Tutto quanto l`amore del Santo per suo papà

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Tutto quanto l`amore del Santo per suo papà
BASILICA DI SANT’ANTONIO
Il miracolo del giovane risuscitato
Tutto quanto l’amore
del Santo per suo papà
Ci rimangono due importanti testimonianze artistiche di questo
evento allʼinterno della Basilica: un altorilievo marmoreo nella
cappella dellʼArca e un dipinto nella Scoletta del Santo.
di Alfredo Pescante
ant’Antonio voleva molto bene
ai suoi genitori: lo dimostra il
miracolo che compí nei confronti
di un ragazzo assassinato, richiamandolo in vita perché attestasse l’innocenza di papà Martino. Mons. Giuseppe Baldan, collaboratore del nostro
fondatore don Antonio Locatelli, ricorda che sant’Antonio salvò il papà in
una seconda occasione, stavolta dalla
prigionia, perché accusato di non aver
pagato alcune aziende in seguito
allo smarrimento delle ricevute
del denaro versato.
Le primitive fonti antoniane
tacciono sull’identità dei genitori
di sant’Antonio e solo all’inizio
del XIV secolo l’autore della
“Benignitas” scriverà che il
papà, di nome Martino, era cavaliere di re Alfonso e la mamma si
chiamava Maria. Si è molto
scritto a riguardo e il Baldan,
traendolo da un duecentesco manoscritto portoghese, afferma
che Antonio, prima chiamato
Ferdinando, in onore del nonno
materno, ebbe altri due fratelli e
una sorella. Il secondogenito era
Velasco, poi nacque Egidio, divenuto canonico nel monastero
lisbonese di San Vincenzo e la
sorella Maria, scomparsa nel
1279, fu canonichessa nel monastero di San Michele di Lisbona.
I genitori, che abitavano accanto alla cattedrale, portavano
spesso in chiesa il piccolo Fernando, lo vollero chierichetto e
cantore, iscrivendolo poi alla
scuola annessa, ove fu educato
dal prozio canonico Fernando.
È curioso quanto riporta
mons. Ireneo Daniele secondo il
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quale il primitivo nome del Santo, Ferdinando o Fernando, testimoniato nell’alto medioevo soltanto nella penisola
iberica, sarebbe di origine germanica.
Quindi, conclude, «il di lui nonno paterno probabilmente discendeva da
qualcuno di quei valorosi visigoti cattolici che non si arresero agli Arabi dopo
la sconfitta di Xeres de la Frontera
(711), ma si rifugiarono nelle montagne
del nord e di là iniziarono l’epopea del-
la riconquista cristiana della patria».
Tali notizie, se poco aggiungono alla
personalità di Antonio, segnalano che
visse in una famiglia di profondi sentimenti religiosi. Non sappiamo se i genitori abbiano influito sulla sua vocazione, un crescendo di scelte radicali
(frate agostiniano, francescano, missionario), di certo gli instillarono anche i
sani principi del mondo cavalleresco a
cui appartenevano. Padre Vergilio
Gamboso afferma che “fu uomo
profondamente affettivo”, figlio e fratello a disposizione dei bisognosi e, nel
nostro caso, apprensivo per la sorte che
stava per occorrere a papà Martino, al
cui fianco volò col duplice miracolo
della bilocazione e della risurrezione
d’un giovane.
Il prodigio è raccontato da fra Bartolomeo da Pisa nella “Legenda Pisana”,
scritta tra il 1385 e il 1390. Benché avvolto da un alone leggendario, questo
sarebbe uno degli avvenimenti piú avvincenti nella saga taumaturgica antoniana. Non può essere frutto di immaginazione perché fra Bartolomeo, insegnante di teologia nel convento di Padova, assai colto e tutt’altro che ingenuo, lo udí riferito da un frate.
Il miracolo
Antonio venne a conoscenza,
per ispirazione divina, che il
papà, abitante a Lisbona, era stato inquisito perché nel suo orto
venne trovato sepolto un giovane scomparso in seguito a
un’aggressione da parte di un vicino di casa. Il giudice fece arrestare come assassini il papà con
tutti quelli di casa. Di sera, chiesto il permesso al superiore, Antonio uscí dal convento di Padova, trasportato con divino prodigio a Lisbona. Pregò il giustiziere di prosciogliere dall’accusa
quegli innocenti e rilasciarli, ma
questi non volle. Antonio allora
ordinò che gli venisse portato
dinanzi il giovane ucciso, comandandogli di alzarsi e dire se
ad assassinarlo fossero stati i
suoi parenti. Destatosi da morte,
affermò che i parenti di Antonio
erano estranei al delitto, consentendone la liberazione dal carcere. Fra Bartolomeo da Pisa ha
un’affettuosa chiusura: «Il beato
Antonio restò in loro compagnia
tutta quella giornata», a suggellare l’amore per i genitori e la
sua famiglia.
