Ceramics Museum`s Catalogue - Museo della Ceramica di

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Ceramics Museum`s Catalogue - Museo della Ceramica di
FAUSTO BERTI
IL MUSEO DELLA CERAMICA DI
THE CERAMICS MUSEUM OF
MONTELUPO
storia, tecnologia, collezioni
history, technology, collections
Ben diverso, infatti, si presentava questo problema ai primordi dell’istituto. Nell’ormai lontano 1983,
infatti, la prima raccolta museale, più che fotografare la
realtà della quale voleva rendere conto, somigliava piuttosto a quei giochi enigmistici nei quali, congiungendo
diversi punti numerati, emerge un disegno sommario.
Essendo pochi i nuclei documentari definiti, la ricostruzione della produzione ceramica di Montelupo necessitava inoltre di un’opera significativa d’integrazione mentale tra gli scarsi punti fermi già stabiliti dall’indagine
archeologica e le numerose lacune che invece il tracciato presentava. Oggi le linee possono finalmente segnarsi
con relativa facilità, ottenendo un’immagine finalmente
conchiusa e coerente, pur se ancora bisognevole, per
dirsi realistica, di tanti colori, toni e chiaroscuri.
La breve premessa era necessaria per introdurre
alla comprensione della complessità che attiene alla
costruzione del Museo della Ceramica di Montelupo e
del progetto di ricerca storica dal quale esso è scaturito:
dovendo rispecchiare peculiari modalità di accrescimento della documentazione e delle conoscenze, infatti,
questo istituto si è realizzato attraverso un’opera “a geometria variabile” – paziente e rischiosa allo stesso tempo
– protrattasi per quasi trent’anni.
Sappiamo come le attività di musealizzazione,
per quanto inevitabilmente sottoposte ad un progetto
INTRODUZIONE
Il Museo della Ceramica di Montelupo.
Le problematiche e lo sviluppo storico del progetto.
Questa pubblicazione non costituisce un catalogo in
senso tradizionale del Museo della Ceramica di Montelupo, non potendolo essere per diverse ragioni, formali e
sostanziali. In primo luogo essa non descrive in maniera
analitica tutti i documenti esposti al pubblico: il loro
numero, assai elevato (oltre il migliaio), comporterebbe
infatti la confezione di un volume dalle dimensioni ponderose e francamente improponibili. Il Museo della
Ceramica di Montelupo, inoltre, rappresenta il terminale di un’attività di ricerca costante, che si concretizza in
un incremento pressoché quotidiano delle collezioni: la
musealizzazione delle raccolte non può che rispecchiare
tale fenomeno attraverso una continua variazione dei
documenti esposti. Ogni tentativo di fermare su carta
questo moto di progressivo avvicinamento ad uno standard sempre più raffinato non potrebbe perciò che produrre documenti imperfetti, inadeguati a restituire una
realtà in continuo movimento. Occorre, quindi, puntare
su una completezza relativa, anche se scientificamente
esauriente dei principali sviluppi tecnologici e formali
della storia della ceramica di Montelupo, aggiornandola
costantemente attraverso newletters e contributi diversi,
in grado di dar conto delle maggiori novità. In ciò, allo
stato attuale di sviluppo dell’impresa museale montelupina, consiste il nostro impegno.
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tions which are able to give an idea of the most
important new developments. In essence, this
encapsulates the enterprise of the Montelupo museum system.
The Institute’s situation was very different at
the beginning. Indeed, in the now distant 1983, the
first museum collection, more than metaphorically
photograph the reality it wanted to give an account
of, resembled rather those enigmatic activities
where joining the numbers together produces an
overall picture. However, having too few defined
documented points of reference, the reconstruction
of the history of ceramic production in Montelupo
required a significant operation of mental integration of the scarce fixed points already established
through archaeological investigation and the
numerous gaps that the layout presented. Today, the
lines can be drawn with relative ease, obtaining an
image that is finally complete and coherent, even if,
being realistic, many colours, tones and shades are
missing.
The brief preamble was necessary to give an
idea of the complex situation regarding the construction of the Museo della Ceramica di Montelupo
and the historical research project from which it
sprung given the particular ways in which the docu-
INTRODUCTION
The Museo della Ceramica di Montelupo.
The problems and the historical development
of the project.
This publication doesn’t constitute a catalogue in
the traditional sense as far as the Museum of Montelupo is concerned as it isn’t, for various reasons,
formal and substantial.
In the first place it doesn’t describe in an analytical manner all the documents on public exhibition: their number, which is quite high (more than a
thousand), would indeed require the assemblage of
a weighty volume that, quite frankly, couldn’t realistically be proposed. The Museo della Ceramica di
Montelupo also represents the terminus of constant
research activity which is consolidated by an almost
daily increase in collection size; a museum exhibition can only mirror this phenomenon through a
continued variation of the exhibits. Each attempt to
capture on paper this progress towards an increasingly refined standard can only produce an imperfect documentation, unable to portray a reality of
continuous movement. It is therefore necessary to
aim towards a relative completion, but one that is
scientifically thorough in demonstrating the principal technological and form developments through
the history of Montelupo ceramics, with constant
updating through newsletters and diverse contribu-
INTRODUZIONE
rappresentare una realtà ben più vasta, facendo comunque intendere che esse tenevano aperto un vettore di
sviluppo, in grado di trasformarle presto in qualcosa di
diverso e di più approfondito.
La musealizzazione del “caso Montelupo”, dovendo praticare una ricerca archeologica e storica “aperta”,
per essere priva di collezioni e documenti organizzati, è
avvenuta perciò senza il ricorso a modelli precostituiti,
ed ha necessariamente dovuto percorrere quelle modalità di accrescimento “variabili” sulle quali ci siamo
poc’anzi soffermati.
Le condizioni nelle quali una questione di non
poco momento, quale la fabbricazione della maiolica
nel centro valdarnese – una delle più importanti d’Europa – versava sino all’ultimo trentennio del secolo scorso,
segnalano d’altronde un problema di distorta percezione, per comprendere il quale non è sufficiente richiamarsi in maniera generica allo scarso interesse che per
lungo tempo avrebbe accompagnato in Italia la storia
della ceramica e delle arti applicate in genere. Fatta
salva una fase storica indubbiamente difficile, che però
non si protrae oltre la metà dell’Ottocento, già nel periodo dell’Unità nazionale si segnala l’opera di non pochi
collezionisti, i quali andavano accumulando cospicue
raccolte di manufatti ceramici in ogni regione della
Penisola. Basta sfogliare i volumi delle Esposizioni Universali che si tenevano presso il Museo Artistico Indu-
striale di Roma sul finire dell’Ottocento, per accorgersi
del livello, per l’epoca notevole, al quale era allora pervenuta la ricerca storica, antiquaria e collezionistica.
Nel caso specifico di Montelupo, ad esempio, sappiamo come già verso il 1870 collezionisti e studiosi
come l’aretino Vincenzo Funghini erano in grado di
individuare alcune produzioni caratteristiche di questo
centro di fabbrica, e ne acquistavano correntemente
esemplari, sia attraverso il mercato delle antichità, che
rivolgendosi ai cosiddetti “cercatori”, personaggi cioè
che si procuravano oggetti, talora scavandoli nei luoghi medesimi di provenienza. Queste figure di appassionati collezionisti, ad iniziare da Giovanbattista Passeri,
praticavano d’altronde essi stessi la ricerca archeologica,
ed erano perciò attratti soprattutto dal valore della testimonianza, oltre che dalla bellezza, dei manufatti, e non
si curavano perciò troppo dello stato frammentario di
quello che trovavano: non per caso il Funghini restaurava il più delle volte di persona ciò che gli procuravano i
suoi “cercatori”.
Si può dire così che in Italia sino all’ultimo decennio del XIX secolo ci si sia dedicati sostanzialmente ad
una libera ricerca delle testimonianze storiche dell’antica produzione fittile nazionale: anche se questa attività
non era praticata dallo Stato, ma piuttosto da appassionati ricercatori, essa era certamente in grado di apportare conoscenze traducibili in un’ampia e variegata
musealizzazione; tutto ciò, però, non avvenne.
Perché, dunque, le eccellenti premesse ottocentesche svanirono nel breve volgere di qualche decennio?
Sarebbe troppo facile rispondere che ciò accadde perché
furono gli stranieri a spoliare l’Italia delle sue opere,
come qualche scrittore ha suggerito. Non sussiste alcun
dubbio sul fatto che i grandi musei inglesi, francesi e
tedeschi siano riusciti ad acquistare, già verso la metà
dell’Ottocento (penso soprattutto al Victoria and Albert)
importanti esemplari di ceramiche smaltate italiane,
mirando ovviamente ad accaparrarsi le gemme più preziose, ma ciò non toglie che in termini numerici la sproporzione tra ciò che restava e che ciò usciva dalla Penisola fosse incomparabile: la sola collezione Funghini
comprendeva infatti più di 15 mila oggetti, molti dei
quali erano proprio ceramiche.
Fu piuttosto il clima che venne a crearsi attorno
al Museo di Faenza a disarticolare una crescita che sino
ad allora era stata vistosa e non traumatica. Nell’Italia
della seconda metà del XIX secolo, da poco unificata
sotto le bandiere dei Savoia, era del resto inevitabile
che prendesse piede il campanilismo delle “piccole
patrie”, che mal tolleravano un più ampio confronto
nazionale, cercando di accreditare le loro “eccellenze”,
veraci o supposte che fossero. Tra i tanti esempi di questa deleteria corsa al primato, che non rappresentò certo
un’esclusività faentina, basterà citare il caso dell’Urbani
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mentation and knowledge increased. Indeed, this
institute has been realized through a “variable
geometry” enterprise, patient and risky at the same
time and protracted for almost thirty years.
We know how museum activity, inevitably
subject to “political” projects, consists of a normative design which is logically complete, already
established during the setting up phase. However, a
similar formula with such tight and rational connotations could never have permitted the scientific
reconstruction and public restitution of the history
of ceramics in Montelupo. Normally, a museum is
built around a collection and not a problem, something like what happens - and there is a meaningful,
not casual similarity to the Montelupo enterprise,
deriving in large part from the same research methods - in an archaeological environment: also in this
case, the growth of the institution depended upon
the archaeological finds and on the collections that
they assured. Archaeological museums however
don’t have as a task the definition of a single problem but of a multiplicity of connected elements that
relate to different periods and questions (dwelling
places and daily lives etc), with which they must
work, without letting them constitute an excessive
limitation for the beneficiaries, and using relatively
flexible approximation and exemplification criteria,
in our case, presenting numerous facets where there
was only one object and only one which had to be
affronted in a coherent and tendentiously exhaustive manner. To create a museum without a patrimony to be collected and exhibited is obviously
impossible, but this wasn’t our case: indeed we had
to construct images that would adequately represent
a vast reality, one that would remain open to developments that could transform it into something different and much deeper.
The creation of a Montelupo “case” museum,
which had to practice “open” archaeological and
historical research, not having organized collections
and documents, came about therefore without pre
established models and has necessarily had to follow the course of a “variable” growth path on which
we have remained.
The conditions under which the representation of the fabrication of majolica in the centre of
the Valdarnese – one of the most important in
Europe - which continued producing up to the last
thirty years of the last century, present a problem of
distorted perceptions, and to understand it, it isn’t
enough to blame in a general manner, the scarce
interest which for a long time accompanied the history of ceramics and applied arts in general. Even
though it was undoubtedly a difficult phase in histo-
ry, one which however didn’t protract beyond the
middle of the nineteenth century, even during the
period of National Unity, the undertakings of the
not few collectors were not noted, collectors who
went about accumulating conspicuous collections of
manufactured ceramics in every region of the peninsula. You only have to turn the pages of the volumes
of the Esposizioni Universale which were kept at the
Museo Artistico di Roma towards the end of the
nineteenth century to have an idea of the level of
historical, antiquarian and collection research.
In the specific case of Montelupo, for example,
we already know that towards 1870, collectors and
amateur researchers such as Vincenzo Funghini from
Arezzo were able to individuate some products characteristic of this centre of production, and they easily
bought examples either through the antiques markets
or through the so called “hunters”, characters who
procured objects, seeking them out in their place of
origin. These passionate collector figures starting
with Giovan battista Passeri, conducted archaeological research themselves and were attracted by the
testimony of these objects as well as their history,
beauty and manufacture. They were not so concerned with the fragmentary condition of what they
found: not by chance Funghini often restored personally that which the “hunters” procured.
We can say that up to the last ten years of the
XIX century in Italy, there was a substantial dedication to finding historical testimony to national
ceramics production: even if this activity wasn’t
practiced by the state but rather by passionate
researchers who were certainly able to provide evidence to a large and varied museum system which
however didn’t materialize. Why then did the excellent nineteenth century initiative disappear over a
brief period of ten years? It would be easy to answer
that it happened because foreigners stripped Italy of
its prized works, as other writers have suggested.
There is no doubting the fact that well known English, French and German museums managed to
acquire, towards the middle of the nineteenth century (above all Victoria and Albert), important examples of Italian glazed ceramics, with the aim of capturing the most precious gems. But this doesn’t
remove the fact that there was a large difference, in
numerical terms, between what remained and what
went out of the Peninsula: the Funghini collection
alone comprised more than 15 thousand objects
most of which were ceramic. It was the climate that
was created around the Museo di Faenza that disrupted a growth that had been up to then very visible but not traumatic. During the second half of the
XIX century in an Italy not long unified under the
INTRODUCTION
INTRODUCTION
INTRODUZIONE
“politico”, consistano di norma in un disegno logicamente conchiuso, spesso già definito nella fase d’impostazione, ma una simile formula dai connotati stringenti e razionali non aveva alcuna possibilità di applicazione al compito di ricostruire scientificamente e restituire al pubblico la vicenda storica della ceramica di
Montelupo. Di norma, infatti, si costruisce un museo
attorno ad una collezione, e non ad un problema: qualcosa del genere avviene – e la somiglianza con la vicenda
montelupina è significativa e non casuale, derivando in
larga parte dalla stessa metodica di ricerca – in ambito
archeologico: anche in questo caso la crescita dell’istituzione dipende dai rinvenimenti e dalle raccolte che i
medesimi assicurano. I musei archeologici, però, non
hanno come compito la definizione di un singolo problema, ma una molteplicità di quadri relativi, che afferiscono a periodi e questioni diverse (le abitazioni, la vita
quotidiana, etc.), ai quali essi si rapportano, senza che
ciò costituisca un’eccessiva limitazione per i fruitori,
con criteri di relativamente larga approssimazione ed
esemplificazione; nel nostro caso, pur presentando
numerose sfaccettature, l’oggetto era invece uno ed uno
soltanto, e doveva perciò essere affrontato in maniera
coerente e, tendenzialmente, esaustiva. Fare un museo
senza un patrimonio da musealizzare è ovviamente
impossibile, e non era dunque questo il nostro caso: qui
si trattava, semmai, di costruire immagini adeguate a
INTRODUZIONE
ge der Majolikakunst in Toskana chiarisce bene il senso
della presenza dominante del polo museale e della rivista faentina agli inizi del XX secolo. Bode, infatti, aveva
segnalato nella sua opera la singolarità e l’importanza
della tradizione fiorentina, notando per la prima volta
come una serie di tipologie che fanno da cerniera tra
Medioevo e Rinascimento, quali la “zaffera a rilievo” e la
famiglia di decori che, sulla scorta del Wallis, si definiva
ormai “italo moresca”, mostravano chiaramente radici
toscane, e fiorentine in particolare. Nel 1913 lo stesso
Ballardini, citando sulla sua rivista il lavoro dello studioso tedesco, annunciava una replica polemica all’opera
dell’illustre collega che, tuttavia, mai fu pubblicata (e
probabilmente neppure tentata): quest’opera fondamentale non è stata mai tradotta in italiano e, stampata in
poche copie a Lipsia e Berlino, non ha, di fatto, mai
circolato in Italia. In tal modo la maiolica “fiorentina”
dell’inizio del Quattrocento è stata “riscoperta” solo
dopo il 1970, grazie agli studi di Galeazzo Cora.
Dopo i duri anni della Prima Guerra mondiale, il
Museo di Faenza fu coinvolto nei fasti del Fascismo,
che lo beneficiò in vario modo, eleggendolo a sede di
ogni manifestazione ceramica nazionale ed internazionale che si teneva in Italia. Fu così che dal 1928 al 1940
si organizzarono presso il Museo di Faenza i Corsi di
storia della ceramica medievale e moderna. Il clima,
nonostante la facciata, non era dei migliori: notiamo, ad
esempio, che, a differenza di quanto normalmente avveniva, le lezioni tenute da Filippo Rossi su Firenze e
Montelupo non vennero mai pubblicate nella rivista,
mentre la scoperta di importanti reperti a Mondaino,
paese posto nell’entroterra di Pesaro, non sortì alcun
risultato: i materiali furono infatti prelevati d’autorità
dall’allievo prediletto del Ballardini, Giuseppe Liverani, che poi inspiegabilmente “li perse”.
Il primato faentino non mancò di scoraggiare i
tentativi di musealizzazione e valorizzazione delle tradizioni locali, alla quale erano chiamati per loro natura
proprio i musei civici, in quanto espressione diretta
delle diverse comunità, ma, salvo rarissime eccezioni, si
trattava di sezioni ceramiche inserite nei musei nazionali, all’interno delle quali non operavano studiosi o conservatori qualificati, in grado di confrontarsi con i colleghi romagnoli. Dentro la macchina dello Stato l’autoritarismo aveva inoltre agio di propagarsi, e le censure subite dal Rossi, allora direttore del Museo Nazionale di
Firenze, sono a tal proposito illuminanti, ma i casi si
potrebbero moltiplicare. Il podestà di Arezzo, ad esempio, contravvenendo alle precise disposizioni testamentarie di Vincenzo Funghini, convinse i suoi eredi a versa-
re la raccolta ceramica da lui formata presso il Museo
Nazionale; in tal modo non soltanto non nacque una
raccolta civica autonoma, la quale avrebbe avuto un
ben diverso impatto sulla musealizzazione della ceramica in Toscana, ma gran parte dei materiali della collezione, non trovando spazio in quel contesto, finirono nei
depositi (dove ancor oggi si trovano).
Detto questo, non si devono altresì dimenticare
quei fattori culturali che, unendosi a questo clima di
“lotta per il primato”, contribuirono da par loro ad
allontanare, già tra le due guerre mondiali, una possibile affermazione dei musei della ceramica e delle arti
applicate in Italia. Bisogna riconoscere obbiettivamente
– ma ciò non giunge certo a scalfire la grandezza del
personaggio – che questo clima avverso si collega
all’opera di un grande italiano: Benedetto Croce, un
intelettuale di livello europeo che rappresentò nei tempi
bui del Fascismo l’unica fonte di pensiero libero e democratico. La dottrina idealistica crociana si contrapponeva fieramente a quelle forme di positivismo – divenuto ormai deteriore – che lo studioso napoletano aveva
conosciuto sin dai tempi della formazione intellettuale.
La musealizzazione di manufatti che derivavano da
INTRODUZIONE
de Ghetholf, che, per ricondurre nella sua regione l’attività dei Terchi, trasformò Bassano Romano nell’omonima località (Bassano del Grappa) del Veneto, producendo un documento falso, appositamente fabbricato.
L’incredibile tesi che l’Argnani, a spese del Ministero della Pubblica Istruzione, venne accreditando
attraverso un’opera per quei tempi monumentale, non si
può comprendere nella sua genesi se non riflettendo sul
fatto che già nel 1870 la borghesia faentina si era data
come programma la costruzione di una supremazia
sulla ceramica italiana, che passava attraverso l’identificazione tout court della tradizione nazionale con l’opera
dei vasai di quel luogo. La baruffa accesasi poi attorno a
Cafaggiolo, la cui esistenza – ed è davvero singolare –
doveva essere negata per affermare la supremazia del
centro romagnolo, sbarrò la porta ad ogni possibile
costruzione condivisa della storia della ceramica italiana. Proprio perché redarguiti da tutto il consesso internazionale, i promotori dell’iniziativa faentina decisero di
passare all’azione, affidando a Gaetano Ballardini il
compito di superare de facto questa difficoltà attraverso
la costruzione di un museo della ceramica. Era tuttavia
evidente che la musealizzazione dei manufatti faentini
non sarebbe stata sufficiente da sola a consolidare la
supremazia nazionale di Faenza, ed è per questo che
nel 1911 lo stesso Ballardini fondò la rivista “Faenza”.
La vicenda dell’opera di Wilhelm Bode Die Anfan-
La copertina del volume Die Anfange der Majolikakunst in Toskana
di Wilhelm Bode
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flag of Savoia, it was quite inevitable that parochial
“little homelands” would emerge in opposition to
national unity and these attempted to accredit their
own “excellence”, whether true or supposed.
Amongst these was the case of Urbani de Ghetholf,
who, to conduct in his region the Terchi activity,
transformed into Basano Romano the Homonymous locality (Bassano del Grappa) del Veneto, producing a false document, fabricated specifically for
that purpose.
The incredible thesis that the Argnani, paid
for by the Ministry of Public Instruction, was
accredited for what was for those times a monumental work, can’t be understood unless one considers the fact that already in 1870 the Faentina Bourgeoisie had as a programme the construction of a
supremacy of the Italian ceramic industry, which
passed through the identification tout court of the
national tradition with a collection of vases from
the local area. The lively dispute that erupted
around Cafaggiolo whose existence - and it is truly
singular – had to be denied in order to affirm the
supremacy of the Romagnolo centre, doors were
closed in front of any attempt at joint efforts in the
Italian ceramics industry. As it was rebuked internationally, promoters of the Faentina initiative decided
to take action, entrusting Gaetano Ballardini with
the task of overcoming this difficulty through the
construction of a ceramics museum. It was however
obvious that a collection based on objects manufactured in Faenza alone would not have been enough
to consolidate the national supremacy of Faenza so
in 1911, Ballardini founded the magazine “Faenza”.
The work by Wilhelm Bode Die Anfange der Majolikakunst in Toskana illuminated the domination of
the museum system in Faenza and the importance
of the magazine at the beginning of the XX century.
Bode, indeed, indicated in his work the singularity
and importance of the Florentine tradition, noticing
for the first time how a series of typologies can form
the hinge between the medieval and Renaissance
periods, for example the “Zaffera relief” and the
family of decorators who are , after Wallis, defined
as “Italo Moresca”, demonstrating clear Tuscan
roots and particularly Florentine. In 1913 the same
Ballardini, citing in his magazine the work of the
German amateur researcher, repeated the affirmation but it was never published (and probably not
even considered): fundamentally, this work has
never been translated into Italian and never circulated in Italy and only a few copies were printed in
Lipsia and Berlin. Given the circumstances, Fiorentine Majolica, produced since the beginning of the
fifteenth century, was only rediscovered after 1970
Die Anfange der Majolikakunst in Toskana (Wilhelm Bode),
INTRODUCTION
INTRODUCTION
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Book cover
thanks to the studies of Galeazzo Cora.
After and during the First World War years,
The Faenza museum was involved in the annals of
Fascism which benefited it in many ways, having a
prized place in every national and international
ceramics event held in Italy. From 1928 to 1940
courses on the history of medieval and modern
ceramics were organized in the Museum. The climate, notwithstanding appearance, wasn’t the best:
for example, the lessons held by Filippo Rossi on
Florence and Montelupo were never published in
the magazine, while the important discovery of
objects at Mondaino, near Pesaro, produced no
result, the material was removed with authority by
Giuseppe Liverani, a student of Ballardini and later
“got lost”. Attempts to value reflect local traditions
in the civic museum systems were discouraged apart
from rare occasions, rather sections of ceramics
were placed in National museums within which
there were no qualified conservers or researchers
able to compare their ideas with their Romagnoli
colleagues. Within the State machine, authoritarianism needed to propagate, and the censures suffered
by Rossi, the then director of the Museo Nationale
di Firenze are illuminating but there were indeed
many more such cases. The jurisdiction of Arezzo,
for example, contravening the wishes of Vincenzo
Funghini, convinced his heirs to give the entire collection to the National museum; in these circum-
INTRODUZIONE
vocate dal conflitto congelarono ovviamente ogni possibilità di sviluppo della rete museale nazionale, mentre il
predominio delle posizioni idealistiche e crociane, ormai
pienamente attuato, frenava da par suo l’interesse per la
storia di un’arte ormai concordemente considerata
“minore”.
Fu la definitiva ripresa postbellica, per il nuovo
clima civile e culturale che venne diffondendosi, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, a creare le premesse
per un effettivo sviluppo museale in tema di storia della
ceramica, e, con esso, l’occasione per portare finalmente alla ribalta il caso di Montelupo. La ricerca storica in
senso lato – e quindi anche l’archeologia e la storia dell’arte – andarono incontro in quegli anni ad un’enorme
dilatazione dei loro confini disciplinari, lasciando inevitabilmente scettici uomini la cui formazione intellettuale risaliva ad epoca anteriore: un conflitto generazionale che attraversò le coscienze, e che bene si può percepire, ad esempio, nelle pagine metodologiche scritte
allora da Ranuccio Bianchi Bandinelli: uno studioso
che pure aveva contribuito a questo stesso processo di
rinnovamento.
Ovviamente una tale innovazione era stata annunciata da tempo da uomini coraggiosi ed appassionati,
anche se soltanto nell’Europa definitivamente risorta
dalle macerie del conflitto mondiale trovava il modo di
affermarsi. Ai giovani di allora – ed ancor più a quelli
che si formarono nei primi anni ’Settanta – pienamente
coinvolti nel tumultuoso turbine della circolazione internazionale delle idee, sembrò così naturale allargare
quasi a dismisura i propri orizzonti ed i propri interessi.
Fu in particolare la scuola storica francese e l’influenza
che essa diffondeva tramite la rivista Annales, creata da
Marc Bloch e Lucien Febvre, a rendere quasi popolare
l’esigenza di scrivere la storia “à part entière”, utilizzando
per questo tutte le fonti idonee a cogliere un obbiettivo
tanto ambizioso. Ai giovani storici ed archeologi divenne
così cara e familiare l’immagine di Bloch, intento a studiare la storia rurale francese en pleine aire, ricercando
sul terreno la forma dei campi, e l’esempio di Fernand
Braudel, intento a scrivere un’opera storica sul Cinquecento che aveva come protagonisti, piuttosto che gli
avvenimenti, non solo i popoli, ma anche i mari, le montagne, ed i fiumi di uno spazio inteso come vivo e vitale.
E come la narrazione storica all’improvviso voleva togliersi di dosso l’aggettivo di événementielle, ricercando una più ampia e complessa articolazione, così
l’archeologia scopriva il quotidiano, le strutture abitative, la ceramica d’uso comune; essa usciva dai ristretti
ambiti cronologici e tematici di un tempo per andare
incontro al Medioevo ed alla storia della tecnologia,
della produzione, degli scambi e del popolamento di
quei mille e cinquecento anni, prima di allora indagati
soltanto con l’ausilio delle fonti scritte. E non per caso –
a sottolineare la saldatura tra nuova storiografia e nuova
archeologia – il primo testo di archeologia medievale
che tutti i giovani archeologi studiavano era proprio un
Cahier des Annales dedicato agli scavi dei villages desertés
francesi.
Anche in questo caso, come in ogni processo di
cambiamento, non mancarono certamente le esagerazioni e l’eccessivo accreditamento di alcune pratiche di
studio a detrimento di altre, ma il fenomeno della diffusione dell’archeologia medievale, nel più generale contesto di una nuova sensibilità per la storia, venne comunque a trasformarsi in attività concreta e diffusa all’inizio
degli anni Settanta. Ed è proprio da qui che prese inizio
la ricostruzione delle vicende legate alla produzione
della ceramica in Montelupo.
Tutto si avviò in una data precisa, e – per quanto
si è visto – non casuale: il 1973. L’amministrazione
comunale di Montelupo Fiorentino intese infatti realizzare in quell’anno un modesto intervento di risanamento urbano, che riguardava il margine inferiore dell’area
detta “del castello”, poiché, come meglio vedremo nella
pagine successive, qui sorse il primo nucleo abitato di
apprezzabili dimensioni posto sulla collina di Montelupo; assumendo la fisionomia di un castello cinto di
mura, questo insediamento ha così lasciato un’impronta indelebile di sé nella toponomastica locale. All’estre-
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stances, not only was an autonomous civic collection halted, one that would have had a very different
impact on the ceramics museum system in Tuscany,
but much of the material, as there wasn’t enough
space, finished in deposits (where they remain
today).
This said, lets not forget the influence of the
cultural factors which, united with the “struggle for
supremacy” contributed to towards the distancing,
also during the two world wars, of a possible affirmation of the ceramics museums and applied arts
in Italy. We need to objectively recognize – but not
simply to blur the greatness of the person – that this
adverse climate is connected to the work of a great
Italian: Benedetto Croce, an intellectual on a European level who represented during the dark ages of
Fascism, the only source of free and democratic
thought. The idealistic doctrine marked with a cross
was fiercely opposed to that form of positivism –
which had become worse – that the studious Napolitano had known since his intellectual beginnings.
The exhibiting in a museum of manufactured
objects deriving from the applied arts seemed to be
a form of materialism for Croce and part of the
“positivism” doctrine and encyclopaedic, something
he had fought against for all his life. As it often happens however, it wasn’t the master but the disciples
and interpreters – the lash of the Italian manager
class that had emerged from the second world war –
who advanced this position arguing that even in this
field there should be made a division between “poetry and non poetry” which represents a reference
point when establishing the criteria for “Crocian”
(Cross) art. Museums yes, but with poetic works
where the human spirit dwelled in all its genuine
splendour, not collections of products manufactured
in series which reminded one of the infinite classifications of scientific positivism.
Twenty years of Fascism therefore posed
objective obstacles, institutional in character, to the
growth of museums dedicated to ceramics, sustaining openly the centrality of Faentina and developing, more than an objective research of traditional
history, the utopia of an autarkical production
linked to the particular kind of development
assigned to the Musei Artistico-Industriali in that
period, the reference models of which revolved
around the historic production of Urbino and Faenza; at the same time, the diffusion of the idealistic
doctrine tightened the level of social consensus
regarding every form of museum destined artefact
that didn’t have high artistic objectives as its aim.
The Second World War and the destruction it
provoked froze every possibility for development of
the national museum network whilst the predominance of the idealistic and “cross” positions, as they
were fully activated, put a brake on its interest for
the history of an art that was generally considered
“minor”.
It was the post war recovery and the new civil
and cultural climate, especially during the 1960’s
that created the preamble for an effective development of the museum system based on the ceramics
theme, and the occasion to bring to the fore the case
of Montelupo. Historical researches, in a wide sense
– and therefore archaeology and the story of art –
experienced an enormous dilatation of their disciplinary borders, leaving those whose intellectual
formation took place in a preceding epoch sceptical:
a generational conflict which crossed consciences,
something which can be perceived in the methodological pages written by Ranuccio Bianchi
Bandinelli: a scholar who contributed to the renewal process.
Obviously, such an innovation had been spoken of by courageous and enthusiastic men much
before, even if only the parts of Europe definitively
recovered from the world conflict could assert
themselves. To the young at the time – even more so
those whose formative years were the 1970’s – completely involved in the tumultuous turbine of the
international circulation of ideas, it seemed very
natural to enlarge their horizons and their interests
to a disproportional level. It was in particular the
historical French school and its influence diffused
through the magazine Annals created by Marc
Bloch and Lucine Febvre that made quite popular
the need to write history “à part entier”, using all
the appropriate sources required to achieve such an
ambitious objective. The image of bloch intent on
studying rural France en pleine aire, doing his
research on the fields themselves was very dear to
the young historians and archaeologists of the time
as was the example of Fernand Braudel, who, intent
on writing a historic piece on the history of the sixteenth century, had as protagonists not only people
and events but the seas, mountains, and rivers, elements which gave life and vitality.
And like improvised historical narration he
wanted to remove the adjective évenementielle as he
searched for a wider and more complex articulation,
permitting archaeology to discover daily life, housing structures, the everyday use of ceramics; it
emerged from the restrictive chronological limits
and themes of a time to permit a meeting with the
Medieval and the story of technology, from production, exchanges, to the populating of those one
thousand five hundred years. Before then, investiga-
INTRODUCTION
INTRODUCTION
INTRODUZIONE
un’attività di arte applicata sapeva però per Croce di
materialismo e di quella dottrina “positiva” ed enciclopedica che egli aveva combattuto per tutta la vita. Come
spesso avviene, però, non fu tanto il Maestro, quanto i i
discepoli e gli interpreti – il nerbo della classe dirigente
italiana uscita dalla Seconda Guerra Mondiale – a porsi
su queste posizioni, ritenendo che anche in questo
campo potesse valere quella divisione tra “poesia e non
poesia” che rappresentava uno dei capisaldi della critica
d’arte crociana. Musei sì, dunque, ma di opere poetiche,
dalle quali lo spirito umano rifulgesse in tutto il suo
genuino splendore, non raccolte di manufatti prodotti in
serie, che tanto ricordavano le infinite classificazioni
dei naturalisti del Positivismo scientifico.
Il ventennio fascista pose dunque ostacoli oggettivi, di carattere istituzionale, alla crescita di musei dedicati alla ceramica, sostenendo apertamente la centralità
faentina, e sviluppando, più che un’oggettiva ricerca
della tradizioni storiche, l’utopia di una produzione
autarchica, legata al particolare sviluppo assegnato in
quel periodo ai Musei Artistico-Industriali, i cui modelli di riferimento ruotavano attorno alle produzioni storiche di Urbino e di Faenza; nel contempo la diffusione
della dottrina idealistica restringeva il consenso sociale
ad ogni forma di musealizzazione che non mirasse ad
alti obbiettivi artistici.
La Seconda Guerra Mondiale e le distruzioni pro-
INTRODUZIONE
inselvatichiti ed i ruderi dei casamenti antichi ormai
contrassegnavano il paesaggio, che come per miracolo
riemerse la memoria storica di Montelupo.
Mentre il lavoro procedeva, e non si era ancora
spento l’eco delle prime picconate con le quali avevano
demolito i vecchi lavatoi, gli operai incontrarono infatti
un largo cerchio di pietre. Si trattava dell’imboccatura di
un grande pozzo, nel cui interno, spuntando dalla terra
nerastra, luccicavano in quantità frammenti di maioliche di ogni tipo. Chi vide non seppe trattenersi, tanto lo
spettacolo doveva essere suggestivo; così il capo cantoniere ne raccolse le più belle in un foglio di giornale, e le
portò al capo dell’ufficio tecnico comunale. Montelupo
era allora un comune di circa diecimila abitanti, e simili ritrovamenti, come altre volte era accaduto, portavano
di norma a qualche discussione, e magari ad un qualche
apprezzamento delle “curiosità” locali, che però sarebbe
stato l’anticamera della decisone più prevedibile: prendiamo qualcosa, ma ricopriamo tutto alla svelta. D’altra
parte si sarebbe altrimenti interrotto un lavoro pubblico.
In quell’ormai lontano 1973 tutto ciò non avvenne, e non fu tanto “per fortuna”, quanto per le qualità
umane ed intellettuali di Silio Fantozzi, che allora si
trovava a dirigere l’ufficio tecnico comunale. Figlio di un
maestro elementare, egli aveva esercitato l’insegnamento in vari istituti superiori della Toscana, e, anche per
questo, non gli era estranea la consapevolezza del valore
di quelle testimonianze. È però del tutto evidente che il
positivo interessamento dell’ingegnere, ove non fosse
stato avvalorato dagli esponenti dell’amministrazione
comunale allora in carica, non avrebbe condotto alla
valorizzare di quanto il contenuto di quel foglio di giornale prometteva. Fu ovviamente all’assessore ai lavori
pubblici dell’epoca, Angelo Faggioli, che Fantozzi sottopose il problema, prospettandogli la possibilità di variare il progetto in maniera tale da poter esplorare la struttura venuta casualmente alla luce, senza per questo
rinunciare ai lavori di risanamento. Faggioli accolse
con entusiasmo tale proposta, e così, nell’arco di tempo
di circa due anni, i cantonieri del comune effettuarono
un primo sondaggio del pozzo, svuotando il suo interno
sino alla profondità di circa due metri.
Si giunse così all’anno 1975, allorquando la notizia dei ritrovamenti montelupini giunse alle orecchie
del Soprintendente archeologo per la Toscana, Guglielmo Maetzscke. Il soprintendente pensò che fosse suo
dovere raffreddare in primo luogo i nascenti entusiasmi del comune di Montelupo, temendo una dispersione
dei materiali e, soprattutto, una conduzione impropria
ed irrazionale dello scavo. Sinceratosi, tuttavia, delle
buone intenzioni degli amministratori e dei funzionari
locali, pensò poi di inviare sul posto, per effettuare al
meglio l’indagine del contenuto del pozzo, che ormai si
qualificava come un grande scarico di fornace, una delle
leve più promettenti della nascente pattuglia degli
archeologi medievalisti: Guido Vannini.
L’archeologia medievale era allora alle prime
armi in Italia: essa, infatti, stava crescendo soltanto da
due anni attorno all’omonima rivista che si pubblicava
a Firenze, e dipendeva soprattutto dall’ attività di
ricerca che faceva capo a Tiziano Mannoni e ad altri
studiosi liguri, nonché a quella promossa dall’insegnamento fiorentino di storia medievale di Elio Conti. I
liguri, assai più avanti dei toscani, avevano consolidato
la loro esperienza sull’esempio di Nino Lamboglia e dell’Istituto di Studi Liguri, mutuando da essi una particolare attenzione a quella che allora soleva appellarsi
come “cultura materiale”, ove lo studio della ceramica
INTRODUZIONE
mo lembo nordorientale del “castello”, nei pressi dei
ruderi di un’antica porta, detta probabilmente “al fico”
per la presenza di alberi da frutto, laddove la strada,
discendendo verso il torrente Pesa, usciva dal castello,
un punto pianeggiante si allargava tra un modesto
ceppo di case ed il ripido pendio del margine collinare.
In questo slargo la mano dei residenti, aiutata da qualche operaio comunale, aveva eretto alcuni lavatoi pubblici: necessari negli anni del dopoguerra, essi si erano
ormai trasformati in un fastidioso ingombro.
Il progetto comunale prevedeva dunque la demolizione delle vasche dei lavatoi, inutili e poco igieniche,
la costruzione di un muro a retta verso la collina, e la
posa in opera di pavimentazione in pietra: la realizzazione, insomma, di una microscopica piazza, che, dopo
tanti anni difficili, rappresentava un primo passo, quasi
simbolico, verso il decoro urbano della porzione più
elevata del paese, resa marginale dal progressivo trasferimento di non poca parte della popolazione nelle
moderne residenze del fondovalle.
È bello pensare che questo atto di gentilezza, trascorso il tempo dei truculenti risanamenti bellici e del
costruire rapido ed approssimativo, finalizzato com’era
a rimettere in piedi le industrie del vetro e della ceramica, abbia apportato a questa comunità un dono tanto
significativo. Fu infatti qui, nel Castello, il luogo più
antico, ma oggetto di incipiente abbandono, ove gli orti
L’inizio della scavo del “pozzo dei lavatoi” nell’anno 1973
27
tion came through the help of written sources. And
not by chance – to underline the solid base between
historiography and archaeology – the first text on
medieval archaeology that all the young archaeologists studied was a Cahier des Annales dedicated to
excavations in the French villages deserté.
Also in this case, as in every process of
change, there was no lack of exaggeration and
excessive accrediting by some study groups at a cost
to others but the phenomenon of a diffusion of
medieval archaeology in a general context of
increased sensibility towards history was however
transformed into concrete activity and diffused in
the 1970’s. It was from this point that the reconstruction of the enterprises linked to the production
of ceramics in Montelupo began. Everything started
on a precise date, and – as much as can be seen –
not casual: 1973. In that year, the local administration of Montelupo Fiorentino intended to undertake
a modest urban improvement which related to the
area called, “del castello”, then, as we will see in the
following pages, here rose the first inhabited nucleus of any appreciable size positioned on the hill of
Montelupo; assuming the physiology of a castle surrounded by walls which has left an indelible print
on the local toponymy. On the extreme northwest
edge of the “castle”, near the remains of an antique
gate, probably called “al fico” thanks to the presence
of fruit trees, there where the road descends
towards the torrent Pesa, a flat point, emerging
from the castle, widened between a modest set of
houses and a steep hill escarpment. In this opening,
the residents helped by some labourers had erected
some public works, necessary during the after war
years, which had become fastidious and cumbersome.
The council project foresaw the demolition of
washing troughs, useless and not very hygienic, the
construction of a wall erected towards the hill and
stone paving: the accomplishment, in the end, of a
microscopic square which after many difficult years
would represent a first step, almost symbolic,
towards the urban decoration of the highest point of
the village made marginal by the transference of
much of the population to the modern residences in
the valley. It is charming to think that this act of
kindness, after the period of truculent war mongering and quick fix, approximate construction, and
finalized toward bringing to its feet the glass and
ceramics industry, has brought to this community a
significant gift. Indeed it was here, in that castle, the
most ancient place but object of wasteful abandon
where the overgrown vegetable gardens and ruins of
houses marked the landscape, where, seemingly
The beginning of the excavation of the Pozzo dei Lavatoi
INTRODUCTION
INTRODUCTION
26
(washing well) in 1973
miraculously, the historical memory of Montelupo
re emerged.
While the work proceeded and before the echo
of the first blow to hit the old baths died, the workers found a wide circle of stone. It was the opening
of a large well in which, pointing out from the dark
earth, a large quantity of fragments of majolica of
every type were seen. Whoever saw the spectacle
was unable to contain themselves as it was so suggestive; the site boss enclosed the most beautiful in
a newspaper and took them to the head of the town
council’s technical office. At that time, Montelupo
was a community of about ten thousand inhabitants, and similar finds in the past had caused discussions as well as some appreciation of the local
“curiosity”, which however would have been only
the antechamber of the predictable decision: let’s
take something and quickly cover the rest, after all
public works would be interrupted. In the now distant 1973 however, all that didn’t happen largely
thanks to the human and intellectual qualities of
Silio Fantozzi, who at the time was the manager of
the town council’s technical office. Son of an ele-
mentary schoolteacher, he had taught in many Secondary schools in Toscana and also for this reason,
he realized the value of the find. It is however very
evident that the positive interest on the part of this
engineer alone wouldn’t have been enough to get the
contents of that sheet of newspaper valued and that
there needed to be interest on the part of the exponents of the town council administration then in
INTRODUZIONE
fondamentale nelle datazioni relative dei depositi
archeologici: senza una conoscenza raffinata della ceramica, infatti, è praticamente impossibile effettuare una
qualsivoglia indagine archeologica. Poiché, inoltre, una
disciplina alle prime armi ha un’impellente necessità di
sistemare i propri fondamenti, si può ben comprendere
come la neonata archeologia medievale avesse all’inizio degli anni Settanta uno spasmodico interesse ad
indagare ogni aspetto della ceramica postclassica.
Se poi c’era un luogo d’Italia del quale si era
venuti da poco – e con grandissima sorpresa – ad intuire l’importanza, questo era proprio Montelupo. Nel 1973
(ed è questa la terza, fondamentale coincidenza) usciva
infatti a Firenze per i tipi della casa editrice Sansoni
l’opera monumentale in due volume di Galeazzo Cora,
Storia della maiolica di Firenze e del Contado. Ad onta del
titolo del quale si fregiava, chi non le rivolgeva solo
sguardi frettolosi ben comprendeva come questa storia, sotto la trama di un’indubbia koiné fiorentina,
mostrava la fisionomia di due centri di produzione: Bacchereto e Montelupo. Il primo, un castello posto sul versante settentrionale del Montalbano in faccia alle città di
Prato e di Pistoia, mostrava i tratti del luogo ove in
epoca più antica si era dato avvio alla fabbricazione su
“larga scala” della ceramica smaltata, mentre il secondo
si poneva invece come il centro ove, nel pieno XV secolo, erano venute a concentrarsi le attività ceramistiche
fiorentine, supportate dal capitale mercantile della
Dominante. Conoscere le vicende montelupine, oltre
che entrare nel vivo di uno straordinario fenomeno di
produzione preindustriale, significava dunque mettere a
punto le conoscenze indispensabili all’interpretazione
di molti scavi postclassici, non soltanto effettuati in
Toscana, ma condotti anche di ambito nazionale ed
internazionale, visto che materiali del tutto simili a quelli valdarnesi emergevano in svariati contesti europei,
primi tra tutti quelli inglesi e francesi.
Tutto questo, dunque, si concentrò in un breve
volgere di tempo: nel 1973, mentre dal sottosuolo di
Montelupo emergeva l’imboccatura del “pozzo dei lavatoi”, nasceva “ufficialmente” l’archeologia medievale italiana con il primo numero dell’omonima rivista; un pubblico sempre più largo di lettori e studiosi si interessava
contemporaneamente alle vicende della maiolica “fiorentina” dei secoli XIV e XV grazie a Galeazzo Cora ed
alla veste monumentale e prestigiosa con la quale il suo
studio usciva dalle stampe. Nell’arco di pochi anni, inoltre, si concentrarono i primi interventi di scavo condotti in Toscana con l’intento di indagare contesti postclassici; tra questi un cantiere a Firenze in piazza della
Signoria, che seguiva quello di Santa Reparata, ed altri a
Prato e nel suo territorio, a Pistoia ed in diverse località
minori della regione.
L’importanza dello scavo di un contesto di produ-
zione, formato dagli scarichi di rifiuto delle fornaci di
un centro di fabbrica come Montelupo, non poteva dunque sfuggire ad uno studioso attento come Guglielmo
Maetzscke, perché assumeva i contorni della più stringente attualità ed era in grado di dischiudere orizzonti
di conoscenza di grande interesse. Non era però sufficiente porre a capo delle operazioni da effettuare all’interno del pozzo un giovane archeologo per garantire la
correttezza scientifica dell’intervento di scavo: occorreva
infatti mettere a sua disposizione una squadra che
potesse operare anche per la conservazione e l’archiviazione dei reperti, con l’obiettivo di ricostruire poi al
meglio, attraverso il restauro, la morfologia e le tipologie
decorative delle quali i materiali scavati costituivano
preziosa testimonianza.
Molti aspetti di questa vicenda appaiono oggi
quasi incredibili, nel senso che si rischia di attribuire
loro una sorta di ineffabile predisposizione a comporsi
entro un quadro coerente, destinato a supportarne l’evoluzione in senso positivo, e realizzare così la piattaforma
sulla quale è poi cresciuta e si è realizzata l’opera collettiva del Museo della Ceramica e della ricostruzione delle
vicende storiche locali. Due giovani erano infatti cresciuti in questi luoghi, uno a Montelupo, Fabrizio Coli, e
l’altro nella vicina Empoli, Alberto Forconi: entrambi
ceramisti, essi nutrivano una forte passione per l’antico,
e ciò li aveva portarti a frequentare la prima associazio-
29
28
charge. Fantozzi turned to the public works assessor, Angelo Faggioli to solve the quandary proposing
that he vary the project in order to permit the exploration of the structure that had casually come to
light, without renouncing the programmed public
works. Faggioli welcomed with enthusiasm the proposal, and in consequence, within two years, the
town council site staff effected the first investigations of the well and emptied its contents up to two
metres of depth.
It was 1975 when the news of the Montelupo
find reached the ears of the Superintendent Archaeologist for Tuscany, Guglielmo Maetzscke. The
Superintendent thought it was his duty to calm the
situation in Montelupo to avoid a dispersion of the
materials and above all, an improper and irrational
excavation of the site. To be sure of the good intentions of the administration and local functionaries
however, he thought to send to the site, presumed to
be a large dumping ground, one of the most promising of the new battalions of medieval archaeologists:
Guido Vannini. Medieval archaeology at the time
was in its early stages in Italy: indeed it had been in
expansion for around two years and boasted its own
magazine of the same title which was published in
Florence and depended above all on the research
activity of Tiziano Mannoni and other Ligurian
scholars, as well as that promoted by the Florentine
teaching of Medieval History by Elio Conti, The Ligurians being more advanced than the Tuscans, having consolidated their experience using the example
of Nino Lamboglia and the Istituto di Liguri Studi,
giving particular attention to what was known as
“cultural material”, where the study of ceramics was
of primary importance. The Tuscans however counted more on their intelligence and the scientific far
sightedness of Guglielmo Maetzscke who, after having spent not a small part of his life devoted to the
archaeological research of Medieval Florence, nourished a pure propensity towards “incubating” the
young discipline and used all available means to
help it along.
In order to understand how the discovery of
the Montelupo well - thereafter known as the “washing trough well” in memory of what existed there
before – didn’t end up forgotten like many previous
finds, it’s necessary to consider the intellectual climate at the time which was favourable to Medieval
and Post Classical archaeology in general and which
pervaded at the right time as far as the discovery in
1973 was concerned. But that’s not all. It is well
known that the most solid base of the archaeological disciplines, in particular those which deal with
historical epochs, is the knowledge that comes
through the understand of ceramics, for the simple
reason that ceramics represent the vast majority of
objects recovered. As well as supporting the study of
various cultures, the study of ceramics gives an indication of commercial flows and in a determining
way, gives fundamental testimony to the dating of
archaeological deposits: without a refined understanding of ceramics indeed, it would be practically
difficult to effect any archaeological research. Since
a new discipline has an impelling need to fix its own
foundations, one can understand why the new born
Medieval Archaeology had, at the beginning of the
1970,s a spasmodic interest in investigating any
aspect of post classic ceramics. If there was a place
in Italy, surprisingly, that had understood the importance of this, it was Montelupo. In 1973 (and this is
the third fundamental coincidence) the publishing
house Sansone produced a monumental piece in
two volumes entitled Storia della maiolica di Firenze
e del contado by Galeazzo Cora. Whoever took the
time to study the volumes more than superficially
could understand a undoubtable Florentine Koiné,
the main emphasis was on two centres of production: Bacchereto and Montelupo. The first, a castle
set on the northern slope of Montelbano facing the
cities Prato and Pistoia demonstrated traces of large
scale glazed ceramic production, while the second
was seen as a centre where, in the XV century, Florentine ceramic producers concentrated their production supported by the mercantile capital of the
dominant. Knowing about the Montelupo affair, as
well as illuminating an extraordinary phenomenon
of pre industrial production, signifies having a
greater understanding of the indispensable knowledge regarding the interpretation of many post classic excavations, not only conducted in Italy but on a
National and International level as much of the
material which emerged in Valdarno was similar to
that which emerged in various European contexts,
above all in France and England.
All of this however took place in a short period : in1973, while from the undergrowth of Montelupo the “washing trough well” emerged, the first
issue of the Italian Medieval Archaeology magazine
came out “officially” and an increasing number of
people took interest in the “Florentine” XIV XV century majolica thanks to Galleazzo Cora and the
prestige attached to his printed works. Over the next
few years, the first excavations conducted in Tuscany with the intention of investigating post classic
contexts including sites in Florence such as Piazza
della Signoria which followed Santa Reparata and
others in Prato and its surrounding areas as well as
Pistoia and smaller localities nearby. The impor-
INTRODUCTION
INTRODUCTION
INTRODUZIONE
esercitava un ruolo di primaria importanza. I toscani
contavano invece soprattutto sull’intelligenza e sulla
lungimiranza scientifica di Guglielmo Maetzscke che,
dopo aver dedicato parte non secondaria della sua attività di studioso all’indagine archeologica della Firenze
medievale, nutriva ora una vera e schietta propensione
“ad incubare” la giovanissima disciplina, che infatti aiutava a compiere i suoi primi passi con tutti i mezzi che
gli erano accessibili.
Per comprendere come il ritrovamento del pozzo
di Montelupo – poi conosciuto come “pozzo dei
lavatoi”, per la memoria di ciò che gli stava sopra – non
abbia avuto in sorte l’oblio dei molti altri ritrovamenti
locali, occorre quindi richiamare questo clima intellettualmente favorevole all’archeologia medievale e
postclassica in genere che si determinò in perfetta sincronia con il suo casuale ritrovamento nell’anno 1973.
Ma questo non è tutto.
Come si sa, la base più solida delle discipline
archeologiche, ed in particolare di quelle che si rivolgono alle epoche storiche, è rappresentata dalla conoscenza della ceramica, per la semplice ragione che le restituzioni di materiale ceramico costituiscono la stragrande
maggioranza dei ritrovamenti. Oltre a supportare lo studio di vari aspetti culturali e sociali, la ceramica può
svolgere la funzione di indicatore dei flussi commerciali e, in misura determinante, il ruolo di testimonianza
INTRODUZIONE
nelle fabbriche di Montelupo, e che univano ad una raffinata conoscenza della materia ceramica una non
banale qualificazione archeologica, derivata loro dalla
partecipazione a scavi di ogni genere ed a corsi di formazione.
Il gruppo di lavoro, completato da un assistente
di scavo, Enea Busoni, al quale spettava l’organizzazione del cantiere e la funzione di raccordo tra la Soprintendenza ed il comune di Montelupo, si mise alacremente all’opera nel 1975, utilizzando come base operativa un locale terreno posto a Montelupo in via don Minzioni, le cui vetrate furono opportunamente oscurate.
Questo clima di riservatezza era però destinato a durare
ben poco.
Giovani e meno giovani abitanti del luogo iniziarono infatti a passeggiare nervosamente davanti a queste stanze, occhieggiando dai pochi pertugi non coperti,
e cercando di cogliere, per qualche spiraglio aperto, un
barlume del “tesoro” che qui si celava. Coli e Forconi,
più volte sollecitati da amici e conoscenti, non avevano
cuore di non corrispondere a tanto interesse, anche perché, avendo maturato un’importante esperienza di
volontariato, credevano sinceramente nella partecipazione dei cittadini alla salvaguardia ed al recupero dei
beni culturali. I due amici sapevano bene che nel passato tanti, troppi ritrovamenti erano andati dispersi proprio a causa del mancato coinvolgimento, per moltepli-
ci ragioni, della popolazione locale, e comprendevano
come il “pozzo dei lavatoi” potesse rappresentare la
tanto attesa occasione di riscatto.
Fu così che un bel giorno la porta fu aperta, ed i
locali già celati ospitarono per qualche ora i curiosi cittadini, che venivano appassionandosi sempre di più
all’impresa, tanto da offrirsi in numero crescente come
collaboratori a titolo volontario. I tempi, dunque, erano
maturi perché questo rapporto con la cittadinanza, da
sporadico ed occasionale, si trasformasse in una vera
azione di continuo supporto e collaborazione all’opera
di recupero del patrimonio locale: il protrarsi delle ricerche, del resto, rendeva ogni giorno più evidente quanto
questa opera fosse impegnativa.
L’operazione avviata nel 1975 stava d’altronde
attraversando il suo primo traguardo: giunti al numero
di circa 300 esemplari ceramici restaurati, infatti, non
restava che dar conto del lavoro svolto attraverso una
mostra, nella quale lo scavo del “pozzo dei lavatoi” fosse
restituito al pubblico nel suo fondamentale significato di
“finestra”, aperta per la prima volta su un mondo così
poco conosciuto. Dal pozzo, infatti, ritornavano alla luce
non soltanto i documenti attinenti alle diverse fasi di
lavorazione, preziose testimonianze dei processi e della
tecnologia dell’epoca, ma anche grumi di colore, attrezzi e strumenti di fornace e, persino, i cocci con i conti di
bottega ed i frammenti sui quali, ripetendo con mano
incerta i loro esercizi, i garzoni apprendevano il mestiere del pittore: quanto insomma Cipriano Piccolpasso
aveva illustrato attorno alla metà del Cinquecento ne I
tre libri dell’arte del vasaio stava adesso sotto gli occhi
degli scavatori in tutta la sua materiale concretezza.
L’elaborazione del catalogo che accompagnava
l’esposizione rappresentò perciò un momento prezioso
di confronto tra la conoscenza tecnologica della ceramica – il solido bagaglio culturale di Coli, Forconi e dei
ceramisti montelupini in genere – e quella della nascente archeologia medievale, con tutta la sua problematica
di carattere storico e culturale, rappresentata da Guido
Vannini.
La mostra La maiolica di Montelupo. Scavo di
uno scarico di fornace si tenne nell’estate del 1977 a
Montelupo e fu ospitata proprio nei locali della scuola
Enrico Corradini, dai quali è stato ricavato l’attuale
Museo della Ceramica: si trattò di una vera e propria
rivelazione per gli studiosi e per gli appassionati del settore, ma anche di un fondamentale punto di partenza
per la conoscenza di molti aspetti della storia della ceramica tardo-medievale e rinascimentale italiana. Non
per caso lo stesso Galeazzo Cora fu tra i visitatori dell’esposizione, e, a detta dei testimoni, ne restò profondamente colpito; l’avvenimento, d’altronde, trova un preciso riscontro nell’architettura della sua opera sulla storia
della maiolica: il volume sul Cinque e Seicento, già
31
30
tance of an excavation such as that at Montelupo
couldn’t escape the attention of someone like
Guglielmo Maetzscke because it reflected a tight
reality and able to open horizons of great interest.
However, putting in charge of the well operation a
young archaeologist didn’t seem to be enough to
guarantee scientific correctness; it was necessary to
provide a team of experts able to operate with conservation and registration of finds in mind with the
objective of reconstructing as well as possible,
through restoration, the morphology and decorative
typology of the recovered objects.
Many aspects of this affair seem incredible
today in the sense that there is the risk of attributing to them a kind of ineffable predisposition
towards placing themselves in a coherent picture,
displaying its evolution in a positive sense, and outline the platform on which it has grown and reconstructed the Museo della ceramica and connected
affairs. Two young men grew up in these places, one
at Montelupo, Fabrizio Coli, and the other near
Empoli, Alberto Forconi: both potters with a passion for the ancient, one which persuaded them to
join the first voluntary archaeological association
which was active in the Empoli zone. In those years
where the emphasis on collective participation was
manifest and genuine, the newly established
Regione Toscana had organized at the University of
Pisa with the support of the department of Archaeological Superintendence, some training courses to
benefit those in charge of the emerging groups such
as Gruppi Archeologici. It was obvious that Coli and
Forconi with their strong desire to know as much as
possible about archaeology and its secrets, wanted
to enrolled on these courses. This move represented
for them the definitive consecration of an inextinguishable passion and both decided to participate a
short time later in a competition to select restorers
employed by the Archaeological Superintendence
for Tuscany: indeed those were the years were the
Florentine Centro di Restauro started later noted by
the public for its intervention on the bronze statue
reclaimed from the sea by Riace. The passion and
competence of both – who also worked as potters –
didn’t go unobserved: they became part of the team
that worked on the “washing well” and it seemed
very natural as they had both worked in the factory
at Montelupo and combined a refined knowledge of
the materials with a not banal archaeological qualification derived from their experiences on excavations and on different courses.
The work group, completed with an excavation assistant Enea Busoni whose responsibilities
included the organization of the site and the func-
tion of go between between the Superintendence
and the town council of Montelupo in Don Minzoni
street where the windows were opportunely
obscured. This climate of reserve lasted very little.
Younger and then younger inhabitants of the place
began to stroll nervously in front of these rooms,
peeking in through the gaps, trying to catch a
glimpse of some uncovered “treasure”. Coli and Forconi, often solicited by friends and acquaintances,
didn’t have the heart to ignore such open interest,
also because having matured an important voluntary experience, they sincerely believed that the
towns folk should be involved in the saving and
recovering of cultural assets. The two friends knew
that in the past, many discoveries had been ignored
exactly because of a lack of local involvement, for
many reasons and they understood how the “washing trough well” could represent the long awaited
chance of redemption.
And that’s how it happened one fine day the
door was opened and the previously secretive premises hosted for a few hours the curious citizens
many of whom went on to offer themselves as voluntary collaborators. Times were mature. The sporadic and occasional relationship with the citizens
transformed into a real action of continuous support and collaboration in the recovery of the local
patrimony: the protraction of the research made it
evident that the operation was going to be very
demanding.
The operation which started in 1975 was crossing its first finishing line: having arrived at 300 examples, it was time to show what had been achieved in
the form of an exhibition where the excavation of the
washing trough well could be restored to the public
through an open “window”, permitting a view of a
relatively unknown world. From the well indeed, not
only were there documents regarding the different
phases of elaboration, precious witnesses to the
processes and technology of the times, but also
clumps of colour, furnace equipment and instruments
and even pieces with the workshop’s accounts and
fragments on which the assistant labourers, through
repetition with an uncertain hand, learned the trade
of the painters: what Cipriano Piccolpasso had illustrated around the mid sixteenth century I tre libri dell’arte del vasaio was now to be seen in concrete form
by the excavators. The elaboration of the catalogue
that accompanied the exhibition represented therefore a precious moment of comparison between the
technical knowledge of the ceramics – the solid cultural baggage of Coli, Forconi and the Montelupo potters
in general – and the knowledge of the newly arrived
Medieval archaeology, with all its problems of a his-
INTRODUCTION
INTRODUCTION
INTRODUZIONE
ne di volontariato archeologico attiva nella zona, quella
empolese.
In quegli anni nei quali la spinta alla partecipazione collettiva era palese e genuina, la Regione
Toscana, da poco costituitasi, aveva organizzato presso
l’Università di Pisa, in accordo con la Soprintendenza
Archeologica, alcuni corsi di formazione a beneficio dei
responsabili di quelli che stavano crescendo in Italia
come Gruppi Archeologici. Era inevitabile che Coli e
Forconi, animati da una fiera volontà di impegnarsi nell’archeologia e di impadronirsi dei suoi segreti, richiedessero all’associazione empolese di essere designati a
frequentare tali corsi.
Se i due amici avevano coltivato il sogno di praticare l’archeologia, questa occasione rappresentò per
loro la definitiva consacrazione ad una passione inestinguibile, tanto che entrambi decisero di partecipare poco
tempo dopo ad un concorso per restauratore indetto
dalla Soprintendenza Archeologica per la Toscana:
erano infatti quelli gli anni in cui nasceva il Centro di
Restauro fiorentino, noto al pubblico per il famoso,
primo intervento sulle statue bronzee rinvenute nel
mare di Riace. La passione e la competenza dei due –
che, come si è detto, esercitavano il mestiere del ceramista – non passò inosservata: mettendo a punto la
squadra destinata ad occuparsi del “pozzo dei lavatoi”,
fu così naturale pensare ai due giovani che lavoravano
La discussione che le due mostre avevano aperto
sulla maiolica di Montelupo verteva sostanzialmente su
aspetti distinti, che però trovavano un punto di contatto
tra di loro. In primo luogo, infatti, si rifletteva sul significato storico della vicenda montelupina, che assumeva
ormai agli occhi degli storici e degli archeologi – in
questo caso concordemente – il profilo di un caso
emblematico dei rapporti tra capitale mercantile ed
attività produttive nell’Italia del XV secolo. La pubblicazione dell’atto notarile del settembre 1490 con il quale
Francesco Antinori si impegnava ad acquistare per tre
anni, a prezzi concordati, l’intera produzione di 23 vasai
di Montelupo, lasciava infatti intravedere – anche
perché si intuiva non trattarsi del primo impegno del
genere – un mondo ben diverso da quello che la tradizione storiografica aveva delineato. Lungi dall’essere
costretta entro maglie corporative in grado di deprimerne lo sviluppo, infatti, la lavorazione della ceramica
mostrava nel centro valdarnese un legame strutturale
con personaggi, quali quello del mercante imprenditore, incarnato in questo caso dall’Antinori, che la precedente documentazione storica italiana aveva poco più
che intravisto. La restituzione del “pozzo dei lavatoi” si
faceva pertanto emblematica di un mondo nuovo,
ponendosi come l’effetto dell’introduzione, in ambiente
legato a forme di produzione tradizionali, di questo
livello mercantile, al quale si riconosceva una funzione
fondamentale, intuendo come questo rapporto potesse
spiegare la grande diffusione delle maioliche di Montelupo sui mercati europei.
Ecco, quindi, che una discussione di carattere
storico si animò attorno all’esempio montelupino grazie
ad una recensione che Riccardo Francovich dedicò al
catalogo della mostra, pubblicandola sulla rivista Prospettiva. A questo intervento, nel quale sommariamente,
ma decisamente, si sottolineavano questi aspetti storici
che, a detta del recensore, la mostra non poneva in adeguato risalto, e che meglio avrebbero dovuto guidare la
ricerca in futuro, replicò Guido Vannini attraverso un
corposo articolo stampato nell’Archivio Storico Italiano.
Al disotto delle questioni storiche e dei risvolti
metodologici da assegnare all’attività di ricerca in Montelupo, allora dibattute dai due studiosi, esponenti di
punta della giovane archeologia medievale italiana,
stava anche il destino dei materiali estratti dal “pozzo
dei lavatoi” e di quelli che le indagini future avrebbero
riportato alla luce da quel contesto e dagli altri depositi,
dei quali ormai ben si intuiva l’esistenza. Anche in
questo caso le posizioni erano contrapposte, ma non
furono mai rese pubbliche.
Francovich, infatti, spingeva per una decisa collocazione delle attività in Montelupo, ritenendo doveroso che non soltanto i reperti scavati restassero nel
luogo medesimo che li aveva prodotti, ma che il nucleo
d’iniziativa montelupino si consolidasse, mantenendo
così costante nel tempo l’attività di ricerca. Vannini, pur
riconoscendo la necessità di una puntuale conduzione
degli scavi in loco, non se la sentiva invece di tagliare i
rapporti con Firenze, anche in ragione dell’interessamento che il soprintendente Guglielmo Maetzscke
aveva dimostrato al progetto ed alle facilitazioni che
tutto ciò aveva permesso. A questo punto, però, gli avvenimenti presero una svolta decisiva, che ne determinò
gli sviluppi futuri.
I rapporti tra il nucleo dei primi scavatori-restauratori del “pozzo dei lavatoi”, Coli e Forconi, e gli appas-
sionati montelupini erano ormai giunti ad un pieno
coinvolgimento, tanto che questi ultimi avevano contribuito in maniera decisiva alle due esposizioni già realizzate; l’amministrazione comunale, per di più, vedeva
ovviamente di buon occhio una più accentuata estensione delle attività. Nell’ottobre del 1977 divenne perciò
inevitabile approdare alla costituzione di una vera e
propria associazione di volontariato, che, per attrazione
con quanto accadeva in quegli anni, assunse la denominazione di “Gruppo Archeologico di Montelupo”.
La neonata associazione, rappresentando di fatto
il fondamento sul quale poggiavano le attività di ricerca
locali, si poneva oggettivamente come uno dei protagonisti della vicenda, anche perché l’amministrazione
comunale non poteva che favorire l’aggregazione dei
cittadini attorno ad un progetto in grado di assegnare
continuità e solidità a quella che, dovendo contare unicamente su forze esterne, avrebbe potuto rivelarsi come
estemporanea, e comunque non adeguata ad un compito così gravoso come quello del recupero della tradizione ceramistica del luogo. Si deve inoltre considerare
come in quegli anni, per altri versi assai difficili, sia
venuto sostanzialmente a compimento quel disegno di
partecipazione dei cittadini alla costruzione dell’identità culturale che aveva preso l’avvio almeno da un
decennio in settori diversissimi, dalla musica, al teatro,
alle biblioteche, anche se fu proprio nella ricerca
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torical and cultural nature represented by Giulio Vannini.
The exhibition La maiolica di Montelupo.
Scavo di un scarico di fornace was held during the
summer of 1977 in Montelupo and took place in the
school Enrico Corradini where the actual Museo
della Ceramica now stands. It was a real revelation
for the scholars and enthusiasts of the sector and
also served as a fundamental starting point for an
understanding of late Medieval and Renaissance
ceramics in Italy. Not by chance the same Galeazzo
Coro was one of the visitors of the exhibition, and,
as stated by witnesses, remained deeply impressed;
the event produced a precise source of comparison
to his work on the history of Majolica and in consequence the volume on the sixteenth and seventeenth
century which had already been advertised was halted and was substituted by a study on Cafaggiolo
which was printed in 1983. The initiative was so
successful, a replica was suggested at Florence and
the prestigious Palazzo Davanzati was chosen as the
venue: the home-museum of Elia Volpi was already
searching for a museum type identity able to assign
greater vigour to its public function image. The
transfer to Florence amplified the effect achieved by
the previous event and increased media interest
which led to a passionate debate regarding the
material that emerged from the “washing trough”.
The discussion that the two exhibitions
opened on the subject of majolica in Montelupo
concerned distinct aspects which however found
points of contact between them.
In the first place, indeed, there was some
reflection done on the significant Montelupo affair,
which assumed as far as historians and archaeologists were concerned – this time in agreement – an
emblematic case of the relationship between mercantile capital and productive activity in Italia in the
XV century. The publication of the notary act in
1490 with which Francesco Antinori attempted to
buy for three years, at an agreed price, the entire
production of 23 Montelupo vases, gave a glimpse –
also because we can guess that it wasn’t the first
order made of the kind – a very different world from
that which traditional historiography had depicted.
Far from being restricted by corporate interests
which depressed its development, the ceramics
world in the centre Valdarno had structural ties
with merchant businessmen such as Antinori. The
restitution of the “washing trough well” was seen as
emblematic of a new world, the effect of an introduction, in an environment tied to a traditional
form of production, to a mercantile level where its
function can be understood very well and where
their relationship can explain the grand diffusion of
majolica from Montelupo in world markets.
So, here we are, and there is an animated discussion of a historical character about Montelupo
thanks to a review that Riccardo Francovich dedicated to the exhibition’s catalogue, publishing it in
the magazine Prospettiva. This intervention, summarising but correctly so, underlined the historical
aspects that, according to the dedication, the museum didn’t emphasise enough and that the research
needed to be carried out better in the future.
Guido Vannini replied in a hefty article published in the Archivio Storico Italiano Beneath the
historical questions and the methodological implications concerning the research activity in Montelupo, at the time debated by the two historians,
front line exponents of the young Italian Medieval
Archaeology, there was also the destiny of the material extracted from the “washing trough well” to be
considered and what the future investigations might
bring to light from that context and from other
deposits which were thought to exist. Also in this
case the positions were in opposition, but they were
never made public.
Francovich, indeed, pushed for a definitive
placing of the activity in Montelupo, arguing dutifully that not only the should the finds stay in the
area where they were produced but that the nucleus
of the Montelupo initiative should be consolidated
there too maintaining therefore the research activity
constant over time. Vannini, in spite of recognizing
the need for a punctual conduction of an excavation
on site, didn’t want to cut his ties with Florence,
also because of the interest shown by the superintendent Guglielmo Maetscke in the project and the
benefits that came from it. At this point however,
events took a decisive turn which decided the developments of the affair.
The relationship between the nucleus of the
first excavators-restorers of the “washing-trough
well”, Coli and Forconi, and the enthusiastic folk of
Montelupo had reached a peak and it had been recognized that the latter had contributed significantly
to the exhibitions. Furthermore, the town council
administration was very favourable to an accented
extension of the project. In October 1977 the
inevitable constitution of an association of volunteers took place, which, given the events, took the
name, “Gruppo Archaeologico di Montelupo”.
The newly founded association, representing
the foundation on which local research activity
grew, was proposed as one of the protagonists of the
operation also because the town council administration had no choice but to aggregate citizens around
INTRODUCTION
INTRODUCTION
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
annunciato con apposita brochure, fu infatti sospeso, ed
al suo posto apparve lo studio su Cafaggiolo, uscito
dalle stampe nel 1983.
Il successo dell’iniziativa fu dunque tale da suggerirne una replica a Firenze, e per essa si pensò alla
prestigiosa sede di Palazzo Davanzati: la casa-museo di
Elia Volpi, allora alla ricerca di una nuova identità
museale, in grado di assegnare maggior vigore alla funzione pubblica che l’istituto andava ricercando. Il passaggio fiorentino amplificò non di poco l’effetto già
ottenuto dall’evento precedente, anche per i riscontri
mediatici che ottenne, e tutto ciò non poteva che suscitare un appassionato dibattito attorno ai materiali del
“pozzo dei lavatoi”.
sognare un futuro sviluppo del suo paese in termini di
positiva crescita economica, ma anche civile e culturale,
spinse in particolare Pinelli ad un attivismo quasi imbarazzante. Senza mettere troppo tempo in mezzo, visto
che le ceramiche inviate a Palazzo Davanzati tardavano
a tornare – e ciò non lasciava supporre niente di buono
– Pinelli, avvalendosi del neonato Gruppo Archeologico,
organizzò a Montelupo un’ulteriore esposizione, utilizzando per questo i locali dell’ex convento di S. Pietro
d’Alcantara all’Ambrogiana, nei pressi dell’omonima
villa medicea. Con grande soddisfazione, dunque, i
volontari locali si ripresero nel 1978 i reperti del pozzo,
mentre l’amministrazione deliberò di lì a poco l’istituzione di un Museo della Ceramica.
La strada era però davvero impervia, e l’ostacolo
più difficile da superare consisteva proprio nella costruzione di quel museo che doveva servire come punto
Una delle sale
espositive del Museo
della Ceramica e del
Territorio nel 1983
d’appoggio, sul quale sviluppare un progetto che Pinelli
concepiva anche rivolto alla formazione dei ceramisti
(istituzione di una Scuola Professionale per la Ceramica) ed al supporto delle imprese locali attraverso la
costituzione di un Consorzio tra produttori. Qualificare
o ri-qualificare la ceramica di Montelupo, comunque,
non poteva in nessun modo prescindere dall’effettiva
conoscenza di quella tradizione che, stante la complessità che lo scavo del “pozzo dei lavatoi” dimostrava, solo
la corretta impostazione di un museo e di un’ampia attività di ricerca avrebbe potuto assicurare. Rinunciare a
costruire un museo civico, del resto, avrebbe comportato in quel periodo interrompere bruscamente tutto ciò
che da poco tempo si era avviato, deludere le aspettative
di molti e, cosa non di poco conto, perdere i materiali
già rinvenuti e restaurati.
Dopo alcune false partenze, suggerite dall’urgenza
e da errate valutazioni dell’entità del problema rappresentato dalla musealizzazione delle testimonianze montelupine, fu sempre Pinelli a risolvere coraggiosamente
la spinosa questione di trovare una sede museale adeguata, facendo costruire un nuovo palazzo comunale. In
tal modo si poteva svuotare l’antico municipio – l’unico
edificio di pregio esistente nel centro storico di Montelupo – e ricavare al suo interno le sale espositive del costituendo istituto.
Lo spostamento fisico del palazzo municipale
rappresenta però un’azione traumatica per qualsiasi
comunità, e questa decisione non mancò di dare adito a
non pochi dissensi all’interno delle diverse forze politiche e della stessa cittadinanza. Si era ormai giunti al
1980 e, data la carenza dei fondi necessari, il comune di
Montelupo dovette anche stipulare un mutuo per l’allestimento; pur trattandosi di una somma non troppo elevata, anche per l’epoca della quale si tratta (80 milioni di
lire), l’entità e le modalità d’acquisizione, contrarie alla
tradizionale prudenza degli amministratori del luogo,
accese ancora di più una polemica che già veniva arroventandosi. E questo non era tutto: in ultimo, infatti,
l’amministrazione comunale effettuò la mossa più
rischiosa, prevedendo nel suo personale, prima ancora
che l’istituto esistesse, la figura di direttore del museo,
peraltro prevista nella prima legge regionale sui musei
della Toscana.
In un ambiente reso difficile da crescenti polemiche politiche, i lavori di allestimento iniziarono nell’aprile del 1982, concludendosi poi il 3 luglio del 1983
con l’inaugurazione del primo istituto museale, denominato Museo della Ceramica e del Territorio. Il neonato
istituto era dunque collocato nell’edificio dell’ex palazzo
podestarile di Montelupo, già sede dell’amministrazione
comunale, ma si articolava allora soltanto su quattro
sale, comprensive dell’accesso, e, come si diceva, poteva
contare su una collezione assai lacunosa, ove interi
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
archeologica e storico-territoriale in genere che si assistette ad una vera e propria proliferazione di iniziative.
Una spinta decisiva ed irrefrenabile conduceva,
insomma, verso la localizzazione della ricerca in Montelupo.
Se però l’amministrazione comunale avesse operato scelte contrarie o si fosse posta in una posizione
d’attesa accidiosa, tuttavia, questa tendenza, pur così
marcata ed evidente, non avrebbe potuto realizzarsi
pienamente, come dimostrano ad abundantiam tante
situazioni consimili, rilevabili nella medesima regione
Toscana. A Montelupo, si riuscì a cogliere appieno
questa spinta positiva grazie al rinnovamento che si era
verificato in quegli anni nell’amministrazione locale
con l’ingresso nella giunta municipale di alcuni giovanissimi assessori, tra i quali Marco Montagni – che poi
è stato sindaco – e Paolo Pinelli.
La personale inclinazione al fare, e la capacità di
35
34
INTRODUCTION
the Museo della
Ceramica e del
Territorio in 1983
a project able to assign continuity and solidarity.
Externalizing the organization of the operation
could have lead to a total effort not up to the job of
recovering the ceramic tradition of the area. One
also has to remember that during those years, which
were difficult for many reasons, there were many
initiatives, at least ten in different sectors, aiming at
the construction of a cultural identity, from music
to theatre to a library but it was archaeological and
historical – territorial research that led to a proliferation of initiatives. There was a decisive, unstoppable push towards the localization in Montelupo.
Despite this push, this desire for localization may
have failed as many other local initiatives in the
past in Toscana were it not for the renovation of the
local administration and the entrance of some
young assessors including Marco Montagni – who
became mayor – and Paolo Pinelli.
The personal inclination to get things moving
and the capacity to dream of a future for his village
in terms of economic, cultural and social development, Pinelli in particular seemed to be an activist
with almost embarrassing zeal. Without wasting too
much time given that the ceramics sent to Palazzo
Davanzati were late in returning – which didn’t
seem to be a positive sign – Pinelli, with the help of
the newly founded Gruppo Archaeologico organized
another exhibition at Montelupo using the convent
San Pietro d’Alcantara all’Ambrogiana as a venue,
which is near the Medicean villa of the same name.
In 1978, with great satisfaction, the local volunteers
took back the finds of the well while the administration pondered the idea of a ceramics museum.
The road ahead was really impervious, and
the most difficult obstacle to overcome was the construction of the museum which had to serve as a
point of support for future projects such as training
courses for potters (the institution of a professional
school for ceramics) and as a support for local companies in the form of the constitution of a consortium of local producers. Qualify or re qualify Montelupo ceramics, however the effective knowledge of
that tradition could in no way be left out of the
equation and as the complexity of the excavation in
Montelupo demonstrated, only the correct set up of
the museum could assure its continuity.
To renounce the establishment of a museum
at that time would have resulted in a brusque interruption of everything that had been begun and
would have deluded the expectations of many and,
significantly, would have resulted in the loss of the
material which had already been recovered and
restored.
After some false starts, consequence of rushing into things and erroneous valuations of the size
of the problem, it was Pinelli again who courageously resolved the problem by finding an ade-
quate site for the museum. By ordering the construction of a new town hall, he was able to suggest
the site of the old town hall – the only prestigious
building in the historical centre of Montelupo – and
convert the rooms into exhibition halls.
The physical transfer of the municipal building represents however, traumatic event for any
community and this decision met with political dissent as well as opposition from some of the town
citizens. It was 1980, and given the drop in funds,
the community of Montelupo had to take a loan to
permit the refurbishment even though the sum wasn’t very high (80 million lire). The importance and
manner of the acquisition, contrary to the traditional prudence of the town administrators, further
flamed an already red hot fire. And that wasn’t all:
last of all, the communal administration effected
the most risky move, predicting who would become
the director of the museum, provided for by the first
regional law regarding museums in Tuscany, before
the institute had been completed.
Within this environment of growing political
problems work started in 1982 and was concluded
on the 3rd July 1983 with the inauguration of the
first museum institute named Museo della ceramica
e del Territorio. The new institute was located in the
ex chief administration building in Montelupo,
INTRODUCTION
An exhibition hall of
INTRODUZIONE
in autonomia ed in spazi adeguati. L’occasione è stata
offerta dai lavori di costruzione del parco urbano dell’Ambrogiana e dal conseguente recupero dell’ex complesso ecclesiastico dei Ss. Quirico e Lucia: qui, infatti,
si sono trasferite le collezioni archeologiche e si è inaugurato al pubblico (19 maggio 2007) il Museo Archeologico di Montelupo.
La costruzione di un nuovo e moderno plesso
scolastico ha contemporaneamente offerto la possibilità
del recupero a fini museali dell’ex scuola primaria di
Montelupo, un grande edificio costruito negli anni Trenta del secolo scorso: sviluppandosi su tre piani, con larghi corridoi e sale ampie e comunicanti tra di loro, esso
rappresenta un contenitore ideale per quel nuovo Museo
della Ceramica, che funzionerà al suo interno sin dal 24
maggio dell’anno 2008.
sentò per oltre un secolo un buon investimento per il
capitale mercantile cittadino. Nel mutevole caleidoscopio delle antinomie che l’interagire di entrambi questi
fattori non mancò di suscitare nel panorama locale (ad
esempio nel confronto tra cultura “d’importazione” e
cultura “d’esportazione”, tra innovazione e tradizione) è
trascorsa la storia montelupina.
Se vogliamo dar conto della traccia specifica
lasciata da questa esperienza, dobbiamo perciò analizzare in primo luogo i quadri storico-ambientali che le
furono propri e porre in luce i fattori profondi che permisero a questa piccola “terra murata” del Contado, di
instaurare complesse relazioni economico-culturali con
la sua Dominante.
Montelupo. L’evoluzione di un centro di fabbrica dal
Medioevo e l’Età Moderna.
La storia della Montelupo preindustriale potrebbe, riducendosi ai minimi termini, essere definita come il portato convergente di due fattori di sviluppo: da un lato una
peculiare collocazione geografica, che sin dalle epoche
più antiche, grazie a fondamentali vie di comunicazione,
le consentì di rapportarsi facilmente ai territori più lontani, dall’altro l’esistenza di una produzione fittile – il
suo carattere dominante di lungo periodo – che rappre-
INTRODUZIONE
periodi (ad esempio la seconda metà del Cinquecento ed
il secolo successivo) erano per di più rappresentati soltanto da materiali frammentari. Le ricerche, proseguite
costantemente con l’ausilio del Gruppo Archeologico,
venivano però costantemente ad arricchire questa base
documentaria.
Nel 1985 si aggiunse al giovanissimo istituto
museale un’esposizione di materiali preistorici, la quale
rappresentava il frutto di un decennio di ricerche sul
campo, ed il primo nucleo di quello che nel 1989 sarebbe diventato il Museo Archeologico e della Ceramica di
Montelupo. Nel settembre di quell’anno, infatti, grazie
anche al contributo della Fondazione Museo Montelupo, da poco costituitasi, gli spazi dell’ex palazzo podestarile furono definitivamente allestiti: allora l’istituto montelupino raggiunse un assetto che prevedeva l’esposizione dei materiali archeologici (dalla Preistoria al
Medioevo) al piano terreno, mentre quelli superiori
erano occupati dalle collezioni ceramiche: la variazione
del nome intendeva dunque sottolineare questo duplice
taglio espositivo, e la derivazione delle raccolte da metodiche di ricerca archeologica.
La saturazione degli spazi ed il continuo incremento della documentazione esposta al pubblico hanno
però presto determinato la necessità di assegnare maggior rilievo alle due diverse sezioni che costituivano
l’istituto, in maniera tale che esse potessero svilupparsi
37
which was the municipal building, but only four
rooms were in use including the corridor and it can
be said that the collection had certain gaps, that is,
entire periods like the second half of the sixteenth
century which were represented by some fragments.
Research however continued with the help of the
Gruppo Archaeologico and the collection was continuously added to.
In 1985, an exhibition of pre historic material
was added to the young museum’s collection, the
result of ten years of work in the field and this
became the nucleus of what became in 1989 the
Museo Archaeologico di Montelupo. In September of
the same year thanks to a contribution from the
Fondazione Museo Montelupo, a newly founded
organization, the exhibition rooms in the ex chief
administrator’s building were finally prepared: finally the Montelupo institute had reached the kind of
condition that would permit the exhibition of
archaeological material (from pre historic to
Medieval) on the first floor and ceramic materials
on the superior floor. The different titles served to
underline the duel function of the exhibition and
the derivation of the collected material and archaeological research methods.
The saturation of available space and the
increase in documentation exhibited to the public
determined the necessity to assign a greater emphasis to the two sections that constituted the institute,
permitting them to grow independently in adequate
space. This became possible when construction
work started on the Ambrogiana urban park and the
subsequent recovery of the ex Ss. Quirico e Lucia
ecclesiastical complex. To here indeed, the whole
collection was transferred and it was inaugurated to
the public (19 May 2007) as the new Museo Archaeologico di Montelupo. The construction of a new and
modern scholastic complex has contemporaneously
offered the possibility of the recovery of the old
Montelupo primary school building, a large 1930’s
building of three levels with wide corridors and
large rooms which are intercommunicating. This
represents an ideal container for the new Museo
della Ceramica, which will begin to function on the
24 May 2008.
Montelupo. The evolution of a production centre
from Medieval to the Modern age
The history of pre industrial Montelupo could,
reducing it to minimal terms, be defined as the convergence of two factors of development: on the one
side its peculiar geographical position which since
most ancient times, thanks to facilitative routes of
communication, permitted contact with distant ter-
ritories and secondly, the existence of ceramics production – for a long time its most dominant characteristic – which represented for over a century a
good investment for merchant traders. Within the
changing kaleidoscopic view influenced by the
antinomy of alternating exigencies such as “importation” and Exportation”, “innovation” or “tradi-
tion” flowed the history of Montelupo.
To really understand the traces left by this history, its necessary to analyze in the first place the
historical-environmental frameworks that existed
and illuminate the deeper factors that allowed this
small “walled land” in the countryside to install
complex economic-cultural relations with its rulers.
INTRODUCTION
INTRODUCTION
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PARTE PRIMA
I quadri storico-ambientali.
Il popolamento, il castello e l’imprevista evoluzione di
una “terra murata” fiorentina nei secoli XIII e XIV
FIRST PART
The historical-environmental framework.
Population, the castle and the unforeseen evolution of
a Florentine “walled land”
in the XIII and XIV centuries
corso di scavi eseguiti nell’area del Castello, nell’abitato
stesso di Montelupo: i materiali ceramici qui recuperati
appartengono effettivamente a fabbriche volterrane.
La colonizzazione romana – probabilmente avviata già nella prima metà del I secolo a. C. – riorganizzò
drasticamente la presenza umana nell’area, ponendo
nuovi abitati all’interno delle maglie delle limitationes
allora tracciate nei fondovalle. Una tale, profonda evoluzione del popolamento, spezzò la precedente struttura
insediativa preromana, introducendo nuove forme di
gerarchia economica ed amministrativa, imperniate sui
centri di recente fondazione.
Di grande importanza per il popolamento di tutta
l’area del Medio Valdarno fiorentino, laddove poi sorgerà Montelupo, furono le due grandi vie di comunicazione che l’attraversano: quella fluviale, rappresentata
dal corso dell’Arno, e quella viaria. La prima, massicciamente utilizzata già in Età Arcaica (secoli VI-V a.C.) in
relazione allo sviluppo urbano dell’area fiesolano-pistoiese, fu di fondamentale importanza per Montelupo (e
per la prospiciente Capraia), in quanto questi due centri,
collocati sulle opposte sponde dell’Arno, si trovano
all’inizio della stretta collinare che conduce alla “soglia”
(un vero e proprio scalino roccioso, sormontato dal
corso del fiume) della Golfolina.
La strada militare romana che univa Pisa a Firenze, costruita in epoca precedente alla colonizzazione di
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
Gli insediamenti e l’antica topografia.
L’area del Medio Valdarno Fiorentino e della Bassa Val
di Pesa fu oggetto di ampia frequentazione umana già in
epoca preistorica, come dimostrano le numerose stazioni all’aperto qui documentate, collocabili già nel
Paleolitico Inferiore e Medio. Schegge e strumenti in
ossidiana, ma anche cuspidi di freccia, tracce di ceramica e pendagli in diorite, indicano che questa frequentazione si fece più intensa con la fine dell’Enolitico, allorquando alcune capanne isolate furono erette nell’area
dell’Ambrogiana, nella porzione occidentale del territorio montelupino. Sul finire dell’Età del Bronzo, tra l’XI
ed il X secolo a. C., si incontrano anche i primi abitati,
ove si pratica un’attività agricola già piuttosto avanzata.
Macine provenienti dall’area dell’Alto Lazio, ma anche
collane in pasta vitrea e forme vascolari assai simili a
quelle circolanti in ambito padano, lasciano intendere
l’ampiezza degli scambi e dei legami culturali attivati da
questi villaggi protovillanoviani.
In età etrusca, allorquando la sponda sinistra dell’Arno e, con essa, la zona di Montelupo, sono tradizionalmente indicate come pertinenti al vastissimo territorio volterrano, del quale rappresenterebbero il confine
settentrionale, tracce di una presenza d’epoca arcaica
sono emerse sulle colline tra Samminiatello e San Vito.
Ad un’età più recente risalgono invece i resti di una
necropoli ellenistica (IV-II a.C.), venuta alla luce nel
41
pened during the first century B.C. – resulted in a
drastic reorganization of the human presence in the
area and some settled within the domain of the limitationes which had been traced in the depth of the
valley. Such a profound evolution broke the previous
pre Roman settlement structure introducing new
forms of economical and administrative hierarchy.
Of great importance for the population of the
Mid Valdarno Florentine area, where Montelupo
rises, were two great communication passages which
crossed each other: the fluvial, represented by the
course of the Arno, and a road. The first, massively
used during the archaic age (VI-V century B.C.) supported the development of the fiesolano-pistoiese
urban area and was of fundamental importance for
Montelupo (and the oppositely placed Capraia) in as
much as these two centres, placed on opposite sides
of the shores of the Arno were to be found at the
beginning of the narrow hill that led to the “soglia” (a
true and genuine rocky stairway submerged by the
course of the river) from the Golfolina. The Roman
military road which united Pisa to Florence, constructed in an epoch preceding the colonization of
this territory, the time of the Tito Quinzio Flaminino
consulate (123 B.C.), met the river here and this contributed to increased activity in the area where the
future castles of Capraia and Montelupo would be
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
The settlements and ancient topography
The Middle Valdarno Florentine and Low Val di Pesa
area was very frequented by people in pre historic
times, as demonstrated by the numerous open stations documented here, dated in the early and middle
palaeolithic age. Splintered pieces, and tools in an
oxidized state but also arrow tips, traces of ceramic
and pendants in diorite indicate that this frequency
became more intense during the oenolithic when
some huts were erected in the Ambrogian area, on the
Western side of the Montelupo territory. At the end of
the Bronze age the first farmers with advanced techniques. Millstone from the north of Lazio, cement in
vitreous pasta and vase forms similar to those that
circulated around the Padano, which gives an idea of
wide scale exchanges and cultural links.
In the Etruscan age when the left shore of the
Arno and with it the area of Montelupo were traditionally seen as a pertinent part of the vast Volterrano
territory which represented the northern border,
traces of an archaic epoch have emerged on the hill
between Samminiatello and San Vito. More recently
the remains of a Hellenistic necropolis (IV-11 B.C.)
came to light during the excavation of an area around
the castle of Montelupo: the material recovered here
effectively came from Volterrian factories.
The Roman colonization – which probably hap-
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
piatto in terra sigillata italica con bollo “in planta pedis”
(databile quindi post 37 d.C.).
Tutto ciò avvalora decisamente le ragioni topografiche che già suggerivano di collocare nell’area dell’attuale San Quirico la località ad Arnum f (lumen),
riportata nella Tabula Peutingeriana e citata anche negli
Itineraria. Muovendo da Pisae in direzione di Florentia,
la distanza miliare tra questa e la precedente stazione di
in Portu coincide infatti con ottima approssimazione
alla distanza stradale che ancor oggi intercorre tra San
Quirico e l’area abitata di Empoli (quattro miglia romane, cioè circa 6 chilometri). A sua volta in Portu, in
ragione della distanza (17 miglia) che la separa da Cascina, ormai riconosciuta come la Valvata della Tabula,
non può che collocarsi nell’area empolese.
Il toponimo ad Arnum f(lumen) è poi eloquentemente indicativo del fatto che qui la strada giungeva in
riva al corso d’acqua, non soltanto per toccarne le sponde – cosa che, d’altronde, poteva avvenire anche in precedenza – ma per valicarlo. La presenza nel 1204 di un
ponte tra Montelupo e Capraia appare decisiva ai fini
della documentazione storica di questo antico manufatto. Assai difficilmente, infatti, siamo di fronte ad un
ponte costruito in epoca medievale: sul fiume non si
conoscono – fatto salvo quello pertinente al più importante tracciato di quei tempi, la via Francigena, e quello
di Signa, della cui origine discuteremo tra breve – esem-
pi coevi: la stessa Firenze, prima della costruzione nel
1221 del Rubaconte, aveva un solo ponte: quello d’epoca
romana, che poi fu detto appunto il “ponte vecchio”.
Ma se la strada romana attraversava l’Arno per
percorrere la riva destra, come poteva poi tornare più a
monte su quella opposta? La risposta consiste ovviamente nell’ipotizzare la presenza di un altro ponte, che
effettivamente sappiamo esser collocato a poca distanza
da questo nella località detta appunto Ponte a Signa.
Qui, a differenza di Montelupo, la presenza di un antico
scavalcamento dell’Arno è nota da molto tempo, ma –
credendo fermamente che la strada romana abbia percorso soltanto la riva sinistra – si è pensato ad un’opera
medievale. Una particolarità del piviere di San Lorenzo
a Signa, e cioè il comprendere alcune parochiae della
riva sinistra del fiume, secondo un tipico modello di
plebato in capite pontis, porterebbe però la costruzione
del medesimo ad epoche lontane (almeno alla seconda
metà dell’VIII secolo d.C., data plausibile per la formazione di questa circoscrizione ecclesiastica), che rendono questa ipotesi ben poco credibile. La presenza di un
cippo miliare con riferimenti a questa strada, già inserito nella fabbrica della chiesa di San Michele a Luciano,
Il cippo miliare di Luciano
con il nome del console Tito
Quinctio Flaminino (123 a. C.)
lungo la sponda sinistra dell’Arno, è dunque da intendere come residuale, e certamente non attiene ad un cippo
stradale in posto.
Una poderosa rovina, che attraversa l’intero letto
del fiume tra Montelupo e Capraia, avvalorata anche
da testimonianze ottocentesche, ci consente infine di
collocare l’antico manufatto testimoniato dal documento del 1204 proprio sulla linea ideale che unisce i due
castelli, ed individua così il punto forte dal quale, come
vedremo, i Conti Alberti dominarono l’accesso al Medio
Valdarno nei secoli centrali dell’Età di Mezzo.
I popoli ed il popolamento dell’area montelupina
in età medievale
La lista delle pievi e delle loro chiese suffraganee contenuta Rationes Decimarum del 1270 ci consente di definire l’organizzazione ecclesiastica del territorio plebano
attorno alla quale, nell’Alto Medioevo, iniziò ad organizzarsi il popolamento dell’area montelupina.
La chiesa matrice, caratterizzata dalla doppia
titolazione ai Santi Ippolito e Cassiano, venne collocata
sul greto destro del Pesa, a circa un chilometro di
distanza dall’odierno abitato montelupino, nel luogo
ove, sia pure sotto specie di edificio profano, può ammirarsi ancora oggi. La circoscrizione che le appartenne
comprendeva l’intera bassa vallata del Pesa, posta tra
l’Arno ed il confine plebano di San Vincenzo a Torri,
43
42
built. This activity had links with the Tuscan inland
and the coastal areas and served to support the economic upturn during the late Medieval period and the
consequent development of affairs in the area.
The road that runs from Pisae towards the land
that would be known as Florentia, after having
crossed Empoli, ran towards the borgo of San
Quirico di Montelupo, degrading at North-East
towards the left bank of torrent Pesa which flowed
into the Arno. In the areas of San Quirico – which had
a population under the jurisdiction of Montelupo and Torre, traces of Roman presence have come to
light. Under the church that has the globalized name
of Santi Quirico e Lucia representing a double dedication in the area known as Ambrogiana, traces of a
Roman necropolis have emerged; the date of the
cemetery can be placed at somewhere between 15
B.C. , the approximate date of an obolus found on the
site and 37 D.C., the approximate date of an earthenware plate with a seal in italics stating in “planta
pedis”. All this gives greater value to the topographical reasons for settling in the actual San Quirico
area ad Arnum f (lumen), reported in the Tabula
Peutingeriana and also cited in the Itineraria. Moving
from Pisae towards Florentia. The distance in miles
between this and the preceding station of in Portu
coincides with excellent approximation with the
length of the road that runs from San Quirico and the
inhabited area of Empoli (four Roman miles, about
six kilometres). Also in Portu at the time, given the
distance (17 miles) from Cascina then known as Valvata of the Tabula, was naturally seen as part of
Empoli.
The place name ad Arnum f(lumen) e eloquently indicative of the fact that here the street
reached the bank of the river, not only to meet it –
which was a preceding objective - but to cross it. The
presence in 1204 of a bridge between Montelupo and
Capraia appeared decisive in moulding the future of
this antique manufacturing industry. A difficult
project, we are talking about a bridge built in
Medieval times: on the river there weren’t other examples except for an example on the most important
trace of those times, the Francigena road, which we
will talk about soon. Even Florence, before the construction of the Rubaconte in 1221 had only one
bridge from the Roman epoch which then became
known as Ponte “vecchio”.
But if the Roman road crossed the bridge to
run the right bank, how could it have crossed back
again as it weaved towards the hills on the other side?
The answer consists in hypothesizing the presence of
another bridge which we can effectively say was
placed in the locality of Ponte a Signa. Here, as
The stone with inscription
from Luciano with the name
of the Consul Quinctio
Flaminio (123 a. C)
opposed to Montelupo, the presence of an antique
crossing over the Arno has been known for a long
time – as the Roman road seemed to run along the
left bank, it was thought that the crossing was a
Medieval project. A particularity of the parish of San
Lorenzo a Signa, including some of the parishes on
the left bank of the river, according to a typical model
of parishes in capite pontis, probably led to its construction in a distant epoch (at least the second half
of the VIII century A.D., a plausible date for the formation of this ecclesiastical district), which renders
this hypothesis very improbable. The presence of a
stone with the inscription –but not a “mile” as is
often confirmed – with reference to this road, already
inserted in the fabric of the building of the church of
San Michele a Luciano, found along the left bank of
the Arno, can be seen as residual, a marking point of
this road. An impressive ruin, which crossed the
entire bed of the river from Montelupo to Capraia,
given credibility by testimony from the nineteenth
century, permits us to finally place the construction
as testified by a document from 1204exactly on the
ideal line which unites the two castles. The strong
point from which The Counts Alberti dominated the
access to the Middle Valdarno in the mid middle
ages.
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
questo territorio, e cioè al tempo del consolato di Tito
Quinzio Flaminino (123 a. C), venne qui ad incontrare il
corso del fiume, contribuendo a addensare nell’area ove
sorgeranno i futuri castelli di Capraia e Montelupo un
insieme di funzioni viarie legate alle comunicazioni
della Toscana interna con la costa e, quindi, con gli
approdi marittimi: dopo essersi storicamente consolidate, queste funzioni vennero nuovamente esaltate dalla
ripresa economica e demografica successiva all’Alto
Medioevo, rappresentando così la chiave di volta delle
successive vicende storiche dell’area.
Il percorso stradale che da Pisae conduceva verso
il territorio della futura Florentia, infatti, dopo aver
attraversato Empoli, si indirizzava alla bassa elevazione
ove attualmente si trova il borgo di San Quirico di Montelupo, degradante a nord-est sino alla ripa sinistra del
torrente Pesa, la quale qui giunge a confluire nell’Arno.
Sia nell’area di San Quirico – che fu sin dal Basso
Medioevo un popolo della curia di Montelupo – che
nella prossima località di Torre, sono venuti recentemente alla luce consistenti tracce di una presenza d’epoca romana. Sotto la chiesa di quel luogo, inglobata in
quella a doppia dedicazione (Santi Quirico e Lucia), ed
attratta dal toponimo Ambrogiana, sono emerse anche
tracce di una necropoli romana; la datazione del cimitero è collocabile tra gli estremi cronologici rappresentati
da un obolo con moneta triunvirale del 15 a.C. e da un
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
doppia titolazione (Santi Quirico e Lucia), la quale
appare solo nei documenti del tardo XV secolo (1482):
recenti scavi archeologici hanno però evidenziato all’interno di questa struttura, ampiamente rimaneggiata nel
corso del tempo, un impianto assai più antico che,
inglobando un antico cimitero romano, risale almeno
alla seconda metà dell’VIII secolo. Pur non potendo
generalizzare all’intero plebato – anche perché abbiamo
visto che attorno a San Quirico si trovava, con ogni probabilità, la mansio o mutatio ad Arnum – quanto si può
derivare dagli scavi di SantaLucia, è da supporre che
altrettanto antiche fossero le chiese di San Piero a Nebbiavole e di San Giusto a Petrognano, sul confine orientale del piviere, abbandonate e successivamente distrutte a seguito della crisi demografica apertasi negli anni
Quaranta del Trecento.
Lungo la riva sinistra dell’Arno, ma più a monte
rispetto alla zona di San Quirico, ed oltre la foce del
Pesa, è comunque documentata sin dal 1024 una chiesa
parrocchiale dedicata a San Miniato. Pur appartenendo
al nostro piviere, essa mantenne sin dall’origine peculiari rapporti con il vescovo di Firenze, che la donò al
monastero di San Miniato a Monte di quella città, per
poi riprendersela sul finire del XII secolo. Il nome del
santo a cui fu legata la costruzione dell’edificio si trasferirà ovviamente anche al suo popolo, e da esso all’agglomerato urbano cresciuto attorno alla parrochiale: per
deferenza al grande cenobio fiorentino avremo così la
località detta “Samminiatello”.
Nel 1204, con la costruzione del nuovo castello, la
pieve trasse inizialmente beneficio dall’improvviso incremento della popolazione che interessò il quadrante settentrionale del piviere. Per meglio difendere il neonato
insediamento fiorentino, del resto, l’intero popolo di
Santa Maria a Fibbiana fu trasportato in Montelupo,
sottraendolo così alla decimazione di Sant’Andrea a
Empoli.
Lo sviluppo urbano assunto dal castello venne
però ben presto a porre il problema del trasferimento di
alcune funzioni plebane all’interno del nuovo abitato, a
detrimento della chiesa matrice. Prima della crisi demografica del XIV secolo erano infatti già sorti all’interno
del neonato Montelupo due edifici ecclesiastici: una
chiesa con annesso ospizio, fondata dai Domenicani di
Santa Maria Novella di Firenze sotto il titolo di San
Niccolò, ed una chiesa di San Giovanni Evangelista. La
prima era posta appena fuori delle mura del Borgo di
Montelupo, nei pressi del ponte della porta detta di San
Piero, da cui si dipartiva la strada che conduceva a Samminiatello.
San Giovanni era invece collocata nel nucleo
castrense più antico, eretto sulla sommità del colle,
tanto che per campanile aveva la stessa torre maggiore
(il “battifolle”) della fortezza; questa chiesa fu costruita
tra il 1221 (poiché sappiamo che in quell’anno non vi
erano parochiae nel castello) ed il 1266, anno in cui il
Liber extimationum, censendo i danni causati dai Ghibellini, cita invece un edificio religioso. Alcune testimonianze rapportano ai Capitani d’Orsammichele l’antico
patronato sulla chiesa, ed a un compromesso stabilito
con l’accordo del vescovo fiorentino su San Giovanni
fa poi riferimento, non citando sfortunatamente la controparte, un documento sommariamente regestato nel
Bullettone, e riferito all’anno 1323.
Essendo officiata dal clero secolare, questa parrocchia urbana pose presto il problema della collocazione del fonte battesimale e delle sepolture: non era infatti agevole per gli abitanti di Montelupo raggiungere la
pieve dei Santi Ippolito e Cassino per battezzare i figli e
seppellire i loro morti. L’assunzione del titolo di prioria
per la nuova chiesa del castello e la concessione del
fonte alla medesima – fatto avvenuto in epoca che al
momento ci è ignota, ma che di certo è anteriore al
1538, anno in cui iniziano i suoi libri dei battezzati –
rappresentano altrettanti mutamenti sostanziali, attraverso i quali l’incremento abitativo della “terra murata”
di Montelupo portò alla decadenza l’antico edificio plebano.
Nel corso della prima metà del Trecento, come
si è già affermato, la pieve dei Santi Ippolito e Cassiano
attraversò tuttavia un momento di particolare svilup-
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The peoples and the populating of the area Montelupina in the Middle ages
The list of the parishes and their central churches
contained in the Rationes Decimarum of 1270 permits
us to define the ecclesiastical organization of the territory where the Montelupo population began to
organize itself.
The mother church characterized by the double
nomination of Santi Ippolito and Cassiano was
founded on the gravely shore to be found on the right
side of the Pesa, about one kilometre from the Montelupo of today, in the place where, even if under a
kind of profane building, can still be seen. The circumscribing area includes the entire lower valley of
Pesa, placed between the Arno and the area that
belonged to San vincenzo a Torri as well as the dorsal
areas of the hills which represented the watershed of
this torrent with the Vingone and the Orme. Its decimation was probably quite antique: it’s not by chance
that the baptized in Montelupo maintained for many
centuries the second name “Romolo”, in homage to
the saint who, it is said, converted the locals to Christianity, like in many other parishes formed in the Florentine dioceses. The V – VI century was probably
was about the time of its division into its territory.
In 1270, the matrix churches Santi Ippolito e
Cassiano were the central bodies for sixteen parishes
and a hospital but only eight of them (the pontificial
list left out San Giovanni Evangelista of recent construction) belonged to the territory which at the time
constituted the community of Montelupo. The
absence of sources doesn’t permit a punctual description of the genesis of this parish, events before the testimony provided by the Rationes but it is almost certain that some of these buildings existed before,
during the late medieval period, and this is suggested
in a particular way in the case of the church of San
Quirico, on the west side of our ecclesiastical territory.
The parish of this name is indeed documented
in the year 1000 in a cartula offersionis conserved in
the diocesan archive in Lucca. It can be identified
today as well as the successive church Santi Quirico
e Lucia, which only appears in documents of the late
XV century (1482): recent archaeological excavations
inside this structure have however uncovered, amply
restructured in the course of time, an older structure
which includes a Roman cemetery and dates back to
the second half of the VIII century. However we can’t
generalize about the whole development, because as
we have seen around San Quirico la mansion or
mutation ad Arnum and can guess from other excavations at S. Lucia that the churches of San Piero a
Nebbiavole and San Giusto a Petrognano on the west
borders of the parish are equally ancient. They were
abandoned and successively destroyed after the
demographic crisis during the 1440s.
Along the left bank of the Arno, but more
towards the hill compared to the zone of San Quirico
and beyond the mouth of the Pesa, a church dedicated to San Miniato has been dated back to 1024.
Even though it belonged to our parish, it had a peculiar rapport with the bishop of Florence who donated
it to the monastery of San Miniato a Monte of the
same city but take it back at the end of the XII century. The name of the saint whom the construction of
the building was named after, was obviously transferred to the people and in further deference, the
urban agglomeration was called “Samminiatello”.
In 1204, with the construction of the new
castle, the parish initially enjoyed the benefit of an
increase in population mainly in the northern area.
To better defend the new Florentine settlement at the
expense of the rest , the entire population of Santa
Maria a Fibbiana was transferred to Montelupo decimating Sant’Andrea a Empoli. The urban development assumed by the castle soon met with problems
regarding the transfer of some parochial functions
inside the new habitat, to the detriment of the mother
church. Before the demographic crisis of the XIV
century, two ecclesiastical buildings had already
emerged inside the newly founded Montelupo: a
church with an annex for guests founded by the
Domenicans of Santa Maria Novella of Florence
under the title of San Niccolò, and a church of San
Giovanni Evangelista. The first was placed just outside of the walls of the hamlet of Montelupo near the
bridge of the gate called San Piero from which
departed the road for Samminiatello.
San Giovanni on the other hand was placed
near the nucleus of the oldest military centre erected
on the summit of the hill, so much so that the church
bell shared the same grand tower (the “battifolle”)
with the fort; the church was built between 1221 (as
we know in that year there were no parishes in the
castle) and 1266, the year in which il Liber extimationum , doing a sensus of the damage caused by the
Ghibellini, cited the existence of a religious building.
Some witnesses refer to the Capitani d’Orsammichele, the ancient patrons of the church, a compromise established, with the agreement of the Florentine bishop on San Giovanni refers to, without citing
the counterpart unfortunately, a document summarily registered in the Bullettone which refers to the
year 1323. Being officiated by the secular clergy, this
urban parish soon met with organizational problems
regarding the situation of the baptismal font and the
burial procedure: it wasn’t easy for the inhabitants of
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
nonché i dorsali delle colline che rappresentano gli spartiacque di questo torrente con il Vingone e l’Orme. La
sua decimazione doveva essere assai antica: non per
caso, infatti, i battezzati in Montelupo mantennero per
molti secoli il secondo nome di “Romolo”, quale omaggio al santo che, si dice, convertì le popolazioni locali al
cristianesimo; come per altri plebati nei quali venne
divisa la diocesi fiorentina, si deve dunque pensare al VVI secolo come data d’origine della sua territorialità.
Nel 1270 alla chiesa matrice dei Santi Ippolito e
Cassiano facevano capo sedici parochiae ed un ospedale,
ma soltanto otto di queste (l’elenco pontificio trascura
San Giovanni Evangelista, di recentissima costruzione)
appartenevano al territorio che in quel tempo costituiva
la circoscrizione civile (curia) del comune di Montelupo.
L’assenza di fonti ci impedisce una puntuale ricostruzione della genesi di questo piviere in data anteriore alla
testimonianza fornita dalle Rationes, ma è certo che
almeno alcuni tra questi edifici parrocchiali fossero già
esistenti in epoca altomedievale, come sembra suggerire
in particolar modo il caso della chiesa di San Quirico,
nel lato occidentale della nostra circoscrizione ecclesiastica.
La parochia con questo nome è infatti qui documentata sin dall’anno 1000 in una cartula offersionis
che si conserva nell’archivio diocesano di Lucca. Essa
può essere identificata ora con la successiva chiesa a
San Giovanni Evangelista di Montelupo
(parrocchia urbana di recente costruzione);
San Miniato di Samminiatello;
Santa Maria a Fibbiana;
San Quirico a San Quirico;
Santa Maria a Sammontana;
San Giusto a Petrognano;
San Vito e San Michele a Luciano
(acquisite dal piviere di San Lorenzo di Signa);
Santa Maria a Pulica;
San Gaudenzio a Seghignano.
Il piviere dei Santi
Ippolito e Cassiano
Attorno a questi popoli si strinsero le maglie abitative dell’area montelupina, ma la grande crisi apertasi
con la carestia del 1340 e, soprattutto, la pandemia di
peste del 1348-49, finì per far prevalere, nel contesto di
un generale regresso demografico, le parrocchie che si
trovano a più stretto contatto con le vie di comunicazione e con l’abitato, ormai prevalente, di Montelupo.
Tra la seconda metà del Trecento ed il 1450 circa si
ridusse infatti ai minimi termini il peso demico dei
popoli collocati sulle fasce collinari della curia montelupina. Ad oriente, infatti, scomparve Seghignano e si
ridimensionò la stessa Pulica, mentre a sud Petrognano
perse l’edificio ecclesiastico, accorpandosi a Sammontana, ed a nord-est la presenza umana a San Vito e
Luciano (qui è documentato anche un villaggio abbandonato) toccò i suoi livelli minimi.
Per converso, è Samminiatello che si avvantaggia
di questa situazione, trasformandosi in un popoloso
borgo posto a ridosso di Montelupo, sulla riva dell’Arno,
e lo stesso fanno San Quirico e Fibbiana, che occupano
un’invidiabile posizione lungo la strada Pisana. Le parrocchie di Pulica, Sammontana e Petrognano, collocate
sui fertili terreni della bassa collina, sviluppano conseguentemente le loro caratteristiche agricole, mentre
l’area di San Vito e Luciano resta la più povera e, non
potendosi dedicare appieno allo sfruttamento delle
risorse boschive, per i gravami signorili che lo impedi-
scono, si volge anch’essa alla risorsa fluviale. Sono
dunque i fattori concomitanti della collocazione geografica e della contingenza demografica a costituire i presupposti essenziali per la localizzazione delle attività fittili in Montelupo e Samminiatello.
Nel Medioevo: le signorie territoriali.
Dobbiamo giungere agli ultimi anni dell’VIII secolo dell’Era volgare per incontrare il primo documento scritto
relativo alla porzione del Valdarno fiorentino ove si
trova Montelupo. Si tratta di una cartula offersionis del
794, assai nota agli storici, il cui contenuto è potuto
giungere sino a noi grazie all’antigrafo che ne fu tratto
durante il XII secolo: con questo documento tre fratelli
longobardi donarono terre e beni all’abbazia di San
Savino, nei pressi di Pisa. Tra le proprietà citate nell’atto
sono compresi anche terreni posti a Fibbiana, l’attuale
frazione del comune di Montelupo, il cui popolo, come
sappiamo, fu trasferito nel nuovo castello negli anni
1203-04.
Nonostante il suo contenuto non descrittivo, la
pergamena riesce a segnalare un’evidente prevalenza
nell’area medio-valdarnese del centro urbano di
Empoli, l’unico tra i luoghi citati – per quanto ovviamente ereditato dalla passata romanità – a poter essere
definito curtis, ma mostra nel contempo come le maggiori proprietà di questi signori di origine germanica, i
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
po, tanto da giungere persino ad incrementare il proprio
territorio, grazie all’acquisizione di due parrocchie (San
Michele e San Vito), probabilmente di antica origine,
che erano poste nella zona di Luciano e, come abbiamo
visto, già dipendevano dal piviere in capite pontis di San
Lorenzo a Signa.
Nel momento del suo massimo sviluppo, a S.
Ippolito facevano riferimento i seguenti popoli che,
oltre al piviere, furono inseriti all’indomani dell’incastellamento del 1203-04 nel territorio del comune di
Montelupo:
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THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
Ippolito e Cassiano
Montelupo to reach the hamlet of Santi Ippolito e
Cassiano to baptize their children and bury their
dead. The assuming of the title of Prioria by the new
castle church and the concession of its font – when is
still unknown but certainly before 1538, the year in
which its books of the baptized started – represent
other big changes along with an increase in inhabitants which led to the decadence of the old parish.
During the first half of the fourteenth century,
as already confirmed, the hamlet of Santi Ippolito e
Cassiano went through a moment of particular devel-
opment which led to an increase in its territory
thanks to the acquisition of two parishes (San
Michele and San Vito), probably of ancient origin
which were located in the area of Luciano and, as we
have seen, already depended on the parish in capite
pontis of San Lorenzo a Signa.
During the moment of its maximum development, in S. Ippolito there was reference to the following populations which were inserted soon after in
the in the castle grounds in 1203-1204 in the community of Montelupo:
SAN GIOVANNI EVANGELISTA DI MONTELUPO
(URBAN PARISH OF RECENT CONSTRUCTION)
SAN MINIATO DI SAMMINIATELLO;
SANTA MARIA A FIBBIANA;
SAN QUIRICO A SAN QUIRICO;
SANTA MARIA A SAMMONTANA;
SAN GIUSTO A PETROGNANO;
SAN VITO E SAN MICHELE A LUCIANO
(OF SAN LORENZO DI SIGNA);
SANTA MARIA A PULICA;
SAN GAUDENZIO A SEGHIGNANO.
Around these populations was fitted the ever
tightening pullover that was Montelupo, but the great
crisis that started with the drought of 1340, and above
all, the pandemic plague of 1348-49, led to demographic regression and the only the parishes that
were closer to the major communication routes or
part of the central area of Montelupo prevailed.
Between the second half of the fourteenth century
and 1450 about, the populations surrounding the central area of Montelupo were reduced to a minimum.
Indeed, on the western side, Seghignano disappeared
and Pulica was reduced, whilst on the southern side,
Petrognano lost its ecclesiastical building which
united with Sammontana, and on the north-east side,
human presence at San Vito and Lucaiano (here an
abandoned village is documented) touched a minimum.
Conversely, Samminiatello took advantage of
the situation as it was transformed into a well populated hamlet under the shelter of Montelupo on the
bank of the Arno, just like San Quirico and Fibbiana
which occupied an invidious position along the
Pisana road. The parishes of Pulica, Sammontana
and Petrognano located on the fertile terrain of the
low hills, consequentl developed their agricultural
characteristics, while the area of San Vito e Luciano
remained the most poor, and not being able to make
the most of the wooded areas owing to a lack of permission from the territorial rulers, turned to fluvial
resources. The placement f the ceramics industry in
Montelupo and Samminiatello was therefore a consequence of demographic contingencies and geographic position.
In the Medieval: the territorial rulers
We have to arrive at the last years of the VIII century
of the Era Volgare to find the first document relative
to the portion of the Florentine Valdarno where Montelupo is found. It is the cartula offersionis dated 794
which is well known to historians and which came to
light thanks to a copy dated in the XII century: with
this document, three Longobardi brothers donated
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
The Parish of Saints
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
conti di Luni dal 945, che però dagli anni ‘70 del secolo
X all’ultimo trentennio del successivo ebbero cospicui
possessi nel pisano, nel lucchese, in ambito volterrano
ed aretino, tanto da costituire una sorta di anomala
“marca” – detta “della Liguria occidentale” – la quale si
introduceva in varie contee della Toscana.
Re Ugo di Provenza, figlio del marchese Adalberto II, doveva dunque disgregare questi nuovi potentati per non subire un forte condizionamento politicoistituzionale sul regno; egli cercava perciò di mantenere
le vaste proprietà degli Adalberti, ma nel contempo
favoriva la nobiltà comitale, di rango minore, ma in
grado di indebolire la signoria territoriale dei pretendenti alla Marca. La prima di queste contee aveva il suo
centro in Pistoia, di cui Corrado, capostipite dei Cadolingi, era conte nel 923; nel periodo di re Ugo apparvero
inoltre per la prima volta conti a Volterra, a Firenze con
i Guidi, e a Luni con gli Obertenghi.
Con l’imperatore Ottone I la marca di Toscana
restò priva di titolare – ciò avvenne sicuramente negli
anni 961-965, ma forse questo periodo si estese sino al
968 – a seguito della fuga del marchese Uberto. Il vuoto
di potere che così si creò fu in parte colmato dal conte
del sacro palazzo Oberto I, capostipite degli Obertenghi.
Nel placito lucchese del 964, tenuto dal conte palatino
e dal vescovo di Parma come misso, figurano già nove
conti nell’assemblea placitante, e tra questi quattro
sono variamente collegati al canossiano Adalberto Atto
I, che si affaccia per la prima volta negli affari della
Marca toscana, mentre i rimanenti sono i titolari delle
contee di Pistoia, Firenze, Pisa e Volterra.
Nel 969 viene infine investito della dignità marchionale Ugo, che resterà in carica per più di trent’anni,
essendo scomparso nel 1001. In questo periodo si
assiste però in Toscana alla capillare suddivisone del
potere signorile, un fenomeno che investe ad ogni livello
sia il potere laico che quello ecclesiastico. Questi,
infatti, sono gli anni in cui sorgeranno i grandi cenobi
della toscana, la cui tutela fu spesso fomite di aspri contrasti, ma anche l’epoca in cui la sovrapposizione tra
interessi feudali e diritti ecclesiastici raggiunse il suo
culmine, ingenerando intromissioni laicali negli affari
ecclesiastici.
