Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione

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Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione
Magda Scarpellini
[Osteoartrosi
dal danno tissutale
alla condroprotezione
]
Osteoartrosi
dal danno tissutale
alla condroprotezione
Magda Scarpellini
Direttore dell’unità operativa di reumatologia
Ospedale Giuseppe Fornaroli, Magenta
©2015
via Angelo Moro, 22
20097 San Donato Milanese (MI)
Senza il consenso scritto dell’editore è vietato
qualsiasi utilizzo e riproduzione del contenuto
(testi e immagini), comprese le fotocopie
e le memorizzazioni elettroniche.
ISBN 978-88-905084-3-1
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al contributo incondizionato di MDM
in favore dell’aggiornamento del medico
[ Indice ]
1. Osteoartrosi: una visione complessa
1.1 Coinvolgimento dei tre tessuti nell’alterazione
dell’equilibrio articolare
1.2 Fenotipi e patogenesi
Bibliografia
9
12
20
24
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
27
2.1 Classificazione dei biomarcatori
32
2.2 Validazione dei biomarcatori e aspetti pratici dell’utilizzo nella ricerca 35
2.3 Biomarcatori derivati dai collageni
38
2.4 Altri biomarcatori di interesse
44
Bibliografia
46
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
3.1 Gli obiettivi dei trattamenti: un’evoluzione culturale
3.2 Glucosamina e condroitin solfato
3.3 Acido ialuronico 3.4 Collagene di tipo II
3.5 Altre molecole attive
3.6 Conclusioni
Bibliografia
49
52
55
64
69
77
80
82
4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione
dei biomarcatori
di Giulio Vignati, già responsabile uos Centro malattie endocrine
e metaboliche, Ospedale G. Fornaroli, Magenta 4.1 Caratteristiche di un biomarcatore ideale 89
91
4.2 Le tecnologie analitiche
94
4.3 L’interpretazione dei risultati 96
Bibliografia
101
5. Appendice
102
[ Prefazione ]
L’osteoartrosi si è trovata a lungo nel paradosso di essere una
malattia con una diffusione ampia nella popolazione e allo
stesso tempo di suscitare un interesse sorprendentemente
scarso nella comunità scientifica.
È ancora evidente, ad esempio, la frammentazione nel percorso di cure che un paziente artrosico affronta, tanto che raramente si può parlare di un percorso. A ciò si aggiunge una
certa disomogeneità negli atteggiamenti dei diversi specialisti,
più o meno interventisti e più o meno disposti ad andare oltre
il pur indispensabile controllo del dolore a breve termine.
Gli ultimi anni, però, hanno visto un risveglio della reumatologia italiana che ha finalmente iniziato a porsi le domande
giuste sull’osteoartrosi.
Se volessimo riassumere con una metafora musicale il senso di
questa autocritica potremmo dire che nel curare l’osteoartrosi
siamo stati fuori tempo e non abbiamo prestato orecchio agli
accordi: diagnosi, terapia, monitoraggio della progressione
sono arrivate sempre troppo tardi, e un’estrema tendenza
a semplificare il problema ha trascurato il contributo degli
aspetti metabolici e infiammatori, oltre all’usura meccanica, e
il ruolo dei tessuti articolari diversi dalla cartilagine.
Ora stiamo finalmente iniziando a conoscere in modo più fine
i cambiamenti patologici dei tessuti articolari e le loro interrelazioni, abbiamo un numero crescente di strumenti (i biomarcatori) per intercettarli precocemente, e buone evidenze
su alcuni trattamenti in grado di contrastarli se utilizzati
tempestivamente.
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
L’obiettivo del reumatologo che si occupa di pazienti artrosici
con un approccio realista ma non fatalista è preservare l’omeostasi e il potenziale autoriparativo della cartilagine e degli altri
tessuti articolari proponendo le terapie in grado di contrastare
le loro alterazioni prima che il danno sia avanzato.
Questo approccio è indicato con il termine condroprotezione
per la ragione storica che il primo target di questi trattamenti è
stato la cartilagine. Tuttavia, ora che sono più chiare le correlazioni metaboliche tra i tessuti dell’articolazione, si guarda con
attenzione anche ai possibili effetti sulla membrana sinoviale e
sul tessuto osseo.
In sintesi stanno maturando le condizioni per cambiare la strategia generale e anticipare nettamente i tempi di intervento
per l’osteoartrosi, mosse indispensabili per affrontare adeguatamente un problema che merita la massima attenzione nella
pratica clinica del reumatologo.
Magda Scarpellini
6
1
[Osteoartrosi:
una visione complessa]
1
Osteoartrosi
una visione complessa
Da semplice tessuto resistente e protettivo, la cartilagine articolare (con gli altri tessuti che partecipano all’articolazione) ha
evidenziato negli anni una complessità strutturale e funzionale
non immaginata fino a pochi decenni fa, imponendo una visione necessariamente diversa del fenomeno artrosico e dei possibili interventi terapeutici.
In passato lo studio delle alterazioni dei tessuti articolari nell’osteoartrosi riservava attenzione quasi esclusiva alla degradazione della cartilagine, considerando il coinvolgimento delle altre
strutture articolari (rimodellamento dell’osso subcondrale, alterazioni della membrana sinoviale) come un fenomeno tardivo.
In realtà ci sono evidenze sempre più solide che nella patogenesi dell’osteoartrosi il coinvolgimento dei tre tessuti che costituiscono l’unità biomeccanica dell’articolazione – cartilagine,
membrana sinoviale e osso subcondrale – avviene precocemente e in modo pressoché simultaneo. Oltre alla cartilagine, anche l’osso subcondrale e la membrana sinoviale sono coinvolti
in modo attivo nel processo degenerativo sin dalle prime fasi,
con un intenso cross talk tra i comparti che deve essere ancora
chiarito in molti suoi aspetti (Samuels et al, 2008). Cartilagine
e osso subcondrale, in particolare, possono essere considerati
quali un’unità funzionale adattata in modo peculiare al trasferimento di carichi meccanici (Goldring, 2012), e questa stretta
interdipendenza funzionale trova un corrispettivo anche nel
coinvolgimento nei processi patologici.
Se l’osteoartrosi è definibile come alterazione biomeccanica dell’articolazione, le evidenze che si sono accumulate sul
processo patogenetico della malattia negli ultimi 10-15 anni
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
riconoscono una distribuzione più equilibrata dei pesi delle
due componenti, biologica e meccaniFigura 1.1
ca, rispetto a quanto avveniva in passato,
quando il bilanciamento era decisamente
spostato verso la componente meccanica.
Questo mutato atteggiamento nel considerare il processo degenerativo dell’osteoartrosi deriva soprattutto dalla disponibilità di imaging avanzato e non invasivo
T1-pesata, immagine assiale
come la risonanza magnetica, che ha consentito di caratterizzare in maniera molto
più fine rispetto all’immagine radiografica
il danno strutturale dell’articolazione e di
definire con più precisione il timing con
cui le alterazioni compaiono.
Del gold standard attuale per la diagnosi
di osteoartrosi, e cioè l’indagine radiograT2-pesata immagine assiale
fica, si riconoscono peraltro i limiti (come
si discuterà meglio nel capitolo successivo), espressi soprattutto dal fatto che porre diagnosi di osteoartrosi sulla base della
rx è possibile soltanto quando il danno è
ormai consolidato, e dunque quando un
intervento preventivo-conservativo ha riSequenza STIR
dotte possibilità di successo.
immagine sagittale
In aggiunta a queste evidenze si è verificato un cambiamento culturale che – sul RMN di Osteoartrosi del ginocchio
modello di quanto avviene da tempo in (sx), stadio 3 Kellgren-Lawrence.
Si notano sofferenza dell’osso subaltri campi come l’oncologia o la neurolo- condrale dell’emipiatto tibiale mediale
gia – ha fortemente spinto per la ricerca di (edema osseo nelle sequenze STIR); distensione fluida della borsa semimemmarcatori molecolari del processo patoge- branoso-gastrocnemio (cisti di Baker)
netico dell’osteoartrosi, da affiancare alla in comunicazione con il cavo articolare.
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1. Osteoartrosi: una visione complessa
clinica e all’imaging per migliorare diagnosi e interventi.
Sia l’imaging che i marcatori molecolari hanno progressivamente messo in luce una fitta rete di interazioni tra condrocita
e matrice cartilaginea (e viceversa) ma anche tra cartilagine,
membrana sinoviale e osso.
1.1 Coinvolgimento dei tre tessuti
nell’alterazione dell’equilibrio articolare
La riduzione dello spazio intrarticolare, l’osteofitosi e la sclerosi
dell’osso subcondrale rappresentano solo le ultime conseguenze, in ordine temporale, di equilibri alterati nei diversi tessuti
coinvolti in risposta a stimoli meccanici anomali.
In questa pubblicazione, orientata a evidenziare le opportunità
di trattamenti preventivi-conservativi per l’osteoartrosi, saranno approfonditi in particolare i processi che portano alla comparsa delle alterazioni più precoci.
Cartilagine
In accordo con il modello tradizionale dell’osteoartrosi, che
vede il danno meccanico della cartilagine come il primum movens della patogenesi, anche le indagini con MRI confermano
che le alterazioni meccaniche originano inizialmente nella cartilagine.
Al di là dei casi evidenti dei macrotraumi, che rappresentano
uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo successivo di
osteoartrosi, alterazioni meccaniche e microtraumi della cartilagine sono eventi precoci in tutti i casi.
Nell’osteoartrosi la cartilagine articolare vede perturbati i fisiologici equilibri tra il processo di degradazione della matrice
cartilaginea e quello di nuova formazione, con uno sbilanciamento a favore della degradazione. Questa condizione favorisce
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
eventi microfratturativi e fibrillazione della superficie cartilaginea rilevabili alla MRI prima che il danno diventi visibile alla
radiografia; la MRI è sufficientemente sensibile per evidenziare
differenti pattern regionali di alterazione della cartilagine del
ginocchio in relazione all’allineamento femoro-tibiale (Eckstein
et al, 2008), confermando il ruolo del malallineamento come
fattore di rischio dell’osteoartosi.
La disorganizzazione del tessuto ha inizio sulla superficie articolare dove si verifica inizialmente una perdita di proteoglicani,
e solo successivamente raggiunge le zone più profonde. L’integrazione dell’osservazione del danno strutturale con l’indagine
sulle modificazioni del metabolismo dei condrociti in soggetti
con osteoartosi ha reso evidente che il processo coinvolge sin
dalle prime fasi un intenso traffico di segnali molecolari; successivamente le modificazioni della componente cellulare si
fanno più profonde, fino ai fenomeni apoptotici e alla perdita
del pool cellulare.
Alterazioni metaboliche precoci nei condrociti
Il condrocita è una cellula “progettata” per rispondere funzionalmente a sollecitazioni meccaniche: proteine di membrana tra cui
le integrine (Millward-Sadler, 2004), che si legano a componenti
della matrice extracellulare, sembrano cruciali nel recepire questo tipo di stimoli e nell’attivare specifiche risposte metaboliche
e/o di espressione genica. Sottoposto a stimoli pressori particolarmente ripetuti e usuranti, il condrocita modula la produzione di enzimi e altre molecole determinanti per l’equilibrio della
composizione della matrice cartilaginea e dell’ambiente intrarticolare: tra queste, metalloproteasi (collagenasi, aggrecanasi), fattori di crescita, citochine. Nelle stesse condizioni è stato inoltre
osservato un aumento dell’espressione di COX2 e della produzione di prostanoidi e specie reattive dell’ossigeno (Tabella 1.1).
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1. Osteoartrosi: una visione complessa
Tabella 1.1
Sostanze prodotte dai condrociti la cui sintesi viene alterata nell’osteoartrosi
Metalloproteasi
Collagenasi
Aggrecanasi
Fattori di crescita
Transforming growth factor-beta1 (TGF- β1)
Insulin-like growth factor-1 (IGF-1)
Citochine
IL-1
IL-6
Tumor necrosis factor-alfa (TNF-a)
Degradazione del collagene
e degli aggrecani
Stimolo sintesi del collagene
Stimolo sintesi del collagene
Stimolo della degradazione,
riduzione della sintesi della matrice
Riduzione della degradazione
della matrice,
stimolo della degradazione,
riduzione della sintesi della matrice
COX2
Aumento infiammazione
Prostanoidi
Aumento infiammazione
Specie reattive dell’ossigeno (ROS)
Aumento infiammazione,
danno ossidativo diretto sulle
macromolecole della matrice
Le metalloproteasi – collagenasi e aggrecanasi – hanno un ruolo primario nelle modificazioni delle proprietà meccaniche
della cartilagine, essendo responsabili della degradazione delle
macromolecole strutturali della matrice: collageni, acido ialuronico, aggrecani (complessi di proteine e glicosaminoglicani).
Le citochine hanno ruoli diversi sia nel modulare la sintesi/degradazione della matrice che nel condizionare i fenomeni infiammatori, insieme con le prostaglandine.
I prodotti di degradazione di queste macromolecole fungono a loro volta da modulatori di questi processi interagendo con specifici recettori di superficie del condrocita.
La rete di interazioni condrocita-matrice e la loro relazione con
gli stimoli meccanici sono ben riassunte dal concetto di reattività biomeccanica del condrocita, e rende ragione del fatto che
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
lesioni traumatiche, soprattutto se associate a un eccessivo carico
meccanico (elevato BMI, attività lavorativa usurante), restano tra
i maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di osteoartrosi.
Alterazioni morfologiche tardive dei condrociti
Alterazioni morfologiche dei condrociti sono osservabili più
tardivamente, quando la comparsa di lesioni strutturali più o
meno estese della cartilagine innesca i processi di autoriparazione del tessuto.
In una prima fase i condrociti diventano ipertrofici, aumentando la sintesi di collagene; successivamente si assiste anche a una
fase iperplastica in cui le cellule vanno incontro a mitosi, tentativo di potenziare le capacità riparative della cartilagine.
Il deterioramento progressivo si accompagna anche a fenomeni
apoptotici dei condrociti e determina una progressiva ipocellularità del tessuto, fino alla perdita irreversibile del pool cellulare
e del potenziale riparativo.
Caratteristiche della matrice di riparazione
La matrice di riparazione prodotta dai condrociti in risposta ai primi danni meccanici
presenta proprietà differenti rispetto a quelle della cartilagine sana, con maggiori
quantità di collagene di tipo I rispetto alla cartilagine ialina e un arrangiamento spaziale delle fibre di collagene simile a quello della cartilagine fibrosa (Hunziker 2002).
Tuttavia nel corso del tempo (nell’ordine di alcune settimane) il tessuto di riparazione
subisce un progressivo rimodellamento. È stato osservato che la sovrabbondanza di
collagene di tipo I si mantiene fino a quando ha inizio un’intensa attività di degradazione di queste fibre che vengono sostituite progressivamente da quelle del tipo
II: nei modelli animali in cui il processo di riparazione è stato studiato ciò avviene intorno alle 6-8 settimane (Yanagisawa 2012; Masahiko 2012). Tuttavia né la quantità
di crosslink né la disposizione spaziale delle fibre tornano alla situazione originaria.
Anche se nel medio-lungo termine la matrice di riparazione è simile nella composizione a quella del tessuto integro, non lo è quindi a livello ultrastrutturale, fatto
che favorisce il deterioramento delle sue proprietà biomeccaniche e la comparsa di
rotture e fissurazioni macroscopiche.
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1. Osteoartrosi: una visione complessa
Osso subcondrale
Alterazioni nell’osso subcondrale, come sclerosi (matrice osteoide scarsamente mineralizzata) e formazione di pseudocisti, sono
rilevate dall’indagine rx solo nelle fasi avanzate dell’osteoartrosi.
La MRI può invece rilevare molto precocemente le alterazioni
dell’osso: nel 2003 Felson ha descritto la presenza di lesioni rilevate alla MRI come «edema del midollo osseo» (Felson 2003).
Una correlazione tra tendenza all’espansione di queste lesioni e
perdita della cartilagine articolare è stata successivamente osservata in uno studio longitudinale (Hunter 2006).
Figura 1.2
Alcuni dei metaboliti, enzimi e citochine principalmente coinvolti nel cross
talk tra tessuti articolari nell’osteoartosi
osteoblasto
leptina
metalloproteinasi
citochine
fattori di crescita
IL-1
TNFα
metalloproteinasi
infiammazione
membrana
sinoviale
prodotti di degradazione della cartilagine
stimoli infiammatori e angiogenici
infiammazione
membrana
sinoviale
ridotta viscosità del LS
Analogamente ai condrociti, anche gli osteoblasti dell’osso subcondrale rispondono a stimoli meccanici modulando la loro attività biochimica (Sanchez et al, 2012).
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Si può pertanto supporre che la produzione di enzimi e segnali molecolari da parte degli osteoblasti si alteri precocemente
quando le proprietà di resistenza, elasticità e resilienza della cartilagine articolare sovrastante iniziano a cambiare.
Gli osteoblasti nell’osteoartrosi sono fenotipicamente differenti.
È stato osservato un aumento di produzione di diversi enzimi,
mediatori di infiammazione, fattori di crescita (Figura 1.2, Tabella 1.2) e leptina: questo ormone sembra almeno in parte regolare l’aumentata espressione di fosfatasi alcalina, osteocalcina,
collagene di tipo I, IGF (insulin growth factor) e TGF-β1(transforming growth factor-β1) da parte dell’osteoblasto nell’artrosi.
Tabella 1.2
Sostanze prodotte dagli osteoblasti la cui sintesi aumenta nell’osteoartrosi
Fosfatasi alcalina
Formazione ossea
Metalloproteasi
Degradazione collagene
Osteocalcina
Formazione ossea
Osteopontina
Formazione ossea
Citochine:
IL-6
IL-8
Degradazione ossea
Promotrice di neoangiogenesi, attivatrice
dei macrofagi sinoviali
Prostaglandine
Infiammazione
Leptina
Regolazione sintesi di ALP, OC, TGF-β1
Insulin-like growth factor-1 (IGF-1)
Stimolo sintesi di collagene
Transforming growth factor-beta1
(TGF- β1)
Stimolo sintesi di collagene
I fattori IGF-1 e TGF-β1, che stimolano la produzione di collagene, possono essere correlati in particolare alla comparsa di
aree sclerotiche, dove la deposizione di collagene è aumentata.
Gli osteoblasti sembrano giocare un ruolo attivo nei
processi degenerativi e infiammatori dell’osteoartrosi anche fuori dall’osso, e in particolare nella cartilagine.
