO Antonella Spinelli - Con stile, rigore, freddezza ci viene mostrato il coraggio di un’identità: un uomo d’armi. Paradossalmente, nei secoli fino ai giorni nostri, l’uomo convive con il rischio della morte e “lavora” preparandosi da soldato ad applicarla e a viverla (o sopportarla?). Tutti i particolari scenografici, i dialoghi politici, la fotografia ci narrano l’ambiente in cui si consuma questa guerra. Non solo guerra d’armi, ma come sempre guerra tra verità diverse, opportunismo e potere: tra tutto quello che anima, in realtà, spessissimo gli uomini. Forse, però, proprio perché è così precisa la descrizione dei fatti e l’inevitabile fine dell’uomo mi ha colpito l’asetticità, il distacco palpabile dell’animo dal corpo e l’atmosfera gelida, come la nebbia del loro inverno. Ilario Boscolo - Riconosco la mano di Olmi: è un genere che apprezzo sempre molto per la densità del tema e la sua rappresentazione in pure immagini. Per il mio sentire trovo la sceneggiatura troppo lenta. Annamaria de’ Cenzo - La cinepresa mette a fuoco un determinato momento storico, in una regione circoscritta, per un periodo relativamente breve. Sfugge il senso più profondo della scelta operata da Olmi: di che cosa ci ha voluto veramente parlare? Dell’ambiguità e della slealtà dei giochi politici? Dello scacco che subisce l’uomo, quando s’illude di poter dirigere il corso della propria esistenza? Ci lasciano comunque sempre stupefatti e ammirati le grandi capacità del regista: il senso pittorico, che è alla base delle varie ricostruzioni degli ambienti, la magia della fotografia, il ritmo solenne con cui è scandito il tempo. DISCRETO Franca Tobia Barbieri - Protagonista sbagliato e film non coinvolgente. IL MESTIERE DELLE ARMI 191 Monsoon Wedding CAST&CREDITS regia: Mira Nair (India, 2000) soggetto e sceneggiatura: Sabrina Dhawan fotografia: Declan Quinn montaggio: Allyson C. Johnson interpreti: Naseeruddin Shah (Lalit Verma), Lillete Dubey (Pimmi Verma), Shefali Shetty (Ria Verma), Vijay Raaz (P. K. Dubey), Tilotama Shome (Alice), Vasundhara Das (Aditi Verma), Parvin Dabas (Hermant Rai), Kulbhushan Kharbanda (C.L.Chada), Kamini Khanna (Shashi Chadha), Rajat Kapoor (Tej Puri) durata: 1h59’ distribuzione: Key Films LA REGISTA Mira Nair (Bhubaneshwar, India, 15 ottobre 1957) ha studiato all’Università di Delhi e ad Harvard. Ha diretto numerosi ducumentari prima di girare nel 1988 il suo primo lungometraggio, Salaam Bombay!, che ha ottenuto la nomination come miglior film straniero agli Oscar. Il film ha anche ricevuto la Caméra d’Or e il Prix du Publique al Festival di Cannes. I film successivi di Mira Nair comprendono Mississippi Masala (1991), La famiglia Perez (1995), Kama Sutra (1996) e My Own Country (1998). Ha da poco completato il documentario The Laughing Club of India, vincitore del Premio speciale della giuria al Festival International de Programmes audiovisuels. Attualmente sta girando Hy- sterical Blindness, con Uma Thurman e Gena Rowlands. (dal catalogo della Biennale di Venezia 2001). Monsoon Wedding ha vinto il Leone d’oro e quello Lanterna magica alla Mostra di Venezia 2001 ed è stato nominato come miglior film straniero ai Golden Globe 2002. IL FILM Monsoon Wedding, della quarantaquattrenne regista indiana Mira Nair, è una commedia di costumi corale che usa i quattro giorni d’una festa di fidanzamento e di nozze in una grande famiglia borghese di New Delhi (la città dell’autrice) per raccontare il mix di tradizione e modernità, le conseguenze dell’emigrazione frequente (in Australia, in Texas), il persistere dei matrimoni combinati dalle famiglie e delle differenze di casta, il sentimento familiare e le sue violazioni, la metropoli degradata, il carattere dei Punjabi che «per l’India sono come gli italiani per l’Europa: stanno sempre a festeggiare qualcosa, lavorano molto e hanno una grandissima passione per la vita». Vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, il film è facile, divertente e serio insieme, carino. Tra molte canzoni, danze, ghirlande di fiori dalle bellissime tinte, risate, confidenze, emergono pure i brutti segreti: un fratello emigrato del padre della sposa viene scoperto come molestatore nel passato e nel presente delle bambine di casa e messo fuori nonostante sia il più ricco e il più autorevole della famiglia; la sposa séguita ad essere innamorata dell’amante precedente, un personaggio della MONSOON WEDDING 193 16 televisione; la madre della sposa teme d’essere stata quasi sempre infelice, le ragazze della parentela temono di restare sole; la città mostra anche il suo aspetto peggiore, disfatto, caotico, fortemente imbruttito. Mentre si festeggia il matrimonio della figlia dei padroni di casa, nasce un amore tra la domestica e l’addobbatore venuto con due dipendenti per preparare l’ambiente della festa: un’altra condizione sociale è nettamente definita. Le piogge monsoniche della stagione si avvicinano, e quando arrivano il diluvio torrenziale, catartico, porta via tutto con sé. Monsoon Wedding ha un esotismo, musiche e colori piacevoli, ma è l’opera più bonariamente accomodante della regista di Salaam Bombay (1988), che con gli anni sembra essersi adattata a una visione pragmatica e arresa dell’India, della vita. (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 16 dicembre 2001) LA STORIA Sono i quattro giorni che precedono il matrimonio di Aditi, la prima figlia di un ricco borghese, in una New Delhi d’oggi. I preparativi hanno appena avuto inizio. E gli inviti sono stati mandati anche ai parenti, che vivono molto lontano. A organizzare l’evento è stato chiamato un professionista, Dubey, uomo che vanta lunga esperienza per quel genere di manifestazioni, ma che sembra non prendere troppo sul serio il lavoro che gli è stato affidato. Lalit, il padre della sposa, è naturalmente preoccupatissimo. Al contrario Aditi, futura sposa, sembra addirittura indifferente a quello che sta succedendo intorno a lei. La ragione c’è. Aditi è ancora legata all’uomo che ama, un giornalista della Tv, che ha una regolare moglie e soprattutto non ha mai pensato di lasciarla. Se ha deciso di sposarsi, è quello che dice a Ria, la cugina che vive con loro, è perché lui non otterrà mai il divorzio. E il matrimonio con l’americano, conosciuto appena due settimane prima. le sembra l’unica cosa da fare. Lui, il promesso sposo, è un indiano che vive da quattro anni in Texas, dove conta di portare anche la moglie. Al suo arrivo segue immediatamente il fidanzamento secondo il rito della tradi194 MONSOON WEDDING zione, e i festeggiamenti del caso: regali, musica, brindisi. Aditi è una protagonista distratta. Il futuro sposo la mattina dopo tenta un chiarimento, ma la ragazza lo tranquillizza. E in realtà l’ultimo tentativo per prender tempo. Più tardi, con una telefonata, chiede ancora un incontro all’uomo di cui continua a essere innamorata. Intanto i preparativi incalzano e per Dubey sono anche motivo per ripensare alla sua vita: ha riconosciuto in Alice, la cameriera di casa, una ragazza a cui non è del tutto indifferente e di cui comincia a innamorarsi. Si arriva all’antivigilia del matrimonio e Aditi, mentre tutti dormono, esce per un incontro d’addio con l’uomo che non riesce a dimenticare. E in piena notte, mentre è in macchina appartata alla periferia, viene sorpresa dalla polizia e si rende conto di essere ormai lasciata sola e di rischiare guai più seri. A casa, la mattina, travolta da una crisi di coscienza, parla al fidanzato e gli confessa tutto. Aveva detto, poco prima a Ria, la cugina con cui si era sempre confidata, di non poter incominciare la vita matrimoniale con l’inganno. E il fidanzato, dopo un primo sfogo di rabbia e di delusione, riconosce che in fondo quella ragazza è stata onesta, poteva anche tacere, e le chiede di decidere per tutti e due. Adesso mancano davvero poche ore alle nozze. Dubey ha allestito una splendida tenda impermeabile, il giardino è pieno di fiori, Ayesha, una delle cugine, si è esibita in una bellissima danza e insieme a lei hanno ballato un po’ tutti. Alice ha avuto la più imprevedibile dichiarazione d’amore che potesse aspettarsi e Aditi ha capito che l’uomo che sposerà è davvero innamorato di lei. Ma quando la più piccolina della famiglia, stanca della giornata, e desiderosa di andare a dormire, viene soccorsa con un pretesto da uno zio, tutto precipita. Ria, che non ha mai perso di vista le attenzioni di quell’uomo per la bambina, si allarma e interviene. Prima che si allontani, lo ferma al volante dell’automobile, con la piccola accanto, e davanti a tutti denuncia le violenze subite anni prima. Una verità che nessuno conosceva. E un momento di grande imbarazzo per tutti. Il padre della sposa ha nei confronti del cognato un debito di riconoscenza per aver avuto in anni di difficoltà un grosso aiuto, ma quello che ha rivelato Ria non può essere facilmente lasciato alle spalle. Così, dopo una lunga drammatica riflessione, gli chiede di andarsene. La festa ora è davvero cominciata. La sposa è emozionata e bellissima, lo sposo avanza su un cavallo bianco con il capo coperto da una ricca ghirlanda di fiori, gli invitati indossano l’abito di un giorno speciale. Tra loro, anche Dubey che finalmente ha trovato moglie. E la pioggia portata dai monsoni scende su tutto e su tutti e libera una grande allegria. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Per organizzare un matrimonio nella ricca borghesia indiana di oggi, ci vogliono sari di seta così pregiata che le mosche ci scivolano sopra, grandi teli giallo limone, pervinca e rosso con i quali allestire i padiglioni per gli ospiti ma soprattutto un mare di fiori arancione per gli addobbi lussureggianti. Lo racconta Mira Nair in Monsoon Wedding (Matrimonio durante i monsoni) insieme al fitto intreccio di personaggi che gremiscono la foto di gruppo dell’arcipelago famigliare che è protagonista dell’intera festa. La promessa sposa, che non ha mai incontrato il marito di stanza in America, anche se indiano, ha una relazione extraconiugale con un divo della tv; la cugina zitella è traumatizzata dalle molestie infantili ad opera dello zio ricco di famiglia, il padre di famiglia non ha i soldi necessari all'elefantiaco rituale e nella concitazione dei preparativi, il nipote belloccio, viene ripetutamente apostrofato con un appellativo gratificante. Idiota. È un film già visto molte volte (da Un matrimonio di Altman a Le nozze di Pavel Longuine) ma pare non ci sia niente di meglio che la celebrazione di un matrimonio per passare a raggi X una società o la durata effimera dei matrimoni precedenti e l’aritmetica di risentimenti e gratitudini, frustrazioni e ambizioni, che nelle grandi famiglie non dà mai un bilancio in pari. Tra i lunghi preparativi dei giorni precedenti che metterebbero a dura prova un cardiopatico e il concentrato colorito e volatile di bozzetti di costume, si arriva alla cerimonia vera e propria con un affanno crescente ma sciogliendo i maggiori intrecci (la sposa promessa confessa tutto al futuro sposo, il quale va in bestia ma poi perdona. Lo zio pedofilo viene fermato e scoperto poco prima di un’ulteriore prestazione). E il film più divertente di Mira Nair, la cui origine indiana ha poco a che vedere con lo stile, del tutto affine a qualsiasi regista occidentale. Le cose migliori non sono l’idea narrativa (un po’ scolastica) e neanche l’esecuzione (pregevole), ma le musiche sempre eccellenti di Michael Danna, l’autore delle colonne sonore dei film di Atom Egoyan, una scatenata danza finale e l’episodio minore dell’amore tra l’arricchito addobbatore e la dolce servetta che avrebbe potuto essere anche in un racconto di Cechov o Verga. (MARIO SESTI, Kwcinema) Hanno più speranza di riuscita i matrimoni d’amore o quelli combinati? Non c’è dubbio che chiunque in Occidente opterebbe per la prima ipotesi; ma in India la pensano in modo diverso. Laggiù l’unione la decide la famiglia e gli sposi si conoscono a patti conclusi. Pare però che la valutazione oculata delle componenti caratteriali, affidata in genere a un mediatore professionista, garantisca ai matrimoni indiani una durata maggiore di quelli nostri fondati sulla transitorietà della passione; e mi piacerebbe sapere che cosa ne pensa Francesco Alberoni, massimo teorico dell’innamoramento. Arriva dalla Mostra di Venezia, con l'onore e l'onere di un discusso Leone d’oro, Monsoon Wedding di Mira Nair che descrive appunto un matrimonio punjab a New Delhi. Sul modello dei film corali di Robert Altman, la regista indiana, affermatasi nell’88 con Salaam Bombay!, schiera 68 personaggi parlanti per raccontare il fausto evento sull’arco di quattro giorni, dal fidanzamento alla cerimonia. In mezzo alle storie di famiglia, si scoprono gli altarini. A partire dalla sposa, che non è più illibata dopo un amorazzo con un presentatore tv e sente il dovere di confessarsi al fidanzato venuto dall’America. Segue qualcosa di peggio: il capo del clan viene svergognato in quanto pedofilo, proprio come accadeva nel film danese Festen. A un finale liberatorio, dove il monsone del titolo costituisce una specie di lavacro, si perviene grazie all’accattivante bravura degli interpreti e alla leggerezza del tocco registico, ma con un retrogusto di amaMONSOON WEDDING 195 rezza. Monsoon Wedding è contrassegnato dalla reticente nostalgia per i valori e le certezze del buon tempo antico, che si insinua nella commistione fra radici antropologiche e consuetudini di importazione. L’immagine tradizionale dell’India si scolorisce nel global; e il panorama del pianeta tende a uniformarsi nel grigiore degli usi e costumi borghesi, uguali ovunque. Il tutto è suggerito con grazia e gusto dei particolari in un film che fra i suoi produttori reca per l’ultima volta il nome di Kermith Smith, un uomo di cinema operante in Italia la cui scomparsa ha lasciato un vuoto. (TULLIO KEZICH, Il Corriere della Sera, 15 dicembre 2001) Questa storia colorata e festosa, nel segno della tradizione Bollywood, che ritrae una famiglia del Punjab nella India dell’odierna Nuova Delhi riunita per festeggiare il matrimonio di una delle figlie con un ingegnere indiano di Houston gode di un limite fortemente penalizzante: non è autentica. E un film pensato, realizzato, voluto per essere apprezzato dal pubblico occidentale. Nella stessa Venezia, l’ultimo giorno, qualcun altro ricorderà il passaggio di un altro film indiano Asoka, quello sì autentico, quello sì bollywoodiano. Non solo, ma Mira Nair pretenderebbe di restituire attraverso le sue eroine e i suoi eroini l’affresco a tutto campo della società indiana. Questa è l’India che si apre al mondo della globalizzazione, l’India che dimentica la città dolente che non a caso qui viene relegata sugli sfondi di veloci, velocissimi camera car. Ovvero l’altra India vista da un oblò. (DARIO ZONTA, L’Unità, 14 dicembre 2001) Il monsone rende tutti un po’ folli, senza distinzione di sesso, nazionalità, casta. Continuiamo a trovare un po’ sopravvalutato dalla giuria veneziana, che lo ha premiato col Leone d’oro, Monsoon Wedding - Matrimonio indiano di Mira Nair, regista indiana attiva tra Bollywood (l’industria dello spettacolo di Bombay) e Hollywood. Il “film di matrimonio” è un filone abbastanza prolifico di cui la Nair rispetta la principale convenzione. Col pretesto della cerimonia, si riuniscono i membri delle due famiglie degli sposi, parenti e amici e si vede quel che ne viene fuori. Il pregio del film è 196 MONSOON WEDDING quello di unire il tono da commedia con una vena più drammatica e amara, un po’ alla maniera del Festen di Vinterberg. Né manca d'interesse l’impasto di tradizione (i matrimoni combinati, ci spiega la Nair, non sono necessariamente i peggiori) e di modernità che circola per i fotogrammi, inclusi i numeri musicali che costellano ogni film indiano che si rispetti, ma che Mira ci offre in una versione techno inedita dalle nostre parti. Come è istruttivo, per lo spettatore europeo, vedere messa a confronto una tradizione culturale minuziosamente rispettata (gli abiti, l’apparato rituale.) con lo stile di vita, ormai globalizzato, di personaggi che guardano talkshow, parlano al telefonino o si ritrovano alle prese con problemi di pedofilia. Quanto all'enorme cast, sono ammirevoli la spontaneità di ciascuno e l’eccellente gioco di squadra. Con tutti gli apprezzamenti del caso, però, ci sembra difficile considerare Monsoon Wedding molto più di un onesto, efficace, ben orchestrato e ben montato prodotto da esportazione che aspira al mercato internazionale. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 15 dicembre 2001) Nonostante il Leone d’oro vinto a Venezia si tratta di una storia banalotta, di un pretesto. Ma Monsoon Wedding Matrimonio indiano di Mira Nair conferma che a volte da un film, se non si può ricavare un’estasi, si può sempre estrarre una migliore conoscenza del mondo. Tornando alle atmosfere di casa, infatti, la vigorosa professionista di Mississippi Masala (‘91) e Kamasutra (‘96) intreccia alcuni percorsi individuali nelle ore dei frenetici preparativi di un matrimonio a Nuova Delhi [...] Così la regista, ampiamente sperimentata a Hollywood, sfrutta benissimo l’ibrido narrativo grazie al quale l’India contemporanea, colta nelle scene della sua formicolante realtà, alterna esotismo e familiarità, tradizione e modernità, folklore specifico e umanità universale agli occhi dello spettatore. Un po’ come succedeva nelle fatidiche commedie alla Il padre della sposa, ogni punto di vista, ogni umore, ogni figurina ritagliata con affetto complice aiuta a valicare i confini delle classi sociali, delle diverse moralità, delle speranze disilluse o risolte, degli equivoci segreti, delle perduranti ingenuità e dei nuovi comportamenti “globalizzati”. Non è tanto importante cogliere le preoccupazioni finanziarie del capofamiglia, l’irrequietezza maliziosa della promessa sposa, il buffo innamoramento per la camerierina dell’allestitore della cerimonia, le manovre amorose della cugina sexy o il tenebroso turbamento della zia nubile (anche perché alcuni elementi drammaturgici, come la triste rivelazione della magagna pedofila, risultano posticci) quanto farsi coinvolgere dal ricamo coloristico, dai contrappunti musicali, dal gergo fantasioso, dalla terragna quotidianità che promanano dal popolo del Punjab e da quello che esso chiama “masti”, il caotico e superficiale eppure elettrizzante gusto della vita. (VALERIO CAPRARA, Il Mattino, 29 dicembre 2001) nariamente bello dalla musica, dalla naturalezza degli attori, dalla fotografia. Cristina Bruni - Tradizione e modernità mirabilmente fuse e rappresentate in questo film pieno di sentimento, passione, colore, ritmo, ritualità. Una cultura, quella indiana, che sopravvive, con il valore primo rappresentato dalla famiglia allargata e dai legami parentali, nonostante il frequente distacco dalla propria terra e l’incombente occidentalizzazione. La cinepresa fruga e scandaglia l’anima soprattutto femminile, rappresentata dallo sguardo delle protagoniste e dei protagonisti, dai loro drammi quotidiani, dai loro dilemmi apparentemente insormontabili che trovano una riposta nel dialogo e nella “simpatia” intesa come compassione e solidarietà. I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO OTTIMO Angelo Scarano - Un film astratto e concreto: astratto per essersi concentrato su una realtà elitaria, poco vicina al quotidiano vivere in India, concreto nei sentimenti e nei valori familiari dei protagonisti. La stessa regista ne dà segni di consapevolezza con quelle digressioni sui quartieri degradati e sulla gente comune, per ricordare allo spettatore che l’India è qualcosa di diverso. La storia comunque scorre piacevolmente, soffermandosi con gradevole sensibilità sui sentimenti delle donne e degli uomini della famiglia ed entusiasmando per le poesie della cerimonia nuziale, trascinati da una colonna sonora coinvolgente. Elisabetta Berti Arnoaldi - Non so se rappresenti davvero l’India, ma certamente è lo spaccato di un momento di una vita - i preparativi e il rito dei festeggiamenti del matrimonio - che certamente appartiene a tutte le civiltà. Ho trovato bellissima la rappresentazione di una famiglia borghese come tante, con i suoi deboli e con l’amarezza di una perversione impossibile da negare. Il coro delle donne è magnifico come i loro occhi e la recitazione davvero superiore. Di contorno, ma necessarie, le immagini della vita quotidiana con la miseria materiale che scorre in parallelo alle frenesie e ai fasti delle celebrazioni familiari. Magistrale anche la pioggia che, come spesso accade, sopravviene e bagna la festa senza perciò guastarla. Norina Bachschmid - Gli occhi vellutati del manifesto sono il motivo conduttore di tutto il film. La loro espressività ci parla di intensità, di purezza, di ricchezza di valori: intensità di sentimenti, purezza di cuore, valore della verità. La verità riscatta la sposa, guarisce le giovane violata e, anche se porta dolore, permette alla vita di scorrere nella pienezza della dignità, in una ballata gioiosa che travolge tutti, ricchi e poveri, resi simili dalla capacità d’amare. Il tutto è reso straordi- Felice Ghidoli - L’India dei nostri sogni, che da ragazzi ci teneva avvinti sui libri di Salgari, non c’è più. Oggi Mira Nair ci invita a conoscere due famiglie indiane della borghesia, dal ritratto composito, nella ricorrenza di un matrimonio, in un film ben scritto e diretto, inserito tra attualità e tradizione, ricco di colori, atmosfere e suoni, un MONSOON WEDDING 197 lavoro corale, animato da numerosi personaggi femminili, dove commedia e dramma intimo sono presentati in una realtà di vita, accompagnata da un processo politico in movimento. Pierangela Chiesa - Un’India insolita, ben lontana da quella che noi occidentali immaginiamo. Un’India ricca, colorata, emancipata alla quale si contrappone – a tratti – quella che tutti noi pensiamo di conoscere: rumorosa, affollata, povera, caotica. Ma i due mondi in contrasto non stridono. Anzi, quasi si compensano perché il film è costruito come una bella favola con l’immancabile finale rosa. La figura più approfondita e vera è quella del padre – magistralmente interpretata –, tenera, amabile, patetica quella del “coreografo”. Nel finale si può leggere l’augurio della regista perché tutto quello che il film narra possa accadere nella realtà. Che pregiudizi, differenze sociali, vizi occulti siano cancellati, lavati e che il bene trionfi. Ma il lieto fine nulla toglie a un film gradevole da vedere, intelligente, ben recitato e ben diretto. Lia Calzia - Il fascino del film sta in una specie di aggressione visuale così intensa da tradursi anche in una comunicazione sensuale: di profumi, di frusciare di sete, di essenze misteriose. Un’atmosfera da India mitica, da immaginosi romanzi ottocenteschi, ma che inavvertitamente ci introduce in una complessa realtà esistenziale, intesa soprattutto al femminile: ansie, illusioni, angosce, frustrazioni. Ma l’anima orientale, astratta e pragmatica insieme, prende il sopravvento e tutto si ricompone in una gioiosa festa finale. Efficace e convincente è la rappresentazione di questi Indiani, occidentalizzati sì, ma ancora intimamente ancorati alle loro antiche tradizioni e rituali, come istintiva difesa della loro identità. Forse il film è troppo denso di storie (per noi occidentali), ma la regista evita lo squilibrio incombente, raccontandoci il tutto con mano leggera, con momenti di grande delicatezza, poesia e ironia. Tutto il film potrebbe riassumersi in due immagini: la calcolatrice da polso e il grande cuore di garofani. 198 MONSOON WEDDING Cinzia Maggioni - Spaccato d’India delle caste alte. L’India delle contraddizioni ho potuto viverla direttamente in un viaggio recente. Girando nelle strade si vede, si sente si tocca ben altra realtà, ma per tutti esistono i colori, il sorriso, la comunicativa, il contatto. Il film ha reso visibile solo il 5% della popolazione, che è molto ricca. Il resto è un po’ diverso!!! Comunque, un film bellissimo. Gabriella Rampi - Un film in cui la gioia si fa concreta nei bellissimi fiori, nei colori dei sari, nella pioggia improvvisa, nelle danze e nei canti. Sotto l’apparenza piacevole è anche un film che mette in evidenza le difficoltà della trasformazione di una società in bilico tra tradizione e modernità e nei rapporti tra le generazioni. Rolando Monti Silva - È un film travolgente, che coinvolge sia con la bellezza estetica sia con il racconto di una magnifica festa nuziale. È un tripudio di colori, di bellezze naturali e di fascino di personaggi dai nerissimi occhi bistrati. Un racconto lineare, pulito, che rasserena, uno scorcio di vita e di familiare affettuosità. Piergiovanna Bruni - Un inconsueto subcontinente dove non esistono solo santoni e carestie ma una terra in costante rapporto con il mondo intero. Musica, danze e sensualità velata aprono squarci improvvisi e illuminano il senso della vita nella tipica concezione indiana della famiglia. Grazia Biraghi - Ho trovato molto dolce la nuova storia d’amore che nasce, e molta allegria, calore, e vicinanza affettiva nel ritrovarsi delle donne. Che, soprattutto ritrovandosi in gruppo, parlano, danzano e cantano, facendo da cerniera tra antico e moderno, con la capacità di tenere insieme, di integrare e di rendere la festa un’occasione di incontro, di scambio e di leggera, ma non superficiale, allegria. Miranda Manfredi - Un tripudio di colori, di fiori, di musica fanno da cornice ad una possibile infelicità, per fortuna risolta nell’amore nascente. L’intreccio parentale crea confu- sione nell’identificare il ruolo dei personaggi. Quando tutto si chiarifica, l’attenzione si sposta sull’inqualificabile amico che generosamente sovvenziona il matrimonio e che viene dignitosamente disprezzato e allontanato dall’icona di un padre scomparso, oggetto di devozione religiosa. E l’unico momento di misticismo in una celebrazione che non prevede nessun omaggio ai numerosi déi Indu. Il garofano sembra l’unico nutrimento per il simpatico indiano di casta inferiore, che sembra costruire solo con i fiori anche il suo amore. La pioggia monsonica diventa festosa purificazione per un’umanità che sembra confuda nelle sue scelte. Un film che vuole presentare i vari volti dell’India, sempre affascinante nella sua difficile comprensione. BUONO P. G. Ottolino - Film interessante perché ci informa su una classe sociale di cui non si sa molto. Di solito infatti, i registi si ispirano o si sono ispirati al popolo o all’aristocrazia. Quella di cui vediamo uno spaccato di vita è una borghesia che ha conosciuto le difficoltà del cambiamento e della conquista di una posizione. È interessante l’accostamento della storia semplice di due personaggi che appartengono a un’altra classe e che intraprenderanno insieme la via verso una posizione più sicura. Quello che mi è piaciuto è la persistenza dei valori accanto al miglioramento sociale che non è puro materialismo e apparenza. L’importanza del momento celebrativo va rappresentata e va escluso, con calma, ma con dignitosa fermezza chi nel passato e nel presente ha violato e tenta di violare ancora la dignità e la sacralità dei diritti individuali. Vittoriangela Bisogni - Alla fine arriva il monsone reale, dopo che la forza di un monsone metaforico ha spazzato via i compromessi e le nefandezze. E il monsone dei sentimenti coraggiosi e sinceri: le donne decidono e denunciano, gli uomini sostengono le donne (il capofamiglia difende la nipote e caccia il munifico cognato pedofilo, il fidan- zato recepisce positivamente la confessione della fidanzata, gli operai si scusano per la calunnia alla servetta). Il film è un gradevole mix di costume e di vicende familiari, di tradizionale e di nuovo. Un po’ troppo lungo e denso di fatti e di sentimenti, all’inizio anche un po’ ridondante di quello stile nevrotico-stereotipato tipico della commedia hollywoodiana; però la seconda parte si stempera in una maggior naturalezza e comunque lo splendore dei colori ci incanta fino alla fine. Vincenzo Novi - Monsoon Wedding è un’immersione nella cultura dell’India. Sfilano sullo schermo i suoni e i colori dell’immenso paese. La scena è tenuta soprattutto dalle donne. Di esse la regista conosce a fondo il codice di comportamento e gli umori. Ce li presenta con naturale disinvolta immediatezza. Non più quindi l’India misteriosa delle storie di Salgari, ma un pianeta vivo, legato alle tradizioni, con un occhio alla modernità. La partecipazione al cinereferundum di registi di molte provenienze, rafforza l’immagine del Centro come osservatorio privilegiato nel campo della cultura. Fernanda Grey - Quest’India borghese e festaiola mi ha un po’ sorpresa, anche perché la considero di un gruppo ristretto di persone nella realtà. Allegro, fatto bene, piacevole, ottimista, per cui mi sembra esagerato il Leone d’oro. DISCRETO Anna Maienza - Il film offre un quadro gustoso e piacevole di una ricca famiglia indiana i cui componenti, pur ben tratteggiati con le peculiarità e debolezze umane di ciascuno, si atteggiano in modo omologato e standardizzato, come un qualsiasi clan “perbene”, in un mondo sempre più appiattito dalla globalizzazione. Ciò che infatti stupisce e un po’ delude nel film della Nair – la cui sensibilità e acutezza avevamo apprezzato nel ben più profondo Salaam Bombay – è questo sguardo di compiaciuta benevolenza nei confronti MONSOON WEDDING 199 della middle class indiana che non si distingue oramai nei comportamenti dalla società occidentale. Manca insomma un riferimento più pregnante alla complessa e peculiare cultura e storia indiana, così diversa dalle tradizioni occidentali. Anche le fotografie delle vie e le panoramiche di Nuova Dehli sono oleografiche, accompagnate da una musica orecchiabile, che stempera e sbiadisce il dramma della povertà, ma anche la confusione di odori, suoni e colori che costituiscono la “vera” India. Il dubbio è che la Nair – che non a caso vive in Canada – abbia volutamente proposto un film “facile”, prevedibile nell’epilogo, scontato nei dialoghi, epurato dai drammi e problemi della società indiana, per renderlo più gradito al pubblico occidentale. Lucia Fossati - Questo film mi sembra un frullato di luoghi comuni cinematografici sul tema “il matrimonio della figlia” o “il padre della sposa”, con spunti comici accostati a spunti drammatici, trattati sempre superficialmente, senza mai ottenere vera comicità o vera drammaticità. Tuttavia è un film piacevole a vedersi per la bellezza dei volti femminili, per l’espressività del colore, per la musica accattivante, per qualche cenno sulle tradizioni indiane. Ma perché gli hanno dato il Leone d’oro? 200 MONSOON WEDDING Paola Almagioni - Un ritratto di famiglia dolce-amaro, girato a New Delhi, città della regista. Ricco di energia, colori, atmosfere. Nell’insieme, un film piacevole da guardare. Tuttavia c’è troppo di tutto – persone, parole, situazioni, problemi – e questo impedisce di approfondire qualsiasi tema proposto dal film. È come essere in una grande fiera: per un po’ l’atmosfera è divertente, ma alla fine se ne esce frastornati. Che cosa ci è piaciuto di più? Difficile ricordarlo perché c’erano troppe offerte di divertimento. MEDIOCRE Bruna Teli - Una commedia piacevole, dalla splendida fotografia e dalla musica un po’ assordante, che riesce a essere uno spaccato della complessità dell’India, dove coesistono passato e modernità, povertà e agiatezza: il tutto secondo un punto di vista squisitamente femminile. Ed è proprio la sensibilità della regista a cogliere le contraddizioni e i drammi sociali e familiari con tocco leggero e a rendere gradevole il film che, tuttavia, mi sembra di carattere popolare e commerciale e non degno del Leone d’oro che gli è stato assegnato a Venezia. La nobildonna e il duca titolo originale: L’anglaise et le duc CAST&CREDITS regia: Eric Rohmer (Francia, 2001) soggetto: dal libro Journal of My Life During the French Revolution di Grace Elliott sceneggiatura: Eric Rohmer fotografia: Diane Baratier montaggio: Mary Stephan costumi: Pierre-Jeanne Larroque scenografia: Antoine Fontaine interpreti: Lucy Russell (Grace Elliott), Jean-Claude Dreyfus (il duca d’Orléans), Léonard Cobiant (Champcenetz), Caroline Morin (Nanon), Alain Libolt (il duca di Biron), Helena Dubeil (Madame Meyler) durata: 2h08’ distribuzione: Bim IL REGISTA Maurice Schérer è nato a Nancy il 4 aprile 1920. Trasferitosi a Parigi, ha lavorato come reporter per un quotidiano, è stato professore di letteratura a ventisei anni, con lo pseudonimo di Gilbert Cordier ha pubblicato il romanzo Elisabeth. Collaboratore di alcune riviste specializzate (già col nome di Eric Rohmer) e assiduo frequentatore della Cinémathèque Française di Henri Langlois, è entrato in contatto con i giovani critici François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol e Jacques Rivette. Nel 1950, Eric Rohmer realizza il suo primo cortometraggio in 16 mm, Journal d’un scélérat, e l’anno successivo entra nello staff dei Cahiers du Cinéma. Nel 1956, sostituisce André Bazin alla direzione dell’autorevole rivista di cinema, un ruolo che ricoprirà per sette anni. Autore con Chabrol di un celebre saggio sul cinema di Hitchcock, Rohmer continua a realizzare cortometraggi e nel 1959 dirige Il segno del leone, scritto con Paul Gégauff. Tre anni dopo realizza il primo dei sei “Racconti morali”, La fornaia di Monceau (1962), prodotto e interpretato da Barbet Schroeder, seguito da La carriera di Susanna (1963), La collezionista (1967), La mia notte con Maud (1969) con Jean-Louis Trintignant e Françoise Fabian, Il ginocchio di Claire (1970) e L’amore il pomeriggio (1972). I “Racconti morali” rivelano subito quanto Rohmer sia distante dai suoi amici della Nouvelle Vague. Dopo due film in costume fotografati da Nestor Almendros, La marchesa von... (1976) e Perceval (1978), il regista francese dirige La moglie dell’aviatore (1980), che inaugura la serie “Commedie e proverbi”; poi realizza Il bel matrimonio (1982), con Béatrice Romand, Pauline alla spiaggia (1983), Le notti della luna piena (1984), con Pascale Ogier (premiata a Venezia e scomparsa prematuramente lo stesso anno), Il raggio verde (1986), vincitore del Leone d’oro, Reinette e Mirabelle (1987) e L’amico della mia amica (1987). Concluso il ciclo [...] ha realizzato una terza serie: quattro film, Racconto di primavera (1990), Racconto d’inverno (1992), Un ragazzo... tre ragazze (1996) e Racconto d’autunno LA NOBILDONNA E IL DUCA 201 17 (1998), che si occupano dell’amore e dell’instabilità degli affetti. (MASSIMO NEPOTI, Kwcinema). La nobildonna e il duca (2001) è andato in concorso alla Mostra di Venezia nel 2001. IL FILM Terzo film in costume di Eric Rohmer, dopo La marchesa von... e Perceval, La nobildonna e il duca (L'anglaise et le duc) racconta gli anni tumultuosi della Rivoluzione francese. ll punto di vista, il ritmo, il “campo” prescelti sono quelli offerti dalla memoria (significativa, schierata, diretta, privata) di Grace Elliott, amante del principe di Galles, il futuro re Giorgio IV, e del principe Filippo, duca d’Orléans. Il librodiario della nobildonna è la cronaca delle sue giornate e della sua vita a partire dal 1790. Fedele al re, contraria alla Rivoluzione, moderata, Grace si adopera per salvare un fuggiasco, va e viene da Parigi, cerca di dissuadere il duca dal votare a favore della ghigliottina per il re, affronta perquisizioni, vede la folla inferocita nelle strade e nelle piazze, incontra Robespierre, commenta e si infervora sul Terrore. Rohmer aderisce al suo racconto e, a 81 anni, ci regala una straordinaria lezione tecnologica. Utilizza il digitale per inventare, attraverso alcuni tableaux, la cornice scenografica dell'epoca e una prospettiva dello sguardo. Niente travestimenti del presente né esterni da studio tradizionale. Il dispositivo di ripresa si abbina in modo magistrale alla passione teorica per un cinema lineare, “frontale”, con la macchina da presa fissa o quasi, fiducioso negli attori e nell’immanenza delle immagini (magnifiche). Esempio sublime di nuovo cinema griffithiano. I discorsi come lunghissime didascalie. Gli interni come gusci per vivere nella compostezza teatrale il terremoto romanzesco della Storia. (ENRICO MAGRELLI, Film TV, 2 ottobre 2001) LA STORIA “Grace Georgina Elliott, la grande lady, come veniva chiamata, era nata intorno al 1760 da una antica famiglia scoz202 LA NOBILDONNA E IL DUCA zese. Il nome però a cui restò legata è quello del marito, Sir Elliot, anche se la notorietà la ricevette dal Principe di Galles, futuro Giorgio lV, di cui divenne l’amante e da cui ebbe una figlia. Ma l’uomo che fece di lei una monarca incorreggibile e la convinse a lasciare l’Inghilterra e a seguirlo in Francia, fu nel 1787, Filippo di Orléans, cugino del re Luigi XVI, del quale rimase amica anche dopo la fine della loro relazione. Il racconto che segue è ambientato a Parigi e prende avvio nel periodo dopo la presa della Bastiglia, 1790-1793, anni della Rivoluzione e del Terrore”. Grace Elliott è nella sua casa di Parigi, occupata nelle mansioni di ogni mattina, quando le annunciano l’arrivo a sorpresa del Principe Filippo. E rientrato dall’Inghilterra per dissipare alcune voci sul suo conto che non gli piacevano affatto e per essere presente la mattina dopo in Campo di Marte alla festa della Federazione. Filippo non nasconde le sue simpatie per quelle idee che suo cugino, l’autorità legittima, a cui Grace si appella perchè quelle stesse idee possano con moderazione essere applicate, non intende condividere. E le fa presente gli insulti ricevuti. Per Madame Elliott, il suo è l’atteggiamento di un giacobino. Per il duca quella della nobildonna è la posizione di chi ha scelto di stare dalla parte sbagliata. Il consiglio è di tornare in Inghilterra. Lei afferma di amare il suo re e la sua regina. Il duca le risponde di detestare l’uno e di non amare l’altra. E al consiglio di partire, Grace risponde «finchè potrò vedere la mia regina, il mio dovere sarà di restare qui». Nell’estate del 1792 il popolo in piazza non ha più bisogno di velare l’odio per la monarchia. All’annuncio che le Tuileries sono in fiamme, Grace non può far altro che pensare a scappare nella residenza di Meudon, fuori Parigi, ed è qui, dopo una fuga che la mette di fronte a tutto l’orrore di quell’odio, che la raggiunge un messaggio: tornare al più presto a Parigi per essere utile a uno “sventurato”. L’uomo in questione è il marchese Champcenetz, governatore delle Tuileries, e già conoscente di Madame Elliott, a cui madame sa di dovere riconoscenza, essendo stata da lui facilitata al tempo della sistemazione del castello di Meudon. Il marchese ha tentato di fuggire da una finestra, si è fatto male e occorre nasconderlo. Grace non si tira indietro, pur cosciente del rischio che corre se quell’uomo, senz’altro ricercato, fosse sorpreso a casa sua. Ritorna così con lui a Parigi superando l’orrore della folla che esibisce su una picca la testa di Madame Ramballe, cugina della regina, e con l’aiuto della governante, persona fidata, lo protegge fino a quando, grazie all’intervento del Duca d’Orléans, che deve tuttavia vincere la totale assenza di stima nei confronti di uno che giudica «un disgraziato e un buono a nulla», riesce a farlo scappare in Inghilterra. 1793. La Convenzione nazionale, che il 21 settembre dell’anno prima aveva già proclamato la repubblica, deve adesso decidere la sorte del re e della regina. Anche Filippo è chiamato ad esprimersi con un voto. L’avvenimento è oggetto di commenti nei salotti dell’aristocrazia. La messa a morte viene considerata un errore. Condannare Luigi XVI potrebbe avere conseguenze inimmaginabili per l’Europa. Ma la maggioranza vota per il sì, e il voto determinante è stato proprio quello del Duca d’Orléans. Madame Elliott prende malissimo quella notizia, ritiene il Duca responsabile e gli rimprovera di non aver seguito il suo consiglio: si ammala e decide che per lei è meglio tornare in Inghilterra. Chiede al Duca di aiutarla ad ottenere il passaporto. Filippo prova allora a spiegare a Grace che non ritiene il suo voto decisivo per la condanna al re e che comunque non poteva che fare quello che ha fatto. Le promette di aiutarla. In realtà è una promessa che non potrà mantenere, perchè qualche giorno dopo, scortato da due gendarmi, si presenta a casa sua per ritrovare e distruggere una lettera compromettente, scrittagli dal figlio. Tra loro è un addio e un’ultima dichiarazione d’amore. Anche Madame Elliott ormai è sospettata di cospirazione, e dopo una perquisizione, è arrestata. “Il duca fu giustiziato a Parigi il 5 novembre. Grace, dopo una lunga detenzione, durante la quale caddero le teste dei suoi compagni di prigione, fu liberata in seguito alla caduta di Robespierre”. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Rohmer assume totalmente il testo delle Mémoires di Grace Elliott e il relativo “punto di vista” per leggere in modo soggettivo i fatti della storia e della vita pubblica che irrompono nella vita privata della protagonista. Questo lo porta a una doppiezza e a una ambiguità discutibile sul piano politico, ma ammirevole sul piano morale. L’assunzione del punto di vista della Eliott motiva e suggerisce a Rohmer la grande invenzione formale dell’uso degli aquerelli del Museo Carnavalet che ritraggono la Parigi dell’epoca, ormai scomparsa, animati con la tecnica del digitale e dell’elaborazione al computer. La Parigi messa in scena non è quella filologicamente ricostruita con complesse scenografie, forzatamente false, ma quella di una visione dichiaratamente convenzionale e illusoria e quindi “vera”. Vera non è la realtà rappresentata, ma la visione da cui essa promana. Paradossalmente il “realismo” della rappresentazione deriva dall’assunzione dell’immaginario del tempo. È dunque il “quadro” che diventa reale, non il materiale profilmico. È in questa prospettiva che Rohmer ha usato quasi esclusivamente inquadrature fisse, con personaggi che si muovono quasi prigionieri nello spazio. Rohmer non aderisce affatto alla visione emotiva e semplicistica di Grace (non si chiarisce le motivazioni sociali della rivoluzione), si limita a mostrare quanto crede di vedere il personaggio. Ma l’esterno penetra negli interni, il Terrore entra nel Privato. Forse la vera natura del Terrore è proprio questa, l’incapacità di distinguere fra Pubblico e Privato. Grace, più volte perquisita in casa, sente profondamente sulla propria carne l’insicurezza della propria condizione borghese. Alla fine del film, in un’inquadratura sconvolgente, i suoi compagni di prigionia alla Conciergerie, sopo essere stati cacciati dalle piazze e perseguiti nelle proprie abitazioni, avanzano verso la quarta parete, che corrisponde all’obiettivo e alla ghigliottina. L’anglaise et le duc è anche un film sul mistero, la suspense, l’attesa. Fosre l’inquadratura più significativa al riguardo è quella in cui dalla collina di Meudon Grace e la sua cameriera cercano di vedere con il cannocchiale quento avviene a Parigi. La cameriera guarda lontano, ma non distingue nulla con chiarezza (né il regista ci mostra quanto effettivamente sta accadendo!), comunica le sue ipotesi alla LA NOBILDONNA E IL DUCA 203 padrona, che esprime le sue speranze guardando tristemente in direzione opposta, avanti a sé. I rumori lontani (il rullo dei tamburi, le urla della folla, un colpo di cannone) vengono variamente interpretati, alimentano la speranza e poi fanno cadere nella delusione le due donne. Insomma la realtà, ancora una volta, è una pura proiezione del proprio desiderio. Rohmer ci fa partecipare delle emozioni e delle sensazioni della sua protagonista. Il suo fine non è quello di giudicarla, ma di farci “entrare” nella complessità del personaggio, con la sua umanità e le sue debolezze. (FLAVIO VERGERIO, Il ragazzo selvaggio 30, novembre/dicembre 2001, p. 27) Il film inizia come se si trattasse di un documentario su quadri fissi. Poi i quadri si animano per descrivere la traversata di Parigi in carrozza, da parte del duca di Orléans [...]. La tecnologia digitale consente sovrapposizioni molteplici di immagini animate e inanimate, riprese in situazioni diverse. E possibile vedere così, nei quadri fedelmente riprodotti, figuranti che si affacciano alle finestre degli edifici, mentre altri camminano per le strade. [...] Passando dall’esterno all’interno, la scenografia e l’illuminazione conferiscono all’immagine l’aspetto di un quadro dipinto. I ritratti appesi alle pareti fanno da pendant, come si è accennato, ai primi piani dei protagonisti. La stessa accuratezza con la quale il film ripropone il modo di guardare attestato dalle opere dei pittori di fine Settecento, si riscontra nel modo di parlare dei personaggi. Si tratta di un francese ricostruito sulla base di documenti letterari non meno attendibili di quanto lo siano quelli relativi all’aspetto visivo della pellicola. In questo modo Rohmer conferma la propria propensione per un cinema fortemente legato alle arti visive e alla letteratura, già espresso quando, negli anni Cinquanta, prima di passare dietro la macchina da presa (e di asssumere lo pseudonimo con il quale oggi è conosciuto) firmava con il nome anagrafico (Maurice Schérer) articoli di raro acume critico sulla rivista Cahiers du Cinéma, allora diretta da André Bazin. Da un punto di vista specificamente cinematografico, al di là dei riferimenti alla pittu204 LA NOBILDONNA E IL DUCA ra e alla letteratura, La nobildonna e il duca si basa su un confronto di caratteri. L’impavida lady è contrapposta all’infelice Orléans (discendente in linea diretta del Reggente di Francia e del futuro re Louise-Philippe). Eloquente è, in questo senso, la sequenza “analitica” del salvataggio del marchese di Champcenetz, nella quale la donna dà prova di un coraggio che supera di gran lunga le deboli forze delle quali dispone, mentre al duca (che troverà alla fine come asseriscono i testimoni, la forza di salire con dignità al patibolo) capita di andare in giro, dopo la condanna del re, portando sul collo una testa già metaforicamente staccata dal busto, come si vede nel primo piano [...] dove il suo capo si muove sulla parete dalla quale è stato staccato il ritratto. soltanto chi è disposto a morire, pur di rimanere fedele a se stesso, potrà sfuggire alla sorte che, secondo Rohmer (concorde in questo con lady Grace Elliott), è toccata al duca di Orléans, quella di perdere la propria anima prima di perdere la testa. (VIRGILIO FANTUZZI, La Civiltà Cattolica 3638, 19 gennaio 2002, pp. 177-8) “Non si può entrare nella testa dei politici” dice una battuta del film. Figurarsi poi se la testa “politica” in questione è quella di un sostenitore della politique des auteurs. E se, oltre a questo, l’opera incriminata è disseminata di paradossi, di travestimenti e di tranelli. Può succedere allora che, allo stesso modo con cui si esibisce in un processo come prova di presunto tradimento una lettera diretta a un destinatario di nazionalità nemica (ma con un contenuto assolutamente patriottico) o si nasconde un ricercato in camera senza che la perquisizione della polizia lo noti, si possa incorrere nella tentazione di accusare un intellettuale francese di revisionismo rispetto a un mostro sacro della propria storia patria o magari si arrivi ad accusare un discepolo di Bazin di aver abdicato al verbo dell’immagine fotografica come sindone del mondo e di aver optato per la contraffazione del digitale. La prima accusa si smonta da sé non appena si consideri che L’anglaise et le duc riflette un punto di vista “interno” e marcatamente ambiguo rispetto agli anni del Terrore postrivoluzionario (e poi chi ha ancora il coraggio di invocare la retorica pompier dei “giorni che sconvolsero il mondo”?). Il secondo capo di imputazione può essere mosso solo dai fondamentalisti della “lettera” che non comprendono lo “spirito” di Bazin, ossia la sua ricerca e la sua passione per la verità. Non c’è dubbio infatti che il procedimento “artificiale” adottato da Rohmer vada in direzione di una conclamata ricerca di veridicità storica (le “vedute” dei paesaggisti settecenteschi , nel film, in fondo assolvono a una funzione di documentazione fotografica, peraltro irreperibile data l’epoca in questione). Come si fa ad accusare uno che da sempre si è mosso al di fuori dei cliché di avere un approccio troppo critico? Come si fa a non riconoscere il valore esemplare e straordinario di un’operazione che riesce a fondere passato e futuro? Come si fa a non apprezzare un film che è tanto racconto morale quanto dichiarazione di estetica (su verità e finzione; sul potere ma anche sull’insufficienza della parola; sulla difficoltà di scegliere, la necessità di farlo e le conseguenze dell’averlo fatto…)? (EZIO ALBERIONE, duel 91, ottobre 2001, p. 10) La fine mostruosa di un mondo, e anzi del mondo: questo narra la Grace Elliott di La nobildonna e il duca (L’anglaise et le duc, Francia, 2001, 128’). Del tutto interna alla classe e al pensiero che la Rivoluzione e la sua Ragione stanno distruggendo, per lei non finiscono solo un ordine politico, un sistema sociale, una gerarchia di valori, ma ogni possibile ordine, sistema e gerarchia. In questo senso, la sua prospettiva è strettamente reazionaria, volta al passato e dominata dalla sua nostalgia. Il che, però, non implica che lo sia anche quella di Eric Rohmer. Fra l’una e l’altra, fra la narrazione dell’anglaise e quella del grande autore francese, non c’è, né può esserci, identificazione o sovrapposizioni. Piuttosto, la prima è l’oggetto della seconda: e ciò che essa narra. Il punto di vista della regia, ancora, non può e non deve essere cercato direttamente nelle parole, nei fatti e nei sentimenti che costituiscono la narrazione di Grace, ma nel modo in cui la regia stessa li rappresenta. Per quanto il film sia denso di dialoghi – come sempre accade nel cinema di Rohmer, ancor più decisive sono dun- que le sue immagini. Decisiva, in particolare, è la scelta di collocare su di uno sfondo non realistico gli eventi storici, quel che di essi appare a Grace, filtrati dall’angoscia e dalla nostalgia. Le strade di Parigi e i suoi edifici, la campagna attorno a Meudon, la stessa capitale vista dall’alto e in lontananza (intanto la ghigliottina s’abbatte sul collo del re), talvolta anche gli interni: tutto è ricostruito e inventato elettronicamente. Ma non è tanto quest’uso in se stesso che rileva, quanto l’effetto che Rohmer cerca. Le immagini elettroniche non solo evitano di produrre verosimiglianza: addirittura imitano le sfumature e i tratti della tecnica pittorica dell’acquerello. E lo fanno al punto da portare in primo piano più d’una volta la trama grossa e viva della carta, la sua materialità calda e tenera, che la pennellata trasparente non nasconde e anzi esalta. Questa scelta, che è Stilistica ben più che tecnica, ci suggerisce in platea che non di una ricostruzione storica si tratta, ma appunto di qualcosa di più caldo, di più tenero e materiale. Ci pare allora che a Rohmer stia a cuore la memoria di Grace in quanto permeata d’una umanità tanto viva da non essere, appunto come umanità, “reazionaria”. E singolare, non generale né ideologico, lo sguardo dell’anglaise [...]. E quella sua singolarità ne trasfigura il senso, facendo di La nobildonna e il duca una grande storia d’amore. Per amore si intende il sentimento che lega Grace al duca d’Orleans, Philippe Egalité, ma anche più in generale il suo modo di “sentire” la vita. [...] Di fronte a questa singolarità che è la stessa con la quale l’anglaise vede e vive la rivoluzione, davvero non contano né le “ragioni” generali dei giacobini né quelle dei reazionari. Contano invece il calore, la tenerezza, la materialità di quel che è umano di fronte alla mostruosità non tanto d’un mondo che muore, quanto d’una Ragione che ha nel Terrore il proprio culmine e, insieme, la propria smentita. Forse, per entrare davvero nel film di Rohmer e per entrare nella sua narrazione serve ripensare e modificare solo un po’ il motto di un’opera famosa di Francisco Goya, pubblicata nel 1799: anche l’insonnia della ragione, non solo il suo sonno, produce mostri. