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UN PUGNO DI MOSCHEE.
C'era una volta il Vicino Oriente
COLPO DI FULMINE CON IL VICINO ORIENTE
Sharm el Sheik, Egitto
dicembre 2002
Quest'autunno ho conosciuto Benny a una festa; giunti al terzo bicchiere di vino abbiamo deciso di
andare insieme a Capoverde. Pochi giorni dopo, alla brigata si è aggiunta Rosanna. Poi, abbiamo
rinunciato a Capoverde perché costava troppo. Infine siamo arrivati oltre tempo massimo per un
viaggio organizzato in Thailandia. Quindi, praticamente, Sharm El Sheik è stata un ripiego.
Mi ero sempre rifiutata di soggiornare in un posto finto e turistico come questo e non ero
particolarmente entusiasta quando sono salita sull'aereo, in un giorno di quasi Natale. E invece, sono
tornata a casa in preda al magone.
Insomma, il mio colpo di fulmine con il Vicino Oriente ha avuto come scenario, insospettabilmente,
quel postaccio di Sharm el Sheik, un'isola felice che comprende chilometri di mastodontiche strutture
turistiche, moschee futuristiche, bar beduini con tappeti, cuscini e narghilè, palme vere tutte in fila
e palme di plastica con le luci elettriche, negozi di papiri e centri commerciali costruiti a partire dai
primi anni Novanta (quando si era finalmente ritrovata la pace).
A parte i pochi abitanti originari di Sharm vecchia — uomini coi baffi perennemente seduti sulle sedie
di legno a guardare la tv, fumare il narghilè e bere il tè —, la maggior parte delle persone che
risiedono in questa località sono i lavoratori immigrati: egiziani anch'essi, dagli occhi incantatori, con
le mogli al Cairo o ad Alessandria e la testa confusa dalle turiste mezze nude. Non c'è bisogno di
pagare il biglietto per assistere alla loro strabiliante commedia umana. La prima sceneggiata egiziana
è avvenuta quando abbiamo preso accordi per la motorata nel deserto con un giovane traffichino
venditore di souvenir, scatenando l'incazzatura del ragazzo che ce l'aveva proposta precedentemente.
Si è presentato poi un ossessivo tatuatore che cerca in tutti i modi di insidiarmi: mi fa dei regali, si
vanta delle innumerevoli avventure erotiche intercorse con turiste russe superbellissime, è sempre
tra i piedi o al telefono della camera; quando ho perso la pazienza definitivamente, mandandolo a
quel paese senza più tanti complimenti, ha fatto una scena madre davanti a tutti pretendendo
indietro i suoi regali. Da allora ho capito che se si commette l'errore di dare un po' di confidenza a
negozianti, tatuatori, autisti, massaggiatori, guide turistiche, in un fiat ci si trova al centro di una
gabbia di matti, aizzati uno contro l'altro, nervosi e platealmente offesi, e che nessuno dice la verità,
bensì tutti parlano male degli altri per biechi motivi di interesse: vendere un CD o procurare un
servizio turistico. La sera nel taxi coi peluche spelacchiati e le coperte di finta pelliccia —
sobbalzando nelle strade larghe e illuminate, con i fari spenti — speriamo di essere riportati a letto
senza incidenti da un tassista improvvisato che mentre guida ci mostra per forza le foto della
fidanzata, mentre noi gli ordiniamo di guardare avanti e di non girarsi per parlare con noi e di non
zigzagare a vanvera. E mai sia fai un minimo accenno a una madre o a un sorella del personaggio di
turno: manca poco che ti sfidi a duello.
Però, sotto quel brutto baraccone di cartapesta, la penisola del Sinai è una meraviglia di terra che si
colora di rosso all'alba e al tramonto, di incantevole deserto roccioso sotto il cielo blu, di mare pieno
di coralli e pesci colorati. Questa regione triangolare, che tecnicamente fa parte dell'Asia, ha una
storia affascinante, poiché è la terra dove i faraoni trovarono l'oro, è il punto di incontro delle tre
religioni monoteiste, è la strada per la Terra Promessa; sul Monte Sinai, secondo l'Antico Testamento,
Mosè ricevette i dieci comandamenti.
Già durante l'atterraggio ho inquadrato nell'oblò un immenso deserto marrone con isolati rettangoli di
luci. All'aeroporto abbiamo dovuto fare una fila di tre ore per farci vistare il passaporto da un tipo
molto nervoso, tra centinaia di persone, senza nemmeno poter comprare una bottiglia di acqua.
Ormai sono le 6 quando arriviamo in hotel, tanto vale guardare l'alba che arrossa l'isola di Tiran,
dietro cui sorge il primo sole egiziano. Poche ore dopo siamo già alle prese con il primo pollo al
cumino e il primo tè alla menta della settimana.
In attesa di un lieve rialzo delle temperature, ci ambientiamo nella piscina coperta e poi
passeggiamo nella terrificante Naama Bay. Per fortuna le condizioni climatiche volgono presto al
meglio e già dal giorno dopo si presentano le condizioni (non scontate a fine dicembre) adatte per
fare snorkeling lungo la barriera corallina. Qui nella Shark Bay, i coralli e i pesci sono molto vicini e
lo spettacolo mi appassiona per diverse ore al giorno. È stato molto bello anche guardare con la
maschera nel tratto di mare vicino al parco Ras Mohammed, durante un'escursione in veliero. In
quest'occasione facciamo sosta su una minuscola isoletta paradisiaca dalla sabbia bianca; l'acqua
trasparente col passare dei minuti sale a vista d'occhio fino a che l'sola non viene prodigiosamente
inghiottita dal mare.
Il terzo giorno sono caduta innamorata del deserto, nella fattispecie quello del Sinai, con le sue
montagne dorate dal tramonto.Raggiungiamo una rimessa affollata di vecchie moto a 4 ruote,
scorrazziamo nella sabbia che impasta i capelli e le ciglia, vediamo tende beduine, passeggiamo con i
dromedari, lanciamo urla nella valle dell'eco, beviamo tè beduino e tutto ciò è molto più
entusiasmante e beduino visto che sto allacciata all'egiziano padrone del mezzo, che raggiunge alte
velocità e solleva più polvere di tutti.
Il deserto ho continuato a corteggiarlo quando siamo andati al Cairo, in una Mercedes con autista
belloccio che, a sua volta, corteggia me. Partiamo alle 3 di notte dopo un fantozziano veglione della
vigilia di Natale (festoni, composizioni di frutta e dervisci rotanti): il buio man mano diventa alba e
lo scenario appare lunare. Con la musica arabic in sottofondo, sorrido al mio nuovo innamorato, e
intanto lui sgranocchia pistacchi, passiamo i checkpoint e ogni tanto ci fermiamo a bere tè caldo.
È ormai giorno fatto da un pezzo quando appare in lontananza un'enorme nuvola grigia, sotto la quale
si cela la capitale. Quando ci si innamora si perde la lucidità, ed è per questo che questa giornata
assume i contorni fantasmatici di un sogno: le piramidi di Giza e la Sfinge circondate da dromedari,
asini, carri trainati da cavalli, auto antiquate e moderne macchinone clacsonanti, intelaiature che
spuntano dalle case prive del piano di sopra, grattacieli altissimi, io in un battello on le vetrate
affacciate sul Nilo che fumo il narghilè insieme a un misterioso signore con i baffi grigi, una grossa
ecchimosi sulla fronte di una solerte guida del Museo Egizio, una proposta di matrimonio dentro una
chiesa cattolica, un autista scomparso e atteso per ore. E poi di nuovo deserto, buio, stelle, tè,
pistacchi e musica araba.
LO SGUARDO DELLA FAVORITA
Marocco
febbraio 2003
La delizia per gli occhi
Per i viaggiatori occidentali, l'impressione più vivida prodotta da un primo contatto col Vicino
Oriente è la sorpresa di trovarsi in un paese dove l'elemento umano aumenta invece di diminuire la
delizia per gli occhi. (...) Le folle marocchine sono sempre un piacere per gli occhi. L'istinto del
gusto nel vestire, il senso del colore (che, sottomesso alle usanze, fa capolino a sprazzi ingegnosi
sotto le tinte cinerine dominanti) rendono il più umile insieme di conduttori di asini e portatori
d'acqua una delizia sempre nuova.
[ Edith Wharton, "In Marocco" ]
Quell'assaggio di Egitto mi aveva stregata: le melodie arabic e i minareti, il deserto e i cammelli, i
minuscoli bicchieri di tè, i pistacchi e il cumino. Dovevo al più presto tornare nel mio “Vicino
Oriente”.
Due mesi dopo sono partita per il Marocco con un tour organizzato. Una sola settimana ma da sola,
con persone sconosciute: avrei testato se il fascino persisteva oppure sfumava via senza il mare,
senza i pesci e senza gli amici. Avrei sperimentato la libertà di cui parlava De Botton: niente
inibizioni e condizionamenti altrui, niente censure alla curiosità per apparire più me stessa agli occhi
di persone che già mi conoscevano.
È un'anonima giornata di febbraio quando atterro all'aeroporto di Casablanca: un grosso punto
interrogativo nella testa e uno spropositato sorriso che illumina faccia e tutto. Per la notte ci
sistemiamo a Settat, sulla strada per Marrakech, dopo aver steso un programma di massima raccolti
attorno ad una grande cartina del Marocco, mangiando banane nane e brioche.
Il villaggio della prima sosta è tutto rosa e brulica di uomini con il djellaba, il soprabito lungo col
cappuccio. Resto abbagliata dalla luce del sole che illumina i volti che ci osservano, sorseggiando tè e
caffè. Poi tutto ciò è diventato la regola.
Una pubblica attività
È una pubblica attività, è un fare che esibisce se stesso insieme all'oggetto finito. In una società che
tiene nascosto così tanto di sé, che agli stranieri cela gelosamente l'interno delle sue case, la figura
e il volto delle sue donne e perfino i suoi templi, questa intensa ostentazione del produrre e del
vendere è doppiamente affascinante.
[ Elias Canetti, “Le voci di Marrakech” ]
Marrakech fu fondata dagli Almoravidi, guerrieri nomadi berberi che la fecero capitale del regno a cui
ha dato il nome: Marocco. L'albergo ha i mosaici e le ceramiche arabescate ed è adiacente alla
moschea della Koutubia, da cui la mattina dopo alle 5 e 45 il muezzin che chiama alla prima
preghiera della giornata mi sveglia.
La piazza Jemaa El-Fna, il fulcro della città, nella tarda mattinata è un totale caos, da cui ci redime
Mohammed, un omone imponente nel suo djellaba rosso scuro, che si propone di farci da guida e che
non ci abbandona fino al tardo pomeriggio. Mi accorgo subito che visitare le città del Marocco in un
gruppo senza una guida può essere una grossa seccatura, perché decine di persone (capaci di
riconoscerci come italiani perfino se avessimo indossato il burqa) ci avrebbero proposto di
accompagnarci ad ogni passo.
Avevo già letto in un libro per ragazzi qualcosa a proposito dei tipici personaggi che si incontrano
nelle piazze e nei mercati del Marocco: incantatori di serpenti, cantastorie, ammaestratori di
scimmie, suonatori di tamburi e nacchere, venditori d'acqua coi loro pentolini di rame, acrobati
berberi; appena giunti in piazza un uomo mi avvolge un serpente intorno al collo.
Alla Medersa Ben Youssef, la scuola coranica dove i giovani studiavano e alloggiavano, veniamo
affidati per la visita a Salvatore, così soprannominato perché parla tutte le lingue
contemporaneamente come il personaggio del "Nome della rosa", e ogni volta che non capiamo una
parola ci dobbiamo prima domandare in che lingua sia. L'edificio è stato da poco restaurato e ha un
bellissimo cortile interno con i marmi e il legno di cedro finemente lavorati e le calligrafie,
antichissima arte nella cultura islamica.
Si entra dunque nella temibile fase dello shopping, in un delirio di tappeti, babouche, caftani, cuscini
in pelle, teiere, portacenere, lampade e cocci di infinite fogge. Elias Canetti mi aveva già messo in
guardia («È gradito che il viavai delle trattative duri una piccola, sostanziosa eternità»), ma
l'approccio è stato comunque inizialmente scoraggiante: solo il fatto di guardare un oggetto o
chiederne il prezzo fa scattare la trattativa e più volte mi ritrovo inseguita dai venditori nel labirinto
del suq. A un certo punto Mohammed ci conduce in un'erboristeria berbera, dove, soggiogati da tre
giovani in camice bianco che ci fecero annusare per mezz'ora spezie, erbe medicinali, oli e saponi,
promettendoci miracolose guarigioni dalla cervicale, paghiamo minimo 10 volte più del loro reale
valore tè, kajal o rossetti berberi.
A Marrakech costeggiamo le mura che circondano la medina, attraversiamo il quartiere ebraico (il
Mellah) ormai abitato solo da musulmani, ammiriamo il palazzo reale, visitiamo le tombe dei sultani
Saaditi e il Palazzo El-Bedi, ma manchiamo i romantici giardini della Menara. All'ora del tramonto
raggiungiamo la piazza Jemaa El-Fna. È lì che ci siamo persi, mentre tutto quel giallo sfuma nella
notte e le luci cominciano ad accendersi. L'atmosfera si fa irreale di profumi, suoni, parole, danze e
cibo speziato. Lumache e spiedini, bancarelle di spremuta d'arancia e tajin a cuocere su fornelletti,
rivenditori di cd, acrobati e musicanti, indovini e giocolieri. Una donna velata mi prende la mano per
decorarla con l'hennè, e il freddo pungente di febbraio me la congela nei minuti necessari a farla
asciugare. È il momento adatto per rifugiarsi sulla terrazza panoramica di uno dei caffè che si
affacciano sulla piazza a bere il tè e assistere allo spettacolo. Per cena mi aspettano tajin e
couscous, carote alla cannella, melanzane, zuppa di legumi e tè alla menta.
Sfogliando l'Atlante
I monti dell'Atlante risplendono vicini, e si potrebbe scambiarli per la catena delle Alpi se la loro
luce non fosse più fulgida e non vedessimo tutte quelle palme tra i monti e la città.
