analisi transazionale con i bambini

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analisi transazionale con i bambini
ANALISI TRANSAZIONALE CON I BAMBINI
Maria Teresa Romanini
Tratto da A misura di bambino, Quaderni di Psicologia, Analisi Transazionale e Scienze umane, n. 20-21, 1997, pp.
Premessa
I1 bambino è una persona già completa, psichicamente e fisicamente, fin dalla sua nascita anche se solo
nelle due potenze mentali innate A2 e B2. Ovviamente nel neonato questi due stati dell'Io sono evidenti solo
per segni comportamentali isolati anche se inconfondibili per chiarezza e specificità.
D'altronde da lungo tempo sulla base di segni comportamentali inconfondibili è stata dimostrata la
presenza nel feto, fin dal IV/V mese di vita, di nuclei protomentali differenti tra loro: uno più specificamente
di apprendimento cognitivo (intelligenza senso-motoria), e cioè A2, e uno reattivo in affettività
generalizzata, e cioè B2.
Le ricerche in questo senso hanno dimostrato infatti che il feto al IV/V mese di vita reagisce a
improvvisi rumori mai uditi - da lui, non dalla madre che se lo aspetta, come avviene ad esempio quando
costei entra in un ambiente rumoroso - dapprima con reazioni generalizzate (aumento del battito cardiaco e
della pressione, movimenti degli arti) che sembrano ascrivibili a paura o per lo meno a sorpresa e in seguito,
dopo una seconda o terza esposizione al rumore improvviso, il feto dimostra di «conoscere la situazione»,
senza più reagire a essa con mutazioni motorico-affettive. Nello stesso periodo il feto (IV/V mese),
incontrando con le labbra il proprio pollice, impara a succhiarlo e dimostra così di trovarsi già a quello che
Piaget definiva il primo livello, «reazione circolare» della «intelligenza senso-motoria». Oggi si è dimostrato
che questo fenomeno è proprio del feto di quattro mesi; la suzione del capezzolo è segno del secondo stadio
di sviluppo dell'intelligenza senso-motoria: lo «spostamento finalizzato» del «ritmo circolare». Il feto,
dunque, in termini analitico-transazionali dimostra di agire in due modi, o con la reazione affettiva
generalizzata e cioè in B2 (ancora solo B naturale), o apprendendo dall'esperienza, sia per quanto riguarda i
rumori sia per quanto riguarda l'apprendimento motorio, nel succhiarsi il pollice, con l'intelligenza
convergente, anche se ancora a livello prelogico e cioè in A2.
Dalla nascita in poi usando non l'intelligenza convergente senso-motoria ma l'intelligenza divergente o
emotivo-intuitiva (e cioè il PP in B2 e non l'A2), il bambino «impara» sua madre: guardandola, odorandola,
aderendo in modo anatomico a lei in modo che, mese dopo mese, ne apprende globalmente i moti emotivi e
le reazioni cognitive e li «metabolizza» nella propria mente, fino a farne una propria potenza mentale, il G2.
Intorno ai 5-7 mesi di vita il bambino usa la nuova potenza mentale G per riconoscere in categorie il
mondo intorno a sé. Osservando il piccolo, si acquisisce consapevolezza dalle reazioni di spavento per
«l'estraneo adulto» (reazione imbarazzante per la madre) e non per «l'estraneo bambino»; tali reazioni di
spavento, come emerge dalla mia ricerca, sono collegate alla diffidenza della madre che il piccolo
inconsapevolmente fa sua e non sono immediate ma si stabiliscono dopo un breve periodo di tempo
dall'incontro (Romanini, 1985).
Già a 5-7 mesi di vita il bambino è completo in se stesso e ha attivato quello che in Analisi
Transazionale è definito colloquio interiore tra gli organi psichici. In altre parole, a differenza di quanto
Berne credeva, sulla base delle conoscenze del suo tempo, il bambino utilizza tutte tre le potenze mentali: B2
in emozioni e conoscenza empatico-intuitiva (o PP o Al), A2 in intelligenza senso-motoria già sviluppata
nella capacità associativa e in volontà soggettiva, G2 nella capacità categoriale - G1/G2 e A1/G2 (importante è l'apprendimento delle categorie «bambini o piccoli» che non teme mai e «adulti o grandi» sulla
cui base più tardi si autoriconoscerà) e nella riproduzione delle emozioni materne B1/G2.
A 1 anno e mezzo-2 anni il piccolo giunge a riconoscersi come soggetto delle proprie azioni e dei propri
sentimenti e lo dimostra in prima persona con il linguaggio: è infatti ormai consapevole di essere persona,
anzi di essere un bambino. E infatti questa consapevolezza che lo porta all'autoriconoscimento. Da quel
momento in poi il bambino si riconoscerà come «Io» in B2; gli altri intorno a lui/lei lo interpellano di
preferenza in questo stato dell'Io e lo definiscono «un bambino». Il B2 è, in definitiva, per tutta l'età infantile
lo stato dell'Io identificatorio in funzione di Io reale. Ne deriva che la struttura di personalità è, per tutta l'età
infantile, incentrata sull'Io reale B2 e che questa età può essere definita «stadio dell'Io B».
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1. Analisi Transazionale infantile
Quando un adulto interagisce con un bambino si stabilisce tra i due un rapporto fisiologicamente
asimmetrico (tanto più asimmetrico quanto più il legame che unisce i due è di intimità): il rapporto tra un
«grande» e un «piccolo». Di primo acchito può apparire naturale che l'adulto diriga e il bambino si adegui.