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1. Osteoartrosi: una visione complessa
Data la continuità spaziale tra l’osso subcondrale e la piastra di
accrescimento della cartilagine è probabile infatti che segnali
molecolari rilasciati dagli osteoblasti raggiungano la matrice
cartilaginea e ne influenzino il metabolismo; le microfratture
nella zona di transizione, tipiche dell’articolazione con osteoartrosi, aumenterebbero questo scambio.
Per contro, anche l’apoptosi condrocitaria sembra aumentare
il processo di ossificazione endocondrale (formazione di osteofiti) e la degenerazione dell’osso subcondrale (Gibson 1998;
Weng 2010; Schroeppel 2011).
Membrana sinoviale
È soprattutto il ruolo della membrana sinoviale a essere considerato diversamente rispetto al passato.
Mentre l’immagine radiografica non permette di apprezzare appieno il suo coinvolgimento nell’osteoartrosi, l’impiego
dell’ecografia, ad esempio, è in grado di evidenziare che segni
di vascolarizzazione del tessuto sinoviale possono comparire
anche nell’osteoartrosi non avanzata. La MRI può evidenziare
nella membrana sinoviale presenza di lesioni simili a quelle
da artrite reumatoide anche precocemente: ispessimento delle
pliche, tessuto di granulazione, vascolarizzazione. Di queste
alterazioni in passato si poteva avere riscontro solo con procedura invasiva (artroscopia, osservazione diretta in corso di
artroplastica sostitutiva) e pertanto in fase avanzata. Le lesioni, in caso di osteoartrosi, si presentano limitate alle regioni confinanti con la cartilagine più danneggiata, e non estese
all’intera capsula come nel caso dell’artrite reumatoide.
Anche i sinoviociti sono coinvolti ampiamente nel crosstalk
tra tessuti articolari: tra le molecole prodotte dalla membrana sinoviale che partecipano allo scambio di informazioni fra
tessuti ci sono diverse sostanze modulanti l’infiammazione
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
(citochine, prostaglandine, fattori di crescita) ma anche prodotti di degradazione del collagene e dell’acido ialuronico.
Come descritto da diversi autori (Kloppenburg 2011; Knoop
2011) e confermato dall’esperienza clinica, la componente infiammatoria dell’osteoartrosi e le componenti biomeccaniche
possono presentarsi con pesi differenti nei diversi pazienti – e
con ampia variabilità – probabilmente anche in ragione di background genetici diversi.
È comunque un dato acquisito che l’infiammazione ha un ruolo
di primo piano nella patogenesi e nella progressione dell’osteoartrosi, anche se i fenomeni infiammatori si perpetrano prevalentemente a livello locale.
La possibilità di intervenire sul coinvolgimento sinoviale, e specialmente nelle fasi precoci dell’osteoartrosi, è infatti indicata
come una strategia per preservare l’integrità e la funzione articolare (Sellam and Berenbaum, 2010; de Lange-Brokaar et al, 2012;
Fu et al, 2012; Sokolove and Lepus, 2013; Berenbaum, 2013). In
questo senso molecole che sono state inizialmente utilizzate allo
scopo di favorire il trofismo della cartilagine o di ripristinare
le caratteristiche reologiche del liquido sinoviale, in aggiunta a
questi effetti hanno mostrato, secondo studi più recenti, attività
che possono normalizzare le condizioni della membrana sinoviale: è il caso del condroitin solfato per il quale sono emersi effetti antiangiogenici (Lambert 2012) e dell’acido ialuronico per
uso intrarticolare, che è in grado di contrastare gli effetti infiammatori dell’interleuchina-1β (IL-1β) nei sinoviociti di pazienti
con osteoartrosi iniziale (Wang 2006).
Nella Tabella 3.1 sono elencati i principali effetti della glucosamina di interesse per la condroprotezione, osservati in colture di
condrociti da pazienti artrosici (Dodge, Jimenez 2003; Piperno
2000; Uitterlinden 2006).
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1. Osteoartrosi: una visione complessa
1.2 Fenotipi e patogenesi
Se da una parte molti dati di laboratorio, epidemiologici e clinici
sull’osteoartrosi si sono accumulati nell’ultimo decennio, quello
che manca affinché le nuove conoscenze si traducano in applicazione clinica diffusa è una presa di coscienza collettiva per applicare queste acquisizioni al singolo paziente. In altri termini manca il
riconoscimento che anche per l’osteoartrosi è possibile descrivere
diversi fenotipi di malattia sostenuti da meccanismi patogenetici
in parte differenti, da indagare nel singolo soggetto ricorrendo a
mezzi più fini di quelli sostanzialmente fino ad oggi utilizzati.
Sebbene questa idea sia già abbastanza radicata in diverse “scuole” in reumatologia, in generale permane la tendenza (in ambito
reumatologico e probabilmente anche in altri ambiti specialistici)
a non discostarsi dalla visione semplificata dell’osteoartrosi come
malattia a fenotipo unico e con il meccanismo wear and tear come
eziologia prevalente. Ampliando questa visione e accogliendo il
corpus di evidenze più recenti sul ruolo dell’infiammazione e sulle
alterazioni metaboliche precoci nei tre tessuti articolari, è stata proposta (Bjlsma, Berenbaum, Lafeber 2011) l’identificazione di tre
principali fenotipi nell’osteoartosi.
Il fenotipo post-traumatico identifica prevalentemente pazienti
giovani (<45 anni) in cui lo stress meccanico è riconoscibile come
fattore preponderante per la patogenesi.
Le articolazioni sottoposte a carico (ginocchio, caviglia, spalla)
sono pertanto quelle prevalentemente interessate. Interventi di tipo
non farmacologico (inclusa la stabilizzazione dell’articolazione con
programmi di rinforzo muscolare ed esercizi propriocettivi) trovano un razionale forte nel fenotipo post-traumatico in aggiunta alle
terapie farmacologiche.
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Il fenotipo metabolico identifica prevalentemente soggetti adulti nelle fasce di età fino a 65 anni in cui si riscontrino alterazioni
metaboliche (sindrome metabolica, diabete, obesità). Accanto allo
stress meccanico in questo fenotipo si riconoscono come concause
alterazioni metaboliche incluse l’iperglicemia, l’elevazione dei livelli
di adipochine (obesità), l’alterazione del bilancio estroprogestinico.
L’interessamento delle articolazioni è piuttosto generalizzato. Un
dato epidemiologico significativo a sostegno dell’ipotesi metabolica riguarda l’artrosi della mano, la cui prevalenza nella popolazione obesa è doppia rispetto alla popolazione generale (Yusuf 2009).
Non essendo le articolazioni della mano sottoposte a carichi differenti negli obesi e nei normopeso, l’associazione tra obesità e alta
prevalenza di osteoartosi della mano può essere spiegata con il ruolo delle componenti metaboliche, generalmente alterate in questa
condizione.
Il fenotipo da invecchiamento, che riguarda prevalentemente l’anziano, non riconosce componenti specifiche oltre alla senescenza
dei condrociti e al conseguente impoverimento della cartilagine in
termini di pool cellulare e qualità ultrastrutturale della matrice.
Diversi autori hanno indagato quali meccanismi patogenetici, in aggiunta allo stress meccanico che rimane una concausa, si attivano in
modo preferenziale nell’uno o nell’altro fenotipo, informazione essenziale per orientare le conseguenti scelte terapeutiche.
Wang e collaboratori hanno rilevato livelli di espressione e di attivazione delle proteine del complemento notevolmente elevati nel
liquido sinoviale di soggetti con osteoartosi del ginocchio rispetto
ai sani, soprattutto per le proteine C3, C5, C7 e C9 (Wang 2011).
21
1. Osteoartrosi: una visione complessa
Lo stesso gruppo ha ottenuto dati a sostegno di questa tesi in modelli animali di osteoartrosi post traumatica (modelli murini di destabilizzazione del menisco mediale o di meniscectomia): esposti
allo stesso insulto meccanico gli animali difettivi per C5 o per C6
erano parzialmente protetti dallo sviluppo dell’artrosi rispetto agli
animali wild type (Wang 2011).
I dati epidemiologici dello studio di coorte ROAD su una popolazione giapponese (Yoshimura 2012) hanno rilevato che sia il rischio
cumulativo a 3 anni di sviluppare osteoartrosi del ginocchio sia il
rischio di progressione aumentano con il numero di componenti
della sindrome metabolica presenti: per lo sviluppo di osteoartrosi
l’odds ratio nei soggetti con 3 componenti è quasi decuplicato rispetto ai soggetti senza alterazioni metaboliche.
Circa l’influenza dell’invecchiamento sul metabolismo dei condrociti, Forsyth ha osservato che la responsività delle cellule della cartilagine (colture da soggetti senza osteoartrosi) allo stimolo
catabolico esercitato dall’interleuchina-1β tende a crescere con
l’avanzare dell’età, e si manifesta con iperespressione di metalloproteasi (MMP-13 in particolare) nei soggetti di età avanzata rispetto
ai più giovani (Forsyth 2005).
Gli aspetti che caratterizzano le forme di osteoartrosi dovute a lesioni meccaniche o a invecchiamento sono riassunti nella Tabella 1.3.
Nel complesso ci sono numerosi dati che lasciano intuire la possibilità di affrontare l’osteoartrosi con un approccio più raffinato rispetto
al passato e con migliori possibilità di successo.
I principali ostacoli su questo percorso sono da ricondurre a due
principali esigenze:
1. occorre ampliare il numero di strumenti disponibili per la diagnosi e per il monitoraggio della progressione della malattia e
dell’efficacia dei trattamenti. Quelli attualmente validati, come già
notato, sono inadeguati su diversi fronti: occorre quindi promuovere l’uso di nuovi strumenti con valore diagnostico, predittivo e
22
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Tabella 1.3
Lesione meccanica e invecchiamento nell’osteoartrosi:
aspetti metabolici peculiari coinvolti.
Autore
OA
Wang,
e lesione/ stress Nat Med 2011
meccanico
Setting
pazienti con OA
Evidenza
iperespressione delle proteine del complemento C3, C5,
C6, C9 nel liquido sinoviale
modello murino di animali difettivi per C5 sono
OA da lesione
parzialmente protetti dallo
sviluppo di OA rispetto ai
wild type
OA
Forsyth,
e invecchiamento J Gerontol A
Biol Sci Med Sci
2005
colture di condro- iperreattività dei condrociti
citi da soggetti
esposti a IL-1β: i condrociti
senza OA
di soggetti anziani esprimono MMP-13 in quantità
elevate rispetto ai soggetti
giovani.
di efficacia, prendere dimestichezza con il loro utilizzo e applicarli
estesamente nella pratica clinica;
2. occorre ampliare le possibilità per il trattamento di fondo dell’osteoartrosi non solo indagando farmaci per nuovi target terapeutici (ad esempio quelli legati all’infiammazione), ma anche
utilizzando in modo più razionale ed evidence based quelli già
noti: ciò appare intimamente connesso con l’utilizzo di opportuni marcatori molecolari in grado di indicare in tempi rapidi se
la terapia sta esercitando un apprezzabile effetto biologico. Una
conferma in questo senso non solo è utile al clinico ma può costituire per il paziente un’importante motivazione alla compliance
ottimale, dal momento che il beneficio con l’assunzione di farmaci di fondo compare in tempi medio-lunghi.
Questi due temi saranno affrontati nelle successive sezioni del libro,
con attenzione anche agli aspetti di applicabilità pratica.
23
1. Osteoartrosi: una visione complessa
––
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Osteoartrosi dal danno tissutale
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25
4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori
Tabella 4.2
Variabilità intraindividuali (CVI%) ed interindividuali (CVG%) e relative differenze
critiche (CD%) per alcuni biomarcatori.
Marcatore
CVI%
CVG%
CD%
6.6
9.1
8.6
35.6
30.9
17.6
20
29
26
6.9
10.8
12.0
23.5
14.7
15.9
15.3
13.1
18.6
28.8
13.3
25.0
26.0
26.9
17.8
19.2
26.0
24.8
26
35
43
70
44
37
36
40
57
Di formazione
s-fosfatasi alcalina ossea
s-osteocalcina
s-PICP
Di riassorbimento
s-CTXI
s-fosfatasi acida tartrato resistente
u-galattosilidrossilisina
u-desossipiridinolina totale (DPD)
u-NTXI
u-CTXI
u-CTXII
u-desossipiridinolina libera (fDPD)
u-piridinoline libere
100
Biomarcatori nell’osteoartrosi:
2 strumenti per orientare
ricerca e clinica
Gli strumenti per la diagnosi e la caratterizzazione dell’osteoartrosi sono rimasti sostanzialmente invariati per oltre quarant’anni, dopo la definizione dello score radiologico di Kellgren
e Lawrence. Risonanza magnetica, tomografia ed ecografie sono
intervenute a integrare questo strumento fornendo un imaging
più fine e completo; ma, almeno dal punto di vista formale della validazione di questi strumenti, chi si occupa di osteoartrosi si trova ancora nella condizione di doversi riferire a un gold
standard (l’immagine radiografica) che è in realtà inadeguato da
molti punti di vista.
Oltre ad essere gravata dal rischio biologico correlato alle radiazioni, l’immagine radiografica rileva l’osteoartrosi solo tardivamente, quando il processo patologico è avviato e il danno
può essere già esteso. La radiografia può inoltre rilevare direttamente solo le alterazioni dell’osso ma non il coinvolgimento
della membrana sinoviale e aspetti come l’angiogenesi nella cartilagine nelle fasi più avanzate. Inoltre la correlazione dei reperti
radiografici con la clinica è scarsa (Spector et al, 1991; Lawrence
et al, 1966; Kijowski et al, 2006).
Principali limiti del gold standard radiografico
•
•
•
•
•
•
28
misura indiretta del danno della cartilagine
non misura un processo dinamico
presenza di lesioni ed estrusioni meniscali possono rendere poco leggibile
l’immagine
i cambiamenti nel tempo sono piccoli e osservabili solo in una
parte dei pazienti (progressor)
scarsamente riproducibile
scarsamente correlato alla funzionalità e al dolore
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Un aspetto rilevante per la gestione pratica dei pazienti è il fatto che l’imaging radiografico è poco adatto a valutare l’effetto
di trattamenti che si propongono di modificare il metabolismo
della cartilagine e dei tessuti articolari. Molte di queste terapie
hanno già mostrato effetti favorevoli sugli aspetti algofunzionali e sono consolidati nella pratica clinica.
Per quanto riguarda i loro potenziali effetti nel modificare favorevolmente la struttura (preservare la cartilagine articolare, per esempio, o ridurre i segni di sinovite attiva), in alcuni casi l’indagine radiografica ha già evidenziato un beneficio; tuttavia si è avvertita la
necessità di rivolgersi a strumenti più fini, sensibili, rapidi e anche
più pratici per evidenziare gli effetti disease-modifying e gli effetti
strutturali dei trattamenti.
Oltre che all’imaging avanzato (che però ha limiti di costi e organizzativi) questo ruolo è stato affidato anche ai nuovi biomarcatori
molecolari che sono emersi a decine nel corso delle ricerche degli
ultimi quindici anni sul metabolismo dei tessuti artrosici.
I principali vantaggi dei biomarcatori molecolari (o umidi, o solubili) sono quelli della praticità, della ripetibilità e dell’assenza di
rischi per il paziente: si possono infatti rilevare sul liquido sinoviale
prelevato in occasione dell’artrocentesi, sul sangue o sull’urina. Il
limite principale, quando si parla di biomarcatori, è il fatto che solo
una ristretta percentuale di quelli potenziali individuati dalla ricerca di base si rivela adatto a essere utilizzato nelle condizioni reali:
tuttavia un certo numero di biomarcatori solubili è già entrato nella
pratica a complemento degli strumenti clinici più tradizionali.
Ai fini dell’argomento di questa pubblicazione, che si propone di
riassumere i razionali e le evidenze sulle terapie che favoriscono la
riparazione e la normalizzazione dei tessuti articolari, una panoramica sui biomarcatori è utile a chiarire come essi possono essere
utili nella gestione pratica dei pazienti, senza necessità di investimenti particolarmente complessi o impegnativi.
29
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
Alcuni biomarcatori solubili possono rilevare in tempi rapidi
cambiamenti favorevoli del metabolismo della cartilagine o
dell’osso, ma anche nella membrana sinoviale, dopo l’inizio di
un trattamento con condroprotettori. Sono di potenziale interesse in questo senso i biomarcatori in grado di indicare:
• il turnover di molecole strutturali delle matrici ossea
e cartilaginea
• gli enzimi coinvolti nella degradazione o nella sintesi
di componenti della matrice
• i processi infiammatori, riparativi, angiogenici.
Le maggiori società scientifiche internazionali di reumatologia
sono da tempo impegnate nello sforzo di individuare definizioni e criteri condivisi, e di armonizzare le procedure quando si
parla di biomarcatori per l’osteoartrosi. La OARSI OA Biomarkers Global Initiative, per esempio, vede impegnati i maggiori
esperti di ricerca sui biomarcatori a livello internazionale nel
promuovere il confronto e il dibattito su questo tema.
La definizione di biomarcatore attualmente condivisa dalle istituzioni sanitarie e dai gruppi di lavoro internazionali è quella sviluppata dal Biomarkers Definitions Working Group della FDA.
Biomarcatore: definizione secondo il Biomarkers
Definitions Working Group FDA
«A biological marker or biomarker is defined as a characteristic that is objectively measured and evaluated as an indicator of normal biologic processes,
pathogenic processes, or biological responses to a therapeutic intervention. A
biomarker can be a physiologic, pathologic, or anatomic characteristic or measurement that is thought to relate to some aspect of normal or abnormal biologic function or process.»
Biomarkers Definitions Working Group, 2001
30
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Un marcatore biologico o biomarcatore è definito come un parametro che è obiettivamente misurabile e valutabile come indicatore di processi biologici normali o patologici, o di risposte
biologiche a un intervento terapeutico.
L’individuazione di biomarcatori validi, dunque, non è un esercizio di elegante ricerca sperimentale. Rappresenta invece, in
una prospettiva anche prossima, la possibile premessa per affrontare la gestione del paziente artrosico in modo più complesso e lungimirante di quanto le attuali conoscenze permettano di
fare, in particolare puntando a questi obiettivi:
1. fare diagnosi più precocemente di quanto consentano la
clinica e l’imaging radiografico e collocare correttamente il
soggetto in una precisa fase dell’evoluzione della malattia;
2. caratterizzare il ruolo dei processi patologici nei diversi momenti della sua storia, al fine di chiarire il razionale e il corretto timing per l’impiego di condroprotettori o di terapie
fisiche. Per utilizzare al meglio un trattamento è importante
infatti capire qual è il momento più opportuno per somministrarlo: senza uno sforzo per comprendere questo aspetto si
rischia di abbandonare o lasciare inutilizzato un patrimonio
potenziale di risorse terapeutiche.
