Il Ballo degli Impresentabili Dirò com`è che stanno

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Il Ballo degli Impresentabili Dirò com`è che stanno
Il Ballo degli Impresentabili
Dirò com’è che stanno effettivamente le cose. Il senso
di quello che da un po’ di tempo mi stava capitando l’ho
compreso l’altro giorno, leggendo un racconto di un tizio
di Viadana, Mantova, che all’anagrafe fa Ivan di nome
e Cardinale di cognome. C’è uno che sono tre mesi che
non gli riesce di cagare. C’è questa cosa marrone, dentro,
che gli cresce nell’intestino come a creare un blocco metabolico che è un blocco come dire esistenziale, esiziale,
di moralità di una vita segreta, nascosta, poco morale,
da tenere dentro come si tiene dentro tutto ciò che di noi
è sporco e che quindi non può uscire. Io no, ma come
uguale. Cioè, uguale, ma contrario. Sono tre mesi che mi
è presa questa forma di colite dolorosa, inarrestabile, irresistibile. È come se una forza che viene dall’esterno mi
sta succhiando fuori tutto come si succhiano le chele di
un succosissimo astice alla catalana. Cioè, io è da sempre che soffro di colite, ma adesso è tutto molto peggiorato. Sono stanco, ed è un continuo. Ho paura. Adesso
non riesco più nean­che a uscire fuori casa, dal tanto che
c’ho da cagare. Ho fatto tutti gli esami che dovevo fare,
ma il punto è che non c’ho un cazzo di niente. O per lo
meno niente di sballato a livello di intestino, colon, retto. Tutto regolare, a quanto pare. Per fortuna uno però
c’ha preso. Un dottore, per così dire, della testa. Ha detto
che tutto questo mio cagare c’ha un’origine per lo più
nervosa. Non sto bene a questo mondo, m’ha detto quel
dottore. C’ho qualcosa di irregolare nella percezione che
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Daniele Musto
c’ho delle cose che vengono da fuori. Mi schiacciano,
mi comprimono, mi strizzano, quello lì mi ha detto. E io,
cioè, io, lì per lì, non è che tanto c’ho dato peso, a tutte
quelle cose lì. Ma adesso sì. Ho letto questo racconto di
questo tale Cardinale e c’ho trovato come un senso. Scrivo, e da parecchio. Scrivo e mi interesso di scrittura, così
direi. Come una spugna imbevuta di sapone che si strizza
sulla schiena di un ciccione che fa il bagno, quello sono.
O, alle volte, la chela di un succosissimo astice alla catalana. Poi non so. Alle volte il mal di pancia che sento è
così forte che mi vien su anche da vomitare. Alle volte i
conati di vomito così violenti che mi colano le orecchie
di cerume come che è il cervello che ha preso a uscirmi
fuori dalla testa. Poi mi sveglio in una pozza di escrementi vischiosi e maleodoranti come che adesso sono senza
peso. “Il peso oscuro” si intitola quel racconto che ho
detto poco fa. Mentre che io mi sento mero peso. Cioè,
non lo so se è proprio così, o se è solo come una suggestione. Ma mi sento mero peso, decisamente, adesso.
Cioè a dire peso liberato dal suo essere corporeo, ma non
solo. Peso. Nel senso che ho lasciato andare fuori tutto, e
così rimango io, mero peso, oltre tutto. L’essenziale, nel
senso dell’essenza. Chiudi.
Apri. Ivan Cardinale l’ho conosciuto nel 2008. Lui mi
ha detto che aveva lasciato il suo lavoro di Area Manager
di una ditta del settore medicale per dedicarsi giorno e
notte alla scrittura. Io pensavo che era un pazzo e che
mai avrei lasciato il mio lavoro di Area Manager di una
ditta del settore pavimentazioni per esterno per una cosa
che non mi avrebbe portato da nessuna parte. Tre mesi fa
ho letto che lui avrebbe pubblicato per Struzzo Edizioni.
Non c’è molto altro da aggiungere, direi. Solo che io è
da allora che questa cazzo di colite ha preso questa piega
inaspettata, devastate, irreversibile. Mi sto squagliando
come un gelato cascato dalle mani di un bambino trop8
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po capriccioso. E ricapitolo per avere un po’ più chiaro
il senso della situazione: una chela di un succosissimo
astice alla catalana, una spugna imbevuta di sapone che
si strizza sulla schiena di un ciccione che fa il bagno o
un gelato cascato su di un marciapiedi dalle mani di un
bambino troppo capriccioso. Certo il Cardinale lo avrebbe detto meglio e, d’altra parte, ce la dovrà pur essere una
cazzo di ragione se quello pubblica con Struzzo, mentre
che io mi sto rantolando come un maiale in una pozza di
escrementi chiuso a chiave dentro al cesso. Chiudi.
Apri. Il giorno dopo sono dal Ferrarini che gli spiego
del racconto e del senso che c’ho trovato mentre che lo
leggevo. Gli dico che ho pensato a quello che mi ha detto
e che ho fatto coincidere l’inizio di questo mio problema
con un fatto e glielo racconto. Non ha dubbi. Se ne voglio
uscire devo pubblicare. Mero peso. Chiudi.
