Ceramics Museum`s Catalogue - Museo della Ceramica di
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Ceramics Museum`s Catalogue - Museo della Ceramica di
FAUSTO BERTI IL MUSEO DELLA CERAMICA DI THE CERAMICS MUSEUM OF MONTELUPO storia, tecnologia, collezioni history, technology, collections Ben diverso, infatti, si presentava questo problema ai primordi dell’istituto. Nell’ormai lontano 1983, infatti, la prima raccolta museale, più che fotografare la realtà della quale voleva rendere conto, somigliava piuttosto a quei giochi enigmistici nei quali, congiungendo diversi punti numerati, emerge un disegno sommario. Essendo pochi i nuclei documentari definiti, la ricostruzione della produzione ceramica di Montelupo necessitava inoltre di un’opera significativa d’integrazione mentale tra gli scarsi punti fermi già stabiliti dall’indagine archeologica e le numerose lacune che invece il tracciato presentava. Oggi le linee possono finalmente segnarsi con relativa facilità, ottenendo un’immagine finalmente conchiusa e coerente, pur se ancora bisognevole, per dirsi realistica, di tanti colori, toni e chiaroscuri. La breve premessa era necessaria per introdurre alla comprensione della complessità che attiene alla costruzione del Museo della Ceramica di Montelupo e del progetto di ricerca storica dal quale esso è scaturito: dovendo rispecchiare peculiari modalità di accrescimento della documentazione e delle conoscenze, infatti, questo istituto si è realizzato attraverso un’opera “a geometria variabile” – paziente e rischiosa allo stesso tempo – protrattasi per quasi trent’anni. Sappiamo come le attività di musealizzazione, per quanto inevitabilmente sottoposte ad un progetto INTRODUZIONE Il Museo della Ceramica di Montelupo. Le problematiche e lo sviluppo storico del progetto. Questa pubblicazione non costituisce un catalogo in senso tradizionale del Museo della Ceramica di Montelupo, non potendolo essere per diverse ragioni, formali e sostanziali. In primo luogo essa non descrive in maniera analitica tutti i documenti esposti al pubblico: il loro numero, assai elevato (oltre il migliaio), comporterebbe infatti la confezione di un volume dalle dimensioni ponderose e francamente improponibili. Il Museo della Ceramica di Montelupo, inoltre, rappresenta il terminale di un’attività di ricerca costante, che si concretizza in un incremento pressoché quotidiano delle collezioni: la musealizzazione delle raccolte non può che rispecchiare tale fenomeno attraverso una continua variazione dei documenti esposti. Ogni tentativo di fermare su carta questo moto di progressivo avvicinamento ad uno standard sempre più raffinato non potrebbe perciò che produrre documenti imperfetti, inadeguati a restituire una realtà in continuo movimento. Occorre, quindi, puntare su una completezza relativa, anche se scientificamente esauriente dei principali sviluppi tecnologici e formali della storia della ceramica di Montelupo, aggiornandola costantemente attraverso newletters e contributi diversi, in grado di dar conto delle maggiori novità. In ciò, allo stato attuale di sviluppo dell’impresa museale montelupina, consiste il nostro impegno. 19 tions which are able to give an idea of the most important new developments. In essence, this encapsulates the enterprise of the Montelupo museum system. The Institute’s situation was very different at the beginning. Indeed, in the now distant 1983, the first museum collection, more than metaphorically photograph the reality it wanted to give an account of, resembled rather those enigmatic activities where joining the numbers together produces an overall picture. However, having too few defined documented points of reference, the reconstruction of the history of ceramic production in Montelupo required a significant operation of mental integration of the scarce fixed points already established through archaeological investigation and the numerous gaps that the layout presented. Today, the lines can be drawn with relative ease, obtaining an image that is finally complete and coherent, even if, being realistic, many colours, tones and shades are missing. The brief preamble was necessary to give an idea of the complex situation regarding the construction of the Museo della Ceramica di Montelupo and the historical research project from which it sprung given the particular ways in which the docu- INTRODUCTION The Museo della Ceramica di Montelupo. The problems and the historical development of the project. This publication doesn’t constitute a catalogue in the traditional sense as far as the Museum of Montelupo is concerned as it isn’t, for various reasons, formal and substantial. In the first place it doesn’t describe in an analytical manner all the documents on public exhibition: their number, which is quite high (more than a thousand), would indeed require the assemblage of a weighty volume that, quite frankly, couldn’t realistically be proposed. The Museo della Ceramica di Montelupo also represents the terminus of constant research activity which is consolidated by an almost daily increase in collection size; a museum exhibition can only mirror this phenomenon through a continued variation of the exhibits. Each attempt to capture on paper this progress towards an increasingly refined standard can only produce an imperfect documentation, unable to portray a reality of continuous movement. It is therefore necessary to aim towards a relative completion, but one that is scientifically thorough in demonstrating the principal technological and form developments through the history of Montelupo ceramics, with constant updating through newsletters and diverse contribu- INTRODUZIONE rappresentare una realtà ben più vasta, facendo comunque intendere che esse tenevano aperto un vettore di sviluppo, in grado di trasformarle presto in qualcosa di diverso e di più approfondito. La musealizzazione del “caso Montelupo”, dovendo praticare una ricerca archeologica e storica “aperta”, per essere priva di collezioni e documenti organizzati, è avvenuta perciò senza il ricorso a modelli precostituiti, ed ha necessariamente dovuto percorrere quelle modalità di accrescimento “variabili” sulle quali ci siamo poc’anzi soffermati. Le condizioni nelle quali una questione di non poco momento, quale la fabbricazione della maiolica nel centro valdarnese – una delle più importanti d’Europa – versava sino all’ultimo trentennio del secolo scorso, segnalano d’altronde un problema di distorta percezione, per comprendere il quale non è sufficiente richiamarsi in maniera generica allo scarso interesse che per lungo tempo avrebbe accompagnato in Italia la storia della ceramica e delle arti applicate in genere. Fatta salva una fase storica indubbiamente difficile, che però non si protrae oltre la metà dell’Ottocento, già nel periodo dell’Unità nazionale si segnala l’opera di non pochi collezionisti, i quali andavano accumulando cospicue raccolte di manufatti ceramici in ogni regione della Penisola. Basta sfogliare i volumi delle Esposizioni Universali che si tenevano presso il Museo Artistico Indu- striale di Roma sul finire dell’Ottocento, per accorgersi del livello, per l’epoca notevole, al quale era allora pervenuta la ricerca storica, antiquaria e collezionistica. Nel caso specifico di Montelupo, ad esempio, sappiamo come già verso il 1870 collezionisti e studiosi come l’aretino Vincenzo Funghini erano in grado di individuare alcune produzioni caratteristiche di questo centro di fabbrica, e ne acquistavano correntemente esemplari, sia attraverso il mercato delle antichità, che rivolgendosi ai cosiddetti “cercatori”, personaggi cioè che si procuravano oggetti, talora scavandoli nei luoghi medesimi di provenienza. Queste figure di appassionati collezionisti, ad iniziare da Giovanbattista Passeri, praticavano d’altronde essi stessi la ricerca archeologica, ed erano perciò attratti soprattutto dal valore della testimonianza, oltre che dalla bellezza, dei manufatti, e non si curavano perciò troppo dello stato frammentario di quello che trovavano: non per caso il Funghini restaurava il più delle volte di persona ciò che gli procuravano i suoi “cercatori”. Si può dire così che in Italia sino all’ultimo decennio del XIX secolo ci si sia dedicati sostanzialmente ad una libera ricerca delle testimonianze storiche dell’antica produzione fittile nazionale: anche se questa attività non era praticata dallo Stato, ma piuttosto da appassionati ricercatori, essa era certamente in grado di apportare conoscenze traducibili in un’ampia e variegata musealizzazione; tutto ciò, però, non avvenne. Perché, dunque, le eccellenti premesse ottocentesche svanirono nel breve volgere di qualche decennio? Sarebbe troppo facile rispondere che ciò accadde perché furono gli stranieri a spoliare l’Italia delle sue opere, come qualche scrittore ha suggerito. Non sussiste alcun dubbio sul fatto che i grandi musei inglesi, francesi e tedeschi siano riusciti ad acquistare, già verso la metà dell’Ottocento (penso soprattutto al Victoria and Albert) importanti esemplari di ceramiche smaltate italiane, mirando ovviamente ad accaparrarsi le gemme più preziose, ma ciò non toglie che in termini numerici la sproporzione tra ciò che restava e che ciò usciva dalla Penisola fosse incomparabile: la sola collezione Funghini comprendeva infatti più di 15 mila oggetti, molti dei quali erano proprio ceramiche. Fu piuttosto il clima che venne a crearsi attorno al Museo di Faenza a disarticolare una crescita che sino ad allora era stata vistosa e non traumatica. Nell’Italia della seconda metà del XIX secolo, da poco unificata sotto le bandiere dei Savoia, era del resto inevitabile che prendesse piede il campanilismo delle “piccole patrie”, che mal tolleravano un più ampio confronto nazionale, cercando di accreditare le loro “eccellenze”, veraci o supposte che fossero. Tra i tanti esempi di questa deleteria corsa al primato, che non rappresentò certo un’esclusività faentina, basterà citare il caso dell’Urbani 21 20 mentation and knowledge increased. Indeed, this institute has been realized through a “variable geometry” enterprise, patient and risky at the same time and protracted for almost thirty years. We know how museum activity, inevitably subject to “political” projects, consists of a normative design which is logically complete, already established during the setting up phase. However, a similar formula with such tight and rational connotations could never have permitted the scientific reconstruction and public restitution of the history of ceramics in Montelupo. Normally, a museum is built around a collection and not a problem, something like what happens - and there is a meaningful, not casual similarity to the Montelupo enterprise, deriving in large part from the same research methods - in an archaeological environment: also in this case, the growth of the institution depended upon the archaeological finds and on the collections that they assured. Archaeological museums however don’t have as a task the definition of a single problem but of a multiplicity of connected elements that relate to different periods and questions (dwelling places and daily lives etc), with which they must work, without letting them constitute an excessive limitation for the beneficiaries, and using relatively flexible approximation and exemplification criteria, in our case, presenting numerous facets where there was only one object and only one which had to be affronted in a coherent and tendentiously exhaustive manner. To create a museum without a patrimony to be collected and exhibited is obviously impossible, but this wasn’t our case: indeed we had to construct images that would adequately represent a vast reality, one that would remain open to developments that could transform it into something different and much deeper. The creation of a Montelupo “case” museum, which had to practice “open” archaeological and historical research, not having organized collections and documents, came about therefore without pre established models and has necessarily had to follow the course of a “variable” growth path on which we have remained. The conditions under which the representation of the fabrication of majolica in the centre of the Valdarnese – one of the most important in Europe - which continued producing up to the last thirty years of the last century, present a problem of distorted perceptions, and to understand it, it isn’t enough to blame in a general manner, the scarce interest which for a long time accompanied the history of ceramics and applied arts in general. Even though it was undoubtedly a difficult phase in histo- ry, one which however didn’t protract beyond the middle of the nineteenth century, even during the period of National Unity, the undertakings of the not few collectors were not noted, collectors who went about accumulating conspicuous collections of manufactured ceramics in every region of the peninsula. You only have to turn the pages of the volumes of the Esposizioni Universale which were kept at the Museo Artistico di Roma towards the end of the nineteenth century to have an idea of the level of historical, antiquarian and collection research. In the specific case of Montelupo, for example, we already know that towards 1870, collectors and amateur researchers such as Vincenzo Funghini from Arezzo were able to individuate some products characteristic of this centre of production, and they easily bought examples either through the antiques markets or through the so called “hunters”, characters who procured objects, seeking them out in their place of origin. These passionate collector figures starting with Giovan battista Passeri, conducted archaeological research themselves and were attracted by the testimony of these objects as well as their history, beauty and manufacture. They were not so concerned with the fragmentary condition of what they found: not by chance Funghini often restored personally that which the “hunters” procured. We can say that up to the last ten years of the XIX century in Italy, there was a substantial dedication to finding historical testimony to national ceramics production: even if this activity wasn’t practiced by the state but rather by passionate researchers who were certainly able to provide evidence to a large and varied museum system which however didn’t materialize. Why then did the excellent nineteenth century initiative disappear over a brief period of ten years? It would be easy to answer that it happened because foreigners stripped Italy of its prized works, as other writers have suggested. There is no doubting the fact that well known English, French and German museums managed to acquire, towards the middle of the nineteenth century (above all Victoria and Albert), important examples of Italian glazed ceramics, with the aim of capturing the most precious gems. But this doesn’t remove the fact that there was a large difference, in numerical terms, between what remained and what went out of the Peninsula: the Funghini collection alone comprised more than 15 thousand objects most of which were ceramic. It was the climate that was created around the Museo di Faenza that disrupted a growth that had been up to then very visible but not traumatic. During the second half of the XIX century in an Italy not long unified under the INTRODUCTION INTRODUCTION INTRODUZIONE “politico”, consistano di norma in un disegno logicamente conchiuso, spesso già definito nella fase d’impostazione, ma una simile formula dai connotati stringenti e razionali non aveva alcuna possibilità di applicazione al compito di ricostruire scientificamente e restituire al pubblico la vicenda storica della ceramica di Montelupo. Di norma, infatti, si costruisce un museo attorno ad una collezione, e non ad un problema: qualcosa del genere avviene – e la somiglianza con la vicenda montelupina è significativa e non casuale, derivando in larga parte dalla stessa metodica di ricerca – in ambito archeologico: anche in questo caso la crescita dell’istituzione dipende dai rinvenimenti e dalle raccolte che i medesimi assicurano. I musei archeologici, però, non hanno come compito la definizione di un singolo problema, ma una molteplicità di quadri relativi, che afferiscono a periodi e questioni diverse (le abitazioni, la vita quotidiana, etc.), ai quali essi si rapportano, senza che ciò costituisca un’eccessiva limitazione per i fruitori, con criteri di relativamente larga approssimazione ed esemplificazione; nel nostro caso, pur presentando numerose sfaccettature, l’oggetto era invece uno ed uno soltanto, e doveva perciò essere affrontato in maniera coerente e, tendenzialmente, esaustiva. Fare un museo senza un patrimonio da musealizzare è ovviamente impossibile, e non era dunque questo il nostro caso: qui si trattava, semmai, di costruire immagini adeguate a INTRODUZIONE ge der Majolikakunst in Toskana chiarisce bene il senso della presenza dominante del polo museale e della rivista faentina agli inizi del XX secolo. Bode, infatti, aveva segnalato nella sua opera la singolarità e l’importanza della tradizione fiorentina, notando per la prima volta come una serie di tipologie che fanno da cerniera tra Medioevo e Rinascimento, quali la “zaffera a rilievo” e la famiglia di decori che, sulla scorta del Wallis, si definiva ormai “italo moresca”, mostravano chiaramente radici toscane, e fiorentine in particolare. Nel 1913 lo stesso Ballardini, citando sulla sua rivista il lavoro dello studioso tedesco, annunciava una replica polemica all’opera dell’illustre collega che, tuttavia, mai fu pubblicata (e probabilmente neppure tentata): quest’opera fondamentale non è stata mai tradotta in italiano e, stampata in poche copie a Lipsia e Berlino, non ha, di fatto, mai circolato in Italia. In tal modo la maiolica “fiorentina” dell’inizio del Quattrocento è stata “riscoperta” solo dopo il 1970, grazie agli studi di Galeazzo Cora. Dopo i duri anni della Prima Guerra mondiale, il Museo di Faenza fu coinvolto nei fasti del Fascismo, che lo beneficiò in vario modo, eleggendolo a sede di ogni manifestazione ceramica nazionale ed internazionale che si teneva in Italia. Fu così che dal 1928 al 1940 si organizzarono presso il Museo di Faenza i Corsi di storia della ceramica medievale e moderna. Il clima, nonostante la facciata, non era dei migliori: notiamo, ad esempio, che, a differenza di quanto normalmente avveniva, le lezioni tenute da Filippo Rossi su Firenze e Montelupo non vennero mai pubblicate nella rivista, mentre la scoperta di importanti reperti a Mondaino, paese posto nell’entroterra di Pesaro, non sortì alcun risultato: i materiali furono infatti prelevati d’autorità dall’allievo prediletto del Ballardini, Giuseppe Liverani, che poi inspiegabilmente “li perse”. Il primato faentino non mancò di scoraggiare i tentativi di musealizzazione e valorizzazione delle tradizioni locali, alla quale erano chiamati per loro natura proprio i musei civici, in quanto espressione diretta delle diverse comunità, ma, salvo rarissime eccezioni, si trattava di sezioni ceramiche inserite nei musei nazionali, all’interno delle quali non operavano studiosi o conservatori qualificati, in grado di confrontarsi con i colleghi romagnoli. Dentro la macchina dello Stato l’autoritarismo aveva inoltre agio di propagarsi, e le censure subite dal Rossi, allora direttore del Museo Nazionale di Firenze, sono a tal proposito illuminanti, ma i casi si potrebbero moltiplicare. Il podestà di Arezzo, ad esempio, contravvenendo alle precise disposizioni testamentarie di Vincenzo Funghini, convinse i suoi eredi a versa- re la raccolta ceramica da lui formata presso il Museo Nazionale; in tal modo non soltanto non nacque una raccolta civica autonoma, la quale avrebbe avuto un ben diverso impatto sulla musealizzazione della ceramica in Toscana, ma gran parte dei materiali della collezione, non trovando spazio in quel contesto, finirono nei depositi (dove ancor oggi si trovano). Detto questo, non si devono altresì dimenticare quei fattori culturali che, unendosi a questo clima di “lotta per il primato”, contribuirono da par loro ad allontanare, già tra le due guerre mondiali, una possibile affermazione dei musei della ceramica e delle arti applicate in Italia. Bisogna riconoscere obbiettivamente – ma ciò non giunge certo a scalfire la grandezza del personaggio – che questo clima avverso si collega all’opera di un grande italiano: Benedetto Croce, un intelettuale di livello europeo che rappresentò nei tempi bui del Fascismo l’unica fonte di pensiero libero e democratico. La dottrina idealistica crociana si contrapponeva fieramente a quelle forme di positivismo – divenuto ormai deteriore – che lo studioso napoletano aveva conosciuto sin dai tempi della formazione intellettuale. La musealizzazione di manufatti che derivavano da INTRODUZIONE de Ghetholf, che, per ricondurre nella sua regione l’attività dei Terchi, trasformò Bassano Romano nell’omonima località (Bassano del Grappa) del Veneto, producendo un documento falso, appositamente fabbricato. L’incredibile tesi che l’Argnani, a spese del Ministero della Pubblica Istruzione, venne accreditando attraverso un’opera per quei tempi monumentale, non si può comprendere nella sua genesi se non riflettendo sul fatto che già nel 1870 la borghesia faentina si era data come programma la costruzione di una supremazia sulla ceramica italiana, che passava attraverso l’identificazione tout court della tradizione nazionale con l’opera dei vasai di quel luogo. La baruffa accesasi poi attorno a Cafaggiolo, la cui esistenza – ed è davvero singolare – doveva essere negata per affermare la supremazia del centro romagnolo, sbarrò la porta ad ogni possibile costruzione condivisa della storia della ceramica italiana. Proprio perché redarguiti da tutto il consesso internazionale, i promotori dell’iniziativa faentina decisero di passare all’azione, affidando a Gaetano Ballardini il compito di superare de facto questa difficoltà attraverso la costruzione di un museo della ceramica. Era tuttavia evidente che la musealizzazione dei manufatti faentini non sarebbe stata sufficiente da sola a consolidare la supremazia nazionale di Faenza, ed è per questo che nel 1911 lo stesso Ballardini fondò la rivista “Faenza”. La vicenda dell’opera di Wilhelm Bode Die Anfan- La copertina del volume Die Anfange der Majolikakunst in Toskana di Wilhelm Bode 23 flag of Savoia, it was quite inevitable that parochial “little homelands” would emerge in opposition to national unity and these attempted to accredit their own “excellence”, whether true or supposed. Amongst these was the case of Urbani de Ghetholf, who, to conduct in his region the Terchi activity, transformed into Basano Romano the Homonymous locality (Bassano del Grappa) del Veneto, producing a false document, fabricated specifically for that purpose. The incredible thesis that the Argnani, paid for by the Ministry of Public Instruction, was accredited for what was for those times a monumental work, can’t be understood unless one considers the fact that already in 1870 the Faentina Bourgeoisie had as a programme the construction of a supremacy of the Italian ceramic industry, which passed through the identification tout court of the national tradition with a collection of vases from the local area. The lively dispute that erupted around Cafaggiolo whose existence - and it is truly singular – had to be denied in order to affirm the supremacy of the Romagnolo centre, doors were closed in front of any attempt at joint efforts in the Italian ceramics industry. As it was rebuked internationally, promoters of the Faentina initiative decided to take action, entrusting Gaetano Ballardini with the task of overcoming this difficulty through the construction of a ceramics museum. It was however obvious that a collection based on objects manufactured in Faenza alone would not have been enough to consolidate the national supremacy of Faenza so in 1911, Ballardini founded the magazine “Faenza”. The work by Wilhelm Bode Die Anfange der Majolikakunst in Toskana illuminated the domination of the museum system in Faenza and the importance of the magazine at the beginning of the XX century. Bode, indeed, indicated in his work the singularity and importance of the Florentine tradition, noticing for the first time how a series of typologies can form the hinge between the medieval and Renaissance periods, for example the “Zaffera relief” and the family of decorators who are , after Wallis, defined as “Italo Moresca”, demonstrating clear Tuscan roots and particularly Florentine. In 1913 the same Ballardini, citing in his magazine the work of the German amateur researcher, repeated the affirmation but it was never published (and probably not even considered): fundamentally, this work has never been translated into Italian and never circulated in Italy and only a few copies were printed in Lipsia and Berlin. Given the circumstances, Fiorentine Majolica, produced since the beginning of the fifteenth century, was only rediscovered after 1970 Die Anfange der Majolikakunst in Toskana (Wilhelm Bode), INTRODUCTION INTRODUCTION 22 Book cover thanks to the studies of Galeazzo Cora. After and during the First World War years, The Faenza museum was involved in the annals of Fascism which benefited it in many ways, having a prized place in every national and international ceramics event held in Italy. From 1928 to 1940 courses on the history of medieval and modern ceramics were organized in the Museum. The climate, notwithstanding appearance, wasn’t the best: for example, the lessons held by Filippo Rossi on Florence and Montelupo were never published in the magazine, while the important discovery of objects at Mondaino, near Pesaro, produced no result, the material was removed with authority by Giuseppe Liverani, a student of Ballardini and later “got lost”. Attempts to value reflect local traditions in the civic museum systems were discouraged apart from rare occasions, rather sections of ceramics were placed in National museums within which there were no qualified conservers or researchers able to compare their ideas with their Romagnoli colleagues. Within the State machine, authoritarianism needed to propagate, and the censures suffered by Rossi, the then director of the Museo Nationale di Firenze are illuminating but there were indeed many more such cases. The jurisdiction of Arezzo, for example, contravening the wishes of Vincenzo Funghini, convinced his heirs to give the entire collection to the National museum; in these circum- INTRODUZIONE vocate dal conflitto congelarono ovviamente ogni possibilità di sviluppo della rete museale nazionale, mentre il predominio delle posizioni idealistiche e crociane, ormai pienamente attuato, frenava da par suo l’interesse per la storia di un’arte ormai concordemente considerata “minore”. Fu la definitiva ripresa postbellica, per il nuovo clima civile e culturale che venne diffondendosi, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, a creare le premesse per un effettivo sviluppo museale in tema di storia della ceramica, e, con esso, l’occasione per portare finalmente alla ribalta il caso di Montelupo. La ricerca storica in senso lato – e quindi anche l’archeologia e la storia dell’arte – andarono incontro in quegli anni ad un’enorme dilatazione dei loro confini disciplinari, lasciando inevitabilmente scettici uomini la cui formazione intellettuale risaliva ad epoca anteriore: un conflitto generazionale che attraversò le coscienze, e che bene si può percepire, ad esempio, nelle pagine metodologiche scritte allora da Ranuccio Bianchi Bandinelli: uno studioso che pure aveva contribuito a questo stesso processo di rinnovamento. Ovviamente una tale innovazione era stata annunciata da tempo da uomini coraggiosi ed appassionati, anche se soltanto nell’Europa definitivamente risorta dalle macerie del conflitto mondiale trovava il modo di affermarsi. Ai giovani di allora – ed ancor più a quelli che si formarono nei primi anni ’Settanta – pienamente coinvolti nel tumultuoso turbine della circolazione internazionale delle idee, sembrò così naturale allargare quasi a dismisura i propri orizzonti ed i propri interessi. Fu in particolare la scuola storica francese e l’influenza che essa diffondeva tramite la rivista Annales, creata da Marc Bloch e Lucien Febvre, a rendere quasi popolare l’esigenza di scrivere la storia “à part entière”, utilizzando per questo tutte le fonti idonee a cogliere un obbiettivo tanto ambizioso. Ai giovani storici ed archeologi divenne così cara e familiare l’immagine di Bloch, intento a studiare la storia rurale francese en pleine aire, ricercando sul terreno la forma dei campi, e l’esempio di Fernand Braudel, intento a scrivere un’opera storica sul Cinquecento che aveva come protagonisti, piuttosto che gli avvenimenti, non solo i popoli, ma anche i mari, le montagne, ed i fiumi di uno spazio inteso come vivo e vitale. E come la narrazione storica all’improvviso voleva togliersi di dosso l’aggettivo di événementielle, ricercando una più ampia e complessa articolazione, così l’archeologia scopriva il quotidiano, le strutture abitative, la ceramica d’uso comune; essa usciva dai ristretti ambiti cronologici e tematici di un tempo per andare incontro al Medioevo ed alla storia della tecnologia, della produzione, degli scambi e del popolamento di quei mille e cinquecento anni, prima di allora indagati soltanto con l’ausilio delle fonti scritte. E non per caso – a sottolineare la saldatura tra nuova storiografia e nuova archeologia – il primo testo di archeologia medievale che tutti i giovani archeologi studiavano era proprio un Cahier des Annales dedicato agli scavi dei villages desertés francesi. Anche in questo caso, come in ogni processo di cambiamento, non mancarono certamente le esagerazioni e l’eccessivo accreditamento di alcune pratiche di studio a detrimento di altre, ma il fenomeno della diffusione dell’archeologia medievale, nel più generale contesto di una nuova sensibilità per la storia, venne comunque a trasformarsi in attività concreta e diffusa all’inizio degli anni Settanta. Ed è proprio da qui che prese inizio la ricostruzione delle vicende legate alla produzione della ceramica in Montelupo. Tutto si avviò in una data precisa, e – per quanto si è visto – non casuale: il 1973. L’amministrazione comunale di Montelupo Fiorentino intese infatti realizzare in quell’anno un modesto intervento di risanamento urbano, che riguardava il margine inferiore dell’area detta “del castello”, poiché, come meglio vedremo nella pagine successive, qui sorse il primo nucleo abitato di apprezzabili dimensioni posto sulla collina di Montelupo; assumendo la fisionomia di un castello cinto di mura, questo insediamento ha così lasciato un’impronta indelebile di sé nella toponomastica locale. All’estre- 25 24 stances, not only was an autonomous civic collection halted, one that would have had a very different impact on the ceramics museum system in Tuscany, but much of the material, as there wasn’t enough space, finished in deposits (where they remain today). This said, lets not forget the influence of the cultural factors which, united with the “struggle for supremacy” contributed to towards the distancing, also during the two world wars, of a possible affirmation of the ceramics museums and applied arts in Italy. We need to objectively recognize – but not simply to blur the greatness of the person – that this adverse climate is connected to the work of a great Italian: Benedetto Croce, an intellectual on a European level who represented during the dark ages of Fascism, the only source of free and democratic thought. The idealistic doctrine marked with a cross was fiercely opposed to that form of positivism – which had become worse – that the studious Napolitano had known since his intellectual beginnings. The exhibiting in a museum of manufactured objects deriving from the applied arts seemed to be a form of materialism for Croce and part of the “positivism” doctrine and encyclopaedic, something he had fought against for all his life. As it often happens however, it wasn’t the master but the disciples and interpreters – the lash of the Italian manager class that had emerged from the second world war – who advanced this position arguing that even in this field there should be made a division between “poetry and non poetry” which represents a reference point when establishing the criteria for “Crocian” (Cross) art. Museums yes, but with poetic works where the human spirit dwelled in all its genuine splendour, not collections of products manufactured in series which reminded one of the infinite classifications of scientific positivism. Twenty years of Fascism therefore posed objective obstacles, institutional in character, to the growth of museums dedicated to ceramics, sustaining openly the centrality of Faentina and developing, more than an objective research of traditional history, the utopia of an autarkical production linked to the particular kind of development assigned to the Musei Artistico-Industriali in that period, the reference models of which revolved around the historic production of Urbino and Faenza; at the same time, the diffusion of the idealistic doctrine tightened the level of social consensus regarding every form of museum destined artefact that didn’t have high artistic objectives as its aim. The Second World War and the destruction it provoked froze every possibility for development of the national museum network whilst the predominance of the idealistic and “cross” positions, as they were fully activated, put a brake on its interest for the history of an art that was generally considered “minor”. It was the post war recovery and the new civil and cultural climate, especially during the 1960’s that created the preamble for an effective development of the museum system based on the ceramics theme, and the occasion to bring to the fore the case of Montelupo. Historical researches, in a wide sense – and therefore archaeology and the story of art – experienced an enormous dilatation of their disciplinary borders, leaving those whose intellectual formation took place in a preceding epoch sceptical: a generational conflict which crossed consciences, something which can be perceived in the methodological pages written by Ranuccio Bianchi Bandinelli: a scholar who contributed to the renewal process. Obviously, such an innovation had been spoken of by courageous and enthusiastic men much before, even if only the parts of Europe definitively recovered from the world conflict could assert themselves. To the young at the time – even more so those whose formative years were the 1970’s – completely involved in the tumultuous turbine of the international circulation of ideas, it seemed very natural to enlarge their horizons and their interests to a disproportional level. It was in particular the historical French school and its influence diffused through the magazine Annals created by Marc Bloch and Lucine Febvre that made quite popular the need to write history “à part entier”, using all the appropriate sources required to achieve such an ambitious objective. The image of bloch intent on studying rural France en pleine aire, doing his research on the fields themselves was very dear to the young historians and archaeologists of the time as was the example of Fernand Braudel, who, intent on writing a historic piece on the history of the sixteenth century, had as protagonists not only people and events but the seas, mountains, and rivers, elements which gave life and vitality. And like improvised historical narration he wanted to remove the adjective évenementielle as he searched for a wider and more complex articulation, permitting archaeology to discover daily life, housing structures, the everyday use of ceramics; it emerged from the restrictive chronological limits and themes of a time to permit a meeting with the Medieval and the story of technology, from production, exchanges, to the populating of those one thousand five hundred years. Before then, investiga- INTRODUCTION INTRODUCTION INTRODUZIONE un’attività di arte applicata sapeva però per Croce di materialismo e di quella dottrina “positiva” ed enciclopedica che egli aveva combattuto per tutta la vita. Come spesso avviene, però, non fu tanto il Maestro, quanto i i discepoli e gli interpreti – il nerbo della classe dirigente italiana uscita dalla Seconda Guerra Mondiale – a porsi su queste posizioni, ritenendo che anche in questo campo potesse valere quella divisione tra “poesia e non poesia” che rappresentava uno dei capisaldi della critica d’arte crociana. Musei sì, dunque, ma di opere poetiche, dalle quali lo spirito umano rifulgesse in tutto il suo genuino splendore, non raccolte di manufatti prodotti in serie, che tanto ricordavano le infinite classificazioni dei naturalisti del Positivismo scientifico. Il ventennio fascista pose dunque ostacoli oggettivi, di carattere istituzionale, alla crescita di musei dedicati alla ceramica, sostenendo apertamente la centralità faentina, e sviluppando, più che un’oggettiva ricerca della tradizioni storiche, l’utopia di una produzione autarchica, legata al particolare sviluppo assegnato in quel periodo ai Musei Artistico-Industriali, i cui modelli di riferimento ruotavano attorno alle produzioni storiche di Urbino e di Faenza; nel contempo la diffusione della dottrina idealistica restringeva il consenso sociale ad ogni forma di musealizzazione che non mirasse ad alti obbiettivi artistici. La Seconda Guerra Mondiale e le distruzioni pro- INTRODUZIONE inselvatichiti ed i ruderi dei casamenti antichi ormai contrassegnavano il paesaggio, che come per miracolo riemerse la memoria storica di Montelupo. Mentre il lavoro procedeva, e non si era ancora spento l’eco delle prime picconate con le quali avevano demolito i vecchi lavatoi, gli operai incontrarono infatti un largo cerchio di pietre. Si trattava dell’imboccatura di un grande pozzo, nel cui interno, spuntando dalla terra nerastra, luccicavano in quantità frammenti di maioliche di ogni tipo. Chi vide non seppe trattenersi, tanto lo spettacolo doveva essere suggestivo; così il capo cantoniere ne raccolse le più belle in un foglio di giornale, e le portò al capo dell’ufficio tecnico comunale. Montelupo era allora un comune di circa diecimila abitanti, e simili ritrovamenti, come altre volte era accaduto, portavano di norma a qualche discussione, e magari ad un qualche apprezzamento delle “curiosità” locali, che però sarebbe stato l’anticamera della decisone più prevedibile: prendiamo qualcosa, ma ricopriamo tutto alla svelta. D’altra parte si sarebbe altrimenti interrotto un lavoro pubblico. In quell’ormai lontano 1973 tutto ciò non avvenne, e non fu tanto “per fortuna”, quanto per le qualità umane ed intellettuali di Silio Fantozzi, che allora si trovava a dirigere l’ufficio tecnico comunale. Figlio di un maestro elementare, egli aveva esercitato l’insegnamento in vari istituti superiori della Toscana, e, anche per questo, non gli era estranea la consapevolezza del valore di quelle testimonianze. È però del tutto evidente che il positivo interessamento dell’ingegnere, ove non fosse stato avvalorato dagli esponenti dell’amministrazione comunale allora in carica, non avrebbe condotto alla valorizzare di quanto il contenuto di quel foglio di giornale prometteva. Fu ovviamente all’assessore ai lavori pubblici dell’epoca, Angelo Faggioli, che Fantozzi sottopose il problema, prospettandogli la possibilità di variare il progetto in maniera tale da poter esplorare la struttura venuta casualmente alla luce, senza per questo rinunciare ai lavori di risanamento. Faggioli accolse con entusiasmo tale proposta, e così, nell’arco di tempo di circa due anni, i cantonieri del comune effettuarono un primo sondaggio del pozzo, svuotando il suo interno sino alla profondità di circa due metri. Si giunse così all’anno 1975, allorquando la notizia dei ritrovamenti montelupini giunse alle orecchie del Soprintendente archeologo per la Toscana, Guglielmo Maetzscke. Il soprintendente pensò che fosse suo dovere raffreddare in primo luogo i nascenti entusiasmi del comune di Montelupo, temendo una dispersione dei materiali e, soprattutto, una conduzione impropria ed irrazionale dello scavo. Sinceratosi, tuttavia, delle buone intenzioni degli amministratori e dei funzionari locali, pensò poi di inviare sul posto, per effettuare al meglio l’indagine del contenuto del pozzo, che ormai si qualificava come un grande scarico di fornace, una delle leve più promettenti della nascente pattuglia degli archeologi medievalisti: Guido Vannini. L’archeologia medievale era allora alle prime armi in Italia: essa, infatti, stava crescendo soltanto da due anni attorno all’omonima rivista che si pubblicava a Firenze, e dipendeva soprattutto dall’ attività di ricerca che faceva capo a Tiziano Mannoni e ad altri studiosi liguri, nonché a quella promossa dall’insegnamento fiorentino di storia medievale di Elio Conti. I liguri, assai più avanti dei toscani, avevano consolidato la loro esperienza sull’esempio di Nino Lamboglia e dell’Istituto di Studi Liguri, mutuando da essi una particolare attenzione a quella che allora soleva appellarsi come “cultura materiale”, ove lo studio della ceramica INTRODUZIONE mo lembo nordorientale del “castello”, nei pressi dei ruderi di un’antica porta, detta probabilmente “al fico” per la presenza di alberi da frutto, laddove la strada, discendendo verso il torrente Pesa, usciva dal castello, un punto pianeggiante si allargava tra un modesto ceppo di case ed il ripido pendio del margine collinare. In questo slargo la mano dei residenti, aiutata da qualche operaio comunale, aveva eretto alcuni lavatoi pubblici: necessari negli anni del dopoguerra, essi si erano ormai trasformati in un fastidioso ingombro. Il progetto comunale prevedeva dunque la demolizione delle vasche dei lavatoi, inutili e poco igieniche, la costruzione di un muro a retta verso la collina, e la posa in opera di pavimentazione in pietra: la realizzazione, insomma, di una microscopica piazza, che, dopo tanti anni difficili, rappresentava un primo passo, quasi simbolico, verso il decoro urbano della porzione più elevata del paese, resa marginale dal progressivo trasferimento di non poca parte della popolazione nelle moderne residenze del fondovalle. È bello pensare che questo atto di gentilezza, trascorso il tempo dei truculenti risanamenti bellici e del costruire rapido ed approssimativo, finalizzato com’era a rimettere in piedi le industrie del vetro e della ceramica, abbia apportato a questa comunità un dono tanto significativo. Fu infatti qui, nel Castello, il luogo più antico, ma oggetto di incipiente abbandono, ove gli orti L’inizio della scavo del “pozzo dei lavatoi” nell’anno 1973 27 tion came through the help of written sources. And not by chance – to underline the solid base between historiography and archaeology – the first text on medieval archaeology that all the young archaeologists studied was a Cahier des Annales dedicated to excavations in the French villages deserté. Also in this case, as in every process of change, there was no lack of exaggeration and excessive accrediting by some study groups at a cost to others but the phenomenon of a diffusion of medieval archaeology in a general context of increased sensibility towards history was however transformed into concrete activity and diffused in the 1970’s. It was from this point that the reconstruction of the enterprises linked to the production of ceramics in Montelupo began. Everything started on a precise date, and – as much as can be seen – not casual: 1973. In that year, the local administration of Montelupo Fiorentino intended to undertake a modest urban improvement which related to the area called, “del castello”, then, as we will see in the following pages, here rose the first inhabited nucleus of any appreciable size positioned on the hill of Montelupo; assuming the physiology of a castle surrounded by walls which has left an indelible print on the local toponymy. On the extreme northwest edge of the “castle”, near the remains of an antique gate, probably called “al fico” thanks to the presence of fruit trees, there where the road descends towards the torrent Pesa, a flat point, emerging from the castle, widened between a modest set of houses and a steep hill escarpment. In this opening, the residents helped by some labourers had erected some public works, necessary during the after war years, which had become fastidious and cumbersome. The council project foresaw the demolition of washing troughs, useless and not very hygienic, the construction of a wall erected towards the hill and stone paving: the accomplishment, in the end, of a microscopic square which after many difficult years would represent a first step, almost symbolic, towards the urban decoration of the highest point of the village made marginal by the transference of much of the population to the modern residences in the valley. It is charming to think that this act of kindness, after the period of truculent war mongering and quick fix, approximate construction, and finalized toward bringing to its feet the glass and ceramics industry, has brought to this community a significant gift. Indeed it was here, in that castle, the most ancient place but object of wasteful abandon where the overgrown vegetable gardens and ruins of houses marked the landscape, where, seemingly The beginning of the excavation of the Pozzo dei Lavatoi INTRODUCTION INTRODUCTION 26 (washing well) in 1973 miraculously, the historical memory of Montelupo re emerged. While the work proceeded and before the echo of the first blow to hit the old baths died, the workers found a wide circle of stone. It was the opening of a large well in which, pointing out from the dark earth, a large quantity of fragments of majolica of every type were seen. Whoever saw the spectacle was unable to contain themselves as it was so suggestive; the site boss enclosed the most beautiful in a newspaper and took them to the head of the town council’s technical office. At that time, Montelupo was a community of about ten thousand inhabitants, and similar finds in the past had caused discussions as well as some appreciation of the local “curiosity”, which however would have been only the antechamber of the predictable decision: let’s take something and quickly cover the rest, after all public works would be interrupted. In the now distant 1973 however, all that didn’t happen largely thanks to the human and intellectual qualities of Silio Fantozzi, who at the time was the manager of the town council’s technical office. Son of an ele- mentary schoolteacher, he had taught in many Secondary schools in Toscana and also for this reason, he realized the value of the find. It is however very evident that the positive interest on the part of this engineer alone wouldn’t have been enough to get the contents of that sheet of newspaper valued and that there needed to be interest on the part of the exponents of the town council administration then in INTRODUZIONE fondamentale nelle datazioni relative dei depositi archeologici: senza una conoscenza raffinata della ceramica, infatti, è praticamente impossibile effettuare una qualsivoglia indagine archeologica. Poiché, inoltre, una disciplina alle prime armi ha un’impellente necessità di sistemare i propri fondamenti, si può ben comprendere come la neonata archeologia medievale avesse all’inizio degli anni Settanta uno spasmodico interesse ad indagare ogni aspetto della ceramica postclassica. Se poi c’era un luogo d’Italia del quale si era venuti da poco – e con grandissima sorpresa – ad intuire l’importanza, questo era proprio Montelupo. Nel 1973 (ed è questa la terza, fondamentale coincidenza) usciva infatti a Firenze per i tipi della casa editrice Sansoni l’opera monumentale in due volume di Galeazzo Cora, Storia della maiolica di Firenze e del Contado. Ad onta del titolo del quale si fregiava, chi non le rivolgeva solo sguardi frettolosi ben comprendeva come questa storia, sotto la trama di un’indubbia koiné fiorentina, mostrava la fisionomia di due centri di produzione: Bacchereto e Montelupo. Il primo, un castello posto sul versante settentrionale del Montalbano in faccia alle città di Prato e di Pistoia, mostrava i tratti del luogo ove in epoca più antica si era dato avvio alla fabbricazione su “larga scala” della ceramica smaltata, mentre il secondo si poneva invece come il centro ove, nel pieno XV secolo, erano venute a concentrarsi le attività ceramistiche fiorentine, supportate dal capitale mercantile della Dominante. Conoscere le vicende montelupine, oltre che entrare nel vivo di uno straordinario fenomeno di produzione preindustriale, significava dunque mettere a punto le conoscenze indispensabili all’interpretazione di molti scavi postclassici, non soltanto effettuati in Toscana, ma condotti anche di ambito nazionale ed internazionale, visto che materiali del tutto simili a quelli valdarnesi emergevano in svariati contesti europei, primi tra tutti quelli inglesi e francesi. Tutto questo, dunque, si concentrò in un breve volgere di tempo: nel 1973, mentre dal sottosuolo di Montelupo emergeva l’imboccatura del “pozzo dei lavatoi”, nasceva “ufficialmente” l’archeologia medievale italiana con il primo numero dell’omonima rivista; un pubblico sempre più largo di lettori e studiosi si interessava contemporaneamente alle vicende della maiolica “fiorentina” dei secoli XIV e XV grazie a Galeazzo Cora ed alla veste monumentale e prestigiosa con la quale il suo studio usciva dalle stampe. Nell’arco di pochi anni, inoltre, si concentrarono i primi interventi di scavo condotti in Toscana con l’intento di indagare contesti postclassici; tra questi un cantiere a Firenze in piazza della Signoria, che seguiva quello di Santa Reparata, ed altri a Prato e nel suo territorio, a Pistoia ed in diverse località minori della regione. L’importanza dello scavo di un contesto di produ- zione, formato dagli scarichi di rifiuto delle fornaci di un centro di fabbrica come Montelupo, non poteva dunque sfuggire ad uno studioso attento come Guglielmo Maetzscke, perché assumeva i contorni della più stringente attualità ed era in grado di dischiudere orizzonti di conoscenza di grande interesse. Non era però sufficiente porre a capo delle operazioni da effettuare all’interno del pozzo un giovane archeologo per garantire la correttezza scientifica dell’intervento di scavo: occorreva infatti mettere a sua disposizione una squadra che potesse operare anche per la conservazione e l’archiviazione dei reperti, con l’obiettivo di ricostruire poi al meglio, attraverso il restauro, la morfologia e le tipologie decorative delle quali i materiali scavati costituivano preziosa testimonianza. Molti aspetti di questa vicenda appaiono oggi quasi incredibili, nel senso che si rischia di attribuire loro una sorta di ineffabile predisposizione a comporsi entro un quadro coerente, destinato a supportarne l’evoluzione in senso positivo, e realizzare così la piattaforma sulla quale è poi cresciuta e si è realizzata l’opera collettiva del Museo della Ceramica e della ricostruzione delle vicende storiche locali. Due giovani erano infatti cresciuti in questi luoghi, uno a Montelupo, Fabrizio Coli, e l’altro nella vicina Empoli, Alberto Forconi: entrambi ceramisti, essi nutrivano una forte passione per l’antico, e ciò li aveva portarti a frequentare la prima associazio- 29 28 charge. Fantozzi turned to the public works assessor, Angelo Faggioli to solve the quandary proposing that he vary the project in order to permit the exploration of the structure that had casually come to light, without renouncing the programmed public works. Faggioli welcomed with enthusiasm the proposal, and in consequence, within two years, the town council site staff effected the first investigations of the well and emptied its contents up to two metres of depth. It was 1975 when the news of the Montelupo find reached the ears of the Superintendent Archaeologist for Tuscany, Guglielmo Maetzscke. The Superintendent thought it was his duty to calm the situation in Montelupo to avoid a dispersion of the materials and above all, an improper and irrational excavation of the site. To be sure of the good intentions of the administration and local functionaries however, he thought to send to the site, presumed to be a large dumping ground, one of the most promising of the new battalions of medieval archaeologists: Guido Vannini. Medieval archaeology at the time was in its early stages in Italy: indeed it had been in expansion for around two years and boasted its own magazine of the same title which was published in Florence and depended above all on the research activity of Tiziano Mannoni and other Ligurian scholars, as well as that promoted by the Florentine teaching of Medieval History by Elio Conti, The Ligurians being more advanced than the Tuscans, having consolidated their experience using the example of Nino Lamboglia and the Istituto di Liguri Studi, giving particular attention to what was known as “cultural material”, where the study of ceramics was of primary importance. The Tuscans however counted more on their intelligence and the scientific far sightedness of Guglielmo Maetzscke who, after having spent not a small part of his life devoted to the archaeological research of Medieval Florence, nourished a pure propensity towards “incubating” the young discipline and used all available means to help it along. In order to understand how the discovery of the Montelupo well - thereafter known as the “washing trough well” in memory of what existed there before – didn’t end up forgotten like many previous finds, it’s necessary to consider the intellectual climate at the time which was favourable to Medieval and Post Classical archaeology in general and which pervaded at the right time as far as the discovery in 1973 was concerned. But that’s not all. It is well known that the most solid base of the archaeological disciplines, in particular those which deal with historical epochs, is the knowledge that comes through the understand of ceramics, for the simple reason that ceramics represent the vast majority of objects recovered. As well as supporting the study of various cultures, the study of ceramics gives an indication of commercial flows and in a determining way, gives fundamental testimony to the dating of archaeological deposits: without a refined understanding of ceramics indeed, it would be practically difficult to effect any archaeological research. Since a new discipline has an impelling need to fix its own foundations, one can understand why the new born Medieval Archaeology had, at the beginning of the 1970,s a spasmodic interest in investigating any aspect of post classic ceramics. If there was a place in Italy, surprisingly, that had understood the importance of this, it was Montelupo. In 1973 (and this is the third fundamental coincidence) the publishing house Sansone produced a monumental piece in two volumes entitled Storia della maiolica di Firenze e del contado by Galeazzo Cora. Whoever took the time to study the volumes more than superficially could understand a undoubtable Florentine Koiné, the main emphasis was on two centres of production: Bacchereto and Montelupo. The first, a castle set on the northern slope of Montelbano facing the cities Prato and Pistoia demonstrated traces of large scale glazed ceramic production, while the second was seen as a centre where, in the XV century, Florentine ceramic producers concentrated their production supported by the mercantile capital of the dominant. Knowing about the Montelupo affair, as well as illuminating an extraordinary phenomenon of pre industrial production, signifies having a greater understanding of the indispensable knowledge regarding the interpretation of many post classic excavations, not only conducted in Italy but on a National and International level as much of the material which emerged in Valdarno was similar to that which emerged in various European contexts, above all in France and England. All of this however took place in a short period : in1973, while from the undergrowth of Montelupo the “washing trough well” emerged, the first issue of the Italian Medieval Archaeology magazine came out “officially” and an increasing number of people took interest in the “Florentine” XIV XV century majolica thanks to Galleazzo Cora and the prestige attached to his printed works. Over the next few years, the first excavations conducted in Tuscany with the intention of investigating post classic contexts including sites in Florence such as Piazza della Signoria which followed Santa Reparata and others in Prato and its surrounding areas as well as Pistoia and smaller localities nearby. The impor- INTRODUCTION INTRODUCTION INTRODUZIONE esercitava un ruolo di primaria importanza. I toscani contavano invece soprattutto sull’intelligenza e sulla lungimiranza scientifica di Guglielmo Maetzscke che, dopo aver dedicato parte non secondaria della sua attività di studioso all’indagine archeologica della Firenze medievale, nutriva ora una vera e schietta propensione “ad incubare” la giovanissima disciplina, che infatti aiutava a compiere i suoi primi passi con tutti i mezzi che gli erano accessibili. Per comprendere come il ritrovamento del pozzo di Montelupo – poi conosciuto come “pozzo dei lavatoi”, per la memoria di ciò che gli stava sopra – non abbia avuto in sorte l’oblio dei molti altri ritrovamenti locali, occorre quindi richiamare questo clima intellettualmente favorevole all’archeologia medievale e postclassica in genere che si determinò in perfetta sincronia con il suo casuale ritrovamento nell’anno 1973. Ma questo non è tutto. Come si sa, la base più solida delle discipline archeologiche, ed in particolare di quelle che si rivolgono alle epoche storiche, è rappresentata dalla conoscenza della ceramica, per la semplice ragione che le restituzioni di materiale ceramico costituiscono la stragrande maggioranza dei ritrovamenti. Oltre a supportare lo studio di vari aspetti culturali e sociali, la ceramica può svolgere la funzione di indicatore dei flussi commerciali e, in misura determinante, il ruolo di testimonianza INTRODUZIONE nelle fabbriche di Montelupo, e che univano ad una raffinata conoscenza della materia ceramica una non banale qualificazione archeologica, derivata loro dalla partecipazione a scavi di ogni genere ed a corsi di formazione. Il gruppo di lavoro, completato da un assistente di scavo, Enea Busoni, al quale spettava l’organizzazione del cantiere e la funzione di raccordo tra la Soprintendenza ed il comune di Montelupo, si mise alacremente all’opera nel 1975, utilizzando come base operativa un locale terreno posto a Montelupo in via don Minzioni, le cui vetrate furono opportunamente oscurate. Questo clima di riservatezza era però destinato a durare ben poco. Giovani e meno giovani abitanti del luogo iniziarono infatti a passeggiare nervosamente davanti a queste stanze, occhieggiando dai pochi pertugi non coperti, e cercando di cogliere, per qualche spiraglio aperto, un barlume del “tesoro” che qui si celava. Coli e Forconi, più volte sollecitati da amici e conoscenti, non avevano cuore di non corrispondere a tanto interesse, anche perché, avendo maturato un’importante esperienza di volontariato, credevano sinceramente nella partecipazione dei cittadini alla salvaguardia ed al recupero dei beni culturali. I due amici sapevano bene che nel passato tanti, troppi ritrovamenti erano andati dispersi proprio a causa del mancato coinvolgimento, per moltepli- ci ragioni, della popolazione locale, e comprendevano come il “pozzo dei lavatoi” potesse rappresentare la tanto attesa occasione di riscatto. Fu così che un bel giorno la porta fu aperta, ed i locali già celati ospitarono per qualche ora i curiosi cittadini, che venivano appassionandosi sempre di più all’impresa, tanto da offrirsi in numero crescente come collaboratori a titolo volontario. I tempi, dunque, erano maturi perché questo rapporto con la cittadinanza, da sporadico ed occasionale, si trasformasse in una vera azione di continuo supporto e collaborazione all’opera di recupero del patrimonio locale: il protrarsi delle ricerche, del resto, rendeva ogni giorno più evidente quanto questa opera fosse impegnativa. L’operazione avviata nel 1975 stava d’altronde attraversando il suo primo traguardo: giunti al numero di circa 300 esemplari ceramici restaurati, infatti, non restava che dar conto del lavoro svolto attraverso una mostra, nella quale lo scavo del “pozzo dei lavatoi” fosse restituito al pubblico nel suo fondamentale significato di “finestra”, aperta per la prima volta su un mondo così poco conosciuto. Dal pozzo, infatti, ritornavano alla luce non soltanto i documenti attinenti alle diverse fasi di lavorazione, preziose testimonianze dei processi e della tecnologia dell’epoca, ma anche grumi di colore, attrezzi e strumenti di fornace e, persino, i cocci con i conti di bottega ed i frammenti sui quali, ripetendo con mano incerta i loro esercizi, i garzoni apprendevano il mestiere del pittore: quanto insomma Cipriano Piccolpasso aveva illustrato attorno alla metà del Cinquecento ne I tre libri dell’arte del vasaio stava adesso sotto gli occhi degli scavatori in tutta la sua materiale concretezza. L’elaborazione del catalogo che accompagnava l’esposizione rappresentò perciò un momento prezioso di confronto tra la conoscenza tecnologica della ceramica – il solido bagaglio culturale di Coli, Forconi e dei ceramisti montelupini in genere – e quella della nascente archeologia medievale, con tutta la sua problematica di carattere storico e culturale, rappresentata da Guido Vannini. La mostra La maiolica di Montelupo. Scavo di uno scarico di fornace si tenne nell’estate del 1977 a Montelupo e fu ospitata proprio nei locali della scuola Enrico Corradini, dai quali è stato ricavato l’attuale Museo della Ceramica: si trattò di una vera e propria rivelazione per gli studiosi e per gli appassionati del settore, ma anche di un fondamentale punto di partenza per la conoscenza di molti aspetti della storia della ceramica tardo-medievale e rinascimentale italiana. Non per caso lo stesso Galeazzo Cora fu tra i visitatori dell’esposizione, e, a detta dei testimoni, ne restò profondamente colpito; l’avvenimento, d’altronde, trova un preciso riscontro nell’architettura della sua opera sulla storia della maiolica: il volume sul Cinque e Seicento, già 31 30 tance of an excavation such as that at Montelupo couldn’t escape the attention of someone like Guglielmo Maetzscke because it reflected a tight reality and able to open horizons of great interest. However, putting in charge of the well operation a young archaeologist didn’t seem to be enough to guarantee scientific correctness; it was necessary to provide a team of experts able to operate with conservation and registration of finds in mind with the objective of reconstructing as well as possible, through restoration, the morphology and decorative typology of the recovered objects. Many aspects of this affair seem incredible today in the sense that there is the risk of attributing to them a kind of ineffable predisposition towards placing themselves in a coherent picture, displaying its evolution in a positive sense, and outline the platform on which it has grown and reconstructed the Museo della ceramica and connected affairs. Two young men grew up in these places, one at Montelupo, Fabrizio Coli, and the other near Empoli, Alberto Forconi: both potters with a passion for the ancient, one which persuaded them to join the first voluntary archaeological association which was active in the Empoli zone. In those years where the emphasis on collective participation was manifest and genuine, the newly established Regione Toscana had organized at the University of Pisa with the support of the department of Archaeological Superintendence, some training courses to benefit those in charge of the emerging groups such as Gruppi Archeologici. It was obvious that Coli and Forconi with their strong desire to know as much as possible about archaeology and its secrets, wanted to enrolled on these courses. This move represented for them the definitive consecration of an inextinguishable passion and both decided to participate a short time later in a competition to select restorers employed by the Archaeological Superintendence for Tuscany: indeed those were the years were the Florentine Centro di Restauro started later noted by the public for its intervention on the bronze statue reclaimed from the sea by Riace. The passion and competence of both – who also worked as potters – didn’t go unobserved: they became part of the team that worked on the “washing well” and it seemed very natural as they had both worked in the factory at Montelupo and combined a refined knowledge of the materials with a not banal archaeological qualification derived from their experiences on excavations and on different courses. The work group, completed with an excavation assistant Enea Busoni whose responsibilities included the organization of the site and the func- tion of go between between the Superintendence and the town council of Montelupo in Don Minzoni street where the windows were opportunely obscured. This climate of reserve lasted very little. Younger and then younger inhabitants of the place began to stroll nervously in front of these rooms, peeking in through the gaps, trying to catch a glimpse of some uncovered “treasure”. Coli and Forconi, often solicited by friends and acquaintances, didn’t have the heart to ignore such open interest, also because having matured an important voluntary experience, they sincerely believed that the towns folk should be involved in the saving and recovering of cultural assets. The two friends knew that in the past, many discoveries had been ignored exactly because of a lack of local involvement, for many reasons and they understood how the “washing trough well” could represent the long awaited chance of redemption. And that’s how it happened one fine day the door was opened and the previously secretive premises hosted for a few hours the curious citizens many of whom went on to offer themselves as voluntary collaborators. Times were mature. The sporadic and occasional relationship with the citizens transformed into a real action of continuous support and collaboration in the recovery of the local patrimony: the protraction of the research made it evident that the operation was going to be very demanding. The operation which started in 1975 was crossing its first finishing line: having arrived at 300 examples, it was time to show what had been achieved in the form of an exhibition where the excavation of the washing trough well could be restored to the public through an open “window”, permitting a view of a relatively unknown world. From the well indeed, not only were there documents regarding the different phases of elaboration, precious witnesses to the processes and technology of the times, but also clumps of colour, furnace equipment and instruments and even pieces with the workshop’s accounts and fragments on which the assistant labourers, through repetition with an uncertain hand, learned the trade of the painters: what Cipriano Piccolpasso had illustrated around the mid sixteenth century I tre libri dell’arte del vasaio was now to be seen in concrete form by the excavators. The elaboration of the catalogue that accompanied the exhibition represented therefore a precious moment of comparison between the technical knowledge of the ceramics – the solid cultural baggage of Coli, Forconi and the Montelupo potters in general – and the knowledge of the newly arrived Medieval archaeology, with all its problems of a his- INTRODUCTION INTRODUCTION INTRODUZIONE ne di volontariato archeologico attiva nella zona, quella empolese. In quegli anni nei quali la spinta alla partecipazione collettiva era palese e genuina, la Regione Toscana, da poco costituitasi, aveva organizzato presso l’Università di Pisa, in accordo con la Soprintendenza Archeologica, alcuni corsi di formazione a beneficio dei responsabili di quelli che stavano crescendo in Italia come Gruppi Archeologici. Era inevitabile che Coli e Forconi, animati da una fiera volontà di impegnarsi nell’archeologia e di impadronirsi dei suoi segreti, richiedessero all’associazione empolese di essere designati a frequentare tali corsi. Se i due amici avevano coltivato il sogno di praticare l’archeologia, questa occasione rappresentò per loro la definitiva consacrazione ad una passione inestinguibile, tanto che entrambi decisero di partecipare poco tempo dopo ad un concorso per restauratore indetto dalla Soprintendenza Archeologica per la Toscana: erano infatti quelli gli anni in cui nasceva il Centro di Restauro fiorentino, noto al pubblico per il famoso, primo intervento sulle statue bronzee rinvenute nel mare di Riace. La passione e la competenza dei due – che, come si è detto, esercitavano il mestiere del ceramista – non passò inosservata: mettendo a punto la squadra destinata ad occuparsi del “pozzo dei lavatoi”, fu così naturale pensare ai due giovani che lavoravano La discussione che le due mostre avevano aperto sulla maiolica di Montelupo verteva sostanzialmente su aspetti distinti, che però trovavano un punto di contatto tra di loro. In primo luogo, infatti, si rifletteva sul significato storico della vicenda montelupina, che assumeva ormai agli occhi degli storici e degli archeologi – in questo caso concordemente – il profilo di un caso emblematico dei rapporti tra capitale mercantile ed attività produttive nell’Italia del XV secolo. La pubblicazione dell’atto notarile del settembre 1490 con il quale Francesco Antinori si impegnava ad acquistare per tre anni, a prezzi concordati, l’intera produzione di 23 vasai di Montelupo, lasciava infatti intravedere – anche perché si intuiva non trattarsi del primo impegno del genere – un mondo ben diverso da quello che la tradizione storiografica aveva delineato. Lungi dall’essere costretta entro maglie corporative in grado di deprimerne lo sviluppo, infatti, la lavorazione della ceramica mostrava nel centro valdarnese un legame strutturale con personaggi, quali quello del mercante imprenditore, incarnato in questo caso dall’Antinori, che la precedente documentazione storica italiana aveva poco più che intravisto. La restituzione del “pozzo dei lavatoi” si faceva pertanto emblematica di un mondo nuovo, ponendosi come l’effetto dell’introduzione, in ambiente legato a forme di produzione tradizionali, di questo livello mercantile, al quale si riconosceva una funzione fondamentale, intuendo come questo rapporto potesse spiegare la grande diffusione delle maioliche di Montelupo sui mercati europei. Ecco, quindi, che una discussione di carattere storico si animò attorno all’esempio montelupino grazie ad una recensione che Riccardo Francovich dedicò al catalogo della mostra, pubblicandola sulla rivista Prospettiva. A questo intervento, nel quale sommariamente, ma decisamente, si sottolineavano questi aspetti storici che, a detta del recensore, la mostra non poneva in adeguato risalto, e che meglio avrebbero dovuto guidare la ricerca in futuro, replicò Guido Vannini attraverso un corposo articolo stampato nell’Archivio Storico Italiano. Al disotto delle questioni storiche e dei risvolti metodologici da assegnare all’attività di ricerca in Montelupo, allora dibattute dai due studiosi, esponenti di punta della giovane archeologia medievale italiana, stava anche il destino dei materiali estratti dal “pozzo dei lavatoi” e di quelli che le indagini future avrebbero riportato alla luce da quel contesto e dagli altri depositi, dei quali ormai ben si intuiva l’esistenza. Anche in questo caso le posizioni erano contrapposte, ma non furono mai rese pubbliche. Francovich, infatti, spingeva per una decisa collocazione delle attività in Montelupo, ritenendo doveroso che non soltanto i reperti scavati restassero nel luogo medesimo che li aveva prodotti, ma che il nucleo d’iniziativa montelupino si consolidasse, mantenendo così costante nel tempo l’attività di ricerca. Vannini, pur riconoscendo la necessità di una puntuale conduzione degli scavi in loco, non se la sentiva invece di tagliare i rapporti con Firenze, anche in ragione dell’interessamento che il soprintendente Guglielmo Maetzscke aveva dimostrato al progetto ed alle facilitazioni che tutto ciò aveva permesso. A questo punto, però, gli avvenimenti presero una svolta decisiva, che ne determinò gli sviluppi futuri. I rapporti tra il nucleo dei primi scavatori-restauratori del “pozzo dei lavatoi”, Coli e Forconi, e gli appas- sionati montelupini erano ormai giunti ad un pieno coinvolgimento, tanto che questi ultimi avevano contribuito in maniera decisiva alle due esposizioni già realizzate; l’amministrazione comunale, per di più, vedeva ovviamente di buon occhio una più accentuata estensione delle attività. Nell’ottobre del 1977 divenne perciò inevitabile approdare alla costituzione di una vera e propria associazione di volontariato, che, per attrazione con quanto accadeva in quegli anni, assunse la denominazione di “Gruppo Archeologico di Montelupo”. La neonata associazione, rappresentando di fatto il fondamento sul quale poggiavano le attività di ricerca locali, si poneva oggettivamente come uno dei protagonisti della vicenda, anche perché l’amministrazione comunale non poteva che favorire l’aggregazione dei cittadini attorno ad un progetto in grado di assegnare continuità e solidità a quella che, dovendo contare unicamente su forze esterne, avrebbe potuto rivelarsi come estemporanea, e comunque non adeguata ad un compito così gravoso come quello del recupero della tradizione ceramistica del luogo. Si deve inoltre considerare come in quegli anni, per altri versi assai difficili, sia venuto sostanzialmente a compimento quel disegno di partecipazione dei cittadini alla costruzione dell’identità culturale che aveva preso l’avvio almeno da un decennio in settori diversissimi, dalla musica, al teatro, alle biblioteche, anche se fu proprio nella ricerca 33 32 torical and cultural nature represented by Giulio Vannini. The exhibition La maiolica di Montelupo. Scavo di un scarico di fornace was held during the summer of 1977 in Montelupo and took place in the school Enrico Corradini where the actual Museo della Ceramica now stands. It was a real revelation for the scholars and enthusiasts of the sector and also served as a fundamental starting point for an understanding of late Medieval and Renaissance ceramics in Italy. Not by chance the same Galeazzo Coro was one of the visitors of the exhibition, and, as stated by witnesses, remained deeply impressed; the event produced a precise source of comparison to his work on the history of Majolica and in consequence the volume on the sixteenth and seventeenth century which had already been advertised was halted and was substituted by a study on Cafaggiolo which was printed in 1983. The initiative was so successful, a replica was suggested at Florence and the prestigious Palazzo Davanzati was chosen as the venue: the home-museum of Elia Volpi was already searching for a museum type identity able to assign greater vigour to its public function image. The transfer to Florence amplified the effect achieved by the previous event and increased media interest which led to a passionate debate regarding the material that emerged from the “washing trough”. The discussion that the two exhibitions opened on the subject of majolica in Montelupo concerned distinct aspects which however found points of contact between them. In the first place, indeed, there was some reflection done on the significant Montelupo affair, which assumed as far as historians and archaeologists were concerned – this time in agreement – an emblematic case of the relationship between mercantile capital and productive activity in Italia in the XV century. The publication of the notary act in 1490 with which Francesco Antinori attempted to buy for three years, at an agreed price, the entire production of 23 Montelupo vases, gave a glimpse – also because we can guess that it wasn’t the first order made of the kind – a very different world from that which traditional historiography had depicted. Far from being restricted by corporate interests which depressed its development, the ceramics world in the centre Valdarno had structural ties with merchant businessmen such as Antinori. The restitution of the “washing trough well” was seen as emblematic of a new world, the effect of an introduction, in an environment tied to a traditional form of production, to a mercantile level where its function can be understood very well and where their relationship can explain the grand diffusion of majolica from Montelupo in world markets. So, here we are, and there is an animated discussion of a historical character about Montelupo thanks to a review that Riccardo Francovich dedicated to the exhibition’s catalogue, publishing it in the magazine Prospettiva. This intervention, summarising but correctly so, underlined the historical aspects that, according to the dedication, the museum didn’t emphasise enough and that the research needed to be carried out better in the future. Guido Vannini replied in a hefty article published in the Archivio Storico Italiano Beneath the historical questions and the methodological implications concerning the research activity in Montelupo, at the time debated by the two historians, front line exponents of the young Italian Medieval Archaeology, there was also the destiny of the material extracted from the “washing trough well” to be considered and what the future investigations might bring to light from that context and from other deposits which were thought to exist. Also in this case the positions were in opposition, but they were never made public. Francovich, indeed, pushed for a definitive placing of the activity in Montelupo, arguing dutifully that not only the should the finds stay in the area where they were produced but that the nucleus of the Montelupo initiative should be consolidated there too maintaining therefore the research activity constant over time. Vannini, in spite of recognizing the need for a punctual conduction of an excavation on site, didn’t want to cut his ties with Florence, also because of the interest shown by the superintendent Guglielmo Maetscke in the project and the benefits that came from it. At this point however, events took a decisive turn which decided the developments of the affair. The relationship between the nucleus of the first excavators-restorers of the “washing-trough well”, Coli and Forconi, and the enthusiastic folk of Montelupo had reached a peak and it had been recognized that the latter had contributed significantly to the exhibitions. Furthermore, the town council administration was very favourable to an accented extension of the project. In October 1977 the inevitable constitution of an association of volunteers took place, which, given the events, took the name, “Gruppo Archaeologico di Montelupo”. The newly founded association, representing the foundation on which local research activity grew, was proposed as one of the protagonists of the operation also because the town council administration had no choice but to aggregate citizens around INTRODUCTION INTRODUCTION INTRODUZIONE INTRODUZIONE annunciato con apposita brochure, fu infatti sospeso, ed al suo posto apparve lo studio su Cafaggiolo, uscito dalle stampe nel 1983. Il successo dell’iniziativa fu dunque tale da suggerirne una replica a Firenze, e per essa si pensò alla prestigiosa sede di Palazzo Davanzati: la casa-museo di Elia Volpi, allora alla ricerca di una nuova identità museale, in grado di assegnare maggior vigore alla funzione pubblica che l’istituto andava ricercando. Il passaggio fiorentino amplificò non di poco l’effetto già ottenuto dall’evento precedente, anche per i riscontri mediatici che ottenne, e tutto ciò non poteva che suscitare un appassionato dibattito attorno ai materiali del “pozzo dei lavatoi”. sognare un futuro sviluppo del suo paese in termini di positiva crescita economica, ma anche civile e culturale, spinse in particolare Pinelli ad un attivismo quasi imbarazzante. Senza mettere troppo tempo in mezzo, visto che le ceramiche inviate a Palazzo Davanzati tardavano a tornare – e ciò non lasciava supporre niente di buono – Pinelli, avvalendosi del neonato Gruppo Archeologico, organizzò a Montelupo un’ulteriore esposizione, utilizzando per questo i locali dell’ex convento di S. Pietro d’Alcantara all’Ambrogiana, nei pressi dell’omonima villa medicea. Con grande soddisfazione, dunque, i volontari locali si ripresero nel 1978 i reperti del pozzo, mentre l’amministrazione deliberò di lì a poco l’istituzione di un Museo della Ceramica. La strada era però davvero impervia, e l’ostacolo più difficile da superare consisteva proprio nella costruzione di quel museo che doveva servire come punto Una delle sale espositive del Museo della Ceramica e del Territorio nel 1983 d’appoggio, sul quale sviluppare un progetto che Pinelli concepiva anche rivolto alla formazione dei ceramisti (istituzione di una Scuola Professionale per la Ceramica) ed al supporto delle imprese locali attraverso la costituzione di un Consorzio tra produttori. Qualificare o ri-qualificare la ceramica di Montelupo, comunque, non poteva in nessun modo prescindere dall’effettiva conoscenza di quella tradizione che, stante la complessità che lo scavo del “pozzo dei lavatoi” dimostrava, solo la corretta impostazione di un museo e di un’ampia attività di ricerca avrebbe potuto assicurare. Rinunciare a costruire un museo civico, del resto, avrebbe comportato in quel periodo interrompere bruscamente tutto ciò che da poco tempo si era avviato, deludere le aspettative di molti e, cosa non di poco conto, perdere i materiali già rinvenuti e restaurati. Dopo alcune false partenze, suggerite dall’urgenza e da errate valutazioni dell’entità del problema rappresentato dalla musealizzazione delle testimonianze montelupine, fu sempre Pinelli a risolvere coraggiosamente la spinosa questione di trovare una sede museale adeguata, facendo costruire un nuovo palazzo comunale. In tal modo si poteva svuotare l’antico municipio – l’unico edificio di pregio esistente nel centro storico di Montelupo – e ricavare al suo interno le sale espositive del costituendo istituto. Lo spostamento fisico del palazzo municipale rappresenta però un’azione traumatica per qualsiasi comunità, e questa decisione non mancò di dare adito a non pochi dissensi all’interno delle diverse forze politiche e della stessa cittadinanza. Si era ormai giunti al 1980 e, data la carenza dei fondi necessari, il comune di Montelupo dovette anche stipulare un mutuo per l’allestimento; pur trattandosi di una somma non troppo elevata, anche per l’epoca della quale si tratta (80 milioni di lire), l’entità e le modalità d’acquisizione, contrarie alla tradizionale prudenza degli amministratori del luogo, accese ancora di più una polemica che già veniva arroventandosi. E questo non era tutto: in ultimo, infatti, l’amministrazione comunale effettuò la mossa più rischiosa, prevedendo nel suo personale, prima ancora che l’istituto esistesse, la figura di direttore del museo, peraltro prevista nella prima legge regionale sui musei della Toscana. In un ambiente reso difficile da crescenti polemiche politiche, i lavori di allestimento iniziarono nell’aprile del 1982, concludendosi poi il 3 luglio del 1983 con l’inaugurazione del primo istituto museale, denominato Museo della Ceramica e del Territorio. Il neonato istituto era dunque collocato nell’edificio dell’ex palazzo podestarile di Montelupo, già sede dell’amministrazione comunale, ma si articolava allora soltanto su quattro sale, comprensive dell’accesso, e, come si diceva, poteva contare su una collezione assai lacunosa, ove interi INTRODUZIONE INTRODUZIONE archeologica e storico-territoriale in genere che si assistette ad una vera e propria proliferazione di iniziative. Una spinta decisiva ed irrefrenabile conduceva, insomma, verso la localizzazione della ricerca in Montelupo. Se però l’amministrazione comunale avesse operato scelte contrarie o si fosse posta in una posizione d’attesa accidiosa, tuttavia, questa tendenza, pur così marcata ed evidente, non avrebbe potuto realizzarsi pienamente, come dimostrano ad abundantiam tante situazioni consimili, rilevabili nella medesima regione Toscana. A Montelupo, si riuscì a cogliere appieno questa spinta positiva grazie al rinnovamento che si era verificato in quegli anni nell’amministrazione locale con l’ingresso nella giunta municipale di alcuni giovanissimi assessori, tra i quali Marco Montagni – che poi è stato sindaco – e Paolo Pinelli. La personale inclinazione al fare, e la capacità di 35 34 INTRODUCTION the Museo della Ceramica e del Territorio in 1983 a project able to assign continuity and solidarity. Externalizing the organization of the operation could have lead to a total effort not up to the job of recovering the ceramic tradition of the area. One also has to remember that during those years, which were difficult for many reasons, there were many initiatives, at least ten in different sectors, aiming at the construction of a cultural identity, from music to theatre to a library but it was archaeological and historical – territorial research that led to a proliferation of initiatives. There was a decisive, unstoppable push towards the localization in Montelupo. Despite this push, this desire for localization may have failed as many other local initiatives in the past in Toscana were it not for the renovation of the local administration and the entrance of some young assessors including Marco Montagni – who became mayor – and Paolo Pinelli. The personal inclination to get things moving and the capacity to dream of a future for his village in terms of economic, cultural and social development, Pinelli in particular seemed to be an activist with almost embarrassing zeal. Without wasting too much time given that the ceramics sent to Palazzo Davanzati were late in returning – which didn’t seem to be a positive sign – Pinelli, with the help of the newly founded Gruppo Archaeologico organized another exhibition at Montelupo using the convent San Pietro d’Alcantara all’Ambrogiana as a venue, which is near the Medicean villa of the same name. In 1978, with great satisfaction, the local volunteers took back the finds of the well while the administration pondered the idea of a ceramics museum. The road ahead was really impervious, and the most difficult obstacle to overcome was the construction of the museum which had to serve as a point of support for future projects such as training courses for potters (the institution of a professional school for ceramics) and as a support for local companies in the form of the constitution of a consortium of local producers. Qualify or re qualify Montelupo ceramics, however the effective knowledge of that tradition could in no way be left out of the equation and as the complexity of the excavation in Montelupo demonstrated, only the correct set up of the museum could assure its continuity. To renounce the establishment of a museum at that time would have resulted in a brusque interruption of everything that had been begun and would have deluded the expectations of many and, significantly, would have resulted in the loss of the material which had already been recovered and restored. After some false starts, consequence of rushing into things and erroneous valuations of the size of the problem, it was Pinelli again who courageously resolved the problem by finding an ade- quate site for the museum. By ordering the construction of a new town hall, he was able to suggest the site of the old town hall – the only prestigious building in the historical centre of Montelupo – and convert the rooms into exhibition halls. The physical transfer of the municipal building represents however, traumatic event for any community and this decision met with political dissent as well as opposition from some of the town citizens. It was 1980, and given the drop in funds, the community of Montelupo had to take a loan to permit the refurbishment even though the sum wasn’t very high (80 million lire). The importance and manner of the acquisition, contrary to the traditional prudence of the town administrators, further flamed an already red hot fire. And that wasn’t all: last of all, the communal administration effected the most risky move, predicting who would become the director of the museum, provided for by the first regional law regarding museums in Tuscany, before the institute had been completed. Within this environment of growing political problems work started in 1982 and was concluded on the 3rd July 1983 with the inauguration of the first museum institute named Museo della ceramica e del Territorio. The new institute was located in the ex chief administration building in Montelupo, INTRODUCTION An exhibition hall of INTRODUZIONE in autonomia ed in spazi adeguati. L’occasione è stata offerta dai lavori di costruzione del parco urbano dell’Ambrogiana e dal conseguente recupero dell’ex complesso ecclesiastico dei Ss. Quirico e Lucia: qui, infatti, si sono trasferite le collezioni archeologiche e si è inaugurato al pubblico (19 maggio 2007) il Museo Archeologico di Montelupo. La costruzione di un nuovo e moderno plesso scolastico ha contemporaneamente offerto la possibilità del recupero a fini museali dell’ex scuola primaria di Montelupo, un grande edificio costruito negli anni Trenta del secolo scorso: sviluppandosi su tre piani, con larghi corridoi e sale ampie e comunicanti tra di loro, esso rappresenta un contenitore ideale per quel nuovo Museo della Ceramica, che funzionerà al suo interno sin dal 24 maggio dell’anno 2008. sentò per oltre un secolo un buon investimento per il capitale mercantile cittadino. Nel mutevole caleidoscopio delle antinomie che l’interagire di entrambi questi fattori non mancò di suscitare nel panorama locale (ad esempio nel confronto tra cultura “d’importazione” e cultura “d’esportazione”, tra innovazione e tradizione) è trascorsa la storia montelupina. Se vogliamo dar conto della traccia specifica lasciata da questa esperienza, dobbiamo perciò analizzare in primo luogo i quadri storico-ambientali che le furono propri e porre in luce i fattori profondi che permisero a questa piccola “terra murata” del Contado, di instaurare complesse relazioni economico-culturali con la sua Dominante. Montelupo. L’evoluzione di un centro di fabbrica dal Medioevo e l’Età Moderna. La storia della Montelupo preindustriale potrebbe, riducendosi ai minimi termini, essere definita come il portato convergente di due fattori di sviluppo: da un lato una peculiare collocazione geografica, che sin dalle epoche più antiche, grazie a fondamentali vie di comunicazione, le consentì di rapportarsi facilmente ai territori più lontani, dall’altro l’esistenza di una produzione fittile – il suo carattere dominante di lungo periodo – che rappre- INTRODUZIONE periodi (ad esempio la seconda metà del Cinquecento ed il secolo successivo) erano per di più rappresentati soltanto da materiali frammentari. Le ricerche, proseguite costantemente con l’ausilio del Gruppo Archeologico, venivano però costantemente ad arricchire questa base documentaria. Nel 1985 si aggiunse al giovanissimo istituto museale un’esposizione di materiali preistorici, la quale rappresentava il frutto di un decennio di ricerche sul campo, ed il primo nucleo di quello che nel 1989 sarebbe diventato il Museo Archeologico e della Ceramica di Montelupo. Nel settembre di quell’anno, infatti, grazie anche al contributo della Fondazione Museo Montelupo, da poco costituitasi, gli spazi dell’ex palazzo podestarile furono definitivamente allestiti: allora l’istituto montelupino raggiunse un assetto che prevedeva l’esposizione dei materiali archeologici (dalla Preistoria al Medioevo) al piano terreno, mentre quelli superiori erano occupati dalle collezioni ceramiche: la variazione del nome intendeva dunque sottolineare questo duplice taglio espositivo, e la derivazione delle raccolte da metodiche di ricerca archeologica. La saturazione degli spazi ed il continuo incremento della documentazione esposta al pubblico hanno però presto determinato la necessità di assegnare maggior rilievo alle due diverse sezioni che costituivano l’istituto, in maniera tale che esse potessero svilupparsi 37 which was the municipal building, but only four rooms were in use including the corridor and it can be said that the collection had certain gaps, that is, entire periods like the second half of the sixteenth century which were represented by some fragments. Research however continued with the help of the Gruppo Archaeologico and the collection was continuously added to. In 1985, an exhibition of pre historic material was added to the young museum’s collection, the result of ten years of work in the field and this became the nucleus of what became in 1989 the Museo Archaeologico di Montelupo. In September of the same year thanks to a contribution from the Fondazione Museo Montelupo, a newly founded organization, the exhibition rooms in the ex chief administrator’s building were finally prepared: finally the Montelupo institute had reached the kind of condition that would permit the exhibition of archaeological material (from pre historic to Medieval) on the first floor and ceramic materials on the superior floor. The different titles served to underline the duel function of the exhibition and the derivation of the collected material and archaeological research methods. The saturation of available space and the increase in documentation exhibited to the public determined the necessity to assign a greater emphasis to the two sections that constituted the institute, permitting them to grow independently in adequate space. This became possible when construction work started on the Ambrogiana urban park and the subsequent recovery of the ex Ss. Quirico e Lucia ecclesiastical complex. To here indeed, the whole collection was transferred and it was inaugurated to the public (19 May 2007) as the new Museo Archaeologico di Montelupo. The construction of a new and modern scholastic complex has contemporaneously offered the possibility of the recovery of the old Montelupo primary school building, a large 1930’s building of three levels with wide corridors and large rooms which are intercommunicating. This represents an ideal container for the new Museo della Ceramica, which will begin to function on the 24 May 2008. Montelupo. The evolution of a production centre from Medieval to the Modern age The history of pre industrial Montelupo could, reducing it to minimal terms, be defined as the convergence of two factors of development: on the one side its peculiar geographical position which since most ancient times, thanks to facilitative routes of communication, permitted contact with distant ter- ritories and secondly, the existence of ceramics production – for a long time its most dominant characteristic – which represented for over a century a good investment for merchant traders. Within the changing kaleidoscopic view influenced by the antinomy of alternating exigencies such as “importation” and Exportation”, “innovation” or “tradi- tion” flowed the history of Montelupo. To really understand the traces left by this history, its necessary to analyze in the first place the historical-environmental frameworks that existed and illuminate the deeper factors that allowed this small “walled land” in the countryside to install complex economic-cultural relations with its rulers. INTRODUCTION INTRODUCTION 36 PARTE PRIMA I quadri storico-ambientali. Il popolamento, il castello e l’imprevista evoluzione di una “terra murata” fiorentina nei secoli XIII e XIV FIRST PART The historical-environmental framework. Population, the castle and the unforeseen evolution of a Florentine “walled land” in the XIII and XIV centuries corso di scavi eseguiti nell’area del Castello, nell’abitato stesso di Montelupo: i materiali ceramici qui recuperati appartengono effettivamente a fabbriche volterrane. La colonizzazione romana – probabilmente avviata già nella prima metà del I secolo a. C. – riorganizzò drasticamente la presenza umana nell’area, ponendo nuovi abitati all’interno delle maglie delle limitationes allora tracciate nei fondovalle. Una tale, profonda evoluzione del popolamento, spezzò la precedente struttura insediativa preromana, introducendo nuove forme di gerarchia economica ed amministrativa, imperniate sui centri di recente fondazione. Di grande importanza per il popolamento di tutta l’area del Medio Valdarno fiorentino, laddove poi sorgerà Montelupo, furono le due grandi vie di comunicazione che l’attraversano: quella fluviale, rappresentata dal corso dell’Arno, e quella viaria. La prima, massicciamente utilizzata già in Età Arcaica (secoli VI-V a.C.) in relazione allo sviluppo urbano dell’area fiesolano-pistoiese, fu di fondamentale importanza per Montelupo (e per la prospiciente Capraia), in quanto questi due centri, collocati sulle opposte sponde dell’Arno, si trovano all’inizio della stretta collinare che conduce alla “soglia” (un vero e proprio scalino roccioso, sormontato dal corso del fiume) della Golfolina. La strada militare romana che univa Pisa a Firenze, costruita in epoca precedente alla colonizzazione di I QUADRI STORICO-AMBIENTALI Gli insediamenti e l’antica topografia. L’area del Medio Valdarno Fiorentino e della Bassa Val di Pesa fu oggetto di ampia frequentazione umana già in epoca preistorica, come dimostrano le numerose stazioni all’aperto qui documentate, collocabili già nel Paleolitico Inferiore e Medio. Schegge e strumenti in ossidiana, ma anche cuspidi di freccia, tracce di ceramica e pendagli in diorite, indicano che questa frequentazione si fece più intensa con la fine dell’Enolitico, allorquando alcune capanne isolate furono erette nell’area dell’Ambrogiana, nella porzione occidentale del territorio montelupino. Sul finire dell’Età del Bronzo, tra l’XI ed il X secolo a. C., si incontrano anche i primi abitati, ove si pratica un’attività agricola già piuttosto avanzata. Macine provenienti dall’area dell’Alto Lazio, ma anche collane in pasta vitrea e forme vascolari assai simili a quelle circolanti in ambito padano, lasciano intendere l’ampiezza degli scambi e dei legami culturali attivati da questi villaggi protovillanoviani. In età etrusca, allorquando la sponda sinistra dell’Arno e, con essa, la zona di Montelupo, sono tradizionalmente indicate come pertinenti al vastissimo territorio volterrano, del quale rappresenterebbero il confine settentrionale, tracce di una presenza d’epoca arcaica sono emerse sulle colline tra Samminiatello e San Vito. Ad un’età più recente risalgono invece i resti di una necropoli ellenistica (IV-II a.C.), venuta alla luce nel 41 pened during the first century B.C. – resulted in a drastic reorganization of the human presence in the area and some settled within the domain of the limitationes which had been traced in the depth of the valley. Such a profound evolution broke the previous pre Roman settlement structure introducing new forms of economical and administrative hierarchy. Of great importance for the population of the Mid Valdarno Florentine area, where Montelupo rises, were two great communication passages which crossed each other: the fluvial, represented by the course of the Arno, and a road. The first, massively used during the archaic age (VI-V century B.C.) supported the development of the fiesolano-pistoiese urban area and was of fundamental importance for Montelupo (and the oppositely placed Capraia) in as much as these two centres, placed on opposite sides of the shores of the Arno were to be found at the beginning of the narrow hill that led to the “soglia” (a true and genuine rocky stairway submerged by the course of the river) from the Golfolina. The Roman military road which united Pisa to Florence, constructed in an epoch preceding the colonization of this territory, the time of the Tito Quinzio Flaminino consulate (123 B.C.), met the river here and this contributed to increased activity in the area where the future castles of Capraia and Montelupo would be THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK The settlements and ancient topography The Middle Valdarno Florentine and Low Val di Pesa area was very frequented by people in pre historic times, as demonstrated by the numerous open stations documented here, dated in the early and middle palaeolithic age. Splintered pieces, and tools in an oxidized state but also arrow tips, traces of ceramic and pendants in diorite indicate that this frequency became more intense during the oenolithic when some huts were erected in the Ambrogian area, on the Western side of the Montelupo territory. At the end of the Bronze age the first farmers with advanced techniques. Millstone from the north of Lazio, cement in vitreous pasta and vase forms similar to those that circulated around the Padano, which gives an idea of wide scale exchanges and cultural links. In the Etruscan age when the left shore of the Arno and with it the area of Montelupo were traditionally seen as a pertinent part of the vast Volterrano territory which represented the northern border, traces of an archaic epoch have emerged on the hill between Samminiatello and San Vito. More recently the remains of a Hellenistic necropolis (IV-11 B.C.) came to light during the excavation of an area around the castle of Montelupo: the material recovered here effectively came from Volterrian factories. The Roman colonization – which probably hap- I QUADRI STORICO-AMBIENTALI piatto in terra sigillata italica con bollo “in planta pedis” (databile quindi post 37 d.C.). Tutto ciò avvalora decisamente le ragioni topografiche che già suggerivano di collocare nell’area dell’attuale San Quirico la località ad Arnum f (lumen), riportata nella Tabula Peutingeriana e citata anche negli Itineraria. Muovendo da Pisae in direzione di Florentia, la distanza miliare tra questa e la precedente stazione di in Portu coincide infatti con ottima approssimazione alla distanza stradale che ancor oggi intercorre tra San Quirico e l’area abitata di Empoli (quattro miglia romane, cioè circa 6 chilometri). A sua volta in Portu, in ragione della distanza (17 miglia) che la separa da Cascina, ormai riconosciuta come la Valvata della Tabula, non può che collocarsi nell’area empolese. Il toponimo ad Arnum f(lumen) è poi eloquentemente indicativo del fatto che qui la strada giungeva in riva al corso d’acqua, non soltanto per toccarne le sponde – cosa che, d’altronde, poteva avvenire anche in precedenza – ma per valicarlo. La presenza nel 1204 di un ponte tra Montelupo e Capraia appare decisiva ai fini della documentazione storica di questo antico manufatto. Assai difficilmente, infatti, siamo di fronte ad un ponte costruito in epoca medievale: sul fiume non si conoscono – fatto salvo quello pertinente al più importante tracciato di quei tempi, la via Francigena, e quello di Signa, della cui origine discuteremo tra breve – esem- pi coevi: la stessa Firenze, prima della costruzione nel 1221 del Rubaconte, aveva un solo ponte: quello d’epoca romana, che poi fu detto appunto il “ponte vecchio”. Ma se la strada romana attraversava l’Arno per percorrere la riva destra, come poteva poi tornare più a monte su quella opposta? La risposta consiste ovviamente nell’ipotizzare la presenza di un altro ponte, che effettivamente sappiamo esser collocato a poca distanza da questo nella località detta appunto Ponte a Signa. Qui, a differenza di Montelupo, la presenza di un antico scavalcamento dell’Arno è nota da molto tempo, ma – credendo fermamente che la strada romana abbia percorso soltanto la riva sinistra – si è pensato ad un’opera medievale. Una particolarità del piviere di San Lorenzo a Signa, e cioè il comprendere alcune parochiae della riva sinistra del fiume, secondo un tipico modello di plebato in capite pontis, porterebbe però la costruzione del medesimo ad epoche lontane (almeno alla seconda metà dell’VIII secolo d.C., data plausibile per la formazione di questa circoscrizione ecclesiastica), che rendono questa ipotesi ben poco credibile. La presenza di un cippo miliare con riferimenti a questa strada, già inserito nella fabbrica della chiesa di San Michele a Luciano, Il cippo miliare di Luciano con il nome del console Tito Quinctio Flaminino (123 a. C.) lungo la sponda sinistra dell’Arno, è dunque da intendere come residuale, e certamente non attiene ad un cippo stradale in posto. Una poderosa rovina, che attraversa l’intero letto del fiume tra Montelupo e Capraia, avvalorata anche da testimonianze ottocentesche, ci consente infine di collocare l’antico manufatto testimoniato dal documento del 1204 proprio sulla linea ideale che unisce i due castelli, ed individua così il punto forte dal quale, come vedremo, i Conti Alberti dominarono l’accesso al Medio Valdarno nei secoli centrali dell’Età di Mezzo. I popoli ed il popolamento dell’area montelupina in età medievale La lista delle pievi e delle loro chiese suffraganee contenuta Rationes Decimarum del 1270 ci consente di definire l’organizzazione ecclesiastica del territorio plebano attorno alla quale, nell’Alto Medioevo, iniziò ad organizzarsi il popolamento dell’area montelupina. La chiesa matrice, caratterizzata dalla doppia titolazione ai Santi Ippolito e Cassiano, venne collocata sul greto destro del Pesa, a circa un chilometro di distanza dall’odierno abitato montelupino, nel luogo ove, sia pure sotto specie di edificio profano, può ammirarsi ancora oggi. La circoscrizione che le appartenne comprendeva l’intera bassa vallata del Pesa, posta tra l’Arno ed il confine plebano di San Vincenzo a Torri, 43 42 built. This activity had links with the Tuscan inland and the coastal areas and served to support the economic upturn during the late Medieval period and the consequent development of affairs in the area. The road that runs from Pisae towards the land that would be known as Florentia, after having crossed Empoli, ran towards the borgo of San Quirico di Montelupo, degrading at North-East towards the left bank of torrent Pesa which flowed into the Arno. In the areas of San Quirico – which had a population under the jurisdiction of Montelupo and Torre, traces of Roman presence have come to light. Under the church that has the globalized name of Santi Quirico e Lucia representing a double dedication in the area known as Ambrogiana, traces of a Roman necropolis have emerged; the date of the cemetery can be placed at somewhere between 15 B.C. , the approximate date of an obolus found on the site and 37 D.C., the approximate date of an earthenware plate with a seal in italics stating in “planta pedis”. All this gives greater value to the topographical reasons for settling in the actual San Quirico area ad Arnum f (lumen), reported in the Tabula Peutingeriana and also cited in the Itineraria. Moving from Pisae towards Florentia. The distance in miles between this and the preceding station of in Portu coincides with excellent approximation with the length of the road that runs from San Quirico and the inhabited area of Empoli (four Roman miles, about six kilometres). Also in Portu at the time, given the distance (17 miles) from Cascina then known as Valvata of the Tabula, was naturally seen as part of Empoli. The place name ad Arnum f(lumen) e eloquently indicative of the fact that here the street reached the bank of the river, not only to meet it – which was a preceding objective - but to cross it. The presence in 1204 of a bridge between Montelupo and Capraia appeared decisive in moulding the future of this antique manufacturing industry. A difficult project, we are talking about a bridge built in Medieval times: on the river there weren’t other examples except for an example on the most important trace of those times, the Francigena road, which we will talk about soon. Even Florence, before the construction of the Rubaconte in 1221 had only one bridge from the Roman epoch which then became known as Ponte “vecchio”. But if the Roman road crossed the bridge to run the right bank, how could it have crossed back again as it weaved towards the hills on the other side? The answer consists in hypothesizing the presence of another bridge which we can effectively say was placed in the locality of Ponte a Signa. Here, as The stone with inscription from Luciano with the name of the Consul Quinctio Flaminio (123 a. C) opposed to Montelupo, the presence of an antique crossing over the Arno has been known for a long time – as the Roman road seemed to run along the left bank, it was thought that the crossing was a Medieval project. A particularity of the parish of San Lorenzo a Signa, including some of the parishes on the left bank of the river, according to a typical model of parishes in capite pontis, probably led to its construction in a distant epoch (at least the second half of the VIII century A.D., a plausible date for the formation of this ecclesiastical district), which renders this hypothesis very improbable. The presence of a stone with the inscription –but not a “mile” as is often confirmed – with reference to this road, already inserted in the fabric of the building of the church of San Michele a Luciano, found along the left bank of the Arno, can be seen as residual, a marking point of this road. An impressive ruin, which crossed the entire bed of the river from Montelupo to Capraia, given credibility by testimony from the nineteenth century, permits us to finally place the construction as testified by a document from 1204exactly on the ideal line which unites the two castles. The strong point from which The Counts Alberti dominated the access to the Middle Valdarno in the mid middle ages. THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI questo territorio, e cioè al tempo del consolato di Tito Quinzio Flaminino (123 a. C), venne qui ad incontrare il corso del fiume, contribuendo a addensare nell’area ove sorgeranno i futuri castelli di Capraia e Montelupo un insieme di funzioni viarie legate alle comunicazioni della Toscana interna con la costa e, quindi, con gli approdi marittimi: dopo essersi storicamente consolidate, queste funzioni vennero nuovamente esaltate dalla ripresa economica e demografica successiva all’Alto Medioevo, rappresentando così la chiave di volta delle successive vicende storiche dell’area. Il percorso stradale che da Pisae conduceva verso il territorio della futura Florentia, infatti, dopo aver attraversato Empoli, si indirizzava alla bassa elevazione ove attualmente si trova il borgo di San Quirico di Montelupo, degradante a nord-est sino alla ripa sinistra del torrente Pesa, la quale qui giunge a confluire nell’Arno. Sia nell’area di San Quirico – che fu sin dal Basso Medioevo un popolo della curia di Montelupo – che nella prossima località di Torre, sono venuti recentemente alla luce consistenti tracce di una presenza d’epoca romana. Sotto la chiesa di quel luogo, inglobata in quella a doppia dedicazione (Santi Quirico e Lucia), ed attratta dal toponimo Ambrogiana, sono emerse anche tracce di una necropoli romana; la datazione del cimitero è collocabile tra gli estremi cronologici rappresentati da un obolo con moneta triunvirale del 15 a.C. e da un I QUADRI STORICO-AMBIENTALI doppia titolazione (Santi Quirico e Lucia), la quale appare solo nei documenti del tardo XV secolo (1482): recenti scavi archeologici hanno però evidenziato all’interno di questa struttura, ampiamente rimaneggiata nel corso del tempo, un impianto assai più antico che, inglobando un antico cimitero romano, risale almeno alla seconda metà dell’VIII secolo. Pur non potendo generalizzare all’intero plebato – anche perché abbiamo visto che attorno a San Quirico si trovava, con ogni probabilità, la mansio o mutatio ad Arnum – quanto si può derivare dagli scavi di SantaLucia, è da supporre che altrettanto antiche fossero le chiese di San Piero a Nebbiavole e di San Giusto a Petrognano, sul confine orientale del piviere, abbandonate e successivamente distrutte a seguito della crisi demografica apertasi negli anni Quaranta del Trecento. Lungo la riva sinistra dell’Arno, ma più a monte rispetto alla zona di San Quirico, ed oltre la foce del Pesa, è comunque documentata sin dal 1024 una chiesa parrocchiale dedicata a San Miniato. Pur appartenendo al nostro piviere, essa mantenne sin dall’origine peculiari rapporti con il vescovo di Firenze, che la donò al monastero di San Miniato a Monte di quella città, per poi riprendersela sul finire del XII secolo. Il nome del santo a cui fu legata la costruzione dell’edificio si trasferirà ovviamente anche al suo popolo, e da esso all’agglomerato urbano cresciuto attorno alla parrochiale: per deferenza al grande cenobio fiorentino avremo così la località detta “Samminiatello”. Nel 1204, con la costruzione del nuovo castello, la pieve trasse inizialmente beneficio dall’improvviso incremento della popolazione che interessò il quadrante settentrionale del piviere. Per meglio difendere il neonato insediamento fiorentino, del resto, l’intero popolo di Santa Maria a Fibbiana fu trasportato in Montelupo, sottraendolo così alla decimazione di Sant’Andrea a Empoli. Lo sviluppo urbano assunto dal castello venne però ben presto a porre il problema del trasferimento di alcune funzioni plebane all’interno del nuovo abitato, a detrimento della chiesa matrice. Prima della crisi demografica del XIV secolo erano infatti già sorti all’interno del neonato Montelupo due edifici ecclesiastici: una chiesa con annesso ospizio, fondata dai Domenicani di Santa Maria Novella di Firenze sotto il titolo di San Niccolò, ed una chiesa di San Giovanni Evangelista. La prima era posta appena fuori delle mura del Borgo di Montelupo, nei pressi del ponte della porta detta di San Piero, da cui si dipartiva la strada che conduceva a Samminiatello. San Giovanni era invece collocata nel nucleo castrense più antico, eretto sulla sommità del colle, tanto che per campanile aveva la stessa torre maggiore (il “battifolle”) della fortezza; questa chiesa fu costruita tra il 1221 (poiché sappiamo che in quell’anno non vi erano parochiae nel castello) ed il 1266, anno in cui il Liber extimationum, censendo i danni causati dai Ghibellini, cita invece un edificio religioso. Alcune testimonianze rapportano ai Capitani d’Orsammichele l’antico patronato sulla chiesa, ed a un compromesso stabilito con l’accordo del vescovo fiorentino su San Giovanni fa poi riferimento, non citando sfortunatamente la controparte, un documento sommariamente regestato nel Bullettone, e riferito all’anno 1323. Essendo officiata dal clero secolare, questa parrocchia urbana pose presto il problema della collocazione del fonte battesimale e delle sepolture: non era infatti agevole per gli abitanti di Montelupo raggiungere la pieve dei Santi Ippolito e Cassino per battezzare i figli e seppellire i loro morti. L’assunzione del titolo di prioria per la nuova chiesa del castello e la concessione del fonte alla medesima – fatto avvenuto in epoca che al momento ci è ignota, ma che di certo è anteriore al 1538, anno in cui iniziano i suoi libri dei battezzati – rappresentano altrettanti mutamenti sostanziali, attraverso i quali l’incremento abitativo della “terra murata” di Montelupo portò alla decadenza l’antico edificio plebano. Nel corso della prima metà del Trecento, come si è già affermato, la pieve dei Santi Ippolito e Cassiano attraversò tuttavia un momento di particolare svilup- 45 44 The peoples and the populating of the area Montelupina in the Middle ages The list of the parishes and their central churches contained in the Rationes Decimarum of 1270 permits us to define the ecclesiastical organization of the territory where the Montelupo population began to organize itself. The mother church characterized by the double nomination of Santi Ippolito and Cassiano was founded on the gravely shore to be found on the right side of the Pesa, about one kilometre from the Montelupo of today, in the place where, even if under a kind of profane building, can still be seen. The circumscribing area includes the entire lower valley of Pesa, placed between the Arno and the area that belonged to San vincenzo a Torri as well as the dorsal areas of the hills which represented the watershed of this torrent with the Vingone and the Orme. Its decimation was probably quite antique: it’s not by chance that the baptized in Montelupo maintained for many centuries the second name “Romolo”, in homage to the saint who, it is said, converted the locals to Christianity, like in many other parishes formed in the Florentine dioceses. The V – VI century was probably was about the time of its division into its territory. In 1270, the matrix churches Santi Ippolito e Cassiano were the central bodies for sixteen parishes and a hospital but only eight of them (the pontificial list left out San Giovanni Evangelista of recent construction) belonged to the territory which at the time constituted the community of Montelupo. The absence of sources doesn’t permit a punctual description of the genesis of this parish, events before the testimony provided by the Rationes but it is almost certain that some of these buildings existed before, during the late medieval period, and this is suggested in a particular way in the case of the church of San Quirico, on the west side of our ecclesiastical territory. The parish of this name is indeed documented in the year 1000 in a cartula offersionis conserved in the diocesan archive in Lucca. It can be identified today as well as the successive church Santi Quirico e Lucia, which only appears in documents of the late XV century (1482): recent archaeological excavations inside this structure have however uncovered, amply restructured in the course of time, an older structure which includes a Roman cemetery and dates back to the second half of the VIII century. However we can’t generalize about the whole development, because as we have seen around San Quirico la mansion or mutation ad Arnum and can guess from other excavations at S. Lucia that the churches of San Piero a Nebbiavole and San Giusto a Petrognano on the west borders of the parish are equally ancient. They were abandoned and successively destroyed after the demographic crisis during the 1440s. Along the left bank of the Arno, but more towards the hill compared to the zone of San Quirico and beyond the mouth of the Pesa, a church dedicated to San Miniato has been dated back to 1024. Even though it belonged to our parish, it had a peculiar rapport with the bishop of Florence who donated it to the monastery of San Miniato a Monte of the same city but take it back at the end of the XII century. The name of the saint whom the construction of the building was named after, was obviously transferred to the people and in further deference, the urban agglomeration was called “Samminiatello”. In 1204, with the construction of the new castle, the parish initially enjoyed the benefit of an increase in population mainly in the northern area. To better defend the new Florentine settlement at the expense of the rest , the entire population of Santa Maria a Fibbiana was transferred to Montelupo decimating Sant’Andrea a Empoli. The urban development assumed by the castle soon met with problems regarding the transfer of some parochial functions inside the new habitat, to the detriment of the mother church. Before the demographic crisis of the XIV century, two ecclesiastical buildings had already emerged inside the newly founded Montelupo: a church with an annex for guests founded by the Domenicans of Santa Maria Novella of Florence under the title of San Niccolò, and a church of San Giovanni Evangelista. The first was placed just outside of the walls of the hamlet of Montelupo near the bridge of the gate called San Piero from which departed the road for Samminiatello. San Giovanni on the other hand was placed near the nucleus of the oldest military centre erected on the summit of the hill, so much so that the church bell shared the same grand tower (the “battifolle”) with the fort; the church was built between 1221 (as we know in that year there were no parishes in the castle) and 1266, the year in which il Liber extimationum , doing a sensus of the damage caused by the Ghibellini, cited the existence of a religious building. Some witnesses refer to the Capitani d’Orsammichele, the ancient patrons of the church, a compromise established, with the agreement of the Florentine bishop on San Giovanni refers to, without citing the counterpart unfortunately, a document summarily registered in the Bullettone which refers to the year 1323. Being officiated by the secular clergy, this urban parish soon met with organizational problems regarding the situation of the baptismal font and the burial procedure: it wasn’t easy for the inhabitants of THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI nonché i dorsali delle colline che rappresentano gli spartiacque di questo torrente con il Vingone e l’Orme. La sua decimazione doveva essere assai antica: non per caso, infatti, i battezzati in Montelupo mantennero per molti secoli il secondo nome di “Romolo”, quale omaggio al santo che, si dice, convertì le popolazioni locali al cristianesimo; come per altri plebati nei quali venne divisa la diocesi fiorentina, si deve dunque pensare al VVI secolo come data d’origine della sua territorialità. Nel 1270 alla chiesa matrice dei Santi Ippolito e Cassiano facevano capo sedici parochiae ed un ospedale, ma soltanto otto di queste (l’elenco pontificio trascura San Giovanni Evangelista, di recentissima costruzione) appartenevano al territorio che in quel tempo costituiva la circoscrizione civile (curia) del comune di Montelupo. L’assenza di fonti ci impedisce una puntuale ricostruzione della genesi di questo piviere in data anteriore alla testimonianza fornita dalle Rationes, ma è certo che almeno alcuni tra questi edifici parrocchiali fossero già esistenti in epoca altomedievale, come sembra suggerire in particolar modo il caso della chiesa di San Quirico, nel lato occidentale della nostra circoscrizione ecclesiastica. La parochia con questo nome è infatti qui documentata sin dall’anno 1000 in una cartula offersionis che si conserva nell’archivio diocesano di Lucca. Essa può essere identificata ora con la successiva chiesa a San Giovanni Evangelista di Montelupo (parrocchia urbana di recente costruzione); San Miniato di Samminiatello; Santa Maria a Fibbiana; San Quirico a San Quirico; Santa Maria a Sammontana; San Giusto a Petrognano; San Vito e San Michele a Luciano (acquisite dal piviere di San Lorenzo di Signa); Santa Maria a Pulica; San Gaudenzio a Seghignano. Il piviere dei Santi Ippolito e Cassiano Attorno a questi popoli si strinsero le maglie abitative dell’area montelupina, ma la grande crisi apertasi con la carestia del 1340 e, soprattutto, la pandemia di peste del 1348-49, finì per far prevalere, nel contesto di un generale regresso demografico, le parrocchie che si trovano a più stretto contatto con le vie di comunicazione e con l’abitato, ormai prevalente, di Montelupo. Tra la seconda metà del Trecento ed il 1450 circa si ridusse infatti ai minimi termini il peso demico dei popoli collocati sulle fasce collinari della curia montelupina. Ad oriente, infatti, scomparve Seghignano e si ridimensionò la stessa Pulica, mentre a sud Petrognano perse l’edificio ecclesiastico, accorpandosi a Sammontana, ed a nord-est la presenza umana a San Vito e Luciano (qui è documentato anche un villaggio abbandonato) toccò i suoi livelli minimi. Per converso, è Samminiatello che si avvantaggia di questa situazione, trasformandosi in un popoloso borgo posto a ridosso di Montelupo, sulla riva dell’Arno, e lo stesso fanno San Quirico e Fibbiana, che occupano un’invidiabile posizione lungo la strada Pisana. Le parrocchie di Pulica, Sammontana e Petrognano, collocate sui fertili terreni della bassa collina, sviluppano conseguentemente le loro caratteristiche agricole, mentre l’area di San Vito e Luciano resta la più povera e, non potendosi dedicare appieno allo sfruttamento delle risorse boschive, per i gravami signorili che lo impedi- scono, si volge anch’essa alla risorsa fluviale. Sono dunque i fattori concomitanti della collocazione geografica e della contingenza demografica a costituire i presupposti essenziali per la localizzazione delle attività fittili in Montelupo e Samminiatello. Nel Medioevo: le signorie territoriali. Dobbiamo giungere agli ultimi anni dell’VIII secolo dell’Era volgare per incontrare il primo documento scritto relativo alla porzione del Valdarno fiorentino ove si trova Montelupo. Si tratta di una cartula offersionis del 794, assai nota agli storici, il cui contenuto è potuto giungere sino a noi grazie all’antigrafo che ne fu tratto durante il XII secolo: con questo documento tre fratelli longobardi donarono terre e beni all’abbazia di San Savino, nei pressi di Pisa. Tra le proprietà citate nell’atto sono compresi anche terreni posti a Fibbiana, l’attuale frazione del comune di Montelupo, il cui popolo, come sappiamo, fu trasferito nel nuovo castello negli anni 1203-04. Nonostante il suo contenuto non descrittivo, la pergamena riesce a segnalare un’evidente prevalenza nell’area medio-valdarnese del centro urbano di Empoli, l’unico tra i luoghi citati – per quanto ovviamente ereditato dalla passata romanità – a poter essere definito curtis, ma mostra nel contempo come le maggiori proprietà di questi signori di origine germanica, i I QUADRI STORICO-AMBIENTALI I QUADRI STORICO-AMBIENTALI po, tanto da giungere persino ad incrementare il proprio territorio, grazie all’acquisizione di due parrocchie (San Michele e San Vito), probabilmente di antica origine, che erano poste nella zona di Luciano e, come abbiamo visto, già dipendevano dal piviere in capite pontis di San Lorenzo a Signa. Nel momento del suo massimo sviluppo, a S. Ippolito facevano riferimento i seguenti popoli che, oltre al piviere, furono inseriti all’indomani dell’incastellamento del 1203-04 nel territorio del comune di Montelupo: 47 46 THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK Ippolito e Cassiano Montelupo to reach the hamlet of Santi Ippolito e Cassiano to baptize their children and bury their dead. The assuming of the title of Prioria by the new castle church and the concession of its font – when is still unknown but certainly before 1538, the year in which its books of the baptized started – represent other big changes along with an increase in inhabitants which led to the decadence of the old parish. During the first half of the fourteenth century, as already confirmed, the hamlet of Santi Ippolito e Cassiano went through a moment of particular devel- opment which led to an increase in its territory thanks to the acquisition of two parishes (San Michele and San Vito), probably of ancient origin which were located in the area of Luciano and, as we have seen, already depended on the parish in capite pontis of San Lorenzo a Signa. During the moment of its maximum development, in S. Ippolito there was reference to the following populations which were inserted soon after in the in the castle grounds in 1203-1204 in the community of Montelupo: SAN GIOVANNI EVANGELISTA DI MONTELUPO (URBAN PARISH OF RECENT CONSTRUCTION) SAN MINIATO DI SAMMINIATELLO; SANTA MARIA A FIBBIANA; SAN QUIRICO A SAN QUIRICO; SANTA MARIA A SAMMONTANA; SAN GIUSTO A PETROGNANO; SAN VITO E SAN MICHELE A LUCIANO (OF SAN LORENZO DI SIGNA); SANTA MARIA A PULICA; SAN GAUDENZIO A SEGHIGNANO. Around these populations was fitted the ever tightening pullover that was Montelupo, but the great crisis that started with the drought of 1340, and above all, the pandemic plague of 1348-49, led to demographic regression and the only the parishes that were closer to the major communication routes or part of the central area of Montelupo prevailed. Between the second half of the fourteenth century and 1450 about, the populations surrounding the central area of Montelupo were reduced to a minimum. Indeed, on the western side, Seghignano disappeared and Pulica was reduced, whilst on the southern side, Petrognano lost its ecclesiastical building which united with Sammontana, and on the north-east side, human presence at San Vito and Lucaiano (here an abandoned village is documented) touched a minimum. Conversely, Samminiatello took advantage of the situation as it was transformed into a well populated hamlet under the shelter of Montelupo on the bank of the Arno, just like San Quirico and Fibbiana which occupied an invidious position along the Pisana road. The parishes of Pulica, Sammontana and Petrognano located on the fertile terrain of the low hills, consequentl developed their agricultural characteristics, while the area of San Vito e Luciano remained the most poor, and not being able to make the most of the wooded areas owing to a lack of permission from the territorial rulers, turned to fluvial resources. The placement f the ceramics industry in Montelupo and Samminiatello was therefore a consequence of demographic contingencies and geographic position. In the Medieval: the territorial rulers We have to arrive at the last years of the VIII century of the Era Volgare to find the first document relative to the portion of the Florentine Valdarno where Montelupo is found. It is the cartula offersionis dated 794 which is well known to historians and which came to light thanks to a copy dated in the XII century: with this document, three Longobardi brothers donated THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK The Parish of Saints