Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione
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Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione
Magda Scarpellini [Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione ] Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Magda Scarpellini Direttore dell’unità operativa di reumatologia Ospedale Giuseppe Fornaroli, Magenta ©2015 via Angelo Moro, 22 20097 San Donato Milanese (MI) Senza il consenso scritto dell’editore è vietato qualsiasi utilizzo e riproduzione del contenuto (testi e immagini), comprese le fotocopie e le memorizzazioni elettroniche. ISBN 978-88-905084-3-1 & Si cu re z za Ef fi c ac ia Stampa Bozzi Multimedia srl - Novate Milanese (MI) con il medico - per il paziente Pubblicazione realizzata grazie al contributo incondizionato di MDM in favore dell’aggiornamento del medico [ Indice ] 1. Osteoartrosi: una visione complessa 1.1 Coinvolgimento dei tre tessuti nell’alterazione dell’equilibrio articolare 1.2 Fenotipi e patogenesi Bibliografia 9 12 20 24 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica 27 2.1 Classificazione dei biomarcatori 32 2.2 Validazione dei biomarcatori e aspetti pratici dell’utilizzo nella ricerca 35 2.3 Biomarcatori derivati dai collageni 38 2.4 Altri biomarcatori di interesse 44 Bibliografia 46 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi 3.1 Gli obiettivi dei trattamenti: un’evoluzione culturale 3.2 Glucosamina e condroitin solfato 3.3 Acido ialuronico 3.4 Collagene di tipo II 3.5 Altre molecole attive 3.6 Conclusioni Bibliografia 49 52 55 64 69 77 80 82 4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori di Giulio Vignati, già responsabile uos Centro malattie endocrine e metaboliche, Ospedale G. Fornaroli, Magenta 4.1 Caratteristiche di un biomarcatore ideale 89 91 4.2 Le tecnologie analitiche 94 4.3 L’interpretazione dei risultati 96 Bibliografia 101 5. Appendice 102 [ Prefazione ] L’osteoartrosi si è trovata a lungo nel paradosso di essere una malattia con una diffusione ampia nella popolazione e allo stesso tempo di suscitare un interesse sorprendentemente scarso nella comunità scientifica. È ancora evidente, ad esempio, la frammentazione nel percorso di cure che un paziente artrosico affronta, tanto che raramente si può parlare di un percorso. A ciò si aggiunge una certa disomogeneità negli atteggiamenti dei diversi specialisti, più o meno interventisti e più o meno disposti ad andare oltre il pur indispensabile controllo del dolore a breve termine. Gli ultimi anni, però, hanno visto un risveglio della reumatologia italiana che ha finalmente iniziato a porsi le domande giuste sull’osteoartrosi. Se volessimo riassumere con una metafora musicale il senso di questa autocritica potremmo dire che nel curare l’osteoartrosi siamo stati fuori tempo e non abbiamo prestato orecchio agli accordi: diagnosi, terapia, monitoraggio della progressione sono arrivate sempre troppo tardi, e un’estrema tendenza a semplificare il problema ha trascurato il contributo degli aspetti metabolici e infiammatori, oltre all’usura meccanica, e il ruolo dei tessuti articolari diversi dalla cartilagine. Ora stiamo finalmente iniziando a conoscere in modo più fine i cambiamenti patologici dei tessuti articolari e le loro interrelazioni, abbiamo un numero crescente di strumenti (i biomarcatori) per intercettarli precocemente, e buone evidenze su alcuni trattamenti in grado di contrastarli se utilizzati tempestivamente. 5 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione L’obiettivo del reumatologo che si occupa di pazienti artrosici con un approccio realista ma non fatalista è preservare l’omeostasi e il potenziale autoriparativo della cartilagine e degli altri tessuti articolari proponendo le terapie in grado di contrastare le loro alterazioni prima che il danno sia avanzato. Questo approccio è indicato con il termine condroprotezione per la ragione storica che il primo target di questi trattamenti è stato la cartilagine. Tuttavia, ora che sono più chiare le correlazioni metaboliche tra i tessuti dell’articolazione, si guarda con attenzione anche ai possibili effetti sulla membrana sinoviale e sul tessuto osseo. In sintesi stanno maturando le condizioni per cambiare la strategia generale e anticipare nettamente i tempi di intervento per l’osteoartrosi, mosse indispensabili per affrontare adeguatamente un problema che merita la massima attenzione nella pratica clinica del reumatologo. Magda Scarpellini 6 1 [Osteoartrosi: una visione complessa] 1 Osteoartrosi una visione complessa Da semplice tessuto resistente e protettivo, la cartilagine articolare (con gli altri tessuti che partecipano all’articolazione) ha evidenziato negli anni una complessità strutturale e funzionale non immaginata fino a pochi decenni fa, imponendo una visione necessariamente diversa del fenomeno artrosico e dei possibili interventi terapeutici. In passato lo studio delle alterazioni dei tessuti articolari nell’osteoartrosi riservava attenzione quasi esclusiva alla degradazione della cartilagine, considerando il coinvolgimento delle altre strutture articolari (rimodellamento dell’osso subcondrale, alterazioni della membrana sinoviale) come un fenomeno tardivo. In realtà ci sono evidenze sempre più solide che nella patogenesi dell’osteoartrosi il coinvolgimento dei tre tessuti che costituiscono l’unità biomeccanica dell’articolazione – cartilagine, membrana sinoviale e osso subcondrale – avviene precocemente e in modo pressoché simultaneo. Oltre alla cartilagine, anche l’osso subcondrale e la membrana sinoviale sono coinvolti in modo attivo nel processo degenerativo sin dalle prime fasi, con un intenso cross talk tra i comparti che deve essere ancora chiarito in molti suoi aspetti (Samuels et al, 2008). Cartilagine e osso subcondrale, in particolare, possono essere considerati quali un’unità funzionale adattata in modo peculiare al trasferimento di carichi meccanici (Goldring, 2012), e questa stretta interdipendenza funzionale trova un corrispettivo anche nel coinvolgimento nei processi patologici. Se l’osteoartrosi è definibile come alterazione biomeccanica dell’articolazione, le evidenze che si sono accumulate sul processo patogenetico della malattia negli ultimi 10-15 anni 10 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione riconoscono una distribuzione più equilibrata dei pesi delle due componenti, biologica e meccaniFigura 1.1 ca, rispetto a quanto avveniva in passato, quando il bilanciamento era decisamente spostato verso la componente meccanica. Questo mutato atteggiamento nel considerare il processo degenerativo dell’osteoartrosi deriva soprattutto dalla disponibilità di imaging avanzato e non invasivo T1-pesata, immagine assiale come la risonanza magnetica, che ha consentito di caratterizzare in maniera molto più fine rispetto all’immagine radiografica il danno strutturale dell’articolazione e di definire con più precisione il timing con cui le alterazioni compaiono. Del gold standard attuale per la diagnosi di osteoartrosi, e cioè l’indagine radiograT2-pesata immagine assiale fica, si riconoscono peraltro i limiti (come si discuterà meglio nel capitolo successivo), espressi soprattutto dal fatto che porre diagnosi di osteoartrosi sulla base della rx è possibile soltanto quando il danno è ormai consolidato, e dunque quando un intervento preventivo-conservativo ha riSequenza STIR dotte possibilità di successo. immagine sagittale In aggiunta a queste evidenze si è verificato un cambiamento culturale che – sul RMN di Osteoartrosi del ginocchio modello di quanto avviene da tempo in (sx), stadio 3 Kellgren-Lawrence. Si notano sofferenza dell’osso subaltri campi come l’oncologia o la neurolo- condrale dell’emipiatto tibiale mediale gia – ha fortemente spinto per la ricerca di (edema osseo nelle sequenze STIR); distensione fluida della borsa semimemmarcatori molecolari del processo patoge- branoso-gastrocnemio (cisti di Baker) netico dell’osteoartrosi, da affiancare alla in comunicazione con il cavo articolare. 11 1. Osteoartrosi: una visione complessa clinica e all’imaging per migliorare diagnosi e interventi. Sia l’imaging che i marcatori molecolari hanno progressivamente messo in luce una fitta rete di interazioni tra condrocita e matrice cartilaginea (e viceversa) ma anche tra cartilagine, membrana sinoviale e osso. 1.1 Coinvolgimento dei tre tessuti nell’alterazione dell’equilibrio articolare La riduzione dello spazio intrarticolare, l’osteofitosi e la sclerosi dell’osso subcondrale rappresentano solo le ultime conseguenze, in ordine temporale, di equilibri alterati nei diversi tessuti coinvolti in risposta a stimoli meccanici anomali. In questa pubblicazione, orientata a evidenziare le opportunità di trattamenti preventivi-conservativi per l’osteoartrosi, saranno approfonditi in particolare i processi che portano alla comparsa delle alterazioni più precoci. Cartilagine In accordo con il modello tradizionale dell’osteoartrosi, che vede il danno meccanico della cartilagine come il primum movens della patogenesi, anche le indagini con MRI confermano che le alterazioni meccaniche originano inizialmente nella cartilagine. Al di là dei casi evidenti dei macrotraumi, che rappresentano uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo successivo di osteoartrosi, alterazioni meccaniche e microtraumi della cartilagine sono eventi precoci in tutti i casi. Nell’osteoartrosi la cartilagine articolare vede perturbati i fisiologici equilibri tra il processo di degradazione della matrice cartilaginea e quello di nuova formazione, con uno sbilanciamento a favore della degradazione. Questa condizione favorisce 12 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione eventi microfratturativi e fibrillazione della superficie cartilaginea rilevabili alla MRI prima che il danno diventi visibile alla radiografia; la MRI è sufficientemente sensibile per evidenziare differenti pattern regionali di alterazione della cartilagine del ginocchio in relazione all’allineamento femoro-tibiale (Eckstein et al, 2008), confermando il ruolo del malallineamento come fattore di rischio dell’osteoartosi. La disorganizzazione del tessuto ha inizio sulla superficie articolare dove si verifica inizialmente una perdita di proteoglicani, e solo successivamente raggiunge le zone più profonde. L’integrazione dell’osservazione del danno strutturale con l’indagine sulle modificazioni del metabolismo dei condrociti in soggetti con osteoartosi ha reso evidente che il processo coinvolge sin dalle prime fasi un intenso traffico di segnali molecolari; successivamente le modificazioni della componente cellulare si fanno più profonde, fino ai fenomeni apoptotici e alla perdita del pool cellulare. Alterazioni metaboliche precoci nei condrociti Il condrocita è una cellula “progettata” per rispondere funzionalmente a sollecitazioni meccaniche: proteine di membrana tra cui le integrine (Millward-Sadler, 2004), che si legano a componenti della matrice extracellulare, sembrano cruciali nel recepire questo tipo di stimoli e nell’attivare specifiche risposte metaboliche e/o di espressione genica. Sottoposto a stimoli pressori particolarmente ripetuti e usuranti, il condrocita modula la produzione di enzimi e altre molecole determinanti per l’equilibrio della composizione della matrice cartilaginea e dell’ambiente intrarticolare: tra queste, metalloproteasi (collagenasi, aggrecanasi), fattori di crescita, citochine. Nelle stesse condizioni è stato inoltre osservato un aumento dell’espressione di COX2 e della produzione di prostanoidi e specie reattive dell’ossigeno (Tabella 1.1). 13 1. Osteoartrosi: una visione complessa Tabella 1.1 Sostanze prodotte dai condrociti la cui sintesi viene alterata nell’osteoartrosi Metalloproteasi Collagenasi Aggrecanasi Fattori di crescita Transforming growth factor-beta1 (TGF- β1) Insulin-like growth factor-1 (IGF-1) Citochine IL-1 IL-6 Tumor necrosis factor-alfa (TNF-a) Degradazione del collagene e degli aggrecani Stimolo sintesi del collagene Stimolo sintesi del collagene Stimolo della degradazione, riduzione della sintesi della matrice Riduzione della degradazione della matrice, stimolo della degradazione, riduzione della sintesi della matrice COX2 Aumento infiammazione Prostanoidi Aumento infiammazione Specie reattive dell’ossigeno (ROS) Aumento infiammazione, danno ossidativo diretto sulle macromolecole della matrice Le metalloproteasi – collagenasi e aggrecanasi – hanno un ruolo primario nelle modificazioni delle proprietà meccaniche della cartilagine, essendo responsabili della degradazione delle macromolecole strutturali della matrice: collageni, acido ialuronico, aggrecani (complessi di proteine e glicosaminoglicani). Le citochine hanno ruoli diversi sia nel modulare la sintesi/degradazione della matrice che nel condizionare i fenomeni infiammatori, insieme con le prostaglandine. I prodotti di degradazione di queste macromolecole fungono a loro volta da modulatori di questi processi interagendo con specifici recettori di superficie del condrocita. La rete di interazioni condrocita-matrice e la loro relazione con gli stimoli meccanici sono ben riassunte dal concetto di reattività biomeccanica del condrocita, e rende ragione del fatto che 14 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione lesioni traumatiche, soprattutto se associate a un eccessivo carico meccanico (elevato BMI, attività lavorativa usurante), restano tra i maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di osteoartrosi. Alterazioni morfologiche tardive dei condrociti Alterazioni morfologiche dei condrociti sono osservabili più tardivamente, quando la comparsa di lesioni strutturali più o meno estese della cartilagine innesca i processi di autoriparazione del tessuto. In una prima fase i condrociti diventano ipertrofici, aumentando la sintesi di collagene; successivamente si assiste anche a una fase iperplastica in cui le cellule vanno incontro a mitosi, tentativo di potenziare le capacità riparative della cartilagine. Il deterioramento progressivo si accompagna anche a fenomeni apoptotici dei condrociti e determina una progressiva ipocellularità del tessuto, fino alla perdita irreversibile del pool cellulare e del potenziale riparativo. Caratteristiche della matrice di riparazione La matrice di riparazione prodotta dai condrociti in risposta ai primi danni meccanici presenta proprietà differenti rispetto a quelle della cartilagine sana, con maggiori quantità di collagene di tipo I rispetto alla cartilagine ialina e un arrangiamento spaziale delle fibre di collagene simile a quello della cartilagine fibrosa (Hunziker 2002). Tuttavia nel corso del tempo (nell’ordine di alcune settimane) il tessuto di riparazione subisce un progressivo rimodellamento. È stato osservato che la sovrabbondanza di collagene di tipo I si mantiene fino a quando ha inizio un’intensa attività di degradazione di queste fibre che vengono sostituite progressivamente da quelle del tipo II: nei modelli animali in cui il processo di riparazione è stato studiato ciò avviene intorno alle 6-8 settimane (Yanagisawa 2012; Masahiko 2012). Tuttavia né la quantità di crosslink né la disposizione spaziale delle fibre tornano alla situazione originaria. Anche se nel medio-lungo termine la matrice di riparazione è simile nella composizione a quella del tessuto integro, non lo è quindi a livello ultrastrutturale, fatto che favorisce il deterioramento delle sue proprietà biomeccaniche e la comparsa di rotture e fissurazioni macroscopiche. 15 1. Osteoartrosi: una visione complessa Osso subcondrale Alterazioni nell’osso subcondrale, come sclerosi (matrice osteoide scarsamente mineralizzata) e formazione di pseudocisti, sono rilevate dall’indagine rx solo nelle fasi avanzate dell’osteoartrosi. La MRI può invece rilevare molto precocemente le alterazioni dell’osso: nel 2003 Felson ha descritto la presenza di lesioni rilevate alla MRI come «edema del midollo osseo» (Felson 2003). Una correlazione tra tendenza all’espansione di queste lesioni e perdita della cartilagine articolare è stata successivamente osservata in uno studio longitudinale (Hunter 2006). Figura 1.2 Alcuni dei metaboliti, enzimi e citochine principalmente coinvolti nel cross talk tra tessuti articolari nell’osteoartosi osteoblasto leptina metalloproteinasi citochine fattori di crescita IL-1 TNFα metalloproteinasi infiammazione membrana sinoviale prodotti di degradazione della cartilagine stimoli infiammatori e angiogenici infiammazione membrana sinoviale ridotta viscosità del LS Analogamente ai condrociti, anche gli osteoblasti dell’osso subcondrale rispondono a stimoli meccanici modulando la loro attività biochimica (Sanchez et al, 2012). 16 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Si può pertanto supporre che la produzione di enzimi e segnali molecolari da parte degli osteoblasti si alteri precocemente quando le proprietà di resistenza, elasticità e resilienza della cartilagine articolare sovrastante iniziano a cambiare. Gli osteoblasti nell’osteoartrosi sono fenotipicamente differenti. È stato osservato un aumento di produzione di diversi enzimi, mediatori di infiammazione, fattori di crescita (Figura 1.2, Tabella 1.2) e leptina: questo ormone sembra almeno in parte regolare l’aumentata espressione di fosfatasi alcalina, osteocalcina, collagene di tipo I, IGF (insulin growth factor) e TGF-β1(transforming growth factor-β1) da parte dell’osteoblasto nell’artrosi. Tabella 1.2 Sostanze prodotte dagli osteoblasti la cui sintesi aumenta nell’osteoartrosi Fosfatasi alcalina Formazione ossea Metalloproteasi Degradazione collagene Osteocalcina Formazione ossea Osteopontina Formazione ossea Citochine: IL-6 IL-8 Degradazione ossea Promotrice di neoangiogenesi, attivatrice dei macrofagi sinoviali Prostaglandine Infiammazione Leptina Regolazione sintesi di ALP, OC, TGF-β1 Insulin-like growth factor-1 (IGF-1) Stimolo sintesi di collagene Transforming growth factor-beta1 (TGF- β1) Stimolo sintesi di collagene I fattori IGF-1 e TGF-β1, che stimolano la produzione di collagene, possono essere correlati in particolare alla comparsa di aree sclerotiche, dove la deposizione di collagene è aumentata. Gli osteoblasti sembrano giocare un ruolo attivo nei processi degenerativi e infiammatori dell’osteoartrosi anche fuori dall’osso, e in particolare nella cartilagine. 