Aprile-giugno 2012 - Link Campus University

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Aprile-giugno 2012 - Link Campus University
periodico di informazione della Link Campus University - aprile/giugno 2012
link journal
Focus - ‘Giovani: un piano straordinario per la conquista della felicità’
A colloquio con Edgar Morin
articoli di: M. Bucchi, N. Ferrigni, L.J. Garay, S. Lazzari Celli,
G. Lo Russo, P. Madotto, M. Pistone, A. Suraci, F. Zille
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link journal
indice
3
FOCUS
‘Giovani: un piano straordinario
per la conquista della felicità”
52 A colloquio con Edgar Morin
Marco Emanuele
55 L’eclissi di futuro e gioventù
Massimo Bucchi
Edgar Morin
editoriale
56 La generazione che prende
in prestito i sogni
Stefania Lazzari Celli
28 Una riforma costituzionale
per riformare la politica
Piero Calandra
58 Un futuro da costruire
in un mondo da ricostruire
Paolino Madotto
30 Il ruolo della Banca Centrale
e la crisi di fiducia dei cittadini
Paolo Balice
59 Ilegalidad, Juventud
y Esperanzas Robadas
L.J. Garay S. / E. Salcedo A.
6 Il Mezzogiorno, ponte strategico
tra l’Europa e il Mediterraneo
Vincenzo Scotti
31 Efficienza, competitività,
merito: le nuove sfide della P.A.
Andrea Altieri
61 Figli e figlie di una nuova patria
Nicola Ferrigni
8 Liberalizzazioni e concorrenza
nel sistema italiano
Francesco Pastore
europa
32 Competere nell’incertezza
Habib Sedehi
4 I giovani, la politica,
il nostro impegno
Vanna Fadini
italia
11 2020: la strategia dell’Europa
per arginare il degrado ambientale
Marco Iezzi
12 I nostri giovani: Edoardo Marconi
13 L’Europa delle culture:
la sfida da cui partire
Marco Emanuele
internazionale
15 BRICS: un’opportunità da non
perdere per le aziende italiane
Giancarlo Ansalone
16 Africa: la Cina sfida l’Europa
Alessandro Figus
18 Unione Europea e Mercosur:
un bilancio e una prospettiva
Luigi Maccotta
21 I nostri Giovani: Giulio Coppi
cooperazione internazionale
22 Da Corleone ai Gorilla:
quando l’Assemblea non è tutto
Maurizio Zandri
economia e diritto
24 Accordo faticoso: ma con buone
prospettive per la stabilità
Giorgio Benvenuto
26 Lo stato attuale della giustizia
Daniela Noviello
27 Aspettando Godot...
tra assenze e attese si consuma
il vivere civile
Giorgio Spangher
34 UK Corporate Governance
Takes on an Italian Flavour
Brian R. Cheffins
35 Riflessioni e paradossi
in tema di crisi economica
Pierluigi Matera
37 I nostri Giovani: Fabio Zampini
intelligence e sicurezza
38 N.A.T.O. /Africa:
une liaison dangereuse
Alessandro Politi
39 Una nuova frontiera della guerra
economica: lo spionaggio
industriale nel cyberspazio
Luigi Sergio Germani
comunicazione
41 Comunicazione visiva:
un’ipotesi sulla dislessia
Leonardo Romei / Chiara Mancini
43 I nostri Giovani: Giulia Mizzoni
protezione civile
44 Previsione e prevenzione:
due aspetti fondamentali
per la sicurezza
Giuseppe Zamberletti
università
46 La scommessa del futuro:
un’Università che sappia
interagire tra società e impresa
Ortensio Zecchino
64 Sentimenti & Amore in un clic
Francoise Zille
65 Artista d’Impresa
e la forza delle idee
Gearardo Lo Russo
67 È il momento di realizzare
le promesse della democrazia
Antonio Suraci
69 Lo sviluppo e il progresso
nascono dalla nostra capacità
di inventare
Massimo Pistone
70 I nostri Giovani: B. Stender
Link Campus University
72 iTest your University Choice
73 Il saluto del Presidente
Prof. Vincenzo Scotti
74 I corsi di Laurea
75 I Master
libri
76 Le pubblicazioni Eurilink
Link Journal
Periodico di informazione
della Link Campus University
Direttore responsabile:
Antonio Suraci
Comitato di redazione:
Vanna Fadini, Stefania Lazzari Celli,
Marco Emanuele, Gerardo
Lo Russo, Tommaso Mattei,
Massimo Pistone, Maurizio Zandri
Segreteria di redazione: Titti Nicolellis
Grafica e impaginazione: Eurilink
Periodico a diffusione gratuita
n. 2/12 in attesa di autorizzazione
Tipografia: Empograph,
Villa Adriana - Roma
Edizioni Eurilink
editoriale
4
link journal 2/2012
editoriale
I giovani, la politica,
il nostro impegno
L
e pagine dei giornali non
fanno che sottolineare l’allarme per la crescente disaffezione della gente verso la politica.
Casi di sospetta (o palese) corruzione; interessi privati in atti pubblici; comportamenti eticamente
riprovevoli; utilizzo dei rimborsi
elettorali in modo improprio: non
c’è giorno che qualche sigla partitica
non ne venga coinvolta (a torto o a
ragione) e con ciò non riceva un
colpo la credibilità della classe politica in generale e la voglia della
gente di prendere parte alla cosa comune.
Hai voglia a fare distinguo tra politici furbi o ladri e politici per bene;
a fare richiami all’importanza della
politica come servizio; al ruolo insostituibile dei Partiti per la democrazia. In questo momento è come
se la politica fosse un bicchiere
d’acqua: basta una piccola goccia
d’inchiostro per sporcarla tutta.
Forse stiamo giocando con il fuoco.
Siamo su di un piano inclinato sempre più ripido. Toccare il fondo, a
questo punto, è facile. Basta non
andare a votare o accettare di votare
per “castigatori” senza proposte e
senza futuro. Basta non partecipare
più alla tua associazione, al corteo,
al dibattito sul tuo social-network.
Basta ritirarsi schifati nel proprio
privato (peraltro sempre più scomodo...). Basta innamorarsi di qualche uomo della provvidenza. Basta
delegare, per stanchezza. E’ un attimo.
Riarrampicarsi è, invece, complicato. In discesa fai metri ogni se-
condo; in salita centimetri ogni ora.
Eppure qualcuno continua a farlo
ogni giorno. Senza prosopopea.
Senza dire “ehi, guardate qua, come
sono bravo”.
Quasi per legge naturale.
Sono i ragazzi. I nostri giovani.
Certo non secondo i codici che la
nostra generazione, quella dei loro
genitori, conosce. Ed è per questo
che qualche volta facciamo confusione e parliamo del loro disimpegno.
Gli esempi di cosa sto dicendo
sono davanti ai nostri occhi. Da
Puerta del Sol a Madrid, fino a Tharir in Egitto, da Zuccotti Park a
New York fino ad Avenue Burghiba, a Tunisi. I Giovani hanno rappresentato e rappresentano il cuore
delle ribellioni della Primavera
Araba. Sono i protagonisti del risveglio di una coscienza civile in
molte capitali occidentali.
Ma non chiedete loro se sono di destra o di sinistra. Non chiedete di
che Partito sei. Non è che si arrabbierebbero. Non capirebbero.
Leggevo qualche settimana fa i dati
di una interessante inchiesta sui giovani e la loro propensione alla partecipazione, realizzata via web su di
un campione di circa 1400 ragazzi,
dai 17 ai 30 anni. Un campione rappresentativo di una certa area di
giovani già “sensibilizzati” e contattati tramite una sorta di sistema di
cerchi concentrici che partiva da
una organizzazione giovanile notoriamente di sinistra.
Insomma un campione già orien-
tato. Ebbene il 34% degli intervistati non si riconosceva né nelle posizioni politiche della Sinistra, né in
quelle della Destra, come noi siamo
usi a definirle. Immaginiamo quale
sarebbe la risposta nell’ambito di un
campione rappresentativo dell’intera Società.
Ma questo non va scambiato per disimpegno.
In un’altra recente indagine tra i
giovani delle Scuole superiori romane, che ha coinvolto più di mille
studenti, il 72% del campione intervistato dice di non avere fiducia
nella politica e nei Partiti. In generale, però, l'85% del campione
pensa sia importante impegnarsi in
politica in prima persona.
Questo impegno politico non può
però essere inteso come adesione ai
partiti. Troppo spesso, nella semplificazione dei messaggi, costruiamo
un cortocircuito partiti-politica che
è improprio. La politica in prima
persona è anche quella dell’impegno a scuola, negli organismi scolastici, come nelle assemblee
informali. Sta nel fare girotondi di
protesta, nello sfilare nei cortei magari con il viso dipinto di colori allegri. Sta nell’associazionismo, nel
volontariato, nei circoli culturali,
negli scout, nelle mille forme di assistenza e aiuto in cui i giovani sono
massicciamente coinvolti. Sto allargando troppo il concetto di “politica”? Non credo.
E comunque, sarei in ottima compagnia, perché ricordo che Don
Milani in Lettera ad una Professoressa
Vanna Fadini, Presidente della Società di Gestione della Link Campus University
link journal 2/2012
scriveva:
“Ho imparato che il problema degli altri è uguale al
mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è
l’avarizia”
Spesso i giovani nelle loro espressioni di impegno sono troppo conflittuali? Forse. Però era
già Sant’Agostino, come ricorda in “Noi crediamo” l’ex ministro Giorgia Meloni, ad affermare ”La speranza ha due bellissimi figli: lo
sdegno e il coraggio… Lo sdegno per la realtà
delle cose, il coraggio per cambiarle”.
E è ancora Don Milani a dire: “Io al mio popolo
gli ho tolto la pace: non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza
che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione
né riguardo né tatto. Mi sono attirato addosso un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha
elevato il livello degli argomenti e di conversazione del
mio popolo”.
E’ il modello di appartenenza politico-partitica
ad essere andato in crisi. La multi-appartenenza
non è più un segno di immaturità, ma un nuovo
codice comportamentale.
Non fa scandalo. Se non
tra i “sacerdoti” della vecchia politica. Non so se
serva un linguaggio nuovo
alla politica ufficiale
odierna. Dipende. Per fare
cosa? Per riuscire a farsi capire e votare dai giovani?
Troppo poco e un po’ strumentale.
Serve forse di più che tutti
noi ascoltiamo con attenzione il linguaggio che
viene dai giovani della Primavera Araba e dagli indignados; dalle scuole e
Università, dall’associazionismo, e anche dai mille
“muretti” d’Italia. Al nuovo
“linguaggio” ci stanno già
pensando loro.
Ascoltarlo e capirlo non
vuol dire, però, non aiu-
editoriale
tarlo a crescere. Accettarlo così com’è e abdicare ad avere un ruolo sarebbe inaccettabile ed
esiziale anche per i nostri ragazzi.
Senza paternalismi, ma anche senza eccessi di
trasformismo in una spasmodica “captatio benevolentiae”. Ognuno, con onestà e impegno, con
apertura mentale, flessibilità, ma anche professionalità e regole svolga il proprio ruolo.
Noi ci siamo scelti quello di educatori, uno dei
più rischiosi ed esposti alle… intemperie.
Dobbiamo trasmettere conoscenza, formare,
dare strumenti ai giovani. Nello stile di Link
Campus non ci sono però i “pacchetti chiusi”.
Non imponiamo verità. Mettiamo in mostra
tutto quello che abbiamo e aiutiamo a scegliere
quello che ogni singolo ragazzo ritiene più utile
per il suo percorso.
Dialoghiamo, ma non nascondiamo quello che
pensiamo. Siamo una sponda, non una spugna.
Per questo forse ci sentiamo pronti, più di altri,
ad accompagnare, nel nostro piccolo, con i nostri iscritti sempre più numerosi, questo formidabile sforzo rifondativo della qualità della
politica, di cui tutti sentiamo grande bisogno.
5
6
italia
link journal 2/2012
Il Mezzogiorno,
ponte strategico
tra l’Europa
e il Mediterraneo
P
ensando alle sfide che sono dinanzi al Mezzogiorno
devo ammettere che c’è stato un punto debole, in questi ultimi anni, nei generosi tentativi delle minoranze
attive di meridionalisti: quello della mancanza di una proposta
efficace per lo sviluppo e la crescita del Paese che facesse
perno su quella che, nei tempi presenti, potrebbe costituire
non più il problema ma la sua risorsa principale: il Sud.
Questa possibilità, oggi, potrebbe essere realistica se solo si
riuscisse ad uscire dal “cortile” di casa nostra e si considerasse
che l’Europa tutta, e non solo l’Italia, ha dinanzi a sé l’occasione per un’espansione fondata sulla sua integrazione con la
grande area del Mediterraneo. Rispetto a questa sfida, il Mezzogiorno, anche per la sua collocazione geografica, diventerebbe, naturalmente, una risorsa da utilizzare, poiché in grado
di attrarre capitali provenienti dai Paesi “emersi” dell’Estremo
Oriente, in particolare da quelli coinvolti nelle nuove direttrici
dei traffici con il “vecchio continente” attraverso il Mediterraneo. Non bisogna sottovalutare le “miniere” del sud: le sue
risorse ambientali e umane; le eccellenze scientifiche presenti
nelle sue Università e in alcune sue aziende; e, infine, il vasto
patrimonio rappresentato dai giovani professionisti che oggi
sono costretti a emigrare al nord e all’estero.
In questa prospettiva, prende corpo per l’Italia l’utilità di
creare, nel Mezzogiorno, un sistema d’infrastrutture di logistica, di trasporti, di comunicazione informatica e di produzione di energia, funzionali all’integrazione “fisica” dell’Italia
e dell’Europa con il Mediterraneo allargato (il corridoio Mediterraneo-Berlino). Le sinergie nella ricerca e nell’alta formazione, tenendo conto delle eccellenze delle due sponde,
possono indurre a lavorare su progetti comuni. Così come
l’integrazione tra le risorse umane, di cui l’Europa ha avuto e
avrà sempre più bisogno, può modificare radicalmente il futuro e le aspettative delle popolazioni delle due sponde.
In questo contesto la realizzazione del Ponte sullo Stretto, destinato principalmente ai traffici ferroviari e delle merci in genere, potrebbe avere una sua strategica utilità soprattutto in
relazione ad un suo inserimento nel piano di logistica MediVincenzo Scotti, Presidente Link Campus University
terraneo-Berlino. In tal modo potrebbe veder coinvolti i capitali cinesi e la maggiore imprenditorialità europea.
Nella prospettiva indicata, oggi più che in qualsiasi momento
del passato, la trasformazione produttiva del Mezzogiorno si
presenta come una delle risorse più importanti per il Paese.
Per far questo la prima mossa è quella di superare le idee dello
sviluppo locale viste come “monadi” chiuse, senza un progetto complessivo che dia senso alla valorizzazione delle risorse locali. L’Europa deve compiere una scelta strategica
effettiva nella direzione di questo processo d’integrazione che
va anche oltre la sponda sud del Mediterraneo e punta a coinvolgere l’intero continente africano. Se pure i grandi Paesi
emergenti dell’Asia sono importanti per il commercio e per
gli investimenti “in loco” da parte d’imprese italiane, per assicurarsi aree e quote importanti di mercato, tali possibilità
sono strategicamente diverse da quelle che l’Europa ha con il
Mediterraneo e con l’Africa.
Per l’Europa, si tratta di passare da una rete di rapporti, spesso
occasionali e legati ad antichi ricordi, ad un effettivo processo
d’integrazione. L’efficienza sistemica richiede un intenso spostamento di risorse dai settori meno competitivi ad altri più
competitivi, una profonda trasformazione dei settori e delle
aree meno competitive e l’attuazione di diversificati e mirati
interventi per migliorare l’efficienza generale. E a mano a
mano che tali ristrutturazioni procederanno, sarà necessario
un aumento della mobilità del lavoro; a regime, la mobilità tra
le occupazioni che segneranno la vita individuale, risulterà più
elevata che nei decenni passati.
La polarizzazione che si creerà tra lavoratori nei settori di successo e quelli dei settori in declino, tra le occupazioni ad alto
valore aggiunto e quelle non qualificate, tra chi potrà cambiare
con successo molte posizioni di lavoro e chi sperimenterà lunghi periodi di disoccupazione, si trasformerà in una ‘polarizzazione sociale complessiva’. Anche se affrontato da questo
punto di vista, lo sviluppo del Mezzogiorno è un obiettivo
che interessa tutto il Paese. Sembra quasi un’affermazione retorica, ma non la è: o ce la facciamo tutti insieme o non c’è
link journal 2/2012
salvezza per nessuno.
L’indicazione strategica parte allora dalla ricomposizione concettuale e politica della ‘questione
meridionale’, non come sommatoria di singole
questioni locali, ma come problema unitario di
una grande ‘regione’ del Mediterraneo che è parte
di uno Stato nazionale. A questa premessa fanno
seguito sei scelte strategiche.
La prima è quella dell’iniziativa italiana per far
avanzare il processo euro-mediterraneo in Europa, cercando le opportune alleanze non solo
con gli Stati ‘mediterranei’ ma anche con la Germania, che mostra interesse crescente verso
l’obiettivo mediterraneo.L’Unione Europea, dopo
la caduta del muro di Berlino, ha accelerato il processo d’integrazione nella direzione dei Paesi
dell’Europa orientale, destinando a questi fini notevoli risorse ma rallentando, se non bloccando,
i progetti d’integrazione con i Paesi del Mediterraneo. Eppure, i traffici che oggi passano per il
Mediterraneo a seguito dell’impetuoso sviluppo
dell’estremo oriente, hanno aperto nuove prospettive economiche che vanno ben oltre i traffici
marittimi.
La seconda area strategica riguarda la dotazione
infrastrutturale. Partiamo da una diffusa consapevolezza della necessità di un piano per la realizzazione di alcuni complessi di opere pubbliche,
nei settori della logistica e dei trasporti, delle comunicazioni informatiche, dell’acqua e dell’energia. Per realizzare il corridoio dal Mediterraneo al
centro dell’Europa ci vogliono opere che diano
vita a un sistema intermodale di trasporti: porti,
ferrovie, autostrade, strutture di servizio. Nel
campo delle comunicazioni, lo sviluppo della
banda larga di nuova generazione viene da tempo
invocato come l’obiettivo di un progetto comune
in grado di creare uno straordinario reciproco tra
le due sponde del Mediterraneo e di costruire
l’autostrada del futuro destinata a collegare
l’Africa al nord dell’Europa.
L’area strategica più difficile da affrontare resta la
promozione di un moderno ‘sistema industriale’ (di una cultura industriale) in grado di costituire la leva per la crescita dell’economia e del
benessere sociale nel Sud. L’impresa da portare
a compimento, oggi, nel Sud è di passare dalla
presenza di singole unità a una rete di ‘distretti’
industriali, inseriti in un ambiente dinamico sostenuto da una ricerca pubblica e privata di eccel-
italia
lenza, da un’alta formazione per tecnici e manager e da un’organizzazione finanziaria in grado di
sostenere l’imprenditore innovatore. Per attrarre
investimenti industriali, sia d’imprese estere sia
locali, occorre mettere in campo tre strumenti
che in questo momento potrebbero essere particolarmente efficaci: lo stimolo fiscale rappresentato dall’esenzione fiscale degli utili non
distribuiti, anche se prodotti fuori dal Sud, purché
investiti nel Mezzogiorno; il sostegno del sistema
bancario in grado di assicurare una continuità
d’intervento alle stesse condizioni offerte in altri
contesti, nella fase di decollo del processo d’industrializzazione; una pubblica amministrazione
efficiente, che sostenga invece di costituire un
freno all’iniziativa imprenditoriale e che impedisca l’intromissione della criminalità organizzata.
La quarta area strategica è data dalla “riforma”
delle istituzioni economiche. Le istituzioni
rappresentano un fattore fondamentale della crescita di lungo periodo e sono importanti perché
influenzano la struttura degli incentivi economici,
l’allocazione efficiente delle risorse, la distribuzione tra profitti, rendite e salari e l’accesso stesso
alle risorse. Secondo questa chiave di analisi,
l’economista Fadda sostiene che ‘le caratteristiche
strutturali del sottosviluppo del Mezzogiorno sono spiegabili in termini di sottosviluppo istituzionale; e le politiche
di sviluppo del Mezzogiorno, qualunque esse siano, non
possono indurre un cambiamento dei processi e delle dinamiche economiche se non incorporano misure per il cambiamento istituzionale’.
La penultima delle aree strategiche, sulla quale dovremmo concentrare la massima delle cure possibili, riguarda quella che gli anglosassoni chiamano
‘education’ e che non considera soltanto la scuola,
l’università e la ricerca ma anche tutte quegli strumenti di “formazione continua” e di aggiornamento che consentono un livello di preparazione
elevato e in grado di fronteggiare il cambiamento.
L’ultima, ma non la minore, area strategica è rappresentata dalla questione urbana..
I fattori di successo che garantiscono la competitività di una città scaturiscono, non nell’antichità
di fondazione (in questo la Magna Grecia si distingue brillantemente), ma nell’intensità della
consapevolezza istituzionale maturata nel tempo.
Laddove il ruolo della città è stato trainante e consapevole si è prodotta una cultura urbana che la
colloca alla ribalta nello scenario internazionale.
7
Mezzogiorno
Occorre riaprire
la discussione,
fare i conti
con il passato,
saper leggere
gli eventi
con lungimiranza
per contribuire
al cambiamento
italia
8
Si tratta in questo caso di città
che non appaiono addizioni di
case e cose (troppe case, poche
cose), ma luoghi di formazione
di coscienza sociale che riescono a gestire la complessità e
a governare il degrado che attanaglia, invece, le città del
Mezzogiorno.
Da tempo la questione meridionale è praticamente sparita
dall’agenda politica nazionale
e il Sud è privo di rappresentanza nei centri decisionali politici per sua stessa volontà.
Da tempo l’Italia è diventata
“più corta”.
Occorre riaprire la discussione, fare i conti con il passato, saper leggere gli eventi e
avere lungimiranza nel contribuire al cambiamento.
Ritorna urgente il bisogno di
unificare il Paese e offrire al
Mezzogiorno il ruolo che gli
compete: quello di costituire
un “ponte” per l’integrazione
dell’Europa nel Mediterraneo.
Quello di diventare una grande
piattaforma tecnologica e logistica, di ricerca e di innovazione.
link journal 2/2012
Liberalizzazioni e concorrenza
nel sistema italiano: uno sguardo
allo stato delle imprese
I
l principio di perseguire migliori condizioni
di competitività delle imprese a garanzia
dei consumatori finali è indiscutibilmente
un fatto su cui generalmente economisti e tecnici concordano. Occorre però delineare bene
gli effetti possibili derivanti dall’applicazione di
un principio e, soprattutto, cercare di contestualizzarlo nella realtà corrente al fine di evitare una probabile perdita di significato a
fronte di un sicuro valore quale quello della libera concorrenza enunciato attraverso il tema
delle liberalizzazioni. Recenti dati Istat in tema
di crescita del Paese denunciano che il PIL nel
2011 è calato allo 0,4% rispetto all’1,8% del
2010. L’Italia è ancora nel tunnel della crisi e i
dati macroeconomici non sembrano essere
molto confortanti al momento. In proposito,
è noto che le liberalizzazioni producano i loro
effetti tipici quando l’economia va bene e non
certo in fasi di congiuntura negativa. In altri
termini, il rischio delle liberalizzazioni è di indurre a evidenti distorsioni nel breve termine.
I principali effetti “distorsivi” sono rappresentati dalla disoccupazione e da una generale depressione dei consumi anche per effetto della
pressione fiscale particolarmente accentuata in
Italia. Il recente decreto sulle liberalizzazioni
rappresenta certamente per il governo un
mezzo per raggiungere un fine che è rappresentato in una presunta maggiore libertà degli
operatori in determinati settori e, infine, garantire un ampliamento alle possibilità di scelta dei
consumatori a prezzi o tariffe più basse in
modo da favorire indirettamente i consumi. La
teoria sembra giusta ma qual è la realtà?
Secondo una recente indagine della CGIA di
Mestre le liberalizzazioni “all’italiana” sono costate alle famiglie quasi 110 mld. di euro (precisamente 109,6 mld. di euro). L’apertura dei
mercati delle assicurazioni sui mezzi di trasporto, dei carburanti, del gas, dei trasporti ferroviari ed urbani e dei servizi finanziari non
avrebbe portato nessun vantaggio economico
ai consumatori italiani. Solo l’apertura del merFrancesco Pastore, Link Campus University
cato dell’energia elettrica ha dato risultati positivi. Purtroppo, le maggiori spese che le famiglie hanno subito sono di tutto rispetto: 286
euro l’anno che, moltiplicati per il numero degli
anni trascorsi dall’avvio delle aperture dei mercati di ogni singolo settore sino al novembre
2011, hanno fatto salire l’ammontare complessivo a circa 4.576 euro. Se quest’ultimo importo viene moltiplicato per il numero totale
delle famiglie italiane, l’aggravio economico
complessivo si attesterebbe a circa 110 mld. di
euro. “Da quest’ analisi – ha commentato il segretario della CGIA di Mestre – emerge in maniera molto evidente che in Italia le
liberalizzazioni, nella stragrande maggioranza
dei casi, non hanno funzionato. I prezzi o le
tariffe sono cresciute con buona pace di chi sosteneva che un mercato più concorrenziale
avrebbe favorito il consumatore finale.” Se allora questi sono i fatti qual è una possibile interpretazione del fenomeno?
In sintesi, a sommessa opinione di chi scrive,
affidarsi solo a un principio senza prevederne
gli effetti conduce a un fenomeno di trasformazione e non di modifica della realtà che porterebbe da una situazione di monopolio
pubblico a vere e proprie oligarchie controllate
dai privati. E’ altrettanto vero che il percorso
delle liberalizzazioni è stato intrapreso in un
momento particolarmente complesso per l’Italia in cui il rispetto dei parametri di bilancio e
il rilancio della credibilità nazionale in una situazione di pre-defalut del paese hanno avuto
una priorità di base irrinunciabile per un governo “tecnico”. Tuttavia, considerati i risultati
ed il contesto storico attuale, possiamo giungere a una prima ipotesi, circa la natura del fenomeno, tra l’altro formulata senza pretesa di
offrire giudizi.
Le liberalizzazioni rappresentano solo un potenziale enzima della crescita e non (soprattutto in fasi economiche recessive) un fattore
autonomo di espansione economica.
In altri termini, considerata l’ipotesi che ab-
link journal 2/2012
biamo immaginato sopra, le liberalizzazioni, in una
situazione di recessione come quella attuale, non
potranno prescindere da misure urgenti di programmazione dello sviluppo economico, dove per
programmazione s’intende un progetto strategico
per il Paese e non l’apertura di qualche cantiere disseminato lungo la penisola. Logiche di programmazione e progettazione del futuro devono
tornare al centro della riflessione e del dibattito politico, economico e sociale nel contesto di una cultura del “fare”. Il futuro avrà un connotato sempre
maggiore di ritorno ai fondamentali secondo un
modello di essenzialità e semplicità preferibilmente
in un perimetro poco inflazionato da idee e parole
sterili. Occorre poi perseguire senza sosta la definizione di un approccio evolutivo dalle interpretazioni ideologiche che condizionano da decenni la
formazione di una nuova prospettiva economica
sotto il profilo programmatico. In proposito, tutti
rammentiamo che con l’ondata neoliberista si affermò anche l’idea di associare ad essa un dirigismo
economico proprio del socialismo di Stato. In questa prospettiva, termini come programmare e pianificare rappresentavano un potenziale ostacolo
alla crescita e al progresso: l’economia neo-liberista
non aveva bisogno di strategie, così come avrebbe
dimostrato nel tempo di voler fare a meno della
politica, poiché il mercato da solo avrebbe indicato
la strada e gli obiettivi. Per contro, la storia recente
ci insegna che gli Stati hanno non solo il ruolo ma
soprattutto il dovere di stabilire regole, orientare le
scelte e indirizzare le risorse nelle direzioni più confacenti al bene comune. In questa direzione andrebbe la messa a punto di un processo di
riallineamento degli investimenti con gli obiettivi
che si intendono perseguire. L’approccio evolutivo
- cui in precedenza si accennava - significa ritornare
alla strategia, al progetto ed alla programmazione
in modo laico rispetto a qualsiasi condizionamento
ideologico nell’unica prospettiva del benessere comune.
Credo valga ora la pena soffermarsi brevemente
su una delle fondamentali determinanti del processo di liberalizzazione in Italia: il debito pubblico.
La misura del debito ha infatti condizionato, a mio
avviso impropriamente, l’immagine e le scelte successive. Concentrarsi, infatti, sul solo debito pubblico di un paese è considerato dagli economisti
più accorti come un errore di metodo che crea panico e che nella sostanza non risolve i problemi. In
italia
proposito, sappiamo che il debito complessivo di
un sistema è infatti il risultato dalla somma debito
pubblico, debito privato, debito delle banche e debito delle imprese. Basandoci su questa considerazione, scopriamo che l’Italia è ai primi posti in
Europa e non agli ultimi, come risulta analizzando
il “solo” debito pubblico. Giova ora annotare qualche riflessione in proposito:
•
in Italia il rapporto debito pubblico/PIL
è salito non tanto perché è aumentato il debito (che
si è decrementato), bensì perché è calato il PIL;
•
il problema dell’Italia non sarebbe principalmente il debito in quanto tale, ma la crescita.
Ciò a patto che sia una crescita reale, tangibile e
non fittizia;
•
i punti di forza di questo Paese sono il risparmio privato e le piccole e medie imprese che
reggono l’economia e creano posti di lavoro.
Fatte le dovute premesse, va ravvisato che il decreto nel suo complesso mira ad accelerare le liberalizzazioni in diversi settori dell’economia, per
troppi anni protetti da legislazioni che mettevano i
produttori dei servizi al riparo dai rischi della pressione concorrenziale. Queste protezioni, avvantaggiando gli interessi di chi eroga i servizi rispetto a
coloro che li utilizzano, hanno costituito un freno
alla modernizzazione del Paese, accentuando un
processo di cristallizzazione particolarmente evidente nel contesto internazionale. Se le premesse
sono correte siamo però ancora lontani dalla formulazione di una precondizione essenziale della
crescita per il paese che è rappresentata dall’individuazione dei veri fattori di crescita e non solo dalla
battaglia su quelli che possono essere definiti solo
enzimi (ma non determinanti) della crescita stessa.
Il contesto recessivo si riflette sull’andamento dell’economia italiana la cui ossatura è costituita da
piccole e medie imprese; i dati credo siano molto
più rappresentativi di molti discorsi.
Nel corso del 2011 si sono contati circa 31 fallimenti al giorno, dato ben peggiore del triennio
2007-2010. Nella sola Lombardia hanno chiuso
2.600 imprese sulle 11.600 nazionali. L’impatto occupazionale del fenomeno si attesterebbe a circa
50mila persone che hanno perso il proprio posto
di lavoro. Il peso maggiore, come sempre, è stato
sopportato dalle piccole imprese, quelle che dovrebbero rappresentare “il tessuto economico fon-
9
liberalizzazioni
La storia
recente
ci insegna che
gli Stati hanno
non solo il ruolo
ma soprattutto
il dovere
di stabilire
regole
10
italia
damentale della nostra economia”. L’infezione è causata da tre
principali “virus” letali: la stretta creditizia, i ritardi nei pagamenti e il forte calo della domanda interna. Su quest’ultimo
punto, non essendo stati individuati i veri fattori di crescita, ma
sostituti di essi, non è difficile prevedere, anche per il breve termine, una fase di ulteriore depressione della domanda interna
(calo dei consumi). Non essendo poi un cultore della statistica
vorrei mettere in evidenza soprattutto il profilo “umano” di
queste tragedie: la chiusura dell’azienda viene vissuta da molti,
che hanno speso la propria vita nell’impresa, come un fallimento
personale e che, in casi estremi, ha portato e porta tutt’ora decine e decine di piccoli imprenditori a togliersi la vita poiché essi
(avendo chiaro il concetto di responsabilità) sentono sulle loro
spalle anche il peso delle famiglie dei propri dipendenti. Ogni
imprenditore che si toglie la vita sta firmando con il proprio
sangue un appello che non dovrebbe conoscere soste lavorative
da parte dei responsabili nel fornire immediatezza di risposte.
Lo stato d’incertezza attuale e futura del nostro paese indotta
dalla crisi internazionale sta comunque producendo diversi fenomeni che leggiamo quotidianamente sui giornali e che attendono di essere interpretati. In proposito, vorrei provare solo a
mettere in relazione due di questi fenomeni: la fuga dei capitali
all’estero ed il tema dell’usura. I due temi appaiono molto lontani tra di loro ma in realtà (è questa la provocazione) sembrano
anche due lati della stessa medaglia: una generalizzata mancanza
di coraggio. L’Associazione bancaria ticinese (1), “la più prossima all’Italia e quindi più attenta a queste evidenze, stima in
130 miliardi di euro i fondi neri depositati da soggetti italiani
(persone fisiche o giuridiche) in Svizzera: 130 miliardi equivalgono a 8-10 manovre economiche. I forzieri della Confederazione contengono, in tutto, fondi equivalenti a 5.800 miliardi di
euro, dei quali 2.800 appartengono a soggetti stranieri, e di questi almeno il 10% sono italiani. Le stime vengono riferite da
Marco Jaeggi, coordinatore del dipartimento delle scienze economiche della Libera Università di Lugano, esperto sul tema
delle relazioni bancarie internazionali della Svizzera. Il dato che
più dovrebbe far riflettere (fenomeno anche nuovo nella sua tipicità) è che l’incertezza crea un’onda emozionale. Infatti, i contribuenti italiani, cercano apertamente misure difensive ma
paradossalmente (qui sta il fatto nuovo), le stanno cercando più
gli onesti dei disonesti, a costo di contravvenire ai propri principi: perché l’evasore, parziale o totale, non ha nulla da perdere,
chi dichiara tutti i redditi oggi non si sente sicuro in Italia per la
costante incertezza dello scenario futuro. Basta disporre un bonifico, del tutto legale, alla propria banca per prevenire il rischio
di patrimoniali o prelievi forzosi in aggiunta alla sempre attuale
preoccupazione di tenuta dell’euro(2). L’effetto dell’incertezza è
comunque il drenaggio di risorse finanziare dal circuito economico nazionale: si preferisce stare alla finestra, attendere tempi
migliori mentre l’economia rallenta e ha bisogno di ossigeno.
link journal 2/2012
L’altra notizia deriva da una recente conferenza stampa del presidente del consiglio regionale del Lazio Mario Abbruzzese: “La
regione Lazio ha un volume di affari per l’usura di tre miliardi
e 300 milioni, 28 mila sono i commercianti coinvolti, il 35%
degli esercenti attivi. Il Lazio guida, purtroppo, la classifica a livello nazionale, seguita da Campania e Sicilia. Il fenomeno incide sulla perdita dei posti di lavoro. La scarsità di risorse
finanziarie e la depressione dei consumi amplificheranno sempre più il fenomeno dell’indebitamento a breve delle imprese e
delle famiglie sia attraverso canali legali sia “illegali” andando
ad incrementare il business dell’usura. In questo contesto è però
complicato progettare “fondi antiusura” che si rilevano già oggi
inadeguati rispetto all’entità del fenomeno. Ecco quindi, a parere
di chi scrive, che drenaggio di risorse finanziarie all’estero e fenomeno del ricorso all’usura sono fatti tra di loro collegati, due
facce della stessa medaglia del problema: il coraggio di scegliere.
Trattenere risorse finanziare incentivandone l’ingresso nel circuito economico ed attrarre investimenti esteri potrebbe concorrere a creare le premesse per una futura crescita delle
imprese. Che ruolo dovrebbe anzitutto avere lo Stato in questo
contesto? Possiamo solo ipotizzare che non sarebbero necessari
esclusivamente interventi quantitativi ma soprattutto qualitativi
in modo da creare veri e propri fattori di crescita per il nostro
paese. Non si tratta di astrazione teorica ma di cose che già avvengono in Italia come, ad esempio, nel comparto dell’industria
cinematografica, dove la normativa di incentivazione degli investimenti privati (Tax Credit) ha avuto ampio successo come
dichiarava il direttore generale cinema del Mibac, Nicola Borrelli(3) già a settembre 2010 nel corso di una presentazione ad
un evento della Biennale: “Le cifre che riguardano questo periodo iniziale di applicazione della misura sono incoraggianti, il
tax credit ha generato un credito per le imprese di 49 milioni di
euro, a fronte di un investimento di 326 milioni di euro. Interessante il dato relativo alle richieste provenienti dall'estero: 7
imprese straniere hanno infatti deciso di girare i propri film in
Italia beneficiando delle norme fiscali per un credito di circa 13
milioni di euro, generato da investimenti per circa 50 milioni. Il
coraggio e l’impegno hanno tracciato in questo caso una strada
che, ci auguriamo tutti, possa avere più corsie.
Note
(1)
Articolo apparso su “Il Giornale” il 29 novembre 2011 a firma di Paolo
Stefanato dal titolo: “Solo in Svizzera ci sarebbero 130 miliardi di depositi in
nero. Ma aumenta anche la quota di risparmi esportati legalmente”.
(2)
Dichiarazioni del prof. Marco Jaeggi riportate nell’intervista richiamata nella
precedente nota attraverso le quali si spiegano i motivi del deflusso di liquidità
in Svizzera.
