Marcel Proust

Transcript

Marcel Proust
Marcel Proust
Proust e lo spazio
Atti della giornata di studi, 15 ottobre 2009
a cura di
MARISA VERNA e ALBERTO FRIGERIO
MARCEL PROUST
Proust e lo spazio
— Atti della giornata di studi, 15 ottobre 2009 —
a cura di
MARISA VERNA e ALBERTO FRIGERIO
Milano 2009
La pubblicazione di questo volume
è stata resa possibile grazie al contributo
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore - Sede di Milano
Con il patrocinio
del Dipartimento di Scienze Linguistiche
dell’Università Cattolica di Milano
L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto per testi o immagini
Proprietà letteraria e artistica riservata
© Copyright 2009
by Cives Universi Centro Internazionale di Cultura - Alberto Frigerio
Viale Lombardia, 8 - 20131 Milano
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ISBN:
978-88-903143-6-0
Edizione realizzata a cura di
EDUCatt
Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica
Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215
e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione)
web: www.unicatt.it/librario
ISBN: 978-88-8311-717-6
Printed in Italy
Sommario
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Ringraziamenti e presentazione
ALBERTO FRIGERIO e CIVES UNIVERSI
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Presentazione del volume
MARISA VERNA
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Proust e il romanzo della coscienza
GIUSEPPE BERNARDELLI
29
Nient’altro che una spaziatura della lettera...
STEFANO AGOSTI
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Finestre, serre, telescopi, acquari: lo sguardo dall’esterno
nella descrizione proustiana
MARISA VERNA
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Riflessioni sullo spazio della “Recherche”
DANIELA DE AGOSTINI
69
Proust e lo spazio dell’opera d’arte
ELEONORA SPARVOLI
83
Far memoria dell’incontro: dal colore al quadro, dallo spazio
al testo
DAVIDE VAGO
3
Ringraziamenti e
presentazione
ALBERTO FRIGERIO e CIVES UNIVERSI
Cives Universi
Centro Internazionale di Cultura
Cives Universi, Centro Internazionale di Cultura, è un’Associazione che si occupa di ideare, organizzare e promuovere eventi culturali interdisciplinari riguardanti ambiti quali la letteratura italiana
e straniera, il cinema, la musica e l’arte, con l’intento di favorire la
diffusione della cultura soprattutto fra i giovani, nel contesto della
vita odierna.
Cives Universi nasce il 12 febbraio 2007 su iniziativa di Alberto
Frigerio, noto ricercatore in campo scientifico e di Soci professionisti provenienti da varie discipline.
Essendo Cives Universi un’Associazione senza fini di lucro, vive
grazie al sostegno dei suoi soci e delle persone che amano la cultura
e, apprezzando il nostro operato, vogliono tener vivo questo
“volontariato culturale”.
Gli incontri promossi da Cives Universi hanno finora affascinato
ed unito un pubblico di diverse generazioni, riscuotendo un grande
consenso. Questo è stato possibile anche grazie allo svolgersi degli
eventi in prestigiose sedi tra cui la Sala del Grechetto (Palazzo Sormani), il Circolo della Stampa (Palazzo Serbelloni), la Libreria Internazionale Ulrico Hoepli e Palazzo Arese-Litta.
Cives Universi ha realizzato gli eventi:
– D’Annunzio. Moda, modernità e società di massa (novembre
2006)
– Hemingway. Talento, tormenti e passioni (aprile 2007)
– Thomas e Heinrich Mann. Vita, opere e memorie di un’epoca
(novembre 2007)
– Primo Atelier Creativo per piccoli artisti in erba (novembre
2007)
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ALBERTO FRIGERIO E CIVES UNIVERSI
– Il dialetto milanese e il dialetto napoletano. Loro storia e repressione, realizzato in collaborazione con l’Accademia Napoletana
degli Oziosi e il Centro Mediolanense Studium
– Rainer Maria Rilke. Alla ricerca dello “spazio interiore del mondo” tra arti figurative, musica e poesia (giugno 2008)
– Gianni Brera. Un artigiano dello scrivere (novembre 2008)
– Audrey Hepburn. Icona senza tempo (marzo 2009)
– Virginia Woolf. Una vita tra luci e ombre (maggio 2009)
– Fabio Vacchi. Conversazione con un compositore del nostro
tempo (giugno 2009)
– Grazia Deledda. Tra Isola e Mondo (settembre 2009)
Da questi incontri prende vita un’esclusiva proposta editoriale,
con la creazione di appositi volumi che raccolgono gli interventi dei
relatori e altri saggi di importanti studiosi, formando così esemplari
unici e rari, capaci di dar ragione, in maniera completa e approfondita, del valore artistico e storico di ciascun autore affrontato.
In linea con la mission dell’Associazione e con la volontà della
stessa di promuovere la diffusione dei grandi autori della letteratura, è stato realizzato l’incontro dedicato all’importante scrittore
Marcel Proust e, in seguito, questo prezioso volume che raccoglie i
testi delle relazioni degli illustri studiosi intervenuti durante la giornata.
Questo evento nasce dalla collaborazione con il Dipartimento di
Scienze Linguistiche e Letterature Straniere dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano e, nello specifico, con la Professoressa
Marisa Verna, ideatrice e promotrice di questo convegno nonché
indispensabile punto di riferimento per la buona riuscita dello stesso.
Un sentito ringraziamento va dunque alla Professoressa Verna, ai
relatori Giuseppe Bernardelli, Stefano Agosti, Daniela De Agostini,
Eleonora Sparvoli e Davide Vago, al Dott. Aldo Pirola e alla
Dott.ssa Bianca Girardi per la concessione di una prestigiosa location quale la Sala del Grechetto di Palazzo Sormani.
Alberto Frigerio
Presidente Cives Universi
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Presentazione del volume
MARISA VERNA
Cenni introduttivi
L’invito rivoltomi dal Centro Internazionale di Cultura Cives
Universi ad organizzare una giornata dedicata ad un grande autore
della letteratura francese mi è giunto particolarmente gradito, per
svariate ragioni.
Innanzitutto esso mi offriva la possibilità di far uscire, per così
dire, la ricerca letteraria dalle aule universitarie, dove spesso tanta
riflessione sulla bellezza si confina: non tanto perché essa non sia
fruibile da un pubblico più vasto, ma a causa di un curioso
‘cortocircuito’, che talvolta interrompe l’energia che normalmente
dovrebbe scorrere fra cultura e mondo.
Questa opportunità mi era particolarmente cara, inoltre, per la
scelta dell’autore, concordata con il Prof. Alberto Frigerio, presidente dell’Associazione. Marcel Proust è infatti uno di quegli autori
che, nell’assurgere a ‘mito culturale’, hanno finito per essere guardati con un misto di reverenza e di timore dal lettore medio, quasi
che la messe troppo abbondante di tesori che la sua opera contiene
fosse riservata ad un ristretto gruppo di sacerdoti gelosi, e decisi a
difenderli da ogni intrusione.
Infine, ma non da ultimo, mi si offriva l’occasione di mettere alla
prova un’intuizione che da qualche tempo mi tentava: sondare cioè
la dimensione dello spazio nel romanzo che per eccellenza è il romanzo del tempo. Certo, esiste l’opera di Georges Poulet, che già
nel 1963 aveva indagato la scrittura proustiana in questa ottica – lo
studio di Poulet è infatti citato praticamente da tutti gli autori dei
contributi che compongono questo volume.
La materia di indagine è però ancora ricca, e mi sembra che i testi qui contenuti lo dimostrino: Giuseppe Bernardelli apre il volume
con una mirabile sintesi dell’intera estetica proustiana, e giunge a
quel “cerchio dello Spirito” cui essa ci conduce; segue il contributo
di Stefano Agosti, che in poche pagine folgoranti disegna l’audacia
del testo di Proust proprio nello spazio sintattico nel quale esso impasta, paradossalmente, il tempo. Chi scrive ha studiato un partico11
MARISA VERNA
lare tipo di sguardo, e la metamorfosi del reale che esso produce
nella scrittura. Daniela De Agostini ha invece analizzato il passaggio
dallo spazio frammentario e frammentato che si disegna negli avantesti – i quaderni preparatori de À la Recherche du Temps perdu
scoperti negli anni Sessanta e che da allora non cessano di riservare
sorprese – al quadro totale nel quale gli spazi descritti sono ricomposti nella versione definitiva. Eleonora Sparvoli definisce quello
spazio poroso – permeabile al nostro sguardo e al nostro desiderio –
nel quale la scrittura finisce per risolversi, spazio che si identifica in
definitiva con il dono di sé che l’artista compie nel produrre
un’opera d’arte. Davide Vago, infine, ripercorre i luoghi
dell’incontro amoroso, mettendo in luce la loro complessa struttura
sia narrativa che stilistica: da essi emerge infatti l’affinità della scrittura di Proust con i movimenti pittorici a lui coevi – cubismo, futurismo – ma anche la natura instabile dello spazio proustiano, preso
in un’eterna dinamica di movimento e scambio.
Poche parole non bastano, evidentemente, per ridare vita alla vivace e bella giornata di studio che si è svolta nella Sala del Grechetto il 15 ottobre scorso. Invitiamo dunque a leggere, nella solitudine
che Proust considerava la condizione indispensabile alla discesa in
se stessi, le pagine che seguono, nella speranza che esse contribuiranno ad accrescere o quantomeno a migliorare la conoscenza – diversa – che ciascun lettore ha del capolavoro proustiano.
Ringraziamo, naturalmente, tutti coloro che ci hanno permesso
di giungere a questo risultato: la Cives Universi, che ci ha invitati e
sostenuti lungo tutto il percorso; il Comune di Milano, che ci ha
concesso l’uso di una Sala di rara bellezza; tutti i relatori che hanno
accettato il nostro invito, e che hanno reso intensa e proficua la riflessione sul tema dell’incontro; il pubblico, attento e sempre disposto a sostenere i relatori nella loro esposizione.
Marisa Verna
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Proust e il romanzo della coscienza
GIUSEPPE BERNARDELLI
Giuseppe Bernardelli
Professore Ordinario di Letteratura francese presso
l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. È
studioso della cultura simbolista (da Baudelaire a
Corbière), nonché delle logiche e delle forme del testo lirico.
Parlare di Proust significa parlare in sostanza, come ognuno sa, di
un testo solo, anche se di proporzioni monumentali: egli si può considerare infatti, in un certo senso, autore di un’unica opera, scritta e riscritta nella fase matura della sua vita (grosso modo dai trenta ai cinquant’anni) e lentamente portata alla stesura definitiva per via di successive approssimazioni. Tale opera, che l’autore ci ha consegnato
sotto il titolo suggestivo e notissimo di À la recherche du temps perdu, alla ricerca del tempo perduto, si presenta in forma di grande romanzo autobiografico (o comunque a base autobiografica), scandito
in sette sezioni per circa tremila fittissime pagine complessive (a tali
sezioni corrispondono gli altrettanto celebri titoli Du côté de chez
Swann, À l’ombre des jeunes filles en fleurs, Le côté de Guermantes,
Sodome et Gomorrhe, ecc.). Contenuto ne è, come è ugualmente risaputo, la storia di una vocazione artistica lentamente scoperta e maturata (il romanzo si chiude sulla decisione del protagonista-narratore
di mettersi a scrivere la storia della vocazione che ha appena narrato,
per cui siamo di fronte ad uno dei primissimi esempi di ‘romanzo speculare’, o ‘circolare’, o en abîme poi diffuso nel Novecento); insieme,
e grazie a questo pretesto, viene rievocata – anche se in modo del tutto particolare come si dirà – la cronaca della Francia contemporanea,
tra il 1870 e il 1920, specie attraverso le sue élites intellettuali e mondane. Almeno per questo secondo aspetto il romanzo si connette ai
grandi e notissimi modelli della tradizione memorialistico-narrativa
francese, specie ottocentesca (si pensi a Zola, Balzac o Chateaubriand), che in un certo senso completa e chiude. Nell’ambito di questa tradizione la Recherche rappresenta uno dei massimi esiti, per tutto un complesso di ragioni: – per la straordinaria analiticità ed insieme compattezza della scrittura, piena di cose e di dati, come in una
specie di minutissima visione al microscopio, ma insieme sempre organica, legata, tendente al quadro (tale organica analiticità è significata anche dal singolare impianto grafico della pagina proustiana: non è
raro incontrare capoversi di 350-400 righe, ossia anche 8-10 pagine
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GIUSEPPE BERNARDELLI
senza la minima spaziatura: anche per questo il primo accostamento,
come è ben noto, è tutt’altro che facile); – poi, a voler procedere
nell’elenco delle ragioni che fanno della Recherche un’opera di grande
rilievo, per la grande capacità di creare personaggi, per lo più dinamici, in evoluzione, e quasi sempre di fortissima e complessa individualità; – ancora, per la straordinaria caratterizzazione dello stile
(ognuno avrà presente, almeno, la complessità – giustamente temuta –
della sintassi proustiana); – di nuovo, non ultimo tratto, per la capacità di innovare sotto il profilo tecnico: con la Recherche Proust incide
sulla struttura del romanzo moderno, introducendo novità che poi caratterizzeranno largamente il modello novecentesco del genere (la più
rilevante – di qualche altra capiterà di far cenno – è data dalla distruzione o comunque dall’incrinamento della sequenza cronologica come
fondamento della struttura narrativa: il discorso narrativo non si organizza o si organizza solo in parte scegliendo come criterio d’ordine
e di progressione la successione dei fatti nel tempo, ma piuttosto secondo un criterio ‘tematico’, che fa riferimento ad una ‘logica interiore’, ad un ‘tempo della coscienza’ che prevale sull’attualismo
dell’esperienza, facendo così passare in secondo piano e spesso sconvolgendo la cronologia reale); – infine, la Recherche è anche l’opera
di un grande moralista (si intenda: il termine va preso nel significato
proprio della storiografia letteraria francese – ma ormai acquisito anche a quella italiana e più in generale all’uso comune – di ‘autore di
riflessioni sui costumi, la natura e la condizione umana’). Proust è se
non il più grande (cosa che per quanto ci riguarda crediamo), certo
uno dei più grandi moralisti (o indagatori delle ragioni profonde e
delle leggi generali del comportamento umano) che la Francia abbia
conosciuto da Montaigne in poi. Ma è sul tema della coscienza che
vorremmo qui soffermarci, poiché da esso discendono, crediamo,
gran parte delle peculiarità del testo proustiano.
*
Crediamo convenga anzitutto fare cenno delle circostanze che
permettono di motivare l’aspetto dell’opera proustiana che abbiamo
privilegiato. Pur tenendo conto dell’alto grado di libertà – e quindi
di sostanziale imprevedibilità e inesplicabilità – che sempre circonda
i fatti spirituali, e dentro questi le vicende artistiche, se ne possono
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PROUST E IL ROMANZO DELLA COSCIENZA
indicare sensatamente due. La prima è d’ordine biografico, la seconda d’ordine culturale.
La circostanza o fondazione biografica, inerente la personalità
dell’uomo Proust, è data dalla particolarissima struttura del suo carattere. Fin dalla fanciullezza egli è un nevrotico segnato, oltre che da
straordinaria intelligenza e sottigliezza, da una sensibilità e da una sospettosità assolutamente al di sopra della norma, le quali danno luogo, come è stato detto brillantemente, ad una specie di génie du
soupçon, di genio del sospetto, perennemente applicato all’analisi esasperata dei moventi degli atti propri ed altrui: “[...] per natura il
mondo dei possibili mi è sempre stato più aperto di quello della contingenza reale. Ciò aiuta a conoscere l’animo”, confesserà poi
nell’opera, anche se poi aggiunge subito che tale dono ha come contropartita l’inettitudine pratica1. Comunque sia, per questa strada – e
paradossalmente – la nevrosi, ossia la malattia, contribuisce a fare di
lui uno dei più grandi analisti delle passioni umane e della vita interiore. Il motivo della fecondità – in termini spirituali ed artistici –
della malattia e del dolore sarà del resto uno dei motivi più insistenti
della Recherche stessa (l’arte, per Proust, è una specie di ‘pozzo artesiano’, in cui tanto più si sale quanto più si scende, ossia si accetta di
soffrire e di scavare dentro di sé).
Più complessa è naturalmente la fondazione culturale. Il romanzo
di Proust rappresenta un grande momento d’arte, certo uno dei vertici
della letteratura europea moderna, ma, insieme, anche un grande
momento di sintesi culturale. Nel ricollegarlo alla tradizione narrativa
ottocentesca, non abbiamo infatti detto che il suo autore si forma ed
opera in un momento particolare, per tanti aspetti cruciale nella storia del pensiero e dell’arte moderna: vale a dire, gli ultimi venti anni
circa dell’Ottocento e i primissimi del Novecento. Sono gli anni, come
è noto, del progressivo franamento della cultura positivista e della
relativa visione della realtà, franamento da cui deriva, a livello europeo, come una specie di ‘sblocco’ e di ‘riproblematizzazione’ della riflessione filosofica, scientifica, politica, artistica (vedi l’affiorare, in
campo filosofico, delle varie forme di spiritualismo, neoidealismo, in1
Tutte le citazioni fanno riferimento al testo della Recherche (coll.
“Bibliothèque de la Pléiade”, Gallimard, Paris 1987-1989), proposto in nostra traduzione. Stante il taglio dell’articolo, ci dispensiamo dall’indicare per ciascuna luogo specifico e pagina.
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GIUSEPPE BERNARDELLI
tuizionismo; in campo scientifico, il superamento dell’empirismo oltre
che del razionalismo classico e l’imporsi delle nuove epistemologie;
nell’ambito della riflessione politica, la critica del marxismo e
l’avvento della nuova sociologia; in campo linguistico, lo spostamento
dell’accento dalla prospettiva storico-comparativa a quella sincronica
e strutturale: alla rinfusa, si possono citare nomi come Bergson, Poincaré, Durkheim, Pareto, Sorel, Croce, Freud, Saussure, ecc.). Ora, nel
suo ambito e secondo i suoi modi (ma almeno nella prima parte della
sua carriera egli coltivò non trascurabili interessi filosofici), Proust è
un coprotagonista di tale sblocco e riproblematizzazione. Egli è infatti
assillato dagli stessi problemi che assillano la cultura di fine Ottocento e primo Novecento, problemi strettamente connessi, benché diversamente enfatizzati dai protagonisti di quella storia: – anzitutto, il
problema della durata e del significato del tempo (ovvio il riferimento
a Bergson, ma si tratta di un tema capitale anche della riflessione
scientifica coeva, del resto già entrato in arte con l’Impressionismo, il
cui contenuto è la mutevolezza del flusso temporale, ed appunto, in
definitiva, la durata); – poi, il problema della natura della conoscenza
e dei suoi limiti (per uscire dal campo della pura filosofia, si pensi al
dibattito sul carattere convenzionale o meno delle proposizioni matematiche e più in generale scientifiche che si svolge in quegli anni in
Francia); – infine, il problema della coscienza e del ruolo
dell’inconscio (ovvio il riferimento a Freud: ma è già il problema tematizzato dal titolo della prima opera del Bergson, l’Essai sur les
données immédiates de la conscience, 1889). È da osservare, per inciso, che questi problemi derivano dal diffuso sentimento della insufficienza dei principi del biologismo e del meccanicismo positivista e più
in generale ottocentesco: come il tempo vissuto, il tempo vero, interiore, fosse qualcosa di diverso dal tempo fisico, meccanicamente
scandito e delimitato; come la conoscenza autentica, in particolare
storica e sociologica, non si potesse ridurre al programma ottocentesco di costruire una scienza mediante il paziente reperimento di dati e
la loro rigorosa verifica; come la coscienza umana fosse realtà infinitamente più complessa, torbida e profonda di quanto una visione di
tipo intellettualistico lasciasse intendere: problemi che nascevano insomma ed in definitiva dalla convinzione – o dal confuso sentimento – che fosse impossibile procedere con i principi ed i metodi tradi-
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PROUST E IL ROMANZO DELLA COSCIENZA
zionali oltre la superficie della esperienza umana (donde le varie forme di idealismo, intuizionismo, irrazionalismo ecc.).
*
Ora, questi tre problemi (‘tempo, conoscenza, coscienza’), insieme alla riflessione sulla natura e le funzioni dell’arte, sono anche al
centro della Recherche, di cui costituiscono la struttura tematica
profonda. Il più apertamente tematizzato, fin dai titoli, è il problema del tempo: il romanzo proustiano è il ‘romanzo del tempo’, del
tempo vero, interiore, perduto – ossia sprecato – nella vita e che
l’arte permette di recuperare. Esso è anche, come è stato sottolineato, il ‘romanzo della conoscenza’ e dei suoi complessi percorsi (dalla
opacità della fanciullezza alla lucidità della maturità, dalla pseudoconoscenza degli schemi desunti dalla cultura ambiente alla loro
verifica e rifondazione attraverso un lento, faticoso e doloroso lavoro di analisi). Ma il motivo dominante, che fonda gli altri con cui si
intreccia, fondando anche la struttura tecnica e la morfologia del libro, è in realtà il motivo della coscienza. Benché si presenti in forma
di grande affresco storico, di rievocazione di un’epoca intera, la Recherche è in realtà un ‘romanzo della coscienza’, vale a dire non di
ciò che sta fuori ma di quel che sta dentro, non degli oggetti e degli
avvenimenti che sfilano davanti all’obbiettivo, ma di ciò che succede
nella camera oscura: di come insomma si formino le immagini della
realtà che poi ci fanno agire, essendo esse in definitiva la vera realtà
e il vero oggetto della rappresentazione artistica. In proposito
Proust è esplicito, e a più riprese: “la realtà – egli dice – non esiste
per noi fintantoché non è stata ricreata dal nostro pensiero” (senza
di che, egli aggiunge, tutti coloro che si sono trovati coinvolti in
qualche grande combattimento si troverebbero tutti ad essere grandi
poeti epici); e in un altro passo: “[...] solo la percezione grossolana
ed erronea pone tutto nell’oggetto, quando invece tutto è nella mente”; ed anche la cosiddetta ‘testimonianza dei sensi’, ribadisce in un
altro ancora, è in realtà una operazione interiore, in cui spesso la
convinzione crea l’evidenza. Con le altre punte della letteratura europea – si pensi solo a Svevo e a Pirandello – ma più lucidamente,
Proust è protagonista di una specie di ‘rivoluzione copernicana’ a
rovescio che lo porta al superamento del realismo oggettivistico
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GIUSEPPE BERNARDELLI
dell’Ottocento (ed in particolare di quello deterministico e biologico
di Zola ed epigoni) per una specie di nuovo ‘realismo interiore’ o
realismo della coscienza che è il proprio della Recherche: la realtà è
per lui entità opaca, complessa, sfuggente, difficilmente riconducibile a determinazioni univoche; paradossalmente, ciò che possiamo
davvero tentare di indagare e dominare sono le ‘immagini’ che ce ne
facciamo e che gli altri se ne fanno, le quali diventano così la vera
realtà e il vero oggetto della rappresentazione. Insomma, se complessivamente si può dire che la cultura di fine Ottocento e di primo
Novecento sposta l’accento dalla considerazione quasi feticistica del
‘fatto’, prevalente in ambito positivista, al problema della ‘visione’ o
della sua rappresentazione, lo stesso avviene in Proust: dal ‘romanzo
dei fatti’, magari deterministicamente individuati (non sarà inopportuno ricordare che ‘romanzo naturalista’ significa, ottocentescamente, ‘romanzo biologico’) al ‘romanzo della coscienza dei fatti’. Da
questo mutamento di prospettiva (dall’esterno – che non è altro che
l’immagine vulgata e corrente della realtà – all’interno, ossia ai processi di formazione e di modificazione dell’immagine stessa) discendono anche le novità tecniche e strutturali della Recherche: abbiamo
già ricordato la tendenza a rinunciare al criterio della sequenza cronologica, o dell’ordinamento dei fatti secondo il principio della successione nel tempo (i ritmi del tempo della coscienza, interiore ed
organico, non sono evidentemente quelli del tempo fisico, ed il criterio di associazione sarà piuttosto di tipo tematico); si può ricordare egualmente l’enorme rallentamento del tempo narrativo (ciò che
nell’ordine della realtà ha carattere quasi istantaneo – ad esempio
un bacio – nell’ordine della narrazione può occupare diverse pagine:
si tratta infatti non di elencare o di evocare dei fatti, ma di ricostruire la loro elaborazione interiore); si può ricordare infine (ma vi sono
altri tratti) la moltiplicazione delle prospettive e dei punti di vista (la
verità non collocandosi – se in qualche punto si può collocare – che
al termine di un lavoro di paziente collimazione delle molte immagini correnti).