17 1. Osteoartrosi: una visione complessa Data la continuità spaziale tra l’osso subcondrale e la piastra di accrescimento della cartilagine è probabile infatti che segnali molecolari rilasciati dagli osteoblasti raggiungano la matrice cartilaginea e ne influenzino il metabolismo; le microfratture nella zona di transizione, tipiche dell’articolazione con osteoartrosi, aumenterebbero questo scambio. Per contro, anche l’apoptosi condrocitaria sembra aumentare il processo di ossificazione endocondrale (formazione di osteofiti) e la degenerazione dell’osso subcondrale (Gibson 1998; Weng 2010; Schroeppel 2011). Membrana sinoviale È soprattutto il ruolo della membrana sinoviale a essere considerato diversamente rispetto al passato. Mentre l’immagine radiografica non permette di apprezzare appieno il suo coinvolgimento nell’osteoartrosi, l’impiego dell’ecografia, ad esempio, è in grado di evidenziare che segni di vascolarizzazione del tessuto sinoviale possono comparire anche nell’osteoartrosi non avanzata. La MRI può evidenziare nella membrana sinoviale presenza di lesioni simili a quelle da artrite reumatoide anche precocemente: ispessimento delle pliche, tessuto di granulazione, vascolarizzazione. Di queste alterazioni in passato si poteva avere riscontro solo con procedura invasiva (artroscopia, osservazione diretta in corso di artroplastica sostitutiva) e pertanto in fase avanzata. Le lesioni, in caso di osteoartrosi, si presentano limitate alle regioni confinanti con la cartilagine più danneggiata, e non estese all’intera capsula come nel caso dell’artrite reumatoide. Anche i sinoviociti sono coinvolti ampiamente nel crosstalk tra tessuti articolari: tra le molecole prodotte dalla membrana sinoviale che partecipano allo scambio di informazioni fra tessuti ci sono diverse sostanze modulanti l’infiammazione 18 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione (citochine, prostaglandine, fattori di crescita) ma anche prodotti di degradazione del collagene e dell’acido ialuronico. Come descritto da diversi autori (Kloppenburg 2011; Knoop 2011) e confermato dall’esperienza clinica, la componente infiammatoria dell’osteoartrosi e le componenti biomeccaniche possono presentarsi con pesi differenti nei diversi pazienti – e con ampia variabilità – probabilmente anche in ragione di background genetici diversi. È comunque un dato acquisito che l’infiammazione ha un ruolo di primo piano nella patogenesi e nella progressione dell’osteoartrosi, anche se i fenomeni infiammatori si perpetrano prevalentemente a livello locale. La possibilità di intervenire sul coinvolgimento sinoviale, e specialmente nelle fasi precoci dell’osteoartrosi, è infatti indicata come una strategia per preservare l’integrità e la funzione articolare (Sellam and Berenbaum, 2010; de Lange-Brokaar et al, 2012; Fu et al, 2012; Sokolove and Lepus, 2013; Berenbaum, 2013). In questo senso molecole che sono state inizialmente utilizzate allo scopo di favorire il trofismo della cartilagine o di ripristinare le caratteristiche reologiche del liquido sinoviale, in aggiunta a questi effetti hanno mostrato, secondo studi più recenti, attività che possono normalizzare le condizioni della membrana sinoviale: è il caso del condroitin solfato per il quale sono emersi effetti antiangiogenici (Lambert 2012) e dell’acido ialuronico per uso intrarticolare, che è in grado di contrastare gli effetti infiammatori dell’interleuchina-1β (IL-1β) nei sinoviociti di pazienti con osteoartrosi iniziale (Wang 2006). Nella Tabella 3.1 sono elencati i principali effetti della glucosamina di interesse per la condroprotezione, osservati in colture di condrociti da pazienti artrosici (Dodge, Jimenez 2003; Piperno 2000; Uitterlinden 2006). 19 1. Osteoartrosi: una visione complessa 1.2 Fenotipi e patogenesi Se da una parte molti dati di laboratorio, epidemiologici e clinici sull’osteoartrosi si sono accumulati nell’ultimo decennio, quello che manca affinché le nuove conoscenze si traducano in applicazione clinica diffusa è una presa di coscienza collettiva per applicare queste acquisizioni al singolo paziente. In altri termini manca il riconoscimento che anche per l’osteoartrosi è possibile descrivere diversi fenotipi di malattia sostenuti da meccanismi patogenetici in parte differenti, da indagare nel singolo soggetto ricorrendo a mezzi più fini di quelli sostanzialmente fino ad oggi utilizzati. Sebbene questa idea sia già abbastanza radicata in diverse “scuole” in reumatologia, in generale permane la tendenza (in ambito reumatologico e probabilmente anche in altri ambiti specialistici) a non discostarsi dalla visione semplificata dell’osteoartrosi come malattia a fenotipo unico e con il meccanismo wear and tear come eziologia prevalente. Ampliando questa visione e accogliendo il corpus di evidenze più recenti sul ruolo dell’infiammazione e sulle alterazioni metaboliche precoci nei tre tessuti articolari, è stata proposta (Bjlsma, Berenbaum, Lafeber 2011) l’identificazione di tre principali fenotipi nell’osteoartosi. Il fenotipo post-traumatico identifica prevalentemente pazienti giovani (<45 anni) in cui lo stress meccanico è riconoscibile come fattore preponderante per la patogenesi. Le articolazioni sottoposte a carico (ginocchio, caviglia, spalla) sono pertanto quelle prevalentemente interessate. Interventi di tipo non farmacologico (inclusa la stabilizzazione dell’articolazione con programmi di rinforzo muscolare ed esercizi propriocettivi) trovano un razionale forte nel fenotipo post-traumatico in aggiunta alle terapie farmacologiche. 20 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Il fenotipo metabolico identifica prevalentemente soggetti adulti nelle fasce di età fino a 65 anni in cui si riscontrino alterazioni metaboliche (sindrome metabolica, diabete, obesità). Accanto allo stress meccanico in questo fenotipo si riconoscono come concause alterazioni metaboliche incluse l’iperglicemia, l’elevazione dei livelli di adipochine (obesità), l’alterazione del bilancio estroprogestinico. L’interessamento delle articolazioni è piuttosto generalizzato. Un dato epidemiologico significativo a sostegno dell’ipotesi metabolica riguarda l’artrosi della mano, la cui prevalenza nella popolazione obesa è doppia rispetto alla popolazione generale (Yusuf 2009). Non essendo le articolazioni della mano sottoposte a carichi differenti negli obesi e nei normopeso, l’associazione tra obesità e alta prevalenza di osteoartosi della mano può essere spiegata con il ruolo delle componenti metaboliche, generalmente alterate in questa condizione. Il fenotipo da invecchiamento, che riguarda prevalentemente l’anziano, non riconosce componenti specifiche oltre alla senescenza dei condrociti e al conseguente impoverimento della cartilagine in termini di pool cellulare e qualità ultrastrutturale della matrice. Diversi autori hanno indagato quali meccanismi patogenetici, in aggiunta allo stress meccanico che rimane una concausa, si attivano in modo preferenziale nell’uno o nell’altro fenotipo, informazione essenziale per orientare le conseguenti scelte terapeutiche. Wang e collaboratori hanno rilevato livelli di espressione e di attivazione delle proteine del complemento notevolmente elevati nel liquido sinoviale di soggetti con osteoartosi del ginocchio rispetto ai sani, soprattutto per le proteine C3, C5, C7 e C9 (Wang 2011). 21 1. Osteoartrosi: una visione complessa Lo stesso gruppo ha ottenuto dati a sostegno di questa tesi in modelli animali di osteoartrosi post traumatica (modelli murini di destabilizzazione del menisco mediale o di meniscectomia): esposti allo stesso insulto meccanico gli animali difettivi per C5 o per C6 erano parzialmente protetti dallo sviluppo dell’artrosi rispetto agli animali wild type (Wang 2011). I dati epidemiologici dello studio di coorte ROAD su una popolazione giapponese (Yoshimura 2012) hanno rilevato che sia il rischio cumulativo a 3 anni di sviluppare osteoartrosi del ginocchio sia il rischio di progressione aumentano con il numero di componenti della sindrome metabolica presenti: per lo sviluppo di osteoartrosi l’odds ratio nei soggetti con 3 componenti è quasi decuplicato rispetto ai soggetti senza alterazioni metaboliche. Circa l’influenza dell’invecchiamento sul metabolismo dei condrociti, Forsyth ha osservato che la responsività delle cellule della cartilagine (colture da soggetti senza osteoartrosi) allo stimolo catabolico esercitato dall’interleuchina-1β tende a crescere con l’avanzare dell’età, e si manifesta con iperespressione di metalloproteasi (MMP-13 in particolare) nei soggetti di età avanzata rispetto ai più giovani (Forsyth 2005). Gli aspetti che caratterizzano le forme di osteoartrosi dovute a lesioni meccaniche o a invecchiamento sono riassunti nella Tabella 1.3. Nel complesso ci sono numerosi dati che lasciano intuire la possibilità di affrontare l’osteoartrosi con un approccio più raffinato rispetto al passato e con migliori possibilità di successo. I principali ostacoli su questo percorso sono da ricondurre a due principali esigenze: 1. occorre ampliare il numero di strumenti disponibili per la diagnosi e per il monitoraggio della progressione della malattia e dell’efficacia dei trattamenti. Quelli attualmente validati, come già notato, sono inadeguati su diversi fronti: occorre quindi promuovere l’uso di nuovi strumenti con valore diagnostico, predittivo e 22 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Tabella 1.3 Lesione meccanica e invecchiamento nell’osteoartrosi: aspetti metabolici peculiari coinvolti. Autore OA Wang, e lesione/ stress Nat Med 2011 meccanico Setting pazienti con OA Evidenza iperespressione delle proteine del complemento C3, C5, C6, C9 nel liquido sinoviale modello murino di animali difettivi per C5 sono OA da lesione parzialmente protetti dallo sviluppo di OA rispetto ai wild type OA Forsyth, e invecchiamento J Gerontol A Biol Sci Med Sci 2005 colture di condro- iperreattività dei condrociti citi da soggetti esposti a IL-1β: i condrociti senza OA di soggetti anziani esprimono MMP-13 in quantità elevate rispetto ai soggetti giovani. di efficacia, prendere dimestichezza con il loro utilizzo e applicarli estesamente nella pratica clinica; 2. occorre ampliare le possibilità per il trattamento di fondo dell’osteoartrosi non solo indagando farmaci per nuovi target terapeutici (ad esempio quelli legati all’infiammazione), ma anche utilizzando in modo più razionale ed evidence based quelli già noti: ciò appare intimamente connesso con l’utilizzo di opportuni marcatori molecolari in grado di indicare in tempi rapidi se la terapia sta esercitando un apprezzabile effetto biologico. Una conferma in questo senso non solo è utile al clinico ma può costituire per il paziente un’importante motivazione alla compliance ottimale, dal momento che il beneficio con l’assunzione di farmaci di fondo compare in tempi medio-lunghi. Questi due temi saranno affrontati nelle successive sezioni del libro, con attenzione anche agli aspetti di applicabilità pratica. 23 1. Osteoartrosi: una visione complessa –– Bibliografia –– Berenbaum F. Osteoarthritis as an inflammatory disease (osteoarthritis is not osteoarthrosis!). Osteoarthritis Cartilage. 2013 Jan;21(1):16-21. –– Berenbaum F, Lafeber FP. Osteoarthritis: an update with relevance for clinical practice. Lancet. 2011 Jun 18;377(9783):2115-26. –– Bijlsma JW, Berenbaum F, Lafeber FP. Osteoarthritis: an update with relevance for clinical practice.Lancet. 2011 Jun 18;377(9783):2115-26. –– de Lange-Brokaar BJ, Ioan-Facsinay A, van Osch GJ, Zuurmond AM, Schoones J, Toes RE, Huizinga TW, Kloppenburg M. 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Marcatore CVI% CVG% CD% 6.6 9.1 8.6 35.6 30.9 17.6 20 29 26 6.9 10.8 12.0 23.5 14.7 15.9 15.3 13.1 18.6 28.8 13.3 25.0 26.0 26.9 17.8 19.2 26.0 24.8 26 35 43 70 44 37 36 40 57 Di formazione s-fosfatasi alcalina ossea s-osteocalcina s-PICP Di riassorbimento s-CTXI s-fosfatasi acida tartrato resistente u-galattosilidrossilisina u-desossipiridinolina totale (DPD) u-NTXI u-CTXI u-CTXII u-desossipiridinolina libera (fDPD) u-piridinoline libere 100 Biomarcatori nell’osteoartrosi: 2 strumenti per orientare ricerca e clinica Gli strumenti per la diagnosi e la caratterizzazione dell’osteoartrosi sono rimasti sostanzialmente invariati per oltre quarant’anni, dopo la definizione dello score radiologico di Kellgren e Lawrence. Risonanza magnetica, tomografia ed ecografie sono intervenute a integrare questo strumento fornendo un imaging più fine e completo; ma, almeno dal punto di vista formale della validazione di questi strumenti, chi si occupa di osteoartrosi si trova ancora nella condizione di doversi riferire a un gold standard (l’immagine radiografica) che è in realtà inadeguato da molti punti di vista. Oltre ad essere gravata dal rischio biologico correlato alle radiazioni, l’immagine radiografica rileva l’osteoartrosi solo tardivamente, quando il processo patologico è avviato e il danno può essere già esteso. La radiografia può inoltre rilevare direttamente solo le alterazioni dell’osso ma non il coinvolgimento della membrana sinoviale e aspetti come l’angiogenesi nella cartilagine nelle fasi più avanzate. Inoltre la correlazione dei reperti radiografici con la clinica è scarsa (Spector et al, 1991; Lawrence et al, 1966; Kijowski et al, 2006). Principali limiti del gold standard radiografico • • • • • • 28 misura indiretta del danno della cartilagine non misura un processo dinamico presenza di lesioni ed estrusioni meniscali possono rendere poco leggibile l’immagine i cambiamenti nel tempo sono piccoli e osservabili solo in una parte dei pazienti (progressor) scarsamente riproducibile scarsamente correlato alla funzionalità e al dolore Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Un aspetto rilevante per la gestione pratica dei pazienti è il fatto che l’imaging radiografico è poco adatto a valutare l’effetto di trattamenti che si propongono di modificare il metabolismo della cartilagine e dei tessuti articolari. Molte di queste terapie hanno già mostrato effetti favorevoli sugli aspetti algofunzionali e sono consolidati nella pratica clinica. Per quanto riguarda i loro potenziali effetti nel modificare favorevolmente la struttura (preservare la cartilagine articolare, per esempio, o ridurre i segni di sinovite attiva), in alcuni casi l’indagine radiografica ha già evidenziato un beneficio; tuttavia si è avvertita la necessità di rivolgersi a strumenti più fini, sensibili, rapidi e anche più pratici per evidenziare gli effetti disease-modifying e gli effetti strutturali dei trattamenti. Oltre che all’imaging avanzato (che però ha limiti di costi e organizzativi) questo ruolo è stato affidato anche ai nuovi biomarcatori molecolari che sono emersi a decine nel corso delle ricerche degli ultimi quindici anni sul metabolismo dei tessuti artrosici. I principali vantaggi dei biomarcatori molecolari (o umidi, o solubili) sono quelli della praticità, della ripetibilità e dell’assenza di rischi per il paziente: si possono infatti rilevare sul liquido sinoviale prelevato in occasione dell’artrocentesi, sul sangue o sull’urina. Il limite principale, quando si parla di biomarcatori, è il fatto che solo una ristretta percentuale di quelli potenziali individuati dalla ricerca di base si rivela adatto a essere utilizzato nelle condizioni reali: tuttavia un certo numero di biomarcatori solubili è già entrato nella pratica a complemento degli strumenti clinici più tradizionali. Ai fini dell’argomento di questa pubblicazione, che si propone di riassumere i razionali e le evidenze sulle terapie che favoriscono la riparazione e la normalizzazione dei tessuti articolari, una panoramica sui biomarcatori è utile a chiarire come essi possono essere utili nella gestione pratica dei pazienti, senza necessità di investimenti particolarmente complessi o impegnativi. 29 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica Alcuni biomarcatori solubili possono rilevare in tempi rapidi cambiamenti favorevoli del metabolismo della cartilagine o dell’osso, ma anche nella membrana sinoviale, dopo l’inizio di un trattamento con condroprotettori. Sono di potenziale interesse in questo senso i biomarcatori in grado di indicare: • il turnover di molecole strutturali delle matrici ossea e cartilaginea • gli enzimi coinvolti nella degradazione o nella sintesi di componenti della matrice • i processi infiammatori, riparativi, angiogenici. Le maggiori società scientifiche internazionali di reumatologia sono da tempo impegnate nello sforzo di individuare definizioni e criteri condivisi, e di armonizzare le procedure quando si parla di biomarcatori per l’osteoartrosi. La OARSI OA Biomarkers Global Initiative, per esempio, vede impegnati i maggiori esperti di ricerca sui biomarcatori a livello internazionale nel promuovere il confronto e il dibattito su questo tema. La definizione di biomarcatore attualmente condivisa dalle istituzioni sanitarie e dai gruppi di lavoro internazionali è quella sviluppata dal Biomarkers Definitions Working Group della FDA. Biomarcatore: definizione secondo il Biomarkers Definitions Working Group FDA «A biological marker or biomarker is defined as a characteristic that is objectively measured and evaluated as an indicator of normal biologic processes, pathogenic processes, or biological responses to a therapeutic intervention. A biomarker can be a physiologic, pathologic, or anatomic characteristic or measurement that is thought to relate to some aspect of normal or abnormal biologic function or process.» Biomarkers Definitions Working Group, 2001 30 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Un marcatore biologico o biomarcatore è definito come un parametro che è obiettivamente misurabile e valutabile come indicatore di processi biologici normali o patologici, o di risposte biologiche a un intervento terapeutico. L’individuazione di biomarcatori validi, dunque, non è un esercizio di elegante ricerca sperimentale. Rappresenta invece, in una prospettiva anche prossima, la possibile premessa per affrontare la gestione del paziente artrosico in modo più complesso e lungimirante di quanto le attuali conoscenze permettano di fare, in particolare puntando a questi obiettivi: 1. fare diagnosi più precocemente di quanto consentano la clinica e l’imaging radiografico e collocare correttamente il soggetto in una precisa fase dell’evoluzione della malattia; 2. caratterizzare il ruolo dei processi patologici nei diversi momenti della sua storia, al fine di chiarire il razionale e il corretto timing per l’impiego di condroprotettori o di terapie fisiche. Per utilizzare al meglio un trattamento è importante infatti capire qual è il momento più opportuno per somministrarlo: senza uno sforzo per comprendere questo aspetto si rischia di abbandonare o lasciare inutilizzato un patrimonio potenziale di risorse terapeutiche. 