Ennio, Terenzio, Lucilio
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Ennio, Terenzio, Lucilio
Giulia Colomba Sannia Exemplaria Collana di autori e testi latini Ennio, Terenzio, Lucilio L’humanitas e la scoperta dei valori dell’individuo Estratto della pubblicazione S182 Giulia Colomba Sannia Exemplaria Collana di autori e testi latini Ennio, Terenzio, Lucilio L’humanitas e la scoperta dei valori dell’individuo ® Estratto della pubblicazione Copyright © 2006 Esselibri S.p.A. Via F. Russo 33/D 80123 Napoli Azienda con sistema qualità certificato ISO 14001: 2003 Tutti i diritti riservati È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Per citazioni e illustrazioni di competenza altrui, riprodotte in questo libro, l’editore è a disposizione degli aventi diritto. L’editore provvederà, altresì, alle opportune correzioni nel caso di errori e/o omissioni a seguito della segnalazione degli interessati. Prima edizione: Gennaio 2006 S182 ISBN 88-244-7996-0 Ristampe 8 7 6 5 4 3 2 1 2006 2007 2008 2009 Questo volume è stato stampato presso Arti Grafiche Italo Cernia Via Capri, n. 67 - Casoria (NA) Coordinamento redazionale: Grazia Sammartino Grafica e copertina: Impaginazione: Grafica Elettronica Estratto della pubblicazione Premessa In un bell’articolo del 1983, intitolato Il Latino che serve, attualissimo nella disarmante sincerità con cui è scritto, lo scrittore Luigi Compagnone affermava: «Io ho amato e amo il Latino…Se ho amato e amo il Latino non è per merito mio. Il merito è della fortuna che come primo insegnante di materie letterarie mi dette un professore che si chiamava Raffaele Martini… La sua lezione era un colloquio vivo, un modo chiaro e aperto di farci capire il Latino che per noi non fu mai una lingua morta. Perché lui sapeva rendere vivo tutto il vivo che è nel Latino. E nessuno non può non amare le cose vive che recarono luce alla sua adolescenza […]. In una società in cui le parole di maggior consumo sono immediatezza, praticità, concretezza, utilitarismo, la caratteristica del Latino è costituita dal “non servire” a nessunissima applicazione immediata, pratica, concreta, utilitaria… [Il Latino] fa intravedere che al di là delle nozioni utili c’è il mondo delle idee e delle immagini. Fa intuire che al di là della tecnica e della scienza applicata, c’è la sapienza che conta molto di più perché insegna l’armonia del vivere e del morire. È una disciplina dell’intelligenza, che direttamente non serve a nulla, ma aiuta a capire tutte le cose che servono e a dominarle e a non lasciarsi mai asservire ad esse […]. La disgrazia più inqualificabile [per gli studenti] è essere stati inclusi negli studi classici senza averne tratto nessun vantaggio intellettuale, la vera disgrazia è aver fatto gli studi classici ritenendoli e mal sopportandoli come il più grave dei pesi… [perché] al tempo della scuola tutto si è odiato, […] tutto è stato condanna e sbadiglio». Come dare, dunque, ai ragazzi un Latino che serve ed evitare che il suo studio sia noia e peso, un esercizio poco proficuo, un bagaglio di conoscenze sterili, di cui liberarsi presto, non appena si lascia la scuola, se non addirittura, subito dopo la valutazione? C’è una sola via che conduce all’amore per il Latino e quella via è costituita dalla lettura dei testi in lingua originale, ma di quei testi che nei secoli hanno resistito alla selezione e in tutte le epoche sono apparsi imprescindibili. Non possiamo illuderci che la biografia di un autore, un contesto storico, una pagina critica, un frammento di Nevio, un brano di Ammiano Marcellino possano avere lo stesso valore e la stessa funzione di una pagina di Lucrezio o di Tacito, di Catullo o di Cicerone. Quella sapienza che insegna l’armonia del vivere e del morire, la quale costituisce il portato più alto della cultura classica, passa d’obbligo attraverso la lettura di testi di altissima qualità. È la lingua latina, con la perfezione geometrica della sua struttura, con l’armonia delle sue assonanze, con la raffinatezza dei suoi accorgimenti retorici, a comunicare emozione e rigore logico, senso del bello e razionalità, accendendo l’interesse dell’adolescente posto di fronte ai grandi interrogativi della vita. Aver studiato il Latino, significherà, perciò, per i ragazzi, non tanto aver imparato la biografia di Cicerone o di Plauto o di Ovidio, o il contesto storico in cui essi hanno vissuto, ma aver meditato sulle loro parole. In tutte le epoche le loro opere sono state lette e rilette, 3 Estratto della pubblicazione ricercate dagli umanisti in tutte le biblioteche d’Europa, riportate all’esatta lectio filologica, preservate dall’oblio dai monaci medioevali perché ricopiate con amore. Ci sono saperi che soltanto la scuola può dare, chiavi di lettura che solo da adolescenti si ricevono e che, una volta perduti o ignorati, non si recupereranno mai più. Uno studente, che non abbia letto nella lingua originale Virgilio o Lucrezio o Agostino o Tacito (come se non avrà letto Dante, Boccaccio e Ariosto), che non abbia acquisito sensibilità di lettore attraverso la consuetudine con le analisi testuali, mai più potrà provare il brivido di emozione che la parola poetica comunica. Forse nel tempo, se e quando un’arricchita sensibilità adulta gli farà avvertire il bisogno di tornare al passato, ricercherà in traduzione italiana qualche autore particolarmente amato, come Seneca o Catullo. Ma, perché si manifesti questo desiderio, la scuola dovrà aver trasmesso almeno il senso dello studio del latino, focalizzando l’attenzione su quello che è grande ed essenziale, evitando di far disperdere energie ed interesse sull’inutile. Ci piace citare, a sostegno di quanto si è detto, le parole di Nuccio Ordine. Nel Convegno tenutosi a Roma dal 17 al 19 marzo 2005 sul tema «Il liceo per l’Europa della conoscenza», promosso da EWHUM (European Humanism in the World), Nuccio Ordine ha usato parole che confermano, senza saperlo, quanto andiamo sostenendo da anni sulla didattica del Latino e che sentiamo il dovere di riportare per la profondità e la chiarezza del pensiero espresso: «Conoscere significa “imparare con il cuore”. E ha ragione Steiner a ricordarci che […] presuppone un coinvolgimento molto forte della nostra interiorità. In assenza del testo, nessuna pagina critica potrà suscitarci quell’emozione necessaria che solo può scaturire dall’incontro diretto con l’opera. […]. Nel Rinascimento (i professori) si chiamavano “lettori”, […] perché il loro compito era soprattutto quello di leggere e spiegare i classici. […] Chi ricorderà a professori e studenti che la conoscenza va perseguita di per sé, in maniera gratuita e indipendentemente da illusori profitti? Che qualsiasi atto cognitivo presuppone uno sforzo e proprio questo sforzo che compiamo è il prezzo da pagare per il diritto alla parola? Che senza i classici sarà difficile rispondere ai grandi interrogativi che danno senso alla vita umana? […]. Non è improbabile che le stesse biblioteche – quei grandi “granai pubblici”, come ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di “ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi mio malgrado vedo venire”, – finiranno a poco a poco, per trasformarsi in polverosi musei. E lungo questa strada in discesa, chi sarà più in grado di accogliere l’invito di Rilke a “sentire le cose cantare, nella speranza di non farle diventare rigide e mute”? “Io temo tanto la parola degli uomini./Dicono sempre tutto così chiaro:/ questo si chiama cane e quello casa,/ e qui è l’inizio e là è la fine/ […] Vorrei ammonirli: state lontani./ A me piace sentire le cose cantare./Voi le toccate: diventano rigide e mute./ Voi mi uccidete le cose”». Sulla base di questi presupposti teorici nasce l’antologia latina in fascicoli della collana Exemplaria che comprende autori e temi di tutta la letteratura latina. Ogni singolo volume costituisce l’ossatura della storia letteraria e al tempo stesso una sorta di passaggio obbligato della cultura, perché tutta la letteratura posteriore e tutta la cultura occidentale hanno avuto come fermo punto di riferimento questi autori. Ed essi sono diventati exemplaria appunto (da cui il titolo della collana), perché modelli da accettare o rifiutare, ma comunque con i quali necessariamente confrontarsi per capire il presente. La scelta dei testi è stata guidata, quindi, dall’esigenza di focalizzare l’attenzione degli studenti sia sulla personalità dell’autore, sulla sua poetica, sul genere letterario privilegiato 4 Premessa e sia, soprattutto, dal desiderio di suscitare l’amore per una lettura che aiuti a capire se stessi e la vita. È importante capire bene la struttura dei volumetti per poterla utilizzare al meglio. Ogni autore è introdotto dal paragrafo Perché leggerlo?, che consiste nella spiegazione, in sintesi, delle qualità per le quali quell’autore è diventato famoso e merita lo studio. La vita e il contenuto delle opere hanno, poi, un piccolo spazio in quanto sono solo funzionali alla migliore ricezione dei testi. Non manca un paragrafo sul genere di appartenenza o sul tema topico relativo. Ogni singolo brano quindi è introdotto da una presentazione più o meno breve, per fornire immediatamente agli studenti le informazioni sul contenuto, seguito dalle note al testo, che propongono sempre la traduzione e commenti di carattere morfosintattico, mitologico e storico-culturale, e dall’analisi testuale che permette di cogliere il messaggio poetico dell’autore, attraverso le strutture formali, stilistiche e letterarie, sia in rapporto ai generi che alle connessioni intertestuali e intersegniche. A conclusione di ogni percorso didattico i Laboratori prevedono prove di verifica delle abilità e delle competenze acquisite sul modello della tipologia A (Analisi testuale) della prima prova (italiano) all’Esame di Stato, con la scansione consueta del Ministero, in comprensione, analisi, approfondimento. Poiché si tratta di lingua latina, l’analisi si divide in analisi morfosintattica sulle concordanze, sui casi ecc. e analisi semantica, sullo stile e sul linguaggio. L’approfondimento, talvolta, fa riferimento anche alla tipologia B o D dell’Esame di Stato (saggio breve o trattazione generale). Lo scopo è stato quello di abituare gli studenti a un metodo che sappia distinguere le fasi del lavoro: comprendere, analizzare, sintetizzare, approfondire ecc. Non si è voluto rinunciare a momenti di creatività: si vedano gli esercizi “dare un titolo”, o “creare uno schema”, i confronti “intersegnici” ecc. Questo tipo di esercizi nella prassi didattica si è sempre rilevato molto gradito agli studenti e utilissimo a stimolare la loro capacità di osservazione e la loro creatività. contraddistingue alcuni testi e Una coppa circondata da una coroncina di alloro prove di verifica di particolare complessità, che possono essere riservati a quegli alunni che mostrano il desiderio di approfondire o ampliare lo studio dell’argomento e vogliano perseguire l’eccellenza. Non mancano le Pagine critiche che offrono le interpretazioni di noti studiosi su aspetti e tematiche riguardanti l’autore e la sua opera. I brani antologici sono accompagnati talvolta dai confronti intertestuali e intersegnici e dalla rubrica Incontro tra autori in cui si confrontano due autori su differenti versioni di un mito o differenti interpretazioni di un personaggio storico. Personaggi storici, come Cesare, Bruto, Catilina, o mitici, come Orfeo, Medea, Cassandra, tanto per fare solo qualche nome molto noto, oppure alcuni episodi famosi, ritornano nelle opere di autori diversi ed ogni autore li “legge” differentemente, secondo la sua sensibilità e il suo intento poetico. Il titolo della rubrica richiama una terminologia che si dice ucronica, da oúk + krónos («senza tempo»), cioè come se essi potessero, per assurdo, incontrarsi al di là delle loro epoche storiche e del contesto in cui vissero, per esprimere ciascuno di loro, nell’opera letteraria, il proprio pensiero sullo stesso tema. Chiude ogni singolo fascicolo il Vocabolario dei termini tecnici. Premessa Estratto della pubblicazione 5 Estratto della pubblicazione Indice Premessa p. 3 Introduzione » 10 » 13 » » » » » » 15 15 17 17 18 20 » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » 22 22 22 23 24 24 25 26 27 27 28 29 29 30 32 36 36 37 38 39 » » 42 42 Pagine critiche: L’etica di Panezio (V. Guazzoni Foà) Ennio 1. Perché leggerlo? 2. Il genere letterario di appartenenza: l’epica 3. La vita T1 Fr. 17-18 Vahlen2: Epitafio T2 Annales, 457-58 Vahlen 2: Il sorriso di Dio Pagine critiche: L’uso dell’allitterazione in Ennio (A. Grilli) Laboratorio Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova Prova di di di di di di di di di di di di di di di di di di di verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica verifica 1 - Annales: fr. 3 Vahlen2 2 - Phoenix: Scenica 300-03 Vahlen2 3 - Annales: 156 Skutsch 4 - Annales: 175 Skutsch 5 - Fr. 210 Vahlen2 6 - Annales: 310; 284, 277, 149-152 Vahlen2 7 - Annales: 488s. Skutsch 8 - Annales: 485s. Skutsch 9 - Annales: 145 Skutsch 10 - Annales: 5-7 Vahlen2 11 - Annales: 110-14 Vahlen2 12 - Annales: 451 Skutsch; 408 e 242 Müller; 92 Skutsch 13 - Annales: 175-79 Skutsch 14 - Annales: 34-50 Skutsch 15 - Annales: 66-68 Skutsch 16 - Telamo: Scenica 316-18 Vahlen2 17 - Scenica: 399-400 Vahlen2 18 - Alexander: Scenica, vv. 35-46 Vahlen2 19 - Alexander: Scenica, 63-71 Vahlen2 Terenzio 1. Perché leggerlo? 2. Il genere letterario di appartenenza: la commedia 7 Estratto della pubblicazione 3. La vita 4. La trama delle commedie T1 Andria I, 28-92: L’ humanitas del servo T2 Andria II, 277-98: L’impegno d’amore T3 Eunuchus III, sc. 5ª, 549-606: Una bravata per amore T4 Eunuchus V, sc. 2ª, 848-81: Una cortigiana intelligente T5 Hecyra IV, sc. 2ª, 577-606: La madre e il figlio Incontro tra autori: Plauto e Terenzio: Genitori e figli (Asinaria III, sc. 1ª, 505-44; sc. 3ª, 591-616) p. » » » » » » 44 45 46 52 55 61 64 Pagine critiche: La palliata e l’ideale dell’humanitas (A. Traina) » » 68 73 Laboratorio » 76 Prova di verifica 1 - Eunuchus II, sc. 2ª, 232-54 Prova di verifica 2 - Hecyra V, sc. 3ª, 816-40 » » 76 78 » » 81 94 » » » » » 95 95 96 97 100 » » » » » » » 102 102 103 104 106 107 108 » » » 109 109 109 Metrica » 111 Vocabolario dei termini tecnici » 115 T6 Phormio I, sc. 1ª, 35-50, sc. 2ª, 51-152, sc. 3ª, 153-78: Quando l’innamoramento altrui viene raccontato Pagine critiche: Il teatro rivoluzionario di Terenzio (L. Perelli) Laboratorio Prova Prova Prova Prova di di di di verifica verifica verifica verifica 1 2 3 4 - Adelphoe I, 97-104 Adelphoe IV, 737-41 Heautontimoroumenos I, sc. 1ª, 53-94 Analisi dei giudizi di Cesare e Cicerone su Terenzio Lucilio 1. Perché leggerlo? 