FERZAN OZPETEK Sei la mia vita

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FERZAN OZPETEK Sei la mia vita
FERZAN
OZPETEK
Sei la mia vita
storie.
«Il mio lavoro è raccontare
brandelli di stoffa,
o,
tren
in
ltati
asco
orsi
disc
Raccolgo
hi aperti.
pietre colorate, sogni a occ
rie come la vita stessa.»
essa
nec
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Così tesso le mie
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Ferzan Ozpetek
SEI LA MIA VITA
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Mondadori Libri S.p.A.
Questo volume è stato stampato
presso ELCOGRAF S.p.A.
Stabilimento - Cles (TN)
Stampato in Italia - Printed in Italy
Sei la mia vita
di Ferzan Ozpetek
Collezione Strade blu
ISBN 978-88-04-65301-1
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
I edizione aprile 2015
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Prologo
«Sei la mia vita.» Così mi avevi scritto, ricordi? Avevo lasciato il cellulare in funzione silenziosa, accanto al letto. All’improvviso, lo
schermo si era illuminato nel buio ed erano
apparse quelle quattro parole. Semplici, essenziali, ma sconvolgenti.
Era notte fonda. Dovevano essere passate
le due. Mi rigiravo nel letto con il cuore pesante, senza riuscire a prendere sonno. Avevamo litigato. Non so più nemmeno la ragione.
È sempre così che succede. Sono le cose prive
di importanza che possono spezzare i legami più profondi. Una mezza parola buttata lì
senza pensarci, uno scatto di nervi, una sfumatura nel tono di voce, un’occhiata che credi non sia per te e che pare mettere in dubbio
ciò che solo un attimo prima davi per certo.
In quei momenti, sei attraversato da una tri-
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stezza così enorme che sembra essere la quintessenza di tutte le sofferenze sperimentate
in passato. Torni bambino e ti struggi dalla
nostalgia. Vorresti essere tra le braccia di tua
madre, sentire il suo calore, avvertire il tocco
leggero delle sue mani, mentre ti accarezzano dolcemente. Vorresti essere di nuovo piccolo, per rifugiarti in quell’abbraccio, l’unico
davvero capace di farti sentire al sicuro e immune a qualsiasi dolore del mondo.
Poi, all’improvviso, il comodino si è illuminato ed è apparso il tuo messaggio: «Sei
la mia vita». E allora, senza bisogno di aggiungere altro, ogni cosa ha riacquistato il
suo giusto sapore. Perché non basta amarsi,
occorre il coraggio di dirselo sino in fondo.
Anche nei momenti difficili, quando buttarsi tutto alle spalle pare più facile.
Quella notte tu mi hai ridato la speranza nella quale crescono e prendono fuoco gli amori più grandi. Con la tua sincerità così limpida e diretta, priva di difese, hai consegnato la
tua anima nuda al mio ego ferito. Mi hai fatto capire che nessun ostacolo, nessun malinteso di poco valore, nessun equivoco ci avrebbe più separati. Perché la mia vita era la tua.
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È ciò che ho pensato allora, così come lo so
adesso con ogni cellula di me stesso, mentre
parlandoti guido la nostra vecchia auto, lungo una stretta strada di campagna, su e giù attraverso paesaggi che sembrano ritagliati da
antiche cartoline degli anni Sessanta.
Siamo partiti presto, questa mattina. Roma
pareva ancora mezza addormentata. Solo il
bar all’angolo era aperto. Siamo usciti dalla
città quasi senza incontrare traffico. Come
se vigili invisibili, per farci piacere, avessero dissolto i consueti ingorghi poco prima
del nostro passaggio. I semafori scattavano
magicamente al verde. I tir erano scomparsi
ben oltre il raccordo anulare. Questa mattina
Roma era nostra come non lo era mai stata.
E ora ce la siamo lasciata alle spalle per inoltrarci in questo mare di colline.
Abbiamo appena superato un villaggio così
minuscolo che lo si coglieva tutto in un solo
sguardo. Tre case, una piccola chiesa, la strada che si allarga in una piazza, un negozio
di alimentari, un bar, qualche tavolino fuori
e tre anziani intenti a parlare di chissà che.
Abbiamo rallentato e i loro volti intensi e vissuti, la pelle rugosa e cotta dal sole di chi ha
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lavorato all’aria aperta una vita intera, sono
sfilati attraverso i finestrini dell’auto. Ci hanno sorriso, hai visto? È così che si fa nei piccoli paesi. E sai una cosa? Mi ha fatto piacere.