3. individuare possibili predittori di risposta a un trattamento: ciò significa anche individuare quale sia il trattamento più utile a una specifica tipologia di soggetti con osteoartrosi, aumentando le probabilità di successo. 4. monitorare il paziente durante il trattamento farmacologico per valutare la sua risposta in termini di modificazione dei biomarcatori correlati a processi patologici, sintomatologia, funzionalità. 31 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica 2.1 Classificazione dei biomarcatori Un biomarcatore dovrebbe idealmente rispondere alle seguenti caratteristiche: • avere una buona correlazione con i processi implicati nella malattia e con gli esiti clinici • avere variazioni facilmente rilevabili in presenza di un processo patologico o di un trattamento (sensibilità) • essere specifico per il tessuto • essere facilmente applicabile nella routine in termini di: invasività minima, costi sostenibili, ripetibilità nel tempo. Una cornice concettuale di riferimento per stabilire un linguaggio comune e categorizzare in modo condiviso i biomarcatori è stata elaborata nel corso degli ultimi quindici anni dall’OARSI FDA Biomarkers Working Group e da altri gruppi di lavoro afferenti a società internazionali (ICRS, International Cartilage Repair Society). Wet/dry. Una classificazione per tipo di caratteristica considerata, proposta da un documento OARSI del 2011 (Kraus, 2011) suddivide i marcatori in umidi e secchi (wet/dry). Sono definiti marcatori umidi (o solubili) quelli di tipo molecolare, misurabili su sangue, plasma, siero, urine, liquido sinoviale o in genere su fluidi biologici. Sono rappresentati prevalentemente da proteine o frammenti proteici, ma possono includere anche DNA, RNA, glucidi, metaboliti di diversa natura. La definizione di biomarcatori secchi include l’imaging, ma anche i questionari o le scale soggettive di valutazione (Tabella 2.1) 32 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Tabella 2.1 Biomarcatori: classificazione wet/dry Biomarcatori solubili o umidi componenti cellulari o extracellulari tessuto-specifici Biomarcatori secchi Imaging, questionari, scale soggettive DNA, RNA, microRNA MRI Proteine della matrice, proteine di membrana, enzimi, recettori (interi o frammenti) Rx proteoglicani della matrice e loro metaboliti Ecografia fattori di crescita, citochine Womac, Lequesne, SF-36 VAS, Mc Gill pain A oggi sono stati individuati una trentina di biomarcatori solubili che si ritiene possano essere utili a caratterizzare il processo patogenetico e l’evoluzione dell’osteoartrosi. Si tratta prevalentemente di metaboliti delle macromolecole strutturali della matrice di cartilagine e osso indicativi dei fenomeni di turnover e del loro alterato equilibrio. Meno diffusi, ma di notevole interesse per la ricerca, sono anche marcatori di infiammazione, fattori di crescita, enzimi, glicoproteine di membrana, recettori, alcuni dei quali indicatori di processi patologici che coinvolgono la membrana sinoviale. Per utilità clinica. Dal punto di vista della gestione clinica, la suddivisione più utile è quella che individua la finalità per cui il biomarcatore viene utilizzato, come proposto da Kraus (Kraus, 2011). L’acronimo BIPEDS riassume le categorie individuate in questo schema di classificazione. 33 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica B, burden of disease: utili alla stadiazione della malattia, indicativi del livello di gravità. I, investigative: non ancora collocati in alcuna categoria perché esplorati solo parzialmente. P, prognostic: utili a fare una prognosi, ad esempio perché in grado di individuare i pazienti ad elevato rischio di progressione rapida. E, efficacy of intervention: utili a verificare l’efficacia di un intervento terapeutico. D, diagnostic: utili alla diagnosi in fase precoce. S, safety: utili a monitorare la sicurezza di un trattamento. Per quanto riguarda l’obiettivo della diagnosi, sicuramente da includere fra quelli di prioritario interesse, diversi dati sostengono che molti dei marcatori solubili oggi individuati potrebbero essere in grado di intercettare i cambiamenti metabolici più precoci e rappresentare quindi strumenti di diagnosi preradiografica, o addirittura più precoci dell’imaging avanzato (risonanza magnetica) nonché più economici, meno time-consuming e sostanzialmente privi di rischi per il paziente. I biomarcatori solubili sono stati studiati prevalentemente nei pazienti con osteoartrosi del ginocchio, meno nell’osteoartrosi dell’anca e poco nell’osteoartrosi della mano. Per livello di qualificazione. Una classificazione elaborata dal gruppo di lavoro OARSI/FDA propone una scala che descrive il livello di qualificazione del biomarcatore. Al gradino più alto della scala sono collocati i biomarcatori surrogati di endpoint clinico (Tabella 2.2). 34 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Dal momento che la qualificazione di un marcatore è legata al contesto di utilizzo (le caratteristiche dei pazienti sui quali si utilizza; il processo che si intende misurare; le condizioni di utilizzo), un marcatore con elevato grado di qualificazione in un ambito di utilizzo non può essere automaticamente considerato tale quando si decida di valutarlo in un altro contesto: dovrà in questo caso scendere nella scala e ripercorrere i successivi gradi di qualificazione. Tabella 2.2 Classificazione dei BM per grado di qualificazione Surrogati Considerati sostitutivi di un endpoint clinico, possono essere impiegati nei processi decisionali clinici Caratterizzativi Più di uno studio prospettico sull’uomo che ne ha dimostrato la correlazione ad outcome clinici Dimostrativi Un solo studio sull’uomo che ne ha dimostrato la correlazione con un outcome clinico (nessuna dimostrazione di riproducibilità). Esplorativi Solo evidenze in vitro o precliniche, non ancora investigata la correlazione con outcome clinici 2.2 Validazione dei biomarcatori e aspetti pratici dell’utilizzo nella ricerca Nonostante il numero di biomarcatori per cui sono stati sviluppati test di laboratorio sia piuttosto elevato, si è ancora abbastanza lontani dallo stabilire un consenso su come utilizzarli. Il gruppo di studio sui biomarcatori della Società internazionale di ricerca sull’osteoartrosi (OARSI FDA Osteoartrhritis Bio35 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica marker Working Group) ha definito un’agenda per l’utilizzo dei marcatori già disponibili e per le attività di ricerca su quelli in via di sviluppo (Kraus, 2011) nella quale si puntualizzano le esigenze prioritarie da soddisfare nel processo di validazione dei biomarcatori (Tabella 2.3). Il processo di validazione dei biomarcatori appare piuttosto difficoltoso nell’osteoartrosi. Ad esempio per quanto riguarda la diagnosi, l’ostacolo principale – come già ribadito – è rappresentato dal fatto che il gold standard (l’immagine radiografica), che dovrebbe servire come metro di giudizio per il biomarcatore solubile candidato a diventare uno strumento di diagnosi, presenta molte limitazioni. La risonanza magnetica, con le sue grandi potenzialità, potrebbe rappresentare un’alternativa all’immagine radiografica ed essere utile come misura della validità di un biomarcatore solubile; tuttavia la RM è essa stessa un biomarcatore in lista d’attesa per essere validata e non può essere impiegata a questi fini. Tabella 2.3 Sintesi delle principali esigenze nel processo di sviluppo, qualificazione e validazione dei biomarcatori per l’osteoartrosi. Da Kraus et al, 2011 • Standardizzare il modo di riportare i risultati dei biomarcatori • Trovare le minime differenze significative per i biomarcatori in assenza o presenza di un trattamento • Standardizzare il metodo di raccolta dei campioni per gli studi sui biomarcatori • Raccogliere informazioni sulle articolazioni non artrosiche (non-signal joints) negli studi in cui si misurano biomarcatori sistemici • Identificare i tessuti che rappresentano le principali fonti di un biomarcatore 36 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione È certo comunque che dell’elevato numero di potenziali biomarcatori individuati nelle fasi esplorative, solo una frazione piuttosto ristretta avrà la possibilità di giungere all’applicazione nel mondo reale, che deve tener conto anche della facilità di esecuzione e dei costi, o più precisamente dell’appropriatezza. Idealmente si dovrebbe disporre di biomarcatori che diano informazioni su tutti i tessuti coinvolti nell’osteoartrosi: membrana sinoviale, cartilagine, osso. Per ragioni di praticità e facilità della raccolta dei campioni i biomarcatori di maggiore interesse sono quelli misurati su sangue (o frazioni) e urine. Ammesso che un biomarcatore abbia dimostrato buone caratteristiche di sensibilità e specificità, la lettura del dato in questo caso deve comunque considerare l’influenza di fattori anche indipendenti dall’osteoartrosi. La concentrazione di un biomarcatore in sangue o urina risente del contributo dei processi metabolici che avvengono nelle articolazioni non artrosiche e in altri tessuti. Inoltre il suo valore non dipenderà soltanto dalla velocità con cui viene prodotto e rilasciato a livello sistemico, ma anche dalla velocità con cui viene eliminato. Il bilancio può pertanto essere influenzato da fattori correlati all’osteoartrosi e da fattori non correlati, quali: • il livello di attività della malattia nella singola articolazione, tipo e numero di articolazioni coinvolte • la funzionalità renale ed epatica • i fattori ambientali modificabili come intensità e frequenza dell’attività fisica, BMI e dieta. Diversamente, i biomarcatori rilevati su liquido sinoviale riflettono in modo più specifico e diretto l’andamento del processo patologico nell’articolazione interessata da osteoartrosi, con l’ovvio svantaggio dell’invasività della procedura, dei costi e del37 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica la non facile ripetibilità. La possibilità di misurare i biomarcatori su liquido sinoviale merita comunque di essere considerata quando vi sia la necessità di eseguire un’artrocentesi. Nell’appendice si offre una breve panoramica sui biomarcatori ad oggi utilizzati nella pratica o indagati nella ricerca clinica e preclinica sull’osteoartrosi. 2.3 Biomarcatori derivati dai collageni Buona parte dei biomarcatori dell’osteoartrosi di uso relativamente comune nella pratica clinica sono quelli che indicano il turnover del collagene, del quale sono presenti diversi tipi nelle matrici ossea e cartilaginea, in tendini e legamenti, nella membrana sinoviale e nel liquido sinoviale. Il bilancio tra sintesi e degradazione delle matrici (ossea e cartilaginea) si riflette nel bilancio tra marcatori di sintesi e marcatori di degradazione del collagene. La maggioranza degli studi è stata prodotta su marcatori per la cartilagine derivati dal collagene di tipo I e II, indicativi rispettivamente del metabolismo dell’osso e della cartilagine ialina: sono rappresentati da frammenti originati dal clivaggio della molecola immatura o dalla degradazione della molecola matura, e si rilevano con metodo immunometrico. I collageni di tipo I e II sono proteine fibrillari la cui unità di base è una triplice alfa-elica. Struttura primaria: ogni polipeptide presenta una struttura primaria semplice e ripetitiva di circa 1000 aminoacidi, con la glicina che occupa sistematicamente la prima posizione in un modulo tripeptidico Gly–X–Pro oppure Gly–X–Hypro, dove X rappresenta altri aminoacidi. 38 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Tipica della struttura del collagene è la presenza di residui aminoacidici idrossilati (idrossiprolina e idrossilisina). Struttura secondaria: a-elica sinistrorsa (protocatena) Struttura terziaria: triplice elica destrorsa (tropocollagene) formata dall’assemblaggio di tre protocatene. Il collagene di tipo I contiene due catene di tipo a-1 e una catena a-2 (codificate rispettivamente dai geni COL1A1 e COL1A2); il collagene di tipo II contiene tre a-1 (codificate dal gene COL2A1). Prima e dopo l’assemblaggio, la molecola subisce modificazioni essenziali per l’acquisizione della struttura quaternaria caratteristica della proteina matura (Tabella 2.4). Struttura quaternaria: di tipo fibrillare, in cui le fibre di tropocollagene si dispongono parallelamente stabilizzate da legami covalenti (cross link). 39 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica Tabella 2.4 Dalla catena polipeptidica al collagene maturo Processo Traduzione del m-RNA in protocatene a Intracellulare Reticolo endoplasmatico rugoso (RER) Idrossilazione dei residui di prolina e lisina e glicosilazione dei residui di idrossilisina Glc Glc Glc Gal Gal OH OH Reticolo endoplasmatico rugoso (RER) Assemblaggio delle 3 protocatene in triplice elica stabilizzata da legami deboli (procollagene) Hyl Hyl Lys Lys Pro Pro OH OH OH O-Gal-Clc Reticolo endoplasmatico rugoso (RER) OH Parziale rimozione di gruppi OH O-Gal Esocitosi RER-apparato del Golgi Passaggio in ambiente extracellulare Vescicole di esocitosi dall’apparato del Golgi Clivaggio: rimozione dei propeptidi N-terminale e C-terminale del procollagene: Matrice Clivaggio Clivaggio OH OH O-Gal-Clc O-Gal Assemblaggio in fibrille con formazione di cross-link covalenti Matrice Extracellulare 40 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Biomarcatori di sintesi del collagene I e II I prodotti derivati dal clivaggio del procollagene dopo l’assemblaggio delle catene (propeptidi N-terminale e C-terminale) sono utilizzati come biomarcatori della sintesi di nuova matrice ossea o cartilaginea: PINP (Procollagen type I N-propeptide) e PICP (Procollagen type I C-propeptide) per il collagene di tipo I; PIINP (Procollagen type II N-propeptide) e PIICP (Procollagen type II C-propeptide) per il tipo II (Figura 2.1). In uno studio prospettico con un follow up di 6 anni il biomarcatore sPINP (misurato su siero) ha dimostrato sia valore diagnostico sia valore predittivo per la progressione radiografica (in termini di formazione di osteofiti) dell’osteoartrosi del ginocchio (Kumm 2013). Biomarcatori di degradazione del collagene I e II I frammenti derivati dalla degradazione del collagene di tipo I e II ad opera delle collagenasi (famiglia di metalloproteasi prodotte dai condrociti e dagli osteoblasti) sono impiegati come biomarcatori della degradazione rispettivamente della matrice ossea e cartilaginea: CTX-I (Crosslinked C-telopeptide of collagen type I), NTX-I (Cross Linked N-Telopeptide of Type I Collagen), DPD (Deoxypyridinoline), PYD (Pyridinoline) e C1,2C (collagenase generated collagen type I and II cleavage neoepitope) per il collagene di tipo I; CTX-II (Crosslinked C-telopeptide of collagen type II), C2C (collagenase generated collagen type II cleavage neoepitope), Coll2,1 e Coll2,1-NO2 per il collagene di tipo II (Figura 2.1). Dal collagene di tipo II derivano alcuni dei biomarcatori di maggiore interesse: sebbene il tessuto osseo sia estesamente coinvolto nei processi patogenetici dell’osteoartrosi, infatti, il turnover osseo che si verifica anche in articolazioni sane in generale rende i marcatori derivati dal collagene di tipo I meno sensibili alle 41 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica variazioni indotte dall’evoluzione della malattia e/o da eventuali trattamenti; al contrario, lo scarso turnover della cartilagine ialina nelle articolazioni sane fa di alcuni marcatori derivati dal collagene di tipo II indici piuttosto sensibili dei processi in atto. Di particolare interesse sono i marcatori CTX-II e Coll2,1 (e la sua forma nitrata Coll 2,1-NO2), entrambi misurabili su urina. Una vasta metanalisi su circa 3500 pazienti mostra che uCTX-II (CTXII urinario) ha un buon valore predittivo per il futuro sviluppo di osteoartrosi del ginocchio, dell’anca e della mano (Valdes, 2014). Diverse esperienze hanno impiegato il uCTX-II come indice di efficacia dell’intervento terapeutico: per la glucosamina Christgau (Christgau 2004), Conrozier per l’acido ialuronico intrarticolare (Conrozier 2012) e Scarpellini e collaboratori per la condroprotezione orale con la combinazione di glucosamina, condroitin solfato e collagene di tipo II nativo (Scarpellini 2008). Inoltre è interessante segnalare che esperienze piuttosto recenti hanno mostrato come il uCTX-II, pur essendo un marcatore specifico di degradazione della cartilagine articolare, sia correlabile anche ai processi che interessano l’osso subcondrale. Garnero (Garnero 2008) ha ad esempio evidenziato una buona correlazione del marcatore di degradazione cartilagineo uCTXII con la progressione radiografica a 24 mesi in uno studio che ha indagato come possibile trattamento disease-modifying un bifosfonato, che ha come target terapeutico l’osso. Dati dello studio CHECK, ampio studio prospettico su circa 1000 pazienti con artrosi di anca e ginocchio (Van Spil 2012), hanno d’altra parte evidenziato che uCTX-II è ben correlato a marcatori del metabolismo osseo. Coll2,1 e Coll2,1-NO2 sembrano invece buoni predittori di progressione radiologica dell’osteoartrosi e si candidano a possibile innovazione per il monitoraggio della malattia (Deberg 2005). 