Ma ben sappiamo che il rapporto è assai più complicato da parte di entrambi e che non sempre si instaura,
neppure a livello sociale. La bambina o il bambino «disubbidiente» e «impossibile» per definizione, come
nella situazione contraria l'«ometto» o la «donnina» saggi, sembrano dominare come causa destrutturante ovvero salvifica - la distorsione del rapporto. Ciò avviene in realtà per l'impreparazione dell'adulto piuttosto
che per opera del bambino, sia che si tratti di un rapporto privato che nelle professioni di sostegno ed
educazione dell'infanzia. L'adulto infatti non solo è il polo portante del rapporto con il bambino ma, per il
solo fatto di essere adulto, che ne sia consapevole o meno, costituisce per il bambino con cui si mette in
relazione una nuova figura identificatoria. Questo accade per il modo complessivo di essere e di porsi
dell'adulto nei confronti del bambino, e non solo per le qualità positive che intende inculcare. La
consapevolezza di questo processo diventa importante per l'instaurarsi di relazioni durature tra adulti e
bambini o ragazzi (relazioni di parentela, di insegnamento, apprendimento, di lavoro).
Tra i tanti rapporti che un adulto può intrattenere con i bambini uno dei più intimi - e al tempo stesso più
difficili e, spesso, duraturi - è indubbiamente il rapporto analitico: un rapporto che può divenire per il
bambino rapporto di amicizia irripetibile, se non il primo rapporto centrato su di lui; in esso può ritrovarsi e
sentirsi importante e amabile. Ne consegue che, qualsiasi sia la linea analitica e l'approccio psicologico usato
dall'analista, la psicoterapia infantile si esplica in forma di reparenting e ciò anche quando, nel caso
dell'Analisi Transazionale, si inquadri drasticamente come colloquio paritario o come Self-reparenting.
Quando l'analista ne sia consapevole, il bambino sotto la sua guida, può viversi attore primario della
propria analisi, ridandosi i permessi fisiologici dell'età: essere, essere se stesso, essere bambino, crescere.
Credo che questa realtà sia stata poco meditata, cosicché anche l'analista transazionale infantile può
parlare di resistenze o di ridefinizioni da parte del bambino, ovvero può dolersi di avere svalutato un
comportamento che avrebbe potuto confrontare o di avere fatto ben poco in una seduta apparentemente piatta
e noiosa per entrambi.
Ci si dimentica in questi casi che il bambino è l'attore primario della propria analisi, e che lo è a partire
dalle proprie doti intuitivo-empatiche, doti portanti nel rapporto interumano della prima età infantile e
risvegliate dall'intimità nuova e travolgente del rapporto analitico. E il bambino che, in modo più o meno
consapevole, coglie e fa suoi o rifiuta in toto i vissuti, gli ideali e il gusto alla vita, ovvero le problematiche
dell'adulto con cui si trova a interagire, il più delle volte in modo non apprezzabile dall'adulto stesso. Le sedute apparentemente meno feconde sono spesso le più importanti per il soggetto, anche quando servono solo
a dimostrargli la possibilità di essere accettato per se stesso. L'adulto è, a livello sociale, il conduttore
dell'equipe e in modo più o meno esplicito dirige il rapporto tra i due. Il bambino oltre a essere, a livello
sociale, un fedele collaboratore, ovvero un annoiato o ribelle succube del rapporto, a livello psicologico,
spesso in modo inconsapevole, diviene un osservatore attento dei moti d'animo del suo analista - come già lo
fu di quelli di sua madre - cogliendone senza fallo non solo le reazioni emotive ma anche i conflitti G/B, le
contaminazioni e i pregiudizi inconsci.
È fisiologico, infatti, che in una situazione di intimità forzata con un adulto che gli è stato indicato come
importante «perché lui/lei non va bene», il bambino usi il PP, più che l’A2, dapprima come difesa e poi
attratto dalla novità del rapporto, a differenza di quanto invece fanno le persone in età adulta, anche se
pesantemente contaminate da B su A, ovvero con un B particolarmente dominante nella struttura attuale di
personalità.
Il bambino infatti, per la specifica struttura di personalità dell'età che sta vivendo, si rapporta agli adulti
vivendosi precipuamente in B2 (Romanini, 1985), usando specificamente le funzioni di PP, aprendosi alla
carezza autentica in modo naturale e altrettanto naturalmente assumendo e poi trasformando nel proprio G2,
come nuovi metodi di autoformazione e di sopravvivenza, le qualità positive e negative delle figure umane
che lo colpiscono emotivamente.
Dicendo questo mi riferisco alla specifica differenza tra la struttura di personalità in età infantile, o
stadio dell'Io B, e la struttura di personalità in età adulta, o stadio dell'Io A. Una differenza che possiamo
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diagrammare disegnando i tre stati dell'Io con il bambino in centro, per evidenziare il valore identificatorio (o
B Io reale) di questo stato dell'Io nei rapporti umani dell'infanzia; così come disegnamo il diagramma della
personalità adulta con l'Adulto in centro (o A Io reale) nell'età adulta. La differenza nella struttura di
personalità tra bambini e adulti è di basilare importanza nel programmare e attuare il rapporto
psicoterapeutico con un soggetto in età infantile, perché segnala la capacità empatica e il bisogno di
dipendenza fisiologici di questa età.
2. Che cosa intendo per bambino: lo stadio dell'Io B
Altrove ho definito «stadio dell'Io Bambino» la parte dell'età evolutiva che arriva agli albori
dell'adolescenza (dagli 11 ai 13/14 anni) e che, nell'osservazione diretta con la griglia di personalità
dell'Analisi Transazionale, dimostra appunto lo specifico riconoscimento (autoriconoscimento e
riconoscimento da parte dell'ambiente) in B2. Un autoriconoscimento e un riconoscimento ambientale che in
adolescenza vira verso la centralità dell'Adulto in modo sempre più esteso per divenire definitivo nell'età
adulta.