*
A questo punto, e a proposito di quanto si è appena detto, è opportuno fare due precisazioni. La prima, già accennata, è che lo
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PROUST E IL ROMANZO DELLA COSCIENZA
spostamento di prospettiva, dall’esterno all’interno, dagli oggetti e
dagli accadimenti al gioco di specchi delle coscienze è un fatto tipico
della nuova temperie culturale (abbiamo già ricordato Svevo e Pirandello, si può ricordare Joyce, o Musil, ecc.). La seconda, più generale, è che l’interesse per ciò che dopo la sistemazione freudiana
sarà chiamato la ‘psicologia del profondo’ (una psicologia del profondo nel secondo Ottocento per lo più misticamente e miticamente
interpretata) costituisce se non il nucleo centrale, certo uno dei tratti
fondamentali del decadentismo nel suo complesso, specie francese.
Senza insistere su questo argomento, occorrerà ricordare almeno
che nel clima dello psicologismo dilagante (nella lirica, ma non solo)
a fine Ottocento, la narrativa francese aveva già conosciuto dei tentativi di ‘romanzo della coscienza’. Si possono richiamare, a puro
titolo di esempio, i primi testi narrativi di Maurice Barrès o di André Gide (del primo, la cosiddetta ‘trilogia’ del Culte du Moi; del secondo, l’opericciola del Voyage d’Urien: allegorie narrative di stati
mentali abbastanza confuse e di scarso valore), oppure la tecnica del
cosiddetto ‘monologo interiore’ o ‘flusso di coscienza’ che nasce appunto in Francia nell’ultimo scorcio del secolo. Proust si colloca sostanzialmente in questa prospettiva, ma ad un livello incomparabilmente più alto. Le allegorie psicologiche più o meno ermeticamente
impostate di fine secolo diventano con lui vero, grande, organico,
lucidissimo romanzo della coscienza e delle ‘leggi’ che la governano.
ll cambiamento di prospettiva (la vita ‘profonda’ della coscienza
come contenuto della rappresentazione) si accompagna infatti sempre in Proust ad un atteggiamento raziocinante, ad una fortissima
volontà d’ordine e di conoscenza che non si incontra in chi lo precede in questa direzione. Certo, egli è toccato dallo scossone filosofico che segna la sua epoca. Vi sono infatti qua e là nella Recherche
degli accenni di vero e proprio idealismo gnoseologico (i quali si
presentano tuttavia più che altro come un estremo e solo ipotetico
prolungamento del suo esasperato problematicismo: chissà, egli dice
ad esempio costatando come certi sogni si impongano con
l’evidenza che ha la conoscenza da svegli, chissà se la stessa conoscenza non abbia reciprocamente la irrealtà del sogno?); vi è ancora
la affermazione, continuamente ribadita, della opacità e del carattere irriducibilmente soggettivo della visione individuale (vediamo le
cose attraverso un vetro che non è mai del tutto trasparente, egli di21
GIUSEPPE BERNARDELLI
ce, e tanti sono gli occhi e le intelligenze, tanti si possono dire siano
i mondi che si svegliano ogni mattina); vi è poi più in generale, come è stato osservato, una vera e propria ‘critica dell’intelligenza’,
facoltà tutto sommato superficiale, non in grado di rivelarci nessuna
delle verità fondamentali dell’esistenza (beninteso, quelle d’ordine
morale, che pertengono alla sfera dei sentimenti umani, non certo
all’ordine della fisicità o al campo delle cosiddette scienze esatte...).
Tale critica si dichiara fin dai primi abbozzi dell’opera. Uno dei
primi tentativi di stesura (un insieme di frammenti pubblicato attualmente sotto il titolo Contre Sainte-Beuve) si apre su questa dichiarazione: “Ogni giorno sono portato ad attribuire meno importanza all’intelligenza. Ogni giorno mi rendo meglio conto che non è
che al di fuori di essa che lo scrittore può ricuperare qualche cosa
delle nostre impressioni passate, vale a dire ritrovare qualche cosa di
se stesso e sola materia dell’arte”. Ed anche quando l`intelligenza
rivela verità fondamentali, queste restano come in superficie, al
modo di acqua che scorre senza bagnare, e solo lentamente – e non
sempre – penetra negli strati profondi: poiché, come egli dice con
un’altra bella massima che recupera un noto luogo proverbiale,
“lunga è la strada che porta dalla mente al cuore”.
Nondimeno, ricordato ciò, bisogna anche ricordare che questa
proustiana ‘critica della ragion pura’ resta lontanissima dagli sbocchi mistici, intuizionistici o irrazionalistici di tanto decadentismo.
Per Proust, i limiti della intelligenza spetta pur sempre all’intelligenza stabilirli:
[...] se l’intelligenza non è lo strumento più sottile, più potente e più
appropriato per cogliere il vero questa non è che una ragione di più
per cominciare dall’intelligenza e non da un intuizionismo
dell’inconscio o da una fede precostituita nei presentimenti. È la vita
che a poco a poco e caso per caso, ci permette di notare che quel che
è più importante per il nostro cuore o per la nostra mente non ci è
insegnato dal ragionamento ma da facoltà diverse da esso. E allora è
l’intelligenza stessa che, rendendosi conto della loro superiorità, abdica, per ragionamento, davanti ad esse, e accetta di diventare la loro collaboratrice e la loro serva.
E per Proust, in estrema sintesi, l’arte è appunto questo: uno
scendere in profondità (le profondità dell’io) per vie (si chiamino
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PROUST E IL ROMANZO DELLA COSCIENZA
istinto, intuizione, esperienza, sofferenza, memoria, ecc.) che non
sono quelle del ragionamento e della pura intelligenza, per poi,
grazie all’intelligenza, risalire e portare le verità scoperte alla luce e
all’ordine della ragione. Il poeta traversi pure la notte, affermava
già in un articolo giovanile in cui reagiva contro la pratica
dell’ermetismo (Contre l’obscurité, 1896), ma a condizione che come l’Angelo delle tenebre vi porti la luce. Questa volontà di chiarezza, d’ordine, di organica e lucida conoscenza (pur nell’ambito di
una iperbolica e quasi maniacale problematicità: si vedano i mille
‘se’ e i mille ‘forse’, le catene continue di ipotesi parallele per spiegare lo stesso fenomeno) caratterizza costantemente la Recherche, la
quale non ha nulla di quel fenomenologismo frantumato, fatto di
pura trascrizione di dati o di emergenze psichiche staccate che caratterizzerà poi tanta parte del romanzo novecentesco: continuamente
la narrazione o la rappresentazione proustiana si interrompe e trapassa nel saggio, continuamente la prima persona della rievocazione
autobiografica (o pseudo-autobiografica) è abbandonata per il ‘si’
impersonale del trattato e del discorso generale. Proust fu del resto
per qualche tempo incerto, come è noto, se dare alla sua opera forma saggistica o narrativa. L’arte è sì per lui scavo interiore, viaggio
nelle profondità (o nel tempo) dell’io, ma per capire, sottoporre al
vaglio dell’intelligenza e ribaltare la verità particolare o personale
nel generale. Tanto che, nella sezione conclusiva della Recherche
(Le Temps retrouvé, grande riflessione sistematica sull’arte), il
grandissimo creatore di personaggi ed acutissimo (anche in prospettiva esterna, mimetica) osservatore dei costumi del tempo arriverà a
dire che, in realtà, “non è agli esseri che noi dobbiamo fermare la
nostra attenzione, non sono gli esseri che esistono realmente e sono,
di conseguenza, suscettibili di espressione, ma le idee”. E la Recherche sarà, certo, secondo i modi della finzione narrativa, un tentativo
(sono espressioni di Proust) di ‘dimostrazione’ di quelle che sono le
‘leggi della vita’ (intendi: morale e sociale): detto altrimenti, e questa volta citiamo, “un tentativo di rendere chiare, di portare al livello dell’intelletto in una costruzione artistica delle verità extratemporali”.
In definitiva, e riassumendo: nonostante sia intriso di succhi e
fermenti decadentistici (egli è certo uno dei grandi esponenti del decadentismo europeo), Proust resta fortissimamente ancorato alla
23
GIUSEPPE BERNARDELLI
grande tradizione del razionalismo francese, e ciò grazie a due tramiti storici che ci limitiamo qui per ragioni di spazio a segnalare: il
primo, dissimulato ma sempre riconoscibile, è quello del positivismo
stesso, che resta pur sempre la forma mentis dominante nelle istituzioni in cui si era formato e dominante almeno in parte della famiglia (dire che il padre è negli ultimi trent’anni circa del secolo medico, professore universitario e grande funzionario dello Stato è dir
tutto); il secondo tramite – che è la vera radice della mentalità universalizzante ed essenzializzante di Proust (ci scusiamo delle brutte
parole ma non sappiamo dir meglio) – è la letteratura di indagine
psicologica e morale del Seicento francese (i cosiddetti ‘moralisti
classici’) cui sono da aggiungere i grandi drammaturghi del tempo
(in particolare Racine): autori su cui il giovane Proust anche per ragioni scolastiche si è formato, che restano costante tavola di riferimento e che lasciano tracce abbondanti dentro l’opera (basterebbe
pensare alle numerosissime allusioni o citazioni – soprattutto da
Racine, Saint-Simon, Mme de Sévigné, Molière – oppure al gusto
per le massime e gli aforismi – sono moltissimi e spesso bellissimi –
continuamente chiamati a suggellare i ragionamenti della sua pagina).
*
La preminenza del motivo della coscienza (o della visione rispetto agli oggetti che essa si dà: “un osservatore che vede le cose dal di
fuori non vede in realtà niente”, ricorda Proust nelle pagine conclusive di Du côté de chez Swann); tale preminenza, dicevamo, non è
priva di conseguenze anche sull’organizzazione spaziale del grande
complesso della Recherche. A differenza di altri tipi di discorso – ad
esempio quello puramente ideologico o filosofico, che ne può fare
totale astrazione – la narrazione deve di necessità confrontarsi con
la dimensione dello spazio, come, a maggior ragione, con quella del
tempo. Poiché è evocazione di accadimenti, questi sono di necessità
collocati in un tempo ed in un luogo più o meno precisi e circoscritti. C’è il romanzo in una stanza, in cui quello che succede viene
contenuto in uno spazio ristrettissimo (così La metamorfosi di Kafka) e quello che ha per scena interi continenti (così la grottesca e
frenetica corsa attraverso il vecchio e il nuovo mondo del Candide
24
PROUST E IL ROMANZO DELLA COSCIENZA
voltairiano, o la nichilistica avventura del protagonista del Voyage
au bout de la nuit di Céline). Tale spazio può avere carattere mitico,
o fantastico-mitico (un puro luogo dell’immaginazione, si pensi ad
Alice nel paese delle meraviglie), oppure esso può assumere carattere storico, o para-storico, e riferirsi alla geografia del mondo reale,
spesso evocata con precisione e dovizia di dati analitici: in
quest’ultimo caso, comunque, quasi sempre riservando alla narrazione un margine più o meno ampio di libertà finzionale. Di solito,
è la macro-struttura spaziale ad avere carattere storico, mentre
quella più minuta è lasciata all’invenzione del narratore, nel rispetto
degli stessi criteri mimetici e ‘veristici’ che governano l’evocazione
della prima. Così, la campagna normanna dell’epoca di LuigiFilippo è il quadro realistico e storicamente determinato di
quell’affresco di vita di provincia (“mœurs de province” recita il
sottotitolo) che è Madame Bovary, ma Tostes e Yonville – i luoghi
in cui si consuma per l’essenziale la vicenda della protagonista – non
hanno mai fatto parte della geografia reale della regione. Di
quest’ultimo tipo è anche la geografia della Recherche, che fa spazio
a luoghi d’invenzione, per quanto costruiti a partire da modelli precisi e facilmente identificabili (così ad esempio Combray, il borgo
d’origine della famiglia del protagonista-narratore), ma per
l’essenziale essa è data dalla ricostruzione analitica e veristica di alcuni luoghi reali della Francia di fine Ottocento e primo Novecento
(Parigi fondamentalmente, la Parigi dell’aristocrazia, delle élites
mondano-intellettuali e della nuova borghesia – faubourg SaintGermain, Champs Elysées, quartiere dell’Étoile, Bois de Boulogne,
ecc.), poi le spiagge della Normandia, i luoghi d’arte della corona
parigina, Venezia, ecc. Certe parti della Recherche si possono utilizzare come una specie di guida storica delle Francia a cavallo tra Otto e Novecento, ed è su queste basi, del resto, che si sviluppa
l’industria del turismo letterario. Proustianamente continuiamo ad
illuderci di ritrovare oggi nella realtà i luoghi creati o trasformati
ieri in un libro dalla fantasia di un artista. Questo impianto spaziale
para-storico, che accomuna la Recherche a tante altre narrazioni,
coeve e non, è dovuto naturalmente alla natura (liberamente) autobiografica e memorialistica dell’opera: storia di una vita e insieme,
anche se secondo modi singolari, di un’intera epoca, la Recherche
25
GIUSEPPE BERNARDELLI
non poteva non essere anche storia dei luoghi che quella vita e
quell’epoca avevano segnato.
Ma i luoghi cui fa riferimento una narrazione non sono solo una
pura sequenza – più o meno varia, dettagliata e credibile – di quadri
o cornici entro cui collocare di necessità gli eventi ed il tempo della
narrazione a mano a mano vengono evocati. Essi sono anche, e fondamentalmente, una delle strutture del senso globale della narrazione stessa, con le quali interagiscono e dalle quali insieme dipendono,
intersecandovisi e diventandone l’emblema.
Questo si verifica anzitutto attraverso le valenze simboliche più o
meno scoperte dei luoghi evocati (in particolare nelle narrazioni
d’impianto mitico-fantastico: si pensi alla fortezza del Deserto dei
Tartari, emblema dell’esistenza e della finitezza insieme minacciate
ed affascinate da un altrove – il deserto della trascendenza – che pare disperatamente vuoto), e poi, più sottilmente, grazie a quelli che
chiameremmo gli ‘schemi dinamici’ disegnati dal narratore a mano
a mano fa succedere gli spazi evocati nel corso della narrazione.
Così, ad esempio, lo schema dinamico a cui si può ricondurre il
Candide voltairiano è quello della progressione senza meta, o della
dispersione governata dal caso, analogo e riprova spaziale della irrazionalità della storia; quello di Madame Bovary, il ritorno forzato
al punto di partenza, analogo e figura del grande motivo della fuga
impossibile: gli adulteri della protagonista sono sempre consumati
fuori o lontano dalla località di dimora, ma il suicidio, presa d’atto
di una impossibilità assoluta e definitiva di evasione, avviene entro
le pareti domestiche e nel paese – ossia all’interno della realtà sociale – di cui è prigioniera.
Ora, qualcosa di simile, ma in modo più evidente e marcato, avviene nel caso della Recherche in relazione, crediamo, al grande
motivo della vita della coscienza. La geografia del romanzo risponde a determinazioni di natura pseudo-biografica e para-memoriale e
dovrebbe dar luogo ad un modello dinamico più o meno lineare caratterizzato dall’inevitabile, relativo disordine della biograficità
(così avviene normalmente in un qualsiasi libro di memorie, che tematizza, semplicemente, i tempi e i luoghi successivi di una storia,
sia pur spirituale). Nella Recherche invece, fin dalle prime pagine,
tutto si organizza secondo disegni e schemi di circolarità: i luoghi, i
gruppi sociali, la struttura tematica stessa del libro, tutto risponde a
26
PROUST E IL ROMANZO DELLA COSCIENZA
quel modello. Il lettore non faticherà a verificare questo carattere
della costruzione proustiana, che parrebbe esemplata in modo quasi
ossessivo sulla figura della spirale. Ogni cosa ed ogni luogo si ritrova, tutto si ripete e tutto si conchiude. Il ritorno finale al punto di
partenza, per cui la conclusione riprende l’inizio, non è che la spia e
l’emergenza più evidente di questa ‘logica’ circolare che governa tutta la Recherche.
Questa caratteristica formale, naturalmente, si può mettere in
relazione con gli orientamenti estetici di Proust, che mirava – classicamente e un po’ maniacalmente – a qualcosa di finito, di organico,
di perfettamente strutturato e chiuso: una costruzione ‘musicale’,
come amava dire. Ma si può anche legittimamente mettere in relazione con la centralità del tema della vita della coscienza, che è concentrazione e non dispersione, moto interno e non abbandono
all’oggettività esterna, permanenza e non frantumazione nella diversità dell’esperienza. Inevitabilmente, la preminenza data alla visione e ai suoi processi rispetto agli oggetti circostanti finisce
coll’assumere geometrie e figure di circolarità che diventano come
una specie di disegno strutturante, o di filigrana formale costantemente ripresa nell’organizzare lo spazio fisico – e con esso ogni altro
spazio – della grande costruzione narrativa. Pur nella sua estrema e
complessa analiticità veristica, che la rende piena di cose, di personaggi e di luoghi caratterizzati con straordinaria nettezza e precisione, la Recherche è libro di un io che ritorna costantemente dagli oggetti del mondo al suo centro, chiudendosi – e richiudendo idealmente il lettore – nel cerchio della vita dello spirito.
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Nient’altro che una spaziatura della
lettera...
STEFANO AGOSTI
Stefano Agosti
Professore Emerito di Letteratura francese presso
l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è autore di numerosi e celebri volumi di teoria e analisi testuale
sulla poesia e sulla prosa francese e italiana.
Alla connaturata immanenza del tempo nella formazione lineare,
progressiva della frase istituzionale, e in particolare della frase di
lingua francese, subentra, con Proust, e proprio sul piano della
struttura, la dimensione dello spazio, quale si produce attraverso
l’elaborazione della complessa costruzione ipotattica che caratterizza la frase della Recherche: per cui, al grande libro sul Tempo sembra contrapporsi, sul piano formale, un’invenzione, una istanza di
spazio e, più esattamente, di spazialità.
Il modello, decisamente iperbolico, di una elaborazione ipotattica
della struttura della frase è, come è noto, il Coup de dés mallarméano, che appende l’immane arborescenza delle subordinate e delle
incidentali a una proposizione reggente disseminata (segmentata)
nel testo, quantitativamente minima e di natura tautologica: “un
coup de dés jamais n’abolira le hasard”: il che vale, dietro il presupposto etimologico che vi presiede, “un coup de dés jamais n’abolira
un coup de dés”, o, il che è lo stesso, “le hasard jamais n’abolira le
hasard”, se, etimologicamente, “hasard” viene dall’arabo az-zahr, il
“dado”, il “colpo di dadi” (da cui, in Dante, il “gioco della zara”).
L’arborescenza delle subordinate e delle incidentali è dunque retta, nel poema, da una proposizione tautologica che, in quanto tale,
come avverte Wittgenstein, rinvia solo a se stessa, e quindi non sta
in nessuna relazione di rappresentazione con la realtà.
Questa è riservata all’altra dimensione del poema, quella grafica
o visiva (la più clamorosamente recepita dai contemporanei e
dall’immediata posterità), e di cui in una celebre lettera a Gide (del
14 maggio 1897), in occasione della presentazione, o prepubblicazione, del Coup de dés sulla rivista “Cosmopolis”: “La
constellation y affectera, d’après des lois exactes et autant qu’il est
permis à un texte imprimé, fatalement, une allure de constellation.
Le vaisseau y donne de la bande, du haut d’une page au bas de
l’autre, etc.”.
31
STEFANO AGOSTI
Due ordini, o due piani, dunque, di elaborazione della spazialità:
quello strutturale della frase ipotattica, e quello, iconico, della mimesi grafica dell’oggetto (degli oggetti) dell’enunciato: la costellazione, la nave che sbanda ecc. Ordini, o piani, minimizzati nella nota che precede la pubblicazione su “Cosmopolis”, in questo modo:
“Le tout sans nouveauté qu’un espacement dans la lecture”: da cui
il titolo, appena rimanipolato, di questo nostro intervento.
Naturalmente, la spazialità, in Proust, concerne solo l’ordine
strutturale: quello di pertinenza della frase ipotattica, e che si manifesta nella sospensione, nel differimento, nel rinvio dei singoli segmenti proposizionali, sospesi, appunto, alle rispettive proposizioni
reggenti.
Che cosa comporta questa incorporazione di spazio – di spazialità e di distanze – nell’organizzazione della frase e, più precisamente,
nella lettera della scrittura?
Se la lettera della scrittura si effettua di norma, come abbiamo
detto, secondo la linea progressiva, temporale, evidenziata da Saussure, per cui essa sottende il progressivo annullamento delle unità di
significato nel significato globale della sequenza, con la spazialità,
introdotta dalla struttura ipotattica nella lettera del testo, si verifica
il fenomeno della resistenza degli elementi costitutivi della frase al
loro dissolvimento, alla loro neutralizzazione in un significato globale: con la conseguenza di un incremento dei loro valori di senso al
di fuori, al di là della semanticità normativa prevista dalla struttura
del discorso.
Il che è quanto avviene nel testo poetico, ove il sistema di relazioni – foniche, ritmiche, semantiche – che si dirama, spazialmente
appunto, da un luogo all’altro, e da un piano all’altro del testo, è
anch’esso responsabile della resistenza degli elementi al loro annullamento nel significato globale. Con questa differenza rispetto a
Proust. Che l’incremento di senso fuori dai regimi normativi che ne
è la conseguenza, concerne, in poesia, i singoli lessemi, a motivo dei
loro investimenti nelle strutture fonico-ritmiche o delle loro sovradeterminazioni nelle trasposizioni metaforiche; mentre in Proust riguarderà, sostanzialmente, i segmenti delle varie proposizioni incidentali e subordinate, che di fatto permangono in attesa del compimento delle rispettive relazioni di dipendenza sintattica.
32
NIENT’ALTRO CHE UNA SPAZIATURA DELLA LETTERA...
Evidentemente, di siffatta fenomenologia è il Coup de dés mallarméano che offre la rappresentazione più compiuta, e addirittura –
come si è detto – iperbolica, ove la sovradeterminazione semantica
dei singoli segmenti frastici sintatticamente sospesi, rimane, a
tutt’oggi, senza altri esempi in letteratura suscettibili di venirle paragonati.
Ma, ancora con riguardo alla spazialità della lettera, non più però dovuta alla costruzione ipotattica della frase, sarà opportuno ricordare altresì Flaubert, per la sua applicazione a quella che abbiamo definito – in vari lavori su questo autore – scrittura armonica o
volumetrica: ove le procedure di relazione tra determinati punti dei
diversi piani del testo sono suscettibili di produrre gli stessi effetti di
sovradeterminazione qui segnalati, analoghi a quelli che si danno in
poesia e che, per ciò stesso, quanto a Flaubert, avevamo contrassegnato con l’etichetta di “poesia della prosa” (ove è immanente,
all’origine, la medesima matrice di carattere spaziale).