(3)
Notizia riportata nel sito ufficiale di Cinecittà: http://news.cinecitta.com/dossier/articolo.asp?id=7650
link journal 2/2012
europa
2020: la strategia
dell’Europa per arginare
il degrado ambientale
J
osè Barroso, presidente della Commissione Europea dal 2004, nel documento
della Commissione “Europa 2020: Una
strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” afferma che le realtà economiche si muovono più velocemente di
quelle politiche, come dimostrano le ripercussioni mondiali della stessa crisi finanziaria. Il difficile momento che sta provocando
milioni di disoccupati, inflazione crescente
e un incremento dell’indebitamento che durerà per parecchi anni, deve farci riflettere
sul fatto che la priorità a breve termine rimane quella di superare con successo la
crisi. Barroso sottolinea che, per conseguire
un futuro sostenibile, è necessario guardare,
da subito, oltre il breve termine. Con questo
animo è stata pensata la strategia di “Europa 2020: più posti di lavoro e una vita migliore” che avvalora le capacità dell’Europa
di promuovere una crescita sostenibile ed
inclusiva, senza tralasciare la ricerca di soluzioni che favoriscano la creazione di
nuovi posti di lavoro offrendo, allo stesso
tempo, un orientamento alle nostre società.
E’ indubbio che l’Europa presenti numerosi
punti di forza tra cui quello di poter contare
su una forza lavoro capace e su una straordinaria base tecnologica e industriale.
La Commissione propone, per il 2020, cinque obiettivi misurabili che guideranno il
processo e verranno tradotti in obiettivi nazionali. Tali obiettivi, che riguardano l’occupazione, la ricerca e l’innovazione, il
cambiamento climatico e l’energia, l’istruzione e la lotta contro la povertà, rappresentano la strada da intraprendere per una
ripresa della crescita.
L’obiettivo chiave per il 2020 è quello di
porre fine, o almeno limitare fortemente, la
perdita di biodiversità e degrado dei servizi
Marco Iezzi, Link Campus University
ecosistemici ripristinandoli nei limiti del
possibile. Dunque in questo senso la crescita sostenibile può essere declinata nella
costruzione di un’economia efficiente sotto
il profilo delle risorse, sostenibile e competitiva. Utilizzare, quindi, il ruolo guida dell’Europa per sviluppare nuovi processi e
tecnologie, comprese le tecnologie verdi, diventa un punto centrale per un corretto sviluppo futuro. E’ altresì importante fare in
modo che si possano sfruttare le reti su
scala europea aumentando i vantaggi competitivi delle nostre imprese, specie per
quanto riguarda l’industria manifatturiera e
le stesse imprese di piccole e medie dimensioni. In questo quadro diventa quindi prevalente, e non più differibile, la riduzione
massiccia delle emissioni di carbonio nell’atmosfera evitando così il degrado ambientale, la perdita di biodiversità e l’uso
non sostenibile delle risorse rafforzando
allo stesso tempo la coesione economica,
sociale e territoriale.
Gli obiettivi europei, in questo ambito,
sono riconducibili innanzitutto ad una ricerca di competitività che alcune volte
manca nel confronto con gli altri paesi. In
particolare le forti pressioni sui mercati di
esportazione ci impongono di migliorare la
nostra competitività verso i principali partner commerciali incrementando la produttività. L’Unione europea ha fatto da
apripista per quanto riguarda le soluzioni
verdi, ma la propria posizione di leader è
minacciata da alcuni tra i principali concorrenti, ovvero Cina e America settentrionale.
E’ necessario quindi che l’Ue conservi la
propria posizione di leader sul mercato
delle tecnologie verdi per garantire l’uso efficiente delle risorse rilanciando, allo stesso
tempo, la competitività industriale.
11
12
europa
I nostri giovani - Studi internazionali
Edoardo Marconi
Il mio impegno
nella Commissione europea
Edoardo Marconi si è laureato in Studi Internazionali (International Studies) a pieni voti. Ha lavorato per l'Union
Mouvement Populaire (il partito di Sarkozy) come assistente al consigliere agli affari europei. Poi all'Institut des
Hautes Studes de Defense Nationale ( IASD) nella
sezione Unione Europea e successivamente per la Direction Generale de l'Armement (Ministero della difesa
francese) nella direzione NATO - U.E. Oggi lavora
presso il Parlamento Europeo per il Gruppo del Partito
Popolare Europeo nella Commissione Affari esteri e
sotto commissione Sicurezza e Difesa.
link journal 2/2012
questi ultimi poi, almeno nel mio caso, è stata determinante
sia nella redazione della mia tesi di Laurea che in seguito
nella scelta vera e propria del mio cammino professionale.
Se in questi due ultimi anni dalla laurea sono riuscito a fare
delle ottime esperienze in campo internazionale, lo devo sicuramente anche alla Link Campus e ai suoi docenti.
Ha avuto difficoltà nell’inserirsi nel mondo del lavoro?
Faccio parte di quei laureati che si sono affacciati nel mondo
del lavoro in piena crisi. Quindi devo dire che non è stato
facile inserirsi nel mondo del lavoro e che per farlo ho
dovuto seguire la via estera. Quello che posso dire però è
che anche in momenti difficili come quello che stiamo
vivendo, se ci dotiamo degli strumenti necessari e di una
grande forza di volontà è possibile farcela! Perché, anche se
a rilento, il mondo del lavoro continua a girare. Diciamo,
quindi, che per riuscire e soprattutto rivalizzare con i nostri
coetanei europei è importantissimo parlare più lingue in
modo perfetto, sapersi aprire alle differenti culture, non esitare a spostarsi per trovare un impiego, capire in modo imperativo che il mondo è sempre più globalizzato e che non
si può più pensare (salvo in alcuni casi) di rimanere statici,
fermi nella propria città. L'importante è sapersi mettere in
gioco e per fare questo una buona preparazione universitaria
è ovviamente necessaria.
Quali, secondo Lei, sono le difficoltà dell’Europa a
trovare un percorso stabile e comune e quali le difficoltà
che incontrano i giovani?
Quale è stato il valore aggiunto della Link Campus
University per la sua formazione?
Parlando di valore aggiunto, devo dire che la Link Campus
ha sicuramente contribuito in maniera determinante nel
darmi una formazione più completa ed approfondita
rispetto ad altre università. Il fatto di poter essere in classi
con un numero ristretto di allievi mi ha permesso non solo
di seguire con più facilità le lezioni ma soprattutto di approfondire le tematiche più difficili con più calma e concentrazione. Inoltre, questo ha permesso anche di avere un
rapporto diretto con i docenti, cosa che rimane assai difficile
anche in altre università private. L'ottima formazione di
Le difficoltà dell’Europa sono imputabili prima di tutto alla
politica che non riesce a prendere decisioni comuni. Molto
probabilmente, come ha detto recentemente Romano Prodi,
la crisi economica sarebbe stata facilmente tamponabile se
ci fossimo mossi tutti prima. La crisi va vista oggi come
un’opportunità. Dobbiamo approfittarne per completare un
percorso che porterà all’unità politica di tutta l'Europa perché dobbiamo capire che questa è l'unica via ipotizzabile se
vogliamo che il nostro continente continui a giocare un
ruolo di primo piano nel mondo di domani. Per quanto
riguarda i giovani, le difficoltà che si incontrano maggiormente sono legate al confronto con il livello di studi e di
formazione dei giovani degli altri paesi. Penso in modo particolare ai tedeschi, agli inglesi, ai francesi... in ambito internazionale capita molto spesso di trovare ragazzi di
ventiquattro anni laureati con un master e che parlano correntemente 4 lingue. Ecco questa è la sfida maggiore, alzare
il livello dei nostri studi e soprattutto dotarsi di un sistema
che impedisca in tutti i modi il fuori corso. Per un giovane
di oggi che vuole aprirsi alle sfide del mondo il tempo gioca
un ruolo fondamentale nella riuscita della sua carriera.
europa
link journal 2/2012
E’ necessario, inoltre, ridurre le emissioni molto
più rapidamente nel prossimo decennio rispetto
a quello passato utilizzando il potenziale delle
nuove tecnologie, come la “cattura del carbonio”: cattura e sequestro del carbonio (CCS) saranno, infatti, uno strumento fondamentale per
ridurre le emissioni di CO2 che acquisirà maggiore rilievo dal 2020 quando gli impegni di riduzione della CO2 diverranno più stringenti e
sarà necessario ricorrere a tutte le tecnologie disponibili. Ad oggi la Ue ha finanziato in Europa
12 impianti dimostrativi (in Italia a Porto Tolle
in provincia di Rovigo) che dovrebbero entrare
in funzione entro il 2015.
E’ convinzione diffusa che un uso più efficiente
delle risorse contribuirebbe in misura considerevole a ridurre le emissioni, a far risparmiare denaro e a rilanciare la crescita economica. Questo
vale per tutti i comparti dell’economia e non solo
per quelli ad alta intensità di emissioni. Dobbiamo inoltre aumentare la resistenza delle nostre economie ai rischi climatici, così come la
nostra capacità di prevenzione e risposta alle catastrofi.
Se l’Unione europea sarà in grado di conseguire
gli obiettivi in materia energetica, è stato stimato
un risparmio pari a circa sessanta miliardi di euro
di importazioni petrolifere e di gas fino al 2020.
Non si tratta solo di un risparmio in termini finanziari, ma di un aspetto essenziale per la nostra
sicurezza energetica. Secondo la Ue, la sola realizzazione del 20% di energia da fonti rinnovabili
potrebbe creare oltre 600.000 posti di lavoro
nell’Unione che potrebbero diventare un milione
se si raggiungesse anche l’obiettivo del 20% per
l’efficienza energetica.
Dunque lavorare su queste priorità vuol dire rispettare gli impegni di riduzione delle emissioni
in modo da massimizzare i benefici minimizzando i costi anche attraverso la diffusione di soluzioni tecnologiche innovative. E’ necessario
quindi fare un passo in avanti verso la costruzione di un’economia europea più efficiente
sotto il profilo delle risorse, in modo da trasferire
all’Europa un vantaggio competitivo riducendo
al tempo stesso la dipendenza dalle fonti estere
di materie prime e prodotti di base.
L’Italia sembra aver ben compreso l’importanza
del momento e ad aprile di quest’anno sono stati
varati gli schemi dei decreti ministeriali che introducono un nuovo regime di incentivazione
per le energie rinnovabili e fissano l’obiettivo del
35% di produzione elettrica “verde” al 2020.
L’idea di fondo, di queste recentissime misure, è
quella di programmare una crescita dell’energia
rinnovabile più equilibrata che, oltre a garantire
il superamento degli obiettivi comunitari al 2020
(dal 26% a circa il 35% nel settore elettrico), consenta di stabilizzare l’incidenza degli incentivi
sulla bolletta elettrica.
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Europa 2020
Più posti
di lavoro e una
vita mgliore
che avvalora
le capacità
dell’Europa
di promuovere
una crescita
sostenibile
Nel rispetto della diversità nazionale o regionale,
per valorizzare il patrimonio culturale comune
L’Europa delle culture:
la sfida da cui partire
L
’Europa rischia di somigliare sempre di più ad un gigante dai piedi d’argilla; troppo spesso, infatti, il vecchio
continente si ritrova sospeso tra l’assenza di visioni politiche, la realtà di una mancata crescita e le sfide strategiche globali che, volenti o nolenti, condizionano pesantemente la
presenza dell’Europa come “player” globale.
Sembrano molto lontani i tempi in cui grandi statisti, e grandi
intellettuali, dopo la seconda guerra mondiale pensarono l’Europa come una sfida storica, la immaginarono come un laboMarco Emanuele, Link Campus University
ratorio di pace e di prosperità, lavorando insieme – pur provenendo da storie personali differenti – nella condivisione del
bene comune come effettiva condizione per il progresso dei
popoli e per la loro integrazione, non solo come retorica dichiarazione d’intenti. Ciò che vediamo oggi è lo sfaldarsi di
14
europa
quelle idee ed affermo questo senza pessimismo ma con amaro
realismo. Nel profondo dell’Europa maturano rassegnazione e
incapacità di guardare oltre il presente, quasi che la pesantezza
della cappa di vuoto strategico che attanaglia il nostro continente ne schiacci le prospettive, rendendolo privo di futuro; i
populismi che percorrono buona parte delle società europee
sono il segno che qualcosa si è spezzato, che l’Europa non è
percepita al suo interno come una “casa comune” quanto, piuttosto, come un riferimento lontano, inadeguato a garantire stabilità ai popoli europei nei cambiamenti planetari.
Un’Europa che guardi ai rivolgimenti in atto nel Mediterraneo
soltanto in termini di “urgenza”, di fatto assente come continente nell’accompagnamento delle dinamiche e dei processi
in atto, è un’Europa fragile, che naviga a vista, che subisce i
processi globali anziché contribuire a determinarli; ciò che va
recuperato, al di là di bilanciare equilibri continentali evidentemente sbilanciati (si pensi, solo ad esempio, al problema irrisolto di una “voce europea” in settori strategici tuttora
lasciati alle determinazioni nazionali, al ruolo ancora troppo
marginale del Parlamento Europeo come Istituzione eletta,
alle debolezze dell’euro come moneta unica, alla Banca Centrale Europea che non ha il ruolo di prestatore di ultima
istanza), è l’Europa come grande “laboratorio culturale”.
Siamo depositari di importanti tradizioni che, nel corso dei
secoli, hanno contribuito a formarci come soggetti “titolari”
di identità differenti; l’urgenza, oggi, è di guardare oltre i nostri territori di appartenenza, “discutendo” il dato identitario
in chiave dinamica ed aprendolo alla realtà viva del mondo.
L’Europa di oggi è un continente multietnico ancora pesantemente caratterizzato da un forte provincialismo che quasi sembra negare la sua stessa evidenza.
Cosa significa, oggi, essere europei? Essere europei, prima di
tutto “sentendosi” tali, significa anzitutto mettersi “in dialogo”
con le tradizioni “altre” ed a noi vicine, non averne paura e considerarle, al di là dei rapporti di forza che caratterizzano la politica internazionale, come parte di noi, da scoprire in continuo,
con le quali comunicarsi, relazionarsi, integrarsi.
L’Europa ha nel Mediterraneo il suo “cuore pulsante” e, per
questo, è “missione europea” il ricongiungere le sponde del
“Mare Nostrum”, prima di tutto culturalmente (nel dialogo interculturale ed interreligioso) e politicamente (attraverso la condivisione di un progetto euro-mediterraneo che, alla luce dei
fatti e dopo il fallimento del processo di Barcellona e dell’Unione per il Mediterraneo, non può più attendere). “Europa
delle culture” è qualcosa in più di un semplice slogan; è la sfida
da cui partire, insieme, per giocare la partita della storia. Anziché
link journal 2/2012
dividerci, come accade, sull’ingresso della Turchia in Europa
dovremmo sforzarci, classi dirigenti in testa, di capovolgere
l’approccio e di pensare all’Europa come “ponte” fra un Occidente in evidente crisi di convivenza ed un Oriente che, sul
lungo termine, potrà garantirsi uno spazio strategico soltanto
ripensandosi come “cooperante” e non come parte “dominante” del mondo. O ci salviamo tutti insieme o non si salva
nessuno.
La Turchia gioca un ruolo fondamentale, non solo geograficamente; è necessario, a questo punto, uno sforzo reciproco di
volontà e di creatività per avvicinare davvero e profondamente
mondi che faticano a considerarsi una cosa sola. Integrare nel
dialogo tradizioni culturali e religiose differenti significa capire
che la realtà è un “prisma complesso” e che ogni tradizione è
un percorso necessario ma non sufficiente per leggerla, per interpretarla e, conseguentemente, per governarla.
Quando parliamo di democrazia nel Mediterraneo e in Paesi
come la Turchia, potenza in netta crescita, siamo tentati di portare la nostra idea che, spesso, non tiene conto di come la democrazia si ridefinisca nell’evolversi dei sistemi Paese e delle
realtà regionali. Per fare democrazia, adeguandola progressivamente all’avanzamento delle dinamiche planetarie, siamo chiamati a ripensarci culturalmente, disponibili a farlo in funzione
dell’ “altro”, parte di noi che ancora non conosciamo.
Molta letteratura dimostra che la democrazia è fragile, mai
“data” una volta per sempre.
La democrazia è integrazione di processi che nascono e si consolidano operando progressivamente, con intelligenza e costanza, fra tradizione ed innovazione progettuale. Le sfide che
caratterizzano la globalizzazione, che questa esalta, ci chiamano
ad “allargare” lo sguardo sulla realtà, a comprendere che le nostre convinzioni e le nostre Istituzioni, per quanto importanti,
rischiano di non rappresentare più la realtà per quella che è;
basti pensare alle conseguenze che, prima di tutto sul piano culturale, sono portate dalle grandi migrazioni che rendono le società europee (e non solo) sempre più multietniche (basta
guardare le nostre città per rendersene conto).
Ciò che capita nel Mediterraneo, processo tutt’altro che concluso, porta con sé la necessità di superare approcci lineari, di
predisporci alla complessità dei fenomeni senza l’ansia di determinarli dall’alto; i processi storici vanno partecipati e il più
possibile condivisi e, per fare ciò, è necessario conoscerli.
Il dialogo interculturale ed interreligioso è sempre profondo,
mai superficiale o retorico; la vera crisi, dunque, guardando all’Europa e alle sue inadeguatezze, è in primo luogo culturale.
Non conosciamo più le nostre tradizioni (l’Italia e la Grecia,
internazionale
link journal 2/2012
15
BRICS: un’opportunità
da non perdere
per le aziende italiane
solo per fare due esempi, rappresentano molto di più di quanto
viene “misurato” dai burocrati di
Bruxelles e dalle agenzie di rating)
e ci permettiamo di giudicare
quelle altrui di cui, molto spesso,
non abbiamo minimamente contezza.
Credo che i giovani possano garantire all’ “Europa delle culture”
un futuro positivo; al di là delle parole vuote, compito di una formazione “pertinente” (soprattutto,
ma non esclusivamente, universitaria) è di instillare nelle giovani
generazioni la voglia e la passione
per la conoscenza, recuperando
l’essenza di ciò che l’Europa (e in
essa i Paesi che la costituiscono)
ha generato culturalmente nei secoli passati e di ciò che potrà essere guardando oltre se stessa,
oltre i confini degli Stati nazionali,
nella verità della realtà planetaria,
a cominciare da quel Mediterraneo che è parte integrante della
sua (e della nostra) storia.
A
tre anni dalla prima riunione di
Ekaterinburg, in Russia, i BRICS
si sono nuovamente incontrati lo
scorso 29 marzo, questa volta a Nuova
Delhi.
I pesi massimi dell’economia e della demografia mondiale hanno espresso il loro
punto di vista sulle crisi politiche in atto
(Siria, Iran e Afghanistan in particolare)
ma, soprattutto, sul futuro dell’economia,
dopo quattro anni di incessante e sfibrante
crisi. La posizione dei nuovi cinque grandi
è inequivocabile: l’Occidente deve fare di
più per mettere in sicurezza la propria economia e risanare i debiti, per scongiurare
una tempesta perfetta che avrebbe effetti
negativi anche su quella crescita del PIL
che serve ai governi dei BRICS per alimentare sviluppo interno e pace sociale.
I numeri sono dalla loro parte e così aumenta
anche il tono delle richieste, in particolare
quella di veder soddisfatta l’ambizione a sedere ai tavoli che più contano. Presto, molto
presto, potrebbe esserci una riconfigurazione
dei pesi all’interno di organismi come la
Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale.
Ed è lì che i BRICS vogliono far sentire la
loro capacità di influenza sugli affari globali.
Si sa che parlare con un’unica voce serve
a farsi ascoltare meglio; ed è questo lo spirito con cui Cina, India, Brasile, Russia e
Sudafrica si incontrano periodicamente.
Ma è altrettanto vero che non pochi e non
di poco conto sono i motivi che dividono
i contendenti e li mettono su un piano di
competizione. Non fanno eccezione le regole del commercio internazionale, la
grande arena nella quale si giocano i destini
di molte economie, soprattutto di quelle
emergenti. La crisi ha inferto un colpo a
quelle speranze di “gioiosa mondializzazione” che hanno animato le prime sedute
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Ormai il pianeta si muove
in ordine sparso, sulla base di meccanismi
commerciali, tariffari e monetari che riportano l’orologio indietro nel tempo, a qualcosa di più vicino al protezionismo che a
un libero scambio globale. Qualcuno profetizza perfino una “guerra di monete”, un
conflitto asimmetrico su vasta scala combattuto a suon di denaro, tra creditori e debitori, e non di cannonate.
A Pechino un tasso di cambio dello yuan
decisamente sottovalutato e le pesanti sovvenzioni alle principali industrie di Stato
sono servite a far crescere l’economia a
ritmi frenetici, anche in piena crisi.
Questo tipo di concorrenza non ha soltanto danneggiato le economie occidentali
ma anche quelle dei paesi emergenti, a cominciare dal Brasile, ad esempio, che di recente ha risposto con aggiustamenti del
tasso di cambio del real e con misure al limite del protezionismo.
E’ un’arena caotica, quella delle regole del
commercio globale, se la guardiamo nell’ottica della concorrenza tra Sistemi economici. La fortuna dell’uno è spesso
sventura per l’altro, e questo stride sonoramente con il sogno di un grande mercato
libero, aperto e diretto a ottenere maggiori
benefici e vantaggi per tutti.
Diversa è l’immagine se si guarda alle opportunità offerte dai mercati emergenti dei
BRICS. Per le nostre aziende e per le capacità che abbiamo consolidato in Europa, e
Gianluca Ansalone, Link Campus University
16
internazionale
link journal 2/2012
L’Africa tra diplomazia militare e pragmatismo
La Cina sfida l’Europa:
una nuova forza contro
l’egemonia neoliberista?
Q
non solo, è lì la nuova frontiera delle opportunità. Soltanto
in Asia, di qui al 2020, ci sarà una classe media di quasi 800
milioni di persone, che avranno voglia di consumare e di
mangiare “alla occidentale” e, se possibile, alla europea e all’italiana.
Le due cose possono, anzi devono, andare assieme: cogliere
l’opportunità dei nuovi mercati, quelli dei BRICS, ma anche
riannodare i fili spezzati di una governance globale dell’economia e del commercio, riprendendo lo spirito di due momenti fondanti della vita del mondo contemporaneo.
Bretton Woods e Marrakesh, da dove tutto ebbe inizio.
Oggi più che mai appare evidente che o si cresce tutti assieme o la debolezza del sistema finisce per danneggiare tutti.
Il commercio è l’ossatura principale di una nuova architettura di sicurezza economica che è urgente realizzare.
Lo si deve fare consapevoli che lo scenario di riferimento si
fa ogni giorno più complesso, soprattutto a causa della diffusione delle tecnologie informatiche e di comunicazione.
Quando partirono i negoziati per il WTO i computer non
governavano qualsiasi aspetto della nostra vita quotidiana.
Oggi, parlare di tutela dei marchi, dei brevetti e della proprietà intellettuale significa fare i conti con l’immensa rete
del cyberspazio, che non solo custodisce il patrimonio delle
aziende e di intere economie ma che è essa stessa luogo virtuale nel quale si commercia. Su questi ed altri aspetti ci si
attende uno scatto in avanti da parte dei governi. Anche di
quelli dei BRICS, che hanno l’opportunità di dimostrare la
volontà di essere attori protagonisti e responsabili di un sistema davvero globalizzato e aperto. E nel quale c’è spazio
per una crescita condivisa.
uando in Europa ci accingiamo a parlare di Africa
partiamo sempre dal presupposto che contraddistinguiamo quel continente come terreno di conquista e di sfruttamento. La questione coloniale è una vena
che resta aperta nelle nostre relazioni, infatti vi sono molte
ragioni storiche che ci costringono a parlare, ancor oggi, di
dominio europeo. Per prolungato tempo questo ha costretto
le deboli economie africane in attività solo funzionali agli interessi europei, spesso utilizzando la forza sia per la conquista
del territorio, sia per convincere gli indigeni al lavoro, fino ad
arrivare a strutturare un sistema economico basato su una
forte imposizione di tasse.
Tali pratiche hanno avuto conseguenze distruttive sulle società africane, trasformando l’agricoltura verso produzioni indirizzate soprattutto ai mercati europei, di fatto non
orientandosi verso l’attività industriale e condannando quindi
le popolazioni ad una condizione di sottosviluppo. Nessuna
azione compensativa da parte dei colonizzatori europei si è
mai dimostrata sufficiente, anzi l’azione complessa ha portato
nel tempo a spezzare l’equilibrio etnico-ambientale costruendo una economia artificiale ed impropria. Durante la
decolonizzazione la mancanza di una società strutturata ha
evidenziato i problemi. I dominatori europei avevano stravolto non solo Stati e istituzioni africane, ma purtroppo anche
le identità culturali, impossibile ritornare indietro.
Molti confini erano cambiati, se ne erano costruiti nuovi che
non rispettavano le tribù, che in Africa costituiva, da sempre
una unità sociale determinata, non conforme al confine territoriale e che antropologicamente di distingueva dal concetto
di stato. Le rivalità etniche e tribali non furono mai totalmente
comprese dagli europei. A tutto questo si aggiunse l’esplosione demografica, che con l’indebolimento del settore agricolo, condusse l’Africa all’impoverimento costante e
all’instabilità politica.
L’Europa, iniziò così a considerare l’Africa meno interessante,
sia dal punto di vista politico che economico. L’opportunità
si stava spesso trasformando in problema, eppure dai dati si
poteva rilevare ad esempio che a metà degli anni 2000, l’Africa
aveva avuto il livello di crescita più alto degli ultimi 30 anni,
Alessandro Figus, Link Campus University
link journal 2/2012
internazionale
arrivando a sfiorare il 6%. Qualcosa stava cambiando ma non
per merito degli europei o della discesa in campo dell’Unione
europea, bensì per la politica di investimenti della Cina che
dagli anni ’90 aveva deciso di intensificare la sua attività diplomatica agendo in Africa con una politica integrata e regionale, basata su una ricerca mirata sia dal punto di vista
economico che da quello logistico e strategico.
Nonostante che gli europei fossero presenti da molto tempo
non erano riusciti a intendere ciò la Cina aveva compreso, cioè
che anche in Africa era importante applicare una politica di
neutralità assoluta e di non ingerenza, politica favorita da ragioni storiche che non l’avevano coinvolta nel processo di colonizzazione, anche se dal punto di vista commerciale l’Africa
ha sempre costituito una attrazione per il mercato cinese, privilegiata anche dalla sua idea anti imperialista. Con la salita al
potere di Mao si rafforzano infine anche i legami politici.
Durante la fase di decolonizzazione invece la Cina approfitta
della situazione ed invia aiuti militari e finanziari e si avvantaggia poi della guerra fredda che la
vede in Africa una disputa con i
russi. La decolonizzazione offre di
colpo alla Cina opportunità politiche culturali ed economiche.
Si arriva così agli anni ’80, anni in
cui la Cina si concentra sul suo sviluppo. È a partire degli anni ’90 che
si ritorna ad un investimento massiccio in Africa. La Cina costruisce
in quegli anni il suo successo di
oggi, elaborando strategie opposte
a quelle europee e puntando cioè
sulla non ingerenza interna, rispetto
della sovranità e integrità territoriale e soprattutto ponendo alla
base una coesistenza pacifica.
In quegli anni la Cina crea i presupposti per una silenziosa conquista economica dell’Africa. Gli
aiuti finanziari cinesi riscuotono successo, al contrario l’ingerenza europea continua. Ne è l’emblema uno dei membri fondatori dell’Unione europea, la Francia, che in molti paesi
africani continua ad intervenire, anche militarmente, non ultima l’azione in Costa d’Avorio.
L’Africa diventa per la Cina quello che era per l’Europa: una
indispensabile area da sfruttare. La crescita demografica cinese, nonostante le nuove regolazioni delle nascite, stenta a
fermarsi e la Cina continua il suo crescente sviluppo. L’Africa
17
può offrire energia e materie prime e ricevere contemporaneamente manufatti cinesi a buon mercato. Certo parliamo di
Cina potenza economica, ma non dimentichiamo che il gioco
diventa anche politico, vista la consistenza numerica dei paesi
africani rappresentati all’ONU, e la Cina ha due questioni
aperte: Tibet e Taiwan.
In questo scenario è evidente che la Cina tende a sostituirsi
all’azione politica e commerciale dell’Unione europea e dei
suoi singoli membri. L’Unione europea si orienta sempre più
verso l’Asia ed il sud est asiatico, non riuscendo ad agire con
la stessa forza nei paesi colonizzati africani, trasformati in stati
indipendenti. Il rapporto e le relazioni sono cambiate e
l’Africa preferisce interagire con nuovi soggetti, più disponibili
a immettere risorse finanziarie fresche per lo sviluppo delle
infrastrutture, dell’educazione, del sistema sanitario, ecc. che
permettano agli africani di lasciare alle spalle il vecchio modello assistenzialista europeo, sostituito da un modello basato
sulla produzione competitiva e la libera concorrenza di mercato. In
questo contesto diventa difficile
credere che sia attuabile il partenariato trilaterale proposto nel 2008
tra l’Unione europea, l’Africa e la
Cina che dovrebbe contribuire a far
fronte alle sfide mondiali legate allo
sviluppo e ad adattare meglio le
strategie di cooperazione alle esigenze dell'Africa basandosi su
obiettivi comuni, definiti in maniera
progressiva e coerenti con le strategie di sviluppo nazionale e regionale. Alle parole la Cina, intanto
risponde con i fatti, cioè con moneta sonante. Un regalo importante,
quello che la Cina ha fatto quest’anno all'Unione africana, pagando la nuova sede che sorge
ad Addis Abeba. Un imponente complesso di 30 piani, alto
un centinaio di metri, costato più di 150 milioni di euro, completo addirittura dell'arredamento e che potrà ospitare 700 inviati dei 54 stati membri dell'organismo e un eliporto.
Pechino non fa mancare proprio nulla ai suoi amici africani.
La Cina sa di essere diventata per gli stati africani un partner
globale ed equilibrato, ma soprattutto di essere l’alternativa
all’Unione europea nel continente nero. All’Europa resterà il
ruolo di spettatore?
18
internazionale
link journal 2/2012
Unione Europea
e Mercosur:
un bilancio
e una prospettiva
N
ell’esaminare i possibili sviluppi dei rapporti tra
l’Unione Europea e il Mercosur (l’area di libero
scambio che dal 1991 unisce Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) si rischia di dover coniugare i tempi al passato nella peggiore delle ipotesi e al condizionale nella
migliore, alla luce della recente decisione della Presidente Kirchner di nazionalizzare la maggioranza del pacchetto delle
azioni della società petrolifera argentina YPF in mano alla spagnola Repsol. Viene da temere che il lungo tempo trascorso
dall’inizio del negoziato (1999), la prolungata battuta di arresto (2004-2010), la ripresa incagliatasi sui dettagli finali, possano aver fatto perdere il momentum e che si stia aprendo una
fase di confronto piuttosto che di collaborazione. Eppure
l’Europa, soprattutto in questo momento di modesta crescita
e rigore fiscale, non può permettersi il rischio di perdere un
Continente come l’America Latina al quale non solo è legata
da vincoli storici, culturali e sociali ma che oggi sulla scena internazionale rappresenta una delle aree economiche e politiche più dinamiche e in maggiore crescita, seconda solamente
all’Asia il cui accesso per l’Europa è peraltro meno agevole.
Le premesse erano buone: nel 1995 entrava in vigore l’Accordo Quadro che lega l’Unione Europea al Mercosur e si nutriva l’ambizione di firmare un Accordo di Associazione. La
scelta di avvicinare i due blocchi conserva tutta la sua validità:
il Mercosur è dopotutto il quarto blocco economico su scala
mondiale, dopo l’Unione Europea, la NAFTA e l’ASEN. Se
associate, le due Regioni formerebbero un’area poderosa,
unica al mondo, capace di coinvolgere 750 milioni di persone
che già oggi scambiano merci e servizi per un valore complessivo di più di 100 miliardi di dollari all’anno. Allargando
lo sguardo al resto del Sub Continente l'Unione Europea e
l'America latina e i Caraibi rappresentano un insieme di oltre
un miliardo di persone e un terzo degli Stati membri delle Nazioni Unite. Le basi sono solide e fondate: l'Unione Europea
è stata il principale donatore di aiuti allo sviluppo, il principale
investitore e il secondo partner commerciale in America Latina (il primo nel Mercosur e in Cile) e, dalla creazione del
partenariato strategico biregionale, nel 1999, ha finanziato
progetti e programmi per un totale pari a oltre 3 miliardi di
euro.
I negoziati UE-Mercosur
I primi contatti tra l’UE e il Mercosur risalgono al 1992, data
dell’Accordo interistituzionale il cui obiettivo era di trasmet
tere al gruppo dei Paesi Latino Americani l’esperienza acquisita dall’UE. Successivamente, il 15 dicembre del 1995, è stato
firmato l’Accordo-Quadro di cooperazione che si è posto
come obiettivo finale la nascita, entro il 2005, di un Accordo
di Associazione capace di creare un’area di libero scambio intercontinentale (la prima nel mondo) tra l’UE e il Mercosur.
Le trattative per la nascita dell’Accordo di Associazione sono
state avviate nel 2000 ma si sono interrotte nel 2004 per riprendere nel 2010.In ogni caso, l’Accordo di Associazione rimane ancora un obiettivo da raggiungere.
L'Accordo Quadro si basa su tre aspetti concreti: 1) cooperazione politica avanzata tra le due organizzazioni su base consultiva; 2) progressiva e reciproca liberalizzazione del
commercio; 3) rafforzamento della cooperazione in diversi
settori economici, inclusa la promozione d’investimenti, che
dovranno essere completati attraverso la stipulazione dell'Accordo di associazione.
Per una decina d’anni gli incontri sono avvenuti ma in forma
abbastanza sporadica fino ad arenarsi completamente dal
2004 fino al 2010. Infatti, solo il 4 maggio del 2010 (durante
l’incontro tra le parti a Bruxelles) e il 17 maggio dello stesso
anno a Madrid (in occasione del vertice tra l’UE e l’America
Latina) la Commissione Europea ha espresso formalmente la
volontà di riprendere i negoziati con l’obiettivo di raggiungere
un accordo di libero commercio con il Mercosur.
Le ragioni e le responsabilità dello stallo durato ben 6 anni
possono essere equamente divise tra le parti:
- l’aumento consistente delle pressioni delle lobbies degli agricoltori europei, preoccupati per un accordo che avrebbe facilitato l’ingresso a buon mercato in Europa dei prodotti
agricoli latino americani;
- il rafforzamento del ruolo del Parlamento Europeo rispetto
a tutti gli accordi internazionali sottoscritti dalla Commissione
Europea. Il Parlamento si è mostrato molto più vigile per
quanto riguarda eventuali concessioni in materia commerciale;
- la tendenza dell’Argentina a prendere misure unilaterali di
protezionismo;
- i cambiamenti d’umore degli industriali brasiliani verso l’abbassamento delle barriere tariffarie.
Luigi Maccotta, Vice Direttore Generale e Direttore per i Paesi dell’America Latina del MAE
link journal 2/2012
internazionale
L’Accordo Mercosur-Ue presenta, in ogni caso, interessanti
prospettive sul piano dei commerci internazionali in quanto i
due blocchi potrebbero avvantaggiarsi dei molteplici accordi
che hanno rispettivamente firmato con il resto del Mondo,
con effetti moltiplicativi.
Le finalità dell’Accordo di Associazione
L'obiettivo ultimo del partenariato strategico biregionale UEAmerica latina avviato nel 1999 consiste nella creazione di
un'area euro-latinoamericana di collaborazione intorno al
2015 in ambito politico, economico, commerciale, sociale e
culturale, che garantisca uno sviluppo sostenibile per ambedue
le Regioni, inserendovi una dimensione sociale che va aldilà
dei suoi aspetti commerciali e che ha come obiettivo generale
l’aumento della coesione sociale. Tale dimensione deve, in
particolare, riguardare l’impatto dell’Accordo sull’occupazione, sulla tutela degli interessi delle popolazioni locali e sui
gruppi maggiormente vulnerabili, sulla promozione, nonché
sul rispetto dei diritti umani, sulla protezione ambientale e sui
diritti degli immigrati e dei lavoratori in generale.
L’idea di arrivare a un’Associazione Interregionale con due
aree geografiche di due Continenti diversi rappresenta sicuramente una sfida molto complessa. Del resto si tratta di abbinare sviluppo commerciale ed economico alla cooperazione
e al dialogo politico. Generalmente nei negoziati commerciali
gli obiettivi finali sono chiari e facilmente identificabili mentre
nei programmi di cooperazione i traguardi sono più generici
in quanto debbono far convergere obiettivi economici con
quelli sociali. Inoltre, come qualsiasi accordo Nord-Sud la
componente del libero commercio rappresenta una priorità
per i paesi del Mercosur, interessati soprattutto a eliminare le
barriere che proteggono alcuni beni per i quali hanno dei vantaggi comparativi (agricoltura, tessile) mentre per i Paesi europei l’agenda politica e della cooperazione hanno la
precedenza.