[ Elias Canetti, “Le voci di Marrakech” ]
Attraversiamo l'Atlante per andare a sud, valicando il passo Tizi-n-Tichka. L'Atlante è un bel nome,
dà l'idea della geografia varia del Marocco, un libro da sfogliare per ritrovarci dentro tutti i paesaggi,
dalle colline verdi che sembra di essere in Toscana, alle montagne innevate con il vento assassino,
dalle deserte spianate di terra scura, alle rocce che prendono tutta la luce del mondo dal sole, dalle
valli ripiene di oasi e circondate da massicci di terra, alle dune di sabbia a perdita d'occhio. E sopra
tutto il cielo azzurro, compatto. Le soste per mangiare brochette di agnello o omelette, lì in
montagna, sono occasioni di incontro: chi chiede le nostre monete italiane, l'orologio, le sigarette,
chi vuole venderci le ametiste.
E poi lasciamo alle spalle la quinta dell'Atlante innevato e compare il deserto: ai lati della strada
dritta e grigia si aprono distese piatte senza fine. Di nuovo quel tuffo al cuore del Sinai. Lungo la
strada verso Ouarzazate sorpassiamo una macchina evidentemente in panne; due uomini trafficano
sul cofano aperto. Facciamo accomodare questo signore che ci ha chiesto un passaggio: indossa un
appariscente djellaba giallo zafferano, ha i denti orrendi e la pelle molto scura. Ci racconta di essere
giunto in Marocco dalla Mauritania a seguito della cosiddetta "Marcia verde" del 1975 e noi non
sappiamo se crederci o no. Ci racconta che ha fatto l'assistente alla regia per Bertolucci, che da
queste parti girò "Il tè nel deserto", e noi non sappiamo se crederci o no. Si fa lasciare in una casa
elegante, dove ci accoglie un affascinante uomo in turbante e vestito azzurro che ci invita per il tè.
Commerciano in tappeti e ospitano spesso degli italiani, ad esempio il mese successivo sarebbe
andato da lui Alessandro Baricco; e noi, ancora una volta, non sappiamo se crederci o no. Scoprii in
seguito che si trattava della tipica “truffa della Lonely Planet”, innocua ma frequente: non abbiamo
comprato nemmeno un tappeto ma il tè era molto buono.
Come dio volle siamo a Ouarzazate, la Cinecittà del Marocco, dove ci attende un tramonto che
sembra finto. Visitiamo la kasbah di Taourirt, una specie di castello fortificato − abitato fino agli
anni Trenta da una potente famiglia berbera − realizzato con la tecnica del pisé (paglia e ciottoli
cementati con fango) e meravigliosamente conservato perché poi trasformato in museo e utilizzato
come ambientazione per numerosi film girati negli studi Atlas. Mentre ci conduce nelle numerose sale
con pareti decorate e soffitti di legno dipinto, la guida ci racconta dei film girati in questo palazzo;
mentre osserviamo gli appartamenti delle mogli e delle concubine del pascià (tra cui la stanza della
favorita, con le grate lavorate alla finestra), ci parla delle sue immaginarie mogli; poi passiamo al
piano superiore e lui non dice più niente: ci affacciamo alle finestre e ammiriamo il palmeto
circostante. Dopo esserci persi tra i cortili e le terrazze, la visita termina, e non so come andiamo di
nuovo a finire dentro a un negozio di tappeti.
Mal di gola
Non lasciarti catturare dal tempo, devi essere tu a farlo prigioniero e ad annientarlo. Il tempo è
come una spada, se non lo impugni ti taglia. Qui devi imparare a sentire la sua presenza nelle cose,
nei piedi delle persone, nei voli degli uccelli, nel passo dei cammelli. Devi intuire la sua lentezza.
[ Younis Tawfik, "La città di Iram" ]
È quasi buio quando ci addentriamo nella spettacolare "via delle mille kasbah". Ci stiamo dirigendo
verso Kalaat M'Gouna, quando una luna enorme appare all'orizzonte lasciandoci tutti inebetiti.
Nella città delle rose è stato facile confondere una rosa con l'altra e sbagliare l'hotel. Arriviamo tardi
per la cena nel tendone gelido, chiedendoci se abbiamo fatto bene a viaggiare per il Marocco nel
mese di febbraio.
La nuova giornata dispiega le meraviglie delle Gorges du Dadès, un canyon scavato tra l'Alto Atlante
e il monte Saghro. Da Boumalne Dadès la strada sale per molti chilometri tra solide montagne, oasi
rigogliose di palme, ksour dello stesso colore della terra. Il fiume è incassato profondamente nella
gola, attraversata dalla strada appena percorsa che sembra una lunghissima lingua grigia. Ci
fermiamo nei pressi del fiume immerso nel verde, dove le donne lavano i panni per stenderli sui rami
degli alberi e trasportano enormi ceste piene di legna o paglia, mentre gli uomini stazionano seduti
sulla strada; un ragazzino si offre di guardarci le macchine per pochi dirham.
Ci procacciamo il pranzo in un paese lì vicino: l'arrivo di cinque auto nella piazza del paese scatena
curiosità generale, ma il vero boss è un personaggio dalla pelle scura, gli occhi di carbone e un ricco
turbante nero su veste bianca, che ci obbliga a mangiare il tajin in un ristorante scalcinato con i
tavoli fuori; si offende per qualcosa che solo lui sa, se ne va platealmente incazzato e poi torna con
delle Heineken davanti alle quali facciamo la pace.
Le Gorges du Todra, gole vertiginose scolpite nella roccia, le raggiungiamo partendo da Tinghir in
auto, tra oasi e montagne spaccate a metà dalla strada e illuminate dal sole calante. La fenditura in
alcuni punti è un passaggio di pochi metri tra pareti verticali di circa 300 metri. E intanto i ragazzini
giocano a calcio nella natura favolosa, ci guidano nelle kasbah abbandonate, ci sorridono e ci danno
la mano nei passaggi più impervi, in cambio di soldi che rischiano di rovinare tutta la magia dei loro
sorrisi precedenti.
L'oscenità di una notte di tamburi
Li osservammo attentamente ed ecco: tutti i cammelli avevano un volto. Erano simili tra loro
eppure diversissimi. Ricordavano quelle vecchie signore inglesi che prendono il tè insieme con aria
dignitosa e apparentemente annoiata, e tuttavia non riescono a nascondere del tutto la malvagità
con cui osservano ogni cosa che le circonda.
[ Elias Canetti, “Le voci di Marrakech” ]
Ci infiliamo in macchina diretti a Er-Rachidia, dove trascorreremo la notte. Lì dei ragazzi ci
aspettano fuori dall'hotel: erano informati del nostro arrivo visto che Ben, il fratello di uno di loro, il
giorno dopo ci avrebbe accompagnato a Merzouga. Mentre scambiamo due chiacchiere, mi
comunicano solennemente che ho antenati arabi.
Ben è grande e grosso, scuro di pelle, indossa un turbante bianco e il djellaba verde pistacchio.
Effettivamente pensava che ormai non saremmo più arrivati e dunque si era messo a dormire.
Lentamente si sveglia e comincia a raccontarci del suo divorzio; per tutta la sera ci descrve il
Marocco del 2003, in bilico tra tradizione e modernità, Islam e antenne paraboliche, legge coranica e
poliziotti corrotti.
La nostra destinazione l'indomani è Merzouga, da cui raggiungeremo l'oasi Oubira nel deserto di
sabbia, il mitico Erg Chebbi; qui passeremo la notte in tenda. La strada, che costeggia il fiume Ziz,
ci porta prima presso la sorgente blu di Meski, poi nello ksar di Maadid, ospiti di una famiglia che ci
offre tè e dolci. Il capofamiglia ha 54 anni ma ne dimostra diversi di più, la donna è silenziosa e
apparentemente timida, ma si scioglie la lingua quando comincia a leggere la mano a qualcuno di
noi.
Percorriamo dunque un tratto di strada non asfaltata che corre nel nulla dell'hammada, l'altipiano
formato da lastre di rocce che preannuncia l'erg, in mezzo a distese luccicanti di pietre e fossili.
Giunti all'hotel, dove lasceremo bagagli e auto, facciamo conoscenza con i dromedari, già carichi
delle nostre borse e delle coperte colorate, tutti accucciati in cerchio. I nostri accompagnatori sono
ragazzi vestiti di azzurro, premurosi e sorridenti.
Il mio dromedario viene soprannominato Totti da Said, lo sfortunato 21enne che si sorbisce la mia
raffica di domande durante le due ore di traversata, ed è il primo della mini carovana. Per fortuna il
cielo, che dalla mattina era coperto, si apre prima del tramonto rendendo incredibilmente dorato il
paesaggio. Resto rapita, non avevo mai visto tanta sabbia raccolta in dune così alte. Giunti
all'accampamento, scaliamo una grande duna calpestando lo spigolo lisciato dal vento. Da lassù
ammiriamo lo spettacolo del tramonto: da una parte in lontananza si vedono le montagne
dell'Algeria, mentre su una duna più distante spiccano due minuscole figure azzurre intente a
pregare. Posso solo provare a comunicare l'oscenità di una notte di tamburi e crotali, il tè e la cena
mangiata tutti dallo stesso piatto, l'attesa della luna, la notte in tenda come peperoncini stesi ad
asciugare, il terrificante raglio di un asinello che punteggia le ore piccole.
All'alba ci prepariamo per partire e io precipito da un dromedario nevrotico su un tappeto di cacca
fortunatamente secca. Molti di noi preferiscono percorrere la strada a piedi, nella sabbia morbida,
arrossata sempre più dal sole che sta sorgendo. Raggiunto l'hotel tuareg, ci preparano la colazione.
Prima di partire e salutare i ragazzi, Said mi dà il suo biglietto da visita con il numero di telefono,
mentre il berbero che la notte prima mi aveva insistentemente invitato ad appartarmi con lui, in quel
momento è impenetrabile (solo ora mi accorgo di quanto sia brutto).
Accà nisciun è Fes
Vista da lontano, la città sembrava un alveare costruito da migliaia di cellette. Appena arrivata, mi
inoltrai in un labirinto finissimo di vicoli e piazzette brulicanti di vita. Paura e stupore rendevano i
miei passi leggeri e frettolosi. Ogni angolo riservava sorprese di ogni genere. Esplorai le parti
nascoste di quella splendida medina, rapita dalla magia dei colori e dei profumi, dalle strade
strette, dalle fontane e dai palazzi sontuosi.
[ Younis Tawfik, "La città di Iram" ]
Da Merzouga a Fes ci sono circa 500 chilometri di strada e i paesaggi si susseguono vari e diversi.
Lasciata la splendida valle dell'Oued Ziz, ci avviciniamo nuovamente all'Atlante, dove alcune strade
sono a rischio chiusura per neve; quindi ci fermiamo in un villaggio frustato da un vento criminale,
dove l'intera comunità si affaccenda per sfamarci e indicarci la strada. Poi ci addentriamo nella
foresta di cedri di Azrou, popolata dalle fantomatiche "scimmie dei cedri". Giunti nella cosiddetta
"Petite Suisse", ci chiediamo stupiti dove siamo capitati: con le sue casette dai tetti rossi e aguzzi,
Ifrane (luogo di villeggiatura della famiglia reale e stazione sciistica), è davvero un altro mondo
rispetto al sud che abbiamo appena lasciato (tanto è vero che ci fanno subito una multa per aver
superato con la linea continua).
Arriviamo a Fes nel pomeriggio: per la prima volta siamo alloggiati nella ville nouvelle. Subito ci
affianca un ragazzo sul motorino che, avendo ovviamente capito al volo la nostra provenienza, ci
accompagna all'hotel, proponendosi come guida per l'indomani. Purtroppo invece scegliamo un'altra
guida, Ali. La cena non è stata un granché: è terminata da pochi giorni la festa del sacrificio, in
occasione della quale i musulmani sacrificano un animale, e nei ristoranti non è avanzato quasi
niente. Per lo stesso motivo, molti marocchini sono andati a festeggiare a sud, nei loro villaggi di
origine, e solo ora cominciano a tornare a casa (i giornali locali sottolineano quanto le grandi città
siano deserte e i problemi di traffico ridotti in questi giorni di festività). Per la prima volta troviamo
alcolici nel ristorante: di solito non li servono perché è necessaria una licenza particolare, qui invece
possiamo bere della birra e perfino il vino, servito però nella bottiglia di coca cola. Anche l'hotel è
dotato di un bar, affollato quasi esclusivamente di uomini che si girano all'unisono quando varco la
porta.
Fes, la città più antica del Marocco, sembra un alveare, è vero, vista da lontano. La parte vecchia
della città, Fes el Bali, è piuttosto incasinata. Nella medina, Ali ci guida tra gli infiniti vicoli
attraverso le zone in cui è divisa (il suq del rame, del legno, dell'hennè, della frutta secca): la terza
volta che vediamo la stessa gallina morta accanto alla stessa trippa ricoperta di mosche, abbiamo
avuto il sentore che Ali è un furbacchione. Non è la prima volta che ci facciamo prendere per il naso
da quando siamo in Marocco, ma questa volta del maldestro Ali ce ne liberiamo senza molti
complimenti. Già abbiamo abbastanza problemi a non farci investire dagli asini, che procedono a
folle velocità, carichi all'inverosimile e con delle malefiche "scarpine" di gomma che attutiscono il
rumore; a poco serve l'urlo dell'uomo che li porta alla fune ("balek!", attenzione!). Tutti vogliono
vendermi qualcosa: coca cola e sigarette, candele votive e incensi, specchietti e chincaglieria,
persino datteri e fichi secchi pieni di mosche.
Quasi ognuno di questi piccoli quartieri è dotato della moschea, della medersa, della fontana e del
forno, ma non riusciamo a entrare da nessuna parte: è venerdì, l'ora della preghiera si avvicina, le
botteghe si stanno svuotando e tutte le porte ci vengono chiuse in faccia.
Saliamo dunque in un negozio di prodotti in pelle per ammirare dal terrazzo la famosa zona dei
conciatori, piena zeppa di tinozze di colore; gli uomini lavorano con le gambe − coperte solo da
vecchi jeans tagliati a mezza coscia − immerse nei rossi, nei verdi, nei gialli (il colore più prezioso
perché ottenuto dallo zafferano). L'odore di pelle è nauseante. Al museo del legno Nejjarin, realizzo
che i musei nei Paesi islamici sono piuttosto rari a causa della preclusione per le arti figurative e,
quando ci sono, espongono cose come mensole, porte, contrafforti, armi (come in questo caso)
oppure tessuti, calligrafie, resti archeologici. Giungiamo alla porta Bab Boujeloud, che separa Fes el
Bali da Fes El Jedid (la parte nuova): la parte esterna è blu, colore di Fes, e quella interna verde,
colore dell'Islam. Ci godiamo la vivacità della zona, dotata di bagno turco, cinema con più sale,
negozi di musica. Qui ci affianca Rashid, che ci guiderà nell'ultima parte della nostra visita:
attraversiamo il quartiere andaluso e diverse botteghe dove lavorano e vendono tappeti, stoffe
ricamate, caftani, oggetti in legno e ceramica.