Ora la strada pare poco più di un viottolo
asfaltato, mentre il paesaggio intorno a noi
è diventato buio e spettrale. Siamo in mezzo a un bosco e mi assale un’angoscia senza
nome che quasi mi toglie il respiro. Te ne sei
accorto? A un certo punto quella sensazione
come di panico mi ha fatto quasi sbandare.
Mi sono aggrappato al volante e, invece di
fermarmi, ho leggermente accelerato. È stato
solo un attimo, ed eccoci di nuovo in pieno
sole. Il bosco, oscuro e impenetrabile, è dietro di noi. Ne troveremo altri lungo il viaggio? Tu, che in questi posti ci sei cresciuto,
dovresti saperlo, ma non rispondi.
Mentre il mio sguardo resta fisso sulla strada, mi pare di vederti, con la coda dell’occhio,
arricciare le labbra in quel modo tuo, amabile
e divertito. Un sorriso capace di ridimensionare ogni problema. Un sorriso che sembra
dire: «Dai, non è successo niente!».
Guardo le radure illuminate dal sole succedersi alle grandi macchie verde scuro del8
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la vegetazione più fitta, lecceti e querceti secolari, adagiati sulle colline intorno a noi, e
non posso fare a meno di pensare che anche
la vita è così. Un succedersi di momenti felici
che irradiano calore, incontri fortunati, eventi dagli sviluppi comici irresistibili. Che, poi,
quando meno te l’aspetti, vengono interrotti da cupe zone d’ombra. La luce scompare
e tu ti ritrovi a vagare senza più sapere chi
sei, da dove vieni e dove stai andando: ogni
ostacolo ti sembra insormontabile, qualsiasi strada imbocchi porta con sé l’incognita
di finire in un vicolo cieco. Ma il tuo sorriso,
che conosco a memoria, che riesco a leggerti
anche nel sonno, che non ti abbandona mai,
nemmeno quando in fondo al cuore sai di essere triste, quel tuo meraviglioso sorriso che
evoca in me il ricordo dei nostri anni spensierati, mi costringe a crederci ancora, a non
arrendermi, nonostante tutto. A essere ancora certo che, anche attraverso la foresta più
intricata, possono penetrare i raggi del sole.
Proprio come sei stato capace di fare tu tanti anni fa, quando con quel messaggio luminoso hai squarciato il buio nel quale stavo
già precipitando.
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Alzo gli occhi e mi sembra quasi di leggere le tue parole salire lievi come segnali di
fumo, nel cielo terso che ci sovrasta. La mia
vita è la tua e ora te la racconterò, perché domani sarà solo «nostra».
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Via Ostiense
Mi sembra ieri quando sei arrivato per restare. Avevi con te solo una sacca da palestra con
qualche ricambio, un paio di scarpe, il dentifricio e lo spazzolino. Allora non potevo sapere se ti saresti fermato per qualche giorno,
o qualche anno. Ma dentro di me sentivo che
qui saresti stato a casa. In questo vecchio palazzo dalle mura spesse e dalle finestre sottili,
dove ancora vivono i fantasmi di tanti amici.
Me lo sentivo, come può sentirlo chi desidera
una cosa con tutto se stesso e non riesce nemmeno a immaginare un’altra eventualità.
Ti aggiravi tra la sala e la cucina, il grande
tavolo di legno un po’ consumato, i ripiani
colmi di barattoli, spezie, mestoli, scatole di
biscotti e tisane, su e giù per la breve rampa
di scale interne che percorrevi a lunghi passi,
come per prendere le misure della tua nuova
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tana. Io ti seguivo con gli occhi senza darlo
a vedere, mentre cucinavo per te. Avevo bisogno di sapere dov’eri, di sapere che c’eri.
Poi un giorno quest’urgenza è sparita, e allora ho capito che non te ne saresti più andato.
Ogni mattina ti svegliavi all’alba per essere in orario al lavoro, dall’altra parte della
città, e io, che dormirei fino a tardi, mi alzavo insieme a te. Roma ancora sonnecchiava,
avvolta nel buio, mentre gli ultimi nottambuli tornavano a casa dopo aver inseguito la
loro sete d’amore. Ti preparavo un caffè forte, insistevo per farti mangiare biscotti integrali, pane e marmellata, latte con i fiocchi.
E, di nascosto, ti infilavo una barretta energetica nella tasca del giubbotto. Fosse stato
per te, ti saresti nutrito solo di merendine e
snack ipercalorici presi dai distributori automatici, ma avevi bisogno di cibo sano per
sostenere le forze. Le tue giornate erano lunghe e impegnative.