42 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Alti livelli di C2C nel liquido sinoviale combinati con bassi livelli di cheratan solfato (KS) si associano alla presenza di lesioni cartilaginee preradiografiche in pazienti con lesioni del legamento crociato (Yoshida 2013). tripla elica pro-α2 pro-α1 pro-α1 PICP propeptide C-t tripla elica pro-α1 pro-α1 pro-α1 PIINP PIICP frammento 3⁄4 marcatori di formazione dell’osso marcatori di degradazione dell’osso DPD PYD telopeptide C-t telopeptide N-t CTX-I propeptide N-t NTX-I peptide segnale collagene maturo procollagene propeptide C-t telopeptide C-t telopeptide N-t propeptide N-t peptide segnale procollagene Localizzazione dei marcatori del turnover del collagene di tipo I e II. PINP collagene maturo collagene tipo II collagene tipo I Figura 2.1 marcatori di formazione della cartilagine frammento 1⁄4 pro-α1 pro-α1 pro-α1 CTX-II COLL2-1 COLL2-1NO2 HELIX II C2C sito di clivaggio della collagenasi marcatori di degradazione della cartilagine 43 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica Quanto ai marcatori di turnover del collagene di tipo I, uno studio che ha incluso 30 pazienti con osteoartrosi erosiva della mano ha rilevato una correlazione significativa dello score radiologico con uCTX-I ma non con uCTX-II. Questo dato suggerisce che l’osteoartrosi erosiva della mano sia meglio descritta, in termine di biomarcatori, da uCTX-I piuttosto che da uCTX-II e che possa avere un’elevata affinità con le malattie metaboliche dell’osso come l’osteoporosi (Scarpellini 2008). 2.4 Altri biomarcatori di interesse L’osteocalcina (OC) è considerata un marcatore di turnover e mineralizzazione dell’osso. In uno studio prospettico (Kumm 2013) l’osteocalcina rilevata sul siero (sOC) ha mostrato un significato diagnostico per l’osteofitosi progressiva nell’osteoartrosi del ginocchio. Una vasta metanalisi (Valdes, 2014) ha evidenziato che i livelli della proteina non collagenica della matrice cartilaginea COMP (Cartilage oligomeric matrix protein) misurati sul siero sono utili a descrivere il grado di attività della malattia nell’osteoartrosi del ginocchio e dell’anca. Alla sCOMP assegna un valore predittivo uno studio prospettico della durata di 10 anni su circa 800 donne con un follow up di 10 anni (Blumenfeld 2013): a elevati livelli iniziali di sCOMP si associa un maggior rischio di sviluppare nel corso del tempo un’osteoartrosi del ginocchio con grado Kellgren-Lawrence pari o superiore a 2. In uno studio trasversale sulla mano (Aslam 2014) la presenza di osteoartrosi metacarpofalangea o carpometacarpale e un alto numero di articolazioni coinvolte risultano correlati a elevati livelli circolanti di acido ialuronico (sHA). 44 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Uno studio trasversale su pazienti con lesione traumatica del legamento crociato anteriore del ginocchio (Yoshida 2013) ha mostrato che bassi livelli di cheratan solfato nel liquido sinoviale (KS) combinati con alti livelli di C2C nel liquido sinoviale sono associati alla presenza di lesioni estese della cartilagine osservabili in artroscopia ma non rilevate dalla rx. La possibilità di impiegare i biomarcatori ha diversi vantaggi: queste indagini possono essere eseguite a costi certamente inferiori a quelli di una risonanza magnetica da un laboratorio attrezzato con sistemi immunometrici automatizzati (in altri termini il laboratorio di una struttura sanitaria di medie-grandi dimensioni); sono inoltre più accessibili (nessuna lista di attesa) e privi di rischi, a differenza della RM. Le determinazioni di questi biomarcatori si prestano pertanto anche ad essere ripetute a intervalli relativamente ravvicinati senza particolari disagi per il paziente. 45 2. Biomarcatori nell’osteoartrosi: strumenti per orientare ricerca e clinica Bibliografia –– Aslam I, Perjar I, Shi XA, Renner JB, Kraus VB, Golightly YM, Jordan JM, Nelson AE. Associations between biomarkers of joint metabolism, hand osteoarthritis, and hand pain and function: the Johnston County Osteoarthritis Project. 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Si era capito allora che il possibile intervento di condroprotezione doveva necessariamente interferire proprio in quei processi di disregolazione metabolica della cartilagine che sono alla base della patogenesi dell’osteoartrosi. Soltanto dopo questa acquisizione concettuale si cominciò a parlare di condroprotezione, cioè di trattamenti in grado di prevenire la distruzione della cartilagine articolare o di facilitare la sua riparazione nelle condizioni caratterizzate da un declino della sua integrità strutturale. Nonostante le cautele delle società scientifiche internazionali, le evidenze a favore di una possibilità di rallentare l’evoluzione dell’artrosi esistono. Diverse sono le dimostrazioni scientifiche che giustificano un atteggiamento – nella ricerca ma anche nella clinica pratica – di apertura verso trattamenti che mirano a questo obiettivo terapeutico, accanto agli altri indiscutibili interventi per l’attenuazione del dolore e dell’infiammazione. Di fatto alcune società scientifiche (EULAR, OARSI) hanno aperto le porte alla condroprotezione, includendo nelle racco50 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione mandazioni ufficiali farmaci che agiscono anche in senso condroprotettivo oltre che sintomatico. Si tratta di un cambiamento di grande portata nell’atteggiamento generale, per certi aspetti rivoluzionario, indicativo di un nuovo modo di vedere la gestione dell’osteoartrosi, e comunque di un riscontro che non potrà essere d’ora in poi ignorato per la ricerca di migliori trattamenti. Non mancano le critiche verso le società scientifiche ancora restie nei confronti dei condroprotettori; per esempio, alcuni limiti metodologici nella conduzione degli studi non avrebbero permesso di evidenziarne appieno le potenzialità. Va aggiunto che la metodica radiografica – peraltro l’unica a essere validata – è determinante nella selezione e stadiazione dei pazienti, ma non è in grado di distinguere i pazienti con osteoartrosi di natura prevalentemente meccanica da quelli con un’importante componente infiammatoria locale. Inoltre può consentire una valutazione differenziale solo dopo almeno un anno e non in tutti i settori possibili: ad esempio non vi sono indici radiologici standardizzati per la colonna vertebrale e la maggior parte degli studi riguarda l’artrosi del ginocchio. In altri termini la verifica radiografica di per sé non sempre è sufficiente e adeguata nel dimostrare il beneficio clinico in termini di protezione cartilaginea. Maggiore selezione per il disease modifying Come per altre condizioni a origine multifattoriale, per l’osteoartrosi la ricerca di un trattamento disease modifying probabilmente tenderà in futuro a essere sempre più orientata secondo un approccio proof of concept. L’obiettivo sarà cercare di caratterizzare in modo sempre più preciso le osteoartrosi, o in altri termini di individuare sottopopolazioni più omogenee sulle quali verificare l’utilità dei trattamenti, per esempio per caratteristiche genetiche, profilo di espressione di particolari enzimi e/o mediatori infiammatori coinvolti nella patogenesi, o rilievi 51 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi all’imaging con risonanza magnetica: ai fini della ricerca potrebbero essere di maggiore interesse i pazienti a elevata probabilità di progressione rapida, sui quali l’effetto di un trattamento disease modifying potrebbe essere facilmente osservato nei tempi abitualmente utilizzati negli studi. In questo senso potrà essere di grande contributo il dosaggio di specifici biomarcatori, sia per la selezione dei pazienti con caratteristiche di interesse sia per il monitoraggio dell’efficacia e della sicurezza delle terapie. Alcuni di questi biomarcatori sono infatti in grado di segnalare anche precocemente un cambiamento metabolico favorevole: questo tipo di riscontro potrebbe confermare la correttezza di un trattamento e rafforzare le motivazioni a proseguirlo, considerando che gli effetti strutturali (di grande rilevanzanell’evoluzione della malattia artrosica) sono rilevabili solo dopo terapie di lungo termine. 3.1 Gli obiettivi dei trattamenti: un’evoluzione culturale Nell’ambito della condroprotezione l’interesse dei clinici si è da subito rivolto a composti che potessero in qualche modo interferire favorevolmente con i processi biologici che regolano anabolismo/catabolismo della cartilagine e più in generale dei tessuti articolari, con l’obiettivo di contrastare l’usura meccanica della cartilagine. Almeno inizialmente, alcuni condroprotettori sono stati utilizzati proponendo come razionale la possibilità di fornire substrati per la sintesi dei componenti della cartilagine: per la glucosamina, ad esempio, l’effetto di stimolo sulla sintesi dei 52 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione proteoglicani osservato è coerente con il beneficio osservato in termini di riduzione dei sintomi e – come evidenziato da studi più recenti – anche di effetti strutturali. Tuttavia – in parallelo con le ricerche sulla patogenesi – si sono moltiplicate le ricerche che hanno evidenziato per i condroprotettori come la glucosamina, ma anche per il condroitin solfato, l’acido ialuronico e il collagene, azioni ancora più raffinate. Gli effetti biologici esercitati sui tessuti articolari da queste sostanze sono risultati complessi e più ampi del solo effetto trofico, estendendosi anche a coinvolgere la membrana sinoviale oltre alla cartilagine: tali effetti, per esempio, includono la modulazione dell’espressione di enzimi coinvolti nella degradazione delle matrici e una serie di azioni che contrastano i meccanismi infiammatori e angiogenici dell’osteoartosi. Molti altri composti attivi sono stati via via presentati all’attenzione, come la diacereina e gli estratti insaponificabili di soia e avocado, per i quali esistono segnalazioni di attività sugli aspetti infiammatori della malattia. La consapevolezza di un precoce e importante coinvolgimento dell’osso subcondrale nel processo patogenetico ha esteso inoltre l’interesse anche a questo settore anatomico come possibile target terapeutico: questo ha sollecitato la candidatura di trattamenti che favoriscono la mineralizzazione, quali i bifosfonati e il ranelato di stronzio, quest’ultimo contrastato da importanti limiti di sicurezza cardiovascolare che sembrano escluderne l’impiego. Al di là delle differenti modalità di azione, i trattamenti condroprotettivi per via orale sono tutti destinati ad assunzioni di lungo termine, con effetti clinici che si manifestano dopo alcuni mesi di trattamento (4-6 mesi): in questo risiede l’essenziale differenza con i FANS il cui effetto sintomatico, che si manifesta a breve termine, non può comunque essere mantenuto in 53 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi modo duraturo perché il trattamento non può essere protratto per lunghi periodi. Ciò comporta anche implicazioni di tipo culturale che coinvolgono i pazienti, che devono essere adeguatamente sostenuti e motivati perché sia chiaro il ruolo del condroprotettore e la differenza rispetto a un farmaco ad azione puramente analgesica-antinfiammatoria. Nonostante la buona tollerabilità dei condroprotettori orali, infatti, una parte dei pazienti non si dimostra aderente alla prescrizione semplicemente per la difficoltà a mantenere nel lungo termine il “gesto” di assumere quotidianamente il farmaco. Il ruolo del clinico in questo senso è determinante: in termini pratici deve adeguatamente spiegare al paziente che la terapia condroprotettiva agisce in modo più complesso e profondo sulla salute dei tessuti cartilaginei. Ciò richiede una diligente adesione al trattamento, che va attuato per tutta la durata prescritta. L’atteggiamento di maggiore o minore interesse e utilizzo di queste molecole da parte dei clinici, a sua volta, sembra risentire in modo importante anche di aspetti culturali e regolatori. Alcuni dei più autorevoli clinici e ricercatori sull’osteoartrosi a livello internazionale (nomi come Francis Berembaum, Thimoty McAlindon e Hiroshi Kawaguchi) hanno già avuto occasione di puntualizzare i diversi atteggiamenti dei clinici in paesi diversi nei confronti delle strategie di condroprotezione (Current Status of and Prospects for Osteoarthritis Treatment. Development of Japanese OA guidelines based on OARSI part 2. OARSI Newsletter, 2011). Nell’universo internazionale dei terapeuti, esistono specialisti che privilegiano la condroprotezione orale, mentre altri privilegiano la condroprotezione per via infiltrativa. È opportuno sottolineare che anche per l’osteoartrosi è ormai possibile pensare a diversi approcci terapeutici in termini di tailored therapy e cioè di una terapia “a misura” del paziente e del suo fenotipo di 54 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione osteoartrosi: insieme alla competenza clinica ciò deve portare a selezionare il trattamento migliore per il paziente ricorrendo a soluzioni diverse per casi diversi, anche con terapie combinate orali e infiltrative. In ogni caso, un atteggiamento conservativo che tenda a favorire le risorse autoriparative e la normalizzazione dei tessuti articolari con tutti gli strumenti disponibili, inclusa la condroprotezione orale, merita di essere adottato più estesamente, in una prospettiva di gestione della malattia più a lungo termine e meno fatalistica di quella attualmente più diffusa. 3.2 Glucosamina e condroitin solfato Le molecole sulle quali si è accumulato il maggior numero di evidenze sono la glucosamina e il condroitin solfato, che sono stati impiegati in un discreto numero di studi sia in monoterapia sia in combinazione. Questi aminoglucidi sono abbondanti nella cartilagine ialina (Figura 3.1), dove entrano nella composizione dell’acido ialuronico (glucosamina) e degli aggrecani (glucosamina, condroitin solfato). Da circa 20 anni la glucosamina per somministrazione orale è utilizzata nella terapia dell’osteoartrosi e continua a fornire un valido supporto nella gestione del paziente artrosico. Inizialmente il razionale per il suo utilizzo è stato individuato nella possibilità di fornire substrati per la sintesi di acido ialuronico e cheratan solfato, stimolando quindi i processi anabolici. Progressivamente è emerso – sia da studi in vitro che in vivo – che probabilmente a prevalere sono gli effetti anticatabolici e antinfiammatori, sia sulla cartilagine che sulla membrana sinoviale, con probabili riflessi anche sull’osso subcondrale. 55 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi Figura 3.1 Rappresentazione schematica di un complesso acido ialuronico-aggrecani presente nella cartilagine ialina aggregato aggrecani-A core protein G3 condroitin solfato aggrecano D-glucuronato N-ac galattosamina cheratan solfato D-galattosio acido ialuronico G2 G1 N-ac glucosamina Acido ialuronico Proteina link D-glucuronato N-ac glucosamina Rappresentazione schematica di un complesso AI-aggrecani (in alto) e della struttura di un aggrecano (in basso). Nell’aggrecano si trova una proteina (core protein, cp) con un’ampia porzione filamentosa centrale alla quale sono legati covalentemente i glicosaminoglicani condroitin solfato e cheratan solfato. Al suo N-terminale la core protein presenta alcuni domini globulari: quello più terminale (G1) è legato in modo non covalente a un filamento di AI, stabilizzato da una piccola proteina globulare (link protein). Nell’ambito del complesso, la glucosamina si trova come componente dell’acido ialuronico (dimeri di acido glucuronico + N-acetil glucosamina) e del cheratan solfato (dimeri di D-galattosio + N-acetil glucosamina), di cui è ricca la porzione dell’aggrecano prossima all’N-terminale della core protein. La glucosamina si trova inoltre nel liquido sinoviale dove è prevalentemente presente come componente dell’acido ialuronico in forma libera, in filamenti di diverse dimensioni. Nelle sue raccomandazioni per il trattamento dell’osteoartrosi del ginocchio, l’EULAR afferma l’utilità di glucosamina, condroitin solfato e altri Sysadoa (Symptomatic slow acting drugs for osteoarthritis) nel controllo sintomatico aggiungendo anche considerazioni positive su un potenziale effetto strutturale; inoltre sottolinea il fatto che le evidenze a sostegno di condroitin solfato e glucosamina sono andate aumentando negli ultimi anni nell’osteoartrosi del ginocchio, mentre al momento per l’osteoartrosi dell’anca e della mano è stato condotto un mino56 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione re numero di studi (Jordan, 2003; Zhang, 2005; Zhang, 2007). Gli stessi contenuti sono ribaditi dagli adattamenti italiani delle raccomandazioni elaborati da una consensus di esperti e di tipo multidisciplinare (Punzi, 2004; Punzi, 2005; Manara, 2013). Effetti sulle interleuchine e altri mediatori del catabolismo cartilagineo L’evoluzione delle esperienze che hanno portato alla dimostrazione degli effetti biologici della glucosamina è ricca di evidenze, che sostengono oggi il ruolo clinico terapeutico di questo composto. Particolarmente interessante è l’esperienza di Gouze e collaboratori (Gouze, 2006) su colture di condrociti di ratto, in cui si evidenzia un effetto protettivo della glucosamina nei confronti degli effetti artritogeni dell’interleuchina-1b (IL-1b), un mediatore di flogosi importante nella patogenesi dell’osteoartrosi, in grado anche di promuovere il catabolismo dei componenti della matrice cartilaginea. I condrociti che vengono incubati con glucosamina prima dell’esposizione a IL-1b evidenziano – rispetto ai condrociti non preincubati – una ridotta produzione di ossido nitrico (a noto effetto proinfiammatorio) e non solo: risultano anche meno espressi i geni stimolati dall’ IL-1b e coinvolti nell’osteoartrosi, ossia quei geni che codificano per metalloproteasi, citochine, chemochine, COX-2, NO sintasi, tutti influenti in senso catabolico sulla matrice cartilaginea. Calamia (Calamia 2010) ha osservato effetti simili in colture di condrociti umani attraverso un’analisi diretta del profilo di espressione proteica. Anche in questa esperienza glucosamina e condroitin solfato, soli o in combinazione, hanno ridotto l’effetto dell’interleuchina-1 in termini di espressione di proteine coinvolte nella 57 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi degradazione della matrice e nell’infiammazione. Una riduzione dell’espressione di geni coinvolti nei processi catabolici, in particolare di aggrecanasi-1 e metalloproteasi MMP-3, è stata infine osservata in espianti di cartilagine umana osteoartrosica incubata con glucosamina cloridrato o glucosamina solfato (Uitterlinden, 2006). Sono stati osservati anche chiari effetti di tipo proanabolico: l’esposizione a glucosamina aumenta la produzione di acido ialuronico in colture di condrociti e sinoviociti (Igarashi, 2011) e in espianti di membrana sinoviale umana (Uitterlinden 2008). Anche il condroitin solfato sembra inibire l’espressione di alcune metalloproteasi (ADAMTS-4 e -5, MMP-13) in colture di condrociti e sinoviociti umani (Imada et al 2010); nella stessa esperienza, inoltre, il condroitin solfato aumenta l’espressione della core protein degli aggrecani, favorendone la sintesi. Nei ratti, in un modello di artrite indotta da Mycobaterium, la glucosamina ha mostrato un moderato effetto antinfiammatorio nella fase postacuta dell’infiammmazione, con un effetto sinergico quando somministrata con acidi boswellici, miscela di acidi triterpenici ottenuti dall’estratto dell’oleoresina della pianta Boswellia serrata (Singh 2007). Nella Tabella 3.1 sono elencati i principali effetti della glucosamina utili in senso condroprotettivo, osservati in colture di condrociti da pazienti artrosici (Dodge, Jimenez 2003; Piperno 2000; Uitterlinden 2006). Effetto anti-angiogenico e sul metabolismo osseo Per il condroitinsolfato è interessante anche la dimostrazione in senso anti-angiogenico, risultato di una favorevole modulazione del bilancio fra meccanismi proangiogenici e antiangiogenici. La dimostrazione di questo effetto è stata fatta su fibroblasti umani provenienti da membrane sinoviali di articolazioni ar58 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione trosiche; in particolare il condroitin solfato sembra contrastare l’effetto dell’interleuchina-1b, che determina, dopo una complessa successione di eventi, un effetto proangiogenico e quindi responsabile di un quadro di sinovite (Lambert 2012). Il risultato è una normalizzazione del metabolismo dei tessuti sinoviali che si oppone agli stimoli angiogenici osservati nelle fasi acute caratterizzate da sinovite. Un effetto protettivo di condroitin solfato e glucosamina è stato osservato anche per il tessuto osseo. In colture di osteoblasti da osso subcondrale (Tat 2007) il condroitin solfato, solo o in associazione con la glucosamina, limita la produzione di osteoprotegerina e RANKL, due fattori di natura proteica – rispettivamente recettore e ligando – implicati nel riassorbimento e rimodellamento dell’osso subcondrale tipico dell’osteoartrosi. Tabella 3.1 Sintesi degli effetti metabolici di glucosamina Effetti anabolici in condrociti prelevati da pazienti artrosici: sintesi di proteoglicani mRNA di geni che riguardano la sintesi di aggrecano produzione di protein-chinasi C (PKC) Effetti anticatabolici in condrociti prelevati da pazienti artrosici: produzione e attività della MMP-3 aggrecanasi attività della fosfolipasi A attività della collagenasi Effetti in vivo I dati in vivo che indicano le potenzialità condroprotettive di glucosamina e condroitin solfato sono numerosi e privilegiano in genere la combinazione dei due trattamenti. 