2. Il genere letterario di appartenenza: la satira 3. La vita T1 Fr. 1326-38 Marx: In che cosa consiste la saggezza T2 Fr. 504-05 Marx: La vanità delle donne Pagine critiche: L’ humanitas di Lucilio (A. Pennacini) Il rifondatore della satira (M. Citroni) Laboratorio Prova di verifica 1 - Fr. 243-46 Marx Prova di verifica 1 - Fr. 1120 Marx Legenda: T C = testo con analisi = confronto intertestuale o intersegnico = testi o verifiche di particolare complessità per l’eccellenza 8 Estratto della pubblicazione • Ennio • Terenzio • Lucilio L’humanitas e la scoperta dei valori individuali Introduzione L’humanitas è il tema che connota tutta la letteratura latina e si allunga perfino a comprendere quella cristiana, poiché racchiude in sintesi i valori supremi del mondo antico. Sul piano storico, bisogna dire che la parola humanitas compare solo nei testi dopo il I secolo a.C. e, in particolar modo, nelle opere di Cicerone. Ma la cultura e la visione del mondo ad essa legate sono riconducibili al Circolo così detto degli Scipioni nel II sec. a.C. Scipione l’Emiliano, il figlio del vincitore di Pidna (168 a.C.), la battaglia con cui la Macedonia perdeva il possesso della Grecia conquistata dai Romani, condusse con sé il filosofo greco Panezio e lo storico Polibio e diede vita a una comunità di intellettuali, tra cui Ennio, Terenzio, Lucilio, i quali fecero proprie le teorie filosofiche e storiche dei due sapienti greci. Anzi, il «manifesto» dell’humanitas, di solito si ritiene sia racchiuso nel famoso verso di Terenzio nell’Heautóntimoroúmenos. Al personaggio protagonista, Menedemo, che si affatica per punirsi di aver trattato male il figlio, il vicino Cremete chiede perché si comporti così e, poiché Menedemo si meraviglia che qualcuno si interessi a lui, egli spiega: Homo sum: nil humani a me alienum puto («Sono uomo e tutto ciò che riguarda l’uomo ritengo che mi appartenga e mi riguardi»). Ecco che in tal modo si delinea già il senso dell’humanitas come generosa comunicazione tra gli uomini, partecipe interesse a capire e conoscere l’altro. È Lucilio che in un famoso frammento di Satira (1327 ss.) dà molte definizioni di virtus, la sostanza stessa dell’humanitas: virtus […] est pretium persolvere verum quis in versamur quis vivimus rebus potesse («la virtù…è poter dare il giusto valore alle situazioni in cui ci troviamo e in cui viviamo»). Questa è una lezione di estrema saggezza: saper valutare nella giusta misura il peso degli eventi. Ma fu Cicerone, soprattutto, che divulgò i princìpi dell’humanitas e le diede quell’importanza straordinaria che rivestirà nel tempo. Non si potrebbe capire, infatti, il messaggio più profondo del mondo classico, senza far riferimento ai valori dell’humanitas. In che consiste, dunque, precisamente questa concezione? Nel cuore di ogni uomo – ritengono i sostenitori dell’humanitas – non c’è, come si crede oggi, e come purtroppo siamo indotti a verificare di continuo, un’irresistibile spinta verso il male. Al contrario, in ognuno esiste la virtus che fa di lui un vir appunto. La virtus non è una sola qualità, il coraggio, come di solito si intende, ma un insieme complesso di valori: la bontà, la dignità, il rispetto di sé e dell’altro, la generosità, la magnanimità. È la megalopsichía greca, la grandezza d’animo, la magnitudo animi, la mente aperta e serena, per cui il sapiens è homo prima che civis. Ogni creatura umana, perciò, porta in sé, in potenza, queste qualità e suo compito nella vita è quello di tradurle in atto, realizzarle nella prassi quotidiana. È evidente che si tratta del trionfo dell’individualità sulla collettività, ma è altrettanto evidente che, senza un comportamento che inveri e giustifichi la grandezza 10 L’humanitas e la scoperta dei valori individuali Estratto della pubblicazione • Introduzione interiore, non esiste virtus. Per il mondo greco l’uomo doveva essere kalòs kaí agatòs, «bello e buono», mostrare, attraverso «l’armonia, la gentilezza», in latino la comitas, il decorum, l’eleganza suprema dell’aspetto fisico e della parola, tutta la grandezza del suo animo. Di qui la ricerca del bello che in Grecia assume un valore altissimo. In Roma, invece, la kalokaiagatía sarà sostituita dall’impegno dell’homo/civis per il bene dello Stato. Del resto Polibio aveva sostenuto che per realizzare la perfezione interiore era necessario vivere in uno Stato giusto e solo Roma, attraverso le tre forme di governo che aveva elaborato (democrazia, oligarchia, diarchia), poteva permettere all’homo di manifestare e perfezionare la sua virtus. Con questa convinzione Cicerone riesce a coniugare mos maiorum con humanitas. I valori del passato, che caratterizzavano appunto il mos maiorum mitico al tempo di Catone il Censore erano: la gravitas, l’honestum, la frugalitas, la pietas, la pudicitia, il labor, la constantia. Questi valori erano apparsi a Catone discordanti da quelli del Circolo degli Scipioni, perché egli avvertiva il rischio che comportava per lo Stato l’affermazione della superiorità dell’homo sul cittadino. Con Cicerone, invece, essi convergono a definire la dignità e la grandezza dell’individuo che l’humanitas sostiene. Si delinea, così, la fisionomia, – tutta ideale, si badi bene – di un uomo grande, nobile, forte, che opera per il bene della comunità e che si riconosce nell’umanità tutta, senza confini geografici e senza limiti di alcun tipo. Sarà Seneca a trattare compiutamente il grande tema dell’humanitas, ma lo collegherà alla filantropía, all’amore universale per l’altro uomo, poiché il rapporto deteriorato tra il potere e gli intellettuali non consentirà più di considerare l’impegno politico come l’espressione privilegiata della virtus. Quando il cristianesimo sottrarrà la libertà di coscienza al controllo dello Stato, ritornerà il tema dell’humanitas arricchito di valori trascendenti. In fondo al cuore dell’uomo dirà il cristianesimo non ci saranno solo qualità umane, laiche, ma ci sarà la voce di Dio che lo indirizza al bene, un bene superiore che può essere anche discordante da quello che propone lo Stato. Si pensi all’obiezione di coscienza o al rifiuto di adorare l’imperatore, che i cristiani sostenevano fermamente e che costò loro il martirio e la morte. Sarà facile, per altro, per gli scrittori cristiani, trovare nelle parole degli autori latini pagani quasi un’anticipazione dei concetti religiosi e la sempre ribadita superiorità dell’uomo su tutto l’universo. Ermete Trismegisto (uno