3. individuare possibili predittori di risposta a un trattamento:
ciò significa anche individuare quale sia il trattamento più
utile a una specifica tipologia di soggetti con osteoartrosi, aumentando le probabilità di successo.
4. monitorare il paziente durante il trattamento farmacologico
per valutare la sua risposta in termini di modificazione dei
biomarcatori correlati a processi patologici, sintomatologia,
funzionalità.
31
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
2.1 Classificazione dei biomarcatori
Un biomarcatore dovrebbe idealmente rispondere alle seguenti
caratteristiche:
• avere una buona correlazione con i processi implicati nella malattia e con gli esiti clinici
• avere variazioni facilmente rilevabili in presenza di un processo
patologico o di un trattamento (sensibilità)
• essere specifico per il tessuto
• essere facilmente applicabile nella routine in termini di: invasività
minima, costi sostenibili, ripetibilità nel tempo.
Una cornice concettuale di riferimento per stabilire un linguaggio comune e categorizzare in modo condiviso i biomarcatori
è stata elaborata nel corso degli ultimi quindici anni dall’OARSI FDA Biomarkers Working Group e da altri gruppi di lavoro
afferenti a società internazionali (ICRS, International Cartilage
Repair Society).
Wet/dry. Una classificazione per tipo di caratteristica considerata, proposta da un documento OARSI del 2011 (Kraus, 2011)
suddivide i marcatori in umidi e secchi (wet/dry).
Sono definiti marcatori umidi (o solubili) quelli di tipo molecolare, misurabili su sangue, plasma, siero, urine, liquido sinoviale
o in genere su fluidi biologici. Sono rappresentati prevalentemente da proteine o frammenti proteici, ma possono includere
anche DNA, RNA, glucidi, metaboliti di diversa natura.
La definizione di biomarcatori secchi include l’imaging, ma anche i questionari o le scale soggettive di valutazione (Tabella 2.1)
32
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Tabella 2.1
Biomarcatori: classificazione wet/dry
Biomarcatori
solubili o umidi
componenti cellulari
o extracellulari tessuto-specifici
Biomarcatori secchi
Imaging, questionari,
scale soggettive
DNA, RNA, microRNA
MRI
Proteine della matrice, proteine di membrana,
enzimi, recettori (interi o frammenti)
Rx
proteoglicani della matrice e loro metaboliti
Ecografia
fattori di crescita, citochine
Womac, Lequesne, SF-36
VAS, Mc Gill pain
A oggi sono stati individuati una trentina di biomarcatori solubili che si ritiene possano essere utili a caratterizzare il processo
patogenetico e l’evoluzione dell’osteoartrosi.
Si tratta prevalentemente di metaboliti delle macromolecole
strutturali della matrice di cartilagine e osso indicativi dei fenomeni di turnover e del loro alterato equilibrio. Meno diffusi,
ma di notevole interesse per la ricerca, sono anche marcatori
di infiammazione, fattori di crescita, enzimi, glicoproteine di
membrana, recettori, alcuni dei quali indicatori di processi patologici che coinvolgono la membrana sinoviale.
Per utilità clinica. Dal punto di vista della gestione clinica, la
suddivisione più utile è quella che individua la finalità per cui il
biomarcatore viene utilizzato, come proposto da Kraus (Kraus,
2011). L’acronimo BIPEDS riassume le categorie individuate in
questo schema di classificazione.
33
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
B, burden of disease: utili alla stadiazione della malattia,
indicativi del livello di gravità.
I, investigative: non ancora collocati in alcuna categoria
perché esplorati solo parzialmente.
P, prognostic: utili a fare una prognosi, ad esempio perché
in grado di individuare i pazienti ad elevato rischio di
progressione rapida.
E, efficacy of intervention: utili a verificare l’efficacia di un
intervento terapeutico.
D, diagnostic: utili alla diagnosi in fase precoce.
S, safety: utili a monitorare la sicurezza di un trattamento.
Per quanto riguarda l’obiettivo della diagnosi, sicuramente da
includere fra quelli di prioritario interesse, diversi dati sostengono che molti dei marcatori solubili oggi individuati potrebbero essere in grado di intercettare i cambiamenti metabolici
più precoci e rappresentare quindi strumenti di diagnosi preradiografica, o addirittura più precoci dell’imaging avanzato
(risonanza magnetica) nonché più economici, meno time-consuming e sostanzialmente privi di rischi per il paziente.
I biomarcatori solubili sono stati studiati prevalentemente nei
pazienti con osteoartrosi del ginocchio, meno nell’osteoartrosi
dell’anca e poco nell’osteoartrosi della mano.
Per livello di qualificazione. Una classificazione elaborata dal
gruppo di lavoro OARSI/FDA propone una scala che descrive
il livello di qualificazione del biomarcatore. Al gradino più alto
della scala sono collocati i biomarcatori surrogati di endpoint
clinico (Tabella 2.2).
34
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Dal momento che la qualificazione di un marcatore è legata al
contesto di utilizzo (le caratteristiche dei pazienti sui quali si
utilizza; il processo che si intende misurare; le condizioni di utilizzo), un marcatore con elevato grado di qualificazione in un
ambito di utilizzo non può essere automaticamente considerato
tale quando si decida di valutarlo in un altro contesto: dovrà in
questo caso scendere nella scala e ripercorrere i successivi gradi
di qualificazione.
Tabella 2.2
Classificazione dei BM per grado di qualificazione
Surrogati
Considerati sostitutivi di un endpoint
clinico, possono essere impiegati nei
processi decisionali clinici
Caratterizzativi
Più di uno studio prospettico sull’uomo
che ne ha dimostrato la correlazione ad
outcome clinici
Dimostrativi
Un solo studio sull’uomo che ne ha dimostrato la correlazione con un outcome
clinico (nessuna dimostrazione di riproducibilità).
Esplorativi
Solo evidenze in vitro o precliniche, non
ancora investigata la correlazione con
outcome clinici
2.2 Validazione dei biomarcatori e aspetti
pratici dell’utilizzo nella ricerca
Nonostante il numero di biomarcatori per cui sono stati sviluppati test di laboratorio sia piuttosto elevato, si è ancora abbastanza lontani dallo stabilire un consenso su come utilizzarli.
Il gruppo di studio sui biomarcatori della Società internazionale di ricerca sull’osteoartrosi (OARSI FDA Osteoartrhritis Bio35
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
marker Working Group) ha definito un’agenda per l’utilizzo dei
marcatori già disponibili e per le attività di ricerca su quelli in
via di sviluppo (Kraus, 2011) nella quale si puntualizzano le esigenze prioritarie da soddisfare nel processo di validazione dei
biomarcatori (Tabella 2.3).
Il processo di validazione dei biomarcatori appare piuttosto difficoltoso nell’osteoartrosi. Ad esempio per quanto riguarda la
diagnosi, l’ostacolo principale – come già ribadito – è rappresentato dal fatto che il gold standard (l’immagine radiografica),
che dovrebbe servire come metro di giudizio per il biomarcatore solubile candidato a diventare uno strumento di diagnosi, presenta molte limitazioni. La risonanza magnetica, con le
sue grandi potenzialità, potrebbe rappresentare un’alternativa
all’immagine radiografica ed essere utile come misura della validità di un biomarcatore solubile; tuttavia la RM è essa stessa
un biomarcatore in lista d’attesa per essere validata e non può
essere impiegata a questi fini.
Tabella 2.3
Sintesi delle principali esigenze nel processo di sviluppo, qualificazione e
validazione dei biomarcatori per l’osteoartrosi. Da Kraus et al, 2011
• Standardizzare il modo di riportare i risultati dei biomarcatori
• Trovare le minime differenze significative per i biomarcatori in assenza
o presenza di un trattamento
• Standardizzare il metodo di raccolta dei campioni per gli studi sui
biomarcatori
• Raccogliere informazioni sulle articolazioni non artrosiche (non-signal
joints) negli studi in cui si misurano biomarcatori sistemici
• Identificare i tessuti che rappresentano le principali fonti di un biomarcatore
36
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
È certo comunque che dell’elevato numero di potenziali biomarcatori individuati nelle fasi esplorative, solo una frazione
piuttosto ristretta avrà la possibilità di giungere all’applicazione
nel mondo reale, che deve tener conto anche della facilità di
esecuzione e dei costi, o più precisamente dell’appropriatezza.
Idealmente si dovrebbe disporre di biomarcatori che diano informazioni su tutti i tessuti coinvolti nell’osteoartrosi: membrana sinoviale, cartilagine, osso. Per ragioni di praticità e facilità
della raccolta dei campioni i biomarcatori di maggiore interesse
sono quelli misurati su sangue (o frazioni) e urine. Ammesso
che un biomarcatore abbia dimostrato buone caratteristiche di
sensibilità e specificità, la lettura del dato in questo caso deve
comunque considerare l’influenza di fattori anche indipendenti
dall’osteoartrosi. La concentrazione di un biomarcatore in sangue o urina risente del contributo dei processi metabolici che
avvengono nelle articolazioni non artrosiche e in altri tessuti.
Inoltre il suo valore non dipenderà soltanto dalla velocità con
cui viene prodotto e rilasciato a livello sistemico, ma anche dalla velocità con cui viene eliminato.
Il bilancio può pertanto essere influenzato da fattori correlati
all’osteoartrosi e da fattori non correlati, quali:
• il livello di attività della malattia nella singola articolazione,
tipo e numero di articolazioni coinvolte
• la funzionalità renale ed epatica
• i fattori ambientali modificabili come intensità e frequenza
dell’attività fisica, BMI e dieta.
Diversamente, i biomarcatori rilevati su liquido sinoviale riflettono in modo più specifico e diretto l’andamento del processo
patologico nell’articolazione interessata da osteoartrosi, con
l’ovvio svantaggio dell’invasività della procedura, dei costi e del37
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
la non facile ripetibilità. La possibilità di misurare i biomarcatori su liquido sinoviale merita comunque di essere considerata
quando vi sia la necessità di eseguire un’artrocentesi.
Nell’appendice si offre una breve panoramica sui biomarcatori
ad oggi utilizzati nella pratica o indagati nella ricerca clinica e
preclinica sull’osteoartrosi.
2.3 Biomarcatori derivati dai collageni
Buona parte dei biomarcatori dell’osteoartrosi di uso relativamente comune nella pratica clinica sono quelli che indicano il
turnover del collagene, del quale sono presenti diversi tipi nelle
matrici ossea e cartilaginea, in tendini e legamenti, nella membrana sinoviale e nel liquido sinoviale. Il bilancio tra sintesi e
degradazione delle matrici (ossea e cartilaginea) si riflette nel
bilancio tra marcatori di sintesi e marcatori di degradazione del
collagene.
La maggioranza degli studi è stata prodotta su marcatori per la
cartilagine derivati dal collagene di tipo I e II, indicativi rispettivamente del metabolismo dell’osso e della cartilagine ialina:
sono rappresentati da frammenti originati dal clivaggio della
molecola immatura o dalla degradazione della molecola matura, e si rilevano con metodo immunometrico.
I collageni di tipo I e II sono proteine fibrillari la cui unità di
base è una triplice alfa-elica.
Struttura primaria: ogni polipeptide presenta una struttura
primaria semplice e ripetitiva di circa 1000 aminoacidi, con la
glicina che occupa sistematicamente la prima posizione in un
modulo tripeptidico Gly–X–Pro oppure Gly–X–Hypro, dove X
rappresenta altri aminoacidi.
38
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Tipica della struttura del collagene è la presenza di residui aminoacidici idrossilati (idrossiprolina e idrossilisina).
Struttura secondaria: a-elica sinistrorsa (protocatena)
Struttura terziaria: triplice elica destrorsa (tropocollagene) formata dall’assemblaggio di tre protocatene. Il collagene di tipo
I contiene due catene di tipo a-1 e una catena a-2 (codificate
rispettivamente dai geni COL1A1 e COL1A2); il collagene di
tipo II contiene tre a-1 (codificate dal gene COL2A1). Prima e
dopo l’assemblaggio, la molecola subisce modificazioni essenziali per l’acquisizione della struttura quaternaria caratteristica
della proteina matura (Tabella 2.4).
Struttura quaternaria: di tipo fibrillare, in cui le fibre di tropocollagene si dispongono parallelamente stabilizzate da legami
covalenti (cross link).
39
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
Tabella 2.4
Dalla catena polipeptidica al collagene maturo
Processo
Traduzione del m-RNA in protocatene a
Intracellulare
Reticolo endoplasmatico rugoso (RER)
Idrossilazione dei residui di prolina e lisina
e glicosilazione dei residui di idrossilisina
Glc Glc
Glc
Gal Gal OH OH
Reticolo endoplasmatico rugoso (RER)
Assemblaggio delle 3 protocatene in
triplice elica stabilizzata da legami deboli
(procollagene)
Hyl Hyl Lys Lys
Pro Pro
OH OH
OH
O-Gal-Clc
Reticolo endoplasmatico rugoso (RER)
OH
Parziale rimozione di gruppi OH
O-Gal
Esocitosi
RER-apparato del Golgi
Passaggio in ambiente extracellulare
Vescicole di esocitosi dall’apparato del Golgi
Clivaggio: rimozione dei propeptidi N-terminale e C-terminale del procollagene:
Matrice
Clivaggio
Clivaggio
OH
OH
O-Gal-Clc
O-Gal
Assemblaggio in fibrille con formazione di
cross-link covalenti
Matrice
Extracellulare
40
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Biomarcatori di sintesi del collagene I e II
I prodotti derivati dal clivaggio del procollagene dopo l’assemblaggio delle catene (propeptidi N-terminale e C-terminale)
sono utilizzati come biomarcatori della sintesi di nuova matrice
ossea o cartilaginea: PINP (Procollagen type I N-propeptide) e
PICP (Procollagen type I C-propeptide) per il collagene di tipo
I; PIINP (Procollagen type II N-propeptide) e PIICP (Procollagen type II C-propeptide) per il tipo II (Figura 2.1).
In uno studio prospettico con un follow up di 6 anni il biomarcatore
sPINP (misurato su siero) ha dimostrato sia valore diagnostico sia
valore predittivo per la progressione radiografica (in termini di formazione di osteofiti) dell’osteoartrosi del ginocchio (Kumm 2013).
Biomarcatori di degradazione del collagene I e II
I frammenti derivati dalla degradazione del collagene di tipo I
e II ad opera delle collagenasi (famiglia di metalloproteasi prodotte dai condrociti e dagli osteoblasti) sono impiegati come
biomarcatori della degradazione rispettivamente della matrice
ossea e cartilaginea: CTX-I (Crosslinked C-telopeptide of collagen type I), NTX-I (Cross Linked N-Telopeptide of Type I Collagen), DPD (Deoxypyridinoline), PYD (Pyridinoline) e C1,2C
(collagenase generated collagen type I and II cleavage neoepitope) per il collagene di tipo I; CTX-II (Crosslinked C-telopeptide
of collagen type II), C2C (collagenase generated collagen type II
cleavage neoepitope), Coll2,1 e Coll2,1-NO2 per il collagene di
tipo II (Figura 2.1).
Dal collagene di tipo II derivano alcuni dei biomarcatori di maggiore interesse: sebbene il tessuto osseo sia estesamente coinvolto nei processi patogenetici dell’osteoartrosi, infatti, il turnover
osseo che si verifica anche in articolazioni sane in generale rende i marcatori derivati dal collagene di tipo I meno sensibili alle
41
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
variazioni indotte dall’evoluzione della malattia e/o da eventuali
trattamenti; al contrario, lo scarso turnover della cartilagine ialina nelle articolazioni sane fa di alcuni marcatori derivati dal
collagene di tipo II indici piuttosto sensibili dei processi in atto.
Di particolare interesse sono i marcatori CTX-II e Coll2,1 (e la sua
forma nitrata Coll 2,1-NO2), entrambi misurabili su urina. Una
vasta metanalisi su circa 3500 pazienti mostra che uCTX-II (CTXII urinario) ha un buon valore predittivo per il futuro sviluppo di
osteoartrosi del ginocchio, dell’anca e della mano (Valdes, 2014).
Diverse esperienze hanno impiegato il uCTX-II come indice di efficacia dell’intervento terapeutico: per la glucosamina
Christgau (Christgau 2004), Conrozier per l’acido ialuronico
intrarticolare (Conrozier 2012) e Scarpellini e collaboratori per
la condroprotezione orale con la combinazione di glucosamina,
condroitin solfato e collagene di tipo II nativo (Scarpellini 2008).
Inoltre è interessante segnalare che esperienze piuttosto recenti
hanno mostrato come il uCTX-II, pur essendo un marcatore
specifico di degradazione della cartilagine articolare, sia correlabile anche ai processi che interessano l’osso subcondrale.
Garnero (Garnero 2008) ha ad esempio evidenziato una buona
correlazione del marcatore di degradazione cartilagineo uCTXII con la progressione radiografica a 24 mesi in uno studio che
ha indagato come possibile trattamento disease-modifying un
bifosfonato, che ha come target terapeutico l’osso.
Dati dello studio CHECK, ampio studio prospettico su circa
1000 pazienti con artrosi di anca e ginocchio (Van Spil 2012),
hanno d’altra parte evidenziato che uCTX-II è ben correlato a
marcatori del metabolismo osseo.
Coll2,1 e Coll2,1-NO2 sembrano invece buoni predittori di progressione radiologica dell’osteoartrosi e si candidano a possibile
innovazione per il monitoraggio della malattia (Deberg 2005).
42
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Alti livelli di C2C nel liquido sinoviale combinati con bassi livelli di cheratan solfato (KS) si associano alla presenza di lesioni cartilaginee preradiografiche in pazienti con lesioni del
legamento crociato (Yoshida 2013).
tripla elica
pro-α2
pro-α1
pro-α1
PICP
propeptide C-t
tripla elica
pro-α1
pro-α1
pro-α1
PIINP
PIICP
frammento 3⁄4
marcatori
di formazione
dell’osso
marcatori
di degradazione
dell’osso
DPD
PYD
telopeptide C-t
telopeptide N-t
CTX-I
propeptide N-t
NTX-I
peptide segnale
collagene maturo
procollagene
propeptide C-t
telopeptide C-t
telopeptide N-t
propeptide N-t
peptide segnale
procollagene
Localizzazione dei marcatori del turnover
del collagene di tipo I e II.