59 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi In un modello animale di osteoartrosi spontanea la somministrazione orale di glucosamina o di condroitin solfato riduce la degenerazione della cartilagine e l’espressione di MMP-3 (Taniguchi 2012). In un modello di osteoartrosi indotta (resezione del legamento crociato anteriore nel coniglio) la somministrazione di glucosamina o di condroitin solfato limita l’estensione delle lesioni rispetto ai controlli non trattati, con un effetto sinergico quando la somministrazione è combinata (Figura 3.2) (Lippiello, 2000). Evidenze di effetti vantaggiosi diretti anche sull’osso sono state fornite da un’esperienza su osteoartrosi indotta da collagenasi sul topo: la somministrazione orale di glucosamina cloridrato ha ridotto la progressione delle lesioni nell’osso subcondrale, effetto che si accompagna a una riduzione dell’espressione di RANKL nel tessuto e dei livelli sierici dello stesso, a una riduzione dell’IL-6 sierica e a un aumento della IL-10 (dagli effetti antinfiammatori) nel liquido sinoviale (Ivanovska 2011). Effetti su sintomi e funzione La letteratura clinica oggi disponibile sull’impiego terapeutico di glucosamina e condroitin solfato è relativa a diversi distretti articolari, con una prevalenza degli studi sui pazienti con osteoartrosi del ginocchio. Uno degli studi ritenuto più significativo sulla valutazione degli effetti clinici, anche per le sue dimensioni (circa 1.500 pazienti), è lo studio GAIT (Glucosamine/chondroitin Arthritis Intervention Trial). Lo studio, randomizzato, ha messo a confronto con placebo, glucosamina cloridrato, condroitin solfato, GA+CS e celecoxib. In sintesi, a 24 settimane ne risulta un effetto favorevole per GA+CS, in particolare nei soggetti con dolore moderato-severo (Clegg et al, 2006). In questo gruppo l’outcome primario dello studio (la riduzione del Womac di almeno il 60 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Figura 3.2 18 16,6 grado totale delle lesioni 16 14 12,2 12 11 10 8 6 4,4 4 2 0 Controllo GA CS Combinato (GA+CS + manganese ascorbato) Glucosamina e condroitin solfato limitano il grado delle lesioni della cartilagine in un modello sperimentale di osteoartrosi del ginocchio. Grado totale delle lesioni (media dell’estensione lineare delle lesioni x numero di lesioni dell’animale). L’effetto in combinazione è di tipo sinergico. Rappresentazione grafica di dati da Lippiello et al, 2000. 20%) ha visto una risposta migliore con glucosamina rispetto al placebo, e lo stesso vale per l’outcome secondario (risposta secondo i criteri clinici Omeract-OARSI) (Figura 3.3). Nell’osteoartrosi della mano l’efficacia su dolore e funzionalità del condroitin solfato è stata evidenziata in uno studio controllato contro placebo su 162 pazienti (Gabay et al, 2011), con maggiore riduzione del punteggio VAS e del Dreiser score nella scala FIHOA per la funzione (Functional Index for Hand Osteoarthritis). In uno studio osservazionale retrospettivo su 104 pazienti con osteoartrosi della mano, anca o ginocchio sono state confrontate due terapie: una contenente l’associazione di condroitin solfato + glucosamina, l’altra la stessa associazione con l’aggiunta di collagene nativo di tipo II parzialmente idrolizzato. Entrambi i trattamenti hanno significativamente ridotto il punteggio 61 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi della VAS per la valutazione globale dopo sei mesi, risultato che si è mantenuto anche a un anno; negli 84 pazienti con osteoartrosi della mano, (dei quali 30 con osteoartrosi erosiva) glucosamina e condroitin solfato hanno determinato modificazioni favorevoli del metabolismo cartilagineo con benefici ulteriori dall’aggiunta di collagene di tipo II, più avanti descritti (Scarpellini 2008). % di responder (-20% WOMAC pain score) Figura 3.3 90 79,2 80 70 60 65,7 69,4 61,4 54,3 50 40 30 20 10 0 Placebo GA CS GA + CS Celecoxib Osteoartrosi del ginocchio, Studio GAIT: quota di pazienti (con dolore moderato-severo) che mostra risposta ai trattamenti a 24 settimane come riduzione del 20% del WOMAC pain score. Rappresentazione grafica di dati da Clegg, 2006. Das e Hammad hanno trattato per 6 mesi 93 pazienti con glucosamina cloridrato, condroitin solfato e vitamina C, in confronto con placebo, ottenendo nel gruppo trattato un significativo miglioramento dell’indice algofunzionale di Lequesne (ISK, Index for Severity of osteoarthritis of the Knee): l’evidenza clinica favorevole è risultata nel 52% dei pazienti trattati con glucosamina contro il 28% dei pazienti nel gruppo placebo (Das, Hammad, 2000). 62 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Evidenze di effetto strutturale Il risultato più ambito da ogni terapeuta che si occupi di artrosi è dimostrare – ricorrendo all’imaging e anche ai biomarcatori umidi – che un trattamento è in grado di determinare sui tessuti articolari modificazioni strutturali favorevoli. Anche se i risultati ottenuti ad oggi non sono univoci, alcune esperienze possono essere segnalate. Per il condroitin solfato impiegato in monoterapia l’effetto strutturale è stato documentato con evidenza radiografica. Nello studio STOPP (Kahan et al, 2009), l’analisi delle immagini di osteoartrosi del ginocchio ha rilevato una minore riduzione del JSW (joint space width) minimo con la somministrazione di condroitin solfato per 2 anni nel confronto con placebo (Figura 3.4) Figura 3.4 CS 0,07 Osteoartrosi del ginocchio: riduzione del JSW minimo a 24 mesi nel trattamento con condroitin solfato rispetto a placebo. Rappresentazione grafica di dati da Kahan, 2009. 0,31 Placebo 0 0,1 0,2 0,3 0,4 riduzione JSW minimo (mm) a 24 mesi Ricorrendo a una metodica non ancora validata ma indubbiamente ricca di potenzialità – in particolare nella rilevazione di alterazioni strutturali precoci – Wildi ha evidenziato con la risonanza magnetica un effetto protettivo strutturale del condroitin solfato in pazienti con osteoartrosi di ginocchio e sinovite (Kellgren&Lawrence 2-3) (Wildi et al, 2011). In questo studio si è evidenziato che nei pazienti che assumevano condroitin solfato si verificava una perdita di cartilagine minore rispetto 63 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi ai pazienti che assumevano placebo, soprattutto nel comparto laterale. Oltre alla minore perdita di tessuto cartilagineo, gli autori hanno osservato una riduzione dell’edema osseo come descritto da Felson (Felson, 2003). È utile ricordare che a questo tipo di lesioni si guarda con interesse interpretandole in senso prognostico, in quanto da più autori sono state associate a una maggiore probabilità di progressione delle lesioni cartilaginee. Simile è il risultato di un’analisi recente su 600 casi nello studio di coorte Osteoarthritis Initiative: in 24 mesi di trattamento, glucosamina e condroitin solfato riducono la perdita di massa di cartilagine nel ginocchio valutata con la MRI (Martel-Pelletier 2015). A complemento della valutazione con l’imaging, cresce l’interesse per i biomarcatori solubili come indici di metabolismo dei tessuti articolari e quindi espressione di un possibile effetto disease modifying dei trattamenti orali. Una delle evidenze più significative, anche per la numerosità del campione, è quella di uno studio che ha incluso 104 pazienti con osteoartrosi della mano, del ginocchio e dell’anca: il trattamento con glucosamina e condroitin solfato, anche in associazione a collagene di tipo II nativo parzialmente idrolizzato, ha determinato in un anno riduzione dei marcatori di degradazione del collagene di tipo I e II uCTX-I e uCTX-II (Scarpellini 2008). 3.3 Acido ialuronico Nell’ambito della cartilagine ialina e nel liquido sinoviale, l’acido ialuronico rappresenta una delle molecole strutturali più importanti, determinante per le caratteristiche biomeccaniche di entrambi. Pertanto il suo utilizzo nel tentativo di ripristinare condizioni favorevoli nell’articolazione soggetta a degenerazione è stato ampiamente esplorato: esiste un’esperienza solida 64 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione sull’uso intrarticolare che ne evidenzia il beneficio sui sintomi, e negli ultimi anni è andato crescendo l’interesse per la somministrazione orale. L’utilizzo intrarticolare di acido ialuronico è consolidato nella pratica clinica, e la sua validità nel controllo del dolore e nel miglioramento funzionale è riconosciuta anche nelle raccomandazioni delle principali società scientifiche di reumatologia. Su questo argomento, già trattato in una precedente pubblicazione (Scarpellini M. La terapia infiltrativa nelle malattie reumatiche. Sinapsis, Milano, 2011), si cita l’esperienza di Conrozier in quanto particolarmente significativa in relazione all’uso dei biomarcatori solubili del metabolismo dei tessuti articolari (Conrozier 2012). Il lavoro (condotto su pazienti con osteoartrosi monolaterale del ginocchio) non solo ha mostrato una riduzione del biomarcatore urinario di degradazione del collagene di tipo II (uCTX-II) dopo un ciclo infiltrativo con acido ialuronico e follow-up di tre mesi, ma ha anche evidenziato che i livelli basali di uCTX-II e di acido ialuronico sierico (sAI) correlano con la risposta clinica: in particolare la risposta è maggiore nei pazienti con i livelli basali più elevati dei biomarcatori. L’impiego in formulazioni orali, in una prospettiva di prevenzione dell’estensione del danno articolare, è invece di interesse più recente: sebbene l’acido ialuronico sia impiegato da tempo come supplemento nutrizionale, la disponibilità di preparati con standard qualitativi elevati è relativamente recente, così come gli studi che ne hanno valutato l’efficacia. Al momento i dati hanno prevalentemente verificato l’efficacia come Sysadoa, con attenzione quindi al dolore, alla funzione e alla soggettiva percezione di salute, qualità di vita, funzionamento. 65 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi Gli effetti biologici: esperienze in vitro e in vivo Le attività biologiche dell’acido ialuronico nel liquido sinoviale, accanto a quelle reologiche, sono oggetto di indagine da circa un decennio, e molte di esse sembrano destinate a ulteriori sviluppi. L’assorbimento sistemico e la distribuzione nei tessuti target dell’acido ialuronico assunto per via orale è stato ad oggi studiato e dimostrato soltanto impiegando acido ialuronico ad elevato peso molecolare (1500 KDa). È quanto ha dimostrato Balogh somministrando ad animali (ratto e cane) acido ialuronico marcato con radiotraccianti (Balogh, 2008). Gli autori hanno somministrato una singola dose di acido ialuronico radiomarcato di p.m.≥1500 KDa, e hanno misurato la radioattività in diversi organi e tessuti fino a 72 ore dall’ingestione. Benché la maggior parte della radioattività da 99mTc-AI negli animali fosse eliminata con feci e urine, fino a un massimo del 10 per cento era assorbita sistemicamente permanendo nei tessuti fino a 72 ore: sangue, ossa, muscoli, pelle e articolazioni accumulavano radioattività. Nel dettaglio dello studio di Balogh, la SPECT ha rilevato la radioattività nel liquido sinoviale e sulla superficie di ossa e cartilagine in caviglia, ginocchio, anca, polso, gomito e spalla, evidenza a sostegno della capacità dell’acido ialuronico di raggiungere la sede articolare. Gli autori escludono che la radioattività rilevata nelle articolazioni sia da attribuire al tracciante dissociato (lo esclude un confronto con gruppo di controllo esposto al solo radiotracciante, in cui si rileva un pattern di distribuzione diverso), o a cataboliti dell’acido ialuronico, che hanno una distribuzione prevalentemente epatica. 66 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione L’esperienza clinica con acido ialuronico orale Gli studi sull’impiego orale di acido ialuronico a oggi si riferiscono a diversi distretti articolari, con la maggiore quantità di dati su pazienti con osteoartrosi del ginocchio, indicando possibilità interessanti di impiegare questa terapia nell’ambito di una strategia di condroprotezione. Kalman (Kalman et al, 2008) ha ottenuto un favorevole effetto sul controllo del dolore e sulla percezione della qualità di vita (misurati con il WOMAC e il SF-36) in uno studio su 40 pazienti in cui un prodotto a base di acido ialuronico è stato confrontato con il placebo. Lo schema di trattamento prevedeva 1 assunzione giornaliera per 8 settimane di prodotto ottenuto da estrazione da creste di gallo a elevato contenuto di acido ialuronico (Figura 3.5). Figura 3.5 variazioni rispetto al basale variazioni rispetto al basale miglioramento 15 8 6 10 4 5 estratto di creste di gallo a elevato contenuto in AI (60-70%) 2 placebo 0 0 Basale 4 settimane 8 settimane Basale 4 settimane 8 settimane Efficacia sul dolore e sulla funzione di un trattamento con estratto ad alto contenuto di AI nell’OA di ginocchio. Differenze a 8 settimane rispetto al basale dei punteggi SF-36 per il dolore (a sinistra) e per la funzione (a destra). Da Kalman, 2008. Tashiro ha ottenuto risultati favorevoli in uno studio su 60 pazienti, più precisamente nel sottogruppo di età inferiore o uguale a 70 anni e nei pazienti con carico di malattia maggiore 67 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi (Figura 3.6). Lo studio ha previsto un trattamento di lungo termine con acido ialuronico di peso molecolare ≥900 KDa o placebo per 12 mesi, e per valutare gli effetti terapeutici ha impiegato la scala JKOM, Japanese Knee Osteoarthritis Measure (Tashiro et al, 2012). Figura 3.6 140 punteggio JKOM (%) miglioramento 120 100 80 60 *# 40 *# *# *# AI 900 KDa, purezza 90% 20 0 placebo 0 2 4 6 8 10 12 mesi Efficacia di un trattamento con AI nell’OA di ginocchio. JKOM (Japanese Knee Osteoarthritis Measure), subscala “health conditions”): percentuale rispetto al basale a fino ai 12 mesi. p<0.05 vs basale, #p<0.05 vs placebo. Da Tashiro, 2012. Simili sono i risultati ottenuti da Sato (Sato 2009), che ha trattato 37 pazienti con gonartrosi: in un’analisi restrittiva limitata ai casi più severi, l’effetto dell’acido ialuronico (pm 900KDa, 200 mg/die) è risultato superiore al placebo in termini di differenza rispetto al placebo nel punteggio Womac. Gli eventi avversi segnalati in queste esperienze, in buona parte dei casi ritenuti non correlati ai trattamenti e comunque di lieve entità, suggeriscono un buon profilo di tollerabilità per l’acido ialuronico orale. Merita probabilmente qualche riflessione il tema della qualità delle formulazioni orali contenenti acido ialuronico: poiché il metodo di preparazione determina il peso molecolare medio 68 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione dei filamenti di acido ialuronico, nonché la variabilità di questo parametro tra le molecole, orientarsi verso preparati ottenuti da processi di produzione con standard qualitativi elevati è una premessa indispensabile al fatto di poter ottenere un risultato terapeutico. 3.4 Collagene di tipo II La fase solida della matrice della cartilagine ialina è composta in larga parte di collageni, rappresentati per il 90 per cento da collagene di tipo II, l’unico specifico della cartilagine ialina. Estratti idrolizzati o parzialmente idrolizzati di collagene di origine animale sono stati utilizzati come supplemento nutrizionale nell’osteoartrosi allo scopo di favorire il trofismo della cartilagine fornendo ai condrociti substrati per la sintesi della molecola. In tempi più recenti ci si è rivolti anche all’impiego di preparati costituiti da estratti purificati di collagene non idrolizzato che sembrano esercitare effetti biologici con meccanismi diversi e più complessi rispetto a quelli di tipo trofico. Evidenze di efficacia degli idrolizzati di collagene sono state ottenute da alcuni autori, in termini di riduzione del dolore nella gonartrosi (Benito-Ruiz 2009; Clark 2008, Bruyere 2012). Evidenze interessanti sia sull’efficacia sia sui possibili meccanismi di azione che la sostengono riguardano il collagene di tipo II nativo (non idrolizzato), come dimostra per esempio l’ esperienza di Crowley (Crowley 2009). Lo studio è stato condotto in 52 soggetti con osteoartrosi del ginocchio e ha confrontato due diversi regimi terapeutici: l’associazione condroitin solfato+glucosamina e il e collagene nativo di tipo II. Il disegno dello studio prevedeva randomizzazione e doppio cieco con valutazione della VAS dolore, del punteggio WOMAC e dell’indice di Lequesne come outcome dello studio all’inizio, e in seguito a 30, 60 e 90 giorni. 