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 ore, 6 ottobre 2001) LA NOBILDONNA E IL DUCA 205 I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Elisa Mariani Travi - Grande lezione di stile di Rohmer: innanzitutto è magnifica quella pittorica Parigi che ci riporta in maniera quasi favolistica alla città di fine ’700. Il dialogare ininterrotto dei due protagonisti (naturale conseguenza della matrice letteraria), incastonato com’è nella cornice di alcuni interni di palazzi, diviene quasi “scena di genere” tipica della pittura europea settecentesca. Si armonizzano, così, visivamente con grande gusto il “vedutismo” architettonico della tradizione settecentesca (l’evocazione magica di Parigi) con le scene di genere, i “ritratti in un interno” per quanto riguarda i personaggi. Dal lato del contenuto mi pare una lettura tutta particolare della rivoluzione francese, quasi domestica, dall’angolo visuale della nobildonna inglese ospite a Parigi. Concludendo: una felicissima sintesi immagini-testo. OTTIMO Adelaide Cavallo - Ottimo film attraverso il quale Rohmer ci fa comprendere, osservata dagli occhi tristi e increduli della bella Elliott, la tragicità di quella “rivoluzione” che segna, e ha segnato, la fine di un mondo. Come vede l’avvenimento la nobildonna? Come lo vive? Come lo subisce? Diciamo pure: lo vive innanzitutto con l’atteggiamento fermo, risoluto di chi vi si oppone (se non per difendere privilegi) per reazione, ovvero per un inquietante senso di nostalgia su qualcosa che sfugge, si perde; e perdendosi, ha il sapore del non ritorno. Lo vive col timore per gli altri (e forse per sé, quantunque inglese) che il terrore irrompa in una stanza indifesa col suo funesto gracchiare di morte. Lo vive a proprio rischio con la ferma coerenza che assomma alla nobiltà il sangue, la più importante nobiltà d’animo. Incapace di credersi diversa, ferita da chi più le era amico, capace con nobiltà di sentimento di ricomporre le lacerazioni subite nel206 LA NOBILDONNA E IL DUCA l’anima. Questa è “l’anglaise” di Rohmer, così come mi pare di averla intesa dalle immagini, dai dialoghi, dall’impronta cinematografica voluta dal regista francese. Ottima la recitazione dei due protagonisti, la nobildonna Grace e Philippe Egalité. Film prevalentemente “a due voci”, ma di grande coinvolgimento scenico. Piergiovanna Bruni - Rohmer ci propone in questo film d’atmosfera, un’angolazione diversa della Rivoluzione per antonomasia. Come è diverso il modo di girare gli esterni in digitale, cosa del resto rimarchevole considerando la vegliarda età del regista. E la Rivoluzione vista dagli occhi di un’aristocratica, vittima del suo ruolo per quanto riguarda i punti di vista. La frivolezza in contrasto con i bisogni del popolo è messa in risalto; come pure la crudeltà e la vendetta del più debole quando riesce a salire sulla scala del potere. Nulla è cambiato nell’uomo, forse la civiltà l’ha fatto diventare meno tribale ma sta di fatto che l’opportunismo è la sua veste preferita. Gian Piero Calza - Il film di Rohmer è apprezzabile sia per quanto riguarda il linguaggio cinematografico cui ricorre, sia per i contenuti che svolge. Sul piano del linguaggio può essere confrontato con i due precedenti film “storici” che qui abbiamo visto, quello di Olmi e quello di De Oliveira. Mentre nel film di Olmi l’ambientazione storica ricorreva all’imitazione dell’arte figurativa del ‘500 (per le luci, i colori, i costumi, la fisionomia stessa dei personaggi), nel film di De Oliveira l’arte figurativa faceva da sfondo (architettonico, pittorico, plastico) ai sermoni del padre Vieira; nel film di Rohmer l’azione si svolge “dentro” i quadri stessi, cui è demandata la ricostruzione della Parigi di fine ‘700. Così in tutti e tre i film all’arte figurativa è affidato il “realismo” della ricostruzione storica, ma con maggiore fierezza e distacco critico nel film di Rohmer. Che anche per quanto riguarda i contenuti, riporta la dimensione storica della rivoluzione a quella più umana e domestica dei rapporti personali tra una nobildonna e un nobiluomo (quest’ultimo personaggio di rilievo anche politico, ma che non riguarda il racconto), cioè ai comportamenti reali e razionali di due persone che si trovano a muoversi in un contesto fuori da ogni loro possibile controllo. Anche sul piano degli avvenimenti narrati, l’approccio storiografico è quindi innovativo e ci induce a riconsiderare il ruolo della singola persona dentro i grandi avvenimenti storici. del ‘700. C’è da rilevare qualcosa nel loro fitto ed eloquente dialogare: emerge, sì, un rimpianto per un mondo che finisce, s’insiste su un certo rapporto umano, nobile, che dà senso alla storia. Rimane un racconto di corte, sensibile e raffinato, al tempo stesso scopre una vicenda umana, circoscritta e compressa, come in un medaglione di una nitida miniatura. BUONO Lucia Fossati - Film così originale da essere spiazzante: gli eventi storici visti come in stampe d’epoca; la narrazione dei fatti e i giudizi su di essi espressi nei dialoghi, così datati, fra la nobildonna inglese e il duca; alcuni episodi, che dovrebbero essere tragici, rappresentati in modo volutamente teatrale e privi di pathos. Mi è piaciuta l’eleganza formale del film, la bella fotografia, le tonalità pastello che via via sfumano verso il cupo nero del finale, ma non ho ritrovato la leggerezza e l’ironia del Rohmer di altri film. Elsa Arié - È un gran buon film questo dell’ottantenne Rohmer che si distingue per la raffinatezza del dialogo, per l’eleganza degli interni e per la bellezza dei fondali, d’ispirazione teatrale direi, simili a vecchie stampe sbiadite nel tempo, tendenti a rendere l’atmosfera del “vissuto” settecentesco ancor più fragile, diafano e irreale in contrapposizione alle efferatezze prodotte dalla rivoluzione francese nei confronti delle fasce nobiliari. È un film di una ricercata controtendenza, nella quale il grande regista ha voluto esprimere un concetto visto da una diversa angolazione, rispetto alla teoria che conosciamo, risparmiandoci il percorso atroce delle esecuzioni, offrendoci invece il lato umano e sentimentale dei personaggi raccontati, evitando di condurci in quel bagno di sangue e di cadute di teste coronate che hanno caratterizzato la follia di quel particolare periodo storico. Splendida la recitazione di Jean-Claude Dreyfus, per gli atteggiamenti da gran signore assunti nell’interpretazione del Duca d’Orléans, dove anche la più piccola sfumatura emotiva non sfugge all’attento spettatore, in contrasto con l’aggressività vociante della folla di piazza, per lo più rozza, volgare e incolta. Rohmer ci ha voluto dare una grande lezione di stile, di estetica e di comportamento. Carla Altamura - Serberò il ricordo dell’originale impostazione scenica con i suoi dipinti, i costumi d’epoca settecentesca, le pettinature gonfie della duchessa anglaise, le cuffie appoggiate sul suo capo, l’esile collo su cui gravava l’incombente pericolo della ghigliottina, i colori tenui dei suoi abiti di seta, infine i visi dei protagonisti che ricordano i quadri Antonella Spinelli - Descrizione fedele al carattere e al rango di una nobildonna inglese protagonista del suo tempo. Non troppo impegnata politicamente, ma in realtà ben schierata e sicura dei suoi sentimenti di fedeltà al re e alla regina. La recitazione ci fa cogliere le sue contraddizioni, i suoi limiti e il suo sguardo sulla realtà sociale all’epoca della Rivoluzione francese. E Rohmer affida a immagini paesaggistiche forse nostalgicamente con i colori tenui dei paesaggisti dell’epoca, la descrizione di una pagina violenta di storia, da non dimenticare nella sua inevitabile crudeltà, come preludio alla ricerca di equità, democrazia e uguaglianza. Bona Schmid - È un film insolito, originale e raffinato, che dopo una prima reazione di sconcerto, ti affascina per la sua squisita verve narrativa. Rohmer rifugge dalla spettacolarità delle immagini cruente che potrebbero assumere una grandiosità inusitata. Basta la testa mozzata della povera Lamballe, esibita su una picca, per trasmetterci tutto l’orrore della Rivoluzione. L’edizione originale con i sottotitoli in italiano è godibilissima e parte integrante, per la musicalità del bellissimo francese, di questo affresco d’epoca. LA NOBILDONNA E IL DUCA 207 Carla Righi Veronesi - È un film che non mi ha soddisfatto appieno: da un regista come Rohmer mi sarei aspettata qualcosa di maggior spessore. Sono belli e ben ricostruiti gli ambienti, non disturba l’uso del digitale e i paesaggi, ispirati a quelle bellissime stampe d’epoca, sono deliziosi, ma qual è il messsaggio? Lo si può trovare, forse, nella generosa umanità della nobildonna inglese, per la quale contano soprattutto la vita umana e i valori, mai messi in discussione, di lealtà e comprensione. Dinanzi agli orrori della rivoluzione, lei non giudica, ma oppone il suo coraggio, la sua devozione, la sua grande compassione; non è solo una storia d’amore tra la nobildonna e il duca, ma anche tra la nobildonna e l’umanità che soffre. Paola Almagioni - Non sono riuscita a riconoscere il Rohmer che amo. Mi è sembrato di assistere a un raffinato colto esercizio di accademia. Film piacevolissimo da vedere e... basta. all’infuori del gusto estetico, non ha suscitato in me alcuna emozione, o spunti di riflessione. Sarebbe ingiusto dire che è un brutto film: è un bel pezzo di virtuosismo. Quando Ella Fitzgerald nei concerti si esibiva nello “scattering”, una parte del pubblico andava in visibilio. A me piaceva quando spiegava senza virtuosismi la sua bellissima voce. Rohmer mi piace quando racconta le piccole cose della vita in quel suo modo così lieve, leggero, semplice. Vittoriangela Bisogni - Molto apprezzabile il contrasto tra la perfezione realistica degli interni e dei costumi e la staticità fiabesca dei dipinti che rappresentano l’ambiente esterno. Ottima la recitazione e la maschera del duca, alquanto opaca invece la figura della nobildonna. Troppo lungo il film. Lidia Ranzini - De Oliveira e Rohmer mi portano a pensare che siano i decani a fare opere più giovanili, innovative e con un linguaggio nuovo, rischiando più dei loro giovani colleghi. Invece delle solite scenografie, più o meno autentiche, ho molto apprezzato l’uso dei dipinti di Marot raffiguranti la vecchia Parigi. Una messa in scena semplice e l’opposto della cinepresa a spalla piacciono di più e sembrano 208 LA NOBILDONNA E IL DUCA “nuovi”. Trovo innovativo anche il vedere quei tempi dal punto di vista degli aristocratici, dato che già troppi film l’hanno raccontata dalla parte del popolo. DISCRETO Carlo Enrico Venturi - In effetti, l’impressione è di essere di fronte a un’esatta trasposizione cinematografica di un libro di memorie scritto da una nobildonna inglese: i ritmi, la flemma, la pacatezza e, tutto sommato, il “nobile” distacco e la freddezza. Molto verosimile la scenografia, che rimanda alle illustrazioni e alle gouaches dell’epoca: una trovata sì certamente cinematografica da parte del regista, ma che non contribuisce ad accorciare il distacco che lo spettatore sente di fronte alla vicenda. Distacco che è palesemente del regista stesso, che dà l’impressione di essere poco partecipe dell’intera storia. È inevitabile che la stessa freddezza venga dimostrata dallo spettatore, che troppo frequentemente viene assalito dalla noia. Caterina Parmigiani - Rohmer usa con raffinata sensibilità e magistrale sicurezza la tecnica digitale per portarci nella Parigi della Rivoluzione francese e del Terrore e per raccontarci di una nobildonna coraggiosa. Tuttavia il film non riesce a coinvolgere lo spettatore sia perché i personaggi non hanno spessore psicologico sia perché il succedersi degli avvenimenti risulta banale. Film interessante ma non del tutto convincente. Luisa Alberini - Parigi di fine ‘700 come può essere soltanto immaginata, o meglio dipinta, e insieme la storia autentica di una nobildonna tratta dal suo diario. Da una parte una città senza peso, aerea, dove i personaggi sembrano galleggiare, dall’altra la concretezza di una donna che non esibisce più neanche la sua bellezza per lasciare spazio solo alle proprie idee. Una distanza tra due mondi quasi inconciliabile. Ma è la logica del percorso della memoria quando ci si affida ai propri ricordi. Un film troppo lungo, con un dialogo insistente, martellante, da copione teatrale e due attori troppo irrigiditi dal “momento storico” che è stato loro affidato. Michele Zaurino - Nella sua artificiosità, forse più che un film, Rohmer realizza uno sguardo di tipo entomologico, nel quale i personaggi vengono osservati al microscopio, ma in cui la drammaticità degli eventi e l’intensità dei sentimenti si percepiscono a fatica. Il regista si astiene dal dare giudizi di tipo storico o dal parteggiare per l’una o l’altra delle fazioni, ma questo conferisce alla pellicola un distacco e un’inattualità che rischiano di lasciare indifferenti. Carlo Chiesa - Ho trovato un po’ artificiale la recitazione della protagonista, che non mi ha convinto del tutto: avrebbe dovuto trasmettere il coraggio, la determinazione, l’educazione al concetto (tutto inglese) della libertà e della lealtà, anteponendole alla Ragione. E anche i personaggi di contorno, per me, sono troppo “moderni”. Renata Pompas - Ho trovato il soggetto molto in linea con i tempi di revisionismo storico: francamente non ne sentivo il bisogno. La recitazione teatrale si svolge quasi sempre all’interno delle stesse stanze. I fondali dipinti e animati sono molto interessanti, anche se c’è troppo stacco tra le luci di una stessa scena, che virano al grigio-azzurro, al giallo caldo, alla luce naturale con velocità. MEDIOCRE Mario Piatti - Rohmer sceglie un testo di valore sia storico che letterario quantomeno dubbio, ma che gli è utile per imbastire un’operazione estetica fine a se stessa. Tutto il film è permeato da un evidente senso di autostima, esibita con tanta insistenza da diventare irritante. Occorre riconoscere al regista di utilizzare scenari ricavati dalle tavole d’epoca di un acquarellista che mi si dice noto; l’elaborazione digitale consente di restituire un’immagine sfumata e irreale della Parigi rivoluzionaria. A questo senso di irrealtà si contrappone, peraltro, la minuzia maniacale degli interni e Rohmer non manca di evidenziare i particolari di arredo con riprese di compiaciuta lentezza. Dagli attori poi il regista ha preteso movimenti di studiata innaturalezza che, spesso, li fanno apparire goffi manichini, sensazione accentuata dalla banalità di molte battute. Anche la dizione originale è stata evidentemente e volutamente dilatata tanto da mandare fuori tempo i nostri doppiatori che, pure, sono considerati i migliori in assoluto. Ne è nato un doppiaggio del tutto asincrono rispetto al labiale e poco gradevole. Al termine della proiezione non resta che chiedersi quale valenza possa essere attribuita al film, se non quella di soddisfare le ambizioni personali del regista, per me di interesse men che scarso. LA NOBILDONNA E IL DUCA 209 No Man’s Land CAST&CREDITS regia: Danis Tanovic sceneggiatura: Danis Tanovic fotografia: Walther Vanden Ende montaggio: Francesca Calvelli musica: Danis Tanovic interpreti: Branko Djuris (Ciki), Rene Bitorajac (Nino), Filip Sovagovic (Cera), Simon Callow (il colonnello Soft), Katrin Cartlidge (Jane), Georges Siatidis (il sergente marchand), Alain Eloy (Michel), Sacha Kremer (Pierre), Mustafa Nadarevic (il vecchio soldato serbo), Serge-Henri Valcke (Dubois), Branko Zavrsan (lo sminatore), Tanja Ribic (Martha) origine: Bosnia/Slovenia/Francia/Belgio/Gran Bretagna/Italia, 2001 durata: 1h e 38’ distribuzione: 01 Distribution Auxerre, miglior documentario all’European Union’s Echo Awards e vincitore del festival di Friburgo. Ca ira (1998), sulla vita nella Bosnia di oggi, ha ricevuto un premio dal festival Cinéma Réel di Parigi. Prima di essere regista, Tanovic è stato responsabile dell’archivio cinematografico dell’esercito bosniaco, per il quale ha girato più di 300 ore di riprese sul fronte di sarajevo in prima linea, materiale che è stato utilizzato per servizi giornalistici in tutto il mondo. Tanovic ha anche diretto spot commerciali. No Man’s Land, il suo primo lungometraggio di finzione, è stato premiato per la miglior sceneggiatura al festival di Cannes del 2001, dov’è anche stato candidato alla Palma d’oro. Il film ha ottenuto un notevole successo critico internazionale: è stato premaito come opera prima dai César in Francia, come miglior film straniero dai David di Donatello, come miglior sceneggiatura agli European Film Awards, e ha raccolto premi ai festival di San Sebastian, Rotterdam, San Paolo. Nel 2002 l’Academy Awards l’ha premiato come miglior film straniero. IL REGISTA Danis Tanovic, nato a Zenica, in Bosnia Erzegovina, il 20 febbraio 1969, ha diretto diversi film documentari sponsorizzati dal governo bosniaco e dall’ufficio umanitario Europeo. Molti di questi hanno descritto gli effetti della guerra in Bosnia sulla gente del posto o che vi è rimasta coinvolta. Uno di questi è Portraits d’Artistes Pendant la Guerre (1994), incentrato sull’attività di quattro artisti durante l’assedio di Sarajevo. Tanovic ha accumualto diversi riconoscimenti lungo gli anni: con L’Aube (1996), gran premio al festival di IL FILM «Conosci la differenza tra un pessimista e un ottimista? Il pessimista pensa che la situazione non possa peggiorare, l'ottimista sì». Lo dice uno dei soldati bosniaci persi nella nebbia vicino alla “No Man’s Land” metaforica, abisso dell’umanità scavato nel cuore dei Balcani, Europa. Danis Tanovic è un ottimista perché sa che può essere peggio di così, vedi gli attuali scenari di guerra. Soprattutto, ha una NO MAN’S LAND 211 18 dote fondamentale per guardare con occhio lucido agli eventi apocalittici del mondo: l’ironia. Due bosniaci (uno dei quali sdraiato sopra una mina a scatto) e un serbo sono in mezzo al fuoco incrociato dei rispettivi compagni. intervengono i “puffi” (pardon: caschi blu) e le televisioni; così la situazione precipita senza appello. Una fratricida guerra ma raccontata con i toni, il ritmo e la “leggerezza” della commedia, tra battute a volte irresistibili e momenti di drammatico spessore. Quella di Danis Tanovic è una sceneggiatura perfetta (ha vinto, non a caso, la Palma al Festival di Cannes) perché riesce a gestire con equilibrio due poli emotivi opposti e contrastanti: si ride e ci si commuove, senza mai sentirsi in imbarazzo, sempre con gli occhi sbarrati di fronte alla rappresentazione purtroppo “vera” di una situazione “impossibile”. Non a caso Tanovic parla di follia: chi potrebbe prendere sul serio la scenetta di due tizi, con amici comuni e forse anche una storia simile, costretti dagli eventi a scannarsi senza un perché come i “duellanti” di Conrad? No Man’s Land è un film sorprendente perché sa gestire benissimo (ed è un’opera prima!) la difficile arma della satira (ONU e i media ne escono malconci). Soprattutto si tiene lontano dalla retorica immorale di chi considera guerra a seconda degli interessi contingenti: a volte “sporca”, a volte “giusta”. (MAURO GERVASINI, Film TV, 2 ottobre 2001) LA STORIA È un giorno lunghissimo quello che hanno davanti Ciki, Cera e Nino, tre soldati prigionieri per errore in una trincea abbandonata ai margini del conflitto che da mesi sta martoriando serbi e bosniaci in guerra tra loro in quella che un tempo era la Jugoslavia. Ciki, bosniaco, e Nino, serbo, sono sopravvissuti a una sparatoria che li ha visti combattere nei rispettivi schieramenti. Cira, bosniaco, è l’uomo da cui dipende il loro destino. Creduto in un primo momento morto, è stato usato dai serbi come oggetto di una rivendicazione contro chi avrebbe provveduto a recuperare il suo corpo. Sotto di lui è stata collocata una mina chiamata balzante, la 212 NO MAN’S LAND cui caratteristica è di esplodere nel momento in cui la pressione su di essa esercitata da un peso si allenta. Quando Cira riprende i sensi, è perciò costretto a non muoversi, se non a rischio di saltare in aria insieme a chi gli sta vicino. Ciki si sente legato alla sorte del suo compagno, Nino si preoccupa invece di mettersi in salvo. Ma Ciki intuisce che lasciarlo andare per loro significa perdere ogni possibilità di cavarsela. Cominciano con il litigare, e poi tentano un’intesa, se non altro per richiamare l’attenzione di chi, a distanza, potrebbe intervenire. E ad accorgersi di loro è la postazione delle Nazioni Unite, un carro armato guidato da un sergente francese, che prima di muoversi chiede l’autorizzazione al proprio comando. La risposta è no, perchè è troppo pericoloso. Ma il giovane sergente non ne tiene conto. Quando Ciki e Nino vedono arrivare il grosso mezzo corazzato con le iniziali UN tirano un sospiro di sollievo. Il serbo spiega della mina e il sergente capisce che occorre chiamare un artificiere. Ancora una volta la risposta è no. E adesso si tratta di un ordine: si deve rientrare subito, pena l’arresto. Ciki e Nino non si spiegano quella partenza, e ricominciano a litigare. La loro salvezza è restare insieme e confidare nel ritorno dei caschi blu. A seguire quello che sta succedendo, da un altro osservatorio, è la troupe di una rete televisiva inglese, che ha captato le frequenze radio delle Nazioni Unite e si è portata sul posto per trasmettere in diretta la storia di quei soldati in trincea. La giornalista che ha in mano la notizia pretende di sapere qual è la verità, col tono di chi non si ferma davanti a niente e a nessuno. Le domande che pone al sergente francese sono provocatorie. «Devo forse concludere che la forza di pace non fa niente per i soldati feriti e intrappolati? Chi lo ha deciso? Il quartiere generale ne è al corrente?». Il fatto non può più essere ignorato. Ai giornalisti in attesa viene annunciato l’intervento di un artificiere. L’arrivo a sorpresa del colonello ONU dalla sua sede di Zagabria, in elicottero e con seguito della segretaria, dà loro la conferma di trovarsi di fronte ad una missione speciale. L’attesa non tranquillizza Ciki e Nino, il primo preoccupato a controllare le mosse del secondo, che tenta di approfittare di ogni suo momento di distrazione per uccider- lo. A dividerli è ancora una volta l’intervento dei caschi blu e l’arrivo dell’artificiere tedesco, che obbliga tutti ad allontanarsi. Ma l’artificiere, quando si rende conto del tipo di mina che è stato chiamato a disinnescare, dice: «Quell’uomo è già morto». A preoccuparsi delle possibili conseguenze che l’insuccesso avrà sulla stampa è soprattutto il colonnello, che ai giornalisti dice: «Vi informeremo a fatti conclusi, con una conferenza stampa più tardi». Ciki perde definitivamente il controllo. Prende la pistola e innesta la reazione di Nino e l’immediata risposta dei caschi blu. Tutti e due finiranno uccisi. Del fatto approfitta subito il colonnello, che annuncia la notizia che tutti aspettavano: l’artificiere ha liberato il prigioniero dalla mina e si sta provvedendo a portarlo in ospedale. Non è vero, neanche il sergente francese crede a quella bugia, e per un’ultima volta chiede: «Che cosa facciamo di quell’uomo?». La sola risposta che ottiene è «Lei ha una soluzione?». E ormai il momento di andarsene. Ognuno riprende la strada del ritorno. Nella trincea abbandonata, Cira, immobile, è rimasto solo. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Chi ha cominciato la guerra? Voi, urla il bosniaco Ciki (Branko Djuric) al serbo Nino (Rene Bitorajac). La sua voce non conosce dubbi, come quella del suo nemico. Al pari di Ciki, anche Nino urla: voi, l’avete cominciata. Oltre alle loro non c’è, nel film di Danis Tanovic, una voce “terza”, un’istanza superiore, una ragione giuridica o morale che risponda a quella domanda. C’è solo la voce muta che sta per intero nella canna d’un fucile: chi di volta in volta lo impugna e lo punta contro l’altro, quello ha “ragione”. E sarcastico in senso stretto, questo sorprendente No Man’s Land (Bosnia, Italia, Francia, Belgio e Gran Bretagna, 2001, 98’). Se fosse solo ironico, si limiterebbe a mostrare la guerra così come se la figurano i suoi ideologi, ma capovolgendo di fatto l’apologia in condanna. Se poi fosse grottesco, come pure è stato detto, ne deformerebbe e ne ridicolizzerebbe situazioni e caratteri (questo accade, ma solo in parte e a danno degli ufficiali dell’Unprofor e dei giornalisti, che di niente si curano che non prometta d’essere uno scoop). Essendo invece soprattutto sarcastico, il film di Tanovic “lacera la carne” (come suggerisce l’etimo greco del latino sarcasmus). E non lo fa solo in senso figurato. Da un lato, cioè, affonda la lama di un’amarezza radicale nel corpo grosso dei luoghi comuni e delle ovvietà con le quali, per lo più, siamo abituati a pensare alla guerra. Dall’altro, è la carne in senso pieno e materiale ciò di cui sceneggiatura e regia ci suggeriscono e ci fanno soffrire il tormento, e appunto la lacerazione. Il centro narrativo e visivo di No Man’s Land è una trincea che sta fra, nello spazio delimitato da altre due trincee, dalle quali i combattenti si fronteggiano in odio. Si tratta dunque d’uno spazio residuale, negativo: non è bosniaco e non è serbo. Dal punto di vista dell'appartenenza politica è un non-spazio. Nessuna bandiera gli inventa un senso. Proprio per questo, nella sua cavità si fa palese il lavoro della morte. Nelle altre trincee, nel loro pieno politico, alla morte si possono dare tanti nomi, tutti grandi: eroismo, storia, futuro Ma qui, lontani da slogan e da entusiasmi, senza bandiere, che pretendano di porre confini nel vento, gli occhi e gli orecchi paiono più liberi di vedere e sentire, e in primo luogo di vedere e sentire la paura. Rispetto alla sua potenza, entrambi i nemici sono egualmente in scacco. Sono due paure opposte eppure molto simili, quelle che si scoprono (l’una accanto all’altra, nella terra di nessuno. Con sorpresa bene evidente, Ciki e Nino pian piano ne vedono la “sovrapponibilità”. D’altra parte, i due sono simili già proprio come esseri umani. Ciò che uno dice e fa, dice e fa anche l’altro, per quanto in senso rovesciato, come un suo calco. Se nelle loro trincee la somiglianza poteva essere rimossa e trasfigurata dagli slogan in differenza assoluta e mostruosa, in questo non-spazio si svela loro in tutta la sua evidenza. A loro, a loro come singoli e non come appartenenti a una bandiera, si pone dunque l’onere della scelta: o accettare d’essere due in senso pieno, ognuno riconoscendo l’altro per lo stesso motivo per cui pretende d’essere da lui riconosciuto, oppure chiudersi all’altro, non vederlo e non sentirlo come altro, ma solo come mostro e nemico. [...] NO MAN’S LAND 213 Per odio speculare, l’uno calco mostruoso dell’altro, Ciki e Nino si danno l’un l’altro la morte: le loro due voci hanno continuato a pretendere ognuna per sé la ragione, sino all’estremo. Ancora vivo, ma di fatto già morto, il loro compagno resta solo, sopra la mina. Dall’alto e allargando il campo, la macchina da presa lo inquadra in un orrore infinito. E sua la voce terza, l’istanza superiore che alla fine ci parla. E la domanda cui può rispondere con ogni diritto e ragione non è chi abbia iniziato la guerra, ma a chi ora tocchi di morire. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2001) Simo in Bosnia, nel momento acuto del conflitto serbo-bosniaco. L’autore del film No Man’s Land, Danis Tanovic, qui al suo primo lungometraggio, è bosniaco, realizzatore di numerosi documentari sulla guerra in Bosnia e responsabile dell’archivio dell’esercito bosniaco. Per fare questo film egli sceglie, almeno in apparenza, un punto di vista neutrale, indicato, fra l’altro, dal titolo. Siamo dunque nella “terra di nessuno” interposta tra due eserciti nemici che si fronteggiano agguerriti. Nessuno dei due contendenti è disposto a cedere all’altro in benché minimo vantaggio. Se, invece di trovarci in Bosnia, fossimo in Afghanistan o in uno dei tanti punti della terra dove sono in corso guerre fratricide, la situazione non cambierebbe di molto, tanto più che Tanovic sceglie, per esprimersi, non già il registro del realismo, ma quello del paradosso che tende al grottesco. [...] Non siamo più in una trincea dove due inconsapevoli eredi di inimicizie ataviche, scoprono, nel pericolo, di avere in comune alcune particelle di umanità, ma siamo in un’altra, ancora più insidiosa, “terra di nessuno”, quella dell’opinione pubblica, terreno neutro sul quale eserciti invisibili si confrontano quotidianamente in una lotta nella quale non vince il migliore, ma chi ha meno scrupoli. I due nemici, vicini di casa che tra una litigata e l’altra hanno scoperto perfino di nutrire simpatia per la stessa ragazza, finiranno con l’uccidersi reciprocamente sotto l’occhio delle telecamere. Non è certo un messaggio ottimista quello di Tanovic. La pellicola è pervasa da una sorta di acido corrosivo che 214 NO MAN’S LAND non risparmia né i belligeranti né l’intervento “umanitario” dei pacificatori. Il dente avvelenato del regista aggredisce con particolare virulenza il cinismo di chi gestisce i media. Le immagini orripilanti della strage del mercato di Sarajevo, che qualche annofa hanno fatto il giro del mondo, appaiono rapide e sfocate in una sequenza del film. (VIRGILIO FANTUZZI, La Civiltà Cattolica, 3636, 15 dicembre 2001, pp. 635-6) La natura idiota della guerra malgrado le sue tragiche ragioni. Commedia amara, efficace e tempestiva. Bosniaci da una parte, serbi dall’altra. L’ONU sorveglia, ma con gli occhi chiusi, la tregua armata e delittuosa. è il 1993, e tuttavia la narrazione infallibile del bosniaco Danis Tanovic (anche sceneggiatore) apre l’episodio alla grottesca ferocia di ogni conflitto etnico. [...] Una frase del sergente ONU funziona da indicatore morale: «Stare a guardare non significa essere neutrali, ma responsabili dei delitti». Tanovic [...] ha l’occhio clinico sulle idiosincrasie del malato, l’Occidente furbo e reticente. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 28 settembre 2001) Il regista bosniaco Danis Tanovic ha trentadue anni ed è un esordiente. Nove anni fa, quando lo scoppio della guerra lo colse a Sarajevo, era studente all’Accademia di cinema e, come ha detto in diverse interviste, tra la pazzia e la fuga scelse la passione, sotto forma di cinepresa con cui filmare tutto ciò che vedeva per strada. La passione lo ha condotto lontano, fino a vincere il premio per la migliore sceneggiatura all’ultimo festival di Cannes, ma la guerra lui l’ha vista dal vivo e anche schierato, visto che è stato pure responsabile degli archivi filmici dell’armata bosniaca. Quest’ultimo dato potrebbe apparire particolarmente problematico per un autore che sintetizza il senso del suo film nella constatazione che la neutralità non esiste, poiché il fatto stesso di non schierarsi presuppone una scelta di campo, che non viene mai completamente celata dall’ipocrita formula del non interventismo o dell’interposizione di una forza di pace (armata, of course). Le premesse potevano lasciar presupporre polemiche simili a quelle suscitate da Underground, ma, fat- te le proporzioni tra il richiamo mediatico di Kusturica e quello di Tanovic, ci sembra che già a Cannes la guerra bosniaca dimostrasse ormai di essere stata digerita e rimossa dalla flebile memoria collettiva. Figurarsi ora, dopo le Twin Towers. ma l’alterità verso Kusturica è resa dal partito preso stilistico e narrativo di Tanovic, che non appare minimammente interessato a ripercorrere la storia del conflitto, né a interrogarsi sui motivi della dissoluzione di una nazionem quanto piuttosto a lavorare sulla messa in scena del conflitto, che a partire dalla contingenza bosniaca sembra mirare a una riflessione più ampia sull’assurdità bellica. Per rimanere in ambito balcanico, le parentele sono più verso La polveriera di Paskaljevic, che utilizzava la teatralità per mettere in scena la quotidianità dell’assurdo in una Belgrado allucinata e allucinante. Il teatro dell’assurdo fa spesso capolino nel film. [...] E non è assurda una guerra in cui ci si sventola in mutande per attirare l’attenzione dei rispettivi eserciti o dove chi parla la stessa lingua è nemico, mentre chi ne parla tre diverse dovrebbe far parte del medesimo schieramento di pace? Beckett aleggia spesso, ma Tanovic a suo modo rilegge anche la tragedia classica, organizzando tutta la vicenda secondo una rigorosa unità di tempo, luogo e azione, nell’arco di un’unica giornata, simbolicamente ripresa dall’alba al tramonto, dopo il prologo in cui la staffetta bosniaca si perde nella nebbia notturna, che rende bene l’idea dell’impossibilità di orientarsi in uno spazio e in un tempo in cui ogni appartenenza o valore sembrano pure proiezioni fantasmatiche. E che dire della divisa di Ciki, con quella maglietta su cui campeggia il logo degli Stones, sberleffo e segno di non appartenenza che progressivamente diventa sempre più una prefigurazione di sangue, di ferita che non solo non si rimargina ma si allarga. Oppure del giovane soldato francese che a un certo punto – in un sublime slittamento del senso narrativo che verte su un anticipo sonoro che per alcuni secondi risulta totalmente straniante e incomprensibile – scopriamo intento ad ascoltare musica techno in cuffia, mentre dovrebbe essere concentratissimo nel vigilare sulla situazione sempre più tesa. Un popolo di pazzi, ripetono più volte i francesi dell’Onu, ma lo spettatore a quel punto non sa se condividere lo stupore degli “europei” di fronte a una lotta fratricida che appare insensata o la perplessità dei “balcanici” di fronte all’incapacità e all’inutilità di chi dovrebbe garantire la pace. (MICHELE MARANGI, Cineforum 409, novembre 2001, pp. 69-70) Commedia molto nera [...] applaudito a Cannes, No Man’s Land del 31enne Danis Tanovic non può non ricordare L’asso nella manica. Ma la suspense e il cinismo di Wilder qui diventano metafora sferzante della guerra in Jugoslavia, con impennate umoristiche che gelano il riso in gola. Ce n’è per tutti: per serbi e bosniaci che non riescono a smettere di odiarsi. Ma anche per i media, per i caschi blu («arrivano i puffi!»), per l’Europa Unita, con quel “Made in EU” ben in vista sulla mina, del tipo che salta in aria ed esplode a un metro d’altezza. Satirico e terrificante insieme: un esordio che è già storia. (FABIO FERZETTI, Il Messaggero, 28 settembre 2001) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Iris Valenti - Bravissimo Danis Tanovic a rendere tangibile l’orrore e il dramma della guerra. Chi l’ha voluta? Sembrerebbe nessuno. Certamente non chi la vive in trincea. E un gioco crudele al tavolino, in un luogo comodo, al caldo, con la pancia piena, fra uomini che muovono le pedine senza conoscere la sofferenza e i disagi di chi la vive sulla propria pelle. Lascia molto amaro in bocca il film e vergogna e un senso di ribellione nel sentirsi coinvolti e responsabili nelle scelte di chi ha potere. Ma così è e sarà sempre, purtroppo. La verità è solo per chi la vuole vedere e capire. Luciana Biondi - “Il sonno della ragione genera mostri” così scrisse Goya e tale potrebbe essere il sottotitolo di questo film. Si combatte, si uccide, si inganna e non si sa bene perché. Il regista, ben assecondato da ottimi attori, tratta questo NO MAN’S LAND 215 terribile argomento facendoci sentire tutto l’inutile orrore della guerra senza le scene cruente e orride tipiche di questo genere di film. Il grottesco di certe situazioni che culmina con l’inutile e falso intervento dell’Onu con il “contorno” di una tv famelica di sensazioni forti, accentua l’orrore e lo sgomento. Tutti se ne vanno, apparentemente in pace, ma il disgraziato steso sulla mina non può che aspettare una fine atroce... Siamo forse tutti nella sua situazione, viene da chiedersi? Gabriella Rampi - Un film coinvolgente, che con misura e ironia ci pone di fronte all’odio ancestrale tra due popoli, alla violenza della guerra e purtroppo anche all’inutilità di ogni intervento dall’esterno. Mi è rimasta impressa la figura del soldato disteso sulla mina, abbandonato nella trincea, con la foto della moglie in mano, ad attendere nel crepuscolo una morte certa, simbolo e icona delle vittime dell’insensatezza di ogni guerra. Giancarlo Colonna - Un film geniale. Mai denuncia più spietata della crudeltà della guerra (in questo caso, addirittura quella civile!) narrata in modo originale: si sovrappongono più piani di lettura e una notevole dose di umorismo nero e di cinismo “mediatico” (cosa a cui peraltro siamo sottoposti quotidiamente dalle nostre televisioni). Bianca Agostoni - Ottima messa in scena della follia umana, rappresentata in ogni campo con obiettività soddisfacente. OTTIMO Carlo Cantone - Uno stupendo monumento in onore della stupidità umana. Un raro esempio di descrizione di atrocità incredibili senza la necessità di avvalersi di scene atroci. Il tono equilibrato e il linguaggio non gridato rendono ancor più efficace la denunica e non possono non indurre a meditazioni. Lucia Fossati - Film dal pessimismo nero: con una metafora potente il regista presenta la sua patria sul punto di esplodere, 216 NO MAN’S LAND mentre intorno a lei si muove il balletto esibizionistico e fatuo dei media e l’affannarsi senza utilità e babelico delle truppe Onu, e mentre i “fratellini”, indistinguibili tra loro perché parlano la stessa lingua, continuano a odiarsi e a uccidersi a vicenda. Provo rimorso a dire bellissimo un film così straziante: eppure bisogna riconoscere che la scena iniziale, quando la nebbia si dissolve e gli uomini si scoprono nella terra di nessuno, e la scena finale, quando la macchina da presa si ritrae, come hanno fatto tutti, dalla orribile buca, sono scene di grande impatto emotivo ed estetico, indimenticabili. Umberto Poletti - Una pellicola tra realtà e simbolismo, tra tragedia e sarcasmo. In una squallida terra di nessuno, si incrociano i destini di due nemici della stessa “terra”. Significativo il gesto ripetuto, da parte della recluta, di presentazione. È il massimo del sarcasmo (ben oltre l’ironia): un gesto tipicamente “borghese”, di buona educazione. All’opposto, la canna di un mitra o di una pistola o la mina a ragno. La tragedia si consuma sul palcoscenico macabro della trincea, a cui fanno da cornice bosniaci e serbi, con il coro stonato delle forze Unprofor. A questo punto il dramma precipita, tra i due nemici “per forza”, l’infelice ferito che è protagonista/strumento dell’imponderabile e il balletto imbecille dell’ufficiale superiore, degli ordini e contrordini delle pseudo forze di pace alle prese con i due eserciti belligeranti, costituiti da brutali e ignoranti finti guerrieri. La conclusione è senza speranza: il sarcasmo sfocia nella tragedia più insulsa; si uccide per caso, per stizza, per reazione nervosa. Rimane quel morente che sintetizza il dramma senza fine, quello di tutte le guerre. La macchina da presa si allontana da quel corpo destinato al macello (forse con altri disgraziati) a simboleggiare che là dove si uccide e si è uccisi non c’è terra per l’uomo; domina, dissoltasi la nebbia, il Pianeta “Terra di nessuno”. Cristina Bruni - Il film sintetizza mirabilmente una questione, quella della guerra serbo-bosniaca assai complessa. L’odio da cui è scaturita la guerra civile ha origini che rimangono inspiegabili e inaccessibili ai medesimi protagonisti sia serbi che bosniaci, e traspare ovunque in tutta la sua insensatezza. Vi è poi magnificamente rappresentata l’inutilità dei contingenti Onu, il vuoto protagonismo e il cinismo mediatico da scoop che ridicolizza la cruda realtà rinnegandola. Con tratti netti e decisi il regista ci rende partecipi di questo dramma senza una lacrima, come era avvenuto anche in Beautiful People, altra pellicola che avevo assai apprezzato. E la miccia è sempre pronta a esplodere, un odio che purtroppo per l’incapacità degli uomini e delle forze politiche anche multinazionali, difficilmente verrà sopito; al limite la sua deflagrazione sarà solo procrastinata. Vincenzo Novi - Occhio per occhio... si diventa ciechi - e come tali ci si comporta. Il film dice ancora che nella guerra agisce sempre una forza oscura. Cosa sono quegli occhi ferini che compaiono nei primi fotogrammi del film? La storia sembra voler dire che se nessuno mette fine alla violenza – ed esistono modi per farlo – lo scontro non ha fine. In questo caso non resta che attendere l’ultimo omicidio dell’ultimo Caino. L’argomento è trattato con mano leggera. Una punta di sarcasmo condisce la pietanza e lascia modo di riflettere. Pierfranco Steffenini - Tutta l’assurdità della guerra miniaturizzata in un angolo sperduto della ex Jugoslavia. I due protagonisti, appartenenti a schieramenti opposti, ma costretti a vivere in stretto contatto per breve tempo, trovano elementi di comunanza tra loro, ma vengono rapidamente risucchiati nel gorgo dell’odio e del sospetto. Rispecchiano nel microcosmo del rapporto individuale le ragioni dell’inimicizia tra le nazioni di appartenenza. L’uomo che giace immobilizzato sulla mina rappresenta la vottima innocente di tutte le guerre. I soccorritori dell’Unprofor, goffi, disonesti, quanto meno non all’altezza del loro compito, testimoniano quanto sia difficile trovare il bandolo nella matassa aggrovigliata dei conflitti locali, nella quale gli emissari dei mezzi di comunicazione svolgono il loro cinico lavoro. A tutti il regista distribuisce unghiate graffianti, regalandoci un’opera prima che insieme attrae, ripugna e fa pensare. Giovanna Oggioni - Si tratta di una guerra “recente”, fisica- mente vicina all’Italia e agli italiani, con grande diffusione di notizie e altro attraverso i media, ma questo film me l’ha fatta vivere e sentire in modo tangibile e quasi sulla mia pelle. Mario Piatti - Un ottimo film sull’assurdità di tutte le guerre, e, massimamente, di quelle tra gruppi di uno stesso popolo, contrapposti per motivi etnici, politici o religiosi. Il regista ha saputo rendere perfettamente la tragicità della situazione, alla quale fanno da contrappunto gli sforzi inutili delle forze internazionali e l’attenzione degli inviati di giornali e televisioni, tesi solo alla realizzazione dello scoop. Unico appunto che si può muovere a Tanovic è l’eccessiva ridicolizzazione delle forze internazionali, che, pur negli inevitabili condizionamenti, hanno svolto un compito ingrato e difficile che, tra l’altro, è anche costato non poche vittime. Lidia Ranzini - Molto precisa l’accusa alle televisioni, che si tuffano su ogni evento come avvoltoi e trasformano un dramma in un cinico show. I due soldati pare quasi possano comprendersi e solidarizzare, ma l’istinto aggressivo prende il sopravvento. Analizzato molto bene, questo film non dice molto di nuovo, ed è un concentrato di crudeltà, ma è teso e attento al linguaggio, e si basa su una situazione forte e coinvolgente. La scena continua a cambiare, come quando, dal dissolversi della nebbia notturna, si passa ad una strage. BUONO Antonella Spinelli - La trincea è lo spazio che non appartiene a nessuno. Eppure in essa entra l’idea della guerra, contraddittoria e incomprensibile, sede di scambi di opinioni (politiche e non), arena in cui battersi per vecchie diatribe di razza. Intorno forze neutrali, a tal punto neutrali da essere quasi inutili. È doloroso assistere inermi a questo carosello di attacchi, di pause strategiche, di attese diplomatiche senza potere nulla per cancellare la realtà di una morte annunciata, quella dell’uomo bloccato su una mina. Sarcasmo e amarezza percorrono il film: e restano dentro. NO MAN’S LAND 217 Pierangela Chiesa - Tanovic riesce a mettere a nudo le atrocità della guerra senza alcuna enfasi eroica né moralismi ipocriti. Con drammatica ironia ci racconta debolezze e meschinità delle massime organizzazioni preposte alla pace. E neppure i media – a ragione – sono risparmiati. Un film che ci costringe a sentirci tutti coinvolti nella morte di quel povero soldato – diventato un simbolo – “legato” alla mina. miserito da una poco convinta forza di pace. Tutto questo è contenuto in un film incalzante circoscritto nel dramma di due sopravvissuti, uomini che sembrano rappresentare tutto il genere umano che si esaurisce nei suoi conflitti individuali, etnici ed economici perdendo il senso ultimo della vita. MEDIOCRE Piergiovanna Bruni - Tipica ironia mitteleuropea fra il grottesco e l’assurdo e denuncia dell’ennesima idiotizzazione della guerra. Tutto si svolge in trincea, dove si delineano odi atavici e macchinazioni che fanno la Storia; l’irreparabile storia dell’uomo che non sa sfuggire all’autodistruzione, a causa della sua incapacità di prevenire situazioni degeneranti. E nonostante la satira piccante e l’autocritica che l’uomo esercita su di sé, la sua idiozia è recidiva, inevitabile. Originale metafora quella del soldato adagiato su di una mina che difficilmente potrà essere rimossa senza esplodere: assurdità dell’odio che innescato non è più possibile contenere. Verità ben caricaturate per sdrammatizzare e fare satira sugli obiettivi preferiti dal regista. Caterina Parmigiani - Un film crudo, senza speranza, in cui serbi e bosniaci combattono con feroce odio una guerra cruenta, senza sapere chi l’ha iniziata. I due nemici sono crudeli e insensati nelle reciproche violenze, ma i veri “cattivi” di questo scontro sono i generali dell’Unprofor che vigliaccamente non prendono posizione, vogliono che la situazione si risolva da sé e intervengono unicamente perché sul posto arriva la televisione con una giornalista alla ricerca di scoop. Come dice il sergente Merchand, assassino non è solo chi combatte e uccide ma anche – se non soprattutto – chi crede di poter rimanere neutrale, al di fuori e al di sopra della mischia. Giulio Manfredi - Questo regista riesce a trasmetterci in modo quasi ironico il dramma sempre latente dei Balcani. L’etimologia del nome Jugoslavia faceva pensare a un’unione ben definita. Purtroppo è diventata una terra di conquista dagli incerti confini, una mina vagante in un contesto europeo im218 NO MAN’S LAND Tullio Maragnoli - Sulle prime il film mi era piaciuto per la buona idea di condensare il dramma delle guerre nella ex Jugoslavia con le vicende dei due soldati nemici reciprocamente bloccati e con il contrappunto delle forze Onu anch’esse bloccate nella loro possibilità di intervento. Ripensandoci però a mente fredda, il mio giudizio si è ribaltato perché ho realizzato tutta la faziosità dell’assunto, con il diverso “peso” dato alle due situazioni di blocco: quella dei soldati, dove qualche battuta sarcastica non attenua giustamente la drammaticità del caso, mentre quella dell’Onu e dei giornalisti è unicamente svillaneggiata, e ho trovato tutto ciò ingeneroso e supponente. Il regista ha fatto proprio il noto comportamento di quei due litiganti da strada che si coalizzano contro chi arriva per dividerli. Ma si è dimenticato, ad esempio, che i giornalisti, con la loro voglia di scoop ci lavorano, mettono a rischio la vita e, cosa sgradita ai signori della guerra, spesso mettono in piazza comportamenti che non si vorrebbero far sapere; oppure che le mine non erano solo marcate UE, ma anche da Paesi dell’Est e Urss e Cina; oppure che l’Onu, pur con tutte le sue pastoie burocratiche, cerca come può di dividere i contendenti e manda aiuti, forse scarsi e mal distribuiti, ma che comunque permettono ai suddetti signori di starsene con i piedi sul tavolo e il fucile in mano, liberi dall’impegno di provvedere a se stessi e alla propria gente, magari lavorando la terra. In questa lettura a senso unico c’è un pericolo: che il mettere in burletta il colore bianco provocatoriamente immacolato delle nostre autoblindo, non finisca per far rimpiangere il grigio-verde di quelle di un loro precedente regime che sapeva come tenere a freno tutte quelle rissose etnie. I nostri anni CAST&CREDITS regia: Daniele Gaglianone (Italia, 2000) soggetto e sceneggiatura: Daniele Gaglianone fotografia: Gherardo Rossi montaggio: Luca Gasparini costumi: Marina Roberti interpreti: Virgilio Biei (Alberto), Piero Franzo (Natalino), Giuseppe Biccalatte (Umberto Passoni), Massimo Miride (Alberto giovane), Enrico Saletti (Natalino giovane), Diego Canteri (Umberto giovane), Luigi Salerno (Silurino), Luciano D’Onofrio, Stefano Ferrero, Carlo Cagnasso (partigiani feriti) durata: 1h30’ distribuzione: Pablo IL REGISTA Daniele Gaglianone è nato ad Ancona nel 1966. Laureatosi in Storia e Critica del Cinema presso l’Università di Torino, ha girato documentari e cortometraggi, sia in video che in pellicola, vincendo premi al Festival Cinema Giovani di Torino, a Locarno, Bastia, Bellaria, ed è attivo anche in ambito teatrale. «I nostri anni sono passati come una storia che c’è stata raccontata, ed il luogo dove accadevano queste cose non ne serba traccia». Con questa frase che esplode scritta sullo schermo nero – senza apparente speranza, e tratta dal romanzo Cella d’isolamento di Christopher Burney – si chiude il primo lungometraggio di Daniele Gaglianone, intitolato appunto I no- stri anni [...] Il passato (tragico) di due persone che hanno vissuto (tragicamente) la Resistenza si mescola al proprio presente (altrettanto tragico) fino alla creazione di un terzo ambito spazio-temporale, che non è semplicemente “memoria del passato nel presente”, bensì un luogo della mente e dell’anima del tutto folle, grottesco e inafferrabile. Il contesto storico preso in esame, e tutta questa complessa riflessione sulla memoria, farebbero pensare a un regista “essenzialmente maturo”: eppure Daniele Gaglianone ha soltanto 34 anni. [...] «Dal 1991 collaboro con l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, da allora ho realizzato molti video e cortometraggi su questo periodo della nostra storia. La memoria? Sono profondamente convinto che sia quella individuale che quella collettiva tendano progressivamente a svanire. La cosa mi preoccupa, mi fa paura, credo che si tratti di realtà con le quali ci si deve confrontare di continuo. Come persone e come società». (MARCO LOMBARDI, Duel 86, febbraio 2001, p. 53). Gaglianone ha scritto con Gianni Amelio la sceneggiatura di Così ridevano (1998), film per cui è stato anche assistente alla regia. Tra i suoi cortometraggi, Luoghi inagibili in attesa di una ricostruzione capitale (1997). IL FILM Gli anni non sono fatti per dimenticare o per perdonare. Alberto e Natalino (interpretati da due autentici ex partigiani, Virgilio Blei e Piero Franzo) ritrovano in un ospizio, ammalato e indifeso quell’Umberto Passoni, repubblichiI NOSTRI ANNI 219 19 no responsabile di atti di inutile ferocia. Forse è scoccata l’ora di vendicare i loro compagni, specialmente Silurino, massacrato in un bosco. Mentre il flashback si incarica di raccontare quello che è successo (e la cinepresa a mano aumenta il coinvolgimento nell’azione) i due scendono dai monti, a parole determinati, nell’intimo un po’ meno, su una macchina da revisionare e con armi malandate, alla volta della resa dei conti. C’è qualche cosa di Peckinpah in questa storia, insieme epica e dolorosa, ma che alla fine riscalda il cuore. Il bianco e nero dà rigore e il regista è bravo nel cogliere l’umanità e la verità dei “non attori” utilizzati. E a Cannes, alla Quinzaine gli è stato tributato il giusto plauso. (MASSIMO LASTRUCCI, Ciak, 1 giugno 2001). I nostri anni ha vinto nel 2001 il premio della rivista Duel. LA STORIA In una giornata fredda, un uomo anziano cammina sul marciapiede di una stazione ferroviaria. Dice parole che non hanno suono, guarda lontano e vede tra gli alberi di un bosco dei giovani uomini con un fucile in spalla. Poco dopo quel vecchio con una valigia solca la soglia di una casa di riposo e si sistema in camera. Conosciamo solo il suo nome: Alberto. Natalino, il compagno a cui Alberto è rimasto unito per più di mezzo secolo, vive invece da solo in un casolare di montagna, ed è un testimone della Resistenza. Al giornalista che è andato a intervistarlo e che gli chiede «che cosa rimane dello spirito della Resistenza?» risponde senza starci molto a pensare: «Tutta questa storia interessa poco a me, a noi che l’abbiamo vissuta. Figuriamoci agli altri. Non è rimasto niente. Non frega più niente a nessuno». Anche la spiegazione alla scelta fatta di diventare partigiano la giustifica in fretta. «C’è stato poco da decidere. C’erano i tedeschi e c’erano i fascisti. A un certo punto andare nei boschi con i ribelli è sembrata la cosa più giusta. La politica centrava poco. Avevo vent’anni». Nella casa di riposo, Alberto prova ad orientarsi, cercando di vedere oltre quelle immagini di sofferenza che ha sempre davanti agli 220 I NOSTRI ANNI occhi, chi condivide la sua stessa situazione. Vicino a lui, un vecchio paralizzato, seduto su una carrozzella, lo induce a qualche faticosa parola. «Io mi chiamo Alberto». «Io Umberto». Col tempo riescono a dirsi qualche cosa di più. Parlano del calcio di un tempo e della pensione di oggi. L’altro stenta a esprimersi e non ricorda molto. Ma a parlare ad Alberto continuano ad essere le immagini di quegli anni, in cui vide morire, in una vera e propria esecuzione nel bosco di betulle, i suoi compagni giustiziati dalle armi delle brigate nere. Alberto si dedica a quel compagno in difficoltà, spingendo la sua sedia a rotelle anche fuori del pensionato, con la pietà che spesso accomuna chi è legato alla stessa sorte, fino al giorno in cui riconosce nel suo volto quello di Umberto Passoni, l’uomo che si era trovato di fronte cinquant’anni prima, nemico. Scatta allora in lui la voglia di portare a compimento quello che non gli era riuscito allora, quando davanti alle torture dei compagni aveva detto a Natalino «se avevo il fucile gli sparavo». Natalino, invece, ha cercato di allontanare un rancore che ormai gli sembra privo di ogni possibilità di riscatto. «Se anche mi trovassi davanti al nemico di un tempo forse non me la sentirei di dargli neanche un calcio», dice ai i due ragazzi che erano saliti fino lassù per sapere della sua vita. «Ormai siamo solo dei vecchi». Per Alberto l’occasione non va persa. Si congeda in fretta dalla casa di riposo e lascia a Umberto una scatola di cioccolatini che consegna alla cameriera con un messaggio: «Gli dica che me ne vado per alcuni giorni e che ritornerò con un amico». Quando Natalino vede arrivare Alberto, non si meraviglia. Tra loro c’è una amicizia a cui non sono mai venuti meno, fa però fatica ad accettare quella proposta. «Ho trovato Umberto Passoni. Possiamo andare a prenderlo quando vogliamo». «E poi che cosa ne facciamo?». «Lo ammazziamo». Alberto riesce a convincere Natalino. Recuperano due vecchie armi, mettono in moto la vecchia automobile e si avviano verso la casa di riposo. Ma gli errori, o meglio, l’approssimazione di quella tentata vendetta, è subito evidente. La cameriera vede sfuggire dalle mani di Alberto la pistola, che d’altra parte non è più carica e non riuscirà a sparare, e avverte la vigilanza. Inter- Girato fra passato e presente in un contrastato bianco e nero di Gherardo Rossi (l’ottimo direttore di fotografia di Il partigiano Johnny) e recitato da non professionisti molto ben scelti, I nostri anni ha un’intrigante costruzione formale, tuttavia a colpire è soprattutto l’angolazione narrativa. Pur esprimendo un preciso punto di vista (nella linea di Norberto Bobbio, nessun dubbio su qual è la parte giusta), il giovane cineasta non è particolarmente interessato a evidenziare gli aspetti ideologici-politici del tema resistenziale. A stargli a cuore sono piuttosto i suoi due protagonisti: in quanto custodi di una memoria di cui si vanno cancellando le tracce; e in quanto portatori del segno di un vissuto vero e di un palpito giovanile che nella nostra apatica società non vibra più. (ALESSANDRA LEVANTESI, La Stampa, 16 maggio 2001) tempi trova nello straodrinario lavoro di Gherardo Rossi sulla materia della luce un fondamentale aiuto. Lo sgranarsi del bianco e nero che dissolve i corpi nell’informale allontana il film da ogni intento naturalistico. Ne fa un’opera che rielabora le forme del reale per offrirne una visione dall’interno. Al tempo stesso una produzione dell’immaginario e un modo alternativo di vedere la vita. Uno sguardo gettato in una storia dell’anima e in uno stralcio di commedia. La profondità di un tempo, vissuto in prima persona, e l’orizzontalità delle relazioni tra gli esseri umani sono le due coordinate su cui Gaglianone costruisce il lavoro. Ogni inquadratura del film esplora queste due direzioni: gatta radici verso immagini sorelle, intraviste o nascoste nelle pieghe della visione, e si espande ad accogliere una realtà che non si esaurisce nell’individuo (l’incontro con il prossimo, sia esso giovane studente, carabiniere o nemico per la pelle). L’imprevisto, quello banale, a volte comico, sviluppa un discorso parallelo alla cupa violenza del ricordo di guerra. Tra piccola commedia e tragedia del vivere, I nostri anni ci restituisce un po’ dell’inesauribile ricchezza della vita; anche per questo viene voglia di ringraziare Daniele Gaglianone. (CARLO CHATRIAN, Duel 86, febbraio 2001, pp. 53-4) Pensare al tempo come a una scansione uniforme di secondi in cui racchiudere un numero unitario d’immagini mi sembra una pura follia. È come ridurre la profondità di una vita alla piatta linea che segue l’evoluzione di un corpo che nasce, cresce e invecchia. Quando invece la vita ci dà prova ad ogni momento di una sostanziale discontinuità. Ogni istante crea un proprio tempo, fatto di salti, ritorni, illuminazioni, e smarrimenti. Prima di essere un riuscito esordio cinematografico, I nostri anni è questo: tempo che si fa vita. Non un film sulla Resistenza. Non un film sul recupero della memoria. Non la cronaca di un avvenimento eccezionale. I due anziani protagonisti non raccontano una storia, ma vivono un tempo. Con i loro silenzi più che con le loro parole, con i loro volti più che con le loro espressioni. L’apparente formalismo, in cui l’opera di Gaglianone sembra sciogliersi, è invece il tentativo di dare forma a un’esistenza. La composizione dei vari Cinema sulla Resistenza, cinema dell’Esistenza. Accomunato a Non mi basta mai dello stesso distributore (“Pablo” di Gianluca Arcopinto), I nostri anni – invitato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes – ha in comune con il documentario di Chiesa-Vicari anche la riflessione esistenziale sulla vita, l’importanza della memoria e il suo influsso sul rapporto passato-presente, sulla serenità dell’età adulta, sull’oggi. [...] oltre la metà del film, I nostri anni cambia registro, per passare dal dramma della rievocazione alla commedia in stile Vivere alla grande di Martin Brest, in cui la memoria del passato sembra lasciare spazio allo sberleffo della vita, al gesto impossibile che dia ancora un senso all’esistenza e insieme riconcili i protagonisti con se stessi e con i propri ricordi. La dimensione visiva stessa del film muta il suo carattere fortemente emotivo della prima parte, in un gioco di sguardi, occhiate, coincidenze: il guasto all’automobile, l’arrivo dei ca- vengono i carabinieri. Alberto e Natalino hanno ancora negli occhi quel bosco di betulle, ma adesso sul loro viso c’è un sorriso. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA I NOSTRI ANNI 221 rabinieri, la figura del rockettaro all’osteria. tutto viene visto e vissuto con ritrovata ironia, con la scoperta di una nuova identità, anche all’ultimo momento, davanti all’aguzzino di un tempo. Qualsiasi ne sia l’esito finale, potranno nuovamente ritrovarsi nella radura del bosco di betulle, con Silurino e gli altri, a ridere e gioire. [...] Cinema-verità e verità del cinema: dimenticare, andare oltre, vendicare sono parole chiave fino al momento dell’azione. Poi esse diventano solo pretesti: la Resistenza è parte dell’Esistenza, parte integrante del mestiere di vivere. La riconciliazione è invece un atto personale, che aiuta a sopravvivere: i due vecchi partigiani cercano – nel gesto – qualcosa che li aiuti a sopportare il peso della memoria, a ritrovare dimensioni affettive e storiche ormia perdute. Ogni altra riconciliazione è una forzatura storica. (MICHELE GOTTARDI, Segnocinema 110, luglio/agosto 2001, pp. 43-4) INCONTRO CON IL REGISTA DANIELE GAGLIANONE padre Bruno: I nostri anni è il suo primo film. Quali sono stati i rischi che lei ha voluto evitare? Daniele Gaglianone: Ho deciso di affrontare il primo lungometraggio non pensando assolutamente alla responsabilità dell’opera. Un po’ è stato un esercizio, un po’ mi è venuto naturale. È ovvio considerare un regista esordiente quando realizza il primo lungometraggio, ma sono dieci anni che realizzo documentari e cortometraggi, quindi anche se il lungometraggio è un’altra cosa, non mi sento un esordiente. Da un punto di vista creativo non ho sentito un grosso salto, anche perché ho avuto la fortuna di lavorare in un’atmosfera molto particolare e bella, in cui tutte le persone coinvolte nel progetto ci credevano molto ed erano entusiaste. Da un punto di vista più strettamente tematico, non ho pensato molto a tavolino il film. Nasce dalla mia esperienza di collaboratore dell’Archivio cinematografico della Resistenza di Torino, dall’incontro con persone che hanno vissuto l’esperienza partigiana. L’idea di questo film è cresciuta 222 I NOSTRI ANNI dentro di me in modo abbastanza naturale. Il mio modo di affrontare la storia riflette il modo in cui ho conosciuto quell’esperienza, l’ascolto dei racconti di queste persone. Ne ho conosciuto la giovinezza attraverso i racconti fatti nella loro vecchiaia. padre Bruno: Nella sua esperienza all’Archivio, è stato aggredito dalla documentazione, e questo la ha ispirata nella sceneggiatura? Gaglianone: La mia esperienza in questo archivio, che è prevalentemente audiovisivo, è stata fondamentale perché ho avuto l’opportunità di vedere delle cose che purtroppo credo pochissime persone abbiano visto. Ho visto documenti girati dagli stessi partigiani in quei diciotto mesi, molti cinegiornali nazisti e fascisti, newsreel americane, e soprattutto ho fatto, come operatore, un’ingente raccolta video di testimonianze orali. Ho incontrato e ascoltato le testimonianze di almeno cento persone. Tutto il materiale, sia d’archivio che umano, è stato fondamentale. Il mio punto di vista è stato privilegiato come operatore, perché ero presente ma non conducevo io le interviste, quindi non do- vevo preoccuparmi di fare le domande, ero dentro e anche fuori, e potevo ascoltare con più attenzione. È un film con cui bisogna fare un po’ a cazzotti. padre Bruno: Perché ci ha invitato alla scazzottatura? Gaglianone: Credo che sia un film che chiede qualcosa allo spettatore, soprattutto all’inizio. Chiede di entrare in un altro ritmo, in una dimensione che è quella della vecchiaia. Incede su un’altra percezione del tempo. intervento 1: Un film bellissimo, anche dal punto di vista letterario. I tagli di inquadratura, il montaggio, la presa diretta, i primi piani di Alberto e il doppio flashback in cui il ragazzo morente vede se stesso bambino davanti alla mucca che viene uccisa: in quel caso c’era quasi pietà per l’animale, mentre per lui non c’è. Rispetto al punto di vista ideologico del film, mi pare che più che una questione politica il film ci presenti l’aspetto della legalità. L’allora ragazzo, Natalino, ci dice “allora non si poteva che stare da una parte”. Una parte non giusta politicamente, ma perché gli altri facevano delle cose sbagliate. Mi sembra molto educativo come discorso distinguere le parti in base alla legalità, e non l’ideologia. La guerra di Resistenza è stata una guerra senza regole. Una delle prime è che feriti e prigionieri si rispettano. Invece nella guerra di Resistenza non si rispettavano, anzi, ci si accaniva ancora di più su morenti e feriti. Il film ci dà anche un messaggio non troppa speranza: non è che i nemici diventino amici perché avviene una maturazione o un diverso modo di vedersi, un superamento delle parti. Anzi, i due, finché non scoprono di essere nemici, si comportano con rispetto. È perché, come dice Natalino “siamo tutti dei vecchi”: la vecchiaia è come perdere la passione, la personalità, vedersi come alla fine. Mi sembra che la vecchiaia non abbia una saggezza acquisita. Quello che il film non ci presenta, poi, è il periodo intermedio tra la guerra e il tempo presente. L’arma che fa cilecca, fallisce perché è vecchia o perché era caricata intenzionalmente a salve? Come se i due volessero non tanto uccidere ma far prendere paura al nemico? Gaglianone: Tengo a precisare che quando i due vecchi partigiani sono di fronte al fuoco sono lontane le loro posizioni: Alberto lo vuole ammazzare perché pensa che sia giusto. Natalino non lo vuole ammazzare non perché non pensa che sia legittimo, ma per un problema di opportunità. Si chiede che senso abbia ucciderlo adesso, che la sofferenza è stata vissuta e continua. Ucciderlo non cambia nulla. Purtroppo erano ben altre le cose che avrebbero potuto lenire il suo dolore, ma non sono avvenute, e le spiega nell’intervista. Ho conosciuto molte persone come Natalino e Alberto, e quando si sceglie di raccontare dei personaggi non qualsiasi, ma che hanno un passato pesante sulle spalle, c’è il pericolo del paradigma: “i partigiani sono tutti così”. È un pericolo che è giusto correre. Io ne ho conosciuti tanti che erano così, che avevano questo senso di profonda malinconia e disillusione, rabbia e dolore mescolate insieme. Ho voluto raccontare questi che sono quelli che mi hanno toccato di più, e non solo umanamente. Credo non siano delle persone rinchiuse nel proprio passato. Se lo ricordano, ed è importante ricordarselo. La scritta finale è molto indicativa. L’ho trovata in un libro che non ho citato perché avrebbe fatto uscire lo spettatore dal film. L’ha scritto Christopher Burney, ha a che fare con la guerra ma non con la Resistenza, è edito da Adelphi e si intitola Cella di isolamento. È il diario, scritto a posteriori, di questo agente britannico paracadutato in Normandia per prepararsi allo sbarco, catturato dai tedeschi e rinchiuso diciotto mesi in una cella di isolamento. “Questi diciotto mesi che ho vissuto qui dentro, in questi due metri quadrati, quando uscirò di qua, il prossimo che arriverà, non li sentirà, e non esistono, se non dentro di me”. Uno dei problemi dei due personaggi del film, anche se in modo diverso, è che percepiscono questa distanza incolmabile tra un mondo interiore che brucia ancora e uno esteriore, non solo nelle persone ma anche nelle cose, che è indifferente, fatalmente o colpevolmente. È fatalmente indifferente come può esserlo un bosco, che continua ad esserlo, nonostante il fatto che per loro è il teatro della tragedia della loro vita. Per Alberto non sono passati neanche due secondi da quel giorno, dal momento in cui lui è dietro I NOSTRI ANNI 223 l’albero (e qui torniamo al manifesto). Mentre Natalino a fatica, in qualche modo è riuscito a metabolizzare questi cinquant’anni. Ci ha pensato, ci ha ragionato, anche se li ha digeriti non così bene come pensa, perché alla fine la rabbia viene anche a lui. E comunque fino alla fine questa differenza tra loro e l’altro viene ribadita. Penso che sia un film sulla Resistenza, sull’oggi, su due persone che hanno vissuto quell’esperienza. Quanto alla pistola che fa cilecca, per Alberto, che lo vuole davvero uccidere, questo significa che nemmeno questa volta ce l’ha fatta, è l’ennesima sconfitta, non c’è più niente da fare, da dietro quell’albero non riuscirà mai ad uscire. Non l’hanno caricata, non funziona, forse il gesto di Natalino di portarsi dietro il fucile è solo simbolico… quello che è importante secondo me in quel momento è che si sono mossi forse per l’ultima volta nella loro vita e riescono a dire no. L’importante per loro è essere arrivati fin lì. Quando la pistola non funziona, per loro due quella persona sparisce, e non resta loro che un happy end un po’ straziante: sono felici di riuscire a ritornare dai loro amici prima che arrivino i fascisti, però in una dimensione che non esiste, un po’ onirica, nel loro ricordo. Riescono a fare, dopo cinquant’anni, però solo nella loro testa, forse di vecchi un po’ folli, quello che non sono riusciti a fare cinquant’anni prima. E straziante il fatto che siano felici in una dimensione che non esiste. Ma, ripeto, l’errore è secondario rispetto alla loro reazione di fronte a quest’evento. intervento 2: Mi ha molto colpito la leggerezza della narrazione in un film che, tutto sommato, è privo di azione. Intendo la leggerezza in senso calviniano, quella delle Lezioni americane. Una leggerezza che si inquadra molto bene nel paesaggio, che tra l’altro solo chi conosce la montagna e anagraficamente, per vicinanza alla Resistenza, può apprezzare a pieno. Lo considero un film da cineteca, da conservare nell’archivio nazionale storico. intervento 3: Mi hanno colpito due cose. All’epoca avevo tredici anni, ero nelle Langhe, al confine con la zona partigiana dell’Oltre Tanaro, e li ho sentite quelle cose. Il film me 224 I NOSTRI ANNI le ha rievocate. Poi, quando nel famoso inverno del ’44, gli Alleati hanno detto “tornate a casa, poi ricominciamo l’offensiva”, vedere i partigiani passare di notte, stracciati e feriti, è un’immagine che mi è rimasta impressa. La seconda cosa che mi ha colpito, è una cosa che va al di là del film, è il problema della punizione. Ha senso punire qualcuno che dovrebbe essere punito quando non è più il vero nemico? Come i condannati a morte americani, che, a distanza di anni dal crimine commesso, sono cambiati, non sono più uguali a se stessi. Gaglianone: Una puntualizzazione che può sembrare pignola. I condannati a morte americani o cinesi sono condannato a morte e sta in prigione. Il personaggio del film è un criminale, ma si è fatto un anno di galera ed era stato condannato a vent’anni. Non è stato punito, anche se credo che ai due protagonisti questo interessi relativamente. Sicuramente se avessero vissuto in un Paese dove certe cose vengono riconosciute, non si sentirebbero così sconfitti e beffati, perché la storia dice che sono dei vincitori. padre Bruno: Mi pare però che il nemico sia stato già punito. Voracemente mangia i cioccolatini, perché sa che gli fanno male, in sedia a rotelle sta subendo una fucilazione permanente. I due vecchietti sanno d’infierire su un uomo che è già morto. Non solo nell’anima, ammesso che ce l’abbia, ma nel fisico. Infatti il film finisce con i due che escono dal buio del corridoio e sono investiti da una luce abbagliante, poi passano nel bosco e anche i due partigiani per terra sorridono… Gaglianone: Non sono molto d’accordo. Il fatto che il fascista sia ridotto così, dal mio punto di vista, non vuol dire che sia stato punito, ma che, nonostante tutto, e il fatto che ad Alberto ispiri solidarietà un vecchio così ridotto, rispetto a certe colpe lui resta quello che era. Il suo stato fisico non è un “però” ma un “nonostante”. La loro contentezza finale non è legata al fatto che l’hanno risparmiato, credo sia evidente. intervento 4: Ho trovato in questo film che lei ha raffigurato questi due anziani con una grande tenerezza e rispetto. Proprio per questo ho visto in quella uscita sorridente il fatto che loro abbiano superato il momento che li ha perseguitati, soprattutto Alberto, per tutta la vita. La loro volontà di vendetta si dissolve, come il loro ricordo. Riescono a sorridere e a pensare che anche la morte dei loro compagni abbia avuto un suo senso. Almeno questa è la mia interpretazione. Gaglianone: Quando si fa un film, è giusto che ognuno veda il “suo” film. Non è un’equazione. Credo che la sua interpretazione sia molto vicina alla mia. intervento 5: Vorrei spostare il discorso su un aspetto tecnico del film. Fare un film in bianco e nero è una scelta, oggi. Non credo abbia troppo a che fare col fatto che si riferisce ad eventi lontani nel tempo. Se mai può avere più a che fare con la percezione collettiva che le generazioni che non hanno immediatamente vissuto quegli eventi hanno stratificato nei decenni vedendo documenti del passato. Ho percepito almeno tre diverse densità di questo bianco e nero: uno dell’oggi, più nitido e luminoso, e altre tonalità via via sempre più raggrumate quanto più ci si addentra nelle dimensioni profonde del ricordo, non tanto lontane nel tempo, quanto legate all’interiorità del ricordo. Gaglianone: Qualcuno ha detto che questo è un film in bianco e nero girato a colori. Nel senso che ci sono molte dimensioni temporali e soggettive che si incrociano. Volevo dare a ogni dimensione una sua caratteristica, sia fotografica che legata ai movimenti di macchina e al montaggio. Abbiamo usato quattro tipi di pellicola super 16, il super 8 e il video digitale (solo durante l’intervista di Natalino). Volevo che questi bianco e neri fossero all’interno di un mondo organico. È stata anche una sfida: mi piace il bianco e nero e perché è un modo per far andare subito lo spettatore in un altro mondo. E anche perché parliamo di un mondo che nel nostro immaginario è passato in bianco e nero. Infine perché è un film che parla della difficile separazione per i personaggi tra presente e passato. Tutte le scene della Resistenza (il massacro, la fuga nel bosco) della prima parte del film sono state girate con una pellicola super 16 scaduta proprio per ottenere un’immagine che fosse la più sporca possibile. Abbiamo usato un filtro rosso per far uscire di più i neri sulle betulle, e abbiamo lavorato con la macchina da presa in un modo completamente diverso nel resto del film: è sempre in movimento, a spalla, quasi come se ci fosse un settimo partigiano lì tra loro, tutto in soggettiva. In tutta la parte in cui Alberto è nell’ospizio la macchina si muove perennemente su un carrello, come se ci fosse una tensione latente in quel posto dove nulla può accadere se non la morte. E invece c’è qualcosa che si muove. Anche in montaggio abbiamo approntato diversi registri per i diversi momenti. Ad esempio, le parti in cui il passato è direttamente ricordato da qualcuno, sono state girate in super8, con una ripresa che ha un effetto di sfarfallio particolare, perché volevo ottenere un’immagine intermittente, che sta per dissolversi, come i loro ricordi, ma allo stesso tempo anche molto vive, contrastate. Ogni dimensione del film è stata trattata in un modo particolare: il film si può anche intendere come una sorta di viaggio all’interno di un ricordo, quello della radura. È anche la storia di un’amicizia, di due persone che si ritrovano. Queste due dimensioni arrivano a combaciare, e loro due a pensare la stessa cosa. Insieme, così, entrano nel loro ricordo per correggere ciò che non sono riusciti a correggere nella loro vita reale. I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Damico - Si tratta di un’opera in cui il linguaggio cinematografico viene usato per costruire qualcosa di rigoroso che non indulge ad alcuna piacevolezza. Molto coraggioso. Lo spettatore deve far fatica nell’esegesi e nella comprensione. E opera da rileggere. Il finale con la pistola che fa cilecca e i due personaggi che se ne vanno ridendo è una soluzione geniale. I NOSTRI ANNI 225 OTTIMO Paolo Berti Arnoaldi - Film duro, antiretorico, di un’autenticità ricca di immagini strazianti, di ricordi indelebili nella mente dei due protagonisti, di valori di una stagione irripetibile per intensità di scelte. La macchina da presa ha scavato nei volti impauriti, angosciati dal terrore, in modo così coinvolgente da lasciare lo spettatore attonito. E così era veramente la lotta di quei tempi, senza pietà, illuminata solo dal sapersi dalla parte giusta, dalla consapevolezza che prima o poi si sarebbe vinto. Sono grato al regista Gaglianone, così giovane e così dotato, di aver fatto un’opera altamente morale, utilizzando attori non professionisti che nelle scarne figure di Alberto e Natalino raggiungono espressività e spontaneità impensabili. Alberto nella sua vaghezza e Natalino nella rude determinazione sono immagini indimenticabili. Se nella prima parte lo spettatore stenta a entrare nella vicenda, nella seconda, più bella, il racconto si apre in un continuo evolutivo di situazioni che dalla tragicità degli eventi passati sfociano in un finale curiosamente tragicomico. Gioconda Colnago - Si tratta di una rappresentazione cinematografica completa, montata in modo mirabile. Gaglianone, studioso della verità di un periodo storico duro, non conosciuto personalmente, alterna nella ricostruzione immagini di una violenza umana rabbrividenti, perpetrata durante la Resistenza a quelle di due ex partigiani che a cinquant’anni di distanza conservano intatto il rodimento di quell’affannoso vissuto. Per Alberto e Natalino ogni cosa, ogni momento della vita ridesta ripetitivamente la ricordanza rancorosa che continua a covare sentimenti di vendetta per il massacro dell’amico. Con determinazione senilmente buffa si accorderanno per il compimento della paradossale minaccia di morte – che non si attuerà solo per cause accidentali e di maldestra manualità – contro l’ex capitano delle brigate nere, decisi a non deflettere neppure davanti alle sue condizioni di uomo paralitico e farfugliante. La fissità dei due amici sugli orrori disumani conosciuti ha costituito una costante emozionale destinata a mettere nei loro cuori il 226 I NOSTRI ANNI percorso della vendetta. Il “mondo gira a vuoto”, il “pensiero di essere rimasti vivi quasi per sbaglio” può allucinare: l’uomo può “aggirarsi” nel “perdono” di fronte a tanto? O è solo potenza di Dio? BUONO Lia Calzia - Mi sembra che il regista sia attratto da un periodo che è già storia, ma contemporaneamente ancora cronaca e ne tenta una fusione nella figura di due vecchi partigiani così vitalmente immersi nei loro ricordi da indurli a un’azione di giustizia nei confronti di un vecchio fascista ormai rimbambito. Il mezzo espressivo è un linguaggio un po’ nevrotico, di contrasti, in un b/n che trasporta la tragedia in una magica lontananza. Le intenzioni dei due si infrangono nella senile goffaggine del maldestro tentativo e il film si conclude tra la malinconia e l’ironia con un senso di dissolvimento, insieme alla vita, dei grandi sentimenti, degli eroismi, delle crudeltà. Bona Schmid - Un film sulla Resistenza privo di retorica trionfalistica e assolutamente fuori dagli schemi ideologici che hanno deformato la memoria storica di questa pagina sofferta e controversa della Guerra Civile italiana. Le vicende di quei giorni vengono narrate in tutta semplicità da un giovane regista, aperto a una pietas riflessiva, attraverso il racconto di due vecchi che rivivono il ricordo dei “loro anni”, quelli di una gioventù bruciata dagli eventi della storia. A distanza di più di mezzo secolo gli odi, i rancori, la sete di vendetta – elaborati per tutta una vita – si scontrano contro l’evidenza disarmante della vecchiaia, l’infermità e la morte. Anche il carnefice rivela tutta la sua miseria e debolezza umana nell’infermità che spietatamente lo affligge. Allora che senso ha uccidere un uomo morto? Nel finale tutti i conflitti vengono sedati da una sottile ironia che rende il film indimenticabile. Marcello Napolitano - Un film senz’altro apprezzabile, intelligente, che guarda a quest’universo di anziani con simpatia (soprattutto se gli anziani hanno portato avanti valori simili a quelli del regista), che ha notazioni molto sottili sul disagio degli anziani rispetto alla trasformazione del mondo. Personalmente però lo trovo difficile da seguire, perché usa un linguaggio non convenzionale (montaggio, ripetizioni di scene, salti temporali della narrazione) che impegna lo spettatore poco abituato e lo distoglie da una piena adesione sentimentale alla vicenda. A mio avviso nuoce anche l’utilizzazione di attori non professionisti, bravissimi nell’azione, ma certo non così bravi nel descrivere con l’espressione gli stati d’animo dei personaggi: è importante per un film imperniato sull’analisi della coscienza, del ricordo. Il regista si è occupato con grande maestria della resa fotografica, che certo è superba; ma temo che l’attenzione, sacrosanta, all’aspetto tecnico l’abbia distolto dall’approfondimento psicologico. Miranda Manfredi - Un giovane regista che si cimenta con la persecuzione della memoria di anni che non sono i suoi merita attenzione. Memoria che diventa ossessivo pensiero che torna su se stesso e genera vendetta in nome di una profonda compassione per gli amici perduti. Da questo meritevole sentimento di sofferenza, un vecchio partigiano articola una ritorsione su chi era diventato vittima di se stesso. Da qui la constatazione della negatività del passato inteso solo come ricordo individuale e non come catalizzatore del cambiamento. La guerra civile rimane nel bianco e nero di sgranati documentari, nei flash che accompagnano i due amici superstiti nel loro iter personale di giustizia. Si arriva al finale con l’emozione dei nostri ricordi (per chi li ha) e la consolazione che un’amicizia ritrovata vale di più di una vendetta, che, per fortuna, si spegne nell’incapacità fisica di organizzarla. Vincenzo Novi - Il presente che avanza inesorabile modifica la visione del passato. Mi sembra questo il messaggio del film. Gaglianone ci racconta in bianco e nero una storia in cui il filo nero del passato si intreccia col filo bianco dell’esistenza che scorre. Sulla superficie di questo tessuto si staglia la figura di un vecchio la cui mente è polarizzata su un episodio efferato di cui è stato spettatore in anni lontani e sul rimorso di non aver potuto reagire. La vendetta che ora si offre a portata di mano viene vanificata da cause banali che gli consentono di cogliere la sfasatura dei tempi e delle circostanze. La luce che lo investe all’uscita del chiuso, insieme al suo fragile amico, sta a simboleggiare una raggiunta liberazione interiore. L’estetica del film è influenzata dalla frequentazione degli archivi storici della resistenza. Una pratica che verosimilmente ne ha fornito lo spunto. Mario Piatti - Mi ha colpito l’affettuosa sensibilità con la quale Gaglianone si è avvicinato alle figure degli anziani ex partigiani, ormai confinati in un loro mondo di rimpianti, di rancori non sopiti, di amarezza per vedere dimenticato il sacrificio loro e, sopratutto, dei loro compagni caduti. Ciò che non mi è parso del tutto convincente è il modo di narrare, condizionato, a mio avviso, dalla lunga esperienza del regista nel cortometraggio. La scelta di effettuare le riprese in un bianco e nero che, nei frequenti ritorni al passato, via via si sgrana fino quasi a dissolversi, è certo interessante. Con l’avanzare del film, peraltro, la ricerca di questi effetti, che è tipica di un certo documentarismo sperimentale, finisce per apparire troppo insistita e fine a se stessa. Valida invece, pur con qualche pesantezza, la scelta di alternare i ritmi frenetici delle vicende passate con quelli lenti del presente, condizionato dalla decadenza fisica dei protagonisti. Adelaide Cavallo - Gratificato da un finale che riscatta il timore che la storia affondi nel dramma, retto sull’impegno di raccontare senza processare, l’esile canovaccio su cui il regista argomenta le pulsazioni umane, si fa racconto quasi poetico e spiazza il pubblico. Forse mi sbaglio, ma mi pare che larga parte di tale poesia stia in quel bianco e nero della pellicola che rende vivo il dramma storico, e insieme lo sdrammatizza col tocco ameno di un fondo semiserio. Che cosa imparare da questo film? Che la giustizia, nella vita, fa sempre fatica a trovar strada e suona beffa, talora, a chi la rincorre. Ma c’è pure un altro suggerimento: piena di tranelli e di imprevisti, quale è la strada per inseguire il giusto (o ciò che sembrerebbe essere il giusto) se ne conclude che I NOSTRI ANNI 227 volendo perseguirla (la giustizia) bisogna essere anche capaci di saperlo fare. Pierfranco Steffenini - La Resistenza costituisce per noi italiani un tema importante, sul quale forse non è stata ancora detta una parola definitiva. Anche il film di Gaglianone ha come punto di partenza un fatto di sangue avvenuto in quel contesto storico; ma, pur schierandosi apertamente per una delle parti contendenti, il regista non si sofferma tanto sull’episodio di allora, quanto piuttosto sulle sue conseguenze nella realtà di oggi. Il film ha la sua originalità nel mostrare come sia assurdo perseguire quel bisogno di vendetta in una situazione tanto mutata sia nel sentire delle persone sia nel contesto storico. Nella descrizione del fallito tentativo dei due ex partigiani non mancano tocchi di amaro umorismo. DISCRETO Teresa Deiana - Lo spettatore che avesse resistito alla prima parte del film, alle immagini della vecchiaia con i suoi effetti penosi, ai ripeuti flashback di scene cruente, tra fughe, dirupi e sobbalzanti riprese in bianco e nero, si sarebbe, nella seconda, ritrovato in un film diverso da quanto si sarebbe potuto aspettare. Quella che si prospettava come una tragedia si trasforma infatti in una specie di patetica farsa. Con i due vecchi che, agitati e maldestri, pur progettando la vendetta, si ritrovano a non avere la forza per compierla. Inconsciamente la loro macchinazione nascondeva forse la voglia di ritrovarsi, per un’ultima volta, giovani e vitali. Ma anche se il film, dato il tema, è coraggiosamente anticorrente, non si può non notarne le eccessive reiterazioni, i ritmi piuttosto lenti assieme a un soverchio compiacimento formale. Caterina Parmigiani - Non solo dalla pellicola in b/n dei documentari anni 40 ma anche dal contenuto appare chiaro che il regista è un esperto di testimonianze audiovisive sulla Resistenza. Chi ha conosciuto ex-partigiani ha sentito mille storie come quella narrata da Gaglianone, cioè di animi combattuti tra il perdurare del desiderio di vendetta e la volontà razionale 228 I NOSTRI ANNI di perdonare, unita tuttavia all’incapacità emotiva di dimenticare. Originale è la leggerezza onirica con cui il tragico racconto si conclude. MEDIOCRE Luisa Alberini - Il difficile in questo film è orientarsi e la ragione è semplice: non se ne individua bene la chiave di lettura. Si sa troppo poco di quei tre vecchi, non si sa niente di quello che è successo nei cinquant’anni che li separano dalla guerra. Allora il ricordo, o più esattamente l’ossessione, l’incubo, il tormento al centro del film diventano un esercizio grafico da amatori di nuovi effetti speciali, una specie di lavoro sulla pellicola, usata soprattutto come materia di scrittura di un avvenimento che si sgrana ogni volta che lo si vuole richiamare. Quello che è chiaro invece è il sentimento di rabbia e di vendetta cui tocca una sorte anche peggiore. Carla Testorelli - La ricercatezza del bianco e nero, l’uso della camera a mano e della pellicola sgranata, l’abuso dell’alternanza presente-flashback, rischiano di diventare accademia. Dopo una preparazione così angosciosamente protratta, lo spettatore avrebbe diritto a una meritata catarsi. Invece il film sfocia in una storia esile e modesta, che non trasmette particolari emozioni. INSUFFICIENTE Carlo Chiesa - Mi sembra incredibile che, a oltre mezzo secolo dagli avvenimenti, ci sia ancora uno zelante volontario che abbia trovato la voglia (e i fondi) per fare ricerche in certi archivi e raccogliere un’ora e mezza di gemiti, sospiri, lamenti, urla e sangue. E in più: odio, tantissimo odio. A prescindere dallo strano fatto che – in quei benedetti archivi – nessuno rinvenga mai episodi storici visti “dall’altra parte” (io, che c’ero, so che ve ne sarebbero), penso che sarebbe ora che i cineasti promuovessero tesi di comprensione e riappacificazione. Parole e utopia titolo originale: Palavra e utopia CAST&CREDITS regia: Manoel de Oliveira (Portogallo/Francia, 2000) soggetto e sceneggiatura: Manoel de Oliveira fotografia: Renato Berta montaggio: Valerie Loiseleux musica: Carlo Paredes costumi: Isabel Branco scenografia: Rui Alves interpreti: Lima Duarte (padre António Vieira da vecchio), Luís Miguel Cintra (padre Vieira da adulto), Ricardo Trepa (padre Vieira da giovane), Miguel Guilherme (padre José Soares), Leonor Silveira (la regina Cristina di Svezia), Renato Di Carmine (padre Jeronimo Cattaneo), Diogo Doria (il capo inquisitore), Paulo Matos (il notaio), Antonio Reis (l’accusatore) durata: 2h 13’ distribuzione: Mikado IL REGISTA Manoel de Oliveira è nato l’11 dicembre 1908 ad Oporto, in Portogallo. Dopo aver frequentato le scuole in città e il collegio gesuita in Galizia, ha cominciato ad interessarsi al cinema, nel frattempo praticando intensamente molti sport. A vent’anni si è iscritto ad una scuola di recitazione, ed appare in diverse pellicole, mentre all’inizio degli anni Trenta intraprende la via della regia amatoriale con Douro, faina fluvial (1931), sul fiume omonimo. Il suo primo lungometraggio, Aniki-Bobó (1942), ambientato ad Oporto, è considerato una sorta di Zero in condotta portoghese. Per mancanza di fondi molti dei suoi progetti di quegli anni rimangono sulla carta, e de Oliveira lavora per alcuni anni nell’azienda agricola di famiglia. Nel 1956, dopo aver studiato colore ai laboratori Agfa di Leverkussen, in Germania, realizza il documentario Il pittore e la città. Negli anni successivi arrivano i primi riconscimenti internazionali: il festival di Locarno gli rende omaggio nel 1964, ed Henri Langlois, direttore della Cinémateque Française di Parigi, organizza una retrospettiva delle sue opere nel 1965. Nel 1971, grazie alla fondazione Gulbenkian, che sostiene il cinema portoghese, gira Passato e presente, satira sulla vita a due, che ottiene un buon riscontro di pubblico a livello internazionale. Dagli anni Ottanta in poi, la sua attività è caratterizzata da una produzione febbrile, al ritmo di un film all’anno, e dall’apprezzamento crescente in ambito critico: Francisca, del 1981, conclude la cosiddetta “tetralogia dell’amore frustrato” (iniziata con Passato e presente e proseguita con Benilde o la vergine madre e Amore e perdizione). Seguono I cannibali (1988), No, o la folle gloria del comando (1990), il fluviale La divina commedia (1991), in cui gli ospiti di un manicomio si credono personaggi biblici o letterari (premio della giuria a Venezia nel 1991), La valle del peccato (1993), versione portoghese e contemporanea di Madame Bovary, I misteri del convento (1995), Party (1996), Viaggio all’inizio del mondo (1997, ultimo film di Marcello PAROLE E UTOPIA 229 20 Mastroianni, premio Fipresci e della giuria ecumenica a Cannes nel 1997), il film a episodi Inquietudine (1998), La lettera (1999, premio della giuria a Cannes e candidato alla Palma d’oro nello stesso anno), con Chiara Mastroianni. Dopo Parole e utopia (2000) e Ritorno a casa (2001), de Oliveira ha girato Porto da Minha Infância, documentario che celebra la propria città natale, e Il principio dell’incertezza (2002). Parole e utopia ha vinto il Bastone bianco di Filmcritica ed è stato nominato al Leone d’oro a Venezia nel 2000. IL FILM È un saggio di grande e sottile ironia applicata su 240 prediche e 500 lettere di un big anticonformista del pensiero gesuita, il secentesco progressista padre Antonio Vieira, definito da Pessoa “l’imperatore della lingua portoghese”, un grande oratore finito nella caccia alle streghe dell’Inquisizione per aver denunciato lo schiavismo, poi in esilio a Roma. La storia di una vita esemplare e straordinaria “allestita” da de Oliveira con verità rosselliniana, secondo il potere dialettico di un cinema evocativo, semplice, epico e così poco globalizzato da incantare filmando solo la parola, ma senza trascurare il valore attuale dell’Utopia. (MAURIZIO PORRO, Il Corriere della Sera, 21 luglio 2001) LA STORIA Coimbra, 1663. Convocato dal Tribunale dell’Inquisizione e chiamato a difendersi da un’accusa che non conosce, l’imputato si presenta: «Sono padre Antonio Vieira, religioso professo della Compagnia di Gesù, teologo, predicatore regio di questa città. Sono nato a Lisbona nel 1608. La mia famiglia vive a Bahia dove si trasferì nel 1914 e dove io studiai nel collegio del gesuiti e presi i voti». A Bahia il giovane Antonio si era ben presto riconosciuto in quella missione che avrebbe portato avanti per tutta la sua vita: capire e aiutare gli indios. Ma l’impegno solenne con se stesso lo prese 230 PAROLE E UTOPIA “in segreto” il giorno della sua consacrazione nel 1625, quando promise ubbidienza al sommo pontefice. A dire quello che pensava non ci mise molto. Lo fece dal pulpito predicando fatti di cui tutti erano ben al corrente: «Una delle cose che si vedono e non fa più meraviglia è vedere arrivare una nave dall’Africa in America con più di mille persone a bordo, mille schiavi che attraversano l’oceano per vivere e morire in schiavitù. Uomini merce venduti e comprati». Parole di inizio di un sermone che denunciava la grande ricchezza di pochi e l’altrettanta miseria dei molti e che finiva con quell’appello all’eguaglianza che è fondamento della religione cristiana. Anni dopo, quando la rivolta a Lisbona contro il dominio castigliano portò alla proclamazione di re Giovanni lV, Duca di Braganza, padre Vieira considerò la vittoria del Portogallo un dono e una ricompensa alla fede. Un successo che lo convinse nell’aprile l654 a partire per il Portogallo dopo aver inviato a sua Altezza uno scritto nel quale esprimeva la necessità di porre rimedio a una delicata questione: quella degli Indios, che vivevano nelle foreste per paura dell’oppressione di chi li avrebbe governati. E dal Portogallo ripartì per Marañhao con l’assicurazione che i diritti che aveva chiesto per gli Indios gli fossero garantiti. Dal pulpito Padre Viera ricominciò allora a far sentire la sua voce e non passò molto tempo che fu espulso dal Brasile. Il tribunale dell’Inquisizione, dopo aver ascoltato gli avvenimenti fino a qui esposti, chiede a Padre Vieira se sappia leggere e scrivere e poi lo accusa di aver predicato false profezie. E solo la prima di una serie di contestazioni che si faranno sempre più severe, e che a conclusione del processo termineranno con la richiesta della massima pena. Nella cella dove è stato rinchiuso affinchè prepari la sua difesa, Vieira si rende subito conto delle difficoltà che lo aspettano. I giudici sono canonici e l’unico teologo è un domenicano. Sa di venir considerato un eretico e di avere contro anche la classe politica. Dalla sua parte solo il re e la regina, di cui è confessore. La sentenza definitiva davanti a tutto il collegio della Compagnia di Gesù arriva il 23 dicembre 1667. Di comune accordo gli inquisitori sostengono che «visto e considerato che l’accusato nella qualità di religioso, di letterato e di predica- tore era tenuto a dare il buon esempio, è privato della voce attiva e passiva e della facoltà di predicare». La pena consiste nella reclusione in una casa del suo ordine religioso, dalla quale non potrà allontanarsi senza autorizzazione, e inoltre nell’impedimento a trattare le questioni della suddetta causa, né a voce né per iscritto. Nello stesso giorno a Lisbona l’inquisitore generale viene colpito da ictus, e muore tre giorni dopo. A questo punto gli avvenimenti subiscono un’accelerazione imprevista. Con la deposizione di re Alfonso VI e la reggenza affidata al fratello nel giugno del l668, padre Vieira viene messo in libertà. Dal pulpito della chiesa dove predica riprende con vigore i sermoni di dura condanna nei confronti del potere e di chi lo esercita calpestando la giustizia. Il vescovo del Brasile avverte allora le conseguenze di quelle parole e con una lettera gli suggerisce di andare a Roma al fine di ottenere la protezione del Papa. Teme soprattutto un nuovo accanimento da parte dell’Inquisizione. A Roma padre Vieira è accolto molto bene e gli è anche consentito di tenere i suoi ormai famosi sermoni e di prepararsi a predicare alle più importanti corti d’Europa. Ma viene il momento di tornare in Portogallo, e mentre fa il bilancio dei viaggi fatti, «ho attraversato il mare trentacinque volte», Padre Viera si sente addosso il peso degli acciacchi dei suoi settant’anni e si accorge di una strana nebbia davanti agli occhi. Si rivolge allora al re per chiedergli di tornare in Brasile e parte definitivamente il 21 gennaio 1681. Cinque anni dopo, a Bahia riprendono sul gesuita le calunnie, ma lui non smette di predicare le idee per cui si è sempre battuto. Continua a far presente l’obbligo di imparare le lingue di quei popoli per essere loro d’aiuto e di ricordare come gli indios che vivevano liberi nella loro terra sono portati via in catene e venduti come schiavi. Una considerazione non condivisa e considerata troppo soggettiva. La punizione arriva puntuale. Per la seconda volta Vieira è privato della voce attiva e passiva e ancora una volta è costretto a rivolgersi al padre generale. Da Roma la risposta che riceve è di assicurazione: «Il caso verrà studiato perché abbia giustizia». E gli viene inoltre ricordato il lavoro per la stesura di due libri importanti e dei sermoni. Sono passati troppi anni. Viera ormai è seriamente ammalato, ha perso per malattia anche il suo segretario e vorrebbe far ritorno al collegio di Lisbona. Un desiderio che non sarà esaudito, ma a Bahia, sul letto di morte, gli sarà restituita quella voce attiva e passiva di cui era stato privato. È il 1697. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Come in molta parte della sua lunga attività iniziata nel 1929, anche in Parole e utopia de Oliveira non smette di occuparsi di temi a lui molto cari: il pregiudizio, la difesa delle idee, la possibilità per l’individuo di vivere un’esistenza piena e nel rispetto del comune vivere civile. In questo quadro la sfera religiosa occupa un ruolo certo non secondario. Anche se si sviluppa lungo oltre due ore (133’) e tocca molte vicende storicamente documentate, il film non è una biografia. Più che i fatti a de Oliveira interessano i sermoni del gesuita, ossia il momento dei suoi interventi sul “farsi” della Storia intorno a lui. L’anziano regista non ha il timore di fermare la macchina da presa sul protagonista e di osservarlo (e noi con lui) mentre riflette con toni forti sui temi fondamentali di una società in preda a contraddizioni e bruschi cambiamenti. Ne derivano immagini asciutte, essenziali, rigorose, che tengono l’attenzione ben stretta su quello che sta accadendo e che interpellano la coscienza di tutti. Disegni e stampe fanno da raccordo tra una sequenza e l’altra. Al centro il gesuita, la sua ricerca di moralità, di sincerità, di pulizia interiore. Una predicazione fluida, povera ma consapevole: come il film. C’è concordanza tra il linguagio di Vieira e quello del regista, Entrambi auspicano che le idee espresse con la parola (o l’immagine) non rimangano utopia ma divengano lievito di una migliore comprensione reciproca. De Oliveira non è un credente esplicito ma anche in questa come in precedenti occasioni (vedi La lettera), il suo esprimersi per simboli rimanda ad una concezione esistenziale in cui le ragioni dello spirito sono a pieno titolo ascoltate nella costruzione dell’equilibrio del cittadino, dell’uomo razionale. Dal punto di vista PAROLE E UTOPIA 231 pastorale, in film è quindi intenso e sofferto, ricco di suggestioni rilevanti, da valutare come accettabile, e senz’altro complesso per stile, taglio narrativo, impegno. (COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM) Ogni grande questione politica dipende da una fondamentale questione teologica. Con quest’affermazione Juan Donoso Cortés intitolava il primo capitolo del suo Saggio sul cattolicesimo, liberalismo e socialismo (Rusconi, Milano 1972). E de Oliveira sembra aver confermato questa tesi con Palavra e utopia, singolare biopic su un celebre gesuita portoghese del Seicento [...] Ripercorrendo le opere e i giorni - ma soprattutto i sermoni – di quest’uomo eccezionale, de Oliveira rimane fedele a se stesso nel tentativo di dare vita a un “cinema di parola” – che rivela qui più che altrove ascendenze rosselliniane (l’impianto didattico) e dreyeriane (la forma processuale) –, e nello stesso tempo fa il discorso più radicale e oltranzista (decisamente e coscientemente fuori moda) sulla necessità di ripensare il legame tra azione e pensiero o, detto in altri termini, tra amore e fede, realtà e sogno, prassi e teoria [...]. Nel concetto cristiano del “verbo che si fa carne” è racchiusa la regola aurea e la vertigine di questo rapporto. Dio è l’utopia dell’uomo, l’uomo (Gesù) è la parola di Dio. Come Socrate e Gesù, grandi maestri della parola detta (non a caso non scrissero nulla), anche Vieira coltiva il sogno utopico di una civitas Dei terrena. Il suo progetto politico è imbastito sul “rispetto”: verso Dio attraverso la religione, verso se stessi attraverso la temperanza, verso i sudditi attraverso la giustizia, verso gli stranieri attraverso la prudenza (cfr. Antonio Vieira, Prediche agli uomini di governo, Rusconi, Milano 1984, p. 54). Un segno di contraddizione questo monaco della parola nel secolo dell’immaginifico e della meraviglia, questo uomo di chiesa che, nel cuore della Controriforma, predica la necessità dell’inculturazione della fede (impara le lingue, conosce e rispetta le culture a cui si rivolge), ma soprattutto fa della fede non la giustificazione per la conquista e il dominio, ma un presupposto ideologico e un contenuto politico per la promozione umana (si batte contro la schiavitù degli indios). Rac232 PAROLE E UTOPIA contando la vita di quest’uomo morto in Brasile quasi novantenne, il grande vecchio del cinema portoghese realizza anche, per certi versi, un film autobiografico. E sigla la sua dichiarazione di poetica affermando che ogni parola – e quindi anche il cinema – è un atto di comunicazione solo quando è “cum munus”: un incarico, un dono, un progetto utopico da condividere con altri. Quando la parola porta in sé l’utopia della comunicazione. Anzi, meglio ancora, l’utopia della comunione. (EZIO ALBERIONE, Duel 83, ottobre 2000, p. 38) Che il portoghese Manoel de Oliveira nutra una predilezione per il suo conterraneo padre Antonio Vieira lo dimostrano tre film: il documentario Lisboa Cultural (1982), No, la folle gloria del comando (1990), che al gesuita del XVII secolo dedica il titolo e un’intera sequenza di Parole e utopia [...]. Antonio Vieira, una delle figure più clebri del Portogallo, ha lasciato un’opera considerevole dal punto di vista religioso ma anche storico e letterario: 240 sermoni e più di 500 lettere. Fernando Pessoa lo definì “l’imperatore della lingua portoghese”. Parole e utopia è l’affascinante storia di questo prete, sconcertante per attualità e modernità, che visse in un’epoca attraversata da grandi trasformazioni: la restaurazione della monarchia portoghese dopo la dominazione castigliana, la colonizzazione delle Americhe, l’espansione del commercio, le guerre di religione, la Controriforma... Padre Vieira si dedicò anima e corpo alla causa degli indios e degli schiavi neri sfruttati nelle piantagioni di zucchero. Ottenne da re Joao IV che lo statuto di protettrice degli indios spettasse unicamente alla Compagnia di Gesù. Ma, alla morte del Re, i coloni tornarono a farsi minacciosi, riuscendo a farlo espellere dal Brasile e convocare dal Tribunale dell’Inquisizione di Portogallo e Castiglia... I sermoni e le lettere di Antonio Vieira sono l’inconsueta forma narrativa che Manoel de Oliveira, 93 anni, usa per raccontarne la vita e l’opera. Girato nei luoghi in cui sermoni e lettere furono pronunciati e scritte, in Portogallo, in Brasile, a Roma, il film ne restituisce i passaggi più belli e sgnificativi compattandoli e sottraendoli ai condizionamenti del documentario storico, didattico o biografico per assumere l’intensità di una narrazione originale, di terso rigore stilistico e di fine sapienza figurativa. Ma, soprattutto, di fede sincera e sentita devozione. (ENZO NATTA, Famiglia Cristiana, 12 agosto 2001) Ormai abbiamo imparato a non meravigliarci più della freschezza intellettuale, della limpidezza di sguardo, della produttività (un film all’anno, con regolarità impressionante) del novantaduenne Manoel de Oliveira […]. Ma è normale restare sorpresi dalla straordinaria attualità […] di un personaggio, il padre gesuita Antonio Vieira, vissuto in pieno XVII secolo, fra la corte di Lisbona e la Roma papalina, [...] finito anche sotto processo ad opera dell’Inquisizione, e per tutta la sua vita dovette subire censure ecclesiastiche, espulsioni, interdizioni alla predicazione, provvedimenti disciplinari. Ufficialmente perché nelle sue opere avanzava interpretazioni non ortodosse dei testi profetici e ipotesi preoccupanti sul futuro degli imperi, in realtà perché dagli anni passati in missione a Bahía e nell’interno dell’Amazzonia aveva ricavato una sua teoria delle culture di insostenibile novità e arditezza, che ne fanno una sorta di Copernico o Galileo dell’antropologia culturale. Dai pulpiti delle cattedrali barocche, nei palazzi ornati di stucchi e affreschi, fra i parrucconi delle corti e delle università, che naturalmente de Oliveira filma con il suo consueto linguaggio insieme austero e sontuoso, padre Vieira sostiene – utilizzando tutte le armi della retorica rese più sottili e affilate dalla sua formazione di gesuita – che gli indios del Brasile non devono essere considerati come schiavi, e che pur vivendo all’interno di un possedimento portoghese non possono essere ritenuti come sudditi portoghesi. E dice di più, dice che il Brasile è una grande “Università di anime” e che è nel sertão e nelle capanne delle foreste che si prendono le vere lauree. Che per evangelizzare gli indios del Maranhão o gli schiavi etiopi che vengono sbarcati sulle coste brasiliane, in certi periodi a varie centinaia al giorno, bisogna prima di tutto imparare la loro lingua. Per questo Antonio Vieira era in grado di predicare in sette diverse lingue indie, oltre che di parlare corren- temente il latino e le lingue europee, in modo da poter conversare col papa (interpretato dal direttore della cineteca portoghese João Bernardo da Costa) o tenere sermoni davanti alla regina Cristina di Svezia. Per questo lo straordinario personaggio […] deve essere interpretato da tre attori diversi, come se uno solo non bastasse a contenerne e a restituirne la sapienza, la poliedricità e appunto lo spirito multiculturale. Il motivo concreto e banale è, naturalmente, che il film lo segue, sia pure senza una rigida cronologia, lungo tutta la sua vita, da quando è un giovane novizio [...] a quando, ormai vecchio, incanutito e non rassegnato a portare gli occhiali, passa le sue ore dettando a un segretario i suoi ultimi scritti profetici e futurologici e soprattutto le sue interminabili lettere al re, al papa, al padre Provinciale e al Padre Generale. Vieira parla e tratta infatti con i potenti, ma è attratto dagli altri: invitato dalla Regina di Svezia a diventare suo confessore preferisce imbarcarsi per la venticinquesima volta e ritornare a passare gli ultimi anni della sua vita in Brasile. E così de Oliveira, […] dopo i palazzi e i conventi e i tribunali filma scenari per lui nuovi, da cinema esotico e terzomondista, le grandi piante tropicali, le danze degli indios, i fiumi e le foreste. E l’immagine e il suono che stanno sotto i titoli di coda sono quelli di un mare solcato da una nave. (ALBERTO FARASSINO, Kw.cinema) Lo studio della parola, problema centrale nel cinema di de Oliveira, e in particolar modo nell’ultima e più prolifica fase della sua carriera, conosce attualmente un momento di perfezione in cui spessore teorico e profondità di pensiero trovano espressione anzitutto nella dialettica tra suono verbale e immagine, che, per invenzione felicissima trae origine dalla natura stessa del protagonista: il personaggio attorno al quale si costruisce il monumentale edificio retorico di Parole e utopia è infatti un predicatore e un visionario, maestro di eloquenza e insieme apostolo di quel messianismo già evocato da de Oliveira in No, o la folle gloria del comando. […] Il testo letterario, letto da tre attori diversi che impersonano Vieira colto nell’età della giovinezza, della maturità e della vecchiaia, risuona nei luoghi in cui la sua parola ha avuto PAROLE E UTOPIA 233 origine […]; il film trova una continuità discorsiva ora nel fluire del testo, ora nel ricorrere di elementi visivi (l’architettura sacra, l’oceano, le mappe) e di soluzioni stilistiche (inconsuete inquadrature rigidamente frontali, o le inquadrature fortemente angolate dell’oratore sul pulpito). Il succedersi delle lettere e dei sermoni risponde ad un criterio filologico che, ben lungi dall’opprimere il racconto, prepara il terreno ad aperture straordinarie: al maestro portoghese basta talvolta una sola immagine (si veda la scena della predica ai morti nel Colégio dos Jesuìtas di Marañhao) per muovere dalle stanze provate dell’erudizione all’orizzonte illimitato dell’esperienza universale. Nell’obbedire a regole formali desunte da un codice estetico-morale rigorosamente fondato su un concetto di cinema come costruzione, Manoel de Oliveira trova significative consonanze con Jean Marie Straub e Danièle Huillet: il titolo stesso del film pare individuare e riassumere sia l’opera dell’autore di Amor de perdiçao che quella degli autori di Antigone, dai quali il primo si distacca principalemente per un rapporto più disteso con il materiale altrui (opera letteraria o musicale che sia), che conduce poi a scelte del tutto differenti per quel che concerne la recitazione degli attori. Rimane intatta, in tutti e due i casi, la confidenza con l’utopia come tensione costante verso un altrove che si materializza filmando, con la parola, la Storia. (LUCA BANDIRALI, Segnocinema 112, novembre/dicembre 2001, p. 32) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Anna Maria Paracchini - È stato faticoso seguire il film nella primissima parte, ma poi sono stata coinvolta e affascinata da questo superbo e bellissimo affresco sul missionario gesuita Vieira. Merito di un’intelligente e meticolosa regia che ci ha offerto un film di qualità. Bellissima l’ambientazione storica, curata nei particolari che valorizzano il contenuto del film come pure la meravigliosa recitazione di una forza comunicativa eccezionale. 234 PAROLE E UTOPIA Nereo Venturini S.I. - Ho visto, contemplato e analizzato il film Parole e utopia, opera dell’anziano regista portoghese Manoel de Oliveira. Ecco le mie impressioni. Il film risulta un grande ed efficace affresco: illustra la società, la Chiesa del secolo XVII, i gesuiti del Seicento e le loro missioni latino-americane, in modo speciale nel Brasile, prima della soppressione della Compagnia di Gesù nel 1773. Conosco i luoghi dell’azione apostolica del protagonista del film, il Padre Antonio Vieira, e riconosco l’abilità del regista nella loro fantastica ricostruzione, sia di Bahia e Salvador, sia del Maranhao. Mi è più che nota la figura del missionario portoghese e le sue vicende storiche: il regista ha tentato con successo la sua raffigurazione. Il titolo in portoghese Palavra e Utopia corrisponde con adesione storica adeguata al film e al messaggio che vuole trasmettere e addirittura (data l’insistenza) inculcare. Mi dispiace che nel doppiaggio in italiano sia stato svilito e svuotato. Infatti “Parole” al plurale al posto di “Parola” al singolare ha superficializzato l’intensità biblica del termine che ha connotazione e consonanza con il messaggio cristiano della “Parola del Padre”, Gesù Cristo. Il messaggio di Padre Vieira non è più il suo, ma è quello di Gesù. Il genere filmico, nel quale deve essere inserita l’opera di Manoel de Oliveira, è originale. Al pubblico, magari non sufficientemente preparato e abituato ad altro dinamismo, può dare un senso di pesantezza: troppe citazioni dai discorsi e prediche del Vieira e scarsa azione di più esplicita cinematografia (filologicamente “kìnema” significa “movimento”; ma non deve essere inteso in senso esclusivamente tecnico o fisico). Il senso di appesantimento può essere superato dal dinamismo psicologico cui dànno rilievo la regia e la splendida interpretazione dell’attore portoghese Lima Duarte, per il periodo della piena maturità del missionario. Per gli altri due periodi di vita del Vieira, il regista ha scelto Ricardo Trepa per quello giovanile e Miguel Cintra per quello adulto. Ci sembra che con la macchina da presa abbia scavato sugli aspetti piuttosto complessi di una personalità ricca di contenuti, che si esprime in modo intenso nei vari ambienti storici cui è dovuta passare. Il temperamento, la missione, l’indomita tenacia e costanza del Vieira vengono effi- cacemente inquadrate nei vari ambienti in cui il regista ha dovuto immergerlo. L’esperienza e l’abilità della regia hanno superato brillantemente l’ostacolo della monotonia del testo e della documentazione scritta, cui si voleva dare risalto, per trasmettere il messaggio riattualizzato per la società multiculturale dei nostri giorni. Gli aspetti filmici che più mi hanno colpito rientrano nella psicologia e nella simbologia. Ad esempio, quel mare mosso che puntualizza a tutto campo i vari passaggi del film non è solo un’indicazione della trentina di volte che il Viera ha attraversato l’Atlantico. È l’espressione visiva dell’inquietudine interiore del personaggio che veniva chiamato a rapporto dai superiori ecclesiastici romani. L’uso sapiente e controllato della luce e dell’ombra fino quasi al buio, l’uso del chiaroscuro, dello sfumato rientrano nella descrizione della situazione psicologica vissuta dal Vieira. Il gioco di movimento tra lo sfondo e il primo piano che vengono complementariamente integrati dal regista, da un lato crea l’ambiente adeguato incarnando il missionario nel suo ambiente di attività, dall’altro il primo piano valorizza lo sfondo che resterebbe inanimato. Ho osservato l’attenzione posta dal regista alle finestre degli ambienti. Aperte significano un’apertura al positivo nella contrastata vicenda del Vieira; chiuse indicano una sordità psicologica subita dal personaggio. A mio giudizio siamo davanti a un’espressione tra le più alte della cinematografia. di un grande gesuita, Vieira, anche se difficile da seguire. Tuttavia mi sembra un’ottima ricostruzione sia della figura, dell’atmosfera, delle sue prediche, delle sue tristi vicende fino alla sua fine. Ne ha fatto un monumento chiaro e preciso. Gabriella Rampi - Un film ricco di parole e di pensiero, che il regista comunica agli spettatori con un linguaggio quasi più fotografico che cinematografico, se per cinema si intende solo “azione”. Ci sono splendide inquadrature, come quella iniziale del processo, in cui si muove sul muro bianco solo l’ombra della penna dello scrivano, altre sontuose, barocche, ma che la misura e una certa fissità non rendono mai retoriche. È un film che sottolinea l’importanza della cultura in una società che stava facendosi multietnica, per capire i popoli e per liberare le persone da ogni condizionamento, e l’importanza della parola che mette in comunicazione, come quel mare che unisce due continenti e che è l’unica cosa sempre in movimento. Rosanna Radaelli - A parte il merito del regista nell’aver reso così vera questa figura, mi pare grande l’abilità nell’aver presentato gli ambienti sfarzosi quando dovevano essere tali, e l’essenzialità di altre scene alternativamente. Giovanni Bodio - Prima della proiezione, letta la scheda di presentazione, considerato il soggetto del film, mi sentivo piuttosto freddo, anche in relazione alla durata di oltre due ore. Poi l’ho seguito con crescente interesse, e alla fine mi sono sentito molto soddisfatto di quanto avevo visto e udito. Trovo che il regista abbia avuto mano felice perché insieme allo spettacolo offre una lezione seria e valida di vicende del mondo cristiano-cattolico. Gianfranca Viani - Raffinato, colto, elegante: questo è lo stile di de Oliveira. Il suo è cinema d’autore, ricco di sfumature, prezioso nella sottolineatura dei personaggi, rigoroso nella ricostruzione delle ambientazioni: un cinema ormai in estinzione, o comunque patrimonio di pochi registi. C’è un certo parallelismo tra il vecchio gesuita e il vecchio de Oliveira, un confronto tra culture: la prima, pronta per il decollo nell’età moderna; la seconda, ahimé, in fase di estinzione. Ormai le “parole” sono usate per la maggior parte dal linguaggio dei media e del marketing... OTTIMO BUONO Dora Dorigo - È un film molto ben reso della vita e attività Marcello Napolitano - Vedevo il film per la seconda volta, PAROLE E UTOPIA 235 ma anche stavolta dopo il primo tempo ho avuto la tentazione di abbandonare, poi ho resistito soprattutto per sentire cosa poteva venir fuori dalla discussione: sono stato un po’ deluso perché si è soprattutto trattato della figura di padre Vieira e non del valore del film, che come tutti (pochi) film di de Oliveira che ho visto, mi è piuttosto oscuro. In effetti debbo ammettere che con un soggetto e un dialogo tratto al 95% da sermoni e altri scritti religiosi barocchi, con un Eminentissimo, Illustrissimo, Eccellentissimo ogni tre o quattro parole, nessun altro regista avrebbe potuto tener seduto per oltre due ore nemmeno un solo spettatore: è quindi già un merito, aver fatto uno spettacolo, forse discutibile, con una materia così ostica; certo il regista si è avvalso della fotografia, dell’ambientazione, della recitazione (forse appropriata ma non mi pare eccezionale); si metta inoltre che il povero mortale non portoghesofono non sa quasi niente della casa di Braganza e sa poco di quella di Castiglia, non riesce a seguire certe finezze politiche chiaramente espresse dal regista, si trova quindi spaesato. Il paragone con il Rossellini storico mi pare fuori luogo, perché Rossellini cercava di drammatizzare i conflitti della storia in una dimensione di spettacolo, sia pure austera ma ancora spettacolo, mentre de Oliveira mi sembra dimentichi assolutamente lo spettacolo, cioè il dramma: direi che questo film è piuttosto un documentario, su una figura di indubbia statura morale e intellettuale, colpevolmente ignorata dalla nostra (mia) cultura. L’ultima prova che ho fatto sul film è leggere i pareri critici della scheda: sperticate lodi al regista e apologia di padre Vieira, ma nessun critico si è opportunamente sbilanciato sul valore del film. l’utopia del potere. La forza delle parole (pronunciate quasi sempre da un pulpito) è “rappresentata” dalla forza delle immagini che fanno loro da sfondo: in genere immagini dell’arte (pittura e architettura) manierista e barocca che in altro modo esprimono la bellezza dell’eloquenza e dell’arte retorica. Qui non si vede la realtà dell’ambiente fisico e umano contro cui (o per il quale) le parole del protagonista combattono (come invece si vedeva in Mission) ma ugualmente a esse è affidata una grande utopia: quella che aspira ad avere la terra ultima, quella della morte, molto più grande della piccola terra in cui si è nati. Contro questa semplice utopia – ampliare il proprio spazio di vita e di libertà – si oppongono le tre utopie mondane del potere politico, del potere militare e del potere “religioso” (l’Inquisizione). Ad esse, di fatto, la colonizzazione europea dell’America Latina ha affidato il compito di esportare un modello di civiltà che solo a scapito della distruzione di un’altra cultura è riuscita a imporsi. Contro questa utopia distruttiva non è bastata la violenza e la bellezza della parola di Vieira, che muore senza poter ascoltare la parola che lo assolve. Dalla colpa di aver voluto “ridare” la parola agli indios ai quali stava per essere tolta, per sempre. Caterina Parmigiani - Intelligenza e determinazione, acutezza e sensibilità, spirito profetico e pragmatismo caratterizzano la personalità di padre Antonio Vieira, infaticabile missionario ed eccezionale predicatore, che la recitazione sapiente di L. Duarte e la regia “teatrale” di de Oliveira valorizzano appieno. Luisa Alberini - Forse la spiegazione di questo lungo film “parlato” possiamo coglierla nel titolo. L’utopia che rapporto ha con la parola? Qui la sfida è quella di dare alla parola la visibilità dell’immagine, essendo l’immagine il mezzo cinematografico, il solo, di cui il cinema non può fare a meno. Ed è una sfida che già si affianca ad una premessa difficile, poiché utopia è “quanto costituisce l’oggetto di uan aspirazione ideale non suscettibile di realizzazione pratica”, secondo la definizione del Devoto-Oli. Nel film di de Oliveira la parola esce dal suo spazio utopico, ed entra in comunicazione grazie ad una trascrizione essenziale: le poche pagine di un libro di storia e contemporaneamente la leggerezza di tempi fuori dal tempo, che ci portano a guardare alle parole come portatrici di un’energia che non ha bisogno d’altro. Gian Piero Calza - È un film sul potere della parola e sul- Pierfranco Steffenini - Come una di quelle tele del Seicento 236 PAROLE E UTOPIA controriformistico italiano, di soggetto religioso, grandi per dimensioni e per impegno pittorico, e che nessuno appenderebbe nel proprio moderno appartamento. Tale mi è parso Parole e utopia, film certamente non destinato al successo commerciale, tanto lontano è dal gusto corrente per argomenti trattati e mancanza di azione. Bisogna fare uno sforzo di adattamento e concentrazione per accettare senza moti di ribellione il suo maestoso e lento fluire. Solo così si può apprezzare la verosimile ricostruzione storica, l’elegante cornice ambientale e la Parola, che è la vera regina del film. Onore al produttore e al regista, per avere rischiato tempo e denaro in un’opera così poco adatta ai nostri tempi. Bona Schmid - Penso proprio che in contrapposizione dialettica con l’Utopia ci sia la Parola, come entità astratta. E tutta la parabola esistenziale ed intellettuale di questo autore portoghese del Seicento si svolge oscillando tra questi due poli di attrazione che, parimenti, lo affascinano. Maestro della Parola, in un secolo che vede trionfare il barocco nell’arte, la