PINP
collagene maturo
collagene tipo II
collagene tipo I
Figura 2.1
marcatori
di formazione
della cartilagine
frammento 1⁄4
pro-α1
pro-α1
pro-α1
CTX-II
COLL2-1
COLL2-1NO2
HELIX II
C2C
sito di clivaggio
della collagenasi
marcatori
di degradazione
della cartilagine
43
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
Quanto ai marcatori di turnover del collagene di tipo I, uno
studio che ha incluso 30 pazienti con osteoartrosi erosiva della mano ha rilevato una correlazione significativa dello score
radiologico con uCTX-I ma non con uCTX-II. Questo dato
suggerisce che l’osteoartrosi erosiva della mano sia meglio descritta, in termine di biomarcatori, da uCTX-I piuttosto che da
uCTX-II e che possa avere un’elevata affinità con le malattie metaboliche dell’osso come l’osteoporosi (Scarpellini 2008).
2.4 Altri biomarcatori di interesse
L’osteocalcina (OC) è considerata un marcatore di turnover e
mineralizzazione dell’osso. In uno studio prospettico (Kumm
2013) l’osteocalcina rilevata sul siero (sOC) ha mostrato un
significato diagnostico per l’osteofitosi progressiva nell’osteoartrosi del ginocchio.
Una vasta metanalisi (Valdes, 2014) ha evidenziato che i livelli
della proteina non collagenica della matrice cartilaginea COMP
(Cartilage oligomeric matrix protein) misurati sul siero sono
utili a descrivere il grado di attività della malattia nell’osteoartrosi del ginocchio e dell’anca.
Alla sCOMP assegna un valore predittivo uno studio prospettico della durata di 10 anni su circa 800 donne con un follow up
di 10 anni (Blumenfeld 2013): a elevati livelli iniziali di sCOMP
si associa un maggior rischio di sviluppare nel corso del tempo
un’osteoartrosi del ginocchio con grado Kellgren-Lawrence pari
o superiore a 2.
In uno studio trasversale sulla mano (Aslam 2014) la presenza
di osteoartrosi metacarpofalangea o carpometacarpale e un alto
numero di articolazioni coinvolte risultano correlati a elevati livelli circolanti di acido ialuronico (sHA).
44
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Uno studio trasversale su pazienti con lesione traumatica del
legamento crociato anteriore del ginocchio (Yoshida 2013) ha
mostrato che bassi livelli di cheratan solfato nel liquido sinoviale (KS) combinati con alti livelli di C2C nel liquido sinoviale
sono associati alla presenza di lesioni estese della cartilagine osservabili in artroscopia ma non rilevate dalla rx.
La possibilità di impiegare i biomarcatori ha diversi vantaggi:
queste indagini possono essere eseguite a costi certamente inferiori a quelli di una risonanza magnetica da un laboratorio
attrezzato con sistemi immunometrici automatizzati (in altri
termini il laboratorio di una struttura sanitaria di medie-grandi
dimensioni); sono inoltre più accessibili (nessuna lista di attesa) e privi di rischi, a differenza della RM. Le determinazioni di
questi biomarcatori si prestano pertanto anche ad essere ripetute a intervalli relativamente ravvicinati senza particolari disagi
per il paziente.
45
2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica
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47
3
[La condroprotezione
nell'osteoartrosi ]
3
La condroprotezione
nell’osteoartrosi
Da molti decenni i ricercatori hanno cercato di esplorare l’obiettivo ideale nella gestione dell’osteoartrosi: la possibilità di intervenire nei meccanismi degenerativi della cartilagine articolare e
di contenere il danno anatomico di questo particolarissimo tessuto.
Questa ricerca si è poi scontrata con un paradosso per certi
aspetti sorprendente: a fronte di una relativa semplicità strutturale del tessuto cartilagineo (un tessuto avascolare, non innervato, con un solo tipo cellulare) faceva riscontro una peculiare
complessità dal punto di vista del metabolismo e delle interazioni dei condrociti con gli stimoli ambientali.
Si era capito allora che il possibile intervento di condroprotezione doveva necessariamente interferire proprio in quei processi
di disregolazione metabolica della cartilagine che sono alla base
della patogenesi dell’osteoartrosi. Soltanto dopo questa acquisizione concettuale si cominciò a parlare di condroprotezione, cioè
di trattamenti in grado di prevenire la distruzione della cartilagine articolare o di facilitare la sua riparazione nelle condizioni
caratterizzate da un declino della sua integrità strutturale.
Nonostante le cautele delle società scientifiche internazionali,
le evidenze a favore di una possibilità di rallentare l’evoluzione
dell’artrosi esistono. Diverse sono le dimostrazioni scientifiche
che giustificano un atteggiamento – nella ricerca ma anche nella clinica pratica – di apertura verso trattamenti che mirano a
questo obiettivo terapeutico, accanto agli altri indiscutibili interventi per l’attenuazione del dolore e dell’infiammazione.
Di fatto alcune società scientifiche (EULAR, OARSI) hanno
aperto le porte alla condroprotezione, includendo nelle racco50
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
mandazioni ufficiali farmaci che agiscono anche in senso condroprotettivo oltre che sintomatico. Si tratta di un cambiamento
di grande portata nell’atteggiamento generale, per certi aspetti
rivoluzionario, indicativo di un nuovo modo di vedere la gestione dell’osteoartrosi, e comunque di un riscontro che non potrà
essere d’ora in poi ignorato per la ricerca di migliori trattamenti.
Non mancano le critiche verso le società scientifiche ancora
restie nei confronti dei condroprotettori; per esempio, alcuni
limiti metodologici nella conduzione degli studi non avrebbero
permesso di evidenziarne appieno le potenzialità. Va aggiunto
che la metodica radiografica – peraltro l’unica a essere validata – è determinante nella selezione e stadiazione dei pazienti,
ma non è in grado di distinguere i pazienti con osteoartrosi di
natura prevalentemente meccanica da quelli con un’importante
componente infiammatoria locale. Inoltre può consentire una
valutazione differenziale solo dopo almeno un anno e non in
tutti i settori possibili: ad esempio non vi sono indici radiologici
standardizzati per la colonna vertebrale e la maggior parte degli
studi riguarda l’artrosi del ginocchio. In altri termini la verifica
radiografica di per sé non sempre è sufficiente e adeguata nel dimostrare il beneficio clinico in termini di protezione cartilaginea.
Maggiore selezione per il disease modifying
Come per altre condizioni a origine multifattoriale, per l’osteoartrosi la ricerca di un trattamento disease modifying probabilmente tenderà in futuro a essere sempre più orientata secondo
un approccio proof of concept. L’obiettivo sarà cercare di caratterizzare in modo sempre più preciso le osteoartrosi, o in altri
termini di individuare sottopopolazioni più omogenee sulle
quali verificare l’utilità dei trattamenti, per esempio per caratteristiche genetiche, profilo di espressione di particolari enzimi
e/o mediatori infiammatori coinvolti nella patogenesi, o rilievi
51
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
all’imaging con risonanza magnetica: ai fini della ricerca
potrebbero essere di maggiore interesse i pazienti a elevata
probabilità di progressione rapida, sui quali l’effetto di un
trattamento disease modifying potrebbe essere facilmente
osservato nei tempi abitualmente utilizzati negli studi.
In questo senso potrà essere di grande contributo il dosaggio
di specifici biomarcatori, sia per la selezione dei pazienti con
caratteristiche di interesse sia per il monitoraggio dell’efficacia e della sicurezza delle terapie. Alcuni di questi biomarcatori sono infatti in grado di segnalare anche precocemente
un cambiamento metabolico favorevole: questo tipo di riscontro potrebbe confermare la correttezza di un trattamento e rafforzare le motivazioni a proseguirlo, considerando
che gli effetti strutturali (di grande rilevanzanell’evoluzione
della malattia artrosica) sono rilevabili solo dopo terapie di
lungo termine.
3.1 Gli obiettivi dei trattamenti:
un’evoluzione culturale
Nell’ambito della condroprotezione l’interesse dei clinici si è da
subito rivolto a composti che potessero in qualche modo interferire favorevolmente con i processi biologici che regolano
anabolismo/catabolismo della cartilagine e più in generale dei
tessuti articolari, con l’obiettivo di contrastare l’usura meccanica della cartilagine.
Almeno inizialmente, alcuni condroprotettori sono stati utilizzati proponendo come razionale la possibilità di fornire
substrati per la sintesi dei componenti della cartilagine: per la
glucosamina, ad esempio, l’effetto di stimolo sulla sintesi dei
52
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
proteoglicani osservato è coerente con il beneficio osservato in
termini di riduzione dei sintomi e – come evidenziato da studi
più recenti – anche di effetti strutturali.
Tuttavia – in parallelo con le ricerche sulla patogenesi – si sono
moltiplicate le ricerche che hanno evidenziato per i condroprotettori come la glucosamina, ma anche per il condroitin solfato, l’acido ialuronico e il collagene, azioni ancora più raffinate.
Gli effetti biologici esercitati sui tessuti articolari da queste sostanze sono risultati complessi e più ampi del solo effetto trofico,
estendendosi anche a coinvolgere la membrana sinoviale oltre
alla cartilagine: tali effetti, per esempio, includono la modulazione dell’espressione di enzimi coinvolti nella degradazione
delle matrici e una serie di azioni che contrastano i meccanismi
infiammatori e angiogenici dell’osteoartosi.
Molti altri composti attivi sono stati via via presentati all’attenzione, come la diacereina e gli estratti insaponificabili di soia e
avocado, per i quali esistono segnalazioni di attività sugli aspetti
infiammatori della malattia.
La consapevolezza di un precoce e importante coinvolgimento
dell’osso subcondrale nel processo patogenetico ha esteso inoltre
l’interesse anche a questo settore anatomico come possibile target
terapeutico: questo ha sollecitato la candidatura di trattamenti
che favoriscono la mineralizzazione, quali i bifosfonati e il ranelato di stronzio, quest’ultimo contrastato da importanti limiti di
sicurezza cardiovascolare che sembrano escluderne l’impiego.
Al di là delle differenti modalità di azione, i trattamenti condroprotettivi per via orale sono tutti destinati ad assunzioni di
lungo termine, con effetti clinici che si manifestano dopo alcuni mesi di trattamento (4-6 mesi): in questo risiede l’essenziale
differenza con i FANS il cui effetto sintomatico, che si manifesta a breve termine, non può comunque essere mantenuto in
53
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
modo duraturo perché il trattamento non può essere protratto
per lunghi periodi.
Ciò comporta anche implicazioni di tipo culturale che coinvolgono i pazienti, che devono essere adeguatamente sostenuti
e motivati perché sia chiaro il ruolo del condroprotettore e la
differenza rispetto a un farmaco ad azione puramente analgesica-antinfiammatoria. Nonostante la buona tollerabilità dei
condroprotettori orali, infatti, una parte dei pazienti non si
dimostra aderente alla prescrizione semplicemente per la difficoltà a mantenere nel lungo termine il “gesto” di assumere quotidianamente il farmaco. Il ruolo del clinico in questo senso è
determinante: in termini pratici deve adeguatamente spiegare
al paziente che la terapia condroprotettiva agisce in modo più
complesso e profondo sulla salute dei tessuti cartilaginei. Ciò
richiede una diligente adesione al trattamento, che va attuato
per tutta la durata prescritta.
L’atteggiamento di maggiore o minore interesse e utilizzo di
queste molecole da parte dei clinici, a sua volta, sembra risentire
in modo importante anche di aspetti culturali e regolatori. Alcuni dei più autorevoli clinici e ricercatori sull’osteoartrosi a livello internazionale (nomi come Francis Berembaum, Thimoty
McAlindon e Hiroshi Kawaguchi) hanno già avuto occasione di
puntualizzare i diversi atteggiamenti dei clinici in paesi diversi
nei confronti delle strategie di condroprotezione (Current Status
of and Prospects for Osteoarthritis Treatment. Development of Japanese OA guidelines based on OARSI part 2. OARSI Newsletter, 2011).
Nell’universo internazionale dei terapeuti, esistono specialisti
che privilegiano la condroprotezione orale, mentre altri privilegiano la condroprotezione per via infiltrativa. È opportuno sottolineare che anche per l’osteoartrosi è ormai possibile pensare
a diversi approcci terapeutici in termini di tailored therapy e
cioè di una terapia “a misura” del paziente e del suo fenotipo di
54
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
osteoartrosi: insieme alla competenza clinica ciò deve portare a
selezionare il trattamento migliore per il paziente ricorrendo a
soluzioni diverse per casi diversi, anche con terapie combinate
orali e infiltrative.
In ogni caso, un atteggiamento conservativo che tenda a favorire le risorse autoriparative e la normalizzazione dei tessuti
articolari con tutti gli strumenti disponibili, inclusa la condroprotezione orale, merita di essere adottato più estesamente, in
una prospettiva di gestione della malattia più a lungo termine e
meno fatalistica di quella attualmente più diffusa.
3.2 Glucosamina e condroitin solfato
Le molecole sulle quali si è accumulato il maggior numero di
evidenze sono la glucosamina e il condroitin solfato, che sono
stati impiegati in un discreto numero di studi sia in monoterapia sia in combinazione.
Questi aminoglucidi sono abbondanti nella cartilagine ialina
(Figura 3.1), dove entrano nella composizione dell’acido ialuronico (glucosamina) e degli aggrecani (glucosamina, condroitin
solfato).
Da circa 20 anni la glucosamina per somministrazione orale è
utilizzata nella terapia dell’osteoartrosi e continua a fornire un
valido supporto nella gestione del paziente artrosico. Inizialmente il razionale per il suo utilizzo è stato individuato nella
possibilità di fornire substrati per la sintesi di acido ialuronico
e cheratan solfato, stimolando quindi i processi anabolici. Progressivamente è emerso – sia da studi in vitro che in vivo – che
probabilmente a prevalere sono gli effetti anticatabolici e antinfiammatori, sia sulla cartilagine che sulla membrana sinoviale,
con probabili riflessi anche sull’osso subcondrale.
55
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
Figura 3.1
Rappresentazione schematica di un complesso acido ialuronico-aggrecani
presente nella cartilagine ialina
aggregato aggrecani-A
core protein
G3
condroitin
solfato
aggrecano
D-glucuronato N-ac galattosamina
cheratan
solfato
D-galattosio
acido
ialuronico
G2
G1
N-ac glucosamina
Acido ialuronico
Proteina link
D-glucuronato
N-ac glucosamina
Rappresentazione schematica di un complesso AI-aggrecani (in alto) e della struttura di un
aggrecano (in basso). Nell’aggrecano si trova una proteina (core protein, cp) con un’ampia porzione filamentosa centrale alla quale sono legati covalentemente i glicosaminoglicani condroitin
solfato e cheratan solfato. Al suo N-terminale la core protein presenta alcuni domini globulari:
quello più terminale (G1) è legato in modo non covalente a un filamento di AI, stabilizzato da
una piccola proteina globulare (link protein).
Nell’ambito del complesso, la glucosamina si trova come componente dell’acido ialuronico (dimeri di acido glucuronico + N-acetil glucosamina) e del cheratan solfato (dimeri di D-galattosio
+ N-acetil glucosamina), di cui è ricca la porzione dell’aggrecano prossima all’N-terminale della
core protein. La glucosamina si trova inoltre nel liquido sinoviale dove è prevalentemente presente come componente dell’acido ialuronico in forma libera, in filamenti di diverse dimensioni.
Nelle sue raccomandazioni per il trattamento dell’osteoartrosi
del ginocchio, l’EULAR afferma l’utilità di glucosamina, condroitin solfato e altri Sysadoa (Symptomatic slow acting drugs
for osteoarthritis) nel controllo sintomatico aggiungendo anche considerazioni positive su un potenziale effetto strutturale;
inoltre sottolinea il fatto che le evidenze a sostegno di condroitin solfato e glucosamina sono andate aumentando negli ultimi anni nell’osteoartrosi del ginocchio, mentre al momento per
l’osteoartrosi dell’anca e della mano è stato condotto un mino56
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
re numero di studi (Jordan, 2003; Zhang, 2005; Zhang, 2007).
Gli stessi contenuti sono ribaditi dagli adattamenti italiani delle
raccomandazioni elaborati da una consensus di esperti e di tipo
multidisciplinare (Punzi, 2004; Punzi, 2005; Manara, 2013).
Effetti sulle interleuchine e altri mediatori del catabolismo
cartilagineo
L’evoluzione delle esperienze che hanno portato alla dimostrazione degli effetti biologici della glucosamina è ricca di evidenze, che sostengono oggi il ruolo clinico terapeutico di questo
composto.
Particolarmente interessante è l’esperienza di Gouze e collaboratori (Gouze, 2006) su colture di condrociti di ratto, in cui si
evidenzia un effetto protettivo della glucosamina nei confronti
degli effetti artritogeni dell’interleuchina-1b (IL-1b), un mediatore di flogosi importante nella patogenesi dell’osteoartrosi,
in grado anche di promuovere il catabolismo dei componenti
della matrice cartilaginea.
I condrociti che vengono incubati con glucosamina prima
dell’esposizione a IL-1b evidenziano – rispetto ai condrociti non preincubati – una ridotta produzione di ossido nitrico
(a noto effetto proinfiammatorio) e non solo: risultano anche
meno espressi i geni stimolati dall’ IL-1b e coinvolti nell’osteoartrosi, ossia quei geni che codificano per metalloproteasi,
citochine, chemochine, COX-2, NO sintasi, tutti influenti in
senso catabolico sulla matrice cartilaginea. Calamia (Calamia
2010) ha osservato effetti simili in colture di condrociti umani
attraverso un’analisi diretta del profilo di espressione proteica.
Anche in questa esperienza glucosamina e condroitin solfato,
soli o in combinazione, hanno ridotto l’effetto dell’interleuchina-1 in termini di espressione di proteine coinvolte nella
57
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
degradazione della matrice e nell’infiammazione. Una riduzione dell’espressione di geni coinvolti nei processi catabolici, in
particolare di aggrecanasi-1 e metalloproteasi MMP-3, è stata
infine osservata in espianti di cartilagine umana osteoartrosica incubata con glucosamina cloridrato o glucosamina solfato
(Uitterlinden, 2006).
