Femminicidio e violenza di genere

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Femminicidio e violenza di genere
Femminicidio e violenza di genere
Simonetta Ulivieri
Il femminicidio si riferisce alla natura specifica di un
crimine violento contro la vita di una donna da parte di
un uomo che è spesso un parente di sangue o da parte di
qualche altro membro della famiglia. Certo, il
femminicidio non è un’ invenzione femminista, una
realtà virtuale, si tratta di un fenomeno che ha radici
profonde nel passato storico in cui le donne non erano
libere di parlare apertamente, non avevano alti livelli di
istruzioni ed erano considerate sopratutto in quanto
madri e oggetti sessuali degli uomini. Una domanda
centrale che occorre porci come pedagogisti e come
educatori inerisce ai modi del contrasto di tale
comportamento violento e inaccettabile anche attivando
politiche educative adeguate e identificando, definendo e
promuovendo approcci educativi che tangibilmente
esprimono ed incarnano il rispetto a cui ognuno ha diritto
a prescindere dal proprio genere.
The murder of women relates to the specific nature of a
violent crime against a woman’s life by a man who is
often a blood-relative or some other family-related
member. Certainly, the feminicide is not a femminist
invention, a virtual reality, it is a phenomenon that has
deep roots in the historical past when women were not
free to speak-out, were ignorant and were considered
mainly as child-bearers and to satisfy men’s sexual
appetites. We need to ask ourselves as pedagogists and as
educators how we can contrast such violent and totally
unacceptable behaviour with suitable education policies,
how we can identify, define, and promote educational
approaches which tangibly express and embody the
respect to which everybody has a right regardless of their
gender.
Parole chiave: genere, violenza, femminicidio, approccio educativo.
Key words: gender, violence, feminicide, educational approach.
Articolo ricevuto: 25 maggio 2013
Versione finale: 14 giugno 2013
1. “FERITE A MORTE”. LA VIOLENZA SULLE DONNE
Quotidianamente assistiamo a uno stillicidio di uccisioni di donne da parte di
mariti, conviventi, fidanzati, amanti, partner, e ex-partner, ma anche padri e fratelli. Ma sappiamo, analizzando le storie di vita di queste donne uccise, che esse
in precedenza nella vita cosiddetta “normale” sono state a lungo ostaggio di una
“violenza domestica”181 sempre più pesante, sempre più feroce da cui a volte
avevano cercato scampo attraverso denunce che sono rimaste inascoltate. Le loro vite sono “cronache di una morte annunciata”.
181 Cfr. AA.VV., Questo non è amore. Venti storie raccontano la violenza domestica sulle donne, Marsilio,
Venezia 2013.
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Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le uccisioni di donne, in
quanto tali, da parte di loro familiari è nel mondo del 38%, in Italia secondo le
stime del Viminale e delle Forze di Polizia, negli ultimi tre anni oltre il 50% delle
donne uccise ha perso la vita per mano di loro familiari, ovvero da parte di coloro che dovrebbero amarle e caso mai aiutarle a vivere. Sono circa un centinaio le
donne che in un anno vengono uccise per motivi di possesso e di gelosia e con
modalità molto cruente e tragiche, dalle donne soffocate, a quelle strozzate, a
quelle accoltellate, a quelle uccise con armi da fuoco, o addirittura gettate dai piani alti di qualche abitazione. Il dato preoccupante è che mentre gli omicidi nel
nostro Paese tendono a diminuire nel tempo, il numero di quelli perpetrati sulle
donne rimane stazionario, quasi che una “rabbia di genere” permanesse contro di
loro, la media, ormai da anni, è di un omicidio ogni tre giorni182. Ciò che colpisce
in queste vite fatte di soggezione e di paura, e poi di eliminazione e di morte è il
disprezzo di cui sono state fatte oggetto, la totale noncuranza per il loro benessere, la determinazione nel privarle di ogni spazio di libertà. E questo fino ad arrivare alla loro cancellazione fisica, che viene ammantata da termini come l’amore,
o la gelosia, o il timore di perderle. Per alcuni individui sembra che l’uccisione di
una donna, corrisponda ad una pulsione identitaria profonda, quasi che la morte
della persona più debole e soggetta al proprio potere rappresenti una forza catartica, liberatoria di un proprio sé maschile che essi ritengono in qualche modo
messo in forse dalla libertà dell’altra da sé. E forse è proprio per questo particolare tipo di soddisfazione che alcuni uomini provano nell’uccidere una donna (che
ritengono spesso di loro proprietà), che gli assassinii di donne in questi anni non
sono diminuiti. Questa guerra privata contro le donne è diventata talmente eclatante che di recente la violenza omicida perpetrata sulle donne è stata definita
con un termine nuovo più mirato: “femminicidio”183. Di fatto se uccidere è un
reato grave, farlo perché si ritiene che l’altro sia una nostra proprietà è ancora più
grave. Certo non è un termine aggraziato, e alcuni lo rifiutano considerandolo
inutile, eccessivo, ritenendo che basti il termine omicidio per definire l’uccisione
di un’altra persona umana.