Dalla morte di Ugo alla nomina del nuovo marchese, Bonifacio (1004), trascorsero alcuni anni turbolenti, nei quali gli antichi storici pisani collocano la perdita da parte della diocesi di Pisa dei beni ecclesiastici
dell’Empolese e l’inizio dell’estensione del potere comitale dei Guidi in quest’area. Gli Obertenghi, inoltre, cercarono allora di impadronirsi per la prima volta della
Marca con la violenza. È quindi plausibile che la fine
della “Marca ligure-occidentale”, oltre ai conflitti tra
Lucca e Pisa, abbia favorito il rafforzamento dei poteri
comitali.
È con la successione a Ranieri, il quale venne ad
assumere il marchesato nel 1027, che la dinastia dei
canossiani s’intrometterà direttamente negli affari della
Marca di Toscana; morto Bonifacio di Canossa, spetterà
infine alla consorte di lui, la “gran contessa” Matilde,
portare ad esaurimento (1115) il potere marchionale
sulla regione, ultimo baluardo di un potere centrale
ormai inesistente, caduto il quale avranno agio di svilupparsi definitivamente i particolarismi delle signorie
locali
A seguito di questo processo di disgregazione,
l’area di Montelupo, assieme a quella di Empoli, si trovò
così a rappresentare una sorta di confine tra vari poteri
territoriali. Dopo aver fatto capo alle proprietà regie,
passate ai conti-duchi di Lucca in epoca adalbertina, le
terre montelupine, assieme ad altre dell’Empolese,
restarono evidentemente sino alla fine del X secolo nel
patrimonio regio, tanto che Ugo di Provenza ne fece
oggetto di elargizione alla moglie. Tramontata la stella
dei figli di Berta, ed apparse le contee, Montelupo e la
riva destra del Pesa entrarono poi nell’orbita cadolingia,
che venne a rafforzarsi sullo spartiacque tra Pesa e
Greve, anche per la fondazione del monastero di San
Salvatore a Settimo, con la vicina curtis ed il castello di
Montecascioli.
Non è chiaro se i Cadolingi, che avevano dimora
in Pistoia, abbiano mai esteso i loro domini sino a porre
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lands and goods to the Abbey of San Savino near Pisa.
Among the properties cited is some land situated at
Fibbiana, now part of the municipality of Montelupo
and whose population was transferred to the castle
during 1203 – 04. Notwithstanding the lack of detail,
the parchment manages to signal an evident prevalence in the mid-valdarnese area of the urban centre
of Empoli, the only one, among the places cited, able
to be defined as curtis and further indicates that most
of the property belonging to these people of German
origins extended with appreciable continuity along
the valleys of the Arno constituting, around the small
vici populated without interruption since Roman colonization, a network of mansi and curtes on which,
since the first mass transfer to the castle, the first successive human presence appeared. Since this date
and up to the first years of the XI century however,
no document of note provides direct or partial testimony of the events surrounding this territory.
We know however, that with the insertion of
Toscana into the kingdom of Italy and the Carolingio
empire – the epoch when the cartula offersionis
appeared – the so called dukedom-countship of
Lucca: The descendants of the Bavarian Bonifaccio
nominated Count of Lucca by Charles the Great,
assumed with Adalberto in 846, the title of Marquis.
The government of the marquis called “Adalberti”
extended over the area of Pisa, Luni, Volterra, Pistoia,
and Firenze-Fiesole- and therefore Montelupo.
During the first half of the X century, owing to a ferocious family feud, this family became considerably
weaker, and the Aldobrandeschi with Ildeprando who
took the title of Marquises of Tuscia and in successive
epochs continued to call themselves Marquises even
though, obviously, they no longer had that charge.
The same can be said of the Obertenghi, Counts of
Luni from 945, who, however, were from the last
thirty years of the X century to the last thirty years of
the successive century, conspicuous possessors of the
areas around Pisa, Lucca, Volterra and Aretino, to the
extent that they were able to create an anomalous
“Mark”– of Western Liguria – which was introduced
into various countships in Tuscany.
King Ugo of Provenza, son of the marquis Adalberto II, had to break up this new power to avoid suffering a loss of political – institutional power in his
kingdom; He attempted to maintain the vast property
of the Adalberti whilst favouring the Tuscan counts
who were of lesser standing but able to weaken the
ruling capacity of the pretenders to his lands. The
first of these countships had his centre in Pistoia, of
which Corrado, founder of the Cadolingi, was count
in 923; in the reign of King Ugo, counts appeared for
the first time in Volterra, in Florence with the Guidi
and at Luna with the Obertenghi.
With the emperor Ottone 1 the title of Florence
was without a possessor – which changed during 961965, or maybe even to 968 – following the escape of
the Marquis Uberto. This void was in part filled by the
count of the sacred palace Oberto 1, founder of the
Obertenghi. In the decreed area of Lucca in 964, held
by the Palatine count and the bishop of Parma as
Misso, there were already nine counts in the decreed
assembly, and among these four are linked to Adalberto Atto 1, who was involved for the first time in the
affairs of the Tuscan territories and the others were
possessors of the countships of Pistoia, Firenze, Pisa
and Volterra.
In 969, he was invested with the title marquis
Ugo who would go on to retain power for more than
thirty years until his death in 1001. In this period he
took part in the subdivision of the power to rule, a
phenomenon that regarded every level whether laical
or ecclesiastical. These indeed are the years where the
grand Tuscan cenoby emerged, the rights of which
were bitterly contested and the years where the clash
of interests between feudal and ecclesiastical rights
reached its peak, generating laical interference in
ecclesiastical affairs.
After the death of Ugo and up to the nomination of the new Marquis Bonifaccio (1004) many tur-
bulent years passed during which the ancient historians of the Pisa district place the loss of part of the
diocese of Pisa and of ecclesiastical assets from the
district of Empoli as well as the extension of power
of the Guidi counts in the area. What’s more, the
Obertenghi attempted, for the first time, to take full
control of territories with violence. It is therefore
plausible that the end of the “Ligure-Occidentale
mark” as well as the conflict between Lucca and Pisa,
favoured the reinforcement of the counts’ power.
It was with the succession of Ranieri, who went
on to assume the marquis title in 1027, that the
Canossian dynasty interfered directly in the affairs of
the Mark of Tuscany; at the death of Bonifaccio of
Canossa, it was his consort, the “grand countess” who
brought to the end (1115) the power of the marquis
over the region, the last bulwark of a central power
quite inexistent, fallen.
Following this process of disintegration, the
area of Montelupo along with Empoli, represented a
sort of boundary between various territorial powers.
After having been the central territory for its Royalty,
it was passed on to the counts-dukes of Lucca during
the Adalbertina epoch. The lands of Montelupo
together with those of Empoli, remained evidently
under Royal patronage to the extent that Ugo of
Provenza made it an object of donation to his wife.
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
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I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
Longobardi, si estendessero con apprezzabile continuità lungo la valle dell’Arno, costituendo, attorno ai
piccoli vici, ininterrottamente popolati dal momento
della colonizzazione romana, quella rete di mansi e
curtes sulla quale si sarebbe organizzata, sino ai primi
sconvolgimenti determinati dagli incastellamenti bassomedievali, la successiva presenza umana. Da questa
data sino ai primi decenni dell’XI secolo, però, nessun
documento noto ci fornisce testimonianza diretta, sia
pure parziale, di questo territorio.
Sappiamo tuttavia che con l’inserimento della
Toscana nel regno d’Italia e nell’impero carolingio –
l’epoca alla quale risale la citata cartula offersionis –
venne a formarsi il cosiddetto ducato-contea di Lucca:
la discendenza del bavaro Bonifacio, nominato da Carlo
Magno conte di Lucca, assunse però nell’anno 846, con
Adalberto I, il titolo di marchese. Il governo dei marchesi detti “Adalberti” si estese sui territori di Pisa,
Luni, Volterra, Pistoia e Firenze-Fiesole – e quindi
anche sull’area di Montelupo.
Nella prima metà del X secolo, a causa di una
feroce faida familiare, questa famiglia si indebolì considerevolmente, e furono gli Aldobrandeschi con Ildeprando a pretendere nel 937 il titolo di marchese di
Tuscia, e, anche se in epoca successiva furono chiaramente privi di tale carica, continuarono a farsi chiamare marchiones. Lo stesso può dirsi degli Obertenghi,
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
Lamberto in un suo privilegio dell’anno 1026, ed ancora
ribadite da Atto, nuovo presule fiorentino, nel 1037.
Mentre, tuttavia, l’area tra Empoli e Montelupo
fu oggetto di una lotta sempre più esasperata per il predominio della giurisdizione ecclesiastica tra clero secolare e clero regolare, i confini feudali sembrano allora
attraversare un momento di stabilità. Questa fase di
calma relativa venne però drammaticamente ad interrompersi con la morte del conte Ugo (III), allorquando
(1113) si estinse la nobile schiatta dei Cadolingi e, per
disposizione dell’ultimo suo esponente, i vescovi delle
diocesi nei quali si trovavano i suoi beni comitali gli
succedettero nei diritti.
I Cadolongi detenevano, come si ricava da una
donazione del 1000 che già ci è occorso di citare, la proprietà dell’area di San Quirico-Ambrogiana, e questi
aspetti della loro signoria territoriale dovevano essersi
consolidati nel corso del X secolo, visto che, come sappiamo, nell’anno 937 la curtis di San Quirico ed i suoi
40 mansi furono attribuiti ai possessi regi di Lucca e
Pisa. Ma i nobili pistoiesi erano probabilmente venuti
in possesso anche di alcuni diritti sulla stessa Fibbiana,
visto che all’indomani della morte del conte Ugo il
vescovo fiorentino Gottifredo, della famiglia degli
Alberti, dopo aver ricevuto la successione cadolingia
nella diocesi fiorentina, si affrettò a donare alcune
decime fibbianesi al monastero di San Tommaso di
Capraia: sua cugina Berta era la badessa di questo
cenobio. Lo stesso avvenne per la chiesa di San Miniato
in Samminiatello, reintrodotta dallo stesso Gottifredo
nei possedimenti del vescovado, e probabilmente
ceduta a livello, con i possedimenti che ad essa si riferivano, alla potente famiglia fiorentina dei Bostichi, con
la quale il presule fiorentino venne a scontrarsi in epoca
successiva.
Anche il territorio ove era edificata la pieve dei
Santi Ippolito e Cassiano in Val di Pesa faceva probabilmente parte dei possedimenti Cadolingi, che dovevano
così aver mantenuto il controllo territoriale di buona
parte del tratto dell’antica strada altomedievale la quale,
attraversando qui il Pesa, risaliva lo spartiacque con il
Vingone: il cuore stesso, cioè, della nuova viabilità altomedievale per Firenze. Fu dunque la scomparsa dei
Cadolingi e l’aggiramento del lascito del conte Ugo III a
rappresentare per gli Alberti una ghiotta occasione per
uscire definitivamente dall’ambito “pistoiese” della riva
destra dell’Arno, e non soltanto acquisire potere su Fibbiana, ma soprattutto estendere il loro dominio sulla
collina dove attualmente si trova Montelupo, sino a
comprendere, appunto, la pieve dei Santi Ippolito e
Cassiano. La stessa cosa probabilmente avvenne anche
nei riguardi di Pontorme e del suo territorio, che, varcando il torrente Orme, si affacciava nei pressi della guidinga Empoli. L’acquisizione di questi domini, d’al-
tronde, si rivelava di particolare importanza per gli
Alberti, che già avevano consistenti interessi in Val di
Pesa ed in Val d’Elsa, e potevano così riunirli ai possessi
“pistoiesi” nella trama di un’unica signoria territoriale.
La presenza albertesca lungo la riva sinistra dell’Arno comprendeva Sammontana, ove i conti di
Capraia edificarono un piccolo castello, al quale apparteneva probabilmente il toponimo Omiccio, collocato in
posizione strategica lungo il tracciato della via Maremmana, che da qui proseguiva per Pulica e San Donato
in Val di Botte sin verso Martignana, ove il loro dominio
incontrava il territorio dei Ravegnani; sullo spartiacque
tra Pesa e Turbone, inoltre, gli Alberti tenevano la zona
di Pulica sino a Montespertoli.
A fronte di una simile, cospicua estensione
della signoria territoriale, era inevitabile che negli
anni tra il 1113 ed il 1120, venuta meno la presenza
cadolingia, questo territorio fosse teatro del braccio
di ferro tra le due principali casate nobiliari, i Guidi e
gli Alberti, che vi avevano sviluppato forti interessi: la
posta in gioco di questo duello era non solo l’accaparramento dell’eredità cadolingia, certamente poco
salda nelle mani dei vescovi fiorentini, ma anche la
supremazia feudale sulla Tuscia, visto che alla morte
di Matilde di Canossa (1115) il conte Guido Guerra
(V), adottato dalla marchesa nel 1099, poteva in qualche modo sperare – ed in effetti si faceva chiamare
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Once the star of the children of Berta had faded, the
counts appeared, Montelupo and the right bank of
the Pesa entered into the Cadolingian orbit which
was then reinforced along the watershed between
Pesa and Greve, and the monastery of San Salvatore
a Settimo was also founded with its neighbouring
curtis.
It’s not altogether clear if the Cadolingi, who
resided in Pistoia, had ever extended their dominion
over the entire mid-valdarno area, from the gate of
Florence up to Fucecchio (Borgonuovo), where they
built an important castle and a curtis, where they
founded a famous monastery itself placed under the
title of San Salvatore and which was erected by Piero
Igneo. However, The Counts Alberti, later called “of
Capraia” precociously wedged themselves into this
Cadolingian territory with the aim of building their
castle of the same name as did the Florentine Guidi.
No document has come to light so far bearing an
explanation as to hoe these noble families managed
to install themselves in the area.
Also the ecclesiastical feud was evident in the
Mid - Valdarno during this moment of assets hunting
and territorial power. During the first ten years of the
XI century, the Florentine bishop Ildebrando,
counting on the help of the Emperor Henry III and on
the consensus of the Empress Cunegonda, began to
attribute various possessions to the church of San
Miniato al Monte di Firenze, a centre of blessed spirituality, even adding, in 1013, the curtis of Empoli. In
1024, the same Ildebrando confirmed all the past
additions and added the parochial church of San
Miniato, situated in the hamlet later called Samminiatello. The donations were again confirmed by his
successor Lamberto in the year 1026, and by Atto, the
new Florentine bishop in 1037.
While the area between Empoli and Montelupo
was the object of an increasing intense a struggle for
the predominance of ecclesiastical jurisdiction
between secular and regular clerics, the feudal borders seemed to be going through a moment of stability. This stable climate came to an abrupt end with
the death of Count Ugo (III) when the Cadolingi lineage ended and, by arrangement of the last exponent,
the bishops of the diocese inherited his titles.
The Cadolingi held, as can be seen from a donation in 1000, had cited possession of the area around
San Quirico-Ambrogiana and these parts of their territory had to be consolidated during the course of the
X century, seen, as we know, that in 937 the curtis of
San Quirico and its 40 mansi were attributed to the
rulers of Lucca and Pisa. But the rulers of Pistoia
probably came to possess some rights over Fibbiana
seen that, after the death of count Ugo, and after
having acquired the Cadolingian succession in the
Florentine diocese, the Florentine bishop Gottifredo
had haste in donating some assets of Fibbiana to the
monastery of San Tommaso di Capraia: his cousin
Berta was the abbess of this cenoby. The same thing
happened with the church of San Miniato in Samminiatello, reintroduced by the same Gottifredo who
was in possession of the bishop’s residence and probably ceded with the same contract, to the Florentine
family Bostichi with whom the Florentine bishop
clashed in a successive epoch.
Also the territory where the hamlet of SS
Ippolito e Cassiano in Val di Pesa was probably part
of the possessions of the Cadolingi family who maintained territorial control of a good part of the late
medieval road which crossed the Pesa, and formed a
watershed with the Vingone: the heart of medieval
viability for Florence. It was therefore the disappearance of the Cadolingi and the movements of the
bestowed assets by Ugo III that represented for the
Alberti a great chance to leave the Pistoia area on the
right bank of the Arno and, not only acquire power
over Fibbiana but above all extend their dominion
over the hill were Montelupo is today found, right up
to and including the hamlet of Santi Ippolito e Cassiano. The same thing probably happened to Pontorme and its territory, which faces the territory of
Empoli across the torrent Orme. The acquisition of
these dominions was of particular importance for the
Alberti who already had consistent interests in Val di
Pesa and in Val d’Elsa, and could then unite its Pistoia Territories into a singular possession.
The presence of the Alberti along the left bank
of the Arno included Sammontana where the counts
of Capraia build a small castle which probably had
the name Omiccio, located in a strategic position
along the track of the via Maremmana which followed
the way to Pulica and San Donato in Val di Botte and
on to Marignana where their dominion met the territory of the Ravegnani; on the watershed between Pesa
and Turbone. The Alberti also had the area of Pulica
up to Montespertoli.
Facing a similar, conspicuous extension of their
rightful lands, and given the lack of Cadolingi presence, conflict between the two principle houses of
nobility, the Guidi and the Alberti, between 1113 and
1120 was inevitable. Both had developed strong interests in the area: the main interests included not only
the buying up of the legacy of the Cadolingi now in
the hands of the Florentine bishops but also the
feudal supremacy of Tuscia, seen that, at the death of
Matilde di Canossa (1115) Count Guido Guerra (V),
adopted by the marchioness in 1099 could in some
way hope – and indeed he had himself called “mar-
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I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
nella loro signoria territoriale l’intera area medio-valdarnese, dalle porte di Firenze sino a Fucecchio (Borgonuovo), ove costruirono un importante castello e tennero una curtis, fondandovi il famoso monastero,
anch’esso posto sotto il titolo di San Salvatore, che fu
retto da san Piero Igneo.
In questo territorio cadolingio s’incunearono
però precocemente i conti Alberti, detti più tardi “di
Capraia” per avere la loro sede nell’omonimo castello,
ed i Guidi fiorentini. Nessun documento a tutt’oggi noto
è in grado illuminare i meccanismi grazie ai quali
queste famiglie comitali riuscirono ad installarsi nella
zona.
Anche la feudalità ecclesiastica si fece viva nel
Medio Valdarno in questo momento di caccia ai benefici ed al potere territoriale. Nei primi decenni dell’ XI
secolo il vescovo fiorentino Ildebrando, contando sull’aiuto dell’imperatore Enrico III e sul consenso dell’imperatrice Cunegonda, iniziò ad attribuire varie possessioni alla chiesa di San Miniato al Monte di Firenze,
centro di spiritualità benedettina, dotandola nel 1013
persino della curtis di Empoli. Nel 1024 lo stesso Ildebrando confermò ai monaci di San Miniato quanto loro
precedentemente attribuito, e, come sappiamo, vi
aggiunse la chiesa parrocchiale di San Miniato, posta
nel borgo che poi fu detto di Samminiatello. Le donazioni di Ildebrando furono poi confermate dal successore
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
di semplice guardingo, doveva esistere da tempo: formuliamo quindi l’ipotesi che, prima dell’edificazione di
un castello abitato, di cui tratta ampiamente la storia
successiva, sul colle di Montelupo si ergesse già una
qualche struttura di tipo militare.
La conquista cittadina: un “lupo fiorentino” alla guardia
del Valdarno.
Nel nostro quadro storico, già notevolmente complesso,
viene ad affacciarsi sul finire del XII secolo – qualche
decennio dopo, cioè, il conflitto tra le signorie territoriali del luogo – un ulteriore protagonista delle vicende
storiche toscane: la Repubblica di Firenze. La Città
Gigliata, dopo circa due secoli di forte incremento economico e demografico, inizia infatti ad intromettersi
nelle vicende di quest’area del Medio Valdarno nel 1174,
con una rapida spedizione condotta contro il castello di
Montecascioli ed i cattani di Signa – i quali avevano il
loro piccolo dominio sullo spartiacque tra il Vingone ed
il Pesa, e si trovavano così nei luoghi essenziali per le
comunicazioni viarie fiorentine – che fruttò alla Repubblica la conquista del castello di Monte Orlandi, sito in
posizione strategica al disopra di Gangalandi. Nel
dominio dei Fiorentini stava adesso uno dei ponti che
garantivano l’attraversamento dell’Arno in direzione di
Pistoia.
Poiché sappiamo che già nel 1182 la guidinga
Empoli giurò un oneroso patto di sottomissione alla
Città, promettendo, tra l’altro, di condurre a Firenze per
la festa di S. Giovanni un cero di maggiori dimensioni
di quello solito ad inviarsi da parte dell’albertesca Pontorme, se ne deduce che a questa data le due potenti
famiglie comitali, ai quali appartenevano le due curtis
più importati di questo tratto del Medio Valdarno, avevano già dovuto chinare la testa a Firenze. La pressione
politica e militare esercitata dai nuovi arrivati non si era
dunque fermata alla zona di Signa, ma era giunta quasi
di slancio al confine dell’antica judicaria longobarda e
della diocesi fiorentina.
Le direttrici del sorgente espansionismo cittadino, come ben evidenzia il Villani, seguirono la direzione del Mugello e del Valdarno: le due aree, cioè, che,
per gli approvvigionamenti della città e per la salvaguardia delle sue vie di comunicazione, rappresentavano i punti nevralgici della crescita di Firenze; in
questi luoghi, però, si erano da tempo stabilite – probabilmente, come si è visto, già nel corso della seconda
metà del X secolo – a titolo più o meno legittimo,
diverse signorie, tanto di natura laica che ecclesiastica.
Il conflitto tra la Repubblica Fiorentina ed i conti
Alberti, signori delle terre di Montelupo, esplose violentissimo nel 1184, ed ebbe per teatro di guerra soprattutto la Valdelsa, ma si estese anche al Mugello ed alla
Val di Pesa. Le durissime condizioni di pace imposte
allora dai Fiorentini ai conti sconfitti implicarono la
cessione alla Città della metà delle imposte e prevedevano anche il controllo di una torre del castello di
Capraia, che la Repubblica aveva il diritto di atterrare
a proprio piacimento. Questa torre potrebbe essere
stata proprio il “guardingo”, già edificato sul luogo del
futuro Montelupo e, come si è detto, dipendente dalla
rocca capraina, con la quale esso poteva formare un
solido sistema di difesa, disteso su entrambe le rive del
fiume, comprensivo probabilmente anche dell’antico
ponte sull’Arno.
Ma la guerra del 1184 non poteva concludere il
braccio di ferro tra Firenze e gli Alberti, come, del resto,
la sottomissione degli Empolesi alla Repubblica nel
1182 non avrebbe definitivamente spezzato il rapporto
tra quest’ultima ed i conti Guidi. Come efficacemente
scrisse Robert Davidsohn, infatti, “importava ai cittadini fortificarsi là dove l’Arno abbandona i colli della
Golfolina, per poter difendere anche da quella parte il
proprio territorio contro Pistoia, Lucca e Pisa e, se le
circostanze fossero mutate, anche contro San Miniato”.
Ma non meno, come si è detto, interessava ai Fiorentini
sgomberare la via fluviale che l’univa al mare da quei
condizionamenti che ne avrebbero potuto strangolare la
crescita economica e civile.
L’occasione propizia si presentò loro vent’anni
dopo. Il conte Alberto morì infatti prima del giugno del
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quis” – in the succession to the lineage of a marquis.
The conflict was open in 1120 and, even if it
didn’t produce tangible consequences in terms of
increasing local possessions, it was enough to determine long term phenomena, including the building of
battlements in Empoli which remained solemnly in
the hands of Guido Guerra in 1119. It is very probable
that the Alberti also reinforced their possessions
given the hostile conditions starting with the castle at
Capraia, the centre of their territory without
neglecting Pontorme and, we believe, strengthened
their military presence in the area of Montelupo as
the territory on the left bank of the Arno – the same
that gave access to the Val di Pesa – couldn’t count on,
besides a minor castle at Sammontana, strong points
from which to combat the enemy.
It is improbable that this hill of particular
strategic relevance from which, besides controlling
the inferior course of the Arno at the beginning of the
straight that ends with the Golfina, it was possible to
block various communication channels between Florence and Pisa, and also given the fact that the
ancient bridge across the Arno was in the area, wasn’t
invested with some kind of defence – but as far as we
know – and here we can’t count on written documents
– such a fortification should have already existed for
a long while. We can form the hypothesis that before
the inhabited castle which will be amply discussed,
there was a military structure on the Montelupo hill.
The citizen’s conquest: a “Florentine wolf” watching
over the Valdarno.
In our historical picture, already notably complex,
towards the end of the XII century – some tens of
years after the conflict between the rulers of the place
– a further protagonist of Tuscan history appears: the
Republic of Florence. The city of the lily, after two
centuries of strong economical and demographic
growth, began to get involved in the affairs of the part
of the Mid-Valdarno in 1174 with a rapid expedition
conducted against the castle of Montcascioli and the
castle folk of Signa – who had their small dominion
on the watershed between the Vingone and the Pesa,
and who were placed on essential Florentine communication lines – which conquered the castle of Monte
Orlandi, sited on a strategic position above the Gangalandi. The Florentines as a consequence had in
their dominion one of the bridges that guaranteed the
crossing of the Arno in the direction of Pistoia.
As we know that already in 1182 the counts of
Empoli swore an onerous pact of submission to the
city, promising, amongst other things, to send to Florence for the feast of S. Giovanni a bigger than usual
candle on behalf of the Alberti of Pontorme, we can
deduce that at about that date the two powerful families, to whom the two most important curtis of the
Mid-Valdarno belonged, had already bowed their
heads to Florence. The political and military pressure
exercised by the new arrivals didn’t stop at Signa, but
had almost arrived at the ancient judiciary of the
Longobarda and of the Florentine diocese.
The direction of expansionism as evidenced by
the Villani, followed the direction of Mugello and Valdarno: the two areas, in terms of providing for the
needs of the city including its channels of communication, represented nerve points in the growth of Florence; in these places however - as could probably be
seen already in the course of the X century – holding
more or less genuine entitlements, were diverse noble
people, lay as much as ecclesiastical.
The conflict between the Florentine Republic
and the Alberti counts, nobles of the lands of Montelupo, exploded violently in 1184 and the Valdelsa
and the stretch of land from Mugello to the Val di
Pesa became theatres of war. The very hard peace
conditions imposed by Florence on the counts
included the concession of half of their taxes to the
city and provided for the control of a tower of the
castle of Capraia which the Republic could use on
whim. This tower could have been the “guardingo”,
which stood in place of the future Montelupo and as
already mentioned, was dependent on the Capraina
fortress with which it formed a solid defence system
spread along both sides of the river and probably
including the old bridge on the Arno.
But the 1184 couldn’t conclude the tension
between Florence and The Alberti clan, just as the
submission of the rulers of Empoli to the Republic in
1182 didn’t end the relationship between the latter
and the Guidi. As Robert Davidsohn efficiently wrote,
“the citizens wanted to fortify the area where the
Arno abandons the hills of the Golfolina, to defend it
against Pistoia, Lucca and Pisa, and if necessary, if
the conditions changed, against San Miniato”.The
Florentines were just as much interested in freeing
the fluvial routes that stretch out towards the sea of
any condition that might be able to strangle economic and civil growth. The perfect opportunity
came twenty years later. Count Alberti died before
June 1203; he had named the consuls of Florence as
tutors of his youngest son, he too named Alberto,
born of the second wife Tabernaria. Albert had been
bequeathed the assets on the right side of the Arno,
besides other places in bologna and Romagna, while
to the son of the first marriage went the remaining
patrimony on which however grated the heavy Florentine presence. Count Borgognone, exponent of a
collateral branch of the Alberti thought to occupy the
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I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
“marchese”- nella successione al rango marchionale.
Il conflitto si fece aperto nel 1120 e, anche se non
produsse alcuna conseguenza tangibile nella ripartizione dei possedimenti locali, fu sufficiente a determinare fenomeni di lungo periodo, quali l’incastellamento
di Empoli, al quale mise solennemente mano Guido
Guerra nel 1119. È del tutto probabile che in quegli
anni anche gli Alberti abbiano provveduto a munire e
rafforzare i loro possessi in vista dell’urto con i vicini
che si annunciava imminente, e lo abbiano fatto proprio
a cominciare dall’avito castello di Capraia, centro della
loro signoria territoriale, senza ovviamente trascurare
Pontorme e, crediamo, rinsaldare la loro presenza militare nella zona di Montelupo, visto che il territorio sulla
riva sinistra dell’Arno – e lo stesso accesso alla Val di
Pesa – non potevano appoggiarsi, oltre il castelluccio di
Sammontana, su punti forti dai quali contrastare il
nemico.
È del resto improbabile che questo colle di particolare rilevanza strategica, dal quale, oltre a controllare
il corso inferiore dell’Arno all’inizio della stretta che termina con la Golfolina, si poteva fare ostacolo alle comunicazioni viarie tra Firenze e Pisa, trovandosi anche nei
pressi dell’antichissimo ponte per l’attraversamento dell’Arno, non fosse munito di alcuna difesa. A nostro
avviso – ma qui purtroppo non possiamo contare su
documenti scritti – tale fortificazione, sia pure a livello
Ricostruzione grafica della costruzione del castello di Montelupo
nel 1204-06 (disegno Ink-Link Firenze)
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
1203; egli aveva nominato i Consoli del comune di
Firenze tutori del figlio minore, anch’esso di nome
Alberto, nato dalle sue seconde nozze con Tabernaria.
Ad Alberto erano stati assegnati i beni della riva destra
dell’Arno, oltre a quelli posti in Bologna e nella
Romagna, mentre ai figli di primo letto andava invece
il restante patrimonio, sul quale gravava però la pesante
ipoteca della presenza fiorentina. Il conte Guido Borgognone, esponente di un ramo collaterale degli Alberti,
pensò dunque di occupare con un colpo di mano il
castello di Capraia per assicurare a sé ed alla sua discendenza parte della signoria territoriale albertesca.
Giovanni Villani e le cronologie dette Gesta Florentinorum che costituiscono la sua fonte d’informazione sugli avvenimenti di quell’anno, affermano però a
chiare lettere: “Negli anni di Cristo 1203, essendo consolo in Firenze Brunellino Brunelli de’ Razzanti e suoi
compagni, i Fiorentini disfeciono il castello di Montelupo perché non volea ubbidire al comune”. Questo
passo del Villani, in apparente incongruenza con la
documentazione storica rappresentata dai patti tra la
Repubblica da una parte e Guido Borgognone ed i suoi
figli dall’altra, ha creato un piccolo scompiglio tra gli
55
Link, Firenze)
castle at Capraia with through a quick coup to assure
his descendents part of the territory belonging to the
Alberti family.
Giovanni Villani and the chronology called
Gesta Fiorentinorum which constituted his source of
information on the events of that year affirm however
in clear letters: “In the year of Christ 1203, when
Brunellino Brunelli de’Razzanti and his companions
were consuls in Florence, the Florentines undid the
castle of Montelupo because it didn’t want to obey the
city-state”. This step by Villani, apparently incongruous with historical documents demonstrating
pacts between the Republic on one side and Guido
Borgognone and his sons on the other, has created a
small upset between historians: what could the Florentines have destroyed given that Montelupo was
constructed at the beginning of the successive year?
There have been many answers to this enigma. Davidsohn states that it’s a question of reading errors
(unfortunately linked): “1204”, written in Latin numbers can be read as “1203” if the last unit is not perceived and “disfeciono” (undid) could have been
“feciono” (did up) in the original text – but the
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
Graphic reconstruction of the Montelupo Castle in 1204-06 (Ink-
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
quale dovette attuarsi nell’arco di pochi anni, e cioè tra
il 1203 ed il 1206, anche se con tutta probabilità l’impresa era giunta a buon punto già nella primavera del
1204, visto che, per la pressione militare da qui esercitata su Capraia e sugli altri possedimenti alberteschi
della zona, Guido Borgognone fu costretto ad un primo
armistizio (giugno 1204), ed a una successiva pace (29
ottobre 1204).
Consapevoli che solo con la presenza di un forte
nucleo abitativo il nuovo castello poteva essere tenuto
con sufficiente sicurezza, i fiorentini favorirono con
ogni mezzo l’introduzione al suo interno delle popolazioni già addensate nei borghi e nelle ville limitrofe. Di
questa operazione di incastellamento e delle alterazioni
che essa produsse nei confronti del precedente assetto
territoriale, sono eloquente testimonianza i due decreti
emanati dai vescovi fiorentini nel 1206 e nel 1221 su
richiesta del pievano di Empoli, in occasione del trasferimento del popolo di Santa Maria a Fibbiana entro le
mura di Montelupo, al quale abbiamo già in precedenza accennato.
Come si può ben rilevare dalla cartografia, l’originario insediamento castrense montelupino aveva in
realtà modeste dimensioni, comprendendo soltanto la
parte sommitale del colle, e cioè l’area ancor oggi individuata e caratterizzata dal toponimo “castello”. Entro
questo angusto circuito murario, destinato a svolgere
funzioni di carattere militare, la popolazione si trovò
perciò precocemente ristretta, tanto che l’abitato
debordò presto all’esterno, occupando la pendice settentrionale della collina, disponendosi lungo l’asse
viario che, dalla sua sommità, si indirizzava al ponte
sull’Arno. Con il continuo accorrere della popolazione
nel corso del XIII secolo, l’incastellamento di Montelupo assunse dunque una valenza storico-topografica
che superò di molto il significato militare dell’operazione contro i conti Alberti, per trasformarsi nella creazione di un nuovo centro abitato, all’interno del quale
si sarebbe ben presto riorganizzata l’economia e la vita
civile di questa porzione territoriale della riva sinistra
dell’Arno. Nel corso di questo secolo, infatti, Firenze
impresse sull’addizione abitativa che era venuta formandosi lungo il colle di Montelupo il modulo di sviluppo urbanistico di una “terra nuova”, cioè di un
nucleo abitativo di nuova fondazione dotato di mura.
Come le più note “terre nuove” fiorentine (Scarperia,
San Giovanni Valdarno, Terranuova Bracciolini), anche
al nuovo abitato valdarnese fu imposto un profilo rettangolare, spartito a metà dalla strada principale, e
tagliato per moduli orizzontali dalla viabilità minore:
nacque così una nuova “terra murata”, protetta da un
castello, ma tutta volta ad ottimizzare, nel rapporto con
la strada Pisana, l’Arno ed il Pesa, a fini economici le
risorse naturali e viarie di questo territorio.
Il fiero animale alla sottile catena della Dominante.
Montelupo costituiva già nella seconda metà del Duecento un importante insediamento fiorentino, e come
tale esso avrebbe legato d’ora in avanti le sue vicende
politiche, civili ed anche economiche a quelle della sua
Dominante, mostrandosi in ciò probabilmente la più
fedele e “gigliata” tra le terre del Valdarno. I fiorentini,
in cambio del ruolo che avrebbe esercitato nei secoli a
venire, le assegnarono un buon assetto civile, facendo
crescere la comunità locale secondo gli schemi ordinati
del comune di Contado, e designandola altresì come
sede di un’importante podesteria, cioè della circoscrizione civile di un giudice ed “ufficiale di governo”.
La prima menzione del comune di Montelupo
risale in effetti al 1260, anno in cui l’istituzione locale è
citata nei Capitoli della Repubblica, ma è evidente come
l’operazione di incastellamento non sia potuta avvenire
senza che la popolazione qui residente fosse precocemente organizzata in forme comunitarie di gestione del
nuovo insediamento: la successiva attestazione di Montelupo come “comune per sé”, contenuta nello statuto
del Capitano del Popolo del 1321, rappresenta così solo
la conferma documentaria di una realtà da lungo tempo
esistente.
Dei primordi della comunità montelupina non ci
è rimasto alcun documento antecedente ad uno statuto
che, in forma di pessima minuta, risale al 1389, ed è
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56
Swabian didn’t dare affirm this explicitly. Also
Hartwig had noted the incongruence and dedicated a
footnote to it in his work on the history of Florence
but didn’t attempt to resolve the problem. Scipione
Ammirato the Younger affronted the question by
reflecting on a possible building that preceded the
building up of Montelupo: in attempting to find an
alibi for the Florentine action – unnecessary because
Guido Borgognone had anyway violated the preceding peace treaty – invented an imaginary “Malborghetto”, not by chance conceived as the place the
Alberti used as a base (we are in the seventeenth century) to break up the territory of the hated arrogant
nobility.
Once the Alberti presence was eliminated, Florence began a grand reconstruction of the castle,
which took place over a few years and which,
between 1203 and 1206, even if in the spring of 1204,
the enterprise had already reached a good point as
the military pressure coming from this military
encampment on Capraia and on the other Alberti
possessions in the area, Guido Borgognone was
forced to accept an armistice (June 1204), and peace
(29 October 1204).
Knowing that the castle could only remain
secure if there was a strong presence of inhabitants,
the Florentines favoured any means that would result
in the introduction of people inside its walls. There
was already an increase of population in the areas
around it. There are two eloquent testimonies to this
increase of population within the castle’s walls which
come from Florentine bishops in 1206 and 1221 at
the request of the bishop of Empoli in a period of
transference of the population from Santa Maria to
Fibbiana to within the walls of Montelupo. As can be
revealed from maps, the original Montelupo settlement was modest in dimension, occupying only the
summit of the hill, the area also known today as
“castle”. Within these walls, destined to have a military function, the population soon suffered a lack of
living space so much so that the living quarters soon
extended outside of the castle, along the northern
slope of the hill along the road that went from the
summit towards the bridge over the Arno. With the
continued inrush of population during the XIII century, the fortification of Montelupo assumed a historical-topographical value which went beyond the military operation against the Alberti, a transformation
into a reorganized. During this century indeed, Florence marked the development of the residential
areas along the hills of Montelupo as having the
developmental urban model of a “new land”, that is,
the residential nucleus of a new foundation with
walls. Like the most noted Florentine “new lands”
(Scarperia, San Giovanni Valdarno, Terranuova Bracciolini), the Valdarno residential centre was also rectangular, emerging about half way along the main
road and cut into horizontal modules by the minor
roads; this is how a new “walled land”, began, protected by a castle and able to optimize the road
towards Pisa, the Arno and the Pesa, exploiting natural resources and main communication routes.
The proud animal on the subtle chain of the Dominant
Already in the second half of the second century,
Montelupo constituted an important Florentine settlement and as such was linked from then on to the
political, economical and civil affairs of its rulers and
demonstrated itself to be, probably, the most faithful
and “gigliata” amongst the Valdarno lands. In
exchange, the Florentines, exacting their part in a role
that would continue for centuries to come, assigned
Montelupo a civil role that would permit it to grow as
a local community following the schemes arranged
for a country community and giving the status of an
important Podesta, that is, of a constituency with a
judge and a “government official”. The first mentioning of the municipality of Montelupo appears in
1260, the year in which the local institution is cited
in the Capitoli of the Republic but it is obvious that
the fortressing of the site wouldn’t have come about
unless the people were previously organized into
some form of a community with the aim of managing
the new settlement. The successive attestation of
Montelupo as a “municipality in itself”, contained in
the statute of the Capitano del Popolo of 1321, represents the documentary confirmation of a long
existing reality.
From the early days of the Community of Montelupo, no antecedent to the minute statute which
dates to 1389 and is conserved – as an original – in
the Archivio di Stato di Firenze; in its preamble however, it cites a preceding sylloge which was produced
three years earlier, in May of 1386, by the notary of
Montelupo Gherardino d’Andrea: it has to be stated
however that the statutory tradition of the place was
in reality, like many other places in the countryside,
much older.
From this normative document we can reveal
how, in following tradition, the local offices were
obtained through the extraction of a nominative
form, according to the numerical proportion between
the tax paying residents of the principal urban
nucleus (the allibrati) and the “population” to be
found in the surrounding “villages” (“curia” fig 6). In
the statute of 1389, in particular, it was established
that the executive of the community was formed of
four deputys half of the number that belonged to the
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
storici: cosa mai potevano aver distrutto i Fiorentini nel
1203, visto che Montelupo risulta esser stato edificato,
e quindi esistere, solo ad iniziare dall’anno successivo?
Le risposte che si è cercato di fornire a questo
(apparente) enigma sono state diverse. Il Davidshon
ritenne trattarsi semplicemente di due errori di lettura
(purtroppo, però, collegati tra di loro): “1204”, scritto in
cifre latine, può infatti essere letto come “1203”, qualora
non si percepisca l’ultima unità; di più, “disfeciono” può
esser stato “feciono” nel testo originale – ma questo lo
storico svevo non ebbe l’ardire di affermarlo esplicitamente Anche l’Hartiwg aveva notato l’incongruenza,
dedicando ad essa una nota nel suo lavoro sulla storia
di Firenze, ma non aveva risolto il problema. Scipione
Ammirato il Giovane, nelle aggiunte alla storia del suo
omonimo avo, dirime invece la questione pensando ad
una località da distruggere prima dell’edificazione di
Montelupo: egli sarebbe stato nel giusto, ma per voler
trovare un alibi all’azione fiorentina – peraltro non
necessario, in quanto Guido Borgognone aveva violato
il precedente trattato di pace – inventò un fantomatico
“Malborghetto”, non per caso concepito come luogo
che gli Alberti avrebbero sfruttato come base (siamo nel
Seicento) per piegare il territorio ad odiose soperchierie
nobiliari.
Eliminata la presenza albertesca, Firenze mise
mano ad una grandiosa ricostruzione del castello, la
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
quello dei vicari. A questo seguiva a sua volta un collegio “quod voluerunt et decreverunt offitium quactuor
espertorum, prout actenus appellari consuevit”,
anch’esso eletto con il solito criterio paritario tra residenti in Montelupo e nelle ville limitrofe, che aveva una
durata semestrale. L’autorità degli esperti, a conferma di
quanto si diceva poc’anzi circa la presenza di precedenti
consuetudini, veniva rimandata a quella “hactenus concessam et actributam per quecumque ordinamenta
dicti comunis”.
Il potere normativo – da esercitare ovviamente
nei ristretti ambiti consentiti dalla prevalenza giuridica
della Dominante – era poi riservato ad un Consiglio
generale di 24 membri, che era formato con le solite
modalità rappresentative e stava in carica per sei mesi.
Agli uffici di governo della comunità seguivano le
cariche di natura prevalentemente tecnica ed esecutiva,
che lo statuto riservava agli allibrati in Montelupo, e
cioè quella degli exactores – funzione tanto confusamente indicata nel testo, da non esplicitare da quanti
membri essa fosse composta, né per quale periodo si
esercitasse – e quella dei Ragionieri e Sindaci; il collegio
di questi ultimi era formato da quattro persone, che stavano in carica per sei mesi, ma iniziavano la loro attività con un mese di ritardo rispetto agli altri uffici, in
quanto dovevano verificarne gli atti amministrativi.
L’istituzione del tribunale podestarile in Monte-
lupo seguì invece di alcuni decenni la nascita del
comune, coincidendo con l’inizio del processo di trasformazione del Contado in unità statale, avviata dalla
città di Firenze sul finire del XIII secolo. Da allora
nella “terra murata” montelupina risiedette costantemente un Podestà, inviato dalla Città Dominante per
l’amministrazione della giustizia ed incaricato di sempre più ampie e complesse funzioni di ufficiale di
governo.
La podesteria di Montelupo si estendeva probabilmente sin dall’origine all’altra sponda dell’Arno, per
comprendere Capraia ed il suo territorio da poco
strappato (1352) al comune di Pistoia. Con la nascita
dei vicariati (1415), ai quali venne affidata la giustizia
criminale del Contado e Distretto, svincolando questi
territori dalle competenze dei giudici dei Sestieri e
Quartieri di Firenze, Montelupo fu posto nella circoscrizione del vicario di Certaldo, all’interno della quale
restò sino alle riforme istituzionali promosse da Pietro
Leopoldo I.
La più antica silloge normativa della podesteria
giunta sino noi risale al 24 novembre del 1416, e riflette, dunque, la nuova struttura della competenza criminale che sin dall’anno precedente era stata demandata
ai vicariati. La podesteria era retta dal Podestà di
nomina fiorentina, che restava normalmente in ufficio
per sei mesi, ed aveva come coadiutore un notaio, il
quale esercitava le funzioni di cancelliere. Per garantire
l’osservanza della legge, il Podestà poteva contare su
tre pedoni armati ed un cavallo (la cosiddetta
“famiglia”); il suo salario, fu stabilito dalla Repubblica
fiorentina in 325 lire, e tale onere ripartito nella comunità attraverso la base imponibile dell’Estimo: la
somma veniva versata “di tre mesi in tre mesi”.
Lo statuto del Podestà di Firenze del 1415 considerava infine la circoscrizione militare di Montelupo
come parte del “plebatus S. Ipoliti”, inserendola nella
“Liga Montis Lupi et Ponturmi”, comprensiva anche
del popolo di Santa Maria a Sammontana e del comune rurale di Quarantola.
Trascorsi i fatidici avvenimenti medievali, e passate le ultime, burrascose vicende legate alle lotte per
il definitivo consolidamento dello stato regionale,
Montelupo rappresenta ormai, come si diceva, una
terra fedelmente legata a Firenze, che in nessuna occasione, neppure negli anni del conflitto tra i Medici e la
Repubblica Fiorentina che precederanno la nascita del
Ducato mediceo, mai tenterà di allentare il rapporto
con la Dominante.
L’economia locale, sviluppando considerevolmente la produzione ceramica, che trovava nel capitale e nel sistema mercantile fiorentino il suo punto di
forza, era del resto strettamente legata a quella di
Firenze, che garantiva gli sbocchi internazionali delle
59
58
urban nucleus (“in castro et burgo de Monte Lupo”)
while the rest was reserved to the “hominibus allibratis in villiset pro villis dicti comunis Montis Lupi”.
The duration of these terms as deputy, as was usual
in these statutes was three months.
At the deputy’s college there was a council consisting of 12 boni homines half of whom were inhabitants of Montelupo and the others from the surrounding linked villages. The office lasted six months,
double then that of the deputies. Following this was
the college “quod voluerunt et decreverunt offitium
quactuor espertorum, prout actenus appellari consuevit”, also elected with the same number of representatives from Montelupo and the surrounding
areas, and which had a duration of six months. The
authority of the experts, to confirm what was said a
short time ago about preceding habits, was based on
“hactenus concessam et actributam per quecumque
ordinamenta dicti comunis”.
The normative power – to be exercised obviously within the tight conditions established by the
prevalent legal system of rulers – was reserved to a
Consiglio generale made up of 24 members, which
was formed in the usual way and had a duration of
six months.
The government offices of the community had
tasks of a largely technical and executive nature, fol-
lowing up the requirements that the statutes reserved
for the tax payers of Montelupo, those of exactores –
a confusing task as the guidelines were unspecific and
it was unknown how many members there were and
for how long the charge lasted.
There were also Ragionieri and Sindaci formed
of four members with a charge that lasted six months.
The latter started one month later than the others
because they had to first verify the administrative
acts.
The tribunal institute of the chief magistrate in
Montelupo had following the growth of the municipality for some tens of years, coinciding with the
beginning of the transformation process of the surrounding countryside into a state unit, initiated by the
city of Florence at the end of the XIII century. From
then on in the “walled land” of Montelupo there was
a fixed chief magistrate sent by the ruling city to
supervise the administration of justice and oversee
ever increasing government functions.
The jurisdiction of Montelupo probably
extended, from its origins, to the other bank of the
Arno and included Capraia and its territory recently
torn away from the municipality of Pistoia. With the
onset of the deputies office (1415) which was
entrusted with criminal justice in the surrounding
countryside and its districts, removing these territo-
ries from the jurisdiction of the judges based in Florence, Montelupo was placed under the jurisdiction
of the deputies office of Certaldo, where it remained
until the institutional reforms promoted by Pietro
Leopoldo 1.
The oldest normative sylloge from the judiciary that has come to our notice dates to 24 November
1416 and reflects on the new structure of criminal
competence that had been demanded by the deputies
the year before. The judicial structure was put in
place by a Florentine magistrate who normally
remained in office for six months and who had as
assistant a notary who exercised the role of cancelliere.
To guarantee observation of the law, the magistrate
could count on three armed pedestrians and a horse
(known as the “family”); his salary was established
by the Florentine Republic, a sum of 325 lire, which
was paid by the community from taxes. The sum was
paid “every three months after three months”.
The magistrates statute of Florence of 1415
considered the military area of Montelupo as part of
the “plebatus S. Ipoliti”, inserting it into the “Liga
Montis Lupi et Ponturmi”, also including the population of Santa Maria a Sammontana and of the rural
community of Quarantola.
Once over the prophetic medieval events, a the
final stormy affairs linked to the struggle for a defin-
itive consolidation of the regional state, Montelupo
represented, as was said, a land faithfully tied to Florence and it never attempted to brake this tie even
during the conflict between the Medici and the Florentine Republic which preceded the birth of the
Mediceo Ducato. The local economy, developing considerably the production of ceramics, which found, in
the Florentine capital and mercantile system a base
from which to grow and reach out to the other parts
of the world.
Most noble families with money, like the Frescobaldi, Mannelli, Antinori, Spina, Strozzi, and
Ambrogi families had properties in the curia of Montelupo. Equally important was the local real estate
held by the Florentine religious institutions, both secular like the Capitolo di San Lorenzo and regular like
the Domenicani di Santa Maria Novella. The passage
from Republic to Ducato, as we will see, coincided
with the first incipient difficulty of the ceramics
industry, but no one from Montelupo dreamed of
uprising against the new regime: even the ferocious
occupation of the “walled city”, realized in 1538 by a
company of disbanded Spanish troops who brought
death and destruction, was not blamed on Duke
Cosimo who had recruited the band. The years of the
Principality of the son of Giovanni della Banda
Nera, coincided with a year of growth for Tuscany,
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
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I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
conservato – proprio per essere l’originale – presso l’Archivio di Stato di Firenze; nel suo preambolo, però, si
cita una precedente silloge, la quale fu redatta solo tre
anni prima, nel maggio del 1386, dal notaio montelupino ser Gherardino d’Andrea: è perciò da ritenere che
la tradizione statutaria del luogo sia stata in realtà,
come per altri comuni del Contado, ben più antica.
Da questo documento normativo possiamo rilevare come, in ossequio alla tradizione, le cariche locali
fossero ottenute estraendo a sorte cedole nominative,
secondo una proporzione numerica prestabilita tra i
residenti allibrati (cioè iscritti nei ruoli delle tasse) nel
principale nucleo urbano e quelli dei “popoli” riferiti
alle “ville” del territorio comunitativo (“curia”). Nello
statuto del 1389, in particolare, si stabiliva che l’esecutivo della comunità fosse formato da quattro vicari, la
metà dei quali apparteneva agli allibrati nel nucleo
urbano (“in castro et burgo de Monte Lupo”), mentre la
parte restante era riservata agli “hominibus allibratis in
villis et pro villis dicti comunis Montis Lupi”; la durata
dell’ufficio dei vicari, come usualmente avveniva in
questi statuti del XIV secolo, era fissata in soli tre mesi.
Al collegio dei vicari seguiva un consiglio formato
da 12 boni homines, anch’esso espresso per metà dagli
abitanti di Montelupo e per la parte restante dagli allibrati nei popoli circonvicini; l’ufficio dei “buoni
uomini” doveva però durare sei mesi, il doppio, cioè, di
aveva assoldato la marmaglia. Gli anni del principato
del figlio di Giovanni dalle Bande Nere, del resto, coincidono inaspettatamente con un periodo di crescita
per la Toscana, la quale viene formando per la prima
volta l’ossatura di uno stato regionale ben più coeso e
sviluppato rispetto alla sommatoria di quei territori
diversi che costituivano lo Stato fiorentino in epoca
repubblicana.
Spentasi rapidamente la stella di Francesco I,
inoltre, Montelupo fu addirittura designata dal cardinale Ferdinando, suo successore, quale sede di una delle
più fastose residenze di Corte: nacque così la grande
villa medicea montelupina, la quale fu detta dell’
“Ambrogiana” per insistere sull’area una volta occupata
dal “palagio” degli Ambrogi. Oltre alla costruzione di
quel vero e proprio gigante, tirato su in breve volgere
d’anni (1587-1591), Ferdinando provvide ad acquistare
diversi terreni che ne circondavano la fabbrica, formando attorno a quella che andava configurandosi
come una sorta di “utopia fluviale” (una villa che sembrava sorgere dal fiume), anche un parco per la caccia
e la pesca, idealmente connesso con il “Barco” reale dell’altra villa di Artimino.
Nonostante rappresentasse per gli umili abitanti
del paese un territorio vietato, l’Ambrogiana svolse per
loro anche una funzione positiva, che fu particolare
propizia per gli esponenti della famiglia dei Marmi, originari di Fibbiana, ma da tempo immigrati nella principale “terra murata”. Essi, infatti, colsero questa occasione per introdursi nelle attività del Principe ed avviare
una brillante carriera di “Guardarobieri” (addetti al
patrimonio) ed uomini di Corte. Attraverso i Marmi, i
ceramisti di Montelupo riuscirono per qualche tempo
(1591-1627), come vedremo, ad ottenere finalmente dai
Medici quelle commesse per la fornitura di maioliche
(prodotti vascolari da spezieria, orci da vino e pavimenti smaltati), alle quali in precedenza non erano riusciti ad accedere.
La congiuntura economica del XVII secolo non
era però delle più favorevoli e, per di più, nel 1630-31
anche Montelupo fu sconvolta dalla memorabile pandemia di peste che attraversò l’Italia in quegli anni,
seminando il suo cammino di lutti e distruzioni. Non
poche dinastie di ceramisti si estinsero, falcidiate dal
morbo o condotte alla rovina dalla crisi sempre più profonda nella quale versava il settore fittile, da tempo,
ormai, privo dell’appoggio del capitale mercantile della
Dominante. L’antica “terra murata”, non diversamente
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
merci montelupine. Molte famiglie della nobiltà di
denaro, come i Frescobaldi, i Mannelli, gli Antinori, gli
Spina, gli Stiozzi, gli Ambrogi, avevano inoltre possedimenti nella curia montelupina, ed altrettanto importante era la proprietà fondiaria locale detenuta da istituzioni religiose fiorentine, sia di natura secolare,
come il Capitolo di San Lorenzo, o regolare, come i
Domenicani di Santa Maria Novella.
Il passaggio dalla Repubblica al Ducato, come
vedremo in seguito, coincise con l’insorgere delle
prime, incipienti difficoltà da parte dei ceramisti, ma
nessun montelupino si sognò allora di voltarsi contro
il nuovo regime: anche la feroce occupazione della
“terra murata”, realizzata nel 1538 da una compagnia
di truppe spagnole sbandate, pur apportando lutti e
distruzioni, non fu addebita al Duca Cosimo, che pure
La villa medicea di
Montelupo in un disegno
La comunità di Montelupo
di Zocchi
61
The community of Montelupo
The Montelupo Medici
Villa in a drawing by
Zocchi
which formed for the first time the structure of a
regional state, cohesive and developed with respect to
the what it was under the Republic.
After the death of Francesc I, Montelupo was
assigned to cardinal Ferdinando, his successor, who
had one of the most sumptuous residences in the
court: this is how the grand villa Medicea of Montelupo began which was called “Ambrogiana” referring to the land that was once the “building” of the
Ambrogi. Besides the construction of that giant, constructed in short time during the years 1587-1591,
sought to acquire diverse lands that surrounded the
factory, forming a kind of “fluvial utopia” (a villa that
seemed to emerge from the river) as well as a park for
hunting and fishing, ideally connected to the royal
“ship” from the other villa at Artimino. Despite the
fact that it was a no go area for the humble inhabitants of the village, the Ambrogiana had a positive
function, it was particularly propitious for the Marmi
family who had come from Fibbiana but were living
inside the “walled area”. They welcomed the occasion
to introduce themselves to the Prince’s activities and
start a brilliant career as “Guardarobieri” (keepers of
the patrimony) and men of the court. Through the
Marmi, the potters of Montelupo managed for some
time (1571-1627), as we will see, to obtain from the
Medici the commissions to provide majolica products
(vase products for groceries, wine- jars and enamelled
floors) which they couldn’t manage to get before.
The economic trend of the XVII century wasn’t
one of the most favourable and, what’s more, in 163031even Montelupo was devastated by the plague pan-
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
60
tessenza stessa della Controriforma. Impegnati in una
vita ascetica, rigidamente separata dal mondo, gli
alcantarini non entrarono mai in sintonia con la popolazione locale, che, anzi, stando a certe storielle
moderne, li avrebbe addirittura fatti segno di pesanti
satire, dipingendoli sui boccali e sfruttando per questo
ciò che restava della loro attività ceramistica.
Il Settecento, età che offrì a molti ambiti territoriali della Toscana l’occasione per il riscatto civile ed
economico, non si dimenticò certo di Montelupo: molte
ed importanti furono le realizzazioni di quell’epoca,
quali la costruzione della nuova pieve di san Giovanni
Evangelista, iniziata nel 1784, e la nascita del teatro
locale supportato dall’Accademia dei Risorti. Anche
l’economia beneficiò del nuovo clima portato nel Granducato da Pietro Leopoldo I, ma il comparto ceramico,
Il convento di S. Pietro
di Alcantara (1678)
che a noi particolarmente interessa, non riuscì che stabilizzarsi al suo più basso livello storico, in attesa di
quelle novità sostanziali che, tuttavia, non potranno
giungere se non durante la seconda metà del secolo successivo ed oltre. Fu semmai il settore vetrario, con le
manifatture Nardi – probabilmente la più importante
della Toscana sul finire del XVIII secolo – e Castellani,
a sfruttare al meglio la fase d’avvio della nuova ripresa
economica nazionale.
Lo sviluppo demografico montelupino.
Per completare l’inquadramento storico di Montelupo,
e poter meglio comprendere le forze che permisero a
questa “terra murata” di produrre ed operare nel contesto nazionale ed internazionale, è necessario addivenire ad una valutazione della consistenza del suo popolamento e dello sviluppo demografico locale. A tale
scopo possiamo utilizzare tre fonti di natura diversa: i
ruoli fiscali, le valutazioni di carattere più propriamente
demografico espresse dalle magistrature ducali e granducali e, infine, i censimenti della popolazione.
Si tratta di una documentazione relativa ad
epoche diverse (dal Basso Medioevo all’Età Contemporanea) e, per di più, di natura eterogenea, in quanto realizzata per corrispondere a funzioni e scopi diversi. Nel
suo complesso, quindi, anche il grado d’approssimazione a quella che possiamo ritenere sia stata la cifra
reale dei residenti in Montelupo e nei popoli della sua
curia nei periodi coperti dalle scritture, deve intendersi
come variabile in funzione della qualità dei documenti.
L’approssimazione meno raffinata al dato reale è forse
quella espressa attraverso i documenti più antichi, in
quanto essa deriva da fonti di natura fiscale – vi si censiscono i capifamiglia ed i figli maschi in maggiore età
– che solo in maniera indiretta, attraverso cioè coefficienti numerici di riduzione, possono fornire cifre indicative della totalità dei residenti. Occorre peraltro osservare che anche le cifre relative alla popolazione fornite
dai giusdiscenti locali per i secoli XVI-XVIII sono da
considerare largamente approssimative, in quanto non
derivano da veri e propri censimenti, ma si fondano su
stime – che dunque possono essere più o meno veritiere
– eseguite dai responsabili dei singoli popoli; esse,
inoltre, si collocano quasi sempre – in maniera evidentissima quella del 1793 – al termine di periodi contraddistinti da un’elevata mortalità, poiché derivano da
inchieste avviate dalle magistrature centrali per aggiornare i conti dello Stato (ad esempio le previsioni annonarie ed il gettito fiscale) all’indomani di eventi calamitosi. Più precisi, ovviamente, sono i dati numerici contenuti nei veri e propri censimenti, ma essi appartengono però solo al secolo XIX.
Le cifre della consistenza demica della comunità
montelupina che possiamo ricavare da queste fonti
63
62
The Convent of S. Pietro
di Alcantara (1678)
demic which throughout Italy in those years seeded
death and destruction. The toll on ceramic families
wasn’t light, struck by infection and conducted
towards ruin by an ever deepening crisis in the
ceramics industry which, for a long time, no longer
had the support of the ruler’s mercantile capital. In
this way, the ancient “walled city”, not unlike the
other similar centres in Tuscany, went towards a
demographic upturn counting on an industry that
had been made marginal by an unfavourable secular
trend and a lack of capital.
After years of silence, on 14 July 1678, a new
event upset the qiet panorama of Montelupo: the
Grand duke Cosimo III commissioned the construction of a church and a monastery dedicated to San
Pietro d’Alcantara, next to the Ambrogiana villa. This
work could have stirred new life into the area but
Cosimo was a bigoted and reserved, and the Spanish
Francescan monks who came to occupy the new
building represented quintessential anti reformists.
Involved in an ascetic lifestyle, strictly separated from
the world, the Alcatarini never entered into symphony with the local people who, according to
modern tales, made them subject of heavy satire,
painting them onto tankards and this is about as
much as remained of the ceramics industry.
The eighteenth century, a period that offered
many areas in Tuscany the possibility of civil and economic redemption, didn’t leave out Montelupo: many
and important were the accomplishments of that
epoch, including the construction of the new parish of
San Giovanni Evangelista began in 1784, and the
birth of local theatre supported by the Accademia dei
Risorti. The economy also benefited from the new cli-
mate brought by the Grand duchy of Pietro Leopoldo
I, but the ceramics section, which is of interest to us,
only manage to remain at its lowest historical level
whilst waiting for something substantial to happen
which didn’t occur until the second half of the successive century. It was the glass making industry with
the Nardi manufacture - probably the most important in Tuscany at the end of the XVIII century – and
Castellani who exploited successfully the new economic recovery.
The demographic development of Montelupo
To complete the picture of the history of Montelupo,
and to better understand the forces that permitted
this “walled land” to produce and operate in the
national and international arenas, it’s necessary to
reach an evaluation of the consistence of its population and the local demographic development. To do
this, we can use three different sources, completely
different in nature: the fiscal roles, an evaluation of
the demographic situation expressed through the
ducal and grand ducal magistracy and the censuses of
the population.
We are dealing with documentation relative to
different epochs (from early medieval to the contemporary age) and, more or less, heterogeneous in so
much as they were realized with different objectives
and functions. In its complexity, therefore, also the
level of approximation to that which we can say was
the real number of the residents in Montelupo and
the population of its curia in the period covered by
the writings, should be seen as variable in terms of
quality of document, The least reliable approximations to the real date come from the oldest documents
as they derive from fiscal sources – heads of family
and adult sons – which can only in a direct manner,
and through numerical coefficients of reduction, provide figures indicative of the total number of residents. We also need to look at the numbers relative to
the population supplied by the local judges during
XVI-XVIII which are considered largely approximately as much as they don’t come from proper censuses but are based on estimates which can be more
or less accurate – executed by the those responsible
for the single populations; what’s more, these can be
located almost always – and that 1793 example is evident of this – at the end of a period which is distinguished by a high number of deaths because they
arrive through inquiries started by the central magistracy in order to update the State figures (for example
concerning the prediction of food supplies and fiscal
matters) after calamitous events.
More precise are the data collected by the censuses but these belong to the XIX century.
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
da altri consimili centri della Toscana, andò così
incontro alla successiva ripresa demografica seicentesca contando su un’economia resa ormai marginale
dal montare di una sfavorevole congiuntura secolare, e
resa asfittica dalla cronica mancanza di capitali.
Dopo anni di silenzio, il 14 luglio 1678, un nuovo
avvenimento venne a sconvolgere il quieto panorama
montelupino: il Granduca Cosimo III poneva quel
giorno solennemente mano alla costruzione di una
chiesa e di un monastero dedicati a san Pietro d’Alcantara, accostando l’opera alla villa dell’Ambrogiana. Quel
grande complesso, assai poco frequentato dopo la
morte di Ferdinando I, avrebbe potuto trarre da ciò
nuova vita, ma Cosimo fu un principe bigotto e schivo
e, d’altra parte, i frati francescani spagnoli che vennero
ad occupare il nuovo edificio rappresentavano la quin-
Comunità di Montelupo, 1357-1437.
Anni
Numero abitanti
1357
1247
1365
1156
1371
1222
1373
996
1383
1194
1384
1259
1339
1395
1403
1295
1412
935
1159
1414
1417
1005
1426
1000
1437
1097
I dati relativi al Basso Medioevo, ricostruiti,
come si diceva, attraverso gli Estimi fiscali nei quali
venivano iscritti i capifamiglia, mostrano dunque che
Montelupo andò incontro ad un’evidente caduta demografica dopo l’anno 1395; questo fenomeno, rispecchia
un dato generale, ben noto agli storici, e mostra soprattutto l’impatto che ebbe sulla popolazione residente
nella “terra murata” valdarnese e nei popoli della sua
“curia” la ripresa della diffusione del morbo pestilenziale avvenuta agli inizi del XV secolo. Gli effetti di
questo riaccendersi della morbilità si protrassero in
Toscana per alcuni decenni, tanto che si riuscì a frenare
l’emorragia demografica che in tal modo si realizzava
soltanto alla metà del Quattrocento, periodo dopo il
quale si avviò nuovamente una flebile crescita.
Poiché il dato del 1357 segue di solo otto anni
l’accendersi della pandemia pestifera nel 1348-49, i cui
effetti di medio periodo (falcidia di neonati e crollo della
natalità) sono puntualmente registrati dal dato negativo
del 1373, che si avvicina di molto al minimo storico del
1412 – è probabile che la popolazione montelupina della
prima metà del XIV secolo si sia collocata tra i 1600 ed i
1700 individui; se questo livello – supposto, ma ragionevole, in quanto in linea prudenziale con i vuoti provocati dalla fase acuta della pestilenza – fosse esatto, la perdita demografica locale tra il 1330-40 ed il 1420-30
potrebbe essere stimata tra i 600 ed i 700 individui, cifre
che rappresenterebbero dunque il 60 ed il 70 per cento
della consistenza demografica locale, rilevata nei due
estremi secolari. Questo dato, per quanto terribile, si
rivela d’altra parte di entità anche minore, rispetto a
quanto rilevato dagli studi sin qui effettuati sulle vicen-
de demografiche toscane degli anni 1350-1450.
La successiva dinamica demografica trova del
resto conferma, per quanto attiene la sua consistenza,
nei dati successivi, che riguardano l’intera podesteria,
ma che, purtroppo, sono relativi ad anni assai più
recenti.
Podesteria di Montelupo
(con Capraia e Limite), 1551-1796.
Anni
Numero abitanti
1551
1868
1745
3303
1788 (a)
4631
1793 (b)
4200
5017
1796 (c)
a) tolti 88 abitanti di Tinaia
b) valutazione del Podestà
c) valutazione del Vicario
Il progresso realizzato alla metà del Cinquecento,
alla distanza di oltre un secolo dal dato precedente, relativo alla sola comunità montelupina, appare piuttosto
modesto, e deve essere valutato con prudenza, in
quanto in esso è confluito anche il numero degli abitanti della comunità di Capraia e Limite e dei popoli
annessi. Esso avvalora tuttavia con la sua stima la valu-
tazione che già abbiamo espressa in via congetturale
sull’entità del patrimonio demografico locale in data
anteriore alla pestilenza del 1348-49: sappiamo infatti
che solo attorno alla metà del XVI secolo si attinsero in
Toscana i livelli di popolazione anteriori a quell’avvenimento.
È per converso evidente come una prima, consistente ripresa demografica, sia avvenuta soltanto tra la
seconda metà del Seicento ed i primi cinque lustri del
secolo successivo: il dato relativo alla popolazione residente nella Podesteria montelupina (esclusa quella di
Signa) risulta infatti quasi raddoppiato tra il 1551 ed il
1745. La seconda metà del Settecento registrerà poi un
ulteriore, importante incremento, che può essere valutato, scartando il dato anomalo del 1793 (carestia e
guerra l’avevano fatta da padrona nei due anni precedenti) almeno tra il 40 ed il 50 per cento rispetto al
1745.
Podesteria di Montelupo e Lastra a Signa
(dati da K.J. Beloch, Bevolkerungsgeschichte
Italiens), 1551-1642.
Anni
Numero abitanti
1551
5638
1558-62
5328
1622
5891
1642
5653
65
64
The figures relating to the demography of the
community of Montelupo can’t be taken as an exact
representation of the reality but a precious trace of
the local development and its long and short term
variations.
THE COMMUNITY OF MONTELUPO, 1357-1437
Year
number of inhabitants
1357
1247
1365
1156
1371
1222
1373
996
1383
1194
1384
1259
1339
1395
1403
1295
1412
935
1414
1159
1417
1005
1000
1426
1437
1097
The data relative to the Early Medieval period,
reconstructed it is said through the fiscal Estimi
where the heads of family were enrolled, demonstrated that Montelupo was going towards an evident
demographic fall after 1395; the phenomenon mir-
rors a general date well known by historians, and
demonstrates above all the impact that the return of
the plague had on the resident population of the
“walled land” of the Valdarno and the population of
the curia, at the beginning of the XV century (fig 8).
The effects of the return of the plague lasted for several tens of years in Tuscany, so much so that it managed to put a break on the demographic haemorrhage that took place, in the end, in the middle of the
fifteenth century after which there was another
period of growth.
As the date 1357 is only eight years after the
start of the plague pandemic of 1348-49 where the
middle term effects (drastic reduction of new born
and a collapse of the birth rate)were punctually registered, from the negative date of 1373, where there
was almost the lowest ever recorded figure in 1412 –
it’s probable that the population of Montelupo from
the first half of the XIV century was between 1600
and 1700 individuals if this level – supposed but reasonable insomuch as it is prudently in line with the
general level of reduction caused by the acute phase
of the plague – was exact, the local democratic loss
between 1330-40 and between 1420-30 could be
established between 600 and 700 individuals, figures
which represent between 60 and 70 percent of the
local demographic consistency, compared to the two
extremes of the above mentioned centuries. This date,
as much as it is terrible, is minor compared to other
areas of Tuscany in the period 1350-1450.
The successive demographic dynamics can be
seen through the following figures that concern the
entire magistracy which are, unfortunately more
recent
MAGISTRACY OF MONTELUPO
(with Capraia and Limite), 1551-1796
YEAR
Number of inhabitants
1551
1868
1745
3303
1788 (a)
4631
1793 (b)
4200
1796 (c)
5017
a) subtracted 88 inhabitants of Tinaia
b) evaluation of the magistrate
c) evaluation of the deputy
The progress gained at the half way mark of
the sixteenth century, at a distance of more than a
century from the preceding date and relative to the
community of Montelupo appears rather modest and
should be evaluated with prudence in as much as it is
mixed with the number of inhabitants of Capraia and
Limite and the annexed populations. It is somewhat
in line with the pre plague conjectures on the demographic patrimony 1348-49. We know that in the XVI
century the pre plague levels were once again reached.
A consistent, evident population growth came
only between the second half of the seventeenth century and the first five of the successive: the data relative to the population relative to the magistracy of
Montelupo (excluding Signa) demonstrates a doubling between 1551 and 1745. Another important
increase is registered in the second half of the eighteenth century then another important increase can
be considered (not considering the anomalous 1793
(famine and war governed to two previous years) at
least between 40 and 50 percent compared to 1745.
Magistracy of Montelupo and Lastra a Signa
(data from K.J. Beloch, Bevolkerungsgeschichte
Italiens), 1551-1642.
Anni
Number of inhabitants
1551
5638
1558-62
5328
1622
5891
5653
1642
From the figures supplied by Beloch, who
studied the ducal and grand ducal censuses – unfor-
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
disomogenee non debbono, dunque, essere considerate
dal lettore alla stregua di un’esatta rappresentazione
della realtà, ma piuttosto una traccia assai preziosa
dello sviluppo locale, nelle sue variazioni di lungo e
medio periodo.
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
Comunità di Montelupo, 1788-1806.
Anni
Numero abitanti
1788
3109
1794
3352
1806
3387
Fu poi l’Ottocento, a realizzare una vera e propia
“rivoluzione demografica”, che localmente si fece
ancora più evidente nel secolo scorso.
Se dunque riflettiamo sulla differente consistenza
demica locale dei secoli XV e XVI rispetto a quella dei
quattro successivi (XVII-XX), possiamo verificare
quanto siano stati diversi i quadri ambientali nei quali
si è realizzata la produzione della ceramica in Montelupo. Fatta salva l’epoca industriale, dobbiamo infatti
dedurre che il momento di massimo sviluppo delle lavorazioni fittili locali coincise proprio col periodo in cui
la popolazione montelupina stava sì riprendendosi dalla
depressione storica della seconda metà del Trecento, ma
era ancora, numericamente parlando, ben poca cosa.
Nonostante il modesto numero dei suoi abitanti, però,
questa “terra murata” del Valdarno, grazie al connubio
col capitale mercantile fiorentino, riusciva ad esportare
i suoi prodotti in gran parte del mondo allora conosciuto.
La crisi del XVII secolo, precorrendo di poco un
fenomeno di incremento demografico che pare soprattutto legato al modesto livello dei prezzi agricoli di quel
periodo, si trovò dunque di fronte anche una società
“più pesante”, che massicciamente si rivolgeva, per la
propria sussistenza, all’agricoltura ed ai piccoli commerci locali. In assenza di capitali da impiegare per la
rinascita delle attività fittili, fu dunque praticamente
impossibile, nel nuovo contesto, ridare vita alle migliori
produzioni ceramiche d’un tempo, e ciò spiega a sufficienza uno dei fattori che condussero le fornaci locali
ad operare al di fuori del mercato internazionale e, per
molti aspetti, anche nazionale per due secoli interi, e
cioè tra il 1660 e gli anni dell’unità d’Italia.
Dopo aver analizzato i nodi cruciali della storia
generale di Montelupo, possiamo dunque affrontare
direttamente il problema della ceramica, trattandolo
ora dal suo interno. Nel fare ciò, tuttavia, eviteremo il
più possibile di percorrere la sequela delle tipologie e
dei generi prodotti, e ci indirizzeremo piuttosto a mettere in risalto le ragioni profonde della crescita dell’arte
ceramica locale nel contesto regionale e nazionale di
riferimento.
I QUADRI STORICO-AMBIENTALI
Dalle cifre fornite dal Beloch, che studiò i censimenti ducali e granducali – purtroppo nel nostro caso
espressi per un aggregato superiore, la Podesteria di
Montelupo e Lastra a Signa – si può comunque dedurre che la ripresa demografica cinquecentesca si sia
protratta nell’area montelupina sino al 1620 circa (il
dato del 1558-62 è certamente viziato dalla grande
carestia del 1561, mentre la crisi del 1618-21 e la ripresa della mortalità che caratterizzò questo periodo debbono da par loro aver depresso il dato del 1622). Le
cifre fornite dallo studioso tedesco mostrano tuttavia
con chiarezza un incremento della popolazione assai
modesto nella seconda metà del XVI secolo, ed un
significativo regresso nel corso dei primi decenni dei
Seicento: per comparazione con le cifre della tabella
precedente, dunque, si avvalora l’ipotesi che anche nell’area montelupina, così come in altre parti d’Italia, la
consistenza demografica sia venuta ad accrescersi
significativamente solo ad iniziare dalla seconda parte
del Seicento, per farsi assai più rilevante nel secolo
successivo.
67
tunately for us the aggregate of the magistracy of
Montelupo and Lastra a Signa was taken – we can
deduct that the sixteenth century demographic
upturn continued in the area of Montelupo until
about 1620 (the 1558-62 date is certainly spoiled by
the great famine of 1561, whilst the crisis of 1618-21
and the return of a high mortality rate that characterized this period must have depressed the data of
1622). The figures provided by the scholarly German
however demonstrate with clarity a modest increase
of the population in the second half of the XVI century and a significant regression during the first ten
years of the seventeenth century: comparing the figures of the previous table we can adopt the hypothesis that in the area of Montelupo, like in other parts
of Italy, the demographic consistency significantly
grew only at the beginning of the second half of the
seventeenth century.
Community of Montelupo, 1788-1806
Year
number of inhabitants
1788
3109
1793
3352
3387
1806
Only during the nineteenth century was there a
real “demographic revolution” that became even
more evident during the last century.
If we reflect on the different local demographic
consistencies in the XV and XVI centuries compared
to the four successive centuries (XVII-XX) we can
verify how different the environmental pictures were
within which the production of ceramics in Montelupo was produced. Except for during the industrial
revolution, we have to deduce that the moment of
maximum development of ceramics elaboration coincided with the period in which the population of
Montelupo was recovering from the historical depression of the second half of the fourteenth century but
numerically speaking, production was small. Despite
the modest number on inhabitants, this “walled land”
of the Valdarno, thanks to the Florentine Mercantile
capital, managed to export its products to much of
the known world.
The crisis of the XVII century that anticipated
a demographic increase which could have been
linked above all to the modest level of agricultural
prices in that period, hit a society that was anyway
“heavier”, considerably relying for its existence, on
agriculture and small local commerce. In absence of
the capital needed to move the ceramics industry, it
was impossible to give life to the industry that was
producing the best products for a long time and in
consequence the local furnaces remained out of the
national and international markets for nearly two
centuries, between 1660 and the years which saw the
unification of Italy.
After having analyzed the crucial knots in the
history of Montelupo, we can directly affront the
problem of the ceramics industry, from an inside per-
spective. In doing so however we will avoid as much
as possible the sequencing of the types of products
and aim towards highlighting the deep reasons for
the growth of local ceramic art in regional and
national contexts.
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
THE HISTORICAL-ENVIRONMENTAL FRAMEWORK
66
PARTE SECONDA
Montelupo e la produzione ceramica
nell’Italia preindustriale
SECOND PART
Montelupo and ceramics production
in pre industrial Italy
tavia, anche la maiolica arcaica mostra un’azione di
conquista relativamente lenta dei territori regionali,
muovendo da luoghi d’eccellenza che coincidono
anch’essi in qualche caso con aree e città della costa.
In Toscana è proprio il Fiorentino a mostrare un
certo ritardo nel recepire le novità tecnologiche che
avrebbero segnato la rinascita della produzione fittile
nazionale. Se, infatti, confrontiamo i dati archeologici –
purtroppo ancora scarni ed imprecisi – derivabili dagli
scavi urbani di Firenze, e li rapportiamo al contesto
regionale della produzione e circolazione dei generi
vascolari da mensa, possiamo accorgerci come nel corso
del XIII secolo le restituzioni del sottosuolo della Città
gigliata mostrino un quadro sostanzialmente arretrato –
per il largo prevalere di prodotti privi di rivestimento e
per l’assenza di generi d’importazione – rispetto a quanto può desumersi attraverso le restituzioni archeologiche di altre aree regionali, quali il Pisano ed il Senese. In
queste ultime, infatti, già entro l’orizzonte cronologico
della prima metà del Duecento risalta una circolazione
di ceramiche smaltate o dotate di rivestimento che è
ignota ai coevi contesti fiorentini, e si nota nel contempo una fase d’avvio della lavorazione della maiolica che
sembra precedere di quasi un quarantennio quella del
Fiorentino. Firenze ed il suo Contado – l’area, cioè, che
fu oggetto della prima espansione cittadina – per il
“ritardo” che sembra caratterizzare la penetrazione di
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Firenze e Montelupo. Un inaspettato ritardo
alle origini della maiolica arcaica.
Le ricerche sulle origini della ceramica dotata di rivestimento (ingobbio sotto vetrina o smalto stannifero)
segnalano una fase che potremmo definire “primordiale”, nella quale emergono, ad iniziare dal 1180 circa, le
cosiddette graffite tirreniche e le protomaioliche. Si tratta
di produzioni vascolari che però non mostrano la capacità di diffondersi, veicolando le novità che avrebbero
caratterizzato la storia della ceramica bassomedievale;
esse restano infatti legate ad esperienze maturate nell’arco di alcune generazioni (sino al 1260 circa) in località
costiere e portuali, quali Savona, Brindisi e Gela. Il fenomeno della limitata capacità espansiva di queste prime
ceramiche italiane munite di rivestimento e la loro peculiare collocazione ha perciò suggerito l’ipotesi che si
tratti di manifatture impiantate da manodopera specializzata, proveniente da altre parti del Mediterraneo, e
segnatamente dall’area islamica.
È dunque solo verso il 1240 che può collocarsi il
fenomeno dell’effettiva diffusione di un genere smaltato
autoctono, la maiolica arcaica, che avrebbe mutato per
davvero gli orizzonti tecnologici ed estetici della ceramica vascolare in Italia, diffondendosi capillarmente nella
Penisola, e costituendo così la solida base sulla quale si
svilupperà, tra Tre e Quattrocento, la successiva rivoluzione tardomedievale della maiolica. Ai suoi esordi, tut-
71
medieval revolution of majolica production. At their
introduction, however, even the archaic majolica
took time to conquer the regional markets, moving
from one “place of excellence” to another which
sometimes coincided with coastal areas.
In Tuscany, it was the Florentine who was
slow to adopt the new technologies that would have
marked the rebirth of the national ceramics industry. Indeed, if we compare archaeological data on
meal pots – unfortunately scarce and imprecise –
derived from the excavations in urban Florence, and
put them in a regional context, we realize that during the course of the XIII century the restitution of
the subsoil of the lilied city demonstrates a backward picture – in terms of the wide availability of
products deprived of decoration and the absence of
imported objects – in comparison with the archaeological restitution in other regional areas like those
of Pisa and Siena. Indeed, in these areas, already
during the first half of the third century there was a
circulation of glazed or decorated ceramics
unknown in Florence and indeed precedes the Florentine elaboration of this kind of majolica by forty
years. Florence and its surrounding areas – that is,
the areas which were object of the first citizen
expansions – regarding the “slow start” seemed to
view the penetration of aesthetic-functional ceramic
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
Florence and Montelupo.
An unexpected research on the origins of decorated
ceramics (relief under the glaze or metal based
enamel) signals a phase that we could define as “primordial” from which the so called graffite tirreniche
and the protomaioliche emerge, starting about 1180.
We are talking about vase type production that however didn’t demonstrate the capacity to become
greatly diffused and esablish a wide base for the new
techniques that would have characterized the history of Medieval ceramics; rather, production
remained linked to the mature experience of a few
family generations (up to about1260) in coastal
areas and those served by a port like Savona, Brindisi and Gela. The limited capacity of these first Italian ceramics with their decorations and their peculiar positioning has suggested the hypothesis that
the workforce was specialized and maybe from
another part of the Mediterranean, there are signs
that come from Islamic areas.
It was only towards 1240 that an effective diffusion of a type of autochthonous enamelled ceramic, archaic majolica, which was transformed by the
technology and aesthetics of vase ceramics in Italy,
diffused in the peninsular, constituting in this way
the solid base on which it would develop, between
the fourth and fifth centuries – the successive late
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
“bacini” che furono inseriti nei paramenti murari delle
chiese pisane: questi documenti costituiscono infatti la
più straordinaria esemplificazione di circolazione della
ceramica dotata di rivestimento in ambito mediterraneo
nel lungo periodo che intercorre tra gli inizi del XI secolo e la prima metà del Duecento. Gli scavi archeologici,
inoltre, non hanno mancato di dimostrare come in Pisa
la circolazione di questi manufatti forestieri fosse relativamente ampia e (vi sono anche forme chiuse) non
riconducibile al semplice impiego dei medesimi nei contesti architettonici. Niente di tutto questo si segnala al
momento nell’area fiorentina, la quale non risulta interessata al fenomeno della circolazione di ceramiche
d’importazione provenienti dai diversi contesti mediterranei almeno sino alla fine del XIII secolo, e, per di
più, mostra solo nelle zone di contatto con il Pisano
(Empoli) una timida utilizzazione a fini architettonici
degli stessi “bacini”.
Se, però, non stupisce il fatto – d’altronde ben
comprensibile per motivi storico-geografici – di un avvio
più precoce della produzione smaltata od ingobbiata di
qualità nelle città costiere, per essere quest’ultime legate agli scambi con la più progredita cultura materiale
dei paesi dell’Islam, e perciò portate ad imitarne i caratteri, ben più impressionante è costatare come una simile discrasia cronologica sussista tra l’area fiorentina ed
altre zone interne della Toscana, anch’esse distanti dagli
approdi marittimi della regione.
Sappiamo, ad esempio, come tra la più antiche
attestazioni della produzione italiana di “maiolica arcaica” si collochi il ritrovamento effettuato negli anni Venti
in Montalcino, in area senese, all’interno di un contesto
architettonico (le volte del palazzo pubblico) che consente di datarlo tra il 1220 ed il 1250, in epoca cioè
assai precoce rispetto alla consimile documentazione
produttiva d’area fiorentina. Sotto il profilo pittorico,
inoltre, le maioliche arcaiche montalcinesi mostrano
un repertorio e forme vascolari (un alberello da spezieria, ad esempio) di tutto rispetto. Ma è Siena ed il suo
territorio in generale a mostrare già nel corso del XIII
secolo una qualità formale delle pitture vascolari e delle
soluzioni tecniche – ad esempio un largo uso della vetrina piombica alcalina, capace di far virare in azzurro la
pittura in rame – che non trova riscontro nel Fiorentino.
L’arretratezza delle lavorazioni fittili che emerge
dai contesti di scavo sinora noti per Firenze, quali quelli di Piazza della Signoria, di Santa Reparata e, più
generale, dell’area urbana della città – ma anche da
quelli di città comitatine come Prato (Palazzo Pretorio)
o di più recente annessione, come Pistoia (Palazzo dei
Vescovi), così come dagli stessi contesti produttivi di
Montelupo e di Bacchereto – contrasta così con l’indubbia crescita della Città gigliata nel periodo 1180-1250,
ribadita, come tutti sanno, dal fatto che nel 1252 fu
Firenze a riprendere, per prima in Europa, la coniazione
dell’oro. Sembra perciò difficile, in aggiunta a quanto si
diceva in merito alla collocazione geografica, accampare fattori meramente economici per spiegare il ritardo
del Fiorentino nell’accogliere le novità della ceramica
smaltata che ci segnalano le restituzioni archeologiche:
questo fenomeno, dunque, dovrà essere chiarito alla
luce di più sottili problematiche di carattere socio-culturale, le quali forse hanno a che fare col carattere stesso
dei ceti dirigenti e della popolazione che venne supportando la crescita demografica fiorentina tra XII e XIII
secolo. Se non è pensabile che gli esponenti dell’aristocrazia cittadina si siano allora privati di manufatti di
lusso, per una civica virtù che troppo da vicino riecheggia, nel topos letterario dell’Alighieri, la Roma repubblicana, più credibile – anche perché sottolineato dalla
documentazione archeologica – è invece l’esistenza di
un gap qualitativo nella ceramica in circolazione tra
l’area fiorentina e quelle pisana e senese che necessita
ancora di una adeguata spiegazione storico-culturale.
Firenze e Montelupo. Lo sviluppo del mercato
e della committenza ceramica cittadina
nel Tre e Quattrocento.
Poniamo adesso sullo sfondo il complesso problema
delle origini della maiolica in Firenze e nel suo Contado
per rivolgere la nostra attenzione agli sviluppi succes-
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as something in opposition to their support for
Alighieri’s praise of simple customs.
The existence of a reasonable chronological
hiatus in the introduction of “modern” manufactured ceramics between the coastal cities and the
Florentine territories, located almost at the foot of
the Apennines, is quite comprehensible, as it
demonstrated by the particular affairs of the protomaiolica and the graffita tirrenica. The maritime
areas, protagonists after the Late Medieval centuries, of new contacts with the East, were the first
to receive the new objects which were prized objects
of exchange and to be imitated. Not by chance, some
types of production, like in the ceramics case, which
had their roots along the opposite shore of the
Mediterranean and in the Islamic world in general
(one thinks of the “Moroccans” and the “Cordovani”), was particularly diffused in the Italian port
cities: for example the tannin for leather, which was
found in Pisa in the thirteenth century. There was
also a high level of exchange with North Africa, the
Maghreb and Moorish Spain – where, together with
other types of imported goods there existed ceramics of a quality unknown to the local potters, a fine
example of which is the phenomenon of the “bowls”
which were inserted in the parameters of the walls
of some churches in Pisa:
Theses documents constitute the most
extraordinary examples of the circulation of decorated ceramics in the Mediterranean environment during the long period between the beginning of the XI
century and the first half of the fourteenth century.
What’s more, the archaeological excavations have
continued to demonstrate, as in Pisa, that the circulation of these foreign products was relatively wide
scale and (there were even closed form examples)
they are not reducible to products for use in architectonical contests. Non of this is noticed in the Florentine area which didn’t seem to be interested in
the phenomenon of the circulation of imported
ceramics coming from different Mediterranean contexts at least up to the end of the XIII century and,
even then, only in the areas around Pisa (Empoli)
was there a shy use of these “wares” for architectonical reasons.
We know, for example, that amongst the oldest attestations of Italian “archaic Majolica” production can be traced to a find effected in the 1920’s in
Montalcino in the Siena area in an architectonic
context (the public building period) which dates
back to between 1220 and 1250, in an epoch rather
precocious compared with the documentation produced in the Florentine area. Under an pictorial profile, the archaic majolica from Monalcino demon-
strated a vase profile (an alberello for spices for
example) with total respect. But it was Siena and its
territories in general that showed a formal quality in
terms of vase painting and technical solutions – for
example, a wide use of lead alkaline glass able to
turn copper pictures in light blue – which didn’t
happen in the Florentine areas.
The less advanced elaboration of the ceramics
that have so far emerged from excavations in Florence, from sites such as Piazza Signoria and Santa
Reparata, generally those in the urban areas of the
city – but also those from the outer areas like Prato
(Palazzo Pretorio) or from a more recent annexed
area, Pistoia (Palazzo dei Vescovi), or those recovered from Montelupo (fig 9) and Bacchereto – compare poorly with the undoubted growth of the lilied
city in the period 1180-1250, which was confirmed
by its status as the first European city to make a
recovery, and coin Gold in 1252. It however seems
difficult, to add to what was said about the geographical location, to blame the economical reasons
for the slowness in capturing the new ideas regarding the glazed ceramics excavated. This phenomenon should be clarified through looking at the sociocultural characteristics, which probably include the
character of the management classes and of the population which was supporting the demographic
growth of the Florentine area between the XII and
XIII centuries. If it’s not thinkable that the aristocratic citizens of the time were without luxury manufactured products because of a civic virtue that
resembles, in the literary topos of Alighieri, republican Rome, more credible –also because archaeological documentation underlines it – is the existence of
a qualitative gap in the quality of ceramics in circulation between the Florentine area and those around
Pisa and Siena which necessitates an adequate historical-cultural-explanation.
Florence and Montelupo. The development of the
market and the citizen client in the fourteenth and
fifteenth centuries.
Lets put aside the complex problem of the origins of
majolica in Florence and its surrounding areas and
concentrate our attention on the successive developments, in this case involving ceramic art: in this way
we can state with precision the role played by the furnaces of Montelupo in the establishment and development of the ceramics activity in this territory.
To do this, reference to the previous studies of
Galeazzo Cora and earlier research done by the
Milanesi and Guasti in the 1960’s, is still indispensable. Subjecting the work done by Cora to a kind of
prejudiced “purification” necessary to distinguish
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
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ceramica dalle caratteristiche estetico-funzionali più
avanzate, sembra perciò avvalorare le parole dell’Alighieri: rimpiangendo la città dei suoi avi, il poeta ne
lodava infatti soprattutto la semplicità dei costumi.
L’esistenza di un sensibile iato cronologico nell’introduzione di manufatti ceramici “moderni” tra città
costiere ed il territorio fiorentino, collocato quasi ai
piedi dell’Appennino, è d’altra parte comprensibile, e
trova d’altronde conferma, come si è visto, nelle particolari vicende della protomaiolica e della graffita tirrenica.
Le aree marittime, protagoniste dopo i secoli dell’Alto
Medioevo dei nuovi contatti con l’Oriente, furono infatti le prime a ricevere quei nuovi manufatti che erano,
oltre che oggetti pregiati di scambio, anche esempi da
imitare. Non per caso alcune lavorazioni che, al pari
della ceramica, avevano un forte radicamento lungo la
sponda opposta del Mediterraneo e nel mondo islamico
in genere (si pensi ai “marocchini” ed ai “cordovani”),
trovarono particolare diffusione nelle città portuali italiane: così, ad esempio, fu per la concia delle pelli, la
quale trovò nella Pisa del Duecento il suo luogo d’elezione. Quale intensità avessero, infine, gli scambi del Porto
Pisano con l’Oriente Mediterraneo – ma anche con il
Nord Africa, il Maghreb e la Spagna moresca – ove,
assieme alle più varie merci d’importazione, si esitavano
anche ceramiche di una qualità sconosciuta ai vasai
nostrani, trova un mirabile esempio nel fenomeno dei
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
di secondaria importanza, che non furono in grado di
accreditarsi come fornitori presso gli ospedali e le istituzioni ecclesiastiche fiorentine.
Rapportando questi dati a quelli coevi, relativi ai
centri di produzione del Contado, si può subito notare
una diversità numerica e strutturale, ben marcata dall’assenza di stovigliai e dai 138 orciolai documentati –
sempre nell’arco del Tre e Quattrocento – in Montelupo,
nonché dai 44 censiti per Bacchereto; va inoltre rilevato
che tra i poco più di settanta vasai che avevano bottega
in Firenze, 16 erano sicuramente montelupini, mentre
10 erano di origine baccheretana.
Ricostruendo poi la progressione cronologica dei
rivenditori e degli artigiani legati alla committenza ed
al commercio delle ceramiche in Firenze attraverso i
dati che il Cora fornisce per il XIV secolo, ci possiamo
accorgere come tra il 1308 ed il 1358, a fronte di 23 stovigliai documentati, non appaia nei documenti fiorentini nessun orciolaio e come nel ventennio 1359-79
questo rapporto si faccia di 15 a 4, mentre nel 1380-99
si trasformi infine in 41 a 11. Nell’anno 1383, che registra il record degli iscritti nelle due categorie, sia per
l’Arte degli Oliandoli che per quella dei Medici e Speziali – le corporazione legate ad entrambe le professioni
– questo rapporto si fa di 13 stovigliai per 5 ceramisti.
Pur in considerazione dell’indubbia penuria di
fonti che caratterizza la prima metà del Trecento, si
deve perciò dedurre dalla documentazione pubblicata
che siamo di fronte ad un’attività produttiva considerata “marginale” nella città di Firenze, tanto che il mercato cittadino sta per lungo tempo in mano ai rivenditori, mentre i produttori agiscono in ambito urbano in
numero assai limitato. L’attività ceramistica cittadina,
inoltre, sembra svilupparsi soprattutto negli anni
Ottanta del XIV secolo: in data anteriore al 1382,
infatti, sono citati i soli Tingo di Nardo (1359), il primo
dei vasai di Bacchereto inurbati, Domenico detto Posarella (1364), ed un ulteriore ceramista baccheretano,
Tugio di Giunta (1369). È altresì evidente come tra i
vasai provenienti da luoghi del Contado che si possono
identificare, siano stati proprio quelli di Bacchereto,
“villa” posta sulle pendici del Montalbano, a giungere
più precocemente a Firenze; sappiamo, del resto, che
già verso il 1328 si trovavano in Pisa vasai provenienti
da quel centro, e che almeno quattro di loro operarono
nella Città crociata nel corso del XIV secolo. In questa
fase mancano del tutto i montelupini.
Non sapremmo dire se a fondamento di questo
fenomeno di “marginalità” dell’arte ceramica in Firenze
– che ovviamente presuppone un largo approvvigionamento della città, attraverso gli stovigliai, da produttori
esterni – ci sia stata, come appare possibile, una precisa
tendenza a scoraggiare lo svilupparsi delle cosiddette
“arti del fuoco” tra le mura cittadine, per evitare soprat-
tutto quei pericoli legati al diffondersi degli incendi
che, d’altronde, ogni città preindustriale paventava:
basta scorrere le cronache medievali di Firenze per
accorgersi, d’altra parte, quanto questo rischio fosse
reale. Da qui, forse, la tendenza a non ostacolare produzione ceramica (e vetraria) nelle “terre” del Contado.
La stessa ubicazione delle fornaci in Firenze, per
quanto è possibile enucleare dai dati del Cora – avendo
sempre cura di estrapolare quelli che si riferiscono agli
esercizi, e non alla manodopera che in essi s’impiegava
– mostra come per essa si preferisse di gran lunga la
zona d’Oltrarno, l’area urbana, cioè, che il fiume separa
dal cuore della città. Il numero maggiore dei vasai nel
Tre e Quattrocento risiedeva infatti attorno a San Piero
Gattolini (18 orciolai), lungo le vie che conducevano a
Porta Romana, ma quasi altrettanti si trovavano a San
Niccolò (13 vasai) ed in quel di Ricorboli, non distante
da San Miniato a Monte (5 esercizi). Altri sei ceramisti
abitavano nel quartiere di Santo Spirito, e specialmente
in San Frediano, verso la Porta Pisana, il che porta il
numero degli orciolai nella zona della città divisa dall’Arno ad almeno 42. Un nucleo consistente, ma assai
minoritario rispetto a quello che si era sviluppato nell’Oltrarno, è documentato nella zona di Santa Croce e
Sant’Ambrogio (9 casi), in quello di San Giovanni (7
casi), mentre uno soltanto è citato nel quartiere di
Santa Maria Novella.
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the extent to which the potters followed the interests
of the traders, it is possible to conduct a picture that
– even though incomplete – appears indicative as far
as the evident tendency in the production and circulation of ceramics in Florence in the fourteenth and
fifteenth centuries.
It’s possible to extract from the Storia della
maiolica di Firenze e del Contado the names of at
least 229 dish makers, 89 jar makers and 5 pan makers all living in Florence (others nominations have
been discounted as dubious); amongst the jar makers however, at least 13 were simple assistants to the
owners of the workshop.
It must also be considered that more than half
of the producers were distinguished on the basis of
sporadic and purely nominative registrations which
do however lead us to believe that they are artisans
of secondary importance, not able to accredit themselves as suppliers to the Florentine hospitals and
ecclesiastical institutions. Relating this data to those
times, relative to the production centres in the surrounding areas of Florence, we can immediately
note a distinct numerical and structural diversity,
marked by the absence of plate makers and by the
138 jar makers documented – in the fourteenth and
fifteenth centuries – in Montelupo as well as the 44
cited in Bacchereto; it should also be noted that
amongst the more than seventy potters who had a
workshop in Florence, 16 were definitely from Montelupo and 10 from Bacchereto.
Reconstructing the chronological progression
of the salespeople and artisans with ties to clients
and commerce, we can state that between 1308 and
1358, compared to 23 plate makers documented,
there were no jar makers noted: during the 20 years
1359-79 this ratio changed to 15-4 whilst from 138099 there was a final figure of 41-11. In 1383, which
registered a record number of registrations in the
two categories, both Art for Oil Recipients and Art
for Medicinal and Grocery Recipients - corporations
linked to the professions – this ratio changes to 13
plate makers to 5 potters.
Even considering the scarcity of sources that
characterized the fourteenth century, we have to
anyway deduce that we are dealing with an activity
which can be considered as “marginal” in the city of
Florence, so much so that the city market remained
for a long while in the hands of salespeople whilst
the producers operated in limited numbers. The
level of ceramics activity in the city seemed to develop above all in the XIV century: before 1382, indeed,
it seemed to develop above all during the 80’s of the
fourteenth century: before 1382 only Tingo di Nardo
(1359), Domenico called Posarella (1364), and Tugio
di Giunta (1369) the first potters from Bacchereto to
transfer to the city, were cited. It is equally evident
that among the potters coming from the countryside
that can be identified, those from Bacchereto, a
“villa” placed on the slopes of Montalbano, were
amongst the first to transfer to Florence. We also
know that towards 1328, potters coming from that
area were found in Pisa and that at least four of
them were operating in the city with a cross during
the XIV century. In this phase there was no one
from Montelupo.
We can’t say for sure that the foundations of
this “marginalization” of ceramic art in Florence –
which obviously pre supposes a large supply to the
city through from external sources – wasn’t, as it
seems possible, a precise tendency to discourage the
development of the so called “fire arts” within the
city walls to avoid above all the danger arising from
fires which was a major fear for most pre industrial
cities: to get an idea of this one can read through the
news publications in Florence at the time to get an
idea of how real this fear was. From this point perhaps, came the tendency not to pose obstruct ceramic production in the peripheral lands.
The setting up of furnaces in Florence, as far
as we can work out from Cora’s data – being careful
to extract the data regarding the exercising of the
business and not the handcraft itself – seems to have
been concentrated in the areas of the Oltrarno, the
other side of the river from the urban area. Three or
four hundred lived around San Piero Gattolini (18
jar makers), along the road that stretches from Porto
Romana, but almost as many wee to be found at San
Niccolò (13potters) and in Ricorboli, not far from
San Miniato a Monte (craftsmen). Another six potters lived in the Santo Spirito area and especially in
San Frediano, towards Porta Pisana, which brings
the number up to 42. A consistent nucleus but quite
small compared to the numbers in the Oltrarno was
documented in the area around Santa Croce and
Sant’Ambrogio (9 cases), in San Giovanni (7 cases)
and only one in the area of Santa Maria Novella.
Therefore the general level of diffidence
towards this art, explained by the fear of a fire
breaking out could also have resulted in a diversity
of quality between “Florentine archaic majolica” and
that developed in other centres of Tuscany: the lack
of a “productive polo” linked to a city, in other
words, could have created the obstacle that up to the
last twenty years of the fourteenth century, and
thanks to a lack of desire to embrace the most elevated local tendencies, the development of decorated
products – for example the complex figuration of the
“archaic majolica” of the Siena area – meant the
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MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
sivi che qui ebbe l’arte ceramica: in tal modo potremmo
precisare il ruolo esercitato dalle fornaci di Montelupo
nell’opera di radicamento e di sviluppo delle attività
ceramistiche all’interno di questo ambito territoriale.
È ancor oggi indispensabile a questo scopo
rifarsi all’ampia indagine sulle fonti d’archivio relative
alla storia della ceramica fiorentina che Galeazzo Cora,
avvalendosi anche delle precedenti ricerche del Milanesi e del Guasti, promosse nel corso degli anni Sessanta. Sottoponendo le informazioni contenute nell’opera del Cora ad una “depurazione” preventiva,
necessaria a separare quanto in essi attiene i commercianti dai ceramisti, è possibile comporre un quadro
che – pur incompleto – appare comunque indicativo,
per la tendenza evidentissima che marca, dei fenomeni
legati alla produzione ed alla circolazione della ceramica nella Firenze del Tre e Quattrocento.
Si possono estrarre dalle pagine della Storia della
maiolica di Firenze e del Contado relative a questi due
secoli i nomi di almeno 229 stovigliai, 89 orciolai e 5
pentolai, tutti domiciliati in Firenze (altri sono stati
scartati perché dubbi); tra gli orciolai, però, almeno 13
sono semplici lavoranti posti alle dipendenze dei
padroni delle botteghe. Va considerato, inoltre, che più
della metà dei produttori sono stati individuati sulla
base di registrazioni sporadiche e puramente nominative, le quali fanno perciò supporre trattarsi di artigiani
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
ed i più importanti acquirenti cittadini, rappresentati
dalle istituzioni ecclesiastiche ed ospedaliere. Queste
ultime, infatti, si avvalsero per lungo tempo dell’intermediazione degli “stovigliai”, rivenditori che di norma
operavano al minuto, ma che all’occorrenza potevano
effettuare forniture di maggior consistenza: nelle loro
botteghe, oltre a ceramiche di ogni tipo, si vendevano
vetrerie, cordami, laterizi, gesso, cenere, etc. Solo nel
1383 l’ospedale di santa Maria Nuova effettuò il primo
acquisto di ceramiche rivolgendosi a Tugio di Giunta,
un vasaio proveniente da Bacchereto, che, assieme ai
figli Giunta ed Antonio, esercitava il suo mestiere in
una fornace collocata presso San Piero Gattolini.
Questo canale di approvvigionamento diretto fu però
praticato dall’ospedale soltanto tre volte nel corso dell’ultimo ventennio del XIV secolo (1383, 1393 prima
dotazione per la spezieria, e 1395): fatte salve queste
forniture, gli acquisti ceramici da esso effettuati nell’arco di quasi un cinquantennio (1362-1409) ebbero
come protagonisti soltanto gli stovigliai cittadini.
All’inizio del Quattrocento la strategia del grande
nosocomio muta però completamente. Dal 1410-11,
infatti, furono gli eredi di Tugio a rifornire quasi senza
soluzione di continuità l’ospedale, affiancandosi a vasai
fiorentini come Bartolomeo di Matteo e compagni
(1406). Nello stesso tempo Santa Maria Nuova inizia a
rivolgersi anche a ceramisti che non risiedevano in
città, ma operavano nei centri di produzione del Contado, come Impruneta (dal 1400) e Bacchereto (1419).
Solo nel 1420 sarà la volta dei montelupini Piero, Tommaso e Miniato a farsi “orciolai di casa” dell’ospedale,
dopo essersi recati in Firenze ed aver aperto, nelle case
di san Niccolò, di proprietà del medesimo nosocomio,
la loro bottega. Nel 1429, infine, con una fornitura
effettuata da Nanni di Michele Zamperini prende
l’avvio quel rapporto diretto tra ceramisti di Montelupo
e Santa Maria Nuova che non s’interromperà sino alla
fine dell’Età Moderna.
Fatta salva la cautela che richiede lo stato ancora
imperfetto della ricerca, possiamo dunque dedurre da
tutto ciò come sia stato l’ultimo ventennio del XIV
secolo a marcare una svolta decisiva nei rapporti tra i
ceramisti e la più importante committenza cittadina,
anche se occorrerà qualche tempo perché questo canale
si irrobustisca e coinvolga direttamente, senza l’intermediazione dei vasai inurbati, i centri di produzione.
È d’altronde assai significativo che una simile
svolta negli assi di riferimento dei maggiori acquirenti
cittadini di ceramiche abbia avuto per protagonisti
vasai provenienti dalle “terre” del Contado, ove già da
tempo era venuta sviluppandosi l’ “arte dell’orciolaio”,
e che verosimilmente erano immigrati nella Dominante
proprio sull’onda della crescita di quelle attività. I ceramisti che operavano nel territorio comitatino sul finire
del XIV secolo avevano infatti già alle spalle almeno
cinque generazioni di vasai: in molti casi, anche in
ragione della consistente caduta demografica della
seconda metà del Trecento, una tale attività non aveva
potuto trovare un rapporto di continuità familiare, e si
era dispersa od era passata di mano in mano. Talvolta,
però, la famiglia era cresciuta numerosa attorno alla
fornace, ed il luogo natìo si era fatto avaro di prospettive per i rampolli delle dinastie dei ceramisti che andavano sviluppandosi nei diversi centri di fabbrica, oltre
che per i vasai di più modesta condizione: tentare la
fortuna in città rappresentava per costoro una tentazione irresistibile.
Tugio di Giunta, vasaio di Bacchereto, era padre
di quel Giunta che avrebbe magistralmente consolidato
il rapporto tra questa famiglia e Santa Maria Nuova,
realizzando nel 1431 la memorabile fornitura di maioliche attraverso le quali fu “rifondata” la spezieria ospedaliera; egli, come abbiamo visto, non fu che il primo
dei ceramisti che già esercitavano nel Contado a recarsi
in Firenze. Dopo di lui, ed assieme ad altri baccheretani, vennero ad abitare in Firenze i montelupini e, con
ogni probabilità, ceramisti provenienti dagli altri centri
ceramici del Contado, come Impruneta e Cancelli. Il
nuovo rapporto tra fornitori e committenti, i legami
che si stabilirono prima tra la residenza in città dei
ceramisti comitatini e le istituzioni fiorentine, e poi il
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level of creativity remained at that expressed by the
local potters who were able but tied to “rustic” and
“immediate” demands. Under these conditions it is
possible to imagine the “Florentine” potters were
“content” to accept things as they were ignoring the
emergence of foreign majolica trends and remaining
attached to a simpler and poorer repertoire in a figurative sense in that they tended to use vegetal subjects or zoomorphic figures.
Besides, Florence seemed to have for a long
time, concerning pottery products, an intermediary
role which blocked a direct relationship between the
potters and the most important citizen buyers, representatives of the ecclesiastical institutions and
hospital staff. The latter used over a long period
“Stovigliai” (dish product intermediaries) who usually provided finer products but who could also provide supplies of greater consistency: in their workshops , besides ceramics of every type, they sold
glass products, brick, cordage, gypsum, ash etc.
Only in1383 did the hospital of Santa Maria Nuova
effect the first direct acquisition directly from Tugio
di Giunta, a potter who came from Bacchereto, who,
together with his sons Giunta and Antonio, exercised his trade in a furnace located near San Piero
Gattolini. This direct acquisition by the hospital
only happened three times during the course of the
last twenty years of the XIV century (1383, 1393 first
employ for the spices, and 1395): besides these
events, in nearly fifty years of acquisitions (13621409) all came through the citizen “stovigliai”.
At the beginning of the fifteenth century the
strategy of the hospital transformed. From 1410-11,
indeed, Tugio’s heirs supplied the hospital without
interruption, working alongside other Florentine
potters such as Bartolomeo di Matteo and company
(1406). At the same time, Santa Maria Nuova began
to turn to potters who didn’t reside in the city but
operated their centres of production in the surrounding areas like Impruneta (from 1400) and Bacchereto (1419). Only in 1420 did the jug potters
Piero, Tommaso and Miniato make themselves the
hospital’s potters after having transferred to Florence, San Niccolò, and having opened a workshop
near the hospital. In 1429, at last, with a supply
effected by Nanni di Michele Zamperini did a relationship direct between the potters of Montelupo
and Santa Maria Nuova begin which continued up
to the end of the Modern Age.
Accepting that prudence is required given the
imperfection of the research, we can however begin
to deduce how, during the last twenty years of the
XIV century, there was a solidification of the direct
relationship between the potters and the most
important citizen buyers.
It is equally significant that the interest was in
work from the lands peripheral to Florence but in a
more decorative form. The potters who were operating in the territory at the end of the XIV century had
indeed five generations of experience behind them:
in most cases though, mainly due to the demographic downturn in the second half of the fourteenth
century, a generational continuation of this activity
didn’t occur and the trade passed on to the next person interested. Sometimes however, large families
grew around the furnace and the birthplace offered
little potential for the budding potters who went
elsewhere to practice their trades, in other centres of
production: to seek their fortunes in their representative cities was an irresistible choice.
Tugio di Giunta, potter from Bacchereto, was
the father of the same Giunta who majestically consolidated the relationship between his family and
Santa Maria Nuova by completing, in 1431, the
memorable supply of majolica that “re cast” the hospital’s grocery set up but he wasn’t, as we have seen,
the first rural potter to establish himself in the city
of Florence. After him however followed others from
Montelupo and, probably, from many different rural
areas such as Impruneta and Cancelli. The new relationship between suppliers and customers, the first
relationships established between the city residences
of the potters and the Florentine institutions, and
then the passage to a relationship with production
centres, highlighted the growing importance of the
diffusion of ceramics of quality in Florence which, we repeat – in turn significantly influenced the
future of the national production of ceramics from
about 1380 to 1400.
Montelupo from archaic majolica to the “Florentine”
technological revolution (1360-1380).
If we compare the types of vase products produced in
the Florentine area during the two most significant
phases of the first phase of glazed ceramics (respectively about 1280 -1350 and 1350-80) to those
belonging to the period 1380-1420, we can appreciate
the enormous progress that was made in terms of the
qualitative refinement of production, realized by the
potters in the period starting from XIV to the beginning of the XV centuries.
In the epoch that witnessed the first output and
development (about 1280-1380) as well as that which
saw the successive increases (1350-80) of the so called
“archaic majolica”, Montelupo was operating along
those formal lines dictated by demands in Florence
and not those concerned with obtaining excellence,
an episode that we have already discussed; the “back-
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
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MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Ad una possibile diffidenza verso la crescita di
quest’arte, per la quale si faceva inevitabilmente ampio
ricorso al fuoco, quindi, potrebbe essere addebitata
questa sensibile diversità qualitativa tra la “maiolica
arcaica fiorentina” e quella sviluppata in altri centri
della Toscana: la mancata creazione di un autonomo
“polo produttivo” cittadino, in altre parole, potrebbe
aver ostacolato sino all’ultimo ventennio del Trecento,
per mancanza di catalizzazione delle tendenze più elevate del mercato locale, lo sviluppo di tematiche di
spicco – come, ad esempio, avviene nelle complesse
figurazioni senesi delle “maioliche arcaiche” – finendo
così per livellare il prodotto sulla creatività espressa dai
vasai del Contado, certamente abili, ma legati ad un
ambiente produttivo assai più “rustico” ed “immediato”
sotto il profilo culturale. In queste condizioni, si può
pensare che, come sembrano attestare le nostre testimonianze, i vasai “fiorentini” si “accontentassero”,
restando al riparo dalla penetrazione commerciale delle
maioliche forestiere, del ricorso ad un repertorio più
semplice e povero sotto il profilo figurativo, in quanto
incentrato soprattutto sulla rappresentazione di soggetti vegetali in stilizzazione, variati per lo più da usuali
raffigurazioni zoomorfe.
Firenze, inoltre, sembra aver mantenuto a lungo
per i generi fittili un tipo di intermediazione commerciale che di fatto impediva il rapporto diretto tra i vasai
Montelupo dalla maiolica arcaica
alla rivoluzione tecnologica “fiorentina” (1360-1380).
Se confrontiamo i generi vascolari da mensa prodotti
in area fiorentina durante i due momenti costitutivi di
quella che potremmo definire la prima fase della ceramica smaltata (rispettivamente 1280 circa-1350 e 135080) con quelli che invece appartengono al periodo 13801420, possiamo apprezzare la grande opera di affinamento qualitativo del prodotto fittile che quei ceramisti
realizzarono tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo.
Nell’epoca che vide gli esordi ed il primo sviluppo (1280 circa-1350), nonché i successivi incrementi
(1350-80) della cosiddetta “maiolica arcaica”, Montelupo operò infatti secondo quei canoni formali non
eccelsi, ai quali abbiamo fuggevolmente accennato trattando del “ritardo” della pittura su smalto di area fiorentina rispetto agli altri contesti regionali, inserendosi
tuttavia in un quadro tecnologico che ricalcava fedelmente le modalità produttive dominanti in Toscana e
nell’Italia Centrale e Centro-Settentrionale. La cera-
mica destinata alla smaltatura, in particolare, era foggiata con argilla ricca di ferro cavata soprattutto dagli
accumuli fluviali: essa forniva dopo la cottura un
bistugio dal colore rossastro, duro e compatto. Le
forme erano ottenute dal tornio con tecnica non dissimile (pareti relativamente sottili, solchi di tornitura
percepibili anche all’esterno) rispetto a quelle dell’epoca precedente, allorquando non si praticava la
smaltatura.
I boccali costituivano il prodotto di riferimento,
e risultano perciò negli scarichi di fornace in numero
sensibilmente più elevato rispetto alle morfe aperte
(catini, ciotole, rinfrescatoi): essi mostrano una particolare svasatura del piede, che si allarga in basso “a
zampa di elefante”, per poi richiudersi e rapidamente
riallargarsi a formare il corpo vascolare vero e proprio,
come se la parte inferiore costituisse una sorta di base
troncoconica, sulla quale il manufatto si appoggia. Il
corpo dei boccali è di norma piuttosto snello, e termina
in un colletto allungato, moderatamente aperto verso
l’esterno. L’ansa è del tipo a bastoncello, e viene di
solito raddoppiata (due bastoncelli affiancati, saldati
con la barbottina) negli esemplari di maggiori dimensioni, e cioè nei quarti e mezziquarti: essa è impostata
all’avvio del colletto e, mediante un’accentuata piegatura, condotta a saldarsi al diametro massimo con un
percorso praticamente dritto. È quasi sempre presente
la foratura a fresco della piegatura dell’ansa allo scopo
di permettere l’introduzione di un sigillo di piombo,
quale garanzia della misura di capacità (alcuni reperti
con il sigillo qui inserito sono documentati negli scavi
di Montelupo ed in altri contesti archeologici della
Toscana) per i boccali che venivano impiegati nelle
osterie.
Le forme aperte sono in numero piuttosto limitato e comprendono sostanzialmente le tre morfe principali alle quali si è poc’anzi accennato, con le loro
rispettive varianti dimensionali. Si tratta di bacili da
portata a parete più o meno profonda, di ciotole – le più
piccole venivano utilizzate anche come saliere – e di
rinfrescatoi, cioè vassoi da bicchieri, utilizzati soprattutto nei periodi estivi.
Oltre a quanto detto per la tornitura, occorre
segnalare sotto il profilo tecnologico che tutte le morfe
vascolari prodotte, in particolar modo nel primo
periodo (1280-1350), denotano la volontà di risparmiare sia la pellicola stannifera che i pigmenti: esse
sono perciò di solito prive di rivestimento nelle parti
non a vista (porzione rovescia delle aperte), mentre
l’interno ed il piede dei boccali vengono invetriati. La
smaltatura è visibilmente assai povera di stagno e
mostra un sottilissimo spessore. Persino le campiture
in verde-ramina sono di norma evitate, e le parti da
colorire coperte da una barratura di linee “a graticcio”.
Il repertorio della maiolica arcaica di Montelupo
si inserisce perfettamente nei canoni della consimile
produzione “fiorentina”, la quale può comprendere,
oltre alle aree del Contado di Firenze e Prato, anche il
Pistoiese, pur essendo quest’ultimo di più recente
(1352) inserimento nel territorio della Città gigliata. Per
la decorazione si fa largo ricorso ad elementi vegetali
stilizzati, con foglie d’acqua allungate o cardiformi, ma
anche a motivi pseudoaraldici, geometrici o zoomorfi;
raramente è rappresentata la figura umana.
Nella seconda metà del Trecento la produzione in
maiolica arcaica di area fiorentina perde però la sua
unitarietà tecnico-formale per scindersi in due tendenze ben marcate. In quella più tradizionale, che più
da vicino ricalca gli antichi schemi, si può comunque
notare una vistosa semplificazione del repertorio decorativo, che è portato ad iterare sempre più stancamente
un motivo fitomorfo tratto da tessuti di pregio in circolazione già all’inizio del XIV secolo. La semplice composizione, formata da quattro foglie d’acqua disposte in
croce ed unite per i piccioli, ben si presta ad essere
inquartata sulla parte in vista delle forme aperte e ad
unirsi con altri elementi vegetali, intercalati tra i bracci
del motivo crucifero.
Questa produzione, che ripercorre, aggiornandoli e semplificandoli, gli schemi della maiolica arcaica
della prima metà del Trecento, è interessata anche ad
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78
ward” stance in the Florentine area regarding decorations on the enamel compared with other regions.
In particular, the ceramics destined to be enamelled
were formed rich with clay rich in iron recovered primarily from fluvial accumulations: After the baking,
it provided a reddish colour, hard and compact. The
forms were obtained from the lathe with a technique
not dissimilar to (thin walls, indentations visible from
the outside) those of the preceding epoch where the
enamelling wasn’t practiced.