Sono stati osservati anche chiari effetti di tipo proanabolico:
l’esposizione a glucosamina aumenta la produzione di acido ialuronico in colture di condrociti e sinoviociti (Igarashi, 2011) e
in espianti di membrana sinoviale umana (Uitterlinden 2008).
Anche il condroitin solfato sembra inibire l’espressione di alcune metalloproteasi (ADAMTS-4 e -5, MMP-13) in colture di
condrociti e sinoviociti umani (Imada et al 2010); nella stessa
esperienza, inoltre, il condroitin solfato aumenta l’espressione
della core protein degli aggrecani, favorendone la sintesi.
Nei ratti, in un modello di artrite indotta da Mycobaterium, la glucosamina ha mostrato un moderato effetto antinfiammatorio nella fase postacuta dell’infiammmazione,
con un effetto sinergico quando somministrata con acidi
boswellici, miscela di acidi triterpenici ottenuti dall’estratto dell’oleoresina della pianta Boswellia serrata (Singh 2007).
Nella Tabella 3.1 sono elencati i principali effetti della glucosamina utili in senso condroprotettivo, osservati in colture di
condrociti da pazienti artrosici (Dodge, Jimenez 2003; Piperno
2000; Uitterlinden 2006).
Effetto anti-angiogenico e sul metabolismo osseo
Per il condroitinsolfato è interessante anche la dimostrazione in
senso anti-angiogenico, risultato di una favorevole modulazione
del bilancio fra meccanismi proangiogenici e antiangiogenici.
La dimostrazione di questo effetto è stata fatta su fibroblasti
umani provenienti da membrane sinoviali di articolazioni ar58
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
trosiche; in particolare il condroitin solfato sembra contrastare
l’effetto dell’interleuchina-1b, che determina, dopo una complessa successione di eventi, un effetto proangiogenico e quindi
responsabile di un quadro di sinovite (Lambert 2012). Il risultato è una normalizzazione del metabolismo dei tessuti sinoviali
che si oppone agli stimoli angiogenici osservati nelle fasi acute
caratterizzate da sinovite.
Un effetto protettivo di condroitin solfato e glucosamina è stato osservato anche per il tessuto osseo. In colture di osteoblasti
da osso subcondrale (Tat 2007) il condroitin solfato, solo o in
associazione con la glucosamina, limita la produzione di osteoprotegerina e RANKL, due fattori di natura proteica – rispettivamente recettore e ligando – implicati nel riassorbimento e
rimodellamento dell’osso subcondrale tipico dell’osteoartrosi.
Tabella 3.1
Sintesi degli effetti metabolici di glucosamina
Effetti anabolici in condrociti prelevati da pazienti artrosici:
 sintesi di proteoglicani
 mRNA di geni che riguardano la sintesi di aggrecano
 produzione di protein-chinasi C (PKC)
Effetti anticatabolici in condrociti prelevati da pazienti artrosici:
 produzione e attività della MMP-3
 aggrecanasi
 attività della fosfolipasi A
 attività della collagenasi
Effetti in vivo
I dati in vivo che indicano le potenzialità condroprotettive di glucosamina e condroitin solfato sono numerosi e privilegiano in genere
la combinazione dei due trattamenti.
59
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
In un modello animale di osteoartrosi spontanea la somministrazione orale di glucosamina o di condroitin solfato riduce la degenerazione della cartilagine e l’espressione di MMP-3 (Taniguchi
2012).
In un modello di osteoartrosi indotta (resezione del legamento
crociato anteriore nel coniglio) la somministrazione di glucosamina o di condroitin solfato limita l’estensione delle lesioni
rispetto ai controlli non trattati, con un effetto sinergico quando
la somministrazione è combinata (Figura 3.2) (Lippiello, 2000).
Evidenze di effetti vantaggiosi diretti anche sull’osso sono state
fornite da un’esperienza su osteoartrosi indotta da collagenasi
sul topo: la somministrazione orale di glucosamina cloridrato
ha ridotto la progressione delle lesioni nell’osso subcondrale,
effetto che si accompagna a una riduzione dell’espressione di
RANKL nel tessuto e dei livelli sierici dello stesso, a una riduzione dell’IL-6 sierica e a un aumento della IL-10 (dagli effetti
antinfiammatori) nel liquido sinoviale (Ivanovska 2011).
Effetti su sintomi e funzione
La letteratura clinica oggi disponibile sull’impiego terapeutico
di glucosamina e condroitin solfato è relativa a diversi distretti
articolari, con una prevalenza degli studi sui pazienti con osteoartrosi del ginocchio.
Uno degli studi ritenuto più significativo sulla valutazione degli effetti clinici, anche per le sue dimensioni (circa 1.500 pazienti), è lo studio GAIT (Glucosamine/chondroitin Arthritis
Intervention Trial). Lo studio, randomizzato, ha messo a confronto con placebo, glucosamina cloridrato, condroitin solfato,
GA+CS e celecoxib. In sintesi, a 24 settimane ne risulta un effetto favorevole per GA+CS, in particolare nei soggetti con dolore
moderato-severo (Clegg et al, 2006). In questo gruppo l’outcome primario dello studio (la riduzione del Womac di almeno il
60
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Figura 3.2
18
16,6
grado totale delle lesioni
16
14
12,2
12
11
10
8
6
4,4
4
2
0
Controllo
GA
CS
Combinato (GA+CS
+ manganese ascorbato)
Glucosamina e condroitin solfato limitano il grado delle lesioni
della cartilagine in un modello sperimentale di osteoartrosi del
ginocchio. Grado totale delle lesioni (media dell’estensione lineare delle lesioni x numero di lesioni dell’animale). L’effetto in combinazione è di tipo sinergico. Rappresentazione grafica di dati da
Lippiello et al, 2000.
20%) ha visto una risposta migliore con glucosamina rispetto
al placebo, e lo stesso vale per l’outcome secondario (risposta
secondo i criteri clinici Omeract-OARSI) (Figura 3.3).
Nell’osteoartrosi della mano l’efficacia su dolore e funzionalità
del condroitin solfato è stata evidenziata in uno studio controllato contro placebo su 162 pazienti (Gabay et al, 2011), con
maggiore riduzione del punteggio VAS e del Dreiser score nella
scala FIHOA per la funzione (Functional Index for Hand Osteoarthritis).
In uno studio osservazionale retrospettivo su 104 pazienti con
osteoartrosi della mano, anca o ginocchio sono state confrontate due terapie: una contenente l’associazione di condroitin solfato + glucosamina, l’altra la stessa associazione con l’aggiunta
di collagene nativo di tipo II parzialmente idrolizzato. Entrambi i trattamenti hanno significativamente ridotto il punteggio
61
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
della VAS per la valutazione globale dopo sei mesi, risultato che
si è mantenuto anche a un anno; negli 84 pazienti con osteoartrosi della mano, (dei quali 30 con osteoartrosi erosiva) glucosamina e condroitin solfato hanno determinato modificazioni
favorevoli del metabolismo cartilagineo con benefici ulteriori
dall’aggiunta di collagene di tipo II, più avanti descritti (Scarpellini 2008).
% di responder (-20% WOMAC pain score)
Figura 3.3
90
79,2
80
70
60
65,7
69,4
61,4
54,3
50
40
30
20
10
0
Placebo
GA
CS
GA + CS
Celecoxib
Osteoartrosi del ginocchio, Studio GAIT: quota di pazienti (con
dolore moderato-severo) che mostra risposta ai trattamenti a
24 settimane come riduzione del 20% del WOMAC pain score.
Rappresentazione grafica di dati da Clegg, 2006.
Das e Hammad hanno trattato per 6 mesi 93 pazienti con glucosamina cloridrato, condroitin solfato e vitamina C, in confronto con placebo, ottenendo nel gruppo trattato un significativo
miglioramento dell’indice algofunzionale di Lequesne (ISK,
Index for Severity of osteoarthritis of the Knee): l’evidenza clinica favorevole è risultata nel 52% dei pazienti trattati con glucosamina contro il 28% dei pazienti nel gruppo placebo (Das,
Hammad, 2000).
62
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Evidenze di effetto strutturale
Il risultato più ambito da ogni terapeuta che si occupi di artrosi
è dimostrare – ricorrendo all’imaging e anche ai biomarcatori umidi – che un trattamento è in grado di determinare sui
tessuti articolari modificazioni strutturali favorevoli. Anche se
i risultati ottenuti ad oggi non sono univoci, alcune esperienze
possono essere segnalate.
Per il condroitin solfato impiegato in monoterapia l’effetto
strutturale è stato documentato con evidenza radiografica.
Nello studio STOPP (Kahan et al, 2009), l’analisi delle immagini
di osteoartrosi del ginocchio ha rilevato una minore riduzione del
JSW (joint space width) minimo con la somministrazione di condroitin solfato per 2 anni nel confronto con placebo (Figura 3.4)
Figura 3.4
CS
0,07
Osteoartrosi del ginocchio:
riduzione del JSW minimo a
24 mesi nel trattamento con
condroitin solfato rispetto a
placebo. Rappresentazione
grafica di dati da Kahan, 2009.
0,31
Placebo
0
0,1
0,2
0,3
0,4
riduzione JSW minimo (mm) a 24 mesi
Ricorrendo a una metodica non ancora validata ma indubbiamente ricca di potenzialità – in particolare nella rilevazione di
alterazioni strutturali precoci – Wildi ha evidenziato con la risonanza magnetica un effetto protettivo strutturale del condroitin solfato in pazienti con osteoartrosi di ginocchio e sinovite
(Kellgren&Lawrence 2-3) (Wildi et al, 2011). In questo studio
si è evidenziato che nei pazienti che assumevano condroitin
solfato si verificava una perdita di cartilagine minore rispetto
63
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
ai pazienti che assumevano placebo, soprattutto nel comparto
laterale. Oltre alla minore perdita di tessuto cartilagineo, gli
autori hanno osservato una riduzione dell’edema osseo come
descritto da Felson (Felson, 2003). È utile ricordare che a questo
tipo di lesioni si guarda con interesse interpretandole in senso
prognostico, in quanto da più autori sono state associate a una
maggiore probabilità di progressione delle lesioni cartilaginee.
Simile è il risultato di un’analisi recente su 600 casi nello studio
di coorte Osteoarthritis Initiative: in 24 mesi di trattamento, glucosamina e condroitin solfato riducono la perdita di massa di cartilagine nel ginocchio valutata con la MRI (Martel-Pelletier 2015).
A complemento della valutazione con l’imaging, cresce l’interesse per i biomarcatori solubili come indici di metabolismo dei
tessuti articolari e quindi espressione di un possibile effetto disease modifying dei trattamenti orali.
Una delle evidenze più significative, anche per la numerosità
del campione, è quella di uno studio che ha incluso 104 pazienti
con osteoartrosi della mano, del ginocchio e dell’anca: il trattamento con glucosamina e condroitin solfato, anche in associazione a collagene di tipo II nativo parzialmente idrolizzato, ha
determinato in un anno riduzione dei marcatori di degradazione
del collagene di tipo I e II uCTX-I e uCTX-II (Scarpellini 2008).
3.3 Acido ialuronico
Nell’ambito della cartilagine ialina e nel liquido sinoviale, l’acido ialuronico rappresenta una delle molecole strutturali più
importanti, determinante per le caratteristiche biomeccaniche
di entrambi. Pertanto il suo utilizzo nel tentativo di ripristinare condizioni favorevoli nell’articolazione soggetta a degenerazione è stato ampiamente esplorato: esiste un’esperienza solida
64
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
sull’uso intrarticolare che ne evidenzia il beneficio sui sintomi,
e negli ultimi anni è andato crescendo l’interesse per la somministrazione orale.
L’utilizzo intrarticolare di acido ialuronico è consolidato nella
pratica clinica, e la sua validità nel controllo del dolore e nel miglioramento funzionale è riconosciuta anche nelle raccomandazioni delle principali società scientifiche di reumatologia.
Su questo argomento, già trattato in una precedente pubblicazione (Scarpellini M. La terapia infiltrativa nelle malattie reumatiche. Sinapsis, Milano, 2011), si cita l’esperienza di Conrozier in quanto particolarmente significativa in relazione all’uso
dei biomarcatori solubili del metabolismo dei tessuti articolari
(Conrozier 2012).
Il lavoro (condotto su pazienti con osteoartrosi monolaterale
del ginocchio) non solo ha mostrato una riduzione del biomarcatore urinario di degradazione del collagene di tipo II
(uCTX-II) dopo un ciclo infiltrativo con acido ialuronico e follow-up di tre mesi, ma ha anche evidenziato che i livelli basali
di uCTX-II e di acido ialuronico sierico (sAI) correlano con la
risposta clinica: in particolare la risposta è maggiore nei pazienti con i livelli basali più elevati dei biomarcatori.
L’impiego in formulazioni orali, in una prospettiva di prevenzione dell’estensione del danno articolare, è invece di interesse
più recente: sebbene l’acido ialuronico sia impiegato da tempo
come supplemento nutrizionale, la disponibilità di preparati con standard qualitativi elevati è relativamente recente, così
come gli studi che ne hanno valutato l’efficacia. Al momento i
dati hanno prevalentemente verificato l’efficacia come Sysadoa,
con attenzione quindi al dolore, alla funzione e alla soggettiva
percezione di salute, qualità di vita, funzionamento.
65
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
Gli effetti biologici: esperienze in vitro e in vivo
Le attività biologiche dell’acido ialuronico nel liquido sinoviale,
accanto a quelle reologiche, sono oggetto di indagine da circa un
decennio, e molte di esse sembrano destinate a ulteriori sviluppi.
L’assorbimento sistemico e la distribuzione nei tessuti target
dell’acido ialuronico assunto per via orale è stato ad oggi studiato e dimostrato soltanto impiegando acido ialuronico ad
elevato peso molecolare (1500 KDa). È quanto ha dimostrato
Balogh somministrando ad animali (ratto e cane) acido ialuronico marcato con radiotraccianti (Balogh, 2008). Gli autori
hanno somministrato una singola dose di acido ialuronico radiomarcato di p.m.≥1500 KDa, e hanno misurato la radioattività in diversi organi e tessuti fino a 72 ore dall’ingestione. Benché
la maggior parte della radioattività da 99mTc-AI negli animali
fosse eliminata con feci e urine, fino a un massimo del 10 per
cento era assorbita sistemicamente permanendo nei tessuti fino
a 72 ore: sangue, ossa, muscoli, pelle e articolazioni accumulavano radioattività.
Nel dettaglio dello studio di Balogh, la SPECT ha rilevato la
radioattività nel liquido sinoviale e sulla superficie di ossa e
cartilagine in caviglia, ginocchio, anca, polso, gomito e spalla,
evidenza a sostegno della capacità dell’acido ialuronico di raggiungere la sede articolare.
Gli autori escludono che la radioattività rilevata nelle articolazioni sia da attribuire al tracciante dissociato (lo esclude un
confronto con gruppo di controllo esposto al solo radiotracciante, in cui si rileva un pattern di distribuzione diverso), o
a cataboliti dell’acido ialuronico, che hanno una distribuzione
prevalentemente epatica.
66
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
L’esperienza clinica con acido ialuronico orale
Gli studi sull’impiego orale di acido ialuronico a oggi si riferiscono a diversi distretti articolari, con la maggiore quantità
di dati su pazienti con osteoartrosi del ginocchio, indicando
possibilità interessanti di impiegare questa terapia nell’ambito
di una strategia di condroprotezione.
Kalman (Kalman et al, 2008) ha ottenuto un favorevole effetto
sul controllo del dolore e sulla percezione della qualità di vita
(misurati con il WOMAC e il SF-36) in uno studio su 40 pazienti in cui un prodotto a base di acido ialuronico è stato confrontato con il placebo. Lo schema di trattamento prevedeva 1
assunzione giornaliera per 8 settimane di prodotto ottenuto da
estrazione da creste di gallo a elevato contenuto di acido ialuronico (Figura 3.5).
Figura 3.5
variazioni rispetto al basale
variazioni rispetto al basale
miglioramento
15
8
6
10
4
5
estratto di creste di gallo
a elevato contenuto
in AI (60-70%)
2
placebo
0
0
Basale
4 settimane 8 settimane
Basale
4 settimane 8 settimane
Efficacia sul dolore e sulla funzione di un trattamento con
estratto ad alto contenuto di AI nell’OA di ginocchio. Differenze
a 8 settimane rispetto al basale dei punteggi SF-36 per il dolore
(a sinistra) e per la funzione (a destra). Da Kalman, 2008.
Tashiro ha ottenuto risultati favorevoli in uno studio su 60
pazienti, più precisamente nel sottogruppo di età inferiore o
uguale a 70 anni e nei pazienti con carico di malattia maggiore
67
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
(Figura 3.6). Lo studio ha previsto un trattamento di lungo
termine con acido ialuronico di peso molecolare ≥900 KDa o
placebo per 12 mesi, e per valutare gli effetti terapeutici ha impiegato la scala JKOM, Japanese Knee Osteoarthritis Measure
(Tashiro et al, 2012).
Figura 3.6
140
punteggio JKOM (%)
miglioramento
120
100
80
60
*#
40
*#
*#
*#
AI 900 KDa, purezza 90%
20
0
placebo
0
2
4
6
8
10
12
mesi
Efficacia di un trattamento con AI nell’OA di ginocchio. JKOM
(Japanese Knee Osteoarthritis Measure), subscala “health
conditions”): percentuale rispetto al basale a fino ai 12 mesi.
p<0.05 vs basale, #p<0.05 vs placebo. Da Tashiro, 2012.
Simili sono i risultati ottenuti da Sato (Sato 2009), che ha trattato 37 pazienti con gonartrosi: in un’analisi restrittiva limitata ai
casi più severi, l’effetto dell’acido ialuronico (pm 900KDa, 200
mg/die) è risultato superiore al placebo in termini di differenza
rispetto al placebo nel punteggio Womac.
Gli eventi avversi segnalati in queste esperienze, in buona parte
dei casi ritenuti non correlati ai trattamenti e comunque di lieve
entità, suggeriscono un buon profilo di tollerabilità per l’acido
ialuronico orale.
Merita probabilmente qualche riflessione il tema della qualità
delle formulazioni orali contenenti acido ialuronico: poiché il
metodo di preparazione determina il peso molecolare medio
68
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
dei filamenti di acido ialuronico, nonché la variabilità di questo parametro tra le molecole, orientarsi verso preparati ottenuti da processi di produzione con standard qualitativi elevati è una premessa
indispensabile al fatto di poter ottenere un risultato terapeutico.