Con l'auto raggiungiamo il mellah, il quartiere ebraico: in realtà in tutta Fes gli ebrei rimasti sono
soltanto 10 o 15 famiglie, ci spiega — con il suo inglese stentato — Rashid, rincontrato casualmente
anche qui, mentre come sempre cerca di vendere i suoi braccialetti. La caratteristica del quartiere
ebraico è che le case sono dotate di balconi, mentre normalmente le pareti degli edifici sono chiuse
o tutt'al più ornate di finestre con grate. Costeggiamo anche la moschea e il cimitero ebraico e
visitiamo la sinagoga, da poco restaurata, con il pozzo per le abluzioni riservato alla sposa.
L'ultima sera ceniamo in un ristorante nel quale, avendone fin sopra i capelli di tajin e cous cous,
ordino una paella; alla radio sentiamo distintamente la parola "Silvioberlusconi" durante la lettura
delle notizie. È stato come risvegliarsi da un sogno.
La mattina dopo, mentre ci dirigiamo all'aeroporto di Casablanca percorrendo un tratto di autostrada
pressoché deserto (almeno fino a Rabat), ne approfitto per ripassare mentalmente il mio assaggio di
Marocco: gli uomini con il djellaba e il cappuccio appuntito calcato sulla testa, le coppie di uomini
che camminano abbracciati o mano nella mano, giovani ragazze o ragazzi che baciano la mano a
donne o uomini più anziani, il tè alla menta corredato di teiera, vassoio tondo in rame e bicchieri
piccoli e decorati, l'odore di raz-al-hanout, gli occhi truccati delle donne velate, la terra rossa, i
denti rovinati, le pagnotte calde di forno, le dune di sabbia, la musica nelle piccole bancarelle, i
ragazzini che vanno a scuola (e quelli che non ci vanno), i dromedari, i mosaici, i pali della luce, i
muezzin, la neve sulle montagne, lo sguardo della favorita attraverso le grate, alla finestra del
palazzo del pascià. Mi auguro di tornare al più presto in un posto simile.
«Italiens? Siete i benvenuti. La prima volta in Marocco? Tornerete?» «Se Dio vuole.»
IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE
Yemen
gennaio 2006
Arabia Felix
Tutti i libri di storia raccontano che la parte meridionale della penisola arabica, culla della religione
islamica, già ai tempi dei Romani era denominata Arabia Felix perché l'abbondante acqua, il clima
salubre e i porti del Mar Rosso e del Golfo Persico avevano permesso il sorgere di ricche città. I popoli
che vi abitavano producevano beni tra i più rari e preziosi come la mirra, l'incenso, il pepe, le perle,
l'avorio, e già nell'Ottavo secolo avanti Cristo avevano creato città e stati. La sedentarietà permise
loro di sviluppare l'architettura e l'idraulica, al contrario dei beduini che abitavano la parte
settentrionale
e
desertica
della
penisola,
i
quali
rimasero
nomadi
a
lungo.
Quando ho deciso di visitare lo Yemen, prima mi sono informata sulla situazione sicurezza. I
rapimenti di turisti (tipica usanza di quello Stato mediorientale) non si verificavano ormai da qualche
anno, così ho prenotato a cuor leggero un tour con Avventure nel mondo, che sarebbe durato circa un
paio di settimane durante le vacanze natalizie. Purtroppo poco prima di partire è giunta notizia del
rapimento di due visitatori stranieri, mi sembra di nazionalità austriaca. Non ho dato molto peso alla
cosa: ormai avevo deciso e non volevo tornare indietro.
Faccio questa premessa per dire che non dovevo sorprendermi se 5 persone partite come me per lo
Yemen, lo stesso giorno e con lo stesso tour, invece di godersi un viaggio meraviglioso in una terra da
sogno, sono state tenute in un luogo misterioso sotto la minaccia del kalashnikov per quasi tutta la
durata del nostro viaggio.
Gli yemeniti sono proprio un popolo buffo, composto da uomini con il pareo (o al massimo con la
camicia da notte), un pugnale legato in vita e una guancia smisurata, e donne di cui si vedono — a
volte — solo gli occhi, ritagliati in un panno nero. Gli yemeniti sorridono e stanno. Stanno accucciati
e masticano il qat. Guidano e masticano il qat. Fumano e masticano il qat. Bevono il tè e masticano il
qat. Dovunque vai essi stanno. Al sole. Coi denti storti sorridono. E introducono continuamente
foglioline nella guancia deformata. Stanno dal barbiere e tu li guardi dalla strada e a un certo punto
il barbiere si gira e sorride. E anche lui ha la guancia gigantesca. Stanno seduti per terra e mangiano
con le mani intingendo il pane in una misteriosa ciotolina.
Se fanno i dentisti espongono una gigantesca insegna a forma di dente. Se commerciano alle volte se
ne stanno rattrappiti dentro dei bugigattoli minuscoli insieme alla loro merce e alla loro guancia. Se
fanno gli artigiani li vedi lavorare nello stesso angusto scatolone dove vendono i loro prodotti. Se
stanno a stare, a volte hanno un mitra a tracolla. Alcuni ballano danze monotone accompagnate da
cadenzate percussioni, agitando il pugnale nella mano. Se è venerdì disertano le strade e seguono il
muezzin la cui voce riecheggia per le strade. Quelli che preparano il pane prendono una palla di
acqua e farina, la schiacciano a forma di pizza, la bucherellano con la forchetta e poi la appiccicano
sulle pareti di un pozzo di pietra rovente.
Gli yemeniti spesso mangiano la polvere. Fanno incidenti e, raramente, precipitano nelle scarpate.
Se il radiatore si surriscalda lo ricoprono con una pelliccia sintetica inzuppata di acqua. Amano l'Italia
e non sopportano gli Stati Uniti. Se ti accompagnano in spiaggia giocano con la sabbia e si schizzano a
vicenda, ridendo. I bimbi ti baciano e ti chiedono una penna. Le femminucce ti sistemano meglio il
foulard intorno al viso e ti dicono 'jamila' così dai loro una caramella. Le donne ti sorridono sotto il
velo nero se lo indossi anche tu (non si capisce bene se anche loro hanno la guancia ipertrofica).
Gli yemeniti vivono in un paese pieno di luce e ombre ben definite, che disegnano figure geometriche
sui pavimenti di pietra bianca. Producono vetrate tutte colorate e bruciano incensi profumatissimi. E
costruiscono le case ma poi si stancano e le lasciano a metà.
Per vedere l'effetto che fa
Di prima mattina, nella capitale Sana'a, si può verificare immediatamente la vivacità dei guidatori
locali. Ci immergiamo nel caotico suq dalla porta Bab-el-Yemen, l'unica rimasta intatta, vicino alla
quale un dromedario bendato aziona un rudimentale frantoio di olio di sesamo girandogli
incessantemente intorno. Ammiriamo per la prima volta gli straordinari palazzi a torre, i grattacieli
di fango con decori di gesso, arabeschi, balconcini in legno, le facciate di biscotto con le finestre
glassate, i minareti snelli e slanciati in gara di altezza.
Al mercato si affastellano pugnali, cinture dorate, spezie, stoffe, teorie di abiti neri, sciarpe, monili
d'ambra, incensiere, frutta secca, dolci, pane, spiedini di carne speziata, tè. Tutto profuma di
esotico, i venditori non sono insistenti, di turisti quasi non se ne vedono. Acquisto un niqab nero che
mi copra la testa lasciando vedere solo gli occhi, alla maniera locale. Sfortunatamente il maglione di
lana che indosso, in un momento di distrazione mi scopre mezzo centimetro di pancia e vengo
severamente redarguita da una donna senza volto. Mi allontano contrita.
A pochi chilometri da Sana'a c'è il magnifico Dar al-Hajar, il palazzo costruito sulla roccia la cui
immagine campeggia sulle bottiglie di acqua Shamlan e sui francobolli. L'ex residenza estiva degli
Imam è un capolavoro di merletti di stucco bianco e vetrate che proiettano i loro colori sui
pavimenti; dalle terrazze si gode un ampio panorama sugli altopiani circostanti. Sembra di stare in un
sogno.
Ma'rib è la città più antica dello Yemen, collocata sull'antica via dell'incenso e capitale dell'impero
della leggendaria regina di Saba, più di 1000 anni prima della nascita di Cristo. La regione è stata
lussureggiante per molti secoli grazie alla grande diga, ma dopo il suo crollo è cominciato il declino
di tutta l'area, che è tornata ad essere arida e desertica come la vediamo oggi.
Per raggiungere Ma'rib, situata a più di 200 km a est di Sana'a, è obbligatorio chiedere un permesso e
farsi accompagnare da una scorta armata, a causa delle tensioni tra le tribù della zona. Bisogna
dunque incolonnarsi con le altre jeep piene di turisti fino a formare un serpentone: la testa e la coda
sono occupate da camionette cariche di soldati armati fino ai denti. Le operazioni preparatorie,
effettivamente, non sono delle più rassicuranti. E comunque, a quanto pare, il serpente è troppo
lungo e slabbrato per permettere alle camionette di controllare realmente tutte le jeep. Sulla strada
sempre più affascinante e petrosa ne approfittiamo per una passeggiata a piedi nudi tra le dune di
sabbia chiara, ma è solo un antipasto senza piatto forte.
Nonostante i timori, giungiamo sani e salvi a destinazione. E con noi anche questi tre motociclisti
italiani, ma il loro viaggio è stato più pericoloso: uno di loro è stato circondato e per un pelo non è
stato rapito da alcuni ceffi molto poco rassicuranti. Le cose sono di nuovo cambiate, evidentemente.
Ma me ne dimentico non appena faccio amicizia con un bellissimo militare baffuto e protettivo che
mi sorride e mi offre la coca cola e l'ingresso gratuito al tempio della luna (con le cinque colonne e
mezza) e a quello dedicato al dio sole, risalente al periodo sabeo. Giungiamo al tramonto alla
vecchia Ma'rib, tutto uno splendore di case dorate di sabbia e paglia, diroccate e parzialmente
distrutte dai bombardamenti di più di quarant'anni fa.
In questo pomeriggio di luce intensa e cappotti verdi dell'Armata Rossa, in cui si sparge la voce di una
frana nelle vicinanze che ha provocato alcuni morti, io mastico il qat. E lo mastico per alcune ore
così come fanno loro, per vedere l'effetto che fa. Ma poi, sarà la stanchezza o la bellezza o
l'eccitazione, non riesco a capire l'effetto che fa. Raccontano i consumatori che esso aumenta
concentrazione ed attenzione e tiene svegli, un po' come il caffè. Il consumo di qat è severamente
vietato in tutti gli altri paesi arabi mentre qui è masticato (o meglio, lasciato macerare nella
guancia) dalla maggior parte della popolazione maschile e da numerose donne. A seconda della
qualità ogni masticatore spende dai 500 a più di 1500 riyal al giorno (da 2 a 7 euro) procurandosi seri
danni all'intestino e deformandosi le guance.
Facciamo ritorno a Sana'a e alla cena al neon dal somalo (riso e pollo e tè al latte). Il quartiere semi
buio alle 11 di sera è tutto un lavorio di barbieri che tagliano e sbarbano. Il sogno prosegue.
Il nido delle aquile
Lasciamo la capitale diretti a nord, verso paesaggi spettacolari e cittadelle arroccate a grandi
altitudini, abitate da tribù bellicose. Sono luoghi dove persistono antiche tradizioni e dove molti
uomini ostentano pistole e fucili, facili da reperire anche nei negozi visto che le ultime guerre civili
sono piuttosto recenti. Facciamo conoscenza con gli autisti, che ci accompagneranno col sorriso fino
all'ultimo giorno, al volante di Land Cruiser malandate e sempre sul punto di esalare l'ultimo respiro.
Dopo una sosta ad Amran, con le sue case di paglia e sabbia e un vivace mercato pieno di arance e
tessuti, ci dirigiamo a Shihara, una cittadina arroccata su un cucuzzolo a più di 2500 metri, famosa
per la valorosa resistenza contro gli ottomani, che non riuscirono mai ad espugnarla. Per raggiungere
il "nido delle aquile", località controllata da una potente famiglia della zona, bisogna abbandonare gli
autisti e salire su dei pick up che ci impiegano due ore per percorrere 12 chilometri, tutti buche e
saltelli. Dobbiamo reggerci molto forte, dunque non facciamo molto caso al kalashnikov che chi ci
accompagna porta in braccio, ma sorridiamo agli ospiti occasionali che salgono sul cassone. Il
panorama al tramonto è indescrivibilmente affascinante, così come l'inconcepibile stellata, che ci
godiamo dalla terrazza del funduk Francesca, la proprietaria senza volto della struttura. Nell'attesa
della cena mi spaparanzo insieme ai masticatori locali con qat, tè e sigarette, quindi ci sistemiamo
per la notte in due stanzoni muniti di materassini e sacchi a pelo. La notte è irrequieta; viene
interrotta all'alba dalla voce metallica di alcuni muezzin non sincronizzati, il primo dei quali sembra
intonare le prime note di “Fratelli d'Italia”.
L'alba regala uno spettacolo sorprendente dalla terrazza e alle 6 siamo già pronti per scendere a
piedi attraversando un ponte secolare, minuscolo se comparato allo sterminato scenario, sospeso su
una profondissima gola. Ci circondano infiniti terrazzamenti per la coltivazione del qat, una delle
fonti principali dell'economia locale; le torrette di pietra che si scorgono qua e là ospitano
nottetempo i guardiani delle coltivazioni. Terminato il trekking siamo accolti da milioni di bambini
che vogliono le penne (kalam), le foto (sura), le caramelle (bonbon). Torniamo a riconsegnare i pickup.
Il programma ora prevedeva di avanzare verso nord fino a Sa'da, ma ci informano che l'ingresso ai
turisti è interdetto per motivi di sicurezza. Nell'appressarsi del cenone di fine anno dunque facciamo
rotta verso la cittadina fortificata di Thula, racchiusa nell'antica cinta muraria, dove subito
ammiriamo un paesaggio mozzafiato di tetti al tramonto dalla terrazza dell'unico funduk, dove
dormiremo. Qui guide e negozianti parlano italiano e possono essere piuttosto ossessivi. Visitiamo
una delle 25 moschee presenti in città, la cisterna in cui tutto si specchia (raddoppiando la bellezza)
e alcuni dei numerosissimi negozi di souvenir e oggetti antichi.