Sul piano politico le parti hanno istituzionalizzato un dialogo
periodico con riunioni tra i Ministri degli esteri dell’Unione,
del Mercosur e del Cile allo scopo di consolidare un’associazione strategica. I temi centrali del dialogo sono la pace e la
stabilità, la prevenzione di conflitti, la promozione e protezione dei diritti umani, la democrazia, lo stato di diritto, lo sviluppo sostenibile, la lotta al terrorismo, il riciclaggio di denaro,
il traffico della droga. A livello parlamentare si è sviluppata
l’istituzionalizzazione della collaborazione politica tra Unione,
Mercosur e Cile. Sul piano della cooperazione è previsto il
rafforzamento della cooperazione economica finanziaria e
tecnica con il supporto di tre gruppi di lavoro. In particolare
il gruppo finalizzato alla cooperazione tecnica ha importanza
rilevante perché ha come obiettivo il consolidamento degli
organismi istituzionali del Mercosur. Inoltre persegue il raf-
19
forzento della competitività internazionale, delle relazioni economiche e sociali tra le parti e lo sviluppo tecnologico e scientifico. Va detto, però, che in ambito UE per quanto riguarda
il settore più controverso, quello agricolo, la Commissione
Europea ha proposto di liberalizzare il 90% delle esportazioni
agricole del Mercosur. Di questo 90% il 60% attualmente già
entra liberamente nel mercato europeo. Dalla proposta europea sono stati esclusi i seguenti prodotti considerati sensibili
(che per i Paesi del Mercosur vengono invece considerati indispensabili): cereali, riso, carne, pollame, frutta e verdura
(corrispondono al 10% del commercio del settore agricolo).
Una maggiore liberalizzazione di questi prodotti si potrebbe
ottenere attraverso la concessione di quote tariffarie preferenziali. Inoltre l’UE preferisce che il tema dei sussidi e più complessivamente tutti gli aspetti attinenti alla PAC siano trattati
in ambito OMC dato che una totale apertura dell’UE verso i
prodotti agricoli del Mercosur potrebbe alimentare dei contrasti con altri Paesi, tra cui Stati Uniti, Messico e Australia.
Per quanto riguarda, invece, il settore più controverso attinente al Mercosur, quello industriale, la proposta dei sudamericani è stata di una riduzione tariffaria del 33,1% sulle
importazioni, considerata troppo modesta dall’UE. Dall’offerta è stato escluso il settore auto, considerato il più sensibile
per il Mercosur mentre rappresenta una priorità per l’UE. Per
quanto riguarda i servizi va ricordato che essi rappresentano
il 20% del commercio tra i due blocchi. L’UE ha proposto di
liberalizzare immediatamente tutti i settori (trasporto marittimo, finanziari e telecomunicazioni) eccetto gli audiovisivi, il
cabotaggio marittimo e il trasporto aereo. Su questo terreno
fortunatamente la proposta del Mercosur, che segue lo
schema del Gats, ha molti punti di convergenza con quella
dell’UE.
Nel settore degli appalti pubblici la proposta dell’UE è di liberalizzare tutti i tipi di appalti, beni, servizi e opere. Al momento non esiste ancora sul tavolo delle negoziazioni l’offerta
dei paesi del Mercosur. Si prevede tuttavia che su questo
punto la trattativa dovrà trovare dei settori di compensazione,
essendo i mercati del Mercosur più esposti alla concorrenza
di quelli dell’UE.
Nel corso degli anni sono stati comunque raggiunti alcuni risultati positivi per quanto riguarda i rapporti UE-Mercosur.
Sul piano sociale, l’Accordo di Associazione offrirà indubbiamente un’ottima opportunità per mettere in pratica le disposizioni dell’Agenda Sociale europea, nella quale si raccomanda
il rafforzamento della dimensione sociale delle relazioni
esterne dell’UE. La partecipazione attiva delle diverse categorie della società civile, da entrambe le parti, diventa un elemento fondamentale perché la liberalizzazione del commercio
e dell’apertura dei mercati possa portare a un incremento della
coesione sociale.
20
internazionale
Un contributo importante alla soluzione dei problemi è atteso
dalle 11 Commissioni di lavoro che dovrebbero definire in
termini giuridici le problematiche riguardanti:
a) il libero accesso ai mercati;
b) la regolamentazione dell’origine dei prodotti;
c) la rimozione degli ostacoli tecnici e burocratici;
d) le questioni sanitarie e fitosanitarie;
e) i diritti di proprietà intellettuale;
f) la risoluzione delle controversie;
g) la concorrenza;
h) le politiche commerciali;
i) l’armonizzazione doganale;
j) i servizi e gli investimenti;
k) gli appalti pubblici.
link journal 2/2012
ma non impossibile, la stessa dissoluzione del Mercosur nel
caso l’Argentina non cambi rotta, il suo riassorbimento nell’UNASUR. Il Mercosur è, infatti, rimasto un’unione doganale
imperfetta, sempre meno in grado di conciliare gli interessi
divergenti di membri troppo eterogenei e con agende che si
vanno distanziando. Lo pensano i paesi più piccoli, in primis
gli uruguaiani, che si domandano se non sia in ultima analisi
più conveniente riprendere la strada degli accordi bilaterali
di libero scambio con UE, USA, Cina e Giappone.
La posizione dell’Europa
Un tentativo di recupero da parte europea, o anche solamente
di conservazione delle proprie posizioni in America Latina,
non sarà un`impresa semplice perché dovrà invertire il corso
della storia dei rapporti tra i due Continenti e anche gli approcci economici e commerciali.
Nel frattempo è in corso il piano 2007-2013 inserito nel Documento di strategia per l`America Latina (DSR). Questo
piano ha come scopo principale quello di rafforzare l`Associazione tra le due aree dal punto di vista politico, economico
e sociale. A tale scopo sono stati elaborati due Programmi Indicativi Regionali (Pir). Il primo riguardava gli anni 2007-2010
mentre il secondo si riferiva agli anni 2011-2013. Complessivamente sono stati stanziati 556 milioni di Euro così ripartiti:
il 35% per la coesione sociale, il 25% per l`integrazione Regionale e il 40% per la formazione e le sfide Regionali.
L`Unione Europea ha anche indicato due priorità assolute: la
coesione sociale e gli investimenti nella formazione delle risorse umane e la comprensione reciproca.
Opportunità per l’Italia
L’Italia si è tradizionalmente attivamente spesa per la positiva
conclusione dei negoziati UE-Mercosur e non solo per motivi
sentimentali, in quanto nei quattro Paesi del Mercosur si calcola che vivano oltre trenta milioni d’italiani o oriundi italiani,
(in Brasile (25 milioni d’italiani e oriundi), in Argentina (5 milioni), in Uruguay (350 mila) infine in Paraguay (300 mila), ma
anche, più prosaicamente calcolando le ottime prospettive
economico-commerciali offerte da una più stretta collaborazione tra le due aree. Tra i settori che maggiormente potrebbero interessare l’Italia, possiamo sicuramente collocare
l’agro-industriale dato che Brasile e Argentina sono tra i più
grandi produttori di grano nel mondo mentre l’Italia è uno
dei paesi leader nel settore del macchinario agricolo, nonché
sul piano della tecnologia per l’agro alimentazione e l’agroindustria. Quindi l’Italia potrebbe svolgere un ruolo di primo
piano nell’ambito dell’intera catena produttiva alimentare, soprattutto con la creazione di società miste. Quest’aspetto, da
solo, già rende bene l’idea di quanto l’Accordo di Associazione
sia estremamente interessante per l’Italia. Lo stesso discorso
vale per la biotecnologia nella quale l’Argentina è leader in tutto
il Sud America, ma tutta la regione del Mercosur potrebbe diventare una grande piattaforma dedicata a trasformare l’acqua
e l’ energia solare in diversi prodotti.
In America Latina permangono, ad esempio, molte perplessità
sulla politica dell'Unione Europea in materia d'immigrazione.
Occorrerà, quindi, pervenire ad accordi che tengano conto
degli interessi legittimi dei partner eurolatinoamericani in merito a un tema così sensibile. Dal canto suo, l’Europa denota
una generalizzata ripresa d’interesse verso il Continente Latino Americano. Oltre che con il Mercosur sono stati rilanciati, ad esempio, i rapporti con altri Paesi e raggruppamenti
dell’Area, tra cui il Patto Andino, e separatamente con la Colombia e il Perù (in forma congiunta), per non parlare del
Messico, un Paese particolarmente attivo in questo momento
sulla scena internazionale e l’America Centrale. Nessun esito
è predeterminato e non si può, al momento, escludere nessun
sviluppo, a partire ovviamente da un secondo congelamento
dei negoziati, al loro perdurante stallo, oppure, ipotesi estrema
L’Accordo di Associazione Mercosur-UE può quindi trasformarsi in una chiave determinante per aumentare sensibilmente
il reciproco potenziamento industriale, lungo una originale filiera di cooperazione che coinvolga fattori quali l’innovazione
e i trasferimenti di tecnologia, la conoscenza e l’aumento della
competitività per superare logiche meramente mercantilistiche.
Oggi molti analisti sono concordi nel sostenere che presto la
tanto discussa e criticata economia finanziaria è destinata a cedere nuovamente il passo all’economia reale, alla produzione
e alla lavorazione delle materie prima. Ancora esistono margini
per la creazione di gruppi misti di piccole e medie aziende
italo-latinoamericane con grandi possibilità di sviluppo. Ma sarebbe necessario che il mondo industriale italiano si muova velocemente e che a livello politico si arrivi quanto prima alla
firma dell’Accordo di Associazione Mercosur-UE.
link journal 1/2012
internazionale
I nostri giovani - Giurisprudenza
Giulio Coppi
Sono sulle frontiere
del mondo che cambia
Giulio Coppi si è laureato in Giurisprudenza (International
Ligal Affairs) a pieni voti. Attualmente lavora presso il
Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Le sue
esperienze professionali sono state: Delegato alla Protezione presso ICRC, Consulente legale (consulente esterno pro bono, risorse umane e diritto internazionale
umanitario) presso OCASA, Project Manager presso Social Opportunities Generating Network (RGOS), Project
Assistant in the Regional Office for Central Asia. E’ stato
Segretario generale della PRG Dinamica.
21
tarmi oltre la mera applicazione dello studio sui libri di testo.
L'ambiente dinamico ed informale della Link Camèpus.
mi ha permesso di mettere alla prova le mie capacità in attività
sociali, manageriali e professionali che mi hanno aiutato a
scegliere il mio cammino e bussare con consapevolezza e
preparazione alle porte di chi sarebbe diventato poi mio collega o datore di lavoro.
Quali, secondo Lei, le maggiori difficoltà per un
giovane a trovare una soluzione lavorativa stabile
e quali le caratteristiche richieste?
Il problema principale è l'arretratezza del sistema-paese su
quasi tutti i fronti.
Un paese che è più impegnato a conservare ciò che ha piuttosto che investire per dare spazio a nuove energie e stimoli non ha nulla da offrire ai suoi giovani. Da che mondo
è mondo i figli vogliono andare oltre il lavoro dei padri, ed
i padri vogliono creare nuovi orizzonti per i figli.
Negli ultimi decennio il meccanismo in Italia si è inceppato,
il sistema si è concentrato nel dare di più a chi già aveva sacrificando così coloro che ancora dovevano costruire le basi
del proprio avvenire. In un quadro simile, sfortunatamente
le finestre di opportunità sono scarsissime e richiedono
molta competitività ma soprattutto differenziazione. In un
mondo di laureati, vince chi offre qualcosa in
più del "pezzo di carta". Questo richiede
dunque molto spirito di sacrificio, ma anche
molta fantasia e coraggio.
Come interpreta, dal suo osservatorio,
l’evoluzione della crisi economica globale.
Quali sono le caratteristiche del suo lavoro
e quale ruolo svolge?
Quale è stato il valore aggiunto della Link Campus
University per la sua formazione?
La Link Campus ha rappresentato la palestra ideale per esercitare la mente e lo spirito in attività che potessero por-
Il mio osservatorio, un ufficio nel mezzo della
selva colombiana, non è esattamente il posto
migliore per lanciarsi in analisi economiche.
Il mio lavoro si svolge piuttosto nel quadro delle
crisi umanitarie, lavoro infatti con il Comitato
Internazionale della Croce Rossa (CICR) che è
da sempre il custode delle Convenzioni di
Ginevra.
Il mio ruolo è dirigere un ufficio al confine tra
Colombia, Ecuador e Peru, in una zona di conflitto a bassa intensità tra moleplici attori: Esercito, Fronte Armato Rivoluzionario della Colombia Esercito del Popolo (FARC-EP) e nuovi gruppi emergenti.
Le nostre attività si concentrano soprattutto nella protezione della popolazione civile, appoggio alla missione
medica, e attenzione ai prigionieri/detenuti in relazione al
conflitto armato.
22
cooperazione internazionale
link journal 2/2012
Ancora qualche questione su movimenti e sviluppo sostenibile
Da Corleone ai Gorilla:
quando l’Assemblea non è tutto
G
ennaio 2001, Corleone, Sicilia. Per conto della Prefettura di Palermo sono impegnato in un progetto
per il riutilizzo di 170 ettari di terreno confiscati al
capo-mafia Totò Riina. La scelta è di passare dalla produzione
estensiva di cereali, realizzata con poche persone, un grande
trattore e fertilizzanti chimici vari, al rilancio di produzioni tipiche locali: dalle erbe officinali al vino tratto da un vigneto
tradizionale fin lì lasciato in abbandono. Si intendono seguire
criteri di agricoltura biologica, dando occupazione ad una
cooperativa sociale di una ventina di giovani del luogo.
I conti parlano chiaro. La redditività data a Riina dal vecchio
uso dei terreni potrà essere raggiunta solo dopo ben 10 anni
di lavoro basato sul ripristino e la vendita delle nuove produzioni, come prevede il Progetto. Solo dopo, la stima del nostro
“business plan” indica una tendenza decisa all’incremento.
Proviamo ora ad immaginare una assemblea di imprenditori
chiamati a decidere sul modello di business da adottare in questo caso (dobbiamo assumere, ovviamente, che anche una assemblea di imprenditori sia legittimata ad esprimersi così
come lo è una di giovani che intendono cambiare le leggi sulla
scuola). Come pensate che voterebbe? Senza scomodare la
teoria economica della “preferenza temporale”, lo stesso
senso comune ci indica la risposta: penserebbe quasi all’unanimità che è meglio un ritorno dell’investimento il più “a
breve” possibile. Meno rischi, più guadagni subito. Poi si vede.
Chi dovrebbe introdurre elementi quali il valore economico,
politico e sociale di immagine per Corleone nel dare occupazione a venti giovani invece di quattro? Chi stima il valore di
attrazione di nuovi investimenti che l’azione intrapresa dalla
Prefettura può determinare a Corleone, con questa classica
azione di “marketing territoriale”? Chi “internalizza” nel
conto economico i vantaggi differiti sull’ambiente di produzioni finalmente sostenibili?
Difficile possa farlo l’Assemblea di imprenditori. Serve qualche organismo che guardi lontano e possa programmare lo
sviluppo socio-economico di un area, non solo di una produzione (in questo caso la Commissione Europea e il Ministero
dell’Interno con i loro Piani Operativi). Poi serve una schiera
di “facilitatori”, come si sarebbe detto ai tempi dei Patti territoriali o dei Pit (i Progetti Integrati) che di questi problemi
di indurre scelte virtuose che guardassero allo sviluppo e non
al solo incremento del Pil a breve, ne avevano a decine. Serve
qualcuno, anche, che per decisione assunta a livello politico e
istituzionale da organismi appositamente delegati, non solo si
Maurizio Zandri, SudgestAid, Link Campus University
sforzi di chiarire la bontà dell’alternativa più a lungo termine,
ma che alla bisogna ricordi come i finanziamenti di aiuto all’intervento siano disponibili soltanto seguendo il percorso
indicato dalla normativa e non quello spontaneamente promosso, nell’immediato, da una maggioranza autoconvocata.
Che insomma ricordi il valore delle regole, come risultato consolidato di un processo democratico.
Febbraio 2004, sono in Rwanda, nel cuore dell’Africa, dove
finalmente posso accingermi a vedere i gorilla di montagna,
mia vecchia passione da bambino. Stanno nel Parco dei Virunga, una catena di alti vulcani coperti di foreste, nel Nord
del Paese, al confine con il Congo. E’ la zona dove operò l’etologa Diane Fossey portata sullo schermo da Sigurney Weaver
nell’indimenticabile “Gorilla nella Nebbia”. Mi preparo ad
una lunga camminata per inoltrarmi, con le guide, nel loro habitat. Dopo un’ora cammino ancora in mezzo a campi coltivati. Per lo più a piretro una pianta molto richiesta
dall’industria che produce insetticidi e antiparassitari. Mi dice
la guida che solo un anno prima l’attraversamento di questa
immensa distesa sarebbe durato mezz’ora di meno e saremmo
già stati in mezzo alla foresta. I gorilla inseguiti dalle coltivazioni umane e dal bracconaggio diminuiscono velocemente
di numero. Quando finalmente incontro la ancora numerosa
famiglia di Gunonda, un imponente Silverback di 260 chili,
di cui, pagando la bella cifra di 500 Dollari, ho “prenotato” la
visita, penso: questa è forse l’ultima occasione che avrò nella
vita.Ogni singolo gorilla di montagna vivente, stimano gli analisti, vale, ogni anno per l’economia ruandese, un milione di
Dollari in biglietti per turisti e indotto (alberghi, guest house,
ristoranti, trasporti locali, abbigliamento con tanto di
“Rwanda, home of Mountain Gorilla”, ecc.). C’è poi il valore,
per niente simbolico, del mantenimento della biodiversità,
della specie (i gorilla di montagna) e della identità di un Paese
che non a caso fa dei gorilla un emblema nazionale.
Proviamo anche qui ad immaginare un’Assemblea di contadini della zona di Ruhengeri, la città capitale del Nord che è
un po’ la base di partenza per i trekking nel Parco dei Vulcani.
All’ordine del giorno: continuare ad estendere le coltivazioni
o rispettare l’habitat dei gorilla? Cosa pensate che deciderebbero? Ho pudore nel suggerire la risposta, tanto è scontata.
In questo caso, poi, con l’angosciosa contraddizione che essa,
per quanto disastrosamente errata, verrebbe da gente che
combatte contro la propria fame e vive di stenti.
Anche qui serve qualcuno/qualcosa che abbia il coraggio della
link journal 2/2012
cooperazione internazionale
lungimiranza. Che si sottragga alla disperazione dell’oggi per
decidere che non si può distruggere il cibo e un po’ di benessere di domani. Perché una industria turistica che si basi sul
rispetto dell’habitat dei gorilla è una ricchezza certa per tutti,
ma terribilmente a rischio e non riproducibile domani.
In natura la progressione dei disastri è geometrica e non facilmente percepibile dalla gente. E’ famoso l’esempio di Lester
Brown del World Watch Institute che da anni produce un rapporto sullo stato del Pianeta. Brown ha scritto un libro il cui
titolo è “Il 29° giorno”. Dice la storiella da cui il titolo è tratto,
che in un lago da cui i pescatori tirano su pesce in quantità,
delle piante infestanti iniziano a riprodursi velocemente, raddoppiando ogni giorno. I pescatori non se ne curano perché
il lago è grande e ancora occupato dalle piante per solo una
piccola porzione. Dopo 29 giorni le piante hanno occupato
metà lago. I pescatori non se ne curano, il pesce è sufficiente
e c’è ancora metà lago in cui pescare. Il giorno dopo il lago è
scomparso.
Chi racconta questa storia ai contadini ruandesi? Anche qui, è la
loro assemblea autoconvocata, il
loro “Movimento” di giusta protesta contro gli stenti a cui sono
costretti a decidere se estendere o
meno le coltivazioni? C’è qualcuno, azzardo: un leader, un partito, che possa suggerire, se questa
idea non nascesse spontaneamente dentro l’assemblea-movimento, che vale invece la pena di
organizzarsi, lottare per una diversa ripartizioni dei proventi del turismo indotto dai gorilla?
Che coltivazioni e gorilla possono trovare un equilibrio? Ed
è giusto che qualche regola/legge internazionale, se tutto ciò
non avvenisse, possa intervenire per impedire che il Pianeta
sia privato definitivamente di gorilla? Qual è l’equilibrio consentito tra le ragioni del movimento dei contadini di Ruhengeri e quelle del movimento dei commercianti, guide,
ristoratori che vivono dei flussi turistici in Rwanda? E, ancor
più problematicamente, qual è l’equilibrio con le ragioni di
qualche milione di partecipanti ai movimenti ambientalisti in
giro per il mondo? Chi concilierà gli interessi diversi? Chi mitigherà i conflitti?
Zuccotti Park e la Puerta del Sol sono lontane da Corleone e
dai Virunga. E lo è anche il Cairo. Però le questioni poste in
questi due esempi possono essere altrettanto pertinenti.
Tali questioni riguardano, in sostanza:
1) il rapporto tra le soluzioni volute dai movimenti oggi e le
soluzioni sedimentate in normative, come portato di una ca-
23
tena di decisioni delegate ma fortemente motivate dalla storia
di altri movimenti e sistemi di interesse. Molti movimenti nascono per abolire normative ingiuste. Ma anche le normative
giuste potrebbero essere eliminate al fine di ottenere il consenso di chi protesta. E’ possibile accettare organismi arbitrali? Istituzioni internazionali, Autorità formalmente
imparziali possono intervenire?
2) il ruolo della programmazione dello sviluppo come esercizio che punta a contemperare più esigenze e ad indurre soluzioni per il medio-lungo termine. I tempi della politica (il ciclo
elettorale di 4-5 anni) sono spesso adatti solo per tentare di
rispondere agli interessi a breve. Fare un Piano, prevedere un
programma per le generazioni future potrebbe entrare in conflitto con tali interessi. Chi se ne occuperà, allora? Chi rieleggerà uno “statista” che pensa al futuro e non alla sua
rielezione? E’ accettabile, pur nello spesso giustificato furore
contro i costi eccessivi della Pubblica Amministrazione, che
sussistano tecnostrutture con un
respiro più lungo dei tempi elettorali?
3) il ruolo della leadership, come
funzione legata alla capacità di
mediazione e alla conoscenza dei
problemi e delle tecniche.
E’ comprensibile la fobia per un
leaderismo che nasce dall’ansia di
riconoscimenti personali, dall’egocentrismo, dal narcisismo;
che si cristallizza, passo dopo
passo, in comportamenti altezzosi
e sempre più distaccati; che consolida posizioni di privilegio e che spende per il proprio successo personale il patrimonio di un Movimento. Dovremmo,
per non correre tale rischio, non utilizzare al meglio tutte le
competenze? Che ruolo avrà colui al quale più si chiede o più
dà? Sarà indifferente, nell’assumere decisioni, il ruolo della conoscenza?
Mentre mi dilungavo nello scrivere queste domande, abbastanza convinto che stessi facendo un esercizio retorico, mi
sono reso conto che invece esse sono, per lo più, domande
aperte, a cui, a ben vedere, non sarei del tutto in grado di dare
una risposta.
Queste, invece, aggrappate all’ultimo bit, sono abbastanza retoriche: stiamo lavorando abbastanza sulle regole, i metodi
che possano consentire di avere leadership controllabili, sostituibili, “sfruttabili”? E su modelli d’organizzazione e procedure di decisione capaci di intervenire pensando “lungo”?
Stiamo lavorando abbastanza nel tradurre in modo condiviso
sentimenti in regole? Qui la risposta, almeno per me, è scontata: no. Non ancora.
24
economia e diritto
link journal 2/2012
RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO
Accordo faticoso,
ma con buone
prospettive
per la stabilità
L
a globalizzazione, la concorrenza dei paesi del terzo
mondo, la mancanza di riforme, hanno aggravato la
situazione economica e sociale del nostro paese. Abbiamo perso tempo prezioso. L’Italia è in condizioni di grande
difficoltà.
Dobbiamo fare i conti con un deficit mostruoso e con un
tasso di crescita irrilevante.
Il Governo Monti ha recuperato molto in termini di credibilità
a livello internazionale e nel contesto più ampio delle economie in grande sviluppo (Cina, India, Brasile). Non è però ancora sufficiente. Le decisioni dell’Europa, egemonizzata da
Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy, sono sfavorevoli per
l’Italia. L’Europa deve cambiare strategia e, soprattutto, deve
riavviare lo sviluppo.
Da tanto, troppo tempo, siamo bersagliati dall’Unione Europea con ingiunzioni, con adempimenti, con condizioni. Va
sbloccata l’economia che, se prima si era attestata sulla crescita
zero, ora sta precipitando nella recessione.
Sono stati fatti errori. Siamo stati costretti, per il ricatto dei
mercati, ad accettare una serie repentina e contraddittoria di
decreti legge non sempre coordinati tra di loto. Si parla di
equità, di sviluppo, di giovani. Affermazioni condivisibili in
via di principio. Peccato che spesso rimangano a livello di
enunciazione. Perché? E’ presto detto. Monti rifiuta il modello
della concertazione; vuole limitare il rapporto con le forze sociali ad una semplice consultazione. Teme di finire nella palude del consociativismo; di essere obbligato a forme di
indecisionismo; di essere condannato all’immobilismo. Le ripetute critiche di Monti alla concertazione sono state inaspettate. La concertazione ha in passato consentito di
sconfiggere il terrorismo, di fare la riforma delle pensioni, di
entrare in Europa. Scotti, Spadolini, Craxi affrontarono i pro-
Giorgio Benvenuto, Presidente Fondazione Bruno Buozzi
blemi della modifica delle relazioni industriali in un contesto
di misure organiche a sostegno della contrattazione. Amato,
Dini, Prodi, Ciampi l’hanno praticata con risultati positivi e
decisivi per il paese. Ciampi ha sempre dato atto alle forze sociali di aver contribuito al superamento della crisi ed il ritorno
del paese allo sviluppo ed alla crescita.
Il Ministro del Lavoro, di cui nessuno sottovaluta la competenza, si muove in solitudine. Non tralascia occasione per mettere le dita negli occhi dei propri interlocutori. Non chiediamo
autocritiche, ma domandiamo di non esagerare in autocelebrazioni.
Sulla riforma delle pensioni non si è cercato l’accordo con i
sindacati. Si è agito con l’accetta, senza guardare in faccia nessuno. Il risultato è controproducente: è esploso il caso di decine di migliaia di lavoratori (chiamati tecnicamente “esodati”)
che sono rimasti senza lavoro e senza pensione.
L’errore di valutazione è inconcepibile per un governo di tecnici. Non sono accettabili valutazioni fatte ricorrendo alla “nasometria”. I numeri sono numeri. Devono essere la base del
confronto politico. Vanno analizzati, spiegati, utilizzati, per
fare scelte utili, meditate, appropriate. Non è stato sempre
così. Ci si è limitati a “dare numeri”.
I problemi si sono aggravati con le norme sul mercato del lavoro. Senza che ce ne fosse bisogno si è aperto un confronto
ideologico su un tema ritenuto non prioritario dai sindacati
dei lavoratori e dalle organizzazioni degli imprenditori. E’
stata così definita una proposta di legge prolissa, confusa,
equivoca. Si sono riesumate le acrobazie della vecchia politica.
Nell’incapacità di trovare una soluzione, allora si ricorreva ad
equivoche formulazioni che si potevano prestare a doppie interpretazioni. Il risultato era che si annullavano a vicenda.
Ricordo ciò che avvenne all’epoca della riforma della scala
link journal 2/2012
economia e diritto
mobile, all’inizio degli anni ottanta. Si doveva modificare la
struttura del salario, riducendo il peso automatico della scala
mobile. Il Presidente del Consiglio dell’epoca Giovanni Spadolini inventò una formula apparentemente “geniale”: “le
parti si impegnano a modificare la struttura del salario, ivi
compresa la scala mobile”. Sembrava tutto risolto. Non era e
non fu così. La UIL, la CISL, i socialisti della CGIL, il centrosinistra, la interpretarono come riequilibrio tra salario contrattato e salario automatico; la maggioranza della CGIL, del
PCI, del MSI, la interpretarono nel senso che la scala mobile
rimaneva così com’era. Tutti ricordiamo come quella ambiguità portò a concentrare tutta l’attenzione, per oltre dieci
anni, su di un istituto inadeguato, dedicando scarsa attenzione
ai primi effetti che la globalizzazione determinava in termini
di competitività del nostro paese.
Allora, è tutto compromesso? Direi di no. Siamo in tempo a
correggere gli errori. Non ci sono altre alternative. Il vuoto
politico non è facile da colmare. Il Parlamento, i partiti, gli
enti decentrati sono in una fase di restauro. Ecco perché la
concertazione con le forze sociali va ripresa senza timori di
cadere nell’indecisionismo, nell’immobilismo, nel consociativismo. La concertazione riduce gli spazi all’antagonismo, alla
conflittualità ideologica; valorizza il ruolo delle forze riformatrici e moderate che nel nostro paese sono in maggioranza.
Come si può fare un accordo sul mercato del lavoro che è criticato da tutti indistintamente? Come si fa a parlare di “svolta
storica” quando non c’è nulla di definito, di trasparente, di acquisito?
Gianni Agnelli, imprenditore dotato di sottile ironia e caustica
autoironia, a Luciano Lama che si ostinava a valorizzare l’accordo del 1975 sul punto unico della scala mobile, diceva: “si,
caro Lama, ha ragione, è un accordo storico. Peccato che
siamo, in Italia ed in Europa, solo noi due a pensarlo”.
Nuove relazioni industriali possono essere costruite se si definisce un habitat virtuoso, se si allarga lo spazio contrattuale
autonomo delle parti, se si riduce l’invadenza legislativa.
Il mercato del lavoro è una materia che deve rimanere nella
disponibilità delle parti, è una materia che appartiene alla contrattazione. Vanno individuate con l’accordo delle parti sociali, soluzioni coraggiose innovando sulla flessibilità in
entrata e in uscita. La contrattazione va spostata a livello
aziendale; il ruolo delle Confederazioni va ridotto all’essenziale. Lo Statuto dei lavoratori è invecchiato; non va gettato
alle ortiche. Ha bisogno di una manutenzione che valorizzi il
lavoro, la professionalità, l’impegno, la produttività. Nessuna
25
legge da sola, anche la più perfetta, è in grado di costruire
certezze per i lavoratori e per le imprese. E’ importante che il
dialogo tra le forze sociali sia sostenuto e non sostituito dalla
legge. E’ finita l’epoca del conflitto di classe; l’antagonismo
appartiene al passato. I rapporti tra lavoratori e impresa devono ricercare e sviluppare gli spazi non conflittuali. Si deve,
anche se con ingiustificabile ritardo, approfondire il modello
tedesco della concertazione, della cogestione, dei comitati di
sorveglianza. Le nuove relazioni industriali debbono essere
costruite sulla valorizzazione delle professionalità, sull’incremento della produttività, sulla partecipazione dei lavoratori
agli utili dell’impresa. Il mondo globalizzato impone il superamento delle vecchie tradizioni, ormai trasformate in cattive
abitudini. La contrattazione deve essere il motore della crescita e dello sviluppo del paese con benefici per il lavoro e per
l’impresa.
Monti si accorgerà che l’accordo con le forze sociali è più faticoso ma alla fine più certo nei risultati. Quello con il Parlamento è fragile per la debolezza dei partiti.
Infine due appelli. I sindacati che stanno ritrovando e praticando l’unità d’azione devono tornare ad essere creativi,
estrosi, coraggiosi, innovatori. E i partiti? Sono fondamentali
in una democrazia. Non è però pensabile che in Italia si continui a tagliare, a tassare, a chiedere sacrifici ai cittadini e alle
imprese senza che la politica faccia scelte analoghe.
I tagli sul finanziamento pubblico dei partiti, sul “poltronificio” delle municipalizzate, sull’assetto istituzionale, devono
essere equivalenti a quelli chiesti al paese. Non possono solo
scalfire, devono intaccare. Chiederlo non è né demagogia né
qualunquismo. E’ invece la forza della democrazia.
26
economia e diritto
link journal 2/2012
Lo stato attuale
della giustizia civile
e la sua incidenza
su economia e società
C
ome è noto, da oramai oltre vent’anni la giustizia civile
in Italia è interessata da continui interventi legislativi
sul processo, attuati per lo più mediante la tecnica
della c.d. novellazione del codice di procedura civile (realizzata
a più riprese con interventi a volte circoscritti, a volte di carattere generale, come, ad esempio -in tempi diversi- nei casi
dell’introduzione della disciplina uniforme dei procedimenti
cautelari e della nuova disciplina dell’esecuzione); a volte mediante l’adozione di nuove leggi speciali (è tale, ad esempio, il
caso del recente intervento legislativo in tema di mediazione,
che ha introdotto, per una grande quantità di controversie, individuate col criterio della materia, una speciale condizione di
procedibilità dell’azione, consistente nel previo esperimento
del procedimento di mediazione), oppure mediante la modifica di leggi speciali preesistenti (è il caso della riforma della
legge fallimentare del 2006, che ha radicalmente innovato le
modalità di svolgimento di tutti i giudizi connessi alla procedura fallimentare).
Agli interventi interni si aggiungono, inoltre, quelli del legislatore comunitario, che negli ultimi anni ha cominciato a produrre, nell’intento di uniformare le procedure giudiziarie nello
spazio europeo, atti normativi recanti discipline processuali
uniformi, di immediata applicazione nei singoli Stati (ci si riferisce, in particolare, ai regolamenti comunitari che hanno
disciplinato il c.d. decreto ingiuntivo europeo ed il titolo esecutivo europeo, ma anche al regolamento che ha delineato
una speciale procedura semplificata per le c.d. small claims
transnazionali).
La principale ragione che spinge il legislatore a tale incessante
opera riformatrice è costituita dall’esigenza di ridurre i tempi
necessari per la definizione dei giudizi civili. Esigenza sempre
più avvertita (indipendentemente dalle pur significative condanne che l’Italia ha subìto per la ritenuta violazione dell’art.
6 CEDU) quanto più si diffonde la consapevolezza che una
giustizia rapida ed efficiente rappresenti un elemento indispensabile per la competitività economica.
Daniela Noviello, Link Campus University
Sempre più frequentemente, gli analisti economici sottolineano come l’incertezza dei rapporti giuridici, dovuta all’eccessiva durata dei processi, finisca con lo scoraggiare
investimenti economici in Italia. Invero, la certezza dei dati
costituisce elemento indispensabile per ogni programmazione
aziendale ed è di immediata evidenza che se, insorta controversia tra operatori economici in relazione al rapporto giuridico che li lega, la lite non sia definita in tempi rapidi, gli stessi
operatori vengono a trovarsi nella condizione di non poter
considerare, ai fini delle proprie attività imprenditoriali, le utilità che si attendevano dal rapporto controverso, per un
tempo pari alla durata del giudizio.
Così, per fare un esempio, se un’azienda attende il pagamento
del prezzo della fornitura effettuata, e tale pagamento resta
sospeso fino alla pronuncia della sentenza che ne accerti il relativo diritto, la stessa azienda non può disporre delle somme
dovute per tutto il periodo intercorrente tra l’esecuzione della
prestazione e la decisione del giudice (ovvero, fino all’effettiva
esecuzione della decisione), con ovvie ripercussioni sulle attività e sull’equilibrio economico dell’impresa.
Ripercussioni che possono persino portare al fallimento dell’iniziativa economica (quando l’impegno per l’esecuzione
della prestazione sia stato importante e corrispondentemente
elevato fosse il risultato economico atteso, ovvero, quando la
prestazione inadempiuta dall’altra parte fosse indispensabile
all’esercizio della propria attività).
Ecco perché, il comune denominatore delle numerose riforme del processo civile susseguitesi negli ultimi decenni (comune anche alle ulteriori riforme annunciate in questi giorni)
è rappresentato dall’obiettivo del contenimento e della ridu-
link journal 2/2012
economia e diritto
zione dei tempi della giustizia.
Peraltro, non può non rilevarsi come, nonostante la quantità
e l’entità degli interventi riformatori già effettuati sulle modalità di svolgimento dei giudizi civili, il problema non sia
stato ancora risolto. E ci si chiede, allora, se davvero ci si
possa attendere dall’ennesimo intervento sul processo civile
una soluzione definitiva dello stesso.
In effetti, perplessità di tal genere sono state già più volte segnalate nell’ambito della comunità scientifica, dove è stato indicato che, forse, più che seguire la strada della modifica degli
iter giudiziari, sarebbe opportuno incidere su aspetti organizzativi degli uffici; e dove è stato evidenziato come la riduzione
dei tempi della giustizia non sia “indolore”, nel senso che
spesso ad essa si accompagna una riduzione delle garanzie
processuali e, quindi, il rischio che il processo si concluda con
una decisione non troppo “giusta” (ampio e tuttora non risolto è il dibattito scientifico su queste questioni, animatosi
specialmente in relazione al sempre più ampio ricorso alla
forma sommaria della cognizione nell’ambito delle ultime riforme processuali).
D’altra parte, molte controversie (specialmente quelle di carattere essenzialmente economico e nelle quali non emergano
questioni giuridiche particolarmente rilevanti) potrebbero essere efficacemente risolte anche fuori dal processo, secondo
un criterio di composizione degli opposti interessi, piuttosto
che in applicazione di una norma giuridica. In questo caso,
sarebbero decise in giudizio solo le controversie più complicate o di carattere non esclusivamente economico e, con i
ruoli meno intasati, i processi sarebbero più rapidi.
Invero, se si guarda all’esperienza di Paesi nei quali i tempi
della giustizia civile sono assai più contenuti che nel nostro
(ad esempio, gli Stati Uniti o l’Inghilterra), si nota che la percentuale delle controversie civili che giungono in causa è
estremamente inferiore alla nostra, e che la maggior parte
delle controversie viene risolta mediante strumenti alternativi
alla giurisdizione (c.d. ADR – Alternative Dispute Resolution).