3.4 Collagene di tipo II
La fase solida della matrice della cartilagine ialina è composta
in larga parte di collageni, rappresentati per il 90 per cento da
collagene di tipo II, l’unico specifico della cartilagine ialina.
Estratti idrolizzati o parzialmente idrolizzati di collagene di origine animale sono stati utilizzati come supplemento nutrizionale
nell’osteoartrosi allo scopo di favorire il trofismo della cartilagine fornendo ai condrociti substrati per la sintesi della molecola.
In tempi più recenti ci si è rivolti anche all’impiego di preparati
costituiti da estratti purificati di collagene non idrolizzato che
sembrano esercitare effetti biologici con meccanismi diversi e
più complessi rispetto a quelli di tipo trofico.
Evidenze di efficacia degli idrolizzati di collagene sono state ottenute da alcuni autori, in termini di riduzione del dolore nella
gonartrosi (Benito-Ruiz 2009; Clark 2008, Bruyere 2012).
Evidenze interessanti sia sull’efficacia sia sui possibili meccanismi di azione che la sostengono riguardano il collagene di tipo
II nativo (non idrolizzato), come dimostra per esempio l’ esperienza di Crowley (Crowley 2009). Lo studio è stato condotto in
52 soggetti con osteoartrosi del ginocchio e ha confrontato due
diversi regimi terapeutici: l’associazione condroitin solfato+glucosamina e il e collagene nativo di tipo II. Il disegno dello studio prevedeva randomizzazione e doppio cieco con valutazione della VAS
dolore, del punteggio WOMAC e dell’indice di Lequesne come
outcome dello studio all’inizio, e in seguito a 30, 60 e 90 giorni.
69
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
Sebbene entrambi i trattamenti abbiano mostrato la tendenza
alla riduzione della VAS dolore e degli indici algofunzionali per
tutta la durata dello studio, solo il trattamento con collagene ha
mantenuto a 90 giorni un miglioramento significativo rispetto
al basale per tutti gli indici considerati (VAS dolore, punteggio
WOMAC, indice di Lequesne); l’associazione condroitin solfato e glucosamina ha ottenuto differenze significative rispetto al
basale fino ai 60 giorni per il WOMAC e fino ai 30 per la VAS
dolore (Figura 3.7, Tabella 3.2). Nessuna differenza nella tollerabilità dei trattamenti è stata osservata, con effetti avversi di
entità lieve o moderata.
Figura 3.7
40
30
UC-II
GC
20
10
**
0
*
Riduzione
score WOMAC (%)
Riduzione
score VAS (%)
*
Riduzione
score Lequesne (%)
* Differenza score a 90 giorni-score basale significativa con p<0,05
**Differenza score a 90 giorni-score basale significativa con p<0,005
Osteoartrosi del ginocchio: riduzione percentuale a 90 gg. rispetto
al basale degli score Lequesne, VAS dolore e WOMAC per trattamenti con glucosamina + condroitin solfato e con collagene nativo di tipo II. Rappresentazione grafica di dati da Crowley, 2009.
Un’esperienza, già descritta, in 104 soggetti con osteoartrosi
della mano, anca o ginocchio (Scarpellini 2008) ha evidenziato che il collagene di tipo II nativo parzialmente idrolizzato aggiunto a glucosamina+condroitin solfato (GCC) rallenta
la progressione radiografica dell’osteoartrosi; inoltre migliora
70
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
l’andamento dei biomarcatori di degradazione ossea e cartilaginea che già la terapia con glucosamina+condroitin solfato
(GC) modifica favorevolmente. L’effetto del collagene di tipo II
è evidente nel sottogruppo di 84 pazienti con osteoartrosi della
mano. A un anno di trattamento, infatti, i soggetti trattati con
GCC mostrano una minore progressione radiologica rispetto ai
quelli trattati con GC (Figura 3.8, Tabella 3.2). Per il biomarcatore di
catabolismo della cartilagine uCTX-II, l’andamento è più favorevole
con il trattamento che include il collagene di tipo II: tutti i soggetti mostrano riduzione del uCTX-II a 6 mesi, ma solo quelli trattati
con GCC la mantengono a 12 mesi (Figura 3.9, Tabella 3.2). Infine,
il gruppo trattato con GCC ottiene una maggiore riduzione del biomarcatore di catabolismo dell’osso uCTX-I rispetto al gruppo GC.
Figura 3.8
45
12 mesi
bone rate decay
40
Basale
35
12 mesi
Osteoartrosi della mano: minore progressione radiologica a
12 mesi con GCC rispetto a GC.
Scarpellini 2008, dati forniti
dagli autori.
Basale
30
GCC
GC
Figura 3.9
350
uCTX-I,µg/mmol
300
250
Basale
Basale
12 mesi
200
6 mesi
12 mesi
150
6 mesi
100
GCC
Osteoartrosi della mano: i pazienti trattati con GCC mantengono a 12 mesi la riduzione del
biomarcatore di degradazione
del collagene di tipo II uCTXII. Scarpellini 2008, dati forniti
dagli autori.
GC
71
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
Tabella 3.2
Sintesi dei principali risultati degli studi che hanno impiegato il collagene di tipo
II come trattamento condroprotettivo orale (Crowley 2009; Scarpellini 2008).
Crowley 2009: studio prospettico, randomizzato, in doppio cieco.
Pazienti (n=52) con OA del ginocchio
Outcome
Trattamenti
Principali risultati
VAS dolore, Womac score
Lequesne score
a 0,30,60,90 gg
Glucosamina + condroitin solfato (GC)
Coll-II: riduzione
significativa a 90 gg
per VAS dolore,
Womac score
Lequesne score.
(rispetto a giorno 0)
Collagene di tipo II
(Coll-II)
Scarpellini 2008: studio retrospettivo osservazionale
Pazienti (tot. 104) con OA della mano (54), OA erosiva della mano (30), OA dell’anca o
del ginocchio (20).
Outcome
Trattamenti
Principali risultati
VAS patient global assessment a 0, 6, 12 mesi
Glucosamina + condroitin
solfato (GC)
Kellgren-Lawrence score
a 0 e 12 mesi
Glucosamina + condroitin
solfato + collagene di tipo
II (GCC)
GCC: rallentata progressione radiologica nei pz
con OA della mano rispetto
a GC
uCTX-I, uCTX-II a 0, 6, 12
mesi.
GCC: maggiore riduzione
uCTX-I a 12 mesi rispetto
a GC
GCC: riduzione uCTX-II
mantenuta a 12 mesi,
mentre per GC c’è tendenza alla regressione.
Correlazione tra uCTX-I
e score radiologico
72
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Un nuovo ruolo: modulazione delle risposte immunitarie
Una riflessione ampia sui possibili effetti biologici del collagene
somministrato per via orale è stata avviata quando alcuni autori
hanno iniziato a considerare il modello dell’artrite reumatoide,
ipotizzando che alcuni meccanismi patogenetici fossero comuni con l’osteoartrosi.
Superato il concetto di degenerazione a origine prevalentemente meccanica per l’osteoartrosi, consolidate le evidenze sul ruolo importante dei meccanismi infiammatori, nel 2002 Bagchi e
collaboratori hanno intrapreso uno studio pilota in cui a cinque
donne con artropatie a sintomatologia prevalentemente artrosica è stato somministrato per 42 giorni collagene non idrolizzato.
Il sintomo dolore, misurato con una scala soggettiva numerica
da 1 a 10, si è ridotto in quattro dei cinque soggetti in seguito al
trattamento, con riduzione media del 26% (Bagchi 2002).
L’elemento di novità posto da questa esperienza è stato l’intento
di utilizzare il collagene non per favorire i processi anabolici,
ma secondo un diverso razionale mutuato dal modello dell’artrite reumatoide. Nell’AR – sostengono gli autori – il meccanismo di tipo autoimmune è stato attribuito anche a un non
riconoscimento come self del collagene di tipo II, attraverso
una scorretta interazione tra IgG e collagene: questa aberrazione potrebbe trovare ragione in un difetto di glicosilazione del
collagene e delle stesse IgG, come suggerirebbero ad esempio
i dati di minore attività della galattosiltransferasi periferica dei
linfociti B e T nei soggetti con AR, peraltro correlata a una ridotta glicosilazione delle IgG sieriche.
Gli autori sottolineano l’utilizzo in questa esperienza di collagene
non denaturato (o nativo) che, a differenza del collagene denaturato, mantiene la struttura quaternaria e quindi la conformazione
tridimensionale indispensabile per una corretta interazione con le
cellule implicate nei meccanismi di riconoscimento self-non self.
73
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
Un meccanismo autoimmune nell’osteoartrosi potrebbe essere
quindi iniziato e sostenuto anche da un mancato riconoscimento come self del collagene di tipo II. Lavori successivi a quello di
Bagchi hanno effettivamente evidenziato elevati livelli di anticorpi anti-coll-II in pazienti con artrite reumatoide (Mullazehi
2007; Mullazehi 2012).
Da ciò è derivata l’idea di elevare la tolleranza del sistema immunitario nei confronti del collagene aberrante (ossia dotato
di struttura o conformazione anomala) sfruttando l’induzione
della tolleranza orale attraverso l’esposizione all’antigene a livello del GALT, il tessuto linfoide localizzato nelle placche di Peyer
nella parete dell’ileo. La somministrazione orale di collagene a
questo scopo ha pertanto utilizzato, in questa esperienza, collagene non sottoposto a idrolisi: solo la molecola non denaturata,
infatti, manterrebbe la configurazione tridimensionale e il grado di glicosilazione necessario a interagire correttamente con i
linfociti T nelle placche di Peyer (Figura 3.10).
L’esperienza con il collagene nativo dello studio di Bagchi sull’osteoartrosi ha in seguito trovato importanti conferme, sull’animale e anche – come si è visto – sull’uomo. Uno studio sul cane
ha osservato cha la somministrazione per 90 giorni di collagene
nativo (non denaturato) riduce la zoppia dopo esercizio fisico e
il dolore alla manipolazione dell’articolazione artrosica (Deparle 2005); nei cavalli, Gupta e coll (Gupta et al, 2009) hanno rilevato una superiorità del collagene rispetto alla combinazione di
condroitin solfato e glucosamina.
I dati sull’uomo ottenuti nei lavori già citati indicano interessanti potenzialità per il collagene nella condroprotezione, in
attesa di altre esperienze che consolidino quanto già mostrato.
A completamento di ciò si può osservare che anche nell’artrite
reumatoide sono emersi dati favorevoli che sostengono l’effetto
74
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
immunomodulante del collagene: Wei e coll. hanno ottenuto
risposte cliniche significative con il collagene non denaturato
in termini di riduzione dei sintomi (Wei, 2009), e altri autori
hanno evidenziato che la somministrazione orale di collagene
nativo favorisce la produzione di IL-10, un’interleuchina che ha
un ruolo immunosoppressivo ed è implicata nello sviluppo della tolleranza orale (Min et al, 2006).
Figura 3.10
Meccanismi della tolleranza orale che si attivano nel GALT.
Coll II nativo (antigene)
M cell
placca di Peyer
villi
linfociti
intraepiteliali
cellule dendritiche
processazione e presentazione
dell’antigene
antigene
circolazione portale e sistemica
alla lamina propria
cellule T
linfonodi mesenterici
dotto toracico
ad altri siti mucosali
ad altri siti non mucosali
circolazione sistemica
Tolleranza orale indica una situazione di iporesponsività immunologica che si ottiene quando le
cellule dei tessuti linfoidi associati alle mucose vengono ripetutamente esposti a piccole quantità di antigene. Nell’intestino il tessuto linfoide (GALT, gut associated lymphoid tissue) è rappresentato da noduli linfoidi isolati o aggregati in placche (Placche di Peyer), situati tra lamina
propria e sottomucosa dell’ileo.
Cruciale è l’azione dl alcune cellule specializzate dell’epitelio (cellule M ricche di ripiegamenti
della membrana, segno di intensa attività di endocitosi), che processano gli antigeni e li presentano alle cellule dendritiche delle sottostanti placche di Peyer.
La somministrazione orale ripetuta in piccole dosi di collagene nativo nell’animale stimola la
proliferazione di specifiche sottopopolazioni di cellule dendritiche in grado di produrre IL-10
(citochina che ha effetti immunosoppressivi) e di indurre le cellule T a differenziarsi in senso
regolatorio (Min et al, 2006).
75
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
Studi genetici: difetto di glicosilazione comune negli artrosici
Un’ipotesi suggestiva: l’osteoartrosi potrebbe trovare una delle
sue concause in un difetto genetico della glicosilazione delle
proteine. L’argomento osteoartrosi è piuttosto nuovo a questo
tipo di approccio, che ricerca l’associazione tra la presenza di
particolari varianti genetiche e la malattia secondo le analisi del
tipo genome-wide association study (GWAS). Con questo modello di analisi si studia l’intero genoma (o quasi) di soggetti
affetti dalla malattia e lo si confronta con quello dei controlli
sani: la presenza di varianti nei soggetti affetti potrebbe indicare
il coinvolgimento di uno o più geni nel processo patogenetico,
suggerendo in quale direzione indagare per capire di più sulle
basi genetiche di una condizione patologica. Lo studio arcOGEN (arcOGEN Consortium, arcOGEN Collaborators, Lancet
2012), che rappresenta una delle più vaste indagini genome-wide rivolta all’osteoartrosi, ha condotto un’indagine in 7410 soggetti con osteoartrosi (l’80 per cento dei quali con indicazione
per artroplastica) confrontando i loro dati con quelli pubblicamente consultabili di studi sulla popolazione generale (condotti
in Islanda, Regno Unito, Estonia, Olanda).
Cinque loci, è emerso dall’analisi, sembrano essere coinvolti: tra
questi in particolare una variante localizzata nel locus GTL8D1
(Glycosyl transferase 8 domain containing 1), codificante per
un enzima implicato nella glicosilazione: alterazioni nell’espressione di GLT8D1, per gli autori, potrebbero avere conseguenze
sulla glicosilazione delle proteine della cartilagine.
Questo risultato sembra sostenere l’ipotesi che un’anomala glicosilazione delle proteine strutturali come il collagene di tipo
II possa essere implicata nella patogenesi dell’osteoartrosi, anche se non chiarisce ancora in che modo questo porterebbe alle
conseguenze visibili nell’osteoartrosi.
76
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Tra gli altri quattro loci implicati ne compare uno localizzato
nel gene CHST11 (carbohydrate sulfotransferase 11), codificante per un enzima presente nell’apparato di Golgi che catalizza la solfatazione del condroitin solfato e del dermatan solfato,
glicosaminoglicani presenti nella matrice cartilaginea.
3.5 Altre molecole attive
La diacereina, derivato semisintetico di glucosidi antrachinonici di origine vegetale (contenuta ad esempio in rabarbaro, aloe,
senna), è approvata in diversi paesi europei per il trattamento
dell’osteoartrosi. In vitro è stata documentata l’attività inibitoria
della diacereina nei confronti delle attività dell’interleuchina-1 e
delle metalloproteasi (Martel-Pelletier 1998; Pelletier 1998).
Dati clinici hanno documentato l’efficacia sui sintomi dell’osteoartrosi del ginocchio e dell’anca (Pelletier JP 2000; Dougados
2003), con qualche evidenza di effetti strutturali per l’anca.
È opportuno peraltro ricordare che nel novembre 2012 l’Agenzia
Europea dei Medicinali ha avviato una revisione sui medicinali
contenenti diacereina utilizzati per trattare i sintomi di osteoartrosi e altre malattie articolari: la decisione ha seguito una revisione del luglio 2012 dell’Agenzia dei Medicinali francese, che ha
concluso che i benefici della diacereina non superano i rischi, con
riferimento ad eventi avversi frequenti di tipo gastrointestinale,
oltre che a qualche caso grave di patologia epatica e reazioni cutanee (EMA/762522/2012).
La frazione insaponificabile di estratti di avocado e soia (Asu) è
approvata come farmaco in alcuni paesi europei per il trattamento dell’osteoartrosi, ma non in Italia. Per queste molecole sono
stati osservati in vitro effetti di inibizione nei confronti dell’IL-1 e
77
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
dell’aumento di metalloproteasi da essa indotto, ma anche stimolo alla sintesi di aggrecano (Henrotin 2011).
Gli estratti insaponificabili di soia e avocado hanno mostrato in
alcuni casi effetti sintomatici (riduzione del dolore e miglioramento funzionale) nell’osteoartrosi di ginocchio e anca (Maheu
1998; Appelboom 2001), e evidenze di un possibile effetto strutturale nell’anca (Maheu 2014).
Gli Asu sono inclusi nelle raccomandazioni EULAR tra i Sysadoa
con possibile effetto sintomatico (Jordan 2003).
Considerare l’osso subcondrale come possibile target di trattamento è una strada che si è iniziato ad esplorare in tempi recenti,
in conseguenza delle nuove consapevolezze sul coinvolgimento
precoce dell’osso nella patogenesi. A tale fine alcuni autori hanno
indagato la potenziale utilità del ranelato di stronzio o dei bifosfonati per i loro effetti di rimineralizzazione dell’osso.
Sul ranelato di stronzio sono stati ottenuti dati interessanti sui
modelli animali (Pelletier 2013) e anche nel primo studio controllato randomizzato sull’uomo, in termini di effetti sintomatici
e strutturali (Reginster 2013).
Questa opzione sembra tuttavia presentare limiti di sicurezza
importanti: nell’aprile 2013 l’EMA (Agenzia Europea dei Medicinali) ha emesso infatti una raccomandazione per nuove restrizioni alle prescrizioni di ranelato di stronzio, a seguito di un
aumentato rischio di ischemia cardiaca nei soggetti a rischio oltre al già noto aumentato rischio di tromboembolismo venoso
(EMA/258269/2013). Al documento EMA ha fatto seguito una
Nota Informativa Importante dell’Aifa. Al momento, dopo una
decisione dell’EMA del febbraio 2014 (EMA/84749/2014), il farmaco rimane disponibile nel trattamento dell’osteoporosi solo
nei pazienti senza fattori di rischio cardiovascolare o per tromboembolismo venoso che non possano essere trattati con altri
farmaci approvati per l’osteoporosi.
78
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Per i bifosfonati sono disponibili sia analisi retrospettive su pazienti che assumevano i farmaci per le indicazioni che sono loro
proprie, sia studi clinici ad hoc.