Si spera inutilmente di fare una doccia e poi si cena. Sono sbrigative le cene yemenite: mischi riso e
pollo e verdure ed è fatta. Poiché gli alcolici sono vietati in tutto il Paese, era prevedibile che ci
fosse un traffico clandestino di lattine di Heineken calda, vendute allo straordinario prezzo di 4 euro
l'una, che qualcuno paga senza battere ciglio nonostante l'assurdità dell'operazione. Per farla breve,
l'ultimo dell'anno prevede danze tradizionali a lume di neon e altrettanto tradizionali panettoni e
torrone e spumante appositamente portati dall'Italia. Queste feste per soli uomini mi mettono un po'
di tristezza.
Il primo dell'anno, tra le illazioni e le battute a doppio senso della popolazione locale, riusciamo a
districarci alla volta dell'incantevole Hababah (grande cisterna dove la gente attinge l'acqua, un
originale palazzo colorato, cammelli). Poi raggiungiamo l'abbarbicata cittadella di Kaukaban da cui
intraprendiamo un trekking di un'oretta sulle pendici del monte omonimo scendendo alla volta di
Shibam. Qui sostiamo per il pranzo in un funduk con diverse stanze, in una delle quali ci fanno
accomodare a piedi nudi per terra, su tappeti cosparsi di avanzi di riso. Ormai non faccio più caso ai
dettagli e mangio con le mani anche se ci danno le forchette.
Sogno o son desta?
La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni.
[ "Le mille e una notte" ]
In serata, dentro ad un nebbione fantasy, giungiamo ad Al-Hajjara, situata sull'orlo di un precipizio
tra i monti Haraz. È andata via la luce in tutta la zona e il lume di candela non fa che rendere ancora
più credibile la sensazione di essere dentro ad una favola. Il cielo, senza l'inquinamento luminoso, è
pieno di stelle.
Avviene durante il ballo, mentre piroettiamo e ridiamo come matti, mentre stiamo vivendo un'altra
vita, come in un romanzo. Dalla lontana e banalissima Italia arrivano degli sms che ci dicono: sono
stati rapiti cinque italiani. E in pratica ci chiedono se siamo noi. Non siamo noi. Noi stiamo ballando
tra le stelle, circondati da uomini col pareo e la camicia e i pugnali giganti. Noi siamo vivi e felici. Il
posto è stupendo. Fa abbastanza caldo.
Al mattino stendo il bucato sul terrazzo assolato e mi godo la compagnia degli autisti sfaccendati che
bevono il tè. L'atmosfera è così pacifica che mi vien voglia di mandare a quel paese tutti i miei punti
di riferimento della vita vera e restare qui. Altri, sembrerebbe, sono stati rapiti. Dicono che sono
italiani. Ma non siamo noi. Non sono io. Io sto chiedendo a questo yemenita che ciuccia il qat perché
alcuni portano il pareo ricamato e altri il camicione. E lui, semplicemente, mi dice che il pareo è
tipico del sud e il camicione del nord. Gli autisti sfaccendati, tra un sorso di tè e l'altro, mi parlano
del jambiya, il pugnale a lama curva che tutti gli uomini indossano. Mi dicono che il manico può
essere di corno di rinoceronte, d'avorio, di pietre preziose, d'argento e può arrivare a costare
moltissimo. Gli autisti, fumando sigarette e bevendo il tè, mi dicono che la scuola è obbligatoria fino
ai tredici anni, ma non ci vuole la loro consulenza per aver già capito che non tutti ci vanno.
E infine gli chiedo delle donne. L'autista yemenita, con la guancia piena di qat, mi dice che nella
provincia sono rintanate in casa a sbrigare le loro faccende, ma nelle grandi città lavorano e studiano
all'università. Io in effetti ne ho viste ben poche in giro e tutte completamente velate. Dice lui che è
una loro scelta, nessuno le obbliga a vestirsi così in pubblico. Io non tanto ci credo, però faccio finta
di credergli e gli sorrido, senza velo.
Pranziamo all'aperto ricoperti di Piz buin come se fossimo in un volgarissimo rifugio di montagna a
riposarci dopo la sciata.
L'odore del mare e quello della paura
Ci spostiamo a occidente verso le coste affacciate sul Mar Rosso e il paesaggio diventa rigoglioso,
quasi tropicale grazie al caldo e all'umidità. Una sosta in un misero villaggio ci dà l'impressione di
essere già in Africa, con le capanne e i bambini con la pelle scura e tutti gli animali insieme. Dopo il
rapimento la polizia ci scorta con la sirena.
Al-Hodeidah è molto diversa da tutto: ampi viali, concessionarie d'auto, grandi alberghi, un moderno
ospedale, negozi luccicanti. Bentornati a casa, alcune vie sembrano dirci. Ma non è vero. Il ristorante
di pesce è frequentato da giovani in jeans e felpe, ma c'è la solita sala separata in cui le donne
cenano dietro le tendine rosa da ginecologo, dove i camerieri devono servire la coca cola dall'alto. Il
pesce è ottimo ma ricoperto da una salsa piccantissima. L'odore del mare arriva sulla strada; quello è
lo stesso di sempre.
È qui che capiamo tutto. Gli italiani rapiti sono medici e insegnanti veneti che si erano iscritti allo
stesso viaggio a cui ci eravamo iscritti noi e che come noi percorrevano la strada per Ma'rib, in una
delle jeep del serpentone scortato malamente. Solo che la percorrevano tre giorni dopo di noi. Tutto
qui.
Anche ora che abbiamo capito non so se abbiamo capito veramente. Ricapitoliamo. Siamo ad AlHodeidah, l'odore del mare arriva fin qui. La coppia al tavolo con noi si era iscritta allo stesso viaggio
della loro amica, l'insegnante rapita, ma poi erano finiti in due gruppi diversi. Noi e la coppia al
nostro tavolo siamo passati di là tre giorni prima. E adesso stiamo mangiando a fatica il pesce
ricoperto di salsa piccante, invece di stare in una stalla sotto la canna di un kalashnikov senza poter
nemmeno fare la pipì se non chiediamo il permesso.
Noi, anche se siamo partiti con lo stesso aereo e per lo stesso viaggio dei cinque italiani rapiti, in
questo momento non abbiamo paura di morire e quindi facciamo shopping e poi guardiamo la tv in
hotel, prima di dormire. Il video dell'artista locale con la kefiah circondato da paccottiglia natalizia
ci fa addormentare con il sorriso sulle labbra, mentre il ventilatore gira.
La mattina presto visitiamo il mercato del pesce: pescatori abbronzati e pescherecci dai colori
squillanti, enormi cesti e cappelli di paglia giganti. Tra i banchi odorosi si svolge l'asta per
aggiudicarsi i pezzi migliori e tutti sbraitano con i soldi in mano.
Raccolta indifferenziata
Davanti a quello spaccio, Jean mi aveva dato un arancio e dopo io non sapevo dove gettare le bucce.
Cercavo un bidone di immondizie, mentre per terra era un tappeto di spazzatura, cartacce, fango,
bucce, putredine e scatolame. Ma io cercavo un luogo ufficiale dove deporre le mie ordures, sempre
per civismo ebete. Una ragazzina mi ha fatto segno che potevo gettare le bucce per terra, poi s'è
messa a ridere di gusto, osservandomi meglio come incantato citrullo. Jean dice che ho preso le
manie degli inglesi. Giusto! Sono diventato ecologico e biodegradabile, qui faccio ridere anche i
polli. Tra l'altro ho perso il senso del tempo, non so neanche che giorno è oggi.
[ Gianni Celati, “Avventure in Africa” ]
Beit Al-Faqih era un importantissimo centro per il commercio del caffè, che veniva poi spedito
all'estero dai porti di Al-Hodeidah e Al-Mokha. Al mercato di Beit Al-Faqih sono concentrate tutte le
mosche, la polvere e la spazzatura dell'universo. Lo devo dire, a costo di ridimensionare la favola: lo
Yemen è il Paese più sporco della Terra. La plastica abbandonata finirà per sommergere lo Yemen, se
non si danno una regolata. Se non la smettono di buttare dal finestrino qualunque involucro senza
pensare che oggigiorno non tutto è biodegradabile. Se non la fanno finita con questo benedetto qat
che viene consumato da bustine di plastica nere o rosse o verdine che poi ricoprono ogni centimetro
quadrato del Paese. Detto questo, il mercato incanta come una novella medievale: personaggi da
romanzi d'avventura si muovono tra meloni, datteri, pesce sfrigolante, cammelli, galline e polpette.
La prossima tappa è Zabid, dove fu inventata l'algebra. Qui Pasolini ha girato diverse scene del "Fiore
delle mille e una notte", e lo scenario è bianco di calce, appannato di polvere, ombroso per ripararsi
dalla calura. Zabid è una delle città più calde della Terra, ma per fortuna siamo in gennaio. Sostiamo
in un palazzo privato dove le donne ci dipingono le mani con l'hennè e dove prendiamo il tè in una
stanza di legno e cuscini e finestre colorate. Visitiamo un ossimorico museo senza luce, all'interno
della cittadella del palazzo dell'Imam, dove la polvere mulina incessantemente. Pranziamo in uno di
quei posti in cui pensi che vorresti essere solo e lasciato lì per molte ore all'ombra su questi letti di
legno e vimini intrecciato, con l'omino sorridente che ti porta il tè alle spezie.
Il tramonto lo ammiriamo in un villaggio sul mare nei pressi di Al-Khawkha, fatto apposta per
riconciliare le coppie in crisi (informa la Lonely Planet). Le nostre crisi, se ci sono, non sono
sentimentali, così affrontiamo con cuore leggero le palme, la spiaggia chiara e gli aironi che ci
accolgono nella passeggiata spazzata dal vento potentissimo che a dicembre, inizio della stagione dei
datteri, soffia ogni pomeriggio. Per la mattina dopo però possiamo essere sicuri che si sarà calmato.
E infatti diamo spettacolo sulla spiaggia: i nostri bikini sono l'attrazione della giornata per gli
sfaccendati locali che stanno accucciati, guancia sulla mano e sguardo fisso. Anche gli "impiegati
della dogana", che dovrebbero sorvegliare sull'arrivo di clandestini dalle vicine coste del corno
d'Africa, preferiscono lo show al lavoro. Le conchiglie sono giganti, ma è difficile riconoscerle dentro
ai cumuli di spazzatura che ricoprono la spiaggia e il mare. E' per questo che accogliamo con
entusiasmo l'idea di un giro in barca con tutti gli autisti in mutandoni, con cui si ride tra tuffi e goffi
tentativi di risalire a bordo alla maniera dei tonni.
Il tempo si avvolge su se stesso
La strada è lunga per raggiungere Taizz, una città con un passato glorioso e antico e allo stesso
tempo una di quelle che si è più ampliata negli ultimi anni. L'ultimo tratto di strada la percorriamo al
seguito di un'auto della polizia a sirene spiegate che ci fa superare tutto il traffico clacsonante.
L'inquietudine cresce: ci attende una folla quasi aggressiva all'hotel e poi al suq rapinano due membri
del gruppo di un cellulare e un portafogli e infine, a completare il quadro, c'è l'odioso cesso alla turca
in camera.
Per fortuna il mercato è fornito ed economico e poi per cena il simpatico Zaccaria ci apparecchia con
fogli di giornale freschi di bucato e ci serve innumerevoli ciotole di terracotta piene di zuppe e
omelette a prezzi popolari. Sulla via del ritorno in hotel un poliziotto ci fa segno di affrettarci.
Lasciamo Taizz diretti a Sana'a: è l'ultimo viaggio della speranza, appena in tempo perché le Toyota
cominciano a manifestare segni di cedimento (pneumatici bucati, radiatori agonizzanti e conseguenti
traslochi e agglomerati umani nella stessa auto). Per spezzare il noioso tragitto passeggiamo nella
splendida Jibla, regno della regina di Arwa, cittadina rimasta fascinosamente identica nel tempo
(altro scenario pasoliniano). Un'altra moschea e fanciulli pieni di fiori gialli e già pronti per diventare
protagonisti delle foto. Dopo il pranzo a Ibb in serata raggiungiamo la capitale dove — come se nulla
fosse accaduto — recuperiamo la vecchia abitudine di cenare dal somalo con i suoi neon e le patate
fritte. E forse nulla è successo, il tempo si avvolge su sé stesso.
L'ultimo giorno prima della partenza, c'è aria di festa in Old Sana'a ma non sono i saldi di gennaio:
mancano pochi giorni all'Eid’ Al-Adha, la festa islamica che commemora la sottomissione di Abramo
disposto a sacrificare il figlio Ismael. Mentre provo abiti lunghi total black e burqa giunge la notizia
della liberazione degli ostaggi italiani, giusto in tempo per il volo di domani. Il suq all'improvviso
sorride tra gioielli, frutta secca, lampade in gesso, narghilè, scialli, incenso e mirra. Trascorro un
paio di ore liete sulla terrazza dell'Hotel Taj Talha con vista superba sui tetti di Sana'a, dove bevo un
tè in compagnia di un documentarista austriaco che sta visitando il Paese in sella alla sua bicicletta.
Sul volo Yemenia, poco prima del decollo, una voce dall'altoparlante del velivolo scandisce due volte:
"I cinque italiani reduci dal rapimento vengano in prima classe". All'arrivo a Fiumicino siamo accolti
da tutte le televisioni, ma nessuno pare ansioso di conoscere la mia opinione. Non solo. Gli amici e i
conoscenti mi hanno rimproverato per essere andata in un posto tanto pericoloso, l'opinione pubblica
erano giorni che criticava la stupidità dei viaggiatori nello Yemen, famoso per i continui rapimenti
(senza sapere che da anni erano praticamente cessati). E infine il Codacons ci ha chiesto di coprire le
spese sostenute dal governo italiano per liberare i rapiti. E io che volevo soltanto festeggiare
l'agognato traguardo del posto fisso.
ERASE YOUR EGO
Acacus, Libia
gennaio 2007
L'Acacus è un parco nazionale situato in pieno Sahara, a sud-ovest della Libia. Questo viaggio risale
alla fine del 2006, ossia a quella finestra di pochi anni in cui il Paese era aperto al turismo e
disponibile a mostrare i suoi tesori, sia storici sia naturali. Gheddafi era ancora saldamente al
potere e il suo faccione campeggiava ovunque su grandi cartelloni. A sapere cosa sarebbe accaduto
di lì a poco, probabilmente avrei scelto di visitare anche i siti archeologici romani. Ma il futuro è
imprevedibile e io sono andata solo nel deserto.