Il femminicidio definisce la specificità di un’azione violenta contro la vita di
una donna, da parte di un uomo che spesso è legato a lei da vincoli di sangue o
parentela184. Certo il femminicidio non è un’invenzione femminista, una realtà
A. Meldolesi, Quella violenza che non ha classe sociale, “Il Corriere della Sera”, 13 agosto 2013.
Sul percorso di riconoscimento del femminicidio come crimine contro l’umanità, si veda a
livello anche internazionale: B. Spinelli, Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, Milano 2008. ed inoltre J. Radford, D. Russel, Femicide: the politics of woman killing, Twayne Publisher, New York 1992; D. Russel, R.H. Harmes, Femicide in Global Perspective, Teachers College Press, Columbia University, New York 2001.
184 Cfr. L. Lipperini, M. Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo”. Falso!, Laterza, Roma-Bari 2013. Si
veda anche l’interessante ricerca su casi di violenza condotta da Riccardo Iacona in collaborazione
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virtuale, è un fenomeno le cui motivazioni nascono da lontano, da periodi storici
in cui le donne tacevano, vivevano nell’ignoranza, erano considerate “mammifere” atte solo a fare figli e a soddisfare i bisogni sessuali dei loro uomini. Salvo
poche classi privilegiate questo, in forma più o meno edulcorata, è stato nei secoli il destino delle donne. Alle donne si addicevano il silenzio e la pudicizia, non
dovevano parlare in pubblico e moderatamente nel privato. Potevano essere ripudiate o sostituite, la loro forza stava solo nell’essere madri di figli maschi. Se
commettevano adulterio venivano lapidate, se giovanissime si rifiutavano di accettare un matrimonio combinato potevano essere sgozzate. La loro vita era segnata fin dalla nascita: l’infanticidio e l’abbandono di neonate è sempre stato
numericamente maggiore secondo i demografi tra le bambine che fra i maschietti. Ed ancora oggi in qualche paese del mondo si attuano aborti selettivi, che mirano ad eliminare le piccole ancor prima della nascita.
In una ricerca svolta sulla violenza sulle donne contadine nelle campagne
marchigiane agli inizi del secolo scorso, Paolo Sorcinelli ha notato come la vita
delle donne fosse molto coinvolta da violenze di ogni genere, e come le donne
stesse, sia pure per reazione, non ne fossero esenti. Scrive Sorcinelli: “La donna
appare molto più verosimilmente invischiata e trascinata in una violenza quotidiana (fatta di pugni e calci, ma perpetrata anche con coltelli, falci e bastoni), diffusa e a volte impalpabile, che solo in minima parte approda nelle aule dei tribunali. Contro simili episodi, anche se ripetuti e di dominio pubblico, quasi mai c’è
un intervento d’ufficio; del resto è opinione largamente diffusa e condivisa a tutti
i livelli sociali che i rapporti all’interno della famiglia rientrano nella sfera privata
e che il marito/capofamiglia può e anzi deve esercitare sugli altri membri una severa autorità e un rigido controllo. Magari anche con la sopraffazione”185.
Dacia Maraini che da anni si occupa di questi drammi che soprattutto avvengono in famiglia, dimostra con i suoi racconti, spesso ripresi da storie vere, che il
femminicidio in Italia è solo la punta di un icerberg, che nasconde sotto la superficie una montagna di soprusi e di dolore che va sotto il nome di “violenza domestica”186.
con Sabrina Carreras, Se questi sono gli uomini. Italia 2012. La strage delle delle donne, Chiarelettere, Milano 2012.