A questo proposito, è istruttivo segnalare l’introduzione, in alcuni testi di Flaubert, della figura strutturale della rapportatio che
caratterizza soprattutto la poesia barocca ed è esemplificabile, al
meglio, in alcuni superbi sonetti di Jodelle e di Sponde: struttura che
opera una drastica neutralizzazione del percorso orizzontale – progressivo e temporale – secondo il quale si svolge normalmente la
scrittura, a profitto di una sua elaborazione ostentatamente verticale
e, per ciò stesso, dell’ordine della spazialità.
Basti un solo esempio, tratto dal grande capitolo di Madame Bovary sui “comices agricoles”, vera e propria “sinfonia” (parola
d’autore) interamente orchestrata sulle relazioni degli elementi a
tutti i livelli del testo. Ecco il brano sulla rapportatio (ternaria), indice per eccellenza (per statuto) di preordinata spazialità (seconda
parte, cap. VIII del romanzo):
et par le beau temps qu’il faisait, les bonnets empesés, les croix d’or
et les fichus de couleurs paraissaient plus blancs que neige, miroitaient au soleil clair, et relevaient de leur bigarrure éparpillée la
sombre monotonie des redingotes et des bougerons bleus.
È evidente che la collocazione innaturale dei singoli segmenti secondo l’asse della verticalità, è all’origine della loro parziale autonomia con conseguente sovradeterminazione semantica.
33
STEFANO AGOSTI
E non sarà un caso se, nell’ambito del comune seppur diverso
perseguimento d’una spazialità nella lettera del discorso, anche
Proust si imbatterà nella figura strutturale qui notificata e descritta.
Ho sottomano un esempio minimo ma quanto significativo, anche perché la figura della rapportatio, in questo caso binaria, è stata
distrutta dagli editori dell’ultima edizione in quattro volumi della
Recherche nella collana della Pléiade.
È nel brano su Tansonville che apre il Temps retrouvé, ove il
Narratore, dopo aver parlato della degradazione di Saint-Loup
nell’omosessualità, ne presenta anche una serie mirabile di metamorfosi: dapprima in quella del colore tipico dei Guermantes che
però in Saint-Loup si configura come “l’ensoleillement d’une journée d’or devenu solide”; e successivamente in quella d’un uccello di
specie rara, per cui, quando
cette lumière changée en oiseau se mettait en mouvement, en action,
quand par exemple je voyais Robert de Saint-Loup entrer dans une
soirée où j’étais, il avait des redressements de sa tête si soyeusement
et fièrement huppée sous l’aigrette d’or de ses cheveux un peu déplumés, des mouvements de cou tellement plus souples, plus fiers et
plus coquets que n’en ont les humains, que devant la curiosité et
l’admiration moitié mondaine, moitié zoologique qu’il vous inspirait, on se demandait [qui comincia la rapportatio bimembre] si
c’était dans le faubourg Saint-Germain qu’on se trouvait ou au Jardin des Plantes, et si on regardait traverser un salon ou se promener
dans sa cage un grand seigneur ou un oiseau.
Ed ecco come la raffinata strutturazione verticale della rapportatio viene annullata, nella nuova edizione della Pléiade, attraverso la
riduzione della frase alla linearità orizzontale canonica: “on se demandait si c’était dans le faubourg Saint-Germain qu’on se trouvait
ou au Jardin des Plantes et si on regardait un grand seigneur traverser un salon ou se promener dans sa cage un oiseau”.
Per precisare ulteriormente quanto abbiamo sin qui avanzato circa la spazialità della lettera nell’ambito della grande frase ipotattica
della Recherche, diremo che questa si configura, di fatto, come un
insieme di frammenti che, al pari dei tasselli di un puzzle, attendono
il loro completamento ma che, intanto, deferiscono al lettore tutta
la carica della loro semanticità momentaneamente irrelata (è la forza dal particolare insita nel tassello del puzzle).
34
NIENT’ALTRO CHE UNA SPAZIATURA DELLA LETTERA...
A questa fenomenologia della frase proustiana, si potrebbe adattare un’immagine che l’interessato dedica alla musica di Vinteuil, il
compositore che, per il Narratore e protagonista della Recherche,
rappresenta il modello più compiuto dell’arte, successivo a quello,
insufficiente, di Bergotte (per l’arte della parola), e a quello, parziale, di Elstir (per l’arte visiva). Ebbene, di quella “festa sconosciuta e
variegata” (“la fête inconnue et colorée”) che è la musica di Vinteuil, le singole realizzazioni costituirebbero “i frammenti disgiunti,
le schegge dai contorni scarlatti” (“les fragments disjoints, les éclats
aux cassures écarlates”): altrettanti tasselli splendenti di autonomia,
e tuttavia vocati a comporre l’unità della “festa sconosciuta e variegata” dell’opera stessa.
In un’intervista apparsa nel 1978 su un periodico giapponese, intitolata La scène de la philosophie, ora pubblicata nel II volume di
Dits et écrits, Michel Foucault elabora, in termini di grande suggestione intellettuale ed emotiva, l’opposizione classica spazio vs tempo: collegando la nozione di tempo alla metafisica e all’ideologia e,
in definitiva, al concetto di “storia”, mentre introduce nella nozione
di spazio l’insieme delle pratiche concernenti il sapere della modernità: dall’epistemologia alle varie scienze e discipline sperimentali,
ecc.
Diremo allora che la modernità, a tutt’oggi inconcussa, della Recherche sta nell’aver sottomesso l’esperienza mentale e fisica del
tempo che costituisce il motivo centrale e irradiante del libro, a una
pratica, tutta sperimentale, dello spazio (della spazialità) sul piano
della scrittura, attraverso l’elaborazione inintermessa di una frase
ipotattica senza esempi nella storia della prosa francese.
Di questa sottomissione – per continuare ancora con Foucault –
dell’ideologia e della metafisica del tempo all’epistemologia, squisitamente moderna, dello spazio, si ha la stupefacente dimostrazione
nel finale del grande libro: ove la parola centrale, la parola fatale,
così perentoriamente enunciata all’incipit dell’opera, la parola
“tempo” (“Longtemps – je me suis couché de bonne heure”), nella
sua ripresa simmetrica alla fine, risulta sottoposta, prima di venir
proferita, agli insistiti differimenti di una spaziatura sintattica complessa, e quasi intralciata nelle strutture dei propri rinvii:
35
STEFANO AGOSTI
[...] il ne me semblait pas que j’aurais encore la force de maintenir
longtemps attaché à moi ce passé qui descendait déjà si loin. Du
moins, si elle m’était laissée assez longtemps pour accomplir mon
œuvre, ne manquerais-je pas d’abord d’y décrire les hommes (cela
dût-il les faire ressembler à des êtres monstrueux) comme occupant
une place si considérable, à côté de celle si restreinte qui leur est
réservée dans l’espace, une place au contraire prolongée sans mesure
– puisqu’ils touchent simultanément, comme des géants plongés
dans les années, à des époques si distantes, entre lesquelles tant de
jours sont venus se placer – dans le Temps.
Così, la frase, l’ultima frase della Recherche, col suo ostinato,
anche faticoso, intreccio di subordinate e di incidentali, prima di
arrivare ancora alla parola “tempo”, e dopo aver ripreso per due
volte, per prepararne l’avvento, l’avverbio dell’incipit che lo contiene, finirà per predisporne l’occorrimento, emblematico e conclusivo,
come letteralmente incorporato nella spaziatura della sintassi di subordinazione e del rinvio: quella stessa che ne ha imbrigliato tutto il
percorso tra l’uno e l’altro dei due ‘pilastri terminali’.
36
Finestre, serre, telescopi, acquari:
lo sguardo dall’esterno nella
descrizione proustiana
MARISA VERNA
Marisa Verna
Professore Ordinario di Letteratura francese presso
l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si
è occupata di teatro simbolista francese e di Marcel
Proust.
1. Lo spazio della “Recherche”
Anche se pochi lo hanno letto per intero, il romanzo di Proust è
certamente celebre: ad oggi in Francia si contano ogni anno più
pubblicazioni su Proust che su Napoleone o De Gaulle, e la Recherche è stata classificata – non a caso – un “lieu de mémoire”, ‘luogo
della memoria’, nella gigantesca opera di Pierre Nora che raccoglie
tutti quei ‘monumenti’, siano essi architettonici o solo culturali, che
vanno a costituire la memoria – e l’identità – della nazione francese1. Altrettanto nota è l’importanza della struttura temporale
nell’opera proustiana: qualunque antologia scolastica di buon livello
riporta infatti il brano “della madeleine”, che illustra il meccanismo
della memoria involontaria, cui spesso viene ridotto, con una sineddoche – quanto mai particolarizzante – tutto il significato di
un’opera immensa. Non tenteremo certo qui di riparare ai torti che
la mitizzazione ha arrecato al capolavoro proustiano2. Ci limiteremo
a illustrare un angolo di quell’universo, che crediamo significativo e
degno si essere studiato: ci concentreremo su un particolare tipo di
sguardo, inaugurato nella letteratura francese da Baudelaire, e assunto da Proust nella propria estetica con modalità proprie ma con
1
Les lieux de mémoire, P. Nora ed., voll. I-III, Gallimard, Paris 1984. Il testo
relativo a Proust si trova nel volume III, t. 2, Les France, sezione “Traditions”, a
firma di Antoine Compagnon (pp. 927-967). Ricordiamo peraltro che la parola
‘monument’ in francese assume anche il significato di ‘testimonianza’: “oggetto che
attesta l’esistenza, la realtà di qualcosa, e che può servire da testimonianza”. (TLF,
ad vocem). L’esempio scelto dal Trésor de la langue française, tratto da Michelet,
si riferisce appunto alla lingua francese, considerata il principale monumento della
nazione.
2
Rimandiamo per questo al testo sopraccitato di Antoine Compagnon, che
tratta ampiamente il problema della mitizzazione e commercializzazione dell’opera
proustiana.
39
MARISA VERNA
finalità non troppo lontane da quelle dell’illustre predecessore, che
Proust definiva “vera figura di Michelangelo del nostro secolo”3.
2. Lo spazio nella “Recherche”: ottica e stile
Prima di entrare nel merito del problema sono però necessarie alcune premesse. Non si può infatti negare che la struttura del tempo
sia centrale nel progetto narrativo proustiano; tuttavia essa può dispiegarsi solo grazie alla dimensione dello spazio: ovvero entro i
confini di un mondo reale che il tempo psichico dilata e trasforma,
in una geografia della coscienza di cui la scrittura si fa ‘traduzione’.
L’universo della Recherche si dispiega infatti in un accumulo quasi
fantasmagorico di posti, città, paesaggi, camere, strade, scorci e vedute, descrizioni spesso riproposte in più luoghi del romanzo, da
angolazioni diverse e in situazioni narrative nuove, che mostrano
quanto poco ci sia dato di comprendere del mondo che ci circonda,
il quale pare vorticare in un succedersi incessante di cambiamenti e
perdite di significato.
Nell’unica monografia critica dedicata specificamente allo spazio
nella Recherche, Georges Poulet afferma infatti che “à côté du
temps retrouvé, il y a l’espace retrouvé. Ou pour parler plus précisément, il y a un espace enfin retrouvé, un espace qui se trouve et
se découvre, en raison du mouvement déclenché par le souvenir”4.
Come ricorda ancora Poulet, quel che esce dalla tazza di tè in cui è
stata inzuppata la madeleine non è soltanto l’infanzia ritrovata
dell’eroe, ma tutto il villaggio di Combray: chiesa, case e giardini,
ricollocati nella geografia della coscienza ma ancorati infine a un
3
Lettera a Charles Du Bos del 23 luglio 1921, in Correspondance, Ph. Kolb
ed., Plon, Paris 1993, t. XXI. La traduzione è nostra. D’ora in poi le citazioni dalla
corrispondenza faranno riferimento a questa edizione e saranno indicate con
l’abbreviazione Corr., seguita dal numero romano del volume corrispondente.
4
L’espace proustien, Gallimard, Paris 1982 [1963], p. 76; [tr. it. G. Posani, Lo
spazio di Proust, Guida, Napoli 1972]. Traduciamo il testo citato: “Accanto al
tempo ritrovato, c’è lo spazio ritrovato. O per parlare più precisamente, c’è uno
spazio infine ritrovato, che si trova e si scopre grazie al movimento innescato dal
ricordo”.
40
FINESTRE, SERRE, TELESCOPI, ACQUARI: LO SGUARDO DALL’ESTERNO
“ensemble topographique solide, qui n’erre plus”5. Del resto lo stesso Proust usò quasi esclusivamente metafore spaziali per definire il
tempo nella scrittura, e nel descrivere la propria estetica si servì più
volte della metafora ottica del telescopio; in una lettera a André
Lang dell’ottobre 1921 egli commentava così la propria opera:
L’expression roman d’analyse ne me plaît pas beaucoup. Elle a pris
le sens d’étude au microscope, mot qui lui-même est faussé dans la
langue commune, les infiniment petits n’étant pas du tout – la
médecine le montre – dénués d’importance. Pour ma part mon instrument préféré de travail est plutôt le télescope que le microscope6.
Nel volume conclusivo della Recherche viene ripresa la medesima
immagine, in termini quasi identici, cui però si aggiunge una precisazione: se i lettori, anche i meglio intenzionati, credevano di individuare un’analisi al microscopio nelle sue pagine, è perché gli
‘oggetti’ che egli aveva descritto erano molto grandi, ma così lontani da parere piccolissimi. Egli aveva voluto disegnare dei
“mondi”:
je m’étais, au contraire, servi d’un télescope pour apercevoir des
choses, très petites, en effet, mais parce qu’elles étaient situées à une
grande distance, et qui étaient chacune un monde. Là où je cherchais
les grandes lois, on m’appelait fouilleur de détails7.
Ancora, nel 1913, in prossimità della prima pubblicazione del
primo tomo del romanzo, Proust aveva definito la propria conce5
Ibid., pp. 26-27.
Lettera a André Lang, seconda metà di ottobre 1921, Corr, XX, pp. 496-497.
Pubblicato poi in “Les Annales Politiques et Littéraires”, 78, 26 février 1922, p.
236. Questo passo ricorda evidentemente il celebre pensiero di Pascal sui due universi. Proust era un lettore di Pascal, e l’accostamento è possibile, anche se il riferimento non è esplicito.
7
Il Tempo Ritrovato, in Alla Ricerca del Tempo Perduto, IV, tr. di G. Raboni,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2006, “I Meridiani”, p. 752: “era invece di
un telescopio che mi ero servito per scoprire cose piccolissime, è vero, ma per il
fatto di essere situate a grande distanza, e ciascuna delle quale era un mondo. Mi si
chiamava collezionista di particolari, mentre erano le grandi leggi che cercavo”.
D’ora in poi, salvo diversa indicazione, questa è l’edizione italiana di riferimento.
L’edizione francese è invece A la Recherche du Temps Perdu, Gallimard, Paris
1987-1989, voll. I-IV, J.-Y. Tadié ed., “Pléiade”. I diversi tomi saranno indicati
con il titolo specifico e il numero del volume.
6
41
MARISA VERNA
zione del tempo narrativo con la metafora spaziale di “geometria
nello spazio”8. In ultimo, per definire lo stile, concetto nel quale per
Proust si concentrano tutti i significati dell’arte, egli parla sempre ed
esclusivamente di visione. La sua celebre definizione dello stile suona infatti così:
Le style pour l’écrivain aussi bien que la couleur pour le peintre est
une question non de technique mais de vision. Il est la révélation,
qui serait impossible par des moyens directs et conscients, de la différence qualitative qu’il y a dans la façon dont nous apparaît le
monde, différence qui, s’il n’y avait pas l’art, resterait le secret éternel de chacun9.
In una lettera all’amico La Rochefoucault del 1904, infine,
Proust paragonava l’artista a Nabuchodonosor, che è il solo a ricevere da Dio una visione mentre gli altri non vedono che il nudo muro10. Per creare bisogna dunque innanzitutto saper vedere.
3. Finestre, serre e acquari
Posta così, quasi sbrigativamente, la rilevanza del problema dello
spazio nella Recherche, veniamo a quel particolare tipo di sguardo
8
Swann expliqué par Proust, intervista firmata Elie-Joseph Bois e pubblicata
nel quotidiano “Le Temps” del 12 novembre 1913, due giorni prima della pubblicazione del romanzo. Le risposte attribuite a Proust corrispondono ad un articolo
da lui stesso redatto a questo fine prima dell’intervista. Oggi in Essais et articles, in
Contre Sainte-Beuve, précédé de Pastiches et Mélanges et suivi de Essais et
Articles, P. Clarac et Y. Sandre ed., Gallimard, Paris 1971, “Pléiade”, pp.557-559
(cit. p. 557).
9
Le Temps retrouvé, IV, 474. Traduzione italiana in Il Tempo Ritrovato, IV,
578: “Lo stile per lo scrittore, come il colore per il pittore, non è una questione di
tecnica, ma di visione. È la rivelazione, che sarebbe impossibile attraverso mezzi
diretti e coscienti, della differenza qualitativa esistente nel modo in cui il mondo ci
appare, differenza che, se non ci fosse l’arte, resterebbe il segreto eterno di ciascuno”.
10
“L’artiste est souvent comme Nabuchodonosor à qui le mur présentait une
vision qu’il était seul à voir. Les autres ne voyaient que le mur nu” (Corr., IV, pp.
332-335, cit. p. 333). [“L’artista è sovente come Nabuchodonosor cui il il muro
presentava una visione ch’egli era solo a vedere. Gli altri non vedevano che il nudo
muro”. La traduzione è nostra. I riferimenti biblici sono i seguenti: Libro di Daniele, 1-7; Ezechiele, XXVII, 10 et 12].
42
FINESTRE, SERRE, TELESCOPI, ACQUARI: LO SGUARDO DALL’ESTERNO
cui intendiamo dedicarci: le tecniche di variazione dei punti di vista
in Proust sono infatti molteplici e molto sapienti, e sono state ormai
più volte studiate dalla critica narratologica11. Non ci risulta però
che uno studio sistematico sia mai stato dedicato allo sguardo
dall’esterno: osservando finestre chiuse, vetrate, mondi celati e spesso immaginati, il lettore è infatti spesso risucchiato fino ad un misterioso ‘occhio del ciclone’, in cui spazio e tempo finiscono per
coincidere. I passaggi relativi a questo approccio al testo proustiano
sono numerosi, e offrirebbero materia per uno studio molto vasto.
Noi menzioneremo quelli che ci sono parsi più significativi, ma la
via ci pare aperta verso indagini probabilmente feconde12.
Come abbiamo accennato all’inizio di questa comunicazione, è
Baudelaire a scegliere per primo di porsi dall’altro lato della finestra, e di osservare da quel punto di vista inedito un mondo solo
apparentemente banale. Nel poemetto in prosa Le finestre egli afferma con decisione la superiorità di questo punto di vista rispetto a
quello tradizionale:
Colui che guarda dal di fuori attraverso una finestra aperta, non vede mai tante cose come chi che guarda una finestra chiusa. Non v’è
oggetto più profondo, più misterioso, più fecondo, più tenebroso e
più abbagliante di una finestra illuminata da una candela. Quel che
si può vedere al sole è sempre meno interessante di ciò che sfila dietro un vetro. In quel buco nero o luminoso vive la vita, e sogna, e
soffre. Di là dei marosi dei tetti, intravedo una donna matura, rugosa già, povera, sempre piegata su qualcosa, e che non esce mai. Col
11
Riportare una bibliografia in questo senso sarebbe impossibile, vista
l’ampiezza della materia. Rimandiamo alla summa degli studi narratologici, ovvero
a G. Genette, Figures III, Seuil, Paris 1972. IL volume di Genette applica come noto la teoria narratologica espressamente a Proust.
12
Esistono invece numerosi studi sul tema del voyeurismo in Proust, che solo in
parte concerne il nostro oggetto di studio: nei casi di voyeurismo infatti, ciò che
viene osservato è una ‘scena’, segreta e altrimenti non rivelabile da parte del Narratore, che deve essere necessariamente osservata dall’eroe da un punto di vista invisibile. Su questo tema rimandiamo a M. Lavagetto, Chambre 43. Un lapsus de
Proust (1991), trad. fr., Belin, 1996. Rimandiamo inoltre a A. Compagnon, Le
Narrateur en procès, in Marcel Proust 2. Nouvelles directions de la recherche
proustienne, Rencontres de Cerisy-la-Salle, 2-9 juillet 1997, B. Brun ed., Lettres
Modernes Minard, Paris-Caen 2000, pp. 309-334.
43
MARISA VERNA
suo viso, i suoi vestiti, i suoi movimenti, con quasi niente, ho rifatto
la storia di questa donna, o piuttosto la sua leggenda, e a volte me la
racconto singhiozzando. Fosse stato un uomo vecchio, povero,
l’avrei ricostruita con la stessa facilità. E mi corico fiero di aver vissuto e dolorato in altri che me. Forse voi mi direte: “Sei sicuro che
questa leggenda sia la verità?” Che mi importa quale può essere la
realtà che esiste fuori di me, se la mia mi ha aiutato a vivere, a sentire che esisto, e che cosa sono?13
Se la finestra aperta disvela banalmente il reale, e rischia di diventare un ‘quadro di genere’, senza spessore e senza mistero, la
stessa finestra vista dall’esterno, chiusa e illuminata da una candela,
apre al poeta l’universo misterioso ed infinito del cuore umano.
Anzi, essa gli apre il suo stesso cuore, di cui può infine avere coscienza14. Come vedremo, Proust raccoglie l’invito di Baudelaire, facendolo proprio e assimilandolo alla propria estetica: alle visioni
dall’esterno sarà infatti attribuito un ruolo di ‘indice dello stile’, segnale esplicito di artisticità cui incessantemente rimanda il flusso
della scrittura nella Recherche, ma che solo alcune strutture testuali
possono rappresentare15. Vediamo dapprima un passo del Côté de
Guermantes, in cui l’allusione al poemetto baudelairiano pare quasi
esplicita; l’eroe attende la carrozza dei duchi di Guermantes, e decide di spiare il loro arrivo da una stanzetta che gli sembra un buon
punto di osservazione. La posizione in realtà non è ben scelta per
scorgere la carrozza dei duchi: è pertanto ‘inutile’ in un senso stret13
Traduzione italiana di Giovanni Raboni: Ch. Baudelaire, Opere, Mondadori,
Milano 1996, “I Meridiani”, p. 449; testo francese: Les fenêtres, in Petits Poëmes
en prose, in Œuvres Complètes, Laffont, Paris 1980, “Bouquins”, p. 198.
14
Su Baudelaire e la sua poetica, si veda S. Cigada, Cultura simbolista e cultura
naturalista, in Simbolismo e Naturalismo: un confronto, Atti del Convegno, Università Cattolica Sacro Cuore, Milano, 8-11 marzo 2000, Vita e Pensiero, Milano
2006, pp. 23-120.
15
Sulle strutture testuali nella Recherche e sulla loro organizzazione si veda S.
Agosti, Realtà e Metafora, Indagini sulla “Recherche”, Feltrinelli, Milano 1997. Si
veda inoltre l’articolo di E. Sparvoli, Un ‘Rembrandt’ di Proust. Analisi di un passo del “Côté de Guermantes”, “L’Analisi Linguistica e Letteraria”, 1-2, 2002, pp.
461-480. L’autrice analizza una delle pagine su cui noi passeremo solo superficialmente, e utilizza il termine di senhal per quei passaggi in cui Proust nomina direttamente un artista, in questo caso Rembrandt, per dare al lettore il ‘segnale’ di
un brano di “stile in azione”. Non tutti i brani che ci interessano sono caratterizzati dal senhal, ma tutti costituiscono secondo noi indici di artisticità.
44
FINESTRE, SERRE, TELESCOPI, ACQUARI: LO SGUARDO DALL’ESTERNO
tamente narrativo, e permette l’ingresso nella gratuità dello stile.