È stato un viaggio particolare, questo. Nel deserto si gela, in inverno. Nel deserto non ci sono bidoni
della spazzatura. Nel deserto non ci sono cartelli stradali, indirizzi, uffici del turismo. Non ci sono
bagni, bar, case e chiese. Né ci sono passanti. In nove giorni di campeggio libero nel parco
dell'Acacus, quindi, ci siamo affidati totalmente agli autisti delle jeep: solo loro sapevano la strada.
A noi non rimaneva che respirare l'aria secca, scalare le dune, guardare i tramonti. E cancellare il
nostro invadente ego.
La porta principale del Sahara
Nel deserto non si decide, si ottempera.
[ Théodore Monod, viaggiatore e naturalista francese ]
Dopo averlo lambito sull'orlo in Marocco e in Egitto, quest'anno sono entrata nel Sahara dalla porta
principale: la Libia, il Paese nordafricano che presenta meno barriere naturali tra la costa e il
deserto. Nonostante l'esperienza sahariana (oggi in fuoristrada, ieri nelle carovane di cammelli) sia
diventata più praticabile, ciò non toglie che la regione che abbiamo conosciuto da vicino, il Fezzan —
come fu rinominata dagli italiani conquistatori — sia rimasta a lungo una delle zone meno conosciute
della Terra.
In seguito alla normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale, la Libia si è aperta da
poco al turismo e cerca di risolvere gli ostacoli burocratici che rendevano difficile l'accesso ai
visitatori stranieri. Benché sia ancora necessario visitare il Paese con l'appoggio di un operatore
turistico locale, è tutto più semplice grazie alla possibilità di ottenere il visto all'ingresso.
All'aeroporto di Tripoli ci accoglie imponente e protettivo l'onnipresente Colonnello, finemente
drappeggiato e con i famosi occhiali a goccia, ritratto in ogni angolo del Paese su tele gigantesche,
poster, dipinti ad olio, murales realizzati con tutte le sfumature del verde, colore dell'Islam e della
Rivoluzione.
Sbrigate le procedure in entrata, sugli italiani in Libia si abbatte la cattiva notizia: il volo interno per
Sebha è saltato e ci toccano 12 ore di autobus nel piattume sconfinato che separa la costa dal
Fezzan, a sud-ovest del Paese. Regola numero uno: fare finta di nulla, non innescare polemiche
sterili che si ribaltano notoriamente con effetto domino sugli altri partecipanti inizialmente non
schierati. Dormirci su. Una parola: durante il tragitto nel cuore della notte un corpo contundente non
identificato riduce in mille pezzi uno dei doppi vetri di una finestra del bus, evocando una scena del
film "Babel", ambientato in Marocco — per fortuna senza gli esiti tragici che esso ha nella pellicola
del regista messicano. Film che, tra parentesi, viene proiettato al ritorno sui due schermi del bus in
un DVD piratato in lingua originale sottotitolato in arabo: la coincidenza avrebbe inquietato anime
meno avvezze della mia.
Come scrive Stefano Malatesta, il deserto oggi non è più quello che era un tempo; i sentimenti
predominanti nell'affrontarlo non sono più l'orrore e il terrore. Oggi procediamo sicuri nelle Toyota
condotte con abilità e maestria dalle braccia muscolose dei misteriosi autisti locali, aggiungo io.
Insomma, eliminati la paura, i rischi e il pericolo dell'impresa, ci resta tutto il tempo per goderci il
paesaggio. Per considerarlo bellissimo, emozionante, affascinante, magico, suggestivo, una cartolina.
E per descriverlo con una serie di luoghi comuni da far venire il voltastomaco, da cui io stessa non
posso del tutto esimermi.
La duna del non ritorno
Tutto comincia presso l'ostello di Feji quando arrivano i fuoristrada e conosciamo gli autisti, con i
quali si creerà un rapporto di grande condivisione e confronto. Secondo le leggi libiche è obbligatorio
che ad essi si aggiunga il poliziotto turistico, lo stupendo e servizievole Kalid.
Ghat è l'avamposto da cui inoltrarci nel deserto dell'Acacus. Per la notte ci accoglie un grazioso
camping costituito da caratteristiche capanne di foglie di palma chiamate zeribe, nelle quali è
necessario dormire in un sacco a pelo invernale perché le temperature notturne sono molto rigide.
Solitamente si sceglie Ghat per pernottare perché si trova vicina al passo di Takharkori e alla
cosiddetta "duna del non ritorno", che conduce all'ingresso meridionale del parco dell'Acacus. Giunti a
Ghat apprendiamo però che la suddetta strada è chiusa da circa un anno a causa delle tensioni con
l'Algeria, il cui confine costeggia la strada. Solo degli sprovveduti, ignoranti della politica
internazionale e tenuti all'oscuro di tutto dal laido corrispondente locale, al giorno d'oggi trovano
sensato passare la notte a Ghat. Con la presenza dei turisti ridotta al lumicino, la cittadina è allo
stremo: il venditore di souvenir tuareg sta svendendo tutto, il camping rischia di chiudere, per
servirci la cena i gestori devono andare a fare la spesa. La serata è ravvivata dalle chiacchiere con
Dominique, insegnante madrelingua britannico all'università di Sebha, giunto a Ghat per assistere
all'imperdibile Festival tuareg, che attrae turisti da tutto il paese.
Al mattino, prima di inoltrarci nel deserto, andiamo al mercato di Ghat per contrattare sul prezzo
degli agrumi, dei pomodori e di altri cibi che completeranno le scorte alimentari. Qua sono quasi
tutti neri: la Libia è piena di immigrati. La gente comunque non sembra importuna, né invadente; i
bambini vanno scuola e nessuno ti chiede niente. La medina è quasi completamente disabitata e in
rovina: è sormontata da un forte turco (poi utilizzato dai nostri connazionali come alloggio militare),
le case intonacate sono di un colore bianco abbagliante, vi sono inoltre il palazzo del sultano, quattro
moschee e un tuareg shop coi prezzi di Bulgari.
Il grande mare di sabbia
Svegliarsi ogni mattino in un punto diverso del vasto deserto. Uscire dalla tenda e trovarsi davanti
allo splendore di un nuovo mattino: tendere le braccia, stirarsi nell'aria fredda e pura; riempirsi di
luce e di spazio; conoscere, al risveglio, la straordinaria ebbrezza di respirare solamente, di vivere
solamente...
[ Pierre Loti, romanziere versato sui temi dell'esotismo naturalistico ]
All'ingresso del Parco Nazionale dell'Acacus, un altopiano trasformato in opera d'arte dalla natura, ci
accolgono formazioni rocciose a forma di vecchine, funghi, tartarughe, santi, conchiglie, uomini col
cappello, fidanzatini che si baciano, pile di frittelle, pupazzi di neve.
Torri, monoliti, pinnacoli, grotte, archi − ossidati e scolpiti dal tempo − sembrano resti di statue
greche senza braccia, piramidi precolombiane corrose, templi indiani coi bassorilievi sciupati, sfingi
egizie levigate dalla sabbia, misteriosi obelischi con le iscrizioni ormai illeggibili.
È qui, in questo territorio lunare e misterioso, dai cui spiragli di rado si intravedono delle enormi
dune rosa pesca, che scorrazzeremo per i primi due giorni.
Il primo campo lo montiamo nei pressi dello uadi Auis. È la prova del nove: ognuno deve verificare se
la propria attrezzatura è adatta, se il cognato per errore gli ha prestato i picchetti da terra e non da
sabbia, se i sacchi a pelo sono abbastanza caldi, i pigiami sufficientemente termici, i teli di plastica
del numero adatto per non intridere i bagagli di sabbia e benzina, le stoviglie della tipologia utile a
consumare risotti Knorr, tortellini, tè e caffè bollenti, cous cous e spaghetti al tonno, i materassini
comodi e isolanti e così via.
Da quel momento, le stesse operazioni verranno effettute in maniera sempre più agile e spedita. Le
tende vengono disposte in fila sotto il profilo di un'alta duna, oppure in cerchio, protette dalle rocce
scure. Grandiosi tramonti segnano l'arrivo della notte: dipinti con tutte le sfumature del giallo,
oppure abbaglianti di rosa e di viola; limpidi e puri oppure striati dalla nuvolaglia. Disegnano porzioni
geometriche di luce e ombra, soffondono ed appicciano. La mattina sono albe da primo giorno sulla
Terra quelle che ci danno il buongiorno, poi sfumano gradualmente durante la colazione, e infine
vengono sostituite dalla luce piena quando ormai le tende sono smontate e siamo pronti per salire in
macchina.
Ogni pomeriggio montiamo il campo in un posto diverso. Le soffici dune di Wan Kasa assomigliano a
dei crème caramel: la loro forma, impercettibilmente e senza tregua, si modifica grazie al vento che
soffia, cancella i passi umani e i segni degli pneumatici, affila gli spigoli. Nell'erg Murzuq un'immensa
luna bianca ci attende seduta in groppa alle dune, ma per quanto scaliamo non riusciamo a toccarla.
Quando ci arrampichiamo sulle dune una specie di vertigine ci prende di fronte al vuoto, ai granelli
mobili, al giallo, alle ombre. A volte ci dobbiamo sedere per non cadere.
Allontanandoci dall'erg Murzuq, il paesaggio cambia: una stupefacente distesa verde appare in
lontananza. Le luci della la fattoria di Berjuj, dove si coltivano cereali in maniera intensiva, irrigati
da enormi pompe a forma di idrovolanti, stimolano riflessioni frutto di opposte vedute.
Esplorando in jeep il parco, nuovi prodigi si susseguono. La sabbia come una colata di oro liquido
glassa il terreno, a volte lasciando spuntare qua e là strati basaltici color cioccolato. C'è una roccia
che è stata erosa fino a creare la trionfale incurvatura di Fozzigiaren; un'altra che ha assunto
l'aspetto dello snello colonnato di arenaria di Tin Ghalega, arrotondato e deformato dal tempo.
Poi, attraversando la piana del reg Taita e il passo di Abahoa, si entra nei territori piatti e spazzati
dal vento del Messak Settafet, un vasto altopiano ricoperto da detriti resi lucidi e scuri dalla sabbia e
dal caldo. Nelle soste giochiamo a bocce con le colaquinte, una specie di cocomeri delle dimensioni
di una palla da tennis, color giallo chiaro striato di verde.
Un tempo qui era tutta savana
Uno dei motivi per visitare il Tadrart Acacus, oltre agli incredibili scenari naturali, è la presenza di
una quantità enorme di testimonianze artistiche rupestri, ossia graffiti e pitture risalenti al periodo
in cui il Sahara era un'immensa savana, percorsa da enormi fiumi e popolata da giraffe, rinoceronti,
elefanti, gazzelle.
Gli studiosi ipotizzano che la popolazione che abitava in questi territori abbia addirittura influenzato
culturalmente la grande civiltà egizia. La prima spedizione nell'Acacus fu compiuta solo negli anni '50
dall'italiano Fabrizio Mori, che scoprì i tesori delle pitture rupestri e dei graffiti nascosti negli uadi
dell'Acacus, i letti dei fiumi risalenti alla preistoria che hanno scavato giganteschi canyon e scolpito
le rocce di arenaria. Lì, negli anfratti ricavati sotto le pareti, trovavano rifugio i nostri antenati che
forse più di 10mila anni fa cominciarono a incidere o dipingere immagini a loro familiari come scene
di caccia, animali selvaggi e domestici, figure umane impegnate in gesti quotidiani, ruote ed altri
utensili.
Negli uadi Tanshalt e Anshal ci aspettano pitture di umani dalle mani grandi con le dita visibili, cavalli
e cammelli rossi e bianchi. Proseguendo, incontriamo due siti che sono stati transennati da poco,
novità che stupisce anche gli autisti. D'altra parte mi chiedevo come fosse possibile che praticamente
tutte le pitture dell'Acacus siano prive di protezione. Il primo sito è Uan Amil, dove si trovano i
dipinti più interessanti, che raffigurano scene di vita quotidiana, di battaglia e di caccia e che,
essendo in sequenza tra loro, dimostrano per la prima volta la precisa intenzione da parte dei nostri
antenati di testimoniare qualcosa per i posteri. Il secondo è Wan Amalun, famoso perché il professor
Mori qui ha ritrovato un bambino mummificato.
Raggiunto il Messak, percorriamo lo uadi Matkendush dove saltelliamo come caprette tra le rocce che
un tempo costituivano il letto del fiume, per giungere a quello che sta per diventare un sito
archeologico con tanto di biglietti d'ingresso. Per il momento l'addetto allo sbigliettamento non si
vede e le recinzioni sono nuove di pacca, così entriamo gratis. Dopo esserci liberati dai finti tuareg
nigerini che ci vorrebbero vendere ciondoli, bracciali in finto argento e altra paccottiglia di pelle
colorata, andiamo ad ammirare i famosissimi gatti mammoni (battezzati così dall'archeologo Leo
Frobenius) incisi in una roccia piatta. Qui nel Messak sono stati ritrovati solo graffiti, forse a causa
della particolare conformazione delle rocce, che non offrivano grotte naturali. Lo uadi Matkendush in
particolare contiene la maggior parte delle stazioni rupestri: oltre ai gatti mammoni, si possono
ammirare diverse giraffe, un coccodrillo e altri animali.
Bidet nel deserto
Creatura d'un altro mondo tutto rumore e travaglio, vi sentite ora come riportato al principio della
lunga fuga di secoli dalla cui fatica siete stato generato, e vi ci sentite bene come in un placido
sogno.
[ Guelfo Civinini, "Ricordi di carovana", 1933 ]
Tutti gli scrittori versati sul fascino dell'esotico prendono in considerazione soltanto il lato poetico e
romantico del deserto; nessuno si sofferma mai a pensare alle conseguenze pratiche di campeggiare
per nove giorni in un posto completamente privo delle comodità a cui siamo abituati.
Prima di tutto, anche se sono notorie le escursioni termiche tipiche del deserto, pochi immaginano
che all'inizio dell'inverno le temperature notturne raggiungano facilmente gli zero gradi (spesso al
mattino troviamo le tende ricoperte da un sottile strato di ghiaccio). Questo significa indossare
praticamente tutti gli abiti uno sull'altro, i guanti, la sciarpa e il cappello, mentre si prepara la cena,
mentre si mangia (per terra), mentre si “lavano” le stoviglie con la sabbia e mentre si dorme, seppur
nel sacco a pelo invernale. Significa anche congelarsi le parti mediane del corpo quando si devono
espletare i propri bisogni fisiologici tra le dune. Naturalmente di lavarsi non se ne parla proprio: le
salviettine umidificate bastano e avanzano.