Allora, forse un tentativo davvero efficace per la riduzione
dei tempi della giustizia è stato già effettuato dal legislatore
italiano mediante la previsione della mediazione come condizione di procedibilità per numerosissime categorie di controversie. Peccato che tale riforma sia stata avversata (e lo sia
tuttora) da grandissima parte dell’avvocatura, e che non sembri neppure molto gradita ai giudici.
27
Processo penale e le riforme possibili
Aspettando Godot...
tra assenze e attese
si consuma il vivere civile
N
ell’attuale fase della legislatura il tema del processo
penale e delle possibili riforme che dovrebbero riguardarlo non sembrano fra le priorità del Governo.
Eppure le questioni non mancano. Tra le priorità da affrontare va sicuramente collocata la drammatica situazione carceraria resa drammatica dall’elevato numero dei suicidi che
significativamente contrassegnano la vita dei nostri penitenziari. Il provvedimento degli scorsi mesi non ha modificato
la situazione. E’ necessario intervenire con misure più incisive. Il riferimento si indirizza alla trasformazione delle misure
alternative in pene principali non escluse le forme di controllo
sui soggetti in tale stato di esecuzione della pena con modalità
tecnologicamente avanzate.
Considerato che è ormai sistemico il tema della durata irragionevole del processo non dovrebbe essere ormai impossibile non trovare le adeguate intese politiche per introdurre il
proscioglimento per irrilevanza del fatto, l’estinzione del reato
per effetto delle adeguate condotte riparatorie nonché la sospensione del processo con messa alla prova. Si tratta di istituti già presenti nella nostra legislazione la cui
sperimentazione non ha avuto effetti negativi.
Seppur circoscritti alle ipotesi che se non bagatellari non presentano un significativo allarme sociale potrebbero alleggerire
un carico giudiziario che le difficoltà di avviare una significativa depenalizzazione rischia di collassare il sistema della giustizia penale. Dovrebbero potersi trovare le necessarie
convergenze anche per la reintroduzione del concordato in
appello. Si tratta di un istituto non premiale che consentirebbe
sia di velocizzare il giudizio di appello sia di deflazionare il
successivo ricorso per cassazione. Per ovviare ad eventuali
Giorgio Spangher, Link Campus University
28
economia e diritto
obbiezioni si potrebbe escluderne l’operatività per i procedimenti celebrati in primo grado con il rito abbreviato dove
l’imputato condannato gode di un significativo sconto di
pena. Alla logica di deflazione senza effettivi pregiudizi per
la legalità e l’efficacia della risposta al crimine va ricondotta
anche la possibilità di prevedere la sospensione del processo
nei confronti dei soggetti irreperibili. La connessa sospensione del corso della prescrizione oltre alle altre previsioni di
contorno sembrano suggerire il rimedio per processi che nella
maggior parte dei casi si rivelano del tutto inutili.
L’altro settore sul quale appare necessario intervenire è quello
legato ad alcune distorsioni dei dati normativi come si sono
venute evidenziando negli ultimi tempi con pregiudizio per
le istanze difensive. Il dato di maggior pregiudizio è sicuramente quello legato ai ritardi nella iscrizione della notizia di
reato e del soggetto al quale il reato è attribuito nel registro
di cui all’art 335. Sono moltissime le ricadute di queste prassi
distorte. E’ necessario fissare tempi certi e conseguenti sanzioni processuali incisive per questo tipo di patologie. Potrebbe non essere inoltre inopportuno che siano previsti
tempi più serrati rispetto a quelli attuali per verificare se veramente si procede nei confronti di soggetti ignoti oppure se
gli ipotizzabili autori dei reati non risultino gia individuati e
possano esercitare i loro diritti processuali.
Anche altri profili dell’esercizio del diritto di difesa sembrano
richiede interventi correttivi stante le patologie che ultimamente sono emerse. In particolare appare necessario precisare
il divieto di intercettazioni tra difensore ed imputato. La sola
previsione ex post dell’inutilizzabilità del contenuto di quanto
captato appare inadeguato se si consente di procedere ad attività limitative delle liberta sulla scorta di quanto deducibile
dall’ascolto. Anche il tema della tutela del segreto professionale dell’avvocato sembra richiedere qualche correttivo. Non
c’è alcuna ragione perchè non si rafforzino le tutele del legale
secondo il modello operante per il giornalista. Entrambi svolgono funzioni coperte dalle garanzie costituzionali.
Indubbiamente i problemi dell’economia e del lavoro nell’attuale contesto internazionale e nell’attuale fase di depressione
finanziaria occupano un posto privilegiato nell’agenda governativa. Altri settori della vita sociale sono in decisa sofferenza.
Tuttavia l’affermata non remota possibilità di larghe convergenze su alcuni obbiettivi di riforma dovrebbe suggerire di
trovare uno spazio anche per il tema della giustizia, soprattutto di quella penale, considerando che si tratta di un servizio
tra i più importanti per i cittadini.
link journal 2/2012
Una riforma
costituzionale
per riformare la politica
A
ncora una volta la fuoriuscita dal vuoto di governo
efficiente che affligge da tempo i partiti si cerca ricorrendo alle riforme istituzionali.
È dal ’79 che Craxi ha lanciato l’idea di una grande riforma
per acquistare centralità nel sistema politico, ma l’unica riforma che si è fatta, e di cui si è tornati a parlare in maniera
predominante per disfarla, è quella elettorale, la sola del resto
partorita accompagnando la crisi della prima repubblica.
Una
diversa
legge elettorale
dovrebbe perciò
reiterare anche
l’uscita dalla seconda repubblica restituendo
- si dice - il potere all’elettore
di scelta dei propri rappresentanti confiscata
dal Porcellum,
come è stato
elegantemente
ribattezzato
dall’ammissione
dei suoi autori, il
sistema che ci
regge. La periodica riorganizzazione delle infrastrutture del potere viene proposta come
surrogato della aggressione dei nodi di fondo del sistema,
come invece sta facendo lo spiazzante governo dei tecnici.
Alcuni interventi di contorno dovrebbero poi conferire maggiore robustezza all’azione di riforma; ma si tratta di ipotesi
incerte improntate ad un approccio minimalista, come quello
della riduzione contenuta del numero dei parlamentari, che
doveva essere stata fatta quarant’anni fa per compensare
l’erompere dei consigli regionali, mentre oggi varrebbe come
ammissione di ipertrofismo rappresentativo da temperare, per
placare un’opinione pubblica imbestialita, ricorrendo ad argomenti da antipolitica. Né d’altro canto le idee appaiono più
solide per quanto riguarda la riforma del bicameralismo. La
proposta più inerziale resta la Camera delle Regioni, che non
Piero Calandra, Link Campus University
link journal 2/2012
economia e diritto
tiene conto né degli sviluppi intergovernativi dei rapporti centro-periferia realizzatisi nella apposita “Conferenza”, né dei
tormentati dibattiti ed adattamenti che questa soluzione ha
determinato nella repubblica federale tedesca per la logica trasversale all’indirizzo di governo che una Camera territoriale
proporrebbe.
Così, in un momento di stanca del federalismo istituzionale,
ma di rinnovato vigore dell’imposizione locale, si riaffaccia la
scelta residuale di fare un bicameralismo “eventuale” con doppia lettura facoltativa, che comporta il pregio di velocizzare
un processo legislativo la cui pesantezza non è estranea allo
sviluppo abnorme del decreto legge nella versione con fiducia
incorporata. E soprattutto non turba troppo i sonni del ceto
politico centrale che, in aggiunta al taglio numerico, si troverebbe a gestire una confusa interferenza del ceto politico locale che aspirerebbe a collocarsi nel Senato riconfigurato. In
ogni caso occorre evitare la frammentazione specie attraverso
i finanziamenti alla
stampa.
Passi poi la revisione
dell’età per l’elettorato attivo e passivo, che può
spingere i giovani ad interessarsi di più di politica, il punto chiave resta
l’abbandono della necessità di legarsi preventivamente in coalizione.
L’elettore verrebbe così a
votare non il blocco di
governo ma il partito
come squadra del cuore,
cui affidare fideisticamente la scelta di allearsi,
una volta conosciuti i risultati propri e degli altri. La critica demolitrice della prima
repubblica viene così serenamente rimossa mettendo in conto
che il livello di spoliticizzazione programmatica è talmente
cresciuto che ciascun partito evita di impegnarsi in qualunque
issue offrendosi più con operazioni di marketing che di sensibilizzazione tematica.
Non è dato conoscere se le intese successive si costituirebbero
rimuovendo campagne pesanti verso i competitors, tra i quali
forse verrebbe risparmiata l’ala centrista che, a sua volta, dovrebbe esporsi solo su un piano di astratta governabilità senza
impegnarsi troppo su quali problemi intende risolvere, mentre
i competitors principali, ma più laterali, si sparerebbero an-
29
ch’essi a salve per non compromettere issues non gradite al
centro, appetito da entrambi.
In queste condizioni il futuro della politica intesa come capacità di progetto e di soluzione di problemi si presenta alquanto
perplesso, con il rischio che elementi tecnici continuino ad essere evocati per scelte politiche o che la necessità di grandi
coalizioni scolori sempre più i profili programmatici e le possibilità di scelta per l’elettore. Al riguardo una riflessione sul
dato che nella seconda repubblica nessun governo, sia a maggioranza risicata che oceanica, abbia ottenuto la conferma a
fine legislatura la dice lunga circa il terrore (incapacità?) dei
partiti di affrontare i nodi del Paese.
Una grande coalizione funzionerebbe così da contratto di assicurazione reciproca evitando che il peso di scelte innovative,
e quindi impopolari, si concentri su una sola parte. L’idea di
continuare a fare piccolo cabotaggio, in un Paese esposto ad
una pesante competizione mondiale, che va ben oltre i vincoli
di bilancio imposti dall’Europa, non appare infatti reiterabile e deve
preoccupare fortemente
ogni cittadino consapevole del passaggio forte
che caratterizza la nostra
epoca.
Occorre quindi che
anche movimenti dal
basso si rendano maggiormente coscienti dei
rischi che si corrono con
un modo di fare politica
solo in presenza di ingenti risorse a disposizione che consentano
una indefinita evoluzione
attraverso tecniche meramente redistributive. Vanno invece concentrati gli sforzi – come Paesi forti come la Germania fannosu pochi obiettivi strategici (si pensi al tempo irresponsabilmente
perso per la banda larga) in grado di sostenere una modernizzazione a supporto della crescita.
In quest’ottica di duro e prosaico sostanzialismo, anche la centralità del confronto tra proporzionale e difesa di un bipolarismo,
speso sinora in contrapposizione propagandistica, deve cedere
spazio ad impegni programmatici più espliciti che riqualifichino
la politica con la P maiuscola giocando partite in campo aperto
e rinunciando a meline che rischiano di far disputare ad un Paese
che partecipava al G8 un irreversibile campionato di serie B.
30
economia e diritto
link journal 2/2012
La BCE e il realismo di Draghi
Il ruolo della banca
centrale e la crisi di fiducia
dei cittadini europei
L
e recenti vicende finanziarie che hanno interessato
l’area dell’euro hanno radici molto lontane. La creazione di una area valutaria unica basata su realtà economiche nazionali indipendenti con parametri di finanza
pubblica di partenza differenti è sempre stata al centro di discussioni nel mondo accademico e tra gli operatori finanziari.
Spesso tali critiche sono state liquidate con sufficienza in
quanto considerate strumentali ad un sostegno del potere
del dollaro Usa, quale moneta di riserva internazionale. In
un'altra visuale la moneta unica era definita il primo tassello,
il primo grande passo verso l’unione economica e politica
dell’Europa. La creazione di un area valutaria europea aveva
ed ha alcuni indiscutibili vantaggi;
a) l’eliminazione di un fattore di rischio e di concorrenza incontrollata negli scambi commerciali interni;
b) l’eliminazione di un fattore di destabilizzazione rispetto ad
un obiettivo comune di target di inflazione;
c) la possibilita’ di molti Paesi periferici di finanziare il proprio
debito pubblico a tassi più bassi.
Viceversa abbiamo assistito negli ultimi 12 mesi al sostanziale
fallimento (sia pur controllato) della Grecia, al permanere di
forti tensioni in Portogallo ed Irlanda. Ad un premio di rendimento di oltre il 3% Italia e Spagna dopo aver superato il
5% rispetto ad analoghe emissioni tedesche.
Un confronto internazionale ci apre ad alcune considerazioni
sul ruolo della Banca centrale europea: perché Usa, Regno
unito, Giappone pur avendo ratios di bilancio pubblico peggiori dell’area euro e per certi versi anche di Italia e Spagna
pagano tassi più bassi sul loro debito pubblico?
Qualche osservatore ha risposto semplicemente: perchè
hanno una loro banca centrale nazionale.
Il tema quindi si sposta sul ruolo che deve avere una banca
centrale dinanzi alla crisi di fiducia verso il debito sovrano.
Innanzitutto ricordiamo che lo statuto della Bce delinea un
principale obiettivo per la banca centrale: il controllo dell’inflazione. In effetti le mosse della Bce dalla sua fondazione
sono state guidate dalla necessità di stroncare sul nascere la
crescita dei prezzi oltre il fatidico livello del 2%. Cio ha determinato anche alcuni eccessi: come non ricordare nel corso
della gestione Trichet il rialzo dei tassi ufficiali nell’estate del
2008 guidato da una impennata speculativa (poi riassorbita)
Paolo Balice, Presidente AIAF
del prezzo del petrolio? L’ascesa di Mario Draghi abbinata alla
necessità di interpretare questo ruolo statutario in termini
più elastici ha portato secondo molti osservatori una ventata
di sano realismo. Dobbiamo ricordare che dinanzi alle crisi finanziarie, come davanti ad un incendio, si possono avere due
atteggiamenti: cercare i responsabili e condizionare per questo
lo spegnimento dell’ incendio oppure spegnere prima l’incendio e poi pianificare le mosse successive affinchè il fenomeno non si ripeta incluse le “punizioni” per i responsabili.
La crisi Greca scoppiata nel 2010 è stata trascinata per 24
mesi, ha portato il Paese in profonda recessione ed al sostanziale fallimento, ha favorito un effetto contagio che ha coinvolto altri paesi periferici ben più importanti, aprendo il fianco
della costruzione europea allo “storico” scetticismo della finanza anglosassone ed al iperattivismo delle società di rating
:un Paese che rappresenta una quota ridottissima del Pil di
Eurolandia ha messo in crisi tutto un sistema.
Nel 2008 gli Stati Uniti alle prese con una crisi finanziaria
ben più profonda e strutturale non hanno condizionato il salvataggio del sistema ad un preventivo processo ai responsabili ma si sono adoperati per spegnere l’incendio subito. Era
ben chiara l’analisi della crisi del ‘29 con i suoi enormi ritardi
prima di individuare la cura keinesiana. È vero che gli Stati
Uniti hanno avuto la loro Grecia cioè la Lehman ma si è
trattato pur sempre di un emittente privato senza alcun danno
alla credibilità del Debito Sovrano. Ovviamente qui si sta parlando della attività di pronto soccorso. Sulle terapie di medio
termine da somministrate al malato il tema è completamente
diverso e gli Stati Uniti devono fare molta strada per gestire i
loro storici squilibri strutturali.
Se da un lato alla banca centrale europea è stata sostanzialmente negata la prolungata e massiccia monetizzazione del
debito cioè l’acquisto di titoli di Stato dall’altro la crisi di fiducia tra le banche europee legata anche alla presenza di titoli
del debito sovrano in portafoglio ha fatto capire che una più
sostanziale soluzione da pronto soccorso sarebbe arrivatadalla funzione di prestatore di ultima istanza della Bce al sistema bancario Si è quindi attivato un meccanismo indiretto
di sostegno del debito sovrano periferico fornendo liquidita
a medio termine alle banche. Cosa ha dimostrato tutto questo? Che da che mondo e mondo le crisi di fiducia nel sistema
link journal 2/2012
economia e diritto
non ammettono nel breve “burocratiche” gestioni legate a
valutazioni di principio o qualitative (basta pensare all’iter per
la creazione e l’ampliamento del fondo salva stati), ma devono
essere risolte immediatamente. Il mercato “pesa” il tasso di
convinzione delle autorià europee nello stroncare le crisi di
fiducia. Poi si passerà alle cure ed alle misure per evitare che
tali crisi si ripetano. Ma nonostante l’iniezione di liquidità
della Bce la crisi non è finita perché è complesso aggiustare
i conti pubblici con l’economia in recessione e l’Europa non
ha ancora trovato la soluzione per evitare un avvitamento
economico finanziario in alcuni Paesi tra cambio fisso, domanda interna indebolita dalla manovra fiscale e perdurante
stretta creditizia. Si può e si deve agire sulla produttività del
sistema (riforma del mercato del lavoro, liberalizzazioni, efficienza del settore pubblico, etc), ma il lavoro della Bce di
Mario Draghi, coadiuvato e sostenuto dai politici europei più
illuminati, non è ancora finito nel garantire nel frattempo la
fiducia nel debito sovrano in attesa di numeri più rassicuranti
sui tempi del pareggio di bilancio nonché nell’evitare il permanere della stretta creditizia. All’inizio di aprile la richiesta
tedesca di una exit strategy dinanzi a rischi inflattivi è stata
fermamente e cortesemente respinta da Draghi. Peraltro, il
tempo a disposizione per il ritorno della fiducia non è infinito ed è una variabile fondamentale altrimenti sullo sfondo
intravediamo anche il rischio della “giapponese” trappola
della liquidità ma il Paese del sol levante può anche contare
sulla “non globalizzazione” del suo enorme debito pubblico.
Non vorremo mai dover dare “ex post” ragione alle società
di rating ed ai loro ripetuti downgrading.
Efficienza, competitività,
merito: le nuove sfide
della Pubblica Amministrzione
per la crescita del Paese
A
ll’indomani della più grave crisi economica dal secondo dopoguerra, molteplici sono gli interventi ed i
cambiamenti posti in essere dagli ordinamenti per
fronteggiare l’emergenza internazionale, che sembra, attualmente, non avere ancora soluzione.
L’incessante evoluzione normativa che di recente ha caratterizzato l’azione governativa, apportando modifiche a settori
nevralgici del nostro Paese, evidenzia quanto urgente sia stata
(ed è ancora) la necessità di intervenire nel tessuto economico
Andrea Altieri, Link Campus University
31
e sociale, talvolta anche in maniera radicale, per tentare di mettere in salvo la traballante economia nazionale, minata dall’enorme debito pubblico e dai frequenti attacchi speculativi.
In una logica di tagli ed ottimizzazione, l’intero apparato amministrativo non poteva risultare immune a questa ventata riformista; a ben vedere, già nel corso del 2009 i principi sanciti
dalla c.d. Riforma Brunetta di cui al D.Lgs. n. 150/2009, hanno
visto una prima presa d’atto da parte del legislatore nazionale
rispetto all’immobilismo che da tempo aveva caratterizzato le
vicende del pubblico impiego, elevando a principio ispiratore
della riforma proprio quella trasparenza amministrativa, intesa
come accessibilità totale a tutte le informazioni concernenti
l’organizzazione della P.A., gli andamenti gestionali e, infine,
l’utilizzo delle risorse pubbliche per il perseguimento delle funzioni istituzionali e dei risultati.
Essa, però, poteva essere solo l’incipit di una più imponente
riforma, proseguita, nel solco tracciato dall’Unione Europea,
con la profonda rivisitazione dell’intero modello di gestione
amministrativo, nel tentativo, da un lato, di razionalizzare una
spesa pubblica apparentemente fuori controllo, da un altro, di
favorire la progressiva crescita della nostra economia nazionale.Il pacchetto di interventi normativi che il nuovo Governo
ha emanato con decretazione d’urgenza (si ricordano, in questa
sede, a titolo esemplificativo, il D.L. n. 201/2011, c.d. “Decreto
salva Italia”, il D.L. n. 1/2012, c.d. “Decreto liberalizzazioni”,
il D.L. n. 5/2012, c.d. “Decreto semplificazioni”), il cui minimo comune denominatore è rappresentato dalla riduzione
delle inefficienze e degli sprechi della macchina amministrativa,
ne sono la testimonianza più rilevante.
In tale ottica, ad esempio, considerato il ricorso con sempre
maggior frequenza da parte della Pubblica Amministrazione
a modelli negoziali tipici del diritto privato, rispetto a quelli
propri del diritto pubblico, le nuove disposizioni in materia di
affidamento e gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza
economica, seguite all’esito referendario del giugno 2011, sono
state immaginate con l’obiettivo di conformare l’azione amministrativa ai principi di libertà individuale, economica e di
concorrenza, sanciti dalla Costituzione e dal diritto dell’Unione
Europea, attraverso l’adeguamento delle normative statali, regionali e locali (talvolta obsolete e frammentate, in grado di
penalizzare le libertà individuali a scapito dell’interesse pubblico generale) alla scala di valori tutelati dalla Costituzione,
nonché alle specifiche esigenze emerse in ambito economico
e sociale. E’ evidente, in questo senso, anche a voler prescindere dal suo concreto raggiungimento, l’indirizzo (im)posto
alla Pubblica Amministrazione dalla U.E., volto al superamento degli squilibri e delle molte contraddizioni ancora presenti all’interno del nostro Paese, con l’evidente obiettivo di
salvare, anche per quanto di nostra competenza, la moneta comune europea e, con essa, l’economia nazionale. Non si può
economia e diritto
32
prescindere, infatti, dal fatto che ciascuno Stato membro sia
oggi parte di un sistema oramai globalizzato, sia a livello economico, sia giuridico; all’interno di tale evoluzione, il nostro
Paese si trova collocato all’interno di un palcoscenico internazionale più ampio, nel quale
opera, da un lato, in posizione
paritetica con gli altri Stati membri, da un altro, di subordinazione rispetto all’ordinamento
sovranazionale.Un simile modello di relazioni giuridiche,
poste in essere da più soggetti
(all’interno del quale ciascuno
Stato è destinatario di competenze nazionali ed internazionali) evidenzia il rilievo e la
funzione dei principi di reciprocità e di consensualità, con la
conseguente minor valenza del
potere di supremazia. Il Trattato
di Lisbona ha svolto, al riguardo,
un ruolo sicuramente determinante; con esso, infatti, hanno trovato definitiva affermazione,
a livello comunitario, i principi d’indipendenza, trasparenza,
efficacia e apertura alla partecipazione della società civile alla
corretta gestione della cosa pubblica; essi appartengono ormai
alla struttura del diritto amministrativo italiano e delle altre re-
link journal 2/2012
altà appartenenti all’Unione.
Al contempo, la nascita di nuovi organismi (interni e comunitari) capaci di coordinare le politiche nazionali e comunitarie
necessita l’evoluzione dei predetti principi anche nei rapporti
tra gli Stati membri, attraverso
formule di coordinamento, progressivamente sempre più elaborate, garantendo l’efficacia e
la correttezza dell’azione amministrativa all’interno di un contesto internazionale che vede
protagoniste anche le nostre
Istituzioni. In tal modo, solo attraverso la progressiva modernizzazione del nostro apparato
amministrativo, in una logica di
reale efficienza, competitività e
merito, le previste (ed auspicate)
riforme, qualora comprese e
condivise anche dalle parti sociali, potranno trovare effettiva
attuazione, fornendo, al contempo, sia la risposta più corretta alle osservazioni mosse in
sede europea, sia, indirettamente, quella necessaria compatibilità tra più livelli ordinamentali, che si presenta oggi come elemento indispensabile per supportare l’azione dell’Unione
Europea nei confronti della attuale crisi finanziaria.
Competere nell’incertezza
L
’approccio che viene oggi adottato per la gestione delle
organizzazioni in cui abbiamo maturato la nostra professionalità, è orientato ancora alla proposizione di soluzioni volte alla semplificazione. Tutte le attività manageriali
-tracciare le strategie, rivedere la struttura organizzativa, pianificare le attività, definire i budget, monitorare gli indicatori
di successo e controllare gli andamenti dei parametri criticivengono affrontati con l’intento di limitare l’incertezza attraverso razionalità e riduzione che danno quindi l’illusione di
semplificare i problemi. Ma lo scenario presente impone di
affrontare i problemi con un paradigma diverso. D’altronde
quasi un secolo fa, Albert Einstein aveva già intuito che: “ …
the significant problems we face today cannot be solved at the same level
of thinking at which they were created …”, cioè non si può risolvere
i problemi sostanziali di oggi con lo stesso approccio con il
quale tali problemi sono nati.
Nel suo “Il Metodo”, Edgar Morin3 ha affermato che “l’unica
Habib Sedehi, MBA Link Campus University
conoscenza che vale è quella che si alimenta di incertezza e il solo pensiero
che vive è quello che si mantiene alla temperatura della propria distruzione”. Infatti, molte caratteristiche del modo abituale di gestire le imprese sono il risultato di una attenta valutazione ma
che oggi però non è più valida e conduce a comportamenti e
decisioni rischiose (interne) per l’azienda e dannose (esterne)
a livello economico-sociale. Le scoperte scientifiche degli ultimi 65 anni hanno messo in forte dubbio la soluzione dei
problemi tramite l’approccio “riduzionista” facendo emergere
il paradigma “sistemico”, in quanto dovendo risolvere non
più problemi “complicati2”, piuttosto sistemi “complessi3”.
E’ infatti emerso, in modo evidente, che la realtà è tutt’altro
che lineare e non è più sufficiente dividere i problemi in sottoproblemi e analizzare nel dettaglio i dati passati per poter
più facilmente proporre delle soluzioni future. In questo contesto diventa pertanto indispensabile capire sempre di più la
struttura del problema, piuttosto che basarsi esclusivamente
link journal 2/2012
economia e diritto
sui pattern (andamenti acquisiti) e sperimentare quindi nuovi
approcci per spiegare e meglio capire gli eventi, affinché sia
possibile proporre delle soluzioni sempre più governabili .
Mentre nelle discipline scientifiche è già maturata la consapevolezza dell’emergere della complessità e, quindi, è “quasi”
consolidato il paradigma sistemico, la dottrina del management, che oltretutto è immerso continuamente nelle incertezze e i cambiamenti continui, è restia ad abbandonare le
convinzioni consolidate, pur spesso consapevole delle soluzioni talvolta inefficienti.
Quale è in effetti la finalità di un’organizzazione e quali sono
gli obiettivi che si pone chi gestisce un’impresa? La risposta,
statisticamente più scontata e maggiormente condivisa, è la
massimizzazione del “valore” per coloro che hanno, in un
modo o nell’altro, investito nell’impresa. Il “valore” potrebbe
essere non esclusivamente un maggiore “guadagno” a livello
economico-finanziario ma anche l’aumento di soddisfazione
delle necessità e/o dei bisogni sociali. Quanto detto porta a
considerare l’organizzazione, principalmente dal punto di
vista esterno, mentre il “valore” maggiore risiede all’interno.
In questa importante considerazione ci viene inoltre in aiuto
l’etimologia latina del termine “valore” cioè valere “essere
capace di”, che è un sinonimo di competitività. Quindi, in
ultima battuta, come viene anche ben sottolineato da Vicari4
nel suo libro ‘L' impresa vivente. Itinerario in una diversa concezione’: “… la creazione di valore in un’impresa non dipende dall’output prodotto(dividendi, profitti o reddito) o che si prevede di
produrre, ma dalle potenzialità accumulate …”. Quali sono quindi
queste potenzialità che, giorno dopo giorno, nella vita di un
organizzazione dovrebbero auspicabilmente incrementare?
Il know-how e le competenze del personale, la reputazione e
l’immagine sul mercato, il grado di soddisfare e quindi la fidelizzazione dei clienti, l’investimento nella ricerca e la capacità di innovazione …, infine, la cultura di vedere l’azienda
come sistema. Quest’ultima caratteristica che va, in un certo
senso, a confezionare il cosiddetto asset intangibile dell’impresa
è, a parere di Senge5, la disciplina quale collante necessario
per ribadire che non sarà efficace lo sviluppo delle potenzialità se i componenti dell’asset intangibili vengono incrementati separatamente.
Ora che abbiamo identificato, tramite i componenti intangibili
e l’approccio sistemico, l’abbinamento ideale per presentarsi
nell’attuale incertezza dell’ambiente esterno all’organizzazione dove bisogna competere al meglio, il nostro manager
deve scegliere la strategia più adatta o, per meglio dire, l’approccio strategico più consone al contesto complesso in cui
si trova, per fronteggiare i problemi e quindi prendere delle
decisioni.
Grant6 ha definito la strategia come tutto ciò che si occupa
del successo di un obiettivo; “ … guida le decisioni manageriali al
33
raggiungimento di risultati di eccellenza mediante la ricerca di un vantaggio competitivo”. Dopo anni di “confusione” e contraddizioni
nella condivisione e classificazione dei vari pensatori in materia di strategia d’impresa, ci trova d’accordo la classificazione delle due scuole di pensiero effettuata da Mintzberg et
al.7 e ben delineata nell’ottimo libro di Cravera8
•
La scuola Prescrittiva (Design, Planning, Positioning):
approcci strategici che identificano il modo migliore per le
imprese di agire nel contesto competitivo.
•
La scuola Descrittiva (Entrepreneurial, Learning Organization, Cognitive, Power, Cultural, Configuration): descrizione del processo da cui scaturisce una determinata strategia.
Mentre la “scuola” Prescrittiva, tramite quasi tutti i suoi maestri e maturati (compreso uno dei “presidi” di maggiore fama:
Michael Porter9 ), proclama e propone un approccio deterministico e riduzionista, quella Descrittiva si avvicina maggiormente al pensiero sistemico, particolarmente
nell’accezione di scuola di Learning Organization, dove le discipline da studiare, e quindi da praticare, tengono ben presente le variabili qualitative, la struttura dei processi
dell’impresa e la continua ricerca di relazioni e feedback dei
componenti umani e infrastrutturali. Predisporre innanzitutto
la cultura e quindi anche la struttura di un’organizzazione,
che continuamente “apprende” e autonomamente si rigenera,
ci sembra l’approccio auspicabile per la gestione della competitività in un sistema complesso e pieno di incertezze, quale
è l’attuale contesto mondiale, ricordando comunque che: “ …
conoscere e pensare non è arrivare ad una verità assoluta, è dialogare con
l’incertezza”, Edgar Morin.
Note
1
Edgar Morin nato a Parigi nel 1921 è un filosofo e sociologo francese, noto per
l'approccio transdisciplinare con il quale ha trattato un'ampia gamma di argomenti.
2
Un problema si definisce complicato quando, pur con possibili difficoltà estreme,
ha comunque almeno una soluzione
3
Un sistema si definisce complesso quando contiene un grande numero di variabili
che interagiscono fra di loro con un grande numero di relazioni. Tali sistemi non
sempre prevedono una “soluzione”.
4
Salvatore Vicari, nato nel 1951, è docente di Economia e gestione delle imprese e
Direttore del Dipartimento di Management alla Bocconi.
5
Peter Senge, nato nel 1947, è il direttore del “Center for Organizational Learning”
alla MIT Sloan School of Management ed è autore del libro “La quinta disciplina”;
The Fifth Discipline: The art and practice of the learning organization.
6
Robert Grant, nato nel 1948 è professore di Strategic management all’Università
Bocconi ed è l’autore del libro “L’analisi Strategica per le decisioni aziendali”; Contemporary Strategy Analysis.
7
Mintzberg, Ahlstrand, Lampel; Strategy safari: A guided tour through the wilds of
strategic management, 1998.
8
Alessandro Cravera; “Competere nella Complessità”, ETAS, 2008.
9
Michael Porter nato nel 1947, è professore alla Harvard Business School dove dirige
l'Institute for Strategy and Competitiveness.
34
economia e diritto
link journal 2/2012
UK Corporate Governance
Takes on an Italian Flavour
C
orporate governance is concerned with the systems by
which companies are directed and controlled. Corporate governance arrangements in Britain and Italy have
traditionally differed considerably. Market trends, however,
are giving U.K. corporate governance an Italian flavour in a
way that has important implications for investors in companies listed on the London Stock Exchange.
A hallmark of Italian corporate governance is that most of
its publicly traded companies have a “blockholder” who owns
a sufficiently sizeable proportion of the shares to have substantial influence on corporate affairs. According to 2007 data
compiled by researchers from Banca d’Italia and Consob
among Italian stock market companies the largest shareholder
owned, on average, 45% of the shares. Blockholders of this
sort have traditionally been the exception to the rule in the
U.K., particularly among the elite companies that comprise
the FTSE 100 stock market index. Due to a migration to the
London Stock Exchange by major companies operating outside the U.K., primarily from the mining sector, matters have
been changing in a way that creates corporate governance
challenges for Britain.
By way of background, Britain has what can be referred to
as an “outsider/arm’s length” system of corporate ownership
and control. The fact that most large U.K. stock market companies lack a dominant “insider” shareholder means the “outsider” label is apt. The term “arm’s-length” signifies that
shareholders in publicly traded U.K. companies usually do not
become actively involved in corporate affairs and instead give
executives a free hand to manage.
In a country with an outsider/arm’s-length system of ownership and control corporate governance is primarily about enhancing managerial accountability. When corporate executives
lack a sizeable share ownership stake and correspondingly receive only a tiny fraction of the returns derived from the profit-enhancing activities they engage in on behalf of
shareholders, they may be tempted to use their control over
corporate assets in a self-interested way. To the extent they
do so, managers impose what economists refer to as “agency
costs” on shareholders, and keeping corporate executives in
check necessarily becomes the pivotal corporate governance
issue.
With countries where blockholders are prevalent, such as Italy,
the system of ownership and control can be termed “insider/control-oriented” because dominant shareholders will
function as “insiders” who exercise close control over corpo-
rate affairs. When corporate governance is insider/control-oriented
managerial accountability
is unlikely to be a source
of serious concern because blockholders should
have both the means and
the motive to discipline
wayward executives. There
is a danger, however, that
dominant shareholders, likely in collusion with management, will cheat outside investors and secure what are
known as private benefits of control. Protection of minority
shareholders correspondingly should be a higher corporate
governance priority than reducing managerial agency costs.
The treatment of corporate governance in Britain reflects the
fact that its publicly traded companies typically lack a blockholder. The U.K. Corporate Governance Code, which is an
appendix to the Listing Rules that govern companies listed on
the London Stock Exchange, seeks to place checks on corporate
executives by vesting independent directors with substantial influence and by encouraging “arm’s-length” shareholders to intervene in appropriate circumstances. Moreover, the U.K.
Corporate Governance Code operates on a “comply or explain” basis rather than being mandatory in orientation, with
the underlying logic being that investors who are properly informed about corporate governance arrangements in companies in which they own shares can appropriately decide for
themselves what reforms should occur.
The U.K. corporate governance regime is not particularly
well-suited for companies where blockholders dominate. The
effectiveness of independent directors in such a company is
likely to be compromised due to concerns on their part that
the blockholder will use its voting power to dismiss them if
they get out of line. For instance, in 2011 the three founding
shareholders of ENRC, a large Kazakhstan copper mining
company and member of the FTSE 100, were displeased with
the degree of independence being exercised by two of the
company’s outside directors and used their collective 43% ownership stake to terminate the directors’ involvement with
company.
The efficacy of the “comply or explain” system that underpins U.K. corporate governance is also compromised when a
Brian R. Cheffins, SJ Berwin Professor of Corporate Law, Cambridge University - Visiting Professor Link Campus University
link journal 2/2012
economia e diritto
35
FIAT JUSTITIA, ET PEREAT MUNDUS
company has a dominant
blockholder.
The system presupposes
that dispersed shareholders
informed of disclosures of
non-compliance with the
U.K. Corporate Governance
Code can respond by lobbying for change in appropriate circumstances. The
logic loses much of its force,
however, when a company
has a major blockholder.
Thedominant shareholder will
almost certainly be aware of
the company’s corporate governance arrangements already and thus will not treat
disclosures on this front as a departure point for corrective action. Given the U.K.’s outsider/arm’s-length system of ownership and control, the fact that Britain’s corporate
governance regime is not particularly well equipped to cope
when controversial behaviour comes from dominant shareholders has generally not been a source of serious concern.
Market trends are changing the situation. During the mid2000s, a commodities boom brought to prominence mining
companies operating in emerging markets. The London
Stock Exchange was eager to have firms of this sort list their
shares for trading and attracted a sufficient number to increase the weighting of the mining sector in the FTSE 100
from 3.7% in 2003 to 14% by 2011. Dominant shareholders
are commonplace with these newcomers. ENRC is one
example of such a company. Others include Evraz, a Russian
steel producer in which “oligarch” Roman Abramovich owns
a large stake, and Bumi, a coal mining company in which Indonesian tycoons own nearly half of the shares.
The trend of blockholder-dominated companies listing on
the London Stock Exchange appears to be spreading beyond
the mining sector. For instance, Alico Dangote, Africa’s richest man, announced in April 2012 that Dangote Cement,
an industrial conglomerate he controls, intends to list on the
London Stock Exchange and sell a minority stake to public
investors to finance expansion. It is unlikely that blockholders
will ever become as prevalent on the London Stock Exchange
as they are among Italian stock market companies. Nevertheless, with blockholding arrangements familiar to Italians becoming increasingly prevalent on the London Stock Exchange,
protection of minority shareholders seems destined to become
a high priority item on the U.K. corporate governance reform
agenda in the not-too-distant future.
Riflessioni e paradossi
in tema di crisi economica
“N
el bene e nel male sono sempre le idee e non gli interessi
consolidati a risultare pericolosi”: così Keynes chiudeva il suo capolavoro, General Theory of Employment, Interest and Money. Ed è sufficiente uno sguardo
all’attuale situazione economica europea, per verificare come
l’intuizione fosse corretta; ma anche come il richiamo possa
disvelarsi latore di una concreta utilità e non sia destinato ad
attestarsi sul piano d’una compiaciuta citazione.