185 P. Sorcinelli, Il quotidiano e i sentimenti. Introduzione alla storia sociale, Mondadori, Milano 1996, p. 57.
186 Il romanzo storico che Dacia Maraini ha dedicato alla violenza sulle bambine e sulle donne
è La lunga vita di Marianna Ucria (Rizzoli Bur, Milano 1990); tragica anche la storia di Isolina (Rizzoli
Bur, 1992) dove l’A. riprende un fatto di cronaca nera avvenuto nella Verona tra Otto e Novecento. Isolina è una giovane cameriera, incinta di un ufficiale a cui ha ceduto, che viene costretta ad
abortire sul tavolo di un’osteria dove muore tra atroci dolori. Il suo corpo verrà fatto poi sparire
per salvare la reputazione del graduato. Sempre Maraini di recente ha pubblicato L’amore rubato
(RCS, Milano, 2012), otto storie di vita e di morte, con tema centrale la violenza sulle donne. Sono
storie riprese dalla memoria breve e deperebile della cronaca, che Maraini riscatta lanciandoci un
messaggio universale. Quelle descritte da Dacia Maraini sono donne che combattono una lotta im-
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Si tratta di una vera e propria tragedia di portata nazionale, che procura lutti e
dolore in maniera ricorrente. Dietro le porte, tra le pareti delle nostre case si nasconde questa sofferenza silenziosa che generalmente viene “spiegata” (giustificata?) come una volontà di possesso maschile. Ma nel contesto di una società patriarcale, che ancora in Italia ci appartiene, la violenza domestica rivolta alla partner non
è concepita come un crimine, soprattutto quando le vittime dipendono economicamente dagli autori della violenza e dove sia diffusa la percezione sociale che tali
comportamenti “ri-educativi” dell’uomo sulla donna siano leciti e accettabili, una
norma della dialettica amorosa. Tanto che molti episodi di violenza non vengono
denunciati e le donne arrivano alla denuncia solo dopo reiterati episodi di violenza
soprattutto quando sono costrette a ricorrere alle cure mediche e ospedaliere e capiscono che è stato oltrepassato ogni limite e la loro vita e alle volte anche quella
dei figli o di altri familiari è a rischio (in alcuni casi la violenza contro le ex-partner
si scarica anche contro le loro madri o sorelle, la cui colpa è quella di sostenerle o
difenderle dalle minacce verbali e dalle violenze agite).
“PEDAGOGIA NERA” E FEMMINICIDIO
Il concetto di genere, come quello di ruoli sessuali, nasce come formulazione
non dalla presa d’atto oggettiva e neutrale di una realtà sessuata, quanto dalla diretta constatazione di uno squilibrio asimmetrico tra i due generi. Il genere è il
primo terreno di scontro, quello privato, nel quale il potere si manifesta. Definire
il genere significa immediatamente evocare il potere di un sesso su un altro. Storicamente questo dato è stato da tempo studiato e analizzato. La differenza che
in natura è data tra i sessi ( il corpo femminile e quello maschile presentano caratteristiche proprie e capacità diverse tra loro) è stata utilizzata per la costruzione
di una storica disparità, da cui è sorta la divisione del lavoro e dei compiti quotidiani, nonché l’accesso alla sfera intellettuale e simbolica. Nel tempo questa organizzazione dispari si è profondamente radicata nel costume, discriminando le
bambine e le donne, a svantaggio del genere femminile. Questa gerarchia tra i
sessi ha una valenza secolare e ancora oggi se ne avverte spesso il peso187. Ha
scritto a riguardo Miriam Mafai: “Ho vissuto per quasi cinquant’anni in un paese
nel quale i mariti potevano picchiare la moglie per “correggerla”, nel quale l’unica
forma di contraccezione prevista era l’aborto clandestino o il coitus interruptus,
nel quale le donne non potevano entrare in magistratura, perché – aveva dichiarato alla Costituente un insigne giurista – per alcuni giorni del mese non sarebbepari con i loro uomini. Sono uomini che spesso confondono l’amore con il possesso, e per questo,
come scrive l’autrice, l’amore lo “rubano”.