pseudonimo che significa «tre volte saggio» per un autore sconosciuto, forse del III sec. d.C.) a tal proposito dice: «Dominare le cose terrene, contemplando le cose celesti». Nell’Umanesimo gli scrittori italiani, seguaci convinti del pensiero classico, sosterranno che l’uomo è dominus dell’universo. La sua libertà di coscienza, il libero arbitrio, anzi, diventa in Pico della Mirandola, famoso umanista fiorentino, il segno della regale superiorità dell’essere umano su tutte le altre creature viventi. In De hominis dignitate (20-23), egli fa dire da Dio ad Adamo: Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius quidquid est in mundo. Nec te caelestem, neque terrenum, neque mortalem, neque immortalem fecimus, ut tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plasmes et fictor, in quam malueris tute formam effingas. Poteris in inferiora quae sunt bruta degenerare, poteris in superiora quae sunt divina ex tui animi sententia, regenerari («Ti ho collocato nel mezzo della terra, perché tu potessi guardare intorno più comodamente quello che c’è nel creato. Non ti ho fatto né divino, né terreno, né mortale, né immortale, perché tu stesso, libero e sovrano artefice del tuo destino, ti formassi in quell’immagine che avrai scelto. Potrai degenerare negli esseri inferiori che sono bruti, o, a giudizio della tua mente, potrai elevarti verso gli esseri superiori che sono divini»). L’humanitas e la scoperta dei valori individuali 11 • Introduzione Con gli umanisti, giunge, così, alle estreme possibilità l’ideale dell’humanitas latina sia laica che religiosa: l’uomo sulla terra, libero e padrone di sé, è chiamato a diventare un essere superiore che deve dominare con la sua intelligenza divina, su tutte le altre creature viventi. La cultura dell’humanitas ritorna oggi con pressante necessità, tra gli orrori del male a cui sembriamo doverci assuefare. Dice, infatti, lo scrittore e giornalista Arrigo Levi che la «fede laica nell’uomo» è la sola salvezza per il futuro dell’umanità. «Il mondo chiama – egli osserva – e noi non rispondiamo […]. Va diffusa la cultura dell’uomo che, mai, come oggi è allo stesso tempo la minaccia finale e la difesa finale contro la fine dei tempi» (Cinque discorsi tra due secoli, Il Mulino, Bologna, 2004). E humanitas e fede cristiana si stringono nel messaggio globale di Giovanni Paolo II, papa, poeta e teologo, capace di parlare ancora dell’uomo, creatura dotata di dignità e coraggio, perché riscattata da Dio, per un progetto di pace e di amore. Lo schema che segue pone a confronto i valori del mos maiorum e quelli dell’humanitas, che, come si può notare, mostrano alcuni termini comuni che tuttavia subiscono un’estensione semantica o un mutamento di senso, nel passaggio da una cultura all’altra. Soltanto conservano l’identico significato iustitia, fortitudo, probitas, honestum. Ed è interessante che siano «la giustizia, la forza, l’onestà e la rettitudine», cioè quei valori che si spendono sul sociale. 12 MOS MAIORUM HUMANITAS Rei publicae servitium (servire la patria) hominis servitium (servire l’uomo) pietas (culto degli dei) pietas (senso del divino) fides (rispetto della parola data) fides (lealtà) auctoritas (rispetto dell’autorità) auctoritas (autorevolezza) gravitas (severità) philantropia (amore per l’umanità) pudicitia (pudore) (femminile) libertas (libertà) frugalitas (parsimonia) liberalitas (generosità) simplicitas (semplicità) modestia (senso della misura) temperantia (moderazione) temperantia (equilibrio interiore) iustitia (giustizia) iustitia (giustizia) L’humanitas e la scoperta dei valori individuali Estratto della pubblicazione • Introduzione fortitudo (forza) fortitudo (forza interiore, coraggio) constantia (fermezza) benevolentia (amorevolezza) concordia (concordia tra i cittadini) concordia (concordia tra gli uomini) probitas (rettitudine) probitas (rettitudine) industria (operosità) otium (pausa, riflessione filosofica) honestum (onestà) honestum (onestà) sanctitas (sacralità della famiglia) virtus (valori interiori) caritas (amore per i propri cari) caritas (pietà umana) pagine critiche L’etica di Panezio Nel brano che segue Virginia Guazzoni Foà spiega la filosofia di Panezio che a Roma diventa il fondamento dell’humanitas. Nella sua etica Panezio attenua il rigore dello Stoicismo antico e mostra comprensione per i motivi umani propri della cultura e dei costumi romani: anche la salute e la forza fisica servono alla felicità. Modifica la formula zenoniana di «vivere conformemente a natura», nell’altra di «vivere conformemente alle disposizioni poste in noi della natura» (to zên kata tàs dedoménas kemîn ek physeos aphormás: CLEM, Strom. II, 129). Ne enumera quattro: la disposizione del vivere in società; quella che ci porta a conoscere, l’altra che ci conduce ad avere la prevalenza su tutto; da ultimo, la disposizione alla misura e all’ordine da seguire nella nostra vita. Esse non comportano limiti dal punto di vista morale, anzi, sono necessarie e vi si fondano le virtù cardinali; l’insieme forma un’armonia interna, una bellezza dell’anima, per cui Panezio identifica, come già Platone, il bene morale con il bello. L’etica dell’antica Stoa si basava sull’eguaglianza di tutti gli uomini, predisposti dalla natura alle medesime virtù; Panezio, aristocratico di nascita, si mantiene tale anche nella sua concezione etica. Egli parte dalla premessa opposta agli antichi stoici: si basa sulla differenze degli uomini, dando così riconoscimento etico alla personalità, senza tuttavia sminuire l’importanza della natura umana universale. Ironicamente considera la figura del saggio, come era stata delineata dall’antico Stoicismo, priva di ogni tratto personale, un’astrazione, che gli ripugna, orientato com’è all’uomo reale e alla sua attività pratica. Da qui la sua concezione del dovere (kathékon) come l’azione in cui la ragione sovrana fissa alle disposizioni o istinti una misura, alla quale essi ubbidiscano senza opporre resistenza (CIC ., De Officiis I, 101). Panezio distingue tra l’«uomo privato» (idiótes) e l’«uomo politico» (politikós). L’uomo ha come due persone (prósopa): una «individuale» che lo distingue dai suoi simili e una «comune» o universale; quest’ultima riguarda la comunanza (koinonía) tra gli uomini e tutti i doveri verso la collettività; l’altra l’accordo (homologhía) con se stessi; però, malgrado questi due elementi, non si scinde la personalità umana. La prima linea di L’humanitas e la scoperta dei valori individuali Estratto della pubblicazione 13 • Introduzione condotta predomina nell’uomo politico che deve provvedere al bene di tutti e quindi deve portare l’accordo con se stesso sul piano della comunità, trasformandola in concordia. Anche i filosofi aspirano allo stesso fine dei re, a una vita senza padroni, alla libertà del «vivere come vuoi»; ma anche se il filosofo può raggiungere nella sua vita privata tale fine, più alta e feconda è la conquista dell’uomo di Stato che opera per l’utilità di tutti, a patto che abbia la convinzione che il bello etico sia il