Dalla stanzetta in cui si trova egli osserva infatti i tetti delle case che
circondano il palazzo, i camini che paiono tulipani in un giardino di
Delft, e soprattutto le finestre che si fronteggiano, tanto sono vicine:
D’altra parte, l’estrema vicinanza delle case fa di ognuna delle loro
finestre che si fronteggiano su uno stesso cortile, la cornice di un
quadro: qui una cuoca guarda in basso immersa in fantasticherie: un
po’ più in là, una fanciulla si fa pettinare da una vecchia il cui volto,
appena affiorante dall’ombra, sembra quello di una strega; e così
ogni cortile offre al vicino della casa accanto, sopprimendo qualsiasi
rumore con la distanza, esibendo i gesti silenziosi in un rettangolo
messo sotto vetro dalle finestre chiuse, una mostra di cento quadri
olandesi giustapposti16.
Lo sguardo si organizza qui secondo una prospettiva triangolare:
l’eroe osserva dall’interno di una finestra altre finestre chiuse –
“rettangoli messi sotto vetro” –, le quali costituiscono a loro volta
punti di osservazione per altre finestre, altri “quadri”, dentro i quali
scene di vita quotidiana si trasformano in opere d’arte: “una mostra
di centro quadri olandesi”, allusione diretta ad uno specifico stile
artistico, un senhal secondo Eleonora Sparvoli. Anche in quel passo,
del resto, Marcel osservava dalle “finestre illuminate di qualche caseggiato […] scene veridiche e misteriose di esistenze per [lui] impenetrabili”17.
Veniamo ora al brano cui dedicheremo una maggior attenzione.
Esso si colloca sul finire di quello che potremmo chiamare il
“romanzo di Gilberte”, nella prima parte cioè di All’ombra della
fanciulle in fiore”. Dopo la rottura con la ragazza, l’eroe continua a
frequentare la sua casa, invitato da Odette nel suo salotto e ai suoi
16
La parte di Guermantes II, in Alla Ricerca del Tempo Perduto, II, pp. 687688. I corsivi sono nostri. Il testo francese si trova in CG II, II, p. 868.
17
Riportiamo in brano in versione più estesa: “E le vie di quella città non erano
ancora per me come i luoghi dove abitiamo abitualmente, semplici tramiti per spostarci da un punto a un altro. Mi sembrava che per gli abitanti di quel mondo sconosciuto la vita dovesse essere meravigliosa, e spesso le finestre illuminate di qualche caseggiato mi facevano sostare a lungo, immobile nella notte, mettendomi sotto gli occhi scene veridiche e misteriose di esistenze per me impenetrabili” (in La
parte di Guermantes I, II, p. 111, il corsivo è nostro). Testo francese: CG I, II, p.
395.
45
MARISA VERNA
“tè”. Come nei due passi precedentemente citati la scena si svolge
all’imbrunire, condizione necessaria perché la ‘contemplazione’ del
reale si trasformi in ‘stile’. A ciò si aggiunge il dettaglio, apparentemente inutile, della scarsa illuminazione di una “Parigi più buia
dell’odierna”, dove le lampade di un salotto “sito a pianterreno o a
livello di un ammezzato molto basso (com’era, fra i suoi appartamenti, quello in cui Madame Swann riceveva)” bastavano ad attirare l’attenzione del passante, affascinato anche dal coupé che sosta
sulla soglia. A questo punto si inserisce la descrizione del “giardino
d’inverno”, apparentemente gratuita, e che certo potrebbe essere
espunta da un computo dei “nuclei narrativi” in senso stretto18:
anch’essa si segnala dunque come ‘brano di stile’. Riporto il brano
per intero, che ho suddiviso attraverso una doppia barra nelle tre
scansioni testuali che ho identificato, e in cui per comodità ho segnalato in corsivo le formule correlative che introducono una similitudine o un paragone19.
Il “giardino d’inverno” che, in quegli anni, il passante scorgeva comunemente, qualunque via percorresse, purché l’appartamento non
fosse troppo in alto rispetto al livello del marciapiede, oggi non lo si
vede più che nelle incisioni dei libri strenna di P.-J Stahl20, dove, in
contrasto con i rari ornamenti floreali degli odierni salotti Luigi XVI
– una rosa o un iris del Giappone in un vaso di cristallo dal lungo
collo che non potrebbe contenere un solo fiore in più – si direbbe,
per la profusione delle piante d’appartamento e l’assoluta mancanza
di stilizzazione con cui erano sistemate, che le padrone di casa obbedissero, nel realizzarlo, a una viva e deliziosa passione per la botanica piuttosto che a un freddo disegno di morta decorazione. Questo ricordava, ma più in grande, nelle case d’allora, le minuscole serre portatili deposte, il mattino del 1° gennaio, sotto la lampada accesa – poiché i bambini non hanno avuto la pazienza d’aspettare che
18
Per un’illustrazione del concetto di “nucleo narrativo” [semplificando: un
episodio che fa avanzare il racconto, e senza il quale la storia non può procedere]
si veda A. Marchese, L’officina del racconto, Mondadori, Milano 1983.
19
Marcel Proust, “Intorno a Madame Swann”, in All’ombra delle fanciulle in
fiore, pp. 716-717. Si vedano le figure 1 e 2.
20
Pseudonimo di Pierre-Jules Hetzel, editore di una fortunata serie di libri per
l’infanzia, la “Bibliothèque de Mademoiselle Lili”, pubblicata tra il 1865 e il 1911.
Stahl firmava egli stesso queste esili storielle domestiche, illustrate da Lorenz Froelich.
46
FINESTRE, SERRE, TELESCOPI, ACQUARI: LO SGUARDO DALL’ESTERNO
facesse giorno – in mezzo agli altri regali di capodanno, ma come il
più bello, capace di consolarci, con le piantine da coltivare, della
nudità dell’inverno; // somigliavano, quei giardini d’inverno, più ancora che a tali serre, a un’altra che faceva mostra di sé accanto ad
esse, raffigurata in un bel libro, altro regalo di capodanno, e che,
sebbene non fosse destinata ai bambini, ma a Mademoiselle Lili,
eroina del romanzo, li affascinava a tal punto che, ormai quasi anziani, si domandano ancora se in quegli anni fortunati l’inverno non
fosse la più bella delle stagioni. //Infine, in fondo a quel giardino
d’inverno, attraverso le arborescenze di varie specie che, dalla strada, facevano somigliare la finestra illuminata alle vetrine di quelle
serre per bambini, disegnate o reali, il passante, alzandosi sulla punta dei piedi, scorgeva perlopiù un uomo in redingote, con una gardenia o un garofano all’occhiello, in piedi davanti a una signora seduta, entrambi vaghi come due intagli in un topazio, sprofondati
nell’atmosfera del salotto al quale il samovar, importazione allora
recente, infondeva l’ambra dei suoi vapori – vapori che, forse, continua ancor oggi ad emettere ma senza che nessuno, per effetto
dell’abitudine, li riesca più a vedere.
L’osservatore di questa scena è l’anonimo “passante” di un tempo ormai perduto. Il contrasto fra ciò che si poteva vedere “allora”
e ciò che si vede in un vago presente della scrittura è sottolineato
costantemente, fino al termine del brano, dove viene risolto dalla
magia dello stile. Guardando dalla strada si era dunque in grado, ai
tempi in cui il giovane Marcel si recava ai tè di Odette, di osservare
quasi dovunque a Parigi, delle serre illuminate: serre che “oggi” si
possono osservare solo nelle incisioni dei libri strenna di P.-J. Strahl.
L’allusione alla fortunata serie della “Bibliothèque de Mademoiselle
Lili” ci trasporta nel magico mondo dell’infanzia. Il primo passo
verso la fantasmagoria spazio-temporale è compiuto: il passantelettore entra nell’universo del ricordo, e la prima similitudine –
“questo ricordava, ma più in grande…” – lo introduce nella stanza
festosa dove sono stati allineati i doni del 1° gennaio [data nella
quale a quel tempo venivano consegnati i doni natalizi]. Sotto la
lampada fa bella mostra di sé una serra portatile, simile a quella incisa nei libri strenna di Mademoiselle Lili, solo lievemente più grande. La seconda similitudine (“somigliavano, quei giardini
d’inverno...”) fa avanzare il testo verso un avvitamento progressivo,
in una sorta di “inscatolamento” mnemonico, e paragona i giardini
47
MARISA VERNA
d’inverno di allora ad un’altra serra portatile, questa volta disegnata
nel libro stesso, e donata al personaggio immaginario di Mademoiselle Lili. Lo sguardo dall’esterno del vetro procede, evidentemente,
verso l’interiorità di chi scrive, e di chi legge. La dicotomia temporale – allora, “oggi” – è sottolineata ancora da quell’allusione ai
bambini che “oramai quasi anziani” rimpiangono quegli anni fortunati in cui l’inverno era la più bella delle stagioni. A partire da
“infine, in fondo a quel giardino d’inverno” il testo entra nel suo
vortice finale, che dovrà condurlo alla vera e propria fantasmagoria.
Il passante guarda dal vetro della serra e letteralmente si incammina
lungo le arborescenze di varie specie che – e incontriamo qui la terza similitudine – facevano somigliare i giardini d’inverno di allora
alle serre per bambini “disegnate o reali”. Le due similitudini precedenti sono assunte in una sola, fuse in un unico movimento analogico e mnemonico. Giunto al termine del suo percorso lungo i rami
delle piante, il passante scorge, tuttavia, una ‘scena’ reale: un uomo
in redingote – abito di foggia ottocentesca – davanti ad una signora
seduta. Ma è proprio a questa scena che Proust assegna il compito
di realizzare la metamorfosi del reale: introdotta da una quarta similitudine – “entrambi vaghi come due intagli in un topazio” – la
magia dello stile ha luogo nell’unica vera metafora del brano.
L’‘ambra’ dei vapori prodotti dal samovar, di colore dorato come il
topazio in cui sono intagliati i tratti dei due personaggi, avvolge
l’immagine osservata dal vetro nell’atmosfera densa e fluttuante che
molto spesso viene attribuita nelle pagine della Recherche alla segnalazione dello ‘stile’. La scrittura ha infatti il compito, per Proust,
di ‘fondere’ gli elementi del reale, di associarli tra loro attraverso la
metafora, senza però che questa annulli le differenze fra gli oggetti:
proprio come una gelatina ben riuscita – immagine utilizzata più
volte da Proust per definire la verità dello stile21 – essa deve renderci
capaci di ‘assimilare’ la realtà, di nutrirci della sua bellezza. La scena che abbiamo osservato dall’esterno della vetrata esiste infatti
21
Sull’immagine della gelatina come metafora della pienezza e dello stile ci
permettiamo di rimandare al nostro studio La synesthésie comme véhicule d’extase
dans le “Côté de chez Swann” de Marcel Proust, in Atti del Congresso Linguistique et Littérature. Diachronie et Synchronie. Autour des travaux de Michèle Perret
(Chambéry, 14-16 novembre 2002), CD ROM, Université de la Savoie, Chambéry
2006, 233-247.
48
FINESTRE, SERRE, TELESCOPI, ACQUARI: LO SGUARDO DALL’ESTERNO
fuori dal tempo – “vapori che, forse, continua ancor oggi ad emettere…” –: solo l’abitudine, la peggior nemica della conoscenza e della
verità, ci impedisce di vederla.
Il colore dorato, la luminosità ambrata, il movimento fluido e a
vortice della luce sono delle costanti di alcuni brani della Recherche,
che similmente a questo sono destinati a mettere in atto lo stile. Essi
sono presenti nel brano del Guermantes studiato da Eleonora Sparvoli nell’articolo già menzionato, e lo sono anche in alcuni passaggi
che scorreremo brevemente ora, in cui compare l’immagine
dell’acquario22. Ne abbiamo scelti due, pregnanti per la questione
dello sguardo che qui ci interessa.
Siamo nel Grand-Hôtel di Balbec, e il Narratore descrive un
gruppo di amici che vivono isolati dagli altri villeggianti, ignorando
il mare e anche la sala da pranzo dell’albergo
E la sera non cenavano all’albergo, dove dalle sorgenti elettriche
sgorgava a fiotti la luce nella grande sala da pranzo, la quale diventava come un immenso e meraviglioso acquario dinanzi alla cui parete di vetro la popolazione operaia di Balbec, i pescatori e anche le
famiglie piccolo-borghesi, invisibili nell’ombra, si schiacciavano contro i vetri per scorgere, lentamente oscillante fra risucchi d’oro, la vita lussuosa di quelle persone, straordinaria per i poveri quanto
quella dei pesci e dei molluschi strani (un grande interrogativo sociale è se la parete di cristallo proteggerà sempre il festino delle bestie
meravigliose e se la gente oscura che guarda nella notte non verrà a
catturarle nel loro acquario e a mangiarle). Intanto fra la folla ferma
e confusa nella notte, c’era forse qualche scrittore, qualche amatore
d’ittiologia umana, che, guardando le mascelle di vecchi mostri
femminili richiudersi su un pezzo di cibo inghiottito, si compiaceva
di classificarli per razza, per caratteri innati, ed anche per quei caratteri acquisiti i quali fanno sì che una vecchia signora serba, la cui
appendice boccale è da grosso pesce di mare, per il fatto di esser vis22
I passaggi in cui viene utilizzata l’immagine dell’acquario sono almeno dieci.
Pur diversi fra loro per situazione narrativa e significato, essi conservano un’unità
di composizione che varrebbe uno studio più attento. I riferimenti a tali brani sono
i seguenti: Du côté de chez Swann, I, pp. 285-286 e p. 322; A l’ombre des jeunes
filles en fleur, I, p. 551, II, p. 41-42 e p. 170. Du côté de Guermantes I, II, p. 343 e
p. 578; Sodome et Gomorrhe, III, p. 436; Albertine Disparue, IV, p. 102.
49
MARISA VERNA
suta fin dall’infanzia nell’acqua dolce del Faubourg Saint-Germain,
mangi l’insalata come una La Rochefoucault23.
Come abbiamo accennato precedentemente, compare anche qui il
dato della luce che “sgorga a fiotti” – il verbo francese utilizzato è
“sourdre” – dalle “sorgenti” elettriche: dato questo un po’ sorprendente (esso pare più consono, per esempio, alle lampade a petrolio
che producono un effetto analogo nella scena che si svolge a Doncière), ma assolutamente necessario all’operazione di metamorfosi
dello spazio che deve aver luogo. La sala diventa così un acquario –
un immenso e meraviglioso acquario – nel quale oscillano, fra
“risucchi d’oro”, come pesci favolosi gli ospiti del Grand-Hôtel di
Balbec. Fluidità, vortice, luce dorata segnalano anche qui lo ‘stile’,
la pasta gelatinosa della scrittura che rifonde lo spazio e trasforma
lo sguardo24.
Lo sguardo assume infatti, come nel brano del Guermantes, una
prospettiva triangolare: l’eroe è all’interno della vetrata, il Narratore invece – “l’amatore di ittiologia umana” – all’esterno, e guarda se
23
Utilizziamo per questo passo l’edizione italiana precedente: All’ombra delle
fanciulle in fiore, traduzione di F. Calamandrei e N. Neri, Mondadori, Milano
1970 (Einaudi 1949), pp. 257-258. Abbiamo preferito questa traduzione, che a
nostro avviso lascia in questo caso più intatto il testo di partenza. Alcuni verbi
(“sgorgare”), alcuni sostantivi (“risucchi d’oro”), e, nel brano che seguirà, altre
scelte lessicali ci paiono indispensabili alla corretta interpretazione del testo. Il
testo originale si trova in A l’ombre des jeunes filles en fleur, II, pp. 41-42.
24
Come ha già sapientemente illustrato Giorgetto Giorgi, la scrittura di Proust
ha molte cose in comune con la scrittura barocca (Barocco e impressionismo in
Proust, “Rivista di letterature moderne e comparate”, dicembre 1965, pp. 283298). Il passaggio sull’acquario è particolarmente adatto ad esemplificare
quest’affinità: la presenza stessa dell’elemento acquatico, il ribaltamento di prospettiva, la trasformazione dei personaggi in pesci, degli osservatori in osservati,
tutto in questo brano è consono all’estetica barocca. Ora, benché non sia a mia
conoscenza mai citato da Proust, Saint-Amant nel suo Moyse sauvé descrisse una
scena in cui il medesimo rovesciamento di prospettiva è presente: gli ebrei in fuga
osservano se stessi negli ‘specchi’ dei muri d’acqua – “liquides rubis” nel testo del
poeta barocco – che attraversano, in cui i pesci e le creature marine appaiono come
in un acquario. Si veda Saint-Amant, Marc-Antoine Girard (1594-1661; sieur de),
Moyse sauvé: idile heroïque du sieur de St Amant: à la serenissime reine de Pologne et de Suède. Cito da Œuvres complètes de Saint-Amant, Jannet, Paris 1855, p.
214. Ringrazio Monica Barsi per avermi segnalato questo passaggio.
50
FINESTRE, SERRE, TELESCOPI, ACQUARI: LO SGUARDO DALL’ESTERNO
stesso guardare, vedendosi immerso nel medesimo spettacolo che è
intento a descrivere25. Come afferma Anne Simon nel suo articolo
sulla descrizione nella Recherche
le narrateur […] se place imaginairement de l’autre côté du vitrage –
alors que lui, héros, se situe à l’intérieur –, et des deux côtés, transforme le motif de la fenêtre en objet de fascination, de malaise et de
beauté. Quoi qu’il en soit des pressentiments du narrateur sur
l’existence probable d’un ‘kaléidoscope’ social26 dangereux e révolutionnaire, ce passage reste marqué par une esthétisation ironique
(distanciée par une forme de comique presque caricatural), proche
d’un pastiche du style ‘artiste’: il se complaît à élaborer une ‘jolie
phrase’, à enjoliver une thématique symbolisant le cloisonnement
apparent des mondes, et le désir, des deux côtés, mais surtout du côté extérieur – de franchir le ‘cadre de bois’27.
25
La medesima operazione, anche se in termini ovviamente diversi, è realizzata
da Flaubert in Madame Bovary. Si veda su questo punto S. Cigada, Il pensiero
estetico di Gustave Flaubert, in Contributi dell’Istituto di Filologia moderna. Serie
francese, vol.11I, Milano, Vita e Pensiero, 1961, pp. 184-456, e E. Auerbach,
Nell’hôtel de la Môle, Stendhal, Balzac, Flaubert, oggi in Mimesis: il realismo nella
letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000.
26
L’autrice rimanda a A. Henry, Le Kaléidoscope, “Cahiers Marcel Proust”, n.
9, Etudes Proustiennes III, Gallimard, 1979, pp. 27-66.
27
A. Simon, Proust et la superposition descriptive, “Bulletin d’Informations
proustiennes”, 25, 1994, pp. 151-166, cit. pp. 153-154: “Il narratore si situa
immaginariamente dall’altro lato della vetrata – mentre lui, l’eroe, si situa
all’interno – e dai due lati trasforma il motivo della finestra in oggetto di
fascinazione, di malessere e bellezza. A prescindere dai presentimenti del narratore
sull’esistenza probabile di un ‘caleidoscopio’ sociale pericoloso e rivoluzionario,
questo passaggio resta segnato da un’estetizzazione ironica (distanziata da una
forma di comico quasi caricaturale), prossimo al pastiche di uno stile ‘artiste’: egli
si compiace ad elaborare una ‘bella frase’, ad ornare une tematica che simboleggia
la separazione dei mondi, e il desiderio, dalle due parti, ma soprattutto dal lato
esterno, di varcare il ‘confine di legno’”. Il riferimento al “cadre de bois” è tratto
da A l’ombre des jeunes filles en fleur, II, p. 43. Simon ricorda che il motivo
dell’acquario, apparentemente gratuito nelle Jeunes filles en fleur, tornerà in Albertine Disparue e si giustificherà anche dal punto di vista narrativo, quando l’eroe
si interrogherà sulla presenza probabile di Albertine in quella folla di poveri e curiosi che preme sul vetro dell’acquario, presenza colpevole e angosciosa, poiché
certo Albertine era là per sedurre qualche giovane operaia o contadina dei dintorni. Il risvolto tragico dell’episodio qui non ci interessa, o piuttosto non abbiamo
51
MARISA VERNA
L’acquario si trasferisce magicamente all’esterno delle pareti di
vetro durante le cene al ristorante di Rivebelle, dove l’eroe si reca in
compagnia dell’amico Saint-Loup:
Qualche ora dopo [...] venivano accesi i lumi, benché fuori fosse ancora chiaro, così che di fronte, nel giardino, accanto ai chioschi riscaldati dal crepuscolo e simili ai pallidi spettri della sera, si scorgevano pergolati la cui glauca verzura era attraversata dagli ultimi
raggi e che, dalla sala da pranzo immersa nella luce delle lampade,
apparivano al di là dei vetri non più – come si sarebbe detto delle signore sedute, nel tardo pomeriggio lungo il corridoio azzurrognolo e
dorato – in una rete umida e scintillante, bensì come le vegetazioni
di un pallido e gigantesco acquario dalla verde luce soprannaturale28.
Il punto d’osservazione dell’eroe è all’interno della sala da pranzo – immersa, come ogni altra volta che il fenomeno della metamorfosi deve verificarsi, nella luce delle lampade. Il gioco delle prospettive si è rovesciato: i pergolati sono infatti in posizione esterna rispetto a lui, che si trova pertanto ad osservarli come farebbe un pesce che nuota in una vasca – la similitudine precedente, che concerne invece le signore sedute nel corridoio e che sono assimilate a pesci catturati in una rete umida e scintillante, giustifica del resto
l’accostamento –. L’intero giardino si è dunque trasformato in un
gigantesco acquario, la cui verde “luce soprannaturale” attua la metamorfosi: il reale, percepito dall’eroe in un tempo e un luogo della
storia, è diventato ‘stile’.
Nuotiamo ancora in quell’acquario: ogni lettore di questa pagina
può ripetere l’esperienza. Così come possiamo scivolare lungo le arborescenze del giardino d’inverno, correndo a ritroso verso la serra
disegnata in un libro d’infanzia, e poi uscire ancora dalla vetrata per
osservare un intaglio nel topazio della luce.
il tempo di interessarcene, ma si aggiunge alle tante stratificazioni di questa descrizione.
28
“Nomi di paese: il paese”, in All’ombra delle fanciulle in fiore, tr. di G. Raboni, pp. 985-986.
52
FINESTRE, SERRE, TELESCOPI, ACQUARI: LO SGUARDO DALL’ESTERNO
Se lo spazio si muove con noi, ciò è dovuto alla sapiente distribuzione dei punti di vista adottati dal Narratore: duplicazione,
triangolazione, sdoppiamento. Come afferma Sara Guindani nella
sua monografia sulla visione nell’opera di Proust:
La visione proustiana […] assume profondità proprio attraverso ciò
che nasconde: la sua binocularità consiste nel tenere un occhio aperto su ciò che è visibile e con l’altro percepire l’alone invisibile da cui
sporge quella stessa visibilità. Abbiamo visto come, per Proust, la
quarta dimensione, quella altrimenti invisibile del Tempo, non possa
prescindere dal rendersi visibile; in tal senso l’opera proustiana è
manifestazione di quel nodo che avvolge insieme spazio e tempo29.
Ed eccoci tornati al tempo: rovesciando l’affermazione che abbiamo sostenuto all’inizio di questo studio, lo spazio si può esplicare – e non solo nella Recherche, ma nella possibilità umana di pensarlo – solo nel tempo. Solo grazie al tempo, lo spazio si può ritrovare: e in questo modo torniamo anche a Baudelaire, che ha compreso per primo il fascino di una finestra chiusa, e per primo ha
concepito la poesia come ‘fantasmagoria della memoria’. Ne Le
peintre de la vie moderne, Baudelaire affermava già infatti che “la
fantasmagorie a été extraite de la nature. Tous les matériaux dont la
mémoire s’est encombrée se classent, se rangent, s’harmonisent et
subissent cette idéalisation forcée qui est le résultat d’une perception
enfantine, c’est-à-dire d’une perception aiguë, magique, à force
d’ingénuité!”30.