187 Cfr. S. Piccone Stella, C. Saraceno, Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Il
Mulino, Bologna 1996.
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ro state in possesso dell’equilibrio necessario per giudicare. Non chiedetemi in
che paese vivevo: quel paese era l’Italia”188.
È evidente che la violenza sulle donne rappresenta l’ultimo tentativo di ristabilire con la forza uno storico potere degli uomini che di recente è stato eroso e
compromesso dalle conquiste paritarie delle donne. È un errore ritenere che il
femminicidio sia espressione delle classi più povere e deprivate, in realtà il femminicidio e la violenza sulle donne attraversano tutte le classi anche quelle più
ricche e agiate, in cui gli uomini dovrebbero avere una formazione più aperta, civile, rispettosa dell’altro. Ad esempio nell’estate del 2013 un brillante avvocato
penalista di Verona, persona stimata e affermata, dopo una cena galante in un
ristorante e un tentativo di riavvicinamento alla sua ex-fidanzata, la ha strangolata. Il corpo della giovane donna è stato ritrovato nella Bmw dell’assassino a tre
giorni dalla scomparsa. L’uomo catturato dai carabinieri ha confessato. Evidentemente non aveva tollerato la ferita inferta al suo narcisismo dal rifiuto della ragazza di tornare con lui.
Nel rapporto di coppia sono presenti spesso dinamiche di potere molto forti,
dietro cui c’è da un lato un amore oblativo, dimentico di sé, dall’altro un amore
preteso come sottomissione. Sono rapporti, quelli uomo/donna spesso impostati
sulla supremazia di un sesso sull’altro. In queste relazioni, costruite in maniera
sbagliata e asimmetrica, capita che la vittima sia complice, in maniera conscia o
inconscia, del suo aguzzino. I maltrattamenti sono fatti risalire da coloro che
esercitano la violenza ad una perdita di controllo, spesso addebitata all’insipienza
e all’incapacità femminile. Gli uomini definiscono le donne (fidanzate, mogli,
compagne, ecc.) come ansiose, rompiscatole, ignoranti, disubbidienti. In altri
termini la donna è uguagliata ad un minore, considerata come una persona su cui
agire in varie forme coattive psicologiche e anche fisiche per convincerla ai comportamenti imposti, una sorta di “pedagogia nera” considerata necessaria nel
rapporto.
Spesso gli autori di episodi di pesante maltrattamento tendono a minimizzarli
e comunque cercano di superarli con episodiche forme di pentimento, che convincono le donne maltrattate a tentare nuovamente una convivenza. E poi ci sono le pressioni sociali, il timore del giudizio della comunità, i parenti che invitano
alla pazienza, la preoccupazione di allontanare i figli dal padre e in taluni casi anche la dipendenza economica, nel caso di donne casalinghe189. Negli anni di con188 M. Mafai, Prefazione a AA.VV., Non è un paese per donne. Racconti di straordinaria normalità, a cura
di C. Pellegrino e C. Zagaria, Mondadori, Milano 2011, p. V.
189 Cfr. A. Gigli, “Nuove donne per nuove famiglie”, in M. Contini, S. Ulivieri (a cura di), Donne, famiglia, famiglie, Guerini, Milano 2010. Sempre di A. Gigli, Famiglie mutanti. Pedagogia e famiglie nella
società globalizzata, ETS, Pisa 2007. Ed inoltre S. Ulivieri, “Donne tra famiglia e lavoro nell’epoca
della crisi del welfare”, in L. Martinello (a cura di), L’infanzia in una stagione di crisi, Guida, Napoli
2011.
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vivenza le donne vengono educate a sottostimarsi, a sentirsi inadeguate, a non
intravedere alcuna via di fuga. Spesso la rassegnazione e l’accettazione di maltrattamenti sottili o bestiali sembra l’unico modo per sopravvivere. Nota giustamente in proposito Barbara Felcini: “I valori, le regole, i miti familiari ancora presenti
nel tessuto sociale delle province italiane, le pressioni esercitate dai genitori e dalla rete parentale, la dipendenza economica, la paura della solitudine sono tutti
elementi che contribuiscono a trattenere le donne in situazioni di abuso e di dipendenza, di inferiorità e di sottomissione, impedendo loro di vivere una vita
piena e gratificante”190.