Per cucinare, bisogna portare con sé taniche d'acqua e provviste, che si aggiungono, naturalmente,
alle cataste di legna per accendere il fuoco. Ricordiamo il nostro autista più scalmanato, il Gatto –
sempre in gara con il suo compagno di avventure (la Volpe) – che in una delle sue famose stravaganti
manovre ha perso pezzi dal portapacchi della macchina: la legna per la notte e i sacchi della
spazzatura si sono dispersi nella prateria desertica e siamo stati costretti a raccattare pazientemente
tutto.
All'ora di pranzo — denominato, come tutti i pasti, "mangiarìa" — i nostri portentosi guidatori ci hanno
dato la prima lezione di ecologia: hanno acceso il fuoco e hanno cucinato i "macaroni", contenuti in
un sacco di juta da 5 kg. Noi, invece, ci siamo sempre cibati del contenuto di scatolette di tonno o
salmone o, a scelta, di formaggini monodose impacchettati (accompagnati da pane e sabbia),
producendo un grosso cumulo di spazzatura non biodegradabile che ci siamo dovuti caricare sul tetto
della jeep per tutto il viaggio.
L'unica eccezione alla loro monotona dieta è stata la sera in cui gli autisti si sono cucinati delle
succulente bistecchine che per due giorni venivano stese al sole sul cofano ad ogni sosta: quando ci
svelano il mistero, apprendiamo che quest'anno la festa dell'Eid’ Al-Adha, la più importante festa
islamica, capita il 30 dicembre.
In Libia, come in tutti i Paesi severamente islamici, è vietato bere alcolici. Così la sera davanti al
fuoco accettiamo i bicchierini di tè, forte e zuccheratissimo, che i nostri autisti ci offrono. In realtà
ogni tanto il capo autista Massud tira fuori anche una preziosissima bottiglietta di plastica che
contiene un distillato di datteri (sicuramente illegale). Ma il contributo dei driver non si esaurisce
nelle lezioni di ecologia, enogastronomia, clima e guida nella sabbia. Il confronto avviene su varie
tematiche. Non avendo una lingua in comune, viene naturale il tentativo di comunicare tra noi con la
musica leggera, ma tentiamo anche discorsi di ampio respiro. Come al solito gli uomini con cui
veniamo in contatto in un paese più tradizionale del nostro, si stupiscono di quante donne vivano sole
in Italia: ci spiegano allora in una torre di babele di linguaggi e gesti come festeggiano il matrimonio
in Libia e soprattutto vogliono convincerci a trasferirci lì, perché la vita costa meno cara. In fondo,
come stanno cercando di dirci, italiani e libici si assomigliano: tutti facciamo un gran casino quando
parliamo e le nostri voci si sovrappongono con toni concitati.
Sahara quel che Sahara
Il deserto è bello perché è pulito e non mente. La sua nitidezza è straordinaria. Non ci si sporca mai
nel deserto.
[ Théodore Monod, dispensatore di massime sul deserto ]
Tornare sulla strada asfaltata per raggiungere Germa è davvero straniante. Nell'antica capitale dei
Garamanti, misteriosa popolazione berbera raffigurata nelle pitture rupestri alla guida di arcaici
carri, visitiamo i resti della città vecchia con la necropoli, acquistiamo bevande tremende come la
Merinda (succo di mela frizzante) e telefoniamo alla mamma che non aveva notizie di noi e ci
credeva già divenute prostitute libiche (negli anni '80 ascoltava "La voce del padrone" di Battiato).
Nell'attesa che Ahmed (il buon Ahmed dagli occhi tristi) reperisca della benzina, ci sdraiamo sulla
sabbia. Ci stiamo preparando allo spettacolo degli spettacoli: salite e discese tra le dune più
biscottate e ripide dell'erg di Ubari, a caccia degli idilliaci laghi circondati dai palmeti. Il primo lago,
quello di Mahfu, appare all'improvviso dopo un testacoda mozzafiato di Ahmed. È tutto racchiuso in
un colpo d'occhio, l'acqua e le palme intorno e poi a sfinire il bronzo sabbioso. Poi il lago più grande,
quello di Gabraoun, nel quale si specchia una grandissima duna. La tomba (gabra) del capostipite
della famiglia dei boss locali, gli Oun, è proprio lì, nella duna che abbraccia il lago, segnalata da una
bandierina verde. Qui ai tempi vivevano i Dauada, una popolazione che si sostentava mangiando una
specie di larva che si riproduceva sulle sponde. Nei pressi vi è un camping con ristorante e negozio di
artigianato tuareg; volendo si possono affittare gli sci, ma mancano gli impianti di risalita.
Il lago di Oum el Ma è il più pittoresco: uno specchio d'acqua in cui si riflettono la grande duna, i
cespugli, le palme e i canneti. È qui che montiamo l'ultimo campo, quello più grazioso ma più umido
e freddo, circondato dalle palme che sputano i loro datteri nella sabbia sottostante. Nonostante il
vento sia calato, la temperatura è così gelida che non abbiamo la forza di scoprire di chi sono quelle
voci che cantano in lontananza. In tenda ho battuto i denti pur intabarrata in sette strati di vestiti (i
famosi sette veli), dentro ad un sacco a pelo impregnato di benzina, ma è l'ultima notte e la
nostalgia è già in agguato.
L'ultima ora a cavallo delle dune è esaltante ma anche malinconica. Il Gatto e la Volpe scelgono una
pista diversa dall'anziano capo autista, il quale impreca in arabo. Nel deserto è sempre necessario
tenersi tutti d'occhio e aspettare il fuoristrada che eventualmente è rimasto indietro; tutti gli autisti
sono molto attenti, ma stavolta non è proprio possibile andare a riacciuffare i driver scomparsi. Li
rincontreremo poi dal "gommista", in un camping dove bisogna rigonfiare gli pneumatici per
affrontare il ritorno sulla strada asfaltata. Approfitto per fumare la shisha con dei signori con grandi
turbanti, e soprattutto per lavarmi le mani: finalmente le unghie non sono più nere.
E poi, come tutte le cose belle, anche questa finisce. Da ultimo il passo del non ritorno: la doccia
dopo nove giorni. L'aria secca e l'onnipresenza della sabbia hanno davvero proprietà fantastiche:
piedi, capelli, pentole, gavette, mantengono la loro originaria brillantezza. Ma una doccia dopo nove
giorni è una doccia dopo nove giorni. Le ultime 12 ore di autobus e l'intera notte trascorsa
all'aeroporto di Tripoli sotto la minaccia dell'overbooking le abbiamo affrontate con uno spirito
ascetico, lieto e sereno come quello dei monaci del primo Cristianesimo.
L'esperienza sahariana è stata vissuta da tutti come una felice liberazione dalla costante presenza di
un ego invadente (che abbiamo prontamente cancellato all'arrivo, come ci aveva consigliato
Dominique, l'insegnante madrelingua). L'abbandono totale e fiducioso alla logica del "loro sanno" ha
reso i compagni di viaggio e me quasi ebbri, alleggerendoci dalla comune responsabilità di evitare gli
ostacoli che la vita quotidiana ci mette tra i piedi. E insegnandoci che quando non si può fare nulla
per cambiare ciò che è dato, è inutile darsi pena.
Il volo è puntuale. A Roma è una bella giornata calda. Al primo risveglio in un letto ho avuto la
fondata certezza che i cuscini e le lenzuola in cui giacevo nella penombra fossero fatti di sabbia.
WELCOME TO THE TIME MACHINE
Siria
aprile 2010
Quando andai in Siria, nella primavera del 2010, era difficile immaginare cosa sarebbe accaduto
soltanto un anno dopo. Era il periodo di Pasqua e, presso il monastero di Padre Paolo, fui colpita
dallo spirito di fratellanza che accomunava le famiglie che consumavano il picnic del venerdì
islamico e quelle che celebravano il venerdì santo.
In realtà alcuni dettagli mi fecero riflettere: il Presidente col mezzo sorriso su grandi poster, la
chiusura degli abitanti nei confronti dei discorsi politici, i repentini cambiamenti economici e sociali
in corso di cui mi parlarono, l'aria inquisitiva della guida russofona che il governo ci aveva imposto.
Ma lì per lì non ci feci molto caso, abbagliata dal sole della Siria e affascinata dalle ricche tracce
del passato e dalla seducente cordialità del suo popolo.
La mia seconda casa
Aeroporto di Aleppo, le due di notte. Interminabili procedure burocratiche, luci al neon e video di
tarantelle siriane anni Settanta al piccolo televisore in alto. Innumerevoli i baffi.
Interno bus diretto verso città ancora sconosciuta (l'ennesimo). «Non vi dimenticherete mai di questo
viaggio» annuncia Hisham, l'ex ufficiale russofono che il governo socialista ci ha imposto come guida
per tutta la durata del soggiorno. «Da ora in poi anche voi, come tanti altri illustri personaggi che
abbiamo avuto la fortuna di ospitare, avrete una seconda casa oltre la vostra: la Siria».
Non ci dimenticheremo nemmeno del pane arabo steso sulla ringhiera di un marciapiede, ben
impregnato di gas di scarico? E dell'orologio da tavolo a forma di moschea, che come sveglia ha il
richiamo del muezzin? Mi chiedo la sera successiva, mentre gironzolo nei paraggi dell'hotel in attesa
della cena. E comunque, penso, se la mia seconda casa è come questa qui del Diciassettesimo Secolo,
trasformata nel ristorante Beit Sissi, allora non è male come idea: boiserie di legno scuro, archi di
pietra, cortile abitabile, ceramiche arabescate, soffitti di legno intarsiato, bifore ricamate,
lampadari a molti bracci, ferro battuto e perline. D'altra parte, informa il sito web del ristorante, il
Presidente in persona ci ha cenato ben due volte.
La via di Aleppo
Dicevano gli antichi che la poesia / è scala a Dio. Forse non è così / se mi leggi. Ma il giorno io lo
seppi / che ritrovai per te la voce, sciolto / in un gregge di nuvoli e di capre / dirompenti da un
greppo a brucar bave / di pruno e di falasco, e i volti scarni / della luna e del sole si fondevano, / il
motore era guasto ed una freccia / di sangue su un macigno segnalava / la via di Aleppo.
[ Eugenio Montale, “Siria” ]
Aleppo esiste da tempi immemorabili senza soluzione di continuità: ittiti, seleucidi, romani,
bizantini, persiani, crociati, mongoli, ottomani, mercanti europei e chissà chi altri, di volta in volta,
l'hanno scelta come destinazione delle loro scorribande.
All'ingresso della cittadella — circondata da un fossato costruito con intento anti-crociato —
giovanissimi studenti con i libri in mano fanno a gara per farsi fotografare. All'interno un grande
anfiteatro, la moschea e la chiesa, i passaggi segreti, l'hammam con i manichini che si coprono le
vergogne con un asciugamano, la sala del trono con straordinarie decorazioni e soffitto in legno e
lampadari maestosi. Bevendo il tè sulla terrazza puoi guardare tutta la città vecchia spalmata
davanti ai tuoi occhi.
Venti secondi dopo essere entrata nel suq compro due chili di sapone di Aleppo all'olio di oliva e
alloro (ero stata io a dire: non compriamo niente se no non arriviamo più alla moschea). Dentro la
Grande Moschea, pentita, cerco di sbolognare l'enorme quantitativo di sapone in uno zaino altrui. In
quel momento appoggio imprudentemente le scarpe da ginnastica sul tappeto e un fedele —
gravemente urtato dalla mia immorale condotta — mi urla dietro con molte vocali aspirate. Io non
posso far altro che sopportare malvolentieri l'umiliazione: intabarrata in un pudico mantellone grigio
col cappuccio a punta, i saponi odorosi in mano, le colpevoli scarpe sporche per terra e uno zaino
misericordiosamente aperto accanto sul tappeto (una scenetta penosa). Torno nel cortile,
pavimentato in marmo infuocato, dove i musulmani si lavano i piedi, ed entro contrita nell'ala
riservata alle donne. All'uscita, viene condotta a braccia una bara bianca, aperta e coperta da un
velo. E' il funerale di uno importante, deduce l'onnisciente Hisham soppesando la folla ivi radunata.
Il pomeriggio lo trascorro interamente in quel teatro all'aperto che è il suq. Sotto il tetto di lamiera
ondulata si dipana lo spettacolo. Sacchi di spezie: cumino, zafferano, cannella in colorati coni.
Secchi ricolmi di vaselina e gusci di pistacchi. Pashmina e seta. Reggiseni di paillette e chador sui
mezzi manichini. Vestaglie di piume di struzzo rosse e abiti da Barbie Sposa di primavera. Body
traforati e abiti lucidi incellofanati. Carretti itineranti ricolmi di dolci colorati ripieni di frutta secca.
Baffi e kefiah. Caffè tostato. Piramidi straordinarie di saponi. Me ne tagliano uno a metà, per farmi
vedere quanto verde c'è dentro.
Contrattazioni in arabo-casertano. Urla di richiamo marchigian-siriane. Barzellette goliardiche per
attirare i compratori. Tre donne e un uomo mezzora di fronte a un tavolino pieno di orecchini spaiati,
cercando inutilmente di accoppiarli. Piatti smaltati e tappeti da preghiera. Acquisti mancati per puro
puntiglio. Finti bronci e teatrali espressioni inorridite. Sorrisi e inviti in molte lingue. Il tempo si
dilata in gioielleria a misurare il peso di collane e bracciali.
Poi trovo marito: si chiama Aledin e vive in Australia, dove lavora al controllo bagagli dell'aeroporto
di Sidney. Mi ricopre di megalomani metafore amorose tra un banco e l'altro di tessuti e tovaglie,
tutti appartenenti a qualche membro del suo numeroso parentado. Lo show — intervallato dai suoi
lunghissimi attacchi di risate, simili ai ragli di un asino sofferente — alla fine è suggellato da un
regalo per la sua futura moglie (una sciarpa blu).
Nel quartiere cristiano c'è l'imbarazzo della scelta tra la chiesa greco-cattolica, quella grecoortodossa, quella maronita, quella siro-cattolica. E siccome è la domenica delle palme, vi sono interi
enormi rami di ulivo a disposizione dei fedeli. Per cena provo il decantato e squisito kebab alle
ciliegie in un'altra stupefacente casa ristrutturata, che oggi ospita il ristorante Za man. E infine
andiamo a fumare la shisha al bar Milano. L'omino della carbonella fa continuamente il giro dei tavoli
per sostituire i tizzoni consumati. Quest'inverno è stato molto freddo e un ridacchiante Hisham ci
mostra sul cellulare il video in cui sua moglie e i nipotini giocano con la neve in giardino.