Ora, Proust ha certo spostato il centro di tale percezione
“infantile” – che per Baudelaire è l’imagination, magica facoltà che
permette all’artista di intuire l’armonia dell’universo – dall’oggettività dell’Assoluto alla soggettività dello spirito. Lo stile è ‘visione’,
29
S. Guindani, Lo stereoscopio di Proust. Fotografia, pittura e fantasmagoria
nella “Recherche”, Associazione culturale Mimesis, Milano 2005, p. 77.
30
Ch. Baudelaire, Le peintre de la vie moderne, à propos de Constantin Guy,
Pierre Laffont, Paris 1980, «Bouquins», pp. 790-815, cit. p. 797. Tr. italiana di G.
Piersanti, in Constantin Guy. Il pittore della vita moderna, Catalogo della mostra
tenutasi a Palazzo Braschi, 10 settembre – 5 ottobre 1980, SEMIR, Milano 1980,
p. 48: “La fantasmagoria è stata estratta dalla natura. Tutti i materiali di cui la
memoria s’è ingombrata si classificano, si dispongono, si armonizzano e subiscono
quell’idealizzazione forzata che è il risultato di una percezione infantile, cioè di una
percezione acuta, magica a forza di ingenuità”.
53
MARISA VERNA
guardare e concepire il mondo in un determinato modo e saper oggettivare quello sguardo, in modo che altri possano entrarvi e vedere a loro volta. L’arte resta tuttavia, anche per Proust, la sola esperienza capace di ingenerare ‘metamorfosi’, e, di conseguenza, verità.
Il reale in quanto tale, ovvero lo spazio geometricamente e analiticamente concepito, non esiste per Proust. Parlando della scrittura
verista-naturalista in un articolo del 1913, Proust la definisce “cette
parodie de la vérité où le ‘néo-italianisme’ trouve le moyen de supprimer toute réalité véritable et profonde”31. Dall’esterno di una finestra chiusa si può invece guardare il tempo: se stessi nel tempo.
Figura 1.
Modello di serra portatile
Figura 2.
Mademoiselle Lili à la campagne
Fonte: Agence Régionale de l’Environnement
de Haute-Normandie, www.arehn.asso.fr
Fonte: Institut Nationale de Recherche
Pédagogique, www.inrp.fr
31
Articolo ripubblicato in Textes retrouvés, Gallimard, Paris 1971, p. 278;
l’articolo fu redatto nel 1913, pubblicato postumo ne Les Œuvres de M. Reynaldo
Hahn, “Conferencia”, 1er décembre 1923.
54
Riflessioni sullo spazio della
“Recherche”
DANIELA DE AGOSTINI
Daniela De Agostini
Professore Associato di Letteratura francese presso
l’Università degli Studi di Urbino. Ha studiato a
lungo i brouillons del testo proustiano, oltre ad essere l’autrice di saggi su Balzac.
Sin dall’inizio lo spazio – e non solo il tempo – connota in modo
privilegiato l’opera proustiana1. Nella ouverture della Recherche,
infatti, sono subito indicati i luoghi in cui si dispiega la trama, e il
dormeur éveillé non esita a ricordarli quando rivede, con la memoria del corpo, durante la notte insonne, la sua vita d’altri tempi “a
Combray, in casa della prozia, oppure a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, in altri luoghi ancora”, e non esita altresì “a ricordare i posti, le persone che vi avev[a] conosciute, quel che di loro
avev[a] visto, quello che ne avevano raccontato”2. Se Combray, con
Balbec e Doncières, sono luoghi immaginari, certo non lo sono Parigi e Venezia, che rappresentano due spazi reali abitati però da personaggi fittizi. In ogni caso questa pagina evoca in modo irrefutabile
i luoghi in cui è tracciato il percorso esistenziale dell’eroe e, ognuno
di essi, segna l’incontro con le persone che più hanno influenzato la
vocazione finale del narratore, che appartengano all’universo famigliare, come la madre o la nonna, borghese, come Charles Swann,
e aristocratico come i Guermantes, principi e duchi, o Robert de
Saint-Loup o ancora il Baron de Charlus.
Tuttavia, prima di segnalare i luoghi in cui la ‘ricerca’ del tempo
perduto e il suo rovesciamento in tempo ritrovato incontrano il
proprio percorso, il narratore ci offre, e proprio nell’incipit
1
«On voit donc clairement que, dès le premier moment du récit, l’œuvre
proustienne s’affirme comme une recherche non seulement du temps, mais de
l’espace perdus». Si veda G. Poulet, L’espace proustien, Gallimard, Paris 1982 [I
edizione 1963], p. 19.
2
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, tr. di G. Raboni, edizione diretta
da L. De Maria e annotata da A. Beretta Anguissola e D. Galateria, Mondadori,
Milano 1983, coll. “I Meridiani”, vol. I, p. 12. (D’ora in avanti l’indicazione è
RTP). Nella sua versione primitiva (cfr. Cahier 8) i luoghi rammentati erano: «[…]
a Parigi, dai miei nonni, a Combray, a Querqueville»; quest’ultimo era il nome
primitivo di Balbec (Esquisse IV della edizione francese a cura di J.-Y. Tadié, della
«Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 1987, t. I, p. 658; d’ora in avanti
indicata con ARTP). Traduzione nostra.
57
DANIELA DE AGOSTINI
dell’opera, alcune riflessioni che si collocano nell’immaginario teorico dello spazio. Una voce, quella del dormeur éveillé, parla, e proprio nel contesto del risveglio notturno, dopo aver a lungo riflettuto
sulle identificazioni che la lettura serale ha comportato, cerca a
stento di collocare il proprio corpo in un luogo preciso. Ogni sforzo
è inutile e il risultato è una fantasmagoria di immagini che riconducono quel personaggio – malato o viaggiatore stanco – a una serie di
camere del proprio passato il cui ricordo esita a riconoscerne
l’esatta ubicazione:
Quel che è certo è che quando, svegliandomi in quel modo, il mio
spirito cercava, senza riuscirci, di sapere dove fossi, tutto, oggetti,
paesi, anni, vorticava intorno a me nel buio. Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava di individuare, in base alla forma
della sua stanchezza, la posizione delle sue membra per dedurne
l’andamento della parete, la disposizione dei mobili, per ricostruire e
dare un nome alla casa in cui si trovava3.
La memoria del corpo non è sufficiente a identificare la camera
in cui si era addormentato e le tenebre, che circondano il dormeur,
non fanno altro che accentuare ancor più il senso di spaesamento,
dovuto al turbinio delle stanze del passato, al vacillare della coscienza e alla vertigine che coglie l’insonne nel momento del risveglio. Quel che ne risulta è un vortice di luoghi in cui il dormeur evoca la camera della propria infanzia, con il letto a baldacchino,
quella in campagna a casa dei nonni, e poi ancora quella a Tansonville da Madame de Saint-Loup:
Queste evocazioni turbinanti e confuse non duravano mai che qualche secondo; spesso, la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi
trovavo non staccava l’una dall’altra le diverse supposizioni di cui
essa era fatta meglio di quanto, vedendo correre un cavallo, non riusciamo ad isolare le posizioni successive mostrateci dal cinetoscopio4.
E il susseguirsi di camere del passato si raccoglie in un insieme
che unisce le camere d’inverno, quelle d’estate e quella Luigi XVI,
infine quella piccola in forma di piramide rivestita di mogano; una
3
4
58
RTP, I, p. 8.
RTP, I, p. 10.
RIFLESSIONI SULLO SPAZIO DELLA “RECHERCHE”
serie di stanze che sfocia, in termini più ordinati e dopo le lunghe
fantasticherie che seguono il risveglio, nella rivisitazione della vita
d’un tempo nei luoghi così ricordati, a Combray e altrove.
Ora, si è consapevoli che questa ouverture è stata ampiamente
letta, e altrimenti analizzata, ma è indubbia la sua rilevanza nel contesto che qui interessa e che caratterizza la visione dello spazio
quale si evince da queste pagine. Il narratore proustiano sembra
aver bisogno di ricostruire, di ritrovare un ordine dopo il caos determinato dalla confusione del risveglio e dalla memoria del corpo
intorpidito. La frammentazione, la parcellizzazione, e la giustapposizione sono specifiche della visione delle cose, degli esseri e degli
oggetti dell’immaginario proustiano, ma il tutto sfocia poi in
un’unità e in una coesione che cancella l’iniziale confusione.
L’immagine restituita dalla memoria è scomposta, l’intermittenza
denota ogni essere come ogni emozione, la giustapposizione e la sovrapposizione caratterizzano l’universo in frammenti che si offre
allo sguardo, come accade con la visione dei campanili di Martinville, la pluralità sottende anche la molteplicità dell’io così come ogni
personaggio è connotato dalla discontinuità. Ma questo mondo
scomposto incontra tuttavia una sua continuità, e come nel movimento cubista, anche lo spazio, che viene colto in una vertiginosa
assenza di limiti, che ne segnala la molteplicità dei punti di vista e
l’apparente incongruenza, si raccoglie in un’immagine unitaria. “Il
suo ingegno analitico – scrive Marco Vallora5 – ha bisogno di ricostruire, proprio come capita al cubismo sintetico, di «rapprocher,
pour rentoiler les fragments intermittents et opposés […] et en avoir
une vue totale et un tableau continu»”.
Come osserva Georges Poulet:
Lorsque le roman proustien se termine, quand la conscience qui n’a
cessé d’en enregistrer les événements, se trouve en mesure de jeter
sur eux un regard final, rétrospectif et élucidateur, alors la multiplicité discontinue des épisodes, pareille jusqu’à ce moment à une série
de tableaux isolés et juxtaposés, se trouve faire place dans l’esprit de
celui qui embrasse l’ensemble, à une pluralité cohérente d’images qui
5
M. Vallora, Proust e la pelle della pittura, in La “Recherche” tra apocalisse e
salvezza, D. De Agostini ed., Schena, Fasano 2005, (“Peregre”, Collana di Studi e
Ricerche della Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Urbino),
p. 219.
59
DANIELA DE AGOSTINI
se réfèrent les unes aux autres, s’éclairent mutuellement, et, pour
tout dire, se composent6.
Così accade nella descrizione scomposta del volto e della gota di
Albertine quando l’eroe sta per baciarla, o in quella delle diverse
apparizioni della duchessa di Guermantes o del Baron de Charlus
che, pur obbedendo a una logica della pluralità e della discontinuità, non cancella una visione primitiva che è insieme unitaria e totalizzante. L’opera proustiana rimane così costituita da episodi distinti
e separati, in cui gli intervalli non si fondono e dove regnano
l’intermittenza e l’occlusione, ma grazie al rapporto che si stabilisce
tra essi e che, come la metafora, restituisce una certa unità alle cose,
i ‘vasi chiusi’ si mutano in vasi comunicanti, giustapposti ma allineati gli uni accanto agli altri.
***
Naturalmente così non era nella Recherche degli avantesti, dei
Cahiers e dei brouillons primitivi dove vige anzitutto la separazione,
e la scomposizione è l’elemento fondamentale, e dove ogni episodio
è stato scritto in vista sì di un insieme, ma un insieme che muta e si
metamorfosa man mano che si scrive e che incontra in un primo
tempo una sua isolatezza.
Si è ormai d’accordo nell’affermare che nel 1909 i primi scritti,
relativi all’opera terminata solo con la morte dell’autore, nel 1922,
sono stati redatti dopo i Cahiers Sainte-Beuve, cioè quelli dedicati al
saggio critico (o narrativo) allora in gestazione, ed è quindi possibile
osservare che sono i personaggi, la loro evoluzione cioè nel tempo e
nello spazio che si è venuta a delineare in questi quaderni, a creare
la Recherche in quanto romanzo. Mariolina Bongiovanni Bertini lo
afferma chiaramente in uno dei suoi lavori su Proust, tenendo conto
però degli abbozzi del Temps retrouvé, scritti quasi contempora6
G. Poulet, L’espace proustien, p. 132. (“Quando il romanzo proustiano termina, quando la coscienza che non ha smesso di registrare gli eventi, si trova in
grado di gettare su di essi uno sguardo finale, retrospettivo e illuminante, allora la
molteplicità discontinua degli episodi, simile fino a questo momento a una serie di
quadri isolati e giustapposti, fa posto nello spirito di colui che abbraccia l’insieme,
a una pluralità coerente di immagini che si riferiscono le une alle altre, si rischiarano vicendevolmente, e, per così dire, si compongono”. Traduzione nostra).
60
RIFLESSIONI SULLO SPAZIO DELLA “RECHERCHE”
neamente a quelli del primo volume, il Du côté de chez Swann, e
dell’apparire trasformato, come in un ballo in maschera, di ogni invitato della principessa di Guermantes, alias Mme Verdurin:
L’apparizione nei cahiers dell’ultima scena del Tempo ritrovato segna un momento fondamentale nel lavoro di Proust. La visione dei
suoi personaggi invecchiati, ciascuno in bilico sul proprio passato
come su una torre gelatinosa, o su un paio di smisurati trampoli, ne
racchiude i destini ancora in divenire come un estremo orizzonte e
definisce una volta per tutte lo spazio romanzesco della Ricerca7.
Insieme alla riflessione spazio-temporale relativa alla camera del
dormiente, Proust elabora dunque quella relativa ai personaggi nati
separatamente e isolatamente, al loro evolvere nell’opera, e intravede già il loro cammino. Quasi contemporaneamente infatti agli abbozzi relativi al primo volume Proust annota la serata che contiene,
trasformati, tutti i personaggi allora in divenire. La versione del
Cahier 51 e poi quelle del Cahier 11 e 578 tracciano il ritratto dei
principi e dei duchi de Guermantes, di Mme de Villeparisis, di Montargis, di Mme e Mlle de Forcheville, del Marquis e la Marquise de
Tains, del Principe di Agrigente e poi di Bloch, di Mme de Chemisey, di Legrandin e di M. de Norpois, di Mlle de Stermaria, di Mme
de Putbus e Mlle de Quimperlé, e di altri personaggi ancora dai
nomi diversi da quelli definitivi, su cui il tempo ha agito come uno
scultore impietoso che ha trasformato i loro volti rendendoli simili a
pietra, e ha suggellato, una volta per tutte “l’arco teso”, per usare le
parole di Contini9, tra l’incipit dell’opera e la sua conclusione, quel
‘tempo ritrovato’ che solo nella scrittura fa rivivere i personaggi
quali erano, al di là del lavoro corrosivo del Tempo.
Nei brouillons del 1908-1909, tuttavia, i tempi del formarsi dei
luoghi sono più lunghi e accidentati; i personaggi, se pure nascano
quasi parallelamente, mutano non solo di nome (come Charlus, che
si chiamava Gurcy, o Guercy, ed era marchese, non barone) ma an7
M. Bongiovanni Bertini, Introduzione a Proust, Laterza, Bari 1991, p. 125.
M. Proust, Matinée chez la Princesse de Guermantes, Cahiers du Temps
retrouvé, édition critique établie par Henri Bonnet en collaboration avec Bernard
Brun, Gallimard, Paris 1982.
9
Cfr. G. Contini, Introduzione alle «paperoles», in Varianti e altra linguistica,
Einaudi, Torino 1970, pp. 69-110.
8
61
DANIELA DE AGOSTINI
che di funzione (Berget-Vington, poi Vinteuil, era scienziato e non
musicista), oppure vengono cancellati (il fratello Robert, ad esempio, che compariva in un episodio dei quindici fogli sparsi e poi ritrovati, Mlle de Quimperlé, diventata in seguito Mlle de Stermaria,
o la femme de chambre della Baronessa di Putbus, il cui ruolo si dispiegava più ampiamente) o ancora metamorfosati.
L’associazione del luogo con l’istante – assumiamo qui
l’accezione di ‘luogo’ con quella di spazio – era però teorizzata fin
dall’inizio. Sin dai primi quaderni, infatti, il legame esistente tra
l’apparizione nello spazio dedicato al personaggio – sia esso lo spazio di Combray o quello di Parigi –, e il momento della sua comparsa, tra il tempo attuale e quello passato, tra il luogo e l’attimo, è
elaborato costantemente. Nel Cahier 28 (Esquisse LVII) un frammento è dedicato proprio a questo
Del resto i paesaggi non restano associati soltanto alle impressioni
prodotte da essi stessi. Essi scortano fino a noi, con il loro volto
enigmatico, ignaro o distratto, una certa scena di cui nella nostra
memoria sopravvive solo la tristezza, o la gioia, o il carattere peculiare che la contraddistingueva quando già, intorno a lei, i ricordi
paralleli sono a poco a poco morti di vecchiaia. Ogni ricordo ha
portato via con sé per sempre il paesaggio in cui ebbe luogo10.
Al marchese di Guercy (nome dato a colui che più tardi sarà M.
de Fleurus e poi baron de Charlus) viene dedicata un’ampia redazione nel Cahier 51, del 1909. Nel folio r°17, per cinque pagine, si
racconta quanto di lui è cambiato dal primo all’ultimo incontro, al
Bois, mentre passava in una vettura scoperta. Ora la barba è bianca,
nel volto rimangono le vestigia di una “majesté foudroyée de Roi
Lear”, e i capelli argentei ricordano “une sorte de précipité
métallique analogue à celui qu’aurait répandu à flots sur sa tête et
son visage un geyser saturé d’argent qui se serait brusquement
solidifié”11. La metamorfosi che colpisce ogni personaggio invec10
M. Proust, L’età dei nomi. Quaderni della “Recherche”, D. De Agostini-M.
Ferraris-B. Brun ed., Mondadori, Milano 1985, p. 77. (Si veda anche la lezione
francese in ARTP, I, p. 841).
11
M. Proust, Matinée chez la Princesse de Guermantes, p. 63. (“maestà folgorata di Re Lear” e “una sorta di precipitato metallico analogo a quello che avrebbe
sparso a fiotti sulla sua testa e il suo viso un geyser saturo d’argento che si sarebbe
bruscamente solidificato”. Trad. nostra).
62
RIFLESSIONI SULLO SPAZIO DELLA “RECHERCHE”
chiato lo ha colpito anche dal punto di vista morale, ora “d’une timidité, d’une politesse et d’une bonne volonté d’enfant”12, che con
uno snobismo rovesciato saluta con umiltà un’americana cui una
volta non avrebbe certo dedicato il suo maestoso inchino. “Le salut
majestueux du prince foudroyé descendit sur moi avec l’éloquence
d’un mouvement d’oraison funèbre”13, osserva il narratore cui non
sfuggono le parole che questi bisibiglia, fiero di ricordare, mostrando così l’eccellenza della sua memoria rimasta intatta, uno dei particolari legato al primo incontro:
Sans bouger la tête, ni les yeux, ni mettre une seule inflexion dans sa
voix: «Voici un poteau avec une affiche pareil à celui qu’il y avait
devant nous la 1ere fois que je vous vis avec Madame votre grandmère à Étilly. Et en effet c’était exactement la même réclame de Liebig!14 (sic)
Sia nella versione primitiva di un frammento del Cahier 715, dove
è tracciato il primo ritratto del Marchese de Guercy, sia nel manoscritto definitivo, il primo incontro è così delineato: uno sguardo
fisso, dei capelli grigi e dei baffi neri, una rosa all’occhiello, e un bastone col quale il marchese lacera un angolo di un manifesto; ma
non si tratta di quello sulla pubblicità dei prodotti Liebig (già noti
all’epoca) ma dell’affiche di un concerto. Proust collega i due frammenti con il ricordo di uno stesso dettaglio, mostrando come un
paesaggio, un’atmosfera, un luogo, rimangano collegati al personaggio, e resuscitino il passato più antico, come questo esempio dimostra. Se anche il ricordo del passato viene sepolto nell’oblio, la
memoria è capace di farlo riemergere e di collegare il luogo, o lo
spazio, con il personaggio, e con ciò che vi è stato vissuto.
Lo spazio, nella Recherche, è allora sempre collegato con il tempo, e la memoria, se messa in moto, è capace di restituire il luogo
12
Ibid., p. 64. (“Di una timidezza, un’educazione e una buona volontà di
bambino”).
13
Ibid., p. 65. (“Il saluto maestoso del principe folgorato discese su di me con
l’eloquenza di un movimento di orazione funebre”).
14
Ibid. («Senza muovere la testa, né gli occhi, e senza mettere neppure una sola
inflessione nella voce: “Ecco un palo con un manifesto simile a quello che c’era davanti a noi la prima volta che vi vidi con Madame vostra nonna a Étilly”. Ed era in
effetti esattamente la stessa réclame del Liebig!»).
15
Esquisse XVII, ARTP, II, p. 921-926.
63
DANIELA DE AGOSTINI
insieme al momento come i ricordi involontari lo dimostrano; essi,
che restituiscono Venezia e Balbec in un particolare istante di luce,
restituiscono anche i personaggi al loro primo apparire, visti sì nel
loro esser cambiati insieme al tempo che è trascorso, quindi metamorfosati, ma anche secondo la prima immagine che si è strettamente incollata ad essi e che li rende riconoscibili.
***
Una cosa è comunque certa: il primo luogo, quindi la prima cellula germinativa, è la camera di Combray con la piccola cittadina,
che si ispira a Illiers. Subito dopo sono le passeggiate, dalla parte di
Villebon-Guermantes e Meséglise-Méséglise, il loro paesaggio e il
loro significato, ad avere una rilevanza privilegiata. Una prima differenza è però in atto. Nella Recherche queste passeggiate saranno
ricordate, come Combray, insieme a tutto il mondo evocato,
‘risorto’, dalla madeleine inzuppata nel thé, o nella tisana, come
negli avantesti; nel brouillon del Cahier 4, invece, esse si collegano
direttamente all’incipit dell’opera, a uno dei tanti risvegli che, grazie
alla memoria del corpo, riconducono il protagonista nei luoghi
dell’infanzia e dell’adolescenza. In questo contesto l’ouverture non
risulta quindi separata dalla totalità dell’opera come sintesi di una
vita da rievocare a ritroso, ma si presenta piuttosto come un incrocio da cui si dipartono (così dalla chiesa di Saint-Hilaire le due strade verso Meséglise e verso Villebon), simultaneamente, le diverse diramazioni delle camere del passato.
Il racconto delle passeggiate scaturisce infatti dalla rievocazione
delle camere di un tempo, e in particolare di quella di Combray in
quanto, essenzialmente, teatro del dramma del coucher solitario le
sere in cui l’eroe si recava dalla parte di Garmantes (questo il nome
primitivo) o in cui Swann si disponeva a far visita alla famiglia di
Marcel, e in cui, di conseguenza, la madre non si recava nella stanza
del figlio. D’altro canto l’esitazione dell’autore, in questa fase della
creazione dell’opera, nella scelta della sua struttura formale (un
saggio? Un romanzo-saggio? Un romanzo tout-court?), conduce la
narrazione verso la teorizzazione di un’estetica (con i Cahiers 51,
58, 11 e 57) e conferisce al brouillon uno spessore che non appar-
64
RIFLESSIONI SULLO SPAZIO DELLA “RECHERCHE”
terrà più alla Recherche. Perciò si chiude su riflessioni che rinviano
alla voce del narratore:
Ed è stato così che dalla parte di Garmantes ho imparato a riconoscere in me gli stadi diversi, quasi opposti, che si succedono nella vita, in ogni giorno, quando la tristezza torna a una cert’ora con la
puntualità della febbre; stadi in cui quel che si è desiderato, temuto,
compiuto negli altri, sembra quasi incomprensibile. Rientrando a
Garmantes sapevo per certo che non avrei avuto più di mezz’ora
prima del momento in cui bisognava dare la buonanotte alla Mamma16.