POLITICHE FORMATIVE PER CAMBIARE LA MENTALITÀ VIOLENZA
Da pedagogisti e da educatori occorre chiedersi come contrastare con adeguate politiche formative tali comportamenti del tutto inaccettabili, come definire e
promuovere modalità educative che esprimano concretamente nei fatti il rispetto
a cui ognuno ha diritto, indipendentemente dal sesso di appartenenza (come pure
dall’orientamento sessuale).
Di recente nel nostro Paese si è sviluppato tutto un positivo movimento democratico per rendere più precise e mirate le norme di legge che colpiscono chi
si rende colpevole di omicidi efferati contro le donne, partendo dall’opinione,
purtroppo ancora diffusa, che le donne appartenenti alla propria famiglia o con
cui si hanno relazioni amorose e/o sessuali siano una proprietà su cui si ha diritto
di vita e di morte. Certo è importante che anche le leggi ribadiscano il diritto di
ogni cittadino e cittadina a vedere rispettata la propria libertà ed integrità personale. Ma le norme giuridiche sono un quadro all’interno del quale sono la società,
la famiglia, la scuola che devono mutare atteggiamento.
La legge deve perimetrare ciò che la cultura civile ritiene giusto e lecito. Ma
più che a punire, una legislazione che si opponga al femminicidio, come cultura
di odio e violenza diffusa contro le donne, dovrà guardare a favorire il cambiamento delle mentalità più retrive, facendo sì che le regole di una corretta convivenza si radichino nella società, soprattutto nella mente e nel cuore delle persone,
attraverso una educazione al rispetto dell’altro. Cosa significa ad esempio cambiare la mentalità di chi picchia abitualmente la moglie o la compagna, magari
davanti ai figli? Probabilmente quell’uomo violento ritiene che questo comportamento ri-educativo della partner, sia pure educativo per i figli e le figlie, insegnando loro, attraverso i comportamenti quotidiani quale sarà il loro ruolo in una
vita futura. C’è chiaramente una circolarità della violenza. Sicuramente
quell’uomo maltrattante ha avuto esempi analoghi in famiglia, dove le modalità
190 B. Felcini, Violenza sul corpo, ferite nella mente, in M. Durst, C. Cappa (a cura di), Donne, trasgressività e violenza, ETS, Pisa 2012, p.111.
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relazionali si imparano per exemplum, ripetendo ciò che si è visto fare. Quella è
l’educazione che quell’uomo ha avuto in famiglia e nella comunità di appartenenza, quelli sono i gesti violenti che ha visto e le parole arroganti che ha ascoltato
per decenni intorno a sé fino ad acquisire la sicurezza della legittimità di compierli. “Se nella vita quotidiana e nelle decisioni che contano – come ha scritto di recente Chiara Saraceno – le donne continueranno ad essere considerate cittadine
di serie B, molti uomini continueranno a sentirsi autorizzati a trattarle come tali
anche nei rapporti privati. E molte donne continueranno a ritenersi persone di
serie B, con meno diritti, accettando richieste e violenze rischiose”191.
È evidente infatti che la nuova stagione inaugurata negli anni Settanta dal
neo-femminismo di “liberazione delle donne”192 e che tendeva a superare e a rimuovere tutta una serie di norme comportamentali più rigidamente dirette al
controllo delle loro condotte, come pure l’accesso non più negato al campo
dell’istruzione secondaria e universitaria, come anche l’ingresso diffuso nel lavoro
extradomestico e quindi di conseguenza l’autonomia economica, come pure la
rapidità e la diffusione dei mezzi di comunicazione, abbiano progressivamente
permesso alle nuove generazioni di donne di compiere scelte esistenziali del tutto
inimmaginabili nelle precedenti generazioni delle loro madri e nonne.