I QUADRI STORICO-AMBIENTALI conti di Luni dal 945, che però dagli anni ‘70 del secolo X all’ultimo trentennio del successivo ebbero cospicui possessi nel pisano, nel lucchese, in ambito volterrano ed aretino, tanto da costituire una sorta di anomala “marca” – detta “della Liguria occidentale” – la quale si introduceva in varie contee della Toscana. Re Ugo di Provenza, figlio del marchese Adalberto II, doveva dunque disgregare questi nuovi potentati per non subire un forte condizionamento politicoistituzionale sul regno; egli cercava perciò di mantenere le vaste proprietà degli Adalberti, ma nel contempo favoriva la nobiltà comitale, di rango minore, ma in grado di indebolire la signoria territoriale dei pretendenti alla Marca. La prima di queste contee aveva il suo centro in Pistoia, di cui Corrado, capostipite dei Cadolingi, era conte nel 923; nel periodo di re Ugo apparvero inoltre per la prima volta conti a Volterra, a Firenze con i Guidi, e a Luni con gli Obertenghi. Con l’imperatore Ottone I la marca di Toscana restò priva di titolare – ciò avvenne sicuramente negli anni 961-965, ma forse questo periodo si estese sino al 968 – a seguito della fuga del marchese Uberto. Il vuoto di potere che così si creò fu in parte colmato dal conte del sacro palazzo Oberto I, capostipite degli Obertenghi. Nel placito lucchese del 964, tenuto dal conte palatino e dal vescovo di Parma come misso, figurano già nove conti nell’assemblea placitante, e tra questi quattro sono variamente collegati al canossiano Adalberto Atto I, che si affaccia per la prima volta negli affari della Marca toscana, mentre i rimanenti sono i titolari delle contee di Pistoia, Firenze, Pisa e Volterra. Nel 969 viene infine investito della dignità marchionale Ugo, che resterà in carica per più di trent’anni, essendo scomparso nel 1001. In questo periodo si assiste però in Toscana alla capillare suddivisone del potere signorile, un fenomeno che investe ad ogni livello sia il potere laico che quello ecclesiastico. Questi, infatti, sono gli anni in cui sorgeranno i grandi cenobi della toscana, la cui tutela fu spesso fomite di aspri contrasti, ma anche l’epoca in cui la sovrapposizione tra interessi feudali e diritti ecclesiastici raggiunse il suo culmine, ingenerando intromissioni laicali negli affari ecclesiastici. Dalla morte di Ugo alla nomina del nuovo marchese, Bonifacio (1004), trascorsero alcuni anni turbolenti, nei quali gli antichi storici pisani collocano la perdita da parte della diocesi di Pisa dei beni ecclesiastici dell’Empolese e l’inizio dell’estensione del potere comitale dei Guidi in quest’area. Gli Obertenghi, inoltre, cercarono allora di impadronirsi per la prima volta della Marca con la violenza. È quindi plausibile che la fine della “Marca ligure-occidentale”, oltre ai conflitti tra Lucca e Pisa, abbia favorito il rafforzamento dei poteri comitali. È con la successione a Ranieri, il quale venne ad assumere il marchesato nel 1027, che la dinastia dei canossiani s’intrometterà direttamente negli affari della Marca di Toscana; morto Bonifacio di Canossa, spetterà infine alla consorte di lui, la “gran contessa” Matilde, portare ad esaurimento (1115) il potere marchionale sulla regione, ultimo baluardo di un potere centrale ormai inesistente, caduto il quale avranno agio di svilupparsi definitivamente i particolarismi delle signorie locali A seguito di questo processo di disgregazione, l’area di Montelupo, assieme a quella di Empoli, si trovò così a rappresentare una sorta di confine tra vari poteri territoriali. Dopo aver fatto capo alle proprietà regie, passate ai conti-duchi di Lucca in epoca adalbertina, le terre montelupine, assieme ad altre dell’Empolese, restarono evidentemente sino alla fine del X secolo nel patrimonio regio, tanto che Ugo di Provenza ne fece oggetto di elargizione alla moglie. Tramontata la stella dei figli di Berta, ed apparse le contee, Montelupo e la riva destra del Pesa entrarono poi nell’orbita cadolingia, che venne a rafforzarsi sullo spartiacque tra Pesa e Greve, anche per la fondazione del monastero di San Salvatore a Settimo, con la vicina curtis ed il castello di Montecascioli. Non è chiaro se i Cadolingi, che avevano dimora in Pistoia, abbiano mai esteso i loro domini sino a porre 49 48 lands and goods to the Abbey of San Savino near Pisa. Among the properties cited is some land situated at Fibbiana, now part of the municipality of Montelupo and whose population was transferred to the castle during 1203 – 04. Notwithstanding the lack of detail, the parchment manages to signal an evident prevalence in the mid-valdarnese area of the urban centre of Empoli, the only one, among the places cited, able to be defined as curtis and further indicates that most of the property belonging to these people of German origins extended with appreciable continuity along the valleys of the Arno constituting, around the small vici populated without interruption since Roman colonization, a network of mansi and curtes on which, since the first mass transfer to the castle, the first successive human presence appeared. Since this date and up to the first years of the XI century however, no document of note provides direct or partial testimony of the events surrounding this territory. We know however, that with the insertion of Toscana into the kingdom of Italy and the Carolingio empire – the epoch when the cartula offersionis appeared – the so called dukedom-countship of Lucca: The descendants of the Bavarian Bonifaccio nominated Count of Lucca by Charles the Great, assumed with Adalberto in 846, the title of Marquis. The government of the marquis called “Adalberti” extended over the area of Pisa, Luni, Volterra, Pistoia, and Firenze-Fiesole- and therefore Montelupo. During the first half of the X century, owing to a ferocious family feud, this family became considerably weaker, and the Aldobrandeschi with Ildeprando who took the title of Marquises of Tuscia and in successive epochs continued to call themselves Marquises even though, obviously, they no longer had that charge. The same can be said of the Obertenghi, Counts of Luni from 945, who, however, were from the last thirty years of the X century to the last thirty years of the successive century, conspicuous possessors of the areas around Pisa, Lucca, Volterra and Aretino, to the extent that they were able to create an anomalous “Mark”– of Western Liguria – which was introduced into various countships in Tuscany. King Ugo of Provenza, son of the marquis Adalberto II, had to break up this new power to avoid suffering a loss of political – institutional power in his kingdom; He attempted to maintain the vast property of the Adalberti whilst favouring the Tuscan counts who were of lesser standing but able to weaken the ruling capacity of the pretenders to his lands. The first of these countships had his centre in Pistoia, of which Corrado, founder of the Cadolingi, was count in 923; in the reign of King Ugo, counts appeared for the first time in Volterra, in Florence with the Guidi and at Luna with the Obertenghi. With the emperor Ottone 1 the title of Florence was without a possessor – which changed during 961965, or maybe even to 968 – following the escape of the Marquis Uberto. This void was in part filled by the count of the sacred palace Oberto 1, founder of the Obertenghi. In the decreed area of Lucca in 964, held by the Palatine count and the bishop of Parma as Misso, there were already nine counts in the decreed assembly, and among these four are linked to Adalberto Atto 1, who was involved for the first time in the affairs of the Tuscan territories and the others were possessors of the countships of Pistoia, Firenze, Pisa and Volterra. In 969, he was invested with the title marquis Ugo who would go on to retain power for more than thirty years until his death in 1001. In this period he took part in the subdivision of the power to rule, a phenomenon that regarded every level whether laical or ecclesiastical. These indeed are the years where the grand Tuscan cenoby emerged, the rights of which were bitterly contested and the years where the clash of interests between feudal and ecclesiastical rights reached its peak, generating laical interference in ecclesiastical affairs. After the death of Ugo and up to the nomination of the new Marquis Bonifaccio (1004) many tur- bulent years passed during which the ancient historians of the Pisa district place the loss of part of the diocese of Pisa and of ecclesiastical assets from the district of Empoli as well as the extension of power of the Guidi counts in the area. What’s more, the Obertenghi attempted, for the first time, to take full control of territories with violence. It is therefore plausible that the end of the “Ligure-Occidentale mark” as well as the conflict between Lucca and Pisa, favoured the reinforcement of the counts’ power. It was with the succession of Ranieri, who went on to assume the marquis title in 1027, that the Canossian dynasty interfered directly in the affairs of the Mark of Tuscany; at the death of Bonifaccio of Canossa, it was his consort, the “grand countess” who brought to the end (1115) the power of the marquis over the region, the last bulwark of a central power quite inexistent, fallen. Following this process of disintegration, the area of Montelupo along with Empoli, represented a sort of boundary between various territorial powers. After having been the central territory for its Royalty, it was passed on to the counts-dukes of Lucca during the Adalbertina epoch. The lands of Montelupo together with those of Empoli, remained evidently under Royal patronage to the extent that Ugo of Provenza made it an object of donation to his wife. THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI Longobardi, si estendessero con apprezzabile continuità lungo la valle dell’Arno, costituendo, attorno ai piccoli vici, ininterrottamente popolati dal momento della colonizzazione romana, quella rete di mansi e curtes sulla quale si sarebbe organizzata, sino ai primi sconvolgimenti determinati dagli incastellamenti bassomedievali, la successiva presenza umana. Da questa data sino ai primi decenni dell’XI secolo, però, nessun documento noto ci fornisce testimonianza diretta, sia pure parziale, di questo territorio. Sappiamo tuttavia che con l’inserimento della Toscana nel regno d’Italia e nell’impero carolingio – l’epoca alla quale risale la citata cartula offersionis – venne a formarsi il cosiddetto ducato-contea di Lucca: la discendenza del bavaro Bonifacio, nominato da Carlo Magno conte di Lucca, assunse però nell’anno 846, con Adalberto I, il titolo di marchese. Il governo dei marchesi detti “Adalberti” si estese sui territori di Pisa, Luni, Volterra, Pistoia e Firenze-Fiesole – e quindi anche sull’area di Montelupo. Nella prima metà del X secolo, a causa di una feroce faida familiare, questa famiglia si indebolì considerevolmente, e furono gli Aldobrandeschi con Ildeprando a pretendere nel 937 il titolo di marchese di Tuscia, e, anche se in epoca successiva furono chiaramente privi di tale carica, continuarono a farsi chiamare marchiones. Lo stesso può dirsi degli Obertenghi, I QUADRI STORICO-AMBIENTALI Lamberto in un suo privilegio dell’anno 1026, ed ancora ribadite da Atto, nuovo presule fiorentino, nel 1037. Mentre, tuttavia, l’area tra Empoli e Montelupo fu oggetto di una lotta sempre più esasperata per il predominio della giurisdizione ecclesiastica tra clero secolare e clero regolare, i confini feudali sembrano allora attraversare un momento di stabilità. Questa fase di calma relativa venne però drammaticamente ad interrompersi con la morte del conte Ugo (III), allorquando (1113) si estinse la nobile schiatta dei Cadolingi e, per disposizione dell’ultimo suo esponente, i vescovi delle diocesi nei quali si trovavano i suoi beni comitali gli succedettero nei diritti. I Cadolongi detenevano, come si ricava da una donazione del 1000 che già ci è occorso di citare, la proprietà dell’area di San Quirico-Ambrogiana, e questi aspetti della loro signoria territoriale dovevano essersi consolidati nel corso del X secolo, visto che, come sappiamo, nell’anno 937 la curtis di San Quirico ed i suoi 40 mansi furono attribuiti ai possessi regi di Lucca e Pisa. Ma i nobili pistoiesi erano probabilmente venuti in possesso anche di alcuni diritti sulla stessa Fibbiana, visto che all’indomani della morte del conte Ugo il vescovo fiorentino Gottifredo, della famiglia degli Alberti, dopo aver ricevuto la successione cadolingia nella diocesi fiorentina, si affrettò a donare alcune decime fibbianesi al monastero di San Tommaso di Capraia: sua cugina Berta era la badessa di questo cenobio. Lo stesso avvenne per la chiesa di San Miniato in Samminiatello, reintrodotta dallo stesso Gottifredo nei possedimenti del vescovado, e probabilmente ceduta a livello, con i possedimenti che ad essa si riferivano, alla potente famiglia fiorentina dei Bostichi, con la quale il presule fiorentino venne a scontrarsi in epoca successiva. Anche il territorio ove era edificata la pieve dei Santi Ippolito e Cassiano in Val di Pesa faceva probabilmente parte dei possedimenti Cadolingi, che dovevano così aver mantenuto il controllo territoriale di buona parte del tratto dell’antica strada altomedievale la quale, attraversando qui il Pesa, risaliva lo spartiacque con il Vingone: il cuore stesso, cioè, della nuova viabilità altomedievale per Firenze. Fu dunque la scomparsa dei Cadolingi e l’aggiramento del lascito del conte Ugo III a rappresentare per gli Alberti una ghiotta occasione per uscire definitivamente dall’ambito “pistoiese” della riva destra dell’Arno, e non soltanto acquisire potere su Fibbiana, ma soprattutto estendere il loro dominio sulla collina dove attualmente si trova Montelupo, sino a comprendere, appunto, la pieve dei Santi Ippolito e Cassiano. La stessa cosa probabilmente avvenne anche nei riguardi di Pontorme e del suo territorio, che, varcando il torrente Orme, si affacciava nei pressi della guidinga Empoli. L’acquisizione di questi domini, d’al- tronde, si rivelava di particolare importanza per gli Alberti, che già avevano consistenti interessi in Val di Pesa ed in Val d’Elsa, e potevano così riunirli ai possessi “pistoiesi” nella trama di un’unica signoria territoriale. La presenza albertesca lungo la riva sinistra dell’Arno comprendeva Sammontana, ove i conti di Capraia edificarono un piccolo castello, al quale apparteneva probabilmente il toponimo Omiccio, collocato in posizione strategica lungo il tracciato della via Maremmana, che da qui proseguiva per Pulica e San Donato in Val di Botte sin verso Martignana, ove il loro dominio incontrava il territorio dei Ravegnani; sullo spartiacque tra Pesa e Turbone, inoltre, gli Alberti tenevano la zona di Pulica sino a Montespertoli. A fronte di una simile, cospicua estensione della signoria territoriale, era inevitabile che negli anni tra il 1113 ed il 1120, venuta meno la presenza cadolingia, questo territorio fosse teatro del braccio di ferro tra le due principali casate nobiliari, i Guidi e gli Alberti, che vi avevano sviluppato forti interessi: la posta in gioco di questo duello era non solo l’accaparramento dell’eredità cadolingia, certamente poco salda nelle mani dei vescovi fiorentini, ma anche la supremazia feudale sulla Tuscia, visto che alla morte di Matilde di Canossa (1115) il conte Guido Guerra (V), adottato dalla marchesa nel 1099, poteva in qualche modo sperare – ed in effetti si faceva chiamare 51 50 Once the star of the children of Berta had faded, the counts appeared, Montelupo and the right bank of the Pesa entered into the Cadolingian orbit which was then reinforced along the watershed between Pesa and Greve, and the monastery of San Salvatore a Settimo was also founded with its neighbouring curtis. It’s not altogether clear if the Cadolingi, who resided in Pistoia, had ever extended their dominion over the entire mid-valdarno area, from the gate of Florence up to Fucecchio (Borgonuovo), where they built an important castle and a curtis, where they founded a famous monastery itself placed under the title of San Salvatore and which was erected by Piero Igneo. However, The Counts Alberti, later called “of Capraia” precociously wedged themselves into this Cadolingian territory with the aim of building their castle of the same name as did the Florentine Guidi. No document has come to light so far bearing an explanation as to hoe these noble families managed to install themselves in the area. Also the ecclesiastical feud was evident in the Mid - Valdarno during this moment of assets hunting and territorial power. During the first ten years of the XI century, the Florentine bishop Ildebrando, counting on the help of the Emperor Henry III and on the consensus of the Empress Cunegonda, began to attribute various possessions to the church of San Miniato al Monte di Firenze, a centre of blessed spirituality, even adding, in 1013, the curtis of Empoli. In 1024, the same Ildebrando confirmed all the past additions and added the parochial church of San Miniato, situated in the hamlet later called Samminiatello. The donations were again confirmed by his successor Lamberto in the year 1026, and by Atto, the new Florentine bishop in 1037. While the area between Empoli and Montelupo was the object of an increasing intense a struggle for the predominance of ecclesiastical jurisdiction between secular and regular clerics, the feudal borders seemed to be going through a moment of stability. This stable climate came to an abrupt end with the death of Count Ugo (III) when the Cadolingi lineage ended and, by arrangement of the last exponent, the bishops of the diocese inherited his titles. The Cadolingi held, as can be seen from a donation in 1000, had cited possession of the area around San Quirico-Ambrogiana and these parts of their territory had to be consolidated during the course of the X century, seen, as we know, that in 937 the curtis of San Quirico and its 40 mansi were attributed to the rulers of Lucca and Pisa. But the rulers of Pistoia probably came to possess some rights over Fibbiana seen that, after the death of count Ugo, and after having acquired the Cadolingian succession in the Florentine diocese, the Florentine bishop Gottifredo had haste in donating some assets of Fibbiana to the monastery of San Tommaso di Capraia: his cousin Berta was the abbess of this cenoby. The same thing happened with the church of San Miniato in Samminiatello, reintroduced by the same Gottifredo who was in possession of the bishop’s residence and probably ceded with the same contract, to the Florentine family Bostichi with whom the Florentine bishop clashed in a successive epoch. Also the territory where the hamlet of SS Ippolito e Cassiano in Val di Pesa was probably part of the possessions of the Cadolingi family who maintained territorial control of a good part of the late medieval road which crossed the Pesa, and formed a watershed with the Vingone: the heart of medieval viability for Florence. It was therefore the disappearance of the Cadolingi and the movements of the bestowed assets by Ugo III that represented for the Alberti a great chance to leave the Pistoia area on the right bank of the Arno and, not only acquire power over Fibbiana but above all extend their dominion over the hill were Montelupo is today found, right up to and including the hamlet of Santi Ippolito e Cassiano. The same thing probably happened to Pontorme and its territory, which faces the territory of Empoli across the torrent Orme. The acquisition of these dominions was of particular importance for the Alberti who already had consistent interests in Val di Pesa and in Val d’Elsa, and could then unite its Pistoia Territories into a singular possession. The presence of the Alberti along the left bank of the Arno included Sammontana where the counts of Capraia build a small castle which probably had the name Omiccio, located in a strategic position along the track of the via Maremmana which followed the way to Pulica and San Donato in Val di Botte and on to Marignana where their dominion met the territory of the Ravegnani; on the watershed between Pesa and Turbone. The Alberti also had the area of Pulica up to Montespertoli. Facing a similar, conspicuous extension of their rightful lands, and given the lack of Cadolingi presence, conflict between the two principle houses of nobility, the Guidi and the Alberti, between 1113 and 1120 was inevitable. Both had developed strong interests in the area: the main interests included not only the buying up of the legacy of the Cadolingi now in the hands of the Florentine bishops but also the feudal supremacy of Tuscia, seen that, at the death of Matilde di Canossa (1115) Count Guido Guerra (V), adopted by the marchioness in 1099 could in some way hope – and indeed he had himself called “mar- THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI nella loro signoria territoriale l’intera area medio-valdarnese, dalle porte di Firenze sino a Fucecchio (Borgonuovo), ove costruirono un importante castello e tennero una curtis, fondandovi il famoso monastero, anch’esso posto sotto il titolo di San Salvatore, che fu retto da san Piero Igneo. In questo territorio cadolingio s’incunearono però precocemente i conti Alberti, detti più tardi “di Capraia” per avere la loro sede nell’omonimo castello, ed i Guidi fiorentini. Nessun documento a tutt’oggi noto è in grado illuminare i meccanismi grazie ai quali queste famiglie comitali riuscirono ad installarsi nella zona. Anche la feudalità ecclesiastica si fece viva nel Medio Valdarno in questo momento di caccia ai benefici ed al potere territoriale. Nei primi decenni dell’ XI secolo il vescovo fiorentino Ildebrando, contando sull’aiuto dell’imperatore Enrico III e sul consenso dell’imperatrice Cunegonda, iniziò ad attribuire varie possessioni alla chiesa di San Miniato al Monte di Firenze, centro di spiritualità benedettina, dotandola nel 1013 persino della curtis di Empoli. Nel 1024 lo stesso Ildebrando confermò ai monaci di San Miniato quanto loro precedentemente attribuito, e, come sappiamo, vi aggiunse la chiesa parrocchiale di San Miniato, posta nel borgo che poi fu detto di Samminiatello. Le donazioni di Ildebrando furono poi confermate dal successore I QUADRI STORICO-AMBIENTALI di semplice guardingo, doveva esistere da tempo: formuliamo quindi l’ipotesi che, prima dell’edificazione di un castello abitato, di cui tratta ampiamente la storia successiva, sul colle di Montelupo si ergesse già una qualche struttura di tipo militare. La conquista cittadina: un “lupo fiorentino” alla guardia del Valdarno. Nel nostro quadro storico, già notevolmente complesso, viene ad affacciarsi sul finire del XII secolo – qualche decennio dopo, cioè, il conflitto tra le signorie territoriali del luogo – un ulteriore protagonista delle vicende storiche toscane: la Repubblica di Firenze. La Città Gigliata, dopo circa due secoli di forte incremento economico e demografico, inizia infatti ad intromettersi nelle vicende di quest’area del Medio Valdarno nel 1174, con una rapida spedizione condotta contro il castello di Montecascioli ed i cattani di Signa – i quali avevano il loro piccolo dominio sullo spartiacque tra il Vingone ed il Pesa, e si trovavano così nei luoghi essenziali per le comunicazioni viarie fiorentine – che fruttò alla Repubblica la conquista del castello di Monte Orlandi, sito in posizione strategica al disopra di Gangalandi. Nel dominio dei Fiorentini stava adesso uno dei ponti che garantivano l’attraversamento dell’Arno in direzione di Pistoia. Poiché sappiamo che già nel 1182 la guidinga Empoli giurò un oneroso patto di sottomissione alla Città, promettendo, tra l’altro, di condurre a Firenze per la festa di S. Giovanni un cero di maggiori dimensioni di quello solito ad inviarsi da parte dell’albertesca Pontorme, se ne deduce che a questa data le due potenti famiglie comitali, ai quali appartenevano le due curtis più importati di questo tratto del Medio Valdarno, avevano già dovuto chinare la testa a Firenze. La pressione politica e militare esercitata dai nuovi arrivati non si era dunque fermata alla zona di Signa, ma era giunta quasi di slancio al confine dell’antica judicaria longobarda e della diocesi fiorentina. Le direttrici del sorgente espansionismo cittadino, come ben evidenzia il Villani, seguirono la direzione del Mugello e del Valdarno: le due aree, cioè, che, per gli approvvigionamenti della città e per la salvaguardia delle sue vie di comunicazione, rappresentavano i punti nevralgici della crescita di Firenze; in questi luoghi, però, si erano da tempo stabilite – probabilmente, come si è visto, già nel corso della seconda metà del X secolo – a titolo più o meno legittimo, diverse signorie, tanto di natura laica che ecclesiastica. Il conflitto tra la Repubblica Fiorentina ed i conti Alberti, signori delle terre di Montelupo, esplose violentissimo nel 1184, ed ebbe per teatro di guerra soprattutto la Valdelsa, ma si estese anche al Mugello ed alla Val di Pesa. Le durissime condizioni di pace imposte allora dai Fiorentini ai conti sconfitti implicarono la cessione alla Città della metà delle imposte e prevedevano anche il controllo di una torre del castello di Capraia, che la Repubblica aveva il diritto di atterrare a proprio piacimento. Questa torre potrebbe essere stata proprio il “guardingo”, già edificato sul luogo del futuro Montelupo e, come si è detto, dipendente dalla rocca capraina, con la quale esso poteva formare un solido sistema di difesa, disteso su entrambe le rive del fiume, comprensivo probabilmente anche dell’antico ponte sull’Arno. Ma la guerra del 1184 non poteva concludere il braccio di ferro tra Firenze e gli Alberti, come, del resto, la sottomissione degli Empolesi alla Repubblica nel 1182 non avrebbe definitivamente spezzato il rapporto tra quest’ultima ed i conti Guidi. Come efficacemente scrisse Robert Davidsohn, infatti, “importava ai cittadini fortificarsi là dove l’Arno abbandona i colli della Golfolina, per poter difendere anche da quella parte il proprio territorio contro Pistoia, Lucca e Pisa e, se le circostanze fossero mutate, anche contro San Miniato”. Ma non meno, come si è detto, interessava ai Fiorentini sgomberare la via fluviale che l’univa al mare da quei condizionamenti che ne avrebbero potuto strangolare la crescita economica e civile. L’occasione propizia si presentò loro vent’anni dopo. Il conte Alberto morì infatti prima del giugno del 53 52 quis” – in the succession to the lineage of a marquis. The conflict was open in 1120 and, even if it didn’t produce tangible consequences in terms of increasing local possessions, it was enough to determine long term phenomena, including the building of battlements in Empoli which remained solemnly in the hands of Guido Guerra in 1119. It is very probable that the Alberti also reinforced their possessions given the hostile conditions starting with the castle at Capraia, the centre of their territory without neglecting Pontorme and, we believe, strengthened their military presence in the area of Montelupo as the territory on the left bank of the Arno – the same that gave access to the Val di Pesa – couldn’t count on, besides a minor castle at Sammontana, strong points from which to combat the enemy. It is improbable that this hill of particular strategic relevance from which, besides controlling the inferior course of the Arno at the beginning of the straight that ends with the Golfina, it was possible to block various communication channels between Florence and Pisa, and also given the fact that the ancient bridge across the Arno was in the area, wasn’t invested with some kind of defence – but as far as we know – and here we can’t count on written documents – such a fortification should have already existed for a long while. We can form the hypothesis that before the inhabited castle which will be amply discussed, there was a military structure on the Montelupo hill. The citizen’s conquest: a “Florentine wolf” watching over the Valdarno. In our historical picture, already notably complex, towards the end of the XII century – some tens of years after the conflict between the rulers of the place – a further protagonist of Tuscan history appears: the Republic of Florence. The city of the lily, after two centuries of strong economical and demographic growth, began to get involved in the affairs of the part of the Mid-Valdarno in 1174 with a rapid expedition conducted against the castle of Montcascioli and the castle folk of Signa – who had their small dominion on the watershed between the Vingone and the Pesa, and who were placed on essential Florentine communication lines – which conquered the castle of Monte Orlandi, sited on a strategic position above the Gangalandi. The Florentines as a consequence had in their dominion one of the bridges that guaranteed the crossing of the Arno in the direction of Pistoia. As we know that already in 1182 the counts of Empoli swore an onerous pact of submission to the city, promising, amongst other things, to send to Florence for the feast of S. Giovanni a bigger than usual candle on behalf of the Alberti of Pontorme, we can deduce that at about that date the two powerful families, to whom the two most important curtis of the Mid-Valdarno belonged, had already bowed their heads to Florence. The political and military pressure exercised by the new arrivals didn’t stop at Signa, but had almost arrived at the ancient judiciary of the Longobarda and of the Florentine diocese. The direction of expansionism as evidenced by the Villani, followed the direction of Mugello and Valdarno: the two areas, in terms of providing for the needs of the city including its channels of communication, represented nerve points in the growth of Florence; in these places however - as could probably be seen already in the course of the X century – holding more or less genuine entitlements, were diverse noble people, lay as much as ecclesiastical. The conflict between the Florentine Republic and the Alberti counts, nobles of the lands of Montelupo, exploded violently in 1184 and the Valdelsa and the stretch of land from Mugello to the Val di Pesa became theatres of war. The very hard peace conditions imposed by Florence on the counts included the concession of half of their taxes to the city and provided for the control of a tower of the castle of Capraia which the Republic could use on whim. This tower could have been the “guardingo”, which stood in place of the future Montelupo and as already mentioned, was dependent on the Capraina fortress with which it formed a solid defence system spread along both sides of the river and probably including the old bridge on the Arno. But the 1184 couldn’t conclude the tension between Florence and The Alberti clan, just as the submission of the rulers of Empoli to the Republic in 1182 didn’t end the relationship between the latter and the Guidi. As Robert Davidsohn efficiently wrote, “the citizens wanted to fortify the area where the Arno abandons the hills of the Golfolina, to defend it against Pistoia, Lucca and Pisa, and if necessary, if the conditions changed, against San Miniato”.The Florentines were just as much interested in freeing the fluvial routes that stretch out towards the sea of any condition that might be able to strangle economic and civil growth. The perfect opportunity came twenty years later. Count Alberti died before June 1203; he had named the consuls of Florence as tutors of his youngest son, he too named Alberto, born of the second wife Tabernaria. Albert had been bequeathed the assets on the right side of the Arno, besides other places in bologna and Romagna, while to the son of the first marriage went the remaining patrimony on which however grated the heavy Florentine presence. Count Borgognone, exponent of a collateral branch of the Alberti thought to occupy the THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI “marchese”- nella successione al rango marchionale. Il conflitto si fece aperto nel 1120 e, anche se non produsse alcuna conseguenza tangibile nella ripartizione dei possedimenti locali, fu sufficiente a determinare fenomeni di lungo periodo, quali l’incastellamento di Empoli, al quale mise solennemente mano Guido Guerra nel 1119. È del tutto probabile che in quegli anni anche gli Alberti abbiano provveduto a munire e rafforzare i loro possessi in vista dell’urto con i vicini che si annunciava imminente, e lo abbiano fatto proprio a cominciare dall’avito castello di Capraia, centro della loro signoria territoriale, senza ovviamente trascurare Pontorme e, crediamo, rinsaldare la loro presenza militare nella zona di Montelupo, visto che il territorio sulla riva sinistra dell’Arno – e lo stesso accesso alla Val di Pesa – non potevano appoggiarsi, oltre il castelluccio di Sammontana, su punti forti dai quali contrastare il nemico. È del resto improbabile che questo colle di particolare rilevanza strategica, dal quale, oltre a controllare il corso inferiore dell’Arno all’inizio della stretta che termina con la Golfolina, si poteva fare ostacolo alle comunicazioni viarie tra Firenze e Pisa, trovandosi anche nei pressi dell’antichissimo ponte per l’attraversamento dell’Arno, non fosse munito di alcuna difesa. A nostro avviso – ma qui purtroppo non possiamo contare su documenti scritti – tale fortificazione, sia pure a livello Ricostruzione grafica della costruzione del castello di Montelupo nel 1204-06 (disegno Ink-Link Firenze) I QUADRI STORICO-AMBIENTALI 1203; egli aveva nominato i Consoli del comune di Firenze tutori del figlio minore, anch’esso di nome Alberto, nato dalle sue seconde nozze con Tabernaria. Ad Alberto erano stati assegnati i beni della riva destra dell’Arno, oltre a quelli posti in Bologna e nella Romagna, mentre ai figli di primo letto andava invece il restante patrimonio, sul quale gravava però la pesante ipoteca della presenza fiorentina. Il conte Guido Borgognone, esponente di un ramo collaterale degli Alberti, pensò dunque di occupare con un colpo di mano il castello di Capraia per assicurare a sé ed alla sua discendenza parte della signoria territoriale albertesca. Giovanni Villani e le cronologie dette Gesta Florentinorum che costituiscono la sua fonte d’informazione sugli avvenimenti di quell’anno, affermano però a chiare lettere: “Negli anni di Cristo 1203, essendo consolo in Firenze Brunellino Brunelli de’ Razzanti e suoi compagni, i Fiorentini disfeciono il castello di Montelupo perché non volea ubbidire al comune”. Questo passo del Villani, in apparente incongruenza con la documentazione storica rappresentata dai patti tra la Repubblica da una parte e Guido Borgognone ed i suoi figli dall’altra, ha creato un piccolo scompiglio tra gli 55 Link, Firenze) castle at Capraia with through a quick coup to assure his descendents part of the territory belonging to the Alberti family. Giovanni Villani and the chronology called Gesta Fiorentinorum which constituted his source of information on the events of that year affirm however in clear letters: “In the year of Christ 1203, when Brunellino Brunelli de’Razzanti and his companions were consuls in Florence, the Florentines undid the castle of Montelupo because it didn’t want to obey the city-state”. This step by Villani, apparently incongruous with historical documents demonstrating pacts between the Republic on one side and Guido Borgognone and his sons on the other, has created a small upset between historians: what could the Florentines have destroyed given that Montelupo was constructed at the beginning of the successive year? There have been many answers to this enigma. Davidsohn states that it’s a question of reading errors (unfortunately linked): “1204”, written in Latin numbers can be read as “1203” if the last unit is not perceived and “disfeciono” (undid) could have been “feciono” (did up) in the original text – but the THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK Graphic reconstruction of the Montelupo Castle in 1204-06 (Ink- I QUADRI STORICO-AMBIENTALI quale dovette attuarsi nell’arco di pochi anni, e cioè tra il 1203 ed il 1206, anche se con tutta probabilità l’impresa era giunta a buon punto già nella primavera del 1204, visto che, per la pressione militare da qui esercitata su Capraia e sugli altri possedimenti alberteschi della zona, Guido Borgognone fu costretto ad un primo armistizio (giugno 1204), ed a una successiva pace (29 ottobre 1204). Consapevoli che solo con la presenza di un forte nucleo abitativo il nuovo castello poteva essere tenuto con sufficiente sicurezza, i fiorentini favorirono con ogni mezzo l’introduzione al suo interno delle popolazioni già addensate nei borghi e nelle ville limitrofe. Di questa operazione di incastellamento e delle alterazioni che essa produsse nei confronti del precedente assetto territoriale, sono eloquente testimonianza i due decreti emanati dai vescovi fiorentini nel 1206 e nel 1221 su richiesta del pievano di Empoli, in occasione del trasferimento del popolo di Santa Maria a Fibbiana entro le mura di Montelupo, al quale abbiamo già in precedenza accennato. Come si può ben rilevare dalla cartografia, l’originario insediamento castrense montelupino aveva in realtà modeste dimensioni, comprendendo soltanto la parte sommitale del colle, e cioè l’area ancor oggi individuata e caratterizzata dal toponimo “castello”. Entro questo angusto circuito murario, destinato a svolgere funzioni di carattere militare, la popolazione si trovò perciò precocemente ristretta, tanto che l’abitato debordò presto all’esterno, occupando la pendice settentrionale della collina, disponendosi lungo l’asse viario che, dalla sua sommità, si indirizzava al ponte sull’Arno. Con il continuo accorrere della popolazione nel corso del XIII secolo, l’incastellamento di Montelupo assunse dunque una valenza storico-topografica che superò di molto il significato militare dell’operazione contro i conti Alberti, per trasformarsi nella creazione di un nuovo centro abitato, all’interno del quale si sarebbe ben presto riorganizzata l’economia e la vita civile di questa porzione territoriale della riva sinistra dell’Arno. Nel corso di questo secolo, infatti, Firenze impresse sull’addizione abitativa che era venuta formandosi lungo il colle di Montelupo il modulo di sviluppo urbanistico di una “terra nuova”, cioè di un nucleo abitativo di nuova fondazione dotato di mura. Come le più note “terre nuove” fiorentine (Scarperia, San Giovanni Valdarno, Terranuova Bracciolini), anche al nuovo abitato valdarnese fu imposto un profilo rettangolare, spartito a metà dalla strada principale, e tagliato per moduli orizzontali dalla viabilità minore: nacque così una nuova “terra murata”, protetta da un castello, ma tutta volta ad ottimizzare, nel rapporto con la strada Pisana, l’Arno ed il Pesa, a fini economici le risorse naturali e viarie di questo territorio. Il fiero animale alla sottile catena della Dominante. Montelupo costituiva già nella seconda metà del Duecento un importante insediamento fiorentino, e come tale esso avrebbe legato d’ora in avanti le sue vicende politiche, civili ed anche economiche a quelle della sua Dominante, mostrandosi in ciò probabilmente la più fedele e “gigliata” tra le terre del Valdarno. I fiorentini, in cambio del ruolo che avrebbe esercitato nei secoli a venire, le assegnarono un buon assetto civile, facendo crescere la comunità locale secondo gli schemi ordinati del comune di Contado, e designandola altresì come sede di un’importante podesteria, cioè della circoscrizione civile di un giudice ed “ufficiale di governo”. La prima menzione del comune di Montelupo risale in effetti al 1260, anno in cui l’istituzione locale è citata nei Capitoli della Repubblica, ma è evidente come l’operazione di incastellamento non sia potuta avvenire senza che la popolazione qui residente fosse precocemente organizzata in forme comunitarie di gestione del nuovo insediamento: la successiva attestazione di Montelupo come “comune per sé”, contenuta nello statuto del Capitano del Popolo del 1321, rappresenta così solo la conferma documentaria di una realtà da lungo tempo esistente. Dei primordi della comunità montelupina non ci è rimasto alcun documento antecedente ad uno statuto che, in forma di pessima minuta, risale al 1389, ed è 57 56 Swabian didn’t dare affirm this explicitly. Also Hartwig had noted the incongruence and dedicated a footnote to it in his work on the history of Florence but didn’t attempt to resolve the problem. Scipione Ammirato the Younger affronted the question by reflecting on a possible building that preceded the building up of Montelupo: in attempting to find an alibi for the Florentine action – unnecessary because Guido Borgognone had anyway violated the preceding peace treaty – invented an imaginary “Malborghetto”, not by chance conceived as the place the Alberti used as a base (we are in the seventeenth century) to break up the territory of the hated arrogant nobility. Once the Alberti presence was eliminated, Florence began a grand reconstruction of the castle, which took place over a few years and which, between 1203 and 1206, even if in the spring of 1204, the enterprise had already reached a good point as the military pressure coming from this military encampment on Capraia and on the other Alberti possessions in the area, Guido Borgognone was forced to accept an armistice (June 1204), and peace (29 October 1204). Knowing that the castle could only remain secure if there was a strong presence of inhabitants, the Florentines favoured any means that would result in the introduction of people inside its walls. There was already an increase of population in the areas around it. There are two eloquent testimonies to this increase of population within the castle’s walls which come from Florentine bishops in 1206 and 1221 at the request of the bishop of Empoli in a period of transference of the population from Santa Maria to Fibbiana to within the walls of Montelupo. As can be revealed from maps, the original Montelupo settlement was modest in dimension, occupying only the summit of the hill, the area also known today as “castle”. Within these walls, destined to have a military function, the population soon suffered a lack of living space so much so that the living quarters soon extended outside of the castle, along the northern slope of the hill along the road that went from the summit towards the bridge over the Arno. With the continued inrush of population during the XIII century, the fortification of Montelupo assumed a historical-topographical value which went beyond the military operation against the Alberti, a transformation into a reorganized. During this century indeed, Florence marked the development of the residential areas along the hills of Montelupo as having the developmental urban model of a “new land”, that is, the residential nucleus of a new foundation with walls. Like the most noted Florentine “new lands” (Scarperia, San Giovanni Valdarno, Terranuova Bracciolini), the Valdarno residential centre was also rectangular, emerging about half way along the main road and cut into horizontal modules by the minor roads; this is how a new “walled land”, began, protected by a castle and able to optimize the road towards Pisa, the Arno and the Pesa, exploiting natural resources and main communication routes. The proud animal on the subtle chain of the Dominant Already in the second half of the second century, Montelupo constituted an important Florentine settlement and as such was linked from then on to the political, economical and civil affairs of its rulers and demonstrated itself to be, probably, the most faithful and “gigliata” amongst the Valdarno lands. In exchange, the Florentines, exacting their part in a role that would continue for centuries to come, assigned Montelupo a civil role that would permit it to grow as a local community following the schemes arranged for a country community and giving the status of an important Podesta, that is, of a constituency with a judge and a “government official”. The first mentioning of the municipality of Montelupo appears in 1260, the year in which the local institution is cited in the Capitoli of the Republic but it is obvious that the fortressing of the site wouldn’t have come about unless the people were previously organized into some form of a community with the aim of managing the new settlement. The successive attestation of Montelupo as a “municipality in itself”, contained in the statute of the Capitano del Popolo of 1321, represents the documentary confirmation of a long existing reality. From the early days of the Community of Montelupo, no antecedent to the minute statute which dates to 1389 and is conserved – as an original – in the Archivio di Stato di Firenze; in its preamble however, it cites a preceding sylloge which was produced three years earlier, in May of 1386, by the notary of Montelupo Gherardino d’Andrea: it has to be stated however that the statutory tradition of the place was in reality, like many other places in the countryside, much older. From this normative document we can reveal how, in following tradition, the local offices were obtained through the extraction of a nominative form, according to the numerical proportion between the tax paying residents of the principal urban nucleus (the allibrati) and the “population” to be found in the surrounding “villages” (“curia” fig 6). In the statute of 1389, in particular, it was established that the executive of the community was formed of four deputys half of the number that belonged to the THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI storici: cosa mai potevano aver distrutto i Fiorentini nel 1203, visto che Montelupo risulta esser stato edificato, e quindi esistere, solo ad iniziare dall’anno successivo? Le risposte che si è cercato di fornire a questo (apparente) enigma sono state diverse. Il Davidshon ritenne trattarsi semplicemente di due errori di lettura (purtroppo, però, collegati tra di loro): “1204”, scritto in cifre latine, può infatti essere letto come “1203”, qualora non si percepisca l’ultima unità; di più, “disfeciono” può esser stato “feciono” nel testo originale – ma questo lo storico svevo non ebbe l’ardire di affermarlo esplicitamente Anche l’Hartiwg aveva notato l’incongruenza, dedicando ad essa una nota nel suo lavoro sulla storia di Firenze, ma non aveva risolto il problema. Scipione Ammirato il Giovane, nelle aggiunte alla storia del suo omonimo avo, dirime invece la questione pensando ad una località da distruggere prima dell’edificazione di Montelupo: egli sarebbe stato nel giusto, ma per voler trovare un alibi all’azione fiorentina – peraltro non necessario, in quanto Guido Borgognone aveva violato il precedente trattato di pace – inventò un fantomatico “Malborghetto”, non per caso concepito come luogo che gli Alberti avrebbero sfruttato come base (siamo nel Seicento) per piegare il territorio ad odiose soperchierie nobiliari. Eliminata la presenza albertesca, Firenze mise mano ad una grandiosa ricostruzione del castello, la I QUADRI STORICO-AMBIENTALI quello dei vicari. A questo seguiva a sua volta un collegio “quod voluerunt et decreverunt offitium quactuor espertorum, prout actenus appellari consuevit”, anch’esso eletto con il solito criterio paritario tra residenti in Montelupo e nelle ville limitrofe, che aveva una durata semestrale. L’autorità degli esperti, a conferma di quanto si diceva poc’anzi circa la presenza di precedenti consuetudini, veniva rimandata a quella “hactenus concessam et actributam per quecumque ordinamenta dicti comunis”. Il potere normativo – da esercitare ovviamente nei ristretti ambiti consentiti dalla prevalenza giuridica della Dominante – era poi riservato ad un Consiglio generale di 24 membri, che era formato con le solite modalità rappresentative e stava in carica per sei mesi. Agli uffici di governo della comunità seguivano le cariche di natura prevalentemente tecnica ed esecutiva, che lo statuto riservava agli allibrati in Montelupo, e cioè quella degli exactores – funzione tanto confusamente indicata nel testo, da non esplicitare da quanti membri essa fosse composta, né per quale periodo si esercitasse – e quella dei Ragionieri e Sindaci; il collegio di questi ultimi era formato da quattro persone, che stavano in carica per sei mesi, ma iniziavano la loro attività con un mese di ritardo rispetto agli altri uffici, in quanto dovevano verificarne gli atti amministrativi. L’istituzione del tribunale podestarile in Monte- lupo seguì invece di alcuni decenni la nascita del comune, coincidendo con l’inizio del processo di trasformazione del Contado in unità statale, avviata dalla città di Firenze sul finire del XIII secolo. Da allora nella “terra murata” montelupina risiedette costantemente un Podestà, inviato dalla Città Dominante per l’amministrazione della giustizia ed incaricato di sempre più ampie e complesse funzioni di ufficiale di governo. La podesteria di Montelupo si estendeva probabilmente sin dall’origine all’altra sponda dell’Arno, per comprendere Capraia ed il suo territorio da poco strappato (1352) al comune di Pistoia. Con la nascita dei vicariati (1415), ai quali venne affidata la giustizia criminale del Contado e Distretto, svincolando questi territori dalle competenze dei giudici dei Sestieri e Quartieri di Firenze, Montelupo fu posto nella circoscrizione del vicario di Certaldo, all’interno della quale restò sino alle riforme istituzionali promosse da Pietro Leopoldo I. La più antica silloge normativa della podesteria giunta sino noi risale al 24 novembre del 1416, e riflette, dunque, la nuova struttura della competenza criminale che sin dall’anno precedente era stata demandata ai vicariati. La podesteria era retta dal Podestà di nomina fiorentina, che restava normalmente in ufficio per sei mesi, ed aveva come coadiutore un notaio, il quale esercitava le funzioni di cancelliere. Per garantire l’osservanza della legge, il Podestà poteva contare su tre pedoni armati ed un cavallo (la cosiddetta “famiglia”); il suo salario, fu stabilito dalla Repubblica fiorentina in 325 lire, e tale onere ripartito nella comunità attraverso la base imponibile dell’Estimo: la somma veniva versata “di tre mesi in tre mesi”. Lo statuto del Podestà di Firenze del 1415 considerava infine la circoscrizione militare di Montelupo come parte del “plebatus S. Ipoliti”, inserendola nella “Liga Montis Lupi et Ponturmi”, comprensiva anche del popolo di Santa Maria a Sammontana e del comune rurale di Quarantola. Trascorsi i fatidici avvenimenti medievali, e passate le ultime, burrascose vicende legate alle lotte per il definitivo consolidamento dello stato regionale, Montelupo rappresenta ormai, come si diceva, una terra fedelmente legata a Firenze, che in nessuna occasione, neppure negli anni del conflitto tra i Medici e la Repubblica Fiorentina che precederanno la nascita del Ducato mediceo, mai tenterà di allentare il rapporto con la Dominante. L’economia locale, sviluppando considerevolmente la produzione ceramica, che trovava nel capitale e nel sistema mercantile fiorentino il suo punto di forza, era del resto strettamente legata a quella di Firenze, che garantiva gli sbocchi internazionali delle 59 58 urban nucleus (“in castro et burgo de Monte Lupo”) while the rest was reserved to the “hominibus allibratis in villiset pro villis dicti comunis Montis Lupi”. The duration of these terms as deputy, as was usual in these statutes was three months. At the deputy’s college there was a council consisting of 12 boni homines half of whom were inhabitants of Montelupo and the others from the surrounding linked villages. The office lasted six months, double then that of the deputies. Following this was the college “quod voluerunt et decreverunt offitium quactuor espertorum, prout actenus appellari consuevit”, also elected with the same number of representatives from Montelupo and the surrounding areas, and which had a duration of six months. The authority of the experts, to confirm what was said a short time ago about preceding habits, was based on “hactenus concessam et actributam per quecumque ordinamenta dicti comunis”. The normative power – to be exercised obviously within the tight conditions established by the prevalent legal system of rulers – was reserved to a Consiglio generale made up of 24 members, which was formed in the usual way and had a duration of six months. The government offices of the community had tasks of a largely technical and executive nature, fol- lowing up the requirements that the statutes reserved for the tax payers of Montelupo, those of exactores – a confusing task as the guidelines were unspecific and it was unknown how many members there were and for how long the charge lasted. There were also Ragionieri and Sindaci formed of four members with a charge that lasted six months. The latter started one month later than the others because they had to first verify the administrative acts. The tribunal institute of the chief magistrate in Montelupo had following the growth of the municipality for some tens of years, coinciding with the beginning of the transformation process of the surrounding countryside into a state unit, initiated by the city of Florence at the end of the XIII century. From then on in the “walled land” of Montelupo there was a fixed chief magistrate sent by the ruling city to supervise the administration of justice and oversee ever increasing government functions. The jurisdiction of Montelupo probably extended, from its origins, to the other bank of the Arno and included Capraia and its territory recently torn away from the municipality of Pistoia. With the onset of the deputies office (1415) which was entrusted with criminal justice in the surrounding countryside and its districts, removing these territo- ries from the jurisdiction of the judges based in Florence, Montelupo was placed under the jurisdiction of the deputies office of Certaldo, where it remained until the institutional reforms promoted by Pietro Leopoldo 1. The oldest normative sylloge from the judiciary that has come to our notice dates to 24 November 1416 and reflects on the new structure of criminal competence that had been demanded by the deputies the year before. The judicial structure was put in place by a Florentine magistrate who normally remained in office for six months and who had as assistant a notary who exercised the role of cancelliere. To guarantee observation of the law, the magistrate could count on three armed pedestrians and a horse (known as the “family”); his salary was established by the Florentine Republic, a sum of 325 lire, which was paid by the community from taxes. The sum was paid “every three months after three months”. The magistrates statute of Florence of 1415 considered the military area of Montelupo as part of the “plebatus S. Ipoliti”, inserting it into the “Liga Montis Lupi et Ponturmi”, also including the population of Santa Maria a Sammontana and of the rural community of Quarantola. Once over the prophetic medieval events, a the final stormy affairs linked to the struggle for a defin- itive consolidation of the regional state, Montelupo represented, as was said, a land faithfully tied to Florence and it never attempted to brake this tie even during the conflict between the Medici and the Florentine Republic which preceded the birth of the Mediceo Ducato. The local economy, developing considerably the production of ceramics, which found, in the Florentine capital and mercantile system a base from which to grow and reach out to the other parts of the world. Most noble families with money, like the Frescobaldi, Mannelli, Antinori, Spina, Strozzi, and Ambrogi families had properties in the curia of Montelupo. Equally important was the local real estate held by the Florentine religious institutions, both secular like the Capitolo di San Lorenzo and regular like the Domenicani di Santa Maria Novella. The passage from Republic to Ducato, as we will see, coincided with the first incipient difficulty of the ceramics industry, but no one from Montelupo dreamed of uprising against the new regime: even the ferocious occupation of the “walled city”, realized in 1538 by a company of disbanded Spanish troops who brought death and destruction, was not blamed on Duke Cosimo who had recruited the band. The years of the Principality of the son of Giovanni della Banda Nera, coincided with a year of growth for Tuscany, THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI conservato – proprio per essere l’originale – presso l’Archivio di Stato di Firenze; nel suo preambolo, però, si cita una precedente silloge, la quale fu redatta solo tre anni prima, nel maggio del 1386, dal notaio montelupino ser Gherardino d’Andrea: è perciò da ritenere che la tradizione statutaria del luogo sia stata in realtà, come per altri comuni del Contado, ben più antica. Da questo documento normativo possiamo rilevare come, in ossequio alla tradizione, le cariche locali fossero ottenute estraendo a sorte cedole nominative, secondo una proporzione numerica prestabilita tra i residenti allibrati (cioè iscritti nei ruoli delle tasse) nel principale nucleo urbano e quelli dei “popoli” riferiti alle “ville” del territorio comunitativo (“curia”). Nello statuto del 1389, in particolare, si stabiliva che l’esecutivo della comunità fosse formato da quattro vicari, la metà dei quali apparteneva agli allibrati nel nucleo urbano (“in castro et burgo de Monte Lupo”), mentre la parte restante era riservata agli “hominibus allibratis in villis et pro villis dicti comunis Montis Lupi”; la durata dell’ufficio dei vicari, come usualmente avveniva in questi statuti del XIV secolo, era fissata in soli tre mesi. Al collegio dei vicari seguiva un consiglio formato da 12 boni homines, anch’esso espresso per metà dagli abitanti di Montelupo e per la parte restante dagli allibrati nei popoli circonvicini; l’ufficio dei “buoni uomini” doveva però durare sei mesi, il doppio, cioè, di aveva assoldato la marmaglia. Gli anni del principato del figlio di Giovanni dalle Bande Nere, del resto, coincidono inaspettatamente con un periodo di crescita per la Toscana, la quale viene formando per la prima volta l’ossatura di uno stato regionale ben più coeso e sviluppato rispetto alla sommatoria di quei territori diversi che costituivano lo Stato fiorentino in epoca repubblicana. Spentasi rapidamente la stella di Francesco I, inoltre, Montelupo fu addirittura designata dal cardinale Ferdinando, suo successore, quale sede di una delle più fastose residenze di Corte: nacque così la grande villa medicea montelupina, la quale fu detta dell’ “Ambrogiana” per insistere sull’area una volta occupata dal “palagio” degli Ambrogi. Oltre alla costruzione di quel vero e proprio gigante, tirato su in breve volgere d’anni (1587-1591), Ferdinando provvide ad acquistare diversi terreni che ne circondavano la fabbrica, formando attorno a quella che andava configurandosi come una sorta di “utopia fluviale” (una villa che sembrava sorgere dal fiume), anche un parco per la caccia e la pesca, idealmente connesso con il “Barco” reale dell’altra villa di Artimino. Nonostante rappresentasse per gli umili abitanti del paese un territorio vietato, l’Ambrogiana svolse per loro anche una funzione positiva, che fu particolare propizia per gli esponenti della famiglia dei Marmi, originari di Fibbiana, ma da tempo immigrati nella principale “terra murata”. Essi, infatti, colsero questa occasione per introdursi nelle attività del Principe ed avviare una brillante carriera di “Guardarobieri” (addetti al patrimonio) ed uomini di Corte. Attraverso i Marmi, i ceramisti di Montelupo riuscirono per qualche tempo (1591-1627), come vedremo, ad ottenere finalmente dai Medici quelle commesse per la fornitura di maioliche (prodotti vascolari da spezieria, orci da vino e pavimenti smaltati), alle quali in precedenza non erano riusciti ad accedere. La congiuntura economica del XVII secolo non era però delle più favorevoli e, per di più, nel 1630-31 anche Montelupo fu sconvolta dalla memorabile pandemia di peste che attraversò l’Italia in quegli anni, seminando il suo cammino di lutti e distruzioni. Non poche dinastie di ceramisti si estinsero, falcidiate dal morbo o condotte alla rovina dalla crisi sempre più profonda nella quale versava il settore fittile, da tempo, ormai, privo dell’appoggio del capitale mercantile della Dominante. L’antica “terra murata”, non diversamente I QUADRI STORICO-AMBIENTALI I QUADRI STORICO-AMBIENTALI merci montelupine. Molte famiglie della nobiltà di denaro, come i Frescobaldi, i Mannelli, gli Antinori, gli Spina, gli Stiozzi, gli Ambrogi, avevano inoltre possedimenti nella curia montelupina, ed altrettanto importante era la proprietà fondiaria locale detenuta da istituzioni religiose fiorentine, sia di natura secolare, come il Capitolo di San Lorenzo, o regolare, come i Domenicani di Santa Maria Novella. Il passaggio dalla Repubblica al Ducato, come vedremo in seguito, coincise con l’insorgere delle prime, incipienti difficoltà da parte dei ceramisti, ma nessun montelupino si sognò allora di voltarsi contro il nuovo regime: anche la feroce occupazione della “terra murata”, realizzata nel 1538 da una compagnia di truppe spagnole sbandate, pur apportando lutti e distruzioni, non fu addebita al Duca Cosimo, che pure La villa medicea di Montelupo in un disegno La comunità di Montelupo di Zocchi 61 The community of Montelupo The Montelupo Medici Villa in a drawing by Zocchi which formed for the first time the structure of a regional state, cohesive and developed with respect to the what it was under the Republic. After the death of Francesc I, Montelupo was assigned to cardinal Ferdinando, his successor, who had one of the most sumptuous residences in the court: this is how the grand villa Medicea of Montelupo began which was called “Ambrogiana” referring to the land that was once the “building” of the Ambrogi. Besides the construction of that giant, constructed in short time during the years 1587-1591, sought to acquire diverse lands that surrounded the factory, forming a kind of “fluvial utopia” (a villa that seemed to emerge from the river) as well as a park for hunting and fishing, ideally connected to the royal “ship” from the other villa at Artimino. Despite the fact that it was a no go area for the humble inhabitants of the village, the Ambrogiana had a positive function, it was particularly propitious for the Marmi family who had come from Fibbiana but were living inside the “walled area”. They welcomed the occasion to introduce themselves to the Prince’s activities and start a brilliant career as “Guardarobieri” (keepers of the patrimony) and men of the court. Through the Marmi, the potters of Montelupo managed for some time (1571-1627), as we will see, to obtain from the Medici the commissions to provide majolica products (vase products for groceries, wine- jars and enamelled floors) which they couldn’t manage to get before. The economic trend of the XVII century wasn’t one of the most favourable and, what’s more, in 163031even Montelupo was devastated by the plague pan- THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK 60 tessenza stessa della Controriforma. Impegnati in una vita ascetica, rigidamente separata dal mondo, gli alcantarini non entrarono mai in sintonia con la popolazione locale, che, anzi, stando a certe storielle moderne, li avrebbe addirittura fatti segno di pesanti satire, dipingendoli sui boccali e sfruttando per questo ciò che restava della loro attività ceramistica. Il Settecento, età che offrì a molti ambiti territoriali della Toscana l’occasione per il riscatto civile ed economico, non si dimenticò certo di Montelupo: molte ed importanti furono le realizzazioni di quell’epoca, quali la costruzione della nuova pieve di san Giovanni Evangelista, iniziata nel 1784, e la nascita del teatro locale supportato dall’Accademia dei Risorti. Anche l’economia beneficiò del nuovo clima portato nel Granducato da Pietro Leopoldo I, ma il comparto ceramico, Il convento di S. Pietro di Alcantara (1678) che a noi particolarmente interessa, non riuscì che stabilizzarsi al suo più basso livello storico, in attesa di quelle novità sostanziali che, tuttavia, non potranno giungere se non durante la seconda metà del secolo successivo ed oltre. Fu semmai il settore vetrario, con le manifatture Nardi – probabilmente la più importante della Toscana sul finire del XVIII secolo – e Castellani, a sfruttare al meglio la fase d’avvio della nuova ripresa economica nazionale. Lo sviluppo demografico montelupino. Per completare l’inquadramento storico di Montelupo, e poter meglio comprendere le forze che permisero a questa “terra murata” di produrre ed operare nel contesto nazionale ed internazionale, è necessario addivenire ad una valutazione della consistenza del suo popolamento e dello sviluppo demografico locale. A tale scopo possiamo utilizzare tre fonti di natura diversa: i ruoli fiscali, le valutazioni di carattere più propriamente demografico espresse dalle magistrature ducali e granducali e, infine, i censimenti della popolazione. Si tratta di una documentazione relativa ad epoche diverse (dal Basso Medioevo all’Età Contemporanea) e, per di più, di natura eterogenea, in quanto realizzata per corrispondere a funzioni e scopi diversi. Nel suo complesso, quindi, anche il grado d’approssimazione a quella che possiamo ritenere sia stata la cifra reale dei residenti in Montelupo e nei popoli della sua curia nei periodi coperti dalle scritture, deve intendersi come variabile in funzione della qualità dei documenti. L’approssimazione meno raffinata al dato reale è forse quella espressa attraverso i documenti più antichi, in quanto essa deriva da fonti di natura fiscale – vi si censiscono i capifamiglia ed i figli maschi in maggiore età – che solo in maniera indiretta, attraverso cioè coefficienti numerici di riduzione, possono fornire cifre indicative della totalità dei residenti. Occorre peraltro osservare che anche le cifre relative alla popolazione fornite dai giusdiscenti locali per i secoli XVI-XVIII sono da considerare largamente approssimative, in quanto non derivano da veri e propri censimenti, ma si fondano su stime – che dunque possono essere più o meno veritiere – eseguite dai responsabili dei singoli popoli; esse, inoltre, si collocano quasi sempre – in maniera evidentissima quella del 1793 – al termine di periodi contraddistinti da un’elevata mortalità, poiché derivano da inchieste avviate dalle magistrature centrali per aggiornare i conti dello Stato (ad esempio le previsioni annonarie ed il gettito fiscale) all’indomani di eventi calamitosi. Più precisi, ovviamente, sono i dati numerici contenuti nei veri e propri censimenti, ma essi appartengono però solo al secolo XIX. Le cifre della consistenza demica della comunità montelupina che possiamo ricavare da queste fonti 63 62 The Convent of S. Pietro di Alcantara (1678) demic which throughout Italy in those years seeded death and destruction. The toll on ceramic families wasn’t light, struck by infection and conducted towards ruin by an ever deepening crisis in the ceramics industry which, for a long time, no longer had the support of the ruler’s mercantile capital. In this way, the ancient “walled city”, not unlike the other similar centres in Tuscany, went towards a demographic upturn counting on an industry that had been made marginal by an unfavourable secular trend and a lack of capital. After years of silence, on 14 July 1678, a new event upset the qiet panorama of Montelupo: the Grand duke Cosimo III commissioned the construction of a church and a monastery dedicated to San Pietro d’Alcantara, next to the Ambrogiana villa. This work could have stirred new life into the area but Cosimo was a bigoted and reserved, and the Spanish Francescan monks who came to occupy the new building represented quintessential anti reformists. Involved in an ascetic lifestyle, strictly separated from the world, the Alcatarini never entered into symphony with the local people who, according to modern tales, made them subject of heavy satire, painting them onto tankards and this is about as much as remained of the ceramics industry. The eighteenth century, a period that offered many areas in Tuscany the possibility of civil and economic redemption, didn’t leave out Montelupo: many and important were the accomplishments of that epoch, including the construction of the new parish of San Giovanni Evangelista began in 1784, and the birth of local theatre supported by the Accademia dei Risorti. The economy also benefited from the new cli- mate brought by the Grand duchy of Pietro Leopoldo I, but the ceramics section, which is of interest to us, only manage to remain at its lowest historical level whilst waiting for something substantial to happen which didn’t occur until the second half of the successive century. It was the glass making industry with the Nardi manufacture - probably the most important in Tuscany at the end of the XVIII century – and Castellani who exploited successfully the new economic recovery. The demographic development of Montelupo To complete the picture of the history of Montelupo, and to better understand the forces that permitted this “walled land” to produce and operate in the national and international arenas, it’s necessary to reach an evaluation of the consistence of its population and the local demographic development. To do this, we can use three different sources, completely different in nature: the fiscal roles, an evaluation of the demographic situation expressed through the ducal and grand ducal magistracy and the censuses of the population. We are dealing with documentation relative to different epochs (from early medieval to the contemporary age) and, more or less, heterogeneous in so much as they were realized with different objectives and functions. In its complexity, therefore, also the level of approximation to that which we can say was the real number of the residents in Montelupo and the population of its curia in the period covered by the writings, should be seen as variable in terms of quality of document, The least reliable approximations to the real date come from the oldest documents as they derive from fiscal sources – heads of family and adult sons – which can only in a direct manner, and through numerical coefficients of reduction, provide figures indicative of the total number of residents. We also need to look at the numbers relative to the population supplied by the local judges during XVI-XVIII which are considered largely approximately as much as they don’t come from proper censuses but are based on estimates which can be more or less accurate – executed by the those responsible for the single populations; what’s more, these can be located almost always – and that 1793 example is evident of this – at the end of a period which is distinguished by a high number of deaths because they arrive through inquiries started by the central magistracy in order to update the State figures (for example concerning the prediction of food supplies and fiscal matters) after calamitous events. More precise are the data collected by the censuses but these belong to the XIX century. THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI I QUADRI STORICO-AMBIENTALI da altri consimili centri della Toscana, andò così incontro alla successiva ripresa demografica seicentesca contando su un’economia resa ormai marginale dal montare di una sfavorevole congiuntura secolare, e resa asfittica dalla cronica mancanza di capitali. Dopo anni di silenzio, il 14 luglio 1678, un nuovo avvenimento venne a sconvolgere il quieto panorama montelupino: il Granduca Cosimo III poneva quel giorno solennemente mano alla costruzione di una chiesa e di un monastero dedicati a san Pietro d’Alcantara, accostando l’opera alla villa dell’Ambrogiana. Quel grande complesso, assai poco frequentato dopo la morte di Ferdinando I, avrebbe potuto trarre da ciò nuova vita, ma Cosimo fu un principe bigotto e schivo e, d’altra parte, i frati francescani spagnoli che vennero ad occupare il nuovo edificio rappresentavano la quin- Comunità di Montelupo, 1357-1437. Anni Numero abitanti 1357 1247 1365 1156 1371 1222 1373 996 1383 1194 1384 1259 1339 1395 1403 1295 1412 935 1159 1414 1417 1005 1426 1000 1437 1097 I dati relativi al Basso Medioevo, ricostruiti, come si diceva, attraverso gli Estimi fiscali nei quali venivano iscritti i capifamiglia, mostrano dunque che Montelupo andò incontro ad un’evidente caduta demografica dopo l’anno 1395; questo fenomeno, rispecchia un dato generale, ben noto agli storici, e mostra soprattutto l’impatto che ebbe sulla popolazione residente nella “terra murata” valdarnese e nei popoli della sua “curia” la ripresa della diffusione del morbo pestilenziale avvenuta agli inizi del XV secolo. Gli effetti di questo riaccendersi della morbilità si protrassero in Toscana per alcuni decenni, tanto che si riuscì a frenare l’emorragia demografica che in tal modo si realizzava soltanto alla metà del Quattrocento, periodo dopo il quale si avviò nuovamente una flebile crescita. Poiché il dato del 1357 segue di solo otto anni l’accendersi della pandemia pestifera nel 1348-49, i cui effetti di medio periodo (falcidia di neonati e crollo della natalità) sono puntualmente registrati dal dato negativo del 1373, che si avvicina di molto al minimo storico del 1412 – è probabile che la popolazione montelupina della prima metà del XIV secolo si sia collocata tra i 1600 ed i 1700 individui; se questo livello – supposto, ma ragionevole, in quanto in linea prudenziale con i vuoti provocati dalla fase acuta della pestilenza – fosse esatto, la perdita demografica locale tra il 1330-40 ed il 1420-30 potrebbe essere stimata tra i 600 ed i 700 individui, cifre che rappresenterebbero dunque il 60 ed il 70 per cento della consistenza demografica locale, rilevata nei due estremi secolari. Questo dato, per quanto terribile, si rivela d’altra parte di entità anche minore, rispetto a quanto rilevato dagli studi sin qui effettuati sulle vicen- de demografiche toscane degli anni 1350-1450. La successiva dinamica demografica trova del resto conferma, per quanto attiene la sua consistenza, nei dati successivi, che riguardano l’intera podesteria, ma che, purtroppo, sono relativi ad anni assai più recenti. Podesteria di Montelupo (con Capraia e Limite), 1551-1796. Anni Numero abitanti 1551 1868 1745 3303 1788 (a) 4631 1793 (b) 4200 5017 1796 (c) a) tolti 88 abitanti di Tinaia b) valutazione del Podestà c) valutazione del Vicario Il progresso realizzato alla metà del Cinquecento, alla distanza di oltre un secolo dal dato precedente, relativo alla sola comunità montelupina, appare piuttosto modesto, e deve essere valutato con prudenza, in quanto in esso è confluito anche il numero degli abitanti della comunità di Capraia e Limite e dei popoli annessi. Esso avvalora tuttavia con la sua stima la valu- tazione che già abbiamo espressa in via congetturale sull’entità del patrimonio demografico locale in data anteriore alla pestilenza del 1348-49: sappiamo infatti che solo attorno alla metà del XVI secolo si attinsero in Toscana i livelli di popolazione anteriori a quell’avvenimento. È per converso evidente come una prima, consistente ripresa demografica, sia avvenuta soltanto tra la seconda metà del Seicento ed i primi cinque lustri del secolo successivo: il dato relativo alla popolazione residente nella Podesteria montelupina (esclusa quella di Signa) risulta infatti quasi raddoppiato tra il 1551 ed il 1745. La seconda metà del Settecento registrerà poi un ulteriore, importante incremento, che può essere valutato, scartando il dato anomalo del 1793 (carestia e guerra l’avevano fatta da padrona nei due anni precedenti) almeno tra il 40 ed il 50 per cento rispetto al 1745. Podesteria di Montelupo e Lastra a Signa (dati da K.J. Beloch, Bevolkerungsgeschichte Italiens), 1551-1642. Anni Numero abitanti 1551 5638 1558-62 5328 1622 5891 1642 5653 65 64 The figures relating to the demography of the community of Montelupo can’t be taken as an exact representation of the reality but a precious trace of the local development and its long and short term variations. THE COMMUNITY OF MONTELUPO, 1357-1437 Year number of inhabitants 1357 1247 1365 1156 1371 1222 1373 996 1383 1194 1384 1259 1339 1395 1403 1295 1412 935 1414 1159 1417 1005 1000 1426 1437 1097 The data relative to the Early Medieval period, reconstructed it is said through the fiscal Estimi where the heads of family were enrolled, demonstrated that Montelupo was going towards an evident demographic fall after 1395; the phenomenon mir- rors a general date well known by historians, and demonstrates above all the impact that the return of the plague had on the resident population of the “walled land” of the Valdarno and the population of the curia, at the beginning of the XV century (fig 8). The effects of the return of the plague lasted for several tens of years in Tuscany, so much so that it managed to put a break on the demographic haemorrhage that took place, in the end, in the middle of the fifteenth century after which there was another period of growth. As the date 1357 is only eight years after the start of the plague pandemic of 1348-49 where the middle term effects (drastic reduction of new born and a collapse of the birth rate)were punctually registered, from the negative date of 1373, where there was almost the lowest ever recorded figure in 1412 – it’s probable that the population of Montelupo from the first half of the XIV century was between 1600 and 1700 individuals if this level – supposed but reasonable insomuch as it is prudently in line with the general level of reduction caused by the acute phase of the plague – was exact, the local democratic loss between 1330-40 and between 1420-30 could be established between 600 and 700 individuals, figures which represent between 60 and 70 percent of the local demographic consistency, compared to the two extremes of the above mentioned centuries. This date, as much as it is terrible, is minor compared to other areas of Tuscany in the period 1350-1450. The successive demographic dynamics can be seen through the following figures that concern the entire magistracy which are, unfortunately more recent MAGISTRACY OF MONTELUPO (with Capraia and Limite), 1551-1796 YEAR Number of inhabitants 1551 1868 1745 3303 1788 (a) 4631 1793 (b) 4200 1796 (c) 5017 a) subtracted 88 inhabitants of Tinaia b) evaluation of the magistrate c) evaluation of the deputy The progress gained at the half way mark of the sixteenth century, at a distance of more than a century from the preceding date and relative to the community of Montelupo appears rather modest and should be evaluated with prudence in as much as it is mixed with the number of inhabitants of Capraia and Limite and the annexed populations. It is somewhat in line with the pre plague conjectures on the demographic patrimony 1348-49. We know that in the XVI century the pre plague levels were once again reached. A consistent, evident population growth came only between the second half of the seventeenth century and the first five of the successive: the data relative to the population relative to the magistracy of Montelupo (excluding Signa) demonstrates a doubling between 1551 and 1745. Another important increase is registered in the second half of the eighteenth century then another important increase can be considered (not considering the anomalous 1793 (famine and war governed to two previous years) at least between 40 and 50 percent compared to 1745. Magistracy of Montelupo and Lastra a Signa (data from K.J. Beloch, Bevolkerungsgeschichte Italiens), 1551-1642. Anni Number of inhabitants 1551 5638 1558-62 5328 1622 5891 5653 1642 From the figures supplied by Beloch, who studied the ducal and grand ducal censuses – unfor- THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK I QUADRI STORICO-AMBIENTALI I QUADRI STORICO-AMBIENTALI disomogenee non debbono, dunque, essere considerate dal lettore alla stregua di un’esatta rappresentazione della realtà, ma piuttosto una traccia assai preziosa dello sviluppo locale, nelle sue variazioni di lungo e medio periodo. I QUADRI STORICO-AMBIENTALI Comunità di Montelupo, 1788-1806. Anni Numero abitanti 1788 3109 1794 3352 1806 3387 Fu poi l’Ottocento, a realizzare una vera e propia “rivoluzione demografica”, che localmente si fece ancora più evidente nel secolo scorso. Se dunque riflettiamo sulla differente consistenza demica locale dei secoli XV e XVI rispetto a quella dei quattro successivi (XVII-XX), possiamo verificare quanto siano stati diversi i quadri ambientali nei quali si è realizzata la produzione della ceramica in Montelupo. Fatta salva l’epoca industriale, dobbiamo infatti dedurre che il momento di massimo sviluppo delle lavorazioni fittili locali coincise proprio col periodo in cui la popolazione montelupina stava sì riprendendosi dalla depressione storica della seconda metà del Trecento, ma era ancora, numericamente parlando, ben poca cosa. Nonostante il modesto numero dei suoi abitanti, però, questa “terra murata” del Valdarno, grazie al connubio col capitale mercantile fiorentino, riusciva ad esportare i suoi prodotti in gran parte del mondo allora conosciuto. La crisi del XVII secolo, precorrendo di poco un fenomeno di incremento demografico che pare soprattutto legato al modesto livello dei prezzi agricoli di quel periodo, si trovò dunque di fronte anche una società “più pesante”, che massicciamente si rivolgeva, per la propria sussistenza, all’agricoltura ed ai piccoli commerci locali. In assenza di capitali da impiegare per la rinascita delle attività fittili, fu dunque praticamente impossibile, nel nuovo contesto, ridare vita alle migliori produzioni ceramiche d’un tempo, e ciò spiega a sufficienza uno dei fattori che condussero le fornaci locali ad operare al di fuori del mercato internazionale e, per molti aspetti, anche nazionale per due secoli interi, e cioè tra il 1660 e gli anni dell’unità d’Italia. Dopo aver analizzato i nodi cruciali della storia generale di Montelupo, possiamo dunque affrontare direttamente il problema della ceramica, trattandolo ora dal suo interno. Nel fare ciò, tuttavia, eviteremo il più possibile di percorrere la sequela delle tipologie e dei generi prodotti, e ci indirizzeremo piuttosto a mettere in risalto le ragioni profonde della crescita dell’arte ceramica locale nel contesto regionale e nazionale di riferimento. I QUADRI STORICO-AMBIENTALI Dalle cifre fornite dal Beloch, che studiò i censimenti ducali e granducali – purtroppo nel nostro caso espressi per un aggregato superiore, la Podesteria di Montelupo e Lastra a Signa – si può comunque dedurre che la ripresa demografica cinquecentesca si sia protratta nell’area montelupina sino al 1620 circa (il dato del 1558-62 è certamente viziato dalla grande carestia del 1561, mentre la crisi del 1618-21 e la ripresa della mortalità che caratterizzò questo periodo debbono da par loro aver depresso il dato del 1622). Le cifre fornite dallo studioso tedesco mostrano tuttavia con chiarezza un incremento della popolazione assai modesto nella seconda metà del XVI secolo, ed un significativo regresso nel corso dei primi decenni dei Seicento: per comparazione con le cifre della tabella precedente, dunque, si avvalora l’ipotesi che anche nell’area montelupina, così come in altre parti d’Italia, la consistenza demografica sia venuta ad accrescersi significativamente solo ad iniziare dalla seconda parte del Seicento, per farsi assai più rilevante nel secolo successivo. 67 tunately for us the aggregate of the magistracy of Montelupo and Lastra a Signa was taken – we can deduct that the sixteenth century demographic upturn continued in the area of Montelupo until about 1620 (the 1558-62 date is certainly spoiled by the great famine of 1561, whilst the crisis of 1618-21 and the return of a high mortality rate that characterized this period must have depressed the data of 1622). The figures provided by the scholarly German however demonstrate with clarity a modest increase of the population in the second half of the XVI century and a significant regression during the first ten years of the seventeenth century: comparing the figures of the previous table we can adopt the hypothesis that in the area of Montelupo, like in other parts of Italy, the demographic consistency significantly grew only at the beginning of the second half of the seventeenth century. Community of Montelupo, 1788-1806 Year number of inhabitants 1788 3109 1793 3352 3387 1806 Only during the nineteenth century was there a real “demographic revolution” that became even more evident during the last century. If we reflect on the different local demographic consistencies in the XV and XVI centuries compared to the four successive centuries (XVII-XX) we can verify how different the environmental pictures were within which the production of ceramics in Montelupo was produced. Except for during the industrial revolution, we have to deduce that the moment of maximum development of ceramics elaboration coincided with the period in which the population of Montelupo was recovering from the historical depression of the second half of the fourteenth century but numerically speaking, production was small. Despite the modest number on inhabitants, this “walled land” of the Valdarno, thanks to the Florentine Mercantile capital, managed to export its products to much of the known world. The crisis of the XVII century that anticipated a demographic increase which could have been linked above all to the modest level of agricultural prices in that period, hit a society that was anyway “heavier”, considerably relying for its existence, on agriculture and small local commerce. In absence of the capital needed to move the ceramics industry, it was impossible to give life to the industry that was producing the best products for a long time and in consequence the local furnaces remained out of the national and international markets for nearly two centuries, between 1660 and the years which saw the unification of Italy. After having analyzed the crucial knots in the history of Montelupo, we can directly affront the problem of the ceramics industry, from an inside per- spective. In doing so however we will avoid as much as possible the sequencing of the types of products and aim towards highlighting the deep reasons for the growth of local ceramic art in regional and national contexts. THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK 66 PARTE SECONDA Montelupo e la produzione ceramica nell’Italia preindustriale SECOND PART Montelupo and ceramics production in pre industrial Italy tavia, anche la maiolica arcaica mostra un’azione di conquista relativamente lenta dei territori regionali, muovendo da luoghi d’eccellenza che coincidono anch’essi in qualche caso con aree e città della costa. In Toscana è proprio il Fiorentino a mostrare un certo ritardo nel recepire le novità tecnologiche che avrebbero segnato la rinascita della produzione fittile nazionale. Se, infatti, confrontiamo i dati archeologici – purtroppo ancora scarni ed imprecisi – derivabili dagli scavi urbani di Firenze, e li rapportiamo al contesto regionale della produzione e circolazione dei generi vascolari da mensa, possiamo accorgerci come nel corso del XIII secolo le restituzioni del sottosuolo della Città gigliata mostrino un quadro sostanzialmente arretrato – per il largo prevalere di prodotti privi di rivestimento e per l’assenza di generi d’importazione – rispetto a quanto può desumersi attraverso le restituzioni archeologiche di altre aree regionali, quali il Pisano ed il Senese. In queste ultime, infatti, già entro l’orizzonte cronologico della prima metà del Duecento risalta una circolazione di ceramiche smaltate o dotate di rivestimento che è ignota ai coevi contesti fiorentini, e si nota nel contempo una fase d’avvio della lavorazione della maiolica che sembra precedere di quasi un quarantennio quella del Fiorentino. Firenze ed il suo Contado – l’area, cioè, che fu oggetto della prima espansione cittadina – per il “ritardo” che sembra caratterizzare la penetrazione di MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Firenze e Montelupo. Un inaspettato ritardo alle origini della maiolica arcaica. Le ricerche sulle origini della ceramica dotata di rivestimento (ingobbio sotto vetrina o smalto stannifero) segnalano una fase che potremmo definire “primordiale”, nella quale emergono, ad iniziare dal 1180 circa, le cosiddette graffite tirreniche e le protomaioliche. Si tratta di produzioni vascolari che però non mostrano la capacità di diffondersi, veicolando le novità che avrebbero caratterizzato la storia della ceramica bassomedievale; esse restano infatti legate ad esperienze maturate nell’arco di alcune generazioni (sino al 1260 circa) in località costiere e portuali, quali Savona, Brindisi e Gela. Il fenomeno della limitata capacità espansiva di queste prime ceramiche italiane munite di rivestimento e la loro peculiare collocazione ha perciò suggerito l’ipotesi che si tratti di manifatture impiantate da manodopera specializzata, proveniente da altre parti del Mediterraneo, e segnatamente dall’area islamica. È dunque solo verso il 1240 che può collocarsi il fenomeno dell’effettiva diffusione di un genere smaltato autoctono, la maiolica arcaica, che avrebbe mutato per davvero gli orizzonti tecnologici ed estetici della ceramica vascolare in Italia, diffondendosi capillarmente nella Penisola, e costituendo così la solida base sulla quale si svilupperà, tra Tre e Quattrocento, la successiva rivoluzione tardomedievale della maiolica. Ai suoi esordi, tut- 71 medieval revolution of majolica production. At their introduction, however, even the archaic majolica took time to conquer the regional markets, moving from one “place of excellence” to another which sometimes coincided with coastal areas. In Tuscany, it was the Florentine who was slow to adopt the new technologies that would have marked the rebirth of the national ceramics industry. Indeed, if we compare archaeological data on meal pots – unfortunately scarce and imprecise – derived from the excavations in urban Florence, and put them in a regional context, we realize that during the course of the XIII century the restitution of the subsoil of the lilied city demonstrates a backward picture – in terms of the wide availability of products deprived of decoration and the absence of imported objects – in comparison with the archaeological restitution in other regional areas like those of Pisa and Siena. Indeed, in these areas, already during the first half of the third century there was a circulation of glazed or decorated ceramics unknown in Florence and indeed precedes the Florentine elaboration of this kind of majolica by forty years. Florence and its surrounding areas – that is, the areas which were object of the first citizen expansions – regarding the “slow start” seemed to view the penetration of aesthetic-functional ceramic MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY Florence and Montelupo. An unexpected research on the origins of decorated ceramics (relief under the glaze or metal based enamel) signals a phase that we could define as “primordial” from which the so called graffite tirreniche and the protomaioliche emerge, starting about 1180. We are talking about vase type production that however didn’t demonstrate the capacity to become greatly diffused and esablish a wide base for the new techniques that would have characterized the history of Medieval ceramics; rather, production remained linked to the mature experience of a few family generations (up to about1260) in coastal areas and those served by a port like Savona, Brindisi and Gela. The limited capacity of these first Italian ceramics with their decorations and their peculiar positioning has suggested the hypothesis that the workforce was specialized and maybe from another part of the Mediterranean, there are signs that come from Islamic areas. It was only towards 1240 that an effective diffusion of a type of autochthonous enamelled ceramic, archaic majolica, which was transformed by the technology and aesthetics of vase ceramics in Italy, diffused in the peninsular, constituting in this way the solid base on which it would develop, between the fourth and fifth centuries – the successive late MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE “bacini” che furono inseriti nei paramenti murari delle chiese pisane: questi documenti costituiscono infatti la più straordinaria esemplificazione di circolazione della ceramica dotata di rivestimento in ambito mediterraneo nel lungo periodo che intercorre tra gli inizi del XI secolo e la prima metà del Duecento. Gli scavi archeologici, inoltre, non hanno mancato di dimostrare come in Pisa la circolazione di questi manufatti forestieri fosse relativamente ampia e (vi sono anche forme chiuse) non riconducibile al semplice impiego dei medesimi nei contesti architettonici. Niente di tutto questo si segnala al momento nell’area fiorentina, la quale non risulta interessata al fenomeno della circolazione di ceramiche d’importazione provenienti dai diversi contesti mediterranei almeno sino alla fine del XIII secolo, e, per di più, mostra solo nelle zone di contatto con il Pisano (Empoli) una timida utilizzazione a fini architettonici degli stessi “bacini”. Se, però, non stupisce il fatto – d’altronde ben comprensibile per motivi storico-geografici – di un avvio più precoce della produzione smaltata od ingobbiata di qualità nelle città costiere, per essere quest’ultime legate agli scambi con la più progredita cultura materiale dei paesi dell’Islam, e perciò portate ad imitarne i caratteri, ben più impressionante è costatare come una simile discrasia cronologica sussista tra l’area fiorentina ed altre zone interne della Toscana, anch’esse distanti dagli approdi marittimi della regione. Sappiamo, ad esempio, come tra la più antiche attestazioni della produzione italiana di “maiolica arcaica” si collochi il ritrovamento effettuato negli anni Venti in Montalcino, in area senese, all’interno di un contesto architettonico (le volte del palazzo pubblico) che consente di datarlo tra il 1220 ed il 1250, in epoca cioè assai precoce rispetto alla consimile documentazione produttiva d’area fiorentina. Sotto il profilo pittorico, inoltre, le maioliche arcaiche montalcinesi mostrano un repertorio e forme vascolari (un alberello da spezieria, ad esempio) di tutto rispetto. Ma è Siena ed il suo territorio in generale a mostrare già nel corso del XIII secolo una qualità formale delle pitture vascolari e delle soluzioni tecniche – ad esempio un largo uso della vetrina piombica alcalina, capace di far virare in azzurro la pittura in rame – che non trova riscontro nel Fiorentino. L’arretratezza delle lavorazioni fittili che emerge dai contesti di scavo sinora noti per Firenze, quali quelli di Piazza della Signoria, di Santa Reparata e, più generale, dell’area urbana della città – ma anche da quelli di città comitatine come Prato (Palazzo Pretorio) o di più recente annessione, come Pistoia (Palazzo dei Vescovi), così come dagli stessi contesti produttivi di Montelupo e di Bacchereto – contrasta così con l’indubbia crescita della Città gigliata nel periodo 1180-1250, ribadita, come tutti sanno, dal fatto che nel 1252 fu Firenze a riprendere, per prima in Europa, la coniazione dell’oro. Sembra perciò difficile, in aggiunta a quanto si diceva in merito alla collocazione geografica, accampare fattori meramente economici per spiegare il ritardo del Fiorentino nell’accogliere le novità della ceramica smaltata che ci segnalano le restituzioni archeologiche: questo fenomeno, dunque, dovrà essere chiarito alla luce di più sottili problematiche di carattere socio-culturale, le quali forse hanno a che fare col carattere stesso dei ceti dirigenti e della popolazione che venne supportando la crescita demografica fiorentina tra XII e XIII secolo. Se non è pensabile che gli esponenti dell’aristocrazia cittadina si siano allora privati di manufatti di lusso, per una civica virtù che troppo da vicino riecheggia, nel topos letterario dell’Alighieri, la Roma repubblicana, più credibile – anche perché sottolineato dalla documentazione archeologica – è invece l’esistenza di un gap qualitativo nella ceramica in circolazione tra l’area fiorentina e quelle pisana e senese che necessita ancora di una adeguata spiegazione storico-culturale. Firenze e Montelupo. Lo sviluppo del mercato e della committenza ceramica cittadina nel Tre e Quattrocento. Poniamo adesso sullo sfondo il complesso problema delle origini della maiolica in Firenze e nel suo Contado per rivolgere la nostra attenzione agli sviluppi succes- 73 72 as something in opposition to their support for Alighieri’s praise of simple customs. The existence of a reasonable chronological hiatus in the introduction of “modern” manufactured ceramics between the coastal cities and the Florentine territories, located almost at the foot of the Apennines, is quite comprehensible, as it demonstrated by the particular affairs of the protomaiolica and the graffita tirrenica. The maritime areas, protagonists after the Late Medieval centuries, of new contacts with the East, were the first to receive the new objects which were prized objects of exchange and to be imitated. Not by chance, some types of production, like in the ceramics case, which had their roots along the opposite shore of the Mediterranean and in the Islamic world in general (one thinks of the “Moroccans” and the “Cordovani”), was particularly diffused in the Italian port cities: for example the tannin for leather, which was found in Pisa in the thirteenth century. There was also a high level of exchange with North Africa, the Maghreb and Moorish Spain – where, together with other types of imported goods there existed ceramics of a quality unknown to the local potters, a fine example of which is the phenomenon of the “bowls” which were inserted in the parameters of the walls of some churches in Pisa: Theses documents constitute the most extraordinary examples of the circulation of decorated ceramics in the Mediterranean environment during the long period between the beginning of the XI century and the first half of the fourteenth century. What’s more, the archaeological excavations have continued to demonstrate, as in Pisa, that the circulation of these foreign products was relatively wide scale and (there were even closed form examples) they are not reducible to products for use in architectonical contests. Non of this is noticed in the Florentine area which didn’t seem to be interested in the phenomenon of the circulation of imported ceramics coming from different Mediterranean contexts at least up to the end of the XIII century and, even then, only in the areas around Pisa (Empoli) was there a shy use of these “wares” for architectonical reasons. We know, for example, that amongst the oldest attestations of Italian “archaic Majolica” production can be traced to a find effected in the 1920’s in Montalcino in the Siena area in an architectonic context (the public building period) which dates back to between 1220 and 1250, in an epoch rather precocious compared with the documentation produced in the Florentine area. Under an pictorial profile, the archaic majolica from Monalcino demon- strated a vase profile (an alberello for spices for example) with total respect. But it was Siena and its territories in general that showed a formal quality in terms of vase painting and technical solutions – for example, a wide use of lead alkaline glass able to turn copper pictures in light blue – which didn’t happen in the Florentine areas. The less advanced elaboration of the ceramics that have so far emerged from excavations in Florence, from sites such as Piazza Signoria and Santa Reparata, generally those in the urban areas of the city – but also those from the outer areas like Prato (Palazzo Pretorio) or from a more recent annexed area, Pistoia (Palazzo dei Vescovi), or those recovered from Montelupo (fig 9) and Bacchereto – compare poorly with the undoubted growth of the lilied city in the period 1180-1250, which was confirmed by its status as the first European city to make a recovery, and coin Gold in 1252. It however seems difficult, to add to what was said about the geographical location, to blame the economical reasons for the slowness in capturing the new ideas regarding the glazed ceramics excavated. This phenomenon should be clarified through looking at the sociocultural characteristics, which probably include the character of the management classes and of the population which was supporting the demographic growth of the Florentine area between the XII and XIII centuries. If it’s not thinkable that the aristocratic citizens of the time were without luxury manufactured products because of a civic virtue that resembles, in the literary topos of Alighieri, republican Rome, more credible –also because archaeological documentation underlines it – is the existence of a qualitative gap in the quality of ceramics in circulation between the Florentine area and those around Pisa and Siena which necessitates an adequate historical-cultural-explanation. Florence and Montelupo. The development of the market and the citizen client in the fourteenth and fifteenth centuries. Lets put aside the complex problem of the origins of majolica in Florence and its surrounding areas and concentrate our attention on the successive developments, in this case involving ceramic art: in this way we can state with precision the role played by the furnaces of Montelupo in the establishment and development of the ceramics activity in this territory. To do this, reference to the previous studies of Galeazzo Cora and earlier research done by the Milanesi and Guasti in the 1960’s, is still indispensable. Subjecting the work done by Cora to a kind of prejudiced “purification” necessary to distinguish MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE ceramica dalle caratteristiche estetico-funzionali più avanzate, sembra perciò avvalorare le parole dell’Alighieri: rimpiangendo la città dei suoi avi, il poeta ne lodava infatti soprattutto la semplicità dei costumi. L’esistenza di un sensibile iato cronologico nell’introduzione di manufatti ceramici “moderni” tra città costiere ed il territorio fiorentino, collocato quasi ai piedi dell’Appennino, è d’altra parte comprensibile, e trova d’altronde conferma, come si è visto, nelle particolari vicende della protomaiolica e della graffita tirrenica. Le aree marittime, protagoniste dopo i secoli dell’Alto Medioevo dei nuovi contatti con l’Oriente, furono infatti le prime a ricevere quei nuovi manufatti che erano, oltre che oggetti pregiati di scambio, anche esempi da imitare. Non per caso alcune lavorazioni che, al pari della ceramica, avevano un forte radicamento lungo la sponda opposta del Mediterraneo e nel mondo islamico in genere (si pensi ai “marocchini” ed ai “cordovani”), trovarono particolare diffusione nelle città portuali italiane: così, ad esempio, fu per la concia delle pelli, la quale trovò nella Pisa del Duecento il suo luogo d’elezione. Quale intensità avessero, infine, gli scambi del Porto Pisano con l’Oriente Mediterraneo – ma anche con il Nord Africa, il Maghreb e la Spagna moresca – ove, assieme alle più varie merci d’importazione, si esitavano anche ceramiche di una qualità sconosciuta ai vasai nostrani, trova un mirabile esempio nel fenomeno dei MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE di secondaria importanza, che non furono in grado di accreditarsi come fornitori presso gli ospedali e le istituzioni ecclesiastiche fiorentine. Rapportando questi dati a quelli coevi, relativi ai centri di produzione del Contado, si può subito notare una diversità numerica e strutturale, ben marcata dall’assenza di stovigliai e dai 138 orciolai documentati – sempre nell’arco del Tre e Quattrocento – in Montelupo, nonché dai 44 censiti per Bacchereto; va inoltre rilevato che tra i poco più di settanta vasai che avevano bottega in Firenze, 16 erano sicuramente montelupini, mentre 10 erano di origine baccheretana. Ricostruendo poi la progressione cronologica dei rivenditori e degli artigiani legati alla committenza ed al commercio delle ceramiche in Firenze attraverso i dati che il Cora fornisce per il XIV secolo, ci possiamo accorgere come tra il 1308 ed il 1358, a fronte di 23 stovigliai documentati, non appaia nei documenti fiorentini nessun orciolaio e come nel ventennio 1359-79 questo rapporto si faccia di 15 a 4, mentre nel 1380-99 si trasformi infine in 41 a 11. Nell’anno 1383, che registra il record degli iscritti nelle due categorie, sia per l’Arte degli Oliandoli che per quella dei Medici e Speziali – le corporazione legate ad entrambe le professioni – questo rapporto si fa di 13 stovigliai per 5 ceramisti. Pur in considerazione dell’indubbia penuria di fonti che caratterizza la prima metà del Trecento, si deve perciò dedurre dalla documentazione pubblicata che siamo di fronte ad un’attività produttiva considerata “marginale” nella città di Firenze, tanto che il mercato cittadino sta per lungo tempo in mano ai rivenditori, mentre i produttori agiscono in ambito urbano in numero assai limitato. L’attività ceramistica cittadina, inoltre, sembra svilupparsi soprattutto negli anni Ottanta del XIV secolo: in data anteriore al 1382, infatti, sono citati i soli Tingo di Nardo (1359), il primo dei vasai di Bacchereto inurbati, Domenico detto Posarella (1364), ed un ulteriore ceramista baccheretano, Tugio di Giunta (1369). È altresì evidente come tra i vasai provenienti da luoghi del Contado che si possono identificare, siano stati proprio quelli di Bacchereto, “villa” posta sulle pendici del Montalbano, a giungere più precocemente a Firenze; sappiamo, del resto, che già verso il 1328 si trovavano in Pisa vasai provenienti da quel centro, e che almeno quattro di loro operarono nella Città crociata nel corso del XIV secolo. In questa fase mancano del tutto i montelupini. Non sapremmo dire se a fondamento di questo fenomeno di “marginalità” dell’arte ceramica in Firenze – che ovviamente presuppone un largo approvvigionamento della città, attraverso gli stovigliai, da produttori esterni – ci sia stata, come appare possibile, una precisa tendenza a scoraggiare lo svilupparsi delle cosiddette “arti del fuoco” tra le mura cittadine, per evitare soprat- tutto quei pericoli legati al diffondersi degli incendi che, d’altronde, ogni città preindustriale paventava: basta scorrere le cronache medievali di Firenze per accorgersi, d’altra parte, quanto questo rischio fosse reale. Da qui, forse, la tendenza a non ostacolare produzione ceramica (e vetraria) nelle “terre” del Contado. La stessa ubicazione delle fornaci in Firenze, per quanto è possibile enucleare dai dati del Cora – avendo sempre cura di estrapolare quelli che si riferiscono agli esercizi, e non alla manodopera che in essi s’impiegava – mostra come per essa si preferisse di gran lunga la zona d’Oltrarno, l’area urbana, cioè, che il fiume separa dal cuore della città. Il numero maggiore dei vasai nel Tre e Quattrocento risiedeva infatti attorno a San Piero Gattolini (18 orciolai), lungo le vie che conducevano a Porta Romana, ma quasi altrettanti si trovavano a San Niccolò (13 vasai) ed in quel di Ricorboli, non distante da San Miniato a Monte (5 esercizi). Altri sei ceramisti abitavano nel quartiere di Santo Spirito, e specialmente in San Frediano, verso la Porta Pisana, il che porta il numero degli orciolai nella zona della città divisa dall’Arno ad almeno 42. Un nucleo consistente, ma assai minoritario rispetto a quello che si era sviluppato nell’Oltrarno, è documentato nella zona di Santa Croce e Sant’Ambrogio (9 casi), in quello di San Giovanni (7 casi), mentre uno soltanto è citato nel quartiere di Santa Maria Novella. 75 74 the extent to which the potters followed the interests of the traders, it is possible to conduct a picture that – even though incomplete – appears indicative as far as the evident tendency in the production and circulation of ceramics in Florence in the fourteenth and fifteenth centuries. It’s possible to extract from the Storia della maiolica di Firenze e del Contado the names of at least 229 dish makers, 89 jar makers and 5 pan makers all living in Florence (others nominations have been discounted as dubious); amongst the jar makers however, at least 13 were simple assistants to the owners of the workshop. It must also be considered that more than half of the producers were distinguished on the basis of sporadic and purely nominative registrations which do however lead us to believe that they are artisans of secondary importance, not able to accredit themselves as suppliers to the Florentine hospitals and ecclesiastical institutions. Relating this data to those times, relative to the production centres in the surrounding areas of Florence, we can immediately note a distinct numerical and structural diversity, marked by the absence of plate makers and by the 138 jar makers documented – in the fourteenth and fifteenth centuries – in Montelupo as well as the 44 cited in Bacchereto; it should also be noted that amongst the more than seventy potters who had a workshop in Florence, 16 were definitely from Montelupo and 10 from Bacchereto. Reconstructing the chronological progression of the salespeople and artisans with ties to clients and commerce, we can state that between 1308 and 1358, compared to 23 plate makers documented, there were no jar makers noted: during the 20 years 1359-79 this ratio changed to 15-4 whilst from 138099 there was a final figure of 41-11. In 1383, which registered a record number of registrations in the two categories, both Art for Oil Recipients and Art for Medicinal and Grocery Recipients - corporations linked to the professions – this ratio changes to 13 plate makers to 5 potters. Even considering the scarcity of sources that characterized the fourteenth century, we have to anyway deduce that we are dealing with an activity which can be considered as “marginal” in the city of Florence, so much so that the city market remained for a long while in the hands of salespeople whilst the producers operated in limited numbers. The level of ceramics activity in the city seemed to develop above all in the XIV century: before 1382, indeed, it seemed to develop above all during the 80’s of the fourteenth century: before 1382 only Tingo di Nardo (1359), Domenico called Posarella (1364), and Tugio di Giunta (1369) the first potters from Bacchereto to transfer to the city, were cited. It is equally evident that among the potters coming from the countryside that can be identified, those from Bacchereto, a “villa” placed on the slopes of Montalbano, were amongst the first to transfer to Florence. We also know that towards 1328, potters coming from that area were found in Pisa and that at least four of them were operating in the city with a cross during the XIV century. In this phase there was no one from Montelupo. We can’t say for sure that the foundations of this “marginalization” of ceramic art in Florence – which obviously pre supposes a large supply to the city through from external sources – wasn’t, as it seems possible, a precise tendency to discourage the development of the so called “fire arts” within the city walls to avoid above all the danger arising from fires which was a major fear for most pre industrial cities: to get an idea of this one can read through the news publications in Florence at the time to get an idea of how real this fear was. From this point perhaps, came the tendency not to pose obstruct ceramic production in the peripheral lands. The setting up of furnaces in Florence, as far as we can work out from Cora’s data – being careful to extract the data regarding the exercising of the business and not the handcraft itself – seems to have been concentrated in the areas of the Oltrarno, the other side of the river from the urban area. Three or four hundred lived around San Piero Gattolini (18 jar makers), along the road that stretches from Porto Romana, but almost as many wee to be found at San Niccolò (13potters) and in Ricorboli, not far from San Miniato a Monte (craftsmen). Another six potters lived in the Santo Spirito area and especially in San Frediano, towards Porta Pisana, which brings the number up to 42. A consistent nucleus but quite small compared to the numbers in the Oltrarno was documented in the area around Santa Croce and Sant’Ambrogio (9 cases), in San Giovanni (7 cases) and only one in the area of Santa Maria Novella. Therefore the general level of diffidence towards this art, explained by the fear of a fire breaking out could also have resulted in a diversity of quality between “Florentine archaic majolica” and that developed in other centres of Tuscany: the lack of a “productive polo” linked to a city, in other words, could have created the obstacle that up to the last twenty years of the fourteenth century, and thanks to a lack of desire to embrace the most elevated local tendencies, the development of decorated products – for example the complex figuration of the “archaic majolica” of the Siena area – meant the MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE sivi che qui ebbe l’arte ceramica: in tal modo potremmo precisare il ruolo esercitato dalle fornaci di Montelupo nell’opera di radicamento e di sviluppo delle attività ceramistiche all’interno di questo ambito territoriale. È ancor oggi indispensabile a questo scopo rifarsi all’ampia indagine sulle fonti d’archivio relative alla storia della ceramica fiorentina che Galeazzo Cora, avvalendosi anche delle precedenti ricerche del Milanesi e del Guasti, promosse nel corso degli anni Sessanta. Sottoponendo le informazioni contenute nell’opera del Cora ad una “depurazione” preventiva, necessaria a separare quanto in essi attiene i commercianti dai ceramisti, è possibile comporre un quadro che – pur incompleto – appare comunque indicativo, per la tendenza evidentissima che marca, dei fenomeni legati alla produzione ed alla circolazione della ceramica nella Firenze del Tre e Quattrocento. Si possono estrarre dalle pagine della Storia della maiolica di Firenze e del Contado relative a questi due secoli i nomi di almeno 229 stovigliai, 89 orciolai e 5 pentolai, tutti domiciliati in Firenze (altri sono stati scartati perché dubbi); tra gli orciolai, però, almeno 13 sono semplici lavoranti posti alle dipendenze dei padroni delle botteghe. Va considerato, inoltre, che più della metà dei produttori sono stati individuati sulla base di registrazioni sporadiche e puramente nominative, le quali fanno perciò supporre trattarsi di artigiani MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE ed i più importanti acquirenti cittadini, rappresentati dalle istituzioni ecclesiastiche ed ospedaliere. Queste ultime, infatti, si avvalsero per lungo tempo dell’intermediazione degli “stovigliai”, rivenditori che di norma operavano al minuto, ma che all’occorrenza potevano effettuare forniture di maggior consistenza: nelle loro botteghe, oltre a ceramiche di ogni tipo, si vendevano vetrerie, cordami, laterizi, gesso, cenere, etc. Solo nel 1383 l’ospedale di santa Maria Nuova effettuò il primo acquisto di ceramiche rivolgendosi a Tugio di Giunta, un vasaio proveniente da Bacchereto, che, assieme ai figli Giunta ed Antonio, esercitava il suo mestiere in una fornace collocata presso San Piero Gattolini. Questo canale di approvvigionamento diretto fu però praticato dall’ospedale soltanto tre volte nel corso dell’ultimo ventennio del XIV secolo (1383, 1393 prima dotazione per la spezieria, e 1395): fatte salve queste forniture, gli acquisti ceramici da esso effettuati nell’arco di quasi un cinquantennio (1362-1409) ebbero come protagonisti soltanto gli stovigliai cittadini. All’inizio del Quattrocento la strategia del grande nosocomio muta però completamente. Dal 1410-11, infatti, furono gli eredi di Tugio a rifornire quasi senza soluzione di continuità l’ospedale, affiancandosi a vasai fiorentini come Bartolomeo di Matteo e compagni (1406). Nello stesso tempo Santa Maria Nuova inizia a rivolgersi anche a ceramisti che non risiedevano in città, ma operavano nei centri di produzione del Contado, come Impruneta (dal 1400) e Bacchereto (1419). Solo nel 1420 sarà la volta dei montelupini Piero, Tommaso e Miniato a farsi “orciolai di casa” dell’ospedale, dopo essersi recati in Firenze ed aver aperto, nelle case di san Niccolò, di proprietà del medesimo nosocomio, la loro bottega. Nel 1429, infine, con una fornitura effettuata da Nanni di Michele Zamperini prende l’avvio quel rapporto diretto tra ceramisti di Montelupo e Santa Maria Nuova che non s’interromperà sino alla fine dell’Età Moderna. Fatta salva la cautela che richiede lo stato ancora imperfetto della ricerca, possiamo dunque dedurre da tutto ciò come sia stato l’ultimo ventennio del XIV secolo a marcare una svolta decisiva nei rapporti tra i ceramisti e la più importante committenza cittadina, anche se occorrerà qualche tempo perché questo canale si irrobustisca e coinvolga direttamente, senza l’intermediazione dei vasai inurbati, i centri di produzione. È d’altronde assai significativo che una simile svolta negli assi di riferimento dei maggiori acquirenti cittadini di ceramiche abbia avuto per protagonisti vasai provenienti dalle “terre” del Contado, ove già da tempo era venuta sviluppandosi l’ “arte dell’orciolaio”, e che verosimilmente erano immigrati nella Dominante proprio sull’onda della crescita di quelle attività. I ceramisti che operavano nel territorio comitatino sul finire del XIV secolo avevano infatti già alle spalle almeno cinque generazioni di vasai: in molti casi, anche in ragione della consistente caduta demografica della seconda metà del Trecento, una tale attività non aveva potuto trovare un rapporto di continuità familiare, e si era dispersa od era passata di mano in mano. Talvolta, però, la famiglia era cresciuta numerosa attorno alla fornace, ed il luogo natìo si era fatto avaro di prospettive per i rampolli delle dinastie dei ceramisti che andavano sviluppandosi nei diversi centri di fabbrica, oltre che per i vasai di più modesta condizione: tentare la fortuna in città rappresentava per costoro una tentazione irresistibile. Tugio di Giunta, vasaio di Bacchereto, era padre di quel Giunta che avrebbe magistralmente consolidato il rapporto tra questa famiglia e Santa Maria Nuova, realizzando nel 1431 la memorabile fornitura di maioliche attraverso le quali fu “rifondata” la spezieria ospedaliera; egli, come abbiamo visto, non fu che il primo dei ceramisti che già esercitavano nel Contado a recarsi in Firenze. Dopo di lui, ed assieme ad altri baccheretani, vennero ad abitare in Firenze i montelupini e, con ogni probabilità, ceramisti provenienti dagli altri centri ceramici del Contado, come Impruneta e Cancelli. Il nuovo rapporto tra fornitori e committenti, i legami che si stabilirono prima tra la residenza in città dei ceramisti comitatini e le istituzioni fiorentine, e poi il 77 76 level of creativity remained at that expressed by the local potters who were able but tied to “rustic” and “immediate” demands. Under these conditions it is possible to imagine the “Florentine” potters were “content” to accept things as they were ignoring the emergence of foreign majolica trends and remaining attached to a simpler and poorer repertoire in a figurative sense in that they tended to use vegetal subjects or zoomorphic figures. Besides, Florence seemed to have for a long time, concerning pottery products, an intermediary role which blocked a direct relationship between the potters and the most important citizen buyers, representatives of the ecclesiastical institutions and hospital staff. The latter used over a long period “Stovigliai” (dish product intermediaries) who usually provided finer products but who could also provide supplies of greater consistency: in their workshops , besides ceramics of every type, they sold glass products, brick, cordage, gypsum, ash etc. Only in1383 did the hospital of Santa Maria Nuova effect the first direct acquisition directly from Tugio di Giunta, a potter who came from Bacchereto, who, together with his sons Giunta and Antonio, exercised his trade in a furnace located near San Piero Gattolini. This direct acquisition by the hospital only happened three times during the course of the last twenty years of the XIV century (1383, 1393 first employ for the spices, and 1395): besides these events, in nearly fifty years of acquisitions (13621409) all came through the citizen “stovigliai”. At the beginning of the fifteenth century the strategy of the hospital transformed. From 1410-11, indeed, Tugio’s heirs supplied the hospital without interruption, working alongside other Florentine potters such as Bartolomeo di Matteo and company (1406). At the same time, Santa Maria Nuova began to turn to potters who didn’t reside in the city but operated their centres of production in the surrounding areas like Impruneta (from 1400) and Bacchereto (1419). Only in 1420 did the jug potters Piero, Tommaso and Miniato make themselves the hospital’s potters after having transferred to Florence, San Niccolò, and having opened a workshop near the hospital. In 1429, at last, with a supply effected by Nanni di Michele Zamperini did a relationship direct between the potters of Montelupo and Santa Maria Nuova begin which continued up to the end of the Modern Age. Accepting that prudence is required given the imperfection of the research, we can however begin to deduce how, during the last twenty years of the XIV century, there was a solidification of the direct relationship between the potters and the most important citizen buyers. It is equally significant that the interest was in work from the lands peripheral to Florence but in a more decorative form. The potters who were operating in the territory at the end of the XIV century had indeed five generations of experience behind them: in most cases though, mainly due to the demographic downturn in the second half of the fourteenth century, a generational continuation of this activity didn’t occur and the trade passed on to the next person interested. Sometimes however, large families grew around the furnace and the birthplace offered little potential for the budding potters who went elsewhere to practice their trades, in other centres of production: to seek their fortunes in their representative cities was an irresistible choice. Tugio di Giunta, potter from Bacchereto, was the father of the same Giunta who majestically consolidated the relationship between his family and Santa Maria Nuova by completing, in 1431, the memorable supply of majolica that “re cast” the hospital’s grocery set up but he wasn’t, as we have seen, the first rural potter to establish himself in the city of Florence. After him however followed others from Montelupo and, probably, from many different rural areas such as Impruneta and Cancelli. The new relationship between suppliers and customers, the first relationships established between the city residences of the potters and the Florentine institutions, and then the passage to a relationship with production centres, highlighted the growing importance of the diffusion of ceramics of quality in Florence which, we repeat – in turn significantly influenced the future of the national production of ceramics from about 1380 to 1400. Montelupo from archaic majolica to the “Florentine” technological revolution (1360-1380). If we compare the types of vase products produced in the Florentine area during the two most significant phases of the first phase of glazed ceramics (respectively about 1280 -1350 and 1350-80) to those belonging to the period 1380-1420, we can appreciate the enormous progress that was made in terms of the qualitative refinement of production, realized by the potters in the period starting from XIV to the beginning of the XV centuries. In the epoch that witnessed the first output and development (about 1280-1380) as well as that which saw the successive increases (1350-80) of the so called “archaic majolica”, Montelupo was operating along those formal lines dictated by demands in Florence and not those concerned with obtaining excellence, an episode that we have already discussed; the “back- MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Ad una possibile diffidenza verso la crescita di quest’arte, per la quale si faceva inevitabilmente ampio ricorso al fuoco, quindi, potrebbe essere addebitata questa sensibile diversità qualitativa tra la “maiolica arcaica fiorentina” e quella sviluppata in altri centri della Toscana: la mancata creazione di un autonomo “polo produttivo” cittadino, in altre parole, potrebbe aver ostacolato sino all’ultimo ventennio del Trecento, per mancanza di catalizzazione delle tendenze più elevate del mercato locale, lo sviluppo di tematiche di spicco – come, ad esempio, avviene nelle complesse figurazioni senesi delle “maioliche arcaiche” – finendo così per livellare il prodotto sulla creatività espressa dai vasai del Contado, certamente abili, ma legati ad un ambiente produttivo assai più “rustico” ed “immediato” sotto il profilo culturale. In queste condizioni, si può pensare che, come sembrano attestare le nostre testimonianze, i vasai “fiorentini” si “accontentassero”, restando al riparo dalla penetrazione commerciale delle maioliche forestiere, del ricorso ad un repertorio più semplice e povero sotto il profilo figurativo, in quanto incentrato soprattutto sulla rappresentazione di soggetti vegetali in stilizzazione, variati per lo più da usuali raffigurazioni zoomorfe. Firenze, inoltre, sembra aver mantenuto a lungo per i generi fittili un tipo di intermediazione commerciale che di fatto impediva il rapporto diretto tra i vasai Montelupo dalla maiolica arcaica alla rivoluzione tecnologica “fiorentina” (1360-1380). Se confrontiamo i generi vascolari da mensa prodotti in area fiorentina durante i due momenti costitutivi di quella che potremmo definire la prima fase della ceramica smaltata (rispettivamente 1280 circa-1350 e 135080) con quelli che invece appartengono al periodo 13801420, possiamo apprezzare la grande opera di affinamento qualitativo del prodotto fittile che quei ceramisti realizzarono tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo. Nell’epoca che vide gli esordi ed il primo sviluppo (1280 circa-1350), nonché i successivi incrementi (1350-80) della cosiddetta “maiolica arcaica”, Montelupo operò infatti secondo quei canoni formali non eccelsi, ai quali abbiamo fuggevolmente accennato trattando del “ritardo” della pittura su smalto di area fiorentina rispetto agli altri contesti regionali, inserendosi tuttavia in un quadro tecnologico che ricalcava fedelmente le modalità produttive dominanti in Toscana e nell’Italia Centrale e Centro-Settentrionale. La cera- mica destinata alla smaltatura, in particolare, era foggiata con argilla ricca di ferro cavata soprattutto dagli accumuli fluviali: essa forniva dopo la cottura un bistugio dal colore rossastro, duro e compatto. Le forme erano ottenute dal tornio con tecnica non dissimile (pareti relativamente sottili, solchi di tornitura percepibili anche all’esterno) rispetto a quelle dell’epoca precedente, allorquando non si praticava la smaltatura. I boccali costituivano il prodotto di riferimento, e risultano perciò negli scarichi di fornace in numero sensibilmente più elevato rispetto alle morfe aperte (catini, ciotole, rinfrescatoi): essi mostrano una particolare svasatura del piede, che si allarga in basso “a zampa di elefante”, per poi richiudersi e rapidamente riallargarsi a formare il corpo vascolare vero e proprio, come se la parte inferiore costituisse una sorta di base troncoconica, sulla quale il manufatto si appoggia. Il corpo dei boccali è di norma piuttosto snello, e termina in un colletto allungato, moderatamente aperto verso l’esterno. L’ansa è del tipo a bastoncello, e viene di solito raddoppiata (due bastoncelli affiancati, saldati con la barbottina) negli esemplari di maggiori dimensioni, e cioè nei quarti e mezziquarti: essa è impostata all’avvio del colletto e, mediante un’accentuata piegatura, condotta a saldarsi al diametro massimo con un percorso praticamente dritto. È quasi sempre presente la foratura a fresco della piegatura dell’ansa allo scopo di permettere l’introduzione di un sigillo di piombo, quale garanzia della misura di capacità (alcuni reperti con il sigillo qui inserito sono documentati negli scavi di Montelupo ed in altri contesti archeologici della Toscana) per i boccali che venivano impiegati nelle osterie. Le forme aperte sono in numero piuttosto limitato e comprendono sostanzialmente le tre morfe principali alle quali si è poc’anzi accennato, con le loro rispettive varianti dimensionali. Si tratta di bacili da portata a parete più o meno profonda, di ciotole – le più piccole venivano utilizzate anche come saliere – e di rinfrescatoi, cioè vassoi da bicchieri, utilizzati soprattutto nei periodi estivi. Oltre a quanto detto per la tornitura, occorre segnalare sotto il profilo tecnologico che tutte le morfe vascolari prodotte, in particolar modo nel primo periodo (1280-1350), denotano la volontà di risparmiare sia la pellicola stannifera che i pigmenti: esse sono perciò di solito prive di rivestimento nelle parti non a vista (porzione rovescia delle aperte), mentre l’interno ed il piede dei boccali vengono invetriati. La smaltatura è visibilmente assai povera di stagno e mostra un sottilissimo spessore. Persino le campiture in verde-ramina sono di norma evitate, e le parti da colorire coperte da una barratura di linee “a graticcio”. Il repertorio della maiolica arcaica di Montelupo si inserisce perfettamente nei canoni della consimile produzione “fiorentina”, la quale può comprendere, oltre alle aree del Contado di Firenze e Prato, anche il Pistoiese, pur essendo quest’ultimo di più recente (1352) inserimento nel territorio della Città gigliata. Per la decorazione si fa largo ricorso ad elementi vegetali stilizzati, con foglie d’acqua allungate o cardiformi, ma anche a motivi pseudoaraldici, geometrici o zoomorfi; raramente è rappresentata la figura umana. Nella seconda metà del Trecento la produzione in maiolica arcaica di area fiorentina perde però la sua unitarietà tecnico-formale per scindersi in due tendenze ben marcate. In quella più tradizionale, che più da vicino ricalca gli antichi schemi, si può comunque notare una vistosa semplificazione del repertorio decorativo, che è portato ad iterare sempre più stancamente un motivo fitomorfo tratto da tessuti di pregio in circolazione già all’inizio del XIV secolo. La semplice composizione, formata da quattro foglie d’acqua disposte in croce ed unite per i piccioli, ben si presta ad essere inquartata sulla parte in vista delle forme aperte e ad unirsi con altri elementi vegetali, intercalati tra i bracci del motivo crucifero. Questa produzione, che ripercorre, aggiornandoli e semplificandoli, gli schemi della maiolica arcaica della prima metà del Trecento, è interessata anche ad 79 78 ward” stance in the Florentine area regarding decorations on the enamel compared with other regions. In particular, the ceramics destined to be enamelled were formed rich with clay rich in iron recovered primarily from fluvial accumulations: After the baking, it provided a reddish colour, hard and compact. The forms were obtained from the lathe with a technique not dissimilar to (thin walls, indentations visible from the outside) those of the preceding epoch where the enamelling wasn’t practiced. Jugs constituted the point of reference, we can guess at this because a higher number of them are found in the furnace dumps compared to more open forms (basins, bowls ): they demonstrate a particular flare of base, wide like “an elephants foot” which closes and then quickly opens again forming the vase body as if the lower part forms a kind of conical trunk on which the product rests (fig 10). The jugs’ bodies are normally thin and end with an extended collar, moderately open towards the outside. The handle has a stick form and is normally doubled, (two side by side soldered with a ) in the biggest examples, and therefore the quarter and half quarter sizes: they are placed at the beginning the collar and, through an accentuated curve conducted towards the part with the largest diameter in practically a straight line. A hole is almost always present caused by the curve of the handle permitting a lead seal which guarantees the measure of capacity (some finds with seals of this type have been recovered from the excavations of Montelupo and other sites in Tuscany) on the jugs used in Taverns (fig 11). There are rather limited numbers of the open forms and these generally include the three principal forms already mentioned, with their respective difference in size. They include meal service dishes for hanging on walls of different heights, smaller dishes used as containers like salt dishes and small cups for refreshments mainly used in the summer period. Besides what’s been said about the lathing processes, it must be said that under the technological profile, all the products were formed with economy in mind especially in the first period (12801350) where there was the desire to save on the tin film and the pigment: so there were without decoration on the retro and non visible sides while the insides and the bases of the jugs were glazed. The enamelling shows a limited amount of tin and is very thin. Even the painted backgrounds in green copper flakes are usually avoided, and the coloured parts are covered with “trellis lines”. The repertoire of the archaic majolica of Montelupo fits in perfectly with “Florentine” production which can include, besides the rural areas around Florence, Prato and Pistoia, the most recent (1532) to become part of Florentine territory. In terms of decoration, we can indicate stylized vegetal elements with extended water leaves or thistles and also pseudo heraldic, geometric or zoomorphic features but rarely the human form. In the second half of the fourteenth century, majolica production in the Florentine area lost its techno-formal unity and divided into two tendencies well distinguished. The more traditional tendency remained along the lines of the antique forms, there is a visible simplification of decoration in the repertoire and a exasperatingly insistent phyto-morphic motif made of a prized material which had been circulating since the XIV century. The simple composition, formed of four water leaves in the shape of a four sectioned cross could be found on the open face of the object, often united with other vegetal elements which are entwined on the stem of the cross (fig 13). This production, which continually re presents, updated and simplified, the themes of the archaic majolica of the fourteenth century, also undergo a morphological evolution. There is a net reduction of closed forms – mainly the jugs – compared to the open forms, and these latter are substantially reduced to cone-trunk basins with straighter sides, lightly extending outwards or folded “like a hinge” – meal service basins destined to contain meals, following the “ancient” table traditions. The few existing basins, besides having simple decorations, reduced to the usual quartered vegetal composition on the visible part, demonstrate the loss of the antique distinctive foot, as well as the tendency to abandon the stick form handle, replaced by a flattened type. At about the beginning of 1360, however, another productive vein of majolica became more popular amongst the meal time vases. At the beginning it was seen as an important “advancement” on the traditional “archaic majolica”, which had as a point of reference a different decorative repertoire of bright blue with a lapislazuli tone. The term “archaic blue majolica was coined to classify this type, essentially to highlight the new tone that it represented, without revolutionising the morphology of the products in copper flake and manganese. If we set out to verify the chemical composition of the pigment that supplies the blue colour, we can however note that it is the same copper used in the older green and brown productions: we know that the presence of lead alkaline in the composition of the stagno enamel was able to change the oxidization of the copper flakes, making them blue. This technique had been known for a long time – there are some examples from the XIII century in Siena, Orvieto and MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE passaggio ai rapporti stabili con i centri di produzione, ben rimarcano, ci sembra, la crescente importanza che ebbe in Firenze la diffusione della ceramica di qualità, la quale – lo ripetiamo – anche per questo aspetto segnò una svolta decisiva nel futuro della produzione fittile nazionale negli anni che vanno dal 1380 al 1400 circa. MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE blu”, appropriato ad evidenziare la novità cromatica che essi, senza rivoluzionare la morfologia dei prodotti in ramina e manganese, rappresentano. Se andiamo a verificare la composizione chimica del pigmento che fornisce la colorazione blu, possiamo però constatare che si tratta del medesimo rame utilizzato nell’antica produzione in verde e bruno: sappiamo infatti che la presenza di piombo alcalino nella composizione dello smalto stannifero era in grado virare l’ossidazione della ramina, facendole assumere un colore azzurrino. Questa tecnica era nota da molto tempo, tanto che si incontrano – come abbiamo notato in precedenza – maioliche arcaiche con decorazione azzurra fabbricate già nel XIII secolo a Siena, ad Orvieto e nell’Alto Lazio; la stessa “protomaiolica” (1180-1260 circa) mostra elementi vegetali azzurrini all’interno della tricromia che la caratterizza (azzurro, bruno ed arancio), e si tratta parimenti di ossido di rame. Sotto il profilo tecnologico del pigmento, dunque, in poca cosa consisterebbe la novità della “maiolica arcaica blu”. Se analizziamo più da vicino questa produzione, che probabilmente si afferma nelle botteghe ceramiche dell’area fiorentina soltanto nel corso di un trentennio Frammenti di boccale in maiolica arcaica blu (1360-80) da scavi di Montelupo (1360-90), possiamo invece accorgerci come essa rappresenti davvero la prima rottura di quello che era stato il dominio incontrastato della maiolica arcaica. Abbiamo accennato ai motivi decorativi, e possiamo meglio sottolineare adesso come l’arcaica blu, oltre a nuovi decori tratti da stoffe di pregio, introduca per la prima volta nel repertorio dei vasai italiani elementi derivati dal repertorio islamico, quali in particolare il cosiddetto “albero della vita”. Si tratta ovviamente dell’assimilazione di suggestioni decorative il cui valore simbolico non viene percepito come tale dai ceramisti nostrani, e che sono veicolate soprattutto dai centri di fabbrica dell’area valenzana (Manises e Paterna), ma anche dalle ceramiche di Malaga e della Catalogna. Sono in particolare i prodotti del Levante spagnolo, con il loro caratteristico accostamento di lustro metallico e di blu – in questo caso ottenuto dall’ossido di cobalto – a farsi rapidamente largo sui mercati mediterranei. Sappiamo, del resto, che la fortuna commerciale di queste ceramiche fu così ampia da suscitare fenomeni di tesaurizzazione: non per caso a Pula, in Sardegna, decine di scodelle valenzane del tutto integre furono sepolte attorno al 1380, evidentemente per occultarle, in una fossa. I vasai fiorentini vedono con sgomento la loro clientela avviare l’incetta di questi manufatti, detti “maioliche” per provenire dalle parti di Maiorca – l’isola era detta “Maiolica” in volgare toscano – od anche, con epiteto che designava ogni importazione fittile di pregio, “porcellette”. Le maioliche iberiche sbarcano in numero sempre maggiore, ad iniziare dal 1360 circa, nei porti tirrenici, e trovano accumulo, come merci preziose, nei fondaci mercantili. Non pochi, d’altronde, saranno gli acquirenti che, come Francesco di Marco Datini, il noto mercante di Prato, ordineranno direttamente in Manises i loro servizi da tavola “a lustro”: gli Acciaiuoli si faranno addirittura fabbricare da quei vasai, epigoni della grande tradizione islamica, un pavimento maiolicato con inserti dorati per la loro cappella di famiglia. Ecco dunque che il blu – pur essendo ancora ottenuto dal rame – unendosi alle suggestioni decorative dell’Islam, segnala la svolta ricercata dai nostri ceramisti, e ad essi quasi imposta dall’imprevisto confronto con i nuovi generi d’importazione. Più importante ancora di questa evoluzione estetica è però la vera e propria rivoluzione tecnologica che trova il suo terreno di sperimentazione nella maiolica arcaica blu. In essa, infatti, non soltanto scompare definitivamente l’invetriatura posta all’interno delle forme chiuse, ed anche questa porzione non a vista dei boccali viene perciò sottoposta a smaltatura, ma si nota la fabbricazione di un impasto ceramico non semplicemente finalizzato a garantire un buon risultato alla cottura, ma piuttosto ad assicurare una superiore qualità estetica alla produzione vascolare. 