letteratura e l’oratoria, Antonio Vieira è anche un religioso impegnato nell’insegnare la dottrina cristiana agli aborigeni del Brasile. Il film dà più spazio alla parola come fatto declamatorio presso le corti dei potenti della Terra. L’utopia viene solo enunciata nella sua modernità per quei tempi. Questo è il limite di quest’opera celebrativa, ma mancata dal punto di vista cinematografico. De Oliveira è anche un maestro dei colori, delle luci e delle atmosfere. Ogni inquadratura è un dipinto dell’epoca. DISCRETO David Rogers - Il concetto era bello, ma la realizzazione manca tanto. Niente (o quasi niente) degli incontri con los Indios, niente delle reazioni dei portoghesi in Brasile. Così il conflitto rimane una cosa teorica, non vissuta. (Però valeva la pena aspettare alla fine per il dibattito). Ugo Pedaci - È certamente mancato qualcosa nella realizza- zione di questo film sulla lunga e interessante vita del padre gesuita portoghese Antonio Vieira. Forse la pretesa di concentrare 91 anni di una vita così intensa e ricca di fatti ed esperienze in poco più di due ore. Fatto sta che alla fine del film, praticamente due ore di sermoni, abbiamo capito abbastanza, ma non tutto quello che c’era da sapere; abbiamo sentito che nel racconto di questa vita così intensa e operosa mancava qualcosa. Peccato perché il film aveva tutte le premesse per un’ottima riuscita. Non posso dire di conoscere le opere del regista de Oliveira che è comunque considerato uno dei capisaldi della cinematografia; per quanto mi riguarda Parole e utopia non è all’altezza della fama che gli viene attribuita. E anche quanto venne creato dal padre Vieira nel campo delle realizzazioni sociali e in opere commerciali rivolte al benessere delle popolazioni indigene non appare nemmeno accennato. La prima parte del film è lenta e decisamente strascicata. Nella seconda parte migliora, cresce l’interesse per le parole pronunciate, si fa incisiva la figura del vecchio padre indomito. Una menzione per la bella fotografia, specialmente per gli interni e per l’incisività e l’espressione dei volti. Buona e ricercata anche l’ambientazione. MEDIOCRE Carla Testorelli - All’inizio del film de Oliveira sembra aver trovato la chiave giusta per raccontarci la storia del gesuita Vieira, nato a Lisbona all’inizio del Seicento, grande predicatore e difensore appassionato della libertà degli indigeni brasiliani. Una dolente melodia brasiliana ci introduce nel mondo della missione, dove la semplicità della chiesa e l’ardore dei missionari si contrappongono al cupo Portogallo dell’Inquisizione. Le due civiltà vengono contrapposte e separate dell’Atlantico sulle cui onde volano le parole del gesuita. Ben presto però l’atmosfera si fa più cupa e pesante. Il padre, richiamato in Portogallo, deve affrontare le trappole e le censure dell’Inquisizione, della corte di Lisbona e della Roma papalina. Da questo momento per lo spettatore non c’è scampo: viene investito da una raffica di predicazioni PAROLE E UTOPIA 237 colte e appassionate, che si sgranano inesorabilmente fino all’ultima inquadratura. Certo 91 anni son lunghi da raccontare e, forse per eccessivo scrupolo, il regista non ci fa sconti. Ho invano sperato che sull’inquadratura dell’ultimo ritorno in Brasile, che vede il padre riflettere sulla sua solitudine paragonabile alla morte (nessuno si ricorda di lui e lui non vuole ricordare nessuno), calasse finalmente la tela: no, ancora parole e parole, sacrosante, ma estenuanti. INSUFFICIENTE Lidia Ranzini - La storia di Antonio Vieira è affascinante e coinvolgente. Tutti coloro i quali si sono dedicati al bene dei popoli oppressi sono degni di nota e di ammirazione. Il problema è che tutto questo è stato descrittto male. Forse noi sappiamo troppo poco della storia del Portogallo e del Brasile, ma questa carenza fa perdere il filo. I tempi sono troppo dilatati e i dialoghi lenti. L’aver riesumato il latino, ormai deprezzato anche a scuola, penso demotivi la fascia più giovane di spettatori, per incomprensione. Un lavoro è riuscito quando, anche a chi è all’oscuro, riesce a insegnare qualcosa o a far provare qualche emozione. Il regista non ha aggiunto informazioni al bagaglio culturale del mio cervello e non mi ha fatto provare, per più di due ore, che noia e sonnolenza. Forse l’unica nota positiva è stata la visione del manifesto, ma non ci si può accontentare di così poco. 238 PAROLE E UTOPIA Annamaria de’ Cenzo - È un film difficile da seguire, sia per le parole (troppe) che per la fissità delle immagini. In una quasi totale mancanza di dialoghi, si susseguono la declamazione di prediche e la lettura di lettere, appesantite ancora di più dall’intervento continuo di una voce fuori campo. Al gusto letterario di de Oliveira per la centralità della parola s’accosta poi quello pittorico: la scelta delle inquadrature è raffinata, volta alla stilizzazione, ma l’indugiare del regista su di esse porta ad un effetto di staticità. Ho trovato quindi calligrafica e pleonastica gran parte di questo film, e me ne spiace, sia per le innegabili doti del regista, sia per quelle straordinarie del padre gesuita che è al centro della narrazione. Mariateresa Scarlini - “Parole”... un’infinità, dotte, elaborate, declamate con enfasi, sinonimo di profonda cultura: e che originano sapienti sermoni, senza lasciare un attimo di respiro. Film assai bello, non c’è dubbio, ma altrettanto faticoso da seguire e con un inevitabile cedimento di interesse. Affreschi, pitture, interni sontuosi, e le figure vi si stagliano con forte incisività, soprattutto quella del gesuita che giganteggia indisturbato. Ma non c’è azione, esterni ridottissimi. Angela Movi - Avrei apprezzato molto questo film, quale racconto dell’avventurosa vita di missione di Antonio Vieira se fosse stato più succinto, meno eloquente e se fossero state tradotte, mediante sottotitoli, le numerose espressioni latine. Pauline & Paulette titolo originale: Pauline en Paulette CAST&CREDITS regia: Lieven Debrauwer (Belgio/Francia/Paesi Bassi, 2000) sceneggiatura: Lieven Debrauwer, Jaques Boon fotografia: Michel van Laer, Alain Bonnet montaggio: Philippe Ravoet musica: Frédéric Devreese con: Dora van der Goren (Pauline), Ann Petersen (Paulette), Rosemarie Bergmans (Cécile), Idwig Stéphane (Albert), Julienne De Bruyn (Martha), Camilia Blereau (la moglie del macellaio), François Beukelaers (il direttore della casa di riposo), Nand Buyl (il notaio), Herman Coessens (il macellaio) distribuzione: Bim durata: 1h18’ IL FILM Un cinema gentile, non retorico, che si occupa della gente vera, quello belga. Pauline & Paulette, di Lieven Debrauwer, narra di due sorelle quasi in terza età che si palleggiano interessate – c’è di mezzo l’eredità – la responsabilità di una terza sorella rimasta bambina. Una commedia sentimentale anomala e commovente, cinica ma con un occhio ben aperto sull’infelicità e la gestione della solitudine, soprattutto nella stagione delle sinfonie d’autunno. È un film in mano ad attrici strepitose, che si rimbalzano con gli occhi, i silenzi, i mezzi toni, tutte le ambiguità dei rapporti umani, le sorprese dell’amore e anche del disamore, i piccoli eventi, l’operetta, nella vita di provincia. Piace quel ritmo da diario segreto, la voglia di esprimere con un frenato melodramma al femminile il tocco di classe dell’umanità vera, il piacere di raccogliere affetto. (MAURIZIO PORRO, Il Corriere della Sera, 12 gennaio 2002) LA REGISTA LA STORIA Lieven Debrauwer è nata il 15 aprile 1969 in Belgio. Pauline & Paulette è il suo primo lungometraggio, sopo una lunga serie di corti (uno dei quali, Leonie, premiato a Cannes dal pubblico nel 1997). Il film è stato segnalato dalla giuria ecumenica a Cannes e candidato all’Oscar; presentato al festival di Cannes nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs”, ha ottenuto anche il premio del pubblico. Sono le otto quando Marta sveglia Pauline e Pauline si alza, prende l’annaffiatoio già pronto vicino al suo letto e va in giardino a bagnare i fiori che circondano la loro bella casa. È il rito di ogni mattina, in attesa della prima colazione, “pane e marmellata o cioccolato?” che Marta prepara con la puntualità di chi si è assunto il compito di star vicino alla sorella finchè vivrà. Pauline è una donna ormai anziana, ma PAULINE & PAULETTE 239 21 vive da sempre nel mondo di una bambina che non ha più di cinque o sei anni d’età. La sua passione sono i fiori, quello su cui non transige sono le scarpe slacciate. Se si accorge che non sono chiuse, deve trovare qualcuno che annodi le stringhe e lo faccia subito. Dopo la colazione, Pauline esce per una piccola commissione e Marta le fa la solita predica: «mi raccomando, lascia tranquilla Paulette». Parole superflue. Paulette ha due attività: il canto negli spettacoli d’operetta e, a tempo pieno, il suo negozio di moda colorato di rosa e di fiori. Per Pauline è un luogo magico. La sua risposta a Marta che la rimprovera per aver disubbidito è: «Paulette è mia sorella». Marta, di rimando: «Anch’io sono tua sorella e finchè sono viva tu starai qui con me come abbiamo stabilito». Ma come spesso succede, le cose non seguono la logica degli uomini e Marta muore, rimettendo così in discussione il luogo dove dovrà vivere Pauline. Il notaio che custodisce il testamento con le volontà della sorella defunta convoca Paulette e Cécile, l’altra sorella che vive a Bruxelles, e legge le disposizioni su cui non serve più opporsi. La bella villa potrà essere divisa in parti eguali tra le tre sorelle, ma a condizione che Cécile o Paulette accettino di prendere con sé e averne cura Pauline. In caso contrario unica erede sarà Pauline. Le volontà di Marta creano subito malumori e perplessità. Paulette osserva che sta per andare in scena l’operetta a cui ha dedicato tutta la sua vita. Cécile fa presente che a Bruxelles ha una sua vita accanto all’uomo che ama e che non c’è il posto per ospitare Pauline. Ma il problema va risolto subito e Pauline passa a casa di Paulette, poi si vedrà. E con lei Paulette si trova bene. Le piace quel suo mondo, il negozio con il va e vieni di clienti e di pacchetti da incartare, e anche il camerino del teatro dove guardando l’altoparlante si sente uscire la musica. È insomma attratta e affascinata da quei meravigliosi vestiti di scena e dal canto che proviene da quella scatola posta quasi sul soffitto. Ma non le si può chiedere di rispettare le condizioni che Paulette vorrebbe imporle. E così, un giorno Paulette, esasperata da una presenza che le crea ormai troppo imbarazzo, porta la sorella a Bruxelles da Cécile. La decisione presa troppo in fretta non va bene a nessuno: a Cècile impreparata a quell’arrivo 240 PAULINE & PAULETTE improvviso, ad Albert, il suo uomo, che non è disponibile al più piccolo sacrificio e non capisce quello che gli viene chiesto, e neanche a Pauline, che torna ben presto con un taxi da Paulette perchè, dice «Albert è matto». Per Paulette a questo punto il ricovero di Pauline in un istituto diventa ormai una scelta non più rinviabile. Con Cécile torna allora dal notaio e comunica la decisione che ha preso: tirarsi fuori dal testamento, rinunciare a quella parte d’eredità che poteva esserle riservata. E con quella rinuncia prende anche la decisione che cambierà definitivamente la sua vita. Vende il negozio e si trasferisce in un piccolo appartamento al mare. Pauline ha trovato nuovi amici all’Istituto dove, superato un primo momento di ribellione, si è ambientata; e ogni tanto va da Paulette, che invece è rimasta completamente sola. Continuando a ripensare a tutto quello che non ha più. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Pauline (Dora van der Groen) ha difficoltà psichiche: la sua età mentale non sembra andare oltre i 5 o 6 anni. Questo è il suo handicap, come si usa dire con una parola trasparente. In italiano la si può tradurre con svantaggio, differenza di valore e di abilità nel gareggiare che deve essere in qualche modo compensata. D’altra parte, a quale “gara” partecipa mai la vecchia signora raccontata dal regista belga poco più che trentenne Lieven Debrauwer in Pauline & Paulette (Pauline en Paulette, Belgio, Francia e Olanda, 2000, 78’)? Guardando all’umanità che non raggiunge gli standard di abilità psichica o materiale considerati normali, spesso il cinema riproduce un pregiudizio generale e diffuso: non vede uomini e donne, ma solo “diversi”. Non ne vede cioè la singolarità e la specificità di persone, ma la generalità, l’appartenenza a una categoria o a un genere, che infatti rispecchia in personaggi banalizzati, – per così dire ridotti. Poi, magari ubbidendo a una cattiva coscienza implicita; tende a capovolgere quella pretesa diversità in un’altrettanto pretesa – e appunto generica – superiorità morale. Così non fa, per fortuna, l’esordiente Debrawer. La sua Pauline è proprio solo Pauline, non una “svantaggiata”: è questa vecchia signora gentile che ama i fiori, e che s’immerge rapita nella magia quasi materiale dei loro colori. È lei, è la sua singolarità che il cinema guarda e racconta, non la sua diversità. Cioè: non il confronto “generico” tra la sua abilità normale, ma quello specifico tra lei e le sue sorelle, tra lei e i suoi concittadini, tra lei e alcuni uomini e donne che un cripto-pregiudizio moralistico etichetta come diversi, appunto. E ancora: non è lei sola al centro del film, ma lo sono anche le sorelle Martha (Julienne De Bruyn), Cécile (Rosemarie Bergmans) e Paulette (Ann Petersen). E forse è proprio a quest’ultima, con la sua normalità attraversata e alla fine aperta da una nostalgia, che il cinema guarda con maggiore attenzione. Insomma, quella raccontata da Debrauwer e dal suo cosceneggiatore Jaak Boon è una storia normale, dando però a questo aggettivo un senso non valutativo, ma descrittivo, Una storia piccola, che non cerca scene madri e che si sviluppa con i tempi e la linearità della vita quotidiana. Ed è per questo che a noi, in platea, viene facile entrare e restare nei silenzi e nell’ordine della grande casa vuota di Martha, nel trionfo dei rossi, dei rosa e dei viola di ottimo pessimo gusto del negozio di Paulette, nel freddo dell’appartamento piccolo borghese di Cécile. Non chiediamo intreccio, non chiediamo azione: ci basta questo sapore di vita leggero e profondo. Nella casa dove vivono Pauline e Martha, dunque, il tempo pare abbia lasciato solo abitudini, ricordi, memorie familiari sbiadite. Martha ne è, anzi ne è stata la custode, con la sua cura sollecita e tenera della sorella. Basta la sequenza dell’incontro di Paulette e di Cécile nella penombra della casa a lutto, dopo i funerali di Martha, per farci sentire i suoni lontani di quelle memorie, e per avvertire i segni lasciati dal tempo nel rapporto fra le sorelle: le incomprensioni antiche, che si mescolano a un affetto comunque ancor vivo, la cattiva coscienza di chi se n’è andato, e il rancore silenzioso, forse l’invidia celata di chi invece è rimasto. Ora che una di loro, che la prima di loro se ne è andata, Paulette e Cécile non sentono tanto l’angoscia per la fine del passato, non sentono tanto la potenza della nostalgia, quanto il desiderio di vivere ancora ognuna un futuro proprio. Sembrerebbe patire il peso dell’egoismo, questo loro sentimento. O potrebbe essere solo il segno dolente lasciato dalla vita, l’impronta nell’una e nell’altra di qualcosa che l’una e l’altra hanno rincorso e che ora temono, soffrendo, di non avere mai raggiunto. Pauline, la dolce e indifesa Pauline, è tutto quello che le lega al passato: che le lega nel senso delle radici, e che le lega nel senso del dovere, delle catene che la sua incapacità di provvedere a se stessa impone alla loro speranza di futuro. Questo, e non una qualunque generica, banalissima “diversità”, pare il cuore di Pauline & Paulette: questo legame che per paradosso separa. Ma proprio attorno a Pauline, attorno a lei come personaggio intero, libero da “svantaggi” che alla regia e alla sceneggiatura tocchi di compensare –, Paulette e Cécile finiscono per ritrovare il passato. Su di lei, sulla sua riscoperta tenerezza di sorella, la seconda misura la meschinità di Albert (Idwig Stephane). E ancora su di lei, sul suo amore per i colori della vita, la prima trova la forza felice e vitale della nostalgia. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2002) Miseria e ricchezza umane formalizzate nel “valzer” di Tcajkovskij e saturate nei “fiori” e nei “colori” del suo valzer... Ancora una volta il cinema belga sceglie di raccontarsi attraverso lo sguardo “ritardato” di Pauline, una donna di sessantasei anni entusiasta ed emozionata come una bambina di sei, replicando così, sulla Croisette, il successo dell’Ottavo giorno. Premiato allora dalla Giuria ecumenica di Cannes e da un pubblico commosso che avrebbe probabilmente fatto a gara per “adottare” Pauline e il suo giardino di fiori – grande ossessione dell’anziana signora e del regista, sottolineata dal reiterato e abusato valzer di Tcajkovskij – il film di Lieven Debrauwer affronta invece con sano e autentico cinismo quello che più realisticamente accadrebbe e infatti accade a Paulette e Cécile, autonome e soddisfatte delle e nelle loro vite incompiute, quando viene a mancare Martha, la sorella che fino ad allora aveva amorevolmente accudito Pauline, assecondando i suoi capricci infantili e senili insieme, proteggendola dal mondo degli “altri”. Diventa inPAULINE & PAULETTE 241 teressante a questo punto stabilire rispetto a quale mondo Pauline è in “ritardo”: a quello “barocco” di Paulette, nascosta nella sua pinguedine a stento trattenuta da vaporosi abiti da operetta, o a quello più sobrio di Cécile, rivelata nella sua miseria da una sterilità tutta fisica e intellettuale. Eppure ad almeno una di esse, naturalmente la Paulette del titolo (e questa non sarà certo una sorpresa), la disarmante e dolce inadeguatezza di Pauline rivelerà se non un mondo altro almeno un altro modo di guardare a quel mondo. Le asprezze umorali e la volubilità “grassa” di Paulette faranno comunque più e meglio della dedizione cortese della sorella defunta, “accelerando” positivamente il “ritardo” di Pauline, responsabilizzandola e invitandola, perlomeno, a tentare l’autodeterminazione; al contrario, ma questo è già dato e già visto, Paulette applicherà l’autenticità della lentezza di Pauline ai falsi ritmi e riti della sua vita... E anche qui il buon esito si indovina! (MARZIA GANDOLFI, Duel 94, febbraio 2002, p. 16) È il candidato belga alle nomination per il miglior film straniero e viene dalla Quinzaine di Cannes. Nonostante le protagoniste, due vecchine, sorelle di temperamento e psicopatologie apparentemente opposti, non è un film geriatrico (tipo Le balene d'agosto) né da nosocomio della terza età (tipo That's amore). Pauline è rimasta bambina, e ricorda semmai un lato infantile di Bette Davis prima di graffiare. Paulette, pingue signora solitaria e virtualmente brontolona, punta a un'eredità, ma è sostanzialmente onesta: dopo la verifica di incompatibilità di caratteri in una convivenza che bordeggia tra la commedia di mattatori (al maschile ci sarebbero Matthau e Lemmon) e il melodramma familiare, Paulette si decide a far ricoverare la sorella in un adeguato istituto e si ritira da sola nella tanto agognata casa sul mare. Sola? Come dovrebbe essere, ma come invece più spesso non è, il finale sottolinea la malinconica scelta di Paulette e la nostalgia della sorella, che non è poi così lontana... Non morde, ma prende. Non fa lacrimare, ma commuove. E poi è la prova che gli attori hanno lunga, lunghissima vita, se il cinema trova l’occasione giusta. Diretto da Lieven Dra242 PAULINE & PAULETTE brauwer. Con Dora van der Groen, Ann Petersen, Rosemerie Bergmans. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 11 gennaio 2002) Il regista Lieven Debrauwer (classe 1969) sceglie un soggetto arduo, lontano da mode e stereotipi, inserendosi nel corposo filone del cinema sui diversi (anch’esso ormai strutturato e catalogabile come genere cinematografico tout court). Il tema del diverso ha piena legittimità al pari di qualsiasi altro, tuttavia, spesso e volentieri, diviene a tal punto pretestuoso da rendere impossibile qualunque operazione critica, con ciò sottraendosi aprioristicamente ad un seppur minimo tentativo di disamina puntuale e rigorosa. Attraverso la scelta di questo soggetto, molte volte, non si intende raccontare una storia nella quale il personaggio abbia pari cittadinanza degli altri, ma presentare direttamente un “caso”, senza motivarne ulteriormente la scelta. I rischi insiti in una scelta di questa specie sono, pertanto, molteplici. Da un lato scivolare nella retorica dei buoni snetimenti, finendo per attribuire una presunta superiorità morale a tali soggetti, in nome di non si sa cosa; dall’altro, ed in ragione di tale superiorità, ricattare lo spettatore agendo su di un suo presunto e latente senso di colpa. A prescindere dagli esiti complessivamente deludenti, Debrauwer evita entrambe le cadute, riuscendo, almeno in parte, a non cedere alla trappola del sentimentalismo spinto. […] l’idea di rappresentare la vicenda di Pauline e del suo infantilismo senile attraverso i toni della quotidianità merita un plauso, tuttavia tale prospettiva non è sorretta dalla ben che minima capacità espressiva. […] occorre dire che il film belga, pur con i toni apprezzabili e misurati della commedia appena ricordati, presenta uno standard di realizzazione molto basso, giocando sull’esteriorità dei sentimenti piuttosto che sul loro effetto interiore. Semmai lascia intravedere, in controluce, alcune buone e originali intuizioni, tutte ampiamente rimaste al di qua del film e della sua messinscena. Mi riferisco all’indagine sugli effetti che l’apparizione di Paulette produce nelle vite quotidiane delle sorelle, intente a perseguire e soddisfare privati egoismi, mal disposte a rinunciare e a condividere la fetta di una conquistata comodità borghese. […] le poche carte di valore devono cedere ben presto la mano ad una regia a dir poco grossolana. In alcuni momenti l’opera lascia letteralmente esterrefatti quanto a ingenuità e approssimazione. Penso in special modo al crescendo terrificante, montato al ritmo forsennato del “Valzer dei fiori” di Ciaikovski, in cui Pauline gioca nel prato, o ancora alla fotografia, che offre cromie degne del miglior Ispettore Derrick, restituendo una tavolozza di colori saturi e involontariamente kitsch. Il suddetto valzer ritorna senza motivo quattro o cinque volte, provocando un senso di fastidio e insofferenza. Lo stesso si può dire di un montaggio amatoriale e sciattamente pedante. Inspiegabilmente, ma no... cosa dico, giustamente candidato all’Oscar 2002 per il Belgio. (ALBERTO SONCINI, Cineforum 412, marzo 2002, p. 78) I COMMENTI DEL PUBBLICO ma panchina a righe. E sarà Pauline che aiuterà Paulette? Il manifesto eloquentissimo ce lo lascerebbe intravedere: le due sorelle sono simili, belle e addirittura fuse nella avvolgente cornice di fiori. Ottimo film, che pone, con eccezionale sensibilità e levità, il problema realissimo della drammatica gestione familiare delle persone minorate. Bravissime le attrici. Felice Ghidoli – Cinema che scava nei sentimenti, commedia gentile dai tratti poetici in un interno al femminile, che ruota attorno a una infermità e a un’eredità condizionata. Racconto di vita accompagnato da un dolore sommesso in una solidarietà inconscia. L’ottima interpretazione avvalora la linearità del racconto proposto con leggerezza e profondità meditativa, reso espressivo nell’immediatezza del vivere quotidiano, dove hanno parte la dedizione e l’abnegazione e dove tutto è dato in nome di un’affettività rassegnata. DA PREMIO Iris Valenti – Quanti piccoli (grandi!) eroi invisibili ci vivono accanto! C’è chi trova coraggio, tempo, spazio nella propria vita da dedicare a chi, incolpevole, deve essere sorretto e guidato soltanto per vivere, giorno dopo giorno, la propria esistenza. Bellissimo questo film che sa capire la difficoltà di essere “buoni” nei limiti dell’egoismo e della fragilità comuni all’uomo. Chi sa “vedere” oltre all’apparenza, coglie alla fine un dono ancora maggiore di quello che ha dato. OTTIMO Vittoriangela Bisogni – Tutte le gamme dei rosa: il rosa delle bambine, il rosa delle bambole, il rosa del belletto. Questo è il mondo di Paulette, che è più infantile e più leziosa di Pauline. L’una vive tra fiori di carta e di pezza e fondali di operetta, l’altra vive tra fiori veri e palpitanti, e d’ogni colore. E sarà capace anche di socializzare nell’istituto in cui è stata ricoverata, mentre la “normale” Pauline è sola e nostalgica su quella triste spiaggia ventosa, seduta su una tristissi- Tullio Maragnoli – Di questo film ho apprezzato la delicatezza con cui viene trattato il problema di un handicappato in famiglia, senza nasconderne le difficoltà intrinseche. Lucia Fossati – Piccolo film che mi ha coinvolto dal principio alla fine ed è riuscito ad angosciarmi e a consolarmi nello stesso tempo, per il realismo della situazione presentata e per la delicatezza con cui il regista è riuscito a rappresentarla, lasciando che la malinconia sfociasse nella speranza. Solo nel film di Lindsay Anderson Le balene d’agosto (1987) avevo trovato una uguale profondità e verità nel descrivere il rapporto tra sorelle anziane e una uguale bravura di attrici nell’immedesimarsi nel ruolo (lì erano Bette Davis e Lillian Gish!). Contribuisce alla riuscita del film anche la bella fotografia che fa rivivere nel ricordo l’intimità dei paesi delle Fiandre, il mare del Nord, la Grande Piazza di Bruxelles. Maria Pia Garzolini Davy – È un film che ci presenta un caso umano reso mirabilmente dall’interprete. Una storia che ci fa pensare, in un mondo sempre più fatto da anziani soli che hanno necessità di essere compresi e aiutati. Il tutto PAULINE & PAULETTE 243 è recitato da attori che si sono immedesimati nelle loro parti contribuendo così al successo del film che diventa una commovente pagina di vita vissuta. Maria Teresa D’Ercole - Questo film mi è proprio piaciuto molto, interpretato da attrici straordinarie che arrivano al cuore. Simpatiche le storie quotidiane raccontate da signore fiamminghe per bene. Ottima la sorella rimasta bambina che lavora benissimo. Giulio Manfredi - Già il doppiaggio di Pauline insieme alla sua mimica meriterebbero un premio. L’entusiasmo per la vita si estrinseca nell’amore per i fiori e la natura. La bellissima piazza di Bruxelles senza il tappeto di fiori perde per Pauline qualsiasi significato. Il mare con il volo di gabbiani sembra proiettarla nella libertà del cielo. Le basta un pezzo di carta con le rose o il canto della sorella prediletta per appagarla. È invidiabile! La percezione del bene e del male è istintiva e discriminante. La bocciatura della moglie del macellaio e di Albert è drastica. Volontà e testardaggine si compenetrano in uno scudo di difesa. Gli interni delle case rispecchiano l’animo di chi le abita. Dal rigore di Marta si passa al trionfo di colori di Paulette e poi all’aridità di Cécile. Non manca la conflittualità tra sorelle, l’interesse economico, tutto ricomposto dall’attenzione che richiede una vecchia bambina felice immersa nei suoi sogni. BUONO Francesca Meciani - Film di buoni sentimenti. I personaggi sono ben caratterizzati, ben recitati. Ma flebile, delicato, debole, prevedibile. Manca la storia che tenga avvinto lo spettatore. Sembra più lungo di quello che è. Luisa Alberini - È l’eco che resta, quello che ci si porta via, a restituire al film il vero significato. Quando il rosa, le rose, i fiori in primo piano e in campo lungo in un’estensione infinita di colore lasciano il posto al vuoto, al silenzio del gri244 PAULINE & PAULETTE gio d’autunno, quando il mondo del sogno, in cui è bello rifugiarsi se tutto va bene, sfuma nel vuoto di una panchina a righe, nel freddo di una mattina davanti al mare, nella solitudine, ci si scopre inermi. Il legame che unisce Pauline e Paulette è la condizione di una vita a cui nessuna delle due può più rinunciare, al di là della differenza che apparentemente le ha divise. Come a dire: niente ci appartiene di più di chi ci sembra tanto lontano e chi ci sembra diverso è solo qualcuno che chiede di essere conosciuto. Vittorio Zecca - Un tema che tocca tutti noi nel corso della vita, articolato in un film costruito sulle piccole cose e sui particolari della quotidianità. La scelta del minimalismo nella trama, dei colori intensi, della banalità dei luoghi può trarre in inganno dando la sensazione di una certa leggerezza e superficialità, mentre proprio nella banale e quotidiana concretezza delle piccole cose raccontate sta la sostanza del film. Eccezionale la recitazione di Pauline, coadiuvata dalle altre protagoniste, mentre la regia risulta in qualche momento troppo didascalica e prevedibile. Simonetta Testero - Argomento dolente trattato con molta delicatezza. Sa esprimere molto bene il rapporto tra le sorelle e nei confronti di quella handicappata. Insegna anche la tolleranza nei confronti del più debole e la ricchezza che questi può dare a chi lo accoglie e lo ascolta. Bona Schmid - È un film che seduce per la sua essenzialità nell’analizzare i rapporti più intimi di affetto e di estraneità che legano tre sorelle, non più giovani, che si ritrovano per la morte improvvisa della maggiore. L’eredità della morta è molto pesante: oltre alla casetta di famiglia – in un paesino del Belgio – affida alle cure delle due sorelle la tutela di Pauline, disarmante vecchietta che vive nel suo mondo di eterna bambina. È un film sorprendente da parte di un giovane regista che sa entrare nella psicologia e nel cuore inaridito degli anziani. Le due sorelle si buttano con avidità sull’eredità, ma il vincolo per accedervi scatena i loro egoismi: la cittadina, belloccia, ha un amante da mantenere e Paulette, la provinciale velleitaria, vuole ritirarsi dagli affari e comprare un appartamento al mare. La dolce Pauline, con inaspettato intuito, riesce a far breccia nei loro particolarismi e porta una nota di calore nella vita di Paulette. Insieme contempleranno il mare sedute sulla stessa panchina. Superba l’interpretazione delle due attrici. M. Aventi – Film gentile, interessante, ma lentissimo e pieno di problemi dei vecchi. Che tristezza quel lungomare freddo e quella solitudine! Franca Sicuri – Una storia molto vicina alla sensibilità del nostro mondo occidentale “civilizzato”, ma anche frettoloso ed egoista, raccontato con delicatezza, ma anche con fermezza da un regista attento ai problemi dei più deboli. Umberto Poletti - Un premio a Dora van der Groen, come un premio meritano tutti i personaggi di questo ambiente provinciale, dominato da uomini e donne decisamente antieroici; attori men che dilettanti, negozio “all’antica”, meschinità fra sorelle per i soldi, un compagno della sorella più giovane al limite dell’antipatico. Un film dall’umana quotidianità, ben recitato, soprattutto da Pauline. Vincenzo Novi - Una storia all’acquarello, illustrata da una tavolozza generosa, condita in salsa rococò. La scelta dei primi piani dà rilievo ai sentimenti con cui la storia prende quota. sua umanità mi hanno colpita. è un buon lavoro, anche se non il migliore di questo genere, ma la fotografia, l’ambientazione, la recitazione sono piene di serena, dolce, poetica umanità. Lidia Ranzini - Buon lavoro. La portatrice di handicap è vista dal regista come una persona, coi suoi limiti ma anche coi suoi diritti, e non come un peso. Con parole semplici e scene di vita quotidiana ci viene mostrata l’esistenza di Pauline, delle sue sorelle e del suo paese. Tutto è spontaneo, naturale, veritiero e coinvolgente. Finalmente non ci obbligano al buonismo a tutti i costi. DISCRETO Caterina Parmigiani - Pauline, signorina della terza età rimasta bambina, che adora i fiori, i colori, i profumi, la musica del carillon, è un personaggio straordinario di una dolcezza e fragilità gozzaniana. Come Gozzano sente impraticabile il presente e sta bene solo se evade in un “altrove” fuori dalla dura logica della storia, così Pauline è felice solo se vive nel suo mondo fatto di piccole e “buone cose di pessimo gusto”. Bravissime le attrici che sanno far rivivere con intensità i legami affettivi e le difficoltà della convivenza, poco efficace la regia, che spesso risulta piatta e convenzionale. MEDIOCRE Annamaria Beltracchini - Ottima l’interpretazione di Dora van der Groen: una Pauline commovente, bambina dispettosa ma piena di amore e gentilezza. La poesia del film e la Andrea Vanini - È la rivisitazione in chiave più poetica di Rain Man. Maggiore colore, ma un tema più povero. PAULINE & PAULETTE 245 Paul, Mick e gli altri itolo originale: The Navigators CAST&CREDITS regia: Ken Loach (Gran Bretagna/Germania/Spagna, 2001) soggetto e sceneggiatura: Rob Dawber fotografia: Mike Eley, Barry Ackroyd montaggio: Jonathan Morris scenografia: Martin Johnson con: Joe Duttine (Paul), Tom Craig (Mick), Dean Andrews (John), Steve Huison (Jim), Venn Tracey (Jerry), Andy Swallow (Len), Sean Lenn (Harpic), Charlie Brown (Jack), Juliet Bates (Fiona), Angela Saville (Tracy) distribuzione: Bim durata: 1h32’ IL REGISTA Ken (a volte accreditato come Kenneth) Loach è nato a Nuneaton, nel Warwickshire, in Inghilterra, il 17 giugno del 1936. Si laurea in diritto ad Oxford e comincia una lunga e ricca esperienza nel mondo televisivo inglese (per il canale Bbc), soprattutto nel settore della fiction e delle serie, dal 1964 agli anni Ottanta circa. Poi approda, sia come regista che sceneggiatore, e a volte anche come produttore, al cinema: il suo primo lungometraggio è Poor Cow (1967). Il suo nome è ormai sinonimo di realismo sociale, militanza comunista, attenzione alle tematiche politiche e all’uomo. In Riff Raff (1990), interpretato da un allora sconosciuto Robert Carlyle, miscelava storie di disoccupazione a quelle d’amore, così come in Piovono pietre (1993) e Ladybird Ladybird (1994) – rispettivamente premiati dalla giuria di Cannes e dai critici di Berlino – al centro sta la classe proletaria alle prese con duri problemi di sopravvivenza e di contrattazione con uno Stato spesso più miope che democratico. Con Terra e libertà (1995) e La canzone di Carla (1996), Loach sposta il suo set dalla prediletta Gran Bretagna prima alla Spagna rivoluzionaria e poi alle lotte del Nicaragua, in cui la materia politica, carica di didascalismo la struttura del progetto. Ritorna in patria con My Name Is Joe (1998), in cui l’ottima prova di Peter Mullan viene premiata con la Palma d’oro per la miglior interpretazione a Cannes. Con il successivo Bread and Roses (2000) si sposta per la prima volta in America, anzi a Hollywood, dato che il film è stato realizzato a Los Angeles, per denunciare le carenze dello Stato più potente del mondo. Con Paul, Mick e gli altri è di nuovo in Inghilterra per attaccare frontalmente la ferocia delle politiche sul lavoro a metà degli anni Novanta. IL FILM La classe operaia non va più in Paradiso. Non può permettersi nemmeno di andare in treno. È morta. Una morte bianca causata dalla flessibilità, dagli scivoli, dal lavoro interinale, dai subappalti, dalla fine della cultura del posto fisso, PAUL, MICK E GLI ALTRI 247 22 dagli incentivi, dallo sgretolarsi di garanzie e statuti dei lavoratori. Ken Loach, dopo la trasferta tra gli immigrati addetti alla pulizia degli uffici di Los Angeles, torna in Inghilterra con l’aiuto della sceneggiatura scritta da Rob Dawner, un ex ferroviere, morto nel febbraio di quest’anno di un cancro contratto a causa dell’amianto, si sposta in uno scalo ferroviario, in un deposito dello Yorkshire nell’anno in cui le Ferrovie Britanniche sono state privatizzate. Il regista ragiona rispetto ai propri film come si fa con un “genere” che ha superato molti tagliandi per la manutenzione ed è abbastanza rigido. Protagonista collettivo, orizzontalità della trama, sobrietà nel descrivere ali affetti e le emozioni, capacità di fissare una fase di transizione psicologica e sociale dei suoi personaggi, fedeltà agli interni privati e pubblici (pub e friggitorie), a certi scorci di periferia, recitazione intonata con alcune parentesi lievi. I suoi film non stupiscono più, ma non dispiacciono. Con le loro belle facce smarrite o arrabbiate. Un universo di moduli, colloqui, trattative, sussidi, amori precari. Opere non addomesticate. Sit-drammi ex proletari. Il risultato, questa volta, è affievolito dall’assenza di attori più incisivi. (ENRICO MAGRELLI, Film TV 18 settembre 2001) LA STORIA Una squadra di operai addetti alla manutenzione dei binari, quelli che in inglese vengono chiamati “navigatori,” sta sostituendo una traversina. Normale amministrazione per Paul, Mick e gli altri. E il loro lavoro, per alcuni un lavoro recente, per altri un lavoro di lunga data, a servizio delle ferrovie statali. Siamo nello Yorkshire del sud inglese, nel 1995. Le cose, però, stanno per cambiare. Una mattina il responsabile del personale raduna gli operai e li avvisa che deve leggere un comunicato importante. Cambia l’assetto proprietario. Non si è più dipendenti dalle ferrovie inglesi, ma lavoratori esterni: il lavoro va conquistato con un appalto. Ci si deve preparare a nuove responsabilità, occorre garantire una quota di servizio che sia competitiva con le quote di mercato, e svolgere il servizio in assoluta sicurezza. A tutti sarà consegnata una let248 PAUL, MICK E GLI ALTRI tera: ci sono posti in esubero, chi decide di andarsene sarà incoraggiato con un’indennità. A fine giornata, i primi sono già disposti a prendere in considerazione l’offerta. Mollare il lavoro è un salto nel buio, ma l’indennità non è male. I più vecchi se ne vanno e i più giovani rifanno i conti. Per quelli che restano, la nuova filosofia aziendale viene illustrata con un filmato. Si vede l’amministratore delegato che parla della società di fronte al futuro. Riassume: l’epoca del posto fisso è terminata, il cambiamento è miglioramento. Primo segnale di questo cambiamento è l’orologio che timbra non solo l’ingresso, ma anche l’uscita dei lavoratori. Non era mai successo. Jerry, il rappresentante sindacale lo fa presente al capo del personale. Torna a riferire di aver ottenuto una concessione importante: non firmare la domenica. Gli altri rispondono che non è una novità. L’altro ribatte: «è tutto quello che sono riuscito a ottenere». La mattina dopo, l’amministratore delegato chiede al capo settore se sono già stati affrontati i “piantagrane”. Qualunque spiegazione viene però respinta. Tutti gli accordi precedenti devono essere ritenuti carta straccia. Azzerati. Il rifiuto a fare rispettare l’ordine è da considerarsi il passo verso le dimissioni. Per Jerry è difficile comunicare agli operai la revoca di quell’ultima concessione ottenuta. Poco alla volta anche altri decidono di andarsene. Paul, che dopo la separazione vive in casa di Mick, e che ha due bambine a cui è molto legato, si sente chiedere dalla moglie più soldi. Ma la sola cosa che può risponderle è che gli straordinari non glieli fanno più fare. Gli operai rimasti sono sempre meno. Quando arriva un’emergenza, insufficienti. Il giorno in cui corrono sul posto dove sono stati chiamati d’urgenza, si accorgono subito che il problema è stato affrontato in altro modo. A dar loro una mano ci son altri. Si meravigliano però di ritrovare quei colleghi che se ne erano andati. Il più vecchio di loro spiega di essere stato contattato da un’agenzia che cercava specialisti e offriva lavoro flessibile. In cambio, una paga molto più alta di quella di prima. Paul controlla il listino del suo salario e si accorge che ha una nuova trattenuta del Patronato infanzia. Così non se la sente più di andare avanti. Deve anche prendere una casa e dei mobili. Firma la lettera delle dimissioni. Quando si presenta dalla segretaria per chiedere di parlare al capo settore, scatta tra loro una simpatia che li porterà a rivedersi. Il giorno dopo, ai tre rimasti il responsabile del personale comunica che sono ormai considerati un ramo secco, e che il reparto va chiuso. Tre settimane di lavoro e poi basta. Per Mick e per John comincia la ricerca di un posto all’agenzia a nuove condizioni. Salario e tutto il resto a proprio carico. Non resta che accettare. E si ritrovano sui binari insieme ad altri a lavorare in modo più duro e senza quelle norme di sicurezza a cui erano abituati. Mick contesta e non sarà più richiamato. Ma quel lavoro è indispensabile anche per l’operaio ribelle, e Mick è costretto a ripresentarsi e a chiedere una nuova opportunità. Gli viene concessa, ed è per lui la prova più difficile. Durante un lavoro notturno a cui partecipano anche i suoi “vecchi” colleghi, un treno travolge John. La reazione di Paul è quella di chiamare subito l’autoambulanza. Mick si oppone, emergerebbero tutte le irregolarità e perderebbero irrimediabilmente il posto. E propone un compromesso. Il prezzo che pagano è altissimo: John muore. Nessuno vorrà fare chiarezza sulla versione che serve a coprire la tragedia: è stato un pirata della strada. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA “The navigators”. Così nell’Ottocento in Inghilterra erano chiamati gli operai addetti alla manutenzione delle ferrovie. Termine quanto mai appropriato, oggi, dopo che il Governo conservatore di John Major nel 1995 ha privatizzato la rete ferroviaria della British Rail. Mutati assetti societari, clima di acuta concorrenza, tagli della spesa, riduzione del personale, flessibilità, lavoro interinale, subappaltati, rischi e insicurezza hanno reso veramente difficile la “navigazione”. Per il gruppo di amici che fornisce il titolo italiano del film le cose si sono messe male. Paul, Mick e gli altri non sarà uno dei migliori film di Ken Loach ma è senza dubbio uno dei più lineari, sia dal punto di vista etico che da quello stilistico. Coerente con il suo mondo poetico, mai pedante, lontano da enfasi tribunizie, l’autore di Riff Raff, Piovono pietre e My Name Is Joe ha condensato esperienze dello sceneggiatore Rob Dawber, ex dipendente delle ferrovie stroncato dal cancro prodotto dall’amianto. Non un film militante che celebra l’epica della classe operaia, dell’organizzazione sindacale, dello sciopero, ma un’opera che racconta storie comuni di uomini in tuta, con le mani sporche e callose, per i quali all’insicurezza del lavoro si aggiungono le preoccupazioni per affetti lacerati, matrimoni andati a male, separazioni, inutili tentativi di riconciliazione. Storie di uomini che hanno sviluppato un forte senso di responsabilità e un’amicizia che rasenta la complicità e che trova sfogo nello scherzo e in una vitale carica di ironia. L’abilità narrativa di Ken Loach è proprio questa: saper conferire al tutto un tocco di convincente credibilità, scandito e sottolineato dalle facce dei suoi protagonisti, portatori di un anonimo eroismo quotidiano che nell’indifferenza generale combatte la sua battaglia per la vita e la dignità umana. Un tema, e un modo di rappresentarlo, che alla Mostra di Venezia 2001 non poteva sfuggire all’Office Catholique International du Cinéma, che per Paul, Mick e gli altri ha riservato una menzione speciale. (ENZO NATTA, Famiglia Cristiana, 7 ottobre 2001) Dal cinema alla cronaca. Terminata la proiezione di Paul, Mick e gli altri […] l’occhio passa dallo schermo alla pagina di un giornale che annuncia (ai primi di ottobre) il fallimento della Railtrack, società alla quale fu affidata la gestione di binari e stazioni al momento della privatizzazione delle ferrovie voluta da Margaret Thatcher e attuata dal suo successore John Major all’insegna del motto “meno Stato più mercato”. Ciò che il film prevedeva si è avverato. Il governo di Tony Blair è costretto ad intervenire d’urgenza per assumere il controllo della società, messa in ginocchio da una serie di catastrofici deragliamenti e da debiti che ammontano a 3,3 miliardi di sterline, pari a circa 10 miliardi di lire. […] Mentre il Novecento era stato il secolo e del progresso sociale e delle conquiste operaie, il Duemila si apre sotto il segno del capitalismo selvaggio. Prima doveva essere tutto discusso e concordato. Ora si passa all’eccesso opposto. Gli operai ricevono ordini ai quali il senso comuPAUL, MICK E GLI ALTRI 249 ne si ribella, come quando (lo si vede in una scena del film) sono costretti a distruggere apparecchiature nuove per evitare che la concorrenza usufruendone possa trarne vantaggio. Loach illustra, con i mezzi sobri e diretti che sono propri del suo cinema di denuncia sociale, la deregulation di un gruppo precedentemente compatto, accompagnando i suoi componenti lungo la strada, che scende a precipizio, fatta di incertezze, cadute e tradimenti. La solidarietà tra compagni si logora poco a poco e finisce con il piegarsi a compromessi sempre più gravi. Per non perdere il premio del subappalto, nel finale amaro del film, i ferrovieri camuffano un incidente mortale, dovuto alla mancanza di sorveglianza sul lavoro, negando in tal modo al collega defunto l’onore delle armi. La sceneggiatura è stata scritta da Rob Dawber, un laureato che aveva scelto di lavorare nelle ferrovie e in 17 anni di attività ha messo insieme ricordi, aneddoti, personaggi visti dal vivo... Mentre stava lavorando con il regista alla preparazione del film, scoprì di avere un tumore dovuto all’amianto. Fece causa alla compagnia e la vinse. È morto poco prima dell’uscita della pellicola nelle sale. (VIRGILIO FANTUZZI, La Civiltà Cattolica 3685, 1 dicembre 2001, pp. 529-530) Fra le celebrità, pochi conoscono la Squadra Rialzo. In Italia, fra le celebrità, c’è Francesco Guccini, passeggero abituale, in gioventù, della linea Bologna-Porretta. Ora è il regista Ken Loach a fare della Squadra Rialzo inglese la protagonista di un film collettivo, The Navigators, cioè “Gli sterratori”. Questo è infatti il loro lavoro: tenere in ordine binari, traversine e massicciata. Trarre da un’attività così poco spettacolare un film amaro, ma relativamente divertente, è merito notevole. Eppure a Venezia The Navigators non è stato premiato. In effetti è solo un film corretto, come negli anni Cinquanta se ne facevano a decine nel Regno Unito. Ma se non è un capolavoro, non lo era nemmeno Monsoon Wedding... The Navigators è un’opera che dice senza livore quello che gli altri film tacciono senza vergogna. Non è poco. Siamo nel 1995, anno della privatizzazione delle ferrovie britanniche. Frammentate fra aziende private in concor250 PAUL, MICK E GLI ALTRI renza fra loro, subiscono una catena di sinistri ai convogli, ai passeggeri, al personale, obbligato a sacrificare la sicurezza a vantaggio dell’efficienza e soprattutto del risparmio. The Navigators racconta appunto di un gruppo di manovali, falcidiato prima dai prepensionamenti, dai licenziamenti, infine da un incidente ferroviario, che i superstiti dovranno camuffare da incidente stradale, per non essere licenziati. Nella disgrazia, l’imbroglio sarà un supplemento di umiliazione, che la fine del film – puntuale dopo un’ora e mezzo – sancisce come senza riscatto. Non è questo il primo film di Loach sul mondo del lavoro, ma è il primo sulla – smarrita – gioia del lavoro, che non è connessa col guadagno. In mano di amministratori che gestiscono le società secondo regole note solo a loro – si veda l’episodio della distruzione coatta di materiale nuovo –, gli sterratori di Loach constatano di essere passati dall’eccesso di sindacalismo all’assenza di sindacalismo. Se prima, tutto andava concordato, messo per iscritto, cronometrato, ora tutto va obbedito, eseguito, rischiato. Il pendolo è passato dall’altra parte. Non è solo una legge della politica e dei rapporti sociali, ma della vita, e quando il collettivo, il sociale, si frantuma, resta l’individuo a condurre quello che il poeta americano Ezra Pound canta in latino e inglese come il “bellum perenne between usura and the man who wants to do a good job”. (MAURIZIO CABONA, Il Giornale, 14 settembre 2001) Non si tratta solo di fiction, ma soprattutto di realtà. Loach, nel presentare il suo film, ha raccontato la storia recente di un operaio che, in una delle tante aziende nate dalla privatizzazione delle ferrovie, è rimasto ucciso mentre lavorava alle traversine senza adeguate misure di sicurezza: una tragedia realmente accaduta, assai simile a quella descritta nel film. […] Le tematiche scottanti che Loach affronta, anche in Paul, Mick e gli altri prevalgono di gran lunga sulle scelte registiche e sul conseguente giudizio critico. Più che fare cinema, Loach vuole mostrare le ingiustizie sociali. Più che regista attento alle potenzialità del linguaggio cinematografico, è un “giovane arrabbiato” che vuole parlare in difesa dei diritti delle minoranze con chiarezza e semplicità. Loach continua pertanto a prediligere un approccio semi-documentaristico e ad accettare le convenzioni del naturalismo di stampo televisivo che poco spazio lasciano alla creatività stilistica. Non si può però non prendere atto della pervicacia di un regista che, sempre fedele ai suoi temi e contro ogni legge di mercato, si rivolge agli spettatori per nutrirne le coscienze e sollevarle dall’inerzia. (ELIANA ELIA, Segnocinema 112, novembre/dicembre 2001, p. 43) In Paul, Mick e gli altri il tema dominante è la cosiddetta flessibilità portata dalla privatizzazione e dalla scomparsa del posto fisso e dell’assunzione a tempo indeterminato. Ma a questo è legato il tema della sicurezza sul lavoro, e, come avveniva anche nel precedente Riff Raff, ci scappa il morto (e l’incidente viene “annunciato” e non fatto accadere dalla regia almeno tre volte). L’episodio, tragico in sé ma ormai perfettamente normalizzato dalle statistiche e dalla consuetudine, che solitamente ricorda le morti sul lavoro con delle brevi di cronaca, funziona per Loach, regista che ama il melodrammatico e il tragico, come climax di una situazione già di per sé drammatica e assolutamente senza via d’uscita. Non c’è situazione del film che non lo ricordi allo spettatore. Spetta proprio ad un’altra figura tipica dei suoi film, cioé a Jerry, il sindacalista del gruppo, l’unico che ricorda che “bisogna restare uniti”, pronunciare una delle battute chiave del film, seduto al tavolo a giocare a scacchi contro se stesso, quando deve spiegare alla collega in cosa consiste lo scacco matto: «Qualunque mossa fai, hai perso». Il regista di Bread and Roses è sempre uno dei pochi (insieme al Guédiguian di La ville est tranquille) a ricordare che la classe operaia è cambiata, si è omologata alla piccola borghesia, ha perso l’umanità e la condivisione degli ideali sociali che hanno animato i grandi movimenti socialcomunisti del diciannovesimo e ventesimo secolo. Il rispetto. Ossia: vogliamo il pane ma anche le rose, come urlava il sindacalista dei pulitori nell’atrio di un palazzone di Los Angeles nel film precedente, Bread and Roses. Qui la situazione è peggiorata: non solo non ci sono più le rose (situazione di lavoro che manca, ambienti inadatti e scomodi per i lavoratori, frutto di lunghe trattative sindacali, diritti cancellati in nome della modernizzazione e della competitività, assenza di garanzie e tutele), ma neanche il pane: manca il lavoro. Tutti sono pregati di andarsene con una buonuscita allettante, chi resta deve inventarsi di fare qualcosa e ch non può restare (perché ha una famiglia, più o meno unita, da mantenere) si ingegna per arrivare prima dove il lavoro c’è. A giornata, come i braccianti agricoli del secolo scorso. O di notte, a costo di rimetterci la pelle. Nel “vecchio”, ora obsoleto sistema di lavoro valevano gli accordi, risultato di una dura battaglia sindacale. Oggi quelle parole, anche se sottoscritte dai capi, non valgono più, e i navigators si devono adattare. Le nuove parole sono pubblicità, protocollo di missione, vendita del pacchetto servizi. […] Come recita la voce narrante del beffardo video didattico propinato ai lavoratori, dal titolo Le fondamenta del futuro, “l’epoca del posto fisso è tramontata, ma c’è posto per ognuno di noi”. Ma a quali condizioni? […] E le rose? Con uno schematismo quasi matematico, l’amore in questo film strappa a forza quei pochissimi spazi che la lotta per la vita gli lascia. L’amore e il senso dello stare insieme è nelle schermaglie tra colleghi, nella derisione collettiva e senza freno del capocantiere (“Candeggina”). Sta nel tentativo goffo di Paul di recuperare il rapporto con la moglie, e se il mazzo di rose che le porge viene fatto passare attraverso la buca delle lettere, forse non c’è molto da sperare. Sta nel desiderio di Mick, frenato dalla moglie che teme che Paul li possa sentire. Sta nel chiamare una figlia Dalia, anche se il rischio della retorica è forte e la vita non ti aiuta. Comunque sia, a questi sprazzi di amore lascia il posto solo uan cocente amarezza quando Paul, Mick e John inscenano una finta morte per Jim e allo stesso tempo si ripetono che cose come queste non si dovrebbero fare. Quando vigliaccamente lasciano a Jerry il compito di riportare le cose di Jim alla madre e lasciano il cantiere con la coda tra le gambe. È il crollo di qualsiasi valore umano, è la consapevolezza che niente sarà più come prima. È un peccato originale che la classe operaia è costretta a commettere, ma di cui nessuno mai rivendica la responsabilità. E su cui PAUL, MICK E GLI ALTRI 251 pochi registi invitano a riflettere. (RAFFAELLA GIANCRISTOFARO, Itinerari mediali 1/2002, gennaio/febbraio 2002, pp. 36-39) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Mario Piatti - Come sempre Ken Loach ci dà un film che può piacere o no, ma che comunque fa riflettere lo spettatore e lo coinvolge. Siamo abituati a un Loach duro, a volte sgradevole, è proprio il tono sommesso a rendere, in questo caso, la denuncia più coinvolgente e a mostrare una partecipazione sentita del regista alla vicenda che ci presenta. Al di là del fatto in sé, quello che sta evidentemente a cuore a Loach è di evidenziare i guasti di una gestione delle risorse umane che, avendo come unici obiettivi utile e redditività a ogni costo, perde totalmente di vista la centralità dell’uomo. Chiunque abbia esperienze lavorative in aziende di grandi dimensioni, private o statali, sa quanto valore aggiunto produca, a livello di singola unità operativa, lo spirito di corpo, il supporto reciproco delle singole esperienze, l’orgoglio di conoscere il proprio compito e di svolgerlo in modo adeguato. Tutto questo compensa largamente le sacche improduttive certamente possibili. L’annullamento di queste qualità, la spersonalizzazione dei rapporti, la riduzione dell’uomo a unità eliminabile o sostituibile nell’ottica distorta di un falso efficientismo, porta all’annullamento di tutti i valori, sino alla perdita della dignità dell’individuo come uomo ancor prima che come lavoratore. Loach sintetizza il suo pensiero nella partita a scacchi che il vecchio capo squadra gioca da solo e nella sua sconsolata affermazione: «Qualunque mossa si faccia la partita è persa» ed è persa per tutti, lavoratori o datori di lavoro che siano. Ancora una volta il regista dimostra di saper usare il mezzo espressivo con grande maestria, il montaggio serrato e preciso tiene sempre desta l’attenzione, l’inserimento di brevi inserti di vita, colta nella sua quotidianità, alleggerisce sapientemente la tensione. Ottimi gli interpreti. 