Per quanto riguarda le analisi retrospettive, nella coorte della
Osteoarthritis Initiative è stata osservata una riduzione significativa del dolore e una tendenza verso minori riduzioni del JSW
(joint space width) senza significatività in chi aveva utilizzato bifosfonati per almeno 3 anni (Laslett 2013).
Lurati, Scarpellini e coll hanno valutato l’effetto di infusioni di
clodronato 300 mg/die somministrato per 10 giorni ogni 3 mesi
per 1 anno, confrontandolo col paracetamolo 1000 mg/die somministrato per la stessa via e con lo stesso schema. A 3, 6 e 12 mesi
né è risultato un vantaggio per il bifosfonato in termini di punteggio WOMAC, indice di Lequesne e VAS dolore (Lurati 2013).
Appaiono invece più incerti i risultati con bifosfonati somministrati per via orale (Davis 2013).
La possibilità di impiegare farmaci biotecnologici nel trattamento
dell’osteoartrosi è al momento agli inizi. I dati che sostengono il
coinvolgimento di diverse citochine nell’osteoartrosi – principalmente l’interleuchina-1b – hanno aperto la strada alla valutazione di anticorpi che interferiscono con l’azione di questa e altre
citochine.
In buona parte dei casi, però, i risultati degli studi clinici non si
sono rivelati in linea con le aspettative generate dai positivi risultati in vitro e sui modelli animali.
Almeno nelle esperienze finora realizzate l’antagonista del recettore dell’IL-1b (anakinra) in somministrazione intrarticolare
(Chevalier 2009) non ha portato a risultati di rilievo.
È peraltro esplorata anche la strada che coinvolge il NGF (nerve
growth factor) e che – con l’anticorpo tanezumab – ha dato alcuni risultati positivi nell’anca e nel ginocchio in uno studio di
79
3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
fase III; un vantaggio rispetto al placebo è emerso sul punteggio
WOMAC per sintomi e funzione e sul Patient Global assessment
(Brown, 2012, Brown 2013), ma ci sono anche limiti non trascurabili di tollerabilità a causa di parestesie e disestesie.
È probabile che future valutazioni di agenti terapeutici destinati
ad agire su precisi bersagli molecolari (ad esempio TNF-a, IL6, IL-8) correlati all’infiammazione cercheranno di selezionare
in modo più stringente i pazienti in base allo stadio dell’osteoartrosi e al peso della componente infiammatoria nella malattia, in
modo da individuare i gruppi di pazienti sui quali i trattamenti
possono avere maggiori probabilità di successo.
3.6 Conclusioni
L’artrosi è una malattia diffusa e invalidante che colpisce una
sempre più ampia fascia della popolazione: costituisce una delle
principali cause di morbilità e disabilità e comporta elevati costi
socioeconomici.
Il lungo corso della malattia, che si sviluppa in genere nell’arco
di decenni, offre una lunga finestra di tempo per condizionarne
potenzialmente il decorso.
Un intervento efficace richiede però che la diagnosi non solo sia
posta precocemente (senza attendere l’instaurarsi di danni ampiamente irreversibili), ma anche che si riconosca in ogni singolo
paziente il peso relativo delle diverse componenti di una malattia
a eziologia multifattoriale.
Oggi per l’artrosi si riconoscono tre principali tipologie: quella
‘post traumatica’ che può essere conseguente a un trauma (acuto
o ripetitivo) e che può colpire anche i giovani al di sotto dei 45
80
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
anni; quella ‘metabolica’ che colpisce in genere la popolazione di mezza
età, dai 45 ai 65 anni, e la classica artrosi “dell’anziano”, oltre i 65 anni.
La scoperta del ruolo dei meccanismi metabolici responsabili
dell’artrosi può offrire anche concrete possibilità di prevenzione,
e deve stimolare il terapeuta a enfatizzare l’importanza del buon
compenso glicemico, del controllo pressorio ottimale, della correzione delle dislipidemie anche al fine di prevenire la progressione dell’artropatia.
In prospettiva, inoltre, l’identificazione di questi meccanismi è
destinata a condurre a un nuovo modo di curare l’artrosi: come
nell’artrite reumatoide, nella spondiloartrite e nell’artrite psoriasica la terapia segue già un doppio binario - cioè una terapia sintomatica e una terapia a lunga azione - anche nell’artrosi questo
deve essere il percorso. Da qui l’importanza di terapie che agiscano a livello eziopatogenetico, quindi causale, e che abbiano
l’obiettivo di rallentare l’evoluzione della malattia oltre che di controllare il dolore.
Questo libro ha voluto offrire una panoramica e un aggiornamento
sulle attuali conoscenze in questo settore, sottolineando anche l’importanza dei biomarcatori (sia wet che dry) come fattori predittivi e
utili nel follow up della terapia.
È in questa direzione che il lavoro di chi si è occupato di ricerca sull’osteoartrosi si è rivolto negli ultimi anni, contribuendo a riportare la
giusta attenzione su una malattia a lungo considerata con atteggiamento spesso rinunciatario e fatalistico e, probabilmente, senza considerare nella giusta misura le sofferenze di chi ne è affetto.
Pur con la consapevolezza che le attuali terapie hanno comunque
limiti da considerare con spirito di realismo, oggi la ricerca ha
affermato con decisione il principio che è possibile modificare attivamente il decorso dell’osteoartrosi, limitarne la gravità e rallentarne la progressione, coinvolgendo i pazienti in questo percorso
di prevenzione e cura.
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3. La condroprotezione nell’osteoartrosi
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87
4
[Metodiche
di laboratorio
per la rilevazione
dei biomarcatori]
Metodiche di laboratorio per
4 la rilevazione dei biomarcatori
La definizione standardizzata di biomarcatore (biomarker) è
stata proposta nel 2001 da un gruppo di lavoro del National Institutes of Health come «parametro oggettivamente misurabile
e quantificabile in grado di differenziare un processo patologico
da una condizione fisiologica, e di caratterizzare la risposta farmacologica ad un intervento terapeutico» (Biomarkers definition Working Group 2001; Vasan 2006). Si tratta quindi di una
definizione generale, che può riferirsi sia ad un test di laboratorio, eseguito in campioni di liquidi organici (sangue, liquor,
urine, liquido sinoviale, ecc.) o di tessuto, sia ad un test funzionale, sia ad una indagine di imaging (ecografia, radiografia,
PET, NMR, TAC).
Una possibile classificazione dei biomarcatori tiene conto del
loro utilizzo:
• fattore di rischio (antecedent biomarker) se identifica un rischio di sviluppare una certa malattia;
• marcatore di screening se può essere utilizzato su una popolazione per l’accertamento di uno stato di malattia ancora in
uno stadio subclinico;
• indice diagnostico se può essere utilizzabile per riconoscere
uno stato di malattia conclamato;
• indice di classificazione (staging biomarker) se può essere
utilizzato per stratificare i pazienti in classi di differente severità di malattia;
• indice prognostico se è in grado di predire l’evolvere della
storia naturale della malattia, incluse le eventuali recidive e/o
complicanze associate;
90
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
• indice di risposta alla terapia (monitoraggio terapeutico) se è
in grado di fornire informazioni sulle risposte ai farmaci durante il naturale decorso della malattia.
Un biomarcatore può anche essere utilizzato, ma su questo
aspetto non vi è un consenso generale, come indice intermedio
di progressione di malattia o come surrogato di obiettivo finale
in uno studio clinico con l’indubbio vantaggio di ottenere risultati significativi in un più breve lasso di tempo contenendo i costi (Vasan 2006; Prentice 1989; Colburn 2000; Freedman 1992;
Molenberghs 2001; Schaller 2005).
Considerando in maniera elettiva le sostanze presenti nel sangue o in altri fluidi biologici (urine, fluidi articolari, liquidi di
lavaggio di cavità interne) e per le quali assume un ruolo l’attività del laboratorio, la scelta si orienta verso i prodotti di una
specifica attività cellulare con metabolismo conosciuto e non
alterato in modo imprevedibile da altri concomitanti processi
metabolici, e utilizzabili come test diagnostici e/o prognostici di
un particolare stato biologico e della sua evoluzione.
4.1 Caratteristiche di un biomarcatore
ideale
Le caratteristiche principali che un biomarcatore ideale dovrebbe possedere sono elencate nella tabella 4.1. Fondamentale è
comunque la capacità di apportare un contributo informativo addizionale alle altre valutazioni cliniche, incrementando
l’accuratezza diagnostica e/o prognostica nei confronti di una
specifica malattia (Vasan 2006). Prima di accettare un nuovo
marcatore nella pratica clinica, deve essere dimostrato secondo
i principi della EBLM (Evidence Based Laboratory Medicine)
91
4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori
che il suo utilizzo possa significativamente influenzare la diagnosi, la prognosi e/o la terapia nei confronti di una specifica
malattia. Per integrarsi nel processo di decisione clinica un biomarcatore deve possedere un buon grado di accuratezza (analitica, diagnostica e/o prognostica), riproducibilità analitica,
accettabilità da parte del paziente, facilità di esecuzione e standardizzazione, uniti ad un basso costo.
I requisiti essenziali variano in relazione all’applicazione clinica. Per esempio, in uno screening sulla popolazione generale,
un alto grado di sensibilità, specificità e valore predittivo, un
basso costo e la facilità di esecuzione diventano qualità prioritarie. Per un utilizzo nel follow-up o nel monitoraggio terapeutico, la sensibilità e la specificità sono relativamente meno
importanti in quanto il paziente funge da controllo di se stesso,
mentre un’ampia variazione intra-individuale (variabilità biologica intra-soggetto) potrebbe rendere più difficoltosa l’interpretazione clinica degli incrementi/decrementi (fluttuazioni)
dei livelli circolanti del marcatore nel tempo (Fraser 2004).
Tabella 4.1. Caratteristiche di un biomarcatore ideale
•
•
•
•
•
•
•
•
92
Il test diagnostico deve essere minimamente invasivo (es. prelievo ematico o
raccolta di urine vs biopsia)
La concentrazione del biomarcatore deve essere stabile, in vivo e in vitro, nei
principali fluidi biologici
Disponibilità in commercio di metodi di dosaggio con adeguata sensibilità
analitica (o sensibilità funzionale) e con buona riproducibilità
Metodi di dosaggio semplici da eseguire, standardizzati e possibilmente eseguibili, con costi contenuti, su sistemi automatizzati
Variazione biologica non elevata (idealmente < 20%)
Disponibilità di adeguati intervalli di riferimento, divisi (se necessario) per
età, sesso ed etnia
Ottima accuratezza diagnostica e prognostica
Favorevole rapporto costo/beneficio del suo impiego nella pratica clinica
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Ovviamente per un biomarcatore utilizzato nel monitoraggio
terapeutico è essenziale che i suoi livelli circolanti (o tissutali) vengano modificati dal trattamento e risentano dei cambiamenti delle posologie utilizzate.
Il costo potrebbe essere considerato come una caratteristica
relativamente meno importante per i marcatori prognostici, in
quanto solo le persone affette dalla malattia devono essere sottoposte al test.
I biomarcatori osteoarticolari
Le strutture osteoarticolari sono entità anatomico-funzionali in
cui coesistono tessuto osseo e tessuto cartilagineo ialino. Dal
punto di vista biochimico siamo quindi in presenza di molecole con caratteristiche diverse: numerose tipologie di collagene
(grande famiglia di proteine di cui attualmente identificati 28
tipi diversi), proteoglicani, proteine non collageniche della matrice e lipidi. Il tessuto osseo contiene invece un insieme di cellule, proteine, complessi polisaccaridici e costituenti inorganici.
Moltissime di queste molecole sono state studiate e proposte
come biomarcatori di queste strutture e delle relative situazioni
patologiche. Numerosi studi hanno evidenziato che i condrociti possiedono anche antigeni tessuto-specifici che inducono
la produzione di anticorpi (potenzialmente utilizzabili come
biomarcatori) in pazienti con innesti di cartilagine o con osteoartrosi (Ihyc 2001).
Nel caso specifico delle patologie osteoarticolari, gli ultimi
quindici anni hanno visto un’intensa attività di ricerca di base
che ha moltiplicato i potenziali biomarcatori, molecole (o loro
frammenti) che possono essere facilmente misurabili in frazioni del sangue o altri fluidi biologici (urine, fluidi articolari,
liquidi di lavaggio di cavità interne) e che possono avere una
potenziale utilità nella gestione della malattia.
93
4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori
Meno chiaro è tuttavia – nonostante le buone premesse iniziali
– il valore di questi analiti per finalità diagnostiche. In questo
senso il principale limite è rappresentato dalle notevoli variabilità inter-individuo riscontrate, in conseguenza delle quali è
difficile che una singola determinazione sul singolo individuo
possa acquisire un valore apprezzabile in termini di sensibilità e
specificità diagnostiche.
Questi biomarcatori possono acquisire invece importanza negli
studi longitudinali e nel monitoraggio nel corso di terapie specifiche purché vi sia un’attenta e razionale selezione dei pazienti
alla base (Consensus Development Statement 1997). La capacità del laboratorio di garantire risultati riproducibili e confrontabili
nel medio-lungo periodo è un requisito essenziale nella prospettiva
di un simile utilizzo dei biomarcatori, dal momento che a questo
scopo sono necessarie determinazioni ripetute anche per intervalli
di tempo prolungati.
4.2 Le tecnologie analitiche
A causa delle problematiche accennate, per poter ipoteticamente utilizzare queste molecole come biomarcatori è necessario disporre di metodi di laboratorio dotati di idonee
caratteristiche in termini di accuratezza (capacità di misurare la concentrazione vera del marcatore utilizzato), precisione (capacità di misurare il marcatore in maniera riproducibile), specificità (capacità di riconoscere e quantificare la
molecola interessata senza interferenze dovute alla presenza
di altre molecole con struttura molto simile ma, a volte, con
funzioni e caratteristiche diverse). Inoltre, data la loro presenza nei fluidi biologici in quantità estremamente ridotte
(nell’ordine dei pg/mL) è necessario disporre di metodi con
94
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
adeguata sensibilità (capacità di misurare minime concentrazioni di una molecola).
Le tecniche analitiche in grado di coniugare queste necessità
sono quelle immunometriche, basate sull’estrema specificità della reazione tra un antigene (Ag) ed il relativo anticorpo
(Ab) e sull’elevata sensibilità di misura a esse associata derivante
dall’utilizzo di traccianti isotopici, poi sostituiti dai più maneggevoli traccianti enzimatici o chemiluminescenti.
I metodi ELISA (Enzyme Linked Immunosorbent Assay) sono
facilmente adattabili anche alla determinazione di molecole ancora in fase di ricerca e/o valutazione impiegando la tecnologia
su micropiastra ad esecuzione manuale (Charni 2005). I metodi
in chemiluminescenza sono potenzialmente idonei per sistemi
in automazione totale e quindi più utilizzati per molecole ben
consolidate per l’utilizzo nella pratica clinica (Garnero 2001).
Nati per misurare molecole con caratteristiche di antigene, i
metodi ELISA sono i più comuni tra quelli in fase eterogenea
e comprendono sia metodi competitivi (ELISA competitivi)
sia metodi non competitivi (immunometrici o ELISA sandwich). Nella figura 4.1 è esemplificato uno schema di analisi per
la misura di un Ag attraverso l’impiego di Ab (ormai quasi
esclusivamente monoclonali e diretti verso un ben determinato e specifico epitopo) immobilizzati sulla parete delle micropiastre (Charrié 2009). Un metodo analogo consente di determinare anche gli Ab: in questo caso è l’Ag corrispondente
ad essere fissato in eccesso sul supporto solido; in una prima
fase l’Ab che si vuole misurare si lega all’Ag immobilizzato, poi
viene aggiunto un secondo Ab (marcato e in eccesso) diretto
contro le Ig umane. Chiaramente per consentire una misurazione quantitativa del biomarcatore è necessario predisporre
un opportuno sistema di calibrazione basato su concentrazioni note della molecola da misurare.
95
4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori
Figura 4.1
Schema analitico di un dosaggio ELISA competitivo applicabile
alla determinazione di biomarcatori utilizzando micropiastre e un
enzima come tracciante.
+
E
E
E
E
+
E
E
Lavaggi
E
E
E
E
+
anticorpo (Ab) di cattura
fissato alla fase solida
(micropiastra)
antigene (Ag) da misurare
E
Ag marcato con un enzima (E)
S
substrato
P
prodotto della
reazione enzimatica
Aggiunta substrato
S
P
S
P
misura dell’assorbanza
del prodotto della reazione
enzimatica
4.3. L’interpretazione dei risultati
Nella valutazione dei risultati ottenuti dal laboratorio il clinico ha a disposizione due criteri di interpretazione. Il criterio
dicotomico valuta il risultato ottenuto in termini di negatività o positività nei confronti di un valore soglia determinato su popolazioni di riferimento: è un criterio che consente
di portare un eventuale contributo a un quesito diagnostico
(ricordiamo però che questo è raramente l’utilizzo di elezione dei biomarcatori). Sicuramente di maggior interesse
clinico è il criterio dinamico, cioè la valutazione delle variazioni del livello del marcatore nel tempo rispetto ai valori
precedenti per seguire l’andamento della patologia o per monitorare eventuali interventi terapeutici. Fondamentale per
questo tipo di utilizzo è l’omogeneità dei risultati nel tempo
(e di conseguenza la garanzia della qualità del metodo uti96
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
lizzato e del laboratorio che lo fornisce) (Christgau 2000) e
la conoscenza da parte degli utilizzatori di potenziali fattori
di aspecificità che possono modificare, in tempi e situazioni
diverse, il valore del biomarcatore.
In sintesi i buoni marcatori biochimici, adatti per l’utilizzo
clinico, devono essere:
• specifici per tipologia di tessuto (es. telopeptidi tipo I e
cross-link per l’osso, telopeptidi tipo II per la cartilagine);
• sensibili (capaci di rilevare variazioni dopo pochi mesi di
terapia efficace);
• capaci di stimare la “velocità” del metabolismo e non solo
l’effetto netto.