81 80 Fragmens of a jug in blue archaic majolica (1360-80) from Montelupo excavations in the north of Lazio; the same “proto majolica” (1180- about1260) demonstrates light blue vegetal elements inside the trichomatism that characterizes it (blue, brown and orange) and it is a question of oxidisation of copper. The pigment, under a technological profile, had very little in terms of novelty. If we study this production at close range, it was probably popular in the ceramic stores of Florence for about thirty years (1360-90), and represented the first change from the old predominant style of archaic majolica. We have up to now touched upon the subject of blue decorative motifs but we can also state that the archaic blue, besides being a decoration treated with prized materials, introduced for the first time in the repertoire of Islamic vases, derivatives from the Islamic repertoire, in particular the so called “tree of life” (fig 14). This obviously concerns the assimilation of suggestive decorations with a symbolic value that is not perceived as such by the local potters but used, above all by potters from areas such as Valencia (Manises and Paterna), Malaga and Catalonia. In particular, they are products from the Spanish Levante with their binomial use of bright metallic and blue – in this case obtained through the oxidization of cobalt – made rapid progress in the Mediterranean. We know that the success of these ceramics was so widespread that they became the subject of hoarding: Not by chance in Pula, in Sardegna, around 1380, tens of bowls from the Valencia area, all entire, were buried in a ditch, obviously to hide them. The Florentine potters to their dismay, witnessed the wide scale interest in these works, called “Majolica” because they came from around the Majorca area, - the island was called “Maiolica” in unrefined Tuscan – or maybe as the “porcellete” epithet reserved for prized imported ceramics. The Iberian majolica arrived in increasingly greater numbers beginning about 1360, through the Tyrrhenian ports and were stored as prized objects in mercantile stores. There were many buyers such as Francesco di Marco Datini, the noted merchant, who ordered their “bright” dinner services directly from Manises. The Acciaiuoli family had a majolica pavement with gold inserts made to order by the same potters, descendents of a great Islamic tradition. So, the colour blue- even though it was obtained through copper – blended with the suggestive decorations of Islam signalled the turning point searched for by our potters. Even more important than this aesthetic evolution was the real technological revolution which had its roots in the experimentation of the archaic blue majolica. In consequence, not only did the glazing disappear from the insides of the closed forms and replaced with enamel but a ceramic paste was used that would not only guarantee solid baking but also a superior aesthetic quality of vase production. As obtaining a candid enamelled surface which didn’t show violaceous tones was the objective in order to give a higher aesthetic value to the final product, the Florentine potters (Montelupo included) sought a white surface at the pasta stage before the forming, drying and baking for the first time stage. Producing white and translucent surfaces on the ceramics signified, as was explained, a noticeable increase in the aesthetic quality of the product and that was only possible through the use of enamel which had a high quantity of expensive stagno. It is however evident that, with the same quality of enamel, a much better result could be reached staring with whitish vase surfaces and not brick-red, which characterized the old type of archaic majolica. The MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE una significativa evoluzione morfologica. Le forme chiuse – e segnatamente i boccali – risultano ormai in netta minoranza rispetto alle aperte, e queste ultime si riducono sostanzialmente a bacili dal corpo troncoconico, muniti di pareti raddrizzate, lievemente sporgenti all’esterno, oppure ripiegate “ad arpione”. Si tratta di bacili da portata, destinati a contenere la pietanza principale secondo l’“antico” costume della tavola. I pochi boccali esistenti mostrano, oltre ad una decorazione semplificata, ridotta anch’essa alla consueta composizione vegetale inquartata sulla parte a vista, la perdita dell’antico piede distinto, nonché la tendenza ad abbandonare l’ansa a bastoncello, per assumere una presa di tipo schiacciato, presto destinata ad evolvere in nastro. Ad iniziare dal 1360 circa, però, un altro filone produttivo della maiolica viene sempre più affermandosi nella fabbricazione dei manufatti vascolari da mensa. All’inizio si tratta di un importante “aggiornamento” della stessa “maiolica arcaica”, che ha come referente un diverso repertorio decorativo, e mostra nel contempo una colorazione in azzurro carico, con tonalità simili al lapislazzulo. Per classificare questi manufatti si è coniato il termine di “maiolica arcaica MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE gnoli, per di più, impiegavano a loro volta un bistugio dalla superficie biancastra, che ottenevano facilmente, utilizzando acqua salata nella lavorazione dell’argilla: la tecnica della salatura, non disponendo di sorgenti salse, non era però praticabile dai nostri vasai. Le strade percorse dai ceramisti italiani che si dedicavano alla maiolica per sbiancare i manufatti da sottoporre a smaltatura furono due. Un’antica tradizione tecnologica, sviluppata addirittura sul finire del XII secolo nelle cosiddette graffite tirreniche, e poi ripresa anche nelle protomaioliche, aveva già sperimentato l’imbiancatura del bistugio, cioè la velatura dei manufatti sottoposti alla prima cottura con ingobbio biancastro. Questa tecnica mostra un sorprendente radicamento in alcune aree produttive italiane e, in particolare, ampia diffusione in ambito senese e nella porzione meridionale della Toscana, tanto da trovare consacrazione anche in scritti tecnici come il De pirothecnia del Biringuccio. Nel Fiorentino, invece, si intraprese una strada completamente diversa per giungere al medesimo risultato. Invece di velare con un ingobbio di colore chiaro la superficie del bistugio foggiato con le argille che si cava- Il pavimento della chiesa di Santa Maria della Querce (Firenze), manifattura del Levante spagnolo, 1456-60 vano o raccoglievano nell’area, le quali avrebbero necessariamente determinato, per la presenza di ferro, l’insorgere in esso di tonalità più o meno rossastre, si pensò infatti di schiarire quanto più era possibile la colorazione del supporto ceramico medesimo. Una simile correzione cromatica poteva essere ottenuta mediante l’aggiunta di calcio – probabilmente sotto forma di grassello di calce – già nella fase di decantazione e maturazione della terra. Questa tecnica, che ben caratterizza le maioliche prodotte in area fiorentina, distinguendole da molti dei coevi manufatti senesi ed anche pisani, ha i suoi esordi verso il 1360, anche se denota una lunga fase di perfezionamento, che può dirsi del tutto conclusa soltanto nel quarto-quinto decenniodel XV secolo, al termine della quale si riuscì a migliorare decisamente la qualità intrinseca del nuovo bistugio biancastro; esso si era tuttavia generalizzato nelle produzioni “fiorentine” già all’inizio del Quattrocento. La miscelazione delle diverse componenti dell’impasto, infatti, raggiunse in quel lasso di tempo il suo equilibrio ottimale, frutto forse di una più adeguata e scaltrita tecnica di maturazione, grazie alla quale si ottenne un supporto ben più duro e compatto di quello in uso nel primo trentennio del secolo. Oltre a permettere, a parità dello stagno impiegato nella fabbricazione, una migliore qualità della smaltatura – intesa come maggior grado di bianchezza delle superfici – in quanto l’effetto finale non dipendeva tanto da un mezzo di contrasto (l’ingobbio), ma dal supporto medesimo, questa tecnica offriva ai ceramisti fiorentini altri, consistenti vantaggi. Mentre, infatti, il connubio tra lo smalto e l’ingobbio si rivelava spesso problematico, tanto da determinare frequenti problemi di aderenza della pellicola siliceo-metallica al suo supporto, la realizzazione dell’impasto con aggiunte di calcio favoriva il fissarsi del rivestimento. Nel corso della prima cottura, infatti, la superficie dei manufatti si cribrava intensamente a causa della cessione di gas, ed il bistugio così ottenuto, dotato di un minutissimo reticolo di microscopici orifizi, permetteva allo smalto di aderire saldamente. A completare il quadro del forte progresso tecnologico avviato all’inizio dell’ultimo quarantennio del XIV secolo, dunque, mancava ormai soltanto un elemento: l’introduzione dell’ossido di cobalto. La svolta dell’ossido di cobalto e la “zaffera a rilievo” Il ricorso a questo costoso pigmento d’importazione, a rigore, avrebbe potuto anche essere evitato dai ceramisti fiorentini. Abbiamo già visto, infatti, come fosse possibile ottenere il blu nella versione aggiornata della “maiolica arcaica” attraverso un particolare trattamento del verde-ramina. Un uso assai scaltrito di quel- 83 82 Majolica pavement of the Church of Santa Maria della Querce (Firenze), factory of spanish levante, 1456-60 perfect whiteness of the surfaces constituted a qualitative element which they were happy to do without previously: now that there was competition with the Spanish, it became a fundamental quality which couldn’t be neglected. What’s more, the Spanish used a base product that had a white surface which easily obtained, using salty water in the preparation of the clay water paste: the salt water technique was not possible for the Florentine potters owing to the lack of a salt water source. There were two paths taken by the local majolica potters in order to produce a white base product, ready for enamelling. An old technological tradition developed at the end of the XII century in the so called graffite tirreniche and then re established during the proto majolica period already experimented with the whitening of the base product, that is, the first baking was done with a white film painted over. This technique became widely used especially in the areas around Siena and in the south of Tuscany to the extent that it found its way into written works such as De pirothecnia by Biringuccio. In the Florentine region however, a completely different technique was used to arrive at the same result. Instead of painting a film of clear colour on the base form which was made from the local clay that gave a reddish tone thanks to the presence of iron, the primary material was made as clear as possible before any form work was done. A chromatic correction could be obtained through the addition of calcium – probably in the form of pieces of calcium – already in the decantation and maturation of the earth phase. This technique, which characterized the majolica produced in the Florentine area, distinguishing it from many of the products coming out the same time from the areas around Siena and Pisa, came out round 1360 but required a long phase of perfection which concluded around 40’s and 50’s of the XV century. This process resulted in a decided increase in the intrinsic quality of the new whitened base form and was generally used in the “Florentine” productions from the beginning of the fifteenth century. Indeed, the mixing of the different components of the paste in that period reached its optimum equilibrium, perhaps the fruit of improved maturation techniques thanks to which a harder and more compact support was produced compared to that in use during the first thirty years of the century. Besides permitting, supposing that the copper flakes were of equal quality, a better quality of enamelling – understood as an improved grade of whiteness on the surface – in so much as the effect of the final product depended more on the support than on the method of contrast (the film veiled over the base form), and this offered the Florentine potters consistent advantages. Whilst the marriage between the enamel and the film created problems of adhesion between the siliceous – metallic film and its support, the realization of the paste with added calcium favoured the adhesion of the decoration. During the first baking, the surface of the product became purer thanks to the cession of gas and the resultant base form, having a minute network of microscopic orifices, permitted the enamel to adhere solidly. To complete the picture of strong technological progress beginning during the last forty years of the XIV century, only one element is missing: the introduction of cobalt oxide. The introduction of cobalt oxide and the “zaffera relief” The use of this expensive pigment could have even been avoided by the Florentine potters. We have already seen how it is possible to obtain blue in the updated version of the “archaic majolica” through a MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Poiché ottenere una superficie smaltata candida, dalla quale non trasparissero toni violacei era l’obbiettivo da raggiungere per far assumere un maggior valore estetico al prodotto finale, i vasai che operavano nell’area fiorentina (e, con essi, quelli di Montelupo) pensarono bene di ottenere una superficie bianca già allo stadio di “bistugio”, cioè allorquando il manufatto era stato foggiato, essiccato e cotto per la prima volta. Produrre ceramiche dalla superficie bianchissima e transulcida significava, come si è detto, aumentare notevolmente la qualità estetica del prodotto, e ciò sarebbe stato possibile utilizzando smalti dall’elevato contenuto di costosissimo stagno. È però evidente come, a parità di smalto, un risultato assai migliore poteva essere raggiunto partendo da superfici vascolari biancastre, e non già rossomattone, come quelle che caratterizzavano la maiolica arcaica di vecchia concezione. La perfetta bianchezza delle superfici costituiva un elemento qualitativo del quale precedentemente si poteva far a meno: ora che si doveva affrontare la concorrenza delle maioliche spagnole, però, essa rappresentava un discriminante qualitativo fondamentale, da non potersi trascurare. Gli spa- MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE italiani – produssero maioliche con decorazioni “a rilievo”, ottenute mediante questa tecnica, l’ampiezza della diffusione ed il livello tecnico-applicativo che essa ebbe in area fiorentina, ove strettamente si unì alle altre novità tecnologiche delle quali si è detto poc’anzi, fanno della “zaffera a rilievo” un capitolo decisivo nell’evoluzione qualitativa della ceramica smaltata in Italia: un capitolo che non ebbe eguali in altri contesti nazionali. Raggiunta ormai una certa sicurezza nella fabbricazione del bistugio biancastro, generalizzata e migliorata la smaltatura dei manufatti, la produzione della “zaffera a rilievo” poteva legittimamente porsi come contraltare della maiolica iberica: essa citava in alcuni particolari formali i fondamenti stessi del linguaggio decorativo di matrice islamica che, a questo punto, rappresentava quasi un comune sostrato da elaborare, ma si distaccava dai prodotti del Levante spagnolo per quella ricerca di un repertorio figurativo autoctono che si farà sempre più spinta e pressante nel corso del XV secolo. Firenze e Montelupo. Alla conquista dei mercati mediterranei: la nuova produzione ceramica montelupina ai primordi dell’espansionismo commerciale fiorentino. L’inizio dell’esportazione, sempre più consistente e massiccia, della maiolica iberica – ed in particolare di quella valenzana a lustro metallico – verso Oriente coincide dunque cronologicamente con l’avvio di una fondamentale fase di rinnovamento qualitativo della maiolica italiana. Questi fenomeni marciarono di pari passo per oltre un secolo (1360-1490 circa), ma bisogna dire che furono i centri ceramici della costa tirrenica, per evidenti motivazioni di carattere geo-economico, a fare per primi i conti con questa straordinaria novità; l’impressionante progressione che avrebbe caratterizzato la capacità produttiva dei centri del Levante, ed in particolare delle fornaci di Manises, avrebbe del resto trovato in questa parte d’Italia la cassa di risonanza ideale. Il parallelismo tra le vicende delle lavorazioni fittili condotte in ambito manisero-valenciano e fiorentino, che la storia degli anni 1400-1480 circa ci segnala attraverso la straordinaria assimilazione da parte di quest’ultima del repertorio morfologico e decorativo iberico, non rappresentò dunque un fenomeno casuale, ma un fatto ben rispondente alla ricerca qualitativa che i ceramisti nostrani svilupparono già sul finire del Trecento. Così, mentre le importazioni dalla Spagna crescevano a dismisura, le decorazioni iberiche si tradussero presto in elementi formali, che i vasai fiorentini vennero ad applicare con sempre maggior frequenza ed abbondanza nei loro prodotti. La stessa tecnica del lustro metallico fu oggetto di grande interesse nel corso della prima metà del Quattrocento, sino a che, almeno negli anni Settanta di quel secolo, non si riuscì a carpirne il segreto, approfittando, come afferma una fonte montelupina, dei servigi più o meno “spionistici” forniti dalla rete commerciale dei mercanti fiorentini. Ecco dunque che nell’azione concomitante di questi fattori si possono indicare le forze che operarono congiuntamente per innalzare il livello qualitativo della maiolica in ambito fiorentino: da una parte, infatti, il quadro economico e sociale del periodo 1350-1420 determinò una forte richiesta di adeguamento dei fittili ai più raffinati gusti dell’epoca, alimentando il rinnovamento tecnico-formale della produzione, dall’altra l’esempio rappresentato dalla sempre più ampia penetrazione dei manufatti smaltati provenienti dal Levante spagnolo, caratterizzati anch’essi da molti fattori innovativi, spinse i vasai nostrani a porsi sulla medesima strada. Per dare conto di un fenomeno di così vasta portata, però, occorre evidentemente richiamare nella nostra ricostruzione anche quei più complessi fattori storici – “esterni”, se vogliamo, allo sviluppo dell’arte ceramica – i quali determinarono le condizioni oggettive perché una simile svolta non soltanto venisse intrapresa dai ceramisti fiorentini, ma soprattutto non fosse abbandonata o negletta nella fase, per molti aspetti di natura economico-sociale tutt’altro che facile, che ne vide l’avvio. 85 84 particular treatment of green – copper flake. A cunning use of that oxide, even able to produce a turquoise colour, was already in operation in Florence and can be seen on the enamelled material that provides the background to the Virtù inserted in the bell of the Santa Maria del Fiore, the date of which goes back to the beginning of the 40s of the XIV century, twenty years before the “archaic blue majolica”. The Florentine potters didn’t demonstrate a conviction towards the results gained from this kind of process which was however a significant modification of the “archaic majolica”, but more satisfied with the blue that came from the “chemical” conversion of the copper flakes. This latter process insisted and evolved rapidly until an intense blue colour was obtained which was completely different from the antique blue enamels and their evolved forms (tav. 1). Into this line of cobalt elaboration, the revolutionary idea of adding into the pigment oxide lead was introduced which served the double purpose of swelling the enamelled surface making it more turgid and modifying the colour, making it brighter and lapislazuli. Even if other centres of production – in Tuscany and elsewhere in Italy – produced majolica with “relief” decorations, obtained through this method, it was more widespread in the Florentine area where it was worked with other technological advances of which we have spoken very little, the safflower relief, a decisive chapter in the qualitative evolution of enamelled ceramics in Italy: a chapter that didn’t have equals in the national context. Having reached a certain confidence in the fabrication of a whitish base form, and a generalized and improved enamelling process achieved, the production of the “relief safflower” could legitimately propose itself as valid competition to the Iberian products: in some aspects there was a similarity to the decorative aspects of the Islamic forms, which at this point, had a similar substratum to the Florentine products but the latter had an autochthonous figurative repertoire which would become ever more impressive and accentuated during the course of the XV century. Florence & Montelupo Conquering mediterranean markets: the new ceramics production of Monelupo and the onset of Florentine commercial expansion An increase in the exportation of mainly Spanish Iberian Majolica with a highly polished finish coincided with the start of a fundamental period in the change of quality of Italian Majolica ceramics. This phenomenon continued for over a century between 1360 – 1490, but it should be said that ceramic manufacturers on the Tirrenian coast due to their geo- graphical and economical position benefited more from this extraordinary discovery. The impressive progression was characterised by the production capacity of the Levante areas and in particular the furnaces in the Manises. Making a comparison between the decorative Iberical workmanship used both in the Spanish Manisero-Valenciano and Florentine methods during the 1400 – 1480, history has taught us that it was not just by chance that these similarities came about but a phenomenon that was well studied by our potters even as early as the end of the 1300’s as they searched for improved quality. Whilst the Spanish imports grew out of all proportion, their decorations were translated into more formal elements which the Florentine potters started to use more frequently and abundantly in their products. The technique of a highly polished finish became of great interest in the first half of the 1400’s and even up to the 1470’s the secret of this method was unknown. As a source from Montelupo confirms, spies were used by Florentine merchants in an attempt to unravel the production techniques. Joint forces acted to raise the quality of Florentine majolica. Indeed, it was in part the social and economical situations between 1350 – 1420 that determined a strong demand for change towards more refined tastes of this period, leading to renewed techniques and forms of production and then an increase in enamelled products arriving from the Spanish Levante, forcing our potters to revaluate their techniques and take the same path. To understand the extent of this vast phenomenon it is necessary to include in our reconstruction also those complex historical factors – external to ceramic art –that determined not only why the Florentine potters adopted the new techniques but also why these ideas were not abandoned or neglected during difficult social and economical periods. Between the last quarter of the 1300’s and the first quarter of the 1400’s, Florence passed a delicate and decisive part of it’s history changing from a Medieval city with limited territory made up of countryside expanding as far as Prato and Pistoia, to a dominant regional state. This crucial 50 year period saw, not surprisingly, the defeat of the “Ciompi” and thanks to this it was possible to begin political reaction against the ever increasing social base of the city of which the pre-proletarian urban classes, the lowest ranks of the textile workforce were prevalent. The restriction of the number of arts and artisans began in January 1382, but in effect only represented the beginning of the closure of the Oligarchic political system that took place in 1434, after a series of dramatic changes MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE l’ossido, in grado di produrre addirittura colorazioni turchine, è del resto testimoniato nella stessa Firenze dalle tessere smaltate che fanno da sfondo alle statue delle Virtù inserite nel campanile di Santa Maria del Fiore, le quali si datano già all’inizio degli anni Quaranta del XIV secolo, cioè un ventennio prima della stessa “maiolica arcaica blu”. I ceramisti “fiorentini” non si dimostrano quindi paghi dei risultati raggiunti con questa tipologia vascolare, che pure modificava assai significativamente la “maiolica arcaica”, né furono appagati dal saper trarre effetti di blu dal trattamento “chimico” della ramina. Mentre ancora perdurava questa produzione, essi si rivolsero infatti rapidamente (i dati di scavo indicano il 1380 circa) all’ossido di cobalto, al fine di ottenere colorazioni in un blu più intenso, che non è confondibile con gli inserti azzurri delle produzioni smaltate più antiche, e neppure con la stessa evoluzione della “maiolica arcaica”. Ed è su questa linea di elaborazione del cobalto che palesemente si innesta l’idea di introdurre nel pigmento ossido di piombo, affinché non soltanto esso possa gonfiarsi sulla superficie smaltata, facendo così assumere ai decori un aspetto turgido, particolarmente suggestivo, ma anche per modificare il colore medesimo, schiarirlo e renderlo di una brillantezza simile al lapislazzulo. Anche se altri centri di produzione – toscani ed MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE della signoria territoriale, dai quali però avevano mutuato non soltanto possessioni, ma anche parte sostanziale della mentalità e del comportamento sociale, ebbero modo di saldare in questo periodo la propria azione a quella del popolo grasso, che si diceva “arciguelfo”. Il blocco sociale tra le famiglie eminenti del ceto bancario e mercantile e quelle della media borghesia cittadina, che si formò dopo la sconfitta dei Ciompi, non soltanto svuotò progressivamente di contenuti l’antica “democrazia” medievale che reggeva le sorti della città da quasi un secolo e mezzo, ma avviò altresì una fase di consistente espansione territoriale e di confronto militare con gli altri stati italiani. Questo aspetto della vita fiorentina, unito al leitmotiv della lotta contro i Visconti, ideologicamente trasformata nella difesa della piccola repubblica contro il tiranno straniero, ed il conseguente bisogno di un governo forte, in grado di assicurare le ingenti risorse finanziarie necessarie alla sicurezza della patria, costituirono il terreno di coltura ideale per quelle aspre battaglie intestine al patriziato, dalle quali inevitabilmente una sola consorteria doveva uscire vincitrice. La lotta di fazione, condotta secondo la tradizione medievale della leadership di una famiglia eminente, rafforzata dalla propria consorteria e dai clan alleati, si era affrancata dal clima feroce delle “battaglie cittadinesche” del passato, ma era combattuta con pari, feroce determinazione nei consigli e nelle balìe, ove ci si dispu- tava la supremazia politica: nessuno poteva sottrarsi a questo confronto che animava la vita cittadina, poiché chi soccombeva, oltre a rischiare l’incolumità personale, era spesso costretto all’esilio ed alla perdita del patrimonio. Le lotte avviate contro i Visconti a partire dal 1390, portarono Firenze sull’orlo della catastrofe, ma la buona sorte aiutò i fiorentini: Gian Galeazzo Visconti morì infatti improvvisamente nel settembre del 1402 e, anche se la sua scomparsa non portò al crollo immediato del regime visconteo nell’Italia centrale, provocò un alleggerimento della pressione militare. Pisa e Siena, però, restavano nelle mani di quella famiglia, ed impedivano la crescita di Firenze. La Città gigliata approfittò comunque nel 1404 della liberazione di Siena per utilizzare di nuovo il porto di Talamone, e riaprire ai propri traffici Piombino e Motrone, alleggerendo così la longa manus di Genova su Pisa e Livorno che, attraverso il Visconti, le impediva l’accesso al mare. La conquista di Pisa divenne quindi, in quegli anni, l’obbiettivo principale della politica fiorentina. La presa della Città crociata nel 1406 rappresentò il trionfo del gruppo oligarchico composto da Maso degli Albizzi, Gino Capponi, Rinaldo Gianfigliazzi e Niccolò da Uzzano, ma l’impresa era costata enormi risorse finanziarie, che si valutano a circa un milione e mezzo di fiorini. L’attività bellica ed i diversi accordi di politica estera, oltre alla necessità di assorbire e controllare il vasto territorio pisano, avevano infatti portato il debito pubblico fiorentino ad oltre tre milioni di fiorini, il che comportava per l’erario l’erogazione di interessi pari a circa 200.000 fiorini all’anno. Per completare il disegno strategico che avrebbe permesso un effettivo sviluppo della politica marinara della Repubblica occorreva, una volta avviata la conquista di Pisa, risolvere anche la questione di Livorno. L’occasione si presentò nel 1421 per le minacce che Filippo Maria Visconti portò allora a Genova: i Fiorentini, che sin dal 1419 avevano offerto per lo scalo labronico una cifra di 60.000 fiorini, riuscirono così a chiudere l’accordo con i Genovesi, sborsandone 100.000. L’acquisto di Livorno permetteva a Firenze di dotarsi di una propria flotta, sia di natura commerciale che militare, e di ampliare i rapporti di scambio marittimi con le nazioni mediterranee. Fu creata per questo scopo la magistratura dei Consoli del Mare, che dalle loro sedi di Pisa e Firenze si occupava della gestione dell’arsenale pisano e, attraverso trattati economici, della penetrazione commerciale delle “galere da mercato” fiorentine. Nell’aprile del 1422, in effetti, si inaugurarono i primi viaggi delle galee gigliate dirette a Oriente, che furono precedute da solenni processioni nella città di Pisa. Nel luglio di quell’anno, assieme agli ambasciatori della Signoria alla corte del sultano, Carlo di Francesco Federighi e Felice 87 86 and internal patriciate struggles during the rule of Cosimo de’ Medici. Even the expansion of the territory surrounding Florence and the conquest of Arezzo in 1384 was taken with hesitancy and did not change the situation. The wealthy aristocratic families, known as the “Arciguelfi” who often played important roles in the running of the city and countryside, not only exploiting their possessions but imposing their mentality and social behaviour on the community, were to benefit completely and freely from their actions during this period. The social barriers between eminent banking and trading families and those of the middle class that were formed after the defeat of the “Ciompi” was not only the beginning of the end of the old Medieval democracy that governed the city for a century and a half, but activated an expansion of territory and military intervention between the other Italian states. This aspect of Florentine life, united under the “leitmotiv” to fight against the family Visconti, transformed into the defence of the small republic against foreign tyrants, and consequently the need for a stronger government able to ensure necessary financial resources for the security of the country constituted the cultural ideals for those bitter internal civil battles from which only one family group would come out the winner. As in Medieval tra- ditions, these battles in the past to gain political leadership and supremacy were fought with fierce ferocity between the powerful groups of families reinforced by their supporting clans. It was difficult to escape these confrontations that enlivened city life because those who succumbed to these battles, besides risking their personal safety, were often sent into exile and lost their patrimony. The political struggles against the family Visconti starting in 1390 nearly bringing Florence to the edge of a catastrophe but good fortune helped the Florentines as Gian Galeazzo Visconti suddenly died in September 1402. Even if his death did not bring an immediate collapse of this regime in central Italy, it did provoke a reduction in pressure from the military. Pisa and Siena remained in the hands of the family which prevented Florence from growing. But in 1404 after the liberation of Siena they were once again able to use the Talamone port and allow traffic to enter Piombino and Motrone, lightening the “longa manus”, the long hand of Genova on Pisa and Livorno which through the Visconti did not allow any access to the sea. The conquest of Pisa finally occurred in those years which was the major objective of Florentine politics. The crusade to seize the city in 1406 represented a triumph of the Oligarchico party consisting of Maso delgi Albizzi, Gino Capponi, Rinaldo Gianfigliazzi and Niccolò da Uzzano but the undertaking cost enormous financial resources that were valued at around a million and a half Fiorini. The war activity and the various agreements with foreign politicians together with the necessity to absorb and control the vast territory of Pisa and the surrounding areas brought Florentine public debts to the gross sum of beyond three million Fiorini, which meant with interest, a cost to the Treasury of an amount equalling about 200,000 Fiorini a year. To complete the strategic map that would allow effective development of the naval politics of the Republic, once Pisa was taken, it was necessary to resolve the problem of Livorno. This occasion presented itself in 1421 when Filippo Maria Visconti sent threats to Genova; the Florentines since 1421 had on offer a sum of 60,000 Fiorini for the Labronico sea port and were finally able to close a deal with the Genoans paying out 100,000 Fiorini. The purchase of Livorno allowed the Florentines to equip themselves with their own fleet of ships both for commercial and military use and to increase naval relationships with other Mediterranean nations. For this precise reason a Naval Magistrates Consul was established with offices both in Florence and Pisa. They controlled the running of the dockyards and economic and commercial transactions penetrating the Florentine “galley market”. April 1422 saw the inauguration of an adorned galley on it’s first journey to the Orient that was preceded by a solemn procession in the city of Pisa. In July of the same year, along with the ambassadors of the “Signoria” of the Sultan’s court, Carlo di Francesco Federighi and Felice di Michele Brancacci, also the Proconsul of the Florentines in Levante, Ugolino di Vieri Rondinelli boarded one of the ships. Ceramics in the City of Merchants and “Civil Humanity” – The Montelupo Production in Florence What were the dynamics during the transition between the ancient civilisation under the sign of a Republic governed by the Arti, and Medici family rule. We can only call this period an incarnation of “civil humanity” with the development of arts and sciences and a better way of life, a seeming miracle that equalled Pericle’s Athens and Caesar’s Rome, civil life. It wasn’t by chance that this era saw the revolt against gothic styles moving towards new artistic expressions represented by man and his history, the ideals of which we can see carved on the Baptistery doors. This journey took off at a fast pace during the first forty years of the XV, century moving towards a new figurative expression and leaving behind Ghiberti’s gothic realizations, allowing space for Brunelleschi’s classic expression and movement MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Tra l’ultimo quarto del Trecento e i primi trent’anni del secolo successivo, infatti, Firenze attraversò forse il momento più delicato e decisivo della propria storia, da cui ne uscì trasformata da città medievale, che signoreggiava un limitato territorio, formato dal proprio Contado – al quale aveva saputo assommare sino allora Prato e Pistoia – a Dominante di uno stato regionale. Questo cinquantennio cruciale ebbe come presupposto storico la sconfitta dei Ciompi, grazie alla quale fu possibile avviare la reazione politica contro le istanze di allargamento della base sociale della città, delle quali si erano fatti promotori i ceti del pre-proletariato urbano, in gran parte inquadrati nei più bassi ranghi degli addetti alla produzione tessile. La restrizione del numero delle arti e della rappresentanza artigiana, iniziata nel gennaio del 1382, rappresentò, in effetti, solo l’avvio di quella chiusura oligarchica della vita politica fiorentina che avrebbe condotto nel 1434, dopo una serie di drammatici rivolgimenti e di lotte interne al patriziato, alla “signoria di fatto” di Cosimo de’ Medici. Anche l’espansione territoriale di Firenze, avviata di nuovo con la conquista di Arezzo nel 1384, pur se condotta talvolta con titubanza, non avrebbe trovato più tregua. Le grandi famiglie della “nobiltà di denaro”, che spesso avevano avuto un ruolo essenziale nel sostituire – nella città e nel Contado – gli antichi rappresentanti La ceramica nella città dei mercanti e dell’“Umanesimo civile”: Montelupo “fabbrica” di Firenze. Quali fossero le energie di Firenze, nella fase di trapasso tra la sua storia “antica”, giocata sotto il segno della Repubblica governata dalle Arti, al predominio – che di fatto fu quasi una signoria – dei Medici, lo possiamo constatare dalla straordinaria stagione del cosiddetto “umanesimo civile”, che s’incarnò in una parallela fioritura delle arti e della scienza, ed ebbe come riferimento privilegiato, in una Firenze che sembrava rinnovare il miracolo dell’Atene di Pericle e della Roma dei Cesari, il vivere civile. Non per caso fu questa l’epoca che qui vide trascolorare il gotico verso una nuova espressione artistica, saldamente rivolta alla rappresentazione dell’uomo e della sua storia, come idealmente la troviamo tracciata nella famosa vicenda delle porte del Battistero. Il percorso espressivo tracciato nei primi quarant’anni del XV secolo da questa impresa, assurge infatti a paradigma dell’evolvere della cultura fiorentina verso il nuovo linguaggio figurativo: essa muove dalle realizzazioni “gotiche” del Ghiberti, per approdare alla costruzione dello spazio “classico” del Brunelleschi, che si libera dei con- fini “decorativi”, per espandersi in un’inusitata profondità prospettica di paesaggi e ambientazioni, assimilando dentro di sé lo spettatore, concepito ormai come parte medesima della vicenda narrata. Un’analisi attenta può facilmente scoprire nelle realizzazioni pittoriche su smalto che si datano già all’inizio degli anni Trenta del XV secolo la medesima propensione al realismo che si avverte nelle “arti maggiori”, anche se è facile avvertire come una tale tendenza, ben indicata dalla soda volumetria delle figure, sia in parte vanificata dall’assenza dell’ultima conquista: lo spazio, appunto. Solo sul finire degli anni Settanta, come vedremo, i pittori ceramisti matureranno appieno la consapevolezza che il senso di realtà della percezione può derivare sì dal realismo intrinseco alle loro raffigurazioni, ma non può prescindere dall’ambientazione delle medesime in uno spazio che rispetti le elementari regole della natura, quali la prospettiva e l’assenza negli sfondi di segni ed elementi grafici astratti, dal mero significato decorativo. Per giungere a tanto, i ceramisti dovevano però abbandonare le fonti alle quali continuavano ad abbeverarsi, esemplando il loro lavoro sulla maiolica proveniente dal Levante spagnolo: al disotto dello stile gotico-mudejar di questi esemplari spuntava infatti la grande tradizione decorativa (e non figurativa) dell’Islam. Le spinte per il superamento, anche nelle arti decorative, di questo stato di fatto, però, non mancavano. Le molte eccellenze che la Città gigliata poteva vantare in quegli anni non passarono infatti senza segnare, in una società che attribuiva un singolarissimo prestigio agli artefici in grado di esprimere con le loro opere la nuova tensione culturale, l’intero comparto delle arti applicate e, con esso, anche quello della produzione ceramica. E, si badi bene, questa fase di trasformazione decisiva del modo di concepire la pittura su ceramica, parte non secondaria di questo comparto, non si pone semplicemente (si fa per dire) in parallelo con una tale, radicale rivoluzione delle arti: essa, infatti, avviene in una Firenze che totalmente si rinnova, modellandosi su di un inedito progetto del “vivere civile”. Non è tanto ai palazzi dell’aristocrazia cittadina – un fenomeno che attraverserà gran parte del XV secolo, e che prenderà l’avvio dalla costruzione della magione medicea di via Larga (1444-62) – che occorre pensare, quando si tratta del “vivere civile” fiorentino, ma piuttosto alle modificazioni del tessuto urbano, segnato da nuove strade, piazze ed ospedali, in una città che è tutta un cantiere d’opere pubbliche. Un’operazione come quella che portò alla costruzione dell’ospedale degli Innocenti (1419-45) e della piazza prospiciente all’Annunziata è, ad esempio, sintomo eloquente di un nuovo modo di concepire l’azione della città nei confronti dell’assistenza e della salute dei cittadini. Mentre, infatti, i secoli precedenti avevano assimilato l’ospedale a luogo di rifugio per malati e bisognosi, adesso il pubblico nosocomio si trasforma nell’avamposto più avanzato contro la malattia, laddove, cioè, non si assiste passivamente al decorso del male, ma lo si combatte con strumenti sempre più adeguati. È altamente significativo che la città impegni in questa operazione i suoi artisti migliori, assottigliando così, come si diceva, in maniera inusitata ogni barriera frapposta tra l’arte ed il vivere civile. Non per caso è allora che nascono in Firenze le prime farmacie ospedaliere, pensate e progettate – ovviamente secondo il sapere dell’epoca – per supportare la nuova missione curativa degli ospedali. Ma qui l’esempio luminoso di Santa Maria Nuova, che rappresenterà per oltre un secolo il faro dell’organizzazione sanitaria europea, si confonde significativamente con l’opera di un ceramista, il baccheretano Giunta di Tugio, che per molti aspetti può essere visto, tra i vasai, come l’eroe di quest’epoca di cambiamento. I vasi farmaceutici “a zaffera” prodotti nella sua fornace di Firenze nel 1431 costituirono per la prima volta un complesso omogeneo, pensato in maniera ordinata e specifica per una farmacia che si sarebbe sviluppata in maniera impressionante nel corso dei decenni successivi. Come gli scultori, i pittori e gli architetti davano a Firenze il primato nelle “arti maggiori”, così Giunta fece per la spezieria 89 88 beyond decorative confines, expansion in a profound prospective of landscape and ambiance. A careful analysis can easily uncover practical evidence that pictorial designs on enamels became a major art that were already used in 1530 and it was inevitable that this would become the tendency. As we will see these methods carried on right up until the 1970’s confirming that the potters together with their knowledge, background, sense of perception for reality and respect for natural factors preferred to use decorative designs rather than abstract graphics. Indeed they abandoned the origins of their work, the gothicmudejar style of Islamic figures and modelled their ideas on Majolica deriving from the Spanish Levante developing the great tradition of a decorative style. The excellence of their ceramics did not pass unnoticed and societal interest and demand encouraged the potters to develop their skills and to express new cultural trends. The entire area of the arts including ceramic production was in a decisive phase of transformation and way of thinking. The scenes painted on the ceramics depicted the new era in Florence modelling itself on an unedited project of “Civil Life”. This phenomenon which lasted the most part of the XV century saw not only the construction of palaces for the wealthy aristocratic families but urban modifications that became building sites of public works such as the Medicea dwellings in Via Larga (constructed between 1444 – 62), new roads, squares and hospitals, including the hospital Degli Innocenti (1419 – 45) and the square it overlooked, all’Annunziata. These actions reflected new ways of thinking, society understanding the need to assist and take care of it’s citizens. During the previous century hospitals were places for the sick and needy. Now they were undergoing a transformation into places of advanced research and prevention against illness. It is greatly significant that the designers and craftsmen involved in new constructions in this sector worked unusually hard to refine their skills and reduce the barriers that existed between the arts and civil life. It was not by chance that the first Hospital pharmacy was thought of and designed in Florence to assist with curing the patients. Here we have the example of Santa Maria Nuova which for over a century represented a European sanitary institution and which displayed the significant work of the master potter, Giunta di Tugio who became for other potters a hero of this era of change. The pharmaceutical vases “a zaffera” decorated with blue enamel produced in his furnaces in Florence in 1431 constituted for the first time a homogonous complex. It was an idea carefully thought out specifically for the pharmacy and this trend followed for the next 10 years. As the sculptors, painters and architects made their contributions to the major arts, likewise Giunta did the same for the apothecary shops in the large public hospitals creating impressive “zaffera” paintings on the vases, the first of their kind. The workers of Santa Maria Nuova admired the talents and the ability of this artist who was able to express the kind of new decorative ideas that always enriched the city and on occasion wanted to donate gold florins in appreciation of his work. Thus not by chance an artist like Luca della Robbia famous for inventing round raised enamel designs seen for the first time in 1441 – 43, was employed to decorate the shrine “di Peretola “ placed in the hospital near the vases that Giunta had made ten years previously. Art, science, philology and literary activities conspired together in those years as civil life progressed, to mark the beginning of the Renaissance period that as we know represented a closed circle of learning and development of skills that left behind the simple origins of everyday life. These advancements, the artistic development of the city, were frankly surprising in a period that was touched by war, financial difficulties and shortages of food and sanitary supplies, However, the innovative production of ceramics in Montelupo and the evident change of style from that of the Medieval period, couldn’t be ignored. This little walled territory which developed from a castle and it’s fortifications was built in 1204 by the Florentines in an ideal situation bordering Pistoia and after the conquest of Pisa, Montelupo, found itself in a dominant and important position. Increase in production transformed the small workshops into larger businesses concentrating on exporting their finished products via waterways, first from Porto Pisano and then from Livorno which is still today the main port. In fact the Florentines after conquering Pisa, which already had a successful ceramics industry, did their utmost to stop the latter trading, which they managed to do and the Florentines in 1440 took over as the main manufacturers of ceramics. During the XV century there was a notable increase in transport along the river Arno and because of this the area around Ponte a Signa became a central point of traffic thus increasing the number of families working in river based activities. River transport helped to reduce the costs of transporting goods to the larger ports of Pisa and Livorno. Once arrived, the Majolica ceramics from Montelupo were stored until larger naval ships from the commercial companies of different nationalities loaded the merchandise aboard to head via Sicily to the Oriental ports of the Mediterranean. Between 1406 and 1422 Florence dominated this commercial market and the MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE di Michele Brancacci, salì sulle imbarcazioni anche il “proconsolo de’ Fiorentini in Levante”, Ugolino di Vieri Rondinelli. MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE della città, così marcato nel tessuto urbano e nelle realizzazioni artistiche delle quali si dota, abbia potuto avviarsi in un periodo tutto sommato così difficile – denso come fu di guerre, difficoltà finanziarie, crisi annonarie e sanitarie – non può sfuggirci, nel “piccolo mondo” rappresentato dalla produzione ceramica, l’evidente sintonia tra la rottura dei precedenti canoni produttivi “medievali” e lo sviluppo tumultuoso di Montelupo. La crescita produttiva di questa piccola “terra murata”, nata quasi per gemmazione dal castello creato nel 1204 dai fiorentini per meglio munire i confini col Pistoiese, poté infatti attuarsi proprio grazie al nuovo indirizzo assunto dalla storia della sua Dominante; fu in particolare la conquista di Pisa a porre Montelupo nelle condizioni ideali per trasformare le proprie botteghe ceramiche in imprese largamente indirizzate verso l’esportazione extraregionale. Alla facilità con la quale era adesso possibile trasportare il prodotto finito, sfruttando la via d’acqua, in Porto Pisano (e da qui a Livorno), si unì in quegli anni anche la feroce determinazione dei fiorentini nel deprimere economicamente la città conquistata: Pisa, che sino ad allora aveva conosciuto una vivace attività ceramistica, interruppe infatti la produzione della maiolica, e fu costretta a gettarsi dopo qualche tempo – nel 1440 circa – in nuova avventura, che evidentemente non disturbava gli interessi “fiorenti- ni”: la fabbricazione di ceramiche ingobbiate. Il più facile accesso al mare non mancò di indurre nel corso del XV secolo una cospicua crescita del trasporto fluviale; fu così che nell’area del Medio Valdarno e nella zona del Ponte a Signa, al cui scalo facevano capo i traffici indirizzati nel Pistoiese, si moltiplicò il numero delle famiglie dedite al mestiere del barcaiolo, detto poi del “navicellaio”. Era facile per i ceramisti montelupini e per le compagnie commerciali, che allora iniziarono a formarsi tra vasai e mercanti, condurre la loro merce in riva al fiume, ove la flottiglia delle “scafe” – e successivamente dei “navicelli”- poteva facilmente imbarcarla, trasportandola a costi assai ridotti sino ai fondaci pisani e livornesi. Qui le maioliche montelupine potevano sostare in attesa di essere nuovamente imbarcate come complemento del carico di navi di ogni bandiera: esse battevano l’antichissima rotta tirrenica che, dai porti del Levante spagnolo, conduceva sino alla Sicilia e, da qui si spingeva sino all’Oriente mediterraneo. Su questi traffici, del resto, Firenze era venuta ad affacciarsi prepotentemente tra il 1406 ed il 1422, e ad essi l’oligarchia mercantile che ne dominava le sorti politiche guardava con crescente interesse. Soprattutto per questi aspetti fondamentali – apertura degli scali marittimi, depressione della concorrente produzione pisana e successivo impiego del capitale mercantile – può dirsi che Montelupo sia dive- nuta rapidamente, nel corso della prima metà del Quattrocento, il centro di produzione privilegiato della Dominante. Con la generale ripresa economica della seconda metà del XV secolo l’impiego dei capitali fiorentini nelle imprese ceramiche montelupine viene ad emergere nella stessa documentazione scritta, anche se le prime società tra vasai, sintomo di un’evoluzione delle attività che ormai supera il raggio d’azione della semplice bottega, sono documentate nel centro valdarnese già nel 1410. Il sistema che viene a stabilirsi in quegli anni è alimentato in maniera continua da forme di committenza diretta alle fornaci valdarnesi, finalizzate al consumo familiare e, in più grande stile, ad alimentare il commercio a distanza. Esso può contare su di un’organizzazione dei trasporti indipendente, gestita da gruppi di “navicellai”, alla quale è facile accedere, e che serve ad esitare il prodotto finito, ma anche a garantire un più facile approvvigionamento dall’esterno delle materie prime. La crescita esponenziale dell’attività ceramistica in Montelupo non può che indurre all’inurbamento in quella “terra murata” di alcune tra le più importanti dinastie di ceramisti che operavano nei suoi dintorni, ed in particolare di quelli attivi in Bacchereto, come i Calabranci, spingendo verso un declino sempre più accentuato il glorioso centro ceramico del Montalbano, che verrà a cessare la propria attività nel corso del secolo successivo. 91 90 so called politicians looked on with increasing interest. Fundamentally due to the opening of these seaports and the decrease of ceramic production by their competitors in Pisa, Montelupo became of utmost importance in this field. One can say that during the first half of the XV century Montelupo became a predominant centre and contributed to the revival of the economic situation in Florence in the second half of the XV century. The success of Montelupo was documented in written evidence in 1410 where it was referred to as one of the top ceramic industries that went beyond just simple pot making. The market had moved on from producing simple objects used in the home to engaging in a high level of international export. This success was supported by an independent transport network managed by a small group of boatmen who without hesitation guaranteed the end product being supplied to the various clients. The main reason for growth was due to the important dynasty of potters that had developed within the walls of Montelupo and in particular those in Bacchereto and Calabraria pushing into decline the once glorious centre in Montalbano, which consequently saw its businesses close during the course of the following century. An insight into the business going on during this period of Florentine commercial growth and the ceramics industry of Montelupo can be read in a notary’s deed of September 1490 between Francesco Antinori and 23 potters from Montelupo, where Antinori undertook to buy for 3 years at agreed prices 3 different types of their entire collections. An enormity that clearly tells us what direction the ceramics industry was taking at the end of the XV century. The transport systems also saw an impressive expansion and not only towards the ports within the Mediterranean basin, the exportation of Florentine merchandise reached as far as North Europe and the most important ports of this era in Holland and England. In fact at the end of the XVI century it emerged that not only were these objects of great historical value but at least 90% of all exportation went to ports such as London, Southampton and Amsterdam. It wasn’t by chance that in 1492 after the death of Lorenzo Il Magnifico, a large personal collection of ceramic vases, plates and dishes made in Montelupo and other Majolica pieces that Francesco Antinori had donated to him were recorded. In the middle of the XV century, the beginning of the Renaissance period saw the quality of ceramic production reach it’s peak as the potters pushed on relentlessly perfecting their work. From 1380 – 1440 The development and similarity of a new language. We have said that from 1380 a new idea evolved with the decoration of “blue Majolica” using off white and cobalt blue to which lead was added to increase the pigment on the enamel surfaces and allow easier application. The lead addition which has not yet been mentioned was to correct the heavier tones of the cobalt blue making a more turquoise colour like the colour of the deep blue sea. The Montelupo “Zaffera” and “Zaffera 3” decoration that gives a green-copper effect for figures reflected the personality of some very talented artists and became a style used that was used in other forms of art like miniatures. The golden era of international gothic painting on enamel depicted an era of a tendency towards more formal designs and a richness of images and it involved individual interpretations by the various artists as opposed to standard designs as used in the past. This new development did not completely abandon the original ideas of Majolica – copper ceramics - but introduced a new style “3 colours archaic majolica” with a new orange or yellow pigment and a catalogue of more formal figures. It was however the vase painting on the so called “Damaschino” that was most influenced by what was happening in the Mediterranean basin thanks to the success of Majolica in the Spanish Levante. This type of cermanic however was not a simple copy of the fortunate Iberian type and for this reason was not as easy to copy so we prefer not to use the XVIII century terminology “Italomoresca”; in fact it is referred to as the “Hispano-Moresco” type. Looking well enough though, “Damaschino” seems to be very much influenced by the shiny metals of the Orient, in particular from the Anatolian-Syrian area, from which the syntactic structure of its decorations seem to derive whilst from the Valenzian production, besides some central figures, the surrounding motifs were taken. Flaunting the suggestions taken from the vast Spanish repertoire, the “Damaschino” as named by the potters that produced them, were built on a formal structure with a wider and deeper “Islamic” mould which could also be found in certain “Zaffera” examples. The figures seemed to be deprived of space, so much so that each one realized was closed by a line that seemed to be pulling at it from close range drawing the surrounding figures into its frame. Not having their own environment, the figures lost volume and seemed to be cut out in a flat manner on the enamelled surface. The estranged effect was accentuated by the background signs, spirals and MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE del grande ospedale cittadino, per la quale elaborò in maniera straordinaria il linguaggio espressivo della “zaffera”, creando una dotazione vascolare mai vista prima. Il fiorino d’oro che gli operai di Santa Maria Nuova, ammirati di tanto splendore, vollero donare a Giunta, sottolinea quanto fosse apprezzato l’ingegno artistico capace di esprimere nuovi e più elevati contenuti estetici, in una realizzazione destinata ad arricchire la città. Non per caso, dunque, un artista come Luca della Robbia, lungi dall’aver inventato lo smalto stannifero – come sostenevano, sulla scorta del Vasari, gli antichi autori – verrà sviluppando da par suo la tecnica della maiolica sulle figure a tutto tondo od in rilievo, cimentandosi in essa, per quanto ne sappiamo, la prima volta nel 1441-43 col tabernacolo detto “di Peretola”, collocato proprio in santa Maria Nuova, non distante dai bei vasi che il meno noto Giunta aveva fabbricato oltre dieci anni innanzi. Arte, scienza, ma anche filologia ed attività letteraria, cospirano, insomma, in quegli anni verso il progresso del vivere civile, costruendo le basi di quel Rinascimento che rappresentò, semmai, una sorta di progressivo rinchiudersi della ristretta cerchia dei dotti, all’interno della quale le conquiste dello spirito vengono man mano a perdere il loro originario significato collettivo e “civile”. Se francamente stupisce che un tale sviluppo Ricostruzione grafica del porto fluviale di Montelupo nella seconda metà del XV secolo (disegno Ink-Link Firenze) Graphic reconstruction of the fluvial port of Montelupo in MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE 92 93 MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY the second half of VX century ( Ink-Link, Firenze) Ricostruzione ideale di un porto marittimo con l’arrivo delle ceramiche di Montelupo nella seconda metà del XV secolo (disegno Ink-Link Firenze) MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE La conclusione storica di questo processo di coinvolgimento del capitale mercantile fiorentino nelle imprese ceramiche di Montelupo la si può leggere infine nell’atto notarile stipulato nel settembre del 1490 tra Francesco Antinori e ben 23 maestri vasai montelupini. Con esso l’Antinori si impegnava ad acquistare per tre anni, a prezzi concordati per tre tipologie distinte, l’intera produzione ceramica di coloro i quali erano intervenuti al rogito e dei loro congiunti: un’enormità che bene chiarisce quali siano stati, sul finire del XV secolo, i canali di diffusione della maiolica montelupina. Ai vettori mercantili fiorentini, dunque, si deve l’impressionante espandersi della produzione di Montelupo nell’intero bacino del Mediterraneo e lungo le rotte atlantiche che toccavano i più importanti scali dell’epoca: non per caso nel Nord Europa – ed in particolare nell’Inghilterra meridionale ed in Olanda – l’importazione della ceramica dall’Italia significò, sino alla fine del XVI secolo, prodotti montelupini, i quali emergono dai contesti archeologici di città come Londra, Southampton ed Amsterdam in una proporzione che oltrepassa il 90% del totale. Non per caso, dunque, nel 1492, dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, vennero censite dalla sua Guarda- 95 ceramics of Montelupo in the second half of XV century (InkLink, Firenze) dots which were so close to the figure they seemed to be touching it, pulling it nearer. An account exists of this method using a single artistic language based on cultural rules with religious references. In the Islamic world designs had a very decorative profile without any naturalistic elements. Christianity couldn’t do without them and art had a very classic style. Searching for aesthetic sensitivity and not figurative, the potters working on the Eastern mediterranean could assimilate their subjects, even those with realistic traits, into the category of decoration, placing them next to graphic signs or abstract elements of symbolic Valenza. To the oriental artist it did not seem unnatural to depict the image of a human with a series of circles inside. Not only the artist but also the buyer of this art realised the importance of this representation of design and in fact these circles were named the “eye of Allah” and that every man worthy of this name knew that everything created was full of God so God was in everything and animates every portion of the world: this was the most important message that art could transmit and it had to do so even if it infringed the natural rules of representation. MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY Graphic reconstruction of a sea port with the arrival of the Dal 1380 al 1440: l’assimilazione e lo sviluppo di un nuovo linguaggio Abbiamo detto che sin dal 1380 circa, procedendo ancora nella direzione innovativa già avviata con la “maiolica arcaica blu”, si era iniziato a decorare la maiolica – sempre più ottenuta da bistugio biancastro – con il blu di cobalto, al quale veniva aggiunto piombo per facilitare l’accrescimento del pigmento sulla superficie smaltata. L’aggiunta di piombo, come abbiamo poc’anzi accennato, serviva anche a correggere i toni troppo cupi del cobalto, portandolo ad assumere tonalità di un turchino intenso, che ricordano quelle del mare profondo. Nella produzione montelupina a “zaffera” e, soprattutto, a “zaffera tricolore” – versione che mantiene ancora la campitura in verde-ramina per le parti figurate – emerge con chiarezza la personalità di alcuni pittori di grande talento, la cui cultura figurativa mostra un’evidente contiguità con artefici che si esercitano in altri settori artistici, ed in particolare nella miniatura. Nel periodo d’oro del “gotico internazionale” anche la pittura su smalto, del resto, non può che mostrare una tendenza alla ricchezza dell’immagine, ed una conseguente propensione ad introdurre complicazioni formali in un repertorio che non è ancora standardizzato, e che perciò dipende per molti aspetti dalla sensibilità e dalle invenzioni dei singoli. Il prepotente emergere di queste novità non determinò però il completo abbandono della pittura in ramina e manganese che aveva accompagnato la nascita e la diffusione della maiolica in Italia: essa fu piuttosto “aggiornata” nel genere detto “maiolica arcaica tricolore”, introducendo in essa un nuovo pigmento (l’arancio od il giallo) e, nei migliori esemplari, un repertorio figurativo nel quale confluirono gran parte delle novità formali dell’epoca. È però con il cosiddetto “damaschino” che la pittura vascolare dell’area fiorentina si rapporta direttamente alle novità che vanno diffondendosi nel bacino del Mediterraneo, grazie alla grande fortuna commerciale che arride alla maiolica del Levante spagnolo. Questo genere ceramico, però, non si riduce ad una pedissequa imitazione delle più fortunate tipologie iberiche, ed è per questo che, ai fini di una sua sintetica designazione, preferiamo non utilizzare il termine otto- centesco di “italo-moresca”: in tal modo, infatti, si verrebbe a suggerire che esso sia sostanzialmente consistito nella versione italiana della maiolica di tipo “hispano-moresco”. A ben vedere, però, il “damaschino” mostra una forte assimilazione delle suggestioni veicolate in Occidente dai grandi lustri metallici orientali – in particolare di quelli provenienti dall’area anatolicosiriana – dai quali in effetti deriva l’ossatura “sintattica” della decorazione, mentre trae dalla produzione valenciana, oltre ad alcune tipologie di figurazioni centrali (ad es. le lettere gotiche), soprattutto i motivi di contorno. Pur sfoggiando le suggestioni tratte dal vasto repertorio spagnolo, il “damaschino”, come lo chiamavano i ceramisti, è dunque costruito su di una struttura formale di più larga e profonda matrice “islamica”, che non a caso si ritrova anche in certe “zaffere” coeve. In esso trova applicazione il concetto di una pittura priva di spazio, tanto che ogni figura realizzata, lungi dal poter campeggiare in un inquadramento di tipo naturalistico, viene serrata da una linea che la stringe da vicino, e ne ripassa così dall’esterno il contorno. Prive Nella pagina a fianco, carta geografica con i luoghi d’esportazione delle ceramiche di Montelupo nell’Europa preindustriale (disegno Ink-Link Firenze) di una propria ambientazione, queste figure perdono di volume, e sembrano piattamente ritagliate sulla superficie smaltata. L’effetto di straniamento che tutto ciò determina viene poi accentuato dal tappeto di segni (spirali, puntinature) che, collocati attorno alle figurazioni medesime, sin quasi a toccarle, le stringono da vicino; qualche piccolo spazio, inoltre, si apre per ospitare singolari cerchietti, i quali vengono sì disseminati nei contorni, ma trovano posto persino nel corpo delle figurazioni principali. Una lettura appena scaltrita di questo singolare linguaggio pittorico ci riconduce facilmente ai canoni culturali, densi di riferimenti religiosi, dell’Islam. Nel mondo islamico, infatti, si preferisce concepire la figura sotto il profilo decorativo, senza ricercare in essa quell’effetto di rappresentazione naturalistica, che invece il Cristianesimo non poté far a meno di assimilare dall’arte classica. Sulla scia di una sensibilità estetica sostanzialmente non figurativa, i vasai che operavano nell’Oriente mediterraneo potevano così assimilare i loro soggetti, anche quelli caratterizzati da uno spiccato realismo, nella categoria della decorazione, accostandoli facilmente a segni grafici o ad elementi astratti dalla mera valenza simbolica. Al pittore orientale non sembrava perciò innaturale aprire il corpo di una figura umana per realizzare al suo interno una serie di cerchietti “a risparmio”: questo, infatti – sia a lui che agli 97 96 Facing page, geographical map of the export areas of the ceramics of Montelupo in the pre industrial Europe (Ink-Link, Firenze) Artists who worked in Christian Europe, even those animated by religious fervour or even pantheistic concepts would never have negated the importance of space in the favour of abstract decorations or calligraphy. They were even less inclined to negate the formal integrity of a figure with the aim of producing religious symbols. It was the Spanish production between 1350 – 1400 that influenced the Italian potters, especially those from the Tirrenian area. Note however that the formal syntax characterised by a figurative space closed in by a lined frame became marginal. As we have mentioned this design was a decisive feature in Mesopotamian, Syrian and Egyptian products, already in production in the XI century. Not by chance the symbolic “eye of Allah” was found in Majolica products made in central Italy, near Siena and Orvieto in the 12 – 1300’s. We can conclude that the real invasion of Hispanic highly polished enamel was already a prominent feature and of great interest to manufacturers and testimony to this method were the Florentine families’ coats of arms during the XV century. It became a huge phenomenon and imitation of shape and decoration increased production especially for products in the pharmacies, for example the Tuscan tree of life designed onto wares characterised by short sides and a long neck that was later abandoned during the XVII century. Besides articles used for tableware, the Florentine potters introduced in large quantities a bowl with a lip opening internally and made similar designs for the filogica profession with a highly polished exterior similar to the Valenzana dish. On a larger scale they produced all different types of wares from complicated designs such as the tree of life to gothic letters “od in cufico” with a decorative border of either parsley, ivy or vine leaves. The success of this Spanish decoration on ceramics produced in Tuscany, especially in Florence began around 1360 and reached a peak at the beginning of the XV century and it also included the Islamic antique decorative style and this artistic phenomenon developed by our potters was of fundamental importance in the development and history of Italian Majolica. The use of the surrounding space around the main figure and other Iberian prototypes that imitated the antique highly polished style of the southern Mediterranean pushed our potters to adopt these methods rather than the original archaic MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE roba rinfrescatoi, alberelli, piattelli e scodelle “di terra lavorata a Montelupo, bela” ed altre maioliche “donò Francesco Antinori per la caccia”. Dopo che in Firenze e nel suo territorio la produzione della maiolica aveva già raggiunto, verso la metà del XV secolo, un eccellente grado di qualità, spettò dunque agli artefici valdarnesi spingerla ancora avanti, sino a tagliare il traguardo del Rinascimento. MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE poc’anzi accennato, è piuttosto nei lustri mesopotamici, siriani od egiziani prodotti già in epoca assai più antica (dall’XI secolo), che la struttura formale della “figura contornata” trova la sua più ampia e coerente esemplificazione. Non per caso, del resto, la simbologia dell’occhio di Allah ha riscontri anche nelle maioliche arcaiche prodotte nell’Italia centro-settentrionale e centrale (Siena, Orvieto) tra Due e Trecento. Da tutto ciò dobbiamo dedurre come la vera e propria invasione dei lustri ispanici – è ormai cospicuo il numero dei manufatti che, mostrando stemmi di famiglie fiorentine, testimoniano di ordinazioni dirette – la quale interessa soprattutto il mercato toscano, susciti nel corso del XV secolo un vasto fenomeno d’imitazione di forme e decorazioni. Nella produzione destinata alle spezierie, ad esempio, l’alberello toscano si distingue per assumere assai precocemente (inizi XV secolo) una morfologia spagnoleggiante, caratterizzata da pareti decisamente carenate e da colletti sensibilmente allungati, che verrà abbandonata soltanto nel XVII secolo. Tra le morfe destinate alla mensa, inoltre, i vasai fiorentini introdurranno – producendone in straordinaria quantità – un caratteristico scodellino con il bordo della parete tagliato a confluire verso l’interno, realizzando così una copia filologica nella citazione degli inserti “a lustro” collocati sull’esterno di una coeva ciotola valenzana. Ancor più vasto è ovviamente il repertorio dei motivi decorativi iberici ai quali i vasai fiorentini si accostano, traendone senza ritegno suggestioni di ogni tipo: dai soggetti complessi, quali l’albero della vita, alle lettere in gotico od in cufico, assimilate a decorazione, per non parlare ovviamente del vasto repertorio dei contorni “a foglia di prezzemolo”, d’edera o di vite stilizzate. Il trionfo che il lustro spagnolo realizza in Toscana – ed in particolare nell’area fiorentina – ad iniziare dal 1360 circa – e che diverrà assoluto all’inizio del XV secolo – porterà però con sé anche la moda dello spazio “decorativo” di antica tradizione islamica. Il fenomeno della nuova sensibilità pittorica sviluppata dai ceramisti nostrani è di fondamentale importanza per comprendere un capitolo centrale nella storia della maiolica italiana: oltre all’inserimento nello “spazio contornato”, la frequentazione dei prototipi iberici (e, con essi, la ripresa “archeologica” dell’imitazione dei più antichi lustri mediterranei) alimenta nei vasai nostrani una visione schiettamente decorativa, che li spinge verso un horror vacui assai più marcato di quanto attestato nella maiolica arcaica. Il linguaggio della pittura in ramina e manganese, col suo naturalismo fantastico, si fa così improv- Alberello di Montelupo con decoro “pseudocufico” (1440-60) 99 98 Majolica. The use of copper and manganese with its fantastic naturalistic effect was no longer wanted. The representation of figures which were then repeated all over the outside of the jugs and inside the bowls was a refreshing change to the spirals, flowers and leaves and gave a sense of balance and a geometric element giving a more homogeneous form. For the potters of Montelupo and the west, this style was not always suitable but they remained more than impressed by the Spanish Majolica, the new gold that arrived from the west but tended to avoid making un original copies so much so that, over a period of time, they left behind altogether standard formats and went on to abandon the over decoration that had influenced more than a generation of painters leading to what would become known as the Renaissance style From 1440 to 1520: The Renaissance period and the height of enamel production in Montelupo During the first phase of “Damaschino” (1400-1440) the Montelupo production together with the manufacture of Majolica in Pesaro and Faenza, used a rigorous monochromatic shade of light blue where the blue cobalt when diluted seemed to be shelled under the painter’s brushes to permit the white cover film to show through. Even though there was a strong Islamic decorative art influence, the artists who were dedicated to “Damaschino” did not renounce their style, putting not only figures but all types of imaginative images including those depicting human life. They also passed over the shaded areas several times creating more volume, something in contrast to the styles lacking spaces and naturalistic backgrounds. Just before the second half of the century the colours were enriched with a pale green copper and lemony yellow manganese called “Tavolozza Fredda” by Ballardini and mixed together with the blue cobalt producing at that time a singular indefinite border effect. Painting on enamel took on an international gothic look and artefacts were decorated with horses, falcons, richly dressed gentry exchanging romantic gestures in parks and virtual symbolism that became a famous refined design for packs of playing cards. In the 1470’s “Damaschino” went through a moment of crisis which announced the next advance. Figures expressed an extreme realism and found a new superior equilibrium adding value to the pieces. These figures stood out on the front of the vases or in the centre of the open forms, and were separated by an artificial form – often a stylish garland that seemed almost as an accessory. The hierarchy established a new syntax of decoration, opening new horizons for research by the Italian potters. From one side there was a main figure with a principle subject Montelupo spice holder with “pseudocufico” decor (1440-60) which was developed towards the middle of the 1400’s and from another side there was the use of more decorative borders and frames surrounding the main subject with an emphasis on time. This became a standard type. The Montelupo and Florentine potters went on to assimilate the idea that not only the figure but also the surrounding space contributed to the realism of the pictorial expression. If the influence of the Spanish Moresca didn’t cease to feed their imagination, even up to the Xv century, it was only in the case of singular decorative elements (a leaf of ivy or parsley) which were sometimes used by local producers but not in the more formal styles like the “Damaschino” of the Renaissance period. With the 1480’s the Majolica was developed using this new expression which was presented as a mature conquest of artistic realism and the polychrome process that followed continued for the next 20 year period. Between 1480 and 1510, Montelupo under the influence of commercial growth, reached it’s maximum height of ceramic productivity. This included a production using the method with “three fires”, characterised by a red pigment that hadn’t existed before. The raised deep blood red shiny lac- MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY visamente desueto. Le rappresentazioni figurative che trovavano sfogo sul corpo dei boccali e nei fondi di ciotole e rinfrescatoi, bilanciandosi nel geometrismo elementare, ma comunque rigoroso, delle inquartature, vengono ora abbandonate, e lasciano posto ad un infinito iterare di segni spiralati, di arabeschi, di minuscoli richiami a foglie e fiori che si distendono come un tappeto dai nodi infiniti attorno a figure che appaiono ritagliate sullo sfondo, e mostrano, come si diceva, un valore formale omogeneo a quello dei contorni. Ma tutto ciò non era perfettamente confacente alla sensibilità del ceramista montelupino (ed occidentale in genere): egli restava sì abbagliato dallo splendore delle maioliche di Spagna, da questo nuovo oro che veniva d’Occidente, ma tendeva a discostarsi dalla loro pedissequa imitazione quel tanto che, col trascorrere del tempo, l’avrebbe poi portato a superarne il magistero formale. La strada che occorrerà percorrere per abbandonare quella lezione estetica iperdecorativa, penetrata così profondamente nelle coscienze di più d’una generazione di pittori, con nuovi canoni della rappresentazione realistica, sarà sostanzialmente quella che condurrà all’affermazione dello stile rinascimentale. MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE acquirenti del suo lavoro – ricordava un’idea importante, la quale poteva benissimo essere rappresentata, senza far precipitare l’equilibrio formale della pittura. Il cerchietto richiamava infatti l’ “occhio di Allah”, ed ogni uomo degno di questo nome sapeva che tutto il creato era pieno di Dio, poiché la Divinità sta in tutte le cose ed anima ogni porzione del mondo: questo, anzi, era il concetto più importante che l’arte poteva trasmettere, ed essa doveva perciò farlo anche a costo di infrangere il canone naturalistico della rappresentazione, che, d’altra parte, in quelle latitudini non era avvertito come valore fondante. L’artista che operava nell’Europa cristiana, per quanto animato da un genuino fervore religioso o, addirittura, da concezioni panteistiche, mai si sarebbe spinto di sua iniziativa – non rifacendosi ad un modello da imitare – a negare l’importanza dello spazio per piegarlo verso forme di decorazione astratta e calligrafica, ed ancor meno avrebbe inteso negare l’integrità formale di una figura, per crivellarla con una qualsivoglia simbologia religiosa. Se ci volgiamo alla produzione spagnola databile al periodo 1350-1400, che direttamente influenza i vasai italiani – ed in particolare quelli che operano nei centri dell’area tirrenica – notiamo però come la sintassi formale caratterizzata dallo spazio figurativo racchiuso entro la linea di contorno abbia in realtà rivestito in essa un ruolo decisamente marginale. Come abbiamo MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE e gli artefici si spingono così a rappresentare cavalli e falconieri riccamente abbigliati, giovani signori che si scambiano effusioni amorose nei giardini di delizia, e dotte simbologie di virtù, rese popolari dalle raffinate carte da gioco dell’epoca. Negli anni Settanta il “damaschino” va però incontro ad un momento di crisi che ne annunzia l’ormai prossimo superamento. Le figure, infatti, si fanno d’un estremo realismo, e la rappresentazione trova finalmente un nuovo, superiore equilibrio, mediante l’attribuzione di valori e funzioni chiaramente differenziate ai diversi soggetti che si realizzano. Le figure (ma anche gli stemmi, e gli elementi simbolici) campeggiano ora nella faccia a vista dei boccali od al centro delle forme vascolari aperte, e sono separati mediante un artificio formale – spesso una ghirlanda stilizzata – dalle parti accessorie. La gerarchia che, stabilendo una nuova sintassi decorativa, va così affermandosi, dischiuderà nuovi orizzonti alla ricerca formale dei ceramisti italiani: mentre da un lato si svilupperà conseguentemente la tendenza alla rappresentazione pittorica e realistica dei soggetti principali, già in via d’incipiente affermazione verso la metà del Quattrocento, dall’altro si cercheranno motivi di contorno sempre più adeguati ad “incorniciare” queste parti figurate, procedendo nel contempo alla loro sempre più accentuata standardizzazione tipologica. Varcando questo traguardo, dunque, i ceramisti montelupini (e “fiorentini” in genere) assimileranno l’idea che non soltanto la figura, ma anche lo spazio contribuisce al realismo dell’espressione pittorica. Se, dunque, l’influenza della Spagna moresca non cessa di alimentare la loro fantasia neppure alla fine del XV secolo, essa ormai riguarda l’assimilazione di singoli decori (la foglia d’edera, quella del prezzemolo), che saranno riprodotti a lungo dai pittori nostrani, ma non più all’interno di un linguaggio formale (quello del “damaschino”) definitivamente superato dalla diffusione della nuova sintassi decorativa rinascimentale. È con gli anni Ottanta del Quattrocento che la maiolica sviluppa definitivamente questo nuovo linguaggio, il quale si presenta come la conquista più matura del realismo pittorico e della policromia che verrà affinandosi in maniera straordinaria nel corso del successivo ventennio: fu d’altronde tra il 1480 ed il 1510 che Montelupo, sotto la spinta del capitale mercantile fiorentino, toccò il vertice massimo della sua attività ceramistica, esprimendo anche una produzione “a terzo fuoco” caratterizzata da un pigmento rosso che non ha eguali – ove si eccettui la fornace di Cafaggiolo, avviata, come si sa, da montelupini – in Italia. Si tratta con ogni probabilità di un colore ottenuto attraverso l’impiego della medesima materia prima che consentiva ai vasai di Iznik (l’antica Nicea, in Turchia) di realizzare campiture di un rosso a rilievo, laccato e sanguigno, dalla straordinaria brillantezza. Furono probabilmente le stesse compagnie fiorentine che da qualche tempo si erano volte alla commercializzazione delle maioliche montelupine a far affluire piccole quantità – essa veniva impiegata infatti soltanto in ripassi, lumeggiature e porzioni di stemmi – di questa preziosa materia prima alle fornaci valdarnesi. Il ruolo di traino economico e tecnologico del capitale mercantile nelle imprese ceramiche montelupine trova del resto conferma anche nella vicenda del lustro metallico. Dionigi Marmi, copiando nel 1637-39 alcuni manoscritti quattrocenteschi del luogo, riportò infatti anche la nota, apposta ad una “ricetta” per la fabbricazione del lustro, che essa era stata inviata “proprio di là (cioè da Maiorca, id est dalla Spagna) da un ricco mercante fiorentino”. Sappiamo, del resto, grazie ai ritrovamenti effettuati nel cosiddetto “pozzo dei lavatoi”, che già negli anni Settanta del XV secolo a Montelupo si fabbricavano maioliche a terzo fuoco con decori “a lustro” simili a quelli spagnoli. È evidente, però, che i montelupini, impegnati allora a far sbocciare una produzione policroma di grande riconoscibilità, alla quale stavano arridendo straordinarie fortune commerciali, non avevano alcun interesse a tentare un confronto strategico su di un terreno ben conosciuto dai “rivali” iberici. Ciò non toglie che il capitale mercantile avesse assunto in quegli anni il controllo di fatto della produ- 101 100 quer was created in the furnaces of Caffaggiolo by the Montelupo potters using first class quality materials from the Iznick in Nicea in the antique part of Turkey. It was probably the same Florentine businesses that for some time had dealt with the commercialisation of Montelupo Majolica that allowed an abundance of these products to appear on the market. This precious metal was mainly used for lighting and parts of coats of arms and it was supplied by the furnaces of the Valdarno area. This highly polished technique played a key role in the control of the economical development of the ceramic industries in Florence. Between 1637 and 1639 Dionigi Marmi whilst copying some XV century manuscripts came across a method for making this high polished technique that was originally brought over from Majorca (the island east of Spain) by a wealthy Florentine merchant. For the rest we know due to excavations made in the so called “washing wells” that during the 1470’s Montelupo had already produced Majolica with the “three fires” method that had a highly polished enamel finish similar to the Spanish type. It is evident though that the people from Montelupo worked hard to create a recognisable polychrome production from which they could achieve considerable commercial success and had no intention of invading the territory of their Iberian rivals. This did not detract from the fact that merchant capital had control over local production and one only needs to reflect on the contents of the Notary Act “ The Antinori Trust”. This document drawn up in September 1490 by notary Carlo Becossi states that 23 Montelupo potters had declared to work exclusively for Francesco Antinori for three years who in return had to buy all of the three types of ceramics produces by them (“General”, “Damaschino” and “Vantaggino”) and pay according to their quality. Again in the Capitoli dell’Arte degli Orciolai, dictated in Montelupo in 1510, there is reference to much invective against the merchants who exploit to the point of hunger the poor potters, paying very little for the products made and selling at a high price the raw materials. In the period 1480 – 1490 the decorative Spanish type with highly polished finish, decorated with parsley and vine leaves became the major production for the potters from Valdarno and over the next 10 years the Montelupo potters quickly developed different types of decoration that characterised the next trend for the duration of the Renaissance era. This involved using larger and thicker highly polished Iberian Majolica and decorations such as bunches of flowers; the eye of the peacock feather or the Persian palm which Montelupo divided with other centres working with Majolica as the twisted cord and other designs. These personal touches were designed to bring in more money. Above all in the large family of highly decorated imitation of porcelain, the Montelupo potters gave better results during the first 20 years of the XVI century. Evidence of copies of oriental pieces reproducing large poppy arrangements in monochrome blue from China and oriental knots with highlighted and chiselled features were commissioned by Florentines. These pieces were closer to the splendid Iznick Majolica, assimilating the Nicena production of blood red pigment that when heated turned into a shiny red lacquer. In this period the activity of Lorenzo di Piero Sartori’s shop specialised in products with the “Lo” label. The widespread success of commercial development of the Valdarno Majolica during these years allowed potters from Montelupo and immigrants from other areas like Faenza to open studios in Florence. Amongst these was Girolamo Mengari who, as was documented in 1523, was the first potter from Romagna to move to Tuscany. He introduced new ideas and dedicated himself in particular to “istoriato”, new types of coloured enamel known as hope and kindness that were already in use in Romagna. Montelupo, Centre of National Production but without merchant capital Between 1390 and 1520 when Montelupo was in the forefront of the Italian Majolica market, there were early signs of a strong move towards new and more formal technology. It was a difficult period for Tuscany especially from an anachronistic aspect with aggressive attempts to restore peace in the Republic and the rise of Ducato di Cosimo1 remembered as “Pater Patriae”. It must be stated that during the year 1538 a group of Spanish people unhappy with payments received, descended on Valdarno and actively took control of and pillaged the centre of Montelupo, leaving a certain amount of damage and disconcertion amongst it’s inhabitants. It wasn’t for any particular trauma or cause that the Montelupo potters had experienced traumatic loss and production difficulties, but due to a progressive decline in Florentine commercial activity on an international front that had dramatically changed compared to fifty years previously when the potters had dominated the Mediterranean ceramic market and other markets along the Atlantic coast. A lack of support and heavy exploitation of the producers, an excessive increase in the population and new types of business activities added to this decline. At the same time the Italian ceramic market MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Dal 1440 al 1520: Il Rinascimento e l’apice della produzione smaltata montelupina. Nella sua prima fase (1400-40) il “damaschino” mostra in Montelupo e negli altri centri di fabbrica italiani della maiolica (Pesaro, Faenza) una rigorosa monocromia azzurra, nella quale il blu di cobalto in diluizione sembra come sgranarsi sotto il pennello dei pittori, per far trasparire nelle campiture il bianco dello smalto stannifero. Nonostante rappresenti il culmine dell’influenza dello stile decorativo di matrice islamica, in questa fase i pittori che si dedicano al “damaschino” non rinunciano a porre al centro delle loro rappresentazioni figure di ogni tipo (fitomorfe, zoomorfe), non dimenticando neppure quella umana. Essi, inoltre, ripassano più volte le parti ombreggiate dei loro soggetti, i quali vengono così ad assumere una soda volumetria, che apertamente contrasta con la sintassi “decorativa”, priva di spazi e di sfondi naturalistici, dell’insieme. Poco prima della metà del secolo, però, il cromatismo dei nostri pittori si arricchisce di un verde-ramina pallido, di un manganese dai toni violacei e di un caratteristico giallo citrino. L’insieme, definito appropriatamente dal Ballardini tavolozza fredda, si fonde col classico azzurro cobalto, producendo talvolta, per il predominare di una singolare indefinitezza dei contorni, l’effetto di una visione notturna. Nella pittura su smalto entrano ora prepotentemente i temi cari al gotico internazionale, MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE – che Montelupo condivide con altri centri italiani della maiolica, magari – come i “nastri intrecciati” – utilizzandoli su scala ancor più massiccia, ma anche di suggestioni, come gli “ovali e rombi”, ricavate elaborando personalmente il grande canovaccio della maiolica iberica a lustro metallico. È soprattutto nell’ampia famiglia decorativa dell’imitazione della porcellana, però, che i pittori montelupini mostrano di dare il meglio di sé nel corso del primo ventennio del XVI secolo. Essi, infatti, per evidente commissione diretta degli acquirenti fiorentini, si lanciano nella copia dal vero dei prototipi orientali, riproducendo i grandi fiorami di papavero in monocromia blu della Cina, ed i nodi orientali intrecciati e lumeggiati mediante graffitura; si accostano inoltre alle fastose maioliche di Iznik, assimilando dalla produzione nicena lo straordinario pigmento che al fuoco si trasforma in un rosso sanguigno e laccato, apposto talvolta dai vasai nostrani in terza cottura. Importante è in questo periodo l’attività della bottega di Lorenzo di Piero Sartori, che marca i suoi prodotti mediante la sigla “Lo”. La grande diffusione commerciale raggiunta dalle maioliche valdarnesi in quegli anni non manca di attirare nella “terra murata” di Montelupo vasai forestieri, che qui giungono in cerca di lavoro, ponendosi spesso a bottega con ceramisti del luogo. Tra questi immigrati vi sono alcuni faentini, e tra essi è da segnalare in partico- lare Girolamo Mengari, documentato nel 1523; egli fu il primo dei ceramisti romagnoli a risiedere nel centro toscano, introducendovi importanti novità e dedicandosi in particolare all’istoriato ed a quelle nuove tipologie a smalto colorato, dette “vaghezze e gentilezze”, che avevano già trovato diffusione in terra di Romagna. Montelupo, centro di produzione “nazionale”, ma privo del capitale mercantile. Segnali di un precoce appannarsi di quella spinta poderosa al rinnovamento tecnologico e formale che aveva posto l’esperienza montelupina, tra il 1380 ed il 1520 circa, all’avanguardia della maiolica italiana si avvertirono però già nel terzo decennio del Cinquecento. Fu quello un periodo difficile per la Toscana, stante soprattutto il cruento pasaggio dagli ultimi – e per molti aspetti, anacronistici – tentativi di ripristinare la Repubblica, e l’ascesa al Ducato di Cosimo I, destinato inaspettatamente ad essere ricordato come “pater Patriae”. Occorre dire che nell’anno 1538, per diretta conseguenza degli avvenimenti fiorentini, una banda di spagnoli, scontenta del soldo ricevuto, pensò bene di scendere il Valdarno, sino ad occupare militarmente e saccheggiare la stessa Montelupo, con non poco danno e sconcerto degli attoniti abitanti. Non è tuttavia per cause particolari o traumatiche che i ceramisti della “terra murata” valdarnese andarono incontro ad un primo momento di smarrimento e di difficoltà produttiva. Fu piuttosto il progressivo defilarsi del capitale fiorentino, in un contesto internazionale ormai profondamente mutato rispetto a quello di cinquant’anni prima, a far mancare quell’appoggio che, pur fondandosi su di un pesante sfruttamento dei produttori, aveva consentito alle ceramiche montelupine di dominare in lungo e largo i mercati mediterranei e le stesse esportazioni fittili realizzate lungo le rotte commerciali atlantiche. L’eccessivo incremento della popolazione ed il nuovo orientamento degli scambi commerciali preparavano ormai il lento declino economico della Penisola: nello stesso tempo il mercato italiano della ceramica si arricchiva di nuovi soggetti – si pensi a Faenza, Urbino, Deruta, Venezia – in grado non soltanto di produrre maioliche di qualità, ma di affermare nuovi generi decorativi. Montelupo, come gli altri centri di produzione, guarda ora con particolare interesse a quanto si diffonde in Italia, ma non trova più la forza di approdare a nuove ed originali creazioni formali. Ben poche, in effetti, sono le tipologie che corrispondono a criteri di originalità in grado di diffondersi, tra il 1530 ed il 1590 circa, nel centro valdarnese; le più importanti tra queste, inoltre, mostrano di affondare le proprie radici in generi locali già accreditati in passato (ad es., le “spirali arancio”, provengono dall’ “imitazione del lustro metallico”), o 103 102 was being enriched with new ideas, in fact in Faenza, Urbino, Deruta and Venezia they were producing good quality Majolica and new styles of decoration. Montelupo as with other production centres looked on with particular interest at the new developments of more formal and original designs but didn’t have the strength to participate. The pieces produced between 1530 and 1590 in the centre of Valdarno showed in effect that they were based on an original design of the imitation of the highly polished metal finish, and one design in particular had already been an important discovery, “ the orange spiral”. Other decorative features taken from oriental pieces, for example the “a losanghe” that came from the painting on Persian enamel and other unknown national sources were copied. There was a narrow line between re-proposing decorative designs from the pre-renaissance period and the Tuscan interpretation of Ligurian motifs, (the vine leaf, Venetian, (leaves and fruit in polychrome, the of porcelain) and those from Faentina, (the white and the various types of the compendiarie). On the whole the Montelupo ceramic industry in a national context, offered less during the course of the 1500’s almost as if the potters had lost their originality and innovative capacity. The most important novelty of this period was working with rounded heavy objects (“engobed” ceramics) with top quality materials coming from the area around Sovicille, the hills surrounding Siena. After the conquest of Siena and it’s territory in 1555 it was easier to get hold of these quality materials. We know that the difference between what happened in Liguria and the Padana area concerning the production of heavier rounded objects did not develop during the Medieval period and it was only during the second half of the 1400’s, nearly a century later that this art developed in other areas of the peninsular and in fact the first creation of this type in Tuscany was carried out with paints, but with reduced density and using only two pigments, with green and orange dominating the decorative structure. The use of a particular white clay with a reddish tinge found in the iron clay areas on the bed of the rivers of the region started the Tuscan production of rounded ceramic design in Pisa. As we have stated previously it began in 1540 and it stimulated local activities. The diversity of this product consented the furnaces in Pisa to start working again and the product thus spread all over the region and other parts of Italy. Only twenty years later, engobed and incision formed ceramics were worked side by side with the traditional enamelled products in furnaces in other Tuscan centres. It really only consisted of marginal work carried out on particular occasions by artisans passing from one factory to another trying to push their capacity in this art. In Montelupo, in the dumps of furnaces that were operating between 1460 - about the period when these products were first produced and 1540 very few examples of engobed objects have been found and it is estimated to have represented a limited amount of only 1% of total production, and even less in Siena area. The gradual penetration of this type of ceramic making in the Tuscan market is owed to the Pisa furnaces and the minor centres that had been specifically developed for this production. From what we know, during the Renaissance period (1480 – 1530) the latter produced pictures on the majolica and the first concentrated on new productions. Amongst the centres that concentrated on engobed products were San Gimignano and Asciano, The artist Bacchereto stopped working with other techniques including working with enamel to concentrate on this one. As far as we know it was places like Borgo San Lorenzo, Castelfiorentino and Pontorme in the area around Empoli and eventually Fuccechio and other areas surrounding Pisa which include the famous furnaces of Pomerance, that exclusively used this technique. It was the economical development and inflation during the 1500s that proved to be a deciding factor in the development of the “Ingobbiata” (engobed style) and the use of this style in the production of tableware. A huge increase in inflation characterised a necessity to put a higher price on agricultural products, for example, between 1540 and 1600 the price of grain doubled in price. According to records it was necessary to substitute certain products with cheaper alternatives which were more and more in demand. With the “Ingobbiata” ceramics, a watertight film wasn’t necessary so it was cheaper to produce and could be sold for less than the Majolica. The economical position determined the success of this type of jug.. This new product had a significant impact on the Montelupo furnaces as they began producing in large numbers, especially between 1540 – 1640. Included in this category was the marbled variety and the splashed variety using a decoration of different colours, and it can said that production levels reached that of Majolica. The poor economical situation created difficulties for the Tuscan shops that had for centuries specialized in painting on enamel. They had to confront the continued recession in commercial trade by looking for more successful forms of production. Not MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE zione locale: per convincersi di ciò basta riflettere sul contenuto dell’atto notarile noto come “trust Antinori”. Con questo documento, rogato nel settembre del 1490 dal notaio Piero Gherardini, infatti, ben 23 ceramisti di Montelupo si impegnavano a lavorare per tre anni esclusivamente in favore di Francesco Antinori, il quale doveva a sua volta acquistare tutto il prodotto così realizzato in base a tre grandi categorie merceologiche (comune, “damaschino”, “vantaggino”), e pagarlo sulla scorta delle medesime differenziazioni qualitative. Ancora nei Capitoli dell’Arte degli Orciolai, dettati in Montelupo nel 1510, si alza l’invettiva contro i mercanti che affamano i poveri ceramisti, pagando poco il lavoro da essi eseguito, e rivendendo loro a caro prezzo le materie prime che importano dall’estero. Nel periodo 1480-90 l’imitazione delle tipologie decorative spagnole tratte dal lustro metallico – con i due generi d’impianto fitomorfo come la “foglia di prezzemolo” e quella “di vite” – e la ricerca di nuovi motivi di contorno svolge un ruolo fondamentale nell’attività dei vasai valdarnesi. Nel decennio successivo, però, i ceramisti di Montelupo sviluppano rapidamente quelle tipologie decorative che ne caratterizzeranno l’attività per un periodo di tempo assai lungo, destinato a travalicare gli stessi limiti cronologici del Rinascimento. Si tratti di motivi di contorno – come la “floreale”, l’ “occhio della penna di pavone” o la “palmetta persiana” MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE fiorentina; solo verso la metà del Quattrocento, a più d’un secolo di distanza dalla sua diffusione nella altre aree della Penisola, d’altronde, si incontrano infatti le prime lavorazioni toscane ad ingobbio, nelle quali l’artificio della graffitura – accompagnato, beninteso, dalla pittura, ma con tavolozza sostanzialmente ridotta a due soli pigmenti, il verde e l’arancio – domina l’intera struttura decorativa. L’uso di una particolare argilla per velare di bianco il bistugio rossastro, ottenuto dalle crete ferrose che predominano nei bacini e nei sedimenti fluviali della regione, ebbe il suo battesimo in Toscana nella produzione graffita pisana, che, come abbiamo accennato in precedenza, fu avviata negli anni Quaranta del XV secolo per rianimare le attività locali, dopo il periodo in cui le lavorazioni a smalto erano state depresse dalla conquista fiorentina. La diversificazione del prodotto consentì alle fornaci di Pisa di riprendersi, e probabilmente facilitò la diffusione di questa tecnica, peraltro già ben nota in Italia, a livello regionale. Solo una ventina d’anni dopo, però, la ceramica ingobbiata e graffita poté affiancarsi alle smaltate nelle fornaci attive in altri centri toscani. Si trattava, però, di lavorazioni marginali, effettuate in via straordinaria e, forse, dovute anche ad artigiani che occasionalmente passavano da un centro di fabbrica all’altro, tentando di accreditare le proprie capacità produttive. A Montelupo, infatti, negli scarichi delle fornaci attive tra il 1460 circa – data di apparizione delle prime ingobbiate – ed il 1540 circa, lo scarto con ingobbo rappresenta una quota assai limitata, che di norma può essere valutata a meno dell’uno per cento della restituzione complessiva. Anche nell’area senese, per la quale sfortunatamente non è dato al momento di possedere dati così precisi, nella medesima epoca il rapporto tra le ceramiche ingobbiate e quelle smaltate – ivi comprese, però, quelle con tecnica mista, alle quali precedentemente si è fatto riferimento – si mostra ampiamente minoritario. La graduale penetrazione nel mercato toscano di questi nuovi generi fittili si deve, oltre che alle fornaci di Pisa, a quelle di altri centri “minori”, che reagirono così alla concentrazione della produzione smaltata in un numero limitato di “luoghi deputati”. Per quanto ci è dato di sapere, infatti, mentre nel periodo rinascimentale (1480-1530) gli ultimi svilupparono la pittura su maiolica, i primi si dettero alla nuova tradizione, favorendo così un inedito processo di decentramento “tipologico” delle attività. Tra i centri che si dedicarono alla fabbricazione delle ingobbiate, alcuni, come ad esempio San Gimi- Scodella ingobbiata e graffita di Montelupo (1560-80) 105 104 by chance in 1590 the commercial companies that were created to trade in Majolica ceramics started trading in a similar type of Ingobbiata made in Castelfiorentino and in the vicinity of Pontorme to keep up with the requests of the market. It was no surprise that the economical situation compromised the generations of experience that fuelled production from the furnaces of Cafaggiolo in Mugello and lead to a complete change from a historical and artistic point of view. For the villas and castles owned by the powerful Medici family, ceramics had been purchased from the Montelupo brothers Stefano and Filippo, sons of a Croatian immigrant who had arrived in Valdarno in the middle of the 1550’s and who was famous for having produced some major masterpieces of Renaissance Majolica. Just after 1550 this art started to show signs of decadence and some poorer quality pieces were produced and by the end of the 1580’s there were no more traces of this glorious furnace. The exhaustion of the Renaissance and its creative push represented a general phenomenon which demonstrated its negative impact on all the Italian centres of production even though some managed better than others; the more fortunate could count on their association with the markets of Tuscany, Venice, Genova, and above all Faenza. As opposed to the gen- eral trend at the end of the sixteenth century, Faenza responded with an extraordinary invention that would keep it afloat for a century to come, assuring their workshops a fame that still endures today; it consisted in the use of a new enamel, very white and thick and characterized by an almost creamy aspect. It came to light at about 1540 and was accompanied by a kind of pictorial revolution where the historical scenes were radically changed. The chromatism was reduced to two colours (blue and orange) and combined with a pictorial representation that was more creative. This union was called “compendaria” by Ballardini as if to underline the impressionistic aspect. It immediately became a new fashion and was the answer to the reduced interest in the polychrome Renaissance works. The “whites” from Faenza represented the most important vehicle of the new “compendaria” which would become diffused in the enamelled productions of the XVII century. Montelupo began to produce quality “whites” with an important stannifero cover but the Valdarno potters thought to exploit the fashion brought about by the new types of products to simplify and obtain a more rapid execution of the monochromatic blue through which they could obtain a standardization of the “porcelain” decorations. Montelupo “covered and graffita” bowl (1560-80) MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY gnano e, soprattutto, Asciano senese – oltre alla stessa Bacchereto, che si avviava di lì a poco a cessare la propria attività – non lo facevano in alternativa all’utilizzo dello smalto, ma affiancarono ad esso in maniera consistente e, forse, persino numericamente preponderante, la nuova tecnica. Altri luoghi, come Borgo San Lorenzo, Castelfiorentino e Pontorme, nei pressi di Empoli – per quanto è dato di saperne – utilizzavano invece l’ingobbio in maniera pressoché esclusiva, e lo stesso deve dirsi per le fornaci allora attive in Fucecchio ed varie località del Pisano, tra le quali le più note sono al momento quelle di Pomarance. Fu però il diffondersi dell’inflazione cinquecentesca, nota agli storici dell’economia come “rivoluzione dei prezzi”, a favorire decisamente l’impiego dell’ingobbio nella produzione vascolare da mensa. Un’onda secolare di crescita inflativa caratterizzò infatti i generi di prima necessità, trascinando al rialzo soprattutto i prodotti agricoli: nel periodo 1540-1600, ad esempio, il prezzo del grano venne più che a raddoppiarsi. In queste condizioni, secondo il noto fenomeno di sostituzione dei consumi, lo spostamento delle risorse necessarie all’approvvigionamento di merci essenziali alla vita quo- MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE traggono spunto da prodotti orientali (ad es. il decoro “a losanghe”, che deriva dalla pittura su smalto persiana), i quali non sono ignoti neppure ad altri ateliers nazionali. Stretta tra la sempre più stanca riproposizione delle tipologie decorative autoctone primo-rinascimentali e la traduzione in “lingua toscana” di motivi liguri (la foglia di vite), veneziani (le foglie e la frutta in policromia, la “compendiarizzazione” della porcellana) e faentini (i “bianchi”e le varie tipologie “compendiarie”), l’offerta complessiva delle fornaci di Montelupo si fa sempre meno vigorosa, come se, avviando nel corso del Cinquecento questi rapporti, dei quali peraltro si sostanzia il “linguaggio nazionale” della maiolica italiana, i montelupini avessero smarrito l’originalità ed il piglio innovativo del passato. La novità più importante di questo periodo è semmai rappresentata dal ricorso sempre più massiccio all’ingobbio: la fabbricazione di ingobbiate si avvaleva di una materia prima di alta qualità, proveniente soprattutto dal territorio di Sovicille, nella Montagnola senese. Dopo la conquista di Siena e del suo territorio (1555) fu più facile per i montelupini procurarsi grandi quantità di ingobbio pregiato. Sappiamo che, a differenza di quanto accadde in Liguria e nell’area padana, la tecnica dell’ingobbio sotto vetrina non aveva accompagnato la fase medievale di sviluppo della ceramica dotata di rivestimento in area MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE commerciali create per diffondere le maioliche montelupine non esitavano a spedire, negli anni Novanta del Cinquecento, anche ceramiche – verosimilmente ingobbiate – prodotte a Castelfiorentino e nella vicina Pontorme per adeguarsi alla richiesta del mercato. Non stupisce, quindi, che un tale mutamento del clima economico abbia determinato l’interruzione di esperienze di grande rilievo dal punto di vista storicoartistico, quale quella legata alla fornace di Cafaggiolo nel Mugello. Nella villa-castello del ramo “popolano” dei Medici avevano operato, in un rapporto con la potente famiglia che fu di committenza, più che di effettiva protezione, i montelupini Piero e Stefano, figli di un immigrato croato, giunto nella cittadina valdarnese attorno alla metà del XV secolo. Non appena oltrepassata la metà del Cinquecento, questo atelier, al quale sono attribuiti alcuni dei capolavori della maiolica rinascimentale italiana, inizia infatti a manifestare evidenti segni di decadenza, producendo, ad esempio, alcuni istoriati che si inseriscono nel filone ormai stanco e desueto del genere; verso il 1580, infine, non si rilevano più tracce di questa gloriosa fornace. L’esaurirsi del Rinascimento e della sua spinta creativa rappresenta del resto un fenomeno generale, che mostra il suo impatto negativo in tutti i centri di fabbrica italiani, anche se occorre dire che alcuni di essi seppero meglio affrontare questa fase di difficoltà: tra questi ultimi è necessario annoverare, per l’influenza che ebbero sulla Toscana, Venezia, Genova e, soprattutto, Faenza. Alla dicotomia che caratterizzava il mercato tardo-cinquecentesco della ceramica, la città romagnola seppe infatti rispondere con una straordinaria invenzione, che ne supportò per almeno un secolo le fortune, assicurando alle sue botteghe quella fama che ancor oggi dura; essa consistette nell’utilizzo di un nuovo smalto, bianchissimo e di grande spessore, ma caratterizzato da un aspetto quasi cremoso, tale da attribuire una singolare personalità estetica – ed anche tattile – alle ceramiche. L’innovazione tecnica faentina, avviata già nel 1540, si accompagnò, inoltre, ad una specie di rivoluzione pittorica, la quale veniva a mutare in maniera radicale gli schemi dell’istoriato, codificati da poco meno di un ventennio di produzione, i quali avevano trovato in Casteldurante – e soprattutto in Urbino – le esperienze più significative. Invece di affidarsi ad una spinta policromia e trasferire sulle ceramiche scene figurate, per lo più tratte da illustrazioni a stampa, si preferiva ora ridurre il cromatismo a due soli colori (l’azzurro e l’arancio), e giungere alla rappresentazione pittorica attraverso un disegno più sommario, ma assai più creativo. L’unione tra la nuova tecnica di smaltatura e l’in- novazione pittorica, detta dal Ballardini “compendiaria”, per sottolinearne l’aspetto quasi impressionistico, si accreditò rapidamente come una nuova moda. Essa rappresentò la risposta vincente dei faentini al mutamento del gusto di un’epoca ormai sazia della squillante policromia rinascimentale, ma anche una mano tesa verso le esigenze di distinzione dei ceti agiati dell’epoca, i quali non avevano molto da temere dall’evoluzione economica contemporanea. I “bianchi” faentini – come vennero battezzati in ragione del loro aspetto – rappresentarono perciò il veicolo più importante della nuova sensibilità “compendiaria”, che si sarebbe diffusa nella produzione smaltata del XVII secolo, ma, più che nuovi schemi pittorici – come aveva indicato a suo tempo il Ballardini – la loro fortuna facilitò soprattutto un processo di impoverimento della decorazione. Ci si abituò, infatti, a maioliche dipinte soltanto con uno o due colori e caratterizzate da larghi spazi vuoti, privi di decorazione. Esaurita la spinta innovativa iniziale, tale evoluzione divenne quindi piuttosto fomite di decadenza, come si può notare nelle stanche e monotone repliche derutesi di tale genere. Montelupo si ispirò ai “bianchi” faentini, producendo maioliche di qualità con un importante rivestimento stannifero, ma i vasai valdarnesi pensarono anche di sfruttare la moda veicolata dal nuovo genere per semplificare e rendere di più rapida esecuzione le tipologie in 107 106 The 1600’s - Light & Shade of the Iron Century At the end of the 1500’s the ceramic production entered the final part of the quality phase which had lasted for over 2 centuries starting in 1370. But this long period finally ended on a negative note. The first warning sign of what would lead to diminishing production in Montelupo and of the major part of the ceramic centres in Italy didn’t appear as a warning as it seemed to be part of the grave crisis that was already hitting Italy between 1590 – 1591. Without being able to realize it an event occurred that would change the face of Mediterranean Europe. Not having the means to provide its own grain supplies during a period deep shortage, the areas of the Southern European continent counted on emergency supplies from Poland. This tarnished the self sufficiency and isolationist ideas and the reliance on the naval ships which were often too busy conquering the northern areas. Enormous stockpiles of rye bread bought at a high price by the emissaries of the Grand Duke in the markets of Amsterdam and Lubeck were transported by boat to Livorno and the same thing happened in Genoa, Lucca, Roma and Naples. But the Hanseatie and Dutch boats that transported the cereal from the north changed their habits and decided to take the route around the Gibraltar strait and supply the markets prepared to pay a higher prices. With incredible timing Ferdinand 1 transformed Livorno into one of the major ports of the Mediterranean, fulfilling the wishes of his father, Cosimo. It became an international base not only owing to its position on an strategically important estuary in a powerful Italian state but also due to the increased level of marine traffic from the Northern states, in particular Holland and England. This was just the beginning. In 1618 – 1621 there was a European economical crisis which coincided with the reversing of the growth period of the XVI century and was only the start of a heavy downturn for the southern European states unable to escape from the tentacles of an agricultural crisis which heavily influenced the manufacturing sector. Amongst the oppressed populations that had suffered malnutrition and economical problems for the last thirty years, illnesses of every type struck including scabies and typhoid, and then came their worst enemy, the plague. The pandemic of 1630-1632, unlike the XIV and XV centuries saw long periods of death and sufferance as the viruses reared their ugly heads again in 1655 and then again in 1675. Many other factors from the 30 year war to important climatic changes such as the glacial phenomenon – known as the mini ice age - upset the equilibrium of the old continental, hit Italy hard forcing it into a kind of limbo. From the crises of 1618-1621 and the negative period that followed, even Montelupo suffered. The international production that was it’s strength was reduced dramatically. Other centres like Faenza and Deruta suffered the same difficulties. At the beginning of the XVII century the general situation had deteriorated considerably and Montelupo could consider itself much worse off compared to the previous century owing to the ever worsening economical crisis. Only the manufacture of terracotta vases and pots remained steady thanks to their use in olive oil production and the increased demand for pots and vases used for decorating the gardens of the rustic villas. Majolica art survived with the best results in Siena and Asciano which were centres known for producing good quality “white” ceramics based on the contemporary designs of Faenza, but was going through a decline in Montelupo which had beforehand experienced 200 years of success with this type of production. In effect for more than fifty years the Valdarno workshops had not worked on original decorative designs but had continued to reproduce in the antique Renaissance style for general tableware but with less effort and in an impoverished way. The new ideas that were introduced in the production of this type of ceramic from the second half of the previous century, came from other centres in Italy, such as Faenza, Urbino, Deruta, Venezia and Savona-Albisola. The Montelupo painters looked towards outside influences for inspiration, with the aim of adding a touch of invention or adaptation and this continued through to XVIII century where they moved on to “town” decorations following the example of the Venetian productions led by the master Benedetto, which included the Faentina stencils of leaves and vines, common in Ligurian and Venetian painting on enamel. The example of Urbino and Deruta Rafaellesca remained during a good part of the 1600’s but modified by the Valdarno artists adding grand and free figures that often resulted in a similarity to parietal “a grottesca” decorations on a white background which was diffused in Florence by the Allori and Poccetti schools rather than the contemporary Umbrian and Le Marche Majolica. The istoriato (historical) types were also moderately successful, above all the works undertaken by some Faentina masters who had emigrated there in the 1500’s. By the end of the XVI century, figure painting had reached the end of its creative arc and the Montelupo potters responded in a simple and efficient way with decorative engravings of daily life and not illustrations from books. Without changing the successful recipe of the MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE tidiana provocò un forte aumento della domanda di prodotti caratterizzati da minor costo. Nelle ceramiche ingobbiate, infatti, lo stagno non interveniva nella realizzazione della pellicola di copertura: dato il più basso costo di produzione, si poteva perciò venderle ad un prezzo inferiore rispetto alle maioliche. La congiuntura economica determinò quindi la fortuna di questi generi vascolari “succedanei”. Il termine di paragone più significativo per verificare l’impatto di tale fenomeno nell’attività dei centri di produzione della Toscana è offerto ancora una volta dagli scarichi delle fornaci montelupine, i quali mostrano, nel periodo 1540-1640, un aumento esponenziale della presenza di ingobbiate. Se infatti in tale categoria si comprendono anche le cosiddette “marmorizzate” e le “schizzate” – prodotte mediante l’uso decorativo di ingobbi colorati – allora può dirsi che negli anni indicati le ceramiche da mensa prive di stagno prodotte in questo centro ceramico abbiano finito per pareggiare il numero delle maioliche. Il volgersi verso il basso della congiuntura economica mise dunque in difficoltà le botteghe toscane che da secoli erano andate specializzandosi nella pittura su smalto. Esse si trovarono allora a fronteggiare da un lato il progressivo ridursi dei traffici commerciali, e dall’altro l’indirizzarsi sempre più evidente della domanda verso generi succedanei: non per caso le compagnie Nel Seicento: luci ed ombre d’un “secolo di ferro” Sul finire del Cinquecento la produzione ceramica entrò nell’ultima fase di un processo avviato due secoli prima con la “rivoluzione qualitativa” dell’ultimo ventennio del Trecento: ora questo lunghissimo ciclo plurisecolare stava però evolvendo in negativo. Le prime avvisaglie di quello che sarebbe stato il ripiegamento della produzione in Montelupo e della gran parte dei centri ceramici italiani non furono però avvertiti come tali, in quanto si confusero con la gravissima crisi annonaria del 1590-91. Quell’anno, senza che i contemporanei potessero rendersene conto, segnò una svolta storica per l’Europa mediterranea, in quanto, non potendo alcuna nazione o territorio rivieraschi – come l’Egitto e la Sicilia, che per millenni avevano svolto la funzione di granai del Mediterraneo – sopperire alla fame della porzione meridionale del continente, furono i cerali della Polonia ad assicurare la sopravvivenza di quella parte della popolazione italiana che la prima fase della carestia aveva risparmiato. Si ruppe così l’antico isolamento autarchico di questo mare, che aveva visto per protagoniste le proprie marine, impegnate, semmai, a conquistare gli spazi del Nord. Enormi ammassi di segale polacca, acquistata a caro prezzo dagli emissari del granduca sui mercati di Amsterdam e di Lubecca, furono allora realizzati nel porto di Livorno, e lo stesso avvenne per Genova, Lucca, Roma, Napoli. Ma le navi anseatiche ed olandesi che trasportavano i cerali del nord segnarono rotte che non avrebbero più dimenticato, e presero l’abitudine, anche per sopperire alla cronica fame di questo mondo ormai sovrappopolato, di passare costantemente lo stretto di Gibilterra per accaparrarsi quote sempre più importanti del commercio meridionale. Con incredibile tempismo, Ferdinando I trasformò nel 1593 Livorno in uno dei maggiori scali del Mediterraneo; egli portò dunque a compimento il sogno di suo padre Cosimo, ma trasformò il porto labronico, nel contesto di una mutata congiuntura internazionale, non tanto nello sbocco al mare di un potente stato italiano, quanto in una grande base, aperta ai traffici delle marinerie degli stati nordici, ed in particolare dell’Olanda e dell’Inghilterra. Ed era solo l’inizio. Bussava infatti alle porte la crisi economica del 1618-21, che fu avvenimento di portata europea, poiché coincise con il rovesciamento della congiuntura di lungo periodo del XVI secolo; essa, però, rappresentò l’anticamera della decadenza per i paesi dell’Europa meridionale, incapaci di sfuggire alla tenaglia di una crisi agraria alla quale facevano riscontro almeno pari difficoltà nel settore manifatturiero. Tra le popolazioni, oppresse da un trentennio di malnutrizione e di problemi economici, cominciarono a serpeggiare malattie di ogni genere, come la scabbia ed il tifo, e su questa base ormai ben preparata, secondo l’orrido, ma rigoroso copione delle grandi crisi di epoca preindustriale – si pensi al 1320-50 – si affacciò infine sulla scena il supremo nemico: la peste. La pandemia del 1630-32 fu un episodio acuto, nel senso che non fu seguito, come nel XIV e XV secolo, da una lunga fase in cui il male si fece endemico, falcidiando silenziosamente la popolazione europea ben oltre la data della sua apparizione, ma restò comunque pronto a rialzare la testa con pari virulenza, come avvenne nel 1655 e nel 1675. Molti altri fattori – dalla guerra dei Trent’anni ai mutamenti climatici noti come “la piccola glaciazione” – incisero poi sugli antichi equilibri continentali, favorendo la discesa degli antichi stati d’Italia in una sorta di limbo, posto ormai al margine della vita economica e della politica dell’antico continente. Dalla crisi del 1618-21 e dal periodo nero che la seguì, anche Montelupo non poteva che uscire prostrata: la sua produzione, fortemente orientata verso le esportazioni interregionali ed internazionali, non poteva che risultare ridimensionata dall’incipiente decadenza dell’economia toscana. Il fenomeno fu tuttavia di portata nazionale, e fu rilevato anche in altri, importanti centri di fabbrica, quali Faenza e Deruta. All’inizio del XVII secolo la situazione complessiva della produzione fittile in Toscana poteva dunque dirsi considerevolmente peggiorata rispetto al secolo precedente in ragione dell’incipiente crisi economica: solo la fabbricazione delle terrecotte, in effetti, per la favorevole concomitanza dello sviluppo dell’olivicoltura, del sistema di fattoria e delle ville rustiche dotate di giardini all’italiana – ove orci, conche ed anche abbellimenti plastici trovavano un ideale inserimento – mostrava una lenta, ma progressiva espansione. L’arte della maiolica sopravviveva con miglior esito in Siena ed Asciano, centro per il quale si segnala una produzione di “bianchi” di buona qualità, evidentemente esemplati sulla coeva produzione faentina, ma attraversava una fase di decadenza a Montelupo, ove pure questa attività era venuta concentrandosi nel corso dei due secoli passati. Da più di cinquant’anni, in effetti, le botteghe valdarnesi non elaboravano decori e tipologie originali, continuando a riprodurre sui generi vascolari destinati alla mensa, in maniera sempre più stanca ed estenuata, l’antico repertorio rinascimentale. Le novità che si erano introdotte nella fabbricazione di queste tipologie sino dalla seconda metà del secolo precedente erano infatti per lo più derivate da suggestioni decorative provenienti da altri centri di fabbrica italiani, come Faenza, Urbino, Deruta, Venezia e Savona-Albisola. 