In tutta l'età infantile (dai primo formarsi di energia slegata in G, intorno al V/VII mese di vita al
XII/XIV anno di età) la struttura di personalità si incentra in B, lo stato dell'Io in cui, per l'età cronologica e
la struttura fisico-psichica, il soggetto si riconosce ed è riconosciuto.
Ho parlato per esteso e più volte di questo argomento, fin da quando — attraverso l'osservazione dei
bambini fatta con la griglia di personalità dell'Analisi Transazionale - mi sono accorta della sua esistenza e di
conseguenza della sua importanza nella corretta psicoterapia infantile con l'Analisi Transazionale.
Nell'analizzare un bambino con la tecnica analitico transazionale, come sopra ho accennato, è utile
ricordare che il bambino si riconosce fisiologicamente nello stato dell'Io Bambino, per cui è possibile che
siano la razionalità e la volontà (cioè funzionalmente lo stato dell'Io Adulto) a contaminare la creatività e
affettività naturale del soggetto (cioè funzionalmente il Bambino) piuttosto che il contrario.
Ad esempio, il bambino «testardo» e «cocciuto» è spesso un bambino che oppone alle richieste altrui la
propria volontà e le informazioni di cui dispone: in definitiva che usa molto l'A2. Un buon esempio è quello
del «piccolo cowboy» portato da Berne: il ragazzino vestito da cowboy che si sente bambino mentre sta
compiendo un lavoro, aiutando ad accudire il cavallo, dimostrando così di viversi in Sé reale B e che, come
dimostra la razionalità che usa nel constatare i fatti, è contaminato da A.
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Per analizzare i bambini un primo passo è dunque la consapevolezza della diversa importanza che nelle
due età della vita hanno i diversi stati dell'Io, per cui, rispettivamente, in età infantile B è lo stato dell'Io in
carica di Io reale, mentre in età adulta questo valore di identificazione globale è preso da A.
L'Io reale (o stato dell'Io segnalante l'età psico-fisica del soggetto) segna di sé i rapporti interumani
perché è nucleo centrale dell'autoidentifìcazione al livello profondo del colloquio interiore tra gli apparati
psichici, anche quando lo stato dell'Io dominante o/e contaminante sia un altro. Porto come esempio ben noto
gli stati dell'Io B o G, escludenti o contaminanti l'A, durante l'età adulta (cfr. la figura 1 : schema della
struttura di personalità in B e in A). La preminenza duratura di uno o dell'altro stato dell'Io, che è uno dei
segni tipologici di personalità in età adulta, è già apprezzabile in età infantile ma evidentemente non ha nulla
a che fare con l'Io reale.
Accettando la basilare differenza con cui il rapporto è vissuto globalmente dagli individui nel
riconoscersi bambini o adulti, al di là dei vissuti momentanei o delle affermazioni, torno a dire che la
differenza di età va attentamente considerata e rispettata quando si analizzi un bambino, proprio per la sua
primaria azione terapeutica oltre che per evidenziare meglio falsi o veri problemi di autorità del piccolo
paziente o del suo ambiente.
Inoltre è importante ricordare, come prima dicevo, che la specifica struttura di quest'età è legata alla
dipendenza psico-fisica e al bisogno di identificarsi assumendo in sé le caratteristiche cognitive ed emotive
degli adulti «importanti». I limiti copionali dell'analista possono essere acutamente captati dal piccolo
analizzato e fatti propri, a confermare o peggiorare ulteriormente il copione già in atto. Ugualmente può
avvenire per i sentimenti negativi passeggeri o di ricatto che turbano l'analista e che possono non aver alcun
rapporto con l'analisi.
Un'altra ragione importante per accettare consapevolmente la diversa struttura di personalità collegata al
diverso Io reale (o diverso stadio dell'Io), è appunto quella di conoscere l'interpretazione che il piccolo
analizzato darà dell'uso dei diversi stati dell'Io da parte dell'analista. Ritengo che durante l'analisi con
soggetti in età evolutiva sia utile l'uso di tutti gli stati dell'Io, nella consapevolezza che saranno non solo
osservati ma anche imitati dal giovane paziente, quali esempi di comportamento.
Uso il G normativo particolarmente per le transazioni di permesso e, inoltre, per impedire i
comportamenti autolesivi. Lo uso ancora per stabilire un ambiente accettante (G nutriente), lasciando sparsi
nella stanza, in modo evidente, caramelle e piccoli dolci o frutta fresca e dicendo in modo esplicito al piccolo
cliente che può servirsene senza complimenti (questo naturalmente a meno che siano proibite al soggetto per
ragioni fisiche). Uso l'A per proporre in modo extraverbale la collaborazione paritaria (ad esempio nel
disegno o nelle costruzioni fatte in comune) e inoltre nel discutere le conseguenze possibili di comportamenti
distruttivi, ovvero l'utilità di questo o quel modo di fare o di essere, una «utilità» per se stessi e per gli altri, o
ancora quando invio messaggi contrari agli ordini di copione, come parte delle transazioni di permesso, (ad
esempio discutendo sull'utilità di «togliere il se... e l'ordine prima dell'Io sono ok, Tu sei ok», quando avviso
la presenza dei relativi comportamenti).