69 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi Sebbene entrambi i trattamenti abbiano mostrato la tendenza alla riduzione della VAS dolore e degli indici algofunzionali per tutta la durata dello studio, solo il trattamento con collagene ha mantenuto a 90 giorni un miglioramento significativo rispetto al basale per tutti gli indici considerati (VAS dolore, punteggio WOMAC, indice di Lequesne); l’associazione condroitin solfato e glucosamina ha ottenuto differenze significative rispetto al basale fino ai 60 giorni per il WOMAC e fino ai 30 per la VAS dolore (Figura 3.7, Tabella 3.2). Nessuna differenza nella tollerabilità dei trattamenti è stata osservata, con effetti avversi di entità lieve o moderata. Figura 3.7 40 30 UC-II GC 20 10 ** 0 * Riduzione score WOMAC (%) Riduzione score VAS (%) * Riduzione score Lequesne (%) * Differenza score a 90 giorni-score basale significativa con p<0,05 **Differenza score a 90 giorni-score basale significativa con p<0,005 Osteoartrosi del ginocchio: riduzione percentuale a 90 gg. rispetto al basale degli score Lequesne, VAS dolore e WOMAC per trattamenti con glucosamina + condroitin solfato e con collagene nativo di tipo II. Rappresentazione grafica di dati da Crowley, 2009. Un’esperienza, già descritta, in 104 soggetti con osteoartrosi della mano, anca o ginocchio (Scarpellini 2008) ha evidenziato che il collagene di tipo II nativo parzialmente idrolizzato aggiunto a glucosamina+condroitin solfato (GCC) rallenta la progressione radiografica dell’osteoartrosi; inoltre migliora 70 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione l’andamento dei biomarcatori di degradazione ossea e cartilaginea che già la terapia con glucosamina+condroitin solfato (GC) modifica favorevolmente. L’effetto del collagene di tipo II è evidente nel sottogruppo di 84 pazienti con osteoartrosi della mano. A un anno di trattamento, infatti, i soggetti trattati con GCC mostrano una minore progressione radiologica rispetto ai quelli trattati con GC (Figura 3.8, Tabella 3.2). Per il biomarcatore di catabolismo della cartilagine uCTX-II, l’andamento è più favorevole con il trattamento che include il collagene di tipo II: tutti i soggetti mostrano riduzione del uCTX-II a 6 mesi, ma solo quelli trattati con GCC la mantengono a 12 mesi (Figura 3.9, Tabella 3.2). Infine, il gruppo trattato con GCC ottiene una maggiore riduzione del biomarcatore di catabolismo dell’osso uCTX-I rispetto al gruppo GC. Figura 3.8 45 12 mesi bone rate decay 40 Basale 35 12 mesi Osteoartrosi della mano: minore progressione radiologica a 12 mesi con GCC rispetto a GC. Scarpellini 2008, dati forniti dagli autori. Basale 30 GCC GC Figura 3.9 350 uCTX-I,µg/mmol 300 250 Basale Basale 12 mesi 200 6 mesi 12 mesi 150 6 mesi 100 GCC Osteoartrosi della mano: i pazienti trattati con GCC mantengono a 12 mesi la riduzione del biomarcatore di degradazione del collagene di tipo II uCTXII. Scarpellini 2008, dati forniti dagli autori. GC 71 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi Tabella 3.2 Sintesi dei principali risultati degli studi che hanno impiegato il collagene di tipo II come trattamento condroprotettivo orale (Crowley 2009; Scarpellini 2008). Crowley 2009: studio prospettico, randomizzato, in doppio cieco. Pazienti (n=52) con OA del ginocchio Outcome Trattamenti Principali risultati VAS dolore, Womac score Lequesne score a 0,30,60,90 gg Glucosamina + condroitin solfato (GC) Coll-II: riduzione significativa a 90 gg per VAS dolore, Womac score Lequesne score. (rispetto a giorno 0) Collagene di tipo II (Coll-II) Scarpellini 2008: studio retrospettivo osservazionale Pazienti (tot. 104) con OA della mano (54), OA erosiva della mano (30), OA dell’anca o del ginocchio (20). Outcome Trattamenti Principali risultati VAS patient global assessment a 0, 6, 12 mesi Glucosamina + condroitin solfato (GC) Kellgren-Lawrence score a 0 e 12 mesi Glucosamina + condroitin solfato + collagene di tipo II (GCC) GCC: rallentata progressione radiologica nei pz con OA della mano rispetto a GC uCTX-I, uCTX-II a 0, 6, 12 mesi. GCC: maggiore riduzione uCTX-I a 12 mesi rispetto a GC GCC: riduzione uCTX-II mantenuta a 12 mesi, mentre per GC c’è tendenza alla regressione. Correlazione tra uCTX-I e score radiologico 72 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Un nuovo ruolo: modulazione delle risposte immunitarie Una riflessione ampia sui possibili effetti biologici del collagene somministrato per via orale è stata avviata quando alcuni autori hanno iniziato a considerare il modello dell’artrite reumatoide, ipotizzando che alcuni meccanismi patogenetici fossero comuni con l’osteoartrosi. Superato il concetto di degenerazione a origine prevalentemente meccanica per l’osteoartrosi, consolidate le evidenze sul ruolo importante dei meccanismi infiammatori, nel 2002 Bagchi e collaboratori hanno intrapreso uno studio pilota in cui a cinque donne con artropatie a sintomatologia prevalentemente artrosica è stato somministrato per 42 giorni collagene non idrolizzato. Il sintomo dolore, misurato con una scala soggettiva numerica da 1 a 10, si è ridotto in quattro dei cinque soggetti in seguito al trattamento, con riduzione media del 26% (Bagchi 2002). L’elemento di novità posto da questa esperienza è stato l’intento di utilizzare il collagene non per favorire i processi anabolici, ma secondo un diverso razionale mutuato dal modello dell’artrite reumatoide. Nell’AR – sostengono gli autori – il meccanismo di tipo autoimmune è stato attribuito anche a un non riconoscimento come self del collagene di tipo II, attraverso una scorretta interazione tra IgG e collagene: questa aberrazione potrebbe trovare ragione in un difetto di glicosilazione del collagene e delle stesse IgG, come suggerirebbero ad esempio i dati di minore attività della galattosiltransferasi periferica dei linfociti B e T nei soggetti con AR, peraltro correlata a una ridotta glicosilazione delle IgG sieriche. Gli autori sottolineano l’utilizzo in questa esperienza di collagene non denaturato (o nativo) che, a differenza del collagene denaturato, mantiene la struttura quaternaria e quindi la conformazione tridimensionale indispensabile per una corretta interazione con le cellule implicate nei meccanismi di riconoscimento self-non self. 73 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi Un meccanismo autoimmune nell’osteoartrosi potrebbe essere quindi iniziato e sostenuto anche da un mancato riconoscimento come self del collagene di tipo II. Lavori successivi a quello di Bagchi hanno effettivamente evidenziato elevati livelli di anticorpi anti-coll-II in pazienti con artrite reumatoide (Mullazehi 2007; Mullazehi 2012). Da ciò è derivata l’idea di elevare la tolleranza del sistema immunitario nei confronti del collagene aberrante (ossia dotato di struttura o conformazione anomala) sfruttando l’induzione della tolleranza orale attraverso l’esposizione all’antigene a livello del GALT, il tessuto linfoide localizzato nelle placche di Peyer nella parete dell’ileo. La somministrazione orale di collagene a questo scopo ha pertanto utilizzato, in questa esperienza, collagene non sottoposto a idrolisi: solo la molecola non denaturata, infatti, manterrebbe la configurazione tridimensionale e il grado di glicosilazione necessario a interagire correttamente con i linfociti T nelle placche di Peyer (Figura 3.10). L’esperienza con il collagene nativo dello studio di Bagchi sull’osteoartrosi ha in seguito trovato importanti conferme, sull’animale e anche – come si è visto – sull’uomo. Uno studio sul cane ha osservato cha la somministrazione per 90 giorni di collagene nativo (non denaturato) riduce la zoppia dopo esercizio fisico e il dolore alla manipolazione dell’articolazione artrosica (Deparle 2005); nei cavalli, Gupta e coll (Gupta et al, 2009) hanno rilevato una superiorità del collagene rispetto alla combinazione di condroitin solfato e glucosamina. I dati sull’uomo ottenuti nei lavori già citati indicano interessanti potenzialità per il collagene nella condroprotezione, in attesa di altre esperienze che consolidino quanto già mostrato. A completamento di ciò si può osservare che anche nell’artrite reumatoide sono emersi dati favorevoli che sostengono l’effetto 74 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione immunomodulante del collagene: Wei e coll. hanno ottenuto risposte cliniche significative con il collagene non denaturato in termini di riduzione dei sintomi (Wei, 2009), e altri autori hanno evidenziato che la somministrazione orale di collagene nativo favorisce la produzione di IL-10, un’interleuchina che ha un ruolo immunosoppressivo ed è implicata nello sviluppo della tolleranza orale (Min et al, 2006). Figura 3.10 Meccanismi della tolleranza orale che si attivano nel GALT. Coll II nativo (antigene) M cell placca di Peyer villi linfociti intraepiteliali cellule dendritiche processazione e presentazione dell’antigene antigene circolazione portale e sistemica alla lamina propria cellule T linfonodi mesenterici dotto toracico ad altri siti mucosali ad altri siti non mucosali circolazione sistemica Tolleranza orale indica una situazione di iporesponsività immunologica che si ottiene quando le cellule dei tessuti linfoidi associati alle mucose vengono ripetutamente esposti a piccole quantità di antigene. Nell’intestino il tessuto linfoide (GALT, gut associated lymphoid tissue) è rappresentato da noduli linfoidi isolati o aggregati in placche (Placche di Peyer), situati tra lamina propria e sottomucosa dell’ileo. Cruciale è l’azione dl alcune cellule specializzate dell’epitelio (cellule M ricche di ripiegamenti della membrana, segno di intensa attività di endocitosi), che processano gli antigeni e li presentano alle cellule dendritiche delle sottostanti placche di Peyer. La somministrazione orale ripetuta in piccole dosi di collagene nativo nell’animale stimola la proliferazione di specifiche sottopopolazioni di cellule dendritiche in grado di produrre IL-10 (citochina che ha effetti immunosoppressivi) e di indurre le cellule T a differenziarsi in senso regolatorio (Min et al, 2006). 75 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi Studi genetici: difetto di glicosilazione comune negli artrosici Un’ipotesi suggestiva: l’osteoartrosi potrebbe trovare una delle sue concause in un difetto genetico della glicosilazione delle proteine. L’argomento osteoartrosi è piuttosto nuovo a questo tipo di approccio, che ricerca l’associazione tra la presenza di particolari varianti genetiche e la malattia secondo le analisi del tipo genome-wide association study (GWAS). Con questo modello di analisi si studia l’intero genoma (o quasi) di soggetti affetti dalla malattia e lo si confronta con quello dei controlli sani: la presenza di varianti nei soggetti affetti potrebbe indicare il coinvolgimento di uno o più geni nel processo patogenetico, suggerendo in quale direzione indagare per capire di più sulle basi genetiche di una condizione patologica. Lo studio arcOGEN (arcOGEN Consortium, arcOGEN Collaborators, Lancet 2012), che rappresenta una delle più vaste indagini genome-wide rivolta all’osteoartrosi, ha condotto un’indagine in 7410 soggetti con osteoartrosi (l’80 per cento dei quali con indicazione per artroplastica) confrontando i loro dati con quelli pubblicamente consultabili di studi sulla popolazione generale (condotti in Islanda, Regno Unito, Estonia, Olanda). Cinque loci, è emerso dall’analisi, sembrano essere coinvolti: tra questi in particolare una variante localizzata nel locus GTL8D1 (Glycosyl transferase 8 domain containing 1), codificante per un enzima implicato nella glicosilazione: alterazioni nell’espressione di GLT8D1, per gli autori, potrebbero avere conseguenze sulla glicosilazione delle proteine della cartilagine. Questo risultato sembra sostenere l’ipotesi che un’anomala glicosilazione delle proteine strutturali come il collagene di tipo II possa essere implicata nella patogenesi dell’osteoartrosi, anche se non chiarisce ancora in che modo questo porterebbe alle conseguenze visibili nell’osteoartrosi. 76 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Tra gli altri quattro loci implicati ne compare uno localizzato nel gene CHST11 (carbohydrate sulfotransferase 11), codificante per un enzima presente nell’apparato di Golgi che catalizza la solfatazione del condroitin solfato e del dermatan solfato, glicosaminoglicani presenti nella matrice cartilaginea. 3.5 Altre molecole attive La diacereina, derivato semisintetico di glucosidi antrachinonici di origine vegetale (contenuta ad esempio in rabarbaro, aloe, senna), è approvata in diversi paesi europei per il trattamento dell’osteoartrosi. In vitro è stata documentata l’attività inibitoria della diacereina nei confronti delle attività dell’interleuchina-1 e delle metalloproteasi (Martel-Pelletier 1998; Pelletier 1998). Dati clinici hanno documentato l’efficacia sui sintomi dell’osteoartrosi del ginocchio e dell’anca (Pelletier JP 2000; Dougados 2003), con qualche evidenza di effetti strutturali per l’anca. È opportuno peraltro ricordare che nel novembre 2012 l’Agenzia Europea dei Medicinali ha avviato una revisione sui medicinali contenenti diacereina utilizzati per trattare i sintomi di osteoartrosi e altre malattie articolari: la decisione ha seguito una revisione del luglio 2012 dell’Agenzia dei Medicinali francese, che ha concluso che i benefici della diacereina non superano i rischi, con riferimento ad eventi avversi frequenti di tipo gastrointestinale, oltre che a qualche caso grave di patologia epatica e reazioni cutanee (EMA/762522/2012). La frazione insaponificabile di estratti di avocado e soia (Asu) è approvata come farmaco in alcuni paesi europei per il trattamento dell’osteoartrosi, ma non in Italia. Per queste molecole sono stati osservati in vitro effetti di inibizione nei confronti dell’IL-1 e 77 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi dell’aumento di metalloproteasi da essa indotto, ma anche stimolo alla sintesi di aggrecano (Henrotin 2011). Gli estratti insaponificabili di soia e avocado hanno mostrato in alcuni casi effetti sintomatici (riduzione del dolore e miglioramento funzionale) nell’osteoartrosi di ginocchio e anca (Maheu 1998; Appelboom 2001), e evidenze di un possibile effetto strutturale nell’anca (Maheu 2014). Gli Asu sono inclusi nelle raccomandazioni EULAR tra i Sysadoa con possibile effetto sintomatico (Jordan 2003). Considerare l’osso subcondrale come possibile target di trattamento è una strada che si è iniziato ad esplorare in tempi recenti, in conseguenza delle nuove consapevolezze sul coinvolgimento precoce dell’osso nella patogenesi. A tale fine alcuni autori hanno indagato la potenziale utilità del ranelato di stronzio o dei bifosfonati per i loro effetti di rimineralizzazione dell’osso. Sul ranelato di stronzio sono stati ottenuti dati interessanti sui modelli animali (Pelletier 2013) e anche nel primo studio controllato randomizzato sull’uomo, in termini di effetti sintomatici e strutturali (Reginster 2013). Questa opzione sembra tuttavia presentare limiti di sicurezza importanti: nell’aprile 2013 l’EMA (Agenzia Europea dei Medicinali) ha emesso infatti una raccomandazione per nuove restrizioni alle prescrizioni di ranelato di stronzio, a seguito di un aumentato rischio di ischemia cardiaca nei soggetti a rischio oltre al già noto aumentato rischio di tromboembolismo venoso (EMA/258269/2013). Al documento EMA ha fatto seguito una Nota Informativa Importante dell’Aifa. Al momento, dopo una decisione dell’EMA del febbraio 2014 (EMA/84749/2014), il farmaco rimane disponibile nel trattamento dell’osteoporosi solo nei pazienti senza fattori di rischio cardiovascolare o per tromboembolismo venoso che non possano essere trattati con altri farmaci approvati per l’osteoporosi. 78 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Per i bifosfonati sono disponibili sia analisi retrospettive su pazienti che assumevano i farmaci per le indicazioni che sono loro proprie, sia studi clinici ad hoc. Per quanto riguarda le analisi retrospettive, nella coorte della Osteoarthritis Initiative è stata osservata una riduzione significativa del dolore e una tendenza verso minori riduzioni del JSW (joint space width) senza significatività in chi aveva utilizzato bifosfonati per almeno 3 anni (Laslett 2013). Lurati, Scarpellini e coll hanno valutato l’effetto di infusioni di clodronato 300 mg/die somministrato per 10 giorni ogni 3 mesi per 1 anno, confrontandolo col paracetamolo 1000 mg/die somministrato per la stessa via e con lo stesso schema. A 3, 6 e 12 mesi né è risultato un vantaggio per il bifosfonato in termini di punteggio WOMAC, indice di Lequesne e VAS dolore (Lurati 2013). Appaiono invece più incerti i risultati con bifosfonati somministrati per via orale (Davis 2013). La possibilità di impiegare farmaci biotecnologici nel trattamento dell’osteoartrosi è al momento agli inizi. I dati che sostengono il coinvolgimento di diverse citochine nell’osteoartrosi – principalmente l’interleuchina-1b – hanno aperto la strada alla valutazione di anticorpi che interferiscono con l’azione di questa e altre citochine. In buona parte dei casi, però, i risultati degli studi clinici non si sono rivelati in linea con le aspettative generate dai positivi risultati in vitro e sui modelli animali. Almeno nelle esperienze finora realizzate l’antagonista del recettore dell’IL-1b (anakinra) in somministrazione intrarticolare (Chevalier 2009) non ha portato a risultati di rilievo. È peraltro esplorata anche la strada che coinvolge il NGF (nerve growth factor) e che – con l’anticorpo tanezumab – ha dato alcuni risultati positivi nell’anca e nel ginocchio in uno studio di 79 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi fase III; un vantaggio rispetto al placebo è emerso sul punteggio WOMAC per sintomi e funzione e sul Patient Global assessment (Brown, 2012, Brown 2013), ma ci sono anche limiti non trascurabili di tollerabilità a causa di parestesie e disestesie. È probabile che future valutazioni di agenti terapeutici destinati ad agire su precisi bersagli molecolari (ad esempio TNF-a, IL6, IL-8) correlati all’infiammazione cercheranno di selezionare in modo più stringente i pazienti in base allo stadio dell’osteoartrosi e al peso della componente infiammatoria nella malattia, in modo da individuare i gruppi di pazienti sui quali i trattamenti possono avere maggiori probabilità di successo. 