109 108 istoriato, artists abandoned the cold artificial and serious representations of biblical and Roman events and looked decisively towards the world that surrounded them. This reality was made up of men of law (tav.17), country folk and scoundrels but also of fetes, processions and cruel battles – which filled their Majolica pottery, usually plates which were used as a decorative element creating a phenomenon that for a long time was mistakenly considered the symbol of ceramic production. A balanced historical judgement of this type of production during the last years of the 1500’s and up to 1640, besides recognizing the extraordinary creativity of the Montelupo potters, has to maintain that the Valdarno potters didn’t produce for collections, it has to be said that that was a false vision as that wasn’t their main concern. In 1591, caught in the middle of a terrible food shortage, the potters of the Valdarno send a request for help to the Granduca, begging him to help their families in a very difficult moment. Fernando I – who had just completed his Ambrogiana villa - showed sympathy and became a patron client. It was the first time that the Prince got involved in the local activities as previously the potters were left to bargain in free markets. Sending ceramics to the court or other Gran- duco destinations could have saved the ceramics tradition but the relationship between the court and the industry didn’t mature to any great extent. In those years the Tuscan government did not have a clear vision of the economic trading situation which marked the Colbert era and the rapport between the Royal Court and the amount of production within the region became more sporadic and occasional. The marked independence of the ceramic commercial activity in Montelupo and other areas meant that they had no form of protection from public authorities until the late intervention of the customs office in favour of the Tuscan majolica, a decision taken by Pietro Leopoldo 1 in 1768. However, during the first forty years of the XVI century, there was renewed interest in the development of pharmacies and decorative artwork, creating opportunities for the Montelupo potters. Furthermore, during the early years of the XVII century there was an increase in the sick rate, a phenomenon that worried the Italian governors, in particular the Florentines and there began an organized effort to combat it with an efficient sanitary system. There was a justified concern for the health of the masses and fear that a new pandemic would inspire a revolt and destroy social order so the corporate associations of medicines and apothecaries, which until then had been rather blocked in their efforts to supply medicines to markets outside of the apothecaries or hospitals, were given a free hand to combat the diseases. Whilst the apothecaries and hospital pharmacies modernised their methods and prepared and increased supplies, the important citizens of Santa Maria Novella did likewise and finally started a commercial activity after ten years of trying to obtain permission to do so. This was a positive period for the Tuscan potters as they were commissioned to produce hundreds of quality vases instead of tableware thus resulting in a period of splendour for the best part of the century. The pharmaceutical production did not of course completely resolve the general economical situation but enabled the potters to produce products of a superior quality. Between 1612 and 1620 selected Montelupo workshops were asked to supply Santa Maria Novella and to introduce a raised iconographic artwork on Majolica for the apothecaries instead of the “grotesque” decoration which was in use up to then designed by Poccetti and his school as can be seen in the Grande Chiostro. Also during this period the pharmacy of San Marco was renovated and the Valdarno workshops were commissioned to produce an important series of pharmaceutical containers painted with the glory of the Domenicano Order, male and female saints together with Antonino of Florence the founder of the cenoby, set against a dark background; typical of works from the 1500’s. It can be said that the introduction of commissioned work favoured the introduction of new designs which resulted in further projects being undertaken by the Montelupo potters, for example “Girali foliati a Risparmio”, ideal for pharmaceutical productions or the same vine leaves, small trees and other revised decorations on jars and pots. Between 1611 and 1627 the Montelupo furnaces were asked to produce pavements in Majolica. Three different types were requested by Cosimo II for his cousin Marie de’ Medici, queen of France who wanted to decorate her apartments at the Louvre and the palace of Luxembourg with designs from Montelupo. Owing to the difficult relationship between Maria – who was acting Queen - and the French Court, we can’t be sure that the work was carried out before she was exiled to Blois in 1617. We do know for certain that these enamelled tiles painted by the Montelupo potters which were based on designs of artists from the French Court were called to Paris to assist in the work. At least 4 different pavements were completed in Luxembourg, two of which were sent at the end of 1614 whilst the other two, designed with every probability by Jacopo Ligozzi were used in the MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE monocromia blu, attraverso le quali si cercava di ottenere una standardizzazione dei decori “alla porcellana”. MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE dalle illustrazioni dei libri o da altri tipi di incisione, ma bensì dall’osservazione della vita quotidiana. Lasciando sostanzialmente inalterata la ricetta compositiva dell’istoriato, con le sue conquiste prospettiche e cromatiche, quei pittori abbandonarono così il freddo artificio dello spolvero e la retorica rappresentazione seriale di episodi appartenenti alla storia biblica e romana, per volgersi decisamente verso il mondo che li circondava. Di questa realtà, fatta di birri e contadini, di trecconi e di furfanti “scerpatori di campagna” – ma anche di feste, di processioni, di cruente battaglie – essi riempirono le loro maioliche, quasi sempre piatti che svolgevano anche una funzione decorativa, creando una vera e propria “maniera”, che fu per molto tempo erroneamente considerata emblematica del carattere stesso del nostro centro di fabbrica. Un giudizio storico equilibrato su tale produzione, il cui periodo aureo può collocarsi tra gli ultimi anni del Cinquecento ed il 1640 circa, oltre a riconoscere la straordinaria creatività ancora posseduta dai ceramisti montelupini, deve tuttavia tenere in debito conto la visione falsata che di essa ha prodotto il collezionismo. La capillare diffusione del tardo figurato montelupino nelle raccolte pubbliche e private di tutto il mondo non deve infatti far dimenticare che non siamo di fronte – almeno in termini quantitativi – alla produzione “di punta” del centro valdarnese, e che la sua fortuna postu- ma non vale certamente a ribaltare la realtà della progressiva decadenza di quelle fornaci, di cui essa è sintomatica, in ragione del localismo della sua ispirazione e della “maniera” che la caratterizza. Ciò, ovviamente, fatto salvo quel minimo di riferimento al clima dell’epoca (ad esempio alla pittura dei cosiddetti “bamboccianti”), che pure in essa è possibile riscontrare. È semmai in un’altra direzione che occorre guardare per percepire gli ultimi aneliti delle produzioni di qualità tardivamente espresse dalle botteghe di Montelupo. Nel 1591, stretti nella morsa della terribile carestia di quell’anno, i vasai valdarnesi avevano inviato una supplica al Granduca, pregandolo di aiutare le loro famiglie in un momento tanto difficile. Ferdinando I – che da poco aveva completato la sua grandiosa villa dell’Ambrogiana – mostrò di comprendere le difficoltà dei montelupini, e concesse loro un donativo sotto forma di generica committenza: in tal modo il Principe intervenne per la prima volta nelle attività locali, sino ad allora lasciate al libero gioco del mercato e delle commissioni private. L’indirizzarsi di commesse importanti verso quel centro di fabbrica (o di altri luoghi del Granducato) avrebbe forse potuto salvaguardarne la tradizione, traghettandola oltre le secche della crisi secolare del XVII secolo; in quegli anni, però, tra i governanti toscani non era certamente matura la visione mercantilistica del- l’economia che avrebbe improntato di sé l’epoca del Colbert, ed il rapporto tra la Corte e le produzioni fittili della regione restò perciò sempre sporadico ed occasionale. L’alto grado di dipendenza dal mercato delle attività ceramistiche di Montelupo – ma anche, per quel che è dato di sapere, degli altri ateliers – non trovò infatti alcuna forma di protezione da parte dei pubblici poteri sino al (purtroppo tardivo) intervento doganale in favore della maiolica toscana deciso da Pietro Leopoldo I nel 1768. Nonostante ciò, un rinnovato interesse per lo sviluppo di farmacie e di imprese decorative non mancò di far affluire, nel corso del primo quarantennio del Seicento, significative occasioni di lavoro verso i ceramisti montelupini. Come si è detto, infatti, il secolo XVII sin dai suoi primi lustri, evidenziò un sensibile incremento della morbilità. Il fenomeno preoccupò fortemente i governanti italiani, ed in particolare quelli fiorentini, che cercarono di fronteggiarlo con una più efficiente organizzazione sanitaria. Il giustificato allarme per la salute delle masse popolari, ed il timore che lo sviluppo di pandemie potesse sfociare in rivolte e nella distruzione dell’ordine sociale, indusse ad alleggerire la stretta corporativa dell’Arte dei Medici e degli Speziali, che fino ad allora aveva ostacolato, se non addirittura impedito, lo sviluppo della produzione di medicamenti, qualora fosse effettuata al di fuori degli esercizi di spezieria, 111 110 Villa Ambrogiana. The project was unfinished due to the exile of the queen and pieces were removed between 1617 and 1621 by Don Carlo de’Medici and used for the nymph’s sanctuary in his villa in Careggi where they can still be seen today. More apparent was the involvement of the desigs of Ligozzi in the production of another two pavements in Montelupo during those years. The first was commissioned in 1621 by Giovanni degli Albizi, illegitimate son of Cosimo I in his villa “Il Parione” which was then passed down to the Corsini family. The decoration consisted of imaginative designs that didn’t have any symbolic value and was an example of a style used by a painter from Verona who was a great illustrator of plants in this era, representing a move towards natural vegetation. From a series of decorations done yet again by Ligozzi, one of which was a fresco on a ceiling in 1627, a design was copied and used for a floor in one of the reception rooms with a fireplace in the Pitti Palace. Ligozzi died the year before and Parigi who overlooked work done at the Palace made radical changes to the original project breaking with the traditions of the late Medieval and Renaissance of using decorative coverings on Majolica. In the previous century, Niccolò Pericoli had already started to copy designs from ceilings to floors. This new idea was first experimented on using the floor in the Medicea Laurenziana library designed by Michelangelo, and Tribolo could have suggested the same solution to the Montelupo potters giving them a pattern of the chapels at Villa Strozziana, La Casarotta in San Casciana and at Val di Pesa. The evident evolution of the reception room with fireplace was very radical, here in fact the figures were put into the disused areas copying the ceiling painted by Matteo Rosselli and at the same time creating a new invention. The big panels placed symmetrically side by side on the floor did not necessarily represent hierarchical decorations subordinate to the environment but autonomous works of the artists that created the basis for the iconographic value and distinctive character of the grand Majolica floor coverings. During the 1600’s there were few new ideas in production of enamelled wares apart from pharmaceutical commissions and decorative work for the Court. Maybe this only appeared so because of the monuments of great importance created and lost in the previous era. In this concept we can count the large Majolica jars (orci) made for the Medici residences of which a large part were commissioned by the Montelupo family, Marmi. But it consisted of very few works compared to the splendour of the Renaissance period. The majority of these enormous jars were made in chronological order between 1620 and the end of the XVII century. There are precise references to when these hand made articles were manufactured by the Montelupo furnaces, as shown by the coat of arms of the Marmi family and the name of the workshop engraved on each jar. It should be noted that some examples of these hand made articles, owing to evident defects, had to be returned to the potters. The enamelled jars from Montelupo were also flanked by other handmade articles which were only partly enamelled, however these were made by the Impruneta furnaces and clearly carried the manufacturer’s inscription engraved on their surface. This method started in 1631 with the (Villa La Pietraia jar), but most likely the production continued until the second half of the XVIII century. It is probable that the oldest jars from Impruneta were originally covered by a green coloured ceramic glaze, there are well-known examples of the first half of the XVIII century, and then later on a ‘scrap iron’ colouring was used, with a honey shades and a speckling of copper flakes. Both in the case of the handmade articles of Montelupo and those of Impruneta, we are, however, now in the presence of jars intended to be used for the conservation of wine, which are similar to the types of covered jars used for pharmaceutical use, already widespread during the previous century. This new kind of clay container was very successful in the XVII and XVIII centuries in Tuscany and became fashionable. It was introduced towards 1618 by the Grand Duke Cosimo II, who had evidently welcomed with enthusiasm the proposal of manufacturing wine jars as promoted in a booklet by Giovan Antonio Fineo, a priest from Bari, entitled: An infallible remedy for preserving wine for forty years in every country, without it ever spoiling, and published in Rome in 1593. Thus in 1618, many years after the publication of the remedy, Cosimo II gave some of his emissaries orders to produce in Faenza and Perugia a limited number of these jars, significantly calling them “vettine” as Fineo had, deriving from the Latin vegetes, namely “cask”. However, the production of the “vettine” proved to be, not only expensive but also unexpectedly long and difficult. Thus it was easier for men like Marmi, who had for a long period held a prominent role in the management of the Medicean villas, sending the orders of the Court to the Montelupo furnaces, where they were personally involved in the activity; besides, they knew very well that the potters of Montelupo had been producing large-sized enamelled vase containers for many years, using the supplies of unprocessed handmade articles created by MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Per qualche tempo i pittori montelupini riuscirono a guardare ancora alle tradizioni esterne con quella spiccata capacità d’inventiva e di adattamento che ne aveva sempre contraddistinto l’opera: restarono così per lungo tempo nei loro ateliers, trapassando talvolta nel XVIII secolo, i decori “a paesi”, dipendenti dalla produzione veneziana che faceva capo alla bottega di mastro Benedetto, le crespine “a foglie” ed il compendiario a quartieri di matrice faentina, la foglia di vite “a cerquata”, comune nella pittura su smalto ligure e veneta. Restò ancora per buona parte del Seicento l’esempio della raffaellesca urbinate e derutese, che fu però dai pittori valdarnesi tanto modificata, per l’inserimento in essa di grandi e libere figurazioni, da risultare spesso più simile alle decorazioni parietali “a grottesca” su fondo bianco, diffuse in Firenze dalla scuola dell’Allori e del Poccetti, che non alle coeve maioliche umbro-marchigiane. Anche il genere istoriato, che aveva conosciuto nelle botteghe di Montelupo una discreta fortuna, soprattutto, a quanto sembra, per l’opera di alcuni maestri faentini, qui immigrati nel corso del Cinquecento, trovò echi tardivi, e stavolta di inaspettata originalità. Alla desuetudine del figurato, che già nell’ultimo trentennio del XVI secolo aveva completato la sua parabola creativa, i vasai di Montelupo risposero in maniera semplice – ma assai efficace – traendo i loro soggetti non MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE pure non sufficiente, per contrastare la tendenza al rapido scadimento delle lavorazioni ordinarie. Per Santa Maria Novella, ad esempio, lavorano dal 1612 al 1620 una o più botteghe montelupine, alle quali viene affidato un programma iconografico di tutto rilievo, finalizzato a riportare sul “fornimento” maiolicato di quella spezieria quel genere di decorazioni “a grottesca” che il Poccetti e la sua scuola avevano affrescato sulle volte del Chiostro Grande, sul quale si affacciava il nuovo esercizio di spezieria. Anche la farmacia di San Marco fu in quegli anni rinnovata, ed alle botteghe valdarnesi venne commissionata un’importante serie di contenitori farmaceutici, sui quali si dipinsero le glorie dell’ordine domenicano: quei santi e quelle sante unirono così la loro figura a quella di Antonino da Firenze, il fondatore del cenobio, che campeggiava sulla dotazione cinquecentesca della farmacia. In entrambi i casi citati può dirsi che l’importanza della committenza abbia favorito l’introduzione di nuovi decori, e lo stesso avvenne in occasione di altre imprese affidate ai vasai di Montelupo – come si può notare, ad esempio, nella tipologia dei “girali foliati a risparmio, ideata per la produzione farmaceutica, o della stessa “foglia di vite”, ampiamente rivista per l’impiego su utelli, orcioli ed alberelli. Verso le fornaci montelupine si indirizzarono, dal 1611 al 1627, anche importanti commesse della corte per la fabbricazione di pavimenti maiolicati. Si tratta di tre diverse imprese, la prima delle quali destinata da Cosimo II alla cugina Maria de’ Medici, regina di Francia, che avrebbe voluto adornare con i mattoncini dipinti a Montelupo i suoi appartamenti del Louvre e poi il costruendo Palazzo del Lussemburgo, ove si sarebbe deciso di utilizzarli addirittura in una decina di ambienti. A causa dei difficili rapporti tra Maria – che esercitava la Reggenza – e la Corte francese, non possiamo essere certi che l’impresa così progettata sia andata a buon fine prima che la sovrana fosse esiliata a Blois nel 1617, ma sappiamo per certo che sin dal 1611 piastrelle smaltate, dipinte dai ceramisti di Montelupo su disegno di artisti di corte, giunsero a Parigi. Orciolo da faramacia della Pavimento per Maria de’ serie di S. Maria Novella Medici. Villa medicea di (1612-20) Careggi, ninfeo (1617) Almeno quattro pavimenti furono completati dai montelupini per il Lussemburgo: due di essi vennero spediti alla fine del 1614, mentre altri due, disegnati con ogni probabilità da Jacopo Ligozzi, restarono nel 1617 presso la villa dell’Ambrogiana. Sfumato il progetto a causa dell’esilio della regina, essi furono infine prelevati, tra il 1617 ed il 1621, da don Carlo de’ Medici per il ninfeo che si era fatto costruire presso la sua villa di Careggi, e ancora vi si trovano. Più evidente appare l’intervento del Ligozzi nei cartoni utilizzati per gli altri due complessi pavimetali realizzati in quegli anni a Montelupo. Il primo tra questi venne collocato verso il 1621 da don Giovanni degli Albizi – figlio illegittimo di Cosimo I – nella sua grande magione detta “il Parione”, poi passata ai Corsini. Qui il largo prevalere della decorazione fitomorfa, che peraltro non sembra assumere alcun valore simbolico, ben testimonia della grande inclinazione del pittore veronese, il maggior illustratore di piante dell’epoca, verso la rappresentazione della natura vegetale. Ad una serie decorativa del medesimo Ligozzi, 113 112 Chemist’s jug of S. Maria Majolica pavement for Maria Novella (1612-20) de’ Medici, Medici Villa of MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE ivi compreso l’interno degli ospedali stessi. Mentre, dunque, gli speziali e le farmacie ospedaliere tendevano ad ammodernare ed incrementare i loro “fornimenti”, per preparare e stoccare una sempre maggiore quantità di medicamenti, anche i cenobi cittadini, come quello di Santa Maria Novella, fecero altrettanto, riuscendo addirittura ad avviare, dopo decenni di tentativi abortiti, una propria attività commerciale. Di tale situazione favorevole approfittarono i ceramisti toscani, verso i quali inaspettatamente piovvero le committenze per la realizzazione di centinaia di nuovi prodotti vascolari: ponendosi in controtendenza rispetto alla fabbricazione della ceramica da mensa, vieppiù depressa dalla crisi economica e sociale, quella destinata alla farmacia visse così un piccolo periodo di splendore, che si protrasse per buona parte del secolo. Le commesse farmaceutiche non potevano certo compensare sotto il profilo economico la progressiva caduta quantitativa della produzione fittile, ma offrirono comunque ai ceramisti l’opportunità di esprimersi su più elevati livelli qualitativi: esse rappresentarono dunque un freno importante, sia Careggi, ninfeo (1617) the skilful earthenware makers of Samminiatello and of Camaioni. Therefore, it is not by chance that the production of the most antique enamelled jars of Montelupo characterised by this particular use often showed the Marmi brand (a styled fishing hook) or the family coat of arms, contemporarily highlighting dates between 1620 and 1621, shortly after the success of the “vettine” activity. Consisting of three different types of containers of which later were added versions with morphological details. In fact, the classical model of jars, favoured by Fineo, was a “flask shaped” container consisting of a big globe-like shape with a long cylindrical neck with a rim turned downwards. Obviously, the decoration of these jars referred to their contents and consisted in the all-encompassing representation of large vine-leaves and grape clusters and these were combined with fruit and animals. The total effect was MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE opere autonome di pittura, che ne stabiliscono il valore iconografico ed individuano il carattere distintivo del grande tappeto maiolicato. Ben poche novità, però, si possono incontrare nel panorama della produzione smaltata seicentesca oltre a quanto segnalato in merito alle commesse di tipo farmaceutico ed alle imprese decorative della Corte, le quali, peraltro, forse ci appaiono anche di maggior rilievo per la perdita di altri complessi monumentali di epoca precedente. A queste poche luci, che ancora brillano in un panorama che va sempre più incupendosi, si può forse aggiungere un’interessante serie di grandi contenitori maiolicati (orci), probabilmente destinati alle residenze medicee, ed in gran parte fabbricati attraverso la mediazione della famiglia montelupina dei Marmi, ma si tratta pur sempre di poca cosa in confronto all’ormai tramontato splendore rinascimentale. La stragrande maggioranza di questi contenitori si colloca cronologicamente tra il 1620 e la fine del XVII secolo: esse trovano preciso riferimento nell’attività delle fornaci montelupine per la presenza della marca di bottega o dello stesso stemma della famiglia Marmi. Il sottosuolo di Montelupo, d’altronde, non ha mancato di restituire alcuni esemplari di questi manufatti, contraddistinti anche da evidenti difetti di cottura. A questi orci smaltati montelupini si affiancano adesso anche manufatti invetriati nelle parti a vista, che invece debbono essere attribuiti alle fornaci imprunetine, alle quali riportano palesemente le scritte di fabbricazione incise sulla loro superficie: essi si datano a partire dal 1631 (orcio della Villa La Pietraia), ma la loro fabbricazione prosegue con ogni probabilità sino alla seconda metà del Settecento. È probabile che gli orci imprunetini più antichi fossero coperti di vetrina colorata in verde e solo più tardi – ci sono noti esempi della prima metà del Settecento – si impiegasse anche una colorazione “alla ferraccia”, con toni mielati e screziature di ramina. Sia nel caso dei manufatti montelupini che di quelli dell’Impruneta, siamo comunque adesso di fronte ad orci destinati alla conservazione del vino, i quali si affiancano al genere di orcio smaltato o rivestito a destinazione farmaceutica, già diffuso nel corso del secolo precedente. Questo nuovo genere di contenitore fittile sembra aver incontrato grande fortuna nella Toscana del Sei e Settecento sull’onda di una vera e propria Orcio maiolicato con stemma della famiglia Marmi (datato 1619) 115 114 enriched by scenes of birds, deer and leverets; a Raphaelesque Montelupo style. The most common shape of “vettina” devised in Montelupo displayed a form with weakly sloping shoulders, a small neck, a rim turned outwards and a double ribbon-shaped handle. The third type became more and more dominant. A vase shaped rather differently to the previous since it was characterised by a more defined shoulder which corresponds to the maximum diameter of the container. Furthermore the neck was emphasized by it’s height, whereas the handles wound themselves in a kind of coil and were adorned by two heads at the base. On the side of the jar were two canonical openings for the broach of which the top one was transformed into a mask. At the moment we know of six models of this series, all strictly connected to the Marmi family for the presence of their family coat of arms and the “fishing hook” with which were branded all workshop products. Four of these are characterised by a décor that takes us back to Medicean porcelain and there are precise references to (the Medici-Lorena coat of arms, the business of Don Antonio, the putative son of Francis I), the orders of the royal family. Amongst the products which received a considerable stimulus in this period due to altered cultural developments were the number of ceramics made for religious purposes, even though they did not assume a significant economical interest among local production. In fact, the spread of the Counter-Reformation (Catholic Reformation) considerably increased the popular acceptance of the cult of saints, particularly encouraging the diffusion of the Marian cult, bound to female psychology and family support. Indeed, in those difficult years the Virgin Mary and the child represented the image of divinity bound to the purer and more elementary family love, nearly the tangible proof of the fact that she knew and shared human suffering, and in particular pain, sadly and so frequently in that period, caused by the loss of children. The production of glazed plates rapidly changed as objects with religious meanings multiplied and in fact from the middle and towards the end of the 16th century it seemed that handmade painted articles, flat plates with a white background in basrelief, inspired directly by products of Robbia, were circulating. The choice of a yellow background seemed to be adopted in the second half of the century. The continued increase in demand must have subsequently vouched for the spread of tracing on matrixes, a necessary technique in obtaining serial pictures at a high-relief, more appropriate for the new baroque sensitivity of the age. Now the models to be copied were no longer only Robbia’s, including Majolica jar with coat of arms of Marmi family (dated 1619) MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY moda, introdotta verso il 1618 dal granduca Cosimo II, il quale aveva evidentemente accolto con entusiasmo la proposta di fabbricare orci vinari propagandata da un libretto di Giovan Antonio Fineo, sacerdote barese, intitolato: Il rimedio infallibile che conserva le quarantine d’anni il vino in ogni paese, senza potersi mai guastare, e pubblicato in Roma nel 1593. Nel 1618 – diversi anni dopo la pubblicazione del rimedio, quindi – Cosimo II diede ordine ad alcuni suoi emissari di far produrre un limitato numero di questi orci, denominandoli significativamente “vettine” – come aveva fatto il Fineo, derivandolo dal latino vegetes, cioè “botte” – in Faenza ed in Perugia. La fabbricazione delle “vettine” si dimostrò però, oltreché costosa, inopinatamente lunga e piena di difficoltà. Fu così facile per uomini come i Marmi, che da lungo tempo ricoprivano un ruolo di primo piano nella Guardaroba e nella gestione delle ville medicee, indirizzare le commesse di Corte verso le fornaci di Montelupo, nella cui attività erano MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE rivista però nella sua struttura allo scopo di meglio echeggiare le pitture del soffitto, si deve ragionevolmente rapportare anche il pavimento realizzato nel 1627 per la cosiddetta “sala della Stufa” di Palazzo Pitti. Il Ligozzi era morto l’anno precedente, e probabilmente il Parigi, che sovrintendeva ai lavori in quest’ala del palazzo, apportò modifiche tanto radicali al progetto iniziale da approdare ad una realizzazione di tipo nuovo, la quale interrompeva definitivamente la tradizione tardomedievale e rinascimentale dei pavimenti maiolicati intesi come “tappeto decorativo”. Già Niccolò Pericoli, detto “il Tribolo”, nel secolo precedente aveva iniziato a “ribattere” sul piano di calpestìo le decorazioni del soffitto; questa novità, sperimentata completando l’opera michelangiolesca nel pavimento della biblioteca Mediceo Laurenziana, lo stesso Tribolo aveva forse potuto trasmettere direttamente ai ceramisti montelupini, consegnando loro i cartoni della cappella della villa strozziana La Casarotta, in quel di san Casciano Val di Pesa. L’evoluzione marcata dalla sala della Stufa fu però radicale: qui, infatti, le parti figurate si sviluppano per uno spazio inusitato, riprendendo sì il soffitto dipinto da Matteo Rosselli, ma realizzando nel contempo scene d’invenzione. I grandi panelli collocati simmetricamente nel pavimento non rappresentano dunque altrettante “decorazioni” gerarchicamente subordinate all’ambiente, ma divengono ormai MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Si tratta di tre tipi diversi di contenitore, sui quali si innestarono poi varianti morfologiche di dettaglio. Al modello classico dell’orcio ovoidale, caldeggiato dal Fineo, i ceramisti di Montelupo affiancarono infatti un contenitore “a fiasco”, formato da un grande corpo globulare, sul quale andava ad innestarsi un lungo collo cilindrico dal bordo voltato verso il basso. La decorazione di questi orci non poteva che alludere al loro contenuto, e consistere perciò nella rappresentazione invasiva di grandi pampini e ciocche d’uva, alle quali, però, si univano frutta ed animali stilizzati. L’insieme, concepito come “abitato” da uccelli, cervi, leprotti, è spesso arricchito dagli elementi accessori della “raffaellesca” montelupina. La forma più usuale di “vettina” elaborata in Montelupo mostra invece un profilo ovoidale con spalla poco pronunciata, il collo appena accennato, il bordo ripiegato verso l’esterno e la doppia presa nastriforme, ma una terza tipologia va prepotentemente emergendo nelle nostre indagini. Si tratta di una forma vascolare piuttosto diversa dalle precedenti, in quanto contraddistinta da una spalla assai più rialzata, la quale viene a coincidere con il diametro massimo del contenitore; il collo, inoltre, accentua il suo sviluppo in altezza, mentre Orcio maiolicato “a fiasco” con l’iris fiorentino (1618-21) le anse si avvolgono in una sorta di “rocchetto”, e sono impreziosite da due testine sottostanti. Sul lato a vista dell’orcio si aprono i due fori canonici per lo spillo, il superiore dei quali è trasformato in mascherone. Di questa serie conosciamo per il momento sei esemplari, tutti strettamente legati dal riferimento all’attività imprenditoriale dei Marmi o per la presenza dello stemma di quella famiglia o per l’ “amo da pesca” con il quale essi marcavano i prodotti di bottega. Quattro di questi sono contraddistinti da un decoro che ci riporta alla porcellana medicea, e sviluppano riferimenti precisi (stemma Medici-Lorena, impresa di Don Antonio, figlio putativo di Francesco I) alla committenza della casa regnante. Tra i generi che, pur non assumendo un ruolo economicamente significativo nel novero della produzione locale, ricevono un sensibile impulso in quest’epoca, in ragione di un mutato clima culturale, sono da annoverare anche le ceramiche di tipo devozionale. Il diffondersi della Controriforma (o, se vogliamo, della Riforma cattolica) ampliò infatti in misura considerevole l’accettazione popolare del culto dei santi, favorendo particolarmente la diffusione di quello mariano, legato alla psicologia femminile ed alla sfera di protezione della famiglia. La Madonna col bambino rappresentò infatti in quegli anni difficili l’immagine della divinità legata ai più puri ed elementari affetti familiari, quasi la prova tangibile del fatto che Essa conosceva e condivideva le umane pene, ed in particolare il dolore, purtroppo così frequente allora, causato dalla perdita dei figli. La produzione di targhe maiolicate con soggetti devozionali si moltiplicò e mutò rapidamente di natura sul finire del Cinquecento. Verso la metà di quel secolo, infatti, sembra che circolassero soprattutto manufatti dipinti su fondo bianco, ispirati direttamente ai prodotti robbiani, su lastra piana od in basso rilievo. L’adozione di uno sfondo giallo, sembra trovare i suoi primi esempi nella seconda metà del secolo. Il continuo ampliarsi della domanda deve aver successivamente consigliato di generalizzare l’adozione della calcatura su matrice, tecnica necessaria ad ottenere immagini seriali e ad alto rilievo, più confacenti all’incipiente sensibilità barocca dell’epoca. I modelli da imitare divengono adesso non soltanto i robbiani, compreso la replica della plastica a tutto tondo, ma anche quelli connessi con l’innovazione “popolare” dei medesimi, con le elaborazioni e semplificazioni – in particolare dell’immagine mariana – di questo repertorio che si dispiega nelle anconette domestiche dei Sei e Settecento. Si tratta di manufatti in legno e gesso legati alla devozione privata, ed ancora dipendenti dal modello dell’altaruolo tardomedievale a fondo d’oro, che ora – specie nei primi – consiste soprattutto in un fondale di cuoio dorato, arric- 117 116 Majolica jar “a fiasco” with the symbol of Florence (iris) (1618-21) a replica of the rounded model, but also those connected with the “popular” innovations of the same model - in particular the Marian image – with elaborations and simplifications. This repertoire which was developed into small domestic altarpieces of the XVII and XVIII century. These are handmade wooden and plaster articles depicting private devotion and dependent on the model of the late medieval “altaruolo” with a golden background, which at first consisted above all of a golden leather background, enriched by various impressions obtained by a metal stamp. To conform with these models, the potters of Montelupo started using a yellow pigment for the background of their glazed plates, which actually consisted of a white tin colour made from by lead. The pigment’s density gave light to the glazing and often only a part of the hand made article was visible adding not only depth but brightness too and likewise with certain brush-stroke bestowed an aspect of golden and compact surface to the background, which was exactly what the potters were looking for. It was also the quantity of surviving documents that were significant for their production, we must therefore conclude that the height of production was between the end of the XVII century and the first ten years of the following Century. Furthermore, it is interesting to observe that the Ferruzzi family who came from Faenza or the surrounding area, stood out amongst the other protagonists of this collection, which seemed to fully correspond to the cultural criteria typical of Tuscan pottery, After the plague epidemic in 1630-32, Tuscany realized that it had changed from having a considerable pottery into a region which was heavily importing clay products from abroad. In fact, the majolica crisis had turned out to be so strong that it had substantially opened the regional market for handmade articles from Faenza, Deruta and above all Liguria (Albisola and Savona). For this reason, just after the middle of the XVII century, it became obvious that it was necessary to redevelop the majolica production. The crisis that involved the Tuscan pottery companies at the beginning of the XVII century, however, didn’t fail to cancel the shy attempts of revival carried out in Tuscany. For example, the ceramic factory that Niccolò Sisti from Norcia was supposed to have been established at Pisa. As it was not very well-known, maybe it’s actual nature was misinterpreted. This same Medicean pottery company did however survive during the glorious period of Francis I principality and then had to be abandoned in the 1620s. Significant proof of this critical period, in which the State authorities confusedly attempted to support new clay production was documented. In the kilns of San Miniato al Tedesco, where a production activity was attempted and succeeded in 1655. Some of the potters from Sienese Ascanio were transferred there to assist and to help in this process of starting up their activity, the newcomers thought it best to ask the Prince a patent-right on the enamel production, which was to stretch out over a range of 25 miles with a walled land as mainstay. Obviously within this area was included Montelupo, and to support the tenants’ request, the workers at the local hospital and owners of the kilns, assumed that this wouldn’t create any problems, since in the Valdarno they weren’t producing any real majolica at this time. Even though Florence avoided to accept such a contrived plea and it is clear that some similar propositions were made in order to enhance production of quality ceramics in Montelupo, technically not abreast with the best enamel workmanship of this period as pointed out by the local archaeological societies. The new collection that started up in the middle of the XVII century, took place largely with a new phase of quality clay manufactures, using potters from Liguria. In fact, these brave successors of the great tradition of Savona and Albisola understood how to benefit from the recession that had seized neighbouring Tuscany and since then used connections with Tirrenian trade and were in a position to open up new kilns. This phenomenon, still has to be investigated at length was lead by such protagonists such as Giovanni Antonio Salomoni, who already in 1642 had opened majolica workshop in Lucca by concession of local administration, “Genoese” Stefano Grogio, who was working in the Chigi factory of San Quirico MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE coinvolti in prima persona; essi, del resto, ben sapevano che i vasai montelupini producevano da tempo, sulla scorta di manufatti grezzi, realizzati dai sapienti terracottai di Samminiatello e di Camaioni, contenitori vascolari smaltati di grandi dimensioni. Non è dunque per caso che la produzione dei più antichi orci smaltati di Montelupo, contraddistinti da questa particolare destinazione d’uso, mostri spesso la marca dei Marmi (un amo da pesca stilizzato) o lo stemma di quella famiglia, evidenziando nel contempo datazioni comprese tra il 1620 ed il 1621, di poco successive all’“affare delle vettine”. MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE chito da varie impressioni ottenute con un punzone metallico. Per corrispondere a questi modelli, i ceramisti montelupini impiegarono per gli sfondi delle loro targhe maiolicate un pigmento giallo, che in realtà consiste in un bianco di stagno colorato d’antimoniato di piombo. La densità del pigmento, aggiunto alla lieve smaltatura – spesso comprensiva della sola parte a vista – del manufatto, non solo aggiunge corpo e brillantezza, ma confonde altresì il segno del pennello, conferendo al fondale quell’aspetto di superficie dorata e compatta che i ceramisti ricercavano. Se la quantità dei documenti superstiti è significativa anche della loro produzione, dovremmo concludere che l’apice della medesima si colloca tra la fine del XVII ed i primi lustri del secolo successivo. È poi curioso notare che tra i protagonisti di questa stagione, che sembra corrispondere appieno ai parametri culturali tipici della ceramica toscana, emerga su tutte la famiglia dei Ferruzzi, che proviene invece da Faenza o, forse, da qualche paese attorno a quella città. Trascorsa la pandemia di peste del 1630-32, la Toscana si accorse di essersi trasformata da luogo di forte produzione ceramica a regione che ormai importava massicciamente prodotti fittili dall’estero. La crisi della maiolica, infatti, era divenuta così forte da aprire in maniera sempre più consistente il mercato regionale ai manufatti faentini, derutesi e, soprattutto, liguri (di Albisola e Savona). Fu così che si affacciò, poco oltre la metà del Seicento, l’esigenza di sviluppare di nuovo la fabbricazione della maiolica. La crisi che coinvolgeva le imprese ceramiche toscane all’inizio del Seicento, non mancò però di annullare i timidi tentativi di rinascita esperiti in Toscana, come la manifattura – peraltro assai poco nota e, forse, persino fraintesa nel suo carattere effettivo – che avrebbe avviato Niccolò Sisti da Norcia in Pisa. La stessa impresa medicea della porcellana – che però sostanzialmente sopravviveva a se stessa dopo il periodo glorioso del principato di Francesco I – dovette essere abbandonata negli anni Venti del XVII secolo. Di questa fase critica, nella quale le autorità dello Stato tentarono confusamente di sostenere una nuova produzione fittile, costituisce significativa testimonianza la vicenda della fornace di San Miniato al Tedesco, ove nel 1655 si tentò di avviare un’attività produttiva – cosa che in effetti accadde – trasportando sul posto alcuni vasai provenienti da Asciano senese. I nuovi arrivati, per poter iniziare con più agio la loro attività, pensarono bene di chiedere al Principe una privativa sulla produzione a smalto, da estendersi, facendo perno su quella cittadina, per un raggio di venticinque miglia. Entro questa distanza era ovviamente compreso Montelupo, ed è sintomatico che, a supporto della richiesta degli d’Orcia, launched by Cardinal Flavio in 1693 until 1712 and finally Domenico Lorenzo Levantino from Savona, after whom the building in Empoli built in 1765 is named which was to become the most important factory of enamelled pottery of the whole region. other productive centres that had already had thriving businesses in the preceding century. The most successful companies of the XVIII century were in chronological order, the Chigi factory in San Quirico d’Orcia, the Ginori porcelain of Doccia and the above mentioned Levantino company of Empoli, which due to higher economic resources were able to increase the regional market, caused by decline of the traditional centres from about the middle of the XVIII century onwards, supporting a new period of economic growth. Whilst Marquis Carlo Ginori was throwing himself into the porcelain adventure, devoting himself marginally also to the Majolica, the Levant concentrated its activity on the latest trend where the prevailing French production, the bright star of the neoclassic décor “à la Bérain” and the factories of Nèvers and Moustier were shining ever more. Instead, Chigi’s story was different; we have seen how the Chigi factory started up in1693 by Cardinal Flavio Chigi on the outskirts of San Quirico d’Orcia in a place called Fonte alla Vena and how the family business grew considerably in a short period of time with the construction of two other furnaces, one in the villa of Cetinale and the other in the area of Vico Bello near Siena. At the beginning of the Chigi pottery activity MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY 118 In an Italy eager to be Revived: the End of Majolica and the Extraordinary Development of Pots and Pans. It is precisely from the second half of the 17th century that the ancient pottery centres of Italy (including Faenza) started rapidly to decline under the blows of the new quality rules widely diffused by the shipping trade. Thus the process of “division by quality” launched in the period of inflation grew, reaching its peak in the 16th century. In fact, whereas the traditional workshops were for ever more driven to satisfy a low level market, the well-off Tuscan classes got accustomed to buying porcelain of all sorts. The very fortunate Dutch imitation of these products, delftware is obviously the so-called “Majolica of Genova”. It was therefore no longer possible until the economic recovery at the end of the XVIIII century for the regional pottery companies to escape from these lethal cutbacks, trying once more to develop a tradition of quality in the ancient factory centres. The only practical way was, especially in the XVIII century, to reconstruct furnaces designed by potters from La nuova stagione che si apriva verso la metà del Seicento, svolgendosi per larga parte sotto il segno del reimpianto di fabbricazioni fittili di qualità, venne soprattutto attuata attraverso l’apporto di vasai liguri. Questi intrepidi eredi della grande tradizione savonese ed albisolese seppero infatti approfittare della recessione produttiva che attanagliava la vicina Toscana, da sempre collegata alla loro terra dai traffici tirrenici, per qui trasferirsi ed aprire nuove fornaci. Di tale fenomeno, ancora in larga parte da indagare, furono protagonisti quel Giovanni Antonio Salo- Targa maiolicata di Andrea Ferruzzi (datata 1719) MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE affittuari, gli operai dell’ospedale locale, proprietari della fornace, allegassero candidamente che ciò non avrebbe creato problemi, in quanto nel centro valdarnese non si produceva vera maiolica. Anche se Firenze si guardò bene da accogliere una supplica così congegnata, è evidente come simili affermazioni intendessero amplificare in maniera tendenziosa l’eco di quello scadimento qualitativo della produzione montelupina – tecnicamente non più al passo con la migliori lavorazioni a smalto dell’epoca – che le restituzioni archeologiche locali non mancano di evidenziare. 119 Ferruzzi (dated 1719) there were local craftsmen, amongst whom the painter Giovan Battista Massaini leased from the owners recently built pottery stores. There is frequent mention to gold trimmings (appliqués) which were fixed at low temperatures and we can see these today in museums and in private collections in southern Tuscany. These black enamelled and subsequently gilded pieces presented the first period of activity; however, documentation shows how the various ateliers of the Chigi family practised various types, ranging from earthenware to dinner-services in Majolica. The arrival of Francesco Antonio Piergentili in San Quirico in 1710 and most of all of the above mentioned Stefano Grogio from Genoa a little later in 1712, brought about a decisive qualitative leap in production. In spite the death of Grogio the following year, it made male heir, Bartolomeo Terchi’s arrival in Siena much easier. Bartolomeo born in Rome in 1691, son of a Flo- MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY Majolica plaque by Andrea MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE In un’Italia desiderosa di rinascere: la fine della maiolica e lo straordinario sviluppo del pentolame. È appunto dalla seconda metà del Seicento che vengono rapidamente a declinare gli antichi centri di produzione ceramici d’Italia (ivi compresa la stessa Faenza) sotto i colpi dei nuovi generi di qualità, ampiamente veicolati dal commercio marittimo. Giungeva così al suo compimento quel processo di “separazione per qualità” già avviatosi col periodo di crescita dell’inflazione cinquecentesca. Mentre, infatti, le botteghe tradizionali sono sempre più spinte a soddisfare un mercato di basso livello, i ceti agiati della Toscana si abituano ad acquistare porcellane di ogni genere, la fortunatissima imitazione olandese di tali prodotti, il delftware (qui noto come “terra di Delfo”) e, ovviamente, la cosiddetta “maiolica di Genova”. Sino alla ripresa economica della fine del XIX secolo non sarà dunque più possibile per le imprese ceramiche regionali sottrarsi a questa forbice mortale, sviluppando nuovamente negli antichi centri di fabbrica una tradizione di qualità. L’unica via praticabile fu, soprattutto nel Settecento, quella della costruzione ex novo di fornaci gestite da vasai spesso provenienti da altre realtà produttive, già peraltro avviata nel secolo precedente. Il maggiore successo delle imprese settecentesche – che furono in ordine cronologico la manifattura Chigi in San Quirico d’Orcia, quella delle porcellane Ginori di Doccia e la già menzionata impresa Levantino di Empoli – si deve all’impiego di risorse economiche assai più elevate, ma anche all’ampliamento del mercato regionale, determinato dal declino dei centri tradizionali, e poi, dalla metà circa del XVIII secolo, sostenuto da una nuova fase di crescita dell’economia. Mentre il marchese Carlo Ginori si gettava nell’avventura della porcellana, dedicandosi anche alla maiolica, il Levantino incentrava su quest’ultima la sua attività: entrambi, tuttavia, procedevano sulla scia dell’imperante produzione francese, che vedeva brillare sempre più fulgidamente la stella neoclassica del decoro “à la Bérain” e le fabbriche di Nèvers e Moustier. Diversa fu invece la vicenda dei Chigi. Abbiamo visto come la manifattura chigiana fosse stata avviata attorno al 1693, per iniziativa del cardinale Flavio Chigi, in San Quirico d’Orcia, poco fuori dell’abitato, nel luogo detto Fonte alla Vena; in breve volgere di tempo, però, l’impresa della famiglia si moltiplicò considerevolmente, con la costruzione di altre due fornaci, una posta nella villa di Cetinale, e l’altra a Siena, in località Vico Bello. All’inizio delle attività ceramistiche chigiane troviamo artigiani locali – tra i quali il pittore Giovan Battista Massaini – che sembrano tenere in locazione dai proprietari gli esercizi di vasaio da poco edificati. La frequente menzione di applicazioni in oro – verosimilmente fissato a bassa temperatura – lascia inoltre intendere che almeno alcune tra le ceramiche smaltate di nero (e successivamente dorate) esistenti in raccolte museali e collezioni private della Toscana meridionale possano derivare proprio da questa prima fase di attività; la documentazione d’archivio, tuttavia, dimostra come i diversi ateliers dei Chigi si esercitassero su varie tipologie, spaziando dalle terrecote ai servizi in maiolica per la tavola. L’arrivo di Francesco Antonio Piergentili a San Quirico nel 1710, e soprattutto quello del già citato pittore “genovese” Stefano Grogio poco tempo dopo (1712), determinò un decisivo salto di qualità della produzione. Nonostante avesse un erede maschio, la morte del Grogio, sopravvenuta nell’anno seguente, facilitò l’arrivo nella terra senese di Bartolomeo Terchi. Bartolomeo, nato a Roma nel 1691 da un immi- grato fiorentino, era un giovane che forse aveva già appreso nell’Urbe l’arte della pittura su maiolica; la sua attività in San Quirico dal 1717 fu comunque assai varia, spaziando dalla più modesta vaseria alle opere di raffinata pittura. Il Terchi lasciò Fonte alla Vena il 4 novembre del 1724 per recarsi a Siena, e nella conduzione della fornace gli subentrò il Piergentili, che comunque aveva sempre lavorato nei diversi esercizi chigiani. Francesco Antonio morì nel 1730, e dopo la sua scomparsa la produzione di San Quirico si deve a Santi Chiecchi (o Tiecchi) ed a Girolamo Apolloni, che si alternarono nella vasaria sino al 1742. La manifattura di Siena, allontanatosi nel frattempo il Terchi, che emigrò in Bassano di Sutri, fu tenuta dalla famiglia Ceccarelli, che vi produceva oggetti di modesta qualità. Dal 1732 i Chigi Zondadari stabilirono però rapporti di commitenza con un apprezzato pittore dell’epoca – al quale è stato spesso accostato, come imprenditore, il nome di Domenico Ciabattini – che sapeva esprimersi sia sulla tela che nella ceramica: Ferdinando Maria Campani. Per il fatto che egli, più giovane del Terchi, risulti presente in Siena già nel 1725, si è potuto ipotizzare un rapporto tra i due, forse emigrati in Toscana a breve distanza di tempo l’uno dall’altro per medesime finalità d’impiego, ma tuttavia ciò non è ancora suffragato da alcun documento, anche se sottolineato dalla similitudine tematica delle loro opere. 121 120 rentine immigrant, learnt the art of painting on majolica when he was a young man in the Eternal City of Rome. However his activity in San Quirico from 1717 was most varied, ranging from the most simple pottery to works of refined painting. Terchi left Fonte alla Vena for Siena on the 4th November 1724, and he was replaced by Piergentili, who had always worked in the various Chigi shops, to oversee the running of the furnace. Francesco Antonio died in 1730 and after his death, the production of San Quirico was ran by Santi Chiecchi (or Tiecchi) and by Girolamo Apolloni, who took turns at the pottery until 1742. In the meantime, Terchi emigrated to Bassano di Sutri and the factory of Siena was run by the Ceccarelli family, who produced objects of modest quality. After 1732, however Chigi Zondadori placed orders with an esteemed painter of the period, Ferdinando Maria Campani and who had often been associated with Domenico Ciabattini, who knew how to express himself both on canvas and pottery. Since he was younger than Terchi and already present in Siena by 1725, it was assumed that there was a relationship between the two, maybe as both had emigrated to Tuscany shortly after one another for the same reasons of employment. However, this has yet to be supported by documentation, even though it is accentu- ated by the similarity of subject of their works. In fact, both Campani, who was for this reason called “the Raphael of Majolica” and Terchi based their subjects on printed illustrations from antique books, however due to their worn-out condition they had to invent some scenes and Arcadian landscapes were the main protagonists. Thus both the artists used ceramics with more simple surfaces on which to paint, than used in the past to outline the functional specificity and the same morphological values. This direction which was observed with great interest by the academic painting authorities and was of great importance, due mainly to the perfect bond of this production with the period’s taste. It was obvious however that it couldn’t definitively represent a road capable of reviving the production of Majolica. In fact, despite traces of the continued production throughout the whole of the XVIII century, the pottery companies of Chigi showed evident signs of decline in the middle of the XVIII century, to the point that their existence is not explicitly certified in the “Report on the condition of the factories of 1768”. Thus leaving out Levantino’s furnace in Empoli, the survival of an activity in Siena and one in Montelupo, not much remained of the Majolica tradition in Tuscany. In the period of the above mentioned Report, there were only three pottery work- shops still working in Siena, whose production was estimated to be worth around 2.500 scudi. However, only a part of them – unfortunately not quantifiable regarding the production of enamels. Moreover the decline of this Sienese art was fully emphasized by the authors of the document who declared that “this activity” had “diminished by three-quarters in the last fifty years”. Still, if it was possible, the six furnaces “of the jugs, plates and similar” situated in Montelupo were in a worse state. Their trade was valued at very little (only 1.620 lira, equal to 231 scudi). One can deduce how secondary this production had become in the Valdarno town, considering that the workshops which simultaneously produced pots and pans (six) and earthenwares (ten) supplied a trade of 357 and 1.250 scudi. The conclusion of the decline and no hope for recovery of 18th century Majolica of Montelupo is clearly shown. In the types produced, above all, one could notice a strong technological decline. The chromatic palette was poorer and was mainly concentrated with the use of green and manganese, the two cheapest and most available pigments that characterized the first enamelled production of “archaic Majolica”, together with the scrap iron orange (fig, 48). Whilst the production of white Majolica gained ground, maintaining at it’s height the late abridged vase shapes, the use of cobalt blue was also reduced. During the last thirty years of the 18th century some attempts were made to imitate the French Majolica with small flower garlands around the rim. Between the two periods the intermediary role was acted by principle decorations such as the green leaf, popularly called “cabbage leaf”, which in effect was nothing more than the re-proposal in copper flake ever more “worn-out” and trivial than the vine leaf in Ligurian and Venetian blue. The green leaf, known since 1625 as a Pisan restitution,a fragment dated “1640” had been found in Montelupo, represented one of the point of reference even for 18th century production and is used both on closed or open moulds. Another important decoration in this period is the one called “green spirals”, which also concealed the long term weariness of the similar orange décor, developed in the workshops of Montelupo mainly during the second half of the XVI century. The eighteen-century version probably originated at the beginning of the century and became a widespread aspect of Valdarno production, thanks to it’s ability to adjust to the new form introduced in those years, the hemispheric basin with a small horizontal brim. Shortening the expansion of it’s spirals and folding on itself like a kind of fan and the old MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE moni, che già nel 1642 tenne, con privilegio del governo della città, una bottega di maioliche a Lucca, ma anche il “genovese” Stefano Grogio, attivo nella manifattura Chigi di San Quirico d’Orcia – avviata dal cardinale Flavio attorno al 1693 – dal 1712, ed infine il savonese Domenico Lorenzo Levantino, al quale si deve l’edificazione in Empoli nel 1765 di quella che sarebbe stata la più importante fabbrica di ceramica smaltata dell’intera regione. MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE ca della suddetta Relazione, solo tre botteghe ceramiche, la cui produzione era stimata d’un valore di circa 2.500 scudi: solo una porzione di essa – purtroppo non quantificabile – riguardava però la fabbricazione a smalto. La decadenza dell’arte senese, del resto, era ampiamente sottolineata dagli estensori del documento, che affermavano “questo lavorìo” essere “scemato di quasi tre quarti da cinquant’anni in qua”. Ancora in peggior stato, se possibile, si trovavano le fornaci “dei boccali, piatti e simili” poste in Montelupo, che erano sei, ma il loro traffico era valutato assai poco (solo 1.620 lire, pari a circa 231 scudi). Quanto fosse divenuta marginale questo genere di produzione nel centro valdarnese lo si può dedurre dal fatto che contemporaneamente le botteghe dedite alla fabbricazione di pentolame (sei) e terrecotte (dieci) alimentavano rispettivamente un traffico di 357 e 1.250 scudi. L’immagine delle maioliche montelupine del XVIII secolo quale ci è offerta dallo scavo dello scarico più importante di questo periodo rinvenuto a Montelupo (ma non solo da quello), contenuto in un fondo dell’attuale via XX settembre, mostra in effetti il compimento della parabola discendente che era stata imboccata, ormai senza possibilità di recupero, verso il 1640. Le tipologie prodotte erano ridotte nel numero e, soprattutto, si notava un forte regresso tecnologico. La tavolozza cromatica era impoverita e si incentrava soprattutto sull’uso del verde e del manganese, i due pigmenti di minor costo e di più facile reperibilità – che non per caso improntarono della loro presenza la prima produzione smaltata della “maiolica arcaica” – ai quali si univa l’arancio ferraccia. Mentre prendeva sempre più piede la fabbricazione della maiolica bianca, che manteneva in auge le forme vascolari del tardo compendiario, il blu di cobalto si riduceva a qualche tentativo, che forse terminò prima dell’ultimo trentennio del XVIII secolo, di imitare la maiolica francese con il contorno alla ghirlandina floreale. La funzione di tramite tra i due periodi è svolta da alcuni decorazioni che potremmo chiamare “principali”, come la foglia verde, detta popolarmente “foglia di cavolo”, la quale in effetti non era nient’altro che la riproposizione in ramina – sempre più “estenuata” e banalizzata – della foglia di vite in blu ligure e veneta. Nota con datazioni che si spingono sino al 1625 in una restituzione pisana (un frammento con data “1640” è stato rinvenuto in Montelupo), la foglia verde rappresenta uno dei punti di riferimento anche per la produzione settecentesca, ed è impiegata indifferentemente sia sulle forme chiuse che sulle aperte. Un’altra decorazione fondamentale di questo periodo è quella detta “a spirali verdi”, che cela anch’essa l’estenuazione di lungo periodo del consimile decoro in arancio, sviluppato dalle botteghe montelupine soprattutto durante la seconda metà del Cinquecento. La versione settecentesca nasce probabilmente all’inizio del secolo, e si diffonde considerevolmente nella produzione valdarnese grazie alla sua capacità di ben adattarsi alla forma-guida introdotta in questi anni: la catinella emisferica con piccola tesa orizzontale. Accorciando l’espandersi delle sue volute, e ripiegandosi su di sé come a disegnare una sorta di ventaglio, l’antico segno spiralato può saturare con naturalezza le pareti delle catinelle, conferendo un’innegabile vivacità a questi manufatti, che sembrano ancora apprezzati nei mercati mediterranei (ampi ritrovamenti in tutta l’area centromeridionale, nelle isole, e lungo le coste orientali ed insulari della Grecia, sino a Cipro). La documentazione relativa a questo periodo di forte regresso della produzione di Montelupo segnala in effetti come siano state queste tipologie, le quali meglio rappresentano il legame con il secolo precedente, a costituire i generi ancora apprezzati nelle aree interregionali ed anche – grazie al traffico navale inglese e francese che faceva capo al porto di Livorno – sui mercati orientali. Se si eccettuano le tipologie alla “foglia verde” ed alle “spirali verdi”, però, si può constatare come le superstiti fornaci montelupine producessero maioliche destinate quasi esclusivamente al mercato interno, poiché le decorazioni delle quali si fregiano (“mazzetto fiorito” in verde e blu, “stemmi” decorativi, 123 122 spiral sign can naturally fill the sides of the basin, bestowing an undeniable liveliness to these handmade articles, that still seem to be appreciated in the Mediterranean market. Many discoveries in the whole of the central Mediterranean area and on the islands along the eastern and insular coasts of Greece until Cyprus. The documents related to this period of strong regression in Montelupo production, actually indicated how these types, which best represented the bond with the previous century, formed the designs still appreciated in the inter-regional areas and also, thanks to the English and French naval traffic in the port of Leghorn to the Eastern markets. However, except the “green leaf” and “green spiral” types one may observe how the surviving furnaces of Montelupo were producing Majolicas intended almost solely for the internal market, because the adorned decorations, green and blue “bunches of flowers” and decorative “escutcheon” and “birds” do not appear on the excavation documents of the extra-regional kind. This phenomenon is, however, comprehensible when considering that the continuous technical-aesthetic deterioration of local production, which had already been seen at the end of the XVII century and the return of the reddish mixture and supremacy of green and brown as already mentioned, referring to the old parameters of the medieval “archaic Majolica”, compared to the wider diffusion of porcelain, of the French and Dutch quality Majolica and lastly, the appearance in the Mediterranean markets of English pottery. This situation is well-documented by an analysis of the Grand Duchy of Tuscany’s trade balance, requested by Peter Leopold I as a cognitive support to the customs’ reform. It clearly emerged from the enquiry, how the regression of the internal production was compared to a strong foreign import of quality goods, which in 1772 was estimated, in spite of the full activity achieved by the factory of Doccia, for the same porcelain to be of 1.509 lira (over 315 scudi). The import to Tuscany of this kind of vase was less than other valuable goods which were valued by the customs’ register by weight only. Amongst them, in fact, the “foreign Majolica” rose to 1.685 libra, the “Delpho earth” (meaning the Dutch Majolica imitating porcelain) to 28.110 libra, the “Genoese earthenware” (the “Savona and Arbizzola”) to even 24.506 libra. Clay products of this kind have even been reported in places far away from the Italian coasts: for example the presence of these handmade articles could be found in the Greek island of Corfu and other areas of Greece, particularly in those areas of the con- tinent with a high olive production like the plains of Delphi and in the Cyclades (Naxos, Santorini). Between the XVII and XVIII centuries, the Impruneta potters manged to diversify their activity with or without the engobe. This production was important in the in Tuscan towns of Montelupo and Impruneta between the XVII and VIII centuries, even though of minor conventional quality but derived from a vast technical scholarship and they provided different streams of export. Montelupo or rather, the furnaces situated in its suburbs of Samminiatello and Camaioni produced a lot during the XVII century, selling much of its earthenware to the Pisa and Lucca areas and generally more to the international market. Not by chance evidence of a pitcher signed “Bitossi” and dated “1789” was found on the wreck of an English warship sunk in the Australian seas at the end of the18th Century. After all, plenty of Montelupo pitchers arrived in England by way of the oil trade and were even used as signs on the shops which sold olive oil (H. Blake Report). However, the Valdarno products, favoured in the exportation by waterways were of an inferior quality in respect to the ones from Impruneta, since the latter were modelled with quarry earth which bestowed a spectacular gift of durableness. Thus it was for these products that were branded with a certain quality and were in demand, especially for earthenware for outdoors; a requirement which had spread further and further with the springing up of gardens and villas. However, the earthenware makers of Impruneta, who made heavy and bulky articles did not have the same advantages of their Montelupo colleagues with the navigable waterways for transporting their goods and for this reason their products had a greater presence in the internal market of Tuscany, where they occupied the niche of quality, but they did not have the same distribution in the international market. Between the XVII and XVIII centuries, the potters of Impruneta discovered, how to diversify their activity, so much so as to succeed in adding a varnish on the clay so durable preserving any coating. The authors of the 1768 Inquiry declared that the local furnaces, of which unfortunately though they couldn’t number, had produced yearly during the 1764-1768 period at least 736 oil jars, more than 500 plant or flower pots, 700 basins and as much vessels, as well as 120 bases for citrus trees. In the same period the potters of Impruneta had produced each year 6 statues in earthenware and this information together with the typology of their activity, as one can deduce from this document confirmed them once MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Sia il Campani – che per questo fu anche detto “il Raffaello della maiolica”- che il Terchi ripresero infatti i soggetti dell’antico istoriato, svincolandoli però dalla stanca ripetizione delle illustrazioni a stampa o, comunque, dalla serialità, per volgersi alla libera invenzione di scene, ove un paesaggio arcadico esercita sovente il ruolo del protagonista. Per entrambi gli artisti, dunque, il supporto ceramico assume, molto più che nel passato, il valore di una mera superficie da dipingere, ed in parte ciò può anche adombrarne la specificità funzionale e gli stessi valori morfologici. Pur essendo di grande importanza, anche in ragione della perfetta aderenza di tale produzione al gusto dell’epoca, è evidente come questa strada – alla quale è stato poi guardato con interesse dalla pittura accademica – non potesse, in definitiva, rappresentare una via in grado di far rinascere la lavorazione della maiolica. Nonostante vi siano tracce della prosecuzione delle attività per tutto il XVIII secolo, infatti, le imprese ceramiche chigiane mostrano tracce di evidente decadenza alla metà del Settecento, tanto che la loro esistenza non è esplicitamente attestata nella Relazione sullo stato delle manifatture del 1768. Se si eccettua, quindi, la fornace del Levantino in Empoli, e le sopravvivenze di un’attività in Siena e Montelupo, ben poca cosa restava della tradizione della maiolica in Toscana. A Siena risultavano attive, all’epo- MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Toscana era allora ben poca rispetto ad altre ceramiche di pregio, le quali furono stimate attraverso i registri di dogana soltanto a peso. Tra di esse, infatti, la “maiolica forestiera” ascendeva a 1.685 libbre, la “terra di Delfo” (cioè la maiolica olandese ad imitazione della porcellana) a 28.110 libbre, il “vasellame di Genova” (ma, come precisa la fonte, di “Savona e Arbizzola”) a ben 24.506 libbre. In queste condizioni, oltre alle produzioni di minore qualità formale, anche se spesso derivanti da grande sapienza tecnica, tra Sei e Settecento restò appannaggio dei centri tradizionali soprattutto la produzione del pentolame da cucina e delle terrecotte. Quest’ultima, come sappiamo, aveva in Toscana i suoi centri d’elezione in Montelupo ed Impruneta. Essi alimentavano flussi d’esportazione diversi. Montelupo – o meglio, le fornaci poste nei suoi borghi di Samminiatello e Camaioni – produsse moltissimo nel corso del Settecento, esitando gran parte delle sue terrecotte nel Pisano, la Lucchesia e, più in generale, nel mercato internazionale. Non per caso si è potuto documentare un orcio siglato “Bitossi” e datato “1789” nell’isola greca di Corfù, ma la presenza di questi manu- Catinella con decoro “a spirali verdi” (1740-80) fatti si nota in tutta la Grecia, ed in particolare nelle zone a più alta vocazione olivicola del continente (pianura di Delfi) e delle Cicladi (Naxos, Santorini). Fittili di questo genere sono segnalati anche in ritrovamenti marittimi a grandissima distanza dalle coste italiane: un esemplare montelupino, ad esempio, è stato recentemente recuperato nel relitto di una nave da guerra inglese, affondata nei mari australiani alla fine del XVIII secolo. Gli orci montelupini, del resto, raggiungevano in abbondanza l’Inghilterra attraverso il commercio oleario, e venivano persino utilizzati come insegne degli esercizi commerciali che vendevano l’olio d’oliva (comunicazione di H. Blake). I prodotti valdarnesi, favoriti nell’eportazione dalla presenza della via d’acqua, erano però di qualità inferiore rispetto a quelli imprunetini, per essere questi ultimi foggiati con una terra di cava che conferiva loro spettacolari doti di durevolezza. Verso questi prodotti, quindi, si indirizzava di preferenza la richiesta di qualità, e coloro i quali desideravano acquistare terrecotte da collocare all’aperto: un’esigenza che, con il proliferare dei giardini e delle ville, andava sempre più diffondendosi. I terracottai dell’Impruneta, però, che pure fabbricavano manufatti pesanti e di ingombranti dimensioni, non avevano al pari dei loro colleghi montelupini l’opportunità di poter usufruire di corsi d’acqua navigabili per il loro trasporto: è per questo che i loro prodotti sono largamente presenti nel mercato interno della Toscana, ove occupano la nicchia di qualità, ma non trovarono pari diffusione sul mercato internazionale. Tra Sei e Settecento i vasai dell’Impruneta seppero comunque diversificare la loro attività, tanto da riuscire a porre, con o senza l’ausilio dell’ingobbio, una verniciatura piombica su quell’argilla così durevole, ma assai riottosa a preservare ogni genere di rivestimento. Gli estensori dell’inchiesta del 1768 affermarono che le fornaci locali, delle quali purtroppo non seppero riferire il numero, avevano annualmente prodotto nel periodo 1764-68 almeno 736 orci da olio, oltre 500 “vasi da piante e fiori”, 700 catini ed altrettante conche, nonché circa 120 basi “da piante di agrumi”. Nel medesimo periodo i ceramisti imprunetini avevano fabbricato almeno 6 statue in terracotta per anno, e questo dato, unitamente all’articolazione tipologica della loro attività, quale si può evincere dal documento, conferma ancora come essi fossero padroni del mercato che si legava all’abbellimento ed alla decorazione dei giardini. Assieme alle terrecotte fu la fabbricazione del pentolame invetriato da cucina a garantire il mantenimento dei settori tecnologicamente meno avanzati delle attività fittili della Toscana. La storia di questa attività, affatto particolare rispetto alle lavorazioni destinate alla mensa, è ancora tutta da scrivere per questa come per altre regioni d’Italia. Sappiamo comunque come nel 125 124 Small basing with “green spirals” decor (1740-80) again the masters of the market of garden embellishment and decoration. The less technologically advanced fields of clay activity in Tuscany were sustained not only by earthenware but also by the manufacture of glazed pots and pans. The history of this activity in particular respected kitchen productions for this and the other regions in Italy. It is, however, known that during the 18th Century the prospect of those dedicated to this activity radically changed caused by the heavy reorganization of the whole regional pottery division of that period. Towards the end of the Middle Ages, the use of plumbic glazing in the production of kitchen containers became spread and it was Cancelli, today hamlet of the Municipality of Reggello in the Upper Valdarno, which represented together with Impruneta, the main location of this activity. Except for these two towns, whose works above were all exported to Florence. As a matter of fact the production of pots and pans seemed to depend on furnaces working for a more limited circle or at least this activity was practised within stores where articles were produced, like Borgo San Lorenzo, Fucecchio and Pontorme. Following the same mechanism of “substitution” that was determined in the second half of the XVI century, the diffusion of the Majolica crisis and of tableware in general, caused the conversion of mixed manufacture in some of the furnaces that previously produced only enamels. These circumstances conflicting trends, which favoured the diffusion of pots and pans while simultaneously depressing the traditional enamelled tableware, obviously made some potters of Montelupo abandon the latter and specialize in kitchen clays. According to the above mentioned 1768 Report, the production of glazed articles was started up in Montelupo towards 1718-20. This article had been introduced 60 years previously, and in those years could already depend on five workshops specialized in making pots, pans, and warming pans, covered in plumbic ceramic glaze, at times briefly adorned with lime edgings. However, the data provided by the authors of this document mentioned 500 articles baked a year, relating to the aforesaid furnaces, which seemed hardly credible, since it would mean that each was working at a rate of 100 full kilns a year, that is around eight every month and it would seem more credible that this number was intended to estimate the whole production of glazed kitchenware of Montelupo, thus including those coming from the mixed workshops, where the “common kitchenware” was being produced. MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE “uccelli”) non trovano riscontro nella documentazione di scavo di tipo extraregionale. Questo fenomeno è d’altra parte ben comprensibile ove si rifletta come al continuo deterioramento tecnico-estetico della produzione locale, che già negli ultimi anni del Seicento aveva visto il ritorno all’impasto rossastro e la supremazia di quella tavolozza incentrata sul verde e sul bruno della quale già si è detto – quasi un ritorno, cioè, agli antichi parametri della “maiolica arcaica” medievale – faceva riscontro la sempre più ampia diffusione della porcellana, della maiolica di qualità francese ed olandese e, infine, anche l’affacciarsi sui mercati mediterranei della terraglia inglese. Questa situazione è ben documentata da un’analisi della bilancia commerciale del Granducato di Toscana, richiesta da Pietro Lepoldo I quale supporto cognitivo alla riforma delle dogane. Dall’indagine emerge con chiarezza come al regresso della produzione interna facesse riscontro una forte importazione dall’estero di generi di qualità, che nel 1772 era valutata, nonostante la piena attività ormai raggiunta dalla manifattura di Doccia, per le stesse porcellane in 1.509 lire (oltre 315 scudi). Ma l’importazione di questo genere vascolare in MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE smaltata tradizionale, non mancò ovviamente di suggerire ad alcuni vasai montelupini di abbandonare quest’ultima per specializzarsi nei fittili da cucina. Stando a quanto afferma la già citata Relazione del 1768, la fabbricazione delle invetriate fu avviata in Montelupo verso il 1718-20 (“quest’arte è introdotta da circa 60 anni in qua”), ed in quegli anni poteva contare già su cinque esercizi specializzati nel produrre pentole, tegami, e scaldini, rivestiti con vetrina piombica, talvolta sommariamente decorati con filettature di calce. I dati forniti dagli estensori del documento parlano tuttavia di 500 cotte all’anno, rapportandole alle suddette fornaci, il che appare poco credibile, in quanto significherebbe che ciascuna di esse lavorava al ritmo di 100 fornaciate all’anno, cioè circa otto ogni mese: ci sembra dunque assai più credibile che questo numero intenda stimare l’intera produzione di invetriate da cucina di Montelupo, e comprenda perciò anche quella proveniente dagli esercizi misti, ove si fabbricava anche la “stoviglieria comune”. Il valore economico della produzione di pentolame era dunque valutato in 25.000 lire annue: una cifra di tutto rispetto, specie in relazione al pregio unitario non elevatissimo dei manufatti. Il giro d’affari legato ad essa, inoltre, era “cresciuto anco da 20 anni in qua per esservene un maggior esito tanto per lo Stato che per fuori”, ma la rapida diffusione dell’attività aveva ingenerato forme di concorrenza, le quali avevano a loro volta determinato l’abbassamento dei prezzi. Il quadro positivo che contraddistingueva il pentolame si era dunque recentemente incupito, sia in ragione dei minori ricavi dovuti alla concorrenza, sia per l’aggravio dei costi di produzione dovuto alla ripresa dell’inflazione, fattasi sensibile ad iniziare dal 1750 circa. Gli estensori della Relazione fissano a 14 lire per cotta – cioè a ben il 28% – la diminuzione dei ricavi che si era realizzata negli ultimi vent’anni a causa di questi fattori negativi, ma tale valutazione è da considerare senz’altro eccessiva, in quanto finalizzata a supportare la richiesta di intervento e di protezione da parte del Principe. Possiamo ben dire che in realtà, dall’ultimo trentennio del XVIII secolo sino ai primi lustri dell’Ottocento, fu proprio la fabbricazione del pentolame a consentire la sopravvivenza delle attività fittili in Montelupo e nella vicina Capraia. La diffusione degli esercizi da pentolaio in quest’ultima, mostra, del resto, quel superiore grado di sviluppo rispetto alla stoviglieria comune ed ordinaria che efficacemente viene sottolineato nel documento del 1768; la nascita del nuovo polo produttivo consentì di moltiplicare e diffondere sul territorio alcuni mestieri fondamentali per l’arte ceramica, quali quello del torniante e del fornaciaio, che si riveleranno preziosissimi per la ripresa della produzione di qualità, avvenuta, grazie al trasferimento da Doccia di Raffaello Fanciullacci. Assai difficile, per di più, sarebbe stata la congiuntura di fine secolo, alla quale probabilmente le attività locali non avrebbero potuto sopravvivere se non avessero già subito da oltre mezzo secolo quel benefico processo di allargamento territoriale al quale abbiamo appena accennato. Nella Relazione del vicariato di Empoli redatta dal giusdiscente Claudio Masini nel 1796 le fornaci da “piatti e boccali” presenti in Montelupo restano le sei già indicate nell’Inchiesta sulle manifatture di trent’anni prima, ma quelle da “da coppi e vasi” – tutte collocate a Samminiatello – scendono addirittura da Orcio in terracotta di Montelupo dalle volte della villa dell’Ambrogiana (1587-89) 127 126 The economic value of the production of pots and pans was therefore estimated to be 25.000 lira yearly, a respectable amount, especially compared to the low unit value of the handmade articles. Furthermore, its turnover had also grown in the last 20 years becoming a bigger sale both for the State and outside but the activity’s rapid diffusion had created forms of competition, which in turn had determined the reduction of price. Therefore the positive picture that distinguished the pots and pans had recently clouded over, both for the fewer revenues due to competition and for the increase in production costs due to inflation which had become tangible from around 1750. Owing to these negative factors, the authors of the Report fixed the reduction in revenues in the last twenty years at 14 lira for batch, that is a good 28% but such an estimation must undoubtedly be considered excessive, being directed to support the Prince’s request of intervention and protection. As a matter of fact it can be said that during the last thirty years of the XVIII century until the first ten years of the19th, it was actually the production of pots and pans that permitted the survival of the clay activity in Montelupo and the nearby Capraia. Moreover, the diffusion of potters’ workshops in the latter demonstrated the superior level of development in respect to the common and ordinary kitchenware that is very effec- tively highlighted in the 1768 Report. The beginning of a new productive role permitted the increase and spread of some fundamental trade in ceramic art, such as the wheeler and the kiln workers, who showed themselves to be very precious for the revival of quality production, which, as has been seen, occurred thanks to Raffaello Fanciullacci’s transfer from Doccia. Circumstances at the end of the century which local activities probably wouldn’t have survived if they hadn’t already undergone the beneficial process of territorial expansion in the last fifty years, as already mentioned, would have been even more difficult. In the Empoli Vicariate Report, written by the jurist Claudio Masini in 1796, the plate and jug furnaces present in Montelupo already indicated in the inquiry on handmade articles written thirty years before, situated in Samminiatello diminished from ten to six; the number of pots and pans furnaces decreased as well from five to two. The overall occupation of these workshops, estimated by the vicar together with that of tanning, was only of 85 workers. If one compared the situation of Montelupo as described by the vicar from Empoli with that of Capraia, one can realize how the development of the manufacture of pots and pans at the beginning of the second half of the XVIII century, had achieved the Terracotta jar of Montelupo from the Medici Villa of Ambrogiana voltings (1587-89) effect of strongly towing the companies started up in the castle of the right bank. In fact, according to the Capraia Report there were even eight pot and plate furnaces operating and there were 80 people working there, a number of workers that had practically equalled that of the whole clay division of Montelupo. In the Second Half of the Nineteenth Century: a Rural Industry to be Re-established At the beginning of the nineteenth-century, with the establishment of the short-lived Etrurian Kingdom (1801-1807) and with the following annexation (27th October 1807-1814) into the French Empire, Montelupo, but also the neighbouring Capraia, encountered big difficulties in maintaining a pottery activity which seemed to have reached its all time minimum; this is probably to due to the continuous conflicts of the period and the economic depression induced by the English continental system. In fact, according to the Industrial Statistics of 1811-12, only two furnaces for “common pottery” were working in Montelupo, giving work to eight employees, whereas at Capraia the thriving manufacturing of pots in 1796 had reduced down to only two furnaces, where only three people were employed. As Cesare Baccetti fairly observed, considering the difficult economic circumstances of that period, the figures supplied by the Statistics seem, if not completely wrong, at least untruthful, maybe because they respected a criteria which was not appropriate for the situation they want to describe. In reality it was different and it was also suggested in the analysis of the Leopoldian Land Registry Office of 1817-34. Even though compiled some time later respect to the French census, this document, in fact, highlighted the presence of 26 furnaces of various kinds spread in the whole territory of Montelupo. It can also be estimated that at least half of MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE corso del XVIII secolo, evidentemente in funzione della profonda ristrutturazione dell’intero comparto ceramico regionale di quel periodo, l’orizzonte dei centri di fabbrica che si dedicavano a questa attività mutò radicalmente. Sul finire del Medioevo, allorquando venne a generalizzarsi l’impiego dell’invetriatura piombica nella produzione dei contenitori da cucina, era Cancelli, odierna frazione del comune di Reggello, nel Valdarno Superiore, a rappresentare, assieme all’Impruneta, il luogo di elezione di questa attività. Ad eccezione di questi due centri, che lavoravano soprattutto per esportare i loro manufatti nella città di Firenze, la fabbricazione del pentolame sembra infatti dipendere da fornaci che operano per ambiti più ristretti, o comunque – come Borgo San Lorenzo, Fucecchio e Pontorme – praticano questa attività all’interno di esercizi ove si producono ceramiche ad ingobbio. La crisi della maiolica e della stoviglieria in generale, facendo scattare l’identico meccanismo di “sostituzione” che determinò la diffusione delle ingobbiate nella seconda metà del Cinquecento, determinò la conversione di parte delle fornaci che in precedenza si dedicavano alla fabbricazione delle smaltate in unità produttive ove si esercitava una lavorazione mista. Il contrastante andamento della congiuntura, che favoriva la diffusione del pentolame e nel contempo deprimeva la stoviglieria MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE Nella prima metà dell’Ottocento: un’industria rustica e da rifondare. All’inizio dell’Ottocento, con la creazione dell’effimero Regno d’Etruria (1801-1807) e con la successiva annessione (27 ottobre 1807-1814) all’Impero Francese, Montelupo – ma anche la vicina Capraia – sembra addirittu- ra incontrare forti difficoltà a mantenere un’attività ceramistica che pure sembrava aver ormai toccato il suo minimo storico; ciò è probabilmente da imputare ai continui conflitti dell’epoca ed alla depressione economica indotta dal blocco continentale inglese. Secondo la Statistica Industriale del 1811-12, infatti, sarebbero state in attività in Montelupo soltanto due fornaci di “poteries communes”, le quali avrebbero dato lavoro ad otto addetti, mentre a Capraia le fiorenti lavorazioni di pentole rilevate nel 1796 si sarebbero ridotte a due sole fornaci, ove, per di più, avrebbero trovato occupazione soltanto tre persone. Come giustamente è stato osservato da Cesare Baccetti, pur tendendo di conto della difficile congiuntura economica di quegli anni, le cifre fornite dalla Statistica appaiono, se non del tutto errate, quantomeno non veritiere, forse perché rispettano criteri di rilevazione non appropriate alla situazione che vogliono descrivere. Che la realtà fosse diversa lo suggerisce, del resto, anche l’analisi del Catasto leopoldino del 1817-34. Pur redatto a distanza di qualche tempo rispetto al censimento francese, questo documento evidenzia infatti la presenza di 26 fornaci di varia natura diffuse in tutto il territorio di Montelupo; si può inoltre valutare che almeno la metà di esse erano relative ad esercizi di terracotta e stoviglieria. La proprietà delle medesime afferisce alle famiglie sopravvissute alla crisi settecentesca: i Bitossi ne avevano cinque, i Curradini due, mentre una per ciascuna apparteneva alle famiglie Visibelli, Grazzini e Scappini: queste ultime sono sicuramente quelle destinate alla lavorazione di vasellame. Il capitolo di San Lorenzo di Firenze e la pieve di San Giovanni Evangelista possedevano altre due fornaci che, pur essendo principalmente impegnate nella fabbricazione di laterizi, potevano però cuocere anche orci e conche. Una sensibile ripresa delle attività dopo gli anni difficili dell’annessione alla Francia è ancor meglio evidenziata dal Censimento nominativo della popolazione del 1841. Esso mostra infatti la presenza di oltre 120 addetti, impegnati in pianta stabile nelle lavorazioni ceramiche, ormai nettamente indirizzate, però, ad un mercato di tipo popolare; per valutare il peso economico complessivo di questo comparto nel novero delle attività produttive locali occorrerebbe ovviamente aggiungere a questo numero quelli dei lavoratori occasionali e/o occupati nell’indotto (i boscaioli che fornivano il combustibile, i mugnai utilizzati per la macinazione delle fritte e degli ossidi metallici, i barrocciai impiegati per il trasporto dell’argilla e del prodotto finito). Pentola invetriata di Montelupo (1740-80) 129 128 Glazed pot of Montelupo (1740-80) them were dedicated for earthenware and tableware. Their ownership refers to families that had survived the XVIII century crisis: the Bitossi family had five, Curradini’s two, and the Visibelli, Grazzini and Scappini families one each. These latter were certainly intended for the production of earthenware. Saint Laurence’s chapter and Saint John the Evangelist’s parish owned the other two furnaces which, even though primarily intended for the production of bricks, could also bake pitchers and pots. A considerable recovery of activities after the difficult years of the annexation to France is even better highlighted by the registered census of the population of 1841. In fact, it displays the presence of over 120 employees, regularly engaged in the production of pottery, yet by this time clearly directed towards a popular kind of market; so to estimate the overall economic weight of this sector among the local productive activities, one must obviously add to this figure the use of occasional workers and those engaged for other duties i.e., the woodcutters who supplied the fuel, the millers who ground the frits and the metallic oxides, the carters who carried the clay and the finished product. MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE dieci a sei; anche il numero delle fornaci da pentolame decresce da cinque a due. L’occupazione complessiva in questi esercizi, valutata dal vicario assieme a quella relativa ad una concia per le pelli, era di soli 85 addetti. Se confrontiamo la situazione montelupina descritta dal vicario empolese con quella della prospiciente Capraia, ci possiamo rendere conto come lo sviluppo che, ad iniziare dalla seconda metà del XVIII secolo, qui assunse la fabbricazione del pentolame, abbia sortito l’effetto di trainare fortemente le imprese nate nel castello della riva destra: secondo la Relazione, infatti, erano allora in attività a Capraia ben “otto fornaci da pentole e una piatti e [vi] lavoravano 80 persone”, un numero di addetti che era venuto cioè praticamente ad eguagliare quello relativo all’intero comparto fittile montelupino. PARTE TERZA La produzione ceramica: tecnologia, metodiche ed organizzazione delle botteghe in Montelupo dal XIV al XVIII secolo THIRD PART The production of ceramics: technology, methodology and organization of the workshops dati, più che alla conoscenza della realtà, all’azione riformatrice dello stato. Non per caso l’Inchiesta sullo stato delle manifatture degli anni 1765-68 venne “pilotata” mediante un questionario. Si può così notare come la relazione di risposta, redatta nel 1766 dai “deputati” montelupini, pur rivelandosi di gran lunga la migliore – per quanto attiene la produzione ceramica – tra quelle contenute negli atti dell’inchiesta, giunga appena a sfiorare il problema dell’organizzazione del lavoro e degli aspetti tecnologici connessi con la tradizione locale. Nonostante siano ricche di spunti importanti e, nei casi più felici, anche di dati numerici, queste relazioni non sono dunque sufficienti a legare assieme quella molteplicità di informazioni di tipo parziale e, talvolta, anche di natura indiretta, che le scritture archivistiche ci forniscono. Mancandoci un riferimento di natura sintetica, siamo perciò costretti ad allargare il novero delle fonti. Per quanto attiene la produzione della ceramica, è evidente come sia la documentazione di tipo archeologico ad offrire le più immediate opportunità di approfondimento dei quadri tecnologici e produttivi. Nel caso di Montelupo, in particolare, il rinvenimento non soltanto di scarti di lavorazione di ogni tipo, ma anche di attrezzi da lavoro e resti di strutture – in particolare for- LA PRODUZIONE CERAMICA La ricostruzione delle vicende dell’insediamento di Montelupo e della sua produzione ceramica pone in risalto il grande peso che tale attività, strettamente legata, nonostante le oscillazioni congiunturali, a Firenze, esercitò sull’economia del luogo. Dalle storie personali dei vasai emergono i tratti fondamentali dell’arte fittile montelupina, quali ad esempio l’articolata estrazione sociale dei ceramisti, le peculiari forme associative entro le quali si svolgeva il loro lavoro, e, più in generale, la complessità del quadro tecnologico ed organizzativo delle fornaci e delle botteghe locali: la conoscenza di questi aspetti fondamentali della produzione ceramica è infatti agevolata dalla quantità e dalla qualità della documentazione d’archivio disponibile. Per ottenere informazioni di questo genere è però necessario rivolgersi alle fonti fiscali, agli atti giudiziari od alle sillogi statutarie e normative, poiché, nonostante la loro non trascurabile rilevanza economica e sociale, nessuna relazione o descrizione coeva è in grado di restituirci un quadro sintetico delle attività ceramistiche della Toscana sino alla seconda metà del XVIII secolo. Se poi le cose mutarono sostanzialmente nel periodo del principato di Pietro Leopoldo, allorquando i quadri economici e sociali ereditati dal passato divennero oggetto di indagini accurate, fu lo spirito dell’aritmetica politica a prevalere, finalizzando la raccolta dei 133 manufacturing during 1765-68 was “piloted” through a questionnaire. We can note how the type of answers given by the “deputed” of Montelupo, even though they were the most successful and most reliable – regarding ceramics production – hardly mention organizational problems in the workplace and the technological aspects linked to the local traditions. Despite the fact that they are rich in important annotations and in the happier cases, numerical data, these relations are not sufficient to permit us to connect together the multiplicity of information in partial form and sometimes indirect supplied by the archives. Lacking this synthetic element, we are forced to widen the research base. Regarding ceramics production, it is obvious that archaeological documentation gives us the most immediate opportunity to get a deeper knowledge of the technological and production picture. In Montelupo’s case in particular, the recovered items, not only those discarded pieces of the production process but also work instruments and apparatus and structural remains – in particular furnaces – consent a more precise and more correct interpretation of the previous documentation regarding the processes of elaboration. We must also be aware of the multiple difficul- THE PRODUCTION OF CERAMICS The reconstruction of the events of the settlement in Montelupo and its ceramic production poses another problem to be considered, the heavy weight that this activity impressed on the economy of the place. From the personal stories of the potters emerge some fundamental features of life in the ceramics world of Montelupo, for example the social extraction of the potters, the associations that they formed, and in general, the complexity of the technological and organizational picture featuring the furnaces and the local workshops: the knowledge of these aspects is helped by the high quantity and quality of archived documentation. To extract information of this kind it is generally necessary to turn to fiscal sources, to judicial acts, statutory and normative sylloges even though they don’t give a synthetic idea of the ceramics activity in Tuscany until the second half of the XVIII century. And even then, during the period of the principality of Pietro Leopoldo, when the economic and social events of the past became the subjects of a more accurate investigation, it was the arithmetic and political spirit that prevailed, being more concerned with the reformation of the state activities rather than an understanding of the reality of the times. Not by chance the investigation into the state of LA PRODUZIONE CERAMICA se giungono a definire in maniera incontrovertibile ciò che potremmo chiamare l’ “impronta” di tali manufatti – e quindi la struttura, più o meno modificata dal fattore tempo, della tradizione tecnologica alla quale appartengono – non valgono certamente di per sé a definire per intero il processo di produzione dai quali derivano. L’approccio archeometrico, infatti, può stabilire in maniera univoca e scientificamente verificabile una serie parametri fondamentali (in particolare la temperatura di cottura, la granulometria e la composizione chimico-fisica del corpo ceramico, dei rivestimenti e dei pigmenti), ma approda comunque ad una certezza che si fa parziale per l’indagine storica. Se, ad esempio, si giunge a constatare attraverso l’analisi archeometrica che da un certo periodo in avanti le ceramiche fabbricate in un determinato luogo presentano un corpo ceramico inusitatamente ricco di calcio – è questo il caso di Montelupo – e ciò vale a segnalare un importante modificarsi della tecnologia locale, non per questo una simile certezza, pur scientificamente attestata, vale a spiegare le ragioni per le quali una simile evoluzione venne ad accreditarsi, e neppure come essa fu resa tecnicamente possibile. È dunque evidente che la ricostruzione della tecnologia e dell’organizzazione produttiva di un centro di fabbrica d’età preindustriale non può condursi con apprezzabile successo se non si riescono a combinare i dati derivati dalle fonti scritte della più varia natura con le indagini archeologiche ed archeometriche. La continuità storica delle attività – spesso mai interrotte nei diversi centri di fabbrica, nonostante le crisi e le cesure congiunturali – offre però un ulteriore approccio per risolvere il difficile problema della ricomposizione dei quadri tecnologici e sociali ad esse relativi: lo studio delle sopravvivenze storiche di natura materiale, delle pratiche di mestiere e dello stesso lessico legato alle attività produttive del luogo. Per Montelupo e per la sua tradizione ceramica un’indagine su tali sopravvivenze è stata condotta una ventina d’anni or sono, utilizzando le metodiche dell’oral history, da un’équipe di specialisti, ed è valsa a raccogliere numerose testimonianze relative alle metodiche ed all’ambiente sociale connesse con la fabbricazione della ceramica nell’area di Montelupo e della vicina Capraia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Nonostante le sostanziali differenze col passato preindustriale, imputabili ad una più tenace sopravvivenza della tradizione legata alla fabbricazione del pentolame e della terracotta, le informazioni raccolte in quella occasione si sono rivelate assai preziose per la comprensione di aspetti fondamentali della struttura produttiva delle fornaci e dell’organizzazione del lavoro nelle stesse botteghe montelupine di età preindustriale. Un confronto tra le fonti scritte coeve e quelle orali del periodo successivo, lascia tuttavia trasparire come la realtà dei due secoli – il XV ed il XVI – i quali videro l’ “età d’oro” della produzione ceramica montelupina, si mostri ben più complessa e, per non pochi aspetti, addirittura più avanzata delle sopravvivenze “preindustriali” contemporanee. Se, dunque, si può parlare in questo caso di “sopravvivenze”, intendendo con questa parola una realtà che opera attraverso metodiche derivate dal passato – sistemi autarchici per la fabbricazione degli impasti ceramici, dei rivestimenti e dei pigmenti con l’impiego esclusivo della forza dell’uomo – non per questo si deve pensare che il clima storico all’interno del quale, nonostante tutto, esse si mantennero in vita non abbia completamente disseccato quegli aspetti che si relazionavano ad una forma di società ormai tramontata. E ciò non vale soltanto per gli aspetti macroscopici del processo storico – ad esempio l’organizzazione corporativa del lavoro – ma per tutte quelle forme assunte da un’attività economica “di punta”, che un tempo si relazionava a scenari complessi – il mercato internazionale, l’ampia articolazione delle committenze, il rapporto col capitale esterno di natura mercantile – mentre nel secolo appena trascorso copriva ambiti secondari e residuali del processo economico, ed era per lo più legata al mercato regionale. E tutto ciò, in fondo, segnala anche un bel modo per non 135 134 ties that the study of the sources of material nature presents, both in understanding the role of the investigated documents in terms of the phase of elaboration and in understanding its typicality. If larger numbers, in part, can help us to resolve this problem, we must conclude that many aspects of the production process remain out of our investigative capacities – if we think of the different stages of the fabrication of the paste – because they don’t leave, material traces. The traces of the antique processes of production can however be found in the ceramic material which can be studied using architectonic methods. The archaeometric data – of a numerical nature but obviously rich in qualitative implications – demonstrate however the “specificity” and “regularity” of the chemical-physical nature of the ceramics belonging to a given centre of production; they give a certain “stamp” to the product – more or less modified by the time factor, by the tradition and its technology – but they are unable to permit us to define the whole process. The archaeometric approach can define in a un ambiguous and scientifically verifiable way a series of fundamental parameters (in particular the baking temperature, granulometry and the chemical-physical composition of the ceramic body, the decoration and the pigments), but this adds up to a partial under- standing of the historical contexts. For example, being able to state, through archaeometrical analysis, that from a certain period onwards the ceramics fabricated in a certain place presented a ceramic body unusually rich in calcium – and this is the case in Montelupo – which signifies an important modification in the local technology, doesn’t mean we have be sure of the reasons why such an evolution took place or why it became possible. It is therefore evident that a reconstruction of the technology and the productive organization of a centre of production in the pre industrial age can’t happen with an appreciable degree of success unless all the known data, from written, archaeological and archaeometrical sources are combined. The historical continuation of the activity – in many centres uninterrupted notwithstanding the different periods of crisis – offer an ulterior approach in resolving the difficult problem of re composing the technological and social pictures: the study of the historical survival of the natural material, of trade practices, and even the lexicon of the productive activity of the places. Concerning Montelupo and its ceramic tradition, an investigation into its survival has been ongoing for twenty years or so, using the method of oral history, by a team of specialists and it is worthwhile collecting the different evidence relative to the methods of production and social surroundings relative to the fabrication of ceramics in the area of Montelupo and in the nearby Capraia in the period during the two world wars. Notwithstanding the substantial difference from the pre industrial past, due to a more tenacious survival of the tradition linked to the fabrication of pans and terracotta, the information gathered has proved to be precious for an understanding of the fundamental aspects of the structural production within the furnaces and the organization of work in the workshops of Montelupo during the pre-industrial period. A comparison between contemporary written sources and oral sources from the successive period highlight the possibility that during the two centuries – XV and XVI – which was the “golden period” of ceramic production in Montelupo, certain aspects were much more complex and more advanced than thought compared to the contemporary pre industrial “survival” situation. If then in this case we can speak of “survival”, meaning a reality operating through methods derived from the past – autarkic systems of fabrication of the ceramic mixture, the covering and the pigments, all done exclusively through human effort – one can imagine the historical climate within which, despite everything, remained in existence and didn’t dry up like other elements of the contemporary society. This was not only the case for the macroscopic aspects of the historical process – for example the corporative organization of the work – but all the elements assumed by an economic activity at its height which was involved in complex relationships with the international markets, the needs of the clients, the relationship with external merchant capital whilst in the preceding century there was a concentration on the regional markets. In all, it’s wise to avoid the temptation to be easily led by those who want to oversimplify the story by reducing it to a few vectors of change over time towards modern times. We have to be aware that even this approach – one we could call historical -anthropological – in terms of reconstructing the ceramics business of the past, could provide a precious frame, able to make the documentation more explicit and understandable but we can’t raise it to a level where it offers evidence of the social forms that surrounded the ancient production, not even if this production is exercised with substantially identical methods. After having painfully evaluated in a very critical manner the methods through which we are attempting to reconstruct the technological and social picture concerning ceramics production in pre industrial Montelupo, we have to illuminate how the following explanation necessarily involves a furnace THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA naci – consente infatti precisare, e talvolta anche correggere, le testimonianze, talora parziali od ingannevoli, della documentazione scritta: l’analisi di tali manufatti apre perciò la strada ad una lettura più approfondita degli stessi processi di lavorazione. Occorre tuttavia essere consapevoli delle molteplici difficoltà che anche lo studio delle fonti di natura materiale presenta, sia in ordine alla comprensione del ruolo che i documenti indagati hanno esercitato nelle diverse fasi della lavorazione, sia in merito alla valutazione della “tipicità” della testimonianza che offrono. Se la moltiplicazione dei reperti contribuisce in parte a risolvere il problema, non bisogna però ignorare come resti pur sempre fuori della portata dell’indagine archeologica la definizione di molti particolari connessi con quelle procedure produttive – si pensi, ad esempio, ai differenti passaggi necessari alla fabbricazione degli impasti ceramici – che assai difficilmente lasciano dietro di sé testimonianze di tipo materiale. Le tracce degli antichi processi di produzione si possono tuttavia riscontrare negli stessi materiali ceramici, qualora essi vengano indagati con metodiche di tipo archeometrico. I dati archeometrici – di natura numerica, ma ovviamente ricchi anche d’implicazioni qualitative – mostrano però le “regolarità” e le “specificità” di natura chimico-fisica delle ceramiche appartenenti ad un dato centro di fabbrica; essi, dunque, anche LA PRODUZIONE CERAMICA anche da botteghe prive di fornaci e da fornaci che non avevano al loro interno le strutture adatte – né probabilmente la manodopera idonea – a sviluppare l’intero ciclo produttivo. Si tratta dunque di una semplificazione necessaria a non appesantirne il contenuto, ma tuttavia non tale da alterare i contenuti dell’esposizione. Sul modello della fornace “a ciclo completo”, che fu l’unità più complessa ed articolata, si modellò indubbiamente, del resto, l’organizzazione degli spazi, la quantità e qualità delle strutture produttive, nonché lo stesso processo di lavorazione. Nel caso di Montelupo si posseggono alcuni inventari di fornace, nei quali sono descritti gli spazi e le attrezzature impiegate nell’attività produttiva che in esse si svolgeva; esse, per finalità di carattere patrimoniale, sono talvolta anche oggetto di stima in termini monetari. Queste fonti, tuttavia, ci sono note in numero esiguo, in quanto il lavoro di ricerca archivistica è nel suo complesso ancora da estendere e perfezionare. Alla miriade di documenti relativi ai più minuti aspetti del mondo degli “orciolai” del XVI secolo, i quali sono per il momento in gran parte derivati dalle ricerche di Galeazzo Cora, fa infatti riscontro un modesto numero di inventari, che non giungono – e ciò è piuttosto anomalo – ad interessare anche il Seicento; una nostra esplorazione nelle filze del tribunale locale ha invece incon- trato nella serie settecentesca degli atti civili, peraltro relativamente avara di notizie sull’attività ceramistica locale, un significativo gruppo di inventari, i quali attualmente costituiscono il nucleo più importante di descrizioni di fornaci – con tutti i loro annessi, attrezzi ed anche prodotti – sui quali è oggi possibile indagare. Ovviamente in queste scritture emerge soltanto la cornice materiale del lavoro nella fornace, e da esse non è perciò possibile trarre alcuna informazione diretta su come fosse organizzato il ciclo produttivo. A ciò possiamo tuttavia ovviare mettendo in connessione gli inventari di fornace con le registrazioni contenute nei registri degli atti civili dei podestà, laddove le singole azioni, consistendo spesso in richieste di pagamento per la vendita di materie prime o per prestazioni d’opera, ci fanno intravedere gli uomini in attività all’interno delle strutture produttive, e ne fissano i diversi impieghi e professioni. La documentazione fiscale dei secoli XV e XVI tratta indifferentemente di “bottega”, “fornace” e di strutture produttive nelle quali espressamente si afferma esservi tanto l’una che l’altra. Nella Decima del 1536, ad esempio, compare una sola fornace, ma ben 6 botteghe con fornace e 12 esercizi da vasaio privi di forno. Mentre sembra logico supporre che ad una fornace si accompagni anche un nucleo di “bottega”, costi- tuito almeno da un semplice ambiente nel quale si effettuano lavorazioni che non comportano la cottura dei manufatti – quali la tornitura, l’apposizione dei rivestimenti e la decorazione – ed in essa si trovi altresì il magazzino e l’amministrazione dell’azienda, l’inverso non può dirsi altrettanto scontato: la presenza di una bottega, infatti, può benissimo non accompagnarsi a quella di una fornace, e rappresentare perciò un nucleo produttivo che non racchiude in sé l’intero ciclo della lavorazione. Non pochi, infatti, sono i casi di ceramisti che sembrano operare in locali privi del forno: in queste “botteghe”, che più facilmente sfuggono al controllo corporativo dell’arte – anche perché funzionano spesso in maniera temporanea e sono talvolta gestite da vasai immigrati – si opera per conto od in società con altri vasai, effettuandovi solo la tornitura e la decorazione dei prodotti fittili. Per quanto una tale integrazione relativamente complessa tra strutture produttive che operano a differenti livelli di organizzazione sia probabilmente da intendersi come estesa ai maggiori centri di fabbrica italiani, è proprio in Montelupo che questo modello sembra trovare la più ampia e coerente diffusione. Come meglio vedremo successivamente, qui infatti la documentazione scritta indica sovente la presenza di “maestri” – e, dunque, non semplici lavoranti – che producono per conto di altri vasai in ambienti privi di for- 137 136 within which all the phases of production are carried out. Whoever writes is obviously aware that the “subject” is an ideal one and not so representative of the ceramics activity in the Valdarno, which was also animated by workshops without furnaces and furnaces that didn’t have an ideal structure – and probably not the ideal staff –which developed the entire productive cycle. We are dealing with a necessary simplification to avoid making the contents heavier but it’s also important to avoid altering the contents. The “full cycle” model which was the most complex and articulated unit, the concerns were related to the organization of space, the quantity and quality of the productive structure and the elaboration process. In Montelupo’s case there are some inventories which describe the space and equipment used; matters regarding the patrimony which are sometimes subject of monetary estimations. There are very few of these sources however, also because the archives have still to be perfected. Documents related to the smallest details of the world of the “potters” of the XVI century which have largely derived from the research of Galeazzo Cora, were based on a limited number of inventories which don’t even – and this is unusual draw attention to the seventeenth century; our exploration of the files of the local court house has howev- er turned up some civil acts from the seventeenth century - though the information relating to local ceramic activities is scarce - within which there was a significant group of inventories which constitute the most important nucleus of furnace description – with all their annexes, equipment and products – from which we are able to use for investigation today. Obviously in these writings only the material framework appears regarding the work of the furnace but from this it’s not possible to extract direct information on how the productive cycle was organized. We can get round this by connecting the inventories of the furnace and their registration contents in the civil acts of the district, where the single actions, often consisting in requests for payment for the sales of primary material or for work done, give us a glimpse of the workers in action inside a productive structure, and the different roles. The fiscal documentation of the XV and XVI centuries treat indifferently the “workshops”, “furnaces” and their relevant structures. In the 1536 tithe, for example, there is only one furnace but 6 workshops with an oven and 12 potter’s establishments without an oven. Whilst it seems logical to suppose that a furnace is accompanied by a nucleus of “workshops” where elaboration takes place but not the baking – the turning for example, the addition of a covering and the decoration – where there is a storehouse and an administrative section of the company, the idea of the inverse situation shouldn’t be discounted: a workshop can quite easily function without a nearby furnace but represent a productive nucleus that doesn’t cater for the whole cycle of elaboration. Indeed there are many cases of potters working in environments where there is no furnace; in these “workshops” which easily functioned outside of official recognition – also because they were often temporary and managed by immigrants – work was done for or with other potters, the decorations or turning of the ceramics products. Though this type of integration was to be found in many major centres of manufacturing in Italy, Montelupo seems to be the location where it seems to have found its most ample and coherent diffusion. As we are going to see, written documents indicate the common presence of “Masters”, and so not simple workers, who produced on behalf of other potters in environments without ovens, whilst some evidence connected to the production of majolica, above all the diffusion of the workshops’ trademarks, manage to find a reasonable explanation not only for the multiplicity of the numbers of practicing potters but also for the “pulverization” and disarticulation of the functional nuclei of the furnaces, as mentioned above. The Montelupo case seems to be however the most striking example of the pre industrial age, where, in an effort to be better prepared for the pressing demands of a vast and complex market, between the fifteenth and sixteenth centuries the “autarkic” forms of the economical cycle typical of the corporative economy were surpassed. Taking into account these phenomena then, we can proceed to the historical reconstruction of the ceramics industry through the study of a model of a furnace where all the phases were undertaken. It is however indispensable to distinguish between the furnaces dedicated to the fabrication of dishes and those producing enamelled or covered products; those products which were seen to be made by “jar pot furnaces” later known as “dish furnaces” or “plates and dishes furnace” from those who work with terracotta and plain ceramics, jars, basins and bricks. The difference between the two cases is evident and consists most of all in the fact that the latter type, relative to terracotta, doesn’t have the complications deriving from the production of the enamels, and colours which had been necessary for the fabrication of vase forms since the X111 century, even if the terracotta potters used a lead film to make the inside of THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA lasciarsi sedurre dalla tentazione semplificatrice di chi vede la storia come il dispiegarsi di processi vettoriali di cambiamento, orientati alla modernità man mano che si scorre lungo l’asse del tempo. Dobbiamo dunque essere consapevoli che anche questo approccio – che potremmo chiamare storicoantropologico – al problema della ricostruzione dell’attività ceramistica del passato può certamente offrirci una preziosa cornice, in grado di rendere più esplicita e comprensibile la documentazione, ma non può far assurgere le testimonianze sulle quale opera al ruolo di documenti in grado di rappresentare anche le forme sociali che afferivano all’antica produzione, neppure nel permanere di un’attività esercitata con metodiche sostanzialmente identiche. Dopo aver doverosamente valutato in maniera critica le metodiche attraverso le quali tentiamo di ricostruire i quadri tecnologici e sociali della produzione ceramica montelupina d’età preindustriale, dobbiamo infine chiarire come l’esposizione seguente venga necessariamente rapportata alla struttura di una fornace entro la quale si svolgono tutte le fasi del processo di produzione. Chi scrive è ovviamente consapevole che così facendo si introduce nella narrazione un soggetto “ideale”, che trovò una rappresentatività numericamente ridotta nella storia delle attività fittili del centro di fabbrica valdarnese, in quanto esse furono animate LA PRODUZIONE CERAMICA nace, mentre alcune testimonianze materiali connesse con la lavorazione della maiolica, quali soprattutto la capillare diffusione delle marche di bottega, riescono a trovare una ragionevole spiegazione non soltanto nella molteplicità degli