Jugs constituted the point of reference, we can
guess at this because a higher number of them are
found in the furnace dumps compared to more open
forms (basins, bowls ): they demonstrate a particular
flare of base, wide like “an elephants foot” which
closes and then quickly opens again forming the vase
body as if the lower part forms a kind of conical
trunk on which the product rests (fig 10). The jugs’
bodies are normally thin and end with an extended
collar, moderately open towards the outside. The
handle has a stick form and is normally doubled,
(two side by side soldered with a ) in the biggest
examples, and therefore the quarter and half quarter
sizes: they are placed at the beginning the collar and,
through an accentuated curve conducted towards the
part with the largest diameter in practically a straight
line. A hole is almost always present caused by the
curve of the handle permitting a lead seal which guarantees the measure of capacity (some finds with seals
of this type have been recovered from the excavations
of Montelupo and other sites in Tuscany) on the jugs
used in Taverns (fig 11).
There are rather limited numbers of the open
forms and these generally include the three principal
forms already mentioned, with their respective difference in size. They include meal service dishes for
hanging on walls of different heights, smaller dishes
used as containers like salt dishes and small cups for
refreshments mainly used in the summer period.
Besides what’s been said about the lathing
processes, it must be said that under the technological profile, all the products were formed with
economy in mind especially in the first period (12801350) where there was the desire to save on the tin
film and the pigment: so there were without decoration on the retro and non visible sides while the
insides and the bases of the jugs were glazed. The
enamelling shows a limited amount of tin and is very
thin. Even the painted backgrounds in green copper
flakes are usually avoided, and the coloured parts are
covered with “trellis lines”. The repertoire of the
archaic majolica of Montelupo fits in perfectly with
“Florentine” production which can include, besides
the rural areas around Florence, Prato and Pistoia,
the most recent (1532) to become part of Florentine
territory. In terms of decoration, we can indicate stylized vegetal elements with extended water leaves or
thistles and also pseudo heraldic, geometric or
zoomorphic features but rarely the human form.
In the second half of the fourteenth century,
majolica production in the Florentine area lost its
techno-formal unity and divided into two tendencies
well distinguished. The more traditional tendency
remained along the lines of the antique forms, there
is a visible simplification of decoration in the repertoire and a exasperatingly insistent phyto-morphic
motif made of a prized material which had been circulating since the XIV century. The simple composition, formed of four water leaves in the shape of a
four sectioned cross could be found on the open face
of the object, often united with other vegetal elements
which are entwined on the stem of the cross (fig 13).
This production, which continually re presents,
updated and simplified, the themes of the archaic
majolica of the fourteenth century, also undergo a
morphological evolution. There is a net reduction of
closed forms – mainly the jugs – compared to the
open forms, and these latter are substantially reduced
to cone-trunk basins with straighter sides, lightly
extending outwards or folded “like a hinge” – meal
service basins destined to contain meals, following
the “ancient” table traditions.
The few existing basins, besides having simple
decorations, reduced to the usual quartered vegetal
composition on the visible part, demonstrate the loss
of the antique distinctive foot, as well as the tendency
to abandon the stick form handle, replaced by a flattened type.
At about the beginning of 1360, however,
another productive vein of majolica became more
popular amongst the meal time vases. At the beginning it was seen as an important “advancement” on
the traditional “archaic majolica”, which had as a
point of reference a different decorative repertoire of
bright blue with a lapislazuli tone. The term “archaic
blue majolica was coined to classify this type, essentially to highlight the new tone that it represented,
without revolutionising the morphology of the products in copper flake and manganese.
If we set out to verify the chemical composition
of the pigment that supplies the blue colour, we can
however note that it is the same copper used in the
older green and brown productions: we know that the
presence of lead alkaline in the composition of the
stagno enamel was able to change the oxidization of
the copper flakes, making them blue. This technique
had been known for a long time – there are some
examples from the XIII century in Siena, Orvieto and
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MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
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passaggio ai rapporti stabili con i centri di produzione,
ben rimarcano, ci sembra, la crescente importanza che
ebbe in Firenze la diffusione della ceramica di qualità,
la quale – lo ripetiamo – anche per questo aspetto segnò
una svolta decisiva nel futuro della produzione fittile
nazionale negli anni che vanno dal 1380 al 1400 circa.
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blu”, appropriato ad evidenziare la novità cromatica
che essi, senza rivoluzionare la morfologia dei prodotti
in ramina e manganese, rappresentano.
Se andiamo a verificare la composizione chimica
del pigmento che fornisce la colorazione blu, possiamo
però constatare che si tratta del medesimo rame utilizzato nell’antica produzione in verde e bruno: sappiamo
infatti che la presenza di piombo alcalino nella composizione dello smalto stannifero era in grado virare l’ossidazione della ramina, facendole assumere un colore
azzurrino. Questa tecnica era nota da molto tempo,
tanto che si incontrano – come abbiamo notato in precedenza – maioliche arcaiche con decorazione azzurra
fabbricate già nel XIII secolo a Siena, ad Orvieto e nell’Alto Lazio; la stessa “protomaiolica” (1180-1260 circa)
mostra elementi vegetali azzurrini all’interno della tricromia che la caratterizza (azzurro, bruno ed arancio),
e si tratta parimenti di ossido di rame. Sotto il profilo
tecnologico del pigmento, dunque, in poca cosa consisterebbe la novità della “maiolica arcaica blu”.
Se analizziamo più da vicino questa produzione,
che probabilmente si afferma nelle botteghe ceramiche
dell’area fiorentina soltanto nel corso di un trentennio
Frammenti di boccale in maiolica
arcaica blu (1360-80) da scavi
di Montelupo
(1360-90), possiamo invece accorgerci come essa rappresenti davvero la prima rottura di quello che era stato
il dominio incontrastato della maiolica arcaica.
Abbiamo accennato ai motivi decorativi, e possiamo
meglio sottolineare adesso come l’arcaica blu, oltre a
nuovi decori tratti da stoffe di pregio, introduca per la
prima volta nel repertorio dei vasai italiani elementi
derivati dal repertorio islamico, quali in particolare il
cosiddetto “albero della vita”. Si tratta ovviamente dell’assimilazione di suggestioni decorative il cui valore
simbolico non viene percepito come tale dai ceramisti
nostrani, e che sono veicolate soprattutto dai centri di
fabbrica dell’area valenzana (Manises e Paterna), ma
anche dalle ceramiche di Malaga e della Catalogna.
Sono in particolare i prodotti del Levante spagnolo, con il loro caratteristico accostamento di lustro
metallico e di blu – in questo caso ottenuto dall’ossido
di cobalto – a farsi rapidamente largo sui mercati mediterranei. Sappiamo, del resto, che la fortuna commerciale di queste ceramiche fu così ampia da suscitare
fenomeni di tesaurizzazione: non per caso a Pula, in
Sardegna, decine di scodelle valenzane del tutto integre
furono sepolte attorno al 1380, evidentemente per
occultarle, in una fossa. I vasai fiorentini vedono con
sgomento la loro clientela avviare l’incetta di questi
manufatti, detti “maioliche” per provenire dalle parti di
Maiorca – l’isola era detta “Maiolica” in volgare toscano
– od anche, con epiteto che designava ogni importazione fittile di pregio, “porcellette”. Le maioliche iberiche sbarcano in numero sempre maggiore, ad iniziare
dal 1360 circa, nei porti tirrenici, e trovano accumulo,
come merci preziose, nei fondaci mercantili. Non
pochi, d’altronde, saranno gli acquirenti che, come
Francesco di Marco Datini, il noto mercante di Prato,
ordineranno direttamente in Manises i loro servizi da
tavola “a lustro”: gli Acciaiuoli si faranno addirittura
fabbricare da quei vasai, epigoni della grande tradizione islamica, un pavimento maiolicato con inserti
dorati per la loro cappella di famiglia.
Ecco dunque che il blu – pur essendo ancora
ottenuto dal rame – unendosi alle suggestioni decorative dell’Islam, segnala la svolta ricercata dai nostri ceramisti, e ad essi quasi imposta dall’imprevisto confronto
con i nuovi generi d’importazione. Più importante ancora di questa evoluzione estetica è però la vera e propria
rivoluzione tecnologica che trova il suo terreno di sperimentazione nella maiolica arcaica blu. In essa, infatti,
non soltanto scompare definitivamente l’invetriatura
posta all’interno delle forme chiuse, ed anche questa
porzione non a vista dei boccali viene perciò sottoposta
a smaltatura, ma si nota la fabbricazione di un impasto
ceramico non semplicemente finalizzato a garantire un
buon risultato alla cottura, ma piuttosto ad assicurare
una superiore qualità estetica alla produzione vascolare.
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80
Fragmens of a jug in blue archaic
majolica (1360-80) from Montelupo
excavations
in the north of Lazio; the same “proto majolica”
(1180- about1260) demonstrates light blue vegetal elements inside the trichomatism that characterizes it
(blue, brown and orange) and it is a question of oxidisation of copper. The pigment, under a technological profile, had very little in terms of novelty.
If we study this production at close range, it
was probably popular in the ceramic stores of Florence for about thirty years (1360-90), and represented the first change from the old predominant
style of archaic majolica.
We have up to now touched upon the subject of
blue decorative motifs but we can also state that the
archaic blue, besides being a decoration treated with
prized materials, introduced for the first time in the
repertoire of Islamic vases, derivatives from the
Islamic repertoire, in particular the so called “tree of
life” (fig 14). This obviously concerns the assimilation
of suggestive decorations with a symbolic value that
is not perceived as such by the local potters but used,
above all by potters from areas such as Valencia
(Manises and Paterna), Malaga and Catalonia.
In particular, they are products from the
Spanish Levante with their binomial use of bright
metallic and blue – in this case obtained through the
oxidization of cobalt – made rapid progress in the
Mediterranean. We know that the success of these
ceramics was so widespread that they became the
subject of hoarding: Not by chance in Pula, in
Sardegna, around 1380, tens of bowls from the
Valencia area, all entire, were buried in a ditch, obviously to hide them. The Florentine potters to their
dismay, witnessed the wide scale interest in these
works, called “Majolica” because they came from
around the Majorca area, - the island was called
“Maiolica” in unrefined Tuscan – or maybe as the
“porcellete” epithet reserved for prized imported
ceramics. The Iberian majolica arrived in increasingly greater numbers beginning about 1360, through
the Tyrrhenian ports and were stored as prized
objects in mercantile stores. There were many buyers
such as Francesco di Marco Datini, the noted merchant, who ordered their “bright” dinner services
directly from Manises. The Acciaiuoli family had a
majolica pavement with gold inserts made to order by
the same potters, descendents of a great Islamic tradition.
So, the colour blue- even though it was
obtained through copper – blended with the suggestive decorations of Islam signalled the turning point
searched for by our potters.
Even more important than this aesthetic evolution was the real technological revolution which had
its roots in the experimentation of the archaic blue
majolica. In consequence, not only did the glazing
disappear from the insides of the closed forms and
replaced with enamel but a ceramic paste was used
that would not only guarantee solid baking but also a
superior aesthetic quality of vase production.
As obtaining a candid enamelled surface which
didn’t show violaceous tones was the objective in
order to give a higher aesthetic value to the final
product, the Florentine potters (Montelupo included)
sought a white surface at the pasta stage before the
forming, drying and baking for the first time stage.
Producing white and translucent surfaces on the
ceramics signified, as was explained, a noticeable
increase in the aesthetic quality of the product and
that was only possible through the use of enamel
which had a high quantity of expensive stagno. It is
however evident that, with the same quality of
enamel, a much better result could be reached staring
with whitish vase surfaces and not brick-red, which
characterized the old type of archaic majolica. The
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una significativa evoluzione morfologica. Le forme
chiuse – e segnatamente i boccali – risultano ormai in
netta minoranza rispetto alle aperte, e queste ultime si
riducono sostanzialmente a bacili dal corpo troncoconico, muniti di pareti raddrizzate, lievemente sporgenti
all’esterno, oppure ripiegate “ad arpione”. Si tratta di
bacili da portata, destinati a contenere la pietanza principale secondo l’“antico” costume della tavola. I pochi
boccali esistenti mostrano, oltre ad una decorazione
semplificata, ridotta anch’essa alla consueta composizione vegetale inquartata sulla parte a vista, la perdita
dell’antico piede distinto, nonché la tendenza ad abbandonare l’ansa a bastoncello, per assumere una presa di
tipo schiacciato, presto destinata ad evolvere in nastro.
Ad iniziare dal 1360 circa, però, un altro filone
produttivo della maiolica viene sempre più affermandosi nella fabbricazione dei manufatti vascolari da
mensa. All’inizio si tratta di un importante “aggiornamento” della stessa “maiolica arcaica”, che ha come
referente un diverso repertorio decorativo, e mostra
nel contempo una colorazione in azzurro carico, con
tonalità simili al lapislazzulo. Per classificare questi
manufatti si è coniato il termine di “maiolica arcaica
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gnoli, per di più, impiegavano a loro volta un bistugio
dalla superficie biancastra, che ottenevano facilmente,
utilizzando acqua salata nella lavorazione dell’argilla:
la tecnica della salatura, non disponendo di sorgenti
salse, non era però praticabile dai nostri vasai.
Le strade percorse dai ceramisti italiani che si
dedicavano alla maiolica per sbiancare i manufatti da
sottoporre a smaltatura furono due. Un’antica tradizione tecnologica, sviluppata addirittura sul finire del XII
secolo nelle cosiddette graffite tirreniche, e poi ripresa
anche nelle protomaioliche, aveva già sperimentato l’imbiancatura del bistugio, cioè la velatura dei manufatti
sottoposti alla prima cottura con ingobbio biancastro.
Questa tecnica mostra un sorprendente radicamento in
alcune aree produttive italiane e, in particolare, ampia
diffusione in ambito senese e nella porzione meridionale della Toscana, tanto da trovare consacrazione anche
in scritti tecnici come il De pirothecnia del Biringuccio.
Nel Fiorentino, invece, si intraprese una strada completamente diversa per giungere al medesimo risultato.
Invece di velare con un ingobbio di colore chiaro la
superficie del bistugio foggiato con le argille che si cava-
Il pavimento della chiesa di Santa Maria
della Querce (Firenze), manifattura del
Levante spagnolo, 1456-60
vano o raccoglievano nell’area, le quali avrebbero necessariamente determinato, per la presenza di ferro, l’insorgere in esso di tonalità più o meno rossastre, si pensò
infatti di schiarire quanto più era possibile la colorazione del supporto ceramico medesimo. Una simile correzione cromatica poteva essere ottenuta mediante l’aggiunta di calcio – probabilmente sotto forma di grassello di calce – già nella fase di decantazione e maturazione
della terra.
Questa tecnica, che ben caratterizza le maioliche
prodotte in area fiorentina, distinguendole da molti dei
coevi manufatti senesi ed anche pisani, ha i suoi esordi
verso il 1360, anche se denota una lunga fase di perfezionamento, che può dirsi del tutto conclusa soltanto
nel quarto-quinto decenniodel XV secolo, al termine
della quale si riuscì a migliorare decisamente la qualità
intrinseca del nuovo bistugio biancastro; esso si era tuttavia generalizzato nelle produzioni “fiorentine” già
all’inizio del Quattrocento. La miscelazione delle
diverse componenti dell’impasto, infatti, raggiunse in
quel lasso di tempo il suo equilibrio ottimale, frutto
forse di una più adeguata e scaltrita tecnica di maturazione, grazie alla quale si ottenne un supporto ben più
duro e compatto di quello in uso nel primo trentennio
del secolo.
Oltre a permettere, a parità dello stagno impiegato nella fabbricazione, una migliore qualità della
smaltatura – intesa come maggior grado di bianchezza
delle superfici – in quanto l’effetto finale non dipendeva
tanto da un mezzo di contrasto (l’ingobbio), ma dal supporto medesimo, questa tecnica offriva ai ceramisti fiorentini altri, consistenti vantaggi. Mentre, infatti, il connubio tra lo smalto e l’ingobbio si rivelava spesso problematico, tanto da determinare frequenti problemi di
aderenza della pellicola siliceo-metallica al suo supporto, la realizzazione dell’impasto con aggiunte di
calcio favoriva il fissarsi del rivestimento. Nel corso
della prima cottura, infatti, la superficie dei manufatti
si cribrava intensamente a causa della cessione di gas,
ed il bistugio così ottenuto, dotato di un minutissimo
reticolo di microscopici orifizi, permetteva allo smalto
di aderire saldamente.
A completare il quadro del forte progresso tecnologico avviato all’inizio dell’ultimo quarantennio del
XIV secolo, dunque, mancava ormai soltanto un elemento: l’introduzione dell’ossido di cobalto.
La svolta dell’ossido di cobalto e la “zaffera a rilievo”
Il ricorso a questo costoso pigmento d’importazione, a
rigore, avrebbe potuto anche essere evitato dai ceramisti fiorentini. Abbiamo già visto, infatti, come fosse
possibile ottenere il blu nella versione aggiornata della
“maiolica arcaica” attraverso un particolare trattamento del verde-ramina. Un uso assai scaltrito di quel-
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Majolica pavement of the Church of
Santa Maria della Querce (Firenze),
factory of spanish levante, 1456-60
perfect whiteness of the surfaces constituted a qualitative element which they were happy to do without
previously: now that there was competition with the
Spanish, it became a fundamental quality which
couldn’t be neglected. What’s more, the Spanish used
a base product that had a white surface which easily
obtained, using salty water in the preparation of the
clay water paste: the salt water technique was not possible for the Florentine potters owing to the lack of a
salt water source.
There were two paths taken by the local
majolica potters in order to produce a white base
product, ready for enamelling. An old technological
tradition developed at the end of the XII century in
the so called graffite tirreniche and then re established
during the proto majolica period already experimented with the whitening of the base product, that
is, the first baking was done with a white film painted
over. This technique became widely used especially in
the areas around Siena and in the south of Tuscany
to the extent that it found its way into written works
such as De pirothecnia by Biringuccio. In the Florentine region however, a completely different technique
was used to arrive at the same result. Instead of
painting a film of clear colour on the base form which
was made from the local clay that gave a reddish tone
thanks to the presence of iron, the primary material
was made as clear as possible before any form work
was done. A chromatic correction could be obtained
through the addition of calcium – probably in the
form of pieces of calcium – already in the decantation
and maturation of the earth phase.
This technique, which characterized the
majolica produced in the Florentine area, distinguishing it from many of the products coming out the
same time from the areas around Siena and Pisa,
came out round 1360 but required a long phase of
perfection which concluded around 40’s and 50’s of
the XV century. This process resulted in a decided
increase in the intrinsic quality of the new whitened
base form and was generally used in the “Florentine”
productions from the beginning of the fifteenth century. Indeed, the mixing of the different components
of the paste in that period reached its optimum equilibrium, perhaps the fruit of improved maturation
techniques thanks to which a harder and more compact support was produced compared to that in use
during the first thirty years of the century.
Besides permitting, supposing that the copper
flakes were of equal quality, a better quality of enamelling – understood as an improved grade of whiteness on the surface – in so much as the effect of the
final product depended more on the support than on
the method of contrast (the film veiled over the base
form), and this offered the Florentine potters consistent advantages. Whilst the marriage between the
enamel and the film created problems of adhesion
between the siliceous – metallic film and its support,
the realization of the paste with added calcium
favoured the adhesion of the decoration. During the
first baking, the surface of the product became purer
thanks to the cession of gas and the resultant base
form, having a minute network of microscopic orifices, permitted the enamel to adhere solidly.
To complete the picture of strong technological
progress beginning during the last forty years of the
XIV century, only one element is missing: the introduction of cobalt oxide.
The introduction of cobalt oxide and the “zaffera relief”
The use of this expensive pigment could have even
been avoided by the Florentine potters. We have
already seen how it is possible to obtain blue in the
updated version of the “archaic majolica” through a
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Poiché ottenere una superficie smaltata candida,
dalla quale non trasparissero toni violacei era l’obbiettivo da raggiungere per far assumere un maggior valore
estetico al prodotto finale, i vasai che operavano nell’area fiorentina (e, con essi, quelli di Montelupo) pensarono bene di ottenere una superficie bianca già allo stadio di “bistugio”, cioè allorquando il manufatto era stato
foggiato, essiccato e cotto per la prima volta. Produrre
ceramiche dalla superficie bianchissima e transulcida
significava, come si è detto, aumentare notevolmente
la qualità estetica del prodotto, e ciò sarebbe stato possibile utilizzando smalti dall’elevato contenuto di costosissimo stagno. È però evidente come, a parità di smalto,
un risultato assai migliore poteva essere raggiunto partendo da superfici vascolari biancastre, e non già rossomattone, come quelle che caratterizzavano la maiolica
arcaica di vecchia concezione. La perfetta bianchezza
delle superfici costituiva un elemento qualitativo del
quale precedentemente si poteva far a meno: ora che si
doveva affrontare la concorrenza delle maioliche spagnole, però, essa rappresentava un discriminante qualitativo fondamentale, da non potersi trascurare. Gli spa-
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
italiani – produssero maioliche con decorazioni “a rilievo”, ottenute mediante questa tecnica, l’ampiezza della
diffusione ed il livello tecnico-applicativo che essa ebbe
in area fiorentina, ove strettamente si unì alle altre novità tecnologiche delle quali si è detto poc’anzi, fanno
della “zaffera a rilievo” un capitolo decisivo nell’evoluzione qualitativa della ceramica smaltata in Italia: un
capitolo che non ebbe eguali in altri contesti nazionali.
Raggiunta ormai una certa sicurezza nella fabbricazione
del bistugio biancastro, generalizzata e migliorata la
smaltatura dei manufatti, la produzione della “zaffera a
rilievo” poteva legittimamente porsi come contraltare
della maiolica iberica: essa citava in alcuni particolari
formali i fondamenti stessi del linguaggio decorativo di
matrice islamica che, a questo punto, rappresentava
quasi un comune sostrato da elaborare, ma si distaccava
dai prodotti del Levante spagnolo per quella ricerca di
un repertorio figurativo autoctono che si farà sempre
più spinta e pressante nel corso del XV secolo.
Firenze e Montelupo. Alla conquista dei mercati
mediterranei: la nuova produzione ceramica
montelupina ai primordi dell’espansionismo
commerciale fiorentino.
L’inizio dell’esportazione, sempre più consistente e massiccia, della maiolica iberica – ed in particolare di quella valenzana a lustro metallico – verso Oriente coincide
dunque cronologicamente con l’avvio di una fondamentale fase di rinnovamento qualitativo della maiolica italiana. Questi fenomeni marciarono di pari passo per
oltre un secolo (1360-1490 circa), ma bisogna dire che
furono i centri ceramici della costa tirrenica, per evidenti motivazioni di carattere geo-economico, a fare per
primi i conti con questa straordinaria novità; l’impressionante progressione che avrebbe caratterizzato la
capacità produttiva dei centri del Levante, ed in particolare delle fornaci di Manises, avrebbe del resto trovato in
questa parte d’Italia la cassa di risonanza ideale.
Il parallelismo tra le vicende delle lavorazioni fittili condotte in ambito manisero-valenciano e fiorentino,
che la storia degli anni 1400-1480 circa ci segnala attraverso la straordinaria assimilazione da parte di quest’ultima del repertorio morfologico e decorativo iberico,
non rappresentò dunque un fenomeno casuale, ma un
fatto ben rispondente alla ricerca qualitativa che i ceramisti nostrani svilupparono già sul finire del Trecento.
Così, mentre le importazioni dalla Spagna crescevano a
dismisura, le decorazioni iberiche si tradussero presto in
elementi formali, che i vasai fiorentini vennero ad applicare con sempre maggior frequenza ed abbondanza nei
loro prodotti.
La stessa tecnica del lustro metallico fu oggetto di
grande interesse nel corso della prima metà del Quattrocento, sino a che, almeno negli anni Settanta di quel
secolo, non si riuscì a carpirne il segreto, approfittando,
come afferma una fonte montelupina, dei servigi più o
meno “spionistici” forniti dalla rete commerciale dei
mercanti fiorentini.
Ecco dunque che nell’azione concomitante di
questi fattori si possono indicare le forze che operarono
congiuntamente per innalzare il livello qualitativo della
maiolica in ambito fiorentino: da una parte, infatti, il
quadro economico e sociale del periodo 1350-1420
determinò una forte richiesta di adeguamento dei fittili
ai più raffinati gusti dell’epoca, alimentando il rinnovamento tecnico-formale della produzione, dall’altra
l’esempio rappresentato dalla sempre più ampia penetrazione dei manufatti smaltati provenienti dal Levante
spagnolo, caratterizzati anch’essi da molti fattori innovativi, spinse i vasai nostrani a porsi sulla medesima
strada.
Per dare conto di un fenomeno di così vasta portata, però, occorre evidentemente richiamare nella
nostra ricostruzione anche quei più complessi fattori
storici – “esterni”, se vogliamo, allo sviluppo dell’arte
ceramica – i quali determinarono le condizioni oggettive perché una simile svolta non soltanto venisse intrapresa dai ceramisti fiorentini, ma soprattutto non fosse
abbandonata o negletta nella fase, per molti aspetti di
natura economico-sociale tutt’altro che facile, che ne
vide l’avvio.
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particular treatment of green – copper flake. A cunning use of that oxide, even able to produce a
turquoise colour, was already in operation in Florence and can be seen on the enamelled material that
provides the background to the Virtù inserted in the
bell of the Santa Maria del Fiore, the date of which
goes back to the beginning of the 40s of the XIV century, twenty years before the “archaic blue majolica”.
The Florentine potters didn’t demonstrate a conviction towards the results gained from this kind of
process which was however a significant modification of the “archaic majolica”, but more satisfied with
the blue that came from the “chemical” conversion of
the copper flakes. This latter process insisted and
evolved rapidly until an intense blue colour was
obtained which was completely different from the
antique blue enamels and their evolved forms (tav. 1).
Into this line of cobalt elaboration, the revolutionary
idea of adding into the pigment oxide lead was introduced which served the double purpose of swelling
the enamelled surface making it more turgid and
modifying the colour, making it brighter and lapislazuli.
Even if other centres of production – in Tuscany and elsewhere in Italy – produced majolica with
“relief” decorations, obtained through this method, it
was more widespread in the Florentine area where it
was worked with other technological advances of
which we have spoken very little, the safflower relief,
a decisive chapter in the qualitative evolution of
enamelled ceramics in Italy: a chapter that didn’t
have equals in the national context. Having reached
a certain confidence in the fabrication of a whitish
base form, and a generalized and improved enamelling process achieved, the production of the “relief
safflower” could legitimately propose itself as valid
competition to the Iberian products: in some aspects
there was a similarity to the decorative aspects of the
Islamic forms, which at this point, had a similar substratum to the Florentine products but the latter had
an autochthonous figurative repertoire which would
become ever more impressive and accentuated
during the course of the XV century.
Florence & Montelupo Conquering mediterranean
markets: the new ceramics production of Monelupo
and the onset of Florentine commercial expansion
An increase in the exportation of mainly Spanish
Iberian Majolica with a highly polished finish coincided with the start of a fundamental period in the
change of quality of Italian Majolica ceramics. This
phenomenon continued for over a century between
1360 – 1490, but it should be said that ceramic manufacturers on the Tirrenian coast due to their geo-
graphical and economical position benefited more
from this extraordinary discovery. The impressive
progression was characterised by the production
capacity of the Levante areas and in particular the
furnaces in the Manises.
Making a comparison between the decorative
Iberical workmanship used both in the Spanish Manisero-Valenciano and Florentine methods during the
1400 – 1480, history has taught us that it was not just
by chance that these similarities came about but a
phenomenon that was well studied by our potters
even as early as the end of the 1300’s as they searched
for improved quality. Whilst the Spanish imports
grew out of all proportion, their decorations were
translated into more formal elements which the Florentine potters started to use more frequently and
abundantly in their products. The technique of a
highly polished finish became of great interest in the
first half of the 1400’s and even up to the 1470’s the
secret of this method was unknown. As a source from
Montelupo confirms, spies were used by Florentine
merchants in an attempt to unravel the production
techniques.
Joint forces acted to raise the quality of Florentine majolica. Indeed, it was in part the social and
economical situations between 1350 – 1420 that
determined a strong demand for change towards
more refined tastes of this period, leading to renewed
techniques and forms of production and then an
increase in enamelled products arriving from the
Spanish Levante, forcing our potters to revaluate
their techniques and take the same path.
To understand the extent of this vast phenomenon it is necessary to include in our reconstruction
also those complex historical factors – external to
ceramic art –that determined not only why the Florentine potters adopted the new techniques but also
why these ideas were not abandoned or neglected
during difficult social and economical periods.
Between the last quarter of the 1300’s and the first
quarter of the 1400’s, Florence passed a delicate and
decisive part of it’s history changing from a Medieval
city with limited territory made up of countryside
expanding as far as Prato and Pistoia, to a dominant
regional state. This crucial 50 year period saw, not
surprisingly, the defeat of the “Ciompi” and thanks to
this it was possible to begin political reaction against
the ever increasing social base of the city of which the
pre-proletarian urban classes, the lowest ranks of the
textile workforce were prevalent. The restriction of
the number of arts and artisans began in January
1382, but in effect only represented the beginning of
the closure of the Oligarchic political system that
took place in 1434, after a series of dramatic changes
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
l’ossido, in grado di produrre addirittura colorazioni
turchine, è del resto testimoniato nella stessa Firenze
dalle tessere smaltate che fanno da sfondo alle statue
delle Virtù inserite nel campanile di Santa Maria del
Fiore, le quali si datano già all’inizio degli anni Quaranta del XIV secolo, cioè un ventennio prima della
stessa “maiolica arcaica blu”.
I ceramisti “fiorentini” non si dimostrano quindi
paghi dei risultati raggiunti con questa tipologia vascolare, che pure modificava assai significativamente la
“maiolica arcaica”, né furono appagati dal saper trarre
effetti di blu dal trattamento “chimico” della ramina.
Mentre ancora perdurava questa produzione, essi si
rivolsero infatti rapidamente (i dati di scavo indicano il
1380 circa) all’ossido di cobalto, al fine di ottenere colorazioni in un blu più intenso, che non è confondibile
con gli inserti azzurri delle produzioni smaltate più antiche, e neppure con la stessa evoluzione della “maiolica
arcaica”. Ed è su questa linea di elaborazione del cobalto che palesemente si innesta l’idea di introdurre nel
pigmento ossido di piombo, affinché non soltanto esso
possa gonfiarsi sulla superficie smaltata, facendo così
assumere ai decori un aspetto turgido, particolarmente
suggestivo, ma anche per modificare il colore medesimo, schiarirlo e renderlo di una brillantezza simile al
lapislazzulo.
Anche se altri centri di produzione – toscani ed
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
della signoria territoriale, dai quali però avevano mutuato non soltanto possessioni, ma anche parte sostanziale
della mentalità e del comportamento sociale, ebbero
modo di saldare in questo periodo la propria azione a
quella del popolo grasso, che si diceva “arciguelfo”. Il
blocco sociale tra le famiglie eminenti del ceto bancario
e mercantile e quelle della media borghesia cittadina,
che si formò dopo la sconfitta dei Ciompi, non soltanto
svuotò progressivamente di contenuti l’antica “democrazia” medievale che reggeva le sorti della città da
quasi un secolo e mezzo, ma avviò altresì una fase di
consistente espansione territoriale e di confronto militare con gli altri stati italiani. Questo aspetto della vita fiorentina, unito al leitmotiv della lotta contro i Visconti,
ideologicamente trasformata nella difesa della piccola
repubblica contro il tiranno straniero, ed il conseguente
bisogno di un governo forte, in grado di assicurare le
ingenti risorse finanziarie necessarie alla sicurezza della
patria, costituirono il terreno di coltura ideale per quelle aspre battaglie intestine al patriziato, dalle quali inevitabilmente una sola consorteria doveva uscire vincitrice.
La lotta di fazione, condotta secondo la tradizione
medievale della leadership di una famiglia eminente,
rafforzata dalla propria consorteria e dai clan alleati, si
era affrancata dal clima feroce delle “battaglie cittadinesche” del passato, ma era combattuta con pari, feroce
determinazione nei consigli e nelle balìe, ove ci si dispu-
tava la supremazia politica: nessuno poteva sottrarsi a
questo confronto che animava la vita cittadina, poiché
chi soccombeva, oltre a rischiare l’incolumità personale,
era spesso costretto all’esilio ed alla perdita del patrimonio.
Le lotte avviate contro i Visconti a partire dal
1390, portarono Firenze sull’orlo della catastrofe, ma
la buona sorte aiutò i fiorentini: Gian Galeazzo Visconti morì infatti improvvisamente nel settembre del 1402
e, anche se la sua scomparsa non portò al crollo immediato del regime visconteo nell’Italia centrale, provocò
un alleggerimento della pressione militare. Pisa e Siena,
però, restavano nelle mani di quella famiglia, ed impedivano la crescita di Firenze. La Città gigliata approfittò
comunque nel 1404 della liberazione di Siena per utilizzare di nuovo il porto di Talamone, e riaprire ai propri
traffici Piombino e Motrone, alleggerendo così la longa
manus di Genova su Pisa e Livorno che, attraverso il
Visconti, le impediva l’accesso al mare. La conquista di
Pisa divenne quindi, in quegli anni, l’obbiettivo principale della politica fiorentina.
La presa della Città crociata nel 1406 rappresentò
il trionfo del gruppo oligarchico composto da Maso
degli Albizzi, Gino Capponi, Rinaldo Gianfigliazzi e Niccolò da Uzzano, ma l’impresa era costata enormi risorse
finanziarie, che si valutano a circa un milione e mezzo
di fiorini. L’attività bellica ed i diversi accordi di politica
estera, oltre alla necessità di assorbire e controllare il
vasto territorio pisano, avevano infatti portato il debito
pubblico fiorentino ad oltre tre milioni di fiorini, il che
comportava per l’erario l’erogazione di interessi pari a
circa 200.000 fiorini all’anno.
Per completare il disegno strategico che avrebbe
permesso un effettivo sviluppo della politica marinara
della Repubblica occorreva, una volta avviata la conquista di Pisa, risolvere anche la questione di Livorno.
L’occasione si presentò nel 1421 per le minacce che
Filippo Maria Visconti portò allora a Genova: i Fiorentini, che sin dal 1419 avevano offerto per lo scalo labronico una cifra di 60.000 fiorini, riuscirono così a chiudere
l’accordo con i Genovesi, sborsandone 100.000. L’acquisto di Livorno permetteva a Firenze di dotarsi di una
propria flotta, sia di natura commerciale che militare, e
di ampliare i rapporti di scambio marittimi con le nazioni mediterranee. Fu creata per questo scopo la magistratura dei Consoli del Mare, che dalle loro sedi di Pisa e
Firenze si occupava della gestione dell’arsenale pisano e,
attraverso trattati economici, della penetrazione commerciale delle “galere da mercato” fiorentine. Nell’aprile del 1422, in effetti, si inaugurarono i primi viaggi
delle galee gigliate dirette a Oriente, che furono precedute da solenni processioni nella città di Pisa. Nel luglio di
quell’anno, assieme agli ambasciatori della Signoria alla
corte del sultano, Carlo di Francesco Federighi e Felice
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and internal patriciate struggles during the rule of
Cosimo de’ Medici. Even the expansion of the territory surrounding Florence and the conquest of
Arezzo in 1384 was taken with hesitancy and did not
change the situation.
The wealthy aristocratic families, known as the
“Arciguelfi” who often played important roles in the
running of the city and countryside, not only
exploiting their possessions but imposing their mentality and social behaviour on the community, were to
benefit completely and freely from their actions
during this period. The social barriers between eminent banking and trading families and those of the
middle class that were formed after the defeat of the
“Ciompi” was not only the beginning of the end of the
old Medieval democracy that governed the city for a
century and a half, but activated an expansion of territory and military intervention between the other
Italian states. This aspect of Florentine life, united
under the “leitmotiv” to fight against the family Visconti, transformed into the defence of the small
republic against foreign tyrants, and consequently
the need for a stronger government able to ensure
necessary financial resources for the security of the
country constituted the cultural ideals for those bitter
internal civil battles from which only one family
group would come out the winner. As in Medieval tra-
ditions, these battles in the past to gain political leadership and supremacy were fought with fierce
ferocity between the powerful groups of families reinforced by their supporting clans. It was difficult to
escape these confrontations that enlivened city life
because those who succumbed to these battles,
besides risking their personal safety, were often sent
into exile and lost their patrimony.
The political struggles against the family Visconti starting in 1390 nearly bringing Florence to the
edge of a catastrophe but good fortune helped the
Florentines as Gian Galeazzo Visconti suddenly died
in September 1402. Even if his death did not bring an
immediate collapse of this regime in central Italy, it
did provoke a reduction in pressure from the military.
Pisa and Siena remained in the hands of the family
which prevented Florence from growing. But in 1404
after the liberation of Siena they were once again able
to use the Talamone port and allow traffic to enter
Piombino and Motrone, lightening the “longa
manus”, the long hand of Genova on Pisa and Livorno
which through the Visconti did not allow any access
to the sea. The conquest of Pisa finally occurred in
those years which was the major objective of Florentine politics. The crusade to seize the city in 1406 represented a triumph of the Oligarchico party consisting of Maso delgi Albizzi, Gino Capponi, Rinaldo
Gianfigliazzi and Niccolò da Uzzano but the undertaking cost enormous financial resources that were
valued at around a million and a half Fiorini. The war
activity and the various agreements with foreign
politicians together with the necessity to absorb and
control the vast territory of Pisa and the surrounding
areas brought Florentine public debts to the gross
sum of beyond three million Fiorini, which meant
with interest, a cost to the Treasury of an amount
equalling about 200,000 Fiorini a year.
To complete the strategic map that would allow
effective development of the naval politics of the
Republic, once Pisa was taken, it was necessary to
resolve the problem of Livorno. This occasion presented itself in 1421 when Filippo Maria Visconti sent
threats to Genova; the Florentines since 1421 had on
offer a sum of 60,000 Fiorini for the Labronico sea
port and were finally able to close a deal with the
Genoans paying out 100,000 Fiorini. The purchase of
Livorno allowed the Florentines to equip themselves
with their own fleet of ships both for commercial and
military use and to increase naval relationships with
other Mediterranean nations. For this precise reason
a Naval Magistrates Consul was established with
offices both in Florence and Pisa. They controlled the
running of the dockyards and economic and commercial transactions penetrating the Florentine “galley
market”. April 1422 saw the inauguration of an
adorned galley on it’s first journey to the Orient that
was preceded by a solemn procession in the city of
Pisa. In July of the same year, along with the ambassadors of the “Signoria” of the Sultan’s court, Carlo di
Francesco Federighi and Felice di Michele Brancacci,
also the Proconsul of the Florentines in Levante,
Ugolino di Vieri Rondinelli boarded one of the ships.
Ceramics in the City of Merchants and “Civil
Humanity” – The Montelupo Production in Florence
What were the dynamics during the transition
between the ancient civilisation under the sign of a
Republic governed by the Arti, and Medici family
rule. We can only call this period an incarnation of
“civil humanity” with the development of arts and sciences and a better way of life, a seeming miracle that
equalled Pericle’s Athens and Caesar’s Rome, civil life.
It wasn’t by chance that this era saw the revolt
against gothic styles moving towards new artistic
expressions represented by man and his history, the
ideals of which we can see carved on the Baptistery
doors. This journey took off at a fast pace during the
first forty years of the XV, century moving towards a
new figurative expression and leaving behind Ghiberti’s gothic realizations, allowing space for
Brunelleschi’s classic expression and movement
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Tra l’ultimo quarto del Trecento e i primi trent’anni del secolo successivo, infatti, Firenze attraversò
forse il momento più delicato e decisivo della propria
storia, da cui ne uscì trasformata da città medievale,
che signoreggiava un limitato territorio, formato dal
proprio Contado – al quale aveva saputo assommare
sino allora Prato e Pistoia – a Dominante di uno stato
regionale. Questo cinquantennio cruciale ebbe come
presupposto storico la sconfitta dei Ciompi, grazie alla
quale fu possibile avviare la reazione politica contro le
istanze di allargamento della base sociale della città,
delle quali si erano fatti promotori i ceti del pre-proletariato urbano, in gran parte inquadrati nei più bassi ranghi degli addetti alla produzione tessile.
La restrizione del numero delle arti e della rappresentanza artigiana, iniziata nel gennaio del 1382,
rappresentò, in effetti, solo l’avvio di quella chiusura
oligarchica della vita politica fiorentina che avrebbe
condotto nel 1434, dopo una serie di drammatici rivolgimenti e di lotte interne al patriziato, alla “signoria di
fatto” di Cosimo de’ Medici. Anche l’espansione territoriale di Firenze, avviata di nuovo con la conquista di
Arezzo nel 1384, pur se condotta talvolta con titubanza,
non avrebbe trovato più tregua.
Le grandi famiglie della “nobiltà di denaro”, che
spesso avevano avuto un ruolo essenziale nel sostituire –
nella città e nel Contado – gli antichi rappresentanti
La ceramica nella città dei mercanti e dell’“Umanesimo
civile”: Montelupo “fabbrica” di Firenze.
Quali fossero le energie di Firenze, nella fase di trapasso
tra la sua storia “antica”, giocata sotto il segno della
Repubblica governata dalle Arti, al predominio – che
di fatto fu quasi una signoria – dei Medici, lo possiamo
constatare dalla straordinaria stagione del cosiddetto
“umanesimo civile”, che s’incarnò in una parallela fioritura delle arti e della scienza, ed ebbe come riferimento
privilegiato, in una Firenze che sembrava rinnovare il
miracolo dell’Atene di Pericle e della Roma dei Cesari, il
vivere civile.
Non per caso fu questa l’epoca che qui vide trascolorare il gotico verso una nuova espressione artistica,
saldamente rivolta alla rappresentazione dell’uomo e
della sua storia, come idealmente la troviamo tracciata
nella famosa vicenda delle porte del Battistero. Il percorso espressivo tracciato nei primi quarant’anni del XV
secolo da questa impresa, assurge infatti a paradigma
dell’evolvere della cultura fiorentina verso il nuovo linguaggio figurativo: essa muove dalle realizzazioni “gotiche” del Ghiberti, per approdare alla costruzione dello
spazio “classico” del Brunelleschi, che si libera dei con-
fini “decorativi”, per espandersi in un’inusitata profondità prospettica di paesaggi e ambientazioni, assimilando
dentro di sé lo spettatore, concepito ormai come parte
medesima della vicenda narrata.
Un’analisi attenta può facilmente scoprire nelle
realizzazioni pittoriche su smalto che si datano già
all’inizio degli anni Trenta del XV secolo la medesima
propensione al realismo che si avverte nelle “arti maggiori”, anche se è facile avvertire come una tale tendenza, ben indicata dalla soda volumetria delle figure, sia in
parte vanificata dall’assenza dell’ultima conquista: lo
spazio, appunto. Solo sul finire degli anni Settanta,
come vedremo, i pittori ceramisti matureranno appieno
la consapevolezza che il senso di realtà della percezione
può derivare sì dal realismo intrinseco alle loro raffigurazioni, ma non può prescindere dall’ambientazione
delle medesime in uno spazio che rispetti le elementari
regole della natura, quali la prospettiva e l’assenza negli
sfondi di segni ed elementi grafici astratti, dal mero
significato decorativo. Per giungere a tanto, i ceramisti
dovevano però abbandonare le fonti alle quali continuavano ad abbeverarsi, esemplando il loro lavoro sulla
maiolica proveniente dal Levante spagnolo: al disotto
dello stile gotico-mudejar di questi esemplari spuntava
infatti la grande tradizione decorativa (e non figurativa)
dell’Islam.
Le spinte per il superamento, anche nelle arti
decorative, di questo stato di fatto, però, non mancavano. Le molte eccellenze che la Città gigliata poteva vantare in quegli anni non passarono infatti senza segnare,
in una società che attribuiva un singolarissimo prestigio
agli artefici in grado di esprimere con le loro opere la
nuova tensione culturale, l’intero comparto delle arti
applicate e, con esso, anche quello della produzione
ceramica. E, si badi bene, questa fase di trasformazione
decisiva del modo di concepire la pittura su ceramica,
parte non secondaria di questo comparto, non si pone
semplicemente (si fa per dire) in parallelo con una tale,
radicale rivoluzione delle arti: essa, infatti, avviene in
una Firenze che totalmente si rinnova, modellandosi su
di un inedito progetto del “vivere civile”.
Non è tanto ai palazzi dell’aristocrazia cittadina –
un fenomeno che attraverserà gran parte del XV secolo,
e che prenderà l’avvio dalla costruzione della magione
medicea di via Larga (1444-62) – che occorre pensare,
quando si tratta del “vivere civile” fiorentino, ma piuttosto alle modificazioni del tessuto urbano, segnato da
nuove strade, piazze ed ospedali, in una città che è tutta
un cantiere d’opere pubbliche. Un’operazione come
quella che portò alla costruzione dell’ospedale degli
Innocenti (1419-45) e della piazza prospiciente all’Annunziata è, ad esempio, sintomo eloquente di un nuovo
modo di concepire l’azione della città nei confronti dell’assistenza e della salute dei cittadini. Mentre, infatti, i
secoli precedenti avevano assimilato l’ospedale a luogo
di rifugio per malati e bisognosi, adesso il pubblico
nosocomio si trasforma nell’avamposto più avanzato
contro la malattia, laddove, cioè, non si assiste passivamente al decorso del male, ma lo si combatte con strumenti sempre più adeguati. È altamente significativo
che la città impegni in questa operazione i suoi artisti
migliori, assottigliando così, come si diceva, in maniera
inusitata ogni barriera frapposta tra l’arte ed il vivere
civile.
Non per caso è allora che nascono in Firenze le
prime farmacie ospedaliere, pensate e progettate –
ovviamente secondo il sapere dell’epoca – per supportare la nuova missione curativa degli ospedali. Ma qui
l’esempio luminoso di Santa Maria Nuova, che rappresenterà per oltre un secolo il faro dell’organizzazione
sanitaria europea, si confonde significativamente con
l’opera di un ceramista, il baccheretano Giunta di Tugio,
che per molti aspetti può essere visto, tra i vasai, come
l’eroe di quest’epoca di cambiamento. I vasi farmaceutici “a zaffera” prodotti nella sua fornace di Firenze nel
1431 costituirono per la prima volta un complesso omogeneo, pensato in maniera ordinata e specifica per una
farmacia che si sarebbe sviluppata in maniera impressionante nel corso dei decenni successivi. Come gli scultori, i pittori e gli architetti davano a Firenze il primato
nelle “arti maggiori”, così Giunta fece per la spezieria
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beyond decorative confines, expansion in a profound
prospective of landscape and ambiance. A careful
analysis can easily uncover practical evidence that
pictorial designs on enamels became a major art that
were already used in 1530 and it was inevitable that
this would become the tendency. As we will see these
methods carried on right up until the 1970’s confirming that the potters together with their knowledge, background, sense of perception for reality and
respect for natural factors preferred to use decorative
designs rather than abstract graphics. Indeed they
abandoned the origins of their work, the gothicmudejar style of Islamic figures and modelled their
ideas on Majolica deriving from the Spanish Levante
developing the great tradition of a decorative style.
The excellence of their ceramics did not pass unnoticed and societal interest and demand encouraged
the potters to develop their skills and to express new
cultural trends. The entire area of the arts including
ceramic production was in a decisive phase of transformation and way of thinking. The scenes painted on
the ceramics depicted the new era in Florence modelling itself on an unedited project of “Civil Life”.
This phenomenon which lasted the most part
of the XV century saw not only the construction of
palaces for the wealthy aristocratic families but
urban modifications that became building sites of
public works such as the Medicea dwellings in Via
Larga (constructed between 1444 – 62), new roads,
squares and hospitals, including the hospital Degli
Innocenti (1419 – 45) and the square it overlooked,
all’Annunziata. These actions reflected new ways of
thinking, society understanding the need to assist and
take care of it’s citizens. During the previous century
hospitals were places for the sick and needy. Now
they were undergoing a transformation into places of
advanced research and prevention against illness. It
is greatly significant that the designers and craftsmen
involved in new constructions in this sector worked
unusually hard to refine their skills and reduce the
barriers that existed between the arts and civil life. It
was not by chance that the first Hospital pharmacy
was thought of and designed in Florence to assist
with curing the patients. Here we have the example
of Santa Maria Nuova which for over a century represented a European sanitary institution and which
displayed the significant work of the master potter,
Giunta di Tugio who became for other potters a hero
of this era of change. The pharmaceutical vases “a
zaffera” decorated with blue enamel produced in his
furnaces in Florence in 1431 constituted for the first
time a homogonous complex. It was an idea carefully
thought out specifically for the pharmacy and this
trend followed for the next 10 years. As the sculptors,
painters and architects made their contributions to
the major arts, likewise Giunta did the same for the
apothecary shops in the large public hospitals creating impressive “zaffera” paintings on the vases, the
first of their kind. The workers of Santa Maria Nuova
admired the talents and the ability of this artist who
was able to express the kind of new decorative ideas
that always enriched the city and on occasion wanted
to donate gold florins in appreciation of his work.
Thus not by chance an artist like Luca della Robbia
famous for inventing round raised enamel designs
seen for the first time in 1441 – 43, was employed to
decorate the shrine “di Peretola “ placed in the hospital near the vases that Giunta had made ten years
previously.
Art, science, philology and literary activities
conspired together in those years as civil life progressed, to mark the beginning of the Renaissance
period that as we know represented a closed circle of
learning and development of skills that left behind the
simple origins of everyday life. These advancements,
the artistic development of the city, were frankly surprising in a period that was touched by war, financial
difficulties and shortages of food and sanitary supplies, However, the innovative production of ceramics
in Montelupo and the evident change of style from
that of the Medieval period, couldn’t be ignored. This
little walled territory which developed from a castle
and it’s fortifications was built in 1204 by the Florentines in an ideal situation bordering Pistoia and after
the conquest of Pisa, Montelupo, found itself in a
dominant and important position. Increase in production transformed the small workshops into larger
businesses concentrating on exporting their finished
products via waterways, first from Porto Pisano and
then from Livorno which is still today the main port.
In fact the Florentines after conquering Pisa, which
already had a successful ceramics industry, did their
utmost to stop the latter trading, which they managed
to do and the Florentines in 1440 took over as the
main manufacturers of ceramics.
During the XV century there was a notable
increase in transport along the river Arno and
because of this the area around Ponte a Signa became
a central point of traffic thus increasing the number
of families working in river based activities. River
transport helped to reduce the costs of transporting
goods to the larger ports of Pisa and Livorno. Once
arrived, the Majolica ceramics from Montelupo were
stored until larger naval ships from the commercial
companies of different nationalities loaded the merchandise aboard to head via Sicily to the Oriental
ports of the Mediterranean. Between 1406 and 1422
Florence dominated this commercial market and the
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
di Michele Brancacci, salì sulle imbarcazioni anche il
“proconsolo de’ Fiorentini in Levante”, Ugolino di Vieri
Rondinelli.
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
della città, così marcato nel tessuto urbano e nelle realizzazioni artistiche delle quali si dota, abbia potuto
avviarsi in un periodo tutto sommato così difficile –
denso come fu di guerre, difficoltà finanziarie, crisi
annonarie e sanitarie – non può sfuggirci, nel “piccolo
mondo” rappresentato dalla produzione ceramica, l’evidente sintonia tra la rottura dei precedenti canoni produttivi “medievali” e lo sviluppo tumultuoso di Montelupo.
La crescita produttiva di questa piccola “terra
murata”, nata quasi per gemmazione dal castello creato
nel 1204 dai fiorentini per meglio munire i confini col
Pistoiese, poté infatti attuarsi proprio grazie al nuovo
indirizzo assunto dalla storia della sua Dominante; fu in
particolare la conquista di Pisa a porre Montelupo nelle
condizioni ideali per trasformare le proprie botteghe
ceramiche in imprese largamente indirizzate verso
l’esportazione extraregionale. Alla facilità con la quale
era adesso possibile trasportare il prodotto finito, sfruttando la via d’acqua, in Porto Pisano (e da qui a Livorno), si unì in quegli anni anche la feroce determinazione
dei fiorentini nel deprimere economicamente la città
conquistata: Pisa, che sino ad allora aveva conosciuto
una vivace attività ceramistica, interruppe infatti la produzione della maiolica, e fu costretta a gettarsi dopo
qualche tempo – nel 1440 circa – in nuova avventura,
che evidentemente non disturbava gli interessi “fiorenti-
ni”: la fabbricazione di ceramiche ingobbiate.
Il più facile accesso al mare non mancò di indurre nel corso del XV secolo una cospicua crescita del trasporto fluviale; fu così che nell’area del Medio Valdarno
e nella zona del Ponte a Signa, al cui scalo facevano
capo i traffici indirizzati nel Pistoiese, si moltiplicò il
numero delle famiglie dedite al mestiere del barcaiolo,
detto poi del “navicellaio”. Era facile per i ceramisti
montelupini e per le compagnie commerciali, che allora
iniziarono a formarsi tra vasai e mercanti, condurre la
loro merce in riva al fiume, ove la flottiglia delle “scafe”
– e successivamente dei “navicelli”- poteva facilmente
imbarcarla, trasportandola a costi assai ridotti sino ai
fondaci pisani e livornesi. Qui le maioliche montelupine
potevano sostare in attesa di essere nuovamente imbarcate come complemento del carico di navi di ogni bandiera: esse battevano l’antichissima rotta tirrenica che,
dai porti del Levante spagnolo, conduceva sino alla Sicilia e, da qui si spingeva sino all’Oriente mediterraneo.
Su questi traffici, del resto, Firenze era venuta ad affacciarsi prepotentemente tra il 1406 ed il 1422, e ad essi
l’oligarchia mercantile che ne dominava le sorti politiche
guardava con crescente interesse.
Soprattutto per questi aspetti fondamentali –
apertura degli scali marittimi, depressione della concorrente produzione pisana e successivo impiego del
capitale mercantile – può dirsi che Montelupo sia dive-
nuta rapidamente, nel corso della prima metà del Quattrocento, il centro di produzione privilegiato della Dominante. Con la generale ripresa economica della seconda
metà del XV secolo l’impiego dei capitali fiorentini nelle
imprese ceramiche montelupine viene ad emergere nella
stessa documentazione scritta, anche se le prime società
tra vasai, sintomo di un’evoluzione delle attività che
ormai supera il raggio d’azione della semplice bottega,
sono documentate nel centro valdarnese già nel 1410.
Il sistema che viene a stabilirsi in quegli anni è
alimentato in maniera continua da forme di committenza diretta alle fornaci valdarnesi, finalizzate al consumo familiare e, in più grande stile, ad alimentare il
commercio a distanza. Esso può contare su di un’organizzazione dei trasporti indipendente, gestita da gruppi
di “navicellai”, alla quale è facile accedere, e che serve
ad esitare il prodotto finito, ma anche a garantire un più
facile approvvigionamento dall’esterno delle materie
prime. La crescita esponenziale dell’attività ceramistica
in Montelupo non può che indurre all’inurbamento in
quella “terra murata” di alcune tra le più importanti
dinastie di ceramisti che operavano nei suoi dintorni,
ed in particolare di quelli attivi in Bacchereto, come i
Calabranci, spingendo verso un declino sempre più
accentuato il glorioso centro ceramico del Montalbano,
che verrà a cessare la propria attività nel corso del
secolo successivo.
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so called politicians looked on with increasing
interest. Fundamentally due to the opening of these
seaports and the decrease of ceramic production by
their competitors in Pisa, Montelupo became of
utmost importance in this field. One can say that
during the first half of the XV century Montelupo
became a predominant centre and contributed to the
revival of the economic situation in Florence in the
second half of the XV century. The success of Montelupo was documented in written evidence in 1410
where it was referred to as one of the top ceramic
industries that went beyond just simple pot making.
The market had moved on from producing simple
objects used in the home to engaging in a high level
of international export. This success was supported
by an independent transport network managed by a
small group of boatmen who without hesitation guaranteed the end product being supplied to the various
clients.
The main reason for growth was due to the
important dynasty of potters that had developed
within the walls of Montelupo and in particular those
in Bacchereto and Calabraria pushing into decline
the once glorious centre in Montalbano, which consequently saw its businesses close during the course
of the following century.
An insight into the business going on during
this period of Florentine commercial growth and the
ceramics industry of Montelupo can be read in a
notary’s deed of September 1490 between Francesco
Antinori and 23 potters from Montelupo, where Antinori undertook to buy for 3 years at agreed prices 3
different types of their entire collections. An enormity
that clearly tells us what direction the ceramics
industry was taking at the end of the XV century.
The transport systems also saw an impressive
expansion and not only towards the ports within the
Mediterranean basin, the exportation of Florentine
merchandise reached as far as North Europe and the
most important ports of this era in Holland and England. In fact at the end of the XVI century it emerged
that not only were these objects of great historical
value but at least 90% of all exportation went to ports
such as London, Southampton and Amsterdam. It
wasn’t by chance that in 1492 after the death of
Lorenzo Il Magnifico, a large personal collection of
ceramic vases, plates and dishes made in Montelupo
and other Majolica pieces that Francesco Antinori
had donated to him were recorded. In the middle of
the XV century, the beginning of the Renaissance
period saw the quality of ceramic production reach
it’s peak as the potters pushed on relentlessly perfecting their work.
From 1380 – 1440 The development and similarity of
a new language.
We have said that from 1380 a new idea evolved with
the decoration of “blue Majolica” using off white and
cobalt blue to which lead was added to increase the
pigment on the enamel surfaces and allow easier
application. The lead addition which has not yet been
mentioned was to correct the heavier tones of the
cobalt blue making a more turquoise colour like the
colour of the deep blue sea. The Montelupo “Zaffera”
and “Zaffera 3” decoration that gives a green-copper
effect for figures reflected the personality of some
very talented artists and became a style used that was
used in other forms of art like miniatures. The golden
era of international gothic painting on enamel
depicted an era of a tendency towards more formal
designs and a richness of images and it involved individual interpretations by the various artists as
opposed to standard designs as used in the past. This
new development did not completely abandon the
original ideas of Majolica – copper ceramics - but
introduced a new style “3 colours archaic majolica”
with a new orange or yellow pigment and a catalogue
of more formal figures. It was however the vase
painting on the so called “Damaschino” that was
most influenced by what was happening in the
Mediterranean basin thanks to the success of
Majolica in the Spanish Levante.
This type of cermanic however was not a
simple copy of the fortunate Iberian type and for this
reason was not as easy to copy so we prefer not to use
the XVIII century terminology “Italomoresca”; in fact
it is referred to as the “Hispano-Moresco” type.
Looking well enough though, “Damaschino” seems to
be very much influenced by the shiny metals of the
Orient, in particular from the Anatolian-Syrian area,
from which the syntactic structure of its decorations
seem to derive whilst from the Valenzian production,
besides some central figures, the surrounding motifs
were taken.
Flaunting the suggestions taken from the vast
Spanish repertoire, the “Damaschino” as named by
the potters that produced them, were built on a
formal structure with a wider and deeper “Islamic”
mould which could also be found in certain “Zaffera”
examples. The figures seemed to be deprived of space,
so much so that each one realized was closed by a line
that seemed to be pulling at it from close range
drawing the surrounding figures into its frame. Not
having their own environment, the figures lost
volume and seemed to be cut out in a flat manner on
the enamelled surface. The estranged effect was
accentuated by the background signs, spirals and
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
del grande ospedale cittadino, per la quale elaborò in
maniera straordinaria il linguaggio espressivo della “zaffera”, creando una dotazione vascolare mai vista prima.
Il fiorino d’oro che gli operai di Santa Maria Nuova,
ammirati di tanto splendore, vollero donare a Giunta,
sottolinea quanto fosse apprezzato l’ingegno artistico
capace di esprimere nuovi e più elevati contenuti estetici, in una realizzazione destinata ad arricchire la città.
Non per caso, dunque, un artista come Luca della
Robbia, lungi dall’aver inventato lo smalto stannifero –
come sostenevano, sulla scorta del Vasari, gli antichi
autori – verrà sviluppando da par suo la tecnica della
maiolica sulle figure a tutto tondo od in rilievo, cimentandosi in essa, per quanto ne sappiamo, la prima volta
nel 1441-43 col tabernacolo detto “di Peretola”, collocato proprio in santa Maria Nuova, non distante dai bei
vasi che il meno noto Giunta aveva fabbricato oltre dieci
anni innanzi.
Arte, scienza, ma anche filologia ed attività letteraria, cospirano, insomma, in quegli anni verso il progresso del vivere civile, costruendo le basi di quel Rinascimento che rappresentò, semmai, una sorta di progressivo rinchiudersi della ristretta cerchia dei dotti,
all’interno della quale le conquiste dello spirito vengono
man mano a perdere il loro originario significato collettivo e “civile”.
Se francamente stupisce che un tale sviluppo
Ricostruzione grafica del porto fluviale di Montelupo nella
seconda metà del XV secolo (disegno Ink-Link Firenze)
Graphic reconstruction of the fluvial port of Montelupo in
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
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MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
the second half of VX century ( Ink-Link, Firenze)
Ricostruzione ideale di un porto marittimo con l’arrivo delle
ceramiche di Montelupo nella seconda metà del XV secolo
(disegno Ink-Link Firenze)
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
La conclusione storica di questo processo di coinvolgimento del capitale mercantile fiorentino nelle
imprese ceramiche di Montelupo la si può leggere infine
nell’atto notarile stipulato nel settembre del 1490 tra
Francesco Antinori e ben 23 maestri vasai montelupini.
Con esso l’Antinori si impegnava ad acquistare per tre
anni, a prezzi concordati per tre tipologie distinte, l’intera produzione ceramica di coloro i quali erano intervenuti al rogito e dei loro congiunti: un’enormità che bene
chiarisce quali siano stati, sul finire del XV secolo, i
canali di diffusione della maiolica montelupina. Ai vettori mercantili fiorentini, dunque, si deve l’impressionante espandersi della produzione di Montelupo nell’intero
bacino del Mediterraneo e lungo le rotte atlantiche che
toccavano i più importanti scali dell’epoca: non per caso
nel Nord Europa – ed in particolare nell’Inghilterra
meridionale ed in Olanda – l’importazione della ceramica dall’Italia significò, sino alla fine del XVI secolo, prodotti montelupini, i quali emergono dai contesti archeologici di città come Londra, Southampton ed Amsterdam in una proporzione che oltrepassa il 90% del totale.
Non per caso, dunque, nel 1492, dopo la morte di
Lorenzo il Magnifico, vennero censite dalla sua Guarda-
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ceramics of Montelupo in the second half of XV century (InkLink, Firenze)
dots which were so close to the figure they seemed to
be touching it, pulling it nearer. An account exists of
this method using a single artistic language based on
cultural rules with religious references. In the Islamic
world designs had a very decorative profile without
any naturalistic elements. Christianity couldn’t do
without them and art had a very classic style.
Searching for aesthetic sensitivity and not figurative,
the potters working on the Eastern mediterranean
could assimilate their subjects, even those with realistic traits, into the category of decoration, placing
them next to graphic signs or abstract elements of
symbolic Valenza. To the oriental artist it did not
seem unnatural to depict the image of a human with
a series of circles inside. Not only the artist but also
the buyer of this art realised the importance of this
representation of design and in fact these circles were
named the “eye of Allah” and that every man worthy
of this name knew that everything created was full of
God so God was in everything and animates every
portion of the world: this was the most important
message that art could transmit and it had to do so
even if it infringed the natural rules of representation.
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
Graphic reconstruction of a sea port with the arrival of the
Dal 1380 al 1440: l’assimilazione e lo sviluppo di un
nuovo linguaggio
Abbiamo detto che sin dal 1380 circa, procedendo
ancora nella direzione innovativa già avviata con la
“maiolica arcaica blu”, si era iniziato a decorare la
maiolica – sempre più ottenuta da bistugio biancastro
– con il blu di cobalto, al quale veniva aggiunto piombo
per facilitare l’accrescimento del pigmento sulla superficie smaltata. L’aggiunta di piombo, come abbiamo
poc’anzi accennato, serviva anche a correggere i toni
troppo cupi del cobalto, portandolo ad assumere tonalità di un turchino intenso, che ricordano quelle del
mare profondo.
Nella produzione montelupina a “zaffera” e,
soprattutto, a “zaffera tricolore” – versione che mantiene ancora la campitura in verde-ramina per le parti
figurate – emerge con chiarezza la personalità di alcuni
pittori di grande talento, la cui cultura figurativa mostra
un’evidente contiguità con artefici che si esercitano in
altri settori artistici, ed in particolare nella miniatura.
Nel periodo d’oro del “gotico internazionale” anche la
pittura su smalto, del resto, non può che mostrare una
tendenza alla ricchezza dell’immagine, ed una conseguente propensione ad introdurre complicazioni formali in un repertorio che non è ancora standardizzato,
e che perciò dipende per molti aspetti dalla sensibilità
e dalle invenzioni dei singoli.
Il prepotente emergere di queste novità non
determinò però il completo abbandono della pittura in
ramina e manganese che aveva accompagnato la
nascita e la diffusione della maiolica in Italia: essa fu
piuttosto “aggiornata” nel genere detto “maiolica
arcaica tricolore”, introducendo in essa un nuovo pigmento (l’arancio od il giallo) e, nei migliori esemplari,
un repertorio figurativo nel quale confluirono gran
parte delle novità formali dell’epoca.
È però con il cosiddetto “damaschino” che la pittura vascolare dell’area fiorentina si rapporta direttamente alle novità che vanno diffondendosi nel bacino
del Mediterraneo, grazie alla grande fortuna commerciale che arride alla maiolica del Levante spagnolo.
Questo genere ceramico, però, non si riduce ad una
pedissequa imitazione delle più fortunate tipologie iberiche, ed è per questo che, ai fini di una sua sintetica
designazione, preferiamo non utilizzare il termine otto-
centesco di “italo-moresca”: in tal modo, infatti, si verrebbe a suggerire che esso sia sostanzialmente consistito nella versione italiana della maiolica di tipo
“hispano-moresco”. A ben vedere, però, il “damaschino”
mostra una forte assimilazione delle suggestioni veicolate in Occidente dai grandi lustri metallici orientali –
in particolare di quelli provenienti dall’area anatolicosiriana – dai quali in effetti deriva l’ossatura “sintattica”
della decorazione, mentre trae dalla produzione valenciana, oltre ad alcune tipologie di figurazioni centrali
(ad es. le lettere gotiche), soprattutto i motivi di contorno.
Pur sfoggiando le suggestioni tratte dal vasto
repertorio spagnolo, il “damaschino”, come lo chiamavano i ceramisti, è dunque costruito su di una struttura
formale di più larga e profonda matrice “islamica”, che
non a caso si ritrova anche in certe “zaffere” coeve. In
esso trova applicazione il concetto di una pittura priva
di spazio, tanto che ogni figura realizzata, lungi dal
poter campeggiare in un inquadramento di tipo naturalistico, viene serrata da una linea che la stringe da
vicino, e ne ripassa così dall’esterno il contorno. Prive
Nella pagina a fianco, carta geografica con i luoghi d’esportazione
delle ceramiche di Montelupo nell’Europa preindustriale (disegno
Ink-Link Firenze)
di una propria ambientazione, queste figure perdono di
volume, e sembrano piattamente ritagliate sulla superficie smaltata. L’effetto di straniamento che tutto ciò
determina viene poi accentuato dal tappeto di segni
(spirali, puntinature) che, collocati attorno alle figurazioni medesime, sin quasi a toccarle, le stringono da
vicino; qualche piccolo spazio, inoltre, si apre per ospitare singolari cerchietti, i quali vengono sì disseminati
nei contorni, ma trovano posto persino nel corpo delle
figurazioni principali.
Una lettura appena scaltrita di questo singolare
linguaggio pittorico ci riconduce facilmente ai canoni
culturali, densi di riferimenti religiosi, dell’Islam. Nel
mondo islamico, infatti, si preferisce concepire la figura
sotto il profilo decorativo, senza ricercare in essa quell’effetto di rappresentazione naturalistica, che invece il
Cristianesimo non poté far a meno di assimilare dall’arte classica. Sulla scia di una sensibilità estetica
sostanzialmente non figurativa, i vasai che operavano
nell’Oriente mediterraneo potevano così assimilare i
loro soggetti, anche quelli caratterizzati da uno spiccato
realismo, nella categoria della decorazione, accostandoli facilmente a segni grafici o ad elementi astratti
dalla mera valenza simbolica. Al pittore orientale non
sembrava perciò innaturale aprire il corpo di una figura
umana per realizzare al suo interno una serie di cerchietti “a risparmio”: questo, infatti – sia a lui che agli
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Facing page, geographical map of the export areas of the ceramics
of Montelupo in the pre industrial Europe (Ink-Link, Firenze)
Artists who worked in Christian Europe, even those
animated by religious fervour or even pantheistic
concepts would never have negated the importance of
space in the favour of abstract decorations or calligraphy. They were even less inclined to negate the
formal integrity of a figure with the aim of producing
religious symbols.
It was the Spanish production between 1350 –
1400 that influenced the Italian potters, especially
those from the Tirrenian area. Note however that the
formal syntax characterised by a figurative space
closed in by a lined frame became marginal. As we
have mentioned this design was a decisive feature in
Mesopotamian, Syrian and Egyptian products,
already in production in the XI century. Not by
chance the symbolic “eye of Allah” was found in
Majolica products made in central Italy, near Siena
and Orvieto in the 12 – 1300’s.
We can conclude that the real invasion of Hispanic highly polished enamel was already a prominent feature and of great interest to manufacturers
and testimony to this method were the Florentine
families’ coats of arms during the XV century. It
became a huge phenomenon and imitation of shape
and decoration increased production especially for
products in the pharmacies, for example the Tuscan
tree of life designed onto wares characterised by short
sides and a long neck that was later abandoned
during the XVII century. Besides articles used for
tableware, the Florentine potters introduced in large
quantities a bowl with a lip opening internally and
made similar designs for the filogica profession with
a highly polished exterior similar to the Valenzana
dish.
On a larger scale they produced all different
types of wares from complicated designs such as the
tree of life to gothic letters “od in cufico” with a decorative border of either parsley, ivy or vine leaves.
The success of this Spanish decoration on
ceramics produced in Tuscany, especially in Florence
began around 1360 and reached a peak at the beginning of the XV century and it also included the
Islamic antique decorative style and this artistic phenomenon developed by our potters was of fundamental importance in the development and history of
Italian Majolica. The use of the surrounding space
around the main figure and other Iberian prototypes
that imitated the antique highly polished style of the
southern Mediterranean pushed our potters to adopt
these methods rather than the original archaic
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
roba rinfrescatoi, alberelli, piattelli e scodelle “di terra
lavorata a Montelupo, bela” ed altre maioliche “donò
Francesco Antinori per la caccia”. Dopo che in Firenze e
nel suo territorio la produzione della maiolica aveva già
raggiunto, verso la metà del XV secolo, un eccellente
grado di qualità, spettò dunque agli artefici valdarnesi
spingerla ancora avanti, sino a tagliare il traguardo del
Rinascimento.
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
poc’anzi accennato, è piuttosto nei lustri mesopotamici,
siriani od egiziani prodotti già in epoca assai più antica
(dall’XI secolo), che la struttura formale della “figura
contornata” trova la sua più ampia e coerente esemplificazione. Non per caso, del resto, la simbologia dell’occhio di Allah ha riscontri anche nelle maioliche arcaiche
prodotte nell’Italia centro-settentrionale e centrale
(Siena, Orvieto) tra Due e Trecento.
Da tutto ciò dobbiamo dedurre come la vera e
propria invasione dei lustri ispanici – è ormai cospicuo
il numero dei manufatti che, mostrando stemmi di
famiglie fiorentine, testimoniano di ordinazioni dirette
– la quale interessa soprattutto il mercato toscano,
susciti nel corso del XV secolo un vasto fenomeno d’imitazione di forme e decorazioni.
Nella produzione destinata alle spezierie, ad
esempio, l’alberello toscano si distingue per assumere
assai precocemente (inizi XV secolo) una morfologia
spagnoleggiante, caratterizzata da pareti decisamente
carenate e da colletti sensibilmente allungati, che verrà
abbandonata soltanto nel XVII secolo. Tra le morfe
destinate alla mensa, inoltre, i vasai fiorentini introdurranno – producendone in straordinaria quantità – un
caratteristico scodellino con il bordo della parete
tagliato a confluire verso l’interno, realizzando così una
copia filologica nella citazione degli inserti “a lustro”
collocati sull’esterno di una coeva ciotola valenzana.
Ancor più vasto è ovviamente il repertorio dei
motivi decorativi iberici ai quali i vasai fiorentini si
accostano, traendone senza ritegno suggestioni di ogni
tipo: dai soggetti complessi, quali l’albero della vita, alle
lettere in gotico od in cufico, assimilate a decorazione,
per non parlare ovviamente del vasto repertorio dei contorni “a foglia di prezzemolo”, d’edera o di vite stilizzate.
Il trionfo che il lustro spagnolo realizza in Toscana – ed in particolare nell’area fiorentina – ad iniziare
dal 1360 circa – e che diverrà assoluto all’inizio del XV
secolo – porterà però con sé anche la moda dello spazio
“decorativo” di antica tradizione islamica. Il fenomeno
della nuova sensibilità pittorica sviluppata dai ceramisti
nostrani è di fondamentale importanza per comprendere un capitolo centrale nella storia della maiolica italiana: oltre all’inserimento nello “spazio contornato”, la
frequentazione dei prototipi iberici (e, con essi, la ripresa “archeologica” dell’imitazione dei più antichi lustri
mediterranei) alimenta nei vasai nostrani una visione
schiettamente decorativa, che li spinge verso un horror
vacui assai più marcato di quanto attestato nella maiolica arcaica. Il linguaggio della pittura in ramina e manganese, col suo naturalismo fantastico, si fa così improv-
Alberello di Montelupo con decoro “pseudocufico” (1440-60)
99
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Majolica. The use of copper and manganese with its
fantastic naturalistic effect was no longer wanted.
The representation of figures which were then
repeated all over the outside of the jugs and inside the
bowls was a refreshing change to the spirals, flowers
and leaves and gave a sense of balance and a geometric element giving a more homogeneous form.
For the potters of Montelupo and the west, this style
was not always suitable but they remained more than
impressed by the Spanish Majolica, the new gold that
arrived from the west but tended to avoid making un
original copies so much so that, over a period of time,
they left behind altogether standard formats and went
on to abandon the over decoration that had influenced more than a generation of painters leading to
what would become known as the Renaissance style
From 1440 to 1520: The Renaissance period and the
height of enamel production in Montelupo
During the first phase of “Damaschino” (1400-1440)
the Montelupo production together with the manufacture of Majolica in Pesaro and Faenza, used a rigorous monochromatic shade of light blue where the
blue cobalt when diluted seemed to be shelled under
the painter’s brushes to permit the white cover film to
show through. Even though there was a strong
Islamic decorative art influence, the artists who were
dedicated to “Damaschino” did not renounce their
style, putting not only figures but all types of imaginative images including those depicting human life.
They also passed over the shaded areas several times
creating more volume, something in contrast to the
styles lacking spaces and naturalistic backgrounds.
Just before the second half of the century the
colours were enriched with a pale green copper and
lemony yellow manganese called “Tavolozza Fredda”
by Ballardini and mixed together with the blue cobalt
producing at that time a singular indefinite border
effect. Painting on enamel took on an international
gothic look and artefacts were decorated with horses,
falcons, richly dressed gentry exchanging romantic
gestures in parks and virtual symbolism that became
a famous refined design for packs of playing cards.
In the 1470’s “Damaschino” went through a
moment of crisis which announced the next advance.
Figures expressed an extreme realism and found a
new superior equilibrium adding value to the pieces.
These figures stood out on the front of the vases or in
the centre of the open forms, and were separated by
an artificial form – often a stylish garland that
seemed almost as an accessory. The hierarchy established a new syntax of decoration, opening new horizons for research by the Italian potters. From one
side there was a main figure with a principle subject
Montelupo spice holder with “pseudocufico” decor (1440-60)
which was developed towards the middle of the
1400’s and from another side there was the use of
more decorative borders and frames surrounding the
main subject with an emphasis on time. This became
a standard type. The Montelupo and Florentine potters went on to assimilate the idea that not only the
figure but also the surrounding space contributed to
the realism of the pictorial expression. If the influence of the Spanish Moresca didn’t cease to feed their
imagination, even up to the Xv century, it was only in
the case of singular decorative elements (a leaf of ivy
or parsley) which were sometimes used by local producers but not in the more formal styles like the
“Damaschino” of the Renaissance period.
With the 1480’s the Majolica was developed
using this new expression which was presented as a
mature conquest of artistic realism and the polychrome process that followed continued for the next
20 year period. Between 1480 and 1510, Montelupo
under the influence of commercial growth, reached
it’s maximum height of ceramic productivity. This
included a production using the method with “three
fires”, characterised by a red pigment that hadn’t
existed before. The raised deep blood red shiny lac-
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
visamente desueto. Le rappresentazioni figurative che
trovavano sfogo sul corpo dei boccali e nei fondi di ciotole e rinfrescatoi, bilanciandosi nel geometrismo elementare, ma comunque rigoroso, delle inquartature,
vengono ora abbandonate, e lasciano posto ad un infinito iterare di segni spiralati, di arabeschi, di minuscoli
richiami a foglie e fiori che si distendono come un tappeto dai nodi infiniti attorno a figure che appaiono ritagliate sullo sfondo, e mostrano, come si diceva, un valore formale omogeneo a quello dei contorni.
Ma tutto ciò non era perfettamente confacente
alla sensibilità del ceramista montelupino (ed occidentale in genere): egli restava sì abbagliato dallo splendore
delle maioliche di Spagna, da questo nuovo oro che
veniva d’Occidente, ma tendeva a discostarsi dalla loro
pedissequa imitazione quel tanto che, col trascorrere
del tempo, l’avrebbe poi portato a superarne il magistero formale. La strada che occorrerà percorrere per
abbandonare quella lezione estetica iperdecorativa,
penetrata così profondamente nelle coscienze di più
d’una generazione di pittori, con nuovi canoni della rappresentazione realistica, sarà sostanzialmente quella
che condurrà all’affermazione dello stile rinascimentale.
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
acquirenti del suo lavoro – ricordava un’idea importante, la quale poteva benissimo essere rappresentata,
senza far precipitare l’equilibrio formale della pittura.
Il cerchietto richiamava infatti l’ “occhio di Allah”, ed
ogni uomo degno di questo nome sapeva che tutto il
creato era pieno di Dio, poiché la Divinità sta in tutte le
cose ed anima ogni porzione del mondo: questo, anzi,
era il concetto più importante che l’arte poteva trasmettere, ed essa doveva perciò farlo anche a costo di infrangere il canone naturalistico della rappresentazione, che,
d’altra parte, in quelle latitudini non era avvertito come
valore fondante. L’artista che operava nell’Europa cristiana, per quanto animato da un genuino fervore religioso o, addirittura, da concezioni panteistiche, mai si
sarebbe spinto di sua iniziativa – non rifacendosi ad un
modello da imitare – a negare l’importanza dello spazio
per piegarlo verso forme di decorazione astratta e calligrafica, ed ancor meno avrebbe inteso negare l’integrità formale di una figura, per crivellarla con una qualsivoglia simbologia religiosa.
Se ci volgiamo alla produzione spagnola databile
al periodo 1350-1400, che direttamente influenza i vasai
italiani – ed in particolare quelli che operano nei centri
dell’area tirrenica – notiamo però come la sintassi formale caratterizzata dallo spazio figurativo racchiuso
entro la linea di contorno abbia in realtà rivestito in
essa un ruolo decisamente marginale. Come abbiamo
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
e gli artefici si spingono così a rappresentare cavalli e
falconieri riccamente abbigliati, giovani signori che si
scambiano effusioni amorose nei giardini di delizia, e
dotte simbologie di virtù, rese popolari dalle raffinate
carte da gioco dell’epoca.
Negli anni Settanta il “damaschino” va però
incontro ad un momento di crisi che ne annunzia l’ormai prossimo superamento. Le figure, infatti, si fanno
d’un estremo realismo, e la rappresentazione trova finalmente un nuovo, superiore equilibrio, mediante l’attribuzione di valori e funzioni chiaramente differenziate ai
diversi soggetti che si realizzano. Le figure (ma anche gli
stemmi, e gli elementi simbolici) campeggiano ora nella
faccia a vista dei boccali od al centro delle forme vascolari aperte, e sono separati mediante un artificio formale – spesso una ghirlanda stilizzata – dalle parti
accessorie. La gerarchia che, stabilendo una nuova sintassi decorativa, va così affermandosi, dischiuderà nuovi
orizzonti alla ricerca formale dei ceramisti italiani: mentre da un lato si svilupperà conseguentemente la tendenza alla rappresentazione pittorica e realistica dei soggetti principali, già in via d’incipiente affermazione verso la
metà del Quattrocento, dall’altro si cercheranno motivi
di contorno sempre più adeguati ad “incorniciare” queste parti figurate, procedendo nel contempo alla loro
sempre più accentuata standardizzazione tipologica.
Varcando questo traguardo, dunque, i ceramisti
montelupini (e “fiorentini” in genere) assimileranno
l’idea che non soltanto la figura, ma anche lo spazio
contribuisce al realismo dell’espressione pittorica. Se,
dunque, l’influenza della Spagna moresca non cessa di
alimentare la loro fantasia neppure alla fine del XV
secolo, essa ormai riguarda l’assimilazione di singoli
decori (la foglia d’edera, quella del prezzemolo), che
saranno riprodotti a lungo dai pittori nostrani, ma non
più all’interno di un linguaggio formale (quello del
“damaschino”) definitivamente superato dalla diffusione
della nuova sintassi decorativa rinascimentale.
È con gli anni Ottanta del Quattrocento che la
maiolica sviluppa definitivamente questo nuovo linguaggio, il quale si presenta come la conquista più
matura del realismo pittorico e della policromia che
verrà affinandosi in maniera straordinaria nel corso
del successivo ventennio: fu d’altronde tra il 1480 ed il
1510 che Montelupo, sotto la spinta del capitale mercantile fiorentino, toccò il vertice massimo della sua
attività ceramistica, esprimendo anche una produzione “a terzo fuoco” caratterizzata da un pigmento rosso
che non ha eguali – ove si eccettui la fornace di Cafaggiolo, avviata, come si sa, da montelupini – in Italia. Si
tratta con ogni probabilità di un colore ottenuto attraverso l’impiego della medesima materia prima che
consentiva ai vasai di Iznik (l’antica Nicea, in Turchia)
di realizzare campiture di un rosso a rilievo, laccato e
sanguigno, dalla straordinaria brillantezza.
Furono probabilmente le stesse compagnie fiorentine che da qualche tempo si erano volte alla commercializzazione delle maioliche montelupine a far
affluire piccole quantità – essa veniva impiegata infatti
soltanto in ripassi, lumeggiature e porzioni di stemmi –
di questa preziosa materia prima alle fornaci valdarnesi.
Il ruolo di traino economico e tecnologico del capitale
mercantile nelle imprese ceramiche montelupine trova
del resto conferma anche nella vicenda del lustro metallico. Dionigi Marmi, copiando nel 1637-39 alcuni manoscritti quattrocenteschi del luogo, riportò infatti anche la
nota, apposta ad una “ricetta” per la fabbricazione del
lustro, che essa era stata inviata “proprio di là (cioè da
Maiorca, id est dalla Spagna) da un ricco mercante fiorentino”. Sappiamo, del resto, grazie ai ritrovamenti
effettuati nel cosiddetto “pozzo dei lavatoi”, che già negli
anni Settanta del XV secolo a Montelupo si fabbricavano maioliche a terzo fuoco con decori “a lustro” simili a
quelli spagnoli. È evidente, però, che i montelupini,
impegnati allora a far sbocciare una produzione policroma di grande riconoscibilità, alla quale stavano arridendo straordinarie fortune commerciali, non avevano
alcun interesse a tentare un confronto strategico su di
un terreno ben conosciuto dai “rivali” iberici.
Ciò non toglie che il capitale mercantile avesse
assunto in quegli anni il controllo di fatto della produ-
101
100
quer was created in the furnaces of Caffaggiolo by the
Montelupo potters using first class quality materials
from the Iznick in Nicea in the antique part of Turkey.
It was probably the same Florentine businesses
that for some time had dealt with the commercialisation of Montelupo Majolica that allowed an abundance of these products to appear on the market. This
precious metal was mainly used for lighting and parts
of coats of arms and it was supplied by the furnaces
of the Valdarno area. This highly polished technique
played a key role in the control of the economical
development of the ceramic industries in Florence.
Between 1637 and 1639 Dionigi Marmi whilst
copying some XV century manuscripts came across a
method for making this high polished technique that
was originally brought over from Majorca (the island
east of Spain) by a wealthy Florentine merchant. For
the rest we know due to excavations made in the so
called “washing wells” that during the 1470’s Montelupo had already produced Majolica with the “three
fires” method that had a highly polished enamel
finish similar to the Spanish type. It is evident though
that the people from Montelupo worked hard to
create a recognisable polychrome production from
which they could achieve considerable commercial
success and had no intention of invading the territory
of their Iberian rivals.
This did not detract from the fact that merchant capital had control over local production and
one only needs to reflect on the contents of the Notary
Act “ The Antinori Trust”. This document drawn up in
September 1490 by notary Carlo Becossi states that
23 Montelupo potters had declared to work exclusively for Francesco Antinori for three years who in
return had to buy all of the three types of ceramics
produces by them (“General”, “Damaschino” and
“Vantaggino”) and pay according to their quality.
Again in the Capitoli dell’Arte degli Orciolai, dictated
in Montelupo in 1510, there is reference to much
invective against the merchants who exploit to the
point of hunger the poor potters, paying very little for
the products made and selling at a high price the raw
materials.
In the period 1480 – 1490 the decorative
Spanish type with highly polished finish, decorated
with parsley and vine leaves became the major production for the potters from Valdarno and over the
next 10 years the Montelupo potters quickly developed different types of decoration that characterised
the next trend for the duration of the Renaissance era.
This involved using larger and thicker highly polished
Iberian Majolica and decorations such as bunches of
flowers; the eye of the peacock feather or the Persian
palm which Montelupo divided with other centres
working with Majolica as the twisted cord and other
designs. These personal touches were designed to
bring in more money.
Above all in the large family of highly decorated
imitation of porcelain, the Montelupo potters gave
better results during the first 20 years of the XVI century. Evidence of copies of oriental pieces reproducing large poppy arrangements in monochrome
blue from China and oriental knots with highlighted
and chiselled features were commissioned by Florentines.
These pieces were closer to the splendid Iznick
Majolica, assimilating the Nicena production of
blood red pigment that when heated turned into a
shiny red lacquer. In this period the activity of
Lorenzo di Piero Sartori’s shop specialised in products with the “Lo” label. The widespread success of
commercial development of the Valdarno Majolica
during these years allowed potters from Montelupo
and immigrants from other areas like Faenza to open
studios in Florence. Amongst these was Girolamo
Mengari who, as was documented in 1523, was the
first potter from Romagna to move to Tuscany. He
introduced new ideas and dedicated himself in particular to “istoriato”, new types of coloured enamel
known as hope and kindness that were already in use
in Romagna.
Montelupo, Centre of National Production but without
merchant capital
Between 1390 and 1520 when Montelupo was in the
forefront of the Italian Majolica market, there were
early signs of a strong move towards new and more
formal technology. It was a difficult period for Tuscany especially from an anachronistic aspect with
aggressive attempts to restore peace in the Republic
and the rise of Ducato di Cosimo1 remembered as
“Pater Patriae”. It must be stated that during the year
1538 a group of Spanish people unhappy with payments received, descended on Valdarno and actively
took control of and pillaged the centre of Montelupo,
leaving a certain amount of damage and disconcertion amongst it’s inhabitants.
It wasn’t for any particular trauma or cause
that the Montelupo potters had experienced traumatic loss and production difficulties, but due to a
progressive decline in Florentine commercial activity
on an international front that had dramatically
changed compared to fifty years previously when the
potters had dominated the Mediterranean ceramic
market and other markets along the Atlantic coast. A
lack of support and heavy exploitation of the producers, an excessive increase in the population and
new types of business activities added to this decline.
At the same time the Italian ceramic market
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Dal 1440 al 1520: Il Rinascimento e l’apice della
produzione smaltata montelupina.
Nella sua prima fase (1400-40) il “damaschino” mostra
in Montelupo e negli altri centri di fabbrica italiani della
maiolica (Pesaro, Faenza) una rigorosa monocromia
azzurra, nella quale il blu di cobalto in diluizione sembra come sgranarsi sotto il pennello dei pittori, per far
trasparire nelle campiture il bianco dello smalto stannifero. Nonostante rappresenti il culmine dell’influenza
dello stile decorativo di matrice islamica, in questa fase
i pittori che si dedicano al “damaschino” non rinunciano a porre al centro delle loro rappresentazioni figure di
ogni tipo (fitomorfe, zoomorfe), non dimenticando neppure quella umana. Essi, inoltre, ripassano più volte le
parti ombreggiate dei loro soggetti, i quali vengono così
ad assumere una soda volumetria, che apertamente contrasta con la sintassi “decorativa”, priva di spazi e di
sfondi naturalistici, dell’insieme.
Poco prima della metà del secolo, però, il cromatismo dei nostri pittori si arricchisce di un verde-ramina
pallido, di un manganese dai toni violacei e di un caratteristico giallo citrino. L’insieme, definito appropriatamente dal Ballardini tavolozza fredda, si fonde col classico azzurro cobalto, producendo talvolta, per il predominare di una singolare indefinitezza dei contorni, l’effetto
di una visione notturna. Nella pittura su smalto entrano
ora prepotentemente i temi cari al gotico internazionale,
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
– che Montelupo condivide con altri centri italiani della
maiolica, magari – come i “nastri intrecciati” – utilizzandoli su scala ancor più massiccia, ma anche di suggestioni, come gli “ovali e rombi”, ricavate elaborando
personalmente il grande canovaccio della maiolica iberica a lustro metallico.
È soprattutto nell’ampia famiglia decorativa dell’imitazione della porcellana, però, che i pittori montelupini mostrano di dare il meglio di sé nel corso del primo
ventennio del XVI secolo. Essi, infatti, per evidente commissione diretta degli acquirenti fiorentini, si lanciano
nella copia dal vero dei prototipi orientali, riproducendo
i grandi fiorami di papavero in monocromia blu della
Cina, ed i nodi orientali intrecciati e lumeggiati mediante graffitura; si accostano inoltre alle fastose maioliche
di Iznik, assimilando dalla produzione nicena lo straordinario pigmento che al fuoco si trasforma in un rosso
sanguigno e laccato, apposto talvolta dai vasai nostrani
in terza cottura. Importante è in questo periodo l’attività della bottega di Lorenzo di Piero Sartori, che marca i
suoi prodotti mediante la sigla “Lo”.
La grande diffusione commerciale raggiunta dalle
maioliche valdarnesi in quegli anni non manca di attirare nella “terra murata” di Montelupo vasai forestieri,
che qui giungono in cerca di lavoro, ponendosi spesso a
bottega con ceramisti del luogo. Tra questi immigrati vi
sono alcuni faentini, e tra essi è da segnalare in partico-
lare Girolamo Mengari, documentato nel 1523; egli fu il
primo dei ceramisti romagnoli a risiedere nel centro
toscano, introducendovi importanti novità e dedicandosi in particolare all’istoriato ed a quelle nuove tipologie a smalto colorato, dette “vaghezze e gentilezze”, che
avevano già trovato diffusione in terra di Romagna.
Montelupo, centro di produzione “nazionale”, ma privo
del capitale mercantile.
Segnali di un precoce appannarsi di quella spinta poderosa al rinnovamento tecnologico e formale che aveva
posto l’esperienza montelupina, tra il 1380 ed il 1520
circa, all’avanguardia della maiolica italiana si avvertirono però già nel terzo decennio del Cinquecento. Fu quello un periodo difficile per la Toscana, stante soprattutto
il cruento pasaggio dagli ultimi – e per molti aspetti,
anacronistici – tentativi di ripristinare la Repubblica, e
l’ascesa al Ducato di Cosimo I, destinato inaspettatamente ad essere ricordato come “pater Patriae”. Occorre dire che nell’anno 1538, per diretta conseguenza degli
avvenimenti fiorentini, una banda di spagnoli, scontenta del soldo ricevuto, pensò bene di scendere il Valdarno, sino ad occupare militarmente e saccheggiare la
stessa Montelupo, con non poco danno e sconcerto degli
attoniti abitanti.
Non è tuttavia per cause particolari o traumatiche
che i ceramisti della “terra murata” valdarnese andarono
incontro ad un primo momento di smarrimento e di
difficoltà produttiva. Fu piuttosto il progressivo defilarsi del capitale fiorentino, in un contesto internazionale
ormai profondamente mutato rispetto a quello di cinquant’anni prima, a far mancare quell’appoggio che,
pur fondandosi su di un pesante sfruttamento dei produttori, aveva consentito alle ceramiche montelupine
di dominare in lungo e largo i mercati mediterranei e le
stesse esportazioni fittili realizzate lungo le rotte commerciali atlantiche. L’eccessivo incremento della popolazione ed il nuovo orientamento degli scambi commerciali preparavano ormai il lento declino economico della
Penisola: nello stesso tempo il mercato italiano della
ceramica si arricchiva di nuovi soggetti – si pensi a
Faenza, Urbino, Deruta, Venezia – in grado non soltanto
di produrre maioliche di qualità, ma di affermare nuovi
generi decorativi.
Montelupo, come gli altri centri di produzione,
guarda ora con particolare interesse a quanto si diffonde
in Italia, ma non trova più la forza di approdare a nuove
ed originali creazioni formali. Ben poche, in effetti, sono
le tipologie che corrispondono a criteri di originalità in
grado di diffondersi, tra il 1530 ed il 1590 circa, nel
centro valdarnese; le più importanti tra queste, inoltre,
mostrano di affondare le proprie radici in generi locali
già accreditati in passato (ad es., le “spirali arancio”,
provengono dall’ “imitazione del lustro metallico”), o
103
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was being enriched with new ideas, in fact in Faenza,
Urbino, Deruta and Venezia they were producing
good quality Majolica and new styles of decoration.
Montelupo as with other production centres
looked on with particular interest at the new developments of more formal and original designs but didn’t
have the strength to participate. The pieces produced
between 1530 and 1590 in the centre of Valdarno
showed in effect that they were based on an original
design of the imitation of the highly polished metal
finish, and one design in particular had already been
an important discovery, “ the orange spiral”. Other
decorative features taken from oriental pieces, for
example the “a losanghe” that came from the painting
on Persian enamel and other unknown national
sources were copied. There was a narrow line
between re-proposing decorative designs from the
pre-renaissance period and the Tuscan interpretation
of Ligurian motifs, (the vine leaf, Venetian, (leaves
and fruit in polychrome, the of porcelain) and those
from Faentina, (the white and the various types of the
compendiarie). On the whole the Montelupo ceramic
industry in a national context, offered less during the
course of the 1500’s almost as if the potters had lost
their originality and innovative capacity.
The most important novelty of this period was
working with rounded heavy objects (“engobed”
ceramics) with top quality materials coming from the
area around Sovicille, the hills surrounding Siena.
After the conquest of Siena and it’s territory in 1555
it was easier to get hold of these quality materials.
We know that the difference between what happened in Liguria and the Padana area concerning the
production of heavier rounded objects did not
develop during the Medieval period and it was only
during the second half of the 1400’s, nearly a century
later that this art developed in other areas of the
peninsular and in fact the first creation of this type in
Tuscany was carried out with paints, but with
reduced density and using only two pigments, with
green and orange dominating the decorative structure.
The use of a particular white clay with a reddish tinge found in the iron clay areas on the bed of
the rivers of the region started the Tuscan production
of rounded ceramic design in Pisa. As we have stated
previously it began in 1540 and it stimulated local
activities. The diversity of this product consented the
furnaces in Pisa to start working again and the
product thus spread all over the region and other
parts of Italy.
Only twenty years later, engobed and incision
formed ceramics were worked side by side with the
traditional enamelled products in furnaces in other
Tuscan centres. It really only consisted of marginal
work carried out on particular occasions by artisans
passing from one factory to another trying to push
their capacity in this art. In Montelupo, in the dumps
of furnaces that were operating between 1460 - about
the period when these products were first produced
and 1540 very few examples of engobed objects have
been found and it is estimated to have represented a
limited amount of only 1% of total production, and
even less in Siena area. The gradual penetration of
this type of ceramic making in the Tuscan market is
owed to the Pisa furnaces and the minor centres that
had been specifically developed for this production.
From what we know, during the Renaissance period
(1480 – 1530) the latter produced pictures on the
majolica and the first concentrated on new productions.
Amongst the centres that concentrated on
engobed products were San Gimignano and Asciano,
The artist Bacchereto stopped working with other
techniques including working with enamel to concentrate on this one. As far as we know it was places like
Borgo San Lorenzo, Castelfiorentino and Pontorme
in the area around Empoli and eventually Fuccechio
and other areas surrounding Pisa which include the
famous furnaces of Pomerance, that exclusively used
this technique.
It was the economical development and inflation during the 1500s that proved to be a deciding
factor in the development of the “Ingobbiata”
(engobed style) and the use of this style in the production of tableware. A huge increase in inflation characterised a necessity to put a higher price on agricultural products, for example, between 1540 and 1600
the price of grain doubled in price. According to
records it was necessary to substitute certain products with cheaper alternatives which were more and
more in demand. With the “Ingobbiata” ceramics, a
watertight film wasn’t necessary so it was cheaper to
produce and could be sold for less than the Majolica.
The economical position determined the success of
this type of jug..
This new product had a significant impact on
the Montelupo furnaces as they began producing in
large numbers, especially between 1540 – 1640.
Included in this category was the marbled variety and
the splashed variety using a decoration of different
colours, and it can said that production levels reached
that of Majolica.
The poor economical situation created difficulties for the Tuscan shops that had for centuries specialized in painting on enamel. They had to confront
the continued recession in commercial trade by
looking for more successful forms of production. Not
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
zione locale: per convincersi di ciò basta riflettere sul
contenuto dell’atto notarile noto come “trust Antinori”.
Con questo documento, rogato nel settembre del 1490
dal notaio Piero Gherardini, infatti, ben 23 ceramisti di
Montelupo si impegnavano a lavorare per tre anni esclusivamente in favore di Francesco Antinori, il quale doveva a sua volta acquistare tutto il prodotto così realizzato
in base a tre grandi categorie merceologiche (comune,
“damaschino”, “vantaggino”), e pagarlo sulla scorta delle
medesime differenziazioni qualitative. Ancora nei Capitoli dell’Arte degli Orciolai, dettati in Montelupo nel 1510,
si alza l’invettiva contro i mercanti che affamano i poveri ceramisti, pagando poco il lavoro da essi eseguito, e
rivendendo loro a caro prezzo le materie prime che
importano dall’estero.
Nel periodo 1480-90 l’imitazione delle tipologie
decorative spagnole tratte dal lustro metallico – con i
due generi d’impianto fitomorfo come la “foglia di prezzemolo” e quella “di vite” – e la ricerca di nuovi motivi
di contorno svolge un ruolo fondamentale nell’attività
dei vasai valdarnesi. Nel decennio successivo, però, i
ceramisti di Montelupo sviluppano rapidamente quelle
tipologie decorative che ne caratterizzeranno l’attività
per un periodo di tempo assai lungo, destinato a travalicare gli stessi limiti cronologici del Rinascimento. Si
tratti di motivi di contorno – come la “floreale”, l’
“occhio della penna di pavone” o la “palmetta persiana”
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fiorentina; solo verso la metà del Quattrocento, a più
d’un secolo di distanza dalla sua diffusione nella altre
aree della Penisola, d’altronde, si incontrano infatti le
prime lavorazioni toscane ad ingobbio, nelle quali l’artificio della graffitura – accompagnato, beninteso, dalla
pittura, ma con tavolozza sostanzialmente ridotta a due
soli pigmenti, il verde e l’arancio – domina l’intera struttura decorativa.
L’uso di una particolare argilla per velare di bianco il bistugio rossastro, ottenuto dalle crete ferrose che
predominano nei bacini e nei sedimenti fluviali della
regione, ebbe il suo battesimo in Toscana nella produzione graffita pisana, che, come abbiamo accennato in
precedenza, fu avviata negli anni Quaranta del XV secolo per rianimare le attività locali, dopo il periodo in cui
le lavorazioni a smalto erano state depresse dalla conquista fiorentina. La diversificazione del prodotto consentì alle fornaci di Pisa di riprendersi, e probabilmente
facilitò la diffusione di questa tecnica, peraltro già ben
nota in Italia, a livello regionale.
Solo una ventina d’anni dopo, però, la ceramica
ingobbiata e graffita poté affiancarsi alle smaltate nelle
fornaci attive in altri centri toscani. Si trattava, però, di
lavorazioni marginali, effettuate in via straordinaria e,
forse, dovute anche ad artigiani che occasionalmente
passavano da un centro di fabbrica all’altro, tentando di
accreditare le proprie capacità produttive. A Montelupo,
infatti, negli scarichi delle fornaci attive tra il 1460 circa
– data di apparizione delle prime ingobbiate – ed il 1540
circa, lo scarto con ingobbo rappresenta una quota assai
limitata, che di norma può essere valutata a meno dell’uno per cento della restituzione complessiva. Anche
nell’area senese, per la quale sfortunatamente non è
dato al momento di possedere dati così precisi, nella
medesima epoca il rapporto tra le ceramiche ingobbiate
e quelle smaltate – ivi comprese, però, quelle con tecnica mista, alle quali precedentemente si è fatto riferimento – si mostra ampiamente minoritario.
La graduale penetrazione nel mercato toscano di
questi nuovi generi fittili si deve, oltre che alle fornaci di
Pisa, a quelle di altri centri “minori”, che reagirono così
alla concentrazione della produzione smaltata in un
numero limitato di “luoghi deputati”. Per quanto ci è
dato di sapere, infatti, mentre nel periodo rinascimentale (1480-1530) gli ultimi svilupparono la pittura su
maiolica, i primi si dettero alla nuova tradizione, favorendo così un inedito processo di decentramento “tipologico” delle attività.
Tra i centri che si dedicarono alla fabbricazione
delle ingobbiate, alcuni, come ad esempio San Gimi-
Scodella ingobbiata e graffita di Montelupo
(1560-80)
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104
by chance in 1590 the commercial companies that
were created to trade in Majolica ceramics started
trading in a similar type of Ingobbiata made in
Castelfiorentino and in the vicinity of Pontorme to
keep up with the requests of the market.
It was no surprise that the economical situation
compromised the generations of experience that
fuelled production from the furnaces of Cafaggiolo in
Mugello and lead to a complete change from a historical and artistic point of view. For the villas and castles owned by the powerful Medici family, ceramics
had been purchased from the Montelupo brothers
Stefano and Filippo, sons of a Croatian immigrant
who had arrived in Valdarno in the middle of the
1550’s and who was famous for having produced
some major masterpieces of Renaissance Majolica.
Just after 1550 this art started to show signs of decadence and some poorer quality pieces were produced
and by the end of the 1580’s there were no more
traces of this glorious furnace.
The exhaustion of the Renaissance and its creative push represented a general phenomenon which
demonstrated its negative impact on all the Italian
centres of production even though some managed
better than others; the more fortunate could count on
their association with the markets of Tuscany, Venice,
Genova, and above all Faenza. As opposed to the gen-
eral trend at the end of the sixteenth century, Faenza
responded with an extraordinary invention that
would keep it afloat for a century to come, assuring
their workshops a fame that still endures today; it
consisted in the use of a new enamel, very white and
thick and characterized by an almost creamy aspect.
It came to light at about 1540 and was accompanied
by a kind of pictorial revolution where the historical
scenes were radically changed. The chromatism was
reduced to two colours (blue and orange) and combined with a pictorial representation that was more
creative. This union was called “compendaria” by Ballardini as if to underline the impressionistic aspect.
It immediately became a new fashion and was the
answer to the reduced interest in the polychrome
Renaissance works. The “whites” from Faenza represented the most important vehicle of the new “compendaria” which would become diffused in the enamelled productions of the XVII century. Montelupo
began to produce quality “whites” with an important
stannifero cover but the Valdarno potters thought to
exploit the fashion brought about by the new types of
products to simplify and obtain a more rapid execution of the monochromatic blue through which they
could obtain a standardization of the “porcelain” decorations.
Montelupo “covered and graffita”
bowl (1560-80)
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MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
gnano e, soprattutto, Asciano senese – oltre alla stessa
Bacchereto, che si avviava di lì a poco a cessare la propria attività – non lo facevano in alternativa all’utilizzo
dello smalto, ma affiancarono ad esso in maniera consistente e, forse, persino numericamente preponderante,
la nuova tecnica. Altri luoghi, come Borgo San Lorenzo,
Castelfiorentino e Pontorme, nei pressi di Empoli – per
quanto è dato di saperne – utilizzavano invece l’ingobbio
in maniera pressoché esclusiva, e lo stesso deve dirsi
per le fornaci allora attive in Fucecchio ed varie località
del Pisano, tra le quali le più note sono al momento
quelle di Pomarance.
Fu però il diffondersi dell’inflazione cinquecentesca, nota agli storici dell’economia come “rivoluzione
dei prezzi”, a favorire decisamente l’impiego dell’ingobbio nella produzione vascolare da mensa. Un’onda secolare di crescita inflativa caratterizzò infatti i generi di
prima necessità, trascinando al rialzo soprattutto i prodotti agricoli: nel periodo 1540-1600, ad esempio, il
prezzo del grano venne più che a raddoppiarsi. In queste
condizioni, secondo il noto fenomeno di sostituzione
dei consumi, lo spostamento delle risorse necessarie
all’approvvigionamento di merci essenziali alla vita quo-
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
traggono spunto da prodotti orientali (ad es. il decoro “a
losanghe”, che deriva dalla pittura su smalto persiana), i
quali non sono ignoti neppure ad altri ateliers nazionali.
Stretta tra la sempre più stanca riproposizione delle
tipologie decorative autoctone primo-rinascimentali e
la traduzione in “lingua toscana” di motivi liguri (la
foglia di vite), veneziani (le foglie e la frutta in policromia, la “compendiarizzazione” della porcellana) e faentini (i “bianchi”e le varie tipologie “compendiarie”), l’offerta complessiva delle fornaci di Montelupo si fa sempre meno vigorosa, come se, avviando nel corso del Cinquecento questi rapporti, dei quali peraltro si sostanzia
il “linguaggio nazionale” della maiolica italiana, i montelupini avessero smarrito l’originalità ed il piglio innovativo del passato.
La novità più importante di questo periodo è
semmai rappresentata dal ricorso sempre più massiccio
all’ingobbio: la fabbricazione di ingobbiate si avvaleva di
una materia prima di alta qualità, proveniente soprattutto dal territorio di Sovicille, nella Montagnola senese.
Dopo la conquista di Siena e del suo territorio (1555) fu
più facile per i montelupini procurarsi grandi quantità
di ingobbio pregiato.
Sappiamo che, a differenza di quanto accadde in
Liguria e nell’area padana, la tecnica dell’ingobbio sotto
vetrina non aveva accompagnato la fase medievale di
sviluppo della ceramica dotata di rivestimento in area
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
commerciali create per diffondere le maioliche montelupine non esitavano a spedire, negli anni Novanta del
Cinquecento, anche ceramiche – verosimilmente ingobbiate – prodotte a Castelfiorentino e nella vicina Pontorme per adeguarsi alla richiesta del mercato.
Non stupisce, quindi, che un tale mutamento del
clima economico abbia determinato l’interruzione di
esperienze di grande rilievo dal punto di vista storicoartistico, quale quella legata alla fornace di Cafaggiolo
nel Mugello. Nella villa-castello del ramo “popolano”
dei Medici avevano operato, in un rapporto con la
potente famiglia che fu di committenza, più che di effettiva protezione, i montelupini Piero e Stefano, figli di un
immigrato croato, giunto nella cittadina valdarnese
attorno alla metà del XV secolo. Non appena oltrepassata la metà del Cinquecento, questo atelier, al quale sono
attribuiti alcuni dei capolavori della maiolica rinascimentale italiana, inizia infatti a manifestare evidenti
segni di decadenza, producendo, ad esempio, alcuni
istoriati che si inseriscono nel filone ormai stanco e
desueto del genere; verso il 1580, infine, non si rilevano
più tracce di questa gloriosa fornace.
L’esaurirsi del Rinascimento e della sua spinta
creativa rappresenta del resto un fenomeno generale,
che mostra il suo impatto negativo in tutti i centri di
fabbrica italiani, anche se occorre dire che alcuni di
essi seppero meglio affrontare questa fase di difficoltà:
tra questi ultimi è necessario annoverare, per l’influenza
che ebbero sulla Toscana, Venezia, Genova e, soprattutto, Faenza.
Alla dicotomia che caratterizzava il mercato
tardo-cinquecentesco della ceramica, la città romagnola
seppe infatti rispondere con una straordinaria invenzione, che ne supportò per almeno un secolo le fortune,
assicurando alle sue botteghe quella fama che ancor
oggi dura; essa consistette nell’utilizzo di un nuovo
smalto, bianchissimo e di grande spessore, ma caratterizzato da un aspetto quasi cremoso, tale da attribuire
una singolare personalità estetica – ed anche tattile –
alle ceramiche.
L’innovazione tecnica faentina, avviata già nel
1540, si accompagnò, inoltre, ad una specie di rivoluzione pittorica, la quale veniva a mutare in maniera radicale gli schemi dell’istoriato, codificati da poco meno di un
ventennio di produzione, i quali avevano trovato in
Casteldurante – e soprattutto in Urbino – le esperienze
più significative. Invece di affidarsi ad una spinta policromia e trasferire sulle ceramiche scene figurate, per lo
più tratte da illustrazioni a stampa, si preferiva ora
ridurre il cromatismo a due soli colori (l’azzurro e
l’arancio), e giungere alla rappresentazione pittorica
attraverso un disegno più sommario, ma assai più creativo.
L’unione tra la nuova tecnica di smaltatura e l’in-
novazione pittorica, detta dal Ballardini “compendiaria”, per sottolinearne l’aspetto quasi impressionistico, si
accreditò rapidamente come una nuova moda. Essa rappresentò la risposta vincente dei faentini al mutamento
del gusto di un’epoca ormai sazia della squillante policromia rinascimentale, ma anche una mano tesa verso
le esigenze di distinzione dei ceti agiati dell’epoca, i
quali non avevano molto da temere dall’evoluzione economica contemporanea.
I “bianchi” faentini – come vennero battezzati in
ragione del loro aspetto – rappresentarono perciò il veicolo più importante della nuova sensibilità “compendiaria”, che si sarebbe diffusa nella produzione smaltata
del XVII secolo, ma, più che nuovi schemi pittorici –
come aveva indicato a suo tempo il Ballardini – la loro
fortuna facilitò soprattutto un processo di impoverimento della decorazione. Ci si abituò, infatti, a maioliche dipinte soltanto con uno o due colori e caratterizzate da larghi spazi vuoti, privi di decorazione. Esaurita la
spinta innovativa iniziale, tale evoluzione divenne quindi piuttosto fomite di decadenza, come si può notare
nelle stanche e monotone repliche derutesi di tale genere. Montelupo si ispirò ai “bianchi” faentini, producendo
maioliche di qualità con un importante rivestimento
stannifero, ma i vasai valdarnesi pensarono anche di
sfruttare la moda veicolata dal nuovo genere per semplificare e rendere di più rapida esecuzione le tipologie in
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The 1600’s - Light & Shade of the Iron Century
At the end of the 1500’s the ceramic production
entered the final part of the quality phase which had
lasted for over 2 centuries starting in 1370. But this
long period finally ended on a negative note. The first
warning sign of what would lead to diminishing production in Montelupo and of the major part of the
ceramic centres in Italy didn’t appear as a warning as
it seemed to be part of the grave crisis that was
already hitting Italy between 1590 – 1591. Without
being able to realize it an event occurred that would
change the face of Mediterranean Europe. Not having
the means to provide its own grain supplies during a
period deep shortage, the areas of the Southern European continent counted on emergency supplies from
Poland. This tarnished the self sufficiency and isolationist ideas and the reliance on the naval ships which
were often too busy conquering the northern areas.
Enormous stockpiles of rye bread bought at a
high price by the emissaries of the Grand Duke in
the markets of Amsterdam and Lubeck were transported by boat to Livorno and the same thing happened in Genoa, Lucca, Roma and Naples. But the
Hanseatie and Dutch boats that transported the cereal from the north changed their habits and decided to
take the route around the Gibraltar strait and supply
the markets prepared to pay a higher prices. With
incredible timing Ferdinand 1 transformed Livorno
into one of the major ports of the Mediterranean, fulfilling the wishes of his father, Cosimo. It became an
international base not only owing to its position on an
strategically important estuary in a powerful Italian
state but also due to the increased level of marine
traffic from the Northern states, in particular Holland and England.
This was just the beginning. In 1618 – 1621
there was a European economical crisis which coincided with the reversing of the growth period of the
XVI century and was only the start of a heavy downturn for the southern European states unable to
escape from the tentacles of an agricultural crisis
which heavily influenced the manufacturing sector.
Amongst the oppressed populations that had suffered
malnutrition and economical problems for the last
thirty years, illnesses of every type struck including
scabies and typhoid, and then came their worst enemy,
the plague. The pandemic of 1630-1632, unlike the
XIV and XV centuries saw long periods of death and
sufferance as the viruses reared their ugly heads again
in 1655 and then again in 1675. Many other factors
from the 30 year war to important climatic changes
such as the glacial phenomenon – known as the mini
ice age - upset the equilibrium of the old continental,
hit Italy hard forcing it into a kind of limbo.
From the crises of 1618-1621 and the negative
period that followed, even Montelupo suffered. The
international production that was it’s strength was
reduced dramatically. Other centres like Faenza and
Deruta suffered the same difficulties.
At the beginning of the XVII century the general situation had deteriorated considerably and Montelupo could consider itself much worse off compared
to the previous century owing to the ever worsening
economical crisis. Only the manufacture of terracotta
vases and pots remained steady thanks to their use in
olive oil production and the increased demand for
pots and vases used for decorating the gardens of the
rustic villas. Majolica art survived with the best
results in Siena and Asciano which were centres
known for producing good quality “white” ceramics
based on the contemporary designs of Faenza, but
was going through a decline in Montelupo which had
beforehand experienced 200 years of success with this
type of production.
In effect for more than fifty years the Valdarno
workshops had not worked on original decorative
designs but had continued to reproduce in the antique
Renaissance style for general tableware but with less
effort and in an impoverished way. The new ideas that
were introduced in the production of this type of
ceramic from the second half of the previous century,
came from other centres in Italy, such as Faenza,
Urbino, Deruta, Venezia and Savona-Albisola.
The Montelupo painters looked towards outside influences for inspiration, with the aim of adding
a touch of invention or adaptation and this continued
through to XVIII century where they moved on to
“town” decorations following the example of the
Venetian productions led by the master Benedetto,
which included the Faentina stencils of leaves and
vines, common in Ligurian and Venetian painting on
enamel.
The example of Urbino and Deruta Rafaellesca
remained during a good part of the 1600’s but modified by the Valdarno artists adding grand and free figures that often resulted in a similarity to parietal “a
grottesca” decorations on a white background which
was diffused in Florence by the Allori and Poccetti
schools rather than the contemporary Umbrian and
Le Marche Majolica. The istoriato (historical) types
were also moderately successful, above all the works
undertaken by some Faentina masters who had emigrated there in the 1500’s. By the end of the XVI century, figure painting had reached the end of its creative arc and the Montelupo potters responded in a
simple and efficient way with decorative engravings
of daily life and not illustrations from books.
Without changing the successful recipe of the
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
tidiana provocò un forte aumento della domanda di
prodotti caratterizzati da minor costo. Nelle ceramiche
ingobbiate, infatti, lo stagno non interveniva nella realizzazione della pellicola di copertura: dato il più basso
costo di produzione, si poteva perciò venderle ad un
prezzo inferiore rispetto alle maioliche. La congiuntura
economica determinò quindi la fortuna di questi generi
vascolari “succedanei”.
Il termine di paragone più significativo per verificare l’impatto di tale fenomeno nell’attività dei centri di
produzione della Toscana è offerto ancora una volta
dagli scarichi delle fornaci montelupine, i quali mostrano, nel periodo 1540-1640, un aumento esponenziale
della presenza di ingobbiate. Se infatti in tale categoria
si comprendono anche le cosiddette “marmorizzate” e le
“schizzate” – prodotte mediante l’uso decorativo di
ingobbi colorati – allora può dirsi che negli anni indicati le ceramiche da mensa prive di stagno prodotte in
questo centro ceramico abbiano finito per pareggiare il
numero delle maioliche.
Il volgersi verso il basso della congiuntura economica mise dunque in difficoltà le botteghe toscane che
da secoli erano andate specializzandosi nella pittura su
smalto. Esse si trovarono allora a fronteggiare da un
lato il progressivo ridursi dei traffici commerciali, e dall’altro l’indirizzarsi sempre più evidente della domanda
verso generi succedanei: non per caso le compagnie
Nel Seicento: luci ed ombre d’un “secolo di ferro”
Sul finire del Cinquecento la produzione ceramica entrò
nell’ultima fase di un processo avviato due secoli prima
con la “rivoluzione qualitativa” dell’ultimo ventennio
del Trecento: ora questo lunghissimo ciclo plurisecolare
stava però evolvendo in negativo.
Le prime avvisaglie di quello che sarebbe stato il
ripiegamento della produzione in Montelupo e della
gran parte dei centri ceramici italiani non furono però
avvertiti come tali, in quanto si confusero con la gravissima crisi annonaria del 1590-91. Quell’anno, senza che
i contemporanei potessero rendersene conto, segnò una
svolta storica per l’Europa mediterranea, in quanto, non
potendo alcuna nazione o territorio rivieraschi – come
l’Egitto e la Sicilia, che per millenni avevano svolto la
funzione di granai del Mediterraneo – sopperire alla
fame della porzione meridionale del continente, furono
i cerali della Polonia ad assicurare la sopravvivenza di
quella parte della popolazione italiana che la prima fase
della carestia aveva risparmiato. Si ruppe così l’antico
isolamento autarchico di questo mare, che aveva visto
per protagoniste le proprie marine, impegnate, semmai,
a conquistare gli spazi del Nord. Enormi ammassi di
segale polacca, acquistata a caro prezzo dagli emissari
del granduca sui mercati di Amsterdam e di Lubecca,
furono allora realizzati nel porto di Livorno, e lo stesso
avvenne per Genova, Lucca, Roma, Napoli. Ma le navi
anseatiche ed olandesi che trasportavano i cerali del
nord segnarono rotte che non avrebbero più dimenticato, e presero l’abitudine, anche per sopperire alla cronica fame di questo mondo ormai sovrappopolato, di passare costantemente lo stretto di Gibilterra per accaparrarsi quote sempre più importanti del commercio meridionale. Con incredibile tempismo, Ferdinando I trasformò nel 1593 Livorno in uno dei maggiori scali del
Mediterraneo; egli portò dunque a compimento il sogno
di suo padre Cosimo, ma trasformò il porto labronico,
nel contesto di una mutata congiuntura internazionale,
non tanto nello sbocco al mare di un potente stato italiano, quanto in una grande base, aperta ai traffici delle
marinerie degli stati nordici, ed in particolare dell’Olanda e dell’Inghilterra.