Credo nell'utilità di mantenere in tempi assai brevi questi ultimi tipi di interventi A-A e di farli, per
quanto possibile, attraverso battute umoristiche o comunque allegre e/o stimolando il senso del comico e
della relatività del bambino. Il più delle volte preferisco fare questo tipo di discussioni in modo lieve,
attraverso il gioco o durante il commento al disegno. Unisco al messaggio A-A gli altri A-B e B-B,
fisiologici e quindi particolarmente liberanti per il bambino.
Anche le transazioni B-B sono fatte in modo consapevole. Il gioco fatto a due, come si sa, deve essere
gioco davvero e sufficientemente gradito all'analista. Secondo me, quando giocare con un bambino è noioso,
è meglio evitare del tutto di dedicarsi all'analisi infantile. Solo se si è in due a giocare per davvero il gioco
diviene vettore di messaggi simbolici che non sempre e necessariamente è utile verbalizzare. Qualsiasi sia lo
stato dell'Io usato, l'importante nell'analisi con il bambino è che ogni transazione sia portatrice di carezze positive, mirate alla realtà del soggetto: specifiche o generalizzate o ancora stimolanti qualità che il bambino
non si riconosce, ovvero non ha ancora sviluppato.
I bambini che giungono in analisi sono di solito deprivati di carezze positive e spesso, anzi, sono
sospettosi di fronte a esse. Molte volte la carenza di carezze è parte del copione familiare e/o anche di quello
scolastico e sociale (Montuschi, 1985; Cesetti, 1996). Qualsiasi sia l'origine della deprivazione di carezze,
essa è responsabile, nel soggetto in età evolutiva - quando non provochi il blocco della crescita psichica
(particolarmente il blocco dello sviluppo di A) e/o la rottura in psicosi - di comportamenti di sopravvivenza
distorti e ripetitivi, ovverossia di comportamenti già copionali.
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È necessaria quindi una «rieducazione alle carezze» che, d'altronde, è assai facile nei soggetti in età
evolutiva e diviene il primo passo verso la collaborazione analitica. Le carezze sono frutto dei diversi stati
dell'Io dell'analista come un reparenting (dal G) o uno stimolo al Self-reparenting (da A e da B). Carezze di
accettazione, carezze di ascolto e fisiche, carezze liberatorie del gioco in comune e del comune divertimento,
carezze di una fiaba narrata o ascolta, della discussione rispettosa anche del parere contrario del bambino,
della risata che demolisce la drammaticità di un vissuto e dell'abbraccio che accoglie e consola.
Sottolineo non carezze di paritarietà, come nell'analisi con il cliente in età adulta o tardo adolescenziale,
ma di accettazione che riconosce il bisogno, i diritti e la debolezza dell'età e appunto accoglie il cliente
bambino nella sua realtà personale con i pregi e i difetti, stimolando la ricerca delle «doti negate» sotto o al
di là dì questi.
Un'accettazione che viene inviata da tutti gli stati dell'Io dell'analista a tutti gli stati dell'Io del soggetto,
comprendendo tra questi ultimi, per quanto possibile, il G. In definitiva un'accettazione che deve essere
dosata per non suscitare sospetti o reazioni tipiche del bambino (ad esempio dì dipendenza passiva o, al
contrario, di sfida) ma pervadere tutto il setting fin dal suo primo inizio (Romanini, 1988).
La necessità di un reparenting è comune nei bambini che sono indirizzati all'analisi ed è tanto più forte
quanto più giovane è il paziente o grave la patologia che dimostra. Risulta particolarmente utile quando il
soggetto è inviato dalla scuola o quando la famiglia si sente colpevolizzata o, a propria volta, colpevolizza il
bambino. L'accettazione come primo stadio della analisi, a partire anche dall'accettazione, durante l'ora di
analisi, della distruttività protetta (che esclude quella rivolta contro di sé e comunque la blocca assai prima
che conduca il soggetto alla crescita dei sentimenti di disperazione), di solito è liberatoria e permette un
rapido superamento dei giochi di terzo grado. In seguito si può passare alla stimolazione del Self-reparenting
rivolta non solo verso l'A2 del piccolo paziente ma, in particolar modo, verso il suo B2, con il mostrarsi a lui
quali persone sufficientemente solide e autoaccettanti oltre che cordialmente aperte a suoi bisogni.
I bambini sono facilmente disposti ad accettare come validi gli adulti e anzi, molto spesso, sono più
portati a interiorizzarne i difetti e le problematiche piuttosto che a criticarle (a meno che non si sentano con
le spalle al muro) o proiettare le proprie sull'adulto. Ciò è fisiologico e deriva dalla necessità di adattarsi
all'ambiente per sopravvivere. Anche il bambino ribelle o spavaldo, che sembra criticare l'adulto con durezza
e mettere talvolta in evidenza con apparente cinismo le debolezze di chi lo circonda, ha bisogno, prima di
tutto, di essere accettato per quello che è e, quindi, di sentire che quanto ha detto viene accettato, almeno
come parziale verità, quando non condiviso come verità oggettiva. Solo questo gli permetterà di accettare gli
altri con i loro difetti e di confrontarsi con una verità diversa dalla sua (Romanini, 1984).
E importante che l'analista aiuti il bambino ad accettare i suoi diversi sentimenti, oltre che ad accettare
gli altri diversi da lui, per permettergli di «essere», «essere se stesso» e di «sperare»: sperare di crescere, di
agire, di essere amato e così via. Altrove ho segnalato gli specifici bisogni legati alle tappe (o palinsesti) di
sviluppo in età evolutiva: tappe successive, a partire dal primo ritrovarsi nella categoria dei «bambini» (tra Ì
2 e i 5 anni dì vita), momento in cui avviene la differenziazione del soggetto e si forma il carattere, segnato
da comportamenti e rapporti in cui si vive e ci si sente riconosciuti dal proprio ambiente.