E sì, perché l’individuazione delle cause e l’analisi degli errori
non costituiscono mero esercizio teorico o, se si preferisce,
vuota e sadica pratica di chi è riuscito a prevedere una qualche
catastrofe. Sono, invece, il presupposto per individuare soluzioni o quantomeno per evitare il ripetersi di tali errori.
Le analisi più sensibili sulle radici della crisi finanziaria americana avevano già ripreso, peraltro, l’avvertimento keynesiano; e più in generale, una brillante ricerca dall’icastico
quanto ironico titolo “This time is different: Eight Centuries of Financial Folly” aveva già dimostrato la regolare ciclicità delle
crisi nell’economia capitalistica – crisi tanto ricorrenti quanto
i segnali, ovviamente inascoltati, che le precedono.
Eppure, a dispetto di tutto ciò, ma anche della stessa ragionevolezza e di un malcontento ormai diffuso, su di un’Eurozona in grave difficoltà si addensano le nubi di un duplice
fraintendimento, forse frutto di un unico sovvertimento assiologico.
Ma procediamo per ordine.
Dopo anni di fideistico abbandono nelle sue braccia, dovrebbe oggi esser tramontata l’idea che il mercato sia in grado
di autoregolamentarsi; dovrebbero ritenersi superate, quindi,
quelle bieche volgarizzazioni del mito nietzschiano dell’irrazionale dionisiaco che hanno indotto taluni ad acclamare in
materia la “forza creatrice del volere liberato dalla ragione”.
D’altro canto, pure svanita l’illusione che l’economia finanziaria e quella reale possano procedere disgiunte – se è vero
che il disastro dell'una si è immancabilmente riverberato sull'altra –, finanche le voci prima più restie hanno iniziato a discorrere di failure of capitalism; o almeno del modello come
fino ad ora immaginato. Quanti, poi, con indagini accurate e
storicamente documentate hanno messo in luce gli elementi
premonitori di buona parte delle crisi, alcuni denominatori
comuni pur li hanno rinvenuti. Orbene, tra questi fattori vi è
l’assenza di regolamentazione nel settore che ha innescato il
meccanismo, o quantomeno una tendenza alla deregulation
come più in generale ad una riduzione nei vincoli e nel livello
Pierluigi Matera, Link Campus University
36
economia e diritto
di vigilanza; al pari di quanto direbbe Guido Rossi, “le grandi
crisi sorgono quando il diritto fa vacanza. E non è un caso che di fronte
alla globalizzazione economica, oltre a quella tecnologica, del crimine organizzato e del terrorismo, manchi ancora completamente una globalizzazione giuridica, quasi che il diritto non abbia né la forza, né gli
strumenti per entrare nel giuoco”.
Ed a ben vedere, non in altro modo se non in chiave di “vacanza del diritto” possono spiegarsi il moltiplicarsi di taluni
strumenti finanziari di cartolarizzazione del debito – o piuttosto del rischio del credito –, cui ha fatto seguito evidentemente la trasmutazione dei mercati d’investimento in mercati
d’azzardo. Soltanto, vale a dire, in un’ottica meramente speculativa può leggersi la possibilità che i nostri mercati offrono
di scommettere finanche sull'insolvenza delle società come
anche degli Stati. Tant’è che – paradosso d’un capitalismo
senza pietà o pudori – quella che per decenni è stata la prima
società al mondo, sia per fatturato, sia per utili, la General Motors, ha persino conosciuto l’umiliazione di vedere la gran
parte dei titolari delle sue obbligazioni votare contro forme
di ristrutturazione finalizzate a riportarla in bonis; d’altronde,
avendo questi sottoscritto dei cds, non potevano che preferire
al salvataggio il suo fallimento, giacché l'insolvenza li ripagava
in toto dell’investimento attraverso la copertura assicurativa.
Solo un esempio, a dire il vero, di quella che appare come una
vera e propria pulsione di morte – freudianamente intesa – di
un sistema che ha abolito regole salutari, omesso più o meno
coscientemente di legiferare sui derivati ed allargato le maglie
della normativa in maniera sempre più irragionevole; di guisa
che, quali che siano le ricette per combattere la crisi, quali che
siano gli spunti ritenuti più interessanti, quali che siano i laboratori dai quali le soluzioni provengono, alcuna strada è destinata al successo – o almeno ad un esito durevolmente
positivo – se non si recupera al diritto un ruolo centrale.
Sì, al diritto, ed alla sua capacità di contemperare, attraverso
il processo democratico sotteso alla sua produzione, le ragioni
del mercato ed il principio solidaristico.
Certo, a complicare la proposta inversione metodologica nell’approccio alla problematica, subentra un’ulteriore riflessione:
se la crisi ha dimensioni sovranazionali, le regole giuridiche
per contrastarla e prevenire un suo riproporsi devono essere
comuni, o quantomeno far riferimento ad un plafond di principi condivisi; ed il diritto, stretto tra tradizioni radicate, differenze sistematiche e sterili rigurgiti d’una malintesa
sovranità, appare tutt’altro che pronto a ciò.
Si dirà: l’Europa ha introdotto, non senza dolorosi strappi, il
c.d. fiscal compact; e l’Italia non ha di sicuro lesinato interventi legislativi e manovre. È vero, come è vero che essi sono
ben lontani dal sostituire al Rule of Economics il Rule of Law.
Anzi, le reazioni fin qui poste in essere sembrano quasi inseguire le logiche degli investimenti speculativi, nell’impossibile
link journal 2/2012
missione di rinvenire una razionalità nel puro azzardo o di
rassicurare un mercato che non intende premiare il più virtuoso ma solo lucrare sul più debole – o su quello che si decide essere il più debole. E quel che è peggio è che tale
inspiegabile obiettivo – vale a dire quello di placare con del
buon senso da bottega l’irrazionale sete d’una speculazione
senza confini – appare rientrare nella più generale e scelerata
politica che ha visto tutti i governi, a partire da quello statunitense, intervenire a protezione dei principali responsabili di
questa crisi, quasi premiandoli, al pari del peggiore dei genitori. Come dire, una serie di scelte così banali che a rimarcarne
gli errori si finisce con l’assumere toni involontariamente demagogici; così insensate che in nome del mercato si è paradossalmente violata la sua regola più sacra: quella per cui gli
attori economici che non riescono a stare sul mercato ne devono uscire. Ed allora a paradossi si sovrappongono paradossi: accade così che il Regno Unito prende decisioni giuste
(la mancata adesione al fiscal compact) forse per motivi sbagliati; o che ci si trovi a sperare nell’elezione di un presidente
i cui proclami, in tempi normali, probabilmente darebbero i
brividi – e non di piacere. Se a tutto ciò si aggiunge l’oggettiva
difficoltà di contrastare la speculazione, l’indubbia opacità
delle decisioni dei Fondi sovrani ed infine l’inarrestabile attrazione verso i fenomeni dell’unincorporation – nuova zona
franca dal diritto e dai suoi strumenti di controllo – il quadro
si profila alquanto desolante.
La natura stessa degli azionisti, infatti, è profondamente mutata; le strutture istituzionali sono così diverse rispetto a quelle
tradizionali che esigerebbero l’abbandono dei vecchi principi
e la formulazione di regole intrinsecamente innovative, in una
sorta di rinnovato contratto sociale che l'economia globalizzata pretenderebbe – se si vuol riprendere le parole del già citato Rossi.
Ed invece sono le suggestioni dei dati economici a dettare
l’agenda ormai perennemente emergenziale delle sedi di un
potere sempre più tecnico e sempre meno democratico, mentre sempre più flebile diviene la speranza di un ritorno al complesso e prismatico portato di un diritto che non conosce le
sole ragioni dell’economia; di un ritorno, in altri termini, a regole improntate a logiche non meramente economiche – perché il giusto non è semplicemente ciò che è economicamente
conveniente.
Prevale, dunque, un capitalismo che preserva la propria supposta indipendenza anche nel momento dell’autodistruzione.
Ma soprattutto prevalgono gli egoistici abbagli di uno Stato
che sembra proseguire nei medesimi errori di cui fu per contro vittima all’indomani della prima guerra mondiale – e non
è un caso che populismo e sentimenti, questa volta antitedeschi, già paiono diffondersi in un’Europa in preda a governi
sempre più imbelli.
link journal 2/2012
economia e diritto
37
Nel frattempo, non resta che tentare di sopravvivere al rigorismo di questo rinnovato Economia
“fiat justitia, et pereat mundus”.
Magra consolazione; è vero, ma si sa, sono tempi di crisi.
I nostri giovani Fabio Zampini
Uso la fiscalità internazionale
per lo sviluppo delle Aziende
una preparazione di carattere internazionale rappresenta indubbiamente un vantaggio competitivo nei confronti dei
colleghi italiani ed anche stranieri.
Ha avuto difficoltà nell’inserirsi nel mondo del lavoro?
Fabio Zampini si è laureato in Economia (International
Management) a pieni voti. Attualmente lavora in
qualità di Tax Manager presso la Crowe Horwath International.
Direi di no. Grazie ad un progetto in collaborazione tra la
Link Campus University e una delle cd. Big4 (le 4 più grandi
società di revisione contabile) a conclusione della laurea tri
ennale mi è stata offerta la possibilità di uno ‘stage’ di 6
mesi. Ciò ha rappresentato un’ importante opportunità per
entrare subito in contatto con il mondo del lavoro, iniziare
a conoscerne le dinamiche ed a sviluppare contatti. A conclusione della laurea specialistica ho, infatti, iniziato l’attività
di consulenza tributaria proprio con la stessa Big4.
Come interpreta, dal suo osservatorio, l’evoluzione
della crisi economica globale. Mi parli del suo lavoro
e della posizione che occupa.?
Sperimentando sul campo la formazione ricevuta
dalla Link Campus, in che cosa ritiene sia originale?
Diversamente da altre università la Link Campus University
grazie ai suoi piani di studi, alla struttura organizzativa ed
al carattere internazionale permette di completare il proprio
ciclo di studi in modo proficuo e nei tempi prefissati. Approcciare il mercato del lavoro poco dopo i vent’anni e con
La crisi di natura finanziaria scoppiata negli ultimi mesi del
2007, sfociata poi in crisi economica ed industriale, ha investito e continuerà inevitabilmente ad investire la vita di
tutti: famiglie, lavoratori, imprese. I fatti di cronaca nera, il
calo dei consumi, i crolli dei mercati finanziari, i fallimenti
di numerose imprese ne sono gli effetti più evidenti, tanto
più in un Italia che soffre già di per sé di ulteriori problematiche di carattere domestico.
Per risolvere la crisi economica globale si rendono necessarie manovre strategiche e correttive a più livelli (locale,
nazionale e sovrannazionale), in più ambiti (finanziario, economico, fiscale, etc.) e probabilmente, fiducia nella teoria
dei “corsi e ricorsi”.
In qualità di Tax Manager per Crowe Horwath International, società internazionale, presente con 650 uffici in 109
Paesi, specializzata in ambito tributario, diritto e consulenza
del lavoro, legale e societario ed audit , mi occupo di fiscalità
d’impresa prevalentemente per gruppi multinazionali italiani
ed esteri.
38
intelligence e sicurezza
link journal 2/2012
N.A.T.O. / Africa:
une liaison dangereuse
D
opo il ritiro dall'Iraq e quello prossimo dall'Afghanistan, la “vittoria” in Libia sembra aprire nuovi
promettenti teatri operativi per un'alleanza che è vicina ormai ai sessantacinque anni. Non è il caso d'insisterci
troppo perché si è trattato di una prima poco brillante. Politicamente, i BRICS e la Germania si sono opposti con
un'astensione all'operazione, troppi paesi africani sono stati
molto reticenti e solo 9 paesi membri su 28 hanno attivamente
partecipato (uno sotto banco per non irritare l'opinione pubblica), mentre in Afghanistan ci sono tutti.
Militarmente, una volta preso atto che la vittoria c'è stata e
che non vi sono stati morti, né prigionieri portati in parata, al
prezzo di un solo un aereo abbattuto, è opportuno guardare
ai problemi:
1.
una campagna al risparmio, con alleati che si ritiravano man mano che il conto economico cresceva;
2.
una mobilitazione di mezzi ridicolmente bassa per il
compito (2 sortite d'attacco/ora su un territorio immenso
come quello libico; la metà di quelle ritenute necessarie) e per
le spese affrontate nei decenni. I due grandi paesi hanno partorito un topolino (55 aerei d'attacco) che è diventato un coniglio dal cilindro grazie alle fragilità del regime ed al lavoro
di fiancheggiamento sui ribelli, che comunque hanno dimostrato coraggio. Secondo calcoli ufficiali ad agosto la Francia
aveva generato il 33% delle sortite d'attacco, gli USA il 16%,
ed il resto dei paesi resto 10% ciascuno (UK ed Italia incluse,
tranne Danimarca 11%);
3.
una costante dipendenza dal supporto pregiato USA.
L'80% dei voli di sorveglianza e ricognizione ed il 75% dei rifornimenti in volo era a stelle e strisce, più un sostanzioso rifornimento di bombe intelligenti dopo che le scorte europee
si erano esaurite. Dopo decenni di vanto per le loro superiori
spese militari Londra e Parigi dovrebbero tacere e fare sul
serio insieme agli altri europei;
4.
scarsi risultati in termini di capacità acquisite dai paesi
europei anche dopo il solenne vertice di Lisbona in cui si era
adottato un concetto strategico e si erano indicate le 10 capacità essenziali per le quali colmare il divario;
5.
il brutto vizio di aiutare forze jihadiste pur di vincere;
6.
la destabilizzazione postbellica non solo in Libia, ma
anche nel vicino Mali.
Alessandro Politi, Link Campus University
A questo va aggiunto un handicap costituito dalla tenace resistenza africana all'idea di ospitare nel continente l'ormai
noto comando strategico statunitense AFRICOM, responsabile per tutta l'area tranne l'Egitto. Autorizzato nel 2006, attivato nel 2008 ed impiegato per l'operazione Unified Protector
nel 2011, AFRICOM non è riuscito a tutt'oggi ad avere una
sede in teatro. In una partita a scacchi dietro le quinte, ogni
volta che venivano offerti incentivi ad un paese africano minore (Nigeria e Sud Africa si erano subito opposti), Mohammar Gheddafi offriva il doppio sino a quando l'Unione
Africana (UA) non formalizzò il suo rifiuto nel 2008.
Molto più concreto e di basso profilo è stato per diverso l'approccio NATO. Nel 2005 il suo primo impegno è stato d'assistere logisticamente la missione dell'UA in Sudan, una
responsabilità che si è sviluppata ulteriormente in Darfur per
due anni. Due anni dopo, su richiesta dell'UA in merito ad
una cooperazione di lungo termine per la costruzione delle
necessarie capacità di peacekeeping africane, l'Alleanza fornisce supporto logistico e mobilità aeronavale ad AMISOM
(African Union Mission in Somalia). Sempre nel 2007 si comincia a studiare su come valutare e costruire la prontezza
operativa delle brigate della costituenda ASF (African Standby
Force).
Purtroppo l'intervento in Libia ha congelato per il momento
una serie di sviluppi che avrebbero permesso di cambiare la
percezione negativa di molti ed importanti paesi rispetto alla
cooperazione militare con gli Stati Uniti e con i partner atlantici. Per esempio un simposio organizzato proprio sul tema
NATO e cooperazione africana lo scorso 1° marzo 2012
dalla NATO Defense College (NDC) Research Division e dal
link journal 2/2012
intelligence e sicurezza
sudafricano Institute for Security Studies, insieme all'ambasciata norvegese presso Addis Abeba (che è il punto di contatto NATO con l'UA), ha dovuto riscontrare la sistematica
assenza di funzionari d'alto livello dell'Unione Africana. Evidentemente si tratta di una protesta diplomatica legata alla
questione libica. Il problema è che, se non si riesce a trovare
un giusto approccio ai temi ed ai problemi africani, evitando
di essere percepiti come attori neocoloniali, la Cina sarà la
grande potenza che per prima profitterà della situazione. I leader africani sanno molto bene, che, per quanto benvenuto,
l'aiuto cinese non è risolutivo, ma è condizionante: intanto è
stata la Cina a costruire il nuovo QG dell'Unione Africana e
39
questo lascia inevitabilmente una traccia più profonda di altre
dichiarazioni ed azioni. Sulla scia di Pechino si muoveranno
altre due capitali fortemente interessate a ritagliarsi spazi significativi: New Delhi e Brasilia.
Quest'ultima sfrutta, esattamente come la Francia con la Francophonie, la comunità degli stati lusofoni per crearsi nuove
opportunità, insieme all'organizzazione regionale IBSA (India,
Brasile, Sud Africa), mentre Nuova Delhi sta cercando più
presente là dove vi sono le comunità d'emigrati indiani più
numerose e dove vi sono possibilità d'espandere il suo controllo dell'Oceano Indiano, per esempio con partnership sudafricane.
Una nuova frontiera della guerra economica:
lo spionaggio industriale nel cyberspazio
L
o spionaggio industriale e scientifico – ossia la ricerca
informativa occulta tesa all’acquisizione di segreti industriali e proprietà intellettuale da imprese e centri di
ricerca - é un fenomeno in forte espansione in tutto il
mondo. Praticato sia da Stati che da attori non-statali, esso
viene condotto sempre più di frequente nello spazio cibernetico e mediante le nuove tecniche di intrusione informatica
(Computer Network Exploitation). Il fenomeno insidia in
primo luogo la supremazia economica e tecnologica degli
USA, ma costituisce un problema crescente per tutti i paesi
occidentali, e anche per il nostro Paese. Esso va considerato
una minaccia alla sicurezza economica e alla competitività del
sistema-Italia sui mercati internazionali. Si tratta di un attacco
all'economia italiana meno visibile e conosciuto rispetto alla
speculazione finanziaria sui bond, ma altrettanto insidioso.
Obiettivo privilegiato di attacchi spionistici in campo industriale sono le imprese che investono consistenti risorse in
ricerca e sviluppo, soprattutto quelle operanti in settori strategici e high-tech, ma nessun tipo di azienda o settore economico é escluso. In tempi recenti ne sono state vittime anche
colossi come General Motors, Lockheed Martin, Google,
Intel, BAE Systems, Motorola, Northrop Grumman.
Lo spionaggio industriale viene praticato da diversi tipi di attori: 1) imprese che prendono di mira i propri competitors,
spesso avvalendosi di impiegati infedeli di questi ultimi; 2)
strutture private d'intelligence dedite al commercio di inforLuigi Sergio Germani, Link Campus University
mazioni segrete o "sensibili" di ogni specie; 3) servizi d'intelligence di determinati Stati, che mirano ad acquisire all’estero
segreti industriali e scientifici da conferire alle proprie imprese nazionali al fine di potenziarne la competitività e risparmiare ingenti costi di ricerca e sviluppo; 4) organizzazioni
criminali attive nel business della contraffazione; 5) criminali
informatici che agiscono autonomamente o al servizio di uno
o più degli attori sopramenzionati.
I danni inflitti dallo spionaggio industriale alle imprese e
alle economie nazionali sono molto consistenti: i Paesi colpiti
subiscono un calo di competitività internazionale e spesso
la perdita di un grande numero di posti di lavoro. Tuttavia,
tali danni sono difficili da valutare e quantificare in maniera
precisa: essi restano in gran parte “sommersi”. Ciò è dovuto
a diversi fattori. Va sottolineato, in particolare, il fatto che le
imprese vittime di un attacco spionistico (effettuato con strumenti d’intelligence tradizionali o cibernetici) spesso preferiscono non comunicare l’incidente avvenuto alle Forze
dell’Ordine, perché temono ricadute negative sulla propria immagine e reputazione. Inoltre, molte aziende si accorgono di
aver subito un furto di informazioni sensibili soltanto a distanza di anni.
Diversi Stati ravvisano nello spionaggio industriale uno strumento indispensabile di tutela della propria sicurezza economica e di promozione dei propri interessi economici
nazionali. Esso viene praticato, altresì, per acquisire tecnolo-
40
intelligence e sicurezza
gie dual-use utili ai programmi di modernizzazione militare
perseguiti da detti Stati (i confini fra spionaggio industriale e
spionaggio militare spesso sono sfumati).
Pertanto, non sorprende il fatto che nell’ultimo decennio determinati servizi d’intelligence stranieri abbiano notevolmente
intensificato le proprie attività spionistiche tese all’appropriazione di segreti industriali e tecnologici. Per fare ciò, essi mettono in campo diverse metodologie operative, e in particolare
la Humint (fonti umane occulte), la Sigint (intercettazione di
comunicazioni) e, in misura crescente, le nuove tecniche di
intrusione nelle reti informatiche (come, ad esempio, lo spear
phishing, utilizzato unitamente alle tecniche di social engineering).
Il cyberspazio rappresenta un nuovo ambiente operativo per
le attività di intelligence. Esso facilita molto le operazioni di
spionaggio industriale, militare e politico, ne moltiplica l’efficacia, ne abbassa i costi operativi, minimizzando altresì i
rischi che gli autori e l’origine geografica di un attacco possano essere individuati.
Secondo esperti di controintelligence, i servizi informativi
delle potenze emergenti del mondo non-occidentale (Cina,
Russia, India, Iran, e altri paesi) dedicano considerevoli sforzi
all’infiltrazione di industrie e centri
scientifici nei paesi occidentali.
Ma anche alcuni Stati dell’area
filo-occidentale pra no sistematicamente lo spionaggio industriale
nei confronti di altri Paesi occidentali che sono i loro alleati militari. Vari analisti statunitensi
affermano che i Servizi informativi
francesi, israeliani e giapponesi da
anni conducono programmi d’intelligence offensiva nei confronti
delle corporations americane.
Il concetto di “guerra economica”, proposto da alcuni studiosi
per descrivere l’ipercompetizione geoeconomica che caratterizza la nostra epoca, è utile per comprendere la crescente rilevanza del fenomeno dello spionaggio industriale. La fine del
mondo bipolare e il processo di globalizzazione hanno determinato una sempre più intensa competizione fra sistemi-paese
per il controllo di tecnologie-chiave, per la conquista di mercati per i propri prodotti (specie quelli sensibili), e per il controllo di risorse energetiche e altre risorse naturali.
link journal 2/2012
Non a caso, le comunità d’intelligence di quasi tutti i paesi del
mondo hanno via via ampliato i propri compiti in materia
economica. Determinati Stati, poi, hanno scelto di potenziare
lo spionaggio industriale: la componente più offensiva dell’intelligence economica.
I Servizi d’intelligence più agguerriti del mondo nel campo
dello spionaggio industriale sono probabilmente quelli cinesi
e russi. Entrambi stanno sviluppando forti capacità offensive nel campo del cyber-espionage. La Cina e la Russia, che
si considerano concorrenti strategici degli Stati Uniti e dell’Occidente, puntano ad acquisire (tramite l’intelligence) le
più innovative tecnologie occidentali allo scopo di modernizzare le proprie economie e apparati militari.
Tra i target di maggiore interesse vanno menzionati i seguenti: information technologies, telecomunicazioni, nuove
tecnologie in campo energetico, biotecnologie, ingegneria genetica, tecnologie nucleari, nanotecnologie, industria aerospaziale, tecnologie militari, elettronica.
Di fronte al nuovo scenario di minacce sopradescritto si rende
necessario per l’Italia rafforzare una serie di misure strategiche
di contrasto, tra cui:
1) il potenziamento delle attività di
controspionaggio, controingerenza
e tutela della cyber-security nazionale affidate alla comunità d’intelligence italiana; 2) politiche tese a
incentivare le imprese a modernizzare i propri sistemi di gestione
della sicurezza delle informazioni;
3) lo sviluppo di una più stretta
cooperazione tra apparati di sicurezza e settore privato.
In conclusione, va sottolineato che
per rilanciare la crescita dell’economia italiana occorrerà aumentare
in misura consistente il livello d’investimento pubblico e privato in ricerca scientifica e tecnologica. Il nostro Paese dovrà essere sempre più in grado di
rispondere alla domanda di prodotti high-tech nel mercato
internazionale.
Di conseguenza, nei prossimi anni è destinata ad assumere
una rilevanza ancora maggiore la protezione del patrimonio
scientifico, tecnologico e industriale nazionale nei confronti
di attività ostili d’intelligence.
link journal 2/2012
comunicazione
41
Comunicazione
visiva: un'ipotesi
sulla dislessia
U
na visione più ampia della scrittura e della lettura, unita all'esperienza del tutoraggio a studenti dislessici, fa emergere prospettive
interessanti per l'insegnamento, l'apprendimento e la
sua verifica.
Il termine ‘dislessia’ deriva dal greco ed è composto dal
prefisso ‘dys-’ – difficoltà – e dal lemma ‘λ ξις’– discorso, parola, vocabolo –. Denoterebbe, quindi, una
difficoltà legata alle parole. Più precisamente, il gruppo
di lavoro dell’International Dyslexia Association, nel
2000, ha definito questo disturbo evolutivo come «una
disabilità specifica dell’apprendimento di natura neurobiologica, caratterizzata dalla difficoltà a effettuare una
lettura accurata e/o fluente e da abilità scadenti nella scrittura
e nella decodifica. Queste difficoltà derivano da un deficit
nella componente fonologica del linguaggio che è spesso inattesa in rapporto alle abilità cognitive e alla garanzia di un’adeguata istruzione scolastica».
La definizione rinvia, dunque, a una difficoltà di lettura e scrittura dei testi alfabetici e, in particolare, dei testi lineari. Ed è
proprio sulla correlazione tra dislessia e linguaggio verbale
che bisogna riflettere nella misura in cui questa non pregiudica
in alcun modo l’efficacia di altre forme comunicative (la riflessione proposta nel presente articolo è pertinente anche rispetto alla discalculia, la disgrafia e la disortografia, altri
disturbi che spesso si presentano in comorbidità con la dislessia evolutiva).
La storia da un lato e la nostra esperienza quotidiana dall'altro
mostrano che i modi con cui l'uomo utilizza uno spazio grafico non coincidono con la scrittura alfabetica lineare.
La storia del pensiero è ricca di esempi – dal Liber Figurarum
di Gioacchino da Fiore, al Sidereus Nuncius di Galileo, agli
scritti di Leonhard Euler, alla tavola periodica di Mendeleev,
fino ai diagrammi del fisico Richard Feynman –, che indicano
come l'utilizzo di forme non lineari sia stato praticato come
strumento per elaborare e condividere argomentazioni.
Nel corso della nostra vita incontriamo bollette, carte geografiche, libretti illustrativi, quotidiani, tavole periodiche degli elementi, mappe della metropolitana, diagrammi a barre, figure
geometriche, sintesi visive di esperimenti scientifici, etc. Tutte
forme in cui la scrittura è strutturata in modo non lineare e le
parole e le immagini sono integrate senza possibilità di essere
tradotte attraverso l’uso esclusivo di sequenze alfabetiche. Per
questo tipo di scrittura, alcuni studiosi e progettisti (Antonio
Perri, Giovanni Lussu, Luciano Perondi, Leonardo Romei)
propongono di parlare di scrittura sinsemica.
La dislessia emerge in relazione ad una specifica visione della
scrittura e della lettura, che fa da presupposto ad alcune forme
di insegnamento e di verifica del sapere: trasmissione di concetti attraverso le parole dette e le parole lette, verifica attraverso scrittura di parole nella struttura predefinita di un foglio
a righe.
Il legame privilegiato che intercorre tra alcune metodologie
didattiche e il codice verbale ostacola il processo di apprendimento dei ragazzi dislessici perché lo vincola a un’attività di
decodifica dell’informazione grafica, alla sua traduzione in un
termine provvisto di una rappresentazione fonologica e di
un’entrata lessicale e a una rapida comprensione della sintassi
Leonardo Romei, Link Campus University / Chiara Mancini, A.M.P.I.A.
42
comunicazione
logico-verbale. Al contrario, un’attività didattica caratterizzata
dall’adozione di testi sinsemici permette di aumentare la qualità dell’apprendimento di studenti dislessici, che, sovente,
hanno una fruttuosa confidenza con la sintassi visiva.
A dimostrazione di ciò, l’esperienza del Centro Specialistico
per l’Apprendimento A.M.P.I.A. – altri modi per insegnare e
apprendere –. Il tutoraggio a studenti dislessici ha, infatti,
comprovato l’efficacia, in termini di apprendimento e sviluppo armonico dell’intelligenza, di una didattica multisensoriale, incentrata sulle associazioni tra più canali (verbale-visivo,
visivo-uditivo, etc.) e la conseguente integrazione tra comunicazione verbale e comunicazione visiva (schemi, mappe
concettuali, linee del tempo, carte geografiche e immagini
mentali).
link journal 2/2012
Lo studio delle regioni italiane, ad esempio, può essere condotto attraverso l’elaborazione di un testo costituito dall’affiancamento della cartina fisica del territorio e di tante cartine
tematiche quanti sono gli argomenti da trattare: demografia,
clima, economia. Associando, inoltre, a ogni tema un colore
specifico e collegando ogni area tematica con frecce veicolanti
sia l’ordine espositivo, attraverso i numeri, che le connessioni
logiche, attraverso l’uso dei connettivi, si aumenta sensibilmente la qualità della comprensione e si favoriscono, così,
l’elaborazione e il processo di memorizzazione dei concetti.
Ancora, una poesia da memorizzare può essere tradotta in una
sequenza di immagini, eventualmente associate a lettere, e intervallate da alcune parole secondo il modello del rebus (ad es.
la parola ‘colloquiali’ può essere tradotta figurativamente in un
collo cinto dalla lettera ‘Q’ e racchiuso da un paio di ali).
Infine, ogni argomento può essere concettualizzato sotto
forma di mappa così da restituire i nessi logici fondamentali,
spezzare la linearità del testo alfabetico e integrare in modo
sinergico gli elementi verbali e quelli visivi (sotto tale rispetto
risultano preziosi i software informatici).
Se il ricorso alla comunicazione visiva nella fase dell'insegnamento è fondamentale, non si è ancora indagato proficuamente l'ambito della verifica degli apprendimenti per capire
se il testo visivo, oltre a dover caratterizzare la struttura delle
prove di verifica, possa arrivare a contraddistinguere le risposte formulate dagli studenti dislessici.
La ricerca e l’individuazione di metodologie didattiche sinsemiche e polisensoriali sono, pertanto, opportune, posto che:
- la dislessia, come tutti i disturbi specifici dell’apprendimento, è intrinseca all’individuo e, quindi, resta presente per
l’intero corso della sua vita. È bene mirare, così, "all’eliminazione delle conseguenze negative del disturbo" attraverso
forme testuali capaci di farlo (C. Cornoldi,1999, Le difficoltà
di apprendimento a scuola, Bologna, Il Mulino);
- i metodi usati per gli studenti dislessici risultano utili e familiari anche ai normolettori. Dunque, è tanto opportuno
quanto strategico adottare una didattica unica e inclusiva per
l’intero gruppo classe;
- la sinergia tra forme comunicative restituisce la complessità
del mondo esterno e delle competenze affinate dal genere
umano.
link journal 2/2012
comunicazione
43
I nostri giovani - Comunicazione
Giulia Mizzoni
Prima donna Link
in Champions League
Giulia Mizzoni laureanda in Comunicazione (Communication Managment), lavora come giornalista presso la
redazione di Sky Sport24.
Ritiene che gli studi effettuati presso la Link Campus
l’abbiano agevolata nella sua professione?
Sono diverse le peculiarità che distinguono la Link Campus
dalle altre Università presenti in Italia. Innanzitutto lo studio
della lingua straniera che, se non si ha la possibilità di andare
all’estero, raramente è davvero utile, studiata alle medie o al
liceo. Per quanto riguarda la mia personale esperienza, frequentando la Link ho avuto subito la netta sensazione che
ciò che studiavo, si sarebbe rivelato prezioso una volta uscita
da qui (aspetto, questo, che purtroppo manca quasi totalmente in altre università). Il valore professionale e umano
dei nostri docenti, contribuisce a mantenere vivo l’interesse
per ciò che si studia anche con esperimenti pratici, che
vanno oltre il libro e gli appunti e, soprattutto, ove ci siano
volontà e capacità da parte dello studente, si instaurano rapporti di reciproca stima che, a volte, possono aprire orizzonti molto interessanti anche in ambito professionale.
A me è accaduto esattamente questo. Parlando e confrontandomi con alcuni docenti, ho visto in loro le persone
adatte per accompagnarmi in un percorso che andasse
anche oltre quello didattico, e probabilmente loro hanno
scoperto di avere di fronte un’alunna che non voleva limitarsi a seguire la lezione, studiare e dare l’esame, ma che
aveva interesse ad incarnare quello che dovrebbe essere il
vero scopo dell’Università: prepararci a ciò che c’è fuori, in
base alle inclinazioni, le passioni e le competenze che man
mano ci accorgiamo di avere.
Ha avuto difficoltà nell’inserirsi nel mondo del lavoro?
Partendo dal presupposto che ad oggi, per la nostra generazione, aspirare al posto fisso o ad un contratto a tempo
indeterminato è praticamente un'utopia, credo di potermi
ritenere molto fortunata rispettto ai miei coetanei per essere
riuscita ad intraprendere un percorso professionale che corrisponde esattamente agli obiettivi che mi ero prefissata. Va
detto però, che per riuscirci ho sacrificato molto della mia
vita privata, iniziando molto presto la mia sacrosanta gavetta
(avevo 19 anni) insistendo fino ai 25 anni per raggiungere
un posto di lavoro degno di questo nome.
Dal suo osservatorio, come giudica il mondo dell'informazione. Descriva, se possibile, il suo ruolo e come ha
raggiunto la posizione che occupa?
Quello dell'informazione è un mondo variegato che nell'era
dei nuovi media consente a tutti, ovunque e con qualsiasi
mezzo di comunicazione, non solo di accedere ad una notizia,
ma di divulgarla. Questo è forse il motivo della crisi che in
Italia in particolare sta vicvendo la carta stampata, di pari
passo con la diffusione a macchia d'olio dell'informazione on
line (rapida e spesso gratuita) e radiotelevisiva. Da qui la mia
scelta professionale, quella di proiettarmi verso radio e tv,
mezzi d'informazione col dono dell'immediatezza, prerogativa fondamentale in un mondo che vive di news. Il nostro
ruolo, quello di chi "produce" informazione e quindi notizie,
non è più quello dei grandi giornalisti di un tempo, quelli dei
grandi quotidiani, quelli che ognuno di noi ricorda con rispetto e riverenza. In radio, così come in tv (e forse è questa
la vera differenza con la carta stampata), il rapporto con chi
ascolta e guarda è inevitabilmente più diretto... si entra nelle
case e nel quotidiano delle persone, nel tentativo di guadagnarsi il loro rispetto e, soprattutto, credibilità. Tutto, nel
mondo dell'informazione attuale, vive su quel sottile legame
che si instaura tra chi "fa" informazione e chi quell'informazione la riceve, e in quel momento fa poca differenza che l'oggetto sia la crisi finanziaria o i gol di Messi nella partita del
Barcellona. Rompere quel filo, a mio avviso, significa defraudare il nostro ruolo di gran parte del proprio valore. Credo
sia questo l'aspetto più affascinante e al contempo "rischioso"
che ho scoperto nel corso della mia esperienza professionale.
44
ambiente
Protezione civile
Previsione e prevenzione:
due aspetti fondamentali per la sicurezza
A
stimolare in modo definitivo il
legislatore sulla necessità di
dare al nostro Paese un servizio
efficiente e moderno di protezione civile sono state soprattutto le grandi catastrofi che nel secondo dopoguerra:
nell’ordine, Polesine, Vajont, Firenze,
Belice, Friuli, Campania-Basilicata sono
state le lezioni, durissime, che una nazione che voleva dirsi moderna dovette
subire prima di poter ingaggiare una
rinnovata responsabilità nei confronti
del rischi, sia quelli di origine naturale,
sia quelli in cui la mano dell’uomo ha
fatto la sua parte.
Trenta anni fa, nel 1982, nasceva dunque il Dipartimento della Protezione civile come articolazione della Presidenza
del Consiglio dei Ministri; dieci anni
dopo veniva approvata la prima legge
organica di protezione civile, la legge
24.2.1992 n. 225.
A venti anni da quella legge, è in corso
proprio in questo periodo una riflessione a carattere complessivo sul settore, anche a seguito delle modifiche
costituzionali che all’inizio del terzo
millennio hanno ampliato lo scenario
dei protagonisti della protezione civile,
coinvolgendo a tutto tondo le regioni e
gli enti locali, e facendo tesoro del nuovo
originalissimo contributo offerto dal diffuso fenomeno del volontariato di protezione civile.
Il servizio nazionale della protezione civile è oggi un sistema complesso di attribuzioni e di funzioni e soggetti. Lo
schema di articolazioni organizzative disegnato attualmente dalla norma, da un
lato ha riguardo all'assetto istituzionale e
politico amministrativo, nel suo comGiuseppe Zamberletti, Presidente ISPRO
plesso, del nostro Paese; dall'altro alla
normativa specifica di settore, e segnatamente quella inerente la funzione e il
ruolo di ciascuno dei soggetti che costituiscono detto servizio.