Ed era solo l’inizio. Bussava infatti alle porte la
crisi economica del 1618-21, che fu avvenimento di portata europea, poiché coincise con il rovesciamento della
congiuntura di lungo periodo del XVI secolo; essa, però,
rappresentò l’anticamera della decadenza per i paesi
dell’Europa meridionale, incapaci di sfuggire alla tenaglia di una crisi agraria alla quale facevano riscontro
almeno pari difficoltà nel settore manifatturiero. Tra le
popolazioni, oppresse da un trentennio di malnutrizione
e di problemi economici, cominciarono a serpeggiare
malattie di ogni genere, come la scabbia ed il tifo, e su
questa base ormai ben preparata, secondo l’orrido, ma
rigoroso copione delle grandi crisi di epoca preindustriale – si pensi al 1320-50 – si affacciò infine sulla
scena il supremo nemico: la peste.
La pandemia del 1630-32 fu un episodio acuto,
nel senso che non fu seguito, come nel XIV e XV secolo,
da una lunga fase in cui il male si fece endemico, falcidiando silenziosamente la popolazione europea ben
oltre la data della sua apparizione, ma restò comunque
pronto a rialzare la testa con pari virulenza, come
avvenne nel 1655 e nel 1675. Molti altri fattori – dalla
guerra dei Trent’anni ai mutamenti climatici noti come
“la piccola glaciazione” – incisero poi sugli antichi equilibri continentali, favorendo la discesa degli antichi stati
d’Italia in una sorta di limbo, posto ormai al margine
della vita economica e della politica dell’antico continente.
Dalla crisi del 1618-21 e dal periodo nero che la
seguì, anche Montelupo non poteva che uscire prostrata:
la sua produzione, fortemente orientata verso le esportazioni interregionali ed internazionali, non poteva che
risultare ridimensionata dall’incipiente decadenza dell’economia toscana. Il fenomeno fu tuttavia di portata
nazionale, e fu rilevato anche in altri, importanti centri
di fabbrica, quali Faenza e Deruta.
All’inizio del XVII secolo la situazione complessiva della produzione fittile in Toscana poteva dunque
dirsi considerevolmente peggiorata rispetto al secolo
precedente in ragione dell’incipiente crisi economica:
solo la fabbricazione delle terrecotte, in effetti, per la
favorevole concomitanza dello sviluppo dell’olivicoltura,
del sistema di fattoria e delle ville rustiche dotate di
giardini all’italiana – ove orci, conche ed anche abbellimenti plastici trovavano un ideale inserimento – mostrava una lenta, ma progressiva espansione.
L’arte della maiolica sopravviveva con miglior
esito in Siena ed Asciano, centro per il quale si segnala
una produzione di “bianchi” di buona qualità, evidentemente esemplati sulla coeva produzione faentina, ma
attraversava una fase di decadenza a Montelupo, ove
pure questa attività era venuta concentrandosi nel corso
dei due secoli passati.
Da più di cinquant’anni, in effetti, le botteghe valdarnesi non elaboravano decori e tipologie originali,
continuando a riprodurre sui generi vascolari destinati
alla mensa, in maniera sempre più stanca ed estenuata,
l’antico repertorio rinascimentale. Le novità che si erano
introdotte nella fabbricazione di queste tipologie sino
dalla seconda metà del secolo precedente erano infatti
per lo più derivate da suggestioni decorative provenienti da altri centri di fabbrica italiani, come Faenza, Urbino, Deruta, Venezia e Savona-Albisola.
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istoriato, artists abandoned the cold artificial and
serious representations of biblical and Roman events
and looked decisively towards the world that surrounded them. This reality was made up of men of
law (tav.17), country folk and scoundrels but also of
fetes, processions and cruel battles – which filled
their Majolica pottery, usually plates which were used
as a decorative element creating a phenomenon that
for a long time was mistakenly considered the symbol
of ceramic production.
A balanced historical judgement of this type of
production during the last years of the 1500’s and up
to 1640, besides recognizing the extraordinary creativity of the Montelupo potters, has to maintain that
the Valdarno potters didn’t produce for collections, it
has to be said that that was a false vision as that
wasn’t their main concern.
In 1591, caught in the middle of a terrible food
shortage, the potters of the Valdarno send a request
for help to the Granduca, begging him to help their
families in a very difficult moment. Fernando I – who
had just completed his Ambrogiana villa - showed
sympathy and became a patron client. It was the first
time that the Prince got involved in the local activities as previously the potters were left to bargain in
free markets.
Sending ceramics to the court or other Gran-
duco destinations could have saved the ceramics tradition but the relationship between the court and the
industry didn’t mature to any great extent. In those
years the Tuscan government did not have a clear
vision of the economic trading situation which
marked the Colbert era and the rapport between the
Royal Court and the amount of production within the
region became more sporadic and occasional. The
marked independence of the ceramic commercial
activity in Montelupo and other areas meant that they
had no form of protection from public authorities
until the late intervention of the customs office in
favour of the Tuscan majolica, a decision taken by
Pietro Leopoldo 1 in 1768.
However, during the first forty years of the XVI
century, there was renewed interest in the development of pharmacies and decorative artwork, creating
opportunities for the Montelupo potters. Furthermore, during the early years of the XVII century there
was an increase in the sick rate, a phenomenon that
worried the Italian governors, in particular the Florentines and there began an organized effort to
combat it with an efficient sanitary system. There was
a justified concern for the health of the masses and
fear that a new pandemic would inspire a revolt and
destroy social order so the corporate associations of
medicines and apothecaries, which until then had
been rather blocked in their efforts to supply medicines to markets outside of the apothecaries or hospitals, were given a free hand to combat the diseases.
Whilst the apothecaries and hospital pharmacies
modernised their methods and prepared and
increased supplies, the important citizens of Santa
Maria Novella did likewise and finally started a commercial activity after ten years of trying to obtain permission to do so. This was a positive period for the
Tuscan potters as they were commissioned to produce hundreds of quality vases instead of tableware
thus resulting in a period of splendour for the best
part of the century. The pharmaceutical production
did not of course completely resolve the general economical situation but enabled the potters to produce
products of a superior quality.
Between 1612 and 1620 selected Montelupo
workshops were asked to supply Santa Maria Novella
and to introduce a raised iconographic artwork on
Majolica for the apothecaries instead of the
“grotesque” decoration which was in use up to then
designed by Poccetti and his school as can be seen in
the Grande Chiostro. Also during this period the
pharmacy of San Marco was renovated and the Valdarno workshops were commissioned to produce an
important series of pharmaceutical containers
painted with the glory of the Domenicano Order, male
and female saints together with Antonino of Florence
the founder of the cenoby, set against a dark background; typical of works from the 1500’s. It can be
said that the introduction of commissioned work
favoured the introduction of new designs which
resulted in further projects being undertaken by the
Montelupo potters, for example “Girali foliati a
Risparmio”, ideal for pharmaceutical productions or
the same vine leaves, small trees and other revised
decorations on jars and pots.
Between 1611 and 1627 the Montelupo furnaces were asked to produce pavements in Majolica.
Three different types were requested by Cosimo II for
his cousin Marie de’ Medici, queen of France who
wanted to decorate her apartments at the Louvre and
the palace of Luxembourg with designs from Montelupo. Owing to the difficult relationship between
Maria – who was acting Queen - and the French
Court, we can’t be sure that the work was carried out
before she was exiled to Blois in 1617. We do know
for certain that these enamelled tiles painted by the
Montelupo potters which were based on designs of
artists from the French Court were called to Paris to
assist in the work. At least 4 different pavements were
completed in Luxembourg, two of which were sent at
the end of 1614 whilst the other two, designed with
every probability by Jacopo Ligozzi were used in the
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
monocromia blu, attraverso le quali si cercava di ottenere una standardizzazione dei decori “alla porcellana”.
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
dalle illustrazioni dei libri o da altri tipi di incisione,
ma bensì dall’osservazione della vita quotidiana.
Lasciando sostanzialmente inalterata la ricetta
compositiva dell’istoriato, con le sue conquiste prospettiche e cromatiche, quei pittori abbandonarono così il
freddo artificio dello spolvero e la retorica rappresentazione seriale di episodi appartenenti alla storia biblica e
romana, per volgersi decisamente verso il mondo che li
circondava. Di questa realtà, fatta di birri e contadini, di
trecconi e di furfanti “scerpatori di campagna” – ma
anche di feste, di processioni, di cruente battaglie – essi
riempirono le loro maioliche, quasi sempre piatti che
svolgevano anche una funzione decorativa, creando una
vera e propria “maniera”, che fu per molto tempo erroneamente considerata emblematica del carattere stesso
del nostro centro di fabbrica.
Un giudizio storico equilibrato su tale produzione, il cui periodo aureo può collocarsi tra gli ultimi anni
del Cinquecento ed il 1640 circa, oltre a riconoscere la
straordinaria creatività ancora posseduta dai ceramisti
montelupini, deve tuttavia tenere in debito conto la
visione falsata che di essa ha prodotto il collezionismo.
La capillare diffusione del tardo figurato montelupino
nelle raccolte pubbliche e private di tutto il mondo non
deve infatti far dimenticare che non siamo di fronte –
almeno in termini quantitativi – alla produzione “di
punta” del centro valdarnese, e che la sua fortuna postu-
ma non vale certamente a ribaltare la realtà della progressiva decadenza di quelle fornaci, di cui essa è sintomatica, in ragione del localismo della sua ispirazione e
della “maniera” che la caratterizza. Ciò, ovviamente,
fatto salvo quel minimo di riferimento al clima dell’epoca (ad esempio alla pittura dei cosiddetti “bamboccianti”), che pure in essa è possibile riscontrare.
È semmai in un’altra direzione che occorre guardare per percepire gli ultimi aneliti delle produzioni di
qualità tardivamente espresse dalle botteghe di Montelupo. Nel 1591, stretti nella morsa della terribile carestia
di quell’anno, i vasai valdarnesi avevano inviato una
supplica al Granduca, pregandolo di aiutare le loro
famiglie in un momento tanto difficile. Ferdinando I –
che da poco aveva completato la sua grandiosa villa dell’Ambrogiana – mostrò di comprendere le difficoltà dei
montelupini, e concesse loro un donativo sotto forma di
generica committenza: in tal modo il Principe intervenne per la prima volta nelle attività locali, sino ad allora
lasciate al libero gioco del mercato e delle commissioni
private.
L’indirizzarsi di commesse importanti verso quel
centro di fabbrica (o di altri luoghi del Granducato)
avrebbe forse potuto salvaguardarne la tradizione, traghettandola oltre le secche della crisi secolare del XVII
secolo; in quegli anni, però, tra i governanti toscani non
era certamente matura la visione mercantilistica del-
l’economia che avrebbe improntato di sé l’epoca del Colbert, ed il rapporto tra la Corte e le produzioni fittili
della regione restò perciò sempre sporadico ed occasionale. L’alto grado di dipendenza dal mercato delle attività ceramistiche di Montelupo – ma anche, per quel che è
dato di sapere, degli altri ateliers – non trovò infatti
alcuna forma di protezione da parte dei pubblici poteri
sino al (purtroppo tardivo) intervento doganale in favore della maiolica toscana deciso da Pietro Leopoldo I nel
1768.
Nonostante ciò, un rinnovato interesse per lo sviluppo di farmacie e di imprese decorative non mancò di
far affluire, nel corso del primo quarantennio del Seicento, significative occasioni di lavoro verso i ceramisti
montelupini. Come si è detto, infatti, il secolo XVII sin
dai suoi primi lustri, evidenziò un sensibile incremento
della morbilità. Il fenomeno preoccupò fortemente i
governanti italiani, ed in particolare quelli fiorentini,
che cercarono di fronteggiarlo con una più efficiente
organizzazione sanitaria. Il giustificato allarme per la
salute delle masse popolari, ed il timore che lo sviluppo
di pandemie potesse sfociare in rivolte e nella distruzione dell’ordine sociale, indusse ad alleggerire la stretta
corporativa dell’Arte dei Medici e degli Speziali, che
fino ad allora aveva ostacolato, se non addirittura impedito, lo sviluppo della produzione di medicamenti, qualora fosse effettuata al di fuori degli esercizi di spezieria,
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Villa Ambrogiana. The project was unfinished due to
the exile of the queen and pieces were removed
between 1617 and 1621 by Don Carlo de’Medici and
used for the nymph’s sanctuary in his villa in Careggi
where they can still be seen today.
More apparent was the involvement of the
desigs of Ligozzi in the production of another two
pavements in Montelupo during those years. The first
was commissioned in 1621 by Giovanni degli Albizi,
illegitimate son of Cosimo I in his villa “Il Parione”
which was then passed down to the Corsini family.
The decoration consisted of imaginative designs that
didn’t have any symbolic value and was an example
of a style used by a painter from Verona who was a
great illustrator of plants in this era, representing a
move towards natural vegetation. From a series of
decorations done yet again by Ligozzi, one of which
was a fresco on a ceiling in 1627, a design was copied
and used for a floor in one of the reception rooms
with a fireplace in the Pitti Palace. Ligozzi died the
year before and Parigi who overlooked work done at
the Palace made radical changes to the original
project breaking with the traditions of the late
Medieval and Renaissance of using decorative coverings on Majolica.
In the previous century, Niccolò Pericoli had
already started to copy designs from ceilings to floors.
This new idea was first experimented on using the
floor in the Medicea Laurenziana library designed by
Michelangelo, and Tribolo could have suggested the
same solution to the Montelupo potters giving them
a pattern of the chapels at Villa Strozziana, La
Casarotta in San Casciana and at Val di Pesa. The evident evolution of the reception room with fireplace
was very radical, here in fact the figures were put into
the disused areas copying the ceiling painted by
Matteo Rosselli and at the same time creating a new
invention. The big panels placed symmetrically side
by side on the floor did not necessarily represent hierarchical decorations subordinate to the environment
but autonomous works of the artists that created the
basis for the iconographic value and distinctive character of the grand Majolica floor coverings.
During the 1600’s there were few new ideas in
production of enamelled wares apart from pharmaceutical commissions and decorative work for the
Court. Maybe this only appeared so because of the
monuments of great importance created and lost in
the previous era. In this concept we can count the
large Majolica jars (orci) made for the Medici residences of which a large part were commissioned by
the Montelupo family, Marmi. But it consisted of very
few works compared to the splendour of the Renaissance period.
The majority of these enormous jars were made
in chronological order between 1620 and the end of
the XVII century. There are precise references to
when these hand made articles were manufactured
by the Montelupo furnaces, as shown by the coat of
arms of the Marmi family and the name of the workshop engraved on each jar. It should be noted that
some examples of these hand made articles, owing to
evident defects, had to be returned to the potters.
The enamelled jars from Montelupo were also
flanked by other handmade articles which were only
partly enamelled, however these were made by the
Impruneta furnaces and clearly carried the manufacturer’s inscription engraved on their surface. This
method started in 1631 with the (Villa La Pietraia jar),
but most likely the production continued until the
second half of the XVIII century. It is probable that
the oldest jars from Impruneta were originally covered by a green coloured ceramic glaze, there are
well-known examples of the first half of the XVIII
century, and then later on a ‘scrap iron’ colouring was
used, with a honey shades and a speckling of copper
flakes.
Both in the case of the handmade articles of
Montelupo and those of Impruneta, we are, however,
now in the presence of jars intended to be used for the
conservation of wine, which are similar to the types
of covered jars used for pharmaceutical use, already
widespread during the previous century. This new
kind of clay container was very successful in the XVII
and XVIII centuries in Tuscany and became fashionable. It was introduced towards 1618 by the Grand
Duke Cosimo II, who had evidently welcomed with
enthusiasm the proposal of manufacturing wine jars
as promoted in a booklet by Giovan Antonio Fineo, a
priest from Bari, entitled: An infallible remedy for preserving wine for forty years in every country, without it
ever spoiling, and published in Rome in 1593.
Thus in 1618, many years after the publication
of the remedy, Cosimo II gave some of his emissaries
orders to produce in Faenza and Perugia a limited
number of these jars, significantly calling them “vettine” as Fineo had, deriving from the Latin vegetes,
namely “cask”. However, the production of the “vettine” proved to be, not only expensive but also unexpectedly long and difficult. Thus it was easier for men
like Marmi, who had for a long period held a prominent role in the management of the Medicean villas,
sending the orders of the Court to the Montelupo furnaces, where they were personally involved in the
activity; besides, they knew very well that the potters
of Montelupo had been producing large-sized enamelled vase containers for many years, using the supplies of unprocessed handmade articles created by
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Per qualche tempo i pittori montelupini riuscirono a guardare ancora alle tradizioni esterne con quella spiccata capacità d’inventiva e di adattamento che
ne aveva sempre contraddistinto l’opera: restarono così
per lungo tempo nei loro ateliers, trapassando talvolta
nel XVIII secolo, i decori “a paesi”, dipendenti dalla
produzione veneziana che faceva capo alla bottega di
mastro Benedetto, le crespine “a foglie” ed il compendiario a quartieri di matrice faentina, la foglia di vite “a cerquata”, comune nella pittura su smalto ligure e veneta.
Restò ancora per buona parte del Seicento l’esempio della raffaellesca urbinate e derutese, che fu però dai
pittori valdarnesi tanto modificata, per l’inserimento in
essa di grandi e libere figurazioni, da risultare spesso
più simile alle decorazioni parietali “a grottesca” su
fondo bianco, diffuse in Firenze dalla scuola dell’Allori e
del Poccetti, che non alle coeve maioliche umbro-marchigiane.
Anche il genere istoriato, che aveva conosciuto
nelle botteghe di Montelupo una discreta fortuna,
soprattutto, a quanto sembra, per l’opera di alcuni maestri faentini, qui immigrati nel corso del Cinquecento,
trovò echi tardivi, e stavolta di inaspettata originalità.
Alla desuetudine del figurato, che già nell’ultimo trentennio del XVI secolo aveva completato la sua parabola
creativa, i vasai di Montelupo risposero in maniera semplice – ma assai efficace – traendo i loro soggetti non
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pure non sufficiente, per contrastare la tendenza al rapido scadimento delle lavorazioni ordinarie.
Per Santa Maria Novella, ad esempio, lavorano
dal 1612 al 1620 una o più botteghe montelupine, alle
quali viene affidato un programma iconografico di tutto
rilievo, finalizzato a riportare sul “fornimento” maiolicato di quella spezieria quel genere di decorazioni “a grottesca” che il Poccetti e la sua scuola avevano affrescato
sulle volte del Chiostro Grande, sul quale si affacciava il
nuovo esercizio di spezieria. Anche la farmacia di San
Marco fu in quegli anni rinnovata, ed alle botteghe valdarnesi venne commissionata un’importante serie di
contenitori farmaceutici, sui quali si dipinsero le glorie
dell’ordine domenicano: quei santi e quelle sante unirono così la loro figura a quella di Antonino da Firenze, il
fondatore del cenobio, che campeggiava sulla dotazione
cinquecentesca della farmacia.
In entrambi i casi citati può dirsi che l’importanza della committenza abbia favorito l’introduzione di
nuovi decori, e lo stesso avvenne in occasione di altre
imprese affidate ai vasai di Montelupo – come si può
notare, ad esempio, nella tipologia dei “girali foliati a
risparmio, ideata per la produzione farmaceutica, o
della stessa “foglia di vite”, ampiamente rivista per l’impiego su utelli, orcioli ed alberelli.
Verso le fornaci montelupine si indirizzarono,
dal 1611 al 1627, anche importanti commesse della
corte per la fabbricazione di pavimenti maiolicati. Si
tratta di tre diverse imprese, la prima delle quali destinata da Cosimo II alla cugina Maria de’ Medici, regina
di Francia, che avrebbe voluto adornare con i mattoncini dipinti a Montelupo i suoi appartamenti del Louvre
e poi il costruendo Palazzo del Lussemburgo, ove si
sarebbe deciso di utilizzarli addirittura in una decina di
ambienti.
A causa dei difficili rapporti tra Maria – che esercitava la Reggenza – e la Corte francese, non possiamo
essere certi che l’impresa così progettata sia andata a
buon fine prima che la sovrana fosse esiliata a Blois nel
1617, ma sappiamo per certo che sin dal 1611 piastrelle
smaltate, dipinte dai ceramisti di Montelupo su disegno di artisti di corte, giunsero a Parigi.
Orciolo da faramacia della
Pavimento per Maria de’
serie di S. Maria Novella
Medici. Villa medicea di
(1612-20)
Careggi, ninfeo (1617)
Almeno quattro pavimenti furono completati dai
montelupini per il Lussemburgo: due di essi vennero
spediti alla fine del 1614, mentre altri due, disegnati
con ogni probabilità da Jacopo Ligozzi, restarono nel
1617 presso la villa dell’Ambrogiana. Sfumato il progetto a causa dell’esilio della regina, essi furono infine
prelevati, tra il 1617 ed il 1621, da don Carlo de’ Medici
per il ninfeo che si era fatto costruire presso la sua villa
di Careggi, e ancora vi si trovano.
Più evidente appare l’intervento del Ligozzi nei
cartoni utilizzati per gli altri due complessi pavimetali
realizzati in quegli anni a Montelupo. Il primo tra questi
venne collocato verso il 1621 da don Giovanni degli
Albizi – figlio illegittimo di Cosimo I – nella sua grande
magione detta “il Parione”, poi passata ai Corsini. Qui il
largo prevalere della decorazione fitomorfa, che peraltro
non sembra assumere alcun valore simbolico, ben testimonia della grande inclinazione del pittore veronese, il
maggior illustratore di piante dell’epoca, verso la rappresentazione della natura vegetale.
Ad una serie decorativa del medesimo Ligozzi,
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Chemist’s jug of S. Maria
Majolica pavement for Maria
Novella (1612-20)
de’ Medici, Medici Villa of
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ivi compreso l’interno degli ospedali stessi.
Mentre, dunque, gli speziali e le farmacie ospedaliere tendevano ad ammodernare ed incrementare i loro
“fornimenti”, per preparare e stoccare una sempre maggiore quantità di medicamenti, anche i cenobi cittadini,
come quello di Santa Maria Novella, fecero altrettanto,
riuscendo addirittura ad avviare, dopo decenni di tentativi abortiti, una propria attività commerciale. Di tale
situazione favorevole approfittarono i ceramisti toscani,
verso i quali inaspettatamente piovvero le committenze
per la realizzazione di centinaia di nuovi prodotti vascolari: ponendosi in controtendenza rispetto alla fabbricazione della ceramica da mensa, vieppiù depressa dalla
crisi economica e sociale, quella destinata alla farmacia
visse così un piccolo periodo di splendore, che si protrasse per buona parte del secolo. Le commesse farmaceutiche non potevano certo compensare sotto il profilo
economico la progressiva caduta quantitativa della produzione fittile, ma offrirono comunque ai ceramisti l’opportunità di esprimersi su più elevati livelli qualitativi:
esse rappresentarono dunque un freno importante, sia
Careggi, ninfeo (1617)
the skilful earthenware makers of Samminiatello and
of Camaioni. Therefore, it is not by chance that the
production of the most antique enamelled jars of
Montelupo characterised by this particular use often
showed the Marmi brand (a styled fishing hook) or
the family coat of arms, contemporarily highlighting
dates between 1620 and 1621, shortly after the success of the “vettine” activity.
Consisting of three different types of containers
of which later were added versions with morphological details. In fact, the classical model of jars,
favoured by Fineo, was a “flask shaped” container
consisting of a big globe-like shape with a long cylindrical neck with a rim turned downwards. Obviously,
the decoration of these jars referred to their contents
and consisted in the all-encompassing representation
of large vine-leaves and grape clusters and these were
combined with fruit and animals. The total effect was
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opere autonome di pittura, che ne stabiliscono il valore
iconografico ed individuano il carattere distintivo del
grande tappeto maiolicato.
Ben poche novità, però, si possono incontrare nel
panorama della produzione smaltata seicentesca oltre a
quanto segnalato in merito alle commesse di tipo farmaceutico ed alle imprese decorative della Corte, le quali,
peraltro, forse ci appaiono anche di maggior rilievo per
la perdita di altri complessi monumentali di epoca precedente. A queste poche luci, che ancora brillano in un
panorama che va sempre più incupendosi, si può forse
aggiungere un’interessante serie di grandi contenitori
maiolicati (orci), probabilmente destinati alle residenze
medicee, ed in gran parte fabbricati attraverso la mediazione della famiglia montelupina dei Marmi, ma si tratta pur sempre di poca cosa in confronto all’ormai tramontato splendore rinascimentale.
La stragrande maggioranza di questi contenitori
si colloca cronologicamente tra il 1620 e la fine del XVII
secolo: esse trovano preciso riferimento nell’attività delle
fornaci montelupine per la presenza della marca di bottega o dello stesso stemma della famiglia Marmi. Il sottosuolo di Montelupo, d’altronde, non ha mancato di
restituire alcuni esemplari di questi manufatti, contraddistinti anche da evidenti difetti di cottura.
A questi orci smaltati montelupini si affiancano
adesso anche manufatti invetriati nelle parti a vista, che
invece debbono essere attribuiti alle fornaci imprunetine, alle quali riportano palesemente le scritte di fabbricazione incise sulla loro superficie: essi si datano a partire dal 1631 (orcio della Villa La Pietraia), ma la loro
fabbricazione prosegue con ogni probabilità sino alla
seconda metà del Settecento. È probabile che gli orci
imprunetini più antichi fossero coperti di vetrina colorata in verde e solo più tardi – ci sono noti esempi della
prima metà del Settecento – si impiegasse anche una
colorazione “alla ferraccia”, con toni mielati e screziature di ramina.
Sia nel caso dei manufatti montelupini che di
quelli dell’Impruneta, siamo comunque adesso di fronte
ad orci destinati alla conservazione del vino, i quali si
affiancano al genere di orcio smaltato o rivestito a destinazione farmaceutica, già diffuso nel corso del secolo
precedente. Questo nuovo genere di contenitore fittile
sembra aver incontrato grande fortuna nella Toscana
del Sei e Settecento sull’onda di una vera e propria
Orcio maiolicato con stemma della
famiglia Marmi (datato 1619)
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enriched by scenes of birds, deer and leverets; a
Raphaelesque Montelupo style.
The most common shape of “vettina” devised in
Montelupo displayed a form with weakly sloping
shoulders, a small neck, a rim turned outwards and a
double ribbon-shaped handle. The third type became
more and more dominant. A vase shaped rather differently to the previous since it was characterised by
a more defined shoulder which corresponds to the
maximum diameter of the container. Furthermore
the neck was emphasized by it’s height, whereas the
handles wound themselves in a kind of coil and were
adorned by two heads at the base. On the side of the
jar were two canonical openings for the broach of
which the top one was transformed into a mask.
At the moment we know of six models of this
series, all strictly connected to the Marmi family for
the presence of their family coat of arms and the
“fishing hook” with which were branded all workshop
products. Four of these are characterised by a décor
that takes us back to Medicean porcelain and there
are precise references to (the Medici-Lorena coat of
arms, the business of Don Antonio, the putative son
of Francis I), the orders of the royal family.
Amongst the products which received a considerable stimulus in this period due to altered cultural
developments were the number of ceramics made for
religious purposes, even though they did not assume
a significant economical interest among local production. In fact, the spread of the Counter-Reformation
(Catholic Reformation) considerably increased the
popular acceptance of the cult of saints, particularly
encouraging the diffusion of the Marian cult, bound
to female psychology and family support. Indeed, in
those difficult years the Virgin Mary and the child
represented the image of divinity bound to the purer
and more elementary family love, nearly the tangible
proof of the fact that she knew and shared human
suffering, and in particular pain, sadly and so frequently in that period, caused by the loss of children.
The production of glazed plates rapidly
changed as objects with religious meanings multiplied and in fact from the middle and towards the end
of the 16th century it seemed that handmade painted
articles, flat plates with a white background in basrelief, inspired directly by products of Robbia, were
circulating. The choice of a yellow background
seemed to be adopted in the second half of the century. The continued increase in demand must have
subsequently vouched for the spread of tracing on
matrixes, a necessary technique in obtaining serial
pictures at a high-relief, more appropriate for the
new baroque sensitivity of the age. Now the models
to be copied were no longer only Robbia’s, including
Majolica jar with coat of arms of
Marmi family (dated 1619)
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moda, introdotta verso il 1618 dal granduca Cosimo II,
il quale aveva evidentemente accolto con entusiasmo la
proposta di fabbricare orci vinari propagandata da un
libretto di Giovan Antonio Fineo, sacerdote barese, intitolato: Il rimedio infallibile che conserva le quarantine
d’anni il vino in ogni paese, senza potersi mai guastare, e
pubblicato in Roma nel 1593.
Nel 1618 – diversi anni dopo la pubblicazione del
rimedio, quindi – Cosimo II diede ordine ad alcuni suoi
emissari di far produrre un limitato numero di questi
orci, denominandoli significativamente “vettine” – come
aveva fatto il Fineo, derivandolo dal latino vegetes, cioè
“botte” – in Faenza ed in Perugia. La fabbricazione delle
“vettine” si dimostrò però, oltreché costosa, inopinatamente lunga e piena di difficoltà. Fu così facile per
uomini come i Marmi, che da lungo tempo ricoprivano
un ruolo di primo piano nella Guardaroba e nella gestione delle ville medicee, indirizzare le commesse di Corte
verso le fornaci di Montelupo, nella cui attività erano
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
rivista però nella sua struttura allo scopo di meglio
echeggiare le pitture del soffitto, si deve ragionevolmente rapportare anche il pavimento realizzato nel 1627
per la cosiddetta “sala della Stufa” di Palazzo Pitti. Il
Ligozzi era morto l’anno precedente, e probabilmente il
Parigi, che sovrintendeva ai lavori in quest’ala del palazzo, apportò modifiche tanto radicali al progetto iniziale
da approdare ad una realizzazione di tipo nuovo, la
quale interrompeva definitivamente la tradizione tardomedievale e rinascimentale dei pavimenti maiolicati
intesi come “tappeto decorativo”.
Già Niccolò Pericoli, detto “il Tribolo”, nel secolo
precedente aveva iniziato a “ribattere” sul piano di calpestìo le decorazioni del soffitto; questa novità, sperimentata completando l’opera michelangiolesca nel pavimento della biblioteca Mediceo Laurenziana, lo stesso
Tribolo aveva forse potuto trasmettere direttamente ai
ceramisti montelupini, consegnando loro i cartoni della
cappella della villa strozziana La Casarotta, in quel di
san Casciano Val di Pesa. L’evoluzione marcata dalla
sala della Stufa fu però radicale: qui, infatti, le parti
figurate si sviluppano per uno spazio inusitato, riprendendo sì il soffitto dipinto da Matteo Rosselli, ma realizzando nel contempo scene d’invenzione. I grandi panelli collocati simmetricamente nel pavimento non rappresentano dunque altrettante “decorazioni” gerarchicamente subordinate all’ambiente, ma divengono ormai
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Si tratta di tre tipi diversi di contenitore, sui quali
si innestarono poi varianti morfologiche di dettaglio.
Al modello classico dell’orcio ovoidale, caldeggiato dal
Fineo, i ceramisti di Montelupo affiancarono infatti un
contenitore “a fiasco”, formato da un grande corpo globulare, sul quale andava ad innestarsi un lungo collo
cilindrico dal bordo voltato verso il basso. La decorazione di questi orci non poteva che alludere al loro contenuto, e consistere perciò nella rappresentazione invasiva
di grandi pampini e ciocche d’uva, alle quali, però, si
univano frutta ed animali stilizzati. L’insieme, concepito
come “abitato” da uccelli, cervi, leprotti, è spesso arricchito dagli elementi accessori della “raffaellesca” montelupina.
La forma più usuale di “vettina” elaborata in
Montelupo mostra invece un profilo ovoidale con spalla
poco pronunciata, il collo appena accennato, il bordo
ripiegato verso l’esterno e la doppia presa nastriforme,
ma una terza tipologia va prepotentemente emergendo
nelle nostre indagini. Si tratta di una forma vascolare
piuttosto diversa dalle precedenti, in quanto contraddistinta da una spalla assai più rialzata, la quale viene a
coincidere con il diametro massimo del contenitore; il
collo, inoltre, accentua il suo sviluppo in altezza, mentre
Orcio maiolicato “a fiasco” con l’iris fiorentino (1618-21)
le anse si avvolgono in una sorta di “rocchetto”, e sono
impreziosite da due testine sottostanti. Sul lato a vista
dell’orcio si aprono i due fori canonici per lo spillo, il
superiore dei quali è trasformato in mascherone.
Di questa serie conosciamo per il momento sei
esemplari, tutti strettamente legati dal riferimento all’attività imprenditoriale dei Marmi o per la presenza dello
stemma di quella famiglia o per l’ “amo da pesca” con il
quale essi marcavano i prodotti di bottega. Quattro di
questi sono contraddistinti da un decoro che ci riporta
alla porcellana medicea, e sviluppano riferimenti precisi (stemma Medici-Lorena, impresa di Don Antonio,
figlio putativo di Francesco I) alla committenza della
casa regnante.
Tra i generi che, pur non assumendo un ruolo
economicamente significativo nel novero della produzione locale, ricevono un sensibile impulso in quest’epoca, in ragione di un mutato clima culturale, sono
da annoverare anche le ceramiche di tipo devozionale.
Il diffondersi della Controriforma (o, se vogliamo, della
Riforma cattolica) ampliò infatti in misura considerevole l’accettazione popolare del culto dei santi, favorendo particolarmente la diffusione di quello mariano,
legato alla psicologia femminile ed alla sfera di protezione della famiglia. La Madonna col bambino rappresentò infatti in quegli anni difficili l’immagine della
divinità legata ai più puri ed elementari affetti familiari,
quasi la prova tangibile del fatto che Essa conosceva e
condivideva le umane pene, ed in particolare il dolore,
purtroppo così frequente allora, causato dalla perdita
dei figli.
La produzione di targhe maiolicate con soggetti
devozionali si moltiplicò e mutò rapidamente di natura
sul finire del Cinquecento. Verso la metà di quel secolo,
infatti, sembra che circolassero soprattutto manufatti
dipinti su fondo bianco, ispirati direttamente ai prodotti robbiani, su lastra piana od in basso rilievo. L’adozione di uno sfondo giallo, sembra trovare i suoi primi
esempi nella seconda metà del secolo. Il continuo
ampliarsi della domanda deve aver successivamente
consigliato di generalizzare l’adozione della calcatura
su matrice, tecnica necessaria ad ottenere immagini
seriali e ad alto rilievo, più confacenti all’incipiente sensibilità barocca dell’epoca. I modelli da imitare divengono adesso non soltanto i robbiani, compreso la replica
della plastica a tutto tondo, ma anche quelli connessi
con l’innovazione “popolare” dei medesimi, con le elaborazioni e semplificazioni – in particolare dell’immagine
mariana – di questo repertorio che si dispiega nelle
anconette domestiche dei Sei e Settecento. Si tratta di
manufatti in legno e gesso legati alla devozione privata,
ed ancora dipendenti dal modello dell’altaruolo tardomedievale a fondo d’oro, che ora – specie nei primi –
consiste soprattutto in un fondale di cuoio dorato, arric-
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Majolica jar “a fiasco” with the symbol of Florence (iris) (1618-21)
a replica of the rounded model, but also those connected with the “popular” innovations of the same
model - in particular the Marian image – with elaborations and simplifications. This repertoire which
was developed into small domestic altarpieces of the
XVII and XVIII century. These are handmade wooden
and plaster articles depicting private devotion and
dependent on the model of the late medieval
“altaruolo” with a golden background, which at first
consisted above all of a golden leather background,
enriched by various impressions obtained by a metal
stamp.
To conform with these models, the potters of
Montelupo started using a yellow pigment for the
background of their glazed plates, which actually
consisted of a white tin colour made from by lead.
The pigment’s density gave light to the glazing and
often only a part of the hand made article was visible
adding not only depth but brightness too and likewise
with certain brush-stroke bestowed an aspect of
golden and compact surface to the background,
which was exactly what the potters were looking for.
It was also the quantity of surviving documents
that were significant for their production, we must
therefore conclude that the height of production was
between the end of the XVII century and the first ten
years of the following Century. Furthermore, it is
interesting to observe that the Ferruzzi family who
came from Faenza or the surrounding area, stood out
amongst the other protagonists of this collection,
which seemed to fully correspond to the cultural criteria typical of Tuscan pottery,
After the plague epidemic in 1630-32, Tuscany
realized that it had changed from having a considerable pottery into a region which was heavily
importing clay products from abroad. In fact, the
majolica crisis had turned out to be so strong that it
had substantially opened the regional market for
handmade articles from Faenza, Deruta and above all
Liguria (Albisola and Savona). For this reason, just
after the middle of the XVII century, it became
obvious that it was necessary to redevelop the
majolica production.
The crisis that involved the Tuscan pottery companies at the beginning of the XVII century, however,
didn’t fail to cancel the shy attempts of revival carried
out in Tuscany. For example, the ceramic factory that
Niccolò Sisti from Norcia was supposed to have been
established at Pisa. As it was not very well-known,
maybe it’s actual nature was misinterpreted. This
same Medicean pottery company did however survive
during the glorious period of Francis I principality
and then had to be abandoned in the 1620s.
Significant proof of this critical period, in
which the State authorities confusedly attempted to
support new clay production was documented. In the
kilns of San Miniato al Tedesco, where a production
activity was attempted and succeeded in 1655. Some
of the potters from Sienese Ascanio were transferred
there to assist and to help in this process of starting
up their activity, the newcomers thought it best to ask
the Prince a patent-right on the enamel production,
which was to stretch out over a range of 25 miles with
a walled land as mainstay. Obviously within this area
was included Montelupo, and to support the tenants’
request, the workers at the local hospital and owners
of the kilns, assumed that this wouldn’t create any
problems, since in the Valdarno they weren’t producing any real majolica at this time. Even though
Florence avoided to accept such a contrived plea and
it is clear that some similar propositions were made
in order to enhance production of quality ceramics in
Montelupo, technically not abreast with the best
enamel workmanship of this period as pointed out by
the local archaeological societies.
The new collection that started up in the middle
of the XVII century, took place largely with a new
phase of quality clay manufactures, using potters
from Liguria. In fact, these brave successors of the
great tradition of Savona and Albisola understood
how to benefit from the recession that had seized
neighbouring Tuscany and since then used connections with Tirrenian trade and were in a position to
open up new kilns.
This phenomenon, still has to be investigated at
length was lead by such protagonists such as Giovanni Antonio Salomoni, who already in 1642 had
opened majolica workshop in Lucca by concession of
local administration, “Genoese” Stefano Grogio, who
was working in the Chigi factory of San Quirico
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
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MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
coinvolti in prima persona; essi, del resto, ben sapevano
che i vasai montelupini producevano da tempo, sulla
scorta di manufatti grezzi, realizzati dai sapienti terracottai di Samminiatello e di Camaioni, contenitori
vascolari smaltati di grandi dimensioni. Non è dunque
per caso che la produzione dei più antichi orci smaltati
di Montelupo, contraddistinti da questa particolare
destinazione d’uso, mostri spesso la marca dei Marmi
(un amo da pesca stilizzato) o lo stemma di quella famiglia, evidenziando nel contempo datazioni comprese tra
il 1620 ed il 1621, di poco successive all’“affare delle
vettine”.
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
chito da varie impressioni ottenute con un punzone
metallico.
Per corrispondere a questi modelli, i ceramisti
montelupini impiegarono per gli sfondi delle loro targhe
maiolicate un pigmento giallo, che in realtà consiste in
un bianco di stagno colorato d’antimoniato di piombo.
La densità del pigmento, aggiunto alla lieve smaltatura –
spesso comprensiva della sola parte a vista – del manufatto, non solo aggiunge corpo e brillantezza, ma confonde altresì il segno del pennello, conferendo al fondale quell’aspetto di superficie dorata e compatta che i
ceramisti ricercavano.
Se la quantità dei documenti superstiti è significativa anche della loro produzione, dovremmo concludere
che l’apice della medesima si colloca tra la fine del XVII
ed i primi lustri del secolo successivo. È poi curioso
notare che tra i protagonisti di questa stagione, che
sembra corrispondere appieno ai parametri culturali
tipici della ceramica toscana, emerga su tutte la famiglia
dei Ferruzzi, che proviene invece da Faenza o, forse, da
qualche paese attorno a quella città.
Trascorsa la pandemia di peste del 1630-32, la
Toscana si accorse di essersi trasformata da luogo di
forte produzione ceramica a regione che ormai importava massicciamente prodotti fittili dall’estero. La crisi
della maiolica, infatti, era divenuta così forte da aprire
in maniera sempre più consistente il mercato regionale
ai manufatti faentini, derutesi e, soprattutto, liguri (di
Albisola e Savona). Fu così che si affacciò, poco oltre la
metà del Seicento, l’esigenza di sviluppare di nuovo la
fabbricazione della maiolica.
La crisi che coinvolgeva le imprese ceramiche
toscane all’inizio del Seicento, non mancò però di annullare i timidi tentativi di rinascita esperiti in Toscana,
come la manifattura – peraltro assai poco nota e, forse,
persino fraintesa nel suo carattere effettivo – che avrebbe avviato Niccolò Sisti da Norcia in Pisa. La stessa
impresa medicea della porcellana – che però sostanzialmente sopravviveva a se stessa dopo il periodo glorioso
del principato di Francesco I – dovette essere abbandonata negli anni Venti del XVII secolo.
Di questa fase critica, nella quale le autorità dello
Stato tentarono confusamente di sostenere una nuova
produzione fittile, costituisce significativa testimonianza la vicenda della fornace di San Miniato al Tedesco,
ove nel 1655 si tentò di avviare un’attività produttiva –
cosa che in effetti accadde – trasportando sul posto alcuni vasai provenienti da Asciano senese. I nuovi arrivati,
per poter iniziare con più agio la loro attività, pensarono
bene di chiedere al Principe una privativa sulla produzione a smalto, da estendersi, facendo perno su quella
cittadina, per un raggio di venticinque miglia. Entro
questa distanza era ovviamente compreso Montelupo,
ed è sintomatico che, a supporto della richiesta degli
d’Orcia, launched by Cardinal Flavio in 1693 until
1712 and finally Domenico Lorenzo Levantino from
Savona, after whom the building in Empoli built in
1765 is named which was to become the most important factory of enamelled pottery of the whole region.
other productive centres that had already had
thriving businesses in the preceding century.
The most successful companies of the XVIII
century were in chronological order, the Chigi factory
in San Quirico d’Orcia, the Ginori porcelain of Doccia
and the above mentioned Levantino company of
Empoli, which due to higher economic resources
were able to increase the regional market, caused by
decline of the traditional centres from about the
middle of the XVIII century onwards, supporting a
new period of economic growth.
Whilst Marquis Carlo Ginori was throwing
himself into the porcelain adventure, devoting himself marginally also to the Majolica, the Levant concentrated its activity on the latest trend where the prevailing French production, the bright star of the neoclassic décor “à la Bérain” and the factories of Nèvers
and Moustier were shining ever more.
Instead, Chigi’s story was different; we have
seen how the Chigi factory started up in1693 by Cardinal Flavio Chigi on the outskirts of San Quirico
d’Orcia in a place called Fonte alla Vena and how the
family business grew considerably in a short period
of time with the construction of two other furnaces,
one in the villa of Cetinale and the other in the area
of Vico Bello near Siena.
At the beginning of the Chigi pottery activity
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
118
In an Italy eager to be Revived: the End of Majolica
and the Extraordinary Development of Pots and Pans.
It is precisely from the second half of the 17th century
that the ancient pottery centres of Italy (including
Faenza) started rapidly to decline under the blows of
the new quality rules widely diffused by the shipping
trade. Thus the process of “division by quality”
launched in the period of inflation grew, reaching its
peak in the 16th century. In fact, whereas the traditional workshops were for ever more driven to satisfy
a low level market, the well-off Tuscan classes got
accustomed to buying porcelain of all sorts. The very
fortunate Dutch imitation of these products, delftware is obviously the so-called “Majolica of Genova”.
It was therefore no longer possible until the
economic recovery at the end of the XVIIII century
for the regional pottery companies to escape from
these lethal cutbacks, trying once more to develop a
tradition of quality in the ancient factory centres. The
only practical way was, especially in the XVIII century, to reconstruct furnaces designed by potters from
La nuova stagione che si apriva verso la metà del
Seicento, svolgendosi per larga parte sotto il segno del
reimpianto di fabbricazioni fittili di qualità, venne
soprattutto attuata attraverso l’apporto di vasai liguri.
Questi intrepidi eredi della grande tradizione savonese
ed albisolese seppero infatti approfittare della recessione produttiva che attanagliava la vicina Toscana, da
sempre collegata alla loro terra dai traffici tirrenici, per
qui trasferirsi ed aprire nuove fornaci.
Di tale fenomeno, ancora in larga parte da indagare, furono protagonisti quel Giovanni Antonio Salo-
Targa maiolicata di Andrea Ferruzzi
(datata 1719)
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
affittuari, gli operai dell’ospedale locale, proprietari della
fornace, allegassero candidamente che ciò non avrebbe
creato problemi, in quanto nel centro valdarnese non si
produceva vera maiolica. Anche se Firenze si guardò
bene da accogliere una supplica così congegnata, è evidente come simili affermazioni intendessero amplificare in maniera tendenziosa l’eco di quello scadimento
qualitativo della produzione montelupina – tecnicamente non più al passo con la migliori lavorazioni a smalto
dell’epoca – che le restituzioni archeologiche locali non
mancano di evidenziare.
119
Ferruzzi (dated 1719)
there were local craftsmen, amongst whom the
painter Giovan Battista Massaini leased from the
owners recently built pottery stores. There is frequent
mention to gold trimmings (appliqués) which were
fixed at low temperatures and we can see these today
in museums and in private collections in southern
Tuscany. These black enamelled and subsequently
gilded pieces presented the first period of activity;
however, documentation shows how the various ateliers of the Chigi family practised various types,
ranging from earthenware to dinner-services in
Majolica.
The arrival of Francesco Antonio Piergentili in
San Quirico in 1710 and most of all of the above mentioned Stefano Grogio from Genoa a little later in
1712, brought about a decisive qualitative leap in production. In spite the death of Grogio the following
year, it made male heir, Bartolomeo Terchi’s arrival in
Siena much easier.
Bartolomeo born in Rome in 1691, son of a Flo-
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
Majolica plaque by Andrea
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
In un’Italia desiderosa di rinascere: la fine della
maiolica e lo straordinario sviluppo del pentolame.
È appunto dalla seconda metà del Seicento che vengono
rapidamente a declinare gli antichi centri di produzione
ceramici d’Italia (ivi compresa la stessa Faenza) sotto i
colpi dei nuovi generi di qualità, ampiamente veicolati
dal commercio marittimo. Giungeva così al suo compimento quel processo di “separazione per qualità” già
avviatosi col periodo di crescita dell’inflazione cinquecentesca. Mentre, infatti, le botteghe tradizionali sono
sempre più spinte a soddisfare un mercato di basso
livello, i ceti agiati della Toscana si abituano ad acquistare porcellane di ogni genere, la fortunatissima imitazione olandese di tali prodotti, il delftware (qui noto
come “terra di Delfo”) e, ovviamente, la cosiddetta
“maiolica di Genova”.
Sino alla ripresa economica della fine del XIX
secolo non sarà dunque più possibile per le imprese
ceramiche regionali sottrarsi a questa forbice mortale,
sviluppando nuovamente negli antichi centri di fabbrica
una tradizione di qualità. L’unica via praticabile fu,
soprattutto nel Settecento, quella della costruzione ex
novo di fornaci gestite da vasai spesso provenienti da
altre realtà produttive, già peraltro avviata nel secolo
precedente.
Il maggiore successo delle imprese settecentesche
– che furono in ordine cronologico la manifattura Chigi
in San Quirico d’Orcia, quella delle porcellane Ginori di
Doccia e la già menzionata impresa Levantino di Empoli – si deve all’impiego di risorse economiche assai più
elevate, ma anche all’ampliamento del mercato regionale, determinato dal declino dei centri tradizionali, e poi,
dalla metà circa del XVIII secolo, sostenuto da una
nuova fase di crescita dell’economia.
Mentre il marchese Carlo Ginori si gettava nell’avventura della porcellana, dedicandosi anche alla maiolica, il Levantino incentrava su quest’ultima la sua attività: entrambi, tuttavia, procedevano sulla scia dell’imperante produzione francese, che vedeva brillare sempre
più fulgidamente la stella neoclassica del decoro “à la
Bérain” e le fabbriche di Nèvers e Moustier.
Diversa fu invece la vicenda dei Chigi. Abbiamo
visto come la manifattura chigiana fosse stata avviata
attorno al 1693, per iniziativa del cardinale Flavio Chigi,
in San Quirico d’Orcia, poco fuori dell’abitato, nel luogo
detto Fonte alla Vena; in breve volgere di tempo, però,
l’impresa della famiglia si moltiplicò considerevolmente,
con la costruzione di altre due fornaci, una posta nella
villa di Cetinale, e l’altra a Siena, in località Vico Bello.
All’inizio delle attività ceramistiche chigiane troviamo artigiani locali – tra i quali il pittore Giovan Battista Massaini – che sembrano tenere in locazione dai
proprietari gli esercizi di vasaio da poco edificati. La
frequente menzione di applicazioni in oro – verosimilmente fissato a bassa temperatura – lascia inoltre intendere che almeno alcune tra le ceramiche smaltate di
nero (e successivamente dorate) esistenti in raccolte
museali e collezioni private della Toscana meridionale
possano derivare proprio da questa prima fase di attività; la documentazione d’archivio, tuttavia, dimostra
come i diversi ateliers dei Chigi si esercitassero su varie
tipologie, spaziando dalle terrecote ai servizi in maiolica
per la tavola.
L’arrivo di Francesco Antonio Piergentili a San
Quirico nel 1710, e soprattutto quello del già citato pittore “genovese” Stefano Grogio poco tempo dopo
(1712), determinò un decisivo salto di qualità della produzione. Nonostante avesse un erede maschio, la morte
del Grogio, sopravvenuta nell’anno seguente, facilitò
l’arrivo nella terra senese di Bartolomeo Terchi.
Bartolomeo, nato a Roma nel 1691 da un immi-
grato fiorentino, era un giovane che forse aveva già
appreso nell’Urbe l’arte della pittura su maiolica; la sua
attività in San Quirico dal 1717 fu comunque assai
varia, spaziando dalla più modesta vaseria alle opere di
raffinata pittura. Il Terchi lasciò Fonte alla Vena il 4
novembre del 1724 per recarsi a Siena, e nella conduzione della fornace gli subentrò il Piergentili, che comunque aveva sempre lavorato nei diversi esercizi chigiani.
Francesco Antonio morì nel 1730, e dopo la sua scomparsa la produzione di San Quirico si deve a Santi
Chiecchi (o Tiecchi) ed a Girolamo Apolloni, che si alternarono nella vasaria sino al 1742.
La manifattura di Siena, allontanatosi nel frattempo il Terchi, che emigrò in Bassano di Sutri, fu tenuta dalla famiglia Ceccarelli, che vi produceva oggetti di
modesta qualità. Dal 1732 i Chigi Zondadari stabilirono
però rapporti di commitenza con un apprezzato pittore
dell’epoca – al quale è stato spesso accostato, come
imprenditore, il nome di Domenico Ciabattini – che
sapeva esprimersi sia sulla tela che nella ceramica: Ferdinando Maria Campani. Per il fatto che egli, più giovane del Terchi, risulti presente in Siena già nel 1725, si è
potuto ipotizzare un rapporto tra i due, forse emigrati in
Toscana a breve distanza di tempo l’uno dall’altro per
medesime finalità d’impiego, ma tuttavia ciò non è
ancora suffragato da alcun documento, anche se sottolineato dalla similitudine tematica delle loro opere.
121
120
rentine immigrant, learnt the art of painting on
majolica when he was a young man in the Eternal
City of Rome. However his activity in San Quirico
from 1717 was most varied, ranging from the most
simple pottery to works of refined painting.
Terchi left Fonte alla Vena for Siena on the 4th
November 1724, and he was replaced by Piergentili,
who had always worked in the various Chigi shops,
to oversee the running of the furnace. Francesco
Antonio died in 1730 and after his death, the production of San Quirico was ran by Santi Chiecchi (or
Tiecchi) and by Girolamo Apolloni, who took turns at
the pottery until 1742.
In the meantime, Terchi emigrated to Bassano
di Sutri and the factory of Siena was run by the Ceccarelli family, who produced objects of modest
quality. After 1732, however Chigi Zondadori placed
orders with an esteemed painter of the period, Ferdinando Maria Campani and who had often been associated with Domenico Ciabattini, who knew how to
express himself both on canvas and pottery. Since he
was younger than Terchi and already present in Siena
by 1725, it was assumed that there was a relationship
between the two, maybe as both had emigrated to
Tuscany shortly after one another for the same reasons of employment. However, this has yet to be supported by documentation, even though it is accentu-
ated by the similarity of subject of their works.
In fact, both Campani, who was for this reason
called “the Raphael of Majolica” and Terchi based
their subjects on printed illustrations from antique
books, however due to their worn-out condition they
had to invent some scenes and Arcadian landscapes
were the main protagonists. Thus both the artists
used ceramics with more simple surfaces on which to
paint, than used in the past to outline the functional
specificity and the same morphological values.
This direction which was observed with great
interest by the academic painting authorities and was
of great importance, due mainly to the perfect bond
of this production with the period’s taste. It was
obvious however that it couldn’t definitively represent
a road capable of reviving the production of Majolica.
In fact, despite traces of the continued production
throughout the whole of the XVIII century, the pottery companies of Chigi showed evident signs of
decline in the middle of the XVIII century, to the
point that their existence is not explicitly certified in
the “Report on the condition of the factories of 1768”.
Thus leaving out Levantino’s furnace in
Empoli, the survival of an activity in Siena and one
in Montelupo, not much remained of the Majolica
tradition in Tuscany. In the period of the above mentioned Report, there were only three pottery work-
shops still working in Siena, whose production was
estimated to be worth around 2.500 scudi. However,
only a part of them – unfortunately not quantifiable
regarding the production of enamels. Moreover the
decline of this Sienese art was fully emphasized by
the authors of the document who declared that “this
activity” had “diminished by three-quarters in the last
fifty years”.
Still, if it was possible, the six furnaces “of the
jugs, plates and similar” situated in Montelupo were
in a worse state. Their trade was valued at very little
(only 1.620 lira, equal to 231 scudi). One can deduce
how secondary this production had become in the
Valdarno town, considering that the workshops
which simultaneously produced pots and pans (six)
and earthenwares (ten) supplied a trade of 357 and
1.250 scudi.
The conclusion of the decline and no hope for
recovery of 18th century Majolica of Montelupo is
clearly shown. In the types produced, above all, one
could notice a strong technological decline. The chromatic palette was poorer and was mainly concentrated with the use of green and manganese, the two
cheapest and most available pigments that characterized the first enamelled production of “archaic
Majolica”, together with the scrap iron orange (fig,
48). Whilst the production of white Majolica gained
ground, maintaining at it’s height the late abridged
vase shapes, the use of cobalt blue was also reduced.
During the last thirty years of the 18th century some
attempts were made to imitate the French Majolica
with small flower garlands around the rim.
Between the two periods the intermediary role
was acted by principle decorations such as the green
leaf, popularly called “cabbage leaf”, which in effect
was nothing more than the re-proposal in copper
flake ever more “worn-out” and trivial than the vine
leaf in Ligurian and Venetian blue. The green leaf,
known since 1625 as a Pisan restitution,a fragment
dated “1640” had been found in Montelupo, represented one of the point of reference even for 18th century production and is used both on closed or open
moulds. Another important decoration in this period
is the one called “green spirals”, which also concealed
the long term weariness of the similar orange décor,
developed in the workshops of Montelupo mainly
during the second half of the XVI century.
The eighteen-century version probably originated at the beginning of the century and became a
widespread aspect of Valdarno production, thanks to
it’s ability to adjust to the new form introduced in
those years, the hemispheric basin with a small horizontal brim. Shortening the expansion of it’s spirals
and folding on itself like a kind of fan and the old
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
moni, che già nel 1642 tenne, con privilegio del governo
della città, una bottega di maioliche a Lucca, ma anche
il “genovese” Stefano Grogio, attivo nella manifattura
Chigi di San Quirico d’Orcia – avviata dal cardinale Flavio attorno al 1693 – dal 1712, ed infine il savonese
Domenico Lorenzo Levantino, al quale si deve l’edificazione in Empoli nel 1765 di quella che sarebbe stata la
più importante fabbrica di ceramica smaltata dell’intera
regione.
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
ca della suddetta Relazione, solo tre botteghe ceramiche,
la cui produzione era stimata d’un valore di circa 2.500
scudi: solo una porzione di essa – purtroppo non quantificabile – riguardava però la fabbricazione a smalto. La
decadenza dell’arte senese, del resto, era ampiamente
sottolineata dagli estensori del documento, che affermavano “questo lavorìo” essere “scemato di quasi tre
quarti da cinquant’anni in qua”.
Ancora in peggior stato, se possibile, si trovavano
le fornaci “dei boccali, piatti e simili” poste in Montelupo, che erano sei, ma il loro traffico era valutato assai
poco (solo 1.620 lire, pari a circa 231 scudi). Quanto
fosse divenuta marginale questo genere di produzione
nel centro valdarnese lo si può dedurre dal fatto che
contemporaneamente le botteghe dedite alla fabbricazione di pentolame (sei) e terrecotte (dieci) alimentavano rispettivamente un traffico di 357 e 1.250 scudi.
L’immagine delle maioliche montelupine del
XVIII secolo quale ci è offerta dallo scavo dello scarico
più importante di questo periodo rinvenuto a Montelupo (ma non solo da quello), contenuto in un fondo dell’attuale via XX settembre, mostra in effetti il compimento della parabola discendente che era stata imboccata, ormai senza possibilità di recupero, verso il 1640.
Le tipologie prodotte erano ridotte nel numero e, soprattutto, si notava un forte regresso tecnologico. La tavolozza cromatica era impoverita e si incentrava soprattutto
sull’uso del verde e del manganese, i due pigmenti di
minor costo e di più facile reperibilità – che non per
caso improntarono della loro presenza la prima produzione smaltata della “maiolica arcaica” – ai quali si
univa l’arancio ferraccia. Mentre prendeva sempre più
piede la fabbricazione della maiolica bianca, che manteneva in auge le forme vascolari del tardo compendiario,
il blu di cobalto si riduceva a qualche tentativo, che
forse terminò prima dell’ultimo trentennio del XVIII
secolo, di imitare la maiolica francese con il contorno
alla ghirlandina floreale.
La funzione di tramite tra i due periodi è svolta
da alcuni decorazioni che potremmo chiamare “principali”, come la foglia verde, detta popolarmente “foglia di
cavolo”, la quale in effetti non era nient’altro che la
riproposizione in ramina – sempre più “estenuata” e
banalizzata – della foglia di vite in blu ligure e veneta.
Nota con datazioni che si spingono sino al 1625 in una
restituzione pisana (un frammento con data “1640” è
stato rinvenuto in Montelupo), la foglia verde rappresenta uno dei punti di riferimento anche per la produzione
settecentesca, ed è impiegata indifferentemente sia sulle
forme chiuse che sulle aperte.
Un’altra decorazione fondamentale di questo
periodo è quella detta “a spirali verdi”, che cela anch’essa l’estenuazione di lungo periodo del consimile decoro
in arancio, sviluppato dalle botteghe montelupine
soprattutto durante la seconda metà del Cinquecento.
La versione settecentesca nasce probabilmente all’inizio
del secolo, e si diffonde considerevolmente nella produzione valdarnese grazie alla sua capacità di ben adattarsi alla forma-guida introdotta in questi anni: la catinella emisferica con piccola tesa orizzontale. Accorciando l’espandersi delle sue volute, e ripiegandosi su di sé
come a disegnare una sorta di ventaglio, l’antico segno
spiralato può saturare con naturalezza le pareti delle
catinelle, conferendo un’innegabile vivacità a questi
manufatti, che sembrano ancora apprezzati nei mercati
mediterranei (ampi ritrovamenti in tutta l’area centromeridionale, nelle isole, e lungo le coste orientali ed
insulari della Grecia, sino a Cipro).
La documentazione relativa a questo periodo di
forte regresso della produzione di Montelupo segnala in
effetti come siano state queste tipologie, le quali meglio
rappresentano il legame con il secolo precedente, a
costituire i generi ancora apprezzati nelle aree interregionali ed anche – grazie al traffico navale inglese e
francese che faceva capo al porto di Livorno – sui mercati orientali. Se si eccettuano le tipologie alla “foglia
verde” ed alle “spirali verdi”, però, si può constatare
come le superstiti fornaci montelupine producessero
maioliche destinate quasi esclusivamente al mercato
interno, poiché le decorazioni delle quali si fregiano
(“mazzetto fiorito” in verde e blu, “stemmi” decorativi,
123
122
spiral sign can naturally fill the sides of the basin,
bestowing an undeniable liveliness to these handmade articles, that still seem to be appreciated in the
Mediterranean market. Many discoveries in the
whole of the central Mediterranean area and on the
islands along the eastern and insular coasts of Greece
until Cyprus.
The documents related to this period of strong
regression in Montelupo production, actually indicated how these types, which best represented the
bond with the previous century, formed the designs
still appreciated in the inter-regional areas and also,
thanks to the English and French naval traffic in the
port of Leghorn to the Eastern markets. However,
except the “green leaf” and “green spiral” types one
may observe how the surviving furnaces of Montelupo were producing Majolicas intended almost
solely for the internal market, because the adorned
decorations, green and blue “bunches of flowers” and
decorative “escutcheon” and “birds” do not appear on
the excavation documents of the extra-regional kind.
This phenomenon is, however, comprehensible when
considering that the continuous technical-aesthetic
deterioration of local production, which had already
been seen at the end of the XVII century and the
return of the reddish mixture and supremacy of green
and brown as already mentioned, referring to the old
parameters of the medieval “archaic Majolica”, compared to the wider diffusion of porcelain, of the
French and Dutch quality Majolica and lastly, the
appearance in the Mediterranean markets of English
pottery.
This situation is well-documented by an
analysis of the Grand Duchy of Tuscany’s trade balance, requested by Peter Leopold I as a cognitive support to the customs’ reform. It clearly emerged from
the enquiry, how the regression of the internal production was compared to a strong foreign import of
quality goods, which in 1772 was estimated, in spite
of the full activity achieved by the factory of Doccia,
for the same porcelain to be of 1.509 lira (over 315
scudi). The import to Tuscany of this kind of vase was
less than other valuable goods which were valued by
the customs’ register by weight only. Amongst them,
in fact, the “foreign Majolica” rose to 1.685 libra, the
“Delpho earth” (meaning the Dutch Majolica imitating porcelain) to 28.110 libra, the “Genoese earthenware” (the “Savona and Arbizzola”) to even 24.506
libra.
Clay products of this kind have even been
reported in places far away from the Italian coasts:
for example the presence of these handmade articles
could be found in the Greek island of Corfu and other
areas of Greece, particularly in those areas of the con-
tinent with a high olive production like the plains of
Delphi and in the Cyclades (Naxos, Santorini).
Between the XVII and XVIII centuries, the Impruneta
potters manged to diversify their activity with or
without the engobe.
This production was important in the in Tuscan
towns of Montelupo and Impruneta between the XVII
and VIII centuries, even though of minor conventional quality but derived from a vast technical scholarship and they provided different streams of export.
Montelupo or rather, the furnaces situated in
its suburbs of Samminiatello and Camaioni produced
a lot during the XVII century, selling much of its
earthenware to the Pisa and Lucca areas and generally more to the international market. Not by chance
evidence of a pitcher signed “Bitossi” and dated
“1789” was found on the wreck of an English warship
sunk in the Australian seas at the end of the18th Century. After all, plenty of Montelupo pitchers arrived in
England by way of the oil trade and were even used
as signs on the shops which sold olive oil (H. Blake
Report).
However, the Valdarno products, favoured in
the exportation by waterways were of an inferior
quality in respect to the ones from Impruneta, since
the latter were modelled with quarry earth which
bestowed a spectacular gift of durableness. Thus it
was for these products that were branded with a certain quality and were in demand, especially for earthenware for outdoors; a requirement which had
spread further and further with the springing up of
gardens and villas. However, the earthenware makers
of Impruneta, who made heavy and bulky articles did
not have the same advantages of their Montelupo colleagues with the navigable waterways for transporting their goods and for this reason their products
had a greater presence in the internal market of Tuscany, where they occupied the niche of quality, but
they did not have the same distribution in the international market.
Between the XVII and XVIII centuries, the potters of Impruneta discovered, how to diversify their
activity, so much so as to succeed in adding a varnish
on the clay so durable preserving any coating. The
authors of the 1768 Inquiry declared that the local
furnaces, of which unfortunately though they
couldn’t number, had produced yearly during the
1764-1768 period at least 736 oil jars, more than 500
plant or flower pots, 700 basins and as much vessels,
as well as 120 bases for citrus trees. In the same
period the potters of Impruneta had produced each
year 6 statues in earthenware and this information
together with the typology of their activity, as one can
deduce from this document confirmed them once
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Sia il Campani – che per questo fu anche detto “il
Raffaello della maiolica”- che il Terchi ripresero infatti i
soggetti dell’antico istoriato, svincolandoli però dalla
stanca ripetizione delle illustrazioni a stampa o, comunque, dalla serialità, per volgersi alla libera invenzione di
scene, ove un paesaggio arcadico esercita sovente il
ruolo del protagonista. Per entrambi gli artisti, dunque,
il supporto ceramico assume, molto più che nel passato,
il valore di una mera superficie da dipingere, ed in parte
ciò può anche adombrarne la specificità funzionale e gli
stessi valori morfologici.
Pur essendo di grande importanza, anche in
ragione della perfetta aderenza di tale produzione al
gusto dell’epoca, è evidente come questa strada – alla
quale è stato poi guardato con interesse dalla pittura
accademica – non potesse, in definitiva, rappresentare
una via in grado di far rinascere la lavorazione della
maiolica. Nonostante vi siano tracce della prosecuzione
delle attività per tutto il XVIII secolo, infatti, le imprese
ceramiche chigiane mostrano tracce di evidente decadenza alla metà del Settecento, tanto che la loro esistenza non è esplicitamente attestata nella Relazione
sullo stato delle manifatture del 1768.
Se si eccettua, quindi, la fornace del Levantino in
Empoli, e le sopravvivenze di un’attività in Siena e Montelupo, ben poca cosa restava della tradizione della
maiolica in Toscana. A Siena risultavano attive, all’epo-
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Toscana era allora ben poca rispetto ad altre ceramiche di pregio, le quali furono stimate attraverso i registri
di dogana soltanto a peso. Tra di esse, infatti, la “maiolica forestiera” ascendeva a 1.685 libbre, la “terra di
Delfo” (cioè la maiolica olandese ad imitazione della
porcellana) a 28.110 libbre, il “vasellame di Genova”
(ma, come precisa la fonte, di “Savona e Arbizzola”) a
ben 24.506 libbre.
In queste condizioni, oltre alle produzioni di
minore qualità formale, anche se spesso derivanti da
grande sapienza tecnica, tra Sei e Settecento restò
appannaggio dei centri tradizionali soprattutto la produzione del pentolame da cucina e delle terrecotte. Quest’ultima, come sappiamo, aveva in Toscana i suoi centri
d’elezione in Montelupo ed Impruneta. Essi alimentavano flussi d’esportazione diversi.
Montelupo – o meglio, le fornaci poste nei suoi
borghi di Samminiatello e Camaioni – produsse moltissimo nel corso del Settecento, esitando gran parte delle
sue terrecotte nel Pisano, la Lucchesia e, più in generale,
nel mercato internazionale. Non per caso si è potuto
documentare un orcio siglato “Bitossi” e datato “1789”
nell’isola greca di Corfù, ma la presenza di questi manu-
Catinella con decoro “a spirali
verdi” (1740-80)
fatti si nota in tutta la Grecia, ed in particolare nelle
zone a più alta vocazione olivicola del continente (pianura di Delfi) e delle Cicladi (Naxos, Santorini). Fittili di
questo genere sono segnalati anche in ritrovamenti
marittimi a grandissima distanza dalle coste italiane:
un esemplare montelupino, ad esempio, è stato recentemente recuperato nel relitto di una nave da guerra inglese, affondata nei mari australiani alla fine del XVIII
secolo. Gli orci montelupini, del resto, raggiungevano in
abbondanza l’Inghilterra attraverso il commercio oleario, e venivano persino utilizzati come insegne degli
esercizi commerciali che vendevano l’olio d’oliva (comunicazione di H. Blake).
I prodotti valdarnesi, favoriti nell’eportazione
dalla presenza della via d’acqua, erano però di qualità
inferiore rispetto a quelli imprunetini, per essere questi
ultimi foggiati con una terra di cava che conferiva loro
spettacolari doti di durevolezza. Verso questi prodotti,
quindi, si indirizzava di preferenza la richiesta di qualità, e coloro i quali desideravano acquistare terrecotte da
collocare all’aperto: un’esigenza che, con il proliferare
dei giardini e delle ville, andava sempre più diffondendosi. I terracottai dell’Impruneta, però, che pure fabbricavano manufatti pesanti e di ingombranti dimensioni, non avevano al pari dei loro colleghi montelupini
l’opportunità di poter usufruire di corsi d’acqua navigabili per il loro trasporto: è per questo che i loro prodotti
sono largamente presenti nel mercato interno della
Toscana, ove occupano la nicchia di qualità, ma non
trovarono pari diffusione sul mercato internazionale.
Tra Sei e Settecento i vasai dell’Impruneta seppero comunque diversificare la loro attività, tanto da riuscire a porre, con o senza l’ausilio dell’ingobbio, una
verniciatura piombica su quell’argilla così durevole, ma
assai riottosa a preservare ogni genere di rivestimento.
Gli estensori dell’inchiesta del 1768 affermarono che le
fornaci locali, delle quali purtroppo non seppero riferire
il numero, avevano annualmente prodotto nel periodo
1764-68 almeno 736 orci da olio, oltre 500 “vasi da piante e fiori”, 700 catini ed altrettante conche, nonché circa
120 basi “da piante di agrumi”. Nel medesimo periodo i
ceramisti imprunetini avevano fabbricato almeno 6 statue in terracotta per anno, e questo dato, unitamente
all’articolazione tipologica della loro attività, quale si
può evincere dal documento, conferma ancora come
essi fossero padroni del mercato che si legava all’abbellimento ed alla decorazione dei giardini.
Assieme alle terrecotte fu la fabbricazione del
pentolame invetriato da cucina a garantire il mantenimento dei settori tecnologicamente meno avanzati delle
attività fittili della Toscana. La storia di questa attività,
affatto particolare rispetto alle lavorazioni destinate alla
mensa, è ancora tutta da scrivere per questa come per
altre regioni d’Italia. Sappiamo comunque come nel
125
124
Small basing with “green
spirals” decor (1740-80)
again the masters of the market of garden embellishment and decoration.
The less technologically advanced fields of clay
activity in Tuscany were sustained not only by earthenware but also by the manufacture of glazed pots
and pans. The history of this activity in particular
respected kitchen productions for this and the other
regions in Italy. It is, however, known that during the
18th Century the prospect of those dedicated to this
activity radically changed caused by the heavy reorganization of the whole regional pottery division of
that period.
Towards the end of the Middle Ages, the use of
plumbic glazing in the production of kitchen containers became spread and it was Cancelli, today
hamlet of the Municipality of Reggello in the Upper
Valdarno, which represented together with
Impruneta, the main location of this activity. Except
for these two towns, whose works above were all
exported to Florence. As a matter of fact the production of pots and pans seemed to depend on furnaces
working for a more limited circle or at least this
activity was practised within stores where articles
were produced, like Borgo San Lorenzo, Fucecchio
and Pontorme.
Following the same mechanism of “substitution” that was determined in the second half of the
XVI century, the diffusion of the Majolica crisis and
of tableware in general, caused the conversion of
mixed manufacture in some of the furnaces that previously produced only enamels. These circumstances
conflicting trends, which favoured the diffusion of
pots and pans while simultaneously depressing the
traditional enamelled tableware, obviously made
some potters of Montelupo abandon the latter and
specialize in kitchen clays.
According to the above mentioned 1768 Report,
the production of glazed articles was started up in
Montelupo towards 1718-20. This article had been
introduced 60 years previously, and in those years
could already depend on five workshops specialized
in making pots, pans, and warming pans, covered in
plumbic ceramic glaze, at times briefly adorned with
lime edgings. However, the data provided by the
authors of this document mentioned 500 articles
baked a year, relating to the aforesaid furnaces, which
seemed hardly credible, since it would mean that each
was working at a rate of 100 full kilns a year, that is
around eight every month and it would seem more
credible that this number was intended to estimate
the whole production of glazed kitchenware of Montelupo, thus including those coming from the mixed
workshops, where the “common kitchenware” was
being produced.
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
“uccelli”) non trovano riscontro nella documentazione
di scavo di tipo extraregionale. Questo fenomeno è d’altra parte ben comprensibile ove si rifletta come al continuo deterioramento tecnico-estetico della produzione
locale, che già negli ultimi anni del Seicento aveva visto
il ritorno all’impasto rossastro e la supremazia di quella
tavolozza incentrata sul verde e sul bruno della quale già
si è detto – quasi un ritorno, cioè, agli antichi parametri
della “maiolica arcaica” medievale – faceva riscontro la
sempre più ampia diffusione della porcellana, della
maiolica di qualità francese ed olandese e, infine, anche
l’affacciarsi sui mercati mediterranei della terraglia
inglese.
Questa situazione è ben documentata da un’analisi della bilancia commerciale del Granducato di Toscana, richiesta da Pietro Lepoldo I quale supporto cognitivo alla riforma delle dogane. Dall’indagine emerge con
chiarezza come al regresso della produzione interna
facesse riscontro una forte importazione dall’estero di
generi di qualità, che nel 1772 era valutata, nonostante
la piena attività ormai raggiunta dalla manifattura di
Doccia, per le stesse porcellane in 1.509 lire (oltre 315
scudi). Ma l’importazione di questo genere vascolare in
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
smaltata tradizionale, non mancò ovviamente di suggerire ad alcuni vasai montelupini di abbandonare quest’ultima per specializzarsi nei fittili da cucina.
Stando a quanto afferma la già citata Relazione
del 1768, la fabbricazione delle invetriate fu avviata in
Montelupo verso il 1718-20 (“quest’arte è introdotta da
circa 60 anni in qua”), ed in quegli anni poteva contare
già su cinque esercizi specializzati nel produrre pentole,
tegami, e scaldini, rivestiti con vetrina piombica, talvolta sommariamente decorati con filettature di calce. I
dati forniti dagli estensori del documento parlano tuttavia di 500 cotte all’anno, rapportandole alle suddette
fornaci, il che appare poco credibile, in quanto significherebbe che ciascuna di esse lavorava al ritmo di 100
fornaciate all’anno, cioè circa otto ogni mese: ci sembra
dunque assai più credibile che questo numero intenda
stimare l’intera produzione di invetriate da cucina di
Montelupo, e comprenda perciò anche quella proveniente dagli esercizi misti, ove si fabbricava anche la
“stoviglieria comune”.
Il valore economico della produzione di pentolame era dunque valutato in 25.000 lire annue: una cifra
di tutto rispetto, specie in relazione al pregio unitario
non elevatissimo dei manufatti. Il giro d’affari legato
ad essa, inoltre, era “cresciuto anco da 20 anni in qua
per esservene un maggior esito tanto per lo Stato che
per fuori”, ma la rapida diffusione dell’attività aveva
ingenerato forme di concorrenza, le quali avevano a
loro volta determinato l’abbassamento dei prezzi. Il quadro positivo che contraddistingueva il pentolame si era
dunque recentemente incupito, sia in ragione dei minori ricavi dovuti alla concorrenza, sia per l’aggravio dei
costi di produzione dovuto alla ripresa dell’inflazione,
fattasi sensibile ad iniziare dal 1750 circa. Gli estensori
della Relazione fissano a 14 lire per cotta – cioè a ben il
28% – la diminuzione dei ricavi che si era realizzata
negli ultimi vent’anni a causa di questi fattori negativi,
ma tale valutazione è da considerare senz’altro eccessiva, in quanto finalizzata a supportare la richiesta di
intervento e di protezione da parte del Principe.
Possiamo ben dire che in realtà, dall’ultimo trentennio del XVIII secolo sino ai primi lustri dell’Ottocento, fu proprio la fabbricazione del pentolame a consentire la sopravvivenza delle attività fittili in Montelupo
e nella vicina Capraia. La diffusione degli esercizi da
pentolaio in quest’ultima, mostra, del resto, quel superiore grado di sviluppo rispetto alla stoviglieria comune
ed ordinaria che efficacemente viene sottolineato nel
documento del 1768; la nascita del nuovo polo produttivo consentì di moltiplicare e diffondere sul territorio
alcuni mestieri fondamentali per l’arte ceramica, quali
quello del torniante e del fornaciaio, che si riveleranno
preziosissimi per la ripresa della produzione di qualità,
avvenuta, grazie al trasferimento da Doccia di Raffaello
Fanciullacci.
Assai difficile, per di più, sarebbe stata la congiuntura di fine secolo, alla quale probabilmente le attività locali non avrebbero potuto sopravvivere se non
avessero già subito da oltre mezzo secolo quel benefico
processo di allargamento territoriale al quale abbiamo
appena accennato. Nella Relazione del vicariato di Empoli redatta dal giusdiscente Claudio Masini nel 1796 le
fornaci da “piatti e boccali” presenti in Montelupo restano le sei già indicate nell’Inchiesta sulle manifatture di
trent’anni prima, ma quelle da “da coppi e vasi” – tutte
collocate a Samminiatello – scendono addirittura da
Orcio in terracotta di Montelupo dalle volte della villa
dell’Ambrogiana (1587-89)
127
126
The economic value of the production of pots
and pans was therefore estimated to be 25.000 lira
yearly, a respectable amount, especially compared to
the low unit value of the handmade articles. Furthermore, its turnover had also grown in the last 20 years
becoming a bigger sale both for the State and outside
but the activity’s rapid diffusion had created forms of
competition, which in turn had determined the
reduction of price. Therefore the positive picture that
distinguished the pots and pans had recently clouded
over, both for the fewer revenues due to competition
and for the increase in production costs due to inflation which had become tangible from around 1750.
Owing to these negative factors, the authors of the
Report fixed the reduction in revenues in the last
twenty years at 14 lira for batch, that is a good 28%
but such an estimation must undoubtedly be considered excessive, being directed to support the Prince’s
request of intervention and protection. As a matter of
fact it can be said that during the last thirty years of
the XVIII century until the first ten years of the19th,
it was actually the production of pots and pans that
permitted the survival of the clay activity in Montelupo and the nearby Capraia. Moreover, the diffusion of potters’ workshops in the latter demonstrated
the superior level of development in respect to the
common and ordinary kitchenware that is very effec-
tively highlighted in the 1768 Report. The beginning
of a new productive role permitted the increase and
spread of some fundamental trade in ceramic art,
such as the wheeler and the kiln workers, who
showed themselves to be very precious for the revival
of quality production, which, as has been seen,
occurred thanks to Raffaello Fanciullacci’s transfer
from Doccia.
Circumstances at the end of the century which
local activities probably wouldn’t have survived if
they hadn’t already undergone the beneficial process
of territorial expansion in the last fifty years, as
already mentioned, would have been even more difficult. In the Empoli Vicariate Report, written by the
jurist Claudio Masini in 1796, the plate and jug furnaces present in Montelupo already indicated in the
inquiry on handmade articles written thirty years
before, situated in Samminiatello diminished from
ten to six; the number of pots and pans furnaces
decreased as well from five to two. The overall occupation of these workshops, estimated by the vicar
together with that of tanning, was only of 85 workers.
If one compared the situation of Montelupo as
described by the vicar from Empoli with that of
Capraia, one can realize how the development of the
manufacture of pots and pans at the beginning of the
second half of the XVIII century, had achieved the
Terracotta jar of Montelupo from the Medici Villa
of Ambrogiana voltings (1587-89)
effect of strongly towing the companies started up in
the castle of the right bank. In fact, according to the
Capraia Report there were even eight pot and plate
furnaces operating and there were 80 people working
there, a number of workers that had practically
equalled that of the whole clay division of Montelupo.
In the Second Half of the Nineteenth Century: a Rural
Industry to be Re-established
At the beginning of the nineteenth-century, with the
establishment of the short-lived Etrurian Kingdom
(1801-1807) and with the following annexation (27th
October 1807-1814) into the French Empire, Montelupo, but also the neighbouring Capraia, encountered big difficulties in maintaining a pottery activity
which seemed to have reached its all time minimum;
this is probably to due to the continuous conflicts of
the period and the economic depression induced by
the English continental system. In fact, according to
the Industrial Statistics of 1811-12, only two furnaces
for “common pottery” were working in Montelupo,
giving work to eight employees, whereas at Capraia
the thriving manufacturing of pots in 1796 had
reduced down to only two furnaces, where only three
people were employed. As Cesare Baccetti fairly
observed, considering the difficult economic circumstances of that period, the figures supplied by the Statistics seem, if not completely wrong, at least
untruthful, maybe because they respected a criteria
which was not appropriate for the situation they want
to describe. In reality it was different and it was also
suggested in the analysis of the Leopoldian Land Registry Office of 1817-34. Even though compiled some
time later respect to the French census, this document, in fact, highlighted the presence of 26 furnaces
of various kinds spread in the whole territory of Montelupo. It can also be estimated that at least half of
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
corso del XVIII secolo, evidentemente in funzione della
profonda ristrutturazione dell’intero comparto ceramico regionale di quel periodo, l’orizzonte dei centri di
fabbrica che si dedicavano a questa attività mutò radicalmente.
Sul finire del Medioevo, allorquando venne a
generalizzarsi l’impiego dell’invetriatura piombica nella
produzione dei contenitori da cucina, era Cancelli,
odierna frazione del comune di Reggello, nel Valdarno
Superiore, a rappresentare, assieme all’Impruneta, il
luogo di elezione di questa attività. Ad eccezione di questi due centri, che lavoravano soprattutto per esportare i
loro manufatti nella città di Firenze, la fabbricazione del
pentolame sembra infatti dipendere da fornaci che operano per ambiti più ristretti, o comunque – come Borgo
San Lorenzo, Fucecchio e Pontorme – praticano questa
attività all’interno di esercizi ove si producono ceramiche ad ingobbio.
La crisi della maiolica e della stoviglieria in generale, facendo scattare l’identico meccanismo di “sostituzione” che determinò la diffusione delle ingobbiate nella
seconda metà del Cinquecento, determinò la conversione di parte delle fornaci che in precedenza si dedicavano
alla fabbricazione delle smaltate in unità produttive ove
si esercitava una lavorazione mista. Il contrastante
andamento della congiuntura, che favoriva la diffusione
del pentolame e nel contempo deprimeva la stoviglieria
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
Nella prima metà dell’Ottocento: un’industria rustica e
da rifondare.
All’inizio dell’Ottocento, con la creazione dell’effimero
Regno d’Etruria (1801-1807) e con la successiva annessione (27 ottobre 1807-1814) all’Impero Francese, Montelupo – ma anche la vicina Capraia – sembra addirittu-
ra incontrare forti difficoltà a mantenere un’attività
ceramistica che pure sembrava aver ormai toccato il
suo minimo storico; ciò è probabilmente da imputare ai
continui conflitti dell’epoca ed alla depressione economica indotta dal blocco continentale inglese. Secondo la
Statistica Industriale del 1811-12, infatti, sarebbero state
in attività in Montelupo soltanto due fornaci di “poteries
communes”, le quali avrebbero dato lavoro ad otto
addetti, mentre a Capraia le fiorenti lavorazioni di pentole rilevate nel 1796 si sarebbero ridotte a due sole fornaci, ove, per di più, avrebbero trovato occupazione soltanto tre persone. Come giustamente è stato osservato
da Cesare Baccetti, pur tendendo di conto della difficile
congiuntura economica di quegli anni, le cifre fornite
dalla Statistica appaiono, se non del tutto errate, quantomeno non veritiere, forse perché rispettano criteri di
rilevazione non appropriate alla situazione che vogliono
descrivere.
Che la realtà fosse diversa lo suggerisce, del resto,
anche l’analisi del Catasto leopoldino del 1817-34. Pur
redatto a distanza di qualche tempo rispetto al censimento francese, questo documento evidenzia infatti la
presenza di 26 fornaci di varia natura diffuse in tutto il
territorio di Montelupo; si può inoltre valutare che almeno la metà di esse erano relative ad esercizi di terracotta e stoviglieria. La proprietà delle medesime afferisce
alle famiglie sopravvissute alla crisi settecentesca: i
Bitossi ne avevano cinque, i Curradini due, mentre una
per ciascuna apparteneva alle famiglie Visibelli, Grazzini e Scappini: queste ultime sono sicuramente quelle
destinate alla lavorazione di vasellame. Il capitolo di
San Lorenzo di Firenze e la pieve di San Giovanni Evangelista possedevano altre due fornaci che, pur essendo
principalmente impegnate nella fabbricazione di laterizi, potevano però cuocere anche orci e conche.
Una sensibile ripresa delle attività dopo gli anni
difficili dell’annessione alla Francia è ancor meglio evidenziata dal Censimento nominativo della popolazione
del 1841. Esso mostra infatti la presenza di oltre 120
addetti, impegnati in pianta stabile nelle lavorazioni
ceramiche, ormai nettamente indirizzate, però, ad un
mercato di tipo popolare; per valutare il peso economico
complessivo di questo comparto nel novero delle attività produttive locali occorrerebbe ovviamente aggiungere a questo numero quelli dei lavoratori occasionali e/o
occupati nell’indotto (i boscaioli che fornivano il combustibile, i mugnai utilizzati per la macinazione delle fritte
e degli ossidi metallici, i barrocciai impiegati per il trasporto dell’argilla e del prodotto finito).
Pentola invetriata di Montelupo
(1740-80)
129
128
Glazed pot of Montelupo
(1740-80)
them were dedicated for earthenware and tableware.
Their ownership refers to families that had survived
the XVIII century crisis: the Bitossi family had five,
Curradini’s two, and the Visibelli, Grazzini and Scappini families one each. These latter were certainly
intended for the production of earthenware. Saint
Laurence’s chapter and Saint John the Evangelist’s
parish owned the other two furnaces which, even
though primarily intended for the production of
bricks, could also bake pitchers and pots.
A considerable recovery of activities after the
difficult years of the annexation to France is even
better highlighted by the registered census of the population of 1841. In fact, it displays the presence of
over 120 employees, regularly engaged in the production of pottery, yet by this time clearly directed
towards a popular kind of market; so to estimate the
overall economic weight of this sector among the
local productive activities, one must obviously add to
this figure the use of occasional workers and those
engaged for other duties i.e., the woodcutters who
supplied the fuel, the millers who ground the frits and
the metallic oxides, the carters who carried the clay
and the finished product.
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO AND CERAMICS PRODUCTION IN PRE INDUSTRIAL ITALY
MONTELUPO E LA PRODUZIONE CERAMICA NELL’ITALIA PREINDUSTRIALE
dieci a sei; anche il numero delle fornaci da pentolame
decresce da cinque a due. L’occupazione complessiva
in questi esercizi, valutata dal vicario assieme a quella
relativa ad una concia per le pelli, era di soli 85 addetti.
Se confrontiamo la situazione montelupina
descritta dal vicario empolese con quella della prospiciente Capraia, ci possiamo rendere conto come lo sviluppo che, ad iniziare dalla seconda metà del XVIII
secolo, qui assunse la fabbricazione del pentolame,
abbia sortito l’effetto di trainare fortemente le imprese
nate nel castello della riva destra: secondo la Relazione,
infatti, erano allora in attività a Capraia ben “otto fornaci da pentole e una piatti e [vi] lavoravano 80 persone”,
un numero di addetti che era venuto cioè praticamente
ad eguagliare quello relativo all’intero comparto fittile
montelupino.
PARTE TERZA
La produzione ceramica: tecnologia,
metodiche ed organizzazione delle botteghe
in Montelupo dal XIV al XVIII secolo
THIRD PART
The production of ceramics:
technology, methodology and organization
of the workshops
dati, più che alla conoscenza della realtà, all’azione
riformatrice dello stato. Non per caso l’Inchiesta sullo
stato delle manifatture degli anni 1765-68 venne “pilotata” mediante un questionario. Si può così notare
come la relazione di risposta, redatta nel 1766 dai
“deputati” montelupini, pur rivelandosi di gran lunga la
migliore – per quanto attiene la produzione ceramica –
tra quelle contenute negli atti dell’inchiesta, giunga
appena a sfiorare il problema dell’organizzazione del
lavoro e degli aspetti tecnologici connessi con la tradizione locale.
Nonostante siano ricche di spunti importanti e,
nei casi più felici, anche di dati numerici, queste relazioni non sono dunque sufficienti a legare assieme
quella molteplicità di informazioni di tipo parziale e,
talvolta, anche di natura indiretta, che le scritture archivistiche ci forniscono. Mancandoci un riferimento di
natura sintetica, siamo perciò costretti ad allargare il
novero delle fonti.
Per quanto attiene la produzione della ceramica,
è evidente come sia la documentazione di tipo archeologico ad offrire le più immediate opportunità di approfondimento dei quadri tecnologici e produttivi. Nel caso
di Montelupo, in particolare, il rinvenimento non soltanto di scarti di lavorazione di ogni tipo, ma anche di
attrezzi da lavoro e resti di strutture – in particolare for-
LA PRODUZIONE CERAMICA
La ricostruzione delle vicende dell’insediamento di
Montelupo e della sua produzione ceramica pone in
risalto il grande peso che tale attività, strettamente
legata, nonostante le oscillazioni congiunturali, a
Firenze, esercitò sull’economia del luogo.
Dalle storie personali dei vasai emergono i tratti
fondamentali dell’arte fittile montelupina, quali ad
esempio l’articolata estrazione sociale dei ceramisti, le
peculiari forme associative entro le quali si svolgeva il
loro lavoro, e, più in generale, la complessità del quadro
tecnologico ed organizzativo delle fornaci e delle botteghe locali: la conoscenza di questi aspetti fondamentali della produzione ceramica è infatti agevolata dalla
quantità e dalla qualità della documentazione d’archivio disponibile.
Per ottenere informazioni di questo genere è però
necessario rivolgersi alle fonti fiscali, agli atti giudiziari
od alle sillogi statutarie e normative, poiché, nonostante
la loro non trascurabile rilevanza economica e sociale,
nessuna relazione o descrizione coeva è in grado di
restituirci un quadro sintetico delle attività ceramistiche della Toscana sino alla seconda metà del XVIII
secolo. Se poi le cose mutarono sostanzialmente nel
periodo del principato di Pietro Leopoldo, allorquando
i quadri economici e sociali ereditati dal passato divennero oggetto di indagini accurate, fu lo spirito dell’aritmetica politica a prevalere, finalizzando la raccolta dei
133
manufacturing during 1765-68 was “piloted” through
a questionnaire. We can note how the type of answers
given by the “deputed” of Montelupo, even though
they were the most successful and most reliable –
regarding ceramics production – hardly mention
organizational problems in the workplace and the
technological aspects linked to the local traditions.
Despite the fact that they are rich in important
annotations and in the happier cases, numerical data,
these relations are not sufficient to permit us to connect together the multiplicity of information in partial form and sometimes indirect supplied by the
archives. Lacking this synthetic element, we are
forced to widen the research base.
Regarding ceramics production, it is obvious
that archaeological documentation gives us the most
immediate opportunity to get a deeper knowledge of
the technological and production picture. In Montelupo’s case in particular, the recovered items, not
only those discarded pieces of the production process
but also work instruments and apparatus and structural remains – in particular furnaces – consent a
more precise and more correct interpretation of the
previous documentation regarding the processes of
elaboration.
We must also be aware of the multiple difficul-
THE PRODUCTION OF CERAMICS
The reconstruction of the events of the settlement
in Montelupo and its ceramic production poses
another problem to be considered, the heavy weight
that this activity impressed on the economy of the
place.
From the personal stories of the potters emerge
some fundamental features of life in the ceramics
world of Montelupo, for example the social extraction
of the potters, the associations that they formed, and
in general, the complexity of the technological and
organizational picture featuring the furnaces and the
local workshops: the knowledge of these aspects is
helped by the high quantity and quality of archived
documentation.
To extract information of this kind it is generally necessary to turn to fiscal sources, to judicial
acts, statutory and normative sylloges even though
they don’t give a synthetic idea of the ceramics
activity in Tuscany until the second half of the XVIII
century. And even then, during the period of the principality of Pietro Leopoldo, when the economic and
social events of the past became the subjects of a
more accurate investigation, it was the arithmetic
and political spirit that prevailed, being more concerned with the reformation of the state activities
rather than an understanding of the reality of the
times. Not by chance the investigation into the state of
LA PRODUZIONE CERAMICA
se giungono a definire in maniera incontrovertibile ciò
che potremmo chiamare l’ “impronta” di tali manufatti
– e quindi la struttura, più o meno modificata dal fattore tempo, della tradizione tecnologica alla quale
appartengono – non valgono certamente di per sé a
definire per intero il processo di produzione dai quali
derivano. L’approccio archeometrico, infatti, può stabilire in maniera univoca e scientificamente verificabile
una serie parametri fondamentali (in particolare la temperatura di cottura, la granulometria e la composizione
chimico-fisica del corpo ceramico, dei rivestimenti e dei
pigmenti), ma approda comunque ad una certezza che
si fa parziale per l’indagine storica. Se, ad esempio, si
giunge a constatare attraverso l’analisi archeometrica
che da un certo periodo in avanti le ceramiche fabbricate in un determinato luogo presentano un corpo ceramico inusitatamente ricco di calcio – è questo il caso di
Montelupo – e ciò vale a segnalare un importante modificarsi della tecnologia locale, non per questo una simile
certezza, pur scientificamente attestata, vale a spiegare
le ragioni per le quali una simile evoluzione venne ad
accreditarsi, e neppure come essa fu resa tecnicamente
possibile.
È dunque evidente che la ricostruzione della tecnologia e dell’organizzazione produttiva di un centro di
fabbrica d’età preindustriale non può condursi con
apprezzabile successo se non si riescono a combinare i
dati derivati dalle fonti scritte della più varia natura con
le indagini archeologiche ed archeometriche.
La continuità storica delle attività – spesso mai
interrotte nei diversi centri di fabbrica, nonostante le
crisi e le cesure congiunturali – offre però un ulteriore
approccio per risolvere il difficile problema della ricomposizione dei quadri tecnologici e sociali ad esse relativi: lo studio delle sopravvivenze storiche di natura
materiale, delle pratiche di mestiere e dello stesso lessico legato alle attività produttive del luogo.
Per Montelupo e per la sua tradizione ceramica
un’indagine su tali sopravvivenze è stata condotta una
ventina d’anni or sono, utilizzando le metodiche dell’oral history, da un’équipe di specialisti, ed è valsa a raccogliere numerose testimonianze relative alle metodiche ed all’ambiente sociale connesse con la fabbricazione della ceramica nell’area di Montelupo e della
vicina Capraia nel periodo compreso tra le due guerre
mondiali. Nonostante le sostanziali differenze col passato preindustriale, imputabili ad una più tenace
sopravvivenza della tradizione legata alla fabbricazione
del pentolame e della terracotta, le informazioni raccolte in quella occasione si sono rivelate assai preziose
per la comprensione di aspetti fondamentali della struttura produttiva delle fornaci e dell’organizzazione del
lavoro nelle stesse botteghe montelupine di età preindustriale.
Un confronto tra le fonti scritte coeve e quelle
orali del periodo successivo, lascia tuttavia trasparire
come la realtà dei due secoli – il XV ed il XVI – i quali
videro l’ “età d’oro” della produzione ceramica montelupina, si mostri ben più complessa e, per non pochi
aspetti, addirittura più avanzata delle sopravvivenze
“preindustriali” contemporanee. Se, dunque, si può parlare in questo caso di “sopravvivenze”, intendendo con
questa parola una realtà che opera attraverso metodiche derivate dal passato – sistemi autarchici per la
fabbricazione degli impasti ceramici, dei rivestimenti e
dei pigmenti con l’impiego esclusivo della forza dell’uomo – non per questo si deve pensare che il clima storico all’interno del quale, nonostante tutto, esse si mantennero in vita non abbia completamente disseccato
quegli aspetti che si relazionavano ad una forma di
società ormai tramontata. E ciò non vale soltanto per gli
aspetti macroscopici del processo storico – ad esempio
l’organizzazione corporativa del lavoro – ma per tutte
quelle forme assunte da un’attività economica “di
punta”, che un tempo si relazionava a scenari complessi – il mercato internazionale, l’ampia articolazione
delle committenze, il rapporto col capitale esterno di
natura mercantile – mentre nel secolo appena trascorso
copriva ambiti secondari e residuali del processo economico, ed era per lo più legata al mercato regionale. E
tutto ciò, in fondo, segnala anche un bel modo per non
135
134
ties that the study of the sources of material nature
presents, both in understanding the role of the investigated documents in terms of the phase of elaboration and in understanding its typicality. If larger numbers, in part, can help us to resolve this problem, we
must conclude that many aspects of the production
process remain out of our investigative capacities – if
we think of the different stages of the fabrication of
the paste – because they don’t leave, material traces.
The traces of the antique processes of production can however be found in the ceramic material
which can be studied using architectonic methods.
The archaeometric data – of a numerical nature but
obviously rich in qualitative implications – demonstrate however the “specificity” and “regularity” of the
chemical-physical nature of the ceramics belonging
to a given centre of production; they give a certain
“stamp” to the product – more or less modified by the
time factor, by the tradition and its technology – but
they are unable to permit us to define the whole
process.
The archaeometric approach can define in a un
ambiguous and scientifically verifiable way a series of
fundamental parameters (in particular the baking
temperature, granulometry and the chemical-physical composition of the ceramic body, the decoration
and the pigments), but this adds up to a partial under-
standing of the historical contexts. For example,
being able to state, through archaeometrical analysis,
that from a certain period onwards the ceramics fabricated in a certain place presented a ceramic body
unusually rich in calcium – and this is the case in
Montelupo – which signifies an important modification in the local technology, doesn’t mean we have be
sure of the reasons why such an evolution took place
or why it became possible.
It is therefore evident that a reconstruction of
the technology and the productive organization of a
centre of production in the pre industrial age can’t
happen with an appreciable degree of success unless
all the known data, from written, archaeological and
archaeometrical sources are combined. The historical
continuation of the activity – in many centres uninterrupted notwithstanding the different periods of
crisis – offer an ulterior approach in resolving the difficult problem of re composing the technological and
social pictures: the study of the historical survival of
the natural material, of trade practices, and even the
lexicon of the productive activity of the places.
Concerning Montelupo and its ceramic tradition, an investigation into its survival has been
ongoing for twenty years or so, using the method of
oral history, by a team of specialists and it is worthwhile collecting the different evidence relative to the
methods of production and social surroundings relative to the fabrication of ceramics in the area of Montelupo and in the nearby Capraia in the period during
the two world wars. Notwithstanding the substantial
difference from the pre industrial past, due to a more
tenacious survival of the tradition linked to the fabrication of pans and terracotta, the information gathered has proved to be precious for an understanding
of the fundamental aspects of the structural production within the furnaces and the organization of work
in the workshops of Montelupo during the pre-industrial period. A comparison between contemporary
written sources and oral sources from the successive
period highlight the possibility that during the two
centuries – XV and XVI – which was the “golden
period” of ceramic production in Montelupo, certain
aspects were much more complex and more
advanced than thought compared to the contemporary pre industrial “survival” situation.
If then in this case we can speak of “survival”,
meaning a reality operating through methods derived
from the past – autarkic systems of fabrication of the
ceramic mixture, the covering and the pigments, all
done exclusively through human effort – one can
imagine the historical climate within which, despite
everything, remained in existence and didn’t dry up
like other elements of the contemporary society. This
was not only the case for the macroscopic aspects of
the historical process – for example the corporative
organization of the work – but all the elements
assumed by an economic activity at its height which
was involved in complex relationships with the international markets, the needs of the clients, the relationship with external merchant capital whilst in the
preceding century there was a concentration on the
regional markets. In all, it’s wise to avoid the temptation to be easily led by those who want to oversimplify the story by reducing it to a few vectors of
change over time towards modern times. We have to
be aware that even this approach – one we could call
historical -anthropological – in terms of reconstructing the ceramics business of the past, could
provide a precious frame, able to make the documentation more explicit and understandable but we can’t
raise it to a level where it offers evidence of the social
forms that surrounded the ancient production, not
even if this production is exercised with substantially
identical methods.
After having painfully evaluated in a very critical manner the methods through which we are
attempting to reconstruct the technological and
social picture concerning ceramics production in pre
industrial Montelupo, we have to illuminate how the
following explanation necessarily involves a furnace
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
naci – consente infatti precisare, e talvolta anche correggere, le testimonianze, talora parziali od ingannevoli, della documentazione scritta: l’analisi di tali manufatti apre perciò la strada ad una lettura più approfondita degli stessi processi di lavorazione.
Occorre tuttavia essere consapevoli delle molteplici difficoltà che anche lo studio delle fonti di natura
materiale presenta, sia in ordine alla comprensione del
ruolo che i documenti indagati hanno esercitato nelle
diverse fasi della lavorazione, sia in merito alla valutazione della “tipicità” della testimonianza che offrono. Se
la moltiplicazione dei reperti contribuisce in parte a
risolvere il problema, non bisogna però ignorare come
resti pur sempre fuori della portata dell’indagine
archeologica la definizione di molti particolari connessi
con quelle procedure produttive – si pensi, ad esempio,
ai differenti passaggi necessari alla fabbricazione degli
impasti ceramici – che assai difficilmente lasciano
dietro di sé testimonianze di tipo materiale.
Le tracce degli antichi processi di produzione si
possono tuttavia riscontrare negli stessi materiali ceramici, qualora essi vengano indagati con metodiche di
tipo archeometrico. I dati archeometrici – di natura
numerica, ma ovviamente ricchi anche d’implicazioni
qualitative – mostrano però le “regolarità” e le “specificità” di natura chimico-fisica delle ceramiche appartenenti ad un dato centro di fabbrica; essi, dunque, anche
LA PRODUZIONE CERAMICA
anche da botteghe prive di fornaci e da fornaci che non
avevano al loro interno le strutture adatte – né probabilmente la manodopera idonea – a sviluppare l’intero
ciclo produttivo. Si tratta dunque di una semplificazione necessaria a non appesantirne il contenuto, ma
tuttavia non tale da alterare i contenuti dell’esposizione.
Sul modello della fornace “a ciclo completo”, che fu
l’unità più complessa ed articolata, si modellò indubbiamente, del resto, l’organizzazione degli spazi, la quantità e qualità delle strutture produttive, nonché lo stesso
processo di lavorazione.
Nel caso di Montelupo si posseggono alcuni
inventari di fornace, nei quali sono descritti gli spazi e
le attrezzature impiegate nell’attività produttiva che in
esse si svolgeva; esse, per finalità di carattere patrimoniale, sono talvolta anche oggetto di stima in termini
monetari. Queste fonti, tuttavia, ci sono note in numero
esiguo, in quanto il lavoro di ricerca archivistica è nel
suo complesso ancora da estendere e perfezionare. Alla
miriade di documenti relativi ai più minuti aspetti del
mondo degli “orciolai” del XVI secolo, i quali sono per
il momento in gran parte derivati dalle ricerche di Galeazzo Cora, fa infatti riscontro un modesto numero di
inventari, che non giungono – e ciò è piuttosto anomalo
– ad interessare anche il Seicento; una nostra esplorazione nelle filze del tribunale locale ha invece incon-
trato nella serie settecentesca degli atti civili, peraltro
relativamente avara di notizie sull’attività ceramistica
locale, un significativo gruppo di inventari, i quali
attualmente costituiscono il nucleo più importante di
descrizioni di fornaci – con tutti i loro annessi, attrezzi
ed anche prodotti – sui quali è oggi possibile indagare.
Ovviamente in queste scritture emerge soltanto la
cornice materiale del lavoro nella fornace, e da esse non
è perciò possibile trarre alcuna informazione diretta su
come fosse organizzato il ciclo produttivo. A ciò possiamo tuttavia ovviare mettendo in connessione gli
inventari di fornace con le registrazioni contenute nei
registri degli atti civili dei podestà, laddove le singole
azioni, consistendo spesso in richieste di pagamento
per la vendita di materie prime o per prestazioni
d’opera, ci fanno intravedere gli uomini in attività all’interno delle strutture produttive, e ne fissano i diversi
impieghi e professioni.
La documentazione fiscale dei secoli XV e XVI
tratta indifferentemente di “bottega”, “fornace” e di
strutture produttive nelle quali espressamente si
afferma esservi tanto l’una che l’altra. Nella Decima del
1536, ad esempio, compare una sola fornace, ma ben 6
botteghe con fornace e 12 esercizi da vasaio privi di
forno.
Mentre sembra logico supporre che ad una fornace si accompagni anche un nucleo di “bottega”, costi-
tuito almeno da un semplice ambiente nel quale si effettuano lavorazioni che non comportano la cottura dei
manufatti – quali la tornitura, l’apposizione dei rivestimenti e la decorazione – ed in essa si trovi altresì il
magazzino e l’amministrazione dell’azienda, l’inverso
non può dirsi altrettanto scontato: la presenza di una
bottega, infatti, può benissimo non accompagnarsi a
quella di una fornace, e rappresentare perciò un nucleo
produttivo che non racchiude in sé l’intero ciclo della
lavorazione. Non pochi, infatti, sono i casi di ceramisti
che sembrano operare in locali privi del forno: in queste
“botteghe”, che più facilmente sfuggono al controllo
corporativo dell’arte – anche perché funzionano spesso
in maniera temporanea e sono talvolta gestite da vasai
immigrati – si opera per conto od in società con altri
vasai, effettuandovi solo la tornitura e la decorazione
dei prodotti fittili.
Per quanto una tale integrazione relativamente
complessa tra strutture produttive che operano a differenti livelli di organizzazione sia probabilmente da
intendersi come estesa ai maggiori centri di fabbrica
italiani, è proprio in Montelupo che questo modello
sembra trovare la più ampia e coerente diffusione.
Come meglio vedremo successivamente, qui infatti la
documentazione scritta indica sovente la presenza di
“maestri” – e, dunque, non semplici lavoranti – che producono per conto di altri vasai in ambienti privi di for-
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within which all the phases of production are carried
out. Whoever writes is obviously aware that the “subject” is an ideal one and not so representative of the
ceramics activity in the Valdarno, which was also animated by workshops without furnaces and furnaces
that didn’t have an ideal structure – and probably not
the ideal staff –which developed the entire productive
cycle. We are dealing with a necessary simplification
to avoid making the contents heavier but it’s also
important to avoid altering the contents. The “full
cycle” model which was the most complex and articulated unit, the concerns were related to the organization of space, the quantity and quality of the productive structure and the elaboration process.
In Montelupo’s case there are some inventories
which describe the space and equipment used; matters regarding the patrimony which are sometimes
subject of monetary estimations. There are very few of
these sources however, also because the archives have
still to be perfected. Documents related to the smallest
details of the world of the “potters” of the XVI century which have largely derived from the research of
Galeazzo Cora, were based on a limited number of
inventories which don’t even – and this is unusual draw attention to the seventeenth century; our exploration of the files of the local court house has howev-
er turned up some civil acts from the seventeenth century - though the information relating to local ceramic activities is scarce - within which there was a significant group of inventories which constitute the most
important nucleus of furnace description – with all
their annexes, equipment and products – from which
we are able to use for investigation today.
Obviously in these writings only the material
framework appears regarding the work of the furnace
but from this it’s not possible to extract direct information on how the productive cycle was organized.
We can get round this by connecting the inventories
of the furnace and their registration contents in the
civil acts of the district, where the single actions,
often consisting in requests for payment for the sales
of primary material or for work done, give us a
glimpse of the workers in action inside a productive
structure, and the different roles.
The fiscal documentation of the XV and XVI
centuries treat indifferently the “workshops”, “furnaces” and their relevant structures. In the 1536 tithe,
for example, there is only one furnace but 6 workshops with an oven and 12 potter’s establishments
without an oven.
Whilst it seems logical to suppose that a furnace is accompanied by a nucleus of “workshops”
where elaboration takes place but not the baking –
the turning for example, the addition of a covering
and the decoration – where there is a storehouse and
an administrative section of the company, the idea of
the inverse situation shouldn’t be discounted: a workshop can quite easily function without a nearby furnace but represent a productive nucleus that doesn’t
cater for the whole cycle of elaboration. Indeed there
are many cases of potters working in environments
where there is no furnace; in these “workshops”
which easily functioned outside of official recognition
– also because they were often temporary and managed by immigrants – work was done for or with
other potters, the decorations or turning of the
ceramics products.
Though this type of integration was to be found
in many major centres of manufacturing in Italy,
Montelupo seems to be the location where it seems to
have found its most ample and coherent diffusion. As
we are going to see, written documents indicate the
common presence of “Masters”, and so not simple
workers, who produced on behalf of other potters in
environments without ovens, whilst some evidence
connected to the production of majolica, above all the
diffusion of the workshops’ trademarks, manage to
find a reasonable explanation not only for the multiplicity of the numbers of practicing potters but also
for the “pulverization” and disarticulation of the
functional nuclei of the furnaces, as mentioned
above. The Montelupo case seems to be however the
most striking example of the pre industrial age,
where, in an effort to be better prepared for the
pressing demands of a vast and complex market,
between the fifteenth and sixteenth centuries the
“autarkic” forms of the economical cycle typical of
the corporative economy were surpassed.
Taking into account these phenomena then, we
can proceed to the historical reconstruction of the
ceramics industry through the study of a model of a
furnace where all the phases were undertaken. It is
however indispensable to distinguish between the
furnaces dedicated to the fabrication of dishes and
those producing enamelled or covered products;
those products which were seen to be made by “jar
pot furnaces” later known as “dish furnaces” or
“plates and dishes furnace” from those who work
with terracotta and plain ceramics,
jars, basins and bricks.
The difference between the two cases is evident
and consists most of all in the fact that the latter type,
relative to terracotta, doesn’t have the complications
deriving from the production of the enamels, and
colours which had been necessary for the fabrication
of vase forms since the X111 century, even if the terracotta potters used a lead film to make the inside of
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
lasciarsi sedurre dalla tentazione semplificatrice di chi
vede la storia come il dispiegarsi di processi vettoriali
di cambiamento, orientati alla modernità man mano
che si scorre lungo l’asse del tempo.
Dobbiamo dunque essere consapevoli che anche
questo approccio – che potremmo chiamare storicoantropologico – al problema della ricostruzione dell’attività ceramistica del passato può certamente offrirci
una preziosa cornice, in grado di rendere più esplicita
e comprensibile la documentazione, ma non può far
assurgere le testimonianze sulle quale opera al ruolo di
documenti in grado di rappresentare anche le forme
sociali che afferivano all’antica produzione, neppure
nel permanere di un’attività esercitata con metodiche
sostanzialmente identiche.
Dopo aver doverosamente valutato in maniera
critica le metodiche attraverso le quali tentiamo di ricostruire i quadri tecnologici e sociali della produzione
ceramica montelupina d’età preindustriale, dobbiamo
infine chiarire come l’esposizione seguente venga necessariamente rapportata alla struttura di una fornace
entro la quale si svolgono tutte le fasi del processo di
produzione. Chi scrive è ovviamente consapevole che
così facendo si introduce nella narrazione un soggetto
“ideale”, che trovò una rappresentatività numericamente ridotta nella storia delle attività fittili del centro
di fabbrica valdarnese, in quanto esse furono animate
LA PRODUZIONE CERAMICA
nace, mentre alcune testimonianze materiali connesse
con la lavorazione della maiolica, quali soprattutto la
capillare diffusione delle marche di bottega, riescono a
trovare una ragionevole spiegazione non soltanto nella
molteplicità degli esercizi da vasaio in attività, ma
anche nel fenomeno della “polverizzazione” e disarticolazione in nuclei funzionali della fornace, alla quale
disopra si accennava. Il caso di Montelupo rappresenta
perciò forse l’esempio più eclatante di un’area preindustriale, nella quale, per meglio corrispondere alle pressanti sollecitazioni di un mercato vasto e complesso, si
erano superati, tra Quattro e Cinquecento, quegli
aspetti “autarchici” del ciclo economico tipici dell’economia corporativa.
Tenuto in debito conto questi fenomeni, conviene
comunque procedere, in ordine alla chiarezza d’esposizione alla quale poc’anzi si accennava, alla ricostruzione storica delle attività fittili attraverso il modello di
una fornace nella quale si svolgevano nella loro completezza tutte le fasi della fabbricazione. È comunque indispensabile distinguere tra fornaci dedite alla fabbricazione della stoviglieria e dei manufatti smaltati o muniti
di rivestimento in genere – ciò, insomma, che nelle fonti
antiche si definisce come “esercizio d’orciolaio” e, sucRicostruzione grafica di una fornace attiva nella seconda metà
del XV secolo (disegno Ink-Link Firenze)
THE PRODUCTION OF CERAMICS
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Graphic reconstruction of a furnace of the second half of XV
century (Ink-Link Firenze)
the products impermeable. It is also evident that the
terracotta potter’s wheel was quite limited compared
to those of the potters and mini jar producers: whilst
the latter forged the vast majority of their products
using the wheel, trusting in other techniques
(Forming a mould) for particular products (small
statues, ink pot relief, stoups, mirrors, small bricks
for pavements), the terracotta workers prevalently
used the “columbine” forging technique, using the
wheel only when making basins, using a mix of techniques to turn the mould.
Placed somewhere between these extreme
cases were the pot makers who up to the “base form
state” they used the same techniques as the dish
makers but executing only the lead glazing process on
the product, not decorating them – to sum up – the
didn’t get involved with the fabrication of covers or
particularly complex pigments and so had no need to
organize this aspect in their work places; they stuck
to relatively rustic products and could avoid the complications that the mini jar makers faced.
As much of the work done in Montelupo from
the end of the XIII century consisted in the production of different types of vases where the enamelled
LA PRODUZIONE CERAMICA
stadio del “bistugio” esse ricalcavano infatti grosso
modo il procedimento proprio agli esercizi da stoviglieria, ma, praticando soltanto l’invetriatura piombica
del prodotto e non decorando il medesimo – o facendolo in maniera assai sommaria – non indugiavano
nella fabbricazione di rivestimenti e di pigmenti particolarmente complessi, e non avevano perciò necessità
di organizzare al loro interno il lavoro dei decoratori;
cuocendo manufatti relativamente rustici, inoltre, le
fornaci da pentole potevano a loro volta evitare tutte
quelle cautele che rendevano più difficoltoso il lavoro
degli orciolai.
Poiché gran parte delle lavorazioni che si svilupparono in Montelupo sin dalla fine del XIII secolo consistevano proprio nella produzione di generi vascolari
diversi, con un sensibile predominio di quelli smaltati,
è opportuno volgere la nostra attenzione ad una struttura dall’ideale completezza, nella quale ci si dedicava
alla lavorazione della maiolica, la più complessa ed articolata. Trattando delle fasi e degli strumenti che caratterizzavano il lavoro in questo genere di fornaci, non
mancheremo comunque di affrontare anche le difformità proprie ai processi produttivi che riguardavano le
altre categorie di fittili (terracotta e pentolame) precedentemente richiamate.
Oltre ad una divisione tipologica tra esercizi, pos-
siamo per comodità d’esposizione individuare sette fasi
nell’attività della nostra fornace ideale, raggruppando
all’interno di ciascuna di esse le azioni indirizzate a
completare il processo produttivo. Procedendo poi nella
nostra descrizione in maniera ordinata dall’una
all’altra, dobbiamo comunque essere avvertiti che in tal
modo si introduce un’artificiosa gerarchia delle operazioni, in quanto nelle fornaci assai raramente l’attività
procedeva secondo la sequenza logica (ma astratta) di
fabbricazione, dipanandosi piuttosto per settori interdipendenti e pressoché autonomi, ove operava talvolta
manodopera specializzata. Tali fasi attenevano sostanzialmente a:
1) PREPARAZIONE DEGLI IMPASTI ARGILLOSI;
2) FOGGIATURA;
3) PREPARAZIONE DEI RIVESTIMENTI;
4) PREPARAZIONE DEI PIGMENTI;
5) APPOSIZIONE DEI RIVESTIMENTI E DECORAZIONE;
6) COTTURA
7) IMMAGAZZINAMENTO DEI PRODOTTI FINITI.
Poiché normalmente queste fasi si svolgevano in
appositi settori della struttura produttiva, esse possono
essere raggruppate per aree, anche se sappiamo che la
separazione delle attività non era sempre di natura fisica, ma più spesso funzionale: in tal modo, comunque,
potremo in parte correggere l’astrazione introdotta
attraverso la semplice partizione sequenziale del processo di produzione, dato che le azioni che potremmo
definire “collaterali” a quelle principali – quali ad esempio la movimentazione dei semilavorati e la gestione
dei magazzini – ritrovano nella descrizione del ciclo
lavorativo quell’importanza che a loro compete. Ecco
dunque che la nostra esposizione sarà riferita non tanto
alle fasi, quanto alle attività che si svolgevano nelle
diverse aree produttive, e cioè:
- ALLA PREPARAZIONE ED ALL’IMMAGAZZINAMENTO
DELL’ARGILLA;
- ALLA FOGGIATURA ED ALL’ESSICCAZIONE DEL PRODOTTO
DA SOTTOPORRE ALLA PRIMA COTTURA;
- ALLA PREPARAZIONE DI SMALTI, INGOBBI, COPERTE
E PIGMENTI;
- ALLA SMALTATURA (OD INGOBBIATURA) DEL BISCOTTO
ED ALLA DECORAZIONE;
- ALLA GESTIONE DELLA FORNACE E DEI SUOI MAGAZZINI;
- ALLE PARTI ACCESSORIE DELL’ESERCIZIO PRODUTTIVO
(MAGAZZINI PER IL LEGNAME, STALLE ETC.).
PREPARAZIONE ED IMMAGAZZINAMENTO DELL’ARGILLA.
La mancanza di testimonianze dirette ci impedisce di
risalire alla tipologia delle strutture attraverso le quali le
fornaci in attività a Montelupo nel periodo che interessa
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were predominant, it is reasonable for us to concentrate on a complete structure which was dedicated to
the working of majolica, the most complicated
product. Whilst studying the phases and instruments
that characterized the work of the furnace, we will
also look at the less usual processes involved in the
production process that principally concern the other
categories (terracotta and pans) previously mentioned.