Penso all’emozione di quelle prime mattine ancora sprofondate nella notte e, automaticamente, la mia mente corre ad altre mattine. A un ragazzo, che sale di corsa le scale
del palazzo con una borsa sulle spalle. Den12
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tro ha tutto ciò che possiede. Quel ragazzo
sono io. Quarant’anni fa.
Via Ostiense, un vecchio edificio in un vecchio quartiere popolare. Cinque piani senza
ascensore e una terrazza condominiale con
vista sul viavai di camion ai mercati generali. Poco più in là, un gasometro si staglia in
un angolo dimenticato di città, tra le sterpaglie e i binari morti della ferrovia. Tutt’intorno, Roma sparge il suo fascino polveroso. La
mia storia non può che iniziare da qui.
Mi basta chiudere gli occhi per vedere lo
stesso orizzonte carico di promesse che osservavo con lo sguardo incantato della mia giovinezza. Oltre ai tetti accarezzati dal sole, alle
cupole e ai campanili, oltre l’azzurro, l’ocra e
l’oro che la fanno risplendere da secoli, la città si estendeva, allora come oggi, in un meraviglioso caleidoscopio di differenti civiltà,
consistenze, luci, ombre, suoni e silenzi. Amo
Roma: ha lo stesso respiro di Istanbul, dove
batte l’altra metà del mio cuore.
Quando vi ho messo piede la prima volta,
il palazzo aveva vissuto decisamente tempi
migliori: gli anni e l’usura avevano lasciato
le loro tracce evidenti. L’intero edificio era di
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proprietà di un’anziana signora che nessuno aveva mai visto: gli affitti non erano certo cari, in compenso la manutenzione lasciava molto a desiderare. Era la metà degli anni
Settanta ed ero ancora un adolescente. Un ragazzo appena arrivato in Italia con il sogno
di entrare nel mondo del cinema.
Come presto ebbi modo di scoprire, quel
palazzo un po’ fané ospitava sì un paio di famiglie «tradizionali», ma era abitato perlopiù
da una varia, eccentrica, stupenda umanità.
Per buona parte del mondo, a quei tempi,
non erano altro che emarginati, checche, travestiti, pervertiti. Invece, sarebbero diventati la «mia» famiglia.
Ogni giorno, allora, poteva essere un’avventura. C’era sempre qualcosa di nuovo da
fare, persone da conoscere, inviti e incontri
che nascevano e si sviluppavano, portandoti
lungo direzioni del tutto impreviste. Ci si trovava per strada, nei locali che animavano i vicoli e le piazzette di Trastevere di chiacchiere
e risate fino a notte fonda. A quei tempi, funzionava così. Ci si parlava guardandosi dritto negli occhi. Ci si piaceva e conquistava con
un sorriso diretto, senza schermi. Non c’era
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bisogno di digitare una password per entrare in contatto con qualcuno, e ogni mattino
ti svegliavi con un amico in più.
Erano i primi anni dell’Estate Romana, la
manifestazione che rivoluzionò il clima culturale dell’epoca. Ad agosto, la città ribolliva
di eventi, di concerti al parco, di feste dove
andare anche senza essere invitati. La basilica di Massenzio la notte si trasformava in
uno spettacolare cinema all’aperto.
Ovunque si respirava un senso quasi assoluto di libertà. L’amore e il sesso erano forme pure di conoscenza senza censure né limiti, tranne quelli che stabilivi tu. Eravamo
una generazione spensierata come nessuna
mai era stata prima. Coraggiosa, avventurosa, che si dava al mondo senza risparmiarsi. Non potevamo immaginare, allora, come
tutto sarebbe cambiato. Da lì a non troppo,
l’Aids ci avrebbe rubato per sempre quella libertà, costringendoci a diventare circospetti e timorosi. Un virus micidiale si preparava a portarci via, insieme all’innocenza,
tanti amici, che ancora ignari riempivano i
tavolini all’aperto dei bar con i loro sogni e
le loro risate.
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Ma noi non potevamo saperlo. Respiravamo immersi in un’inebriante sensazione di
felicità condivisa. Ci sentivamo immortali,
i padroni del mondo. Esplodevamo di vita.
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continua...
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FOTO © ROMOLO EUCALIT TO
K.
vo libro di FERZAN OZPETE
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ALTRO,
SENTIMENTI COME NESSUN
IL REGISTA CHE DÀ VOCE AI
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