vero vantaggio dell’uomo e possieda la magnanimità (megalopsychía); ma la magnanimità è morale solo se non 14 ubbidisce all’ambizione personale. Quindi è la «saggezza» (sophrosyne) che deve guidare l’uomo ed è essa il presupposto delle altre virtù. Chi guida il popolo, come aveva detto Platone, deve subordinare gli interessi personali, a quelli della totalità, ma può farlo solo se la sua vita riceve misura dal lógos. La figura dell’uomo di governo, come è delineata da Panezio, è l’idealizzazione di Scipione, in cui egli vedeva congiunte la dignità esteriore e quella interiore. La perfezione dello Stato, dov’è possibile realizzare la più alta forma di umanità, è data dall’organizzazione L’humanitas e la scoperta dei valori individuali giuridica: «coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus». Questo concetto deriva a Panezio dal mondo romano, Panezio rimane fedele alla legge di natura che vincola tutti gli uomini e tutti gli stati; accoglie da Aristotele la «costituzione mista» di governo; richiama l’attenzione sulla responsabilità morale che comporta il dominio sugli altri popoli. Egli dà le premesse del concetto di humanitas, che sarà elaborato da Cicerone. (V. Guazzoni Foà, Storia del pensiero occidentale, vol. I, Marzorato, Milano) L’humanitas e la scoperta dei valori dell’individuo Ennio 1. Perché leggerlo? Ennius pater, Ennius et sapiens et fortis: così lo definisce Orazio (Ep. I, 19, 7, II, 1, 50) e poetam egregium Cicerone (Tusculanae III, 19,45) lo chiama come il primo poeta, quello che ha cantato negli Annales in versi esametri l’epopea romana, l’Omero latino che ha dato voce alla fierezza di una piccola città che si preparava a conquistare il mondo. Amico degli Scipioni e di Catone, Ennio sente l’orgoglio e la grandezza di Roma di cui celebra i valori del mos maiorum. Non ci restano che frammenti, ma è significativo che questi frammenti siano stati tramandati nella maggior parte da Cicerone, l’autore latino che ha maggiormente esaltato il senso dello Stato e della romanità. Ci chiediamo, allora, perché leggerlo, dal momento che neppure un episodio degli Annales ci è giunto intero e che abbiamo sempre dichiarato che è il testo a interessarci non l’autore? In verità, perfino attraverso quei pochi esametri che possediamo, versi sparsi, smembrati, incompleti, si riesce a cogliere una novità di stile e una forza di sintesi che fanno di ogni frammento un momento lirico, una fulminante intuizione poetica che si avvale di strumenti espressivi raffinati e ne giustifica ampiamente la lettura. Del resto, nell’epica, da Lucrezio a Virgilio, non c’è stato scrittore latino che non abbia riconosciuto in Ennio il suo modello di riferimento. 2. Il genere letterario di appartenenza: l’epica L’epica è uno dei più importanti generi letterari del mondo classico. Il termine deriva da epos che significa parola, perché in origine era poesia recitata, cantata, il cui scopo era quello di celebrare azioni eroiche e leggendarie. Aristotele la paragona alla tragedia, in quanto esaltazione dei gesti nobili dei personaggi, ma ne sottolinea la diversità, perché l’epica a differenza della tragedia, era caratterizzata da un unico metro, l’esametro, il verso eroico tipico del genere, e perché non esistevano limiti temporali nella narrazione. I modelli archetipici di epica, quelli a cui tutti gli autori successivi si rifaranno, per adeguarvisi o per rovesciarli, sono, come è noto, i poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, scritti tra il IX e il VII secolo a.C. attribuiti alla figura leggendaria di Omero il poeta cieco, ma composti in realtà forse da aedi ionici per la recitazione e la trasmissione orale. Non è un caso che la letteratura latina inizi appunto con la famosa traduzione dell’Odissea compiuta da Livio Andronico, ora andata perduta, ma studiata nelle scuole romane fino all’età augustea, secondo la testimonianza di Orazio. Livio Andronico usò come verso il saturnio, allo stesso modo di Nevio nel primo poema epico latino il Bellum Poenicum. Sarà Ennio, con l’introduzione dell’esametro nel suo poema gli Annales, a far conoscere il modello omerico agli scrittori romani. Lucrezio e Virgilio, coll’epos della Natura il primo e con l’epos di Roma il secondo, daranno un carattere nuovo all’epica, fino ad L’humanitas e la scoperta dei valori individuali 15 • Ennio Ovidio delle Metamorfosi e Lucano del Bellum civile o Pharsalia, che muteranno in modo significativo il genere, l’epos della metamorfosi l’uno, l’epos dell’eroe sconfitto, senza dei e senza gloria, l’altro. Ma quali sono dunque questi caratteri originari con cui gli scrittori posteriori si confronteranno per continuità o rottura? Vediamoli in sintesi. 1. La narrazione di gesta eroiche, compiute da personaggi connotati dalle qualità topiche dell’eroe classico: coraggio, audacia, prudenza, saggezza, bellezza, vigore fisico ecc. 2. La massa dei guerrieri, senza alcuna cittadinanza letteraria, che resta anonima ed insignificante. 3. L’interazione continua tra divino e umano con l’intervento della divinità nelle azioni dell’uomo. Il dio parla con l’eroe, lo rimprovera, lo incita, lo consiglia. Dei ed eroi hanno le stesse passioni e l’unico divario è nel diverso potere. L’eroe acquisisce, così, la stessa dimensione mitica del dio. 4. La caratteristica di sorgere alle origini di ogni cultura letteraria di un popolo. 5. La celebrazione, quindi, delle reali vicende storiche del popolo a cui era diretta (per esempio la fondazione di Roma nell’Eneide). La storia, però, è mescolata con le azioni divine e i fatti leggendari, a sottolineare che il destino di un popolo dipende anche dalla volontà degli dei. 6. L’ascolto del proprio poema epico da parte di ogni comunità come strumento per rafforzare in ogni popolo il ricordo del passato indefinito, leggendario, il passato assoluto secondo la definizione di Schiller, non suscettibile di analisi critica. Così, attraverso il canto, l’epos, è possibile conservare la memoria delle proprie origini e dei valori comuni di riferimento. 7. La trasmissione di tutto il sapere giuridico, religioso, scientifico dell’epoca, a carattere enciclopedico, inserito nel racconto fantastico e, quindi, l’espressione dell’identità culturale di un’etnia. Si pensi alla cultura greca dei poemi epici, a quella latina dell’Eneide ecc. 8. La ciclicità dei temi, quali la guerra di assedio, la prova, la battaglia decisiva, il tradimento del personaggio infido, la morte dell’eroe, i funerali solenni, la vendetta, il viaggio come nòstos («ritorno») e come avventura ecc. 9. Lo spazio, teatro delle vicende, di solito costituito dal campo di battaglia, dalla reggia dei sovrani, dal mare, dalla sede degli dei, quale simbolo, rispettivamente, delle gesta eroiche, del luogo del potere, del rischio, della decisione sul destino degli uomini. 