In questo nuovo contesto di forte sapore emancipativo e comunque di maggiore autonomia decisionale delle donne, anche le scelte affettive vengono gestite
di conseguenza come scelte di libertà e di condivisione. In certe realtà tuttavia,
malgrado la patina di modernizzazione nelle relazioni di coppia, il rapporto paritario tra i sessi rimane spesso solo apparente, e a volte le scelte di libertà e di autonomia delle giovani donne creano nei partner un forte senso di disagio, la messa in discussione del loro tradizionale dominio secolare, minacciando la stessa
identità maschile vissuta spesso come un’identità forte e di potere, anche
all’interno della relazione d’amore. Si potrebbe parlare in senso freudiano della
“passione fallica” dell’avere, del possedere che viene delusa dall’abbandono. Secondo questa lettura psicanalitica anche il fenomeno ossesivo della gelosia maschile che spesso è alla base di tanti atti di violenza, può essere interpretato non
come paura di perdere l’oggetto amato, ma come proiezione sull’oggetto di gelosia delle forti spinte al tradimento che invece appartengono (incosciamente o cosciamente) al partner geloso193.
C. Saraceno, Diritti da testimoniare, “La Repubblica”, 14 agosto 2013.
Oltre ai saggi di Reich, di Cooper, di Laing e di Mitscherlich, si vedano C. Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino, Bologna 1990 ed anche A. L. Zanatta, Le nuove
famiglie, Il Mulino, Bologna 1997. Sul versante pedagogico S. Ulivieri, Educare al femminile, ETS, Pisa
1995; M. Contini (a cura di), Molte infanzie, molte famiglie. Interpretare i contesti in pedagogia, Carocci,
Roma 2010 e i saggi sopracitati di A.Gigli.
193 Cfr. Sigmund Freud, Le opere complete, Londra 1939.
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Il fenomeno del “femminicidio” ci deve rendere consapevoli che le donne si
sono configurate e modellate nei secoli secondo i modelli richiesti dagli uomini
(anche grandi pedagogisti come J.J. Rousseau non sono sfuggiti alla tentazione di
definire una educazione e istruzione inferiori e subalterne per le donne). Occorre
ripensare le identità culturali, il “maschile” e il “femminile”. Le immagini di uomo e di donna tradizionali a cui siamo abituati non funzionano più. Soprattutto
gli uomini, messi in contatto con le nuove realtà di genere, non solo non le accettano, ma esplodono in comportamenti di folle violenza.
Gli studi condotti di recente sul femminicidio dimostrano che alla base della
violenza omicida c’è la punizione, la cancellazione della donna, perché può mettere in crisi, con il suo agire con logiche di autonomia, un’immagine di maschio
possessore e dominatore. Notano Lipperini e Murgia che il femminicidio definisce “un tipo di delitto che avviene all’interno di relazioni impregnate di una struttura culturale arcaica, che ancora non si dissolve”194. Anche le storie di donne uccise nel 2012, raccolte da Riccardo Iacona, mostrano generalmente figure di
donne semplici, ma capaci di tirare avanti la famiglia, donne che lavoravano e
portavano a casa anche il denaro per la sopravvivenza del nucleo familiare; sono
quindi donne brave, donne forti che si accollano la responsabilità. I loro uccisori,
mariti o compagni, sono uomini deboli, che non lavorano, che si sentono umiliati
nella loro difficoltà di essere “veri” maschi195.
Le donne sono cambiate nei fatti, nella realtà quotidiana, di conseguenza anche sul piano culturale deve modificarsi la visione tradizionale del “maschile” e
del “femminile” che ancora circola in alcuni ambienti e che i mass-media continuano a propinarci e a diffondere. Il corpo femminile esibito segna il confine tra
liberazione e reificazione della donna. La mercificazione del corpo femminile è
un messaggio tragico rivolto alle giovani donne, insegna loro ad umiliarsi, o sottomettersi per ottenere di fare una qualsiasi carriera196. Scrive Serena Dandini:
“Sempre più spesso i delitti avvengono per l’incapacità di elaborare il lutto di una
separazione, per la difficoltà di trasformare in dialogo la frustrazione di un fallimento. Le donne hanno imparato a lottare per la loro autonomia economica,
cominciano a trovare il coraggio per inventarsi una vita diversa, anche a costo di
stare da sole con i figli; gli uomini invece non ce la fanno a lasciarle andare, non
reggono l’abbandono che è vissuto come un affronto atavico che colpisce e annienta orgoglio e amor proprio”197.