Besides a typological difference between the
concerns, we can for the sake of convenience individualize seven phases of ideal furnace activity, drawing together in each the actions required to direct or
complete the productive process. Proceeding in our
description in an orderly manner from one to the
other accepting that in such way we are introducing
an artificial hierarchy of operations, also because in a
furnace the activities never proceeded in a logical
sequence of ceramic fabrication (but abstract), divided into sectors which were interdependent but
autonomous and which often had their own specialists. Such phases were involved in the:
1)PREPARATION OF CLAY PASTE;
2)FORGING;
3)PREPARATION OF THE COVERING;
4)PREPARATION OF THE PIGMENT;
5)AFFIXING OF THE COVERING AND DECORATION;
6)BAKING
7)STORING OF THE FINISHED PRODUCT
As these phases normally took place in their
own sectors within the productive structure, they can
be grouped by area, even if we know that the separation of the activity wasn’t always physical but often
functional: in such a way we can, in part, correct the
simple sequential phase idea in the production
process by mentioning the “collateral” events that
were taking place – for example the movement of the
semi finished products and the management of the
store house. So, our study will refer not only to the
phases but to the activities that take place in the different areas of production which include areas for
the;
1)PREPARATION AND STORING OF THE CLAY;
2)STORING AND DRYING OF THE PRODUCT TO BE BAKED;
3)PREPARATION OF ENAMELS, SWELLING, COVERING
AND PIGMENTS;
4) ENAMELLING (OR SWELLING) OF THE BAKED “BISCUIT”;
5)MANAGEMENT OF THE FURNACE AND STORE HOUSES;
6)ACCESSORY ACTIVITIES
(STORE HOUSES FOR THE WOOD, BARNS ETC)
Preparation and storing of the clay
As far as Montelupo is concerned, a lack of evidence
means that we can’t present a sure idea of the
typology of the structures within the furnaces where
the primary clay work took place, including depuration and decantation, in the period that is of interest
to us. It is particularly difficult to understand if these
operations, necessary for an autarkic organization
which buys in its own “earth” that is, clay material,
already took place in the Medieval and Modern
epochs within a structure with decantation troughs or
vats.
Such troughs, locally called “trogoli”, those
which have so far been found in Montelupo, can be
dated back to the end of the eighteenth century and
have been linked to the production of traditional
pans. Even the term “trogolo”, which is still present
in the contemporary potter’s lexicon can’t be dated
any further back than the XVIII century though it is
probably older.
Unfortunately, more antique cases which have
been found in furnace dumps, weren’t part of the kind
of structure we are interested in. However, the presence of deep ditches and holes where discarded material has been found indicates that the oldest “troughs”
belonging to a furnace consisted of simple holes dug
in the earth, with walls protected by precarious walls
if not wooded planks which were obviously taken
away when the ditch was abandoned. Even Cipriano
Piccolpasso when describing the depuration of the
clay process, didn’t refer to such structures but was
more concentrated on the gathering of clay which he
probably witnessed at Castel Durante.
As much as it is possible to extract from the
three “trough” areas determined at and around Montelupo, the most evolved consist of quadrangular
depressions dug up to a depth of two metres with a
width which varies from 3,50m to 2,50m; to avoid
contact with the earth, brick materials were layered
all around, in particular bricks and tiles. In all of the
cases, there are four troughs side by side probably to
aid the easy transfer of material from one to the other.
The entire complex, which had to be in an area of
sunlight, including corridors and working space, was
rather large, and it also included a well where water
could be drawn and often an arcade where the first
storing of the clay material took place.
Amongst these troughs was the pilla which was
used to liquefy the clay not decanter and this was
rather less deep – about 50cm – compared to the
others and as a large amount of water was needed to
liquefy the clay, it was usually built near a well. As the
primary clay material was full of organic impurities
(fragments of stone, mollusc shells, fossils etc), some
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
cessivamente “di stovigliaio” o “di piatteria e stovigliame” – da quelle in cui si lavorava la terracotta, cioè
catini in ceramica grezza, orci, conche e laterizi.
La differenza è nei due casi evidente, e consiste
soprattutto nel fatto che l’ultima tipologia, relativa alla
terracotta, non mostra di norma al proprio interno le
complicazioni derivanti dalla produzione di smalti,
ingobbi e colori, necessari sin dal XIII secolo alla fabbricazione dei generi vascolari, anche se le fornaci da
terracotta utilizzavano una pellicola piombica per
impermeabilizzare l’interno dei loro manufatti.
È poi del pari evidente come l’impiego del tornio
fosse assai più limitato tra i produttori di terracotta
rispetto a quanto avveniva per i pentolai e gli orciolai:
mentre questi ultimi foggiavano la stragrande maggioranza dei loro manufatti con l’ausilio del tornio, affidandosi ad altre tecniche (calcatura in matrice) solo per
produzioni particolari (statuette e parti in rilievo di
calamai, acquasantiere, specchiere, mattoncini da pavimento), i terracottai impiegavano infatti prevalentemente la tecnica di foggiatura “a colombino”, ricorrendo al tornio unicamente nella lavorazione dei catini,
realizzati con tecnica mista, e cioè tramite la tornitura
della matrice.
Ad uno stadio intermedio tra questi casi estremi
si collocavano, per complicazione ed articolazione del
processo produttivo, le fornaci da pentolame: sino allo
LA PRODUZIONE CERAMICA
comunque indicare che i più antichi “trogoli” da fornace
consistessero in semplici buche scavate nel suolo, le cui
pareti solo sommariamente erano protette da muretti
precari, se non addirittura foderate con assi di legno,
che ovviamente furono asportate all’epoca del loro
abbandono. Anche Cipriano Piccolpasso, del resto, pur
descrivendo nel suo celebre trattato il processo di depurazione dell’argilla, non si sofferma su tali strutture,
limitandosi ad presentare le metodiche di raccolta della
materia argillosa che evidentemente aveva visto praticare dai ceramisti di Castel Durante.
Da quanto è possibile ricavare dalle tre aree “a
trogoli” sinora individuate nell’area montelupina, si nota
come le vasche più evolute consistessero in depressioni
quadrangolari scavate nel terreno per una profondità
di circa due metri e con una larghezza variabile dai m.
3,50 ai m.2,50; al fine di evitare l’inquinamento del loro
contenuto con la terra del suolo circostante, esse erano
rivestite da laterizi di natura diversa, ed in particolare
mattoni e tegole. In tutti i casi, inoltre, si nota l’accostamento di almeno quattro vasche, allo scopo di ottenere
un insieme atto ad un facile passaggio del materiale
dall’una all’altra; il complesso di tali strutture, che per la
loro funzionalità dovevano anche essere soleggiate, formava dunque, con i relativi passaggi e disimpegni, un
ampio cortile, ove si trovava anche un pozzo per attingere l’acqua e, spesso, un porticato destinato al primo
immagazzinamento della materia argillosa.
Tra queste vasche una, detta pilla in quanto destinata alla liquefazione e non alla decantazione dell’argilla, era assai meno profonda – circa 50 cm. – rispetto alle
altre; dato che per liquefare la terra occorrevano grandi
quantità d’acqua, la pilla era dunque di norma costruita
in adiacenza ad un pozzo. Trovandosi la materia prima
argillosa ancora ricca d’impurità organiche (radici,
foglie, etc.) e di inclusi inorganici (frammenti di pietra,
gusci di molluschi, fossili etc.), anche di apprezzabili
dimensioni, era indispensabile, per ottenere una prima
raffinazione, portare la medesima allo stato liquido. Per
questo, dopo averla triturata in minuscole zolle, la materia argillosa così ridotta veniva gettata nella pilla, ove era
abbondantemente innaffiata con l’acqua, ed il tutto
rimestato con l’ausilio di una pala piana (borda), in
maniera da accellerare il processo di liquefazione e favorire la separazione dei corpi estranei.
Una volta che il composto aveva raggiunto lo
stato di liquefazione desiderato, esso veniva prelevato
con la borda e gettato in un crivello metallico dai fori
piuttosto minuti, che si collocava, appoggiandolo su
una coppia di assi, al disopra della prima delle vasche
profonde (trogolo) posta in adiacenza alla pilla. In tal
modo l’argilla liquida passava nel primo contenitore da
decantazione, lasciando nel crivello gli inclusi di maggiori dimensioni.
Sostando nel trogolo, l’argilla si separava di nuovo
dall’acqua, precipitando verso la sua porzione inferiore,
ove nuovamente si addensava; quando la superficie della
vasca si era completamente ricoperta di acqua chiara, il
liquido veniva estratto con un secchio, in maniera tale
che il composto argilloso, perdendo ancora umidità,
potesse compattarsi al meglio. La massima riduzione
del volume della massa d’argilla contenuta nel trogolo
indicava il completamento di questa fase, e la possibilità di iniziare il successivo trattamento di depurazione.
La vasca era quindi svuotata avendo cura di prelevarne
il contenuto senza mischiare quanto in essa era venuto
accumulandosi nella sua porzione inferiore, valutabile
ad un’altezza di circa 20-30 centimetri dal fondo: qui,
infatti, era discesa la parte più pesante dell’argilla liquefatta, e cioè quella più ricca di sabbia e di minuti inclusi minerali, in grado di attraversare il crivello, ma nocivi alla plasticità dell’argilla.
L’operazione di svuotamento del trogolo si effettuava introducendo al suo interno alcune assi, sulle
quali era possibile stare in piedi senza affondare nella
Le vasche di decantazaione ed i terrai
di una fornace storica di Montelupo
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quite large, the liquefying stage was indispensable for
obtaining a refinement. The clay was first ground
into minute lumps and then thrown into the pilla
where it was abundantly watered. Then it was stirred
with a flat ended pole to aid the separation process.
Once the desired liquid condition was reached,
it was extracted with the pole and thrown into a metal
sieve which had minute holes, itself placed on a
couple of planks over the first of the troughs placed
next to the pilla. In this way the liquid clay entered the
first decantation phase, the larger sized elements
remained in the sieve.
In the trough, the clay was separated from the
water as it sunk and concentrated. When the water
was clear it was extracted with a bucket permitting
the clay to become even denser. The maximum reduction of the mass signified the end of the phase and the
beginning of the next depuration phase. The trough
was emptied with care not to include in the extraction
the bottom layer – 20/30cm – because it had a richer
quantity of sand and minute quantities of minerals
which could pass through the filter but were harmful
to the plasticity of the clay.
The clay compound, quite purified at this stage,
was kept in the second trough for a longer period
before it was extracted, filtered then refined through
a gravitational process.
The passing from one trough to another – from
the pilla to the trough– involved at least four stages
each involving the sieve to insure a depuration of not
only the unwanted microscopic elements but also the
which occasionally formed during the decantation
process. What remained at the bottom (called
reniccio) of the trough wasn’t thrown away but used
to make bricks – which were principally used to wall
the opening of the kiln – or used for other brick type
products (separators, store constructions) used in the
furnace.
Written documents from the pre industrial age
offer little information on this part of the production
process but as far as Montelupo is concerned a reconstruction can be made thanks to the traces of the
pozzo-pilla-trogoli (well-vat-trough) system that have
been found in some old tradition furnaces and which
was employed for about forty years and thanks to the
lexicon of the ancient potters- especially those who
made pans, a lexicon gathered through the oral history method. The similarity between this depuration
system and systems in other countries (Spain,
Tunisia), underlines the diffusion and establishment
of this technology in the Mediterranean ceramics
world.
However, at this point, we need to confirm the
observation concerning the probable evolution of the
Decantation troughs and “terrai” of a
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
la nostra trattazione effettuavano la lavorazione primaria dell’argilla, cioè le fasi di depurazione e decantazione. Risulta in particolare difficile comprendere se queste
operazioni, necessarie ad un’organizzazione del lavoro
di tipo autarchico, ben suggerita dagli acquisti di
“terra”, cioè di materiale argilloso, da parte dei ceramisti, si svolgessero già in epoca medievale e moderna
all’interno di un complesso ben strutturato di vasche di
decantazione.
Tali vasche, chiamate localmente “trogoli”, inserite in un insieme di quattro o cinque manufatti, trovano
infatti la loro più antica esemplificazione in complessi
databili per il momento solo alla fine del Settecento, e si
mostrano nell’area montelupina attraverso sopravvivenze contemporanee, legate unicamente alle ultime fornaci da pentole di tipo tradizionale. Anche il termine
“trogolo”, ben presente nel lessico ceramistico contemporaneo di Montelupo, pur essendo probabilmente più
antico, non ha sinora trovato riscontri documentari in
scritture anteriori al XVIII secolo.
Casi assai più antichi, ove si sono incontrati
potenti scarichi di materiali di fornace (prodotti finiti,
bistugi, rottami di forni, etc.) con tracce di giacitura in
argilla, non erano sfortunatamente contenuti in strutture rilevabili come tali. La non infrequente presenza di
fosse e buche profonde, ove questi materiali si espandevano, probabilmente colmando parti dismesse, può
historical furnace in Montelupo
depuration systems: the absence of archaeological
structures of such a complex nature and the lack of
documentation concerning the same leads us to suppose that during the Medieval and Renaissance
periods there were very few centres organized with
these decantation troughs and that those that didn’t
have such a complex system were forced to make new
troughs every time they wanted to work the clay.
As it is likely that the last trough, the third one,
was used for the preparation of the liquid mixes used
to improve the quality of the paste, the lack of troughs
in furnaces that produced more sophisticated
ceramics was probably a handicap. Evidence of this
could be linked to the degree of exchanging of products for raw materials ready to be forged, that took
place in Montelupo.
The crude clay, as can be seen from the 1389
statute, was extracted from fluvial deposits from the
LA PRODUZIONE CERAMICA
piuttosto avara di informazioni in merito a questa parte
del processo produttivo che, per quanto attiene Montelupo, può essere ricostruito grazie alla sopravvivenza
del sistema pozzo-pilla-trogoli in alcune fornaci di antica
tradizione, ove tale metodica di lavorazione dell’argilla
restò in auge sino ad una quarantina d’anni or sono; i
diversi passaggi previsti dal sistema di affinamento dell’argilla ed il relativo lessico sono poi desunti dalle testimonianze di anziani ceramisti – in particolare di quelli
dediti alla fabbricazione delle pentole – raccolte, come
poc’anzi si accennava, attraverso le metodiche dell’oral
history. La similitudine di quanto attestato nel centro
valdarnese con i sistemi di depurazione e trattamento
della materia argillosa documentate in altri paesi (Spagna, Tunisia), sottolinea d’altra parte la diffusione ed il
radicamento di questa tecnologia nella ceramica mediterranea, rinviandoci con tutta evidenza ad epoche assai
più antiche.
È tuttavia da ribadire a questo punto l’osservazione già avanzata in precedenza circa la probabile evoluzione che, nel corso del tempo, interessò l’area destinata
nella fornace alla depurazione dell’argilla: l’assenza di
testimonianze archeologiche strutturate in maniera così
complessa e la più modesta estensione del resede, quale
Il pozzo e le vasche di decantazione della ex
fornace Pasquinucci di Capraia fiorentina
può ricavarsi dai documenti relativi alle unità produttive medievali e rinascimentali, ove difficilmente si citano
spazi importanti, con cortili, terrai e pozzi, induce infatti a ritenere che almeno gran parte degli impianti produttivi non abbia potuto contare su di un complesso
così organizzato di vasche di decantazione. Fermo
restando lo scenario sin qui disegnato, e la validità “processuale” dei diversi passaggi necessari alla depurazione
della materia argillosa, è dunque ragionevole ipotizzare
che sino al XVIII secolo poche tra le fornaci montelupine in attività fossero effettivamente dotate di un sistema
completo di vasche di decantazione; ciò significa che
quelle che non lo possedevano erano costrette a preparare in trogoli continuamente ricavati la terra che lavoravano.
Poiché, inoltre, è più che probabile che la quarta
vasca – cioè il terzo trogolo – non fosse destinata tanto
alla depurazione, quanto alla preparazione allo stato
liquido di quei mescoli di argilla che servivano a migliorare la qualità dell’impasto, la mancanza di un vero
sistema di trogoli doveva incidere particolarmente nella
fabbricazione di impasti ceramici più sofisticati. Una
conferma indiretta di queste difficoltà la si può ricavare
dalla frequenza con la quale i ceramisti montelupini
mostrano di scambiarsi, in forma di prestito o attraverso pagamenti in controvalore, effettuati mediante la cessione di prodotti della fornace, la materia prima da sot-
toporre a foggiatura.
L’argilla grezza, come bene può ricavarsi dallo
statuto del 1389, veniva allora estratta dai depositi fluviali dell’Arno posti nei pressi di Montelupo, ma anche
dalla grande cava esistente nel territorio di Montespertoli. Non è al momento possibile stabilire l’epoca in cui fu
iniziata la coltivazione della medesima per l’approvvigionamento della materia prima destinata alle fornaci
montelupine, ma è certo che almeno nel XVI secolo,
all’epoca cioè alla quale risalgono i libri degli Atti Civili
(le raccolta delle scritture del tribunale) dei Podestà
locali, essa rappresentava la fonte di gran lunga più
importante per i ceramisti valdarnesi.
Nei documenti si incontrano infatti sovente vertenze accese per il mancato pagamento di “terra”, trasportata a beneficio dei vasai di Montelupo da parte di
attori che abitano nel popolo di San Michele a Morzano.
Il territorio di questo popolo faceva parte, allora come
ancor oggi, della comunità di Montespertoli, e si trovava
proprio sul limitare dell’area della grande cava d’argilla,
della quale oggi resta, a testimonianza dell’attività estrattiva del passato, un’imponente ferita, segnata da una
coltivazione plurisecolare nell’area collinare che da qui
degrada ad oriente verso il corso del Virginio (in antico
“Vergigno”), tributario del torrente Pesa.
L’argilla che qui si può cavare mostra un grado di
purezza notevole e, a differenza di quanto accade per
LA PRODUZIONE CERAMICA
massa argillosa; i blocchi di argilla, prelevati con l’ausilio di una piccola vanga, venivano ancora ridotti allo
stato liquido per passarli dal crivello, ora ovviamente
posto sulla vasca adiacente.
Il composto argilloso, in questa fase del processo
già piuttosto depurato, sostava più a lungo nel nuovo
trogolo e, una volta assodato, poteva essere nuovamente
prelevato, per setacciarlo e proseguirne il suo processo
di affinamento per gravità. I passaggi da una vasca all’altra – compreso quello dalla pilla al primo trogolo –
erano al massimo quattro: ognuno di essi prevedeva
l’uso del crivello, in maniera tale da assicurare all’argilla una depurazione ottimale non solo dagli inclusi
macroscopici, che ormai aveva perduto al momento del
suo primo lavaggio e liquefazione, ma anche dai grumi
(sodelli) occasionalmente formatisi nel processo di
decantazione. Ciò che restava sul fondo dei trogoli non
veniva gettato via: questa materia argillosa ricca di sabbia ed inclusi minerali, detta reniccio, infatti, era destinata alla fabbricazione di mattoni – che servivano in
particolare a murare l’imboccatura (usciale) della camera di cottura – o ad altri laterizi (separatori, parti di
cassette) impiegati nella fornace.
La documentazione scritta d’età preindustriale è
145
144
THE PRODUCTION OF CERAMICS
the ex Pasquinucci furnace in Capraia
fiorentina
Arno and also from big quarries in the Montespertoli
area. It’s not yet possible to determine the date when
this type of earth collection began but it was at least
in the XVI century when the Atti civili were written by
the local districts which indicated that these sources
were the most important for the potters of the Valdarno. Indeed there are references to requests for
payment for “earth” transported to the potters of
Montelupo by persons living in San Michele a
Morzano. The territory where they lived was part of
Montespertoli and along its borders west towards the
stream called Virginio which feeds into the Pesa, we
can still see the large quarry, ravaged by two centuries
of extraction.
The extracted clay was particularly pure, different from the clay that was extracted from other
areas in the Valdarno and in the nearby valley of the
river Elsa and the torrents Orme and Streda, affluents
of the Arno which had larger amounts of impurities
such as fossils and was less adapt for the production
of vase products. The impurities called “nicchi” by the
locals, were quite difficult to remove from the clay
during the decantation because of their light weight.
The damage that these impurities can cause is
there to be seen in the rejected products – which in
Montelupo are quite rare – are characterized by “calcinello” as we know, the gases that escape from a clot,
even a modest one, during the advanced baking phase
can provoke a outpour of material, ruining to different degrees the surface of the product and even
cause a perforation. One can then understand why
the purer clay of the Montespertoli quarry was particularly prized by the potters of Montelupo, also
because it was close to the furnaces, the journey from
San Michele a Morzano to Montelupo was a question
of a few kilometres, on a road that descended towards
the Arno.
Chemical analysis of the clay taken from the
old quarry has shown perfect compatibility with the
rejected items found at the Montelupo site and this
implies that the archived documents were rather
accurate. However, the analysis also highlighted a
macroscopic difference between the ceramic prod-
ucts and the primary matter with which it was made:
having a significant presence of iron meant that the
clay extracted from the quarry of Morzano di Montespertoli when baked should have become a reddish
colour. However, a simple study of the items produced between 1420 and the last years of the XVII
century indicated that the products are characterized
by a white mixture, the chromatic tone of antique
ivory, and that their consistency was medium-soft
permitting the incision with a fingernail.
How can we explain this difference between
primary material and finished product? Chemical
analysis has demonstrated a high presence of calcium. Evaluating all the possibilities, is obvious that
such a high quantity of an “external” substance can’t
have anything to do with the normal composition of
clay used to make ceramics from the XV to the XVII
centuries: it doesn’t exist in such a high quantity in
natural clay – our analysis shows in some cases a calcium content of thirty percent and never less than
thirty percent in products which were enamelled on
a white covering. Some evidence suggests this phenomenon is a consequence of the use of calcium in
the clay washing process. The use of spent calcium
doesn’t provoke the emission of gases during the
baking phase and permits a complete whitening of
the ceramic’s body.
THE PRODUCTION OF CERAMICS
The well and the decantations troughs of
LA PRODUZIONE CERAMICA
la superficie dei manufatti posti in cottura, sino a giungere anche alla loro perforazione.
Si capisce, dunque, come la mancanza di resti
fossili nella cava di Montespertoli rendesse l’argilla di
questo bacino sedimentario assai preziosa per i ceramisti montelupini, dato anche che la relativa vicinanza
del sito di cava alle loro fornaci ne consentiva lo sfruttamento: le operazioni di trasporto del materiale dal territorio di San Michele a Morzano a Montelupo necessitavano infatti di un tragitto di pochi chilometri, il quale si
effettuava su di una strada che lentamente scendeva
verso la riva dell’Arno.
Avvalorando da par suo i dati forniti dalla documentazione archivistica, l’analisi chimica dell’argilla
campionata nel sito dell’antica cava ha mostrato una
perfetta compatibilità con gli impasti ceramici montelupini documentati dagli scarti di fornace del nostro centro di fabbrica, ma ha altresì evidenziato una macroscopica differenza tra i prodotti fittili e la materia prima
con la quale essi furono realizzati: presentando infatti
una significativa componente ferrosa, l’argilla estratta
dalla cava di Morzano di Montespertoli non può che
Utello da farmacia del XVIII secolo con
foro da “calcinello”
risultare alla cottura di un intenso colore rossastro. Una
semplice ricognizione della produzione di Montelupo
databile all’incirca tra il 1420 e gli ultimi anni del XVII
secolo, invece, mostra come la maggior parte delle ceramiche smaltate fabbricate in questo lungo periodo di
tempo nel centro valdarnese si caratterizzi per un impasto biancastro, che mostra normalmente la tonalità cromatica dell’avorio antico, ed ha spesso una consistenza
medio-tenera, tale da permetterne l’incisione con l’unghia della mano.
Come, dunque, spiegare questa difformità tra la
materia prima utilizzata ed il prodotto finito? La soluzione di questo interrogativo è contenuta anch’essa nell’analisi chimica degli impasti ceramici montelupini, ed
è palesemente segnalata da un’altissima presenza di calcio. Pur valutando tutte le possibili alterazioni “esterne”
che possono in qualche misura aver favorito l’assorbimento di calcio, è evidente come l’impasto ceramico
con il quale fu realizzata gran parte della maiolica nella
Montelupo dei secoli XV-XVII denoti una presenza di
questa sostanza talmente elevata da non potersi attribuire in nessun modo ad una normale composizione chimica dell’argilla: non esistono infatti in natura argille così
ricche di calcio – i nostri dati giungono addirittura ad
oltre il 30% – che non scendono mai, per la produzione
smaltata su impasto biancastro, sotto il 13 %.
Alcune prove effettuate in laboratorio hanno
mostrato la possibilità di aggiungere questa componente all’argilla liquida, in maniera tale da poter ottenere un
impasto lavorabile, utilizzando una sostanza ben nota ai
nostri ceramisti: il grassello della calce. L’aggiunta all’argilla della calce già spenta nell’acqua, infatti, non provoca l’emissione di gas in cottura, ed è tale da sbiancare
completamente il corpo ceramico. Questa tecnica, del
resto, trova conferma nelle metodiche di sbiancamento
del corpo ceramico impiegate nella produzione della
terraglia.
Anche se appartengono ad epoche nelle quali la
produzione d’impasto rossastro si sviluppa nelle fornaci
montelupine, affiancandosi a quella con il bistugio biancastro, è peraltro evidente nei documenti come nelle
botteghe valdarnesi si dividesse con precisione l’argilla
“rossa” da quella “bianca”, così come queste due qualità
dovevano essere caratterizzate da un prezzo differente,
visto che nei documenti giudiziari esse venivano specificate come tali. Appare anche significativo il fatto che,
una delle più importanti famiglie di vasai locali, i Lippi,
oltre a produrre e commercializzare ceramiche, avesse
già nei primi lustri del XV secolo un “fornello da calcina” collocato fuori delle mura del castello, nei pressi
del ponte sul Pesa, e ne costruisse ancora un altro nel
corso del Quattrocento.
Se la nostra ipotesi è esatta, dunque, dobbiamo
pensare che nell’area fiorentina – anche le maioliche
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146
Chemist’s beaker of the XVIII century
with hole “da calcinello”
The two qualities – white and red – were prized
differently and resulted in different prices, as can be
seen in judicial documents. It also appears important
that the Lippi family, one of the most important
potter families, as well as selling commercial
ceramics, also had a “limestone oven” outside the
walls of the castle near the bridge on the Pesa, and
then built another during the fourteenth century. If
our hypothesis is exact, we have to presume that in
the Florentine area – also the majolica products in
Florence and Bacchereto showed a whitened mix –
during the course of the XIV century – when the
“archaic blue” was diffused, which represented the
first diversification of Italian Medieval enamelled
ceramics – this system of adding granules of limestone became popular.
The significance of this “technological revolution” of the late fourteenth century was tied to the
ability to produce a whitish look and not reddish, a
great advantage as previously it was necessary to use
a costly enamel rich in tin which in itself depended on
importation.
It is evident that the “whitening” process
became a tendency during the late Medieval period as
other areas – in particular around Siena – also began
to produce a whitish veil on the products made with
iron rich clay. This process which was also used in the
San Gimignano and Montepulciano areas was cited
by Biringuccio in his piece on metallurgy and the art
of the fire.
Above all we have to consider that at the beginning of the XV century, in the furnaces of Montelupo,
the trough system also served to produce this type of
mix which could be obtained through the mixing of
purified clay and an abundant addition of limestone
granules whilst the raw material in its natural state
(beginning from the fifteenth century but above all in
the following century) was used for the production of
veiled ceramics where the graffito technique required
the contrast between the reddish colour of the biscuit
and the candid glaze fixed on the surface of the leaded
glass.
Whilst the production of meal containers and
related enamelled products, after the predominance
of the use of fluvial deposits, were made from clay
quarried from Morzano di Montespertoli, other producers, such as those in the Montelupo area, had a
different sources, private excavations were made
around the hills of the Valdarno (San Vito, Camaioni
and also Artimino), and these were sometimes subject
to judicial notices. As these deposits were rich in sand
and as there as attestations to the transportation of
lime from the bed of the Arno, it is probable that a
diversity of earth types were mixed with the clay from
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
altri bacini sedimentari affioranti nell’area del Medio
Valdarno e nelle vicine vallate, solcate dal fiume Elsa e
dai torrenti Orme e Streda, affluenti dell’Arno, non presenta al proprio interno quei cospicui inclusi fossili, i
quali, se non impediscono la fabbricazione dei laterizi,
rendono la materia assai poco idonea alla produzione di
vasellame; detti nel lessico locale “nicchi”, essi sono per
di più piuttosto difficili da togliere dall’argilla, a causa
del loro modesto peso specifico, attraverso il metodo
della decantazione.
I danni che può provocare un incluso di questo
genere, pur se di impercettibili dimensioni, sono evidenti negli scarti di lavorazione – che a Montelupo, a
differenza di altri centri di produzione, sono peraltro
relativamente rari – caratterizzati dal “calcinello”: come
sappiamo, infatti, i gas che si sprigionano in una fase di
cottura ormai avanzata dal grumo di un “nicchio”, pur
di modeste dimensioni, sono tali da potersi aprire una
via di fuga nell’impasto ceramico ormai solidificato,
innescando una sorta di “scoppio” che è in grado di
espellere scaglie più o meno ampie di materiale; in tal
modo, oltre si danneggia in maniera più o meno estesa
LA PRODUZIONE CERAMICA
te per una maggiore disponibilità della materia, si iniziò
a velare d’ingobbio biancastro il bistugio realizzato con
argille ferrose, in maniera tale che la sua superficie,
prima di essere sottoposta alla smaltatura, risultasse
comunque bianca. Questa tecnica, ampiamente riscontrabile nelle maioliche senesi ed ascianesi, ed in quelle
prodotte nelle aree limitrofe (San Gimignano) od interne alla Toscana meridionale (Montepulciano), è del
resto citata anche dal Biringuccio nel suo noto trattato
sulla metallurgia e le arti del fuoco.
Dobbiamo perciò pensare che, soprattutto dall’inizio del XV secolo, nelle fornaci montelupine che si
dedicavano alla fabbricazione della maiolica il sistema
dei trogoli servisse anche a realizzare questo genere
d’impasto, che si poteva ottenere attraverso la mescolanza dell’argilla ormai depurata con parti più o meno
abbondanti di grassello di calce, mentre il materiale di
cava allo stato più o meno naturale – salvo eventuali
mescoli ottenuti con argille di provenienza diversa – era
destinato (ad iniziare dalla metà del Quattrocento, ma
soprattutto nel secolo seguente) alla produzione di ceramiche ingobbiate, che nella loro totalità mostrano ovviamente di basarsi su argille locali con componenti ferrose “non corrette”, in quanto la tecnica del decoro graffito, storicamente legato ai primordi di questo metodo, si
fonda proprio sul contrasto cromatico tra il colore rossastro del bistugio e la patina candida dell’ingobbio, fis-
sato sulla superficie dalla vetrina piombica.
Mentre la produzione vascolare da mensa e le
tipologie smaltate ad essa connesse, dopo una fase in cui
verosimilmente predominò l’impiego dei depositi fluviali, ebbero come principale riferimento l’argilla della
cava di Morzano di Montespertoli, altre lavorazioni attestate nell’area di Montelupo utilizzarono però una materia prima di provenienza diversa. Parecchi produttori di
terracotta,infatti, risultano coinvolti in vertenze giudiziarie a causa di escavazioni clandestine, da essi effettuate
in terreni posti nelle zone collinari del Valdarno (San
Vito, Camaioni, ma anche Artimino): non vi sono dubbi,
perciò, che almeno parte della materia prima da essi
utilizzata consistesse in prodotti argillosi, estratti in
questi luoghi. Essendo tuttavia i depositi locali particolarmente ricchi di sabbia, e nel contempo ampiamente
attestata nei tempi più recenti la pratica dell’asportazione di limo dal letto dell’Arno da parte dei terracottai
locali, è da ritenere probabile che in queste fornaci si
effettuassero mescolanze di terre diverse con argilla di
fiume. L’unione di argilla “sottile” dall’elevata plasticità
con terre sabbiose poteva infatti conferire ai prodotti
vascolari grezzi (mezzine, catini, orci) sufficiente refrattarietà, e garantire nel contempo un ritiro controllato,
atto a scongiurare fessurazioni in cottura.
Anche nel caso del pentolame – una produzione
che interessò le fornaci montelupine ad iniziare dal 1718
circa – risulta palese questa pratica di mescolare argille
e terre dalle diverse caratteristiche, proprio per ottenere
un impasto resistente al fuoco. Sappiamo, del resto, che
sino all’ultimo quarantennio i produttori di ceramica
invetriata da cucina erano soliti impiegare argilla estratta dalla fascia collinare posta a nord-ovest dell’abitato di
Capraia.
Per i pentolai la pressoché inesistente pratica
della pittura deve aver favorito una particolare concentrazione dell’attività della fornace verso la fase primaria
del processo produttivo (il trattamento dell’argilla), mentre per i fabbricanti di maiolica la preparazione di smalti e pigmenti, nonché la decorazione con tutti i suoi
risvolti, costituiva un impegno lungo e complesso, che
difficilmente poteva essere sistematicamente interrotto
per concentrare l’opera dei lavoranti nella produzione
degli impasti argillosi. È dunque assai più probabile
che questa operazione, pur diretta e sorvegliata dal proprietario della fornace, fosse condotta da manodopera
salariata, della quale resta traccia nella documentazione
d’archivio per il richiamo al mestiere del motaiolo, termine usato solitamente per indicare coloro i quali preparavano la materia utilizzata dagli spianatori per foggiare laterizi entro appositi stampi.
Negli esercizi degli “orciolai”, dunque, le fasi iniziali del trattamento della materia prima argillosa dovevano essere in gran parte effettuate da salariati: ad essi
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the river. The union of “fine” clay of high plasticity
and sandy earth could give the crude products sufficient refractoriness and guarantee a controlled
retraction thus avoiding cracks during the baking.
Also in the case of pots and pans – a production
which began to become of interest to the potters of
Montelupo around the beginning of 1725 – this practice of mixing clay and earth with different characteristics with the aim of obtaining a paste resistant to the
baking process, was evident. We know that even up to
the last forty years, the producers of glazed kitchen
ceramics used clay drawn from the hills facing the
North-West of Capraia.
Concerning the pan makers, the almost inexistent practice of painting must have favoured a particular concentration of furnace activity on the primary
phase of production (the treatment of the clay), whilst
for the producers of majolica, the preparation of the
enamels and pigments and the decorative phase
proved to be the most time consuming and couldn’t
be interrupted by the need to mix the clay.
It is therefore probable that this operation was
conducted by hired helping hands and the trade
became known as that of the motaiolo, those who prepared the material for the spianatori who forged the
brick material.
The jar makers required that the preparatory
work be done by these salaried hands who ran the liquefaction and purification process of the clay from
one trough to another whilst the mixing of the clay
paste was done by the moulders. The clay was
brought in from various areas by the locals of that
area in carts drawn by mules of by the mules loaded
with clay holding recipients. Once they arrived at the
furnace the clay was unloaded near the decantation
troughs and when there seemed to be a sufficient
quantity, the motaioli were called in.
Contemporaneously, the emptying, if not filling
of the last trough took place, and the substances were
transferred in a resistant strip of material supported
by two planks of wood to a covered tub called terrai
or conserve.
Here a new phase began which was necessary
to make the clay material more plastic and above all
to remove the gas that had accumulated during the
work in the troughs. Fist sized clumps were drawn
from the mass and, after being soaked, were attacked
to a wall in a circular form in a shady area where the
water could slowly drip out. At a certain point the
discs, known as pagliacci, dropped to the ground.
This process of gas removal, also used in Montelupo
and referred to by generations of potters, is described
in different encyclopaedia.
The clay is then collected, watered until it is
once again soft before it undergoes the first manipulation which consists of it being folded by bare feet
until a large mass is formed which is called the blocco.
This block is then sectioned and transferred in the
form of small discs once again into a new terraio, to
be found inside the furnace, near the wheels and the
moulding area.
The processing of the clay wasn’t finished at
that stage: before being used it was subjected to a further process called dimenatoia where it was worked
much like doe is when it is prepared to make bread.
Beating the clay with a flat iron instrument similar to
a long sword and rolling over and over again in long
cylinders, various types of chamotte – additives like
sand, mineral components or powder from the biscuit
recovered from the rejected materials – useful for
controlling the behaviour of the product during
baking.
Sources at Montelupo indicate the presence of
dimenatoio (tossing contraption) and different instruments used in the manipulation of the clay before the
moulding process, used by the salariata (hired
workers). Although not explicit, these same sources
suggest that the different stages required different
hands as it was difficult to undertake the operations
serially. So, it is likely that even in the smaller workshops, there were different areas for the different
stages or at least a small corner equipped with a small
terraio or dimenatoio in stone with a wheel nearby or
the plank structure where the moulding with the
mould was practiced; separated but inside the same
building was the area where the decorating took
place. Nearby, usually, the containers for the enamel
and covering mix where the products were immersed.
The moulding and drying of the product
The extraordinary iconographic document represented by a plate from Montelupo of the tardo figurato type belonging to a private collection, demonstrates in a more synthetic but exhaustive way the
writings of Piccolpasso regarding the organization of
the workshop areas and the protagonists that animated them as they might have been seen towards
the mid way of the seventeenth century. The painter,
indeed, has depicted a potter at his lathe in the centre of this plate, pushing with his foot the wheel of
the machine, completing the phase of the construction of the cylinder (also called cannone) from was
taken the definitively moulded vase. To perform this
operation the lather was using the stecca, an incision
tool, firmly held in one hand with his middle finger
placed inside a hole; he had already produced a
series of small products, which, after having
removed them from the lathe’s plate using a metal
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
prodotte a Firenze ed a Bacchereto mostrano infatti un
impasto biancastro – nel corso della seconda metà del
XIV secolo – all’epoca cioè della diffusione della “maiolica arcaica blu”, che rappresentò la prima diversificazione produttiva all’interno della ceramica smaltata
medievale italiana – venne diffondendosi questo sistema
volto ad ottenere un bistugio biancastro mediante l’aggiunta alle argille ferrose locali del grassello di calce.
Il significato di questa “rivoluzione tecnologica”
tardo-trecentesca risiede evidentemente nel fatto che in
tal modo si poteva ottenere un manufatto dalla superficie candida, iniziando da un supporto biancastro e non
rosso, e ciò rappresentava un vantaggio piuttosto rilevante. Per “imbiancare” completamente una superficie
rossastra, infatti, era necessario coprire la medesima
con uno smalto corposo e ricco di stagno: così, però, si
aumentava non di poco il consumo di una materia
prima assai costosa, ed il cui approvvigionamento, per
di più, dipendeva dai flussi d’importazione.
Che l’“imbiancatura” del biscotto abbia rappresentato una prima risposta alla tendenza al miglioramento qualitativo della produzione che animò l’attività
dei ceramisti toscani nel tardo Medioevo, del resto, lo
dimostra anche il fatto che nell’area meridionale della
regione – ed in particolare nei territori senesi – si sia fornito allora una soluzione almeno in apparenza equipollente al medesimo problema. Qui, infatti, probabilmen-
LA PRODUZIONE CERAMICA
nenti, l’impasto argilloso necessario ad ottenere il bistugio biancastro che si utilizzava per produrre la maiolica.
Quanto contenuto nel trogolo era quindi trasferito, per
mezzo di un attrezzo formato da una lembo di stoffa
assai resistente, tenuto da due aste (barella), in apposite
vasche coperte, detti terrai od anche conserve.
Da qui iniziava una nuova fase di lavorazione
necessaria a rendere più plastica la materia argillosa e,
soprattutto, a togliere i gas che in essa si erano accumulati durante la permanenza nei trogoli. A questo
scopo si traevano dalla massa dell’argilla brani della
dimensione di un pugnello, i quali, dopo esser stati
bagnati con l’acqua e schiacciati sino ad assumere una
forma circolare, venivano applicati su di una parete
tenuta in ombra, sufficientemente ruvida da poterli
mantenere in posizione verticale sino a quando, divenuti ormai solidi per la graduale perdita dell’acqua,
questi dischi d’argilla, detti localmente pagliacci, cadevano a terra. Un simile metodo di degassazione dell’argilla, testimoniato nelle fornaci di Montelupo e di altri
centri di produzione dalla presenza di apposite strutture, nonché presente nel ricordo degli stessi ceramisti, è, a conferma della sua antichità e diffusione, atteLa degassazione della ceramica con il
metodo dei “pagliacci” nell’Enciclopedie des
Arts et Métiers
stato anche nelle illustrazioni dell’Enciclopedie.
L’argilla che in tal modo aveva così iniziato il suo
percorso di degassazione, era poi raccolta, innaffiata
sino ad ammorbidirla di nuovo, e sottoposta ad una
prima manipolazione, che consisteva nel pigiarla con i
piedi nudi sino a formare una grande massa, detta blocco. L’insieme così formato poteva essere sezionato e trasferito per brani in un nuovo terraio, posto di norma
nell’area interna della fornace, in prossimità dei torni e
della zona ove si effettuava la foggiatura.
Il processo di lavorazione dell’argilla non era però
terminato: prima di essere utilizzata, infatti, essa era
sottoposta, sopra una lastra di pietra detta dimenatoio,
ad un’ulteriore lavorazione, la quale era in tutto simile al
modo in cui manualmente si realizza l’impasto per il
pane. Battendo l’argilla con uno strumento di ferro piatto, simile ad una lunga spada, ed arrotolandola più volte
in lunghi cilindri, si poteva in questa fase anche amalgamare con essa vari tipi di chamotte – come sabbia, componenti minerali o polvere di bistugio ricavata dalla
macinazione degli scarti – utili a correggerne il comportamento in cottura.
Le fonti montelupine indicano la presenza nelle
fornaci del dimenatoio e dei diversi strumenti atti alla
fase di lavorazione della materia argillosa che ne precede la foggiatura, e mostrano nel contempo il ricorso da
parte dei proprietari a manodopera salariata, che proba-
bilmente coadiuvava i tornianti e gli altri addetti alla
foggiatura nell’opera di preparazione dell’argilla anche
dopo la sua estrazione dai terrai.
Pur non essendo del tutto esplicite, queste stesse
fonti suggeriscono quanto d’altronde la stessa logica
della conduzione della bottega richiede, e cioè che difficilmente la manualità del torniante o del calcatore
potesse, almeno nella maggioranza dei casi, coincidere
con quella del pittore o del decoratore (graffiatore etc.)
in genere. Anche nei più piccoli esercizi, dunque, è logico pensare che esistesse almeno un angolo dotato di un
piccolo terraio e di un dimenatoio di pietra, nelle cui
vicinanze era collocato il tornio e le assi d’appoggio ove
si praticava la foggiatura con l’ausilio della matrice;
separato, anche se all’interno di un medesimo ambiente,
dallo spazio dedicato alla foggiatura, stava invece il
luogo ove si effettuava la decorazione, a fianco del quale
si trovavano di norma i contenitori per la smaltatura od
ingobbiatura ad immersione dei manufatti già essiccati.
FOGGIATURA ED ESSICCAZIONE DEL PRODOTTO.
Lo straordinario documento iconografico rappresentato
da un piatto montelupino nel genere del tardo figurato,
appartenente a collezione privata, mostra in maniera
sintetica, ma certo più esauriente dello stesso trattato
del Piccolpasso, l’organizzazione di questo spazio ed i
protagonisti che lo animavano, così come si sarebbe
151
150
The process of gas removal with the
“pagliacci” method in the “Enciclopedie
des Arts et Métiers”
wire, he placed them on a board placed the right
side of the bench where he is working.
While the lather was involved with his work,
another worker approaches carrying some spheres
of clay whilst balancing a board on his shoulder;
once at the table, he will supply the lather with the
required material and remove the board with the
fresh products. He will then go to store these products in a nearby store room which will be literally
filled with products drying off, placed on pegs
pinned to the wall (incavigliati). The incavigliati permitted the “block” moving of the objects without
having to touch them: the grease of the hand
deposited on the surface of the product could be
harmful in the enamelling phase. The need to amplify the space dedicated to temporary deposits sometimes resulted in the incavigliati being placed in the
centre of the rooms filling the furnace with an interminable number of tables. On our figure bearing
plate, besides the kiln worker’s assistant, there was
also a woman employed in attaching the handle to a
tankard, which took place when the product was
partially solidifies. This is an important witness to
the times because archived writings state the presence of women in the furnaces of Montelupo but not
how they were employed; here we see that women
were also involved in specialized roles (attacchino-
attacher), attaching parts to hand washing dishes,
oil jugs and chemist jars – which needed separate
moulding.
We can deduce that the presence of calcatori
(lime kiln specialists) in the ceramics businesses of
Montelupo from the types of products realized and
from the numerous moulds excavated from the
dumps. These include; single valve type terracotta
moulds used for the fabrication of high relief products, mirrors, heraldic shields and devotional
plaques, and double valve for the realization of
round objects.
Plaster pressing, which can be dated back to
1530-60, demonstrates how the centre Valdarno
area, at least in that period, the double valve period
wasn’t ignored. However, given the fragility of the
mould, the limestone process wasn’t effected but a
running liquid process using liquid clay. The diffusion of this technique indicates the existence of
pressers and casters and artisans able to produce
moulds of various types.
We can affirm that in the area reserved for the
moulding of the clay, there were many workers with
diverse specializations. And as the moulding process
depended largely on the progress of the lather, it was
necessary for the latter to be assisted by workers
who could supply clay discs and remove the fresh
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
era affidato il compito di liquefare e depurare l’argilla,
riempiendo e movimentando il contenuto dei trogoli,
mentre la produzione degli impasti argillosi doveva
avvenire con l’intervento dei foggiatori. L’argilla di varia
provenienza – ed in particolare quella della cava di Montespertoli – era condotta alla fornace da vetturali che in
gran parte risiedevano nel popolo di San Michele a Morzano; essi conteggiavano la materia trasportata a some,
impiegando per questa operazione carri o, più probabilmente, muli caricati di appositi basti. Una volta giunti
alla fornace, i vetturali scaricano l’argilla nei pressi delle
vasche di decantazione e, quando la quantità della terra
era giudicata sufficiente dal proprietario della fornace,
quest’ultimo faceva giungere sul posto i motaioli, i quali,
dopo averla frantumata in piccole zolle, avviavano il
processo di liquefazione, setacciatura e trasferimento
della medesima nei trogoli.
Contemporaneamente al trattamento della nuova
partita d’argilla, si provvedeva – nel caso in cui la fornace possedesse un sistema completo – allo svuotamento
dell’ultimo trogolo o, in caso contrario, a ricavare la
parte di vasca ove eventualmente si era formato,
mediante l’aggiunta di grassello di calce ed altre compo-
LA PRODUZIONE CERAMICA
Gli incavigliati consentivano di movimentare “per
blocchi” il lavoro senza toccarlo con le mani: l’untuosità
della pelle che si depositava sulla superficie dei manufatti poteva infatti rivelarsi nociva nella fase di smaltatura. La necessità di ampliare il più possibile gli spazi
adibiti a deposito temporaneo sugeriva talvolta di porre
gli incavigliati anche al centro delle stanze, saturando
così gli ambienti della fornace con interminabili file di
tavole.
Nel nostro piatto figurato, oltre al lavorante che
opera in ausilio del torniante, si nota una donna impegnata ad attaccare l’ansa ad un boccale, operazione che
si effettuava dopo che i manufatti, perdendo parte dell’umidità intrinseca, si erano parzialmente solidificati. Si
tratta di una testimonianza preziosa poiché le scritture
d’archivio segnalano l’esistenza del lavoro femminile
negli esercizi da vasaio montelupini, ma non giungono
ad indicare con precisione in quali ambiti esso si esercitasse; il documento mostra invece come le donne trovassero impiego in questa operazione che si configurava
come una vera e propria specializzazione professionale
(quella detta dell’attacchino). Oltre a fornire di ogni
genere di prese le forme chiuse, saldandole ad esse con
la barbottina, all’attacchino si richiedeva infatti di saper
anche fissare ai vasi il piede o le altre parti – ad esempio
i versatoi agli utelli ed agli orcioli da farmacia – che
necessitavano di foggiatura separata, o di arricchire di
elementi riportati manufatti particolari, come ad esempio le fruttiere farcite od i calamai.
La presenza, inoltre, di calcatori nelle imprese
ceramiche montelupine si può dedurre, oltre che dal
genere di prodotti realizzati, anche dalle numerose
matrici rinvenute negli scarichi. Si tratta, in particolare,
di stampi in terracotta, di tipo monovalve per la fabbricazione di manufatti in altorilievo, quali specchiere,
scudi araldici e targhe devozionali o bivalve per la realizzazione di oggetti a tutto tondo.
Stampi in gesso, databili già agli anni 1530-60,
indicano però come nel centro valdarnese non fosse
ignota, almeno in quell’epoca, la tecnica della costruzione di matrici bivalvi, ove ovviamente, data la fragilità
dello stampo, non si effettuava la calcatura, ma piuttosto
il colaggio di argilla liquida. La diffusione di questa tecnica sta probabilmente ad indicare l’esistenza in Montelupo non solo di esperti calcatori e colatori, ma anche di
artigiani in grado di produrre le matrici che essi impiegavano, utilizzando come modelli manufatti di ogni tipo
(oggetti in vetro, specchiere in cartapesta, tavole devozionali domestiche in legno e cuoio, ma anche croci
astili, vasellame e statuette in bronzo e, persino, sigilli in
ceralacca).
Piatto figurato di Montelupo con scena di fornace (1620-40)
153
152
products, putting them on the pegs. Contemporaneously there was the production of lime kiln items
nearby the main kiln, mainly vases, carried out
through a system of pressing or leaking and also
these specialist workers required assistants - in the
latter case the primary material needed to be
refined.
Written sources demonstrate the insertion of
the production processes of the apprentices, without
having specified their age or for how long the
apprenticeship lasted. The norms as dictated by the
Capitoli degli orciolai in 1510-12 which stated that
an apprenticeship could start from eight tears old
and onward, were probably not adhered to as these
work conditions were not liable to notary acts, and
it is likely that the starting age was younger, especially regarding the moulding and decoration, and
some received a salary.
Besides the area dedicated to the moulding
process in the furnaces that produced majolica or
veiled ceramics, there was also a section dedicated
to the covering (with enamel or veil) of products
which was often found next to the decoration area.
In the bigger organizations where there was more
space and greater possibility for organization, the
elaboration and clay treatment areas were totally
separated, the latter took place on the on the higher
floors. Between the two were the store-drying
rooms, the placing of which once again depended on
the characteristics of the building and in particular,
where the warmer rooms could be found. The potters knew that the colder temperatures, especially
ice crystals, could damage the fresh items in an irreversible way.
Whoever didn’t have large working areas – and
this included most of the places in Montelupo from
the XVII onwards, the storing of the fresh products
took place in the decoration area. The constant
movement led to a big use of the peg system and
tables everywhere holding the fresh and cooked
products. As the furnaces were built on numerous
levels, it is obvious that the workers had to affront
an incessant and tiring coming and going, often
with tables full of objects on their shoulders.
The constant movement backward and forwards, up and down, for long hours in humid and
slippery environments often led to accidents.
Indeed, in every furnace dump there is no lack of
objects which result broken as a result of work accidents, sometimes whole tables where dropped and
there is ample evidence of ample discontent on the
part of the furnace owner who at times fined his
staff member of held back his pay.
Before being decorated, the products were
Figured plate of Montelupo with furnace
scene (1620-40)
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
Possiamo dunque affermare che nell’area destinata alla foggiatura dell’argilla operavano lavoranti dalle
diverse specializzazioni. Pur essendo l’operazione della
foggiatura largamente incentrata sulla manualità del
torniante, infatti, per esprimere al meglio le potenzialità
di quest’ultimo era comunque necessario affiancare il
suo lavoro con quello di addetti che lo rifornivano d’argilla e ne immagazzinavano il prodotto sugli incavigliati, così come era opportuno che l’opera di completamento dei manufatti fosse almeno coadiuvata da attacchini; a fianco della tornitura, destinata alla realizzazione di gran parte dei prodotti vascolari, inoltre, si svolgeva di solito anche una produzione realizzata a stampo
mediante calcatura od anche colaggio: entrambi questi
sistemi necessitavano a loro volta di attività accessorie,
consistenti tanto nella preparazione degli stampi, quanto – nel caso del colaggio – nell’opera di affinamento
della materia prima da utilizzare.
Le fonti scritte mostrano anche l’inserimento nel
processo produttivo di apprendisti, senza però precisarne l’età, né consentirci un’effettiva valutazione in
merito alla durata del loro apprendistato: data la generale inosservanza che i ceramisti del luogo riservavano
alle norme – per quanto da essi stessi dettate – della
LA PRODUZIONE CERAMICA
potuto osservare verso la metà del Seicento in una fornace valdarnese. Il pittore, infatti, ha inteso rappresentare al centro di questa maiolica un vasaio al lavoro sul
tornio; spingendo con il piede la ruota del macchinario,
egli sta completando la fase di costruzione del cilindro
(detto anche cannone), dal quale poi trarrà il vaso definitivamente foggiato. Per questa operazione il torniante
utilizza la stecca, impugnata saldamente, grazie ad un
foro praticato nell’attrezzo di legno, nel quale introduce
il dito medio; egli ha già prodotto una serie di piccoli
manufatti, che, dopo averli staccati con l’ausilio di un
filo metallico dal piatto del tornio (tagliere), ha riposto
su una tavola appoggiata sul lato destro del banco nel
quale si inserisce il meccanismo ruotante.
Mentre il torniante è impegnato nella costruzione
del vaso, un altro lavorante gli si avvicina, portando
nella mano alcune masse sferiche d’argilla e sorreggendo sulla spalla destra una tavola; una volta giunto al
tornio, egli rifornirà il vasaio, e preleverà nel contempo
la tavola sulla quale quest’ultimo ha poggiato il prodotto fresco, sostituendola con quella vuota che sostiene.
Egli andrà quindi a riporre l’asse con i vasi appena foggiati in un vicino magazzino, le cui pareti sono letteralmente ricoperte di tavole con i manufatti posti ad essiccare; esse sono appoggiate a cavicchi di legno (incavigliati), bloccati al muro – da qui il loro nome – mediante reggette di ferro.
LA PRODUZIONE CERAMICA
bilità che alcuni vani di esso potessero, per ragioni strutturali, mantenere anche d’inverno una temperatura
accettabile. I vasai, infatti, sapevano bene che se il prodotto fresco (detto anche crudo o verde) fosse gelato –
cosa tutt’altro che improbabile in un’epoca nella quale
non si sarebbe potuto riscaldare gli ambienti in maniera
uniforme – i minuscoli cristalli di ghiaccio prodottisi
all’interno dell’impasto ceramico l’avrebbero danneggiato in maniera irreversibile. Per questo, specie nei
mesi invernali, si evitava di riporre i vasi allo stato fresco in locali aperti, nei quali il vento di tramontana era
in grado di provocare un repentino abbassamento della
temperatura.
Chi non aveva grande disponibilità di spazio – ed
era il caso più frequente in Montelupo sin verso la metà
del XVII – si vedeva costretto a modificare i luoghi di
stoccaggio del crudo, riponendo talvolta il prodotto
verde negli stessi ambienti dve si effettuava la decorazione. La continua movimentazione dei materiali, ma
anche la necessità di garantire un efficiente stoccaggio
del crudo, determinavano perciò una grande proliferazione degli incavigliati. L’ambiente delle fornaci preindustriali era perciò dominato dalla presenza di una miriade di tavole, sopra le quali erano posizionati manufatti
di ogni genere, sia crudi che cotti. Poiché i locali erano
assai più ristretti di quelli contemporanei e si articolavano su più piani, doveva immediatamente risaltare agli
occhi di chi si avvicinava alla fornace l’incessante e faticoso andirivieni dei lavoranti, che abilmente trasportavano sulle spalle tavole ricolme di oggetti di ogni genere.
Il salire e lo scendere scale di ogni genere, l’attraversare ambienti umidi e scivolosi, nei quali l’oscurità
non consentiva di percepire gli ostacoli con sufficiente
chiarezza, e la stanchezza per un lavoro così faticoso,
che si protraeva per molte ore, provocava ovviamente
frequenti incidenti. In ogni scarico di fornace, infatti, si
rinvengono ceramiche che risultano rotte non per inconvenienti di lavorazione, ma per cadute accidentali. Come
attestano le testimonianze contemporanee, il rovesciamento di una tavola – o più di una – non mancava di
provocare attriti tra il proprietario della fornace ed i
suoi lavoranti, sino a forme di rivalsa più o meno vessatorie, con multe e trattenute della paga.
Prima di passare ai decoratori, comunque, i
manufatti dovevano essere sottoposti ad una prima cottura, che poteva avvenire soltanto quando essi avevano
completato il processo di essiccazione. Tale cottura era
di norma effettuata in contemporanea con quella dei
prodotti già dotati di rivestimento e decorati, ma avveniva in camera separate. Il compito era spesso demandato
ad uno specifico addetto, il fornaciaio, del quale tratteremo successivamente, per rivolgere adesso la nostra
attenzione alla preparazione dei rivestimenti e dei pigmenti destinati ai pittori.
PREPARAZIONE DI INGOBBI, “COPERTE”, SMALTI E PIGMENTI.
Come in seguito vedremo, è assai probabile che non
tutti gli esercizi da vasaio presenti in Montelupo in
epoca preindustriale avessero al loro interno le strutture
idonee alla preparazione di smalti e colori: in diversi
casi, infatti, i nostri vasai mostrano di lavorare per conto
di terzi e di essere frequentemente collegati tra di loro in
società. Ciò può dunque sottendere – e non pochi atti
del tribunale locale inducono a ritenerlo – che venissero
comunemente praticati anche scambi di materie prime,
nel senso che una fornace più grande e meglio attrezzata, la quale, occasionalmente o per legame societario, si
trovava a collaborare con un’altra bottega, forniva alla
medesima smalti, colori e, più in generale, i prodotti
semilavorati dei quali quest’ultima abbisognava. Ovviamente questi scambi erano riportati nella contabilità
della fornace che, in ossequio al costume dell’epoca,
tendente a limitare al massimo l’esborso ed il trasferimento della moneta, li compensava attraverso partite di
prodotto finito, che la bottega beneficiaria s’impegnava
a consegnare alla fornitrice.
È ovvio come una simile procedura, per una molteplicità di ragioni – ed in particolare per incidenti di
lavorazione, malattie, imprevisti etc. – abbia provocato
contrasti tra i produttori: non per caso nei registri dei
Podestà montelupini abbondano i procedimenti avviati
in quel tribunale per recuperare il valore del materiale
155
154
subjected to a first bake which took place when the
drying stage had finished. This baking usually took
place at the same time as the products given a covering or decorated but in separate ovens. This was
usually the job of a specific worker, the baker, who
we will discuss now along with the preparation of
the coverings and pigment destined to go to the
painters.
Preparation of the cover film, “the engobe”, enamels
and pigments.
As we will see, it is likely that not all the potter
enterprises in pre industrial Montelupo had within
their buildings the necessary structure to prepare
enamels and colours: in some cases potters worked
for third persons or there was a collaboration. Businesses exchanges materials and – many documents
demonstrate - larger ones often provided smaller
ones with enamels, colours and other necessary
products that the smaller needed. Following habits
of the time, there was little exchange of money but
the debts were covered by finished or semi finished
products. Obviously, and for many reasons, illness,
accidents etc, debts were sometimes not paid and
the local justice department registers has many documents referring to notifications for their payment.
This said, and before dealing with the technical-
organizational aspect of the activities, we need to
look at the problems surrounding the “ingobbio”
(engobe) and its use in the workshops of Montelupo.
Unequivocal traces of film covering in the
local production date back to the 1460’s but the general diffusion of this technique occurred a century
later, in particular during the fourth decade of the
sixteenth century. As in the areas around Pisa the
diffusion seems more widespread that in the Florentine area, and perhaps more ancient, it is probable
that Montelupo was influenced by these centres. The
presence of covered ceramics and those with graffiti
beyond the Apennines demonstrates that there probably wasn’t a singular local technology for these
kinds of procedure.
A lack of information and documentation
makes it impossible for us to determine where these
centres got their white earth from, used to make the
cover film. The citation of the “land of Palaia” – an
area in the Pisa locality not far from where the technique was widely used – seems to be a possibility;
the treaty, Inchiesta sullo stato della manifatture written in 1765 refers to the excavations of earth by potters in the judicial area Podesteria di Sovicille, in the
Sienese Montagnola suggests another. He use of a
covering film was marginal for a long time in Montelupo given that the large majority of them were
dedicated to the elaboration of Majolica. To obtain a
copper flake enamel, which characterized the
majolica, a complex series of processes was required
preceded by the process known as marzacotto better
known as fritta (fried).
There is a variety of evidence of the processes
in Montelupo: in judicial acts we find frequent reference to exchanges or sales of fundamental primary
material and melting (alum, dregs of wine), whilst
different recipes for the fabrication of marzacotto
are noted in the transcriptions of the Dionigi Marmi
which is the most ancient manuscript belonging to
the Calabranci dei Cozzetti family. Numerous fragments of jugs that had only been baked once with
marzacotto remnants on the inside have been found
in various furnace dumps. It is the process described
by Piccolpasso. These containers have different strata finely ground and a fluidizer(tartrate of potassium or ashes of potassium): once filled, they were
put in the oven in the area where the temperature
was highest. Thanks to the fluidizer, small quantities
of silica can reach a state of fusion; once the oven is
off, the insides of these vases – jugs or alberellos – a
glass substance solidified inside and the only way to
get it out was to break them open and take out the
fragments. The marzacotto removed from the containers was then ground and washed with the aim of
removing as much impurity as possible. The presence of padellotti (pans) made of refractory earth
found in excavations dating to different epochs and
in particular the XVI and XVIII centuries, don’t necessarily link to this type of preparation however but
one based on the fusion of broken glass; as there is
no documentation relating to this kind of glass
preparation in Montelupo before the second half of
the seventeenth century whilst the latter emerged in
the dumps dating to the beginning of the XVI century and residues of fused glass date back to 1460-70.
There is no option but to suppose that within some
furnaces in the Valdarno area there were some
fusion ovens similar to those of the glass makers but
used to prepare grounded glass, to be used in the
preparation of marzocotto in Montelupo; some potters used the classic fusion system in ovens with silica sand, others operated – probably on a larger scale
– with glass obtained from the fusion of broken
pieces.
A third possibility involves the buying of the
marzocotto from glass makers who used it in large
quantities to make bottles and glasses. The Zamperini affair is important in this proposition. Elderly and
long term residents in Florence, the two brothers
originally from Montelupo were at the centre of a
complex commercial operation centring on the
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
loro arte, ci sembra infatti poco probabile che i discepoli, così come previsto dai Capitoli degli orciolai del 151012, restassero presso il maestro sino a otto anni. Tali
rapporti non erano di norma regolati da atti notarili –
altrimenti alcuni di essi sarebbero restati nei protocolli –
e l’insegnamento, come si ricava dalle scritture del tribunale locale, atteneva tanto alle tecniche ed ai procedimenti di foggiatura, quanto, come vedremo in seguito,
alla decorazione. I figli dei ceramisti frequentavano la
fornace sin dall’età infantile, ed è più che probabile che
nel processo produttivo si impiegassero a vario titolo
anche fanciulli salariati, i quali non necessariamente
erano legati al proprietario dal vincolo corporativo dell’apprendistato.
Oltre all’area destinata alla foggiatura, le fornaci
che fabbricavano maiolica o ceramica ingobbiata avevano un settore dedicato al rivestimento (con smalto o
ingobbio) dei manufatti, ponendolo il più delle volte in
posizione contigua a quello della decorazione; negli
esercizi di maggiori dimensioni, che potevano contare
su spazi più ampi e meglio organizzati, si tendeva a
seperare nettamente queste zone da quelle ove prevaleva
il trattamento dell’argilla, riservando ad esse i piani
superiori.
Tra le due aree si collocava il magazzino-essiccatoio, la cui dislocazione dipendeva soprattutto dalle
caratteristiche dell’edificio, ed in particolare dalla possi-
LA PRODUZIONE CERAMICA
La mancanza di indagini storiche e di documenti specifici ci impedisce inoltre di identificare le cave
dalle quali i nostri vasai traevano la terra bianca con la
quale ingobbiavano i loro manufatti. La citazione nei
documenti locali della “terra di Palaia” – una località del
Pisano non distante dai luoghi ove, tra l’altro, si sviluppò
una produzione ingobbiata – lascia supporre che una
delle aree di approvvigionamento di questa materia
prima si trovasse proprio in quel territorio; la trattazione, inoltre, che l’Inchiesta sullo stato della manifatture
del 1765 riserva alle particolari escavazioni di terra da
ceramisti che si effettuavano nella Podesteria di Sovicille, nella Montagnola senese, potrebbe indicarne un
altro. L’uso dell’ingobbio fu comunque per lungo tempo
marginale nell’attività delle fornaci montelupine, dato
che la stragrande maggioranza di loro si dedicava alla
lavorazione della maiolica.
Per ottenere uno smalto stannifero, la cui applicazione sulla ceramica caratterizza appunto ciò che si
intende per maiolica, occorre effettuare una complessa
serie preparazioni, precedute dalla fabbricazione di ciò
che le fonti definiscono di norma marzacotto e che, con
parola più moderna, è noto anche con l’epiteto di fritta.
Il procedimento trova in Montelupo testimonianPadellotto in terra refrattaria per la
fusione del vetro (inizi XVI secolo)
ze diverse: negli atti giudiziari troviamo infatti frequenti citazioni di scambi o vendite di materie prime e fondenti (allume, feccia di vino), mentre diverse “ricette”
per la fabbricazione di marzacotto sono trascritte nel
centone di Dionigi Marmi, che le trasse da più antichi
manoscritti appartenenti alle famiglie montelupine dei
Calabranci dei Cozzetti; numerosi frammenti di boccali
cotti soltanto una volta con resti di marzacotto saldato
al loro interno, infine, sono stati rinvenuti in molti scarichi di fornace.
Si tratterebbe, quindi, del procedimento di lavorazione esemplificato dal Picccolpasso. In contenitori
destinati allo scarto si ponevano strati diversi, formati
da sabbie silicee finemente macinate e da fondente (tartrato di potassio o ceneri potassiche): una volta riempiti, essi erano posti nella fornace, collocandoli laddove la
temperatura avrebbe raggiunto le gradazioni più elevate.
Grazie all’aiuto dei fondenti, piccole quantità di silice
potevano così raggiungere lo stato di fusione; una volta
spenta la fornace, all’interno di questi vasi – di norma
boccali od alberelli – si solidificava una sostanza vetrosa,
per estrarre la quale non restava che infrangere il contenitore e scartarne i frammenti. Il marzacotto che così si
recuperava veniva poi macinato e lavato allo scopo di
toglierne il più possibile le impurità.
La presenza, quindi, di grandi padellotti di terra
refrattaria, ai quali sono rimasti saldati ampi residui di
sostanza vetrosa, emersi da contesti di scavo databili
ad epoche diverse, ed in particolare al XVI e XVIII secolo, non può essere perciò riferita a questo metodo di
produrre la componente silicea vetrificata da utilizzare
nella fabbricazione degli smalti e delle vetrine piombiche di copertura, ma piuttosto ad un metodo di preparazione di questa componente basata sulla fusione di rottami di vetro. Poiché non vi è traccia nella documentazione archivistica di una produzione vetraria montelupina databile ad epoca anteriore alla seconda metà del
Seicento, mentre padellotti emergono già in scarichi
dell’inizio del XVI secolo e scorie di fusione vetraria si
possono datare anche agli anni 1460-70, non resta che
supporre l’esistenza all’interno di alcune delle fornaci in
attività nel centro valdarnese di forni fusori simili a
quelli delle vetrerie, ma finalizzati alla preparazione di
vetro macinato, da impiegare nella preparazione dei
rivestimenti. Almeno duplice, dunque, dovette essere il
sistema di preparazione del marzocotto in Montelupo:
alcuni ceramisti, infatti, utilizzavano il classico sistema
della fusione in fornace delle sabbie silicee, altri operavano – probabilmente su più larga scala – attraverso il
vetro ottenuto dalla fusione di rottami.
Una terza possibilità di approvvigionamento del
marzacotto consisteva poi nell’acquistarlo direttamente
dai vetrai, che ne producevano buone quantità per fabbricare bottiglie e bicchieri. La vicenda degli Zamperini
LA PRODUZIONE CERAMICA
oggetto di scambio o di “prestito” tra i ceramisti del
luogo.
Detto questo, e prima di trattare sotto il profilo
tecnico-organizzatovo delle attività di fabbricazione di
smalti e colori, occorre accennare brevemente al problema dell’ingobbio e della sua utilizzazione nelle fornaci
montelupine.
Tracce inequivocabili di ingobbiatura emergono
nella produzione locale già negli anni Sessanta del Quattrocento, ma una vera diffusione di questa tecnica, in
grado di animare un’ampia attività ceramistica, può collocarsi soltanto nel secolo seguente, ed in particolare
nel quarto decennio del Cinquecento. Poiché a Pisa e
nell’area pisana la diffusione delle ingobbiate appare
più ampia rispetto ai centri fiorentini e, forse, anche
un po’ più antica, mentre l’uso dell’ingobbio si mostra
rilevante nella produzione smaltata senese, è probabile
che Montelupo abbia derivato il metodo dell’ingobbiatura da questi centri di fabbrica toscani. La presenza di
ceramiche ingobbiate e graffite di chiara ascendenza
ultrappenninica nella prima fase d’applicazione di tale
tecnica segnala comunque una molteplicità di apporti,
che rende di fatto improponibile la ricerca di un unico
modello tecnologico per le ingobbiate locali.
157
156
THE PRODUCTION OF CERAMICS
glass fusion (beginning of XVI
century)
exchange of marzacotto produced by glass makers
and used by potters. Payment of the material necessary for fabrication of the enamels came through a
complex business affair. All this happened around
the first three decades of the XV century. The fabrication of the marzacotto was only the first step in
the production of glass products and enamels; lead,
tin and a vitreous-silica film were also to be added
(“accordare”), all in the appropriate oven called “fornello a riverbero” (reverberation/air oven) which had
a simple indirect warming system. The chamber
used for fusing and liming were separate from the
combustion chamber to protect the metals and silica-metallic compound from being spoiled by ash or
carbon guaranteeing purity.
The oven – taken direct from the metalworking trade – was composed of two distinct chambers
linked on the outside by openings. That used for
combustion had a lowered level compared to the
other to permit better suction and both were separated by a wall which however didn’t reach the arch
of the oven. As the fireplace had its opening above
the fusion chamber, when the fire was intense, the
flames drawn by the suction invaded the other portion of the oven but as it couldn’t pass the wall the
flames were forced down where they licked at the
superior part of the other chamber. Despite this
heating “a riverbero” the strong suction of the
flames and heat resulted in a cooler liquefaction of
metals such as tin, copper, lead and those permitting
the “accordo”.
The reverberating air oven was equipped with
particular features called “zapponi” in the writings
of Piccolpasso and “marroni” or “marroncelli” in the
Montelupo documents obviously because they
looked like the hoeing instruments used in the cultivation of the fields. The “marroncello” had a apical
form on one side, in pyramid type sections, made of
metal with a two or three metre long wooden handle. This form stopped it from getting damaged
when it was introduced into the fusion chamber.
The wooden section protected the worker’s hands
from burning as it didn’t permit the transmission of
heat. Given its dimensions, the “marroncello” needed to be supported and indeed it was attached at the
barycentre to a ring or bar that was attached to the
ceiling, and suspended at the height of the opening
of the fusion chamber of the reverberating air oven.
In this way it could easily be introduced into the
oven using a swinging movement, an inertia that
was able to move the fused mass. At the same time
the operator could keep a safe distance. Besides contributing to the homogeneity of the process, the
action permitted a rapid oxidization of the metals
and the “accordati” compounds through the fusion.
All the calcinations were correlated to the
milling activity which had to precede them as the
materials to be “accordato” were prepared, a follow
them as far as the shredding of the finished product
was concerned, to be used in the production
process. The silica-sand and the fluidizer necessary
for the fabrication of the marzacotto had to be
milled to permit their use and to guarantee an adequate depuration. Grounded materials of different
types were used in the ovens and this has been verified by written documents and through archaeological finds effected in Montelupo, even though in the
latter case the products are relatively smaller. Con-
THE PRODUCTION OF CERAMICS
Pan made in refractory earth for the
LA PRODUZIONE CERAMICA
così la “purezza” di quanto si otteneva.
Il fornello – che i ceramisti derivarono direttamente dalla tecnica metallurgica – era infatti composto
da due camere distinte, le quali comunicano con l’esterno mediante altrettante bocchette; quella destinata al
combustibile, che normalmente ha un piano ribassato
rispetto all’altra per favorire il tiraggio, è separata da
quest’ultima mediante un muretto, il quale tuttavia non
giunge a toccare la volta del forno, che invece si estende
a coprire entrambi i settori. Poiché il camino ha la sua
apertura al disopra della camera di fusione, quando si
appicca il fuoco, la fiamma, per sfogare all’esterno, è
forzata dal tiraggio ad invadere l’altra porzione del fornello, ma, incontrando la barriera rappresentata dal
muretto interno, che ne contrasta l’espansione verso il
basso, è costretta a lambire solo la parte superiore dell’altra camera. Nonostante questo riscaldamento “a
riverbero”, la temperatura che si può raggiungere nella
fornacetta – grazie al forte tiraggio ed alla scelta del
legname adatto – è tale da permettere un’agevole liquefazione di metalli come stagno, rame, piombo, nonché a
consentire l’“accordo” (cioè la mescolanza) di composti
siliceo-metallici e la calcinazione delle sostanze necessarie alla fabbricazione dei colori.
Il fornello a riverbero era dotato di particolari
attrezzi, detti “zapponi” nel trattato del Piccolpasso e
“marroni” o “marroncelli” nei documenti montelupini,
evidentemente per la somiglianza dei medesimi con gli
strumenti che si adoperavano nella coltivazione dei
campi. Il “marroncello” era però formato da una parte
apicale in ferro di sezione piramidale, la quale terminava in un lungo peduncolo, innestato in un manico in
legno di due o tre metri. Questa duplice composizione
dell’attrezzo serviva ad impedirne il danneggiamento
quando veniva introdotto nella camera di fusione (parte
in ferro), non permettendo nel contempo la trasmissione
del calore (parte in legno) alle mani di chi lo impugnava.
In ragione del suo peso e della sua lunghezza –
che arrivava facilmente anche ai quattro metri – il marroncello non poteva essere manovrato senza l’ausilio di
un appoggio; esso, dunque, era munito di una catena
che, fissata al suo punto baricentrico, andava a saldarsi
ad un anello o ad una sbarra murata al soffitto. L’attrezzo era sospeso dunque esattamente all’altezza dell’imboccatura della camera di fusione del fornello a
riverbero, e poteva così facilmente essere introdotto al
suo interno, spingendolo sino a fargli acquisire un lento
movimento pendolare: la sua inerzia era così in grado di
Schema del fornello a riverbero dal Lazzarini (fine XVIII secolo)
Un macinello in pietra della ex fornace Pasquinucci
e il fornello a riverbero della ex fornace Pasquinucci di Capraia fiorentina
di Capraia (seconda metà XIX secolo)
159
158
Reverbarating air oven form ex Pasquinucci furnace in Capraia
Grinder made of stone form ex Pasquinucci furnace
fiorentina
in Capraia fiorentina (second half of XIX century)
manca dida
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
smuovere le masse in fusione, ma consentiva all’operatore di restare a debita distanza dalle medesime. Oltre a
contribuire all’omogeneità del processo, l’azione meccanica del marroncello, esercitata a temperatura calante,
permetteva una rapida ossidazione (calcinazione) dei
metalli e dei composti “accordati” mediante fusione.
Tutte le operazioni di calcinazione effettuate nel
fornello erano poi ovviamente correlate ad un’attività
molitoria, la quale doveva precederle per la preparazione del materiale da “accordare”, e seguirle per la definitiva triturazione del prodotto finito, da utilizzare successivamente nel processo produttivo. Già la sabbia silicea ed il fondente necessario alla fabbricazione del marzacotto – ovviamente se allo stato solido (tartaro delle
botti) – dovevano essere preventivamente macinati, sia
per permetterne l’impiego che per garantirne un’adeguata depurazione.
Macinelli di diversa natura erano perciò ampiamente utilizzati nelle fornaci, ed essi sono perciò documentati tanto nelle fonti scritte quanto nei ritrovamenti
archeologici effettuati in Montelupo e, se in quest’ultimo
caso le nostre conoscenze sono, per ovvi motivi,
momentaneamente relative ai manufatti di più piccole
dimensioni, e cioè pestelli e mortai appartenenti alla
LA PRODUZIONE CERAMICA
è a questo proposito assai significativa: ormai anziani e
da tempo residenti in Firenze, i due fratelli d’origine
montelupina erano infatti al centro di complesse operazioni commerciali, incentrate appunto su scambi di
marzacotto prodotto dai vetrai – nella fattispecie provenienti da Gambassi in Valdelsa, ma residenti a Pisa –
che veniva esitato presso i ceramisti; il pagamento della
materia necessaria alla fabbricazione degli smalti avveniva poi mediante un complesso giro d’affari. Tutto questo avveniva nel primo trentennio del XV secolo.
La fabbricazione del marzacotto rappresentava
però, come ben sappiamo, solo un primo passo verso la
produzione delle vetrine e degli smalti, per ottenere le
quali occorreva aggiungere – o, per dirla col lessico ceramistico antico, “accordare” – piombo e stagno a quella
componente siliceo-vetrosa; l’operazione doveva inoltre
avvenire in un’apposita fornacetta, detta “fornello a
riverbero” in quanto funzionava mediante un semplice
sistema di riscaldamento indiretto. Nel forno la camera
destinata alle fusioni e calcinazioni erainfatti separata
da quella che invece conteneva il combustibile: in tal
modo si proteggevano i metalli e i composti siliceometallici dai possibili inquinamenti provocati dai prodotti della combustione (carboni, fuliggine), garantendo
LA PRODUZIONE CERAMICA
grande di quella che poteva attingere la forza dell’uomo
e delle bestie da soma, furono costruite nella comunità
di Montelupo a fianco degli impianti destinati ai cereali,
ed erano di norma gestiti dai mugnai affittuari.
Allo scopo di meglio collocare le diverse fasi della
macinazione nell’attività delle fornaci, potremmo dunque precisare che esso interessava sia la preparazione
delle materie prime (sabbie o materiali silicei, fondenti
solidi, ossidi metallici), sia la successiva triturazione e
molitura di quanto realizzato attraverso l’ “accordo”
delle varie componenti nel fornello a riverbero o, sia
pure marginalmente, mediante la fusione in fornace.
Ogni fase di macinazione era ovviamente preceduta dal
lavaggio e dalla setacciatura dei materiali.
Una volta ottenuti i rivestimenti – piombo, smalto, od anche ingobbio – ed i pigmenti – verde, bruno,
arancio, giallo, blu e rosso, derivati rispettivamente da
rame, manganese, ferro, antimonio (antimoniato di
piombo), cobalto, manganese o ferro con componenti
d’arsenico – e ridotti i medesimi ad una polvere finissima, si poteva avviare la fase di decoro dei manufatti, che
precedeva la seconda e, quasi sempre, ultima cottura. La
smaltatura, a differenza dell’ingobbio, posto sulle ceramiche non appena essiccate, era preventiva alla decoraParte basale della fornace Sartori
(1620-32). Rilievo di G. Migliori
zione della maiolica, e richiedeva che i manufatti avessero già subito una prima cottura.
PRIMA COTTURA
Per ottenere il prodotto privo di rivestimento, che le
fonti medievali e rinascimentali appellano sempre
“bistugio”, e non “biscotto”, come con termine più
moderno, derivato dalla lavorazione della porcellana,
si usa attualmente fare, occorreva dunque procedere
alla cottura dei manufatti già foggiati ed essiccati.
A quanto è dato di sapere, ogni struttura produttiva dotata di forno doveva avere un impianto composto
da due distinte camere di cottura: una destinata alla
preparazione del bistugio, cioè alla prima cottura, ed
un’altra, ove si collocavano i manufatti, già dotati di
rivestimento e decorati con svariate colorazioni, da cuocere per la seconda volta.
A differenza di quanto si nota nei più volte citati
disegni del Piccolpasso, quindi, supponiamo che gli
esercizi da vasaio operanti in Montelupo fossero dotati
di una fornace formata da tre diverse camere: quella
inferiore era destinata al combustibile, il livello intermedio conteneva il bistugio già rivestito e decorato, mentre
nel terzo – di norma più basso del secondo (e detto perciò “fornaciotto”) – si inserivano i materiali che dovevano effettuare la prima cottura.
Come ben sapevano i ceramisti, è infatti al vertice
della fornace che si raggiungono le temperature più elevate, ed un buon calore – di norma una temperatura di
circa 980 gradi centigradi – era indispensabile per ottenere un bistugio compatto, di buona qualità, mentre
un riscaldamento inferiore bastava a fondere i pigmenti ed i rivestimenti siliceo-metallici. Nella porzione più
alta della fornace, inoltre, i moti convettivi indotti dal
tiraggio della fiamma determinavano l’accumulo della
fuliggine, di polveri e degli altri residui della combustione che salivano dal basso, mentre lo sfogo all’esterno
provocava la fumigazione: tutto ciò avrebbe danneggiato irreparabilmente le smaltature e gli ingobbi, mentre
non poteva sortire alcun effetto negativo per manufatti
privi di rivestimento, da cuocere la prima volta; quando
il bistugio veniva estratto dalla fornace, infatti, era sufficiente lavarlo o strofinarlo, per nettarlo dai residui carboniosi e dalle polveri.
I pochi resti di fornaci “antiche” rinvenute in
Montelupo sono ovviamente relativi solo alle porzioni
inferiori dei forni, distrutti nelle parti elevate e successivamente interrati al momento della loro dismissione;
pur in assenza della documentazione materiale, è però
logico supporre che le fornaci montelupine d’epoca
preindustriale, così come quelle legate alle sopravvivenze storiche dei sistemi tradizionali di produzione, fossero dotate del fornaciotto, non solo per motivi di carattere tecnico, ma anche per evidenti ragioni di convenienza
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Basis part of Sartori furnace (1620-32)
Relief by G. Migliori
temporary documentation and archived materials
however refer to much larger sizes.
It is however easy to understand the grinding
process of the materials involved in the production
process of the Workshops in Montelupo through the
accessories used (from small grinding stones to large
grinding instruments) and determine that an external group of workers was used to operate these
processes: the grinders who were particularly expert
at managing the hydraulic energy and probably built
up a small profitable industry. These large grinding
wheels which could grind a mass well beyond the
capacity of man and beast combined, were built in
the community of Montelupo along with the equipment used for producing cereal and were usually
managed by the grinders themselves. With the aim
of organizing the different phases as well as possible
within a furnace, these grinders were involved in the
preparation of the primary materials and the successive breaking up and grinding of the materials realized through the “accordo” in the air oven. Each
grinding phase was obviously preceded by a washing
and drying of the materials.
Once the covering materials were obtained
lead, enamel or the engobe and the pigments; green,
brown, orange, yellow, blue or red were derived from
the copper, manganese, iron, antimony, cobalt or
iron with components of arsenic and reduced to a
fine powder, the decorating phase could get under
way, and this preceded a second and usually final
baking. The enamelling, as opposed to the engobe
stage, was placed on the object as soon as it was dry,
required an immediate baking.
First baking
To obtain the cover free product, called “bistugio” and
not “biscotto” as it is now called which was derived
from the production of porcelain, baking took place
once the products were formed and dried.
As much as we know, every distinct productive structure with an oven, had to have an apparatus with two
distinct baking chambers, one destined towards the
preparation of the bistugio, the first bake, and the
other used for the products with a covering or decoration. Which needed a second bake. However, it seems
that some ovens in Montelupo had three chambers:
the inferior used for combustion processes, the intermediate level used for the bistugio already decorated
or covered and the third, usually placed slightly lower
than the second, (therefore called “fornaciotto”) was
used for materials needing the first bake.
As the potters knew, maximum temperatures
at the top of the oven reached 980 around degrees so
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
dotazione più “leggera” delle botteghe ceramiche, la
documentazione contemporanea e le scritture d’archivio
ci rimandano invece anche alla presenza di mole in pietra di dimensioni ben maggiori. Una controversia agitata di fronte al tribunale montelupino nel 1540 lascia
intendere come esse venissero per lo più fabbricate nell’area pratese, ove esistono cave di resistente serpentino.
Se è dunque facile per noi comprendere come la
macinazione delle materie che entravano nel processo
produttivo delle botteghe montelupine avvenisse attraverso l’impiego di un’articolata serie di strumenti (dai
piccoli pestelli in pietra per la triturazione ai più grandi
macinelli per la molitura), si può nel nostro caso notare
come a questa attività partecipasse anche una categoria
di lavoratori esterna alla compagine che operava nella
fornace: i mugnai. Questi ultimi, infatti, erano particolarmente esperti nello sfruttamento dell’energia idraulica e, trovandosi ad operare in una comunità ove esistevano numerosi esercizi di vasaio, è ben comprensibile
che fossero stati spinti a sviluppare un genere di attività
molitoria in grado di apportare loro anche discreti benefici finanziari.
Queste ruote idrauliche, le quali erano evidentemente in grado di macinare su di una scala ben più
LA PRODUZIONE CERAMICA
sibile la dispersione esterna del calore, favorendo così
la tenuta termica.
Poche sono le informazioni relative alla costruzione di fornaci in grado di mostrarci i soggetti deputati
alla loro edificazione: in un atto del tribunale locale
incontriamo un maestro muratore che da poco aveva
terminato la costruzione di una fornace, e che si poneva
di fronte al Podestà come un artigiano specializzato nel
mestiere. Costoro operavano verosimilmente in maniera
empirica, ricorrendo a formule e “segreti” derivati dall’esperienza, che suggerva loro le misure e le proporzioni idonee alla costruzione di forni in grado di mantenersi efficienti il più a lungo possibile e, senza consumare troppo combustibile, produrre una buona quantità di
ceramica.
SMALTATURA, INGOBBIATURA E DECORAZIONE.
Riprendendo la descrizione del processo produttivo,
ritorniamo, dopo questa bereve divagazione sulle fornaci, alle operazioni necessarie ad effettuare la smaltatura
o l’invetriatura dei manufatti allo stato di bistugio.
Ogni genere di rivestimento – con ingobbio, smalto od invetriatura – era ottenuto (così come ancor oggi
avviene) attraverso la diluizione in acqua delle componenti necessarie, siano state esse di natura argillosa
(ingobbi), o piuttosto di tipo siliceo-metallico (vetrine,
smalti). L’apporto del rivestimento avviene infatti per
deposizione, dato che l’acqua è facilmente assorbita
dalle superfici porose dei manufatti, in specie da quelle
del bistugio, che, oltre all’umidità, ha perso nella prima
cottura anche parte delle componenti minerali dell’impasto. La parte acquosa della soluzione si separa con
facilità da quella meno sottile dei composti argillosi o
siliceo-metallici: l’evaporazione completa poi tale processo, eliminando gradualmente la prima.
Nelle fornaci – e gli inventari montelupini sono
assai eloquenti in proposito – esistevano capaci contenitori in terracotta (di solito conche) destinate alla preparazione di smalti e ingobbi. Essi erano murati in un
angolo ove spesso si trovavano anche le macine (macinelli) utilizzate per la molitura, il che portava a definire
genericamente quest’area della fornace come “la pila
dei colori”. In queste conche si emulsionavano in acqua
le sostanze da impiegare come rivestimenti; minori
quantità di liquido – versato, quindi, in più piccoli bacili o catini – erano poi necessarie per disciogliere i pigmenti.
Nella smaltatura l’apporto della materia di rivestimento avveniva tramite immersione del manufatto nella
conca dello smalto, o in un mastello nel quale questa
sostanza era stata trasferita; nell’ingobbiatura, invece,
poiché questa tecnica di rivestimento riguardava soprattutto le forme aperte, che presentano di norma la sola
copertura del lato a vista, l’operazione poteva essere
eseguita anche versando direttamente la materia argillosa sui manufatti. Nel caso di ciotole ad alta parete che
hanno il rovescio ingobbiato, e di boccali o forme cupe
in genere (fiasche, etc.), è invece chiaro come tale fase di
lavorazione si effettuasse, come per lo smalto, per
immersione.
Alle origini della diffusione delle ceramiche smaltate, ed in particolare nella prima fase produttiva (fine
XIII – inizi seconda metà del XIV secolo), la smaltatura
“a risparmio” delle forme aperte (solo la parte a vista)
seguiva evidentemente le medesime metodiche delle
successive ingobbiate, mentre l’apposizione parziale
dello smalto nelle forme chiuse (porzione inferiore ed
interna semplicemente invetriata) poteva attuarsi con il
tuffaggio, sfruttando un semplice principio di compressione dell’aria. Il manufatto era infatti inserito nel
mastello in senso capovolto, in maniera tale da non
immergerne la porzione inferiore, e ciò era sufficiente
allo smalto per coprire questa parte: avendo cura di
effettuare l’operazione con particolare rapidità, infatti,
l’aria, compressa dentro la forma cupa del vaso, impediva momentaneamente al liquido di penetrare al suo
interno.
Sia nel caso della maiolica arcaica che in quello
delle ingobbiate, si nota però la successiva stesura di
una pellicola di rivestimento con un vetrina piombica in
grado di accentuare la brillantezza dei manufatti smalta-
163
162
the bistugio had to be compact and of good quality
whilst the lower warming process was only required
to melt the pigments and the silica-metalli covers. At
the top of the oven, convection caused by the draw
of the flames determined the accumulation of ashes,
dust and other residues of the combustion process
that oozed from below, all of which would have irreversibly damaged the enamels and engobes whilst
the base product without any kind of covering or
decoration didn’t suffer any drawbacks.. it only had
to be washed or dusted off.
The few remnants of the “antique” furnaces
discovered in Montelupo are mainly the lower parts
of the ovens; the upper parts were destroyed and the
lower parts buried when the furnaces closed.
Despite the lack of physical evidence however, it
quite obvious that the ovens had a fornaciotto, not
only for technical reasons but also for economical
reasons. As has been well documented, the cost of
strips of wood (“stipa”) and other combustibles was
high and ate into the profit to the extent that debts
were often not paid. Use of the fornaciotto could
help reduce costs and make optimum use of the
oven. Notwithstanding the vertical extension of the
oven, through diverse chambers, the horizontal
dimensions were quite reduced and were similar to
those that historically survived: a small difference is
their location, on hill tops where the draw of air was
stronger and wood was easier to find. Furthermore,
being against a natural earth wall on the hill there
was less dispersion of heat.
As the information relative to the construction
of the furnaces is scarce, we know very little about
the people involved in building them: archived court
records inform us of a master builder who had just
finished the construction of a furnace and who had
presented himself as specialized in the trade. These
workers operated by rule of thumb exploiting their
knowledge of the secrets of the trade, constructing
the most efficient furnaces given the circumstances.
Enamels, the engobe and the decorations
Returning to the production process, we can consider the operations necessary to effect the enamelling
or glazing of the products after the first bake.
Every type of covering – with engobe, enamel
or glazing – was obtained (as nowadays) through the
dilution of the necessary components in water
which were of a clay type covering or silica-metallic
(glass, enamels). The addition of the covering came
through a deposition process as the porous surface
of the “dry biscuit” easily absorbed the deposited
solutions. The watery part of the solution eventually
separated from the less subtle clay or silica-metallic
compounds and a complete evaporation gradually
occurred. In the furnaces – and the inventories of
Montelupo testify to this – there were many large
terracotta containers (usually basins) used for the
preparation of the enamels and engobes. They were
built into a corner where the grinding apparatus
could be found and the area was known as the “the
colour basin”. Different substances were emulsified
in water and these were to be used as covers; others
liquids were used – in smaller containers - to dissolve the pigments.
During the enamelling phase, the addition of
the covering material came through the immersion
of the product into the basin containing the enamel
or in a vat into which the substance had been transferred. On the other hand, the engobing process, as
the products were of an open type, involved a direct
pouring of the clay material onto the visible areas.
The bowls with high sides and the jugs and rounded
products in general were immersed in the enamel.
When the enamelling process first became
popular (at the end of the XIII century up to the second half of the XIV century, the “cheap” enamelling
of the open forms (only on the visible parts) was
done using the same processes as in the successive
engobing stage, whilst the closed forms were partial-
ly immersed with the help of a compressed air principle, the product was inserted upside down in the
tub with the aim of avoiding the immersion of the
inferior part so only a part became covered with
enamel. The inside remained free of enamel as the
air pressure impeded its entrance.
Both the archaic majolica and the engobed
products had a film added to the product to accentuate the shine of the enamel or to attach the whitish
film - the engobe – which was smoothed over on the
seen parts with a sponge as it started to dry, particularly on the open forms.
Already by the end of the fourteenth century,
the open forms of majolica from Montelupo denoted
a significant difference of thickness between the
seen part and the reverse and the same thing can be
said of the external and internal aspects of the jugs;
an indication of how the workshops of Montelupo
started to sub divide the enamelling operation into
two distinct phases. First the products were completely immerged into a diluted enamel solution and
this guaranteed the deposition of a thin “base” cover
film: once partially dried the second coat was added
through the usual immerging of the product in an
upside down way (for closed forms), or through a
simple pouring of the solution (open forms). As we
know, all these operations took place with the use of
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
economica. Come ben evidenziato dalla documentazione archivistica, infatti, le spese per il combustibile da
fornace, ed in particolare per la legna piccola (o “stipa”)
che serviva ad avviare il processo di cottura, erano piuttosto elevate e gravavano pesantemente sul bilancio
della fornace, tanto che la crisi di alcuni vasai fu avviata
proprio dal mancato pagamento di partite di legname.
Utilizzando una fornace con fornaciotto, quindi, i
ceramisti erano in grado di alleggerire sensibilmente i
costi di produzione, ottimizzando l’impiego del combustibile: mentre, infatti, essi cuocevano il prodotto già
rivestito e decorato, potevano produrre, quasi con la
medesima quantità di legname, anche il bistugio.
Nonostante la loro articolazione verticale in più
camere di cottura, gli antichi forni ceramici di Montelupo mostrano un’estensione orizzontale relativamente
ridotta, che, peraltro, non risulta dissimile da quella
dalle “sopravvivenze storiche” di tali strutture; una differenza di qualche interesse è semmai da individuare
nella propensione delle fornaci preindustriali a collocarsi lungo i crinali collinari. Non essendo necessario
incrementare considerevolmente il tiraggio delle fornaci – e dovendo anzi evitare un passaggio troppo
rapido dell’aria, al fine di scongiurare un esagerato consumo di combustibile – si può pensare che la costruzione delle fornaci a ridosso di una parete di terreno
naturale fosse allora ritenuta utile ad evitare il più pos-
LA PRODUZIONE CERAMICA
Una volta effettuata la smaltatura, i ceramisti
contemporanei tendono ai togliere i resti dello smalto o
della vetrina di copertura che l’immersione lascia sul
piede delle forme aperte sfregando i manufatti su di
una superficie moderatamente abrasiva: ciò è in grado
di assicurare un più facile distacco del prodotto finito
dai distanziatori necessari ad “impilare” le ceramiche in
fornace. Occorre però notare in proposito come questo
passaggio non doveva essere frequente, per non dire del
tutto sconosciuto, nel ciclo produttivo d’età preindustriale. È infatti evidente come la produzione di quel
periodo prevedesse la smaltatura del piede per la stragrande maggioranza delle maioliche fabbricate: si può
semmai notare a questo proposito il vantaggio che presentava una modesta deposizione di sostanza stannifera
sulle parti d’appoggio, e supporre perciò, che tra le motivazioni che indussero i ceramisti montelupini – e probabilmente non soltanto loro – ad effettuare un doppio
processo di smaltatura, vi fosse anche la possibilità di
evitare l’abrasione dei rovesci.
Dopo esser stati smaltati od ingobbiati, i manufatti venivano riposti sugli incavigliati, scegliendo di preferenza quelli posti nei locali ove si effettuava la decorazione. Una volta asciutta, infatti, la superficie di queste
ceramiche poteva essere decorata dai pittori, che utilizzavano per questa operazione un apposito banco girevole di forma circolare (tondo), oppure un tornietto,
assai diverso da quello impiegato nella foggiatura, in
quanto privo della grande ruota inferiore.
Il tondo rappresenta infatti un artificio oggi
comunemente impiegato in Montelupo, tanto da farci
ritenere che la sua introduzione sia avvenuta in epoche
ben più antiche: quanto può ricavarsi dal trattato del
Piccolpasso, inoltre, sembra suggerire che anche in
Casteldurante si utilizzasse il tondo, la cui funzionalità,
perlatro, non sembra essere stata compresa dallo scrittore durantino; è d’altronde plausibile che molte aree produttive italiane avessero già sviluppato nel XVI secolo,
questo semplice sistema atto a dipingere “in serie”.
Il tondo, infatti, consiste in un grande tavolo girevole di forma circolare, sul quale vengono disposti piatti (rialzati mediante un appoggio) o boccali in quantità
tale da saturarne l’intera circonferenza. Il pittore dipinge un particolare – che ad esempio fa parte della figura
di un albero o di un piccolo animale – sul manufatto
smaltato od ingobbiato che ha di fronte e, non appena
terminato, fa ruotare il tondo con la mano sinistra quanto basta per porre di fronte a sé un nuovo oggetto da
dipingere. In ragione della ripetitività del gesto, l’operazione si fa in tal modo più sicura, e nel contempo elimina i tempi morti necessari a cambiare il colore, non
Gli “incavigliati” di una fornace storica di Montelupo
165
164
forceps to avoid contact with the grease of the skin
(some examples of which have been found in
dumps) which causes the surface of the biscuit to
withdraw away from the covering film.
Once the enamelling or glazing is done, contemporary potters remove the superfluous enamel or
glaze, which could become attached to the tools
used to place the products in the ovens, by rubbing
the products against an abrasive surface. This
process was not often undertaken in the pre industrial period who tended to deposit a modest amount
of a stanniferous substance on the supporting part
and we can suppose that the double enamelling was
undertaken to avoid having to rub the reverse.
After being enamelled or covered with the
whitish film, the products were put on pegs near the
decoration point. Once dried, the products could be
decorated by the painters who used a turntable
which had a circular form (tondo). It’s probable that
these tables were already used during the XVI century and the products were decorated “in series”. In
fact the turntable was completely covered with
objects. The painter painted a part of a decoration,
part of an animal for example, and then turned the
table and painted the same part on the other products. In this way the painter didn’t have to keep
changing colour and wash the brush and there was
no risk of mixing the pigments. What’s more, the
painter’s hand always remained at the same level
and he didn’t have to continuously search for the
right position. The turntable was therefore used for
a serial polychrome production process and was
probably introduced between the fifteenth or sixteenth centuries when there was a big boom in the
use of colours. The wheel however remained indispensable as it was necessary when creating particular designs or motifs and it also permitted the turning of the product at a level parallel to the ground
which was essential when incisions were being
made for example on products with the engobe.
The incision procedure, done with sharp
edged strips of metal or wires for larger incisions,
was not reserved singularly for engobed products
but also on the majolica products – the “al blu graffito” types etc. After being decorated, the products
with a film covering received on the visible part
another coat of leaded varnish able to make the surfaces more shiny before being placed on the pegs in
readiness for a second baking. This operation had to
be done rather quickly to ensure that the enamelled
products didn’t get covered in dust which would
have at the very least, killed some of the shine.
To avoid such an inconvenience, the potters
had to collaborate in their timing, especially as far
The “incavigliati” of a historical furnace in Montelupo
as orders and supplies were concerned. There is an
indication of the extent of cooperation from the initials placed on the objects. There were many small
companies – and we’ll return to this later – who put
their workshop or personal initials on the products
and some even put the number of production some
examples of which indicate the period of maximum
production, about the beginning of the fifteenth century, and the period of closure, around the time of
the crisis of the sixteenth-seventeenth century. Centres of production tended to work with collaborating
companies and particular “brand” names. If however one company made a particular order as is the
case of the large vases made for Santa Maria Novella, then the initials may have been pleonastic. There
have been many theories concerning these initials
but they tended not to take into account the need to
collaborate between companies, probably forgetting
that this was a business not art for arts sake and
that the rules governing the operating of companies
was particularly weak. In such cases, unjustly, it is
easy to consider the initials on a product as belonging to a master potter rather than simply the workshop initials placed on normal production objects.
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
dovendo inzuppare il pennello in contenitori diversi e,
soprattutto, sciacquarlo continuamente al fine di non
sovrapporre i pigmenti. La mano, inoltre, resta sempre
posizionata all’altezza giusta, e non è obbligata di volta
in volta a ritrovare il particolare da dipingere o campire.
L’uso del tondo, dunque, risponde alle esigenze
di una produzione seriale di tipo policromo, ed è perciò
assai probabile che rappresenti un’innovazione introdotta tra Quattro e Cinquecento, allorquando le botteghe ceramiche italiane svilupparono enormemente la
loro tavolozza cromatica. Esso, tuttavia, non può prescindere dal tornietto, poiché quest’ultimo è necessario
ad eseguire non solo le filettature, ma anche certi motivi di contorno delle forme aperte: il tornietto, inoltre,
per la possibilità che offre di far ruotare su di un piano
parallelo al terreno l’oggetto da decorare, facilita di
molto anche la squadratura e la partizione degli spazi, e
fornisce un piano d’appoggio girevole, indispensabile
alla graffitura delle ceramiche ingobbiate.
La graffitura, che sappiamo essere effettuata con
strumenti diversi – sottili punteruoli per lo sgraffio,
punte di ferro dai margini taglianti ed attrezzi a filo
metallico (forcine) per l’asportazione di più larghe porzioni del rivestimento – non era destinata alla sola deco-
LA PRODUZIONE CERAMICA
ti e di fissare la copertura biancastra d’ingobbio. Per
quanto riguarda le seconde, inoltre, una spugnatura,
effettuata quando l’ingobbio posto sul lato a vista iniziava ad asciugarsi, serviva a distendere la sostanza argillosa, e ricoprire così il bordo delle forme aperte.
Già sul finire del Trecento, abbandonando la
smaltatura parziale, le maioliche di Montelupo denotano un’ evidente differenza di spessore tra la faccia a
vista delle forme aperte ed il loro rovescio, e la stessa
diversità si evidenzia tra le parti esterne ed interne dei
boccali. Ciò indica come le botteghe montelupine abbiano iniziato a suddividere in due fasi distinte l’operazione
della smaltatura, immergendo completamente una
prima volta i manufatti in una soluzione di smalto piuttosto diluita. In tal modo si garantiva la deposizione di
una pellicola di rivestimento stannifero “di base” piuttosto sottile: dopo averla lasciata parzialmente asciugare,
essa era poi ispessita e rinforzata mediante un ulteriore
apporto di smalto, che poteva avvenire attraverso il solito sistema di rapido tuffaggio in senso capovolto (forme
chiuse), oppure assicurata da un semplice colaggio
(forme aperte). Come sappiamo, tutte queste operazioni
doveano essere svolte con l’ausilio di apposite pinze
metalliche, onde evitare che – come mostrano non pochi
scarti rinvenuti negli scavi – l’untosità della pelle delle
dita provocasse il ritiro dal bistugio della pellicola di
rivestimento.
LA PRODUZIONE CERAMICA
mente – è la diffusione delle marche di fabbrica a sottolineare l’ampiezza di questo fenomeno nel centro valdarnese: qui, infatti, l’apposizione di sigle – personali o
di bottega – sul prodotto ceramico evidenzia una diffusione capillare, sconosciuta agli altri centri di fabbrica
italiani. Le marche montelupine, inoltre, a differenza di
quanto si verifica altrove, sono normalmente di piccola
dimensione, e risultano poste quasi sempre all’attacco
inferiore dell’ansa delle forme chiuse. In aggiunta a
queste particolarità, è anche da rilevare come il fenomeno dell’apposizione delle cifre di bottega corrisponda
ai periodi di espansione delle attività ceramistiche del
luogo: generalizzasi all’inizio del Quattrocento, esso
infatti viene a cessare con la crisi del Sei-Settecento
La particolare diffusione di forme societarie tra i
vasai montelupini è quindi connessa con questa diffusione di sigle, e non può che attenere al problema del riconoscimento dei manufatti posti in fornace: stabilirne
l’appartenenza era infatti indispensabile, una volta conclusa la cotta, alla ripartizione nei conti societari del
prodotto vendibile e di quello da eliminare per scarto.
Se, però, una bottega, pur associata, fabbricava qualcosa di inconfondibile – ad es. i grandi vasi elettuari per
Santa Maria Novella – l’apposizione del segno di ricono-
Boccale con marca (1480-90)
scimento poteva rivelarsi pleonastico.
Molte delle ipotesi avanzate in passato dagli studiosi circa il significato di queste sigle, dunque, non
hanno tenuto in debito conto il problema dell’organizzazione societaria di questi esercizi produttivi, probabilmente non riflettendo sul fatto che si trattava di un’attività di natura economica (e non semplicemente “artistica”), e che nel caso dei ceramisti la cornice vincolistica
di natura corporativa risulta particolarmente debole.
Spesso in tali valutazione si finiva per sovrapporre in
maniera indebita il significato delle marche “personali”
– ad esempio di quelle appartenenti ai maestri dell’istoriato – con quello assai diverso delle sigle apposte sulla
“normale” produzione smaltata, ritendo in particolare
che tali cifre appartessero ai pittori, e non rapprentassero un marchio di bottega. Ciò, oltre al fatto che altri
generi vascolari dipinti, come ad esempio le ingobbiate,
non presentano – nella loro stragrande maggioranza –
marche, è smentito palesemente dal fatto che alcune
sigle montelupine si mantennero identiche per un arco
di tempo che ampiamente supera quello della vita dell’uomo, mostrando in tal modo di riferirsi non al lavorante, ma piuttosto all’esercizio. La difformità evidenziata dai prodotti ad ingobbio rispetto a quelli smaltati
resta al momento da spiegare nella sua generalità, ma
può comunque ben attenere ad una diversa organizzazione delle fornaci che ad essi si dedicavano: occorre
comunque valutare a questo proposito come la produzione storica di ingobbiate comprendesse in larghissima
maggioranza forme aperte, e come nel caso di Montelupo questo fenomeno non mostri addirittura eccezioni: la
mancanza di marche, quindi, ricade qui entro quel fenomeno di assenza di sigle di bottega sulle forme aperte
del quale discuteremo tra breve.
Di norma la lavorazione della ceramica avveniva
senza soluzioni di continuità: così, quando i materiali da
cuocere erano pronti, venivano collocati, con una complessa operazione di impilamento, nella fornace. Nonostante le nostre fonti non siano del tutto chiare al proposito, riteniamo probabile che questa operazione abbia
riguardato i manufatti prodotti da tutti i componenti
della società, specie se alcuni di questi, com’è ragionevole supporre, non disponevano di una fornace propria,
oppure se tale struttura fosse al momento inutilizzabile,
o anche soltanto non conveniente – per diversità di
capienza – da impiegare per il tipo di cotta che si doveva
effettuare.
SECONDA E TERZA COTTURA
Man mano che le ceramiche, da sottoporre sia alla
prima che alla seconda cottura, affluivano alla fornace –
magari proveniendo da un esercizio “associato” di vasaio – erano dunque poste all’interno del forno componendo file ordinate di manufatti mediante la sovrapposi-
167
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Jug with brand (1480-90)
This can be seen in examples where the initials continue well beyond the normal lifespan of a single
person. The dissimilarity between the engobed products and the enamelled needs to be explained and it
is known that the furnaces were organized differently: it needs to be said that the engobed products
comprised mainly of open forms and Montelupo didn’t differ in this respect. A lack of initials can also be
linked to the fact that they often didn’t appear on
open forms, and this will be discussed soon.
Usually, when the products were ready for
baking, they were piled one on top of the other in
the oven and it seems, though we can’t be sure, that
various products from various collaborating sources
were placed together, also as it is likely that some
potters didn’t have their own furnaces, or it was
sometimes the case that some furnaces were temporarily out of use or not large enough to contain
certain products.
Second and third baking
As the ceramics to be baked arrived at the furnace,
perhaps from different associate sources, they were
placed into the oven one on top of the other and this
required particular ability on the part of the responsible. It wasn’t easy to stack the products in a way
that would permit a maintenance of balance and at
the same time exploit the space to the full. Furthermore it was important to ensure that the enamelled
products didn’t get attached during the process. Furthermore, the air draw had to be considered, if the
condition of flame was not correct, the products
risked being damaged - they also needed a form of
protection. The changing temperatures, from 900
degrees down to complete cooling, could also damage the oven itself, especially the supporting structure of the chambers destined to bake at lower temperatures. This had to be taken into account when
loading the oven and often small repairs were made,
on cracks etc, as the loading took place in order to
maintain a steady temperature.
Rushing into things and the undervaluing of
structural defects could provoke tremendous accidents, all the products in the oven or the oven itself
could be irreparably damaged. It is likely, as happens
today, that the furnace employed specialists to load
the oven – “fornaciaio” – In Toscana, this word is
used to indicate producers of terracotta, also known
as “terracottaio”. Despite the uncertainty of historical
documentation, it seems that there were in Montelupo, workers who were not part of the normal
staff but, considering their financial rewards, who
had the role of supervising the placing of the products into the ovens, “fare il forno” (load the oven) in
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
razione dei manufatti ingobbiati, ma, specie a Montelupo, trovava significativa applicazione anche sulla maiolica (genere “al blu graffito”, con intrecci graffiti, a sfondo in blu graffito, etc.).
Dopo essere stati decorati, i manufatti con pellicola di smalto ricevevano di norma sulle loro parti a
vista un ulteriore apporto di vernice piombica in grado
di renderne più brillante la superficie; riposti ancora
una volta sulle tavole sorrette dagli incavigliati, essi
attendevano quindi la seconda (e, in Montelupo, quasi
sempre la definitiva) cottura. Tale operazione doveva
essere programmata con oculata tempistica, in maniera
tale da non permettere che sui prodotti già smaltati
venisse a depositarsi – si pensi alle condizioni di lavoro
dell’epoca della quale si tratta – una sensibile quantità di
polvere, la quale era in grado, se non di danneggiare,
almeno di mortificare la brillantezza del rivestimento.
Spesso, per evitare l’insorgere di un simile inconveniente e, soprattutto, corrispondere tempestivamente
alle ordinazioni, altrimenti rallentate dai tempi necessari alla colmatura e cottura della fornace (“cotta”), i
vasai di Montelupo instauravano rapporti di collaborazione tra di loro. Oltre alla costituzione di numerose
società – problema sul quale torneremo successiva-
LA PRODUZIONE CERAMICA
zione degli uni sugli altri: com’è facile intuire, questa
operazione richiedeva una particolare abilità.
Non era agevole, infatti, comporre questi ammassi di vasi, scegliendo le forme più idonee ad essere
sovrapposte, senza che le pile così ottenute perdessero
poi stabilità durante la cottura, ed ottenendo nel contempo un’ottimale saturazione dello spazio interno della
fornace; il tutto, inoltre, era complicato dalla necessità
di evitare che i manufatti smaltati ed invetriati, una
volta raffreddatisi dopo la fusione dei rivestimenti, si
saldassero tra di loro.
Chi effettuava l’impilamento, inoltre, doveva tenere in debito conto le necessità di tiraggio della struttura,
nel momento in cui al suo interno fossero penetrate le
fiamme, il che significava anche fare il possibile per
evitare il ristagno di fumo, in grado di annerire gli smalti e danneggiare i colori: ai passaggi del fuoco, poi, si
dovevano porre manufatti dotati di protezioni tali da
scongiurare la bruciatura delle superfici.
Poiché, infine, il continuo cambiamento della
temperatura – con l’innalzamento ad oltre 900 gradi
centigradi ed il successivo raffreddamento – non mancava di provocare danneggiamenti alle parti strutturali
del forno, e specialmente agli archetti di sostegno ed al
piano della camera di cottura inferiore, chi impilava la
fornace doveva valutare la compatibilità ponderale di
quanto poneva al suo interno con la capacità di sostegno
dei piani, oltre a dover effettuare, man mano che proseguiva nell’impilamento, riparazioni estemporanee (intasamento di crepe, fori etc.) per assicurare la tenuta termica della camera di cottura.
La fretta e la sottovalutazione di qualche difetto
della struttura erano in grado di provocare tremendi
incidenti: una volta che era stato portato in temperatura, infatti, si poteva non soltanto perdere per intero il
lavoro, ma determinare anche un danneggiamento irreparabile del forno. Agli stessi risultati catastrofici, d’altronde, poteva condurre anche un’errata gestione del
procedimento di cottura.
Come ancor oggi avviene, è assai probabile che
almeno alcune fornaci montelupine si avvalessero, per
effettuare l’operazione di impilamento ed anche di cottura, di personale, la cui professione, di addetto alla
gestione del forno, è nota come quella del “fornaciaio”.
In Toscana, tuttavia, questa parola veniva normalmente
usata – ed ancora lo è – per indicare i produttori di terracotta, non essendo diffuso il termine più specifico di
“terracottaio”. Nonostante tale incertezza terminologica,
alcuni documenti indicano la presenza in Montelupo
di lavoranti diversi da quelli che ordinariamente operavano nella bottega, ai quali – si deve pensare sulla base
di un compenso pattuito – si faceva ricorso per simili
operazioni, che tuttavia non sappiamo se comprendessero soltanto la fase di supervisione della cotta o, come è
local terminology, or indeed, do the actual job. Whoever it was that loaded the oven had to make sure
that the products more susceptible to being burned
were placed in the middle of the pile, and that the
pile contained products able to protect them. The
open forms in particular, plates, and bowls, called
cassette or caselle, were chosen for the task and
many have been found in furnace dumps. The Cassettes for example were more of a round form and
their size depended on what had to be placed inside
them. Next to them would be placed products that
were double their size or more, ideal for holding
other vases or bowls. To exploit the space as much
as possible, the holding products began to take a
cylindrical form which made them easier to manage
once full. Obviously the larger objects held the larger, taller and heavier products that needed to be protected. With the objective of separating the enamelled and glazed products, two systems were used.
The walls of the cassetta were perforated with a triangular pattern immediately after their forming on
the wheel. Every object had at least three rows of
perforations and more depending on their size.
Small stick form ceramic pieces were placed in the
perforations obviously of the same dimension and
triangular form and there they remained fixed.
These provided a type of platform on which the deli-
cate products could be placed without coming into
contact with the cassette and other products. The
tips of the triangular pieces at times remained
attached to the other products but they could easily
be removed, especially as the enamel coatings were
thin in Montelupo.
Piling the products in the cassette nearly
always required the appropriate apparatus, spacers,
which had three supports connected together which
became known as trepiedi (three feet) or as “zampe
di gallo” (cock’s feet). There was minimum contact
with the products that were placed upside down on
its pointed top but there was anyway a degree of
fusion and they latter had to be prised off. There
was little damage as the contact was minimal.
As the trepiedi were in continuous use, they
often needed to be renewed; the points in particular
suffered damaged and greater fusion with the
objects occurred. Therefore simpler pyramid spacers
were used in the open form cassette which had only
one point. Both types of spacers were produced in
clay moulds as indicated by Piccolpasso. Despite the
fact that none of the moulds used to make these
spacers have been found in the furnace dumps in
the Valdarno area, their aspect gives a clue as to how
they were formed. It is clear they were cut with the
use of a wire or metal razor on the non pointed side
THE PRODUCTION OF CERAMICS
168
manufatti che in esse si dovevano cuocere: così, a fianco
di cassette di circa venti centimetri di diametro, destinate ai piatti più comuni, esistevano contenitori larghi il
doppio od anche di più, idonei ad ospitare vassoi o scodelloni. Per consentire una completa saturazione dello
spazio interno alla camera di cottura, le cassette finivano il più delle volte per assumere la fisionomia di cilindri di un’altezza che, dovendo garantire la maneggevolezza del contenitore medesimo una volta che fosse stato
riempito, variava in funzione del diametro, nel senso
che le cassette più larghe, dovendo ospitare manufatti di
maggior peso unitario, erano di norma le meno alte.
Allo scopo di distanziare tra di loro le ceramiche
smaltate od invetriate poste all’interno delle cassette,
evitando così che si saldassero per tramite dei fondenti
che ne ricoprivano la superficie, si utilizzavano in questi
contenitori due sistemi di separazione, spesso integrati
tra di loro.
Le pareti della cassetta venivano infatti forate a
fresco subito dopo la loro foggiatura – che di norma
avveniva sul tornio – praticando in esse aperture di
forma triangolare con il vertice direzionato verso l’alto.
Ogni contenitore era di norma dotato di almeno tre file
di aperture, ma tale numero si accresceva in funzione
Cassette per la cottura dei
piatti (fine XV secolo)
LA PRODUZIONE CERAMICA
più probabile, riguardassero anche l’impilamento del
forno: nel lessico locale, del resto, “fare il forno” significa effettuare entrambe le operazioni, che si intendono
condotte senza soluzione di continuità.
Chi predisponeva la fornace per la cotta – sia
stato uno specifico addetto o lo stesso proprietario della
bottega – si avvaleva comunque di una serie di accorgimenti indispensabili ad ottenere un efficiente caricamento del forno. Nel comporre le pile dei manufatti da
cuocere, infatti, egli doveva tenere di conto della necessità di porre alcuni di essi all’interno di contenitori in
grado di proteggere, come poc’anzi si accennava, le
ceramiche già dotate di rivestimento dalla fiamma viva,
che dopo l’accensione penetrava nella camera di cottura,
sfogando dalle aperture praticate nel piano della medesima.
Erano in particolare le forme aperte, quali piatti,
scodelle e ciotole, ad essere poste di preferenza in queste
protezioni, chiamate cassette o caselle, che sono state
rinvenute in molteplici esemplari negli scarichi di fornace rinascimentali e post rinascimentali di Montelupo.
Data la tipologia degli oggetti che dovevano contenere,
le cassette erano dunque in larga prevalenza di forma
rotonda, e la loro larghezza dipendeva da quella dei
169
THE PRODUCTION OF CERAMICS
“Cassette” ovens for
plates’ baking (end XV
century)
that extended from the mould.
As they had to be filled with large and wide
products, the cassette were obviously open at the
superior part, and when one had to be place on the
other, there were holes in the bottom part. The first
cassette however, the one placed on the floor of the
oven, was closed at the bottom, and could even be
covered to protect it from the dust with brick material. The placing of the cassette, one on top of the
other, prevented the flames and combustion residue
from penetrating the pile, and a simple lid on the top
end sealed the whole piled form. When there were
not enough objects to fill the oven, the larger objects
were simply placed at the bottom. At about a third of
the distance, the smaller objects began to be piled up
before they too were closed off. The finds dating to
the pre-industrial age demonstrate that, as opposed
to post industrial habits, refractory type mixes were
LA PRODUZIONE CERAMICA
ziatori formati da tre appoggi uniti tra di loro, e perciò
detti comunemente treppiedi e, nel lessico ceramistico
locale, “zampe di gallo”. Posti con la faccia piana a contatto del rovescio delle forme aperte – laddove, in corrispondenza dell’appoggio, il velo di smalto era sottilissimo e quasi inesistente – e con le loro punte rivolte al
centro (quindi nella parte a vista) di quelle, i treppiedi
servivano a distanziare in maniera ottimale piatti, scodelle, vassoi od anche ciotole dalla profondità non eccessiva, assicurando nel contempo la stabilità delle pile
che si realizzavano. Non disponendo, come oggi avviene, di sottili apici metallici, ma essendo realizzati semplicemente in terracotta, era inevitabile che le punte dei
treppiedi si saldassero, sia pure debolmente, sulla parte a
vista dei piatti, e dovessero perciò essere successivamente distaccate da questi: il danno che ne scaturiva era
però minimo, dato che l’attaccatura delle punte risultava di dimensioni pressoché trascurabili.