In questi ultimi decenni il massiccio inserimento dei bambini negli asili nido e nelle scuole materne ha
mutato il modo dello sviluppo comune e i bisogni tipici di questa età: dallo stretto rapporto con i genitori e i
fratellini e/o sorelline (più piccoli o più grandi ma sempre ben distinti), all'identificazione in un più ampio
gruppo di pari, tutti con gli stessi bisogni e diritti. Il bambino di oggi vive, fin dalla più giovane età, in due
«teatri» di vita: quello della famiglia e quello della scuola e viene stimolato spesso in modo completamente
contrastante dal primo ambiente e dal secondo. Ciò nonostante ritengo che sia importante intraprendere un
trattamento analitico in età infantile solo quando non sia possibile intervenire ad allargare il campo vitale
positivo del soggetto per via indiretta: attraverso l'intervento della scuola (eventualmente sorretta da
supervisioni specifiche) o, quando necessario, con una terapia rivolta ai genitori, o solo alla madre. L'analisi
diretta deve essere riservata ai casi in cui gli altri interventi siano impossibili o quando siano in atto rotture
psicologiche.
Più frequenti possono essere gli invii a un intervento psicoterapeutico nell'età scolare propriamente detta
(dai 6/7 anni in poi) giustificati dalle problematiche più diverse, da quelle puramente cognitive, alle
inibizioni affettive della cognitività, alle numerose problematiche affettive. È importante che l'analisi a
questa età duri il minor tempo possibile, per non segnare di sé il bambino negli anni a venire.
A questa età i bisogni non riconosciuti possono essere anche i più parcellari; per questo l'analisi può
assumere per il soggetto il significato di una rilettura e di una rivalutazione di se stesso, dell'altro e della
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situazione. Il soggetto tende ad adattarsi al proprio ambiente, ritenendo che questo sia il modo migliore di
convivere con esso con piena soddisfazione. Molte volte infatti il B adattato è giudicato «vincente» e
«adeguato»: in effetti lo è, dato che vivendosi in Io reale Bambino, il soggetto riconosce di poter
sopravvivere solo nella protezione e nell'approvazione dei «grandi». È adattato il bambino che nei gruppi di
pari si comporta da seguace, come quello che si comporta da capo: entrambi possono essere consapevoli dì
giocare un ruolo di gruppo, senza una particolare pregnanza, oppure possono fare dello stesso ruolo una
scelta identifìcatoria copionale, producendosi in comportamenti ripetitivi (di capo o di seguace) e in
coercitive e immutabili letture degli avvenimenti. Un copione che già si fa tanto stretto da non permettere di
crescere in risposta al nuovo e all'imprevisto ma, piuttosto, obbliga a ridefinire le categorie dell'adattamento
pedissequo all'ambiente culturale e la «parte copionale» che deve essere scelta (per questo può succedere che
il figlio di immigrati presenti problematiche di comunicazione, quali ad esempio balbuzie o mutismo
elettivo: ciò lo salva dal tradire le proprie origini, rifiutate dal nuovo gruppo ambientale, scolastico o della
strada).
A questo bambino è necessario, prima di tutto, oltre all'autoaccettazione (essere se stesso), il permesso
di «rischiare», di «godere del nuovo», di ridere, di entusiasmarsi, di riconoscere ed esprimere sentimenti
autentici, di agire in modo congruo per stare bene con gli altri (solo e in compagnia) anche senza essere per
forza il protagonista (positivo o negativo), in definitiva di essere bambino (chiedere aiuto, giocare) e insieme
di crescere, diventare grande e continuare a essere se stesso. Questo porta al riconoscimento di sé e delle proprie doti come mezzo per riconoscere e godere degli altri e all'acquisizione della capacità di gestire le
situazioni esistenziali in modo autonomo.
Una terza età è compresa nell'infanzia: quel tempo tra i 9/10 e i 12/13 anni in cui la ragazzina o il
ragazzino si vivono nettamente separati dagli adulti, anzi, quasi in contrapposizione a essi. Sono ben noti agli
studiosi della psicologia infantile e ai pedagogisti le barzellette e gli scherzi iconoclasti «anti-a-dulti» tipici
dell'età. Della stessa età è altrettanto nota la tendenza alle amicizie esclusive con compagni/e del proprio
sesso - sia le amicizie a due, sia le bande, sia quelle di gruppo elitatario e, nello stesso tempo, gli odi
inestinguibili contro l'altra banda o l'altro gruppo, o contro la compagna/o diversa/o o, comunque, fuori dal
gioco.
Altrettanto nota e descritta è l'ambivalenza per il genitore del proprio sesso che comincia ad apparire,
anche se in modo saltuario, a questa età, per poi accentuarsi negli anni dell'adolescenza. Inizia inoltre il
rapido succedersi degli entusiasmi e degli innamoramenti (anche questi condivisi con il gruppetto
d'amici/che) per i nuovi idoli: personaggi noti del mondo dello spettacolo o dello sport o, piuttosto,
professori, istruttori ecc. Sono gli albori della crisi di crescita che avverrà attraverso successivi Selfreparenting. Il ragazzino comincia a cercare nel gruppo dei coetanei o nell'idolo che condivide con loro gli
aspetti del nuovo G generazionale, a cui adeguarsi per non sentirsi solo o peggio diverso. Sono i primi albori
dell'adolescenza che si accompagna ai primi rimpianti dell'età ormai superata (oggi, più spesso che in altri
tempi, si incontrano bambini di questa età che dicono di non voler crescere o dì aver paura di diventare
grandi). La fisiologica crisi di apparente distacco dalla famiglia, volta a procurarsi nuovi aspetti
identificatori, può divenire crisi fallimentare se gli ordini e le ingiunzioni infantili sono particolarmente rigidi
(si pensi, per le ingiunzioni, al «non crescere» o al «non farcela» o al «non fidarti degli estranei»).