Apri. Scrivo un racconto che si intitola “Il mero peso”,
che si aggancia a quello del Cardinale che si intitolava
“Il peso oscuro” e che spiega un po’ le cose. Lo invio a
Mattia S. Chiari, quello che gli ha pubblicato il racconto
al Cardinale, e aspetto che quello mi risponde. L’intento
è certamente quello di pubblicare, siccome che penso che
lo merito. Ma dopo qualche giorno ancora non ho ricevuto alcuna risposta. Ma dopo ancora qualche altro giorno
sì, mi risponde. La mail che mi manda di risposta è anche
accorata. Mi spiega che cazzo di delusione è stato il vecchio Cardinale. Da quando gli hanno detto che avrebbe
pubblicato per Struzzo Edizioni gli è presa questa forma
di occlusione intestinale pesantissima e lui non se lo riesce più a inculare. Che schifo fottersi su dal culo uno che
è tre mesi che non caga! Mi scrive. E io com’è che sono
messo? Mi scrive, e cioè a dire col culo. Chiudi.
Apri. Gli rispondo quello che è, e cioè che sono messo
male e anche parecchio; che, da quando ho saputo che il
Cardinale avrebbe pubblicato per Struzzo Edizioni mi è
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presa questa forma di colite che mi ha ridotto quasi in fin
di vita, così che gli rispondo. Ma gli rispondo così, anche
che, se lui mi pubblica, allora, dopo, può essere anche che
guarisco così che allora, dopo, il mio culo sarebbe stato
tutto a sua disposizione, così che gli rispondo. Chiudi.
Apri. Niente. E cioè a dire che, da allora, non c’è stato
più nessun altro contatto col S. Chiari. L’assenza di contatto, nelle questioni che regolano i rapporti tra scrittori
ed editori, è un’enormità, un sopruso, una forma di ingiustizia che andrebbe punita con la vita. Io, ai coglioni
delle case editrici, gli auguro a tutti quanti di morire in
questo istante soffrendo e rantolandosi nella loro merda
come dei maiali. Ma tant’è, pazienza. Per ora quello che
sta morendo così a quel modo sono ancora io. Vitaccia.
Chiudi.
Apri. Dopo qualche giorno che ancora sto morendo,
mentre che il S. Chiari ancora niente, niente. Ma dopo
ancora un qualche giorno, invece, sì, finalmente si decide
e mi risponde. Ed è gentile. Si scusa per via che ancora
non mi aveva dato una risposta, ma che c’ha avuto un
qualche problema di salute. Siccome che tutti gli scrittori
che ha pubblicato c’hanno il culo occluso dalla merda,
si è dovuto ridurre ad andare coi travoni che s’è beccato
una di quelle infezioni al cazzo che si è dovuto fare tutto
il ciclo di antibiotici che lo hanno messo ko. Ma tant’è,
adesso un po’ va meglio e così veniamo a noi, mi scrive.
Non è male la cosa che gli ho mandato e mi vorrebbe fare
quattro parole. Mi dà un appuntamento lì da lui così che ci
possiamo parlare con un po’ di calma, e io ci vado. Chiudi.
Apri. L’ufficio del S. Chiari non è niente di che; con
tutti i libri non letti e un po’ di disordine, ma neanche tanto. Lui è inguardabile, sembra disturbato e probabilmente
lo è, vai tu a sapere il cazzo di motivo. Ma, comunque
sia, ci salutiamo come che ci conosciamo e poi stiamo
in silenzio per un po’. Io non so bene cosa dire e lui,
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forse, neanche. Poi scendiamo giù al bar per un caffè. Poi
torniamo su da lui e veniamo dritti al dunque; vorrebbe
scrivere un racconto su di uno che vorrebbe essere pubblicato per venire a capo dei suoi problemi intestinali, ma
che il racconto che ha mandato all’editore gli viene rubato dallo stesso editore così che quello muore di colite fulminante. Non capisco. E allora mi spiega; il racconto “Il
mero peso” che gli ho inviato lo ha già pubblicato sul suo
sito, ma a firma sua. Come la vedo? Malissimo la dovrei
vedere; così che lui, adesso, ci dovrebbe avere la sua cazzo di possibilità di scrivere il suo cazzo di racconto su di
me che muoio di colite fulminante perché ovviamente ho
appena visto svanire la mia ultima e più concreta possibilità di pubblicare. Come la vedo? Effettivamente la vedo
malissimo, e glielo dico. Però c’è poi una cosa da capire,
e cioè il perché io, adesso, dovrei stare qui a fargli da
cavia per il suo progetto e perché poi lo dovrei fare anche
gratis. E contrattiamo. Ok, contrattiamo. E così contrattiamo. Cosa voglio? Voglio la possibilità di pubblicare, di
pubblicare un racconto su di un editore frocio e figlio di
puttana che vuole pubblicare un racconto su di uno che,
siccome che non riesce di pubblicare, allora muore di un
attacco di colite fulminante. Ok, se ne può anche parlare,
ma c’è un ma, mi dice il S. Chiari. E cioè che, se lui mi
pubblica come che gli ho detto appena io, poi è ovvio
che io non muoio più di colite fulminante, ma mi salvo,
no? Mica mi credevo che ci sarebbe caduto in una cazzo
di trappola così del cazzo, no? E allora? E allora, cosa?
Siamo allo stallo creativo totale, ci zittiamo. Poi lui prova
a dire, ma fa di no con la testa. Non ci siamo, per davvero.
Ci risentiamo non appena che a uno gli viene una buona
idea? Ok, tanto qui non ha più tanto senso di restare. Lo
saluto e me ne vado. Chiudi.
Apri. Il Processo: “E così tu avevi pensato che ti sarebbe piaciuto andare allo spettacolo”... Chiudi.
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