Viaggio nel tempo
In nessuna parte di terra mi posso accasare / A ogni nuovo clima che incontro / mi trovo languente /
che una volta già gli ero stato assuefatto / e me ne stacco sempre straniero / nascendo / tornato da
epoche troppo vissute / godere un solo minuto di vita iniziale / Cerco un paese innocente.
[ Giuseppe Ungaretti, “Girovago” ]
Bando alle ciance, qui dobbiamo collezionare momenti indimenticabili, la maggior parte dei quali
richiedono un viaggio indietro nel tempo, scorrazzando tra millenni affollati di invasori,
colonizzatori, condottieri, viaggiatori, santi e profeti.
Prima fermata: Quinto Secolo, Qala'at Samaan, nord di Aleppo. San Simeone lo Stilita usava
soggiornare appollaiato su una colonna, sempre più alta di anno in anno man mano che la sua
insofferenza nei confronti del genere umano cresceva. Da lì urlava risposte definitive a chi dal basso
lo interpellava. Dopo la sua morte tale era la fama acquisita, che sorse intorno alla colonna la chiesa
più grande del mondo di allora, che si ergeva maestosa in cima a questo sperone roccioso circondato
da colline. La facciata e numerose arcate e parti di colonne sono ancora in piedi e spuntano dal
prato, tra i papaveri. Se avete qualche domanda, non esitate a chiedere.
Musica turca, mandorle acerbe, nuvole.
Seconda fermata: avvento dell'Islamismo, Città Morte, Serjilla. I resti sorprendentemente integri
degli edifici bizantini sorgono su una collina calcarea spazzata dal vento. Il motivo per cui centinaia
di villaggi furono improvvisamente abbandonati intorno al Settimo Secolo non è chiaro a nessuno, c'è
chi lo considera addirittura un mistero con la maiuscola. Ma Hisham, questo favoloso militare in
pensione e ora guida dal sorriso sempre pronto, pare non curarsene: le ragioni furono senza ombra di
dubbio di natura economica (i musulmani ormai imperanti avevano proibito la produzione e il
consumo di vino, su cui si reggeva la fiorente economia di questi popoli) e naturale (terremoto). Se
avete qualche domanda, non esitate a chiedere. Appunto: non potevano restaurarsi la loro città
invece di costruirsene una nuova di zecca? Erano ricchi, preferirono fare così. Problema risolto.
Passiamo oltre, avete 45 minuti per visitare: la necropoli, l'hammam, la taverna, la chiesa. Una
bimba ci lava le mani con la brocca appena usciamo dalla toilette.
Pane appena cotto, suonerie arabe, tende di pastori.
Terza fermata: Undicesimo Secolo, epoca di crociate, Ma'arat an-Nu'aman. I valorosi (e affamati)
uomini al seguito del conte Raimondo di Tolosa massacrarono migliaia di abitanti di questa cittadina e
poi si abbandonarono (si dice sempre così) ad atti di cannibalismo. Ma noi siamo venuti qui per
ammirare i mosaici provenienti dalle Città Morte di cui sopra, custoditi in un apposito museo. A dire il
vero, i mosaici mi hanno sempre annoiato a morte, così me ne vado a zonzo con l'autista fino al khan
abbandonato, dove ci scattiamo foto sceme.
Dolcini al miele, banane, bambini con i libri sotto braccio.
Quarta fermata: Terzo Millennio avanti Cristo, sud di Aleppo, Ebla. Una delle più potenti città stato
della Siria sorgeva tra queste colline verde Mongolia, oggi brucate continuamente da pecore e capre
e percorse a passo di corsa da bambini colorati col fiatone. Fu il solito contadino degli anni Sessanta
che, mentre scavava con la zappetta per dissodare il suo misero fazzoletto di terra, scoprì il muro di
una casa di cinquemila anni prima. Gli archeologi italiani hanno fatto il resto. Gli oggetti preziosi e le
mitiche tavolette d'argilla scritte in sumero sono conservati al museo di Damasco.
«L'attuale presidente (Bashar al-Assad, immortalato in tutte le foto con un mezzo sorriso, N.d.A.) è
migliore di quello di prima» confida Hisham «ma comunque lasciamo la politica ai politici.» «Già,
parliamo di musica» interviene provvidenziale l'autista «la cantante preferita dai siriani è Fairouz,
ma è libanese. La vuoi ascoltare?»
Quinta fermata: giorni nostri, quartiere cristiano di Aleppo: clacson, arance, collant traforati e mobili
in formica. Tavolo imbandito dalle mezzeh, ceci e melanzane in tutte le fogge, insalatina fresca,
arrosto misto di montone, concerto di oud. In chiusura di giornata, tra i fantasmi del polveroso hotel
Baron, tornano alla mente vecchie storie.
Lì nel deserto
Lì nel deserto, invece, non c'era niente che osservasse, salvo gli dèi. Nessuna meraviglia, perciò, che
la religione fosse nata da quelle parti o che, bene o male, da quelle parti avesse prosperato.
[ Tom Robbins, "Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi" ]
In viaggio verso l'Eufrate fuori dal finestrino scorrono pini, ulivi e pecore. Superati i posti di blocco, si
giunge al castello Qala'at Ja'abar, che oggi, dopo la realizzazione della diga, sembra emergere dal
lago artificiale Al-Assad, mentre all'epoca in cui è stato costruito (prima ancora degli arabi) nessuno
se lo sarebbe mai immaginato. Ciò che resta delle sue doppie mura che spiccano in cima ad una
roccia (utili per difendersi, ad esempio, dai bizantini, dai crociati e dai mongoli) è stato
accuratamente restaurato dai giapponesi. Abdullah ci apre il portone con una chiave enorme e ci fa
entrare in uno spazio desolato, dove si possono osservare alcuni mozziconi di torri in mattoni e il
panorama sul lago.
Il pranzo viene consumato in un negozietto sulla strada dove l'intera comunità locale, come sempre
accade, si affolla per guardare con quanta avidità questi occidentali spazzolano shawarma e hummus
spalmato sul pane arabo. L'addetto alla friggitoria ha le braccia fittamente tatuate di cuori trafitti,
colombe e volti di donna. "I love you", ha dedicato a Leila, che fra due mesi sarà sua moglie. Il suo
amico, con le mani sporche di falafel e maionese, dispiega il poster della nazionale di calcio, per la
solita equazione secondo la quale Italia uguale Azzurri. Dietro producono il pane, dischi volanti che
volteggiano tra la farina, ma non posso andarci da sola: sbirciare in un posto così maschile sarebbe
inopportuno per una donzella come me. Risaliamo in bus in un nugolo di studenti che aprono i
quaderni e chiedono l'autografo.
La sorprendente Rasafa (a.k.a. Sergiopolis) appare isolata in mezzo al deserto. Centro cristiano, poi
persiano, poi omayade, poi abbaside, infine abbandonato con l'arrivo dei mongoli. E' così che lo trovo
ancora oggi, mentre costeggio sotto grandi nuvole la cinta muraria, ammirando resti di navate,
arcate, colonne e cisterne.
Dal cielo di Palmira
Quando scesi dal cielo di Palmira / su palme nane e propilei canditi / e un’unghiata alla gola
m’avvertì / che mi avresti rapito.
[ Eugenio Montale, "Luce d'inverno" ]
Arrivo a Palmira, il sito archeologico siriano per eccellenza: già prefiguro negozietti polverosi, gruppi
organizzati, prezzi salati e molti hotel. A posto, sono tutti qui: gli spagnoli, i francesi, i romani, i
tedeschi e chi sa chi altro, in bilico sulla cresta ai piedi del castello, frustati da un vento gelido, ad
aspettare il tramonto. Siamo arrivati in anticipo per lo spettacolo, e inoltre a me sembra di averlo
già visto: lo stesso cielo che diventa sempre più arancione, le rocce che si liberano lentamente della
luce accumulata, le macchine fotografiche pronte al collo, lo scattare all'unisono per immortalare
l'ultimo spicchietto. Fine, spettacolo terminato, tutti in massa verso i bus.
Per la cena ci vogliono alla tenda beduina: dopo il buffet, rigonfi di ceci, non si riesce a reggere il
balletto beduino e non possiamo far altro che scolarci una bottiglia di vino rosso (molto poco beduino
invero). Dando un'occhiata alle vetrine prima di andare a dormire, sembra proprio giunto il momento
per vincere la gara dell'acquisto dell'oggetto più kitsch, ma tale tenzone non può proprio aver luogo
in concomitanza con la fiera dell'acaro. Così, bevo qualche sorso di arac con gli autisti per
festeggiare la vittoria di Nichi (ma loro non lo sanno) (ed è troppo lungo da spiegare).
Sia il nome arabo di questa città (Tadmor, città dei datteri), sia quello romano (Palmira), ribadiscono
un concetto inequivocabile: siamo in un'oasi fitta di palme. Qui c'era uno dei crocevia commerciali
più importanti sulle rotte che collegavano l'Oriente all'Occidente, fino all'arrivo della mitica Zenobia.
Per chi non la conoscesse, la sua storia è questa. Nella seconda metà del Terzo Secolo, proprio
quando la colonia romana di Palmira stava vivendo il suo periodo più prospero, la bella ed eroica
Zenobia, la seconda moglie del re Odenato, assunse la reggenza dopo l'assassinio del marito. Poiché i
romani non la riconoscevano come regina, in quanto sospettata di omicidio, lei — colpita nell'orgoglio
— sconfisse i legionari romani, invase l'Egitto e dichiarò la propria indipendenza da Roma. Ma poi fu
sconfitta a sua volta dall'imperatore Aureliano in una successiva battaglia, fu catturata presso
l'Eufrate e portata a Roma, dove la fecero sfilare in catene d'oro, e insomma fece una brutta fine. In
seguito Palmira fu colonizzata dagli arabi e la maggior parte dei suoi edifici fu sepolta dalla sabbia.
Le prime campagne di scavo furono eseguite negli anni Venti del Novecento e ancora adesso vengono
estratti ghiotti reperti.
Al mattino eccoci puntuali alle otto e mezzo insieme agli stessi spagnoli, francesi, romani, tedeschi e
chi sa chi altro della sera prima, spazzolati da un vento drammatico e accecati dal deserto,
incolonnati davanti alla Torre di Elahbel (una camera funeraria di quattro piani, tipo un condominio
di sarcofagi). Poi visitiamo l'ipogeo dei tre fratelli, famoso per la statue sdraiate a cui sono state
mozzate le teste (sui motivi come al solito non ci sono pareri univoci). Davanti al tempio di Bel (il re
degli dei) sfilano cammelli di rappresentanza tutti belli infiocchettati, che con le colonne e la
hammada di sfondo creano una pittoresca iconografia, non a caso già piazzata da quelli della Lonely
Planet sulla copertina della guida.
Poi, attraversato l'arco monumentale, si entra nel grande colonnato, si costeggia il tempio di Nabo,
le terme, e si entra all'anfiteatro restaurato. Proseguendo lungo i due chilometri di colonnato si
giunge al tempio funebre e a quello che pare dovesse essere il palazzo di Zenobia. Nel cammino si
può ammirare la fortezza in lontananza e ogni tanto qualche spruzzo di verde tra le colonne, e
intorno le palme e i cammelli giovani. Tutto questo (compreso lo sfondo blu) si riflette negli occhiali
a specchio del beduino.«La luce della Siria può essere accecante di giorno» mi aveva messo in
guardia il profetico Hisham. «Ti rovini gli occhi senza occhiali, your beautiful eyes.»
Le donne dell'hammam
Attraversiamo a mezzogiorno il deserto siriano, con tappa presso la bellicosa Homs (shawarma per
pranzo, jeans attillati e magliette scollate, giardini), fino a raggiungere Hama. Qui, nell'hammam
veniamo umiliate da donne grasse in mutande e sottovesti leopardate, che ci versano interi pentolini
di acqua bollente sulla testa, ci strofinano le braccia e le gambe con un guanto di crine e indicano
ridendo la pelle morta prodotta, ci intricano per sempre i capelli sfregandoli con una saponetta
dozzinale, e ci parlano a voce troppo alta e troppo araba per capirci qualcosa.
Pomeriggio inoltrato coi capelli stopposi tra le norie di Hama, grandi ruote di legno che servono ad
attingere l'acqua dal fiume. La serenità di passeggiare sull'Oronte tra le prime luci che si accendono,
curiosare nelle botteghe e acquistare nel suq completini intimi con piume e uccelli di plastica, luci
colorate e suonerie incorporate (e voi donne del mistero, sotto a quei teli che vi coprono, è inutile
che fate quei sorrisi maliziosi che si vedono dagli occhi, vi ho scoperto). Alla ricerca di balsamo
occidentale, tra rivendite di tabacco per la shisha, negozi di barbiere pieni zeppi di utensili,
caffetterie.
Le donne nell'hammam, enormi e sguaiate, capelli sfibrati dalla saponetta del supermercato,
sembrano aver dimenticato Zenobia, fiera regina di un impero, miseramente finita a fare la casalinga
a Tivoli. E così si consolano con la depilazione totale (lotta eterna ai peli superflui) e gli uccellini
sulle tette. Si intravedono occhi col kajal, polsi depilati, sopracciglia disegnate, oro e argento sotto il
velo. Ma oggi c'è la crisi, lo stipendio non basta, le donne devono andare a lavorare anche qui (non gli
si dedica più neppure una città). Le famiglie non sono più unite e i cinesi ci invadono di merci
(lavorano tutti insieme, loro). Mentre noi dobbiamo comprare il cellulare, guardare i siti porno,
ascoltare l'i-pod invece delle cassette, guardare "Avatar" al cinema e dare lezioni private per arrivare
a fine mese.
Breviario mediterraneo
Mi portano verso occidente, seguendo le condotte di petrolio che partono dall'Iraq, fino a raggiungere
il verde dei pini, degli eucalipti, degli ulivi e del grano. Arriviamo al Mediterraneo, dove tutti ci
affacciamo, muretti a secco e tutto. Il Mediterraneo inquinato, da cui arrivarono i popoli del mare,
molto prima del petrolio, prima dell'inchiostro e della carta, della poesia, della retorica e della
spiritualità in pillole. Mandorle verdi e olive nere a colazione. Anice e fragole, spremute d'arancia e
formaggio di capra.