In compenso, quest'ultima età infantile è ricca dì originalità e di desiderio di novità; si consolida la
fiducia in se stessi e ci si affida a chi propone cose nuove, senza lasciarsi coinvolgere in contrasti di priorità o
nella critica.
3. L'intervento terapeutico
La conoscenza teorica degli aspetti delle successive tappe (o palinsesti evolutivi) dell'età infantile già
contiene, per l'analista transazionale, il nucleo di un possibile intervento che stimoli l'epigenesi psichica
senza frustrare il grande bisogno di appoggio del bambino.
Ho già detto che in età evolutiva l'intervento terapeutico si può riassumere nel «permesso di essere
bambino» e quindi di avere in sé il potenziale per crescere e diventare adulto e, come futuro adulto, di
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«essere se stesso» e quindi di poter sperare, di poter amare ed essere riamati, di poter pensare e agire senza
doverlo fare per forza, secondo leggi prefissate.
Altri permessi basilari sono: «stare bene con gli altri diversi» e «stare insieme senza bisogno di
competitività».
Ogni bambino, visto nella sua «parte autonoma», ha particolari doti e quindi abbisogna nella «parte
copionale» di permessi particolari. Ogni bambino, come ogni essere umano, è unico e irripetibile: un mondo
senza uguali che bisogna prima di tutto conoscere e amare, perché possa riconoscersi ed esprimersi nella sua
originalità e nella sua capacità di attaccamento. Di conseguenza non credo che sia possibile inquadrare
genericamente una forma di analisi, sia pure circoscritta a un'età o a uno specifico problema emotivo. Si può
invece portare la propria esperienza in proposito e formulare un indirizzo generico sul luogo, sul tempo e
sulla periodicità del setting. D'altronde anche queste misure dipendono per buona parte da cause esterne (il
fatto che si analizzi in uno studio privato o presso un Ente pubblico o addirittura in un internato o in una
scuola), oltre che dalla diagnosi di personalità e di problematica copionale.
Nella diagnosi iniziale si decide come portare avanti il progetto di cura: si può organizzare l'analisi
separata del figlio e dei genitori, oppure prevedere di analizzare la coppia madre e figlio, o ancora l'analisi
del bambino, o, in casi particolari - di solito per analisi richieste dalla scuola ed eseguite nel suo ambito —
oltre a questi interventi, programmare riunioni con l'equipe scolastica psicopedagogica sociale.
Personalmente ritengo che con i bambini sia utile una frequenza settimanale. Talvolta è possibile
mantenere questa frequenza anche con bambini molto piccoli (che in teoria non potrebbero formare un
rapporto affettivo importante senza almeno due sedute settimanali di 40/50 minuti), specialmente se si
utilizza un setting a tre, coinvolgendo la madre. Anche per l'Analisi Transazionale, anzi per questo metodo in
modo particolare, è necessario iniziare il percorso analitico con un contratto esplicito fatto con il bambino.
Nell'analisi infantile si realizza sempre un particolare tipo di «contratto a triangolo» (analista, bambino,
coppia genitoriale); quando l'analisi è richiesta da Enti esterni alla famiglia (scuola, unità sanitaria locale
ecc.) il contratto diviene più complesso, coinvolgendo, anche se non sempre in modo diretto, insegnanti e
psicologo della scuola, psichiatra e/o psicologo dell'unità sanitaria o dell'Ente pubblico in cui lo
psicoterapeuta lavora.
Il bambino, anche se piccolo, è solitamente consapevole di quanto accade e, di solito, vive la necessità
dell'analisi come frutto di qualche sua manchevolezza o cattiveria ineluttabili.
Per questa ragione prima di iniziare l'analisi ritengo che si debba vedere il bambino almeno una volta
insieme ai suoi genitori e utilizzare l'intervista di gruppo per capire i rapporti della famiglia ma anche per
contenere i possibili sentimenti negativi del soggetto. Per quel che mi riguarda, mi interesso alla qualità dei
rapporti tra i genitori, alle possibili problematiche che ciascunn genitore ha vissuto nella famiglia d'origine
durante l'infanzia e la giovinezza e ai suoi attuali problemi di lavoro ed extrafamiliari. Nella mia esperienza,
in un primo tempo sembra difficile ottenere anche la sola presenza fìsica dei padri, che si difendono dal
coinvolgimento accampando le più varie ragioni, mentre di solito le madri, anche se lavorano fuori casa, si
sentono in dovere di accompagnare il figlio. All'inizio della seduta spesso i genitori appaiono ansiosi e si
pongono in modo difensivo ma le tensioni vengono solitamente superate con una cerca facilità e, alla fine
dell'intervista che mantengo focalizzata sui problemi personali dei genitori, senza critiche per alcuno, sono i
genitori che chiedono di poter tornare ancora e/o di fare qualche seduta da soli: il bambino sembra aver
ripreso il suo posto di figlio accettato. Per ottenere questo scopo incentro la seduta iniziale a livello sociale:
preparo gli strumenti per un confronto con i genitori e, per il bambino, fogli e matite colorate o giocattolini (a
seconda dell'età), porgendoglieli subito e invitandolo a giocare vicino a noi (o sul mio tavolo nel caso del
disegno) «intanto che parlo con mamma e papà». Posso così osservare, attraverso il disegno o il gioco, le
reazioni emotive del figlio al racconto delle problematiche attuali sue e della famiglia e a quello della vita
remota dei genitori. Di solito tronco con cortese fermezza le lamentele sui comportamenti del bambino
(lamentele che di solito il bambino conosce già ma che sono colpevolizzanti), rimandando il discorso, e mi
fermo invece sui problemi personali, di coppia e di famiglia dei genitori.