esercizi da vasaio in attività, ma anche nel fenomeno della “polverizzazione” e disarticolazione in nuclei funzionali della fornace, alla quale disopra si accennava. Il caso di Montelupo rappresenta perciò forse l’esempio più eclatante di un’area preindustriale, nella quale, per meglio corrispondere alle pressanti sollecitazioni di un mercato vasto e complesso, si erano superati, tra Quattro e Cinquecento, quegli aspetti “autarchici” del ciclo economico tipici dell’economia corporativa. Tenuto in debito conto questi fenomeni, conviene comunque procedere, in ordine alla chiarezza d’esposizione alla quale poc’anzi si accennava, alla ricostruzione storica delle attività fittili attraverso il modello di una fornace nella quale si svolgevano nella loro completezza tutte le fasi della fabbricazione. È comunque indispensabile distinguere tra fornaci dedite alla fabbricazione della stoviglieria e dei manufatti smaltati o muniti di rivestimento in genere – ciò, insomma, che nelle fonti antiche si definisce come “esercizio d’orciolaio” e, sucRicostruzione grafica di una fornace attiva nella seconda metà del XV secolo (disegno Ink-Link Firenze) THE PRODUCTION OF CERAMICS 138 Graphic reconstruction of a furnace of the second half of XV century (Ink-Link Firenze) the products impermeable. It is also evident that the terracotta potter’s wheel was quite limited compared to those of the potters and mini jar producers: whilst the latter forged the vast majority of their products using the wheel, trusting in other techniques (Forming a mould) for particular products (small statues, ink pot relief, stoups, mirrors, small bricks for pavements), the terracotta workers prevalently used the “columbine” forging technique, using the wheel only when making basins, using a mix of techniques to turn the mould. Placed somewhere between these extreme cases were the pot makers who up to the “base form state” they used the same techniques as the dish makers but executing only the lead glazing process on the product, not decorating them – to sum up – the didn’t get involved with the fabrication of covers or particularly complex pigments and so had no need to organize this aspect in their work places; they stuck to relatively rustic products and could avoid the complications that the mini jar makers faced. As much of the work done in Montelupo from the end of the XIII century consisted in the production of different types of vases where the enamelled LA PRODUZIONE CERAMICA stadio del “bistugio” esse ricalcavano infatti grosso modo il procedimento proprio agli esercizi da stoviglieria, ma, praticando soltanto l’invetriatura piombica del prodotto e non decorando il medesimo – o facendolo in maniera assai sommaria – non indugiavano nella fabbricazione di rivestimenti e di pigmenti particolarmente complessi, e non avevano perciò necessità di organizzare al loro interno il lavoro dei decoratori; cuocendo manufatti relativamente rustici, inoltre, le fornaci da pentole potevano a loro volta evitare tutte quelle cautele che rendevano più difficoltoso il lavoro degli orciolai. Poiché gran parte delle lavorazioni che si svilupparono in Montelupo sin dalla fine del XIII secolo consistevano proprio nella produzione di generi vascolari diversi, con un sensibile predominio di quelli smaltati, è opportuno volgere la nostra attenzione ad una struttura dall’ideale completezza, nella quale ci si dedicava alla lavorazione della maiolica, la più complessa ed articolata. Trattando delle fasi e degli strumenti che caratterizzavano il lavoro in questo genere di fornaci, non mancheremo comunque di affrontare anche le difformità proprie ai processi produttivi che riguardavano le altre categorie di fittili (terracotta e pentolame) precedentemente richiamate. Oltre ad una divisione tipologica tra esercizi, pos- siamo per comodità d’esposizione individuare sette fasi nell’attività della nostra fornace ideale, raggruppando all’interno di ciascuna di esse le azioni indirizzate a completare il processo produttivo. Procedendo poi nella nostra descrizione in maniera ordinata dall’una all’altra, dobbiamo comunque essere avvertiti che in tal modo si introduce un’artificiosa gerarchia delle operazioni, in quanto nelle fornaci assai raramente l’attività procedeva secondo la sequenza logica (ma astratta) di fabbricazione, dipanandosi piuttosto per settori interdipendenti e pressoché autonomi, ove operava talvolta manodopera specializzata. Tali fasi attenevano sostanzialmente a: 1) PREPARAZIONE DEGLI IMPASTI ARGILLOSI; 2) FOGGIATURA; 3) PREPARAZIONE DEI RIVESTIMENTI; 4) PREPARAZIONE DEI PIGMENTI; 5) APPOSIZIONE DEI RIVESTIMENTI E DECORAZIONE; 6) COTTURA 7) IMMAGAZZINAMENTO DEI PRODOTTI FINITI. Poiché normalmente queste fasi si svolgevano in appositi settori della struttura produttiva, esse possono essere raggruppate per aree, anche se sappiamo che la separazione delle attività non era sempre di natura fisica, ma più spesso funzionale: in tal modo, comunque, potremo in parte correggere l’astrazione introdotta attraverso la semplice partizione sequenziale del processo di produzione, dato che le azioni che potremmo definire “collaterali” a quelle principali – quali ad esempio la movimentazione dei semilavorati e la gestione dei magazzini – ritrovano nella descrizione del ciclo lavorativo quell’importanza che a loro compete. Ecco dunque che la nostra esposizione sarà riferita non tanto alle fasi, quanto alle attività che si svolgevano nelle diverse aree produttive, e cioè: - ALLA PREPARAZIONE ED ALL’IMMAGAZZINAMENTO DELL’ARGILLA; - ALLA FOGGIATURA ED ALL’ESSICCAZIONE DEL PRODOTTO DA SOTTOPORRE ALLA PRIMA COTTURA; - ALLA PREPARAZIONE DI SMALTI, INGOBBI, COPERTE E PIGMENTI; - ALLA SMALTATURA (OD INGOBBIATURA) DEL BISCOTTO ED ALLA DECORAZIONE; - ALLA GESTIONE DELLA FORNACE E DEI SUOI MAGAZZINI; - ALLE PARTI ACCESSORIE DELL’ESERCIZIO PRODUTTIVO (MAGAZZINI PER IL LEGNAME, STALLE ETC.). PREPARAZIONE ED IMMAGAZZINAMENTO DELL’ARGILLA. La mancanza di testimonianze dirette ci impedisce di risalire alla tipologia delle strutture attraverso le quali le fornaci in attività a Montelupo nel periodo che interessa 141 140 were predominant, it is reasonable for us to concentrate on a complete structure which was dedicated to the working of majolica, the most complicated product. Whilst studying the phases and instruments that characterized the work of the furnace, we will also look at the less usual processes involved in the production process that principally concern the other categories (terracotta and pans) previously mentioned. Besides a typological difference between the concerns, we can for the sake of convenience individualize seven phases of ideal furnace activity, drawing together in each the actions required to direct or complete the productive process. Proceeding in our description in an orderly manner from one to the other accepting that in such way we are introducing an artificial hierarchy of operations, also because in a furnace the activities never proceeded in a logical sequence of ceramic fabrication (but abstract), divided into sectors which were interdependent but autonomous and which often had their own specialists. Such phases were involved in the: 1)PREPARATION OF CLAY PASTE; 2)FORGING; 3)PREPARATION OF THE COVERING; 4)PREPARATION OF THE PIGMENT; 5)AFFIXING OF THE COVERING AND DECORATION; 6)BAKING 7)STORING OF THE FINISHED PRODUCT As these phases normally took place in their own sectors within the productive structure, they can be grouped by area, even if we know that the separation of the activity wasn’t always physical but often functional: in such a way we can, in part, correct the simple sequential phase idea in the production process by mentioning the “collateral” events that were taking place – for example the movement of the semi finished products and the management of the store house. So, our study will refer not only to the phases but to the activities that take place in the different areas of production which include areas for the; 1)PREPARATION AND STORING OF THE CLAY; 2)STORING AND DRYING OF THE PRODUCT TO BE BAKED; 3)PREPARATION OF ENAMELS, SWELLING, COVERING AND PIGMENTS; 4) ENAMELLING (OR SWELLING) OF THE BAKED “BISCUIT”; 5)MANAGEMENT OF THE FURNACE AND STORE HOUSES; 6)ACCESSORY ACTIVITIES (STORE HOUSES FOR THE WOOD, BARNS ETC) Preparation and storing of the clay As far as Montelupo is concerned, a lack of evidence means that we can’t present a sure idea of the typology of the structures within the furnaces where the primary clay work took place, including depuration and decantation, in the period that is of interest to us. It is particularly difficult to understand if these operations, necessary for an autarkic organization which buys in its own “earth” that is, clay material, already took place in the Medieval and Modern epochs within a structure with decantation troughs or vats. Such troughs, locally called “trogoli”, those which have so far been found in Montelupo, can be dated back to the end of the eighteenth century and have been linked to the production of traditional pans. Even the term “trogolo”, which is still present in the contemporary potter’s lexicon can’t be dated any further back than the XVIII century though it is probably older. Unfortunately, more antique cases which have been found in furnace dumps, weren’t part of the kind of structure we are interested in. However, the presence of deep ditches and holes where discarded material has been found indicates that the oldest “troughs” belonging to a furnace consisted of simple holes dug in the earth, with walls protected by precarious walls if not wooded planks which were obviously taken away when the ditch was abandoned. Even Cipriano Piccolpasso when describing the depuration of the clay process, didn’t refer to such structures but was more concentrated on the gathering of clay which he probably witnessed at Castel Durante. As much as it is possible to extract from the three “trough” areas determined at and around Montelupo, the most evolved consist of quadrangular depressions dug up to a depth of two metres with a width which varies from 3,50m to 2,50m; to avoid contact with the earth, brick materials were layered all around, in particular bricks and tiles. In all of the cases, there are four troughs side by side probably to aid the easy transfer of material from one to the other. The entire complex, which had to be in an area of sunlight, including corridors and working space, was rather large, and it also included a well where water could be drawn and often an arcade where the first storing of the clay material took place. Amongst these troughs was the pilla which was used to liquefy the clay not decanter and this was rather less deep – about 50cm – compared to the others and as a large amount of water was needed to liquefy the clay, it was usually built near a well. As the primary clay material was full of organic impurities (fragments of stone, mollusc shells, fossils etc), some THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA cessivamente “di stovigliaio” o “di piatteria e stovigliame” – da quelle in cui si lavorava la terracotta, cioè catini in ceramica grezza, orci, conche e laterizi. La differenza è nei due casi evidente, e consiste soprattutto nel fatto che l’ultima tipologia, relativa alla terracotta, non mostra di norma al proprio interno le complicazioni derivanti dalla produzione di smalti, ingobbi e colori, necessari sin dal XIII secolo alla fabbricazione dei generi vascolari, anche se le fornaci da terracotta utilizzavano una pellicola piombica per impermeabilizzare l’interno dei loro manufatti. È poi del pari evidente come l’impiego del tornio fosse assai più limitato tra i produttori di terracotta rispetto a quanto avveniva per i pentolai e gli orciolai: mentre questi ultimi foggiavano la stragrande maggioranza dei loro manufatti con l’ausilio del tornio, affidandosi ad altre tecniche (calcatura in matrice) solo per produzioni particolari (statuette e parti in rilievo di calamai, acquasantiere, specchiere, mattoncini da pavimento), i terracottai impiegavano infatti prevalentemente la tecnica di foggiatura “a colombino”, ricorrendo al tornio unicamente nella lavorazione dei catini, realizzati con tecnica mista, e cioè tramite la tornitura della matrice. Ad uno stadio intermedio tra questi casi estremi si collocavano, per complicazione ed articolazione del processo produttivo, le fornaci da pentolame: sino allo LA PRODUZIONE CERAMICA comunque indicare che i più antichi “trogoli” da fornace consistessero in semplici buche scavate nel suolo, le cui pareti solo sommariamente erano protette da muretti precari, se non addirittura foderate con assi di legno, che ovviamente furono asportate all’epoca del loro abbandono. Anche Cipriano Piccolpasso, del resto, pur descrivendo nel suo celebre trattato il processo di depurazione dell’argilla, non si sofferma su tali strutture, limitandosi ad presentare le metodiche di raccolta della materia argillosa che evidentemente aveva visto praticare dai ceramisti di Castel Durante. Da quanto è possibile ricavare dalle tre aree “a trogoli” sinora individuate nell’area montelupina, si nota come le vasche più evolute consistessero in depressioni quadrangolari scavate nel terreno per una profondità di circa due metri e con una larghezza variabile dai m. 3,50 ai m.2,50; al fine di evitare l’inquinamento del loro contenuto con la terra del suolo circostante, esse erano rivestite da laterizi di natura diversa, ed in particolare mattoni e tegole. In tutti i casi, inoltre, si nota l’accostamento di almeno quattro vasche, allo scopo di ottenere un insieme atto ad un facile passaggio del materiale dall’una all’altra; il complesso di tali strutture, che per la loro funzionalità dovevano anche essere soleggiate, formava dunque, con i relativi passaggi e disimpegni, un ampio cortile, ove si trovava anche un pozzo per attingere l’acqua e, spesso, un porticato destinato al primo immagazzinamento della materia argillosa. Tra queste vasche una, detta pilla in quanto destinata alla liquefazione e non alla decantazione dell’argilla, era assai meno profonda – circa 50 cm. – rispetto alle altre; dato che per liquefare la terra occorrevano grandi quantità d’acqua, la pilla era dunque di norma costruita in adiacenza ad un pozzo. Trovandosi la materia prima argillosa ancora ricca d’impurità organiche (radici, foglie, etc.) e di inclusi inorganici (frammenti di pietra, gusci di molluschi, fossili etc.), anche di apprezzabili dimensioni, era indispensabile, per ottenere una prima raffinazione, portare la medesima allo stato liquido. Per questo, dopo averla triturata in minuscole zolle, la materia argillosa così ridotta veniva gettata nella pilla, ove era abbondantemente innaffiata con l’acqua, ed il tutto rimestato con l’ausilio di una pala piana (borda), in maniera da accellerare il processo di liquefazione e favorire la separazione dei corpi estranei. Una volta che il composto aveva raggiunto lo stato di liquefazione desiderato, esso veniva prelevato con la borda e gettato in un crivello metallico dai fori piuttosto minuti, che si collocava, appoggiandolo su una coppia di assi, al disopra della prima delle vasche profonde (trogolo) posta in adiacenza alla pilla. In tal modo l’argilla liquida passava nel primo contenitore da decantazione, lasciando nel crivello gli inclusi di maggiori dimensioni. Sostando nel trogolo, l’argilla si separava di nuovo dall’acqua, precipitando verso la sua porzione inferiore, ove nuovamente si addensava; quando la superficie della vasca si era completamente ricoperta di acqua chiara, il liquido veniva estratto con un secchio, in maniera tale che il composto argilloso, perdendo ancora umidità, potesse compattarsi al meglio. La massima riduzione del volume della massa d’argilla contenuta nel trogolo indicava il completamento di questa fase, e la possibilità di iniziare il successivo trattamento di depurazione. La vasca era quindi svuotata avendo cura di prelevarne il contenuto senza mischiare quanto in essa era venuto accumulandosi nella sua porzione inferiore, valutabile ad un’altezza di circa 20-30 centimetri dal fondo: qui, infatti, era discesa la parte più pesante dell’argilla liquefatta, e cioè quella più ricca di sabbia e di minuti inclusi minerali, in grado di attraversare il crivello, ma nocivi alla plasticità dell’argilla. L’operazione di svuotamento del trogolo si effettuava introducendo al suo interno alcune assi, sulle quali era possibile stare in piedi senza affondare nella Le vasche di decantazaione ed i terrai di una fornace storica di Montelupo 143 142 quite large, the liquefying stage was indispensable for obtaining a refinement. The clay was first ground into minute lumps and then thrown into the pilla where it was abundantly watered. Then it was stirred with a flat ended pole to aid the separation process. Once the desired liquid condition was reached, it was extracted with the pole and thrown into a metal sieve which had minute holes, itself placed on a couple of planks over the first of the troughs placed next to the pilla. In this way the liquid clay entered the first decantation phase, the larger sized elements remained in the sieve. In the trough, the clay was separated from the water as it sunk and concentrated. When the water was clear it was extracted with a bucket permitting the clay to become even denser. The maximum reduction of the mass signified the end of the phase and the beginning of the next depuration phase. The trough was emptied with care not to include in the extraction the bottom layer – 20/30cm – because it had a richer quantity of sand and minute quantities of minerals which could pass through the filter but were harmful to the plasticity of the clay. The clay compound, quite purified at this stage, was kept in the second trough for a longer period before it was extracted, filtered then refined through a gravitational process. The passing from one trough to another – from the pilla to the trough– involved at least four stages each involving the sieve to insure a depuration of not only the unwanted microscopic elements but also the which occasionally formed during the decantation process. What remained at the bottom (called reniccio) of the trough wasn’t thrown away but used to make bricks – which were principally used to wall the opening of the kiln – or used for other brick type products (separators, store constructions) used in the furnace. Written documents from the pre industrial age offer little information on this part of the production process but as far as Montelupo is concerned a reconstruction can be made thanks to the traces of the pozzo-pilla-trogoli (well-vat-trough) system that have been found in some old tradition furnaces and which was employed for about forty years and thanks to the lexicon of the ancient potters- especially those who made pans, a lexicon gathered through the oral history method. The similarity between this depuration system and systems in other countries (Spain, Tunisia), underlines the diffusion and establishment of this technology in the Mediterranean ceramics world. However, at this point, we need to confirm the observation concerning the probable evolution of the Decantation troughs and “terrai” of a THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA la nostra trattazione effettuavano la lavorazione primaria dell’argilla, cioè le fasi di depurazione e decantazione. Risulta in particolare difficile comprendere se queste operazioni, necessarie ad un’organizzazione del lavoro di tipo autarchico, ben suggerita dagli acquisti di “terra”, cioè di materiale argilloso, da parte dei ceramisti, si svolgessero già in epoca medievale e moderna all’interno di un complesso ben strutturato di vasche di decantazione. Tali vasche, chiamate localmente “trogoli”, inserite in un insieme di quattro o cinque manufatti, trovano infatti la loro più antica esemplificazione in complessi databili per il momento solo alla fine del Settecento, e si mostrano nell’area montelupina attraverso sopravvivenze contemporanee, legate unicamente alle ultime fornaci da pentole di tipo tradizionale. Anche il termine “trogolo”, ben presente nel lessico ceramistico contemporaneo di Montelupo, pur essendo probabilmente più antico, non ha sinora trovato riscontri documentari in scritture anteriori al XVIII secolo. Casi assai più antichi, ove si sono incontrati potenti scarichi di materiali di fornace (prodotti finiti, bistugi, rottami di forni, etc.) con tracce di giacitura in argilla, non erano sfortunatamente contenuti in strutture rilevabili come tali. La non infrequente presenza di fosse e buche profonde, ove questi materiali si espandevano, probabilmente colmando parti dismesse, può historical furnace in Montelupo depuration systems: the absence of archaeological structures of such a complex nature and the lack of documentation concerning the same leads us to suppose that during the Medieval and Renaissance periods there were very few centres organized with these decantation troughs and that those that didn’t have such a complex system were forced to make new troughs every time they wanted to work the clay. As it is likely that the last trough, the third one, was used for the preparation of the liquid mixes used to improve the quality of the paste, the lack of troughs in furnaces that produced more sophisticated ceramics was probably a handicap. Evidence of this could be linked to the degree of exchanging of products for raw materials ready to be forged, that took place in Montelupo. The crude clay, as can be seen from the 1389 statute, was extracted from fluvial deposits from the LA PRODUZIONE CERAMICA piuttosto avara di informazioni in merito a questa parte del processo produttivo che, per quanto attiene Montelupo, può essere ricostruito grazie alla sopravvivenza del sistema pozzo-pilla-trogoli in alcune fornaci di antica tradizione, ove tale metodica di lavorazione dell’argilla restò in auge sino ad una quarantina d’anni or sono; i diversi passaggi previsti dal sistema di affinamento dell’argilla ed il relativo lessico sono poi desunti dalle testimonianze di anziani ceramisti – in particolare di quelli dediti alla fabbricazione delle pentole – raccolte, come poc’anzi si accennava, attraverso le metodiche dell’oral history. La similitudine di quanto attestato nel centro valdarnese con i sistemi di depurazione e trattamento della materia argillosa documentate in altri paesi (Spagna, Tunisia), sottolinea d’altra parte la diffusione ed il radicamento di questa tecnologia nella ceramica mediterranea, rinviandoci con tutta evidenza ad epoche assai più antiche. È tuttavia da ribadire a questo punto l’osservazione già avanzata in precedenza circa la probabile evoluzione che, nel corso del tempo, interessò l’area destinata nella fornace alla depurazione dell’argilla: l’assenza di testimonianze archeologiche strutturate in maniera così complessa e la più modesta estensione del resede, quale Il pozzo e le vasche di decantazione della ex fornace Pasquinucci di Capraia fiorentina può ricavarsi dai documenti relativi alle unità produttive medievali e rinascimentali, ove difficilmente si citano spazi importanti, con cortili, terrai e pozzi, induce infatti a ritenere che almeno gran parte degli impianti produttivi non abbia potuto contare su di un complesso così organizzato di vasche di decantazione. Fermo restando lo scenario sin qui disegnato, e la validità “processuale” dei diversi passaggi necessari alla depurazione della materia argillosa, è dunque ragionevole ipotizzare che sino al XVIII secolo poche tra le fornaci montelupine in attività fossero effettivamente dotate di un sistema completo di vasche di decantazione; ciò significa che quelle che non lo possedevano erano costrette a preparare in trogoli continuamente ricavati la terra che lavoravano. Poiché, inoltre, è più che probabile che la quarta vasca – cioè il terzo trogolo – non fosse destinata tanto alla depurazione, quanto alla preparazione allo stato liquido di quei mescoli di argilla che servivano a migliorare la qualità dell’impasto, la mancanza di un vero sistema di trogoli doveva incidere particolarmente nella fabbricazione di impasti ceramici più sofisticati. Una conferma indiretta di queste difficoltà la si può ricavare dalla frequenza con la quale i ceramisti montelupini mostrano di scambiarsi, in forma di prestito o attraverso pagamenti in controvalore, effettuati mediante la cessione di prodotti della fornace, la materia prima da sot- toporre a foggiatura. L’argilla grezza, come bene può ricavarsi dallo statuto del 1389, veniva allora estratta dai depositi fluviali dell’Arno posti nei pressi di Montelupo, ma anche dalla grande cava esistente nel territorio di Montespertoli. Non è al momento possibile stabilire l’epoca in cui fu iniziata la coltivazione della medesima per l’approvvigionamento della materia prima destinata alle fornaci montelupine, ma è certo che almeno nel XVI secolo, all’epoca cioè alla quale risalgono i libri degli Atti Civili (le raccolta delle scritture del tribunale) dei Podestà locali, essa rappresentava la fonte di gran lunga più importante per i ceramisti valdarnesi. Nei documenti si incontrano infatti sovente vertenze accese per il mancato pagamento di “terra”, trasportata a beneficio dei vasai di Montelupo da parte di attori che abitano nel popolo di San Michele a Morzano. Il territorio di questo popolo faceva parte, allora come ancor oggi, della comunità di Montespertoli, e si trovava proprio sul limitare dell’area della grande cava d’argilla, della quale oggi resta, a testimonianza dell’attività estrattiva del passato, un’imponente ferita, segnata da una coltivazione plurisecolare nell’area collinare che da qui degrada ad oriente verso il corso del Virginio (in antico “Vergigno”), tributario del torrente Pesa. L’argilla che qui si può cavare mostra un grado di purezza notevole e, a differenza di quanto accade per LA PRODUZIONE CERAMICA massa argillosa; i blocchi di argilla, prelevati con l’ausilio di una piccola vanga, venivano ancora ridotti allo stato liquido per passarli dal crivello, ora ovviamente posto sulla vasca adiacente. Il composto argilloso, in questa fase del processo già piuttosto depurato, sostava più a lungo nel nuovo trogolo e, una volta assodato, poteva essere nuovamente prelevato, per setacciarlo e proseguirne il suo processo di affinamento per gravità. I passaggi da una vasca all’altra – compreso quello dalla pilla al primo trogolo – erano al massimo quattro: ognuno di essi prevedeva l’uso del crivello, in maniera tale da assicurare all’argilla una depurazione ottimale non solo dagli inclusi macroscopici, che ormai aveva perduto al momento del suo primo lavaggio e liquefazione, ma anche dai grumi (sodelli) occasionalmente formatisi nel processo di decantazione. Ciò che restava sul fondo dei trogoli non veniva gettato via: questa materia argillosa ricca di sabbia ed inclusi minerali, detta reniccio, infatti, era destinata alla fabbricazione di mattoni – che servivano in particolare a murare l’imboccatura (usciale) della camera di cottura – o ad altri laterizi (separatori, parti di cassette) impiegati nella fornace. La documentazione scritta d’età preindustriale è 145 144 THE PRODUCTION OF CERAMICS the ex Pasquinucci furnace in Capraia fiorentina Arno and also from big quarries in the Montespertoli area. It’s not yet possible to determine the date when this type of earth collection began but it was at least in the XVI century when the Atti civili were written by the local districts which indicated that these sources were the most important for the potters of the Valdarno. Indeed there are references to requests for payment for “earth” transported to the potters of Montelupo by persons living in San Michele a Morzano. The territory where they lived was part of Montespertoli and along its borders west towards the stream called Virginio which feeds into the Pesa, we can still see the large quarry, ravaged by two centuries of extraction. The extracted clay was particularly pure, different from the clay that was extracted from other areas in the Valdarno and in the nearby valley of the river Elsa and the torrents Orme and Streda, affluents of the Arno which had larger amounts of impurities such as fossils and was less adapt for the production of vase products. The impurities called “nicchi” by the locals, were quite difficult to remove from the clay during the decantation because of their light weight. The damage that these impurities can cause is there to be seen in the rejected products – which in Montelupo are quite rare – are characterized by “calcinello” as we know, the gases that escape from a clot, even a modest one, during the advanced baking phase can provoke a outpour of material, ruining to different degrees the surface of the product and even cause a perforation. One can then understand why the purer clay of the Montespertoli quarry was particularly prized by the potters of Montelupo, also because it was close to the furnaces, the journey from San Michele a Morzano to Montelupo was a question of a few kilometres, on a road that descended towards the Arno. Chemical analysis of the clay taken from the old quarry has shown perfect compatibility with the rejected items found at the Montelupo site and this implies that the archived documents were rather accurate. However, the analysis also highlighted a macroscopic difference between the ceramic prod- ucts and the primary matter with which it was made: having a significant presence of iron meant that the clay extracted from the quarry of Morzano di Montespertoli when baked should have become a reddish colour. However, a simple study of the items produced between 1420 and the last years of the XVII century indicated that the products are characterized by a white mixture, the chromatic tone of antique ivory, and that their consistency was medium-soft permitting the incision with a fingernail. How can we explain this difference between primary material and finished product? Chemical analysis has demonstrated a high presence of calcium. Evaluating all the possibilities, is obvious that such a high quantity of an “external” substance can’t have anything to do with the normal composition of clay used to make ceramics from the XV to the XVII centuries: it doesn’t exist in such a high quantity in natural clay – our analysis shows in some cases a calcium content of thirty percent and never less than thirty percent in products which were enamelled on a white covering. Some evidence suggests this phenomenon is a consequence of the use of calcium in the clay washing process. The use of spent calcium doesn’t provoke the emission of gases during the baking phase and permits a complete whitening of the ceramic’s body. THE PRODUCTION OF CERAMICS The well and the decantations troughs of LA PRODUZIONE CERAMICA la superficie dei manufatti posti in cottura, sino a giungere anche alla loro perforazione. Si capisce, dunque, come la mancanza di resti fossili nella cava di Montespertoli rendesse l’argilla di questo bacino sedimentario assai preziosa per i ceramisti montelupini, dato anche che la relativa vicinanza del sito di cava alle loro fornaci ne consentiva lo sfruttamento: le operazioni di trasporto del materiale dal territorio di San Michele a Morzano a Montelupo necessitavano infatti di un tragitto di pochi chilometri, il quale si effettuava su di una strada che lentamente scendeva verso la riva dell’Arno. Avvalorando da par suo i dati forniti dalla documentazione archivistica, l’analisi chimica dell’argilla campionata nel sito dell’antica cava ha mostrato una perfetta compatibilità con gli impasti ceramici montelupini documentati dagli scarti di fornace del nostro centro di fabbrica, ma ha altresì evidenziato una macroscopica differenza tra i prodotti fittili e la materia prima con la quale essi furono realizzati: presentando infatti una significativa componente ferrosa, l’argilla estratta dalla cava di Morzano di Montespertoli non può che Utello da farmacia del XVIII secolo con foro da “calcinello” risultare alla cottura di un intenso colore rossastro. Una semplice ricognizione della produzione di Montelupo databile all’incirca tra il 1420 e gli ultimi anni del XVII secolo, invece, mostra come la maggior parte delle ceramiche smaltate fabbricate in questo lungo periodo di tempo nel centro valdarnese si caratterizzi per un impasto biancastro, che mostra normalmente la tonalità cromatica dell’avorio antico, ed ha spesso una consistenza medio-tenera, tale da permetterne l’incisione con l’unghia della mano. Come, dunque, spiegare questa difformità tra la materia prima utilizzata ed il prodotto finito? La soluzione di questo interrogativo è contenuta anch’essa nell’analisi chimica degli impasti ceramici montelupini, ed è palesemente segnalata da un’altissima presenza di calcio. Pur valutando tutte le possibili alterazioni “esterne” che possono in qualche misura aver favorito l’assorbimento di calcio, è evidente come l’impasto ceramico con il quale fu realizzata gran parte della maiolica nella Montelupo dei secoli XV-XVII denoti una presenza di questa sostanza talmente elevata da non potersi attribuire in nessun modo ad una normale composizione chimica dell’argilla: non esistono infatti in natura argille così ricche di calcio – i nostri dati giungono addirittura ad oltre il 30% – che non scendono mai, per la produzione smaltata su impasto biancastro, sotto il 13 %. Alcune prove effettuate in laboratorio hanno mostrato la possibilità di aggiungere questa componente all’argilla liquida, in maniera tale da poter ottenere un impasto lavorabile, utilizzando una sostanza ben nota ai nostri ceramisti: il grassello della calce. L’aggiunta all’argilla della calce già spenta nell’acqua, infatti, non provoca l’emissione di gas in cottura, ed è tale da sbiancare completamente il corpo ceramico. Questa tecnica, del resto, trova conferma nelle metodiche di sbiancamento del corpo ceramico impiegate nella produzione della terraglia. Anche se appartengono ad epoche nelle quali la produzione d’impasto rossastro si sviluppa nelle fornaci montelupine, affiancandosi a quella con il bistugio biancastro, è peraltro evidente nei documenti come nelle botteghe valdarnesi si dividesse con precisione l’argilla “rossa” da quella “bianca”, così come queste due qualità dovevano essere caratterizzate da un prezzo differente, visto che nei documenti giudiziari esse venivano specificate come tali. Appare anche significativo il fatto che, una delle più importanti famiglie di vasai locali, i Lippi, oltre a produrre e commercializzare ceramiche, avesse già nei primi lustri del XV secolo un “fornello da calcina” collocato fuori delle mura del castello, nei pressi del ponte sul Pesa, e ne costruisse ancora un altro nel corso del Quattrocento. Se la nostra ipotesi è esatta, dunque, dobbiamo pensare che nell’area fiorentina – anche le maioliche 147 146 Chemist’s beaker of the XVIII century with hole “da calcinello” The two qualities – white and red – were prized differently and resulted in different prices, as can be seen in judicial documents. It also appears important that the Lippi family, one of the most important potter families, as well as selling commercial ceramics, also had a “limestone oven” outside the walls of the castle near the bridge on the Pesa, and then built another during the fourteenth century. If our hypothesis is exact, we have to presume that in the Florentine area – also the majolica products in Florence and Bacchereto showed a whitened mix – during the course of the XIV century – when the “archaic blue” was diffused, which represented the first diversification of Italian Medieval enamelled ceramics – this system of adding granules of limestone became popular. The significance of this “technological revolution” of the late fourteenth century was tied to the ability to produce a whitish look and not reddish, a great advantage as previously it was necessary to use a costly enamel rich in tin which in itself depended on importation. It is evident that the “whitening” process became a tendency during the late Medieval period as other areas – in particular around Siena – also began to produce a whitish veil on the products made with iron rich clay. This process which was also used in the San Gimignano and Montepulciano areas was cited by Biringuccio in his piece on metallurgy and the art of the fire. Above all we have to consider that at the beginning of the XV century, in the furnaces of Montelupo, the trough system also served to produce this type of mix which could be obtained through the mixing of purified clay and an abundant addition of limestone granules whilst the raw material in its natural state (beginning from the fifteenth century but above all in the following century) was used for the production of veiled ceramics where the graffito technique required the contrast between the reddish colour of the biscuit and the candid glaze fixed on the surface of the leaded glass. Whilst the production of meal containers and related enamelled products, after the predominance of the use of fluvial deposits, were made from clay quarried from Morzano di Montespertoli, other producers, such as those in the Montelupo area, had a different sources, private excavations were made around the hills of the Valdarno (San Vito, Camaioni and also Artimino), and these were sometimes subject to judicial notices. As these deposits were rich in sand and as there as attestations to the transportation of lime from the bed of the Arno, it is probable that a diversity of earth types were mixed with the clay from THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA altri bacini sedimentari affioranti nell’area del Medio Valdarno e nelle vicine vallate, solcate dal fiume Elsa e dai torrenti Orme e Streda, affluenti dell’Arno, non presenta al proprio interno quei cospicui inclusi fossili, i quali, se non impediscono la fabbricazione dei laterizi, rendono la materia assai poco idonea alla produzione di vasellame; detti nel lessico locale “nicchi”, essi sono per di più piuttosto difficili da togliere dall’argilla, a causa del loro modesto peso specifico, attraverso il metodo della decantazione. I danni che può provocare un incluso di questo genere, pur se di impercettibili dimensioni, sono evidenti negli scarti di lavorazione – che a Montelupo, a differenza di altri centri di produzione, sono peraltro relativamente rari – caratterizzati dal “calcinello”: come sappiamo, infatti, i gas che si sprigionano in una fase di cottura ormai avanzata dal grumo di un “nicchio”, pur di modeste dimensioni, sono tali da potersi aprire una via di fuga nell’impasto ceramico ormai solidificato, innescando una sorta di “scoppio” che è in grado di espellere scaglie più o meno ampie di materiale; in tal modo, oltre si danneggia in maniera più o meno estesa LA PRODUZIONE CERAMICA te per una maggiore disponibilità della materia, si iniziò a velare d’ingobbio biancastro il bistugio realizzato con argille ferrose, in maniera tale che la sua superficie, prima di essere sottoposta alla smaltatura, risultasse comunque bianca. Questa tecnica, ampiamente riscontrabile nelle maioliche senesi ed ascianesi, ed in quelle prodotte nelle aree limitrofe (San Gimignano) od interne alla Toscana meridionale (Montepulciano), è del resto citata anche dal Biringuccio nel suo noto trattato sulla metallurgia e le arti del fuoco. Dobbiamo perciò pensare che, soprattutto dall’inizio del XV secolo, nelle fornaci montelupine che si dedicavano alla fabbricazione della maiolica il sistema dei trogoli servisse anche a realizzare questo genere d’impasto, che si poteva ottenere attraverso la mescolanza dell’argilla ormai depurata con parti più o meno abbondanti di grassello di calce, mentre il materiale di cava allo stato più o meno naturale – salvo eventuali mescoli ottenuti con argille di provenienza diversa – era destinato (ad iniziare dalla metà del Quattrocento, ma soprattutto nel secolo seguente) alla produzione di ceramiche ingobbiate, che nella loro totalità mostrano ovviamente di basarsi su argille locali con componenti ferrose “non corrette”, in quanto la tecnica del decoro graffito, storicamente legato ai primordi di questo metodo, si fonda proprio sul contrasto cromatico tra il colore rossastro del bistugio e la patina candida dell’ingobbio, fis- sato sulla superficie dalla vetrina piombica. Mentre la produzione vascolare da mensa e le tipologie smaltate ad essa connesse, dopo una fase in cui verosimilmente predominò l’impiego dei depositi fluviali, ebbero come principale riferimento l’argilla della cava di Morzano di Montespertoli, altre lavorazioni attestate nell’area di Montelupo utilizzarono però una materia prima di provenienza diversa. Parecchi produttori di terracotta,infatti, risultano coinvolti in vertenze giudiziarie a causa di escavazioni clandestine, da essi effettuate in terreni posti nelle zone collinari del Valdarno (San Vito, Camaioni, ma anche Artimino): non vi sono dubbi, perciò, che almeno parte della materia prima da essi utilizzata consistesse in prodotti argillosi, estratti in questi luoghi. Essendo tuttavia i depositi locali particolarmente ricchi di sabbia, e nel contempo ampiamente attestata nei tempi più recenti la pratica dell’asportazione di limo dal letto dell’Arno da parte dei terracottai locali, è da ritenere probabile che in queste fornaci si effettuassero mescolanze di terre diverse con argilla di fiume. L’unione di argilla “sottile” dall’elevata plasticità con terre sabbiose poteva infatti conferire ai prodotti vascolari grezzi (mezzine, catini, orci) sufficiente refrattarietà, e garantire nel contempo un ritiro controllato, atto a scongiurare fessurazioni in cottura. Anche nel caso del pentolame – una produzione che interessò le fornaci montelupine ad iniziare dal 1718 circa – risulta palese questa pratica di mescolare argille e terre dalle diverse caratteristiche, proprio per ottenere un impasto resistente al fuoco. Sappiamo, del resto, che sino all’ultimo quarantennio i produttori di ceramica invetriata da cucina erano soliti impiegare argilla estratta dalla fascia collinare posta a nord-ovest dell’abitato di Capraia. Per i pentolai la pressoché inesistente pratica della pittura deve aver favorito una particolare concentrazione dell’attività della fornace verso la fase primaria del processo produttivo (il trattamento dell’argilla), mentre per i fabbricanti di maiolica la preparazione di smalti e pigmenti, nonché la decorazione con tutti i suoi risvolti, costituiva un impegno lungo e complesso, che difficilmente poteva essere sistematicamente interrotto per concentrare l’opera dei lavoranti nella produzione degli impasti argillosi. È dunque assai più probabile che questa operazione, pur diretta e sorvegliata dal proprietario della fornace, fosse condotta da manodopera salariata, della quale resta traccia nella documentazione d’archivio per il richiamo al mestiere del motaiolo, termine usato solitamente per indicare coloro i quali preparavano la materia utilizzata dagli spianatori per foggiare laterizi entro appositi stampi. Negli esercizi degli “orciolai”, dunque, le fasi iniziali del trattamento della materia prima argillosa dovevano essere in gran parte effettuate da salariati: ad essi 149 148 the river. The union of “fine” clay of high plasticity and sandy earth could give the crude products sufficient refractoriness and guarantee a controlled retraction thus avoiding cracks during the baking. Also in the case of pots and pans – a production which began to become of interest to the potters of Montelupo around the beginning of 1725 – this practice of mixing clay and earth with different characteristics with the aim of obtaining a paste resistant to the baking process, was evident. We know that even up to the last forty years, the producers of glazed kitchen ceramics used clay drawn from the hills facing the North-West of Capraia. Concerning the pan makers, the almost inexistent practice of painting must have favoured a particular concentration of furnace activity on the primary phase of production (the treatment of the clay), whilst for the producers of majolica, the preparation of the enamels and pigments and the decorative phase proved to be the most time consuming and couldn’t be interrupted by the need to mix the clay. It is therefore probable that this operation was conducted by hired helping hands and the trade became known as that of the motaiolo, those who prepared the material for the spianatori who forged the brick material. The jar makers required that the preparatory work be done by these salaried hands who ran the liquefaction and purification process of the clay from one trough to another whilst the mixing of the clay paste was done by the moulders. The clay was brought in from various areas by the locals of that area in carts drawn by mules of by the mules loaded with clay holding recipients. Once they arrived at the furnace the clay was unloaded near the decantation troughs and when there seemed to be a sufficient quantity, the motaioli were called in. Contemporaneously, the emptying, if not filling of the last trough took place, and the substances were transferred in a resistant strip of material supported by two planks of wood to a covered tub called terrai or conserve. Here a new phase began which was necessary to make the clay material more plastic and above all to remove the gas that had accumulated during the work in the troughs. Fist sized clumps were drawn from the mass and, after being soaked, were attacked to a wall in a circular form in a shady area where the water could slowly drip out. At a certain point the discs, known as pagliacci, dropped to the ground. This process of gas removal, also used in Montelupo and referred to by generations of potters, is described in different encyclopaedia. The clay is then collected, watered until it is once again soft before it undergoes the first manipulation which consists of it being folded by bare feet until a large mass is formed which is called the blocco. This block is then sectioned and transferred in the form of small discs once again into a new terraio, to be found inside the furnace, near the wheels and the moulding area. The processing of the clay wasn’t finished at that stage: before being used it was subjected to a further process called dimenatoia where it was worked much like doe is when it is prepared to make bread. Beating the clay with a flat iron instrument similar to a long sword and rolling over and over again in long cylinders, various types of chamotte – additives like sand, mineral components or powder from the biscuit recovered from the rejected materials – useful for controlling the behaviour of the product during baking. Sources at Montelupo indicate the presence of dimenatoio (tossing contraption) and different instruments used in the manipulation of the clay before the moulding process, used by the salariata (hired workers). Although not explicit, these same sources suggest that the different stages required different hands as it was difficult to undertake the operations serially. So, it is likely that even in the smaller workshops, there were different areas for the different stages or at least a small corner equipped with a small terraio or dimenatoio in stone with a wheel nearby or the plank structure where the moulding with the mould was practiced; separated but inside the same building was the area where the decorating took place. Nearby, usually, the containers for the enamel and covering mix where the products were immersed. The moulding and drying of the product The extraordinary iconographic document represented by a plate from Montelupo of the tardo figurato type belonging to a private collection, demonstrates in a more synthetic but exhaustive way the writings of Piccolpasso regarding the organization of the workshop areas and the protagonists that animated them as they might have been seen towards the mid way of the seventeenth century. The painter, indeed, has depicted a potter at his lathe in the centre of this plate, pushing with his foot the wheel of the machine, completing the phase of the construction of the cylinder (also called cannone) from was taken the definitively moulded vase. To perform this operation the lather was using the stecca, an incision tool, firmly held in one hand with his middle finger placed inside a hole; he had already produced a series of small products, which, after having removed them from the lathe’s plate using a metal THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA prodotte a Firenze ed a Bacchereto mostrano infatti un impasto biancastro – nel corso della seconda metà del XIV secolo – all’epoca cioè della diffusione della “maiolica arcaica blu”, che rappresentò la prima diversificazione produttiva all’interno della ceramica smaltata medievale italiana – venne diffondendosi questo sistema volto ad ottenere un bistugio biancastro mediante l’aggiunta alle argille ferrose locali del grassello di calce. Il significato di questa “rivoluzione tecnologica” tardo-trecentesca risiede evidentemente nel fatto che in tal modo si poteva ottenere un manufatto dalla superficie candida, iniziando da un supporto biancastro e non rosso, e ciò rappresentava un vantaggio piuttosto rilevante. Per “imbiancare” completamente una superficie rossastra, infatti, era necessario coprire la medesima con uno smalto corposo e ricco di stagno: così, però, si aumentava non di poco il consumo di una materia prima assai costosa, ed il cui approvvigionamento, per di più, dipendeva dai flussi d’importazione. Che l’“imbiancatura” del biscotto abbia rappresentato una prima risposta alla tendenza al miglioramento qualitativo della produzione che animò l’attività dei ceramisti toscani nel tardo Medioevo, del resto, lo dimostra anche il fatto che nell’area meridionale della regione – ed in particolare nei territori senesi – si sia fornito allora una soluzione almeno in apparenza equipollente al medesimo problema. Qui, infatti, probabilmen- LA PRODUZIONE CERAMICA nenti, l’impasto argilloso necessario ad ottenere il bistugio biancastro che si utilizzava per produrre la maiolica. Quanto contenuto nel trogolo era quindi trasferito, per mezzo di un attrezzo formato da una lembo di stoffa assai resistente, tenuto da due aste (barella), in apposite vasche coperte, detti terrai od anche conserve. Da qui iniziava una nuova fase di lavorazione necessaria a rendere più plastica la materia argillosa e, soprattutto, a togliere i gas che in essa si erano accumulati durante la permanenza nei trogoli. A questo scopo si traevano dalla massa dell’argilla brani della dimensione di un pugnello, i quali, dopo esser stati bagnati con l’acqua e schiacciati sino ad assumere una forma circolare, venivano applicati su di una parete tenuta in ombra, sufficientemente ruvida da poterli mantenere in posizione verticale sino a quando, divenuti ormai solidi per la graduale perdita dell’acqua, questi dischi d’argilla, detti localmente pagliacci, cadevano a terra. Un simile metodo di degassazione dell’argilla, testimoniato nelle fornaci di Montelupo e di altri centri di produzione dalla presenza di apposite strutture, nonché presente nel ricordo degli stessi ceramisti, è, a conferma della sua antichità e diffusione, atteLa degassazione della ceramica con il metodo dei “pagliacci” nell’Enciclopedie des Arts et Métiers stato anche nelle illustrazioni dell’Enciclopedie. L’argilla che in tal modo aveva così iniziato il suo percorso di degassazione, era poi raccolta, innaffiata sino ad ammorbidirla di nuovo, e sottoposta ad una prima manipolazione, che consisteva nel pigiarla con i piedi nudi sino a formare una grande massa, detta blocco. L’insieme così formato poteva essere sezionato e trasferito per brani in un nuovo terraio, posto di norma nell’area interna della fornace, in prossimità dei torni e della zona ove si effettuava la foggiatura. Il processo di lavorazione dell’argilla non era però terminato: prima di essere utilizzata, infatti, essa era sottoposta, sopra una lastra di pietra detta dimenatoio, ad un’ulteriore lavorazione, la quale era in tutto simile al modo in cui manualmente si realizza l’impasto per il pane. Battendo l’argilla con uno strumento di ferro piatto, simile ad una lunga spada, ed arrotolandola più volte in lunghi cilindri, si poteva in questa fase anche amalgamare con essa vari tipi di chamotte – come sabbia, componenti minerali o polvere di bistugio ricavata dalla macinazione degli scarti – utili a correggerne il comportamento in cottura. Le fonti montelupine indicano la presenza nelle fornaci del dimenatoio e dei diversi strumenti atti alla fase di lavorazione della materia argillosa che ne precede la foggiatura, e mostrano nel contempo il ricorso da parte dei proprietari a manodopera salariata, che proba- bilmente coadiuvava i tornianti e gli altri addetti alla foggiatura nell’opera di preparazione dell’argilla anche dopo la sua estrazione dai terrai. Pur non essendo del tutto esplicite, queste stesse fonti suggeriscono quanto d’altronde la stessa logica della conduzione della bottega richiede, e cioè che difficilmente la manualità del torniante o del calcatore potesse, almeno nella maggioranza dei casi, coincidere con quella del pittore o del decoratore (graffiatore etc.) in genere. Anche nei più piccoli esercizi, dunque, è logico pensare che esistesse almeno un angolo dotato di un piccolo terraio e di un dimenatoio di pietra, nelle cui vicinanze era collocato il tornio e le assi d’appoggio ove si praticava la foggiatura con l’ausilio della matrice; separato, anche se all’interno di un medesimo ambiente, dallo spazio dedicato alla foggiatura, stava invece il luogo ove si effettuava la decorazione, a fianco del quale si trovavano di norma i contenitori per la smaltatura od ingobbiatura ad immersione dei manufatti già essiccati. FOGGIATURA ED ESSICCAZIONE DEL PRODOTTO. Lo straordinario documento iconografico rappresentato da un piatto montelupino nel genere del tardo figurato, appartenente a collezione privata, mostra in maniera sintetica, ma certo più esauriente dello stesso trattato del Piccolpasso, l’organizzazione di questo spazio ed i protagonisti che lo animavano, così come si sarebbe 151 150 The process of gas removal with the “pagliacci” method in the “Enciclopedie des Arts et Métiers” wire, he placed them on a board placed the right side of the bench where he is working. While the lather was involved with his work, another worker approaches carrying some spheres of clay whilst balancing a board on his shoulder; once at the table, he will supply the lather with the required material and remove the board with the fresh products. He will then go to store these products in a nearby store room which will be literally filled with products drying off, placed on pegs pinned to the wall (incavigliati). The incavigliati permitted the “block” moving of the objects without having to touch them: the grease of the hand deposited on the surface of the product could be harmful in the enamelling phase. The need to amplify the space dedicated to temporary deposits sometimes resulted in the incavigliati being placed in the centre of the rooms filling the furnace with an interminable number of tables. On our figure bearing plate, besides the kiln worker’s assistant, there was also a woman employed in attaching the handle to a tankard, which took place when the product was partially solidifies. This is an important witness to the times because archived writings state the presence of women in the furnaces of Montelupo but not how they were employed; here we see that women were also involved in specialized roles (attacchino- attacher), attaching parts to hand washing dishes, oil jugs and chemist jars – which needed separate moulding. We can deduce that the presence of calcatori (lime kiln specialists) in the ceramics businesses of Montelupo from the types of products realized and from the numerous moulds excavated from the dumps. These include; single valve type terracotta moulds used for the fabrication of high relief products, mirrors, heraldic shields and devotional plaques, and double valve for the realization of round objects. Plaster pressing, which can be dated back to 1530-60, demonstrates how the centre Valdarno area, at least in that period, the double valve period wasn’t ignored. However, given the fragility of the mould, the limestone process wasn’t effected but a running liquid process using liquid clay. The diffusion of this technique indicates the existence of pressers and casters and artisans able to produce moulds of various types. We can affirm that in the area reserved for the moulding of the clay, there were many workers with diverse specializations. And as the moulding process depended largely on the progress of the lather, it was necessary for the latter to be assisted by workers who could supply clay discs and remove the fresh THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA era affidato il compito di liquefare e depurare l’argilla, riempiendo e movimentando il contenuto dei trogoli, mentre la produzione degli impasti argillosi doveva avvenire con l’intervento dei foggiatori. L’argilla di varia provenienza – ed in particolare quella della cava di Montespertoli – era condotta alla fornace da vetturali che in gran parte risiedevano nel popolo di San Michele a Morzano; essi conteggiavano la materia trasportata a some, impiegando per questa operazione carri o, più probabilmente, muli caricati di appositi basti. Una volta giunti alla fornace, i vetturali scaricano l’argilla nei pressi delle vasche di decantazione e, quando la quantità della terra era giudicata sufficiente dal proprietario della fornace, quest’ultimo faceva giungere sul posto i motaioli, i quali, dopo averla frantumata in piccole zolle, avviavano il processo di liquefazione, setacciatura e trasferimento della medesima nei trogoli. Contemporaneamente al trattamento della nuova partita d’argilla, si provvedeva – nel caso in cui la fornace possedesse un sistema completo – allo svuotamento dell’ultimo trogolo o, in caso contrario, a ricavare la parte di vasca ove eventualmente si era formato, mediante l’aggiunta di grassello di calce ed altre compo- LA PRODUZIONE CERAMICA Gli incavigliati consentivano di movimentare “per blocchi” il lavoro senza toccarlo con le mani: l’untuosità della pelle che si depositava sulla superficie dei manufatti poteva infatti rivelarsi nociva nella fase di smaltatura. La necessità di ampliare il più possibile gli spazi adibiti a deposito temporaneo sugeriva talvolta di porre gli incavigliati anche al centro delle stanze, saturando così gli ambienti della fornace con interminabili file di tavole. Nel nostro piatto figurato, oltre al lavorante che opera in ausilio del torniante, si nota una donna impegnata ad attaccare l’ansa ad un boccale, operazione che si effettuava dopo che i manufatti, perdendo parte dell’umidità intrinseca, si erano parzialmente solidificati. Si tratta di una testimonianza preziosa poiché le scritture d’archivio segnalano l’esistenza del lavoro femminile negli esercizi da vasaio montelupini, ma non giungono ad indicare con precisione in quali ambiti esso si esercitasse; il documento mostra invece come le donne trovassero impiego in questa operazione che si configurava come una vera e propria specializzazione professionale (quella detta dell’attacchino). Oltre a fornire di ogni genere di prese le forme chiuse, saldandole ad esse con la barbottina, all’attacchino si richiedeva infatti di saper anche fissare ai vasi il piede o le altre parti – ad esempio i versatoi agli utelli ed agli orcioli da farmacia – che necessitavano di foggiatura separata, o di arricchire di elementi riportati manufatti particolari, come ad esempio le fruttiere farcite od i calamai. La presenza, inoltre, di calcatori nelle imprese ceramiche montelupine si può dedurre, oltre che dal genere di prodotti realizzati, anche dalle numerose matrici rinvenute negli scarichi. Si tratta, in particolare, di stampi in terracotta, di tipo monovalve per la fabbricazione di manufatti in altorilievo, quali specchiere, scudi araldici e targhe devozionali o bivalve per la realizzazione di oggetti a tutto tondo. Stampi in gesso, databili già agli anni 1530-60, indicano però come nel centro valdarnese non fosse ignota, almeno in quell’epoca, la tecnica della costruzione di matrici bivalvi, ove ovviamente, data la fragilità dello stampo, non si effettuava la calcatura, ma piuttosto il colaggio di argilla liquida. La diffusione di questa tecnica sta probabilmente ad indicare l’esistenza in Montelupo non solo di esperti calcatori e colatori, ma anche di artigiani in grado di produrre le matrici che essi impiegavano, utilizzando come modelli manufatti di ogni tipo (oggetti in vetro, specchiere in cartapesta, tavole devozionali domestiche in legno e cuoio, ma anche croci astili, vasellame e statuette in bronzo e, persino, sigilli in ceralacca). Piatto figurato di Montelupo con scena di fornace (1620-40) 153 152 products, putting them on the pegs. Contemporaneously there was the production of lime kiln items nearby the main kiln, mainly vases, carried out through a system of pressing or leaking and also these specialist workers required assistants - in the latter case the primary material needed to be refined. Written sources demonstrate the insertion of the production processes of the apprentices, without having specified their age or for how long the apprenticeship lasted. The norms as dictated by the Capitoli degli orciolai in 1510-12 which stated that an apprenticeship could start from eight tears old and onward, were probably not adhered to as these work conditions were not liable to notary acts, and it is likely that the starting age was younger, especially regarding the moulding and decoration, and some received a salary. Besides the area dedicated to the moulding process in the furnaces that produced majolica or veiled ceramics, there was also a section dedicated to the covering (with enamel or veil) of products which was often found next to the decoration area. In the bigger organizations where there was more space and greater possibility for organization, the elaboration and clay treatment areas were totally separated, the latter took place on the on the higher floors. Between the two were the store-drying rooms, the placing of which once again depended on the characteristics of the building and in particular, where the warmer rooms could be found. The potters knew that the colder temperatures, especially ice crystals, could damage the fresh items in an irreversible way. Whoever didn’t have large working areas – and this included most of the places in Montelupo from the XVII onwards, the storing of the fresh products took place in the decoration area. The constant movement led to a big use of the peg system and tables everywhere holding the fresh and cooked products. As the furnaces were built on numerous levels, it is obvious that the workers had to affront an incessant and tiring coming and going, often with tables full of objects on their shoulders. The constant movement backward and forwards, up and down, for long hours in humid and slippery environments often led to accidents. Indeed, in every furnace dump there is no lack of objects which result broken as a result of work accidents, sometimes whole tables where dropped and there is ample evidence of ample discontent on the part of the furnace owner who at times fined his staff member of held back his pay. Before being decorated, the products were Figured plate of Montelupo with furnace scene (1620-40) THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS Possiamo dunque affermare che nell’area destinata alla foggiatura dell’argilla operavano lavoranti dalle diverse specializzazioni. Pur essendo l’operazione della foggiatura largamente incentrata sulla manualità del torniante, infatti, per esprimere al meglio le potenzialità di quest’ultimo era comunque necessario affiancare il suo lavoro con quello di addetti che lo rifornivano d’argilla e ne immagazzinavano il prodotto sugli incavigliati, così come era opportuno che l’opera di completamento dei manufatti fosse almeno coadiuvata da attacchini; a fianco della tornitura, destinata alla realizzazione di gran parte dei prodotti vascolari, inoltre, si svolgeva di solito anche una produzione realizzata a stampo mediante calcatura od anche colaggio: entrambi questi sistemi necessitavano a loro volta di attività accessorie, consistenti tanto nella preparazione degli stampi, quanto – nel caso del colaggio – nell’opera di affinamento della materia prima da utilizzare. Le fonti scritte mostrano anche l’inserimento nel processo produttivo di apprendisti, senza però precisarne l’età, né consentirci un’effettiva valutazione in merito alla durata del loro apprendistato: data la generale inosservanza che i ceramisti del luogo riservavano alle norme – per quanto da essi stessi dettate – della LA PRODUZIONE CERAMICA potuto osservare verso la metà del Seicento in una fornace valdarnese. Il pittore, infatti, ha inteso rappresentare al centro di questa maiolica un vasaio al lavoro sul tornio; spingendo con il piede la ruota del macchinario, egli sta completando la fase di costruzione del cilindro (detto anche cannone), dal quale poi trarrà il vaso definitivamente foggiato. Per questa operazione il torniante utilizza la stecca, impugnata saldamente, grazie ad un foro praticato nell’attrezzo di legno, nel quale introduce il dito medio; egli ha già prodotto una serie di piccoli manufatti, che, dopo averli staccati con l’ausilio di un filo metallico dal piatto del tornio (tagliere), ha riposto su una tavola appoggiata sul lato destro del banco nel quale si inserisce il meccanismo ruotante. Mentre il torniante è impegnato nella costruzione del vaso, un altro lavorante gli si avvicina, portando nella mano alcune masse sferiche d’argilla e sorreggendo sulla spalla destra una tavola; una volta giunto al tornio, egli rifornirà il vasaio, e preleverà nel contempo la tavola sulla quale quest’ultimo ha poggiato il prodotto fresco, sostituendola con quella vuota che sostiene. Egli andrà quindi a riporre l’asse con i vasi appena foggiati in un vicino magazzino, le cui pareti sono letteralmente ricoperte di tavole con i manufatti posti ad essiccare; esse sono appoggiate a cavicchi di legno (incavigliati), bloccati al muro – da qui il loro nome – mediante reggette di ferro. LA PRODUZIONE CERAMICA bilità che alcuni vani di esso potessero, per ragioni strutturali, mantenere anche d’inverno una temperatura accettabile. I vasai, infatti, sapevano bene che se il prodotto fresco (detto anche crudo o verde) fosse gelato – cosa tutt’altro che improbabile in un’epoca nella quale non si sarebbe potuto riscaldare gli ambienti in maniera uniforme – i minuscoli cristalli di ghiaccio prodottisi all’interno dell’impasto ceramico l’avrebbero danneggiato in maniera irreversibile. Per questo, specie nei mesi invernali, si evitava di riporre i vasi allo stato fresco in locali aperti, nei quali il vento di tramontana era in grado di provocare un repentino abbassamento della temperatura. Chi non aveva grande disponibilità di spazio – ed era il caso più frequente in Montelupo sin verso la metà del XVII – si vedeva costretto a modificare i luoghi di stoccaggio del crudo, riponendo talvolta il prodotto verde negli stessi ambienti dve si effettuava la decorazione. La continua movimentazione dei materiali, ma anche la necessità di garantire un efficiente stoccaggio del crudo, determinavano perciò una grande proliferazione degli incavigliati. L’ambiente delle fornaci preindustriali era perciò dominato dalla presenza di una miriade di tavole, sopra le quali erano posizionati manufatti di ogni genere, sia crudi che cotti. Poiché i locali erano assai più ristretti di quelli contemporanei e si articolavano su più piani, doveva immediatamente risaltare agli occhi di chi si avvicinava alla fornace l’incessante e faticoso andirivieni dei lavoranti, che abilmente trasportavano sulle spalle tavole ricolme di oggetti di ogni genere. Il salire e lo scendere scale di ogni genere, l’attraversare ambienti umidi e scivolosi, nei quali l’oscurità non consentiva di percepire gli ostacoli con sufficiente chiarezza, e la stanchezza per un lavoro così faticoso, che si protraeva per molte ore, provocava ovviamente frequenti incidenti. In ogni scarico di fornace, infatti, si rinvengono ceramiche che risultano rotte non per inconvenienti di lavorazione, ma per cadute accidentali. Come attestano le testimonianze contemporanee, il rovesciamento di una tavola – o più di una – non mancava di provocare attriti tra il proprietario della fornace ed i suoi lavoranti, sino a forme di rivalsa più o meno vessatorie, con multe e trattenute della paga. Prima di passare ai decoratori, comunque, i manufatti dovevano essere sottoposti ad una prima cottura, che poteva avvenire soltanto quando essi avevano completato il processo di essiccazione. Tale cottura era di norma effettuata in contemporanea con quella dei prodotti già dotati di rivestimento e decorati, ma avveniva in camera separate. Il compito era spesso demandato ad uno specifico addetto, il fornaciaio, del quale tratteremo successivamente, per rivolgere adesso la nostra attenzione alla preparazione dei rivestimenti e dei pigmenti destinati ai pittori. PREPARAZIONE DI INGOBBI, “COPERTE”, SMALTI E PIGMENTI. Come in seguito vedremo, è assai probabile che non tutti gli esercizi da vasaio presenti in Montelupo in epoca preindustriale avessero al loro interno le strutture idonee alla preparazione di smalti e colori: in diversi casi, infatti, i nostri vasai mostrano di lavorare per conto di terzi e di essere frequentemente collegati tra di loro in società. Ciò può dunque sottendere – e non pochi atti del tribunale locale inducono a ritenerlo – che venissero comunemente praticati anche scambi di materie prime, nel senso che una fornace più grande e meglio attrezzata, la quale, occasionalmente o per legame societario, si trovava a collaborare con un’altra bottega, forniva alla medesima smalti, colori e, più in generale, i prodotti semilavorati dei quali quest’ultima abbisognava. Ovviamente questi scambi erano riportati nella contabilità della fornace che, in ossequio al costume dell’epoca, tendente a limitare al massimo l’esborso ed il trasferimento della moneta, li compensava attraverso partite di prodotto finito, che la bottega beneficiaria s’impegnava a consegnare alla fornitrice. È ovvio come una simile procedura, per una molteplicità di ragioni – ed in particolare per incidenti di lavorazione, malattie, imprevisti etc. – abbia provocato contrasti tra i produttori: non per caso nei registri dei Podestà montelupini abbondano i procedimenti avviati in quel tribunale per recuperare il valore del materiale 155 154 subjected to a first bake which took place when the drying stage had finished. This baking usually took place at the same time as the products given a covering or decorated but in separate ovens. This was usually the job of a specific worker, the baker, who we will discuss now along with the preparation of the coverings and pigment destined to go to the painters. Preparation of the cover film, “the engobe”, enamels and pigments. As we will see, it is likely that not all the potter enterprises in pre industrial Montelupo had within their buildings the necessary structure to prepare enamels and colours: in some cases potters worked for third persons or there was a collaboration. Businesses exchanges materials and – many documents demonstrate - larger ones often provided smaller ones with enamels, colours and other necessary products that the smaller needed. Following habits of the time, there was little exchange of money but the debts were covered by finished or semi finished products. Obviously, and for many reasons, illness, accidents etc, debts were sometimes not paid and the local justice department registers has many documents referring to notifications for their payment. This said, and before dealing with the technical- organizational aspect of the activities, we need to look at the problems surrounding the “ingobbio” (engobe) and its use in the workshops of Montelupo. Unequivocal traces of film covering in the local production date back to the 1460’s but the general diffusion of this technique occurred a century later, in particular during the fourth decade of the sixteenth century. As in the areas around Pisa the diffusion seems more widespread that in the Florentine area, and perhaps more ancient, it is probable that Montelupo was influenced by these centres. The presence of covered ceramics and those with graffiti beyond the Apennines demonstrates that there probably wasn’t a singular local technology for these kinds of procedure. A lack of information and documentation makes it impossible for us to determine where these centres got their white earth from, used to make the cover film. The citation of the “land of Palaia” – an area in the Pisa locality not far from where the technique was widely used – seems to be a possibility; the treaty, Inchiesta sullo stato della manifatture written in 1765 refers to the excavations of earth by potters in the judicial area Podesteria di Sovicille, in the Sienese Montagnola suggests another. He use of a covering film was marginal for a long time in Montelupo given that the large majority of them were dedicated to the elaboration of Majolica. To obtain a copper flake enamel, which characterized the majolica, a complex series of processes was required preceded by the process known as marzacotto better known as fritta (fried). There is a variety of evidence of the processes in Montelupo: in judicial acts we find frequent reference to exchanges or sales of fundamental primary material and melting (alum, dregs of wine), whilst different recipes for the fabrication of marzacotto are noted in the transcriptions of the Dionigi Marmi which is the most ancient manuscript belonging to the Calabranci dei Cozzetti family. Numerous fragments of jugs that had only been baked once with marzacotto remnants on the inside have been found in various furnace dumps. It is the process described by Piccolpasso. These containers have different strata finely ground and a fluidizer(tartrate of potassium or ashes of potassium): once filled, they were put in the oven in the area where the temperature was highest. Thanks to the fluidizer, small quantities of silica can reach a state of fusion; once the oven is off, the insides of these vases – jugs or alberellos – a glass substance solidified inside and the only way to get it out was to break them open and take out the fragments. The marzacotto removed from the containers was then ground and washed with the aim of removing as much impurity as possible. The presence of padellotti (pans) made of refractory earth found in excavations dating to different epochs and in particular the XVI and XVIII centuries, don’t necessarily link to this type of preparation however but one based on the fusion of broken glass; as there is no documentation relating to this kind of glass preparation in Montelupo before the second half of the seventeenth century whilst the latter emerged in the dumps dating to the beginning of the XVI century and residues of fused glass date back to 1460-70. There is no option but to suppose that within some furnaces in the Valdarno area there were some fusion ovens similar to those of the glass makers but used to prepare grounded glass, to be used in the preparation of marzocotto in Montelupo; some potters used the classic fusion system in ovens with silica sand, others operated – probably on a larger scale – with glass obtained from the fusion of broken pieces. A third possibility involves the buying of the marzocotto from glass makers who used it in large quantities to make bottles and glasses. The Zamperini affair is important in this proposition. Elderly and long term residents in Florence, the two brothers originally from Montelupo were at the centre of a complex commercial operation centring on the THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA loro arte, ci sembra infatti poco probabile che i discepoli, così come previsto dai Capitoli degli orciolai del 151012, restassero presso il maestro sino a otto anni. Tali rapporti non erano di norma regolati da atti notarili – altrimenti alcuni di essi sarebbero restati nei protocolli – e l’insegnamento, come si ricava dalle scritture del tribunale locale, atteneva tanto alle tecniche ed ai procedimenti di foggiatura, quanto, come vedremo in seguito, alla decorazione. I figli dei ceramisti frequentavano la fornace sin dall’età infantile, ed è più che probabile che nel processo produttivo si impiegassero a vario titolo anche fanciulli salariati, i quali non necessariamente erano legati al proprietario dal vincolo corporativo dell’apprendistato. Oltre all’area destinata alla foggiatura, le fornaci che fabbricavano maiolica o ceramica ingobbiata avevano un settore dedicato al rivestimento (con smalto o ingobbio) dei manufatti, ponendolo il più delle volte in posizione contigua a quello della decorazione; negli esercizi di maggiori dimensioni, che potevano contare su spazi più ampi e meglio organizzati, si tendeva a seperare nettamente queste zone da quelle ove prevaleva il trattamento dell’argilla, riservando ad esse i piani superiori. Tra le due aree si collocava il magazzino-essiccatoio, la cui dislocazione dipendeva soprattutto dalle caratteristiche dell’edificio, ed in particolare dalla possi- LA PRODUZIONE CERAMICA La mancanza di indagini storiche e di documenti specifici ci impedisce inoltre di identificare le cave dalle quali i nostri vasai traevano la terra bianca con la quale ingobbiavano i loro manufatti. La citazione nei documenti locali della “terra di Palaia” – una località del Pisano non distante dai luoghi ove, tra l’altro, si sviluppò una produzione ingobbiata – lascia supporre che una delle aree di approvvigionamento di questa materia prima si trovasse proprio in quel territorio; la trattazione, inoltre, che l’Inchiesta sullo stato della manifatture del 1765 riserva alle particolari escavazioni di terra da ceramisti che si effettuavano nella Podesteria di Sovicille, nella Montagnola senese, potrebbe indicarne un altro. L’uso dell’ingobbio fu comunque per lungo tempo marginale nell’attività delle fornaci montelupine, dato che la stragrande maggioranza di loro si dedicava alla lavorazione della maiolica. Per ottenere uno smalto stannifero, la cui applicazione sulla ceramica caratterizza appunto ciò che si intende per maiolica, occorre effettuare una complessa serie preparazioni, precedute dalla fabbricazione di ciò che le fonti definiscono di norma marzacotto e che, con parola più moderna, è noto anche con l’epiteto di fritta. Il procedimento trova in Montelupo testimonianPadellotto in terra refrattaria per la fusione del vetro (inizi XVI secolo) ze diverse: negli atti giudiziari troviamo infatti frequenti citazioni di scambi o vendite di materie prime e fondenti (allume, feccia di vino), mentre diverse “ricette” per la fabbricazione di marzacotto sono trascritte nel centone di Dionigi Marmi, che le trasse da più antichi manoscritti appartenenti alle famiglie montelupine dei Calabranci dei Cozzetti; numerosi frammenti di boccali cotti soltanto una volta con resti di marzacotto saldato al loro interno, infine, sono stati rinvenuti in molti scarichi di fornace. Si tratterebbe, quindi, del procedimento di lavorazione esemplificato dal Picccolpasso. In contenitori destinati allo scarto si ponevano strati diversi, formati da sabbie silicee finemente macinate e da fondente (tartrato di potassio o ceneri potassiche): una volta riempiti, essi erano posti nella fornace, collocandoli laddove la temperatura avrebbe raggiunto le gradazioni più elevate. Grazie all’aiuto dei fondenti, piccole quantità di silice potevano così raggiungere lo stato di fusione; una volta spenta la fornace, all’interno di questi vasi – di norma boccali od alberelli – si solidificava una sostanza vetrosa, per estrarre la quale non restava che infrangere il contenitore e scartarne i frammenti. Il marzacotto che così si recuperava veniva poi macinato e lavato allo scopo di toglierne il più possibile le impurità. La presenza, quindi, di grandi padellotti di terra refrattaria, ai quali sono rimasti saldati ampi residui di sostanza vetrosa, emersi da contesti di scavo databili ad epoche diverse, ed in particolare al XVI e XVIII secolo, non può essere perciò riferita a questo metodo di produrre la componente silicea vetrificata da utilizzare nella fabbricazione degli smalti e delle vetrine piombiche di copertura, ma piuttosto ad un metodo di preparazione di questa componente basata sulla fusione di rottami di vetro. Poiché non vi è traccia nella documentazione archivistica di una produzione vetraria montelupina databile ad epoca anteriore alla seconda metà del Seicento, mentre padellotti emergono già in scarichi dell’inizio del XVI secolo e scorie di fusione vetraria si possono datare anche agli anni 1460-70, non resta che supporre l’esistenza all’interno di alcune delle fornaci in attività nel centro valdarnese di forni fusori simili a quelli delle vetrerie, ma finalizzati alla preparazione di vetro macinato, da impiegare nella preparazione dei rivestimenti. Almeno duplice, dunque, dovette essere il sistema di preparazione del marzocotto in Montelupo: alcuni ceramisti, infatti, utilizzavano il classico sistema della fusione in fornace delle sabbie silicee, altri operavano – probabilmente su più larga scala – attraverso il vetro ottenuto dalla fusione di rottami. Una terza possibilità di approvvigionamento del marzacotto consisteva poi nell’acquistarlo direttamente dai vetrai, che ne producevano buone quantità per fabbricare bottiglie e bicchieri. La vicenda degli Zamperini LA PRODUZIONE CERAMICA oggetto di scambio o di “prestito” tra i ceramisti del luogo. Detto questo, e prima di trattare sotto il profilo tecnico-organizzatovo delle attività di fabbricazione di smalti e colori, occorre accennare brevemente al problema dell’ingobbio e della sua utilizzazione nelle fornaci montelupine. Tracce inequivocabili di ingobbiatura emergono nella produzione locale già negli anni Sessanta del Quattrocento, ma una vera diffusione di questa tecnica, in grado di animare un’ampia attività ceramistica, può collocarsi soltanto nel secolo seguente, ed in particolare nel quarto decennio del Cinquecento. Poiché a Pisa e nell’area pisana la diffusione delle ingobbiate appare più ampia rispetto ai centri fiorentini e, forse, anche un po’ più antica, mentre l’uso dell’ingobbio si mostra rilevante nella produzione smaltata senese, è probabile che Montelupo abbia derivato il metodo dell’ingobbiatura da questi centri di fabbrica toscani. La presenza di ceramiche ingobbiate e graffite di chiara ascendenza ultrappenninica nella prima fase d’applicazione di tale tecnica segnala comunque una molteplicità di apporti, che rende di fatto improponibile la ricerca di un unico modello tecnologico per le ingobbiate locali. 157 156 THE PRODUCTION OF CERAMICS glass fusion (beginning of XVI century) exchange of marzacotto produced by glass makers and used by potters. Payment of the material necessary for fabrication of the enamels came through a complex business affair. All this happened around the first three decades of the XV century. The fabrication of the marzacotto was only the first step in the production of glass products and enamels; lead, tin and a vitreous-silica film were also to be added (“accordare”), all in the appropriate oven called “fornello a riverbero” (reverberation/air oven) which had a simple indirect warming system. The chamber used for fusing and liming were separate from the combustion chamber to protect the metals and silica-metallic compound from being spoiled by ash or carbon guaranteeing purity. The oven – taken direct from the metalworking trade – was composed of two distinct chambers linked on the outside by openings. That used for combustion had a lowered level compared to the other to permit better suction and both were separated by a wall which however didn’t reach the arch of the oven. As the fireplace had its opening above the fusion chamber, when the fire was intense, the flames drawn by the suction invaded the other portion of the oven but as it couldn’t pass the wall the flames were forced down where they licked at the superior part of the other chamber. Despite this heating “a riverbero” the strong suction of the flames and heat resulted in a cooler liquefaction of metals such as tin, copper, lead and those permitting the “accordo”. The reverberating air oven was equipped with particular features called “zapponi” in the writings of Piccolpasso and “marroni” or “marroncelli” in the Montelupo documents obviously because they looked like the hoeing instruments used in the cultivation of the fields. The “marroncello” had a apical form on one side, in pyramid type sections, made of metal with a two or three metre long wooden handle. This form stopped it from getting damaged when it was introduced into the fusion chamber. The wooden section protected the worker’s hands from burning as it didn’t permit the transmission of heat. Given its dimensions, the “marroncello” needed to be supported and indeed it was attached at the barycentre to a ring or bar that was attached to the ceiling, and suspended at the height of the opening of the fusion chamber of the reverberating air oven. In this way it could easily be introduced into the oven using a swinging movement, an inertia that was able to move the fused mass. At the same time the operator could keep a safe distance. Besides contributing to the homogeneity of the process, the action permitted a rapid oxidization of the metals and the “accordati” compounds through the fusion. All the calcinations were correlated to the milling activity which had to precede them as the materials to be “accordato” were prepared, a follow them as far as the shredding of the finished product was concerned, to be used in the production process. The silica-sand and the fluidizer necessary for the fabrication of the marzacotto had to be milled to permit their use and to guarantee an adequate depuration. Grounded materials of different types were used in the ovens and this has been verified by written documents and through archaeological finds effected in Montelupo, even though in the latter case the products are relatively smaller. Con- THE PRODUCTION OF CERAMICS Pan made in refractory earth for the LA PRODUZIONE CERAMICA così la “purezza” di quanto si otteneva. Il fornello – che i ceramisti derivarono direttamente dalla tecnica metallurgica – era infatti composto da due camere distinte, le quali comunicano con l’esterno mediante altrettante bocchette; quella destinata al combustibile, che normalmente ha un piano ribassato rispetto all’altra per favorire il tiraggio, è separata da quest’ultima mediante un muretto, il quale tuttavia non giunge a toccare la volta del forno, che invece si estende a coprire entrambi i settori. Poiché il camino ha la sua apertura al disopra della camera di fusione, quando si appicca il fuoco, la fiamma, per sfogare all’esterno, è forzata dal tiraggio ad invadere l’altra porzione del fornello, ma, incontrando la barriera rappresentata dal muretto interno, che ne contrasta l’espansione verso il basso, è costretta a lambire solo la parte superiore dell’altra camera. Nonostante questo riscaldamento “a riverbero”, la temperatura che si può raggiungere nella fornacetta – grazie al forte tiraggio ed alla scelta del legname adatto – è tale da permettere un’agevole liquefazione di metalli come stagno, rame, piombo, nonché a consentire l’“accordo” (cioè la mescolanza) di composti siliceo-metallici e la calcinazione delle sostanze necessarie alla fabbricazione dei colori. Il fornello a riverbero era dotato di particolari attrezzi, detti “zapponi” nel trattato del Piccolpasso e “marroni” o “marroncelli” nei documenti montelupini, evidentemente per la somiglianza dei medesimi con gli strumenti che si adoperavano nella coltivazione dei campi. Il “marroncello” era però formato da una parte apicale in ferro di sezione piramidale, la quale terminava in un lungo peduncolo, innestato in un manico in legno di due o tre metri. Questa duplice composizione dell’attrezzo serviva ad impedirne il danneggiamento quando veniva introdotto nella camera di fusione (parte in ferro), non permettendo nel contempo la trasmissione del calore (parte in legno) alle mani di chi lo impugnava. In ragione del suo peso e della sua lunghezza – che arrivava facilmente anche ai quattro metri – il marroncello non poteva essere manovrato senza l’ausilio di un appoggio; esso, dunque, era munito di una catena che, fissata al suo punto baricentrico, andava a saldarsi ad un anello o ad una sbarra murata al soffitto. L’attrezzo era sospeso dunque esattamente all’altezza dell’imboccatura della camera di fusione del fornello a riverbero, e poteva così facilmente essere introdotto al suo interno, spingendolo sino a fargli acquisire un lento movimento pendolare: la sua inerzia era così in grado di Schema del fornello a riverbero dal Lazzarini (fine XVIII secolo) Un macinello in pietra della ex fornace Pasquinucci e il fornello a riverbero della ex fornace Pasquinucci di Capraia fiorentina di Capraia (seconda metà XIX secolo) 159 158 Reverbarating air oven form ex Pasquinucci furnace in Capraia Grinder made of stone form ex Pasquinucci furnace fiorentina in Capraia fiorentina (second half of XIX century) manca dida THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS smuovere le masse in fusione, ma consentiva all’operatore di restare a debita distanza dalle medesime. Oltre a contribuire all’omogeneità del processo, l’azione meccanica del marroncello, esercitata a temperatura calante, permetteva una rapida ossidazione (calcinazione) dei metalli e dei composti “accordati” mediante fusione. Tutte le operazioni di calcinazione effettuate nel fornello erano poi ovviamente correlate ad un’attività molitoria, la quale doveva precederle per la preparazione del materiale da “accordare”, e seguirle per la definitiva triturazione del prodotto finito, da utilizzare successivamente nel processo produttivo. Già la sabbia silicea ed il fondente necessario alla fabbricazione del marzacotto – ovviamente se allo stato solido (tartaro delle botti) – dovevano essere preventivamente macinati, sia per permetterne l’impiego che per garantirne un’adeguata depurazione. Macinelli di diversa natura erano perciò ampiamente utilizzati nelle fornaci, ed essi sono perciò documentati tanto nelle fonti scritte quanto nei ritrovamenti archeologici effettuati in Montelupo e, se in quest’ultimo caso le nostre conoscenze sono, per ovvi motivi, momentaneamente relative ai manufatti di più piccole dimensioni, e cioè pestelli e mortai appartenenti alla LA PRODUZIONE CERAMICA è a questo proposito assai significativa: ormai anziani e da tempo residenti in Firenze, i due fratelli d’origine montelupina erano infatti al centro di complesse operazioni commerciali, incentrate appunto su scambi di marzacotto prodotto dai vetrai – nella fattispecie provenienti da Gambassi in Valdelsa, ma residenti a Pisa – che veniva esitato presso i ceramisti; il pagamento della materia necessaria alla fabbricazione degli smalti avveniva poi mediante un complesso giro d’affari. Tutto questo avveniva nel primo trentennio del XV secolo. La fabbricazione del marzacotto rappresentava però, come ben sappiamo, solo un primo passo verso la produzione delle vetrine e degli smalti, per ottenere le quali occorreva aggiungere – o, per dirla col lessico ceramistico antico, “accordare” – piombo e stagno a quella componente siliceo-vetrosa; l’operazione doveva inoltre avvenire in un’apposita fornacetta, detta “fornello a riverbero” in quanto funzionava mediante un semplice sistema di riscaldamento indiretto. Nel forno la camera destinata alle fusioni e calcinazioni erainfatti separata da quella che invece conteneva il combustibile: in tal modo si proteggevano i metalli e i composti siliceometallici dai possibili inquinamenti provocati dai prodotti della combustione (carboni, fuliggine), garantendo LA PRODUZIONE CERAMICA grande di quella che poteva attingere la forza dell’uomo e delle bestie da soma, furono costruite nella comunità di Montelupo a fianco degli impianti destinati ai cereali, ed erano di norma gestiti dai mugnai affittuari. Allo scopo di meglio collocare le diverse fasi della macinazione nell’attività delle fornaci, potremmo dunque precisare che esso interessava sia la preparazione delle materie prime (sabbie o materiali silicei, fondenti solidi, ossidi metallici), sia la successiva triturazione e molitura di quanto realizzato attraverso l’ “accordo” delle varie componenti nel fornello a riverbero o, sia pure marginalmente, mediante la fusione in fornace. Ogni fase di macinazione era ovviamente preceduta dal lavaggio e dalla setacciatura dei materiali. Una volta ottenuti i rivestimenti – piombo, smalto, od anche ingobbio – ed i pigmenti – verde, bruno, arancio, giallo, blu e rosso, derivati rispettivamente da rame, manganese, ferro, antimonio (antimoniato di piombo), cobalto, manganese o ferro con componenti d’arsenico – e ridotti i medesimi ad una polvere finissima, si poteva avviare la fase di decoro dei manufatti, che precedeva la seconda e, quasi sempre, ultima cottura. La smaltatura, a differenza dell’ingobbio, posto sulle ceramiche non appena essiccate, era preventiva alla decoraParte basale della fornace Sartori (1620-32). Rilievo di G. Migliori zione della maiolica, e richiedeva che i manufatti avessero già subito una prima cottura. PRIMA COTTURA Per ottenere il prodotto privo di rivestimento, che le fonti medievali e rinascimentali appellano sempre “bistugio”, e non “biscotto”, come con termine più moderno, derivato dalla lavorazione della porcellana, si usa attualmente fare, occorreva dunque procedere alla cottura dei manufatti già foggiati ed essiccati. A quanto è dato di sapere, ogni struttura produttiva dotata di forno doveva avere un impianto composto da due distinte camere di cottura: una destinata alla preparazione del bistugio, cioè alla prima cottura, ed un’altra, ove si collocavano i manufatti, già dotati di rivestimento e decorati con svariate colorazioni, da cuocere per la seconda volta. A differenza di quanto si nota nei più volte citati disegni del Piccolpasso, quindi, supponiamo che gli esercizi da vasaio operanti in Montelupo fossero dotati di una fornace formata da tre diverse camere: quella inferiore era destinata al combustibile, il livello intermedio conteneva il bistugio già rivestito e decorato, mentre nel terzo – di norma più basso del secondo (e detto perciò “fornaciotto”) – si inserivano i materiali che dovevano effettuare la prima cottura. Come ben sapevano i ceramisti, è infatti al vertice della fornace che si raggiungono le temperature più elevate, ed un buon calore – di norma una temperatura di circa 980 gradi centigradi – era indispensabile per ottenere un bistugio compatto, di buona qualità, mentre un riscaldamento inferiore bastava a fondere i pigmenti ed i rivestimenti siliceo-metallici. Nella porzione più alta della fornace, inoltre, i moti convettivi indotti dal tiraggio della fiamma determinavano l’accumulo della fuliggine, di polveri e degli altri residui della combustione che salivano dal basso, mentre lo sfogo all’esterno provocava la fumigazione: tutto ciò avrebbe danneggiato irreparabilmente le smaltature e gli ingobbi, mentre non poteva sortire alcun effetto negativo per manufatti privi di rivestimento, da cuocere la prima volta; quando il bistugio veniva estratto dalla fornace, infatti, era sufficiente lavarlo o strofinarlo, per nettarlo dai residui carboniosi e dalle polveri. I pochi resti di fornaci “antiche” rinvenute in Montelupo sono ovviamente relativi solo alle porzioni inferiori dei forni, distrutti nelle parti elevate e successivamente interrati al momento della loro dismissione; pur in assenza della documentazione materiale, è però logico supporre che le fornaci montelupine d’epoca preindustriale, così come quelle legate alle sopravvivenze storiche dei sistemi tradizionali di produzione, fossero dotate del fornaciotto, non solo per motivi di carattere tecnico, ma anche per evidenti ragioni di convenienza 161 160 Basis part of Sartori furnace (1620-32) Relief by G. Migliori temporary documentation and archived materials however refer to much larger sizes. It is however easy to understand the grinding process of the materials involved in the production process of the Workshops in Montelupo through the accessories used (from small grinding stones to large grinding instruments) and determine that an external group of workers was used to operate these processes: the grinders who were particularly expert at managing the hydraulic energy and probably built up a small profitable industry. These large grinding wheels which could grind a mass well beyond the capacity of man and beast combined, were built in the community of Montelupo along with the equipment used for producing cereal and were usually managed by the grinders themselves. With the aim of organizing the different phases as well as possible within a furnace, these grinders were involved in the preparation of the primary materials and the successive breaking up and grinding of the materials realized through the “accordo” in the air oven. Each grinding phase was obviously preceded by a washing and drying of the materials. Once the covering materials were obtained lead, enamel or the engobe and the pigments; green, brown, orange, yellow, blue or red were derived from the copper, manganese, iron, antimony, cobalt or iron with components of arsenic and reduced to a fine powder, the decorating phase could get under way, and this preceded a second and usually final baking. The enamelling, as opposed to the engobe stage, was placed on the object as soon as it was dry, required an immediate baking. First baking To obtain the cover free product, called “bistugio” and not “biscotto” as it is now called which was derived from the production of porcelain, baking took place once the products were formed and dried. As much as we know, every distinct productive structure with an oven, had to have an apparatus with two distinct baking chambers, one destined towards the preparation of the bistugio, the first bake, and the other used for the products with a covering or decoration. Which needed a second bake. However, it seems that some ovens in Montelupo had three chambers: the inferior used for combustion processes, the intermediate level used for the bistugio already decorated or covered and the third, usually placed slightly lower than the second, (therefore called “fornaciotto”) was used for materials needing the first bake. As the potters knew, maximum temperatures at the top of the oven reached 980 around degrees so THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA dotazione più “leggera” delle botteghe ceramiche, la documentazione contemporanea e le scritture d’archivio ci rimandano invece anche alla presenza di mole in pietra di dimensioni ben maggiori. Una controversia agitata di fronte al tribunale montelupino nel 1540 lascia intendere come esse venissero per lo più fabbricate nell’area pratese, ove esistono cave di resistente serpentino. Se è dunque facile per noi comprendere come la macinazione delle materie che entravano nel processo produttivo delle botteghe montelupine avvenisse attraverso l’impiego di un’articolata serie di strumenti (dai piccoli pestelli in pietra per la triturazione ai più grandi macinelli per la molitura), si può nel nostro caso notare come a questa attività partecipasse anche una categoria di lavoratori esterna alla compagine che operava nella fornace: i mugnai. Questi ultimi, infatti, erano particolarmente esperti nello sfruttamento dell’energia idraulica e, trovandosi ad operare in una comunità ove esistevano numerosi esercizi di vasaio, è ben comprensibile che fossero stati spinti a sviluppare un genere di attività molitoria in grado di apportare loro anche discreti benefici finanziari. Queste ruote idrauliche, le quali erano evidentemente in grado di macinare su di una scala ben più LA PRODUZIONE CERAMICA sibile la dispersione esterna del calore, favorendo così la tenuta termica. Poche sono le informazioni relative alla costruzione di fornaci in grado di mostrarci i soggetti deputati alla loro edificazione: in un atto del tribunale locale incontriamo un maestro muratore che da poco aveva terminato la costruzione di una fornace, e che si poneva di fronte al Podestà come un artigiano specializzato nel mestiere. Costoro operavano verosimilmente in maniera empirica, ricorrendo a formule e “segreti” derivati dall’esperienza, che suggerva loro le misure e le proporzioni idonee alla costruzione di forni in grado di mantenersi efficienti il più a lungo possibile e, senza consumare troppo combustibile, produrre una buona quantità di ceramica. SMALTATURA, INGOBBIATURA E DECORAZIONE. Riprendendo la descrizione del processo produttivo, ritorniamo, dopo questa bereve divagazione sulle fornaci, alle operazioni necessarie ad effettuare la smaltatura o l’invetriatura dei manufatti allo stato di bistugio. Ogni genere di rivestimento – con ingobbio, smalto od invetriatura – era ottenuto (così come ancor oggi avviene) attraverso la diluizione in acqua delle componenti necessarie, siano state esse di natura argillosa (ingobbi), o piuttosto di tipo siliceo-metallico (vetrine, smalti). L’apporto del rivestimento avviene infatti per deposizione, dato che l’acqua è facilmente assorbita dalle superfici porose dei manufatti, in specie da quelle del bistugio, che, oltre all’umidità, ha perso nella prima cottura anche parte delle componenti minerali dell’impasto. La parte acquosa della soluzione si separa con facilità da quella meno sottile dei composti argillosi o siliceo-metallici: l’evaporazione completa poi tale processo, eliminando gradualmente la prima. Nelle fornaci – e gli inventari montelupini sono assai eloquenti in proposito – esistevano capaci contenitori in terracotta (di solito conche) destinate alla preparazione di smalti e ingobbi. Essi erano murati in un angolo ove spesso si trovavano anche le macine (macinelli) utilizzate per la molitura, il che portava a definire genericamente quest’area della fornace come “la pila dei colori”. In queste conche si emulsionavano in acqua le sostanze da impiegare come rivestimenti; minori quantità di liquido – versato, quindi, in più piccoli bacili o catini – erano poi necessarie per disciogliere i pigmenti. Nella smaltatura l’apporto della materia di rivestimento avveniva tramite immersione del manufatto nella conca dello smalto, o in un mastello nel quale questa sostanza era stata trasferita; nell’ingobbiatura, invece, poiché questa tecnica di rivestimento riguardava soprattutto le forme aperte, che presentano di norma la sola copertura del lato a vista, l’operazione poteva essere eseguita anche versando direttamente la materia argillosa sui manufatti. Nel caso di ciotole ad alta parete che hanno il rovescio ingobbiato, e di boccali o forme cupe in genere (fiasche, etc.), è invece chiaro come tale fase di lavorazione si effettuasse, come per lo smalto, per immersione. Alle origini della diffusione delle ceramiche smaltate, ed in particolare nella prima fase produttiva (fine XIII – inizi seconda metà del XIV secolo), la smaltatura “a risparmio” delle forme aperte (solo la parte a vista) seguiva evidentemente le medesime metodiche delle successive ingobbiate, mentre l’apposizione parziale dello smalto nelle forme chiuse (porzione inferiore ed interna semplicemente invetriata) poteva attuarsi con il tuffaggio, sfruttando un semplice principio di compressione dell’aria. Il manufatto era infatti inserito nel mastello in senso capovolto, in maniera tale da non immergerne la porzione inferiore, e ciò era sufficiente allo smalto per coprire questa parte: avendo cura di effettuare l’operazione con particolare rapidità, infatti, l’aria, compressa dentro la forma cupa del vaso, impediva momentaneamente al liquido di penetrare al suo interno. Sia nel caso della maiolica arcaica che in quello delle ingobbiate, si nota però la successiva stesura di una pellicola di rivestimento con un vetrina piombica in grado di accentuare la brillantezza dei manufatti smalta- 163 162 the bistugio had to be compact and of good quality whilst the lower warming process was only required to melt the pigments and the silica-metalli covers. At the top of the oven, convection caused by the draw of the flames determined the accumulation of ashes, dust and other residues of the combustion process that oozed from below, all of which would have irreversibly damaged the enamels and engobes whilst the base product without any kind of covering or decoration didn’t suffer any drawbacks.. it only had to be washed or dusted off. The few remnants of the “antique” furnaces discovered in Montelupo are mainly the lower parts of the ovens; the upper parts were destroyed and the lower parts buried when the furnaces closed. Despite the lack of physical evidence however, it quite obvious that the ovens had a fornaciotto, not only for technical reasons but also for economical reasons. As has been well documented, the cost of strips of wood (“stipa”) and other combustibles was high and ate into the profit to the extent that debts were often not paid. Use of the fornaciotto could help reduce costs and make optimum use of the oven. Notwithstanding the vertical extension of the oven, through diverse chambers, the horizontal dimensions were quite reduced and were similar to those that historically survived: a small difference is their location, on hill tops where the draw of air was stronger and wood was easier to find. Furthermore, being against a natural earth wall on the hill there was less dispersion of heat. As the information relative to the construction of the furnaces is scarce, we know very little about the people involved in building them: archived court records inform us of a master builder who had just finished the construction of a furnace and who had presented himself as specialized in the trade. These workers operated by rule of thumb exploiting their knowledge of the secrets of the trade, constructing the most efficient furnaces given the circumstances. Enamels, the engobe and the decorations Returning to the production process, we can consider the operations necessary to effect the enamelling or glazing of the products after the first bake. Every type of covering – with engobe, enamel or glazing – was obtained (as nowadays) through the dilution of the necessary components in water which were of a clay type covering or silica-metallic (glass, enamels). The addition of the covering came through a deposition process as the porous surface of the “dry biscuit” easily absorbed the deposited solutions. The watery part of the solution eventually separated from the less subtle clay or silica-metallic compounds and a complete evaporation gradually occurred. In the furnaces – and the inventories of Montelupo testify to this – there were many large terracotta containers (usually basins) used for the preparation of the enamels and engobes. They were built into a corner where the grinding apparatus could be found and the area was known as the “the colour basin”. Different substances were emulsified in water and these were to be used as covers; others liquids were used – in smaller containers - to dissolve the pigments. During the enamelling phase, the addition of the covering material came through the immersion of the product into the basin containing the enamel or in a vat into which the substance had been transferred. On the other hand, the engobing process, as the products were of an open type, involved a direct pouring of the clay material onto the visible areas. The bowls with high sides and the jugs and rounded products in general were immersed in the enamel. When the enamelling process first became popular (at the end of the XIII century up to the second half of the XIV century, the “cheap” enamelling of the open forms (only on the visible parts) was done using the same processes as in the successive engobing stage, whilst the closed forms were partial- ly immersed with the help of a compressed air principle, the product was inserted upside down in the tub with the aim of avoiding the immersion of the inferior part so only a part became covered with enamel. The inside remained free of enamel as the air pressure impeded its entrance. Both the archaic majolica and the engobed products had a film added to the product to accentuate the shine of the enamel or to attach the whitish film - the engobe – which was smoothed over on the seen parts with a sponge as it started to dry, particularly on the open forms. Already by the end of the fourteenth century, the open forms of majolica from Montelupo denoted a significant difference of thickness between the seen part and the reverse and the same thing can be said of the external and internal aspects of the jugs; an indication of how the workshops of Montelupo started to sub divide the enamelling operation into two distinct phases. First the products were completely immerged into a diluted enamel solution and this guaranteed the deposition of a thin “base” cover film: once partially dried the second coat was added through the usual immerging of the product in an upside down way (for closed forms), or through a simple pouring of the solution (open forms). As we know, all these operations took place with the use of THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA economica. Come ben evidenziato dalla documentazione archivistica, infatti, le spese per il combustibile da fornace, ed in particolare per la legna piccola (o “stipa”) che serviva ad avviare il processo di cottura, erano piuttosto elevate e gravavano pesantemente sul bilancio della fornace, tanto che la crisi di alcuni vasai fu avviata proprio dal mancato pagamento di partite di legname. Utilizzando una fornace con fornaciotto, quindi, i ceramisti erano in grado di alleggerire sensibilmente i costi di produzione, ottimizzando l’impiego del combustibile: mentre, infatti, essi cuocevano il prodotto già rivestito e decorato, potevano produrre, quasi con la medesima quantità di legname, anche il bistugio. Nonostante la loro articolazione verticale in più camere di cottura, gli antichi forni ceramici di Montelupo mostrano un’estensione orizzontale relativamente ridotta, che, peraltro, non risulta dissimile da quella dalle “sopravvivenze storiche” di tali strutture; una differenza di qualche interesse è semmai da individuare nella propensione delle fornaci preindustriali a collocarsi lungo i crinali collinari. Non essendo necessario incrementare considerevolmente il tiraggio delle fornaci – e dovendo anzi evitare un passaggio troppo rapido dell’aria, al fine di scongiurare un esagerato consumo di combustibile – si può pensare che la costruzione delle fornaci a ridosso di una parete di terreno naturale fosse allora ritenuta utile ad evitare il più pos- LA PRODUZIONE CERAMICA Una volta effettuata la smaltatura, i ceramisti contemporanei tendono ai togliere i resti dello smalto o della vetrina di copertura che l’immersione lascia sul piede delle forme aperte sfregando i manufatti su di una superficie moderatamente abrasiva: ciò è in grado di assicurare un più facile distacco del prodotto finito dai distanziatori necessari ad “impilare” le ceramiche in fornace. Occorre però notare in proposito come questo passaggio non doveva essere frequente, per non dire del tutto sconosciuto, nel ciclo produttivo d’età preindustriale. È infatti evidente come la produzione di quel periodo prevedesse la smaltatura del piede per la stragrande maggioranza delle maioliche fabbricate: si può semmai notare a questo proposito il vantaggio che presentava una modesta deposizione di sostanza stannifera sulle parti d’appoggio, e supporre perciò, che tra le motivazioni che indussero i ceramisti montelupini – e probabilmente non soltanto loro – ad effettuare un doppio processo di smaltatura, vi fosse anche la possibilità di evitare l’abrasione dei rovesci. Dopo esser stati smaltati od ingobbiati, i manufatti venivano riposti sugli incavigliati, scegliendo di preferenza quelli posti nei locali ove si effettuava la decorazione. Una volta asciutta, infatti, la superficie di queste ceramiche poteva essere decorata dai pittori, che utilizzavano per questa operazione un apposito banco girevole di forma circolare (tondo), oppure un tornietto, assai diverso da quello impiegato nella foggiatura, in quanto privo della grande ruota inferiore. Il tondo rappresenta infatti un artificio oggi comunemente impiegato in Montelupo, tanto da farci ritenere che la sua introduzione sia avvenuta in epoche ben più antiche: quanto può ricavarsi dal trattato del Piccolpasso, inoltre, sembra suggerire che anche in Casteldurante si utilizzasse il tondo, la cui funzionalità, perlatro, non sembra essere stata compresa dallo scrittore durantino; è d’altronde plausibile che molte aree produttive italiane avessero già sviluppato nel XVI secolo, questo semplice sistema atto a dipingere “in serie”. Il tondo, infatti, consiste in un grande tavolo girevole di forma circolare, sul quale vengono disposti piatti (rialzati mediante un appoggio) o boccali in quantità tale da saturarne l’intera circonferenza. Il pittore dipinge un particolare – che ad esempio fa parte della figura di un albero o di un piccolo animale – sul manufatto smaltato od ingobbiato che ha di fronte e, non appena terminato, fa ruotare il tondo con la mano sinistra quanto basta per porre di fronte a sé un nuovo oggetto da dipingere. In ragione della ripetitività del gesto, l’operazione si fa in tal modo più sicura, e nel contempo elimina i tempi morti necessari a cambiare il colore, non Gli “incavigliati” di una fornace storica di Montelupo 165 164 forceps to avoid contact with the grease of the skin (some examples of which have been found in dumps) which causes the surface of the biscuit to withdraw away from the covering film. Once the enamelling or glazing is done, contemporary potters remove the superfluous enamel or glaze, which could become attached to the tools used to place the products in the ovens, by rubbing the products against an abrasive surface. This process was not often undertaken in the pre industrial period who tended to deposit a modest amount of a stanniferous substance on the supporting part and we can suppose that the double enamelling was undertaken to avoid having to rub the reverse. After being enamelled or covered with the whitish film, the products were put on pegs near the decoration point. Once dried, the products could be decorated by the painters who used a turntable which had a circular form (tondo). It’s probable that these tables were already used during the XVI century and the products were decorated “in series”. In fact the turntable was completely covered with objects. The painter painted a part of a decoration, part of an animal for example, and then turned the table and painted the same part on the other products. In this way the painter didn’t have to keep changing colour and wash the brush and there was no risk of mixing the pigments. What’s more, the painter’s hand always remained at the same level and he didn’t have to continuously search for the right position. The turntable was therefore used for a serial polychrome production process and was probably introduced between the fifteenth or sixteenth centuries when there was a big boom in the use of colours. The wheel however remained indispensable as it was necessary when creating particular designs or motifs and it also permitted the turning of the product at a level parallel to the ground which was essential when incisions were being made for example on products with the engobe. The incision procedure, done with sharp edged strips of metal or wires for larger incisions, was not reserved singularly for engobed products but also on the majolica products – the “al blu graffito” types etc. After being decorated, the products with a film covering received on the visible part another coat of leaded varnish able to make the surfaces more shiny before being placed on the pegs in readiness for a second baking. This operation had to be done rather quickly to ensure that the enamelled products didn’t get covered in dust which would have at the very least, killed some of the shine. To avoid such an inconvenience, the potters had to collaborate in their timing, especially as far The “incavigliati” of a historical furnace in Montelupo as orders and supplies were concerned. There is an indication of the extent of cooperation from the initials placed on the objects. There were many small companies – and we’ll return to this later – who put their workshop or personal initials on the products and some even put the number of production some examples of which indicate the period of maximum production, about the beginning of the fifteenth century, and the period of closure, around the time of the crisis of the sixteenth-seventeenth century. Centres of production tended to work with collaborating companies and particular “brand” names. If however one company made a particular order as is the case of the large vases made for Santa Maria Novella, then the initials may have been pleonastic. There have been many theories concerning these initials but they tended not to take into account the need to collaborate between companies, probably forgetting that this was a business not art for arts sake and that the rules governing the operating of companies was particularly weak. In such cases, unjustly, it is easy to consider the initials on a product as belonging to a master potter rather than simply the workshop initials placed on normal production objects. THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS dovendo inzuppare il pennello in contenitori diversi e, soprattutto, sciacquarlo continuamente al fine di non sovrapporre i pigmenti. La mano, inoltre, resta sempre posizionata all’altezza giusta, e non è obbligata di volta in volta a ritrovare il particolare da dipingere o campire. L’uso del tondo, dunque, risponde alle esigenze di una produzione seriale di tipo policromo, ed è perciò assai probabile che rappresenti un’innovazione introdotta tra Quattro e Cinquecento, allorquando le botteghe ceramiche italiane svilupparono enormemente la loro tavolozza cromatica. Esso, tuttavia, non può prescindere dal tornietto, poiché quest’ultimo è necessario ad eseguire non solo le filettature, ma anche certi motivi di contorno delle forme aperte: il tornietto, inoltre, per la possibilità che offre di far ruotare su di un piano parallelo al terreno l’oggetto da decorare, facilita di molto anche la squadratura e la partizione degli spazi, e fornisce un piano d’appoggio girevole, indispensabile alla graffitura delle ceramiche ingobbiate. La graffitura, che sappiamo essere effettuata con strumenti diversi – sottili punteruoli per lo sgraffio, punte di ferro dai margini taglianti ed attrezzi a filo metallico (forcine) per l’asportazione di più larghe porzioni del rivestimento – non era destinata alla sola deco- LA PRODUZIONE CERAMICA ti e di fissare la copertura biancastra d’ingobbio. Per quanto riguarda le seconde, inoltre, una spugnatura, effettuata quando l’ingobbio posto sul lato a vista iniziava ad asciugarsi, serviva a distendere la sostanza argillosa, e ricoprire così il bordo delle forme aperte. Già sul finire del Trecento, abbandonando la smaltatura parziale, le maioliche di Montelupo denotano un’ evidente differenza di spessore tra la faccia a vista delle forme aperte ed il loro rovescio, e la stessa diversità si evidenzia tra le parti esterne ed interne dei boccali. Ciò indica come le botteghe montelupine abbiano iniziato a suddividere in due fasi distinte l’operazione della smaltatura, immergendo completamente una prima volta i manufatti in una soluzione di smalto piuttosto diluita. In tal modo si garantiva la deposizione di una pellicola di rivestimento stannifero “di base” piuttosto sottile: dopo averla lasciata parzialmente asciugare, essa era poi ispessita e rinforzata mediante un ulteriore apporto di smalto, che poteva avvenire attraverso il solito sistema di rapido tuffaggio in senso capovolto (forme chiuse), oppure assicurata da un semplice colaggio (forme aperte). Come sappiamo, tutte queste operazioni doveano essere svolte con l’ausilio di apposite pinze metalliche, onde evitare che – come mostrano non pochi scarti rinvenuti negli scavi – l’untosità della pelle delle dita provocasse il ritiro dal bistugio della pellicola di rivestimento. LA PRODUZIONE CERAMICA mente – è la diffusione delle marche di fabbrica a sottolineare l’ampiezza di questo fenomeno nel centro valdarnese: qui, infatti, l’apposizione di sigle – personali o di bottega – sul prodotto ceramico evidenzia una diffusione capillare, sconosciuta agli altri centri di fabbrica italiani. Le marche montelupine, inoltre, a differenza di quanto si verifica altrove, sono normalmente di piccola dimensione, e risultano poste quasi sempre all’attacco inferiore dell’ansa delle forme chiuse. In aggiunta a queste particolarità, è anche da rilevare come il fenomeno dell’apposizione delle cifre di bottega corrisponda ai periodi di espansione delle attività ceramistiche del luogo: generalizzasi all’inizio del Quattrocento, esso infatti viene a cessare con la crisi del Sei-Settecento La particolare diffusione di forme societarie tra i vasai montelupini è quindi connessa con questa diffusione di sigle, e non può che attenere al problema del riconoscimento dei manufatti posti in fornace: stabilirne l’appartenenza era infatti indispensabile, una volta conclusa la cotta, alla ripartizione nei conti societari del prodotto vendibile e di quello da eliminare per scarto. Se, però, una bottega, pur associata, fabbricava qualcosa di inconfondibile – ad es. i grandi vasi elettuari per Santa Maria Novella – l’apposizione del segno di ricono- Boccale con marca (1480-90) scimento poteva rivelarsi pleonastico. Molte delle ipotesi avanzate in passato dagli studiosi circa il significato di queste sigle, dunque, non hanno tenuto in debito conto il problema dell’organizzazione societaria di questi esercizi produttivi, probabilmente non riflettendo sul fatto che si trattava di un’attività di natura economica (e non semplicemente “artistica”), e che nel caso dei ceramisti la cornice vincolistica di natura corporativa risulta particolarmente debole. Spesso in tali valutazione si finiva per sovrapporre in maniera indebita il significato delle marche “personali” – ad esempio di quelle appartenenti ai maestri dell’istoriato – con quello assai diverso delle sigle apposte sulla “normale” produzione smaltata, ritendo in particolare che tali cifre appartessero ai pittori, e non rapprentassero un marchio di bottega. Ciò, oltre al fatto che altri generi vascolari dipinti, come ad esempio le ingobbiate, non presentano – nella loro stragrande maggioranza – marche, è smentito palesemente dal fatto che alcune sigle montelupine si mantennero identiche per un arco di tempo che ampiamente supera quello della vita dell’uomo, mostrando in tal modo di riferirsi non al lavorante, ma piuttosto all’esercizio. La difformità evidenziata dai prodotti ad ingobbio rispetto a quelli smaltati resta al momento da spiegare nella sua generalità, ma può comunque ben attenere ad una diversa organizzazione delle fornaci che ad essi si dedicavano: occorre comunque valutare a questo proposito come la produzione storica di ingobbiate comprendesse in larghissima maggioranza forme aperte, e come nel caso di Montelupo questo fenomeno non mostri addirittura eccezioni: la mancanza di marche, quindi, ricade qui entro quel fenomeno di assenza di sigle di bottega sulle forme aperte del quale discuteremo tra breve. Di norma la lavorazione della ceramica avveniva senza soluzioni di continuità: così, quando i materiali da cuocere erano pronti, venivano collocati, con una complessa operazione di impilamento, nella fornace. Nonostante le nostre fonti non siano del tutto chiare al proposito, riteniamo probabile che questa operazione abbia riguardato i manufatti prodotti da tutti i componenti della società, specie se alcuni di questi, com’è ragionevole supporre, non disponevano di una fornace propria, oppure se tale struttura fosse al momento inutilizzabile, o anche soltanto non conveniente – per diversità di capienza – da impiegare per il tipo di cotta che si doveva effettuare. SECONDA E TERZA COTTURA Man mano che le ceramiche, da sottoporre sia alla prima che alla seconda cottura, affluivano alla fornace – magari proveniendo da un esercizio “associato” di vasaio – erano dunque poste all’interno del forno componendo file ordinate di manufatti mediante la sovrapposi- 167 166 Jug with brand (1480-90) This can be seen in examples where the initials continue well beyond the normal lifespan of a single person. The dissimilarity between the engobed products and the enamelled needs to be explained and it is known that the furnaces were organized differently: it needs to be said that the engobed products comprised mainly of open forms and Montelupo didn’t differ in this respect. A lack of initials can also be linked to the fact that they often didn’t appear on open forms, and this will be discussed soon. Usually, when the products were ready for baking, they were piled one on top of the other in the oven and it seems, though we can’t be sure, that various products from various collaborating sources were placed together, also as it is likely that some potters didn’t have their own furnaces, or it was sometimes the case that some furnaces were temporarily out of use or not large enough to contain certain products. Second and third baking As the ceramics to be baked arrived at the furnace, perhaps from different associate sources, they were placed into the oven one on top of the other and this required particular ability on the part of the responsible. It wasn’t easy to stack the products in a way that would permit a maintenance of balance and at the same time exploit the space to the full. Furthermore it was important to ensure that the enamelled products didn’t get attached during the process. Furthermore, the air draw had to be considered, if the condition of flame was not correct, the products risked being damaged - they also needed a form of protection. The changing temperatures, from 900 degrees down to complete cooling, could also damage the oven itself, especially the supporting structure of the chambers destined to bake at lower temperatures. This had to be taken into account when loading the oven and often small repairs were made, on cracks etc, as the loading took place in order to maintain a steady temperature. Rushing into things and the undervaluing of structural defects could provoke tremendous accidents, all the products in the oven or the oven itself could be irreparably damaged. It is likely, as happens today, that the furnace employed specialists to load the oven – “fornaciaio” – In Toscana, this word is used to indicate producers of terracotta, also known as “terracottaio”. Despite the uncertainty of historical documentation, it seems that there were in Montelupo, workers who were not part of the normal staff but, considering their financial rewards, who had the role of supervising the placing of the products into the ovens, “fare il forno” (load the oven) in THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA razione dei manufatti ingobbiati, ma, specie a Montelupo, trovava significativa applicazione anche sulla maiolica (genere “al blu graffito”, con intrecci graffiti, a sfondo in blu graffito, etc.). Dopo essere stati decorati, i manufatti con pellicola di smalto ricevevano di norma sulle loro parti a vista un ulteriore apporto di vernice piombica in grado di renderne più brillante la superficie; riposti ancora una volta sulle tavole sorrette dagli incavigliati, essi attendevano quindi la seconda (e, in Montelupo, quasi sempre la definitiva) cottura. Tale operazione doveva essere programmata con oculata tempistica, in maniera tale da non permettere che sui prodotti già smaltati venisse a depositarsi – si pensi alle condizioni di lavoro dell’epoca della quale si tratta – una sensibile quantità di polvere, la quale era in grado, se non di danneggiare, almeno di mortificare la brillantezza del rivestimento. Spesso, per evitare l’insorgere di un simile inconveniente e, soprattutto, corrispondere tempestivamente alle ordinazioni, altrimenti rallentate dai tempi necessari alla colmatura e cottura della fornace (“cotta”), i vasai di Montelupo instauravano rapporti di collaborazione tra di loro. Oltre alla costituzione di numerose società – problema sul quale torneremo successiva- LA PRODUZIONE CERAMICA zione degli uni sugli altri: com’è facile intuire, questa operazione richiedeva una particolare abilità. Non era agevole, infatti, comporre questi ammassi di vasi, scegliendo le forme più idonee ad essere sovrapposte, senza che le pile così ottenute perdessero poi stabilità durante la cottura, ed ottenendo nel contempo un’ottimale saturazione dello spazio interno della fornace; il tutto, inoltre, era complicato dalla necessità di evitare che i manufatti smaltati ed invetriati, una volta raffreddatisi dopo la fusione dei rivestimenti, si saldassero tra di loro. Chi effettuava l’impilamento, inoltre, doveva tenere in debito conto le necessità di tiraggio della struttura, nel momento in cui al suo interno fossero penetrate le fiamme, il che significava anche fare il possibile per evitare il ristagno di fumo, in grado