10. Il personaggio protagonista «piatto», secondo la terminologia dello scrittore inglese Edward Forster, cioè che non cambia nel corso della narrazione perché incarna un’idea. A tal proposito M. Bachtin1 in Estetica e romanzo, osserva: «Il personaggio epico è del tutto compiuto e concluso. Egli è compiuto ad un alto livello eroico, ma è compiuto e esasperatamente completo, è tutto qui dal principio alla fine, coincide con se stesso è assolutamente uguale a se stesso. Inoltre egli è tutto esteriorizzato. Tra la sua vera essenza e la sua parvenza esteriore non c’è la minima divergenza. Egli è diventato tutto ciò che poteva essere ed egli poteva essere solo ciò che è diventato… Il punto di vista con cui egli guarda se stesso coincide interamente con quello da cui lo guardano gli altri, la società, il cantore, gli ascoltatori». Solo con Virgilio, che innova profondamente il modello omerico nell’Eneide, l’eroe, pur restando «piatto», il pius Enea, acquisisce una dimensione complessa attraverso l’ambiguità semantica del linguaggio, più vicino a quello della lirica che dell’epica. Durante il Medioevo, in un contesto storico e culturale cristiano dell’età carolingia, rinascerà il poema epico, quale epico cavalleresco, con le chansons de geste dei cavalieri della Tavola rotonda e di Orlando, destinati a diventare modelli archetipici per l’Orlando furioso dell’Ariosto e per la 16 L’humanitas e la scoperta dei valori individuali Estratto della pubblicazione • Ennio Gerusalemme Liberata di Tasso e per tutti i rovesciamenti carnevaleschi che ne seguiranno (il Morgante di Pulci, il Baldus di Folengo ecc.). 3. La vita Quinto Ennio nacque a Rudiae, vicino Taranto, nel 239 a.C. La sua esperienza culturale lo faceva vantare di avere tre cuori, tria corda, poiché conosceva tre lingue, il greco, l’osco e il latino. Partecipò alla seconda guerra punica e fu condotto da Catone il Censore dalla Sardegna a Roma dove aveva combattuto insieme ai Sardi in rivolta contro il fratello di Annibale. Ben presto Ennio acquistò la stima degli aristocratici, specialmente degli Scipioni. Aveva conoscenza del pitagorismo e della letteratura greca, per cui si propose il compito di dare ai Romani una cultura più alta e nuova. Morì a Roma nel 169. Scrisse commedie, tragedie (cothurnatae e praetextae), Saturae (componimenti di argomento e metro vario in 4 libri), Scipio un’opera celebrativa su Scipione, opere filosofiche di contenuto pitagorico, un’opera gastronomica l’Hedyphagetica: di tutte c’è rimasto solo qualche scarso frammento. T1 La sua opera principale è Annales, il primo poema epico di Roma, in verso esametro e in 18 libri. Ci restano molti versi, ma sempre pochi rispetto alla mole dell’opera. È la celebrazione della storia di Roma dalle origini mitiche fino ai suoi tempi. La profonda ammirazione che egli prova per Roma emerge dal peso che egli dà alla leggenda dell’arrivo di Enea in Italia, della nascita di Romolo da Marte, dalla sua convinzione di essere Omero redivivo, chiamato a cantare la gloria del popolo romano. Nel proemio, infatti, narra che Omero gli era venuto in sogno e gli aveva svelato il segreto della metempsicosi per cui l’anima dopo la morte migrava di corpo in corpo e quella di Omero era entrata in lui. I versi rimasti spiegano il rispetto e la venerazione che tutti gli scrittori posteriori hanno nutrito verso di lui. Fr. 17-18 Vahlen2: Epitafio L’epitafio è la scrittura celebrativa che si pone sulla tomba del defunto. Molto spesso veniva scritto in vita dalla persona stessa a cui doveva servire: famoso, ad esempio, è l’epitafio di Boccaccio in cui lo scrittore dichiara il suo amore per la poesia, lo studium almae poesis. Quello che segue è il notissimo epitafio di Ennio. Metro: distico elegiaco Nemo me lacrumis decoret nec funera fletu faxit. Cur? Volito vivus per ora virum. Nemo…faxit: «Nessuno mi onori di lacrime e mi faccia il funerale col pianto». Lacrumis: arcaico per lacrimis, è ablativo di mezzo; fletu: ablativo di mezzo, da fletus (= «pianto»); faxit: arcaico per fecerit, congiuntivo esortativo con valore di imperativo, regge l’accusativo plurale funera, da funus. Funus è il funerale solenne, diverso da exsequiae e pompa che rappresentano l’accompagnamento funebre. Notare la forte allitterazione funera fletu faxit, a cui segue l’altra, volito vivus virum. Cur…virum: «Perché? Vado volando vivo tra le bocche degli uomini». Volito: intensivo di volo-as (= «vola- re»), indica l’andare volando qua e là; per ora: «attraverso le bocche»; ora: (da os-oris), metonimia per indicare gli uomini che parleranno di lui; virum: arcaico per virorum. Cfr. Virgilio, Georgica III, 9, che alludendo alla sua futura gloria dice: Victorque virum volitare per ora. L’humanitas e la scoperta dei valori individuali 17 • Ennio testuale Analisi T1 Fr. 17-18 Vahlen 2: Epitafio Il noto epitafio sintetizza, in vigorose e secche affermazioni, l’orgoglio del poeta, la ferma consapevolezza di non morire, ma di restare vivus, perché gli uomini continueranno a parlare di lui nel tempo. Sono le ora, le bocche dei posteri a dargli vita. Tuttavia egli non dice “uomini” in senso generico, ma virum. Sono, infatti, per Ennio, solo gli uomini sensibili e attenti quelli che alimentano la propria virtus, leggendo i poeti e nutrendosi delle loro parole. I lettori avvertono, di solito, un senso di fastidio di fronte ad affermazioni di questo tipo che attraversano tutte le letterature di ogni tempo, come se il poeta peccasse di presunzione. Si deve, invece, comprendere bene che nessun poeta, nessun grande artista può ignorare di essere chiamato a qualcosa di misteriosamente sublime, quasi superiore alla sua stessa volontà la quale deve piegarsi all’urgenza dell’ispirazione. E non è un caso che gli antichi ritenessero che Apollo, il dio della poesia, facesse “violenza”, ispirando i poeti. Un esempio famoso, molto vicino al pensiero di Ennio, per questa ferma consapevolezza dell’eternità acquisita attraverso la propria opera, offre il Foscolo quando, nei Sepolcri (vv. 224 ss.) chiede alle Muse di dargli l’eternità attraverso la sua poesia: «E me che i tempi ed il desio d’onore fan per diversa gente ir fuggitivo me ad evocar gli eroi chiamin le Muse del mortale pensiero animatrici. Siedon custodi dei sepolcri e quando il tempo con sue fredde ali vi spazza fin le rovine, le Pimplee, fan lieti di lor canto i deserti e l’armonia vince di mille secoli il silenzio». Ecco, il poeta qui si fa strumento, “oggetto” dell’ispirazione poetica: si noti a tal proposito la forza semantica dell’anafora di me, complemento oggetto del periodo, anticipato e in collocazione di rilievo. È così che il “silenzio dei secoli” è attraversato dalle parole di Ennio, come da quelle di Foscolo, senza che mille o cento anni possano incidere sull’“armonia” eterna della poesia. T2 Annales, 457-58 Vahlen2: Il sorriso di Dio Questo frammento molto breve ci sembra degno di particolare attenzione. Metro: esametro Iuppiter hic risit tempestatesque serenae riserunt omnes risu Iovis onnipotentis. Iuppiter…risit: «Giove a questo punto sorrise». Il deittico hic ha una funzione temporale e spaziale insieme. tempestatesque…onnipotentis: «e l’aria serena sorrise tutta del sorriso di Giove onnipotente». Notare la figura etimologica e il poliptoto