Poiché si faceva largo uso di treppiedi che dovevano essere frequentemente rinnovati, in quanto si danneggiavano alle punte – il che poteva provocare brutte
saldature ai manufatti – i ceramisti di Montelupo utilizzavano per il distanziamento nelle cassette delle forme
aperte anche semplici supporti di forma piramidale che,
Serie di distanziatori “a treppiedi”
per la cottura (secoli XV-XVII)
in definitiva, rappresentavano una sorta di “riduzione
funzionale” alla sola punta delle “zampe di gallo”. La
produzione di supporti (sia “a treppiede” che “piramidale”) avveniva per calco in matrice, così come indicato
dal Piccolpasso: nonostante non siano mai state rinvenute negli scarichi valdarnesi le forme atte a fabbricare
questi elementari attrezzi in terracotta, infatti, il loro
aspetto denota eloquentemente un tal genere di foggiatura: nei materiali montelupini, in particolare, si nota
come i treppiedi siano tagliati, con l’ausilio di un filo o di
una rasiera metallica, nel lato privo di punte che, dopo
la calcatura, sporgeva dalla matrice.
Dovendosi riempire di manufatti larghi press’a
poco quanto il loro diametro, le cassette erano ovviamente aperte nella parte superiore e, essendo destinate
all’impilamento l’una sull’altra, avevano di norma anche
il fondo forato; la prima della pila, posta sul pavimento
della fornace, trovava in quest’ultimo la propria chiusura inferiore, ma poteva anche essere calzata, per proteggerla dalla polvere, tramite un laterizio piano. L’incastro
delle cassette le une sulle altre impediva poi alla fiamma
ed ai residui della combustione di penetrare al loro
interno, ed era sufficiente turare con un tappo l’apertura superiore di ogni pila contraddistinta dal medesimo
diametro per garantire l’efficienza protettiva del sistema.
Nel caso in cui – come di norma doveva accadere
– tutte le pile formate dalle cassette non potessero esten-
dersi dal piano sino alla volta della camera di cottura, il
caricamento della fornace avveniva mediante il posizionamento in basso dei contenitori di maggiori dimensioni. Sopra il vertice della pila formata dalle cassette
più grandi, che magari giungeva ad un terzo dell’altezza
della camera, si poteva così iniziare l’impilamento dei
contenitori dal diametro più piccolo, ma ciò richiedeva
ovviamente la chiusura della pila sottostante.
I materiali rinvenuti negli scarichi di fornace
montelupini dimostrano come in questo luogo non si
adoperassero in età preindustriale, a differenza di quanto avverrà in epoca successiva, impasti di tipo refrattario
per la fabbricazione delle cassette, che in effetti erano
foggiate sul tornio con la materia argillosa impiegata
nella produzione ordinaria.
Poiché non mancano, anche se sono piuttosto
rare, testimonianze relative a cassette che sembrano
destinate a contenere forme chiuse, è possibile che questo sistema di cottura venisse talvolta utilizzato per
sfruttare tutti gli angoli, anche quelli più sfavorevoli,
del forno. Appare tuttavia evidente come la gran massa
dei manufatti cupi fosse cotta al di fuori delle cassette,
in quanto in questi casi non solo era assai più complesso progettare un contenitore idoneo ad ospitarle – in
ragione della diversa espansione ed altezza delle pance,
ma anche per la presenza di prese ed appendici – mentre risultava ben più semplice ed efficiente procedere
LA PRODUZIONE CERAMICA
del suo diametro: in questi fori, infatti, una volta che la
cassetta era stata cotta, venivano inseriti altrettanti
bastoncelli fittili – ovviamente di forma triangolare –
che, grazie allo schiacciamento della loro estremità
esterna, penetravano sì nel contenitore, ma restavano
bloccati nella posizione di inserimento, non potendo
scivolare verso l’interno. Il vertice della sezione triangolare del bastoncello era dunque in grado di sorreggere in
un punto il bordo del manufatto che si collocava nella
cassetta; moltiplicando almeno per tre questi appoggi, si
otteneva così la sospensione dell’oggetto su di un piano
ideale, evitando nel contempo che il medesimo entrasse
in contatto con il fondo della cassetta o, peggio ancora,
con un altro manufatto smaltato od invetriato, posto al
disopra o al disotto di esso. Anche se la fusione del rivestimento non mancava di congiungere gli elementi
triangolari d’appoggio con le ceramiche poste in cottura,
queste parti potevano poi essere agevolmente distaccate
in ragione del minimo contatto che si realizzava: tale
operazione, come sappiamo, era inoltre facilitata nel
caso montelupino dalla sottilissima smaltatura che si
apponeva ai rovesci delle forme aperte.
Per impilare al meglio i manufatti nelle cassette
occorreva tuttavia utilizzare quasi sempre anche distan-
171
170
THE PRODUCTION OF CERAMICS
(with three feet) for cooking (XVXVII century)
not used in the construction of the cassette and that
they were made of the same material as the other
products.
As there exists some material relative to the
cassette used to hold closed forms, it seems that this
kind of baking system was devised with the intention of exploiting every corner of the oven. However
it is evident that most of the curved objects were
baked outside of the cassette as they had more complicated designs and had different sized waistlines, it
was more difficult to find a container that could
hold them. It was easier to keep them together. Jugs,
for example, which made up the biggest part of the
closed products, could be placed one on top of the
other with due attention given to their positioning,
an enamelled object was placed on another either
without enamel or with very little. Spacers therefore
weren’t needed.
Despite the simplicity of the idea of placing
one object on top of the other in a manner in which
there was minimal contact, the system was fraught
with problems given the lack of space and tight
working areas. To guarantee a minimum of contact,
the potters attempted to place the higher jug on top
of the feet of three lower placed jugs so that falling
pieces don’t come into contact with the objects
below but into the void between them. However, it
was unlikely that the products, given the piling system, wouldn’t come into contact; indeed they often
did along their widest points. It is also worthwhile
thinking about the nature of the objects and how
their different shapes might complicate the piling
procedure (tall jugs, wide bodied jugs, oil and vinegar containers, water bowls).
The oven specialist had to think about the
above problems as well as oven space, form and the
movement of the flames which was connected to the
air current. Effectively the oven specialist had to
adapt to the various demands of the moment and
often know how to overcome very complicated situations.
The cassette ovens which dominated ceramics
production in Montelupo from the second half of
the XV century onwards, were to be found in all Italian centres of production and represented a point of
arrival in the course of the long “technological revolution” that permitted, from the first half of the thirteenth century, the diffusion of enamelled production. It would be wrong to suggest that this technique was used even earlier, at the beginning of
majolica production. The enamelled products of the
fourteenth and early fifteenth centuries don’t show
any signs of having been placed on a spacer, and
what’s more, finds dating to the same period from
various dumps don’t even show signs of having been
placed in a cassette.
He impossibility of baking flat products without spacers, unless they were placed in isolated positions, means we have to be very careful about supposing how they were baked. Finds in Montelupo
from the Medieval age show signs of a less evolved
baking system for enamelled and engobed products
than that developed during the centuries of the modern age and which continued until being replaced by
modern ovens with pull out drawers and which don’t
use wood fuelled direct flame. “metallic shine”
majolica finds demonstrate how in the Valdarno
area at least up to the 70’s of the XV century, there
were ovens which guaranteed the isolation of the
baking chamber from the flames (muffola) where
the products were baked in an atmosphere without
oxygen. This technique, a terza fuoco, (third fire)
certainly imported from Spain as was the technique
for creating the shine, which we will come to later,
was useful for small and very small ovens where the
normal temperature was relatively low (about 620650 degrees); as were those of the classic “lozza
dorada” Spanish systems. The relative rarity of the
THE PRODUCTION OF CERAMICS
Series of spacers “a treppiedi”
LA PRODUZIONE CERAMICA
Occorre inoltre considerare come tale operazione
di impilamento venisse a complicarsi considerevolmente in ragione della difformità tipologica (alberelli, boccali, ma anche brocche per l’acqua, contenitori per olio ed
aceto, etc.) dei manufatti cupi da cuocere, e dell’accentuata variabilità dimensionale degli stessi, sia in altezza
che in larghezza.
Il fornaciaio o, comunque, colui il quale effettuava l’operazione di impilamento della fornace, doveva
perciò valutare una miriade di variabili, che erano relative sia alla struttura del forno – solidità del piano,
punti di passaggio della fiamma e di prevedibile ricaduta dei prodotti della combustione, necessità di
tiraggio – sia alla tipologia ed alla dimensione dei
manufatti da cuocere, dei quali, dunque, doveva avere
un’esatta cognizione. In generale può dirsi che, pur
seguendo un razionale e rigoroso schema mentale, il
fornaciaio doveva sapersi adattare al tipo di produzione
da cuocere, ed avere perciò inventiva e duttile capacità
di affronatre le situazioni più disparate; se non aveva i
supporti necessari ad impilare razionalmente la fornace (a “fare il forno”, come efficamente si diceva),
doveva infatti arrangiarsi, costruendo al meglio piani,
nicchie, protezioni per pezzi delicati, ed utilizzando per
questo il più delle volte laterizi o pezzi di scarto, già eliminati nelle cotte precedenti.
La fornace “a cassette”, che domina nella produ-
zione ceramica montelupina dalla seconda metà del XV
secolo in poi – trovando puntuali riscontri un tutti i
centri di produzione italiani – rappresentò tuttavia il
punto d’arrivo della lunga “rivoluzione tecnologica” che
aveva consentito sin dalla prima metà del Duecento il
capillare diffondersi della produzione smaltata: sbaglierebbe, infatti, chi volesse proiettare troppo addietro nel
tempo, inserendo già nei secoli iniziali della fabbricazione della maiolica, questo tipo di forno. Un esame attento dei generi a smalto databili al Trecento ed ancora ai
primi lustri del secolo successivo non evidenzia, infatti,
in Montelupo i segni dei distanziatori “a treppiede” sulla
parte a vista delle forme aperte (scodelle, ciotole), mentre è anche rimarchevole il fatto che dagli scarichi di fornace di questo periodo non soltanto non emergano
distanziatori delle tipologie note, ma siano anche assenti quei frammenti di cassette che invece abbondano
negli scarichi d’epoca successiva.
L’evidente impossibilità di cuocere manufatti di
tipo piano in assenza di distanziatori – a meno che non
si voglia supporre una collocazione “isolata” in fornace
di queste maioliche, senza disposizione per pile coerenti – impone grande cautela nell’affrontare questo argomento. L’evidenza fornita dai reperti di scavo montelupini, comunque, attraverso la palese difformità delle
modalità di cottura, segnala da par suo l’esistenza di
una tipologia di fornaci medievali meno evolute di quel-
le che, attraverso i secoli dell’Età Moderna, hanno caratterizzato sino ai giorni nostri la produzione smaltata
od ingobbiata, e che sono state soppiantate solo dai
moderni forni a carrello estraibile, i quali non utilizzano
più la fiamma diretta, alimentata dal legname combustibile. Non è però al momento possibile conoscere nei
loro particolari questi forni che evidentemente precedettero quelli “a cassette”, diffusi in Italia ad iniziare dall’epoca tardo-medievale e rinascimentale.
Il ritrovamento di maioliche a “lustro metallico”
dimostra infine come nel centro valdarnese esistessero
anche, sino almeno dagli anni Settanta del XV secolo,
fornaci in grado di garantire l’isolamento della camera
di cottura dalla fiamma (“muffola”) e, perciò, di cuocere
in atmosfera riducente (cioè in assenza d’ossigeno).
Questa tecnologia, certamente importata dalla Spagna,
come dimostra anche la provenienza delle ricette per il
“lustro”, sulle quali torneremo trattando della tipologia, atteneva ovviamente a forni di piccole o piccolissime dimensioni, dove di norma la cottura a terzo fuoco
avveniva a temperatura relativamente bassa (sui 620650 gradi centigradi circa), secondo la classica tecnica
della “loza dorada” spagnola. La relativa rarità che caratterizza i lustri montelupini presuppone però una presenza assai minoritaria, se non addirittura sporadica, di
queste “fornacette” nel centro valdarnese.
Difficile è poi stabilire con l’ausilio di quale forno
173
172
Shiny examples of Montelupo leads to the conclusion that there were very few of these furnaces in the
Valdarno area. It is also difficult to establish where
the products were re baked, in the presence of oxygen, in order to realize the particular red pigment
which, obviously influenced by the production of
Iznik (ancient Nicea, large centre of ceramics from
what is now Turkey), became prevalent in Montelupo at the beginning of the 80s of the XV century.
As the red inserts sometimes leave a glimpse of an
underlying colour, especially yellow, it is supposable
that the product had already had one baking before
being covered. The newly decorated majolica had to
be baked again to attach the pigment (probably
based on the so called “bolo armeno”) at a low temperature in an oxidized atmosphere in a manner as
not to modify the colour.
Returning to the operation that preceded the
lighting of the fire in the oven, we can say that once
the biscuit was placed and ready, the floor of the
baking chamber was swept to remove as much dust
as possible and then the pile was constructed over
the most solid area near the centre, leaving enough
space around to permit the passage of air. Around
the air vents were placed bricks or tiles to prevent
the flames from coming into contact with the pile,
already protected by the cassette but also to protect
the biscuit used for the preparation of the marzacotto. In the middle of the oven the closed forms were
place and on a higher level the products to be baked
for the first time.
The operation was difficult and unpleasant,
starting at the back and moving slowly towards the
front, the objects remained in a delicate equilibrium
and the space was used to saturation point whilst
enough space was left to permit a good circulation
of air. All of the stacking solutions also had to take
into account the ongoing baking conditions, on a
structural and heat changing level. Every decision
made had to be the right one made by an expert.
Once the pile was prepared, the opening of the
inferior chamber was closed, temporarily blocked by
apposite bricks. At that point the potters found
themselves confronting the relative unknown, before
the uncertainty of what was to come in terms of
what might happen to the products and if they
would come out in a perfect condition or not.
As the owners of the furnaces generally wished
to keep their anxieties to themselves and their staff,
strangers were not usually admitted into the furnace.
Only the workers themselves, collaborators, partners
and most intimate friends were allowed to view the
processes.
The oven worker, responsible for the cotta
(baking), had very little help outside of his own
experience, in ensuring a successful operation: one
form of help was the timing of the processes. As Piccolopasso stated, the time glass was a great help to
the oven specialist. We know that even today despite
modern technology), these operations last a long
time, more than a day and sometimes reaching –
depending on the dimensions, quality of oven and
wood – up to 36 hours; time glass timing would
clearly not be up to the job but more the arrival of
midday or dusk etc. It’s not surprising therefore that
Piccolpasso described a lady whose task it was to
bring food to the workers in the baking area. However, whoever oversaw the baking processes knew
what he was doing and based his timing on the previously mentioned factors. The real problem regarding the baking process was understanding the temporal needs of the baking processes. The oven had to
reach the maximum temperature slowly, by degrees,
remain at the high level for the required period of
time then descend in a progressive manner and the
fire went out after which there was a long cooling
down process. The hour glass mentioned by Piccolpasso was probably used to time the different cycle
phases – as for example when the temperature had
to remain at the maximum temperature. There were
two ways of checking the progress of the products;
the first involved the study of small sample objects
called prove or provicelle in Montelupo, which, being
fixed to some metal axes (called vedette by Piccolpasso, placed to the side of the oven which were extracted from time to time when the cycles seemed to be
coming to an end. Secondly, as it is known that red
clay turns to white over time in the oven, spy holes
were left in the closing wall which also permitted an
observation of the presence of smoke in the chamber and this led to a rapid modification of the type
of combustible – for example throwing Erica, broom
or thistle into the base of the fire cleaned the flame.
The baking progress of the products however was
seen through the examination of the test objects as
was previously mentioned. For example it was
known that once the enamel was soft, a higher temperature was required and so the oven worker had
to be able to determine when and how to quickly
and suddenly raise the temperature in the oven.
The quantity and quality of combustible materials available to the potters was an important issue.
Montelupo was a good choice for the potters as
there was a ample supply of vegetal combustibles to
be found in the locality. Indeed the Montalbano
woods and those of the hills on the left bank of the
Arno where the huge forests extended, calle “Antinoro” mid way through the XV century because it
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
ad un impilamento dei medesimi “per gruppi”.
I boccali – che nell’epoca della quale si tratta
costituivano larga parte delle forme chiuse prodotte
dalle botteghe montelupine – potevano infatti essere
semplicemente accatastati gli uni sugli altri, avendo
però cura di ordinare questi ammassi in maniera tale da
determinare il contatto delle bocche con i piedi, assai
poveri (se non privi) di smalto dei manufatti: per sottoporre a cottura i manufatti cupi non era quindi necessario utilizzare alcun distanziatore.
Nonostante la semplicità concettuale di questo
metodo d’impilamento, che si risolve tutta nel minimizzare l’appoggio di una superficie smaltata su di un’altra
priva di rivestimento, è facile comprendere come questa
operazione, eseguita per di più in spazi angusti e disagevoli, fosse irta di difficoltà. Per garantire il minore
appoggio possibile, infatti, si cercava, ad esempio, di
posizionare il boccale superiore sui piedi di tre boccali
diversi, in maniera tale che non poca parte della trilobatura dello stesso, cadendo nel vuoto determinato dall’espansione delle pance dei manufatti sottostanti, non
venisse a contatto con alcun tipo di superficie; era però
comprensibilmente assai complicato valutare il fatto
che i boccali medesimi, disposti in una massa così solidale, non si toccassero in qualche punto, ed in specie
lungo la linea di circonferenza del loro massimo diametro.
LA PRODUZIONE CERAMICA
cura di lasciare liberi i passaggi necessari al tiraggio
del fuoco. In adiacenza dei fori di scorrimento della
fiamma si ponevano all’occorrenza mattoni, mezzane
o coppi per scongiurare il contatto della stessa con i
manufatti da cuocere, anche se protetti dalle cassette; in
questi luoghi, si sistemavano invece, se necessario, i
contenitori bistugi destinati alla preparazione del marzacotto. Nel mezzo degli spazi circondati dalle cassette
(e quindi, di norma, al centro della camera) il fornaciaio impilava le forme chiuse, in maniera tale da proteggerle il più possibile, oltre che dalla fiamma viva, dalla
ricaduta dei residui della combustione: in alto, infatti,
questi spazi erano coperti con tegole e laterizi, sui quali
eventualmente si potevano porre anche ulteriori manufatti da “bistugiare”.
Quale e quante fossero le difficoltà di questa operazione, che ovviamente procedeva a ritroso, muovendo
dal fondo per procedere gradualmente verso l’imboccatura (usciale) della camera, è facile immaginare: essa
consisteva infatti in un sapiente impilamento di manufatti in delicato equilibrio statico tra di loro, che si perfezionava con la massima saturazione dello spazio interno
della fornace, al quale però, come si è già detto, era
necessario garantire nel contempo un’efficiente circolazione dell’aria per il tiraggio. Tutte le soluzioni scelte,
inoltre, dovevano tenere di conto della modificazione
di stato che avrebbe subito la fornace durante la fase di
cottura, sia sotto il profilo strutturale, che in ragione dei
moti convettivi della fiamma e dei prodotti della combustione che essa avrebbe portato al suo interno. Ogni
decisione adottata, infine, non poteva fondarsi su parametri univoci o, comunque, razionalmente codificati al
di fuori di ciò che suggeriva un’esperienza tradizionalmente sedimentata.
Nel momento in cui terminava l’impilamento
della fornace e si chiudeva l’usciale della camera di cottura inferiore, murandolo provvisoriamente con appositi mattoni, i vasai avevano così la netta percezione di
introdursi nella dimensione dell’ignoto o, se vogliamo,
dell’incerto, dalla quale la loro opera avrebbe potuto
uscire perfetta, lucente di smalto e di colori, oppure
immiserita da una molteplicità di danneggiamenti – per
fumigazione, caduta di polvere o fuliggine, ritiro dello
smalto, eccesso o difetto di calore – se non addirittura
distrutta da fessurazioni (“avventature”) o da incidenti
avvenuti in cottura (crollo degli impilamenti, cedimento
del piano o della volta della fornace, etc.).
Pochi proprietari di fornace erano disposti a condividere la loro ansia per l’esito dell’operazione con
estranei, i quali, nonostante la curiosità che l’avvenimento non mancava di destare, venivano tenuti a debita
distanza dal forno, tanto che solo i collaboratori, i soci e
gli amici più intimi erano ammessi ad assistere ed a
coadiuvare la cotta.Una volta che tutto era pronto, fatto-
si, come ci riporta Cipriano Piccolpasso, il segno della
croce, era comunque necessario accendere il fuoco.
Il fornaciaio (od il responsabile della cotta) aveva
ben pochi ausili, oltre la propria esperienza, per tenere
sotto controllo i parametri fondamentali dell’operazione:
uno di questi consiste ovviamente nel controllo del
tempo, ed il Piccolpasso ha voluto icasticamente segnalarlo, rappresentando una clessidra che è a disposizione
del suo personaggio impegnato a dirigere le fasi principali della cottura. In realtà sappiamo che questa operazione avveniva (come ancor oggi, pur con altre tecnologie, avviene) per tempi assai lunghi, che sempre superavano l’arco di una giornata, giungendo – a seconda delle
dimensioni, della qualità della fornace o della necessità
di impiegare legname non perfettamente asciutto o
secco – sino alle 36 ore; è quindi evidente come in tali
condizioni la variabile tempo potesse in larga parte prescindere da una misurazione raffinata come quella che
si poteva ricavare da una clessidra, e rapportarsi invece
a più generici riferimenti cronologici, quali il mezzogiorno, l’imbrunire, etc. Non per caso, d’altronde, il Piccolpasso ha inserito nello sfondo della sua scena “della
cotta” una donna che reca cibarie ai lavoranti, impegnati per così lungo tempo a gestire il fuoco acceso
nella fornace.
Ma chi dirigeva l’operazione sapeva bene che il
tempo di cottura – il quale, come si è detto, presentava
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174
belonged to the Antinori family, offered a vast supply of wood. Above all, Erica, called scoparia or
more simply scopa because of their similarity to a
brush broom when stacked together, was the most
sought after combustible in Montelupo as it formed
the essential part of the small pieces of wood used to
start the fires and raise the temperature. It burned
with extreme rapidity and – once the fire got going –
with little smoke. Eventually it was replaced by larger pieces of wood; beech, oak, holm oak, arbutus
and pine which were used to maintain a steady temperature. Very few potters owned land from which
they could drag wood to their furnaces so it had to
be bought from the owners of the surrounding land
who were for the most part residents of Florence,
like the Antinori, Spina, Frescobaldi and Petrucci
families. The high cost of the wood meant that many
potters found themselves in financial difficulty and
constantly indebted to the owners of the surrounding lands – this has been confirmed by many historical documents. As the ruling families had the right
connections, the potters soon found themselves
involved in court cases, frequently those of the Mercanzia (merchandise), quickly found guilty and
reduced to having their goods sequestered or even
prison.
Having power over the supply of combustibles
meant that some families could have a monopoly
over the local industry, as did the Antinori family.
Testifying to this is the notary act of September 1490
with which Francesco Antinori bought the production of 23 potters for the following three years at a
fixed price.
Combustibles also served as means of
exchange between the local potters.
Management and marketing of the finished product.
Once the manufacturing process was over, the pottery manufactured product was put away into the
warehouse of the furnace, where it was stored until
being placed on the market or shipped to the client.
Before dealing with the subject of the marketing of
Montelupo ceramics, it is necessary to give a
detailed description of the management process, as
far as it is possible according to the existing sources
and, in particular, of the computation systems used
to set the selling price for such products. The final
price depended on the several variables involved in
the production costs (raw materials, fuel, workers’
wages, shipping, excises, etc.) and on the prospective profit according to the market and the clients. It
is therefore easy to understand how all these problems, which are not found in historical documents
and were subject to continuous changes, cannot be
penetrated in detail.
On the other hand, thanks to the available
records, it is much easier to analyse how the potters
of Montelupo used to set their prices per unit
according to the different sizes, once they had set
the value of a model-form (which was the one manufactured on a large scale). In this way they created
a general conversion table for their activity.
The main reference of the computation system
used by our potters was the mezzoquarto (half a
quarter), equal to 2,28 litres in wine measures and
2,09 litres in olive oil ones. Twelve mezziquarti (half
quarters), in fact, formed the dozzina (dozen) which
was the basic numerical reference for calculations,
even if such a computation method was sometimes
used along with the one of the conta per centinaia
(counting in hundreds). The latter method was
mainly used in the supplies of large quantities of
morphologically homogeneous objects and therefore
it was kept for supplies to hospitals, which included
a lot of identical manufactured items, often of low
unit value.
As twelve mezziquarti were equivalent to the
dozzina, in order to have the same quantity with the
larger measure – considered double – the quarto,
only six were necessary, while the dozzina could be
also obtained with twenty-four metadelle or boccali
(jugs), being those ones half of the mezzoquarto. And
indeed to that unit of measurement, the calculation
related all other scaled measures of closed forms. In
this way, a “dozzina” [implying “of mezziquarti”]
was equivalent to forty-eight mezzette (half jugs) and
to ninety-six quartucci, (quarters of a litre), too. If
counting in terzeruole, instead, which were equivalent in size to one third of the boccale (jug), the
dozzina was made up by seventy-two units. As a
result, the “set of jars” comprehensive of all measures, was valued at about one third of dozzina. Used
to count in twelfths, the potters based their administration methods on the dozen [of mezziquarti], but
however they had to provide for multiples and submultiples of that counting measure, as it was for the
currency. Such a method, then, used to have an
important practical aspect, since it was usual to
gather the close-shaped objects with handles in
mazzi (bunches), composed by twelve units, with the
exception of the quarti (quarters). Those bunches
were obtained by passing tiny branches of willow
through the handles and then pulled tightly so as to
gather the pottery in a logical whole. So, a dozen of
quarti (six items) and of mezziquarti was composed
by one single mazzo (bunch), while two were the
mazzi needed to form a dozzina with the boccali,
four with the mezzette, six with the terzeruole and
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
si effettuassero quelle ricotture “a terzo fuoco” – in presenza, cioè, d’ossigeno – necessarie alla realizzazione
del particolare pigmento rosso che, per evidente suggestione della coeva produzione di Iznik (l’antica Nicea,
grande centro ceramico dell’attuale Turchia), va diffondendosi a Montelupo ad iniziare dagli anni Ottanta del
XV secolo. Poiché gli inserti in rosso lasciano talvolta
scoprire alcuni colori sottostanti – ed in particolare il
giallo – ciò indica che questi pigmenti avevano già subito una cottura, prima di essere ricoperti. La maiolica,
nuovamente decorata in alcune sue parti, deve perciò
essere stata nuovamente cotta in fornace per fissare
questo pigmento (probabilmente a base del cosiddetto
“bolo armeno”), portandola ad una temperatura piuttosto bassa in atmosfera ossidante, in maniera tale da
non modificarne il cromatismo.
Tornando alle operazioni che precedevano l’accensione del fuoco nella fornace, possiamo dire che,
una volta riempito senza particolari accorgimenti il fornaciotto con il prodotto essiccato da bistugiare, e dopo
aver accuratamente ripulito, spazzandone il pavimento,
la camera di cottura per scongiurare il più possibile la
circolazione della polvere, il fornaciaio procedeva dunque alla costruzione delle pile, sino a raggiungere il
completo intasamento del forno. Per fare ciò egli collocava le cassette nei luoghi più solidi del piano di cottura
– quindi difficilmente al centro – avendo nel contempo
LA PRODUZIONE CERAMICA
Per controllare la cottura si impiegavano due
metodi empirici distinti, consistenti nell’osservare il
colore assunto dalla parete interna della fornace e nella
verifica empirica dello stato di cottura di alcuni piccoli
manufatti (detti a Montelupo “prove” o “provicelle”) che,
essendo fissati ad alcune aste di ferro (“vedette” nel trattato del Piccolpasso), atte ad essere inserite in aperture
laterali del forno, si estraevano di quando in quando
nel corso delle diverse fasi dell’operazione.
Poiché l’esperienza insegna che una parete d’argilla che va riscaldandosi sempre di più trascorre con gradualità di toni, dal colore rosso al bianco, si lasciava
dunque uno spiraglio nella chiusura provvisoria dell’usciale, in maniera tale che da questa sorta di spioncino chi dirigeva l’operazione potesse avere contezza dell’interno, comandando di conseguenza l’apporto o la
sottrazione di combustibile. La piccola apertura, inoltre,
permetteva di verificare la presenza di fumo nella camera di cottura e, quindi, ne consentiva l’eventuale eliminazione attraverso una rapida modifica del tipo di combustibile – ad esempio gettando nel cinerario erica, ginestra o cardo – essenze che, provocando un subitaneo
aumento della temperatura, “ripulivano” la fiamma. La
verifica del regolare procedere della cottura dei manufatti, ed in particolare della progressiva fusione dei rivestimenti e dei colori, era poi ottenuto, come poc’anzi si è
detto, attraverso la verifica delle provicelle. È dunque
conformandosi alla durata teorica delle singole fasi e
procedendo a verifiche empiriche, che si riusciva a gestire un processo assai complesso come quello della cotta:
si sapeva, infatti, che una volta ammorbiditi gli smalti,
occorreva un certo periodo di tempo perché si determinasse la loro completa fusione, e che questa operazione richiedeva una più elevata temperatura; va da sé che
chi conduceva il procedimento di cottura doveva avere
non soltanto la capacità di condurre la medesima nella
sua teorica normalità, ma anche di accellerarne o frenarne il più possibile le fasi in caso di necessità o di
imprevisto.
La quantità e la qualità del combustibile a disposizione dei ceramisti rappresentava dunque uno dei
requisiti essenziali alla buona riuscita della loro attività,
visto che dalla fase di cottura ne dipendeva totalmente
l’esito; può perciò ben comprendersi come lo sviluppo
della produzione fittile sia potuto avvenire in Montelupo
anche – e forse soprattutto – in ragione dell’ampia dispo-
nibilità di combustibile vegetale che poteva trarsi dalla
sua area e dai suoi immediati dintorni. Qui, infatti, i
boschi del Montalbano e quelli delle propaggini collinari della riva sinistra dell’Arno, sulle quali, in particolare,
si estende la grande selva detta, dopo la metà del XV
secolo, l’“Antinoro”, per essere in proprietà della famiglia fiorentina degli Antinori, erano in grado di offrire
una quantità praticamente inesauribile di legname da
fornace.
Soprattutto l’erica – detta scoparia o, più semplicemente, scopa perché con essa si costruivano le ramazze – presente in abbondanza nelle boscaglie del luogo,
rappresentava il combustibile più ricercato dai ceramisti
montelupini, formando la parte essenziale di quella
legna minuta o stipa che troviamo tanto spesso citata nei
documenti, e che serviva magnificamente per accendere
la fornace ed elevare la temperatura al suo interno.
Infiammando con estrema rapidità e bruciando – una
volta che il cinerario era rovente – con una fiamma relativamente povera di fumo, l’erica rappresentava una
vera ricchezza per i ceramisti montelupini, che la sostituivano nel corso del processo di cottura con la legna
grossa – cioè con ciocchi di faggio, quercia, leccio, cor-
“Provicelle” per la fornace
La “cotta” della fornace in un disegno
da scavi di Montelupo
di Cipriano Piccolpasso
(secoli XVI-XVII)
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The “cotta” (baking) in the furnace in
“Provicelle” from
a drawing by Cipriano Piccolpasso
excavations in Montelupo
THE PRODUCTION OF CERAMICS
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LA PRODUZIONE CERAMICA
già una sua variabilità in ragione della struttura del
forno e delle qualità del combustibile utilizzato – era a
sua volta funzione dei diversi stati di temperatura, che la
fornace doveva percorrere con una precisa scansione
temporale: la vera difficoltà della cotta, più che nella
comprensione, già di per sé problematica, del grado di
temperatura ottimale da raggiungere per provocare una
perfetta fusione dei rivestimenti, consisteva quindi nella
necessità di seguire, impiegando ovviamente i metodi
empirici dell’epoca, ciò che oggi definiremo “una curva
ideale di riscaldamento”.
Il forno, infatti, doveva raggiungere la temperatura d’esercizio in maniera graduale, seguendo un innalzamento progressivo sino ad una fase di stabilizzazione
sui livelli più elevati, oltre la quale era necessario farla
decrescere in maniera progressiva, sino allo spegnimento del forno, dopo il quale iniziava una lunga fase di
raffreddamento. La clessidra, che probabilmente Cipriano Piccolpasso aveva visto in qualche fornace durantina,
sarà servita dunque non tanto a stabilire il tempo complessivo della cotta, quanto a verificare le diverse fasi del
ciclo – ad esempio quella in cui la fornace veniva mantenuta sul punto di massimo riscaldamento.
(XVI-XVII century)
eight with the quartucci. Being able to identify the
typology of the ceramics form at sight was an advantage when counting the unsold stock in mazzi, while
checking the quantities.
But, of course, not all ceramics manufactured
by the furnaces of the potters consisted in mezzoquarto multiple or submultiple closed-shaped items,
because the same potters used to produce several
deep forms (for example the alberelli) and, above all,
many open-shaped items (plates, mugs, bowls, etc.).
A bill made out to Lorenzo di Piero di Lorenzo by
the Florentine convent of San Donato in Polverosa
dated back to 1519, allows us to find out the equivalence ratio established between the close and the
LA PRODUZIONE CERAMICA
ruolo di quasi-monopolio nella produzione locale, come
mostra il ben noto atto notarile del settembre 1490 con
il quale Francesco Antinori s’impegnava ad acquistare,
sulla base di tre distinte categorie merceologiche, la
produzione di 23 vasai montelupini per tre anni a prezzi concordati,.
Il combustibile per le fornaci svolgeva spesso il
ruolo di merce di scambio tra gli stessi produttori, e
tale consuetudine rivestiva un particolare significato
sociale, in quanto queste forme di prestito permettevano
ai padroni delle fornaci ed alle società che ad essi facevano capo, momentaneamente gravate da penuria di
legname, di procedere comunque alla “cotta”.
Una volta cessata la cottura, era indispensabile
lasciar raffreddare assai lentamente il forno e le ceramiche in esso contenute, per evitare che un repentino
abbassamento della temperatura, inducendo un rapido
mutamento dello stato fisico di manufatti, già portati, in
pratica, ad incandescenza, provocasse danni irreparabili. Questi danneggiamenti, detti a Montelupo “avventature”, potevano comunque determinarsi anche nella fase
di accrescimento della temperatura interna alla fornace,
e dipendevano sostanzialmente dalla plasticità – cioè
dalla più o meno rapida riduzione di volume – del corpo
ceramico: da essi derivano gran parte degli scarti di
lavorazione rinvenuti negli scavi montelupini.
Il periodo di raffreddamento, perciò, doveva pro-
lungarsi per almeno una giornata, trascorsa la quale si
poteva penetrare all’interno della camera di cottura inferiore, demolendo la chiusura provvisoria dell’usciale. Si
iniziava quindi a smontare le pile dei manufatti posti in
seconda cottura, estraendo così le cassette e recuperando con cura le forme chiuse poste l’una sull’altra; nel
corso dell’operazione si doveva ovviamente procedere al
distacco di qualche manufatto che eventualmente si
fosse attaccato al supporto od a qualche oggetto vicino.
La stessa procedura di recupero – ovviamente facilitata
dalla mancanza di impilamenti in cassetta e con distanziatore – era poi estesa anche al fornaciotto, ove a questo punto si trovava una certa quantità di ceramiche
allo stato di bistugio.
Il momento della sfornaciatura riservava ovviamente gioie e dolori ai nostri ceramisti, in quanto essi
recuperavano il prodotto finito, ma rinvenivano anche
manufatti danneggiati, talora in maniera tale da costituire un rottame non commercializzabile, del quale era
perciò necessario disfarsi. Mentre, dunque, una parte
delle ceramiche, dopo averla ripulita con cura da eventuali attaccature e nettata con la cenere dalle impurità,
veniva immgazzinata, un’altra – gravemente compromessa dalle avventature, ma anche da calcinelli, ritiri
eccessivi dello smalto, attaccature, fumigazioni, etc. –
doveva essere gettata in un ammasso provvisorio, che
poi si svuotava con comodo. Non tutti i manufatti difet-
tati andavano comunque nel rifiuto delle fornaci: alcuni,
mantenendo un qualche valore d’uso, erano infatti commercializzati come seconde scelte.
I rottami delle fornaci potevano trovare una definitiva sepoltura in pozzi dismessi – è il caso del cosiddetto “pozzo dei lavatoi” – od in anfratti del terreno,
ma erano erano ceduti volentieri anche agli abitanti del
luogo, che li utilizzavano per il drenaggio degli orti o
come materiale da riempiemento nell’edilizia. Spesso
questi rifiuti della lavorazione erano gettati nel torrente
Pesa, od accumulati di prima intenzione in fosse o
depressioni presenti nella fornace medesima, già utilizzate come vasche di decantazione o terrai per l’argilla.
Nella Montelupo preindustriale, comunque, lo
smaltimento dei rottami di fornace rappresentava un
problema non indifferente, che i Podestà locali affrontavano emanando periodicamente appositi bandi di sgombero: l’accumulo di materiale sulle strade, al di fuori
degli esercizi, poteva infatti creare ostacolo alla stessa
circolazione degli uomini e delle bestie da soma nelle
strette strade del Castello e del Borgo.
GESTIONE E COMMERCIALIZZAZIONE DEL PRODOTTO FINITO.
Terminato il processo di fabbricazione, il prodotto ceramico veniva riposto nel magazzino della fornace, ove
permaneva sino alla data di invio sul mercato o della
sua spedizione al committente. Prima di affrontare il
179
178
open forms. In the document, in fact, the large plate
is equivalent to the mezzoquarto, the medium plate
to the metadella or boccale and the small one to the
mezzetta.
The relation between the forms known so far
can be summarised as following:
BOCCALI”
QUARTO
MEZZOQUARTO
METADELLA
MEZZETTA
TERZARUOLA
QUARTUCCIO
ALBERELLI
PLATES
QUANTITIES
AND BOWLS
PER DOZEN
6
12
24
48
72
96
–
–
GRANDE
GRANDE
MEZZANO
MEZZANO
PICCOLO
PICCOLO
–
–
SCODELLINO
–
The open forms, too, could be gathered in
groups of twelve so as to facilitate the accountancy,
in this case there are evidences of the word piccia in
documents; the groups of goods were then packed
for transport in hempen bales or in wicker containers protected by straw. To ship Montelupo ceramics,
also clay cases were apparently used, at least in the
15th century (well documented for the Spanish
majolica): such packing procedures, however, must
have been carried out in the ports of shipment.
Despite the efforts of the potters, the condi-
tions of roads and ways of communications often
caused damages in the goods, well spotted by the
purchasers and, of course, they became the main
cause of reductions of the amount due to the seller.
For this reason, delivery by land with the help of
pack animals, was usually left to the workshop owners’ sons or to their close relatives. Sometimes, they
also turned to their associates or to paid deliverymen. Those deliverymen represented a separate profession amongst all workers of Montelupo furnaces:
even if employed in operational duties, they actually
represented the owner and they were given not only
the goods to be delivered, but also the necessary
money to pay customs duties and excises at the
town gates. The potter expected them to safeguard
what they had been received in the best way, to
deliver the goods quickly, and to receive all account
documents in exchange – in case of local authorities
or institutions – the poliza, which certified the
receipt and the credit of the amount due to the potter’s account. Moreover, the consignee or “deliverymen” quite often received cash for the payment
instalments of previous supplies, thus becoming
keepers of remarkable sums of money for that time,
which then had to be deposited into the safe of the
workshop.
When the goods had to be shipped, especially
along the river Arno, - usually when they had to be
exported outside the region – the owner of the boats,
the navicellai, were entrusted with such a delicate
task. The navicellaio, in fact, was given the goods to
be carried on the bank of the river (“a riva d’Arno”),
where they were collected and loaded on the boat.
The entrusting of the goods was quite an informal
operation, but it was accurately recorded as “shipment” in the administration books of the single furnaces. Such a recorded evidence, and especially
when corroborated by more than one witness, was a
proof fair enough to condemn the navicellaio by the
Court of Commodities, in case of his negligence in
loss or damage of the entrusted goods. We have not
got any documentary evidences of insurance procedures, that would have been taken out either by the
seller for the safeguarding of his own properties or
by the buyers.
Since it was common to find customs barriers
when sailing down to Pisa, the navicellai had to lay
alongside, in order to show the cargo to the customs
officers; paying the amount due according to the
effective fees, they obtained a receipt (the bulletta or
poliza). The legal papers of the Court of Montelupo
clearly show how the relationships with the customs
gave rise to frequent controversies between potters
and navicellai, who often had to turn to the magis-
tracy to be reimbursed of the payments done on
behalf of the potters, who were not inclined at all to
acknowledge the legitimacy of such a claim. We also
have evidences of unsuccessful attempts to fraudulently cross the customs barriers that were controlling the waterways.
The conquest of Pisa in 1406 and the economic recovery in the second half of the 15th century
paved the way for an appreciable development of
inland navigation, even more increased later on,
with the making of the port of Livorno and, generally, with the consolidation of the regional market over
the following century. We know however, how, since
the early centuries of the Late Middle Ages, each castle, small village or “walled land” of Valdarno would
house several families of navicellai. They, often
handing down their job from father to son, devoted
themselves to river transportation, which was very
intensive in the distance joining the Dominant to the
Tyrrhenian ports, using peculiar boats with an
almost flat bottom. These craft allocated for river
navigation, not very well known by historians of the
marine still today, were originally called scafe (small
boats). It is highly probable that essential changes in
the frame of the ancient scafe had to be introduced
when the development of the port of Livorno started
with its purchase by the Genoeses in 1421, and
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
bezzolo e pino – allorquando si doveva mantenere o
lentamente far diminuire la temperatura del forno.
Ben pochi tra i vasai valdarnesi, tuttavia, possedevano appezzamenti di bosco o sodaglie dalle quali trarre
almeno una parte del combustibile necessario all’alimentazione delle loro fornaci. Essi erano pertanto
costretti ad acquistare consistenti partite di legname
dai proprietari terrieri del luogo che, per la maggior
parte, erano cittadini fiorentini, come appunto gli Antinori, gli Spina, i Frescobaldi, i Petrucci. Gravando, inoltre, questo genere di acquisti in maniera decisiva sul
costo di produzione, era assai frequente – e moltissimi
documenti lo confermano – che i nostri vasai, se oberati da difficoltà economiche o familiari, finissero per
risultare morosi nei pagamenti dovuti ai proprietari cittadini per forniture di legname. La vicinanza di questi
ultimi al potere economico e politico della Dominante
era ovviamente tale da consentire agli stessi, ove il ricorso al Podestà locale fosse andato per le lunghe, un rapido intervento delle superiori istanze, ed in particolare
del tribunale della Mercanzia. Ciò conduceva frequentemente alla condanna dei vasai mantelupini, a sequestri
operati in loro danno e, talvolta, anche all’incarcerazione per debiti.
La possibilità di disporre di questa risorsa fondamentale, inoltre, spinse alcuni proprietari terrieri del
luogo – e segnatamente gli Antinori – ad esercitare un
LA PRODUZIONE CERAMICA
problema della commercializzazione delle ceramiche
montelupine, occorre dunque definire al meglio, per
quanto ci è attualmente concesso dalle fonti, le questioni che concernono la gestione e, in particolare, i sistemi
di computo utilizzato per stabilire il prezzo di vendita di
questi stessi prodotti. Quest’ultimo dipendeva ovviamente dalle diverse variabili che formavano il costo di
produzione (materie prime, combustibile, salari dei
lavoranti, trasporti, gabelle etc.) e dal profitto che si
poteva ottenere nel confronto con il mercato ed i committenti; è dunque facile intuire come, trattandosi di
questioni non rispecchiate nei documenti ed in costante
modificazione, sia di fatto impossibile penetrare a fondo
in tale problematica.
Più semplice, invece, risulta per noi, sulla scorta
della documentazione disponibile, risalire al sistema
mediante il quale, una volta fissato il valore di una
forma-guida (quella più largamente prodotta), i ceramisti montelupini venivano a stabilire il prezzo unitario
delle sue varianti dimensionali, ottenendo così un tabella generale per la loro attività.
Il riferimento principale del sistema di computo
utilizzato dai nostri vasai era il mezzoquarto, pari a litri
Il Borgo di Montelupo nella seconda metà del XV secolo(disegno
Ink-Link Firenze)
THE PRODUCTION OF CERAMICS
180
Montelupo in the second half of XV century (Ink-Link Firenze)
became particularly intense in the second half of the
16th century: in fact, all those changes brought
about the necessity of sailing on a short stretch of
sea, once reached the end of the river. In particular,
the scafe had to be fitted up with a sail and a less flat
keel. They got more and more similar to small seacrafts and the word “navicello” became more appropriate for this kind of boats, so as to call “canal of
navicelli” the channel dug under Cosimo I, in order
to shorten the sea distance necessary to reach
Livorno
The river navigation system was particularly
suitable for carrying heavy goods (building materials, timber, iron ore, cereals, wine, etc.) and such
quantities for which land transportation would have
been inconvenient. In the past centuries, the Arno
river was navigable, but not always its flow could
allow the crossing with the scafe, loaded as they
were, with the heaviest materials and, above all,
with the navicelli, characterised by a less shallow
draught. It was then in autumn and spring, when
the river used to have plenty of water, that the circulation of craft was more intense. It is clear, however,
that the traffic along the river was supposed to over-
LA PRODUZIONE CERAMICA
dovevano prevedere i multipli ed i sottomultipli di questa misura di conto, così come avveniva per il circolante.
Questo metodo aveva poi un risvolto pratico non
trascurabile, in quanto si usava comporre le forme chiuse ansate in mazzi – formati, con l’eccezione dei quarti,
da dodici unità – che si ottenevano passando attraverso
le prese rametti di salice, mediante i quali le ceramiche
venivano strette in un insieme coerente. Così una dozzina di quarti (sei esemplari) e di mezziquarti era formata
da un solo mazzo, mentre due erano i mazzi necessari a
formare una dozzina con i boccali, quattro con le mezzette, sei con le terzeruole ed otto con i quartucci. Riconoscendo a vista la tipologia della forma ceramica, era
dunque assai facile procedere al conteggio delle giacenze di magazzino per mazzi e, in tal modo, controllarne le
quantità.
Ma non tutte le ceramiche prodotte dalle fornaci
degli orciolai consistevano ovviamente in forme chiuse
multiple o sottomultiple del mezzoquarto, in quanto i
medesimi ceramisti producevano altre tipologie cupe
(ad esempio gli alberelli) e, soprattutto, numerose morfe
aperte (piatti, scodelle, ciotole, etc.). Un conto intestato
a Lorenzo di Piero di Lorenzo da parte del convento
fiorentino di San Donato in Polverosa nel 1519 ci consente tuttavia di risalire anche al rapporto di equivalenza stabilito tra le forme chiuse e quelle aperte: nel
documento, infatti, il piatto grande è equiparato al mez-
zoquarto, il piatto mezzano alla metadella o boccale e
quello piccolo alla mezzetta; lo scodellino è un sesto di
mezzoquarto, e corrisponde perciò alla terzaruola, mentre vi è equivalenza tra l’alberello mezzano, la metadella,
l’alberello piccolo e la mezzetta.
I rapporti tra forme che ci sono al momento noti
sono perciò riassumibili nel modo seguente:
“BOCCALI”
QUARTO
MEZZOQUARTO
METADELLA
MEZZETTA
TERZARUOLA
QUARTUCCIO
ALBERELLI
–
PIATTI
QUANTITÀ
E SCODELLE
PER DOZZINA
–
6
12
24
48
72
96
GRANDE
GRANDE
MEZZANO
MEZZANO
PICCOLO
PICCOLO
–
–
SCODELLINO
–
Anche le forme aperte potevano essere raggruppate per facilitarne la contabilità in gruppi di dodici, ed
in questo caso si trova traccia nei documenti della
parola piccia; gli insiemi così realizzati erano poi racchiusi al momento della spedizione in balle di canapa
od in contenitori di vimini protetti da paglia. Per i trasporti via mare della ceramica montelupina sembra si
utilizzasse, almeno nel XV secolo, anche l’inserimento
in contenitori fittili, ben documentato per la maiolica
spagnola: queste operazioni d’imballaggio, tuttavia,
dovevano essere eseguite nei porti d’imbarco.
Nonostante gli sforzi dei ceramisti, lo stato delle
strade e delle vie di comunicazione non mancava di
provocare danneggiamenti della merce, che erano
spesso rilevati dagli acquirenti e provocavano ovviamente una riduzione dell’importo da essi dovuto al
venditore. Per questo motivo le consegne, se effettuate
per via di terra con l’ausilio delle bestie da soma, erano
in genere affidate ai figli od ai parenti prossimi dei
proprietari delle botteghe, che però talvolta si avvalevano anche dei soci o dei “fattorini” salariati. Questi
“fattorini” rappresentavano una categoria a parte tra i
lavoratori delle fornaci montelupine: pur impiegati in
mansioni esecutive, essi rappresentavano infatti il proprietario, e ricevevano in consegna da esso non soltanto la merce, ma anche il denaro necessario a pagare le
tasse doganali o le gabelle delle porte cittadine. Il vasaio si aspettava dunque che questi suoi collaboratori
salariati salvaguardassero al meglio quanto loro affidato, e ne realizzassero rapidamente la consegna, ricevendo dagli scritturali – nel caso di enti ed istituzioni –
la poliza che attestava il ricevimento, e la certificazione
dell’addebito del relativo importo sul conto del vasaio.
Non di rado, inoltre, i consegnatari od i “fattorini”
ricevevano in solido le rate di pagamento delle forniture pregresse, e fungevano così da custodi di somme di
denaro non indifferenti per l’epoca, le quali dovevano
183
182
come quite a lot of hindrances, beyond the river
floods. In particular, one of the most daunting difficulty was the increased strength of the river current
which could hinder the boats, while they were going
upstream, pulled from the bank by a strong hempen
rope, called alzaio.
The development of sea trade as well as international trade, that had the coastal ports as landmarks (in our case they were Pisa and later
Livorno), allowed an intensive use of the riverways
which certainly was irrespective of the type of goods
that had to be carried. Those who used to go to the
docks knew very well that they could carry any kind
of merchandise with good chances of having it delivered, as well as buy more goods to be delivered to
domestic markets, or meet someone willing to pay
the rent of the boat for the trip towards Florence.
The development of the ceramics furnaces of Montelupo and of Samminiatello, in the area of one of
the critical points of Florentine commercial traffic,
attracted the attention of the commercial companies
of the Dominant.
Thanks to the notary deed of Ser Carlo Becossi who handed down the text of that agreement,
herein often quoted, we know how, as long as at
least 1490, a relation of commission had been established between a large group of Montelupo potters
and Francesco Antinori. Such a relationship exacted
an efficient trade organization from the person who
committed himself to purchase large quantities of
clay manufactured products, so as to have them
delivered even to long distances. We do not know
any more details, so far, about the oldest enterprise
of the Antinoris, but we do know very well how they
went on with that activity until the 17th century,
involving also local entrepreneurs, such as the
Marmis. The presence of Florentine companies committed to the trade of Montelupo ceramics is to be
regarded as larger than it is reported in documents
found so far: a “magona di vasellami” (plenty of potteries) is in fact quoted in March 1542 and it
involves Roberto Acciaiuoli, even if it concerns the
company “cantante” (registered) to Bernardo del
Benino. Moreover, massive shipping by river of local
clay manufactured items, regarding the years 158689, are contained in an administration book belonging to the Cozzetti family of Montelupo, which probably acted on other merchants’ account. Also traces
of foreign dealers are recorded: they were based in
Florence but operated in Montelupo to develop the
majolica trade onto several markets, as it is shown
in the incident of Pietro Palazzo, Sicilian, which is
also acknowledged by documents of Palermo and by
Montelupo court registers.
The impression that can be drawn from a first
comparison of these documents – the amount of
which might surely increase through accurate
archive researches – is the one of a continuous
enlargement of the marketing activities for the
ceramics, by “dealers” and local intermediaries after
1530s. In fact, in some Montelupo papers of this
period, the Peleamattis start to be mentioned – they
were a family of traders from Empoli, who lived in
Montelupo – as well as the Marmi and the Cozzetti
families, herein previously mentioned. It is very difficult to state whether these merchants developed
their own activity or if they operated with, or on
behalf of companies with a greater turnover.
As it is possible to read in the Cozzettis’ documents – a branch of the Lippi-Del Bebbes, a very
important family of Montelupo potters – which are
the most detailed source of information at the
moment, the shipping of fictile products was
planned on a large scale, and it employed real teams
of navicelli, composed by several boats, under the
guidance of an expert navicellaio (captain of a navicello). That documentation indicates how in the Tuscan ports, and especially in Livorno, there were
warehouses for the temporary storage of materials,
managed by trade companies. The companies used
to operate in a flexible way, sometimes handing over
their goods to other merchants, or carrying out the
export of ceramics on their own, up to the wholesaler who would usually operate on a foreign market. In this case, the usual financing procedures for
the payment on the spot of all costs of export taxes
(transportation, excises, etc.) as well as for the credit
of the sales revenues were followed through a bank.
It is therefore evident how large was the field of
action reached by the shipping of Montelupo potteries: it included the whole Mediterranean area, as
well as the main markets located along the Atlantic
routes (in particular, England and Holland) and it all
depended on the trade network of the Florentine
companies. The crisis of Montelupo furnaces, in perfect timing with the economic falling- back of the
city of Florence, is a sort of countercheck of the relation which connected them to the merchant capital
and, in the same time, it also points out one of the
causes of what happened. The spread of Valdarno
ceramics into the major consumption centres of the
Tyrrhenian area, up to western Sicily, favoured the
city of Rome: a market of great interest for all Italian potters and, in particular, for those ones operating in Central Italy. That is why, within the gates of
Rome, many potters from Montelupo, together with
many others from Faenza, Casteldurante and Deruta
worked side by side with Roman colleagues, some-
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
2,28 nelle misure da vino e litri 2,09 in quelle per l’olio.
Dodici mezziquarti formavano infatti la dozzina, la quale
costituiva il riferimento numerico di base per i conteggi,
anche se a questo metodo di computo si affiancava talora quello della conta per centinaia, che era impiegata
soprattutto nelle forniture di grandi quantità di oggetti
morfologicamente omogenei e, quindi, riservata soprattutto a quelle destinate agli ospedali, che si componevano di numerosi manufatti eguali, spesso di basso valore
unitario.
Poiché, dunque, dodici mezziquarti erano equiparati alla dozzina, per comporre la stessa quantità con
la misura superiore – considerata doppia – il quarto, ne
occorrevano soltanto sei, mentre la dozzina poteva essere ottenuta anche con ventiquattro metadelle o boccali,
essendo i medesimi metà del mezzoquarto. Il conteggio
riferiva quindi a questa unità di misura tutte le altre
scalature delle forme chiuse: in tal modo “una dozzina”
[sottinteso “di mezziquarti”] equivaleva anche a quarantotto mezzette e a novantasei quartucci; contando in
terzeruole, che corrispondevano dimensionalmente ad
un terzo del boccale, la dozzina risultava invece composta da settantadue unità. Il “gioco di orcioli”, comprensivo di tutte le misure, era pertanto valutato a circa
un terzo di dozzina. Abituati a contare in dodicesimi, i
ceramisti ancoravano dunque alla dozzina [di mezziquarti] i loro metodi amministrativi, ma ovviamente
LA PRODUZIONE CERAMICA
rapporti con le dogane ingenerassero frequenti controversie tra i ceramisti ed i navicellai, che spesso erano
costretti a rivolgersi al Podestà per farsi rimborsare i
pagamenti effettuati per conto dei ceramisti, poco propensi a riconoscerne la legittimità. Non mancano,
inoltre, testimonianze le quali evidenziano tentativi mal
riusciti di superare fraudolentemente gli sbarramenti
doganali che controllavano la navigazione fluviale.
La conquista di Pisa del 1406 e la ripresa dello
sviluppo economico della seconda metà del XV secolo
crearono le premesse per un sensibile incremento della
navigazione interna, poi sviluppatasi ancora di più con
la creazione del porto di Livorno e, più in generale, con
il consolidarsi nel corso del Cinquecento del mercato
regionale. Sappiamo comunque come almeno sin dai
primi secoli del Basso Medioevo ogni castello, borgo o
“terra murata” del Valdarno ospitasse diverse famiglie
di navicellai che, spesso tramandandosi il mestiere di
padre in figlio, si dedicavano ai trasporti fluviali, assai
intensi nella tratta che univa la Dominante ai porti tirrenici, utilizzando speciali imbarcazioni dal fondo pressoché piatto: questi natanti adibiti alla navigazione fluviale, tuttora poco noti agli storici della marineria,
erano in origine chiamate scafe.
È assai probabile che lo sviluppo del porto di
Livorno, avviato con l’acquisto dello scalo dai Genovesi
nel 1421, ma particolarmente intenso nella seconda
metà del Cinquecento, determinando la necessità di
effettuare un tratto marino, sia pure piuttosto breve,
una volta che si era usciti dalle acque fluviali, abbia
indotto a modificare sostanzialmente la struttura delle
antiche scafe, suggerendo in particolare l’adozione della
vela e di una chiglia dalla sezione meno appiattita.
Somigliando così sempre di più ad una piccola imbarcazione marinara, divenne appropriato per questo
genere di barche il vocabolo “navicello”, tanto che il
canale scavato per disposizione di Cosimo I al fine di
abbreviare il tragitto di mare necessario a raggiungere
Livorno è noto come “canale dei navicelli”.
Il sistema della navigazione fluviale era ovviamente indicato soprattutto per il trasporto delle merci
pesanti (materiali da costruzione, legname, minerali di
ferro, granaglie, vino, etc.) e per quantitativi tali da rendere svantaggioso il trasporto terrestre. L’Arno era nei
secoli passati un fiume navigabile, ma non sempre la
sua portata poteva garantire il passaggio delle scafe
cariche dei materiali più pesanti, ma soprattutto dei
navicelli caratterizzati da maggior pescaggio. Era
dunque tra l’autunno e la primavera, allorquando il
fiume aveva maggior abbondanza d’acqua, il periodo in
cui più intenso si faceva il movimento delle imbarca-
zioni; è ovvio, tuttavia, come in quei mesi il traffico fluviale dovesse superare, al di là dei periodi di piena del
fiume, non pochi ostacoli, ed in particolare l’accresciuta
forza della corrente, la quale era in grado di contrastare
maggiormente il movimento di risalita delle barche,
trainate dalla riva mediante un robusto canapo, detto
“alzaio”.
Lo sviluppo dei traffici marittimi e del commercio internazionale che aveva come punti di riferimento i porti costieri (nel nostro caso Pisa e poi
Livorno) consentiva però un uso intensivo della via fluviale, che di certo prescindeva dalla stessa tipologia
delle merci da trasportare. Chi si recava agli approdi
marittimi, infatti, sapeva bene che poteva condurre con
sé ogni genere di mercanzia, avendo ottime possibilità
di esitarla, ma anche che avrebbe potuto acquistare
altra merce da trasportare sui mercati interni, o incontrare qualcuno che avrebbe pagato il nolo della sua
barca per il percorso di risalita verso Firenze. La crescita delle fornaci ceramiche di Montelupo e di Samminiatello, avvenendo in uno dei nodi del sistema dei traffici mercantili fiorentini, non mancò dunque di attrarre
l’interesse delle compagnie commerciali della Dominante.
I navicelli a Firenze in un’incisione
di Giuseppe Zocchi (1744)
185
184
times also holding prominent positions in the local
“art of the vascellari (potters)”. However, the emigration of Montelupo artists to Rome, had already started long before, according to what happened to that
“mestro (master) Domenico da Montelupo who, in
1454, in partnership with the potter Giovanni di
Tommaso di Vigna da Fosso, realised one of the
majolica floors of the Lateran Palace. The diaspora
of Valdarno potters towards other production centres generally overlapped the one of their trade, as,
in early 16th century, they moved to Provence and to
the city of Lyons, which represented the most important Florentine trade centre in France.
The commercial outlets of Montelupo furnaces had basically three different features. First of
all, there was a local market which included several
Tuscan cities and mainly increased by local people
(the stovigliai) who were involved in the trade of fictile and glassware, or in products such as coal,
ropes, but also chalk, bricks, etc. Sales of pottery
took place in outdoor markets, too, and there, the
producer itself or his deliveryman, as well as street
traders could operate. The trading activity of the
stovigliai was often based on rudimental forms of
partnership between producer and seller, that is, the
contracting parties established de facto – and probably on the basis of a private agreement – an econom-
ic relation, based on the supply of the finished product, which corresponded to an assignment of raw
materials as partial compensation of the debt.
A remarkable part of the trade of Montelupo
ceramics was then carried out with direct clients.
We know some significant aspects of it, even if our
information mainly concern the relations between
the local potters and their “public” clients, like convents and hospitals, while they seldom regard private orders, mostly placed by Florentine aristocratic
families. As for “public” clients, it is easy to notice
how easy it was for some potters to turn into “potter
of the family” and, for different reasons, to become
the preferential supplier for the institution; we do
not know, however, if the same might have happened with private clients.
The third and last sales channel was represented not only by the “international” trade which
was carried out via the coastal ports of Tuscany, but
also by the trade companies system we have already
described above in details.
As far as the organization of the production is
concerned, we must say that such a complicated
mechanism started in the workshop with all its different operative systems (workshop with or without
furnace, independent workshop or workshop linked
to others through partnerships). The history of our
The “navicelli” (boats) in Florence
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
poi regolarmente versare nelle casse della bottega.
Qualora il trasporto della ceramica fosse effettuato per via d’acqua, utilizzando in primo luogo il
corso dell’Arno – il che avveniva nella generalità dei casi
d’esportazione indirizzata al mercato extraregionale –
erano i proprietari delle barche, i “navicellai”, a svolgere
questo compito delicato. Al navicellaio veniva infatti
consegnata la merce da trasportare sulla ripa del fiume
(“a riva d’Arno”), da dove veniva prelevata e caricata sull’imbarcazione. L’affidamento delle merce avveniva
senza particolari formalità, ma trovava puntuale
riscontro nelle “partite” segnate nei libri d’amministrazione dalle singole fornaci: questa prova documentaria,
in specie se avvalorata da più d’un testimone, era del
resto sufficiente a far condannare il navicellaio dal tribunale della Mercanzia, qualora quanto a lui affidato
fosse andato perduto o distrutto in maniera colposa.
Non possediamo prove documentarie di forme di assicurazione, eventualmente stipulate per la tutela del
patrimonio dei venditori o dagli acquirenti.
Poiché discendendo il fiume in direzione di Pisa
si incontravano alcune barriere doganali, era necessario
che i navicellai accostassero, per mostrare ai doganieri
la merce trasportata; pagando loro quanto dovuto in
base alle tariffe vigenti, ottenevano un documento di
ricevuta (la bulletta o poliza). Le scritture del tribuanale
di Montelupo mostrano con grande evidenza come i
in an incision by Giuseppe Zocchi
(1744)
production centre shows how the numerical growth
of the productive units is to be traced back in Montelupo mainly to the development reached here during the 15th century, even if such a phenomenon
found the way of grafting on an environment
already busy with ceramic activities.
To acquire the necessary means for the production and to own a workshop with sufficient
rooms – including at least, beside the working room,
an area for drying the manufactured items, a small
storeroom and a stable – was not easy and it was
even more difficult to find a place where to follow
the whole production cycle, with one or more furnaces and also a air reverberation furnace to prepare glazes, enamels and colours. Those who, like
the Bandini family, owned lands in the countryside,
LA PRODUZIONE CERAMICA
luppare il commercio della maiolica su diversi mercati, come mostra la vicenda di quel Pietro Palazzo siciliano, che trova riscontro in scritture palermitane e nei
registri del tribunale montelupino.
L’impressione che si ricava da una prima comparazione di questi documenti – il cui numero potrebbe
certo moltiplicarsi attraverso appropriate indagini d’archivio – è quella di un progressivo allargamento dell’attività di commercializzazione delle ceramiche, dopo gli
anni Trenta del Cinquecento, a “faccendieri” ed intermediari locali. In questo periodo iniziano infatti a comparire nelle scritture montelupine i Pelamatti – una
famiglia di commercianti originaria di Empoli, ma residente anche in Montelupo – oltre ai già citati Marmi e
Cozzetti: quanto questi mercanti sviluppino un’attività
propria, oppure operino in collegamento, se non per
conto, di aziende dal più vasto giro d’affari, è assai difficile stabilire.
Come si ricava dalle scritture dei Cozzetti – una
ramificazione dei Lippi-Del Bebbe, importante famiglia
di ceramisti montelupini – che al momento costituiscono la fonte d’informazione più dettagliata, le spedizioni di generi fittili venivano programmate su larga
scala, tanto che si impiegavano vere e proprie squadre
di navicelli, composte da diverse imbarcazioni, affidandole ad un esperto navicellaio. Questa documentazione
lascia intravedere come nelle città portuali della
Toscana, e segnatamente in Livorno, si trovassero fondaci destinati al provvisorio stoccaggio dei materiali,
gestiti da compagnie commerciali. Le compagnie operavano in maniera flessibile, cedendo talvolta la merce
ad altri commercianti, oppure effettuando in proprio
l’esportazione delle ceramiche sino all’acquirente all’ingrosso, che normalmente operava su una piazza forestiera; in questo caso si seguivano le usuali procedure
finanziarie per il pagamento sul posto tramite banca
delle spese relative agli oneri d’esportazione (trasporti,
gabelle, etc.) e l’accreditamento delle somme derivanti
dalle vendite.
Risulta palese, dunque, come il raggio assai vasto
raggiunto dalle spedizioni di ceramiche montelupine, il
quale, come sappiamo, comprendeva l’intero bacino del
Mediterraneo ed i maggiori mercati che si collocavano
lungo le rotte atlantiche (in particolare l’Inghilterra e
l’Olanda), dipendesse dalla rete commerciale delle compagnie fiorentine. La crisi delle fornaci di Montelupo,
avvenuta in perfetta sintonia con il ripiegamento economico della città di Firenze, costituisce dunque una sorta
di controprova del rapporto che le legava al capitale
mercantile, e segnala anche, nel contempo, una delle
Il rogito notarile del “trust Antinori” (20 settembre
1490)
187
186
could sell them and make the right profit to buy a
building and then, if necessary, renovate it and fit it
with the right spaces and equipment. If, instead, it
was not possible to have adequate financial
resources to own a productive unit, there was
always the possibility to be employed as a worker in
somebody else’s workshop.
The social position of the wage-earner, even
when specialised as the painter, the thrower or also
the kiln man must not have been one of the best
ones. At that time, the corporative system which
perhaps used to start off young apprentices who
eventually reached the higher qualification of maestro (master) had lost its rigid frame and, as far as
the late 15th century, seemed to produce nothing
else than wage-earning workers,. It is likely that the
work relations of those workers– since they were not
subject to any public contract, but instead simply
regulated by private agreements, if not even occasional – might have turned into not totally
favourable relations.
Even more precarious was, of course, the
work relationship between the owner of the workshop and those workers whose job in the workshop
entailed general duties or tasks without any special
skills, like the motaioli (mud cleaners), the attacchini
(billposters) and in general all workshop boys. In
fact, they could be dismissed without any problems
and they were not always able to find a job in other
furnaces. The condition of being “employed”, then,
was widespread for all immigrants: since they usually came from different manufacturing centres, they
certainly could not have had availability of capitals
to buy a furnace, so they had to find a position as
wage-earners or associates – almost always as
minority partners – in somebody else’s workshop.
Such a system is clearly illustrated in the history of
the Italian ceramics, and in Montelupo, it is obvious
in the case of Girolamo Mengari and Alessandro Di
Tommaso di Giorgio, both from Faenza. While the
former – although often called in documents with
the title of “magister” – never owned his own ceramics business, with his personal history, the latter
shows all the restlessness typical of the “travelling”
painter. After leaving his native Faenza (or maybe
some village nearby), Alessandro passed through
Pesaro and after working in other places, too, he
arrived in Montelupo; then, from there, he went
away at an old age and he probably died in Rome at
the end of the 16th century.
Since the immigrant was a skilled artisan,
although he didn’t have his own business, he could
often do his job well even under more or less rigid
forms of employment. On the other hand, such a
The notary deed of the “Antinori trust” (20th
september 1490)
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
cause di questo fenomeno.
La diffusione delle ceramiche valdarnesi verso i
maggiori centri di consumo dell’area tirrenica, estesa
sino alla Sicilia occidentale, privilegiò la città di Roma:
un mercato di grande interesse per tutti i ceramisti italiani, ed in particolare per quelli attivi nel centro Italia.
Fu così che tra le mura dell’Urbe finirono per trovarsi
non pochi vasai provenienti da Montelupo, i quali,
assieme ad una numerosa compagine di faentini,
durantini e derutesi, lavoravano a fianco di colleghi
romani, rivestendo anche cariche di spicco nella locale
“arte dei vascellari”. L’emigrazione montelupina verso
Roma, del resto, inizia in epoca già piuttosto antica,
come mostra la vicenda di quel “mestro Domenico da
Montelupo”, che fabbricò nel 1454 – in società con il
vasaio Giovanni di Tommaso di Vigna da Fosso – uno
dei pavimenti maiolicati del palazzo del Laterano. La
diaspora dei vasai valdarnesi verso altri centri di produzione si sovrappose in genere a quella dei loro commerci, orientandosi all’inizio del Cinquecento anche
verso la Provenza e la città di Lione, la quale, peraltro,
rappresentava la più importante piazza mercantile fiorentina in Francia.
LA PRODUZIONE CERAMICA
Grazie all’atto notarile di ser Piero Gherardini
che ci ha tramandato il testo di quell’accordo, qui più
volte citato, sappiamo infatti come almeno sin dal
1490 tra un folto gruppo di vasai montelupini e Francesco Antinori si fosse creato un rapporto di committenza tale da richiedere da parte di chi s’impegnava
all’acquisto di grandi quantità di prodotti fittili un’efficiente organizzazione commerciale, in grado di esitare
questi ultimi anche sulle lunghe distanze. Se non
conosciamo per il momento altri particolari in merito
alla più antica impresa degli Antinori, sappiamo bene,
però, come essi abbiano proseguito sino al XVII secolo
tale attività, coinvolgendo in questo traffico imprenditori locali come i Marmi. La presenza di compagnie
fiorentine dedite al commercio delle ceramiche di
Montelupo deve tuttavia ritenersi assai più ampia di
quanto i documenti sin qui ritrovati riescono ad attestare: una “magona di vasellami”, che vede coinvolto
Roberto Acciaiuoli, ma che attiene alla compagnia
“cantante” (cioè intestata) in Bernardo del Benino, è
infatti citata nel marzo del 1542, mentre massicce spedizioni per via fluviale di prodotti fittili locali, relative
al periodo 1586-89, sono contenute in un libro d’amministrazione della famiglia montelupina dei Cozzetti,
che evidentemente agisce per conto di altri mercanti.
Non mancano, infine, le tracce di trafficanti forestieri
che, basati in Firenze, operano in Montelupo per svi-
LA PRODUZIONE CERAMICA
fiorentine. Per quanto attiene la committenza “pubblica”, si può constatare come fosse facile per alcuni
ceramisti trasformarsi in “vasai di casa”, ed assumere,
per motivazioni diverse, il ruolo di fornitori privilegiati
dell’istituzione; non sappiamo, però, se lo stesso fenomeno si sia ripetuto nei confronti dei privati.
Il terzo ed ultimo canale di vendita era poi rappresentato dal commercio “internazionale” che avveniva attraverso gli approdi costieri della Toscana e per
tramite del sistema della compagnie commerciali, sul
quale ci siamo disopra ampiamente diffusi.
Sotto il profilo organizzativo della produzione, il
motore di questo complesso meccanismo era dunque la
bottega con le sue diverse articolazioni operative (bottega con o senza fornace, bottega indipendente o collegata ad altre mediante legami societari). La storia del
nostro centro di fabbrica dimostra come la crescita
numerica delle unità produttive sia da far risalire in
Montelupo soprattutto allo sviluppo che qui si determinò nel corso del XV secolo, anche se questo fenomeno ebbe modo di innestarsi in un ambiente già relativamente denso di attività ceramistiche.
Acquisire i mezzi necessari alla produzione e possedere una bottega con gli spazi adeguati – comprendenti almeno, oltre al locale ove si effettuavano le lavorazioni, anche le aree destinate all’essiccazione dei
manufatti, un piccolo magazzino ed una stalla – non
doveva essere però agevole, ed ancor più difficile dotarsi
di un’unità ove poter eseguire l’intero ciclo produttivo,
con una o più fornaci e, magari, un fornello a riverbero
per fabbricare vetrine, smalti e colori. Chi, come la
famiglia Bandini, aveva possedimenti fondiari nelle
campagne, poteva ricavare dalla loro vendita il capitale
necessario ad acquistare un immobile, per poi, se necessario, ristrutturalo e dotarlo degli spazi e delle attrezzature adeguate: se non si disponeva delle risorse sufficienti a dotarsi di una propria unità produttiva, si cercava impiego come lavorante nelle botteghe altrui.
La posizione sociale del salariato, pur specializzato come il pittore, il torniante od anche il fornaciaio,
non doveva però essere delle migliori. Il sistema corporativo, ormai uscito dalla rigida cornice, che forse un
tempo instradava i giovani apprendisti al graduale raggiungimento della qualifica di maestro, sembra infatti
aver prodotto, già sul finire del XV secolo, nient’altro
che semplici lavoranti salariati, ed è assai probabile che
per questi ultimi il rapporto di lavoro – in quanto non
soggetto ad una contrattualità pubblica, ma regolato da
semplici accordi privati, se non addirittura occasionali
– si rivelasse tutt’altro che favorevole.
Ancor più precario, ovviamente, era il legame
La marca (“tridente”) di
Girolamo Mengari
189
188
condition, being without property, well matched his
“free man” mentality, without being tied to the
places he went to. Therefore, he could quite easily go
on with his wanderings, moving where he wanted to
in the search for success or at least to be able to
develop his own professional skills. Considering,
however, that the pottery workshop owners, especially if without any male heirs, were obliged to put part
of their estates in the dowry of their daughters, they
offered the immigrants as well as the potters without
workshop, the possibility to acquire a business
through marriage. Some families of potters in Montelupo, for example, the Accattis and the Bernazzinis, actually resorted to this marriage strategy. But
the way was beset with dangers. In the case of widowhood, the gifted property would go back to the
wife; on the other hand, many widows did not want
to submit to the clause of will which prevented them
from getting married again. Due to the hardships of
the time and to the many conflicts with their parents-in-law, brothers- and sisters-in law, they tended
to marry again and doing so, they took away the
property from their previous family. Even the sums
of money received by way of dowry, and spent by
their dead husbands to buy workshops and furnaces,
could be claimed back. All that caused unsettling
effects on the economic fabric of Montelupo, first of
all compelling an illogical and problematic division
of the workshop, according to the shares of property
(a part to the widow, the others to the potters who
worked there). The widows, if married again to men
who did not operate in the ceramics industry, aimed
at renting out the estates – was it a whole workshop
or a part of it – to potters who exploited all what
they had received on lease, without engaging in any
maintenance: such a behaviour was quite often the
prelude to bankruptcy.
Aware of all those problems, each potters
dynasty in Montelupo used to pay particular attention to keeping their properties intact, and they especially tried to safeguard those estates used for their
productive activities that, besides being useful from
an economic point of view, became also the tie for
the whole family. It all limited the transfers of property but in case of economic difficulties, it increased
the deterioration of the buildings as a result of lack
of maintenance and investments. According to those
principles, it was however a rule to assign the control of the “ragione cantante”, i.e. the legal ownership of the ceramics business to the first-born son,
which meant to inherit both the registration,
scartafaccio of the workshop (the book of ordinary
business) and the responsibility of the management.
With regard to the estate, there was a tendency to
The brand (tridente) of
Girolamo Mengari
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
che si instaurava tra il proprietario della bottega ed i
salariati che in essa svolgevano mansioni generiche o
di bassa specializzazione, come i motaioli, gli attacchini ed i garzoni in genere: essi, infatti, potevano essere
allontanati dal lavoro senza troppe difficoltà, e non
sempre riuscivano ad impiegarsi in altre fornaci. La
condizione di “dipendente” si generalizzava poi per gli
immigrati: provenendo di norma da altri centri di fabbrica, essi non avevano una disponibilità di capitale
tale che permettesse loro di acquistare una fornace, ed
erano perciò costretti ad impiegarsi a vario titolo,
come salariati o associati – quasi sempre per minoranza – nelle botteghe altrui. Tale meccanismo trova
ampia esemplificazione nella storia della ceramica italiana, ed a Montelupo si fa assai evidente nel caso dei
faentini Girolamo Mengari ed Alessandro di Tommaso
di Giorgio: mentre il primo – peraltro spesso contraddistinto nei documenti dall’appellativo di “magister” –
mai venne a dotarsi di un proprio esercizio da vasaio,
il secondo mostra nella sua storia personale tutta l’irrequietezza del pittore “itinerante”. Partitosi dalla
natia Faenza (o, forse, da un paese ad essa vicino),
Alessandrò passò infatti per Pesaro, e, dopo aver forse
lavorato in altri luoghi, giunse a Montelupo; da qui si
LA PRODUZIONE CERAMICA
Gli sbocchi commerciali delle fornaci montelupine avevano sostanzialmente tre diverse caratteristiche. Esisteva, in primo luogo, un mercato locale,
esteso a diverse città della Toscana, ed alimentato
soprattutto da gente del luogo (gli stovigliai), che si
dedicavano al commercio dei generi fittili, del vetro e
dei prodotti di “mesticheria” (carbone, cordami, ma
anche gesso, laterizi, etc.). Vendite di ceramica avvenivano anche nei mercati all’aperto, e qui potevano operare gli stessi produttori o i loro “fattorini”, oltre ovviamente a commercianti ambulanti. Spesso alla base dell’attività commerciale degli stovigliai vi erano embrionali forme societarie tra produttori e rivenditori, nel
senso che tra i contraenti si stabiliva de facto – e probabilmente sulla base di una scrittura privata – un rapporto di natura economica, basato sulla fornitura di
prodotto finito, alla quale, come parziale compensazione del debito relativo, faceva spesso riscontro la cessione di materie prime.
Una parte non trascurabile del commercio delle
ceramiche montelupine avveniva poi per committenza
diretta, e di esso ne conosciamo alcuni aspetti qualificanti, anche se le nostre informazioni attengono in particolare al rapporto tra i ceramisti del luogo ed i loro
clienti di tipo “pubblico”, come conventi ed ospedali,
mentre assai più raramente si estendono alle ordinazioni private, in gran parte afferenti a famiglie nobiliari
LA PRODUZIONE CERAMICA
In caso di vedovanza, i beni dotali tornavano
infatti di pertinenza della moglie; molte vedove, non
sottostando – anche in ragione della durezza dei tempi
e dei frequenti conflitti con i suoceri, i cognati o le
cognate – alle clausole testamentarie che miravano ad
impedirlo, tendevano poi a contrarre un nuovo matrimonio, sottraendo così questi beni al precedente nucleo
familiare. Anche le somme ricevute a titolo dotale, ed
impiegate dai defunti coniugi nell’acquisto di botteghe
e fornaci, potevano essere reclamate.
Tutto ciò non mancò di ingenerare effetti dirompenti nel tessuto economico montelupino, costringendo
in primo luogo a sezionare in maniera illogica e problematica le botteghe a seconda delle quote di proprietà
(una parte alla vedova, le altre ai vasai che vi operavano). Le vedove, se di nuovo maritate a persone che
non esercitavano il mestiere del ceramista, tendevano
poi ad affittare questi beni – corrispondessero ad un
intero esercizio o solo ad una parte di esso – a vasai che
sfruttavano oltre il limite quanto ricevuto in locazione,
senza per questo impegnarsi nella sua manutenzione:
non di rado fu l’anticamera della rovina.
Consapevoli di queste difficoltà, ogni dinastia di
La marca (“amo da
pesca”) della famiglia
ceramisti montelupini era particolarmente attenta a
mantenere integro nel tempo il proprio patrimonio
immobiliare e, in particolare, a salvaguardare quello
destinato alle sue attività produttive, che, oltre ad una
funzione economica, assumeva il valore di legame collettivo per il gruppo parentale. Ciò tendeva a limitare i
passaggi di proprietà delle fornaci, e favoriva, perciò del
pari, in caso di difficoltà economiche, il deperimento
delle strutture per mancanza di manutenzione e di investimenti.
In ossequio a questi principi, era comunque di
norma il primogenito a ricevere in eredità il controllo
della “ragione cantante”, della titolarità, cioè, dell’impresa ceramica: il che significava ottenere, assieme al
registro ed allo scartafaccio (il libro della gestione ordinaria) della bottega, anche l’onere della sua conduzione.
Sotto il profilo patrimoniale, inoltre, si cercava di evitare, nel caso di una pluralità di eredi maschi, la futura
frantumazione della proprietà, assegnandola negli atti
di succesione ai primogeniti; questa regola non mancava tuttavia di ingenerare contrasti tra fratelli, sino ad
indurre i minori all’abbandono del luogo natio.
Nella lunga vicenda storica montelupina, ad ogni
buon conto, si nota una fase di crescita della presenza
di botteghe e fornaci che si estende dal XIV secolo – il
primo periodo documentato dalle scritture d’archivio –
alla seconda metà del Cinquecento, con un accrescersi
del numero delle famiglie impegnate nell’attività ceramistica ed un ampliamento delle strutture produttive.
Le prime difficoltà insorte nella seconda metà del
Cinquecento e, soprattutto, nel secolo successivo, si
accompagnano invece con il passaggio di molti degli
immobili ove restava traccia della produzione fittile
nelle mani di speculatori fondiari – il caso più eclatante
è quello della famiglia Tosi – o, più in generale, di proprietari che non si impegnano direttamente, ma cedono
i loro beni in locazione ad altri ceramisti: è questo, ad
esempio, il caso dei Brizzelli.
L’assottigliarsi delle famiglie che nel passato avevano rappresentato il fulcro delle attività locali è eloquentemente attestato dalla scomparsa – in toto o
almeno per i rami che si erano dedicati alla professione
del vasaio – non solo dei Calabranci, dei Bandini, dei
Bernazzini, dei Becossi, i quali avevano supportato i
momenti di sviluppo tardo-medievali di questa attività,
ma anche dei Sartori, dei Vestri o dei Maffei, tanto per
citarne alcuni, che furono alla base del successivo consolidamento “rinascimentale” della maiolica montelupina. I vuoti che la scomparsa di queste vere e proprie
dinastie di vasai lasciò in Montelupo furono parzialmente riempiti nel corso del XVII secolo da nuovi
adepti, quali i Dori, i Berti, i Grazzini ed i Ferruzzi, ma
Marmi
191
190
The brand (amo da
pesca) of the Marmi
family
avoid dividing it in the case of numerous male heirs,
and so it was assigned to the first-born son, as
reported in the testamentary succession acts. Such a
rule contributed to the rise in conflicts among
brothers, up to the point of forcing the youngest
brothers to leave their native place.
In the long history of Montelupo, after all, it is
noticeable an upward phase in the amount of workshops and furnaces that starts from the 15th century
– the first period of time documented by the archive
papers – to the second half of the 16th century, with a
rise in number of families engaged in pottery activities and an expansion of productive organizations.
The first problems arisen in the second half of the
16th century and, above all in the following century,
are parallel to the change of ownership of many
estates, where there was evidence of fictile production, into the hands of property speculators – the
most striking example is the Tosi family – or, more
general, into the hands of owners who do not acted
directly, but let their property out to other potters:
for example, like the Brizzellis.
The reduction of families who in the past had
represented the heart of the local activities, is meaningfully revealed by the loss – in toto or at least of
the branches who worked in the ceramics business –
of not only the Calabrancis, the Bandinis, the
Bernazzinis, the Becossis, who had supported the
development of those activities during the Late Middle Ages, but also by the loss of the Sartoris, the
Vestris or the Maffeis, to name only some families,
who were active during the following Renaissance
consolidation of Montelupo-type majolica.
The void that the loss of those real dynasties
of potters left in Montelupo was partially filled by
new followers during the 17th century. They were
the Doris, the Bertis, the Grazzinis and the Ferruzzis, but – as the sources clearly show - they could
never foster a production to the same extent of what
it had been once.
The change in ceramics production throughout the 18th century, which also sees Tuscany changing from an area of great export into a market of
absorption of foreign products – in particular of the
so-called “ordinary pottery”, but also of the majolicas from Holland and from Liguria – represented a
turning point in Montelupo history that was preceded by a long phase of regression.
The loss of the past supremacy in the production and trade was anticipated by the progressive
decline of the commercial ties with the Florentine
merchant capital. We know very well, however, how
serious the economic crisis of the Grand Duchy was
between the17th and 18th centuries, and how the
THE PRODUCTION OF CERAMICS
THE PRODUCTION OF CERAMICS
LA PRODUZIONE CERAMICA
allontanò ancora in età ormai avanzata, per trovare
forse la morte a Roma sul finire del XVI secolo.
Poiché è un artigiano capace, l’immigrato, pur
non possedendo un esercizio di sua proprietà, riesce
però sovente ad esercitare il suo mestiere anche nelle
forme di dipendenza più o meno accentuata nelle quali
è costretto ad operare; la mancanza di beni immobili,
d’altra parte, ben corrisponde, nella maggioranza dei
casi, anche alla sua mentalità di “uomo libero”, privo di
legami profondi con i luoghi nei quali si reca. Ciò gli
consente all’occorrenza di riprendere con relativa facilità le proprie peregrinazioni, spostandosi laddove
ritiene, se non di fare fortuna, almeno di sviluppare al
meglio le proprie capacità professionali.
Visto, però, che i ceramisti proprietari, specie se
privi eredi maschi, erano costretti ad inserire almeno
parte delle loro proprietà immobiliari tra i beni dotali
delle figlie, si offriva per via parentale tanto agli immigrati, quanto ai ceramisti privi di bottega in genere, la
possibilità di acquisire esercizi propri: alcune famiglie
di vasai di Montelupo, come gli Accatti ed i Bernazzini,
praticarono in effetti con evidenza questa strategia
matrimoniale. La strada, però, era irta di insidie.
merciale e bancaria che un tempo faceva perno sulla
città di Firenze sia allora precipitata in un indubitabile
sfacelo.
L’intero comparto della produzione fittile montelupina andò così incontro ad una completa ristrutturazione, forzata dalla crisi della maiolica, che ne permise
soltanto una stentata sopravvivenza: con essa, oltre alla
memoria storica ed all’intera trama dei rapporti socioeconomici che l’avevano supportata, si persero anche
aspetti essenziali della sapienza tecnologica già maturata.
Per nostra fortuna l’incomparabile ricchezza
degli archivi fiorentini e degli scarichi delle fornaci
locali può consentirci ancora oggi, nonostante il tempo
passato, di ricondurre alla memoria il simulacro di
quella che un tempo fu, probabilmente senza averne
consapevolezza, una delle esperienze più avanzate per
l’epoca, posta, nonostante i suoi tratti “antichi”, davvero
ad un passo dalla modernità.
commercial and financial network that once hinged
on the city of Florence, started to run into an
unquestionable collapse.
The whole Montelupo fictile production headed
towards a complete renovation, forced by the crisis of
the majolica, which allowed it only a hard survival.
Besides historical memories and the whole web of
socio-economic relations which had supported it, also
fundamental aspects of a consolidated technological
know-how disappeared with it. Fortunately, the great
richness of the Florentine archives and the wastegrounds of the local furnaces can allow us, still today,
to bring back memories of one of the most advanced
experiences of those times that, maybe without even
realising it and despite its “ancient” features, was just
a few steps from modernity.
LA PRODUZIONE CERAMICA
non fu certo possibile a questi ultimi – come le fonti
mostrano in maniera eloquente – animare un’attività
che fosse in qualche misura comparabile alla precedente.
Il mutamento della produzione ceramica avvenuto nel corso del Settecento, le cui conseguenze si
mostrano con grande evidenza nella trasformazione
della Toscana da area di forte esportazione a mercato
di assorbimento dei prodotti stranieri – in particolare
delle cosiddette “porcellane ordinarie”, ma anche delle
maioliche olandesi e liguri – rappresentò così nella
storia di Montelupo un momento di svolta che fu preceduto da una lunga fase di ripiegamento.
La perdita del predominio produttivo e commerciale del passato fu anticipata dal progressivo cedimento dei rapporti commerciali un tempo stretti con il
capitale mercantile fiorentino; ben sappiamo, d’altronde, quanto profonda fosse la crisi economica del
Granducato tra Sei e Settecento, e come la rete com-
THE PRODUCTION OF CERAMICS
192
PARTE QUARTA
Il Museo della Ceramica.
Breve descrizione delle aree espositive
PART FOUR
The Museum of Ceramics.
Short description of the exhibition areas
Il piano terreno. La sala del “pozzo dei lavatoi”
L’ingresso alle sale espositive è posto sulla destra del
bancone d’ingresso; attraversando un breve corridoio, si
accede alla sala 1, che introduce il visitatore alle collezioni.
Nella prima sala è contenuta una ricostruzione
evocativa del cosiddetto “pozzo dei lavatoi”, comprensiva di un modello centrale del pozzo medesimo, ove è
collocata una scelta di frammenti di scavo, rappresentativi delle decorazioni tipiche dell’inizio del Cinquecento,
di prove di cottura e di scarti di lavorazione, con le esercitazioni di pittura degli allievi, i conti delle botteghe, ed
Ricostruzione ideale dello scavo del “pozzo dei lavatoi” (disegno
Ink-Link Firenze)
195
194
Graphic reconstruction of the escavations of the “pozzo dei
lavatoi” (washing well) (Ink- Link Firenze)
Vestiges of the history of Montelupo ceramics are
on display at the new Museum of Ceramics, a
building located in Vittorio Veneto square. It is an
exhibition space of 2.100 square metres indoor and of
400 square metres outdoor; it has got an entrance
hall, an open space like a wide glassed room on the
upper part of the square, with the front-office desk in
the centre; it has also got a cafeteria and a book-shop.
The permanent exhibition is set out on three levels.
Ground floor. The “washing well” room
The entrance to the galleries is on the right of the
front desk; following a short corridor, you can reach
Room 1, which introduces visitors to the collections.
The first gallery houses an evocative reconstruction of the so-called “wash-house well”, together with a central model of the well itself, where a
wide range of fragments from the excavation is
placed. They are representative samples of the typical decorations of early 16th century. There are also
items from firing tests and from manufacturing
rejects, painting exercises of apprentices, bills of the
workshops and other meaningful items that are typi-
THE MUSEUM OF CERAMICS
THE MUSEUM OF CERAMICS
IL MUSEO DELLA CERAMICA
IL MUSEO DELLA CERAMICA
Le testimonianze della storia della ceramica di
Montelupo sono esposte al pubblico presso il nuovo
Museo della Ceramica, un edificio collocato nella
piazza Vittorio Veneto, che presenta una superficie
coperta di 2.100 metri quadrati ed una scoperta di 400.
Esso si avvale di una hall d’ingresso, aperta come un
vasta aula vetrata sulla parte rialzata della piazza, che
ha al centro il bancone del front-office, ma anche una
caffetteria ed un book-shop. Il percorso espositivo si
articola su tre piani.
IL MUSEO DELLA CERAMICA
introdurre il visitatore ad una tematica centrale per la
comprensione della storia di Montelupo: il rapporto con
il capitale mercantile fiorentino e con il commercio
internazionale della ceramica prodotta in questo luogo.
A tal fine si mostra una ricostruzione del porto fluviale,
posto sull’Arno nei pressi della foce del torrente Pesa,
con le imbarcazioni (“navicelli”) cariche di maioliche
da trasportare nei porti tirrenici (prima Pisa e poi Livorno), i quali rappresentavano i terminali dei traffici fiorentini, e l’arrivo delle medesime negli scali marittimi,
ove le ceramiche venivano imbarcate sulle navi con le
quali sarebbero state diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo e lungo le rotte atlantiche. Una carta geografica in forma di portolano mostra infine i luoghi di ritrovamento – che giungono sino alle lontane Indie occidentali – dei prodotti fittili montelupini.
Il piano terreno. Il percorso espositivo delle sale 2-4.
Usciti dalla sala del “pozzo dei lavatoi”, si accede alla
numero 2, dalla quale inizia il percorso espositivo che
presenta, secondo un ordinamento cronologico e tipologico, le collezioni del Museo della Ceramica, formate
in stragrande maggioranza da reperti che provengono
dal recupero con metodo archeologico dei materiali presenti negli scarichi delle fornaci locali, rinvenuti all’interno del centro storico di Montelupo.
Nella sala 2 si concentrano quasi tutte le temati-
che fondamentali della produzione medievale di Montelupo, ad iniziare dai documenti più antichi, che consistono in “maioliche arcaiche”, decorate in verde e bruno
(“ramina e manganese”), databili dalla fine del Duecento
ai primi anni del Quattrocento. Si tratta in particolare di
contenitori per liquidi (acqua e vino) da collocare sulla
tavola, i quali rappresentano l’evoluzione medievale
delle oinochoai antiche, tanto da mantenere la forma
del bordo superiore a tre lobi, atta a favorire lo scorrimento del loro contenuto nei bicchieri, tipica di questo
genere di ceramiche da mensa.
Alle prime “maioliche arcaiche” seguono le testimonianze dell’evoluzione tecnologica e formale avviata
a partire dal sesto-ottavo decennio del Trecento con la
“maiolica arcaica blu” e con la “zaffera a rilievo”. Già
nella prima si nota una radicale evoluzione dell’impasto
argilloso con il quale vengono foggiate le ceramiche,
poiché esso si mostra bianco (e non più rosso) sin dalla
prima cottura (“bistugio”), facilitando così la successiva
operazione: pur se ricoperta da uno smalto relativamente povero di stagno, infatti, la superficie del corpo ceramico assumeva nella seconda cottura un aspetto candido e translucido, in grado di far risaltare perfettamente
le nuove decorazioni in blu. Questa evoluzione fu ottenuta dai ceramisti di Montelupo – anticipando di secoli
quella che sarebbe stata l’innovazione tecnologica della
terraglia – mediante con l’aggiunta di calce all’impasto.
Mentre la maiolica arcaica blu utilizza ancora
l’ossido di rame (“ramina”) per il pigmento, riuscendo a
farlo virare verso il blu grazie all’impiego di tecniche
particolari, la “zaffera” marca l’ingresso nella lavorazione della ceramica di materie prime d’importazione, in
questo caso dell’ossido di cobalto, come il suo stesso
nome, di evidente derivazione araba, dimostra. Con la
“zaffera”, che si caratterizza per una decorazione in rilievo sulla superficie smaltata, ottenuta mediante aggiunta
IL MUSEO DELLA CERAMICA
altri elementi significativi che caratterizzano gli scarichi
delle fornaci locali.
La parete sulla destra di chi entra mostra una
ricostruzione grafica dello scavo del pozzo, con gli scavatori che operano all’interno della struttura, mentre
all’esterno altre persone sono impegnate nel setacciare
con l’acqua la terra di risulta e nel primo trattamento
dei reperti; tra di essi si riconoscono due personaggi da
poco scomparsi: il noto archeologo Riccardo Francovich, al quale si deve l’impulso decisivo alla costruzione
del Museo della Ceramica, e Fabrizio Coli, che non soltanto fu uno dei primi scavatori del pozzo, ma ricoprì
per molti anni la carica di Presidente del Gruppo
Archeologico di Montelupo.
Sui restanti lati della sala si distende il percorso
ideale di quella storia che è scaturita dall’esplorazione di
questo fondamentale deposito archeologico. Esso consiste nella ricostruzione grafica del momento iniziale della
vicenda, l’edificazione del castello di Montelupo negli
anni 1204-06, dei quadri caratteristici del popolamento
nelle addizioni cresciute attorno a questo primo nucleo
abitato, e di ciò che venne a segnarlo in maniera precipua: la lavorazione della ceramica, con le botteghe e le
fornaci dei ceramisti (“orciolai”), colte negli anni attorno alla metà del Quattrocento, il periodo fondamentale
della loro evoluzione.
Un’altra sezione di questa racconto ideale vuole
Pianta del piano terreno del Museo
della ceramica
197
cal of the local furnaces.
The wall on the right of the entrance shows a
graphic reconstruction of the excavation of the well,
with the diggers working inside the structure and
more people outside, engaged either in sieving the
debris with water or in the first care of the finds.
Amongst them, it is possible to notice two people
who have recently died: the well-known archaeologist Riccardo Francovich, to whom we owe the crucial impulse for the building of the Museum of the
Ceramics, and Fabrizio Coli, who was not only one
of the first to start the excavation of the well, but he
also held the presidentship of Montelupo Archaeological Group for many years.
The other sides of the room display the ideal
course of that history which came out with the
exploration of such an important archaeological
deposit. It is the graphic reconstruction of the beginning of the historical event, the building of the castle
of Montelupo in 1203-06, of the tables characterising the settlements added around the earliest inhabited village and of what marked Montelupo impressively: the ceramics production, with its workshops
and the furnaces of the potters (“orciolai”), in the
second half of the 15th century, the Golden Age of
their development. A different section will introduce
the visitor to a fundamental thematic for the under-
standing of Montelupo history: the relation with the
Florentine merchant capital and with the international trade of the ceramics manufactured in this
place. In addition, a reconstruction of the river port
on the Arno, by the mouth of the torrent Pesa, is
shown: cargo boats (“navicelli”) loaded with majolicas to be carried to the Tyrrhenian ports (first Pisa
and then Livorno), which represented the Florentine
trade terminals; their arrival to the sea docks, where
the ceramics were shipped to the whole Mediterranean area and the Atlantic routes. Finally, a geographical map, portolan type, shows the places – up
to the West Indies – where Montelupo fictile manufactured items have been found.
Ground floor. Rooms 2-4
Once out of the “washing well” room, you enter
Room 2, the starting point of the exhibition of the
Museum of the Ceramics collections, according to a
chronological and typological order. They are mainly
archaeological finds coming from the wastegrounds
of the local furnaces, located in the historical centre
of Montelupo.
Almost all important thematics of Montelupo
medieval production converge in Room 2, starting
from the most ancient vestiges which consist of
“archaic majolicas”, decorated in green and brown
Ground floor map of the Ceramics
THE MUSEUM OF CERAMICS
THE MUSEUM OF CERAMICS
196
Museum
(copper oxide and manganese) datable from late 13th
century to early 15th century. They are containers
for liquids (water and wine) to be put on the table:
they represent the medieval development of the
ancient oinochoai, and they maintain the shape of
the upper rim with three lobes, particularly useful
when pouring the liquids into glasses and typical of
this kind of table pottery.
The earliest “archaic majolicas” are followed by
vestiges of the technological and formal evolution
started from the 1360s-1380s, with the “blue archaic
majolica” and with the “zaffera a rilievo” (bluish glass
relief decoration). In the earliest type, too, it is possible to notice a radical development of the clay
impasto with which ceramics are moulded: it appears
white (and not red any longer) right from the first
firing (“bistugio”), thus facilitating the following procedure: even if coated with tin-glaze, but relatively
poor in tin, the surface of the pottery item became
candid and translucent at the second firing, enabling
the new blue decoration to stand out against the
white background. Such an innovation was elaborated by Montelupo potters – anticipating in centuries
the technological innovation of the earthenware, with
the addition of lime to the impasto.
While the blue archaic majolica is still using
the copper oxide (“ramina”) as a pigment, turning it
into blue, thanks to special techniques, the “zaffera”,
whose name has a clear Arabic origin, begins being
used in the manufacturing of ceramics with imported raw materials, in that case the cobalt oxide, as its
name itself shows. With the “zaffera”, characterised
by a relief decoration on the tin-glazed surface,
obtained adding lead oxide to the cobalt pigment,
the manufacture of majolica in Montelupo and in
the Florentine area rises to a real significant
IL MUSEO DELLA CERAMICA
secolo, così come nella “zaffera”, in essa i ceramisti di
Montelupo sviluppano vari influssi e suggestioni derivanti dalle maioliche spagnole, specialmente di quelle
valenciane, diffuse dal grande centro di fabbrica di
Manises, attraverso la ripresa di elementi decorativi di
dettaglio (la foglia di prezzemolo, la foglia di vite etc.),
accoppiandoli però all’assimilazione di una sintassi
decorativa che replicava i canoni fondamentali della
cultura islamica, della quale i prodotti valenciani costituivano ormai soltanto un’eco lontana e derivata. È in
particolare nell’uso della linea di contorno che, nel
nucleo centrale della decorazione, separa i motivi decorativi “principali” da quelli accessori, di natura eminentemente grafica, che si percepisce il profondo rapporto
istaurato dai pittori di Montelupo, attraverso l’esempio
delle maioliche spagnole di tradizione araba, con la tradizione dell’Islam.
Al fine di chiarire ed esemplificare le problematiche fondamentali che si accompagnano alle vicende
della ceramica bassomedievale (1270 circa-1480), a conclusione del percorso espositivo della sala 2 il visitatore
incontra la ricostruzione, riportata ad un ambiente
monastico, di una tavola medievale. In essa si nota la
mancanza del piatto individuale, in quanto le funzioni
di contenitore proprie di questo manufatto venivano
allora demandate a semplici taglieri in legno, ai quali
faceva riferimento più di un commensale. La suppel-
lettile ceramica della mensa risulta così composta, da un
bacile da portata, che sta al centro della tavola per contenere la pietanza principale, da ciotole di diverse dimensioni (alcune di queste, più ampie, per minestre e pappe,
altre, più piccole, per i condimenti ed il sale) e, soprattutto, dai boccali per le bevande (acqua e vino), con i rinfrescatoi, grandi vassoi per tenere in fresco i bicchieri.
Nella sala 3 il visitatore può dunque constatare
come, già avvicinandosi alla metà del Quattrocento, le
botteghe montelupine abbiano iniziato a sviluppare i
canoni decorativi del passato, preparando gradualmente la transizione al Rinascimento. In essa si nota come la
maiolica arcaica decorata in verde e bruno abbia perso
la sua leadership all’interno della produzione locale:
attraverso un aggiornamento cromatico, che si realizza
mediante l’impiego di un terzo colore (per questo è definita “maiolica arcaica tricolore”), l’arancio od il giallo
(rispettivamente realizzati con l’antimoniato di piombo e l’ossido di ferro), le botteghe montelupine continuano a produrre bacili e vassoi di varia dimensione, destinandoli specialmente al consumo dei ceti tradizionali,
affezionati alle più antiche usanze della tavola. Questa
produzione giungerà sino ai primi lustri del XVI secolo,
improntando di sé non poca parte delle attività delle
fornaci di Montelupo.
Attorno alla metà del Quattrocento, però, assistiamo ad una prima, significativa evoluzione del quadro produttivo locale, la quale viene ad innovare la tradizione sinora attratta dall’orizzonte culturale hispanomoresco ed arabo. Nella decorazione su maiolica si
introducono infatti nuovi pigmenti, i quali fanno virare
il tono delle decorazioni verso quella che è stata definita
“tavolozza fredda”. Si tratta di un giallo citrino e di un
blu-verdastro, che si aggiungono in fasce ed elementi di
IL MUSEO DELLA CERAMICA
di ossido di piombo al pigmento di cobalto, la fabbricazione della maiolica a Montelupo e nell’area fiorentina
assurge ad un vero e proprio salto qualitativo. In questa
produzione che si colloca tra la fine del XIV e l’inizio del
XV secolo, infatti, si fa dominante l’impiego dell’impasto
ceramico biancastro, e si giunge alla completa smaltatura dei manufatti (precedentemente riservata alla sola
parte esterna), introducendo massicciamente nella pittura il blu di cobalto.
Con l’inizio del Quattrocento, come si può constatare nei materiali della sala 2, il pigmento blu, ottenuto
dall’idrossido di cobalto, viene ad assumere un ruolo
fondamentale nella decorazione su maiolica. Questi pittori ceramisti, eredi di una tradizione montelupina
ormai più che secolare, riuscivano infatti utilizzare con
grande maestria il cobalto in differenti diluizioni, distaccandosi già per questo dalle suggestioni iberiche. La
pittura su maiolica giunge così ad esiti tonali inusitati,
introducendo uno spessore ed una volumetria straordinaria nelle proprie realizzazioni, spesso anche di natura figurata, attraverso una monocromia sapientemente
estesa dai toni azzurrini a quelli blu, che il naturale
sgranarsi del colore nel processo di cottura rendeva
ancor più affascinanti.
È questa la produzione detta, sulla scorta del lessico utilizzato dai ceramisti coevi, “damaschina”. Fabbricata in grande quantità nel primo quarantennio del XV
La tavola medievale
(ricostruzione grafica di InkLink Firenze)
199
improvement. In this production, which can be
dated between the end of the 14th century and the
beginning of the following one, the employment of
the whitish ceramic impasto becomes dominant and
eventually it comes to a complete glazing of the
manufactured items (it was previously limited to the
outer part), introducing the cobalt blue massively in
the painting.
In early 15th century, as it is noticeable in the
materials of Room 2, the blue pigment, from the
cobalt hydroxide, becomes a main element in the
majolica decoration art. Those ceramist painters,
who had inherited the centuries-old tradition of
Montelupo, succeeded in using cobalt in different
dilutions with great craftsmanship, thus breaking
away from the Iberian style. As a result, the majolica
painting reaches unusual tone effects, introducing
extraordinary depth and volumetry in its works,
often of representational art, too, with the use of
monochrome, wisely extended from pale blue to
dark blue tones, so that the natural stretching of the
colour during the firing phase makes it even more
impressive.
That is the “damaschina” production, so called
according to the lexicon of the coeval potters. Manufactured in large quantities in the first forty years of
the 15th century, as it happened with the “zaffera”,
in the “damaschina”, too, the potters of Montelupo
developed several influences and ideas coming from
the Spanish majolicas, especially those from Valencia, widespread by the great production centre of
Manises. They drew some details of decorative elements on (the parsley leaf, the vine leaf, etc.) but
matching them with the assimilation of a decorative
syntax that used to refer to the fundamental canons
of the Islamic culture, of which, the Valencia products were by then only a far away echo.
The deep connection between Montelupo
painters and the Islamic tradition, through the
example of the Spanish majolicas of Arab tradition,
can be especially noticed in the use of the outer line
which, in the core of the motifs, divides the “main”
decorative elements from the additional ones, mostly of graphic type.
In order to explain and clarify the fundamental questions which go along with the history of the
Late Middle Ages ceramics (ab.1270-1480), at the
end of the exhibition in Room 2, the visitor finds the
reconstruction of a medieval table in a monastic
environment. On it, there is no individual plate,
because its purpose as a container was performed by
ordinary wooden taglieri (boards), from which more
than one person could eat. The ceramic tableware
therefore includes a bacile da portata (platter), in the
The medieval table (graphic
THE MUSEUM OF CERAMICS
THE MUSEUM OF CERAMICS
198
reconstruction by Ink-Link
Firenze)
middle of the table with the main course, multi-sized
ciotole (bowls) (some larger, for soups, some smaller
for salt and gravy) and, above all, boccali (jugs) for
drinks (water and wine), together with the rinfrescatoi (coolers), large trays to keep the glasses cool.
In Room 3, the visitor can see how, when
approaching mid-15 th century, Montelupo workshops started to develop the past decorative canons,
gradually preparing the transition towards the
Renaissance. The archaic majolica decorated in
green and brown lost its leadership within the local
production: through a chromatic update, made with
the addition of a third colour (that is why it is called
“majolica arcaica tricolore”) (“archaic three-coloured
majolica”), usually orange or yellow (respectively
obtained with lead antimoniate and iron oxide),
Montelupo workshops keep on manufacturing plat-
ters and trays in different sizes, mainly used by traditional classes, devoted to the oldest table habits.
Such a production will continue up to the earliest
decades of the 16th century, leaving its own mark in
the activities of Montelupo workshops.
Around 1450, however, there is a first, meaningful evolution of the local production situation,
which starts to innovate that tradition which had
previously been attracted by the Spanish-Moorish
and Arab cultures. In the decoration of majolicas,
new pigments are introduced: they turn the tones of
the decorations towards what has been defined as
“cold palette”. It is the addition of a yellow citrine
and a blue-greenish colour in bands and edging elements of the motifs, which eventually turn into a
special chromatic feature, sometimes similar to crepuscular shade. Room 3 is then dedicated to this
IL MUSEO DELLA CERAMICA
peggiano al centro delle forme aperte e sulla parte a
vista dei boccali; esse sono separate da una linea ben
distanziata – e non più mediante una sottolineatura di
contorno – dagli elementi accessori, che pertanto assumono una funzione schiettamente decorativa. In ordine
alle differenze di questi ultimi, si stabiliscono così delle
vere e proprie “linee” o tipologie formali, che accompagnano, variando l’aspetto del prodotto, le figurazioni
principali.
La razionalizzazione dell’attività pittorica in tal
modo ottenuta contribuisce altresì ad affermare in
maniera decisiva la tradizione montelupina, facilitando
la trasmissione dei canoni decorativi nelle botteghe, e
contribuendo di conseguenza al riconoscimento sui
mercati del prodotto locale.
IL PIANO PRIMO. L’ESPOSIZIONE NELLE SALE 5-8 E NELLE
9-12 DEL CORRIDOIO
Raggiunto il piano superiore, il visitatore può introdursi nella sala 5, dalla quale inizia il percorso rinascimentale della maiolica di Montelupo. Qui sono collocati gli
ultimi documenti relativi alla transizione verso l’Età
moderna, che si collocano tra gli anni Ottanta e gli anni
Novanta del XV secolo e ruotano attorno agli ultimi
esempi delle maioliche spagnole oggetto di imitazione
da parte dei vasai montelupini. Si tratta dell’imitazione
del lustro metallico: un genere decorativo nel quale,
accoppiandosi a modesti inserti di blu, l’impiego di un
pigmento arancio dalle particolari tonalità fulve avvicina
queste maioliche a quelle spagnole prodotte nell’area
valenciana, riuscendo ad imitare il cromatismo dorato
che le contraddistingue.
Alla diretta imitazione della tipologia a lustro
seguono quelle che si riferiscono ad altri generi ispanici.
allora in gran voga e provenienti dalle fornaci di Manises, come la foglia di prezzemolo, uno dei prodotti “di
punta” delle botteghe montelupine in attività nell’ultimo
ventennio del XV secolo, e l’altro grande filone dei motivi naturalistici valenciani, la foglia di vite, qui realizzata
nel cromatismo arancio-blu, sempre mimetico del clas-
sico accoppiamento tra cobalto e “dorato” a lustro
metallico.
Al fine di rendere palese il radicale modificarsi
delle forme ceramiche, dovuta soprattutto al diffondersi di un diverso modo di stare alla mensa, ed all’introduzione, avvenuta poco dopo il 1480, del piatto individuale, è stata qui allestita la ricostruzione di una tavola rinascimentale, con le suppellettili che la caratterizzavano.
In questa produzione che si pone tra 1480 e1490
– il decennio che condurrà la pittura italiana su maiolica ad esiti schiettamente rinascimentali – si collocano
anche i primi manufatti con ingobbio realizzati in Montelupo. L’uso dell’ingobbio, una pellicola di argilla particolarmente sottile, atta a velare, rendendolo biancastro,
il corpo ceramico realizzato con argilla ferrosa – rossastro alla cottura – non si nota in Toscana prima degli
anni 1440-50, e si diffonde in maniera sensibile solo
SEZIONI
Pianta del piano
La tavola rinascimentale
primo del Museo della
(ricostruzione grafica di
Ceramica
Ink-Link Firenze)
IL MUSEO DELLA CERAMICA
contorno alla decorazione, sino a farle assumere una
particolare fisionomia cromatica, che talvolta sembra
quasi approdare a toni crepuscolari. A questo periodo di
transizione è dunque dedicata la sala n. 3.
Nella sala 4, che in pratica viene a completare
l’esposizione delle maioliche medievali, incontriamo
una nuova, fondamentale evoluzione della maiolica di
Montelupo verso il Rinascimento, giocata stavolta sotto
il segno della policromia, poiché ad iniziare dalla metà
circa degli anni Settanta del Quattrocento la maturazione tecnologica delle attività ceramistiche locali può
dirsi completa. È in questo periodo, infatti, che la tavolozza cromatica dei pittori si arricchisce definitivamente di toni caldi, con un giallo-carico ed un luminoso
arancio-ferraccia, talvolta impiegati, assieme al blu
cobalto, al bruno di manganese ed al verde di rame,
nella decorazione di uno stesso manufatto. In questo
periodo, inoltre, i vasai montelupini abbandonano definitivamente il canovaccio formale assimilato già nel
secolo precedente attraverso l’imitazione dei prototipi
spagnoli, ed approdano ad una nuova sintassi, fondata
su una razionale gerarchia degli elementi decorativi.
Adesso, infatti, le parti principali (figure, stemmi) cam-
201
First floor map of the
The renaissance table
Ceramics Museum
(graphic reconstuction by
THE MUSEUM OF CERAMICS
THE MUSEUM OF CERAMICS
200
Ink-Link Firenze)
transitional period.
In Room 4, which is the last part of medieval
majolica exhibits, we meet a new and important
development of Montelupo majolica in the Renaissance, characterised by polychromy, because the
technological maturation of the local ceramics activities can be considered complete in the mid-70s of
the 15th century. It is in fact in this period that the
chromatic palette is enriched by warm tones, with a
full yellow and a shining gold iron-orange, sometimes used together with the cobalt blue, the manganese brown and the copper green in the decoration of a single manufactured item. Moreover, in the
same period of time, Montelupo potters definitely
abandon the formal outline they had absorbed in the
previous century by imitating the Spanish prototypes, and they come to a new syntax, based on a
rational hierarchy of the decorative elements. Now,
in fact, the main parts (figures, coats of arms) stand
out in the centre of the open forms and in the front
part of the jugs; unlike being divided by an underlining of the outer lines as it happened before, they are
now split by a line, well apart from the additional
elements, which consequently become purely decorative. So, proper “lines” or formal types are established and they will accompany the main patterns,
varying the aspect of the product. The rationalization of the pictorial activity contributes also to
establish Montelupo tradition very strongly, helping
the spreading of the decorative canons throughout
the workshops and, consequently, contributing to
the appreciation of the local manufactures on the
markets.
THE FIRST LEVEL. THE EXHIBITION IN ROOMS 5-8 AND
IN SECTIONS 9-12 OF THE CORRIDOR.
Once on the upper floor, the visitor can enter Room
5, starting point of the collection of Montelupo
ceramics during the Renaissance. Room 5 covers the
transitional period towards the Modern Age,
between the 1480s and the 1490s. It houses the last
examples of the Spanish majolica, often imitated by
Montelupo potters, with the technique of the imitation of the lustro metallico (metal gloss): a decorative
style which matches modest blue inserts with the
employment of an orange pigment with a special
tawny shade. Such a peculiar combination draws
these majolica closer to the Spanish ones manufactured in Valencia area, succeeding in imitating the
typical golden chromatism.
The direct imitation of the a lustro-type is followed by more styles related to other Spanish
motifs, very fashionable at that time, and all coming
from the furnaces of Manises. For example, like the
parsley leaf, one of the “leading” products of Montelupo workshops in the last twenty years of the 15th
century, or the other great trend of Valencia nature
motifs, like the vine leaf, here made using the chromatism orange-blue, always imitated from the classic, matching cobalt and “golden” metal gloss.
In order to clearly describe the radical change
of the ceramic forms, we have displayed the reconstruction of a Renaissance table, with its proper
tableware. Such a change was the consequence of
not only a different way of sitting at the table that
was spreading quickly, but also of the introduction
of the individual plate, which dates back to 1480. It’s
in this production, from 1480 and 1490 – the decade
that will lead the Italian painting on majolica to pure
Renaissance outcomes, that also the earliest manufactured items with engobe made in Montelupo are
included. The use of the engobe, a very thin clay
film, able to hide the ceramic body processed with
ferrous clay – reddish when fired – thus making it
whitish, is not to be found in Tuscany before the
decade 1440-50 and it is widespread only around
1470. Often decorated with lines incised on the
engobe film, thus revealing the colour of the bistugio
underneath and depicting the figures made, such a
production of ingobbiata and graffita policroma
IL MUSEO DELLA CERAMICA
a ghirlanda o ad embricazione, gli ovali.
La grande stagione rinascimentale si apre infine
nelle ultime sale del piano primo con la decorazione a
grottesche, qui rappresentata da vari documenti, ed in
particolare dal vassoio d’acquareccia detto il rosso di
Montelupo per l’impiego esteso ed inusuale di un pigmento rosso sanguigno in rilievo, uno dei capolavori
della maiolica rinascimentale italiana (già collezione
De Rotschild), datato “1509” e firmato “Lo”, la marca
della bottega montelupina di Lorenzo di Piero Sartori.
Alla medesima fornace si debbono poi i migliori
esemplari di decorazione alla porcellana e ad intrecci,
con i quali prosegue al piano primo l’esposizione rinascimentale, che termina idealmente con un’ampia esemplificazione della tipologia detta blu graffito, per l’uso di
un’ampia fascia di contorno campita di cobalto, spesso
utilizzata per cerchiare uno spazio destinato a grandi
figure o a motivi araldici e simbolici.
IL PIANO SECONDO. L’ESPOSIZIONE NELLE SALE
13-19
Al piano secondo sono riunite le collezioni tardo-rinascimentali e moderne del Museo (1530-1790 circa), provenienti da diversi contesti di scavo. Ad iniziare dal quarto
decennio del Cinquecento la produzione ceramica di
Montelupo, non diversamente da quanto accade in molti
centri di fabbrica italiani, mostra i segni incipienti di
E NELLE SEZIONI
difficoltà, che finiranno per sfociare poi nel secolo
seguente in una vera e propria crisi produttiva.
All’inizio sembra trattarsi di una sorta di appagamento creativo, sul quale pesa l’iterazione dei motivi
rinascimentali locali, divenuti ormai canonici: il ricorso
quasi meccanico ad un canone standardizzato, non
manca però di introdurre una progressiva perdita di
freschezza nel lavoro dei pittori, che l’impiego di pigmenti più economici viene oltretutto ad accentuare.
A questa estenuazione dei motivi rinascimentali
si unisce quella diffusione dei decori accreditati in
altri centri di fabbrica italiani, quali Faenza, Casteldurante, Venezia ed Albisola-Savona, che annuncia
ormai la conquista di un vero e maturo “linguaggio
nazionale” nella decorazione su ceramica. È questa la
stagione del cosiddetto “compendiario”, che Montelupo interpreta attraverso tipologie che ebbero un grande successo commerciale, come il compendiario a
paesi, singolare traduzione nel lessico locale dei motivi
tratti dal repertorio delle più importanti botteghe
veneziane, in grado di fornire a sua volta lo spunto per
le note maioliche (soprattutto piastrelle) con inserti di
paesaggio del centro olandese di Delft.