252 PAUL, MICK E GLI ALTRI OTTIMO Ilario Boscolo - Il film è riconoscibile essere di Ken Loach. Però è diverso dai precedenti, mostra una classe operaia che si disfa come soggetto e i singoli operai che diventano soggetti negativi. Il film mostra con la solita efficacia il cameratismo, lo spirito di corpo e i momenti di quotidiana semplice serenità mescolati con i problemi e i drammi quotidiani della parte di società umana che definiamo operaia. Pochi quadri sono sufficienti per definire bene un tema e/o un sentimento. Con rara efficacia evidenzia la trasformazione tutta negativa della psicologia e della sociologia dell’operaio nel passaggio dall’organizzazione del lavoro “socialdemocratica” alla nuova organizzazione del “liberismo selvaggio”. Il gruppo operaio si disintegra e con la disintegrazione spariscono l’umanità e la generosità del singolo,la gioia della quotidianità e l’equilibrio affettivo familiare. La forza distruttiva del turbocapitalismo sulle esigenze umane dell’operaio è tale da non lasciare nessuna linea di difesa: sempre scacco matto per l’operaio. Questa nuova organizzazione del lavoro basata sulla competitività esasperata porta all’arretramento dell’organizzazione tecnica e quindi al ritorno della fatica, delle morti bianche e dell’inefficienza produttiva: il costo dei macchinari fa perdere le gare di appalto. Il regista pone la domanda: era meglio l’imboscamento e l’inefficienza della vecchia organizzazione del lavoro o la tristezza, la fatica e la disumanità (fino all’omicidio) di quella attuale? Tematiche tremende sono sviluppate con mano abbastanza leggera. Marcello Napolitano - Con il tempo e con il Blair, anche i Loach si maturano! È infatti il primo film, credo, in cui il regista sente le ragioni degli “altri”, dei datori di lavoro, dei padroni: lo capiamo dalle lunghe discussioni tra i ferrovieri sugli imboscati e sullo scarso rendimento della loro unità; i ferrovieri che sono passati al lavoro temporaneo sembrano in media soddisfatti, anche se molto meno garantiti. Mi pare proprio che questa volta Loach non divida il bene dal male con un taglio netto; ci mostra invece una situazione estremamente verosimile e ci dice: volete risparmiare sul biglietto del treno? Volete una società più concorrenziale dove i beni costino meno? Ebbene, il costo sociale deve essere pagato dai lavoratori: per qualcuno può arrivare fino alla morte, per molti significa rinunciare alla propria dignità, per altri ancora invece è un’occasione per un lavoro più professionale, meglio pagato ma da conquistarsi con maggiore tensione interna. I personaggi sono molto credibili, non c’è nessuna macchietta, neanche l’addetto alla pulizia del deposito scade nella caratterizzazione standardizzata, ma se anche provoca qualche risata, è pur sempre una figura triste, di un perdente, che non è riuscito a costruirsi nemmeno quel minimo di solidarietà o di amicizia sul lavoro. I ferrovieri sono rappresentati come persone vere con i loro problemi, i loro limiti: sono personaggi presi in un ingranaggio più grosso di loro; l’illustrazione dell’ambito familiare serve solo a meglio mostrare la qualità della loro vita. Qualche felice notazione di costume (il marito disoccupato che vorrebbe aiutare la moglie, ma parte per la tangente e pulisce inutilmente i fornelli, la bambina che deve fare la cacca nel momento in cui suo padre sta parlando di lavoro al telefono, l’altra bambina che si sveglia e interrompe le effusioni dei due sul divano) rendono meglio l’atmosfera di un’umanità in cui possiamo facilmente riconoscerci. Anche Candeggina viene presentato senza antipatia, una persona che è la riluttante cinghia di trasmissione di un potere lontano e indecifrabile: non è particolarmente intelligente, è un po’ orgoglioso del suo grado di “impiegato”, ha un pizzico di humour nero (il numero dei decessi) ma non è certo un malvagio; i cattivi sono invece quelli che viaggiano in Mercedes, usano computer portatili e parlano per diagrammi e proiezioni. Loach come al solito descrive l’ambiente con grandissima accuratezza e plausibilità: il povero ambiente di lavoro, la pressione psicologica sui dipendenti e il controcanto delle belle parole e immagini dei documentari aziendali. Il film è particolarmente interessante in un paese come il nostro con un altissimo numero di incidenti mortali sul lavoro, nonostante la legislazione relativa sia fra le più avanzate d’Europa. Elsa Arié - In questo film che sottolinea il dramma di una dolente attualità si fa sentire la zampata da maestro di Ken Loach, che riesce a focalizzare l’attenzione su un argomento così strisciante e poco cinematografico, puntando l’obiettivo sull’essenzialità delle cose della vita di ogni giorno. BUONO Bruno Bruni - I protagonisti del film rappresentano le vittime di una privatizzazione che Loach definisce selvaggia e cinica che, in nome della competitività e del profitto, sacrifica ogni rispetto per la dignità dell’uomo. Un altro film denuncia del regista britannico che ama i temi forti e le provocazioni e che spesso tende a generalizzare, fuori da ogni equilibrio narrativo, privilegiando l’esasperazione piuttosto che il ragionamento. La delicatezza dell’intera problematica, che ha comportato notevoli trasformazioni nell’ambito sociale britannico, non può essere semplificata solo tramite situazioni di barbarie e di sfruttamento che non rendono giustizia alle tante cose buone che sono state realizzate. Il film, pur impostato e recitato con notevole professionalità, non convince per un’impostazione volutamente e marcatamente schierata. Pierfranco Steffenini - Film corale, si muove nell’ambito delle tematiche abituali a Ken Loach, regista ideologicamente schierato, ma coerente e combattivo. La tesi dominante è che l’eliminazione di determinate regole sociali – nel campo dell’economia, la liberalizzazione totale – scatena una competizione che trasforma l’uomo in una belva nei confronti dei propri simili. Il recupero collettivo di efficienza non basta a giustificare il sacrificio dell’individuo più debole. Tesi condivisibile, ma che non assurge a verità assoluta, come spesso avviene nel campo delle dottrine sociali. Quel che si rileva qui è che l’autore esprime con chiarezza e sincerità il suo messaggio, che arricchisce con una considerazione nuova e amara, e cioè che anche gli oppressi, sospinti dalla disperazione, possono facilmente perdere dignità e onestà. Tanto maggiore la colpa, direbbe Loach, di chi è la causa prima della catena perversa. PAUL, MICK E GLI ALTRI 253 Carla Testorelli - Loach si dimostra anche in questo film maestro nel rappresentare la “sua” classe operaia. L’operazione riesce bene anche perché l’ambiente è quello inglese: non un errore nella scelta di facce e paesaggi. La classe operaia qui rappresentata è un po’ più triste delle altre, forse più “povere”, ma più ricche di spirito di corpo. Questa classe operaia è costretta a scegliere fra il posto sicuro e la concorrenza dei privati. In questa scelta obbligatoria della flessibilità e della produttività a discredito della sicurezza, la classe operaia perde anche il suo spirito di corpo, tanto da essere costretta a mascherare le vere cause della morte di un compagno, per poter continuare a lavorare. Il film, amaro e non retorico, ha però il difetto di mancare, almeno fino al dramma finale, di tensione emotiva. I personaggi non sono sufficientemente caratterizzati come individui, mancano spunti lirici di vita familiare, tanto che il regista sente la necessità di inserire una scena veramente evocativa, la descrizione perfetta del pattinaggio, in cui, ai volti teneri e talvolta buffi dei bambini, si contrappone la coppia di ballerini professionisti, come uscita da un altro tempo. Caterina Parmigiani - Per Loach, come per Verga, la fiumana del progresso con la sua mentalità economica travolge tutto, cancella valori e ideali, e alla fine fa di tutti gli uomini dei vinti. Mick ha vivo il senso dell’amicizia tanto da ospitare un collega a casa sua, ha una profonda sensibilità sociale e una chiara consapevolezza dei diritti dei lavoratori tanto da scontrarsi più volte con i superiori, ma quando, licenziato, vede le difficoltà economiche createsi nella sua famiglia, dimentica generosità, altruismo e pietà per conseguire il suo utile, mantenere cioè quel lavoro precario che si è appena trovato. La lotta per l'esistenza – per Verga e per Loach – cambia gli uomini, li abbruttisce perché li rende egoisti, prepotenti, capaci di sopraffare gli altri, anche se quasi inconsapevoli del male di cui si rendono responsabili. Gli attori, pur non incisivi, hanno la faccia giusta. Giovanni Bodio - Il film racconta vicende di lavoro che tutti noi abbiamo vissuto in questi anni. Siamo tentati di impietosirci per la situazione cui sono arrivati i soggetti del film. 254 PAUL, MICK E GLI ALTRI Un aspetto non trova evidenza. i benefici ottenuti dai lavoratori per il tramite del mondo sindacale hanno alla fine posto a carico del sistema economico oneri oltre ogni limite. Non solo, ma la normativa via via stabilita ha finito per favorire i “fannulloni” piuttosto che i lavoratori seri. Tutto in conicidenza (!) con la necessità di confrontarsi col resto del mondo per sopravvivere. Il film espone con efficacia questa realtà. Allo spettatore resta l’onere di tirare le conclusioni. Margherita Tagliabue - Ben vengano questi film, perché tutti (anche chi vuole tenere gli occhi chiusi) possano constatare quello che ancora succede sui posti di lavoro. Maria Dilda - Il pessimismo grace lascia un messaggio disperante: qualcuno perde la vita, ma gli altri personaggi perdono la dignità. DISCRETO Carla Casalini - È lo scorcio di una realtà sociale drammatica in cui le individualità si confondono, con personaggi sin troppo simili persino nei tratti somatici e nelle situazioni affettive. Il che crea una certa ripetitività. MEDIOCRE Cristina Bruni - Un film scontato, a differenza del precedente del medesimo regista. Mi è rimasto impresso solo un fortissimo e indelebile senso di oppressione. Forse gli appartenenti alla classe operaia dovrebbero smetterla, nel film, di continuare a lamentarsi e a dare ascolto agli eccessi del sindacato, ed armarsi di un po’ di spirito di sacrificio perché, ahimè, la provvisorietà e insicurezza del lavoro cosiddetto “interinale”, tanto di moda, è forse peggio del ripetitivo e scontato, ma più sicuro, “posto fisso”. Voleva essere questo il messaggio del film, oltre che, immagino, conoscendo il regista, l’ennesima critica al capitalismo cinico e trasformista? Ritorno a casa itolo originale: Je rentre à la maison CAST&CREDITS regia: Manoel de Oliveira (Francia, 2000) sceneggiatura: Manoel de Oliveira fotografia: Sabine Lancelin montaggio: Valérie Loiseleux musica: Frédéric Chopin, Léo Ferré, Richard Wagner interpreti: Michel Piccoli (Gilbert Valence), Catherine Deneuve (Marguerite), John Malkovich (il regista John Crawford), Antoine Chappey (George), Leonor Baldaque (Sylvia), Leonor Silveira (Marie) distribuzione: Mikado durata: 1h30’ IL REGISTA cfr. Parole e utopia. IL FILM Malgrado i suoi novantadue anni, Manoel de Oliveira non è ancora tornato a casa, a vivere dei ricordi della sua straordinaria carriera. E ci ha fatto un regalo, perché Ritorno a casa, appena presentato a Cannes, è un film ammirevole, bello e triste, leggero e grave: il tutto in perfetta coerenza. Ne è protagonista Michel Piccoli, grande attore nel ruolo di un grande attore di nome Gilbert. Durante una rappresentazione del Re muore, arriva la notizia che sua moglie, la figlia e il genero sono morti in un incidente d’auto. Lo ritroviamo qualche mese dopo. Gilbert ha elaborato il lutto, continua a recitare (e a rifiutare di partecipare a serie televisive di successo), ma ha scelto di restare solo, occupandosi del nipotino orfano e passando le giornate tra il caffè e il teatro. Si è comprato anche un paio di scarpe nuove, che un balordo gli rapina per le vie di Parigi. Senza le scarpe nuove, mentre le forze e la memoria lo abbandonano, oppresso da una crescente fatica di vivere, l’attore accetta una parte in un film americano tratto dall’Ulisse di Joyce. Durante le riprese si scopre stremato, indifferente e pianta tutto in asso, riprendendo la strada di casa. Forse ha capito come recita nella scena in cui veste i panni del Prospero della Tempesta che siamo davvero fatti della sostanza di cui son fatti i sogni. Eppure. Eppure il film del venerando maestro portoghese non è soltanto un’amara riflessione sulla vecchiaia, ma anche (soprattutto) una lezione impagabile di vita e di vitalità. Malgrado dolori e decadimento, esistono mille ragioni per aggrapparsi alla vita: siano esse un nipotino con cui giocare al videogame o un caffè che si frequenta abitualmente (dove Oliveira ci regala una gag che sembra uscita dalla cinepresa di Jacques Tati). Ritorno a casa è anche una grande lezione di stile, in cui più di una scena rappresenta un’autentica invenzione. Come le riprese dell’Ulisse, mostrate attraverso le espressioni del viso del regista interpretato da John Malkovich; o, ancor più, come le RITORNO A CASA 255 23 scene teatrali in cui Gilbert recita Ionesco e Shakespeare: caso unico a nostra memoria di un film in cui teatro e cinema, anziché entrare in contrapposizione o in metafora, risultino perfettamente complementari. Imperiale, Piccoli (il premio come migliore attore a Cannes, che era un atto dovuto, è stato assegnato ad altri) trasfonde la propria aura in Gilbert al punto di annullare i confini tra il personaggio e l’interprete. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 9 giugno 2001) LA STORIA Sono gli ultimi minuti del dramma di Eugène Jonesco Il re muore sulla scena di un teatro a Parigi. La platea è colma di gente, l’attenzione è massima, il silenzio assoluto. Tre uomini si affacciano in sala e poi si dirigono verso le quinte, impazienti. Sono in attesa del chiudersi del sipario. Hanno un compito difficile: portare a Gilbert Valence, il vecchio re, la terribile notizia della morte della moglie, della figlia e del genero in un incidente d’auto. Unico sopravvissuto, il nipotino. Valence lascia il teatro con passo veloce. Qualche tempo dopo, tutto continua apparentemente come prima per quell’uomo che sembra aver fatto del teatro la sua principale ragione di vita. Uno sguardo dalla finestra della sua camera al nipote prima di uscire di casa, un caffè alla solita ora, al solito bar, un’occhiata alle vetrine, un autografo a chi lo riconosce e lo ferma. In più, l’acquisto di un paio di scarpe in un negozio che promette calzature di lusso. Dopo una nuova rappresentazione a teatro, il suo agente gli chiede: «come stai adesso?». La sua risposta è «benissimo. Vivo con la mia solitudine». Per l’altro è lo spunto per saperne di più: «Non hai pensato di alleviarla?». «Come?». «Con una compagnia piacevole: una di quelle giovani attrici che lavorano con te ...». Valence allora chiarisce: «è un suggerimento malandrino. Mio nipote ed io siamo contenti così. Mi proteggo dalle illusioni tipiche della mia età». L’altro insiste: «Sei ancora nel vigore degli anni». «Sì, è vero, ma ho un passato che mi consente di riempire il vuoto del presente. E poi ho il teatro. Sono sempre nella pelle di qualcun altro. Vivo le le loro 256 RITORNO A CASA tragedie, i loro drammi». Valence si inoltra nel racconto della vecchia governante che provvede a tutto e del nipotino Serge, che prima di andare a scuola passa a salutarlo. In fondo non ha bisogno di altro. Allora l’agente gli fa presente che una giovane attrice della sua compagnia dimostra di avere per lui una particolare simpatia, e poi gli annuncia che deve parlargli di lavoro. Lo saluta che è ormai notte avanzata, offrendogli di accompagnarlo a casa. Ne riceve un rifiuto. Gilbert se ne va a piedi, ed è aggredito da un giovane con una siringa in mano che gli toglierà giacca, portafoglio e scarpe appena comprate. La mattina dopo, in ufficio dal suo agente, dove trova anche la giovane attrice, Gilbert approfondisce la proposta di lavoro che gli era stata accennata. Si tratta di una serie di telefilm il cui protagonista è un vecchio che si lascia circuire da ragazzotti. Capisce subito di quello che si tratta di “un vecchio rimbambito e una storia a base di sesso e violenza”. Risponde di no, e s’indigna. L’agente insiste: «Ma pagano bene». Lui: «Non ho mai accettato parti del genere e non incomincerò certo adesso», e se ne va. I giorni passano come sempre. Una tazzina di caffè all’ora di sempre sul boulevard, un regalo per Serge e poi a casa a giocare con lui. Fino a che una telefonata, prima del solito, lo costringe ad alzarsi. E il suo agente, che gli vuole parlare con urgenza. Trova da lui un regista americano che ha necessità di sostituire un attore rimasto infortunato, per non interrompere la costosa lavorazione del film che sta girando: l’Ulisse di Joyce. Gli offre la parte del vecchio Mulligan. Gilbert esita, ma poi accetta. Il tempo che ha a disposizione per mandare a memoria il copione è poco, e questo lo preoccupa. Si tratta anche di recitare in inglese. Va a casa e incamicia a studiare. Al primo ciak, tutto sembra procedere bene, ma il regista chiede una sospensione per dargli più tempo per imparare meglio la parte. Al nuovo ciak, dopo una notte passata su quelle poche battute, e l’ennesima richiesta del regista di ripetere la scena, Gilbert a dice «io ritorno a casa. Vado a riposarmi». E, ancora con i baffi e la parrucca di Mulligan, raggiunge casa sua. Serge, il bambino, sorpreso di vederlo tornare, lo osserva di lontano senza dire una parola. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Il tempo sembra essersi fermato per Manoel de Oliveira. Anni fa lo avevamo visto danzare con la moglie in un film per celebrare, in questo modo bizzarro e poetico a un tempo, il suo novantesimo compleanno. Oggi, con la complicità del non più giovane, ma sempre bravissimo, Michel Piccoli, nella doppia veste di attore di cinema e di teatro, mette in scena il proprio incontro con la morte, in un film raffinato, basato su un reciproco scambio di maschere, dove la vita di un attore diventa metafora della vita di ogni uomo. Il mondo è un palcoscenico. La vita è una recita. al termine dello spettacolo, dopo essersi spogliato dell’involucro corporeo, l’attore (l’uomo) sa di dover fare i conti, fuori da ogni finzione, con la verità nuda e cruda. Siamo a Parigi. Sul palcoscenico di un teatro di boulevard, l’attore Gilbert Valence (Piccoli) recita il ruolo di protagonista in una pièce di Ionesco che ha per titolo Le roi se meurt. Lo spettatore del film non tarda a rendersi conto che il dramma vero si sta svolgendo non sulla scena, ma dietro le quinte. In un incidente stradale sono morti la moglie, la figlia e il genero dell’attore. Il suo agente e alcuni poliziotti aspettano che la rappresentazione abbia termine per dargli la brutta notizia. Il prolungarsi dell’attesa accentua il carattere grottesco dello spettacolo (la lenta agonia di un re che non vuole decidersi a morire). La vita incalza. Ma dell’incidente mortale e delle sue conseguenze lo spettatore non vedrà sullo schermo una sola immagine. Quartiere latino, qualche tempo dopo. L’attore, che gode di una certa notorietà, viene fermato sul marciapiede da un gruppo di studentesse che gli chiedono l’autografo. La scena è osservata, attraverso la vetrina, dall’interno di un negozio. Risulta pertanto muta, come lo erano i primi spezzoni del cinematografo Lumière. L’attore nella vita di ogni giorno, si potrebbe dire, contrapposto all’attore che recita dal palcoscenico, come lo avevamo visto fare nella scena precedente. Ma non è esattamente così. Siamo al cinema: finzione più sottile rispetto a quella del teatro, ma pur sempre finzione. Piccoli non è Valence, anche se i due si assomigliano fino al punto di rispecchiarsi l’uno nell’altro. La realtà, quella vera, non si lascia afferrare dalla rappresentazione. Si nasconde tra le pieghe del racconto, là dove il susseguirsi delle immagini compie repentini salti di tempo lasciando che la mente dello spettatore intuisca ciò che il suo occhio non vede. L’agente al quale l’attore ha affidato la cura dei suoi rapporti professionali, oltre a proporgli di partecipare a produzioni lucrose, ma di scarso valore artistico, gli suggerisce di rifarsi una vita stringendo rapporti affettivi con un’attrice, giovane e piacente, che aspetta soltanto un cenno per gettarsi tra le sue braccia. Valence non accetta né l’una né l’altra cosa. Non intende prestarsi alla commedia della vita, intesa nel senso più banale del termine. Ha una dignità da difendere. Vive con il nipotino, rimasto orfano dopo la morte improvvisa di entrambi i genitori, e un’anziana governante, due figure che, affiancandosi con discrezione alla sua vecchiaia, rappresentano per lui un modello di ammirevole semplicità, che ha sempre davanti agli occhi. Deus ex machina della vicenda è un regista americano, impersonato da John Malkovich, che offre a Valence di partecipare a una trasposizione cinematografica dell’Ulisse di Joyce. Dovendo recitare in inglese, l’anziano attore dimentica le battute, ma ciò che gli pesa maggiormente sono le lunghe sedute al trucco, necessarie per recuperare le apparenze di una gioventù che sul suo volto è ormai irreparabilmente sfiorita. D’un tratto Valence ha la sensazione che su di lui stia per calare il sipario finale. Dice di essere stanco. Senza togliersi il trucco dal volto, torna a casa per riposare. Il nipotino lo guarda stupito mentre trascina i piedi, improvvisamente appesantiti, cercando di salire in camera da letto. In questo momento si affacciano forse alla sua mente le parole di una celebre battuta di Shakespeare, che gli abbiamo sentito pronunciare durante una recita de La tempesta, inserita nel film: «Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno». (VIRGILIO FANTUZZI, La Civiltà Cattolica 3627-3628, 4 agosto 2001, pp. 349-350) «Io me ne torno a casa. Vado a riposarmi». E il vecchio attore francese, che sta recitando in inglese le battute talvolta RITORNO A CASA 257 impronunziabili di un film tratto da Ulisse di Joyce, si allontana di spalle dal set, lasciandoci con il primo piano attonito del regista. È Michel Piccoli in Ritorno a casa, grandissimo film di Manoel de Oliveira (uno dei più belli del concorso di Cannes), che racconta (anche lui) l’elaborazione di un lutto, quietamente, ironicamente, con i tempi morti e all’apparenza irrilevanti che un grande dolore trascina con sé, probabilmente con la spassionata distanza che una lunga vita (de Oliveira ha 93 anni) e un talento da cesellatore inducono. All’attore, che nella prima sequenza recita Ionesco in teatro, comunicano, tra le quinte, che sua moglie, la figlia e il genero sono appena morti in un incidente d’auto. Gli rimane solo il nipotino. “Qualche tempo dopo”. Ognuno si attacca a quel che può: Piccoli ha il bambino, il teatro e, come dice a un amico preoccupato, la sua solitudine. E ha anche un bel paio di scarpe nuove, che rimira compiaciuto durante il dialogo con l’amico, mentre la macchina da presa resta ostinatamente fissa proprio su quelle scarpe. Ha il rito del bar, dove va tutte le mattine a prendere il caffè e leggere Libération (in una scena che ritorna tre volte, con i tempi e i mutamenti perfetti di un vero gag), ha la parte di Prospero in un allestimento della Tempesta. E vecchio, pare anestetizzato. Ma il dolore scava, le scarpe gliele rubano, il trucco per il film è ridicolo. E la botta arriva, e se ne torna a casa straordinariamente lieve, sottoposto a un controllo ferreo, senza una sbavatura: con i suoi piani fissi e il suo gusto per i particolari, con un dialogo svagato e ridotto all'essenziale, con un’ironia diffusa, de Oliveira ha fatto un film sul lutto senza età e senza ricatti, dove pare proprio di condividere il tempo di maturazione, la resistenza apatica, la vulnerabilità disarmante del protagonista. Con lui, due attori che non esitano davanti a lunghissimi primi piani: Michel Piccoli e John Malkovich, nella piccola, sgradevole, perplessa parte del regista. Pare fuori luogo, ma Ritorno a casa è divertente. (EMANUELA MARTINI, Film TV, 13 giugno 2001) A causa di un incidente stradale un celebre e celebrato attore di teatro perde improvvisamente la moglie, la figlia e il 258 RITORNO A CASA genero. Restano un nipote da seguire, un vuoto incolmabile, la routine della scena, l’impasse del senso. Un’inaccettabile proposta televisiva e la sostituzione di una star in colossal americano provocano un’impennata. A 94 anni Manoel de Olivera è l’autore di un poema audiovisivo sulla soglia della vita. Michel Piccoli parola in carne e ossa di questo poema. Je rentre à la maison, torno a casa, non ci sto, né per opposizione, né per rifiuto, ma perchè l’età è suprema nella scelta. L’età decide l’intervento dell’etica. Dire che è un film sulla vecchiaia è poco. È un film sulla vecchiaia che illumina la giovinezza. La regia allinea e distoglie alternatamente personaggi e pubblico, palcoscenico e cinepresa. Non è un caso che la svolta succeda sul set di un film dall’Ulisse di Joyce, mito del ritorno in un romanzo moderno che racconta l’avventura della vita dal pubblico al privato, dall’esteriore all’interiore, dall’individuale all’intimo, dalla coscienza al subconscio. Piccoli è inarrivabile. Cinema resistente del secolo. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 8 giugno 2001) Sarà la fine del vecchio millennio (e l’inizio del nuovo), sarà che il cinema è morto e quindi deve solo rinascere, sarà la beata spensieratezza che viene con l’età: sta di fatto che una tendenza degli ultimi 5-6 anni è la disincantata libertà dei registi ottuagenari. Vecchi maestri che firmano film stravaganti, personali, slegati da ogni logica “di mercato”. Eric Rohmer si toglie lo sfizio di un film – L’anglaise et le duc – ferocemente anti-rivoluzionario, Youssef Chahine confeziona musical egiziani di un kitsch che farebbe arrossire un trentenne, Kon Ichikawa (ricordate L’arpa birmana, classico dei cineclub di quando eravamo bambini?) riscrive a suo modo il film di samurai, Manoel de Oliveira gira a ritmi degni di Roger Corman. A questo arzillo club si è forse iscritto d’ufficio Ermanno Olmi, capace a 70 anni di inventarsi un’opera aliena e perfetta come Il mestiere delle armi (ma sia chiaro che l’italiano, rispetto agli autori citati, è un ragazzino). I film di de Oliveira sono ormai una costante dei concorsi di Cannes o di Venezia. A volte sono una tassa (il 93enne portoghese non fa solo capolavori, checché ne dicano i suoi adoratori), a volte deliziose scoperte. Sempre sono liberi, beffardi, ironici: tanto che è legittimo il sospetto che de Oliveira, dopo decenni di “pigrizia”, abbia deciso in vecchiaia (forte dell’appoggio produttivo della Francia, dove lavora il suo produttore Paulo Branco) di svuotare i cassetti e di non buttar via nemmeno mezza idea. In questo cinema discontinuo, lunatico, folgorante, quest’ultimo Ritorno a casa occupa un posta centrale, perché concentra difetti e pregi del regista. Avrete netta l'impressione, qua e là, che vi stia prendendo in giro. Ma poi, ripensandoci, scoprirete di essere di fronte – come nel caso di Olmi – a un’altissima riflessione sulla morte, sull’attesa, sulla consapevolezza. Insomma, sul mestiere di vivere e di morire. […] Se si deve attendere la morte, meglio farlo serenamente, lontano dagli strepiti. Ciò che più colpisce, in Ritorno a casa, è la semplicità cristallina dello stile. Splendidi il montaggio e la fotografia, firmati da due donne: Valérie Loiseleux e Sabine Lancelin. Piccoli è da Oscar, che non l’abbiamo premiato a Cannes è tuttora uno scandalo. Catherine Deneuve e John Malkovich – già complici di Oliveira in Il convento, 1995 –, coinvolti per due cammei, sembrano divertirsi un mondo. (ALBERTO CRESPI, L’Unità, 10 giugno 2001) Pubblico e più di un critico considerano la visione dei suoi film spesso punitiva. Per smentirli ecco un de Oliveira breve, umoroso e persino “lieve” (a dispetto della storia). Michel Piccoli è un grande del teatro (lo vediamo con Catherine Deneuve, qui in una breve partecipazione). Dopo una replica, viene raggiunto dalla notizia della morte di moglie, figlia e genero in un incidente. La sua elaborazione del lutto sarà del tutto particolare. La vicenda straziante è raccontata dall’ottuagenario cineasta con una predisposizione divertita per la digressione (l’acquisto di un paio di scarpe, il rito quotidiano con gag in un caffè) e l’osservazione apparentemente incongrua, lasciando a un immenso Piccoli il compito di costruire e dare umanità a un personaggio di introspettive profondità. Un’interpretazione maiuscola la sua, e ci piace pensare a de Oliveira mentre lo osserva partecipe, proprio come il regista John Malkovich (notevole anche lui) nel film. (MASSIMO LASTRUCCI, Ciak, 1 giugno 2001) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Vincenzo Novi - Storia pudica e discreta di un vecchio di anni e di esperienza. Non ci viene rivelato il suo segreto. I suoi drammi si stemperano nella normalità del quotidiano e nel silenzio. Una quiete che si compiace delle piccole cose. Guarda in avanti e non sopporta l’irrompere del passato. De Oliveira lavora sull’espressione dei volti, sul tono della voce, sui comportamenti e i gesti, anche minimi. Segnali rivelatori dell’universo interiore. Ha voluto parlare anche di sé? Una ragione in più per seguirlo e capire le possibilità espressive raggiunte dal mezzo cinematografico. Un piccolo capolavoro! Gioconda Colnago - Il vegliardo Manoel de Oliveira è un valente cineasta, dotato di piglio sorprendente. Con quest’ultimo, ottimo film, prende, commuove e consola. Si tratta di una storia drammatica che ad ognuno potrebbe malauguratamente accadere, di una riflessione esemplare sulla condizione della solitudine che affligge drammaticamente l’animo dell’uomo se viene colpito dall’estremo evento della morte dei prorpi familiari, che provoca l’interruzione improvvisa di consolidate abitudibi interiori e organizzative di vita. Miranda Manfredi - In un’epoca in cui bisogna imparare ad invecchiare per non restare emarginati dall’incalzare dei cambiamenti, questo film, che è un De Senectute in chiave moderna, ci pone davanti agli schemi da seguire per esorcizzare l’inadeguatezza della vecchiaia. Col sapiente inserimento del teatro, come veicolo per portarci alla realtà della vita, de Oliveira intellettualizza la difficoltà di affrontare la vita in tutto il suo percorso. Non mancano i particolari umoristici: dalle scarpe nuove che parlano di una capacità di rinnovamento all’abitudine per un bistrot che accoglie i soliti clienti decifrati dai giornali schierati politicamente in modo diverso. Il dolore della perdita sembra non trovare spessore nell’inaridirsi dei sentimenti in un egocentrismo che solo il nipotino può strappare al sorriso. Ma l’impegno a memorizzare un RITORNO A CASA 259 inutile, banale fraseggio inserito in una poderosa, ostica opera come l’Ulisse di Joyce è l’ultima metafora dell’incapacità della vecchiaia ad affrontare anche le cose più semplici in un mondo che diventa sempre più complicato. OTTIMO Paola Almagioni - Ci sono diversi modi per difendersi dal dolore. Forse per un attore è più facile poiché è abituato a fare di se stesso e dei personaggi che interpreta il centro della sua vita. Inoltre Gilbert va verso la vecchiaia e questo può rendere le persone più egocentriche, proprio come lo sono i bambini. Questo film racconta come Gilbert riesca apparentemente a non farsi sopraffare da una tragica perdita, aggrappandosi al lavoro, alle piccole gioie e alle piacevoli abitudini di ogni giorno. Ma per superare un grave lutto non si può rimuoverlo; bisogna elaborarlo. E improvvisamente Gilbert si rende conto che il lavoro non è più una cosa tanto importante, che è stanco ed è ora per lui di “ritornare a casa”, di affrontare la perdita delle persone care. Il film, un piccolo gioiello, non ci dice se l’affettuoso legame con il nipotino – nato proprio in seguito alla tragedia – lo aiuterà a superare la perdita. Di certo dovrà affrontarla, e penso sia questo il significato del titolo. Carla Testorelli - De Oliveira ci regala un film prezioso, in cui il doloroso tema del passaggio dalla maturità alla vecchiaia viene alleggerito dall’inserimento di episodi quasi comici (l’abitudinario frequentatore del bar che si adombra quando trova il “suo” tavolo occupato) e dalla rappresentazione di una Parigi primaverile, la Parigi del terzo millennio, osservata con occhi quasi stupiti dal vecchio regista. Il protagonista (un insuperabile Michel Piccoli) è un maturo attore di teatro che non vuole arrendersi davanti alla tragedia che lo ha colpito: moglie, figlia e genero sono morti in un incidente automobilistico. Le sue giornate non saranno vuote: ha un lavoro di successo (per la strada le donne gli chiedono l’autografo) e un nipote che ha bisogno del suo affetto. Affronta 260 RITORNO A CASA quasi con baldanza la vita dopo la tragedia, concedendosi il lusso di nuovi acquisti per sé e per il nipote. Non si spaventa neppure davanti a un drogato che lo minaccia con una siringa e, con lucida rassegnazione, gli consegna le “scarpe nuove”, protagoniste di una scena memorabile. A rompere il suo equilibrio sarà un’irrilevante dimenticanza che si verifica durante le riprese di un film, che l’attore vive come un’irrimediabile sconfitta. Abbandona il set e, farneticando, cammina per le strade di Parigi, arriva a casa, sale rigidamente le scale, mentre un intenso e insistito primo piano sul volto del nipote ci dice che non ci sarà più ritorno. Cristina Bruni - Nella scena finale del film il nipotino assiste al triste ritorno del nonno che sembra rinchiudersi ermeticamente nella solitudine dei ricordi, senza più desideri. Pessimismo atroce o realtà insormontabile? Molti anziani, dopo tragedie familiari, trovano sollievo nella linfa verde dei nipoti, trasmettendo loro le esperienze vissute; per Gilbert questo sollievo dura poco, il decadimento per lui è inevitabile. Pessimismo o verità? Probabilmente la reazione è soggettiva. Mi sono rimaste impresse in modo indelebile le scene dell’Ulisse che traspaiono dall’espressione intensa degli occhi di quell’attore eccezionale che è Malkovich. Ho trovato insolite le riprese di situazioni del quotidiano che si riflettono nei vetri e negli specchi e nei rumori del traffico, quasi a rispecchiare lo stato d’animo del protagonista, solo e disperatamente triste, in mezzo ai suoni della vita che continua, nonostante tutto. Piergiovanna Bruni - Il film tratta con sensibilità la dignità nel dolore, nel tentativo di ritrovare amore per la vita, nonostante tutto. Analizza i piccoli meccanismi di difesa per poter continuare il cammino dell’esistenza, nella solitudine e con un bagaglio di ricordi che nessuno ci può carpire e che fanno da supporto alla sopravvivenza. Quando poi insieme al dolore sopraggiunge anche la vecchiaia, è facile che ci sia la resa finale. Al pensiero della morte forse riusciamo ad assuefarci, ma al silenzio della sofferenza non sappiamo come reagire: la dignità è un silenzio che ci arrovella, ma è molto difficile tornare a essere felici. Anna Radice - Un piccolo gioiello, anche se troppo insistite le scene girate sul palcoscenico. Ma che finezza di particolari! La routine al bar, il “capriccio” delle scarpe firmate, le foto di famiglia volutamente non mostrate al pubblico, il tenero nipote, il cui viso, nell’ultima sequenza, indugia verso il nonno ma nonscompare... recitazione efficace e sentita, senza sbavature né lacrimosità. Lidia D’Ercole - Il film mi è piaciuto moltissimo e per me è un capolavoro di semplicità e leggerezza con accenti anche di humour. Film che ci illumina sulla vita, con un Piccoli strepitoso. BUONO Adelaide Cavallo – Una profonda riflessione sul senso della vita questo Ritorno a casa dell’anziano de Oliveira: riflessione che, a buona ragione dell’età, sembra apparire non rinviabile. Sul cammino distratto della nostra esistenza, grandi e piccole cose, quelle stesse di cui vive Gilbert, ci rendono teatranti a nostra insaputa e il dolore, quando arriva, può sembrare ospite sgradito; una voce da far tacere. Fino a quando? De Oliveira avvicina il suo protagonista al punto cruciale del ripensamento di sé suggerendogli la strada giusta: si ritorna a casa accettando la realtà di ogni cosa, e abbandonando l’illusione che tutto possa essere piegato alla nostra volontà. Riccardo Valente - Il mio parere, non sorretto da alcuna prova, è che forse a de Oliveira il personaggio di Gilbert Valence, e forse anche il peraltro bravissimo Michel Piccoli che lo impersonava, non piacessero per nulla. Mentre il Vieira sì che gli piaceva. Vieira è un uomo concreto, deciso, che non ha paura di niente; Gilbert Valence è un pasticcione narcisista dedito a un’arte ormai elitaria come il teatro, e soprattutto gigione, cosa che Vieira non è affatto (salvo forse un pizzico piccolissimo nella deliziosa contesa davanti alla Regina di Svezia). Come del resto anche Michel Piccoli è un bravissimo gigione, e anche l’affascinante John Malkovich lo è. Nelle sequenze teatrali dell’inizio, Gilbert Valence domina la scena. È un re – anche se buffone – nella commedia di Jonesco, ma un re. La tragedia della sua vita, le vite stroncate dei suoi cari non influiscono per nulla sulle sue abitudini, sui suoi pensieri, sulle sue scelte, salvo la triste necessità di dover giocare con il suo nipotino. Lo colpisce molto di più la perdita delle scarpe nuove. Rinuncia a fare la televisione non perché è un lavoro volgare, ma perché in esso farebbe la parte di un vecchio scimunito. L’unico lato che risveglia il suo interesse per un momento è la possibilità di fare qualche scena di sesso con Sylvie, ma anche questo passa in secondo piano rispetto alla vergogna di fare la figura dell’anziano dongiovanni che si fa infinocchiare. Accetta la parte nel film di Malkovich solo perché si è incastrato con le sue stesse mani: dopo aver rifiutato la parte televisiva perché indegna, non può non accettare una parte in un lavoro famoso acclamato da tutti gli intellettuali; ma nelle (peraltro straordinarie) riprese della torre di Mulligan, Valence non riesce a ricordare le battute perché il personaggio di Buck non lo interessa: non è un re, è solo un buffone. Anzi, un servo. La stanchezza, la vecchiaia non c’entrano per niente: o meglio, c’entrano, ma solo come condizioni aggravanti di una situazione scomoda (i ritmi e le necessità impietose del cinema rispetto al teatro), e soprattutto come pretesti ovvi e inconfutabili per non fare una parte che non gli piace. Nell’Ulysses, oltre a tutto, Buck Mulligan compare solo all’inizio, come un cagnolino buffo, elemento apotropaico in un quadro del Veronese: i veri personaggi sono altri, e a lui Valence, parigino fino al midollo, tutta la materia del romanzo è totalmente estranea, come l’immagine di Stephen Dedalus a proposito dell’arte irlandese “lo specchio incrinato di una serva”. Insomma, ritorno all’inizio. Il regista non voleva bene a Gilbert, ed è per questo che noi non riusciamo neppure a compatirlo. Ed è per questo che il mio giudizio sul film è “buono”, ma non “ottimo” come è invece Parole e utopia. Grazie in ogni modo per averci proposto questi due film uno dopo l’altro (a proposito del primo, mi sembra che nessuno abbia riRITORNO A CASA 261 marcato la straordinaria bravura del regista nel fondere senza soluzione di continuità i tre attori che hanno interpretato Vieira. Straordinaria davvero). Caterina Gambetti - De Oliveira si conferma regista eccellente, capace di usare con scaltrita abilità la tecnica cinematografica: sa farci sorridere proponendoci divertenti scenette (le scarpe, il caffè e il giornale, ad esempio), in una situazione di malinconica solitudine. Altrettanto abile Michel Piccoli che interpreta il vecchio attore, il quale dapprima crede di poter esorcizzare il dolore con rassicuranti abitudini, poi ammette a se stesso di sentirsi inutile e vuoto, perché solo, e accetta che il dolore abbia il sopravvento. DISCRETO Pierfranco Steffenini - Al centro del film è la parabola involutiva di un uomo anziano colpito da un grave lutto familiare. Il regista descrive l’apparente accettazione della nuova situazione, il sollievo rappresentato dalla presenza di un nipotino, il ripetersi degli abituali gesti quotidiani, il ritrarsi di fronte alle novità, la definitiva resa. La vicenda è raccontata in toni sommessi, tanto da risultare un po’ noiosa. Nonostante l’interpretazione eccellente del protagonista e la buona fattura complessiva, il film non ha parlato al mio cuore. MEDIOCRE Annamaria de’ Cenzo - Il dolore, tema dominante del film, non viene esternato dal protagonista, ma è vissuto con estremo pudore. Diventa tangibile, però, nelle ultime sequenze, quando Gilbert prende coscienza della propria incapacità a rinnovare la sua vita, anche solo a livello professionale. Il dolore, infatti, blocca quell’entusiasmo e quelle energie che sono necessarie per affrontare qualsiasi cambiamento. Gilbert torna perciò ad ancorarsi a tutto ciò che gli è noto, al rassicurante ripetersi di tutto ciò che è previsto, alle abitudini di un porto sicuro. Grazie alla sapiente interpretazione di Piccoli e alla sua grande carica umana, il regista ha potuto trasmettere tutti questi stati d’animo allo spettatore, con una leggerezza che, purtroppo, non è nel suo stile consueto. Bruno Bruni - Splendida l’interpretazione di Piccoli nella parte dell’attore che inizia con la finzione della vecchiaia e finisce con il dramma vero e proprio della resa finale nella sua vera vita. Tristezza e dignità sono una miscellanea che dà come risultato il silenzio. Il silenzio qui è rappresentato in questo ritorno a casa, senza più voglia di vivere. Un film atroce nel suo pessimismo. 262 RITORNO A CASA Tullio Maragnoli - Film che dice poco di nuovo sull’egoismo senile, soprattutto di quei vecchi che hanno un “nome”, cioè una notevole carriera alle spalle e sono quindi poco inclini a retrocedere alla semplice funzione di nonni. Inoltre non sono d’accordo su come è stato sviluppato il concetto: il film si regge di fatto sull’interpretazione di un grande attore, ma per il resto presenta due inconvenienti. Il primo è la predilezione del regista per le inquadrature fisse, spesso con voci fuori campo, e quando pur si vedono gli interlocutori, le scene rimangono ugualmente lunghe immagini statiche. Il secondo riguarda il trasporto su pellicola di azioni teatrali che per loro natura hanno tutt’altro ritmo rispetto al cinema. Pertanto era inevitabile che, a parte pochi spunti di un certo humour, in quest’opera regnasse sovrana la noia. INSUFFICIENTE B. Ligresti – L’insufficienza evidentemente è la mia perché non sono riuscita a persuadermi di aver visto quello che hanno visto gli altri. La stanza del figlio CAST&CREDITS regia: Nanni Moretti (Italia/Francia, 2001) soggetto: Nanni Moretti sceneggiatura: Linda Ferri, Nanni Moretti, Heidrun Schleef fotografia: Giuseppe Lanci montaggio: Esmeralda Calabria musica: Nicola Piovani scenografia: Giancarlo Basili interpreti: Nanni Moretti (Giovanni), Laura Morante (Paola), Jasmine Trinca (Irene), Giuseppe Sanfelice (Andrea), Silvio Orlando (Oscar), Claudia Della Seta (Raffaella), Stefano Accorsi (Tommaso), Sofia Vigliar (Arianna), Toni Bertorelli, Stefano Abbati, Dario Cantarelli, Eleonora Danco, Luisa De Santis (gli altri pazienti) distribuzione: Sacher durata: 1h39’ IL REGISTA Nanni Moretti nasce a Brunico (BZ) il 19 agosto 1953. Figlio di un docente universitario in epigrafia greca e di un’insegnante di liceo, si forma politicamente in gruppi della sinistra extraparlamentare d’ispirazione trotzkista. Cineamatore, realizza tra il 1974 ed il 1976 alcuni lavori in Super8 (La sconfitta, Epatez le bourgeois ed il più riuscito Come parli, frate?, spassosa parodia de I promessi sposi che lo vede impegnato nei panni di Don Rodrigo): poi, col medesimo mezzo, debutta nel lungometraggio col fortunato Io sono un autarchico (1976), che ottiene un grande successo al Filmstudio di Ro- ma e viene successivamente gonfiato in 16 mm. Il successivo Ecce bombo (1978) ha ancora esiti felici e precisa ulteriormente i contorni dell’arte del Nostro: che consiste nella capacità di descrivere caratteristiche e tic di una generazione emulsionandoli con una carica di feroce ironia che nessuno risparmia, neanche se medesimo. Se in Sogni d’oro (1981) la lucidità dell’argomentare pare arenarsi nelle secche d’un autobiografismo istrioneggiante, il seguente Bianca (1983) risulta forse l’opera sua in assoluto più convincente, inscenando la degenerazione d’una nevrosi che sfocia in crimine nelle forme d’un “whodunit” di matrice anglosassone. L’esplicito moralismo – nel senso più nobile della parola – de La messa è finita (1985) lo porta nella finzione ad indossare l’abito talare per meglio sostanziare il proprio scontento in relazione allo stato delle cose: ed il discorso s’allarga al politico in Palombella rossa (1989), tagliente e non del tutto risolta riflessione sugli errori e le illusioni della sinistra. Nel 1990 interpreta il ruolo del luciferino ministro Botero ne Il portaborse di Daniele Luchetti, e cinque anni più tardi offre il potente ritratto d’una vittima del terrorismo ne La seconda volta di Mimmo Calopresti: alla regia, torna nel 1993 con i tre episodi di Caro diario, sospesi fra dolenti annotazioni personali e satira di costume, ed infine nel 1998 con Aprile, ov’egli pare ripiegarsi nel privato per sfiducia e scoramento. (da Italica.rai.it) IL FILM Corridoi, che attraversano la casa o s’incuneano nella scuoLA STANZA DEL FIGLIO 263 24 la. Il porto di Ancona, un viale, le strade dove va a correre il protagonista. Il carrello segue o affianca Nanni Moretti nelle giornate normali che aprono il suo film: la storia quotidiana di una famiglia, bella e felice, moderatamente nevrotica, capace ancora di comunicare con un sorriso, con un gesto, magari con una corsa. Padri e figli: rapporti fatti di delicate soppressioni degli acuti. Il padre, psicanalista, sopprime le nevrosi che condivide con i suoi pazienti, i figli adattano il linguaggio, smorzano gli amici, ascoltano inviti (come quello alla competitività) che probabilmente non seguiranno mai. Le disarmonie di troppe pazzie e paure (tutte in fila, sul lettino o sulla poltrona dello psicanalista) sembrano trovare un punto saldo armonico: Insieme a te non ci sto più, canta Caterina Caselli dal registratore in auto, Moretti si unisce, poi tutti gli altri, in una di quelle piccole scene di serenità assoluta che il regista sa cogliere così bene, una partita a pallone o Ritornerai di Bruno Lauzi, in una chiesa. Ma quei corridoi e quei carrelli non sono là per caso o per vezzo. Sono un indizio drammaturgico preciso. Una morte e tutto s’incrina, sprofonda, e tutto quello che c'era prima, gli stessi luoghi, gli stessi gesti, continua a esistere solo all'insegna del dolore. Assoluto, assordante, come quel rumore che chiunque abbia sentito una volta nella vita non dimenticherà mai più: le viti saldate ai coperchi delle bare. La stanza del figlio è fatto di dolore, vissuto un minuto dietro l’altro, mentre la vita di tutti i giorni finge di andare avanti, e invece si è fermata là, poche ore prima di quella morte, quella domenica, quando tutto poteva cambiare. E la macchina da presa si attacca ai personaggi, perso ognuno nella sua maniera tremenda di vivere la sofferenza: le lacrime trattenute di una ragazzina, l’urlo infinito della Morante sul letto, il rimbombo di un luna park notturno e la faccia sbarrata del padre che cerca invano di scaricarsi nella violenza delle “gabbie”. Non c’è scampo: senza rinunciare a se stesso, Nanni Moretti ci trascina in un abisso di disperazione impotente, nella sensazione fisica della perdita, nel consumarsi di giorni e momenti senza risposta. Attaccato alla realtà come forse non è mai stato, non più generazionale, parla la lingua di tutti. Corde toccate in Caro diario e La messa è fi264 LA STANZA DEL FIGLIO nita, che qui risuonano della forma perfetta della semplicità. La semplicità con cui un giorno arriva la giovane Arianna con delle foto di Andrea e, forse, un nuovo fidanzato, e con cui, sulla voce di Brian Eno che canta By the River, si può immaginare di ricominciare a vivere. Un cantante straniero per uno che ha sempre voluto ascoltare solo musica italiana: per restare vicini ai figli perduti e sconosciuti, per «imparare ad aspettare, imparare a oziare», imparare a “farsi vivere” dalla vita. (EMANUELA MARTINI, Film TV, 13 marzo 2001). La stanza del figlio ha vinto la Palma d’oro e il premio Fipresci a Cannes nel 2002. Ha ottenuto tre David di Donatello (a Laura Morante, al film, e a Nicola Piovani). LA STORIA In una bella mattina piena di sole, un uomo in tuta da jogging corre lungo il mare della sua città. È Giovanni Sermonti, professione psicanalista, sposato a Paola, due figli: Andrea, circa 15 anni, e Irene, più grande di poco. Appena rientra a casa, il telefono squilla: è il preside della scuola del figlio, che gli chiede di andare subito da lui. Davanti a sé trova Andrea. Gli si rimprovera di aver portato via, con un suo compagno, dal laboratorio di scienze un fossile raro. A raccontare tutto è stato un compagno. Andrea viene punito con una sospensione. Poco dopo, nel suo studio, Giovanni riprende il lavoro. Una giovane donna sdraiata su lettino lo contesta: «Che percentuale di comprensione c’è in questa stanza?». Un altro paziente, con più garbo, gli fa notare il risultato mancato. Un altro ancora, Oscar, entra nel racconto di un lungo sogno senza essere del tutto convinto della terapia. A casa, con la moglie, Giovanni ripensa a quel furto e decide di andare con Andrea a parlare con i padri degli altri ragazzi. E dopo un confronto, presenti padri e figli, Filippo, il ragazzo che ha raccontato la storia al preside fa un passo indietro. A Paola, Giovanni dirà che si è inventato tutto. E tutto apparentemente continua come prima: il lavoro di analista, quello della moglie, un’attività nel mondo dei libri, lo studio dei ragazzi e soprattutto lo sport, a cui Giovanni dà persino troppa importanza. Basta infatti che Andrea perda una partita di tennis, perché metta in discussione l’impegno del ragazzo e Paola si senta obbligata a dirgli: «Andrea non ha rubato quel fossile». Anche se poi qualche giorno dopo sarà lei a ad ascoltare dal figlio l’imprevista ammissione. E si arriva così a una tragica mattina. Seduto al tavolo della prima colazione con Paola e i figli, Giovanni propone ad Andrea di uscire a correre insieme. Andrea tenta di opporsi. Ha già un impegno con i suoi compagni, ma si lascia convincere. Poi il telefono suona. Oscar è in crisi, ha bisogno di Giovanni, non è nelle condizioni di muoversi. Gli dirà di avere appena fatto delle analisi, e che si sospetta un cancro ai polmoni. Giovanni allora va da Oscar, mentre Andrea va con i suoi amici. Raggiunge i suoi compagni alla spiaggia per un’immersione. Mette la muta, carica la bombola sul gommone e prende con gli altri il largo. Non tornerà più. Quando Giovanni rientra, si accorge subito che è successo qualcosa di grave. Fermo davanti al portone, ad aspettarlo, c’è un compagno di Andrea, con i genitori. Poche parole per dirgli di un incidente in mare. Poi l’arrivo in ospedale con Irene e Paola, la scelta della bara sul catalogo, l’ultimo saluto al figlio in una stanza squallida. Giovanni prova a stordirsi in mezzo alle luci e al frastuono del luna park, Paola si lascia andare al pianto che urla, Irene si concentra sugli allenamenti a pallacanestro. La ripresa del lavoro non è per Giovanni di alcun sollievo. I dubbi e le esitazioni di prima se li trova davanti con maggior chiarezza. I pazienti esprimono un disagio che non coglie e chiedono un aiuto che non sa dare. Il pensiero del figlio perso non lo abbandona. Si spinge persino al negozio dove è stata acquistata la bombola per le immersioni e vuol sapere tutto del funzionamento. Solo la moglie gli ricorda quello che è successo davvero: Andrea si è perso in una grotta per seguire un pesce e non è riuscito più a risalire. Ma Giovanni sembra non voler capire. né le parole del prete durante la messa che i compagni hanno voluto far celebrare per Andrea, né la decisione che Oscar ha preso, adesso che deve combattere il tumore non più solo sospettato; non capisce neanche la moglie, da cui si sente rimproverare il suo egoismo e che si rinchiude in se stessa. E si sente non capito anche da Irene, che non si spiega le eccessive attenzioni nei suoi confronti. Ma è una lettera che Paola trova tra la posta e indirizzata al figlio che diventa per lui il definitivo momento di verifica. La lettera di una ragazza, Arianna, dice del breve incontro con Andrea. Arianna non è sa ciò che è accaduto ed esprime parole che commuovono: Paola la vuole incontrare. Arianna risponde di no. Passano i giorni, i rapporti di Giovanni con i suoi pazienti lo mettono definitivamente in crisi. Ne parla alla moglie e le comunica anche la decisione di smettere quel lavoro. Anche l’addio coi pazienti non è facile da affrontare. In questo tempo di attesa arriva a sorpresa Arianna. E di passaggio con un amico con cui ha in programma di andare in autostop in Francia. Ha ripensato alla telefonata di Paola, vuole conoscerla e farle vedere le foto che Andrea le ha spedito. Giovanni, Paola e Irene li accompagneranno al confine, e per marito e moglie quella passeggiata in riva al mare diventa anche il luogo da cui ricominciare una vita. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Giovanni [...] cerca parole che raccontino il suo lutto, il più duro che si possa patire. Sta scrivendo ad Arianna, la fidanzatina di Andrea, ma è alla propria disperazione che vuole dare forma. Più d’una volta, dunque, la sua mano inizia a muoversi sulla carta, alla ricerca di un’immagine mentale, di un frammento di senso. Eppure, foglio dopo foglio, il racconto non nasce. Poi, dichiarandosi sconfitta, la sua penna lascia sul bianco una traccia d’inchiostro continua e indifferenziata che s’avvolge su se stessa, che nega se stessa, capace d’esprimere solo un urlo silenzioso. [...] La morte d’un figlio è il modo più atroce di conoscere la morte: allo stesso tempo morti e vivi, morti nel figlio e assurdamente vivi in se stessi. Facendo di questo buio un film – ecco il rischio – l’autore si pone nella stessa situazione del personaggio. Come questo cerca un senso nella scrittura verbale, così quello lo cerca nella scrittura cinematografica, nelle sue frasi fatte di suoni e movimento e luce, nelle sue immagini non più solo mentali. Con ammirazione e con almeno un po’ della sua pena – felicemente evidente nella LA STANZA DEL FIGLIO 265 recitazione –, partecipiamo anche noi al suo rischio e al suo tentativo coraggioso. Seguiamo così il suo Giovanni mentre vive una vita che, presto, gli apparirà svuotata. È una vita ordinata e media, illuminata da una felicità tranquilla, giustamente in buona coscienza. Egli stesso ne ha elaborato l’immagine. La descrive in sintesi, quell’immagine, parlando con un paziente. Stare al mondo con saggezza – questo ci pare il senso delle sue parole –, significa imparare a convincersi che non tutto dipenda da noi, e che ci si possa e ci si debba “perdonare”, quasi vedendoci da fuori, da una prospettiva sottratta alla cattiva coscienza. E significa ancora, perciò, trovare un’immediatezza e una trasparenza morali che ben ricordiamo espresse nel limpido bicchier d’acqua di Caro diario (1993). Eppure, per quanto ci si sia sforzati di render viva questa saggezza, tutto può esser negato, e all’improvviso. Che cosa più contano immediatezza, trasparenza morale, tranquilla felicità interiore, nel vuoto e nell’assenza lasciati dalla morte d’un figlio? L’artificiosità, pur grande, dell’immagine che ci si è costruiti di sé, si mostra di colpo fragile, corrotta segretamente “aggiustata”, e se ne va in frantumi come gli oggetti di casa che Giovanni non sopporta più d’avere attorno. Nemmeno ci si può più perdonare, dal momento che il vuoto e l’assenza che ci hanno invaso – e che si manifestano con feroce crudeltà nella “stanza” cui rimanda il titolo del film –, non ci consentono d’avere un fuori da cui osservarci. Smentito nella sua immagine di sé, incapace di trasfigurare il dolore, di elaborarlo in racconto, Giovanni resta prigioniero d’una memoria crudele, legato a frammenti di cose e situazioni condivise con Andrea. Torna coattivamente su poche note d’una canzone, sempre le stesse. Cerca una colpa e un colpevole per la sua morte. Fantastica di quel che sarebbe potuto essere e non è stato. Il suo lutto appunto non riesce a farsi racconto, ma solo urlo silenzioso. Ma poi, a lui e a Paola, Arianna dà una via d’uscita imprevista dalla disperazione. Attraverso di lei riescono a prender commiato dal figlio. Lo fanno attivamente, non con la brutale passività imposta dal caso. Possono infatti accompagnarla almeno per un po’, per poche tenere ore, verso un futuro che non sarà quella di Andrea, ma che consente loro di raccontarsene il passato. Di fronte al mare d’un mattino di fine inverno, nella luce nuova del giorno, il ci266 LA STANZA DEL FIGLIO nema trasfigura il lutto e torna a inventargli un senso. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2001) G.C.: Moretti ha sempre avuto il senso del limite. Non è un caso che il film finisca su un confine (quello tra Italia e Francia, ma anche quello tra terra e mare). Un film come una partita o come la vita è qualcosa che si gioca in un tempo e in uno spazio che ha dei confini, dei limiti, dei perimetri ben fissati. Progressivamente questo tema che prima poteva essere marginale diventa sempre più centrale, personale e sentito. L. R.: È interessante che di mestiere Moretti abbia scelto di essere analista, cioè una persona che ha uno strumento teorico-pratico di elaborazione del lutto (sono lutti i tradimenti, le malattie, le assenze, non solo le morti). Il lavoro dell’analista si fonda moltissimo sull’elaborazione del lutto, ma la giusta sottolineatura di Moretti è che ci sono dei lutti che non sono elaborabili. Quando tocchi la morte l’unico spazio che ti rimane è il silenzio. Anche in analisi. Il problema è che quest’uomo non ha mai fatto i conti fino in fondo. È Giobbe. Sta in una famiglia serena, al massimo incontra qualche piccolo accidente… Ma è una famiglia in cui circola un’affettività sana finché non arriva qualcosa di sconvolgente e inaspettato, per cui tutto si rompe. E.A.: La morte di un figlio è certamente un fatto privato, eppure mi sembra di avvertire in questo caso una risonanza più ampia. Non so quanto sia consapevole, ma la citazione evangelica scelta da Moretti – quella del padrone che se sapesse quando viene il ladro non si lascerebbe svaligiare la casa [Matteo 24,43] – non parla della morte di qualcuno, ma della fine dei tempi, del giudizio universale. Forzando un po’ la mano si potrebbe dire che la morte di un ragazzo diventa quasi un segno di fine della storia. M.R.: Non so se vada letta come presa di distanza dai nostri tempi anche la scelta di aver rifiutato il sistema tecnologico della contemporaneità: nessun televisore acceso, nessun computer in funzione, nessun telefonino. Ma forse, come dice Moretti, questo è solo un modo per uscire dal presente e raccontare qualcosa di atemporale e universale. G.C.: A me sembra una scelta di stile e di etica. Il senso del li- mite in Moretti è presente anche sul piano formale. Il montaggio del film da questo punto di vista è esemplare: c’è un’assoluta economia, si evita in ogni modo di sbracare. Il film è profondo, toccante, ma assolutamente sobrio. (GIANNI CANOVA, LELLA RAVASI, EZIO ALBERIONE, MASSIMO ROTA, duel 87, marzo-aprile 2001, p. 26). Ci sarà magari qualcosa d'imperfetto in La stanza del figlio: forse l’epilogo, un po’ troppo imbevuto di un ottimismo della volontà alla Kiarostami. Però è molto raro vedere un film che abbia il coraggio di scavare così a fondo nelle nostre paure, negli affetti, nelle debolezze e nei fantasmi che ci appartengono. (ROBERTO NEPOTI, La Repubblica, 10 marzo 2001) La struttura drammaturgica è articolata in due parti distinte e reciprocamente necessarie: la prima ci mostra la quotidianità di una vita familiare forse non perfetta, ma unita, piena di calore e di progetti; dopo la cesura della morte di Andrea, i superstiti scivolano nella dimensione del nonsenso, prostrati da un evento tanto più atroce nella sua ingiustificabile “normalità”. Piuttosto che ad altri film, si pensa alle pagine degli scrittori che, qualche anno fa, chiamavamo “minimalisti”. Non è un caso se Giovanni cita Raymond Carver. La stanza evoca il suo tremendo racconto Il bagno, imperniato su un bambino morto in un banale incidente; così come lo sgretolamento dei rapporti tra i genitori dopo la perdita di un figlio fa venire in mente Bambini nel tempo di Ian McEwan. Anche Moretti applica una chiave minimalista; ma nel senso migliore, quello che rende più riconoscibile e realistico il dramma (l’apice è la scena della bara). La regia sobria e funzionale; la fotografia di Giuseppe Lanci e il commento musicale di Nicola Piovani sono i più lontani da ogni volontà di enfatizzare gli eventi. Coerentemente, la recitazione è trattenuta (fatta eccezione per il personaggio di Accorsi): con la scelta di un understatement della sofferenza, nella propria performance come in quella della bravissima Morante o del dolorosamente misurato Orlando, il regista antepone alla disperazione la desolazione e lo sconforto, che rappresentano assai meglio il senso della perdita. Se Giovanni, invaso dai sensi di colpa, non può deglutire le pillole di buon senso che distribuisce ai pazienti, così non valgono più gli esorcismi cui Moretti ricorreva quando si sdoppiava nel proprio alter ego Michele Apicella. In questo, che è il suo film più maturo e coerente, Nanni rinuncia ai vezzi narcisistici del “morettismo”; meglio, li metabolizza e li inscrive a pieno titolo nella narrazione: vedi la scena in cui il padre mangia solitario una sottiletta citando, al contrario, quella citatissima della Nutella in Bianca. Niente di pacchiano, invece, nel modo in cui il mito del labirinto dà forma al tema del dolore nella Stanza del figlio di Nanni Moretti. Il padre perde il figlio come Dedalo perde Icaro, non riuscendo a convincerlo a stare con sé. Il figlio annega (come Icaro), e si perde nei meandri di una grotta subacquea. Il segnale più esplicito è nella ragazza che aiuta la famiglia a uscire dai circuiti del dolore: si chiama Arianna. Ma c’è dell’altro. La topologia del labirinto, spiegata da Rosenstiehl in vari testi (fra cui la voce “Labirinto” dell’Enciclopedia Einaudi) dice che per avere la certezza di uscire da un labirinto bisogna disporsi a percorrerlo tutto, tornando indietro ad ogni vicolo cieco. Si tratta di un “algoritmo miope”, che non tenta di ricostruire induttivamente la mappa generale (quello è l’errore che disorienta) ma lo esplora sistematicamente. Il film di Moretti è un film pieno di battute d’arresto, dilazioni («non parliamone ora»), strategie miopi. Il padre rivendica il diritto di “tornare indietro”, come avviene nei flashback che variano (assurdamente, penosamente: ma è appunto un film sulla pena) l’andamento della storia. Qui il padre non vuole trovare una via d’uscita al labirinto, ma vuol fare in modo di non esservi neppure entrato. Sono labirintici i percorsi far le anticamere semibuie dell’appartamento, le prove nevrotiche che ci si impone (i dieci canestri della figlia, le date della paziente), e certamente il mitologo Karl Kerényi avrebbe riconosciuto quei passi a zig zag disordinati che padre, madre e figlia tracciano sulla spiaggia di Ventimiglia mentre Arianna e il suo compagno li osservano dal pullman in partenza. “È chiaro che ogni ricerca concernente il labirinto dovrebbe partire dalla danza”, ha stabilito Kerényi: e il mito dice che alla fine della sua avventura Dedalo avrebbe eseguito con i suoi compagni sulla spiaggia una danza che imitava i meandri del labirinto appena percorso. In generale la riva del mare è un ottimo posto per tracciare labirinti, specie in LA STANZA DEL FIGLIO 267 molte cerimonie funebri egiziane e mediterranee. Santarcangeli ci ricorda che il labirinto è il Regno della Morte. E se all’inventore del labirinto, Dedalo, muore il figlio Icaro cadendo in mare, al solutore del labirinto, Teseo, muore il padre, Egeo: credendo erroneamente che il figlio fosse rimasto vittima del Minotauro, Egeo si uccide, buttandosi a sua volta nel mare che ha poi preso il suo nome. C’è dunque un tema labirintico pressoché esplicito nel film di Moretti. Ma c’è anche una crittografia? La targa della macchina con cui la famiglia accompagna i ragazzi alla frontiera francese, nella notte, è inquadrata prima di sfuggita e poi, all’arrivo, quasi sfacciatamente: “AP 575 AP”. al contrario, si legge PAPA (papà, o no?), mentre il 5 e il 7 sono i numeri del nome di Moretti. Potrebbe essere tutto uno strano caso e non sarebbe il primo (nella famosa scena di La messa è finita è proprio parlando di una torta “Sacher” che viene pronunciata la famosa battuta «Continuiamo così, facciamoci del male»: battuta che non sfigurerebbe in bocca al povero Leopold von SacherMasoch). Forse anche la targa reversibile dell’automobile della Stanza del figlio non vuole dire nulla. Resterà un piccolo ingannevole meandro per i più minuziosi cultori dell’opera dell’autore: come scrive Jouet, “il palindromo è un lusso da scettici” (Poème du métro parisien). (STEFANO BARTEZZAGHI, La Repubblica, 12 aprile 2001) Moretti non sfrutta, ma neanche disinnesca, il potenziale grottesco e paradossale che scaturisce inevitabile dalla straziante tragicità della vicenda combinata col suo talento essenzialmente comico, corrosivo, satirico. Arriva a sfiorare la deriva della soggettività di fronte all’assurdità dell’esistenza, am se ne ritrae ripiegando su una poetica consolatoria, a tratti commovente, quasi sempre complice con lo spettatore oltre che con i personaggi. La precarietà di istituzioni borghesi come la famiglia o la psicanalisi (che della famiglia è il rovescio psicologico) è più volte suggerita, ma la loro sostanza non è mai veramente messa in discussione. L’ateismo (evidenziato nella sequenza degli Hare Krishna, in quella della messa e in maniera più sottile anche in quella della traduzione dal latino) si riduce ad un semplice dato di fatto, senza mai divenire dubbio o apertura, così come il discorso sul tempo, la possibilità 268 LA STANZA DEL FIGLIO e la memoria resta soltanto un abbozzo di introspezione. Ne La stanza del figlio il regista rimuove ciò che nel suo cinema è veramente inquietante, che non è il tragico ma la comicità del tragico, e così facendo, anziché ripartire dai vertici di Bianca e La messa è finita, si limita a confezionare il terzo episodio della saga celebrativa dello “splendido quarantenne” iniziata con Caro diario e proseguita con Aprile. Più forte del cancro, di Berlusconi e ora anche della morte. La sfera degli affetti familiari sembra essere ormai, in positivo e ancor più in negativo, l’unica dimensione possibile di significato dell’esistenza. [...] Di tutti i film che raccontano la perdita prematura e improvvisa di una persona cara, La stanza del figlio sarà senz’altro il più dettagliato, il più scrupoloso, il più verosimile, e come accadeva in pittura prima dell’invenzione della macchina fotografica, quando la verosimiglianza è davvero notevole si rischia di confonderla con la poesia. Ma l’eccesso di realismo, alimentato dall’uso sistematico dell’ellissi che permette di evitare gli sbocchi meno lineari, finisce per tagliare la strada alla creazione di senso. Lo sguardo ferito non si innalza in cerca di qualche trascendenza (penso al Kieslowski di Film blu e Decalogo), ma neanche si piega a rovistare tra gli istinti più vitali o brutali (per questo il personaggio deviante di Accorsi sembra così fuori luogo). resta a mezza altezza, e non vede altro che il proprio microcosmo, la propria intelligenza, le proprie lacrime. Un po’ se ne dispiace, un po’ se ne compiace, un po’ se ne rassegna. si accontenta in fondo dell’efficacia e della precisione nella rappresentazione del dolore. Forse per chi credeva che perdere un figlio fosse un evento impossibile oppure un’esperienza tutto sommato secondaria, La stanza del figlio risulta essere un grande apologo morale ed esistenziale. Ma per tutti gli altri? (ENRICO TERRONE, Segnocinema 109, maggio/giugno 2001, pp. 56-7) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Nicola Raimondo - “Quando non c’è la fede...” è la frase colta in un intervento in sala. Ho letto, in seguito, le parole di Eli Wiesel (lo scampato dalla Shoah) da un’intervista: “Se la fede è ininterrotta non è intera. Intero è solo un cuore infranto. Chi non ha subito prove, non ha una fede intera”. Vorrei aggiungere a questa testimonianza la frase scritta da un autore contemporaneo: “Solo chi impara a perdere, ad accettare i limiti dell’esistenza, sa farsi amica la morte”. Queste letture mi aiutano a dare un giudizio meno gratuito sull’ultimo film di Moretti. Giovanni è un cuore spezzato dal dolore – la morte è per tutti una cosa assurda, estranea al nostro intimo consenso alla realtà – per Giovanni resta un enigma che non tenta di risolvere, fino al termine della prova più dura dove la medicina del tempo non agisce. Ma già nell’angoscia che permane nasce un barlume dell’intuizione che l’enigma è piuttosto un mistero: esige di essere svelato, reclama un impegno per la vita per aprirsi, mentre la vera perdita è minacciata dalla rimozione comunque qualificata. Il dolore sta a occhi aperti. “Come si può ch’io regga a tanto strazio” dice Ungaretti nella poesia per la morte del figlio. Una domanda non retorica, perché contiene la speranza di un esaudimento: che si possa e si debba reggere. Giovanni è uno psicanalista, la sua vita in famiglia e nella professione, oscilla tra buona coscienza e fantasmi dell’inconscio, nella semplice soddisfazione di essere in grado di provvedere a tutto. Dinanzi alla necessità di elaborare il lutto, secondo i dettami della sua scienza, sembra dapprima disporre di un autocontrollo delle emozioni profonde: la morte è assurda, ma va registrata con l’equilibrio di cui dà prova nei colloqui con i propri pazienti, quando i contenuti sono più assurdi. Ma arriva il momento in cui reagisce, diciamo, umanamente all’assurdo girandovi attorno, cercando i motivi nelle circostanze “responsabili” della morte inopinata del figlio; approda così al collasso emotivo alienante, di cui tratta per massima parte il film. È ben delineata nella logica interna della sceneggiatura e nell’intento artistico di Moretti, una precisa indicazione – nella sequenza finale – dell’inveramento del senso del dolore per la vita, attraverso una presa di coscienza univoca della funzione dell’amore coesteso verso tutto ciò che resta vivo e attesta l’indistruttibilità della vita. Giancarlo Marini - Un film straziante e bellissimo. Moretti, per una volta, mette da parte quella sua arroganza da pubblico censore per dare via libera ai suoi sentimenti e al suo talento. Il risultato è un film che, senza una vera trama, non ha mai una caduta di “ritmo”, non scende mai di tono. Ci accompagna nel dolore intenso, terribile della morte per indagare nella natura umana, nel nostro cuore, nelle nostre emozioni. Nostre perché per una volta Moretti riesce a identificarsi con il suo spettatore. Ilario Boscolo - Meraviglia un Moretti completamente senza politica e società, ma ripiegato sulla famiglia normale alle prese con un dramma di tipo primordiale: la morte di un componente. Il film è semplicemente bellissimo per la sua intensità, rigore strutturale, completezza e infine magnifica interpretazione. La tragedia della morte di un figlio in una famiglia dalla quotidianità serena e dai legami affettivi intensi è trattata con vera maestria. Il sopraggiungere della disperazione – chiodi giganteschi penetrano il legno della bara, ma penetrano anche il cervello, gli oggetti perdono la loro antica bellezza e si trasmutano in brutti e malati (rotti) –, l’insistenza della mente a mettere vicini i ricordi dolci e teneri con la la tragedia presente e l’abulia da dolore che pervade tutte le persone ci fanno partecipi pieni della tragedia. Anche le tragedie dei pazienti sono ben intrecciate con il tema di fondo del film che è la sofferenza della persona umana e la solitudine che porta. Il film sviluppa attorno al tema centrale altre tematiche: rapporto figli-genitori, rapporto dottore-pazienti, l’ammalato immaginario, prendere ogni confronto come sfida. OTTIMO Nanda Seghizzi della Rossa - Struggente film su uno dei dolori più grandi che ci possano essere. Solo chi è passato attraverso simili dolori può capire fino in fondo cosa ha voluto dire il regista. Non un film “strappalacrime”, ma le reazioni, i gesti, i pensieri dei protagonisti esprimono esattamente lo stato d’animo a cui porta il dolore. E per finire, una constaLA STANZA DEL FIGLIO 269 tazione: i grandi dolori dividono, ognuno si ritrova solo con il suo dolore. Carla Novi - Un grazie a Moretti che è stato capace di interpretare i sentimenti di molti di noi persi nella “stanza del figlio”. Il dolore lacerante di una madre a cui portano via brandelli di carne, il dolore più contenuto di un padre a cui viene portato via il suo futuro, il dolore di una sorella, compagna di confidenze e di piccole grandi cose fatte con il fratello. L’inutilità delle domande e dei perché che solo nella fede possono avere non una risposta ma un’accettazione. E poi ancora l’incapacità dell’analista di aiutare i suoi pazienti perché preso lui stesso da un groviglio di sentimenti e di sofferenza da non riuscire a elaborare il lutto. I pazienti, quelli che ce la fanno da soli perché l’analista li ha aiutati a capirsi e accettare e quelli che invece si sentono abbandonati dal loro terapeuta a cui erano aggrappati. Il tutto dolorosamente vero quasi che Moretti fosse lui stesso gli uni e gli altri. E alla fine ognuno riuscirà a elaborare il proprio lutto con un filo di speranza nel futuro. Pierangela Chiesa - Davanti al dolore più grande l’uomo non ha difese. Anche l’uomo che, per mestiere, insegna agli altri ad accettare le avversità. E non riesce neppure a tenere insieme la famiglia. Tutto potrebbe sgretolarsi se un deus ex machina non arrivasse un attimo prima del crollo totale. Miranda Manfredi - Il confronto dell’uomo con il dolore è un tema che ha ispirato riflessioni filosofiche e che le religioni hanno cercato di risolvere con una trascendente consolazione. Moretti con toni scarni ed essenziali non ci dà risposte. Il dolore più lacerante, quello per la perdita del figlio, si confonde con la ricerca psicoanalitica dell’Io e diventa accondiscendenza alla continuità della vita. Davanti a un mare non più nemico, sembra riappropriarsi della vita e della consapevolezza di una solitudine interiore che nessuno può colmare. Dal punto di vista formale il film è aderente al personaggio Moretti: ritmato in modo frammentario e ansioso nella prima parte, diventa lento nella seconda nel tentativo di elaborare il dolore. Sceneggiato in una realtà quasi anonima senza con270 LA STANZA DEL FIGLIO cessioni estetiche. La vita familiare sembra svolgersi soltanto in una cucina modesta ma aggregante. Nell’appartamento sono molte le porte che si aprono, metafora di una ricerca che si arresta davanti a una porta chiusa: quella della stanza di un figlio amato che non si ha avuto il tempo di conoscere. Antonio Baldo - Il caso, protagonista della vita sulla Terra, irompe con la tragedia nella civile e tranquilla famiglia di una città italiana. Poiché non si sono tipologie di popoli, ma solo tipologie d’individui, il dramma che invade la vita dei genitori e della figlia per la perdita di Andrea sono le conseguenze di tre personalità, formate da altrettanti vissuti, accomunate dal dolore di un’”assenza”. Il protagonista, attratto dalla conoscenza del Sé per aver scelto la professione di psicanalista, di fronte alla perdita è smarrito quanto, se non più degli altri, poiché concorrere alla soluzione dei problemi altrui attraverso le “confessioni” dei pazienti non necessariamente giova alla propria causa. L’assenza di fede nella “stanza” di ciascun familiare non allevia di certo la sofferenza. Ma le “Parche” che tessono l’esistenza, ancora attraverso il caso danno il filo ad Arianna, che, inconsapevolmente, indicherà una via d’uscita. L’ex fidanzatina di Andrea dimostra una diversa filosofia del dolore, metabolizzato dalla fiducia nella vita che deve continuare. Il finale mostra che dall’”inverno” si può uscire, apprezzando una bellissima giornata di luce, tornando a sorridere tra la terra e il cielo. Pierfranco Steffenini - La morte di un giovane figlio è causa di indicibile dolore per i familiari e può avere un impatto devastante, nel seguito, sul loro comportamento e sui loro rapporti reciproci. Il tema è certamente delicato e, sul piano cinematografico, rischia di condurre a sbavature di patetismo. Moretti affronta per la prima volta, a mia conoscenza, un argomento intimistico e lo fa con grande padronanza, addirittura con ritegno. È un film che non strappa lacrime e induce alla riflessione e al rispetto. Detto questo in termini generali, resta da fare un commento personale e qualche osservazione critica. Non è un torto, ovviamente, ma il film è totalmente privo del senso religioso della morte, e questo si traduce in un’agghiacciante sensazione di vuoto e di fine di tutto, con un tentativo di aggiustamento consolatorio nel finale che è la parte meno convincente del film, emblematicamente rappresentata nella teatrale, studiata inquadratura di coda in cui i tre personaggi camminano a passi lenti sulla spiaggia, in direzioni divergenti. L’interpretazione mi è parsa molto efficace, anche da parte di Moretti, che tuttavia non manca mai di dare una sensazione di narcisismo, che ritengo sia la causa prima dei tanti dissensi che il nostro riscuote. Forse Moretti dovrebbe limitarsi a fare il regista, lasciando ad altri di interpretare i suoi film. Umberto Poletti - Moretti, che si ribella alla frase evangelica (Luca, 12-35) sulla vigilanza, è figura umanissima e crea, a mio giudizio, uno dei punti focali del film. La morte, nella scena della bara, coinvolge tutti, ma a quel ladro che vien di notte, umanamente ci si ribella. Da premiare quei credenti (figuriamoci quelli agnostici!) che con il morto in casa, bello, giovane, sportivo da vivo, sono sereni, alzano gli occhi al cielo esclamando “Deo gratias!”. Ci saranno senz’altro queste anime belle, ma la ribellione di Moretti fotografa lo strazio di chi perde una persona amatissima e, pur non bestemmiando, si ribella istintivamente al “destino” atroce. Del resto questa ribellione a caldo è simboleggiata nella Sacra Scrittura, nel nome di Israele “Egli lotta con Dio”. L’uomo osa talora lottare con Dio, non si rassegna subito alla sconfitta, alla tribolazione. Anche Gesù grida “L’anima mia è triste fino alla morte!”. Donatella Napolitano - È inutile aggiungere commenti positivi. Vorrei invece contraddire, almeno in parte, coloro che pensano ad una svolta nel cinema di Moretti: non ci sarebbero in questo film “vezzi narcisistici del morettismo”. Io invece li ho trovati lampanti nella figura del figlio: è così perfetto, obbediente, mite, irreale, in un contesto di normalità (soprattutto mamma e sorella) proprio per dare modo a Moretti di recitare il suo show. Penso che se Giovanni fosse stato interpretato da un altro attore il film ne avrebbe tratto giovamento: forse l’attore avrebbe discusso col regista della psicologia del personaggio per eliminare i “narcisismi”. Antonella Spinelli - Inizialmente scarno, essenziale nella descrizione di una realtà ordinata (forse dal protagonista, che analizza ed insegna ad elaborare), poi prepotentemente irrompe la realtà del dolore, in cui si devono calare i personaggi descritti, ed è difficile superare una tragedia quando non ne capisci mai il perché. Ancora più arduo per l’analista, che risulta sconvolto e negativamente influenzato dalla sua emotività. Si manifestano in lui quelle emozioni che aveva visto passare nel proprio sogno, analizzato ed interpretato per i suoi “originalissimi” pazienti. In realtà, non sono originali le paure, i desideri, le fissazioni, le emozioni che tutti viviamo. E giusto sentirle, scoprirle fino in fondo, per poi davvero elaborarle. E lui sembra finalmente riuscirci. Giancarlo Colonna - Malgrado i tic narcististici consueti di Nanni Moretti si tratta di un ottimo film, forse un po’ sopravvalutato. Indubbiamente un soggetto, nella sua drammaticità, “banale”, trattato senza eccessi mélo e coinvolge lo spettatore nello strazio di un dolore che ogni essere umano con un minimo di sensibilità sente e fa proprio. È proprio la dimensione intima, fatta di quotidianità che rende la vicenda credibile. Mi è piaciuta in particolare l’interpretazione di Laura Morante: senza andare mai sopra le righe ci fa partecipi dello strazio infinito per la perdita di un figlio. Da sottolineare anche la partecipazione del sempre bravo Orlando. Ottima la colonna sonora “minimalista” di Nicola Piovani. BUONO Lidia Ranzini - La retorica che il dolore unisca è sfatata: qui il dolore divide! È logico, perché ognuno reagisce in maniera diversa alle sventure. Con molta eleganza si evita il dolore gridato. Dopo la morte di Andrea però, Giovanni si accorge che in casa tutto non è più nuovo e anche i rapporti tra i familiari sono incrinati se non frantumati. Indubbiamente Moretti è più maturo e, in apparenza, si è un po’ allontanato dalla politica. Lo approvo quando ricorda che, nella vita, non tutto dipende da noi e non possiamo pretendere più del possibile da LA STANZA DEL FIGLIO 271 noi stessi. Raramente la disperazione è stata raccontata con così tanta delicatezza. Senza angosciarci veniamo obbligati a condividere un dolore e a guardarci dentro. Renata Villa - Sensibile, delicato, misurato, sobrio. Ma è impossibile descrivere quell’implosione di dolore che è la morte di un figlio. C’è un “prima della morte” di Andrea, ragazzo amato e compreso anche se un po’ sconosciuto come sono tutti gli adolescenti, e un “dopo la morte” che per forza di cose in un film non può essere sufficientemente rappresentato. Dopo Aprile, adorabile film sulla nascita del figlio, Moretti ha voluto fare questo film scaramantico sulla morte di un figlio e questo toglie autenticità alla tragedia e rende troppo semplicistico il finale. Cristina Casati - Ho sempre considerato per certi versi Moretti un regista paragonabile (si parva licet...) a Woody Allen, in un contesto naturalmente diverso. Soprattutto in Caro diario e Aprile l’analisi autoironica della società attraverso le proprie nevrosi e le proprie passioni è molto simile a quella di film come Harry a pezzi. Ma proprio come il suo “maestro”, Moretti cade quando vuole cimentarsi su terreni più filosofici, abbandonando la levità dell’analisi generazionale, anche dolorosa, a volte, ma sempre intelligente. Qui c’è la superficialità (e addirittura la grossolanità di alcune macchiette, come i pazienti). Fantastiche le donne: la Morante, come sempre, e la giovane “sorellina”, una rivelazione. Lia Calzia - C’è una famiglia serena, agiata, con un bel rapporto tra genitori e figli. Una bella famiglia, insomma, a cui si contrappongono le vicende dolorose dei pazienti, alle quali lo psicanalista guarda con professionale distacco. Sono due mondi ben separati, che improvvisamente vanno in frantumi. Qui il regista riesce a raggiungere momenti toccanti, coinvolgendo lo spettatore. Non mi persuade il finale, un po’ forzato per lanciare a tutti i costi un messaggio ottimista di cui non si sente la necessità formale. Una riserva per Moretti attore: è troppo sempre uguale a se stesso in tutti i film. Bona Schmid - Certamente questo film segna una svolta nella 272 LA STANZA DEL FIGLIO produzione filmica di Nanni Moretti. La paternità ha spostato l’oggetto del narcisismo di questo regista-attore, tuttavia questa caratteristica della sua personalità si ripresenta potenziata nel rapporto padre-figlio. Dopo averci annunciato la nascita di un figlio, ora ne preconizza la morte. Film ben condotto, con rigore psicanalitico nella ritualità dell’“elaborazione” di un lutto da parte di una normale famiglia borghese. La commozione, quella vera, che un tale lutto comporta, è però latitante. Il finale, infine, è per lo meno sconcertante: il filo che Arianna porge ai genitori - non più in sintonia nel loro lutto - è molto aggrovigliato. La più spontanea è la ragazzina che si ritrova sola nel suo grande dolore per la morte del fratello. DISCRETO Sabrina Bergamasco - Film lento (ma da Moretti non è plausibile aspettarsi un ritmo incalzante...), drammatico per la vicenda narrata e al tempo stesso vuoto: insomma, drammaticamente poco significativo. Nonostante alcune sequenze toccanti (la chiusura della bara, con il ronzio fastidioso delle viti che penetrano il legno del feretro in contrasto con il silenzio della morte) poco o nulla ci fa comprendere Moretti dell’elaborazione del lutto, di come infine il nucleo familiare, ormai sul punto di digregarsi, riesca a ritrovare coesione e a guardare nuovamente al futuro. La narrazione, perché solo di questo in fondo si è trattato, si regge sull’intensa e misurata interpretazione di Laura Morante. Bravissima. Norina Bachschmid - A parte la perfetta riproduzione di ciò che è il dolore, la disperazione e l’agghiacciante impotenza di chi si trova di fronte alla triste realtà della morte di una persona cara, il film non propone, non elabora, non dà stimoli di riflessione. È un’opera fredda che, nonostante i pianti e le lacrime, non coinvolge. I personaggi sono lontani e distaccati ed è inspiegabile come, da componenti di una famiglia che viene presentata come unita e capace di ottimi rapporti, si trasformino in perfetti estranei, che vagano in solitudine in un’atmosfera grigia e ovattata come se si volessero dissolvere nel non senso. Il tempo dei cavalli ubriachi titolo originale: Zamani barayé masti ashba CAST&CREDITS regia: Bahman Ghobadi (Iran/Francia, 2000) sceneggiatura: Bahman Ghobadi fotografia: Saed Nikzat montaggio: Samad Tavazoee musica: Hossein Alizadeh interpreti: Ayoub Ahmadi (Ayoub), Rojin Younessi (Rojin), Amaneh Ekhtiar-dini (Amaneh), Madi Ekhtiar-dini (Madi), Kolsolum Ekhtiar-dini, karim Ekhtiar-dini, Rahman Salehi, Osman Karimi, Nezhad Ekhtiar-dini e gli abitanti delle città di Sardab e Bané distribuzione: Lucky Red durata: 1h20’ IL REGISTA Bahman Ghobadi, 31 anni, è il primo regista curdo iraniano a guadagnare la ribalta internazionale. Cineasta totale, ha scritto, prodotto e diretto il suo primo film dopo una serie di corti, l’aiuto regia con Abbas Kiarostami per Il vento ci porterà via e l'interpretazione del maestro con la lavagna sulle spalle nel film di Samira Makhmalbaf. Felice, emozionante debutto, garantito anche dalla Caméra d’or a Cannes 2000, racconta la drammatica storia di cinque fratellini or- fani che combattono una durissima guerra per sopravvivere alle ostilità della natura (le montagne eternamente innevate del Kurdistan) e degli umani (i feroci contrabbandieri che ubriacano i loro cavalli per renderli più resistenti a freddo e fatica). Finale aperto, un po’ per scelta espressiva e un po’ per necessità: il regista aveva finito la pellicola e dato fondo a tutti i suoi risparmi. (SANDRO REZOAGLI, Ciak, 1 aprile 2001) IL FILM Nelle terre infelici del Kurdistan anche gli animali soffrono. Stracariche di merci, le bestie da soma si sfiniscono lungo sentieri appena tracciati, tra montagne perennemente innevate e battute dal vento, fiancheggiando dirupi spaventosi. Se patiscono i quadrupedi, figurarsi gli uomini. un’umanità schiacciata dal destino, ma allo stesso tempo di una fierezza invincibile, quella meravigliosamente descritta dall’esordiente Bahman Ghobadi [...] È una zona di confine, quella abitata dai curdi, nazione divisa tra Iran, Iraq, Turchia e Siria: e Ayoub s’inerpica con pesanti zaini sulle spalle sfidando le mine e le imboscate, per recuperare quei soldi indispensabili. A volte, come per miracolo, c’è tempo anche per una sosta, per un pensiero gentile, per un gesto di dolcezza: una tazza di tè, un quaderno per la sorellina che sta imparando a scrivere, una medicina per il fratello malato. Intanto, la sorella più grande va sposa in Iraq: la famiglia del marito, così è stato pattuito, si prenderà cura di Madi. Sembra una soluIL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI 273 25 zione tutto sommato accettabile, e invece ecco l’imprevisto: la suocera rifiuta di prendere in casa il ragazzo. Ancora un colpo per Ayoub, ancora una drammatica decisione da prendere. (LUIGI PAINI, Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2001) LA STORIA Tra quella povera gente che abita nei villaggi curdi in montagna al confine tra Iran e Iraq e si guadagna da vivere prestando la propria fatica a chi fa il contrabbando ci sono anche tanti bambini. Ayoub è poco più di un bambino, il secondo di cinque fratelli, e uno di loro, Madi, è affetto da una rara malattia alle ossa che gli ha impedito di crescere e che richiede continue cure. Passare il confine è impresa difficile: c’è molta neve, ci sono i controlli militari, gli agguati e il terreno è disseminato di mine. Lassù è appena morto il padre dei cinque ragazzi, mulattiere, ammazzato mentre stava trasportando della merce. La madre era morta poco prima, dopo la nascita della terza sorellina, che è ancora piccola. A occuparsi di loro adesso è Rojin, la sorella più grande, ma le decisioni che contano sono prese dallo zio, e nessuno può sottrarsi alla sua volontà. Ayoub ha saputo dal dottore che Madi ha bisogno di essere operato entro un mese, e che comunque gli rimane poco tempo da vivere. Gli è stato anche detto che quella operazione costa cinque mila dinari, una cifra molto alta. Ma ha risposto che farà di tutto per trovare i soldi. E l’unico modo per trovarli è ancora una volta attraversare quel confine, trasportando merce di contrabbando, spingendo muli che vengono caricati di grossi copertoni come contenitori, resi ubriachi da acqua e alcol perché resistano al freddo della troppa neve. Ayoub non ha il mulo, però grazie allo zio ottiene ugualmente di avere il lavoro, e si carica sulle spalle un pacco pesante. A piedi, in fila con gli altri sale verso quelle montagne, per portare a casa qualche soldo, che però è appena sufficiente alla vita dei fratelli. Lo zio, intanto, ha preso un’altra decisione che sconvolgerà la vita di Ayoub. A insaputa di tutti, e senza dir niente alla ragazza, ha concordato il matrimonio di Rojin con un irache274 IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI no. Il patto di nozze è che la ragazza porti con sè anche Madi, e che Madi sia operato in Irak. Nessuno di loro riesce ad opporsi a quello che sembra ormai un accordo concluso. Rojin, piangendo, sulla groppa del mulo, che trasporta anche in una sacca il piccolo Madi come un fagotto, parte con lo zio verso l’Iraq e verso un marito che le è stato destinato, ma che non hai mai incontrato. Poco lontano Ayoub, che non si dà pace, la segue a piedi. Ad attendere la promessa sposa c’è tutta la futura famiglia irachena, che appena si accorge di Madi, dice di non volerlo in casa. Lo zio cerca di far valere le sue ragioni, ma le donne vi si oppongono con spiegazioni a cui l’uomo deve arrendersi. Per convincerlo a ripartire gli offrono a titolo di risarcimento un mulo. Il tempo stringe: Madi, a cui il dottore ha sospeso le cure, deve essere operato con urgenza. Ayoub decide allora di partire per l’Iraq con il fratello e con il mulo, che spera di vendere ad un prezzo migliore, in modo da ricavare i soldi che gli serviranno per l’intervento. E si allontana con un gruppo di contrabbandieri verso il confine, dopo aver salutato Amaneh, la sorellina che è corsa a portagli un po’ di pane per il viaggio. La neve è alta, la fatica è tanta. Sono quasi arrivati quando una voce avvisa di un’ imboscata. Di colpo gli animali vengono liberati del loro carico che rotola a valle, gli uomini si disperdono, e fuggono verso il villaggio da dove sono venuti. Anche il mulo di Ayoub nel fuggi fuggi rimane travolto e cade, e il ragazzo allora implora aiuto sotto gli occhi di Madi che aspetta, infreddolito, appoggiato ad un albero. Finalmente il mulo si rialza. Intorno a loro non c’è più nessuno. Ayoub raccoglie Madi tra le braccia e con il mulo, legato ad un corda, continua la sua strada verso il confine. Lo lasciamo dopo averlo visto attraversare il filo spinato che divide l’Iran dall’Iraq. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA La grande lezione del nuovo cinema iraniano è stata quella di averci reinsegnato a guardare la realtà. Allo spettatore viziato (o drogato) dall’irrealismo hollywoodiano, dove tutto – preistoria e futuro, Est ed Ovest, sogni e incubi – finisce per essree uguale a se stesso, come i prodotti usciti da una catena di montaggio, la mirabile artigianalità del cinema iraniano ci ha obbligato ad aprire gli occhi su qualcosa che il cinema delle Major aveva cancellato. Proprio come aveva fatto il neorealismo italiano cinquanta e più anni fa. Ma forse nessuno lo aveva ancora fatto con la forza e la coerenza di questo film ambientato in un villaggio curdo ai confini con l’Iraq. Se oggi i grandi maestri del cinema iraniano sembrano voler coniugare le storie che raccontano con la riflessione sui limiti della loro attività (come un film può “ricreare” il reale, fino a dove l’attore può e deve immedesimarsi con il proprio personaggio, qual è il ruolo del pubblico), Ghobadi va invece direttamente al cuore del tema che il cinema si trova ad affrontare da quando è nato: come si racconta la realtà. Nella storia di cinque fratelli che hanno perso i genitori e che si arrabattano per offrire al più sfortunato di loro (Madi, affetto da una forma mortale di nanismo) i mezzi per un’operazione che possa ridurre le sue sofferenze, si possono leggere i tanti temi con cui deve fare i conti la società iraniana: la povertà, per prima cosa: l’emarginazione sociale cui sono condannati i curdi; la cieca fatalità del potere (che si tratti del padrone, del poliziotto o dell’anziano), la crudeltà della natura sull’uomo e dell’uomo sulla natura, la fatica dei sentimenti. Il film li affronta tutti senza concederci la facile scorciatoia del lieto (o triste) finale: ce li mette davanti agli occhi, nel modo più “neutro” possibile, per chiederci di riflettere e, per una volta, di non fare il tifo per i buoni o per i cattivi. (PAOLO MEREGHETTI, Il Corriere della Sera, 21 aprile 2001) Vittime della posizione geografica, sparsi tra Turchia, Iran, Iraq e Siria, i curdi sono circa 30 milioni. Un popolo senza patria che lotta per la sopravvivenza, oltre che per la salvaguardia della lingua e della cultura, e che, dopo l’iraniana Samira Makhmalbaf (Lavagne) e la turca Yesim Ustaoglu (Viaggio verso il sole) ha trovato un cantore. Si chiama Bahman Ghobadi. [...] Autentico docu-drama rivissuto davanti alla macchina da presa nei luoghi che hanno fatto da corni- ce agli eventi, Il tempo dei cavalli ubriachi si dilata in una grande metafora del dramma di tutto il popolo curdo. Spoglio, povero, disadorno, legittimo erede del nostro neorealismo, Il tempo dei cavalli ubriachi (il titolo è tratto dalla consuetudine dei contrabbandieri di far bere alcol alle bestie da soma perché resistano al freddo) trova la carica poetica nell’asciutta essenzialità, nel linguaggio scarno, nell’intensità dei volti e degli sguardi dei protagonisti. Il finalem con i fratelli che oltrepassano il confine, suscita la commozione dei sogni impossibili. Ma qualche volta i sogni si realizzano: una squadra di medici volontari del Wopsec di Parma, soccorso chirurgico pediatrico, ha organizzato una missione in Iran per operare il ragazzo infermo protagonista del film. (ENZO NATTA, Famiglia Cristiana, 29 aprile 2001) C’è, nel film d’esordio di Bahman Ghobadi, il senso immediato e tragico del dolore umano, come se la macchina da presa si fosse annullata, e come se il suo occhio fosse diventato quello, alto e totale, di un Dio pietoso ed esiliato dal mondo. Che cosa varrà mai la pietà di questo Dio ipotetico contro le raffiche di mitra e contro le mine che stabiliscono e impongono confini, contro l’arrogante volontà di sopraffazione che pretende di segnare con lo stupro di linee invalicabili il bianco infinito delle montagne innevate? Potrà solo soffrire la stessa sofferenza degli uomini e delle bambine che il suo occhio abbraccia con amore stupefatto. Il mio cinema mostra e racconta la vita, avverte Ghobadi all’inizio del Tempo dei cavalli ubriachi. E intende forse suggerirci che Amaneh, Ayoub e Madi “sono il film”, e non solo i suoi protagonisti. La loro presenza, infatti, riempie lo schermo ben oltre qualunque invenzione di sceneggiatura (che pure è stata a lungo pensata. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2001) Negli Anni in tasca di Truffaut la signora Richet diceva: «I bambini urtano contro tutto, urtano contro la vita, ma hanno la grazia e hanno anche la pelle dura». Qualche anno prima Lillian Gish in La morte corre sul fiume di Laughton aveva espresso lo stesso concetto in modo ancora più sintetico: IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI 275 «sopportano e resistono». I bambini al cinema sono spesso abbandonati a loro stessi, devono crescere in fretta, lottare, faticare, soffrire. Da I bambini ci guardano a Stand by Me, da Incompreso a Central do Brasil, da I quattrocento colpi a Il palloncino bianco, da Germania anno zero a Shining, l’infanzia al cinema sta quasi sempre sul difficile crinale che separa necessità e libertà, dovere e piacere, realtà e sogno, paura e desiderio, lavoro (troppo) e gioco (poco). Il tempo dei cavalli ubriachi si inserisce nella lunga tradizione recuperando l’elemento mélo (il bambino che deve essere operato, la sorella che si sposa sperando di poterlo aiutare, il fratello che lavora per poterlo curare) per combinarlo con la denuncia di una condizione di vita molto dura (dove non sono garantiti i diritti dei minori). Ma il film, oltre che uno struggente e dolorosissimo documento, si impone anche per una potenza figurativa ed espressiva non comune. Ghobadi ha la capacità – sempre più rara al cinema – di vedere (e mostrare) nella natura, in un paesaggio innevato o in un tronco d’albero, un segno e un senso. Ha il dono dei veggenti e dei profeti, che sanno vedere e parlare per gli altri, che si sentono responsabili di quel che dicono e mostrano. Se la maggior parte dei cineasti ha usato l’infanzia come filtro per guardare il mondo (degli adulti), e quindi l’ha ideologizzata, Ghobadi guarda l’infanzia come guarda la natura: come sistema di segni, come figura di un destino. Quando – se – quei bambini cresceranno è già pronto per loro un “viaggio verso il sole”. (EZIO ALBERIONE, duel, maggio-giugno 2001) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Marco Sicuri - Una fotografia di rara bellezza immortala una natura che ci riporta alle origini, splendida e feroce, in cui l’uomo già devastato da lotte intestine, non riesce a imporsi. L’altruismo puro e sincero dei bambini, costretti a sofferenze inenarrabili, è espresso con uno stile in grado di ricondurci all’autenticità primigenia del cinema, minimiz276 IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI zando i dialoghi e intercalando lunghe pause di intensa riflessione. Il finale aperto ci ricorda che non è proprio dell’uomo arrendersi, ma per lo spettatore è ormai impossibile una vera catarsi. Lucia Fossati - Non mi sarà facile dimenticare quel fagottino appeso alla sella di un mulo o aggrappato al collo del fratello, quegli occhi buoni, da uomo che conosce il dolore eppure è rassegnato a vivere. Questo film è un urlo che strazia dalla prima all’ultima inquadratura, è cinema-verità e nello stesso tempo, per la sua purezza formale, assurge a simbolo di tutta la sofferenza e l’ingiustizia del mondo. Trasmette un forte messaggio di fratellanza. Lidia D’Ercole - Un film bellissimo, con un effetto straniante e straziante, con un miracoloso equilibrio degno solo di un capolavoro. Giampaolo Cesati - Mi ha particolarmente colpito la forza d’animo, l’abnegazione, l’amore “disperato” del bambinouomo protagonista. È forse un simbolo di speranza che va oltre la miseria, la guerra, la malattia. Bellissime tutte le figure che lo circondano. E i muli: sono forse meno nobili? OTTIMO Duccio Jachia - Il regista iraniano Ghobadi, nella sua prima opera come titolare, ci “issa” sulle cime innevate del Kurdistan prossime all’Irak, nel tratto più travagliato dai governi che si spartiscono il territorio ove vivono 20 milioni dell’antico popolo curdo. Guerre, persecuzioni, imboscate, gelide tempeste, rampe vertiginose da scalare a fianco di muli riottosi martoriano uomini e ragazzini, che spartiscono il loro tempo tra le imprese dei grandi e la lettura della propria storia. La sceneggiatura e la regia di Ghobadi e la fotografia di Saed Nikzat colgono particolari di estrema efficacia. L’abbattimento dell’unico albero di un deserto di ghiaccio per scaldare i fratelli, le fughe tra i precipizi, ma anche le scene di grande dignità in occasione del matrimonio di una giovanissima sorella del protagonista dimostrano che questo popolo non vuole sparire, a dispetto dei governi nemici e del clima inclemente. Regista e direttore della fotografia hanno realizzato scene tecnicamente impossibili e nel contempo efficaci e significative. Questo messaggio, valido e chiaro, non appare integrato dai contenuti culturali, storici, religiosi e politici che avrebbero potuto essere inseriti facilmente nelle scene ove i fratelli si aiutano a studiare e scrivere. Chi sono, quali eroi hanno avuto, quali capi, chi è oggi il loro profeta, il loro Dio? Se dicesse anche questo meriterebbe di concorrere al premio. Luisa Alberini - La tentazione è di credere che questo bellissimo film sia una fiaba, di quelle antiche del Nord che raccontano di bambini, di gnomi, di animali ubbidienti e di una lunga strada da fare piena di difficoltà, di insidie, di gente cattiva. Ma dove in fondo c’è anche la promessa di una vita diversa. È una tentazione. Noi sappiamo però che nel procedere senza guardarsi indietro, senza rabbia di quei bambini, che qui sono già piccoli adulti, c’è ben altro significato. Ed è una denuncia forte che ci costringe a guardare al fallimento di una società, la nostra, incapace di intervenire là dove la vita è una sfida continua alla sopravvivenza. Adelaide Cavallo - Lo guardi a distanza ma lo vivi da dentro questo bel film di Ghobadi. Vivi tutto dei protagonisti e della disperata vita curda: le poche gioie, le molte rabbie, le fatiche quotidiane, i problemi di sopravvivenza, il sorriso che manca nello sguardo dei bimbi, le nevi nemiche, i cavalli ubriachi. E che si può raccontare di questi curdi che non siano storie di vita e di morte? Un bel film che non appassisce dietro l’inconsistenza dell’ovvio, dello scontato, del lieto fine programmato. Un film che vive, pur nella crudezza della storia che narra, della freschezza del suo autore con un sottile filo poetico che unisce immagine a immagine. Vi sono sequenze di grande tensione emotiva (il precipitare dei cavalli traditi dalla neve, il termine del faticoso cammino dei tre fratellini) che si fissano e parlano da sole per l’intera metafora che il film sot- tende. Precarietà e speranza: un passato da lasciare alle spalle. È il nostro augurio a Ghobadi e al suo popolo. Caterina Parmigiani - Natura matrigna e amore fraterno, asprezza del luogo e tenerezza affettuosa, miseria e dignità: forti contrasti presentati con voluto realismo, con grande equilibrio. Umberto Belotti - Un occhio particolare ai bambini e alla solidarietà che sopravvive nonostante tutto, in un mondo che ci sembra così irreale, lontanissimo nel tempo ma non nello spazio e con precisi agganci a cui non possiamo dichiararci estranei. Mariateresa Scarlini - Quel povero fagottino giallo sballottato dalle braccia di affettuosissimi fratelli ai fianchi di muli arrancanti su aspri sentieri, come flaccido bambolotto di pezza, suscita una tenerezza incredibile. Non c’è patria, solo una parvenza di casa, e, bene prezioso e agognato, i quaderni! Grazie a tutti quei nomi impronunciabili che ci hanno portato la realtà della loro diaspora senza fine, rassegnata e amara. Per loro “in nome di Dio”, non si può che chiedere pietà. Cristina Casati - Ancora una volta mi chiedo dove i registi iraniani abbiano imparato a fare del cinema: ogni volta abbiamo una conferma ulteriore. Certo, ormai siamo in presenza di una “scuola” (che si rifà a Kiarostami) dal punto di vista dei tempi cinematografici e delle valenze estetiche della natura. Ma è una scuola di un’estrema modernità perché (nonostante si dica il contrario) non si rifà pedissequamente al neorealismo, specialmente italiano, che aveva un’intenzione ideologica (in senso positivo, naturalmente) più emotiva. Qui è molto più forte il filtro intellettuale e artistico, il che rende il film, strano a dirsi, di un realismo ancora più universale. Pierfranco Steffenini - Film ricco di valori umani, girato con ammirevole sobrietà e dotato di alcune scene di grande impatto emotivo. Degno di competere per il Premio San Fedele. Un regista da tener d’occhio. Unica riserva, è che laIL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI 277 sciando i temi di stretta esperienza personale (così simili a quelli di Lavagne, altro degno film della nuova cinematografia iraniana) sappia esprimersi agli stessi livelli. Godiamoci intanto quest’opera breve e intensa. BUONO Umberto Poletti - Una pellicola che parla non ai curdi, ma a noi occidentali. Un quadro umanamente positivo della tragedia di quel popolo. Non mi pare giudicabile quale “spettacolo”, ma come documento filmico, approfondito psicologicamente e drammatizzato. Non resta che concludere che è tragicamente così. È un film che deve essere giudicato “politicamente”: il solito sud del pianeta, con le sue molteplici diversificate contraddizioni e tragedie; e il nord che spreca da solo il 38% delle risorse terrestri. I poveri rischiano sempre di saltare un filo spinato. Bona Schmid - Pur nella sua lirica dolcezza, questo film è angosciante. Lo sguardo penetrante e indagatore del ragazzo malato è onnipresente con il suo carico di umana disperazione. I curdi sono uno strano popolo sempre in fuga, minacciati da un’eterna guerra, ma raramente ribelli. Come muli ubriachi inseguono il loro tragico destino aspirando a un altrove che, forse, non esiste. In questo film, come in Lavagne, emerge la grande aspirazione di questa gente alla cultura: l’alfabetizzazione sarà forse l’unica possibilità di sopravvivenza per questo popolo di nomadi dediti alla pastorizia e portatori di un loro autentico patrimonio culturale e linguistico. Bravi gli attori e ottima la regia. 278 IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI Vittoriangela Bisogni - Come spesso accade, anche in questo villaggio la scuola è lontana dalla vita. Sui banchi si leggono le edificanti conquiste tecnologiche dell’uomo, ma nella realtà l’uomo è rimasto a una lotta strenua contro la natura impervia, che nemmeno i muli affronterebbero a mente lucida. Questo film ci porta in ambienti lontani dalla nostra cultura, in particolare ci immerge nel mondo di bambini schiacciati sotto il peso dei carichi da portare nel disumano lavoro quotidiano e delle responsabilità familiari, anch’esse più grandi di loro. Ma proprio dai bambini viene il messaggio di coraggio e di speranza. Bellissimi gli sguardi eloquenti di questi ragazzi e la fotografia dei paesaggi innevati e aspri. Il film sembra lungo perché le situazioni sono spesso troppo insistite e ripetitive. Lidia Ranzini - Anche se la storia è triste e i problemi non trovani soluzione, il film non è mai lacrimoso e tutto viene affrontato con dignità e senza eccessi. è un ottimo esempio di neorealismo, e dovrebbe essere proiettato ai capricciosi e troppo viziati bambini europei. DISCRETO M. Grazia Agostoni - Un buon documentario di denuncia. Una riserva sull’uso dell’handicappato (nonostante l’affetto) e dei muli strapazzati ben bene per colpire lo spettatore occidentale con emozioni (rifiuto, orrore anche) forti, ma ben pilotate (no droga, no armi, ma i quaderni, l’operazione) per suscitare simpatie, senza veramente dire la situazione comune, le cause, il contrasto storico... Tornando a casa CAST&CREDITS regia: Vincenzo Marra (Italia, 2001) soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Marra fotografia: Ramiro Civita montaggio: Luca Benedetti musica: Antonio Guerra interpreti: Salvatore Iaccarino (Salvatore), Aniello Scotto D’Antuono (Franco), Giovanni Iaccarino (Giovanni), Azouz Abdelaziz (Samir), Roberta Papa (Rosa), Silverio Iaccarino (Silverio), Marco Prosperini (graduato), Fabio Romano (appuntato) distribuzione: Sacher durata: 1h27’ IL REGISTA Vincenzo Marra (Napoli, 1972), si trasferisce a Roma giovanissimo ma rimane legato alla sua città d’origine. Dopo gli iniziali studi di legge inizia a lavorare come fotografo sportivo, passando al cinema nel 1996 ed esordendo nel cortometraggio con Una rosa prego e La vestizione (1998), da lui stesso scritti, diretti e prodotti. È assistente di Mario Martone a teatro in I Sette contro Tebe e, al cinema, in Teatro di guerra (1997). Vince una borsa di studio presso il Premio Solinas con la sceneggiatura Giorno per giorno. È secondo aiuto regista di Marco Bechis in Garage Olimpo (1998) e, nel 2001, realizza un documentario, Estranei alla massa (2001) [...] su un gruppo di tifosi del Napoli. (dal catalogo della Biennale di Venezia 2001) IL FILM Vincenzo Marra, il regista, è nato a Napoli nel settembre 1972. A proposito di questa sua opera prima [...] ha detto «... dopo aver cercato a lungo, ho trovato quattro meravigliosi pescatori, i protagonisti della mia storia. Loro, insieme a un vero peschereccio e a tutti gli altri attori non professionisti, hanno reso possibile la mia scommessa... ho girato per tre quarti in mare aperto, in presa diretta nel dialetto originale del luogo... ». C’è aria di neorealismo dunque in questo esordio sicuramente incoraggiante e indovinato. Marra mette insieme un materiale certo non nuovo, ma lo organizza in forme precise e asciutte. Il rischio era quello di scadere nel banale, nel folkoristico, nello stereotipo. Se qualche passaggio in effetti risulta meno efficace, il grosso corre su un taglio narrativo che media documentarismo e pulsioni drammatiche più ampie. Marra tiene bene le fila dei fatti, osserva, non giudica, ma partecipa del disagio dei suoi protagonisti. Il ricorso ai non professionisti offre certamente suggestioni di autenticità, con alcuni inevitabili limiti. C’è denuncia nella parabola amara di questo gruppo, ma il film ha il merito di non perdersi in inutili sociologismi. (COMMISSIONE NAZIONALE VALUTAZIONE FILM). Tornando a casa ha ottenuto alla Mostra di Venezia del 2001 il premio della Settimana della critica e Fedic e il premio Casa Rossa a Bellaria 2002. TORNANDO A CASA 279 26 LA STORIA È notte fonda per i quattro uomini a bordo del Marilibera, il peschereccio che ha gettato le reti in quel tratto di mare che separa la Sicilia dall’Africa. Nel buio quasi assoluto, tutti tacciono mentre dividono nei vari contenitori il molto pesce raccolto. Solo il rumore del motore e le grida dei gabbiani, accorsi a recuperare quanto viene ributtato in mare, accompagna il loro ritorno a terra. La mattina, davanti a un bicchiere, Franco, il più giovane, chiede: «Salvatore, dove andiamo questa sera?». Salvatore è il capitano della barca e non capisce il senso di quella domanda. Ma Franco gliela pone con più chiarezza. «Andiamo di nuovo in Africa? E se ci prendono e ci sequestrano la barca?». Anche Giovanni, il pescatore più vecchio, sembra convinto che quella preoccupazione sia eccessiva e cerca di attribuire a Samir, il tunisino imbarcato con loro clandestinamente da cinque anni e che non ha più visto la sua famiglia, la ragione di quell’atteggiamento. E Samir non esita a manifestare gli stessi timori: essere intercettati dai tunisini significa perdere la barca, farsi sparare dai libici. Quella notte, di nuovo a pescare in quel tratto di mare, avviene quello che si era temuto. E per sfuggire alla guardia costiera, Salvatore ordina di tagliare le reti, ma non riesce ad evitare che sparino contro. Ad un primo sguardo sembra però che la barca non abbia avuto danni e bisogna tornare a recuperare le reti. Giovanni è spaventato, e questa volta è lui a opporsi. Salvatore però non cambia idea. «Andiamo a recuperare la roba e poi fate quello che volete». Ma una volta sbarcati, Salvatore si accorge di quello che non aveva visto prima: la barca è stata colpita e il danno non solo è costoso, ma lo obbliga anche a fermarsi per diversi giorni. Ai suoi uomini dice: «Forse ci conviene tornare a Napoli». Napoli è per tutti il ritorno a casa, ma lo è soprattutto per Franco, che non sopporta più la lontananza da Rosa, la giovane moglie. Franco da tempo sta pensando all’America, dove può trovare un lavoro, e Rosa lo sa. Quando però le annuncia che i documenti sono pronti e che in un mese potrebbero partire, lei gli risponde di no. La sua giustificazione: «Qui sono importante». E Franco va a parlarne a Salva280 TORNANDO A CASA tore. Per stare vicino alla moglie sarebbe disposto a tutto, anche a fare il pizzaiolo in America. Salvatore prova a dissuaderlo, a ricordargli che il mare lui lo ha nel sangue, ma Franco non ascolta e allora conclude: «E se ci fermassimo a pescare a Napoli, ci andresti ancora in America?». Agli altri bastano poche parole: «Rimaniamo e vediamo quello che succede». Franco prima di tornare a casa si ferma a comprare un vestito per Rosa. Rosa è maestra, e dei suoi bambini si sente responsabile. Quella mattina, quando ne vede tre prendere una direzione diversa, si insospettisce e li segue. Non pensa certo che uno di loro stia nascondendo una pistola, e che per la paura di essere scoperto la punti contro di lei. Ma il colpo che parte la uccide. Intanto la camorra, che ha subito notato una barca in più tra i pescatori, ha ormai dato chiari segni di avvertimento. Adesso è Salvatore che viene affrontato apertamente. Il messaggio è definitivo: se ne deve andare. Anche il suo ultimo tentativo di trovare un prestito con cui pagare le reti appena rubate e la riparazione sono diventate l’occasione per un ricatto. La Marilibera riprende il largo con destinazione Sicilia, e Franco si lascia alle spalle la porta di casa con poche cose in uno zaino. Non tornerà più. Dopo un grave momento di sconforto, in piena notte, mentre gli altri dormono, si butta in mare con un salvagente per salvare un uomo in difficoltà e viene recuperato da un barcone carico di clandestini, che sta tentando di arrivare in Italia. Con loro sarà però riportato sulla costa dell’Africa. Anche lui clandestino, come gli altri. Dalla carta d’identità ha cancellato la sua faccia. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Il napoletano Vincenzo Marra, dopo essersi cimentato nella realizzazione di alcuni cortometraggi, completa la sua formazione di cineasta lavorando per Mario Martone in Teatro di guerra e poi facendo l’aiuto regista di Marco Bechis in Garage Olimpo. Marra esordisce nel lungometraggio a soli ventotto anni con Tornando a casa, subito selezionato nella sezione veneziana della “Settimana Internazionale della Critica” e im- mediatamente riconosciuto (e premiato) come un film di rara compattezza, di equilibrata economia narrativa, totalmente privo delle incertezze e dei vezzi compiaciuti, dell’ansia di dire tutto (o di dire troppo) che di solito caratterizzano le opere prime. Quindi Marra arriva alla regia dopo aver condotto il suo apprendistato presso due dei maggiori registi italiani – Martone e Bechis – nei loro film più riusciti, e nasce in quella parte “sana” del cinema italiano che coniuga l’impegno sociale e l’ambizione dei temi a una ricerca estetica altissima, al rigore stilistico e a una morale del fare. Tornando a casa si situa nell’orizzonte epistemologico post-neorealista, instaurando, attraverso la fiction, un fecondo scambio con il reale. La vicenda narrata dal film è presto detta. Nel tentativo di rendere più copiosa la pesca alcuni pescatori napoletani spingono la loro barca in acque territoriali africane, rischiando di incappare nelle navette della guardia costiera tunisina. Ognuno dei membri dell’equipaggio ha la sua croce da portare: Salvatore, il proprietario del peschereccio, deve fare i conti con i confini territoriali e con la camorra napoletana che non gli permette di pescare nelle acque del golfo. Franco, il più giovane dei pescatori, vorrebbe mollare tutto per andare in America con la giovane moglie Rosa che insegna in una scuola. E poi c’è Samir, un clandestino che ha lasciato il suo paese molti anni prima e cerca di mettere via i soldi da spedire alla famiglia restata in Africa. [...] Tornando a casa inizia con la ripresa di una scena evangelica: le reti gonfie di pesci vengono svuotate sul ponte della barca. Il lavoro notturno dei pescatori, contenti per l’abbondanza della pesca, ha come sfondo un mare nero, generoso ma allo stesso tempo lugubremente minaccioso coi suoi figli. Di fronte al mare che domina lo sguardo dei personaggi (e del regista) viene in mente quello che scriveva il grande scrittore francese Jean-Claude Izzo che ha cantato come nessun altro la città di Marsiglia, i suoi marinai e le vite spese sui porti del Mediterraneo. In uno dei suoi libri più riusciti Izzo racconta come i greci avevano più parole per definire il mare. Hals, il sale, è il mare in quanto materia. Pelagos, la distesa d’acqua, il mare che si offre come visione, come spettacolo. Pontos è il mare come spazio e via di comunicazione. Thalassa è il mare in quanto evento. Kolpos è lo spazio marit- timo che abbraccia la riva, il golfo o la baia. Materia, visione, comunicazione, evento e spazio: lo schermo materico (quanta terra e quanta acqua!) di Marra riesce a comprendere l’ampiezza dell’elemento e la profondità dei suoi pensieri. Nella prima parte del film, più aderente al documentario, tutto rientra nella logica – seppure dura e crudele – di un ciclo naturale. Nella seconda parte l’andamento narrativo si arrende alla terra, che col suo carico di storie (che non vogliono restare mute), con la fantasia delle sue finzioni, con la crudeltà dei suoi intrecci non offre nessun porto sicuro in cui attraccare. Anzi, la costa sembra respingere le barche col suo carico di uomini, come qualche anno fa respingeva la grande nave di Gianni Amelio, affollata di profughi albanesi che sognavano “Lamerica”. (SILVIA COLOMBO, Itinerari Mediali, novembredicembre 2001, pp. 49-52) L’Italia è considerata un paese, fra l’altro, di navigatori ma non ha avuto (se si fa eccezione per qualche sequenza di Rossellini, qualche documentario di De Seta, qualcosa di De Robertis) un grande cinema di mare. Del cinema di costa, di spiaggia, di porto al massimo, ma sempre girato con i treppiedi per terra. La prima virtù di Tornando a casa [...] è appunto di essere girato, in gran parte, a bordo di un peschereccio, con la capacità di restituire sensazioni, rumori, impressioni fisiche, un senso dello spazio e del movimento che nessuna piscina di Cinecittà potrebbe sostituire. Tanto più che gli interpreti sono tutti non professionisti, veri pescatori di Procida dotati però di una istintiva capacità di recitare come degli attori di sceneggiata napoletana. E sulla barca di Sasà, pescatore napoletano che va a gettare le reti lontano, oltre la Sicilia, nel mare già africano dove il pesce è tanto anche se bisogna stare attenti alle motovedette tunisine e libiche, c’è un piccolo campionario di caratteri che la rende simile a un teatrino navigante: il capitano e padrone, determinato e coraggioso, il giovane che sogna l’America, il vecchio marinaio istintivamente e bonariamente razzista, perché a bordo c’è anche un lavorante tunisino, con cui invece il giovane solidarizza. E un po’ da sceneggiata è lo sviluppo della storia. [...] Napoli non è una casa in cui si possa TORNANDO A CASA 281 tornare e anche il giovane Franco lo scoprirà dolorosamente sulla sua pelle. Così la barca si rimette in mare, di nuovo verso l’Africa e verso un finale di sapore pirandelliano in cui Franco deciderà che è un’altra casa e un’altra terra quella verso cui deve tornare. (ALBERTO FARASSINO, Kw.cinema) Tornando a casa non è un film sui pescatori e forse nemmeno un film di pescatori. Più propriamente è un’opera che ha per tema e soggetto il Sud del mondo, per superare schemi e pregiudizi che animano una confusa concezione stereotipata. Il Sud che emerge dall’opera prima dell’esordiente Vincenzo Marra, fotografo sportivo e documentarista, è un luogo quasi spirituale, dove a fronte della povertà, dell’emarginazione, della malinconia e della rabbia per la propria condizione esistenziale, ben visibili in filigrana per tutto l’arco del film, si innesta un corposo sentimento di solidarietà che avvicina popoli diversi, accomunati dalla stessa marginalità sociale. A unire gli ultimi, spesso protagonisti di guerre intestine che lacerano ulteriormente la loro già precaria esistenza è, secondo Marra, un sottile filo di razionalità, lo stesso che porta Franco, nel finale, a mascherare la propria identità, scambiandola con quella di un tunisino annegato. Nel rimpatrio forzato – per lui un espatrio – che subirà da parte della Guardia di Finanza è riposta un’ultima speranza in un domani diverso e migliore. In questo loro essere tragicamente ultimi, la gente di mare e gli emigranti di Marra espongono un’umanità pasoliniana, in un contesto che solo a prima vista può dirsi viscontiano. La presenza dei pescatori, pur amplificando la tragedia esistenziale, non connota di per sé il contesto in maniera neorealista, anche se gli interpreti sono tutti attori non professionisti, pescatori di Monte di Procida con l’aggiunta di un bagnino algerino in fuga dal suo paese per motivi politici. È lo spazio stesso ad essere in movimento. Migranti, dunque, sono tutti, alla ricerca di un luogo spirituale prima che fisico in cui eleggere una residenza certa, non solo sul piano logistico, quanto su quello della propria identità. [...] schiacciati dal peso della propria subalternità, i protagonisti di Tornando a casa sono inquadrati, nella prima parte, in sequenze alternate di primi piani o dall’alto. 282 TORNANDO A CASA Un modo per evocare antiche paure e anticipare tragedie imminenti. Tutto attorno un buio notturno li avvolge, li fascia, proteggendoli. Buio e acqua sono le due dimensioni imprescindibili: e i pescatori se lo ricordano tra di loro definendo la barca “casa e galera” (Samir), o “mamma”, laddove il mare è “padre” (Giovanni). A una prima parte documentaristica, in cui tenebre e silenzio sono rotti dal repentino irrompere dell’azione (l’inseguimento, il rientro), fa così seguito una seconda nella quale, in controtendenza alla solarità delle inquadrature, in cui prevalgono luce e dialoghi, si svolgono le tragedie di Rosa, di Franco, dei maghrebini. Le acque chiare e trasparenti sembrano avviare il film verso un finale tranquillo, ma l’equivoco si dissipa presto. E la solidarietà allora a riemergere, nel finale, assieme ai clandestini. Ed è in forza di questa possibile soluzione che Franco ritrova un lieve sorriso, dopo tanto. Per chi ha perduto la propria identità, il futuro è fatto di contaminazioni verso nuovi orizzonti, verso una società aperta, meticciata al contrario, verso sud e verso oriente, verso altri mondi e culture, ben lungi dall’essere inferiori all’Occidente. (MICHELE GOTTARDI, Segnocinema 112, novembre/dicembre 2001, p. 29) Un confine sottile, invisibile, tracciato sul mare, separa le coste tunisine da quelle italiane. Oltrepassare questo confine, con il rischio di essere scoperti e assaliti dalla polizia tunisina, può permettere a un peschereccio napoletano di sopravvivere, trovando finalmente un mare pescoso. Per gli “africani”, braccati da un’altra polizia, spinti dalla necessità e dalla speranza, superare questo confine vuol dire andare verso un’ipotesi di prosperità. Questa linea tracciata sul mare è l’asse di una simmetria lungo cui si collocano le immagini di persone che hanno in comune la condizione della marginalità. Sempre sulla soglia della sopravvivenza economica, ai margini della società, non fanno altro che sconfinare continuamente. Centrale dunque il tema dell’identità (identità che è confine, distinzione, individualità) e significativo il fatto che il confine sia tracciato sul mare (mare che è immenso, indistinto, che nutre e uccide, che è amato e odiato al tempo stesso). (RAFFAELE REZZONICO, Duel 91, ottobre 2001, p. 12) INCONTRO CON IL REGISTA VINCENZO MARRA padre Bruno: Ci parli un po’ della napoletanità di questo film. Vincenzo Marra: È un luogo talmente particolare che difficilmente si riesce a staccarsene. In questo momento mi preme particolarmente raccontare la mia terra. Ci ho provato con questo film e con un documentario che ho presentato qualche giorno fa al Festival di Torino. È qualcosa di cui forse si può parlare solo dopo aver visto il film. Un tema un po’ nascosto. Ho voluto fare un film un po’ diretto, lontano da me nell’ambientazione, nei personaggi, nella storia, non metropolitano, ma in realtà pieno di cose personali, tra cui la napoletanità. padre Bruno: Lei fa parte di un gruppo di autori anche teatrali che hanno fatto di Napoli uno spazio di creatività. In chi si riconosce come scelte? Marra: A costo di essere presuntuoso, credo di essere da solo perché il film nasce dal mio bisogno di raccontare una storia che avevo dentro. Avevo poco tempo per farlo, anche perché in mare non si può stare tanto a ragionare ma si deve andare anche un po’ d’istinto. L’unica cosa cui mi sono ancorato era ciò che avevo dentro. Non ho pensato a film o registi. Non mi piace sfruttare la napoletanità in senso spettacolare. padre Bruno: Quali sono stati i condizionamenti dati dall’isolamento su una barca in mezzo al mare? Marra: Sicuramente diciotto metri di mondo ti condizionano e ti danno una percezione completamente diversa. padre Bruno: A cosa si riferisce il testo della canzone dei titoli di coda? Marra: Si torna sempre a Napoli, una città da cui non puoi stare lontano perché ti manca, e se ci stai non ci puoi neanche stare. È un po’ la storia del film. padre Bruno: Il manifesto mostra il volto di Franco, che forse fissa qualcosa che vuole raggiungere. Ma manca il che cosa. Marra: Per vari motivi c’è lui nel manifesto. Una delle mie tante ossessioni è stata voler raccontare il micromondo della barca con il nero attorno. Giravamo la barca in posizione buio, perché non volevo vedere le luci della costa. Una follia perché il proprietario della barca, Salvatore, l’unico che guidava il peschereccio, girava la barca, poi doveva spegnere il motore perché se no il rumore avrebbe disturbato il fonico e fare in modo che la barca nel frattempo non si girasse. Il nero che vedete nella prima e nell’ultima inquadratura, di lui che guarda davanti a sé con la faccia un po’ coperta, voleva significare un’identità nuova, una specie di maschera sul viso. padre Bruno: Le è stato facile trovare dei collaboratori? Marra: Sono tutti attori non professionisti, e i quattro sono pescatori nella realtà. Quelle del film sono dinamiche simili alla loro vita, ma non sono la loro vita, hanno recitato. intervento 1: Il film mi è piaciuto moltissimo, è apprezzabile perché è uno dei pochi film italiani che pone dei problemi reali come il lavoro e la vita dura. Gli attori sono straordinari. L’unica cosa che non ho apprezzato sono i troppi finali. padre Bruno: Ci sono i disperati, e un arabo che è l’unico a parlare in italiano. I finali, poi, non sono un finale unico in TORNANDO A CASA 283 progressione per arrivare a quella casa illusoria, quella sponda di un altro mondo per fuggire? Marra: Il protagonista è un personaggio che acquista, rinasce con una nuova identità. Segue un doppio binario, quello del destino e quello di una scelta individuale. Si butta a mare, dopodiché viene ripescato come un pesce da un gruppo di persone che fa un viaggio al contrario. Il film è giocato su due temi: quello del conflitto tra gli ultimi – pescatori italiani e aspiranti emigranti dall’Africa – una lotta tra poveri. L’altro è quello della solidarietà tra gli ultimi: il finale racconta, nella mia idea, la consapevolezza di stare sulla stessa barca. Non è un finale illusorio, credo che un viaggio verso Sud possa essere qualcosa di molto reale e forte. Ho scoperto dopo aver fatto il film che in Sicilia, nell’immediato dopoguerra, le famiglie mandavano i primogeniti negli Stati Uniti e i secondi in Tunisia. E infatti in Tunisia esiste una comunità dove si parla italiano. È una speranza che ci possa essere un viaggio anche in controtendenza. è piaciuta la rappresentazione della morte: delicata ma pervasa di una sensazione di vuoto, di mancanza, di assenza. Non si suicida, però si mette in gioco per tentare di salvare qualcuno. Si butta in acqua non pensando alle conseguenze, ma per salvare qualcuno che non conosce. Non a caso aveva detto che avrebbe voluto andare in America, e alla domanda “sai l’inglese?” aveva risposto “per me l’inglese è come l’arabo”, quando di fronte alla nuova destinazione rinasce, dice l’unica parola di arabo che conosce. E se Samir, che è arabo, aveva imparato l’italiano, lui pensa di poter imparare l’arabo. Marra: Come ho detto prima, esiste un doppio binario. Il primo è quello di un destino: ho scritto, girato e montato le due scene come avete visto voi. Non ce la fa a suicidarsi, ma il giorno dopo il mare lo richiama a sé e lui fa una scelta, si butta. Dopodiché il destino lo porta a una strada, e quindi è un personaggio che si fa guidare dal destino però sceglie. Capisce che l’unica possibilità che ha è quella di seguire coscientemente un destino. Quindi non annulla la sua identità, ma la cancella per gli altri e si abbandona a quello che sarà. Questo almeno era nelle mie intenzioni. Marra: A proposito della napoletanità di cui si parlava all’inizio, legata alla morte della ragazza e alle parole della canzone. Tutto il film è giocato su delle persone che sognano di tornare a casa, ma nessuno ci riesce. Compresa lei, che dice di volere rimanere e che “paga” le conseguenze della scelta. Quando tra napoletani ci si ritrova a parlare della nostra città, spesso emerge il concetto di impossibilità. Perché nonostante una grande intelligenza e capacità, manca sempre qualcosa? Ho voluto raccontare questo concetto attraverso dei fatti veri, come la malavita, ma anche cercando la metafora sull’impossibilità di superare delle cose incomprensibili e di rimanere nella città e di tornare. Il mare, la morte di Rosa attraverso una mano innocente, il viaggio di sospensione su cui è stato concepito il film. Che nasce da una frase di un fratello di mio nonno, che ha navigato tutta la vita: “ricordati che ci sono i vivi, i morti e i naviganti”, e che ho riscritta nella storia del remo di Salvatore. Tutto questo è una sospensione: dal luogo di appartenenza, luogo d’anima, che appartiene a tutte le persone che sognano di tornare a casa un giorno. Per cui quella speranza ti tiene in vita ogni giorno, anche se non ci riuscirai mai. intervento 2: Queste ultime frasi mi hanno chiarito un’interpretazione che avevo dato. Probabilmente lui cancella il suo documento perché, per come gli altri lo conoscevano, era già morto, quindi la sua identità l’ha eliminata del tutto. Lui muore di fatto quando muore la sua compagna. Mi padre Bruno: Lei ha trasferito questa tensione agli attori e li ha scatenati, perché quando litigano o stanno progettando sono davvero appassionati. Poi ha dato uno schiaffo alla camorra con questo film, rappresentando questo pescatore che non si rassegna al ricatto. padre Bruno: Il gesto di distruggere il proprio documento che senso ha? 284 TORNANDO A CASA Marra: A proposito di Salvatore, che tiene alla sua barca più che a qualsiasi altra cosa, quando abbiamo girato quella scena gli ho spiegato che doveva rimanere fermo, immobile. Ma per i primi ciak è stato impossibile farlo stare fermo, perché non poteva accettare il ricatto neanche nella finzione. padre Bruno: Come è andato il film a Napoli? Marra: Ci sono state due anteprime: la prima è stata quella a Pozzuoli, dove il film è stato girato, uno dei ricordi più belli per me, per la presenza in sala di tutta la gente di mare. La seconda a Napoli città, dove ha avuto buoni incassi e critiche positive. Sono molto orgoglioso che il finale in questo momento storico abbia aperto delle discussioni sull’incontro insolito tra due mondi. film mi ha coinvolto emotivamente come questo, tutto quello che accade fa parte del quotidiano nell’ambito di una difficoltosa situazione sociale nel nostro Paese. Situazione paralizzante per coloro che vogliono onestamente sbarcare il lunario e sono costretti ad agire illegalmente, causa la presenza di situazioni egemoniche quali la camorra, il ricatto, la malavita. Una denuncia sull’emarginazione che si svolge interamente in mare dove i confini si fondono e dove le miserie dell’uomo trovano la speranza in una sorta di annullamento catartico. Delia Zangelmi - Passione e dolcezza. Odio e amore. Orgoglio e dignità e un’infinita umanità. Vincenzo Novi - Gli ultimi mesi hanno portato al San Fedele tre pellicole, la cui trama si rifaceva al tema del ritorno a casa. Tre registi, uno dell’est, due dell’ovest, che hanno saputo cogliere come antenne il brivido che ha attraversato l’umanità al dissolversi delle sbornie ideologiche del secolo passato. Un titolo d’onore per questa giovane arte che sempre meglio riesce ad esprimere con mezzi originali la nostalgia e i desideri, le tenerezze e i rimpianti che percorrono le fibre segrete della società. Anche Marra sa cogliere nel suo film la nostalgia del luogo domestico ma, sopratutto, il desiderio di una patria dell’anima dove il proprio Io possa ricomporsi e ripartire. Il personaggio di Franco, che sa superare l’attimo della disperazione, getta sul mondo uno sguardo più partecipe. L’aiuto che dà al naufrago è mosso da una forza a lui stesso ignota e, anche se non salva lo sfortunato, sa trovare in sé la capacità di una decisione: sarà un ponte tra due sponde separate da diffidenze e timori. Marra appartiene già a quella generazione che deve uscire dall’ambito delle visioni anguste, per non ripetere gli errori del passato, suggeriti dalla sfiducia e dalla mancanza di coraggio. Piergiovanna Bruni - Un giovane regista orgogliosamente fiero del suo capolavoro. Perché di capolavoro si tratta. Nulla di edulcorato ma tutto di un verismo puro, che riprende da un lato la tragicità dell’esistenza dei pescatori di verghiana memoria, e dall’altro la pirandelliana obbligata perdita d’identità come unica via di fuga dalla cristallizzazione in una “forma” che la società ci precostituisce. Mai un Norina Bachschmid - Da premio per la struggente bellezza di quei volti, di quegli sguardi intrisi di purezza, che trascinano nel misterioso mondo dei sentimenti umani. L’essenzialità della scenografia, il buio intorno alla barca, la delicatezza rispettosa con cui vengono toccati i temi dell’amore, della criminalità, dell’emarginazione, la melodia delle canzoni che si alternano al rumore dei motori, sembrano voler I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Maria Cossar - È un film chiaro, trasparente, con attori non professionisti estremamente bravi e ben calati nelle loro parti. Il mare, sempre presente, calmo, agitato, azzurro, cupo non è il protagonista del film, fa da cornice alla morte, al dramma di queste persone. La riflessione si rende necessaria nel finale: il coraggio e la forza di annullare la sua vita, le sue origioni è stata descritta con molta intensità e grande bravura. TORNANDO A CASA 285 condurre più in là della dimensione umana. Anche la frase “la pace sia con te” ha uno spessore denso di significato... Maria Cossar - È un film chiaro, trasparente, con attori non professionisti estremamente bravi e ben calati nelle loro parti. Il mare, sempre presente, agitato, calmo, azzurro cupo, non è il protagonista del film, fa da cornice alla morte, al dramma di queste persone. La riflessione si rende necessaria nel finale: il coraggio di Franco e la forza di annullare la sua vita e le sue origini sono stati descritti con molta intensità. degradati della città (es. il primo ritorno a casa di Samir, in una zona di edilizia popolare recente, ma piagata dal degrado e dal disfacimento); sembra un’invocazione agli ideali risorgimentali, così lontani e sconosciuti, la ripresa della statua di Garibaldi cui la macchina da presa si solleva dopo aver fotografato l’incuria del mercato e la confusione della piazza. Un bravo al regista anche per aver rotto il fronte dell’intimismo dei giovani registi che preferiscono dedicarsi a soggetti fortemente introspettivi: non siamo la Svezia che ha risolto tanto del problema sussistenziale per poterci dedicare a queste ricerche esistenziali: la nostra società gronda problemi di sudore e sangue (dall’immigrazione alla malavita, dalla droga all’emarginazione). OTTIMO Anna Lucia Pavolini Demontis - Film equilibrato e avvincente. Ben curate le vicende umane e l’atmosfera che regna tra i pescatori. Il mare comunica con tutti e a tutti dà la spinta per continuare il lavoro al di là dei pericoli ad esso connessi. Ottimi gli spunti di solidarietà silente, ma chiara. Marcello Napolitano - Bellissimo film: un film duro, asciutto, che scava in una situazione di lavoro pericolosa, disagiata, e indaga lucidamente sulla psicologia di questi pescatori, tutti, in una misura di poco diversa, emarginati e oppressi, chi dal lavoro disagiato, chi da problemi doppi di emigrazione e di lavoro, e chi da un ambiente lavorativo ferocemente compromesso con la malavita. Anche Marra, come Gaglianone, ha dedicato moltissima attenzione alla fotografia, e anche qui gli effetti sono notevoli: il mare è visto come un elemento nero, che aspetta tranquillo (per fortuna) di inghiottire colui che ha un momento di smarrimento, un elemento ostile ma che nello stesso tempo è il sostentamento dell’equipaggio: l’illusione di tornare a casa, sostenuta dalle bellissime e insolite riprese del golfo, da Monte di Procida a Baia, viene presto cancellata dalla constatazione che è ancora meno feroce il mare della società. Anche molto importante, per un napoletano, il fatto che il regista abbia completamente evitato l’oleografia di Napoli, riprendendo gli aspetti anche molto 286 TORNANDO A CASA Miranda Manfredi - Conrad non avrebbe saputo descrivere meglio la “linea d’ombra” che determina il confine di appartenenza del mare. Minacce ed estorsioni in un lavoro in cui la lotta per la sopravvivenza si configura nello sconfinamento e nell’ostilità della natura, costringono il protagonista, munito dell’unica identità di una croce al collo, a fuggire da se stesso e da un’Italia da cui si sente tradito, a unirsi a un mondo musulmano che gli sembra più amico. Il film è girato con molta attenzione al linguaggio e all’espressione dei volti. Il manifesto mette in evidenza solo paura. Il mare amico e nemico domina la sceneggiatura e con poche sequenze notturne ci caliamo nell’emozione di fughe e approdi clandestini. Il titolo del film ci fa supporre un desiderio di poace e tranquillità. La canzone finale, struggente e amara, da quanto ho capito, esprime solo la difficoltà del ritorno. Lina Amman Orombelli - Film bellissimo: si respira l’odore del mare, si soffre la sua oscurità, si godono i colori solari. Splendidi perfino troppo pittorici nelle inquadrature delle barche da pesca. I sentimenti del protagonista sono forti e delicatissimi. La sua scelta finale suscita scoramento, ma è una scelta di grande coraggio, non di rinunzia. È un uomoeroe che non esita a salvare il compagno e affronta una nuova vita, senza la sua identità, diversa e più dura della vita di prima. Carla Testorelli - Complimenti a Marra che cattura lo spettatore con un’opera prima convincente, compatta e priva di sbavature. Tornando a casa è un poema epico sul mare, quello vasto, solcato da pescherecci e abitato da pescatori spesso costretti a sconfinare nelle acque extraterritoriali per trovare il pesce. Pescatori che, nonostante la vita dura, soggetta a rischi e ricatti, non possono e non vogliono sottrarsi al sapore di un sale troppo spesso “amaro”. Un sale che riesce a penetrare anche nella pelle dello spettatore. Nel romanzo corale trova un suo spazio anche la vicenda personale di Franco, il giovane pescatore sul cui viso si legge, fin dalle prime battute, il dubbio e l’incertezza. Sarà la fine tragica della sua vicenda personale, una delicata storia d’amore, permeata di dolcezza e di riserbo, a spingerlo verso una strada nuova e sconosciuta. dopo un naufragio, riprende il suo viaggio, ritorna a solcare le acque con la sua barca (Ungaretti), così Franco, dopo la morte di Rosa, non può far altro che imbarcarsi e ritornare a pescare con i suoi compagni. Il mare, che è un amico, che ha una voce e parla a chi sa ascoltarlo (Verga), dà a Franco non solo la salvezza ma anche l’occasione di costruirsi una nuova vita. Il giovane pescatore sulle coste settentrionali dell’Africa dovrà iniziare un nuovo viaggio, prima di tutto dentro di sé alla ricerca della serenità. Che la vita futura sia migliore di quella passata non si sa; ma Franco, come ogni altro uomo appena scampato alla morte, non può privarsi dell’illusione / speranza che il futuro abbia in serbo per lui qualche gioia (Leopardi). Film di grande equilibrio narrativo, che unisce alla tecnica sicura il tema sociale e i rimandi culturali. BUONO Giulio Manfredi - La suggestione del mare è la componente principale di questo film. Suggestione accompagnata dalla consapevolezza del duro lavoro dei pescatori che dal mare traggono la loro sopravvivenza come da un antico brodo primordiale. Il film è di denuncia e ci trasporta in un mondo che non vorremmo riconoscere come italiano. Estorsioni minacciose, emblematiche di una criminalità organizzata che non risparmia nessuno e costituisce la base destabilizzante dell’educazione dei figli. Il regista ha voluto difendere la sensibilità di quelli che vorrebbero essere italiani e che noi discriminiamo. In contrapposizione è un ragazzo l’italiano che cerca una nuova identità in un paese che pensa più innocente e leale. Ma forse è un’illusione. Pierfranco Steffenini - La dura vita dei pescatori napoletani, costretti a svolgere la loro attività in mari lontani e pericolosi o a scontrarsi con i camorristi che controllano la pesca nel golfo di casa, i loro rapporti non facili con gli immigrati, ancor più infelici e reietti di loro, costituiscono i temi portanti di questo buon film, diretto con mano sicura da un regista esordiente. Protagonista nello sfondo è il mare, che è l’ambiente naturale, amato ma anche infido, di questi diseredati. Non mancano nel film scene dense di significato, come le drammatiche sequenze iniziali e contenuti tocchi poetici, come nei gesti di Franco nei confronti di Rosa o nei colloqui con Samir. Sono ben disegnati i caratteri anche nei personaggi di contorno, rozzi ma all’occorrenza non privi di sensibilità. Positivo quindi il giudizio sulla regia, meno convincente la sceneggiatura, che a volte carica eccessivamente la vicenda, come nell’episodio dell’uccisione di Rosa, che pure è una svolta nodale nella storia e che determina la successiva scelta di vita di Franco, ben descritta, ma, a mio avviso, del tutto improbabile. Caterina Parmigiani - Come un superstite lupo di mare, Luciana Pecchioni- Questo film non sembra un’opera prima, perché la regia è molto sicura e asciutta e le riprese delle barche sia in porto che in mare sono bellissime. La vita sul peschereccio è viva e coinvolgente. Gli attori non professionisti sono perfetti, naturali e molto comunicativi, sia nel linguaggio che nei gesti. La rappresentazione delle difficoltà da vincere nella lotta contro il mare è contrapposta alle difficoltà che si incontrano sulla terra. Vi è poi il racconto dell’amore delicatissimo dei due sposini. Il finale a sorpresa è TORNANDO A CASA 287 che Franco decide di scomparire in un nuovo mondo, nella speranza che gli possa dare quello che il suo gli ha tolto, come già aveva fatto il suo amico tunisino quando aveva scelto l’Italia come nuova patria. nuisce notevolmente nel passaggio dalla dimensione corale, più consona allo stile del regista, alla narrazione delle vicende personali. MEDIOCRE DISCRETO Grazia Agostoni - Film lineare, ben fotografato, però non approfondito e, forse, troppo ricco di temi, letterari e realistici insieme (lotta per la vita sulla scia dei Malavoglia, mafia, destino, emigrazione, amore, educazione, mito americano e fratellanza con gli arabi). Non tutto è apertamente spiegato (lo sparo alla maestra, le reti nuove). Annamaria de’ Cenzo - Belle le immagini, che rendono bene il vivere dei pescatori a bordo del peschereccio. Bravi anche gli interpreti, dalle espressioni intense, adeguate alla durezza della loro vita. La partecipazione dello spettatore però dimi- 288 TORNANDO A CASA Simonetta Testero - Un film troppo semplicistico sulla vita del mare e dei pescatori. Esprime in modo un po’ superficiale le vicende e i sentimenti dei vari personaggi. La vicenda di Rosa è esagerata, con un finale drammatico, poco veritiero. Unico personaggio commovente è Samir, pudico ed espressivo. Franco non riesce a suicidarsi, ma lo fa scomparendo dalla sua vita italiana e forse con il desiderio di ripresa in una nuova vita. Buona la recitazione. Silvano Bandera - Manca assolutamente di originalità. Non dice proprio nulla di nuovo in quanto a problematiche sociali. Anche la regia è ancora dilettantesca. Traffic CAST&CREDITS regia: Steven Soderbergh (Usa/Germania, 2000) soggetto: dalla serie televisiva di Simon Moore Traffik sceneggiatura: Stephen Gaghan fotografia: Peter Andrews (Steven Soderbergh) montaggio: Stephen Mirrione musica: Cliff Martinez interpreti: Michael Douglas (Robert Wakefield), Don Cheadle (Montel Gordon), Benicio Del Toro (Javier Rodriguez), Luis Guzman (Ray Castro), Dennis Quaid (Arnie Metzger), Catherine Zeta-Jones (Helena Ayala) distribuzione: Columbia Tristar durata: 2h27’ pe. Candidato al premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale, il film vince la Palma d’oro a Cannes nel 1989; la giuria è presieduta da Wim Wenders. Sebbene il film sia fatto con un basso budget, Sex, Lies and Videotape ottiene un notevole successo di botteghino. Soderbergh ha lavorato anche con altri registi, producendo Daytripper di Greg Mottola e Pleasantville di Gary Ross e collaborando alla sceneggiatura di Nightwatch di Ole Bornedal. Dopo Out of Sight (1998), tratto da un romanzo di Elmore Leonard e interpretato da George Clooney e Jennifer Lopez, Soderbergh ha realizzato L’inglese nel 1999. Evento unico nella storia degli Oscar, nel 2001 Soderbergh è candidato alla prestigiosa statuetta come miglior regista per due film: Traffic ed Erin Brockovich. Dopo i quali ha realizzato Ocean’s Eleven (2002), remake di Colpo grosso, e Full Frontal. IL REGISTA Nato a Baton Rouge (Louisiana, Usa) il 14 gennaio 1963, Steven Soderbergh (regista, produttore, sceneggiatore) ha rapidamente scalato le vette del successo. Figlio di un professore universitario, Steven Soderbergh inizia a girare film a 13 anni. Terminata la scuola superiore, si reca per un breve periodo a Los Angeles, dove lavora come montatore in una casa di produzione video. Realizza un film casalingo sul gruppo rock Yes. Il gruppo lo incarica di riprendere un suo concerto. Da questo materiale Soderbergh realizza un documentario che vince il premio Grammy nel 1986, assicurandogli il plauso della critica. Scrive la sceneggiatura di quello che sarà il suo primo lungometraggio, Sex, Lies and Videota- IL FILM La luce di Tijuana ha le tonalità giallo-arancio di un sole malato. I colori dell’Ohio e delle stanze del potere di Washington sono avvolte da un blu gelido. Il cielo di San Diego ha il chiarore neutro e uniforme delle news televisive e del docudrama hollywoodiano. Steven Soderbergh, macchina da presa in spalla, ispirandosi a una miniserie televisiva britannica del 1989, si mette al telaio, sceglie i diversi colori della stoffa e comincia a tessere la trama. I fili si accostano, si sfiorano, tracciano curve, ombre, disegni che restano isolati, secondo una rigida economia del codice cromatico. PaTRAFFIC 289 27 ralleli e divergenti. Tre luoghi diversi per tre storie principali: due poliziotti messicani (Benicio del Toro e Jacob Vargas), due agenti della DEA e una moglie (Catherine ZetaJones), un giudice (Micheal Douglas) della corte suprema dell’Ohio con una figlia tossicodipendente. Questi personaggi combattono contro la droga guerre pubbliche e private. Infatti, nella “mexican connection” il sangue dei cartelli si confonde con quello delle famiglie. Traffico di stupefacenti e di emozioni. Nashville è il modello alto della messa in scena. L’american beauty di fronte alla musica, alla disperazione di un incubo (Magnolia), a una guerra che non può essere vinta ha bisogno di un racconto, con tempi lunghi e attori bravissimi, che sia un puzzle e una rete. Senza giudizi o prediche. (ENRICO MAGRELLI, Film TV, 13 marzo 2001). Già premiato a Berlino e ai Golden Globes, il film ha avuto quattro premi Oscar (regia, montaggio, Benicio Del Toro attore non protagonista, sceneggiatura). LA STORIA Confine tra Messico e Stati Uniti, ventesimo miglio a sud di Tijuana, Javier Rodriguez e Manolo Sanchez, poliziotti, impegnati in un’operazione di controllo, fermano un camioncino e sequestrano la droga. Subito dopo, gli uomini del generale Salazar, che li avevano intercettati da un aereo, li costringono alla resa. Salazar vuol sapere da chi hanno avuto quella soffiata, e fa loro i complimenti. La droga è per gli Stati Uniti una guerra da combattere mettendo in campo gli uomini migliori. Alla Corte Suprema dell’Ohio si discute su una legge che consente il sequestro del terreno dove si coltiva marijuana, tra di loro il giudice Robert Wakefield dà una spiegazione all’impegno che ha messo in quel lavoro: «Ho una figlia». Per fermare gli spacciatori che operano in California, la Dea, l’agenzia del dipartimento di Giustizia americano contro la droga, ha spedito a San Diego, base del narcotraffico, Montel Gordon e Ray Castro, con l’incarico di arrestare Edoardo Ruiz, sospettato di importare grosse quantità di “neve”. Questi i luoghi che si intrecciano in una 290 TRAFFIC storia che racconta il tentativo da parte della presidenza degli Stati Uniti di ricostruire la pista della droga e di fermarla al confine. Robert Wakefield, a cui il Presidente affida l’incarico di dirigere la guerra agli stupefacenti, viene convocato a Washington dal Capo del Gabinetto. Il compito che gli viene assegnato è quello di arrestare in due anni le organizzazioni criminali che si contendono il controllo degli stupefacenti in Messico. Poco dopo, ad un party, Wakefield si sentirà dire che si tratta di una guerra impossibile da vincere perché troppi sono i ragazzi che ormai fanno uso di droga e pochi i reali interessi da parte dei politici a volerla sconfiggere. Quello che il giudice Wakefield non sa ancora è che la prima difficoltà con cui dovrà misurarsi la troverà proprio in sua figlia. Caroline, sedici anni, non è soltanto un’alunna dai voti migliori e dalle tante attività di cui essere orgogliosa, è anche una ragazza che frequenta, con i suoi compagni di classe, feste dove si mescolano sesso e droga. Ne sarà informato ufficialmente dalla polizia, dopo una notte in cui un loro amico ha rischiato un collasso da overdose. Il problema non è semplice da risolvere. La ragazza è ormai completamente in balia dell’eroina che si procura negli ambienti più squallidi, pur continuando a negare e trovando nella madre una certa complicità. Nel frattempo a San Diego la Dea ha arrestato Carlos Ayala, uomo ricco, e ufficialmente insospettabile. La prima a non capire è proprio la moglie Helena, madre di un bambino piccolo e in attesa del secondo, che dice di ignorarne la ragione anche all’avvocato, amico di famiglia e dal quale invece apprende, con una confessione sottovoce, che il marito è in realtà bravissimo nell’importare illegalmente droga negli Stati Uniti. Sul traffico di droga tra Messico e California anche il generale Salazar sta da tempo indagando. Kavier, il poliziotto da lui convinto a entrare tra gli uomini al suo servizio, è stato spedito a San Diego per cercare Francisco Flores, un killer che si muove per conto dei fratelli Obregon, il cartello di Tijuana, principale rivale del cartello di Juarez, che fa capo a Porfirio Madrigal. Da Francisco Flores Salazar riesce a sapere quello che vuole e la Tv può annunciare che le squadre antidroga del generale sono riuscite a dare un duro colpo a quella perico- losa organizzazione. Helena Ayala, nel corso di un colloquio, racconta al marito di essere rimasta senza soldi e senza amici e gli dice anche di non essere disposta a rinunciare alla vita che ha sempre avuto. Il lavoro del giudice Wakefield lo porta a controllare quello che sta succedendo al confine e a incontrare colui che ritiene impegnato nella sua stessa causa. Salazar lo rassicura: «Sono convinto che il cartello di Obregon sarà messo sotto chiave, anche se il compito è difficile per la corruzione che dilaga nella polizia». E lo scontro diretto con la droga il giudice lo avrà poco dopo, quando sorprende la figlia Caroline in bagno che sta tentando di nascondere una dose. Caroline viene affidata a una comunità terapeutica, dalla quale però scapperà, e da quel momento per il padre inizia la faticosa strada per cercarla anche nei quartieri più degradati e ricondurla a casa. Helena Ayala non si rassegna invece all’idea che il marito possa essere ritenuto colpevole, e soprattutto al fatto di perdere quella ricchezza di cui non intende fare a meno. E decide di andare avanti da sola. Contatta Francisco Flores, di nuovo a San Diego, mollato da Salazar dopo aver saputo nomi e indirizzi degli Obregon, e lo incarica di uccidere Edoardo Ruiz, l’unico testimone già in mano alla Dea, che avrebbe potuto incastrare definitivamente al processo il marito. L’operazione però non riesce, anzi Francisco Flores verrà ucciso proprio mentre sta per sparare, e allora lei si spinge fino in Messico alla ricerca degli Obregon per chiedere di essere distributrice esclusiva a loro nome della droga negli Stati e di uccidere Ferdinando Ruiz. Intanto Manolo Sanchez, con Javier Rodriguez, al servizio di Salazar, si lascia prendere dalla tentazione di raccontare tutto quello che sa alla Dea e di passare la frontiera. Se ne accorge la moglie, che avverte Kavier. E Manolo sarà ucciso. A questo punto la situazione precipita. Javier si consegna alla Dea e parla. Nella notte il giudice Wakefield viene svegliato e informato che il generale Salazar è stato arrestato: lo si ritiene colpevole di lavorare da sempre per Porfirio Madrigal con lo scopo di far fuori gli Obregon e subentrare al loro posto. La sua risposta è «cerco di venire al più presto». Mentre sta per uscire, la moglie però lo avverte della sparizione della costosa macchina foto- grafica. Comincia così la lunga ricerca di un padre verso una ragazza che è ormai sprofondata verso l’abisso. E la consapevolezza di poterla recuperare solo standole più vicina e ascoltandola lo obbligherà a prendere una decisione importante per la sua carriera: rinunciare all’incarico per cui è stato confermato. Intanto Edoardo Ruiz, alla vigilia del processo di Carlos Ayala, viene ucciso. Il giudizio contro quell’uomo ritenuto un pericoloso trafficante di droga è definitivamente annullato. Solo Javier Rodriguez, poliziotto integerrimo, ha scelto di cambiare vita. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Candidato con Traffic all’Oscar per la migliore sceneggiatura, Stephen Gaghan ha confessato ai giornali di essere vissuto nella spirale della droga per vent’anni. Ora che è uscito dall’incubo, si è deciso a parlarne perché sa che paura e vergogna sono il motivo principale per cui tanti non si risolvono a chiedere aiuto. Dunque, pur ispirandosi a una serie televisiva britannica, Traffic (che di nominations ne ha avute altre quattro, fra cui quelle ambitissime al film e alla regia) nasce sulla base di un’esperienza personale. Il che emerge dalla coerenza con cui nella pellicola s’intrecciano, coralmente come di moda nel cinema contemporaneo, le storie di diversi personaggi coinvolti con il tema del titolo, il traffico degli stupefacenti. C’è il magistrato Michael Douglas che, incaricato dal governo di coordinare le attività antidroga tra Usa e Messico, si accorge di avere una drogata in casa: la figlia adolescente Erika Christensen pronta a scendere tutti i gradini dell’abiezione. C’è il malinconico poliziotto di Tijuana, Benicio del Toro (vincitore dell’Orso a Berlino come miglior protagonista e in lizza per l’Oscar come attore secondario), costretto a condurre negoziati in un clima di corruzione e doppio gioco. Ci sono gli agenti speciali Don Cheadle e Ruiz Guzsman con il compito di fare da scudo a un testimone chiave; e c’è Catherine Zeta-Jones, incinta nella realtà e nella finzione, la quale, scoperto che il marito appena arrestato è a capo di un famigerato clan di spacciatori, è pronta spregiudicatamente a TRAFFIC 291 sostituirlo, ben decisa a difendere il suo lussuoso tenore di vita. Pian piano i vari elementi del puzzle vanno a comporre il quadro di una guerra che costa allo stato milioni di dollari, miete vittime in continuità e sembra destinata a non avere fine. Tuttavia il film, introducendo un risvolto morale che ne corregge la visuale disincantata, suggerisce che solo un responsabile impegno individuale può garantire qualche risultato: «Il nemico è in famiglia» dice Douglas lasciando la carica per dedicarsi anima e corpo al caso della figlia. Traffic pecca per eccesso di lunghezza (140’, una sforbiciatina gli avrebbe giovato) e per qualche compiacimento “arty”. Ma, oltre che al valido apporto di un ottimo gruppo di interpreti in cui spiccano per intensità Douglas e del Toro (e inclusa una gustosa caratterizzazione di Tomas Milian infido generale messicano), si deve proprio al raffinato stile-verità del regista Steven Soderbergh se Traffic riesce a imporsi come qualcosa di più nobile che un buon film di genere hollywoodiano. (ALESSANDRA LEVANTESI, La Stampa, 9 marzo 2001) Mitica band. Ma c’entra in parte Steve Winwood con Steven Soderbergh. Solo un lontano sapore afro-psichedelico-britsh, emana da questo suspance-movie senza eroi. Che è invece un thriller ambientato nel mondo del commercio militante di droga. Il succo è: lotta alla coca (soprattutto), le sue ipocrisie (non tutte), le sue difficoltà, le sue follie. Traffic non ha trovato a Berlino la consacrazione europea, in vista degli Oscar, che aspettava e meritava (almeno rispetto ai modesti concorrenti, Scott e Lee). La sua eccentricità è che si tratta della versione in prosa americana (ma tra i produttori scoviamo Mike Newell) di un format britannico, la miniserie tv Traffik (la rotta della droga dal Pakistan a Londra qui diventa la crescente importanza che assunta dalle mafie messicane, di vitale importanza per il circuito Medellin-Los Angeles) che la produttrice Laura Bickford, di ritorno negli Usa con i diritti in tasca, ha affidato a Soderbergh, uno dei pochi capaci di eccitarsi leggendo i quotidiani e seguendo le news, e di fronte a tematiche e strutture narrative tanto complesse. E che ha lavorato con lo sceneggiatore e scrittore Stephen Gaghan, 35 anni, di straordinaria competenza in materia (una ventina di arresti 292 TRAFFIC per uso). Nella colonna sonora troviamo però Brian Eno (En ending (Ascent), Beethoven, e, per capire subito di che film si tratta Rockers Hi-Fi e Morcheeba. Una seconda stranezza del film non filtrerà dalla versione italiana, perché gli attori ispanici (Benicio Del Toro, portoricano, Luiz Guzman e altri chicani, il cubano Tomas Milian...) non sono obbligati a parlare in inglese, anzi si beano di quel certo spagnolo perfetto di Tijuana o di Mexico City o di altre border-city, ma per noi è come se fosse Before the rain di Schnabel (dove i barbudos invece parlavano yankee – nella versione originale – con estrema non chalance rivoluzionaria). Certamente Traffic ha qualità formali e drammaturgiche strabordanti. Però Soderbergh si fa rapire e ipnotizzare troppo dal gioco degli stili, che lo congelano alla tripla tastiera. Pensiamo a uno dei tre fili narrativi, quello messicano, col poliziotto onesto della narcotici, visualmente esibizionista, per le immagini decolorate, quasi sopraffatte dal sole accecante dell’aridità morale circostante; o all’episodio girato attorno a Michael Douglas, più incalzante e orecchiabile, mainstream, con l'attore che fa il doppio gioco, presidente della corte suprema dell’Ohio nominato supervisore nella lotta internazionale contro il traffico di droga (e ottuso); e contemporaneamente padre di famiglia (ottuso) che ha la paradossale situazione di trovarsi con una figlia bionda, genietto, colta e sedicenne strafatta di crack costoso e quant'altro, indocile a cure e psicoterapie perché appunto frequenta ottime e intelligenti compagnie. E non sa, Douglas, da che parte cominciare per capire qualche cosa del mondo. Terza parte, quella girata attorno all’unghiuta Catherine ZetaJones, più in stile Out of Sight che tarantiniana, con intermezzi comici gustosi tra Don Cheadle e Luis Guzman in forma come fossero in un telefilm al centesimo episodio. Certo Soderbergh è un po’ troppo servile rispetto al “luogo comune” quando gode a sbalzarci via, come spettatori, dalla sicurezza iconografica e psicologica dello spazio Usa, tranquillizzante (nonostante attentati, bombe, regolamenti di conti, di cui è costellata la storia e di cui comunque sono sempre responsabili ispanici, neri o “mogli”, come la turpe Catherine Zeta-Jones), e metterci l’inquietudine addosso quando ci inoltriamo nelle “zone barbare” messicane che equivalgono a “zona tortu- ra”, nella quale perfino l’onesto poliziotto per sopravvivere ai disegni dei loschi pezzi grossi dell’esercito, deve chiedere aiuto ai nostri, ai gringos, in cambio di un campetto illuminato di baseball per bimbi poveri. È anche poco interessante il continuo far credere che l'amministrazione Usa, nonostante Nafta, Noriega e l’affare Iran-Contras non sia dentro fino al collo nelle nel narco traffico e che la responsabilità dei cartelli, da Escobar in poi, loro nascita e loro sviluppo, sia solo aliena. Detto questo il film ha momenti di affascinante fraseggio, dai duetti comici agli assolo dei camei (Albert Finney) e alle sequenze magiche di Tomas Milian (il generale Salazar resterà nella storia dei cattivi del cinema), Amy Irving e Benjamin Bratt. Senza contare il controllo hitchcockiano dello spazio, del tempo e della suspense e l’esplicito omaggio al cinema dell’ultraviolenza densa e inquietante dei primi anni ‘70 (Boorman, Ritchie...) che i minuetti di troppo piacevole geometria inventati da Tarantino avevano offuscato. Restano tutti soli i personaggi di Soderbergh: a scavarsi la fossa; con i torturatori; con il crack; perché il marito è in carcere; avvelenati; perché l’amico salta su una bomba-auto. Come a ricordare che la droga di oggi non è più sostanza antisistema. Ma “l’amico diavolo” per arrivare in vetta. (ROBERTO SILVESTRI, Il Manifesto, 9 marzo 2001) La conclusione del film Traffic è sconsolata: abbiamo perso la guerra a tutto campo contro i cartelli della droga. [...] ... quasi mai film hollywoodiano aveva documentato con tanta oggettività il degrado a cui si avvia un drogato. Queste scene davvero impressionanti nulla nascondono e va reso merito al regista Steven Soderbergh di averle realizzate senza autocensurarsi. Le crude immagini rischiano tuttavia di rendere meno del dovuto perché sono soffocate da un’anedottica troppo varia, troppo “dilatata”. Sul piano delle immagini c’è poco da dire. [...] Volendo suggerire alcune linee di lettura Soderbergh ricorre a una fotografia ora modificata da filtri e ora realistica (nella direzione che può essere concessa al film di una grande casa di produzione che, tutto sommato, resta sempre una “fiction”). A farci guardare a Traffic come a un manufatto ben costruito più che a un documento di assoluta attendi- bilità è la struttura narrativa. In Traffic (distribuito dalla Columbia) ci sono troppe storie. Il regista le intreccia con accortezza. Ma rimangono sempre tante e seguendole, passando da un personaggio all’altro, si perdono un po’ le fila della narrazione. (FRANCESCO BOLZONI, L’avvenire, 9 marzo 2001) Steven Soderbergh continua a incarnare un piccolo ma significativo enigma. Investito dalla carica di possibile guida del cinema indipendente quando il suo esordio Sesso, bugie e videotape ha inaspettatamente vinto la Palma d’oro a Cannes nel 1989, Soderbergh ha cominciato a oscillare fra lavori su commissione delle grosse produzioni hollywoodiane (negli ultimi anni Erin Brockovich e Out of Sight) e coraggiose incursioni nei terreni dell’autorialità meno regolare (su tutti il recente L’inglese); un’altalena fra l’integrazione tra le logiche del cinema commerciale e la ricerca di una cifra personale e “indipendente”. Quasi un’irredimibile schizofrenia registica, una voluta strategia dell’inappartenenza, o forse un intelligente sapere sfruttare le occasioni offerte dalla major di turno per concedersi libertà d’autore in pellicole meno costose e più anarchiche. [...] Come se una banalizzazione anedottica della carriera di Welles (le marchette di alto bordo e di alterna qualità funzionali alla libera realizzazione dei capolavori più personali) aleggiasse sul destino di alcuni registi. Traffic racconta il lavoro speculare dell’istituzione visibile e del mondo sommerso, la perfetta coappartenenza di potere ufficiale e clandestinità. In fondo, e lo ricorda il supertestimone Ruiz poco prima di morire, polizia e narcotrafficanti sembrano lavorare per lo stesso obiettivo, essendo comunque inestirpabile il problema del traffico di droga: il transitorio successo dell’arresto di un grande trafficante serve solo a rendere più potente il contrabbandiere rivale (oltre che probabile sponsor della polizia che gli toglie di torno un concorrente). È necessario ricordare il lento ma stritolante processo di assorbimento che buona parte delle piccole compagnie cinematografiche americane ha subito da parte delle multinazionali della produzione e distribuzione? [...] In Traffic il concetto di autore eccede la stessa evidenza del suo svuotamento, la sua superfluità, per darsi come appiccicoso feticcio, dazio inconscio, marchio consolatorio. Alle prese TRAFFIC 293 con una solida storia di genere (tratta da una miniserie televisiva), Soderbergh si impunta sui segni visibili del suo volere essere autore e sceglie di firmare lampantemente un film che non ne sentiva il bisogno, dimostrando come un regista molto abile nel raccontare oggi spesso non si sappia accontentare di questo non trascurabile talento. Traffic è in questo senso un’opera dialettica: la duplicità del cinema di Soderbergh si condensa nello spazio di un unico film, addirittura nei pochi secondi di uno stacco di montaggio in cui si transita da un set a un altro. La sottolineatura cromatica che enfatizza la differenza fra il caldo messicano del color ocra e il glaciale blu del borghesissimo e corrotto Ohio, la grana stessa dell’immagine – lì slabbrata e sporca, qui asettica e quasi gelida – la recitazione oppiacea di Benicio Del Toro e quella rigida, autocontrollata di Michael Douglas: tutto in Traffic serve a separare mondi narrativi e monadi di realtà, a contrapporre e differenziare, per poi dovere ammettere (ma senza far rumore) che qualcosa uniforma anche le più selvagge difformità. Il denominatore comune è proprio il “traffico”, che non è soltanto quello della droga, ma è anche il ritmo brulicante dei corpi e delle storie, di interessi e menzogne che si condensano intorno alla cocaina, il movimento incessante di un racconto e delle sue linee che si incrociano in una ragnatela costruita attentamente. Ma Traffic è un film cui a tratti pesa la disuguaglianza fra i quattro percorsi narrativi, una disparità che si misura soprattutto nell’atteggiamento teorico, deterministico ed eticamente consolatorio che domina il rapporto tra Wakefield-Douglas e la famiglia, e che per fortuna svanisce quando sulla scena sono Del Toro e Catherine Zeta-Jones: i loro personaggi decidono di non ricoprire un ruolo univoco all’interno del vorticoso traffico in cui sono coinvolti e confusi, ma di aderire al movimento caotico del film, spesso capovolgendo la loro posizione, lontani da ogni predica morale. Ecco perché Soderbergh ha realizzato un film dialettico (nella critica accezione nietzschiana): la sua fuga dal genere è una ricerca di medi che sostituisce il rischio dell’affermazione, è il compromesso di un cinema che pone una contraddizione – stilistica, politica, economica – per cercare una soluzione, una conciliazione degli estremi. (FRANCO MARINEO, duel 87, marzo/aprile 2001, p. 9) 294 TRAFFIC I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Davy Garzolini - Dato l’argomento, purtroppo molto attuale, il film è stato realizzato molto bene, senza sfrangiature e ha sempre mantenuto un alto livello come regia, recitazione e sceneggiatura. OTTIMO Adelaide Cavallo - Film ben costruito tendente a rispecchiare la situazione del mondo della droga, dei traffici di morte che la alimentano, delle lotte per combatterla. E su questo punto mi pare che il film metta in luce quanto tale lotta sia impari perché il Male, questo Male, rinasce sempre dalle proprie ceneri come l’antica Araba Fenice. È forte il profumo dei soldi che proviene dalla polvere bianca e anche l’onestà dei più onesti, le buone intenzioni delle istituzioni sembrano smarrirsi alla conclusione del “tanto non c’è niente da fare lo stesso”. Il film ha il valore del richiamo forte, deciso, sui valori da difendere nel piccolo mondo dell’esistenza di ciascuno e nel vitale mondo della famiglia nella quale, pare voglia concludere Soderbergh nel mettere a fuoco la figura di Wakefield, sta il nodo principale (dialogo, attenzione, impegno al chiarimento) per la prima difesa della società dal mondo corrotto del “traffic”. Anna Bruni Petrini - All’inizio ero perplessa: quelle storie che si intrecciavano, tutti quei personaggi coinvolti con il traffico di stupefacenti o nella lotta contro il traffico mi confondevano. Poi, pian piano, i vari personaggi prendono un volto e una loro storia e il film ti attrae e si chiarisce. Un bel film con un fondo morale dove tutti sono invitati a impegnarsi nella lotta contro la droga, dalla famiglia alla società, al singolo individuo. Bella la scelta del doppio colore fotografico con il giallo che ricorda i paesaggi assolati del Messico e il blu che rammenta i palazzi e le città statunitensi. Interessanti gli intrecci (la figlia drogata e corrotta che ridiventa bambina). Rosanna Radaelli - Mi era parso un buon film ma i pregi si sono fatti più numerosi in seguito. A parte l’impianto non nuovo a più filoni, bisogna dare atto al regista di una sua personalità che va oltre le forme tipicamente hollywoodiane: ha una sua impronta forte, asciutta che non viene meno. Vigore drammatico viene anche dalle differenti variazioni cromatiche che diversificano i tre filoni paralleli, ciascuno con ottime interpretazioni e ambientazioni. Tutto fa capo al giudice che, incaricato della soluzione del problema della droga, si trova a scoprire di avere la sua unica figlia drogata. E quindi l’efficienza del funzionario si tramuta in lotta serrata per incominciare con lei la sua battaglia domestica. Passaggio questo drammaticamente vissuto e molto ben reso: il funzionario è ora un padre direttamente coinvolto. Il problema diventa quindi per lui sul piano ufficiale assolutamente insolubile. Teresa Deiana - All’inizio i fatti appaiono casuali e distaccati come tessere di un mosaico frantumato. Ma poi prende forma e i colori si situano, adeguatamente, a comporre la vicenda. Tutti i personaggi, interpretati da attori in stato di grazia, presentano qualche ambiguità: dall’agente che si avvale di mezzi illegali per arrivare allo scopo, al generale doppiogiochista, al giudice adamantino che però ignora la verità su sua figlia. È un’indagine a largo raggio sul commercio della droga, dall’origine al consumatore. Il regista, con sguardo imparziale, descrive un’umanità senza speranza, perché se anche un padre salverà una vita, molti saranno i giovani che continueranno a suicidarsi. E il mondo seguiterà a girare, tra testimoni da uccidere e generali corrotti, agenti eroici e altri compiacenti, mentre il flagello proseguirà, inarrestabile, la sua corsa di morte. Antonella Spinelli - Essenziale il montaggio, sequenziale l’intreccio, che la sceneggiatura mostra nella sua complessità e nelle sue reali connivenze. Bravissimi alcuni interpreti. BUONO Luisa Alberini - Un film che chiede subito massima attenzione. Gli spostamenti di scena sono molto veloci, i fatti spesso precedono la voce che li commenta e l’ambiguità che caratterizza gli uomini complica ancor di più il gioco delle parti. Ma la conclusione è una sola: la droga è l’inferno. E allora si fa un passo indietro e si capisce che quel groviglio di situazioni, i continui spostamenti di luogo, l’imprevedibilità degli avvenimenti hanno una spiegazione: la droga può essere raccontata solo così. Tentando di ricostruire l’imprevedibile, di fermare la drammaticità di un momento che arriva sempre inatteso e di penetrare nelle devastanti contraddizioni di quei ragazzi che ne sono le prime vittime. Quali altri strumenti per fare la cronaca del caos? E allora le immagini nitide, forti, con un significato questa volta privo di ambiguità, sono il senso di quella terribile realtà. Lucia Fossati - Film interessante per la qualità e la funzione espressiva della fotografia e per l’abile montaggio che sa frammentare le tre storie intrecciandole e riprendendole con grande “mestiere”. Per quanto riguarda il contenuto mi è sembrato un film di genere, abbastanza scontato, neppure troppo cattivo, con punte di buonismo hollywoodiano e un finale mieloso decisamente fuori luogo. Caterina Parmigiani - Un film sulla droga interpretato da ottimi attori, con un messaggio “nuovo”: è molto difficile vincere la guerra alla droga ma per vincere almeno qualche battaglia ci vuole l’impegno di tutti, dello Stato, della società e della famiglia. Forse le vittorie più probabili sono quelle della famiglia. Mario Foresta - Storia intrigante del narcotraffico che dall’abbagliante deserto di Tijuana si snoda fino all’algida capitale Usa, in un labirinto di imboscate, tradimenti, intrallazzi, uccisioni, sempre abilmente raccontata saltando di volta in volta dai toni del dramma alla denuncia civile. Claudia Cardinali - Originali le sequenze cromatiche che mettono in risalto i vari ambienti. Ottima la recitazione. Nonostante ciò non mi ha dato emozioni. Non aggiunge niente di nuovo al grave problema della droga e le soluzioni che propone sono scontate. TRAFFIC 295 Umberto Poletti - Il consueto filmone statunitense, che si approva perché è ben recitato e ricco di effetti sonori e di immagini ora traumatizzanti, ora quasi ovvie. La trama è scontata, ma reale, perché non c’è bisogno di andare negli Usa per scoprire cosa si nasconde dietro il mondo della droga; anzi, Traffic da noi è di... casa. Un’ennesima pellicola di denuncia, ma non certo un capolavoro. Magda e Mario Florentino - All’inizio è stato difficile entrare nelle varie storie intrecciate che il film racconta, per i repentini cambiamenti dei luoghi in cui si svolgono e che danno al film più un’impronta da documentario che da lavoro impegnato. Altra difficoltà, i numerosissimi personaggi coinvolti, di cui è stato arduo capire subito il ruolo e l’organismo di appartenenza: polizia messicana, agenti federali, infiltrati, spacciatori, etc. A tenere insieme il tutto è, più la bravura degli interpreti che l’abilità della regia, ed è sorprendente che il film abbia ottenuto tanti consensi e ben quattro Oscar. Paolo Berti Arnoaldi - Un Michael Douglas in gran forma e un Benicio Del Toro molto incisivo sono le “punte” di una squadra di attori bravissimi in una storia con molti intrecci che si accavallano e lasciano un po’ sconcertato lo spettatore. La caccia ai grandi della droga fra Messico e Usa è una lotta senza fine, e, parrebbe, senza speranza, ma la decisione di Douglas di rinunciare alla carriera per aiutare la figlia a uscire dal tunnel è un monito persuasivo. Ciò che trovo, come in altri film sull’argomento, fastidioso e non necessario, è l’eccessivo indulgere sulla preparazione per drogarsi. Il mio giudizio è “buono” per l’alto gradi di tensione che il regista ha saputo imprimere alla sua opera. DISCRETO Gabriella Rampi - Un film interessante: con un ritmo veloce ci introduce nel mondo dello spaccio di droga e delle lotte che vi si svolgono intorno. Un unico appunto: il finale un po’ troppo edulcorato, con il giudice buono, la famigliola riunita e la ragazzina ridente, fa passare in secondo piano il messag296 TRAFFIC gio importante della necessità di un impegno civile e politico contro i poteri forti che governano quel mondo. Donatella Napolitano - Bravo il regista che riesce a condurre e a dominare tante situazioni così intrecciate. Bravissimi gli attori. Peccato però che il regista abbia dovuto cedere alle regole del mercato: la storia della ragazza e del giudice fa scadere, almeno ai miei occhi, il film. La ragazza e la sua storia sono molto belle, ma avrebbero potuto essere inserite in un altro contesto. Film comunque molto bello, lucido, durissimo, senza compiacimenti, salvo, ripeto, la storia del giudice. Lidia Ranzini - Dal regista di Erin Brockovich non ci potevamo che attendere un lavoro di buon livello. L’argomento droga è ben affrontato perché viene proposto con realismo, si nominano i forti interessi economici che si nascondono dietro il mercato clandestino e non si fa mistero della difficoltà di lottare efficacemente per stroncare il fenomeno. Il comportamento del poliziotto Rodriguez fa pensare ai racconti di Hemingway, perché quello che conta è ciò che non ci viene fatto vedere. Trovo che Del Toro reciti molto bene, tanto da superare anche Douglas. MEDIOCRE Tullio Maragnoli - Non basta avere un argomento importante e ingaggiare bravi attori per fare un buon film. Questo è troppo frammentato in tanti filoni che, presi singolarmente, sono già stati meglio approfonditi in altre pellicole (guerra tra bande, polizia corrotta, rischiosa protezione del testimone-chiave, ricaduta del problema droga su una famiglia apparentemente irreprensibile, ecc.: tutto già visto). A questo punto anche l’uso del colore mi è sembrato, più che una peraltro opinabile innovazione espressiva, semplicemente un utile espediente per chiarire subito allo spettatore in quale punto spaziale di quel groviglio si trovava al momento. Infine, l’eccessiva lunghezza del film mi conferma ancora una volta che quasi mai chi si dilunga troppo ha qualcosa di veramente originale da dire. I vestiti nuovi dell’imperatore itolo originale: The Emperor’s New Clothes serie Tv tra le più famose negli Stati Uniti, da Homicide a Oz, da Sex in the City a West Wing e Sopranos. CAST&CREDITS IL FILM regia: Alan Taylor (Gran Bretagna, 2001) soggetto: liberamente tratto dal romanzo The Death of Napoleon di Simon Leys sceneggiatura: Kevin Molony, Alan Taylor, Herbie Wave fotografia: Alessio Gelsini Torresi montaggio: Masahiro Hirakubo musica: Rachel Portman interpreti: Ian Holm (Napoleone /Eugene), Iben Hjejle (Pumpkin), Tim McInnerny (dottor Lambert), Tom Watson (Gerard), Hugh Bonneville (Bertrand) Murray Melvin (Antommarchi), Nigel Terry (Montholon), Eddie Marsan (Marchand), Clive Russel (sergente) distribuzione: Mikado durata: 1h45’ IL REGISTA Alan Taylor firma con I vestiti nuovi dell’imperatore il suo secondo film per il cinema, dopo Palookaville (1996), che ha vinto il premio Kodak come migliore opera prima a Venezia nel 1996, e il cortometraggio That Burning Question, saggio di laurea alla New York Film School. La sua è una carriera prevalentemente televisiva: ha diretto infatti alcuni episodi di «Supponiamo che Napoleone non sia morto a Sant’Elena il 5 maggio 1821, ma abbia astutamente ceduto il posto a un sosia: e se intanto il presunto scomparso, rientrato in Francia, si preparava a un nuovo volo dell’aquila? Non trovo nessun accenno in proposito nel gustoso “reportage” da Sant’Elena di Gian Luigi Melega, L’isola più isola (pubblicato dall’editore Scheiwiller). Allargo le ricerche compulsando le quasi milleottocento pagine del Dictionnaire Napoléon, ma neppure alla voce “Légende napoléonienne” scopro la minima conferma dell’azzardata ipotesi. Insomma, è proprio uno spunto originale quello di The Death of Napoleon, romanzo di Simon Leys dal quale è tratto il film I vestiti nuovi dell’Imperatore. Dove il protagonista, clandestino a Parigi dopo la fuga dall’esilio, rinuncia ai sogni di gloria e sceglie un’esistenza borghese per amore di una vedovella. Mi assicurano che nel libro lo sviluppo della situazione è piuttosto drammatico perché Napoleone tenta di ritrovare le tracce di suo figlio, il Re di Roma, e ne paga lo scotto. Sullo schermo, invece, prevale il tono ironico, molto azzeccato soprattutto nella scena in cui il grande soldato risolve la crisi del mercato dei meloni imponendo una strategia napoleonica alla schiera dei venditori. The Emperor’s New Clothes è un felice esempio di ciò che potrebbe essere un tipo di cinema I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE 297 28 multinazionale di qualità da stimolare come alternativa a Hollywood. Argomento francese, lingua inglese, regista canadese (il correttissimo Alan Taylor), attori prevalentemente britannici con l’eccezione della brava danese Iben Hjejle. Ma forte è anche la componente italiana, non solo perché una parte delle riprese sono state effettuate a Torino e a Tarquinia. Il produttore, infatti, è Uberto Pasolini, a sua volta reduce dal successo di The Full Monty, mentre l’art director è Andrea Crisanti, l’operatore è Alessio Gelsini Torresi e, per finire, nei titoli di coda figurano molti nomi nostrani. I valori del film non sarebbero comunque altrettanto evidenti senza la presenza di uno straordinario protagonista. Pur non godendo di fama divistica, oggi Ian Holm si conferma a ogni prova uno degli attori più bravi del mondo. Interpretando sia l’imperatore che l’impostore, riesce a dimostrare come un grande eroe può anche essere un ingenuo; e questo è un vero e proprio contributo allo studio della psicologia bonapartista, tale che si potrebbe inserire nella prossima edizione del Dictionnaire». (TULLIO KEZICH, Il Corriere della Sera, 8 dicembre 2001) LA STORIA I libri di testo dicono che Napoleone Bonaparte morì in esilio all’Isola di Sant’Elena il 5 maggio 1821. Ma le cose andarono realmente così? Un romanzo prende in considerazione un’ipotesi: Napoleone sarebbe riuscito a tornare a Parigi. Ecco allora come andò. Davanti al mare di quella piccola isola dove è stato relegato in esilio, Napoleone aspetta l’arrivo di una nave cargo che lo riporterà in Francia. È un viaggio segreto: nessuno deve sapere della sua vera identità. La località prevista per lo sbarco è Brest, il suo incarico sul mercantile quello di mozzo. Un ruolo umiliante, ma necessario. Ad attenderlo a Brest ci sarà un sergente che lo porterà a Parigi, dove sarà accolto da un popolo esultante. Fino a quel momento il suo posto nell’isola sarà preso da un sosia che rinuncerà al suo ruolo quando tutti i giornali francesi daranno l’annuncio del ritorno trionfale dell’imperatore. 