Fin dal suo incipit la scrittura si concentra allora su VillebonGarmantes e Méseglise, contrariamente a quanto accadrà nella Recherche, è evocata solo rapidamente. La dissimetria della lunghezza
delle rispettive narrazioni si subordina a un dato reale (la lunghezza
effettiva della loro distanza dalla casa del protagonista) a sua volta
subordinato alla più latente e fondamentale motivazione psicologica. Il tempo della narrazione rispecchia quello interiore che,
nell’attesa differita e revocata del bacio materno, dilata sensibilmente lo spazio del testo. Avviarsi verso Villebon significa infatti affrontare una lunga passeggiata che diventa anche la causa di un grande
dolore: quello dell’assenza della madre.
La dilatazione dello spazio si pone in parallelo al restringimento
del tempo a lui dedicato dalla madre: la lontananza di Villebon rispetto al nucleo familiare rappresentato da Combray è anche segno
di tutta la distanza che intercorre tra due mondi opposti e distinti,
l’infanzia e l’adolescenza17. I due universi si dispiegano come inconciliabili e passare dall’uno all’altro sembra altrettanto impossibile quanto unire l’Oriente con l’Occidente, l’età dei Nomi e quella
delle Parole con l’età delle Cose.
In questo contesto Combray è dunque soprattutto luogo intimo,
spazio psicologico che con la camera e le passeggiate è sede di un
dramma che incontrerà la sua soluzione con l’arte e la scrittura. Ma
16
M. Proust, L’età dei nomi, p. 20 (Cahier 4, f. 44r; vedi anche Esquisse LIII,
RTP, I).
17
Tempo perduto e tempo ritrovato, le due parti nella Recherche rappresentano anche i due mondi, quello dell’eros e in direzione sbagliata, e quello della madre ideale, della sublimazione e dell’arte.
65
DANIELA DE AGOSTINI
a poco a poco, nei quaderni, dunque nella genesi della Recherche, i
due spazi delle passeggiate si popolano di personaggi che hanno in
sé una loro stesura primitiva e che danno ai luoghi una determinata
valenza e una speciale configurazione. Ricordiamo però che già
negli abbozzi i due universi delle passeggiate si intrecciano e si incontrano nel sentiero trasversale18 che li riunisce ed è preludio a
quello che più tardi diventerà, a Tansonville con Gilberte de Saint
Loup, una sorpresa e una rivelazione che daranno avvio alle scoperte più vitali e più profonde legate alla metafora e all’arte, al ‘tempo
ritrovato’ con la scrittura, dunque.
E, con gli spazi delle passeggiate, prendono vita anche i personaggi che vi si incontrano, solo abbozzati in un primo tempo e poi
più a lungo descritti fino a creare una figura la cui evoluzione viene
a delinearsi nel corso della redazione dell’opera. VilllebonGarmantes, poi Guermantes, è lo spazio di incontro dapprima con il
nome della duchessa omonima, poi quello della conoscenza effettiva
di lei, Oriane de Guermantes; Meséglise è per eccellenza lo spazio in
cui si dispiega l’incontro con Vinteuil e la figlia, e poi con l’Amica
della figlia, l’anonima ma fondamentale trascrittrice dei taccuini dai
geroglifici oscuri dell’opera postuma del musicista. È qui che ha
luogo anche l’incontro con la femme de chambre della baronessa de
Putbus (che nelle versioni dei quaderni avrà più ampio spazio e
ruolo), ed è verso Guermantes che il protagonista sentirà per la prima volta pronunciare il nome del Baron de Charlus.
Come per la camera in cui il dormeur éveillé si è addormentato e
poi risvegliato, e che dal caos iniziale si trasforma negli spazi più
controllati romanzescamente dei diversi luoghi del passato, anche
gli universi delle passeggiate si riuniranno con il piccolo sentiero che
li incrocia, e che fa sì che i due spazi inconciliabili e opposti trovino
una loro conciliazione: Garmantes-Guermantes non è solo lo spazio
che conduce al tempo ritrovato, alla Matinée chez la Princesse de
Guermantes cioè, e Meséglise-Méséglise non è solo lo spazio del
18
Nella prima ébauche delle promenades (Cahier 4, Esquisse LIII, RTP, I, p.
813) i due côtés di Combray si incontrano: “Infatti seppi allora che la parte di
Meséglise e la parte di Garmantes non erano così inconciliabili come credevo un
tempo, e che era possibile, se si era partiti alla volta di Meséglise, tagliare per
Garmantes. […] Allora non sapevo che tra Garmantes e Meséglise non c’era poi
tanta differenza”. (M. Proust, L’età del nomi, p. 19).
66
RIFLESSIONI SULLO SPAZIO DELLA “RECHERCHE”
male; entrambi e l’uno nell’altro conducono all’arte così come l’eroe
indica. Anche il male, cioè il sadismo della figlia di Vinteuil ha in sé,
come l’Amica, i germi della creazione, in questo caso grazie alla trascrizione del Settimino del musicista, preludio all’opera del narratore. Dalla biforcazione iniziale dei due universi il futuro scrittore indica nei Cahiers la loro unione, anche se nell’opera questo avverrà
solo nell’ultimo volume, quando egli deciderà di trasferire in luoghi
diversi le diverse conoscenze che il tempo gli impartisce; quando
cioè al tempo perduto si opporrà quello ritrovato, quando la Recherche da due tomi passerà ai tre e poi ai cinque e infine ai sette
quale oggi si legge.
Lo studio che tempo addietro Antoine Compagnon ha dedicato
alla Recherche si intitolava Proust entre deux siècles19, ed effettivamente l’opera proustiana si colloca nell’interstizio del XIX secolo e
del secolo a venire: ma pur riflettendoli entrambi non si identifica
totalmente né solo con l’uno né solo con l’altro. Un neutro che bene
indica l’ultimo scrittore del XIX secolo e il primo del XX, che si
ispira alla tradizione ma che la oltrepassa, e che giustappone due
ordini diversi. Da un lato il caos, e quindi il frammento, la scomposizione dello spazio, dall’altro la sua ricomposizione, e la totalità
dell’insieme; da un lato il tempo ritrovato nei ricordi involontari, e
dall’altro il tempo che incombe e che pone la parola fine alla vita,
quella vissuta e quella dell’opera.
19
A. Compagnon, Proust entre deux siècles, Seuil, Paris 1989.
67
Proust e lo spazio dell’opera d’arte
ELEONORA SPARVOLI
Eleonora Sparvoli
Ricercatrice di Letteratura Francese Contemporanea
all’Università degli Studi di Milano. È specialista
dell’opera di Marcel Proust, cui ha dedicato numerosi e importanti lavori.
“I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono solo al
mondo dello spazio dove li situiamo per maggior facilità. Essi non
sono che uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo di una certa immagine non è
che il rimpianto d’un certo istante; e le case, le strade, i viali, sono
fuggitivi, ahimè, come gli anni”1.
In questo splendido passaggio con cui si conclude il primo tomo
della Recherche il Narratore, interrompendo per un attimo il filo del
racconto della sua infanzia, spiega al lettore come, ritornando da
adulti in certi luoghi che da bambini c’incantavano, non ci sia più
possibile ritrovare la magia di allora. Anche gli spazi intorno a noi
sono immersi nel tempo, e scorrono irreversibilmente come le ore
della nostra vita.
Tuttavia a me pare che, nella Recherche, i luoghi non fuggano
via solo perché soggiacciono, come ogni cosa umana, alla legge inesorabile del divenire. L’impressione è che il Narratore si muova entro spazi sin da principio instabili, sul cui terreno la sua esistenza
non riesce mai davvero a radicarsi, poiché essi si sottraggono, retrocedono, non lasciandosi abitare.
Uno dei casi più clamorosi di tale fenomeno è raccontato nella
sezione di Du côté de chez Swann intitolata: Noms de pays: le nom,
nella quale il giovane Narratore si abbandona – a partire dai loro
nomi e dalle illustrazioni dei libri – ad una lunga fantasticheria su
Firenze e Venezia. Egli immagina la città toscana ricoperta d’una
perenne fioritura primaverile, così come gli suggeriscono l’etimo
della sua denominazione (“Florence”), il suo simbolo – il giglio – ed
il suo Duomo (che si chiama, appunto, Santa Maria del Fiore), e si
raffigura la città lagunare tempestata dalle pietre preziose che il sole
1
M. Proust, Du côté de chez Swann in A la recherche du temps perdu, J.-Y.
Tadié ed., Gallimard, Paris 1987, “Bibliothèque de la Pléiade”, t. I, pp. 419-420.
La traduzione, come in tutti gli altri passi della Recherche che verranno citati, è
nostra.
71
ELEONORA SPARVOLI
fa scintillare sulle acque del Canal Grande. Ebbene, il desiderio suscitato da quei luoghi fantastici è così forte che sembra poter cancellare la distanza a cui sono situati. Dice il Narratore:
Spogliandomi come di un guscio senza oggetto dell’aria della stanza
che mi circondava, la sostituii con parti uguali d’aria veneziana,
quell’atmosfera marina, indicibile e particolare come quella dei sogni, che la mia fantasia aveva racchiuso nel nome di Venezia, sentii
operarsi in me una miracolosa disincarnazione; subito ad essa si aggiunse quella vaga voglia di vomitare che si prova quando si è preso
un grosso mal di gola, e dovettero mettermi a letto con una febbre
così tenace che il dottore dichiarò che occorreva non soltanto rinunciare a farmi partire adesso per Firenze e Venezia, ma, anche
quando fossi stato pienamente ristabilito, evitarmi, da qui ad un anno, ogni progetto di viaggio ed ogni motivo d’agitazione2.
Il Narratore, incapace di risiedere veramente nel luogo concreto
in cui si trova – la sua stanza di Parigi – tenta la più vertiginosa
delle imprese: percorrere l’intervallo spaziale che lo separa dal luogo
bramato, l’unico in cui potrebbe davvero sentirsi a casa propria. Sostiene infatti Proust: “I paesi che desideriamo prendono, in ogni
momento, molto più posto nella nostra vera vita, che il paese in cui
ci troviamo effettivamente”3. E tuttavia quei paesi immaginari si rivelano alfine inabitabili, costringendoci, per respirare la loro aria
tutta virtuale, ad una rischiosa metamorfosi corporea. La febbre che
colpisce il Narratore in seguito all’esercizio eccessivo della sua immaginazione sanziona l’irraggiungibilità delle due città italiane.
Capita però che a indietreggiare dinanzi al suo slancio desiderante siano anche certi luoghi che sembrerebbero invece fisicamente
vicini, tangibili.
Nel primo sorgere della sensualità il protagonista della Recherche
vaga da solo per i boschi di Roussainville, sognando ardentemente
l’apparizione di una contadina da stringere fra le braccia, che sola,
con il suo bacio, potrebbe regalargli “il tesoro nascosto, la bellezza
profonda”4 di quel luogo. Dunque il Narratore avverte che l’essenza
dello spazio naturale in cui è immerso gli sfugge, che quanto è sotto
2
Ibid., p. 386.
Ibid., p. 383.
4
Ibid., p. 155.
3
72
PROUST E LO SPAZIO DELL’OPERA D’ARTE
i suoi occhi non è abbastanza, non è tutto, che il fascino più potente
di quello spettacolo è altrove, nascosto nella carne di una fanciulla
invisibile, nata dalle viscere stesse di quella terra. È lei che ora insegue. E quando infine esasperato dalla vana rincorsa si concede –
pieno di oscuri timori – all’amore solitario, nella stanzetta in cima
alla sua casa di campagna, dalla finestra socchiusa fruga ancora
l’orizzonte, arrestando lo sguardo su di un albero dal quale la fanciulla concupita avrebbe dovuto spuntare come una divinità della
selva. Ma anche tale estremo tentativo è senza frutto: “L’orizzonte
scrutato restava deserto, la notte cadeva, era senza speranza che la
mia attenzione si fissava, come per aspirare le creature che essi potevano celare, su quel suolo sterile, su quella terra inaridita”5. Ed è
con rabbia e frustrazione che si mette poi a colpire i tronchi – come
Michelangelo il suo Mosè! – da cui nessun respiro umano si è liberato. Quel che soltanto poco prima il Narratore aveva ammirato – i
tetti rosa delle case, il fogliame del bosco, le erbe selvatiche – è ancora sotto i suoi occhi, eppure il paese si è fatto stranamente inospitale. La colpa è del desiderio, che scava un vuoto in tutti i luoghi in
cui si posa. Cercandovi ciò che per sua natura non può essere raggiunto – l’oggetto che lo ricolmi pienamente – esso finisce per trasformarli – da presenze che si offrono – in ricettacoli di un’assenza.
È così che gli incantevoli dintorni di Roussainville sono divenuti il
paesaggio disertato dalla fanciulla cui il Narratore aspirava.
Le case, le strade e i viali sono fuggitivi, allora, anche perché in
essi il Narratore insegue qualcosa che sempre fugge, che sempre si
sottrae. E d’altro canto se così non fosse, se non scorgesse in quei
luoghi i segni del passaggio d’una divina sconosciuta, non potrebbe
strapparli all’indifferenza in cui la realtà concreta è per lui immersa.
Accade per i luoghi quel che accade per gli oggetti d’amore (da cui
peraltro sono inseparabili6): ciò per cui li desideriamo – dice
Proust – quel che speriamo di raggiungere quando ci mettiamo a
rincorrerli con tutte le nostre forze, non lo troveremo mai dentro di
loro. “Si ama soltanto ciò in cui s’insegue qualcosa di inaccessibi-
5
Ibid., p. 156.
Cfr. su questo argomento il bel libro di N. Grimaldi, Proust, les horreurs de
l’amour, PUF, Paris 2008.
6
73
ELEONORA SPARVOLI
le”7. E ancora: “Quel che sembra unico in una persona che si desidera non le appartiene”8.
E tuttavia luoghi ed esseri traggono tutto il loro fascino da questa
misteriosa mancanza che albergano in sé. La loro è una bellezza luttuosa, in certo modo. Come quella, per esempio, che l’assenza di
Albertine – la fanciulla amata dal Narratore, prima fuggita e poi
morta in un incidente di cavallo – regala ad una domenica di novembre trascorsa dalle parti del Bois de Boulogne:
Mentre mi avvicinavo al Bois, mi ricordavo con tristezza il ritorno di
Albertine che veniva dal Trocadero a prendermi, poiché era la stessa
giornata, ma senza Albertine. Con tristezza e tuttavia, malgrado tutto, non senza piacere, perché la ripresa in minore, su un tono desolato, dello stesso motivo che aveva riempito la mia giornata d’un tempo, l’assenza stessa […] di quest’arrivo di Albertine, non erano qualcosa di negativo ma con la soppressione nella realtà di ciò che mi ricordavo, davano alla giornata qualcosa di doloroso e ne facevano
qualcosa di più bello d’una giornata compatta e semplice, poiché ciò
che non vi era più, ciò che ne era stato strappato, vi restava impresso come in cavo9.
Proprio come in un’acquaforte, il disegno, mirabile, si produce
non grazie ad un lavoro di aggiunta, di sovrapposizione, ma attraverso lo scavo, la corrosione di una superficie. Osserviamo ancora
l’aspra bellezza – come di un’incisione in bianco e nero – che assume la spiaggia di Balbec, quando il Narratore vi vede camminare
sua madre, che segue le tracce, i veri e propri solchi, lasciati dalla
nonna per sempre scomparsa: “La vidi dalla finestra avanzare tutta
nera, a passi timidi, pii, sulla sabbia che piedi amati avevano calpestato prima di lei, e aveva l’aria di andare alla ricerca di una morta
che i flutti dovevano riportarle”10.
Modello straordinario, quest’ultimo, della caccia alle ombre in
cui sono impegnati tutti i personaggi proustiani: Swann, che lungo il
Boulevard des Italiens all’ora in cui si spengono i lampioni, cerca
Odette, così poco attraente sino a un istante fa e di colpo necessaria
7
M. Proust, La Prisonnière, in A la recherche du temps perdu, 1988, t. III, pp.
885-886.
8
Le Temps retrouvé, in A la recherche du temps perdu, 1989, t. IV, p. 565.
9
Albertine disparue, in A la recherche du temps perdu, t. IV, p. 139.
10
Sodome et Gomorrhe, in A la recherche du temps perdu, 1988, t. III, p. 167.
74
PROUST E LO SPAZIO DELL’OPERA D’ARTE
poiché indisponibile; il Narratore, che passeggiando verso il parco
di Tansonville attende, contro ogni ragionevole previsione,
l’improvvisa epifania di Gilberte; Charlus, che nella camera d’un
bordello, mentre nel cielo della capitale infuria una battaglia
d’aeroplani, chiede invano all’amante di turno d’incarnare l’Ideale
che sogna da una vita. In ognuno di questi luoghi i personaggi inseguono l’inafferrabile profilo d’una creatura che credono capace di
porre fine alla loro angoscia d’amore. Certo, nel viale parigino in
cui il Narratore vede incisa l’assenza di Albertine, o nel mare di
Normandia, cui la madre del protagonista domanda la restituzione
d’un corpo venerato, ci è più facile riconoscere lo spazio svuotato in
cui vaga un’anima in lutto: spazio in cui dimorava un essere che non
c’è più, che ci ha lasciato. Tuttavia, anche gli altri luoghi evocati,
che pure non sono stati visitati dalla morte, sono soggetti, nel romanzo, ad un analogo processo di svuotamento, e l’atmosfera che li
domina – se non è quella del lutto – la ricorda molto da vicino:
quelli in cui si muove il desiderio degli eroi proustiani sono i territori insidiosamente seducenti della melanconia (e sappiamo come
secondo Freud la melanconia si sovrapponga al lutto nell’identica
sensazione d’aver subito una perdita irreparabile11). Chiunque ami,
nella Recherche, rincorre in realtà un oggetto indefinibile, il fantasma di qualcuno che non potrà mai possedere, poiché lo ha già abbandonato all’origine dei tempi e per sempre. (Il fantasma materno,
ci dice la psicanalisi!12). E così tutti i luoghi in cui lo cerca, finiscono
per diventare, al contempo, fascinosi – perché ci s’immagina che alberghino l’Ideale – e desolati, poiché in essi il cercatore non scopre
infine altro che mancanza, sottrazione, vacuità.
Non si possono amare che gli esseri di fuga – sostiene Proust per
tutto il corso del romanzo. E noi potremmo aggiungere: non si possono amare che i luoghi in cui essi fuggono. Quando gli uni come
gli altri si avvicinano, dando l’impressione di appartenerci totalmente, o perdono il loro incanto oppure, se conservano un residuo di
mistero – qualcosa anche di infinitamente piccolo che non ci hanno
concesso –, è proprio a quell’indecifrabile che ci attacchiamo con
ostinazione, imboccando il cunicolo vuoto e senza fondo che noi
11
12
Cfr. il celebre saggio del 1917 intitolato Lutto e melanconia.
Cfr. J. Kristeva, Soleil noir. Dépression et mélancolie, Gallimard, Paris 1987.
75
ELEONORA SPARVOLI
stessi scaviamo nell’oggetto desiderato, sospingendo ogni volta più
indietro la possibilità di toccarlo.
Non c’è modo di riempire quello spazio cavo di cui il desiderio si
alimenta, alimentandolo a sua volta. C’è un episodio emblematico
nella Recherche, in cui si mette in scena il doloroso scacco subito
dal Narratore che aveva creduto di poter appagare i sensi con una
facile conquista. Ricorrendo alla mediazione dell’amico Saint-Loup,
è infatti riuscito ad avere un appuntamento con la bella Mme de
Stermaria, che ha accettato di cenare con lui. Ebbene il Narratore
sceglie, quale scenario dell’annunciata voluttà, un’isoletta del Bois
de Boulogne che – egli sostiene – “mi era sembrata fatta per il piacere poiché mi ero trovato ad andarvi a gustare la tristezza di non
averne alcuno da accogliervi”13. Si tratta dunque d’un luogo supremamente melanconico, che attrae per ciò che in esso è assente.
L’isola del Bois è apparsa, al Narratore, il luogo ideale del piacere
non per quello che ha da offrire, ma per ciò di cui si è trovata ad essere priva, per la cavità che l’oggetto del desiderio – assentandosi –
vi ha lasciato. Il Narratore aggiunge:
È sulle rive del lago che conducono a quest’isola e lungo le quali,
nelle ultime settimane dell’estate, vanno a passeggio le Parigine che
non sono ancora partite, che, non sapendo più dove ritrovarla, e
neppure s’ella ha già lasciato Parigi, vaghiamo nella speranza di veder passare la fanciulla di cui ci siamo innamorati all’ultimo ballo
dell’anno, e che non potremo più ritrovare in nessuna serata di qui
alla primavera prossima14.
Le sponde di questo lago sembrano fatte apposta perché vi si cerchi qualcuno che certamente non si troverà e che d’altro canto sembra non possa essere incontrato da nessun’altra parte se non qui.
Spazio emblematico del desiderio che fruga nel vuoto con accanimento ossessivo, l’isola del Bois non può essere il luogo
dell’appagamento. Mme de Stermaria, all’ultimo momento, declinerà l’invito, lasciando a questo paesaggio, simbolicamente avvolto
nella nebbia, la sua grazia melanconica, e aggiungendo la propria
spettrale presenza a quelle che già lo popolano.
13
Le Côté des Guermantes, in A la recherche du temps perdu, 1988, t. II, p.
679.
14
76
Ibidem.
PROUST E LO SPAZIO DELL’OPERA D’ARTE
La logica del desiderio sembra non lasciare scampo: si desidera
solo ciò che fugge, ma ciò che fugge non potrà mai saziare il desiderio, pacificarlo, spegnerlo. “Di fantasmi inseguiti, dimenticati,
cercati di nuovo, talvolta per un solo incontro e al fine di toccare
una vita irreale che istantaneamente fuggiva via, quei sentieri di
Balbec ne erano pieni”15. La maggior parte della nostra vita si svolge
entro spazi in cui rincorriamo la chimera d’una felicità assente che,
se infine raggiunta – in un attimo di miracolosa coincidenza – si rivelerà inconsistente e ancora una volta fuggitiva. Ma il Narratore
aggiunge, contemplando la natura in cui i sentieri di Balbec sono
immersi: “Pensando che i loro alberi, peri, meli, tamerici, mi sarebbero sopravvissuti, mi sembrava di ricevere da essi il consiglio di
mettermi finalmente al lavoro finché non era ancora suonata l’ora
dell’eterno riposo”16. Proprio quel paesaggio naturale – che non abbiamo saputo guardare se non per cercarvi l’introvabile – quel paesaggio che – solo per noi sfuggente – è in realtà così stabile da durare ben oltre la nostra vita, ci suggerisce di costruire un’opera per poter arginare il lungo sperpero cui il desiderio ci ha costretto. Ma in
che modo l’arte riuscirà ad interrompere la nostra caccia amorosa
nel nulla? Andando forse a colmare quel vuoto che ci separa da luoghi ed esseri, e che – desiderando – non facciamo che approfondire?
Offrendosi, finalmente, come uno spazio pieno ed abitabile?
Stando a quanto Proust afferma nel Temps retrouvé, la pietra
angolare della sua creazione è la memoria involontaria, fenomeno
grazie al quale una certa sensazione presente ne richiama una del
passato, che pareva per sempre dimenticata, regalandoci l’ebbrezza
di poter rivivere un pezzo di esistenza al di là del tempo e delle distanze. È interessante notare che in tali reminiscenze risorgono dei
luoghi. All’inizio della Recherche la madeleine inzuppata nel tè riporta il Narratore a Combray, paesino in cui era solito, durante
l’infanzia, trascorrere le vacanze. Verso la fine del romanzo, la mattonella sconnessa nel cortile di palazzo Guermantes gli riconsegna –
per analogia col pavimento del battistero di San Marco – l’essenza
del suo viaggio a Venezia, aprendo la via ad una serie di eventi
analoghi, in seguito ai quali rivivranno Balbec, evocata dalla ruvi15
16
Sodome et Gomorrhe, p. 401.
Ibidem.