Altri schizzi di papaveri nei prati, e ancora rovine di grigio granito sul cardo di Apamea, cittadina
fondata da quel generale che la battezzò col nome della sua consorte persiana (il nome della mamma
lo diede invece, molto prudentemente, alla città di Laodicea, o Latakia). Venditori di monete antiche
false, greggi di capre, manichini e galline nella selvaggia brughiera verde risaia. I fantasmi di Antonio
e Cleopatra, dei crociati di Tancredi e soprattutto dei trentamila cavalli per cui era famosa, fanno
capolino nei due chilometri di colonnato restaurato.
Il Castello del Salah ad-Din — feroce sui nostri sussidiari, eroico per il popolo siriano (punti di vista) —
si erge a strapiombo, circondato da frutteti e cipressi. Per arrivarci bisogna attraversare in 4x4 un
canyon profondissimo creato incredibilmente dai crociati per separare il castello dal resto del
roccione; nel corso del lavoro lasciarono in piedi solo una colonna di pietra a forma di obelisco, che
c'è ancora adesso e che serviva a mantenere il ponte levatoio. In realtà i crociati compirono
inutilmente questo enorme sforzo, poiché furono immediatamente scacciati dall'esercito del Saladino
che, con l'ausilio delle catapulte, li colpì su due fronti, e per questo ancora oggi vengono derisi. "I
love you" sul cuore di plastica che si illumina di lucine rosse e gialle quando nei pressi del castello
l'autista preme il freno. "I love you" su un quaderno: la copertina è l'ultima pagina.
Da Ugarit, il primo porto internazionale, provengono poemi e documenti in un alfabeto nuovo,
l'antenato del nostro, e note musicali e una canzone di migliaia di anni fa. Anche qui, nel 1928, fu un
contadino munito di zappa che scoprì accidentalmente una sepoltura antica. E per il resto dobbiamo
ringraziare gli archeologi francesi. Oggi le rovine visibili sono ridotte ad un informe ammasso di
pietre e dunque l'uomo della strada non capisce assolutamente nulla della straordinaria città che
(dicono) c'era eoni fa.
Siamo seri. In Siria ci sono una miriade di moschee e di chiese. In Siria, senza retorica, sono passati
gli eserciti di ogni provincia guidati da condottieri dai nomi esotici. In Siria può capitare di diventare
pedanti e di usare parole come Spiritualità, Culla delle civiltà, Sincretismo. Si può presentare la
fugace di illusione di aver compreso, magari davanti alle colonne denudate dalla sabbia.
Sul lungomare di Latakia, dopo un equivoco bagliore, tutte le luci si spengono. Mentre il senso di
tutto sfugge, si cerca di inseguirlo con le parole, ci si aggrappa alle parole, ma... la "magica danza
della tua vita"? Ho capito bene? L'oud, il violino e la darbouka vanno bene, ma a basso volume.
Datemi dolci ripieni di pistacchi e miele, ma non fatemi aspettare tutto questo tempo in un
ristorante con le vetrate sul mare senza una birra ghiacciata ("Latakia non vanta particolari
attrattive").
Venerdì Santo
«Siamo tutti palestinesi»! In fondo abbiamo tutti perso la Terra. L'abbiamo persa rendendola
inabitabile attraverso l'inquinamento, gli ammassi di metallo nelle ore di punta, i muri e i reticolati
a protezione della rapina privata, le vedette guardia coste per evitare l'arrivo dei poveri, i mille
metaldetector del conflitto tra civiltà... Quando la vita è insopportabile la Terra è persa!
Riconquistare la Terra dunque non è solo affare dei palestinesi.
[ Paolo Dall'Oglio, "Voglio tornare" ]
Venerdì è giorno di festa per tutti i musulmani, ma oggi è santo anche per i cristiani, che rivisitano le
tappe della via crucis. Per me è come una scatola di dolciumi.
Il Krak des Chevaliers ha la consistenza di un biscotto. È una gigantesca fortezza costruita dai
Crociati intorno al 1200, situata in un punto strategico. Oltre alle torri, ai corridoi, alle sale, c'è una
cappella trasformata in moschea dal sultano Baibar (lì andiamo a lezione di punti cardinali). Al
castello dei cavalieri approdano famiglie numerose e comitive di amici vestiti per la festa: scarpe a
punta, pantaloni stirati e variegati strati di foulard. Musica ad alto volume dall'interno delle auto.
Mar Musa è appiccicoso e zuccherino. Sulla strada per raggiungere il monastero il deserto è polveroso
e, a guardarlo bene, ricoperto di cartacce. Il picnic del venerdì ha luogo per terra, accanto alle auto,
ai trattori e ai camion, oppure sotto tende di fortuna, con il bricco del tè, del caffè e del mate, il
fuoco per arrostire il kebab, porzioni di hummus e melanzane. Poi, 450 gradini per raggiungere
l'affascinante sede di questa comunità monastica di rito siriaco-cattolico (pietre e mattoni sono dello
stesso colore). Padre Paolo è nella piccola saletta adornata da meravigliosi affreschi medievali privi
di prospettiva, scrostati ma nitidi, accovacciato sul tappeto, tra i cuscini e le bibbie in tutte le
lingue. In mezzo al deserto, queste persone continuano a fare esperienza della privazione, del
silenzio, del lavoro, della preghiera; ma anche dell'accoglienza e dell'ospitalità, visto che il
monastero è affollato di visitatori che come noi si sono arrampicati fin lassù (cristiani, musulmani o
altro, non ha importanza), alcuni per rimanerci anche a dormire. Voci arabe e napoletane dai toni
concitati rimbalzano tra le pareti dell'orrido. In questo Paese dove tutte le religioni sono la stessa
religione e tutti i tempi sono lo stesso tempo, questo è un viaggio nel viaggio (illudersi che qualcuno
ne sappia più di noi: compartir. Muoversi a seconda del sole: seguirlo attenderlo assecondarlo).
Maalula si scioglie sulla lingua. Nella Positano della Siria (casette gialle e azzurre abbarbicate alla
falesia) si parla ancora l'aramaico: un bambino neorealista sciorina a memoria la sua canzoncina nella
lingua di Cristo, in cambio di una moneta e una pacca sulla spalla. In cima in cima c'è l'antichissima
chiesa di San Sergio. Poi si percorre uno strettissimo canyon di pietra chiara (che a molti ricorda la
gola di Petra) punteggiata di donne vestite di nero, per giungere in discesa fino al convento di Santa
Tecla, riservato al culto greco ortodosso. La santa era una discepola di san Paolo che fu perseguitata
dai romani perché cristiana: secondo la leggenda si rifugiò su questa montagna, che si spaccò in due
tanto da creare questa sacra grotta e poi si richiuse sbarrando la strada ai suoi inseguitori. Oggi Santa
Tecla è venerata anche dai musulmani.
E restai con un pugno di moschee in mano
Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice: / scura, l'ali ingrommate, stronche dai / geli
dell'Antilibano; e ancora / il tuo lampo mutava in vischio i neri / diademi degli sterpi, la Colonna /
sillabava la Legge per te sola.
[ Eugenio Montale, "Sulla colonna più alta" ]
Un'intera giornata a bere tè e caffè nella città vecchia di Damasco. La notte non potevo dormire e mi
chiedevo «Are you happy?», figurandomi l'espressione di Hisham come se fosse veramente interessato
a saperlo tutti i giorni. O come se davvero avesse sentito la mia mancanza nell'anfiteatro di Bosra.
Una giornata tra i vicoli e i negozi a fumare sigarette e spiluccare frutta secca, parlando di me e di
loro, dei soldi e del lavoro, del matrimonio e dell'amore, di un dio qualunque e di dove abita: i
bicchierini accanto alla zuccheriera sul vassoio di ottone decorato, e intorno tappeti e sciarpe,
gioielli d'argento e pietre colorate, lampadari di perline e ferro battuto bucherellato, vetri colorati e
tovaglie. Regali e inviti a cena per l'italiana chiacchierona e sorridente con cui ridere fino alle
lacrime.
L'ingresso principale del suq sembra la Galleria Vittorio Veneto di Milano. Il primo negoziante ha gli
occhi scuri e la pancia, mi offre il tè alle rose e mi regala un portacenere di ottone e un portapenne
di legno e madreperla intarsiato. Il secondo ha gli occhi azzurri che si fanno languidi mentre mi
consiglia ingombranti specchi e tavolini da back gammon. Il quartiere cristiano in questo sabato santo
all'ora di pranzo è silenzioso e desolato: stoffe bianche penzolano dalle croci. Nei paraggi del
quartiere ebraico questo ex professore di francese (pantaloni lisi, pochi denti) mi conduce all'interno
di un meraviglioso hotel nascosto tra i vicoli e mi costringe a fotografare una per una tutte le opere
d'arte di uno scultore locale. Poi mi offre una birra nel cortile di casa sua (umido e scrostato) e
mentre fumiamo un tot numero di sigarette parliamo degli scolari di oggi: quanto sono condizionati
dai mezzi informatici e quanto poco disposti alla concentrazione! Numerosi siriani sono emigrati in
Sud America negli anni, mi racconta, «Hai presente l'ex presidente argentino Menem?»
Entro nella cappella di Anania, il discepolo di Gesù che sulla via di Damasco fece recuperare la vista a
San Paolo (a.k.a. Saul, che durante la sua conversione era diventato cieco). E poi: due ore seduta
accanto ad Ali Baba e al suo amico con i baffi, con i quali si commentano con amabile accuratezza le
varie tipologie di turisti che passano e non comprano(«International crisis, no money!»). Sulla Via
Recta, che taglia a metà tutta la città vecchia, obbligata a bere altro tè insieme al libanese Yousef
(identico allo scienziato di "Ritorno al futuro"), che ha vissuto molti anni a Losanna e preferisce
parlare francese, anche se riesce persino a comunicare in un dignitoso italiano.
L'odore del montone alla brace, della cannella sul riso, della mela da shisha. Seta e pashmina,
jallabya ricamati, legno e madreperla. Manichini ciccioni, occhi di Allah, rondini. Balconi fatiscenti,
boutique hotel, gallerie d'arte di tendenza. Questa è Damasco, durante il mio itinerario che spazia
tra il quartiere islamico e quello cristiano.
Al ristorante tradizionale nel suq il fumo dei narghilè viene deviato dai ventilatori e si mischia alle
lucine in serie, mentre un ipnotico derviscio rotante di un biancore accecante si esibisce sul palco. E
al suono delle darbuka e degli oud le ragazze improvvisano una danza del ventre, mentre le loro
mamme o nonne le fotografano col cellulare. Di notte la collina che sovrasta Damasco è interamente
ricoperta di lumini da presepe che scendono verso valle.
L'indomani è l'ultimo giorno nella capitale della Siria. Parto dall'ex residenza privata del governatore
di Damasco, il Palazzo Azem: cortile con vasca e fontana, muri mamelucchi a strisce bianche e grigie,
pannelli in legno e piastrelle blu nelle sale adibite a museo delle tradizioni.
Proseguo nella Moschea degli Omayyadi, sorella maggiore di quella di Aleppo. Il pavimento in pietra
chiara del vasto cortile è caldo e riflette le ragazzine in gita che corrono e le donne vestite di nero
(tutti camminano sull'acqua). Nella grande sala della preghiera, che ha la pianta a tre navate
risalente alla basilica bizantina su cui è stata costruita, la luce proviene sia dai vetri colorati delle
finestre sia dagli enormi lampadari. Per terra, sui tappeti, è un brulicare di gente: grappoli neri di
donne di cui si vedono solo gli occhi, vecchi con la kefiah che si scattano a vicenda foto col cellulare,
fedeli in pantaloni e maglione che sembra che dormano appoggiati alla parete, altri seduti a gambe
incrociate con gli occhi chiusi, uomini inginocchiati che si piegano battendo la fronte contro il
pavimento mentre un tizio con la sciarpetta verde legge a voce alta il Corano, uomini e donne che si
affollano intorno alla tomba di Giovanni Battista, venerato nell'Islam come profeta, stringendosi con
tutta la forza alle grate dorate che la circondano. E infine c'è la tomba di Hussein, il nipote del
Profeta, circondata da sciiti che la puliscono con fazzoletti verdi e neri, la fotografano, piangono e si
disperano, e alcuni mettono la testa dentro ad una specie di forno argentato.
Di nuovo in borghese, mi tuffo nell'affascinante città decisa a farmi incantare ancora qualche ora dai
damasceni. Gli artigiani realizzano opere d'arte battendo col martello la filigrana d'oro, i calzolai e i
sarti mi sorridono dai loro micro-laboratori, i pulisci-scarpe scherzano brandendo la spazzola, i
venditori ambulanti di frutta secca vogliono sempre che ne prenda un po', i panettieri sollevano la
testa incipriata di farina e si mettono in posa, i negozianti sfaccendati sono seduti all'aperto; tutti
fumano. Inciampo nella parata di Pasqua: un pulcino gigante che fuoriesce da un uovo, condotto per
le strade in una macchinina lilla, è circondato da boy scout e bambine vestite da apine e coccinelle,
tra bande e bandiere. Per le strade i cittadini di fede cristiana sfoggiano gli abiti della festa, che già
la notte precedente avevo osservato assistendo alle celebrazioni religiose (prima che scoppiasse una
rissa molto poco cristiana).
Con Houssam, nel suo shop di tappeti, ci appassioniamo a confrontare le nostre opposte visioni della
vita. «Io non vi capisco voi europei» fa lui. «Vi sposate per amore, fingendo di dimenticare che
l'amore finisce!» Il pranzo a base di carne di cammello alla brace lo gusto assieme a Samir. Torno a
casa con una darbuka e una sciarpa di seta fuxia, gialla e celeste. Prima di trovarla, vago a lungo alla
ricerca della lampada dei miei sogni, da appendere in camera da letto per illuminare le mie mille e
una notti, ma le lampade sono arrugginite e impolverate da anni di tè e chiacchiere e contrattazioni
e nessuno che pulisce; ferro, vetrini rossi, pezzi di specchio, tasselli e trafori esotici, ma non fanno
molta luce.
«Ho notato che scatti delle ottime foto» osserva Hisham all'aeroporto, prima della partenza. «Vorrei
chiederti una cortesia, però. Potresti evitare di rendere pubbliche quelle immagini che ritraggono gli
aspetti meno gradevoli del nostro Paese?»
In pratica, la Siria è la nostra seconda casa, ma non siamo liberi di fotografarla.