Sul piano istituzionale e delle attribuzioni, nell'attuale assetto organizzativo
della P.C. le cosiddette competenze statali di coordinamento fanno oggi capo al
Presidente del Consiglio, che può tuttavia delegarne la funzione a un Ministro,
mentre al livello territoriale, non meno
importante, il comune è il centro propulsore delle attività quotidiane, sotto la responsabilità del sindaco, il quale non può
abdicare né politicamente né amministrativamente alla funzione di autorità locale di protezione civile quand'anche
abbia delegato un assessore a svolgere
per suo conto le pratiche amministrative
necessarie. Con l'applicazione reale del
principi di sussidiarietà, adeguatezza e
differenziazione al nostro sistema Costituzionale, la protezione civile è oggi materia di legislazione concorrente. Ciò
significa in pratica che in questo campo
le regioni legiferano per competenza diretta, e una volta fissati da parte dello
Stato alcuni principi di carattere generale
validi per tutti, sono le regioni a tracciare
la strada normativa dei vari settori.
Sul piano operativo, il servizio nazionale
si fonda su alcuni questi pilastri che rappresentano le diverse attività normalmente in gioco. Per quanto riguarda la
gestione emergenziale strettamente intesa, dopo anni di rodaggio possiamo ritenere che l’Italia non abbia più molto da
imparare, ma si tratti semmai di modulare e affinare i diversi protocolli di intervento per assicurare lo stesso livello di
efficienza su ogni tipo di emergenza e as-
link journal 2/2012
ambiente
sicurarci una capacità di tenuta in efficienza sul piano qualiquantitativo delle risorse in campo, soprattutto da quando è venuto meno il contributo possente che fino a qualche anno ci
veniva assicurato dalle Forze Armate che venivano aggregate
alla catena di comando della protezione civile.
Dove si può e si deve fare ancora molto è l’ambito della previsione e della prevenzione, due attività fondamentali che noi
italiani siamo stati fra i primi a concepire normativamente
come “connaturate” alla protezione civile, ma nelle quali, tuttavia, la differenziazione di competenze esistente soprattutto
a livello regionale e locale, e il continuo progredire della ricerca, della tecnologia e delle comunicazioni possono ancora
fare la differenza.
Esistono rischi che possiamo definire “giovani”, che ancora
non sono stati sufficientemente esplorati, soprattutto nel
campo ambientale e dell’energia, ma non dobbiamo scordare
che anche nell’ambito dei rischi maggiori e più conosciuti,
come il sismico o l’idrogeologico, scienza e sistema di prevenzione devono il più possibile camminare di pari passo. Ad
esempio, se nell’ambito del rischio sismico occorre riconoscere che negli ultimi anni si è spinto con una certa forza,
anche normativamente, sul pedale della riduzione della vulnerabilità dell’edilizia, occorre riconoscere come necessaria
una maggiore incisività nello studio e nell’analisi del fenomeno dei precursori sismici, sul quale lo stato dell’arte non
ha registrato grandi passi avanti nell’ultimo periodo.
Ma è sul piano dell’enorme progresso tecnologico e della comunicazione che in termini di prevenzione è possibile garantire un forte e rapido salto di qualità. Le potenzialità offerte
oggi dalla rete e dal digitale in tutte le sue forme, ci garantiscono la possibilità di raggiungere quote sempre più ampie di
popolazione non solo per informarla tempestivamente sui pericoli, ma anche per consentirne la partecipazione alle scelte
di pianificazione locale ai fini del raggiungimento degli obiettivi di salvaguardia delle persone e dei beni.
Sul piano operativo e realizzativo, non si possono tralasciare
tuttavia i limiti che attualmente sono imposti ovunque dai
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meccanismi della spesa pubblica. Ciò pone spesso le amministrazioni territoriali, alle quali è assegnata oggi la gran parte
delle responsabilità di protezione dei cittadini, in condizioni
operative oggettivamente difficili. La forza principale per favorire la migliore resilienza delle comunità a rischio, deve perciò essere espressa in massima parte dal territorio stesso,
attraverso una sempre maggiore formazione degli amministratori locali sui temi della protezione civile, e un sempre
maggior coinvolgimento di un volontariato di protezione civile locale, formato e appassionato. Ed è importantissimo che
i volontari di oggi non siano concepiti solo come forza di intervento in emergenza: essi, anche alla luce degli sviluppi della
situazione attuale del Paese, devono diventare i protagonisti
della prevenzione territoriale in aiuto ai sindaci che sono le
autorità comunali, quali a causa dei problemi della finanza
pubblica vedono oggi fortemente limitata la propria capacità
di intervento sul territorio.
La presenza costante, assidua ed esperta di bravi e formati
operatori professionali e volontari nei singoli comuni così
come nelle diverse possibili forme di associazionismo tra enti,
oltre ad esser di validissimo supporto ai sindaci, aiuta a diffondere quella cultura della prevenzione che dovrebbe essere
propria di ogni stato moderno e avanzato, e consente di “leggere” quotidianamente il territorio, di segnalare le situazioni
di potenziale pericolo per evitare conseguenze disastrose facendo la dovuta pressione ove necessario sulle autorità locali.
In una parola, se il sindaco è riconosciuto oggi dalla legge
come autorità di protezione civile, allora deve poter garantirsi
e garantire, assieme ai collaboratori, agli operatori pubblici e
privati e ai volontari, degli appropriati percorsi di formazione.
Per questo appare utile implementare la presenza sul territorio
di professionalità specifiche capaci di interpretare il settore
della protezione civile con la giusta mentalità interdisciplinare,
contribuendo alla crescita dei sistemi locali, per poter valorizzare al massimo livello le potenzialità della funzione di coordinamento, sulla quale si basa la filosofia della protezione
civile italiana a tutti i livelli.
università
46
link journal 2/2012
La scommessa del futuro:
costruire un’Università che sappia
interagire tra società e impresa
Università
Deve assolvere
a compiti
anche molto
diversificati,
con paradigmi
scientifici molto
meno unitari
che in passato.
L
e strategie per l’Università di oggi e di domani debbono partire dalla consapevolezza di dover superare l’idea fondativa
ricevuta dalla tradizione, quanto mai ricca e
preziosa (basti pensare alla nascita medievale,
tutta italiana, dell’ istituzione e al contributo dato
al progredire della civiltà europea). Talvolta accade tuttavia che il modo migliore per conservare l’eredità di un passato glorioso consiste
nell’aprirla al nuovo.
L’Università della tradizione – soprattutto quella
che vien detta “humboldtiana” – era, per così
dire, mono-funzionale, assolveva cioè ad un
unico compito: formare, sulla base di un
modello fortemente unitario di sapere scientifico, un’ èlite ristretta e socialmente omogenea. Era un’Università che, nata dal basso, si era
poi assestata nel segno della statualità, per quel
rapporto di esclusività tra Stato e saperi che si
è realizzato con la nascita stessa dello Stato
moderno e che è venuto poi esaltandosi nella
lunga stagione del dominio idealistico.
L’Università che oggi i Paesi avanzati vanno
costruendo è invece “polifunzionale”. Giocando
con le parole, si è scritto che stiamo assistendo alla trasformazione dell’Università - il cui
etimo, ad unum vertere, esprime l’antica aspirazione all’unitarietà del sapere - in Multiversità.
Essa deve assolvere cioè a compiti anche molto
diversificati, con paradigmi scientifici molto
meno unitari che in passato. Deve continuare a
formare èlite, produrre senza sosta nuova ricerca
e nuove idee, ma deve anche formare milioni
(sono questi i numeri) di operatori nei diversi
rami della conoscenza, bisognosi di accedere a
culture di tipo superiore per svolgere adeguatamente compiti vitali per la sopravvivenza delle
società contemporanee: essi non sono propriamente èlite - il loro numero, a tacer d’altro, lo im-
Ortensio Zecchino, Fondazione Link Campus University
pedisce - ma hanno tuttavia bisogno di una formazione superiore che solo l’Università è in
grado di assicurare.
La prima conferenza mondiale dell’UNESCO
sull’insegnamento superiore (Parigi, Ottobre
1998) ha fissato in proposito precisi obbiettivi: la
società della conoscenza deve rendere obbligatoria la formazione di livello universitario, così
come nella prima società industriale fu resa obbligatoria la scuola elementare e in quella postindustriale la scuola media.
Da qui la scommessa per il futuro prossimo:
costruire un’Università con moduli diversi e tra
loro collegabili.
Nell’accelerata dinamica della conoscenza, l’Università deve inoltre superare la logica della formazione concentrata una tantum in una ben
definita fase della vita, per realizzare invece moduli capaci di assicurare una formazione continua
lungo tutto l’arco della stessa.
Spezzato ormai il rapporto di esclusività tra Stato
e saperi, il nostro tempo rende destinataria primaria di questi ultimi la società. L’autonomia universitaria, sancita dalla nostra Costituzione come
riconoscimento di un ordinamento originario,
riceve così una potente spinta alla sua piena attuazione dalla forza del contesto storico. In particolare l’autonomia didattica, entro i limiti di una
tenue cornice, diventa la condizione per raccordare flessibilmente l’Università alla società e al
mondo produttivo.
Da più parti si è levato l’invito all’abolizione del
valore legale dei titoli di studio per costruire su
questa tabula rasa il nuovo edificio.
Su un tale intervento che, in tempi di deregulation, viene sempre più spesso invocato come
risolutore dei mali del nostro sistema formativo,
occorre qualche realistica considerazione. Porre
il problema del valore legale del titolo in termini
link journal 2/2012
università
generali non aiuta molto e relega il dibattito in una sfera ideologica. Non si può infatti teorizzare che nessun titolo possa
avere un qualche valore legale né, al contrario, che ogni attività
formativa e professionale debba richiedere un titolo di studio.
L’approccio al tema deve essere necessariamente empirico e
specifico anche alla luce del dettato costituzionale (art. 33: “E’
prescritto un esame di Stato per
l’ammissione ai vari ordini e
gradi di scuola o per la conclusione di essi e per l’abilitazione
all’esercizio professionale”).
Nel nostro ordinamento, non diversamente da quanto avviene in
altri Paesi europei, al titolo di
studio si connettono dunque
taluni imprescindibili effetti
specifici. Solo il di più dovrebbe
essere oggetto di auspicabili interventi di liberalizzazione.
Ma una spinta forte in questa direzione deve esser data dall’autonomia
didattica
che,
consentendo alle Università di
organizzare i corsi di studio con
soluzioni e modalità anche
molto diversificate, creerà di
fatto le condizioni per una progressiva svalutazione dei titoli.
Essi, infatti, non avranno un
identico valore, perché a differenza del passato, non certificheranno più un percorso
formativo uniforme.
Tutto ciò è destinato a ridimensionare sempre più nei fatti il valore legale, dando invece peso
crescente allo specifico curriculum personale. Non a caso nel
quadro della nuova organizzazione degli studi nel nostro
Paese le Università sono obbligate a rilasciare “come supplemento al diploma di ogni titolo
di studio, un certificato che riporta, secondo modelli con-
47
formi a quelli adottati dai paesi europei le principali indicazioni relative al curriculum specifico seguito dallo studente
per conseguire il titolo” (art. II, c.8,D.M.509/99).
Il punto politicamente delicato è, non solo in Italia, quello di comporre
in un ragionevole equilibrio le esigenze di “ controllo-qualità” con quella
di autonomia dei processi formativi.
LCU e Privilege: accordo
per la promozione di atttività
di ricerca e formazione manageriale
A
Civitavecchia l’eccellenza è di casa. Il Cantiere Privilege Yard, inaugurato nel 2008 e attivo nel porto
locale, è in grande espansione: nella romana Centumcellae, porto di grandi marinai e della sambuca, si producono, ora, anche imbarcazioni da sogno!
La Privilege è un’azienda italiana che ha optato per l’Italia
e per gli italiani, invece di decentrare la produzione in Paesi
con un più basso costo della manodopera. Scelta in controtendenza, giustificata dal fatto che, sulla qualità, non si
fa economia a beneficio del Paese.
Il Cantiere, totalmente privato e di proprietà dei manager,
nonostante la fase di stagnazione dell’economia italiana,
offre lavoro a molti tecnici, operai, artigiani e ingegneri, e
può contare sull’espansione delle molteplici aziende partner. Questa iniziativa, per le caratteristiche imprenditoriali
e per la prospettiva occupazionale, ha avuto il conforto del
mondo istituzionale, sia locale che nazionale.
Secondo il dott. Antonio Battista, responsabile amministrativo Privilege Yard S.p.A., e membro del Consiglio di
La Privilege Yard ha avviato due iniziative di cooperazione con alcune Università italiane:
La prima riguarda il reclutamento di giovani ingegneri
navali, attraverso un accordo con le Università italiane
di Genova, Napoli e Trieste dove è attivo un corsocorso di Ingegneria Navale. Il Cantiere accoglierà in
stage operativi un certo numero di laureandi e i migliori, una volta laureati, potranno essere inseriti nell’organico del Cantiere.
La seconda riguarda un accordo con Link Campus
University, per la promozione di un attività di ricerca
scientifica e di alta formazione internazionale (Master
di primo e di secondo livello), nell’area degli studi gestionali applicati all’ “area” del trasporto marittimo e,,
specificamente, dei porti. La stimolo da parte di Privilege alla creazione di un centro universitario per
tutta l’area del Mediterraneo, a ciò dedicato, vuole
contribuire all’impegno delle autorità pubbliche, nazionali e locali, per la crescita e il consolidamento di
un “polo” marittimo mediterraneo. La Link Campus
sta definendo, insieme ad altre Università, il progetto
con l’obiettivo finale di una Laurea Magistrale, nelle
diverse lingue dei Paesi del Sud del Mediterraneo.
Amministrazione:
“Se la politica si è interessata a noi, è proprio perché ha visto che
questa operazione avrebbe potuto portare molta occupazione. Noi
vogliamo (e lo stiamo già facendo) impiegare personale soprattutto locale, di Civitavecchia. Attualmente diamo lavoro a circa 500 persone.
Quando raggiungeremo il pieno regime, anche con la costruzione della
seconda nave, arriveremo ad almeno 800 unità; se, come riteniamo,
andrà in ‘porto’ la costruzione di una terza nave, supereremo ampiamente le mille unità.”.
“C’è una parola per descrivere la filosofia con cui Privilege progetta
le sue imbarcazioni: l’eccellenza. La nostra fascia di mercato è, ovviamente, limitata, ma internazionalmente consolidata. In questo
campo o sei il primo al mondo, oppure è inutile competere. Nel campo
dell’eccellenza, il ‘made in Italy’ è l’unico modo per poter restare sul
mercato. Da ciò proviene tutta una maniera di lavorare, basata sulla
ricerca continua per migliorare, per essere sempre i primi nel settore,
sia dal punto di vista estetico che tecnologico”.
Indro Montanelli, decano del giornalismo italiano, sosteneva che noi del Belpaese saremmo sempre stati i migliori
nei mestieri creativi; in quei mestieri dove fantasia e arte
s’incontrano a formare un autentico capolavoro, sia esso
una delicatezza culinaria, un capo d’alta moda o appunto,
un sogno che galleggia.
A dispetto della realtà economico-finanziaria nazionale e
mondiale, il nostro talento, la nostra creatività e la nostra
voglia di fare non conoscono crisi.
Entro fine anno sarà completata la P430, uno yacht dalla meccanica
superba, arredato da hotel extra-lusso e con la prerogativa di essere terzo
al mondo per grandezza. Ma non per molto, a quanto pare.
Il 26 maggio prossimo sarà infatti presentata, con tutta la cerimonia di
benedizione della chiglia, laP450.
Nei suoi 136 metri di lunghezza, contro i 127 della sorella minore, la
P450 accoglierà 12 suite e veri appartamenti privati, da fare invidia ai
più lussuosi hotel, un centro conferenze, una discoteca e l’immancabile
centro benessere da oltre 500 mq.
Sulle navi della flotta Privilege si mangia in sale da pranzo giroscopiche
e panoramiche, si prende la tintarella su terrazze estraibili a picco sul
mare. Chi vuole, può lasciarsi catturare dai misteri del mondo sommerso,
comodamente dai sofà di un salotto con vista subacquea; per i più avventurosi ed esigenti è previsto un sottomarino incorporato.
Insomma, non manca proprio nulla in queste meraviglie galleggianti,
tutte italiane, gioielli tecnologici congegnati per navigare in totale sicurezza. Bellezza sì, ma senza trascurare la protezione dei viaggiatori: i
sistemi tecnici su cui possono contare le navi Privilege, comprendono due
sale per generare corrente elettrica, del tutto indipendenti e non allagabili.
Oltre alla carena rompighiaccio, questi yacht possono contare sul sistema
Safe return to port, che in caso di avaria conduce la nave al porto più
vicino. Senza alcun intervento da parte dell’equipaggio.
Lavoriamo per migliorare le capacità di governo, aumentare la sostenibilità
ambientale delle scelte, il rispetto dei diritti e delle pari opportunità.
Siamo nei molti “Mezzogiorni”, nelle aree di conflitto e in quelle di crisi
ambientale, per riorganizzare la normalità del “giorno dopo”.
Cerchiamo risposte insieme, aiutiamo a far da sé.
Siamo “SHERPA”, accompagniamo lo sviluppo
SudgestAid S.c.a.r.l. - Via Nomentana, 335 - 00162 Roma
Tel. +39 06 982641 - Fax +39 06 98264150 Email: [email protected] -www.sudgestaid.it
Focus
Focus - ‘Giovani: un piano straordinario per la conquista della felicità’
A colloquio con Edgar Morin
articoli di: M. Bucchi, N. Ferrigni, L.J. Garay, S. Lazzari Celli,
G. Lo Russo, P. Madotto, M. Pistone, A. Suraci, F. Zille
52
giovani
link journal 2/2012
studiato il “pensiero complesso”.
La nostra chiacchierata, come da lui richiesto,
spazia al di là dell’oggetto specifico. Introduco il
nostro dialogo intorno ai giovani riflettendo sul
tema della complessità che, a ben guardare, può
fare paura. Morin sostiene che “la complessità fa
paura perché le menti sono formate ad alcuni dogmi dell’educazione. Il sapere specialistico, ancora oggi, è il sapere
pertinente. Si pensa che fuori dalla conoscenza specialistica
vi siano solo parole vuote, come il peggiore giornalismo”,
dice con seria ironia.
Continua: “Si pensa che non ci sia nulla di pertinente
al di fuori del sapere specialistico. Si devono cercare elementi del sapere complesso nei diversi campi specialistici,
“Ci vuole molto tempo a diventare giovani,
molto meno a diventare vecchi”
I
ncontro Edgar Morin, sabato 21 aprile, in un
hotel del centro di Milano. Il sociologo e
filosofo francese è in Italia per presentare il
suo ultimo libro, “La via. Per l’avvenire dell’umanità” (Raffaello Cortina, 2012).
Il giorno precedente, al Piccolo Teatro, l’ho ascoltato parlare del suo libro e l’ho visto incontrare
persone che, dice, “mi hanno commosso”, per avere
colto nelle sue parole una luce di speranza.
Mi accoglie, novantuno anni portati alla grande,
un sorriso sincero che esprime una profonda
voglia di amicizia e di dialogo. Morin appare come
un uomo modesto e di grandi passioni, prima di
tutto per la condizione umana. Egli è soprattutto,
com’è scritto nel suo libro, una delle figure più
prestigiose della cultura contemporanea, un pensatore transdisciplinare e indisciplinato, universalmente conosciuto per avere introdotto e
Marco Emanuele, Link Campus University
Edgar Morin
È un filosofo e sociologo
francese che ha dedicato
gran parte della sua
opera ai problemi
di una “riforma
del pensiero” ponendo
alla base delle sue
riflessioni sull'umanità
e sul mondo, la necessità
di una nuova
conoscenza che superi
la separazione
dei saperi e che sia
capace di educare
gli educatori
ad un pensiero
della complessità
che sono chiusi. Una ulteriore difficoltà è che ci sono resistenze della mente al sapere complesso e la chiusura delle
conoscenze specialistiche fortifica le resistenze della mente”.
“Ma”, prosegue, “in tutte le società ci sono sia le convinzioni culturali generali, che sono le più diffuse e consolidate, e piccole minoranze che pensano che il sapere
parcellizzato non conviene; queste minoranze hanno aspirazioni profonde. Incontro persone che sono commosse
per le mie idee perché, avendo delle aspirazioni più o meno
coscienti, attraverso le mie idee riescono a tirarle fuori;
questa è la mia esperienza personale”.
Morin ricorda: “Quando ero giovane, autori come Dostoevskij o Tolstoj mi hanno rivelato la mia verità, che era
oscura ed incosciente e che, attraverso di loro, è diventata cosciente”.
Qui, mi permetto l’inciso, c’è il primo grande
messaggio per i giovani: cercate i Maestri, per
link journal 2/2012
giovani
scoprire la vostra verità profonda, per fare quella che Morin
chiama “rivelazione”; i grandi cambiamenti della storia, dice
Morin, sono sempre partiti da minoranze.
Ancora Morin: “Oggi dobbiamo prendere coscienza della complessità
della globalizzazione della natura umana, dell’essere umano; nessun insegnamento nelle università va in questa direzione, questo è disperso.
Dobbiamo introdurre questo tema nell’educazione; nel mio libro “I
sette saperi necessari all’educazione del futuro” cerco di dire
questo. Non basta dire che dobbiamo fare la connessione fra i saperi,
pur credendo nell’approccio dialogico; dobbiamo rompere con il pensiero
lineare, ci vuole una educazione pertinente”.
Con realismo, Morin dice: “Le persone sono condannate a idee generali, le più vuote; ogni persona ha opinioni su tutti i grandi problemi
della vita ma queste opinioni rischiano di essere vuote perché il sapere è
parcellizzato. Questa è la situazione”.
Ricordo a Morin che, durante
la presentazione del libro, egli
ha sostenuto con forza che occorre coniugare ragione e passione; gli dico che questo può
essere un altro straordinario
messaggio per i giovani, per
tendere alla felicità, per non
farsi vincere dalle paure che
percorrono il mondo.
Replica Morin: “La situazione
dei giovani non è unicamente di
paura ma di visione immediata della
vita perché, ad esempio, essi fanno
gli studi pensando unicamente al
successo nel lavoro. La realtà del
destino personale spesso impedisce di vedere le cose nella loro profondità
ed importanza. Ma nella vita succedono cose inattese”, continua
schioccando le dita, “un evento piccolo che fa da detonatore come nel
maggio ’68 in Francia. Questo sveglia le aspirazioni”.
“L’adolescenza”, dice, “non è unicamente una nozione biologico ma
bio-sociologica. Nell’adolescenza la persona non vive più nel mondo della
protezione familiare e non è ancora integrata nella vita civile della società;
in quella età si sviluppano la coscienza e la volontà di capire, maturando
le aspirazioni fondamentali della vita, contemporaneamente a più comunità e a più autonomia; ciò, pur apparendo contraddittorio, viaggia insieme”.
Ed ancora: “Tutte le aspirazioni si manifestano. In passato c’erano
53
piccoli gruppi rivoluzionari, comunisti, trozkisti, maoisti, anarchici che
dicevano ai giovani, “noi siamo in grado di realizzare concretamente le
tue aspirazioni”. Queste idee, per un adolescente, rappresentavano la
soluzione, la salvezza. Oggi tutto questo non c’è più e il problema-pericolo, ad esempio in Francia, lo vediamo anche nel fatto che molte famiglie
operaie di tradizione di sinistra si affidano politicamente a Marine Le
Pen perché quel movimento dice ai francesi che loro avranno, e non gli
stranieri, la possibilità di guadagnarsi la vita. La questione è dire ai
giovani che le loro aspirazioni sono giuste e che vanno perseguite. Oggi,
invece, passa il messaggio che l’utopia è accettare la rassegnazione alla
vita burocratizzata e asservita. Bisogna riconoscere la validità di queste
aspirazioni. Bisogna dimostrare che nei giovani c’è una energia e una
forza grandissima che è emersa, ad esempio nelle primavere arabe; sono
i giovani che avviato quelle profonde trasformazioni”.
Morin ancora ricorda: “Posso dire che la resistenza partigiana in
Francia è stata fatta dai giovani. Io
avevo venti anni e i miei capi ventisei
o ventisette anni. Nell’Ottocento, il
Risorgimento italiano ebbe come motore i giovani”.
Continua: “Questo non basta: in
passato i trozkisti, i maoisti dicevano ai giovani: “noi abbiamo la
via”; oggi non c’è più quella via. Il
problema è la ricostruzione della
possibilità di una via e questa è una
grande difficoltà. Oggi l’idea di
metamorfosi è l’idea pertinente per
l’alternativa alla rivoluzione. La
rivoluzione, infatti, o è impossibile
o, come quella bolscevica, è sbagliata.
L’idea di eliminare il passato è
sbagliata, abbiamo bisogno del passato; abbiamo bisogno di ritrovare sia
i grandi pensatori del passato che le buone pratiche, ad esempio, della
società contadina. In questo momento c’è la possibilità di resuscitare la
speranza. Non possiamo rassegnarci”.
In tutto questo, chiedo a Morin, quale strada deve intraprendere l’università e, più in generale, la formazione?
“E’ necessaria una metamorfosi dell’università. Essa, per missione, deve
riprendere tutte le acquisizioni culturali del passato, integrarle nel presente per tracciare le linee del futuro.
L’università ha un ruolo di continuità trans-storica. Oggi l’università
deve porsi sul piano della meta-disciplinarietà, con l’introduzione di temi
fondamentali come la complessità dell’essere umano, la conoscenza della
54
giovani
conoscenza, l’incertezza della vita; elementi fondamentali per il “nuovo
insegnamento”, che permettono di integrare le peculiarità di tutte le discipline e di continuare l’approfondimento delle discipline particolari.
Bisogna superare l’approccio tradizionale che, ad esempio in molte tesi
di laurea, parte da un oggetto e ne fa un’analisi limitata e chiusa.
L’oggetto, in realtà, supera l’oggetto stesso perché è in connessione con
l’ambiente e lo si può capire unicamente con il contesto. Non importa
quale sia l’oggetto della tesi, la questione è aprire l’oggetto per capire
l’oggetto stesso. Questo cambiamento di mentalità è importantissimo”.
E conclude: “La metamorfosi della formazione è una necessità profonda, non solo per l’università. Questo processo è più semplice nella
scuola primaria, dove il maestro è poli-competente; i professori delle scuole
secondarie e dell’università hanno maggiori difficoltà, laddove hanno
paura di perdere la sovranità sul loro insegnamento specialistico”.
La vita di Edgar Morin è continua testimonianza e anche
questo breve documento lo dimostra.
Uomo che non si stanca di ricordarci l’importanza di essere
cittadini planetari, ancora combatte. C’è un passaggio cruciale,
nel suo ultimo libro, che riassume il suo impegno di oggi: “La
gigantesca crisi planetaria è la crisi dell’umanità che non giunge ad accedere all’umanità”.
Ci lasciamo e Morin vuole regalarmi una massima a lui cara:
“Ricorda”, mi dice, “ci vuole molto tempo a diventare
giovani, molto meno a diventare vecchi”.
Opera di Josef Alberts - Omaggio a Edgar Morin
Un particolare ringraziamento al caro amico Mauro Ceruti
link journal 2/2012
R
esuscitiamo la speranza! Questo è il passaggio decisivo del giovane-vecchio Edgar Morin alla presentazione della sua ultima fatica a Milano, venerdì 20 aprile.
Trovare una via per l’avvenire dell’umanità è questione
necessaria, oltre che urgente. Una breve cronaca di quel
pomeriggio: più di cento persone rapite dalle parole di un
uomo che porta soltanto la forza delle sue idee, che ha
visto i drammi e le straordinarie evoluzioni del Novecento, che ha combattuto per la libertà e che, da molti decenni, è impegnato in una difficile quanto sfidante ricerca
all’interno della condizione umana.
Morin non esprime vezzi intellettuali, non ha bisogno di
piacere al pubblico; egli propone, provocato dalle considerazioni-domande di Mauro Ceruti (professore ordinario
di filosofia della scienza, suo allievo ed amico), un giro
d’orizzonte su quella che considera la sfida per il terzo
millennio: ritrovare una via, costruire il futuro, non rassegnarsi all’immanenza. Morin percorre le crisi, si diverte,
gesticola, approfondisce: dice che quando tutto è separato
muore la speranza, prima di tutto quella di capire la verità
della realtà, invita i presenti a coniugare ragione e passione, elogia le minoranze e – attraverso uno sguardo veloce sul mondo – richiama le alternative che, nel mondo,
stanno costruendo (ricostruendola) la speranza. Morin
propone una metamorfosi di ciascuno per cambiare la realtà, burocratizzata ed opprimente, lega ogni atto ad un
contesto, spiega che nulla si può capire se non nella interrelazione di ogni cosa nel tutto; complesso, dice, significa interrelato.
Il vecchio Maestro predica la cittadinanza planetaria, dice
che ogni piccola cosa che capita nei nostri territori ha il
respiro del mondo e non possiamo prescinderne. Non è
nostalgico ma, con convinzione, dice che bisogna recuperare le bellezze del passato nel presente per costruire il
futuro.
Nel suo libro parla dei grandi intellettuali che hanno segnato il secolo passato e ricorda Raimon Panikkar, scomparso nel 2010; non ne parla nel corso dell’incontro ma
ci piace ricordarlo come riferimento ad una persona che,
come Morin, ha guardato nel profondo della realtà e della
condizione umana per guardare oltre.
L’oltre di Morin è in ogni altro e in ogni esperienza. È un
uomo sereno, gioioso, giocoso, umile.
link journal 2/2012
U
giovani
55
L'eclissi
di futuro
e gioventù
na possibile chiave di comprensione per la rapida trasformazione della cultura popolare ad esempio in ambiti come il consumo di
pop music - è nel declino di due ‘invenzioni’ culturali molto potenti che nel secolo scorso hanno accompagnato e
sostenuto la crescita e l’ ‘immaginazione’
della cultura pop. La prima invenzione è
un concetto di futuro come frontiera o perfino come “terra
promessa”. E’ questo, come noto, un topos cardine della produzione culturale, soprattutto americana, dello scorso secolo
– uno dei crogiuoli in cui il fenomeno pop si forgia. E’ il domani e il traguardo a portata di mano, è la luce verde che abbaglia il Grande Gatsby, è la Thunder Road che porta
Springsteen dritto fuori dalla città dei perdenti. Da questa materia simbolica l’epoca aurea del pop ha attinto a piene mani,
declinandola nelle forme più varie: spettacolari, intime, arrivistiche, politiche. Gli stessi successi personali dei suoi protagonisti ne costituivano una luccicante metafora. La seconda
invenzione è il concetto di gioventù.
La nozione di un’età distinta dall’infanzia e dall’età adulta è
relativamente recente, e si caratterizza anch’essa nel corso del
Novecento in coincidenza con una serie di mutamenti economici, sociali e demografici. Questi due concetti sono la benzina culturale e simbolica che accende l’esplosione del pop
nella seconda metà del secolo scorso. Essi si si nutrono l’un
altro e l’iconografia pop ne documenta l’intreccio nei modi
più pittoreschi, fin da quando il bacino di Elvis abbagliò
l’America dagli schermi dell’Ed Sullivan Show nel 1956. Prima
ancora che nella sostanza, il pop divenne nella forma identitaria la ‘musica dei giovani’. Il pop erano i giovani e i giovani
erano il futuro, e il futuro aveva i contorni simbolici della geografia americana. “Nell’immaginario di tutti l’America era il
grande paese della giovinezza. In America c’erano i teenager,
altrove solo la gente qualsiasi” spiegò John Lennon nel 1966.
Numerose riflessioni, oggi, mettono in luce come il futuro
stia perdendo rilevanza a fronte di una “ideologia del presente” in cui ci troviamo sempre più immersi. La si ricollega
tra l’altro ai processi di globalizzazione; all’affermazione di
una società in cui l’uso pervasivo e quotidiano della tecnologia
ha ridefinito la stessa dimensione spaziale e temporale – si
pensi alle stesse tecnologie della comunicazione – appiattendo
passato e futuro in un presente esteso e ossessivamente simultaneo. Non è un caso che a risultarne spiazzati siano anche
quei generi letterari – come la fantascienza – cui in passato si
delegava il compito di immaginare limiti e frontiere della
Massimo Bucchi, per gentile concessione del Sole 24Ore
scienza nella società del futuro. Per dirla
con James Ballard, “il futuro sta cessando
di esistere, divorato dall’onnivoro presente.
Questo futuro noi l’abbiamo annesso al
nostro presente, facendone una delle
molteplici alternative a noi offerte (…)
viviamo in un mondo quasi infantile, nel
quale può trovare istantanea soddisfazione
ogni domanda, ogni possibilità, si tratti di
stili di vita, di viaggi, o di ruoli e identità sessuali”. Così, gli
stessi processi sin qui descritti non sono estranei alla crescente
evanescenza della nozione di condizione giovanile. Se media
come la carta stampata, il cinema, il disco si prestavano idealmente alla segregazione dei pubblici – c’erano libri e riviste
per adulti, per giovani e per bambini, c’erano film per ragazzi
e altri vietati ai minori – la televisione prima e soprattutto i
media digitali poi, fondono in modo caratteristico le soglie tra
le diverse fasi di socializzazione.
La ‘miniaturizzazione’ e la diminuzione di costo delle tecnologie, la ‘privatizzazione’ di forme di consumo mediale le svincolano dal contesto familiare e dal controllo degli adulti.
L’unico apparecchio radio, l’unica televisione, il telefono in
corridoio si moltiplicano e si spostano nelle camere e negli
spazi individuali trasformando radicalmente il senso della propria fruizione. Così, il rapporto con la tecnologia è divenuto,
da fatto pubblico celebrato nelle grandi esposizioni universali
tra fine Ottocento e primo Novecento, elemento di condivisione e simbolo di status familiare (si pensi ai primi televisori
o frigoriferi) e infine fatto totalmente privato e individuale (si
pensi alle trasformazioni del telefono dall’epoca del fisso a
quella del mobile, o ai cambiamenti nel consumo di musica
dall’era del juke box a quella dell’Ipod).
Questi e altri mutamenti di portata più profonda erodono la
specificità di un’età giovanile. Da un lato, anticipando sempre
più precocemente comportamenti tipici dell’età adulta, dall’altro esportandone i modelli in età adulta per non dire avanzata: la tendenza a differire l’uscita dalla famiglia d’origine in
una sorta di prolungata fase giovanile, la mimesi giovanilistica,
attraverso l’abbigliamento e la cura del corpo, ormai diffusa
oltre la soglia dei cinquant’anni. Uno sfrangiamento che è simmetrico rispetto a quello del futuro: nel momento in cui diviene generalizzata l’immersione in una perenne condizione
giovanile in cui ogni desiderio è a portata di mano, ogni decisione reversibile come in un gioco virtuale, ogni assunzione
di responsabilità (individuale o collettiva) differibile, la stessa
nozione di età giovanile cessa di esistere in quanto tale come
entità distinta e discreta.
56
giovani
link journal 2/2012
La generazione
che prende in prestito i sogni
I
valori, etici e morali, rappresentano il legame spirituale tra
le vecchie e le giovani generazioni. Dovrebbero costituire
il “testimone” che, arricchito e reso più prezioso da nuovi
e condivisi saperi, le generazioni si passano l’un l’altra per rendere più vivibile il pianeta e più felice l’umanità. In questo,
come dice Edgar Morin nel colloquio pubblicato in questo
numero, le università hanno un fondamentale “ruolo di continuità trans-storica”.
La caduta degli ideali e, con essa, la crisi dei valori che ha contagiato la nostra società e il mondo occidentale in genere,
rischia di generare smarrimento e senso di solitudine nei giovani i quali avvertono la necessità, più di ogni altro, di avere
riferimenti e posizioni ideali certe su cui poter contare, degli
esempi capaci di trasmettere loro le ragioni di vita e i motivi
di speranza in un futuro migliore e meno precario.
E così, come è emerso da un’inchiesta della Commissione Europea su più di quattromila giovani europei, questa è una generazione costretta a “prendere a prestito i sogni di altri”, una
generazione che si nutre di miti, di icone, di modelli culturali
che non gli appartengono. Forse, come hanno osservato i curatori dell’inchiesta, essi non riescono a coglierne nel profondo i messaggi, ma è pur vero che li cercano e se ne
appropriano.
Non tutti i giovani, per fortuna, si fermano: di fronte all’affievolirsi della tensione ideale degli adulti, all’individualismo imperante, al continuo patteggiamento tra interessi
contrastanti… molti di loro reagiscono e si spendono per
risvegliare l’opinione pubblica e il potere politico sui grandi
problemi che rischiano di compromettere per sempre il loro
futuro. Giovani impegnati che, pur con pochi strumenti, tentano di riempire il vuoto della politica e delle istituzioni e si
mobilitano per promuovere incontri, organizzare proteste,
raccogliere firme, combattere per le riforme, condannare la
violazione dei diritti umani.
Pensando a questa generazione di giovani volenterosi viene
spontaneo il desiderio di offrire anche a loro la possibilità di
affidare i propri sogni al pensiero e alla testimonianza di altri
giovani che, pur nella loro breve esistenza, sono stati veri
maestri di vita. Perché è proprio nei periodi di crisi e di disorientamento che i loro messaggi possono far rinascere gli
ideali e la forza per essere protagonisti del proprio futuro.
Farò qui riferimento a due figure che sembrano, più di tante
altre, adatte a prefigurare una via d’uscita dalla crisi delle ideologie e dallo scadimento della politica e che, con il loro impegno e la loro tenacia, hanno scritto pagine di storia degne
di essere lette e assimilate. Due maestri dimenticati, nel corso
degli anni, e non solo dalle pagine dei giornali ma anche dal
dibattito politico.
Il primo Don Lorenzo Milani, un insegnante, un prete, un
uomo che spese la sua vita per educare, per far prendere coscienza ai giovani sulla necessità di essere se stessi e di non
fare compromessi con i propri ideali, rifuggendo da schieramenti preconcetti, ma distinguendo sempre il vero dal falso.