L’arte celebra quel miracolo
Ci rimangono due importanti testimonianze artistiche di questo prodigio,
negli spazi della Basilica: nella cappella dell’Arca, a opera di Danese Cattaneo e Girolamo Campagna, tramite uno
splendido altorilievo marmoreo (foto
sopra) e sulle pareti della Scoletta del
Santo, in un dipinto di Benedetto Montagna (foto nell’altra pagina).
La storia di questa scultura prende
l’avvio nel 1571 quando i massari dell’Arca decidono di far ultimare i due altorilievi marmorei che mancano nella
cappella ove riposano i resti del Santo.
Il 27 dicembre viene firmato l’accordo
con lo scultore Danese Cattaneo, allievo del celebre Sansovino, che entro
quattro anni s’impegna a realizzare l’opera, intagliandovi il suo nome, dietro
compensa di 650 scudi d’oro. Non si
parla del tema da affrontare, cosí il 7
gennaio 1572 i massari danno possibilità allo scultore di scegliere una storia
dei miracoli che a lui piacesse. Cattaneo riceve diversi pagamenti per l’acquisto del marmo, ma riesce solo a
sbozzare il quadro, perché colto da
morte nel novembre 1527. L’Arca, liquidati gli eredi del Cattaneo per il lavoro svolto, a fine 1573 chiede informazioni circa i meriti del di lui allievo
prediletto, il veronese Girolamo Cam-
pagna, onde allogargli la scultura. Desiderano partecipare anche gli artisti padovani Antonio Gallina e Francesco
Segala, inviando le loro proposte. Una
lancia in favore del giovane Campagna
la spezza il famoso pittore e scultore
manierista Giuseppe Salviati, detto il
Porta, garantendo le capacità del suo
raccomandato. L’Arca scioglie ogni
dubbio affidando, il 17 gennaio 1574,
la realizzazione dell’altorilievo al Campagna, che s’impegna a scolpire anche
la prospettiva sopra il quadro. L’opera è
collocata, la prima a sinistra dietro
l’Arca, entro il 1577 e lo scultore si firma al di sotto d’essa, mostrando riconoscenza al suo maestro Cattaneo mediante la riproduzione, in alto a destra,
del di lui volto.
La scena, un monito alla giustizia
umana sbrigativa, presenta sant’Antonio nella figura dell’avvocato difensore
dei deboli. È suddivisa in quattro momenti, a partire da sinistra: il giudice,
seduto su un elevato seggio, attorniato
dallo scriba, da un anziano e un soldato; il giovane richiamato in vita da
sant’Antonio; i di lui genitori Martino e
Maria che chiedono aiuto e la meraviglia di due donne pel prodigio cui dona
coralità anche l’innocente bambino,
mentre il colpevole stringe le mani al
petto in cerca di fuga. Singolare la figura del Santo, dal volto giovane e dotato
di tenui baffi e pizzetto, che lancia il dito indice della mano destra al cielo per
indicare che la perfetta giustizia è opera
divina, non certo umana, questa simboleggiata nella lunetta che ritrae il Palazzo della Ragione di Padova, ov’essa veniva amministrata.
Siamo dinanzi a un autentico capolavoro dove tredici personaggi scolpiti in
bianchissimo marmo di Carrara ci partecipano, in una varietà di espressioni,
un miracolo di Antonio che vuol entrare nella storia di ogni uomo, invitandolo a condurre una vita giusta, fondata
sul Vangelo.
Il dipinto della Scoletta, ritenuto
opera di Benedetto Montagna (figlio e
allievo di Bartolomeo), realizzato nel
secolo XVI, è ambientato sotto un imponente edificio cinquecentesco, arricchito a destra da un vago paesaggio
collinare. Sembra che il personaggio ritratto di profilo, a destra, risponda ai
connotati del pittore. Sopra il corpo del
giovane assassinato è dipinto un cartiglio con la scritta “Here proprio” e sotto le ginocchia, in un piccolo scudo, ci
sono le iniziali “J H”, a significare:
Giulio figlio di Gerolamo. Si tratta di
una tela a sostituire l’affresco sottostante sciupato dall’umidità, che, secondo
Cesira Gasparotto, Giulio Campagnola, l’amico di Giorgione, lasciò in dono
l
alla Scoletta.
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