Un primo scopo di questa seduta è permettermi di osservare dall'interno le relazioni intime tra i
componenti della famiglia, comprese quelle riferite sulla famiglia allargata e di conoscere la vita e le
problematiche dei genitori, precedenti alla nascita del figlio; il presupposto è che facciano parte del G critico
o iperprotettivo che il soggetto ha introiettato proprio perché non ha mai conosciuto apertamente tali
problematiche, il modo con cui il bambino - che non interpello direttamente se non per chiedergli spiegazioni
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sui giochi o i disegni che produce — sceglie nuovi giochi e disegni (particolarmente interessanti sono i
disegni) rivela il suo modo di reagire alle parole dei genitori, fa emergere le sue preferenze per l'uno o l'altro
genitore, e svela il modo in cui si sente inserito e complice nei rapporti (spesso difficili) della famiglia
allargata. Ho studiato e sperimentato questo metodo di colloquio già nella mia esperienza di neuropsichiatra
infantile precedente all'uso dell'Analisi Transazionale e ne ho constatato la sorprendente efficacia terapeutica
(Romanini, 1973). Il bambino, infatti, condotto dallo psichiatra perché «è quello che non va bene in
famiglia», ascolta i problemi altrui e particolarmente i problemi di infanzia e giovinezza dei genitori in modo
nuovo: comprende che anche i genitori hanno o hanno avuto problemi; ciò attenua l’'autocritica e l'ansia
iniziale. Egli nota di solito con soddisfazione (come è particolarmente evidente osservando i disegni) che lo
psichiatra non sembra criticare ma, al contrario, accogliere con umorismo le malefatte e apprezzare nello
stesso modo ciascuno. L'esperienza mi ha insegnato che, nel caso di problemi nevrotici iniziali, sia pure
gravi, una sola seduta può produrre un'inaspettata diminuzione della tensione del soggetto e produrre, grazie
a una sincera presa di responsabilità da parte dei due genitori, il sollievo dello stesso.
Quando le problematiche del soggetto sono serie lo comunico ai genitori, dopo aver allontanato il
bambino, o parlando in modo da non accrescere in lui il senso di malattia o di inferiorità.
L'analisi del bambino, quando l'analista la ritiene necessaria, è decisa nell'ambito di questa seduta - della
durata di un'ora o un'ora e mezzo — o dopo una seconda seduta, decisa in collaborazione con i genitori o su
esplicita richiesta di questi. Quando nel corso della prima seduta emergono problemi gravi riguardanti
entrambi i genitori, o uno di loro, ritengo importante che la coppia ne divenga consapevole; la seconda
seduta — in questo caso stimolata dall'analista - è prevista e portata a termine con i soli genitori, per poter
stabilire un processo analitico separato.
Ho constatato la notevole utilità di questo tipo di intervento e ciò mi ha indotto a sperimentare un'analisi
breve con genitori e figli anche in casi di gravi problematiche nevrotiche del figlio, particolarmente collegate
alla crisi preadolescenziale o della primissima adolescenza vissuta in un ambiente non sufficientemente
comunicativo ma fondamentalmente sano (Romanini, 1986).
A volte, con bambini ancora piccoli e in caso di disturbi affettivi non gravi, ho ottenuto buoni risultati
effettuando una breve analisi di coppia sui genitori, senza intervenire direttamente sul bambino. In questo
modo si interviene sulle problematiche del bambino curandole nelle radici stesse del suo G. Ho parlato fin
qui di età cronologiche dei bambini. Credo importante specificare che la loro età psichica è molto variabile
all'interno dell'età cronologica; talvolta ciò appare evidente, talvolta invece lo si scopre via via che l'analisi
procede.
Sui parametri di struttura fisica del setting è bene aggiungere una precisazione. Nel setting con un
bambino è importante tutto ciò che permetta al soggetto di rapportarsi liberamente senza sentirsi manipolato.
L'analisi infantile è centrata sul gioco: analista e bambino giocano insieme a tavolino o ginocchioni sul
pavimento, disegnano e si raccontano le «storie» che vanno disegnando, escono per una breve passeggiata,
ovvero ancora eseguono insieme esercizi fisici. Ciò non avviene solo nell'Analisi Transazionale ma in ogni
forma di analisi infantile. La teoria analitico transazionale degli stadi dell'Io e della specifica strutturazione
della personalità umana in età infantile permette un'ulteriore comprensione dell'utilità di questo tipo di approccio. Centrando il rapporto analitico sul gioco lo si centra infatti sull'Io reale B del soggetto, come
avviene nell'analisi con soggetti adulti mantenendo il rapporto in transazioni rivolte all'Io reale A.
Oltre a rinforzare la strutturazione di personalità fisiologica per l'età del piccolo paziente, l'analista gli
dimostra con il proprio comportamento che il B2 continua a esistere come centro vitale e creativo della
personalità nell'età adulta e che ciò non impedisce di essere un adulto stimato. Il bambino, percependo
l'autentico interesse dell'analista per i giochi comunitari ed essendo ogni volta interpellato per decidere a due
il modo di passare l'ora di psicoterapia, riceve in una sola volta due permessi: quello di divertirsi giocando e
quello di godere organizzando la propria vita con gli altri.