77
ELEONORA SPARVOLI
dezza d’un tovagliolo e – per il rumore metallico di un cucchiaio
contro un piatto – il piccolo bosco nei dintorni di Parigi dove il treno su cui viaggiava il Narratore s’era fermato per un guasto a una
ruota. Ebbene questa serie di oggetti magici (biscotto, mattonella,
tovagliolo e cucchiaio)17 non soltanto permettono all’eroe della Recherche di riavere accesso a luoghi frequentati nel passato, ma lo introducono nell’ultimo degli spazi in cui si tratterrà: quello ove è destinata a prender forma l’opera d’arte. È infatti grazie a quei fenomeni che il Narratore scoprirà finalmente la sua vocazione di scrittore.
Cerchiamo di capire perché lo spazio della memoria involontaria
prelude in modo così chiaro a quello dell’arte, costituendone, per
così dire, l’anticamera e il modello ideale.
Dinanzi all’incredibile felicità che lo invade in queste resurrezioni
successive il Narratore osserva:
Tante volte, nel corso della mia vita, la realtà mi aveva deluso perché nel momento in cui la percepivo la mia immaginazione, che era
il mio solo organo per godere della bellezza, non poteva applicarsi
ad essa, in virtù della legge inevitabile che vuole che si possa immaginare soltanto ciò che è assente. Ed ecco che d’improvviso l’effetto
di questa dura legge si era trovato ad essere neutralizzato, sospeso,
da un espediente meraviglioso della natura che aveva fatto scintillare
una sensazione […] al contempo nel passato, il che permetteva alla
mia immaginazione di gustarla, e nel presente in cui la vibrazione effettiva dei miei sensi al rumore, al contatto con la stoffa, ecc. aveva
aggiunto ai sogni dell’immaginazione ciò di cui sono abitualmente
sprovvisti, l’idea d’esistenza18.
Notiamo innanzitutto la chiara formulazione dell’implacabile
meccanismo che abbiamo finora rilevato: la sola bellezza di cui sia
possibile godere è quella d’un oggetto assente. Inesorabile legge che
sembrerebbe tuttavia essere trasgredita nelle occorrenze della memoria involontaria, in cui ciò che rende felice il Narratore è qualcosa che
è allo stesso tempo concreto e immaginario. Ma a ben guardare tale
trasgressione è solo apparente: il Narratore riesce infatti a gioire
17
Su questo tema ha scritto belle e celebri pagine J. Rousset, Forme et signification, Corti, Paris 1962.
18
Le Temps retrouvé, pp. 450-451.
78
PROUST E LO SPAZIO DELL’OPERA D’ARTE
dell’impressione presente solo nella misura in cui essa si trasfigura, si
transustanzia, accogliendo in sé una sensazione passata, cioè qualcosa
che di per sé non ha materia. Il presente diventa fonte di felicità perché lascia che l’emblematicamente assente – il passato – lo invada,
prendendo in prestito per un attimo i caratteri dell’esistenza reale.
“Sempre, in quelle resurrezioni, il luogo lontano generato attorno alla
sensazione comune si era accoppiato un istante, come un lottatore, al
luogo attuale”19. Ma il prodigioso duello è transitorio: “Queste Combray, Venezia, Balbec, invadenti e rimosse […] si elevavano per poi
abbandonarmi”20. E ancora: “quella contemplazione, sebbene di
eternità, era fuggitiva”21. Appena ricomparsi – come miraggi illusori,
come “trompe-l’œil” suggerisce il Narratore22 – i luoghi del passato
tornano a fuggire, col rischio di trasformare, ancora una volta, i luoghi presenti in spazi d’abbandono e di rimpianto. “Sempre il luogo
attuale era stato vincitore; sempre il vinto mi era parso il più bello”23.
La bellezza è – come al solito – dalla parte di ciò che viene a mancare,
di ciò che scappa via.
E ciononostante, non possiamo negare che dai fenomeni – pur fugaci – di reminiscenza involontaria il Narratore si ritragga con uno
stato d’animo diverso da quello con cui per tutta la vita si è visto
sfuggire dalle mani qualunque oggetto avesse affannosamente voluto
possedere. Nel primo affievolirsi della sua pena amorosa per Albertine, il cui mistero non è mai riuscito a rischiarare, il Narratore aveva
concluso: “La verità e la vita sono davvero ardue, e mi restava di esse,
senza che insomma le conoscessi, un’impressione in cui il dispiacere
era forse ancora superato dalla stanchezza”24. Invece, della visione
istantanea d’un frammento, risorto, di passato, ci dice: “E tuttavia
sentivo che il piacere che essa m’aveva, a rari intervalli, donato nella
vita, era il solo che fosse fecondo e veritiero”25. È come se stavolta il
meccanismo di svuotamento dello spazio reale – prima penetrato
dalla sostanza immateriale ed imprendibile di cui sono fatti sogni e
19
Ibid., p. 453.
Ibidem.
21
Ibid., p. 454.
22
Ibid., p. 452.
23
Ibid., p. 453.
24
Albertine disparue, p. 202.
25
Le Temps retrouvé, p. 454.
20
79
ELEONORA SPARVOLI
ricordi, e poi di nuovo abbandonato alla sua ordinaria concretezza –
anziché generare un frustrante sentimento di mancanza avesse lasciato qualcosa tra le mani del Narratore. Un dono destinato a portare
frutto.
Il fatto è che l’impressione passata si apre un varco nel presente
grazie a una condizione psicologica che è l’opposto del desiderio. Desiderando, attiviamo ogni nostra energia per convogliarla in un infecondo lavoro di scavo; il ricordo involontario, invece, riemerge in seguito all’allentarsi della tensione, alla sospensione della volontà. Nella
nostra memoria inconscia non si va mai a depositare ciò che abbiamo
cercato a tutti i costi di ricordare, ciò di cui abbiamo preso nota, fotografandolo interiormente, ma al contrario tutto quello a cui non
abbiamo badato, quel che ci è sfuggito, che abbiamo rimosso, dimenticato. È dunque solo in uno spazio di disattenzione, di interruzione
d’ogni ricerca, che questo tesoro nascosto può riaffiorare in superficie. Ecco lo stato d’animo del Narratore un attimo prima che il pavimento sconnesso della residenza dei Guermantes gli riconsegni la visione iridescente di Venezia: “Rimuginando i tristi pensieri di cui
parlavo un istante fa, ero entrato nel cortile di Palazzo Guermantes e
nella mia distrazione non avevo visto una vettura che avanzava; […]
indietreggiai abbastanza per inciampare mio malgrado nei ciottoli
mal livellati dietro i quali si trovava una rimessa”26. Sconforto, mancanza di concentrazione, perdita d’equilibrio, e un momento dopo
un’invadente felicità. Inattesa, immeritata. Certo, effimera, fuggitiva
anch’essa, ma non perduta per sempre. Così il Narratore definisce i
luoghi concreti visitati un istante e poi di nuovo disertati dalle
resurrezioni memoriali: “luoghi nuovi, ma permeabili per il passato”27. Lo spazio che accoglie i fenomeni della memoria non è allora né
uno spazio pieno e compatto che si offre, né uno spazio svuotato che
si sottrae, bensì uno spazio poroso, che non afferra ma si lascia intridere per poi rilasciare la sostanza assorbita, e più avanti, magari, essere di nuovo imbevuto delle straordinarie immagini che senza saperlo
custodiamo in noi.
È allo stesso modo rarefatto e penetrabile lo spazio in cui si genera e vive l’opera d’arte. “I veri libri devono essere i figli non della
26
27
80
Ibid., p. 445.
Ibid., p. 453.
PROUST E LO SPAZIO DELL’OPERA D’ARTE
piena luce e della conversazione, ma dell’oscurità e del silenzio”28.
Lungi dall’accostarlo alle cose che nell’esistenza ha tentato di raggiungere – esseri amati, piaceri, città sognate, eleganti riunioni aristocratiche – il romanzo da scrivere tiene il Narratore più che mai
distante da esse. Tuttavia in questo spazio definitivamente separato,
in cui il desiderio ha lasciato il posto alla costruzione dell’arte, le
impressioni della vita si riaffacciano. Ma è come se la grande distanza da cui provengono, ne avesse, nel cammino, mutato la natura: esse paiono ora alleggerite del peso della materia, purificate
d’ogni contingenza, riportate all’essenza, finalmente chiare e comprensibili. Proprio come ogni frammento di passato che la memoria
involontaria richiama in vita: “liberato di quanto c’è d’imperfetto
nella percezione esteriore, puro e disincarnato”29. È avendo assunto
questa nuova forma che un’esistenza individuale – quella dello scrittore – diviene universale. Certo, in tal modo essa smette di appartenergli, e tuttavia, pur non essendo in suo possesso, non è perduta.
Ogni libro, dice Proust, è un grande cimitero: nelle sue tombe
senza nome giacciono tutte le creature realmente vissute che sono
servite, magari, a fare un solo personaggio in cui miriadi di lettori
sapranno immedesimarsi. La singolare felicità dell’artista non scaturisce – come la legge del desiderio vorrebbe – dall’appropriazione,
ma dall’autentico dono di sé – dal sacrificio – che egli compie.
Io dico che la legge crudele dell’arte è che gli esseri muoiono e che
noi stessi moriamo esaurendo tutte le sofferenze perché spunti l’erba
non dell’oblio ma della vita eterna, l’erba fitta delle opere feconde,
sulla quale le generazioni verranno gaiamente, senza cura di quelli
che dormono sotto, a fare la loro «colazione sull’erba»30.
Se nei territori lontani dalla vita, in cui si è ritirato per creare,
l’artista riesce infine ad innalzare una cattedrale, non dobbiamo
immaginare ch’essa diventi dunque la sua casa: lo spazio in cui riesce finalmente ad abitare, sistemandovi i suoi più cari arredi. No, la
sua sublime costruzione non ha né mura, né portali, né volte, né vetrate, e si espone – nel nudo splendore delle sue strutture – a invasioni ininterrotte.
28
Ibid., p. 476.
Ibid., p. 447.
30
Ibid., p. 615.
29
81
Far memoria dell’incontro: dal colore
al quadro, dallo spazio al testo
DAVIDE VAGO
Davide Vago
Assegnista di ricerca in Letteratura francese presso
l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si
occupa del problema della visione e della percezione
cromatica nel testo della Recherche.
Il presente studio avrà come oggetto due passi della Recherche
che narrano l’incontro tra l’eroe-narratore e due figure femminili
fondamentali per il romanzo: in un caso si tratta di Gilberte Swann;
nell’altro della “petite bande” di giovani fanciulle, in cui si nasconde Albertine, la protagonista della storia d’amore narrata nella seconda metà dell’opera.
Perché tale scelta? Studiare il funzionamento di una singola scena
importante – come quella dell’incontro amoroso – significa in realtà
rivelare alcune delle tendenze profonde della scrittura di un autore.
Per la nostra analisi approfondiremo alcuni passi da vicino, con occhiali da miopia, per così dire, dato che “il pittore originale, l’artista
originale procedono con la tecnica degli oculisti”1. Per Proust, ogni
scrittore propone al lettore occhiali diversi, cioè una nuova visione
del mondo. Ancor meglio, una nuova visione dello spazio del mondo.
Due riferimenti critici, nella sterminata bibliografia proustiana,
fungeranno da guida nella nostra analisi: Georges Poulet con
L’espace proustien e Jean Rousset con Leurs yeux se rencontrèrent2.
La scena dell’incontro ‘amoroso’ tra un giovane e una giovane, la
scène de première vue in cui scatta la scintilla della passione, è descritta, nei passi che ora analizzeremo, in maniera inscindibile dal
luogo dell’avvenimento. Georges Poulet scrive che i “veri” spazi
proustiani sono quelli legati a specifiche presenze umane. Quasi mai
nel testo un luogo è descritto senza che in primo piano si profili un
viso più o meno determinato; viceversa, quando il volto di un qualche personaggio si percepisce, esso trova immediatamente un quadro in cui inserirsi. Più precisamente: una cornice spaziale.
1
M. Proust, La parte di Guermantes, in Alla ricerca del tempo perduto, traduzione di G. Raboni, Mondadori, Milano 1983-1993, coll. “I Meridiani”. La citazione in questione si trova in t. 2, p. 394.
2
G. Poulet, L’espace proustien, Gallimard, Paris 1963; J. Rousset, Leurs yeux
se rencontrèrent. La scène de première vue dans le roman, José Corti, Paris 1984.
85
DAVIDE VAGO
Questo è ancor più evidente quando il volto che si mostra sconcerta l’eroe-narratore con i primi turbamenti d’amore. In tal caso, lo
spazio si modella soggettivamente in funzione del volto percepito.
Un’altra conseguenza che deriva da tale inoggettività del luogo
proustiano è che, nella memoria del narratore – così come in quella
del lettore – tale personaggio riaffiori costantemente legato a quella
precisa cornice spaziale. Anticipando quindi una delle nostre conclusioni, possiamo dire che in tale processo è visibile la straordinaria
modernità del capolavoro proustiano: nei meccanismi memoriali,
infatti, lo spazio del quadro diventa anche una delle mutevoli stanze
della memoria. Essa, infatti, non è priva di errori e di ambiguità, dato che ogni incontro, specie quello d’amore, provoca un viaggio
iniziatico che si concretizza in una traversata di dimenticanze e imprecisioni.
1. L’incontro con la “petite bande”
Entriamo quindi nel merito della dimensione spazio-temporale
dell’incontro amoroso proustiano. Per la nostra analisi, invertiremo
gli episodi di incontro amoroso, partendo dal secondo in ordine
temporale (quello con Albertine, quando il narratore è un adolescente) per chiudere sul primo, con Gilberte Swann, avvenuto durante l’infanzia.
Il primo passo che analizzeremo presenta dunque il primo approccio dell’eroe-narratore con la “petite bande” di fanciulle a Balbec, località di villeggiatura inventata da Proust e situata, nella geografia del romanzo, sulle coste della Normandia.
Durante l’ora della passeggiata sulla diga, il narratore è colpito
da un gruppo di ragazzine. Sportive, senz’ombra di dubbio: una di
esse spinge una bicicletta, un mezzo di locomozione relativamente
nuovo per l’epoca. Altre due portano delle mazze da golf.
Si tratta di un gruppo eterogeneo in una doppia accezione: da
una parte, esso differisce dagli altri villeggianti di Balbec, a tal punto che le fanciulle vengono definite come una “banda” a sé stante.
D’altra parte, il gruppo di ragazzine spregiudicate e indipendenti
presenta al suo interno una notevole varietà nella forma del volto,
nei colori della carnagione e degli occhi, nelle fattezze del corpo:
86
FAR MEMORIA DELL’INCONTRO
Benché ognuna rappresentasse un tipo completamente diverso dalle
altre, tutte erano in qualche modo belle; ma, a dire il vero, le vedevo
da così pochi istanti, e non osando guardarle fissamente, che non ne
avevo ancora ben individuata nessuna3.
Eterogenea nelle sue componenti, eppure omogenea nell’ideale
moderno e sportivo di bellezza che esprime: la “petite bande” di
fanciulle qui descritta si trasforma nelle parole di Proust in un immaginario, ma pur sempre possibile, quadro futurista.
A parte una, che con il suo naso dritto e la pelle bruna spiccava per
contrasto come, in un quadro del Rinascimento, un Re Mago di tipo
arabo, riuscivo a distinguerle soltanto, questa per un paio d’occhi
duri, sfrontati e ridenti, quella per le guance il cui rosa aveva la sfumatura ramata che evoca l’idea del geranio; e persino questi erano
tratti che non potevo ancora associare in modo indissolubile a una
piuttosto che a un’altra di loro; e quando (nell’ordine secondo il
quale veniva svolgendosi quell’insieme, meraviglioso perché vi coesistevano gli aspetti più eterogenei e tutte le gamme di colore vi figuravano accostate, ma confuso come una musica nella quale non
avessi saputo isolare e riconoscere, via via che passavano, le singole
frasi, percepite ma subito dimenticate) vedevo emergere un ovale
bianco, degli occhi neri, degli occhi verdi, mi chiedevo se fossero gli
stessi dai quali, un istante prima, ero già stato affascinato, non potevo attribuirli a una certa fanciulla, staccata dalle altre e identificata.
E questa assenza, nella mia visione, di confini che ben presto avrei
stabiliti, propagava per tutto il gruppo un ondeggiamento armonioso, la traslazione continua d’una bellezza fluida, mobile e collettiva.
Concentriamoci sulla tecnica descrittiva di Proust.
Della banda di fanciulle, il narratore coglie in prima istanza le linee (o meglio, il tratto del disegno) e le zone di colore (anche se non
ancora definite). Otteniamo in tal modo un primo elemento diritto,
quello della linea del naso; in seguito, emerge l’“ovale bianco” del
volto di una delle fanciulle.
La trasformazione della descrizione dalle parole del testo alla visione di un quadro (la cosiddetta tecnica dell’ekphrasis) è amplificata dalla presenza di un cromatismo particolarmente sviluppato: la
“pelle bruna” (fonte della comparazione con un Re Mago arabo di
3
All’ombra delle fanciulle in fiore, in Alla ricerca del tempo perduto, t. 1, pp.
957-958.
87
DAVIDE VAGO
un quadro rinascimentale); il rosa “ramato” evocatore di un geranio; il bianco dell’ovale; infine, gli occhi neri e verdi.
Ora, tali linee e tali zone cromatiche non sono percepite dal narratore in maniera ben definita. Egli non riesce, infatti, ad individuare i tratti di una fanciulla rispetto a quelli di un’altra. La sua è dunque – almeno all’inizio – una percezione d’insieme: come quella di
un quadro visto per la prima volta da una certa distanza. A mano a
mano che egli si avvicina al quadro, alcuni particolari diventano più
precisi.
Ciononostante, tale movimento di avvicinamento e di riconoscimento non si conclude in questa progressione; ad essa si contrappone infatti una sorta di regressione, dato che la percezione di tale
gruppo è falsata dall’avvicinamento delle fanciulle che si spostano
sulla diga. La banda si “svolge” nel tempo, e ciò confonde
l’attribuzione di quei tratti dopo che essi sono stati individuati. Da
qui il paragone, chiuso in parentesi, di tale percezione con “una
musica nella quale non avessi saputo isolare e riconoscere, via via
che passavano, le singole frasi, percepite, ma subito dimenticate”.
Tale confusione genera però, congiuntamente, una sensazione di
armonia: la descrizione si chiude, infatti, con l’evocazione di “una
bellezza fluida, mobile e collettiva”.
Potremmo confrontare le caratteristiche qui individuate con le
raffigurazioni pittoriche di numerosi autori cubisti o futuristi. La
descrizione proustiana si lega in modo inscindibile – quanto meno a
livello di tecnica – alle istanze avanguardiste di inizio secolo.
Del resto, come leggeremo tra poco, tali fanciulle sembrano appartenere “alla popolazione che frequenta i velodromi” e sono definite come “le giovanissime amanti di corridori ciclisti”. Uno sport
moderno, il ciclismo, entra nell’immaginario della letteratura, così
come la velocità, la fluidità e la confusione percettiva sono i tratti
comuni delle avanguardie d’inizio secolo. La tecnica descrittiva
dello spazio è, dunque, modernista.
2. Il “polo noir” di Albertine
All’interno del gruppo di queste fanciulle emerge però la ragazza
con il “polo” nero calcato sulla testa. Si tratta di Albertine, la don-
88
FAR MEMORIA DELL’INCONTRO
na che segnerà la vita del narratore con una relazione ora idilliaca,
ora cannibale, ora improntata alla gelosia, e che terminerà in maniera tragica.
L’individuazione di Albertine all’interno della banda avviene dopo un certo lasso di tempo. La linea di discrimine è data
dall’episodio del vecchio banchiere, il quale, mentre è seduto su un
seggiolino pieghevole, viene letteralmente superato dalle ragazze del
gruppo con un balzo dalla pedana dei suonatori (trasformata in un
trampolino di lancio per queste fanciulle sportive). Sembra che tale
slancio fisico abbia come conseguenza un’accelerazione del processo
di decodifica del narratore stesso, come si evince dal passo seguente:
Adesso, i loro tratti affascinanti non erano più mescolati e indistinti.
Li avevo suddivisi e agglomerati (in mancanza del nome di ciascuna,
che ignoravo) intorno alla più alta, ch’era saltata sopra la testa del
vecchio banchiere; alla piccola, le cui guance rosee e paffute e i cui
occhi verdi si stagliavano contro l’orizzonte marino; a quella dal
colorito bruno, dal naso diritto, che contrastava con tutte le altre; a
un’altra dal viso bianco come un uovo, nel quale il nasino tracciava
un arco di circonferenza simile al becco d’un pulcino, un viso come
ne hanno solo certe creature giovanissime; a un’altra ancora, alta,
con indosso una mantellina […]; a una fanciulla dagli occhi luminosi, ridenti, dalle larghe guance olivastre sotto un “polo” nero ben
calcato sulla testa, che spingeva una bicicletta ancheggiando in
modo così dinoccolato e, quando le passai accanto, parlava usando
termini gergali così sguaiati (fra cui distinsi l’incresciosa espressione
“vivere la propria vita”) e a voce così alta che […] giunsi piuttosto
alla conclusione che quelle ragazze appartenessero tutte alla popolazione che frequenta i velodromi e dovessero essere le giovanissime
amanti di corridori ciclisti4.
Notiamo come i dettagli individuati dal narratore mescolino ancora una volta linee da disegno (“l’arco di circonferenza”, la rotondità dell’“uovo”), ora maggiormente definite, a tracce di colore
meglio precisate. In mancanza del nome proprio5, il colore degli oc4
Ibid., pp. 960-961.
“Enfin le nom: «les personnages demeurent inexistants aussi longtemps qu’ils
ne sont pas baptisés», cette remarque de Gide dans son Journal des FauxMonnayeurs concerne le romancier au travail; une notation analogue de Proust
vaut pour le personnage lui-même: «ce nom de Gilberte, donné comme un tali5
89
DAVIDE VAGO
chi funziona come un indicatore che lega in maniera inscindibile il
personaggio che sta emergendo allo spazio circostante: gli “occhi
verdi” che si stagliano “contro l’orizzonte marino”.
Come abbiamo ribadito inizialmente, ogni personaggio proustiano persiste nella memoria del narratore (e in quella del lettore) legato ad un sito spaziale preciso che funge, per così dire, da quadro.
Così è per il gruppo della “petite bande” che si staglia sulla diga e
sulla marina di Balbec. Così è, di conseguenza, per Albertine che sarà più volte citata nel testo proustiano come “le rose profil sur la
mer”. Dal colore della silhouette di Albertine si passa ad una visione
d’insieme, dallo spazio così definito si passa poi, col trascorrere del
tempo, alla memoria.
Emerge infatti il “polo noir” di una fanciulla, dallo sguardo intelligente e dal linguaggio “gergale” e “sguaiato” (il testo francese,
più precisamente, parla di “termes d’argot si voyous et criés si
fort”). Il doppio riferimento sportivo, dal polo al ciclismo (il cappello di tipo “polo” deriva dall’abbigliamento consono alla specifica
disciplina sportiva, e indica chiaramente una certa mascolinità di
chi lo indossa) la rendono una figlia della modernità novecentesca.
L’ultimo passo che analizzeremo riguardo a questo incontro presenta però un indizio interessante per il nostro scopo:
Tutta intenta alle parole delle compagne, quella fanciulla dal “polo”
calcato così basso sulla fronte m’aveva visto nel momento in cui il
raggio nero emanato dai suoi occhi aveva incontrato la mia figura?