risit/ riserunt/ risu che marcano il 18 tema dei due versi. I polisillabi tempèstatèsque e ònnipotèntis fanno fermare su di sé l’attenzione, attraverso la doppia battuta dell’ictus metrico; tempestates: da tempestas è plurale, vox media e significa «stagioni», «tempi». È significativo che il lessema sia accompagnato da una doppia aggettivazione, di cui serenae L’humanitas e la scoperta dei valori individuali è termine pregnante, rilevato, peraltro, dalla collocazione in clausola come onnipotentis. Marcato è il nesso allitterante tra serenae e riserunt che stringe insieme i due termini e ne sottolinea la dipendenza: sorrisero perché serene. Cfr. Lucrezio, De rerum natura I, 8-9. • Ennio Analisi testuale T2 Annales, 457-58 Vahlen 2: Il sorriso di Dio Il frammento è costituito da soli due versi, ma questi versi accendono un’immagine improvvisa e folgorante: una natura serena e luminosa che rispecchia il divino. Questo è il significato immediato: quando tutto intorno è luce e sole sembra che ci sia un riflesso di Dio nel mondo. Ma il testo è molto più intenso, perché il messaggio passa attraverso una sapienza retorica che stupisce e ci fa rimpiangere la perdita dell’opera di Ennio. Vediamo, dunque, come anche pochissime parole siano capaci di produrre un effetto poetico così intenso. Innanzi tutto il “divino”, Iuppiter in incipit, Iovis alla fine, apre e chiude il frammento, a indicare che non è il paesaggio, ma la percezione di qualcosa di più alto, che interessa. E il vistoso poliptoto risit/riserunt, collegato per etimologia con risu, qualifica l’apparizione del divino come sorriso. Al tempo stesso l’aggettivo serenae carica semanticamente un sostantivo d’uso comune quale tempestates, vox media che non avrebbe altrimenti valore poetico, permettendo di chiudere un’immagine entro la prima parte del distico: Giove ha sorriso e così è avvenuta l’epifania del divino, perché l’aria intorno è intrisa di Dio, limpida, serena. La seconda parte, invece, con l’aggettivo onnipotentis che si stende nel verso, risonante e solenne, sembra indicarci la brevità struggente di questo sorriso: un istante solo, una “scintillazione”, direbbero i filosofi del Novecento, che sfugge alla ragione e illumina per un attimo il buio della mente umana lasciando, poi, la nostalgia di una percezione irripetibile. Dopo di Ennio altri poeti hanno percepito questa emozione esaltante e al tempo stesso struggente. Lucrezio, all’apparire della primavera/Venere, usando lo stesso verbo rident, ripete che il sorriso del paesaggio, splendente e gioioso, è volto alla divinità (tibi), nasce da essa: tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum («all’arrivo della primavera/Venere ridono le distese del mare e splende sereno il cielo di luce diffusa», De rerum natura I, 8-9) Ma è Dante, che nella primavera paradisiaca del suo paesaggio mentale, capovolge i termini del rapporto e spiega la sua visione del divino come una visione primaverile. Il grande poeta di fronte ai beati nell’Empireo si prepara a vedere Dio e si sente inebriato di suono e luce, Paradiso 27, 4-6: Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso dell’universo; per che mia ebbrezza intrava per lo udire e per lo viso. Nel Novecento il bisogno del divino, dopo la «morte di Dio» di cui parla Nietzsche, si è caricato di una dolorosa e incessante ricerca. Per non dilungarci su un terreno che ci porterebbe molto lontano, vogliamo citare solo due esempi emblematici. Milan Kundera ne L’arte del romanzo (1986), alla richiesta di spiegare come sia nato il romanzo, risponde, attribuendo al romanzo la possibilità di far cogliere un’“eco della risata” di Dio: «Ma che cos’è questa saggezza, che cos’è il romanzo? Dice un bellissimo proverbio ebraico: L’uomo pensa, Dio ride. Prendendo spunto da questa massima, mi piace L’humanitas e la scoperta dei valori individuali Estratto della pubblicazione 19 • Ennio immaginare che Francois Rabelais abbia udito un giorno la risata di Dio e che sia nata così l’idea del primo grande romanzo europeo. Mi diverte pensare che l’arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio. Ma perché Dio ride, guardando l’uomo che pensa? perché l’uomo pensa e la verità gli sfugge…». Il famoso fotografo francese, Eduard Boubat 1, di recente scomparso, alla domanda perché mai fotografasse di preferenza i bambini, rispose: S’il n’est pas donné à l’homme de voir Dieu, il peut cependant voir les enfants («Se non è concesso all’uomo di vedere Dio, gli è concesso almeno di vedere i bambini»). Spiegava ancora che nel sorriso dei bambini si può cogliere il divino, perché contiene il sole, la luce (le soleil, la lumière). Tutto ciò che ci emoziona, dunque, da un paesaggio intriso di luce a un sorriso, fuori della logica corrucciata dell’uomo che pensa, è divino. 1 É. Boubat, Mes chers enfants, ed. Phoébus, Parigi, 1999. pagine critiche L’uso dell’allitterazione in Ennio Il critico A. Grilli analizza il ruolo che Ennio e i poeti successivi hanno dato all’uso dell’allitterazione, rimarcando la differenza tra la poesia arcaica e quella classica. Ennio ha fatto dell’allitterazione un preciso mezzo stilistico nella sua tragedia e l’ha sfruttata, seguendo la tradizione di Livio e Nevio, con abbondanza, anche se non ha mai o quasi mai, esagerato nel calcarvi la mano; anche qui per gli Annali si è attenuto alla tradizione epica che, nel saturnio, era stata considerata più parsimoniosa, in parte per le esigenze del verso, in parte perché così era nei saturni preletterari: ma scarse erano le occasioni, in un poema epico, di aver episodi veramente patetici ed Ennio ha rivolto a un più ampio campo le funzioni dell’allitterazione. Ne ha fatto uno degli strumenti più sensibili, ma non l’unico, per l’onomatopee, vi è ricorso per dare tono a particolari d’un diverso pathos, quello che scaturisce dall’assistere a grandi o tremendi fatti (e chi ascolta il poema epico è in certo modo spettatore degli avvenimenti); se ne è infine servito come mezzo di rilievo adattando abilmente alle esigenze 20 di orecchi italici una vecchia figura di suono, sacrale e profana, che aveva le sue origini nelle remote origini della lingua. Anche qui, se pur meno visibilmente, ha piegato ad esigenze di stile ciò che prima di lui era un mezzo che si veniva affinando, ma non aveva trovato una realizzazione che raggiungesse vero livello d’arte, come spesso in Ennio è. Quando il Norden parla dell’allitterazione «che Ennio aveva posto in salvo nella poesia d’arte traendola dalle rovine della poesia popolare, ma che i neoterici non tollerarono proprio perché appariva loro come segno caratteristico italico» (E. Nordern, Vergil. Aen. Buch. VI, p. 407), indica quello che è il merito più grande di Ennio in proposito; ma segna allo stesso tempo i due atteggiamenti sintomatici della letteratura romana. Abbiamo visto in che modo Virgilio riprende i versi del taglio del bosco: per la verità, il bisogno che egli sente L’humanitas e la scoperta dei valori individuali Estratto della pubblicazione di alleggerire allitterazioni e