3.6 Conclusioni L’artrosi è una malattia diffusa e invalidante che colpisce una sempre più ampia fascia della popolazione: costituisce una delle principali cause di morbilità e disabilità e comporta elevati costi socioeconomici. Il lungo corso della malattia, che si sviluppa in genere nell’arco di decenni, offre una lunga finestra di tempo per condizionarne potenzialmente il decorso. Un intervento efficace richiede però che la diagnosi non solo sia posta precocemente (senza attendere l’instaurarsi di danni ampiamente irreversibili), ma anche che si riconosca in ogni singolo paziente il peso relativo delle diverse componenti di una malattia a eziologia multifattoriale. Oggi per l’artrosi si riconoscono tre principali tipologie: quella ‘post traumatica’ che può essere conseguente a un trauma (acuto o ripetitivo) e che può colpire anche i giovani al di sotto dei 45 80 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione anni; quella ‘metabolica’ che colpisce in genere la popolazione di mezza età, dai 45 ai 65 anni, e la classica artrosi “dell’anziano”, oltre i 65 anni. La scoperta del ruolo dei meccanismi metabolici responsabili dell’artrosi può offrire anche concrete possibilità di prevenzione, e deve stimolare il terapeuta a enfatizzare l’importanza del buon compenso glicemico, del controllo pressorio ottimale, della correzione delle dislipidemie anche al fine di prevenire la progressione dell’artropatia. In prospettiva, inoltre, l’identificazione di questi meccanismi è destinata a condurre a un nuovo modo di curare l’artrosi: come nell’artrite reumatoide, nella spondiloartrite e nell’artrite psoriasica la terapia segue già un doppio binario - cioè una terapia sintomatica e una terapia a lunga azione - anche nell’artrosi questo deve essere il percorso. Da qui l’importanza di terapie che agiscano a livello eziopatogenetico, quindi causale, e che abbiano l’obiettivo di rallentare l’evoluzione della malattia oltre che di controllare il dolore. Questo libro ha voluto offrire una panoramica e un aggiornamento sulle attuali conoscenze in questo settore, sottolineando anche l’importanza dei biomarcatori (sia wet che dry) come fattori predittivi e utili nel follow up della terapia. È in questa direzione che il lavoro di chi si è occupato di ricerca sull’osteoartrosi si è rivolto negli ultimi anni, contribuendo a riportare la giusta attenzione su una malattia a lungo considerata con atteggiamento spesso rinunciatario e fatalistico e, probabilmente, senza considerare nella giusta misura le sofferenze di chi ne è affetto. Pur con la consapevolezza che le attuali terapie hanno comunque limiti da considerare con spirito di realismo, oggi la ricerca ha affermato con decisione il principio che è possibile modificare attivamente il decorso dell’osteoartrosi, limitarne la gravità e rallentarne la progressione, coinvolgendo i pazienti in questo percorso di prevenzione e cura. 81 3. La condroprotezione nell’osteoartrosi • Bibliografia –– Appelboom T, Schuermans J, Verbruggen G, et al. Symptoms modifying effect of avocado/ soybean unsaponifiables (ASU) in knee osteoarthritis. A double blind, prospective, placebo-controlled study. Scand J Rheumatol (2001);30:242-247. –– arcOGEN Consortium; arcOGEN Collaborators. Identification of new susceptibility loci for osteoarthritis (arcOGEN): a genome-wide association study. Lancet. 2012 Sep 1;380(9844):815-23. –– Bagchi D, Misner B, Bagchi M, Kothari SC, Downs BW, Fafard RD, Preuss HG. Effects of orally administered undenatured type II collagen against arthritic inflammatory diseases: a mechanistic exploration. Int J Clin Pharmacol Res. 2002;22(3-4):101-10. –– Balogh L, Polyak A, Mathe D, Kiraly R, Thuroczy J, Terez M, Janoki G, Ting Y, Bucci LR, Schauss AG.Absorption, uptake and tissue affinity of high-molecular-weight hyaluronan after oral administration in rats and dogs. 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EULAR evidence based recommendations for the management of hand osteoarthritis: report of a Task Force of the EULAR Standing Committee for International Clinical Studies Including Therapeutics (ESCISIT). Ann Rheum Dis. 2007 Mar;66(3):377-88. 87 4 [Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori] Metodiche di laboratorio per 4 la rilevazione dei biomarcatori La definizione standardizzata di biomarcatore (biomarker) è stata proposta nel 2001 da un gruppo di lavoro del National Institutes of Health come «parametro oggettivamente misurabile e quantificabile in grado di differenziare un processo patologico da una condizione fisiologica, e di caratterizzare la risposta farmacologica ad un intervento terapeutico» (Biomarkers definition Working Group 2001; Vasan 2006). Si tratta quindi di una definizione generale, che può riferirsi sia ad un test di laboratorio, eseguito in campioni di liquidi organici (sangue, liquor, urine, liquido sinoviale, ecc.) o di tessuto, sia ad un test funzionale, sia ad una indagine di imaging (ecografia, radiografia, PET, NMR, TAC). Una possibile classificazione dei biomarcatori tiene conto del loro utilizzo: • fattore di rischio (antecedent biomarker) se identifica un rischio di sviluppare una certa malattia; • marcatore di screening se può essere utilizzato su una popolazione per l’accertamento di uno stato di malattia ancora in uno stadio subclinico; • indice diagnostico se può essere utilizzabile per riconoscere uno stato di malattia conclamato; • indice di classificazione (staging biomarker) se può essere utilizzato per stratificare i pazienti in classi di differente severità di malattia; • indice prognostico se è in grado di predire l’evolvere della storia naturale della malattia, incluse le eventuali recidive e/o complicanze associate; 90 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione • indice di risposta alla terapia (monitoraggio terapeutico) se è in grado di fornire informazioni sulle risposte ai farmaci durante il naturale decorso della malattia. Un biomarcatore può anche essere utilizzato, ma su questo aspetto non vi è un consenso generale, come indice intermedio di progressione di malattia o come surrogato di obiettivo finale in uno studio clinico con l’indubbio vantaggio di ottenere risultati significativi in un più breve lasso di tempo contenendo i costi (Vasan 2006; Prentice 1989; Colburn 2000; Freedman 1992; Molenberghs 2001; Schaller 2005). Considerando in maniera elettiva le sostanze presenti nel sangue o in altri fluidi biologici (urine, fluidi articolari, liquidi di lavaggio di cavità interne) e per le quali assume un ruolo l’attività del laboratorio, la scelta si orienta verso i prodotti di una specifica attività cellulare con metabolismo conosciuto e non alterato in modo imprevedibile da altri concomitanti processi metabolici, e utilizzabili come test diagnostici e/o prognostici di un particolare stato biologico e della sua evoluzione. 4.1 Caratteristiche di un biomarcatore ideale Le caratteristiche principali che un biomarcatore ideale dovrebbe possedere sono elencate nella tabella 4.1. Fondamentale è comunque la capacità di apportare un contributo informativo addizionale alle altre valutazioni cliniche, incrementando l’accuratezza diagnostica e/o prognostica nei confronti di una specifica malattia (Vasan 2006). Prima di accettare un nuovo marcatore nella pratica clinica, deve essere dimostrato secondo i principi della EBLM (Evidence Based Laboratory Medicine) 91 4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori che il suo utilizzo possa significativamente influenzare la diagnosi, la prognosi e/o la terapia nei confronti di una specifica malattia. Per integrarsi nel processo di decisione clinica un biomarcatore deve possedere un buon grado di accuratezza (analitica, diagnostica e/o prognostica), riproducibilità analitica, accettabilità da parte del paziente, facilità di esecuzione e standardizzazione, uniti ad un basso costo. I requisiti essenziali variano in relazione all’applicazione clinica. Per esempio, in uno screening sulla popolazione generale, un alto grado di sensibilità, specificità e valore predittivo, un basso costo e la facilità di esecuzione diventano qualità prioritarie. Per un utilizzo nel follow-up o nel monitoraggio terapeutico, la sensibilità e la specificità sono relativamente meno importanti in quanto il paziente funge da controllo di se stesso, mentre un’ampia variazione intra-individuale (variabilità biologica intra-soggetto) potrebbe rendere più difficoltosa l’interpretazione clinica degli incrementi/decrementi (fluttuazioni) dei livelli circolanti del marcatore nel tempo (Fraser 2004). Tabella 4.1. Caratteristiche di un biomarcatore ideale • • • • • • • • 92 Il test diagnostico deve essere minimamente invasivo (es. prelievo ematico o raccolta di urine vs biopsia) La concentrazione del biomarcatore deve essere stabile, in vivo e in vitro, nei principali fluidi biologici Disponibilità in commercio di metodi di dosaggio con adeguata sensibilità analitica (o sensibilità funzionale) e con buona riproducibilità Metodi di dosaggio semplici da eseguire, standardizzati e possibilmente eseguibili, con costi contenuti, su sistemi automatizzati Variazione biologica non elevata (idealmente < 20%) Disponibilità di adeguati intervalli di riferimento, divisi (se necessario) per età, sesso ed etnia Ottima accuratezza diagnostica e prognostica Favorevole rapporto costo/beneficio del suo impiego nella pratica clinica Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Ovviamente per un biomarcatore utilizzato nel monitoraggio terapeutico è essenziale che i suoi livelli circolanti (o tissutali) vengano modificati dal trattamento e risentano dei cambiamenti delle posologie utilizzate. Il costo potrebbe essere considerato come una caratteristica relativamente meno importante per i marcatori prognostici, in quanto solo le persone affette dalla malattia devono essere sottoposte al test. I biomarcatori osteoarticolari Le strutture osteoarticolari sono entità anatomico-funzionali in cui coesistono tessuto osseo e tessuto cartilagineo ialino. Dal punto di vista biochimico siamo quindi in presenza di molecole con caratteristiche diverse: numerose tipologie di collagene (grande famiglia di proteine di cui attualmente identificati 28 tipi diversi), proteoglicani, proteine non collageniche della matrice e lipidi. Il tessuto osseo contiene invece un insieme di cellule, proteine, complessi polisaccaridici e costituenti inorganici. Moltissime di queste molecole sono state studiate e proposte come biomarcatori di queste strutture e delle relative situazioni patologiche. Numerosi studi hanno evidenziato che i condrociti possiedono anche antigeni tessuto-specifici che inducono la produzione di anticorpi (potenzialmente utilizzabili come biomarcatori) in pazienti con innesti di cartilagine o con osteoartrosi (Ihyc 2001). Nel caso specifico delle patologie osteoarticolari, gli ultimi quindici anni hanno visto un’intensa attività di ricerca di base che ha moltiplicato i potenziali biomarcatori, molecole (o loro frammenti) che possono essere facilmente misurabili in frazioni del sangue o altri fluidi biologici (urine, fluidi articolari, liquidi di lavaggio di cavità interne) e che possono avere una potenziale utilità nella gestione della malattia. 93 4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori Meno chiaro è tuttavia – nonostante le buone premesse iniziali – il valore di questi analiti per finalità diagnostiche. In questo senso il principale limite è rappresentato dalle notevoli variabilità inter-individuo riscontrate, in conseguenza delle quali è difficile che una singola determinazione sul singolo individuo possa acquisire un valore apprezzabile in termini di sensibilità e specificità diagnostiche. Questi biomarcatori possono acquisire invece importanza negli studi longitudinali e nel monitoraggio nel corso di terapie specifiche purché vi sia un’attenta e razionale selezione dei pazienti alla base (Consensus Development Statement 1997). La capacità del laboratorio di garantire risultati riproducibili e confrontabili nel medio-lungo periodo è un requisito essenziale nella prospettiva di un simile utilizzo dei biomarcatori, dal momento che a questo scopo sono necessarie determinazioni ripetute anche per intervalli di tempo prolungati. 4.2 Le tecnologie analitiche A causa delle problematiche accennate, per poter ipoteticamente utilizzare queste molecole come biomarcatori è necessario disporre di metodi di laboratorio dotati di idonee caratteristiche in termini di accuratezza (capacità di misurare la concentrazione vera del marcatore utilizzato), precisione (capacità di misurare il marcatore in maniera riproducibile), specificità (capacità di riconoscere e quantificare la molecola interessata senza interferenze dovute alla presenza di altre molecole con struttura molto simile ma, a volte, con funzioni e caratteristiche diverse). Inoltre, data la loro presenza nei fluidi biologici in quantità estremamente ridotte (nell’ordine dei pg/mL) è necessario disporre di metodi con 94 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione adeguata sensibilità (capacità di misurare minime concentrazioni di una molecola). Le tecniche analitiche in grado di coniugare queste necessità sono quelle immunometriche, basate sull’estrema specificità della reazione tra un antigene (Ag) ed il relativo anticorpo (Ab) e sull’elevata sensibilità di misura a esse associata derivante dall’utilizzo di traccianti isotopici, poi sostituiti dai più maneggevoli traccianti enzimatici o chemiluminescenti. I metodi ELISA (Enzyme Linked Immunosorbent Assay) sono facilmente adattabili anche alla determinazione di molecole ancora in fase di ricerca e/o valutazione impiegando la tecnologia su micropiastra ad esecuzione manuale (Charni 2005). I metodi in chemiluminescenza sono potenzialmente idonei per sistemi in automazione totale e quindi più utilizzati per molecole ben consolidate per l’utilizzo nella pratica clinica (Garnero 2001). Nati per misurare molecole con caratteristiche di antigene, i metodi ELISA sono i più comuni tra quelli in fase eterogenea e comprendono sia metodi competitivi (ELISA competitivi) sia metodi non competitivi (immunometrici o ELISA sandwich). Nella figura 4.1 è esemplificato uno schema di analisi per la misura di un Ag attraverso l’impiego di Ab (ormai quasi esclusivamente monoclonali e diretti verso un ben determinato e specifico epitopo) immobilizzati sulla parete delle micropiastre (Charrié 2009). Un metodo analogo consente di determinare anche gli Ab: in questo caso è l’Ag corrispondente ad essere fissato in eccesso sul supporto solido; in una prima fase l’Ab che si vuole misurare si lega all’Ag immobilizzato, poi viene aggiunto un secondo Ab (marcato e in eccesso) diretto contro le Ig umane. Chiaramente per consentire una misurazione quantitativa del biomarcatore è necessario predisporre un opportuno sistema di calibrazione basato su concentrazioni note della molecola da misurare. 