298 I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE Prima di allontanarsi, le ultime formalità: l’incontro con il sosia di cui prende il nome Eugene Lenormand e una raccomandazione: «avrete bisogno di forza e coraggio, non appena sarò in Francia dite a tutti che siete solo un impostore, una nullità. Fino allora nessuno dovrà sospettare di nulla». Il viaggio incomincia subito con un imprevisto. Il porto di sbarco è Anversa, in Belgio. E ad attenderlo non c’è nessuno. Eugene se ne accorge appena pronuncia quella che avrebbe dovuto essere la frase lascia passare, rivolta ad uno che per caso e a pochi passi dal porto. Quelle parole non provocano alcuna reazione. Allora prosegue, dentro i suoi vestiti poveri e con un sacco chiuso da una corda, appeso alla spalla. Raggiunge Bruxelles e poi trova una carrozza che si dirige a Parigi passando da Waterloo, dove scende e per ripartire, dovrà affidarsi al postale. Ma giunto al confine dopo una perquisizione, finisce in carcere. Eugene Lenormand sarà di nuovo Napoleone quando si troverà davanti un ex sergente della vecchia guardia imperiale che gli si rivolge con quella frase che rappresenta ormai il biglietto da visita della sua identità e potrà così proseguire per Parigi. L’indirizzo dove troverà ospitalità è la casa di un camerata: Truchaut. Napoleone, o meglio Eugene, raggiunge la casa di Truchaut il giorno della sua morte, in una calda giornata che vede subito dopo la vedova espropriata di tutti i mobili, non avendo potuto rispettare il pagamento di una partita di meloni andati a male, e proprio quando a Parigi le notizie che arrivano da Sant’Elena riferiscono di un Napoleone che si gode la vita in ottima salute. Eugene non ha altro posto dove andare se non quello di farsi accettare, in nome di una vecchia amicizia con il marito, dalla vedova Truchaut. Le difficoltà della donna, chiamata familiarmente Pumpkin, sono l’occasione per riappropriarsi del suo potere. Raduna la gente del quartiere e spiega loro come riorganizzandosi possano sfruttare il caldo e vendere i meloni con ottimi risultati. Strappa gli applausi di tutti con «ricordate : si vince o si muore». Ma una caduta, che ha causato a Eugene un delirio, lo circonda ormai del sospetto che sia persona diversa da quella che sembra. A mettere in guardia la vedova Truchaut è il medico da tempo innamorato di lei, vecchio ami- co di famiglia, deluso per un’attesa che sperava finalmente conclusa, ma a cui deve ormai rinunciare. La giovane e bella Pumpkin ha trovato nell’uomo che ha ospitato chi la capisce e gli vuole già bene. Intanto a Parigi i giornali danno notizia della morte di Napoleone, il 5 maggio 1821 all’isola di Sant’Elena. Non era più interesse della corte che lo aveva circondato e protetto ammettere l’identità di quell’uomo fantoccio. A quel punto Eugene parla a Pumpkin e le rivela di essere Napoleone. Ma non riceve dalla donna alcuna attenzione: allora si veste da imperatore e cerca di convincerla a credergli. Lei, che continua a chiamarlo Eugene, si spaventa, e si rivolge ai medici, che vengono cacciati in malo modo. Napoleone ha capito che Pumpkin lo ama, ma la vede preoccupata per quelle che ritiene in lui solo fissazioni. Cerca allora un ultimo aiuto dal dottore che lo ha assistito e che sa chi è davvero per aver trovato nel suo sacco la fotografia di suo figlio. Il dottore, in risposta, lo porta al manicomio, dove troppi matti si vestono e si credono altri Napoleone. Allora si sente completamente solo. Torna a casa da Pumpkin, brucia gli ultimi documenti di una vita diventata anche a lui estranea e regala un gioiello a quella donna che gli dice «grazie per avermi dimostrato di poter essere felice». (LUISA ALBERINI) Mostrarsi agli altri certi della loro inferiorità e, perciò, della propria superiorità. Insomma, guardarli tutti dall’alto in basso, anche se trenta o quaranta centimetri più alti, mettendosi in scena come se davvero si fosse quel che il ruolo suggerisce: imperatori. Gli altri – ecco la scoperta sorprendente – ci credono, e anche con un entusiasmo pieno di gratitudine, come se avessero trovato finalmente un punto d’orientamento, un simbolo in cui rifugiarsi. Non importa se, nella verità più nascosta di se stessi, non si è che mozzi di terza classe. Importa lo spettacolo. Importa la spocchia, l’improntitudine, l’uso accorto degli apparati di scena. Insomma, importano “I vestiti nuovi dell’imperatore”, quand’anche si trattasse di quelli inesistenti e truffaldini della favola famosa. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2001) Più che un film di regia I vestiti nuovi dell’imperatore è un film di produttore e d’attore. [...] Attori anglosassoni, troupe italiana, ambientazioni europee più o meno truccate (Torino fa da “controfigura” a Parigi; Malta lo è per l’isola di Sant’Elena), [...] un prodotto cosmopolita, ma con una sua unità di fondo. Allo stesso modo, riesce a conservare un’omogeneità drammaturgica pur coniugando una quantità di generi diversi sotto lo stesso titolo, dal film storico alla commedia, non tralasciando il congruo spazio per un’imprevista love-story. (ROBERTO NEPOTI, la Repubblica, 9 dicembre 2001) LA CRITICA Potrà mai fare l’imperatore, il rozzo Eugene? In queste domande, e nella risposta fulminea escogitata dalla sceneggiatura, sta già un buon motivo per considerare un piccolo capolavoro di caustico scetticismo libertario questo intelligente, divertente, sarcastico I vestiti nuovi dell’imperatore. Fare l’imperatore infatti, non richiede più di qualche secondo di studio e applicazione. Basta che, dal gruppo dei cortigiani preoccupati, si distacchi un servo – nient’altro che un servo – pronto a “rifare” i movimenti spocchiosi e l’aria dominatrice di Napoleone, perché il mozzo Eugene afferri il succo della questione. Imparato il gioco, ora può fare l’imperatore. Anzi, ora può esserlo come e quando vuole. Qual è il gioco? Qual è il trucco? La scena più toccante del film è proprio una scena da barzelletta che la sceneggiatura carica di un’angoscia abissale. Il vero Napoleone, portato in un manicomio, rischia di essere trascinato dagli infermieri nella folla di finti napoleoni paranoici che si agitano nel giardino, povere creature dementi riunite al crepuscolo da rudi inservienti prima di essere costrette in una cella. Insomma più che un film su Napolone, I vestiti nuovi dell’imperatore è un film sull’importanza di non essere nessuno. Trovata una dolce, umile compagna, una famiglia e un posticino del mondo, anche chi è stato Imperatore delle più ricche contrade può rinunciare al proprio imperiale narcisismo che caratterizza la nostra specie prima ancora che i generali. [...] Ci metterà un po’, ma arriI VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE 299 verà pacificato nella sua nuova vita come alla fine di una sapiente terapia di accettazione di se stessi. Holm è grandioso (forse è il più grande erede di interpreti come Laurence Olivier e John Gielgud), la sua capacità di dare vita con lo stesso corpo e la stessa faccia sia a un imperatore altezzoso che a un povero diavolo di avidità e furbizia contadina, sono a dir poco sorprendenti, ma in tutto il film si respira un’intelligenza dal retrogusto amarognolo, un nitore da miniatura accurata e un’ironia divertita che alterna curiosità e amorevole sarcasmo. (MARIO SESTI, Kwcinema) La tentazione di Napoleone... Di Cristo, Napoleone e Topolino c’è sempre qualcosa da raccontare. Questo è un sogno della Storia. Dal romanzo di Simon Leys La morte di Napoleone, s’immagina uno scambio di persona a Sant’Elena e un’avventura “del ritorno” che costringe il Grande prima a contrarre e poi a sopprimere il fantasma della sua grandezza. [...] Tra il capolavoro di Abel Gance Napoleon (1927) e l’imgombrante kolossal di Bondarciuk Waterloo (1970). Divertente. Utile. Alimenta il diritto di dubitare. (SILVIO DANESE, Il Giorno, 7 dicembre 2001) Una commedia deliziosa. E anche seria. L’ha diretta, sulla scorta di un romanzo (La morte di Napoleone di Simon Leys), il regista americano Alan Taylor di cui si ricorderà quella commedia dolceamara che era Palookaville. L’ha prodotta l’italo-inglese Uberto Pasolini, reduce dal successo di Full Monty [...]. La storia che si fa cronaca, un eroe da mito che si risolve nel quotidiano, un’ipotesi che riesce ad assumere i contorni di una possibile realtà, mentre le cornici, anche quelle riprese dal vero, sembrano uscire da stampe d’epoca, mentre gli interni sempre a lume di candela citano con finezza la pittura maggiore del XVII e del XVIII secolo. Riservando tutti gli spazi al personaggio centrale. Ne ho visti di Napoleoni al cinema, da quello di Charles Boyer a quello di Marlon Brando e di Barrault. Questo di Ian Holm, però, a parte, almeno di profilo, una certa somiglianza, ha un’intensità, una vitalità e anche una forza interiore, ora repressa ora pronta ad esplodere, di grandissima 300 I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE classe, Forse, pur tra le maglie dell’ipotesi, il Napoleone più vero. (GIAN LUIGI RONDI, Il Tempo, 8 dicembre 2001) In delicato equilibrio tra molti generi, da commedia degli equivoci ad apologo, il film si regge su un registro drammaturgico in bilico tra parodia e dramma, venato prevalentemente di affettuosa, divertita ironia: irresistibile la visita al campo di Waterloo, già meta di turismo storico. Non dissacratorio nè nostalgico, non è per niente banale; con levità e sorriso induce ad alcune salutari considerazioni sul potere, la caducità della fama paragonata al valore autentico dei sentimenti. La narrazione procede compatta, con ritmo pacato, armonioso, che lasci il temoo di gustare il nitore da miniatura delle immagini, il rigore stilistico e filologico nella riproduzione degli arredi e degli oggetti, e, non ultimo, lo scavo psicologico nell’ansia di Napoleone e della sua donna. Su una figura tanto frequentata dal cinema, dal kolossal di Abel Gance nel ‘27 a Desireé con Marlon Brando, a Waterloo con Rod Steiger, Alan Taylor (Palookaville, 1995) e Uberto Pasolini (l’uomo di Full Monty) costruiscono una parabola morale, che è anche il viaggio interiore di ripensamento, nelle pieghe della storia, di un personaggio rivisitato nei suoi aspetti più umani, lasciando giustamente molta libertà alle straordinarie capacità di Sir Ian Holm, un gigante del cinema inglese (già Napoleone ne I banditi del tempo di Terry Gilliam e per Napoleone prescelto da Kubrick) nell’esibire, nel doppio ruolo dell’imperatore altezzoso e del furbo contadino, una vasta gamma di sentimenti e sfumature, senza cadere nella caricatura. Profotto cosmopolita, storia francese, attori prevalentemente britannici, troupe italiana, ambientazione europea, tra Torino, Malta e Tarquinia: non sarà un capolavoro, ma sicuramente un raffinato divertissement. (CARLA DELMIGLIO, Segnocinema 114, marzo/aprile 2002, p. 54) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Silvano Bandera - Il film è sorprendente, originale e mera- viglioso. Diretto e interpretato in modo inappuntabile. Per la tematica umana che svolge merita il Premio S. Fedele. OTTIMO Carlo Cantone - Ironico come ironica è la realtà quotidiana. Il cialtrone casualmente travestito che diviene imperatore mi ricorda l’imbecille casualmente catapultato ai vertici di un’azienda o della politica che poi viene da tutti creduto un grande leader. Analogamente l’imperatore vero senza la sua corte diviene un uomo qualunque, smette di essere personaggio e assume aspetto umano. Quanto della storia veramente dipende dai grandi uomini e quanto (in ben più grande misura) dal caso. Il tutto cinematograficamente raccontato quasi alla perfezione. Paola Almagioni - Già il titolo mi aveva ben predisposto poiché ho sempre amato questa fiaba di Andersen (è nella sua versione che io la conosco). E il film è stato all’altezza delle mie aspettative. I vestiti nuovi dell’imperatore è tutto attraversato da un sottile filo di ironia, quell’ironia che gli inglesi sanno usare così bene, anche verso se stessi. Il risultato è un film leggero – nel senso positivo della parola – e piacevolissimo da guardare. Ma attenzione: sotto l’apparente levità, nasconde una profonda verità sulla presunta “grandezza” di certi uomini. È il loro sentirsi superiori, accompagnato dal servilismo di molti desiderosi di avere qualcuno da seguire, a creare il mito dell’eroe. È sufficiente che l’eroe si tolga momentaneamente l’aureola perché il mito scompaia, e lui diventi un uomo come gli altri. Se è intelligente – a volte gli eroi lo sono – rinuncerà alla sua presunzione di grandezza e capirà che è meglio vivere amato veramente da quelli che lo conoscono, anche se pochi, che venerato illusoriamente da tanti che, in fondo, conoscono solo il suo nome. Giuviana Grilli - È molto di più di una favola o un gioco di immaginazione, è la smitizzazione della storia: Napoleone stavolta non riesce a rientrare nel suo ruolo come dopo la fuga dall’Elba e un po’ alla volta si adatta a rientrare in una vita semplice, a fianco di una donna gentile, in un ambiente semplice e borghese. La chiave della caduta del mito e della definitiva rinuncia al sogno di grandezza mi pare si trovi nella scena del manicomio, un momento di grande cinema, dove tutti i pazzi che si credono Napoleone si aggirano come fantasmi in quel giardino appena illuminato da luci notturne: Napoleone fugge come risvegliandosi alla realtà e torna prosaicamente a casa a farsi medicare dalla sua donna. Ottima la recitazione di Ian Holm che sottolinea i due ruoli con un’ironia tutta inglese. Vincenzo Novi - Qualcuno ha detto che la felicità è desiderare ciò che si ha. Il britannico Taylor ce ne propone una versione con un film che attacca uno dei miti della storia. Un sosia vestirà i panni dell’imperatore Bonaparte, l’uomo Napoleone prenderà mestamente il largo. L’arrivo in terra sconosciuta lo trova privo di protezione e con futuro incerto. Senza alternative è costretto a misurarsi con le circostanze e alla fine si realizza come padre di famiglia. Un destino compiuto che può mescolarsi col precedente; due identità che non accettano di essere confuse. È un invito alla coerenza con la propria sorte ma anche a ben conoscersi per essere conosciuti. È la morale di una favola raccontata con eleganza e un pizzico di humour. Mario Piatti - La confezione è ottima, dall’ambientazione agli interpreti, tutti di qualità, fino all’eccellenza di Ian Holm nella doppia interpretazione di Napoleone e del suo sosia. Il film, poi, è costellato di annotazioni significative, dalla storia vista con gli occhi di un bambino attraverso le immagini di una lanterna magica, al campo di Waterloo trasformato in occasione commerciale, al fantoccetto dell’imperatore che sale la scala per cadere rovinosamente dalla cima, allo stesso imperatore che applica le sue strategie di battaglia alla vendita dei meloni. Una riflessione mi pare particolarmente centrata: è assai più facile per un uomo qualunque diventare imperatore, che per un imperatore adattarsi alla vita di un uomo qualunque. Non è un caso se questa I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE 301 accettazione deve passare attraverso un cammino lungo e difficile che culmina nella scena allucinante del confronto con i pazzi, che, tutti, si credono Bonaparte. In questa scena è evidente la metafora della follia insita in chiunque, che per sete di gloria e di potere, porta una nazione alla guerra e alla sconfitta; il finale è consolatorio: il grande uomo accetta di farsi piccolo accanto ad una donna che lo ama. Come lui stesso afferma, è passato a miglior vita. temporali foschi. Questa natura piena d’infinito, come se i tempi remoti della gloria di Napoleone fossero eterni. L’imperatore spogliato dal suo cavallo bianco e dalle sue vesti si ritrova spoglio di sfarzi ma ricco di autenticità. Il mito si fa uomo. Il regista usa con abilità dialoghi e inquadrature, il protagonista Ian Holm si rivela attore di straordinario talento; sa essere imperiale, arrogante, pungente, divertente e persino romantico. Paola Giovanna Ottolino - Film intelligente, di gusto e di ambientazione perfetta, in cui finzione e realismo sono accostati con equilibrio. Il messaggio che ho colto è che, mutatis mutandis, di può vivere la vita in modo positivo solo se si ha la capacità di essere se stessi, vivendo da protagonisti quello che la via offre senza tradire la propria natura. Mi è parso impagabile il momento in cui l’Impertatore sotto mentite spoglie dà via libera alle sue capacità strategiche di generale per organizzare la vendita dei meloni. Una menzione particolare va all’interpretazione di Ian Holm: Paolo Berti Arnoaldi - Bel film fantastorico, con un Ian Holm in stato di grazia e una ricostruzione ironico-paradossale di un improbabile dopo S. Elena di Napoleone. Sottilmente dissacrante del culto napoleonico, il regista ha condito la sua ottima opera con fotografie bellissime (l’alba rossa sul mare, la costa francese, le vedute dall’alto delle strette vie parigine), con una musica incalzante, con interepreti di eccezione. Allucinante la scena nel manicomio dei Napoleoni. Graziosa e tenera la figura di Pumpkin, l’unica a far ragionare il megalomane Napoleone. Belli i costumi, piacevole insomma tutto il film. G. Alberta Zanuso - Da un soggetto originale pensato forse come un divertissemente scaturisce un film di squisita qualità e di elegante fattura. Mai un calo di stile, è un vero diletto, dalla recitazione, ai colori, alla lieve, costante ironia, alle atmosfere delle strade di una Parigi forse non autentica ma tuttavia molto verosimile. Un inno al buongusto che dovrebbe fare scuola. Intensamente drammatica nella sua livida atmosfera la scena decisiva del manicomio. Un grande Ian Holm. Piergiovanna Bruni - Film fantapolitico ma con qualcosa in più... Ben congegnato, alterna i due personaggi, l’imperatore e il mentitore, mettendo a confronto le loro opposte aspirazioni. Il primo ha già gustato il potere, e, stanco, medita e scruta il cielo per scoprire le profondità dei sentimenti umani che per esso aveva dovuto tralasciare. Il secondo, che lo ha subito, è attratto da questo potere e dalle cose terrene, La sceneggiatura inquadra i particolari della natura, copme l’alba e il tramonto, nei colori rossastri carichi di presagi, e i 302 I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE Eloisa Raimondo - Il film è molto divertente, acuto nell’immaginare Napoleone in una realtà civile, abile nel commercio e in genere nel vivere la realtà, qualità dell’uomo intelligente. Vorrei però sottolineare la bellezza del manifesto, opera di quel grandissimo artista che è l’illustratore italiano Lorenzo Mattotti, riconosciuto in tutto il mondo come uno dei migliori. Maria Antonietta Carassai - Con uno spunto originale è stato realizzato un buon film. All’inizio può sembrare leggero, ma man mano che la storia va avanti, mette in evidenza l’importanza nella vita di riuscire a svestirsi della sete di potere e di godere di tutto ciò che nelle vesti di imperatore Napoleone ignorava completamente. Trovata una compagna dolce e semplice, una famiglia, assapora la bellezza di uan vita nuova con i valori che veramente contano. L’interpretazione è grandiosa e a tanta bravura è dovuta la riuscita del film. BUONO Michele Zaurino - Sosia significa persona che somiglia tanto a un’altra da poter essere scambiata per essa. Ma in cosa somigliano se non nell’aspetto fisico Napoleone Bonaparte e il suo sosia, un umile mozzo di nome Eugène? Il film di Alan Taylor ci racconta di un’abile sostituzione di persona e ci descrive una doppia metamorfosi. Da una parte il rozzo Eugène, indossati i panni di Napoleone e intuito subito il meccanismo, riesce a trasfigurarsi rapidamente nell’imperatore. Dall’altra, il vero Bonaparte fatica non poco a rinunciare ai sogni di gloria e a calarsi in una “banale” esistenza borghese al fianco di un’intraprendente vedova di un suo ufficiale. Taylor ci racconta con intelligenza e ironia il viaggio dentro e attorno a un uomo che perso il potere ritrova la felicità nel quotidiano, rinunciando a se stesso e a una fetta di storia. Memorabile e inquietante la scena in cui il vero Napoleone si ritrova in un manicomio circondato da un gruppo di folli che pretendono di essere l’imperatore. Ian Holm nella doppia parte di Napoleone ed Eugène è semplicemente straordinario. Carla Testorelli - Un piccolo gioiello di eleganza, scorrevolezza, ironia e senso dell’umorismo. Il tema è quello dello “scambio dei ruoli”: un marinaio di basso rango veste momentaneamente i panni di Napoleone, per permettere all’Imperatore di fuggire da S. Elena e ritornare a Parigi. Naturalmente il marinaio non ha nessuna difficoltà ad adattarsi al ruolo di potere, mentre Napoleone non ha nessuna intenzione di rimanere “un uomo qualunque”. Fra l’altro, durante il viaggio di ritorno scopre cose per lui impensabili: Waterloo è diventata meta di gite organizzate, negozio di souvenir compreso, le donne non hanno poi tanto amato il loro Imperatore che le ha rese vedove e madri di orfani. Ciononostante Napoleone non può rassegnarsi a essere nessuno. Per la verità riesce a mettere a frutto la sua abilità di stratega, organizzando splendidamente una vendita di meloni, che lascerà felice e ammirata una bella signora del popolo, pronta ad amarlo, purché abbandoni qualsiasi mania di grandezza. Ma Napoleone non può rinunciare al suo ruolo e così facendo rischia di finire in un manicomio dove sono ricoverati, e sono una schiera, gli schizofrenici che credono di essere “Napoleone”. Scampato miracolosamente alla reclusione, si rende conto che la sua vita sarà più felice se saprà accettare il ruolo di “uomo normale”: così il film si conclude con una gioiosa lotta a palle di neve con la donna del cuore, certo meno faticosa della campagna in Russia! Determinante per la buona riuscita del film l’eccezionale prestazione dell’attore protagonista. Cristina Bruni - Originalissima trama che affascina lo spettatore stupito di fronte alla revisione storica in atto. Due le sequenze davvero eccezionali: quella del commercio dei meloni indicativa della mentalità “dirigenziale” di Napoleone e quella al manicomio dei finti Napoleoni, dove la drammaticità tocca il culmine e normalità e follia si fondono in tutta la loro apparente contiguità. A volte è più importante essere nessuno che qualcuno sembra la morale del film, dove il regista nella sua bravura riesce persino (chi l’avrebbe mai ritenuto possibile?) a trasformare Torino in Parigi (la ripresa dei tetti sotto la pioggia con Napoleone e la vedova è bellissima) Arturo Cucchi - L’opera è godibilissima, soprattutto come gioiello di interpretazione grazie al volto e al corpo di Ian Holm: un Napoleone a volte altezzoso, a volte fragile, umano, a volte borghese, pieno di iniziative, a volte semplice, sottomesso. Ma il meglio lo dimostra quando riesce ad accettarsi come marito e padre, o quando si atteggia a stratega. Le riprese sono molto pulite ed eloquenti, e tutta l’azione scorre senza annoiare. Lidia Ranzini - Durante la proiezione mi veniva in mente Sliding Doors, poi, col tempo, mi ha ricordato Kagemusha. La “doppia storia” non è cosa nuova, ma il gioco di congetture risulta piacevole. Anche i grandi personaggi, i dominatori capaci di sprigionare il massimo potere, sono soggetti a limiti e difetti umani. In questo film il gioco di sostituzioni, a tratti decisamente comico, esagera fino a rasentare la folI VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE 303 lia. Divertente il giardino brulicante di matti che si credevano Napoleone. A tratti dramma, a tratti commedia, fa emergere il divario che colpisce tutti: la differenza tra i sogni irrealizzabili e la realtà. DISCRETO Marcello Napolitano - Un film inutile, ancorché ben fatto e con un ottimo protagonista: una storia fantastica a spese di una figura storica molto importante, è presa solo come simbolo di personalità molto forte e con un’ambizione sovrumana: la storia racconta di come questa personalità, sotto la spinta delle circostanze, si converta a una tranquilla vita borghese. Il tono spesso ironico della narrazione non approfondisce il dramma della riconversione del personaggio. Tale dramma viene evocato solo in una scena, quella magistrale del manicomio, dove tanti Napoleoni si mostrano all’unico vero: cosa lo fa scappare affannosamente da quel recinto? L’orrore di essere considerato pazzo e di finire come loro? Oppure perché comprende di essere anche lui un pazzo come gli altri rinchiusi lì dentro? Ma io mi domando: l’Europa di oggi porta profondissimi segni dell’opera di Napoleone, quindi forse era pazzo ma vedeva più lontano dei suoi contemporanei; sono tutti pazzi quelli che hanno marcato la storia con il loro nome, gli Alessandri, i Cesari, i Carlo Magno, fino ad arrivare agli Hitler e agli Stalin? Non è troppo semplicistico dire pazzo di una personalità eccezionale? È pazzo chiunque lasci la comodità della propria vita per abbracciare una missione, giusta o sbagliata (secondo il senso comune) che sia? Se pazzia è una visione diversa da quella dell’uomo comune, una visione del mondo che prescinde dai dati di fatto della realtà, forse la definizione non si applica a Napoleone e agli altri; credo che i Napoleoni va- 304 I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE ri abbiano avuto, certo, una visione molto più lunga di quella dell’uomo comune, ma non trascuravano i dati più prossimi della realtà che infatti governavano perfettamente. Quindi anche la scena del manicomio non mi trova d’accordo sulla lettura di una grande personalità come quella di Napoleone. Piacevole tutto il film, ma non lo rivedrei perché mi sembra che porti via il tempo dello spettatore come certi spettacoli della televisione o articoli di giornale, dove si agitano grandi o piccoli temi, ma dove l’intento (o la capacità dell’autore) non è quella di far crescere, meditare, informare i fruitori, ma quello di occupare lo spazio tra una pubblicità e l’altra: insomma intrattenimento puro, senza quel pizzico di follia creativa che è la scintilla sia pur piccola dell’arte. MEDIOCRE Miranda Manfredi - In una sceneggiatura in luoghi diversi, forzata per produrre memoria, si inserisce un Napoleone caricatura di se stesso. Un viavai di comparse in abiti d’epoca non riesce a rendere più storici i porticati di Torino. Il messaggio di questo film-farsa vorrebbe essere quello che basta l’atteggiamento per rendere credibile il potere? Non credo. Lo spunto grottesco dello scambio di persona poteva essere originale ma penso che la figura di Napoleone, nella sua memoria storica, vada rispettata e che nel mito i francesi non vedano solo la grandeur ma anche un contenuto costato lacrime e sangue che è stato la base dei diritti dell’uomo europeo vittima delle monarchie assolute. Anche la vedovella angelicata, forse, avrebbe avuto bisogno di capire di più in che mondo viveva. Non mi sembra un film che possa lasciare traccia. La favola di Andersen certamente l’ha lasciata, nella sua metaforica ingenuità. Viaggio a Kandahar titolo originale: Safar e Gandehar CAST&CREDITS regia: Moshen Makhmalbaf (Iran/Francia, 2001) soggetto e sceneggiatura: Moshen Makhmalbaf fotografia: Ebrahim Ghafouri montaggio: Moshen Makhmalbaf interpreti: Niloufar Pazira (Nafas), Hassan Tantaï (Tabib Sahid), Sadou Téymouri (Khak), Hayatalah Hakimi distribuzione: Bim durata: 1h25’ carno nel ‘96), Il silenzio (1998, nominato al Leone d’oro a Venezia, vincitore del premio Trasatti, di Cinemavvenire e della Medaglia d’oro del Senato italiano). Tra cortometraggi e lungometraggi ha al suo attivo venti film. Ha prodotto e coscritto il primo lungometraggio della figlia Samira, La mela (1998, apprezzato in numerosi festival internazionali) e Lavagne (2000), premiato dalla Giuria di Cannes nel 2000. Dopo Viaggio a Kandahar (2001) ha realizzato Afghan Alphabet (2002), un documentario girato durante i bombardamenti Usa sull’Afghanistan che richiama l’attenzione sulla necessità di rieducare le ragazze afgane, ancora troppo legate alle imposizioni della cultura tradizionale. IL FILM IL REGISTA Nato in un povero sobborgo di Teheran nel 1951, Moshen Makhmalbaf ha lasciato la scuola all’età di quindici anni per aderire ad un movimento religioso che contrastasse il regime dello Scià. Due anni dopo è stato imprigionato e gli è stata condonata la pena di morte solo a causa della giovane età. Ha scritto numerosi racconti, romanzi, testi teatrali (quasi tutti censurati in patria) prima del suo debutto come regista all’inizio degli anni Ottanta, quando ha realizzato che il cinema poteva essere la via migliore per fare politica. Ha scritto e montato quasi tutti i suoi film. Tra i più famosi, grazie all’interesse suscitato presso i festival di cinema occidentali, Il ciclista (1987), Pane e fiore (1996, mezione speciale a Lo- Qualche anno fa il regista iraniano Moshen Makhmalbaf [...] incontrò una giovane afghana. La donna, da tempo rifugiatasi in Canada, aveva ricevuto la lettera di un amico, che, sfiancato dal regime dei taleban, aveva deciso di suicidarsi. Per tentare di dissuaderlo lei voleva forzare il confine e con l’aiuto del regista documentare il suo viaggio che, attraverso la disperazione, avrebbe dovuto approdare alla speranza. Non se ne fece nulla. Ma, da allora, Makhmalbaf si dedicò allo studio delle condizioni delle donne afghane. per dicumentarsi si spinse più volte in Afghanistan. Da tale ricerca è nato uno dei film più belli e più impressionanti degli ultimi anni. Viaggio a Kandahar (distribuito dalla coraggiosa Bim); e anche un impegno sociale dato che, per lavorare a VIAGGIO A KANDAHAR 305 29 favore delle donne umiliate dai telebani, il regista ha per adesso rinunciato al cinema. [...] Le immagini di Viaggio a Kandahar non rispondono al codice linguistico caro alla narrativa occidentale. In senso stretto Makhmalbaf non “narra” e, spesso, si affida all’ellisse abbandonando al proprio destino figure che fin lì aveva seguito con scrupolo. Non tende neppure a commuoverci. Ci propone exempla, quasi delle parabole. Il lettore le osservi, e, a seconda della personale sensibilità, ne tragga un insegnamento, grande o piccolo. Quanto si apprende da Viaggio a Kandahar è impressionante; e dà ragione a chi sostiene che tutto quel che riguarda l’Afghanistan era stato scritto, tutto denunciato molto prima dell’11 settembre 2001. Nel corso dei viaggi di Nafas la cinepresa si stacca dalla protagonista della traccia narrativa e si occupa d’altro. Assistiamo a una lezione alla madras che si conclude con l’emozione di un allievo che non sa cantare i versetti coranici (cosa che ipoteca il futuro del ragazzo); alla visita di una malata nascosta dietro una tenda da parte di un medico che comunica con la donna attraverso un parente; a un raduno di storpi che pretendono un arto artificiale e, a un certo punto, corrono e corrono verso una gamba paracadutata da un aereo; alla perquisizione (terribile) delle partecipanti al corteo nuziale. La testimonianza di Makhmalbaf, e ciò rende esemplare il film, è resa con immagini di arcaica bellezza. (FRANCESCO BOLZONI, L’Avvenire, 12 ottobre 2001). Il film è stato premiato dalla Giuria ecumenica a Cannes nel 2001, dov’era stato anche candidato per la Palma d’oro. LA STORIA Estate 1999. Mancano tre giorni all’ultima eclisse del secolo e Nafas ha per quel giorno a Kandahar un appuntamento a cui non può mancare. Sua sorella, circa un mese prima, le ha scritto una lettera con cui le ha annunciato l’intenzione di uccidersi proprio quella notte. Una lettera che concludeva con una raccomandazione: «Cerca di goderti la vita più che puoi, tu che vivi in un mondo migliore di quello in cui 306 VIAGGIO A KANDAHAR vivo io». Nafas aveva lasciato l’Afganistan anni prima per il Canada, dove è giornalista, e adesso a bordo di un elicottero della Croce Rossa sta tentando di raggiungere la sorella, rimasta sola in quel Paese, attraverso il confine con l’Iran. Un viaggio difficile, praticamente proibito dal dominio dei talebani che hanno imposto la loro legge a tutti quelli che considerano nemici dell’Islam. Appena sbarcata, si rende subito conto di quali siano le difficoltà di chi deve avventurarsi su un terreno pieno di insidie. Il pericolo da tenere sempre presente sono le mine abbandonate sulla strada. Ai bambini viene insegnato a come diffidare persino di ogni giocattolo abbandonato. La prima persona che Nafas trova disposta ad accompagnarla in Afganistan in cambio di 100 dollari è un capo famiglia che con le sue donne e i suoi figli sta tentando di ritornare a casa sua. La farà passare per la sua quarta moglie. Ma il viaggio con questo piccolo gruppo non va molto lontano. Il furgoncino sui cui viaggiano viene fermato in pieno deserto afgano da un manipolo di uomini che li derubano delle loro povere cose: l’uomo dice che non se la sente di proseguire, preferisce rientrare in Iran. Nafas deve allora cercare un altro mezzo per proseguire e il solo che si presta a farle da guida è un bambino, furbissimo, già allontanato dalla scuola coranica perché incapace. Gli consegna cinquanta dollari e si mettono in cammino tra discussioni varie, finché arrivano a una piccola oasi dove Nafas fa l’errore di bere l’acqua del pozzo. Si ammala, e la sua guida la accompagna dal medico del posto, a cui lei dichiara subito di che cosa si tratta. Il medico, un nero americano che ha scelto di rimanere in quella terra «per trovare Dio», capisce immediatamente di avere davanti una donna diversa. Vuol sapere chi è quel bambino che l’accompagna e le spiega che è meglio non fidarsi. Si presta lui ad accompagnarla con il carretto a Kandahar. In realtà quell’uomo è soltanto un soldato, arrivato per combattere con gli afgani contro i russi e deluso dalle conseguenze del conflitto. Dice a Nafas: «Un giorno, gli afgani erano ormai in guerra tra loro, ho trovato sulla strada due bambini agonizzanti: uno era pashtu, l’altro kagico. Così ho capito che per trovare Dio avrei dovuto alleviare il dolore di quella gente». E prosegue: «Le più banali conoscenze dell’Occidente sono inimmaginabili qui. Qui si muore di raffreddore, di diarrea». Raggiungono così la sede della Croce Rossa, dove convergono gli uomini in attesa di una protesi che consenta loro di poter continuare a lavorare. Il campo è affidato a due dottoresse bianche, che l’americano conosce bene e a cui si rivolge sperando di poter avere da loro l’indicazione che consenta a Nafas di continuare il suo viaggio. Niente da fare. Sarà ancora lui a proseguire la strada con il carretto fino a quando incontreranno un giovane mutilato che, dopo aver esposto il rischio che corrono a rientrare in Afganistan, si fa convincere dall’offerta di 200 dollari. Si allontanerà subito dopo, lasciando Nafas ancora sola con l’americano, che adesso le offre la sua pistola. Lei la rifiuta. Quello che gli chiede è di dire qualcosa per sua sorella, che parli della vita, della speranza. Ma il giovane mutilato ritorna nascosto da un burka, mimetizzato in un corteo di donne, che al seguito di una sposa sta raggiungendo a piedi Kandahar, e le indica di unirsi a loro. Nafas si inserisce in quel corteo, anche lei coperta dal burka, presunta cugina di una giovane sposa che non conosce, all’interno di un Paese da cui si è ormai allontanata per sempre. (LUISA ALBERINI) un’altra cultura. È un iraniano, non sospetto di pregiudizi, di propaganda né d’opportunismo: il film è stato girato nel 2000 e presentato nel maggio scorso al festival di Cannes. E un regista che, parlando dell’Afghanistan, parla un poco anche del suo Paese, dell’Iran dove (s’è visto pure nel film Il cerchio di Jafar Panahi) una donna non può andare in giro da sola, non può comprare un biglietto di viaggio, non può respingere bruscamente i fischi o le rozze galanterie maschili per strada, non può muoversi in automobile con un uomo che non sia suo parente, non può fumare in pubblico né indossare vestiti corti e colorati né avere la testa scoperta. Condizioni di vita simili non sono troppo diverse da quelle delle donne italiane nel Sud rurale del Paese negli anni precedenti la seconda guerra mondiale: povertà, regimi politici repressivi, ignoranza e oppressione religiosa danno sempre gli stessi risultati antifemminili. [...] Con il suo contrasto di bellezza perfetta e miseria umana straziante, Viaggio a Kandahar è una nuova testimonianza della grandezza del cinema iraniano, nato dal neorealismo italiano, nell’affrontare i problemi più aspri, nel rispecchiare la realtà con cuore ardente, intelligenza impegnata, estetica impeccabile: e con risultati di un’altezza inimitata». (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 14 ottobre 2001) LA CRITICA «Per primo, il regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, con sensibilità lungimirante, coraggio e grande bravura, racconta in un film [...] come vivono le donne nell’Afghanistan dei talebani. L’autore ricorda che un giorno una giovane donna afghana emigrata in Canada andò a trovarlo chiedendogli aiuto, dicendogli d’essere in viaggio per raggiungere in Afghanistan un’amica che non resisteva più e voleva uccidersi. La giovane donna, Niloufar Pazira, è diventata la protagonista del film, la guida attraverso un mondo inaccettabile [...]. Dice il regista: “È un Paese senza immagini: non c’è la televisione, non esiste il cinema, i lineamenti degli uomini sono occultati dalla barba, i visi delle donne rimangono invisibili”. [...] In Viaggio a Kandahar, poi, per la prima volta a illustrare questa realtà non è un occidentale appartenente a Che cosa dirà Nafas alla sorella, se riuscirà a raggiungere Kandahar prima dell’eclisse? Attraversando il deserto afgano, non deve trovare solo vie e passaggi, guide e compagni di strada. Deve anche trovare buoni motivi per continuare ad amare la vita, nonostante la miseria e la degradazione umana di cui il suo cammino è disseminato. Quei motivi, se ne troverà, gli suggeriranno la parola con cui distogliere la sorella dalla sua decisione di darsi la morte. Questo è il tema portante di Viaggio a Kandahar [...]. In un tale mondo del tutto altro – un mondo per noi al negativo e spesso negato –, che cosa mai giustifica la fatica di durare in vita? Il viaggio di Nafas parte da un campo di assistenza ai profughi afgani. Da lì anche i profughi ne iniziano uno, all’indietro, di nuovo verso i luoghi da cui sono fuggiti, ma ora con il conforto di qualche consiglio. Fatevi piccole come formiche diVIAGGIO A KANDAHAR 307 ce qualcuno a un gruppo di bambine che – dopo aver imparato a diffidare delle bambole trovate per strada, e imbottite d’esplosivo stanno per esser rimandate al loro destino e al loro burka: più piccole vi farete, si spiega loro, più libere vi parrà d’essere. E poi, dice quella stessa voce, non smettete di sperare: prima o poi il mondo si accorgerà di noi e ci verrà a salvare. Con questo viatico colmo d’angoscia inizia per Nafas e per noi l’attraversamento del deserto. Sarà segnato, il suo e nostro cammino, da quattro tappe. Per ognuna ci sarà una guida afgana, di cui la sceneggiatura “annuncia” la storia e il carattere prima ancora che la protagonista la incontri: un capofamiglia misero e rassegnato, un ragazzino deciso a sopravvivere, un afroamericano alla ricerca di Dio, un giovane mutilato. Saranno forse loro a indicarci quei tali motivi? Nella sua linearità narrativa, nella sua suddivisione quasi didascalica in tappe, Viaggio a Kandahar lega l’intensità emotiva dell'attraversamento d’una disperazione radicale con il distacco e la solarità di un’analisi e d’un saggio. [...] Ma racconta e mostra anche qualcosa di più inatteso. Per esempio: la rassegnazione dell’uomo che per primo guida Nafas verso Kandahar, una rassegnazione tanto radicale da capovolgersi in un’altrettanto radicale volontà di sopravvivenza. E ancora: la “civetteria” [...] d’uno smalto per le unghie; l’inventiva di chi s’ingegna a trovare nell’orrore modi e vie traverse per campare fino al giorno dopo, magari commerciando protesi; la dignità gentile d’un ragazzino, che tutto è costretto dalla fame a misurare in denaro, e che tuttavia pretende di donare a Nafas un anello tolto a uno scheletro. Sono forse questi i motivi estremi – anche nel senso di ultimi – che possono suggerire l’amore per la vita, nonostante tutto? Potrà Nafas convincerne la sorella? (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2001) La storia della profuga afghana che dal Canada fa ritorno nel suo paese [...] è certo un articolato documento sulle realtà di un determinato contesto geopolitico, un vibrante pamphlet che denuncia la drammatica condizione di subalternità della donna, magari anche una parabola sul dolore e sulla necessità della speranza. Ma Viaggio a Kandahar oggi 308 VIAGGIO A KANDAHAR non è solo questo. Non può essere guardato solo come un film perché non è solo un film. È l’altra faccia del dramma newyorkese per come ci mostra l’agonia di un popolo mutilato e vessato in ogni modo. È un atto di fede nel cinema e nella sua capacità di incarnare un’(est)etica politica. È la dimostrazione tangibile che esiste nel mondo islamico una coscienza laica, aperta, progressista (checché ne pensino alcuni politici italiani e certi commentatori pronti a fare di ogni erba un fascio, senza capire che è esattamente l’effetto che gli integralisti vogliono ottenere). Se dall’Iran possono venire film come questo, esiste anche lo spazio per un dialogo, per affermare dei valori di civiltà e di umanità. È molto onesto il regista Mohsen Makhmalbaf a mostrare l’alienazione di un’educazione coranica che avviene con le armi in pugno (i piccoli allievi che recitano versetti sacri e impugnano il kalashnikov), così come una fede vissuta dai più come un invito alla rassegnazione (le persone depredate che benedicono i malfattori convinti che anche così viene fatta la volontà di Dio). Ed è molto coraggioso nella sua volontà di affermare il valore delle immagini contro la logica oscurantista dei fondamentalisti (i “fedeli della lettera” che, come sempre, uccidono lo spirito). Viaggio a Kandahar è un film che si affida provocatoriamente alla bellezza delle immagini, alla vividezza dei colori, alla plasticità della composizione (tutte cose che alcuni hanno scambiato per estetismi inopportuni) per raccontare la drammaticità degli eventi. [...] Sul modello, tante volte adottato dal cinema iraniano, del percorso lineare costellato di incontri, Viaggio a Kandahar disegna una traiettoria che è un’odissea, un viaggio di ritorno a casa (non è certo un caso che tanto cinema contemporaneo, dall’anziano de Oliveira di Je rentre à la maison al giovane Marra di Tornando a casa, scelga di tornare sul tema perché la “casa”, la terra, la madre patria, il luogo della propria storia si va configurando come un grande lutto o un serio problema del mondo contemporaneo). Il viaggio di Nafas è un nostos che mette a fuoco il legame culturale e politico tra Oriente e Occidente: sicché, a pensarci un po’, ci risulta meno difficile capire che le situazioni che vediamo nel film non sono il retaggio di una cultura primitiva, ma il frutto di un regime di recente costituzione (è talmente vero questo doppio legame tra Oriente e Occidente che il cattivo Osama non è un eremita che predica con furore apocalittico, ma un abile stratega finanziario prima ancora che militare). E viene il sospetto che quel mondo attanagliato dal terrore, dominato dalla miseria, deturpato dalle mutilazioni delle mine antiuomo (per cui ai bambini si insegna a non raccogliere i giocattoli a terra perché potrebbero fra scoppiare delle bombe), sia solo il riflesso del nostro, l’immagine (che avremmo forse preferito continuare a ignorare) rinviata da una sapiente drammaturgia dello specchio. [...] (EZIO ALBERIONE, Panoramiche/ Panoramiques, inverno 2001) È singolare come Viaggio a Kandahar abbia focalizzato l’attenzione sulla tragica realtà dell’Afghanistan poco prima che fosse il mondo intero a farlo. Può essere non facile, fuorviante, parlare di un film le cui immagini sembrano prolungarsi e intrecciarsi con quelle che in questi mesi ci sono giunte dalla martoriata terra afghana. Se da un lato il film appare meritevole per aver dato visibilità a un’umanità agonizzante troppo a lungo ignorata, dall’altro potrebbe risultare inadeguato per non aver mostrato l’orrore fino in fondo. Ma Viaggio a Kandahar non è né un documentario né un reportage di guerra. È un racconto filmico che, pur attingendo a un “vero” terribile e contemporaneo, ha una sua struttura narrativa attentamente costruita le cui costanti formali – improvvidamente tacciate di estetismo da qualche recensore – hanno una loro ragion d’essere. Il viaggio è scandito dagli incontri di Nafas con i personaggi che la accompagnano e che sono tuttavia prima introdotti in un loro contesto autonomo: un campo profughi, una scuola coranica talebana, la dimora del “medico”, un centro di assistenza della Croce Rossa. Il filo conduttore è un diario vocale, ossia la vocce in campo o fuori campo che Nafas registra su un nastro mentre immagina di dialogare con la sorella. Il film si apre e si chiude con le inquadrature di una eclisse di sole, un evento che nell’Islam, come in altre religioni orientali – si pensi all’eclisse nel drammatico finale di Sorgo rosso di Zhang Yimou – si carica di connotazioni negative. L’oscuramento della luce diventa metafora dell’oscuramento della ragione, del senso morale. Non si tratta più di sottolineare l’errore di ritenere una cultura inferiore solo perché diversa e primitiva – come nell’Uomo che volle farsi re di Huston – quanto di constatare come il fondamentalismo (in questo caso) islamico abbia generato mostri, violato la dignità delle donne, eclissato il loro sguardo. “Testa nera” viene infatti indifferentemente chiamata ogni donna in Viaggio a Kandahar. All’immagine del sole “nero” si affianca il volto senza volto di Nafas e quando la giovane donna solleva il burqa, punti di luce penetrano dai fori ricamati e ridisegnano sul suo sguardo una grata che continua ad ingabbiarlo. Molti film iraniani, e si ricordi soprattutto Il cerchio, hanno già mostrato quanto duramente le donne siano discriminate da una società maschilista e sessuofoba; eppure, dagli informi e lugubri chador i lineamenti del volto rimanevano visibili. Con il burqa le donne sono chiamate a mortificare e sopprimere integralmente il loro corpo e la loro identità. In Viaggio a Kandahar le donne non sono che sagome anonime in movimento. Le foto ai gruppi familiari scattate dagli inviati Onu, allo scopo di documentarne l’identità, diventano grottesche, in quanto sotto il burqa potrebbe celarsi chiunque. Ma anche gli uomini hanno il loro burqa: la barba lunga – significativo il gesto del medico di togliersi la barba finta davanti a Nafas – e i turbanti uguali tendono ad annullare le diversità; anche il comportamento imposto dal mullah ai giovani studenti ha una meccanica uniformità che riduce la religione a paravento, a luogo di identità mancate, non volute. [...] Nonostante l’eclisse, gli oscurantismi, Makhmalbaf cerca la luce dei colori. Come in Gabbeh è esaltata la policromia dei disegni naïfs dei tappeti tessuti da antiche tribù nomadi, come ne Il silenzio acquistano particolare evidenza i colori dei bellissimi costumi delle donne del Tagikistan, in Viaggio a Kandahar i burqa si stagliano nel deserto come piramidi di stoffa dalle tinte più vivide e svariate. [...] E il film è intriso di sofferenza, è il cinema di “lamento”, come lo definisce Makhmalbaf (in L’Iran e i suoi schermi, Marsilio, 1990), che deve “riflettere sulla tragedia della guerra affinché il mondo si renda conto VIAGGIO A KANDAHAR 309 di quello che accade”. [...] In Viaggio a Kandahar le immagini delle gambe artificiali, sospese ai piccoli paracaduti bianchi che si librano nell’aria, diventano surreali, esemplificando il dramma di un popolo straziato eppure pronto a correre incontro a una speranza. Nafas potrà dire alla sorella che anche chi è privo di gambe può vincere una gara di corsa; e se l’ottimismo della donna, alla luce dei devastnati eventi recenti, può risultare illusorio, occorre tener conto che nel cinema di Makhmalbaf non è mai la disperanza a prevalere. In Gabbeh la protagonista supera ogni pregiudizio e fugge con l’amato, ne Il silenzio, il bimbo cieco diventa un fiero arrangiatore di suoni; anche Viaggio a Kandahar è una ricerca di luce nell’oscurità che incombe, un desiderio di colore nella monocromia del deserto, il costituirsi di una forma dal caos doloroso del vero. (ELIANA ELIA, Segnocinema 113, pp. 41-42) I COMMENTI DEL PUBBLICO raggiungibile è un voler riapproppriarsi della vita oscurata nella sua libertà da un regime che interpreta la parte più buia dell’Islam. Il fenomeno dell’eclissi si sposa all’incoercibile desiderio di una donna di suicidarsi quasi come un inserimento nella mancanza di una luce vitale. Il film è bellissimo nelle sue spettacolari inquadrature tra inaccessibili montagne e infiniti deserti. I variopinti burka diventano un elemento pittorico nell’uniformità del colore della natura. Nafas è il paradigma della donna che aspira a liberarsi dalle costrizioni e ad assumere una sua dignità. Non mancano i riferimenti alla devastazione prodotta dalle mine antiuomo con paradossali lanci e commerci di protesi dall’amara ironia. Non manca l’aperta critica all’assurdo meccanismo religioso delle scuole coraniche in cui la coralità si abbina alla cultura delle armi e viene premiata con una vita di sopravvivenza. Ogni personaggio del film è emblematico di una cultura soffocante che dovrà trovare un’evoluzione ispirandosi al diritto naturale a cui ogni essere umano non dovrebbe essere sottratto. DA PREMIO OTTIMO Carla Novi - Film sconvolgente oltre che coinvolgente. Dietro a quei burka colorati, una festa per gli occhi, si nascondono delle donne che non hanno diritto di esistere nella logica aberrante di un regime dittatoriale. Bellissima l’attesa di tutti coloro che hanno bisogno di un arto artificiale, quasi una danza verso la libertà. Profonda la fede del “medico” che alla ricerca di Dio lo trova nell’uomo sofferente da aiutare. Dolorosa la rinuncia delle bambine a studiare confortate solo dalle parole di chi consiglia loro di farsi piccole dentro per sentirsi più libere. Sembra un film senza speranza, l’eclissi che arriva segna il buio totale, ma dopo il buio c’è sempre la luce. “Non smettete di sperare, prima o poi qualcuno si accorgerà di questo popolo oppresso e verrà a salvarlo”. È il messaggio di questo film, dove il deserto è simbolico, con il suo viaggio travagliato e la volontà ferma di superarlo. Miranda Manfredi - Il viaggio per una meta ch