di annerire gli smalti e danneggiare i colori: ai passaggi del fuoco, poi, si dovevano porre manufatti dotati di protezioni tali da scongiurare la bruciatura delle superfici. Poiché, infine, il continuo cambiamento della temperatura – con l’innalzamento ad oltre 900 gradi centigradi ed il successivo raffreddamento – non mancava di provocare danneggiamenti alle parti strutturali del forno, e specialmente agli archetti di sostegno ed al piano della camera di cottura inferiore, chi impilava la fornace doveva valutare la compatibilità ponderale di quanto poneva al suo interno con la capacità di sostegno dei piani, oltre a dover effettuare, man mano che proseguiva nell’impilamento, riparazioni estemporanee (intasamento di crepe, fori etc.) per assicurare la tenuta termica della camera di cottura. La fretta e la sottovalutazione di qualche difetto della struttura erano in grado di provocare tremendi incidenti: una volta che era stato portato in temperatura, infatti, si poteva non soltanto perdere per intero il lavoro, ma determinare anche un danneggiamento irreparabile del forno. Agli stessi risultati catastrofici, d’altronde, poteva condurre anche un’errata gestione del procedimento di cottura. Come ancor oggi avviene, è assai probabile che almeno alcune fornaci montelupine si avvalessero, per effettuare l’operazione di impilamento ed anche di cottura, di personale, la cui professione, di addetto alla gestione del forno, è nota come quella del “fornaciaio”. In Toscana, tuttavia, questa parola veniva normalmente usata – ed ancora lo è – per indicare i produttori di terracotta, non essendo diffuso il termine più specifico di “terracottaio”. Nonostante tale incertezza terminologica, alcuni documenti indicano la presenza in Montelupo di lavoranti diversi da quelli che ordinariamente operavano nella bottega, ai quali – si deve pensare sulla base di un compenso pattuito – si faceva ricorso per simili operazioni, che tuttavia non sappiamo se comprendessero soltanto la fase di supervisione della cotta o, come è local terminology, or indeed, do the actual job. Whoever it was that loaded the oven had to make sure that the products more susceptible to being burned were placed in the middle of the pile, and that the pile contained products able to protect them. The open forms in particular, plates, and bowls, called cassette or caselle, were chosen for the task and many have been found in furnace dumps. The Cassettes for example were more of a round form and their size depended on what had to be placed inside them. Next to them would be placed products that were double their size or more, ideal for holding other vases or bowls. To exploit the space as much as possible, the holding products began to take a cylindrical form which made them easier to manage once full. Obviously the larger objects held the larger, taller and heavier products that needed to be protected. With the objective of separating the enamelled and glazed products, two systems were used. The walls of the cassetta were perforated with a triangular pattern immediately after their forming on the wheel. Every object had at least three rows of perforations and more depending on their size. Small stick form ceramic pieces were placed in the perforations obviously of the same dimension and triangular form and there they remained fixed. These provided a type of platform on which the deli- cate products could be placed without coming into contact with the cassette and other products. The tips of the triangular pieces at times remained attached to the other products but they could easily be removed, especially as the enamel coatings were thin in Montelupo. Piling the products in the cassette nearly always required the appropriate apparatus, spacers, which had three supports connected together which became known as trepiedi (three feet) or as “zampe di gallo” (cock’s feet). There was minimum contact with the products that were placed upside down on its pointed top but there was anyway a degree of fusion and they latter had to be prised off. There was little damage as the contact was minimal. As the trepiedi were in continuous use, they often needed to be renewed; the points in particular suffered damaged and greater fusion with the objects occurred. Therefore simpler pyramid spacers were used in the open form cassette which had only one point. Both types of spacers were produced in clay moulds as indicated by Piccolpasso. Despite the fact that none of the moulds used to make these spacers have been found in the furnace dumps in the Valdarno area, their aspect gives a clue as to how they were formed. It is clear they were cut with the use of a wire or metal razor on the non pointed side THE PRODUCTION OF CERAMICS 168 manufatti che in esse si dovevano cuocere: così, a fianco di cassette di circa venti centimetri di diametro, destinate ai piatti più comuni, esistevano contenitori larghi il doppio od anche di più, idonei ad ospitare vassoi o scodelloni. Per consentire una completa saturazione dello spazio interno alla camera di cottura, le cassette finivano il più delle volte per assumere la fisionomia di cilindri di un’altezza che, dovendo garantire la maneggevolezza del contenitore medesimo una volta che fosse stato riempito, variava in funzione del diametro, nel senso che le cassette più larghe, dovendo ospitare manufatti di maggior peso unitario, erano di norma le meno alte. Allo scopo di distanziare tra di loro le ceramiche smaltate od invetriate poste all’interno delle cassette, evitando così che si saldassero per tramite dei fondenti che ne ricoprivano la superficie, si utilizzavano in questi contenitori due sistemi di separazione, spesso integrati tra di loro. Le pareti della cassetta venivano infatti forate a fresco subito dopo la loro foggiatura – che di norma avveniva sul tornio – praticando in esse aperture di forma triangolare con il vertice direzionato verso l’alto. Ogni contenitore era di norma dotato di almeno tre file di aperture, ma tale numero si accresceva in funzione Cassette per la cottura dei piatti (fine XV secolo) LA PRODUZIONE CERAMICA più probabile, riguardassero anche l’impilamento del forno: nel lessico locale, del resto, “fare il forno” significa effettuare entrambe le operazioni, che si intendono condotte senza soluzione di continuità. Chi predisponeva la fornace per la cotta – sia stato uno specifico addetto o lo stesso proprietario della bottega – si avvaleva comunque di una serie di accorgimenti indispensabili ad ottenere un efficiente caricamento del forno. Nel comporre le pile dei manufatti da cuocere, infatti, egli doveva tenere di conto della necessità di porre alcuni di essi all’interno di contenitori in grado di proteggere, come poc’anzi si accennava, le ceramiche già dotate di rivestimento dalla fiamma viva, che dopo l’accensione penetrava nella camera di cottura, sfogando dalle aperture praticate nel piano della medesima. Erano in particolare le forme aperte, quali piatti, scodelle e ciotole, ad essere poste di preferenza in queste protezioni, chiamate cassette o caselle, che sono state rinvenute in molteplici esemplari negli scarichi di fornace rinascimentali e post rinascimentali di Montelupo. Data la tipologia degli oggetti che dovevano contenere, le cassette erano dunque in larga prevalenza di forma rotonda, e la loro larghezza dipendeva da quella dei 169 THE PRODUCTION OF CERAMICS “Cassette” ovens for plates’ baking (end XV century) that extended from the mould. As they had to be filled with large and wide products, the cassette were obviously open at the superior part, and when one had to be place on the other, there were holes in the bottom part. The first cassette however, the one placed on the floor of the oven, was closed at the bottom, and could even be covered to protect it from the dust with brick material. The placing of the cassette, one on top of the other, prevented the flames and combustion residue from penetrating the pile, and a simple lid on the top end sealed the whole piled form. When there were not enough objects to fill the oven, the larger objects were simply placed at the bottom. At about a third of the distance, the smaller objects began to be piled up before they too were closed off. The finds dating to the pre-industrial age demonstrate that, as opposed to post industrial habits, refractory type mixes were LA PRODUZIONE CERAMICA ziatori formati da tre appoggi uniti tra di loro, e perciò detti comunemente treppiedi e, nel lessico ceramistico locale, “zampe di gallo”. Posti con la faccia piana a contatto del rovescio delle forme aperte – laddove, in corrispondenza dell’appoggio, il velo di smalto era sottilissimo e quasi inesistente – e con le loro punte rivolte al centro (quindi nella parte a vista) di quelle, i treppiedi servivano a distanziare in maniera ottimale piatti, scodelle, vassoi od anche ciotole dalla profondità non eccessiva, assicurando nel contempo la stabilità delle pile che si realizzavano. Non disponendo, come oggi avviene, di sottili apici metallici, ma essendo realizzati semplicemente in terracotta, era inevitabile che le punte dei treppiedi si saldassero, sia pure debolmente, sulla parte a vista dei piatti, e dovessero perciò essere successivamente distaccate da questi: il danno che ne scaturiva era però minimo, dato che l’attaccatura delle punte risultava di dimensioni pressoché trascurabili. Poiché si faceva largo uso di treppiedi che dovevano essere frequentemente rinnovati, in quanto si danneggiavano alle punte – il che poteva provocare brutte saldature ai manufatti – i ceramisti di Montelupo utilizzavano per il distanziamento nelle cassette delle forme aperte anche semplici supporti di forma piramidale che, Serie di distanziatori “a treppiedi” per la cottura (secoli XV-XVII) in definitiva, rappresentavano una sorta di “riduzione funzionale” alla sola punta delle “zampe di gallo”. La produzione di supporti (sia “a treppiede” che “piramidale”) avveniva per calco in matrice, così come indicato dal Piccolpasso: nonostante non siano mai state rinvenute negli scarichi valdarnesi le forme atte a fabbricare questi elementari attrezzi in terracotta, infatti, il loro aspetto denota eloquentemente un tal genere di foggiatura: nei materiali montelupini, in particolare, si nota come i treppiedi siano tagliati, con l’ausilio di un filo o di una rasiera metallica, nel lato privo di punte che, dopo la calcatura, sporgeva dalla matrice. Dovendosi riempire di manufatti larghi press’a poco quanto il loro diametro, le cassette erano ovviamente aperte nella parte superiore e, essendo destinate all’impilamento l’una sull’altra, avevano di norma anche il fondo forato; la prima della pila, posta sul pavimento della fornace, trovava in quest’ultimo la propria chiusura inferiore, ma poteva anche essere calzata, per proteggerla dalla polvere, tramite un laterizio piano. L’incastro delle cassette le une sulle altre impediva poi alla fiamma ed ai residui della combustione di penetrare al loro interno, ed era sufficiente turare con un tappo l’apertura superiore di ogni pila contraddistinta dal medesimo diametro per garantire l’efficienza protettiva del sistema. Nel caso in cui – come di norma doveva accadere – tutte le pile formate dalle cassette non potessero esten- dersi dal piano sino alla volta della camera di cottura, il caricamento della fornace avveniva mediante il posizionamento in basso dei contenitori di maggiori dimensioni. Sopra il vertice della pila formata dalle cassette più grandi, che magari giungeva ad un terzo dell’altezza della camera, si poteva così iniziare l’impilamento dei contenitori dal diametro più piccolo, ma ciò richiedeva ovviamente la chiusura della pila sottostante. I materiali rinvenuti negli scarichi di fornace montelupini dimostrano come in questo luogo non si adoperassero in età preindustriale, a differenza di quanto avverrà in epoca successiva, impasti di tipo refrattario per la fabbricazione delle cassette, che in effetti erano foggiate sul tornio con la materia argillosa impiegata nella produzione ordinaria. Poiché non mancano, anche se sono piuttosto rare, testimonianze relative a cassette che sembrano destinate a contenere forme chiuse, è possibile che questo sistema di cottura venisse talvolta utilizzato per sfruttare tutti gli angoli, anche quelli più sfavorevoli, del forno. Appare tuttavia evidente come la gran massa dei manufatti cupi fosse cotta al di fuori delle cassette, in quanto in questi casi non solo era assai più complesso progettare un contenitore idoneo ad ospitarle – in ragione della diversa espansione ed altezza delle pance, ma anche per la presenza di prese ed appendici – mentre risultava ben più semplice ed efficiente procedere LA PRODUZIONE CERAMICA del suo diametro: in questi fori, infatti, una volta che la cassetta era stata cotta, venivano inseriti altrettanti bastoncelli fittili – ovviamente di forma triangolare – che, grazie allo schiacciamento della loro estremità esterna, penetravano sì nel contenitore, ma restavano bloccati nella posizione di inserimento, non potendo scivolare verso l’interno. Il vertice della sezione triangolare del bastoncello era dunque in grado di sorreggere in un punto il bordo del manufatto che si collocava nella cassetta; moltiplicando almeno per tre questi appoggi, si otteneva così la sospensione dell’oggetto su di un piano ideale, evitando nel contempo che il medesimo entrasse in contatto con il fondo della cassetta o, peggio ancora, con un altro manufatto smaltato od invetriato, posto al disopra o al disotto di esso. Anche se la fusione del rivestimento non mancava di congiungere gli elementi triangolari d’appoggio con le ceramiche poste in cottura, queste parti potevano poi essere agevolmente distaccate in ragione del minimo contatto che si realizzava: tale operazione, come sappiamo, era inoltre facilitata nel caso montelupino dalla sottilissima smaltatura che si apponeva ai rovesci delle forme aperte. Per impilare al meglio i manufatti nelle cassette occorreva tuttavia utilizzare quasi sempre anche distan- 171 170 THE PRODUCTION OF CERAMICS (with three feet) for cooking (XVXVII century) not used in the construction of the cassette and that they were made of the same material as the other products. As there exists some material relative to the cassette used to hold closed forms, it seems that this kind of baking system was devised with the intention of exploiting every corner of the oven. However it is evident that most of the curved objects were baked outside of the cassette as they had more complicated designs and had different sized waistlines, it was more difficult to find a container that could hold them. It was easier to keep them together. Jugs, for example, which made up the biggest part of the closed products, could be placed one on top of the other with due attention given to their positioning, an enamelled object was placed on another either without enamel or with very little. Spacers therefore weren’t needed. Despite the simplicity of the idea of placing one object on top of the other in a manner in which there was minimal contact, the system was fraught with problems given the lack of space and tight working areas. To guarantee a minimum of contact, the potters attempted to place the higher jug on top of the feet of three lower placed jugs so that falling pieces don’t come into contact with the objects below but into the void between them. However, it was unlikely that the products, given the piling system, wouldn’t come into contact; indeed they often did along their widest points. It is also worthwhile thinking about the nature of the objects and how their different shapes might complicate the piling procedure (tall jugs, wide bodied jugs, oil and vinegar containers, water bowls). The oven specialist had to think about the above problems as well as oven space, form and the movement of the flames which was connected to the air current. Effectively the oven specialist had to adapt to the various demands of the moment and often know how to overcome very complicated situations. The cassette ovens which dominated ceramics production in Montelupo from the second half of the XV century onwards, were to be found in all Italian centres of production and represented a point of arrival in the course of the long “technological revolution” that permitted, from the first half of the thirteenth century, the diffusion of enamelled production. It would be wrong to suggest that this technique was used even earlier, at the beginning of majolica production. The enamelled products of the fourteenth and early fifteenth centuries don’t show any signs of having been placed on a spacer, and what’s more, finds dating to the same period from various dumps don’t even show signs of having been placed in a cassette. He impossibility of baking flat products without spacers, unless they were placed in isolated positions, means we have to be very careful about supposing how they were baked. Finds in Montelupo from the Medieval age show signs of a less evolved baking system for enamelled and engobed products than that developed during the centuries of the modern age and which continued until being replaced by modern ovens with pull out drawers and which don’t use wood fuelled direct flame. “metallic shine” majolica finds demonstrate how in the Valdarno area at least up to the 70’s of the XV century, there were ovens which guaranteed the isolation of the baking chamber from the flames (muffola) where the products were baked in an atmosphere without oxygen. This technique, a terza fuoco, (third fire) certainly imported from Spain as was the technique for creating the shine, which we will come to later, was useful for small and very small ovens where the normal temperature was relatively low (about 620650 degrees); as were those of the classic “lozza dorada” Spanish systems. The relative rarity of the THE PRODUCTION OF CERAMICS Series of spacers “a treppiedi” LA PRODUZIONE CERAMICA Occorre inoltre considerare come tale operazione di impilamento venisse a complicarsi considerevolmente in ragione della difformità tipologica (alberelli, boccali, ma anche brocche per l’acqua, contenitori per olio ed aceto, etc.) dei manufatti cupi da cuocere, e dell’accentuata variabilità dimensionale degli stessi, sia in altezza che in larghezza. Il fornaciaio o, comunque, colui il quale effettuava l’operazione di impilamento della fornace, doveva perciò valutare una miriade di variabili, che erano relative sia alla struttura del forno – solidità del piano, punti di passaggio della fiamma e di prevedibile ricaduta dei prodotti della combustione, necessità di tiraggio – sia alla tipologia ed alla dimensione dei manufatti da cuocere, dei quali, dunque, doveva avere un’esatta cognizione. In generale può dirsi che, pur seguendo un razionale e rigoroso schema mentale, il fornaciaio doveva sapersi adattare al tipo di produzione da cuocere, ed avere perciò inventiva e duttile capacità di affronatre le situazioni più disparate; se non aveva i supporti necessari ad impilare razionalmente la fornace (a “fare il forno”, come efficamente si diceva), doveva infatti arrangiarsi, costruendo al meglio piani, nicchie, protezioni per pezzi delicati, ed utilizzando per questo il più delle volte laterizi o pezzi di scarto, già eliminati nelle cotte precedenti. La fornace “a cassette”, che domina nella produ- zione ceramica montelupina dalla seconda metà del XV secolo in poi – trovando puntuali riscontri un tutti i centri di produzione italiani – rappresentò tuttavia il punto d’arrivo della lunga “rivoluzione tecnologica” che aveva consentito sin dalla prima metà del Duecento il capillare diffondersi della produzione smaltata: sbaglierebbe, infatti, chi volesse proiettare troppo addietro nel tempo, inserendo già nei secoli iniziali della fabbricazione della maiolica, questo tipo di forno. Un esame attento dei generi a smalto databili al Trecento ed ancora ai primi lustri del secolo successivo non evidenzia, infatti, in Montelupo i segni dei distanziatori “a treppiede” sulla parte a vista delle forme aperte (scodelle, ciotole), mentre è anche rimarchevole il fatto che dagli scarichi di fornace di questo periodo non soltanto non emergano distanziatori delle tipologie note, ma siano anche assenti quei frammenti di cassette che invece abbondano negli scarichi d’epoca successiva. L’evidente impossibilità di cuocere manufatti di tipo piano in assenza di distanziatori – a meno che non si voglia supporre una collocazione “isolata” in fornace di queste maioliche, senza disposizione per pile coerenti – impone grande cautela nell’affrontare questo argomento. L’evidenza fornita dai reperti di scavo montelupini, comunque, attraverso la palese difformità delle modalità di cottura, segnala da par suo l’esistenza di una tipologia di fornaci medievali meno evolute di quel- le che, attraverso i secoli dell’Età Moderna, hanno caratterizzato sino ai giorni nostri la produzione smaltata od ingobbiata, e che sono state soppiantate solo dai moderni forni a carrello estraibile, i quali non utilizzano più la fiamma diretta, alimentata dal legname combustibile. Non è però al momento possibile conoscere nei loro particolari questi forni che evidentemente precedettero quelli “a cassette”, diffusi in Italia ad iniziare dall’epoca tardo-medievale e rinascimentale. Il ritrovamento di maioliche a “lustro metallico” dimostra infine come nel centro valdarnese esistessero anche, sino almeno dagli anni Settanta del XV secolo, fornaci in grado di garantire l’isolamento della camera di cottura dalla fiamma (“muffola”) e, perciò, di cuocere in atmosfera riducente (cioè in assenza d’ossigeno). Questa tecnologia, certamente importata dalla Spagna, come dimostra anche la provenienza delle ricette per il “lustro”, sulle quali torneremo trattando della tipologia, atteneva ovviamente a forni di piccole o piccolissime dimensioni, dove di norma la cottura a terzo fuoco avveniva a temperatura relativamente bassa (sui 620650 gradi centigradi circa), secondo la classica tecnica della “loza dorada” spagnola. La relativa rarità che caratterizza i lustri montelupini presuppone però una presenza assai minoritaria, se non addirittura sporadica, di queste “fornacette” nel centro valdarnese. Difficile è poi stabilire con l’ausilio di quale forno 173 172 Shiny examples of Montelupo leads to the conclusion that there were very few of these furnaces in the Valdarno area. It is also difficult to establish where the products were re baked, in the presence of oxygen, in order to realize the particular red pigment which, obviously influenced by the production of Iznik (ancient Nicea, large centre of ceramics from what is now Turkey), became prevalent in Montelupo at the beginning of the 80s of the XV century. As the red inserts sometimes leave a glimpse of an underlying colour, especially yellow, it is supposable that the product had already had one baking before being covered. The newly decorated majolica had to be baked again to attach the pigment (probably based on the so called “bolo armeno”) at a low temperature in an oxidized atmosphere in a manner as not to modify the colour. Returning to the operation that preceded the lighting of the fire in the oven, we can say that once the biscuit was placed and ready, the floor of the baking chamber was swept to remove as much dust as possible and then the pile was constructed over the most solid area near the centre, leaving enough space around to permit the passage of air. Around the air vents were placed bricks or tiles to prevent the flames from coming into contact with the pile, already protected by the cassette but also to protect the biscuit used for the preparation of the marzacotto. In the middle of the oven the closed forms were place and on a higher level the products to be baked for the first time. The operation was difficult and unpleasant, starting at the back and moving slowly towards the front, the objects remained in a delicate equilibrium and the space was used to saturation point whilst enough space was left to permit a good circulation of air. All of the stacking solutions also had to take into account the ongoing baking conditions, on a structural and heat changing level. Every decision made had to be the right one made by an expert. Once the pile was prepared, the opening of the inferior chamber was closed, temporarily blocked by apposite bricks. At that point the potters found themselves confronting the relative unknown, before the uncertainty of what was to come in terms of what might happen to the products and if they would come out in a perfect condition or not. As the owners of the furnaces generally wished to keep their anxieties to themselves and their staff, strangers were not usually admitted into the furnace. Only the workers themselves, collaborators, partners and most intimate friends were allowed to view the processes. The oven worker, responsible for the cotta (baking), had very little help outside of his own experience, in ensuring a successful operation: one form of help was the timing of the processes. As Piccolopasso stated, the time glass was a great help to the oven specialist. We know that even today despite modern technology), these operations last a long time, more than a day and sometimes reaching – depending on the dimensions, quality of oven and wood – up to 36 hours; time glass timing would clearly not be up to the job but more the arrival of midday or dusk etc. It’s not surprising therefore that Piccolpasso described a lady whose task it was to bring food to the workers in the baking area. However, whoever oversaw the baking processes knew what he was doing and based his timing on the previously mentioned factors. The real problem regarding the baking process was understanding the temporal needs of the baking processes. The oven had to reach the maximum temperature slowly, by degrees, remain at the high level for the required period of time then descend in a progressive manner and the fire went out after which there was a long cooling down process. The hour glass mentioned by Piccolpasso was probably used to time the different cycle phases – as for example when the temperature had to remain at the maximum temperature. There were two ways of checking the progress of the products; the first involved the study of small sample objects called prove or provicelle in Montelupo, which, being fixed to some metal axes (called vedette by Piccolpasso, placed to the side of the oven which were extracted from time to time when the cycles seemed to be coming to an end. Secondly, as it is known that red clay turns to white over time in the oven, spy holes were left in the closing wall which also permitted an observation of the presence of smoke in the chamber and this led to a rapid modification of the type of combustible – for example throwing Erica, broom or thistle into the base of the fire cleaned the flame. The baking progress of the products however was seen through the examination of the test objects as was previously mentioned. For example it was known that once the enamel was soft, a higher temperature was required and so the oven worker had to be able to determine when and how to quickly and suddenly raise the temperature in the oven. The quantity and quality of combustible materials available to the potters was an important issue. Montelupo was a good choice for the potters as there was a ample supply of vegetal combustibles to be found in the locality. Indeed the Montalbano woods and those of the hills on the left bank of the Arno where the huge forests extended, calle “Antinoro” mid way through the XV century because it THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA ad un impilamento dei medesimi “per gruppi”. I boccali – che nell’epoca della quale si tratta costituivano larga parte delle forme chiuse prodotte dalle botteghe montelupine – potevano infatti essere semplicemente accatastati gli uni sugli altri, avendo però cura di ordinare questi ammassi in maniera tale da determinare il contatto delle bocche con i piedi, assai poveri (se non privi) di smalto dei manufatti: per sottoporre a cottura i manufatti cupi non era quindi necessario utilizzare alcun distanziatore. Nonostante la semplicità concettuale di questo metodo d’impilamento, che si risolve tutta nel minimizzare l’appoggio di una superficie smaltata su di un’altra priva di rivestimento, è facile comprendere come questa operazione, eseguita per di più in spazi angusti e disagevoli, fosse irta di difficoltà. Per garantire il minore appoggio possibile, infatti, si cercava, ad esempio, di posizionare il boccale superiore sui piedi di tre boccali diversi, in maniera tale che non poca parte della trilobatura dello stesso, cadendo nel vuoto determinato dall’espansione delle pance dei manufatti sottostanti, non venisse a contatto con alcun tipo di superficie; era però comprensibilmente assai complicato valutare il fatto che i boccali medesimi, disposti in una massa così solidale, non si toccassero in qualche punto, ed in specie lungo la linea di circonferenza del loro massimo diametro. LA PRODUZIONE CERAMICA cura di lasciare liberi i passaggi necessari al tiraggio del fuoco. In adiacenza dei fori di scorrimento della fiamma si ponevano all’occorrenza mattoni, mezzane o coppi per scongiurare il contatto della stessa con i manufatti da cuocere, anche se protetti dalle cassette; in questi luoghi, si sistemavano invece, se necessario, i contenitori bistugi destinati alla preparazione del marzacotto. Nel mezzo degli spazi circondati dalle cassette (e quindi, di norma, al centro della camera) il fornaciaio impilava le forme chiuse, in maniera tale da proteggerle il più possibile, oltre che dalla fiamma viva, dalla ricaduta dei residui della combustione: in alto, infatti, questi spazi erano coperti con tegole e laterizi, sui quali eventualmente si potevano porre anche ulteriori manufatti da “bistugiare”. Quale e quante fossero le difficoltà di questa operazione, che ovviamente procedeva a ritroso, muovendo dal fondo per procedere gradualmente verso l’imboccatura (usciale) della camera, è facile immaginare: essa consisteva infatti in un sapiente impilamento di manufatti in delicato equilibrio statico tra di loro, che si perfezionava con la massima saturazione dello spazio interno della fornace, al quale però, come si è già detto, era necessario garantire nel contempo un’efficiente circolazione dell’aria per il tiraggio. Tutte le soluzioni scelte, inoltre, dovevano tenere di conto della modificazione di stato che avrebbe subito la fornace durante la fase di cottura, sia sotto il profilo strutturale, che in ragione dei moti convettivi della fiamma e dei prodotti della combustione che essa avrebbe portato al suo interno. Ogni decisione adottata, infine, non poteva fondarsi su parametri univoci o, comunque, razionalmente codificati al di fuori di ciò che suggeriva un’esperienza tradizionalmente sedimentata. Nel momento in cui terminava l’impilamento della fornace e si chiudeva l’usciale della camera di cottura inferiore, murandolo provvisoriamente con appositi mattoni, i vasai avevano così la netta percezione di introdursi nella dimensione dell’ignoto o, se vogliamo, dell’incerto, dalla quale la loro opera avrebbe potuto uscire perfetta, lucente di smalto e di colori, oppure immiserita da una molteplicità di danneggiamenti – per fumigazione, caduta di polvere o fuliggine, ritiro dello smalto, eccesso o difetto di calore – se non addirittura distrutta da fessurazioni (“avventature”) o da incidenti avvenuti in cottura (crollo degli impilamenti, cedimento del piano o della volta della fornace, etc.). Pochi proprietari di fornace erano disposti a condividere la loro ansia per l’esito dell’operazione con estranei, i quali, nonostante la curiosità che l’avvenimento non mancava di destare, venivano tenuti a debita distanza dal forno, tanto che solo i collaboratori, i soci e gli amici più intimi erano ammessi ad assistere ed a coadiuvare la cotta.Una volta che tutto era pronto, fatto- si, come ci riporta Cipriano Piccolpasso, il segno della croce, era comunque necessario accendere il fuoco. Il fornaciaio (od il responsabile della cotta) aveva ben pochi ausili, oltre la propria esperienza, per tenere sotto controllo i parametri fondamentali dell’operazione: uno di questi consiste ovviamente nel controllo del tempo, ed il Piccolpasso ha voluto icasticamente segnalarlo, rappresentando una clessidra che è a disposizione del suo personaggio impegnato a dirigere le fasi principali della cottura. In realtà sappiamo che questa operazione avveniva (come ancor oggi, pur con altre tecnologie, avviene) per tempi assai lunghi, che sempre superavano l’arco di una giornata, giungendo – a seconda delle dimensioni, della qualità della fornace o della necessità di impiegare legname non perfettamente asciutto o secco – sino alle 36 ore; è quindi evidente come in tali condizioni la variabile tempo potesse in larga parte prescindere da una misurazione raffinata come quella che si poteva ricavare da una clessidra, e rapportarsi invece a più generici riferimenti cronologici, quali il mezzogiorno, l’imbrunire, etc. Non per caso, d’altronde, il Piccolpasso ha inserito nello sfondo della sua scena “della cotta” una donna che reca cibarie ai lavoranti, impegnati per così lungo tempo a gestire il fuoco acceso nella fornace. Ma chi dirigeva l’operazione sapeva bene che il tempo di cottura – il quale, come si è detto, presentava 175 174 belonged to the Antinori family, offered a vast supply of wood. Above all, Erica, called scoparia or more simply scopa because of their similarity to a brush broom when stacked together, was the most sought after combustible in Montelupo as it formed the essential part of the small pieces of wood used to start the fires and raise the temperature. It burned with extreme rapidity and – once the fire got going – with little smoke. Eventually it was replaced by larger pieces of wood; beech, oak, holm oak, arbutus and pine which were used to maintain a steady temperature. Very few potters owned land from which they could drag wood to their furnaces so it had to be bought from the owners of the surrounding land who were for the most part residents of Florence, like the Antinori, Spina, Frescobaldi and Petrucci families. The high cost of the wood meant that many potters found themselves in financial difficulty and constantly indebted to the owners of the surrounding lands – this has been confirmed by many historical documents. As the ruling families had the right connections, the potters soon found themselves involved in court cases, frequently those of the Mercanzia (merchandise), quickly found guilty and reduced to having their goods sequestered or even prison. Having power over the supply of combustibles meant that some families could have a monopoly over the local industry, as did the Antinori family. Testifying to this is the notary act of September 1490 with which Francesco Antinori bought the production of 23 potters for the following three years at a fixed price. Combustibles also served as means of exchange between the local potters. Management and marketing of the finished product. Once the manufacturing process was over, the pottery manufactured product was put away into the warehouse of the furnace, where it was stored until being placed on the market or shipped to the client. Before dealing with the subject of the marketing of Montelupo ceramics, it is necessary to give a detailed description of the management process, as far as it is possible according to the existing sources and, in particular, of the computation systems used to set the selling price for such products. The final price depended on the several variables involved in the production costs (raw materials, fuel, workers’ wages, shipping, excises, etc.) and on the prospective profit according to the market and the clients. It is therefore easy to understand how all these problems, which are not found in historical documents and were subject to continuous changes, cannot be penetrated in detail. On the other hand, thanks to the available records, it is much easier to analyse how the potters of Montelupo used to set their prices per unit according to the different sizes, once they had set the value of a model-form (which was the one manufactured on a large scale). In this way they created a general conversion table for their activity. The main reference of the computation system used by our potters was the mezzoquarto (half a quarter), equal to 2,28 litres in wine measures and 2,09 litres in olive oil ones. Twelve mezziquarti (half quarters), in fact, formed the dozzina (dozen) which was the basic numerical reference for calculations, even if such a computation method was sometimes used along with the one of the conta per centinaia (counting in hundreds). The latter method was mainly used in the supplies of large quantities of morphologically homogeneous objects and therefore it was kept for supplies to hospitals, which included a lot of identical manufactured items, often of low unit value. As twelve mezziquarti were equivalent to the dozzina, in order to have the same quantity with the larger measure – considered double – the quarto, only six were necessary, while the dozzina could be also obtained with twenty-four metadelle or boccali (jugs), being those ones half of the mezzoquarto. And indeed to that unit of measurement, the calculation related all other scaled measures of closed forms. In this way, a “dozzina” [implying “of mezziquarti”] was equivalent to forty-eight mezzette (half jugs) and to ninety-six quartucci, (quarters of a litre), too. If counting in terzeruole, instead, which were equivalent in size to one third of the boccale (jug), the dozzina was made up by seventy-two units. As a result, the “set of jars” comprehensive of all measures, was valued at about one third of dozzina. Used to count in twelfths, the potters based their administration methods on the dozen [of mezziquarti], but however they had to provide for multiples and submultiples of that counting measure, as it was for the currency. Such a method, then, used to have an important practical aspect, since it was usual to gather the close-shaped objects with handles in mazzi (bunches), composed by twelve units, with the exception of the quarti (quarters). Those bunches were obtained by passing tiny branches of willow through the handles and then pulled tightly so as to gather the pottery in a logical whole. So, a dozen of quarti (six items) and of mezziquarti was composed by one single mazzo (bunch), while two were the mazzi needed to form a dozzina with the boccali, four with the mezzette, six with the terzeruole and THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA si effettuassero quelle ricotture “a terzo fuoco” – in presenza, cioè, d’ossigeno – necessarie alla realizzazione del particolare pigmento rosso che, per evidente suggestione della coeva produzione di Iznik (l’antica Nicea, grande centro ceramico dell’attuale Turchia), va diffondendosi a Montelupo ad iniziare dagli anni Ottanta del XV secolo. Poiché gli inserti in rosso lasciano talvolta scoprire alcuni colori sottostanti – ed in particolare il giallo – ciò indica che questi pigmenti avevano già subito una cottura, prima di essere ricoperti. La maiolica, nuovamente decorata in alcune sue parti, deve perciò essere stata nuovamente cotta in fornace per fissare questo pigmento (probabilmente a base del cosiddetto “bolo armeno”), portandola ad una temperatura piuttosto bassa in atmosfera ossidante, in maniera tale da non modificarne il cromatismo. Tornando alle operazioni che precedevano l’accensione del fuoco nella fornace, possiamo dire che, una volta riempito senza particolari accorgimenti il fornaciotto con il prodotto essiccato da bistugiare, e dopo aver accuratamente ripulito, spazzandone il pavimento, la camera di cottura per scongiurare il più possibile la circolazione della polvere, il fornaciaio procedeva dunque alla costruzione delle pile, sino a raggiungere il completo intasamento del forno. Per fare ciò egli collocava le cassette nei luoghi più solidi del piano di cottura – quindi difficilmente al centro – avendo nel contempo LA PRODUZIONE CERAMICA Per controllare la cottura si impiegavano due metodi empirici distinti, consistenti nell’osservare il colore assunto dalla parete interna della fornace e nella verifica empirica dello stato di cottura di alcuni piccoli manufatti (detti a Montelupo “prove” o “provicelle”) che, essendo fissati ad alcune aste di ferro (“vedette” nel trattato del Piccolpasso), atte ad essere inserite in aperture laterali del forno, si estraevano di quando in quando nel corso delle diverse fasi dell’operazione. Poiché l’esperienza insegna che una parete d’argilla che va riscaldandosi sempre di più trascorre con gradualità di toni, dal colore rosso al bianco, si lasciava dunque uno spiraglio nella chiusura provvisoria dell’usciale, in maniera tale che da questa sorta di spioncino chi dirigeva l’operazione potesse avere contezza dell’interno, comandando di conseguenza l’apporto o la sottrazione di combustibile. La piccola apertura, inoltre, permetteva di verificare la presenza di fumo nella camera di cottura e, quindi, ne consentiva l’eventuale eliminazione attraverso una rapida modifica del tipo di combustibile – ad esempio gettando nel cinerario erica, ginestra o cardo – essenze che, provocando un subitaneo aumento della temperatura, “ripulivano” la fiamma. La verifica del regolare procedere della cottura dei manufatti, ed in particolare della progressiva fusione dei rivestimenti e dei colori, era poi ottenuto, come poc’anzi si è detto, attraverso la verifica delle provicelle. È dunque conformandosi alla durata teorica delle singole fasi e procedendo a verifiche empiriche, che si riusciva a gestire un processo assai complesso come quello della cotta: si sapeva, infatti, che una volta ammorbiditi gli smalti, occorreva un certo periodo di tempo perché si determinasse la loro completa fusione, e che questa operazione richiedeva una più elevata temperatura; va da sé che chi conduceva il procedimento di cottura doveva avere non soltanto la capacità di condurre la medesima nella sua teorica normalità, ma anche di accellerarne o frenarne il più possibile le fasi in caso di necessità o di imprevisto. La quantità e la qualità del combustibile a disposizione dei ceramisti rappresentava dunque uno dei requisiti essenziali alla buona riuscita della loro attività, visto che dalla fase di cottura ne dipendeva totalmente l’esito; può perciò ben comprendersi come lo sviluppo della produzione fittile sia potuto avvenire in Montelupo anche – e forse soprattutto – in ragione dell’ampia dispo- nibilità di combustibile vegetale che poteva trarsi dalla sua area e dai suoi immediati dintorni. Qui, infatti, i boschi del Montalbano e quelli delle propaggini collinari della riva sinistra dell’Arno, sulle quali, in particolare, si estende la grande selva detta, dopo la metà del XV secolo, l’“Antinoro”, per essere in proprietà della famiglia fiorentina degli Antinori, erano in grado di offrire una quantità praticamente inesauribile di legname da fornace. Soprattutto l’erica – detta scoparia o, più semplicemente, scopa perché con essa si costruivano le ramazze – presente in abbondanza nelle boscaglie del luogo, rappresentava il combustibile più ricercato dai ceramisti montelupini, formando la parte essenziale di quella legna minuta o stipa che troviamo tanto spesso citata nei documenti, e che serviva magnificamente per accendere la fornace ed elevare la temperatura al suo interno. Infiammando con estrema rapidità e bruciando – una volta che il cinerario era rovente – con una fiamma relativamente povera di fumo, l’erica rappresentava una vera ricchezza per i ceramisti montelupini, che la sostituivano nel corso del processo di cottura con la legna grossa – cioè con ciocchi di faggio, quercia, leccio, cor- “Provicelle” per la fornace La “cotta” della fornace in un disegno da scavi di Montelupo di Cipriano Piccolpasso (secoli XVI-XVII) 177 176 The “cotta” (baking) in the furnace in “Provicelle” from a drawing by Cipriano Piccolpasso excavations in Montelupo THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA già una sua variabilità in ragione della struttura del forno e delle qualità del combustibile utilizzato – era a sua volta funzione dei diversi stati di temperatura, che la fornace doveva percorrere con una precisa scansione temporale: la vera difficoltà della cotta, più che nella comprensione, già di per sé problematica, del grado di temperatura ottimale da raggiungere per provocare una perfetta fusione dei rivestimenti, consisteva quindi nella necessità di seguire, impiegando ovviamente i metodi empirici dell’epoca, ciò che oggi definiremo “una curva ideale di riscaldamento”. Il forno, infatti, doveva raggiungere la temperatura d’esercizio in maniera graduale, seguendo un innalzamento progressivo sino ad una fase di stabilizzazione sui livelli più elevati, oltre la quale era necessario farla decrescere in maniera progressiva, sino allo spegnimento del forno, dopo il quale iniziava una lunga fase di raffreddamento. La clessidra, che probabilmente Cipriano Piccolpasso aveva visto in qualche fornace durantina, sarà servita dunque non tanto a stabilire il tempo complessivo della cotta, quanto a verificare le diverse fasi del ciclo – ad esempio quella in cui la fornace veniva mantenuta sul punto di massimo riscaldamento. (XVI-XVII century) eight with the quartucci. Being able to identify the typology of the ceramics form at sight was an advantage when counting the unsold stock in mazzi, while checking the quantities. But, of course, not all ceramics manufactured by the furnaces of the potters consisted in mezzoquarto multiple or submultiple closed-shaped items, because the same potters used to produce several deep forms (for example the alberelli) and, above all, many open-shaped items (plates, mugs, bowls, etc.). A bill made out to Lorenzo di Piero di Lorenzo by the Florentine convent of San Donato in Polverosa dated back to 1519, allows us to find out the equivalence ratio established between the close and the LA PRODUZIONE CERAMICA ruolo di quasi-monopolio nella produzione locale, come mostra il ben noto atto notarile del settembre 1490 con il quale Francesco Antinori s’impegnava ad acquistare, sulla base di tre distinte categorie merceologiche, la produzione di 23 vasai montelupini per tre anni a prezzi concordati,. Il combustibile per le fornaci svolgeva spesso il ruolo di merce di scambio tra gli stessi produttori, e tale consuetudine rivestiva un particolare significato sociale, in quanto queste forme di prestito permettevano ai padroni delle fornaci ed alle società che ad essi facevano capo, momentaneamente gravate da penuria di legname, di procedere comunque alla “cotta”. Una volta cessata la cottura, era indispensabile lasciar raffreddare assai lentamente il forno e le ceramiche in esso contenute, per evitare che un repentino abbassamento della temperatura, inducendo un rapido mutamento dello stato fisico di manufatti, già portati, in pratica, ad incandescenza, provocasse danni irreparabili. Questi danneggiamenti, detti a Montelupo “avventature”, potevano comunque determinarsi anche nella fase di accrescimento della temperatura interna alla fornace, e dipendevano sostanzialmente dalla plasticità – cioè dalla più o meno rapida riduzione di volume – del corpo ceramico: da essi derivano gran parte degli scarti di lavorazione rinvenuti negli scavi montelupini. Il periodo di raffreddamento, perciò, doveva pro- lungarsi per almeno una giornata, trascorsa la quale si poteva penetrare all’interno della camera di cottura inferiore, demolendo la chiusura provvisoria dell’usciale. Si iniziava quindi a smontare le pile dei manufatti posti in seconda cottura, estraendo così le cassette e recuperando con cura le forme chiuse poste l’una sull’altra; nel corso dell’operazione si doveva ovviamente procedere al distacco di qualche manufatto che eventualmente si fosse attaccato al supporto od a qualche oggetto vicino. La stessa procedura di recupero – ovviamente facilitata dalla mancanza di impilamenti in cassetta e con distanziatore – era poi estesa anche al fornaciotto, ove a questo punto si trovava una certa quantità di ceramiche allo stato di bistugio. Il momento della sfornaciatura riservava ovviamente gioie e dolori ai nostri ceramisti, in quanto essi recuperavano il prodotto finito, ma rinvenivano anche manufatti danneggiati, talora in maniera tale da costituire un rottame non commercializzabile, del quale era perciò necessario disfarsi. Mentre, dunque, una parte delle ceramiche, dopo averla ripulita con cura da eventuali attaccature e nettata con la cenere dalle impurità, veniva immgazzinata, un’altra – gravemente compromessa dalle avventature, ma anche da calcinelli, ritiri eccessivi dello smalto, attaccature, fumigazioni, etc. – doveva essere gettata in un ammasso provvisorio, che poi si svuotava con comodo. Non tutti i manufatti difet- tati andavano comunque nel rifiuto delle fornaci: alcuni, mantenendo un qualche valore d’uso, erano infatti commercializzati come seconde scelte. I rottami delle fornaci potevano trovare una definitiva sepoltura in pozzi dismessi – è il caso del cosiddetto “pozzo dei lavatoi” – od in anfratti del terreno, ma erano erano ceduti volentieri anche agli abitanti del luogo, che li utilizzavano per il drenaggio degli orti o come materiale da riempiemento nell’edilizia. Spesso questi rifiuti della lavorazione erano gettati nel torrente Pesa, od accumulati di prima intenzione in fosse o depressioni presenti nella fornace medesima, già utilizzate come vasche di decantazione o terrai per l’argilla. Nella Montelupo preindustriale, comunque, lo smaltimento dei rottami di fornace rappresentava un problema non indifferente, che i Podestà locali affrontavano emanando periodicamente appositi bandi di sgombero: l’accumulo di materiale sulle strade, al di fuori degli esercizi, poteva infatti creare ostacolo alla stessa circolazione degli uomini e delle bestie da soma nelle strette strade del Castello e del Borgo. GESTIONE E COMMERCIALIZZAZIONE DEL PRODOTTO FINITO. Terminato il processo di fabbricazione, il prodotto ceramico veniva riposto nel magazzino della fornace, ove permaneva sino alla data di invio sul mercato o della sua spedizione al committente. Prima di affrontare il 179 178 open forms. In the document, in fact, the large plate is equivalent to the mezzoquarto, the medium plate to the metadella or boccale and the small one to the mezzetta. The relation between the forms known so far can be summarised as following: BOCCALI” QUARTO MEZZOQUARTO METADELLA MEZZETTA TERZARUOLA QUARTUCCIO ALBERELLI PLATES QUANTITIES AND BOWLS PER DOZEN 6 12 24 48 72 96 – – GRANDE GRANDE MEZZANO MEZZANO PICCOLO PICCOLO – – SCODELLINO – The open forms, too, could be gathered in groups of twelve so as to facilitate the accountancy, in this case there are evidences of the word piccia in documents; the groups of goods were then packed for transport in hempen bales or in wicker containers protected by straw. To ship Montelupo ceramics, also clay cases were apparently used, at least in the 15th century (well documented for the Spanish majolica): such packing procedures, however, must have been carried out in the ports of shipment. Despite the efforts of the potters, the condi- tions of roads and ways of communications often caused damages in the goods, well spotted by the purchasers and, of course, they became the main cause of reductions of the amount due to the seller. For this reason, delivery by land with the help of pack animals, was usually left to the workshop owners’ sons or to their close relatives. Sometimes, they also turned to their associates or to paid deliverymen. Those deliverymen represented a separate profession amongst all workers of Montelupo furnaces: even if employed in operational duties, they actually represented the owner and they were given not only the goods to be delivered, but also the necessary money to pay customs duties and excises at the town gates. The potter expected them to safeguard what they had been received in the best way, to deliver the goods quickly, and to receive all account documents in exchange – in case of local authorities or institutions – the poliza, which certified the receipt and the credit of the amount due to the potter’s account. Moreover, the consignee or “deliverymen” quite often received cash for the payment instalments of previous supplies, thus becoming keepers of remarkable sums of money for that time, which then had to be deposited into the safe of the workshop. When the goods had to be shipped, especially along the river Arno, - usually when they had to be exported outside the region – the owner of the boats, the navicellai, were entrusted with such a delicate task. The navicellaio, in fact, was given the goods to be carried on the bank of the river (“a riva d’Arno”), where they were collected and loaded on the boat. The entrusting of the goods was quite an informal operation, but it was accurately recorded as “shipment” in the administration books of the single furnaces. Such a recorded evidence, and especially when corroborated by more than one witness, was a proof fair enough to condemn the navicellaio by the Court of Commodities, in case of his negligence in loss or damage of the entrusted goods. We have not got any documentary evidences of insurance procedures, that would have been taken out either by the seller for the safeguarding of his own properties or by the buyers. Since it was common to find customs barriers when sailing down to Pisa, the navicellai had to lay alongside, in order to show the cargo to the customs officers; paying the amount due according to the effective fees, they obtained a receipt (the bulletta or poliza). The legal papers of the Court of Montelupo clearly show how the relationships with the customs gave rise to frequent controversies between potters and navicellai, who often had to turn to the magis- tracy to be reimbursed of the payments done on behalf of the potters, who were not inclined at all to acknowledge the legitimacy of such a claim. We also have evidences of unsuccessful attempts to fraudulently cross the customs barriers that were controlling the waterways. The conquest of Pisa in 1406 and the economic recovery in the second half of the 15th century paved the way for an appreciable development of inland navigation, even more increased later on, with the making of the port of Livorno and, generally, with the consolidation of the regional market over the following century. We know however, how, since the early centuries of the Late Middle Ages, each castle, small village or “walled land” of Valdarno would house several families of navicellai. They, often handing down their job from father to son, devoted themselves to river transportation, which was very intensive in the distance joining the Dominant to the Tyrrhenian ports, using peculiar boats with an almost flat bottom. These craft allocated for river navigation, not very well known by historians of the marine still today, were originally called scafe (small boats). It is highly probable that essential changes in the frame of the ancient scafe had to be introduced when the development of the port of Livorno started with its purchase by the Genoeses in 1421, and THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA bezzolo e pino – allorquando si doveva mantenere o lentamente far diminuire la temperatura del forno. Ben pochi tra i vasai valdarnesi, tuttavia, possedevano appezzamenti di bosco o sodaglie dalle quali trarre almeno una parte del combustibile necessario all’alimentazione delle loro fornaci. Essi erano pertanto costretti ad acquistare consistenti partite di legname dai proprietari terrieri del luogo che, per la maggior parte, erano cittadini fiorentini, come appunto gli Antinori, gli Spina, i Frescobaldi, i Petrucci. Gravando, inoltre, questo genere di acquisti in maniera decisiva sul costo di produzione, era assai frequente – e moltissimi documenti lo confermano – che i nostri vasai, se oberati da difficoltà economiche o familiari, finissero per risultare morosi nei pagamenti dovuti ai proprietari cittadini per forniture di legname. La vicinanza di questi ultimi al potere economico e politico della Dominante era ovviamente tale da consentire agli stessi, ove il ricorso al Podestà locale fosse andato per le lunghe, un rapido intervento delle superiori istanze, ed in particolare del tribunale della Mercanzia. Ciò conduceva frequentemente alla condanna dei vasai mantelupini, a sequestri operati in loro danno e, talvolta, anche all’incarcerazione per debiti. La possibilità di disporre di questa risorsa fondamentale, inoltre, spinse alcuni proprietari terrieri del luogo – e segnatamente gli Antinori – ad esercitare un LA PRODUZIONE CERAMICA problema della commercializzazione delle ceramiche montelupine, occorre dunque definire al meglio, per quanto ci è attualmente concesso dalle fonti, le questioni che concernono la gestione e, in particolare, i sistemi di computo utilizzato per stabilire il prezzo di vendita di questi stessi prodotti. Quest’ultimo dipendeva ovviamente dalle diverse variabili che formavano il costo di produzione (materie prime, combustibile, salari dei lavoranti, trasporti, gabelle etc.) e dal profitto che si poteva ottenere nel confronto con il mercato ed i committenti; è dunque facile intuire come, trattandosi di questioni non rispecchiate nei documenti ed in costante modificazione, sia di fatto impossibile penetrare a fondo in tale problematica. Più semplice, invece, risulta per noi, sulla scorta della documentazione disponibile, risalire al sistema mediante il quale, una volta fissato il valore di una forma-guida (quella più largamente prodotta), i ceramisti montelupini venivano a stabilire il prezzo unitario delle sue varianti dimensionali, ottenendo così un tabella generale per la loro attività. Il riferimento principale del sistema di computo utilizzato dai nostri vasai era il mezzoquarto, pari a litri Il Borgo di Montelupo nella seconda metà del XV secolo(disegno Ink-Link Firenze) THE PRODUCTION OF CERAMICS 180 Montelupo in the second half of XV century (Ink-Link Firenze) became particularly intense in the second half of the 16th century: in fact, all those changes brought about the necessity of sailing on a short stretch of sea, once reached the end of the river. In particular, the scafe had to be fitted up with a sail and a less flat keel. They got more and more similar to small seacrafts and the word “navicello” became more appropriate for this kind of boats, so as to call “canal of navicelli” the channel dug under Cosimo I, in order to shorten the sea distance necessary to reach Livorno The river navigation system was particularly suitable for carrying heavy goods (building materials, timber, iron ore, cereals, wine, etc.) and such quantities for which land transportation would have been inconvenient. In the past centuries, the Arno river was navigable, but not always its flow could allow the crossing with the scafe, loaded as they were, with the heaviest materials and, above all, with the navicelli, characterised by a less shallow draught. It was then in autumn and spring, when the river used to have plenty of water, that the circulation of craft was more intense. It is clear, however, that the traffic along the river was supposed to over- LA PRODUZIONE CERAMICA dovevano prevedere i multipli ed i sottomultipli di questa misura di conto, così come avveniva per il circolante. Questo metodo aveva poi un risvolto pratico non trascurabile, in quanto si usava comporre le forme chiuse ansate in mazzi – formati, con l’eccezione dei quarti, da dodici unità – che si ottenevano passando attraverso le prese rametti di salice, mediante i quali le ceramiche venivano strette in un insieme coerente. Così una dozzina di quarti (sei esemplari) e di mezziquarti era formata da un solo mazzo, mentre due erano i mazzi necessari a formare una dozzina con i boccali, quattro con le mezzette, sei con le terzeruole ed otto con i quartucci. Riconoscendo a vista la tipologia della forma ceramica, era dunque assai facile procedere al conteggio delle giacenze di magazzino per mazzi e, in tal modo, controllarne le quantità. Ma non tutte le ceramiche prodotte dalle fornaci degli orciolai consistevano ovviamente in forme chiuse multiple o sottomultiple del mezzoquarto, in quanto i medesimi ceramisti producevano altre tipologie cupe (ad esempio gli alberelli) e, soprattutto, numerose morfe aperte (piatti, scodelle, ciotole, etc.). Un conto intestato a Lorenzo di Piero di Lorenzo da parte del convento fiorentino di San Donato in Polverosa nel 1519 ci consente tuttavia di risalire anche al rapporto di equivalenza stabilito tra le forme chiuse e quelle aperte: nel documento, infatti, il piatto grande è equiparato al mez- zoquarto, il piatto mezzano alla metadella o boccale e quello piccolo alla mezzetta; lo scodellino è un sesto di mezzoquarto, e corrisponde perciò alla terzaruola, mentre vi è equivalenza tra l’alberello mezzano, la metadella, l’alberello piccolo e la mezzetta. I rapporti tra forme che ci sono al momento noti sono perciò riassumibili nel modo seguente: “BOCCALI” QUARTO MEZZOQUARTO METADELLA MEZZETTA TERZARUOLA QUARTUCCIO ALBERELLI – PIATTI QUANTITÀ E SCODELLE PER DOZZINA – 6 12 24 48 72 96 GRANDE GRANDE MEZZANO MEZZANO PICCOLO PICCOLO – – SCODELLINO – Anche le forme aperte potevano essere raggruppate per facilitarne la contabilità in gruppi di dodici, ed in questo caso si trova traccia nei documenti della parola piccia; gli insiemi così realizzati erano poi racchiusi al momento della spedizione in balle di canapa od in contenitori di vimini protetti da paglia. Per i trasporti via mare della ceramica montelupina sembra si utilizzasse, almeno nel XV secolo, anche l’inserimento in contenitori fittili, ben documentato per la maiolica spagnola: queste operazioni d’imballaggio, tuttavia, dovevano essere eseguite nei porti d’imbarco. Nonostante gli sforzi dei ceramisti, lo stato delle strade e delle vie di comunicazione non mancava di provocare danneggiamenti della merce, che erano spesso rilevati dagli acquirenti e provocavano ovviamente una riduzione dell’importo da essi dovuto al venditore. Per questo motivo le consegne, se effettuate per via di terra con l’ausilio delle bestie da soma, erano in genere affidate ai figli od ai parenti prossimi dei proprietari delle botteghe, che però talvolta si avvalevano anche dei soci o dei “fattorini” salariati. Questi “fattorini” rappresentavano una categoria a parte tra i lavoratori delle fornaci montelupine: pur impiegati in mansioni esecutive, essi rappresentavano infatti il proprietario, e ricevevano in consegna da esso non soltanto la merce, ma anche il denaro necessario a pagare le tasse doganali o le gabelle delle porte cittadine. Il vasaio si aspettava dunque che questi suoi collaboratori salariati salvaguardassero al meglio quanto loro affidato, e ne realizzassero rapidamente la consegna, ricevendo dagli scritturali – nel caso di enti ed istituzioni – la poliza che attestava il ricevimento, e la certificazione dell’addebito del relativo importo sul conto del vasaio. Non di rado, inoltre, i consegnatari od i “fattorini” ricevevano in solido le rate di pagamento delle forniture pregresse, e fungevano così da custodi di somme di denaro non indifferenti per l’epoca, le quali dovevano 183 182 come quite a lot of hindrances, beyond the river floods. In particular, one of the most daunting difficulty was the increased strength of the river current which could hinder the boats, while they were going upstream, pulled from the bank by a strong hempen rope, called alzaio. The development of sea trade as well as international trade, that had the coastal ports as landmarks (in our case they were Pisa and later Livorno), allowed an intensive use of the riverways which certainly was irrespective of the type of goods that had to be carried. Those who used to go to the docks knew very well that they could carry any kind of merchandise with good chances of having it delivered, as well as buy more goods to be delivered to domestic markets, or meet someone willing to pay the rent of the boat for the trip towards Florence. The development of the ceramics furnaces of Montelupo and of Samminiatello, in the area of one of the critical points of Florentine commercial traffic, attracted the attention of the commercial companies of the Dominant. Thanks to the notary deed of Ser Carlo Becossi who handed down the text of that agreement, herein often quoted, we know how, as long as at least 1490, a relation of commission had been established between a large group of Montelupo potters and Francesco Antinori. Such a relationship exacted an efficient trade organization from the person who committed himself to purchase large quantities of clay manufactured products, so as to have them delivered even to long distances. We do not know any more details, so far, about the oldest enterprise of the Antinoris, but we do know very well how they went on with that activity until the 17th century, involving also local entrepreneurs, such as the Marmis. The presence of Florentine companies committed to the trade of Montelupo ceramics is to be regarded as larger than it is reported in documents found so far: a “magona di vasellami” (plenty of potteries) is in fact quoted in March 1542 and it involves Roberto Acciaiuoli, even if it concerns the company “cantante” (registered) to Bernardo del Benino. Moreover, massive shipping by river of local clay manufactured items, regarding the years 158689, are contained in an administration book belonging to the Cozzetti family of Montelupo, which probably acted on other merchants’ account. Also traces of foreign dealers are recorded: they were based in Florence but operated in Montelupo to develop the majolica trade onto several markets, as it is shown in the incident of Pietro Palazzo, Sicilian, which is also acknowledged by documents of Palermo and by Montelupo court registers. The impression that can be drawn from a first comparison of these documents – the amount of which might surely increase through accurate archive researches – is the one of a continuous enlargement of the marketing activities for the ceramics, by “dealers” and local intermediaries after 1530s. In fact, in some Montelupo papers of this period, the Peleamattis start to be mentioned – they were a family of traders from Empoli, who lived in Montelupo – as well as the Marmi and the Cozzetti families, herein previously mentioned. It is very difficult to state whether these merchants developed their own activity or if they operated with, or on behalf of companies with a greater turnover. As it is possible to read in the Cozzettis’ documents – a branch of the Lippi-Del Bebbes, a very important family of Montelupo potters – which are the most detailed source of information at the moment, the shipping of fictile products was planned on a large scale, and it employed real teams of navicelli, composed by several boats, under the guidance of an expert navicellaio (captain of a navicello). That documentation indicates how in the Tuscan ports, and especially in Livorno, there were warehouses for the temporary storage of materials, managed by trade companies. The companies used to operate in a flexible way, sometimes handing over their goods to other merchants, or carrying out the export of ceramics on their own, up to the wholesaler who would usually operate on a foreign market. In this case, the usual financing procedures for the payment on the spot of all costs of export taxes (transportation, excises, etc.) as well as for the credit of the sales revenues were followed through a bank. It is therefore evident how large was the field of action reached by the shipping of Montelupo potteries: it included the whole Mediterranean area, as well as the main markets located along the Atlantic routes (in particular, England and Holland) and it all depended on the trade network of the Florentine companies. The crisis of Montelupo furnaces, in perfect timing with the economic falling- back of the city of Florence, is a sort of countercheck of the relation which connected them to the merchant capital and, in the same time, it also points out one of the causes of what happened. The spread of Valdarno ceramics into the major consumption centres of the Tyrrhenian area, up to western Sicily, favoured the city of Rome: a market of great interest for all Italian potters and, in particular, for those ones operating in Central Italy. That is why, within the gates of Rome, many potters from Montelupo, together with many others from Faenza, Casteldurante and Deruta worked side by side with Roman colleagues, some- THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA 2,28 nelle misure da vino e litri 2,09 in quelle per l’olio. Dodici mezziquarti formavano infatti la dozzina, la quale costituiva il riferimento numerico di base per i conteggi, anche se a questo metodo di computo si affiancava talora quello della conta per centinaia, che era impiegata soprattutto nelle forniture di grandi quantità di oggetti morfologicamente omogenei e, quindi, riservata soprattutto a quelle destinate agli ospedali, che si componevano di numerosi manufatti eguali, spesso di basso valore unitario. Poiché, dunque, dodici mezziquarti erano equiparati alla dozzina, per comporre la stessa quantità con la misura superiore – considerata doppia – il quarto, ne occorrevano soltanto sei, mentre la dozzina poteva essere ottenuta anche con ventiquattro metadelle o boccali, essendo i medesimi metà del mezzoquarto. Il conteggio riferiva quindi a questa unità di misura tutte le altre scalature delle forme chiuse: in tal modo “una dozzina” [sottinteso “di mezziquarti”] equivaleva anche a quarantotto mezzette e a novantasei quartucci; contando in terzeruole, che corrispondevano dimensionalmente ad un terzo del boccale, la dozzina risultava invece composta da settantadue unità. Il “gioco di orcioli”, comprensivo di tutte le misure, era pertanto valutato a circa un terzo di dozzina. Abituati a contare in dodicesimi, i ceramisti ancoravano dunque alla dozzina [di mezziquarti] i loro metodi amministrativi, ma ovviamente LA PRODUZIONE CERAMICA rapporti con le dogane ingenerassero frequenti controversie tra i ceramisti ed i navicellai, che spesso erano costretti a rivolgersi al Podestà per farsi rimborsare i pagamenti effettuati per conto dei ceramisti, poco propensi a riconoscerne la legittimità. Non mancano, inoltre, testimonianze le quali evidenziano tentativi mal riusciti di superare fraudolentemente gli sbarramenti doganali che controllavano la navigazione fluviale. La conquista di Pisa del 1406 e la ripresa dello sviluppo economico della seconda metà del XV secolo crearono le premesse per un sensibile incremento della navigazione interna, poi sviluppatasi ancora di più con la creazione del porto di Livorno e, più in generale, con il consolidarsi nel corso del Cinquecento del mercato regionale. Sappiamo comunque come almeno sin dai primi secoli del Basso Medioevo ogni castello, borgo o “terra murata” del Valdarno ospitasse diverse famiglie di navicellai che, spesso tramandandosi il mestiere di padre in figlio, si dedicavano ai trasporti fluviali, assai intensi nella tratta che univa la Dominante ai porti tirrenici, utilizzando speciali imbarcazioni dal fondo pressoché piatto: questi natanti adibiti alla navigazione fluviale, tuttora poco noti agli storici della marineria, erano in origine chiamate scafe. È assai probabile che lo sviluppo del porto di Livorno, avviato con l’acquisto dello scalo dai Genovesi nel 1421, ma particolarmente intenso nella seconda metà del Cinquecento, determinando la necessità di effettuare un tratto marino, sia pure piuttosto breve, una volta che si era usciti dalle acque fluviali, abbia indotto a modificare sostanzialmente la struttura delle antiche scafe, suggerendo in particolare l’adozione della vela e di una chiglia dalla sezione meno appiattita. Somigliando così sempre di più ad una piccola imbarcazione marinara, divenne appropriato per questo genere di barche il vocabolo “navicello”, tanto che il canale scavato per disposizione di Cosimo I al fine di abbreviare il tragitto di mare necessario a raggiungere Livorno è noto come “canale dei navicelli”. Il sistema della navigazione fluviale era ovviamente indicato soprattutto per il trasporto delle merci pesanti (materiali da costruzione, legname, minerali di ferro, granaglie, vino, etc.) e per quantitativi tali da rendere svantaggioso il trasporto terrestre. L’Arno era nei secoli passati un fiume navigabile, ma non sempre la sua portata poteva garantire il passaggio delle scafe cariche dei materiali più pesanti, ma soprattutto dei navicelli caratterizzati da maggior pescaggio. Era dunque tra l’autunno e la primavera, allorquando il fiume aveva maggior abbondanza d’acqua, il periodo in cui più intenso si faceva il movimento delle imbarca- zioni; è ovvio, tuttavia, come in quei mesi il traffico fluviale dovesse superare, al di là dei periodi di piena del fiume, non pochi ostacoli, ed in particolare l’accresciuta forza della corrente, la quale era in grado di contrastare maggiormente il movimento di risalita delle barche, trainate dalla riva mediante un robusto canapo, detto “alzaio”. Lo sviluppo dei traffici marittimi e del commercio internazionale che aveva come punti di riferimento i porti costieri (nel nostro caso Pisa e poi Livorno) consentiva però un uso intensivo della via fluviale, che di certo prescindeva dalla stessa tipologia delle merci da trasportare. Chi si recava agli approdi marittimi, infatti, sapeva bene che poteva condurre con sé ogni genere di mercanzia, avendo ottime possibilità di esitarla, ma anche che avrebbe potuto acquistare altra merce da trasportare sui mercati interni, o incontrare qualcuno che avrebbe pagato il nolo della sua barca per il percorso di risalita verso Firenze. La crescita delle fornaci ceramiche di Montelupo e di Samminiatello, avvenendo in uno dei nodi del sistema dei traffici mercantili fiorentini, non mancò dunque di attrarre l’interesse delle compagnie commerciali della Dominante. I navicelli a Firenze in un’incisione di Giuseppe Zocchi (1744) 185 184 times also holding prominent positions in the local “art of the vascellari (potters)”. However, the emigration of Montelupo artists to Rome, had already started long before, according to what happened to that “mestro (master) Domenico da Montelupo who, in 1454, in partnership with the potter Giovanni di Tommaso di Vigna da Fosso, realised one of the majolica floors of the Lateran Palace. The diaspora of Valdarno potters towards other production centres generally overlapped the one of their trade, as, in early 16th century, they moved to Provence and to the city of Lyons, which represented the most important Florentine trade centre in France. The commercial outlets of Montelupo furnaces had basically three different features. First of all, there was a local market which included several Tuscan cities and mainly increased by local people (the stovigliai) who were involved in the trade of fictile and glassware, or in products such as coal, ropes, but also chalk, bricks, etc. Sales of pottery took place in outdoor markets, too, and there, the producer itself or his deliveryman, as well as street traders could operate. The trading activity of the stovigliai was often based on rudimental forms of partnership between producer and seller, that is, the contracting parties established de facto – and probably on the basis of a private agreement – an econom- ic relation, based on the supply of the finished product, which corresponded to an assignment of raw materials as partial compensation of the debt. A remarkable part of the trade of Montelupo ceramics was then carried out with direct clients. We know some significant aspects of it, even if our information mainly concern the relations between the local potters and their “public” clients, like convents and hospitals, while they seldom regard private orders, mostly placed by Florentine aristocratic families. As for “public” clients, it is easy to notice how easy it was for some potters to turn into “potter of the family” and, for different reasons, to become the preferential supplier for the institution; we do not know, however, if the same might have happened with private clients. The third and last sales channel was represented not only by the “international” trade which was carried out via the coastal ports of Tuscany, but also by the trade companies system we have already described above in details. As far as the organization of the production is concerned, we must say that such a complicated mechanism started in the workshop with all its different operative systems (workshop with or without furnace, independent workshop or workshop linked to others through partnerships). The history of our The “navicelli” (boats) in Florence THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA poi regolarmente versare nelle casse della bottega. Qualora il trasporto della ceramica fosse effettuato per via d’acqua, utilizzando in primo luogo il corso dell’Arno – il che avveniva nella generalità dei casi d’esportazione indirizzata al mercato extraregionale – erano i proprietari delle barche, i “navicellai”, a svolgere questo compito delicato. Al navicellaio veniva infatti consegnata la merce da trasportare sulla ripa del fiume (“a riva d’Arno”), da dove veniva prelevata e caricata sull’imbarcazione. L’affidamento delle merce avveniva senza particolari formalità, ma trovava puntuale riscontro nelle “partite” segnate nei libri d’amministrazione dalle singole fornaci: questa prova documentaria, in specie se avvalorata da più d’un testimone, era del resto sufficiente a far condannare il navicellaio dal tribunale della Mercanzia, qualora quanto a lui affidato fosse andato perduto o distrutto in maniera colposa. Non possediamo prove documentarie di forme di assicurazione, eventualmente stipulate per la tutela del patrimonio dei venditori o dagli acquirenti. Poiché discendendo il fiume in direzione di Pisa si incontravano alcune barriere doganali, era necessario che i navicellai accostassero, per mostrare ai doganieri la merce trasportata; pagando loro quanto dovuto in base alle tariffe vigenti, ottenevano un documento di ricevuta (la bulletta o poliza). Le scritture del tribuanale di Montelupo mostrano con grande evidenza come i in an incision by Giuseppe Zocchi (1744) production centre shows how the numerical growth of the productive units is to be traced back in Montelupo mainly to the development reached here during the 15th century, even if such a phenomenon found the way of grafting on an environment already busy with ceramic activities. To acquire the necessary means for the production and to own a workshop with sufficient rooms – including at least, beside the working room, an area for drying the manufactured items, a small storeroom and a stable – was not easy and it was even more difficult to find a place where to follow the whole production cycle, with one or more furnaces and also a air reverberation furnace to prepare glazes, enamels and colours. Those who, like the Bandini family, owned lands in the countryside, LA PRODUZIONE CERAMICA luppare il commercio della maiolica su diversi mercati, come mostra la vicenda di quel Pietro Palazzo siciliano, che trova riscontro in scritture palermitane e nei registri del tribunale montelupino. L’impressione che si ricava da una prima comparazione di questi documenti – il cui numero potrebbe certo moltiplicarsi attraverso appropriate indagini d’archivio – è quella di un progressivo allargamento dell’attività di commercializzazione delle ceramiche, dopo gli anni Trenta del Cinquecento, a “faccendieri” ed intermediari locali. In questo periodo iniziano infatti a comparire nelle scritture montelupine i Pelamatti – una famiglia di commercianti originaria di Empoli, ma residente anche in Montelupo – oltre ai già citati Marmi e Cozzetti: quanto questi mercanti sviluppino un’attività propria, oppure operino in collegamento, se non per conto, di aziende dal più vasto giro d’affari, è assai difficile stabilire. Come si ricava dalle scritture dei Cozzetti – una ramificazione dei Lippi-Del Bebbe, importante famiglia di ceramisti montelupini – che al momento costituiscono la fonte d’informazione più dettagliata, le spedizioni di generi fittili venivano programmate su larga scala, tanto che si impiegavano vere e proprie squadre di navicelli, composte da diverse imbarcazioni, affidandole ad un esperto navicellaio. Questa documentazione lascia intravedere come nelle città portuali della Toscana, e segnatamente in Livorno, si trovassero fondaci destinati al provvisorio stoccaggio dei materiali, gestiti da compagnie commerciali. Le compagnie operavano in maniera flessibile, cedendo talvolta la merce ad altri commercianti, oppure effettuando in proprio l’esportazione delle ceramiche sino all’acquirente all’ingrosso, che normalmente operava su una piazza forestiera; in questo caso si seguivano le usuali procedure finanziarie per il pagamento sul posto tramite banca delle spese relative agli oneri d’esportazione (trasporti, gabelle, etc.) e l’accreditamento delle somme derivanti dalle vendite. Risulta palese, dunque, come il raggio assai vasto raggiunto dalle spedizioni di ceramiche montelupine, il quale, come sappiamo, comprendeva l’intero bacino del Mediterraneo ed i maggiori mercati che si collocavano lungo le rotte atlantiche (in particolare l’Inghilterra e l’Olanda), dipendesse dalla rete commerciale delle compagnie fiorentine. La crisi delle fornaci di Montelupo, avvenuta in perfetta sintonia con il ripiegamento economico della città di Firenze, costituisce dunque una sorta di controprova del rapporto che le legava al capitale mercantile, e segnala anche, nel contempo, una delle Il rogito notarile del “trust Antinori” (20 settembre 1490) 187 186 could sell them and make the right profit to buy a building and then, if necessary, renovate it and fit it with the right spaces and equipment. If, instead, it was not possible to have adequate financial resources to own a productive unit, there was always the possibility to be employed as a worker in somebody else’s workshop. The social position of the wage-earner, even when specialised as the painter, the thrower or also the kiln man must not have been one of the best ones. At that time, the corporative system which perhaps used to start off young apprentices who eventually reached the higher qualification of maestro (master) had lost its rigid frame and, as far as the late 15th century, seemed to produce nothing else than wage-earning workers,. It is likely that the work relations of those workers– since they were not subject to any public contract, but instead simply regulated by private agreements, if not even occasional – might have turned into not totally favourable relations. Even more precarious was, of course, the work relationship between the owner of the workshop and those workers whose job in the workshop entailed general duties or tasks without any special skills, like the motaioli (mud cleaners), the attacchini (billposters) and in general all workshop boys. In fact, they could be dismissed without any problems and they were not always able to find a job in other furnaces. The condition of being “employed”, then, was widespread for all immigrants: since they usually came from different manufacturing centres, they certainly could not have had availability of capitals to buy a furnace, so they had to find a position as wage-earners or associates – almost always as minority partners – in somebody else’s workshop. Such a system is clearly illustrated in the history of the Italian ceramics, and in Montelupo, it is obvious in the case of Girolamo Mengari and Alessandro Di Tommaso di Giorgio, both from Faenza. While the former – although often called in documents with the title of “magister” – never owned his own ceramics business, with his personal history, the latter shows all the restlessness typical of the “travelling” painter. After leaving his native Faenza (or maybe some village nearby), Alessandro passed through Pesaro and after working in other places, too, he arrived in Montelupo; then, from there, he went away at an old age and he probably died in Rome at the end of the 16th century. Since the immigrant was a skilled artisan, although he didn’t have his own business, he could often do his job well even under more or less rigid forms of employment. On the other hand, such a The notary deed of the “Antinori trust” (20th september 1490) THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS cause di questo fenomeno. La diffusione delle ceramiche valdarnesi verso i maggiori centri di consumo dell’area tirrenica, estesa sino alla Sicilia occidentale, privilegiò la città di Roma: un mercato di grande interesse per tutti i ceramisti italiani, ed in particolare per quelli attivi nel centro Italia. Fu così che tra le mura dell’Urbe finirono per trovarsi non pochi vasai provenienti da Montelupo, i quali, assieme ad una numerosa compagine di faentini, durantini e derutesi, lavoravano a fianco di colleghi romani, rivestendo anche cariche di spicco nella locale “arte dei vascellari”. L’emigrazione montelupina verso Roma, del resto, inizia in epoca già piuttosto antica, come mostra la vicenda di quel “mestro Domenico da Montelupo”, che fabbricò nel 1454 – in società con il vasaio Giovanni di Tommaso di Vigna da Fosso – uno dei pavimenti maiolicati del palazzo del Laterano. La diaspora dei vasai valdarnesi verso altri centri di produzione si sovrappose in genere a quella dei loro commerci, orientandosi all’inizio del Cinquecento anche verso la Provenza e la città di Lione, la quale, peraltro, rappresentava la più importante piazza mercantile fiorentina in Francia. LA PRODUZIONE CERAMICA Grazie all’atto notarile di ser Piero Gherardini che ci ha tramandato il testo di quell’accordo, qui più volte citato, sappiamo infatti come almeno sin dal 1490 tra un folto gruppo di vasai montelupini e Francesco Antinori si fosse creato un rapporto di committenza tale da richiedere da parte di chi s’impegnava all’acquisto di grandi quantità di prodotti fittili un’efficiente organizzazione commerciale, in grado di esitare questi ultimi anche sulle lunghe distanze. Se non conosciamo per il momento altri particolari in merito alla più antica impresa degli Antinori, sappiamo bene, però, come essi abbiano proseguito sino al XVII secolo tale attività, coinvolgendo in questo traffico imprenditori locali come i Marmi. La presenza di compagnie fiorentine dedite al commercio delle ceramiche di Montelupo deve tuttavia ritenersi assai più ampia di quanto i documenti sin qui ritrovati riescono ad attestare: una “magona di vasellami”, che vede coinvolto Roberto Acciaiuoli, ma che attiene alla compagnia “cantante” (cioè intestata) in Bernardo del Benino, è infatti citata nel marzo del 1542, mentre massicce spedizioni per via fluviale di prodotti fittili locali, relative al periodo 1586-89, sono contenute in un libro d’amministrazione della famiglia montelupina dei Cozzetti, che evidentemente agisce per conto di altri mercanti. Non mancano, infine, le tracce di trafficanti forestieri che, basati in Firenze, operano in Montelupo per svi- LA PRODUZIONE CERAMICA fiorentine. Per quanto attiene la committenza “pubblica”, si può constatare come fosse facile per alcuni ceramisti trasformarsi in “vasai di casa”, ed assumere, per motivazioni diverse, il ruolo di fornitori privilegiati dell’istituzione; non sappiamo, però, se lo stesso fenomeno si sia ripetuto nei confronti dei privati. Il terzo ed ultimo canale di vendita era poi rappresentato dal commercio “internazionale” che avveniva attraverso gli approdi costieri della Toscana e per tramite del sistema della compagnie commerciali, sul quale ci siamo disopra ampiamente diffusi. Sotto il profilo organizzativo della produzione, il motore di questo complesso meccanismo era dunque la bottega con le sue diverse articolazioni operative (bottega con o senza fornace, bottega indipendente o collegata ad altre mediante legami societari). La storia del nostro centro di fabbrica dimostra come la crescita numerica delle unità produttive sia da far risalire in Montelupo soprattutto allo sviluppo che qui si determinò nel corso del XV secolo, anche se questo fenomeno ebbe modo di innestarsi in un ambiente già relativamente denso di attività ceramistiche. Acquisire i mezzi necessari alla produzione e possedere una bottega con gli spazi adeguati – comprendenti almeno, oltre al locale ove si effettuavano le lavorazioni, anche le aree destinate all’essiccazione dei manufatti, un piccolo magazzino ed una stalla – non doveva essere però agevole, ed ancor più difficile dotarsi di un’unità ove poter eseguire l’intero ciclo produttivo, con una o più fornaci e, magari, un fornello a riverbero per fabbricare vetrine, smalti e colori. Chi, come la famiglia Bandini, aveva possedimenti fondiari nelle campagne, poteva ricavare dalla loro vendita il capitale necessario ad acquistare un immobile, per poi, se necessario, ristrutturalo e dotarlo degli spazi e delle attrezzature adeguate: se non si disponeva delle risorse sufficienti a dotarsi di una propria unità produttiva, si cercava impiego come lavorante nelle botteghe altrui. La posizione sociale del salariato, pur specializzato come il pittore, il torniante od anche il fornaciaio, non doveva però essere delle migliori. Il sistema corporativo, ormai uscito dalla rigida cornice, che forse un tempo instradava i giovani apprendisti al graduale raggiungimento della qualifica di maestro, sembra infatti aver prodotto, già sul finire del XV secolo, nient’altro che semplici lavoranti salariati, ed è assai probabile che per questi ultimi il rapporto di lavoro – in quanto non soggetto ad una contrattualità pubblica, ma regolato da semplici accordi privati, se non addirittura occasionali – si rivelasse tutt’altro che favorevole. Ancor più precario, ovviamente, era il legame La marca (“tridente”) di Girolamo Mengari 189 188 condition, being without property, well matched his “free man” mentality, without being tied to the places he went to. Therefore, he could quite easily go on with his wanderings, moving where he wanted to in the search for success or at least to be able to develop his own professional skills. Considering, however, that the pottery workshop owners, especially if without any male heirs, were obliged to put part of their estates in the dowry of their daughters, they offered the immigrants as well as the potters without workshop, the possibility to acquire a business through marriage. Some families of potters in Montelupo, for example, the Accattis and the Bernazzinis, actually resorted to this marriage strategy. But the way was beset with dangers. In the case of widowhood, the gifted property would go back to the wife; on the other hand, many widows did not want to submit to the clause of will which prevented them from getting married again. Due to the hardships of the time and to the many conflicts with their parents-in-law, brothers- and sisters-in law, they tended to marry again and doing so, they took away the property from their previous family. Even the sums of money received by way of dowry, and spent by their dead husbands to buy workshops and furnaces, could be claimed back. All that caused unsettling effects on the economic fabric of Montelupo, first of all compelling an illogical and problematic division of the workshop, according to the shares of property (a part to the widow, the others to the potters who worked there). The widows, if married again to men who did not operate in the ceramics industry, aimed at renting out the estates – was it a whole workshop or a part of it – to potters who exploited all what they had received on lease, without engaging in any maintenance: such a behaviour was quite often the prelude to bankruptcy. Aware of all those problems, each potters dynasty in Montelupo used to pay particular attention to keeping their properties intact, and they especially tried to safeguard those estates used for their productive activities that, besides being useful from an economic point of view, became also the tie for the whole family. It all limited the transfers of property but in case of economic difficulties, it increased the deterioration of the buildings as a result of lack of maintenance and investments. According to those principles, it was however a rule to assign the control of the “ragione cantante”, i.e. the legal ownership of the ceramics business to the first-born son, which meant to inherit both the registration, scartafaccio of the workshop (the book of ordinary business) and the responsibility of the management. With regard to the estate, there was a tendency to The brand (tridente) of Girolamo Mengari THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS che si instaurava tra il proprietario della bottega ed i salariati che in essa svolgevano mansioni generiche o di bassa specializzazione, come i motaioli, gli attacchini ed i garzoni in genere: essi, infatti, potevano essere allontanati dal lavoro senza troppe difficoltà, e non sempre riuscivano ad impiegarsi in altre fornaci. La condizione di “dipendente” si generalizzava poi per gli immigrati: provenendo di norma da altri centri di fabbrica, essi non avevano una disponibilità di capitale tale che permettesse loro di acquistare una fornace, ed erano perciò costretti ad impiegarsi a vario titolo, come salariati o associati – quasi sempre per minoranza – nelle botteghe altrui. Tale meccanismo trova ampia esemplificazione nella storia della ceramica italiana, ed a Montelupo si fa assai evidente nel caso dei faentini Girolamo Mengari ed Alessandro di Tommaso di Giorgio: mentre il primo – peraltro spesso contraddistinto nei documenti dall’appellativo di “magister” – mai venne a dotarsi di un proprio esercizio da vasaio, il secondo mostra nella sua storia personale tutta l’irrequietezza del pittore “itinerante”. Partitosi dalla natia Faenza (o, forse, da un paese ad essa vicino), Alessandrò passò infatti per Pesaro, e, dopo aver forse lavorato in altri luoghi, giunse a Montelupo; da qui si LA PRODUZIONE CERAMICA Gli sbocchi commerciali delle fornaci montelupine avevano sostanzialmente tre diverse caratteristiche. Esisteva, in primo luogo, un mercato locale, esteso a diverse città della Toscana, ed alimentato soprattutto da gente del luogo (gli stovigliai), che si dedicavano al commercio dei generi fittili, del vetro e dei prodotti di “mesticheria” (carbone, cordami, ma anche gesso, laterizi, etc.). Vendite di ceramica avvenivano anche nei mercati all’aperto, e qui potevano operare gli stessi produttori o i loro “fattorini”, oltre ovviamente a commercianti ambulanti. Spesso alla base dell’attività commerciale degli stovigliai vi erano embrionali forme societarie tra produttori e rivenditori, nel senso che tra i contraenti si stabiliva de facto – e probabilmente sulla base di una scrittura privata – un rapporto di natura economica, basato sulla fornitura di prodotto finito, alla quale, come parziale compensazione del debito relativo, faceva spesso riscontro la cessione di materie prime. Una parte non trascurabile del commercio delle ceramiche montelupine avveniva poi per committenza diretta, e di esso ne conosciamo alcuni aspetti qualificanti, anche se le nostre informazioni attengono in particolare al rapporto tra i ceramisti del luogo ed i loro clienti di tipo “pubblico”, come conventi ed ospedali, mentre assai più raramente si estendono alle ordinazioni private, in gran parte afferenti a famiglie nobiliari LA PRODUZIONE CERAMICA In caso di vedovanza, i beni dotali tornavano infatti di pertinenza della moglie; molte vedove, non sottostando – anche in ragione della durezza dei tempi e dei frequenti conflitti con i suoceri, i cognati o le cognate – alle clausole testamentarie che miravano ad impedirlo, tendevano poi a contrarre un nuovo matrimonio, sottraendo così questi beni al precedente nucleo familiare. Anche le somme ricevute a titolo dotale, ed impiegate dai defunti coniugi nell’acquisto di botteghe e fornaci, potevano essere reclamate. Tutto ciò non mancò di ingenerare effetti dirompenti nel tessuto economico montelupino, costringendo in primo luogo a sezionare in maniera illogica e problematica le botteghe a seconda delle quote di proprietà (una parte alla vedova, le altre ai vasai che vi operavano). Le vedove, se di nuovo maritate a persone che non esercitavano il mestiere del ceramista, tendevano poi ad affittare questi beni – corrispondessero ad un intero esercizio o solo ad una parte di esso – a vasai che sfruttavano oltre il limite quanto ricevuto in locazione, senza per questo impegnarsi nella sua manutenzione: non di rado fu l’anticamera della rovina. Consapevoli di queste difficoltà, ogni dinastia di La marca (“amo da pesca”) della famiglia ceramisti montelupini era particolarmente attenta a mantenere integro nel tempo il proprio patrimonio immobiliare e, in particolare, a salvaguardare quello destinato alle sue attività produttive, che, oltre ad una funzione economica, assumeva il valore di legame collettivo per il gruppo parentale. Ciò tendeva a limitare i passaggi di proprietà delle fornaci, e favoriva, perciò del pari, in caso di difficoltà economiche, il deperimento delle strutture per mancanza di manutenzione e di investimenti. In ossequio a questi principi, era comunque di norma il primogenito a ricevere in eredità il controllo della “ragione cantante”, della titolarità, cioè, dell’impresa ceramica: il che significava ottenere, assieme al registro ed allo scartafaccio (il libro della gestione ordinaria) della bottega, anche l’onere della sua conduzione. Sotto il profilo patrimoniale, inoltre, si cercava di evitare, nel caso di una pluralità di eredi maschi, la futura frantumazione della proprietà, assegnandola negli atti di succesione ai primogeniti; questa regola non mancava tuttavia di ingenerare contrasti tra fratelli, sino ad indurre i minori all’abbandono del luogo natio. Nella lunga vicenda storica montelupina, ad ogni buon conto, si nota una fase di crescita della presenza di botteghe e fornaci che si estende dal XIV secolo – il primo periodo documentato dalle scritture d’archivio – alla seconda metà del Cinquecento, con un accrescersi del numero delle famiglie impegnate nell’attività ceramistica ed un ampliamento delle strutture produttive. Le prime difficoltà insorte nella seconda metà del Cinquecento e, soprattutto, nel secolo successivo, si accompagnano invece con il passaggio di molti degli immobili ove restava traccia della produzione fittile nelle mani di speculatori fondiari – il caso più eclatante è quello della famiglia Tosi – o, più in generale, di proprietari che non si impegnano direttamente, ma cedono i loro beni in locazione ad altri ceramisti: è questo, ad esempio, il caso dei Brizzelli. L’assottigliarsi delle famiglie che nel passato avevano rappresentato il fulcro delle attività locali è eloquentemente attestato dalla scomparsa – in toto o almeno per i rami che si erano dedicati alla professione del vasaio – non solo dei Calabranci, dei Bandini, dei Bernazzini, dei Becossi, i quali avevano supportato i momenti di sviluppo tardo-medievali di questa attività, ma anche dei Sartori, dei Vestri o dei Maffei, tanto per citarne alcuni, che furono alla base del successivo consolidamento “rinascimentale” della maiolica montelupina. I vuoti che la scomparsa di queste vere e proprie dinastie di vasai lasciò in Montelupo furono parzialmente riempiti nel corso del XVII secolo da nuovi adepti, quali i Dori, i Berti, i Grazzini ed i Ferruzzi, ma Marmi 191 190 The brand (amo da pesca) of the Marmi family avoid dividing it in the case of numerous male heirs, and so it was assigned to the first-born son, as reported in the testamentary succession acts. Such a rule contributed to the rise in conflicts among brothers, up to the point of forcing the youngest brothers to leave their native place. In the long history of Montelupo, after all, it is noticeable an upward phase in the amount of workshops and furnaces that starts from the 15th century – the first period of time documented by the archive papers – to the second half of the 16th century, with a rise in number of families engaged in pottery activities and an expansion of productive organizations. The first problems arisen in the second half of the 16th century and, above all in the following century, are parallel to the change of ownership of many estates, where there was evidence of fictile production, into the hands of property speculators – the most striking example is the Tosi family – or, more general, into the hands of owners who do not acted directly, but let their property out to other potters: for example, like the Brizzellis. The reduction of families who in the past had represented the heart of the local activities, is meaningfully revealed by the loss – in toto or at least of the branches who worked in the ceramics business – of not only the Calabrancis, the Bandinis, the Bernazzinis, the Becossis, who had supported the development of those activities during the Late Middle Ages, but also by the loss of the Sartoris, the Vestris or the Maffeis, to name only some families, who were active during the following Renaissance consolidation of Montelupo-type majolica. The void that the loss of those real dynasties of potters left in Montelupo was partially filled by new followers during the 17th century. They were the Doris, the Bertis, the Grazzinis and the Ferruzzis, but – as the sources clearly show - they could never foster a production to the same extent of what it had been once. The change in ceramics production throughout the 18th century, which also sees Tuscany changing from an area of great export into a market of absorption of foreign products – in particular of the so-called “ordinary pottery”, but also of the majolicas from Holland and from Liguria – represented a turning point in Montelupo history that was preceded by a long phase of regression. The loss of the past supremacy in the production and trade was anticipated by the progressive decline of the commercial ties with the Florentine merchant capital. We know very well, however, how serious the economic crisis of the Grand Duchy was between the17th and 18th centuries, and how the THE PRODUCTION OF CERAMICS THE PRODUCTION OF CERAMICS LA PRODUZIONE CERAMICA allontanò ancora in età ormai avanzata, per trovare forse la morte a Roma sul finire del XVI secolo. Poiché è un artigiano capace, l’immigrato, pur non possedendo un esercizio di sua proprietà, riesce però sovente ad esercitare il suo mestiere anche nelle forme di dipendenza più o meno accentuata nelle quali è costretto ad operare; la mancanza di beni immobili, d’altra parte, ben corrisponde, nella maggioranza dei casi, anche alla sua mentalità di “uomo libero”, privo di legami profondi con i luoghi nei quali si reca. Ciò gli consente all’occorrenza di riprendere con relativa facilità le proprie peregrinazioni, spostandosi laddove ritiene, se non di fare fortuna, almeno di sviluppare al meglio le proprie capacità professionali. Visto, però, che i ceramisti proprietari, specie se privi eredi maschi, erano costretti ad inserire almeno parte delle loro proprietà immobiliari tra i beni dotali delle figlie, si offriva per via parentale tanto agli immigrati, quanto ai ceramisti privi di bottega in genere, la possibilità di acquisire esercizi propri: alcune famiglie di vasai di Montelupo, come gli Accatti ed i Bernazzini, praticarono in effetti con evidenza questa strategia matrimoniale. La strada, però, era irta di insidie. merciale e bancaria che un tempo faceva perno sulla città di Firenze sia allora precipitata in un indubitabile sfacelo. L’intero comparto della produzione fittile montelupina andò così incontro ad una completa ristrutturazione, forzata dalla crisi della maiolica, che ne permise soltanto una stentata sopravvivenza: con essa, oltre alla memoria storica ed all’intera trama dei rapporti socioeconomici che l’avevano supportata, si persero anche aspetti essenziali della sapienza tecnologica già maturata. Per nostra fortuna l’incomparabile ricchezza degli archivi fiorentini e degli scarichi delle fornaci locali può consentirci ancora oggi, nonostante il tempo passato, di ricondurre alla memoria il simulacro di quella che un tempo fu, probabilmente senza averne consapevolezza, una delle esperienze più avanzate per l’epoca, posta, nonostante i suoi tratti “antichi”, davvero ad un passo dalla modernità. commercial and financial network that once hinged on the city of Florence, started to run into an unquestionable collapse. The whole Montelupo fictile production headed towards a complete renovation, forced by the crisis of the majolica, which allowed it only a hard survival. Besides historical memories and the whole web of socio-economic relations which had supported it, also fundamental aspects of a consolidated technological know-how disappeared with it. Fortunately, the great richness of the Florentine archives and the wastegrounds of the local furnaces can allow us, still today, to bring back memories of one of the most advanced experiences of those times that, maybe without even realising it and despite its “ancient” features, was just a few steps from modernity. LA PRODUZIONE CERAMICA non fu certo possibile a questi ultimi – come le fonti mostrano in maniera eloquente – animare un’attività che fosse in qualche misura comparabile alla precedente. Il mutamento della produzione ceramica avvenuto nel corso del Settecento, le cui conseguenze si mostrano con grande evidenza nella trasformazione della Toscana da area di forte esportazione a mercato di assorbimento dei prodotti stranieri – in particolare delle cosiddette “porcellane ordinarie”, ma anche delle maioliche olandesi e liguri – rappresentò così nella storia di Montelupo un momento di svolta che fu preceduto da una lunga fase di ripiegamento. La perdita del predominio produttivo e commerciale del passato fu anticipata dal progressivo cedimento dei rapporti commerciali un tempo stretti con il capitale mercantile fiorentino; ben sappiamo, d’altronde, quanto profonda fosse la crisi economica del Granducato tra Sei e Settecento, e come la rete com- THE PRODUCTION OF CERAMICS 192 PARTE QUARTA Il Museo della Ceramica. Breve descrizione delle aree espositive PART FOUR The Museum of Ceramics. Short description of the exhibition areas Il piano terreno. La sala del “pozzo dei lavatoi” L’ingresso alle sale espositive è posto sulla destra del bancone d’ingresso; attraversando un breve corridoio, si accede alla sala 1, che introduce il visitatore alle collezioni. Nella prima sala è contenuta una ricostruzione evocativa del cosiddetto “pozzo dei lavatoi”, comprensiva di un modello centrale del pozzo medesimo, ove è collocata una scelta di frammenti di scavo, rappresentativi delle decorazioni tipiche dell’inizio del Cinquecento, di prove di cottura e di scarti di lavorazione, con le esercitazioni di pittura degli allievi, i conti delle botteghe, ed Ricostruzione ideale dello scavo del “pozzo dei lavatoi” (disegno Ink-Link Firenze) 195 194 Graphic reconstruction of the escavations of the “pozzo dei lavatoi” (washing well) (Ink- Link Firenze) Vestiges of the history of Montelupo ceramics are on display at the new Museum of Ceramics, a building located in Vittorio Veneto square. It is an exhibition space of 2.100 square metres indoor and of 400 square metres outdoor; it has got an entrance hall, an open space like a wide glassed room on the upper part of the square, with the front-office desk in the centre; it has also got a cafeteria and a book-shop. The permanent exhibition is set out on three levels. Ground floor. The “washing well” room The entrance to the galleries is on the right of the front desk; following a short corridor, you can reach Room 1, which introduces visitors to the collections. The first gallery houses an evocative reconstruction of the so-called “wash-house well”, together with a central model of the well itself, where a wide range of fragments from the excavation is placed. They are representative samples of the typical decorations of early 16th century. There are also items from firing tests and from manufacturing rejects, painting exercises of apprentices, bills of the workshops and other meaningful items that are typi- THE MUSEUM OF CERAMICS THE MUSEUM OF CERAMICS IL MUSEO DELLA CERAMICA IL MUSEO DELLA CERAMICA Le testimonianze della storia della ceramica di Montelupo sono esposte al pubblico presso il nuovo Museo della Ceramica, un edificio collocato nella piazza Vittorio Veneto, che presenta una superficie coperta di 2.100 metri quadrati ed una scoperta di 400. Esso si avvale di una hall d’ingresso, aperta come un vasta aula vetrata sulla parte rialzata della piazza, che ha al centro il bancone del front-office, ma anche una caffetteria ed un book-shop. Il percorso espositivo si articola su tre piani. IL MUSEO DELLA CERAMICA introdurre il visitatore ad una tematica centrale per la comprensione della storia di Montelupo: il rapporto con il capitale mercantile fiorentino e con il commercio internazionale della ceramica prodotta in questo luogo. A tal fine si mostra una ricostruzione del porto fluviale, posto sull’Arno nei pressi della foce del torrente Pesa, con le imbarcazioni (“navicelli”) cariche di maioliche da trasportare nei porti tirrenici (prima Pisa e poi Livorno), i quali rappresentavano i terminali dei traffici fiorentini, e l’arrivo delle medesime negli scali marittimi, ove le ceramiche venivano imbarcate sulle navi con le quali sarebbero state diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo e lungo le rotte atlantiche. Una carta geografica in forma di portolano mostra infine i luoghi di ritrovamento – che giungono sino alle lontane Indie occidentali – dei prodotti fittili montelupini. Il piano terreno. Il percorso espositivo delle sale 2-4. Usciti dalla sala del “pozzo dei lavatoi”, si accede alla numero 2, dalla quale inizia il percorso espositivo che presenta, secondo un ordinamento cronologico e tipologico, le collezioni del Museo della Ceramica, formate in stragrande maggioranza da reperti che provengono dal recupero con metodo archeologico dei materiali presenti negli scarichi delle fornaci locali, rinvenuti all’interno del centro storico di Montelupo. Nella sala 2 si concentrano quasi tutte le temati- che fondamentali della produzione medievale di Montelupo, ad iniziare dai documenti più antichi, che consistono in “maioliche arcaiche”, decorate in verde e bruno (“ramina e manganese”), databili dalla fine del Duecento ai primi anni del Quattrocento. Si tratta in particolare di contenitori per liquidi (acqua e vino) da collocare sulla tavola, i quali rappresentano l’evoluzione medievale delle oinochoai antiche, tanto da mantenere la forma del bordo superiore a tre lobi, atta a favorire lo scorrimento del loro contenuto nei bicchieri, tipica di questo genere di ceramiche da mensa. Alle prime “maioliche arcaiche” seguono le testimonianze dell’evoluzione tecnologica e formale avviata a partire dal sesto-ottavo decennio del Trecento con la “maiolica arcaica blu” e con la “zaffera a rilievo”. Già nella prima si nota una radicale evoluzione dell’impasto argilloso con il quale vengono foggiate le ceramiche, poiché esso si mostra bianco (e non più rosso) sin dalla prima cottura (“bistugio”), facilitando così la successiva operazione: pur se ricoperta da uno smalto relativamente povero di stagno, infatti, la superficie del corpo ceramico assumeva nella seconda cottura un aspetto candido e translucido, in grado di far risaltare perfettamente le nuove decorazioni in blu. Questa evoluzione fu ottenuta dai ceramisti di Montelupo – anticipando di secoli quella che sarebbe stata l’innovazione tecnologica della terraglia – mediante con l’aggiunta di calce all’impasto. Mentre la maiolica arcaica blu utilizza ancora l’ossido di rame (“ramina”) per il pigmento, riuscendo a farlo virare verso il blu grazie all’impiego di tecniche particolari, la “zaffera” marca l’ingresso nella lavorazione della ceramica di materie prime d’importazione, in questo caso dell’ossido di cobalto, come il suo stesso nome, di evidente derivazione araba, dimostra. Con la “zaffera”, che si caratterizza per una decorazione in rilievo sulla superficie smaltata, ottenuta mediante aggiunta IL MUSEO DELLA CERAMICA altri elementi significativi che caratterizzano gli scarichi delle fornaci locali. La parete sulla destra di chi entra mostra una ricostruzione grafica dello scavo del pozzo, con gli scavatori che operano all’interno della struttura, mentre all’esterno altre persone sono impegnate nel setacciare con l’acqua la terra di risulta e nel primo trattamento dei reperti; tra di essi si riconoscono due personaggi da poco scomparsi: il noto archeologo Riccardo Francovich, al quale si deve l’impulso decisivo alla costruzione del Museo della Ceramica, e Fabrizio Coli, che non soltanto fu uno dei primi scavatori del pozzo, ma ricoprì per molti anni la carica di Presidente del Gruppo Archeologico di Montelupo. Sui restanti lati della sala si distende il percorso ideale di quella storia che è scaturita dall’esplorazione di questo fondamentale deposito archeologico. Esso consiste nella ricostruzione grafica del momento iniziale della vicenda, l’edificazione del castello di Montelupo negli anni 1204-06, dei quadri caratteristici del popolamento nelle addizioni cresciute attorno a questo primo nucleo abitato, e di ciò che venne a segnarlo in maniera precipua: la lavorazione della ceramica, con le botteghe e le fornaci dei ceramisti (“orciolai”), colte negli anni attorno alla metà del Quattrocento, il periodo fondamentale della loro evoluzione. Un’altra sezione di questa racconto ideale vuole Pianta del piano terreno del Museo della ceramica 197 cal of the local furnaces. The wall on the right of the entrance shows a graphic reconstruction of the excavation of the well, with the diggers working inside the structure and more people outside, engaged either in sieving the debris with water or in the first care of the finds. Amongst them, it is possible to notice two people who have recently died: the well-known archaeologist Riccardo Francovich, to whom we owe the crucial impulse for the building of the Museum of the Ceramics, and Fabrizio Coli, who was not only one of the first to start the excavation of the well, but he also held the presidentship of Montelupo Archaeological Group for many years. The other sides of the room display the ideal course of that history which came out with the exploration of such an important archaeological deposit. It is the graphic reconstruction of the beginning of the historical event, the building of the castle of Montelupo in 1203-06, of the tables characterising the settlements added around the earliest inhabited village and of what marked Montelupo impressively: the ceramics production, with its workshops and the furnaces of the potters (“orciolai”), in the second half of the 15th century, the Golden Age of their development. A different section will introduce the visitor to a fundamental thematic for the under- standing of Montelupo history: the relation with the Florentine merchant capital and with the international trade of the ceramics manufactured in this place. In addition, a reconstruction of the river port on the Arno, by the mouth of the torrent Pesa, is shown: cargo boats (“navicelli”) loaded with majolicas to be carried to the Tyrrhenian ports (first Pisa and then Livorno), which represented the Florentine trade terminals; their arrival to the sea docks, where the ceramics were shipped to the whole Mediterranean area and the Atlantic routes. Finally, a geographical map, portolan type, shows the places – up to the West Indies – where Montelupo fictile manufactured items have been found. Ground floor. Rooms 2-4 Once out of the “washing well” room, you enter Room 2, the starting point of the exhibition of the Museum of the Ceramics collections, according to a chronological and typological order. They are mainly archaeological finds coming from the wastegrounds of the local furnaces, located in the historical centre of Montelupo. Almost all important thematics of Montelupo medieval production converge in Room 2, starting from the most ancient vestiges which consist of “archaic majolicas”, decorated in green and brown Ground floor map of the Ceramics THE MUSEUM OF CERAMICS THE MUSEUM OF CERAMICS 196 Museum (copper oxide and manganese) datable from late 13th century to early 15th century. They are containers for liquids (water and wine) to be put on the table: they represent the medieval development of the ancient oinochoai, and they maintain the shape of the upper rim with three lobes, particularly useful when pouring the liquids into glasses and typical of this kind of table pottery. The earliest “archaic majolicas” are followed by vestiges of the technological and formal evolution started from the 1360s-1380s, with the “blue archaic majolica” and with the “zaffera a rilievo” (bluish glass relief decoration). In the earliest type, too, it is possible to notice a radical development of the clay impasto with which ceramics are moulded: it appears white (and not red any longer) right from the first firing (“bistugio”), thus facilitating the following procedure: even if coated with tin-glaze, but relatively poor in tin, the surface of the pottery item became candid and translucent at the second firing, enabling the new blue decoration to stand out against the white background. Such an innovation was elaborated by Montelupo potters – anticipating in centuries the technological innovation of the earthenware, with the addition of lime to the impasto. While the blue archaic majolica is still using the copper oxide (“ramina”) as a pigment, turning it into blue, thanks to special techniques, the “zaffera”, whose name has a clear Arabic origin, begins being used in the manufacturing of ceramics with imported raw materials, in that case the cobalt oxide, as its name itself shows. With the “zaffera”, characterised by a relief decoration on the tin-glazed surface, obtained adding lead oxide to the cobalt pigment, the manufacture of majolica in Montelupo and in the Florentine area rises to a real significant IL MUSEO DELLA CERAMICA secolo, così come nella “zaffera”, in essa i ceramisti di Montelupo sviluppano vari influssi e suggestioni derivanti dalle maioliche spagnole, specialmente di quelle valenciane, diffuse dal grande centro di fabbrica di Manises, attraverso la ripresa di elementi decorativi di dettaglio (la foglia di prezzemolo, la foglia di vite etc.), accoppiandoli però all’assimilazione di una sintassi decorativa che replicava i canoni fondamentali della cultura islamica, della quale i prodotti valenciani costituivano ormai soltanto un’eco lontana e derivata. È in particolare nell’uso della linea di contorno che, nel nucleo centrale della decorazione, separa i motivi decorativi “principali” da quelli accessori, di natura eminentemente grafica, che si percepisce il profondo rapporto istaurato dai pittori di Montelupo, attraverso l’esempio delle maioliche spagnole di tradizione araba, con la tradizione dell’Islam. Al fine di chiarire ed esemplificare le problematiche fondamentali che si accompagnano alle vicende della ceramica bassomedievale (1270 circa-1480), a conclusione del percorso espositivo della sala 2 il visitatore incontra la ricostruzione, riportata ad un ambiente monastico, di una tavola medievale. In essa si nota la mancanza del piatto individuale, in quanto le funzioni di contenitore proprie di questo manufatto venivano allora demandate a semplici taglieri in legno, ai quali faceva riferimento più di un commensale. La suppel- lettile ceramica della mensa risulta così composta, da un bacile da portata, che sta al centro della tavola per contenere la pietanza principale, da ciotole di diverse dimensioni (alcune di queste, più ampie, per minestre e pappe, altre, più piccole, per i condimenti ed il sale) e, soprattutto, dai boccali per le bevande (acqua e vino), con i rinfrescatoi, grandi vassoi per tenere in fresco i bicchieri. Nella sala 3 il visitatore può dunque constatare come, già avvicinandosi alla metà del Quattrocento, le botteghe montelupine abbiano iniziato a sviluppare i canoni decorativi del passato, preparando gradualmente la transizione al Rinascimento. In essa si nota come la maiolica arcaica decorata in verde e bruno abbia perso la sua leadership all’interno della produzione locale: attraverso un aggiornamento cromatico, che si realizza mediante l’impiego di un terzo colore (per questo è definita “maiolica arcaica tricolore”), l’arancio od il giallo (rispettivamente realizzati con l’antimoniato di piombo e l’ossido di ferro), le botteghe montelupine continuano a produrre bacili e vassoi di varia dimensione, destinandoli specialmente al consumo dei ceti tradizionali, affezionati alle più antiche usanze della tavola. Questa produzione giungerà sino ai primi lustri del XVI secolo, improntando di sé non poca parte delle attività delle fornaci di Montelupo. Attorno alla metà del Quattrocento, però, assistiamo ad una prima, significativa evoluzione del quadro produttivo locale, la quale viene ad innovare la tradizione sinora attratta dall’orizzonte culturale hispanomoresco ed arabo. Nella decorazione su maiolica si introducono infatti nuovi pigmenti, i quali fanno virare il tono delle decorazioni verso quella che è stata definita “tavolozza fredda”. Si tratta di un giallo citrino e di un blu-verdastro, che si aggiungono in fasce ed elementi di IL MUSEO DELLA CERAMICA di ossido di piombo al pigmento di cobalto, la fabbricazione della maiolica a Montelupo e nell’area fiorentina assurge ad un vero e proprio salto qualitativo. In questa produzione che si colloca tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, infatti, si fa dominante l’impiego dell’impasto ceramico biancastro, e si giunge alla completa smaltatura dei manufatti (precedentemente riservata alla sola parte esterna), introducendo massicciamente nella pittura il blu di cobalto. Con l’inizio del Quattrocento, come si può constatare nei materiali della sala 2, il pigmento blu, ottenuto dall’idrossido di cobalto, viene ad assumere un ruolo fondamentale nella decorazione su maiolica. Questi pittori ceramisti, eredi di una tradizione montelupina ormai più che secolare, riuscivano infatti utilizzare con grande maestria il cobalto in differenti diluizioni, distaccandosi già per questo dalle suggestioni iberiche. La pittura su maiolica giunge così ad esiti tonali inusitati, introducendo uno spessore ed una volumetria straordinaria nelle proprie realizzazioni, spesso anche di natura figurata, attraverso una monocromia sapientemente estesa dai toni azzurrini a quelli blu, che il naturale sgranarsi del colore nel processo di cottura rendeva ancor più affascinanti. È questa la produzione detta, sulla scorta del lessico utilizzato dai ceramisti coevi, “damaschina”. Fabbricata in grande quantità nel primo quarantennio del XV La tavola medievale (ricostruzione grafica di InkLink Firenze) 199 improvement. In this production, which can be dated between the end of the 14th century and the beginning of the following one, the employment of the whitish ceramic impasto becomes dominant and eventually it comes to a complete glazing of the manufactured items (it was previously limited to the outer part), introducing the cobalt blue massively in the painting. In early 15th century, as it is noticeable in the materials of Room 2, the blue pigment, from the cobalt hydroxide, becomes a main element in the majolica decoration art. Those ceramist painters, who had inherited the centuries-old tradition of Montelupo, succeeded in using cobalt in different dilutions with great craftsmanship, thus breaking away from the Iberian style. As a result, the majolica painting reaches unusual tone effects, introducing extraordinary depth and volumetry in its works, often of representational art, too, with the use of monochrome, wisely extended from pale blue to dark blue tones, so that the natural stretching of the colour during the firing phase makes it even more impressive. That is the “damaschina” production, so called according to the lexicon of the coeval potters. Manufactured in large quantities in the first forty years of the 15th century, as it happened with the “zaffera”, in the “damaschina”, too, the potters of Montelupo developed several influences and ideas coming from the Spanish majolicas, especially those from Valencia, widespread by the great production centre of Manises. They drew some details of decorative elements on (the parsley leaf, the vine leaf, etc.) but matching them with the assimilation of a decorative syntax that used to refer to the fundamental canons of the Islamic culture, of which, the Valencia products were by then only a far away echo. The deep connection between Montelupo painters and the Islamic tradition, through the example of the Spanish majolicas of Arab tradition, can be especially noticed in the use of the outer line which, in the core of the motifs, divides the “main” decorative elements from the additional ones, mostly of graphic type. In order to explain and clarify the fundamental questions which go along with the history of the Late Middle Ages ceramics (ab.1270-1480), at the end of the exhibition in Room 2, the visitor finds the reconstruction of a medieval table in a monastic environment. On it, there is no individual plate, because its purpose as a container was performed by ordinary wooden taglieri (boards), from which more than one person could eat. The ceramic tableware therefore includes a bacile da portata (platter), in the The medieval table (graphic THE MUSEUM OF CERAMICS THE MUSEUM OF CERAMICS 198 reconstruction by Ink-Link Firenze) middle of the table with the main course, multi-sized ciotole (bowls) (some larger, for soups, some smaller for salt and gravy) and, above all, boccali (jugs) for drinks (water and wine), together with the rinfrescatoi (coolers), large trays to keep the glasses cool. In Room 3, the visitor can see how, when approaching mid-15 th century, Montelupo workshops started to develop the past decorative canons, gradually preparing the transition towards the Renaissance. The archaic majolica decorated in green and brown lost its leadership within the local production: through a chromatic update, made with the addition of a third colour (that is why it is called “majolica arcaica tricolore”) (“archaic three-coloured majolica”), usually orange or yellow (respectively obtained with lead antimoniate and iron oxide), Montelupo workshops keep on manufacturing plat- ters and trays in different sizes, mainly used by traditional classes, devoted to the oldest table habits. Such a production will continue up to the earliest decades of the 16th century, leaving its own mark in the activities of Montelupo workshops. Around 1450, however, there is a first, meaningful evolution of the local production situation, which starts to innovate that tradition which had previously been attracted by the Spanish-Moorish and Arab cultures. In the decoration of majolicas, new pigments are introduced: they turn the tones of the decorations towards what has been defined as “cold palette”. It is the addition of a yellow citrine and a blue-greenish colour in bands and edging elements of the motifs, which eventually turn into a special chromatic feature, sometimes similar to crepuscular shade. Room 3 is then dedicated to this IL MUSEO DELLA CERAMICA peggiano al centro delle forme aperte e sulla parte a vista dei boccali; esse sono separate da una linea ben distanziata – e non più mediante una sottolineatura di contorno – dagli elementi accessori, che pertanto assumono una funzione schiettamente decorativa. In ordine alle differenze di questi ultimi, si stabiliscono così delle vere e proprie “linee” o tipologie formali, che accompagnano, variando l’aspetto del prodotto, le figurazioni principali. La razionalizzazione dell’attività pittorica in tal modo ottenuta contribuisce altresì ad affermare in maniera decisiva la tradizione montelupina, facilitando la trasmissione dei canoni decorativi nelle botteghe, e contribuendo di conseguenza al riconoscimento sui mercati del prodotto locale. IL PIANO PRIMO. L’ESPOSIZIONE NELLE SALE 5-8 E NELLE 9-12 DEL CORRIDOIO Raggiunto il piano superiore, il visitatore può introdursi nella sala 5, dalla quale inizia il percorso rinascimentale della maiolica di Montelupo. Qui sono collocati gli ultimi documenti relativi alla transizione verso l’Età moderna, che si collocano tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del XV secolo e ruotano attorno agli ultimi esempi delle maioliche spagnole oggetto di imitazione da parte dei vasai montelupini. Si tratta dell’imitazione del lustro metallico: un genere decorativo nel quale, accoppiandosi a modesti inserti di blu, l’impiego di un pigmento arancio dalle particolari tonalità fulve avvicina queste maioliche a quelle spagnole prodotte nell’area valenciana, riuscendo ad imitare il cromatismo dorato che le contraddistingue. Alla diretta imitazione della tipologia a lustro seguono quelle che si riferiscono ad altri generi ispanici. allora in gran voga e provenienti dalle fornaci di Manises, come la foglia di prezzemolo, uno dei prodotti “di punta” delle botteghe montelupine in attività nell’ultimo ventennio del XV secolo, e l’altro grande filone dei motivi naturalistici valenciani, la foglia di vite, qui realizzata nel cromatismo arancio-blu, sempre mimetico del clas- sico accoppiamento tra cobalto e “dorato” a lustro metallico. Al fine di rendere palese il radicale modificarsi delle forme ceramiche, dovuta soprattutto al diffondersi di un diverso modo di stare alla mensa, ed all’introduzione, avvenuta poco dopo il 1480, del piatto individuale, è stata qui allestita la ricostruzione di una tavola rinascimentale, con le suppellettili che la caratterizzavano. In questa produzione che si pone tra 1480 e1490 – il decennio che condurrà la pittura italiana su maiolica ad esiti schiettamente rinascimentali – si collocano anche i primi manufatti con ingobbio realizzati in Montelupo. L’uso dell’ingobbio, una pellicola di argilla particolarmente sottile, atta a velare, rendendolo biancastro, il corpo ceramico realizzato con argilla ferrosa – rossastro alla cottura – non si nota in Toscana prima degli anni 1440-50, e si diffonde in maniera sensibile solo SEZIONI Pianta del piano La tavola rinascimentale primo del Museo della (ricostruzione grafica di Ceramica Ink-Link Firenze) IL MUSEO DELLA CERAMICA contorno alla decorazione, sino a farle assumere una particolare fisionomia cromatica, che talvolta sembra quasi approdare a toni crepuscolari. A questo periodo di transizione è dunque dedicata la sala n. 3. Nella sala 4, che in pratica viene a completare l’esposizione delle maioliche medievali, incontriamo una nuova, fondamentale evoluzione della maiolica di Montelupo verso il Rinascimento, giocata stavolta sotto il segno della policromia, poiché ad iniziare dalla metà circa degli anni Settanta del Quattrocento la maturazione tecnologica delle attività ceramistiche locali può dirsi completa. È in questo periodo, infatti, che la tavolozza cromatica dei pittori si arricchisce definitivamente di toni caldi, con un giallo-carico ed un luminoso arancio-ferraccia, talvolta impiegati, assieme al blu cobalto, al bruno di manganese ed al verde di rame, nella decorazione di uno stesso manufatto. In questo periodo, inoltre, i vasai montelupini abbandonano definitivamente il canovaccio formale assimilato già nel secolo precedente attraverso l’imitazione dei prototipi spagnoli, ed approdano ad una nuova sintassi, fondata su una razionale gerarchia degli elementi decorativi. Adesso, infatti, le parti principali (figure, stemmi) cam- 201 First floor map of the The renaissance table Ceramics Museum (graphic reconstuction by THE MUSEUM OF CERAMICS THE MUSEUM OF CERAMICS 200 Ink-Link Firenze) transitional period. In Room 4, which is the last part of medieval majolica exhibits, we meet a new and important development of Montelupo majolica in the Renaissance, characterised by polychromy, because the technological maturation of the local ceramics activities can be considered complete in the mid-70s of the 15th century. It is in fact in this period that the chromatic palette is enriched by warm tones, with a full yellow and a shining gold iron-orange, sometimes used together with the cobalt blue, the manganese brown and the copper green in the decoration of a single manufactured item. Moreover, in the same period of time, Montelupo potters definitely abandon the formal outline they had absorbed in the previous century by imitating the Spanish prototypes, and they come to a new syntax, based on a rational hierarchy of the decorative elements. Now, in fact, the main parts (figures, coats of arms) stand out in the centre of the open forms and in the front part of the jugs; unlike being divided by an underlining of the outer lines as it happened before, they are now split by a line, well apart from the additional elements, which consequently become purely decorative. So, proper “lines” or formal types are established and they will accompany the main patterns, varying the aspect of the product. The rationalization of the pictorial activity contributes also to establish Montelupo tradition very strongly, helping the spreading of the decorative canons throughout the workshops and, consequently, contributing to the appreciation of the local manufactures on the markets. THE FIRST LEVEL. THE EXHIBITION IN ROOMS 5-8 AND IN SECTIONS 9-12 OF THE CORRIDOR. Once on the upper floor, the visitor can enter Room 5, starting point of the collection of Montelupo ceramics during the Renaissance. Room 5 covers the transitional period towards the Modern Age, between the 1480s and the 1490s. It houses the last examples of the Spanish majolica, often imitated by Montelupo potters, with the technique of the imitation of the lustro metallico (metal gloss): a decorative style which matches modest blue inserts with the employment of an orange pigment with a special tawny shade. Such a peculiar combination draws these majolica closer to the Spanish ones manufactured in Valencia area, succeeding in imitating the typical golden chromatism. The direct imitation of the a lustro-type is followed by more styles related to other Spanish motifs, very fashionable at that time, and all coming from the furnaces of Manises. For example, like the parsley leaf, one of the “leading” products of Montelupo workshops in the last twenty years of the 15th century, or the other great trend of Valencia nature motifs, like the vine leaf, here made using the chromatism orange-blue, always imitated from the classic, matching cobalt and “golden” metal gloss. In order to clearly describe the radical change of the ceramic forms, we have displayed the reconstruction of a Renaissance table, with its proper tableware. Such a change was the consequence of not only a different way of sitting at the table that was spreading quickly, but also of the introduction of the individual plate, which dates back to 1480. It’s in this production, from 1480 and 1490 – the decade that will lead the Italian painting on majolica to pure Renaissance outcomes, that also the earliest manufactured items with engobe made in Montelupo are included. The use of the engobe, a very thin clay film, able to hide the ceramic body processed with ferrous clay – reddish when fired – thus making it whitish, is not to be found in Tuscany before the decade 1440-50 and it is widespread only around 1470. Often decorated with lines incised on the engobe film, thus revealing the colour of the bistugio underneath and depicting the figures made, such a production of ingobbiata and graffita policroma IL MUSEO DELLA CERAMICA a ghirlanda o ad embricazione, gli ovali. La grande stagione rinascimentale si apre infine nelle ultime sale del piano primo con la decorazione a grottesche, qui rappresentata da vari documenti, ed in particolare dal vassoio d’acquareccia detto il rosso di Montelupo per l’impiego esteso ed inusuale di un pigmento rosso sanguigno in rilievo, uno dei capolavori della maiolica rinascimentale italiana (già collezione De Rotschild), datato “1509” e firmato “Lo”, la marca della bottega montelupina di Lorenzo di Piero Sartori. Alla medesima fornace si debbono poi i migliori esemplari di decorazione alla porcellana e ad intrecci, con i quali prosegue al piano primo l’esposizione rinascimentale, che termina idealmente con un’ampia esemplificazione della tipologia detta blu graffito, per l’uso di un’ampia fascia di contorno campita di cobalto, spesso utilizzata per cerchiare uno spazio destinato a grandi figure o a motivi araldici e simbolici. IL PIANO SECONDO. L’ESPOSIZIONE NELLE SALE 13-19 Al piano secondo sono riunite le collezioni tardo-rinascimentali e moderne del Museo (1530-1790 circa), provenienti da diversi contesti di scavo. Ad iniziare dal quarto decennio del Cinquecento la produzione ceramica di Montelupo, non diversamente da quanto accade in molti centri di fabbrica italiani, mostra i segni incipienti di E NELLE SEZIONI difficoltà, che finiranno per sfociare poi nel secolo seguente in una vera e propria crisi produttiva. All’inizio sembra trattarsi di una sorta di appagamento creativo, sul quale pesa l’iterazione dei motivi rinascimentali locali, divenuti ormai canonici: il ricorso quasi meccanico ad un canone standardizzato, non manca però di introdurre una progressiva perdita di freschezza nel lavoro dei pittori, che l’impiego di pigmenti più economici viene oltretutto ad accentuare. A questa estenuazione dei motivi rinascimentali si unisce quella diffusione dei decori accreditati in altri centri di fabbrica italiani, quali Faenza, Casteldurante, Venezia ed Albisola-Savona, che annuncia ormai la conquista di un vero e maturo “linguaggio nazionale” nella decorazione su ceramica. È questa la stagione del cosiddetto “compendiario”, che Montelupo interpreta attraverso tipologie che ebbero un grande successo commerciale, come il compendiario a paesi, singolare traduzione nel lessico locale dei motivi tratti dal repertorio delle più importanti botteghe veneziane, in grado di fornire a sua volta lo spunto per le note maioliche (soprattutto piastrelle) con inserti di paesaggio del centro olandese di Delft. Nelle sale del piano secondo sono poi riuniti i primi esemplari istoriati di Montelupo e la nuova produzione ad ingobbio, assai più numerosa e variegata di quella rinascimentale, così come le numerose varianti delle decorazioni naturalistiche a foglie e frutta, che costituiscono uno dei filoni più importanti dell’attività delle botteghe locali del tardo Cinquecento. Con l’inizio del XVII secolo i vasai montelupini, pur avvertendo ormai i segni di una crisi che diverrà profonda verso il 1640, riescono a tradurre in un linguaggio nuovo i canoni dell’antico istoriato, trasformandolo in una pittura che, invece di replicare scene figurate tratte dalle stampe, si volge alla rappresentazione della realtà contemporanea con un’attitudine fresca e dinamica, in grado di assicurare a questi prodotti uno straordinario successo. Note nel gergo antiquario come arlecchini, queste maioliche – nella stragrande maggioranza piatti e scodelle – rappresentano in realtà l’ultima produzione figurata di Montelupo, e si può dire che trovino riscontro ed esempi significativi, a dimostrazione della loro diffusione, in quasi tutte le collezioni, pubbliche e private, dedicate all’antica ceramica italiana. Le ultime sale del piano secondo sono dedicate Pianta del piano secondo del Museo della Ceramica 203 202 (engobe and polichrome graffito) is not very popular in Montelupo, representing less than 1% of the whole activity of the local furnaces. Moreover, because of its forms and motifs, it can be closely related to similar products from other Tuscan production centres (Siena, Asciano, Castelfiorentino) and so it might conceal the touch of those potters who were used to go from a production centre to another, introducing their own know-how in the local production. In fact, beside exact references to those centres of Tuscany, it is possible to notice also a vein typical of Emilia-Romagna style in Montelupo graffita, with particular evident influences in some examples of representational images. In the following Rooms, the visitor will see a wealth of examples of that important phase of formal research when Montelupo potters developed a wide range of decorative patterns, the most concentrated collection of local motifs of early 15th century. It was the starting point of the ultimate development of those motifs the antiquarians have classified with by now conventional names, like the occhio della penna di pavone (peacock feather eye), the palmetta persiana (small Persian palm), the nastri intrecciati (interlaced ribbons design), the ghirlanda or embricazione (wreath or overlapped motifs), the ovali (ovals). Finally, the great Renaissance period is covered in the last rooms at the first level, with the decoration a grottesche ( grotesque art style), represented here by many items, and in particular by the ewer basin, il rosso di Montelupo, so called because of the employment of an unusual blood-red pigment in relief motifs. It is one of the masterpieces of the Italian Renaissance majolica (former Rotschild collection) dated “1509” and signed “Lo”, the brand of Montelupo workshop of Lorenzo di Piero Sartori. The same furnace also produced some of the best examples of decoration alla porcellana (porcelain-style) and ad intrecci (interlaced motifs), displayed in the Renaissance collection on the first floor, that ideally ends with a wide exhibition of the blu graffito type (blue-incised), so called because of a wide outline band painted in the background with cobalt, often used to circle a space for large figures or for symbolic and heraldic motifs. THE SECOND LEVEL. THE EXHIBITION IN ROOMS AND SECTIONS 13-19 The late Renaissance and modern collections of the Museum, coming from several excavations, fill the second floor. Starting from the 1540s, as it happened for many other Italian production centres, also Montelupo ceramics manufacture shows some signs of IN Second floor map of the “Museo della Ceramica” incipient decline that will result in a serious production crisis in the following century. At the beginning it seems only a kind of creative satisfaction, even more stressed by the iteration of local renaissance motifs, which had by then become ordinary: the almost mechanic repetition of that standardised canon brought about a progressive loss in the creative impulse of the painters, emphasised also by the use of cheaper pigments. To such a weariness of renaissance motifs other factors might be added: for example, the widespread of that decorative style supported by other Italian production centres, too, like Faenza, Casteldurante, Venice and Albisola-Savona, which shows the conquest of a real mature “national language” in the ceramics decoration. Those were the days of the socalled “compendiary” (outline) that Montelupo interprets realising very successful typologies, such as the compendiary a paesi, unique translation into local lexicon of the motifs taken from the collection of the most important Venetian workshops. Such a compendiary was able to inspire the well-known majolica (above all tiles) with inserts of views of the Dutch centre of Delft. The Rooms of the second floor contain the earliest Montelupo istoriati examples (decorated with figures) and the new production ad engobbio, more varied and prolific than the renaissance one, as well as the many variations of the decorazioni naturalistiche a foglie e frutta (decorations with nature motifs of leaves and fruit), which are one of the most important production in the activity of the local workshops in late 16th century. In early 17th century, although the signs of a crisis which will get more and more serious around 1640 are manifest, Montelupo potters are able to give a new interpretation to the canons of the old istoriato. Instead of repeating scenes with figures from the engravings, they started to look at their contemporary reality with a fresh and dynamic attitude, guaranteeing a stunning success to their products. Known as arlecchini in the antiques jargon, these majolica - mostly plates and bowls – actually represent the last production with figures of Montelupo. They reached a large diffusion and it must be said that almost all private and public collections of THE MUSEUM OF CERAMICS THE MUSEUM OF CERAMICS IL MUSEO DELLA CERAMICA attorno al 1470. Quasi sempre decorata mediante linee che incidono la pellicola d’ingobbio, scoprendo il colore del bistugio sottostante, e dipingendo le figure realizzate, questa produzione di ingobbiata e graffita policroma risulta assai minoritaria in Montelupo, rappresentando meno dell’1% dell’attività delle fornaci locali; per forme e decorazioni, inoltre, essa richiama palesemente a prodotti consimili, di altri centri di fabbrica toscani (Siena, Asciano, Castelfiorentino), e potrebbe perciò celare la mano di quei vasai che frequentemente trascorrevano da un luogo di produzione all’altro, apportando il proprio contributo tecnologico alla produzione locale. Oltre a precisi riferimenti a questi centri della Toscana, infatti, si nota nella graffita montelupina di questo periodo anche un filone emiliano-romagnolo, con influenze che si fanno particolarmente evidenti in alcuni esemplari figurati. Nelle sale successive il visitatore del Museo incontrerà una vasta esemplificazione di quella fondamentale fase di ricerca formale nel corso della quale i vasai di Montelupo elaborarono, sviluppando un’ampia serie di motivi, il più ristretto campionario delle decorazioni locali dell’inizio del Cinquecento. Da questa sperimentazione si svilupperanno così definitivamente quei decori ai quali la classificazione antiquaria ha assegnato nomi resi ormai convenzionali, come l’occhio della penna di pavone, la palmetta persiana, i nastri intrecciati, il motivo IL MUSEO DELLA CERAMICA alla produzione settecentesca, la fase finale dell’attività preindustriale montelupina che si rivolge ancora alla fabbricazione della maiolica. Nei documenti esposti, pur relativi ad un momento ormai critico e di aperta decadenza, emergono ancora importanti tentativi di rinnovamento formale, con echi della pittura in bianco e blu diffusa dai centri ceramici francesi, e con maioliche monocrome, derivate dal compendiario secicentesco, le cui forme sono spinte a dimensioni usuali (sino a oltre 50 cm di diametro). La bottega dello speziale nel XVII secolo (ricostruzione grafica di Ink-Link Firenze) THE MUSEUM OF CERAMICS 204 Chemist’s shop in the XVII century (graphic reconstruction by Ink-Link Firenze) antique Italian ceramics treasure some significant examples. The last Rooms of the second floor are devoted to the 18th century production, the final phase of the pre-industrial activity of Montelupo, that is still involved in the manufacture of majolica. The displayed pieces, although being related to a critical period of full decline, still show important attempts of formal renovation, with surviving influences of the blue and white painting, spread out by the French ceramics centres, as well as with influences of derived monochrome majolicas, whose forms, as shown in the 17th century compendiary, are in usual sizes (with a diameter of cm 50 and more). PARTE QUINTA Tipologie della produzione ceramica di Montelupo PART FIVE Types of ceramic production in Montelupo 1. MAIOLICA ARCAICA 1b MAIOLICA ARCAICA 1a 1a. Maiolica arcaica, Boccale con decorazione vegetale, Fine XIII secolo,h cm. 18 1b. Maiolica arcaica, Piccolo bacile con decorazione vegetale, Fine XIII secolo, Ø cm. 21,5 1c. Archaic Majolica, Jug with plant-like decor, End XIII°cent., h cm. 17,0 1d. Maiolica arcaica, Boccale con decoro vegetale. 