Occorre considerare però anche alcuni fattori che possono
rendere problematica l’interpretazione del risultato:
- età, sesso e stato di menopausa influiscono molto spesso
sul risultato e per questo è necessario stabilire intervalli
di riferimento differenziati e metodo dipendenti (questo
è un compito fondamentale del laboratorio) per ogni singolo marcatore;
- anche altri fattori (controllabili) come l’attività fisica o il
ritmo circadiano possono aumentare la variabilità del
marcatore (Seibel 2001);
- a volte i biomarcatori presentano difficoltà di interpretazione (la densitometria ossea fornisce una fotografia immediata della situazione mentre un singolo dato di laboratorio sui marcatori del turnover osseo spesso non fornisce
indicazioni complete): occorrono perciò valutazioni successive e ripetute nel tempo calcolando la differenza critica;
- in caso di utilizzo di campioni di urina come matrice biologica è opportuno, oltre a una corretta temporizzazione
97
4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori
della raccolta, normalizzare i valori ottenuti e renderli
confrontabili nel tempo esprimendo la concentrazione del
biomarcatore come rapporto molare rispetto alla concentrazione di creatinina misurata sullo stesso campione (Vesper 2002).
Per un corretto utilizzo delle informazioni fornite dalla misura dei biomarcatori è quindi fondamentale che il laboratorio renda disponibile agli utilizzatori clinici (in un percorso
di stretta interazione) la chiave di lettura legata alla differenza critica tra due misure successive, che dipende dalla
variabilità biologica del singolo marcatore e dalla variabilità
analitica delle misurazioni.
A tale scopo è fondamentale conoscere:
• variabilità intraindividuale (CVI) - fluttuazione casuale
di un costituente dell’organismo, misurato in tempi diversi
nello stesso individuo, intorno al suo punto omeostatico;
• variabilità interindividuale (CVG ) - differenza nei risultati dello stesso costituente ottenuti in individui diversi, tutti
nelle stesse condizioni fisiologiche, e dovuta alla diversità
dei punti omeostatici tra questi individui;
• variabilità analitica (CVA) - variazione ottenuta su una
determinazione di laboratorio quando questa venga ripetuta, sullo stesso campione, in due misurazioni analitiche
successive.
Ne deriva in tal modo la possibilità di calcolare per il singolo
marcatore la differenza critica (CD%) secondo la relazione
CD = k (CVA2 + CVI2) 1/2
che esprime la differenza percentuale necessaria affinché
due determinazioni consecutive del marcatore biochimico,
nello stesso individuo, possano essere considerate significativamente diverse tra loro, e quindi non attribuibili a casua98
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
lità o ad oscillazioni fisiologiche ma a modificazioni nello
stato del soggetto a seguito di cambiamenti nella patologia
(spontanei o indotti da interventi terapeutici) (Hsin-Shan
1997). Nella relazione precedente k rappresenta una costante dipendente dal livello di probabilità prescelto. Alcuni
esempi delle variabilità intra- e interindividuali e delle relative CD%, tratti dalla letteratura, sono riportati per alcuni
biomarcatori nella tabella 4.2.
Prevedere la misurazione di biomarcatori molecolari nella
gestione di pazienti con osteoartrosi è per il momento un’opzione che rimane prevalentemente confinata all’ambito della
ricerca ma che sta avendo una rapida espansione.
Dal punto di vista dell’operatività, si può ragionevolmente
pensare che un laboratorio di dimensioni medio-grandi possa affrontare, con un surplus di lavoro facilmente gestibile, la
determinazione dei biomarcatori per i quali sono disponibili
kit per i sistemi automatizzati, adatti quindi anche a inserirsi
nella routine di un laboratorio ospedaliero. Più complessa,
anche per la necessità di formare il personale laboratoristico,
è la misurazione di analiti per i quali sono disponibili solo
kit manuali; la tecnica manuale, pur essendo relativamente semplice, è time-consuming e può risentire molto della
variazione di manualità tra gli operatori, aspetto che limita
l’utilizzo quasi esclusivamente all’ambito della ricerca.
La semplificazione delle tecniche e possibilmente il contenimento dei costi potranno sicuramente incoraggiare un impiego più vasto dei biomarcatori molecolari nella diagnosi,
gestione e monitoraggio terapeutico dell’osteoartrosi.
99
4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori
Tabella 4.2
Variabilità intraindividuali (CVI%) ed interindividuali (CVG%) e relative differenze
critiche (CD%) per alcuni biomarcatori.
Marcatore
CVI%
CVG%
CD%
6.6
9.1
8.6
35.6
30.9
17.6
20
29
26
6.9
10.8
12.0
23.5
14.7
15.9
15.3
13.1
18.6
28.8
13.3
25.0
26.0
26.9
17.8
19.2
26.0
24.8
26
35
43
70
44
37
36
40
57
Di formazione
s-fosfatasi alcalina ossea
s-osteocalcina
s-PICP
Di riassorbimento
s-CTXI
s-fosfatasi acida tartrato resistente
u-galattosilidrossilisina
u-desossipiridinolina totale (DPD)
u-NTXI
u-CTXI
u-CTXII
u-desossipiridinolina libera (fDPD)
u-piridinoline libere
100
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
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101
APPENDICE
Descrizione e razionale di alcuni biomarcatori
solubili in ambito di ricerca
e nella pratica clinica
(s)= siero; (u)=urine; (ls)= liquido sinoviale.
Adiponectina (s, ls)
Modulazione dell’infiammazione e della produzione di metalloproteinasi
e citochine
Adipochina il cui ruolo è in parte ancora controverso nell’osteoartrosi, e
che potrebbe esercitare effetto protettivo sull’evoluzione della malattia.
I livelli sierici sono generalmente elevati nei soggetti con osteoartrosi.
C1,2C (s)
Collagen type I and II cleavage neoepitope
Degradazione del collagene di tipo I e II, degradazione della matrice
cartilaginea, riassorbimento osseo
Nuova estremità C-terminale che si forma dopo clivaggio del collagene
di tipo II maturo ad opera della collagenasi, localizzato nel frammento
¾ long e comune al collagene di tipo I e II. Le concentrazioni sieriche di
C1,2C (s) sono elevate nell’osteoartrosi.
C2C (s,u,ls)
Collagen type II cleavage neoepitope
Degradazione del collagene di tipo II
Il neoepitopo C2C è la nuova estremità c-terminale che si forma dopo
clivaggio del collagene maturo di tipo II ad opera della collagenasi, localizzato nel frammento ¾ long, lievemente più lungo del C1,2C e specifico per il collagene di tipo II. Le concentrazioni sieriche di C2C sono
elevate nell’ osteoartrosi.
C3f peptide (s)
Frammento della proteina C3 del complemento
Sinovite, attività infiammatoria
Frammento derivato dal clivaggio della proteina C3 del complemento,
coinvolto nella regolazione di meccanismi infiammatori. Elevati livelli
sono stati osservati prima nell’artrite reumatoide; ora il biomarcatore è
indagato anche nell’osteoartrosi.
Coll2-1 (s)
Degradazione del collagene di tipo II
Epitopo localizzato nella regione elicale del frammento C¾ long formato
dopo clivaggio del collagene di tipo II da parte della collagenasi. I livelli
sierici sono elevati sia nell’osteoartrosi sia nell’artrite reumatoide rispetto ai soggetti normali.
102
Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
Coll2-1NO2 (s, u)
Degradazione del collagene di tipo II
Forma nitrata di Coll2-1. I livelli sierici sono elevati sia nell’osteoartrosi
sia nell’artite reumatoide rispetto ai soggetti normali.
COMP (s)
Cartilage oligomeric matrix protein
Degradazione della matrice cartilaginea
COMP è una proteina composta da cinque subunità, in grado di associarsi ai collageni di tipo I, II e IX. Nella cartilagine sembra regolare
l’assemblaggio delle fibrille di collagene, e viene rilasciata durante la
degradazione della matrice; inoltre è prodotta dalle cellule sinoviali.
CPII o PIICP (s)
Propeptide C-terminale del procollagene di tipo II
Sintesi del collagene, processi riparativi della cartilagine
Frammento C-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa 1).
Aumenta nella fase dell’osteoartrosi in cui si attiva una risposta riparativa della matrice da parte dei condrociti.
CRP (s)
C reactive protein
Infiammazione
Indice di infiammazione, non specifico. I livelli sierici aumentano nel
corso di fenomeni infiammatori associati a osteoartrosi.
CS846 (s)
Condroitin solfato 846
Sintesi di aggrecani, processi riparativi della cartilagine
Epitopo del condroitin solfato, presente esclusivamente nella matrice cartilaginea del feto e in quella in formazione a seguito di processi
riparativi.
CTX-I (s, u)
C-telopeptide of type I collagen;
Degradazione del collagene di tipo I (riassorbimento osseo)
L’epitopo CTX-I è localizzato all’estremità c-terminale del collagene di
tipo I. Viene rilasciato durante la degradazione del collagene.
I livelli di CTX-I sono elevati sia nell’osteoartrosi sia nell’artite reumatoide rispetto a soggetti normali.
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Appendice - Descrizione e razionale di alcuni biomarcatori solubili di interesse
in ambito di ricerca e nella pratica clinica
CTX-II (s,u)
C-telopeptide of type II collagen
Degradazione del collagene di tipo II
L’epitopo CTX-II è localizzato all’estremità c-terminale del collagene di tipo II.
Viene rilasciato durante la degradazione del collagene. I livelli di CTX-II sono
elevati sia nell’osteoartrosi sia nell’artite reumatoide rispetto a soggetti normali.
DPD (u)
Deossipiridinolina
Riassorbimento e rimodellamento osseo (degradazione del collagene di tipo I)
Marcatore specifico per l’osso, è formata da due residui di idrossilisina e
uno di lisina. Forma un legame stabile (crosslink) tra catene attigue di
due molecole di collagene di tipo I.
FGF-7 (ls)
Fattore di crescita dei fibroblasti-7 (fibroblast growth factor-7)
Proliferazione cellulare, sinovite
Fattore di crescita espresso localmente indicativo di processi infiammatori.
Glc-Gal-PYD (u)
Glicosil-galattosil-piridinolina
Sinovite
Analogo glicosilato dei cross-link piridinolinici del collagene prodotto
prevalentemente nei sinoviociti.
HA (s)
Acido ialuronico (hyaluronic acid)
Sinovite
L’acido ialuronico è un componente presente in elevate quantità nella
matrice della cartilagine ialina e nel liquido sinoviale.
HELIX-II (u)
Degradazione del collagene di tipo II
Frammento nella porzione elicale del collagene di tipo II (frammento
3/4) generato dal clivaggio ad opera delle collagenasi.
hsCRP (s)
Proteina C reattiva ad alta sensibilità (high sensitivity C reactive protein)
Infiammazione
Test ad alta sensibilità per la proteina C reattiva, rileva anche stati di
infiammazione non acuta.
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
ICAM-1 (s) Intercellular adhesion molecule-1;
Adesione dei linfociti (infiammazione)
Proteina di membrana che regola le interazioni delle cellule immunitarie con i tessuti (adesione dei linfociti), la cui espressione aumenta nei
processi infiammatori.
IL-1 , IL-6, IL-8, IL-10, IL-15 (s)
Interleuchine 1,6, 8, 10, 15
Meccanismi infiammatori, sinovite
Interleuchine coinvolte nella promozione/modulazione dei processi infiammatori, potenziali indicatori di variazioni della loro intensità in risposta alle terapie.
KS (s)
Keratan sulphate
Degradazione della cartilagine
Dalla degradazione degli aggrecani ad opera delle MMP vengono rilasciati frammenti della core protein ai quali sono legate le catene aminoglucidiche del cheratan solfato.
Leptina (s, ls)
Metabolismo dell’osso
Ormone presente in quantità elevate nel plasma di soggetti obesi per il
quale si ipotizzano effetti locali di tipo proinfiammatorio. È anche prodotto dagli osteoblasti dell’osso subcondrale in quantità elevate nell’osteoartrosi.
MMP-1, MMP-2(s)
Metalloproteinasi di matrice-1 e -2
Degradazione della matrice (cartilagine, osso)
Metalloproteinasi coinvolte nella degradazione di aggrecani, collageni e altre
proteine della matrice. Potenziali indicatori precoci di alterazioni dei tessuti
articolari.
MMP-3 (s) Metalloproteinasi di matrice-3
Degradazione della matrice cartilaginea, degradazione della matrice del
connettivo nella membrana sinoviale
Metalloproteinasi coinvolta nella degradazione della cartilagine e nelle
alterazioni della membrana sinoviale.
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Appendice - Descrizione e razionale di alcuni biomarcatori solubili di interesse
in ambito di ricerca e nella pratica clinica
MMP-7 (s, ls)
Metalloproteinasi di matrice -7
Degradazione della matrice cartilaginea
Metalloproteinasi coinvolta nella degradazione della cartilagine.
MMP-13 (s, ls)
Metalloproteinasi di matrice 13
Degradazione della matrice cartilaginea
Metalloproteinasi coinvolta nella degradazione della cartilagine.
NTX-I (s, u)
Cross linked N-telopeptide of type I collagen
Degradazione del collagene di tipo I, riassorbimento e rimodellamento osseo
Epitopo localizzato all’estremità N terminale del collagene di tipo I coinvolta nel cross-link, rilasciata alla degradazione della molecola matura.
OC (s)
Osteocalcina
Regolazione della mineralizzazione dell’osso
L’osteocalcina è la più abbondante proteina non collagenica nella matrice ossea (presente anche nella dentina e nel cemento): ne regola
la mineralizzazione intervenendo nella deposizione dell’idrossiapatite. È
considerata un marcatore di formazione dell’osso.
OPG (s, ls)
Osteoprotegerina
Differenziamento degli osteoblasti in senso osteoclastogenico
Glicoproteina che funziona da recettore esca per RANKL, impedendo a
quest’ultimo di esercitare I suoi effetti osteoclastogenici. L’OPG ha quindi un effetto di modulazione dell’attività di RANKL e tende a opporsi alla
degradazione della matrice ossea.
PINP (s)
N-propeptide of type I collagen
Anabolismo dell’osso, rimodellamento dell’osso
Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo I (catena alfa 2).
Aumenta con i processi di rimodellamento dell’osso.
PIIANP (s)
N-propeptide of type IIA collagen
Processi riparativi della matrice cartilaginea
Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa
1). Include una sequenza di 69 aminoacidi che, per un meccanismo di
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Osteoartrosi dal danno tissutale
alla condroprotezione
splicing alternativo del mRNA, è invece assente nel PIINP. Aumenta nella
fase dell’osteoartrosi in cui è presente una risposta riparativa della matrice da parte dei condrociti.
PIICP o CPII (s)
Propeptide C-terminale del procollagene di tipo II
Processi riparativi della matrice cartilaginea
Frammento C-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa1). Aumenta nella fase dell’osteoartrosi in cui si attiva una risposta riparativa della matrice da parte dei condrociti.
PIINP (s)
Propeptide N-terminale del procollagene di tipo II
Processi riparativi della matrice cartilaginea
Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa
1). Aumenta nella fase dell’osteoartrosi in cui è presente una risposta
riparativa della matrice da parte dei condrociti.
PIIINP (s)
Propeptide N-terminale del procollagene di tipo III
Sinovite
Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo III, espresso
soprattutto nel tessuto sinoviale. Aumenta in presenza di sinovite.
Pentosidina (u)
Effetti della glicazione avanzata
Rappresenta un prodotto di glicazione avanzata la cui concentrazione
nella cartilagine con osteoartrosi è più elevata che nella cartilagine sana.
Di interesse soprattutto nel fenotipo da invecchiamento.
PYD (u)
Piridinolina
Degradazione del collagene di tipo II
È formata da tre residui di lisina. Forma un legame stabile (crosslink) tra
catene attigue di due molecole di collagene di tipo II.
Le strutture piridinoliniche sono il tipo di cross-link più comune nel collagene di tipo II maturo.
RANKL/OPG (s, ls)
Receptor activator of nuclear factor-κB ligand/osteoprotegerin
Differenziamento degli osteoblasti in senso osteoclastogenico
RANKL è ligando del recettore RANK, ed esercita uno stimolo al differenziamento degli osteoblasti in senso osteoclastogenico.
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Appendice - Descrizione e razionale di alcuni biomarcatori solubili di interesse
in ambito di ricerca e nella pratica clinica
Il rapporto tra RANKL e OPG è indagato come biomarker legato ai processi
di rimodellamento dell’osso.
Resistina (s, ls)
Infiammazione
Adipochina implicata nello sviluppo di resistenza all’insulina, con proprietà proinfiammatorio. Espressa in elevate quantità nell’artite reumatoide e, secondo evidenze più recenti, anche nell’osteoartrosi.
sVAP-1 (s)
Soluble vascular adhesion protein-1
Infiammazione da meccanismi di immunità cellulare
Proteina prodotta dall’endotelio che funziona come molecola di adesione
per i linfociti, implicati nei meccanismi di infiammazione.
TIINE (u)
type II collagen neoepitope;
Degradazione del collagene di tipo II
Neoepitopo generato dall’azione delle MMP sul collagene di tipo II.
TIMP(s)
Tissue inhibitor of metalloproteinase
Regolazione dell’attività di degradazione della matrice
Inibitore delle metalloproteinasi, i cui bassi livelli in rapporto a quelli delle MMP possono associarsi ad aumentata attività di degradazione della
matrice.
TNF-a (s)
Tumor necrosis factor-a
Infiammazione
Proteina che induce l’espressione di diverse citochine proinfiammatorie,
prodotta prevalentemente dai macrofagi attivati nella membrana sinoviale.
YKL-40 (s)
Infiammazione
Piccola glicoproteina di 40 KDa prodotta anche da sinoviociti e condrociti, i cui livelli sono elevati nell’osteoartrosi. La sua funzione non è chiara,
ma si ritiene possa avere un ruolo di modulatore dell’immunità.
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Intensificare la ricerca sulla diagnosi precoce, valorizzare i trattamenti che possono preservare i tessuti
articolari e abbandonare l’atteggiamento rinunciatario
con cui troppo a lungo si è guardato all’osteoartrosi:
assumendo questi obiettivi come principi guida, l'autrice presenta in questa pubblicazione le evidenze più
aggiornate sulla diagnosi e sul trattamento della malattia reumatica più diffusa, ma forse non ancora considerata con sufficiente attenzione nella pratica del
reumatologo.
Magda Scarpellini è direttore dell’unità operativa
complessa di reumatologia dell’Ospedale Giuseppe
Fornaroli di Magenta (MI).
Specialista in ematologia e medicina interna oltre che
in reumatologia, si è formata anche alla Clinique de
Rhumatologie dell’Hôpital Lariboisière di Parigi.
Ha ricoperto incarichi didattici all’Università di Genova,
di Pavia e dell’Insubria.
MD509816
È membro di numerose società scientifiche nazionali e
internazionali.