Nelle sale del piano secondo sono poi riuniti i
primi esemplari istoriati di Montelupo e la nuova produzione ad ingobbio, assai più numerosa e variegata di
quella rinascimentale, così come le numerose varianti
delle decorazioni naturalistiche a foglie e frutta, che costituiscono uno dei filoni più importanti dell’attività delle
botteghe locali del tardo Cinquecento.
Con l’inizio del XVII secolo i vasai montelupini,
pur avvertendo ormai i segni di una crisi che diverrà
profonda verso il 1640, riescono a tradurre in un linguaggio nuovo i canoni dell’antico istoriato, trasformandolo in una pittura che, invece di replicare scene figurate tratte dalle stampe, si volge alla rappresentazione
della realtà contemporanea con un’attitudine fresca e
dinamica, in grado di assicurare a questi prodotti uno
straordinario successo. Note nel gergo antiquario come
arlecchini, queste maioliche – nella stragrande maggioranza piatti e scodelle – rappresentano in realtà l’ultima
produzione figurata di Montelupo, e si può dire che trovino riscontro ed esempi significativi, a dimostrazione
della loro diffusione, in quasi tutte le collezioni, pubbliche e private, dedicate all’antica ceramica italiana.
Le ultime sale del piano secondo sono dedicate
Pianta del piano
secondo del Museo
della Ceramica
203
202
(engobe and polichrome graffito) is not very popular
in Montelupo, representing less than 1% of the
whole activity of the local furnaces. Moreover,
because of its forms and motifs, it can be closely
related to similar products from other Tuscan production centres (Siena, Asciano, Castelfiorentino)
and so it might conceal the touch of those potters
who were used to go from a production centre to
another, introducing their own know-how in the
local production. In fact, beside exact references to
those centres of Tuscany, it is possible to notice also
a vein typical of Emilia-Romagna style in Montelupo
graffita, with particular evident influences in some
examples of representational images.
In the following Rooms, the visitor will see a
wealth of examples of that important phase of formal research when Montelupo potters developed a
wide range of decorative patterns, the most concentrated collection of local motifs of early 15th century. It was the starting point of the ultimate development of those motifs the antiquarians have classified
with by now conventional names, like the occhio
della penna di pavone (peacock feather eye), the palmetta persiana (small Persian palm), the nastri
intrecciati (interlaced ribbons design), the ghirlanda
or embricazione (wreath or overlapped motifs), the
ovali (ovals).
Finally, the great Renaissance period is covered in the last rooms at the first level, with the decoration a grottesche ( grotesque art style), represented here by many items, and in particular by the ewer
basin, il rosso di Montelupo, so called because of the
employment of an unusual blood-red pigment in
relief motifs. It is one of the masterpieces of the Italian Renaissance majolica (former Rotschild collection) dated “1509” and signed “Lo”, the brand of
Montelupo workshop of Lorenzo di Piero Sartori.
The same furnace also produced some of the
best examples of decoration alla porcellana (porcelain-style) and ad intrecci (interlaced motifs), displayed in the Renaissance collection on the first
floor, that ideally ends with a wide exhibition of the
blu graffito type (blue-incised), so called because of a
wide outline band painted in the background with
cobalt, often used to circle a space for large figures
or for symbolic and heraldic motifs.
THE SECOND LEVEL. THE EXHIBITION IN ROOMS AND
SECTIONS 13-19
The late Renaissance and modern collections of the
Museum, coming from several excavations, fill the
second floor. Starting from the 1540s, as it happened
for many other Italian production centres, also Montelupo ceramics manufacture shows some signs of
IN
Second floor map of
the “Museo della
Ceramica”
incipient decline that will result in a serious production crisis in the following century. At the beginning
it seems only a kind of creative satisfaction, even
more stressed by the iteration of local renaissance
motifs, which had by then become ordinary: the
almost mechanic repetition of that standardised
canon brought about a progressive loss in the creative impulse of the painters, emphasised also by the
use of cheaper pigments.
To such a weariness of renaissance motifs other
factors might be added: for example, the widespread
of that decorative style supported by other Italian
production centres, too, like Faenza, Casteldurante,
Venice and Albisola-Savona, which shows the conquest of a real mature “national language” in the
ceramics decoration. Those were the days of the socalled “compendiary” (outline) that Montelupo interprets realising very successful typologies, such as the
compendiary a paesi, unique translation into local
lexicon of the motifs taken from the collection of the
most important Venetian workshops. Such a compendiary was able to inspire the well-known majolica
(above all tiles) with inserts of views of the Dutch
centre of Delft.
The Rooms of the second floor contain the
earliest Montelupo istoriati examples (decorated
with figures) and the new production ad engobbio,
more varied and prolific than the renaissance one, as
well as the many variations of the decorazioni naturalistiche a foglie e frutta (decorations with nature
motifs of leaves and fruit), which are one of the most
important production in the activity of the local
workshops in late 16th century.
In early 17th century, although the signs of a
crisis which will get more and more serious around
1640 are manifest, Montelupo potters are able to
give a new interpretation to the canons of the old
istoriato. Instead of repeating scenes with figures
from the engravings, they started to look at their
contemporary reality with a fresh and dynamic attitude, guaranteeing a stunning success to their products. Known as arlecchini in the antiques jargon,
these majolica - mostly plates and bowls – actually
represent the last production with figures of Montelupo. They reached a large diffusion and it must be
said that almost all private and public collections of
THE MUSEUM OF CERAMICS
THE MUSEUM OF CERAMICS
IL MUSEO DELLA CERAMICA
attorno al 1470. Quasi sempre decorata mediante linee
che incidono la pellicola d’ingobbio, scoprendo il colore
del bistugio sottostante, e dipingendo le figure realizzate, questa produzione di ingobbiata e graffita policroma
risulta assai minoritaria in Montelupo, rappresentando
meno dell’1% dell’attività delle fornaci locali; per forme
e decorazioni, inoltre, essa richiama palesemente a prodotti consimili, di altri centri di fabbrica toscani (Siena,
Asciano, Castelfiorentino), e potrebbe perciò celare la
mano di quei vasai che frequentemente trascorrevano
da un luogo di produzione all’altro, apportando il proprio contributo tecnologico alla produzione locale. Oltre
a precisi riferimenti a questi centri della Toscana, infatti, si nota nella graffita montelupina di questo periodo
anche un filone emiliano-romagnolo, con influenze che
si fanno particolarmente evidenti in alcuni esemplari
figurati.
Nelle sale successive il visitatore del Museo incontrerà una vasta esemplificazione di quella fondamentale
fase di ricerca formale nel corso della quale i vasai di
Montelupo elaborarono, sviluppando un’ampia serie di
motivi, il più ristretto campionario delle decorazioni
locali dell’inizio del Cinquecento. Da questa sperimentazione si svilupperanno così definitivamente quei decori
ai quali la classificazione antiquaria ha assegnato nomi
resi ormai convenzionali, come l’occhio della penna di
pavone, la palmetta persiana, i nastri intrecciati, il motivo
IL MUSEO DELLA CERAMICA
alla produzione settecentesca, la fase finale
dell’attività preindustriale montelupina che si
rivolge ancora alla fabbricazione della maiolica. Nei documenti esposti, pur relativi ad un
momento ormai critico e di aperta decadenza,
emergono ancora importanti tentativi di rinnovamento formale, con echi della pittura in
bianco e blu diffusa dai centri ceramici francesi, e con maioliche monocrome, derivate dal
compendiario secicentesco, le cui forme sono
spinte a dimensioni usuali (sino a oltre 50 cm
di diametro).
La bottega dello speziale nel XVII secolo (ricostruzione
grafica di Ink-Link Firenze)
THE MUSEUM OF CERAMICS
204
Chemist’s shop in the XVII century (graphic
reconstruction by Ink-Link Firenze)
antique Italian ceramics treasure some significant examples.
The last Rooms of the second floor
are devoted to the 18th century production,
the final phase of the pre-industrial activity
of Montelupo, that is still involved in the
manufacture of majolica. The displayed
pieces, although being related to a critical
period of full decline, still show important
attempts of formal renovation, with surviving influences of the blue and white painting, spread out by the French ceramics
centres, as well as with influences of
derived monochrome majolicas, whose
forms, as shown in the 17th century compendiary, are in usual sizes (with a diameter of cm 50 and more).
PARTE QUINTA
Tipologie della produzione ceramica di Montelupo
PART FIVE
Types of ceramic production in Montelupo
1. MAIOLICA ARCAICA
1b
MAIOLICA ARCAICA
1a
1a. Maiolica arcaica, Boccale con decorazione vegetale, Fine XIII secolo,h cm. 18
1b. Maiolica arcaica, Piccolo bacile con decorazione vegetale, Fine XIII secolo, Ø cm. 21,5
1c. Archaic Majolica, Jug with plant-like decor, End XIII°cent., h cm. 17,0
1d. Maiolica arcaica, Boccale con decoro vegetale. 1320-40, h cm. 24,5
1e. Archaic Majolica, Jug with Arpia (mythological figure), 1320-40, h cm. 25,0
MAIOLICA ARCAICA DELLA PRIMA FASE
(dalle origini al 1360 circa)
MAIOLICA ARCAICA EVOLUTA (dal 1360 al 1420 circa)
MAIOLICA ARCAICA TARDA (dal 1420 al 1480 circa)
Le numerose indagini archeologiche condotte in
Montelupo non sono riuscite a fornire sino ad oggi un
209
208
1. ARCHAIC MAJOLICA
1a. Archaic Majolica, Jug with plant-like decor, End XIII°cent., h cm. 18
1b. Archaic Majolica, Small basin with plant-like decor, End XIII°cent., Ø cm. 21,5
1c. Maiolica arcaica, Boccale con decoro vegetale, Fine XIII secolo, h cm. 17,0
1d. Archaic Majolica, Jug with plant-like decor, 1320-40, h cm. 24,5
1e. Maiolica arcaica, Boccale con figura di arpia. 1320-40, h cm. 25,0
1c
1d
1e
With the term “Archaic Majolica” we are not
only indicating a pictorial genre characterised by the
archaic design, but also the first lustered majolica
produced in large quantities which are characterised
by decoration in ramina and manganese.
This type of majolica has had a long life and
has been proven with archaeological research over
the last twenty years. It’s fabrication, which started
approximately in the second half of the 13th century,
continued throughout almost the entire 15th century
when “Archaic majolica”, losing its exclusivity, found
itself amongst other important lustered products (zaffera blue, triple colour zaffera blue and damaschino).
As in all genres characterised by longevity, even
“Archaic Majolica” discovers important refinements
in its technology, which will bring it to a formal standardisation. This process is determined thanks to the
progressive marginalisation, which characterises its
presence in the Montelupo ovens since the beginning
of the 15th century. It ends up trivialising the majolica
because of the continuous replication of the decorative sections of the models. This phenomenon can be
better understood if we describe the big phases of its
evolution. For the “Archaic Majolica” we can find an
initial period called of the first phase that goes from
the beginning of its production until 1360 ca. when
the typology loses it’s uniqueness due to the fabrication of other lustered genres including the blue
archaic majolica.
Starting from this moment until 1420 ca. we
can speak about its evolutionary phase. With this
term we underline the period of the first technological modifications and formal standardisation. From
1420 until the end of the 15th century we have the late
archaic majolica period which indicates the marginalised production and its actual decorative weakness.
To summarise, the Montelupo materials can be
classified in the following phases:
THE FIRST PHASE OF ARCHAIC MAJOLICA
(from the origins until 1360)
EVOLUTED ARCHAIC MAJOLICA (from 1360-1420)
LATE ARCHAIC MAJOLICA (from 1420-1480)
The archaeological research in Montelupo was
not able to give a clear picture of the local production
in the earlier phases. Included in this phase are both
the beginnings of local production in lustre as well as
its consistent development in the 14th century.
This vacuum that prohibits us from understanding the phenomenon, cannot be considered an
anomaly and it cannot leave us any doubts of the
ARCHAIC MAJOLICA
ARCHAIC MAJOLICA
MAIOLICA ARCAICA
Con il termine di “maiolica arcaica”, lungi dal
voler indicare un genere pittorico, contraddistinto,
appunto, dall’arcaicità della raffigurazione, si intende la
prima ceramica smaltata prodotta in larga serie, con
una decorazione eseguita in ramina e manganese.
Questa tipologia ha una vita assai lunga, ben evidenziata dalle ricerche archeologiche dell’ultimo ventennio: la sua fabbricazione, avviata almeno nella
seconda metà del Duecento, si protrae infatti sino a
buona parte del XV secolo, periodo in cui la maiolica
arcaica, perdendo la sua esclusività, si trova a convivere con altri prodotti smaltati “di punta” (zaffera, zaffera
tricolore, “damaschino”). Come tutti i generi caratterizzati da particolare longevità, anche sulla maiolica arcaica un importante affinamento di natura tecnologica
accompagna poi la sua standardizzazione formale. Tale
processo, determinato dalla progressiva marginalizzazione che ne caratterizza la presenza nelle fornaci montelupine sin dall’inizio del Quattrocento, finisce per
banalizzarne, a causa della continua replica di schemi
non più oggetto di rinnovamento, il repertorio decorativo. Questo fenomeno può essere seguito con maggiore
aderenza alla realtà qualora se ne traccino le grandi
fasi evolutive.
Per la maiolica arcaica si può individuare così un
periodo iniziale, che definiremo della prima fase, il
quale si estende dalla data di avvio della sua produzione
sino al 1360 circa, momento in cui la tipologia perde la
sua unicità a causa della fabbricazione di altri generi
smaltati, ed è affiancata dalla maiolica arcaica blu.
A partire da questo intorno cronologico e sino agli
anni Venti del XV secolo si può così parlare di evoluta,
per sottolineare con questo termine il periodo delle
prime modificazioni tecnologiche e della prima fase di
standardizzazione formale che riguarda la maiolica
arcaica. Dal 1420 circa sino alla fine della sua esistenza
come tipologia codificata (la fine del XV secolo almeno), è infine giustificata la definizione di maiolica arcaica tarda, per indicare la fase di effettiva marginalizzazione produttiva del genere e la sua effettiva estenuazione decorativa.
Riassumendo, la nostra griglia di classificazione dei
materiali montelupini si articola pertanto nelle seguenti fasi:
LA MAIOLICA ARCAICA
mura castellane, oltre, beninteso, alle fasi di vissuto del
cassero del castello (l’area meno coinvolta dall’intenso
sviluppo urbano quattrocentesco), ove, però, la maiolica arcaica non è stata rinvenuta ancora in giaciture
dalle caratteristiche tipiche dello scarico di fornace
(presenza di bistugio, scarti di seconda cottura, etc.).
Una conferma del legame tra l’integrità degli scarichi
di fornace e l’assenza della crescita edilizia è rappresentata dai ritrovamenti del “pozzo dei lavatoi”, i quali
hanno restituito reperti in maiolica arcaica provenienti
dalle fornaci locali in un contesto d’uso del pozzo
medesimo, con scarti di lavorazione utilizzati come
contenitori per l’acqua nella fase che precede la dismissione della struttura.
La trasformazione dell’area urbana, che risulta trovarsi in piena espansione già nella prima metà del XV
secolo, in evidente connessione con la “terza fase” –
quella dello sviluppo internazionale delle attività ceramistiche locali, dopo l’avvio ed il consolidarsi delle produzioni nel corso del Trecento – deve aver quindi determinato una forte alterazione degli originari depositi
archeologici, all’interno dei quali si trovavano i primi
accumuli di scarto delle lavorazioni risalenti alle fasi
più antiche della maiolica arcaica. In tal modo può
spiegarsi la ragione per cui una gran parte delle restituzioni trecentesche siano legate ad uno stato di giacitura
secondaria all’interno di unità stratigrafiche apparte-
nenti ad epoche successive e, talora, addirittura più
recenti di alcuni secoli.
La maiolica arcaica della prima fase
(dalle origini al 1360 circa)
Le restituzioni più antiche in maiolica arcaica sono
venute in luce a Montelupo in relazione ad un complesso di strutture affioranti alla confluenza del torrente Pesa nel fiume Arno, e già appartenenti al mulino
della comunità ed all’annesso porto fluviale, in località
detta Puntazza, in zona, cioè, del tutto esterna rispetto
all’abitato (Castello e Borgo) della cittadina valdarnese.
Le pessime condizioni di giacitura di queste ceramiche smaltate, periodicamente sommerse dall’acqua del
fiume, hanno imposto una particolare cautela nell’attribuirle a scarico di fornace: la perdita di parte della
coperta stannifera, causata dal continuo alternarsi di
periodi di umidità e di asciugamento, avrebbe infatti
ben potuto causare ai reperti modificazioni tali da renderli simili agli scarti di lavorazione. La presenza, tuttavia, di frammenti privi di rivestimento sia interno (l’impermeabilizzazione a vetrina piombica, una volta fissata dalla seconda cottura, si rivela tenacissima, tanto da
non distaccarsi mai completamente), che esterno, unita
a macroscopici difetti di lavorazione, definisce però
senza alcun dubbio le maioliche arcaiche di Puntazza
come componenti di uno scarico di fornace, qui evi-
dentemente utilizzato per la colmatura di piani pavimentali.
In questa fase più antica, databile agli anni 12801320 circa, si nota immediatamente la grande importanza assunta dalle forme chiuse, per la restituzione di
gran lunga maggioritaria di boccali, in specie del tipo
con corpo ovoidale su alto piede svasato. Questa particolarità è del resto segnalata anche in altri centri di
produzione della Toscana e, probabilmente, era tipica
delle più antiche lavorazioni smaltate dell’Italia centro-settentrionale. Il predominio del boccale su piede
rialzato non è tuttavia assoluto, visto che dal medesimo
contesto provengono altre morfologie cupe, tra le quali
anche una ad appoggio ribassato, che, del resto, diverrà
predominante, previo un maggior snellimento del
corpo, nelle restituzioni riferibili alla seconda metà del
XIV secolo, nonché una forma di boccale intermedio,
evidente variante della prima.
Aspetto caratteristico di questa produzione più antica è anche la presenza di sole anse a sezione cilindrica,
del tipo “a bastoncello”, un buon numero delle quali
risulta composto anche da due di questi elementi
affiancati, ed è palesemente impiegato nella realizzazione delle prese pertinenti alle forme di maggiori dimensioni. Tutte le anse rinvenute integre della piegatura
superiore presentano in questo punto un foro praticato
a crudo, che era destinato – come si documenta in
211
210
chronology and the consistency of the initial
moments of majolica production. In fact, there is
existing documentation.
The numerous furnaces in the same urban
area, has hindered the discovery of enough relic kiln
disposals which could thus be referred to the long
period between the origins of the Montelupo Castle
(1203-1206) and the years around 1450 when the
town had reached the dimensions of a “Walled Village”. It could be considered to be entirely developed
and complete in its constructive transformation. In
fact the finding of the oldest archaic majolica is
linked to digs on the outside of the castle’s walls up
to the higher grounds of the occupied castle (the area
which was less involved in the intense urban development of the 15th century). The majolica, however,
were not found in the higher elevations that had typical characteristics of kiln remains (residue of a
second baking etc.) A confirmation of the link
between the reliability of the remains and the absence
of constructive growth is represented by the findings
of the “Washhouse well” which gave us archaic
majolica artefacts from the local ovens using the well.
There were also remains of the devises that were used
as containers of water in the preceding termination
phase of the structure.
The transformation of the urban area, which
was in full expansion during the 1st half of the 15th
century, is linked with the third phase (the one of the
international development of local ceramic activities
after the consolidation of the 14th century production). It has determined a strong change of the original archaeological deposits, the insides of which the
first residues of remains from the first majolica production were found. In this way we can understand
why most of the findings can be connected to a secondary state of elevation in the stratospheric units
belonging to later eras.
The first phase of archaic majolica
(from its origin until 1360)
The oldest forms of archaic majolica were found in
Montelupo thanks to complex structures in the
flowing of the Pesa River into the Arno River.
Belonging to the community’s mill and it’s river port
in an area called Puntazza, this zone is completely isolated from the populated area (Castello and Borgo).
The terrible conditions of these lustered
ceramics, periodically submerged by river water,
caused concern in attributing its kiln remains. The
loss of part of the glaze that formed on the outer layer
of the majolica which was caused by the continuous
alternation of periods of humidity and dryness, in
fact changed the artefacts and made them become
similar to production remains. The presence of non
finished fragments are found both on the inside (the
water proofing of leaded windows, after the second
baking, proves to be very resistant so that it never
completely detaches) and on the outside. This added
to macroscopical production faults, defines without a
doubt the archaic majolica of Puntazza as components of kiln remains and was clearly used to fill
pavement.
In this first phase, dateable from 1280-1320, we
can immediately notice the importance of closed
models because the findings include mostly jugs,
especially the type with an oval body on a tall-disfigured base. This particularity is found also in other
production centres in Tuscany and it was typical of
the oldest lustered productions of north central Italy.
The predominance of the jug on a tall base, however,
was not total since there were other typologies
coming from the same context. One example is a jug
with a lower base and a thinner body that would
become predominate in the findings of the second
half of the 14th century as well as a jug with a intermediate shape between the other two.
A typical aspect of the first production is the
presence of curves with a cylindrical section, called a
“little twig”. A large number of this type is composed
of two of these elements next to each other and is
clearly used for gripping bigger dimensions. All the
curves that remained integral have a small hole on
the top which was destined (as documented by various artefacts in Montelupo and other parts of Tuscany) to lodge a lead seal.
The mixture, always made with iron based clay,
is always well purified while the finished product
from the wheel is characterised by accentuated
grooves visible from the inside of the closed models
and sometimes perceptible in the open ones. The
thickness of the objects is not usually significant. The
vase products, however, are a lot thicker going from
the 4mm of the bowls in the archaeological deposit of
Puntazza to the 8mm of the washbasins.
The waterproofing of the surfaces is always a
mixture of glass and lustre and is typical of the first
phase and the evoluted phase. The glass like substance made of lead covers the inside of the base with
closed models while the insides with open models
that are not always glass like since normally it is
preferable to keep this part without finishing. The
polishing obtained, thanks to the emerging of the
jugs upside down and the pouring of the polish on the
inside of bowls and washbasins, is quite poor and
characterised by minimum thickness that is barely
enough to cover the ceramic object.
The attaching of the triple layer mouths show
ARCHAIC MAJOLICA
ARCHAIC MAJOLICA
MAIOLICA ARCAICA
quadro sufficientemente articolato, quanto ad esemplari ricostruibili nella loro tipologia, delle fasi più
antiche della locale produzione in maiolica arcaica,
intendendo comprendere in questa prima partizione
cronologica – estesa, con ogni probabilità, per poco
meno di un secolo – sia gli esordi della lavorazione fittile locale con smalto, sia i suoi più consistenti sviluppi
trecenteschi.
Questa lacuna, che ci impedisce di cogliere con l’abbondanza di particolari che avremmo desiderato il
fenomeno di lungo periodo che abbiamo di fronte, non
deve però essere considerata un’anomalia, o, comunque, intesa alla stregua di un fatto tale da ingenerare
dubbi sulla cronologia e sulla consistenza dei momenti
iniziali delle lavorazioni in maiolica. La documentazione, infatti, esiste, ed è anche sufficientemente ampia.
L’insistere della fornaci nel medesimo spazio
urbano, però, non ha al momento consentito di rinvenire scarichi di fornace abbondanti ed omogenei riferibili al lungo periodo che intercorre tra le origini del
castello di Montelupo (1203-06) e gli anni attorno alla
metà del XV secolo, allorquando l’abitato, raggiunte le
dimensioni di una “terra murata”, poteva dirsi ormai
quasi interamente sviluppato, ed aver pressoché completato la sua trasformazione edilizia. Non per caso,
infatti, la restituzione della più antica maiolica arcaica
montelupina è legata a scavi effettuati all’esterno delle
LA MAIOLICA ARCAICA
disotto delle basi attestano una cottura dei boccali per
gruppi verticali, che le frequenti sgocciolature lungo il
corpo individuano essere stata effettuata in senso non
capovolto. La mancanza di impronte di distanziatori,
rilevabile sulle forme aperte, richiama anche in questo
caso una cottura in fornace simile a quella delle chiuse,
ma in questo caso, evidenziandosi accumuli di vetrina
all’interno della piegatura della tesa, si deve supporre
un impilamento capovolto, facilitato dall’assenza d’invetriatura dei rovesci.
Il repertorio decorativo di questa prima fase della
maiolica arcaica montelupina è testimoniato nello scarico rinvenuto lungo l’Arno dai pochi esemplari ricostruibili. Il gruppo dei decori più importante comprende motivi fitomorfi in estrema stilizzazione, come
si può notare in un boccale decorato con due infiorescenze trilobe, collocate al termine di girali che ne dividono in due settori verticali la faccia a vista. La sintassi
decorativa è quella ben nota, e altrettanto diffusa nella
maiolica arcaica dell’Italia centro-settentrionale. Lo
spazio da decorare è individuato da filettature ravvicinate e parallele in bruno di manganese, mediante le
quali si formano bande verticali correnti lungo i fianchi
e fasce orizzontali atte a separare dal corpo del boccale
la porzione invetriata del piede ed il colletto che porta
la bocca trilobata. Le parti laterali sono di norma riempite da una serie continua di motivi ad “s”, mentre al
collo è posto il classico motivo della “catenella” in
verde.
Una variante assai significativa delle tipologie di
questo periodo, documentata sia sulle forme aperte che
sulle chiuse, è costituita poi da una decorazione ridotta
a semplici barrature alternate – in verde e bruno di
manganese – le quali possono assumere un andamento
rettilineo, piegarsi in ondulazioni, od intrecciarsi anche
tra di loro sino a formare una sorta di reticolo. Presente nei reperti di Puntazza solo in materiali frammentari, tra i quali una porzione rilevante di boccale,
questo decoro si ritrova anche nei reperti ceramici rinvenuti all’interno di una scafa – un’imbarcazione fluviale medievale – venuta casualmente alla luce presso
Empoli nel 1982.
Rara nella restituzione montelupina – ma significativa di una tendenza ad affrancarsi dalla ripetizione di
semplici motivi vegetali o geometrici – è poi una tipologia caratterizzata da una decorazione “araldica”, documentatain primo luogo da un boccale di Puntazza col
piede ribassato: una forma minoritaria in questa restituzione. Più che rappresentare la testimonianza del
precoce impiego di stemmi nella pittura su maiolica, ci
pare che essa debba più correttamente intendersi come
un’imitazione della produzione spagnola in ramina e
manganese, nella quale, in effetti, si nota una simile
attitudine a trasformare generiche insegne in una decorazione pseudoaraldica.
Un boccaletto rinvenuto negli ultimi strati del
“pozzo dei lavatoi” giunge adesso a rafforzare l’ipotesi
di una circolazione relativamente ampia di questi
decori “pseudoaraldici”, che trovano riferimento in
tipologie decorate in verde e bruno circolanti in tutti i
paesi rivieraschi del Mediterraneo. Qui il riferimento
ad un’immagine “araldica” della decorazione si evidenzia nell’assimilazione della foglia, che ne costituisce
il decoro principale, ad uno stemma, proprio come
accade in certi prodotti dell’area valenciana, ed in particolare in quelli detti “di Paterna”, paese confinante
con la cittadina di Manises. La povertà del rivestimento, che appena copre il manufatto, suggerisce per
questo reperto del pozzo una datazione collocabile tra
XIII e XIV secolo, non dissimile a quella delle maioliche arcaiche di Puntazza.
I motivi fitomorfi già incontrati sulle forme chiuse,
visto il valore centrale assunto nella produzione del
periodo dalle stilizzazioni vegetali, trovano largo impiego anche nella decorazione di ciotole e bacili. Di tale
tipologia è assai significativo un piccolo bacile frammentario, nel quale è dipinta una composizione vegeta-
1f. Maiolica arcaica, Orciolo da farmacia, Fine XIV secolo, Ø cm. 16,5
213
212
that the baking is divided into vertical groups and the
frequent drippings along the body prove that the
baking is done right side up. The absence of spacing
traces found on open models proves that even in this
case the kiln baking is similar to the one for closed
models. In this case we must imagine an upside down
baking because there are amounts of glass on the
inside of the curve.
The decorative repertoire of the first phase is
witnessed in the remains found along the Arno River.
The most important types of decorations consist of
extremely stylised floral motifs as you can notice in a
jug decorated by two triple layer blooms that are put
at the bottom of the ornamental motifs that divide the
front in two vertical sections. The decorative syntax
is greatly found in the entire north central part of
Italy. The space that is destined for decoration is created by thin and parallel lines in manganese thorough
which there is the formation of vertical bands along
the sides and horizontal bands that separate the glass
like base and the neck from the body of the jug. The
sides are usually characterised by decorations shaped
like the letter “S” while the neck is characterised by
the classic green motif of the “little chain”.
A significant variation of the typologies of this
period, found both on open and closed models, consist in a simple decoration with alternating lines in
green and brown manganese. These lines can be
straight or wavy and can even be connected between
each other. These types can be found in Puntazza only
in small fragments. However, they were also found in
a Scafa (a medieval riverboat) near Empoli in 1982.
There is then another type of decoration that
was quite rare in Montelupo characterised by simple
geometrical and plant like motifs. It is not a witness
of the precocious use of plant like decorations on
ceramics but an imitation of Spanish productions in
ramina and manganese.
A small jug that was found in one of the lower
layers of the “washhouse well” makes us think that
many of these plant like decorations in green and
brown characterised all of the river towns of the
Mediterranean. The most important elements of this
type of decorations are the leaves and the stems just
like the products that are found in the Valencia area
(especially the ones called “di Paterna”). The fact that
they are poor in finishing makes it believable that
they come from the 13th and 14th century.
The floral motif was largely used also in the
decoration of bowls and wash basins. A quite significant example is a fragment of a small washbasin
where there is a plant like composition with circular
leaves on the extremities of the ornaments. The main
decoration is made of simple green lines that start
1f. Archaic Majolica, Chemist’s jug, End XIV° cent., Ø cm. 16,5,
ARCHAIC MAJOLICA
ARCHAIC MAJOLICA
MAIOLICA ARCAICA
diversi reperti di Montelupo e di altre parti della Toscana – ad alloggiare un sigillo di piombo.
Gli impasti, sempre realizzati con argille ferrose,
sono ben depurati, mentre la tornitura si caratterizza
per solchi assai accentuati, visibili all’interno delle
forme chiuse, ma tali da potersi talvolta percepire nella
faccia a vista di quelle aperte. Lo spessore dei manufatti è di norma assai sottile, ma si irrobustisce di molto
nei prodotti vascolari aperti di maggior diametro, passando nel deposito archeologico di Puntazza dai quattro millimetri circa di alcune ciotole a breve tesa
defluente, agli otto dei rinfrescatoi e dei bacili frammentari di più grande diametro. L’impermeabilizzazione delle superfici è sempre del tipo misto, con vetrina e
smalto, ed è tipica delle fasi “antiche” ed “evolute” della
maiolica arcaica: una metodica ben attestata in tutte le
produzioni toscane. L’invetriatura piombica, infatti,
copre l’interno ed il piede rilevato delle forme chiuse,
mentre i rovesci di quelle aperte non sempre risultano
invetriati, in quanto si tende di norma a lasciare questa
parte non a vista priva di rivestimento. La smaltatura,
ottenuta per immersione dei boccali in senso capovolto
e per versamento dello smalto all’interno delle ciotole e
dei bacili, è assai povera e caratterizzata da un minimo
spessore, appena sufficiente a coprire con la sua pellicola il corpo ceramico.
Le attaccature delle bocche trilobate che si notano al
scontorna
1f
LA MAIOLICA ARCAICA
Uno dei boccali del pozzo mostra infatti la figura di
un essere fantastico (un’arpia) con il collo ripiegato
verso il basso su un boccale privo di tutti gli orpelli
geometrici che si accompagnano in questa fase alla
maiolica arcaica, ivi compreso il motivo “a catanella”,
normalmente dipinto sul colletto delle forme chiuse.
La maiolica arcaica evoluta (1360-1420 circa)
Meno documentata si presenta invece la fase produttiva
collocabile tra la seconda metà del Trecento ed i primi
lustri del secolo successivo, che pure è ben attestata
dalle fonti scritte, ed inseribile nella fase della maiolica
arcaica evoluta (1360-1420 circa), per la quale ci si può
al momento riferire soltanto a reperti frammentari, con
l’eccezione di un orciolo da farmacia, emerso da un
contesto residuale, rinvenuto nell’area ortiva posta nelle
adiacenze dell’ex palazzo podestarile, e databile nell’ultimo ventennio del secolo.
LA MAIOLICA ARCAICA TARDA (1420-80)
Più abbondanti sono infine i ritrovamenti di maiolica
arcaica tarda (1420-1480), anch’essi legati, sino alla
metà del Quattrocento, a restituzioni residuali, ma poi
inseriti entro ampi contesti produttivi: si tratta, però,
della fase ormai terminale della tipologia, legata unicamente, alla fabbricazione di forme aperte standardizzate, dal decoro estenuato, destinate ad un mercato resi-
duale e tradizionale.
Predomina in questa produzione tardiva della maiolica arcaica una decorazione a foglie inquartate (una composizione, cioè, di quattro elementi foliati
eguali, intervallati da elementi diversi,
ma dello stesso genere, di pari composizione numerica), che talvolta risulta inserita nel classico motivo del cosiddetto “
nodo di Salomone”, ben rappresentato
nell’arte tardoantica.
Tra questi decori vegetali “inquartati” compare anche una composizione più
complessa, realizzata mediante una serie
di cerchiature con motivi vegetali stilizzati e parti di riempimento tra le medesime in “reticolo” di manganese: di essa
conosciamo anche una versione con strisce in giallo, appartenente alla versione
“tricolore” della maiolica arcaica.
1g. Maiolica arcaica, Bacile, 1420-40, Ø cm. 23,0
1h. Maiolica arcaica, Bacile, 1420-40, Ø cm. 29,0
1g
215
214
from a rectangular nucleus, which probably represents a stylised ring with a gem.
The next step chronologically is the finding of
majolica on higher levels of the well which can be
dated to the first forty years of the 14th century and
for this reason they can still be considered of the first
phase of local production.
An example are two larger jugs than the ones
found in Puntazza, one of them is on a high base and
the other is on a low base. They have two different
decorative tendencies: the first one is still characterised by a geometrical nature and consists in an
evolution of the compositions with traversal lines that
end up forming a stylised green leaf; the second one,
instead, is characterised by a figurative genre. This
second one, in fact, presents the drawing of a mythological figure (Arpia) with its neck facing down and
lacking geometrical decorations (not even the little
chain motif).
Evoluted Archaic majolica (1360-1420 ca)
There is less documentation available of the production phase from the second half of the 1300’s and the
first five years of the 1400’s and written sources have
been well proven and inserted in the evolved archaic
majolica phase (1360-1420). We are, however, only
able to refer to patchy findings with the exception of
the remains of a chemist’s jug, which was discovered
in a small field next to the municipal palace and can
be dated at the end of the 1420’s.
ARCHAIC MAJOLICA
ARCHAIC MAJOLICA
MAIOLICA ARCAICA
le inquartata, con foglie tondeggianti poste all’estremità di girali ripiegati su se stessi. La composizione, che, a
differenza di altri casi, mostra un riempimento dei
decori principali con semplici barrature in verde, prende l’avvio da una sorta di nucleo rettangolare, nel quale
è forse da riconoscere la fisionomia stilizzata di un
anello con gemma.
Seguono cronologicamente questo contesto i ritrovamenti di maioliche arcaiche restituite dai livelli d’uso
del “pozzo dei lavatoi”che si datano entro il primo quarantennio del XIV secolo, e che possono essere perciò
considerati come ancora appartenenti alla prima fase
produttiva locale, il cui termine abbiamo fissato attorno
al 1360 circa.
Tra questi si notano due boccali caratterizzati da
dimensioni maggiori rispetto a quelle che costituiscono
la restituzione, da considerare sensibilmente più antica,
di Puntazza, e che sviluppano le due forme-guida del
boccale su alto piede e di quella su piede ribassato: si
tratta dunque di manufatti che possiamo già collocare
all’inizio del quarto decennio del Trecento. Essi mostrano una duplice tendenza decorativa: la prima risulta
ancora di natura geometrica, e consiste nell’evoluzione
della più antica composizione a linee trasversali, qui
risolta mediante la trasformazione della parte in verde
in una foglia stilizzata dall’andamento serpeggiante,
mentre la seconda va invece verso un genere figurato.
1g. Archaic Majolica, Basin, 1420-40, Ø cm. 23,0
1h. Archaic Majolica, Basin, 1420-40, Ø cm. 29,0
Late Archaic majolica (1420-80)
There are more abundant findings regarding the late
archaic majolica phase (1420-1480), but even these
findings are residual. They were, however, inserted
later into a larger productive context: it is the last
phase of the type linked uniquely to the fabrication of
standardised open models with worn out decorations
destined to a residual and traditional market.
In this late production of archaic majolica the
decorations are mostly characterised by four equal
leaves separated by different elements of the same
genre and numerical composition. This decoration is
sometimes inserted in the classic motif of the “nodo
di salamone” often-represented in late antiquity art.
Amongst these plant like decorations there is
also a more complex composition created through a
series of circles around stylised plant-like motifs filled
with manganese. There is a different version of this
decoration with yellow stripes belonging to the “tricolore” version of archaic majolica.
1h
I documenti relativi a questo genere di produzione – che meglio dovrebbe essere definita “azzurra”, non
tanto per il cromatismo, quanto per meglio corrispondere, come vedremo alle sue caratteristiche tecnologiche – già piuttosto rara nei ritrovamenti archeologici
dell’area fiorentina, sono al momento assai scarsi per
Montelupo. Nonostante l’esiguità delle testimonianze,
occorre osservare che questo genere rappresenta
un’evoluzione fondamentale nello sviluppo della ceramica smaltata di area fiorentina e toscana, anche se
ben presto essa fu soppiantata da altri generi che utilizzavano il cromatismo blu, impiegando però l’ossido di
cobalto per realizzare questa colorazione.
Non possono sussistere ragionevoli dubbi sul fatto
che una certa produzione in blu e bruno di manganese,
sviluppatasi probabilmente nell’area fiorentina a partire dalla seconda metà del XIV secolo, abbia rappresentato un genere a sé stante, che forse lo stesso termine di
“maiolica arcaica blu”, impiegato per indicarlo, non
viene a marcare con la necessaria precisione. Essa,
infatti, denota una tendenza alla standardizzazione così
spiccata da far pensare all’impiego condiviso e generalizzato di qualche modello in grado di fungere da prototipo per l’imitazione, all’esistenza di una produzione
limitata, che faceva capo ad un gruppo ristretto di bot-
teghe, o, comunque, a situazioni produttive non così
ampiamente diffuse come quelle proprie alla maiolica
in ramina e manganese. Può inoltre notarsi come questo genere presenti una sensibile dicotomia nel suo
stesso sviluppo decorativo, optando di preferenza sulle
forme chiuse verso l’impiego di un motivo fitomorfo,
riprodotto in una stilizzazione assai accentuata, mentre
nelle aperte assume sovente un aspetto geometrizzante.
Una datazione della maiolica arcaica blu compresa
tra la seconda metà del Trecento ed i primi lustri del
secolo successivo è confermata, oltre che dai contesti di
ritrovamento, dalle sue stesse caratteristiche tecnologiche. Mentre, infatti, essa denota nei documenti più
antichi un impasto rossastro ed una smaltatura piuttosto sottile, che si accompagna anche all’invetriatura
dell’interno delle forme chiuse, nei frammenti di scavo
rinvenuti a Montelupo assume invece una fisionomia
già “evoluta”, evidenziando le caratteristiche tipiche
dello sviluppo tecnologico intrapreso dalle produzioni
smaltate locali a partire dalla fine del XIV secolo. Tra
queste caratteristiche possiamo citare l’impasto biancastro, semiduro, e la smaltatura estesa anche alla parte
interna dei boccali. Occorre infine segnalare la comparsa nell’arcaica blu delle marche di fabbrica, un fenomeno che viene a generalizzarsi in questo lasso di
tempo.
La maiolica arcaica blu sfrutta la possibilità dell’os-
sido di rame (ramina) di virare verso un cromatismo
azzurro, sino a raggiungere toni di blu intenso, grazie
all’impiego di una particolare coperta di ossido di
piombo.
Il primo gruppo decorativo rappresentato dalla
maiolica arcaica blu è costituito da da una composizione di genere fitomorfo, assai standardizzata, e per adesso rilevabile soltanto sulle forme chiuse. Esso si basa,
come ben evidenziato in un boccale della donazione
Conti sulla rappresentazione di una foglia stilizzata.
Un secondo gruppo di decori che si inseriscono
nella tipologia della maiolica arcaica blu può essere
costruito attorno ad un decoro a fascia ondulata, qui
rappresentato da un boccaletto proveniente sempre
dalla donazione Conti.
2a. Maiolica arcaica blu, Piccolo boccale. Marcato “b”, 1360-80, h cm 13,4
2b. Maiolica arcaica blu, Boccale con decoro vegetale.
Marcato “P”, 1360-80, h cm. 20,3
2a
217
216
2. BLUE ARCHAIC MAJOLICA
The documents related to this type of production
are at this moment quite scarce in Montelupo and
rare in all the archaeological sites in the Florence area.
Even though the documents are rare, we must observe
that this genre is a fundamental evolution in the development of lustered ceramics in Florence and in Tuscany. Even if it was quickly substituted by other genres
that used blue chrome obtained with cobalt oxide.
There cannot be any doubts on the fact that a
certain production in blue and brown manganese,
probably around the second half of the 14th century,
represented a unique genre. Using the same term “blue
archaic majolica” does not underline the differences
between the two genres. In fact this one is characterised by a marked tendency to standardise and that
makes it believable that some models were used in a
generalised way and could be considered prototypes.
The production was limited and came from a smaller
number of workshops than the ones that produced
majolica in ramina and manganese. We can also
notice sensible differences in its decorative development: the closed models were characterised by an
accentuated stylisation of the floral motif while the
open models are usually characterised by geometrical aspects.
The blue archaic majolica period goes from the
second half of the 1300’s until the beginning of the
following century. This is confirmed by the places
where it was found and by its technological characteristics. In fact, in the older documentation it was characterised by a reddish mixture and a thin polish. The
fragments that were found in Montelupo already had
more evolved characteristics, underlining the typical
aspects of the technological development of the local
polishing productions starting from the end of the 14th
century. Some of these characteristics are the white
semi-hard mixture and the polishing on the inside of
the jugs. We must also point out the appearance of
the blue majolica in factory brands, a phenomenon
that becomes quite common in this period.
Blue archaic majolica exploits the possibility of
copper oxide to become light blue and intense blue
thanks to a particular lead oxide sheath.
The first decorative group represented in blue
archaic majolica consists of a standardised floral composition that can for now be found only on the closed
models. It is articulated, as underlined by a jug donated from Conti in the representation of a stylised blue
leaf.
A second group of decorations can be constructed around a wavy decoration found once again by a
Conti jug.
BLUE ARCHAIC MAJOLICA
BLUE ARCHAIC MAJOLICA
MAIOLICA ARCAICA BLU
MAIOLICA ARCAICA BLU
2. MAIOLICA ARCAICA BLU
2a. Blue Archaic Majolica, Small jug Brand “b”, 1360-80, h cm 13,4
2b. Blue Archaic Majolica, Jug with plant-like décor, Brand “b”, 1360-80, h cm. 20
2b
La zaffera a rilievo rappresenta certamente uno
dei generi legati alla produzione della maiolica medievale più noti, in ragione dell’interesse con il quale la storiografia ceramologica si è occupata di esso ad iniziare
dalla fine dell’Ottocento.
La zaffera ebbe grande diffusione nell’area geografica dell’Italia centrale e centro-settentrionale compresa
tra l’Alto Lazio e l’Emilia-Romagna, ove trovò spazio
all’interno delle attività di numerosi centri di fabbrica,
tanto da protrarre la sua esistenza per non poco tempo
e cioè – come ormai accertato dall’archeologia postclassica – per l’intero periodo compreso tra l’ultimo trentennio del XIV secolo e gli anni Settanta del Quattrocento.
Nelle fasi estreme di questo arco cronologico, la presenza della zaffera si caratterizza nelle restituzioni archeologiche per una certa rarefazione, evidentemente dovuta nel primo periodo alla sua difficoltà ad affermarsi
come produzione corrente e, per converso, alla desuetudine a cui il genere va incontro nel corso della seconda
metà del XV secolo; possiamo dunque stabilire che il
periodo più importante nelle vicende produttive della
zaffera deve essere collocato nel sessantennio compreso
tra il 1380 ed il 1440 circa.
Ad epoca più recente è invece necessario datare
alcuni manufatti dipinti con un pigmento blu intenso
che, pur presentando la particolarità del rilievo sullo
smalto, si riferiscono con evidenza, anche per l’utilizzazione del medesimo repertorio formale (soprattutto del
motivo “a foglia di quercia”) ai più noti gruppi decorativi della “zaffera”. Per definire questa produzione si è
utilizzato in passato il termine “zaffera diluita”, che,
tuttavia, potrebbe essere accettato solo se rivolto ad
una versione dei decori tipici della nostra tipologia, e
non, come invece accade, esteso a tutte le maioliche
quattrocentesche ove si impiega il blu intenso, evitando
nel contempo di considerare l’aggettivo “diluita” come
indicativo di una minore concentrazione del pigmento,
che nella realtà non sussiste, in quanto anche la zaffera
tout court non è realizzata con un ossido minerale puro.
Le analisi di laboratorio recentemente eseguite
hanno infatti dimostrato come il rigonfiamento del
colore sia ottenuto nella zaffera tramite la mescolanza
di piombo all’idrossido di cobalto che ne costituisce la
base: fondendo precocemente durante la fase di cottura,
il piombo determina infatti il rigonfiamento del pigmento, che poi, raffreddandosi, si fissa in rilievo sulla
parte smaltata. La quantità di piombo deve perciò essere ponderata con particolare attenzione nella fase di
fabbricazione della zaffera, in quanto un’eccessiva percentuale di questo metallo è in grado di determinare
colature irreversibili della pittura, mentre la sua carenza non produce quell’effetto di brillantezza che ne rende
particolare efficace l’aspetto.
Il pigmento realizzato tramite tale mescolanza, inoltre, non ha, stante la presenza del piombo al suo interno, possibilità di diluizione paragonabile a quella degli
altri colori, e deve perciò essere steso sulla superficie
smaltata con l’ausilio di pennelli dalle setole particolarmente rigide: da qui l’aspetto duro e quasi “minerale” di
certe maioliche a zaffera. Le caratteristiche tecnologiche che presiedono alla fabbricazione di questo genere
sono dunque sufficienti a giustificare la relativa rarità
con la quale esso viene restituito dai contesti di scavo.
Definiti gli aspetti legati alla produzione, occorre
adesso osservare che l’omogeneità stilistico-formale
della “zaffera”, da ricondurre anche alle peculiari modalità della realizzazione del decoro che la rappresenta,
non consente di rimarcare al suo interno un’apprezzabile linea evolutiva di carattere formale; in queste condizioni non possiamo al momento spingerci oltre la
delineazione di due fasi produttive attinenti allo sviluppo di questo genere, e cioè:
ZAFFERA DELLA PRIMA FASE
ZAFFERA EVOLUTA E TARDA
(1360-1440 circa)
(1440-1470 circa)
Bisogna però sottolineare come la zaffera si accompagni con il massiccio diffondersi nella pittura su smalto di Montelupo e degli altri centri della Toscana (in
particolare di quello di Bacchereto) di un nuovo linguaggio formale, incentrato su una sintassi decorativa
che assumerà un ruolo di primaria importanza sino
all’ultimo ventennio del XV secolo. In questo senso la
zaffera, assieme alla maiolica arcaica blu – ma in
maniera molto più estesa ed efficace di questa – risulta
il genere responsabile dell’introduzione delle maggiori
novità nella decorazione quattrocentesca su maiolica:
essa, infatti, precede di non pochi anni lo sviluppo di
quelle tipologie sinora definite come “italo-moresche” (e
che invece noi ricondurremo sotto il termine ad esse
coevo di “damaschino”), la cui nascita viene normalmente riportata agli anni attorno al 1410-20. Visto l’andamento cronologico delle rispettive produzioni, si può
anzi dire che l’affermarsi di queste tipologie “damaschine”, sovrapponendosi alla zaffera, abbia finito per
togliere a quest’ultima lo spazio commerciale di genere
“di lusso”, del quale essa originariamente godeva, contribuendo gradualmente a determinarne l’estinzione.
Se esaminiamo da vicino queste produzioni in blu a
rilievo, ci accorgiamo infatti come in esse, a cominciare
dalle più antiche, venga a dispiegarsi un modo affatto
originale di intendere la decorazione. A parte il motivo
principale, che tanto ha colpito i “ceramologi”, chiaramente incentrato sulla stilizzazione della foglia di quercia, si nota come i pittori introducano nella decorazione
a “zaffera” una gerarchia nei soggetti rappresentati che
219
218
3. ZAFFERA BLUE HIGH RELIEF
This represents certainly one of the most known
genres linked to the production of medieval majolica
because of the interest with which the history of
ceramics was studied starting from the end of the
1800’s.
Zaffera blue was mostly found in Central Italy
and North central Italy between Northern Lazio and
Emilia-Romagna where it found space in the activities of many factories. Its existence as proved by
postclassical archaeology, went from the last 30
years of the 14th century and the years around 1470.
At the beginning and the end of its period of existence, the presence of zaffera blue in the archaeological sites is quite rare. In the first period this was
due to the fact that it had a hard time in becoming
the main type of production. In the last period this
is due to its lack of use. For this reason we can say
that the most important period of its production
goes from 1380 until 1440 ca.
It is necessary to date some works painted
with an intense blue pigmentation to the most
recent period even while presenting the particularity
of the embossment on the glaze. It is proven to be
for the utilisation of the same formal repertoire
(above all with the oak leaf motif) to the best known
of the decorative groups of “zaffera blue”. In order
to define this production in the past the term “diluted zaffera blue” was used. This, however, can only
be accepted when we speak about a particular version of decorations and not when we speak about all
the ceramics of the 1400’s where intense blue is
used. We should not consider the adjective “diluted”
as a smaller concentration of pigment because this
is not true since even the “tout court zaffera blue” is
not made with the oxide of a pure mineral.
Recent laboratory analysis proved that the
inflammation of the colour is obtained through a
mixture of lead and the cobalt hydroxide, which is
the base. Melted precociously during the baking
phase, the lead causes the inflammation of the pigment. When the pigment becomes cold it projects
onto the lustered section. The quantity of lead must
be chosen with particular attention in the phase of
the zaffera blue’s production because an excessive
percentage of the metal can cause an irreversible
leak of the painting while a lack of the metal does
not make the ceramic shine.
The pigment that comes through this mixture
does not have the same possibilities to be diluted as
other colours so it must be arranged on the lustered
surface thanks to particularly rigid paintbrushes.
This gives it its hard aspect and it makes these
ceramics look almost like “ minerals”. The technological characteristics of the production of this
genre are enough to justify the rarity of its findings.
We must now observe that the formal and stylistic homogeneity of zaffera blue (due also to the
peculiar ways of realisation of the decorations) does
not help us trace sufficiently an evolutionary line. In
these conditions we can only divide the development
of this genre into two productive phases:
FIRST PHASE ZAFFERA BLUE
(1360-1440 CA.)
(1440-1470 CA.)
EVOLUTED AND LATE ZAFFERA BLUE
We must, however, underline that with the
great development of painting on polish in Montelupo and Tuscany (especially in Bacchereto) zaffera blue acquired a new formal language based on a
different kind of decoration that would be very
important until the last 20 years of the 15th century.
In this sense zaffera blue, like archaic blue majolica
(but in a much more efficient way) became the
genre that was responsible for the introduction of
the biggest changes in 15th century ceramic decorations. It occurred many years before the development of the type that we still define as “ItalMoresque” (also remembered under the name damaschino) which originated between 1410-1420. We
can say that the affirmation of “damaschino” took
away the commercial space as a luxury genre from
zaffera blue, contributing gradually to determine its
extinction.
If we exam closely these blue high relief techniques, we realise that even the oldest ones are characterised by a new type of decoration. Apart from
the main motif, clearly based on the stylisation of
the oak leaf, we notice how the painters introduced
a new hierarchy that definitely cut with the compositions of the past (usually geometrical or floral) and
characterised most of the productions until the third
quarter of the 15th century.
These figures, to which we now attribute a
central role in the decoration of vases, represent the
problem of the formal relationship with what are
defined as “border motifs”. The main example is the
stylisation of the oak leaf.
The solution to this problem, which gives us
the necessity to isolate the main subjects from the
border motifs, is usually (but not always) solved
through a “graphic”. This consists in circulating
these subjects with a peripheral borderline that
develops itself at a short difference from the perimeter of the figure. In this way the border motifs are
separated from the main ones which are immediately felt thanks to the presence of an empty band.
ZAFFERA A RILIEVO
LA MAIOLICA ARCAICA BLU
ZAFFERA A RILIEVO
LA MAIOLICA ARCAICA BLU
3. ZAFFERA A RILIEVO
ZAFFERA A RILIEVO
l’assimilazione di un linguaggio decorativo da secoli
utilizzato nella ceramica prodotta in differenti contesti
culturali di matrice islamica. Esso, però, non appartiene alla genuina tradizione ispanica, né tantomeno può
dirsi caratterizzare la coeva produzione ispano-moresca
che si diffonde in Italia attraverso i centri del Levante
spagnolo, ma proviene invece dalle grandi officine ceramiche dell’Islam orientale. Il riferimento alla Siria, centro di attrazione delle merci di un vasto mondo che fa
capo ai grandi mercati di Aleppo e di Damasco, è del
resto ben presente nella definizione che i nostri vasai
assegnano a questo genere (“damaschino”, appunto).
Che la “zaffera” dimostri l’estesa assimilazione di un
tale linguaggio, appare fuori di ogni ragionevole
dubbio. Oltre alla ripetizione dell’aspetto strutturale
della decorazione (cioè il sistema dell’evidenziazione
delle figure attraverso una linea di contorno esterna al
loro perimetro), infatti, si nota anche l’impiego di singole suggestioni iconografiche, quali ad esempio il
motivo del giaguaro, una delle figurazioni più care al
repertorio dei ceramisti orientali, più volte eseguito da
una bottega di Montelupo che sigla i suoi prodotti con
un segno simile ad una scaletta (ed è percio detta “bottega della scala”). È poi da notare come una particolarità formale, diffusissima nella produzione ceramica
che ha il suo principale centro di diffusione tra Iran ed
Iraq, venga assimilata ai ceramisti italiani, ignari del
suo recondito e nient’affatto banale significato.
Si tratta del motivo a “cerchietto”, sempre puntinato al suo interno, che troviamo continuamente riprodotto nella più bella produzione a lustro metallico dell’area orientale del Mediterraneo, ove è impiegato tanto
nelle figure, quanto negli spazi che le fiancheggiano,
posti al di là della famosa linea di contorno che li definisce. In questi “cerchietti”, dal valore solo apparentemente formale, si nasconde in realtà la rappresentazione simbolica della divinità, intesa come l’ “occhio di
Allah”, indicativo della onnipresenza – anche all’interno degli esseri viventi – del divino.
Ecco dunque che due elementi formali fondamentali, che vanno poi ad unirsi assieme nello stabilire una
modalità “sintattica” della pittura, mostrano come sin
dalla fine del XIV secolo il rinnovamento della ceramica smaltata in Montelupo (e negli altri centri dell’area
fiorentina) si sia giocato soprattutto attraverso l’influenza della cultura decorativa di matrice islamica,che
fu certamente favorita in maniera determinante dalla
penetrazione della maiolica spagnola, ma tale da com-
3. Zaffera a rilievo, Piccolo bacile, Ø cm. 23,5
221
220
This method, which develops and generalises
itself in majolica painting, does not only represent
merely a formal solution but an assimilation of the
decorative language used for centuries in majolica
produced in different Islamic cultural contexts. This
does not belong to the genuine Hispanic tradition
and it does not characterise the Hispanic- Moresque
production that developed in Italy in the centres of
the Spanish east. It comes from the great majolica
productions of Oriental Islam. The reference to
Syria, attraction centre of products from the entire
world in the great markets of Aleppo and Damascus,
is present in the definition that our vase makers
assign to this genre (Damaschino).
It is without a doubt that zaffera blue demonstrates the extended simulation of this language.
Aside from the repetition of the structural aspect of
the decoration (the system of underlining the figures
through a borderline) we can also notice the use of
single iconic suggestions, such as the motif of the
jaguar, one of the most popular representations in
the repertoire of Oriental potters. This was often
executed by a workshop that marks its products
with a sign similar to a small ladder (the reason it is
called “ladder workshop”). We must also notice how
this particularity, very popular in the majolica production in Iran and Iraq, became assimilated by Ital-
ian potters that were not aware of its profound significance.
The circle motif that we continuously find in
the best metallic productions of the Oriental area of
the Mediterranean is used both in the figures and in
the spaces next to the figures (next to the famous
borderline). In these small circles, that apparently
only have a formal value, is hidden the symbolic representation of divinity, intended as “Allah’s eye”. This
indicates the omnipresence of the divine even
amongst living beings.
Two fundamentally formal elements show
how, from the end of the 14th century, the renewal of
lustered ceramics in Montelupo (and in other centres of the Florence area) was influenced by the
Islamic decorative culture. This was favoured in a
determinant way by the penetration of Spanish
ceramics even though it also included more antique
models that were based on Oriental majolica. Zaffera blue had a fundamental role in the diffusion of
these influences.
ZAFFERA BLUE HIGH RELIEF
ZAFFERA BLUE HIGH RELIEF
prendere anche i modelli di più antica tradizione,
ancora riflessi dalle ceramiche a lustro di provenienza
orientale. La “zaffera” esercitò nella diffusione di queste influenze un ruolo fondamentale.
ZAFFERA A RILIEVO
spezza definitivamente quel ritmato accostamento di
composizioni – di solito di natura geometrica o fitomorfa – che caratterizzava la maggior parte della maiolica arcaica prodotta sino al terzo quarto del XV secolo.
Queste figurazioni, alle quali adesso viene con maggior frequenza attribuito un ruolo centrale nel decoro
delle forme vascolari, introducendo così una definizione gerarchica della composizione, rappresentano il problema del loro rapporto formale con quelli che vengono
a definirsi come “motivi di contorno”. Tra di essi,
appunto, spicca la stilizzazione della foglia di quercia.
La risoluzione di questo problema, che pone appunto la necessità di isolare, al fine di renderli meglio percepibili, i soggetti principali da quelli di contorno, è
spesso (anche se non sempre) risolta mediante un artificio “grafico”, il quale consiste nel circondare questi
stessi soggetti mediante l’apposizione di una linea di
contorno periferica, che si sviluppa a poca distanza dal
perimetro della figura. In tal modo i motivi “di contorno” vengono tenuti separati dai principali, alla cui percezione l’occhio viene immediatamente ad indirizzarsi
per la presenza di una fascia vuota, che così, dialetticamente, la individua.
Un tale artificio, che va diffondendosi, sin quasi a
generalizzarsi, nella pittura su maiolica nel corso del
Quattrocento, non rappresenta però un mero espediente formale, ritrovato da qualche pittore nostrano, bensì
3. Zaffera blue high relief, Small basin,
Ø cm. 23,5
3
4. ZAFFERA TRICOLORE
4. Zaffera tricolore, Grande boccale, 1410-40, Ø cm. 20
gliezza e,magari, un ductus così morbido nella stesura,
che sarebbe di per sé sufficiente a palesare un modo di
porsi dei pittori di fronte alla decorazione del tutto
diverso da quello che caratterizza i capi con prevalente
blu in rilievo, ove, invece, questo impiego “grafico” del
manganese si fa assai raro, ed è di solito riservato alla
rappresentazione della figura umana. È tuttavia nel
verde-ramina, spesso contraddistinto da toni azzurrini,
che questo genere si differenzia più marcatamente dalla
zaffera a rilievo, e ciò non soltanto per la stesura del
colore in campiture morbide e liquide, le quali contrastano fortemente con l’aspetto massiccio e rigido della
zaffera, ma per la maggiore luminosità della composizione, che in tal modo, grazie alla diffusione del medesimo in ampie porzioni, viene a realizzarsi.
A queste differenze di fondo, corrispondono poi
certe indubbie comunanze tra i due generi, le quali,
tuttavia, ci appaiono costituire un aspetto importante
della vicenda storica della zaffera tricolore, senza però
attestare un effettivo rapporto di dipendenza tra le due
tipologie. Tra queste similitudini spicca certamente la
modalità di riempire gli spazi vuoti con macchie di
“zaffera”, attorniate da una fitta corona di minuscoli
punti dipinti in bruno di manganese. Tutto il resto,
però, a cominciare da una sorta di ghirlanda vegetale,
posta di sovente a circondare le figurazioni del tricolore, si fa assai differente.
5. DAMASCHINO
Grazie alle recenti ricerche archeologiche, questo
gruppo trova adesso un’esemplificazione più ampia ed
articolata nei materiali di scavo provenienti dal sottosuolo di Montelupo, meglio caratterizzandosi così nella
sua funzione di genere fondamentale per lo sviluppo
delle attività produttive locali. Con il termine “damaschino” gli stessi vasai di Montelupo (vedi ad esempio il
suo impiego nel contratto con il quale si ferma il cosiddetto “trust Antinori”, anche se relativo al periodo finale del genere) intendevano un vasto gruppo di decori,
che era venuto evolvendosi sulla base delle influenze
ricevute, a partire dalla seconda metà del XIV secolo,
da varie produzione mediterranee, ed in particolare da
quelle dei grandi centri di fabbrica (Manises, Malaga),
attivi nel Levante spagnolo.
Per indicare questa produzione variegata, che adesso è possibile percepire nel suo dispiegarsi cronologico
e tipologico, gli studiosi del passato coniarono il termine di “italo-moresco” per indicare – peraltro correttamente – che trattasi di famiglie decorative dipendenti
appunto dalle maioliche iberiche, e particolarmente da
quelle di area valenciana. Il concetto di italo-moresca,
inteso come influenza spagnola sulla produzione italiana, risulta però inadeguato a supportare in termini
razionali una griglia di classificazione della maiolica
DAMASCHINO
ZAFFERA TRICOLORE
Con il termine di “zaffera tricolore” si definisce
una tipologia nella quale le parti figurative della decorazione sono realizzate in verde, mentre quelle accessorie
sono definite con inserti di blu cobalto in rilievo.
Si può notare nello sviluppo di questo genere l’impiego di un repertorio iconografico autonomo, che ben
si distingue tanto dalla produzione con il blu in rilievo,
quanto dalla maiolica arcaica in ramina e manganese.
Tale particolarità rende perciò palese la complessità del
rapporto che lega il “tricolore” alla più numerosa produzione “a zaffera”, e che certo sarebbe errato ridurre
alla categoria di una semplice “evoluzione” di questo o
di quel genere. Come poc’anzi si affermava, infatti, il
genere “tricolore” denota un uso chiaramente accessorio della “zaffera”, e, così facendo, può evitare le limitazioni della tecnica pittorica alle quali deve invece sottostare la produzione caratterizzata da un esteso impiego
del blu di cobalto con aggiunta di ossido di piombo. In
questo caso, infatti, il pittore viene ad eseguire gran
parte della decorazione con normali pennelli, carichi di
pigmento verde e bruno in usuale diluizione: solo una
volta completate le sue figure principali, egli cambia il
suo strumento per inserire nel lavoro i particolari “a
zaffera”. Nonostante si possa notare in qualche esemplare di “tricolore” una certa disposizione a segnare i
contorni con linee in bruno di manganese di un certo
spessore, così come avviene nella zaffera, in un buon
numero di casi esse denotano un’assai maggiore sotti-
223
222
THREE-COLOUR ZAFFERA BLUE
4
4. TRI-COLOUR ZAFFERA BLUE
With the term tri-colour zaffera blue we define
a type in which the figurative parts of the decoration
are green while the accessory parts are defined with
cobalt blue high relief.
We can notice in the development of this genre
the use of an independent iconic repertoire that distinguishes itself from the production with blue high
relief and the archaic majolica in ramina and man-
ganese. This particularity makes the complexity of
the relationship between “tri-colour” and zaffera blue
evident. It would be wrong to consider this category
as a simple evolution of the other genre. The tricolour uses the zaffera blue as an accessory element
and like this it avoids the limitations of the pictorial
technique that characterises the production of blue
cobalt with lead oxide. In this case the painter accomplishes most of the decoration with normal paintbrushes filled with green and brown pigments in their
usual dilution. It is only after completing the main
figures that he changes tool in order to insert the particulars with zaffera blue.
Even though in some examples of tri-colour we
can notice that the borders are thick, brown manganese lines, just like in zaffera blue, in most cases
they are thinner and softer. The painter’s face this
type of decoration in a completely different way compared to the production of the blue high relief, where
the graphical use of manganese is quite rare and is
usually reserved to human representations.
However, the biggest difference with the zaffera
blue technique consists in the green ramina usually
characterised by light blue tones. This is not only due
to the placement of the colour in soft and liquid areas
that strongly contrast the rigid and massive aspect of
the zaffera blue, but also for its brightness.
Apart from these differences, there are also
definably common points between the two genres
that we do not think confirms an effective relationship of dependants between the two types. One of the
most important examples of common points is the
way that the empty spaces are filled in with spots of
zaffera blue surrounded by a crown of tiny dots in
brown manganese. The rest, however, starting from a
type of wreath that usually circulates the tri-colour
figures, is a lot different.
5. DAMASCHINO
Thanks to recent archaeological research, this
group is now characterised by a bigger and more articulate amount of findings that come from beneath the
ground in Montelupo. We can now see how it is a fundamental genre for the development of local productive activities. With the term “Damaschino”, the vase
makers of Montelupo (for example in the contract for
the “Antinori trust”) intended a vast group of decors
that evolved on the base of influences from various
Mediterranean productions (Manises and Malaga)
starting from the second half of the 14th century.
In order to point out this multicoloured production, which could now be perceived both chronologically and typologically, the experts of the past
created the term “Ital-Moresque” to indicate that it
belongs to the decorative family deriving from Iberian majolica, in particular, from the Valencia area.
The concept of “Ital-Moresque” intended as the
Spanish influence on the Italian production proves
to be inadequate in forming a classification of
ceramics in Montelupo (and in Italy in general). In
fact, this term identifies a cultural influence that
should not be intended in its specific provenance and
chronology since it could very well be extended to
most of the late medieval production. This would
DAMASCHINO
4. Three-colour Zaffera blue, Large jug, 1410-40, Ø cm. 20
ZAFFERA TRICOLORE
l’influenza decorativa della produzione di matrice islamica (orientale ed occidentale) nella pittura su maiolica. È in particolare nell’impiego delle figurazioni con
linee di contorno – che abbiamo già rilevato non appartenere alla tradizione ispanica – alle quali si accoppia
però un’estesissima utilizzazione dei motivi di contorno
derivati in maniera diretta dalle ceramiche valenciane,
che risiede tutta la complessità (ed il fascino) di questo
genere decorativo. In esso, come poc’anzi si accennava,
occorre distinguere almeno tre grandi fasi, che hanno
valore cronologico, oltre che formale, e cioè:
DAMASCHINO MONOCROMO
DAMASCHINO “A TAVOLOZZA FREDDA”
DAMASCHINO POLICROMO.
Occorre dire che, mentre i primi due rappresentano
la fase di sviluppo “proprio” del genere, l’ultima, pur
rapportandosi ad esso con evidenzia, ne marca ormai
l’incipiente superamento, e verrà pertanto considerata
nel catalogo come un genere a parte.
Damaschino monocromo
La produzione in monocromia azzurra marca dunque il
momento iniziale del damaschino: gli esemplari più
antichi di questo gruppo che costituisce la prima fase
del damaschino affiancarono infatti la produzione della
maiolica arcaica evoluta e la prima fase dell’arcaica tricolore, costituendo, con la “zaffera”, la tipologia decorativa che principalmente si accompagnava alle forme
aperte in ramina e manganese. L’antichità di queste
ceramiche si evidenzia nel loro stesso contenuto tecnico, ed in particolare nella smaltatura assai sottile ed
approssimativa delle parti interne dei boccali e del lato
rovescio delle forme aperte, che le caratterizza; talvolta
può persino notarsi come la copertura dell’esterno –
realizzata per immersione – lasci scoperta, a similitudine di quanto avviene nella maiolica arcaica della fase
evoluta, la cornice del piede.
È tuttavia la sintassi decorativa che si dispiega sugli
esemplari appartenenti a questo gruppo ad attestarne
con maggiore precisione l’antichità rispetto a quelli più
evoluti che, come vedremo, mostrano l’impiego iniziale
di una particolare policromia. Fanno infatti parte di
esso maioliche realizzate mediante una singolare diluizione di un pigmento realizzato con il solo ossido di
cobalto e caratterizzate dalla collocazione dei motivi
principali entro una linea di contorno. Gli spazi esterni
alle parti figurate sono riempiti da minuscoli segni a
spirale, all’interno dei quali si aprono piccole aree circolari, ove si colloca la “foglia di prezzemolo”, concepita
come il punto terminale di uno stelo vegetale ripiegato
su se stesso. In esso è evidente il richiamo al motivo più
diffuso nelle coeve maioliche valenciane, ed in particolare in quelle del grande centro di fabbrica di Manises,
come bene è sottolineato anche dalla puntinatura con la
quale si accompagna. L’interpretazione di questo canone decorativo d’imitazione iberica è estremamente rigorosa, ed offre poche possibilità di variazione alla creatività dei pittori.
DAMASCHINO
di Montelupo (e, crediamo, di quella italiana in generale). Esso, infatti, vuol identificare un influsso culturale
che, in primo luogo, non è correttamente inteso nella
sua specifica provenienza e cronologia, visto che
potrebbe ben estendersi a gran parte della produzione
tardo-medievale, comprendendo certamente, come si
è visto, non pochi esemplari di zaffera e di maiolica
arcaica tricolore, oltre all’usuale produzione quattrocentesca alla quale essa è normalmente riferita. Ci
potremmo infine chiedere se non siano da considerare
più “italo-moresche” certe forme di traduzione in lingua
toscana dei prototipi spagnoli (quali quelle, per intendersi, che tratteremo presentando il genere che imita
direttamente il lustro metallico, oppure la “foglia di
vite” e quella “di prezzemolo” valenciana), che si protraggono sino all’inizio del XVI secolo, rispetto a certi
esemplari quattrocenteschi policromi già inseriti da
Galeazzo Cora nella sua definizione dell’ “italo moresca” come “gruppo VII F”, che non presentano, invece,
riferimenti così evidenti alla produzione iberica.
La nostra classificazione, supportata dall’evidenza
delle restituzioni di scavo montelupine, oltre a recuperare la definizione coeva e storicamente accertata di
questo genere, ripristinandone altresì la complessa articolazione interna, parte da questo dato di fatto che ci
appare incontrovertibile, e considera così il damaschino
come il genere nel quale si è dispiegata pienamente
5a. Damaschino monocromo, Bacile con uccello, 1420-40,
Ø cm. 24,7
225
also include many examples of zaffera blue and tricolour archaic majolica as well as the usual 15th century productions to which it is normally referred. We
should ask ourselves if we should also consider the
“Ital-Moresque” forms of translation in the Tuscan
language of Spanish prototypes (for example vine
leaves and parsley) which lasted until the beginning
of the 16th century? Or the specific 1400’s examples
already inserted by Galeazzo Cora in his definition of
“Ital-Moresque” as “group VII F” which do not present such evident references to the Iberian production?
Our classification, supported by evidence in
the findings of the Montelupo digs, not only preserves the definition of this genre but uses this fact
to consider “damaschino” as the genre in which the
decorative influence of the Islamic production in
ceramic painting had the biggest effect. In the use of
figures with borderlines and border motifs that
derive from the Valencia ceramics, we find all the
complexity and charm of this decorative genre. We
must identify at least three great phases that have
both formal and chronological significance:
MONOCHROME DAMASCHINO
“COLD PALETTE” DAMASCHINO
POLYCHROME DAMASCHINO
While the first two represent the developmental phase of the genre the last one marks its ascendancy and for this reason it will be considered as a
separate genre.
Monochrome damaschino
The blue production marks the initial moment of
damaschino: the most antique examples of this
group appeared at the same time as the evolved
archaic production and as the first phase of archaic
tri-colour. Together with the zaffera blue this decorative type was for the most part found in the open
models in ramina and manganese. The antiquity of
these ceramics is clear in their technological content
and in the thin polish on the inside of the jugs and
the bottom of the open models. Sometimes the
external sheath exposes the frame of the base. However, it is the decoration that confirms with more
precision the antiquity compared to the more
evolved types that are characterised by an initial use
of more than one colour. Examples of these groups
are ceramics made with a dilution of a pigment that
originates thanks to the dilution of cobalt oxide and
characterised by main motifs surrounded by borderlines. The external spaces around the figures are
filled with a tiny spiral shapes on the inside of which
there are small circular areas with parsley. This is
5a. Monochrome Damaschino, Basin with bird, 1420-40,
DAMASCHINO
ZAFFERA TRICOLORE
224
Ø cm. 24,7
5a
conceived as the ending point of a plant stem
wrapped around itself. In this motif the influence of
Valencia ceramics, and in particular the ones of
Manises, is evident. This is underlined also by the
dot technique. The interpretation of these decorative
criteria of Iberian influence is extremely inflexible
and offers few possibilities of variation to the
painters’ creativity.
Some examples of main motifs inserted in this
monochrome type, are floral decorations, animal
decorations, people decorations and heraldry decorations, as well
as references to nature and gothic writings
deriving directly from the Spanish ceramics.
The use of blue for the central figures make it
necessary to leave some internal parts free, to make
the morphology perceptible. Therefore the painting
usually is divided into two phases. In the first phase
there is the painting of the figure with a well-diluted
blue, making the peripheral parts and leaving out
some internal portions. In the second phase the
same figure is re-painted with a more concentrated
pigment. In this way the white areas, next to the
light blue ones, define a sort of shadow of the vol-
Damaschino “a tavolozza fredda”
Nella pittura su smalto che viene a sviluppare in
maniera più diretta le influenze del Levante spagnolo,
l’impiego della monocromia blu, secondo i canoni che
abbiamo definito come “damaschino monocromo”,
viene ben presto a complicarsi attraverso l’introduzione di nuovi pigmenti, già peraltro impiegati nelle
altre produzioni coeve, quali il bruno di manganese, il
verde ramina ed il giallo. Se in tal modo viene ad interrompersi il predominio della monocromia, occorre tuttavia osservare come, pur con qualche eccezione per il
bruno, tali colori, nuovamente introdotti, siano sempre
usati in mescolanza con l’idrossido di cobalto, e trovino
all’inizio soltanto impiego nelle parti secondarie – quali
linee, fasce di contorno e lumeggiature – della decorazione.
L’effetto visivo che in tal si ottiene fa risaltare nella
pittura quella che Gaetano Ballardini definì efficacemente come “tavolozza fredda”: nelle realizzazioni più
evolute la stesura di colori freddi giunge così sino ad
indurre un effetto di “visione notturna”, quasi fosse
priva delle tonalità calde della luce solare.
Il periodo della “tavolozza fredda”, pur relativamente breve, rappresentò però una novità di grande
momento nella storia della ceramica di Montelupo e
degli altri centri di fabbrica della maiolica italiana. In
questa fase centrale del XV secolo, infatti, la generazione dei pittori che si trova ad operare nei diversi
luoghi di produzione si dimostra insofferente degli
schemi ereditati dal passato, ed inizia a ricercare un
diverso modo di dipingere. La tensione che anima
5b
5c
5b. Damaschino monocromo, Scodella con fiore, 1430-40, Ø cm. 28,2
5c. Damaschino monocromo, Scodella con lettera gotica, 1430-50, Ø cm. 21,0
5d. Damaschino monocromo, Fruttiera con scena di caccia, 1440-60, Ø cm. 40,5
DAMASCHINO
DAMASACHINO
Tra i motivi principali che si inseriscono in questa
tipologia monocroma si notano decorazioni araldiche,
zoomorfe, fitomorfe ed antropomorfe, oltre a richiami
di natura grafica, incentrati sull’uso di lettere maiuscole in scrittura gotica, derivate direttamente dalle
maioliche spagnole.
L’impiego della monocromia blu nelle figurazioni
centrali impone la necessità di lasciare alcune parti
risparmiate all’interno di esse, al fine di renderne percepibile la morfologia, ragione per cui la pittura avviene
normalmente in due fasi successive. Nella prima di
queste si dipinge infatti il soggetto in azzurro ben
diluito, realizzando le sue parti periferiche, e lasciando
alcune porzioni interne dello stesso risparmiate dalla
stesura del colore, peraltro particolarmente tenue.
Nella seconda fase si ripassa la figura già tracciata con
un pigmento più concentrato; in tal modo le zone in
bianco, precedentemente risparmiate, accompagnandosi a quelle azzurrine, definiscono come una sorta di
ombreggiatura il volume dei soggetti, rendendone così
più efficace e realistica la rappresentazione monocroma.
5e. Damaschino “tavolozza fredda”, Scodella con simbologia della Fede,
1450-60, Ø cm. 33,0
5f. Damaschino “tavolozza fredda”, Scodella con leone, 1440-60, Ø cm. 18,3
227
ume of the figures, making the monochrome representation more efficient and realistic.
“Cold palette” damaschino
In the painting on polish that develops more directly
the Spanish influences, the use of blue, following the
criteria that we defined as “monochrome damaschino”, becomes more complicated due to the introduction of new pigments. These were already used in
the production of brown manganese, green ramina
and yellow. In this way the dominance of monochrome techniques are interrupted, even if it is still
used in mixes with cobalt hydroxide. At the beginning these new techniques are only used in secondary parts (lines and bands) of the decorations.
The visual affect highlights what Gaetano Ballardini defined as “cold palette”: in the more evolved
phases the use of cold colours introduces an affect
of “nocturnal vision” as if it lacked the warm tones
of solar light.
This period, even if short, represented a great
turning point in Montelupo ceramic history and in
the other ceramic centres in Italy. In the central
phase of the 15th century, the generation of painters
that operate in different production areas prove to
be intolerant towards the models inherited from the
past and starts looking for a different way to paint.
The tension that animates these men clearly has a
cultural nature: the world that surrounds them is in
fact completely involved in the aesthetic Renaissance revolution. In this period there are great
accomplishments of colour and realistic representation. The “cold palette” welcomes both of these
accomplishments and introduces the aesthetic characteristics of Renaissance in lustered paintings.
Products that are still influenced by the Islamic culture, even if only the one that derives from Spain is
freed from the old models that favoured the decorative aspects of pictorial representation. The classic
model of embedding the main figures into spaces
that are traced by borderlines is abandoned while it
becomes more and more common to embed graphic
signs next to the figures. In this way the figures are
inserted in spaces that do not have artificial limitations and they are characterised by more realism
even if the lack of warm tones are not able to underline this aspect in an adequate way. The tendency,
however, is acknowledged and with the next generation it will become truly significant.
5b. Monochrome Damaschino, Bowl with flower, 1430-40, Ø cm. 28,2
DAMASCHINO
DAMASCHINO
226
5c. Monochrome Damaschino, Bowl with gothic letter, 1430-50, Ø cm. 21,0
5d. Monochrome Damaschino, Fruit bowl with scene of hunt, 1440-60, Ø cm. 40,5
5e. “Cold Palette” Damaschino, Bowl with symbol of Faith, 1450-60, Ø cm. 33,0
5f. “Cold Palette” Damaschino, Bowl with Lion, 1440-60, Ø cm. 18,3
5d
5e
5f
5g
5g. Damaschino “tavolozza fredda”, Vaso da fiori, 1450-70, h cm. 26,0
5h. Damaschino “tavolozza fredda”, Boccale figurato, 1440-60, h cm. 26,0
DAMASCHINO
5i. Damaschino “tavolozza fredda”, Ciotola con giovinetto, 1450-60, Ø cm. 20,5
5l. Damaschino “tavolozza fredda”, Alberello vegetale, 1460-80, h cm. 24,3
5m. Damaschino “tavolozza fredda”, Boccale con corona marchionale, 1
460-80, h cm. 18,8
5h
6. MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE
In questa tipologia, secondo quanto precedentemente rilevato in merito all’evoluzione tardiva della
maiolica arcaica, inseriremo il genere decorativo caratterizzato dalla compresenza di parti in ramina e manganese con l’aggiunta di un terzo pigmento (giallo od
arancio) che già Galeazzo Cora aveva inserito nel “gruppo IV” della sua classificazione, e che la ricerca archeologica condotta in Montelupo ha evidenziato come portatrice di un’articolazione assai più complessa. La maggiore complessità tipologica interna è venuta poi a
documentare con grande ricchezza di particolari lo
stretto rapporto che intercorre tra questo genere e la
maiolica arcaica della fase tardiva, giungendo così ad
avvalorare anche in senso storico la nomenclatura che
ad essa abbiamo attribuito.
È poi essenziale sottolineare una questione fondamentale che attiene a questo genere, e cioè il suo impiego pressoché esclusivo sulle forme aperte: tra le migliaia di frammenti ad esso pertinenti rinvenuti negli scarichi di fornace di Montelupo, infatti, solo una minuscola porzione di boccale – quasi un reperto casuale, quindi – risulta decorata coi motivi dell’arcaica tricolore.
Ciò è ampiamente sufficiente a farci ritenere l’utilizzo
su ciotole, scodelle e scodelloni delle tipologie decorative che gli appartengono come pressoché esclusivo nella
MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE
questi uomini è chiaramente di natura culturale: il
mondo che li circonda è infatti ormai pienamente coinvolto nella rivoluzione estetica rinascimentale, la quale
pone sotto i loro occhi le grandi conquiste del colore e
della rappresentazione realistica. È verso l’accoglimento di entrambe che la “tavolozza fredda” inizia a
muovere i primi, timidi passi verso l’introduzione nella
pittura su smalto dei canoni estetici del Rinascimento.
All’interno di prodotti che ancora risentono dell’influenza della cultura islamica, anche se ridotta ormai
a quella veicolata dalla Spagna, si giunge così ad
affrancarsi dai vecchi schemi che privilegiavano gli
aspetti decorativi della rappresentazione pittorica.
Viene così abbandonato il classico schema dell’inserimento dei soggetti principali entro spazi delimitati da
linee di contorno, mentre si tralascia sempre più frequentemente di apporre una minuta teoria di segni
grafici a fianco degli stessi. In tal modo si tende in
maniera sempre più decisa ad inserire queste stesse
figure in spazi privi di limitazioni artificiali, ove esse
ricevono una più evidente connotazione realistica,
anche se un cromatismo privo dei toni caldi non riesce
a sottolineare tale aspetto in maniera adeguata. La tendenza, però, è marcata, e sarà la successiva generazione a portarla a compimento.
229
228
DAMASCHINO
5h. “Cold Palette” Damaschino, Figured jug, 1440-60, h cm. 26,0
5i. “Cold Palette” Damaschino, Basin with jung man, 1450-60, Ø cm. 20,5
5l. “Cold Palette” Damaschino, Spice holder with plant-like decor,
1460-80, h cm. 24,3
5m. “Cold Palette” Damaschino, Jug with marquis’s crown, 1460-80, h cm. 18,8
5i
5l
5m
In this type, as earlier stated speaking about the
late evolution of archaic majolica, we can insert a
decorative genre characterised by the presence of
ramina and manganese with a third pigment (yellow
or orange). Galeazzo Cora had already inserted this in
“group IV” of his classification, and archaeological
research in Montelupo underlined it as being characterised by a complex articulation. The complexity of
the type richly documents the close relationship
between this genre and the late archaic majolica, giving a historical sense of more value to the names that
we had given to these periods. It is then essential to
underline a fundamental issue that belongs with this
genre, that is its almost exclusive use on open models:
among the thousands of fragments found in the
residue of the Montelupo furnaces. In fact, only a
small portion of a jug is decorated with the motifs of
the archaic tri-colour. This is more than enough to
make us think that the use on bowls of the decorative
types of the genre as almost exclusive of the Montelupo production. There are only a few exceptions
(especially for pharmaceutical destinations) but their
nature does not include them in the serial criteria of
the production.
THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA
6. ARCHAIC TRI-COLOUR
MAJOLICA
5g. “Cold Palette” Damaschino, Flower-pot, 1450-70, h cm. 26,0
produzione di Montelupo, con la sola, ovvia eccezione
di qualche manufatto particolare (in specie con destinazione farmaceutica), la cui natura era tale da sfuggire ai
criteri seriali della produzione.
Le sue caratteristiche di genere riservato alla fabbricazione di forme aperte, e per di più di quelle dalla
morfologia più antica, destinate ad un uso sulla mensa
ormai “tradizionale”, indicano come l’arcaica tricolore
venisse prodotta nelle botteghe dei vasai di Montelupo
assieme a forme chiuse contraddistinte da altri generi
decorativi, quali la zaffera e, soprattutto, il damaschino, sui quali si sviluppavano ricerche formali più
avanzate. Corollario importante di questa “marginalità” nella quale era confinata l’arcaica tricolore, è poi il
conservatorismo dei decori che si impiegavano su questo genere, gran parte dei quali costituisce lo sviluppo
cromatico e, assai più modestamente, decorativo, di
quanto già sviluppato nella fase evoluta e tardiva della
6e
MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE
RICORRENTE ITALIANO
6a
maiolica arcaica.
Lo stesso legame con l’antica produzione in ramina
e manganese risalta anche con grande chiarezza dall’aspetto morfologico dei manufatti, nei quali si nota
identità con le forme aperte proprie a questa fase evoluta dell’arcaica, e solo un loro modesto aggiornamento.
Persino negli aspetti tecnologici, del resto, emerge tale
rapporto di dipendenza. In entrambi i generi, infatti, si
nota la propensione, ben attestata sin dall’inizio del XV
secolo, a lasciare nudo l’esterno dei manufatti con pareti basse, quali scodelle e scodelloni – ove la nudità esterna del supporto non può essere percepita, se non quando il manufatto è capovolto – o nelle forme più arcaiche, quali i bacili troncoconici.
Non può sussistere ragionevole dubbio, quindi, sul
fatto che questo genere rappresenti l’estrema evoluzione
ed aggiornamento produttivo della maiolica arcaica,
utile a protrarne la diffusione, indirizzandola soprattutto verso un mercato di tipo tradizionale, sino ai
6a. Maiolica arcaica tricolore, Ciotola decoro vegetale, 1450-70, Ø cm. 17,3
6b. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 36,5
6e. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone con decoro vegetale, 1460-80, Ø cm. 26,6
6c. Maiolica arcaica tricolore, Scodella decoro vegetale, 1490-1510, Ø cm. 26,0
6f. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 33,8
6d. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone decoro vegetale, 1490-1510, Ø cm. 34,0
6g. Maiolica arcaica tricolore, Ciotola con decoro vegetale, 1460-80, Ø cm. 17,8
231
6a. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1450-70, Ø cm. 17,3
6e. Three-colour Archaic Majolica, Large bowl with plant-like decor, 1460-80,
6b. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 36,5
Ø cm. 26,6
6c. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1490-1510,
6f. Three-colour Archaic Majolica, Large bowl with plant-like decor, 1480-90,
Ø cm. 26,0
Ø cm. 33,8
6d. Three-colour Archaic Majolica, Large bowl with plant-like decor, 1490-1510,
6g. Three-colour Archaic Majolica, Basin with plant-like decor, 1460-80, Ø cm. 17,8
Ø cm. 34,0
6f
6b
6c
6d
The fact that the genre was reserved to the
production of open models destined to a “traditional” use shows how the tri—colour archaic was produced in Montelupo next to closed models characterised by other decorative genres such as zaffera
blue and mostly damaschino. The decorations were
very conservative.
The link with the ancient production in ramina and manganese accentuates the morphological
appearance of the handcrafts in which we notice distinctiveness with the open models that belong to the
evolved phase of archaic and with only a modest
update. This relationship of dependants is clear even
in the technological aspects. In both genres we can
notice the tendency, starting from the beginning of
the 15th century, to leave the external parts of the
bowls and washbasins unadorned.
Doubtless this genre is the extreme evolution
6g
THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA
THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA
230
primi lustri del Cinquecento, data alla quale risalgono le
ultime scodelle in arcaica tricolore rinvenute nel “pozzo
dei lavatoi” in associazione ai generi decorativi rinascimentali di tipo già avanzato.
Sotto il profilo squisitamente formale occorre infine
osservare come questo genere mostri due grandi partizioni interne. La prima di esse è sostanzialmente composta da motivi vegetali di contorno, consistenti in una
fascia di foglioline lanceolate, campite in verde o alternate in verde ed arancio, disposta lungo la parete interna dei manufatti; i motivi centrali, anch’essi consistenti di norma in rappresentazioni fitomorfe stilizzate,
possono essere separati da parti barrate ad intreccio,
che formano una sorta di reticolo in
bruno di manganese. Questo gruppo comprende anche
esemplari figurati.
La seconda partizione decorativa dell’arcaica tricolore è rappresentata da maioliche con decoro semplificato, incentrato sul classico motivo vegetale cruciforme
posto al centro, al quale si uniscono quattro foglie collocate negli spazi vuoti di risulta: in essa è facile riconoscere l’evoluzione del più classico motivo della maiolica
arcaica, destinato ad ornare specialmente le forme aperte. Nelle forme a bassa parete questa composizione si
unisce ad una tesa con settori barrati a segmenti verticali e paralleli in verde ed bruno che si alternano; le
pareti sono poi quasi sempre dipinte con fasce in verde
ed arancio.
7. EVOLUZIONE POLICROMA
DEL DAMASCHINO
OVALI RAGGIATI
MAIOLICA ARCAICA TRICOLORE
FOGLIA DI VITE STILIZZATA
FIORE DI PAPAVERO O GAROFANO
GIRALI VEGETALI
FOGLIE STILIZZATE VERTICALI
FOGLIE PARTITE ORIZZONTALI
7a
CIUFFETTI VEGETALI STILIZZATI
6h. Maiolica arcaica tricolore, Scodellone
figurato amatorio “imenso amore”, 1440-60,
Ø cm. 46
7a. Damaschino policromo, Boccale vegetale, 1480-90, h cm. 24,6
Si tratta, come si vede, di un coacervo di canoni
decorativi diversi, spesso contaminati tra di loro, anche
7b. Damaschino policromo, Boccale con stemma non identificato, 1480-90, h.
cm 14,9
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
Costituisce l’ultima fase di quello che, come si è
visto, possiamo definire “damaschino”, in quanto legato
alla complessa evoluzione delle influenze di matrice
culturale islamica introdotte nella pittura su maiolica in
Montelupo già ad iniziare dalla seconda metà del XIV
secolo, ed in particolare l’ultimo sviluppo dell’omonima
produzione, della quale abbiamo già visto le precedenti
tappe, legate all’uso della monocromia prima, ed all’introduzione della “tavolozza fredda” dopo.
La versione policroma del damaschino può dirsi la
produzione “di punta” di questa fase, e costituisce di
fatto un genere a sé stante, vista la complessità e l’articolazione delle varianti interne. All’interno di esso, pertanto, distingueremo i seguenti gruppi:
233
232
THREE-COLOUR ARCHAIC MAJOLICA
bowl with amatory figure “imenso amore”,
1460-80, Ø cm. 46
7a. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h cm. 24,6
7b. Polychrome Damaschino, Jug with not identified coat of arms, 1480-90,
h. cm 14,9
This is the last phase of what we can define
damaschino. It is linked to the complex evolution of
the Islamic influence in ceramic painting in Montelupo from the second half of the 14th century, to the
last development of this production and the introduction of the “cold palette”.
The polychrome of damaschino is the most
important production of this phase and can be considered as a single genre due to its complexity and
internal articulations. In fact, we can distinguish the
following groups:
6h
and productive update of archaic majolica, useful in
order to extend its development towards a more traditional market from the first years of the 1500’s
(period from which the last tri-colour archaic bowls
from the “washhouse well” belonged).
From a customary point of view we must
observe how this genre is divided into two different
categories. The first one is comprised of border
plant-like motifs characterised by a band of small
leaves in green or alternated in green and orange
along the inside wall of the handcrafts. Woven parts
that form a sort of reticulum in brown manganese
can separate the central motifs, also characterised
7. POLYCHROME EVOLUTION
OF DAMASCHINO
by stylised floral images. The second category consists of majolica with a simple decor, based on the
classic plant-like motif of the cross in the centre,
connected to four leaves embedded in the empty
spaces: it is easy to recognise the evolution of the
archaic majolica classic motif destined to decorate
open models. In the models with the short wall this
composition is characterised by alternating green
and brown vertical segments. The walls are almost
always painted in green and orange bands.
OVALS WITH RADIUSES
STYLISED VINE LEAVES
CLOVES OR DAFFODILS
PLANT-LIKE
CURLYICUE
VERTICAL STYLISED LEAVES
DIVIDED HORIZONTAL LEAVES
STYLISED PLANT-LIKE TUFTS
As we can see, there are many different decorative criteria that often have common details. This
is also because they were made in the same factories
and by the same painters who moved further and
7b
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
6h. Three-colour Archaic Majolica, Large
7c
7c. Damaschino policromo, Boccale vegetale, 1480-90, h cm. 19,3
7d. Damaschino policromo, Boccale con decoro vegetale, 1480-90, h. cm. 19,5
Ovali raggiati
In questa partizione del damaschino policromo dobbiamo inserire gran parte della pittura su forma chiusa
del terzo quarto del XV secolo: si tratta quindi di un
gruppo di fondamentale importanza – sotto il profilo
quantitativo e qualitativo – nello sviluppo della maiolica
montelupina. L’imponente restituzione che ne caratterizza la presenza all’interno degli scarichi di fornace di
questo periodo costituisce non soltanto una chiara testimonianza del grande sviluppo realizzato dalla produzione locale, ma anche una prova altrettanto evidente della
tendenza alla standardizzazione del prodotto che in
quel lasso di tempo va determinandosi.
La definizione di “ovali raggiati” viene assegnata a
questo gruppo in ragione dell’evoluzione formale che
contraddistingue lo schema decorativo che gli è proprio, e che è sempre e costantemente iterato come canone rigido ed invariabile. Ricordando che questa decorazione riguarda unicamente le forme chiuse, ed in particolare i boccali, possiamo affermare che essa consiste
essenzialmente in una rigorosa separazione delle parti
laterali del manufatto dal suo lato anteriore. Così, mentre sui fianchi si distendono fasce caratterizzate da semplici motivi di riempimento, sulla faccia in vista si delinea un ovale, che, dopo esser stato impreziosito da una
sorta di raggiatura espansa verso l’esterno, è sottolineato da pennellate in verde, giallo ed arancio. In tal
modo si realizza una precisa gerarchia tra le diverse
componenti della decorazione, che più non tollera,
quindi, quella commistione tra figurazioni o motivi
principali ed elementi di contorno che, invece, caratterizzava le precedenti fasi del damaschino e degli altri
generi realizzati dai vasai montelupini.
Negli ovali collocati sulla faccia a vista dei boccali
compaiono così, isolati dal resto della decorazione,
soprattutto motivi vegetali, ma anche figure zoomorfe
ed antropomorfe; non sono rare, poi, le rappresentazioni araldiche. Si nota anche in questo gruppo del
damaschino policromo l’apparizione di un fiore dai lunghi petali carnosi aperti, nel quale è facile riconoscere il
motivo della floreale, sulla cui rappresentazione in
senso invasivo su forma aperta verrà costruito un vero e
proprio genere, destinato ad un lungo successo, del
quale tratteremo poco oltre.
7e
Foglia di vite stilizzata
Questo decoro consiste in una teoria di foglie disposte
in senso verticale sulla tesa e nella parete interna delle
7e. Damaschino policromo, Boccale con sigillo mercantile, 1480-90, h cm.15.8
7f. Damaschino policromo, Boccale con decoro vegetale, 1480-90, h cm. 23,8
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
perché eseguiti nelle medesime botteghe e dagli stessi
pittori, i quali vanno sempre allontanandosi dagli schemi del passato, perseguendo un rinnovamento produttivo che sarà pienamente raggiunto di lì a poco tempo,
nel corso degli anni Ottanta.
235
234
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
7d. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h. cm. 19,5
7d
further away from the models of the past to reach a
productive rejuvenation. This occurrence dates back
to the 1480’s.
Ovals with radiuses
In this category of polychrome damaschino, we
must insert most of the painting on closed models of
the end of the 15th century: It is a fundamental
group (both for the quantity and the quality) for the
development of Montelupo ceramics. The large
number of findings in the kiln’s residues gives a
clear documentation of the great development of the
local production. This also proves the tendency to
standardise the product in that period.
The definition “oval with radiuses” is assigned
to this group because of the formal evolution that
characterises its decorative model. This decoration
is related uniquely to closed models, especially jugs.
It essentially consists in a separation of the side
parts from the front. While on the sides there are
bands characterised by simple filling motifs, on the
front there is an oval that, after being enriched by
the presence of a radius towards the outside, is
underlined by green, yellow and orange strokes. The
result is a precise hierarchy among the different
components of the decoration that no longer tolerates the mixture of main figures and motifs and bor-
der elements that characterised the other phases of
damaschino and the other genres created in Montelupo.
The ovals on the front of the jugs are isolated
from the rest of the decoration and are characterised
by plant-like, animal, human and heraldic motifs. In
this group we can also find flowers with long open
petals and on this type of representation a new
genre, destined to success, will be built.
7e. Polychrome Damaschino, Jug with merchant class seal, 1480-90, h cm.15.8
7f. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h cm. 23,8
Stylised vine leaves
Montelupo products to the Spanish prototypes are
underlined by the internal veins of the leaves, here
suggested thanks to the “graffitura” of the pigment
(common technique in this period) and the alternation of blue and manganese, in the reddest tone of
this pigment, usually indicated with the term “porpora” (crimson).
Plant-like curlicue
The research of decorative motifs capable of renewing the ones deriving from the traditional painting
on ceramics pushes the craft makers of Montelupo
towards innovations with many productive difficulties and an ephemeral life in the local production.
This phenomenon starts in the early 1490’s. In this
era the Montelupo factories, after completing the
7f
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
7c. Polychrome Damaschino, Jug with plant-like decor, 1480-90, h cm. 19,3
7g
Girali vegetali
La ricerca di motivi decorativi in grado di innovare
quelli offerti dalla tradizione secolare della pittura su
maiolica spinge palesemente i ceramisti di Montelupo
verso innovazioni che presentano non poche difficoltà
di realizzazione e che, come tali, avranno una vita effimera nella produzione locale. Questo fenomeno, come
vedremo, si mostra sino all’inizio dell’ultimo decennio
del Quattrocento, epoca in cui le botteghe montelupine,
completato il ciclo di trasformazione dei loro standards
formali, si esprimeranno in base ad una serie relativamente ristretta, ma ormai codificata, di generi.
Il ricorso a decorazioni complesse, incentrate sulla
rappresentazione stilizzata di figurazioni vegetali in stilizzazione, si nota appunto in una serie di maioliche –
per lo più piatti scodelliformi –sui quali sono dipinti
tralci vegetali sinuosi. Si tratta di decori assai invasivi,
che saturano completamente i supporti, e che consistono in girali dai quali si originano minuscole foglie
dipinte di blu, alle quali si alternano dei tratti ad esse
parallele in bruno di manganese, e che di norma terminano con un fiore lumeggiato di giallo.
Foglie stilizzate verticali
In questo gruppo può sostanzialmente individuarsi una
7g. Damaschino policromo (foglia di vite), Scodella con figura di alchimista,
7l. Damaschino policromo (foglie verticali), Scodella con decoro geometrico,
1450-60, Ø cm.34,0
1480-90, Ø cm. 21,4
7h. Damaschino policromo (girali vegetali), Piatto con decoro invasivo,
7m. Damaschino policromo (foglie verticali), Scodella con decoro geometrico,
1480-90, Ø cm.28,0
1480-90, Ø cm.35,0
7i. Damaschino policromo (girali vegetali), Scodella con decoro vegetale,
7n. Damaschino policromo (foglie partite), Scodellone con figura di cinghiale,
1480-90, Ø cm.30,0
1480-90, Ø cm.36,0
7l
237
236
7g. Polychrome Damaschino (Stylised wine leaf), Bowl with necromancer figure,
7l. Polychrome Damaschino, (Vertical leaves), Bowl with geometrical decor,
1450-60, Ø cm.34,0
1480-90, Ø cm. 21,4
7h. Polychrome Damaschino (Plant-like curlyicue), Plate with invasive decor,
7m. Polychrome Damaschino, (Vertical leaves), Bowl with geometrical decor,
1480-90, Ø cm.28,0
1480-90, Ø cm.35,0
7i. Polychrome Damaschino, (Plant-like curlyicue), Plate with invasive decor,
7n. Polychrome Damaschino (divided leaves), Large bowl with boar,
1480-90, Ø cm.30,0
1480-90, Ø cm.36,0
7h
7m
transformation cycle of their formal standards,
express themselves through a restricted coded number of genres.
The use of complex decorations, based on the
stylised representation of plant-like figures can be
found on a series of majolica (mostly on plates).
They are quite evasive decors, that completely saturate the supports and that consist in curlicue from
which tiny blue leaves originate. These leaves are
alternated with parallel brown manganese lines that
normally end with a yellow flower.
7i
Vertical stylised leaves
This group is a sort of stylisation of the one that preceded it (plant- like curlicue) and it is a kind of mixture
of that style together with vine leaves. There is a border
motif (in vertical sense on open models) that repeats
the characteristics of the Valencia leaf (but with an
accentuated stylisation). The plants of the curlicue
category are reduced to simple segments and they
assume a horizontal and parallel trend, that then
becomes vertical on the rim; the blue strokes that suggested the plants’ stem is now alternated with brown
manganese that usually has a cursive and winding
trend.
The geometrical image that results from the
decoration is accentuated by the rigid geometrical
division: radiuses obtained with bi-colour stripes
(green and yellow or green and orange) that start from
the external part of the circle that surrounds the central motifs, almost always consisting in a stylised floral
corolla. These radiuses suggest the principle stem of
the leaves, but its straight trend is enough to eliminate
almost completely the reference to the natural world.
It also cuts the decoration on the wall into more sections, deleting any residual natural significance.
7n
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
forme aperte, nelle quali è palese il riferimento alla
foglia di vite della coeva produzione spagnola. La vicinanza di questi prodotti di Montelupo ai prototipi spagnoli è sottolineata dalle nervature interne delle foglie,
qui suggerite attraverso l’artificio della graffitura del
pigmento – una tecnica assai diffusa in questo periodo –
ed all’alternanza che di norma si rileva della colorazione in blu e manganese, nella tonalità più rossastra di
quest’ultimo pigmento, spesso indicata dai ceramologi
con il termine di “porpora”.
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
7o. Damaschino policromo (foglie partite), Scodellone con drago, 14
80-90, Ø cm. 36,6
7p. Damaschino policromo (foglie partite), Scodella con decoro vegetale, 14
Foglie partite orizzontali
Si tratta di un gruppo che si pone come numericamente rilevante all’interno degli scarichi di fornace
montelupini del terzo quarto del XV secolo. Esso si
caratterizza per l’impiego di una foglia di tipo allungato (diversa, quindi, dalla stilizzazione della vite), che
sembra tagliata per metà lungo la sua nervatura centrale, e viene dipinta sulla tesa delle forme aperte a
contatto con la fascia di contorno del bordo. La teoria
continua delle foglie, accostate le une alle altre, è tale
da saturare quasi completamente lo spazio: le parti
che non sono occupate dallo sviluppo di questo motivo sono poi riempite da raggiature che si indirizzano
verso il centro dei manufatti, e che sono realizzate in
blu di cobalto. Le nervature secondarie delle grandi
foglie partite a metà vengono poi quasi sempre suggerite da profonde incisioni che fanno emergere il bianco dello smalto al disotto del colore con le quali esse
7q
7q. Damaschino policromo (foglie partite), Piatto con emblema dei Flagellanti,
1480-90, Ø cm. 21,0
7r. Damaschino policromo (foglie partite), Scodella con decoro vegetale,
1480-90, Ø cm. 16,3
7s. Damaschino policromo atipico, Scodella con simbologia di San Bernardino
(1480-90), Ø cm. 23,5
80-90, Ø cm. 26,5
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
7o
sorta di stilizzazione del precedente, ed una specie di
connubio del medesimo con quello a “foglie di vite”.
In esso si nota il ricorso ad un motivo di contorno –
sempre collocato sulla tesa delle forme aperte in senso
verticale – che ripete la fisionomia della foglia valenciana, sottoponendola però ad un’accentuata stilizzazione.
I tralci vegetali del genere precedente sono infatti ridotti a semplici segmenti ed assumono nel centro delle
scodelle un andamento orizzontale e parallelo, che poi
si fa verticale sulla tesa; alle pennellate in blu con le
quali si suggerivano gli steli vegetali si alternano inoltre
tratti in bruno di manganese, spesso dall’ andamento
corsivo e serpeggiante.
L’immagine geometrica della decorazione che ne
risulta è inoltre accentuata dalla rigida partizione dell’insieme: una sorta di raggi ottenuti con strisce bicolori (in verde e giallo o verde ed arancio) si dipartono
infatti dalla cerchiatura che stringe i motivi centrali,
quasi sempre consistenti in una corolla floreale stilizzata. Questa specie di raggiatura vuol dunque suggerire lo
stelo principale delle foglie, ma il suo andamento rettilineo, ben diverso da quello sinuoso del gruppo precedente, è tale da cancellare quasi del tutto il riferimento
al mondo vegetale; essa, per di più, taglia in diversi settori la decorazione che si stende sulla parete, togliendo
alla medesima ogni residuo significato naturalistico.
239
238
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
1480-90, Ø cm. 36,6
7p. Polychrome Damaschino (divided leaves), Large bowl with plant-like decor,
1480-90, Ø cm. 26,5
7p
Divided horizontal leaves
This group is numerically relevant amongst the kiln
residues of Montelupo of the end of the 15th century.
It is characterised by the use of a long leaf (different
from the vine stylisation) that seems cut in half
along its central vein and is painted on the rims of
the open models in contact with the border band.
The leaves are all one next to the other and they
almost completely saturate the space: the parts that
are not occupied by the development of this motif is
filled with radiuses that face the centre of the products and that are painted in blue cobalt. The secondary veins of the big leaves divided in half are almost
always suggested thanks to profound incisions that
causes the white lustre to emerge from beneath the
coloured parts. These are usually brown manganese,
but can sometimes be blue or made with two pigments (a clear influence of the Spanish use of two
colours). We rarely find divided leaves that are completely painted.
While the inner wall is characterised by a simple filling motif, almost always a plant-like stylisation, the centre of these majolica frequently present
complex figures, with human and animal subjects,
which are often greatly developed due to their
dimensions. It is not rare to also find floral border
decors.
7q. Polychrome Damaschino (divided leaves), Plate with symbol of Flagellanti
(flayer), 1480-90, Ø cm. 21,0
7r. Polychrome Damaschino (divided leaves), Bowl with plant-like decor,
1480-90, Ø cm. 16,3
7s. Polychrome Damaschino (divided leaves), Bowl with symbol of S. Bernardino,
1480-90, Ø cm. 23,5
7r
Stylised plant-like tufts
Even this decorative type contributes to the construction of the new formal season that characterises
these years in Montelupo. Like the other groups, in
fact, it does not only look for new motifs, but it also
stylises and “normalises” the decor, based on the use
of a sort of “tuft”.
The composition that is based on the tuft is
found only on the rim and it is alternated in brown
and blue. It reaches a certain efficiency thanks to the
inversion of the sense of the tufts that are sometimes
facing the border and sometimes facing the centre.
The result is a somewhat visual wave that creates a
dynamic sensation. Apart from this stylised border,
there are other plant-like motifs on the open models.
In particular there are compositions with floral
corollas surrounded by styles, used in great abundance in the decoration of bowls with cut walls.
7s
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
7o. Polychrome Damaschino (divided leaves), Large bowl with dragon,
Confinata nello spazio delle tese, la composizione
che si basa sul “ciuffetto” consiste nell’alternanza di
questi motivi dipinti in bruno ed in blu. La composizione perviene anche ad una certa efficacia, grazie
all’artificio dell’inversione del senso dei “ciuffetti”
medesimi, una volta indirizzati verso il bordo e successivamente piegati verso il centro, sino a formare
una sorta di onda visiva che crea un’apprezzabile sensazione di dinamismo.
A questo contorno assai stilizzato si uniscono nel
centro delle forme aperte altri motivi di derivazione
vegetale, ed in particolare composizioni con corolle
floreali circondate da stami, impiegati in grande
abbondanza anche nella decorazione delle ciotole a
parete tagliata, delle quali tratteremo di seguito.
Ciuffetti vegetali stilizzati
Anche questa tipologia decorativa contribuisce con
tutta evidenza alla costruzione di quella nuova stagione formale a cui si indirizzano in questi anni gli sforzi
dei vasai di Montelupo. Come i gruppi precedenti,
infatti, oltre a ricercare motivi inediti, si nota in essa
un’evidente ricerca di stilizzazione e “normalizzazione” del decoro, incentrato sull’impiego di una specie
di “ciuffetto” vegetale.
7t. Damaschino policromo atipico, Piatto con uccello, 1480-90, Ø
cm. 27,2
8. FLOREALE ANTICA
Il motivo della cosiddetta “floreale” che caratterizza questo genere consiste in un decoro fitomorfo composto da due foglie (o, piuttosto, da due petali), che si
ripiegano su se stesse, facendo così spuntare un’infiorescenza dipinta in giallo od arancio. A differenza di molti
storici della ceramica, i quali definiscono questo motivo
“gotico” (floreale gotica), preferiamo attenerci ad un termine privo di questo aggettivo, avvicinandolo semmai
ad alcune indicazioni temporali (antica, evoluta, tarda),
che ci appaiono necessari ad indicarne il lungo percorso storico.
Nella trattazione del genere dobbiamo tralasciare in
questa sede la descrizione della variante in verde della
medesima “floreale”, in quanto essa, pur relativamente
abbondante, non offre al momento la possibilità della
ricostruzione dei manufatti, anche se essi appartengono
tutti alla forma dello scodellone apodo, più noto per i
decori in “maiolica arcaica tricolore”, tanto che Galezzo
Cora inserì questa versione della “floreale” nel suo corrispondente “Gruppo IV”.
Il motivo fitomorfo che caratterizza il genere ebbe
anche due ulteriori versioni, le quali si caratterizzano
per la sostituzione del verde-ramina con l’ossido di
cobalto: in questa variante cromatica, quindi, mentre da
un lato il lungo petalo carnoso del fiore presenta, ripie-
8a
8a. Floreale antica, Scodella con decoro invasivo, 1480-90, Ø cm. 26,0
8b. Floreale antica, Fruttiera con decoro invasivo, 1470-90, Ø cm. 39,0
FLOREALE ANTICA
EVOLUZIONE POLICROMA DEL DAMASCHINO
sono campite, di norma il bruno di manganese, ma
che talora prevede l’uso del blu o l’alternanza dei due
pigmenti come estrema citazione della caratteristica
bicromia della produzione spagnola. Più raramente
troviamo foglie partite dipinte.
Mentre sulla parete interna si distende un semplice
motivo di riempimento, quasi sempre consistente
nella stilizzazione di una fronda vegetale, il centro
delle maioliche che appartengono a questo gruppo
mostra frequentemente figurazioni complesse, con
soggetti zoomorfi ed antropomorfi, talora anche di
notevole sviluppo, viste le dimensioni che caratterizzano alcuni scodelloni ad esso appartenenti. Non è
raro incontrare anche con questo decoro di contorno
il motivo centrale della “floreale”.
241
240
POLYCHROME EVOLUTION OF DAMASCHINO
8. ANTIQUE FLORAL
8a. Antique floral, Bowl with invasive decor, 1480-90, Ø cm. 26,0
1480-90, Ø cm. 27,2
7t
8b. Antique floral, Fruit bowl with invasive decor, 1470-90, Ø cm. 39,0
The floral motif that characterises this genre
consists in two leaves (or two petals) that fold over
themselves. The result is a yellow or orange bloom.
Most ceramic historians define this motif as gothic;
however, we prefer a term that does not use this adjective so we tend to use indications to its long historic
journey (antique, evolved, late).
We cannot describe the green version of this
category since at the moment it does not offer the
possibility to reconstruct the handcrafts, even if they
are all part of the tri-colour archaic majolica that
Galeazzo Cora inserts in his “group IV”.
The floral motif that characterises this genre
also had two other versions, that are characterised
by the substitution of green ramina with cobalt
oxide: in this chromatic variation, while on one side
the flower’s petal is in brown manganese, on the
other side it is an intense blue. This pigment is frequently used at a pure state, that is without being
mixed with lead oxide: however, when this happens
there is a rising of the blue on the lustered surface
that is noticed also in the zaffera blue (which is a lot
thicker). Zaffera blue was only used in dots and particulars that had the scope to make the composition
more vivacious. The developments of the late 1400’s
8b
ANTIQUE FLORAL
7t. Atypical polychrome Damaschino, Plate with bird,
FLOREALE ANTICA
vamente rapida tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta
del XV secolo, e viene finalizzata all’applicazione su
forma aperta; ciò non toglie che con relativa frequenza
esso si ritrovi anche come soggetto principale nelle
parti a vista di quelle chiuse, in particolare sui boccali
del “damaschino policromo”.
Si conoscono versioni invasive della floreale antica
nelle quali il motivo viene sviluppato in particolari
dimensioni per ricoprire l’intera superficie dei manufatti, ed altre nelle quali si riduce per formare una più
modesta fascia di contorno; non è infrequente, infine,
incontrare assieme al grande fiore aperto che la caratterizza anche il richiamo all’ “occhio della penna di pavone”, che però, sottolineando il significato vegetale della
composizione, assume palesemente l’aspetto di un’infiorescenza.
9. CIOTOLE A BORDO TAGLIATO
E SCODELLINI
Nelle restituzioni di scavo degli scarichi di fornace di Montelupo che si datano alla seconda metà del
XV secolo emerge con grande frequenza una forma speciale, la ciotola a calotta sferica su basso piede con la
parete interna tagliata in senso confluente, la quale rappresenta per l’area fiorentina una delle forme-guida del
periodo: si tratta di contenitori dal molteplice uso, destinati soprattutto alle pietanze di contorno. Per essa è
stata proposta una definizione come “tipo Bacchereto”, davvero impropria se si pensa alla diffusione della
medesima, in epoca certamente coeva, in primo luogo
all’interno delle fornaci montelupine e fiorentine, ma
anche, con ogni probabilità, pratesi e pistoiesi.
È inoltre necessario osservare che le restituzioni del
“pozzo dei lavatoi” (alcune centinaia di manufatti rico-
9a
9a. Ciotole a bordo tagliato, Ciotola con decoro vegetale, 1480-1500, Ø cm. 19,0
8c. Floreale antica, Scodella con figura maschile,
9b. Ciotole a bordo tagliato, Ciotola con decoro vegetale, 1480-1500, Ø cm. 19,5
1480-90, Ø cm. 21,8
9c. Ciotole a bordo tagliato, Ciotola con decoro geometrico, 1470-90, Ø cm. 13,2
CIOTOLE A BORDO TAGLIATO E SCODELLINI
gandosi su se stessa, una campitura in bruno di manganese, l’altro mostra una colorazione in blu intenso.
Questo pigmento è utilizzato con maggiore frequenza allo stato puro, cioè senza mescolarlo con l’ossido di
piombo: quando però questo avviene, si realizza quel
rialzamento del colore blu sulla superficie smaltata che
(per spessori assai maggiori) è stato notato anche nella
“zaffera”. Dovendo riempire uno spazio pittorico ben
definito, è però comprensibile come i vasai tendessero
ad inserire la “zaffera” solo in puntinature e su particolari destinati a vivacizzare la composizione incentrata
sulla “floreale”. Gli sviluppi tardo-quattrocenteschi prevedono poi l’utilizzazione dell’idrossido di cobalto allo
stato puro che, a seconda della sua diluizione, produce,
senza accrescersi sulla superficie, toni di azzurro più o
meno intenso.
L’elaborazione del decoro avviene in maniera relati-
243
8c. Antique floral, Bowl with man, 1480-90,
9a. Basins with cut borders, Basin with plant-like decor, 1480-1500, Ø cm. 19,0
Ø cm. 21,8
9b. Basins with cut borders, Basin with plant-like decor, 1480-1500, Ø cm. 19,5
9c. Basins with cut borders, Basin with plant-like decor, 1480-1500, Ø cm. 13,2
9b
9. BASINS WITH CUT BORDERS
AND SMALL BOWLS
8c
are characterised also by using cobalt hydroxide at a
pure state that, based on its dilution, produces less
or more intense blue tones.
The enrichment of the decor occurs in a relatively abrupt manner between the 70’s and 80’s of
the 15th century and is eventuated in the usage on
open models. However, it can also be found with relative frequency as the main subject of the visible
parts of closed models, in particular on the “poly-
chrome damaschino” jugs.
There are invasive versions of antique floral,
in which the motif is developed in big dimensions to
cover the whole surface of the creation and others in
which the dimension is reduced to form a modest
border band. It is also not infrequent to find, with
the big open flower, the “eye of the peacock’s feather”, that captures the appearance of a blooming.
In the dig findings of the Montelupo furnaces
that date from the second half of the 15th century, we
find with great frequency a special model: a basin
with a spherical cap on a low base and with the inside
wall cut in a flowing sense. This represents one of the
main models of the period: it is a container with multiple uses destined mostly for vegetable dishes. One of
the first definitions for this model is “Bacchereto
type”; this is very improper if we think of the development of this type all over Montelupo, Florence, and
probably Prato and Pistoia.
We must also observe that the findings of the
“washhouse well” (a couple hundred handcrafts)
extend themselves from the 70’s of the 1400’s until
the first years of the following century. This allows
9c
BASINS WITH CUT BORDERS AND SMALL BOWLS
ANTIQUE FLORAL
242
biati per sigle di bottega – sembrano richiamare alcune
tipologie del lustro metallico valenciano: la corsività
che contraddistingue questa produzione emerge
comunque in tutti i suoi aspetti formali.
Tra i decori centrali, oltre alla rappresentazione stilizzata di corolle floreali attorniate da stami, che già
abbiamo incontrato nei ciuffetti vegetali – e che qui si
complica in una molteplicità di variazioni – si evidenzia
un motivo costituito da semplici motivi serpeggianti,
ristretti in un’ampia cerchiatura centrale, e talvolta realizzati con tratti di giallo e d’arancio.
A queste ciotole si affiancano, per il ruolo di complemento vascolare che veniva loro attribuito nell’arredo
della mensa, nonché per palese vicinanza decorativa,
scodellini dalla dimensioni assai ridotte, che potrebbero dirsi quasi miniaturistici. In questo caso siamo di
fronte a piccole saliere o contenitori per le salse.
La fabbricazione di questi scodellini, sottoposta a
criteri di larga serialità, mostra una foggiatura che non
sfruttava il piano del “tagliere” (la parte superiore del
tornio del vasaio), bensì la massa d’argilla collocata sul
medesimo, dalla cui sommità essi venivano tratti in
rapida successione. La tecnica – evidenziata dalla pressione dell’indice, lasciata sul pezzo fresco dal vasaio,
allorquando lo ha compresso per livellarne il piede –
non è di nuova introduzione, poiché è già attestata nel
secolo precedente.