Per Don Milani, infatti, l’educazione rappresentava non solo
il mezzo per affrancare gli emarginati, ma per far sì che tutti
i ragazzi fossero liberi, per far loro acquisire una coscienza
civile e una responsabilità sociale, per renderli padroni del proprio destino, per insegnargli a rifuggire dalla mediocrità e a
non svendere la propria vita, per prendere a cuore i bisogni
degli altri: I care, perché nella scuola, nell’università, sul lavoro
è necessario appassionarsi, interessarsi, spendersi. “Bisogna
sporcarsi le mani e affrontare la politica”, diceva, sapendo dis-
Stefania Lazzari Celli, Segretario Generale Fondazione Link Campus University
link journal 2/2012
giovani
tinguere il bene dal male ma senza fuggire dalle responsabilità
di denunciarne le incongruenze.
Un grande messaggio politico frutto di un’ispirazione religiosa, esposto senza ambiguità e in nome della giustizia:
“quanto alla loro vita di giovani sovrani di domani, non posso
dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è
d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in
tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono
giuste (cioè quando sono la forza del debole).
Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando
sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché
siamo cambiate”.
Prima di Don Milani, un altro giovane visse intensamente la
sua breve vita: Sergio Paronetto, ideatore ed estensore, primus
inter pares, del Codice di Camaldoli del 1943, “una nuova costituzione etica, politica ed economica per il Paese”.
Penso sia giusto fare riferimento a lui perché il pensiero e
l’azione di Paronetto possono aiutare le nuove generazioni a
ritrovare la strada di una ricomposizione dell’essere e del
sapere dell’uomo, dopo la tragica fine delle ideologie totalitarie
degli ultimi due secoli.
Grazie alla sua iniziativa, un gruppo di cattolici si incontrò a
Camaldoli per stabilire le linee dello sviluppo italiano una volta
che la guerra fosse finita e per contrastare la convinzione che
l’unica via per la liberazione dell’uomo dallo sfruttamento
capitalistico fosse affidata alla ideologia marxista, così come
57
incarnata nelle forme del totalitarismo socialista.
Paronetto fu, in un certo modo, il precursore della principio
che vuole l’etica come filo conduttore di ogni relazione sociale
sia essa economica, giuridica o, ancora, politica.
Egli riflettette a lungo sulle conseguenze della separazione
della tecnica dalla morale, dalla politica e dall’economia; economista attento e rigoroso, colse l’avvento della società manageriale e si appassionò alla nascente scienza del management;
sottolineando, però, la necessità che chi fosse chiamato a
“fare”, sia nelle imprese che nelle istituzioni, fosse dotato di
competenza e di responsabilità. Quello che oggi chiameremmo “management etico” .
Ed è proprio la mancanza di regole e di etica che ha generato
la crisi che stiamo vivendo e sulla quale abbiamo riempito
pagine di giornali e impegnato milioni di ore a dissertare sulle
sue origini e sulle conseguenze per il nostro e per il futuro
dei nostri giovani ai quali, però, non viene data la parola.
Ma, come ci ricorda una celebre frase di J.F. Kennedy “scritta
in cinese, la parola crisi, è composta da due caratteri: uno rappresenta il
pericolo, l'altro l'opportunità”.
Credo che se vogliamo scongiurare il pericolo dobbiamo tutti
cercare di dare l’opportunità ai giovani di far emergere la
loro inventiva, la loro capacità di sognare e di mobilitare le
risorse umane di cui sono ricchi, consentendo, così, alla società, di rinnovarsi.
giovani
58
link journal 2/2012
Un futuro da costrire
in un mondo da ricostruire
Paul Valery
...il futuro non
è più quello
di una volta...
S
tiamo assistendo alla più grande crisi dal 1929.
Una crisi che sicuramente è economica ma
nasconde un senso più profondo di smarrimento della società. I limiti di una scuola economica
fatta ideologia, il neoliberismo, sono emersi prepotentemente ponendo la questione, ancor prima che
della validità della teoria di cui è portatrice, del fine
di un approccio che diventa dogma. E si sa che ogni
volta che l’umanità ha abbracciato una teoria per
farne una ideologia indiscutibile e dogmatica ha
finito per pagarne un caro prezzo.
Ci troviamo nella necessità di trovare altri fini nell’immaginare il futuro. Ci troviamo in un’epoca
“quotidianista” che si è divorata lo stesso concetto
di futuro, per dirla alla Paul Valéry “il futuro non è
più quello di una volta”. L’economia ragiona a
trimestri, è scadenzata dalle transazioni della Borsa,
lo “spread” detta la politica economica e sociale, il
solo profitto è l’indice di una azienda in salute. Adriano Olivetti, nel discorso del 1955 in occasione dell’inaugurazione della fabbrica di Pozzuoli, diceva
«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là
del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una
destinazione, una vocazione anche nella vita di una
fabbrica?». Olivetti solleva un tema che oggi è diventato molto attuale. La finanza può essere completamente staccata dalla sua utilità sociale, concentrata
nei mutui subprime, nel costruire profitti e stock option per azionisti e manager perdendo completamente di vista la sua missione? Un libera economia
può avere una missione sociale?
Eppure, in questo mondo così in crisi, c’è uno spiraglio, le aziende che stanno emergendo sono quelle
che hanno una loro etica, che rispettano i lavoratori1,
che hanno una loro “anima” verde o “solidale”2, che
riescono a coniugare profitto con persona (i paesi
scandinavi sono quelli che hanno un welfare più
forte e, contemporaneamente, sono ai primi posti
per competitività internazionale). La Corporate Social Responsability si sta sempre più imponendo
come una pratica di gestione dell’impresa e come un
valore differenziante di competitività anche alla luce
di casi come Enron, Parmalat e Lehman Brothers.
Adriano Olivetti torna dunque attuale con il suo essere eretico sia rispetto alle famiglie imprenditoriali
della sua epoca (1908-1960), sia rispetto ai movi-
Paolino Madotto, Link Campus University
menti socialisti (di cui in certa misura faceva parte).
Figlio di una madre ebrea e di un padre agnostico e
socialista, aveva abbracciato il cattolicesimo per convinzione razionale (come amava dire lui). Adriano
Olivetti mette al centro della sua opera e del suo
pensiero la persona. Non è un intellettuale, egli è
anzitutto un ingegnere imprenditore che fa crescere
la sua impresa e la trasforma in pochi anni da media
industria del canavese nella prima multinazionale
italiana, in grado di essere la prima impresa estera
che acquisisce una azienda negli Stati Uniti (la stessa
azienda da cui suo padre aveva colto ispirazione per
cominciare a costruire macchine da scrivere).
Nella società della conoscenza il fattore competitivo
sono i talenti. L’economia, le esigenze produttive, il
profitto possono essere migliori se gli uomini vengono messi al centro del sistema. Olivetti lo aveva
capito e ne aveva fatto il principale obiettivo della
sua vita. Come aveva compreso che “il bello” e l’arte
potevano aiutare i lavoratori a migliorarsi, migliorando la produzione sia in termini qualitativi che
quantitativi. La cultura non è vista con gli occhi del
mecenate ma con lo sguardo del leader, in grado di
trasformarla in opportunità e progresso. E’ stato
l’ideatore di molti piani urbanistici e turistici. Il sistema di welfare della Olivetti supera ogni immaginazione, dagli asili nido ai permessi per maternità,
dalla biblioteca al sistema di trasporto. Questo aveva
permesso alla Olivetti di raggiungere una produttività e una qualità altissima nel lavoro. Oggi recenti
indagini internazionali ci confermano che i talenti
migliori preferiscono un sistema di welfare aziendale
ad uno stipendio più elevato.
Ricostruire significa cambiare paradigma, guardare
il futuro con altri occhi, nel nostro caso ripensare la
società mettendo al centro la persona, un nuovo
umanesimo. Un tema caro anche nell’enciclica di
Benedetto XVI “Caritas in veritate”.
Adriano Olivetti ci spinge a guardare al futuro, ad
investire sull’innovazione, sulla conoscenza, sul talento delle persone e su un modello sociale in grado
di rendere sostenibile e duratura la crescita economica. Adriano Olivetti è un imprenditore che investe
gran parte di ciò che guadagna nella sua opera, che
ci sprona a riprendere il coraggio di fare impresa recuperando la cultura industriale che è stata forza del
link journal 2/2012
giovani
nostro Paese. «Nel lavoro intelligente e scrupoloso dei nostri
ottocento operai, nello studio metodico e incessante dei nostri
quindici ingegneri, c'è la certezza di progresso che ci anima.
La lealtà dei nostri lavoratori è il nostro attivo più alto. » non
è forse un messaggio attuale? E’ proprio la “certezza di progresso” quella che abbiamo smarrito, l’umanità ha perso il
senso di essere parte di una storia. Ricostruire il futuro significa spronarci in prima persona ad uscire dal presente pos-
59
sibile. Adriano Olivetti ha dimostrato che si può fare se abbiamo coraggio.
Note
(1)
è recente la marcia indietro di Apple che ha dovuto imporre ai
suoi fornitori di ipad e iphone migliori condizioni per chi lavora
(2)
ad esempio IKEA o il commercio equo e solidale.
Ilegalidad, Juventud y Esperanzas Robadas
A
mplios sectores de la población joven en América Latina se enfrentan actualmente a exclusión social, inequidad y pobreza que conducen, en la práctica, a
obstáculos para acceder a educación de calidad y a trabajo
bien remunerado.
Aunque en algunos países se registra aumento en la cobertura
de la educación primaria y básica, la educación superior aún
no cuenta con facilidades de acceso. Es cada vez más común
que unos pocos privilegiados económicamente puedan acceder a educación superior y especializada de calidad y, posteriormente, a trabajos bien remunerados y socialmente
productivos. Esta situación tiene implicaciones estructurales
en el largo plazo, porque, cuando los jóvenes no pueden acceder a oportunidades equitativas para poder iniciar proyectos
de vida privada y socialmente beneficiosos, no cuentan con
razones suficientes para valorar debidamente la preponderancia de la Ley en la decisión por optar proyectos alternativos
así riñan con el bienestar colectivo.
En aquellos Estados en los que el acceso a oportunidades es
profundamente inequitativo y gravemente condicionado, se
tienden a crear condiciones propicias para que grupos poblacionales como jóvenes vulnerables solo puedan percibir como
quizás su única “opción” la de optar a modos de vida al amparo de la ilegalidad. Esto no quiere decir que existe una relación entre pobreza y adopción de conductas criminales, pues
histórica y estadísticamente se ha mostrado que en sociedades
muy pobres no necesariamente se desarrolla un elevado nivel
criminal. Sin embargo, cuando la educación y el trabajo legales
no ofrecen réditos similares a los que ofrecen los medios ilegales, o cuando ni siquiera están disponibles, la ilegalidad se
convierte en una opción “real” para desarrollar proyectos de
vida. Es así como en países con intensos procesos de crimen
sistémico y amplios mercados ilegales, la posibilidad de ascenso social y económico ofrecidas por redes criminales
ponen en riesgo la consolidación del Estados de Derecho.
En estos casos, las redes criminales encuentran una atractiva
fuente de mano de obra en la generación juvenil ni-ni, que ni
estudia ni trabaja por falta de oportunidades. Con el agravante
de que esta generación, que habría de ser la base para las transformaciones sociales, económicas y culturales, puede llegar a
convertirse entonces en uno de los principales obstáculos presentes y futuros para la consolidación y desarrollo de Estados
Sociales de Derecho en muy diversos países.
Sólo será posible recuperar amplios sectores de las futuras generaciones de ciudadanos en tales países, sobre la base de una
justicia distributiva que garantice reciprocidad económica y
retribución proporcional a los esfuerzos sociales. Esta justicia
distributiva, definida y adoptada por decisión política, sólo
puede estar fundamentada en aquello que los ciudadanos deliberantes y reflexivos –bajo una concepción no exclusivamente egoísta – reconoce como “justo” en términos
distributivos. Según esta justicia, a cada uno se le garantiza lo
que le deba corresponder según su esfuerzo y aporte social.
La aplicación de esta justicia es, en última instancia, ámbito
de la autoridad pública, del Estado. Esta justicia motiva a los
ciudadanos a consolidar un sentido de pertenencia e identifi-
Luis Jorge Garay Salamanca1 & Eduardo Salcedo-Albarán2
60
giovani
cación con la comunidad, a cumplir con el deber de la vida
civil, y a encontrar armonía entre la vida privada y la vida pública, entre los beneficios individuales y los sociales. En últimas, la justicia distributiva contribuye a privilegiar proyectos
de vida fundamentados en el desarrollo de valores sociales
que, aunque tengan una base liberal – de competencia racional
e individual–, sean armónicos con el bien común y los intereses colectivos.
Al contrario, en ausencia de esta justicia, se tienden a reproducir en algunos ámbitos intereses y proyectos de vida estrictamente egoístas que progresivamente se fortalecen a partir
del imaginario social de éxito de aquellos que triunfan sin importar
el medio para lograrlo, ni el costo que implica a los demás. Luego, en
etapas avanzadas de deterioro social, bajo el predominio de
intereses excluyentes, las restricciones morales, individuales y
sociales, se distorsionan casi por completo, al punto de que
se impone la idea del todo vale en sentido estricto: Incluso
matar o morir se convierten en opciones para lograr el éxito
socioeconómico.
Se configura, entonces, un escenario de competencia social
entre aquellos que respetan las leyes, incluso sin contar con
condiciones de partida necesarias para desenvolverse en una
competencia justa y equitativa, y casi sólo en virtud de un optimismo moral acompañado de una baja probabilidad de lograr el proyecto de vida ideado, y aquellos que no respetan las leyes
ni las reglas del juego y que, por lo tanto, adoptan proyectos
de vida que sin ser necesariamente más fáciles, al estar fundamentados en atajos sociales, morales y legales, conllevan una
rápida rentabilidad económica y posiblemente social. El resultado es que los segundos tienden a obtener mayor rentabilidad económica en el corto plazo y, en algunos contextos,
mejores posiciones sociales. Por el contrario, los primeros son
asociados, en el imaginario social y en la
práctica, a proyectos
de vida de menor rentabilidad económica y,
en algunos contextos,
a peores posiciones
sociales. Este es el
caso de sectores de países como algunos latinoamericanos en los
que se admira y privilegia al joven que pertenece a una pandilla o
a una red de narcotráfico y gana rápidamente mucho dinero,
pero se “menoesprecia” a aquel que dedica
link journal 2/2012
su vida al estudio y al trabajo honrado.
Cuando cierta apreciación social en ámbitos cada vez más amplios queda anclada a la violencia, a la trampa y a la ilegalidad,
las reglas del juego social se convierten en otras; el ideario
moral, individual y social se invierte en comparación a aquellos deseables en un Estado de Derecho consolidado. La violencia y la ilegalidad son casi los únicos métodos disponibles
para lograr unos nuevos objetivos, a saber: la riqueza de corto
plazo y el poder por cualquier medio. Progresivamente, surgen así nuevas generaciones que quedan insertadas en instituciones ilegítimas, informales y coyunturales, instauradas por
el procedimiento ilegal de turno o, si se quiere, por el “capo”
de turno.
Por lo anterior, es indispensable para esas sociedades afectadas invertir la imagen descrita en el párrafo anterior. Sólo
cuando sus nuevas generaciones puedan lograr sus proyectos
de vida en el marco de la legalidad, con ventajas comparativas
reales frente a los tramposos, aceptarán el contrato social que,
en teoría, ha heredado la modernidad; sólo en ese momento
valorarán debidamente aquellas instituciones formales permanentes y armónicas entre el bien individual y el bien
común. Así podrán consolidarse las sociedades afectadas
como una sociedad moderna: tolerante, deliberante y legalmente creativa, organizada bajo un régimen democrático incluyente y justo, en lo económico, político, cultural y social.
Para ello se ha de afrontar de manera integral –en términos
de la relación entre lo privado, lo colectivo y lo público– un
proceso de transición hacia la construcción de una nueva sociedad: una nueva realidad que por ser utopía realista no contradice las posibilidades del espíritu humano.
Note
(1)
Director Académico, Fundación
Vortex – [email protected]
(2)
Director, Fundación Vortex –
[email protected]
twitter.com
/@esalbaran
link journal 2/2012
giovani
61
Figli e figlie
di una nuova patria
Un diverso umanesimo
per vivere l’umanità
E
vocare una nuova patria per i cittadini della contemporaneità equivale a ricercare un centro ideale in cui
trovino spazio e dignità le riflessioni esistenziali che
si accompagnano ad un mondo che si va sempre più complessivizzando. E la trama si è ormai fatta così complessa che
l’interdipendenza e l’interconnessione degli accadimenti sociali sono la vera sfida culturale che porterà a disegnare “i luoghi” del futuro prossimo dell’umanità. Le stesse analisi micro
e macro sociali lasciano sempre più spazio a valutazioni figlie
della trasversalità, questione questa che in qualche misura
dovrà portarci a riflettere profondamente sulle analisi guida
che ci hanno lasciato in eredità i due unanimemente riconosciuti come maggiori esponenti dell’analisi sociale: Emile
Durkheim e Max Weber. Ci dovremmo, insomma, porre la
questione del come si può andare oltre l’agire sociale dotato
di senso, che pone alla base della riflessione la spiegazione
delle azioni individuali razionali (M. Weber, Il metodo delle
scienze storico sociali), e oltre i fatti sociali, cioè di tutti quegli
accadimenti che coerciscono e si impongono alla volontà dell’individuo (E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico);
peraltro, tutte le teorie micro-sociali che guardano alla scelta
razionale finiscono con l’avere un respiro limitato perché terminano con l’infrangersi contro desideri e opportunità del
singolo individuo, questione questa che troppo spesso viene
ridotta con il semplicistico e canonico in quella data situazione, è stato tenuto quel dato comportamento, perché era
la cosa migliore che si potesse fare.
Nella sostanza, figli e figlie si trovano a vivere un contesto diverso dai precedenti, come del resto è accaduto alle generazioni che li hanno preceduti; un consesso, il loro, che si
caratterizza per alcune specifiche peculiarità, quali l’affannosa
ricerca di un punto di osservazione che gli consenta di scorgere all’orizzonte una prospettiva di futuro, in cui a dominare
è l’incertezza dell’approdo ad una nuova patria, di cui più
avanti si tenterà di definirne i confini etico-estetici.
Una prima e più immediata riflessione ci porta a convenire
almeno su di una specifica circostanza: figli e figlie vivono una
contemporaneità che si contraddistingue per una serie di ec-
Nicola Ferrigni, Link Campus University
cessi, tra questi i principali possono essere ricondotti, a parere
di chi scrive, all’eccesso di accadimenti e di tempo a disposizione e, non di rado, si stenta a dare un senso allo schema
intellettuale e a quanto possa costituire un problema di comprensione per il singolo individuo.
Condizione questa che trova un suo aggravamento quando la
società nel suo insieme si trova a ragionare di fenomeni il cui
manifestarsi è sfuggito anche allo sguardo vigile di chi per vocazione è deputato a disvelare la realtà sociale.
Una realtà sociale che è difficile inquadrare in confini predeterminati, perché è ormai ampiamente condivisa la tesi secondo cui i fenomeni di sistema, di volta in volta indagati, sono
spesso collegati ad una serie di fattori che condizionano fortemente gli impianti teorici esplicativi; è, insomma, sempre più
complesso definire compiutamente lo spazio sociale che ci ha
fatto porre dei quesiti e di cui si ricercano le ipotesi di risposta.
In particolare, ad intralciare la definizione di un quadro unitario di riferimento concorrono, in modo preponderante, la
globalizzazione e la onnipresente presenza dei mezzi di comunicazione di massa.
Ed è ormai riflessione comune il fatto che figli e figlie, ma
non certo soltanto loro, non riescono più a rapportarsi consapevolmente con tutte quelle strutture istituzionali che sempre più cambiano il nostro mondo di vita, a prescindere dalla
loro collocazione spaziale. Si è, insomma, in presenza di eventi
che non risentono più delle differenze e delle distanze latolongitudinali, ma anzi si contaminano e si condizionano
trasformando il nostro pianeta in una palla magmatico-finanziaria che toglie ogni giorno di più solidità strutturale e
prospettive di vita.
Quando ci si riferisce alle strutture istituzionali e al mondo di
vita, si vuole sottolineare come precisi fenomeni non riescano
62
giovani
più a spiegare compiutamente la vita sociale: non si tratta solo
dei media ma anche del lavoro, sia esso svolto in modo subordinato o proprietario, dello spettacolo nelle sue varie forme
internazionalizzate, dello sport con interessi economici che
travalicano oceani e continenti, e di tutte quelle attività che in
tali grandi filoni di vita sociale vengono, con qualche
forzatura, ricomprese; è ad esempio il caso dei tornei di poker
che rimandano ad una attività sportiva.
Sbaglieremmo, quindi, la nostra analisi se dovessimo trarre insegnamento dalla sola Europa, in quanto l’attore principale è
la contemporaneità, intesa nel
senso voluto da Bauman di
vita liquida; dobbiamo cioè
abituarci a pensare la vita sociale e i suoi aspetti, anche
quelli che sembrano negare un
futuro all’umanità, come mobili e continuamente plasmantisi. Insomma siamo in piena
plasticità sociale anche se non
ne siamo adeguatamente consci.
Al riguardo và detto che il
problema del sociologo-ricercatore non è quello di trovare
una risposta ad un quesito, in
quanto con i dovuti aggiustamenti e correzioni di peso ci si arriva, ma quello di essere consapevoli che le attuali forme di contemporaneità includono
aspetti del nostro mondo di vita che vanno costantemente ritarati e resi idonei a spiegare la nuova patria di figlie e figlie.
Ecco così che, nel contesto del bulimico susseguirsi e accavallarsi degli accadimenti, se gli economisti non prevedono per
tempo una crisi recessiva, o se gli storici non legano e non spiegano in maniera convincente e con immediatezza un
inaspettato avvenimento rivoluzionario, o se ancora i sociologi
non intercettano i malesseri che contribuiscono a rinsaldare
le abitudini che vogliono costruzioni sociali sempre più prive
di senso, la nuova patria di figli e figlie rischia già in nuce di
divenire una sorta di non luogo antropologico dove a
prevalere sono tutte le forme di eccesso.
C’è, infatti, una parte del mondo sociale di figli e figlie che si
presenta alla nostra analisi come una protesi tecnologica che
taglia trasversalmente, e spesso aliena, i rapporti che si trasformano in telé-relazioni; non ci si riferisce ovviamente alle
forme tecnologiche ad uso personale, di cui non sempre se
ne apprezza consapevolmente il senso, o come direbbe
link journal 2/2012
qualche illuminato il non senso, ma piuttosto ad un modo di
vita che rende stolide e sfuggenti anche le strutture considerate più stabili e tranquillizzanti.
Quasi superfluo aggiungere che figli e figlie si trovano a fare
i conti con una nuova patria dove a farla da padrone sono
sempre più i luoghi dei passi perduti, per convenzione
antropologica i non luoghi: figli e figlie fanno il carburante al
self service, si riforniscono di contante al bancomat, attraversano il casello autostradale utilizzando il telepass, incrociano negli aeroporti e nelle
stazioni ferroviarie moltitudini
di persone con le quali scambiano al più qualche sguardo,
pagano il parcheggio ad una
cassa che abilita alla sosta e
poi all’uscita, acquistano al
super e iper-mercato utilizzando la speciale pistola che
aggiorna costantemente il
conto da pagare, che poi regolarmente saldano con le proprie credenziali in plastica nel
canonico formato 5,4 x 8,6;
operazioni, queste, che insieme ad altre sono divenute
ormai una costante e che sempre più contraddistinguono una nuova patria sempre più invasa di totem luminosi e cartelli che guidano molte delle
azioni sociali. Mi verrebbe da pensare che la nuova patria è
pronta a concedere molto all’effimero e a tutte quelle forme
di commercio che potremmo definire mute.
Il quadro poi si complica ancor di più se il sociologo, nell’andare oltre il senso comune, relativizza e associa alla propria
analisi un contesto sociale in continua trasformazione e che
vede in uno l’allungarsi dell’aspettativa di vita e la contemporanea presenza di quattro generazioni. Insomma, siamo in
presenza di una generazione in più che dispone di una grande
quantità di tempo in eccesso rispetto al passato e che per
questo vive con più continuità che in passato i c.d. luoghi della
memoria, la non mai dimenticata vecchia patria.
Per cui nella contemporaneità figli e figlie si trovano a dover
convivere con i luoghi della memoria, o vecchia patria (tanto
cari alla prima generazione), con la patria delle seconde generazioni (i cui punti di riferimento sono oggi fortemente
messi in discussione) e con la nuova patria costituita, oltre che
da patria e vecchia patria, anche e soprattutto dai non luoghi
link journal 2/2012
giovani
e da tempo e spazio indefinibili.
In particolare figli e figlie si trovano davanti due
generazioni che, rispetto a tempi a noi non lontani,
consapevolmente o inconsapevolmente, devono ancora invecchiare, ma il loro passato è già stampato
sui libri di storia. Un rivoluzionario francese al più
era cosciente di alzare e difendere le barricate per
conquistarsi un po’ di nutrimento, e solo pochi illuminati sapevano di combattere per conquistare la
charte.
Serve quindi un diverso umanesimo che ci faccia
cogliere simbolicamente cosa rappresentano un esclusivo campo vacanze piuttosto che un campo
profughi, oppure un rinomato complesso di
abitazioni esclusive rispetto ad una degenerata
bidonville. È vero che si tratta pur sempre di spazi,
ma occorre aiutare figli e figlie a comprendere il significato ultimo dei singoli spazi, rielaborando le
conoscenze e mettendole al servizio di una crescita
culturale dell’umanità.
Di certo quegli uomini non avevano consapevolezza di scrivere una importante pagina di storia
lasciata a futura memoria. La nostra prima generazione, quella dei giovani euro-bisnonni, ha vissuto,
ad esempio, direttamente la caduta del Muro di
Berlino o il Desert Storm, e già ritrova tali fatti
epocali sui libri su cui studiano i figli dei propri figli
e qualche pronipote. Stesso dicasi per la seconda
generazione, che già può leggere sugli stessi libri di
storia contemporanea gli eventi inerenti la polveriera mediorientale o la fine delle Torri Gemelle,
tanto per fare un esempio.
Siamo anche in questo caso davanti ad un eccesso:
è l’eccesso di tempo a disposizione che ci coglie impreparati, in costanza poi di una iperabbondanza di
accadimenti, di cui della maggioranza degli stessi ne
disconosciamo l’esistenza. A parere di chi scrive,
questo è uno dei motivi da inserire tra quelli che spingono l’essere umano a cercare consapevolezza del
presente per rispondere ad una duplice e collegata
questione: dare un senso al futuro essendo consapevoli di un passato che è più prossimo di quanto
non si creda.
Si tratta di convincere figli e figlie che possono ancora essere artefici del proprio destino; si tratta di
convincere figli e figlie che possono recuperare ed
esaltare la loro dignità di uomini e di donne; si tratta
di convincere figli e figlie che dispongono delle necessarie capacità creative utili a ritessere la trama di
una umanità che sempre più si va sfilacciando. Insomma, per dirla con Protagora, si tratta di convincere figlie e figlie che di tutte le cose misura è
l’uomo.
Si tratta quindi di convincere figli e figlie che un diverso umanesimo per vivere l’umanità non è solo
fondare le proprie ragioni sui buoni propositi, sulla
solidarietà e sul rispetto dei diritti umani. Un nuovo
umanesimo per vivere l’umanità è anche questo, ma
non solo questo.
Ovviamente è in tale cornice che ritroviamo la nostra concezione di progresso sociale ed anche tutte
le delusioni che via via abbiamo registrato, né è un
esempio recente in Italia la putrefazione delle speranze collegate alla vita democratica dei partiti. Non
si tratta solo di superamento del post socialismo,
comunismo o liberalismo, ma di una crisi di valori
che ci porterà inevitabilmente a riflettere intorno
alla necessità di un nuovo umanesimo, pena lasciare
l’individuo fermo alla considerazione che rappresenti un mondo per sé, o meglio un mondo in sé,
con il rischio evidente che lo si lasci praticare come
meglio crede, senza vincolo di religione.
L’umanesimo come pensiero per migliorare l’umanità è anche essere consapevoli che esistono differenziazioni e discriminazioni, privilegi e prerogative.
Si potrà ottenere una forma di umanesimo che
migliora l’umanità solo se, e quando, i figli e le figlie
si doteranno di una cultura alta che li renderà capaci
di svolgere una severa ma costruttiva critica indirizzata a favorire nuove forme di progresso economico, culturale e sociale.
Per acquisire cognizione di ciò occorre che le istituzioni preposte, in primis le Università, sappiano
infondere nelle terze generazioni la consapevolezza
che si migliora nel sacrificio, che per crescere l’umanità deve tenere nel giusto conto il merito e il
bisogno, collocando entrambi in una specifica scala
di valori. Solo così, e se veramente lo si vuole, l’umanità potrà essere valutata per ciò che sa fare e per
l’impegno costante che mette nelle cose che si
fanno.
63
figlie e figli
Dobbiamo
porre
la questione
del come si può
andare
oltre l’agire
sociale dotato
di senso
giovani
64
link journal 2/2012
SENTIMENTO & AMORE IN UN CLIC
La Valorialità Sistemica leonardiana
alle frontiere delle Nuove Generazioni e dell’Identità Mutante
sentimento
Vecchie & Nuove
Generazioni
pagano oggi il
prezzo
inestetico
e insostenibile
dello stato
di avanzata
liquefazione
della Modernità
François Zille(1)
S
entimento & Amore sono, all’origine, purissima e potentissima Energia Informata. Che
si trasmuta in Materia tangibile allorché riesce
a genera Valori e Sistemi di Valori.
I quali hanno la mission di vibrare armoniosamente
nella dimensione spazio-temporale e durare nel
tempo.
Stimolando perennemente l’espressione del triumvirato “ingredienziale” fondante di Autenticità,
Unicità e Eccellenza.
E di irradiarne virtuosamente “l’Energia Aumentata”.
Di generazione in generazione.
Negli ultimi decenni, pressoché ovunque in Occidente, il tasso di trasmissione
di valori tra le generazioni si è drammaticamente
abbassato.
E Vecchie & Nuove Generazioni pagano oggi il
prezzo inestetico e insostenibile dello stato di avanzata liquefazione della Modernità.
Il quale fu profeticamente anticipato da Marx, nella
sua miglior accezione di illuminato Psico-Filosofo
e Sociologo.
E poi teorizzato da Bauman, in modo assai rigoroso e, putroppo, non meno deprimente.
E mai con spirito “solare”, termodinamicamente
pro-attivo e “problem-solving”.
La dolorosa assenza di una Sociologia contemporanea davvero libera e indipendente e finalmente
affrancata dagli innumerevoli abbagli, auto-inganni,
fantasmi e mostri del XX secolo, contribuisce a
generare uno scenario estremamente poco “appealing, exciting & sexy”.
Pur tuttavia, grazie da un lato al costante progresso
morale dell’Umanità, ampiamente teorizzato da
Guitton, e dall’altro, al fulmineo progresso delle
nuove tecnologie di communicazione, questo background epocale si sta avverando essere l’habitat ideale per la genesi di una magnifica “rivoluzione
evoluzionaria in the making”.
Che origina dall’Approccio Sistemico delineato da
Leonardo da Vinci 500 anni fa.
E tutt’ora snobbisticamente ignorato e inesplorato.
Perché ci ri-connette magnificamente a Gaia, la
nostra Madre Terra Vivente.
Cosa che il misero profilo antropocentrico e ipoprogettuale di questa attuale civiltà umana liquefatta
non riesce a sopportare.
Poiché il “potere laterale” legato alla Terza Rivoluzione Industriale (TRI), lucidamente e efficacemente teorizzato da Jeremy Rifkin nel suo
omonimo libro(2), unito alla “cultura laterale” che la
biodiversità marcatamente “digital” delle Nuove
Generazioni stanno rapidamente sviluppando,
hanno finalmente determinato,500 anni dopo il Rinascimento, lo sbocciare e il fiorire dell’Approccio
Sistemico che costituisce il più importante legato
all’umanità da parte del genio universale Leonardo
da Vinci.
E che, per dirlo con le parole che Fritjof Capra utilizza nel suo magnifico libro “La Scienza Universale
- Arte e Natura nel genio di Leonardo”,(3) “ …è un
tipo di Pensiero e di Scienza di cui abbiamo urgentemente bisogno”.
E tutto ciò può avvenire, e sta di fatto avvenendo a
passo veloce, perché la “lateralità” e la “a-centralità”
di Internet e della cultura “digital” segnano gradualmente la ineludibilissima fine della nozione
stessa e di ogni tipologia di “intermediari”.
Così’ come l’estinzione naturale di tutti i cosiddetti
“media”, nella loro configurazione attuale.
E anche e soprattutto perché, se c’è una cosa che il
sentimento e l’amore non possono affatto tollerare,
è proprio la presenza tendenzialmente voyeuristica,
invasiva e “totalitaria”, appunto, di qualsivoglia “intermediario”.
Oso dunque prevedere che, con l’aiuto strategicoprogettuale-creativo e pragmatico-operativo di
Nonno Leonardo e di Mamma Internet a 360°, le
Nuove Generazioni si apprestano a ridare al sentimento e all’amore tutta la Verità, la Dignità e la
Sacralità nonché il ruolo essenzialmente e fondamentalmente onni-fecondante che venne loro attribuito da Dio nei big-banghiani giorni della genesi.
E che sappiano stimolare altresì una riflessione
quanticamente ri-fondante.
E rivolgere a tutti i loro Interlocutori un giocoso
“appello all’azione”.
link journal 2/2012
giovani
65
Riflessioni sull'artista contemporaneo
E inventare innumerevoli, efficacissimi e gioiosi riti propiziatori.
E determinare la urgente genesi di una luminosa
“dirompenza” nei processi & percorsi progettuali & creativi
del XXI secolo.
I quali richiedono una nuova “Antropologia dei valori”.
Che solo un ineludibile, selvaggio, iper-potente e nuovo fiammante spirito etico-morale-spirituale e etico-esteticopoetico può generare.
Note
(1)
François Zille, Senior Digital Strategist, Analyst & Planner,
Ermeneuta & Psico-Filosofo, Antropologo visivo & Ingegnere del
Linguaggio, Ricercatore indipendente & Docente esterno presso
Master Politecnico Milano e Accademia di Brera
(2)
Jeremy Rifkin, “La terza rivoluzione industriale”, Mondadori
2011
(3)
Fritjof Capra: “La scienza universale”, Rizzoli 2007
L’Artista d’Impresa
e la forza delle idee
L
’artista che opera per se stesso può creare opere geniali, ma se non interagisce con il resto del mondo, è
come se producesse diamanti sepolti tra le montagne.
Ragionando in questo modo, va da sé che ogni produzione
che nasce da un processo intellettuale necessita di essere supportata da un progetto di tipo economico e manageriale per
interagire meglio. Allo stesso modo si può comprendere perché l’originalità del design necessiti di altrettanta creatività di
marketing. L'artista di oggi non è più solamente l'operatore
che trasforma la materia grezza in materia levigata. Non basta
manipolare un pezzo di argilla e farla diventare un busto, o
manipolare pennelli e colori e pitturare una tela. Finché "fare
arte" è ricerca, è sempre arte, qualsiasi sia il tipo di manipolazione, fosse anche solo di tipo intellettuale o manageriale.
Difatti, oggi si può fare arte in modo immateriale. Si può
sviluppare un progetto, un evento, una performance, una installazione, senza lasciare alcun oggetto materico a dimostrazione del nostro atto creativo. Il mondo della
comunicazione è pieno di interventi in tal senso soprattutto
con l'uso delle nuove tecnologie. Aggiungo che l'artista oggi
può spaziare a tutto campo grazie alla possibilità di acquisire
saperi che non sono solo di tipo estetico, o filosofico, o artigianale, ma spaziano nel campo della scienza, del marketing
e delle più svariate modalità espressive. Questo è il motivo
per cui invito a pensare alla figura dell'Artista di Impresa,
ovvero a colui che è in grado di intraprendere la realizzazione
di un progetto e portarlo a termine fino a raggiungere l'obiettivo prefissatosi, a prescindere dai modi e dai mezzi. Accadeva nel Rinascimento passando tra corti, mecenati e
conventi. Oggi ci si relaziona con altre entità. Nell'essenza
cambia poco. Sia ieri che oggi l'artista sa che il maggior impresario del suo progetto è egli stesso. Per questo motivo il
processo per la realizzazione del progetto è spesso più interessante dell’oggetto stesso. Veniamo alla crisi attuale: per rilanciare l’economia c’è bisogno della forza delle idee. Perciò,
è auspicabile che l’artista superi i pregiudizi nei confronti del
management e contribuisca ad immaginare nuovi scenari socioeconomici. Allo stesso tempo, il mondo della finanza e
della politica dovrebbero dedicare più attenzione a quello creativo. La cultura può essere il legame che aiuta a mettere in-
Gerardo Lo Russo, Direttore Accademia Belle Arti di Roma
66
giovani
sieme le risorse dei diversi settori.