1320-40, h cm. 24,5 1e. Archaic Majolica, Jug with Arpia (mythological figure), 1320-40, h cm. 25,0 MAIOLICA ARCAICA DELLA PRIMA FASE (dalle origini al 1360 circa) MAIOLICA ARCAICA EVOLUTA (dal 1360 al 1420 circa) MAIOLICA ARCAICA TARDA (dal 1420 al 1480 circa) Le numerose indagini archeologiche condotte in Montelupo non sono riuscite a fornire sino ad oggi un 209 208 1. ARCHAIC MAJOLICA 1a. Archaic Majolica, Jug with plant-like decor, End XIII°cent., h cm. 18 1b. Archaic Majolica, Small basin with plant-like decor, End XIII°cent., Ø cm. 21,5 1c. Maiolica arcaica, Boccale con decoro vegetale, Fine XIII secolo, h cm. 17,0 1d. Archaic Majolica, Jug with plant-like decor, 1320-40, h cm. 24,5 1e. Maiolica arcaica, Boccale con figura di arpia. 1320-40, h cm. 25,0 1c 1d 1e With the term “Archaic Majolica” we are not only indicating a pictorial genre characterised by the archaic design, but also the first lustered majolica produced in large quantities which are characterised by decoration in ramina and manganese. This type of majolica has had a long life and has been proven with archaeological research over the last twenty years. It’s fabrication, which started approximately in the second half of the 13th century, continued throughout almost the entire 15th century when “Archaic majolica”, losing its exclusivity, found itself amongst other important lustered products (zaffera blue, triple colour zaffera blue and damaschino). As in all genres characterised by longevity, even “Archaic Majolica” discovers important refinements in its technology, which will bring it to a formal standardisation. This process is determined thanks to the progressive marginalisation, which characterises its presence in the Montelupo ovens since the beginning of the 15th century. It ends up trivialising the majolica because of the continuous replication of the decorative sections of the models. This phenomenon can be better understood if we describe the big phases of its evolution. For the “Archaic Majolica” we can find an initial period called of the first phase that goes from the beginning of its production until 1360 ca. when the typology loses it’s uniqueness due to the fabrication of other lustered genres including the blue archaic majolica. Starting from this moment until 1420 ca. we can speak about its evolutionary phase. With this term we underline the period of the first technological modifications and formal standardisation. From 1420 until the end of the 15th century we have the late archaic majolica period which indicates the marginalised production and its actual decorative weakness. To summarise, the Montelupo materials can be classified in the following phases: THE FIRST PHASE OF ARCHAIC MAJOLICA (from the origins until 1360) EVOLUTED ARCHAIC MAJOLICA (from 1360-1420) LATE ARCHAIC MAJOLICA (from 1420-1480) The archaeological research in Montelupo was not able to give a clear picture of the local production in the earlier phases. Included in this phase are both the beginnings of local production in lustre as well as its consistent development in the 14th century. This vacuum that prohibits us from understanding the phenomenon, cannot be considered an anomaly and it cannot leave us any doubts of the ARCHAIC MAJOLICA ARCHAIC MAJOLICA MAIOLICA ARCAICA Con il termine di “maiolica arcaica”, lungi dal voler indicare un genere pittorico, contraddistinto, appunto, dall’arcaicità della raffigurazione, si intende la prima ceramica smaltata prodotta in larga serie, con una decorazione eseguita in ramina e manganese. Questa tipologia ha una vita assai lunga, ben evidenziata dalle ricerche archeologiche dell’ultimo ventennio: la sua fabbricazione, avviata almeno nella seconda metà del Duecento, si protrae infatti sino a buona parte del XV secolo, periodo in cui la maiolica arcaica, perdendo la sua esclusività, si trova a convivere con altri prodotti smaltati “di punta” (zaffera, zaffera tricolore, “damaschino”). Come tutti i generi caratterizzati da particolare longevità, anche sulla maiolica arcaica un importante affinamento di natura tecnologica accompagna poi la sua standardizzazione formale. Tale processo, determinato dalla progressiva marginalizzazione che ne caratterizza la presenza nelle fornaci montelupine sin dall’inizio del Quattrocento, finisce per banalizzarne, a causa della continua replica di schemi non più oggetto di rinnovamento, il repertorio decorativo. Questo fenomeno può essere seguito con maggiore aderenza alla realtà qualora se ne traccino le grandi fasi evolutive. Per la maiolica arcaica si può individuare così un periodo iniziale, che definiremo della prima fase, il quale si estende dalla data di avvio della sua produzione sino al 1360 circa, momento in cui la tipologia perde la sua unicità a causa della fabbricazione di altri generi smaltati, ed è affiancata dalla maiolica arcaica blu. A partire da questo intorno cronologico e sino agli anni Venti del XV secolo si può così parlare di evoluta, per sottolineare con questo termine il periodo delle prime modificazioni tecnologiche e della prima fase di standardizzazione formale che riguarda la maiolica arcaica. Dal 1420 circa sino alla fine della sua esistenza come tipologia codificata (la fine del XV secolo almeno), è infine giustificata la definizione di maiolica arcaica tarda, per indicare la fase di effettiva marginalizzazione produttiva del genere e la sua effettiva estenuazione decorativa. Riassumendo, la nostra griglia di classificazione dei materiali montelupini si articola pertanto nelle seguenti fasi: LA MAIOLICA ARCAICA mura castellane, oltre, beninteso, alle fasi di vissuto del cassero del castello (l’area meno coinvolta dall’intenso sviluppo urbano quattrocentesco), ove, però, la maiolica arcaica non è stata rinvenuta ancora in giaciture dalle caratteristiche tipiche dello scarico di fornace (presenza di bistugio, scarti di seconda cottura, etc.). Una conferma del legame tra l’integrità degli scarichi di fornace e l’assenza della crescita edilizia è rappresentata dai ritrovamenti del “pozzo dei lavatoi”, i quali hanno restituito reperti in maiolica arcaica provenienti dalle fornaci locali in un contesto d’uso del pozzo medesimo, con scarti di lavorazione utilizzati come contenitori per l’acqua nella fase che precede la dismissione della struttura. La trasformazione dell’area urbana, che risulta trovarsi in piena espansione già nella prima metà del XV secolo, in evidente connessione con la “terza fase” – quella dello sviluppo internazionale delle attività ceramistiche locali, dopo l’avvio ed il consolidarsi delle produzioni nel corso del Trecento – deve aver quindi determinato una forte alterazione degli originari depositi archeologici, all’interno dei quali si trovavano i primi accumuli di scarto delle lavorazioni risalenti alle fasi più antiche della maiolica arcaica. In tal modo può spiegarsi la ragione per cui una gran parte delle restituzioni trecentesche siano legate ad uno stato di giacitura secondaria all’interno di unità stratigrafiche apparte- nenti ad epoche successive e, talora, addirittura più recenti di alcuni secoli. La maiolica arcaica della prima fase (dalle origini al 1360 circa) Le restituzioni più antiche in maiolica arcaica sono venute in luce a Montelupo in relazione ad un complesso di strutture affioranti alla confluenza del torrente Pesa nel fiume Arno, e già appartenenti al mulino della comunità ed all’annesso porto fluviale, in località detta Puntazza, in zona, cioè, del tutto esterna rispetto all’abitato (Castello e Borgo) della cittadina valdarnese. Le pessime condizioni di giacitura di queste ceramiche smaltate, periodicamente sommerse dall’acqua del fiume, hanno imposto una particolare cautela nell’attribuirle a scarico di fornace: la perdita di parte della coperta stannifera, causata dal continuo alternarsi di periodi di umidità e di asciugamento, avrebbe infatti ben potuto causare ai reperti modificazioni tali da renderli simili agli scarti di lavorazione. La presenza, tuttavia, di frammenti privi di rivestimento sia interno (l’impermeabilizzazione a vetrina piombica, una volta fissata dalla seconda cottura, si rivela tenacissima, tanto da non distaccarsi mai completamente), che esterno, unita a macroscopici difetti di lavorazione, definisce però senza alcun dubbio le maioliche arcaiche di Puntazza come componenti di uno scarico di fornace, qui evi- dentemente utilizzato per la colmatura di piani pavimentali. In questa fase più antica, databile agli anni 12801320 circa, si nota immediatamente la grande importanza assunta dalle forme chiuse, per la restituzione di gran lunga maggioritaria di boccali, in specie del tipo con corpo ovoidale su alto piede svasato. Questa particolarità è del resto segnalata anche in altri centri di produzione della Toscana e, probabilmente, era tipica delle più antiche lavorazioni smaltate dell’Italia centro-settentrionale. Il predominio del boccale su piede rialzato non è tuttavia assoluto, visto che dal medesimo contesto provengono altre morfologie cupe, tra le quali anche una ad appoggio ribassato, che, del resto, diverrà predominante, previo un maggior snellimento del corpo, nelle restituzioni riferibili alla seconda metà del XIV secolo, nonché una forma di boccale intermedio, evidente variante della prima. Aspetto caratteristico di questa produzione più antica è anche la presenza di sole anse a sezione cilindrica, del tipo “a bastoncello”, un buon numero delle quali risulta composto anche da due di questi elementi affiancati, ed è palesemente impiegato nella realizzazione delle prese pertinenti alle forme di maggiori dimensioni. Tutte le anse rinvenute integre della piegatura superiore presentano in questo punto un foro praticato a crudo, che era destinato – come si documenta in 211 210 chronology and the consistency of the initial moments of majolica production. In fact, there is existing documentation. The numerous furnaces in the same urban area, has hindered the discovery of enough relic kiln disposals which could thus be referred to the long period between the origins of the Montelupo Castle (1203-1206) and the years around 1450 when the town had reached the dimensions of a “Walled Village”. It could be considered to be entirely developed and complete in its constructive transformation. In fact the finding of the oldest archaic majolica is linked to digs on the outside of the castle’s walls up to the higher grounds of the occupied castle (the area which was less involved in the intense urban development of the 15th century). The majolica, however, were not found in the higher elevations that had typical characteristics of kiln remains (residue of a second baking etc.) A confirmation of the link between the reliability of the remains and the absence of constructive growth is represented by the findings of the “Washhouse well” which gave us archaic majolica artefacts from the local ovens using the well. There were also remains of the devises that were used as containers of water in the preceding termination phase of the structure. The transformation of the urban area, which was in full expansion during the 1st half of the 15th century, is linked with the third phase (the one of the international development of local ceramic activities after the consolidation of the 14th century production). It has determined a strong change of the original archaeological deposits, the insides of which the first residues of remains from the first majolica production were found. In this way we can understand why most of the findings can be connected to a secondary state of elevation in the stratospheric units belonging to later eras. The first phase of archaic majolica (from its origin until 1360) The oldest forms of archaic majolica were found in Montelupo thanks to complex structures in the flowing of the Pesa River into the Arno River. Belonging to the community’s mill and it’s river port in an area called Puntazza, this zone is completely isolated from the populated area (Castello and Borgo). The terrible conditions of these lustered ceramics, periodically submerged by river water, caused concern in attributing its kiln remains. The loss of part of the glaze that formed on the outer layer of the majolica which was caused by the continuous alternation of periods of humidity and dryness, in fact changed the artefacts and made them become similar to production remains. The presence of non finished fragments are found both on the inside (the water proofing of leaded windows, after the second baking, proves to be very resistant so that it never completely detaches) and on the outside. This added to macroscopical production faults, defines without a doubt the archaic majolica of Puntazza as components of kiln remains and was clearly used to fill pavement. In this first phase, dateable from 1280-1320, we can immediately notice the importance of closed models because the findings include mostly jugs, especially the type with an oval body on a tall-disfigured base. This particularity is found also in other production centres in Tuscany and it was typical of the oldest lustered productions of north central Italy. The predominance of the jug on a tall base, however, was not total since there were other typologies coming from the same context. One example is a jug with a lower base and a thinner body that would become predominate in the findings of the second half of the 14th century as well as a jug with a intermediate shape between the other two. A typical aspect of the first production is the presence of curves with a cylindrical section, called a “little twig”. A large number of this type is composed of two of these elements next to each other and is clearly used for gripping bigger dimensions. All the curves that remained integral have a small hole on the top which was destined (as documented by various artefacts in Montelupo and other parts of Tuscany) to lodge a lead seal. The mixture, always made with iron based clay, is always well purified while the finished product from the wheel is characterised by accentuated grooves visible from the inside of the closed models and sometimes perceptible in the open ones. The thickness of the objects is not usually significant. The vase products, however, are a lot thicker going from the 4mm of the bowls in the archaeological deposit of Puntazza to the 8mm of the washbasins. The waterproofing of the surfaces is always a mixture of glass and lustre and is typical of the first phase and the evoluted phase. The glass like substance made of lead covers the inside of the base with closed models while the insides with open models that are not always glass like since normally it is preferable to keep this part without finishing. The polishing obtained, thanks to the emerging of the jugs upside down and the pouring of the polish on the inside of bowls and washbasins, is quite poor and characterised by minimum thickness that is barely enough to cover the ceramic object. The attaching of the triple layer mouths show ARCHAIC MAJOLICA ARCHAIC MAJOLICA MAIOLICA ARCAICA quadro sufficientemente articolato, quanto ad esemplari ricostruibili nella loro tipologia, delle fasi più antiche della locale produzione in maiolica arcaica, intendendo comprendere in questa prima partizione cronologica – estesa, con ogni probabilità, per poco meno di un secolo – sia gli esordi della lavorazione fittile locale con smalto, sia i suoi più consistenti sviluppi trecenteschi. Questa lacuna, che ci impedisce di cogliere con l’abbondanza di particolari che avremmo desiderato il fenomeno di lungo periodo che abbiamo di fronte, non deve però essere considerata un’anomalia, o, comunque, intesa alla stregua di un fatto tale da ingenerare dubbi sulla cronologia e sulla consistenza dei momenti iniziali delle lavorazioni in maiolica. La documentazione, infatti, esiste, ed è anche sufficientemente ampia. L’insistere della fornaci nel medesimo spazio urbano, però, non ha al momento consentito di rinvenire scarichi di fornace abbondanti ed omogenei riferibili al lungo periodo che intercorre tra le origini del castello di Montelupo (1203-06) e gli anni attorno alla metà del XV secolo, allorquando l’abitato, raggiunte le dimensioni di una “terra murata”, poteva dirsi ormai quasi interamente sviluppato, ed aver pressoché completato la sua trasformazione edilizia. Non per caso, infatti, la restituzione della più antica maiolica arcaica montelupina è legata a scavi effettuati all’esterno delle LA MAIOLICA ARCAICA disotto delle basi attestano una cottura dei boccali per gruppi verticali, che le frequenti sgocciolature lungo il corpo individuano essere stata effettuata in senso non capovolto. La mancanza di impronte di distanziatori, rilevabile sulle forme aperte, richiama anche in questo caso una cottura in fornace simile a quella delle chiuse, ma in questo caso, evidenziandosi accumuli di vetrina all’interno della piegatura della tesa, si deve supporre un impilamento capovolto, facilitato dall’assenza d’invetriatura dei rovesci. Il repertorio decorativo di questa prima fase della maiolica arcaica montelupina è testimoniato nello scarico rinvenuto lungo l’Arno dai pochi esemplari ricostruibili. Il gruppo dei decori più importante comprende motivi fitomorfi in estrema stilizzazione, come si può notare in un boccale decorato con due infiorescenze trilobe, collocate al termine di girali che ne dividono in due settori verticali la faccia a vista. La sintassi decorativa è quella ben nota, e altrettanto diffusa nella maiolica arcaica dell’Italia centro-settentrionale. Lo spazio da decorare è individuato da filettature ravvicinate e parallele in bruno di manganese, mediante le quali si formano bande verticali correnti lungo i fianchi e fasce orizzontali atte a separare dal corpo del boccale la porzione invetriata del piede ed il colletto che porta la bocca trilobata. Le parti laterali sono di norma riempite da una serie continua di motivi ad “s”, mentre al collo è posto il classico motivo della “catenella” in verde. Una variante assai significativa delle tipologie di questo periodo, documentata sia sulle forme aperte che sulle chiuse, è costituita poi da una decorazione ridotta a semplici barrature alternate – in verde e bruno di manganese – le quali possono assumere un andamento rettilineo, piegarsi in ondulazioni, od intrecciarsi anche tra di loro sino a formare una sorta di reticolo. Presente nei reperti di Puntazza solo in materiali frammentari, tra i quali una porzione rilevante di boccale, questo decoro si ritrova anche nei reperti ceramici rinvenuti all’interno di una scafa – un’imbarcazione fluviale medievale – venuta casualmente alla luce presso Empoli nel 1982. Rara nella restituzione montelupina – ma significativa di una tendenza ad affrancarsi dalla ripetizione di semplici motivi vegetali o geometrici – è poi una tipologia caratterizzata da una decorazione “araldica”, documentatain primo luogo da un boccale di Puntazza col piede ribassato: una forma minoritaria in questa restituzione. Più che rappresentare la testimonianza del precoce impiego di stemmi nella pittura su maiolica, ci pare che essa debba più correttamente intendersi come un’imitazione della produzione spagnola in ramina e manganese, nella quale, in effetti, si nota una simile attitudine a trasformare generiche insegne in una decorazione pseudoaraldica. Un boccaletto rinvenuto negli ultimi strati del “pozzo dei lavatoi” giunge adesso a rafforzare l’ipotesi di una circolazione relativamente ampia di questi decori “pseudoaraldici”, che trovano riferimento in tipologie decorate in verde e bruno circolanti in tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo. Qui il riferimento ad un’immagine “araldica” della decorazione si evidenzia nell’assimilazione della foglia, che ne costituisce il decoro principale, ad uno stemma, proprio come accade in certi prodotti dell’area valenciana, ed in particolare in quelli detti “di Paterna”, paese confinante con la cittadina di Manises. La povertà del rivestimento, che appena copre il manufatto, suggerisce per questo reperto del pozzo una datazione collocabile tra XIII e XIV secolo, non dissimile a quella delle maioliche arcaiche di Puntazza. I motivi fitomorfi già incontrati sulle forme chiuse, visto il valore centrale assunto nella produzione del periodo dalle stilizzazioni vegetali, trovano largo impiego anche nella decorazione di ciotole e bacili. Di tale tipologia è assai significativo un piccolo bacile frammentario, nel quale è dipinta una composizione vegeta- 1f. Maiolica arcaica, Orciolo da farmacia, Fine XIV secolo, Ø cm. 16,5 213 212 that the baking is divided into vertical groups and the frequent drippings along the body prove that the baking is done right side up. The absence of spacing traces found on open models proves that even in this case the kiln baking is similar to the one for closed models. In this case we must imagine an upside down baking because there are amounts of glass on the inside of the curve. The decorative repertoire of the first phase is witnessed in the remains found along the Arno River. The most important types of decorations consist of extremely stylised floral motifs as you can notice in a jug decorated by two triple layer blooms that are put at the bottom of the ornamental motifs that divide the front in two vertical sections. The decorative syntax is greatly found in the entire north central part of Italy. The space that is destined for decoration is created by thin and parallel lines in manganese thorough which there is the formation of vertical bands along the sides and horizontal bands that separate the glass like base and the neck from the body of the jug. The sides are usually characterised by decorations shaped like the letter “S” while the neck is characterised by the classic green motif of the “little chain”. A significant variation of the typologies of this period, found both on open and closed models, consist in a simple decoration with alternating lines in green and brown manganese. These lines can be straight or wavy and can even be connected between each other. These types can be found in Puntazza only in small fragments. However, they were also found in a Scafa (a medieval riverboat) near Empoli in 1982. There is then another type of decoration that was quite rare in Montelupo characterised by simple geometrical and plant like motifs. It is not a witness of the precocious use of plant like decorations on ceramics but an imitation of Spanish productions in ramina and manganese. A small jug that was found in one of the lower layers of the “washhouse well” makes us think that many of these plant like decorations in green and brown characterised all of the river towns of the Mediterranean. The most important elements of this type of decorations are the leaves and the stems just like the products that are found in the Valencia area (especially the ones called “di Paterna”). The fact that they are poor in finishing makes it believable that they come from the 13th and 14th century. The floral motif was largely used also in the decoration of bowls and wash basins. A quite significant example is a fragment of a small washbasin where there is a plant like composition with circular leaves on the extremities of the ornaments. The main decoration is made of simple green lines that start 1f. Archaic Majolica, Chemist’s jug, End XIV° cent., Ø cm. 16,5, ARCHAIC MAJOLICA ARCHAIC MAJOLICA MAIOLICA ARCAICA diversi reperti di Montelupo e di altre parti della Toscana – ad alloggiare un sigillo di piombo. Gli impasti, sempre realizzati con argille ferrose, sono ben depurati, mentre la tornitura si caratterizza per solchi assai accentuati, visibili all’interno delle forme chiuse, ma tali da potersi talvolta percepire nella faccia a vista di quelle aperte. Lo spessore dei manufatti è di norma assai sottile, ma si irrobustisce di molto nei prodotti vascolari aperti di maggior diametro, passando nel deposito archeologico di Puntazza dai quattro millimetri circa di alcune ciotole a breve tesa defluente, agli otto dei rinfrescatoi e dei bacili frammentari di più grande diametro. L’impermeabilizzazione delle superfici è sempre del tipo misto, con vetrina e smalto, ed è tipica delle fasi “antiche” ed “evolute” della maiolica arcaica: una metodica ben attestata in tutte le produzioni toscane. L’invetriatura piombica, infatti, copre l’interno ed il piede rilevato delle forme chiuse, mentre i rovesci di quelle aperte non sempre risultano invetriati, in quanto si tende di norma a lasciare questa parte non a vista priva di rivestimento. La smaltatura, ottenuta per immersione dei boccali in senso capovolto e per versamento dello smalto all’interno delle ciotole e dei bacili, è assai povera e caratterizzata da un minimo spessore, appena sufficiente a coprire con la sua pellicola il corpo ceramico. Le attaccature delle bocche trilobate che si notano al scontorna 1f LA MAIOLICA ARCAICA Uno dei boccali del pozzo mostra infatti la figura di un essere fantastico (un’arpia) con il collo ripiegato verso il basso su un boccale privo di tutti gli orpelli geometrici che si accompagnano in questa fase alla maiolica arcaica, ivi compreso il motivo “a catanella”, normalmente dipinto sul colletto delle forme chiuse. La maiolica arcaica evoluta (1360-1420 circa) Meno documentata si presenta invece la fase produttiva collocabile tra la seconda metà del Trecento ed i primi lustri del secolo successivo, che pure è ben attestata dalle fonti scritte, ed inseribile nella fase della maiolica arcaica evoluta (1360-1420 circa), per la quale ci si può al momento riferire soltanto a reperti frammentari, con l’eccezione di un orciolo da farmacia, emerso da un contesto residuale, rinvenuto nell’area ortiva posta nelle adiacenze dell’ex palazzo podestarile, e databile nell’ultimo ventennio del secolo. LA MAIOLICA ARCAICA TARDA (1420-80) Più abbondanti sono infine i ritrovamenti di maiolica arcaica tarda (1420-1480), anch’essi legati, sino alla metà del Quattrocento, a restituzioni residuali, ma poi inseriti entro ampi contesti produttivi: si tratta, però, della fase ormai terminale della tipologia, legata unicamente, alla fabbricazione di forme aperte standardizzate, dal decoro estenuato, destinate ad un mercato resi- duale e tradizionale. Predomina in questa produzione tardiva della maiolica arcaica una decorazione a foglie inquartate (una composizione, cioè, di quattro elementi foliati eguali, intervallati da elementi diversi, ma dello stesso genere, di pari composizione numerica), che talvolta risulta inserita nel classico motivo del cosiddetto “ nodo di Salomone”, ben rappresentato nell’arte tardoantica. Tra questi decori vegetali “inquartati” compare anche una composizione più complessa, realizzata mediante una serie di cerchiature con motivi vegetali stilizzati e parti di riempimento tra le medesime in “reticolo” di manganese: di essa conosciamo anche una versione con strisce in giallo, appartenente alla versione “tricolore” della maiolica arcaica. 1g. Maiolica arcaica, Bacile, 1420-40, Ø cm. 23,0 1h. Maiolica arcaica, Bacile, 1420-40, Ø cm. 29,0 1g 215 214 from a rectangular nucleus, which probably represents a stylised ring with a gem. The next step chronologically is the finding of majolica on higher levels of the well which can be dated to the first forty years of the 14th century and for this reason they can still be considered of the first phase of local production. An example are two larger jugs than the ones found in Puntazza, one of them is on a high base and the other is on a low base. They have two different decorative tendencies: the first one is still characterised by a geometrical nature and consists in an evolution of the compositions with traversal lines that end up forming a stylised green leaf; the second one, instead, is characterised by a figurative genre. This second one, in fact, presents the drawing of a mythological figure (Arpia) with its neck facing down and lacking geometrical decorations (not even the little chain motif). Evoluted Archaic majolica (1360-1420 ca) There is less documentation available of the production phase from the second half of the 1300’s and the first five years of the 1400’s and written sources have been well proven and inserted in the evolved archaic majolica phase (1360-1420). We are, however, only able to refer to patchy findings with the exception of the remains of a chemist’s jug, which was discovered in a small field next to the municipal palace and can be dated at the end of the 1420’s. ARCHAIC MAJOLICA ARCHAIC MAJOLICA MAIOLICA ARCAICA le inquartata, con foglie tondeggianti poste all’estremità di girali ripiegati su se stessi. La composizione, che, a differenza di altri casi, mostra un riempimento dei decori principali con semplici barrature in verde, prende l’avvio da una sorta di nucleo rettangolare, nel quale è forse da riconoscere la fisionomia stilizzata di un anello con gemma. Seguono cronologicamente questo contesto i ritrovamenti di maioliche arcaiche restituite dai livelli d’uso del “pozzo dei lavatoi”che si datano entro il primo quarantennio del XIV secolo, e che possono essere perciò considerati come ancora appartenenti alla prima fase produttiva locale, il cui termine abbiamo fissato attorno al 1360 circa. Tra questi si notano due boccali caratterizzati da dimensioni maggiori rispetto a quelle che costituiscono la restituzione, da considerare sensibilmente più antica, di Puntazza, e che sviluppano le due forme-guida del boccale su alto piede e di quella su piede ribassato: si tratta dunque di manufatti che possiamo già collocare all’inizio del quarto decennio del Trecento. Essi mostrano una duplice tendenza decorativa: la prima risulta ancora di natura geometrica, e consiste nell’evoluzione della più antica composizione a linee trasversali, qui risolta mediante la trasformazione della parte in verde in una foglia stilizzata dall’andamento serpeggiante, mentre la seconda va invece verso un genere figurato. 1g. Archaic Majolica, Basin, 1420-40, Ø cm. 23,0 1h. Archaic Majolica, Basin, 1420-40, Ø cm. 29,0 Late Archaic majolica (1420-80) There are more abundant findings regarding the late archaic majolica phase (1420-1480), but even these findings are residual. They were, however, inserted later into a larger productive context: it is the last phase of the type linked uniquely to the fabrication of standardised open models with worn out decorations destined to a residual and traditional market. In this late production of archaic majolica the decorations are mostly characterised by four equal leaves separated by different elements of the same genre and numerical composition. This decoration is sometimes inserted in the classic motif of the “nodo di salamone” often-represented in late antiquity art. Amongst these plant like decorations there is also a more complex composition created through a series of circles around stylised plant-like motifs filled with manganese. There is a different version of this decoration with yellow stripes belonging to the “tricolore” version of archaic majolica. 1h I documenti relativi a questo genere di produzione – che meglio dovrebbe essere definita “azzurra”, non tanto per il cromatismo, quanto per meglio corrispondere, come vedremo alle sue caratteristiche tecnologiche – già piuttosto rara nei ritrovamenti archeologici dell’area fiorentina, sono al momento assai scarsi per Montelupo. Nonostante l’esiguità delle testimonianze, occorre osservare che questo genere rappresenta un’evoluzione fondamentale nello sviluppo della ceramica smaltata di area fiorentina e toscana, anche se ben presto essa fu soppiantata da altri generi che utilizzavano il cromatismo blu, impiegando però l’ossido di cobalto per realizzare questa colorazione. Non possono sussistere ragionevoli dubbi sul fatto che una certa produzione in blu e bruno di manganese, sviluppatasi probabilmente nell’area fiorentina a partire dalla seconda metà del XIV secolo, abbia rappresentato un genere a sé stante, che forse lo stesso termine di “maiolica arcaica blu”, impiegato per indicarlo, non viene a marcare con la necessaria precisione. Essa, infatti, denota una tendenza alla standardizzazione così spiccata da far pensare all’impiego condiviso e generalizzato di qualche modello in grado di fungere da prototipo per l’imitazione, all’esistenza di una produzione limitata, che faceva capo ad un gruppo ristretto di bot- teghe, o, comunque, a situazioni produttive non così ampiamente diffuse come quelle proprie alla maiolica in ramina e manganese. Può inoltre notarsi come questo genere presenti una sensibile dicotomia nel suo stesso sviluppo decorativo, optando di preferenza sulle forme chiuse verso l’impiego di un motivo fitomorfo, riprodotto in una stilizzazione assai accentuata, mentre nelle aperte assume sovente un aspetto geometrizzante. Una datazione della maiolica arcaica blu compresa tra la seconda metà del Trecento ed i primi lustri del secolo successivo è confermata, oltre che dai contesti di ritrovamento, dalle sue stesse caratteristiche tecnologiche. Mentre, infatti, essa denota nei documenti più antichi un impasto rossastro ed una smaltatura piuttosto sottile, che si accompagna anche all’invetriatura dell’interno delle forme chiuse, nei frammenti di scavo rinvenuti a Montelupo assume invece una fisionomia già “evoluta”, evidenziando le caratteristiche tipiche dello sviluppo tecnologico intrapreso dalle produzioni smaltate locali a partire dalla fine del XIV secolo. Tra queste caratteristiche possiamo citare l’impasto biancastro, semiduro, e la smaltatura estesa anche alla parte interna dei boccali. Occorre infine segnalare la comparsa nell’arcaica blu delle marche di fabbrica, un fenomeno che viene a generalizzarsi in questo lasso di tempo. La maiolica arcaica blu sfrutta la possibilità dell’os- sido di rame (ramina) di virare verso un cromatismo azzurro, sino a raggiungere toni di blu intenso, grazie all’impiego di una particolare coperta di ossido di piombo. Il primo gruppo decorativo rappresentato dalla maiolica arcaica blu è costituito da da una composizione di genere fitomorfo, assai standardizzata, e per adesso rilevabile soltanto sulle forme chiuse. Esso si basa, come ben evidenziato in un boccale della donazione Conti sulla rappresentazione di una foglia stilizzata. Un secondo gruppo di decori che si inseriscono nella tipologia della maiolica arcaica blu può essere costruito attorno ad un decoro a fascia ondulata, qui rappresentato da un boccaletto proveniente sempre dalla donazione Conti. 2a. Maiolica arcaica blu, Piccolo boccale. Marcato “b”, 1360-80, h cm 13,4 2b. Maiolica arcaica blu, Boccale con decoro vegetale. Marcato “P”, 1360-80, h cm. 20,3 2a 217 216 2. BLUE ARCHAIC MAJOLICA The documents related to this type of production are at this moment quite scarce in Montelupo and rare in all the archaeological sites in the Florence area. Even though the documents are rare, we must observe that this genre is a fundamental evolution in the development of lustered ceramics in Florence and in Tuscany. Even if it was quickly substituted by other genres that used blue chrome obtained with cobalt oxide. There cannot be any doubts on the fact that a certain production in blue and brown manganese, probably around the second half of the 14th century, represented a unique genre. Using the same term “blue archaic majolica” does not underline the differences between the two genres. In fact this one is characterised by a marked tendency to standardise and that makes it believable that some models were used in a generalised way and could be considered prototypes. The production was limited and came from a smaller number of workshops than the ones that produced majolica in ramina and manganese. We can also notice sensible differences in its decorative development: the closed models were characterised by an accentuated stylisation of the floral motif while the open models are usually characterised by geometrical aspects. The blue archaic majolica period goes from the second half of the 1300’s until the beginning of the following century. This is confirmed by the places where it was found and by its technological characteristics. In fact, in the older documentation it was characterised by a reddish mixture and a thin polish. The fragments that were found in Montelupo already had more evolved characteristics, underlining the typical aspects of the technological development of the local polishing productions starting from the end of the 14th century. Some of these characteristics are the white semi-hard mixture and the polishing on the inside of the jugs. We must also point out the appearance of the blue majolica in factory brands, a phenomenon that becomes quite common in this period. Blue archaic majolica exploits the possibility of copper oxide to become light blue and intense blue thanks to a particular lead oxide sheath. The first decorative group represented in blue archaic majolica consists of a standardised floral composition that can for now be found only on the closed models. It is articulated, as underlined by a jug donated from Conti in the representation of a stylised blue leaf. A second group of decorations can be constructed around a wavy decoration found once again by a Conti jug. BLUE ARCHAIC MAJOLICA BLUE ARCHAIC MAJOLICA MAIOLICA ARCAICA BLU MAIOLICA ARCAICA BLU 2. MAIOLICA ARCAICA BLU 2a. Blue Archaic Majolica, Small jug Brand “b”, 1360-80, h cm 13,4 2b. Blue Archaic Majolica, Jug with plant-like décor, Brand “b”, 1360-80, h cm. 20 2b La zaffera a rilievo rappresenta certamente uno dei generi legati alla produzione della maiolica medievale più noti, in ragione dell’interesse con il quale la storiografia ceramologica si è occupata di esso ad iniziare dalla fine dell’Ottocento. La zaffera ebbe grande diffusione nell’area geografica dell’Italia centrale e centro-settentrionale compresa tra l’Alto Lazio e l’Emilia-Romagna, ove trovò spazio all’interno delle attività di numerosi centri di fabbrica, tanto da protrarre la sua esistenza per non poco tempo e cioè – come ormai accertato dall’archeologia postclassica – per l’intero periodo compreso tra l’ultimo trentennio del XIV secolo e gli anni Settanta del Quattrocento. Nelle fasi estreme di questo arco cronologico, la presenza della zaffera si caratterizza nelle restituzioni archeologiche per una certa rarefazione, evidentemente dovuta nel primo periodo alla sua difficoltà ad affermarsi come produzione corrente e, per converso, alla desuetudine a cui il genere va incontro nel corso della seconda metà del XV secolo; possiamo dunque stabilire che il periodo più importante nelle vicende produttive della zaffera deve essere collocato nel sessantennio compreso tra il 1380 ed il 1440 circa. Ad epoca più recente è invece necessario datare alcuni manufatti dipinti con un pigmento blu intenso che, pur presentando la particolarità del rilievo sullo smalto, si riferiscono con evidenza, anche per l’utilizzazione del medesimo repertorio formale (soprattutto del motivo “a foglia di quercia”) ai più noti gruppi decorativi della “zaffera”. Per definire questa produzione si è utilizzato in passato il termine “zaffera diluita”, che, tuttavia, potrebbe essere accettato solo se rivolto ad una versione dei decori tipici della nostra tipologia, e non, come invece accade, esteso a tutte le maioliche quattrocentesche ove si impiega il blu intenso, evitando nel contempo di considerare l’aggettivo “diluita” come indicativo di una minore concentrazione del pigmento, che nella realtà non sussiste, in quanto anche la zaffera tout court non è realizzata con un ossido minerale puro. Le analisi di laboratorio recentemente eseguite hanno infatti dimostrato come il rigonfiamento del colore sia ottenuto nella zaffera tramite la mescolanza di piombo all’idrossido di cobalto che ne costituisce la base: fondendo precocemente durante la fase di cottura, il piombo determina infatti il rigonfiamento del pigmento, che poi, raffreddandosi, si fissa in rilievo sulla parte smaltata. La quantità di piombo deve perciò essere ponderata con particolare attenzione nella fase di fabbricazione della zaffera, in quanto un’eccessiva percentuale di questo metallo è in grado di determinare colature irreversibili della pittura, mentre la sua carenza non produce quell’effetto di brillantezza che ne rende particolare efficace l’aspetto. Il pigmento realizzato tramite tale mescolanza, inoltre, non ha, stante la presenza del piombo al suo interno, possibilità di diluizione paragonabile a quella degli altri colori, e deve perciò essere steso sulla superficie smaltata con l’ausilio di pennelli dalle setole particolarmente rigide: da qui l’aspetto duro e quasi “minerale” di certe maioliche a zaffera. Le caratteristiche tecnologiche che presiedono alla fabbricazione di questo genere sono dunque sufficienti a giustificare la relativa rarità con la quale esso viene restituito dai contesti di scavo. Definiti gli aspetti legati alla produzione, occorre adesso osservare che l’omogeneità stilistico-formale della “zaffera”, da ricondurre anche alle peculiari modalità della realizzazione del decoro che la rappresenta, non consente di rimarcare al suo interno un’apprezzabile linea evolutiva di carattere formale; in queste condizioni non possiamo al momento spingerci oltre la delineazione di due fasi produttive attinenti allo sviluppo di questo genere, e cioè: ZAFFERA DELLA PRIMA FASE ZAFFERA EVOLUTA E TARDA (1360-1440 circa) (1440-1470 circa) Bisogna però sottolineare come la zaffera si accompagni con il massiccio diffondersi nella pittura su smalto di Montelupo e degli altri centri della Toscana (in particolare di quello di Bacchereto) di un nuovo linguaggio formale, incentrato su una sintassi decorativa che assumerà un ruolo di primaria importanza sino all’ultimo ventennio del XV secolo. In questo senso la zaffera, assieme alla maiolica arcaica blu – ma in maniera molto più estesa ed efficace di questa – risulta il genere responsabile dell’introduzione delle maggiori novità nella decorazione quattrocentesca su maiolica: essa, infatti, precede di non pochi anni lo sviluppo di quelle tipologie sinora definite come “italo-moresche” (e che invece noi ricondurremo sotto il termine ad esse coevo di “damaschino”), la cui nascita viene normalmente riportata agli anni attorno al 1410-20. Visto l’andamento cronologico delle rispettive produzioni, si può anzi dire che l’affermarsi di queste tipologie “damaschine”, sovrapponendosi alla zaffera, abbia finito per togliere a quest’ultima lo spazio commerciale di genere “di lusso”, del quale essa originariamente godeva, contribuendo gradualmente a determinarne l’estinzione. Se esaminiamo da vicino queste produzioni in blu a rilievo, ci accorgiamo infatti come in esse, a cominciare dalle più antiche, venga a dispiegarsi un modo affatto originale di intendere la decorazione. A parte il motivo principale, che tanto ha colpito i “ceramologi”, chiaramente incentrato sulla stilizzazione della foglia di quercia, si nota come i pittori introducano nella decorazione a “zaffera” una gerarchia nei soggetti rappresentati che 219 218 3. ZAFFERA BLUE HIGH RELIEF This represents certainly one of the most known genres linked to the production of medieval majolica because of the interest with which the history of ceramics was studied starting from the end of the 1800’s. Zaffera blue was mostly found in Central Italy and North central Italy between Northern Lazio and Emilia-Romagna where it found space in the activities of many factories. Its existence as proved by postclassical archaeology, went from the last 30 years of the 14th century and the years around 1470. At the beginning and the end of its period of existence, the presence of zaffera blue in the archaeological sites is quite rare. In the first period this was due to the fact that it had a hard time in becoming the main type of production. In the last period this is due to its lack of use. For this reason we can say that the most important period of its production goes from 1380 until 1440 ca. It is necessary to date some works painted with an intense blue pigmentation to the most recent period even while presenting the particularity of the embossment on the glaze. It is proven to be for the utilisation of the same formal repertoire (above all with the oak leaf motif) to the best known of the decorative groups of “zaffera blue”. In order to define this production in the past the term “diluted zaffera blue” was used. This, however, can only be accepted when we speak about a particular version of decorations and not when we speak about all the ceramics of the 1400’s where intense blue is used. We should not consider the adjective “diluted” as a smaller concentration of pigment because this is not true since even the “tout court zaffera blue” is not made with the oxide of a pure mineral. Recent laboratory analysis proved that the inflammation of the colour is obtained through a mixture of lead and the cobalt hydroxide, which is the base. Melted precociously during the baking phase, the lead causes the inflammation of the pigment. When the pigment becomes cold it projects onto the lustered section. The quantity of lead must be chosen with particular attention in the phase of the zaffera blue’s production because an excessive percentage of the metal can cause an irreversible leak of the painting while a lack of the metal does not make the ceramic shine. The pigment that comes through this mixture does not have the same possibilities to be diluted as other colours so it must be arranged on the lustered surface thanks to particularly rigid paintbrushes. This gives it its hard aspect and it makes these ceramics look almost like “ minerals”. The technological characteristics of the production of this genre are enough to justify the rarity of its findings. We must now observe that the formal and stylistic homogeneity of zaffera blue (due also to the peculiar ways of realisation of the decorations) does not help us trace sufficiently an evolutionary line. In these conditions we can only divide the development of this genre into two productive phases: FIRST PHASE ZAFFERA BLUE (1360-1440 CA.) (1440-1470 CA.) EVOLUTED AND LATE ZAFFERA BLUE We must, however, underline that with the great development of painting on polish in Montelupo and Tuscany (especially in Bacchereto) zaffera blue acquired a new formal language based on a different kind of decoration that would be very important until the last 20 years of the 15th century. In this sense zaffera blue, like archaic blue majolica (but in a much more efficient way) became the genre that was responsible for the introduction of the biggest changes in 15th century ceramic decorations. It occurred many years before the development of the type that we still define as “ItalMoresque” (also remembered under the name damaschino) which originated between 1410-1420. We can say that the affirmation of “damaschino” took away the commercial space as a luxury genre from zaffera blue, contributing gradually to determine its extinction. If we exam closely these blue high relief techniques, we realise that even the oldest ones are characterised by a new type of decoration. Apart from the main motif, clearly based on the stylisation of the oak leaf, we notice how the painters introduced a new hierarchy that definitely cut with the compositions of the past (usually geometrical or floral) and characterised most of the productions until the third quarter of the 15th century. These figures, to which we now attribute a central role in the decoration of vases, represent the problem of the formal relationship with what are defined as “border motifs”. The main example is the stylisation of the oak leaf. The solution to this problem, which gives us the necessity to isolate the main subjects from the border motifs, is usually (but not always) solved through a “graphic”. This consists in circulating these subjects with a peripheral borderline that develops itself at a short difference from the perimeter of the figure. In this way the border motifs are separated from the main ones which are immediately felt thanks to the presence of an empty band. ZAFFERA A RILIEVO LA MAIOLICA ARCAICA BLU ZAFFERA A RILIEVO LA MAIOLICA ARCAICA BLU 3. ZAFFERA A RILIEVO ZAFFERA A RILIEVO l’assimilazione di un linguaggio decorativo da secoli utilizzato nella ceramica prodotta in differenti contesti culturali di matrice islamica. Esso, però, non appartiene alla genuina tradizione ispanica, né tantomeno può dirsi caratterizzare la coeva produzione ispano-moresca che si diffonde in Italia attraverso i centri del Levante spagnolo, ma proviene invece dalle grandi officine ceramiche dell’Islam orientale. Il riferimento alla Siria, centro di attrazione delle merci di un vasto mondo che fa capo ai grandi mercati di Aleppo e di Damasco, è del resto ben presente nella definizione che i nostri vasai assegnano a questo genere (“damaschino”, appunto). Che la “zaffera” dimostri l’estesa assimilazione di un tale linguaggio, appare fuori di ogni ragionevole dubbio. Oltre alla ripetizione dell’aspetto strutturale della decorazione (cioè il sistema dell’evidenziazione delle figure attraverso una linea di contorno esterna al loro perimetro), infatti, si nota anche l’impiego di singole suggestioni iconografiche, quali ad esempio il motivo del giaguaro, una delle figurazioni più care al repertorio dei ceramisti orientali, più volte eseguito da una bottega di Montelupo che sigla i suoi prodotti con un segno simile ad una scaletta (ed è percio detta “bottega della scala”). È poi da notare come una particolarità formale, diffusissima nella produzione ceramica che ha il suo principale centro di diffusione tra Iran ed Iraq, venga assimilata ai ceramisti italiani, ignari del suo recondito e nient’affatto banale significato. Si tratta del motivo a “cerchietto”, sempre puntinato al suo interno, che troviamo continuamente riprodotto nella più bella produzione a lustro metallico dell’area orientale del Mediterraneo, ove è impiegato tanto nelle figure, quanto negli spazi che le fiancheggiano, posti al di là della famosa linea di contorno che li definisce. In questi “cerchietti”, dal valore solo apparentemente formale, si nasconde in realtà la rappresentazione simbolica della divinità, intesa come l’ “occhio di Allah”, indicativo della onnipresenza – anche all’interno degli esseri viventi – del divino. Ecco dunque che due elementi formali fondamentali, che vanno poi ad unirsi assieme nello stabilire una modalità “sintattica” della pittura, mostrano come sin dalla fine del XIV secolo il rinnovamento della ceramica smaltata in Montelupo (e negli altri centri dell’area fiorentina) si sia giocato soprattutto attraverso l’influenza della cultura decorativa di matrice islamica,che fu certamente favorita in maniera determinante dalla penetrazione della maiolica spagnola, ma tale da com- 3. Zaffera a rilievo, Piccolo bacile, Ø cm. 23,5 221 220 This method, which develops and generalises itself in majolica painting, does not only represent merely a formal solution but an assimilation of the decorative language used for centuries in majolica produced in different Islamic cultural contexts. This does not belong to the genuine Hispanic tradition and it does not characterise the Hispanic- Moresque production that developed in Italy in the centres of the Spanish east. It comes from the great majolica productions of Oriental Islam. The reference to Syria, attraction centre of products from the entire world in the great markets of Aleppo and Damascus, is present in the definition that our vase makers assign to this genre (Damaschino). It is without a doubt that zaffera blue demonstrates the extended simulation of this language. Aside from the repetition of the structural aspect of the decoration (the system of underlining the figures through a borderline) we can also notice the use of single iconic suggestions, such as the motif of the jaguar, one of the most popular representations in the repertoire of Oriental potters. This was often executed by a workshop that marks its products with a sign similar to a small ladder (the reason it is called “ladder workshop”). We must also notice how this particularity, very popular in the majolica production in Iran and Iraq, became assimilated by Ital- ian potters that were not aware of its profound significance. The circle motif that we continuously find in the best metallic productions of the Oriental area of the Mediterranean is used both in the figures and in the spaces next to the figures (next to the famous borderline). In these small circles, that apparently only have a formal value, is hidden the symbolic representation of divinity, intended as “Allah’s eye”. This indicates the omnipresence of the divine even amongst living beings. Two fundamentally formal elements show how, from the end of the 14th century, the renewal of lustered ceramics in Montelupo (and in other centres of the Florence area) was influenced by the Islamic decorative culture. This was favoured in a determinant way by the penetration of Spanish ceramics even though it also included more antique models that were based on Oriental majolica. Zaffera blue had a fundamental role in the diffusion of these influences. ZAFFERA BLUE HIGH RELIEF ZAFFERA BLUE HIGH RELIEF prendere anche i modelli di più antica tradizione, ancora riflessi dalle ceramiche a lustro di provenienza orientale. La “zaffera” esercitò nella diffusione di queste influenze un ruolo fondamentale. ZAFFERA A RILIEVO spezza definitivamente quel ritmato accostamento di composizioni – di solito di natura geometrica o fitomorfa – che caratterizzava la maggior parte della maiolica arcaica prodotta sino al terzo quarto del XV secolo. Queste figurazioni, alle quali adesso viene con maggior frequenza attribuito un ruolo centrale nel decoro delle forme vascolari, introducendo così una definizione gerarchica della composizione, rappresentano il problema del loro rapporto formale con quelli che vengono a definirsi come “motivi di contorno”. Tra di essi, appunto, spicca la stilizzazione della foglia di quercia. La risoluzione di questo problema, che pone appunto la necessità di isolare, al fine di renderli meglio percepibili, i soggetti principali da quelli di contorno, è spesso (anche se non sempre) risolta mediante un artificio “grafico”, il quale consiste nel circondare questi stessi soggetti mediante l’apposizione di una linea di contorno periferica, che si sviluppa a poca distanza dal perimetro della figura. In tal modo i motivi “di contorno” vengono tenuti separati dai principali, alla cui percezione l’occhio viene immediatamente ad indirizzarsi per la presenza di una fascia vuota, che così, dialetticamente, la individua. Un tale artificio, che va diffondendosi, sin quasi a generalizzarsi, nella pittura su maiolica nel corso del Quattrocento, non rappresenta però un mero espediente formale, ritrovato da qualche pittore nostrano, bensì 3. Zaffera blue high relief, Small basin, Ø cm. 23,5 3 4. ZAFFERA TRICOLORE 4. Zaffera tricolore, Grande boccale, 1410-40, Ø cm. 20 gliezza e,magari, un ductus così morbido nella stesura, che sarebbe di per sé sufficiente a palesare un modo di porsi dei pittori di fronte alla decorazione del tutto diverso da quello che caratterizza i capi con prevalente blu in rilievo, ove, invece, questo impiego “grafico” del manganese si fa assai raro, ed è di solito riservato alla rappresentazione della figura umana. È tuttavia nel verde-ramina, spesso contraddistinto da toni azzurrini, che questo genere si differenzia più marcatamente dalla zaffera a rilievo, e ciò non soltanto per la stesura del colore in campiture morbide e liquide, le quali contrastano fortemente con l’aspetto massiccio e rigido della zaffera, ma per la maggiore luminosità della composizione, che in tal modo, grazie alla diffusione del medesimo in ampie porzioni, viene a realizzarsi. A queste differenze di fondo, corrispondono poi certe indubbie comunanze tra i due generi, le quali, tuttavia, ci appaiono costituire un aspetto importante della vicenda storica della zaffera tricolore, senza però attestare un effettivo rapporto di dipendenza tra le due tipologie. Tra queste similitudini spicca certamente la modalità di riempire gli spazi vuoti con macchie di “zaffera”, attorniate da una fitta corona di minuscoli punti dipinti in bruno di manganese. Tutto il resto, però, a cominciare da una sorta di ghirlanda vegetale, posta di sovente a circondare le figurazioni del tricolore, si fa assai differente. 5. DAMASCHINO Grazie alle recenti ricerche archeologiche, questo gruppo trova adesso un’esemplificazione più ampia ed articolata nei materiali di scavo provenienti dal sottosuolo di Montelupo, meglio caratterizzandosi così nella sua funzione di genere fondamentale per lo sviluppo delle attività produttive locali. Con il termine “damaschino” gli stessi vasai di Montelupo (vedi ad esempio il suo impiego nel contratto con il quale si ferma il cosiddetto “trust Antinori”, anche se relativo al periodo finale del genere) intendevano un vasto gruppo di decori, che era venuto evolvendosi sulla base delle influenze ricevute, a partire dalla seconda metà del XIV secolo, da varie produzione mediterranee, ed in particolare da quelle dei grandi centri di fabbrica (Manises, Malaga), attivi nel Levante spagnolo. Per indicare questa produzione variegata, che adesso è possibile percepire nel suo dispiegarsi cronologico e tipologico, gli studiosi del passato coniarono il termine di “italo-moresco” per indicare – peraltro correttamente – che trattasi di famiglie decorative dipendenti appunto dalle maioliche iberiche, e particolarmente da quelle di area valenciana. Il concetto di italo-moresca, inteso come influenza spagnola sulla produzione italiana, risulta però inadeguato a supportare in termini razionali una griglia di classificazione della maiolica DAMASCHINO ZAFFERA TRICOLORE Con il termine di “zaffera tricolore” si definisce una tipologia nella quale le parti figurative della decorazione sono realizzate in verde, mentre quelle accessorie sono definite con inserti di blu cobalto in rilievo. Si può notare nello sviluppo di questo genere l’impiego di un repertorio iconografico autonomo, che ben si distingue tanto dalla produzione con il blu in rilievo, quanto dalla maiolica arcaica in ramina e manganese. Tale particolarità rende perciò palese la complessità del rapporto che lega il “tricolore” alla più numerosa produzione “a zaffera”, e che certo sarebbe errato ridurre alla categoria di una semplice “evoluzione” di questo o di quel genere. Come poc’anzi si affermava, infatti, il genere “tricolore” denota un uso chiaramente accessorio della “zaffera”, e, così facendo, può evitare le limitazioni della tecnica pittorica alle quali deve invece sottostare la produzione caratterizzata da un esteso impiego del blu di cobalto con aggiunta di ossido di piombo. In questo caso, infatti, il pittore viene ad eseguire gran parte della decorazione con normali pennelli, carichi di pigmento verde e bruno in usuale diluizione: solo una volta completate le sue figure principali, egli cambia il suo strumento per inserire nel lavoro i particolari “a zaffera”. Nonostante si possa notare in qualche esemplare di “tricolore” una certa disposizione a segnare i contorni con linee in bruno di manganese di un certo spessore, così come avviene nella zaffera, in un buon numero di casi esse denotano un’assai maggiore sotti- 223 222 THREE-COLOUR ZAFFERA BLUE 4 4. TRI-COLOUR ZAFFERA BLUE With the term tri-colour zaffera blue we define a type in which the figurative parts of the decoration are green while the accessory parts are defined with cobalt blue high relief. We can notice in the development of this genre the use of an independent iconic repertoire that distinguishes itself from the production with blue high relief and the archaic majolica in ramina and man- ganese. This particularity makes the complexity of the relationship between “tri-colour” and zaffera blue evident. It would be wrong to consider this category as a simple evolution of the other genre. The tricolour uses the zaffera blue as an accessory element and like this it avoids the limitations of the pictorial technique that characterises the production of blue cobalt with lead oxide. In this case the painter accomplishes most of the decoration with normal paintbrushes filled with green and brown pigments in their usual dilution. It is only after completing the main figures that he changes tool in order to insert the particulars with zaffera blue. Even though in some examples of tri-colour we can notice that the borders are thick, brown manganese lines, just like in zaffera blue, in most cases they are thinner and softer. The painter’s face this type of decoration in a completely different way compared to the production of the blue high relief, where the graphical use of manganese is quite rare and is usually reserved to human representations. However, the biggest difference with the zaffera blue technique consists in the green ramina usually characterised by light blue tones. This is not only due to the placement of the colour in soft and liquid areas that strongly contrast the rigid and massive aspect of the zaffera blue, but also for its brightness. Apart from these differences, there are also definably common points between the two genres that we do not think confirms an effective relationship of dependants between the two types. One of the most important examples of common points is the way that the empty spaces are filled in with spots of zaffera blue surrounded by a crown of tiny dots in brown manganese. The rest, however, starting from a type of wreath that usually circulates the tri-colour figures, is a lot different. 5. DAMASCHINO Thanks to recent archaeological research, this group is now characterised by a bigger and more articulate amount of findings that come from beneath the ground in Montelupo. We can now see how it is a fundamental genre for the development of local productive activities. With the term “Damaschino”, the vase makers of Montelupo (for example in the contract for the “Antinori trust”) intended a vast group of decors that evolved on the base of influences from various Mediterranean productions (Manises and Malaga) starting from the second half of the 14th century. In order to point out this multicoloured production, which could now be perceived both chronologically and typologically, the experts of the past created the term “Ital-Moresque” to indicate that it belongs to the decorative family deriving from Iberian majolica, in particular, from the Valencia area. The concept of “Ital-Moresque” intended as the Spanish influence on the Italian production proves to be inadequate in forming a classification of ceramics in Montelupo (and in Italy in general). In fact, this term identifies a cultural influence that should not be intended in its specific provenance and chronology since it could very well be extended to most of the late medieval production. This would DAMASCHINO 4. Three-colour Zaffera blue, Large jug, 1410-40, Ø cm. 20 ZAFFERA TRICOLORE l’influenza decorativa della produzione di matrice islamica (orientale ed occidentale) nella pittura su maiolica. È in particolare nell’impiego delle figurazioni con linee di contorno – che abbiamo già rilevato non appartenere alla tradizione ispanica – alle quali si accoppia però un’estesissima utilizzazione dei motivi di contorno derivati in maniera diretta dalle ceramiche valenciane, che risiede tutta la complessità (ed il fascino) di questo genere decorativo. In esso, come poc’anzi si accennava, occorre distinguere almeno tre grandi fasi, che hanno valore cronologico, oltre che formale, e cioè: DAMASCHINO MONOCROMO DAMASCHINO “A TAVOLOZZA FREDDA” DAMASCHINO POLICROMO. Occorre dire che, mentre i primi due rappresentano la fase di sviluppo “proprio” del genere, l’ultima, pur rapportandosi ad esso con evidenzia, ne marca ormai l’incipiente superamento, e verrà pertanto considerata nel catalogo come un genere a parte. Damaschino monocromo La produzione in monocromia azzurra marca dunque il momento iniziale del damaschino: gli esemplari più antichi di questo gruppo che costituisce la prima fase del damaschino affiancarono infatti la produzione della maiolica arcaica evoluta e la prima fase dell’arcaica tricolore, costituendo, con la “zaffera”, la tipologia decorativa che principalmente si accompagnava alle forme aperte in ramina e manganese. L’antichità di queste ceramiche si evidenzia nel loro stesso contenuto tecnico, ed in particolare nella smaltatura assai sottile ed approssimativa delle parti interne dei boccali e del lato rovescio delle forme aperte, che le caratterizza; talvolta può persino notarsi come la copertura dell’esterno – realizzata per immersione – lasci scoperta, a similitudine di quanto avviene nella maiolica arcaica della fase evoluta, la cornice del piede. È tuttavia la sintassi decorativa che si dispiega sugli esemplari appartenenti a questo gruppo ad attestarne con maggiore precisione l’antichità rispetto a quelli più evoluti che, come vedremo, mostrano l’impiego iniziale di una particolare policromia. Fanno infatti parte di esso maioliche realizzate mediante una singolare diluizione di un pigmento realizzato con il solo ossido di cobalto e caratterizzate dalla collocazione dei motivi principali entro una linea di contorno. Gli spazi esterni alle parti figurate sono riempiti da minuscoli segni a spirale, all’interno dei quali si aprono piccole aree circolari, ove si colloca la “foglia di prezzemolo”, concepita come il punto terminale di uno stelo vegetale ripiegato su se stesso. In esso è evidente il richiamo al motivo più diffuso nelle coeve maioliche valenciane, ed in particolare in quelle del grande centro di fabbrica di Manises, come bene è sottolineato anche dalla puntinatura con la quale si accompagna. L’interpretazione di questo canone decorativo d’imitazione iberica è estremamente rigorosa, ed offre poche possibilità di variazione alla creatività dei pittori. DAMASCHINO di Montelupo (e, crediamo, di quella italiana in generale). Esso, infatti, vuol identificare un influsso culturale che, in primo luogo, non è correttamente inteso nella sua specifica provenienza e cronologia, visto che potrebbe ben estendersi a gran parte della produzione tardo-medievale, comprendendo certamente, come si è visto, non pochi esemplari di zaffera e di maiolica arcaica tricolore, oltre all’usuale produzione quattrocentesca alla quale essa è normalmente riferita. Ci potremmo infine chiedere se non siano da considerare più “italo-moresche” certe forme di traduzione in lingua toscana dei prototipi spagnoli (quali quelle, per intendersi, che tratteremo presentando il genere che imita direttamente il lustro metallico, oppure la “foglia di vite” e quella “di prezzemolo” valenciana), che si protraggono sino all’inizio del XVI secolo, rispetto a certi esemplari quattrocenteschi policromi già inseriti da Galeazzo Cora nella sua definizione dell’ “italo moresca” come “gruppo VII F”, che non presentano, invece, riferimenti così evidenti alla produzione iberica. La nostra classificazione, supportata dall’evidenza delle restituzioni di scavo montelupine, oltre a recuperare la definizione coeva e storicamente accertata di questo genere, ripristinandone altresì la complessa articolazione interna, parte da questo dato di fatto che ci appare incontrovertibile, e considera così il damaschino come il genere nel quale si è dispiegata pienamente 5a. Damaschino monocromo, Bacile con uccello, 1420-40, Ø cm. 24,7 225 also include many examples of zaffera blue and tricolour archaic majolica as well as the usual 15th century productions to which it is normally referred. We should ask ourselves if we should also consider the “Ital-Moresque” forms of translation in the Tuscan language of Spanish prototypes (for example vine leaves and parsley) which lasted until the beginning of the 16th century? Or the specific 1400’s examples already inserted by Galeazzo Cora in his definition of “Ital-Moresque” as “group VII F” which do not present such evident references to the Iberian production? Our classification, supported by evidence in the findings of the Montelupo digs, not only preserves the definition of this genre but uses this fact to consider “damaschino” as the genre in which the decorative influence of the Islamic production in ceramic painting had the biggest effect. In the use of figures with borderlines and border motifs that derive from the Valencia ceramics, we find all the complexity and charm of this decorative genre. We must identify at least three great phases that have both formal and chronological significance: MONOCHROME DAMASCHINO “COLD PALETTE” DAMASCHINO POLYCHROME DAMASCHINO While the first two represent the developmental phase of the genre the last one marks its ascendancy and for this reason it will be considered as a separate genre. Monochrome damaschino The blue production marks the initial moment of damaschino: the most antique examples of this group appeared at the same time as the evolved archaic production and as the first phase of archaic tri-colour. Together with the zaffera blue this decorative type was for the most part found in the open models in ramina and manganese. The antiquity of these ceramics is clear in their technological content and in the thin polish on the inside of the jugs and the bottom of the open models. Sometimes the external sheath exposes the frame of the base. However, it is the decoration that confirms with more precision the antiquity compared to the more evolved types that are characterised by an initial use of more than one colour. Examples of these groups are ceramics made with a dilution of a pigment that originates thanks to the dilution of cobalt oxide and characterised by main motifs surrounded by borderlines. The external spaces around the figures are filled with a tiny spiral shapes on the inside of which there are small circular areas with parsley. This is 5a. Monochrome Damaschino, Basin with bird, 1420-40, DAMASCHINO ZAFFERA TRICOLORE 224 Ø cm. 24,7 5a conceived as the ending point of a plant stem wrapped around itself. In this motif the influence of Valencia ceramics, and in particular the ones of Manises, is evident. This is underlined also by the dot technique. The interpretation of these decorative criteria of Iberian influence is extremely inflexible and offers few possibilities of variation to the painters’ creativity. Some examples of main motifs inserted in this monochrome type, are floral decorations, animal decorations, people decorations and heraldry decorations, as well as references to nature and gothic writings deriving directly from the Spanish ceramics. The use of blue for the central figures make it necessary to leave some internal parts free, to make the morphology perceptible. Therefore the painting usually is divided into two phases. In the first phase there is the painting of the figure with a well-diluted blue, making the peripheral parts and leaving out some internal portions. In the second phase the same figure is re-painted with a more concentrated pigment. In this way the white areas, next to the light blue ones, define a sort of shadow of the vol- Damaschino “a tavolozza fredda” Nella pittura su smalto che viene a sviluppare in maniera più diretta le influenze del Levante spagnolo, l’impiego della monocromia blu, secondo i canoni che abbiamo definito come “damaschino monocromo”, viene ben presto a complicarsi attraverso l’introduzione di nuovi pigmenti, già peraltro impiegati nelle altre produzioni coeve, quali il bruno di manganese, il verde ramina ed il giallo. Se in tal modo viene ad interrompersi il predominio della monocromia, occorre tuttavia osservare come, pur con qualche eccezione per il bruno, tali colori, nuovamente introdotti, siano sempre usati in mescolanza con l’idrossido di cobalto, e trovino all’inizio soltanto impiego nelle parti secondarie – quali linee, fasce di contorno e lumeggiature – della decorazione. L’effetto visivo che in tal si ottiene fa risaltare nella pittura quella che Gaetano Ballardini definì efficacemente come “tavolozza fredda”: nelle realizzazioni più evolute la stesura di colori freddi giunge così sino ad indurre un effetto di “visione notturna”, quasi fosse priva delle tonalità calde della luce solare. Il periodo della “tavolozza fredda”, pur relativamente breve, rappresentò però una novità di grande momento nella storia della ceramica di Montelupo e degli altri centri di fabbrica della maiolica italiana. In questa fase centrale del XV secolo, infatti, la generazione dei pittori che si trova ad operare nei diversi luoghi di produzione si dimostra insofferente degli schemi ereditati dal passato, ed inizia a ricercare un diverso modo di dipingere. La tensione che anima 5b 5c 5b. Damaschino monocromo, Scodella con fiore, 1430-40, Ø cm. 28,2 5c. Damaschino monocromo, Scodella con lettera gotica, 1430-50, Ø cm. 21,0 5d. Damaschino monocromo, Fruttiera con scena di caccia, 1440-60, Ø cm. 40,5 DAMASCHINO DAMASACHINO Tra i motivi principali che si inseriscono in questa tipologia monocroma si notano decorazioni araldiche, zoomorfe, fitomorfe ed antropomorfe, oltre a richiami di natura grafica, incentrati sull’uso di lettere maiuscole in scrittura gotica, derivate direttamente dalle maioliche spagnole. L’impiego della monocromia blu nelle figurazioni centrali impone la necessità di lasciare alcune parti risparmiate all’interno di esse, al fine di renderne percepibile la morfologia, ragione per cui la pittura avviene normalmente in due fasi successive. Nella prima di queste si dipinge infatti il soggetto in azzurro ben diluito, realizzando le sue parti periferiche, e lasciando alcune porzioni interne dello stesso risparmiate dalla stesura del colore, peraltro particolarmente tenue. Nella seconda fase si ripassa la figura già tracciata con un pigmento più concentrato; in tal modo le zone in bianco, precedentemente risparmiate, accompagnandosi a quelle azzurrine, definiscono come una sorta di ombreggiatura il volume dei soggetti, rendendone così più efficace e realistica la rappresentazione monocroma. 5e. Damaschino “tavolozza fredda”, Scodella con simbologia della Fede, 1450-60, Ø cm. 33,0 5f. Damaschino “tavolozza fredda”, Scodella con leone, 1440-60, Ø cm. 18,3 227 ume of the figures, making the monochrome representation more efficient and realistic. “Cold palette” damaschino In the painting on polish that develops more directly the Spanish influences, the use of blue, following the criteria that we defined as “monochrome damaschino”, becomes more complicated due to the introduction of new pigments. These were already used in the production of brown manganese, green ramina and yellow. In this way the dominance of monochrome techniques are interrupted, even if it is still used in mixes with cobalt hydroxide. At the beginning these new techniques are only used in secondary parts (lines and bands) of the decorations. The visual affect highlights what Gaetano Ballardini defined as “cold palette”: in the more evolved phases the use of cold colours introduces an affect of “nocturnal vision” as if it lacked the warm tones of solar light. This period, even if short, represented a great turning point in Montelupo ceramic history and in the other ceramic centres in Italy. In the central phase of the 15th century, the generation of painters that operate in different production areas prove to be intolerant towards the models inherited from the past and starts looking for a different way to paint. The tension that animates these men clearly has a cultural nature: the world that surrounds them is in fact completely involved in the aesthetic Renaissance revolution. In this period there are great accomplishments of colour and realistic representation. The “cold palette” welcomes both of these accomplishments and introduces the aesthetic characteristics of Renaissance in lustered paintings. Products that are still influenced by the Islamic culture, even if only the one that derives from Spain is freed from the old models that favoured the decorative aspects of pictorial representation. The classic model of embedding the main figures into spaces that are traced by borderlines is abandoned while it becomes more and more common to embed graphic signs next to the figures. In this way the figures are inserted in spaces that do not have artificial limitations and they are characterised by more realism even if the lack of warm tones are not able to underline this aspect in an adequate way. The tendency, however, is acknowledged and with the next generation it will become truly significant. 5b. Monochrome Damaschino, Bowl with flower, 1430-40, Ø cm. 28,2 DAMASCHINO DAMASCHINO 226 5c. Monochrome Damaschino, Bowl with gothic letter, 1430-50, Ø cm. 21,0 5d. Monochrome Damaschino, Fruit bowl with scene of hunt, 1440-60, Ø cm. 40,5 5e. “Cold Palette” Damaschino, Bowl with symbol of Faith, 1450-60, Ø cm. 33,0 5f. “Cold Palette” Damaschino, Bowl with Lion, 1440-60, Ø cm. 18,3 5d 5e 5f 5g 5g. Damaschino “tavolozza fredda”, Vaso da fiori, 1450-70, h cm. 26,0 5h. Damaschino “tavolozza fredda”, Boccale figurato, 1440-60, h cm. 26,0 DAMASCHINO 5i. Damaschino “tavolozza fredda”, Ciotola con giovinetto, 1450-60, Ø cm. 20,5 5l. Damaschino “tavolozza fredda”, Alberello vegetale, 1460-80, h cm. 24,3 5m. Damaschino “tavolozza fredda”, Boccale con corona marchionale, 1 460-80, h cm. 18,8 5h 6. MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE In questa tipologia, secondo quanto precedentemente rilevato in merito all’evoluzione tardiva della maiolica arcaica, inseriremo il genere decorativo caratterizzato dalla compresenza di parti in ramina e manganese con l’aggiunta di un terzo pigmento (giallo od arancio) che già Galeazzo Cora aveva inserito nel “gruppo IV” della sua classificazione, e che la ricerca archeologica condotta in Montelupo ha evidenziato come portatrice di un’articolazione assai più complessa. La maggiore complessità tipologica interna è venuta poi a documentare con grande ricchezza di particolari lo stretto rapporto che intercorre tra questo genere e la maiolica arcaica della fase tardiva, giungendo così ad avvalorare anche in senso storico la nomenclatura che ad essa abbiamo attribuito. È poi essenziale sottolineare una questione fondamentale che attiene a questo genere, e cioè il suo impiego pressoché esclusivo sulle forme aperte: tra le migliaia di frammenti ad esso pertinenti rinvenuti negli scarichi di fornace di Montelupo, infatti, solo una minuscola porzione di boccale – quasi un reperto casuale, quindi – risulta decorata coi motivi dell’arcaica tricolore. Ciò è ampiamente sufficiente a farci ritenere l’utilizzo su ciotole, scodelle e scodelloni delle tipologie decorative che gli appartengono come pressoché esclusivo nella MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE questi uomini è chiaramente di natura culturale: il mondo che li circonda è infatti ormai pienamente coinvolto nella rivoluzione estetica rinascimentale, la quale pone sotto i loro occhi le grandi conquiste del colore e della rappresentazione realistica. È verso l’accoglimento di entrambe che la “tavolozza fredda” inizia a muovere i primi, timidi passi verso l’introduzione nella pittura su smalto dei canoni estetici del Rinascimento. All’interno di prodotti che ancora risentono dell’influenza della cultura islamica, anche se ridotta ormai a quella veicolata dalla Spagna, si giunge così ad affrancarsi dai vecchi schemi che privilegiavano gli aspetti decorativi della rappresentazione pittorica. Viene così abbandonato il classico schema dell’inserimento dei soggetti principali entro spazi delimitati da linee di contorno, mentre si tralascia sempre più frequentemente di apporre una minuta teoria di segni grafici a fianco degli stessi. In tal modo si tende in maniera sempre più decisa ad inserire queste stesse figure in spazi privi di limitazioni artificiali, ove esse ricevono una più evidente connotazione realistica, anche se un cromatismo privo dei toni caldi non riesce a sottolineare tale aspetto in maniera adeguata. La tendenza, però, è marcata, e sarà la successiva generazione a portarla a compimento. 229 228 DAMASCHINO 5h. “Cold Palette” Damaschino, Figured jug, 1440-60, h cm. 26,0 5i. “Cold Palette” Damaschino, Basin with jung man, 1450-60, Ø cm. 20,5 5l. “Cold Palette” Damaschino, Spice holder with plant-like decor, 1460-80, h cm. 24,3 5m. “Cold Palette” Damaschino, Jug with marquis’s crown, 1460-80, h cm. 18,8 5i 5l 5m In this type, as earlier stated speaking about the late evolution of archaic majolica, we can insert a decorative genre characterised by the presence of ramina and manganese with a third pigment (yellow or orange). Galeazzo Cora had already inserted this in “group IV” of his classification, and archaeological research in Montelupo underlined it as being characterised by a complex articulation. The complexity of the type richly documents the close relationship between this genre and the late archaic majolica, giving a historical sense of more value to the names that we had given to these periods. It is then essential to underline a fundamental issue that belongs with this genre, that is its almost exclusive use on open models: among the thousands of fragments found in the residue of the Montelupo furnaces. In fact, only a small portion of a jug is decorated with the motifs of the archaic tri-colour. This is more than enough to make us think that the use on bowls of the decorative types of the genre as almost exclusive of the Montelupo production. There are only a few exceptions (especially for pharmaceutical destinations) but their nature does not include them in the serial criteria of the production. THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA 6. ARCHAIC TRI-COLOUR MAJOLICA 5g. “Cold Palette” Damaschino, Flower-pot, 1450-70, h cm. 26,0 produzione di Montelupo, con la sola, ovvia eccezione di qualche manufatto particolare (in specie con destinazione farmaceutica), la cui natura era tale da sfuggire ai criteri seriali della produzione. Le sue caratteristiche di genere riservato alla fabbricazione di forme aperte, e per di più di quelle dalla morfologia più antica, destinate ad un uso sulla mensa ormai “tradizionale”, indicano come l’arcaica tricolore venisse prodotta nelle botteghe dei vasai di Montelupo assieme a forme chiuse contraddistinte da altri generi decorativi, quali la zaffera e, soprattutto, il damaschino, sui quali si sviluppavano ricerche formali più avanzate. Corollario importante di questa “marginalità” nella quale era confinata l’arcaica tricolore, è poi il conservatorismo dei decori che si impiegavano su questo genere, gran parte dei quali costituisce lo sviluppo cromatico e, assai più modestamente, decorativo, di quanto già sviluppato nella fase evoluta e tardiva della 6e MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE RICORRENTE ITALIANO 6a maiolica arcaica. Lo stesso legame con l’antica produzione in ramina e manganese risalta anche con grande chiarezza dall’aspetto morfologico dei manufatti, nei quali si nota identità con le forme aperte proprie a questa fase evoluta dell’arcaica, e solo un loro modesto aggiornamento. Persino negli aspetti tecnologici, del resto, emerge tale rapporto di dipendenza. In entrambi i generi, infatti, si nota la propensione, ben attestata sin dall’inizio del XV secolo, a lasciare nudo l’esterno dei manufatti con pareti basse, quali scodelle e scodelloni – ove la nudità esterna del supporto non può essere percepita, se non quando il manufatto è capovolto – o nelle forme più arcaiche, quali i bacili troncoconici. Non può sussistere ragionevole dubbio, quindi, sul fatto che questo genere rappresenti l’estrema evoluzione ed aggiornamento produttivo della maiolica arcaica, utile a protrarne la diffusione, indirizzandola soprattutto verso un mercato di tipo tradizionale, sino ai 6a. Maiolica arcaica tricolore, Ciotola decoro vegetale, 1450-70, Ø cm. 17,3 6b. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 36,5 6e. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone con decoro vegetale, 1460-80, Ø cm. 26,6 6c. Maiolica arcaica tricolore, Scodella decoro vegetale, 1490-1510, Ø cm. 26,0 6f. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 33,8 6d. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone decoro vegetale, 1490-1510, Ø cm. 34,0 6g. Maiolica arcaica tricolore, Ciotola con decoro vegetale, 1460-80, Ø cm. 17,8 231 6a. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1450-70, Ø cm. 17,3 6e. Three-colour Archaic Majolica, Large bowl with plant-like decor, 1460-80, 6b. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 36,5 Ø cm. 26,6 6c. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1490-1510, 6f. Three-colour Archaic Majolica, Large bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 26,0 Ø cm. 33,8 6d. Three-colour Archaic Majolica, Large bowl with plant-like decor, 1490-1510, 6g. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1460-80, Ø cm. 17,8 Ø cm. 34,0 6f 6b 6c 6d The fact that the genre was reserved to the production of open models destined to a “traditional” use shows how the tri—colour archaic was produced in Montelupo next to closed models characterised by other decorative genres such as zaffera blue and mostly damaschino. The decorations were very conservative. The link with the ancient production in ramina and manganese accentuates the morphological appearance of the handcrafts in which we notice distinctiveness with the open models that belong to the evolved phase of archaic and with only a modest update. This relationship of dependants is clear even in the technological aspects. In both genres we can notice the tendency, starting from the beginning of the 15th century, to leave the external parts of the bowls and washbasins unadorned. Doubtless this genre is the extreme evolution 6g THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA 230 primi lustri del Cinquecento, data alla quale risalgono le ultime scodelle in arcaica tricolore rinvenute nel “pozzo dei lavatoi” in associazione ai generi decorativi rinascimentali di tipo già avanzato. Sotto il profilo squisitamente formale occorre infine osservare come questo genere mostri due grandi partizioni interne. La prima di esse è sostanzialmente composta da motivi vegetali di contorno, consistenti in una fascia di foglioline lanceolate, campite in verde o alternate in verde ed arancio, disposta lungo la parete interna dei manufatti; i motivi centrali, anch’essi consistenti di norma in rappresentazioni fitomorfe stilizzate, possono essere separati da parti barrate ad intreccio, che formano una sorta di reticolo in bruno di manganese. Questo gruppo comprende anche esemplari figurati. La seconda partizione decorativa dell’arcaica tricolore è rappresentata da maioliche con decoro semplificato, incentrato sul classico motivo vegetale cruciforme posto al centro, al quale si uniscono quattro foglie collocate negli spazi vuoti di risulta: in essa è facile riconoscere l’evoluzione del più classico motivo della maiolica arcaica, destinato ad ornare specialmente le forme aperte. Nelle forme a bassa parete questa composizione si unisce ad una tesa con settori barrati a segmenti verticali e paralleli in verde ed bruno che si alternano; le pareti sono poi quasi sempre dipinte con fasce in verde ed arancio. 7. EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO OVALI RAGGIATI MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE FOGLIA DI VITE STILIZZATA FIORE DI PAPAVERO O GAROFANO GIRALI VEGETALI FOGLIE STILIZZATE VERTICALI FOGLIE PARTITE ORIZZONTALI 7a CIUFFETTI VEGETALI STILIZZATI 6h. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone figurato amatorio “imenso amore”, 1440-60, Ø cm. 46 7a. Damaschino policromo, Boccale vegetale, 1480-90, h cm. 24,6 Si tratta, come si vede, di un coacervo di canoni decorativi diversi, spesso contaminati tra di loro, anche 7b. Damaschino policromo, Boccale con stemma non identificato, 1480-90, h. cm 14,9 EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO Costituisce l’ultima fase di quello che, come si è visto, possiamo definire “damaschino”, in quanto legato alla complessa evoluzione delle influenze di matrice culturale islamica introdotte nella pittura su maiolica in Montelupo già ad iniziare dalla seconda metà del XIV secolo, ed in particolare l’ultimo sviluppo dell’omonima produzione, della quale abbiamo già visto le precedenti tappe, legate all’uso della monocromia prima, ed all’introduzione della “tavolozza fredda” dopo. La versione policroma del damaschino può dirsi la produzione “di punta” di questa fase, e costituisce di fatto un genere a sé stante, vista la complessità e l’articolazione delle varianti interne. All’interno di esso, pertanto, distingueremo i seguenti gruppi: 233 232 THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA bowl with amatory figure “imenso amore”, 1460-80, Ø cm. 46 7a. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h cm. 24,6 7b. Polychrome Damaschino, Jug with not identified coat of arms, 1480-90, h. cm 14,9 This is the last phase of what we can define damaschino. It is linked to the complex evolution of the Islamic influence in ceramic painting in Montelupo from the second half of the 14th century, to the last development of this production and the introduction of the “cold palette”. The polychrome of damaschino is the most important production of this phase and can be considered as a single genre due to its complexity and internal articulations. In fact, we can distinguish the following groups: 6h and productive update of archaic majolica, useful in order to extend its development towards a more traditional market from the first years of the 1500’s (period from which the last tri-colour archaic bowls from the “washhouse well” belonged). From a customary point of view we must observe how this genre is divided into two different categories. The first one is comprised of border plant-like motifs characterised by a band of small leaves in green or alternated in green and orange along the inside wall of the handcrafts. Woven parts that form a sort of reticulum in brown manganese can separate the central motifs, also characterised 7. POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO by stylised floral images. The second category consists of majolica with a simple decor, based on the classic plant-like motif of the cross in the centre, connected to four leaves embedded in the empty spaces: it is easy to recognise the evolution of the archaic majolica classic motif destined to decorate open models. In the models with the short wall this composition is characterised by alternating green and brown vertical segments. The walls are almost always painted in green and orange bands. OVALS WITH RADIUSES STYLISED VINE LEAVES CLOVES OR DAFFODILS PLANT-LIKE CURLYICUE VERTICAL STYLISED LEAVES DIVIDED HORIZONTAL LEAVES STYLISED PLANT-LIKE TUFTS As we can see, there are many different decorative criteria that often have common details. This is also because they were made in the same factories and by the same painters who moved further and 7b POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO 6h. Three-colour Archaic Majolica, Large 7c 7c. Damaschino policromo, Boccale vegetale, 1480-90, h cm. 19,3 7d. Damaschino policromo, Boccale con decoro vegetale, 1480-90, h. cm. 19,5 Ovali raggiati In questa partizione del damaschino policromo dobbiamo inserire gran parte della pittura su forma chiusa del terzo quarto del XV secolo: si tratta quindi di un gruppo di fondamentale importanza – sotto il profilo quantitativo e qualitativo – nello sviluppo della maiolica montelupina. L’imponente restituzione che ne caratterizza la presenza all’interno degli scarichi di fornace di questo periodo costituisce non soltanto una chiara testimonianza del grande sviluppo realizzato dalla produzione locale, ma anche una prova altrettanto evidente della tendenza alla standardizzazione del prodotto che in quel lasso di tempo va determinandosi. La definizione di “ovali raggiati” viene assegnata a questo gruppo in ragione dell’evoluzione formale che contraddistingue lo schema decorativo che gli è proprio, e che è sempre e costantemente iterato come canone rigido ed invariabile. Ricordando che questa decorazione riguarda unicamente le forme chiuse, ed in particolare i boccali, possiamo affermare che essa consiste essenzialmente in una rigorosa separazione delle parti laterali del manufatto dal suo lato anteriore. Così, mentre sui fianchi si distendono fasce caratterizzate da semplici motivi di riempimento, sulla faccia in vista si delinea un ovale, che, dopo esser stato impreziosito da una sorta di raggiatura espansa verso l’esterno, è sottolineato da pennellate in verde, giallo ed arancio. In tal modo si realizza una precisa gerarchia tra le diverse componenti della decorazione, che più non tollera, quindi, quella commistione tra figurazioni o motivi principali ed elementi di contorno che, invece, caratterizzava le precedenti fasi del damaschino e degli altri generi realizzati dai vasai montelupini. Negli ovali collocati sulla faccia a vista dei boccali compaiono così, isolati dal resto della decorazione, soprattutto motivi vegetali, ma anche figure zoomorfe ed antropomorfe; non sono rare, poi, le rappresentazioni araldiche. Si nota anche in questo gruppo del damaschino policromo l’apparizione di un fiore dai lunghi petali carnosi aperti, nel quale è facile riconoscere il motivo della floreale, sulla cui rappresentazione in senso invasivo su forma aperta verrà costruito un vero e proprio genere, destinato ad un lungo successo, del quale tratteremo poco oltre. 7e Foglia di vite stilizzata Questo decoro consiste in una teoria di foglie disposte in senso verticale sulla tesa e nella parete interna delle 7e. Damaschino policromo, Boccale con sigillo mercantile, 1480-90, h cm.15.8 7f. Damaschino policromo, Boccale con decoro vegetale, 1480-90, h cm. 23,8 EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO perché eseguiti nelle medesime botteghe e dagli stessi pittori, i quali vanno sempre allontanandosi dagli schemi del passato, perseguendo un rinnovamento produttivo che sarà pienamente raggiunto di lì a poco tempo, nel corso degli anni Ottanta. 235 234 POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO 7d. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h. cm. 19,5 7d further away from the models of the past to reach a productive rejuvenation. This occurrence dates back to the 1480’s. Ovals with radiuses In this category of polychrome damaschino, we must insert most of the painting on closed models of the end of the 15th century: It is a fundamental group (both for the quantity and the quality) for the development of Montelupo ceramics. The large number of findings in the kiln’s residues gives a clear documentation of the great development of the local production. This also proves the tendency to standardise the product in that period. The definition “oval with radiuses” is assigned to this group because of the formal evolution that characterises its decorative model. This decoration is related uniquely to closed models, especially jugs. It essentially consists in a separation of the side parts from the front. While on the sides there are bands characterised by simple filling motifs, on the front there is an oval that, after being enriched by the presence of a radius towards the outside, is underlined by green, yellow and orange strokes. The result is a precise hierarchy among the different components of the decoration that no longer tolerates the mixture of main figures and motifs and bor- der elements that characterised the other phases of damaschino and the other genres created in Montelupo. The ovals on the front of the jugs are isolated from the rest of the decoration and are characterised by plant-like, animal, human and heraldic motifs. In this group we can also find flowers with long open petals and on this type of representation a new genre, destined to success, will be built. 7e. Polychrome Damaschino, Jug with merchant class seal, 1480-90, h cm.15.8 7f. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h cm. 23,8 Stylised vine leaves Montelupo products to the Spanish prototypes are underlined by the internal veins of the leaves, here suggested thanks to the “graffitura” of the pigment (common technique in this period) and the alternation of blue and manganese, in the reddest tone of this pigment, usually indicated with the term “porpora” (crimson). Plant-like curlicue The research of decorative motifs capable of renewing the ones deriving from the traditional painting on ceramics pushes the craft makers of Montelupo towards innovations with many productive difficulties and an ephemeral life in the local production. This phenomenon starts in the early 1490’s. In this era the Montelupo factories, after completing the 7f POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO 7c. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h cm. 19,3 7g Girali vegetali La ricerca di motivi decorativi in grado di innovare quelli offerti dalla tradizione secolare della pittura su maiolica spinge palesemente i ceramisti di Montelupo verso innovazioni che presentano non poche difficoltà di realizzazione e che, come tali, avranno una vita effimera nella produzione locale. Questo fenomeno, come vedremo, si mostra sino all’inizio dell’ultimo decennio del Quattrocento, epoca in cui le botteghe montelupine, completato il ciclo di trasformazione dei loro standards formali, si esprimeranno in base ad una serie relativamente ristretta, ma ormai codificata, di generi. Il ricorso a decorazioni complesse, incentrate sulla rappresentazione stilizzata di figurazioni vegetali in stilizzazione, si nota appunto in una serie di maioliche – per lo più piatti scodelliformi –sui quali sono dipinti tralci vegetali sinuosi. Si tratta di decori assai invasivi, che saturano completamente i supporti, e che consistono in girali dai quali si originano minuscole foglie dipinte di blu, alle quali si alternano dei tratti ad esse parallele in bruno di manganese, e che di norma terminano con un fiore lumeggiato di giallo. Foglie stilizzate verticali In questo gruppo può sostanzialmente individuarsi una 7g. Damaschino policromo (foglia di vite), Scodella con figura di alchimista, 7l. Damaschino policromo (foglie verticali), Scodella con decoro geometrico, 1450-60, Ø cm.34,0 1480-90, Ø cm. 21,4 7h. Damaschino policromo (girali vegetali), Piatto con decoro invasivo, 7m. Damaschino policromo (foglie verticali), Scodella con decoro geometrico, 1480-90, Ø cm.28,0 1480-90, Ø cm.35,0 7i. Damaschino policromo (girali vegetali), Scodella con decoro vegetale, 7n. Damaschino policromo (foglie partite), Scodellone con figura di cinghiale, 1480-90, Ø cm.30,0 1480-90, Ø cm.36,0 7l 237 236 7g. Polychrome Damaschino (Stylised wine leaf), Bowl with necromancer figure, 7l. Polychrome Damaschino, (Vertical leaves), Bowl with geometrical decor, 1450-60, Ø cm.34,0 1480-90, Ø cm. 21,4 7h. Polychrome Damaschino (Plant-like curlyicue), Plate with invasive decor, 7m. Polychrome Damaschino, (Vertical leaves), Bowl with geometrical decor, 1480-90, Ø cm.28,0 1480-90, Ø cm.35,0 7i. Polychrome Damaschino, (Plant-like curlyicue), Plate with invasive decor, 7n. Polychrome Damaschino (divided leaves), Large bowl with boar, 1480-90, Ø cm.30,0 1480-90, Ø cm.36,0 7h 7m transformation cycle of their formal standards, express themselves through a restricted coded number of genres. The use of complex decorations, based on the stylised representation of plant-like figures can be found on a series of majolica (mostly on plates). They are quite evasive decors, that completely saturate the supports and that consist in curlicue from which tiny blue leaves originate. These leaves are alternated with parallel brown manganese lines that normally end with a yellow flower. 7i Vertical stylised leaves This group is a sort of stylisation of the one that preceded it (plant- like curlicue) and it is a kind of mixture of that style together with vine leaves. There is a border motif (in vertical sense on open models) that repeats the characteristics of the Valencia leaf (but with an accentuated stylisation). The plants of the curlicue category are reduced to simple segments and they assume a horizontal and parallel trend, that then becomes vertical on the rim; the blue strokes that suggested the plants’ stem is now alternated with brown manganese that usually has a cursive and winding trend. The geometrical image that results from the decoration is accentuated by the rigid geometrical division: radiuses obtained with bi-colour stripes (green and yellow or green and orange) that start from the external part of the circle that surrounds the central motifs, almost always consisting in a stylised floral corolla. These radiuses suggest the principle stem of the leaves, but its straight trend is enough to eliminate almost completely the reference to the natural world. It also cuts the decoration on the wall into more sections, deleting any residual natural significance. 7n POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO forme aperte, nelle quali è palese il riferimento alla foglia di vite della coeva produzione spagnola. La vicinanza di questi prodotti di Montelupo ai prototipi spagnoli è sottolineata dalle nervature interne delle foglie, qui suggerite attraverso l’artificio della graffitura del pigmento – una tecnica assai diffusa in questo periodo – ed all’alternanza che di norma si rileva della colorazione in blu e manganese, nella tonalità più rossastra di quest’ultimo pigmento, spesso indicata dai ceramologi con il termine di “porpora”. EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO 7o. Damaschino policromo (foglie partite), Scodellone con drago, 14 80-90, Ø cm. 36,6 7p. Damaschino policromo (foglie partite), Scodella con decoro vegetale, 14 Foglie partite orizzontali Si tratta di un gruppo che si pone come numericamente rilevante all’interno degli scarichi di fornace montelupini del terzo quarto del XV secolo. Esso si caratterizza per l’impiego di una foglia di tipo allungato (diversa, quindi, dalla stilizzazione della vite), che sembra tagliata per metà lungo la sua nervatura centrale, e viene dipinta sulla tesa delle forme aperte a contatto con la fascia di contorno del bordo. La teoria continua delle foglie, accostate le une alle altre, è tale da saturare quasi completamente lo spazio: le parti che non sono occupate dallo sviluppo di questo motivo sono poi riempite da raggiature che si indirizzano verso il centro dei manufatti, e che sono realizzate in blu di cobalto. Le nervature secondarie delle grandi foglie partite a metà vengono poi quasi sempre suggerite da profonde incisioni che fanno emergere il bianco dello smalto al disotto del colore con le quali esse 7q 7q. Damaschino policromo (foglie partite), Piatto con emblema dei Flagellanti, 1480-90, Ø cm. 21,0 7r. Damaschino policromo (foglie partite), Scodella con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 16,3 7s. Damaschino policromo atipico, Scodella con simbologia di San Bernardino (1480-90), Ø cm. 23,5 80-90, Ø cm. 26,5 EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO 7o sorta di stilizzazione del precedente, ed una specie di connubio del medesimo con quello a “foglie di vite”. In esso si nota il ricorso ad un motivo di contorno – sempre collocato sulla tesa delle forme aperte in senso verticale – che ripete la fisionomia della foglia valenciana, sottoponendola però ad un’accentuata stilizzazione. I tralci vegetali del genere precedente sono infatti ridotti a semplici segmenti ed assumono nel centro delle scodelle un andamento orizzontale e parallelo, che poi si fa verticale sulla tesa; alle pennellate in blu con le quali si suggerivano gli steli vegetali si alternano inoltre tratti in bruno di manganese, spesso dall’ andamento corsivo e serpeggiante. L’immagine geometrica della decorazione che ne risulta è inoltre accentuata dalla rigida partizione dell’insieme: una sorta di raggi ottenuti con strisce bicolori (in verde e giallo o verde ed arancio) si dipartono infatti dalla cerchiatura che stringe i motivi centrali, quasi sempre consistenti in una corolla floreale stilizzata. Questa specie di raggiatura vuol dunque suggerire lo stelo principale delle foglie, ma il suo andamento rettilineo, ben diverso da quello sinuoso del gruppo precedente, è tale da cancellare quasi del tutto il riferimento al mondo vegetale; essa, per di più, taglia in diversi settori la decorazione che si stende sulla parete, togliendo alla medesima ogni residuo significato naturalistico. 239 238 POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO 1480-90, Ø cm. 36,6 7p. Polychrome Damaschino (divided leaves), Large bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 26,5 7p Divided horizontal leaves This group is numerically relevant amongst the kiln residues of Montelupo of the end of the 15th century. It is characterised by the use of a long leaf (different from the vine stylisation) that seems cut in half along its central vein and is painted on the rims of the open models in contact with the border band. The leaves are all one next to the other and they almost completely saturate the space: the parts that are not occupied by the development of this motif is filled with radiuses that face the centre of the products and that are painted in blue cobalt. The secondary veins of the big leaves divided in half are almost always suggested thanks to profound incisions that causes the white lustre to emerge from beneath the coloured parts. These are usually brown manganese, but can sometimes be blue or made with two pigments (a clear influence of the Spanish use of two colours). We rarely find divided leaves that are completely painted. While the inner wall is characterised by a simple filling motif, almost always a plant-like stylisation, the centre of these majolica frequently present complex figures, with human and animal subjects, which are often greatly developed due to their dimensions. It is not rare to also find floral border decors. 7q. Polychrome Damaschino (divided leaves), Plate with symbol of Flagellanti (flayer), 1480-90, Ø cm. 21,0 7r. Polychrome Damaschino (divided leaves), Bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 16,3 7s. Polychrome Damaschino (divided leaves), Bowl with symbol of S. Bernardino, 1480-90, Ø cm. 23,5 7r Stylised plant-like tufts Even this decorative type contributes to the construction of the new formal season that characterises these years in Montelupo. Like the other groups, in fact, it does not only look for new motifs, but it also stylises and “normalises” the decor, based on the use of a sort of “tuft”. The composition that is based on the tuft is found only on the rim and it is alternated in brown and blue. It reaches a certain efficiency thanks to the inversion of the sense of the tufts that are sometimes facing the border and sometimes facing the centre. The result is a somewhat visual wave that creates a dynamic sensation. Apart from this stylised border, there are other plant-like motifs on the open models. In particular there are compositions with floral corollas surrounded by styles, used in great abundance in the decoration of bowls with cut walls. 7s POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO 7o. Polychrome Damaschino (divided leaves), Large bowl with dragon, Confinata nello spazio delle tese, la composizione che si basa sul “ciuffetto” consiste nell’alternanza di questi motivi dipinti in bruno ed in blu. La composizione perviene anche ad una certa efficacia, grazie all’artificio dell’inversione del senso dei “ciuffetti” medesimi, una volta indirizzati verso il bordo e successivamente piegati verso il centro, sino a formare una sorta di onda visiva che crea un’apprezzabile sensazione di dinamismo. A questo contorno assai stilizzato si uniscono nel centro delle forme aperte altri motivi di derivazione vegetale, ed in particolare composizioni con corolle floreali circondate da stami, impiegati in grande abbondanza anche nella decorazione delle ciotole a parete tagliata, delle quali tratteremo di seguito. Ciuffetti vegetali stilizzati Anche questa tipologia decorativa contribuisce con tutta evidenza alla costruzione di quella nuova stagione formale a cui si indirizzano in questi anni gli sforzi dei vasai di Montelupo. Come i gruppi precedenti, infatti, oltre a ricercare motivi inediti, si nota in essa un’evidente ricerca di stilizzazione e “normalizzazione” del decoro, incentrato sull’impiego di una specie di “ciuffetto” vegetale. 7t. Damaschino policromo atipico, Piatto con uccello, 1480-90, Ø cm. 27,2 8. FLOREALE ANTICA Il motivo della cosiddetta “floreale” che caratterizza questo genere consiste in un decoro fitomorfo composto da due foglie (o, piuttosto, da due petali), che si ripiegano su se stesse, facendo così spuntare un’infiorescenza dipinta in giallo od arancio. A differenza di molti storici della ceramica, i quali definiscono questo motivo “gotico” (floreale gotica), preferiamo attenerci ad un termine privo di questo aggettivo, avvicinandolo semmai ad alcune indicazioni temporali (antica, evoluta, tarda), che ci appaiono necessari ad indicarne il lungo percorso storico. Nella trattazione del genere dobbiamo tralasciare in questa sede la descrizione della variante in verde della medesima “floreale”, in quanto essa, pur relativamente abbondante, non offre al momento la possibilità della ricostruzione dei manufatti, anche se essi appartengono tutti alla forma dello scodellone apodo, più noto per i decori in “maiolica arcaica tricolore”, tanto che Galezzo Cora inserì questa versione della “floreale” nel suo corrispondente “Gruppo IV”. Il motivo fitomorfo che caratterizza il genere ebbe anche due ulteriori versioni, le quali si caratterizzano per la sostituzione del verde-ramina con l’ossido di cobalto: in questa variante cromatica, quindi, mentre da un lato il lungo petalo carnoso del fiore presenta, ripie- 8a 8a. Floreale antica, Scodella con decoro invasivo, 1480-90, Ø cm. 26,0 8b. Floreale antica, Fruttiera con decoro invasivo, 1470-90, Ø cm. 39,0 FLOREALE ANTICA EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO sono campite, di norma il bruno di manganese, ma che talora prevede l’uso del blu o l’alternanza dei due pigmenti come estrema citazione della caratteristica bicromia della produzione spagnola. Più raramente troviamo foglie partite dipinte. Mentre sulla parete interna si distende un semplice motivo di riempimento, quasi sempre consistente nella stilizzazione di una fronda vegetale, il centro delle maioliche che appartengono a questo gruppo mostra frequentemente figurazioni complesse, con soggetti zoomorfi ed antropomorfi, talora anche di notevole sviluppo, viste le dimensioni che caratterizzano alcuni scodelloni ad esso appartenenti. Non è raro incontrare anche con questo decoro di contorno il motivo centrale della “floreale”. 