Naturalmente ogni ragazzino che viene in analisi ha i suoi problemi personali su cui può parlare durante
l'ora. I problemi di cui analista e analizzato parlano sono però quelli che il bambino ammette di avere e che
decide di superare con l'analista. Anche se il problema per cui si è deciso di iniziare il trattamento è tutt'altro
da quello che il ragazzo esplicita, l'analista accetta di lavorare sul secondo e non fa parola del problema
taciuto. Molte volte con il progredire dell'analisi il bambino giunge a parlare anche del vero problema per cui
è stato inviato; in alcuni casi il problema «vero» per i genitori o gli insegnanti non è mai preso in
considerazione.
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In compenso, facendo con il proprio piccolo cliente contratti comportamentali - almeno nei primi tempi
collegati solo al suo comportamento nello studio dell'analista - il bambino inizialmente migliora il suo
comportamento in studio, riuscendo poi a superare anche i problemi di cui non ha parlato direttamente.
D'altronde più volte ho potuto constatare che anche gli adulti hanno questo tipo di riserbo e spesso
ammettono il «vero» problema solo dopo aver ottenuto i primi risultati positivi dall'analisi; altre volte ho
avuto il sospetto che la vera causa della richiesta di analisi non fosse in realtà del tutto conosciuta dallo
stesso paziente e che ciò nonostante il lavorare su di un chiaro ed esplicito contratto servisse a modificare la
personalità del paziente stesso allargando i limiti copionali, compresi quelli inavvertiti in precedenza o di cui
il soggetto si vergognava al punto da non parlarne.
Giocattoli, matite e fogli (o lavagna e gessetti) sono necessari per intrattenere un'analisi che, appunto,
viene anche detta di gioco. Non ha molta importanza che i giocattoli siano belli o grandi o complicati: sono
preferibili anzi dei giocattolini che possano stare in una scatola da scarpe o essere tenuti in un cassetto ed
estratti al momento giusto o, a seconda del carattere del piccolo paziente, tirati fuori a ogni seduta uno per
uno. E’ importante invece, nella mia esperienza, che il bambino possa richiudere in «luogo sicuro» i suoi
artefatti o possa con facilità ricomporre, al proprio arrivo, l'aspetto particolare che vuole dare alla stanza
durante il setting. Può essere assai utile creare insieme dei giochi con carta, stuzzicadenti o altri mezzi
amorfi. Questi «giocattoli» hanno l'effetto liberatorio di esaltare e accarezzare la creatività del bambino e lo
inducono a condividere in complicità (imparando il sistema o insegnandolo) con l'altro «grande» i giochi che
si possono fare anche a scuola o in ore ufficialmente dedicate allo studio, a dispetto, o alle spalle, dei grandi.
Per di più anzi l'analista sembra valutare il gioco come «un modo di curare i problemi dei bambini e ragazzi»
e come «un lavoro» a due: il gioco in definitiva diviene rapporto di attaccamento a due. Il soggetto,
particolarmente nell'ultima età infantile, vive tutto il setting come un rapporto di permesso, senza che giocattoli troppo belli e raffinati possano stimolarne l'invidia o la distruttività.
L'incontro analitico previsto all'interno del progetto di cura dovrebbe secondo i canoni dell'analisi essere
immutabile e io stessa ho altrove scritto in questa senso. Negli ultimi quindici anni mi sono andata via via
convincendo che ciò non può valere in assoluto e che talvolta il setting va volutamente mutato in modo
spontaneo nel rapporto e nel «contratto di seduta», a seconda dei bisogni e delle possibili nuove avventure
che si trovano a gestire insieme analista e paziente. Ogni volta il cambiamento richiede una decisione
comunitaria paziente-analista, anche, anzi tanto più, in età evolutiva precoce, perché il bambino molto
piccolo può avere necessità di sperimentarsi in molti modi e rileggersi da diversi punti di vista; questo gli è
più semplice se muta i giochi con cui simbolizza il suo problema e le relative modalità dì gestirlo. Il bambino
più grandicello di solito non accetta mutamenti del setting né chiede di mutarlo, tranne in rari casi in cui
invece li pretende più volte nell'ambito della seduta.
L'analista può usare l'informazione sul desiderio di variazione del setting ovvero su quello di continuare
lo stesso gioco, ripetendolo e riprendendolo da dove lo si era lasciato, come per un discorso non ancora
finito; e discuterne col suo piccolo paziente. In entrambi i casi la discussione, che non si esprime in giudizi,
diviene un importante confronto per il bambino e può dar luogo a svolte positive in un'analisi che sembrava
poco efficace.
Il rapporto analitico con il bambino è dunque espressamente portato avanti come un rapporto duraturo di
attaccamento tra un grande (analista) e un piccolo (analizzato), sia pure se la struttura del tempo viene decisa
insieme o se l'analista accetta, per la maggior parte dei casi, che sia il bambino a decidere. La differenza tra
adulto e bambino ha la funzione di sostenere il bambino, senza contestarne le capacità innate, ma anche
quella di evidenziare i comportamenti di copione e di sistema ricatto e di aiutare il bambino a provare, in un
ambiente accogliente, il rischio di nuovi modi di essere e di rapportarsi ad altri.
Il presente articolo è inserito anche nel secondo tomo di M.T. Romanini, Costruirsi persona, ed.La
vita felice, Milano, 1999.
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