Se ripensare l’identità femminile è uno dei compiti primari, non è meno importante trasformare l’identità maschile nelle relazioni, nell’educazione, nella cuCfr. L. Lipperini, M. Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo”. Falso!, Laterza, Roma-Bari 2013, p. XI.
Cfr. R. Iacona, in collaborazione con S. Carreras, Se questi sono gli uomini. Italia 2012. La strage
delle delle donne, Chiarelettere, Milano 2012.
196 Cfr. M. Marzano, Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne, Mondadori, Milano 2010.
197 S. Dandini, Ferite a morte, Controtempo Rizzoli RCS, Milano 2013, p. 17.
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ra. Gli uomini, fin dall’infanzia devono essere aiutati a gestire questo cambiamento epocale. Da adulti possono trovare altre strade per gestire la loro rabbia e la
loro sofferenza. Il nostro è un mondo contraddistinto dall’analfabetismo sentimentale, spesso si viene educati a considerare la prevaricazione e la violenza come forme possibili della relazione uomo/donna. Femmine e maschi crescono
ingabbiati in questi ruoli rigidi, che trovano legittimazione in valori antichi, di divisione dei ruoli che ancora oggi vengono contrabbandati come naturali. Il dover
essere del “sii uomo”, pronunciato o implicito, segna e accompagna tutta la crescita maschile. Ad esempio diventa sinonimo di virilità la lontananza e l’estraneità
dal “prendersi cura”, mentre alle donne, facendo leva sul periodo breve della maternità, la cura è attribuita come ruolo sacrificale per tutta la vita. Anche
nell’educazione, soprattutto là dove l’accudimento sembra prevalere sulla trasmissione della cultura, come se i due termini, cura e cultura fossero tra loro in
opposizione. Costruire intorno alle donne un recinto di sola cura, tracciare divisioni nette tra lavori di donne e lavori di uomini, ha permesso un rafforzamento
degli stereotipi di genere, condannando i maschi a percorsi di aggressività e di
autoaffermazione considerati naturali, senza prepararli alla complessità della relazione198. Se le donne non devono essere più viste e pensate come vittime predestinate, anche gli uomini non vanno abbandonati ad una cultura di riferimento
che li vuole violenti, dominanti, ossessionati dal possesso e dal timore
dell’abbandono. Come scrive Antonio Genovese, va superata “l’idea perversa
che la forza risolva i problemi, anzi che solo la forza possa risolvere i problemi:
la forza militare, quando sono in causa scontri fra popoli ed etnie, la forza statale
per risolvere i conflitti interni, sociali e/o politici, e addirittura la forza privata,
individuale e di gruppo, che viene esercitata sia nell’ambito familiare, sia nel tentativo di trovare soluzione ai conflitti interpersonali o di intergruppo”199.
Questo percorso che cerca nuove forme di dialogo, che mira a ripristinare
una relazione positiva e simmettrica tra i sessi, deve trovare diffusione in tutta la
società, a partire dall’educazione dei figli, dando uguale valore e chances ai maschi e alle femmine, deve partire dalle scuole in cui nell’insegnamento e nei libri
scolastici sia presente un’ottica di genere, in cui nella normale prassi scolastica sia
consentito alle femmine quello che è consentito ai maschi, dalla formazione di
insegnanti consapevoli che il loro lavoro non si esaurisce nella didattica, ma va
ben oltre anche con il messaggio implicito dei loro comportamenti.
198 Cfr. S. Deiana, M.M. Greco (a cura di), Trasformare il maschile nella cura, nell’educazione, nelle relazioni, Cittadella, Assisi 2012.
199 A. Genovese, “Immigrazione, intercultura e relazioni di pace”, in A. Genovese (a cura di),
Intercultura e nonviolenza. Possibili strade di Pace, CLUEB, Bologna, 2008, p. 153. Si veda anche F. Zannoni (a cura di), La società della discordia. Prospettive pedagogiche per la mediazione e la gestione dei conflitti,
CLUEB, Bologna 2012.
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La prevenzione si fa a partire dal mondo giovanile che cambia e si oppone alla violenza, si esercita dando asilo nei centri antiviolenza a donne e bambini in
fuga dalla violenza, ma si fa anche coltivando l’autoriflessione e la presa di coscienza da parte di uomini “malati” di violenza.
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