La decorazione degli scodellini denota un semplice
riempimento barrato in blu sulla tesa, che risulta diviso
in quattro o più settori. Nel centro campeggiano composizioni stilizzate di vario richiamo fitomorfo, tra cui
una sorta di cespuglio o mazzetto attorniato dai soliti
“stami”, ove si palesa con più evidenza il richiamo
all’aspetto formale delle ciotole a parete tagliata.
9d. Scodellini, Scodellino con decoro
vegetale, 1470-90, Ø cm. 12,0
10. LUSTRO METALLICO
Le prove di una produzione di maioliche a lustro
metallico in Montelupo vanno moltiplicandosi dopo
che, nel 1979, era stato rinvenuto il primo frammento
inseribile – per le caratteristiche dell’impasto, assai
diverso da quello spagnolo – nelle attività delle fornaci
locali. La sporadicità del ritrovamento impediva però
qualsiasi collocazione tipo-cronologica del reperto,
tanto che il medesimo poteva essere interpretato come
residuo di un manufatto importato da altri centri italiani, o magari giunto nella cittadina valdarnese da Firenze o da Cafaggiolo, dato che per quest’ultima era nota
da tempo una produzione “a lustro” databile all’inizio
del Cinquecento.
Da allora, però, le testimonianze si sono moltiplicate, anche se non hanno ancora offerto la possibilità di
ricostruire un singolo manufatto. Dal deposito archeologico del “pozzo dei lavatoi”, in associazione con un
frammento datato “1474”, è soprattutto emersa una
piccola scodella, nella quale un decoro “a foglia di prezzemolo” si unisce con parti in lustro di colore rossorubino. La restituzione, provenendo da un contesto
sigillato e, per di più, databile, veniva così ad indicare in
maniera inequivocabile l’esistenza di questo genere di
produzione a Montelupo, riportandola per di più ad
un’epoca assai antica.
LUSTRO METALLICO
CIOTOLE A BORDO TAGLIATO E SCODELLINI
struibili), estendendosi dagli anni Settanta del Quattrocento ai primi lustri del secolo successivo, permettono di seguirne la fase finale della produzione, ed attestano che essa, oltre a protrarsi assai più avanti nel
tempo rispetto al periodo entro il quale comunemente
la si data, non fu soggetta a variazioni di dettaglio ed
“estenuazioni” decorative tali da potersi facilmente percepire.
Sotto il profilo decorativo, occorre in primo luogo
precisare che i motivi riportati sulla parete esterna delle
ciotole – una serie di segmenti paralleli, ad andamento
crescente e decrescente, come a suggerire una sorta do
ondulazione, intervallati da segni grafici, spesso scam-
245
244
BASINS WITH CUT BORDERS AND SMALL BOWLS
plant-like decor, 1470-90, Ø cm. 12,0
9d
us to follow the final phase of the production and it
proves that not only its production lasts longer than
what is commonly said, but it was also subjected to
detailed variations and easily perceptible decorative
extenuation.
From a decorative point of view we must first
state that the motifs on the exterior wall of the
basins (a series of parallel segments with rising and
decreasing trends that suggest a sort of wave, alternated with graphic signs that can usually be linked
to the factory symbols) look like typologies of the
Valencia metallic lustre. One formal aspect of this
production is the cursive.
Among the central decors, apart from the
stylised representation of floral corollas with stems
(that are more complicated than the ones in the
plant-like tufts) there is also a motif characterised by
simple weaving symbols surrounded by big circles
and sometimes made with yellow and orange.
Apart from these basins there are bowls that
are characterised by extremely small dimensions
that we could almost define as miniature objects.
They are small salt shakers or sauce cups.
The production of these little bowls, characterised by large serial criteria, shows a FOGGIATURA that did not completely exploit the base of the
upper part of the potter’s wheel, but the mass of clay
on it, from the top of which they were made in rapid
succession. The technique is not new since it had
already been used in the passed century.
The decoration of these small bowls is characterised by a simple blue filling on the rim that is
divided in four or more sections. In the centre there
are various floral stylised compositions, for example
a bush or stems, where the influence of the formal
aspect of basins with cut borders is clear.
10. METALLIC LUSTRE
The confirmation of this production in Montelupo became more evident when, in 1979 a small
fragment that could be documented in the activity of
the local furnaces was found (the characteristics of its
mixture was very different from the Spanish ones).
The rarity of the findings, however, made it impossible to insert chronologically in any period. Therefore
it could have been interpreted both as an imported
craft from other Italian centres or as a craft that
arrived from Florence or Cafaggiolo (this town had
been famous for its lustre production since the beginning of the 1500’s).
From then, however, the findings have multiplied, even if they still have not guaranteed the possibility to re-build an entire craft. From the archaeological deposit of the “washhouse well”, and from
the fragment dated 1474, we mostly find a small
bowl with a parsley leaf connected to red ruby lustre. The last finding showed in a clear way the existence of this production genre in Montelupo, dating
it to a much older era.
The historic debate on the use of the metallic
lustre technique, obtained both in the usual way (in
the second baking) and “at third firing”, in fact
divided for a long time the opinions of potters. This
METALLIC LUSTRE
9d. Small bowls, Small bowl with
intendendo con questo termine Maiorca, e quindi la
Spagna – da un fiorentino richo mercante”. La testimonianza del Ricettario Marmi non soltanto ribadisce
(definitivamente, ci pare) l’esattezza dell’ipotesi del
Passeri circa la diffusione del lustro sin dalla seconda
metà del Quattrocento nei maggiori centri di fabbrica
italiani, ma individua i canali propri di tale diffusione,
che nella fattispecie consistono nell’attività dei mercanti, e nella loro presenza all’interno delle diverse
piazze commerciali europee. Il coinvolgimento economico del capitale fiorentino nelle imprese ceramiche
di Montelupo, ben attestata dal documento notarile
10. Lustro metallico, Scodellino con decoro vegetale, 1470-80, Metallic lustre
del 1490 noto come “trust Antinori”, spiega infine l’interesse che il ceto mercantile nutriva nei confronti
della fabbricazione della maiolica.
Resta tuttavia da comprendere le motivazioni per
le quali, nonostante la tecnica fosse nota, le fornaci di
Montelupo non abbiano dato vita a quell’apprezzabile
produzione “a lustro” che indubbiamente non vi fu,
visto che i ritrovamenti archeologici ci hanno sin qui
consegnato solo una modesta quantità di frammenti
ad essa riferibili. La spiegazione che possiamo avanzare per questo fenomeno non è tuttavia così improbabile come, in ordine al prestigio di cui le maioliche
lustrate godevano nella seconda metà del XV secolo,
può astrattamente sembrare.
Nel momento in cui la tecnica del lustro metallico
si diffonde, infatti, le botteghe montelupine hanno già
iniziato un percorso che le conduce in una direzione
sostanzialmente opposta a quella che da lungo tempo,
sulla scorta della grande tradizione islamica, è stata
intrapresa dai centri di fabbrica del Levante spagnolo.
Mentre i vasai spagnoli resteranno a lungo prigionieri
di questa tradizione, incentrata sul decorativismo e
sulla bicromia lustro-blu cobalto, Montelupo ricerca
ormai la policromia e la rappresentazione realistica
dei soggetti, perché, come abbiamo visto, risente profondamente del clima culturale rinascimentale. Firenze, infatti, non soltanto si trova a poca distanza dal
centro valdarnese, ma in quella città, che rappresenta
parte importante del suo mercato, risiedono i mercanti che finanziano le imprese montelupine. È dunque
nella tendenza, sempre più accentuata sul finire del
Quattrocento, ad accogliere le novità rinascimentali,
che dobbiamo ricercare le motivazioni della “marginalità” con la quale fu praticata la tecnica del lustro
metallico in Montelupo: anche la fabbricazione del
lustro in Cafaggiolo (effettuata, non bisogna dimenticarlo, in una fornace gestita da vasai montelupini), si
colloca in posizione secondaria rispetto alla pittura
policroma su maiolica. Non per caso, del resto, la
ripresa – così la dobbiamo chiamare – di questa tecnica nel XVI secolo si lega all’attività di un ceramista,
mastro Giorgio da Gubbio, che non si esplica in una
produzione specifica, ma si rivolge piuttosto a rifinire
ed impreziosire le maioliche istoriate.
Detto questo, occorre precisare anche che la tecnica del lustro continuò in Montelupo, sempre con le
medesime caratteristiche di marginalità, nel corso
del Cinquecento, come dimostrano altri, numerosi
frammenti di scavo riferibili a questa epoca, e come
attesta infine la scodella della collezione Lehman
dipinta in “lustro” dorato, in perfetto stile montelupino – con un “paesino” centrale di tipo compendiario
– e con un’inequivocabile marca di fabbrica inserita
al rovescio.
LUSTRO METALLICO
RICORRENTE ITALIANO
Il dibattito storiografico sull’impiego della tecnica
del lustro metallico, ottenuto sia nella maniera usuale
(cioè nella seconda cottura), che “a terzo fuoco”, ha
infatti diviso a lungo le opinioni dei ceramologi, sin
da quando, nel XVIII secolo, Giovanbattista Passeri
aveva dichiarato che in Pesaro la si praticava sin dagli
anni Settanta del Quattrocento. Pochi però hanno
sostenuto la tesi dello storico marchigiano, che adesso
il documento montelupino viene autorevolmente ad
attestare. E questo non è tutto.
In un ricettario ceramico compilato in Montelupo
negli anni Sessanta del XV secolo, e poi trascritto nei
Segreti di fornace di Dionigi Marmi, si trovano infatti
ben descritti due procedimenti per ottenere il “dorato
da maiolicha”, ed in calce ad uno di questi si afferma:
“venuta la ricetta di là proprio – cioè da maiolica,
247
10
lasted until the 18th century when Giovanbattista
Passeri declared that the technique had been used in
Pesaro since the 1470’s. Not many, however, agreed
with this argument, that now the Montelupo document confirms with authority. This is not all.
In this ceramic collection documented in
Montelupo in the 1460’s, and then written in the
“Kiln Secrets” by Dionigi Marmi, we can find two
techniques that obtain the “gold from ceramics”.
There is the following affirmation: “the recipe came
exactly from there, from a rich Florentine merchant”. The “there” indicates Maiorca. The Marmi
collection not only proves that Passeri’s theory was
correct, but it also shows how this development happened. It consisted in the activity of merchants and
10. Small bowl with plant-like decor, 1470-80
their presence in the different European commercial
centres. The economic involvement of the Tuscan
capitol in Montelupo’s ceramic factories, clearly documented in the “Antinori trust” of 1490, explains the
interest that the merchant class had towards ceramic production.
However, we still do not understand why, even
if the technique was known, the Montelupo furnaces
did not give great importance to lustre productions.
We are sure of this because the archaeological findings have, until now, given us a modest quantity of
fragments. The explanation that we can try to give to
this phenomenon is not as improbable, considering
the prestige of lustre majolica in the second half the
15th century, as it can appear.
In the moment in which this technique developed, in fact, the Montelupo factories had already
started on a path that brought them towards an
opposite direction compared to the Spanish factories that were influence by the great Islamic traditions. While the Spanish vase makers will stay prisoners of this tradition, based on the importance of
decorations and the use of blue cobalt lustre, Montelupo looks for polychrome decorations and realistic representations of subjects. This is because, as
we saw, there is a profound influence of the Renaissance cultural climate. Florence is not only at a
short distance, but it is also the home of the merchants that financed the Montelupo enterprises. The
main tendency is to welcome the Renaissance
changes and this explains the rarity of use of the
metallic lustre technique in Montelupo: even the lustre production in Cafaggiolo (a kiln that was managed by Montelupo vase makers) is in a secondary
position compared to polychrome painting on
ceramics. The new use of this technique in the 16th
century is linked to the activity of a ceramist, Giorgio da Gubbio, who does not concentrate on a spe-
cific production but prefers to enrich “istoriato”
style ceramics.
We must specify that the lustre technique continued in Montelupo, still in a marginal way,
throughout the 1500’s, as proved by many other dig
fragments. An example is a bowl of the Lehman collection, painted in golden lustre, in perfect Montelupo style (with a representation of a small town in
the centre) and with an un-mistakable factory brand
on the back).
METALLIC LUSTRE
METALLIC LUSTRE
246
11. MAIOLICHE “AL BLU ROBBIANO”
Capita sovente di imbattersi in studi di storia
della ceramica dai quali non emerge con sufficiente
chiarezza la distinzione tra due generi di maioliche la
cui superficie smaltata presenta una colorazione in
azzurro dalle diverse tonalità od in grigio-azzurro.
Occorre precisare in questi casi che la definizione di
“smalto berettino” attiene con maggior precisione alle
seconde, e riguarda i prodotti cinquecenteschi.
Nel corso della seconda metà del XV secolo, invece,
MAIOLICHE AL BLU ROBBIANO
11. Blu robbiano, Frammenti di forme aperte e chiuse, 1480-1510
si nota in Montelupo l’avvio di una produzione con
smalto colorato di blu intenso, che abbiamo definito “al
blu robbiano”, pensando che essa dipenda in qualche
modo dalle coeve maioliche dei Della Robbia, visto che
in esse si comprendono anche i ben noti vasi biansati,
caratterizzati da questa cromia.
Le fornaci montelupine impiegano tra Quattro e
Cinquecento un tal genere di smalto colorato di blu
per rivestire piccoli manufatti, spesso realizzati con
appendici rifinite; si tratta di una produzione marginale, tanto che non è possibile seguirne, attraverso le restituzioni di scavo, lo sviluppo formale. Pur non potendo
ricostruire i manufatti che in esso si inseriscono, è possibile comprendere come si tratti di oggetti destinati
al complemento della tavola, quali piccoli versatoi e
saliere.
BLUE “ROBBIANO” MAJOLICA
248
11
11. Blue “robbiano”, Fragments of open and closed models, 1480-1510
11. BLUE “ROBBIANO” MAJOLICA
Sometimes in the studies of ceramic history it is
hard to distinguish clearly between two majolica genres with a blue lustered surface that can be characterised by different tones or grey-blue. In these cases
the definition of “Berettino” lustre refers to the second
type and includes the products of the 1500’s.
During the second half of the 15th century, a
production in intense blue lustre was found in Montelupo and we defined it as “blue Robbiano”, think-
ing that it depended on the majolica of the Della
Robbia family, since these also included the two
handled vases characterised by this colour.
The Montelupo furnaces used this type of lustre between the 1400’s and the 1500’s to cover small
handwork; it is a marginal product and for this reason the formal development cannot be traced
through the findings. We can, however, affirm that
they include objects destined to the completion of
the table, such as small salt shakers.
12. INGOBBIATE E GRAFFITE
DEL PRIMO PERIODO
INGOBBIATE E GRAFFITE DEL PRIMO PERIODO
Nella produzione di ceramica ingobbiata e graffita di Montelupo si evidenziano, come vedremo, almeno
tre fasi, la prima delle quali – quella iniziale – è caratterizzata nelle restituzioni di scavo da modeste quantità,
che si fanno ancora meno significative se rapportate
al continuo incremento della fabbricazione della maiolica che si nota in questo periodo.
I primordi della graffita locale denotano l’uso generalizzato della tecnica di graffitura “a punta”, eseguita,
cioè, con uno semplice attrezzo appuntito, mediante il
quale si asporta l’ingobbio sino a scoprire il bistugio
sottostante. I decori disegnati dalla graffitura sono poi
dipinti in tricromia verde-bruno-arancio, e talvolta
costituiscono la replica di motivi sviluppati anche nelle
consimili lavorazioni emiliano-romagnole e venete; tra
queste si notano le rosette che attorniato la figura
umana, la citazione per stilizzazione dell’ortus conclusus, la coniglia gravida, il contorno con foglie.
Nell’ultimo ventennio del XV secolo appaiono anche
scodellini di piccole dimensioni, che portano al centro
motivi vegetali assai stilizzati e semplici graffiture
radiali sulla tesa: il tutto è vivacizzato dall’usuale tricromia, che mai si volge a realizzare qualche campitura.
Questa linea “geometrizzante”, che sviluppa modalità
corsive ben attestate nella graffita della Toscana (ma
anche dell’Italia centrale e centro-settentrionale), trova
in Montelupo esempi databili ancora alla metà circa
del XVI secolo: si tratta di ciotole di medio-piccole o
medie dimensioni, il cui centro è diviso in sei parti –
così come avveniva nei più antichi scodellini – mediante l’incrocio di tre linee graffite. Il motivo vegetale che
corre sulle pareti, quasi sempre una serie di foglie stilizzate, riconduce però più strettamente questa produzione nel novero delle coeve graffite a punta policrome di
area fiorentina.
L’arricchimento cromatico e decorativo dei primi
anni del Cinquecento risalta con evidenza nei documenti archeologici rinvenuti nel “pozzo dei lavatoi”, i
quali denotano anche una chiara propensione allo sviluppo di forme inedite (vassoi con tesa, grandi ciotole
emisferiche, piatti e scodelle), peculiari a questo genere;
si stabilisce, infine, la tendenza a realizzare esclusivamente forme aperte, rese più eleganti dalla rifinitura dei
rovesci, che tuttavia non sono mai coperti – ad eccezione delle ciotole – né dall’invetriatura, né, tantomeno,
dall’ingobbio.
In parallelo a quanto avviene nella maiolica, anche
queste graffite a punta policrome montelupine dell’inizio del XVI secolo perseguono una standardizzazione
dei decori di contorno, realizzando motivi “a nastro”, “a
ghirlanda” o “a corda francescana”. Nel centro cam-
249
In this period we can find at least three phases.
The first one is characterised by a modest quantity of
dig findings that become even less significant if compared to the continual increase of majolica production.
The beginning of the local “graffita” shows a
generalised use of the “sharpened” “graffitura”, executed with a simple sharpened tool which used to take
away the protective covering until we reach the layer
of the second firing. The designed decors are painted
in green, brown and orange and sometimes are a
replica of the motifs that developed in EmiliaRomagnia and Veneto. Some examples are the dotted
circles that surround the human figure, the stylisation
of the ortus conclusus, the pregnant rabbit, and the
leafy border.
In the last 20 years of the 15th century we also
find small bowls, they are characterised by stylised
plant-like motifs in the centre and simple radial “graffiture” on the rims: the decorations are vivacious
thanks to the use of three colours. The tendency to use
geometry, that develops cursive types in Tuscany’s
“graffita” (but also in central Italy and in northern-central Italy), is characterised by the presence in Mon-
telupo of objects dateable from half of the 16th century. There are medium- small or small bowls, whose
centre is divided in six parts (like the older bowls)
through the crossing of three “graffite” lines. The
plant-like motif on the walls is almost always based on
a series of stylised leaves and reconnects this production to the one of poly-chromed sharpened “graffite”of
the Florence area. The decorative and chromatic
enrichment of the first years of the 1500’s is clear in
the archaeological findings from the “washhouse
well”. These show a clear tendency towards the development of new models (platters with rims, big hemispherical bowls, plates and basins). There is the tendency to create only open models that become more
elegant thanks to the refinishing of the bottoms. These
are, however, never covered with a protective layer or
with glass-like materials (except for the basins).
Just like the majolica, even the polychromatic
sharpened “graffite” of the beginning of the 16th century follow a standardisation of the border decors, creating motifs that are defined as “ribbon “, “wreath” or
“Franciscan cord”. In the centre there are big flowers
surrounded by leaves usually embedded in a knot with
four loops, or figures of humans or animals. The use
of green, brown and orange is characterised by intense
tones that make these Montelupo majolica different
from the other Tuscan products.
COVERED AND “GRAFFITE” OF THE FIRST PERIOD
12. COVERED AND “GRAFFITE”
OF THE FIRST PERIOD
peggiano grandi fiori quadrilobi a cartoccio contornati
da foglie, spesso inseriti nel nodo a quattro cappi o,
più raramente, figure di uomini od animali. L’usuale
tricromia in verde, bruno ed arancio viene costantemente osservata, e mostra tonalità marcate e decise, le
quali differenziano queste ceramiche graffite di Montelupo da molti dei consimili prodotti toscani dell’epoca.
12a. Ingobbiata e graffita, Scodellino con decoro geometrico, 1460-80, Ø cm. 12
INGOBBIATE E GRAFFITE DEL PRIMO PERIODO
12b. Ingobbiata e graffita, Scodellone con decoro vegetale, 1500-15, Ø cm. 39
12c. Ingobbiata e graffita, Scodella con “nodo francescano”, 1490-1500, Ø cm.22,5
12d. Ingobbiata e graffita, Bacile con decoro vegetale, 1500-15
12a
COVERED AND “GRAFFITE” OF THE FIRST PERIOD
250
12b
12c
12a. Covered and “graffita”, Small bowl with geometrical decor, 1460-80, Ø cm. 12
12b. Covered and “graffita”, Large bowl with plant-like decor, 1500-15, Ø cm. 39
12c. Covered and “graffita”, Bowl with Franciscan knot, 1490-1500, Ø cm.22,5
12d. Covered and “graffita”, Bowl with Franciscan knot, 1500-15
12d
13. INGOBBIATA E DIPINTA
13a
13a. Ingobbiata e dipinta, Piccolo bacile con motivo vegetale, 1490-1510, Ø cm. 23,8
13b. Ingobbiata e dipinta, Ciotola con motivo vegetale, 1490-1510, Ø cm. 14
INGOBBIATA E DIPINTA
Si tratta di un genere secondario, che
si affaccia con una serie di restituzioni
numericamente assai modeste negli scarichi
di fornace montelupini che si datano sul
finire del XV secolo; le forme impiegate,
inoltre sono ben poche – la ciotola a calotta
sferica ed il catino troncoconico con la parte
terminale della parete raddrizzata – e ciò
sottolinea le caratteristiche “succedanee” di
questi prodotti, nei quali chiaramente prevale l’intento di realizzare piccoli manufatti di
basso pregio, nei quali l’ingobbio sostituisce
il più costoso smalto stannifero nella copertura del bistugio, e che si pensano perciò
destinati ad acquirenti di modeste pretese,
ed in particolare a conventi ed ospedali.
Le rapide decorazioni realizzate, sempre
con la riduzione al minimo della tavolozza,
mostrano inoltre di derivare dalla “maiolica
arcaica” evoluta e tardiva, consistendo nella
più classica ed usuale composizione fitomorfa, con le foglie divise in quattro gruppi
disposte nel lato a vista.
251
COVERED AND PAINTED
13a. Covered and painted, Small washbasin with plant-like motif, 1490-1510, Ø cm. 23,8
13b. Covered and painted, Basin with plant-like motif, 1490-1510, Ø cm. 14
This is a secondary genre and there
are a modest number of findings in the
residues of the Montelupo furnaces that
can be dated to the end of the 15th century.
There are very few models used, such as
the basin with a spherical cap and conic
bowl with a straight wall, and this underlines secondary characteristics of these
products. The intent is to create small
handcrafts of low quality in which the protective covering substitutes the more expensive tin oxide lustre of the second firings’
sheath. Therefore we think that they were
destined to modest buyers, especially to
convents and hospitals.
The rapid decorations show that
they derive from the evolved and late
archaic majolica, since they are characterised by the classic floral compositions
with leaves divided in four groups on the
front.
13b
COVERED AND PAINTED
13.
RICORRENTE ITALIANO
14. MONOCROMA BIANCA
Anche in questo caso si tratta di
una produzione di pregio modesto, ove
però, a differenza della precedente, non
si cerca di abbassare il costo di produzione sostituendo lo smalto con l’ingobbio, ma evitando piuttosto di decorare
la maiolica: pur contraddistinti dallo
smalto (spesso, tuttavia, di minore qualità), questi manufatti restano infatti nella
monocromia bianca assicurata loro dalla
copertura stannifera. Più che di un genere, quindi, si dovrebbe a rigore trattare
la monocroma come una tipologia produttiva a parte, impiegata nella fabbricazione di oggetti smaltati ove il valore
d’uso diviene esclusivo, prevalendo sulla
qualità estetica: una semplice analisi
morfologica è d’altra parte in grado di
evidenziare questa caratteristica di
fondo della maiolica monocroma (o, se
vogliamo, priva di decorazione).
Per quanto attiene i manufatti di
natura vascolare, possiamo infatti riconoscere due gruppi distinti, che in vario
modo denotano la loro peculiarità. Il
14a
14a. Maiolica monocroma, Bacile, 1500-10, Ø cm. 31
14b. Maiolica monocroma, Candeliere, 1520-30, Ø cm. 17,5
WHITE MONOCHROME
252
14. WHITE MONOCHROME
14a. White monochrome, Washbasin, 1500-10, Ø cm. 31
14b. White monochrome, Candleholder, 1520-30, Ø cm. 17,5
Even here the production is of
low quality. However, it is different
from the preceding group since here
there is not a decrease in the cost of
production by substituting the lustre
with a protective covering but by avoiding the decoration of the ceramics.
These handcrafts are in white monochrome thanks to the tin oxide sheath
(however, the lustre is of lower quality). It is not really a genre, it is a productive type; it is used in lustered products where the use value is more important that the aesthetic quality.
We can distinguish two groups
that confirm the peculiarity of the category. The first, and more numerous,
one consists of conic basins with
straight walls that derive from archaic
majolica and traditional products. The
second one includes special models that
are found only in this particular production. There are also products destined to illumination such as candleholders and lamps of various forms and
14b
15. IMITAZIONE
DEL LUSTRO METALLICO
Si tratta di un genere che vuol riprodurre l’immagine delle maioliche a lustro metallico di derivazione
spagnola attraverso l’impiego di un pigmento in arancio
brillante: in tal modo, pur rapportandosi formalmente a
questa produzione di prestigio, si evitava la terza cottura in atmosfera riducente (in assenza, cioè, di ossigeno),
o la fabbricazione di colori complessi e dalla dubbia
efficacia, in grado di virare già in seconda cottura verso
il riflesso metallico. La messa a punto di questo pigmento, come si può constatare dagli esemplari di scavo,
per la brillantezza ed il tono fulvo che lo contraddistingue, è altamente significativa del grande sviluppo
tecnologico al quale approdarono i ceramisti di Montelupo negli anni Ottanta del XV secolo.
Il genere che abbiamo definito come “imitazione
del lustro metallico” si caratterizza anche per il ricorso
ad un repertorio formale che non soltanto utilizza elementi tratti dalle maioliche provenienti dal Levante
spagnolo, ed in particolare da quelle del grande centro
di fabbrica di Manises, ma viene talvolta a riprodurne
integralmente le tipologie decorative più diffuse. La
stragrande maggioranza dei manufatti ad imitazione
del lustro metallico consiste in forme aperte, la più
parte delle quali sono munite di tesa, anche se con que-
IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO
primo – e più numeroso – di essi è formato essenzialmente da catini troncoconici con la porzione superiore
della parete raddrizzata, dei quali più volte ci è occorso
di trattare per evidenziarne la loro derivazione dalla
“maiolica arcaica” ed il successivo impiego nelle produzioni “tradizionali”, mentre il secondo comprende
forme speciali – quali piccoli tegami smaltati e versatori dall’inedita morfologia – che trovano riscontro solo in
questa produzione “specializzata”. In maiolica monocroma sono infine realizzati i manufatti ceramici destinati all’illuminazione, come lucerne e candelieri di varia
forma e dimensione.
Pur affiancando già le prime produzioni in “maiolica arcaica”, la smaltatura priva di decoro va incontro ad
un grande sviluppo in Montelupo solo verso la metà
del XV secolo, per poi accompagnare sostanzialmente
l’intero arco produttivo delle botteghe locali, anche se
l’apice della sua fabbricazione coincide con il momento
di maggiore sviluppo delle medesime periodo 14801530 circa.
253
15. METALLIC LUSTRE IMITATION
This genre reproduces the image of metallic lustre majolica of Spanish origin using a bright orange
pigment: in this way, even though it was formerly a
prestigious production, they avoided the third firing
in reducing atmosphere (that is in lack of oxygen),
or the production of complex colours with doubtful
efficiency. The use of this pigment, as we can tell by
the brightness of the remains, proves the great technological development of the potters of the 1480’s.
This genre is also characterised by using a formal repertoire that not only uses elements that come
from Spanish majolica, and in particular the ones
from Manises, that also integrally reproduces its
most common decorative types. Most of these handcrafts are open models with brims, even though with
this genre (and the Valencia vine leaf and parsley)
we find the first flat plates: closed models are rarer
and they only include olive oil cruets.
Among the most used motifs, we indicate the
border characterised by a branch on the rim of the
bowls and the decorations divided into sectors that
are mostly used, because of their formal characteristics, for plates. We also find the development of a
motif that can be easily linked to the evolution of the
“tree of life” of the Islamic culture. The Manises pot-
METALLIC LUSTRE IMITATION
dimensions. Even though this production was already
present during the first phases of archaic majolica, it
greatly develops in Montelupo only from the second
half of the 15th century. It will be produced throughout the entire productive period of the Montelupo
factories, even though the most important moments
of its development goes from 1480 until 1530 ca.
15b
IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO
15a
15a. Imitazione lustro metallico, Piatto geometrico, 1480-90, Ø cm. 21,3
15b. Imitazione lustro metallico, Piatto geometrico, 1480-90, Ø cm. 20,2
15c. Imitazione lustro metallico, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 34,7
15d. Imitazione lustro metallico, Scodella con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 20,8
15e. Imitazione lustro metallico, Piatto con stemma non identificato,
1480-90, Ø cm.34
METALLIC LUSTRE IMITATION
254
15a. Metallic lustre imitation, Geometrical plate, 1480-90, Ø cm.21,3
15b. Metallic lustre imitation, Geometrical plate, 1480-90, Ø cm. 20,2
15c. Metallic lustre imitation, Plate with plant-like decor , 1480-90, Ø cm. 34,7
15d. Metallic lustre imitation, Bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm.20,8
15e. Metallic lustre imitation, Plate with not identified stem , 1480-90, Ø cm. 34
15c
15d
15e
sto genere (e con quelli coevi della foglia di vite valenciana e della foglia di prezzemolo) compaiono i primi piatti piani: assai più rare sono le forme chiuse, per di più
ridotte a piccole oliere e versatoi da tavola.
Tra i motivi maggiormente impiegati, segnaliamo il
contorno realizzato con una sorta di tralcio vegetale,
posto sulla tesa delle scodelle, ed un gruppo piuttosto
variegato che mostra una decorazione divisa a settori
che trova, in ragione delle sue caratteristiche formali,
un maggior impiego nell’ornamento dei piatti. Importante, anche per la sottolineatura del rapporto tra questo genere ed i prototipi iberici ai quali si riferisce, è poi
la diffusione nell’imitazione del lustro di un motivo nel
15g
15g. Imitazione lustro metallico, Piatto con figura d’uccello, 1480-90, Ø cm.34,7
15h. Imitazione lustro metallico, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 27
15f. Metallic lustre imitation, Plate with figurative decor, 1480-90, Ø cm.35
15h. Metallic lustre imitation, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 27
15f
15h
255
METALLIC LUSTRE IMITATION
15g. Metallic lustre imitation, Plate with bird, 1480-90, Ø cm.34,7
IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO
15f. Imitazione lustro metallico, Piatto con decoro figurato, 1480-90, Ø cm. 35
IMITAZIONE DEL LUSTRO METALLICO
quale è facile riconoscere la lontana evoluzione dell’
“albero della vita” di ascendenza islamica, che i ceramisti di Manises continuano a riprodurre, depurandolo
ormai da ogni significato religioso, per tutto il Quattrocento. Nelle botteghe montelupine esso rispetta spesso
questa morfologia tardiva spagnola, presentandosi con
un contorno in arancio brillante, raggiato verso l’esterno, e con una campitura in giallo, puntinata di verde e
riempita di archetti crescenti, tanto da assumere la
fisionomia di una specie di pigna. La collocazione
inquartata di questo motivo entro settori segnati in blu
che si nota in alcuni manufatti di scavo riproduce letteralmente l’immagine delle corrispondenti maioliche a
lustro valenciane.
Alcuni dei generi che incontreremo successivamente, quali gli ovali e rombi, le cosiddette strisce policrome
e le spirali, derivano palesemente da questo genere
decorativo, dal quale si distaccano nel corso del processo di standardizzazione e semplificazione formale delle
maggiori tipologie decorative che caratterizzerà la produzione montelupina dell’inizio del Cinqucento.
16. DECORO
“ALLA FOGLIA VALENCIANA”
ters continued to use this motif throughout the
1400’s, eliminating any type of religious significance.
This late Spanish morphology is usually followed in
the Montelupo factories, it is characterised by a
bright orange border with radiuses facing the outside and yellow strokes dotted with green and filled
by little arches that takes on the characteristics of a
pine cone. The placing of this motif into sections
divided by blue traces precisely copies the images of
the Valencia lustre majolica.
Some of the genres that we will analyse later
on, such as ovals, rhombuses, polychrome stripes,
and spirals, clearly derived from this decorative
genre, from which they detach during the standardisation and formal simplification of the process of
the major decorative types and the beginning of the
1500’s.
16. “VALENCIA LEAF” DECOR
In questo genere si comprendono le maioliche di
Montelupo che si rapporto ad una delle più diffuse tipologie decorative prodotte nei centri del Levante spagnolo, variamente interpretata come “foglia di vite”,
oppure “foglia d’edera”. Qui l’imitazione del classico
motivo ispanico perde ogni riferimento di carattere
naturalistico, trasformandosi nel succedersi cadenzato
di segmenti orizzontali dall’ampiezza decrescente, rapidamente dipinti in tratti, di norma paralleli, che finiscono per realizzare un soggetto di forma piramidale.
Il legame con i prototipi valenciani, ed in particolare
con quelli usciti dalle fornaci di Manises, ai quali il
genere si ispira, non lo si ritrova perciò in una più o
meno spiccata identità formale dei motivi, ma piuttosto
nell’impostazione di tipo invasivo della composizione,
comune ad entrambe, e nell’alternanza di blu ed arancio brillante – allusivo al lustro metallico – con il quale
si intende riprodurre il cromatismo tipico della composizione iberica. Tra le stilizzazioni piramidali che
vogliono suggerire la foglia, inoltre si nota l’apposizione
di segni a “V” che vogliono suggerire i vilucchi che
accompagnano i tralci vegetali (dell’edera o della vite).
Anche questo decoro, come il successivo “a foglia di
prezzemolo” si ritrova anche sulle forme chiuse, che
METALLIC LUSTRE IMITATION
256
This genre includes the ceramics that are related to one of the most developed decorative types produced in the Spanish centres that can be interpreted
as “vine leaf “or” ivy leaf. The imitation of the classic
Hispanic motif loses every naturalistic reference,
transforming into a succeeding of decreasing horizontal segments, normally parallel, painted quickly,
that create a subject with a pyramid shape.
The connection with the Valencia prototypes,
and in particular the ones from the Manises furnaces, is not in the formal identity of motifs, but in
an invasive setting of the composition and in the
alternation of blue and bright orange. Among the
pyramid stylisation’s that suggest the leaf, we can
also notice the presence of “V” shaped signs that
suggest the Vilucchi design of ivy or vines.
This decor, just like the later “parsley leaf”,
can also be found on closed models and they are
usually covered differently from the open ones. The
difference with the other typology is that it would be
present for a long time in Montelupo, the later
versions belonging, in fact, to the beginning of the
17th century.
The use of blue and orange in “vine leaves”
will also be present in “parsley leaves” that, however,
16a. Foglia valenciana, Boccale decoro invadente, 1480-90, h cm. 19
16b. Foglia valenciana, Piatto con simbolo di S. Bernrdino (HIS: Ihesus),
1480-90, Ø cm. 35
16c. Foglia valenciana, Piatto con figura d’uccello, 1480-90, Ø cm. 33,6
16d. Foglia valenciana, Piatto con stemma (simbolo detto “il volo”),
1480-90, Ø cm. 25,6
DECORO “ALLA FOGLIA VALENCIANA”
16b
257
16b. Valencia Leaf, Plate with symbol of S. Bernrdino (HIS: Ihesus),
1480-90, Ø cm. 35
16c. Valencia Leaf, Plate with bird, 1480-90, Ø cm. 33,6
16d. Valencia Leaf, Plate with stem (symbol “the flight”), 1480-90, Ø cm. 25,6
16c
16d
“VALENCIA LEAF” DECOR
16a. Valencia Leaf, Jug with intrusive decor, 1480-90, h cm. 19
16a
DECORO “ALLA FOGLIA VALENCIANA”
di solito ricopre per intero, senza
lasciare spazio, come invece avviene
nelle aperte, a motivi racchiusi nelle
cerchiature centrali; a differenza
dell’altra tipologia, però, essa resterà
per lungo tempo sui deschi dei pittori montelupini, tanto che ne
incontreremo una versione tardiva
ed “estenuata” ancora all’inizio del
XVII secolo.
Talora la funzione di elemento
in bicromia blu-arancio assegnata
alla “foglia di vite” viene esercitata
dalla “foglia di prezzemolo”, che
però, a differenza di quanto avviene
nel genere principale che si sviluppa
con il ricorso a questo motivo, assume l’aspetto di un lungo stelo posto
a circondare le figurazioni principali delle forme aperte, realizzando
così una composizione del tutto
simile a quelle ottenute con il ricorso alla “foglia di vite”.
16e
16e. Foglia valenciana, Piatto figurato, 1480-90, Ø cm. 20,8
16f. Foglia valenciana, Piatto per Nannina de’ Medici (sorella di Lorenzo il Magnifico), 1480-90, Ø cm.35,5
258
“VALENCIA LEAF” DECOR
16e. Valencia Leaf, Plate with figurative decor, 1480-90, Ø cm. 20,8
16f. Valencia Leaf, Plate for Nannina de’ Medici (sister of Lorenzo il Magnifico), 1480-90, Ø cm. 35,5
16f
will assume the aspect of a long
stem surrounding the main figures of the open models. This
composition is very similar to the
one of the vine leaves.
17. FOGLIA DI PREZZEMOLO
Da molto tempo è nota nella maiolica
della fine del XV secolo l’imitazione della
cosiddetta “foglia di prezzemolo” che caratterizza buona parte della coeva produzione
della cittadina spagnola di Manises, che fu in
sostanza, come Montelupo per Firenze, il
centro di fabbrica di Valencia.
Questo genere decorativo, concepito
come l’insieme di minuscoli segni incrociati
in blu cobalto, di forma simile all’asterisco,
ma dall’andamento più curvilineo (nei quali,
per l’appunto, si riconosce la stilizzazione
della foglia di una particolare specie di prezzemolo, diffuso nel Levante spagnolo),
accoppiati a settori corsivi in bruno di manganese – traduzione toscana degli inserti a
FOGLIA DI PREZZEMOLO
17a. Foglia di prezzemolo, Boccale con leone rampante,
1480-90, h cm. 24,2
17b. Foglia di prezzemolo, Grande scodella con corona
marchionale, 1480-90, Ø cm. 34,5
259
h cm 24,2
17a
17b. Parsley Leaf, Large bowl with marquis’s crown,
1480-90, Ø cm. 34,5
17. PARSLEY LEAF
This imitation of the Spanish production of Manises, factory centre of Valencia,
belongs to the end of the 15th century and
has been known for a long time.
This decorative genre was conceived
as a group of tiny cobalt blue symbols
with a shape similar to an asterisk. It has
a wavier trend in which we can recognise
the stylisation of a particular type of parsley leaf common in Spain. Along side are
cursive sections in brown manganese
(Tuscan version of the metallic lustre
inserts) which represent one of the main
types of vase production from 1480 to
1500 ca. Some simple PUNTINATURE in
orange underline this link with the lustre.
17b
PARSLEY LEAF
17a. Parsley Leaf, Jug with rampant lion, 1480-90,
lustro metallico, uniti nei prototipi spagnoli all’elemento vegetale – rappresenta infatti una delle tipologie di
spicco della produzione vascolare degli anni 1480-1500
circa. Alcune semplici puntinature in arancio intendono
sottolineare, poi, la relazione con il lustro.
La diffusione di questo decoro fu così ampia da
coinvolgere in Toscana centri di fabbrica operanti in
aree regionali diverse, come dimostrano, ad esempio, le
17c. Foglia di prezzemolo, Piatto figurato, 1480-90 , Ø cm. 35
17d. Foglia di prezzemolo, Grande scodella con l’iris di Firenze,
1490-1500, Ø cm. 36,7
17e. Foglia di prezzemolo, Alberello con decoro invadente, 1480-90, h cm. 19,7
17f. Foglia di prezzemolo, Grande scodella con leone rampante, 1480-90, Ø cm. 35,2
FOGLIA DI PREZZEMOLO
17c
PARSLEY LEAF
260
17d
17e
17c. Parsley Leaf, Plate with figurative decor, 1480-90, Ø cm. 35
17d. Parsley Leaf, Large bowl with the Iris symbol of Florence,
1490-1500, Ø cm. 36,7
17e. Parsley Leaf, Spice holder with invasive decor, 1480-90, h cm. 19,7
17f. Parsley Leaf, Large bowl with rampant lion, 1480-90, Ø cm. 35,2
17f
The diffusion of this decor was so large that it
involved factory centres of different Tuscan areas, as
demonstrated, for example, by the supplies in the
hospital of Santa Fina in San Gimignano. It is probable that there are also versions of this genre in metallic lustre, however, they are not sufficiently documented since, for now, only a fragment in a private
Florentine collection has been found.
The decoration with the parsley leaf is invasive
18. DECORO “A FASCE”
Sappiamo come gli anni a cavallo tra Quattro e
Cinquecento abbiano rappresentato per i vasai di
Montelupo un periodo di intensa sperimentazione,
finalizzata alla codifica di originali tipologie decorative, per realizzare le quali ci si volgeva non soltanto
alla “traduzione” di modelli formali esterni, ma si
tentava anche l’elaborazione di inediti soggetti autoctoni. Il genere che definiamo “a fasce” fornisce uno
dei casi più emblematici di tale ricerca, che si mostra
particolarmente vivace all’inizio degli anni Ottanta
del XV secolo: rapidamente introdotto nell’attività
delle botteghe locali, esso si sviluppa come un coacervo di suggestioni diverse, tutte destinate a costruire nuovi elementi di contorno per le forme aperte,
che, grazie all’introduzione del piatto individuale, si
moltiplicavano nel lavoro dei ceramisti.
Possiamo dunque suddividere questo genere in
due gruppi, il primo dei quali, assai più numeroso,
utilizza elementi di tipo geometrico, formati dall’incrocio di linee in blu ed arancio alternate. In tal
modo si realizzano triangoli – riempiti talvolta da
minuscole foglie a tre o quattro lobi – che, intrecciandosi, compongono fasce di losanghe, le quali vanno a
disporsi sulla tesa e sulle pareti delle scodelle.
Sovrapponendo più fasce, si ottengono interi settori
DECORO “A FASCE”
forniture realizzate per l’ospedale di Santa Fina di San
Gimignano. È anche probabile che di questo genere vi
siano anche versioni toscane a lustro metallico, ancora
non sufficientemente documentate, in quanto un esemplare frammentario del medesimo è stato recentemente
segnalato in una collezione privata fiorentina.
Presentandosi sempre come invasiva di gran parte
del supporto, la decorazione a foglia di prezzemolo si
accoppia con motivi vegetali stilizzati, posti in piccole
cerchiature centrali, ma anche con figurazioni zoomorfe ed antropomorfe, elementi araldici (anche l’iris simbolo di Firenze) e scritte. È da segnalare con questo
decoro anche una tazza da “impagliata” (parte di un
piccolo servito composto da due pezzi, utilizzato dalle
puerpere per pranzare a letto) rinvenuta negli strati
tardo-quattrocenteschi del “pozzo dei lavatoi”.
La foglia di prezzemolo è impiegata anche nella
decorazione delle forme chiuse, ove trova agio di diffondersi sui colletti e sulle parti laterali. I boccali che
appartengono a questo genere mostrano spesso un
ovale chiuso mediante una sorta di cerchiatura in arancio brillante, espansa verso l’esterno da numerosi motivi lanceolati, quasi in forma di petalo, che insiste su
un’ampia fascia in blu. All’interno degli ovali si notano
una molteplicità di figurazioni, alle quali si uniscono
minute puntinature per saturare gli spazi che le attorniano.
261
18. DECOR WITH “BANDS”
We know that the years from the end of the
1400’s until the beginning of the 1500’s represented an
intense experimentation period for the vase makers of
Montelupo. Their goal was to create original decorative types that were not a simple “translation” of formal external models, but an elaboration of new subjects. This genre is one of the more emblematic cases
of this research. Its development is particularly vivacious in the 1480’s: it quickly develops as a collection
of different suggestions, all destined to build new border elements of open models that, thanks to the introduction of the individual plate, multiplied the potters’ work.
We can divide this genre into two groups. The
first one is a lot more numerous and it uses geometrical elements formed by the weaving of blue and
orange-alternated lines. The result is the formation
of triangles (sometimes filled by small leaves) that
composed bands with rhombuses on the rims and
walls of the bowls. Overlapping these bands we
obtain entire saturated sections of these schematic
decorations.
The second group has a similar setting, but it
is created through the use of plant-like elements,
such as small floral corollas or leaves stylised
DECOR WITH “BANDS”
of most parts of the base and it is next to stylised
plant-like motifs in small central circles, human and
animal figures, heraldic elements, writings and also
the iris (the symbol of Florence). This decor was
also found on a “impagliata” cup (part of a small
service comprised of two pieces and used to eat in
bed) found in the late 1400’s lair of the “washhouse
well”.
The parsley leaf was also used to decorate
closed models, especially on the sides and the neck.
The jugs that belong with this genre are usually
characterised by an oval closed in a bright orange
line and characterised by lines facing the outside
forming a petal on a blue band. On the inside of the
ovals there are many figures surrounded by tiny dots
that saturate the spaces.
18a
18b
DECORO “A FASCE”
18a. Decoro “a fasce”, Scodella con stemma (il “semivolo”), 1480-90, Ø cm. 28,5
18b. Decoro “a fasce”, Piatto con stemma non identificato, 1480-90, Ø cm. 21,5
18c. Decoro “a fasce”, Piatto con stemma partito, Buonagrazi o Di Buonagrazia-X,
1480-90, Ø cm. 20,8
18d. Decoro “a fasce”, Piatto con simbologia non identificata, 1480-90, Ø cm. 22
18e. Decoro “a fasce”, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 22,3
262
DECOR WITH “BANDS”
18a. Decor with “bands”, Bowl with stem (the “mid flight”), 1480-90, Ø cm. 28,5
18b. Decor with “bands”, Plate with not identified stem, 1480-90, Ø cm. 21,5
18c. Decor with “bands”, Plate with divided coat of arms, Buonagrazi or Di Buonagrazia-X, 1480-90, Ø cm. 20,8
18d. Decor with “bands”, Plate with not identified symbol, 1480-90, Ø cm. 22
18e. Decor with “bands”, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 22,3
18c
18d
18e
saturi di queste decorazioni schematiche.
Un secondo raggruppamento di questo genere
mostra un’impostazione simile, realizzata però attraverso il ricorso ad elementi di derivazione vegetale,
tra i quali spiccano minuscole corolle floreali o la
foglia stilizzata mediante segmentature sovrapposte
in senso decrescente, simili – ma di maggiori dimensioni – a quelle che contraddistinguono l’imitazione
della “foglia di vite” valenciana.
18f. Decoro “a fasce” dalla foglia valenciana, Piatto con stemma non identificato,
1480-90, Ø cm. 20,9
18g. Decoro “a fasce”, Scodella con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 27,2
18h. Decoro “a fasce”, Piatto con coniglio (la fecondità), 1480-90, Ø cm. 21,7
18i. Decoro “a fasce”, Scodella con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 26,5
18f
DECORO “A FASCE”
263
DECOR WITH “BANDS”
18g
18h
18f. Decor with “bands” from the Valencia Leaf, Plate with not identified
coat of arms, 1480-90, Ø cm. 20,9
18g. Decor with “bands”, Bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 27,2
18h. Decor with “bands”, Plate with rabbit (the fertility), 1480-90, Ø cm. 21,7
18i. Decor with “bands”, Bowl with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 26,5
through overlapping segments in a decreasing sense.
These are similar, although bigger, to the ones that
characterise the imitation of the Valencia vine leaf.
18i
SETTORI PUNTINATI
19. SETTORI PUNTINATI
Alla base di questo genere decorativo sta un
motivo “a squamatura”, in cui gli elementi costituitivi
si pongono gli uni a ridosso degli altri, sino a coprirsi
parzialmente per formare una sorta di composizione
embricata, che, in maniera non dissimile a quella dell’
“albero della vita” nell’imitazione del lustro metallico,
viene lumeggiata con un trattino verticale di color
arancio, posto al centro. Mediante tale composizione
si contornano le figurazioni principali, separandole da
essa con apposite cerchiature.
Sui boccali il motivo della “squamatura” si pone
normalmente sul lato a vista, mentre nelle fasce laterali esso viene semplificato, riducendolo ad una semplice reticolo di linee, che, intersecandosi fittamente,
lasciano spazi romboidali, all’interno dei quali si
appone il solito trattino di color arancio.
Nelle forme aperte questo stesso motivo di contorno presenta almeno due varianti: nella prima esso
si presenta suddiviso in settori, di solito in numero di
quattro, sviluppandosi in una fascia periferica, che
lascia una larga porzione attorno alla cerchiatura centrale pressoché priva di decoro; tra un settore “a
squame embricate” e l’altro si collocano parti risparmiate, parzialmente campite da tratti in blu, e talvolta
contrassegnate da elementi tipici di questo periodo,
DOTTED SECTIONS
264
19. DOTTED SECTIONS
The base of this decorative genre is a “flaky”
motif, where the elements are so close to one another
that they form a composition of elements that partially covers each other. In the centre there is a vertical
orange line used in a similar way to the “tree of life” of
the metallic lustre imitation. Through this composition we can find the main figures that are separated
from the rest with circles.
In the open models this border motif presents
at least two different variations. In the first one the
object is subdivided into sections, usually in fours,
which are developed around a peripheral band. This
leaves a large portion around the central circle basically without decoration. Between one section and
the other there are parts that are partially blue and
sometimes characterised by this period’s typical elements, such as the rhombus with segments on the
inside. The second group consists of plates and
bowls in which we can find the same composition
divided in sections. But the sections are alternated
with other parts characterised by a reticulum.
In this genre there is the tendency to make
larger central spaces that are used for big figured
subjects, especially representations of women.
19a
19b
come il rombo segmentato al proprio interno. La
seconda variante è costituita da piatti e scodelle nelle
quali si ritrova la medesima composizione divisa a settori, in questo caso, però, in similitudine con quanto
rilevato sulle forme chiuse, formata da settori “a
squame” alternate a parti con il “reticolo”.
In questo genere decorativo si nota un’incipiente
tendenza ad allargare gli spazi centrali, per porre al
loro interno ampie parti figurate, tra le quali spiccano
non poche rappresentazioni muliebri a mezzo busto.
19b. Settori puntinati, Piatto con simbolo di S. Bernardino (HIS:Ihesus),
1480-90, Ø cm. 26,3
19c. Settori puntinati, Piatto con figura femminile, 1480-90, Ø cm. 26,3
A differenza della floreale, che pure ha un’origine
pressoché sincrona ed un’iterazione produttiva del tutto
simile, è la “penna di pavone”, assieme alla cosiddetta
“palmetta persiana”, il genere che meglio si presta ad
introdurre nella pittura su smalto dell’ultimo ventennio
del Quattrocento quella fastosa policromia che costituisce uno degli elementi principali, caratterizzanti la fase
propriamente rinascimentale (1480-1540) della maiolica italiana. Come vedremo, è poi nei primi quaranta
anni di questo periodo che la grande famiglia dei decori rinascimentali, dei quali la “penna di pavone” rappresenta per molti aspetti un elemento fondante, attinge in
Montelupo il vertice dell’efficacia, prima di intraprendere un lungo percorso di ripiegamento, nel corso del
quale viene lentamente a perdere la straordinaria creatività acquisita sul finire del XV secolo.
Tralasciando le più lontane simbologie, che genericamente possono collegarsi a questo motivo – da denominarsi più precisamente “occhio della penna del pavone” – attraverso il ricorso all’immagine di regalità propria del nobile volatile, si è detto che il prototipo al
quale si ispira la decorazione su maiolica si può rintracciare nella ceramica dell’Iran, ed in particolare nella
produzione di Kashan, che viene normalmente datata
OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE
19a. Settori puntinati, Boccale amatorio con figura femminile, 1480-90, h cm. 26
20. OCCHIO DELLA PENNA
DI PAVONE
265
19b. Dotted sections, Plate with symbol of S. Bernardino (HIS:Ihesus),
1480-90, Ø cm. 26,3
19c. Dotted sections, Plate with woman, 1480-90, Ø cm. 26,3
19c
20. EYE OF THE PEACOCK’S
FEATHER
This genre introduces in the painting on lustre
of the last 20 years of the 1400’s a vivacious polychrome that becomes one of the characterising and
main elements of the Italian majolica Renaissance
period. This can also be said about the “Persian palm
branch” genre. During the first 40 years of this period
the great family of Renaissance decors, in which the
peacock’s feather is the fundamental element, reaches
the top point of its efficiency. It will then slowly lose
the extraordinary creativity that it had around the
end of the 15th century.
Overlooking the older symbolisation, that can
be generically linked to this motif using the image of
this noble animal, we said that the inspiring prototype comes from the majolica of Iran, and in particular from the Kashan production that is dated
between the 13th and 14th century. It is a metallic
lustre and therefore the similarity is connected to
the structure of the decor and not to its formal
aspect.
The peacock feather, as in the floral genre,
appears in the Montelupo production already in the
1470’s as an accessory element that enriches the
EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER
19a. Dotted sections, “Amatory” jug with woman, 1480-90, h cm. 26
OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE
tra il XIII ed il XIV secolo. Trattandosi, però, di lustro
metallico, questa similitudine attiene propriamente alla
struttura del decoro, e non all’interezza del suo aspetto
formale.
La “penna di pavone”, come si è avuto modo di verificare nel genere della floreale, si introduce nella produzione montelupina già negli anni Settanta del Quattrocento quale elemento accessorio, in grado di arricchire
i decori principali, per poi diffondersi in altri generi e
trasformarsi in un vero motivo di contorno – definendo
così un genere – solo nel decennio successivo. Il legame
tra questo decoro ed il mondo vegetale, che abbiamo
notato caratterizzare il suo impiego nella funzione
accessoria dei motivi principali, viene a perdersi in
ragione di una standardizzazione che lo trasforma in
maniera tale da poter rappresentare con esso un insieme strutturato, ove i singoli motivi, semplificati, si legano gli uni agli altri. Così la “penna di pavone” viene a
20a. Occhio della penna di pavone, Boccale con decoro invadente, 1480-90, h cm. 15
20b. Occhio della penna di pavone, Piatto con testa di leone, 1480-90, Ø cm. 26,5
20a
266
EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER
20a. Eye of the peacock’s feather, Jug with invasive decor, 1480-90, h cm. 15
20b. Eye of the peacock’s feather, Plate with lion head, 1480-90, Ø cm. 26,5
20b
main decors. It then develops into
other genres and transforms into a
true border motif in the following ten
years. The link between this decor
and the plant world, that we noticed
as a characteristic of its accessory use
in main motifs, gets lost due to a standardisation that transforms it. It loses
the plant-like elements that used to
belong to it, in particular the stems,
the leaves and the styles that it used
to accompany when it appeared in the
Montelupo factories. Gaetano Ballardini’s theory that it appeared thanks
to the Faenza vase makers in the
1480’s in honour of Cassandra Pavoni
(unlucky lover of Galeotto Manfredi,
“Signore” of the city) is improbable.
perdere gli attributi fitomorfi che gli erano propri, ed in
particolare gli steli, le foglie e gli stami con i quali si
accompagnava nel momento della sua comparsa nelle
botteghe di Montelupo. Appare perciò piuttosto improbabile rapportare, come a suo tempo fece Gaetano Ballardini, la diffusione della “penna” all’opera dei vasai di
Faenza, che l’avrebbero utilizzata nel pieno degli anni
Ottanta del XV secolo per ricordare Cassandra Pavoni,
sfortunata amante di Galeotto Manfredi, signore di
quella città.
Nonostante il processo di stilizzazione al quale
andrà incontro, la “penna” si mostra infatti sin dai primordi della sua apparizione in un cromatismo ben definito: le versioni semplificate che si sono incontrate in
altri generi, come ad esempio in quello delle fasce geometriche, debbono essere considerate perciò alla stregua di derivazioni secondarie, non pertinenti al suo sviluppo come decoro. L’interno della “penna, infatti, è
OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE
20c. Occhio della penna di pavone, Alberello con decoro invadente, 1
500-15, h cm. 14
20d. Occhio della penna di pavone, Boccale con decoro invadente, 1
490-1510, h cm. 17
267
20d. Eye of the peacock’s feather, Jug with invasive decor, 1490-1510, h cm 17
Even though the peacock feather will be characterised by a process of stylisation, it is characterised from the beginning by very defined chromatics. The simple versions that we found in other genres (for example the geometrical bands) here are
only considered as secondary derivations and not
referable to its decorative development. The inside of
the feather is built with the overlapping of four
bands of colour that, starting from the bottom, are
formed by four arched sections, coloured in brown
manganese, green and orange (between the first two
sections the space is not painted so we can see the
white polish). Thin blue strokes plough through it in
a vertical sense sometimes expanding in a diverging
sense the farther away it gets from its origin. Especially in the closed models this blue line seems to be
connected to a stem in which we can recognise the
bone part of the peacock’s feather.
20c
20d
EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER
20c. Eye of the peacock’s feather, Spice holder with invasive decor, 1500-15, h cm. 14
OCCHIO DELLA PENNA DI PAVONE
costruito con la sovrapposizione di quattro fasce di
colore, che, partendo dal basso, sono formate da altrettanti settori arcuati, campiti rispettivamente in bruno di
manganese, verde ed arancio; tra le prime due viene
lasciata una parte a risparmio, che fa così intravedere il
bianco candido dello smalto. Sottili pennellature in blu,
inserite dopo la campitura, la solcano in senso verticale, talora allargandosi in via divergente man mano che
si allontanano dall’origine. Specie nelle forme chiuse,
quest’ultima sembra connessa ad una sorta di stelo,
munito di un incavo mediano, nel quale può davvero
riconoscersi la parte ossea della penna del pavone.
Il decoro “alla penna” non fu certamente tra quelli
maggiormente eseguiti dai ceramisti di Montelupo,
vista la relativa, ridotta quantità con la quale si ritrova
nei reperti di scavo. La maggior abbondanza con la
quale si mostra sulle forme chiuse, inoltre, sembra indi-
care una preferenza ad impiegarla proprio sui boccali,
ove spesso assume i connotati di una decorazione invasiva, tale da ricoprire completamente la superficie dei
manufatti. Talvolta, però, i pittori montelupini preferiscono diradare le maglie composte dall’iterazione continua della “penna”, alternandovi spazi riempiti da figure
geometriche – di solito di tipo romboidale – o di natura
vegetale, quali piccole corolle floreali o elementi foliati
a tre lobi.
Nelle forme aperte, invece, i ceramisti dimostrano di
oscillare tra un impiego della “penna”, talvolta in una
versione dalle dimensioni più generose, con la quale
comporre un’ampia fascia radiale che copre tutta l’area
periferica di piatti e scodelle, oppure ridurla ad una
ghirlanda di più piccoli elementi, disposti in senso orizzontale e concatenati tra di loro.
20e. Occhio della penna di pavone, Piatto con
decoro invadente, 1500-15, Ø cm. 22,5
268
EYE OF THE PEACOCK’S FEATHER
20e. Eye of the peacock’s feather, Plate with
invasive decor, 1500-15, Ø cm. 22,5
20e
This decor certainly was not one of the most
common ones in Montelupo since it has only been
found in modest quantities in the digs. The biggest
amounts of closed models of this genre are jugs with
an invasive decoration that usually covers the entire
surface. Sometimes, however, the Montelupo
painters alternate spaces filled by geometrical figures (usually rhombuses) or plant-like motifs
(flower corollas or leaves with three lobes).
On the open models potters oscillate between
the use of the feather (sometimes in more generous
dimensions) with which they composed a radial
band that covers the peripheral areas of plates and
bowls, and wreaths of smaller elements placed horizontally and chained to each other.
21. FLOREALE EVOLUTA.
Nel corso degli anni Novanta del XV il genere
“floreale” va incontro ad una sensibile evoluzione: i
petali del grande fiore che la caratterizza, mantenendo
l’usuale bicromia in blu e bruno di manganese, tendono
infatti ad allungarsi sensibilmente, ripiegandosi agli
apici, sino a formare una sorta di appendice globulare.
Il cromatismo si alleggerisce notevolmente, rispettando
la generale tendenza dell’epoca, mente il motivo si indirizza di preferenza alle forme chiuse, occupandone i
fianchi come una normale pittura di contorno.
Come vedremo, si tratta soltanto di una tappa nell’evoluzione della”floreale”, che prelude all’ulteriore versione della medesima attuata a partire dal terzo decennio del XVI secolo.
21a
FLOREALE EVOLUTA,
21ab. Floreale evoluta, Boccale con simbolo di S. Bernardino (IHS:Ihesus),
1490-1510, h cm 20,7
21c. Floreale evoluta, Ciotola con decoro invadente, 1480-90, Ø cm. 16
269
EVOLVED FLORAL
21ab. Evolved floral, Jug with symbol of S. Bernardino (IHS:Ihesus),
1490-1510, h cm 20,7
21c Evolved floral, Basin with invasive decor, 1480-90, Ø cm. 16
21. EVOLVED FLORAL
In the 1490’s the floral genre is characterised by
a sensible evolution: the petals of the big flower, while
keeping the use of blue and brown manganese,
become longer and fold over at the top forming a
somewhat globular appendix. The chromatics
becomes significantly lighter respecting the general
tendency of the era, while the motif moves more
towards closed models characterising the sides as if it
were a normal border painting.
As we will see, this is only one phase of the
“floral” evolution that will bring an even newer version of the genre starting from the1530’s.
21b
21c
PALMETTA PERSIANA
22. PALMETTA PERSIANA
Il Wallis, ponendo in luce le molteplici influenze
“orientali”riscontrabili in alcune decorazioni tipiche
della fase tardo-medievale e rinascimentale della maiolica italiana, ritenne opportuno definire “palmetta persiana” un motivo che conobbe una straordinaria fortuna presso i pittori nostrani, e che consiste fondamentalmente in una serie di elementi lanceolati dipinti in blu,
raggruppati tra di loro sino a formare una sorta di
“pigna”, tra i quali vengono inseriti piccoli tratti di colore in arancio, giallo e, specie in Montelupo, in rosso.
Questo termine ha incontrato una particolare fortuna
nel lessico ceramologico internazionale, e trova effettivamente riscontro in alcuni elementi accessori che si
ritrovano nelle ceramiche dei grandi centri di fabbrica
iraniani, ma che riteniamo si possano estendere anche
a quelli, assai meno noti, della Siria.
Anche la “palmetta”, quindi, viene introdotta nella
nostra tradizione in base a quel criterio eclettico che sta
a fondamento dell’attività dei ceramisti rinascimentali,
ormai esperti nell’utilizzare con grande libertà i più
diversi spunti formali, per poi trasformarli nel fuoco di
una sbrigliata e disinvolta creatività. In ragione di questo “ri-facimento” del motivo, ci pare ozioso discutere,
come nel caso della “penna di pavone”, se il termine sia
adeguato a definire questa decorazione, così come inu-
tile appare indagarne l’eventuale portato simbolico,
visto che esso fu affatto estraneo ai ceramisti nostrali. È
semmai il caso di indicare la possibile sovrapposizione
tra l’influenza orientale, percepibile specialmente nelle
versioni più allungate e sinuose, ed il possibile riferimento della palmetta ad iconografie di più semplice
derivazione vegetale; a questo proposito, ad esempio, si
segnala la vicinanza di questo decoro all’immagine dell’infiorescenza della pianta del luppolo, ben diffusa nell’Italia del XV secolo.
Diversamente dalla “floreale” e dalla “penna di pavone”, comunque, la palmetta non compare in versioni
primordiali nelle maioliche tardo-medievali, ma assume
già nell’ultimo decennio del XV secolo la fisionomia
che maggiormente ne caratterizzerà l’impiego nelle botteghe ceramiche di Montelupo. Sulle forme aperte,
infatti, essa mostra subito uno sviluppo in senso verticale, come se i diversi gruppi di palmette, intervallati
tra di loro, si sviluppassero da steli che hanno origine in
diversi punti collocati sulla cerchiatura centrale; sulle
chiuse, invece, compone gruppi che si sovrappongono
lungo i fianchi dei boccali, racchiudendosi in una sorta
di ovali, i cui elementi costitutivi, realizzati con filettature in blu, suggeriscono l’esistenza di uno stelo, spesso
munito di piccole foglie stilizzate.
La decorazione vuol così suggerire un esuberante
mondo vegetale, inteso in senso naturalistico, e per
PERSIAN PALM BRANCH
270
22. PERSIAN PALM BRANCH
Wallis, focusing on the many oriental influences
on late medieval and Renaissance Italian majolica,
thought it would be correct to define as “Persian palm
branch” a motif that was extremely lucky amongst
our painters. It consists in a series of blue elements
that form a sort of pinecone, between which there
are some marks in orange, yellow and, especially in
Montelupo, red. This term has been particularly fortunate in the international ceramic vocabulary, because
it can be found in some accessory elements in majolica from great Iranian and, even if less famous, Syrian
factories. This genre is introduced in our tradition as
part of the eclectic criteria that are at the base of the
activity of Renaissance potters. These potters are by
now experts in using with great liberty very different
formal ideas, to then transform them in an unabashed
creativity. It is useless for us to research the possible
symbolic significance of this genre in Iran, since it
was totally unknown to our potters. We should,
instead, show the possible overlapping between the
oriental influence, perceptible especially in the wavier
versions, and the possible reference to simpler styles
that derive from plant-like motifs. In fact this decor
can be considered similar to the image of the bloom-
ing of the hop plant, common in Italy already in the
15th century.
Diversely from the “floral” as well as the “peacock feather”, the palm branch does not appear in
early versions in the late medieval majolica. Already
at the end of the 15th century, in fact, it had reached
the same characteristics that it would have throughout the experience in the Montelupo factories. On
open models, it develops from the start a development in a vertical sense. As if the groups of branches
separated one from the other, developed from stems
that are originated in different points of the central
circle. Closed models are characterised by groups
that overlap along the sides of the jugs forming ovals
that are re-finished in blue and that suggest the existence of a stem (usually next to small-stylised
leaves).
The decoration suggests a plant world, intended in a naturalistic sense. This sensation is created
also thanks to the use of small flower corollas or
twigs that characterise also closed models. In the
production of the 1400’s, there was still the use of
motifs from the late damaschino production, like
the use of bright orange inserts that characterise the
imitation of metallic lustre. We must also signal the
union of the palm branch motif with the peacock
feather motif because there is frequently an alterna-
22a
22b
PALMETTA PERSIANA
22a. Palmetta persiana, Piatto con stemma Casini di Naldo, 1480-90, Ø cm. 26,2
22b. Palmetta persiana, Piatto con stemma Canigiani, 1480-90, Ø cm. 31,7
22c. Palmetta persiana, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 21,5
22d. Palmetta persiana, Piatto con figura di unicorno, 1480-90, Ø cm. 26,2
22e. Palmetta persiana, Piatto con decoro invadente, 1500-15, Ø cm. 26
271
PERSIAN PALM BRANCH
22a. Persian palm branch, Plate with stem of Casini di Naldo, 1480-90, Ø cm. 26,2
22b. Persian palm branch, Plate with stem of Canigiani, 1480-90, Ø cm. 31,7
22c. Persian palm branch, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 21,5
22d. Palmetta persiana, Plate with unicorn, 1480-90, Ø cm. 26,2
22e. Palmetta persiana, Plate with invasive decor, 1500-15, Ø cm. 26
22c
22d
22e
PALMETTA PERSIANA
22f
indurre questa sensazione non esita a mischiare alla
“palmetta” piccole corolle di fiori tondeggianti, o ad
inserire nella medesima veri e propri tralci sinuosi che,
sulle forme chiuse, l’attraversano per intero. Nella produzione quattrocentesca si nota ancora l’impiego di
motivi tratti dalla produzione “damaschina” tardiva,
come le caratteristiche “rosette”, qui ovviamente assai
destrutturate e derivate dalle versioni “a tavolozza fredda” e policrome, nonché il ricorso ad inserti in arancio
brillante, sul tipo dell’imitazione del lustro metallico. È
poi da segnalare la commistione del motivo “a palmetta” con quello “a penna di pavone”, al quale frequentemente si alterna all’interno delle fasce di contorno, nella
fase che ne precede gli sviluppi cinquecenteschi. All’alleggerimento cromatico, tipico degli inizi del XVI secolo, fanno poi riferimento i materiali rinvenuti nello scarico del “pozzo dei lavatoi”, contraddistinti anche dall’impiego del rosso nelle lumeggiature dei particolari.
22f. Palmetta persiana, Scodella con decoro invadente, 1490-1510, Ø cm. 24
22g. Palmetta persiana, Orciolo con decoro invadente, 1500-15, h cm. 19,5
22h. Palmetta persiana, Piatto con decoro geometrico, 1490-1510, Ø cm.26,3
272
PERSIAN PALM BRANCH
22f. Palmetta persiana, Bowl with invasive decor, 1490-1510, Ø cm. 24
22g. Persian palm branch, Chemist’s jug with invasive decor , 1500-15, h cm. 19,5
22h. Persian palm branch, Plate with geometrical decor, 1490-1510, Ø cm. 26,3
22g
tion of the two in the border bands during the phase
that precedes the 1500’s development.
The chromatic enlightenment, typical of the
beginning of the 16th century, is proved by the materials that were found in the “washhouse well”, that
were characterised also by using red to enlighten the
details.
22h
23. FIGURATO
23a
23a. Figurato, Piatto con figura femminile, 1480-90, Ø cm. 20,9
23b. Figurato, Piatto con figura femminile, scritta incisa “Lucrethia bella”,
1500-15, Ø cm. 35,0
FIGURATO
Una pittura dai contenuti essenzialmente figurativi si sviluppa in Montelupo già sul finire del Quattrocento, prendendo le mosse da un genere, rivolto sempre
alla decorazione delle forme aperte – ed in particolare al
piatto piano, recentemente introdotto nell’uso della
tavola – nelle quali il contorno risulta ridotto ai minimi
termini, tanto che la parte figurata viene ad occupare in
essi gran parte della superficie smaltata.
All’inizio dell’Età Moderna la tendenza a sviluppare
l’aspetto figurativo della decorazione pittorica si accentua con l’abbandono di ogni limitazione di contorno,
come ben si rileva da un piatto restituito dal deposito
archeologico del “pozzo dei lavatoi”. Il documento,
databile tra la fine del secondo e l’inizio del terzo decennio del XVI secolo, mostra una figura femminile attorniata da un’ampia campitura in blu, nella cui parte
superiore è incisa la scritta “Lucrethia bella”.
Si tratta dunque di un “piatto amatorio”, che si
distacca per destinazione dalla normale produzione del
luogo, ma che è del pari significativo dell’attitudine
assai poco “decorativa” che è propria, ormai, dei pittori
di quest’epoca. Inusuale, ad esempio, è la raffigurazione
frontale del busto femminile, che di solito i ceramisti
pongono in vista laterale, ed ancora più rara è la tendenza manifestata da questo pittore all’espressione libe-
273
23a. Figurative, Plate with woman, 1480-90, Ø cm. 20,9
23b. Figurative, Plate with woman and writing “Lucrethia bella”, 1500-15, Ø cm. 35
A decoration with essential figurative contents
develops in Montelupo already at the end of the
1400’s. It derives from a genre of open model decorations (especially the flat plate, recently introduced on
the table) in which the border is highly reduced in a
way that the figurative part occupies most of the lustered surface.
At the beginning of the modern era, the tendency to develop the figurative aspect of pictorial
decoration accentuates with the abandonment of
every limitation of borders, as we can see on a plate
that was found in the “washhouse well”. This plate is
dateable between the end of the 1520’s and the
beginning of the 1530’s; it represents a woman surrounded by blue strokes and on the top there is the
writing “Lucretia Bella”.
It is an “amatory” plate that can be detached
from the normal local production for its achievement, but that equally shows the scarcely decorative
attitude of the painters of this epoch. For example,
the frontal representation of a woman’s bust is
unusual because the potters usually position it in a
lateral way. The tendency of this painter to free
expression, without placement rules are even rarer
He intends the ceramic handcrafts as a simple sur-
23b
FIGURATIVE
23. FIGURATIVE
FIGURATO
ra, sciolta dai vincoli dell’inquadramento sul manufatto
ceramico, che qui egli intende alla stregua di semplice
superficie da dipingere, con una noncuranza per le
limitazioni oggettive del supporto davvero notevole, e
forse anche maggiore di quella che caratterizzerà l’opera futura degli “istoriatori”. Questo piatto, in effetti,
costituisce uno dei documenti più interessanti della
fase più precoce di scambio delle nuove tendenze formali, ormai pienamente “rinascimentali”, che vanno
affermandosi nei diversi centri di fabbrica della maiolica italiana. Come non vedere, d’altronde, nell’incarnato
delicatamente ripassato ai margini in arancio chiaro
della Lucrezia, ma soprattutto nel colore rosso-rame
dei suoi capelli e nella cuffia gialla, lumeggiata di verde,
con la quale ella li raccoglie sulla nuca, un’attitudine
formale che non di poco si avvicina al famoso “piatto
Leverton”, un’altra delle espressioni “anomale”- se
vogliamo – di questa tendenza ad esprimersi per temi
dichiaratamente figurativi del periodo che precede l’introduzione dell’ “istoriato”? Questo documento, che si
avvicina, per la realizzazione di sfondi ripassati in blu
di cobalto, alla coeva produzione di Cafaggiolo, mostra
inoltre di collegarsi ad un più ampio filone di maioliche
figurate, testimoniate da numerosi ritrovamenti locali,
del quale fa parte anche il noto piatto con l’ingresso di
papa Leone X in Firenze nel 1516, attualmente conservato presso il Victoria and Albert Museum di Londra.
24. NASTRI
Con il termine “nastro” si intende definire un
tipo di contorno che, visto il suo particolare sviluppo,
trova impiego quasi esclusivamente sulle forme aperte, ponendosi, come “l’occhio della penna di pavone”
e la “palmetta persiana” altresì nel novero delle decorazioni sviluppate dai centri di fabbrica italiani nel
corso della prima fase rinascimentale.
Il motivo che caratterizza questo genere è composto da una duplice linea spezzata parallela, mediante
la quale si realizza una fascia appuntita, indirizzandola alternativamente verso l’esterno e verso il centro
dei manufatti. Mentre una parte di essa viene normalmente lasciata priva di colore, quella che la segue
è campita di blu, in maniera tale da suggerire un vero
e proprio nastro che, piegandosi, mostra ora un lato,
ora la sua faccia ventrale, ed incornicia così con lo
sviluppo delle sue volute appuntite, i decori centrali.
I materiali di scavo di Montelupo mostrano con
dovizia di particolari il percorso formale del genere,
ad iniziare da una versione più semplice, incentrata
sulla rappresentazione di una sola corona nastriforme, dipinta nel settore compreso tra il bordo e la cerchiatura del centro dei piatti: essa assume poi sviluppi più complessi, raddoppiando in particolare la
corona di nastri, in maniera tale da intrecciare tutta
FIGURATIVE
274
face to paint, without caring about the objective limitations of the base. This carelessness is probably
even bigger than the one that will characterise the
future work of the “istoriato” stylists.
This plate is one of the more interesting documentation’s of the more precocious phase of new
formal tendencies, that are now entirely of the
Renaissance and that develop in the different factory
centres of Italian majolica. How can we not notice
the delicately traced borders in light orange of
Lucretia’s skin, or the red copper of her hair in the
yellow cap, with which she gathers her hair, surrounded by green? This formal attitude is really
close to the famous “Leverton plate”, another unusual expression of this tendency to use figurative
themes before the introduction of the “istoriato”
style.
This document, that reminds us of the Cafaggiolo production due to its cobalt blue background,
can be connected to many different figurative
majolica. These were found in numerous local digs
and they include the famous plate with the entrance
of Pope Leo X in Florence in 1516, which is now
preserved at London’s Victorian Albert Museum.
24. RIBBONS
With the term”ribbon” we define a type of border that, due its particular development, is used
almost exclusively on open models. Like the “peacock
feather” and “Persian palm branch”, it is one decoration that develops in the Italian factories during the
first Renaissance phase.
The motif that characterises this genre consists in a double parallel line, through which there is
the creation of a pointed band that faces alternately
the outside and the centre of the handcrafts. While
part of it is usually left without colour, the other part
is painted in blue to suggest a real ribbon that, bending, sometimes shows one side and sometimes
shows the other. In this way it frames the central
decors.
The materials in the Montelupo dig show the
formal journey of the genre with many particulars.
The simpler version is based on the representation
of a single ribbon-like crown, painted in the section
between the border and the circle of the centre of
the plate. It then takes on more complex developments, for example the ribbon crown doubles in a
way that weaves the whole composition and generates a larger dynamic sensation.
This motif is connected to graphic details that
la composizione, e generare così una più accentuata
sensazione di dinamismo. Rispettando i canoni estetici del primo periodo rinascimentale, questo motivo
si unisce a minuti particolari grafici – quali piccoli
rombi, spirali, minuscole foglie stilizzate e, soprattutto, un motivo vegetale a tre lobi – che ne complicano
l’aspetto, saturando ogni spazio interno ed esterno
alla decorazione.
La lunga evoluzione dei “nastri” esemplifica il processo di trasformazione cromatica che interessò la
24a. Decoro “a nastro”, Piatto con decoro vegetale, 1480-90, Ø cm. 20,9
24b. Decoro “a nastro”, Piatto con decoro vegetale, 1480-90 , Ø cm. 26,4
24c. Decoro “a nastro”, Piatto con figura maschile, 1480-90, Ø cm. 27,8
24d. Decoro “a nastro”, Piatto con leopardo, 1480-90, Ø cm. 35
24a
NASTRI
275
RIBBONS
24c
24b
24a. Ribbons, Plate with plant-like decor, 1480-90, Ø cm. 20,9
24b. Ribbons, Plate with plant-like decor 1480-90, Ø cm. 26,4
24c. Ribbons, Plate with man, 1480-90, Ø cm. 27,8
24d. Ribbons, Plate with leopard, 1480-90, Ø cm. 35
respect the aesthetic criteria of this first Renaissance
phase. For example there are small rhombuses, spirals, tiny stylised leaves and especially plant-like
motifs with three lobes. These elements complicate
its aspect by saturating every internal and external
space of the decoration.
The long evolution of the “ribbons” is an
example of the process of chromatic transformation
that characterised lustered painting in Montelupo.
Even this genre, at the beginning of the 16th century,
24d
24e
24f
24e. Decoro “a nastro”, Piatto con leone, 1490-1500, Ø cm. 29
24f. Decoro “a nastro”, Piatto con figura femminile, 1480-90, Ø cm. 36
NASTRI
24g. Decoro “a nastro”, Piatto con leone rampante, 1490-1510, Ø cm. 20,3
24h. Decoro “a nastro”, Piatto con decoro geometrico, 1500-15, Ø cm. 27,8
24i. Decoro “a nastro”, Piatto con scacchiera, 1510-20, Ø cm. 33,5
276
RIBBONS
24e. Ribbons, Plate with lion, 1490-1500, Ø cm. 29
24f. Ribbons, Plate with woman, 1480-90, Ø cm. 36
24g. Ribbons, Plate with rampant lion, 1490-1510, Ø cm. 20,3
24h. Ribbons, Plate with geometrical decor, 1500-15, Ø cm. 27,8
24i. Ribbons, Plate with chessboard, 1510-20, Ø cm. 33,5
24g
24h
24i
pittura su smalto in Montelupo, mostrando come
anche questo genere denoti, all’inizio del XVI secolo,
l’adozione di una tavolozza dai toni assai più leggeri
rispetto a quelli con i quali esso si era presentato ai
suoi esordi sul finire del secolo precedente; in esso,
inoltre, compaiono frequentemente inserti di rosso
che ne impreziosiscono l’aspetto. Come tutte le più
importanti tipologie decorative dell’epoca, infine,
occorre precisare che anche i nastri andarono incontro, nel corso del Cinquecento, ad un processo di
estenuazione che ne peggiorò di molto tanto il cromatismo quanto il vigore e l’efficacia rappresentativa.
25. GROTTESCHE
GROTTESCHE
Ben sappiamo come nell’Italia degli ultimi anni
del XV secolo siano venute a diffondersi – prima nelle
parti accessorie, poi in porzioni sempre più ampie delle
più svariate tipologie d’opere d’arte – le suggestioni pittoriche tratte dagli affreschi di epoca romana, allora
riportare alla luce nell’Urbe: attraverso i taccuini degli
artisti, furono soprattutto i motivi del cosiddetto “quarto stile pompeiano” a determinare la nascita di una
vera e propria moda, destinata a durare nel tempo, grazie anche all’elaborazione che di essi fece Raffaello. Le
successive evoluzioni cinquecentesche e seicentesche,
tutte in vario modo dipendenti dall’esempio delle Logge
Vaticane e caratterizzate dallo sfondo bianco, sono dunque propriamente definite come “raffaellesche”.
Nel momento in cui questi motivi si diffondono nella
decorazione su maiolica, i pittori di Montelupo sembrano relazionarsi anche alle versioni delle “grottesche”
diffuse in altri centri di fabbrica, quali soprattutto
Siena, ma anche Faenza, Gubbio e Casteldurante.
Denotando caratteri propri e sufficientemente riconoscibili, i diversi filoni che contraddistinguono lo sviluppo di questo genere nelle botteghe montelupine possono
poi essere suddivisi a seconda che essi siano privi di
sfondo, oppure mostrino spazi intercalari campiti in
blu, arancio, o, infine, in rosso, giallo e blu.
277
We know that in the last years of the 15th century the pictorial suggestions of Roman frescoes started
developing in Italy. This characterised at first the
accessory parts, then always bigger and bigger portions of every type of art. The Roman frescoes were
brought back to light in Rome through the work of
artists. The motifs of the so-called “Fourth Pompeii
style” determined the beginning of a new fashion, destined to last also thanks to Raphael’s elaboration. All
the following 1500’s and 1600’s evolutions are therefore defined as “Raphaelesque “. They are all somehow
dependent on the example of the Logge Vaticane and
they are all characterised by a white background.
In the moment in which these motifs spread in
the majolica decorations, the Montelupo painters
seem to imitate also the “grotesque” versions that are
found in other factory centres, such as Siena, Faenza, Gubbio and Casteldurante. It has its own characteristics and they are sufficiently recognisable. This
genre can be characterised by a lack of background
or by blue, orange, red or yellow spaces.
An example of handcrafts with a blue background is a plate that was found in the “washhouse
well”. In the centre it has a Medici stem and the
motif of a dolphin has a privileged use. Another
GROTESQUE
25. GROTESQUE
uses a palette with much lighter tones compared to
the ones that it used at the end of the previous century. Red is very frequent and it enriches its aspect. As
all the other important decorative types of the epic,
we must specify that even the ribbons went towards
an extenuation process that weakened both its chromatic aspects and the efficiency of its representation.
GROTTESCHE
Tra i manufatti su fondale blu si segnala un piatto
del “pozzo dei lavatoi” con stemma mediceo centrale,
nel quale è il motivo del delfino a trovare impiego privilegiato e, soprattutto, un versatore su piede proveniente dal medesimo contesto di scavo. Sulla superficie
smaltata di quest’ultimo si dispiega un ricco repertorio
decorativo, nel quale le parti “a grottesca” – composte
da targhe, uccelli ed altri animali fantastici, ma anche
tendaggi e volute vegetali – si riferiscono ad una figura
alata centrale, la cui testa sostiene un grande vaso in
forma di anfora. L’esemplare, databile al 1510-20 circa,
è assegnabile alla bottega che marca i suoi prodotti
con la sigla “Lo” per la sua vicinanza con la maiolica
già nella collezione Rotschild (nota ormai come “il
rosso di Montelupo”), della quale tratteremo poco oltre,
ed in ragione della presenza, al disotto della targa in
giallo dipinta sui fianchi, proprio di una probabile
marca “Lo”.
Prima di diffonderci sul “rosso”, dobbiamo dar
conto della versione della grottesca su sfondo arancio,
ove il richiamo alla coeva produzione senese sembra
talvolta mostrare un legame particolarmente stringente,
anche se si incontrano esemplari del medesimo gruppo
che, per un’opera di evidente stilizzazione, vengono
invece a distaccarsi da quei modelli. Tra di essi possiamo inserire diverse forme aperte rinvenute negli scavi
del centro valdarnese, tra i quali un piatto con busto
maschile, ed altri documenti – sempre rappresentativi
di piatti e scodelle – nei quali i motivi della grottesca
trovano talvolta uno sviluppo invasivo. Di particolare
interesse è anche una grande sfera da sospensione, la
cui forma ci riporta con evidenza a certi prodotti tipici
di Iznik, il centro di fabbrica turco, alla cui attività
alcune tra le maggiori botteghe locale – ed in particolare proprio quella che appone sui suoi manufatti la sigla
“Lo” – si rapporta nei primi lustri del XVI secolo.
Un bacile piano a media tesa, già nella collezione
Rothschild di Parigi, uno dei capolavori della bottega
montelupina di Lorenzo di Piero Sartori, mostra una
delle variante di maggior interesse del genere “a grottesche”. L’esuberante decorazione che si distende sul lato
a vista di questa maiolica è completamente risolta,
infatti, in una teoria di figurette “a grottesca”, ad iniziare dalla minuscola cerchiatura “a ghirlanda” del centro,
che racchiude, come una sorta di cammeo dipinto di
blu intenso, una testa di putto tra due cornucopie stilizzate, sormontata da un cesto di frutta, su cui si posa un
grande uccello. Sul breve ricasco (il punto di congiunzione tra la tesa ed il fondo) si diffonde poi una fascia
di trofei su fondo arancio, formata da scudi, corazze,
armi, tamburi e teste leonine, i cui elementi parzialmente si sovrappongono,comprendendo anche due targhe con la scritta “SPQR”.
Ma è sulla tesa del bacile che si incontra una compo-
example is a pitcher coming from the same dig. On
the lustered surface we find a rich decorative repertoire in which the “grotesque” part (composed of
plaques, birds and legendary animals, drapery and
plants) can be referred to a central winged figure
whose head is holding a big vase shaped like an
amphora. The pitcher is dateable between 15101520 ca. and can be assigned to the workshop that
marks its products with brand “Lo”. This is due to
its closeness to the majolica of the Rothschild collection (known as the “red of Montelupo”) that we will
speak about soon. It is also due to the presence of a
probable brand “Lo” underneath the yellow plaque
on the sides.
Before speaking about the “red”, we must talk
about a version on an orange background. The link
to the Siena production here seems very tight, even
if sometimes there are examples of this group that,
due to an evident stylisation, are very different from
the Siena models. For example there are some open
models that were found in the digs of Valdarno,
including a plate with the bust of a man and various
other plates and bowls in which the grotesque motif
finds an invasive development. Of particular interest
is a big suspension sphere, whose shape makes us
think of certain typical products of Iznik, the factory
centre of Turkey. This production was popular in the
major local workshops during the first years of the
16th century (in particular the one that uses the
brand “Lo”).
A washbasin with a medium size rim, even in
the Rothschild Paris collection, shows one of the
more interesting varieties of the genre. This is one
masterpiece of the Montelupo workshop of Lorenzo
di Piero Sartori. The decoration on the front side if
this majolica is completely in grotesque. There is a
tiny wreath in the centre painted with an intense
blue that surrounds the head of a little angel
between two stylised horns with a big bird on top of
a fruit basket on the angel’s head. Between the rim
and the bottom, there is a band on orange background with trophies, shields, Armour, weapons and
drums. The elements partially overlap and they
include two plaques with the writing “SPQR”.
On the rim we find a new and unused composition. It develops around two figured groups that
alternate in the development of the decoration. In
one of them there is a couple of little angels that
seem to hold a string of pearls with one hand and a
stick with a dolphin head on top with the other. The
space at the bottom part of the decoration is painted
in red and it surrounds the drawing of a crab that
holds a plaque with its claws. In two cases there is
the writing “SPQR” while in the other two cases
GROTESQUE
278
25a
25b
25a. Grottesca, Vassoio con decoro invadente detto “il rosso di Montelupo”, Datato
“1509”, Ø cm.38
25b. Grottesca, Rovescio del precedente con fascia “a petali” e marca “[Lo]” della
GROTTESCHE
bottega di Lorenzo di Piero Sartori, Datato “1509”
25c. Grottesca, Piatto con figura maschile, 1490-1510, Ø cm. 21,1
25d. Grottesca, Scodella con stemma non identificato, 1490-1500, Ø cm. 15,5
25e. Grottesca, Scodella con il “segno della Fede”, 1490-1500, Ø cm. 21,8
279
GROTESQUE
254a. Grotesque, Large plate with invasive decor known as, “Il rosso di Montelupo”
(The red of Montelupo), Dated “1509”, Ø cm. 38
25b. Grotesque, The bottom side of the “Rosso di Montelupo” with band with petals
and brand “[Lo]” of the Montelupo workshop of Lorenzo di Piero Sartori,
Dated “1509”
25c. Grotesque, Plate with man, 1490-1510, Ø cm. 21,1
25d. Grotesque, Bowl with not identified coat of arms, 1490-1500, Ø cm. 15,5
25e. Grotesque, Bowl with the “symbol of Faith”, 1490-1500, Ø cm. 21,8
25d
25c
25e
sizione nuova ed inusitata nella pittura
montelupina su smalto. La composizione si incentra infatti su due gruppi figurati, che si alternano nello sviluppo della
decorazione medesima. In uno è rappresentata una coppia di putti che sembrano sostenere con una mano un filo di
perle, mentre con l’altra impugnano una
sorta di bastone, il cui apice assume la
forma della testa di un delfino. Lo spazio racchiuso nella parte inferiore della
decorazione è campito di rosso e circonda la figuretta di un granchio, il quale a
sua volta sostiene con le sue chele una
targa epigrafica – ove in due casi sta
scritto “SPQR”, ed in altri due “SPQF”
(il riferimento al “popolo fiorentino” è
trasparente) – mentre la parte superiore,
GROTTESCHE
25f
25f. Grottesca, Piatto con stemma Medici, 1510-15, Ø cm. 20,5
25g. Grottesca, Mesciroba con figura angelica, 1510-15, h cm. 19,5
25h. Atipico, Piatto con figura femminile, 1510-30 , Ø cm. 24,7
280
GROTESQUE
25f. Grotesque, Plate with coat of arms of Medici, 1510-15, Ø cm. 20,5
25g. Grotesque, “Mesciroba” (beaker) with angel, 1510-15, h cm. 19,5
25h. Atypical, Plate with women, 1510-30, Ø cm. 24,7
25g
25h
26. STEMMI E CIMIERI
La grande diffusione delle insegne araldiche sulla
maiolica spinse i pittori che operavano in Montelupo
tra il 1490 ed il 1520 circa ad elaborare un apposito
decoro, in grado di ben evidenziare la presenza dello
stemma. In quell’epoca non era del tutto tramontato
l’uso quattrocentesco di sovrapporre allo scudo l’elmo o
la celata dell’armatura, dal quale venivano poi a svilupparsi i piumaggi e le altre appendici che lo nobilitavano
(detti appunto “cimieri”). I vasai montelupini sfruttarono questa immagine complessa a fini decorativi, ricavandone un genere – relativamente raro negli scarichi
delle fornaci – da destinarsi alla pittura dei boccali, ove
la celata ed il cimiero sovrastano gli scudi araldici dei
committenti, dipinti sul lato a vista.
Il piumaggio dell’elmo si espande notevolmente
lungo il corpo dei boccali, tanto da lasciare su di esso
solo piccole porzioni di superficie, di solito riempite
mediante corolle floreali in blu del tipo “alla porcellana”. Per separarlo da queste ultime, il piumaggio viene
sottolineato da una linea esterna di contorno, che sembra così recuperare i modi tipici della pittura “a spazio
contornato”, già diffusa in Montelupo nel primo trentennio del XV secolo. In molti esemplari del genere,
che intendono citare la consuetudine dei tornei, si nota
inoltre l’affissione dello scudo araldico ad un tronco
STEMMI E CIMIERI
dipinta di giallo, ha al centro un vaso stilizzato.
Più ampia e complessa si rivela infine l’altra scena
figurata, nel cui centro si presenta una tipica “grottesca”, formata da una testa perlinata alle chiome su
fondo blu che sembra colta nell’atto di emettere un
grido, e si pone sopra una minuscola targa datata
“1509”. Nonostante la vicinanza con le migliori produzioni senesi del tempo, non sussiste dubbio alcuno sul
fatto che questo documento sia uscito dalla fornace del
Sartori: oltre alla marca, ben visibile al rovescio, tale
appartenenza è infatti sottolineata dal ritrovamento di
frammenti con decoro “a grottesca” su fondo giallo ed
arancio, dipinti dalla medesima mano, proprio nello
scarico di quella fornace, esplorato diversi anni or sono.
L’impiego esteso del pigmento rosso, che qui giunge
ad esiti cromatici quasi sanguigni, e l’aspetto rilevato
che esso ha assunto dopo la cottura, oltre a non trovare
confronti con la coeva produzione smaltata italiana,
avvicina palesemente il documento ai prodotti del centro turco di Iznik: ciò non sorprende affatto, visti i riferimenti che è possibile instaurare tra di essi (nei generi
con decoro “alla porcellana” e nella realizzazione di
sfere da sospensione, una morfa tipica delle ceramiche
orientali) e i manufatti della bottega dei Sartori.
281
26. COAT OF ARMS AND HELMETS
The great diffusion of heraldic symbols on
majolica pushed the Montelupo painters to create a
specific decor between 1490 and 1520 ca. The goal
was to underline the presence of the coat of arms.
In that epic there was still the 1400’s use of
overlapping the helmet to the shield or the Armour
to the shield. The Montelupo vase makers exploited
this complex image for decorative reasons. The
result was a genre to be destined to the painting of
jugs, where the helmets overpowered the heraldic
shields of the commissioners. This genre is relatively
rare in the kiln residues.
The feathers on the helmets expand along the
entire body of the jug, in a way that only small surface portions are left empty. Blue corollas of the
“porcelain” type usually fill these. The feathers are
traced by an external borderline that separates them
from the corollas. This is like the typical elements of
the painting on a “bordered space”, developed in
Montelupo around the 1430’s. In many examples of
the genre, we can notice that the heraldic shield is
put on the trunk of a stylised tree.
Apart from the chronological evidence that
comes from the digs in the local kiln residues, this
genre determines an absolute reference in an exem-
COAT OF ARMS AND HELMETS
“SPQF” (the reference to the Florence population is
clear). The top part is painted in yellow and in the
centre there is a stylised vase.
The other figured scene is bigger and more
complex. In the centre there is a typical grotesque
motif characterised by a head with pearls in the hair
on a blue background. The person seems to be
screaming and is on top of a tiny plaque dated
“1509”. Even though it was found near the best
Siena productions of the epoch, there is no doubt on
the fact that this finding came from the Sartori kiln.
Apart from the brand, that is well visible upside
down, this affiliation is underlined by the findings of
fragments with grotesque decors on yellow and
orange backgrounds in the same kiln.
The extended use of the red pigment and the
aspect that it took on after the firing, not only is not
comparable to the Italian lustered production of
that time, but it also is very similar to the Iznik
products. This is not surprising due to the connection of Iznik with the Sartori workshop (in the genres with porcelain decor and in the creation of suspension spheres).
d’albero stilizzato, confitto nel terreno. Il decoro montelupino “a stemmi e cimieri”, oltre alle attestazioni cronologiche relative, che gli derivano dagli scavi effettuati negli scarichi delle fornaci locali, trova un riferimento assoluto nell’esemplare con lo stemma degli Ambrogi di Firenze datato “1506”, già nella collezione von
Beckerhardt (ed attualmente in quella Lehman, al
Metropolitan Museum of Art di New York).
STEMMI E CIMIERI
26a. Stemmi e cimieri, Boccale con stemma Pandolfini, 1500-10, h cm. 23,5
27. ARMI E TROFEI;
ARMI E TAMBURI
Tra Quattro e Cinquecento i vasai di Montelupo
vennero ad elaborare un decoro “ad armi e trofei” di un
tipo assai stilizzato, che ben si distacca dai generi consimili, presenti negli altri centri di fabbrica italiani,
soprattutto in ragione della sua squillante policromia.
Gli artefici montelupini, tralasciando il rigore grafico
della rappresentazione, sembrano infatti interessarsi
soprattutto alla possibilità di trasformare una composizione variamente formata da scudi, elmi, corazze e
spade, in una fascia di contorno dall’accentuata policromia densa di colore.
Ecco quindi che, non curandosi della riconoscibilità
dei particolari, essi realizzano grandi macchie di giallo
e (gli scudi), sottolineate ai bordi da pennellate di rosso,
alle quali si alternano parti altrettanto estese, che sembrano voler rappresentare solo lo sfondo cromatico per
grandi elmi stilizzati
In tal modo si forma una larga fascia multicolore,
che viene impiegata sia per contornare scene figurate,
come nel piatto con San Giorgio che rivolge la lancia
verso il drago – e che trova numerosi riscontri iconografici pressoché coevi, quali ad esempio il noto pannello
maiolicato della chiesa genovese di Santa Maria in
Castello – o semplicemente geometrica.
282
COAT OF ARMS AND HELMETS
27. WEAPONS AND TROPHIES;
WEAPONS AND DRUMS
26
26a. Coat of arms and helmets, Jug with Pandolfini coat of arms, 1500-10, h cm. 23,5
plary that is characterised by the presence of the
coat of arms of the Ambrogi family from Florence
dated 1506. It used to belong to the von Beckerhardt
collection and now it belongs to the Lehman collection in the Metropolitan Museum of Art in New
York.
Between the 1400-1500’s the Montelupo vase
makers elaborated towards a stylised “weapons and
trophies”decor. This genre is very different from all
the others present in the other Italian factory centres, mostly due its bright colours. The Montelupo
artists ignored the graphic rigour of the representation and focused on the possibility to transform a
composition characterised by shields, helmets,
Armour and swords into a border band with dense
colours.
They do not worry about having recognisable
details. They create big yellow spots (the shields),
underlined by red borders and they alternate them
with equally big parts that represent the chromatic
background for stylised helmets.
The result is a large multi-coloured band that
is used both as a border for figured scenes (for
example in the plate with the representation of San
Giorgio with a lance facing a dragon or in a majolica
panel in the Genoa church of Santa Maria in Castello) and for geometrical decorations.
Even though many details make the “drums”
typology similar to the one with weapons and
shields, that is more frequent at the beginning of the
27a
27b
ARMI E TROFEI; ARMI E TAMBURI
27a. Armi e trofei, Scodella con decoro geometrico, 1500-10, Ø cm. 21,2
27b. Armi e trofei, Piatto con decoro geometrico, 1500-10, Ø cm. 25,8
27c. Armi e trofei, Piatto con figura di San Giovannino”, 1490-1510, Ø cm. 26,4
27d. Armi e trofei, Piatto con San Giorgio, 1510-15, Ø cm. 34
27e. Armi e trofei, Piatto con stemma Medici, 1500-10, Ø cm. 20
283
27b. Weapons and trophies, Plate with geometrical decor, 1500-10, Ø cm. 25,8
27c. Weapons and trophies, Plate with “San Giovannino”, 1490-1510, Ø cm. 26,4
27d.Weapons and trophies, Plate with San Giorgio, 1510-15, Ø cm. 34
27e. Weapons and Trophies, Plate with Medici coat of arms, 1500-10, Ø cm.20
27c
27d
27e
WEAPONS AND TROPHIES; WEAPONS AND DRUMS
27a. Weapons and trophies, Bowl with geometrical decor, 1500-10, Ø cm. 21,2
ARMI E TROFEI; ARMI E TAMBURI
Nonostante numerosi particolari avvicinino la tipologia “ a tamburi” a quella con “armi e scudi”, di più
frequente esecuzione in Montelupo nei primi lustri del
XVI secolo, ed entrambe siano destinate alle forme
aperte, i due generi debbono essere separati in ragione
di alcune difformità. L’effetto cromatico ricercato dai
pittori, pur simile nelle due composizioni per l’identico
alternarsi di parti in giallo ed arancio, si dispiega infatti in una struttura resa sensibilmente diversa dall’impiego del tamburo come elemento decorativo principale,
ed in ragione delle più ridotte dimensioni degli scudi,
qui visti anche nella classica composizione sovrapposta,
dalla quale spuntano coppie di spade incrociate. Le
minori dimensioni dei soggetti lasciano poi spazi aperti che vengono riempiti con motivi fitomorfi, sconosciuti al genere con “trofei”.
Nel corso del Cinquecento, inoltre, sarà la versione
“a tamburi” ad evolvendosi con esiti peculiari, sino a
subire quel processo di “estenuazione” dei decori che,
come vedremo, contraddistingue gran parte della produzione tardo-rinascimentale.
28. RETICOLO PUNTINATO
In questo genere decorativo si incontra l’impiego rigoroso di un motivo geometrico assai semplice
ed essenziale, incentrato sulla realizzazione di un settore di tipo reticolare – un incrocio di linee parallele,
tracciate in blu, che vengono ad individuare piccoli
spazi quadrangolari – minutamente puntinati (di solito in bruno di manganese) al loro interno.
Le ricerche archeologiche montelupine hanno evidenziato come il decoro abbia un’origine quattrocentesca, riferendosi con tutta evidenza alla tipologia “a
settori” ove, sia pure in via secondaria, compare frequentemente, accompagnandosi sulle forme aperte
con quello “a squame”. Sul finire del XV secolo, però,
il “reticolo puntinato” si qualifica come un genere
decorativo specifico, comparendo da solo, e trovando
un impiego in via esclusiva sulle forme chiuse. Di
esso si conoscono anche versioni “invasive”, ove il
motivo ricopre completamente la superficie di alberelli e boccali, dividendosi anche, quasi a voler richiamare la sua fisionomia originaria, in settori diversi; si
tratta, però, di una produzione minoritaria rispetto al
suo impiego corrente come riempimento geometrico
da apporre sui fianchi dei boccali o sulle parti laterali
dei contenitori a destinazione farmaceutica.
Il “reticolo” si unisce a tutti i motivi usati come
WEAPONS AND TROPHIES; WEAPONS AND DRUMS
284
16th century, the two genres must be separated due
to some differences. The chromatic effect, even
though similar due to the identical alternation of
yellow and orange is sensibly different because of
the use of the drum as a main decorative element
and of the smaller dimensions of the shields. In this
genre the shields are also overlapped and characterised by the presence of pairs of crossed swords.
The smaller dimensions of the subjects leave many
open spaces that are filled with plant-like motifs that
are unknown to the genre with “trophies”.
During the 1500’s the “drum” version would
evolve with peculiar results. The result is an extenuation of decors that, as we will see, characterises
most of the late Renaissance production.
28. DOTTED RETICULUM
This genre is characterised by the simple and
essential use of geometrical motifs, based on the creation of a reticulum (a crossing of blue parallel lines
that individuate small square like spaces) that is dotted with brown manganese on the inside.
Archaeological analysis specifies that the
decor had a 1400’s origin, referring also to the “section” typology that often appears on open models. At
the end of the 15th century, however, the “dotted
reticulum” qualifies as a specific decorative genre
appearing only on closed models. We also find invasive versions where the motif covers the entire surface of jugs, also dividing them in different sections
(like in its original form). This production is; however, less important than the one that was used as a
geometrical filling on the sides of jugs and containers with a pharmaceutical destination.
The “reticulum” can be connected to all the
motifs that were used as main decorations on closed
models during the first Renaissance phase. It is separated from these motifs through circles that take
on the characteristics of the stylised ring with a
gem. This is one of the most important symbolic figures of the epic. In this genre we find jugs with
human figures and illusive representations of ani-
28b
28a
RETICOLO PUNTINATO
28a. Reticolo puntinato, Alberello con decoro invadente, 1490-1510, h cm. 19,5
28b. Reticolo puntinato, Boccale con decoro floreale, 1480-90, h. cm 19,4
28c. Reticolo puntinato, Boccale con decoro invadente, 1480-90, h cm. 24,6
28d. Reticolo puntinato, Boccale con scritta “Benedet[t]a b[e]lla”,
1500-15, h cm. 20,3
28e. Reticolo puntinato, Boccale con leone rampante, 1490-1505, h cm. 24
285
DOTTED RETICULUM
28a. Dotted reticulum, Spice holder with invasive decor, 1490-1510, h cm. 19,5
28b. Dotted reticulum, Jug with floral decor, 1480-90, h. cm 19,4
28c. Dotted reticulum, Jug with invasive decor, 1480-90, h. cm. 24,6
28d. Dotted reticulum, Jug with writing “Benedet[t]a b[e]lla”, 1500-15, h cm. 20,3
28e. Dotted reticulum, Jug with rampant lion, 1490-1505, h cm. 24
28c
28d
28e
RETICOLO PUNTINATO
28g
28g. Reticolo puntinato, Boccale con simbologia di S. Bernardino (IHS:Ihesus),
1500-15, h. cm 21
28h. Reticolo puntinato, Boccale con simbologia di S. Bernardino (IHS:Ihesus),
28i. Reticolo puntinato, Boccale con stemma Medici, 1500-15, h cm. 16
28f
28f. Dotted reticulum, Jug with snail (the prudence), 1500-10, h cm. 19,5
DOTTED RETICULUM
286
28f. Reticolo puntinato, Boccale con chiocciola (la prudenza), 1500-10, h cm. 19,5
28g. Dotted reticulum, Jug with symbol of S. Bernardino (IHS:Ihesus),
1500-15, h. cm 21
28h. Dotted reticulum, Jug with symbol of S. Bernardino (IHS:Ihesus), 1500-15
28i. Dotted reticulum, Jug with coat of arms of Medici, 1500-15, h cm. 16
28h
28i
decorazioni principali sulle forme chiuse del primo
periodo rinascimentale, separate da esso mediante
apposite cerchiature, che quasi sempre vengono ad
assumere la fisionomia stilizzata dell’anello con
gemma, ripetendo così una delle “imprese” – figurazioni simboliche – più diffuse dell’epoca. In queste
genere incontriamo dunque boccali con figure umane
e raffigurazioni allusive di animali (il cane per la
fedeltà, il coniglio come immagine della fecondità, la
chiocciola per la prudenza, etc.), ma anche stemmi
appartenenti a varie famiglie nobiliari fiorentine –
soprattutto a quella dei Medici – che non sottendono
una committenza diretta, quanto una generica allusione a Firenze, e simbologie religiose. È però caratteristica esclusiva del decoro “a reticolo” l’unione di
questo contorno con scritte poste nell’ovale centrale,
ove si celebrano, attraverso i loro nomi, giovani fanciulle (“Antonia b[ella]”; “Benedetta b[ella]”; “Ginevra
b[ella] e pul[zella]”), ed ammonimenti di carattere
religioso (“Temete deum”).
29. GHIRLANDA
GHIRLANDA
Si tratta di un genere decorativo ampiamente diffuso sulle forme aperte, che si mostra come una fascia
periferica campita in arancio, sulla quale, dipingendosi
minuscole archeggiature in blu, si viene a far assumere
l’aspetto di una sorta di “squamatura”. L’importante
scarico di fornace rinvenute nel 1988 nel giardino del
Museo di Montelupo, fornendo una documentazione
collocabile sul finire degli anni Ottanta del XV secolo,
ha fornito elementi precisi per riconoscere la genesi
del motivo, evidenziando come non si tratti tanto di
una generica fascia “embricata”, quanto piuttosto di
una ghirlanda in estrema stilizzazione. Negli esemplari
più antichi tale richiamo si fa più evidente per lo sviluppo delle parti in blu, che mostrano un andamento orizzontale più accentuato, suggerendo anche con precisione le foglie delle quali la ghirlanda medesima si compone. Tra Quattro e Cinquecento è su questa tipologia
decorativa, riservata unicamente alle forme aperte, che
si incontrano i documenti figurati di maggiori dimensioni, sia in ordine alla larghezza del supporto, che per
l’estensione delle figure, talvolta allusive – come quella
della cerva che rivolge la testa verso l’alto – ad immagini religiose.
Oltre a varianti del decoro medesimo, in qualche
caso diviso per settori o mutato in una fascia di color
287
29. WREATH
This decorative genre is mostly found on open
models that are characterised by a peripheral orange
band with tiny blue arches that form a scaly pattern.
The noteworthy kiln residues that were found in 1988
in the garden of the Montelupo museum gave us a
documentation that could be dated around the 1480’s.
We received precise elements to recognise the genesis
of the motif underlining how it is not only a generic
overlapping band, but also an extremely stylised
wreath. In the oldest findings the development of the
blue part is evident and they show an accentuated
horizontal trend which suggests the leaves of the
wreath.
Between the 1400 and 1500’s, this is the typology that is characterised by the biggest dimensions,
both in the width of the base and the extension of
the figures (usually alluding to religious images,
such as the deer facing towards the sky).
Apart from the variations of the decor, that
can be sometimes divided into sections or changed
into an orange band with plant like motifs, we must
signal a central image with the stylisation of the sun.
The painters make it take on human characteristics
(eyes, nose and mouth). It is not easy to establish if
these figures are characterised by different attitudes
WREATH
mals (the dog symbol of fidelity, the rabbit symbol of
fertility and the snail symbol of prudence etc.).
There were also religious symbols and coat of arms
that belong to the various noble families from Florence (especially the Medici family) which does not
necessarily refer to the presence of a commission
but symbolises a generic illusion of Florence. The
writings in the central oval are an exclusive characteristic of the genre. In this way there are celebrations of young women (“Antonia bella”,”Benedetta
bella”, “Ginevra bella e pulzella”) and religious
warnings (“temete deum”).
29a
29b
29a. Ghirlanda, Piatto con corona marchionale, 1480-90, Ø cm. 21,5
29b. Ghirlanda, Piatto con simbologia di S. Bernardino (HIS:Ihesus),
1480-90, Ø cm. 35
GHIRLANDA
29c. Ghirlanda, Piatto con simbologia di S. Bernardino (HIS:Ihesus),
1480-90, Ø cm. 32,2
29d. Ghirlanda, Piatto con motivo solare, 1490-1500, Ø cm. 34
29e. Ghirlanda, Piatto con motivo solare antropomorfo, 1490-1500, Ø cm. 33,4
288
RICORRENTE INGLESE
29a. Wreath, Plate with marquis’s crown, 1480-90, Ø cm. 21,5
29b. Wreath, Bowl with symbol of S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 35
29c. Wreath, Bowl with symbol of S. Bernardino (HIS:Ihesus), 1480-90, Ø cm. 32,2
29d. Wreath, Plate with sun, 1490-1500, Ø cm. 34
29e. Wreath, Plate with sun on human characteristics, 1490-1500, Ø cm. 33,4
29c
29d
29e
arancio, che accoglie motivi vegetali diversi, è da segnalare con il contorno “a ghirlanda” un gruppo con l’immagine centrale stilizzata del disco solare, al quale,
apponendovi occhi, naso e bocca, i pittori fanno assumere caratteristiche antropomorfe. Non è facile stabilire, se in maniera intenzionale o meno, a queste figurette si fanno poi addirittura prendere atteggiamenti diversi, in quanto esse si mostrano, a seconda dei casi, sorridenti od imbronciate. Specie nella decorazione di grandi fruttiere su piede (“alzate”), le immagini solari si
uniscono frequentemente con parti accessorie dipinte
con modalità geometriche in “bianco su bianco” attraverso il ricorso ad un pigmento all’ossido di stagno.
29f. Ghirlanda, Fruttiera con motivo solare antropomorfo, 1490-1500, Ø cm. 30
29g. Ghirlanda, Fruttiera con motivo solare antropomorfo, 1490-1500
29h. Ghirlanda, Scodella con decoro geometrico, 1480-90, Ø cm. 19
29i. Ghirlanda, Piatto simbolico con la cerva (allusivo al salmo 42), 1480-90, Ø cm. 34 29f
RICORRENTE ITALIANO
289
RICORRENTE INGLESE
29g
29h
29f. Wreath, Fruit holder with sun on human characteristics, 1490-1500, Ø cm. 30
29g. Wreath, Fruit holder with sun on human characteristics, 1490-1500
29h. Wreath, Bowl with geometrical decor, 1480-90, Ø cm. 19
29i. Wreath, Symbolic plate with the deer (alluding to the Psalm 42),
1480-90, Ø cm. 34
intentionally or not. In fact, sometimes they are
smiling and other times frowning. In the decoration
of big fruit holders on bases, the sun images are frequently connected to accessory parts painted “white
on white” using a tin oxide pigment.
29i
OVALI E ROMBI E OVALI
30. OVALI E ROMBI E OVALI
Con questo genere siamo di fronte ad una delle
tipologie “di punta” della maiolica rinascimentale di
Montelupo, tale da poter essere considerata come il
prodotto più caratteristico di quelle fornaci, non
essendo per di più condiviso, sotto il profilo della vicinanza formale, a quello di altri, importanti centri di
fabbrica extraregionali. Il decoro che lo identifica –
una losanga con quattro cerchietti posti in prossimità
degli apici, poi racchiusa in un ovale – deriva palesemente dall’elaborazione di alcuni spunti geometrici,
già presenti nella grande famiglia dei motivi “ad imitazione del lustro metallico”, come dimostrano alcuni
reperti restituiti dal grande scarico rinvenuto presso il
giardino del vecchio Museo della Ceramica.
Ponendosi uno di seguito all’altro, gli ovali descrivono una sorta di catena, che ben si presta a riempire
il settore periferico delle forme aperte, mentre sulle
chiuse essa si pone in senso verticale, fasciando perfettamente il fianco dei boccali ed il lato non in vista
delle forme chiuse in genere. L’importanza di questa
composizione è infatti accentuata dal fatto che essa,
ad iniziare dalla seconda metà degli anni Ottanta del
XV secolo, trova impiego su tutta la produzione montelupina, interessando indifferentemente tutte le tipologie vascolari prodotte.
È notabile il frequente accoppiarsi della fascia con
decoro “ad ovali e rombi” sulle forme aperte con un
settore che viene a stringere le figure dipinte entro
l’usuale cerchiatura centrale; esso è di norma formato
da una composizione vegetale a foglie stilizzate, e si
unisce frequentemente ad un ulteriore contorno con
un “filo di perle”: una teoria di cerchietti sottolineati
sui margini in blu, che sembrano, richiamando un
soggetto assai diffuso nella maiolica rinascimentale,
voler suggerire proprio la rotondità della perla. Come
nei “nastri”, inoltre, questa composizione si accoppia
quasi sempre con elementi vegetali stilizzati a tre lobi,
che si utilizzano per saturarne completamente lo sviluppo.
Tra i motivi centrali che più diffusamente si accoppiano con la fascia di contorno “ad ovali e rombi”
occorre segnalare soprattutto la scacchiera in verde e
rosso, con parti intercalari prive di campitura, che
incontrò grande fortuna nella produzione montelupina della prima metà del XVI secolo, e finì, con le
imitazioni che ne furono tratte, per fornire le basi formali ad un genere decorativo altrettanto importante e
numeroso, sviluppato nei centri ceramici dell’Olanda.
Sulle forme chiuse, oltre all’impiego della fascia
canonica “ad ovali e rombi” si nota il ricorso ad un
decoro strutturalmente simile, in quanto concepito
come una fascia dall’andamento verticale formata da
OVALS AND RHOMBUSES AND OVALS
290
30. OVALS AND RHOMBUSES
AND OVALS
This genre is one of the most important types in
Montelupo’s Renaissance majolica; in fact it is considered the most characteristic product of the furnaces.
It is typical only in Montelupo and it cannot be found
in other important factory centres outside Tuscany.
The decor that identifies it (a rhombus with four
small circles on each vertex surrounded by an oval)
comes from the elaboration of some geometrical ideas
that were already present in the motifs of the imitation of metallic lustre. This was also demonstrated
by some findings from the garden of the old ceramic
museum.
The ovals are one next to the other and they
form a chain that fills the peripheral section of the
open models. On the closed models this chain is
inserted vertically along the sides and the back of
the jugs. The importance of this composition is
accentuated by the fact that starting from the 1480’s
it is used on the entire Montelupo production.
The band that is decorated with the ovals and
rhombuses is frequently next to a section which
tightens the figures in the central circle (normally
stylised leaves with a “string of pearls” border).
There are small circles with blue borders that
remind us of the very common subject of Renaissance majolica, the round pearl. This composition is
often accompanied with leaves that have three lobes,
which completely saturate the space (like in the “ribbon” motif).
One of the more important motifs is the green
and red chessboard that was extremely fortunate in
the Montelupo production during the first half of
the 16th century. The imitations of this genre created
the formal bases for an equally important decorative
genre that developed in the ceramic centres of Holland.
On closed models, apart from the normal
band with ovals and rhombuses, we find a decor
with a similar structure. This was conceived as a
band with a vertical trend formed by ovals that do
not have a rhombus on the inside but simple orange
horizontal lines. The oval often is also cut in half by
a blue band. It is a kind of mixture between the oval
chain, with which it shares the structural profile,
and the suggestions that derive from the “peacock
feather” motif. It is similar to this genre in the versions that are characterised by thin, blue vertical
veins.
30a
30b
OVALI E ROMBI E OVALI
30a. Ovali, Boccale con figura femminile, 1490-1505, h cm. 24,2
30b. Ovali, Boccale con figura femminile, 1490-1505
30c. Ovali e rombi, Piatto con scacchiera, 1505-15, Ø cm. 33,4
30d. Ovali e rombi, Boccale con stemma Strozzi, 1500-15, h cm. 25,5
30e. Ovali e rombi, Boccale con stemma Medici cardinalizio
(Giovanni de’ Medici), 1505-13, h. cm 20
291
30b. Ovals, Jug with woman, 1490-1505
30c. Ovals and rhombuses, Plate with chessboard, 1505-15, Ø cm. 33,4
30d. Ovals and rhombuses, Jug with coat of arms of Strozzi, 1500-15,
h cm. 25,5
30e. Ovals and rhombuses, Jug with coat of arms of cardinal Medici
(Giovanni de’ Medici), 1505-13, h. cm 20
30c
30d
30e
OVALS AND RHOMBUSES AND OVALS
30a. Ovals, Jug with woman, 1490-1505, h cm. 24,2
OVALI E ROMBI E OVALI
cerchiature ovali, che non presentano però al loro
interno un elemento romboidale, ma semplici barrature orizzontali in arancio; l’ovale è poi spesso tagliato
per metà da una fascia in azzurro. Si tratta con tutta
evidenza di una sorta di commistione tra la catena “ad
ovali”, qui richiamata sotto il profilo strutturale, e la
suggestione derivata dal motivo dell’ “occhio della
penna di pavone”, al quale questa variante del genere
si rapporta, specie nelle versioni contraddistinte da
sottili nervature verticali in blu.
30f. Ovali e r