onomatopea (basterebbe far caso che pervortunt è stato sostituito con advolvunt per rendersi conto della via seguita) è un’esigenza di raffinatezza stilistica che ha abbandonato certe tendenze più nettamente italiche per altre più confacenti ai nuovi ideali alessandrini. Ma sarà forse questo il momento di accennare a una questione di proporzioni più vaste, toccandone per ora l’aspetto attinente alla nostra ricerca. Quando noi consideriamo l’allitterazione arcaica nella sua completa evoluzione, cioè anche dopo Ennio […], ci accorgiamo che il fenomeno tende ad alleggerirsi secondo certi, che non potremmo dire canoni, ma tendenze del gusto, pur rimanendo vivacissima. L’allitterazione non va lentamente in disuso, ché Pacuvio, Accio, Lucilio, Lucrezio se ne servono come d’una figura capace di precisi risultati stilistici; l’allitterazione muore per colpa, direbbe Cicerone, di quei • Ennio cantores Euphorionis, che non capiscono, e quindi tanto meno gustano, quelle belle sonorità che Cicerone tanto ama e ancora largamente introduce nei suoi componimenti, spesso – ahimè – con la grazia di un orso. Ma il gusto è cambiato perché gli uomini sono cambiati: Accio e Pacuvio, Lucilio, Lucrezio e lo stesso Cicerone erano italici e avevano nel sangue l’allitterazione iniziale, addirittura pesante e massiccia in certe formule sacrali, tradizionale, anche se ormai piegata ad esigenze diverse nella poesia, sopra tutto nella tragedia: ma tutta la “nouvelle vague” viene dal Nord e si tratta di Celti per lo più, o di Veneti, che se dovevano avere elementi allitteranti nei loro carmi sacri, non li avevano nella misura di quelli umbri e latini e non ne potevano sentire il valore psicagogico: sopra tutto non avevano una tradizione letteraria che li avesse trapiantati nella poesia d’arte. Lo sbalzo enorme fra Lucrezio e i neóteroi appare lampante alla prima lettura, come quello tra Ennio e Lucrezio da un lato e Virgilio dall’altro, che pure indulge talvolta all’allitterazione, in special modo nell’Eneide, che si riattacca alla tradizione epica enniana. Anche noi oggi, figli del classicismo che risaliamo alle forme arcaicizzanti per un gusto nato prima di tutto da ribellione, più che da adesione, stentiamo a sentire la suggestione di questo suono che si ripete come una nota dominante, contemporaneamente vincolo armonico e stimolo concettuale. (A. Grilli, Studi enniani, ETS, Brescia 1965) L’humanitas e la scoperta dei valori individuali 21 Laboratorio Ennio Prova di verifica 1 Annales: fr. 3 Vahlen2 Nam latos per populos res atque poemata nostra clara clarebunt. A. Comprensione Tradurre e dare un titolo al frammento. B. Analisi morfosintattica e semantica 1. 2. 3. 4. Perché in incipit c’è latos? Che complemento è per populos? Che valore ha la figura etimologica clara clarebunt? Perché l’endiadi res atque poemata? C. Approfondimento Collegare questo frammento con l’epitafio, qui a p. 17, e cogliere i motivi di affinità e le differenze. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Prova di verifica 2 Phoenix: Scenica 300-03 Vahlen2 Sed virum vera virtute vivere animatum addecet fortiterque innoxium stare adversum adversarios Ea libertas est qui pectus purum et firmum gestiat aliae res obnoxiosae nocte in obscura latent Traduzione È giusto che l’uomo viva sorretto da virtù vera e/ si erga innocente contro i nemici/ coraggiosamente./ La libertà è di colui che ha un cuore puro e forte/ tutto il resto è schiavitù che sta nascosta in una notte oscura. A. Comprensione Spiegare in massimo cinque righe che cosa intende Ennio per libertà. Dare un titolo al frammento. 22 Laboratorio Estratto della pubblicazione • Ennio B. Analisi morfosintattica 1. 2. 3. 4. Con quale termine concorda addecet? Che complemento è vera virtute? Da quale verbo dipende l’infinito stare? Che caso è innoxium? Che proposizione è qui… gestiat? Quale termine sottintende qui? Con quale soggetto concorda latent? C. Analisi semantica 1. Analizzare le etimologie del lessico, per cogliere la pregnanza (ad esempio innoxium, obnoxiosae ecc.). 2. Spiegare la frequenza delle figure etimologiche usate in senso espressivo (ad esempio, virum/ virtute, adversum/ adversarios ecc.). 3. Che funzione hanno gli omoteleuti e i nessi allitteranti (ad esempio: obnoxiosae/ obscura ecc.)? 4. Che funzione ha la metafora nocte in obscura? 5. Perché il sintagma obscura latent è collocato in clausola? D. Approfondimento 1. L’affermazione di Ennio può essere letta come una dichiarazione di humanitas, ma anche come un richiamo ai valori del mos maiorum: spiegare in che senso vada intesa, in quanto legata a queste culture (massimo venti righe). 2. Approfondire il collegamento semantico tra fortiter, innoxium e stare, per cogliere il sottile legame che esiste tra la libertà e le altre qualità dell’uomo che l’accompagnano (massimo venti righe). ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Prova di verifica 3 Annales: 156 Skutsch Moribus antiquis res stat Romana virisque. A. Comprensione 1. Tradurre il verso. 2. S. Agostino ci riporta questo frammento nel De civitate dei II, 21 e riferisce a riguardo le parole di Cicerone del V libro del De re publica: «Questo verso per la brevità e per la verità sua, mi pare profferito da un oracolo: infatti né gli uomini se la repubblica non fosse stata così morigerata, né i costumi, se non fossero stati al governo simili uomini, avrebbero potuto fondare e mantenere per tanto tempo un impero così vasto e potente». Analizzare il commento di Cicerone, per cogliere il significato profondo del verso. Dare un titolo al frammento. Laboratorio 23 • Ennio B. Analisi morfosintattica e semantica 1. Perché moribus e virisque sono collocati in posizione di rilievo e chiastica? Perché moribus è seguito dall’aggettivo e viris no? 2. Perché il verso è strutturato per blocchi binari? 3. Che funzione semantica ha il verbo stat? C. Approfondimento Confrontare questo verso con qualche passo di Cicerone in cui si sostiene la stessa tesi (massimo venti righe). ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Prova di verifica 4 Annales: 175 Skutsch Stolidum genus Aeacidarum bellipotentes sunt magis quam sapientipotentes. (gli Eacidi erano i re dell’Epiro che si ritenevano discendenti da Eaco, nonno di Achille) A. Comprensione Tradurre e dare un titolo al frammento. B. Analisi morfosintattica e semantica 1. Perché stolidum genus è in accusativo? 2. Spiegare le etimologie e l’antinomia dei due aggettivi coniati da Ennio bellipotentes e sapientipotentes? D. Approfondimento Collegare questo frammento al precedente (verifica 3) cogliendo le precise corrispondenze semantiche. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Prova di verifica 5 Fr. 210 Vahlen2 Amicus certus in re incerta cernitur. A. Comprensione Tradurre il breve frammento, tratto dalle tragedie, e dargli un titolo. B. Analisi semantica 1. Cogliere la figura retorica di certus/incerta e spiegarne la funzione. 2. Cogliere la figura retorica di incerta/cernitur e spiegarne la funzione. 24 Laboratorio Estratto della pubblicazione