Scheda di approfondimento

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Scheda di approfondimento
Progetto Interreg “Tra.Me.Vi.Ve.”
Numero: [Data]
Le borre, le serre
e le ciovende
Il trasporto tradizionale del legname
Scheda: Le borre, le serre e le ciovende
Nell’ economia tradizionale della Val Vigezzo, una voce importante era
occupata dallo sfruttamento degli estesi boschi delle alte quote.
Attività che dava lavoro a una manodopera maschile ma anche femminile
in una dura applicazione fisica.
Oltre alla tipica attività del boscaiolo nell’abbattimento delle piante e nella
grossolana scortecciatura e pulitura dei tronchi in loco (trasformandoli così
in “borre”) tutta una serie di operazioni era legata al trasporto del legname
a valle.
In epoche antiche, l'unico modo per poter trasportare il legname era quello
di sfruttare la forza di gravità e il moto naturale dell'acqua verso valle. I
tronchi, dapprima subivano un primo grossolano processo di levigatura e
di scortecciatura (in gergo diventavano “borre”), in seguito venivano
accumulati in piccoli invasi d'acqua, appositamente realizzati attraverso la
costruzione di chiuse o dighe artificiali (“serre”).
Quando le chiuse venivano aperte, l'acqua defluiva con forza e trasportava
il legname a valle lungo il corso del torrente.
1 Scheda: Le borre, le serre e le ciovende
Per incanalare correttamente i tronchi e portarli dai boschi alle serre, in
seguito, dalle serre a valle, si provvide a costruire le “ciovende” (con le
varianti “cioende” o “sovende”), cioè argini in legno, terra e pietra che,
quantomeno in linea teorica, servivano a regimentare il flusso dell'acqua e
dei tronchi nei punti critici del torrente, in modo particolare in prossimità
di strettoie o anse particolarmente acute.
Il sistema della borra-serra-ciovenda era ampiamente in uso agli inizi del
XIX secolo, se non già a fine Settecento, come emerge dalla stampa di
Carlo Amoretti “Viaggio da Milano ai Tre Laghi”, redatta nel 1809:
“Vendon esse (piante di faggio e larice, nda) all'incanto al maggior
offerente il diritto di tagliare il bosco, lasciando però intatte le piante che
non hanno un dato diametro. S'atterra l'albero, si priva de rami e della
corteccia il tronco, e dividesi in parti dette “borre”, longhe sei braccia
(11 piedi parigini) se hanno per lo meno un piede e mezzo di diametro; e
lunghe otto braccia se il diametro è minore”.
Ne parla qualche decennio dopo anche il Dizionario Geografico Storico,
Statistico, Commerciale degli Stati di S.M. Il Re di Sardegna, redatto nel
2 Scheda: Le borre, le serre e le ciovende
1842:
“Le piante tagliate si riducono in tronchi ivi detti borre; queste per
apposite strade si fanno strisciare fino al Melezzo e quindi per
ondeggiamento si fanno ire per acqua a tronchi sciolti fino al Lago
Maggiore.
Per accrescere momentaneamente l'acqua del fiume si sogliono costrurre
le cosiddette serre, edifizi mirabili, tanto per la semplicità quanto per
l'artifizio e la solidità dei medesimi. Consistono in una doppia travatura di
legno appoggiata agli scogli che formano le due sponde del fiume,
attraversanti il letto di esso e sostenuti da una gran quantità di sassi e da
appositi sostegni e rinforzi.
Nel centro di tali travature avvi un'apertura assai grande munita di
robustissima porta: chiusa questa viene arrestata l'acqua del fiume e in tre
o quattro ore si forma un piccolo lago artificiale, allora con un
semplicissimo meccanismo si apre la porta e l'acqua sorte con impeto ed
in gran copia seco traendo a centinaja le borre.”
3 Scheda: Le borre, le serre e le ciovende
Nell'area del Canton Ticino e in parte anche in Ossola, esiste ancora il
cognome “Borradori”, che deriva dal termine utilizzato per qualificare il
mestiere di coloro che si occupavano dell'allestimento delle borre e che
sovrintendevano al corretto funzionamento degli invasi d'acqua.
Anche l'antico “Vocabolario dei dialetti della città e diocesi di Como” del
1835, che definisce la borra come un “rotondo d'albero, atto a rotolarsi”,
ne attesta inequivocabilmente la diffusione anche al di fuori dell'area
ossolana-ticinese, fin nell'area dei laghi lombardi
I benefici delle ciovende erano tuttavia limitati, poichè parte del carico
andava perduta durante la discesa verso valle, incagliandosi nelle sponde
dei torrenti o frantumandosi, e poichè i tronchi, che cadevano a velocità
elevatissime, rischiavano di urtare ponti, edifici e argini, provocando danni
materiali.
Senza contare che molto spesso l'onda di piena finiva per sfuggire al
controllo e poteva andare a causare pericolose tracimazioni d'acqua più a
valle.
4 Scheda: Le borre, le serre e le ciovende
In caso di lieve pendenza del torrente, tipica dei corsi d'acqua che
percorrono il fondovalle come il torrente Melezza, si poteva usare lo stesso
sistema anche in inverno, facendo appositamente congelare la ciovenda e
facendo dolcemente scivolare i tronchi sulla superficie ghiacciata: “a tal
oggetto si fa la “sovenda”, cioè una strada incanalata e per quanto si può
dritta, che ogni valletta e burrone attraversa. Si profitta del fondo ov'è
opportuno; quindi si costruisce a foggia d'argine, co gl'inutili rami de
recisi alberi, con sassi e sovrapposta terra, l'inclinata strada: nel fitto
inverno copresi questa con alto strato di neve; e sovra la neve fassi passar
dell'acqua che vi geli, finchè tutta la strada riducasi ad un ghiaccio solo.
Spingesi gli uomini su questo ampio sentiero di ghiaccio le borre, che
venendo ajutate ove s'arrestano o sviano, con poca fatica de giornalieri,
precipitano al fiume, portandosi alla mentovata serra” (Amoretti - 1809).
Naturalmente la distanza percorsa dai tronchi era minore rispetto a quella
percorsa in caso di caduta libera lungo i pendii delle montagne, ma altresì
meno dannosa.
In Valle Vigezzo erano conosciute due “sovende” che portavano il
legname al Melezzo Occidentale. Una di ben otto chilometri, che partiva
5 Scheda: Le borre, le serre e le ciovende
dalla Piana di Vigezzo e terminava a Toceno.
Un detto locale racconta che fosse costruita con tale precisione, che se si
fosse fatta scendere una ciotola piena d’acqua sarebbe giunta senza
perderne una goccia.
L’altra partiva dal bosco sottostante al Pizzo Ragno e terminava in località
Praudina, a Santa Maria Maggiore.
Percorrendo dapprima gli affluenti, poi il Melezzo e la Melezza, le borre
raggiungevano rispettivamente Domodossola e il Lago Maggiore.
Venivano
poi
organizzate
in
zattere,
trasportate
nelle
segherie
(manualmente o semplicemente sfruttando le correnti del lago) e quindi
lavorate.
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