95 4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori Figura 4.1 Schema analitico di un dosaggio ELISA competitivo applicabile alla determinazione di biomarcatori utilizzando micropiastre e un enzima come tracciante. + E E E E + E E Lavaggi E E E E + anticorpo (Ab) di cattura fissato alla fase solida (micropiastra) antigene (Ag) da misurare E Ag marcato con un enzima (E) S substrato P prodotto della reazione enzimatica Aggiunta substrato S P S P misura dell’assorbanza del prodotto della reazione enzimatica 4.3. L’interpretazione dei risultati Nella valutazione dei risultati ottenuti dal laboratorio il clinico ha a disposizione due criteri di interpretazione. Il criterio dicotomico valuta il risultato ottenuto in termini di negatività o positività nei confronti di un valore soglia determinato su popolazioni di riferimento: è un criterio che consente di portare un eventuale contributo a un quesito diagnostico (ricordiamo però che questo è raramente l’utilizzo di elezione dei biomarcatori). Sicuramente di maggior interesse clinico è il criterio dinamico, cioè la valutazione delle variazioni del livello del marcatore nel tempo rispetto ai valori precedenti per seguire l’andamento della patologia o per monitorare eventuali interventi terapeutici. Fondamentale per questo tipo di utilizzo è l’omogeneità dei risultati nel tempo (e di conseguenza la garanzia della qualità del metodo uti96 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione lizzato e del laboratorio che lo fornisce) (Christgau 2000) e la conoscenza da parte degli utilizzatori di potenziali fattori di aspecificità che possono modificare, in tempi e situazioni diverse, il valore del biomarcatore. In sintesi i buoni marcatori biochimici, adatti per l’utilizzo clinico, devono essere: • specifici per tipologia di tessuto (es. telopeptidi tipo I e cross-link per l’osso, telopeptidi tipo II per la cartilagine); • sensibili (capaci di rilevare variazioni dopo pochi mesi di terapia efficace); • capaci di stimare la “velocità” del metabolismo e non solo l’effetto netto. Occorre considerare però anche alcuni fattori che possono rendere problematica l’interpretazione del risultato: - età, sesso e stato di menopausa influiscono molto spesso sul risultato e per questo è necessario stabilire intervalli di riferimento differenziati e metodo dipendenti (questo è un compito fondamentale del laboratorio) per ogni singolo marcatore; - anche altri fattori (controllabili) come l’attività fisica o il ritmo circadiano possono aumentare la variabilità del marcatore (Seibel 2001); - a volte i biomarcatori presentano difficoltà di interpretazione (la densitometria ossea fornisce una fotografia immediata della situazione mentre un singolo dato di laboratorio sui marcatori del turnover osseo spesso non fornisce indicazioni complete): occorrono perciò valutazioni successive e ripetute nel tempo calcolando la differenza critica; - in caso di utilizzo di campioni di urina come matrice biologica è opportuno, oltre a una corretta temporizzazione 97 4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori della raccolta, normalizzare i valori ottenuti e renderli confrontabili nel tempo esprimendo la concentrazione del biomarcatore come rapporto molare rispetto alla concentrazione di creatinina misurata sullo stesso campione (Vesper 2002). Per un corretto utilizzo delle informazioni fornite dalla misura dei biomarcatori è quindi fondamentale che il laboratorio renda disponibile agli utilizzatori clinici (in un percorso di stretta interazione) la chiave di lettura legata alla differenza critica tra due misure successive, che dipende dalla variabilità biologica del singolo marcatore e dalla variabilità analitica delle misurazioni. A tale scopo è fondamentale conoscere: • variabilità intraindividuale (CVI) - fluttuazione casuale di un costituente dell’organismo, misurato in tempi diversi nello stesso individuo, intorno al suo punto omeostatico; • variabilità interindividuale (CVG ) - differenza nei risultati dello stesso costituente ottenuti in individui diversi, tutti nelle stesse condizioni fisiologiche, e dovuta alla diversità dei punti omeostatici tra questi individui; • variabilità analitica (CVA) - variazione ottenuta su una determinazione di laboratorio quando questa venga ripetuta, sullo stesso campione, in due misurazioni analitiche successive. Ne deriva in tal modo la possibilità di calcolare per il singolo marcatore la differenza critica (CD%) secondo la relazione CD = k (CVA2 + CVI2) 1/2 che esprime la differenza percentuale necessaria affinché due determinazioni consecutive del marcatore biochimico, nello stesso individuo, possano essere considerate significativamente diverse tra loro, e quindi non attribuibili a casua98 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione lità o ad oscillazioni fisiologiche ma a modificazioni nello stato del soggetto a seguito di cambiamenti nella patologia (spontanei o indotti da interventi terapeutici) (Hsin-Shan 1997). Nella relazione precedente k rappresenta una costante dipendente dal livello di probabilità prescelto. Alcuni esempi delle variabilità intra- e interindividuali e delle relative CD%, tratti dalla letteratura, sono riportati per alcuni biomarcatori nella tabella 4.2. Prevedere la misurazione di biomarcatori molecolari nella gestione di pazienti con osteoartrosi è per il momento un’opzione che rimane prevalentemente confinata all’ambito della ricerca ma che sta avendo una rapida espansione. Dal punto di vista dell’operatività, si può ragionevolmente pensare che un laboratorio di dimensioni medio-grandi possa affrontare, con un surplus di lavoro facilmente gestibile, la determinazione dei biomarcatori per i quali sono disponibili kit per i sistemi automatizzati, adatti quindi anche a inserirsi nella routine di un laboratorio ospedaliero. Più complessa, anche per la necessità di formare il personale laboratoristico, è la misurazione di analiti per i quali sono disponibili solo kit manuali; la tecnica manuale, pur essendo relativamente semplice, è time-consuming e può risentire molto della variazione di manualità tra gli operatori, aspetto che limita l’utilizzo quasi esclusivamente all’ambito della ricerca. La semplificazione delle tecniche e possibilmente il contenimento dei costi potranno sicuramente incoraggiare un impiego più vasto dei biomarcatori molecolari nella diagnosi, gestione e monitoraggio terapeutico dell’osteoartrosi. 99 4. Metodiche di laboratorio per la rilevazione dei biomarcatori Tabella 4.2 Variabilità intraindividuali (CVI%) ed interindividuali (CVG%) e relative differenze critiche (CD%) per alcuni biomarcatori. Marcatore CVI% CVG% CD% 6.6 9.1 8.6 35.6 30.9 17.6 20 29 26 6.9 10.8 12.0 23.5 14.7 15.9 15.3 13.1 18.6 28.8 13.3 25.0 26.0 26.9 17.8 19.2 26.0 24.8 26 35 43 70 44 37 36 40 57 Di formazione s-fosfatasi alcalina ossea s-osteocalcina s-PICP Di riassorbimento s-CTXI s-fosfatasi acida tartrato resistente u-galattosilidrossilisina u-desossipiridinolina totale (DPD) u-NTXI u-CTXI u-CTXII u-desossipiridinolina libera (fDPD) u-piridinoline libere 100 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Bibliografia –– Biomarkers definiton Working Group. Biomarkers and surrogate endpoints: preferred definitions and conceptual framework. Clin Pharmacol Ther. 2001;69:89-95. –– Charni N, Juillet F, Garnero P Urinary type II collagen helical peptide (HELIX-II) as a new biochemical marker of cartilage degradation in patients with osteoarthritis and rheumatoid arthritis. Arthritis Rheum 2005;52(4):1081–90. –– Charrié A, Chikh K, Alcaraz-Galvain D. Principes et techniques en immunoanalyse. In: Massart C Ed. Immunoanalyse EDP Sciences 2009. –– Christgau S. Circadian Variation in Serum CrossLaps Concentration Is Reduced in Fasting Individuals. Clin chem. 2000;46:431. –– Colburn WA. Optimizing the use of biomarkers, surrogate endpoints, and clinical endpoints for more efficient drug development. J Clin Pharmacol. 2000;40:1419-27. –– Consensus Development Statement. Who are candidates for Prevention and Treatment of Osteoporosis? Osteoporosis Int. 1997;7:1-6 –– Fraser CG. Inherent biological variation and reference values. 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Adiponectina (s, ls) Modulazione dell’infiammazione e della produzione di metalloproteinasi e citochine Adipochina il cui ruolo è in parte ancora controverso nell’osteoartrosi, e che potrebbe esercitare effetto protettivo sull’evoluzione della malattia. I livelli sierici sono generalmente elevati nei soggetti con osteoartrosi. C1,2C (s) Collagen type I and II cleavage neoepitope Degradazione del collagene di tipo I e II, degradazione della matrice cartilaginea, riassorbimento osseo Nuova estremità C-terminale che si forma dopo clivaggio del collagene di tipo II maturo ad opera della collagenasi, localizzato nel frammento ¾ long e comune al collagene di tipo I e II. Le concentrazioni sieriche di C1,2C (s) sono elevate nell’osteoartrosi. C2C (s,u,ls) Collagen type II cleavage neoepitope Degradazione del collagene di tipo II Il neoepitopo C2C è la nuova estremità c-terminale che si forma dopo clivaggio del collagene maturo di tipo II ad opera della collagenasi, localizzato nel frammento ¾ long, lievemente più lungo del C1,2C e specifico per il collagene di tipo II. Le concentrazioni sieriche di C2C sono elevate nell’ osteoartrosi. C3f peptide (s) Frammento della proteina C3 del complemento Sinovite, attività infiammatoria Frammento derivato dal clivaggio della proteina C3 del complemento, coinvolto nella regolazione di meccanismi infiammatori. Elevati livelli sono stati osservati prima nell’artrite reumatoide; ora il biomarcatore è indagato anche nell’osteoartrosi. Coll2-1 (s) Degradazione del collagene di tipo II Epitopo localizzato nella regione elicale del frammento C¾ long formato dopo clivaggio del collagene di tipo II da parte della collagenasi. I livelli sierici sono elevati sia nell’osteoartrosi sia nell’artrite reumatoide rispetto ai soggetti normali. 102 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione Coll2-1NO2 (s, u) Degradazione del collagene di tipo II Forma nitrata di Coll2-1. I livelli sierici sono elevati sia nell’osteoartrosi sia nell’artite reumatoide rispetto ai soggetti normali. COMP (s) Cartilage oligomeric matrix protein Degradazione della matrice cartilaginea COMP è una proteina composta da cinque subunità, in grado di associarsi ai collageni di tipo I, II e IX. Nella cartilagine sembra regolare l’assemblaggio delle fibrille di collagene, e viene rilasciata durante la degradazione della matrice; inoltre è prodotta dalle cellule sinoviali. CPII o PIICP (s) Propeptide C-terminale del procollagene di tipo II Sintesi del collagene, processi riparativi della cartilagine Frammento C-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa 1). Aumenta nella fase dell’osteoartrosi in cui si attiva una risposta riparativa della matrice da parte dei condrociti. CRP (s) C reactive protein Infiammazione Indice di infiammazione, non specifico. I livelli sierici aumentano nel corso di fenomeni infiammatori associati a osteoartrosi. CS846 (s) Condroitin solfato 846 Sintesi di aggrecani, processi riparativi della cartilagine Epitopo del condroitin solfato, presente esclusivamente nella matrice cartilaginea del feto e in quella in formazione a seguito di processi riparativi. CTX-I (s, u) C-telopeptide of type I collagen; Degradazione del collagene di tipo I (riassorbimento osseo) L’epitopo CTX-I è localizzato all’estremità c-terminale del collagene di tipo I. Viene rilasciato durante la degradazione del collagene. I livelli di CTX-I sono elevati sia nell’osteoartrosi sia nell’artite reumatoide rispetto a soggetti normali. 103 Appendice - Descrizione e razionale di alcuni biomarcatori solubili di interesse in ambito di ricerca e nella pratica clinica CTX-II (s,u) C-telopeptide of type II collagen Degradazione del collagene di tipo II L’epitopo CTX-II è localizzato all’estremità c-terminale del collagene di tipo II. Viene rilasciato durante la degradazione del collagene. I livelli di CTX-II sono elevati sia nell’osteoartrosi sia nell’artite reumatoide rispetto a soggetti normali. DPD (u) Deossipiridinolina Riassorbimento e rimodellamento osseo (degradazione del collagene di tipo I) Marcatore specifico per l’osso, è formata da due residui di idrossilisina e uno di lisina. Forma un legame stabile (crosslink) tra catene attigue di due molecole di collagene di tipo I. FGF-7 (ls) Fattore di crescita dei fibroblasti-7 (fibroblast growth factor-7) Proliferazione cellulare, sinovite Fattore di crescita espresso localmente indicativo di processi infiammatori. Glc-Gal-PYD (u) Glicosil-galattosil-piridinolina Sinovite Analogo glicosilato dei cross-link piridinolinici del collagene prodotto prevalentemente nei sinoviociti. HA (s) Acido ialuronico (hyaluronic acid) Sinovite L’acido ialuronico è un componente presente in elevate quantità nella matrice della cartilagine ialina e nel liquido sinoviale. HELIX-II (u) Degradazione del collagene di tipo II Frammento nella porzione elicale del collagene di tipo II (frammento 3/4) generato dal clivaggio ad opera delle collagenasi. hsCRP (s) Proteina C reattiva ad alta sensibilità (high sensitivity C reactive protein) Infiammazione Test ad alta sensibilità per la proteina C reattiva, rileva anche stati di infiammazione non acuta. 104 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione ICAM-1 (s) Intercellular adhesion molecule-1; Adesione dei linfociti (infiammazione) Proteina di membrana che regola le interazioni delle cellule immunitarie con i tessuti (adesione dei linfociti), la cui espressione aumenta nei processi infiammatori. IL-1 , IL-6, IL-8, IL-10, IL-15 (s) Interleuchine 1,6, 8, 10, 15 Meccanismi infiammatori, sinovite Interleuchine coinvolte nella promozione/modulazione dei processi infiammatori, potenziali indicatori di variazioni della loro intensità in risposta alle terapie. KS (s) Keratan sulphate Degradazione della cartilagine Dalla degradazione degli aggrecani ad opera delle MMP vengono rilasciati frammenti della core protein ai quali sono legate le catene aminoglucidiche del cheratan solfato. Leptina (s, ls) Metabolismo dell’osso Ormone presente in quantità elevate nel plasma di soggetti obesi per il quale si ipotizzano effetti locali di tipo proinfiammatorio. È anche prodotto dagli osteoblasti dell’osso subcondrale in quantità elevate nell’osteoartrosi. MMP-1, MMP-2(s) Metalloproteinasi di matrice-1 e -2 Degradazione della matrice (cartilagine, osso) Metalloproteinasi coinvolte nella degradazione di aggrecani, collageni e altre proteine della matrice. Potenziali indicatori precoci di alterazioni dei tessuti articolari. MMP-3 (s) Metalloproteinasi di matrice-3 Degradazione della matrice cartilaginea, degradazione della matrice del connettivo nella membrana sinoviale Metalloproteinasi coinvolta nella degradazione della cartilagine e nelle alterazioni della membrana sinoviale. 105 Appendice - Descrizione e razionale di alcuni biomarcatori solubili di interesse in ambito di ricerca e nella pratica clinica MMP-7 (s, ls) Metalloproteinasi di matrice -7 Degradazione della matrice cartilaginea Metalloproteinasi coinvolta nella degradazione della cartilagine. MMP-13 (s, ls) Metalloproteinasi di matrice 13 Degradazione della matrice cartilaginea Metalloproteinasi coinvolta nella degradazione della cartilagine. NTX-I (s, u) Cross linked N-telopeptide of type I collagen Degradazione del collagene di tipo I, riassorbimento e rimodellamento osseo Epitopo localizzato all’estremità N terminale del collagene di tipo I coinvolta nel cross-link, rilasciata alla degradazione della molecola matura. OC (s) Osteocalcina Regolazione della mineralizzazione dell’osso L’osteocalcina è la più abbondante proteina non collagenica nella matrice ossea (presente anche nella dentina e nel cemento): ne regola la mineralizzazione intervenendo nella deposizione dell’idrossiapatite. È considerata un marcatore di formazione dell’osso. OPG (s, ls) Osteoprotegerina Differenziamento degli osteoblasti in senso osteoclastogenico Glicoproteina che funziona da recettore esca per RANKL, impedendo a quest’ultimo di esercitare I suoi effetti osteoclastogenici. L’OPG ha quindi un effetto di modulazione dell’attività di RANKL e tende a opporsi alla degradazione della matrice ossea. PINP (s) N-propeptide of type I collagen Anabolismo dell’osso, rimodellamento dell’osso Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo I (catena alfa 2). Aumenta con i processi di rimodellamento dell’osso. PIIANP (s) N-propeptide of type IIA collagen Processi riparativi della matrice cartilaginea Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa 1). Include una sequenza di 69 aminoacidi che, per un meccanismo di 106 Osteoartrosi dal danno tissutale alla condroprotezione splicing alternativo del mRNA, è invece assente nel PIINP. Aumenta nella fase dell’osteoartrosi in cui è presente una risposta riparativa della matrice da parte dei condrociti. PIICP o CPII (s) Propeptide C-terminale del procollagene di tipo II Processi riparativi della matrice cartilaginea Frammento C-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa1). Aumenta nella fase dell’osteoartrosi in cui si attiva una risposta riparativa della matrice da parte dei condrociti. PIINP (s) Propeptide N-terminale del procollagene di tipo II Processi riparativi della matrice cartilaginea Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo II (catena alfa 1). Aumenta nella fase dell’osteoartrosi in cui è presente una risposta riparativa della matrice da parte dei condrociti. PIIINP (s) Propeptide N-terminale del procollagene di tipo III Sinovite Frammento N-terminale rimosso dal procollagene di tipo III, espresso soprattutto nel tessuto sinoviale. Aumenta in presenza di sinovite. Pentosidina (u) Effetti della glicazione avanzata Rappresenta un prodotto di glicazione avanzata la cui concentrazione nella cartilagine con osteoartrosi è più elevata che nella cartilagine sana. Di interesse soprattutto nel fenotipo da invecchiamento. PYD (u) Piridinolina Degradazione del collagene di tipo II È formata da tre residui di lisina. Forma un legame stabile (crosslink) tra catene attigue di due molecole di collagene di tipo II. Le strutture piridinoliniche sono il tipo di cross-link più comune nel collagene di tipo II maturo. RANKL/OPG (s, ls) Receptor activator of nuclear factor-κB ligand/osteoprotegerin Differenziamento degli osteoblasti in senso osteoclastogenico RANKL è ligando del recettore RANK, ed esercita uno stimolo al differenziamento degli osteoblasti in senso osteoclastogenico. 107 Appendice - Descrizione e razionale di alcuni biomarcatori solubili di interesse in ambito di ricerca e nella pratica clinica Il rapporto tra RANKL e OPG è indagato come biomarker legato ai processi di rimodellamento dell’osso. Resistina (s, ls) Infiammazione Adipochina implicata nello sviluppo di resistenza all’insulina, con proprietà proinfiammatorio. Espressa in elevate quantità nell’artite reumatoide e, secondo evidenze più recenti, anche nell’osteoartrosi. sVAP-1 (s) Soluble vascular adhesion protein-1 Infiammazione da meccanismi di immunità cellulare Proteina prodotta dall’endotelio che funziona come molecola di adesione per i linfociti, implicati nei meccanismi di infiammazione. TIINE (u) type II collagen neoepitope; Degradazione del collagene di tipo II Neoepitopo generato dall’azione delle MMP sul collagene di tipo II. TIMP(s) Tissue inhibitor of metalloproteinase Regolazione dell’attività di degradazione della matrice Inibitore delle metalloproteinasi, i cui bassi livelli in rapporto a quelli delle MMP possono associarsi ad aumentata attività di degradazione della matrice. TNF-a (s) Tumor necrosis factor-a Infiammazione Proteina che induce l’espressione di diverse citochine proinfiammatorie, prodotta prevalentemente dai macrofagi attivati nella membrana sinoviale. YKL-40 (s) Infiammazione Piccola glicoproteina di 40 KDa prodotta anche da sinoviociti e condrociti, i cui livelli sono elevati nell’osteoartrosi. La sua funzione non è chiara, ma si ritiene possa avere un ruolo di modulatore dell’immunità. 108 Intensificare la ricerca sulla diagnosi precoce, valorizzare i trattamenti che possono preservare i tessuti articolari e abbandonare l’atteggiamento rinunciatario con cui troppo a lungo si è guardato all’osteoartrosi: assumendo questi obiettivi come principi guida, l'autrice presenta in questa pubblicazione le evidenze più aggiornate sulla diagnosi e sul trattamento della malattia reumatica più diffusa, ma forse non ancora considerata con sufficiente attenzione nella pratica del reumatologo. Magda Scarpellini è direttore dell’unità operativa complessa di reumatologia dell’Ospedale Giuseppe Fornaroli di Magenta (MI). Specialista in ematologia e medicina interna oltre che in reumatologia, si è formata anche alla Clinique de Rhumatologie dell’Hôpital Lariboisière di Parigi. Ha ricoperto incarichi didattici all’Università di Genova, di Pavia e dell’Insubria. MD509816 È membro di numerose società scientifiche nazionali e internazionali.