Artista d'Impresa - Italia: da Nord a
Sud il 70% dei Beni Artistici nel
mondo. Castelli, chiese, musei, ville,
abbazie, giardini e fontane incastonate tra mari e monti sono il gioiello
del pianeta Terra. L’Italia nella sua interezza è una sorta di sito Patrimonio
dell'Umanità. L’Artista di Impresa
può lanciare l'Economia del Bello, attraverso la valorizzazione dei saperi
dell’arte. Sarebbe l’esperto giusto per
esporre le primizie del nostro paese
sul mercato delle offerte migliori. E
noi sappiamo che l’arte è il nostro
oro, il nostro petrolio, la nostra
banca. Un esempio storico può venirci in aiuto: solo due secoli addietro resti di antiche sculture emergevano dai campi
di Roma, finché Canova con pochi altri decise di valorizzarle,
avviando un processo di sviluppo culturale ed economico, che
ha portato alla conseguente apertura di musei e collezioni in
Italia e nel mondo. Ma in Italia non ci sono solo i Beni Culturali o i paesaggi turistici. Ci sono istituzioni professionali ed
universitarie di grande prestigio. Oltre alla fruizione materiale
esiste quella immateriale dei saperi e dei processi che vengono
a monte e prima di qualsiasi produzione di oggetti. Per esempio, la didattica: abbiamo accademie, facoltà universitarie, conservatori e scuole di specializzazione in sovrabbondanza.
Abbiamo pure docenze che in alcuni casi rischiano di andare
in sovrannumero. Allo stesso tempo, molti immobili come ex
caserme, ex ospedali, ex conventi ed anche borghi medievali
sono abbandonati. Comunque, la giriamo la situazione è abbastanza chiara: siamo un paese che ha tanto, però non ce la
fa a tenerlo in piedi. Basti pensare a Roma: ogni angolo, ogni
pezzo di strada ha bisogno di cure continue al fine di essere
preservato nella sua caratteristica estetica e storica. Ma se non
troviamo le risorse adeguate è proprio difficile conservare il
Bello che abbiamo. Ora, guardiamo ai cosiddetti paesi emergenti, quelli in continua crescita economica. Appare evidente
come, a fronte della quantità demografica ed economica,
siano carenti di strutture per l’apprendimento dei saperi. Di
converso, le istituzioni italiane sono tante, godono di prestigio
internazionale e potrebbero ospitare milioni di studenti
stranieri. Ma il processo di scambio culturale ha bisogno di
idee innovative, affinché diventi un vero e proprio progetto
di sviluppo socioeconomico. Si registrano, infatti, difficoltà
da superare se si vuole che lo scambio diventi sistematico e
vantaggioso per entrambi le parti. Per esempio, se si applica
link journal 2/2012
il calcolo dei contributi studenteschi
secondo le nostre fasce reddituali,
quasi sempre lo studente straniero
paga poco o toglie le borse di studio
ai nostri studenti. Inoltre, il costo
universitario da loro è maggiore. Secondo me, bisogna intervenire per
trovare una soluzione vantaggiosa
per entrambi attraverso delle apposite convenzioni. Per esempio, si
potrebbe concedere in uso ad enti,
istituti ed università straniere immobili abbandonati per un periodo di
tempo rapportato al loro investimento, al fine di ospitare in campus
i loro studenti. Allo stesso tempo, le
convenzioni possono prevedere costi di iscrizione equi
rispetto a quelli degli studenti italiani. In questo modo si
potrebbero ristrutturare immobili abbandonati, rivitalizzare
settori urbanistici e sociali e procurarsi le risorse per ottimizzare i servizi universitari. Ora, facciamo un rapido calcolo: tre
studenti stranieri tra vitto alloggio e tasse universitarie
spendono tanto quanto basta per dare lavoro ad un nostro
giovane. Se immaginiamo di ospitarne milioni, è facile pronosticare che potremmo offrire in proporzione milioni di posti
di lavoro ai nostri. E superare la crisi attuale rilanciando un
tipo di economia a carattere prevalentemente culturale. Il Bel
Paese potrebbe fungere da sede di offerta formativa a livello
globale. Ricordiamolo ancora una volta: il nostro è baciato da
Dio: acque di qua e di là, con al centro monti e paesaggi insediati da castelli, templi, giardini e monasteri millenari. Per altre
terre si viaggia lungamente incrociando boschi e boschi, deserti e deserti, o selve di grattacieli. Qui da noi, ad ogni svolta
c'è un manufatto che racconta la straordinaria evoluzione dell'essere umano. E noi siamo coscienti che il patrimonio più
tangibile dell'umanità è la ricchezza di conoscenza.
Cosa c’entra l’Artista di Impresa? Questa proposta, se fosse
attuata avrebbe bisogno di operatori, professori, scienziati,
manager, professionisti e cultori di qualsiasi settore. Ovvero:
creativi flessibili e pronti ad intervenire con i segni giusti al
punto giusto. I politici sanno che l’avvenire dell’umanità,
dipende in larga misura dallo sviluppo delle arti, delle lettere,
delle scienze. La cultura italiana accrescerebbe rapidamente
perché sarebbe diffuso dagli stessi studenti ospitati. Né si
deve aver paura di contaminazioni culturali, o di perdita di
posti di lavoro. Al contrario, gli studenti stranieri porterebbero
nuovi entusiasmi e un po’ più di gioventù. L’arte non è solo
ricerca, è anche un’impresa.
link journal 2/2012
giovani
67
I have a dream
È il momento di realizzare
le promesse della democrazia
“… Non possiamo misurare lo spirito nazionale basandoci sul Dow
Jones, né i risultati della nazione basandoci sul Prodotto interno lordo…
Il Prodotto interno lordo non misura né la nostra intelligenza né il nostro
coraggio, né la nostra saggezza né la nostra erudizione, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto insomma tranne
ciò che dà valore alla vita, e può dirci tutto sull’America, tranne se siamo
fieri di essere americani”. (1967)
Robert Kennedy, dopo la morte del fratello John, rappresentò
la voce della nuova America, quella che aveva ritrovato un sentimento e il coraggio di dire no alla guerra del Vietnam. Non
solo. Sapeva parlare non con la mente ma con il sentimento
alla giovane generazione americana mettendola in guardia
contro la sfrenata corsa verso l’opulenza, causa principale
dello sfaldamento sociale e della preminenza dell’economia
sulle attività umane.
Non molti anni prima Herbert Marcuse scriveva ne L’uomo
ad una dimensione: “La società moderna, ossia quella in cui l’industrializzazione è avanzata, differisce dalle precedenti epoche poiché riesce
a domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto
che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante
e di un più elevato modello di vita”. (1955)
Monito e preveggenza. Per Marcuse la tecnologia è lo strumento più potente ed efficace da utilizzare per estendere il
controllo sulla società, manipolando le coscienze, inducendole
al consumo smodato al fine di incrementare l’opulenza delle
classi dominanti.
Paolo VI, nella Populorum Progressio, ammoniva: “ L’aspirazione degli uomini è essere affrancati dalla miseria, trovare con più sicurezza
la loro sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più
piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni
che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in
una parola, fare, conoscere, e valere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione
degli uomini di oggi…”. (1967)
Altro Pontefice, Giovanni Paolo II, circa due decenni dopo,
precisava nella Centesimus Annus: “…la Società e lo Stato devono
assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e
della sua famiglia… ciò richiede sforzi per dare ai lavoratori cognizioni
e attitudini sempre migliori e tali da rendere il loro lavoro più qualificato
e produttivo… è da richiamare il ruolo dei sindacati non solo come strumento della contrattazione, ma anche come “luoghi” di espressione della
Antonio Suraci, Direttore Link Journal
personalità dei lavoratori; essi servono allo sviluppo di un’autentica cultura del lavoro ed aiutano i lavoratori a partecipare in modo pienamente
umano alla vita dell’azienda. Al conseguimento di questi fini lo Stato
deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente secondo il principio della sussidiarietà , creando le condizioni favorevoli al
libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una offerta abbondante
di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente e secondo il principio della solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all’autonomia
delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un
minimo vitale al lavoratore disoccupato”. (1995)
Quarant’anni separano Herbert Marcuse da Giovanni paolo
II, due mondi che, pur tra loro opposti, hanno in comune
l’aver esaminato un universo che andava evolvendosi offrendo, ciascuno nell’ambito della propria attività, un’alternativa all’Apocalisse imminente. In questo arco di tempo,
generazioni intere hanno lottato perché quegli ideali formassero una diga contro l’avanzata di un sistema che oggi,
senza prova di smentita, ha raggiunto l’obiettivo di condizionare, globalmente, la vita e il futuro di altre generazioni.
Quei valori, quegli ammonimenti non hanno saputo fermare
il vorticoso movimento dei capitali, rapidi nel soppiantare una
visione politica non in grado di offrire le soluzioni auspicate
dai più.
I quasi vent’anni che ci separano dai suggerimenti di Giovanni
Paolo II hanno visto, nella maggior parte delle nazioni, ma in
Italia in particolar modo, il declino delle istituzioni e con esse
di quei valori sui quali si fondava la speranza delle generazioni
passate e di quella futura.
Possono oggi i giovani - dopo aver attraversato la delusione
della flessibilità nel mondo del lavoro, la precarietà nel mondo
della ricerca, l’impossibilità di vivere una vita familiare credere ancora a quei nobili pensatori, a quanto ci hanno
trasmesso per illuminarci su ciò che sarebbe accaduto nel volgere di pochi decenni, se non di pochi anni?
La risposta è no. I giovani non possono credere in un mondo
ideale, pur giusto ed eticamente valido, se coloro che sono
chiamati ad occuparsi di dare un senso al genere umano sono
anch’essi portatori di una visione economicista che rifugge la
ricerca di un punto di incontro con una visione di un umanesimo rinnovabile.
68
giovani
Non è giusto, neppure, che l’indignazione prenda il sopravvento e si materializzi attraverso un lento, quanto inesorabile, allontanamento dai problemi che tutti siamo chiamati a
vivere. Uno dei punti sensibili affinché le giovani generazioni
possano tentare di riappropriarsi del proprio futuro è la riforma dei mezzi di comunicazione, o meglio della qualità di
chi esercita tale professione, come ricorda Stéphane Hessel
“… occorre invocare una vera e propria insurrezione pacifica contro i
mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il
consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti.”
Parole che, forse vanno oltre le righe, ma nel prendere in
esame il complesso dei media in rapporto con i sistemi in cui
abitualmente agiscono, possono essere prese come monito e
stimolo, più che come denigrazione, affinché la bandiera della
libertà sventoli alta su ciascun pennone.
Il problema è globale, e non solo per quanto riguarda l’economia; ma, proprio per quest’ultima, prioritaria è la riformulazione dei sistemi istituzionali in cui deve crescere, e per
crescere necessita di terreni sufficientemente fertili dove
‘creare non sia sinonimo di resistenza’ ma unicamente di profitto.
La delusione dei giovani non è solo verso il mondo scritto
con la M maiuscola, ma anche verso il micro-mondo degli
adulti incapaci di condividere quella rivolta pacifica necessaria
a ridare la speranza e a riformulare un sogno.
Cosa pensano i giovani degli adulti? Siamo abituati a filtrare il
loro pensiero attraverso una lettura familistica o sociologicizzante, quando basterebbe ascoltarli e mettersi dalla loro parte
per meglio comprendere il mondo degli adulti di cui facciamo
parte. Una ragazza in internet, giovane, ma chiara e lucida:
“Per capire che idea hanno gli adulti di noi giovani basta semplicemente
accendere il televisore o sintonizzare la radio su una qualche frequenza.
Pioveranno notizie inerenti ad adolescenti bruciati da alcol e droga, a
ragazzi che si picchiano in classe o si accendono uno spinello nell’ora di
matematica. Dato che questo è l’unico aspetto adolescenziale noto a chi
non è un adolescente, lo stereotipo del quindicenne è diventato quello del
ragazzo che non ha rispetto per nessuno, e come fanno vedere spesso alla
tv, che non rispetta nemmeno la legge. Ci sono invece altri ragazzi, che
non sono dei santi però nemmeno dei teppisti, che non vengono mostrati
in televisione. Io mi ritengo uno di quei ragazzi che, semplicemente, si
possono definire “normali”. Capisco che questo termine ormai lo si senta
dire poco quando si parla di adolescenti, però ogni tanto farebbe piacere
sentirlo dire. Il ragazzo che fuma in classe finisce al telegiornale, mentre
mai una volta che si sentano delle notizie sui ragazzi che fanno volontariato o che magari fanno gli animatori nella propria parrocchia. A
causa di ciò gli adulti sono spinti a pensare che tutti i ragazzi sono uguali,
facendo delle assurde generalizzazioni. Perciò questa immagine del
ragazzo quindicenne non mi sembra veritiera né tantomeno adeguata. Il
link journal 2/2012
mio parere è che ogni ragazzo è diverso, e che quindi prima di fare delle
generalizzazioni, sarebbe più appropriato pensarci un po’ su”.
E ancora:
“Io non mi pongo la domanda: "cosa farò nella vita". Piuttosto mi domando: "cosa se ne farà la vita di me?" La vita è un treno, il destino è
il binario che percorre, ma non ci sono soste, non ci sono deviazioni, va
dritta, giunge al capolinea e tutto finisce.
La vita è un viaggio e ha come destinazione la morte, ma siamo noi che
guidiamo questo treno, e non possiamo, anzi non dobbiamo permettere
che deragli. Questo è ciò che penso io, L… G…, quindici anni tra
dubbi, domande senza risposta, solitudine interiore... tra essere me stesso
ed essere me stesso nel mondo.
Quindi mi domando: "cosa ne farò della mia vita?" Vivo e vivrò, poi
cosa ne sarà di me? Cosa ne sarà di ciò che ho fatto, di quello che ho vissuto, quello che ho amato, desiderato, odiato, rifiutato? Tutto si perde
nella polvere?
Forse è così, forse per ognuno di noi c'è un mondo a parte, una realtà diversa per ogni individuo dove sei solo tu che vivi, gli altri non sono altro
che manichini, fantocci senz'anima posti attorno per caratterizzare la
tua vita, per distruggerla a me e renderla migliore ad un altro.
Morto io quindi muore tutto. L'universo collassa su se stesso; gli uomini,
gli animali, le piante, i microrganismi, tutto cessa di vivere.
Nella realtà di L… G… Gesù Cristo è Dio personificato e le persone
respirano con la bocca e il naso. Nella realtà di un altro individuo Dio
non esiste e gli uomini non respirano. In altre realtà ancora non esistono
realtà e il tutto è niente.
Quindi, posso io lasciare le mie orme in questo mondo, se quando morirò
spariranno insieme a me? Tutto si perde nella polvere”.
Giovani che ci trasmettono una sensazione di impotenza,
quasi di dolore. Possono i tanti giovani che vivono una vita
non piena appellarsi a noi affinché anche noi ci si trovi pronti
ad una rivolta culturale per affermare quei valori o progetti
che nell’introduzione di questo scritto sono stati fissati?
Quando Albert Camus pone, nell’incipit del suo L’uomo in
rivolta, la domanda: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che
dice no” e conclude: “In quella che è la nostra prova quotidiana, la
rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la
prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. E’ un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore.
Mi rivolto, dunque siamo”, ci offre una risposta e nel contempo
una strada.
È evidente che lo stimolo da raccogliere non è quello di una
rivolta caratterizzata da una intollerante contrapposizione, ma
di una rivolta di pensiero, culturale, di cui si sente fortemente
il bisogno. Riappropriarsi della libertà di costruire un sogno
è, oggi, per tutti, ma soprattutto per le giovani generazioni, il
fine cui tendere per sentirsi ‘vivi’ e parte operante in una so-
link journal 2/2012
giovani
cietà che chiede a ciascuno un pizzico di originalità per formulare un sogno collettivo. Non saranno l’economia o la politica a realizzare questo sogno, ma gli uomini che non
avranno più timore di dire quel no, consapevoli che un sì, nella
logica globale odierna, non cambierebbe loro alcunché.
69
“I have a dream”, è il testamento che ci ha lasciato Martin
Luther King (1963), quel sogno deve ancora compiersi e va
oggi raccolto perché: “Questo è il momento di realizzare le promesse
della democrazia… della giustizia… della fratellanza; questo è il tempo
di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio”.
Lo sviluppo e il progresso nascono
dalla nostra capacità di inventare
I
n Italia, così la chiamavano i Greci, tra il V ed il III secolo Queste ipotesi, da me formulate, da dove vengono? Prima non
ac, vivevano gli intelletti più alti del mondo, filosofi, politici, esistevano. Nessuno me le ha suggerite
scienziati, e, non credo per caso, il livello di vita delle loro Invento.
comunità era enormemente più elevato, rispetto a quello degli Procedo insomma con un balzo a scoprire cose ignote. Così
altri popoli. Lo sviluppo economico segue quello intellettuale. posso ipotizzare, assiomatizzare, per poi dedurre i teoremi, con
Mi sembra che così sia sempre stato.
opportune regole di derivazione. Questa capacità è stata chiaNon sarebbe spiegabile altrimenti come mai l’Italia, senza ap- mata anche abduzione. Quando invento, invento. Finora nesprezzabili giacimenti di materie prime e, così ci descrivono, preda suno ha formulato ipotesi credibili, non contraddittorie o non
del disordine, sia oggi uno dei paesi più ricchi, civili e sviluppati assurde, su questa attività umana.
del mondo. Forse in questo territorio con tanti
E la qualità più mirabile di ogni essere umano è
popoli, si sono trasmesse attitudini antiche al penproprio
la capacità di inventare.
sviluppo
siero critico, libero, che ci consentono di inventare.
Forse è l’attività che meglio si potrebbe scegliere,
Ma anche dell’Europa dovremmo dare una dese qualcuno sentisse la necessità di distinguere il
scrizione più corrispondente alla realtà.
genere umano dal genere scimpanzé, o dal genere
La qualità
L’Europa ha la prima economia del mondo, un Pil
calcolatori elettronici.
più mirabile
superiore a quello Usa, ed è anche il vero faro della
Si tratta di un mistero insoluto. Il nostro pensiero
civiltà, ha la democrazia, non ha la pena di morte
può immaginare, inventare. E anzi ogni progresso,
di ogni
ed è attenta anche ai più deboli, con lo stato sociale.
anche piccolo, viene da lì.
essere
Dove lo stato sociale non c’è, riescono a spendere
E non riguarda solo le attività “alte”, la scienza o
umano
molto di più, solo per l’immensa popolazione
la nascita di teorie. Ogni attività umana si sviluppa,
è la capacità se c’è un individuo che inventa.
carceraria. Non mi sembrano furbi. Il pensiero occidentale non è un richiamo culturale lontano, noi
Protagora, il fondatore della sofistica, faceva il
di inventare
non siamo gli eredi di quel pensiero, noi siamo
facchino. Un giorno stava caricando un asino e
quel pensiero, noi siamo quelli che hanno pensato
metteva su i pesi con un certo sistema, detto
la democrazia, la civiltà dei diritti individuali, che
cercine. Democrito, già affermato maestro del
hanno distinto le cose dalle parole, che hanno penpensiero e politico importante della città, chiede a
sato la logica, la scienza e via e via.
Protagora: “Dove hai imparato questo modo di caricare?”,
Io, qui da noi, sono un individuo, libero di esprimere il mio risposta:“Lo ho pensato io” e Democrito: “Allora smetti di fare il
pensiero. Dico ciò che ritengo ed invento, con assoluta libertà, facchino e vieni ad occuparti di filosofia e della città”.
pensieri nuovi e diversi.
.Il genio siede ovunque, non solo nei centri di ricerca. Alcuni
Ma come invento?
hanno sostenuto che questa attività, tipicamente umana, deriva
Possiamo partire così: mi trovo davanti un problema, diciamo dalla osservazione dei fenomeni. Ma non credo che sia così. I
un fatto, che mi appare come un problema.
fenomeni, i fatti del mondo, gli oggetti, neppure posso disPer cercare il modo migliore di superarlo, formulo una ipotesi, tinguerli, né dare loro un nome, se non ho una teoria, un punto
o alcune ipotesi coerenti, dico che può darsi che quel problema di vista.
sia fatto così e così e che per risolverlo si possa fare così e così. Un’automobile è composta da 100 parti.
Massimo Pistone, Link Campus University
70
giovani
link journal 2/2012
I nostri giovani - LinkAcademy/DAMS
Dunque l’automobile dove si trova? In ogni singola parte o
soltanto se tutte le parti sono unite in un certo modo? O anche
posso chiamarla automobile se alcune delle parti ci sono e altre
no? E se fossero messe assieme in un altro modo, sarebbe sempre un’automobile? Forse mi cavo d’impaccio se dico che l’automobile è un concetto del mio intelletto, è una parola del mio
linguaggio. Non mi soffermo molto su questo punto. Cito
soltanto la frase di un antico filosofo, Eraclito: “Il sole ha la
grandezza di un piede umano”.
Se mi siedo per terra e alzo un piede a coprire il sole, e ripeto
questa operazione, starei facendo ripetute osservazioni sperimentali del fenomeno, su cui poi applico l’induzione.
Quindi concludo, con certezza sperimentale scientifica, che “Il
sole ha la grandezza di un piede umano”.
Non se ne esce, per questa via si arrivano a dire solo assurdità.
Ho il sospetto che qualcuno creda gli esseri umani delle specie
di robot. Neanche per idea. Noi siamo un’altra cosa, assai misteriosa, dotata di ragione critica e di fantasia.
E’ proprio l’attività dell’ inventare ipotesi, che rende affascinante ed emozionante l’avventura della scienza e della
conoscenza.
Non c’è nulla di scontato, sono io che invento.
Poi dovremo sottoporre quella ipotesi ad esami duri, rigorosi,
per vedere se funziona. Saremo disposti, ben disposti, anche
ad abbandonare l’ipotesi, riconoscendo l’errore. L’errore ci fa
fare un passo avanti. Non è una sconfitta della conoscenza, è
conoscenza. Tutti commettono errori ed anzi proprio così possiamo procedere. Forse una cosa sarebbe necessaria. Che ci
allenassimo a riconoscere e valorizzare quando una persona
dice qualcosa di innovativo e non cercassimo di rubargliela.
O forse che lui imparasse a difenderla, con le unghie e con i
denti. Non si può, dunque, spiegare né insegnare la invenzione.
Nè De Bono, ma neppure il grande Guilford, ci sono riusciti,
enunciando le loro teorie sul pensiero laterale o divergente.
Perfino Poincaré ne ha solo descritto la natura, definendola
come la capacità di ordinare, in modo nuovo e utile, elementi
esistenti. Ma forse possiamo fornire, nel nostro sistema educativo, molte occasioni di allenamento al pensiero astratto. Un
esempio può essere Euclide, che nel III secolo a.C. sapeva che
i triangoli e le rette non erano oggetti reali.
Erano invenzioni astratte, vive solo dentro il suo sistema di
pensiero, inventato da lui anche quello.Le geometrie non euclidee, senza il quinto postulato sulle parallele, nascono quando
un gesuita, Giovanni Girolamo Saccheri, comincia a capire
come ragionava Euclide, dopo 2000 anni.
Quanto tempo perso.
Il nostro futuro, quello che noi costruiamo, penso che abbia
le sue basi qui, in questi concetti, e lo sviluppo, forse anche il
progresso se ce lo meritiamo, nasce nello stesso modo.
Benjamin Stender
Il mio “sogno italiano”
tra aula e palcoscenico
Benjamin Stender è uno dei giovani attori della Link
Academy (www.linkacademy.it) che compone il cast del
Cyrano de Bergerac di Alessandro Preziosi, prodotto da
Khora.teatro con il Teatro Stabile d’Abruzzo e attualmente
in tournée nei teatri di tutta Italia. Lo spettacolo, basato
sulla celebre commedia teatrale di Edmond Rostand, si avvale della regia dello stesso Preziosi e delle importanti collaborazioni artistiche di Andrea Taddei (scene), Alessandro
Lai (costumi), Andrea Farri (musiche), Valerio Tiberi (luci)
e Nikolaj Karpov (movimenti scenici) nonchè della partecipazione di nove attori della Link Academy.
Danese, 24 anni, non ancora diplomato, Benjamin è stato
scelto da Alessandro Preziosi per il ruolo di Cristiano de
Neuvillette, rispecchiando così l’intento del direttore artistico dell’Accademia di formare figure professionali internazionali che vivano, in maniera concreta e diretta, il
delicato passaggio dall’aula al palcoscenico. Tra una tappa
e l’altra della tournée,
Benjamin ci racconta la sua esperienza.
Come sei arrivato a interpretare Cristiano nel Cyrano?
Alessandro mi ha visto al lavoro durante gli anni di studio
all’Accademia, e mi ha scelto dopo la rappresentazione di
noi studenti alla fine del II anno. Sono iscritto al III anno
del Corso di Recitazione, appena terminerà la tournée del
Cyrano tornerò a studiare con i miei compagni. L’altra sera
li ho visti in scena al Teatro Vascello con un bel lavoro sul
Musical Theatre.
Non sei spaventato da un impatto così forte e immediato col mondo del lavoro?
Tutto ciò che sto vivendo è incredibile, penso spesso che
sto vivendo il sogno italiano ma sto facendo anche grossi
sacrifici per seguire la mia passione, non ultimo cambiare
paese, vivere lontano dalla mia famiglia...
Hai scelto di lasciare il tuo paese per la recitazione.
Intervista a cura di Francesca Di Giovanni
link journal 2/2012
giovani
71
Che rapporto hai con gli altri attori e con i tuoi compagni di Accademia?
Gli attori più grandi li ascolto e li osservo molto per apprendere il più possibile dalla loro esperienza. Tra noi ragazzi c’è
dialogo e confronto: parliamo molto per risolvere ogni questione, per affrontare i problemi insieme e trovare uno stile
che ci rispecchi e ci accomuni sul palcoscenico. Il tutto ovviamente seguito dal regista, che ci guida e ci dà indicazioni
specifiche in base alle esigenze dello spettacolo.
Com’è lavorare con Alessandro Preziosi?
Alessandro mi affascina come persona e come attore. Ha
una forte energia e riesce a riempire il teatro con tutto se
stesso e a colorare l’aria. Soprattutto mi piace il suo essere
umano fino al midollo.
E’ stato difficile inserirsi nel contesto artistico e di studio del nostro paese, con una lingua che non è la tua?
Il mondo della recitazione italiana è focalizzato sulla lingua
e sulla voce. L’italiano è una delle lingue più belle e difficili
del mondo. Sto studiando tanto per questo e mi piace molto
perché, a differenza del danese che è piuttosto rigido, voi
avete la possibilità di colorare ogni cosa con le parole.
L’obiettivo di Alessandro Preziosi come Direttore
Artistico dell’Accademia è di dare agli studenti l’occasione immediata di confrontarsi con il pubblico. Dalle
tue parole sembra ci sia riuscito...
Il Cyrano è il primo progetto davvero grande e importante
a cui partecipo, prima di esso avevo vissuto molto poco del
mondo dello spettacolo. Per me, questo mondo è come una
montagna: va scalata piano piano, un passo dopo l’altro per
arrivare sulla vetta.
Non dev’essere facile perseguire i propri sogni e, al
contempo, riuscire a garantirsi autonomia e indipendenza... Ci riesci con questo lavoro?
Sì, ci riesco senza alcun aiuto. Mia madre non lavora e mio
padre è pastore protestante, e da dove vengo io è uno dei
lavori con lo stipendio più basso. Fortunatamente, riesco a
pensare a me stesso e a non gravare su di loro.
La preparazione artistica del Cyrano è stata seguita
anche dal maestro Nikolaj Karpov, che insegna all’Accademia. Cosa ha significato, per te, lavorare con lui?
Karpov è un uomo che ha vissuto due vite, ha una consapevolezza della vita a dir poco incredibile. Riesce a riempire ogni parola, al cui interno ci mette delle vite e crea dei
romanzi tutt’intorno. A me, che non sono italiano, è stato
molto d’aiuto per entrare nella parte, mi ha accompagnato
nella creazione della vita dentro il personaggio tanto da con
sentirmi di interpretarlo al meglio.
Che cosa ti lascerà quest’esperienza?
E’ il mio ingresso nel mondo del lavoro e, nonostante un po’
di paura, tutto ciò non ha fatto altro che aumentare la mia passione per il teatro, e confermarla come obiettivo per il mio futuro.
iTest your University Choice:
l’app per orientarsi nell’Università
Link Campus University lancia l’applicazione per iPhone, iPad
e dispositivi Android: iTest your University Choice. Si tratta di
uno strumento-gioco nuovo, efficace e semplice da usare, destinato a quanti si trovano alle prese con la scelta della facoltà universitaria a cui iscriversi.
Grazie a questa nuova app, gli studenti potranno facilmente
orientarsi nel mondo universitario e scoprire il percorso di studi
più adatto a loro.
Rispondendo ad una serie di domande, che permettono di evidenziare le abilità trasversali, gli interessi e gli hobby, iTest your
University Choice sarà in grado di valutare le risposte e consigliare il corso più in linea con la personalità, i punti di forza e le
capacità dello studente.
L’app è un prodotto originale Link Campus University e offre un
valido supporto nella scelta della facoltà più coerente con le attitudini e le aspirazioni professionali dei ragazzi.
Semplicissimo da usare: inserendo i propri dati si accede al Test.
Rispondendo a otto blocchi di domande (gate), vengono analizzate inclinazioni e potenzialità dell’utente, che ottiene una prima
indicazione di orientamento universitario.
Inoltre, inserendo il proprio numero di cellulare, l’utente riceve
via SMS un profilo personalizzato.
L’app è già disponibile sull’Android Market e lo trovi anche su
iTunes Store. Trovi ulteriori informazioni e istruzioni per l’uso
su universitychoice.net, orientamentouniversitario.net.
La scelta del tuo futuro è una conquista importante. Orientati con
noi!
link journal 2/2012
Link Campus University
Link Campus University
Cari amici,
Link Campus, fin dai primi anni della sua presenza in Italia, ha lavorato per realizzare una didattica, sulla frontiera più avanzata della ricerca
e del rapporto tra studio e lavoro nonché sull’utilizzo delle lingue straniere
nello studio delle discipline professionali. Il che significa che non è sufficiente far crescere il proprio bagaglio di conoscenze: è fondamentale saperle
utilizzare per la “soluzione dei problemi” con ampia visione di sistema e interdisciplinarità.
Alla Link Campus la formazione è il risultato di un dialogo quotidiano tra docente e studente. Prima che delle conoscenze agli studenti viene
inse-gnato un metodo di studio e di lavoro, integrando il sapere e il fare.
Sono i due cicli di studi, laurea triennale e laurea magistrale, che consentono di raggiungere una professionalità adeguata alle responsabilità richieste a un dirigente-imprenditore. Il primo ciclo serve a dare i fondamentali
delle conoscenze e il metodo di studio. Nel secondo ciclo si porta a compimento la formazione che rende capaci di mettere insieme i saperi scientifici
differenti per risolvere i problemi del fare, nelle aree delle professioni economiche, giuridiche, politiche, della conoscenza.
Lo studio comparatistico consente di avere una formazione necessaria a lavorare tra economie, culture e società diverse.
La Link Campus attua il suo progetto formativo in collaborazione
con altre eccellenti Università internazionali puntando alla mobilità degli studenti e dei docenti e al conseguimento di un doppio titolo accademico.
Link Campus è una Università pubblica, non statale, legalmente riconosciuta, che fa parte dell’offerta complessiva del sistema universitario
italiano.
Certamente non esiste differenza in ordine al valore legale del titolo
che si consegue in tutte le Università italiane, statali e non statali. Tuttavia,
con il progredire rapido della competizione globale, sia gli studenti che le
loro famiglie sono divenuti più attenti ai contenuti e alle modalità con cui le
Università provvedono ad organizzare le attività accademiche.
A livello mondiale, si compilano graduatorie delle Università sulla
base di parametri obiettivi di valutazione delle attività di ricerca, di didattica,
di intermediazione, di rapporto con le imprese e dei tempi intercorrenti tra
la laurea e l’impiego, la padronanza di più lingue straniere.
Con il passare degli anni ciascuno di voi valuterà la scelta operata,
a seconda che l’Università lo abbia, o meno, aiutato a realizzare il proprio
“sogno”.
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Preparing
Pr
eparing leaders
le
eaders for
for evolving
evo
olving worlds
w
SCUOLA GRADUATE
Corsi di Laurea
Economia Aziendale Internazionale
Corsi di Laurea Interclasse
Comunicazione e DAMS
Discipline delle arti figurative, della musica, dello spettacolo e della moda
Scienze della Comunicazione
Scienze della Politica e dei Rapporti Internazionali
Scienze dell’Amministrazione e dell’Organizzazione
Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali
Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico di 5 anni
Giurisprudenza
Corsi di Laurea Magistrale
Tecnologie, Linguaggi e Diritto della Comunicazione
Gestione Aziendale
Corso di Laurea Magistrale Interclasse
Studi Strategici e Scienze Diplomatiche
Relazioni Internazionali
Scienze della Politica
Per Informazioni ed iscrizioni
Ufficio orientamento
Via Nomentana, 335 - 00162 Roma
Numero Verde: 800226633
E-mail: [email protected] - www.unilink.it
Master
MBA in Family Business and Entrepreneurship
MBA in Diritto e Management dello Sport
MBA in Energy and Sustainable Development
Master in Intelligence and Security
MPA in Gestione delle Organizzazioni Pubbliche
Complesse
Master in Innovation, Development and International
Economic Cooperation
Master in Economia dello Sviluppo e Cooperazione
Internazionale
Master in Diritto Penale Internazionale
Master in Gestione dei Beni e delle Aziende Sequestrate
alla Criminalità Organizzata
Master in Direttore degli Eventi dello Spettacolo
dal Vivo
Master in Regia e Scrittura Creativa
Per Informazioni ed iscrizioni
Ufficio orientamento
Via Nomentana, 335 - 00162 Roma
Numero Verde: 800226633
E-mail: [email protected] - www.unilink.it
Preparing
Pr
Prep
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evo
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SCUOLA POSTGRADUATE
EURILINK EDIZIONI
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F
in dall’Unificazione le strategie dello Stato Italiano per com- Vincenzo Scotti
battere la mafia hanno oscillato tra il “convivere” e la messa
in campo di “azioni di guerra”, mirate a combattere Cosa Nostra Collana: Tempi Moderni
e a estirpare la cultura mafiosa diffusa in vaste aree del Mezzo- Edizione: aprile 2012
giorno d’Italia. Al di là delle due condizioni estreme, si è deter- Pagine: 332
minata, spesso, una zona grigia nella quale si esprimeva l’intensità Formato: 14 x 21
dello “scambio” tra mafia, società e politica. Oggi si parla sempre Prezzo euro 20,00
ISBN:978-88-95151-57-1
più insistentemente della possibilità che, agli inizi degli anni novanta e nel pieno di una “guerra” contro la mafia, vi sarebbero
stati tentativi di una vera e propria “trattativa” tra rappresentanti
dello Stato e la mafia. E il tema dei rapporti tra Stato e mafia è
diventato, alla luce delle inchieste della Magistratura, di nuova
stringente attualità. Con il suo libro, Vincenzo Scotti, che è stato
uno dei protagonisti della politica italiana nella stagione segnata
dalle stragi di mafia, cerca di far comprendere quello che ha conosciuto e ha fatto nell’esercizio delle proprie responsabilità, interpretando, in modo rigoroso, i fatti accaduti attraverso
documenti, analisi e valutazioni riferite a quel preciso periodo.
L
a presenza della mafia è ancora forte, i condizionamenti della vita civile e politica sono sempre più evidenti, il territorio
di molte aree del Mezzogiorno resta sotto il controllo sovrano delle cosche. Nella nuova dimensione del mondo questa
forma di criminalità organizzata è riuscita anche a sviluppare i suoi collegamenti con altre mafie che sono venute mutuando
comportamenti e strumenti d’azione sempre più conformi a quelli della mafia siciliana. Le diverse attività criminali si intreccianocon le attività terroristiche, con il traffico delle armi, con il narcotraffico...
Vincenzo Scotti
L
’oggetto di analisi di questo libro sono le Reti Sociali, da qui il nome di Analisi delle Reti Sociali (SNA). Questa metodologia permette di delineare le caratteristiche e la struttura delle relazioni che caratterizzano i fenomeni sociali in questione. In base alla metodologia adottata l’analisi dei casi specifici é stata sviluppata in fase di elaborazione delle informazioni
giudiziarie e amministrative in possesso delle autorità competenti dei paesi in questione. L’analisi di questi casi permette non
solo di accertare l’identità, il ruolo e la collaborazione funzionale-organizzativa e funzionale-istituzionale degli attori sociali,
ma anche di determinare la natura delle relazioni all’interno di ogni Rete Sociale...
Luis Jorge Garay-Salamanca
Luis Jorge Garay-Salamanca
Eduardo Salcedo-Albarán
Collana: Tempi Moderni
Edizione: maggio 2012
Pagine: 220
Formato: 14 x 21
Prezzo euro 18,00
ISBN: 978-88-95151-69-4
S
i pensa che criminalità e Stati siano due realtà contrapposte.
Questa convinzione vede nello Stato un’entità omogenea
che agisce allo scopo di far rispettare la legge e nel crimine organizzato - come ad esempio il narcotraffico - un soggetto che
agisce secondo modalità che infrangono la legge. Per il raggiungimento di questi due obiettivi lo Stato ricorre alla coercizione mentre il crimine organizzato alla corruzione, al
sequestro, all’omicidio o al terrorismo. Gli studi più recenti dimostrano anche che il rapporto tra Stato e crimine organizzato
non sempre è basato solo sullo scontro.Infatti, in alcuni casi, il
crimine organizzato è riuscito ad infiltrarsi e a corrompere alcune istituzioni dello stato per raggiungere obiettivi ovviamente
illegali.