E, se m’aveva visto, che cosa avevo potuto rappresentare per lei? Dal
grembo di quale universo mi scorgeva? Dirlo mi sarebbe stato difficile così come, quando il telescopio ci rivela certe particolarità di
un astro vicino, è arduo concluderne che degli esseri umani vi abitino, che ci vedano, e quali idee tale vista abbia potuto destare in loro.
sman… me permettrait peut-être de retrouver un jour celle dont il venait de faire
une personne…», ce qui vaut également pour le lecteur…”. Traduciamo per il lettore italiano: “Infine il nome proprio: «i personaggi restano inesistenti finché non
viene loro imposto il nome di battesimo», quest’annotazione di Gide nel suo Journal des Faux-Monnayeurs riguarda lo scrittore al lavoro; un’annotazione analoga
di Proust si applica allo stesso personaggio: «quel nome di Gilberte, offertomi come un talismano… mi avrebbe forse permesso di ritrovare un giorno colei che,
grazie ad esso, era appena diventata una persona...», il che vale altrettanto per il
lettore…” (J. Rousset, Leurs yeux se rencontrèrent, p. 42).
90
FAR MEMORIA DELL’INCONTRO
Concentriamoci sul raggio nero emanato dagli occhi della fanciulla: il cappello è calcato a tal punto che il colore nero scivola letteralmente (in francese si parlerebbe di glissement) dal capo allo
sguardo. Questa frase è dunque la prova che il funzionamento della
descrizione proustiana procede per ‘quadri’ modernisti. L’esitazione
cromatica del nero che passa dal cappello allo sguardo è indice della
confusione esistente tra le forme del quadro che si forma agli occhi
del narratore. Il tratto cromatico deborda dai limiti del disegno, si
allunga, entra negli occhi per saettare immediatamente dopo verso il
narratore: lo sfasamento tra le forme riecheggia le plasticità cubiste
dei piani prospettici che si compenetrano, generando ibridità.
Questa tipica scena di première vue (gli strali degli occhi, di petrarchesca memoria6 che colpiscono il poeta), pur confermando un
topos letterario tradizionale, ne inventa, per così dire, la versione
novecentesca: l’immagine che chiude il passo, l’ipotesi che altri esseri umani ci osservino dagli astri vicini, conferma l’apertura di
Proust alla modernità.
Non solo: tale scena conferma ciò che critici importanti come
Genette e Richard7 hanno evidenziato a proposito della visione del
mondo di Proust, fondata sulla contiguità degli esistenti le cui qualità si sommano, si confondono, si mescolano nella percezione soggettiva del Narratore. Tale meccanismo provoca il fenomeno del
glissement (letteralmente: scivolamento) delle proprietà dall’uno
all’altro degli elementi del mondo proustiano. La conseguenza di
tale fenomeno non è altro che quello che Proust definisce
“métaphore”: una visione qualitativamente diversa dell’universo da
parte dell’artista, che fonde il suo spirito con il nuovo “montaggio”
degli elementi del mondo, rifondendoli nei cerchi perfetti dello stile.
Lo spazio proustiano è, inesorabilmente, una questione di forma,
cioè un’écriture.
6
Cfr., a titolo di esempio, i celebri versi di Petrarca: “Era il giorno ch’al sol si
scoloraro / per la pietà del suo factore i rai, / quando i’ fui preso, et non me ne
guardai, / ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro. // […] Trovommi Amor del tutto
disarmato / et aperta la via per gli occhi al core, / che di lagrime son fatti uscio et
varco / [...]” (Rerum vulgarium fragmenta, III).
7
Cfr. G. Genette, Métonymie chez Proust, in Figures III, Seuil, Paris 1972, pp.
41-63; J.-P. Richard, Proust et le monde sensible, Seuil, Paris 1974.
91
DAVIDE VAGO
Inoltre, l’immagine del quadro di Albertine possiede la caratteristica essenziale di trasformarsi nel tempo, così come – ad una frequenza naturalmente molto più accentuata – un quadro futurista di
Balla vorrebbe fissare sulla tela il movimento vibratorio della mano
di un violinista8. Tale trasformazione avviene, per esplicita ammissione di Proust, in questo modo:
È così, immobile, gli occhi sfavillanti sotto il suo polo, che ancor
oggi la rivedo, profilata sullo schermo creatole dallo sfondo del mare, fra lei e me lo spazio trasparente e azzurrato del tempo nascosto
da quei giorni, immagine prima, così esile nel mio ricordo, desiderata, inseguita, poi obliata, poi ritrovata, d’un viso che tante volte,
dopo, ho proiettato nel passato per potermi dire, d’una fanciulla
ch’era nella mia camera: “È lei!”9.
Lo spazio del mare diventa lo schermo del profilo di Albertine:
ma tal spazio marino subisce la metamorfosi in spazio del tempo,
diventando immagine memoriale impressa nello spirito del narratore. Come una fotografia di un volto in controluce, la cui forma scura è riempita successivamente dalla sovraimpressione di strati memoriali diversi, da esperienze amorose variegate – tutte confrontate
e entrelacées con questo quadro primordiale – ecco che lo spazio di
Albertine trascorre il tempo, si modifica pur restando, paradossalmente, sempre uguale.
3. Sul colore degli occhi di Gilberte Swann
Passiamo ora al secondo episodio oggetto della nostra indagine,
quello dell’incontro tra il narratore e Gilberte Swann, la figlia di M.
Swann e di Odette de Crécy.
Precisiamo anzitutto che Gilberte Swann era stata già oggetto di
un pre-incontro, per così dire ‘virtuale’ nell’immaginario del narratore: ella è infatti amica di Bergotte, lo scrittore che all’epoca era
oggetto dell’idolatria del giovane eroe. Il narratore si immaginava
8
Ci riferiamo alla celebre tela di Giacomo Balla, intitolata “La mano del violonista” (1912). Da notare che tale tela precede di pochi anni la descrizione proustiana della “petite bande”.
9
All’ombra delle fanciulle in fiore, p. 1005.
92
FAR MEMORIA DELL’INCONTRO
infatti che il suo modello letterario e M.lle Swann visitassero assieme le cattedrali e i castelli che sorgono nell’Île-de-France.
La visione che precede l’incontro è dunque un paesaggio mentale
per due ragioni: innanzitutto è carico di suggestioni storiche (le visite in Île-de-France); in secondo luogo, è posto sotto l’egida della rielaborazione letteraria. Il narratore incontra Gilberte attraversando
la letteratura (simbolizzata, all’epoca, da Bergotte).
Se queste sono le premesse, veniamo ora all’incontro reale. Lungo la passeggiata che costeggia la proprietà di M. Swann, il giovanissimo narratore è in compagnia del padre e del nonno, il quale fa
scoprire al protagonista un fiore ancor più bello dei tanto amati
biancospini: lo spino rosa. La sensualità della descrizione di quei
fiori, che sembrano assumere la tinta di un cibo commestibile, prepara il lettore a quell’euforia dei sensi che caratterizza la scena
dell’incontro con Gilberte. Nel romanzo proustiano tale euforia sensoriale annuncia solitamente un momento di rivelazione, solo intuito e (quasi) mai concluso.
Attraverso la siepe degli spini, il Narratore può spiare ciò che accade all’interno del parco degli Swann:
Attraverso la siepe si poteva scorgere all’interno del parco un viale
bordato di gelsomini, di viole del pensiero e di verbene, in mezzo ai
quali delle violacciocche schiudevano le loro borse fresche d’un rosa
odoroso e sbiadito come quello di un vecchio cuoio di Cordova,
mentre sulla ghiaia un lungo tubo per innaffiare verniciato di verde
svolgeva le sue spire, lanciando in corrispondenza dei suoi fiori, al di
sopra dei cespugli di cui irrorava i profumi, il ventaglio verticale e
prismatico delle sue minuscole gocce multicolori. Tutt’a un tratto mi
fermai, fui incapace di muovermi, come succede quando una visione
non si indirizza solo al nostro sguardo ma sollecita percezioni più
profonde e s’impadronisce del nostro essere nella sua interezza. Una
ragazzina d’un biondo rossiccio, che aveva l’aria di tornare da una
passeggiata e reggeva in mano una vanga da giardiniere, ci guardava
alzando il suo viso cosparso di efelidi rosa. I suoi occhi neri brillavano, e poiché allora non sapevo, né l’ho imparato in seguito, ridurre ai puri elementi oggettivi una forte impressione, non avendo abbastanza di quel che si definisce “spirito d’osservazione” per isolare
la nozione del loro colore, per molto tempo, ogni volta che ripensavo a lei, il ricordo del loro sfavillio mi si presentò senz’altro come
quello di un vivido azzurro, dal momento che i suoi capelli erano
93
DAVIDE VAGO
biondi: al punto che, forse, se non avesse avuto degli occhi così neri – ciò che colpiva tanto chi la vedeva per la prima volta – non mi
sarei più particolarmente innamorato, come mi innamorai, di quei
suoi occhi azzurri10.
Di questo passo sottolineiamo alcuni aspetti che contribuiscono,
ancora una volta, alla costruzione del quadro.
Mentre il contorno floreale funge da cornice nella sua molteplicità, il tratto curvo che sembra disegnarsi sotto i nostri occhi è quello
del “ventaglio verticale e prismatico” delle “gocce multicolori”
dell’acqua per innaffiare. Si tratta di una raffinata descrizione di un
arcobaleno, che scompone la luce naturale nei fasci cromatici del
prisma grazie alla presenza dell’umidità sospesa dell’acqua. Da questa manierata orchestrazione di tinte ecco che ben precise tracce di
colore materializzano di colpo una visione femminile: destinata,
come esplicitato dal testo, a sollecitare “percezioni più profonde”
della semplice vista. L’incontro con Gilberte è segnato da
un’improvvisa e inaspettata violenza: “tutt’a un tratto” il narratore
è talmente irrigidito nei suoi movimenti da restare immobilizzato.
Quel che colpisce il narratore è il biondo rossastro dei capelli che
chiude il cerchio del viso, il quale a sua volta è punteggiato, come se
si trattasse di un quadro pointilliste, di efelidi rosa. Lo spino rosa
della siepe, la cui descrizione precede l’incontro, si presenta sotto
nuova specie nel volto di Gilberte. Sottolineiamo au passage la riproposizione di un’altra linea, ancora una volta verticale: la linea
della vanga da giardino, tenuta in mano dalla stessa ragazzina.
Infine, gli occhi. Se all’inizio vibrano di un nero lucente, così come appaiono alla prima impressione, si trasformano, nel ricordo, in
un “vivido azzurro” (il testo francese riporta: “vif azur”). Anzi,
Proust sottolinea che proprio per la loro caratteristica di nera lucentezza, egli si innamora sempre più del loro sfavillante azzurro.
Per riuscire a spiegare questo ‘equivoco cromatico’, a nostro avviso molto interessante, sono state formulate varie ipotesi. Per l’eroe
del romanzo proustiano, ogni impressione sensoriale è fortemente
marcata dalla soggettività di chi guarda11. La prima visione del volto
10
Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, t. 1, pp. 171-172.
“Ce réel brusquement perçu est-il plus vrai que la figure d’abord imaginée?
On sait que la question ainsi posée n’a pas beaucoup de sens chez Proust, pour qui
11
94
FAR MEMORIA DELL’INCONTRO
amoroso non può che essere, dunque, lacunosa e alterata. Per meglio comprenderla bisogna dunque interpretarla come un segno:
decifrarla con altri mezzi12.
Il primo di questi strumenti è l’archetipo. Tale prima impressione, molto forte, crea un doppione cromatico guidato dal desiderio:
poiché la fanciulla è bionda, essa è l’archetipo della donna amata di
gran parte della letteratura occidentale. Da neri, quali essi sono in
realtà, i suoi occhi diventano azzurri, in conformità ad un archetipo
facilmente riconoscibile. L’azzurro è un colore assente, ma che diventa presente nel testo doppiando la ‘guaina’13 cromatica dell’iride
di Gilberte.
Jean Rousset, commentando la frase tipica dell’incontro amoroso
(“et leurs yeux se rencontrèrent”, e i loro occhi si incontrarono) sottolinea giustamente che tale frase può apparire sotto la forma “et
leurs yeux se troublèrent”: il verbo troubler non significa solo – come riporta il dizionario – “confondere, perturbare, agitare”, ma
come primo significato indica il cambiamento del tono cromatico e
della trasparenza dell’oggetto.
Alcuni critici14 hanno azzardato altre ipotesi. Ad esempio,
un’interpretazione del passo coerente con la filosofia di Emmanuel
Lévinas. Il filosofo francese ha scritto infatti che “la meilleure manière de rencontrer autrui, c’est de ne pas même remarquer la coutoute perception est fortement marquée de subjectivité” (“Questa realtà percepita
d’improvviso è più vera del viso dapprima immaginato? è noto che una domanda
così posta non ha molto senso per Proust, per il quale ogni percezione è fortemente
intrisa di soggettività”) (J. Rousset, Leurs yeux se rencontrèrent, p. 123).
12
“L’essentiel n’est pas là, il est dans l’interprétation de ces signes divers”
(“L’essenza non è qui, ma nell’interpretazione di questi segni diversi”) (Ibid., p.
124).
13
Così la definizione del termine gaine nel Trésor de la langue française: “étui
de protection et de rangement, étroitement adapté à la forme de l’objet qu’il est
destiné à contenir”. Con l’immagine della gaine noi vorremmo indicare che
l’insistenza sulla materialità del colore degli occhi provoca in questo passo proustiano un improvviso renversement cromatico – come una guaina che mostra la sua
doublure di un colore diverso.
14
Ci riferiamo in particolare all’esegesi di André Benhaïm, basata sulla
(presunta) comune eredità ebraica, in Proust e in Lévinas, dell’impossibilità a rappresentare il volto umano come quello di Dio. Cfr. il suo saggio Panim. Visages de
Proust, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2006.
95
DAVIDE VAGO
leur de ses yeux!”15. Il narratore proustiano procede nello stesso
modo, anche se la base di partenza è profondamente diversa: per
Lévinas, infatti, l’approccio dell’io all’altro non deve ridurre il viso
altrui ad una serie di elementi oggettivi (mento, occhi, naso, colore,
ecc.), ma deve essere di tipo etico. Non ricordare il colore degli occhi significherebbe, dunque, aprirsi all’altro con l’amore più generoso.
Tuttavia propendiamo per un’interpretazione con un mezzo più
coerente con l’estetica proustiana. Ciò che si nasconde in tale ambiguità cromatica è, a parer nostro, un’estetica dell’incontro amoroso
che si nutre di un preciso modello letterario, imitato, fagocitato e
rielaborato dalla contorta scrittura di Proust. Tale modello letterario è Madame Bovary di Flaubert, un modello di scrittura insuperabile per il nostro autore16. Gli occhi di Emma Bovary sono infatti
“neri all’ombra e azzurro scuro alla luce del giorno”. In effetti, se
leggiamo con attenzione il romanzo di Flaubert, il colore degli occhi
di Emma è estremamente variabile: essi passano dal castano al nero
al blu. La ragione diventa evidente se si tiene conto che Emma è la
‘sintesi media’ della donna di provincia, illusa dall’impossibile sogno di una passione romantica. Non casualmente, anche il colore
degli occhi di Albertine nella Recherche è estremamente variabile.
Per Proust, come per Flaubert – ci ricorda Raymonde DebrayGenette, i colori non sono oggettivi. Esistono solo colori mentali e
affettivi17.
15
E. Lévinas, Ethique et infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Fayard, Paris
1982, pp. 79-80.
16
Si veda il giudizio di Proust su Flaubert: “un homme qui par l’usage entièrement nouveau et personnel qu’il a fait du passé défini, du passé indéfini, du participe présent, de certains pronoms et de certaines prépositions, a renouvelé presque
autant notre vision des choses que Kant, avec ses Catégories, les théories de la
Connaissance et de la Réalité du monde extérieur”; tr. it. “un uomo che con l’uso
completamente nuovo e personale che ha fatto del perfetto, dell’imperfetto, del
participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, ha rinnovato la nosta
visione del mondo quasi quanto Kant, con le sue Categorie, le teorie della Conoscenza e della Realtà del mondo esterno”. (À propos du style de Flaubert, in Contre Sainte-Beuve, précédé de Pastiches et mélanges et suivi de Essais et articles, P.
Clarac-Y. Sandre ed., Gallimard, Paris 1971, coll. “Bibliothèque de la Pléiade”, p.
586).
17
Recherche de Proust, G. Genette-T. Todorov ed., Seuil, Paris 1980, p. 122.
96
FAR MEMORIA DELL’INCONTRO
Una conferma della bontà di quest’interpretazione è data dal risultato pratico di quest’incontro: come il matrimonio di Madame
Bovary sarà una rovina totale, l’amara constatazione di un sogno
d’amore fallito, tradito, soggiogato alla cruda realtà borghese e materiale della provincia18 – così sul finire della Recherche il narratore
svelerà che i due protagonisti dell’incontro hanno dato, ciascuno per
la sua parte, un’interpretazione sbagliata di questa prima visione,
provocando quindi un risultato nullo19. L’ennesimo scacco
dell’amore che è per Proust gelosia e fraintendimento continui.
A conclusione di quest’analisi, quindi, possiamo dire che lo spazio dell’incontro amoroso in Proust diventa anche il terreno fertile
dell’intertestualità. Testo e intertesto si scambiano frequentemente
nell’immense cathédrale costruita da Proust.
4. Conclusioni
Proponiamo ora alcune conclusioni sul trattamento dello spazio
nella Recherche.
– Lo spazio è descritto nel tentativo di evocare un’affascinante associazione tra arti diverse. Nelle descrizioni che abbiamo richiamato, assieme al volto di una o più fanciulle Proust evoca inscindibilmente una cornice più vasta, creata dalle parole del testo, che sfrutta a suo vantaggio i procedimenti tipici
dell’ekphrasis. Lo spazio dell’incontro proustiano mostra un
ampio uso di procedimenti pittorici espliciti o, più spesso, evocati
da un denso lessico cromatico o del disegno. I procedimenti pittorici si mescolano a quelli letterari, mostrando così quanto la
lezione baudelairiana dell’armonia universale e dell’immaginazione ‘sintetica’ siano fondamentali per la scrittura della Recher18
Cfr. il saggio di S. Cigada, Genesi e struttura tematica di Emma Bovary, in
Contributi del Seminario di Filologia Moderna. Serie francese, vol. I, Vita e Pensiero, Milano 1959, pp. 185-277.
19
“«L’altro giorno parlavate del sentiero in salita. Come vi amavo, allora!» Rispose: «Perché non me lo dicevate? non me n’ero accorta. Io vi amavo. E una volta
vi ho anche fatto un’offerta in piena regola. – Ma quando? – La prima volta a Tansonville, voi passeggiavate con la vostra famiglia, io tornavo a casa, non avevo mai
visto un ragazzino così bello […]»” (Albertine scomparsa, in Alla ricerca del tempo
perduto, t. 4, p. 330).
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DAVIDE VAGO
che. Allo stesso tempo, l’uso dell’ekphrasis è sintomo di una certa
idolatria del narratore: la sua tendenza, cioè, a leggere la realtà
attraverso precisi canoni estetici (o meglio, estetizzanti), e di un
certo manierismo di Proust rispetto ai canoni della sua epoca.
Ciononostante, tale manierismo costituisce una tappa per il narratore nell’apprentissage del mondo e della vocazione artistica –
tappa necessaria che deve essere superata.
– Lo spazio proustiano oscilla tra sfinge (è un segno da interpretare) ed ermeneutica (suggerisce quindi più percorsi di interpretazione, spesso contrastanti). Lo spazio dell’incontro è il luogo di
una percezione impedita, di un’impressione continua tra figura e
setting (lo sfondo della figura stessa), che però risulta imprecisa,
fallace, o incompleta, e che necessita di una interpretazione da
parte del narratore, anche a distanza di anni, o di diverse centinaia di pagine. Dallo spazio esterno siamo dunque giunti a quello
interno dell’io percettivo. Lo spazio dell’incontro diventa, inoltre,
per il lettore, il luogo di un enigma da risolvere, che colpisce, affascina e suggerisce piste di ricerca non risolte.
– Lo spazio descritto nell’incontro amoroso assume la forma di
un’istantanea che, muovendosi nel tempo, impercettibilmente
permane, e inesorabilmente si modifica. Due tendenze opposte si
intrecciano nella descrizione di questi spazi: da una parte
l’inafferrabilità degli esseri umani (come Albertine) che si modificano e cambiano nel tempo come le facce di un prisma – mentre,
contemporaneamente, il soggetto che percepisce evolve e modifica il suo sguardo sull’altro; dall’altra, il permanere in questi personaggi di un aspetto, o meglio, di una forma, che garantisce la
loro sopravvivenza nel tempo e consente di ritrovare, anche dopo
anni, anche dopo l’oblio, l’immagine del ricordo rimasta inalterata.
L’incontro amoroso è l’interpenetrazione di spazio e durata20: esso è un reagente della memoria del Narratore.
Proust attualizza in tal modo l’antica lezione del De Oratore nel
quale Cicerone proponeva alcune lezioni di ‘mnemotecnica’ per il
20
Per ciò che concerne il ruolo di Mnemosine-tempo in campo artistico, si veda
M. Praz, Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive, Mondadori, Milano 1971.
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FAR MEMORIA DELL’INCONTRO
buon retore, associando le parti del discorso alle stanze successive di un’abitazione. Ciononostante, la memoria che propone
Proust non può più essere la perfetta tecnica dell’oratore antico.
Come il mondo moderno, essa è frammentaria, ingannevole eppure veritiera, lacunosa eppure evocatrice. La memoria che scaturisce dallo spazio proustiano è, dunque, più un processo che un
prodotto finito, più un frammento che una statua integra. Tale
processo si lega in modo inscindibile alle scelte stilistiche
dell’autore, al processo di elaborazione linguistica dell’opera, che
sembra fondere tale continua ri-formulazione del mondo in forma di metafora.
Da questo frammento di un’immagine interiore, o forma, nasce
infatti la forma della Recherche: l’opera scritta (e da scrivere).
– Infine, se consideriamo lo spazio del testo, sintesi metaforica di
durata e visione, esso diventa il crocevia delle letture e degli autori amati, letti, imitati, e infine superati, da Proust. Lo spazio
proustiano è il regno dell’intertestualità.
Dietro il profilo marino di Albertine, in altre pagine che non abbiamo analizzato, si insinua prepotente il ricordo delle marine di
Baudelaire21; l’indeterminatezza del colore degli occhi di Gilberte
evoca, coscientemente o no, il modello flaubertiano di Emma
Bovary.
Lo spazio di Proust è, in conclusione, lo spazio dell’incrocio letterario: dai capolavori che lo precedono e lo nutrono, a quello
che Proust autor sta ‘montando’ (come un film), a quello che il
lettore sta leggendo. È lo spazio dove la virtualità della cultura
diventa, almeno momentaneamente, visibile. In forma di movimento e di scambio continuo.
21
Le celebri descrizioni delle «marine» di Balbec, che si intrecciano con le vicende della banda di fanciulle, richiamano in molti casi celebri testi baudelariani
come «Le confiteor de l’artiste», nei Petits Poèmes en prose. Cfr. A. Compagnon,
Proust entre deux siècles, Seuil, Paris 1989.
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Collana Cives Universi Centro Internazionale di Cultura - Alberto Frigerio
Volumi pubblicati:
D’Annunzio, moda, modernità e società di massa
Edizioni GR di Besana in Brianza, novembre 2006
Hemingway, talento, tormenti e passioni
Edizioni GR di Besana in Brianza, aprile 2007
Thomas e Heinrich Mann. Vita, opere e memorie di un’epoca
Lucini libri, Milano, novembre 2007
Rainer Maria Rilke. Alla ricerca dello spazio interiore del mondo tra
arti figurative, musica e poesia.
Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Diritto allo Studio, Milano, giugno 2008
Marcel Proust. Proust e lo spazio
EDUCatt - Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore, Milano, novembre 2009
finito di stampare
nel mese di novembre 2009
presso la LITOGRAFIA SOLARI
Peschiera Borromeo (MI)
ISBN 978-88-8311-717-6