241 240 POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO 8. ANTIQUE FLORAL 8a. Antique floral, Bowl with invasive decor, 1480-90, Ø cm. 26,0 1480-90, Ø cm. 27,2 7t 8b. Antique floral, Fruit bowl with invasive decor, 1470-90, Ø cm. 39,0 The floral motif that characterises this genre consists in two leaves (or two petals) that fold over themselves. The result is a yellow or orange bloom. Most ceramic historians define this motif as gothic; however, we prefer a term that does not use this adjective so we tend to use indications to its long historic journey (antique, evolved, late). We cannot describe the green version of this category since at the moment it does not offer the possibility to reconstruct the handcrafts, even if they are all part of the tri-colour archaic majolica that Galeazzo Cora inserts in his “group IV”. The floral motif that characterises this genre also had two other versions, that are characterised by the substitution of green ramina with cobalt oxide: in this chromatic variation, while on one side the flower’s petal is in brown manganese, on the other side it is an intense blue. This pigment is frequently used at a pure state, that is without being mixed with lead oxide: however, when this happens there is a rising of the blue on the lustered surface that is noticed also in the zaffera blue (which is a lot thicker). Zaffera blue was only used in dots and particulars that had the scope to make the composition more vivacious. The developments of the late 1400’s 8b ANTIQUE FLORAL 7t. Atypical polychrome Damaschino, Plate with bird, FLOREALE ANTICA vamente rapida tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del XV secolo, e viene finalizzata all’applicazione su forma aperta; ciò non toglie che con relativa frequenza esso si ritrovi anche come soggetto principale nelle parti a vista di quelle chiuse, in particolare sui boccali del “damaschino policromo”. Si conoscono versioni invasive della floreale antica nelle quali il motivo viene sviluppato in particolari dimensioni per ricoprire l’intera superficie dei manufatti, ed altre nelle quali si riduce per formare una più modesta fascia di contorno; non è infrequente, infine, incontrare assieme al grande fiore aperto che la caratterizza anche il richiamo all’ “occhio della penna di pavone”, che però, sottolineando il significato vegetale della composizione, assume palesemente l’aspetto di un’infiorescenza. 9. CIOTOLE A BORDO TAGLIATO E SCODELLINI Nelle restituzioni di scavo degli scarichi di fornace di Montelupo che si datano alla seconda metà del XV secolo emerge con grande frequenza una forma speciale, la ciotola a calotta sferica su basso piede con la parete interna tagliata in senso confluente, la quale rappresenta per l’area fiorentina una delle forme-guida del periodo: si tratta di contenitori dal molteplice uso, destinati soprattutto alle pietanze di contorno. Per essa è stata proposta una definizione come “tipo Bacchereto”, davvero impropria se si pensa alla diffusione della medesima, in epoca certamente coeva, in primo luogo all’interno delle fornaci montelupine e fiorentine, ma anche, con ogni probabilità, pratesi e pistoiesi. È inoltre necessario osservare che le restituzioni del “pozzo dei lavatoi” (alcune centinaia di manufatti rico- 9a 9a. Ciotole a bordo tagliato, Ciotola con decoro vegetale, 1480-1500, Ø cm. 19,0 8c. Floreale antica, Scodella con figura maschile, 9b. Ciotole a bordo tagliato, Ciotola con decoro vegetale, 1480-1500, Ø cm. 19,5 1480-90, Ø cm. 21,8 9c. Ciotole a bordo tagliato, Ciotola con decoro geometrico, 1470-90, Ø cm. 13,2 CIOTOLE A BORDO TAGLIATO E SCODELLINI gandosi su se stessa, una campitura in bruno di manganese, l’altro mostra una colorazione in blu intenso. Questo pigmento è utilizzato con maggiore frequenza allo stato puro, cioè senza mescolarlo con l’ossido di piombo: quando però questo avviene, si realizza quel rialzamento del colore blu sulla superficie smaltata che (per spessori assai maggiori) è stato notato anche nella “zaffera”. Dovendo riempire uno spazio pittorico ben definito, è però comprensibile come i vasai tendessero ad inserire la “zaffera” solo in puntinature e su particolari destinati a vivacizzare la composizione incentrata sulla “floreale”. Gli sviluppi tardo-quattrocenteschi prevedono poi l’utilizzazione dell’idrossido di cobalto allo stato puro che, a seconda della sua diluizione, produce, senza accrescersi sulla superficie, toni di azzurro più o meno intenso. L’elaborazione del decoro avviene in maniera relati- 243 8c. Antique floral, Bowl with man, 1480-90, 9a. Basins with cut borders, Basin with plant-like decor, 1480-1500, Ø cm. 19,0 Ø cm. 21,8 9b. Basins with cut borders, Basin with plant-like decor, 1480-1500, Ø cm. 19,5 9c. Basins with cut borders, Basin with plant-like decor, 1480-1500, Ø cm. 13,2 9b 9. BASINS WITH CUT BORDERS AND SMALL BOWLS 8c are characterised also by using cobalt hydroxide at a pure state that, based on its dilution, produces less or more intense blue tones. The enrichment of the decor occurs in a relatively abrupt manner between the 70’s and 80’s of the 15th century and is eventuated in the usage on open models. However, it can also be found with relative frequency as the main subject of the visible parts of closed models, in particular on the “poly- chrome damaschino” jugs. There are invasive versions of antique floral, in which the motif is developed in big dimensions to cover the whole surface of the creation and others in which the dimension is reduced to form a modest border band. It is also not infrequent to find, with the big open flower, the “eye of the peacock’s feather”, that captures the appearance of a blooming. In the dig findings of the Montelupo furnaces that date from the second half of the 15th century, we find with great frequency a special model: a basin with a spherical cap on a low base and with the inside wall cut in a flowing sense. This represents one of the main models of the period: it is a container with multiple uses destined mostly for vegetable dishes. One of the first definitions for this model is “Bacchereto type”; this is very improper if we think of the development of this type all over Montelupo, Florence, and probably Prato and Pistoia. We must also observe that the findings of the “washhouse well” (a couple hundred handcrafts) extend themselves from the 70’s of the 1400’s until the first years of the following century. This allows 9c BASINS WITH CUT BORDERS AND SMALL BOWLS ANTIQUE FLORAL 242 biati per sigle di bottega – sembrano richiamare alcune tipologie del lustro metallico valenciano: la corsività che contraddistingue questa produzione emerge comunque in tutti i suoi aspetti formali. Tra i decori centrali, oltre alla rappresentazione stilizzata di corolle floreali attorniate da stami, che già abbiamo incontrato nei ciuffetti vegetali – e che qui si complica in una molteplicità di variazioni – si evidenzia un motivo costituito da semplici motivi serpeggianti, ristretti in un’ampia cerchiatura centrale, e talvolta realizzati con tratti di giallo e d’arancio. A queste ciotole si affiancano, per il ruolo di complemento vascolare che veniva loro attribuito nell’arredo della mensa, nonché per palese vicinanza decorativa, scodellini dalla dimensioni assai ridotte, che potrebbero dirsi quasi miniaturistici. In questo caso siamo di fronte a piccole saliere o contenitori per le salse. La fabbricazione di questi scodellini, sottoposta a criteri di larga serialità, mostra una foggiatura che non sfruttava il piano del “tagliere” (la parte superiore del tornio del vasaio), bensì la massa d’argilla collocata sul medesimo, dalla cui sommità essi venivano tratti in rapida successione. La tecnica – evidenziata dalla pressione dell’indice, lasciata sul pezzo fresco dal vasaio, allorquando lo ha compresso per livellarne il piede – non è di nuova introduzione, poiché è già attestata nel secolo precedente. La decorazione degli scodellini denota un semplice riempimento barrato in blu sulla tesa, che risulta diviso in quattro o più settori. Nel centro campeggiano composizioni stilizzate di vario richiamo fitomorfo, tra cui una sorta di cespuglio o mazzetto attorniato dai soliti “stami”, ove si palesa con più evidenza il richiamo all’aspetto formale delle ciotole a parete tagliata. 9d. Scodellini, Scodellino con decoro vegetale, 1470-90, Ø cm. 12,0 10. LUSTRO METALLICO Le prove di una produzione di maioliche a lustro metallico in Montelupo vanno moltiplicandosi dopo che, nel 1979, era stato rinvenuto il primo frammento inseribile – per le caratteristiche dell’impasto, assai diverso da quello spagnolo – nelle attività delle fornaci locali. La sporadicità del ritrovamento impediva però qualsiasi collocazione tipo-cronologica del reperto, tanto che il medesimo poteva essere interpretato come residuo di un manufatto importato da altri centri italiani, o magari giunto nella cittadina valdarnese da Firenze o da Cafaggiolo, dato che per quest’ultima era nota da tempo una produzione “a lustro” databile all’inizio del Cinquecento. Da allora, però, le testimonianze si sono moltiplicate, anche se non hanno ancora offerto la possibilità di ricostruire un singolo manufatto. Dal deposito archeologico del “pozzo dei lavatoi”, in associazione con un frammento datato “1474”, è soprattutto emersa una piccola scodella, nella quale un decoro “a foglia di prezzemolo” si unisce con parti in lustro di colore rossorubino. La restituzione, provenendo da un contesto sigillato e, per di più, databile, veniva così ad indicare in maniera inequivocabile l’esistenza di questo genere di produzione a Montelupo, riportandola per di più ad un’epoca assai antica. LUSTRO METALLICO CIOTOLE A BORDO TAGLIATO E SCODELLINI struibili), estendendosi dagli anni Settanta del Quattrocento ai primi lustri del secolo successivo, permettono di seguirne la fase finale della produzione, ed attestano che essa, oltre a protrarsi assai più avanti nel tempo rispetto al periodo entro il quale comunemente la si data, non fu soggetta a variazioni di dettaglio ed “estenuazioni” decorative tali da potersi facilmente percepire. Sotto il profilo decorativo, occorre in primo luogo precisare che i motivi riportati sulla parete esterna delle ciotole – una serie di segmenti paralleli, ad andamento crescente e decrescente, come a suggerire una sorta do ondulazione, intervallati da segni grafici, spesso scam- 245 244 BASINS WITH CUT BORDERS AND SMALL BOWLS plant-like decor, 1470-90, Ø cm. 12,0 9d us to follow the final phase of the production and it proves that not only its production lasts longer than what is commonly said, but it was also subjected to detailed variations and easily perceptible decorative extenuation. From a decorative point of view we must first state that the motifs on the exterior wall of the basins (a series of parallel segments with rising and decreasing trends that suggest a sort of wave, alternated with graphic signs that can usually be linked to the factory symbols) look like typologies of the Valencia metallic lustre. One formal aspect of this production is the cursive. Among the central decors, apart from the stylised representation of floral corollas with stems (that are more complicated than the ones in the plant-like tufts) there is also a motif characterised by simple weaving symbols surrounded by big circles and sometimes made with yellow and orange. Apart from these basins there are bowls that are characterised by extremely small dimensions that we could almost define as miniature objects. They are small salt shakers or sauce cups. The production of these little bowls, characterised by large serial criteria, shows a FOGGIATURA that did not completely exploit the base of the upper part of the potter’s wheel, but the mass of clay on it, from the top of which they were made in rapid succession. The technique is not new since it had already been used in the passed century. The decoration of these small bowls is characterised by a simple blue filling on the rim that is divided in four or more sections. In the centre there are various floral stylised compositions, for example a bush or stems, where the influence of the formal aspect of basins with cut borders is clear. 10. METALLIC LUSTRE The confirmation of this production in Montelupo became more evident when, in 1979 a small fragment that could be documented in the activity of the local furnaces was found (the characteristics of its mixture was very different from the Spanish ones). The rarity of the findings, however, made it impossible to insert chronologically in any period. Therefore it could have been interpreted both as an imported craft from other Italian centres or as a craft that arrived from Florence or Cafaggiolo (this town had been famous for its lustre production since the beginning of the 1500’s). From then, however, the findings have multiplied, even if they still have not guaranteed the possibility to re-build an entire craft. From the archaeological deposit of the “washhouse well”, and from the fragment dated 1474, we mostly find a small bowl with a parsley leaf connected to red ruby lustre. The last finding showed in a clear way the existence of this production genre in Montelupo, dating it to a much older era. The historic debate on the use of the metallic lustre technique, obtained both in the usual way (in the second baking) and “at third firing”, in fact divided for a long time the opinions of potters. This METALLIC LUSTRE 9d. Small bowls, Small bowl with intendendo con questo termine Maiorca, e quindi la Spagna – da un fiorentino richo mercante”. La testimonianza del Ricettario Marmi non soltanto ribadisce (definitivamente, ci pare) l’esattezza dell’ipotesi del Passeri circa la diffusione del lustro sin dalla seconda metà del Quattrocento nei maggiori centri di fabbrica italiani, ma individua i canali propri di tale diffusione, che nella fattispecie consistono nell’attività dei mercanti, e nella loro presenza all’interno delle diverse piazze commerciali europee. Il coinvolgimento economico del capitale fiorentino nelle imprese ceramiche di Montelupo, ben attestata dal documento notarile 10. Lustro metallico, Scodellino con decoro vegetale, 1470-80, Metallic lustre del 1490 noto come “trust Antinori”, spiega infine l’interesse che il ceto mercantile nutriva nei confronti della fabbricazione della maiolica. Resta tuttavia da comprendere le motivazioni per le quali, nonostante la tecnica fosse nota, le fornaci di Montelupo non abbiano dato vita a quell’apprezzabile produzione “a lustro” che indubbiamente non vi fu, visto che i ritrovamenti archeologici ci hanno sin qui consegnato solo una modesta quantità di frammenti ad essa riferibili. La spiegazione che possiamo avanzare per questo fenomeno non è tuttavia così improbabile come, in ordine al prestigio di cui le maioliche lustrate godevano nella seconda metà del XV secolo, può astrattamente sembrare. Nel momento in cui la tecnica del lustro metallico si diffonde, infatti, le botteghe montelupine hanno già iniziato un percorso che le conduce in una direzione sostanzialmente opposta a quella che da lungo tempo, sulla scorta della grande tradizione islamica, è stata intrapresa dai centri di fabbrica del Levante spagnolo. Mentre i vasai spagnoli resteranno a lungo prigionieri di questa tradizione, incentrata sul decorativismo e sulla bicromia lustro-blu cobalto, Montelupo ricerca ormai la policromia e la rappresentazione realistica dei soggetti, perché, come abbiamo visto, risente profondamente del clima culturale rinascimentale. Firenze, infatti, non soltanto si trova a poca distanza dal centro valdarnese, ma in quella città, che rappresenta parte importante del suo mercato, risiedono i mercanti che finanziano le imprese montelupine. È dunque nella tendenza, sempre più accentuata sul finire del Quattrocento, ad accogliere le novità rinascimentali, che dobbiamo ricercare le motivazioni della “marginalità” con la quale fu praticata la tecnica del lustro metallico in Montelupo: anche la fabbricazione del lustro in Cafaggiolo (effettuata, non bisogna dimenticarlo, in una fornace gestita da vasai montelupini), si colloca in posizione secondaria rispetto alla pittura policroma su maiolica. Non per caso, del resto, la ripresa – così la dobbiamo chiamare – di questa tecnica nel XVI secolo si lega all’attività di un ceramista, mastro Giorgio da Gubbio, che non si esplica in una produzione specifica, ma si rivolge piuttosto a rifinire ed impreziosire le maioliche istoriate. Detto questo, occorre precisare anche che la tecnica del lustro continuò in Montelupo, sempre con le medesime caratteristiche di marginalità, nel corso del Cinquecento, come dimostrano altri, numerosi frammenti di scavo riferibili a questa epoca, e come attesta infine la scodella della collezione Lehman dipinta in “lustro” dorato, in perfetto stile montelupino – con un “paesino” centrale di tipo compendiario – e con un’inequivocabile marca di fabbrica inserita al rovescio. LUSTRO METALLICO RICORRENTE ITALIANO Il dibattito storiografico sull’impiego della tecnica del lustro metallico, ottenuto sia nella maniera usuale (cioè nella seconda cottura), che “a terzo fuoco”, ha infatti diviso a lungo le opinioni dei ceramologi, sin da quando, nel XVIII secolo, Giovanbattista Passeri aveva dichiarato che in Pesaro la si praticava sin dagli anni Settanta del Quattrocento. Pochi però hanno sostenuto la tesi dello storico marchigiano, che adesso il documento montelupino viene autorevolmente ad attestare. E questo non è tutto. In un ricettario ceramico compilato in Montelupo negli anni Sessanta del XV secolo, e poi trascritto nei Segreti di fornace di Dionigi Marmi, si trovano infatti ben descritti due procedimenti per ottenere il “dorato da maiolicha”, ed in calce ad uno di questi si afferma: “venuta la ricetta di là proprio – cioè da maiolica, 247 10 lasted until the 18th century when Giovanbattista Passeri declared that the technique had been used in Pesaro since the 1470’s. Not many, however, agreed with this argument, that now the Montelupo document confirms with authority. This is not all. In this ceramic collection documented in Montelupo in the 1460’s, and then written in the “Kiln Secrets” by Dionigi Marmi, we can find two techniques that obtain the “gold from ceramics”. There is the following affirmation: “the recipe came exactly from there, from a rich Florentine merchant”. The “there” indicates Maiorca. The Marmi collection not only proves that Passeri’s theory was correct, but it also shows how this development happened. It consisted in the activity of merchants and 10. Small bowl with plant-like decor, 1470-80 their presence in the different European commercial centres. The economic involvement of the Tuscan capitol in Montelupo’s ceramic factories, clearly documented in the “Antinori trust” of 1490, explains the interest that the merchant class had towards ceramic production. However, we still do not understand why, even if the technique was known, the Montelupo furnaces did not give great importance to lustre productions. We are sure of this because the archaeological findings have, until now, given us a modest quantity of fragments. The explanation that we can try to give to this phenomenon is not as improbable, considering the prestige of lustre majolica in the second half the 15th century, as it can appear. In the moment in which this technique developed, in fact, the Montelupo factories had already started on a path that brought them towards an opposite direction compared to the Spanish factories that were influence by the great Islamic traditions. While the Spanish vase makers will stay prisoners of this tradition, based on the importance of decorations and the use of blue cobalt lustre, Montelupo looks for polychrome decorations and realistic representations of subjects. This is because, as we saw, there is a profound influence of the Renaissance cultural climate. Florence is not only at a short distance, but it is also the home of the merchants that financed the Montelupo enterprises. The main tendency is to welcome the Renaissance changes and this explains the rarity of use of the metallic lustre technique in Montelupo: even the lustre production in Cafaggiolo (a kiln that was managed by Montelupo vase makers) is in a secondary position compared to polychrome painting on ceramics. The new use of this technique in the 16th century is linked to the activity of a ceramist, Giorgio da Gubbio, who does not concentrate on a spe- cific production but prefers to enrich “istoriato” style ceramics. We must specify that the lustre technique continued in Montelupo, still in a marginal way, throughout the 1500’s, as proved by many other dig fragments. An example is a bowl of the Lehman collection, painted in golden lustre, in perfect Montelupo style (with a representation of a small town in the centre) and with an un-mistakable factory brand on the back). METALLIC LUSTRE METALLIC LUSTRE 246 11. MAIOLICHE “AL BLU ROBBIANO” Capita sovente di imbattersi in studi di storia della ceramica dai quali non emerge con sufficiente chiarezza la distinzione tra due generi di maioliche la cui superficie smaltata presenta una colorazione in azzurro dalle diverse tonalità od in grigio-azzurro. Occorre precisare in questi casi che la definizione di “smalto berettino” attiene con maggior precisione alle seconde, e riguarda i prodotti cinquecenteschi. Nel corso della seconda metà del XV secolo, invece, MAIOLICHE AL BLU ROBBIANO 11. Blu robbiano, Frammenti di forme aperte e chiuse, 1480-1510 si nota in Montelupo l’avvio di una produzione con smalto colorato di blu intenso, che abbiamo definito “al blu robbiano”, pensando che essa dipenda in qualche modo dalle coeve maioliche dei Della Robbia, visto che in esse si comprendono anche i ben noti vasi biansati, caratterizzati da questa cromia. Le fornaci montelupine impiegano tra Quattro e Cinquecento un tal genere di smalto colorato di blu per rivestire piccoli manufatti, spesso realizzati con appendici rifinite; si tratta di una produzione marginale, tanto che non è possibile seguirne, attraverso le restituzioni di scavo, lo sviluppo formale. Pur non potendo ricostruire i manufatti che in esso si inseriscono, è possibile comprendere come si tratti di oggetti destinati al complemento della tavola, quali piccoli versatoi e saliere. BLUE “ROBBIANO” MAJOLICA 248 11 11. Blue “robbiano”, Fragments of open and closed models, 1480-1510 11. BLUE “ROBBIANO” MAJOLICA Sometimes in the studies of ceramic history it is hard to distinguish clearly between two majolica genres with a blue lustered surface that can be characterised by different tones or grey-blue. In these cases the definition of “Berettino” lustre refers to the second type and includes the products of the 1500’s. During the second half of the 15th century, a production in intense blue lustre was found in Montelupo and we defined it as “blue Robbiano”, think- ing that it depended on the majolica of the Della Robbia family, since these also included the two handled vases characterised by this colour. The Montelupo furnaces used this type of lustre between the 1400’s and the 1500’s to cover small handwork; it is a marginal product and for this reason the formal development cannot be traced through the findings. We can, however, affirm that they include objects destined to the completion of the table, such as small salt shakers. 12. INGOBBIATE E GRAFFITE DEL PRIMO PERIODO INGOBBIATE E GRAFFITE DEL PRIMO PERIODO Nella produzione di ceramica ingobbiata e graffita di Montelupo si evidenziano, come vedremo, almeno tre fasi, la prima delle quali – quella iniziale – è caratterizzata nelle restituzioni di scavo da modeste quantità, che si fanno ancora meno significative se rapportate al continuo incremento della fabbricazione della maiolica che si nota in questo periodo. I primordi della graffita locale denotano l’uso generalizzato della tecnica di graffitura “a punta”, eseguita, cioè, con uno semplice attrezzo appuntito, mediante il quale si asporta l’ingobbio sino a scoprire il bistugio sottostante. I decori disegnati dalla graffitura sono poi dipinti in tricromia verde-bruno-arancio, e talvolta costituiscono la replica di motivi sviluppati anche nelle consimili lavorazioni emiliano-romagnole e venete; tra queste si notano le rosette che attorniato la figura umana, la citazione per stilizzazione dell’ortus conclusus, la coniglia gravida, il contorno con foglie. Nell’ultimo ventennio del XV secolo appaiono anche scodellini di piccole dimensioni, che portano al centro motivi vegetali assai stilizzati e semplici graffiture radiali sulla tesa: il tutto è vivacizzato dall’usuale tricromia, che mai si volge a realizzare qualche campitura. Questa linea “geometrizzante”, che sviluppa modalità corsive ben attestate nella graffita della Toscana (ma anche dell’Italia centrale e centro-settentrionale), trova in Montelupo esempi databili ancora alla metà circa del XVI secolo: si tratta di ciotole di medio-piccole o medie dimensioni, il cui centro è diviso in sei parti – così come avveniva nei più antichi scodellini – mediante l’incrocio di tre linee graffite. Il motivo vegetale che corre sulle pareti, quasi sempre una serie di foglie stilizzate, riconduce però più strettamente questa produzione nel novero delle coeve graffite a punta policrome di area fiorentina. L’arricchimento cromatico e decorativo dei primi anni del Cinquecento risalta con evidenza nei documenti archeologici rinvenuti nel “pozzo dei lavatoi”, i quali denotano anche una chiara propensione allo sviluppo di forme inedite (vassoi con tesa, grandi ciotole emisferiche, piatti e scodelle), peculiari a questo genere; si stabilisce, infine, la tendenza a realizzare esclusivamente forme aperte, rese più eleganti dalla rifinitura dei rovesci, che tuttavia non sono mai coperti – ad eccezione delle ciotole – né dall’invetriatura, né, tantomeno, dall’ingobbio. In parallelo a quanto avviene nella maiolica, anche queste graffite a punta policrome montelupine dell’inizio del XVI secolo perseguono una standardizzazione dei decori di contorno, realizzando motivi “a nastro”, “a ghirlanda” o “a corda francescana”. Nel centro cam- 249 In this period we can find at least three phases. The first one is characterised by a modest quantity of dig findings that become even less significant if compared to the continual increase of majolica production. The beginning of the local “graffita” shows a generalised use of the “sharpened” “graffitura”, executed with a simple sharpened tool which used to take away the protective covering until we reach the layer of the second firing. The designed decors are painted in green, brown and orange and sometimes are a replica of the motifs that developed in EmiliaRomagnia and Veneto. Some examples are the dotted circles that surround the human figure, the stylisation of the ortus conclusus, the pregnant rabbit, and the leafy border. In the last 20 years of the 15th century we also find small bowls, they are characterised by stylised plant-like motifs in the centre and simple radial “graffiture” on the rims: the decorations are vivacious thanks to the use of three colours. The tendency to use geometry, that develops cursive types in Tuscany’s “graffita” (but also in central Italy and in northern-central Italy), is characterised by the presence in Mon- telupo of objects dateable from half of the 16th century. There are medium- small or small bowls, whose centre is divided in six parts (like the older bowls) through the crossing of three “graffite” lines. The plant-like motif on the walls is almost always based on a series of stylised leaves and reconnects this production to the one of poly-chromed sharpened “graffite”of the Florence area. The decorative and chromatic enrichment of the first years of the 1500’s is clear in the archaeological findings from the “washhouse well”. These show a clear tendency towards the development of new models (platters with rims, big hemispherical bowls, plates and basins). There is the tendency to create only open models that become more elegant thanks to the refinishing of the bottoms. These are, however, never covered with a protective layer or with glass-like materials (except for the basins). Just like the majolica, even the polychromatic sharpened “graffite” of the beginning of the 16th century follow a standardisation of the border decors, creating motifs that are defined as “ribbon “, “wreath” or “Franciscan cord”. In the centre there are big flowers surrounded by leaves usually embedded in a knot with four loops, or figures of humans or animals. The use of green, brown and orange is characterised by intense tones that make these Montelupo majolica different from the other Tuscan products. COVERED AND “GRAFFITE” OF THE FIRST PERIOD 12. COVERED AND “GRAFFITE” OF THE FIRST PERIOD peggiano grandi fiori quadrilobi a cartoccio contornati da foglie, spesso inseriti nel nodo a quattro cappi o, più raramente, figure di uomini od animali. L’usuale tricromia in verde, bruno ed arancio viene costantemente osservata, e mostra tonalità marcate e decise, le quali differenziano queste ceramiche graffite di Montelupo da molti dei consimili prodotti toscani dell’epoca. 12a. Ingobbiata e graffita, Scodellino con decoro geometrico, 1460-80, Ø cm. 12 INGOBBIATE E GRAFFITE DEL PRIMO PERIODO 12b. Ingobbiata e graffita, Scodellone con decoro vegetale, 1500-15, Ø cm. 39 12c. Ingobbiata e graffita, Scodella con “nodo francescano”, 1490-1500, Ø cm.22,5 12d. Ingobbiata e graffita, Bacile con decoro vegetale, 1500-15 12a COVERED AND “GRAFFITE” OF THE FIRST PERIOD 250 12b 12c 12a. Covered and “graffita”, Small bowl with geometrical decor, 1460-80, Ø cm. 12 12b. Covered and “graffita”, Large bowl with plant-like decor, 1500-15, Ø cm. 39 12c. Covered and “graffita”, Bowl with Franciscan knot, 1490-1500, Ø cm.22,5 12d. Covered and “graffita”, Bowl with Franciscan knot, 1500-15 12d 13. INGOBBIATA E DIPINTA 13a 13a. Ingobbiata e dipinta, Piccolo bacile con motivo vegetale, 1490-1510, Ø cm. 23,8 13b. Ingobbiata e dipinta, Ciotola con motivo vegetale, 1490-1510, Ø cm. 14 INGOBBIATA E DIPINTA Si tratta di un genere secondario, che si affaccia con una serie di restituzioni numericamente assai modeste negli scarichi di fornace montelupini che si datano sul finire del XV secolo; le forme impiegate, inoltre sono ben poche – la ciotola a calotta sferica ed il catino troncoconico con la parte terminale della parete raddrizzata – e ciò sottolinea le caratteristiche “succedanee” di questi prodotti, nei quali chiaramente prevale l’intento di realizzare piccoli manufatti di basso pregio, nei quali l’ingobbio sostituisce il più costoso smalto stannifero nella copertura del bistugio, e che si pensano perciò destinati ad acquirenti di modeste pretese, ed in particolare a conventi ed ospedali. Le rapide decorazioni realizzate, sempre con la riduzione al minimo della tavolozza, mostrano inoltre di derivare dalla “maiolica arcaica” evoluta e tardiva, consistendo nella più classica ed usuale composizione fitomorfa, con le foglie divise in quattro gruppi disposte nel lato a vista. 251 COVERED AND PAINTED 13a. Covered and painted, Small washbasin with plant-like motif, 1490-1510, Ø cm. 23,8 13b. Covered and painted, Basin with plant-like motif, 1490-1510, Ø cm. 14 This is a secondary genre and there are a modest number of findings in the residues of the Montelupo furnaces that can be dated to the end of the 15th century. There are very few models used, such as the basin with a spherical cap and conic bowl with a straight wall, and this underlines secondary characteristics of these products. The intent is to create small handcrafts of low quality in which the protective covering substitutes the more expensive tin oxide lustre of the second firings’ sheath. Therefore we think that they were destined to modest buyers, especially to convents and hospitals. The rapid decorations show that they derive from the evolved and late archaic majolica, since they are characterised by the classic floral compositions with leaves divided in four groups on the front. 13b COVERED AND PAINTED 13. RICORRENTE ITALIANO 14. MONOCROMA BIANCA Anche in questo caso si tratta di una produzione di pregio modesto, ove però, a differenza della precedente, non si cerca di abbassare il costo di produzione sostituendo lo smalto con l’ingobbio, ma evitando piuttosto di decorare la maiolica: pur contraddistinti dallo smalto (spesso, tuttavia, di minore qualità), questi manufatti restano infatti nella monocromia bianca assicurata loro dalla copertura stannifera. Più che di un genere, quindi, si dovrebbe a rigore trattare la monocroma come una tipologia produttiva a parte, impiegata nella fabbricazione di oggetti smaltati ove il valore d’uso diviene esclusivo, prevalendo sulla qualità estetica: una semplice analisi morfologica è d’altra parte in grado di evidenziare questa caratteristica di fondo della maiolica monocroma (o, se vogliamo, priva di decorazione). Per quanto attiene i manufatti di natura vascolare, possiamo infatti riconoscere due gruppi distinti, che in vario modo denotano la loro peculiarità. Il 14a 14a. Maiolica monocroma, Bacile, 1500-10, Ø cm. 31 14b. Maiolica monocroma, Candeliere, 1520-30, Ø cm. 17,5 WHITE MONOCHROME 252 14. WHITE MONOCHROME 14a. White monochrome, Washbasin, 1500-10, Ø cm. 31 14b. White monochrome, Candleholder, 1520-30, Ø cm. 17,5 Even here the production is of low quality. However, it is different from the preceding group since here there is not a decrease in the cost of production by substituting the lustre with a protective covering but by avoiding the decoration of the ceramics. These handcrafts are in white monochrome thanks to the tin oxide sheath (however, the lustre is of lower quality). It is not really a genre, it is a productive type; it is used in lustered products where the use value is more important that the aesthetic quality. We can distinguish two groups that confirm the peculiarity of the category. The first, and more numerous, one consists of conic basins with straight walls that derive from archaic majolica and traditional products. The second one includes special models that are found only in this particular production. There are also products destined to illumination such as candleholders and lamps of various forms and 14b 15. IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO Si tratta di un genere che vuol riprodurre l’immagine delle maioliche a lustro metallico di derivazione spagnola attraverso l’impiego di un pigmento in arancio brillante: in tal modo, pur rapportandosi formalmente a questa produzione di prestigio, si evitava la terza cottura in atmosfera riducente (in assenza, cioè, di ossigeno), o la fabbricazione di colori complessi e dalla dubbia efficacia, in grado di virare già in seconda cottura verso il riflesso metallico. La messa a punto di questo pigmento, come si può constatare dagli esemplari di scavo, per la brillantezza ed il tono fulvo che lo contraddistingue, è altamente significativa del grande sviluppo tecnologico al quale approdarono i ceramisti di Montelupo negli anni Ottanta del XV secolo. Il genere che abbiamo definito come “imitazione del lustro metallico” si caratterizza anche per il ricorso ad un repertorio formale che non soltanto utilizza elementi tratti dalle maioliche provenienti dal Levante spagnolo, ed in particolare da quelle del grande centro di fabbrica di Manises, ma viene talvolta a riprodurne integralmente le tipologie decorative più diffuse. La stragrande maggioranza dei manufatti ad imitazione del lustro metallico consiste in forme aperte, la più parte delle quali sono munite di tesa, anche se con que- IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO primo – e più numeroso – di essi è formato essenzialmente da catini troncoconici con la porzione superiore della parete raddrizzata, dei quali più volte ci è occorso di trattare per evidenziarne la loro derivazione dalla “maiolica arcaica” ed il successivo impiego nelle produzioni “tradizionali”, mentre il secondo comprende forme speciali – quali piccoli tegami smaltati e versatori dall’inedita morfologia – che trovano riscontro solo in questa produzione “specializzata”. In maiolica monocroma sono infine realizzati i manufatti ceramici destinati all’illuminazione, come lucerne e candelieri di varia forma e dimensione. Pur affiancando già le prime produzioni in “maiolica arcaica”, la smaltatura priva di decoro va incontro ad un grande sviluppo in Montelupo solo verso la metà del XV secolo, per poi accompagnare sostanzialmente l’intero arco produttivo delle botteghe locali, anche se l’apice della sua fabbricazione coincide con il momento di maggiore sviluppo delle medesime periodo 14801530 circa. 253 15. METALLIC LUSTRE IMITATION This genre reproduces the image of metallic lustre majolica of Spanish origin using a bright orange pigment: in this way, even though it was formerly a prestigious production, they avoided the third firing in reducing atmosphere (that is in lack of oxygen), or the production of complex colours with doubtful efficiency. The use of this pigment, as we can tell by the brightness of the remains, proves the great technological development of the potters of the 1480’s. This genre is also characterised by using a formal repertoire that not only uses elements that come from Spanish majolica, and in particular the ones from Manises, that also integrally reproduces its most common decorative types. Most of these handcrafts are open models with brims, even though with this genre (and the Valencia vine leaf and parsley) we find the first flat plates: closed models are rarer and they only include olive oil cruets. Among the most used motifs, we indicate the border characterised by a branch on the rim of the bowls and the decorations divided into sectors that are mostly used, because of their formal characteristics, for plates. We also find the development of a motif that can be easily linked to the evolution of the “tree of life” of the Islamic culture. The Manises pot- METALLIC LUSTRE IMITATION dimensions. Even though this production was already present during the first phases of archaic majolica, it greatly develops in Montelupo only from the second half of the 15th century. It will be produced throughout the entire productive period of the Montelupo factories, even though the most important moments of its development goes from 1480 until 1530 ca. 15b IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO 15a 15a. Imitazione lustro metallico, Piatto geometrico, 1480-90, Ø cm. 21,3 15b. Imitazione lustro metallico, Piatto geometrico, 1480-90, Ø cm. 20,2 15c. Imitazione lustro metallico, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 34,7 15d. Imitazione lustro metallico, Scodella con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 20,8 15e. Imitazione lustro metallico, Piatto con stemma non identificato, 1480-90, Ø cm.34 METALLIC LUSTRE IMITATION 254 15a. Metallic lustre imitation, Geometrical plate, 1480-90, Ø cm.21,3 15b. Metallic lustre imitation, Geometrical plate, 1480-90, Ø cm. 20,2 15c. Metallic lustre imitation, Plate with plant-like decor , 1480-90, Ø cm. 34,7 15d. Metallic lustre imitation, Bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm.20,8 15e. Metallic lustre imitation, Plate with not identified stem , 1480-90, Ø cm. 34 15c 15d 15e sto genere (e con quelli coevi della foglia di vite valenciana e della foglia di prezzemolo) compaiono i primi piatti piani: assai più rare sono le forme chiuse, per di più ridotte a piccole oliere e versatoi da tavola. Tra i motivi maggiormente impiegati, segnaliamo il contorno realizzato con una sorta di tralcio vegetale, posto sulla tesa delle scodelle, ed un gruppo piuttosto variegato che mostra una decorazione divisa a settori che trova, in ragione delle sue caratteristiche formali, un maggior impiego nell’ornamento dei piatti. Importante, anche per la sottolineatura del rapporto tra questo genere ed i prototipi iberici ai quali si riferisce, è poi la diffusione nell’imitazione del lustro di un motivo nel 15g 15g. Imitazione lustro metallico, Piatto con figura d’uccello, 1480-90, Ø cm.34,7 15h. Imitazione lustro metallico, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 27 15f. Metallic lustre imitation, Plate with figurative decor, 1480-90, Ø cm.35 15h. Metallic lustre imitation, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 27 15f 15h 255 METALLIC LUSTRE IMITATION 15g. Metallic lustre imitation, Plate with bird, 1480-90, Ø cm.34,7 IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO 15f. Imitazione lustro metallico, Piatto con decoro figurato, 1480-90, Ø cm. 35 IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO quale è facile riconoscere la lontana evoluzione dell’ “albero della vita” di ascendenza islamica, che i ceramisti di Manises continuano a riprodurre, depurandolo ormai da ogni significato religioso, per tutto il Quattrocento. Nelle botteghe montelupine esso rispetta spesso questa morfologia tardiva spagnola, presentandosi con un contorno in arancio brillante, raggiato verso l’esterno, e con una campitura in giallo, puntinata di verde e riempita di archetti crescenti, tanto da assumere la fisionomia di una specie di pigna. La collocazione inquartata di questo motivo entro settori segnati in blu che si nota in alcuni manufatti di scavo riproduce letteralmente l’immagine delle corrispondenti maioliche a lustro valenciane. Alcuni dei generi che incontreremo successivamente, quali gli ovali e rombi, le cosiddette strisce policrome e le spirali, derivano palesemente da questo genere decorativo, dal quale si distaccano nel corso del processo di standardizzazione e semplificazione formale delle maggiori tipologie decorative che caratterizzerà la produzione montelupina dell’inizio del Cinqucento. 16. DECORO “ALLA FOGLIA VALENCIANA” ters continued to use this motif throughout the 1400’s, eliminating any type of religious significance. This late Spanish morphology is usually followed in the Montelupo factories, it is characterised by a bright orange border with radiuses facing the outside and yellow strokes dotted with green and filled by little arches that takes on the characteristics of a pine cone. The placing of this motif into sections divided by blue traces precisely copies the images of the Valencia lustre majolica. Some of the genres that we will analyse later on, such as ovals, rhombuses, polychrome stripes, and spirals, clearly derived from this decorative genre, from which they detach during the standardisation and formal simplification of the process of the major decorative types and the beginning of the 1500’s. 16. “VALENCIA LEAF” DECOR In questo genere si comprendono le maioliche di Montelupo che si rapporto ad una delle più diffuse tipologie decorative prodotte nei centri del Levante spagnolo, variamente interpretata come “foglia di vite”, oppure “foglia d’edera”. Qui l’imitazione del classico motivo ispanico perde ogni riferimento di carattere naturalistico, trasformandosi nel succedersi cadenzato di segmenti orizzontali dall’ampiezza decrescente, rapidamente dipinti in tratti, di norma paralleli, che finiscono per realizzare un soggetto di forma piramidale. Il legame con i prototipi valenciani, ed in particolare con quelli usciti dalle fornaci di Manises, ai quali il genere si ispira, non lo si ritrova perciò in una più o meno spiccata identità formale dei motivi, ma piuttosto nell’impostazione di tipo invasivo della composizione, comune ad entrambe, e nell’alternanza di blu ed arancio brillante – allusivo al lustro metallico – con il quale si intende riprodurre il cromatismo tipico della composizione iberica. Tra le stilizzazioni piramidali che vogliono suggerire la foglia, inoltre si nota l’apposizione di segni a “V” che vogliono suggerire i vilucchi che accompagnano i tralci vegetali (dell’edera o della vite). Anche questo decoro, come il successivo “a foglia di prezzemolo” si ritrova anche sulle forme chiuse, che METALLIC LUSTRE IMITATION 256 This genre includes the ceramics that are related to one of the most developed decorative types produced in the Spanish centres that can be interpreted as “vine leaf “or” ivy leaf. The imitation of the classic Hispanic motif loses every naturalistic reference, transforming into a succeeding of decreasing horizontal segments, normally parallel, painted quickly, that create a subject with a pyramid shape. The connection with the Valencia prototypes, and in particular the ones from the Manises furnaces, is not in the formal identity of motifs, but in an invasive setting of the composition and in the alternation of blue and bright orange. Among the pyramid stylisation’s that suggest the leaf, we can also notice the presence of “V” shaped signs that suggest the Vilucchi design of ivy or vines. This decor, just like the later “parsley leaf”, can also be found on closed models and they are usually covered differently from the open ones. The difference with the other typology is that it would be present for a long time in Montelupo, the later versions belonging, in fact, to the beginning of the 17th century. The use of blue and orange in “vine leaves” will also be present in “parsley leaves” that, however, 16a. Foglia valenciana, Boccale decoro invadente, 1480-90, h cm. 19 16b. Foglia valenciana, Piatto con simbolo di S. Bernrdino (HIS: Ihesus), 1480-90, Ø cm. 35 16c. Foglia valenciana, Piatto con figura d’uccello, 1480-90, Ø cm. 33,6 16d. Foglia valenciana, Piatto con stemma (simbolo detto “il volo”), 1480-90, Ø cm. 25,6 DECORO “ALLA FOGLIA VALENCIANA” 16b 257 16b. Valencia Leaf, Plate with symbol of S. Bernrdino (HIS: Ihesus), 1480-90, Ø cm. 35 16c. Valencia Leaf, Plate with bird, 1480-90, Ø cm. 33,6 16d. Valencia Leaf, Plate with stem (symbol “the flight”), 1480-90, Ø cm. 25,6 16c 16d “VALENCIA LEAF” DECOR 16a. Valencia Leaf, Jug with intrusive decor, 1480-90, h cm. 19 16a DECORO “ALLA FOGLIA VALENCIANA” di solito ricopre per intero, senza lasciare spazio, come invece avviene nelle aperte, a motivi racchiusi nelle cerchiature centrali; a differenza dell’altra tipologia, però, essa resterà per lungo tempo sui deschi dei pittori montelupini, tanto che ne incontreremo una versione tardiva ed “estenuata” ancora all’inizio del XVII secolo. Talora la funzione di elemento in bicromia blu-arancio assegnata alla “foglia di vite” viene esercitata dalla “foglia di prezzemolo”, che però, a differenza di quanto avviene nel genere principale che si sviluppa con il ricorso a questo motivo, assume l’aspetto di un lungo stelo posto a circondare le figurazioni principali delle forme aperte, realizzando così una composizione del tutto simile a quelle ottenute con il ricorso alla “foglia di vite”. 16e 16e. Foglia valenciana, Piatto figurato, 1480-90, Ø cm. 20,8 16f. Foglia valenciana, Piatto per Nannina de’ Medici (sorella di Lorenzo il Magnifico), 1480-90, Ø cm.35,5 258 “VALENCIA LEAF” DECOR 16e. Valencia Leaf, Plate with figurative decor, 1480-90, Ø cm. 20,8 16f. Valencia Leaf, Plate for Nannina de’ Medici (sister of Lorenzo il Magnifico), 1480-90, Ø cm. 35,5 16f will assume the aspect of a long stem surrounding the main figures of the open models. This composition is very similar to the one of the vine leaves. 17. FOGLIA DI PREZZEMOLO Da molto tempo è nota nella maiolica della fine del XV secolo l’imitazione della cosiddetta “foglia di prezzemolo” che caratterizza buona parte della coeva produzione della cittadina spagnola di Manises, che fu in sostanza, come Montelupo per Firenze, il centro di fabbrica di Valencia. Questo genere decorativo, concepito come l’insieme di minuscoli segni incrociati in blu cobalto, di forma simile all’asterisco, ma dall’andamento più curvilineo (nei quali, per l’appunto, si riconosce la stilizzazione della foglia di una particolare specie di prezzemolo, diffuso nel Levante spagnolo), accoppiati a settori corsivi in bruno di manganese – traduzione toscana degli inserti a FOGLIA DI PREZZEMOLO 17a. Foglia di prezzemolo, Boccale con leone rampante, 1480-90, h cm. 24,2 17b. Foglia di prezzemolo, Grande scodella con corona marchionale, 1480-90, Ø cm. 34,5 259 h cm 24,2 17a 17b. Parsley Leaf, Large bowl with marquis’s crown, 1480-90, Ø cm. 34,5 17. PARSLEY LEAF This imitation of the Spanish production of Manises, factory centre of Valencia, belongs to the end of the 15th century and has been known for a long time. This decorative genre was conceived as a group of tiny cobalt blue symbols with a shape similar to an asterisk. It has a wavier trend in which we can recognise the stylisation of a particular type of parsley leaf common in Spain. Along side are cursive sections in brown manganese (Tuscan version of the metallic lustre inserts) which represent one of the main types of vase production from 1480 to 1500 ca. Some simple PUNTINATURE in orange underline this link with the lustre. 17b PARSLEY LEAF 17a. Parsley Leaf, Jug with rampant lion, 1480-90, lustro metallico, uniti nei prototipi spagnoli all’elemento vegetale – rappresenta infatti una delle tipologie di spicco della produzione vascolare degli anni 1480-1500 circa. Alcune semplici puntinature in arancio intendono sottolineare, poi, la relazione con il lustro. La diffusione di questo decoro fu così ampia da coinvolgere in Toscana centri di fabbrica operanti in aree regionali diverse, come dimostrano, ad esempio, le 17c. Foglia di prezzemolo, Piatto figurato, 1480-90 , Ø cm. 35 17d. Foglia di prezzemolo, Grande scodella con l’iris di Firenze, 1490-1500, Ø cm. 36,7 17e. Foglia di prezzemolo, Alberello con decoro invadente, 1480-90, h cm. 19,7 17f. Foglia di prezzemolo, Grande scodella con leone rampante, 1480-90, Ø cm. 35,2 FOGLIA DI PREZZEMOLO 17c PARSLEY LEAF 260 17d 17e 17c. Parsley Leaf, Plate with figurative decor, 1480-90, Ø cm. 35 17d. Parsley Leaf, Large bowl with the Iris symbol of Florence, 1490-1500, Ø cm. 36,7 17e. Parsley Leaf, Spice holder with invasive decor, 1480-90, h cm. 19,7 17f. Parsley Leaf, Large bowl with rampant lion, 1480-90, Ø cm. 35,2 17f The diffusion of this decor was so large that it involved factory centres of different Tuscan areas, as demonstrated, for example, by the supplies in the hospital of Santa Fina in San Gimignano. It is probable that there are also versions of this genre in metallic lustre, however, they are not sufficiently documented since, for now, only a fragment in a private Florentine collection has been found. The decoration with the parsley leaf is invasive 18. DECORO “A FASCE” Sappiamo come gli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento abbiano rappresentato per i vasai di Montelupo un periodo di intensa sperimentazione, finalizzata alla codifica di originali tipologie decorative, per realizzare le quali ci si volgeva non soltanto alla “traduzione” di modelli formali esterni, ma si tentava anche l’elaborazione di inediti soggetti autoctoni. Il genere che definiamo “a fasce” fornisce uno dei casi più emblematici di tale ricerca, che si mostra particolarmente vivace all’inizio degli anni Ottanta del XV secolo: rapidamente introdotto nell’attività delle botteghe locali, esso si sviluppa come un coacervo di suggestioni diverse, tutte destinate a costruire nuovi elementi di contorno per le forme aperte, che, grazie all’introduzione del piatto individuale, si moltiplicavano nel lavoro dei ceramisti. Possiamo dunque suddividere questo genere in due gruppi, il primo dei quali, assai più numeroso, utilizza elementi di tipo geometrico, formati dall’incrocio di linee in blu ed arancio alternate. In tal modo si realizzano triangoli – riempiti talvolta da minuscole foglie a tre o quattro lobi – che, intrecciandosi, compongono fasce di losanghe, le quali vanno a disporsi sulla tesa e sulle pareti delle scodelle. Sovrapponendo più fasce, si ottengono interi settori DECORO “A FASCE” forniture realizzate per l’ospedale di Santa Fina di San Gimignano. È anche probabile che di questo genere vi siano anche versioni toscane a lustro metallico, ancora non sufficientemente documentate, in quanto un esemplare frammentario del medesimo è stato recentemente segnalato in una collezione privata fiorentina. Presentandosi sempre come invasiva di gran parte del supporto, la decorazione a foglia di prezzemolo si accoppia con motivi vegetali stilizzati, posti in piccole cerchiature centrali, ma anche con figurazioni zoomorfe ed antropomorfe, elementi araldici (anche l’iris simbolo di Firenze) e scritte. È da segnalare con questo decoro anche una tazza da “impagliata” (parte di un piccolo servito composto da due pezzi, utilizzato dalle puerpere per pranzare a letto) rinvenuta negli strati tardo-quattrocenteschi del “pozzo dei lavatoi”. La foglia di prezzemolo è impiegata anche nella decorazione delle forme chiuse, ove trova agio di diffondersi sui colletti e sulle parti laterali. I boccali che appartengono a questo genere mostrano spesso un ovale chiuso mediante una sorta di cerchiatura in arancio brillante, espansa verso l’esterno da numerosi motivi lanceolati, quasi in forma di petalo, che insiste su un’ampia fascia in blu. All’interno degli ovali si notano una molteplicità di figurazioni, alle quali si uniscono minute puntinature per saturare gli spazi che le attorniano. 261 18. DECOR WITH “BANDS” We know that the years from the end of the 1400’s until the beginning of the 1500’s represented an intense experimentation period for the vase makers of Montelupo. Their goal was to create original decorative types that were not a simple “translation” of formal external models, but an elaboration of new subjects. This genre is one of the more emblematic cases of this research. Its development is particularly vivacious in the 1480’s: it quickly develops as a collection of different suggestions, all destined to build new border elements of open models that, thanks to the introduction of the individual plate, multiplied the potters’ work. We can divide this genre into two groups. The first one is a lot more numerous and it uses geometrical elements formed by the weaving of blue and orange-alternated lines. The result is the formation of triangles (sometimes filled by small leaves) that composed bands with rhombuses on the rims and walls of the bowls. Overlapping these bands we obtain entire saturated sections of these schematic decorations. The second group has a similar setting, but it is created through the use of plant-like elements, such as small floral corollas or leaves stylised DECOR WITH “BANDS” of most parts of the base and it is next to stylised plant-like motifs in small central circles, human and animal figures, heraldic elements, writings and also the iris (the symbol of Florence). This decor was also found on a “impagliata” cup (part of a small service comprised of two pieces and used to eat in bed) found in the late 1400’s lair of the “washhouse well”. The parsley leaf was also used to decorate closed models, especially on the sides and the neck. The jugs that belong with this genre are usually characterised by an oval closed in a bright orange line and characterised by lines facing the outside forming a petal on a blue band. On the inside of the ovals there are many figures surrounded by tiny dots that saturate the spaces. 18a 18b DECORO “A FASCE” 18a. Decoro “a fasce”, Scodella con stemma (il “semivolo”), 1480-90, Ø cm. 28,5 18b. Decoro “a fasce”, Piatto con stemma non identificato, 1480-90, Ø cm. 21,5 18c. Decoro “a fasce”, Piatto con stemma partito, Buonagrazi o Di Buonagrazia-X, 1480-90, Ø cm. 20,8 18d. Decoro “a fasce”, Piatto con simbologia non identificata, 1480-90, Ø cm. 22 18e. Decoro “a fasce”, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 22,3 262 DECOR WITH “BANDS” 18a. Decor with “bands”, Bowl with stem (the “mid flight”), 1480-90, Ø cm. 28,5 18b. Decor with “bands”, Plate with not identified stem, 1480-90, Ø cm. 21,5 18c. Decor with “bands”, Plate with divided coat of arms, Buonagrazi or Di Buonagrazia-X, 1480-90, Ø cm. 20,8 18d. Decor with “bands”, Plate with not identified symbol, 1480-90, Ø cm. 22 18e. Decor with “bands”, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 22,3 18c 18d 18e saturi di queste decorazioni schematiche. Un secondo raggruppamento di questo genere mostra un’impostazione simile, realizzata però attraverso il ricorso ad elementi di derivazione vegetale, tra i quali spiccano minuscole corolle floreali o la foglia stilizzata mediante segmentature sovrapposte in senso decrescente, simili – ma di maggiori dimensioni – a quelle che contraddistinguono l’imitazione della “foglia di vite” valenciana. 18f. Decoro “a fasce” dalla foglia valenciana, Piatto con stemma non identificato, 1480-90, Ø cm. 20,9 18g. Decoro “a fasce”, Scodella con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 27,2 18h. Decoro “a fasce”, Piatto con coniglio (la fecondità), 1480-90, Ø cm. 21,7 18i. Decoro “a fasce”, Scodella con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 26,5 18f DECORO “A FASCE” 263 DECOR WITH “BANDS” 18g 18h 18f. Decor with “bands” from the Valencia Leaf, Plate with not identified coat of arms, 1480-90, Ø cm. 20,9 18g. Decor with “bands”, Bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 27,2 18h. Decor with “bands”, Plate with rabbit (the fertility), 1480-90, Ø cm. 21,7 18i. Decor with “bands”, Bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 26,5 through overlapping segments in a decreasing sense. These are similar, although bigger, to the ones that characterise the imitation of the Valencia vine leaf. 18i SETTORI PUNTINATI 19. SETTORI PUNTINATI Alla base di questo genere decorativo sta un motivo “a squamatura”, in cui gli elementi costituitivi si pongono gli uni a ridosso degli altri, sino a coprirsi parzialmente per formare una sorta di composizione embricata, che, in maniera non dissimile a quella dell’ “albero della vita” nell’imitazione del lustro metallico, viene lumeggiata con un trattino verticale di color arancio, posto al centro. Mediante tale composizione si contornano le figurazioni principali, separandole da essa con apposite cerchiature. Sui boccali il motivo della “squamatura” si pone normalmente sul lato a vista, mentre nelle fasce laterali esso viene semplificato, riducendolo ad una semplice reticolo di linee, che, intersecandosi fittamente, lasciano spazi romboidali, all’interno dei quali si appone il solito trattino di color arancio. Nelle forme aperte questo stesso motivo di contorno presenta almeno due varianti: nella prima esso si presenta suddiviso in settori, di solito in numero di quattro, sviluppandosi in una fascia periferica, che lascia una larga porzione attorno alla cerchiatura centrale pressoché priva di decoro; tra un settore “a squame embricate” e l’altro si collocano parti risparmiate, parzialmente campite da tratti in blu, e talvolta contrassegnate da elementi tipici di questo periodo, DOTTED SECTIONS 264 19. DOTTED SECTIONS The base of this decorative genre is a “flaky” motif, where the elements are so close to one another that they form a composition of elements that partially covers each other. In the centre there is a vertical orange line used in a similar way to the “tree of life” of the metallic lustre imitation. Through this composition we can find the main figures that are separated from the rest with circles. In the open models this border motif presents at least two different variations. In the first one the object is subdivided into sections, usually in fours, which are developed around a peripheral band. This leaves a large portion around the central circle basically without decoration. Between one section and the other there are parts that are partially blue and sometimes characterised by this period’s typical elements, such as the rhombus with segments on the inside. The second group consists of plates and bowls in which we can find the same composition divided in sections. But the sections are alternated with other parts characterised by a reticulum. In this genre there is the tendency to make larger central spaces that are used for big figured subjects, especially representations of women. 19a 19b come il rombo segmentato al proprio interno. La seconda variante è costituita da piatti e scodelle nelle quali si ritrova la medesima composizione divisa a settori, in questo caso, però, in similitudine con quanto rilevato sulle forme chiuse, formata da settori “a squame” alternate a parti con il “reticolo”. In questo genere decorativo si nota un’incipiente tendenza ad allargare gli spazi centrali, per porre al loro interno ampie parti figurate, tra le quali spiccano non poche rappresentazioni muliebri a mezzo busto. 19b. Settori puntinati, Piatto con simbolo di S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 26,3 19c. Settori puntinati, Piatto con figura femminile, 1480-90, Ø cm. 26,3 A differenza della floreale, che pure ha un’origine pressoché sincrona ed un’iterazione produttiva del tutto simile, è la “penna di pavone”, assieme alla cosiddetta “palmetta persiana”, il genere che meglio si presta ad introdurre nella pittura su smalto dell’ultimo ventennio del Quattrocento quella fastosa policromia che costituisce uno degli elementi principali, caratterizzanti la fase propriamente rinascimentale (1480-1540) della maiolica italiana. Come vedremo, è poi nei primi quaranta anni di questo periodo che la grande famiglia dei decori rinascimentali, dei quali la “penna di pavone” rappresenta per molti aspetti un elemento fondante, attinge in Montelupo il vertice dell’efficacia, prima di intraprendere un lungo percorso di ripiegamento, nel corso del quale viene lentamente a perdere la straordinaria creatività acquisita sul finire del XV secolo. Tralasciando le più lontane simbologie, che genericamente possono collegarsi a questo motivo – da denominarsi più precisamente “occhio della penna del pavone” – attraverso il ricorso all’immagine di regalità propria del nobile volatile, si è detto che il prototipo al quale si ispira la decorazione su maiolica si può rintracciare nella ceramica dell’Iran, ed in particolare nella produzione di Kashan, che viene normalmente datata OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE 19a. Settori puntinati, Boccale amatorio con figura femminile, 1480-90, h cm. 26 20. OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE 265 19b. Dotted sections, Plate with symbol of S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 26,3 19c. Dotted sections, Plate with woman, 1480-90, Ø cm. 26,3 19c 20. EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER This genre introduces in the painting on lustre of the last 20 years of the 1400’s a vivacious polychrome that becomes one of the characterising and main elements of the Italian majolica Renaissance period. This can also be said about the “Persian palm branch” genre. During the first 40 years of this period the great family of Renaissance decors, in which the peacock’s feather is the fundamental element, reaches the top point of its efficiency. It will then slowly lose the extraordinary creativity that it had around the end of the 15th century. Overlooking the older symbolisation, that can be generically linked to this motif using the image of this noble animal, we said that the inspiring prototype comes from the majolica of Iran, and in particular from the Kashan production that is dated between the 13th and 14th century. It is a metallic lustre and therefore the similarity is connected to the structure of the decor and not to its formal aspect. The peacock feather, as in the floral genre, appears in the Montelupo production already in the 1470’s as an accessory element that enriches the EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER 19a. Dotted sections, “Amatory” jug with woman, 1480-90, h cm. 26 OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE tra il XIII ed il XIV secolo. Trattandosi, però, di lustro metallico, questa similitudine attiene propriamente alla struttura del decoro, e non all’interezza del suo aspetto formale. La “penna di pavone”, come si è avuto modo di verificare nel genere della floreale, si introduce nella produzione montelupina già negli anni Settanta del Quattrocento quale elemento accessorio, in grado di arricchire i decori principali, per poi diffondersi in altri generi e trasformarsi in un vero motivo di contorno – definendo così un genere – solo nel decennio successivo. Il legame tra questo decoro ed il mondo vegetale, che abbiamo notato caratterizzare il suo impiego nella funzione accessoria dei motivi principali, viene a perdersi in ragione di una standardizzazione che lo trasforma in maniera tale da poter rappresentare con esso un insieme strutturato, ove i singoli motivi, semplificati, si legano gli uni agli altri. Così la “penna di pavone” viene a 20a. Occhio della penna di pavone, Boccale con decoro invadente, 1480-90, h cm. 15 20b. Occhio della penna di pavone, Piatto con testa di leone, 1480-90, Ø cm. 26,5 20a 266 EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER 20a. Eye of the peacock’s feather, Jug with invasive decor, 1480-90, h cm. 15 20b. Eye of the peacock’s feather, Plate with lion head, 1480-90, Ø cm. 26,5 20b main decors. It then develops into other genres and transforms into a true border motif in the following ten years. The link between this decor and the plant world, that we noticed as a characteristic of its accessory use in main motifs, gets lost due to a standardisation that transforms it. It loses the plant-like elements that used to belong to it, in particular the stems, the leaves and the styles that it used to accompany when it appeared in the Montelupo factories. Gaetano Ballardini’s theory that it appeared thanks to the Faenza vase makers in the 1480’s in honour of Cassandra Pavoni (unlucky lover of Galeotto Manfredi, “Signore” of the city) is improbable. perdere gli attributi fitomorfi che gli erano propri, ed in particolare gli steli, le foglie e gli stami con i quali si accompagnava nel momento della sua comparsa nelle botteghe di Montelupo. Appare perciò piuttosto improbabile rapportare, come a suo tempo fece Gaetano Ballardini, la diffusione della “penna” all’opera dei vasai di Faenza, che l’avrebbero utilizzata nel pieno degli anni Ottanta del XV secolo per ricordare Cassandra Pavoni, sfortunata amante di Galeotto Manfredi, signore di quella città. Nonostante il processo di stilizzazione al quale andrà incontro, la “penna” si mostra infatti sin dai primordi della sua apparizione in un cromatismo ben definito: le versioni semplificate che si sono incontrate in altri generi, come ad esempio in quello delle fasce geometriche, debbono essere considerate perciò alla stregua di derivazioni secondarie, non pertinenti al suo sviluppo come decoro. L’interno della “penna, infatti, è OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE 20c. Occhio della penna di pavone, Alberello con decoro invadente, 1 500-15, h cm. 14 20d. Occhio della penna di pavone, Boccale con decoro invadente, 1 490-1510, h cm. 17 267 20d. Eye of the peacock’s feather, Jug with invasive decor, 1490-1510, h cm 17 Even though the peacock feather will be characterised by a process of stylisation, it is characterised from the beginning by very defined chromatics. The simple versions that we found in other genres (for example the geometrical bands) here are only considered as secondary derivations and not referable to its decorative development. The inside of the feather is built with the overlapping of four bands of colour that, starting from the bottom, are formed by four arched sections, coloured in brown manganese, green and orange (between the first two sections the space is not painted so we can see the white polish). Thin blue strokes plough through it in a vertical sense sometimes expanding in a diverging sense the farther away it gets from its origin. Especially in the closed models this blue line seems to be connected to a stem in which we can recognise the bone part of the peacock’s feather. 20c 20d EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER 20c. Eye of the peacock’s feather, Spice holder with invasive decor, 1500-15, h cm. 14 OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE costruito con la sovrapposizione di quattro fasce di colore, che, partendo dal basso, sono formate da altrettanti settori arcuati, campiti rispettivamente in bruno di manganese, verde ed arancio; tra le prime due viene lasciata una parte a risparmio, che fa così intravedere il bianco candido dello smalto. Sottili pennellature in blu, inserite dopo la campitura, la solcano in senso verticale, talora allargandosi in via divergente man mano che si allontanano dall’origine. Specie nelle forme chiuse, quest’ultima sembra connessa ad una sorta di stelo, munito di un incavo mediano, nel quale può davvero riconoscersi la parte ossea della penna del pavone. Il decoro “alla penna” non fu certamente tra quelli maggiormente eseguiti dai ceramisti di Montelupo, vista la relativa, ridotta quantità con la quale si ritrova nei reperti di scavo. La maggior abbondanza con la quale si mostra sulle forme chiuse, inoltre, sembra indi- care una preferenza ad impiegarla proprio sui boccali, ove spesso assume i connotati di una decorazione invasiva, tale da ricoprire completamente la superficie dei manufatti. Talvolta, però, i pittori montelupini preferiscono diradare le maglie composte dall’iterazione continua della “penna”, alternandovi spazi riempiti da figure geometriche – di solito di tipo romboidale – o di natura vegetale, quali piccole corolle floreali o elementi foliati a tre lobi. Nelle forme aperte, invece, i ceramisti dimostrano di oscillare tra un impiego della “penna”, talvolta in una versione dalle dimensioni più generose, con la quale comporre un’ampia fascia radiale che copre tutta l’area periferica di piatti e scodelle, oppure ridurla ad una ghirlanda di più piccoli elementi, disposti in senso orizzontale e concatenati tra di loro. 20e. Occhio della penna di pavone, Piatto con decoro invadente, 1500-15, Ø cm. 22,5 268 EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER 20e. Eye of the peacock’s feather, Plate with invasive decor, 1500-15, Ø cm. 22,5 20e This decor certainly was not one of the most common ones in Montelupo since it has only been found in modest quantities in the digs. The biggest amounts of closed models of this genre are jugs with an invasive decoration that usually covers the entire surface. Sometimes, however, the Montelupo painters alternate spaces filled by geometrical figures (usually rhombuses) or plant-like motifs (flower corollas or leaves with three lobes). On the open models potters oscillate between the use of the feather (sometimes in more generous dimensions) with which they composed a radial band that covers the peripheral areas of plates and bowls, and wreaths of smaller elements placed horizontally and chained to each other. 21. FLOREALE EVOLUTA. Nel corso degli anni Novanta del XV il genere “floreale” va incontro ad una sensibile evoluzione: i petali del grande fiore che la caratterizza, mantenendo l’usuale bicromia in blu e bruno di manganese, tendono infatti ad allungarsi sensibilmente, ripiegandosi agli apici, sino a formare una sorta di appendice globulare. Il cromatismo si alleggerisce notevolmente, rispettando la generale tendenza dell’epoca, mente il motivo si indirizza di preferenza alle forme chiuse, occupandone i fianchi come una normale pittura di contorno. Come vedremo, si tratta soltanto di una tappa nell’evoluzione della”floreale”, che prelude all’ulteriore versione della medesima attuata a partire dal terzo decennio del XVI secolo. 21a FLOREALE EVOLUTA, 21ab. Floreale evoluta, Boccale con simbolo di S. Bernardino (IHS:Ihesus), 1490-1510, h cm 20,7 21c. Floreale evoluta, Ciotola con decoro invadente, 1480-90, Ø cm. 16 269 EVOLVED FLORAL 21ab. Evolved floral, Jug with symbol of S. Bernardino (IHS:Ihesus), 1490-1510, h cm 20,7 21c Evolved floral, Basin with invasive decor, 1480-90, Ø cm. 16 21. EVOLVED FLORAL In the 1490’s the floral genre is characterised by a sensible evolution: the petals of the big flower, while keeping the use of blue and brown manganese, become longer and fold over at the top forming a somewhat globular appendix. The chromatics becomes significantly lighter respecting the general tendency of the era, while the motif moves more towards closed models characterising the sides as if it were a normal border painting. As we will see, this is only one phase of the “floral” evolution that will bring an even newer version of the genre starting from the1530’s. 21b 21c PALMETTA PERSIANA 22. PALMETTA PERSIANA Il Wallis, ponendo in luce le molteplici influenze “orientali”riscontrabili in alcune decorazioni tipiche della fase tardo-medievale e rinascimentale della maiolica italiana, ritenne opportuno definire “palmetta persiana” un motivo che conobbe una straordinaria fortuna presso i pittori nostrani, e che consiste fondamentalmente in una serie di elementi lanceolati dipinti in blu, raggruppati tra di loro sino a formare una sorta di “pigna”, tra i quali vengono inseriti piccoli tratti di colore in arancio, giallo e, specie in Montelupo, in rosso. Questo termine ha incontrato una particolare fortuna nel lessico ceramologico internazionale, e trova effettivamente riscontro in alcuni elementi accessori che si ritrovano nelle ceramiche dei grandi centri di fabbrica iraniani, ma che riteniamo si possano estendere anche a quelli, assai meno noti, della Siria. Anche la “palmetta”, quindi, viene introdotta nella nostra tradizione in base a quel criterio eclettico che sta a fondamento dell’attività dei ceramisti rinascimentali, ormai esperti nell’utilizzare con grande libertà i più diversi spunti formali, per poi trasformarli nel fuoco di una sbrigliata e disinvolta creatività. In ragione di questo “ri-facimento” del motivo, ci pare ozioso discutere, come nel caso della “penna di pavone”, se il termine sia adeguato a definire questa decorazione, così come inu- tile appare indagarne l’eventuale portato simbolico, visto che esso fu affatto estraneo ai ceramisti nostrali. È semmai il caso di indicare la possibile sovrapposizione tra l’influenza orientale, percepibile specialmente nelle versioni più allungate e sinuose, ed il possibile riferimento della palmetta ad iconografie di più semplice derivazione vegetale; a questo proposito, ad esempio, si segnala la vicinanza di questo decoro all’immagine dell’infiorescenza della pianta del luppolo, ben diffusa nell’Italia del XV secolo. Diversamente dalla “floreale” e dalla “penna di pavone”, comunque, la palmetta non compare in versioni primordiali nelle maioliche tardo-medievali, ma assume già nell’ultimo decennio del XV secolo la fisionomia che maggiormente ne caratterizzerà l’impiego nelle botteghe ceramiche di Montelupo. Sulle forme aperte, infatti, essa mostra subito uno sviluppo in senso verticale, come se i diversi gruppi di palmette, intervallati tra di loro, si sviluppassero da steli che hanno origine in diversi punti collocati sulla cerchiatura centrale; sulle chiuse, invece, compone gruppi che si sovrappongono lungo i fianchi dei boccali, racchiudendosi in una sorta di ovali, i cui elementi costitutivi, realizzati con filettature in blu, suggeriscono l’esistenza di uno stelo, spesso munito di piccole foglie stilizzate. La decorazione vuol così suggerire un esuberante mondo vegetale, inteso in senso naturalistico, e per PERSIAN PALM BRANCH 270 22. PERSIAN PALM BRANCH Wallis, focusing on the many oriental influences on late medieval and Renaissance Italian majolica, thought it would be correct to define as “Persian palm branch” a motif that was extremely lucky amongst our painters. It consists in a series of blue elements that form a sort of pinecone, between which there are some marks in orange, yellow and, especially in Montelupo, red. This term has been particularly fortunate in the international ceramic vocabulary, because it can be found in some accessory elements in majolica from great Iranian and, even if less famous, Syrian factories. This genre is introduced in our tradition as part of the eclectic criteria that are at the base of the activity of Renaissance potters. These potters are by now experts in using with great liberty very different formal ideas, to then transform them in an unabashed creativity. It is useless for us to research the possible symbolic significance of this genre in Iran, since it was totally unknown to our potters. We should, instead, show the possible overlapping between the oriental influence, perceptible especially in the wavier versions, and the possible reference to simpler styles that derive from plant-like motifs. In fact this decor can be considered similar to the image of the bloom- ing of the hop plant, common in Italy already in the 15th century. Diversely from the “floral” as well as the “peacock feather”, the palm branch does not appear in early versions in the late medieval majolica. Already at the end of the 15th century, in fact, it had reached the same characteristics that it would have throughout the experience in the Montelupo factories. On open models, it develops from the start a development in a vertical sense. As if the groups of branches separated one from the other, developed from stems that are originated in different points of the central circle. Closed models are characterised by groups that overlap along the sides of the jugs forming ovals that are re-finished in blue and that suggest the existence of a stem (usually next to small-stylised leaves). The decoration suggests a plant world, intended in a naturalistic sense. This sensation is created also thanks to the use of small flower corollas or twigs that characterise also closed models. In the production of the 1400’s, there was still the use of motifs from the late damaschino production, like the use of bright orange inserts that characterise the imitation of metallic lustre. We must also signal the union of the palm branch motif with the peacock feather motif because there is frequently an alterna- 22a 22b PALMETTA PERSIANA 22a. Palmetta persiana, Piatto con stemma Casini di Naldo, 1480-90, Ø cm. 26,2 22b. Palmetta persiana, Piatto con stemma Canigiani, 1480-90, Ø cm. 31,7 22c. Palmetta persiana, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 21,5 22d. Palmetta persiana, Piatto con figura di unicorno, 1480-90, Ø cm. 26,2 22e. Palmetta persiana, Piatto con decoro invadente, 1500-15, Ø cm. 26 271 PERSIAN PALM BRANCH 22a. Persian palm branch, Plate with stem of Casini di Naldo, 1480-90, Ø cm. 26,2 22b. Persian palm branch, Plate with stem of Canigiani, 1480-90, Ø cm. 31,7 22c. Persian palm branch, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 21,5 22d. Palmetta persiana, Plate with unicorn, 1480-90, Ø cm. 26,2 22e. Palmetta persiana, Plate with invasive decor, 1500-15, Ø cm. 26 22c 22d 22e PALMETTA PERSIANA 22f indurre questa sensazione non esita a mischiare alla “palmetta” piccole corolle di fiori tondeggianti, o ad inserire nella medesima veri e propri tralci sinuosi che, sulle forme chiuse, l’attraversano per intero. Nella produzione quattrocentesca si nota ancora l’impiego di motivi tratti dalla produzione “damaschina” tardiva, come le caratteristiche “rosette”, qui ovviamente assai destrutturate e derivate dalle versioni “a tavolozza fredda” e policrome, nonché il ricorso ad inserti in arancio brillante, sul tipo dell’imitazione del lustro metallico. È poi da segnalare la commistione del motivo “a palmetta” con quello “a penna di pavone”, al quale frequentemente si alterna all’interno delle fasce di contorno, nella fase che ne precede gli sviluppi cinquecenteschi. All’alleggerimento cromatico, tipico degli inizi del XVI secolo, fanno poi riferimento i materiali rinvenuti nello scarico del “pozzo dei lavatoi”, contraddistinti anche dall’impiego del rosso nelle lumeggiature dei particolari. 22f. Palmetta persiana, Scodella con decoro invadente, 1490-1510, Ø cm. 24 22g. Palmetta persiana, Orciolo con decoro invadente, 1500-15, h cm. 19,5 22h. Palmetta persiana, Piatto con decoro geometrico, 1490-1510, Ø cm.26,3 272 PERSIAN PALM BRANCH 22f. Palmetta persiana, Bowl with invasive decor, 1490-1510, Ø cm. 24 22g. Persian palm branch, Chemist’s jug with invasive decor , 1500-15, h cm. 19,5 22h. Persian palm branch, Plate with geometrical decor, 1490-1510, Ø cm. 26,3 22g tion of the two in the border bands during the phase that precedes the 1500’s development. The chromatic enlightenment, typical of the beginning of the 16th century, is proved by the materials that were found in the “washhouse well”, that were characterised also by using red to enlighten the details. 22h 23. FIGURATO 23a 23a. Figurato, Piatto con figura femminile, 1480-90, Ø cm. 20,9 23b. Figurato, Piatto con figura femminile, scritta incisa “Lucrethia bella”, 1500-15, Ø cm. 35,0 FIGURATO Una pittura dai contenuti essenzialmente figurativi si sviluppa in Montelupo già sul finire del Quattrocento, prendendo le mosse da un genere, rivolto sempre alla decorazione delle forme aperte – ed in particolare al piatto piano, recentemente introdotto nell’uso della tavola – nelle quali il contorno risulta ridotto ai minimi termini, tanto che la parte figurata viene ad occupare in essi gran parte della superficie smaltata. All’inizio dell’Età Moderna la tendenza a sviluppare l’aspetto figurativo della decorazione pittorica si accentua con l’abbandono di ogni limitazione di contorno, come ben si rileva da un piatto restituito dal deposito archeologico del “pozzo dei lavatoi”. Il documento, databile tra la fine del secondo e l’inizio del terzo decennio del XVI secolo, mostra una figura femminile attorniata da un’ampia campitura in blu, nella cui parte superiore è incisa la scritta “Lucrethia bella”. Si tratta dunque di un “piatto amatorio”, che si distacca per destinazione dalla normale produzione del luogo, ma che è del pari significativo dell’attitudine assai poco “decorativa” che è propria, ormai, dei pittori di quest’epoca. Inusuale, ad esempio, è la raffigurazione frontale del busto femminile, che di solito i ceramisti pongono in vista laterale, ed ancora più rara è la tendenza manifestata da questo pittore all’espressione libe- 273 23a. Figurative, Plate with woman, 1480-90, Ø cm. 20,9 23b. Figurative, Plate with woman and writing “Lucrethia bella”, 1500-15, Ø cm. 35 A decoration with essential figurative contents develops in Montelupo already at the end of the 1400’s. It derives from a genre of open model decorations (especially the flat plate, recently introduced on the table) in which the border is highly reduced in a way that the figurative part occupies most of the lustered surface. At the beginning of the modern era, the tendency to develop the figurative aspect of pictorial decoration accentuates with the abandonment of every limitation of borders, as we can see on a plate that was found in the “washhouse well”. This plate is dateable between the end of the 1520’s and the beginning of the 1530’s; it represents a woman surrounded by blue strokes and on the top there is the writing “Lucretia Bella”. It is an “amatory” plate that can be detached from the normal local production for its achievement, but that equally shows the scarcely decorative attitude of the painters of this epoch. For example, the frontal representation of a woman’s bust is unusual because the potters usually position it in a lateral way. The tendency of this painter to free expression, without placement rules are even rarer He intends the ceramic handcrafts as a simple sur- 23b FIGURATIVE 23. FIGURATIVE FIGURATO ra, sciolta dai vincoli dell’inquadramento sul manufatto ceramico, che qui egli intende alla stregua di semplice superficie da dipingere, con una noncuranza per le limitazioni oggettive del supporto davvero notevole, e forse anche maggiore di quella che caratterizzerà l’opera futura degli “istoriatori”. Questo piatto, in effetti, costituisce uno dei documenti più interessanti della fase più precoce di scambio delle nuove tendenze formali, ormai pienamente “rinascimentali”, che vanno affermandosi nei diversi centri di fabbrica della maiolica italiana. Come non vedere, d’altronde, nell’incarnato delicatamente ripassato ai margini in arancio chiaro della Lucrezia, ma soprattutto nel colore rosso-rame dei suoi capelli e nella cuffia gialla, lumeggiata di verde, con la quale ella li raccoglie sulla nuca, un’attitudine formale che non di poco si avvicina al famoso “piatto Leverton”, un’altra delle espressioni “anomale”- se vogliamo – di questa tendenza ad esprimersi per temi dichiaratamente figurativi del periodo che precede l’introduzione dell’ “istoriato”? Questo documento, che si avvicina, per la realizzazione di sfondi ripassati in blu di cobalto, alla coeva produzione di Cafaggiolo, mostra inoltre di collegarsi ad un più ampio filone di maioliche figurate, testimoniate da numerosi ritrovamenti locali, del quale fa parte anche il noto piatto con l’ingresso di papa Leone X in Firenze nel 1516, attualmente conservato presso il Victoria and Albert Museum di Londra. 24. NASTRI Con il termine “nastro” si intende definire un tipo di contorno che, visto il suo particolare sviluppo, trova impiego quasi esclusivamente sulle forme aperte, ponendosi, come “l’occhio della penna di pavone” e la “palmetta persiana” altresì nel novero delle decorazioni sviluppate dai centri di fabbrica italiani nel corso della prima fase rinascimentale. Il motivo che caratterizza questo genere è composto da una duplice linea spezzata parallela, mediante la quale si realizza una fascia appuntita, indirizzandola alternativamente verso l’esterno e verso il centro dei manufatti. Mentre una parte di essa viene normalmente lasciata priva di colore, quella che la segue è campita di blu, in maniera tale da suggerire un vero e proprio nastro che, piegandosi, mostra ora un lato, ora la sua faccia ventrale, ed incornicia così con lo sviluppo delle sue volute appuntite, i decori centrali. I materiali di scavo di Montelupo mostrano con dovizia di particolari il percorso formale del genere, ad iniziare da una versione più semplice, incentrata sulla rappresentazione di una sola corona nastriforme, dipinta nel settore compreso tra il bordo e la cerchiatura del centro dei piatti: essa assume poi sviluppi più complessi, raddoppiando in particolare la corona di nastri, in maniera tale da intrecciare tutta FIGURATIVE 274 face to paint, without caring about the objective limitations of the base. This carelessness is probably even bigger than the one that will characterise the future work of the “istoriato” stylists. This plate is one of the more interesting documentation’s of the more precocious phase of new formal tendencies, that are now entirely of the Renaissance and that develop in the different factory centres of Italian majolica. How can we not notice the delicately traced borders in light orange of Lucretia’s skin, or the red copper of her hair in the yellow cap, with which she gathers her hair, surrounded by green? This formal attitude is really close to the famous “Leverton plate”, another unusual expression of this tendency to use figurative themes before the introduction of the “istoriato” style. This document, that reminds us of the Cafaggiolo production due to its cobalt blue background, can be connected to many different figurative majolica. These were found in numerous local digs and they include the famous plate with the entrance of Pope Leo X in Florence in 1516, which is now preserved at London’s Victorian Albert Museum. 24. RIBBONS With the term”ribbon” we define a type of border that, due its particular development, is used almost exclusively on open models. Like the “peacock feather” and “Persian palm branch”, it is one decoration that develops in the Italian factories during the first Renaissance phase. The motif that characterises this genre consists in a double parallel line, through which there is the creation of a pointed band that faces alternately the outside and the centre of the handcrafts. While part of it is usually left without colour, the other part is painted in blue to suggest a real ribbon that, bending, sometimes shows one side and sometimes shows the other. In this way it frames the central decors. The materials in the Montelupo dig show the formal journey of the genre with many particulars. The simpler version is based on the representation of a single ribbon-like crown, painted in the section between the border and the circle of the centre of the plate. It then takes on more complex developments, for example the ribbon crown doubles in a way that weaves the whole composition and generates a larger dynamic sensation. This motif is connected to graphic details that la composizione, e generare così una più accentuata sensazione di dinamismo. Rispettando i canoni estetici del primo periodo rinascimentale, questo motivo si unisce a minuti particolari grafici – quali piccoli rombi, spirali, minuscole foglie stilizzate e, soprattutto, un motivo vegetale a tre lobi – che ne complicano l’aspetto, saturando ogni spazio interno ed esterno alla decorazione. La lunga evoluzione dei “nastri” esemplifica il processo di trasformazione cromatica che interessò la 24a. Decoro “a nastro”, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 20,9 24b. Decoro “a nastro”, Piatto con decoro vegetale, 1480-90 , Ø cm. 26,4 24c. Decoro “a nastro”, Piatto con figura maschile, 1480-90, Ø cm. 27,8 24d. Decoro “a nastro”, Piatto con leopardo, 1480-90, Ø cm. 35 24a NASTRI 275 RIBBONS 24c 24b 24a. Ribbons, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 20,9 24b. Ribbons, Plate with plant-like decor 1480-90, Ø cm. 26,4 24c. Ribbons, Plate with man, 1480-90, Ø cm. 27,8 24d. Ribbons, Plate with leopard, 1480-90, Ø cm. 35 respect the aesthetic criteria of this first Renaissance phase. For example there are small rhombuses, spirals, tiny stylised leaves and especially plant-like motifs with three lobes. These elements complicate its aspect by saturating every internal and external space of the decoration. The long evolution of the “ribbons” is an example of the process of chromatic transformation that characterised lustered painting in Montelupo. Even this genre, at the beginning of the 16th century, 24d 24e 24f 24e. Decoro “a nastro”, Piatto con leone, 1490-1500, Ø cm. 29 24f. Decoro “a nastro”, Piatto con figura femminile, 1480-90, Ø cm. 36 NASTRI 24g. Decoro “a nastro”, Piatto con leone rampante, 1490-1510, Ø cm. 20,3 24h. Decoro “a nastro”, Piatto con decoro geometrico, 1500-15, Ø cm. 27,8 24i. Decoro “a nastro”, Piatto con scacchiera, 1510-20, Ø cm. 33,5 276 RIBBONS 24e. Ribbons, Plate with lion, 1490-1500, Ø cm. 29 24f. Ribbons, Plate with woman, 1480-90, Ø cm. 36 24g. Ribbons, Plate with rampant lion, 1490-1510, Ø cm. 20,3 24h. Ribbons, Plate with geometrical decor, 1500-15, Ø cm. 27,8 24i. Ribbons, Plate with chessboard, 1510-20, Ø cm. 33,5 24g 24h 24i pittura su smalto in Montelupo, mostrando come anche questo genere denoti, all’inizio del XVI secolo, l’adozione di una tavolozza dai toni assai più leggeri rispetto a quelli con i quali esso si era presentato ai suoi esordi sul finire del secolo precedente; in esso, inoltre, compaiono frequentemente inserti di rosso che ne impreziosiscono l’aspetto. Come tutte le più importanti tipologie decorative dell’epoca, infine, occorre precisare che anche i nastri andarono incontro, nel corso del Cinquecento, ad un processo di estenuazione che ne peggiorò di molto tanto il cromatismo quanto il vigore e l’efficacia rappresentativa. 25. GROTTESCHE GROTTESCHE Ben sappiamo come nell’Italia degli ultimi anni del XV secolo siano venute a diffondersi – prima nelle parti accessorie, poi in porzioni sempre più ampie delle più svariate tipologie d’opere d’arte – le suggestioni pittoriche tratte dagli affreschi di epoca romana, allora riportare alla luce nell’Urbe: attraverso i taccuini degli artisti, furono soprattutto i motivi del cosiddetto “quarto stile pompeiano” a determinare la nascita di una vera e propria moda, destinata a durare nel tempo, grazie anche all’elaborazione che di essi fece Raffaello. Le successive evoluzioni cinquecentesche e seicentesche, tutte in vario modo dipendenti dall’esempio delle Logge Vaticane e caratterizzate dallo sfondo bianco, sono dunque propriamente definite come “raffaellesche”. Nel momento in cui questi motivi si diffondono nella decorazione su maiolica, i pittori di Montelupo sembrano relazionarsi anche alle versioni delle “grottesche” diffuse in altri centri di fabbrica, quali soprattutto Siena, ma anche Faenza, Gubbio e Casteldurante. Denotando caratteri propri e sufficientemente riconoscibili, i diversi filoni che contraddistinguono lo sviluppo di questo genere nelle botteghe montelupine possono poi essere suddivisi a seconda che essi siano privi di sfondo, oppure mostrino spazi intercalari campiti in blu, arancio, o, infine, in rosso, giallo e blu. 277 We know that in the last years of the 15th century the pictorial suggestions of Roman frescoes started developing in Italy. This characterised at first the accessory parts, then always bigger and bigger portions of every type of art. The Roman frescoes were brought back to light in Rome through the work of artists. The motifs of the so-called “Fourth Pompeii style” determined the beginning of a new fashion, destined to last also thanks to Raphael’s elaboration. All the following 1500’s and 1600’s evolutions are therefore defined as “Raphaelesque “. They are all somehow dependent on the example of the Logge Vaticane and they are all characterised by a white background. In the moment in which these motifs spread in the majolica decorations, the Montelupo painters seem to imitate also the “grotesque” versions that are found in other factory centres, such as Siena, Faenza, Gubbio and Casteldurante. It has its own characteristics and they are sufficiently recognisable. This genre can be characterised by a lack of background or by blue, orange, red or yellow spaces. An example of handcrafts with a blue background is a plate that was found in the “washhouse well”. In the centre it has a Medici stem and the motif of a dolphin has a privileged use. Another GROTESQUE 25. GROTESQUE uses a palette with much lighter tones compared to the ones that it used at the end of the previous century. Red is very frequent and it enriches its aspect. As all the other important decorative types of the epic, we must specify that even the ribbons went towards an extenuation process that weakened both its chromatic aspects and the efficiency of its representation. GROTTESCHE Tra i manufatti su fondale blu si segnala un piatto del “pozzo dei lavatoi” con stemma mediceo centrale, nel quale è il motivo del delfino a trovare impiego privilegiato e, soprattutto, un versatore su piede proveniente dal medesimo contesto di scavo. Sulla superficie smaltata di quest’ultimo si dispiega un ricco repertorio decorativo, nel quale le parti “a grottesca” – composte da targhe, uccelli ed altri animali fantastici, ma anche tendaggi e volute vegetali – si riferiscono ad una figura alata centrale, la cui testa sostiene un grande vaso in forma di anfora. L’esemplare, databile al 1510-20 circa, è assegnabile alla bottega che marca i suoi prodotti con la sigla “Lo” per la sua vicinanza con la maiolica già nella collezione Rotschild (nota ormai come “il rosso di Montelupo”), della quale tratteremo poco oltre, ed in ragione della presenza, al disotto della targa in giallo dipinta sui fianchi, proprio di una probabile marca “Lo”. Prima di diffonderci sul “rosso”, dobbiamo dar conto della versione della grottesca su sfondo arancio, ove il richiamo alla coeva produzione senese sembra talvolta mostrare un legame particolarmente stringente, anche se si incontrano esemplari del medesimo gruppo che, per un’opera di evidente stilizzazione, vengono invece a distaccarsi da quei modelli. Tra di essi possiamo inserire diverse forme aperte rinvenute negli scavi del centro valdarnese, tra i quali un piatto con busto maschile, ed altri documenti – sempre rappresentativi di piatti e scodelle – nei quali i motivi della grottesca trovano talvolta uno sviluppo invasivo. Di particolare interesse è anche una grande sfera da sospensione, la cui forma ci riporta con evidenza a certi prodotti tipici di Iznik, il centro di fabbrica turco, alla cui attività alcune tra le maggiori botteghe locale – ed in particolare proprio quella che appone sui suoi manufatti la sigla “Lo” – si rapporta nei primi lustri del XVI secolo. Un bacile piano a media tesa, già nella collezione Rothschild di Parigi, uno dei capolavori della bottega montelupina di Lorenzo di Piero Sartori, mostra una delle variante di maggior interesse del genere “a grottesche”. L’esuberante decorazione che si distende sul lato a vista di questa maiolica è completamente risolta, infatti, in una teoria di figurette “a grottesca”, ad iniziare dalla minuscola cerchiatura “a ghirlanda” del centro, che racchiude, come una sorta di cammeo dipinto di blu intenso, una testa di putto tra due cornucopie stilizzate, sormontata da un cesto di frutta, su cui si posa un grande uccello. Sul breve ricasco (il punto di congiunzione tra la tesa ed il fondo) si diffonde poi una fascia di trofei su fondo arancio, formata da scudi, corazze, armi, tamburi e teste leonine, i cui elementi parzialmente si sovrappongono,comprendendo anche due targhe con la scritta “SPQR”. Ma è sulla tesa del bacile che si incontra una compo- example is a pitcher coming from the same dig. On the lustered surface we find a rich decorative repertoire in which the “grotesque” part (composed of plaques, birds and legendary animals, drapery and plants) can be referred to a central winged figure whose head is holding a big vase shaped like an amphora. The pitcher is dateable between 15101520 ca. and can be assigned to the workshop that marks its products with brand “Lo”. This is due to its closeness to the majolica of the Rothschild collection (known as the “red of Montelupo”) that we will speak about soon. It is also due to the presence of a probable brand “Lo” underneath the yellow plaque on the sides. Before speaking about the “red”, we must talk about a version on an orange background. The link to the Siena production here seems very tight, even if sometimes there are examples of this group that, due to an evident stylisation, are very different from the Siena models. For example there are some open models that were found in the digs of Valdarno, including a plate with the bust of a man and various other plates and bowls in which the grotesque motif finds an invasive development. Of particular interest is a big suspension sphere, whose shape makes us think of certain typical products of Iznik, the factory centre of Turkey. This production was popular in the major local workshops during the first years of the 16th century (in particular the one that uses the brand “Lo”). A washbasin with a medium size rim, even in the Rothschild Paris collection, shows one of the more interesting varieties of the genre. This is one masterpiece of the Montelupo workshop of Lorenzo di Piero Sartori. The decoration on the front side if this majolica is completely in grotesque. There is a tiny wreath in the centre painted with an intense blue that surrounds the head of a little angel between two stylised horns with a big bird on top of a fruit basket on the angel’s head. Between the rim and the bottom, there is a band on orange background with trophies, shields, Armour, weapons and drums. The elements partially overlap and they include two plaques with the writing “SPQR”. On the rim we find a new and unused composition. It develops around two figured groups that alternate in the development of the decoration. In one of them there is a couple of little angels that seem to hold a string of pearls with one hand and a stick with a dolphin head on top with the other. The space at the bottom part of the decoration is painted in red and it surrounds the drawing of a crab that holds a plaque with its claws. In two cases there is the writing “SPQR” while in the other two cases GROTESQUE 278 25a 25b 25a. Grottesca, Vassoio con decoro invadente detto “il rosso di Montelupo”, Datato “1509”, Ø cm.38 25b. Grottesca, Rovescio del precedente con fascia “a petali” e marca “[Lo]” della GROTTESCHE bottega di Lorenzo di Piero Sartori, Datato “1509” 25c. Grottesca, Piatto con figura maschile, 1490-1510, Ø cm. 21,1 25d. Grottesca, Scodella con stemma non identificato, 1490-1500, Ø cm. 15,5 25e. Grottesca, Scodella con il “segno della Fede”, 1490-1500, Ø cm. 21,8 279 GROTESQUE 254a. Grotesque, Large plate with invasive decor known as, “Il rosso di Montelupo” (The red of Montelupo), Dated “1509”, Ø cm. 38 25b. Grotesque, The bottom side of the “Rosso di Montelupo” with band with petals and brand “[Lo]” of the Montelupo workshop of Lorenzo di Piero Sartori, Dated “1509” 25c. Grotesque, Plate with man, 1490-1510, Ø cm. 21,1 25d. Grotesque, Bowl with not identified coat of arms, 1490-1500, Ø cm. 15,5 25e. Grotesque, Bowl with the “symbol of Faith”, 1490-1500, Ø cm. 21,8 25d 25c 25e sizione nuova ed inusitata nella pittura montelupina su smalto. La composizione si incentra infatti su due gruppi figurati, che si alternano nello sviluppo della decorazione medesima. In uno è rappresentata una coppia di putti che sembrano sostenere con una mano un filo di perle, mentre con l’altra impugnano una sorta di bastone, il cui apice assume la forma della testa di un delfino. Lo spazio racchiuso nella parte inferiore della decorazione è campito di rosso e circonda la figuretta di un granchio, il quale a sua volta sostiene con le sue chele una targa epigrafica – ove in due casi sta scritto “SPQR”, ed in altri due “SPQF” (il riferimento al “popolo fiorentino” è trasparente) – mentre la parte superiore, GROTTESCHE 25f 25f. Grottesca, Piatto con stemma Medici, 1510-15, Ø cm. 20,5 25g. Grottesca, Mesciroba con figura angelica, 1510-15, h cm. 19,5 25h. Atipico, Piatto con figura femminile, 1510-30 , Ø cm. 24,7 280 GROTESQUE 25f. Grotesque, Plate with coat of arms of Medici, 1510-15, Ø cm. 20,5 25g. Grotesque, “Mesciroba” (beaker) with angel, 1510-15, h cm. 19,5 25h. Atypical, Plate with women, 1510-30, Ø cm. 24,7 25g 25h 26. STEMMI E CIMIERI La grande diffusione delle insegne araldiche sulla maiolica spinse i pittori che operavano in Montelupo tra il 1490 ed il 1520 circa ad elaborare un apposito decoro, in grado di ben evidenziare la presenza dello stemma. In quell’epoca non era del tutto tramontato l’uso quattrocentesco di sovrapporre allo scudo l’elmo o la celata dell’armatura, dal quale venivano poi a svilupparsi i piumaggi e le altre appendici che lo nobilitavano (detti appunto “cimieri”). I vasai montelupini sfruttarono questa immagine complessa a fini decorativi, ricavandone un genere – relativamente raro negli scarichi delle fornaci – da destinarsi alla pittura dei boccali, ove la celata ed il cimiero sovrastano gli scudi araldici dei committenti, dipinti sul lato a vista. Il piumaggio dell’elmo si espande notevolmente lungo il corpo dei boccali, tanto da lasciare su di esso solo piccole porzioni di superficie, di solito riempite mediante corolle floreali in blu del tipo “alla porcellana”. Per separarlo da queste ultime, il piumaggio viene sottolineato da una linea esterna di contorno, che sembra così recuperare i modi tipici della pittura “a spazio contornato”, già diffusa in Montelupo nel primo trentennio del XV secolo. In molti esemplari del genere, che intendono citare la consuetudine dei tornei, si nota inoltre l’affissione dello scudo araldico ad un tronco STEMMI E CIMIERI dipinta di giallo, ha al centro un vaso stilizzato. Più ampia e complessa si rivela infine l’altra scena figurata, nel cui centro si presenta una tipica “grottesca”, formata da una testa perlinata alle chiome su fondo blu che sembra colta nell’atto di emettere un grido, e si pone sopra una minuscola targa datata “1509”. Nonostante la vicinanza con le migliori produzioni senesi del tempo, non sussiste dubbio alcuno sul fatto che questo documento sia uscito dalla fornace del Sartori: oltre alla marca, ben visibile al rovescio, tale appartenenza è infatti sottolineata dal ritrovamento di frammenti con decoro “a grottesca” su fondo giallo ed arancio, dipinti dalla medesima mano, proprio nello scarico di quella fornace, esplorato diversi anni or sono. L’impiego esteso del pigmento rosso, che qui giunge ad esiti cromatici quasi sanguigni, e l’aspetto rilevato che esso ha assunto dopo la cottura, oltre a non trovare confronti con la coeva produzione smaltata italiana, avvicina palesemente il documento ai prodotti del centro turco di Iznik: ciò non sorprende affatto, visti i riferimenti che è possibile instaurare tra di essi (nei generi con decoro “alla porcellana” e nella realizzazione di sfere da sospensione, una morfa tipica delle ceramiche orientali) e i manufatti della bottega dei Sartori. 281 26. COAT OF ARMS AND HELMETS The great diffusion of heraldic symbols on majolica pushed the Montelupo painters to create a specific decor between 1490 and 1520 ca. The goal was to underline the presence of the coat of arms. In that epic there was still the 1400’s use of overlapping the helmet to the shield or the Armour to the shield. The Montelupo vase makers exploited this complex image for decorative reasons. The result was a genre to be destined to the painting of jugs, where the helmets overpowered the heraldic shields of the commissioners. This genre is relatively rare in the kiln residues. The feathers on the helmets expand along the entire body of the jug, in a way that only small surface portions are left empty. Blue corollas of the “porcelain” type usually fill these. The feathers are traced by an external borderline that separates them from the corollas. This is like the typical elements of the painting on a “bordered space”, developed in Montelupo around the 1430’s. In many examples of the genre, we can notice that the heraldic shield is put on the trunk of a stylised tree. Apart from the chronological evidence that comes from the digs in the local kiln residues, this genre determines an absolute reference in an exem- COAT OF ARMS AND HELMETS “SPQF” (the reference to the Florence population is clear). The top part is painted in yellow and in the centre there is a stylised vase. The other figured scene is bigger and more complex. In the centre there is a typical grotesque motif characterised by a head with pearls in the hair on a blue background. The person seems to be screaming and is on top of a tiny plaque dated “1509”. Even though it was found near the best Siena productions of the epoch, there is no doubt on the fact that this finding came from the Sartori kiln. Apart from the brand, that is well visible upside down, this affiliation is underlined by the findings of fragments with grotesque decors on yellow and orange backgrounds in the same kiln. The extended use of the red pigment and the aspect that it took on after the firing, not only is not comparable to the Italian lustered production of that time, but it also is very similar to the Iznik products. This is not surprising due to the connection of Iznik with the Sartori workshop (in the genres with porcelain decor and in the creation of suspension spheres). d’albero stilizzato, confitto nel terreno. Il decoro montelupino “a stemmi e cimieri”, oltre alle attestazioni cronologiche relative, che gli derivano dagli scavi effettuati negli scarichi delle fornaci locali, trova un riferimento assoluto nell’esemplare con lo stemma degli Ambrogi di Firenze datato “1506”, già nella collezione von Beckerhardt (ed attualmente in quella Lehman, al Metropolitan Museum of Art di New York). STEMMI E CIMIERI 26a. Stemmi e cimieri, Boccale con stemma Pandolfini, 1500-10, h cm. 23,5 27. ARMI E TROFEI; ARMI E TAMBURI Tra Quattro e Cinquecento i vasai di Montelupo vennero ad elaborare un decoro “ad armi e trofei” di un tipo assai stilizzato, che ben si distacca dai generi consimili, presenti negli altri centri di fabbrica italiani, soprattutto in ragione della sua squillante policromia. Gli artefici montelupini, tralasciando il rigore grafico della rappresentazione, sembrano infatti interessarsi soprattutto alla possibilità di trasformare una composizione variamente formata da scudi, elmi, corazze e spade, in una fascia di contorno dall’accentuata policromia densa di colore. Ecco quindi che, non curandosi della riconoscibilità dei particolari, essi realizzano grandi macchie di giallo e (gli scudi), sottolineate ai bordi da pennellate di rosso, alle quali si alternano parti altrettanto estese, che sembrano voler rappresentare solo lo sfondo cromatico per grandi elmi stilizzati In tal modo si forma una larga fascia multicolore, che viene impiegata sia per contornare scene figurate, come nel piatto con San Giorgio che rivolge la lancia verso il drago – e che trova numerosi riscontri iconografici pressoché coevi, quali ad esempio il noto pannello maiolicato della chiesa genovese di Santa Maria in Castello – o semplicemente geometrica. 282 COAT OF ARMS AND HELMETS 27. WEAPONS AND TROPHIES; WEAPONS AND DRUMS 26 26a. Coat of arms and helmets, Jug with Pandolfini coat of arms, 1500-10, h cm. 23,5 plary that is characterised by the presence of the coat of arms of the Ambrogi family from Florence dated 1506. It used to belong to the von Beckerhardt collection and now it belongs to the Lehman collection in the Metropolitan Museum of Art in New York. Between the 1400-1500’s the Montelupo vase makers elaborated towards a stylised “weapons and trophies”decor. This genre is very different from all the others present in the other Italian factory centres, mostly due its bright colours. The Montelupo artists ignored the graphic rigour of the representation and focused on the possibility to transform a composition characterised by shields, helmets, Armour and swords into a border band with dense colours. They do not worry about having recognisable details. They create big yellow spots (the shields), underlined by red borders and they alternate them with equally big parts that represent the chromatic background for stylised helmets. The result is a large multi-coloured band that is used both as a border for figured scenes (for example in the plate with the representation of San Giorgio with a lance facing a dragon or in a majolica panel in the Genoa church of Santa Maria in Castello) and for geometrical decorations. Even though many details make the “drums” typology similar to the one with weapons and shields, that is more frequent at the beginning of the 27a 27b ARMI E TROFEI; ARMI E TAMBURI 27a. Armi e trofei, Scodella con decoro geometrico, 1500-10, Ø cm. 21,2 27b. Armi e trofei, Piatto con decoro geometrico, 1500-10, Ø cm. 25,8 27c. Armi e trofei, Piatto con figura di San Giovannino”, 1490-1510, Ø cm. 26,4 27d. Armi e trofei, Piatto con San Giorgio, 1510-15, Ø cm. 34 27e. Armi e trofei, Piatto con stemma Medici, 1500-10, Ø cm. 20 283 27b. Weapons and trophies, Plate with geometrical decor, 1500-10, Ø cm. 25,8 27c. Weapons and trophies, Plate with “San Giovannino”, 1490-1510, Ø cm. 26,4 27d.Weapons and trophies, Plate with San Giorgio, 1510-15, Ø cm. 34 27e. Weapons and Trophies, Plate with Medici coat of arms, 1500-10, Ø cm.20 27c 27d 27e WEAPONS AND TROPHIES; WEAPONS AND DRUMS 27a. Weapons and trophies, Bowl with geometrical decor, 1500-10, Ø cm. 21,2 ARMI E TROFEI; ARMI E TAMBURI Nonostante numerosi particolari avvicinino la tipologia “ a tamburi” a quella con “armi e scudi”, di più frequente esecuzione in Montelupo nei primi lustri del XVI secolo, ed entrambe siano destinate alle forme aperte, i due generi debbono essere separati in ragione di alcune difformità. L’effetto cromatico ricercato dai pittori, pur simile nelle due composizioni per l’identico alternarsi di parti in giallo ed arancio, si dispiega infatti in una struttura resa sensibilmente diversa dall’impiego del tamburo come elemento decorativo principale, ed in ragione delle più ridotte dimensioni degli scudi, qui visti anche nella classica composizione sovrapposta, dalla quale spuntano coppie di spade incrociate. Le minori dimensioni dei soggetti lasciano poi spazi aperti che vengono riempiti con motivi fitomorfi, sconosciuti al genere con “trofei”. Nel corso del Cinquecento, inoltre, sarà la versione “a tamburi” ad evolvendosi con esiti peculiari, sino a subire quel processo di “estenuazione” dei decori che, come vedremo, contraddistingue gran parte della produzione tardo-rinascimentale. 28. RETICOLO PUNTINATO In questo genere decorativo si incontra l’impiego rigoroso di un motivo geometrico assai semplice ed essenziale, incentrato sulla realizzazione di un settore di tipo reticolare – un incrocio di linee parallele, tracciate in blu, che vengono ad individuare piccoli spazi quadrangolari – minutamente puntinati (di solito in bruno di manganese) al loro interno. Le ricerche archeologiche montelupine hanno evidenziato come il decoro abbia un’origine quattrocentesca, riferendosi con tutta evidenza alla tipologia “a settori” ove, sia pure in via secondaria, compare frequentemente, accompagnandosi sulle forme aperte con quello “a squame”. Sul finire del XV secolo, però, il “reticolo puntinato” si qualifica come un genere decorativo specifico, comparendo da solo, e trovando un impiego in via esclusiva sulle forme chiuse. Di esso si conoscono anche versioni “invasive”, ove il motivo ricopre completamente la superficie di alberelli e boccali, dividendosi anche, quasi a voler richiamare la sua fisionomia originaria, in settori diversi; si tratta, però, di una produzione minoritaria rispetto al suo impiego corrente come riempimento geometrico da apporre sui fianchi dei boccali o sulle parti laterali dei contenitori a destinazione farmaceutica. Il “reticolo” si unisce a tutti i motivi usati come WEAPONS AND TROPHIES; WEAPONS AND DRUMS 284 16th century, the two genres must be separated due to some differences. The chromatic effect, even though similar due to the identical alternation of yellow and orange is sensibly different because of the use of the drum as a main decorative element and of the smaller dimensions of the shields. In this genre the shields are also overlapped and characterised by the presence of pairs of crossed swords. The smaller dimensions of the subjects leave many open spaces that are filled with plant-like motifs that are unknown to the genre with “trophies”. During the 1500’s the “drum” version would evolve with peculiar results. The result is an extenuation of decors that, as we will see, characterises most of the late Renaissance production. 28. DOTTED RETICULUM This genre is characterised by the simple and essential use of geometrical motifs, based on the creation of a reticulum (a crossing of blue parallel lines that individuate small square like spaces) that is dotted with brown manganese on the inside. Archaeological analysis specifies that the decor had a 1400’s origin, referring also to the “section” typology that often appears on open models. At the end of the 15th century, however, the “dotted reticulum” qualifies as a specific decorative genre appearing only on closed models. We also find invasive versions where the motif covers the entire surface of jugs, also dividing them in different sections (like in its original form). This production is; however, less important than the one that was used as a geometrical filling on the sides of jugs and containers with a pharmaceutical destination. The “reticulum” can be connected to all the motifs that were used as main decorations on closed models during the first Renaissance phase. It is separated from these motifs through circles that take on the characteristics of the stylised ring with a gem. This is one of the most important symbolic figures of the epic. In this genre we find jugs with human figures and illusive representations of ani- 28b 28a RETICOLO PUNTINATO 28a. Reticolo puntinato, Alberello con decoro invadente, 1490-1510, h cm. 19,5 28b. Reticolo puntinato, Boccale con decoro floreale, 1480-90, h. cm 19,4 28c. Reticolo puntinato, Boccale con decoro invadente, 1480-90, h cm. 24,6 28d. Reticolo puntinato, Boccale con scritta “Benedet[t]a b[e]lla”, 1500-15, h cm. 20,3 28e. Reticolo puntinato, Boccale con leone rampante, 1490-1505, h cm. 24 285 DOTTED RETICULUM 28a. Dotted reticulum, Spice holder with invasive decor, 1490-1510, h cm. 19,5 28b. Dotted reticulum, Jug with floral decor, 1480-90, h. cm 19,4 28c. Dotted reticulum, Jug with invasive decor, 1480-90, h. cm. 24,6 28d. Dotted reticulum, Jug with writing “Benedet[t]a b[e]lla”, 1500-15, h cm. 20,3 28e. Dotted reticulum, Jug with rampant lion, 1490-1505, h cm. 24 28c 28d 28e RETICOLO PUNTINATO 28g 28g. Reticolo puntinato, Boccale con simbologia di S. Bernardino (IHS:Ihesus), 1500-15, h. cm 21 28h. Reticolo puntinato, Boccale con simbologia di S. Bernardino (IHS:Ihesus), 28i. Reticolo puntinato, Boccale con stemma Medici, 1500-15, h cm. 16 28f 28f. Dotted reticulum, Jug with snail (the prudence), 1500-10, h cm. 19,5 DOTTED RETICULUM 286 28f. Reticolo puntinato, Boccale con chiocciola (la prudenza), 1500-10, h cm. 19,5 28g. Dotted reticulum, Jug with symbol of S. Bernardino (IHS:Ihesus), 1500-15, h. cm 21 28h. Dotted reticulum, Jug with symbol of S. Bernardino (IHS:Ihesus), 1500-15 28i. Dotted reticulum, Jug with coat of arms of Medici, 1500-15, h cm. 16 28h 28i decorazioni principali sulle forme chiuse del primo periodo rinascimentale, separate da esso mediante apposite cerchiature, che quasi sempre vengono ad assumere la fisionomia stilizzata dell’anello con gemma, ripetendo così una delle “imprese” – figurazioni simboliche – più diffuse dell’epoca. In queste genere incontriamo dunque boccali con figure umane e raffigurazioni allusive di animali (il cane per la fedeltà, il coniglio come immagine della fecondità, la chiocciola per la prudenza, etc.), ma anche stemmi appartenenti a varie famiglie nobiliari fiorentine – soprattutto a quella dei Medici – che non sottendono una committenza diretta, quanto una generica allusione a Firenze, e simbologie religiose. È però caratteristica esclusiva del decoro “a reticolo” l’unione di questo contorno con scritte poste nell’ovale centrale, ove si celebrano, attraverso i loro nomi, giovani fanciulle (“Antonia b[ella]”; “Benedetta b[ella]”; “Ginevra b[ella] e pul[zella]”), ed ammonimenti di carattere religioso (“Temete deum”). 29. GHIRLANDA GHIRLANDA Si tratta di un genere decorativo ampiamente diffuso sulle forme aperte, che si mostra come una fascia periferica campita in arancio, sulla quale, dipingendosi minuscole archeggiature in blu, si viene a far assumere l’aspetto di una sorta di “squamatura”. L’importante scarico di fornace rinvenute nel 1988 nel giardino del Museo di Montelupo, fornendo una documentazione collocabile sul finire degli anni Ottanta del XV secolo, ha fornito elementi precisi per riconoscere la genesi del motivo, evidenziando come non si tratti tanto di una generica fascia “embricata”, quanto piuttosto di una ghirlanda in estrema stilizzazione. Negli esemplari più antichi tale richiamo si fa più evidente per lo sviluppo delle parti in blu, che mostrano un andamento orizzontale più accentuato, suggerendo anche con precisione le foglie delle quali la ghirlanda medesima si compone. Tra Quattro e Cinquecento è su questa tipologia decorativa, riservata unicamente alle forme aperte, che si incontrano i documenti figurati di maggiori dimensioni, sia in ordine alla larghezza del supporto, che per l’estensione delle figure, talvolta allusive – come quella della cerva che rivolge la testa verso l’alto – ad immagini religiose. Oltre a varianti del decoro medesimo, in qualche caso diviso per settori o mutato in una fascia di color 287 29. WREATH This decorative genre is mostly found on open models that are characterised by a peripheral orange band with tiny blue arches that form a scaly pattern. The noteworthy kiln residues that were found in 1988 in the garden of the Montelupo museum gave us a documentation that could be dated around the 1480’s. We received precise elements to recognise the genesis of the motif underlining how it is not only a generic overlapping band, but also an extremely stylised wreath. In the oldest findings the development of the blue part is evident and they show an accentuated horizontal trend which suggests the leaves of the wreath. Between the 1400 and 1500’s, this is the typology that is characterised by the biggest dimensions, both in the width of the base and the extension of the figures (usually alluding to religious images, such as the deer facing towards the sky). Apart from the variations of the decor, that can be sometimes divided into sections or changed into an orange band with plant like motifs, we must signal a central image with the stylisation of the sun. The painters make it take on human characteristics (eyes, nose and mouth). It is not easy to establish if these figures are characterised by different attitudes WREATH mals (the dog symbol of fidelity, the rabbit symbol of fertility and the snail symbol of prudence etc.). There were also religious symbols and coat of arms that belong to the various noble families from Florence (especially the Medici family) which does not necessarily refer to the presence of a commission but symbolises a generic illusion of Florence. The writings in the central oval are an exclusive characteristic of the genre. In this way there are celebrations of young women (“Antonia bella”,”Benedetta bella”, “Ginevra bella e pulzella”) and religious warnings (“temete deum”). 29a 29b 29a. Ghirlanda, Piatto con corona marchionale, 1480-90, Ø cm. 21,5 29b. Ghirlanda, Piatto con simbologia di S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 35 GHIRLANDA 29c. Ghirlanda, Piatto con simbologia di S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 32,2 29d. Ghirlanda, Piatto con motivo solare, 1490-1500, Ø cm. 34 29e. Ghirlanda, Piatto con motivo solare antropomorfo, 1490-1500, Ø cm. 33,4 288 RICORRENTE INGLESE 29a. Wreath, Plate with marquis’s crown, 1480-90, Ø cm. 21,5 29b. Wreath, Bowl with symbol of S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 35 29c. Wreath, Bowl with symbol of S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 32,2 29d. Wreath, Plate with sun, 1490-1500, Ø cm. 34 29e. Wreath, Plate with sun on human characteristics, 1490-1500, Ø cm. 33,4 29c 29d 29e arancio, che accoglie motivi vegetali diversi, è da segnalare con il contorno “a ghirlanda” un gruppo con l’immagine centrale stilizzata del disco solare, al quale, apponendovi occhi, naso e bocca, i pittori fanno assumere caratteristiche antropomorfe. Non è facile stabilire, se in maniera intenzionale o meno, a queste figurette si fanno poi addirittura prendere atteggiamenti diversi, in quanto esse si mostrano, a seconda dei casi, sorridenti od imbronciate. Specie nella decorazione di grandi fruttiere su piede (“alzate”), le immagini solari si uniscono frequentemente con parti accessorie dipinte con modalità geometriche in “bianco su bianco” attraverso il ricorso ad un pigmento all’ossido di stagno. 29f. Ghirlanda, Fruttiera con motivo solare antropomorfo, 1490-1500, Ø cm. 30 29g. Ghirlanda, Fruttiera con motivo solare antropomorfo, 1490-1500 29h. Ghirlanda, Scodella con decoro geometrico, 1480-90, Ø cm. 19 29i. Ghirlanda, Piatto simbolico con la cerva (allusivo al salmo 42), 1480-90, Ø cm. 34 29f RICORRENTE ITALIANO 289 RICORRENTE INGLESE 29g 29h 29f. Wreath, Fruit holder with sun on human characteristics, 1490-1500, Ø cm. 30 29g. Wreath, Fruit holder with sun on human characteristics, 1490-1500 29h. Wreath, Bowl with geometrical decor, 1480-90, Ø cm. 19 29i. Wreath, Symbolic plate with the deer (alluding to the Psalm 42), 1480-90, Ø cm. 34 intentionally or not. In fact, sometimes they are smiling and other times frowning. In the decoration of big fruit holders on bases, the sun images are frequently connected to accessory parts painted “white on white” using a tin oxide pigment. 29i OVALI E ROMBI E OVALI 30. OVALI E ROMBI E OVALI Con questo genere siamo di fronte ad una delle tipologie “di punta” della maiolica rinascimentale di Montelupo, tale da poter essere considerata come il prodotto più caratteristico di quelle fornaci, non essendo per di più condiviso, sotto il profilo della vicinanza formale, a quello di altri, importanti centri di fabbrica extraregionali. Il decoro che lo identifica – una losanga con quattro cerchietti posti in prossimità degli apici, poi racchiusa in un ovale – deriva palesemente dall’elaborazione di alcuni spunti geometrici, già presenti nella grande famiglia dei motivi “ad imitazione del lustro metallico”, come dimostrano alcuni reperti restituiti dal grande scarico rinvenuto presso il giardino del vecchio Museo della Ceramica. Ponendosi uno di seguito all’altro, gli ovali descrivono una sorta di catena, che ben si presta a riempire il settore periferico delle forme aperte, mentre sulle chiuse essa si pone in senso verticale, fasciando perfettamente il fianco dei boccali ed il lato non in vista delle forme chiuse in genere. L’importanza di questa composizione è infatti accentuata dal fatto che essa, ad iniziare dalla seconda metà degli anni Ottanta del XV secolo, trova impiego su tutta la produzione montelupina, interessando indifferentemente tutte le tipologie vascolari prodotte. È notabile il frequente accoppiarsi della fascia con decoro “ad ovali e rombi” sulle forme aperte con un settore che viene a stringere le figure dipinte entro l’usuale cerchiatura centrale; esso è di norma formato da una composizione vegetale a foglie stilizzate, e si unisce frequentemente ad un ulteriore contorno con un “filo di perle”: una teoria di cerchietti sottolineati sui margini in blu, che sembrano, richiamando un soggetto assai diffuso nella maiolica rinascimentale, voler suggerire proprio la rotondità della perla. Come nei “nastri”, inoltre, questa composizione si accoppia quasi sempre con elementi vegetali stilizzati a tre lobi, che si utilizzano per saturarne completamente lo sviluppo. Tra i motivi centrali che più diffusamente si accoppiano con la fascia di contorno “ad ovali e rombi” occorre segnalare soprattutto la scacchiera in verde e rosso, con parti intercalari prive di campitura, che incontrò grande fortuna nella produzione montelupina della prima metà del XVI secolo, e finì, con le imitazioni che ne furono tratte, per fornire le basi formali ad un genere decorativo altrettanto importante e numeroso, sviluppato nei centri ceramici dell’Olanda. Sulle forme chiuse, oltre all’impiego della fascia canonica “ad ovali e rombi” si nota il ricorso ad un decoro strutturalmente simile, in quanto concepito come una fascia dall’andamento verticale formata da OVALS AND RHOMBUSES AND OVALS 290 30. OVALS AND RHOMBUSES AND OVALS This genre is one of the most important types in Montelupo’s Renaissance majolica; in fact it is considered the most characteristic product of the furnaces. It is typical only in Montelupo and it cannot be found in other important factory centres outside Tuscany. The decor that identifies it (a rhombus with four small circles on each vertex surrounded by an oval) comes from the elaboration of some geometrical ideas that were already present in the motifs of the imitation of metallic lustre. This was also demonstrated by some findings from the garden of the old ceramic museum. The ovals are one next to the other and they form a chain that fills the peripheral section of the open models. On the closed models this chain is inserted vertically along the sides and the back of the jugs. The importance of this composition is accentuated by the fact that starting from the 1480’s it is used on the entire Montelupo production. The band that is decorated with the ovals and rhombuses is frequently next to a section which tightens the figures in the central circle (normally stylised leaves with a “string of pearls” border). There are small circles with blue borders that remind us of the very common subject of Renaissance majolica, the round pearl. This composition is often accompanied with leaves that have three lobes, which completely saturate the space (like in the “ribbon” motif). One of the more important motifs is the green and red chessboard that was extremely fortunate in the Montelupo production during the first half of the 16th century. The imitations of this genre created the formal bases for an equally important decorative genre that developed in the ceramic centres of Holland. On closed models, apart from the normal band with ovals and rhombuses, we find a decor with a similar structure. This was conceived as a band with a vertical trend formed by ovals that do not have a rhombus on the inside but simple orange horizontal lines. The oval often is also cut in half by a blue band. It is a kind of mixture between the oval chain, with which it shares the structural profile, and the suggestions that derive from the “peacock feather” motif. It is similar to this genre in the versions that are characterised by thin, blue vertical veins. 30a 30b OVALI E ROMBI E OVALI 30a. Ovali, Boccale con figura femminile, 1490-1505, h cm. 24,2 30b. Ovali, Boccale con figura femminile, 1490-1505 30c. Ovali e rombi, Piatto con scacchiera, 1505-15, Ø cm. 33,4 30d. Ovali e rombi, Boccale con stemma Strozzi, 1500-15, h cm. 25,5 30e. Ovali e rombi, Boccale con stemma Medici cardinalizio (Giovanni de’ Medici), 1505-13, h. cm 20 291 30b. Ovals, Jug with woman, 1490-1505 30c. Ovals and rhombuses, Plate with chessboard, 1505-15, Ø cm. 33,4 30d. Ovals and rhombuses, Jug with coat of arms of Strozzi, 1500-15, h cm. 25,5 30e. Ovals and rhombuses, Jug with coat of arms of cardinal Medici (Giovanni de’ Medici), 1505-13, h. cm 20 30c 30d 30e OVALS AND RHOMBUSES AND OVALS 30a. Ovals, Jug with woman, 1490-1505, h cm. 24,2 OVALI E ROMBI E OVALI cerchiature ovali, che non presentano però al loro interno un elemento romboidale, ma semplici barrature orizzontali in arancio; l’ovale è poi spesso tagliato per metà da una fascia in azzurro. Si tratta con tutta evidenza di una sorta di commistione tra la catena “ad ovali”, qui richiamata sotto il profilo strutturale, e la suggestione derivata dal motivo dell’ “occhio della penna di pavone”, al quale questa variante del genere si rapporta, specie nelle versioni contraddistinte da sottili nervature verticali in blu. 30f. Ovali e r